Sei sulla pagina 1di 169

Dipartimento di Scienze sociali, politiche e cognitive

Corso di laurea magistrale in Antropologia e linguaggi dell’immagine

«GENTRIFICATION IS CLASS WAR FIGHT BACK»


Uno studio etnografico del quartiere Pigneto a Roma.

Relatore
Chiar.mo Prof. Armando Cutolo

Controrelatore
Chiar.mo Prof. Pietro Meloni

Tesi di laurea di
Gaia Ferreri

Anno Accademico 2017/2018


A Marco e Simona

2
Indice

Introduzione 4

1. Brevi cenni su antropologia e città 10


1.1. Francia: da Lévi-Strauss ad Althabe 21
1.2. USA: la Scuola di Chicago 28
1.3. Inghilterra: Manchester e Birmingham 39
1.4. Italia: dalla “tribalizzazione” ad oggi 49
1.5. Argomentazioni storiche per una ricerca futura 52

2. Premesse: l’assetto contemporaneo delle città metropolitane 55


2.1. Gentrification 66
2.1.1. Esclusione sociale e decoro urbano 74
2.1.2. Nuovi attori 77
2.2. Cultural Gentrification? Conclusioni e ipotesi 82

3. Il XX secolo al Pigneto 96
3.1. La questione urbanistica 100
3.2. Il quartiere nell’immaginario collettivo e i riferimenti culturali condivisi 108
3.3. Il ruolo della politica: dal ceto popolare agli hipster 122

4. Pigneto: dove si conosce, si parla e si contrasta la gentrification 132


4.1.Tracce di opposizione: Comitato di Quartiere Pigneto-Prenestino e CSOA eXSnia
140
4.1.1. Pratiche resistenti alla gentrification e alla speculazione 144

Conclusione: gentrification e spazi urbani, il punto di vista etnografico 161

Ringraziamenti 164

Bibliografia 165

3
Introduzione

La prima ricerca sul campo può essere intesa metaforicamente come un rito di
iniziazione, infatti ciò che ho vissuto si è conformemente allineato con una delle grandi
teorie antropologiche del Novecento: la struttura tripartita dei riti di passaggio, illustrata
nel 1909 da Arnold van Gennep. Se, come sostenuto dall’antropologo francese, la vita
umana di qualsiasi individuo è scandita da una serie di passaggi che portano
dall’abbandono di uno status sociale all’acquisizione di un altro stato, per un ricercatore
alla prima esperienza sul campo, la prima ricerca rappresenta uno slancio che dalla
condizione di studente porta all’auspicato stadio di antropologo. E, sempre nell’ottica di
un rito di passaggio, la cerimonia di laurea non è altro che un rituale pubblico svolto al
fine di rendere meno traumatico il passaggio da uno stato ad un altro. Nella fase
preliminare c’è tutta la preparazione, che va dalla scelta del campo e del gruppo di
interesse fino alla vera e propria separazione; nella fase liminare si ha l’incontro
etnografico con la celebrazione di tutti i rituali che questo preveda; l’ultima fase, quella
post-liminare, prevede una nuova aggregazione alla società di partenza. Chiaramente,
essendo questa ricerca svolta nel contesto urbano ed essendo per molti aspetti il campo
un’alterità solamente parziale rispetto al mio punto di provenienza, si tratta di
un’associazione enfatica ma che si prefigura l’intento di esternare le insicurezze e il
senso di smarrimento vissuto una volta giunta sul campo. Lo stralcio di una lettera di
Margaret Mead è ciò che è stato di conforto e che ha avuto la capacità di farmi sentire
perfettamente allineata con la condizione di “giovane antropologo”, intesa come
condizione di uno stato esistenziale: «Io non ero mai stata sul campo. In realtà non
sapevo gran che del “lavoro sul campo”. Il corso sui metodi tenuto dal professor Boas
non riguardava questo argomento, ma solo la teoria»1.
Nonostante i tentennamenti iniziali, la sfida più grande si è manifestata nell’incontro
con gli informatori, nella paura di non essere delicata e di non comprendere un’alterità,
vicina sì spazialmente ma distante nelle pratiche e nei trascorsi. I due maggiori
informatori ai quali mi sono appoggiata nel corso dei mesi sul campo sono stati preziose
cerniere, in grado di comunicare e mediare tra me e la realtà locale, sono serviti per
momenti di utile riflessione e confronto, nella creazione di un punto di vista nuovo, di
una visione condivisa del mio oggetto di ricerca e delle loro pratiche quotidiane.

1
Mead, M., Lettere dal campo. 1925-1975, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1979, p.161,
(Letters from the Field. 1925-1975, 1977)
4
L’evento che costituisce uno snodo nella pratica etnografica è sicuramente rappresentato
da una confidenza fattami da un informatore; quando mi sono sentita dire “ti racconto
una cosa però, per favore, non scriverla…” ho capito di aver conquistato la sua fiducia,
di essere un po’ meno estranea, un po’ meno ricercatrice e più abitante.
Il seguente elaborato è il frutto di due ricerche, speculari e simmetriche. Il lavoro
prende forma da uno studio teorico al quale ne è conseguito uno pratico, realizzato
secondo il canonico metodo etnografico. Può essere effettuata una suddivisine in due
parti, la prima a sostegno della seconda e la seconda come controprova attuativa della
prima. L’articolazione in quattro capitoli, i primi due teorici e gli ultimi due descrittivi,
in quanto resoconto della ricerca sul campo, sono il sunto di un percorso biennale di
studi che, come pochi altri, fornisce nozioni e insegna una condotta, non rimanendo
soltanto astratto. Come emergerà chiaramente nella sezione dedicata all’etnografia, è
stato difficile mantenere sempre un atteggiamento etico: la partecipazione a giornate ed
iniziative, soprattutto il sentirsi parte e la condivisione di pratiche, ha fatto sì che
l’emico sfumasse al di fuori degli attori sociali e si imponesse nell’ottica del ricercatore.
Le motivazioni che hanno spinto alla delimitazione del campo sono sorte dalla volontà
di approfondire un ramo dell’antropologia sociale che, nei dipartimenti italiani, è solo di
rado affrontata; inoltre, la volontà specifica di studiare il processo di gentrification
nasce da una personale sensibilità urbana e dalla curiosità di entrare in contatto con la
multidisciplinarietà presupposta dalle ricerche qualitative in città. Questa ricerca vuole
andare oltre allo studio dell’urbano incentrato sull’egemonia dei nonluoghi di Marc
Augè (1992), per scoprire quei segmenti di popolazione che, tralasciati dalle ricerche
quantitative e dai mass media, solo per mezzo di una mirata pratica di indagine
qualitativa sul campo, è possibile far riemergere dall’anonimato e dalla genericità (Dal
Lago, Quadrelli: 2003). La possibilità dell’antropologo di mettere in pratica le proprie
metodologie in un terreno familiare e quotidiano implica lo sforzo di agire in un
contesto denso, composto da innumerabili scambi di azioni e relazioni. La decisione di
erigere il proprio campo nel contesto urbano comporta la delimitazione di un gruppo,
oggetto di ricerca, distante da una delimitazione geografica o amministrativa, infatti
questo si costituisce in relazione alla condivisione di esperienze comuni, sia da un punto
di vista spaziale che temporale (Callari Galli: 2007).
Nella delimitazione del campo e dell’oggetto di ricerca sono state fondamentali due
opere: la prima è il testo Gentrification. Tutte le città come Disneyland (2015) di

5
Giovanni Semi, la seconda è il resoconto etnografico di Giuseppe Scandurra Il Pigneto:
un’etnografia fuori le mura di Roma. Le storie, le voci e le rappresentazioni dei suoi
abitanti (2007). Il testo di Semi, oltre a rappresentare una sorta di manuale del concetto
e del processo, si fa testimone di un’esemplificazione di quattro casi italiani, tra i quali
proprio il Pigneto; Giuseppe Scandurra, invece, dedicando il suo triennio di dottorato
(2003-2006) alla ricerca nel quartiere romano, fu inevitabilmente messo dagli abitanti
davanti al processo di gentrification che stava investendo l’area in quegli anni, non è
difatti un caso che i dati periodicamente raccolti dalla Borsa Immobiliare di Roma
indichino il 2006 come l’anno del boom del mercato degli immobili. I due testi hanno
aiutato ad una riflessione su un quadrante della città romana, già conosciuto, e
inevitabilmente hanno acceso la volontà di un’indagine urbana che, senza garanzia di
riuscita, si ponesse l’obiettivo di approfondire i mutamenti spaziali e sociali iniziati
circa due decenni fa. La mia personale sensibilità critica ha trovato piena soddisfazione
in questa ricerca; l’interesse per il contesto metropolitano e soprattutto per la
marginalità da questo celata non poteva che trovare realizzazione e gratificazione in un
tema assai dibattuto nel mondo accademico contemporaneo come quello della
gentrification.
Il primo capitolo è un sunto sull’unione tra la disciplina antropologica e il
contesto urbano. Sono stati elencati i maggiori contributi dati alla formazione
dell’antropologia urbana in Occidente: a partire dalla seconda metà del XX secolo, per
esempio, è stato studiato lo scetticismo di Claude Lévi-Strauss al quale sono state
contrapposte le ricerche della Scuola di Birmingham. Inoltre, nonostante si volesse
studiare la città secondo un’ottica sociologica ed antropologica, è emerso come la città
sia un oggetto di ricerca impossibile da slegare da altre discipline. E’ stata così scoperta
la forte interdisciplinarità che contraddistingue questo ambito ed è stato quindi
impossibile non considerare altri insegnamenti, incentrati anch’essi sulla città, quali
l’urbanistica e l’architettura. In Italia, l’antropologia urbana ha faticato a lungo per
affermarsi e ancora non riesce ad imporsi come una branca autonoma dell’insegnamento
antropologico. Molti studiosi, approfonditi nel primo capitolo, hanno dato e continuano
a dare importanti contributi affinché, anche nel nostro paese, si giunga ad uno studio del
contesto urbano mediante la pratica etnografica, distaccandosi così dalla visione
dell’antropologia come disciplina esclusivamente relegata al mondo non Occidentale o
agli studi sul folklore. Nei mesi trascorsi a Roma per lo svolgimento di questa ricerca,

6
sono state preziose le interazioni con i docenti del Dipartimento di Ingegneria Civile
Edile e Ambientale dell’Università La Sapienza che mi hanno mostrato come da anni
favoriscano un approccio multidisciplinare e interdisciplinare, legando i loro corsi di
architettura e urbanistica a ricerche antropologiche e sociologiche, spingendo ad uno
studio di tipo specialistico ma non settoriale.
Il capitolo successivo, anche questo fortemente teorico, fa una panoramica sui
sociologi urbani marxisti, come Henri Lefebvre, David Harvey, Saskia Sassen, al fine di
giungere, grazie agli ultimi due studiosi, ad un quadro che analizzi l’urbano in un’ottica
globale, mentre, grazie ai primi due, si è vista invece la possibilità di un’opposizione
alle politiche urbane dominanti. E’ stato successivamente esplicata la tematica della
gentrification, partendo proprio dalle parole scritte da Ruth Glass nel 1964, per poi
continuare con i maggiori autori, tra tutti Neil Smith, che hanno fatto ampia riflessione
sul termine coniato dalla sociologa anglosassone. Inoltre, è stata necessariamente posta
l’attenzione su quegli abitanti che più di tutti vengono intaccati dai processi di
gentrification, coloro che subiscono un’espulsione dalla zona poiché non più in grado di
sostenere dei canoni di affitto o che vengono più semplicemente e cruentamente espulsi
per un cambio della destinazione d’uso dell’immobile che abitavano.
Avendo esplicato dal punto di vista nozionistico i due maggiori oggetti di ricerca, il
contesto urbano e la gentrification, è stato presentato, alla fine del secondo capitolo,
l’oggetto di ricerca: il quartiere Pigneto, i mutamenti subiti e le pratiche degli abitanti
che si percepiscono minacciati dalle politiche di rigenerazione urbana, dalle
speculazioni commerciali e dall’innalzamento dei prezzi del mercato immobiliare.
La scritta «YUPPIES FANCULO: GENTRIFICATION IS CLASS WAR FIGHT
BACK», trovata sul muro di un locale durante una passeggiata, ha manifestato
l’esistenza di un’opposizione, o almeno di una coscienza critica e sensibilità ai
fenomeni di mutamento urbano, che doveva essere cercata e raccontata.
Dalle premesse poste sul finire del secondo capitolo, il terzo prende il via con
una descrizione storica del quartiere, grazie al testo di Carmelo Severino, Roma mosaico
urbano. Il Pigneto fuori Porta Maggiore (2005), che ha permesso di annotare i maggiori
eventi che hanno apportato modifiche urbane, economiche e sociali alla zona di
riferimento, prestando in particolar modo attenzione al periodo che va dal Secondo
dopoguerra agli anni 2000. Il capitolo si articola elencando i recenti mutamenti
urbanistici, come la costruzione dell’isola pedonale e l’irrefrenabile apertura di locali

7
notturni che hanno creato, per l’immaginario collettivo, un ulteriore quartiere destinato
alla movida romana. In questo punto dell’elaborato emerge un filo conduttore che è
stato seguito per l’intera ricerca: si inizia proprio qui a parlare di narrazione, di pratiche
descrittive messe in atto al fine di sponsorizzare un segmento urbano, in quello che c’è
di commerciale in esso e di tutti quei riferimenti utilizzati per giungere a questo fine
(vedi Pier Paolo Pasolini e i murales o ancora espressioni come radical chic e
bohemienne).
Nonostante già nel terzo capitolo siano state riportate delle interviste e delle
annotazioni fatte sul diario di campo, è nel quarto che si ha un vero resoconto
etnografico, nel quale prende forma l’esperienza di vita/ricerca e la condivisione
spaziale con gli “autoctoni”. Nell’ultima parte del lavoro l’attenzione si è concentrata su
due gruppi di attori che da tanti anni agiscono nel contesto e che sulla questione
specifica della gentrification hanno mostrato con eventi e assemblee di contrastare il
processo, la speculazione edilizia e quella commerciale. Queste due forze oppositive
sono il Comitato di Quartiere Pigneto-Prenestino e il CSOA eXSnia; sono stati scelti per
entrambi due informatori privilegiati, rispettivamente la signora Marta per il primo e il
signor Michele per il secondo, nonostante entrambi siano legati e appoggino le
iniziative degli altri. In particolar modo sono state menzionate tre giornate vissute nel
quartiere che, più di altre, hanno avuto il merito di far emergere pratiche di resistenza
alla gentrification e alla speculazione e di iniziative consce del mutamento urbano che
ha investito la zona di loro interesse, intese come azioni di rivendicazione sia abitativa
che politica.
Lo studio e la ricerca condotta in questi due gruppi è stata effettuata seguendo la loro
capacità di avere aspirazioni e di ricevere riconoscimento all’interno degli ambienti
culturali di riferimento (Appadurai: 2013); la capacità di aspirare permetterebbe a tutti i
gruppi socialmente marginali di compiere la propria autodeterminazione e di produrre
un consenso culturale, attraverso questa aspirazione essi sarebbero in grado di
svincolarsi e di creare le condizioni favorevoli ad esercitare forme di protesta e di
ridiscutere la loro condizione di partenza.
La conclusione prova a fornire un’utile lettura di tipo etnografico dello spazio
urbano, nella quale si è provato a fare emergere le contraddizioni portate in seno dalla
gentrification: per esempio, come spesso siano “gentrificatori” anche coloro che hanno
un parere tutt’altro che positivo della questione e di quanto l’individuo sia inglobato

8
all’interno di politiche neoliberiste della produzione e riproduzione spaziale al punto da
non rendersi conto di contribuire ad un ricambio di popolazione che può avvenire anche
grazie alla sola presenza fisica in un luogo.
Tutto questo è stato possibile grazie ai tre mesi, da settembre a dicembre 2018,
trascorsi sul campo, tra le strade del Pigneto e nei locali della zona; grazie alla
partecipazione ad assemblee ed iniziative, grazie alla disponibilità e alla condivisione
degli abitanti.

9
1. Brevi cenni su antropologia e città

La collocazione nella gerarchia sociale è stabilita dallo spazio di cui dispongono


gli individui, i gruppi e le classi sociali; è proprio lo spazio a stabilire la posizione
subalterna di alcuni e recluderli ai margini del sistema sociale. In ogni società lo spazio
è sempre socialmente regolamentato e culturalmente definito. E’ il sistema culturale del
gruppo che costituisce lo strumento di organizzazione dello spazio (Signorelli, 1999).
Dalla fine del XVII secolo si verifica uno sviluppo impetuoso della città: l'inarrestabile
crescita demografica ha comportato la costruzione di abitazioni fuori dalle cinte murarie
e per rispondere alla sovrappopolazione le città iniziarono ad espandersi, mutando le
campagne pian piano in periferie. Nelle città europee, in particolare, si verificò la
coesistenza nello stesso spazio fisico di due processi distinti, tanto economicamente
quanto socialmente. Da una parte si osservarono lo sviluppo della la città dei ricchi, che
si manifestava nella costruzione di grandi palazzi, monumenti, opere varie, dall'altra
quella dei miserabili che ritagliavano i propri spazi in quartieri e abitazioni fatiscenti. Se
il Seicento è stato raffigurato nella dicotomia tra il crudo realismo dell'esistenza
popolare e un'aristocrazia che imponeva arrogantemente la propria supremazia, con i
protagonisti delle rivoluzioni industriali e politiche, nel secolo successivo la città
diventa massa. Il clima politico della seconda metà del XVIII secolo ha comportato un
cambiamento del tessuto urbano: in seguito alla nascita delle industrie, ad occupare le
zone periferiche della città furono i quartieri operai. Le grandi trasformazioni
ottocentesche hanno causato una crescente sedimentazione della popolazione nei centri
urbani e fu proprio in questo periodo che si verificò la nascita dell'urbanistica moderna;
adesso, la progettazione della città avrebbe dovuto tener conto della popolazione e «non
solo nell'ampliamento delle strade e delle nuove tipologie edilizie, ma anche nella
struttura stessa del tessuto urbano, reso mobile e dinamico proprio dal protagonismo
della presenza umana.».2 Nel XX secolo avvenne l'esplosione della metropoli, intesa
nell'etimologia del termine come “città madre”; ma è nel XXI secolo in cui questa
assunse tutte le caratteriste della città moderna, intesa come centro nevralgico in cui
confluiscono la globalizzazione e la società postindustriale. Queste megalopoli, dove «i
territori urbani, sempre più degradati, spesso a onta delle loro superbe architetture»,
hanno perso il carattere di uno «spazio abitativo», circoscritto e facilmente

2
Vitta, M., Dell'abitare. Corpi spazi oggetti immagini, Giulio Einaudi editore, Torino, 2008,
p.171
10
identificabile, ma sono diventate palco di «tensioni ancora indecifrabili, di strozzature
culturali, di pluralità difficilmente misurabili.»3. Il cittadino perde così il senso
dell'abitare la città: dal punto di vista del microcosmo urbano, inteso come appartenenza
ad un ambito ristretto, quartiere o zona, ed esperisce soltanto il livello macro, in cui
l’appartenenza è ricondotta ad un ordine giuridico, economico e amministrativo (Vitta,
2008).
Con l'assunta consapevolezza che la città si abita e che in questa non si attuano
esclusivamente statici meccanismi di costruzione edilizia, si giunge alla conclusione che
esiste in essa una produzione di dinamiche culturali e simboliche, oltre che materiali,
per cui si è sentita la necessità di impiegare la disciplina antropologica nello studio della
città. Accettare l’esistenza di relazioni di dominio all’interno della società occidentale
ha permesso lo sviluppo della metodologia antropologica nelle grandi metropoli
mondiali; è solo di recente che gli antropologi hanno iniziato a svolgere ricerche, non
solo centrate sull’alterità e in contesti spazialmente distanti dalle società complesse, ma
anche nei quartieri di Napoli, nelle banlieue parigine e nei quartieri afro-americani delle
metropoli statunitensi. Gli studiosi hanno analizzato le città in quanto prodotto dello
scontro dialettico tra forze sociali, economiche e culturali. Se la prima specializzazione
degli antropologi si è consolidata in terre lontane e su culture considerate altre, è dalla
seconda metà del secolo scorso che questi hanno iniziato ad interessarsi di “casa
propria”. In seguito all’esperienza coloniale molti paesi del Terzo Mondo iniziarono a
non accogliere più i ricercatori stranieri e diventò sempre più difficile riuscire a reperire
finanziamenti per svolgere prolungate ricerche sul campo in terre lontane. Queste sono
alcune delle motivazioni che hanno spinto gli antropologi ad interessarsi del contesto
metropolitano; le prime dinamiche affrontate furono rilegate ai cosiddetti “problemi
urbani”, come la povertà, l’emarginazione e, in Nord America, a questioni legate
all’etnicità, con ricerche condotte all’interno dei ghetti afroamericani. Ulf Hannerz ha
lamentato un problema della nascente antropologia urbana: esso rintraccia un limite
degli antropologi nel riconoscere «ciò che era specificamente urbano e su ciò che era
propriamente antropologico nell’antropologia urbana», questa scarsa riflessione
comportò il trasferimento «nel nuovo contesto soltanto le nozioni più semplici ed

3
ibidem
11
essenziali dell’antropologia»4. Per l’autore se l’antropologia voleva essere la scienza
dell’umanità doveva prendere coscienza anche della vita urbana e non rilegarsi allo
studio di comunità piccole e tendenzialmente non occidentali. Con estrema chiarezza
Hannerz suggerisce che:
«L’apporto originale dell’antropologia urbana consiste nello studio di un insieme di
fenomeni sociali e culturali che altrove non si trovano mai o raramente e che vanno
analizzati alla luce della varietà delle società umane.»5

Fare etnografia in città vuol dire non osservarla come semplice estensione spaziale, ma
come spazio vissuto; l’antropologo offre un modo riflessivo di vedere e narrare la città,
conscio che il suo lavoro investe molteplici interessi e livelli di significato. E’
importante inoltre ricordare come il contesto urbano comporti una negoziazione con
altre discipline che da più tempo operano in questo campo di ricerca. Quando si tratta di
città, l’antropologo non ha più l’esclusiva di “unico occidentale sul campo”, ma deve
relazionarsi con un oggetto di studio conosciuto, dove magari vive da anni, e
conseguentemente incontrare il lavoro di altri professionisti, come sociologi urbani,
demografi, urbanisti, geografi, economisti e architetti. L’antropologo non è più l’unico
specialista in un gruppo di “primitivi” e quindi sperimenta «l’offuscarsi dei contorni e
della specificità della propria disciplina verso un costrutto teorico fatto di discipline
contigue e dovendo gestire saperi e studi che attraversano l’antropologia»6.
Il colloquio Uomo e spazio tenutosi a Darmstadt nel 1951 può rappresentare il
primo incontro tra scienze umane e questioni urbane. La ricostruzione della Germania
post bellica non poteva essere rilegata meramente ad una questione architettonica,
bisognava ripensare l’ontologia dell’abitare, slegare la costruzione dal semplice atto
pratico e collegarla al significato dell’abitare. La presenza di José Ortega y Gasset e
Martin Heidegger all’iniziativa ha dato avvio ad un sodalizio tra discipline che oggi
risulta la condicio si ne qua non ai fini di un sistematico lavoro di antropologia urbana.
Analizzando gli interventi che entrambi i filosofi fecero dopo Darmstadt, Alberto
Sobrero, conscio delle differenze di pensiero tra i due, scrisse:
«Heidegger e Ortega stanno per molti versi agli estremi di due tradizioni del pensiero
occidentale, ma in questo caso si potrebbe trovare una definizione di abitare comune ad

4
Hannerz, U., Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, Società editrice il Mulino,
Bologna, 1992, p.72, (Exploring the City. Inquiries Toward an Urban Anthropology, 1980)
5
ivi, p.76
6
Barberi, P., E’ successo qualcosa alla città. Manuale di antropologia urbana, Donzelli
Editore, Roma, 2010, p.VIII
12
ambedue, una nozione che sottolinei come abitare e costruire siano prospettive fondanti
di uno stesso atto e come quest’atto sia sempre provvisorio e conflittuale e, per altro
verso, espansivo, una tensione sempre insoddisfatta al benessere e un tentativo, sempre
insoddisfatto, di risolvere la conflittualità conquistando sempre nuovi spazi,
continuando a costruire il proprio luogo.»7

La relazione COSTRUIRE ABITARE PENSARE si sviluppa secondo gli stilemi del


filosofare proprio del “secondo Heidegger”, in cui il filosofo intende subito chiarire
come il suo discorso non avrebbe mirato ad alcun fine pratico sotto l’aspetto
architettonico-urbanistico, quanto ad una ridefinizione ontologica, ad una ricostruzione
essenzialistica dei termini eponimi. Il rapporto tra costruire ed abitare viene destituito
dalla dialettica tra mezzo e fine: abitare, svincolato dal puro alloggiarsi in loco, viene
letto come l’essere al mondo del mortale all’interno di un radicamento primigenio e
qualitativamente messo in rapporto con la sfera del divino; il costruire, in questa ottica,
è esso stesso un abitare ed anzi proprio l’abitare inteso come radicamento nel mondo ne
è la condizione necessaria. Heidegger trova nel costruire una biforcazione ulteriore: il
costruire inteso come “coltivare” e il costruire inteso come “edificare”. Il primo si
realizza nel rapporto diretto e non subordinato tra soggetto e mondo, nel curare e
accrescere quanto si abita, come parte di esso e non come sfruttatore. Il secondo avrà la
capacità, attraverso la generazione di cose e luoghi, di produrre spazi ontologicamente
definiti, sempre all’interno della compartecipazione permanente di umanità e divinità, di
terra e cielo. In chiusura, Heidegger risponde direttamente alla domanda sulla crisi
dell’abitare del secondo dopoguerra:
«[…] l’autentica crisi dell’abitare non consiste nella mancanza di abitazioni. La vera
crisi degli alloggi è più vecchia delle guerre mondiali e delle loro distruzioni […]. La
vera crisi dell’abitare consiste nel fatto che i mortali sono sempre ancora in cerca
dell’essenza dell’abitare, che essi devono anzitutto imparare ad abitare. Non può darsi
che la sdradicatezza dell’uomo consista nel fatto che l’uomo non rifletta ancora per
niente sull’autentica crisi dell’abitazione riconoscendola come la crisi?»8

Le riflessioni compiute da José Ortega y Gasset riguardanti la questione abitativa


tedesca del secondo dopoguerra sono state rintracciate in due saggi del 1951, titolati

7
Sobrero, A. M., I’ll teach you the differences, in Scarpelli, F., Romano, A., Le voci della città.
L’interpretazione dei territori urbani, Carocci, Roma, 2011, p.28
8
Heidegger, M., COSTRUIRE ABITARE PENSARE, in Heidegger, M., Saggi e discorsi, Mursia
editore, Miliano, 1976, p.108, (Vortrӓge und Aufsӓtze, 1954)
13
rispettivamente: El mito del hombre allende la tecnica9 e Anejo: en torno al «Coloquio
de Darmstadt, 1951»10. Entrambi i saggi rappresentano le riflessioni del filosofo
spagnolo conseguenti al Colloquio di Darmstadt e costituiscono il punto di partenza per
delle considerazioni sull’implicazione sociale della tecnica. Il primo rappresenta la
trascrizione dell’intervento pronunciato a Darmstadt ed è incentrato su una questione
ontologica che investe l’uomo: per l’autore, l’individuo è essenzialmente tecnico ed
agisce mosso da una spinta vitalistica che lo fa tendere costantemente alla creazione.
L’uomo pretende di creare un mondo nuovo, non generandolo dal nulla, ma partendo
dalla natura di cui non si sente parte integrata. L’intelligenza è la facoltà che ha
permesso agli individui di diventare tecnici e di crearsi così un mondo più consono alle
proprie esigenze: questi pretendono di costruire una realtà a propria misura e adottano
una posizione attiva nella creazione degli oggetti, dei quali si servono quotidianamente
per avvicinarsi alla felicità. Secondo Ortega y Gasset la tecnica pone come obiettivo
quello dell’adattamento della natura all’uomo e non viceversa: l’uomo, considerato
come elemento contaminatore della natura, non riesce ad essere rigettato dal mondo
naturale, dunque l’individuo sopravvive pur essendo “malato” pretendendo anzi di
modificare l’organismo da cui è accolto. Il secondo saggio, scritto successivamente al
colloquio di Darmstadt, non si discosta molto dal taglio ontologico dato in
quell’occasione; lo scritto costituisce una summa sulle riflessioni avvenute in quella
sede,11 in cui l’autore si concentra sul compito della riflessione filosofica in un mondo
dominato dalla tecnica. Risulta comunque molto interessante la sua digressione sullo
stile: Ortega y Gasset osserva in Europa la mancanza di uno stile architettonico comune
successivo alla Rivoluzione francese, in quanto momento di separazione e crisi del
tessuto sociale. Dopo la Rivoluzione francese non si ebbe più uno stile di costruzione
condiviso tra gli stati europei ma si sviluppò un’architettura tettonica, intesa dall’autore
come una costruzione stratificata senza nessuna velleità artistica. Il filosofo iberico,
dando per scontata la dignità artistica dell’architettura, segna però una differenza

9
Ortega y Gasset, J., Obras Completas 9, Alienza editorial Revista de Occidente, Madrid, 1994,
pp.617-623
10
Ortega Y Gasset, J., op. cit., pp.325-344
11
Nella lettura di Anejo: en torno al «Coloquio de Darmstadt, 1951» si è appreso che Ortega y
Gasset non fosse a conoscenza della tematica prettamente urbanistica e architettonica, infatti,
nelle pagine del secondo saggio consultato, si possono leggere delle “scuse” per l’essersi
dilungato troppo sull’implicazioni filosofiche della tecnica e di non aver, contrariamente a
Martin Heidegger, centrato immediatamente il fulcro della conferenza.
14
decisiva rispetto agli altri tipi di arte: l’architettura non può e non deve essere un’arte
esclusivamente personale, questa è infatti un’arte collettiva in cui il popolo si rivede e si
esprime; gli edifici sono specchio di sentimenti, intenzioni e stati d’animo collettivi,
oltre ad essere un immenso gesto sociale.
Il nuovo campo di ricerca che si rivela di fronte l’antropologo comporta continue
mediazioni con altri studiosi e se dovessimo effettuare una lettura dell’urbano, o meglio
del campo urbano, utilizzando “la dinamica dei campi” di Pierre Bourdieu, ci
renderemmo conto di come questo, insieme a quello artistico, politico e così via, in
quanto luogo di concorrenza e lotta, determini i propri confini in relazione agli altri
campi. L’oggetto di studio in questione è ambito e sono le relazioni con gli altri campi a
fornire «tratti di distinzione che, funzionando come sistema di differenze, di scarti
differenziali, permettono di manifestare le differenze»12, poiché questo è dotato soltanto
di una parziale autonomia, di una struttura e di un ordine. Negli studi urbani quello che
studiamo è definito da campi diversi, è soprattutto infatti il campo politico a
condizionare l’oggetto di studio, incentivando di volta in volta il dispiegarsi di temi
centrali.13
I contributi dati all’antropologia urbana da professionisti quali urbanisti, architetti,
economisti, risultano quasi ovvi; ma occorre anche riconoscere il merito alle differenti
discipline umanistiche che hanno concorso al formarsi di questo indirizzo di ricerca,
portando, come nel caso di Heidegger e Ortega y Gasset, ad un’interdisciplinarietà
funzionale.
Come vedremo, non è stata soltanto l’antropologia a dover essere consapevole di un
complesso processo in una rete fatta di multidisciplinarità, ma la stessa urbanistica si è
fatta carico dell’interpretazione delle diverse forze in gioco. Bernardo Secchi in Prima
lezione di urbanistica, dovendo descrivere il ruolo degli urbanisti ricorda che questi
devono studiare:
«le possibilità offerte da un corretto uso delle tecniche disponibili per realizzare quelle
modifiche, stima le risolse fisiche, monetarie e umane che per realizzarle è necessario
mobilitare, valuta la probabilità che esse possano essere rese disponibili da concreti
attori e i tempi nei quali essere potrebbero e dovrebbero esserlo, suggerisce strategie, i
modi, le regole e le procedure attraverso i quali i comportamenti di ognuno possono

12
Bourdieu, P., La distinzione. Critica sociale del gusto, Mulino, Bologna, 2001, p.233, (La
distinction. Critique sociale du jugement, 1979)
13
L’utilizzo della teoria dei campi di Bourdieu per spiegare gli studi urbani viene suggerita da Angela
Giglia in Studiare la città. Dalle interpretazioni alle pratiche, in Scarpelli, F., Romano, A., Le voci
della città. L’interpretazione dei territori urbani, Carocci, Roma, 2011, pp.67-80
15
essere, compulsivamente o meno, fatti convergere verso gli esiti indicati, suggerisce i
criteri in base ai quali valutare i risultati via via raggiunti.»14

Il soffermarsi sugli attori sociali da parte dell’urbanista è legata alla sensibilità di


quest’ultimo, poiché intende il proprio mestiere come una «concreta modificazione
della città e del territorio» che si può effettuare soltanto tenendo conto di
«una molteplicità di soggetti individuali o collettivi situati entro spazi sociali tra loro
differenti, dotati di poteri e mossi da interessi, aspirazioni, immaginari stili di pensiero
e di comportamento assai diversi e il più delle volte opposti, che nei confronti della
costruzione, modificazione e trasformazione della città hanno responsabilità morali,
culturali e giuridiche assai differenti.»15

Le condizioni della città e del territorio possono essere modificate soltanto tenendo
conto delle diverse soggettività e attori in gioco, considerando tutte le innumerevoli
relazioni di potere che si verificano nel contesto urbano, vagliando le politiche messe in
atto dai diversi attori che non possono essere risolte mediante l’utilizzo di una sola
disciplina. Quindi anche all’urbanistica è chiesto un processo di negoziazione prima di
poter descrivere, attraverso scritti e disegni, lo stato delle città; anche questa disciplina
può essere intesa come l’insieme di teorie, opere, progetti, che confluiscono in pratiche
discorsive sul medesimo tema.
Tra i numerosi contributi, è bene ricordare testi filosofici, come Parigi, capitale del XX
secolo di Walter Benjamin, per le sue perfette descrizioni di vita urbana, o il
pioneristico lavoro di Friedrich Engels in La situazione della classe operaia in
Inghilterra (1845). Benjamin ha inaugurato il dibattito sulla natura politica della
metropoli e il suo lavoro costituisce una fonte di ispirazione per ricerche antropologiche
nel contesto urbano. Nell’opera l’idea centrale è quella della «città come piazza
universale, teatro di tutte le possibilità, fiera dei beni infiniti»16. Nell’incompiuta ed
estenuante ricerca che Benjamin fece, la città risulta come dicotomia tra pubblico e
privato, dove il pubblico predomina e coincide con il commerciante, mentre la vita
privata corrisponde con il nascondersi. La nascita dei grandi magazzini ha fatto
combaciare, per la prima volta, il cittadino con la massa; la nascita del cinema lo ha reso
spettatore passivo dello spettacolo urbano che vive quotidianamente, con le sue infinite
possibilità e illusioni. Il cittadino di Benjamin è il flaneur, colui che attraversa la folla
ma riesce a mantenere il distacco, lui ama la città e la sua città è la città-mercato in cui

14
Secchi, B., Prima lezione di urbanistica, Gius. Laterza & figli, Bari, 2000, p. 41
15
ivi, p.38
16
Sobrero, A. M., op. cit., p.139
16
si sente retrocedere ad uno stadio infantile in cui riavere «tutte le possibilità intatte,
rigiocare tutta la partita, riattraversare tutti i ruoli bruciati»17, nonostante ricominciare
non sia realmente possibile.
La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), come è noto, è un’aspra critica
del filosofo marxista Friedrich Engels nei confronti della rivoluzione industriale; i
mutamenti introdotti dall’industrializzazione nella prima metà dell’Ottocento
comportarono il peggioramento delle condizioni della classe operaia nelle grandi città
anglosassoni. Non si vuole qui entrare nel merito e nelle tematiche centrali dell’opera,
ma si vuole semplicemente mettere in luce come questa rappresenti, per osservazioni sul
campo e per un lavoro di documentazione diretta, un trattato socio-antropologico. E’
infatti lo stesso sottotitolo dell’opera In base a osservazioni dirette e fonti autentiche a
non lasciare dubbi a riguardo. Le vicende biografiche e familiari del giovane Engels lo
videro impegnato prima a Berlino e in seguito a Manchester dove, all’età di ventiquattro
anni, i genitori gli affidarono la gestione di una filiale di un’industria di cotone. Dal
1842 Engels seguì per ben due anni lo sviluppo del capitalismo industriale dall’interno e
covò riflessioni innovative, sia per argomento che per analisi. Quando nel 1845 lo
scritto vide la luce non si trattava di certo della prima opera ad occuparsi di un’inchiesta
sulle condizioni delle classi lavoratrici, ma la novità fu subito manifesta in uno studio
sull’industrializzazione, sugli effetti sociali e politici che da essa conseguirono e
sull’osservazione del sorgere del movimento operaio. E’ in un’introduzione fatta da Eric
J. Hobsbawm all’opera che si può vedere, con chiaro senso enfatico, un Engels
etnografo:
«Il resoconto di Engels si basa su osservazioni di prima mano e su altre fonti a sua
disposizione. Egli conosceva evidentemente molto bene il Lancashire industriale, in
particolare la zona di Manchester, ed aveva visitato i principali centri industriali del
Yorkshire, - Leed, Bradford, Sheffield, - come paure aveva trascorso alcune settimane a
Londra. […] Fra i capitoli descrittivi, è chiaro che larga parte del III, V, VII, IX e XI
sono basati sull’osservazione diretta, ed è evidente che tale conoscenza illumina anche
gli altri capitoli.»18

E’ infatti assolutamente interessante vedere come Engels abbia riportato dialoghi, fonti
e citazioni nel corso della sua opera, e nonostante gli sia stato rimproverato di
riassumere e di non trascrivere letteralmente, questo modo di agire fa pensare proprio
17
ivi, p.150
18
Hobsbawm, E. J., Introduzione, in Engels, F., La situazione della classe operaia in
Inghilterra. In base a osservazioni dirette e fonti autentiche, Editori Riuniti, Roma, 1973, p.16,
(Die Lage der arbeitender Klasse in England)
17
alla metodologia antropologica che si divincola nella comprensione di relazioni di
potere in un contesto industrializzato.
Anche la letteratura, non raramente, ha dato prova di dettagliate descrizioni del
contesto urbano, Antonino ed Emanuele Buttitta spiegando la distinzione tra scrittori e
antropologi affermano che:
«Lo scrittore è più attento agli aspetti individuali degli enunciati; l’antropologo, a quelli
sociali. Quest’ultimo nel singolo ricerca i molti; mentre lo scrittore nei molti insegue il
singolo. Quello fa un uso iponomico dell’uomo; questo inverte la iponimia, ed è questa
invenzione speculare che genera gli effetti di senso dei prodotti letterari.»19

Allo stesso tempo, gli stessi autori rimarcano il punto di congiunzione delle due
discipline: «Scompare il confine tra Filologia e Antropologia della letteratura,
ristabilendo l’unico e solo obiettivo del sapere scientifico: conoscere l’uomo qual esso
è, nella sua realtà.»20. Non è stata soltanto la demologia quindi ad occuparsi della
letteratura21, anche se orale, ma anche l’antropologia sociale, in questo caso più
specificamente quella urbana, si è ritrovata ad attingere dalle produzioni letterarie.
Alberto Sobrero, per la stesura del suo libro Antropologia della città (1992), si è
affidato a brani di celebri romanzi22, in cui gli autori si sono distinti per avere descritto
contesti urbani con le peculiarità ermeneutiche tipiche della scrittura. La città e il suo
vivere associato sono stati da sempre fonti privilegiate da cui la letteratura ha tratto
ispirazione. I sentimenti contrastanti per la vita urbana hanno creato capolavori letterari
per tutto il XX secolo: dalla città dinamica dei futuristi, alla visione plumbea data da
James Joyce nei Dubliners o all’espressionismo proletario narrato in Berlin
Alexanderplaz da Alfred Döblin. Sobrero delinea due prospettive differenti tra
l’antropologo e lo scrittore, le due metodologie risultano complementari a condizione
che «questo mondo oltre ad essere possibile sia anche reale, oltre a essere “pensabile”,
sia anche “visitabile” e visitato.»23. Ciò che differenzia l’antropologia è la scientificità

19
Buttitta, A., Buttitta, E., Antropologia e letteratura, Sellerio editore Palermo, Palermo, 2018,
p.27
20
ibidem
21
Un esempio può essere il demologo siciliano Giuseppe Pitrè che nell’Ottocento si è dedicato
allo studio e alla raccolta di fiabe; si ricordano dell’autore: Fiabe, novelle e racconti popolari
siciliani e delle parlate siciliane (1875) e Novelle popolari toscane (1885)
22
Nel testo vengono presi ad esempio i seguenti romanzi: Italo Calvino, Le città invisibili
(1972); Victor Hugo, Les Misérables (1862); Emile Zola, L’Assommoir (1877); Francis Scott
Fitzgerald, The Great Gatsby (1925)
23
Sobrero, A. M., Antropologia della città, La nuova Italia scientifica, Roma, 1993, p.29
18
del lavoro che segna un confine di separazione con le altre produzioni di testi; le
monografie sono il risultato di un lavoro di ricerca dell’essere nel campo, esito di
“visite” se dovessimo riutilizzare le parole di Alberto Sobrero.
Come visto, la collocazione sociale nello spazio non tratta esclusivamente di
un’occupazione fisica; infatti possono essere presi in considerazione il criterio
economico (come un gruppo in uno spazio partecipa ai processi di produzione), il
criterio sociologico (l’esame dell’interdipendenza tra la collocazione spaziale di un
gruppo e il suo ruolo nella dinamica sociale), il criterio antropologico (la verifica delle
interdipendenze tra collocazione spaziale di un gruppo e costruzione della sua identità in
termini culturali – cioè come un gruppo percepisce se stesso all’interno di una generale
visione del mondo e della vita mediate da un sistema di conoscenze e di valori)
(Signorelli, 1999). Le città sono prodotti degli e dagli esseri umani, queste
contemporaneamente entrano nei processi di produzione e riproduzione della
condizione umana. Per la presa di consapevolezza di questa costruzione e influenza
reciproca l’antropologia ha mosso i primi passi nell’ambito urbano: gli antropologi, in
quanto studiosi dell’organizzazione sociale, non potevano non soffermarsi sui soggetti
coinvolti che esperiscono la città nella sua rilevanza funzionale e simbolica. E’ proprio
nel cuore delle metropoli che si determinano «forme di aggregazione sociale che sono il
frutto dello scontro tra forme diverse di organizzazione sociale che reggono lo scontro
della società complessa dominante.».24
L’antropologia ha rivolto il proprio sguardo e i propri interessi di studio verso il
contesto occidentale, dove solitamente gli antropologi vivono e lavorano. Lo studio di
dinamiche sociali e culturali vicine ed esperibili quotidianamente dagli etnografi sono
diventati un campo di ricerca importante, marcato e approfondito tanto quanto accade
nei territori e con gli attori dei lontani angoli di mondo. Come suggerisce Stefano
Allovio nell’introduzione di Antropologi in città:
«in un pianeta sempre più interconnesso, dove le merci, le idee e gli individui
percorrono frequentemente traiettorie transnazionali in una arena globale, occorre
giustamente domandarsi quale valore possa ancora avere il pensare e l’esercitare la
propria disciplina supponendo che esista un “qui” separato da un “là”.»25

24
Pitto, C. (a cura di), Antropologia urbana. Programmi, ricerche e strategie, Giangiacomo
Feltrinelli Editore, 1980, p.12
25
Allovio S. (a cura di), Antropologi in città, Edizioni Unicopli, Milano, 2011, pp.7-8
19
L’interesse per il contesto urbano si concretizza in seguito all’aumento della
popolazione urbana su quella rurale; i paesi occidentali sono così diventati a
maggioranza urbana e, in seguito ai processi di globalizzazione, sono diventati, nel
locale, specchio della dimensione globale. Negli ultimi decenni l’antropologia smette di
essere la disciplina che si occupa “dell’altro” e la sociologia quella che si occupa
dell’ambito urbano; l’antropologia urbana nasce dal superamento della netta distinzione
degli ambiti di ricerca tra queste due discipline. L’antropologia sociale è interessata ad
un uso comparativo della consolidata metodologia di ricerca, peculiare della disciplina,
e dell’indagine storica, ponendo come obiettivo quello di cogliere le diversità, le
somiglianze, le origini e le costanti della vita urbana.
Nel corso del XX secolo l’importanza di studiare le politiche e le storie di vita urbana
non è stata accettata univocamente nel mondo accademico. Il nuovo ambito di indagine
ha costituito un motivo di confronto per decenni; alla base di questo dibattito si poneva
il quesito che gli antropologi tendono a porsi quando delimitano un campo di ricerca nel
contesto metropolitano: l’antropologia nasce e perciò deve rimanere confinata allo
studio di popolazioni altre? C’è chi sostiene che il sapere antropologico debba restare ai
margini della modernità e chi crede che la cultura contemporanea possa essere l’oggetto
dell’antropologia, tanto quanto la cultura tradizionale. Per questi studiosi lo studio della
società complessa risultava possibile soltanto se rilegato allo studio degli aspetti
tradizionali di questa. Questo atteggiamento sollevò però un problema nello sviluppo
dell’antropologia urbana: essendosi questa dedicata alle “società altre” e, nel caso
italiano al mondo rurale, si limitò, in un primo periodo, a ricercare nel contesto urbano
delle sopravvivenze precapitalistiche.
Il dibattito non può ridursi alla netta contrapposizione tra antropologia delle società
tradizionali e quella delle società complesse, come non è possibile risolvere la questione
separando l’oggetto di ricerca e la metodologia. Per affermasi in pieno l’antropologia
nel contesto urbano ha dovuto affrontare un rinnovamento del metodo, in modo da
arricchire le discipline che da sempre lavorano nel contesto urbano, con la lucida
capacità di dedurre da fatti particolari le regole generali che contraddistingue gli
etnografi e proporre «il metodo antropologico nelle aree urbane come uno dei fattori
centrali delle metodologie avanzate d’indagine delle scienze umane.»26

26
Pitto, C. (a cura di), op. cit., Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1980, p. 12
20
Coerentemente con lo sviluppo temporale e teorico della disciplina antropologica, la
differenza tra città e campagna si spiega dapprima adottando un’ottica evoluzionista.
Nel XIX secolo, le alterità, oggetto di studio della neo-nata scienza sociale, veniva
considerata come sopravvivenza27; il mondo rurale, con i suoi abitanti, furono
considerati sopravvivenze di epoche ormai passate. L’oggetto di studio fu o l’abitante
non occidentale o la popolazione rurale in Occidente fino a quando l’industrializzazione
e l’urbanesimo non modificarono l’Europa. Questa idea ha comportato, nel mondo
accademico internazionale, una difficile capacità di affermazione del nuovo ambito di
ricerca e si prolungò per quasi l’intero XX secolo, riuscendo ad arrivare ad una
compiuta sistematizzazione soltanto sul finire del Novecento.

1.1. Francia: da Lévi-Strauss ad Althabe

In Francia, nella seconda metà del Novecento, il contributo di Claude Lévi-


Strauss, e dello strutturalismo in generale, hanno riformulato l’epistemologia delle
scienze sociali. Le posizioni dell’autore sulla possibilità di un’antropologia nelle società
complesse, possono definirsi scettiche, nonostante lo stesso non abbia mai negato questa
possibilità, che risulta attuabile soltanto nel caso in cui le ricerche rispettino tre
condizioni: segmenti interni alle società complesse che conservino aspetti di semplicità;
quegli ambiti della società contemporanea non ancora intaccati dalla complessità; ambiti
che, nonostante siano interni alla società moderna, possano essere ridotti a sistemi
semplici (Sobrero, 1992). Parafrasando una metafora fatta da Claude Lévi-Strauss,
Alberto Sobrero chiarisce la posizione dell’antropologo francese sulla differenza tra
società semplice e quella complessa, definite rispettivamente un «sistema meccanico» la
prima e un «sistema complesso» la seconda.

27
Edward B. Tylor in Primitive Culture (1871) definì le “sopravvivenze” come «le credenze e i
riti dei popoli superiori mostravano la sopravvivenza del vecchio nel cuore del nuovo, le
modificazioni del vecchio in quanto non più compatibile col nuovo» […] «Quando col tempo si
è venuto a creare un cambiamento generale nelle condizioni di vita di un popolo, è comunque
facile trovare molte cose che chiaramente non hanno la loro origine nel nuovo stato di cose ma
che si sono semplicemente mantenute all’interno di esso. In forza di queste sopravvivenze è
possibile sostenere che quella cultura all’interno della quale esse possono essere osservate deve
essere derivata da uno stato culturale precedente in cui va rintracciato l’autentico luogo e
l’autentico significato di queste cose; di conseguenza questa serie di fatti deve essere
considerata come una vera e propria miniera per l’indagine storica» (Fabietti, U., Storia
dell’antropologia, Zanichelli, Bologna, 2011, pp.16-17)
21
«La differenza appare chiara: le relazioni fra elementi in un sistema meccanico possono
essere rappresentate perché i rapporti di causa-effetto sono determinati dalla stessa
posizione e dall’interazione fra i singoli elementi. […] In un sistema complesso
(termodinamico), il fenomeno in quanto tale si presenta con un grado di disordine che
ne rende poco consigliabile e principalmente inutile la rappresentazione del valore delle
sue singole variabili. Bisognerà procedere per medie statistiche e per grandi aggregati di
valori […]. E il modello statistico è per sua natura provvisorio, rinvia ad altri modelli,
ad altre società, ad altri casi […], senza offrire mai quella sicurezza che pertiene al
metodo deduttivo.»28

L’approfondimento di questa metafora porta a dedurre l’atteggiamento di Lévi-Strauss,


che può essere riassunto con una possibilità di ricerca nelle “società calde” ma non con
lo stesso rigore e senza la possibilità di creare dei modelli, trovare delle “strutture
elementari”, così come avviene nelle “società fredde”. L’autore, all’interno di Posto
dell’antropologia nelle scienze sociali29, con l’assunta consapevolezza dell’apertura
della disciplina verso i contesti urbani, tenne a sottolineare che:
«La storia ha voluto che essa cominciasse con l’interessarsi delle società cosiddette
«selvagge» o «primitive», e dovremo in seguito ricercarne le ragioni. Ma questo
interesse è, in misura crescente, condiviso da altre discipline, specialmente la
demografia, la psicologia sociale, la scienza politica e la giurisprudenza. D’altra parte,
assistiamo al curioso fenomeno per cui l’antropologia si sviluppa proprio mentre queste
società tendono a scomparire, o per lo meno a perdere i loro caratteri distintivi. Ciò
significa quindi che l’antropologia non è assolutamente solidale alle asce di pietra, al
totemismo e alla poligamia. Essa lo ha d’altronde dimostrato nel corso di questi ultimi
anni, che hanno visto antropologi orientarsi verso lo studio delle società cosiddette
«civili».»30

Nonostante lo stesso Lévi-Strauss non neghi la possibilità dello studio dei fenomeni
sociali manifesti non solo nelle società più semplici, effettua una distinzione tra
antropologia e sociologia specificando che:
«Mentre la sociologia si sforza di fare la scienza sociale dell’osservatore, l’antropologia
cerca invece di elaborare la scienza sociale dell’osservato: sia che miri a cogliere, nella
sua descrizione di società strane e lontane, il punto di vista dell’indigeno medesimo; sia
che allarghi il suo campo sino a includervi la società dell’osservatore, ma cercando
allora di enucleare un sistema di riferimenti fondato sull’esperienza etnografica e tale
che sia dipendente dall’osservatore e, insieme, dal suo oggetto.»31

L’interesse dell’antropologia per le relazioni sociali all’interno della società moderna si


va a scontrare con degli oggettivi limiti metodologici. Secondo Lévi-Strauss anche lo

28
Sobrero, A. M., op. cit., pp.26-27
29
Lévi-Strauss, C., in Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1966, pp.379-416,
(Anthropologie structurale, 1958)
30
ivi, p.380
31
ivi, pp.397-398
22
studio di gruppi autentici all’interno della società complessa causerebbe la perdita delle
loro peculiarità, estrapolarli da un contesto stratificato può dar luogo al «convalidare i
peggiori pregiudizi, o reificare le più vuote astrazioni.».32 Lo scetticismo del padre dello
strutturalismo è rintracciabile nelle pagine sopracitate: la ricerca antropologica può
chiaramente interessarsi alla modernità ma simultaneamente deve riconoscere che gli
studi, per esempio gli studi a carattere nazionale, che l’autore indica nella sezione
dell’opera, non possono impiegare esclusivamente il contributo degli etnografi.
Come sottolinea Alberto Sobrero, citando Samuel Eisenstadt, è vero che a quel
tempo non fossero state ancora create nuove e adeguate metodologie antropologiche in
grado di rispondere allo studio delle società complesse; è il concetto di «rete (network)
di Barnes» o «il concetto di campo sociale impiegato da Fortes e da Gluckman» a
presentarsi come un pertinente strumento di analisi dei fenomeni culturali nel contesto
urbano (Sobrero, 1992). La network analysis è servita agli studiosi che si sono affacciati
sul campo urbano per tentare di superare l'impasse della fondazione e della legittimità di
un'antropologia che si occupasse della città. Questo indirizzo di ricerca ha interessato gli
antropologi al fine di poter trovare delle risposte alla «esigenza di adattare al meglio
l'analisi relazionale allo studio di strutture sociali sempre più diversificate. E' stato
inoltre particolarmente importante l'interesse crescente per la vita urbana e le società
complesse»33 a generare il concetto di rete, inteso come strumento rigoroso per la
descrizione dei legami sociali che l'antropologo rintraccia durante il lavoro nel campo.
Alla fine degli anni Settanta, la network analysis rappresentava nel panorama di studi di
antropologia un'importante innovazione, poiché:
«l'antropologo si identificava più facilmente con gli attori sociali che osservava,
individua più rapidamente gli sforzi compiuti per indirizzare le risorse che la società
offre a loro profitto e comprenderne bene gli aspetti personali, sociali e culturali.»34

L'assunto che l'attore sociale abbia un range di possibilità in base alle relazioni che
questo instaura con altri attori e la capacità di questo di combinarli in maniera ogni volta
diversa, significa che l'individuo ha molti ruoli determinati da un contesto variabile; la
costellazione di ruoli, in modo particolare l'assunzione di uno o un altro, va a strutturare
l'organizzazione sociale che consegue da azioni e relazioni. L’analisi di rete messa a
punto dagli studiosi della scuola di Manchester ha dato il via ad un nuovo modo di

32
ivi., p.403
33
Hannerz, U., op. cit., p.309
34
ivi, p.314
23
intendere le relazioni sociali: l’approccio situazionale da essi messo a fuoco consisteva
nell’impiegare i concetti di relazione sociale, campo sociale o rete per studiare le
strutture sociali, quindi studiarne l’insieme delle relazioni fra i sistemi di una società.
L’interesse nello scoprire la dinamica segmentaria che compone una società si amplifica
ovviamente nello studio della città, poiché questa, più di ogni altro sistema sociale, è
caratterizzata
«dalla densità e dall’eterogeneità dei suoi sistemi, delle situazioni e dei ruoli. La città si
presenta come una società segmentaria per eccellenza. […] Quel che distingue
realmente la città dai precedenti ambienti sociali è la qualità e la varietà e la densità di
interazione dei suoi sottosistemi (insieme).»35.

Nelle società tradizionali l’individuo si sente completamente integrato nella struttura


sociale, suddivisa in aggregati distinti ai quali l’attore sente di appartenere
riconoscendosi nella rappresentazione simbolica del proprio gruppo. In città questo
viene meno, perché l’unità principale è costituita dal singolo che vive ed esperisce una
quantità maggiore, più estesa e più flessibile di relazioni di gruppo, e delle quali non
sarà obbligato a riconoscere un complesso sistema di appartenenza, valori e obblighi. Il
concetto di rete servì alla Scuola di Manchester come strumento analitico per poter
riordinare in sistemi le relazioni che compongono le società complesse: l’oggetto di
studio non è quindi il sistema complessivo ma questi insiemi autonomi che lo
compongono, la loro dinamicità e capacità di risoluzione dei conflitti.
Il sistema di studi che Banton definisce “Teoria dei ruoli” ha avuto il merito di provare a
fondare una struttura antropologica della città a partire dai rapporti che legano gli
individui e dalle configurazioni di ruolo che ne scaturiscono, con le proprie dialettiche e
concatenazioni. Nella prospettiva di Barton risultano tre concetti chiave: qualsiasi
società può essere letta a partire dai rapporti tra gli individui che la compongono e,
pertanto, dalla nascita dei ruoli sociali e delle dinamiche che tra questi si instaurano; i
ruoli nelle società tradizionali sono pochi e sostanzialmente ben determinati; le società
moderne si caratterizzano invece per un sistema complesso di interrelazioni tra ruoli,
decisamente più numerosi, e ne consegue la maggiore estensione della catene relazionali
(Sobrero, 1992).
I limiti di questo approccio di studi sono reperibili nella difficoltà di coniugare una
grande estensione di rete, e quindi di soggetti che la compongono, con un’adeguata
accuratezza nell’analisi della densità che intercorre tra i diversi attori del network. Si

35
Sobrero, A. M., op. cit., p.121
24
rischia così di leggere un’enorme mole di dati a partire da un solo punto di vista e le
risultanti relazioni di prim’ordine. Da ciò si evince che la pregnanza di questi studi può
trovarsi solamente in reti piccole aventi luogo in situazioni ben definite e, pertanto, poco
significative di per se stesse. Le maggiori critiche a questo atteggiamento di ricerca sono
state dirette a una certa condotta analitica e statistica che avrebbe così sganciato il
proprio focus dal fatto umano, dissolto all’interno di dati e numeri freddi. Più in
generale, molti hanno trovato le network analysis poco fondate dal punto di vista
metodologico, incapace di tenere assieme un numero significativo di relazioni con la
qualità dell’analisi della densità delle stesse.
Tornando per un solo momento a Claude Lévi-Strauss è bene ricordare che, tre
anni prima della pubblicazione di Antropologia strutturale, nel 1955, in Tristi Tropici
lamentava l’inevitabile scomparsa delle popolazioni non contaminate dall’Occidente:
forse fu questa pubblicazione a condurlo alle riflessioni esposte nell’opera posteriore o
forse la consapevolezza che il mondo accademico francese stesse aprendosi allo studio
della modernità, sia all’interno dei confini nazionali che nei territori segnati dalle
vicende coloniali.
Infatti, in contrasto con le posizioni “levistraussiane” si schierò Georges Balandier che,
oltre a studiare le società complesse, andò a ricercare la complessità nelle società
semplici, soffermandosi principalmente sulle relazioni di potere formatosi durante il
dominio coloniale e le prevaricazioni della prime sulle seconde. Balandier analizza la
situazione post coloniale in Africa soffermandosi sulle dinamiche di cambiamento che
si trovano alle base delle trasformazioni sociali; la sua è considerata un’“antropologia
dinamista” ed è soprattutto il concetto di “dinamica esterna” ad interessarci per
comprendere quella che lui definì “situazione coloniale”, cioè le pressioni proveniente
dall’esterno che una società subisce (Fabietti, 1991). In Antropologia politica Georges
Balandier si trova a dover riflettere sulla modernità, con la consapevolezza che le forme
di potere tradizionale si disgregano, si trasformano o scompaiono sotto la pressione
degli stati moderni, portatori di burocrazia e nuove forme di governo. Non è un segreto
che Balandier considerasse gli effetti della colonizzazione tutt’altro che benevoli e
modernizzanti, ma le riteneva fratture, effetti destrutturanti che risultavano
«dall’impresa e dalla coercizione coloniale».36 Il ponte formato da Balandier tra

36
Balandier, G., Antropologia politica, Armando editore, Roma, 2000, p.148, (Anthropologie
politique, 1967)
25
un’antropologia coloniale, o del Terzo Mondo, e un’antropologia delle società
complesse si può scorgere nelle sue riflessioni su «tradizionalismo e modernità».
Quando l’autore rintraccia le nuove tematiche su cui l’antropologia politica deve
soffermarsi evidenzia: «la comunità rurale», ritenuto campo evidente di uno scontro tra
tradizione e modernità; «il partito politico» inteso come primo strumento di
“modernizzazione”, la cui origine è legata al riformismo delle élite moderniste che
risulta in diversi ambiti amministrativi promotore dello sviluppo; infine «l’ideologia,
espressione della modernità», perché questa, soprattutto nell’Africa centrale, assume un
carattere utopico che va ad esaltare una società futura, che attribuisce all’impresa
collettiva un’efficacia militante immediata in grado di fornire una riabilitazione dei
popoli che si contrappongono ideologicamente allo sfruttamento e all’oppressione.37
Georges Balandier può essere considerato parte della prima generazione degli
antropologi urbani, nonostante gli sia stato rimproverato il considerare l’urbanizzazione
in Africa come processo di sviluppo in grado di ripercorrere le stesse tappe di quello
avvenuto in Europa. I motivi per cui i due processi di urbanizzazione non possono
essere eguagliati sono tre: l’incremento della popolazione urbana non fu dovuto allo
spopolamento delle campagne; non ci fu una corrispondenza tra l’urbanizzazione e
l’aumento della produzione; non si verificò una diminuzione del tasso di natalità.
Georges Balandier ha aperto la strada all’antropologia urbana, suo allievo fu Gérard
Althabe, considerato il più brillante antropologo francese ad occuparsi di città. Testi
come Urbanisme et réhabilitation symbolique (1993) o Urbanisation et enjeux
quotidiens (1993) sono studi all’interno della Francia in cui l’autore analizza le relazioni
di dominio nell’urbano, adottando quella che da molti viene definita una metodologia
rivoluzionaria, in cui l’antropologo fa ricerca provando a comprendere come la stessa
venga recepita dal gruppo studiato. Entrambi i lavori sono accomunati dalla
problematica di una ricerca etnologica all'interno della Francia urbana e industriale;
Althabe ha la consapevolezza che il campo sia dominato dall'interdisciplinarità ma
questo considera l'etnologia la disciplina più appropriata per la ricerca empirica.
L'autore valutava la metodologia tipica dell'etnologia come strumento rigoroso per la
conoscenza della società contemporanea; inoltre, focalizzò le sue ricerche sul rapporto
tra l'etnologo, anche esso attore dei processi costitutivi studiati, e i soggetti oggetto di
studio. I terreni con cui l'antropologia tendeva a misurarsi nella società industriale non
37
ivi, pp.158-169

26
hanno chiaramente lo stesso statuto delle società rurali, l'etnologo deve infatti
allontanarsi da uno studio del micro se vuole cogliere le dinamiche in atto nel
quotidiano, in quanto esse vanno inserite in una dinamica globale. Althabe mise in luce
operazioni urbanistiche che hanno causato delle mutazioni permanenti nei tessuti
urbani, ponendo l'accento sui processi sociali che hanno portato all'emarginazione di
gruppi sfavoriti e alla loro segregazione nelle periferie. L'autore analizza, attraverso
studi comparativi, il campo residenziale e le modalità di relazione dei soggetti con il
luogo di abitazione, in particolar modo esso analizza i movimenti della popolazione, la
loro concentrazione categorica e la trasformazione dello spazio sociale e delle
abitazioni.
Contributi di stampo sociologico come quelli di Paule-Henry Chombart de
Lauwe e Henry Lefebvre hanno aiutato lo sviluppo dell’antropologia urbana nel paese.
Per quanto riguarda il primo autore, è innegabile l’importanza di Uomini e città (1965)
in cui esso analizza, servendosi di una prospettiva sociologica, lo spazio urbano, le
abitazioni e gli abitanti. L’ultima sezione dell’opera, dal titolo Dialoghi con la
popolazione gli urbanisti e gli enti pubblici, è composta da cinque allegati in cui riporta
dei colloqui rispettivamente avuti con il pubblico, con urbanisti, con architetti, con le
amministrazioni municipali e con la commissione per il piano; tutte e cinque le
categorie interrogate in merito alla ricostruzione della città di Bordeaux nel 1956. I
dialoghi riportati, mediante l’utilizzo di interviste, uno degli strumenti tipici della
metodologia antropologica, non lasciano dubbi su quanto Uomini e città abbia
incentivato lo sviluppo della disciplina nel contesto urbano. Chombart de Lauwe
sottolinea come i rapporti tra i gruppi sociali e tra questi e l’ambiente debbano essere
studiati a partire dai vissuti quotidiani dei soggetti e dal senso che queste esperienze
assumono una volta investite da una conformazione culturale.
Le opere di Lefebve, in particolar modo Il diritto alla città, La rivoluzione urbana e La
produzione dello spazio, saranno analizzate, insieme ad altre, nel capitolo successivo,
per provare ad avere una lettura sociologica dell’espansione urbana e della
pianificazione urbanistica.
La prima monografia di antropologia urbana in Francia è considerata Ces gens-là (1969)
di Colette Petonnet, in cui l’autrice analizza le dinamiche di un gruppo in una periferia
francese, comunità non eterogenea, né dal punto di vista etnico né religioso, ma
accumunata dalla marginalità che li ha rilegati in una stabilita dimensione spaziale.

27
1.2. USA: la Scuola di Chicago

Le opere di Georg Simmel (1858-1918) possono essere considerate le basi dalle


quali prese forma la scuola di Chicago. Dopo la morte dell’autore i suoi insegnamenti si
affermarono principalmente fuori dai confini tedeschi, infatti l’importanza dei suoi
scritti si consolidò principalmente in America, grazie alle traduzioni di Robert Park38
che importò negli Stati Uniti il pensiero del filosofo. Gli insegnamenti di Simmel furono
accostati alla psicologia sociale di G. H. Mead e ne conseguì uno studio della città a
livello psico-culturale, avente come fulcro l’idea che queste modellino atteggiamenti.
Per Simmel la sociologia è la scienza che descrive le forme assunte dalle relazioni di
reciprocità: per effetto di reciprocità (Wechselwirkung), Simmel intende la rete di
relazioni di influenza reciproca di una pluralità degli elementi che, nelle metropoli, si
verificano sotto forma di nessi di causa-azione reciproci dei diversi elementi, che
costituiscono la modernità. Vi è poi di fondamentale importanza, nella sua sociologia, il
concetto di sociazione (Vergesellschaftung), cioè il processo attraverso cui ogni forma
di azione reciproca si consolida nel tempo.39 Le metropoli e la vita dello spirito (1903) è
il saggio in cui Simmel si relaziona con la modernità, in quanto produttrice di
atteggiamenti individuali. Sono due le nozioni “simmeliane” ad aver fatto da battistrada
per gli studiosi di Chicago: nella seconda parte dell’opera, si sviluppa l’idea di homo
urbanus che si contraddistingue per disincanto e assenza di stimoli; nella terza parte
l’analisi della metropoli che, oltre sede dell’economia monetaria e di dominio
dell’intelletto40, si disvela come luogo dell’individualità e massima affermazione del
singolo.
Gli studiosi di Chicago hanno emancipato la città, promuovendola da prodotto o luogo a
fattore determinante delle dinamiche sociali, questi consideravano il contesto urbano
come un elemento di forte condizionamento nel forgiare atteggiamenti e
comportamenti. La Scuola affronta uno studio sistemico della città dal punto di vista

38
Robert E. Park frequentò le conferenze di Georg Simmel durante i suoi studi universitari in
Germania
39
Dedkowski, P. (a cura di), Introduzione, in Simmel, G., Le metropoli e la vita dello spirito,
Armando Editore, Roma, 2000, pp. 7-32, (Die Groβstӓdte und das Geistesleben, 1903)
40
Simmel, influenzato dal linguaggio filosofico kantiano, intende l’intelletto come facoltà
logico-combinatoria (Verstand) e conseguentemente come la più superficiale delle nostre
abilità, non certamente intelletto in quanto ragione (Vernunft) legato alle conoscenze empiriche.
(Dedkowski, P. (a cura di), op. cit., pp.20-21)
28
sociologico, attraverso uno studio empirico della società urbana ed è proprio nel voler
combinare lo studio dell’uomo e della metropoli, in quanto costruttori di forme, in cui si
rintraccia l’insegnamento di Simmel:
«L’essenza più significativa della metropoli sta in questa grandezza funzionale che
trascende le sue frontiere fisiche: la sua efficacia si riflette sulla sua vita e le dà peso,
rilievo responsabilità. Come un uomo non si esaurisce nei confini del corpo o dello
spazio che occupa immediatamente con le sue attività, ma solo nella somma degli effetti
che si dipanano a partire da lui nel tempo e nello spazio, allo stesso modo anche una
città esiste solo nell’insieme degli effetti che vanno oltre la sua immediatezza. Solo
questo rappresenta il vero volume in cui il suo essere si esprime.»41

Un tale contributo sociologico non poteva scappare allo sguardo attento di autori come
Robert E. Park, Ernest W. Burgess e Roderick D. Mckenzie. Negli anni Cinquanta gli
antropologi americani furono travolti dagli sviluppi tecnologici ed economici che
investirono il loro paese nel giro di pochi anni. Al tempo, gli americani si percepivano
come una grande «società di massa, florida e omogenea; gli intellettuali lamentavano un
eccesso di conformità e mediocrità».42 Nella prima fase l’antropologia urbana
statunitense si è caratterizzata come antropologia nella città, un orientamento di ricerca
che poneva al centro del proprio interesse il recupero in contesto urbano dei suoi
tradizionali oggetti di indagine: questo permise all’antropologo di continuare ad
utilizzare gli strumenti concettuali e metodologici consolidati negli studi di società altre.
Nei casi migliori, come in quello di Oscar Lewis, l’antropologia urbana statunitense finì
per studiare come i nuovi arrivati si adattarono alla città o come le città li accolsero. Gli
studiosi americani hanno elaborato anche un orientamento di ricerca noto come
“antropologia della città”, dove questa è posta al centro della scena: in un primo caso la
città viene considerata come fattore determinante di atteggiamenti e comportamenti, il
cui fulcro è individuato nella specificità della città come ambiente fisico, totalmente
umano, storico. Un’altra prospettiva è quella che considera la città il prodotto delle
relazioni sociali che si intrecciano in essa; in città la divisione del lavoro socialmente
necessario si sgancia dai vincoli di sesso e di età e tende sempre più a strutturarsi e
articolarsi economicamente, sulla base di un rapporto tra mezzi e fini congruente con gli
obiettivi privilegiati della struttura dei poteri propri di ciascuna città e del sistema
sociale di cui essa è parte.

41
Dedkowski, P. (a cura di), op. cit., pp.50-51
42
Hannerz, U., op. cit., p.71
29
La città di Chicago tra la fine dell’Ottocento e per buona parte del secolo scorso ha
subito una repentina espansione; gli immigrati riponevano nella rapida
industrializzazione le speranze di un futuro migliore e la Windy City rappresentò il
centro nevralgico in cui presero il via, fin dagli anni ’30, quelli che consideriamo i primi
studi urbani moderni. L’Università di Chicago, dove nacque il primo dipartimento di
sociologia nelle università americane, presentava due orientamenti: da una parte una
filosofia sociale speculativa e dall’altra una ricerca che, nonostante alcune debolezze
concettuali, si applicava nella raccolta di dati sulla società industriale. Nei decenni
successivi la Scuola sostenne l’importanza di indagini empiriche, slegate dalle
inclinazioni biologiche che, in precedenza, avevano caratterizzato lo studio
dell’organizzazione sociale. La scuola di Chicago portò in seno un altro binomio: la
separazione tra il dipartimento di sociologia e quello di antropologia, che si costituì
soltanto nel 1929. Nonostante alcuni studiosi affermino che la derivazione
dell’antropologia dalla sociologia sia stata forzata, è bene ricordare come importanti
antropologi del Novecento, come Leslie White e Robert Redfield, provenissero
entrambi da quel dipartimento. Lo stesso Park in un articolo del 1915 notava come la
metodologia antropologica potesse essere una fonte importante per la ricerca urbana:
esso cita con ammirazione i metodi di Boas e Lowie, impiegati nelle ricerche sugli
indiani dell’America del Nord, e paventa l’idea del loro utilizzo nelle società dell’uomo
civilizzato43. Oltre dell’antropologia, Park si servì di altre due fonti di ispirazione: la sua
precedente carriera da giornalista e l’ottima conoscenza della letteratura naturalista;
ambedue gli elementi condussero il sociologo ad una rigorosa applicazione
metodologica del fieldwork e lo stimolarono ad attingere ad ambiti di ricerca
dell’antropologia, come le istituzioni e gli stili di vita. Molteplici temi hanno catturato
l’attenzione di Robert Park, esso ha infatti spaziato dalle relazioni razziali agli effetti
dell’immigrazione sulla società americana, fino allo studio dell’incidenza di fenomeni
quali la criminalità, il divorzio e il suicidio nelle aree urbane.
L’influenza che la filosofia di Simmel ha esercitato su Park lo ha portato a considerare
la città come un’entità in grado di plasmare e liberare gli interessi e le volontà dei
singoli individui. Per Park è la divisione del lavoro che, dettando le condizioni della vita
urbana, va a produrre i soggetti che, in quanto prodotti essi stessi, hanno da una parte le
conoscenze professionali autonome che però vanno a determinare le specificità del
43
ivi, p.109

30
gruppo professionale e nel complesso la città. La continua ricerca dell’homo urbanus di
un riconoscimento da parte della società è uno dei concetti chiave di Park e dell’intera
Scuola.
Particolarmente significativo risulta il modello proposto da Ernest Burgess in Lo
sviluppo della città: introduzione a un progetto di ricerca44, in cui descrisse il processo
di espansione attraverso il quale le città compierebbero il proprio sviluppo fisico. Per la
descrizione del processo di espansione che investì le metropoli americane ed europee
agli inizi del XX secolo – le prime coinvolte in un più repentino ampliamento rispetto
alle seconde – il sociologo suggerì una rappresentazione del fenomeno che impiegava
l’utilizzo di un modello generale formato da cerchi concentrici enumerati che
designavano zone di estensione urbana.

«Il presente diagramma costituisce una rappresentazione ideale delle tendenze di una
città qualsiasi, grande o piccola, a espandersi radialmente a partire dal quartiere
commerciale centrale indicato nel diagramma con il «centro» (I). Intorno al centro
cittadino si trova normalmente un’area in transizione che viene occupata da imprese
commerciali e da piccole industrie (II). Una terza area (III) è abitata dagli operai
dell’industria che sono sfuggiti dall’area di deterioramento (II), ma che desiderano
abitare a breve distanza dal luogo di lavoro. Oltre a questa zona vi è l’ «ara residenziale
» (IV) occupata da edifici con appartamenti di lusso o da quartieri privilegiati e
«ristetti» con abitazioni singole. Più oltre, al di là dei confini della città, vi è la zona dei

44
Park, R. E., Burgess E. W., McKenzie, R. D., La Città, Edizioni di Comunità, Milano, 1967,
pp.45-58 (The City, 1925)
31
lavoratori pendolari, costituita da aree su suburbane o città satelliti e situata a mezz’ora
o a un’ora di viaggio dal quartiere commerciale centrale.»45

Il diagramma ha lo scopo di mostrare il processo dell’espansione che Burgess chiamò


«successione», intesa come la tendenza di ogni zona ad invadere quella successiva.
Come i suoi colleghi della scuola di Chicago, anche esso si sofferma, oltre che su uno
sviluppo meramente fisico della città e sullo sviluppo dei servizi tecnici in favore dei
cittadini, sui mutamenti che questo incremento apporta all’organizzazione sociale e ai
tipi di personalità degli abitanti. L’autore, seguendo un’idea spenceriana di sviluppo, si
interrogò sulla misura in cui l’incremento tecnico e fisico della città siano legati ad un
riadattamento dell’organizzazione sociale, chiedendosi anche entro quali limiti questa
espansione può procedere senza intaccare la coesione urbana. Lo sviluppo urbano fu
comparato con i processi anabolici e catabolici del corpo umano, per Burgess infatti si
parla di metabolismo sociale: partendo dall’assunto che nell’espansione urbana agisce
un processo che ricolloca e filtra gli individui in base alla residenza e all’occupazione, è
la divisione del lavoro in città a disorganizzare, riorganizzare e differenziare il suolo
urbano. L’esemplificazione fatta su Chicago ha permesso di rintracciare gruppi naturali,
economici e culturali che sulla base della loro differenziazione imprimono un carattere
alla città: è la separazione del gruppo ad assegnare un posto e un ruolo
nell’organizzazione della vita urbana. Burgess sostiene che ad una divisione economica
del lavoro ci sia una corrispettiva divisione in classi sociali ed è:
«In questa molteplicità di gruppi, con modi di vita diversi gli uni dagli altri, chiunque
può trovare l’ambiente sociale che gli è congeniale e – ciò che è impossibile entro i
ristretti confini di un villaggio – può muoversi e vivere in mondi fortemente separati e a
volte in conflitto. La disorganizzazione personale può essere dovuta soltanto
all’incapacità di armonizzare i canoni di comportamento di due gruppi divergenti.»46

Per l’autore è la disorganizzazione urbana a causare l’incremento di malattie, vizi,


delitti, suicidi, che vanno a costituire degli indici nella classificazione dell’effettivo
disordine sociale; la causa del disordine è l’eccedenza di popolazione nelle città
metropolitane che comporta uno spostamento di abitanti e tende ad ammassare i nuovi
arrivati in quella che per Burgess è la “zona di deterioramento”. Per spiegare il
mutamento della vita cittadina va effettuata la distinzione tra movimento e mobilità: il
primo non costituisce per Burgess un segno di sviluppo, questo è indice di progresso

45
Park, R. E., Burgess E. W., McKenzie, R. D., op. cit., p.49
46
ivi, p.54
32
solo se è una risposta conseguente a nuovi stimoli o situazioni, ed è quindi in questo
caso che si ha la definizione di mobilità. «Il movimento consuetudinario trova la sua
tipica espressione nel lavoro; il mutamento di movimento, o mobilità, è espresso in
maniera caratteristica dell’avventura»47. La mobilità costituisce una fonte di mutamento
per la grande città, crea stimoli e nuove esperienze e sono proprio queste innovazioni e i
luoghi di divertimento a creare nelle città delle regioni in cui rapine, omicidi, e vizi sono
numericamente maggiori rispetto alle altre zone. Secondo Burgess è lo stimolo a creare
nella persona «una risposta a quegli oggetti del suo ambiente che costituiscono
l’espressione dei suoi desideri»48. Considerando lo stimolo come essenziale allo
sviluppo, il sociologo parla di reazione completa e reazione frammentaria: la prima si ha
quando c’è una risposta sana allo stimolo, mentre la seconda si verifica quando non c’è
una reazione controllata dalla personalità e quindi produce una disorganizzazione. Allo
stimolo fine a se stesso ne consegue il vizio. Burgess usa l’uomo per parlare della città,
è infatti credenza dell’autore che l’accrescimento di stimoli nelle città metropolitane
abbia comportato a corrompere l’individuo in aree di corruzione, vizio e promiscuità. La
mobilità è ritenuta l’indice più sicuro per accettarsi del metabolismo urbano.
Fin dai suoi primi scritti Robert Park si soffermò sulla varietà dei quartieri
urbani e sulla rapidità con cui questi cambiano nel tempo: i cambiamenti riscontrati
nelle grandi città occidentali portarono il sociologo a sviluppare la sua idea di “ecologia
umana”. Con questo concetto, Park, Burgess e McKenzie, intendevano lo studio del
forte legame tra l’uomo e l’ambiente, ponendo l’interesse di come il modificarsi delle
relazioni tra individui e comunità influenzi sia il comportamento umano che le
istituzioni. La formulazione di questa nuova scienza degli ambienti antropizzati doveva
servire agli studiosi di Chicago, partendo dalla teoria ecologica classica, a spiegare la
logica della distribuzione sul territorio degli abitanti.
«Più esattamente, egli considera come fondamentali due variabili: quella che si muove
fra cooperazione e conflitto e quella che si muove fra isolamento e coinvolgimento; la
prima riguarda il grado di contrapposizione tra gruppi, la seconda il grado di
appartenenza dell’individuo al gruppo. Egli riconosce cioè che la logica della
concorrenza per l’appropriazione di risorse scarse non basta a spiegare i processi sociali.
Anzi, essa riguarda e spiega soltanto i processi di simbiosi, quelli in cui il contatto e il
mutuo influenzarsi degli individui e dei gruppi si limita a forme non consapevoli, non
internazionali, di competizione o cooperazione.»49

47
ivi, p.55
48
ibidem
49
Pizzorno, A., op. cit., p.XVII
33
E’ Roderick D. McKenzie a fornire una definizione di ecologia umana infatti questo,
partendo da una riflessioni sull’ecologia vegetale e quella animale, definì la
“neoscienza”
«come lo studio delle relazioni spaziali e temporali degli esseri umani in quanto
influenzati dalle forze selettive, distributive e adattive che agiscono nell’ambiente.
L’ecologia umana si interessa fondamentalmente degli effetti della posizione, sia nel
tempo sia nello spazio, sulle istituzioni e sul comportamento umano.»50.

Per lo studioso di Chicago le relazioni spaziali sono il risultato della competizione tra
gli esseri umani, che si modificano ogni volta che nuovi fattori si introducono in un
ordine spaziale definito, andando così ad alterare le precedenti relazioni spaziali degli
esseri umani. Questo intromissione produce uno scombussolamento della base fisica dei
rapporti sociali, generando problemi sia politici che sociali. Secondo McKenzie a
distingue l’uomo dai vegetali e gli animali sono la possibilità di muoversi nello spazio e
la capacità di adattare l’ambiente ai propri bisogni, lui infatti considera le comunità
umane determinate dai bisogni e dalla natura degli esseri umani. La comunità tende a
svilupparsi ciclicamente, è l’equilibrio tra risorse naturali e attività produttive a
determinare l’equilibrio tra popolazione e base economica; la stabilità tra comunità e
risorse economiche rimane fino a quanto non si introduce un nuovo elemento che può
essere destabilizzante, che va ad incentivare l’emigrazione e il riadattamento della base
economica, o può essere di liberazione, dando il via ad un altro ciclo di sviluppo.
McKenzie sostiene che sono state la rapidità, le industrie e il basso costo dei trasporti ad
aver agevolato lo sviluppo delle grandi città: queste innovazioni hanno comportato delle
migrazioni di popolazione oltre il limite naturale sostenibile da una città, il
raggiungimento del culmine senza una liberazione crea una stagnazione e costringe la
popolazione ad emigrare. Una città che aumenta in estensione acquista però una
maggiore capacità di adattamento all’aumento degli abitanti ma, nonostante questo,
«L’effetto generale dei continui processi di invasione e di assestamento suddivide la
comunità sviluppata in aree ben definite, ciascuna con una propria capacità selettiva e una
propria cultura.»51

In questo modo McKenzie introdusse la possibilità di descrizione delle “regioni


morali”, che rappresentò l’obiettivo principale della Scuola di Chicago: il concetto va a
designare la tendenza per cui gli abitanti condividono uno spazio delimitato all’interno

50
Park, R. E., Burgess E. W., McKenzie, R. D., op. cit., pp.59-60
51
ivi, p.71
34
della città, luoghi in cui vengono ghettizzati poveri, corrotti, delinquenti, poiché non
accettati dalla parte “normale” della città. Le “aree naturali” sono quelle «in cui tendono
tipi individuali che per un carattere e per un altro si considerano omogenei»52, sono
infatti rintracciati quartieri omogenei per caratteristiche etniche, sono omogenei
socialmente o spazi urbani delimitati da categorie tipiche per altre ragioni, come i
quartieri del vizio, quelli degli artisti o le zone industriali. La distanza sociale sopperisce
quella fisica:
«la distribuzione della popolazione fra queste aree è frutto della competizione (i prezzi
dei terreni sono fra gli indici migliori per delimitare e descriverle) la quale tende a
setacciare e quindi raggruppare insieme i simili. La naturalità della città è questa volta il
suo essere frutto del processo di competizione «naturale».»53

Chicago subì, tra la fine dell’ ‘800 e gli inizi del ‘900, un incremento di popolazione
senza precedenti. Negli anni ’20 del Ventesimo secolo, quando gli studiosi di Chicago
iniziarono le loro teorizzazioni sulle città, dovettero confrontarsi con una città di circa
2.700.000 abitanti. Il modello sopra rappresenta la schematizzazione della città fatta dai
sociologi: l’intento fu quello di rendere visibile il processo che conduceva alla

52
Pizzorno, A., Introduzione, in Park, R. E., Burgess E. W., McKenzie, R. D., La Città, Edizioni
di Comunità, Milano, 1967, p.XVIII, (The City, 1925)
53
ivi, p.XIX
35
distribuzione ecologica della popolazione nella città, dal quale conseguiva la nascita di
aree segregate.
Alberto Sobrero rintraccia tre affermazioni programmatiche per racchiudere il
pensiero di Robert Park sull’antropologia nel contesto urbano: l’antropologia, in quanto
scienza dell’uomo, è scienza di tutti gli uomini, quindi anche degli abitanti delle
metropoli; la cultura delle società moderne è identica a quella delle società tradizionali;
i metodi dell’antropologia per lo studio delle società semplici potrebbero essere
impiegati ancora più vantaggiosamente nello studio delle nostre società (Sobrero, 1992).
Nonostante l’idea di Park venga smentita da C. Lévi-Strauss prima e S. F. Nadel54 poi,
non è stata mai esclusa la possibilità di un’antropologia del mondo moderno. Il primo
afferma che la cultura delle società complesse è qualitativamente differente da quella di
qualsiasi società passata, il secondo trova indispensabile una revisione dei metodi
elaborati dall’antropologia per occuparsi delle società semplici quando l’oggetto di
studio diventano le società complesse (Sobrero, 1992).
Louis Wirth è lo studioso di Chicago che più si è dedicato alla ricerca empirica:
L’urbanesimo come modo di vita (1938) è l’opera in cui il sociologo di Chicago enuncia
le problematiche conseguenti all’ampliamento urbano, esso crede infatti che la
disorganizzazione sociale sia insita nella costruzione della città. Wirth illustra una teoria
dell’urbanesimo da cui far partire una ricerca sul campo che possa servire a convalidare
le premesse teoriche; il sociologo urbano ritiene che l’impiego dell’osservazione sia
necessario per analizzare e rintracciare le relazioni tra tre elementi: la quantità degli
abitanti, la densità dell’insediamento e infine l’eterogeneità degli abitanti e la vita di
gruppo.
Il crimine, il vizio, la delinquenza, il vagabondaggio sono stati le tematiche
centrali nella sociologia americana degli anni ‘20; tutti gli oggetti riconducibili alla
devianza furono visti come minacce all’ordine sociale e alla moralità dominante. La
scuola di Chicago cercò di affrontare le problematiche sociali urbane in modo
scientifico. L’osmosi tra la ricerca sul campo e le teorie precedentemente elencate
hanno portato i sociologi della Scuola di Chicago ad assumere un atteggiamento
scientista, con una visione positivista della realtà sociale. Le prime ricerche sul campo
americane sono caratterizzate da una metodologia di indagine che può definirsi

54
Sigfried Friedrich Nadel (1903-1956) ha espresso questo concetto in The Foundation of
Social Anthropology (1951)
36
impersonale, poiché questi sociologi prediligevano un’esteriorità rispetto all’oggetto; gli
studiosi di Chicago inserivano le singole ricerche in un quadro teorico generalizzante al
fine di ottenere un modello concettuale valido al di là del tempo e dello spazio, non
riuscendo però a formulare delle vere e proprie leggi ma compiendo astrazioni
concettuali derivanti dall’osservazione diretta dei fenomeni. Questi studiosi sembrano
concentrare il proprio interesse non su un singolo gruppo ma sulle caratteristiche che li
differenziano dagli altri tipi di comportamenti collettivi, infatti questi sembrano ritenere
i propri schemi “naturali” e rappresentazioni fedeli della struttura della realtà. Il limite
gnoseologico sta nell’aver impantanato delle ricerche delle scienze sociali in un
paragone con quelle delle scienze naturali, al fine di giungere a delle leggi naturali che
secondo questi studiosi stanno alla base della formazione della società. I sociologi di
Chicago sono stati criticati per un eccessivo empirismo e per quasi l’esclusivo utilizzo
del metodo qualitativo, poiché questi si contrappongono alla volontà di voler creare una
metodologia di ricerca “scientifica”.
Si sente inoltre l’esigenza di aggiungere in questa sessione un rifermento a
Manuel Castellels, in particolar modo un richiamo all’opera La questione urbana
(1972), dove prende il via a quella che può essere definita la seconda generazione di
sociologi urbani. Il sociologo spagnolo naturalizzato americano compie una lettura
marxista dello spazio urbano, quest’ultimo è infatti dominato ideologicamente. La città
non esiste aprioristicamente, ma solo in quanto risultato del dominio sociale del
territorio e dell’ideologia della classe dominante. Le città contemporanee sono dunque
legate al modo di produzione capitalistico, che si riscontra secondo Castells anche nella
produzione della conoscenza e si riflette nei rapporti sociali, in quanto rende naturali le
disuguaglianze urbane. Le lotte della classe operaia nel biennio ‘68-‘69 segnarono il
passaggio della contrattazione per il salario monetario alla contrattazione per il salario
reale: gli operai chiedevano che il loro salario potesse essere immediatamente tradotto
in condizioni di riproduzione della forza lavoro, portando fuori dalla fabbrica la lotta
che inevitabilmente si tradusse in scontro per l’affermazione sul terreno sociale.
L’esigenza per l’organizzazione sociale del capitale fu inevitabilmente legata a l’uso del
territorio e si inaugurò una nuova lotta tra capitale-lavoro, rintracciabile nella
conflittualità sul piano sociale come nella fruizione di casa, trasporti e servizi. In una
lettura marxista di quella che può essere considerata la “questione urbana”, appare
evidente che non esista un processo di auto-creazione di aree naturali ma che siano il

37
processo di riproduzione di forza lavoro, la circolazione del capitale e l’ideologia
urbana a limitare l’accesso al territorio e alla vita sociale.
Un’altra categoria di approccio al contesto urbano che si sviluppò all’interno della
pratica antropologica legata alla scuola di Chicago è quella dell’“antropologia del
ghetto”, che trovò in Lloyd Warner e Amos Hawley i principali esponenti. La
metodologia tracciata da questi studiosi consisteva nel «delimitare unità d’analisi
culturale, compiute e significative»55, privilegiando situazioni di marginalità e povertà.
The ghetto approach ha permesso all’antropologo di studiare l’alterità in casa sua, di
analizzare quei segmenti della popolazione trattati con indifferenza, soffermandosi sulle
minoranze, gli slums e le enclaves urbane.
Uno dei limiti della Scuola di Chicago, e della sociologia americana in genere, è l’idea
di uno stretto collegamento tra divisione razziale e marginalità, questi infatti
intendevano i ghetti come mondi disorganizzati. Le opere di Loïc Wacquant e Philippe
Bourgois possono considerarsi modelli di ricerca nei ghetti che vanno a smentire la
rappresentazione disomogenea degli studiosi di Chicago. Anima e corpo. La fabbrica
dei pugili nel ghetto nero americano (2000) di Wacquant fornisce ottimi spunti sulla
modalità di azione nel campo; l’indagine sui pugili americani del ghetto di Chicago,
nonostante si ponga come obbiettivo primario quello restituire una dimensione carnale
all’esistenza e di ritrovare inscritto nel corpo l’ordine sociale di appartenenza,
rappresenta un modello di indagine esemplare, i cui resoconti etnografici sono in grado
di fornire archetipi per una ricerca nel ghetto nero americano, e non solo. La ricerca nel
Woodlawn Boys Club è un modello di azione per l’antropologo una volta sul campo; il
calarsi senza riserve nel terreno urbano, l’esperire l’oggetto di ricerca attraverso il
proprio corpo, come descritto in questa monografia, risponde alla preoccupazione di far
entrare il lettore dentro il gruppo sociale studiato e di far comprendere i meccanismi
sociali in atto.
Dal canto suo Philippe Bourgois con Cercando rispetto. Drug economy e cultura di
strada (1996) e Reietti e fuorilegge. Antropologia della violenza nella metropoli
americana (2009) contribuisce a fornire un’ottima rappresentazione dei segmenti urbani
analizzati. Il primo lavoro nel ghetto portoricano di East Harlem di New York descrive
la violenza quotidiana che pervade un gruppo segregato; si tratta di una coraggiosa
ricerca sugli spacciatori di crack reclusi in uno spazio urbano considerato

55
Sobrero, A. M., op. cit., p.198
38
pericolosissimo e inaccessibile per gli americani bianchi. Lo scopo dello studio fu
quello di contrastare una visione dominante composta da narrazioni stigmatizzanti e
razzializzanti nei confronti dei latinos e degli afroamericani che vivevano nei ghetti
statunitensi; Bourgois fa proprio l’obiettivo di contrastare quell’atteggiamento delle
classi benestanti di reputare culturalmente e anche da un punto di vista intellettuale alle
fasce più deboli della società americana, per la borghesia statunitense sarebbero questi
deficit ascritti nei poveri e nelle minoranze urbane a consacrarli ad un destino di
criminalità. Lo studio sul campo ha permesso all’autore di non considerare la violenza
come un prodotto esclusivo delle condizioni storiche ed economiche, questa violenza è
considerata normalizzata, quotidiana, strutturale e simbolica, e mette in luce le relazioni
di dominio sia tra gli stessi abitanti dell’inner city che con il perpetuarsi di una violenza
dei dominanti benestanti e istruiti sui dominati portoricani. La vita dei venditori di crack
e la loro agency è la narrazione predominante della monografia, il vivere di Bourgois tra
e con loro ha dato misura di una minoranza che non subisce solo passivamente la
violenza ma che di contraccolpo resiste: è l’economia della droga a fornire all’interno
del ghetto il rispetto. L’opera del 2009 ha come oggetto di ricerca un gruppo di
senzatetto eroinomani di Edgewater e anche in questo caso il filo conduttore della
vendita e del consumo di droga ha permesso a Philippe Bourgois e Jeff Schonberg di
seguire per oltre dieci anni la condotta di vita di un gruppo emarginato nella città di San
Francisco. In un’ottica di aspra critica alle politiche neoliberiste americane, che tendono
a confinare in ghetti urbani la povertà, gli autori hanno documentato, anche
fotograficamente, la precarietà esistenziale di questi soggetti e i loro escamotage per la
sopravvivenza.

1.3. Inghilterra: Manchester e Birmingham

Dall’altra parte dell’oceano, in Gran Bretagna si può evincere che l’interesse


dell’antropologia per le società complesse nacque in seguito alla crisi coloniale; infatti,
oltre a lavori compiuti nella stessa isola, gli antropologi inglesi si dedicarono all’analisi
di processi di urbanizzazione delle città nel Terzo Mondo. Nello sviluppo
dell’antropologia urbana britannica è stato dominante il ruolo ricoperto dalla Scuola di
Manchester, soprattutto «nel valutare pienamente il problema dell’antropologia delle
società complesse, come problema del tutto originale e bisognoso di categorie e

39
strumenti nuovi.»56 Ad aver aiutato la fioritura di questo ramo dell’antropologia sociale
in Gran Bretagna è stata principalmente la figura di Max Gluckman: questo, infatti, ha
diretto dal 1941 e al 1946, il Rhodes-Livingstone Istitute57 di Lusaka (Zambia) che
seguì gli studi legati ai movimenti migratori dal villaggio alla città, tacciando il
fenomeno come conseguenza del colonialismo britannico.
Tra gli anni Cinquanta e il 1975 circa, le città dell’Africa centrale sono state investite da
una rapidissima urbanizzazione e da un evento di crescita demografica senza precedenti;
queste sono state studiate dagli antropologi durante l’ultimo periodo coloniale poiché
ritenute interessanti in quanto «l’urbanizzazione africana, sia quella fisica, che quella
mentale e culturale, è del tutto indotta dagli interessi dell’espansine coloniale.».58 Il
boom del rame che si verificò nella regione di Ndola, attuale Zambia, allora zona sotto
dominio britannico, causò la migrazione, con conseguente aumento demografico della
zona, di un ingente flusso di persone che si mosse dal resto dell’Africa in cerca di
lavoro. Queste città minerarie, conosciute anche come regione di Copperbelt, si
trovarono in una situazione completamente nuova e difficile da gestire da parte dei
governanti inglesi: la modifica del sistema lavorativo nelle miniere aveva comportato un
cambio della gestione, emersero «forme di leadership del tutto nuove per la mentalità
tradizionale»59 e con il ricambio urbano entrarono in crisi anche i sistemi tradizionali di
parentela e quelli di solidarietà economica, caratteristici del sistema tribale. E’ proprio
per comprendere queste modifiche del tessuto urbano che fu istituito, su iniziativa del
ministero delle Colonie, il Rhodes-Livingstone Istitute di Lusaka nel 1938. L’iniziativa
riguardante questo istituto di ricerche sociali fu mossa da un governatore del Nord della
Rhodesia che, soltanto in seguito ad anni di trattative, riuscì ad ottenere il consenso
dall’Ufficio Coloniale di Londra. L’aspettativa principale degli amministratori coloniali
era quella che i dipendenti del nuovo istituto di ricerca si occupassero della vita rurale
africana, avendo così la possibilità di fornire informazioni e consigli ai governanti. Il
primo direttore, Godfrey Wilson, pensò invece di effettuare una ricerca sul campo nella
Copperbelt, per indagare città e urbanizzazione; esso ricevette un veto da parte del
commissario provinciale e quindi decise di scegliere come campo Broken Hill, dal cui

56
ivi, p.42
57
Nel 1964, in seguito all’indipendenza dello Zambia divenne Istitute for Social Research
dell’Università dello Zambia.
58
Sobrero, A. M., op. cit., p.91
59
ivi, p.98
40
studio derivò la monografia An Essay on the Economics of Detribalisation in Northern
Rhodesia. Nell’opera Wilson descrive i cambiamenti avvenuti in Africa centrale negli
anni precedenti, analizzando la mutazione dei rapporti sociali: la società basata
esclusivamente sulla parentela si era trasformata in una comunità fatta di relazioni
impersonali e aveva così conosciuto la distinzione per razze, nazioni e classi. L’autore
mise al centro della propria ricerca l’instabilità economica: l’introduzione di
un’economia industriale pensata su base urbana in un contesto rurale caratterizzato da
un’agricoltura rudimentale. Nel suo studio sulla “detribalizzazione”, Wilson rintracciò
vistosi cambiamenti: la vita di campagna non era più la stessa, l’emigrazione che dalle
zone rurali conduceva gli uomini a cercare lavoro in città comportò un decadimento
delle coltivazioni agricole; la nascita di nuove forme di relazioni in città basate
sull’impersonalità, definite dal ricercatore “relazioni di affari”; per ultimo, si soffermò
sulle entrate mensili che venivano impiegate dalla maggior parte degli africani per
comprarsi un abbigliamento simile a quello degli occidentali. Questa prima e unica
ricerca di Godfrey Wilson per il Rhodes-Livingstone Istitute di Lusaka ha il merito di
aver dato il via all’analisi sul cambiamento sociale in Africa centrale. Come già
anticipato, l’antropologo sociale che diede lustro all’Istituto di Lusaka fu Max
Gluckman. Il successore di Wilson, con la sua antropologia struttural-funzionalista, con
una particolare attenzione all’elemento storico, con le teorie sull’equilibrio, derivate
dallo studio di Marx, e soprattutto dal significato del conflitto nella vita sociale,
«insiste sulla necessità di considerare la società africana come «un unico campo
sociale» che comprende tutti i fenomeni, dalla vita di villaggio tradizionale e dal potere
del capo tribù, fino ai funzionari di distretto europei e alle condizioni di vita nelle
miniere d’oro del Sud Africa. Inoltre, egli attira l’attenzione sulle somiglianze del
processo di industrializzazione e delle migrazioni di forza lavoro nell’Europa del XIX
secolo e nell’Africa centrale e meridionale del XX secolo.»60

Nel 1945 Gluckman istituì un progetto di ricerca per il Rhodes-Livingstone


Istitute di Lusaka della durata di sette anni con l’obiettivo di rintracciare i più
significativi mutamenti nell’organizzazione sociale della regione, sia in ambito rurale
che urbano, spaziando dalla famiglia all’economia, dalla religione alla politica.
Anche Evans-Pritchard in Social Anthropology (1962) parlò del crescente interesse del
Ministero delle Colonie nei confronti dell’antropologia sociale; infatti, quest’ultimo, in
seguito alla Seconda Guerra Mondiale, iniziò a finanziare sempre un maggior numero di

60
Hannerz, U., op. cit., pp.248-249
41
ricerche nei territori coloniali, compiute soprattutto negli istituti locali di ricerca. Evans-
Pritchard rappresentò una solida base per le ricerche dell’istituto di Lusaka e,
nonostante esso non fosse pienamente in accordo con il loro modo di svolgere ricerca, è
a ragione considerato «il padre spirituale dell’indirizzo di studi che Max Gluckman
impresse all’Istituto di Lusaka»61. All’autore di The Nuer va riconosciuta la
«rivoluzione dei metodi e negli interessi dell’antropologia sociale»62: con esso venivano
meno l’evoluzionismo e il diffusionismo, infatti aveva apportato alla metodologia
antropologica quelle modifiche che ora la rendono unica. Esso si pronunciò a favore di
ricerche fondate sull’osservazione, a patto che queste fossero veramente approfondite,
di lunga durata e avessero come oggetto di studio soltanto pochi gruppi sociali. La
digressione su Evans-Pritchard serve per comprendere come e perché Max Gluckman e
la Scuola di Manchester siano considerati la prima pietra miliare dello sviluppo di
un’antropologia urbana anglosassone. Gluckman lamentava la necessità di uno studio
della complessità che indagasse il conflitto, il mutamento e le relazioni tra i gruppi, per
giungere ad uno studio del reale in quanto processo e complessità. Il programma della
scuola di Manchester fa propri due tratti distintivi di Evans-Pritchard: da una parte vi è
la tendenza ad una ricerca di prospettive originali per la descrizione del campo,
dall’illustrazione alle fotografie; dall’altra parte, l’antropologo mantiene ferma la
convinzione dell’importanza della comprensione teorica ma senza «giungere a
confondere il metodo con la realtà, lo strumento con l’oggetto di ricerca; senza pensare
che semplici e “astratti” siano i comportamenti umani.»63. La scuola di Manchester
negli anni Sessanta presenta tre elementi che compongono un pensiero caratterizzante:
la volontà di rintracciare in un’ottica antropologica le procedure che vanno a delimitare
l’oggetto di studio del mondo moderno; l’utilizzo dell’analisi situazionale negli studi
effettuati dal ponte Lusaka-Manchester; infine il concetto di “tribalismo urbano”, inteso
come la tendenza a rintracciare in città qualcosa che classifichi e ordini un
comportamento, così come è stato possibile sintetizzare l’appartenenza tribale nelle
società semplici. Il “tribalismo urbano” è stato un concetto su cui hanno insistito molto
gli studiosi di Manchester nello studio dei processi del sistema sociale urbano; di
particolare rilievo è stato lo studio delle categorie etniche: queste resistono anche fuori
dalle campagne, in un processo di assimilazione urbana che avviene in tempi molto
61
Sobrero, A. M., op. cit., pp.99-100
62
ibidem
63
ivi, p.103
42
lunghi o, all’opposto, si assiste ad una forte persistenza del sentimento etnico. Se
brevemente è stata già tracciata l’idea di “analisi situazionale” fornita dalla Scuola di
Manchester ed è stata appena accennata quella di “tribalismo urbano”, ai fini di questo
breve excursus nello sviluppo dell’antropologia urbana britannica, serve approfondire il
primo punto sopracitato, per rintracciare un altro anello di congiunzione
nell’articolazione di questo ambito di ricerca. Hannerz ricorda che gli antropologi del
Rhodes-Livingstone Istitute di Lusaka hanno trattato nelle città della Copperbelt molti
dei problemi teorici tipici dell’antropologia urbana: «i rapporti fra i vari ambiti di
attività, le continuità culturali e i contrasti fra campagna e città, le relazioni fra la società
globale e un modo di vita particolare.»64. Max Gluckman si schierò contro la netta
contrapposizione tra semplice e complesso, poiché questa netta distinzione non precede
l’oggetto ma riguarda la comprensione di questo: non esiste una distinzione tra due tipi
di società, nettamente bipartite in semplice o complesse, ma esistono società i cui
meccanismi sono stati compresi dagli antropologi e quindi risultano semplici,
conseguentemente appariranno complesse quelle che ancora non si è stati in grado di
sviscerare. Qui la semplificazione è stata intesa come un procedimento che porta alla
conoscenza dell’oggetto e non una caratteristica di questo: «Compito dell’antropologia è
“circoscrivere il campo” e “produrre semplificazioni” nella prospettiva di relazioni fra
sistemi mentali e mondo esterno.»65. Da questo consegue che l’antropologia non è una
scienza esclusivamente del passato o ormai destinata al presente, solo delle società
tradizionali o di quelle moderne, ma essa rappresenta secondo Gluckman una delle
prospettive con cui ordinare gli eventi sociali. La scuola di Manchester non ha
introdotto nuove categorie per lo studio delle società moderne e neanche ha affinato
nuovi metodi di rilevazione: questa ha soltanto suggerito di affilare dei criteri e metodi
di ricerca preesistenti alla luce di una nuova esperienza di ricerca, poiché per questi
studiosi l’obiettivo rimase quello della riduzione di una complessità. Gluckman nel
processo che dal complesso conduce al semplice identifica tre procedure astrattive: la
circumscription, basata sulla scelta della scala di osservazione, è la fase in cui lo
studioso dovrà definire il campo dell’osservazione; nell’incorporation l’antropologo
deve incorporare dei dati certi che hanno un forte collegamento con la sua ricerca (es.
nello studio effettuato in una città sono molto rilevanti i dati raccolti da un demografo);

64
Hannerz, U., op. cit., p.294
65
Sobrero, A. M., op. cit., p.108
43
con l’abridgement un antropologo dovrà fondare la propria ricerca su contributi teorici
elaborati da un’altra disciplina. In una società complessa è molto difficile attuare le tre
procedure astrattive, perché
«In linea di massima lo studioso ha a sua disposizione tre alternative, può limitare al
massimo il suo campo d’analisi e moltiplicare l’intensità della sua ricerca nella sola
prospettiva antropologica; può estendere la sua ricerca verso altre prospettive
appellandosi all’autorità dei suoi colleghi; può tentare egli stesso di governare la
complessità delle variabili esterne. […] Nel caso di società moderne lo scarto fra i tre
approcci è invece più sensibile e si tratta di operare attraverso l’una o l’altra opzione.»66

La scelta di una di queste a scapito delle altre comporta difficoltà e limiti nello studio:
per esempio, chiudere troppo un sistema può portare ad una ricerca da “laboratorio”,
rischiando nei casi peggiori un risultato slegato dal contesto reale; la chiusura del
sistema non è dato dalla realtà ma dal metodo con cui si sceglie di agire su di questa.
Infatti, nell’affrontare le prime questioni teoriche legate all’antropologia delle società
complesse, Gluckman rivendica la necessità dell’astrazione e anche la stessa necessità
di non perdere la consapevolezza che questo processo comporti una modifica del reale.
Quasi contemporaneamente, sempre in Inghilterra, un’altra scuola si è
contraddistinta per i numerosi contributi forniti allo sviluppo dell’antropologia nel
contesto urbano. Prima di elencare gli studiosi e le ricerche della Scuola di Birmingham
che hanno collaborato alla fioritura di questo specifico indirizzo di studi, è importante
compiere una specificazione terminologica: è infatti con il termine inglese Cultural
Studies che si vanno a designare gli studi culturali di matrice anglo-americana. E’ bene
ricordare come questo non rappresenti un progetto omogeneo ma si sia piuttosto
diversificato, da un punto di vista tematico, in momenti e luoghi differenti.
L’orientamento di questi studi è centrato sull’analisi del ruolo della cultura nei rapporti
sociali concepiti come rapporti conflittuali fra classi e gruppi sociali i cui interessi sono
in conflitto; il ruolo della cultura nei rapporti di dominio e sfruttamento è
problematizzato come oggetto da cogliere attraverso la ricerca empirica, non come
effetto scontato del rapporto tra forze produttive che lo sovra determinano. Gli studi
culturali comportano una difficoltà di definizione: è il termine “cultura” in se ad avere
una complessa storia e una diversa scala di significati. Non è un caso infatti che, colui
che viene considerato il fondatore dei Cultural Studies in Inghilterra, Raymond
Williams, nel suo trattato del 1958 Culture and Society 1780-1950, abbia tracciato lo

66
ivi, p.115
44
sviluppo del concetto di cultura, fornendone una classificazione del suo uso moderno.67
Nell’ultimo capitolo della sua opera, Williams si schiera contro un radicale disprezzo di
tutte le forme della cultura popolare di massa, poiché la loro divulgazione, di grande
fruizione, non basta a definire a prescindere il valore dei prodotti culturali; la qualità
specifica dei prodotti culturali di massa va letta all’interno di un genere specifico, senza
attribuire aprioristicamente un giudizio di valore.
Un’altra figura chiave è Richard Hoggart che, oltre ad essere considerato insieme a
Williams, uno dei fondatori dell’indirizzo di studi, ha instituito all’interno
dell’università di Birmingham il CCCS (Centre for Contemporary Cultural Studies) nel
1964. Il centro è ritenuto il fulcro della Scuola di Birmingham e casa degli studi
culturali: nonostante il filone di ricerca si sia ormai affermato fuori dal contesto
britannico, la sede istituita da Hoggart è diventata, dalla fine degli anni Settanta, un
dipartimento di studi culturali autonomi, all’interno dell’Università.68 Il dipartimento
dei Cultural Studies fu istituito quando il direttore era Stuart Hall, che prese il posto di
Hoggart nel 1969; sotto la sua guida si registrò il periodo più produttivo per le ricerche
effettuate nel CCCS. Ai fini della ricerca ci si soffermerà soltanto sulle opere e le
riflessioni degli studiosi di Birmingham, identificati come i creatori dei Cultural
Studies, sia per una questione di sviluppo temporale, ma anche per giungere
all’approfondimento di Stuart Hall, di cui sono innegabili i contributi dati per lo
sviluppo di questa branca di studi: chi volesse occuparsi della produzione culturale nel
contesto industrializzato, o dello studio dello stile di vita urbano, non può tralasciare le
sue ricerche sulle culture giovanili.
I diversi autori britannici che possono essere accomunati dall’aver contribuito allo
sviluppo dei Cultural Studies si contraddistinguono per studi sui processi di produzione
della cultura delle classi subalterne della società inglese, industriale e postindustriale. La
scuola di Birmingham, come nel complesso il mondo accademico britannico negli anni
Settanta, si contraddistinse per degli studi di impronta marxista sulle comunità urbane
inglesi: non è certo un mistero lo schieramento ideologico degli studiosi, a conferma di
ciò basta ricordare che autori come Karl Marx, Louis Althusser, Antonio Gramsci,
furono identificati come i principali strumenti per una lettura critica della cultura di

67
Loughurst, B., Smith, G., Bagnall, G., Crawford, G., Ogborn, M., McCracker, S., Baldwin, E.,
Introducing Cultural Studies, Routledge, New York, 2013, pp.2-3
68
ivi, p.241

45
massa. I Cultural Studies presero il via alla fine della Seconda Guerra Mondiale; non è
un caso che la fioritura di questi si ebbe nel periodo in cui la Gran Bretagna iniziò a
compiere interventi di stampo sociale, in concomitanza con il primo governo laburista e
la conseguente attuazione di misure sociali, che investirono soprattutto il sistema
educativo. Le modifiche apportare, come scuole per adulti e borse di studio, permisero
alla classe operaia di accedere ad un livello di istruzione superiore; l’apertura
dell’educazione alle fasce più deboli economicamente eliminò, da una parte, il problema
di un sistema scolastico classista, dall’altra accese una discussione sui contenuti del
canone tradizionale seguito dai docenti inglesi. Questo dibattito interrogò i creatori dei
Cultural Studies, i quali spesso con esperienza nell’ambiente di istruzione per adulti,
soprattutto sul divario esistente tra i contenuti formativi elitari e le esperienze culturali
comuni; con la diffusione dei mass media la distanza tra i primi e i secondi divenne
sempre più ampia, «mettendo in questione i princìpi morali ed estetici tradizionali»69.
Non è di certo un caso che uno dei primi e più chiari esempi di queste perplessità sia il
testo The Uses of Litteracy (1957) in cui Richard Hoggart analizza i processi e gli effetti
dell’alfabetizzarsi della classe operaia inglese. L’autore lavorava nell’ambito
dell’istruzione per adulti e il suo testo si rivolgeva proprio ai suoi studenti. La
convinzione centrale che può riscontrarsi nell’opera è quella per cui la cultura popolare
non può essere evitata dagli studi letterari. L’opera tenta di descrivere la cultura del
lavoro inglese tra le due guerre, questa cultura appare come «espressione e forma di
un’estetica specifica» che mette in evidenza l’elemento comune e che si esprime
«nell’intensa esperienza e formazione della quotidianità, dei rituali della vita, del lavoro
e del tempo libero»70. La cultura del quotidiano fu interpretata e analizzata tenendo
conto di una specifica identità collettiva di classe, i cui elementi seguono una logica
interna. All’analisi della cultura operai, Hoggart contrappone quella della cultura di
massa che si sviluppò nel secondo dopoguerra: questa causò un dissolvimento
dell’appartenenza di classe, andando ad intaccare il senso di comunità e appartenenza
che aveva caratterizzato il mondo operaio. Fu importante vedere come
l’alfabetizzazione non portasse immediatamente all’acquisizione di strumenti di
emancipazione, poiché a fronte della scolarizzazione di massa è stata creata una

69
Lutter, C., Reisenleitner, M., Cultural Studies. Un’introduzione,, Cometa, M. (a cura di),
Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2004, p.17, (Cultural Studies. Eine Einführung,
2002)
70
ivi, p.18
46
letteratura popolare, vista come strumento di integrazione sociale e di produzione del
consenso.
Oltre a condividere con l’antropologia le tematiche di ricerca, questi studiosi hanno
utilizzato un approccio etnografico per la realizzazione dei loro studi, infatti i Cultural
Studies si contraddistinguono per non seguire un approccio univoco ma per aver, di
volta in volta, adottato diverse strategie di indagine, attingendo anche al campo politico,
economico e filosofico. I Cultural Studies si sono contraddistinti in un primo momento
per lo studio della pop-culture, per poi approfondire le dinamiche di potere,
l’ineguaglianza economica, la questione genere, il tutto sempre nell’ottica
dell’appartenenza di classe.
Di particolare rilievo è il “mugging project” che Stuart Hall portò avanti lungo il
corso degli anni Settanta. Hall, attratto da un caso di cronaca, un’aggressione con
rapina, da cui per l’appunto mugging, si fece ispirare per condurre un importante studio
sulle sottoculture; molto interessanti sono le pubblicazioni Resistence through Rituals
(1976) e Policing the Crisis (1978), in cui nella prima il sociologo analizza le
sottoculture giovanili bianche, mentre la seconda è un’indagine attorno al fenomeno del
mugging.
«In poche parole, entrambi i testi indagano le ragioni che stanno dietro l’emergere in
quegli anni di fenomeni di “panico morale” e la conseguente costruzione di capri
espiatori, associati sostanzialmente alle sottoculture giovanili (Resistence) e alle
comunità di immigrati neri (Policing). Sia in Resistence che in Policing si sostiene che
il panico generalizzato avesse poco a che fare con le attività effettivamente svolte dai
neri britannici e dai giovani bianchi, ma che intervenissero in realtà in sostituzione di
una serie di problemi e di ansie più profondamente insediate nella Gran Bretagna
contemporanea. Nei due testi, tali paure e problematiche sono inseriti in una lettura
specifica dell’Inghilterra postbellica e del passaggio da una cultura del consenso a una
cultura di crisi economica e di coercizione autoritaria. Infine, entrambi i tesi prendono
in considerazione l’importanza delle sottoculture e del mugging come potenziali forme
di resistenza sia per la cultura britannica (proletaria) sia per quella nera.»71

Non volendo entrare in un argomento troppo grande e importante come quello del
razzismo, è bene accennare la raccolta di saggi Resistence through Rituals. L’opera
pubblicata nel 1976 ha come fulcro la resistenza di giovani del proletariato bianco e si
schiera contro una visione dei giovani come consumisti e passivi fruitori della
comunicazione di massa. Per Hall e suoi collaboratori del CCCS, come suggerisce il
titolo della raccolta, i giovani sono invece in grado di resistere e di attuare pratiche

71
Procter, J., Stuart Hall e gli studi culturali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007, p.82,
(Stuart Hall, 2004)
47
politiche di contrasto all’egemonia dominante. Hall per descrivere una possibile
modalità di resistenza si affida alla locuzione gramsciana “guerra di posizione” che si
traduce sul piano concreto nella «necessità di identificare altre forme di resistenza
basate sulla continua negoziazione e lotta»72 al fine di ribaltare le strutture egemoniche
preesistenti. Attuare una resistenza rituale, anziché quella rivoluzionaria, comporta una
resistenza potenziale in cui «L’accento è posto sulla costruzione, l’utilizzo e
l’adattamento delle materie prime e degli spazi [che] evoca a questo punto una specifica
forma di attività culturale»73. La coscienza collettiva si fa attraverso l’adozione e
l’adattamento di stili, spazi e oggetti, nella pratica del bricolage questi tre elementi
costituiscono un mezzo per negoziare la differenza di classe. In Resistence through
Rituals Stuart Hall si soffermò su come gli oggetti siano presi in prestito, trasformati e
tradotti, arrivando alla conclusione che «Non sono gli oggetti in sé a “fare lo stile” delle
sottoculture giovanili, ma il modo in cui essi vengono usati, indossati, “l’attività di
stilizzazione” che “fa lo stile”»74. La stilizzazione è dunque il processo che permette di
estrapolare gli oggetti dal contesto dominante per ricollocarli in nuovi contesti.
Nel 1972 fu dato alle stampe il primo numero della rivista Urban Anthropology.
E’ con questa importante pubblicazione che in Inghilterra e negli Stati Uniti si va a
consolidare nell’ambito accademico il filone degli studi antropologici sulle società
complesse, con il moltiplicarsi di ricerche e pubblicazioni. Il primo volume che
riportava il titolo di Antropologia urbana fu pubblicato nel 1968; nel corso degli anni
Settanta, il medesimo titolo è stato poi riutilizzato da curatori e scrittori per altri volumi
trattanti lo stesso argomento. Con le pubblicazioni che hanno visto la luce nella seconda
metà del secolo scorso si è consolidata una tradizione di studi nel contesto urbano e i
ricercatori hanno costruito una comunità, che rivendica una pari considerazione
all’interno dei dipartimenti, coinvolgendo e ampliando l’interesse per questo nuovo
settore di studi mediante l’uso di convegni e pubblicazioni.75

72
ivi, p.98
73
ivi, p.99
74
ibidem
75
Hannerz, U., op. cit., p.72
48
1.4. Italia: dalla “tribalizzazione” ad oggi

David I. Kertzer in Anthropological research in urban in Italy76 (1977) provò a


tracciare le strade in cui si stava muovendo la nascente ricerca antropologica in Italia.
L’autore dimostra come gli studi effettuati in Italia nei decenni Sessanta e Settanta siano
stati condotti principalmente nel sud del paese, dove era facilmente rintracciabile una
condizione di sottosviluppo; i pochi lavori fatti nel settentrione sono stati confinati allo
studio delle comunità agricole. Quando David Kertzer pubblicò questo saggio le
possibilità di ricerche urbane in Italia erano per lo più inesplorate; esso rintraccia un
atteggiamento dominante tra gli antropologi: questi si limitarono ad esaminare
l’adattamento dei migranti interni, che si trasferivano dalle zone rurali a quelle urbane,
studiando le tensioni etniche e politiche, conseguenti dal nuovo insediamento.
Oggi risulta un campo di azione ben battuto ma fino agli anni Ottanta gli etnografi
italiani hanno continuato a mostrare le stesse titubanze sorte negli ambienti accademici
internazionali. Non è un caso che gli studiosi che per primi hanno effettuato degli studi
del contesto urbano nel Paese siano stati principalmente britannici.
Avvicinandosi al campo di analisi su cui si è svolta la ricerca di questo lavoro, quindi un
contesto urbano in Italia, è possibile declinare brevemente come la disciplina si sia
espressa nel paese negli ultimi decenni. Gli studi antropologici italiani, tra anni
Cinquanta e Ottanta del XX secolo, sono stati incentrati sullo studio del mondo rurale:
da una parte si sono occupati quasi esclusivamente del mondo contadino e dall’altra
hanno guardato alle città dal punto di vista delle compagne, cioè analizzando fenomeni
di deruralizzazione, urbanizzazione e immigrazione.
Amalia Signorelli rintraccia due pregiudizi, nell’antropologia urbana italiana, quello
«operaista» e quello «antiurbano». La tendenza marxista ha fatto combaciare la cultura
operaia urbana e quella rivoluzionaria: si ipotizzò pertanto che gli altri ceti della
popolazione urbana, una volta egemonizzati da quello proletario, potessero essere
completamente inglobati nella classe rivoluzionaria. Ma in realtà gli altri strati della
popolazione urbana non furono disposti a sottostare alla supremazia del proletariato

76
La prima pubblicazione è apparsa in Comparative Urban Research, n.4, 1977, pp.91-100; è
stata consultatala traduzione La ricerca antropologica sull’Italia urbana, in Pitto C. (a cura di),
Antropologia urbana. Programmi, ricerche e strategie, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1980,
pp.359-371
49
industriale77, malgrado si pensasse che il proletariato urbano industriale, con la sua
cultura rivoluzionaria, sarebbe dovuto diventare la chiave di volta necessaria a far uscire
dalla residualità anche gli altri strati di popolazione urbana. Lo stesso punto è stato
sollevato da Cesare Pitto che ha visto la ricerca urbana italiana districarsi della
complessa problematica del «porre la città italiana contemporanea al centro della crisi
del capitalismo maturo e ridefinire a livello culturale (non della sola classe dominante)
l’immagine della città»78. Lo studio effettuato in una città non può essere determinato da
un orientamento dominante, rispetto alla complessità delle componenti, poiché è un
insieme di dinamiche complesse; entrambi gli atteggiamenti sopra elencati possono
risultare empiricamente superati, ma coerenti con il contesto storico e culturale italiano
in cui sono stati teorizzati. L’assunzione di consapevolezza da parte degli antropologi di
aver di fronte un campo di indagine articolato, in cui svariati elementi concorrono alla
produzione culturale, ha permesso di superare l’opposizione tra qui e là: nello studio
delle metropoli confluiscono discipline differenti e in una società sempre più
multietnica e globalizzata è impossibile tracciare ancora una linea di confine tra
l’opposizione lontano/vicino. Attraverso il superamento di questo binomio nel locale si
trova il globale ed è qui che l’antropologia riesce a ritagliarsi un proprio spazio tra le
altre discipline.
Negli anni ’60, il pregiudizio antiurbano fu strettamente legato alla critica del
capitalismo, poiché la critica al capitale si identificò con la critica alla città, in quanto
emblema dello sfruttamento capitalistico e dell’alienazione consumistica.
Parallelamente ci fu lo sviluppo di una letteratura “neo-arcadica” che idealizzava il
mondo rurale in quanto unica strategia per sfuggire all’alienazione urbana. Folkloristi ed
etnologi videro nell’antropologia urbana un pericolo “sociologizzante”; i teorici del
“folklore come cultura di contestazione” si rifacevano ad Antonio Gramsci ed Ernesto
De Martino che, sotto la spinta teorica di Luigi Lombardi Satriani, connotava la cultura
folklorica con uno scopo oppositivo all’egemonia della cultura dominante (Signorelli,
1996).
Tra gli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, all’interno della comunità
scientifica anglosassone e americana, si va a delineare la corrente dei Mediterranean
Studies: vale a dire l’interesse per le dinamiche socioculturali dei paesi situati nel bacino

77
Signorelli, A. op. cit., pp.17-19
78
Pitto C. (a cura di), op. cit., p.360
50
mediterraneo, che presero il via con le opere di Sir Henry Maine, Pitt-Rivers, Durkheim,
Robertson Smith, i primi studiosi ad interrogarsi sui «comportamenti sociali e i valori
culturali dei popoli latini e dei popoli arabi»79. Se si dovesse immaginare la popolazione
europea urbana, soprattutto quelle dei paesi bagnati dal Mar Mediterraneo,
risulterebbero composte da pastori, contadini e artigiani. Queste sono state le prime
comunità studiate dagli etnografi che, nonostante avessero per lungo tempo evitato di
compiere ricerca in Europa, poiché il continente più urbanizzato, insieme all’America
del Nord, hanno contribuito alla creazione di un’immagine dell’insieme non
corrispondente ad una realtà ormai da secoli. L’interesse mostrato da questi studiosi ha
sicuramente dato inizio alle più recenti ricerche urbane in Italia, non a caso paese
studiato e analizzato, per un primo periodo, in larga misura da scienziati sociali
anglosassoni. Per quanto riguarda l’Italia, Luciano Li Causi chiama «tribalizzazione»80
la tendenza degli antropologi ad utilizzare una metodologia affinata nello studio delle
società “primitive”, comportando appunto la ricerca del primitivo nelle culture che
primitive non erano. Incapaci di venire a capo dei fenomeni socio-culturali complessi,
gli studiosi si sono rifugiati nei paesi e nei villaggi comparandoli alle società primitive.
Lo studio di comunità e le microanalisi rappresentano una costante della ricerca
antropologica in Italia; le comunità che vengono prescelte per la ricerca sono per lo più
rurali e soprattutto situate nel centro-sud del paese. Negli ultimi decenni sono state
effettuate ricerche che hanno comportato un’inversione di rotta, studi che hanno
estirpato la tendenza a considerare l’Italia esclusivamente come un campo in cui
ricercare il “tribale”. Nelle ricerche antropologiche fatte nel nostro paese il villaggio ha
sopravvento sulla città, il sud sul nord, l’agricoltura sull’industria, la religione popolare
su quella istituzionale (Li Causi, 1993).
Oggi lo studio degli ambiti urbani in Italia, mediante l’utilizzo di strumenti
antropologici, si è consolidato: la dimostrazione risiede in realtà come l’associazione
culturale Anthropolis81 e i seminari Antropologi in città organizzati presso l’Università

79
Li Causi, L., Uomo e potere. Una introduzione all’antropologia politica, Carocci editore,
2013, Roma, p.131
80
ivi, p.134
81
Federico Scarpelli, uno tra i membri dell’Associazione Culturale Anthropolis, nel testo da lui
curato Voci dalla città. L’interpretazione dei territori urbani si sofferma nel suo saggio su
Pienza Place-telling. L’antropologia delle voci e i territori sull’unione tra antropologia e
urbanistica. Il piano urbanistico comunale di Pienza, servendosi degli antropologi, tra cui lo
stesso Scarpelli, dimostra come il dialogo interdisciplinare sia «una delle questioni del prossimo
futuro e che, nel caso, tocchi agli antropologi dimostrare di poter offrire «una prospettiva
51
Statale di Milano. Questi progetti si contraddistinguono nel panorama nazionale per
aver portato l’antropologia al di fuori dai confini accademici, ponendo sul piano
concreto l’antropologia urbana, occupandosi di interventi sul territorio, di
valorizzazione del patrimonio artistico e offrendo lavori di mediazione culturale in
contesti multietnici.
Se, come appena visto, la questione teorica ha ottenuto una lunga ma ormai
consolidata regolarizzazione tra i conoscitori dell’antropologia, si può dire tutt’altro che
terminata quella metodologica, lontana da un’uniformità di giudizio. La problematica
metodologica sorge nella necessità per la ricerca urbana di relazioni con la tradizione
degli studi antropologici; come nuovo orientamento di studi essa deve abbracciare gli
strumenti tradizionali ed integrarli ai nuovi mezzi che presuppongono lo studio
dell’urbano. Per un’opportuna e doverosa sintesi, si può definire l’antropologia urbana
come un campo di ricerca in cui sono confluiti svariati contributi teorici, di diversi
settori disciplinari, e come il raccordo di differenti metodologie, dovendo
necessariamente mescolare strumenti di indagine qualitativi e quantitativi per giungere
ad uno studio sistematico. La negoziazione tra metodologie e contributi teorici è
indispensabile per padroneggiare un oggetto di studio vasto come quello della
metropoli.

1.5. Argomentazioni storiche per una ricerca futura

Le premesse storiche, riguardanti il dispiegarsi di innovativi percorsi


metodologici e teorici, sono servite a designare autori, tecniche e ipotesi di ricerca
antecedenti che saranno abbracciate per la realizzazione di questo lavoro,
compiutamente presentato al termine del capitolo successivo.

originale» e «descrizioni accurate che possano essere utili» (Duranti, 2010, p.42)» (Scarpelli, F.,
Place-telling. L’antropologia delle voci e i territori in Scarpelli, F., Romano, A. (a cura di),
Voci della città. L’interpretazione dei territori urbani, Carocci, Roma, 2011, p.119). Il testo
curato da Scarpelli e Romano raccoglie contributi di diversi studiosi tra cui quello dell’urbanista
Carlo Cellamare, il quale esprimendo parere positivo sulla multidisciplinarietà tiene a
sottolineare come quest’ultima tenda a «recuperare e ricostruire quel rapporto tra città degli
uomini e città di pietra che si è andato così fortemente disgregando. Approcci integrati che siano
in grado di abbracciare le relazioni e le implicazioni reciproche tra le diverse componente delle
città, materiali e immateriali, fisiche e simboliche, nel tempo e nello spazio» (Cellamare, C.,
Pratiche urbane e progett-azione in Scarpelli, F., Romano, A. (a cura di), Voci della città.
L’interpretazione dei territori urbani, Carocci, Roma, 2011, p.123).
52
Non sorprenderà di certo affermare che il campo di ricerca sarà la città, intesa come
terreno in grado di mettere in luce dinamiche più ampie: sarà l’urbano a fare da sfondo a
sviluppi territoriali specifici, come marginalizzazione, subordinazione, gentrification e
politiche abitative; esso sarà inoltre spazio scenico di nozioni centrali, quali quelle di
classe sociale e subculture. Si proverà quindi a reperire il senso di successioni di
avvicendamento urbano, manifeste in una fisiologia della divisione sociale dello spazio,
in un’ottica di mobilità e filtraggio sociale.
I manuali di Ulf Hannerz e Alberto Maria Sobrero sono stati fonti preziose per
ripercorrere la storia di un ramo dell’antropologia sociale tanto giovane, quanto
attraente, come quello urbano. José Ortega y Gasset e Martin Heidegger hanno fornito
l’esordio di una riflessione filosofica dell’abitare che ha saputo abbinare l’urbanistica e
l’architettura con le scienze umane. L’interdisciplinarietà annunciata prematuramente
dai due filosofi ha permesso di approcciare opere di pianificazione urbana, al fine di
rintracciare nello studio dell’insediamento umano la portata dell’impatto antropico in
spazi sia pubblici che privati, osservando i mutamenti ambientali prima e del tessuto
sociale poi. Lo studio dei Cultural Studies, in particolar modo delle opere di Stuart Hall,
è stato approfondito in previsione di rintracciare sul campo segmenti di popolazione che
ha trovato la propria cifra distintiva nella condivisione di pratiche e credenze. Il rimando
a Friedrich Engels e alle classi sociali figura da preavviso della caparbia convinzione di
una divisione sociale dello spazio urbano, in cui attori si contendono e rivendicano un
territorio; quella di classe risulta dunque una tematica impossibile da tralasciare in uno
studio sul ricambio di popolazione. La critica alla scuola di Chicago permette di
ammonire possibili prospettive di studio che tendano a ridurre la società in singoli lembi
spaziali, evitando così di mutare processi sociali circoscritti in universali. Le opere di
Wacquant e Bourgois rappresentano modelli da tenere sempre in considerazione qualora
si abbia come interesse quello di indagare la marginalizzazione urbana, i rapporti di
potere che caratterizzano lo spazio cittadino e le successioni etniche o di classi che
investono svariate zone della città.
Queste sono le premesse fondanti sulle quali prenderà forma, nel capitolo
successivo, una riflessione sulle metropoli mondiali ormai sviluppatesi senza tratti
distintivi: queste hanno visto la loro formazione all’interno dei mercati globali e la
configurazione da queste assunta ha comportato la perdita di peculiarità nazionali; il
loro sviluppo ha viceversa accentuato la possibilità di rintracciare tra loro caratteri

53
comuni a dispetto di pregresse distinzioni culturali e distanze geografiche. Il diritto alla
città, inteso come diritto collettivo e non soggettivo, sarà osservato nella prospettiva di
un’azione collettiva che influenza il processo di urbanizzazione; lo spazio urbano è qui
considerato come luogo di attuazione di cambiamento sociale e politico, in questa
prospettiva infatti sono osservate le forze sociali che compiono azioni di ristrutturazione
urbanistica. E’ innegabile come una metropoli non sia immune da spazi di conflitto:
nell’ottica di una critica all’accumulazione capitalistica, è con il controllo di accesso
alle risorse comuni da parte di pochi che si va a determinare la qualità della vita di
molti. Il diritto alla città si può esprimere nella concreta possibilità di sperimentare un
modus operandi alternativo alle logiche dell’industrializzazione: tale diritto può essere
esperito in forme di socializzazione, nella partecipazione e nella riappropriazione di
spazi urbani, nei quali convergono decisioni politiche, sociali ed economiche. Smettere
di considerare lo spazio in modo oggettivo e neutro permetterebbe di costruire un
modello di città alternativo, in contrapposizione ad uno modo di fruire l’urbano in
relazione ai bisogni soggettivi. Il diritto alla città è considerato come una lotta contro
l’esclusione e la discriminazione urbana, poiché un allontanamento dalla sfera urbana di
classi o singoli individui significa completa esclusione dalla società stessa. Per fare
quanto appena esemplificato sono stati consultate alcune opere di Saskia Sassen, David
Harvey ed Henri Lefebve.
E’ per la necessità di rintracciare un circoscritto ambito di indagine nell’urbano
che troverà di seguito ampia trattazione la nozione di gentrification, affrontata nel
seguente capitolo sotto forma di primario oggetto di ricerca. Partendo dalla definizione
del termine sopraindicato data da Ruth Glass in London: Aspects of Change (1964) si
proverà a fornire uno studio del fenomeno soffermandosi principalmente
sull’importanza della patrimonializzazione della città e sull’estetizzazione dell’urbano.
Entrambi i concetti saranno successivamente tratteggiati con l’aspettativa di rinvenire
un collegamento empirico tra questi e il ricambio di popolazione nel quartiere Pigneto;
nell’analisi del processo di filtraggio, in atto nelle dinamiche di successione urbana, un
posto d’eccezione sarà riservato alla nozione di capitale culturale e a quella di capitale
simbolico.

54
2. Premesse: l’assetto contemporaneo delle città metropolitane

Uno spunto efficace per introdurre la riflessione sulle città metropolitane


contemporanee sembra provenire dal saggio Impero (2001) di Michael Hardt e Antonio
Negri: secondo gli autori, il declino dello stato-nazione avrebbe portato alla creazione
dell’Impero, inteso come insieme di organismi nazionali e sovranazionali accomunati da
una logica di potere. Per tanto, con la fine dell’imperialismo avrebbero cominciato ad
emergere forme di sovranità post-moderne decentrate e deterritorializzate82, attraverso
le quali si sarebbe affermata progressivamente la logica della «produzione biopolitica –
la produzione della vita sociale stessa – in cui l’elemento economico, quello politico e
quello culturale si sovrappongono sistematicamente e si investono reciprocamente»83.
E’ proprio sotto il dominio dell’“Impero” che le città metropolitane hanno mutato le
proprie funzioni e caratteristiche e sono per questo diventate il centro del dibattito
sociologico internazionale. La divisione spaziale e i fenomeni sociali che nelle città
prendono forma hanno catturato l’attenzione di illustri teorici dell’urbano e, volendo
approfondire questo ambito di ricerca, si è ritenuto impossibile tralasciare le opere di
Saskia Sassen, David Harvey ed Henri Lefebvre. Ad essi va riconosciuto il merito di
aver guardato, studiato e descritto l’urbano in un’ottica marxista, in cui il ruolo primario
di riorganizzazione dello spazio è dettato da un capitalismo maturo, nel quale si
perpetuano dinamiche di potere ormai di portata economica globale, che accrescono le
disuguaglianze sociali.
La pregnante visione di Saskia Sassen è il punto di partenza di un’analisi della
globalizzazione che vede nelle città metropolitane il manifestarsi di quella sovranità
sovranazionale sopracitata, in grado di uniformare le culture e di creare centri finanziari
e di servizi per l’intera economia internazionale. I due testi il cui fulcro sono le città
globali, il primo del 1991 Città globali. New York, Londra, Tokyo e il secondo Le città
nell’economia globale, del 1994, forniscono una visione completa di come alcune città
si siano espanse seguendo le logiche del mercato transazionale, diventando sempre più
simili tra loro e perdendo le loro caratteristiche regionali e nazionali. In queste città si è
alterata la struttura sociale preesistente, creando un’inevitabile ripercussione
nell’organizzazione del lavoro, nella redistribuzione del reddito e nell’andamento dei

82
Hardt, M., Negri, A., Impero. Il nuovo ordine nella globalizzazione, Rizzoli, Milano, 2002,
(Empire, 2001), p.14
83
ivi, p.15
55
consumi. Nel primo dei due testi, raffrontando le tre metropoli, Saskia Sassen si
sofferma sullo stato del mercato immobiliare in una città globale; secondo la sociologa,
avere sul proprio territorio sedi di importanti mercati internazionali ha incoraggiato
numerosi programmi di edilizia urbana, favorendo così la nascita di un mercato
immobiliare internazionale in cui sono le società straniere ad investire, acquistare e
utilizzare le proprietà immobiliari.
«La rapida moltiplicazione delle società finanziarie e delle imprese di servizi e la
sempre maggiore concentrazione di lavoratori ad alto reddito nei principali centri urbani
hanno alimentato la crescita di un mercato immobiliare di fascia elevata.»84

Le ricerche dell’autrice sull’economia globale risultano chiaramente molto interessanti


ma in questo caso, visto che l’oggetto di studio di questa ricerca è la gentrification,
sembra opportuno soffermarsi sugli effetti che i grandi capitali finanziari apportano ai
prezzi degli immobili. Non sembra neanche un caso che sia Londra che New York siano
le città in cui la gentrification si è sviluppata cronologicamente prima e nel caso
statunitense, anche in maniera più irruenta rispetto che altrove.
«Per effetto degli sviluppi appena descritti, nel corso degli anni ottanta le quotazioni dei
terreni nel centro di New York o di Londra hanno progressivamente perduto ogni
relazione con l’andamento delle rispettive economie nazionali. Inoltre, la richiesta dei
terreni si è indirizzata verso alcune aree ben precise, senza necessariamente estendersi a
tutti gli spazi disponibili in quelle città. I potenziali acquirenti, spesso stranieri, erano
infatti disposti a pagare a prezzi esorbitanti per le collocazioni più centrali e non
avevano alcun interesse per le zone periferiche. Ciò ha innescato un processo di
“riabilitazione” che innalza al rango di collocazioni commerciali di prestigio zone un
tempo considerate marginali […]. Soltanto pochi anni prima quelle aree erano in disuso,
totalmente estromesse dai circuiti commerciali.»85

Gli investimenti transazionali in campo immobiliare hanno fatto sì che in queste tre città
si attuassero grandi progetti di edilizia urbana e che le città si trasformassero in spazi
internazionali; l’acquisto di società di paesi diversi e i progetti di architetti di fama
mondiale hanno naturalmente incentivato la creazione di spazi esclusivi all’interno delle
metropoli. Gli edifici sono stati trasformati così in merci che vengono vendute e
rivendute a prescindere dall’andamento dell’economia nazionale; questo vale soprattutto
per Londra e New York, mentre la grande concentrazione di proprietà immobiliare e i
limiti imposti dalla legge fungono da freno nella capitale Giapponese 86. Nel capitolo

84
Sassen, S., Città globali. New York, Londra, Tokyo, UTET Libreria s.r.l., Torino, 1997, p.206
(The Global City. New York, London, Tokyo, 1991)
85
ivi, p.207
86
ivi, p.209
56
conclusivo di Città globali. New York, Londra, Tokyo l’autrice prova a rispondere a
quanto e come la concentrazione di capitali finanziari in una grande metropoli possano
modificare la geografia sociale e incentivare le crescenti disuguaglianze economiche in
queste città. Sempre al fine di ricollegarci con il paragrafo successivo, appare opportuno
riportare un passo della Sassen:
«Le tre città oggetto della nostra indagine non erano nuove a fenomeni di gentrification:
la differenza rispetto al passato sta nella vastità dei processi, e nella creazione di
un’infrastruttura commerciale almeno parzialmente accessibile a chiunque. La
gentrification degli anni ottanta ha dato vita a modelli di consumo diversi dall’ideologia
dei consumi di massa che nell’immediato dopoguerra aveva dominato le classi medie,
facendo da sfondo alla costruzione dei nuovi sobborghi residenziali e delle relative
infrastrutture. In luogo della funzionalità, della convivenza in termini di prezzo e della
collocazione suburbana, la nuova ideologia dei consumi ha i suoi punti chiave nella
ricerca dello stile, dei prezzi elevati e di un contesto marcatamente urbano.»87

La sociologa statunitense invita a ripensare alle nozioni di “paesi ricchi” e “città ricche”,
poiché come essa spiega nei suoi testi, soprattutto nelle ricerche sulla globalizzazione, è
proprio nelle più grandi città mondiali, che vi è l’accentramento di un’economia globale
dove è possibile scorgere le maggiori disuguaglianze economiche e sociali.
Sono svariate le opere di David Harvey che si focalizzano sullo studio della
città; di seguito, sono state brevemente approfondite – seguendo l’ordine cronologico
delle pubblicazioni – quattro opere dell’autore che aiutano a comprendere l’evoluzione
dell’urbano e delle popolazioni che lo abitano. Il fine è quello di avere una base teorica
che illustri l’importanza del capitale economico nei processi di urbanizzazione e di
allargare lo sguardo su forme di resistenza urbana, in quanto le uniche rivoluzioni in
grado di portare ad una città socialmente ed ecologicamente più giusta, fuori dal giogo
delle politiche neoliberiste.
Giustizia sociale e città (1973) è il testo che rappresenta il mutamento del pensiero di
David Harvey: l’opera, suddivisa in due volumi, riporta come primo sottotitolo la
dicitura Tesi liberali e il secondo, a dimostrazione del percorso autobiografico, si titola
Tesi socialiste. Harvey come geografo è un critico della “geografia tradizionale”, infatti
esso si discosta dallo studio dei fenomeni come il frutto dell’organizzazione spaziale,
ma sposa come idea centrale del suo lavoro quella per cui sono i fenomeni a
determinare lo spazio che li contengono. «Le forme spaziali non sono viste qui come
oggetti inanimati all’interno dei quali si svolge il processo sociale, ma come fenomeni

87
ivi, p.364
57
che “contengono” i processi sociali: e ciò perché i processi sociali sono spaziali88». Lo
spazio è inteso dall’autore come relazione in cui gli oggetti materiali si ordinano in un
contesto di interazioni con altri elementi. Harvey va contro uno studio neopositivista
dell’urbano, che voglia individuare leggi generali da uno studio analitico-quantitativo;
l’autore sceglie di utilizzare un approccio relazionale per investigare l’urbano: esso
riscontra l’impossibilità delle singole scienze di rimanere confinate all’interno dei propri
confini analitici, poiché non più in grado di fornire un approccio di studio adeguato.
Conseguentemente si schiera a favore dell’osservazione empirica come unica
metodologia applicabile. L’opera di Harvey mira alla costruzione di un “urbanesimo
umanizzato” che abbia un obiettivo sociale, distaccandosi dall’efficientismo della
geografia positivista per poter far sorgere un’organizzazione territoriale che sia etica e
che punti ad una giustizia sociale urbana nel mondo occidentale. Il materialismo storico
e geografico di Harvey si riscontra soprattutto nelle Tesi liberali. Qui emerge la
necessità di trovare strutture economiche e politiche in grado di soddisfare i bisogni dei
più deboli, al fine di giungere ad una collettività urbana fondata sul bene comune.
L’obiettivo della geografia diventa dunque quello di considerare lo spazio come un
processo di trasformazione del territorio prodotto dall’agire umano in un preciso
momento storico. La giustizia sociale auspicata da Harvey è intrinseca in una struttura
di rapporti reali in cui si organizza la produzione e distribuzione della ricchezza: «il
rapporto di produzione storicamente determinato dal modo di produzione capitalistico
[…] è il frutto degli antagonismi tra “persone” o “gruppi sociali” in lotta per affermare
il proprio potere»89. Il metodo geografico proposto da Harvey fonda l’attenzione sul
valore d’uso e valore di scambio, in cui i terreni non sono semplici merci ma
espressione di rapporti sociali; l’autore analizza le relazioni dialettiche tra valore d’uso e
valore di scambio dei terreni, nei quali concorrono attori diversi. Questa assunta
consapevolezza conduce ad un’analisi sociologica e geografica che punta alla
descrizione dell’urbano come campo vivo: la disponibilità di una parte della ricchezza
prodotta è ciò che rende possibile l’integrazione e il coordinamento delle azioni di un
gruppo sociale. «La disponibilità collettiva, che facilita i rapporti sociali, che integra le
azioni individuali in una prospettiva di vita sociale, si manifesta nel territorio come

88
Harvey, D., Giustizia sociale e città. Tesi liberali, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano,
1978, p.25 (Social Justice and the City, 1973)
89
ivi, p.12
58
sedimentazione di beni e di flussi, e “produce” l’urbanesimo.»90, questa disponibilità
viene chiamata da Harvey “plusprodotto”. Questo plusprodotto, e il plusvalore che ne
deriva, «è una ricchezza che si manifesta all’interno dei cicli industriali, che remunera i
possessori dei mezzi di produzione e del capitale, e non può essere direttamente intesa
come ricchezza collettiva o sociale»,91 lo Stato e i capitalisti cercano di ricreare
momenti di socializzazione che si oppongono all’alienazione del lavoro: il plusprodotto
viene fatto apparire come ricchezza di tutti i cittadini al fine di naturalizzare il modo di
produzione capitalistico. L’urbanesimo è il luogo e l’oggetto su cui si produce il
consenso e si riproduce il modo di produzione dominante: la creazione dello spazio
quindi vuol dire essere capaci di regolamentare la produzione dei rapporti sociali.
Secondo Harvey allo stesso rapporto tra merci e spazio, tra singolo prodotte e
urbanesimo, corrisponde inoltre un rapporto tra il ciclo industriale e lo Stato, «che vede
intrecciarsi iniziative pubbliche e private nella produzione e gestione della città».92
Secondo Harvey l’urbanesimo deve partire dalla consapevolezza di un uso capitalistico
del territorio per opporre resistenza alle iniziative del capitale privato o dello Stato con
delle pratiche oppositive dei lavoratori che, in quanto consumatori, si riproducono nel
territorio.
Con L’esperienza urbana (1989) Harvey si concentrò ancora sull’urbanizzazione del
capitale: il materialismo storico deve diventare anche geografico, poiché non basta
considerare il capitalismo in quanto collocato in uno spazio ma c’è bisogno di
considerare il processo di produzione dello spazio come parte integrata del processo
capitalistico. L’urbanizzazione del capitale si riscontra nelle dinamiche di
trasformazione delle città e i processi di produzione, appropriazione e concentrazione di
surplus economico:
«La circolazione del capitale presuppone l’esistenza di surplus, sia di capitale che di
forza-lavoro. Un esame più attento di questa dinamica mostra che la circolazione di
capitale, una volta messa in moto, produce surplus di capitale sotto forma di profitto,
insieme con surplus relativi di lavoro che vengono ottenuti per mezzo di innovazioni
nelle condizioni sociotecniche di produzione, con possibile risparmio di lavoro.»93

La sovraccumulazione che pone il problema su come si possono impiegare i surplus sia


di capitale che di forza-lavoro è alla base della teoria di urbanizzazione capitalista

90
ivi, pp.15-16
91
ivi, p.16
92
ivi, p.19
93
Harvey, D., L’esperienza urbana. Metropoli e trasformazioni sociali, il Saggiatore, Milano,
1998, p.38, (The Urban Experience, 1989)
59
promossa da Harvey: lo sviluppo della città industriale ha portato con se la circolazione
del capitale e conseguentemente le modifiche dell’urbanizzazione, favorendo un
«funzionamento più libero dei mercati del lavoro, delle merci e del credito, nonché un
flusso più libero di capitale e di forza-lavoro tra settori produttivi e regioni. […] La città
industriale è quindi un elemento centrale dei processi di accumulazione. Il suo tratto
distintivo è lo sfruttamento diretto del lavoro vivo nella produzione. Questo implica la
concentrazione geografica della forza-lavoro e della forza produttiva, espressa nel
sistema di fabbrica, e l’apertura degli accessi al mercato mondiale: questo, a sua volta,
implica il consolidamento del denaro e del credito come strumenti generali.»94

Le nuove strutture sociali, generate dall’urbanizzazione del capitale, si formano nei


conflitti tra capitale e lavoro, in cui nuovi rapporti di classe divengono fondamentali
nella creazione di mirate politiche urbane: in nodo principale di queste politiche diventa
la creazione di strutture fisiche e sociali, in cui far convogliare la produzione, il
consumo e lo scambio e sostenere la riproduzione di capitale e forza-lavoro.
L’assorbimento del surplus porta, secondo Harvey, alla creazione della “città
keynesiana”, cioè una città strutturata come una macchina da consumo attorno al quale
vengono organizzate la vita sociale, economica e politica.
Città ribelli (2012) si sofferma su passate e possibili alternative anti-capitaliste e di
resistenza alla morte della città tradizionale,
«vittima sacrificale della continua necessità di spendere il capitale accumulato in
eccesso che ha determinato una crescita urbana esponenziale, senza nessuna
preoccupazione per le conseguenze sociali, ambientali e politiche.»95

Harvey si appoggia per la stesura di questo testo a Il diritto alla città di Henri Lefebvre
e, come il filoso francese, abbraccia l’idea di immaginare la ricostruzione di una città
completamente differente «dall’orribile mostro che il capitale globale e urbano produce
incessantemente».96 L’auspicata sconfitta delle classi reazionarie borghesi e del
capitalismo può avvenire
«quando la politica riconoscerà la produzione e riproduzione della vita urbana come
processo centrale da cui origina ogni possibile impulso rivoluzionario sarà possibile
mettere in atto una lotta anticapitalista in grado di trasformare radicalmente la vita
quotidiana. Solo quando si comprenderà che coloro che costruiscono e sostengono la
vita urbana hanno un diritto immediato a quanto producono, e che tra le loro
rivendicazioni c’è soprattutto quella al diritto inalienabile di creare una città a misura
delle loro esigenze, avremo una politica urbana degna di questo nome.»97

94
ivi, pp.44-45
95
Harvey, D., Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street, Il
Saggiatore S.r.l., Milano, 2013, p.16, (Rebel Cities, 2012)
96
ibidem
97
ibidem
60
L’obiettivo è dunque quello di creare nuovi spazi sicuri per una pluralità di soggetti
urbani, spazi di socializzazione e di resistenza politica: il confluire spontaneo di questi
attori metropolitani creerebbe un movimento rivoluzionario spontaneo in grado di
generare un’azione collettiva che si batta per la creazione di un’alternativa. Harvey,
seguendo la scia già tracciata da Lefebvre, riconosce la fugacità dei movimenti
rivoluzionari urbani: questi ultimi, molto spesso, tendono ad essere riassorbiti nella
prassi dominante; solo una risposta più ampia, in grado di contrastare l’infinita
accumulazione di capitale a discapito delle classi più deboli, può portare al diritto alla
città per tutti.
Il dibattito pubblico degli ultimi decenni porta in seno il tema centrale dei diritti umani:
questi sono però idee fondate sul principio dell’individualismo e della proprietà privata;
non è dunque un caso che risulti difficile mettere così in discussione le politiche
liberiste, poiché il diritto della proprietà privata e il profitto personale dominano il
dibattito etico e politico. Il diritto alla città è un diritto collettivo e la possibilità di
modificare le metropoli dipende dall’esercizio di un potere comune sui processi di
urbanizzazione. David Harvey descrive le città come «concentrazioni geografiche e
sociali di un surplus produttivo», quindi l’urbanizzazione si è sempre «configurata come
un fenomeno di classe […] laddove il controllo sul modo in cui veniva speso finiva
sempre per concentrarsi nelle mani di pochi».98 Esiste uno stretto connubio tra
capitalismo e urbanizzazione: il capitalismo produce il surplus produttivo richiesto
dall’urbanizzazione e il capitalismo necessita dei processi urbani per assorbire
l’eccedenza di capitale. I capitalisti sono alla costante ricerca di nuovi terreni in cui
investire il surplus, per produrne dell’altro o per espandersi: verranno aperti nuovi
mercati, lanciando nuovi prodotti e stili di vita. La crisi del sistema immobiliare del
2008 nata negli Stati Uniti si è espansa velocemente in tutto l’Occidente: fino ad allora
il mercato immobiliare aveva assorbito il surplus capitalistico reinvestendolo nella
costruzione di abitazioni e complessi commerciali, mentre l’inflazione dei prezzi delle
case fece lievitare la domanda interna di beni di consumo e servizi. Gli Stati Uniti
accumularono un enorme deficit commerciale con il resto del mondo, prendendo in
prestito ingenti cifre di denaro al giorno al fine di poter finanziare, attraverso il debito,

98
ivi, p.23
61
la sete di consumi interna. Harvey si focalizza sulla ripercussione sociale di tali
speculazioni finanziarie:
«La qualità della vita in città, e la città stessa, sono diventate merci per soli ricchi, in un
mondo in cui consumismo, turismo, industria culturale e della conoscenza, così come il
continuo ricorso all’economia dello spettacolo, si rivelano i principali motori
dell’economia politica urbana persino in India e Cina. La tendenza postmoderna a
incoraggiare la formazione di mercati di nicchia, nella scelta di uno stile di vita come
nelle abitudini di consumo anche culturale, conferisce all’esperienza urbana
contemporanea una particolare aura di libertà di scelta sul mercato, purché si disponga
di denaro a sufficienza».99

L’idea che la città possa funzionare come un unico organismo collettivo viene meno
poiché in un’ottica neoliberale, e in una sempre più crescente disparità economica nei
paesi occidentali, si assiste alla creazione di microstati all’interno di una stessa nazione.
Le città fortezza dei ricchi fanno il possibile per rimanere, anche materialmente,
distaccate dagli slums o dai ghetti, ma è proprio in questi, nonostante tutte le politiche
che hanno mirato alla loro demolizione, che si può trovare la città che resiste. Con
riferimento alle periferie indiane o coreane o ancora riferendosi ai processi di
gentrificazione in atto nella città di New York, Harvey sostiene che «il processo urbano
capitalistico si fonda su una costante logica di espulsione ed espropriazione»100, come
conseguenza delle misure di riqualificazione urbana. La distinzione importante che
emerge è quella tra beni pubblici e beni collettivi: i primi rimandano sempre ad
un’autorità amministrativa, mentre i secondi non sono di per se comuni ma lo diventano
attraverso le lotte quotidiane urbane dei gruppi sociali. Come suggerisce il titolo
dell’opera, Harvey si focalizza sulle possibili forme di resistenza urbana: esso
esemplifica, seguendo l’ordine cronologico, segmenti urbani di lotta anticapitalistica
iniziando dalla Comune di Parigi (1871) per concludere con le recenti manifestazioni di
Occupy Wall Street e di Londra entrambe del 2011, al fine di giungere alla costituzione
di commons urbani, fondati sul bene comune sociale e politico.
Nel 1968 Henri Lefebvre pubblica Le droit à la ville ed è con la lungimiranza
propria di un grande pensatore che anticipa temi fondamentali come la mercificazione
del paesaggio e della città; infatti, modelli di pianificazione neoliberale pongono
l’urbano come mezzo di attrattiva culturale per l’estetismo dei turisti e lusingano gli
investitori, privando così gli abitanti del valore d’uso della città101.

99
ivi, p.33
100
ivi, p.37
101
Lefebvre, H., Il diritto alla città, Ombre corte, Verona, 2014, p.9 (Le droit à la ville, 1968)
62
«[…] la città si allea con l’impresa industriale; nella pianificazione appare come un
ingranaggio, un dispositivo materiale utile per organizzare la produzione, per controllare
la vita quotidiana dei produttori e il consumo dei prodotti. […] essa estende la
programmazione a livello dei consumatori e del consumo e opera per regolare e
combinare la produzione delle merci e la distruzione dei prodotti tramite la divorante
attività detta “consumo”.»102

Dalla privazione di spazi e tempi del vivere urbano scaturisce la volontà di


riappropriazione del “diritto alla città” e la creazione di luoghi socialmente riusciti e
favorevoli alla felicità103. La riconciliazione tra la società urbana e il territorio può
verificarsi soltanto con l’attuazione di una «strategia urbana» che non può essere
attuata dagli urbanisti, poiché costoro sarebbero strutturalmente vincolati all’ideologia
capitalistica dello spazio urbano, ma deve essere fatta da «gruppi, classi o frazioni di
classe capaci di iniziative rivoluzionarie [che] possono assumersi e risolvere i problemi
urbani».104 Secondo l’autore l’urbanistica ha infatti ucciso l’urbanità, intendendo per
urbanità tutte quelle attività di produzione delle città che normalmente fanno gli abitanti
che ci vivono. La città futura e auspicata da Lefebvre deve smantellare la stabilità delle
strutture esistenti che rispecchiano il potere precostituito, al fine di costituire una città
effimera «opera incessante degli abitanti, essi stessi mobili e mobilitati da
quest’opera»105. Per l’autore è la musica che permette la riappropriazione del tempo e
l’arte a permettere quella dello spazio: il futuro dell’arte è urbano, così come quello
della filosofia che diventa razionalità urbana e pratica urbanistica.
«Il diritto alla città si presenta come forma superiore dei diritti, come diritto alla libertà,
all’individualizzazione nella socializzazione, all’habitat e all’abitare. Il diritto all’opera
(all’attività partecipante) e il diritto alla fruizione (ben diverso dal diritto alla proprietà)
sono impliciti nel diritto alla città.»106

Per un certo verso, Il diritto alla città di Lefebvre rimanda alle “pratiche
quotidiane” di Michel de Certeau, il quale, nel capitolo Camminare per la città in
L’invenzione del quotidiano, si schiera contro la casta degli intellettuali che a suo avviso
tendono esclusivamente a riprodurre e difendere i proprio privilegi sociali e politici. Il
gesuita francese mette in luce come alcune «pratiche minute, singolari e plurali, che un

102
ivi, p.80
103
ivi, p.106
104
ivi, p.108
105
ivi, p.129
106
ivi, p.130
63
sistema urbanistico doveva gestire o sopprimere»107 sopravvivano poiché rinforzate da
tattiche illegittime. De Certeau elenca delle procedure che sfuggono al controllo della
disciplina come l’analisi dei passi, la cui successione è una forma di organizzazione
dello spazio, nel senso che lo costituiscono; paragonando l’atto del camminare a quello
del parlare l’autore rintraccia nell’azione una funzione enunciativa che si manifesta nel
processo di appropriazione del sistema topografico da parte del pedone, in una
realizzazione spaziale del luogo e implica dei rapporti tra movimenti.
Conviene ora focalizzarsi sull’individuo nella metropoli, inteso come un nuovo
soggetto che si è formato nel massimo punto di innovazione capitalistica, non più
individuo sociale ma
«sovrano, in quanto autonomo, libero e autodeterminato. Un individuo impolitico,
mobile, conflittuale, non più disposto a farsi pianificare dal lavoro o a ridursi a funzione
della politica, e la cui identità è designata dal consumo, dalla moda, dalle opinioni»108.

La metropoli è dunque per il nuovo individuo il regno del possibile, spazio di azione in
cui si autodetermina secondo le leggi imposte dal sistema produttivo che, non potendo
fare a meno dei soggetti, si trova a cedere spiragli di libertà, come il consumo e la
mobilità. Se Massimo Ilardi tratteggia gli anni Settanta del secolo scorso come il
periodo storico in cui i “senza speranza” o il “popolo dei diavoli” si trovano al centro
della polis, o come lasso temporale in cui gli esclusi si spostano nel nucleo della città
per diventare consumatori, con la gentrification avviene esattamente il contrario.
L’esodo nelle grandi metropoli degli anni ’70, secondo Ilardi, ha portato alla creazione
dei ghetti urbani, generando conflitti tra i vecchi abitanti e i nuovi segmenti di
popolazione; sono i nuovi abitanti a voler contribuire alla società dei consumi ed è la
possibilità reale di entrare in contatto con la merce o meno a rappresentare il motivo di
lotta. Il ghetto può inoltre essere visto come luogo di resistenza e di creatività, in cui,
tramite modelli di affermazione differenti rispetto ai dominanti, vi è uno scontro
dialettico in grado di negoziare con il resto del territorio. Dalla città-fabbrica si è
ottenuta la metropoli contemporanea da cui emerge come cifra distintiva il non-lavoro,
il consumo e il singolo in netta opposizione al lavoro, alla produzione e alle classi. E’
comunque il consumo ad attuare una differenziazione tra individui ed è proprio questo il

107
De Certeau, M., L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001, p.149
(L’invention du quotidien. I Arts de faire, 1990)
108
Ilardi, M., La città senza luoghi. Individuo, conflitto, consumo nella metropoli, Costa &
Nolan spa, Genova, 1990, pp.7-8
64
veicolo in grado di generare uno status. Il conflitto sullo spazio nella città post-
industriale si manifesta sotto forma di lotte razziali, bande di quartiere, stili di vita
antagonisti, ma come è noto la macchina dei consumi si appropria di tratti peculiari di
questi segmenti dell’urbano per reintrodurli nella cultura dominante e farne merci109.
Contrariamente a qualche decennio fa, nelle grandi città occidentali si può
riscontrare un processo diametralmente opposto: le fasce marginali della popolazione
non possono continuare ad occupare il centro delle città, poiché il mercato immobiliare
e le politiche comunali stanno attuando, o hanno già attuato, una riqualificazione del
centro. In Italia, negli anni Sessanta e Ottanta si è verificata la crescita informale delle
città metropolitane: la parte formale, quella pianificata e regolamentata da piani
urbanistici, era ben poca, e per il resto si ebbe la creazione di una città alternativa ai
margini. La città informale, spesso abusiva e cresciuta senza progetto, era la città vera,
quella degli individui che cercavano il loro spazio nelle zone limitrofe al centro; le
periferie sfuggivano alla governabilità e solo negli ultimi due decenni si riscontra
l’interesse delle amministrazioni locali a riqualificare quei segmenti di territorio che
sfuggivano all’economia istituzionale e all’idoneità abitativa. La tenace volontà di
pianificare l’urbano ha trovato fondamento nelle logiche di mercato e di consumo: nel
millennio del franchising e del turismo last minute le città hanno perso la loro funzione
primaria, quella abitativa, per trasformarsi esse stesse in un prodotto da consumare e in
una vetrina da cui attinge il singolo per soddisfare i propri bisogni. Ne consegue che il
centro non può più e non deve essere spazio di lotta tra strati di popolazione differente,
vi è infatti il cambiamento della funzione degli attori pubblici contemporanei che, in
un’ottica neoliberale, non si rivolgono più ai cittadini ma si autodeterminano come
iniziatori di processi di mercato. La città quindi perde la sua porosità, si
patrimonializzano i centri storici seguendo una linea di condotta che è quella dello
sviluppo economico del settore terziario. La città vetrina dunque attua processi di
disciplinamento urbano e confina in periferia le disparità e le disuguaglianze.

109
Basti pensare al mondo della musica, dal jazz all’hip-hop, dove l’industria culturale ha attinto
dai ghetti per portare dei prodotti specifici e distintivi dalla marginalità al centro dell’industria
culturale di massa.
65
2.1. Gentrification

Già nel 1963 la Londra che si svela agli occhi di Ruth Glass è una città
metropolitana colpita in pieno dal boom dei consumi, tipico del secondo dopoguerra. La
sociologa marxista descrive l’incremento di ricchezza del centro di Londra e anche di
alcune zone periferiche: l’aumento di merci, macchine, palazzi, locali, appaiono una
novità, a tal punto da far affermare all’autrice di non riconoscere più la città. Non è un
caso che la Glass dica che il lusso di ieri è diventato necessario oggi per la maggioranza
della popolazione londinese; essa riscontra la superficialità come forza motrice della
popolazione inglese, poiché molti sono dediti ad ostentare vestiti, elettrodomestici e
nell’aver minuziosa cura nell’abbigliamento. La volontà di apparire e di mostrare ha un
inequivocabile valore distintivo e descrittivo. Per la studiosa, Londra sta subendo un
processo di “americanizzazione” poiché non riesce più a cogliere le caratteristiche
individuali come cifra distintiva. Ma Londra, come tutte le grandi città metropolitane,
non è immune alle avversità che caratterizzano una vasta estensione urbana. In quegli
anni, la crescita indomabile della città e l’incremento di popolazione che vi risiedeva o
vi lavorava portò ad un processo di “suburbanizazion” che potremmo tradurre in
italiano con “processo di sobborgamento”, al fine di rendere l’idea di un’estensione
innaturale che portò la città ad aggiungere sempre nuove zone periferiche. Anche le
fabbriche di Londra non rimasero immuni al processo di sobborgamento e si spostarono
verso aree esterne, lasciando così spazi liberi per attività del settore terziario110. La
nascita di queste nuove attività fece fiorire nei cittadini la voglia di vivere nel centro
città, portando l’incremento di occupazione e infrastrutture, oltre ad un generale
innalzamento di standard di vita, ambizioni sociali e politiche di pianificazione urbana.
Il preambolo su Londra servì a Ruth Glass a giungere alla coniazione del termine
gentrification:
«Uno ad uno, molti dei quartieri della classe operaia di Londra sono stati invasi dalla
classi medie – alte e basse. Logori, modesti stabili e casette – con due stanze sopra e due
sotto – sono state rilevate, alla scadenza del contratto di affitto e sono diventate eleganti
e costose residenze. Le case Vittoriane più grandi, declassate in un precedente periodo –
che erano usate come pensioni o altrimenti come occupazioni multiple – sono state
ancora una volta riportate al livello di un tempo. Al giorno d’oggi, molte di queste case
sono state suddivise in costosi appartamenti […]. Una volta che questo processo di
‘gentrification’ inizia in un quartiere, va rapidamente a rimpiazzare tutta o molta parte

110
Semi, G., Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, il Mulino, Bologna, 2015, p.38
66
degli originali abitanti della classe operaia e va a cambiare l’intero carattere sociale del
quartiere.»111

La sostituzione di classe comporta l’incremento del commercio, delle attività


economiche, l’emergenza occupazionale e la necessità di ulteriori servizi sociali ed
educativi112. La competizione per lo spazio generò l’aumento del valore della terra: la
speculazione sui beni immobiliari, insieme all’inflazione dei prezzi delle proprietà e al
controllo degli affitti, fecero sì che il centro di Londra diventasse una zona residenziale
da ricchi e che creasse dei ghetti ai margini per i più “svantaggiati”113. Nonostante si
abbia la creazione del termine soltanto nel giugno del 1963, Giovanni Semi nel suo testo
Gentrification. Tutte le città come Disneyland? riporta passi del lavoro sul Greenwich
Village di New York considerandolo anticipatore della tematica. L’autrice Caroline
Ware svolse la ricerca commissionata dalla Columbia University negli anni Trenta
riportando interviste e riflessioni su intere zone di Manhattan bonificate per diventare
abitazioni per classi superiori114.
«La gentrification non è il solo risultato di forze di mercato, della svolta graduale
compiuta dai cicli d’investimento del capitale che hanno portato a rendere nuovamente
interessanti i centri della città. Si tratta di una violenta rivoluzione supportata, e talvolta
persino condotta, dallo stato, che allontana le persone dalle proprie case, obbliga i
commercianti a chiudere i propri negozi e «ripulisce» il centro a favore di marchi
culturali, globali ed egemonici.»115

Alcuni caratteri di questo cambiamento sono legati alle classi sociali, dove i promotori
sono in particolar modo le classi medie istruite «che si insediano in aree di minor
pregio, prima del loro arrivo, rendendole meno accessibili a chi sta peggio di loro»116.
Nelle pagine del suo testo, Giovanni Semi riporta uno schema rappresentativo di quattro
ondate di gentrification: le prime tre sono state proposte da Hackworth e Smith, mentre
l’ultima è stata aggiunta da Lees, Slater e Wyly. Queste quattro fasi sono alternate da
momenti di latenza che Hackworth e Smith chiamarono “transizioni”. La prima ondata è
caratterizzata da una gentrificazione sporadica, in atto negli anni Settanta
esclusivamente negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale; a questa prima ondata seguì

111
Glass, R., Urban Sociology in Great Britain: a trend report, in Centre for Urban Studies,
London. Aspects of Change, Macgibbon & Kee Ltd, London, 1964, pp. xviii-xix, (traduzione
mia)
112
ivi, p.xix
113
ivi, p.xx
114
Semi, G., op. cit., p.23
115
Zukin, S., Presentazione. La gentrification è questa, in Semi, G., Gentrification. Tutte le città
come Disneyland?, il Mulino, Bologna, 2015, p.9
116
Semi, G., op. cit., p.14
67
la prima transizione in cui i gentrifer iniziarono a comprare, dove furono soprattutto i
costruttori e investitori a trarre vantaggio dall’acquisto di vaste zone svalutate. La
seconda ondata di gentrification si verificò negli anni Ottanta e ebbe una diffusione su
scala globale e fu caratterizzata da una connessione sempre più forte tra il settore
immobiliare e quello finanziario, parallelamente a nuove politiche di riqualificazione
culturale. La terza fase, che si verificò nella seconda metà degli anni Novanta, si
espanse anche fuori dai centri urbani e vide lo sviluppo sotto l’ondata di riqualificazione
a guida del settore pubblico e, contrariamente agli anni Ottanta, non si manifestò alcun
movimento di opposizione. La quarta e ultima fase, quella introdotta da Lees, Slater e
Wyly, è legata alla speculazione immobiliare dei primi anni 2000, la quale portò ad un
innalzamento dei prezzi delle case senza precedenti; si notò anche come i progetti di
rigenerazione urbana attuati dalle politiche pubbliche non facessero altro che rendere la
città sempre più un luogo per ricchi117.
Il testo Gentrification pubblicato nel 2008 e nato dalla collaborazione di Lees,
Slater e Wyly, mette in luce quanto e come il termine coniato da Ruth Glass abbia nel
corso dei decenni subito mutazioni e ampliato il proprio significato. I tre autori
rintracciano tra le nuove nomenclature: la greentrification, anche nota come rural
gentrification, che si riferisce alla gentrificazione di aree rurali e alle ripercussioni
causate dall’insediamento della classe media sui gruppi a basso reddito; la new-build
gentrification si sviluppa a partire dall’idea che anche nuove costruzioni, non soltanto il
rinnovamento di abitazioni preesistenti, possano essere intese come strumento di
gentrificazione; abbiamo inoltre la super-gentrification, anche nota come
financification, che si verifica in esclusivi quartieri di città globali, come Londra e New
York, in quartieri già precedentemente gentrificati che subiscono un’ulteriore
cambiamento sotto la spinta di alti investimenti finanziari ed economici; la
studentification è stata osservata nelle città universitarie, nelle quali vivono un gran
numero di studenti; turism gentrification è propria di quelle città che cambiano il loro
aspetto esteriore per intrattenere e attrarre nei quartieri i turisti; infine, si parla di
commercial gentrification o retail gentrification o ancora boutiqueification quando una
strada o un’area sono piene di strutture commerciali.118 Per gli autori questi differenti
tipi di gentrification, nonostante spesso abbiano sollevato dibattiti all’interno del mondo

117
ivi, pp.42-44
118
Lees, L., Slater, T., Wyly, E., Gentrification, Routledge Taylor & Francis Group, New York,
2008, pp.129-161
68
accademico, hanno comunque lo stesso denominatore comune: si tratta sempre di
trasformazioni socioeconomiche e culturali innescate dalla classe media119.
Il più noto studioso della gentrification è sicuramente Neil Smith, allievo di
David Harvey, che ha analizzato il fenomeno in un’ottica marxista e lo ha collegato alla
produzione dello spazio urbano che si compierebbe attraverso «continui e progressivi
spostamenti di investimenti di capitale»120. Per spiegare come questi capitali,
successivamente alla delocalizzazione durata fino agli anni Settanta, decidano di
rientrare in città, Neil Smith ha formulato la teoria del rent gap (differenziale di
rendita). Il rinnovato interesse per il centro della città che iniziò negli anni Sessanta fu
incentivato da una serie di politiche pubbliche, in particolar modo negli Stati Uniti, al
fine di riportare i capitali in città121. Hamnett individua quattro elementi necessari
affinché possa iniziare un processo di gentrificazione: l’offerta di aree appropriate da
gentrificare; l’offerta di potenziali gentrifer; ambienti urbani centrali e attrattivi; la
preferenza di abitare al centro da parte di un segmento della classe media superiore122.
La teoria di Neil Smith spiega soprattutto perché sono necessarie delle aree appropriate
da gentrificare ritenendo che:
«la produzione capitalistica dello spazio urbano avesse una preminenza casuale rispetto
agli altri fattori, non ultimo la scelta dei «consumatori di spazio». […]
I produttori della gentrification si attivano, secondo Smith, in maniera congiunta quando
si accorgono che si sta ampliando il differenziale di rendita, il rent gap. Questo non è
altro che la differenza di valore tra quanto si potrebbe guadagnare se un’area fosse
pienamente riqualificata e il suo valore attuale. Tanto maggiore è l’interesse potenziale
per un quartiere degradato in un dato periodo, per dirla in altri termini, e tanto più si
dovrebbero attivare questi «produttori» per trasformarlo e renderlo appetibile per i
nuovi abitanti e i nuovi speculatori.»123

Nonostante la teoria del rent gap sia quella più accreditata per spiegare la gentrification,
ci sono dei punti dell’ipotesi di Smith che non risultano facilmente spiegabili: in primo
luogo non risulta comprensibile perché alcune aree che potenzialmente potrebbero
gentificarsi non lo facciano; in secondo luogo, gli fu mossa la critica di aver formulato
la teoria nel contesto statunitense, contrassegnato da elementi particolari e non
universali124. Nell’Europa meridionale si ha una grande diffusione della proprietà

119
ivi, p.135
120
Semi, G., op.cit., p.50
121
Smith, N., The New Urban Frontier. Gentrification and the Revanchist City, in Semi, G., op.
cit., p.52
122
ibidem
123
ivi, p.53
124
ivi, p.56
69
privata, contrariamente agli Stati Uniti dove la maggior parte della popolazione vive
affittando proprietà di soggetti immobiliari, ed è questa ad agire da freno alle
riqualificazioni urbane repentine. Un’ulteriore differenza si ha sulla capitalizzazione
della proprietà a seconda dei contesti: «diventa cruciale capire chi anticipa i capitali, in
base a quali normative e con quali garanzie».125 Infatti, sia i mutui che la leva fiscale
giocano un ruolo non secondario; «gli istituti bancari possono concedere maggiori o
minori prestiti in base alle proprie politiche creditizie ma anche alle normative
vigenti»126, mentre lo stato può con incentivi o riduzioni finanziarie aiutare il processo
di gentrificazione di una zona. La terza e ultima differenza che può verificarsi nel
processo di gentrification tra le città statunitensi e quelle europee riguarda la
conservazione di aree centrali con il fine di renderle attrattive, perché come ricorda
Semi citando Lees, la conservazione è legata alla produzione di profitto poiché il valore
aggiunto del patrimonio storico aumenta il valore dell’immobile.127
Negli anni Settanta le politiche di rigenerazione urbana furono attuate per la prima volta
sia negli Stati Uniti che in Europa. Queste furono tutte messe in opera al fine di farsi
carico dei vuoti urbani derivati dalla deindustrializzazione al fine di trasformarli in
crescita urbana e sviluppo locale. Le politiche di rigenerazione urbana prendono forma
in un’arena in cui agiscono
«attori privati, come banche, fondi d’investimento, compagne assicurative e imprese, sia
organismi internazionali di tipo sovranazionale, come l’Unione europea, il Comitato
olimpico internazionale, il Fondo monetario internazionale, ma anche Stati e attori
pubblici più in generale, nelle loro declinazione scalari come i governi centrali, le
regioni, le aree metropolitane e le città.»128

Nonostante questa sia un’arena composta da una pluralità di soggetti attivi, Semi
riconosce, seguendo l’analisi di Neil Brenner, che queste politiche di rigenerazione
urbana negli ultimi decenni stiano agendo su scala sempre più ridotta e in un contesto
locale. Il collegamento che secondo Semi esiste tra un progetto di generazione urbana e
la gentrification, si basa sull’idea che alla prima consegua automaticamente la seconda:
dal piano strategico mirato deriva un piano più generale, attuato da attori politici ed
economici locali, che porta ad una ricostruzione delle aree centrali di una città129.

125
ivi, p.57
126
ibidem
127
ivi, p.58
128
ivi, p.72
129
ivi, p.75
70
Semi elenca sei tipologie di attori dai quali dipende la gentrification: gli imprenditori
edili dai quali dipende la costruzione materiale della gentrificazione; gli agenti
immobiliari che fanno da intermediario tra domanda e offerta che, con il loro bagaglio
di competenze professionali. Questi sono in grado di incidere sulle motivazioni degli
acquirenti; il terzo è un attore pubblico ed è il comune, in grado di produrre politiche
urbane capaci di indirizzare l’elettorato con promesse di miglioramento della vivibilità;
il quarto elemento di questo puzzle è la famiglia, che si lega alle trasformazioni del
tessuto sociale seguendo l’esigenza di luoghi centrali sempre più vicini al posto di
lavoro, ai negozi e alle esigenze dei figli (come le scuole migliori); Semi poi parla della
gay gentrification, in cui i nuovi attori sono le coppie omosessuali di classe media che
riscoprono nel centro città tutte le agevolazioni del recarsi a lavoro o dell’essere vicini
ai luoghi culturali gay; per ultimi ci sono gli avventori della notte che denotano come i
locali e i bar siano i nuovi spazi d’uso della città e non risulterà di certo una sorpresa
affermare che in questi si riveda la gentrificazione commerciale130.
Avvicinandosi all’oggetto di questa ricerca, per conoscere lo stato attuale della
letteratura scientifica prodotta sulla gentrification a Roma, è opportuno guardare lo
studio comparativo effettuato da Irene Ranaldi nel quale vengono presi come
riferimento della ricerca due grandi metropoli, quali Roma e New York. Nonostante la
letteratura scientifica sulla gentrification sia quasi esclusivamente prodotta in Nord
America e nei paesi anglosassoni, è il caso di sottolineare come questo non sia un
fenomeno lontano dal resto dell’Europa e non estraneo alla stessa Italia. Ranaldi per la
sua doppia ricerca ha reso protagonisti della sua indagine il quartiere Testaccio di Roma
e il quartiere Astoria, nel Queens, a New York, al fine di dare un contributo a quegli
studi urbani che si focalizzano su ex quartieri industriali e popolari che, investiti da una
riqualificazione, stanno vivendo un ricambio di classe sociale131.
«Le inversioni di tendenza prese in considerazione riguardano, soprattutto per
Testaccio, l’abbandono di una percezione negativa del quartiere “popolare”e la parallela
fascinazione per questa sua stessa caratteristica di “autenticità” laddove popolo per
traslitterazione significherebbe autentico. Nel caso di Astoria, l’abbandono della
percezione riduttiva del quartiere come di un villaggio esclusivamente abitato dalla
popolazione greca […] in favore di una presenza multietnica ma soprattutto la

130
Giovanni Semi dedica agli attori della gentrification il quarto capitolo del suo testo
Gentrificaion. Tutte le città come Disneyland (2015)
131
Ranaldi, I., Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York, ARACNE editrice,
Roma, 2014, p.96
71
“scoperta” di Astoria come uno dei quartieri più cool di Queens e soprattutto
decisamente più economico rispetto a Manhattan.»132

Per quanto riguarda il rione Testaccio, Ranaldi inserisce questo tra i “quartieri
emergenti”, cioè quella serie di quartieri nei quali si sono andati ad abitare persone
legate alla borghesia intellettuale e in cui c’è stato il cambiamento di uso di molti locali
commerciali o di “archeologia industriale” (l’ex Mattatoio convertito in museo).
Testaccio fa parte di quella serie di quartieri con un’edilizia non di pregio e degradati
dal punto di vista della conservazione architettonica, ma che, nonostante ciò, grazie alla
persistenza dell’identità popolare, vengono investiti da un processo di rigenerazione.
Questo quartiere fino agli anni Ottanta era un luogo in cui nessuno pensava di poter
passare il tempo libero, ma anzi pativa un enorme pregiudizio: veniva infatti associato
alla criminalità e alla droga, visto come un rione malfamato e sporco e senza alcuna
attrattiva per le attività commerciali133. L’autrice oltre a rintracciare i gentrifer mette
perfettamente in luce coloro che da Testaccio sono dovuti andare via, come gli abitanti
che abitavano prima il quartiere ma, non essendo riusciti a riscattare la casa popolare,
sono stati espulsi dal proprio territorio; nonostante questo hanno mantenuto legami
relazionali e simbolici molto forti con la zona134. Molto interessante è quello che Irene
Ranaldi chiama “paradosso della gentrification”:
«Tuttavia spesso il fenomeno della gentrification a volte porta con sé cancellate attorno
alle piazze per evitare ai senza tetto e agli immigrati di dormire la notte, proteste per
istituire zone a traffico limitato e quindi diminuire l’afflusso di automobili, ordine e
pulizia: eliminando questi aspetti la borghesia finisce per annientare esattamente ciò che
era venuta a cercare.»135

L’altra parte della ricerca, come già detto, si focalizza sul distretto del Queens che, oltre
ad Astoria, il quartiere preso in esame, è composta da altri neighborhoods investiti
nell’ultimo decennio da una rinascita, una grande presenza multietnica e sono sempre
più frequentati da newyorkesi e turisti. L’identità è il fattore che ha permesso all’autrice
di reperire un parallelismo tra Astoria e il rione Trastevere: nel primo caso come nel
secondo, è la divisione tra edilizia pubblica e quella privata, il ricambio di classi sociali,
l’arrivo di artisti, di ristoranti e gourmet a rendere facile il paragone transoceanico 136.

132
ivi, p.101
133
ivi, p.143
134
ivi, p.166
135
ivi, p.174
136
ivi, p.188
72
Dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, ad Astoria iniziarono ad essere costruiti
nuovi alloggi per fronteggiare le crescenti esigenze abitative, aprirono nuove imprese e
aumentarono i valori delle proprietà immobiliari; giovani professionisti, artisti, scrittori
iniziarono a vedere Astoria come una valida alternativa all’esosa Manhattan. Così, in
quegli anni, si iniziarono ad avvertire i primi segni della gentrification. Il territorio di
Astoria, come quello del rione Testaccio, è caratterizzato dalla duplicità: da una parte si
hanno grandi investimenti commerciali, la costruzione di nuovi edifici, sia residenziali
che destinati alle imprese, mentre dall’altra parte si ha una forte presenza di edilizia
popolare137.
I due quartieri risultano senza dubbio estremamente differenti per estensione territoriale,
componente e varietà demografica, ma nonostante ciò, da un punto di vista urbanistico,
condividono l’idea di una linea immaginaria che separa le abitazioni di edilizia popolare
da quelle costruite da gruppi privati138.
«Entrambi i quartieri muovono la propria identità urbana alla ricerca di un cambiamento
e di una trasformazione che li vede attivi e vivaci soggetti nella vita delle due
diversissime metropoli in cui si collocano, proponendo modelli di evoluzione culturale e
sociale che trovano singolari punti d’incontro a migliaia di chilometri di distanza, come
se fosse la globalizzazione stessa a dettare le condizioni ed i modi della trasformazione
di un’identità sociale urbana.»139

Gli autori che si sono occupati di gentrification si sono negli anni divisi tra chi
guardava al processo con ottimismo e chi invece sollevava dei dubbi sugli effetti
negativi; le due maggiori teorie che dominano il discorso sulla gentrificazione, una in
positivo e l’altra in negativo, sono rispettivamente la “emancipatory city thesis” e la
“revanchist city thesis”. Come è stato sottolineato da Lees, Slater e Wyly, la visione
positiva o negativa della gentrification è legata ad una questione temporale: infatti, la
prima ondata di gentrificazione ha portato con se maggiori risultati positivi rispetto alla
terza ondata; i pionieri della gentrification desideravano che classi ed etnie sociali si
mischiassero, mentre i gentrifer della terza ondata hanno prediletto un processo su base
più individuale140. Per quanto riguarda la “emancipatory city thesis” si guarda al
processo di trasformazione urbana come un mezzo con il quale raggiungere un
bilanciato equilibrio sociale e riqualificare il quartiere; questa visione ottimista è quella
più appoggiata dalle amministrazioni pubbliche. Soprattutto in Gran Bretagna i processi

137
ivi, p.214
138
ivi, pp.225-226
139
ivi, p.232
140
Lees, L., Slater, T., Wyly, E., op.cit., p.195
73
di gentrificazione vengono visti come un mezzo di ordine pubblico: le chiare politiche
neoliberali che emergono dalle agende si pongono come scopo quello di diluire la
concentrazione di poveri nel centro della città attraverso la gentrification141. La
“revanchist city thesis” vede la gentrificazione come un processo di appropriazione
capitalista che causa lo spostamento di centinaia di abitanti con il solo obiettivo di
“purificare” il centro delle città142.

2.1.1. Esclusione sociale e decoro urbano

Un problema cocente che riguarda la gentrification è stato sollevato da


Neil Smith nel suo essay The Evolution of Gentrification (2010), in cui l’autore
denuncia come negli ultimi decenni la parola gentrificazione sia diventata un
termine legato alla speranza e una componente inevitabile del progresso urbano.
Il problema è che anche nel mondo accademico “gentrification” sia diventato
sinonimo di città creative, costosi ristoranti e locali, di quartieri alla moda,
avendo così subito uno spostamento di significato, allontanandosi dal termine
inglese “gentry” e dalla forte componente ideologica di un neologismo legato
indissolubilmente al concetto di classe sociale. Le politiche neo-liberiste europee
e statunitensi puntano tutte sulla rigenerazione urbana, ma ad essere rigenerate
sono quasi esclusivamente le comunità della classe operaia e le loro singole
esistenze.
«La società del controllo (che si sviluppa agli estremi limiti della modernità e
inaugura la postmodernità), al contrario, è un tipo di società in cui i meccanismi
di comando divengono sempre più «democratici», sempre più immanenti al
sociale, e vengono distribuiti attraverso i cervelli e i corpi degli individui. I
comportamenti che produco integrazione e esclusione sociale vengono quindi
sempre più interiorizzati dai soggetti stessi. In questa società, il potere si
esercita con le macchine che colonizzano direttamente i cervelli (nei sistemi
della comunicazione, nelle reti informatiche ecc.) e i corpi (nei sistemi del
Welfare, nel monitoraggio delle attività ecc.) verso uno stato sempre più grave
di alienazione dal senso della vita e dal desiderio di creatività.»143

La riflessione di Hardt e Negri ci serve ad approfondire una valutazione


sulla postmodernità in cui viviamo, soprattutto per soffermarci sul controllo dei

141
ivi, p.198
142
ivi, p.234
143
Hardt, N., Negri, A., op. cit., p.39
74
corpi da parte del Welfare State attraverso il quale, con la possibilità di accesso o
meno a queste misure di previdenza sociale, si manifesta la possibilità reale di
produzione e riproduzione della vita. La volontà di eliminare i “problemi
sociali” porta le amministrazioni locali ad attuare delle politiche che incentivano
la gentrification con lo scopo di riqualificare il territorio urbano, andando ad
espellere quelle categorie di essere umani non ben viste dai più, come gli
homeless, gli immigrati, i tossicodipendenti144. I progetti di rigenerazione urbana
programmati e attuati dalle istituzioni si pongono all’interno di una politica
urbana con l’intento di risolvere problemi di degrado fisico e sociale, ma questi
comportano quasi sempre la riduzione di spazi pubblici e il deterioramento delle
infrastrutture e dei servizi socio-sanitari145.
La divisione spaziale è uno strumento di potere e una modalità di
controllo e il suo uso è uno strumento prezioso in grado di delineare
subordinazione e dominazione. Le città non sono mai state sistemi equilibrati di
rapporti umani integri e sereni, ma al contrario un sistema sociale in cui si
dispiegano tensioni generate da interessi individuali. La città in quanto fatto
storico e sociale non è uguale per tutti i suoi abitanti: la città può essere
strumento di libertà e creativa per alcuni e strumento di oppressione e
sfruttamento per altri146. E’ la struttura dei processi produttivi a produrre gli
emarginati, non la metropoli in quanto tale; la grande città è la dimensione
spaziale in cui si attua la marginalità, ed è sempre la metropoli a provocare il suo
emergere come fatto sociale, in questo caso i marginali sono portatori di una
pressione sociale a cui il sistema risponde in vari modi (segregandoli, con
provvedimenti assistenziali, creando opportunità occupazionali)147.
«I cittadini vengono sfruttati in quanto utenti della città per mezzo di
meccanismi quali la rendita fondiaria e immobiliare o l’erogazione di servizi
assai al di sotto dello standard che dovrebbe essere garantito dal gettito
dell’imposizione fiscale. […] la crisi di quel di quel sistema di valori elaborato
o comunque fatto proprio dalle classi subalterne urbane, il cui asse portante era
appunto il valore del lavoro e il lavoro come valore. Chi è disoccupato o
perennemente sottoccupato, chi è senza casa o paga un prezzo esorbitante per
averne una, più in generale chi è costretto a cercare in servizi sociali scadenti o
scarsi la fantomatica integrazione di un reddito precario o insufficiente, non può
costruire la propria identità in rapporto ad un’etica del lavoro produttivo,

144
Semi, G., op. cit., pp.64-65
145
Ranaldi, I., op. cit., p.217
146
Signorelli, op. cit., p.44
147
ivi, p.51
75
esattamente come non è in condizione di definire un proprio ruolo sociale in
rapporto al sistema occupazionale»148.

La rivoluzione urbana è il testo con cui Henri Lefebvre nel 1970,


partendo da una riflessione sulla città, si prefigge la descrizione di una “società
urbana”, intesa come la società futura frutto della completa urbanizzazione.
Particolarmente significativo risulta il capitolo titolato “La società urbana”149 in
cui il filosofo propone di illustrare in maniera compiuta l’ipotesi che fa da filo
conduttore per l’intera opera e che dà il titolo proprio a questo penultimo
capitolo. Lefebvre vede l’urbano come una realtà non armoniosa ma che anzi
riunisce i conflitti di classe; questo cerca di mettere in atto una segregazione al
fine di separare gli elementi sul terreno:
«Segregazione che produce una disgregazione della vita mentale e sociale. Per
evitare le contraddizioni, per arrivare alla presunta armonia, una certa
urbanistica preferisce la disgregazione al legame sociale. L’urbano si offre al
contrario come luogo delle opposizioni e dei confronti, unità delle
contraddizioni.»150

Peter Williams in un suo essay prova ad analizzare la gentrification


discostandosi dalla convenzionale divisione marxista in due classi, poiché in
questo processo ci si accorge di una situazione più complessa e frammentata;
l’autore appoggia l’idea del sociologo britannico John Urry, facendo propria la
convinzione che nella gentrification le classi non manifestino loro stesse
all’interno della struttura ma siano create da azioni e reazioni (per esempio, le
abitazioni non sono nel processo semplicemente una rappresentazione della
classe sociale di appartenenza, ma sono parte del processo di costruzione di
classe)151. Nella gentrificazione avviene una contraddittoria relazione di classe:
la nuova classe media si identifica nei giovani professionisti (Yuppies: the young
urban professionals), rintracciabili politicamente in una parte della sinistra
progressista; la gentrification si è affermata subito dopo la seconda guerra
mondiale, periodo che ha visto l’affermazione della nuova classe media e del

148
ibidem
149
Lefebvre, H., La rivoluzione urbana, Armando Armando Editore, Roma, 1973, (La
révolution urbaine, 1970), pp.185-201
150
ivi, p.196
151
Williams, P., Class constitution through spatial reconstruction? A re-evaluation of
gentrification in Australia, Britain, and the United States, in Smith, N., Williams, P.,
Gentrification of the city, Routledge, Oxon, 2007, pp.70-71
76
cosiddetto baby boom: i miglioramenti accorsi nel settore sanitario,
dell’educazione e la crescente prosperità economica hanno causato una
rigenerazione sociale, politica e fisica del paesaggio urbano152. Il saggio di
Williams si trova in una raccolta curata da lui stesso e da Neil Smith che fin
dagli anni Ottanta, si sono battuti con tenacia contro una visione positivista e
ottimista del termine gentrification. Le considerazioni espresse dagli autori nella
conclusione del volume, From “renaissance” to restructuring: the dynamics of
contemporary urban development153, si centra sull’idea che i costi e i benefici
della gentrification non siano uniformemente distribuiti sul territorio. Infatti, se
non si applica una visione globale ma ci si focalizza su singoli segmenti di
popolazione, appare chiaramente come le vittime di questo processo siano i
poveri e la classe operaia, poiché man mano che questo andamento avanza sono
questi gruppi a venire dislocati perché non in grado di sostenere l’aumento dei
costi delle case. Smith e William tengono a rimarcare come la gentrification sia
un conflitto e questa lotta si focalizzerebbe contro le sovvenzioni statali ai
progetti alberghieri, la costruzione di nuove strade che distruggono le vecchie
comunità, l’incremento di speculatori all’interno dei quartieri operai, la
costruzione di lussuosi appartamenti154. Sempre secondo gli autori la lotta alla
gentrificazione potrebbe portare ad una duplice vittoria, una a lungo e l’altra a
breve termine: sul lungo termine, le lotte alla gentrification possono condurre
alla costituzione di organizzazioni cittadine che possano tutelare la comunità
locale e si impongano, in quanto attori coinvolti nel processo, qualora si parli di
riorganizzare la città; mentre nel breve periodo, queste battaglie possono portare
lo stato ad addolcire i costi elevati.

2.1.2. Nuovi attori

La gentrification porta nella zona nuovi attori attratti dal cambiamento


estetico ed economico. Guardando ad un tipo di “gentrificazione commerciale”,
secondo Zukin, è possibile rintracciare tre forme di servizi commerciali nel

152
ivi, p.76
153
Smith, N., Williams, P., Gentrification of the city, Routledge, Oxon, 2007, pp.204-224
154
ivi, p.221
77
panorama urbano: «un capitale neoimprenditoriale per le boutique, un capitale
transnazionale per le catene e uno, invece, fortemente locale e in via di
estinzione che caratterizza il commercio tradizionale»155. Questo tipo di
gentrification, al pari di qualsiasi altra, comporta un cambio della popolazione
commerciale precedente, infatti le prime due tipologie elencate vanno a
sostituire ed eliminare quelle del terzo tipo.
Sembra quasi superfluo affermare che un luogo investito da un processo
di riqualificazione urbana attragga i city user: questa nuova figura, che si è
affacciata sulla scena delle metropoli mondiali solamente da qualche anno,
incarna l’emblema del consumatore contemporaneo: per lui i territori e i luoghi
di consumo si equivalgono e non riesce a rintracciare la funzione abitativa e
sociale nella città, poiché si sposta esclusivamente con finalità ricreative,
culturali e commerciali.
L’11 aprile 2017 è il giorno dell’uscita dell’ultimo libro di Richard
Florida ma, contrariamente a tutti i precedenti, non si tratta più di un elogio della
classe creativa; infatti, la pubblicazione rivela un profondo mutamento di
pensiero da parte del sociologo americano e abbastanza esplicativo appare per
l’appunto il titolo: The New Urban Crisis: How Our Cities Are Increasing
Inequality, Deepening Segregation, and Failing the Middle Class and What We
Can Do About It156. Il pensiero di Florida risulta radicalmente mutato, quasi in
opposizione, rispetto alla sua prima pubblicazione del 2002 e, proprio per avere
uno sguardo ampio sulla vicenda, è opportuno partire dalle ultime conclusioni
per poi proseguire a ritroso fino alla prima teorizzazione. La conclusione alla
quale è approdato il più influente, contemporaneo, teorico delle città è che la
classe creativa ormai domina molte delle città più grandi del mondo: le
cinquanta aree metropolitane più grandi ospitano solo il 7% della popolazione,
ma producono il 40% della crescita economica mondiale. Il problema sollevato è
che queste grandi città stiano diventando delle comunità chiuse e le loro strade
siano piene di locali e appartamenti su Airbnb. La rivista posizione di Florida
sostiene che l’ascesa della classe creativa produca crescita economica

155
Semi, G., op. cit., p.108
156
Purtroppo in Italia non è stato ancora possibile reperire l’ultimo lavoro e per capirne il
contenuto sarà fatto affidamento a recensioni, articoli di giornali e interviste all’autore che sono
apparse sul web nel corso dell’ultimo anno.
78
esclusivamente per i ricchi o per i figli ben istruiti di questi, mentre i poveri e la
classe media sono costretti ad emigrare in periferia, confinando così i problemi
sociali sempre ai margini della città. La classe creativa, formata da ricchi,
giovani e per la maggior parte da cittadini bianchi, ha creato una rampante
speculazione immobiliare, l’aumento dei prezzi delle case e una mobilità di
massa157.
Nel 2002 viene dato alle stampe L’ascesa della nuova classe creativa
primo testo di Richard Florida, in cui l’autore presenta sotto questa nuova classe
sociale che si impone a scapito della precedente classe dei servizi che a sua volta
si era imposta, secondo l’autore, sulla classe operaia. La classe creativa
comprende:
«le persone impegnate nel campo scientifico, nell’ingegneria, architettura e
design, nell’educazione e nell’arte, musica e spettacolo, la cui funzione
economica è di creare idee, tecnologie e/o contenuti creativi nuovi. Attorno a
questo nucleo, la classe creativa include anche un nucleo più ampio di
professionisti nei settori degli affari, della finanza, della legge, cure mediche e
campi correlati. Si tratta di persone impegnate nella soluzione di problemi
complessi, che richiedono una notevole dose di indipendenza di giudizio e un
forte capitale culturale e umano.»158

Avendo compreso a chi Florida si riferisce, è ora il caso di soffermarsi sulla


teoria economica abbracciata dallo studioso: il riferimento principale da cui
l’autore ha attinto è l’economista Peter Drucker assieme alla sua nozione di
“knowledge economy”, che vede nella conoscenza la nuova risorsa economica
fondamentale159. Nonostante la condivisione dell’ “economia della conoscenza”,
Florida indica però come fattore-chiave la creatività, al fine di saper estrapolare
dalla conoscenza nuove forme utili:
« «conoscenza» e «informazioni» sono gli strumenti e i materiali della
creatività, mentre il prodotto sono le «innovazioni», sia in forma di nuovi
artefatti tecnologici che d i nuovi metodi di produzione.»160

157
https://jacobinmag.com/2017/08/new-urban-crisis-review-richard-florida ;
https://www.nytimes.com/2017/06/26/books/review/the-new-urban-crisis-richard-florida.html ;
https://www.theguardian.com/books/2017/sep/26/richard-florida-new-urban-crisis-review-
flawed-elitist-ideas
158
Florida, R., L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Arnaldo
Mondadori Editore, Milano, 2003, p.28 (The Rise of Creative Class, 2002)
159
ivi, p.71
160
ibidem
79
Il principale e quasi esclusivo riferimento per Florida sono gli Stati Uniti e, non
a caso, lui si appoggia a dati statistici a dimostrazione di come le attività creative
abbiano creato un’intera infrastruttura economica a partire dal secondo
dopoguerra; l’autore sottolinea come siano aumentate le spese per ricerca e
sviluppo, come il numero di brevetti rilasciati negli stati uniti sia in continua
crescita dalla fine degli anni Cinquanta, come sia aumentata la forza lavoro sia
nel settore tecnologico-creativo che in quello artistico e culturale161.
Il sociologo americano parla di “classe” ma discostandosi dalla classica
accezione marxiana, poiché secondo lui non esiste più una netta distinzione tra i
capitalisti che hanno la proprietà dei mezzi di produzione e i proletari che
lavorano alle loro dipendenze; nella sua visione, “la classe creativa” né controlla
e né possiede proprietà materiali, il loro unico patrimonio risiede nella loro
testa162. La classe creativa si struttura in un nucleo di supercreativi, persone che
svolgono regolarmente questo lavoro e per il quale vengono pagate e che
comprende:
«scienziati e ingegneri, docenti universitari, poeti e romanzieri, artisti, attori,
stilisti e architetti, come pure l’aristocrazia del pensiero delle società moderne:
scrittori di testi non narrativi, dirigenti editoriali, figure del mondo culturale,
ricercatori, analisti e opinionisti.»163

Oltre il nucleo centrale, la classe creativa è composta dai “creativi di


professione”, cioè tutti coloro che, secondo Florida, lavorano impiegando un
grosso bagaglio di conoscenza e che svolgono mansioni che richiedono un
elevato livello di educazione formale e di capitale umano, come medici, avvocati
e dirigenti164. Accanto alla “classe creativa”, Florida rintraccia anche la crescita
della “classe dei servizi”, in quanto classi della contemporaneità.
La classe creativa ha chiaramente un impatto sul quotidiano che si traduce
nell’atto pratico con un’imposizione di stili di vita nella nostra società: quella
che Florida definisce come “vita esperienziale” si rispecchia in un’altra
definizione che è quella di “egemonia della strada”, dove i partecipanti
apprezzano la cultura dei quartieri «perché offre loro la possibilità di fare

161
ivi, pp.72-73
162
ivi, p.102
163
ibidem
164
ivi, p.103
80
l’esperienza non solo delle creazioni ma anche dei creatori»165, contrariamente a
quanto accade nei musei o al teatro dell’opera.
«Questa cultura è «di strada» perché tende a raccogliersi attorno a certe vie
disseminate di punti d’incontro. Può trattarsi di tavole calde, ristoranti e bar,
alcuni dei quali oltre ai cibi e alle bevande offrono spettacoli o mostre; gallerie
d’arte; librerie e altri negozi; piccoli o medi teatri per film o spettacoli dal vivo
o entrambi; e vari spazi ibridi – come librerie/sale d tè/cineteche – che spesso
hanno sede nelle luci dei negozi o in vecchi edifici riconvertiti. La scena può
tracimare sui marciapiedi, pieni di tavolini, musicisti, venditori, mendicanti,
intrattenitori e di una quantità di passanti a tutte le ore del giorno e della
notte.»166

Quindi si punta tutto sulla “scena di strada” che permette di essere collocati
direttamente al centro dell’azione, avendo la possibilità di modulare l’intensità
dell’esperienza e di partecipare contemporaneamente a più iniziative.
In fine, per avere una visione completa sulle idee di Florida, che hanno
comunque influenzato tantissimi sindaci e costruttori di città americane e
anglosassoni, è opportuno parlare delle “tre T dello sviluppo economico”, cioè
tecnologia, talento e tolleranza. Secondo l’autore, un luogo per poter attrarre la
classe creativa deve possedere tutte e tre le tre T e risiede proprio in queste
caratteristiche la capacità di una città di allettare fruitori dall’esterno. Per talento
intende la concentrazione in un luogo di talenti legati ai più svariati ambiti prima
elencati nella sua definizione di “classe creativa”. Per tecnologia si fa
riferimento ad una zona con alta concentrazione di infrastrutture tecnologiche.
La correlazione tra questi due primi elementi è sostenuta da Florida e dal suo
gruppo di ricerca in una serie di statistiche volte a dimostrare come innovazione
e industrie high-tech siano legate alle località con una forte concentrazione di
classe creativa167. Oltre al Creative index o l’Innovation index, Florida conia
anche il Gay index, il Bohemian index e il MeltingPot index168 con lo scopo di
dimostrare come la nuova classe creativa preferisca luoghi dove la mentalità è
aperta169.

165
ivi, p.246
166
ivi, pp.246-247
167
ivi, p.327
168
Il Bohemian Index racchiude scrittori, disegnatori, musicisti, attori, registi, pittori, scultori,
fotografi e danzatori.
169
ivi, p.326
81
In una chiara ottica neoliberista, si è accontentato il desiderio di socialità,
di estetizzazione e di luoghi riqualificati che ha portato a mettere in scena un
gioco basato sull’estrarre dal tessuto urbano più reddito possibile. Dunque,
l’aver affidato il destino della riqualificazione dei centri urbani alla classe
creativa e aver puntato tutto su un’economia basata sul settore terziario,
soprattutto negli Stati Uniti, non avrà forse incentivato i processi di
gentrification?

2.2. Cultural gentrification? Conclusioni e ipotesi

Il seguente progetto si sviluppa a partire dall’idea che le città italiane stiano


perdendo la pluralità che le ha contraddistinte, uniformandosi sempre più tra di loro e
uniformando i centri storici al fine di renderle vetrine per turisti e luoghi blindati per gli
ormai pochi abitanti. I processi di gentrification che si possono osservare in Italia – a
Roma nel caso specifico – hanno causato un ricambio di popolazione, spogliando
quartieri centrali di elementi peculiari, rendendoli così tra loro simili, fruibili e “sicuri”.
La ricerca empirica però non si focalizzerà sul “capitale economico” 170 ma piuttosto su
quello “culturale”, “simbolico” e “sociale”171. Il paper di David Ley, Artists,
Aestheticisation and the Field of gentrification172, fa ampio uso della
concettualizzazione di Bourdieu della produzione culturale e della relazione che
intercorre tra capitale economico e capitale simbolico, cercando di dimostrare,
attraverso la raccolta empirica di dati a Toronto, Montreal e Vancouver, come gli artisti
in quanto agenti e l’estetizzazione in quanto processo contribuiscano alla
gentrificazione. Ley sottolinea come agli inizi del processo di gentrification ci sia un
habitus urbano che disegna la propria identità a partire da un’iniziale ricchezza di

170
Quando si farà riferimento ai tre tipi di capitale ci si rivolgerà esclusivamente alle definizioni
date da Pierre Bourdieu in La distinzione. Critica sociale del gusto (1979), capitale inteso
dunque come «insieme di risorse e di poteri effettivamente utilizzabili […] le diverse classi (e
frazioni di classe) si distribuiscono in tal modo da quelle maggiormente fornite di capitale
economico che di capitale culturale fino a quelle che sono maggiormente sprovviste di
entrambe» (Bourdieu, P., La distinzione. Critica sociale del gusto, Mulino, Bologna, 2001,
p.119).
171
Per “capitale economico” si intendono i possessori di denaro e di mezzi di produzione; il
“capitale sociale” sono le reti di relazioni sociali o questo tipo di capitale deriva
dall’appartenenza ad un gruppo; “il capitale culturale” è costituito secondo Bourdieu dai titoli di
studio più gli schemi cognitivi e i loro modi di acquisizione; infine, il “capitale simbolico” fa
riferimento all’acquisizione di simboli che servono a legittimare il prestigio sociale.
172
Ley, D., Artists, aestheticisation and the field of gentrification, Urban Studies, 2003, Vol. 40,
N. 12, pp. 2527-2544
82
capitale culturale ma una mancanza di capitale economico; come già da diverso tempo
afferma l’autore, la relazione tra gentrification e artisti non è inevitabile ma questa
risulta frequente sia nelle città canadesi prese in esame ma anche in altri studi
concentrati su città statunitensi. La presenza di artisti è considerata statisticamente come
un segno premonitore di una successiva gentrificazione: l’eccedenza di significato dei
posti frequentati dagli artisti diventa una valida risorsa per gli imprenditori, causando
così l’incremento dell’economia della cultura e delle città creative.
Lo studio sulla gentrification del quartiere Pigneto sarà quasi per intero –
solamente qualche accenno sarà fatto agli interessi materiali ed economici – analizzata
prestando attenzione agli aspetti simbolici che incoraggiano gli investimenti di capitale.
La pratica etnografia consisterà nel rintracciare la popolazione legata alla borghesia
intellettuale di cui fanno parte i nuovi abitanti, che hanno sostituito la classe operaia e il
sottoproletariato che viveva nei baraccamenti del quartiere.
Per questa ricerca sul campo è stato scelto il quartiere Pigneto, facente parte dell’area
del Municipio Roma V, di cui sarà fatta una breve analisi dei cambiamenti urbanistici
susseguitesi dalla fine degli anni Settanta, per poi osservare come, in seguito al ricambio
del tessuto urbano, il quartiere sia stato investito anche da un cambiamento socio-
culturale. Se, come è stato sopra illustrato, la gentrification è legata all’innalzamento dei
prezzi del mercato immobiliare, bisogna considerare gli stili di vita e i consumi culturali
come l’altra faccia del processo. Giovanni Semi, illustrando il testo di Ley, The New
Middle Class and the Remaking of the Central City, riporta una riflessione fatta
dall’autore sull’artista urbano, considerato come il primo attore che si spinge nell’area
della città da gentrificare e a cui seguiranno i nuovi abitanti della classe media; in altre
parole, i primi sintomi della gentrification per Ley sono l’apertura di galleria d’arte,
l’organizzazione di eventi e l’arrivo nell’area di abitanti creativi e vivaci.173
«Una volta colonizzata, la città viene adattata ai gusti cosmopoliti e originali dei suoi
legittimi utilizzatori e diventa una «città conviviale» [ibidem, 298-349], i cui ritmi
dipendono in maniera significativa dalle attività del consumo, dello shopping e del
«mangiar fuori» in primis [cfr. Warde e Martens 2000]. Riforniscono i mercati locali e
cono essi l’ideologia del localismo, della filiera corta all’onnipresente cibo biologico,
mescolata a un sentimento nostalgico verso un passato contadino, autentico, dove la
natura era buona e le persone felici. Eventi, festival, attività d’intrattenimento di ogni
sorta accompagnano in maniera frenetica le attività del consumo, rendendolo dunque
una pratica che va molto al di là dell’atto del comprare (o del vendere). Si passa molto
(più) tempo per strada e il «il rigido ascetismo modernista – che si piò osservare

173
Semi G., op. cit., p.85
83
drammaticamente in un certo planning e design puritano – viene rimpiazzato dalla
jouissance dell’incontro» [Ley 1996, 3006].»174

Riprendendo la teoria delle quattro ondate di gentrification formulata da Hackworth e


Smith e da Lees, Slater e Wyly, si nota che soprattutto la terza e la quarta sono
caratterizzate da etichette come “creatività”, “cultura”, “innovazione”, “smartness”175.
Iniziative come l’apertura di un museo o l’organizzazione di un festival oggi non
risultano più come iniziative culturali ma vanno ad incentivare la crescita dell’economie
locali, sono un’attrattiva per i turisti e per i nuovi residenti; queste iniziative sono quindi
culturali soltanto di facciata ma in realtà servono da «soluzione di problemi sociali
attraverso la sostituzione della popolazione»176. E’ ormai chiaro a tutti di come «le
nuove forme di disuguaglianza si basino sempre più sui consumi, gusti e repertori
simbolici»,177 gli spazi del consumo sono legati in maniera diretta alla gentrificazione
poiché gli avventori della classe media producono e consumano pubblicamente gli spazi
urbani. Come sostiene Pierre Bourdieu i detentori di capitale culturale non sono altro
che una sub-frazione dominata dalla frazione dominante:
«[…] chi possiede il capitale culturale combatte in continuazione per ottenere una
maggiore autonomia, un più ampio spazio di autodeterminazione dal capitale
economico e finanziario, ma senza mai dimenticare che è proprio al capitale economico
che in ultima istanza esso deve il proprio potere sulle frazioni dominate della società: è
una lotta tra dominanti, che non mette mai in discussione i limiti e il potere del
dominio.»178

Questo lavoro prende spunto dalla tesi di dottorato di Giuseppe Scandurra, nella
quale l’antropologo urbano ha dedicato il suo triennio di ricerca in quella prima
periferia di Roma che tutti, nonostante la sua denominazione non appaia in nessuna
pianta del Comune, conosciamo sotto il nome di Pigneto.179 Scandurra pone al centro
del suo studio la nozione di località e la produzione di un sentimento identitario in
continuo riadattamento e condizionato dal modificarsi del tessuto sociale e, nonostante
l’autore abbia privilegiato queste tematiche, non ha tralasciato quella della
gentrification in atto fin dai primi anni 2000. Dalle parole dei suoi informatori risulta

174
ivi, p.86
175
ivi, p.97
176
ibidem
177
ivi, p.101
178
D’Eramo, M., Il selfie del mondo. Indagine sul’età del turismo, Giangiacomo Feltrinelli
Editore, Milano, 2017, p.97
179
Scandurra, G., Il Pigneto: un’etnografia fuori le mura di Roma. Le storie, le voci e le
rappresentazioni dei suoi abitanti, CLEUP, Padova, 2007, p.139
84
chiara la consapevolezza di un ricambio di popolazione; e non è un caso che qualcuno
affermi «Oramai, chi viene ad abitare qua deve essere ricco!»180 e lo stesso Scandurra
mette in luce, parlando della frazione di Pigneto nota come “Villini” che molti
«hanno venduto il loro villino ad acquirenti medio-alto borghesi che hanno apportato
sensibili miglioramenti, spesso con l’obiettivo di ripristinare l’aspetto originario. Poi
sono arrivati altri acquirenti, professori, artisti, scrittori, che progressivamente hanno
trasformato lo stato socio-economico dell’intero quartiere innalzandone il valore
immobiliare.»181

Le pagine di questa tesi sono uno specchio importante che riflette uno degli aspetti
negativi della gentrification: cioè la perdita di relazioni di vicinato e una trasformazione
utilitaristica dell’abitare. In questo modo una zona viene privata della sua anima, gli
abitanti storici abbandonano il quartiere e i nuovi avventori comperano alloggi senza
essere interessati «a produrre località»182, località intesa, secondo la definizione data da
Arjun Appadurai in Modernità in polvere (1996), come «una complessa
fenomenologica costituita da una serie di legami tra sensazione di immediatezza sociale,
le tecnologie dell’interattività e la relatività dei contesti»183.
La gentrification in Italia è sempre stata più sociale che etnica, infatti non è un caso che
all’inizio degli anni Novanta i vecchi “pignetari” iniziassero ad abbandonare il
quartiere, lasciando i loro appartamenti agli intellettuali di sinistra e agli immigrati,
soprattutto dell’est Europa che condividevano in gran numero piccole abitazioni
(Scandurra, 2007).
La razionalità spaziale di cui Le Corbusier può essere considerato uno dei
maggiori esponenti si articola, secondo D’Eramo, in una estrema tecnica pianificatoria:
il principio dello zoning, di cui si ha traccia per la prima volta nella pianificazione
urbana di New York all’inizio del XX secolo. Lo zoning stabiliva i confini che
delineavano aree differenti alle quali corrispondevano differenti usi dello spazio,
assolvendo soltanto una sola funzione184. La razionalità tecnica esprime il dominio di
classe: sono poi i pianificatori ad arrogarsi la possibilità di attribuire a ogni individuo il
proprio posto nella città185.

180
ivi, p.54
181
ivi, p.61
182
ivi, p.149
183
ivi, p.140
184
ivi, pp. 128-129
185
ivi, p. 131
85
Non è solo il progetto urbanistico a determinare le trasformazioni delle città ma una
serie di processi e trasformazioni che sfuggono al controllo di questo, si tratta di
processi economici e sociali o legati all’andamento del mercato immobiliare; il progetto
si sviluppa nel tempo e ad opera di svariati fattori e soggetti, come politici, agenti
immobiliari, tecnici; per ultimo, ma non per minore importanza, un progetto ha stretto
legame con le pratiche urbane, intendendo tutte quelle pratiche che gli abitanti mettono
in atto per vivere e adattarsi alla città186.
«Se, da una parte, è vero […] che il progetto è l’esito di un modello di sviluppo, di
un’azione prevalente di soggetti forti, di capitali privati e del mercato, di un quadro di
politiche e normative ineludibile, dall’altra è anche vero che il progetto è un processo e
una pratica che coinvolge, nel loro dispiegarsi nel tempo, pensieri, relazioni, azioni,
interazioni sociali, passioni e pratiche connessi al vivere e all’abitare di una collettività
nel suo contesto fisico; collettività che plasma in forma evolutiva il luogo in cui vive
(Cellamare, 2008). In questo quadro di riferimento più ampio ha forse più senso parlare
di processi di progett-azione.»187

Carlo Cellamare sostiene che la progettualità delle pratiche si esprime in quattro


modalità: il progetto si costruisce nell’azione e nell’azione si esplica la progettualità; il
progetto è un processo di attribuzione di un valore simbolico; il progetto viene
influenzato dai modi di immaginare il proprio contesto di vita; è possibile progettare
attraverso la pratica di stili di vita sia personali che collettivi. Nonostante gli abitanti
come appena visto giochino un forte condizionamento delle pratiche urbane, il loro
modo di agire è fortemente condizionato dall’organizzazione dello spazio e
dall’organizzazione funzionale della città; inoltre, le pratiche degli abitanti sono guidate
dai modelli di vita imposti, dall’organizzazione stessa della città e dai mass media188. Lo
stesso Cellamare, che ha scritto la prefazione del libro di Irene Ranaldi, Gentrification
in parallelo, sottolinea quanto la costruzione di stili di vita siano importanti
nell’influenzare la condotta di una trasformazione urbana, sia questa pianificata o messa
in moto direttamente da attori sociali. Il mutamento intravisto da Cellamare del
quartiere Pigneto, è stato promosso, contrariamente a quando documentato negli Stati
Uniti non dagli operatori immobiliari, ma da un
«intreccio quasi inestricabile tra azioni del mercato e tendenze e comportamenti sociali
spontanei, sul mercato della casa e dell’affitto, sull’allontanamento della popolazione
residente, sul ricambio degli abitanti, sulla trasformazione complessiva del quartiere dal
punto di vista sociale e urbano […] ma anche della sua “aura” e di quel presunto

186
Cellamare, C., Pratiche urbane e progett-azione in Scarpelli, F., Romano, A. (a cura di), Voci
della città. L’interpretazione dei territori urbani, Carocci, Roma, 2011, p.125
187
ibidem
188
ivi, pp.126-127
86
carattere di popolanità, di autenticità, di radicamento nell’immaginario pasoliniano
diventato uno dei luoghi preferiti della movida notturna romana e con un costo della
casa che può apparire impressionante se considerato in rapporto alla qualità edilizia
degli immobili.»189

Un doveroso accenno deve essere fatto a Guy Debord e in particolare al suo


testo La società dello spettacolo, apparso per la prima volta nel 1967 quando la
televisione e la riproduzione di immagini si manifestavano da pochi anni nel quotidiano,
ma nei quali l’autore riuscì pioneristicamente a rintracciare gli albori della realtà
immateriale dei nostri giorni. In questa sede non ci si vuole soffermare su “la società
dello spettacolo” in generale ma su quella sezione del testo che Debord ha titolato “La
programmazione del territorio”: in cui, in piena ottica marxista, lo spettacolo che
rappresenta la struttura della società dei consumi si mischia con il territorio poiché:
«L’urbanismo è la presa di possesso dell’ambiente naturale e umano da parte del
capitalismo che, sviluppandosi conseguentemente in dominio assoluto, può e deve ora
rifare la totalità dello spazio come suo proprio scenario.»190

Nella breve sessione dell’opera emerge con forza l’idea della città che consuma se
stessa: è l’organizzazione tecnica del consumo ad innescare un meccanismo di
organizzazione del tessuto urbano che si polarizza intorno alle “fabbriche di
distribuzione”, le quali vengono respinte più lontane dal centro diventando a loro volta
«centri secondari sovraccarichi, dal momento che hanno determinato una
ricomposizione parziale dell’agglomerato»191.
Dalla società consumistica di Debord si passa a quella post-moderna di
Francesco Lenzini caratterizzata dalla «prevalenza della socialità sul sociale»,
intendendo la tendenza degli individui a raggrupparsi in situazioni contingenti e non più
in compagini durature192. Lenzini vede emergere una nuova forma di ritualità che si
distacca dalla classica visione della ritualità che sanciva i passaggi fondamentali della
vita di un individuo, ma mette in luce tutti quei riti contemporanei secondo lui legati
all’immagine e ai consumi e relegati nella sfera del tempo libero e del disimpegno 193. La
sua ricerca, che si concentra su aperitivi, shopping, concerti e grandi eventi mass-

189
Cellamare, C., Prefazione, in Ranaldi, I., Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e
New York, ARACNE editrice, Roma, 2014, p.9
190
Debord, G., La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 1997, p.152, (La Société
du Spectacle, 1992)
191
ivi, p.154
192
Lenzini, F., Riti urbani. Spazi di rappresentazione sociale, Quodlibet, Macerata, 2017, p.99
193
ivi, p.100
87
mediatici, in grado di generare oggi un nuovo sistema di codici simbolici, serve come
spunto per rimarcare l’idea di un legame tra la pianificazione urbana e i consumi:
«In particolare la ricerca intende porre in evidenza le pratiche che legano oggi
collettività ed ambiente materiale, coinvolgendo la costruzione dello spazio pubblico nel
processo di estetizzazione della realtà che pare coinvolgere tutti i fenomeni. Proprio la
componente estetica, intesa come attrattiva esperienziale, è indicata dai sociologi come
il comune denominatore delle sperimentazioni odierne sullo spazio pubblico che si
qualifica innanzi tutto per la sua capacità di proporci un’esperienza fortemente attiva
sotto un profilo sensoriale o emozionale.»194

Tornando al tema della gentrification, l’analisi del testo Riti urbani di Francesco
Lenzini risulta particolarmente significativa soprattutto nel momento in cui questi riti
vengono traslati e analizzati nella loro rilevanza spaziale:
«L’attrattiva offerta da negozi e locali, le cui distese occupano fisicamente superfici
pubbliche sempre più rilevanti, è infatti esplicitamente vincolata alla disponibilità
economica degli utenti. Così luoghi originariamente votati ad una molteplicità di
relazioni e fruizioni, si riducono a spazi di consumo generando nuove sociologie e
geografie dell’esclusione. […] Non mancano infatti esempi di interni urbani assoggettati
ad una fruizione sostanzialmente consumistica attraverso la manipolazione della stessa
struttura sintattica dello spazio.»195

La privatizzazione dello spazio pubblico da parte dei privati viene in un certo senso
agevolata anche dai soggetti pubblici che non di rado hanno contribuito alla
mercificazione della città: negli ultimi anni, gli investimenti pubblici non vengono più
spesi a favore degli abitanti ma sono utilizzati al solo scopo di attrarre risorse esterne.
Le risorse pubbliche vengono con questo scopo impiegate nella creazione di una nuova
immagine della città e nella creazione di un ambiente esteticamente gradevole196. Dalla
società dello spettacolo si passa alla città dello spettacolo, in cui lo spazio pubblico è
ormai destinato all’esclusiva fruizione disimpegnata e nel quale gli individui possano
sentirsi liberi e lontani dall’impegno sociale.
Debord e Lenzini servono ad approcciarsi al terreno con la consapevolezza di
quanto l’urbano sia diventato dalla seconda metà del Novecento terreno di
“spettacolarizzazione”: entrambi ricordano come nelle società capitalistiche avanzate la
produzione sia diventata sempre più una produzione di tipo immateriale. Se per Debord,
o per gli autori della Scuola di Francoforte, il problema si manifestava nella alienazione
e sulla capacità del capitalismo di distruggere la coscienza critica attraverso la

194
ibidem
195
ivi, p.104
196
ivi, p.105
88
diffusione dei mass-media, è il caso di tenere conto in questa ricerca della capacità di
alcuni celebri siti web nell’influenzare l’andamento e la scelta dei quartieri quartieri.
TripAdivisor gioca un ruolo non secondario in questa faccenda: il bar-ristorante “Necci
dal 1924”, con oltre mille recensioni, è lo storico locale in cui nel 1961 Pier Paolo
Pasolini girò il suo primo film L’Accattone, fatto che rappresenta una grossa attrattiva
per i turisti amanti dell’intellettuale friulano devoto alla romanità, ma anche per gli
avventori fedeli, perché come suggerisce la pagina web del locale:
«Necci è sempre aperto. A colazione, a pranzo e anche per l’aperitivo. Per cena, per un
drink a tarda notte o semplicemente per un caffè bevuto in giardino, sotto il sole del
mattino davanti a un libro od un giornale letto per ore ed ore. Necci è un rifugio caldo in
una giornata uggiosa o un luogo di festa in piena estate. Necci è tutto questo. Un’oasi di
calma in una città caotica.»197

Per comprendere la risonanza del locale basta osservare la sezione riservata allo
shopping online sul sito web: oltre ad un solo prodotto alimentare (olio extra vergine di
oliva), Necci propone di vendere tazze, spille, borse e quaderni con il proprio marchio,
fino ad arrivare al libro fotografico “Pasolini Pigneto. Il bar Necci ai tempi di
Accattone”198. Quindi non è un caso che nel 2017 per le strade del quartiere apparve un
manifesto con l’hashtag #ioconoscoinomi, raffigurante Pier Paolo Pasolini e una
coincisa ma pungente didascalia:
“Maledetti speculatori
Non consumate il Pigneto
Sfruttando il mio nome”199

197
https://www.necci1924.com
198
http://shop.necci1924.com
199
Purtroppo non è stato possibile rintracciare l’autore; un informatore mi ha suggerito che
questa potrebbe essere l’opera di uno street artist o potrebbe essere stato fatto da un collettivo
anarchico. Queste sono state le uniche informazioni reperibili riguardanti il manifesto.
89
Su TripAdvisor è possibile trovare la recensione anche di “Isola pedonale del Pigneto” e
dei numerosi locali che si trovano nel quartiere; i giudizi e le foto che troviamo su
TripAdvisor sono quelli che Marco D’Eramo sulla sua indagine sull’era del turismo
definisce «markers» che «hanno [con il sito web] democratizzato il meccanismo delle
stelle e degli asterischi che non sono più prerogativa esclusiva delle guide Michelin o
Blue o Lonely Planet»200. Sempre D’Eremo definisce il “turismo popcult” come un
«pellegrinaggio nella cultura popolare»201 che porta milioni di visitatori sulle tombe o a
ripercorrere luoghi legati a personaggi celebri realmente esistiti o di fantasia; in questo
lavoro di ricerca, si proverà a vedere se sarà o meno possibile parlare di “abitare
popcult”, per provare a scoprire se, come i turisti, i nuovi abitanti del luogo provano una
simile fascinazione nel ripercorrere quotidianamente le strade di Pasolini, Monicelli,
Rossellini.
Un altro portale online che influenza le pratiche abitative di breve locazione è
sicuramente Airbnb; la celebre piattaforma è in grado di indirizzare i gusti degli
avventori con la sezione “Le Guide ai Quartieri Airbnb”, nel caso del quartiere Pigneto
si legge:
«Sfacciato, impertinente e straordinariamente alla mano: è il ritratto di Pigneto, un
dedalo di vie che attrae di continuo creativi, amanti del buon cibo, e fotografi alla
ricerca di ispirazione. Nei locali, luce bassa e ottimo vino; per le strade, colorati murales
che esprimono l’anima artistica del quartiere. Barbe lunghe, sigarette, chiacchiere sui
massimi sistemi: Pigneto è vivace e trasandato come la fauna che lo popola.»202

Non è questa la sede per dilungarsi sul sistema Airbnb ma risulta importante non
sottovalutare la sua funzione di trend setter che si ripercuote nel tessuto urbano
generando quelli che Irene Ranaldi definisce:
«Luoghi della percezione, menti locali della gentrification, luoghi inesistenti nelle
mappe geografiche della città tradizionale; questi luoghi sono rintracciabili sui motori di
ricerca e nei social network. Si potrebbero definire concetti della post toponomastica o
luoghi gentrificati della mente. Le metropoli sono plasmate sempre più
dell’immaginazione, dalla creatività e dallo spettacolo e non soltanto dal cemento, dal
vetro e dall’acciaio.»203

Nel novembre 2017 Retake Roma, Airbnb Citizen e Pigneto Vivo, con il supporto di
AMA, hanno organizzato una giornata al fine di “dare al Pigneto un’opportunità per

200
D’Eramo, M., op. cit., p.42
201
ivi, p.54
202
https://www.airbnb.it/locations/rome/pigneto
203
http://www.rivistadiscienzesociali.it/il-territorio-si-fa-brand-esempi-di-gentrification-in-
quartieri-di-roma-e-new-york/
90
tirar fuori il suo potenziale di creatività, street art e bellezza essendo allo stesso tempo
pulito, curato, vivo e partecipato”204, o almeno così si può leggere sul sito di Retake
Roma. Dal quotidiano online Roma Today205 si apprende come non da tutti sia stata
gradita questa iniziativa “anti degrado” tanto sponsorizzata da Retake Roma che, come
in qualsiasi retorica sul degrado e la riqualificazione tanto in voga negli ultimi anni,
spinge alla marginalizzazione della povertà. Le associazioni di quartiere contrarie
all’iniziativa affidarono le proprie voci alla rivista online “infoaut”: nella lunga lettera
scorge la preoccupazione per le fasce più deboli della popolazione che ormai da tempo
sembrano siano state costrette ad allontanarsi dal Pigneto. Le associazioni “anti-
degrado” e gli hosts di Airbnb pongono i cittadini del quartiere davanti alla concreta
paura che possa verificarsi quello che è già accaduto a Berlino o Barcellona, dove nel
primo caso gli affitti sono aumentati dl 25% in un anno e nel secondo interi quartieri
popolari si sono svuotati in favore del turismo.
«Come lo studio del fenomeno insideairbnb.com ha mostrato, il pericolo, non è
rappresentato dalle persone che affittano la cameretta per arrotondare il proprio reddito,
ma dai privati e dalle agenzie che, acquisendo e affittando migliaia di appartamenti
(senza pagare un euro di tasse), portano fuori mercato il prezzo delle locazioni.»206

L’ossessione della pulizia e del decoro urbano promossa da diverse associazioni, tra le
quali anche Retake, nasconde un’idea tombale e mortuaria di città, concepita
esclusivamente come una zona franca da cui estrapolare profitto; nonostante il termine
decoro sia di difficile definizione e di chiara valenza soggettiva, la tendenza delle
associazioni promotrici del decoro a cancellare qualsiasi pittura muraria fa distruggere
indistintamente dipinti e immagini che potrebbero essere apprezzate da abitanti e
turisti207.
Avendo parlato di turismo, feste e fiere è impossibile non ricondursi al quarto
principio delle eterotopie elencate nella conferenza “Spazi Altri” (1967) da Michel
Foucault. In contrapposizione al concetto di utopia, Foucault esprime particolare
interesse per quelle che lui stesso definisce eterotopie, cioè
«dei luoghi reali, dei luoghi effettivi, dei luoghi che appaiono delineati nell’istituzione
stessa della società, e che costituiscono una sorta di contro-luoghi, specie di utopie

204
https://www.retakeroma.org/2017/11/26/retake-all-isola-pedonale-del-pigneto/
205
https://www.google.it/amp/amp.pigneto.romatoday.it/pigneto/retake-pigneto-polemiche.html
206
https://www.infoaut.org/metropoli/airbnb-e-retake-uniti-per-il-decoro-e-l-espulsione-dei-
poveri
207
Dal Lago, A., Giordano, S., Sporcare i muri. Graffiti, decoro, proprietà privata,
DeriveApprodi, Roma, 2018, p.19
91
effettivamente realizzate nelle quali i luoghi reali, tutti gli altri luoghi reali che si
trovano all’interno della cultura vengono al contempo rappresentati, contestati e
sovvertiti; una sorta di luoghi che si trovano al di fuori di ogni luogo, per quanto
possano essere effettivamente localizzabili»208.

Nel quarto postulato, il filosofo francese ricorda come nella società occidentale
eterotopia ed eterocronia si combinino in maniera complessa: nel nostro caso specifico,
si tratta di «eterotopie che sono in relazione […] al tempo per ciò che esso ha di più
futile, di più passeggero, di più precario, in relazione al costume della festa»209.
La simbologia comparata di cui parla Victor Turner in Dal rito al teatro (1982)
ci collega allo studio di processi dai quali scaturiscono nuovi simboli, verbali e non
verbali, in diverse forme rituali e nell’arte; la simbologia comparata non studia i generi
culturali astraendoli dall’attività sociale ma occupandosi «delle relazioni fra i simboli e i
concetti, sentimenti, valori, nozioni», in poche parole si occupa delle correlazione tra i
simboli prodotti e del contesto in cui prendono forma.210 Turner, partendo dal concetto
di “liminale” di Arnold van Gennep, conia la definizione di “liminoide”. Come è noto,
la fase liminale è un periodo limitato nei riti di iniziazione delle società tribali, un
periodo temporale contingenziale nella struttura processuale di un rito di passaggio211;
secondo Turner, la perdita di sicurezza che si verifica qualvolta si stia per compiere il
passaggio da una fase culturale ad un’altra avviene anche nelle società industriali
occidentali, generando dei drammi sociali che, come nelle società osservate da van
Gennep, necessitano di forme di opposizione sociale e culturali per giungere ad una
risoluzione. E’ possibile considerare il liminoide un’innovazione tecnica o il prodotto
delle idee; l’etimologia è greca, il suffisso –eidos significa “rassomigliante a”, quindi
liminoide vuol dire assomigliante al liminale212. Secondo l’idea di Victor Turner, si
intende per liminoide quelle zone feconde per la riscrittura dei codici culturali e le
trasformazioni sociali; la differenza tra i due termini risiederebbe nel fatto che
all’interno della zona liminoide si possano sovvertire i valori normalizzati su cui si basa
la società occidentale, mentre nel caso del liminale avviene una sovversione di uno stato
ma non la ricerca di distruzione di questo. Al fine di comprendere l’idea e l’utilità del

208
Foucault, M., Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Vaccaro, S. (a cura di), Mimesis
Eterotopia, Milano, 2001, pp.23-24
209
ivi, p.29
210
Turner, V., Dl rito al teatro, il Mulino, Bologna, 1986, p.50 (From Ritual to Theatre. The
Human Seriousness of Play, 1982)
211
ivi, p.63
212
ivi, p.68
92
termine coniato da Turner, è importante ricordare il suo concetto di “antistruttura”,
intesa come: «la dissoluzione della struttura sociale normativa con i suoi insiemi di
ruoli, status, diritti e doveri giuridici ecc.» 213, considerata soprattutto come possibilità di
liberazione delle potenzialità umane. E’ proprio in relazione all’antistruttura che prende
forma e si impone la necessità del liminoide:
«[…] i cosiddetti generi ‘di intrattenimento’ della società industriale sono spesso
sovversivi, cioè satireggiano, prendono in giro, mettono alla berlina o corrodono
sottilmente i valori centrali della sfera del lavoro su cui si fonda la società, o almeno di
settori particolari di quest’ultima. Fra parentesi, la parola « intrattenere », entertain,
deriva dall’antico francese entretenir, « tenere separato », cioè creare uno spazio
liminale o liminoide nel quale le performance possano aver luogo. […] Nondimeno,
differenze cruciali separano la struttura, la funzione, lo stile, l’ambito e la simbologia
del liminale nel rito e nel mito delle culture agricole e tribali da quelli che potremmo
definire i generi ‘liminoidi’, o di svago, delle forme e azioni simboliche nelle società
industriali complesse.»214

Il liminoide è dunque legato allo svago che, secondo l’autore, è un fenomeno


urbano, strettamente connesso all’industrializzazione, espressione delle società
capitalistiche liberal-democratiche: in questo contesto, le attività liminoidi sono messe
in vendita come offerte sul mercato e vengono prodotte da individui specializzati di
cerchie culturali riconosciute. I fenomeni liminoidi si sviluppano distanti dal mondo del
lavoro e dai processi economici e politici, nonostante il liminoide si avvicini sempre più
ad una merce. Ci interessa qui quello che Turner definì «spazi e contesti ‘liminoidi’
permanenti»215, cioè bar, pub e caffè, poiché il liminoide, come il liminale, è quello
spazio temporale, al di fuori della sfera sociale normalizzata, che permette, attraverso
attività ludiche e azioni performative, la sospensione dei ruoli socialmente determinati.
Contrariamente a quanto sostenuto da Carlo Cellamare nella prefazione al libro
di Irene Ranaldi, Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York, questo
progetto nasce dalla convinzione di dimostrare, attraverso le voci degli abitanti sensibili
ai processi di mutamento urbano, che non si tratti di «azioni del mercato e tendenze e
comportamenti sociali spontanei»216, ma che, oltre alla volontà del singolo, ci siano
delle retoriche prodotte ai fini di agevolare le attività commerciali e il mercato
immobiliare, quindi tutt’altro che meccanismi spontanei. La spontaneità può essere

213
ivi, p.60
214
ivi, p.81
215
ivi, p.105
216
Cellamare, C., Prefazione, in Ranaldi, I., op. cit., p.9
93
reperita nella prima ondata di ricambio di popolazione, quella avvenuta nei primi anni
2000, mentre dalle pratiche osservate emerge un disegno più ampio e artificioso.
Si parlerà quindi del rapporto tra cultura e trasformazioni urbane, cultura intesa
non nel senso tyloriano di «insieme complesso che include le conoscenze, le credenze,
l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualunque altra capacità e abitudine acquisita
dall’uomo in quanto membro della società»217, ma dell’idea istituzionale di cultura che
si fonde con i processi di produzione urbana: l’idea è quella di perseguire quella linea di
condotta che segue un’ottica di sviluppo economico basata sull’economie della cultura,
del settore terziario e del turismo e che riempie le città di festival, gallerie e locali. In
questo modo, la città si fa evento e si trasforma in un sistema di servizi ma crea
contemporaneamente disuguaglianze urbane: chi ne usufruisce? Chi viene escluso?
Quale città esiste e quale si cancella?
E’ innegabile l’ipertrofia delle città italiane e la costante crescita di zone periferiche,
poiché a causa del forte aumento del valore immobiliare sono diminuiti gli abitanti dei
centri storici e della prima periferia. In particolar modo l’espulsione dei residenti è
accentuata in una città come Roma essenzialmente per due ragioni: il grande afflusso
turistico annuale e la popolazione studentesca che, non avendo degli alloggi destinati, si
ritrova ad adeguarsi alle logiche di mercato. Entrambe le questioni sottraggono spazio
agli alloggi dei residenti, soprattutto il turismo è la prima conseguenza dello
spopolamento del centro storico218.
La sfida è quella di riuscire a rispondere a queste domande attraverso la pratica
etnografica e di buon auspicio è stato un anonimo writer incontrato sul cammino il terzo
giorno al Pigneto:
«YUPPIES FANCULO: GENTRIFICATION IS CLASS WAR FIGHT BACK»219

217
Fabietti, U., op. cit., p. 14
218
Berdini, P., Nalbone, D., Le mani sulla città. Da Veltroni ad Alemanno storia di una capitale
in vendita, Edizioni Alegre, Roma, 2011, p.16
219
Il graffito si trova sulla facciata laterale del nuovo locale “KRAM” (via Gentile da Mogliano,
26, Roma). L’apertura ha sollevato diversi interrogatori, tanto da aver spinto il “Comitato di
Quartiere Pigneto-Prenestino” a scrivere al Municipio Roma V per avere delle delucidazioni
riguardati la concessione di diverse autorizzazioni. Particolarmente interessante risulta il punto
in cui il Comitato richiede di poter visionare gli atti che hanno reso lecita la sottrazione di una
striscia di terreno prima destinata ad uso collettivo (Piazza Nuccitelli-Persiani) e poi diventata
parte del locale. Il 10 ottobre 2018 si viene a conoscenza che, inseguito ad un sopralluogo dei
vigili dei vigili urbani, effettuato il 18 settembre, siano emerse delle difformità rispetto ai
documenti inizialmente presentati dai gestori: è stato appurato un ampliamento della superficie
commerciale, l’appropriazione di area pubblica e l’assenza del vano tecnico al primo piano, con
accorpamento della tettoia e destinazione d’uso difforme, per tutte queste difformità è stata
94
chiesto l’abbattimento del locale entro novanta giorni o l’acquisizione del locale al patrimonio
pubblico.
95
3. Il XX secolo al Pigneto

Per comprendere perché sia stato scelto questo “triangolo urbano” che si estende
ad Est di Porta Maggiore proprio come oggetto di studio della gentrification risulta
funzionale ripercorrere brevemente la storia economica e sociale del quartiere e dei suoi
abitanti nell’arco del Novecento. Il quartiere si è sviluppato, in seguito ad un
insediamento spontaneo promosso da cooperative o singoli abitanti, tra la fine
dell’Ottocento e gli anni Trenta del XX secolo, in una zona che in precedenza lasciava
spazio ad un’area agricola che ospitava sul proprio suolo soltanto qualche casale e
qualche villa. Il nome del quartiere e della lunghissima via del Pigneto prendono il
nome dalla pineta che occupava alla fine del Settecento la villa Serventi220, di questi
pini marittimi ci sono ancora degli esemplari che costeggiano le vie della zona.
Dalla fine dell’Ottocento si iniziarono a mettere i presupposti del cambiamento da zona
rurale ad urbana, quando, in seguito all’elezione di Roma a capitale d’Italia, industriali,
negozianti e banchieri iniziarono a spostare le loro attività dal Nord e ad acquistare
terreni in cui far fruttare le proprie imprese.
Al Pigneto c’era infatti uno snodo ferroviario importante per le linee dirette al sud e
all’est della penisola, proprio per questo motivo nel 1890 fu aperta all’inizio della via
Prenestina il deposito Tramways Omnibus, ora uno dei depositi dei mezzi ATAC.
I mutamenti intrapresi in questi anni sono quelli che hanno segnato il mutamento del
Pigneto da prima periferia a centro città; in particolar modo, in questa sede, sembra
opportuno riportare quegli avvenimenti storici che hanno contribuito alle creazione di
un quartiere urbano e popolare prima e di un quartiere riqualificato e rivalutato poi.
Il territorio di nostro interesse, immediatamente dopo l’Unità d’Italia attirò molti
industriali attratti soprattutto dalla presenza della linea ferroviaria, che rappresentava la
giusta misura infrastrutturale per sopperire all’approvvigionamento di materie prime. Le
fabbriche che sorsero tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX furono molteplici, qui
ne saranno ricordate esclusivamente tre, poiché la loro dismissione ha ricoperto un ruolo
centrale sia nella lotta alla speculazione edilizia che ha investito il quartiere e in quelle
pratiche resistenti che saranno ripercorse nel capitolo seguente.
Nel 1871, Pietro Ducco e Francesco Valle ottennero il permesso di costruire fuori Porta
Maggiore, sulla via Casilina, uno stabilimento per la macinazione dei cereali, dotato di
220
Severino, C.G., Roma mosaico urbano. Il Pigneto fuori Porta Maggiore, Gangemi Editore,
Roma, 2005, p.7
96
venti mulini e ottanta cavalli221. La crisi economica che ha attraversato la città
nell’ultimo decennio dell’Ottocento si abbatté anche sulla Società dei molini e
magazzini generali e, proprio per evitare il fallimento, il Banco di Roma avviò una
procedura di fusione tra la società molinaria e il pastificio Pantanella, generarono la
creazione nel 1896 della nuova società Magazzini generali e pastificio Pantanella222.
Nonostante la famiglia Pantanella fu estromessa dal consiglio di amministrazione venne
mantenuto il nome poiché questa era un marchio nella società romana; ancora oggi si fa
riferimento all’edificio in cui c’era la fabbrica in via Casilina chiamandola “ex
Pantanella”.
Nel 1904, Giorgio Passarge, già titolare di due farmacie nel centro storico di Roma,
decise di presentare un progetto per la realizzazione di un laboratorio chimico-
farmaceutico tra via Casilina e il vicolo del Pigneto; oltre al laboratorio, nel progetto
venne chiesta l’autorizzazione per la costruzione di un annesso villino residenziale, una
scuderia e un locale ad uso ufficio. Nel lotto accanto, sempre in via Casilina, si insediò,
alcuni anni dopo, l’Istituto nazionale medico farmacologico Serono, un altro grosso
istituto chimico-farmaceutico. Cesare Serono, dopo aver deciso di trasferire la sede
sociale da Torino a Roma, decise di comprare anche la proprietà di Passarge e di
ingrandire così la fabbrica che fu inaugurata nel marzo 1909223.
Il 2 maggio 1922 viene messa la prima pietra per la costruzione dello stabilimento
chimico-tessile della Società seta artificiale di Padova che entrò in funzione circa un
anno e mezzo dopo, dando lavoro a quasi 2500 operai. La fabbrica sorta sulla via
Prenestina, dedita alla produzione della seta artificiale, nota anche come rayon, cambiò
la sua denominazione nel 1923 in Società italiana della Viscosa. Dopo che iniziò
l’attività produttiva, la Viscosa presentò un ulteriore progetto per ampliare la già
esistente fabbrica, poiché si prevedeva la necessita di 3500 operai per una produzione
quotidiana di 6 mila chili di seta. Nel 1939 si ebbe la fusione tra le due grandi aziende
produttrici di fibre artificiali in Italia, infatti il gruppo della Viscosa decise di fondersi
con il gruppo Snia per sostenere le spese dei continui ammodernamenti previsti nella
produzione tessile, creando così la Snia-Viscosa224.
«L’insediamento al Prenestino della Viscosa […] porta una forte impronta urbana nella
struttura sociale del quartiere perché con la grande fabbrica arivano anche i servizi: il

221
ivi, p.24
222
ivi, p.24
223
ivi, pp.40-42
224
ivi, pp.128-132
97
poliambulatorio, l’asilo e le altre strutture sociali che intrattengono con il territorio un
legame più forte e duraturo. Ma non soltanto questo, perché la Viscosa porta anche il
fatto nuovo della presenza capillare di lavoratrici nel tessuto produttivo del quartiere,
ancora più di quanto era avvenuto all’Istituto farmaceutico Serono, che pure da tempo
utilizzava maestranze femminili in maniera preponderante. Sono più di mille, infatti, le
donne che trovano lavoro nella fabbrica di via Prenestina, rappresentando il 40% totale
delle maestranze, e sono proprio loro, ad alimentare nel quartiere, insieme ai
ferrotranvieri ed ai ferrovieri, un “vivace focolaio di resistenza alle violenze fasciste ed
alla politica di restaurazione imposta nelle fabbrica e nelle campagne tra il 1924 e il
1924”.»225

La chiusura di queste tre grosse fabbriche, strettamente connesse come abbiamo appena
visto alla vita del quartiere, anche se in anni differenti, causarono la perdita degli operai
che a volte erano anche residenti della zona, questi si spostano a cercare lavoro altrove
lasciando dei vuoti nel quartiere sia da un punto di vista abitativo che anche di ritorno
economico per le attività commerciali di cui erano abituali clienti.
Per quanto riguarda la costruzione edilizia, soprattutto quella popolare, è
importante per la vita del quartiere e per comprendere la fetta di popolazione che
animava la zona nel secolo precedente, la cooperativa Termini, anche nota come zona
dei “Villini”, che ancora oggi ritorna nei racconti degli abitanti e segna una certa linea
di demarcazione tra quei 253 alloggi e il resto di edilizia informale. Il 31 maggio 1919,
22 ferrovieri costituirono la società “Termine”, allo scopo della costituzione di alloggi
economici. Il 28 novembre 1920, con la partecipazione di Vittorio Emanuele III, viene
posta la prima pietra per sancire l’inizio della costruzione della “città giardino del
prenestino”. La realizzazione di queste case fu consentita grazie ad un mutuo
cinquantennale sulla somma complessiva di 20.867.075, contratta dalla cooperativa con
le Fs e grazie a qualche contributo statale226. Carmelo Severino tiene a sottolineare il
modello e gli ideali alla base della cooperativa Termini, nata dall’appartenenza di
classe, del sostegno reciproco tra lavoratori salariati che non riuscivano ad accedere al
mercato edilizio:
«ed è quindi anche lo strumento con cui la solidarietà sociale dei lavoratori, attraverso la
cooperazione e i principi che ne sono alla base, supera il particolarismo piccolo
borghese dei comportamenti individualistici a vantaggio della crescita civile e sociale
della comunità, con la partecipazione solidale all’amministrazione, gestione e
manutenzione dei beni comuni, nel rispetto, comunque, dei diritti dei singoli soci,
proprietari, a tutti gli effetti, dei villini costruiti sul terreno sociale.»227

225
ivi, pp.132-134
226
ivi, pp.78-81
227
ivi, p.81
98
I Villini del Pigneto sono tutti di color pastello, hanno prospetti e balconi decorati con
fregi, sono circondati da giardini ed è senza dubbio la zona più elegante del Pigneto, a
tal punto che si dice che venga chiamata dal resto degli abitanti ironicamente “Parioli
del Pigneto”228. Per una strana ironia, a dispetto di quel sentimento comunitario ed
operaio che vide la nascita della cooperativa Termini, molti dei miei informatori, come
già successe a Giuseppe Scandurra quindici anni prima durante la sua ricerca, hanno
dipinto la zona dei Villini come un mondo a parte, lontano dal resto del Pigneto, come
un luogo per ricchi e più di qualcuno ha tenuto a sottolineare che il proprietario di uno
di quei villini sia Roberto Benigni.
Tra gli anni ‘40 e gli anni ‘70 ci fu anche al Pigneto quel boom edilizio, soprattutto per
la ricostruzione nel secondo dopoguerra che vide erigere nuovi edifici alti e austeri che
poco si amalgamavano con l’edilizia preesistente e per sopperire ai numerosi edifici
distrutti dai bombardamenti subiti tra il luglio ‘43 e il marzo ‘44. Alla fine degli anni
Quaranta, il piano di intervento statale INA-Casa per fornire delle occupazioni popolari
e che vide la realizzazione di grossi palazzoni al Prenestino di discreta fattura e che
offrirono una parziale soluzione al problema abitativo229. Inoltre, negli stessi anni
furono portati avanti ulteriori progetti di costruzione di case per i lavoratori ATAC, in
particolar modo si fa rifermento a quelle abitazioni poste tra via del Pigneto e via
Prenestina, che terminate nel 1952 potevano essere assegnate in locazione con patto di
futura vendita e di riscatto230. Molti altri fabbricati furono costruiti dalla Società
generale immobiliare (SGI) che contribuì fortemente nell’espansione edilizia di Roma e
del Pigneto, dove elevò grandi costruzioni tra Largo Preneste e Via dell’Acqua
Bullicante.
Nel Secondo dopoguerra tocca al Pigneto anche assorbire la forte ondata
migratoria proveniente dall’Italia meridionale e di molti degli sfollati di San Lorenzo,
che avevano perso le loro abitazioni durante i bombardamenti. Nel caso di immigrati
senza salario, il Pigneto offriva comunque un’accoglienza, ma la povera gente doveva
accontentarsi delle baracche al Torrione o a Galliano; le ultime baracche del borghetto
Prenestino furono smantellate definitivamente nel 1981231. Come notato dal sociologo
Franco Ferrarotti, l’umanitarismo che colpì molti filantropi a spendersi per le condizioni

228
Collettivo Malatempora, Guida al Pigneto. Dove pulsa ancora la vita di quartiere,
malatempora editrice, Roma, 2007, p.6
229
Severino, C. G., op. cit., p.7
230
ivi, p.184
231
ivi, p.195
99
dei baraccati finì per risolversi in uno «strumento potente di valorizzazione dei terreni
urbani fra il centro e la periferia estrema dove sono costretti a vivere i baraccati»; la
condizione dei baraccati finì per diventare il plusvalore delle aree urbane controllate
dagli speculatori e l’assenza di un piano regolatore, o meglio la subordinazione della
politica urbanistica romana agli interessi privati, si risolse in uno scenario dove a
rimetterci è sempre la popolazione marginale, e i baraccati di Roma negli anni Sessanta
e Settanta erano novecentomila, un terzo della popolazione della capitale.232
Tra le infrastrutture che sono state potenziate nel corso del secolo scorso,
ricordiamo: la tangenziale sopraelevata Est di Roma che domina dall’alto la via
Prenestina, con una lunghezza di oltre sette km, è stata realizzata in varie fasi dalla fine
degli anni Settanta agli anni Novanta e collega la via Salaria con il piazzale Ostiense;
soltanto negli ultimi anni sono state aperte due stazione della metropolitana C; sono
rimasti pressoché immutati i trasporti tramviari e nel 2003 è stata chiusa al pubblico la
stazione Casilina.
Agli inizi degli anni Novanta, con la legge 179/1992, si sancisce l’inizio di un
intervento statale che vede come prioritario gli obiettivi di recupero e di riuso del
patrimonio edilizio preesistente; la differenza sostanziale rispetto al periodo precedente
che questa legge fosse emendata si trova nella possibilità di integrare le risorse
pubbliche con quelle private, per poter affrontare i costi di ristrutturazione e
riqualificazione. Il Programma di riqualificazione urbana del Pigneto, stipulato nel
settembre del 1998, comprendeva nove proposte di intervento privato e dieci proposte di
intervento pubblico. In questo progetto di riqualificazione del Pigneto erano previsti
iniziative per il recupero degli stabilimenti industriali della Serono e della Snia
Viscosa233.

3.1. La questione urbanistica

Come in pochi altri casi, la storia appare strettamente legata alle configurazioni
urbane, perché i confini di questo Pigneto, di cui tutti abbiamo almeno una volta sentito
parlare, risultano ancora oggi difficili da tracciare. E’ certo che il nome “Pigneto” derivi
dai pini piantati alla fine del Settecento nel parco di villa Serventi e all’esterno della

232
Ferrarotti, F., Spazio e convivenza. Come nasce la marginalità urbana., Armando editore,
Roma, 2009, pp. 115-116
233
ivi, pp.212-216
100
tenuta234. Oggi il nome va ad indicare lo spazio all’interno del quartiere Prenestino-
Labicano, istituito dall’amministrazione comunale il 20 agosto 1921235, e facente parte
del Municipio di Roma V, in seguito alla delibera capitolina n°11 dell’11 marzo
2013236. Questo quartiere di Roma ha la forma a triangolo isoscele: da Porta Maggiore,
eretta dall’imperatore Claudio nel 52 d.C., si estendono i due lati uguali, la via
Prenestina e la via Casilina, che fanno rispettivamente angolo con la base, identificata in
via dell’Acqua Bullicante; questi confini, nonostante siano considerati ormai
consolidati, sono il frutto di trame insediative più ampie e complesse:
«il Casilino, limitrofo alla via Casilina, il più prossimo alla Porta Maggiore, tra
l’Acquedotto Felice e la ferrovia Roma-Napoli, il Prenestino, lungo la via Prenestina,
tra la strada consolare e la Roma-Sulmona; il Torrione, tutt’intorno all’antico
monumento romano; la borgata Galliano, dove la via del Pigneto s’incurva tra via di
Zeno e via Tempesta; l’Acqua Bullicante, lungo l’ex via Militare, la Marranella, nella
zona intorno alla chiesa parrocchiale di San Barbara ed il Pigneto vero e proprio, nel
primo tratto della via del Pigneto, a partire da largo Cabellini sino alla Circonvallazione
Casilina, ed oltre, nella zona in cui la toponomastica è dedicata ai condottieri e nel
comprensorio dei villini della cooperativa Termini.»237

Non risulta chiaramente una sorpresa affermare che l’unione di questi insediamenti
sotto un’unica denominazione sia per gli storici abitanti di difficile comprensione. Non
raramente, in questi mesi nel quartiere ho sentito residenti tracciare svariati confini per
delimitare il “vero Pigneto”; parlando con Alessio, giovane uomo che ha vissuto quasi
per tutta la vita in zona, emerge chiaramente quanto appena detto:
«La cosa più stupefacente del marketing in corso è che praticamente il Pigneto
sia arrivato a via della Marranella, cancellando, sulla carta, i vecchi confini di
quartiere. […] Il vecchio confine si ferma a Piazza dei Condottieri, diciamo dove
terminava tutta l’edilizia spontanea prima della Seconda Guerra. Pensa che i
vecchi in realtà definiscono Pigneto solo la parte oltre il ponte.»
Il ponte è quel tratto di via del Pigneto che sovrasta la rete ferroviaria e taglia in
verticale la Circonvallazione Casilina per poi estendersi per quasi l’intero quartiere.
Il fenomeno dell’edilizia informale al quale ha fatto riferimento Alessio è ben noto nella
zona e nell’intera Roma che si sviluppa dagli anni Sessanta in poi, a tal punto di poter
parlare di una vera e propria città abusiva. In genere i lottizzatori spianavano un terreno
234
ivi, p.7
235
ibidem
236
Protocollo RC n.20071/12, Deliberazione n.11, ESTRATTO DAL VERBALE DELLE
DELIBERAZIONI DELL’ASSEMPBLEA CAPITOLINA, anno 2013, VERBALE N.17,
Seduta Pubblica dell’11 marzo 2013
237
Severino, C.G., op. cit., p.7
101
e tracciavano delle strade, chiedevano ad Acea ed Enel l’attacco di acqua e luci e poi il
lottizzatore vendeva a prezzi di aree fabbricabili; gli acquirenti costruivano per prima
cosa un pozzo nero. I più poveri invece si costruivano da soli una casa238.
La signora Marta, è un ex insegnate di lingua inglese, è nata al Pigneto e qui vive ancora
e partecipa attivamente alla vita sociale e aggregativa del quartiere e per me ha
rappresentato un’ottima memoria storica e fonte preziosa per ricostruire attraverso le
esperienze di vita i mutamenti urbani e architettonici susseguitesi:
«La via del Pigneto tu l’hai mai fatta dall’inizio alla fine? Per me basterebbe
quello per spiegare la storia di Roma. Via Acqua Bullicante, quel canyon
spaventoso, quello proprio è il Sacco di Roma! Bruttissimo! Poi cominciano i
palazzoni, poi la borgata Galliani, io arrivavo fin lì quando ero bambina, perché
a via Posidonia abitavano i miei nonni, e poi però accanto ci sono già le villette
belle, quelle dei ferrovieri, bellissime! Adesso è diventata… E poi vai avanti e
arrivi fin qua! Qui adesso c’è l’isola pedonale, quindi la storia di Roma la
ripercorriamo lungo la via. […] Le villette sono sempre state un mondo a parte,
perché è sempre stato molto carino. Adesso no, adesso è diventato diverso,
adesso ci stanno le persone proprio ricche; allora erano famiglie di ferrovieri,
rispetto agli altri benestanti, nel resto del quartiere erano veramente poveracci.
Quelle casette della borgata Galliani sono state costruite senza piano regolatore,
senza elettricità… Io ti posso dire perché mio nonno è venuto a Roma con mia
madre che aveva quattordici anni e qui si è potuto comprare un pezzettino di
terra e l’ha costruita lui la casa e questa casa lui poi la affittava agli altri, lui
viveva così! Lui si è tenuto giusto due stanzette e quella casa era terribile! Io poi
ci andavo da bambina e questa casa aveva un bagno solo in comune, un odore
orribile nella casa! Per dirti, erano tutte così, costruite in questo modo! Poi
un'altra cosa, fino al 2000 io in questa zona239 non ci passavo mai perché era
malfamata.»
E’ innegabile che l’edilizia popolare e quella privata non riuscirono a sopperire la
richiesta di una popolazione non benestante e costantemente in espansione dal secondo
dopoguerra; le abitazioni abusive che nacquero come conseguenza di queste mancanze
crearono la necessità di rendere legittimi interi quartieri.

238
Insolera, I., Roma moderna. Da Napoleone I al XXI secolo, Giulio Einaudi editore, Torino,
2011, p.285
239
La zona di riferimento è quella dell’isola pedonale, luogo in cui si è svolta la conversazione.
102
«Si tratta dunque di far rientrare gli ettari e metri cubi comunque abusivi dentro un
perimetro e una norma: comincia l’èra dei «recuperi urbanistici» e dei «condoni»; con lo
Stato, la Regione Lazio, il Comune di Roma che si inseguono, si rincorrono, si
sorpassano; con gli abitanti, i proprietari, gli speculatori che giocano al rinvio e alla
proroga fino a fare dell’«abusivo condonato» uno stato giuridico permanente, un tipo
edilizio riconoscibile e rispettato»240.

Giorni dopo ho ricordato ad Alessio che oggi viene considerato uno dei confini
via dell’Acqua Bullicante (via parallela di via della Marranella, estendendosi ancora più
ad est), la risposta non è tardata ad arrivare:
«Sì sì, ma è assurdo… anche questo fa parte della perdita d’identità. Anche
perché c’era una differenza sostanziale tra abitare a Malatesta o Marranella
rispetto al Pigneto, proprio a livello urbanistico. Diciamo che la tipicità del
Pigneto storico, che in molti punti ricorda un paese, creava rapporti diversi tra le
persone.»
Lo stesso mi disse Michele che, parlando del mio domicilio nel quartiere, mi fece notare
come questo non rientrasse nei confini storici del Pigneto, essendo ben oltre Piazza dei
Condottieri, ma che, sempre per una questione di marketing, fosse risultato per i
proprietari più utile inserire nell’annuncio “singola al Pigneto” per accattivare gli
avventori in cerca di una camera in zona; lo stesso mi fece notare come probabilmente
trenta o quaranta anni fa avere una casa al Pigneto non rappresentasse certo un vanto e
che sicuramente non lo avrebbero né inserito nell’annuncio né avrebbero potuto
richiedere un prezzo così elevato. Come vedremo la zona, da più di un decennio, e per
caratteristiche particolari che difficilmente si rintracciano nel resto della città, attrae
studenti o giovani da poco all’interno del mondo lavorativo, per quel fascino decadente
bohemien di cui è satura tutta la narrazione intorno al quartiere. E’ ancora Ernesto,
docente di urbanistica ormai in pensione, che è nato e ha passato buona parte della sua
vita nel quartiere, che con ironia mi racconta:
«Molti che abitano nel quartiere Prenestino dicono che abitano al Pigneto
insomma, ai miei tempi era impensabile! Perché tutti, anche quelli che abitavano
al Pigneto, dicevano di non abitare al Pigneto, tanto il quartiere era malfamato!
Purtroppo io credo che rischi anche il Pigneto di fare la fine di San Lorenzo
insomma, cioè dove poi questa apparente vita di comunità è una vita di tribù che
si spartiscono gli spazi, gli orari, cioè la notte la tribù degli spacciatori, di giorno

240
Insolera, I., op. cit., p.292
103
la tribù degli studenti, di mattina la tribù degli abitanti, ecc. ecc. Come dire,
convivono una coabitazione forzata, tutt’altro che una comunità nuova in cui gli
elementi di differenza diventano delle risorse.»
Sempre lui mi parla di sua nonna che, «democristiana di ferro», lo redarguiva ogni volta
che da bambino lo sentiva pronunciare di abitare al Pigneto, perché non voleva che la
famiglia venisse associata a quella zona di Roma nota ai più per la piccola criminalità.
Sulla sua vita strettamente connessa ai quartieri romani, Ernesto ha scritto dei racconti,
due dei quali si snodano tra le vie del quartiere Prenestino-Labicano: un primo racconto
descrive la sua infanzia tra via L’Aquila, la circonvallazione Casilina e i treni che,
ricordo indissolubilmente legato alla sua famiglia, vedeva passare sotto il ponticello; il
secondo è già il ricordo di un adulto, incentrato sul legame madre-figlio che si dispiega
sullo sfondo del mercato che animava via Alberto da Giussano.
La questione urbanistica del quartiere è legata inesorabilmente alle modifiche
attuate dal secondo dopoguerra; come tutta Roma, il Pigneto si ritrovò a fronteggiare
una forte e crescente richiesta abitativa all’immigrazione, da una parte infatti si verificò
un aumento dell’attività edilizia e dall’altra le problematiche legate alle abitazioni di
fortuna.
L’iniziativa privata degli imprenditori edili ha puntato a riempire i vuoti in quartieri già
iniziati, per esempio costruendo in altezza, sfruttando le nuove direttive presenti nel
regolamento edilizio, o costruendo palazzi in luoghi prestabiliti per i villini o
intensificando la costruzione dei palazzi in luoghi già a queste predestinate. Accanto
all’iniziativa privata si affiancò quella pubblica: infatti, la crescente urbanizzazione
delle zone periferiche comportò la necessità di dotare le zone con servizi come strade,
acqua, luce e gas. Quando le aree di interesse erano comprese all’interno del piano
regolatore i servizi dovevano essere impiantati dal comune; nelle aree al di fuori del
piano regolatore, l’ente era autorizzato a imporre ai proprietari dei terreni, avvantaggiati
dai contributi di miglioria, un’imposta per l’attuazione dei servizi stessi, anche se spesso
i contribuenti non versavano la tassa e le spese ricadevano quasi interamente sul
comune.241 Dagli accordi tra il comune e i privati si ebbe la possibilità di effettuare degli
interventi di edilizia statale, creando nelle zone di viale Marconi, via Prenestina e via
Tuscolana dei palazzoni di anche dodici piani, senza lasciare spazi indenni allo
sfruttamento del suolo; tra il 1951 e il 1958 le superfici urbanizzate aumentarono del

241
ivi, pp.204-205
104
293% e la popolazione aumentò di 266.647 abitanti242. Questo boom edilizio è
palesemente osservabile al Pigneto: la differenza tra quello che viene definito “Pigneto
storico” e la zona più nuova, che da piazza dei Condottieri si estende verso via
dell’Acqua Bullicante, considerando anche la via Prenestina, è difatti oberata da
palazzoni in grado si segnare visivamente una linea di demarcazione tra le costruzioni
prebelliche e quelle postbelliche.
Nel 1957 l’ufficio statistico del Comune censisce 13.703 famiglie, 54.576 persone, che
vivevano in baracche e grotte243. La zona est di Roma è nota per i borghetti e le
baracche anteguerra, il Pigneto fu infatti una delle zone in cui il fenomeno ebbe più
risonanza:
«[…] intorno alle vie Prenestina e Casilina che è possibile riscontrare la miseria più
angosciosa: dagli anni ‘30 ci sono le baracche ufficiali delle borgate Prenestina e
Gordiani e negli anni ‘50 sono cresciuti tutt’intorno i baraccamenti nel cosiddetto
Borghetto delle Terme Gordiane, lungo i ruderi che fiancheggiano la via Prenestina, a
via Teano, al Borghetto degli Orti di Malabarba»244.

Un’altra questione riguardante le abitazioni di fortuna sono le baracche create nelle


arcate degli antichi acquedotti; come nota Italo Insolera, le periferie romane dopo gli
anni ‘50 si modificano repentinamente, passando dall’essere zone caratterizzate da
coltivazioni agricole e da baracche a schieramenti intensivi di cemento di molti piani e
questo fenomeno non risollevava le sorti dei baraccati ma spostava le loro precarie
condizioni di vita e le loro abitazioni solo di qualche chilometro 245. «Così la città è
avanzata sulla Nomentana, sulla Tiburtina, sulla Prenestina, sulla Casilina, sulla
Tuscolana, sull’Appia, sull’Ostiense, cioè in tutta la zona al di qua del Tevere»246.
Negli anni Sessanta del XX secolo furono quattro i fenomeni che colpirono
l’intera Roma dal punto di vista urbanistico: la progressiva dismissione delle fabbriche e
la conseguente riduzione del tessuto produttivo; l’inizio della terziarizzazione della
prima periferia storica; la riduzione di alcuni nuclei di baracche che furono sostituiti da
quartieri di alloggi popolari; la città fu investita da un imponente fenomeno di
abusivismo247. Le grandi fabbriche inserite all’interno della vita sociale ed economica
del Pigneto sono sicuramente la SNIA-Viscosa che si trovava sulla via Prenestina e la

242
ivi, p.207
243
ivi, p.209
244
ibidem
245
ivi, p.211
246
ibidem
247
ivi, p.279
105
fabbrica farmaceutica Serono, sulla via Casilina, e ancora il pastificio Pantanella,
adiacente a Porta Maggiore, che hanno connesso indelebilmente il tessuto urbano con le
attività di produzione e gli operai che vi lavoravano. Insolera parla della dismissione
produttiva dell’industria chimica Serono che era «in attesa di poter mettere a reddito la
posizione urbana del sito produttivo»; infatti, la fabbrica fu chiusa negli anni Ottanta e
la posizione centrale fu sfruttata per la costruzione di un albergo di lusso inaugurato nel
2011.248 Come vedremo, la cessione dell’istituto farmaceutico Serono ha messo in moto
il Comitato di Quartiere Pigneto-Prenestino e diversi attori locali al fine di ottenere una
mediazione con la proprietà e di attuare un piano di intervento condiviso che snaturasse
il meno possibile la zona e che restituisse alla collettività degli spazi comuni.
Nel suo saggio Voci sulla pietra: il quartiere Pigneto a Roma (2005), Giovanni
Attili, in quanto urbanista, effettua una descrizione sensibile, dettagliata e condivisibile
del quartiere a cui decise di dedicarsi:
«Il Pigneto è un groviglio disordinato di casette incastonate tra vie di grande
scorrimento. Case su case, che accedono ad altre case. Porzioni di dimore minute e
irregolari, cresciute su loro stesse. Meandri che aprono mondi. Bassi, baracche, villette e
palazzi in una ragnatela di vicoli che invitano ad entrare in una Roma che non è più
Roma, ma un pezzo di Sud. Una proliferazione dell’abusivismo che il tempo ha
trasformato in un’opera d’arte: l’elogio dell’imperfezione, della creatività e del mo te
frego. Il Pigneto conserva il fascino di quelle case nate per caso, senza un pensiero
progettante e senza un disegno urbanistico in grado di ancorarlo a una carta topografica,
così e per sempre. E’ la seducente anarchia di chi è riuscito a inventarsi, momento per
momento, le condizioni di un abitare a misura d’uomo.»249

Nel saggio di Giovanni Attili affiora una rappresentazione bipartita del quartiere che
suddivide temporalmente il Pigneto tra giorno e notte: le descrizioni riguardanti il
mattino sono incentrate sul mercato e un’ideale comunitario, mentre quello che si
impone prorompente al calare del sole sono il silenzio e uno stato di sospensione e
attesa della luce. Quello che mi si è presentato alla vista negli ultimi mesi del 2018, è
una situazione diametralmente opposta: il mercato che sembrava essere il cuore pulsante
nel 2005, è invece oggi la resistenza di qualche bancarella, per lo più di frutta e verdura
e non esistono più i banchi fissi del mercato, poco altro ancora anima l’isola pedonale al
mattino, se non fosse per qualche studente che si reca nella biblioteca civica Goffredo
Mameli o per qualche cliente degli unici duo o tre esercizi commerciali che aprono al
mattino sull’isola pedonale; la notte, o meglio dalle 18.00 in poi, la situazione sembra

248
ivi, p.280
Attili, G., Decandia, L., Scandurra, E., Storie di città. Verso un’urbanistica del quotidiano,
249

Edizioni interculturali, Roma, 2007, p.31


106
capovolgersi, iniziano ad aprire tutti i locali presenti sull’isola, ad allestire l’esterno
delle proprie attività con tavoli, sedie ed ombrelloni ed è proprio da questo momento in
poi che la zona prende vita e la via viene attraversata ininterrottamente fino a tarda notte
dai tanti avventori della notte. I tredici anni intercorsi tra la mia osservazione e quella di
Attili hanno permesso, contrariamente a quanto sostenuto dall’autore, alla modernità di
intaccare anche al Pigneto, andando a sfaldare quelle tenaci relazioni di vicinato che
risultano predominanti nel saggio.
Senz’altro a Giovanni Attili non sfuggirono i primi segnali di gentrification, soprattutto
le parole di Attili vanno a confermare la mia iniziale ipotesi di ricerca, cioè quella di un
cambiamento di popolazione che sia avvenuto sulla base di un elevato capitale
simbolico e culturale e non su base prettamente economica:
«[…] la conformazione a isola urbana, il tessuto edilizio minuto e accattivante, la
vicinanza col centro, la memoria storica e cinematografica stratificata nelle strade,
l’immagine di una borgata popolare rifiorita, rendono oggi il quartiere oggetto di un
rinnovato interesse da parte delle classi medio-alte e dei gruppi sociali a elevato capitale
simbolico (professionisti, artisti, intellettuali ecc.). Simmetrica e contestuale appare la
volontà delle istituzioni di intervenire sulla riqualificazione edilizia del quartiere,
sull’arredo urbano e sulla dotazione di nuove e importanti attrezzature di scala locale e
sovra-locale (si prevedono centri congressuali, poli universitari e stazioni
metropolitane).»250

Le previsioni annunciate da Attili si sono parzialmente verificate: la stazione della


metropolitana, anche se con parecchio ritardo, ha visto la luce con la fermata della linea
C “Pigneto” e la fermata “Malatesta” poco distante; invece, il polo universitario non è
stato realizzato per il mancato raggiungimento di un accordo tra l’Università La
Sapienza e la proprietà dell’ex fabbrica SNIA-Viscosa; il centro congressuale è stato
completato in poco tempo ma non sembra riscontrare grandi successi, costruito
all’interno di un albergo con sede nell’ex fabbrica farmaceutica Serono che, sia per un
ingresso poco fortunato (via Casilina) e per un quartiere che finora non sembra prestarsi
a congressi e ad alberghi di lusso. Che quella della creazione del polo alberghiero di
lusso adiacente all’isola pedonale fosse un’iniziativa discutibile e completamente
dissonante dal contesto, è stato già sottolineato da Attili che discute di un Pigneto non
uguale al centro storico, nel quale non si possono, o almeno non si dovevano apportare
delle modifiche urbane in grado di snaturare il luogo, a favore di un’universale idea e
ricerca convulsa di modernità251.

250
ivi, pp.37-38
251
ivi, p.41
107
Usando come esempio la trasformazione in brand di città come Barcellona, che ha
barattato le logiche del vivere bene locale con l’immagine di una città per giovani e per
turisti, Franco La Cecla critica l’urbanistica che, secondo lui, ha privilegiato l’esterno a
scapito dell’interno, intendendo per «interno, un’identità di appartenenza, e un esterno,
quello che esse rappresentano a una scala più ampia e l’immagine imposta
dall’esterno»252. L’allontanamento dell’urbanistica dalla sua matrice umanistica e il suo
essersi avvicinata e mischiata sempre più con le amministrazioni governative ha causato
la perdita della consapevolezza che la città sia fatta da chi la abita e che l’urbanista non
dovrebbe calare dall’alto delle competenze tecniche disancorate dal vivere quotidiano.
Sempre con lo stesso spirito critico, da urbanista contro l’urbanistica, Enzo Scandurra in
una sezione del suo ultimo testo, dall’esplicativo titolo “Da disciplina del welfare a
complice del neoliberismo”, mostra i legami che intercorrono tra urbanistica e
gentrificazione:
«L’urbanistica in questi casi mostra il suo lato compiacente e sottomesso; facilita come
può e con ogni mezzo questa sbornia del consumo perché è un’occasione per la città.
Venti, trenta milioni di turisti l’anno attraversano le nostre grandi città, quale occasione
di guadagno è altrettanto augurabile? Peccato che anche in questo caso i circuiti turistici
sono gestiti da grandi compagnie che decidono gli alberghi, i percorsi, le cose da vedere
e quelle da non vedere. E l’urbanistica si piega (forse con compiacenza e soddisfazione)
a facilitare questo mercimonio osceno trasformando la città in vetrina, in un gigantesco
shopping center aperto a tutte le ore, notte compresa.»253

Quello che si evince dalle storie degli abitanti è un senso quasi di privazione
identitaria: si passa in pochi decenni da “nessuno abitava al Pigneto” a “tutti abitano al
Pigneto, anche quelli che non sono all’interno dei confini storici”; il rimarcare i confini
fa emergere un sentimento di appartenenza di cui si è stati privati, quasi derubati, al
punto da sentirsi inseriti all’interno di meccanismi di vendita promozionale di uno
spazio.

3.2. Il quartiere nell’immaginario collettivo e i riferimenti culturali condivisi

Esiste un’aura che prevarica i confini cittadini e si propaga per l’intera nazione:
del Pigneto hanno sentito parlare in molti, soprattutto negli ultimi venti anni. Si tratta di
una narrazione che corre su un doppio binario, uno positivo e l’altro negativo, che a

252
La Cecla, F., Contro l’urbanistica, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015, p.26
253
Agostini, I., Scandurra, E., Miserie e splendori dell’urbanistica, DeriveApprodi, Roma, 2018,
p.50
108
tratti si intersecano sulle pagine dei quotidiani nazionali. Esperienze vissute, reportage
giornalistici e una variegata letteratura scientifica, hanno contribuito alla creazione di un
quartiere che va a volte anche oltre la realtà effettiva; i pur nobili intenti hanno generato
una zona di Roma nella quale sembrerebbero coesistere esclusivamente movida,
intellettuali (veri o presunti), murales, Pasolini e poco altro. L’estrema sintesi, qualvolta
necessaria per scopi commerciali, tralascia il lato negativo dello storytelling, come
questioni legate alle speculazioni commerciali ed edilizie, la perdita di relazioni di
quartiere, le negative conseguenze che emergono dalla vita notturna e una mancata
effettiva integrazione multiculturale. Quest’ultima è anch’essa utilizzata dai più per la
promozione di un quartiere accogliente, dimenticando di ricordare la piccola
speculazione legata all’affitto di ex scantinati agli immigrati senegalesi che, ancora
oggi, condividono in molti pochi metri quadrati sulla circonvallazione Casilina e le vie
adiacenti, o ancora l’offuscarsi del ricordo di qualche raid razzista a scapito di
negozianti bengalesi e indiani.
Per le strade di questo quartiere ho portato con me il racconto che mi era giunto
precedentemente; non è stato semplice accantonare quegli elementi chiave che fanno si
che il Pigneto sia Pigneto e che quindi dominano nell’immaginario collettivo. Lo sforzo
fatto è stato quello di cercare di vedere anche il retroscena, di creare una narrazione
propria che andasse oltre le descrizioni di Airbnb e dei quotidiani e che fosse svincolata
da retoriche legate alla volontà di profitto.
Quando parlo di narrazioni e retoriche, oltre alla guida al Pigneto di Airbnb riportata nel
capitolo precedente, faccio riferimento alla stampa nazionale e locale. Riporto in ordine
cronologico alcuni titoli in grado di chiarificare il concetto al quale faccio riferimento:
«Pigneto, aria di village», la Repubblica, 5 maggio 2007; «Il Pigneto dipinge la sua
storia: la street art e la vita del quartiere», la Repubblica, 18 aprile 2015; «Pigneto
Village il quartiere dell'anno dove Roma rinasce ed è tutta da scoprire», la Repubblica,
7 luglio 2017. Nella stampa internazionale il Pigneto appare in due articoli con titoli
esplicativi: «In Rome, an Enclave of Cool»254 e «Visiting Rome’s Brooklyn—Hipsters,
Tattoos, and Strollers in Bars»255, rispettivamente pubblicati da The New York Times e
Vanity Fair. Inoltre, sono molto interessanti le recensioni che si trovano su TripAdvisor;
tra le recensioni di un noto locale della zona, un utente scrive: «Un angolo di Greenwich
Village al Pigneto». Il riferimento al Greenwich Village porta con se un sottotesto
254
https://www.nytimes.com/2014/03/23/travel/in-rome-an-enclave-of-cool.html?_r=3
255
https://www.vanityfair.com/culture/2015/09/brooklyn-of-rome-pigneto
109
culturale ben connotato: quartiere bohemienne, quartiere dove si sono riuniti negli anni
Sessanta del Novecento scrittori, artisti, musicisti, in fuga dalla New York conformista e
capitalista, e quartiere per eccellenza gay friendly, visto che proprio da lì iniziò il
movimento di liberazione omosessuale. Questa recensione, come molte altre, dimostra
una chiara idea di quello che è o di come si vorrebbe che fosse il Pigneto: insieme di
liberi professionisti, Creative index, Gay index e Bohemian index, tutto perfettamente
allineato con l’idea di città espressa da Florida in L’ascesa della classe creativa (2002).
Questo atteggiamento è rintracciabile anche nei siti web di locali, alberghi, ristoranti,
negli appartamenti messi in affitto su Airbnb, un esempio in grado di dimostrare bene
quella modalità e tipologia di racconto a cui alludo è la pagina online di un B&B in cui
è possibile leggere: «Intenso, storico, trendy. Nella Brooklyn di Roma, tra hipster,
mercati e nuovi trend.». Anche qui, e in molti altri casi ancora, c’è un paragone con
New York; a volte si parla del Pigneto come luogo di espressione della musica
indipendente italiana, per i diversi locali dove si esibiscono cantautori emergenti e
perché si vocifera che molti di questi artisti vivano proprio in zona, e per questo e per i
murales qualcuno azzarda un paragone con Berlino.
Esiste, come in tutte le cose, l’altra faccia della medaglia e anche questa è apparsa nella
cronaca nazionale, cioè il lato negativo della movida che, oltre ad una perdita
identitaria, ha portato nella zona grandi problemi con lo spaccio e arrecato ingenti danni
alla sicurezza e alla tranquillità della popolazione. Le testate giornalistiche che si fecero
portatrice di questo disagio furono molteplici: «Pigneto, la rivolta contro la movida
“Stop all’apertura dei nuovi locali”. I residenti: “Il quartiere è invivibile, di notte pochi
controlli.”», la Repubblica, 24 maggio 2009; «Movida selvaggia e droga, il Pigneto si
ribella», il Messaggero, 20 giugno 2013.
Nei mesi trascorsi al Pigneto mi sono imbattuta in una nuova forma di visite
turistiche, qualcosa al di fuori dal semplice gruppo che è accompagnato da una guida
alla ricerca dei maggiori monumenti in diverse città italiane ed estere. Contrariamente al
resto della città, facendo riferimento in particolar modo a quella racchiusa all’interno
delle mura antiche, al Pigneto non troviamo monumenti storici, al di fuori degli
acquedotti e delle architetture religiose. Accade però che capiti anche per le strade di
questo fazzoletto di vicoli di imbattersi in gruppetti organizzati, preceduti da un capo
fila affannato ad illustrare le case di fortuna del dopoguerra, a fare uno “slowtour
pasoliniano”, alla ricerca di murales, sui passi dei numerosi film ambientati al Pigneto, e

110
chissà quant’altro ancora. Ho quindi scoperto la messa a profitto del suolo, le visite
urbane nelle periferie, tutto per la volontà di allontanarsi dai percorsi turistici canonici e,
con immenso stupore, anche le visite guidate a tema gentrification.
L’associazione culturale Ottavo Colle da anni ormai organizza incursioni urbane a
Roma, soffermandosi principalmente in quei territori non centrali ed inesplorati dal
turismo di massa. Come ho appena anticipato, sono state le visite guidate nei quartieri
gentrificati a sorprendermi maggiormente e, proprio per questo motivo, ho contattato
Irene Ranaldi, sociologa urbana e presidente dell’associazione culturale che si occupa di
questi tour. Ho chiesto ad Irene semplicemente di illustrarmi in cosa consistesse e le
modalità di svolgimento di una passeggiata nel Pigneto gentrificato, la sua riposta è
stata:
«Si tratta di passeggiate in cui parlo della tematica e delle botteghe scomparse
per lo più».
Se da una parte è apprezzabile lo spirito critico, la riflessione sul tema che può scaturire
da queste visite e la possibilità di sensibilizzare i visitatori, dall’altra appare una pratica
anch’essa turistizzante e che esperisce il quartiere proprio perché vetrina prodotta dalla
stessa gentrification. Un altro punto discutibile è la possibilità di prenotare alcuni di
questi tours su Airbnb256, notoriamente la piattaforma più discussa su tematiche come la
snaturalizzazione del tessuto urbano e la perdita di affitti di lunga locazione in favore di
quelli brevi.
Anche i numerosi murales in cui è possibile imbattersi durante una passeggiata
sono uno dei pochi motivi che spingono i non residenti e i turisti ad andare oltre Porta
Maggiore, attirando così visitatori amanti dell’arte urbana. I murales sono quelli che la
signora Marta definisce «un’altra nostra croce, perché una cosa così bella è diventata
anche quella merce. Le visite guidate che si fanno qui, con questi che spiegano…» e la
chiara espressione facciale di insofferenza e disappunto è inequivocabilmente
esplicativa del pensiero della donna a riguardo di questo nuovo modo di esperire e
concepire il “museo-Pigneto”.
Questo chiaramente implica una nuova modalità di fruire l’arte che comporta
l’istituzione di associazioni che si propongono come guide turistiche esperte della zona
e della forma d’arte in questione, spingendo conseguentemente ad una riflessione sulla

256
https://www.airbnb.it/experiences/405811?_branch_match_id=603891224866286826&fbclid
=IwAR20FAm2TJBryYSIB_vA90jVJBYuCT1frr6vqLzcaH9PGNsZf0V3D8s91WM&s=3&use
r_id=4723734
111
museificazione e la mercificazione di vie e palazzi. Non è raro per esempio imbattersi in
tour organizzati allo scopo di scovare per strada dei murales; oltre alle varie
associazioni nate con questo scopo nel corso degli anni, è lo stesso sito turistico
ufficiale del Comune di Roma a dedicare un itinerario dal nome “STREET ART AL
PIGNETO E TORPIGNATTARA”257, indicando i nomi degli artisti e le vie in cui sono
state eseguite le opere. Nella pagina web sopracitata si parla di un progetto del 2015 nel
quale l’associazione Wunderkammern chiamò degli urban artists internazionali al fine
di realizzare delle opere sui muri dei limitrofi quartieri; è possibile apprendere sempre
sul sito turistico che:
«Artisti contemporanei di grande rilievo rappresentano così principali agenti di
un processo di rinnovamento urbano, che è anche sociale e culturale, a beneficio
in prima istanza della comunità locale.»
Non si vuole in alcun modo criminalizzare gli street artists, ma appare oltremodo
inverosimile che un miglioramento di tipo sociale e culturale possa passare attraverso
questo tipo di iniziative, soprattutto in zone in cui, come già visto e come verrà ancora
esemplificato, si dispiegano molte contraddizioni; oltre al fatto che l’aver specificato “in
prima istanza alla comunità locale” vuol dire che già ci sia una consapevolezza sul fatto
che questo tipo di interventi abbiano un fruitore altro rispetto all’abitante del quartiere.
Invece, si può chiaramente parlare di un processo di rinnovamento ma che, nonostante
non fosse l’intenzione di nessuno dei soggetti che ha promosso o effettuato l’arte
urbana, solleva delle perplessità inerenti alla speculazione che può celarsi e mettersi in
moto da un atto apparentemente inoffensivo come la decorazione di un muro o di un
palazzo. In via Pavoni, sul prospetto laterale di un palazzo, c’è un bel murale di Etam
Cru, duo di writer polacchi, che nei trentadue metri di altezza in cui si sviluppa raffigura
un uomo che beve un caffè all’interno di un bidone della spazzatura; l’iconografia
dell’opera suggerisce da una parte un messaggio di speranza e di una comunità solidale
che si riflette in una tazza di caffè fumante, mentre dall’altra si intravede una critica alla
società contemporanea, alla marginalità sociale e un chiaro riferimento alla condizione
degli homeless. Il messaggio positivo che emerge dall’analisi dell’opera ha comunque
innescato un dubbio in chi, nella parte in basso a destra del murale, ha scritto con una
bomboletta spray: “LA VOSTRA ARTE ALZA I NOSTRI AFFITTI”; è comprensibile
che il gesto possa non essere stato compreso e che abbia sollevato critiche per aver

257
http://www.turismoroma.it/itinerari-a-tema/street-art-a-torpignattara
112
intaccato una parte della figura, ma è altrettanto lecita la preoccupazione espressa nel
graffito: infatti, è ormai noto il processo che si innesca innalzando i prezzi degli stabili
su cui è stata impressa la firma di uno street artist famoso.
A questo tipo di arte sostanzialmente anarchica e pubblica, che nasce per contrapporsi al
monopolio illegittimo dello spazio urbano, come accade in qualsiasi ambito,
corrispondono alla pratica, da parte delle amministrazioni locali e nazionali, due
risposte diametralmente opposte: quando si tratta di giovani writer che scrivono sui
muri delle città di tutto il mondo per esempio per delimitare un territorio viene attuato
un atteggiamento ritorsivo e persecutorio in nome di ordine e pulizia pubblica; invece,
nei pochi casi in cui le immagini attirano l’attenzione dei mercati e di galleristi si arriva
alla sponsorizzazione dei graffiti da parte delle amministrazioni, con la messa a
disposizione di muri franchi, con una diretta collaborazione remunerata con l’ente locale
o ancora con l’istituzione di mostre sui graffiti.258 E’ opportuno segnalare anche la
distinzione che intercorre tra i writers e gli street artists: i primi marchiano i muri senza
alcuna autorizzazione e si esprimono in netta contrapposizione con le istituzioni, quindi
è impossibile per loro immaginare una mediazione che li faccia operare all’interno del
mercato dell’arte; invece, i secondi sono più difficili da categorizzare, in quanto
agiscono mossi da visioni differenti: alcuni considerano il proprio operato provocatorio
e illecito, mentre altri si prestano per farsi promotori dell’arte urbana e quindi sono
disposti a mediare con associazioni ed enti locali259.
In via del Pigneto, di fronte l’uscita della fermata della Metro C Pigneto, c’è un grande
palazzo color ocra su cui è stato realizzato il primo murale pubblicitario italiano, curato
da MURo (Museo Urban Art Roma) e firmato dallo street artist Luca Zamoc. Il dipinto
è stato commissionato da Netflix per la promozione della serie TV Suburra, lanciata
dalla piattaforma il 6 ottobre 2017; l’artista ha scelto di rappresentare la lupa capitolina
con tre raffigurazioni dei tre grandi poteri di Roma, lo Stato, la Chiesa e la criminalità,
vicini alle mammelle dell’animale, allo scopo di enfatizzare il concetto di corruzione.260
Non è chiaro come mai sia stato scelto proprio il Pigneto per la prima opera di
pubblicità muraria in Italia, probabilmente il MURo ha trovato nella zona una certa
continuità con l’arte urbana che già da molti anni anima il quartiere. David Daviù

258
Dal Lago, A., Giordano, S., op. cit., 2018, p.7
259
ivi, pp.28-29
260
https://video.corriere.it/netflix-lancia-nuova-serie-suburra-un-murale-pigneto/5a24f22e-b594-
11e7-8b79-fd2501a89a96
113
Vecchiato, coordinatore del progetto commissionato da Netflix, si è occupato anche di
affrescare il Nuovo Cinema Impero su via dell’Acqua Bullicante, con dei ritratti di Pier
Paolo Pasolini, Mario Monicelli, Anna Magnani e Sergio e Franco Citti, per omaggiare
questi celebri nomi della cinematografia italiana che scelsero il quartiere come set.
Michele mi parla di un’operazione di restayling attuata al solo scopo di coprire la
speculazione edilizia in corso, perché i cinema presenti al Pigneto e a Torpignattara,
tutti di un unico proprietario, sono stati investiti da progetti di cambiamento di
destinazione d’uso; i cinema presenti in zona sono stati sostituiti per esempio da dei
bingo, da spazi artistici, in cui vengono fatti corsi di danza e di teatro. Il cambio di
destinazione d’uso non rappresenterebbe un grosso problema, se ci fosse una libera
fruizione dello spazio e la promozione di un’offerta culturale reale; quello che ha
sollevato clamore è stata la sostituzione di diversi cinema e la loro trasformazione in
residence. Il cinema Impero, dove sono stati fatti i murales di M.U.R.o, fa parte della
stessa proprietà immobiliare, si tratta architettonicamente di un presidio unico, di cui
esistono soltanto due esemplari, il primo in via di Torpignattara e il secondo ad Asmara
in Eritrea; in piena linea con l’epoca e l’architettura fascista, fu scelto come nome
“Impero” in modo da sottolineare il periodo coloniale. Il cinema Impero fa parte di
quegli edifici abbandonati e successivamente investiti da un processo di
riqualificazione, dove attualmente vengono fatti laboratori di arti performative. La
riapertura del cinema e il riutilizzo dello spazio è stata possibile grazie al contributo del
comitato di quartiere “I love Torpigna” e associazioni culturali che hanno progettato la
realizzazione di una struttura che avesse come destinazione d’uso esclusivamente
attività culturali. La proprietà, la famiglia Longobardi, ha costruito alla via parallela al
cinema Impero, via Marranella, la costruzione di una palazzina di sette piani che però è
risultata abusiva.
Un altro esempio lampante è quello dell’ex cinema Diamante, ora Spazio Diamante,
sulla via Prenestina, che da cinema è diventata “Accademia delle arti performative”,
citando quello che si legge sull’insegna, e per finire, grazie alla delibera comunale che
prevede che solo una percentuale degli ex cinema abbandonati sia destinata a finalità
culturali, è diventato un residence per studenti abbienti e sovvenzionato dalla stessa
Università La Sapienza261.

261
https://web.uniroma1.it/sssas/sssas/home/residenze
114
Sempre Michele mi racconta del cinema Cinema Preneste, occupato da giovani precari
per ostacolare la costruzione di un supermercato; la street art, ancora visibile nel
palazzo in via Alberto da Giussano 59, è stata promossa e fatta dagli stessi occupanti
che hanno voluto raffigurare dei super eroi. L’occupazione di questo cinema si poneva
in continuità con le altre occupazioni dei cinema chiusi e abbandonati a Roma, come il
nuovo cinema Palazzo a San Lorenzo per esempio; lo scopo di queste occupazioni era
quello di fornire soluzioni abitative a studenti e giovani in condizioni precarie, collettivo
“Generazione P” dove P sta per precari per l’appunto. L’ex Cinema Preneste è stato
sgomberato nel giugno del 2015 per motivi di sicurezza, ma ancora oggi risulta
transennato e chiuso, nonostante il proprietario avesse parlato di progetti pronti in grado
di fornire una riqualificazione all’area262.
Michele è senza dubbio l’abitante del Pigneto con cui ho parlato di più e che mi
ha offerto più spunti di riflessione, sintetico e con le idee chiare. Quando gli ho chiesto
cosa pensasse dei murales e soprattutto dei tours turistici la sua risposta è stata
lapidaria: «Abbatterli con il piccone!». Un’altra volta invece mi disse «A me, come
abitante, che me frega che ce stanno i murales?!». La sua opinione può chiaramente
essere condivisa o meno ma la cosa che più mi interessava sapere da lui, come militante
del C.S.O.A Ex-Snia e tra gli organizzatori del festival annuale “Logos Festa della
Parola”, era il perché in occasione dell’evento del 2017 fu chiamato Blu a dipingere un
muro esterno del centro sociale sulla via Prenestina:
«Il loro obiettivo è quello di ammiccare al turismo sia interno, cioè proveniente
da altri quartieri, che esterno, internazionale o di altre città, in zone come il
Pigneto, Torpigna e Quadraro, che hanno il loro fascino e loro ci fanno ‘sti cazzo
di interventi.
I "nostri" dipinti di Blu e altri che per bellezza e notorietà vengono anche inseriti
nei tours turistici sono un racconto di resistenza e di conflittualità a questo
meccanismo di mercificazione. La SNIA-Viscosa è sempre stato un atelier a
cielo aperto, ci sono ancora pezzi del ‘92, poi pian piano sono arrivati artisti
veramente muralisti. Per noi è sempre stata una forma di libera espressione,
prima che arrivassero le gallerie d’arte, ecc., poi ci siamo posti il problema e
abbiamo creato discriminanti su ciò che era lecito oppure no. L’espressione di un

262
https://roma.corriere.it/roma/notizie/cronaca/11_maggio_5/teatri-cinema-occupati-cultura-
periferie-190575875014.shtml ; http://www.fieradellest.it/ex-cinema-preneste-sgomberato-
occupanti-in-rivolta-nascera-un-centro-commerciale/
115
gesto di rottura, come i tag considerati deturpazione dell’ambiente urbano, fanno
parte di un’espressione artistica, della comunicazione metropolitana da
sempre… rispetto alla logica del decoro abbiamo sempre preso una posizione
opposta. A noi da più fastidio la pubblicità ovunque per esempio, che
l’espressione di un ragazzo del quartiere…
Blu ha deciso di stare sulla Prenestina all’interno di un discorso di
riconoscimento di un luogo e di una storia di accoglienza che lui conosceva, i
Braccianti di Rosarno che si rivoltarono nel 2010 per esempio che sono stati alla
SNIA, una storia di schiavitù, di un sistema che poi frana e non regge più e che
poi ci si può liberare. Noi gli abbiamo dato la parola “rivoluzione” che era quella
di Logos dell’anno scorso e lui l’ha interpretata così.
Hai presente la piazza dove facciamo il 25° aprile? Lì c’è un murale fatto da
Aladin263 che ha dipinto partigiani, NO MOUS, NO TAV, e guerrigliere curde e
racconta la storia del quartiere e le battaglie in cui si riconosce. Quello è
qualcosa che è stato ragionato e sentito.
Questo è contro una narrazione finta, come lo è stata la ricostruzione storica
della memoria dei partigiani e degli antifascisti, oltre al percorso che prevede i
passaggi nei luoghi significativi, delle case dove abitavano, è stata fatta una
rivendicazione per dedicare i giardini e la biblioteca a loro… la piazzetta a
Persiani e Nucciatelli, il giardino Galafati, la sala della biblioteca ad Atzori e il
centro documentazione sopra a Maria Baccante… Questa narrazione, intervento
e comunicazione è diversa, è un tour diverso, oltre al percorso turistico di merda,
la grande storia calata in un percorso di vita reale, dove gli antifascisti vivevano,
è la vita del quartiere.».
E’ chiara dunque la polivalenza dell’urban art: al Pigneto, in un piccolo territorio, si
verifica la commistione di un’arte muraria istituzionalizzata, per esempio quella
commissionata dalle grandi multinazionali, e di un’arte di contrapposizione e conflitto,
dove chiaramente in Italia non c’è street artist più impegnato di Blu contro la
speculazione e la messa a profitto dei graffiti. E’ ottobre 2017 e a pochi metri di
distanza, con scopi chiaramente differenti e con committenti all’antitesi, Blu e Luca
Zamoc stanno eseguendo i propri murali, il primo volontariamente lontano dai riflettori
e dal clamore mediatico che è stato invece riservato al secondo. Non è né un processo
263
Il suo murale è stato fatto in occasione del 70° anniversario della liberazione dal
nazifascismo. Il titolo dell’opera è “La Resistenza, ieri oggi domani; Partigiani sempre”.
116
all’individuo e né alla scelta, è semplicemente la volontà di evidenziare come quella di
Blu sia una storia di resistenza, di fedeltà al graffitismo e alle tematiche.
Le passeggiate nelle periferie, le passeggiate alla scoperta dei murales, le
passeggiate alla ricerca di un’aura che sappia di popolare e passato, diventano un
tutt’uno al Pigneto. Infatti, in via Fanfulla da Lodi ci sono ben tre murales dedicati a
Pier Paolo Pasolini: uno che ritrae un occhio dell’intellettuale friulano, un altro che lo
vede raffigurato con una maschera da supereroe con su scritto «Io so i nomi»264 e
l’ultimo è un omaggio al film Il vangelo secondo Matteo (1964) ed è stata rappresentata
la Vergine Maria. Nella stessa via c’è il locale Necci dal 1924 che, come detto
precedentemente, ha creato una linea di merchandising dedicato a Pier Paolo Pasolini,
sfruttando il fatto che lo scrittore frequentasse il posto e perché l’esterno del bar fu
utilizzato per girare delle riprese di Accattone (1961), nonostante qualche abitante del
Pigneto affermi che per Pasolini il Pigneto era già troppo proletario ed operaio e che per
questo, nonostante le documentate frequentazioni di via Fanfulla da Lodi, preferisse
addentrarsi in altri quartieri per scovare i ragazzi di vita. Come è stato evidenziato da
Andrea Minuz, docente di Storia del Cinema presso l’Università Sapienza, nella sua
pubblicazione apparsa su Arabeschi – Rivista internazionale di studi su letteratura e
visualità265, titolata L’invenzione del luogo. Pasolini e il Pigneto, tra l’intellettuale, le
vie del quartiere e il film Accattone esiste un radicale e forte legame. Minuz riporta un
passo tratto dal libro pubblicato dal proprietario del Bar Necci dal 1924 e in vendita sia
all’interno del locale che reperibile anche online nella pagina web del bar-ristorante;
Massimo Innocenti, autore del volume fotografico Pasolini Pigneto. Il Bar Necci ai
tempi di “Accattone” e proprietario del locale, riferendosi al 1961, anno in cui è stato
girato il film, scrive: «Quell’anno per questo quartiere ha rappresentato una sorta di
anno zero. Da quel momento infatti le vie del Pigneto sono rimaste in qualche modo
legate alle scene della pellicola pasoliniana». Minuz, conoscendo bene la zona, sa bene
che al Pigneto la mitologia pasoliniana si sia sviluppata di pari passo con la
gentrification, infatti scrive «Un’operazione immobiliare compiuta all’ombra della
memoria di Pasolini che ha trasformato il quartiere in una zona artistica con locali e
caffè alla moda»266.

264
La citazione è tratta dal pezzo di Pasolini “Cos’è questo golpe?”, apparso sul Corriere della
Sera il 14 novembre 1974.
265
Si fa riferimento al 6° numero pubblicato dalla rivista, luglio-dicembre 2015.
266
http://www.arabeschi.it/3-corpi-e-luoghi-35-linvenzione-del-luogo-/
117
La critica sull’eccessivo legame Pasolini e il Pigneto è ripresa da Michele Masneri nel
suo articolo Pigneto’s way pubblicato su Il Foglio l’8 dicembre 2014. La questione che
emerge è il forzato e neanche troppo celato marketing, sponsorizzato per fini
commerciali, in tutta la zona e in particolar modo da alcuni locali. Il Bar Necci dal 1924
risulta chiaramente il capofila di questa tendenza promozionale:
«Meno bambini invece nell’altro avamposto della rive gauche pigneta, Necci, che da bar
scrauso ha messo su negli anni una filiera a chilometri zero tra bar, gastronomia,
ristorante, tutto fondato sul mito pasoliniano; sul menù, tra la pizzella napoletana (2
euro), la calamarata all’amatriciana di tonno fresco (13 euro) e l’insalata con cuore di
burrata (10 euro) c’è la frase “Io so i nomi”, tipo slogan commerciale, “la natura di
prima mano”, e una bella foto del Poeta che qui tenne i famosi casting per “Accattone”:
e chissà se gli eredi Pasolini almeno prendono una parte dei diritti, e chissà che ne
penserebbe il poeta estinto, magari socializzerebbe con tutti questi pischelli che non
stanno più a via Fivizzano a truccare i motorini ma stanno invece qui da Necci coi loro
iPhone e la loro Moleskine, e si indebitano per comprare le biciclette pieghevoli
Brompton, vendute col finanziamento al negozio Zio Bici267.»268

Il Bar Necci dal 1924 ormai non è più soltanto un bar-ristorante ma il gruppo
imprenditoriale si è espanso, aprendo, nel giro di pochi metri, una panineria e una
gelateria. Le descrizioni di Minuz e Masneri possono sembrare eccessive ma la
mitologia pasoliniana esiste davvero nel locale ed è visibile subito. E’ presente nel
cartonato raffigurante lo scrittore in abbigliamento sportivo che si trova appeso nel
muro esterno del ristorante e che con sguardo fiero domina sugli avventori che sostano
in giardino; sono testimonianza del legame tra bar e intellettuale le foto d’epoca appese
alle pareti del locale che ritraggono Pasolini calato nel contesto; come lo è forzatamente
anche il libro Pasolini Pigneto. Il Bar Necci ai tempi di “Accattone”. Il punto è che si
tratta di un luogo completamente diverso, centro della movida romana, locale bello ma
avulso dal contesto, con un giardino curato dove si trovano le panche in legno, dove
ragazzi leggono libri e lavorano ai loro Macbook e le loro teste sono sovrastate da lucine
dorate che si estendono da ramo in ramo. Tutto molto bello ma rappresenta
perfettamente nell’immaginario uno stereotipato locale hipster di Brooklyn, Shoreditch
o Kreuzberg.

267
Zio bici è un negozio che vende biciclette, un’officina per biciclette e ancora, da come si
legge nella pagina web, «una camera di conversazione, una sala da the, un piccolo circolo di
ciclisti di paese o un popolare club metropolitano di stampo britannico, la stanza sul retro di una
bar dove si ritrovano i vecchietti, il bancone di un caffè dove chiacchierano i ragazzi, la
piazzetta dove si vedono gli amici». Il tutto, chiaramente, gestito da un simpatico hipster con i
baffi a manubrio.
268
https://www.ilfoglio.it/articoli/2014/12/08/news/pignetos-way-79092/
118
Seguendo la logica del decoro promossa dall’associazione, anche Retake Roma
insieme agli hosts di Airbnb creò un’iniziativa che fu realizzata il 18 novembre 2017
proprio al Pigneto. Come già detto nel capitolo precedente furono molti i cittadini del
quartiere che si opposero all’iniziativa, proprio perché non condividevano il messaggio
incarnato nell’azione di pulizia di manifesti e scritte nei muri dell’isola pedonale. Tra gli
altri mi colpì una lettera scritta dalle socie della libreria e bar Tuba, pubblicata da Roma
Today, e per questo decisi di parlare con loro per avere un racconto più dettagliato
dell’evento. Conosco quindi Beatrice, una delle undici ragazze di Tuba, che scrisse la
lettera che avevo trovato pubblicata sul quotidiano online; lei mi legge la versione
integrale, prima di spiegarmi per bene cosa la spinse a contattare direttamente la sezione
riservata agli hosts di Airbnb:
«Salve,

siamo le socie della Tuba srl, una delle attività commerciali dell'isola pedonale del
Pigneto. Vi scriviamo in merito all'iniziativa promossa da airbnb al Pigneto per
esprimere il nostro disappunto per due motivi: il primo è l'immagine del nostro locale
usata come sfondo per promuovere un'iniziativa a cui non vogliamo essere in nessun
modo collegate. La seconda riguarda il fatto che nel vostro testo parlate del
"coinvolgimento" dei locali dell'isola pedonale: a noi nessuno ha mai chiesto niente e
non vogliamo che le attività commerciali vengano nominate come supporter
dell'iniziativa: se ci sono attività specifiche che hanno dato il loro sostegno,
immaginiamo che saranno felici di vedersi nominate.

Siamo molto critiche rispetto a iniziative "anti degrado" pensiamo di vivere in quartiere
complesso, ma dove la qualità delle relazioni è alta ed è questo che lo rende
eccezionalmente accogliente. Proviamo ogni giorno con il nostro lavoro a promuovere
una convivenza tra persone e culture diverse. Ci piacciono i muri pieni di manifesti, ci
piace che i giovani escano la sera, ci piace il rumore, ci piacciono le persone che si
radunano in piazza e un sacco di cose che gruppi come retake considerano "degrado".
La retorica del degrado viene spesso utilizzata nel discorso pubblico di questa città per
marginalizzare chi è diverso, o, peggio, contro chi è povero, e noi invece siamo un posto
che accoglie e festeggia la diversità.
Non pensiamo di avere bisogno di essere "riqualificate" e troviamo offensivo che usiate
un'immagine della nostra attività per illustrare un'azione di questo tipo.

Tuba è un bar libreria gestito da donne, siamo un punto di riferimento culturale per
Roma, siamo un posto molto amato dalla comunità LGBT, ogni anno organizziamo più
di 50 iniziative in libreria e molto spesso in piazza. A settembre abbiamo organizzato
inQuiete un festival letterario che ha portato sull'isola pedonale più di 5000 persone in
tre giorni. Airbnb è una società di avanguardia, perchè invece di portarci scope e palette,
non ci portate invece arte, cultura e gioia? Questo si che migliorerebbe le vite di tutti e
tutte.

Vi ringraziamo per la cortese collaborazione,

119
Tuba SRL».

Come emerge chiaramente dal testo, una foto della libreria Tuba fu utilizzata come
immagine promozionale dell’evento e le proprietarie rimasero sorprese poiché, senza il
loro consenso, venisse utilizzata la loro attività commerciale al fine di promuovere
un’iniziativa che ideologicamente non condividevano. Beatrice mi racconta di aver
scoperto per caso dell’evento promosso da Airbnb, mi dice che usa la piattaforma per
affittare una settimana al mese una stanza di casa sua e proprio per questo le arrivò un
messaggio da parte dello Staff Airbnb che segnalava che altri hosts nella sua zona si
sarebbero riuniti quella domenica di novembre per pulire in muri che si trovano
nell’isola pedonale. La risposta di Airbnb alla lettera delle socie di Tuba, inviata
privatamente tramite il servizio di messaggeria offerto dalla piattaforma, spiegava che il
loro appoggiare iniziative dal basso, come quelle promosse da associazioni come
Retake, aveva il solo scopo di promuovere la cura dei luoghi per dare la possibilità di
viverli al massimo delle loro potenzialità, inoltre segnalavano l’eliminazione della foto
del locale come immagine promozionale dell’iniziativa.
«Quello che è successo dopo è stato che la domenica, una delle socie di Tuba, ci
ha inoltrato uno screenshot di Facebook, un commento su Facebook, in cui c’era
una foto a Retake che puliva la facciata di Tuba. Dicendoci: “Tuba che fai? Ti
fai ripulire da Retake?” una cosa del genere… Noi abbiamo reagito dicendo
“Che diamine! Ti mando un’e-mail, ti dico che non sono d’accordo, di non usare
la mia foto”, il fatto che tu ripulisca la mia facciata, io non credo che sia
necessariamente intenzionale, […] però a quel punto noi abbiamo pubblicato la
sintesi, la parte centrale, l’abbiamo pubblicata in forma di post. […] “Roma fa
schifo” ha ripreso il nostro post dicendo: “Queste signore si meritano un bel
linciaggio. Scatenatevi con le recensioni!”. […] Su “Roma fa schifo” è proprio
liberate i leoni! A noi è successo che una pagina che ha 57.000 followers
scrivesse “Attaccatele!” e noi che non avevamo idea che “Roma fa schifo”
avesse fatto questa cosa, ci sono iniziate ad arrivare sulla pagina di Tuba
commenti violentissimi. “Siete la merda!”, “Siete il cancro!”, “Vengo a buttare
l’immondizia a casa vostra”, anche delle punte di “Siete un covo di froci,
lesbiche, trans”, “Al rogo, meritate solo il fuoco”», cioè delle cose molto
violente, noi quelle che offendevano altre persone le abbiamo tolte, ne abbiamo

120
censurati tantissimi di commenti, lasciando quelli che in qualche modo davano il
segno di quello che stava succedendo, ma togliendo la roba troppo violenta.»
Beatrice mi racconta che in loro difesa, visto i livelli raggiunti dagli utenti dell’altra
pagina, siano intervenute anche personalità pubbliche da anni all’interno del dibattito
culturale romano, come Christian Raimo e Loredana Lipperini. L’intenzione del post
pubblicato dalle socie della libreria era quello di condividere con la propria utenza la
loro opinione riguardo l’evento, visto che involontariamente si trovarono coinvolte,
invece questo instaurò un meccanismo di condivisione di condivisione che raggiunse un
pubblico ben più ampio, abbastanza reazionario e pro-decoro come quello di “Roma fa
schifo”.
I concetti decoro e sicurezza camminano da anni di pari passo, la legge 125/2008
ha dato ai sindaci italiani il potere sul controllo del territorio e di intervenire in questioni
di riqualificazione e di miglioramento dell’urbano; molti sindaci, anziché generare
politiche sociali inclusive, hanno promosso interventi di controllo del territorio basate
su repressione, esclusione e paura269. Lo stesso Ddl Minniti, del 18 aprile 2017, rende
possibile l’applicazione di un Daspo urbano che concede ai sindaci la possibilità di
«espellere per 48 ore “chiunque ponga in essere condotte che limitano la libera
accessibilità e fruizione” di infrastrutture pubbliche o private, espellendole dalle aree
della città “su cui insistono musei, aree e parchi archeologici, complessi monumentali o
altri istituti e luoghi della cultura interessati da consistenti flussi turistici” senza nessuna
possibilità di ricorso giurisdizionale. In caso di reiterazione del reato gli “indesiderabili”
si ritroveranno a poter ricevere Daspo più lunghi (da sei mesi a due anni), ma in questo
caso contestabili davanti a un giudice. A questo tipo di diffide possono sempre
aggiungersi sanzioni amministrative di tipo preventivo quali l’obbligo di presentarsi
almeno due volte a settimana alla polizia o ai carabinieri, rientrare a casa entro una
determinata ora e di non uscirne prima di un’ora prefissata e divieto di allontanarsi dal
comune di residenza.»270.

Oltre alle istituzioni sono nati anche dei gruppi volontari che si occupano del
“problema”, come Retake, Onlus presente a Roma e Milano, che si occupa di
organizzare gruppi di volontari per la pulizia delle città.
«Alla base del loro pensiero è l’idea che il ripristino del decoro urbano sia la soluzione
al disagio cittadino: per i retakers il degrado è dato alle scritte sui muri, dalle cicche per
terra, dalle tag sui vagoni della metro, dai giardini sporchi, dalle bancarelle abusive,
dalle buche per strade e via elencando. Il degrado è, in altre parole, un fatto estetico.»271

269
Pisanello, C., In nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche securitarie, ombre corte,
Verona, 2017, p.41
270
ivi, p.53
271
ivi, p.46
121
I retakers promuovendo azioni di pulizia indistinte prendono la distanza e manifestano
un’insensibilità per problematiche sociali come la povertà (mendicanti, homeless,
venditori ambulanti), si allontanano dalle sottoculture (writers, tag e manifesti
autoprodotti) e dall’attivismo politico, rinnegando le occupazioni e l’attacchinaggio
abusivo272.
Del testo di Carmen Pisanello è particolarmente importante il terzo capitolo, poiché
analizza il rapporto che intercorre tra social network e la difesa del concetto di decoro,
in particolar modo il linguaggio utilizzato e le relazioni che intercorrono tra i termini
prescelti e il concetto di decoro promosso. Il caso di studio prescelto è proprio il blog
“Roma fa schifo”; nella ricerca che l’autrice ha effettuato sulla pagina Facebook nel
2016, ha raccolto le parole più utilizzate dagli amministratori e dagli utenti, che in
ordine erano: «affissioni; arredo urbano; sosta selvaggia; abusivismo; ambulanti;
bancarelle; commercio; graffiti; politica; polizia municipale; rifiuti; scippatori;
segnaletica; sporcizia». Per quanto riguarda invece le soggettività etichettate, oltre alle
forze dell’ordine, risultava costante la presenza di: «ambulanti; artisti di strada;
centurioni; nomadi; prostitute; rovistatori; senzatetto; tifoserie».
Il linguaggio utilizzato da “Roma fa schifo” e dagli utenti sia di Facebook che di Twitter
appare lontano da quello di un cittadino indignato per i disservizi; infatti, i toni
spingono verso una discriminazione rivolta contro segmenti di popolazione ai loro occhi
scomodi, in palesi condizioni di precarietà. Non viene mai criticata l’assenza di
adeguate misure di politiche sociali, il problema è in questa retorica reazionaria un
individuo fisico ben preciso o al massimo una categoria di individui: i poveri. «Come
per i migranti, anche i poveri vanno “aiutati a casa loro” e ricacciati nelle periferie»273.

3.3. Il ruolo della politica: dal ceto popolare agli hipster

Sembrerà forse forzato scomodare la politica, le leggi e i modelli di governo, ma


uno studio sul mutamento urbano e degli abitanti che in questo si riflettono e si
formano, non può esimersi dall’indagare le pratiche che hanno condizionato, sia a
livello locale che a livello nazionale, la trasformazione sociale e abitativa del quartiere
Pigneto. Non c’è stato interlocutore in questi mesi che non abbia ricordato due iniziative

272
ivi, p.48
273
ivi, p.82
122
politiche in grado di vincolare e influenzare il percosso intrapreso dal tessuto cittadino,
costanti sono stati infatti i riferimenti al cosiddetto “modello Roma” e alla legge del
2006 riguardante le liberalizzazioni.
Nel 2001 a Roma inizia, per ben sette anni, l’esperienza come primo cittadino di
Walter Veltroni; il periodo è ricordato da molti romani come la fase della grande
rinascita culturale della capitale. Ancora oggi capita di ascoltare spesso riferimenti al
“modello Roma” e per i non addetti ai lavori risulta anche difficile capire a cosa
l’espressione faccia riferimento: questo modello racchiude tutte le iniziative, promosse
sotto la giunta Veltroni, che hanno permesso l’attuazione di attività culturali e grandi
eventi urbani che, superando un modello politico considerato arretrato, avrebbero aperto
le porte all’innovazione e al modernismo. Aver scelto questa politica ha permesso a
Veltroni di godere di ottima reputazione in una consistente fascia di popolazione ma ha
inevitabilmente portato alcuni ad una riflessione più profonda su ciò che questi “fasti
romani” nascondano: diversi autori, studiosi di discipline differenti, hanno pubblicato
un testo dal titolo Modello Roma. L’ambigua modernità (2007) con lo scopo di fare
emergere le contraddizioni e i disagi sociali che il modello ha provato a nascondere con
abbellimenti274. Le tematiche messe in luce nei vari saggi che compongono il libro,
quali per esempio la questione abitativa, la terziarizzazione del lavoro che
inevitabilmente si riflette nelle trasformazioni urbane o ancora la speculazione
immobiliare, si focalizzano sulle contraddizioni apportate dalla modernizzazione. E’
quell’aspettato raggiungimento di progresso a cui le politiche nazionali hanno ambito e
che continuano a rincorrere a generare delle alterità e delle crepe rintracciabili nel
tessuto urbano; per gli autori del volume, alla povertà ben conosciuta nella città di
Roma si aggiunge «l’esclusione, l’indebolimento del legame sociale, delle regole di
convivenza civile, l’indebolimento e la ritualizzazione di una tradizione»275. La
modernizzazione, chiave della Roma che cerca di concorrere con le altre capitali
Europee, ha reso la città «una vetrina palcoscenico dove tutto è vendibile, dal territorio
all’ambiente, dai beni comuni alle istituzioni, dalle manifestazioni culturali a quelle di
solidarietà»276. Il lato oscuro del modernismo auspicato e raggiunto dal “modello
Roma” si è manifestato in un non neutrale risultato in grado di emarginare e tralasciare i

274
Amoroso, B., Berdini, P., Castagnola, A., Castronovi, A., Caudo, G., Cellamare, C., Ricoveri,
G., Rossi-Doria, B., Sartogo, V., Scandurra, E., Troisi, R., Modello Roma. L’ambigua
modernità, ODRADEK, Roma, 2007, p.7
275
ivi, p.8
276
ibidem
123
cittadini che non riescono a rispettare i ritmi imposti dal processo di rinnovamento; il
rischio sollevato nella pubblicazione è che l’inseguire eventi e mode porti ad una
cittadinanza incapace di produrre una discussione critica sulla città. Il saggio
introduttivo di Enzo Scandurra, docente di urbanistica all’Università La Sapienza di
Roma, si interroga di quello che è successo alla sua città natale durante i due mandati
Veltroni, con la consapevolezza di quanto sia stato allora, e a tratti lo sia ancora,
difficile criticare il “modello Roma”. La difficoltà di esprimere un parere negativo sulle
politiche perseguite dall’ex primo cittadino fu stabilita sia dalla stima riposta in Veltroni
da parte della popolazione ma anche dei suoi alleati di partito che, in quel mito del
modernismo, hanno riscontrato la capacità di eguagliare Roma alle grandi metropoli
mondiali per l’acquisita potenzialità di attrarre flussi finanziari e turistici globali, per la
messa a profitto dei monumenti e del centro storico e per aver ospitato grandi eventi
culturali277. Le critiche degli autori sono in realtà preoccupazioni legate alla messa a
profitto della città di Roma e alla perdita di relazioni tra cittadini: oltre ai grandi eventi,
quali Notte Bianca, Festival del cinema o le iniziative all’Auditorium, a destare
apprensioni sono la proliferazione di centri commerciali, le grandi multisale, i parchi
divertimento e gli outlet, che chiaramente vanno a minare la sopravvivenza delle piccole
attività commerciali, delle botteghe artigiane e dei mercati rionali, causando
inevitabilmente consumo di suolo e generando profitti esclusivamente per le
multinazionali278. Il testo suggerisce delle questioni negative legate alla rincorsa del
modernismo che emergono strettamente connesse alla gestione e alla convivenza nello
spazio urbano; al fine di costruire una connessione tra il “modello Roma” e la
gentrification è importante elencare alcuni punti critici che emergono nelle pagine
dell’opera collettiva: la difficoltà di integrazione di cui sono vittime persone che da
lontani punti del mondo si dirigono a Roma, incappando in condizioni di povertà e
sofferenza sociale; il secondo problema risulta collegato all’arrivo in città di nuove
gruppi sociali, con l’ingresso di personalità legate al mondo dello spettacolo, della
finanza, della politica, che comporta lo spostamento di cittadini da zone centrali alle
periferie; la questione urbanistica emerge con forza e si manifesta nella volontà dei
comuni di trasformare la città in luoghi dai quali estrarre risorse economiche; il carico
difficile da sostenere dei milioni di turisti che mensilmente occupano il centro storico di
Roma, sottraendo così spazi prima destinati agli abitanti; un ulteriore e importante tema
277
ivi, p.10
278
ivi, p.15
124
trattato è quello dell’emergenza abitativa, essendo una città con una costante
lievitazione dei canoni di affitto anche in periferia.
Dopo Veltroni, per quanto riguarda le questioni urbanistiche, non sembra essere
cambiato molto neanche con la giunta Alemanno: il “Modello Roma” lascia spazio al
“Laboratorio Roma”, che si pone in una quasi completa congiunzione con il modello
amministrativo precedente, essendo collegati da personalità che ricoprivano ruoli in
entrambe le legislature. La speculazione fondiaria, la dispersione urbana, la shock
economy da grande evento, cementificazione e il territorio sacrificato alla rendita e alla
speculazione immobiliare appaiono come linee di continuità tra gli operati dei due
sindaci di schieramenti politici differenti279. E’ la candidatura olimpica di Roma alle
Olimpiadi 2020 ad essere considerata da Alemanno e i suoi collaboratori come
strategica al fine di compiere una grossa riqualificazione ambientale e urbanistica; è il
grande evento quindi a fungere da copertura per la finanziarizzazione della
pianificazione pubblica280. Neil Smith sempre nel suo essay The Evolution of
Gentrification (2010) dedica l’ultima parte del saggio ai gradi eventi che, come le
olimpiadi o le fiere EXPO, sono diventati perfetti veicoli per aiutare ad orchestrare la
gentrification281.
Il decreto-legge n.223 del 04/07/2006 convertito in legge n.248 il 04/08/2006282,
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 186 dell’ 11/08/2006, anche nota come legge sulle
liberalizzazioni o legge Bersani-Visco, con particolare riferimento al titolo I “MISURE
URGENTI PER LO SVILUPPO, LA CRESCITA E LA PROMOZIONE DELLA
CONCORRENZA E DELLA COMPETITIVITA’, PER LA TUTELA DEI
CONSUMATORI E PER LA LIBERALIZZAZIONE DI SETTORI PRODUTTIVI” e
all’articolo 3 “Regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione
commerciale”, è la seconda misura politics alla quale viene attribuita una responsabilità
sia dei problemi che del periodo di grande auge vissuto dal quartiere. Del Titolo I e
dell’Art. 3 è interessante il mutamento apportato dalla legge nella somministrazione di
alimenti e bevande poiché non avrebbero più dovuto rispettare come limite «il rispetto
di distanze minime obbligatorie tra attività commerciali appartenenti alla medesima
tipologia di esercizio».

279
Berdini, P., Nalbone, D., op. cit., p.38
280
ivi, p.43
281
Smith, N., The Evolution of Gentrification, in Houses in Trasformation: Interventions in
European Gentrification, NAi010 publishers, Rotterdam, 2010
282
http://www.camera.it/parlam/leggi/06248l.htm
125
Il primo e il secondo modelli amministrativi citati e la legge sulle liberazioni
hanno fatto sì che, secondo gli abitanti, ci fosse una completa trasformazione sia
urbanistica che socio-culturale nella zona. Il mito del progresso promosso dalle
precedenti amministrazioni capitoline e soprattutto l’estrema terziarizzazione e
turistizzazione del centro storico, ha comportato un sempre maggiore allontanamento
della popolazione dai quartieri centrali e un’emigrazione interna alla città che si è
diffusa in maniera capillare, in un movimento che dal centro procede verso le periferie.
Da questa circolazione di abitanti emerge il problema legato alla casa, vendita o affitto,
e l’innalzamento dei prezzi degli immobili.
Al fine di verificare una corrispondenza tra queste politiche comunali e i processi di
gentrification, è stata contattato l’Osservatorio Immobiliare della Borsa Immobiliare di
Roma che ha fornito un documento con i valori del mercato dell’area romana di
interesse. Le quotazioni ricevute fanno riferimento a “Quartiere Q7 Prenestino Labicano
(Pigneto)”: il file excel raggruppa i dati raccolti dal 1997 al 2017; nel file è riportata una
differenziazione tra i “locali commerciali” e gli “appartamenti”; inoltre, gli immobili
sono suddivisi tra “I fascia”, con riferimento agli immobili comuni, e una “II fascia”,
cioè quelli di livello più basso e con situazioni disagiate. E’ stato consigliato di
considerare i valori della “I fascia”, poiché raggruppa quasi la totalità delle tipologie
presenti nel quartiere. Considerando esclusivamente la “I fascia”, dallo studio dei dati
raccolti dalla Borsa Immobiliare di Roma emerge una chiara e costante impennata dei
prezzi degli appartamenti che va dal primo quadrimestre del 2004, con un valore medio
compreso tra i 1550,00 € e i 2050,00 €, fino al primo semestre del 2011, in cui è stato
raggiunto il valore medio massimo di 3200,00 € al metro quadro. Dal picco del 2011 i
prezzi hanno subito un costante ribasso fino all’ultima rilevazione effettuata che
corrisponde al valore medio di 2500,00 € al metro quadro nel secondo semestre del
2017. L’iniziale aumento dei prezzi, l’innalzamento verificatosi dal 2004 al 2011, può
essere letto come una delle tangibili conseguenze della gentrification e la mia ipotesi è
stata confermata sia da Marta che da Alessio, infatti entrambi, nei rispettivi racconti,
parlarono dei primi anni 2000 come l’inizio del cambiamento di popolazione, ma ben
tollerato ed inglobato dal tessuto urbano preesistente.
«Intorno al 2004-2005 ci fu una grossa impennata dei prezzi a seguito della
grossa richiesta di immobile dovuta all’aurea che la giunta veltroniana aveva
calato sul quartiere… il village romano, il Pigneto green, ecc. Ci furono una

126
serie di politiche per incentivare aperture del compatto culturale; inizialmente
aprirono cineforum, librerie, caffetterie, studi fotografici, boutique, ecc. La
pedonale sembrava veramente un luogo dove potessero convivere gli abitanti
storici e i nuovi.» (Alessio).
Marta mi racconta dei suoi primi anni di esperienza all’interno del Comitato di
Quartiere Pigneto-Prenestino e facendo riferimento agli argomenti trattati durate le
assemblee settimanali si ricorda anche del periodo in cui si accorsero che qualcosa
stesse per cambiare:
«Io questo me lo ricordo benissimo perché è legato alla mia vita, è come quando
Emily Brontë in Cime Tempestose dà le date legate alla morte di una persona, al
matrimonio, date che segnano… Hai presente? Io ho il ricordo di me e di mio
marito, che poi è morto nel 2002, che venivamo qui; le prime volte era nel
‘99/2000 e c’era l’isola pedonale e i primi ristorantini carini già cominciavano.
E’ vero ce ne erano pochi ma già cominciavano, anche se era diversissimo da
adesso… […] Nel 2005 già avevamo cominciato a protestare perché le cose
stavano cambiando in peggio, certo non a questi livelli! Era molto bello
all’inizio, l’isola pedonale l’ha chiesta il Comitato di Quartiere perché voleva
una strada pedonale, senza il traffico. […] Nei primi anni 2000 c’erano dei
ragazzi che facevano vetrate artistiche, in via Macerata c’era una bottega del
commercio equosolidale, c’era un negozietto straordinario di un signore siciliano
che andava in Sicilia, comprava le cose e ce le riportava, prodotti strani! Cioè
questi piccoli negozi, c’era una libreria… e poi abbiamo notato che piano, piano,
non ce la facevano più e iniziarono a dover chiudere. Poi lo sai che in questa
zona c’è stato un periodo in cui qui non si poteva passare perché c’erano dei
ragazzi che vendevano droga alla luce del sole. Io personalmente mi chiedevo
ma perché fanno così? Si possono vendere le droghe in maniera più discreta, ma
anche per te stesso! Invece questi lo facevano così, volevano disturbare. La
dietrologia è un mio peccato! Ma queste persone hanno lavorato per cacciare via,
per rendere questo luogo poco appetibile; tante persone che vivevano qui sono
scappate addirittura! I negozi hanno dovuto chiudere, perché avevano di fronte
questi qui che urinavano, una cosa assurda, capito?! E sono andati via e poi
dentro sono arrivati quelli che ci hanno messo i locali, capito?! Questo era il
2008-2009. […] Una cosa che mi ricordo che è cambiata negli anni 2000 è la

127
crescita di scuole di musica. Prima non c’era assolutamente nulla, io mi ricordo
che la mia era a Testaccio... E hanno cominciato ad aprire, dove portavano i
bambini e anche i grandi e adesso ce ne sono parecchie nel quartiere. I luoghi
dove appunto porti i bimbi, come la ludoteca, no?! Fai teatro… Anche questo è
un tipo di cambiamento, no?! Ci si inserisce benissimo in questo filone. […] Sì,
ecco, le persone sono cambiate. Gli operai non ci stanno più, perché non ci sono
proprio più gli operai, sono sempre più pochi. Qui negli anni ‘50, ‘60 c’erano
quelli che costruivano le case, i muratori… I tramvieri e i ferrovieri erano già
un’aristocrazia operaia, cioè avevano una mentalità operaia ma erano diversi. I
poveracci erano quelli che lavoravano al mercato, oppure i muratori, o quelli che
facevano piccoli lavori come elettricista, idraulico, che non è come adesso…
Poi, le donne pure lavoravano… E poi qui c’erano tanti ladri: una
microcriminalità organizzata, piacevole, caratteristica, simpatici, che tra di loro
stavano bene! Era il loro regno! C’era un mondo qui intorno, guarda!» (Marta).
L’Infernotto, il ristorante-enoteca, al quale anche Marta ha fatto riferimento nei suoi
ricordi, è stato il primo locale ad aprire nell’isola pedonale nel 1994283.
Ora il quartiere, l’isola pedonale particolarmente, appare ben diversa dalle descrizioni:
non ci sono né librerie particolari e neanche negozi di artigianato pregiato. Sull’isola
pedonale, da quando si attraversa il ponte sulla ferrovia e si taglia verticalmente la
Circonvallazione Casilina, lo scenario che si offre alla vista sono quasi trecento metri di
via del Pigneto completamente saturi di bar e ristoranti, su entrambi i lati della strada (le
uniche attività commerciali differenti sono una farmacia, una piccola lavanderia e un
supermarket). Avendo trovato a settembre 2018 questo paesaggio non potevo esimermi
dal chiedere ad Alessio che cosa fosse cambiato, da quando da quella propulsione del
modello culturale si fosse passata ad una commercializzazione selvaggia:
«Con il Salva Italia di Bersani e le liberalizzazioni, la proposta culturale non ha
potuto competere con quella della somministrazione. Sull’isola aprirono un
locale dietro l’altro. Ci sono persone che gestivano attività di vicinato che
sostengono di essere state pagate per vendere… Parliamo sempre del 2009, in
piena bolla immobiliare. Fino al 2011 ci fu una situazione quasi gestibile,
movida ma ancora contenuta e non da cronaca nera. Poi, questa è una cosa che
possono confermare chi abitava lì in quel periodo, arrivò lo spaccio in una

283
Collettivo Malatempora, op. cit., p.10
128
modalità devastante… Risse, accoltellamenti, addirittura un morto, aggressioni
ai carabinieri e siringhe nelle vie limitrofe all’isola. E li crollarono i prezzi degli
immobili, perché dal 2011 al 2016 la situazione è stata completamente senza
controllo e contestualmente aumentò la richiesta dall’altra parte del ponte, sia
abitativa che commerciale. […] I locali nell’isola pedonale hanno portato uno
spaccio e una delinquenza che non si erano mai viste in quella modalità.
L’apparente sicurezza che c’è ora in quella zona sono frutto di una forte
operazione del penultimo questore, che ha impiegato due anni e moltissime
risorse per spostare il fenomeno altrove. Paradosso che una parte si sia spostata
dalla parte del Pigneto basso! Zona che è sempre stata tranquilla negli ultimi
venti anni… ma tranquilla anche rispetto alla media cittadina!».
L’apparente sicurezza a cui fa riferimento Alessio è dovuta alla presenza di polizia,
carabinieri ed esercito che a turno presidiano l’isola pedonale, pronti ad intervenire in
caso di disordini pubblici. La cosa che appare comunque inspiegabile è come mai,
nonostante una massiccia presenza di forze dell’ordine, di notte, per la stessa via del
Pigneto, come abbiamo visto strada al centro della vita notturna del quartiere, si
continui a spacciare sotto gli occhi degli agenti.
Nel 2016, da un’idea dell’Assessorato alla Crescita Culturale di Roma, in
collaborazione con l’assessorato all’Urbanistica e alle Infrastrutture e l’assessorato alle
Politiche culturali, sportive e giovanili, del V Municipio del Comune di Roma, nasce
“Co’ Roma. Percorsi collaborativi per decidere di cultura. Pigneto”.284 Il documento
della partecipazione fu redatto con lo scopo dell’avvio delle procedure di
aggiudicazione per la concessione a titolo gratuito del Nuovo Cinema Aquila, cinema
confiscato alla criminalità organizzata nel 1996 e che per diverse vicissitudine si è
ritrovato in una situazione di inattività fino alla stesura di questo documento. Tra gli
elementi di partenza analizzati è stata fatta un’analisi del quartiere dei mutamenti nel
corso degli anni; oltre ad un’analisi demografica, fu fatto un bilancio sociale (centri
anziani, asili nido, offerta formativa e culturale, ecc.), è il bilancio economico che è
sorprendente: soprattutto il dato riguardate la densità d’impresa, poiché ci sono quasi
2419 attività imprenditoriali ogni kmq contro le 282 in media nel resto di Roma.
«Nel settore terziario, in ultimo, sono le 2.143 attività commerciali (pari al 34,4% del
totale) a presentare nell’area l’incidenza maggiore, (di cui 1.481 esercizi di commercio

284
https://www.comune.roma.it/resources/cms/documents/CoROMADocumentoPartecipazione.
pdf
129
al dettaglio, pari al 24,5% delle imprese complessive); seguono 513 ‘Alberghi e
ristoranti’, che rappresentano complessivamente l’8,2% delle imprese registrate,
soprattutto per quanto riguarda la ristorazione (473 esercizi in valore assoluto).
Significativa infine la quota pari al 21,5%, di imprese registrate in ‘altri servizi’ (1.336
in valore assoluto). Infine, si ritiene opportuno evidenziare le 206 imprese legate alle
attività di trasporto , che costituiscono il 3,3%, e gli ‘Studi tecnici e professionali’, che
rappresentano il 2,5% delle imprese complessivamente registrate al Pigneto+ (di cui 46
imprese legate alla pubblicità e alle ricerche di mercato e 65 che si occupano di altre
attività professionali, scientifiche e tecniche).»

I 473 esercizi commerciale del settore della ristorazione registrati nel 2016, pari all’8%
di tutta gli esercizi economici in attività, risultano tanti, troppi, in un’area urbana vasta
225 ettari.
Nell’ottica della gentrification, riprendendo la definizione coniata da Ruth Glass,
e quindi considerando che «molti dei quartieri della classe operaia di Londra sono stati
invasi dalla classi medie» e che una volta iniziato il processo «in un quartiere, va
rapidamente a rimpiazzare tutta o molta parte degli originali abitanti della classe operaia
e va a cambiare l’intero carattere sociale del quartiere.»,285 è quello che è successo al
Pigneto nei primi anni 2000. Che ci sia stato l’arrivo di una borghesia intellettuale in
zona è stato possibile verificarlo attraverso i racconti di Marta e Alessio per esempio,
nei grandi titoli giornalistici che strillavano l’invasione di una middle-class vivace e
ancora i segni sono rintracciabili nella presenza di numerosi studi di liberi
professionisti, primi tra tutti architetti e ingegneri. Da un punto di vista teorico, dovendo
usare la suddivisione in ondate di gentrification, appare conforme, al fine di sostenere
quanto appena detto, menzionare la quarta “ondata di gentrification”, quella teorizzata
da Lees, Slater e Wyly: caratterizzata da etichette come “creatività”, “cultura”,
“innovazione”, “smartness”286 e inoltre, fa sempre parte della quarta e ultima ondata, la
speculazione immobiliare dei primi anni 2000, la quale portò ad un innalzamento dei
prezzi delle case e l’introduzione anche di progetti di rigenerazione urbana attuati dalle
politiche pubbliche287.
Dal 2006 però qualcosa è cambiato, si può parlare più di speculazione commerciale
anziché di gentrification: l’apertura continua e ciclica di ristoranti e bar nell’isola
pedonale, che oggi si è già espansa e continua ad espandersi anche al Pigneto basso,
nella parte al di là del ponte, con i seguenti problemi legati alla concentrazione di vita

285
Glass, R., op. cit., pp. xviii-xix, (traduzione mia)
286
Semi, G., ivi, p.97
287
ivi, pp.42-44
130
notturna in pochi metri quadri, ha comportato l’abbassamento dei prezzi immobiliari,
sia per l’impossibilità di condurre una vita tranquilla e lontana dagli schiamazzi ma
anche perché le narrazioni legate al giornaliero spaccio di droga riportarono un’area
cupa e di invivibilità nella zona.
Il saggio di Pietro Saitta, Gentrification o speculazione? Note analitiche sugli abusi di
un termine288, con la consapevolezza dell’abuso che viene fatto del termine
gentrification e l’erronea associazione a qualsiasi recente trasformazione e dinamica
urbana, è stato redatto per fissare l’utilizzo del concetto in presenza di «una popolazione
relativamente giovane, creativa, affluente, economicamente indipendente o quasi», la
presenza di «un’industria della cultura e di un terziario avanzato che agiscano
contemporaneamente come spazi di attrazione e consumo, e come settori di impiego di
questa stessa popolazione» e soprattutto Saitta inserisce all’interno delle specificità che
debba caratterizzare una città o una zona, un punto sul quale ho insistito molto in questo
paragrafo e che rappresenta un nodo nevralgico di questi mesi di ricerca:
«un uso corretto dell’espressione gentrification richiederebbe anche la circolazioni di
narrative urbane relative ai quartieri, insieme all’interesse da parte di politici e
imprenditori a “patrimonializzare” certe aree urbane»289.

288
Saitta, P., Gentrification o speculazione? Note analitiche sugli abusi di un termine, in
Urbanistica 3 Quaderni, 2017, n.13, (numero monografico Anti-gentrification nelle città (Sud)
Europee, a cura di Annunziata Sandra), pp.103- 109
289
ivi, p.106
131
4. Pigneto: dove si conosce, si parla e si contrasta la gentrification

«YUPPIES FANCULO: GENTRIFICATION IS CLASS WAR FIGHT BACK»


è un graffito trovato su un muro laterale del KRAM, locale a quanto pare facente parte
del gruppo imprenditoriale Necci dal 1924, che risponde alla famiglia Innocenti, e che a
detta di molti sarebbe la responsabile della gentrification del Pigneto. Lasciando da
parte le opinioni e supposizioni personali, la forza dirompente lanciata da poche lettere
su un muro e ciò che ha permesso questa ricerca e che ha svelato l’esistenza di
un’opposizione conscia del fenomeno e contraria ad esso. Se uno dei problemi del
Pigneto è la concessione di troppe licenze che si concentrano in uno spazio non troppo
ampio, lo scrivere sul muro del quarto locale di un gruppo imprenditoriale impone un
significato che prescinde le singole parole e trova significazione sia nell’atto che nel
luogo in cui queste sono state impresse.
Malgrado l’impossibilità di rintracciare il writer, la sola scritta ha permesso di battere
un percorso di ricerca basato sui movimenti di opposizione, informando di due notizie
non di poco conto: in primis ha manifestato la consapevolezza e una conoscenza
sensibile della tematica, non poi così scontato e, in secondo luogo, ha permesso di
venire in contatto con due realtà attive nel quartiere, il Comitato di Quartiere Pigneto-
Prenestino e il CSOA eXSnia. Proprio per questo motivo, i tre mesi di ricerca
etnografica sono state incentrati sulla conoscenza degli appartenenti ai gruppi, figure
che a volte è stato possibile veder militare in entrambe le realtà e di veder partecipare
agli eventi promossi dall’uno o dall’altro. Inoltre, sono state seguite con particolare
interesse tre giornate legate alla lotta alla speculazione edilizia e commerciale e che
portavano in seno una critica alla gentrification, della quale questi abitanti si sentono da
molti anni vittime. Essendo la gentrificazione un processo, è stato inevitabile non fare
riferimento ad eventi passati e per questa ragione la pratica etnografica è stata anche
etnostoria, si è provato così a compiere un’analisi antropologica di fonti storiche di
diversa natura, da articoli di giornale, a documenti di archivio, e narrazioni orali, al fine
di avere un quadro in grado di mettere in luce l’importanza diacronica del fenomeno. In
ordine cronologico, le tre giornate a cui ho preso parte sono state: venerdì 12 ottobre
2018, alle ore 18.00, all’interno dell’ottava edizione di “Logos – Festival della parola”,
organizzato dal centro sociale ex-Snia, presso il Parco delle Energie ex-Snia in via
Prenestina, c’è stata la presentazione di “Roma, Lisbona e Barcellona, tra

132
gentrificazione e turistizzazione”; domenica 14 ottobre 2018, sempre all’interno di
“Logos – Festival della parola”, è stata organizzata l’intera giornata al “lago che
combatte”, unico lago di Roma, nato in seguito a dei tentativi di cementificazione e che
sta lottando per essere riconosciuto monumento naturale e luogo indispensabile per la
salvaguardia della biodiversità locale; la terza giornata significativa è stata lunedì 22
ottobre 2018, un’assemblea che si è svolta nella Piazzetta Nucciatelli-Persiani, alle
spalle del locale KRAM, e che portava come punti all’ordine del giorno la riflessione
sull’aumento dei locali che somministrano cibo e bevande, la sparizione delle botteghe e
dei servizi di prossimità, l’aumento di B&B e il conseguente aumento degli affitti.

290

290
La locandina che è stata distribuita per invitare la popolazione a partecipare all’assemblea
pubblica. L’iniziativa fu promossa dal Comitato di Quartiere Pigneto-Prenestino, che per
l’occasione scelse di fare l’assemblea settimanale all’aperto e in un luogo simbolico, sia per la
prossimità al locale KRAM ma anche perché in quella piazza viene festeggiato il 25 aprile.
133
Le tre giornate sono legate da un filo conduttore che è quello della consapevolezza di un
mutamento locale ormai in atto dagli anni Novanta. I primi grandi mutamenti a mettere
in allarme la popolazione furono l’acquisto nel 1990 da parte del costruttore Antonio
Pulcini della fabbrica SNIA-Viscosa; ormai dismessa l’attività produttiva fu acquistata
per la costruzione di un edificio da destinare ad attività produttive, si pensa ad un centro
commerciale, che però non fu mai portato a temine poiché furono scoperte delle
illegalità, come la falsificazione della planimetria sulla quale si era basata la
concessione nel 1992 e nel 1993 quando, in seguito ad un sopralluogo, l’assessorato
all’Urbanistica della Regione Lazio accerta che durante uno scavo per la costruzione fu
compromessa una vena idrica che, nonostante il costruttore avesse provato a nascondere
convogliando l’acqua verso il collettore fognario, portò alla formazione del Lago dell’ex
SNIA-Viscosa291.
La fabbrica dismessa della Pantanella è stata acquistata ed è stata adibita ad enorme sala
bingo, uffici e oltre trecentocinquanta miniappartamenti; tra il 1990 e il 1991, la prima
realtà industriale della zona divenne il rifugio di circa 3000 immigrati senza fissa
dimora quasi tutti con regolare permesso e ciò, nonostante l’occupazione non sia durata
molto poiché sgomberata il 31 gennaio 1991, ha rappresentato uno dei primi momenti di
dialogo sulla questione abitativa riguardante flussi migratori di massa nella Capitale.
L’esperienza di appena sei mesi ebbe un’importanza incredibile poiché all’interno
dell’edificio si crearono i presupposti per le pratiche politiche che avrebbero poi
influenzato, negli anni seguenti, le lotte per l’inclusione e i diritti lavorativi degli
stranieri292. Questa esperienza abitativa fu ribattezzata con il nome “Shish Maal” che in
urdu vuol dire “Palazzo di cristallo”, in riferimento alle tante finestre che costeggiavano
l’intero edificio293. Questa occupazione ha avuto una grande risonanza proprio perché
grazie all’aiuto della Caritas, di associazioni e di leader migranti, fu possibile costruire
uno spazio di integrazione in cui disporre una scuola di italiano, un luogo di preghiera e
ad ottenere dei servizi igienici mobili. Lo sgombero del gennaio 1991 fu ostacolato da
militanti e studenti con picchetti, turni di sorveglianza notturna e incatenando i cancelli,
che però non furono sufficienti ad evitare la ricollocazione degli abitanti.

291
https://lagoexsnia.files.wordpress.com/2014/01/allegato_10.pdf
292
De Angelis, R., Dalla ex Pantanella alle nuove Pantanelle, in Cellamare, C. (a cura di),
S.M.U.R. Self made urbanism Rome: Roma città autoprodotta: ricerca urbana e linguaggi
artistici, Manifestolibri, Castel San Pietro Romano, 2014, p.51
293
ivi, p.52
134
Quando ho chiesto a Michele, in quanto militante del CSOA ex-SNIA, di illustrarmi le
loro pratiche di opposizione, non ha potuto fare a meno di parlarmi di casi di migranti
che, più di tutti gli altri, hanno subito questi processi di rigenerazione urbana,
nonostante il quartiere rimanga una zona fortemente abitata da cittadini extracomunitari:
«Per noi gentrification era una parola che non riuscivamo a digerire, ma ci siano
trovati davanti a questa parola quando riuscimmo a contrastare, e vincemmo
anche, la battaglia del disfacimento del deposito ATAC, che sta là dal 1800, dei
tram, per fare posto ad un progetto chiamato “Central Park Pigneto” che
appunto era diretto da Veltroni, dal PD di zona, che volevano fare cassa con
quell’area. Era il 2003/2004 e lì venimmo a contatto con questa parola
gentrificazione e ce lo spiegò qualcuno che già ne sapeva un po’ e ce la spiegò
semplicemente come sostituzione di classe e poi si realizzò bene con palazzi
circondati da recinto, chiamati Central Park, con il verde privato dentro,
avevano questa intezione… Che noi avevamo già vissuto alla Pantanella, prima
fabbrica dopo Porta Maggiore, l’ex pastificio Pantanella, dove hanno fatto i loft,
c’erano immigrati, sono stati sgomberati, e poi che facciamo di questa cosa? La
gente del quartiere aveva pensato di fare una grande biblioteca, un cinema, e
invece si è fatto il bingo, i loft e lì è stata proprio la prima immissione nel
quartiere di gente che non c’entrava un cazzo e che non avevamo mai visto. Io
non conosco uno che mi ha detto “Io abito là”, capito?! Vuol dire che sei proprio
un'altra cosa!»
Secondo i suoi ricordi sappiamo che è stato l’ex pastificio a dare il via ad un
cambiamento che lui stesso definisce di classe, per Michele è significativo non aver in
tutti questi anni conosciuto qualcuno che abiti in quei miniappartamenti fuori Porta
Maggiore. Proprio perché, come ci dice la letteratura, i primi a subire i processi di
gentrification sono i più deboli, tra cui proprio i migranti, spesso per questioni di
reddito, Michele mi racconta altri due episodi in cui si è schierato in prima linea nella
difesa della comunità senegalese al Pigneto:
«La resistenza è stata sulle scelte urbanistiche dell’amministrazione, in qualche
modo il Contratto di Quartiere è servito a darci qualche garanzia ma è irrisoluto
per buona parte… La resistenza è stata contro gli sfratti, soprattutto contro
l’espulsione della comunità senegalese, ormai in via Campobasso 16/18 dove
c’era la comunità da almeno trent’anni sono stati chiusi tutti gli appartamenti e ci

135
sono riusciti attraverso la complicità a 360° della guardia di finanza, vigili
urbani, USL, vigili del fuoco, la magistratura... Non ci sono riusciti sul piano
amministrativo ma ci sono riusciti su un piano giudiziario: perché con
terrorismo, ricettazione, spaccio, sono riusciti a fare breccia, descrivendo un
appartamento, in cui sì, vivono dodici persone, ma poi stanno per strada
vendendo borsette falsificate, facendolo passare come una fabbrica di merce
contraffatta sono riusciti a fare chiudere gli ultimi appartamenti che eravamo
riusciti a difendere. L’altra storia è su via Fanfulla, sempre senegalesi, lì balordo
con casa affittata a 1.300€ che, dopo anni che succhiava sangue in questo modo,
in quella fase di espansione immobiliare, per riprendersi casa ha trovato
attraverso la connivenza dell’USL che ha reso inabitabile la sua stessa casa che
affittava. Lì si è instaurato un bel processo di solidarietà del quartiere che chi
faceva il muratore, chi l’elettricista hanno messo in sicurezza la casa
interamente, con lavori di ristrutturazione e poi l’USL è tornata e ha dovuto
rettificare che c’era l’abitabilità. […] Perché si diceva che quelle palazzine
adiacenti a via del Pigneto dovevano diventare un albergo e vedrai che ci
riusciranno!»
Come si evince facilmente qui non si parla di una resistenza urbana di una portata tale
da confluire in grossi movimenti come quelli descritti da David Harvey in Città Ribelli
(2012), ma si può anche qui pensare alla realtà urbana come un qualcosa di comune
creato attraverso lotte quotidiane294. Nel caso del lago si tratta di una lotta in grado di
avere un’ampia risonanza anche al di fuori dei confini del Pigneto, di manifestazioni in
grado di richiamare una parte della popolazione non strettamente legata
all’appartenenza territoriale. Riguardo al caso dell’intera area dell’ex fabbrica SNIA-
Viscosa, mi trovo in accordo con Harvey quando afferma che per preservare beni
comuni preziosi una qualche forma di recinzione potrebbe essere una possibile
soluzione: come afferma il sociologo non tutte le forme di recinzioni degli spazi
possono essere classificate come negative, in quanto «la produzione e recinzione di
spazi non mercificati, in un mondo spietatamente mercificato, sono un fenomeno
senz’altro positivo»295.

294
Harvey, D., Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street
cit., p.97
295
ivi, p.93
136
Le piazze e le strade sono semplici spazi pubblici che diventano un bene collettivo
urbano quando sono occupate e animate dalle persone che presidiano in esso spinte da
un desiderio comune; «la strada è uno spazio pubblico che, nel corso della storia,
l’azione sociale ha via via trasformato in un bene comune del movimento rivoluzionario
o in un luogo di repressione»296. Le strade urbane delle grandi città occidentali sono
congestionate dal traffico e questo ha fatto perdere la loro qualità di common, togliendo
la loro caratteristica di bene collettivo che, prima dell’avvento delle automobili, erano
luoghi di socialità297; nonostante spesso le amministrazioni locali tentano di
salvaguardare la strada in quanto luogo di incontro, si è notato che, con estrema facilità,
la progettazione di aree pedonali, parchi, caffè all’aperto, possono essere sfruttati e
messi a profitto, eliminando lo scopo iniziale della creazione di un common. L’isola
pedonale del Pigneto è un perfetto esempio della deriva di un spazio pubblico che
doveva servire alla collettività come zona destinata all’incontro in assenza di una grande
piazza nel quartiere.
«Il common, dunque, non è qualcosa che esisteva in passato e che in seguito è andato
perduto, ma qualcosa di continuamente prodotto, proprio come i bene comuni urbani. Il
problema è che l’accesso al common viene altrettanto continuamente sbarrato, e il
capitale se ne appropria, nella sua forma mercificata e monetizzata, nonostante sia il
prodotto del lavoro collettivo»298.

Michael Hardt e Antonio Negri sostengono che, affinché la metropoli sia per la
moltitudine ciò che la fabbrica è stata per la classe operaia, questa debba essere non solo
la sede degli incontri, connotati da casualità e passività, ma anche la sede
dell’organizzazione e dell’azione politica: «la grande ricchezza della città si rivela
quando i buoni incontri tra le singolarità si traducono in una nuova produzione del
comune»299. I due studiosi intendono una metropoli centrata sull’incontro proficuo
fondato su comunicazione e cooperazione e che richiedono un’apertura all’alterità e un
fuggire dai gruppi sociali che non condividano questa impostazione dell’urbano. Inoltre,
a conferma della loro tesi secondo cui “la metropoli è per la moltitudine ciò che era la
fabbrica per la classe operaia” ci presentano le città metropolitane che, così come nel
caso delle fabbriche, portano in seno gerarchie, logiche di sfruttamento e
subordinazione. Secondo Hardt e Negri sono la rendita e la proprietà immobiliare a

296
ivi, p.95
297
ivi, p.97
298
ivi, p.100
299
Hardt, M., Negri, A., Comune. Oltre il privato e il pubblico, RCS Libri, Milano, 2010, p.256,
(Commonwealth, 2009)
137
perpetuare violenza nei confronti degli operai e delle classi più deboli in generale: la
rendita, desocializzando il comune, privatizza la ricchezza comune prodotta nelle
metropoli nelle mani dei ricchi, poiché
«la rendita è diventato lo strumento paradigmatico del neoliberismo e dei suoi regimi di
finanziarizzazione che […] sono volti alla produzione di servizi e beni immateriali e alla
distribuzione delle ricchezze lungo rigide linee di classe»300.

L’inclinazione degli ultimi anni a privatizzare gli spazi ha portato gli abitanti a sentirsi
utenti e le misure di riqualificazione, spesso di stampo securitario, come la
videosorveglianza o altri dispositivo di arredo con l’indole disciplinare, hanno ridotto il
cittadino a consumatore: l’arredamento con i dehors ha chiaramente ridotto il carattere
pubblico e lo spazio circolatorio di piazze e strade, dove le attività a pagamento
sostituiscono le modalità gratuite di fruizione spaziale301.
E’ il decreto legislativo 14/2017 “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle
città” del 20 febbraio 2017302 ad insinuare in molti il dubbio che lo spazio urbano non
sia più destinato a libero e indistinto stanziamento e che, soprattutto per una città d’arte
come Roma, l’introduzione del DASPO urbano, abbia portato ad una scrematura tra
cittadini desiderati e quelli indesiderati presso alcuni luoghi. La legge che porta i nomi
dall’allora Ministro dell’interno, Marco Minniti, il Ministro della giustizia, Andrea
Orlando, il Ministro degli affari regionali, Sergio Costa, e l’ex Presidente del Consiglio
dei ministri, Paolo Gentiloni Silveri, in particolare nella “Sezione II – Sicurezza
urbana”, l’articolo 4 da la definizione di “sicurezza urbana”:
«Ai fini del presente decreto, si intende per sicurezza urbana il bene pubblico che
afferisce alla vivibilita' e al decoro delle citta', da perseguire anche attraverso interventi
di riqualificazione e recupero delle aree o dei siti piu' degradati, l'eliminazione dei
fattori di marginalita' e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalita', in
particolare di tipo predatorio, la promozione del rispetto della legalita' e l'affermazione
di piu' elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile, cui concorrono
prioritariamente, anche con interventi integrati, lo Stato, le Regioni e Province
autonome di Trento e di Bolzano e gli enti locali, nel rispetto delle rispettive
competenze e funzioni.»

Anche in questo caso non viene esemplificato cosa sia più o meno decoroso: il decoro
urbano è diventata oramai una formula, fatta passare con valore neutro, senza
problematizzare la soggettività che presuppone l’utilizzo di un aggettivo. Inoltre,

300
ivi, p.259
301
Agostini, I., Scandurra, E., op. cit., p.145
302
http://www.gazzettaufficiale.it/atto/stampa/serie_generale/originario
138
l’articolo 4 della suddetta legge specifica dove questo decoro debba essere osservato
con maggiore rigore:
«c) promozione del rispetto del decoro urbano, anche valorizzando forme di
collaborazione interistituzionale tra le amministrazioni competenti, finalizzate a
coadiuvare l'ente locale nell'individuazione di aree urbane su cui insistono musei, aree
e parchi archeologici, complessi monumentali o altri istituti e luoghi della cultura
interessati da consistenti flussi turistici, ovvero adibite a verde pubblico, da sottoporre
a particolare tutela ai sensi dell'articolo 9, comma 3.»

Questa legge in alcuni tratti rimanda ai tanti regolamenti emanati alla fine
dell’Ottocento nelle grandi città Europee, le “Disposizioni relative al decoro, alla
decenza, alla quiete e all’ordine pubblico” entrate in vigore nel 1888 nella città di
Palermo sono uno dei tanti esempi di normative redatte al fine di rendere l’urbano
pubblico, inteso come spazio in cui esercitare forme di controllo, e condannando quindi
in esso qualsiasi forma di vita all’aperto303. La nascita della società e città industriali
portò con se, a cavallo tra il XIX e il XX secolo, una nuova concezione spaziale, dove
non fu più ammesso quell’abitare diffuso che dalle abitazioni si estendeva in porticati,
strade e piazze; la fine della città industriale e la nascita della società postindustriale
hanno invece lasciato dei vuoti, spazi da rendere nuovamente funzionali, non
restituendoli chiaramente agli abitanti ma rendendoli templi del turismo e del consumo.
La storia che ho documentato è un insieme di pratiche resistenti passate e
presenti; è la narrazione di un mutamento urbano che viene percepito da una fetta di
abitanti come pericoloso per i marginali e che, nella prospettiva di un futuro non
propriamente roseo, prevedono gravare anche sulle proprie quotidianità. La città di
Roma, con i suoi milioni di attori, ha la caratteristica innegabile di essere sensibile a
questioni riguardanti lo spazio e di essersi impegna nel corso degli anni per la
restituzione alla collettività di luoghi abbandonati o all’interno di azioni commerciali
non limpide: l’“ASSEMBLEA COSTITUENTE DEI BENI COMUNI #3 – Quando la
proprietà è un furto”304 del 13 giugno 2013, all’interno del nuovo Cinema Palazzo,
cinema occupato nel quartiere di San Lorenzo per salvaguardarlo dall’abbandono, si
poneva l’obiettivo di soffermarsi sugli spazi urbani e beni produttivi che, all’interno di
un meccanismo speculativo, subivano un cambio di destinazione d’uso, perdendo così la

303
La Cecla, F., Mente Locale. Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano, 1996, p.85
304
https://www.nuovocinemapalazzo.it/2013/06/07/costituente-dei-beni-comuni-3-quando-la-
proprieta-e-un-furto/
139
loro natura e vocazione per l’utilità collettiva305. Il punto cruciale che emerge
dall’iniziativa è l’importanza di istituire dei commons per portare ad un «assetto
istituzionale alternativo fondato sul principio per cui in tema di beni comuni non conta
la proprietà ma la garanzia della loro fruizione (accesso)» e che la soggettività, che si
forma nella costituzione della comunità, assicuri «la riappropriazione, restituzione e la
sostenibilità della gestione del bene comune». La proprietà collettiva e i beni collettivi
nell’accezione di Simone Weil costituiscono un bisogno fondamentale, intesi come uno
stato più spirituale che giuridico, suggeriscono una riformulazione delle leggi sulla
proprietà privata: «ogni specie di possesso che non dia a nessuno la soddisfazione del
bisogno di proprietà privata o collettiva può, a buon diritto, considerarsi nulla»306,
poiché le leggi sulla proprietà dovrebbero perseguire l’obiettivo di sfruttare al meglio le
possibilità contenute nei beni e soddisfare così il bisogno di proprietà comune di tutti gli
essere umani.
Per tutti questi motivi, è sembrato utile dare un contributo allo studio e alla
documentazione di e su quei movimenti, collettivi e qualsiasi altro tipo di realtà, che
Agostini e Scandurra hanno definito “urbanistica resistente”: è chiaro di come alla base
di questi incontri ci sia l’idea che un’altra città sia possibile e che ci sia il reale bisogno
della riappropriazione di luoghi, per la rinascita di una collettività urbana; aver scelto di
raccontare il “non dominante” è un ulteriore contributo nel dare spazio ad una
riflessione critica «sull’involuzione neocapitalista della città e sullo smantellamento in
atto delle basi stesse della civiltà urbana»307.

4.1. Tracce di opposizione: Comitato di Quartiere Pigneto-Prenestino e CSOA


eXSnia

Il Comitato di Quartiere Pigneto-Prenestino e i militanti del CSOA ex-SNIA non


sono gli unici due attori sociali del territorio a spendersi per un quartiere a misura
d’uomo, ponendo al centro dell’abitare la socialità e la vita comunitaria, ma è stato
scelto di incentrare l’attività di ricerca intorno ai due gruppi e di seguire le iniziative da

305
Oltre a comitati, associazioni e molte realtà in lotta per i beni comuni, alla giornata
parteciparono i seguenti giuristi costituzionalisti: Stefano Rodotà, Maria Rosaria Marella, Ugo
Mattei, Paolo Maddalena, Gaetano Azzariti.
306
Weil, S., La prima radice, SE SRL, Milano, p.1990, p.40, (L’enracinement. Prélude à une
déclaration des devoirs envers l’être humain, 1949)
307
Agostini, I., Scandurra, E., op. cit,, p.169
140
loro promosse, poiché sono quelli che da più anni animano le lotte cittadine. Entrambe
le realtà sono attive dagli anni Novanta del Novecento e portano con loro una storia
strettamente connessa al tessuto urbano e sociale, movimenti di chiara impostazione
ideologica e per questo a volte ostracizzati.
Il Comitato di Quartiere si riunisce ogni lunedì alle ore 19.30 nella sala Antonio Atzori
della Biblioteca Civica Goffredo Mameli e a queste riunioni partecipano entrambi i miei
maggiori informatori, Michele e Marta; nonostante Michele sia stato scelto come
informatore per le attività riguardati il CSOA ex-SNIA e Marta quelle inerenti il
Comitato di Quartiere, entrambi partecipano ad assemblee ed eventi promossi da
entrambi, soprattutto Marta fa anche parte del Forum Territoriale Permanente del
Parco delle Energie che del Centro di documentazione territoriale Maria Baccante –
Archivio storico Viscosa308.
Ho partecipato all’assemblea di lunedì 19 novembre 2018; la discussione è stata
incentrata su una manifestazione avvenuta il fine settimana precedente che chiedeva al
Municipio di reintrodurre l’autobus numero 81, che collegava Piazza Malatesta con
Piazza Risorgimento (adiacente a Città del Vaticano) e che nelle fermate intermedie
prevedeva tappe fondamentali per gli abitanti, come quelle dei tre ospedali, San
Giovanni, Fatebenefratelli e Santo Spirito. Il cambio di rotta della linea urbana 81 è
avvenuta in seguito all’inaugurazione delle fermate della metropolitana Malatesta e
Pigneto con capolinea San Giovanni: le lamentele sono dovute all’impossibilità di molti
abitanti anziani di usufruire del servizio metro e per i conseguenti danni arrecati alla
loro mobilità con la sottrazione di un servizio di trasporto di superficie. Le
manifestazioni organizzate per chiedere la reintroduzione di questo collegamento
avvengono a cadenza costante da oltre un anno e spesso i promotori delle iniziative sono

308
Il Centro di Documentazione è gestito da un collettivo autofinanziato e auto-organizzato che
apre al pubblico per la consultazione del patrimonio archivistico ogni mercoledì pomeriggio
dalle 16.00 alle 19.00. Al Centro è possibile trovare l’archivio della fabbrica Viscosa, attorno al
quale è nata e si è formata la volontà di conservare questa immensa memoria della Roma
industriale; oltre a questo, è possibile reperire fonti legate al territorio e donate da privati, con lo
scopo di creare un archivio territoriale in grado di conservare documenti e testimonianze.
Il Centro commemora la memoria di Maria Baccante, partigiana combattente contro il nazi-
fascismo e operaia della fabbrica Viscosa, licenziata dopo un’occupazione della fabbrica che fu
animata e portata avanti soprattutto da donne, di cui lei era una delle principali animatrici.
Personalmente ho avuto accesso all’archivio in cui mi è stato possibile consultare ritagli di
articoli di testate giornalistiche nazionali riguardanti le problematiche del Pigneto (soprattutto
quelle legate al periodo di invivibilità a causa dello spaccio); volantini di assemblee, presidi o
cortei organizzati in passato dal Comitato di Quartiere o da altre realtà locali; tutta la
documentazione legata al Contratto di Quartiere e le varie lettere scritte dal Comitato e
destinate al Municipio.
141
stati proprio i membri del Comitato di Quartiere Pigneto-Prenestino. Durante
l’assemblea è sembrato strano ascoltare che i volantini non fossero stati volontariamente
firmati, per evitare di dare una connotazione al presidio ed evitare che alcuni non
partecipassero per questo all’iniziativa indetta in Piazza Malatesta. A riguardo ho
chiesto giorni dopo spiegazioni alla signora Marta, sia di quanto fossero, come
Comitato, consapevoli di una marcata connotazione ideologica di sinistra che gli viene
attribuita dal resto degli abitanti, e sia della scelta di non aver volontariamente
rivendicato la manifestazione per l’autobus numero 81:
«Nel quartiere c’è sempre stata una vivacità politica… Non va bene, bisogna
firmare e infatti abbiamo detto che la prossima volta lo firmeremo. Diciamo che
è verissima questa cosa, come percezione [in riferimento alla connotazione
ideologica di cui sono imbevuti i discorsi sul Comitato da parte di chi ne è fuori]
e assolutamente c’è e c’è anche nei confronti del Forum del Parco perché ci
associano al centro sociale e qui pure, perché è chiaro che la presenza di Dario309
è sempre stata molto forte e anche di Michele… Il problema sai qual è però?! Ci
dicono ideologici ma in realtà noi siamo stati etichettati come pericolosi
socialmente ed eversivi perché eravamo contro il PD, quello di qui [in
riferimento al Municipio V] ed era evidente questo; quando facevano delle cose
se non ci piacevano lo dicevamo e se vogliamo dire che quello è di sinistra…
Allora noi siamo l’estrema sinistra! Siccome il PD non è di sinistra… […] Io lo
associo con il Parco perché io ed altri del Comitato di Quartiere facevamo parte
del Forum, come alcuni del Comitato di Quartiere vengono al Forum, diciamo
che c’è sempre stato questo scambio! Nei confronti del Parco e del centro
sociale in particolare c’è stata una campagna di diffamazione spaventosa da
parte dei consiglieri del PD, che noi siamo andati ai consigli comunali in cui si
doveva discutere qualcosa all’ordine del giorno che diceva che il Parco e il
centro sociale dovevano essere chiusi perché si spacciava. E’ vero che per un
certo periodo c’è stato spaccio però è durato poco, perché ingenuamente avevano
pensato di aprire [il centro sociale ex-SNIA] a persone che avevano grossi
problemi per dormire e poi si sono resi conto invece di essere usati, di non

309
Dario è il nome di fantasia attribuito ad uno degli abitanti del luogo che da ormai più di un
ventennio anima il quartiere Pigneto e fa parte sia del Comitato che del CSOA ex-SNIA; il fatto
che Dario sia stato uno degli esponenti dell’Autonomia Operaia romana ha contribuito ad
alimentare intorno al gruppo quest’idea di estrema sinistra.
142
riuscire più a gestire la situazione e quindi hanno chiuso. Queste persone poi si
sono spostate lungo il viale del parco e c’è stato un periodo di grosso degrado
nel parco, sia perché c’erano i cantieri e sia perché nel viale a destra, su quel
muretto, c’era lo spaccio notte e giorno. Stiamo parlando del 2004/2005 e noi ci
chiedevamo come fare, perché tanta gente non entrava al parco, ma noi abbiamo
detto di no! Dobbiamo continuare a portarci i bambini, a passare davanti a quelle
persone, perché il territorio lo controlli solo se ci sei!»
In Marta, emerge una ferma volontà di presenza nel territorio, di fruirlo insieme ai
nipotini, nonostante le intimidazioni degli spacciatori, nonostante l’azione di uno che le
urinò davanti sperando così di allontanarla, è per lei l’unico modo che ha reso oggi
possibile avere il Parco delle Energie di via Prenestina accogliente, aperto a tutti, con
l’area cani, il parco giochi per i bambini e il Centro di documentazione territoriale
Maria Baccante – Archivio storico Viscosa. La pratica resistente messa in atto da Marta
e dagli altri abitanti del quartiere riflette l’idea, forse per molti oggi vetusta, di una città
in quanto polis, luogo di partecipazione sociale e politica, e nel Parco lo spazio
possibile per la creazione di una nuova agorà. Le interazioni tra abitanti e abitato, che
emergono dal racconto di Marta, presuppongono la presenza fisica, un uso del corpo
strettamente connesso all’uso del mondo, in quanto rapporto primo e immediato
dell’esserci ed è così che Giorgio Agamben, partendo dall’ontologia heideggeriana
espressa in Essere e tempo (1927), evidenzia come l’esserci col mondo implichi una
relazione strumentale, strettamente connessa all’uso e al maneggiare: l’intimità tra
essere e mondo si esprime nella cura dell’uomo per gli strumenti che costituiscono il
globo e che servono alla realizzazione dei progetti umani310. Invece, se bisognasse
pensare ad una teoria dell’azione, nella società occidentale e capitalistica, appaiono di
particolare rilievo le tesi espresse da Hannah Arendt in Vita Activa (1958): infatti, vi è
uno spazio dell’apparenza che si verifica ogni qualvolta gli uomini condividano delle
modalità del discorso o dell’azione e questo si costituisce potenzialmente ogni volta che
delle persone si trovino insieme. L’azione è una delle tre attività che compongono la
vita activa, insieme all’attività lavorativa e l’operare, e questa presuppone la pluralità
umana che è la condizione di ogni politica; inoltre, l’azione è l’unica attività in grado di

310
Agamben, G., L’uso dei corpi. Homo sacer, IV, 2, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2014, pp.65-
77
143
mettere in contatto gli uomini, senza mediazione di cose materiali.311 Il vivere insieme
delle persone è l’unico fattore indispensabile per la creazione del potere, nonostante la
maggior parte delle forme di governo tentino l’esclusione dei cittadini dalla vita
pubblica, promulgato anche attraverso un incoraggiamento velato «all’industriosità e
all’intraprendenza privata», nel quale i cittadini avrebbero dovuto vedere «null’altro che
il tentativo di privarli del tempo necessario per partecipare ai loro affari comuni».312

4.1.1. Pratiche resistenti alla gentrification e alla speculazione

La prima giornata, che ha avuto luogo venerdì 12 ottobre 2018, ha visto


svolgersi un incontro dal titolo “Roma, Lisbona e Barcellona, tra gentrificazione
e turistizzazione” all’interno dell’ottava edizione di “Logos – Festival della
parola”, promosso dal centro sociale ex-Snia. La serata prevedeva diversi
interventi e contributi dello scrittore Wolf Bukowski, del collettivo O Bairro
para os Moradores di Lisbona e dell’Assemblea Barris per el Turisme
Sostenible di Barcellona, e a testimoniare dei cambiamenti romani, del Pigneto
particolarmente, c’era Michele. L’appuntamento ha previsto due giri di
interventi nei quali gli ospiti hanno informato delle loro pratiche resistenti nelle
tre diverse città dell’Europa mediterranea. In aggiunta, Bukowski si è soffermato
sulla città di Bologna e in particolar modo sulla realizzazione di uno Student
Hotel, già presente in Italia nella città di Firenze. L’apertura di The Student
Hotel a Bologna, nel quartiere Bolognina, è prevista nel 2019 ed è la seconda
struttura che il gruppo olandese omonimo apre in Italia, con l’intenzione di
creare in pochi anni sul nostro territorio altre dieci residenze del gruppo nelle
maggiori città della penisola. Osservando i prezzi dello studentato sulla pagina
web della struttura fiorentina emerge una chiara vocazione d’elite: gli affitti
mensili delle camere sono esosi e sostenibili da pochissimi studenti e questo
pone un chiaro problema rispetto alla fruizione dell’istruzione e, più
direttamente, un inquinamento del mercato degli affitti per studenti universitari
che già vivono sulla propria pelle la battaglia per accaparrarsi un posto letto

311
Arendt, H., Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1989, p.7 (The Human
Condition, 1958)
312
ivi, p.163
144
economicamente sostenibile. Una certa coerenza si intercetta nelle dichiarazioni
del sindaco di Firenze Dario Nardella che ha avuto l’ardire, probabilmente frutto
di riflesso involontario, di chiamare gli avventori di The Student Hotel
“clienti”313, svincolandosi così dall’ipocrisia celata sotto il nome studentato. Il
futuro Student Hotel emiliano è stato costruito in una dismessa sede della
Telecom, occupata fino al 2015 da circa trecento persone e come ha precisato
Wolf Bukowski in un articolo scritto poco prima della serata di Logos – Festival
della parola:
«TSH omette che l’ex-Telecom era diventata «vacant» a suon di manganellate,
pochi mesi prima, quando le trecento persone che l’avevano occupata con
Social Log e l’abitavano erano state sbattute in strada dalle forze
dell’ordine. Accadeva il 20 ottobre 2015: la «legalità», ovvero la speculazione
immobiliare, era ripristinata. »314

Basta visitare il sito web di The Student Hotel a Bologna e subito svetta
prorompente un impianto fortemente narrativo, la creazione di un territorio-
brand unita a retoriche promozionali:
«Portiamo il nostro stile fuori dagli schemi nel Quartiere Navile, meglio
conosciuto come Bolognina o la piccola Bologna, un quartiere che ben
rispecchia la nostra community: multiculturale, cosmopolita, pop,
creativa, divertente. Questa è una zona di Bologna che storicamente
ospita una scena underground, tutta graffiti, musica punk rock e
anticonformismo artistico applicato in ogni forma di avanguardia. Chissà
perché ci sentiamo come a casa...»315
Chi conosce la Bolognina sa certamente che il quartiere è da lungo tempo
minacciato dalla messa a profitto del territorio e da ingenti trasformazioni
urbane; il centro sociale XM24 è una delle poche realtà che ha resistito, che
promuove una sensibilizzazione sulla speculazione edilizia in atto nella zona e
che si batte affinché graffiti, il genere musicale punk-rock e le avanguardie
artistiche in genere non vengano depoliticizzate. Il gesto dello street artist Blu,
che ha deciso di cancellare i propri murales dalle pareti del centro sociale
XM24, si pone in completa continuità con la volontà di rendere politica una
313
https://www.lanazione.it/firenze/cronaca/student-hotel-
1.3964420?fbclid=IwAR0foAuoGU52gW6LIyguGiwplrAMUPumA6AU7R1H-
ozlLmhXeyAsU3Ipgxg
314
https://www.wumingfoundation.com/giap/2018/07/student-hotel/
315
https://www.thestudenthotel.com/it/bologna-1/
145
forma d’arte, nella speranza che questa continui ad essere svincolata dalle
logiche di valorizzazione urbana e dell’aumento di un profitto commerciale che
si cela dietro alla vendita di un edificio dipinto da uno dei maggiori artisti di
strada al mondo. In questo caso vi è un’estrazione volontaria della controcultura:
se la cifra distintiva che identifica la costruzione dell’identità di una subcultura è
quella materiale, che si manifesta cioè nei vestiti o nella musica, ma anche quella
legata al contesto, quindi alla frequentazione di luoghi, locali o anche viaggi, è
stato tentato di estrapolare questi elementi caratterizzanti e di espandere il loro
uso, trasformando il significato degli oggetti e fecitizzandone il valore in senso
marxiano. Partendo dall’assunto che ogni oggetto abbia un valore sociale e un
significato culturale si può affermare che sovvertendo ed estrapolando dal
contesto questi oggetti distintivi si perdano i valori centrali e il senso di
appartenenza ad una subcultura, cultura o classe che sia316. Gli altri due aggettivi
che suonano chiaramente ambigui sono “multiculturale” e “cosmopolita”, poiché
la possibilità che si realizzi uno studentato/hotel frequentato da cittadini di tutto
il mondo si può verificare soltanto in un caso: il reddito elevato.
I portavoce del collettivo portoghese e di quello catalano rispettivamente
raccontano le proprie attività di sensibilizzazione riguardanti il primo il processo
di gentrification e il secondo il processo di touristification che da decenni
affligge la città di Barcellona. L’esperienza portoghese riportata è strettamente
connessa all’aumento subito dal mercato immobiliare, a sua volta conseguenza
dell’incremento del turismo di massa degli ultimi anni soprattutto nella città di
Lisbona; per l’appunto, non è un caso che per la prima volta nell’ottobre 2018 si
siano riuniti i comitati della rete Set317 a Napoli. Il problema del turismo è
l’anello di congiunzione tra i movimenti di Lisbona, Barcellona e l’esperienza
romana raccontata durante l’evento da Michele: nonostante Roma sia dalla metà
del Novecento saccheggiata da orde di turisti, il problema che emerge è la
preoccupazione che questi movimenti massicci possano spostarsi dai
convenzionali percorsi turistici anche nella prima periferia, invadendo il
quartiere Pigneto che, fino ad un paio di anni fa, non vedeva per le strade
visitatori stranieri. La paura cocente è legata all’idea che gli avventori

316
Hall, S., Jefferson, T., Resistance through Rituals. Youth subcultures in post-war Britain,
Routledge Taylor & Francis Group, Oxford, 2006, pp. 40-44
317
Rete delle città del Sud d’Europa di fronte alla Turistificazione.
146
occasionali possano ulteriormente sconvolgere il tessuto urbano e sociale di
quella prima periferia romana e ad alimentare questa preoccupazione è il
progetto attuato per la realizzazione della Stazione Ferroviaria Pigneto, terzo
polo ferroviario di Roma, che attualmente riporta oltre un anno di ritardo nella
stimata tempistica di realizzazione318. La creazione di questo nuovo polo
ferroviario romano apporterebbe, secondo gli abitanti, un’ulteriore
trasformazione urbana e un mutamento dei fruitori. La linea FL1 (Orte-
Fiumicino) dovrebbe fare tappa proprio in questa stazione, portando i viaggiatori
dell’aeroporto a ritrovarsi in un quartiere felicemente collegato e non lontano dal
centro storico. Inoltre, il progetto prevede che la stazione sia internamente
collegata con la fermata della metropolitana Pigneto. Come è stato sollevato
durante l’incontro al CSOA ex-SNIA, il Pigneto con la costruzione di
quest’ulteriore infrastruttura diventerebbe un luogo di passaggio, di sosta
momentanea, e commercialmente verrebbe spinto all’incremento di strutture
destinate alla breve locazione. “Il turismo fa diventare le città come Disneyland”
è un concetto più volte ascoltato durante la serata di Logos – Festival della
parola, dove più volte è stato citato il libro di Giovanni Semi che come
sottotitolo riporta appunto “Tutte le città come Disneyland?”, ed è una nozione
espressa anche da David Harvey nel suo testo del 2015 nel quale sostiene che «i
beni collettivi di carattere culturale, per esempio, sono oggi mercificati (e per lo
più censurati) da un’industria culturale che tende a «disneyficarli».»319. Anche
poco dopo si legge che «l’atmosfera o l’appeal di una città sono sempre effetto
del lavoro dei suoi abitanti, ma è il mercato del turismo a sfruttare
commercialmente quel bene collettivo per estrarre rendite monopolistiche»320, e
ancora Marco D’Eramo esprime come il turismo uccida la città, svuotandola di
vita e facendola diventare «un’immensa Disneyland storica, in una sorta di
tassidermia urbana»321. Nel testo Il selfie del mondo è perfettamente spiegato
come da un punto di vista spaziale avvenga uno scontro sull’appropriazione
dello spazio da parte degli abitanti o da quella dei turisti, in cui si verifica quasi

318
http://pigneto.romatoday.it/pigneto/stazione-pigneto-ritardi-cantiere.html
319
Harvey, D., op. cit., p.94
320
ivi, p.97
321
D’Eramo, M., op. cit., p.83
147
sempre che il mercato dei servizi commerciali si spenda maggiormente in favore
dei secondi rispetto ai primi:
«[…] il mercato per la domanda dei residenti non coincide con il mercato per la
domanda dei turisti, ma i due mercati si sovrappongono nel tempo e nello spazio
ed entrano in conflitto o divergono. Se il residente ha bisogno di riparare le
scarpe, mentre il turista ha fame di uno snack, e se i turisti spendono più dei
residenti, il risultato è che scompare la bottega artigiana del ciabattino e si
moltiplicano i fast-food.»322

Questa è stata la serata in cui ho conosciuto uno dei due maggiori informatori,
Michele, che vive al Pigneto da venti anni, il tempo necessario per essersi
accorto ed opposto ai maggiori cambiamenti: mentre anima il dibattito “Roma,
Lisbona e Barcellona, tra gentrificazione e turistizzazione”, parla degli abitanti
che secondo lui mancano all’appello, parla degli edili, degli operai, dei tramvieri
e dei ferrovieri, parla di tutti quegli individui che avevano dato nel Novecento
una connotazione alla zona. Michele racconta del progetto della realizzazione
dell’“isola pedonale”: alla fine degli anni Novanta, molti abitanti si spesero
affinché questa venisse socializzata, per andare a sopperire la mancanza di una
piazza, emblema di aggregazione, in quella parte di quartiere. Michele ammette
di sentirsi tradito poiché quella che doveva rappresentare un luogo di ritrovo per
gli abitanti, a causa dell’eccessive concessioni commerciali, è diventato un
crocevia di socialità estemporanee, privo di connotazioni in grado di designare
un’appartenenza territoriale. Si può parlare in un certo senso di quella che
Ernesto de Martino definì “angoscia territoriale”, nonostante in questo caso non
ci sia un cambiamento spaziale, un allontanamento dal territorio di cui ci si sente
membri, ma un cambiamento intrinseco al territorio stesso tale da portare
l’abitante al disconoscimento di se come parte integrante di una comunità
riformata; inoltre, possiamo definirla come una sorta di nostalgia di casa ma in
casa propria, in grado di creare un’angoscia esistenziale «in cui la presenza non
è decisa e garantita, ma fragile e labile, e quindi continuamente esposta al rischio
di non mantenersi di fronte al divenire, e soggiacente per ciò stesso
all’angoscia»323. Quando ho rincontrato Michele sono nuovamente emerse le sue
preoccupazioni incentrate sul Pigneto, in quanto lui crede fermamente che la

322
ivi, pp.72-73
323
De Martino, E., Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini.
Contributo allo studio della mitologia degli aranda, in de Martino, E., Il mondo magico,
Edizioni Scientifiche Einaudi, Editore Boringhieri, Torino, 1958, pp.261-276
148
zona fuori Porta Maggiore costituirà il nuovo sbocco turistico della Capitale: a
sostegno della sua ipotesi ci sarebbe l’apertura de Il Bancone Del Pigneto, in via
del Pigneto 22, uno dei diversi locali romani che farebbero capo ad un’azienda
multinazionale belga sotto il nome di Birra del Borgo. Un ulteriore sentore
allarmante sarebbe il costante incremento di appartamenti in affitto su Airbnb: la
preoccupazione di questo abitante emerge nella rappresentazione della
piattaforma come in grado di trasformare il tessuto urbano e una controprova
sarebbe l’incremento di «gente con il trolley», “fenomeno” a quanto pare del
tutto nuovo. In uno dei nostri incontri Michele mi spiega esattamente cosa
secondo lui e molti altri abitanti vorrebbe dire la realizzazione del terzo polo
ferroviario romano:
«Sulla stazione Pigneto ti posso dire che è un progetto che c’è da almeno
vent’anni, e comunque inizialmente da parte degli abitanti organizzati,
che hanno sensibilità e che hanno sempre condotto delle pratiche di
resistenza e di idee rispetto al quartiere, non è stato visto come qualcosa
di negativo o devastante, perché naturalmente da un passaggio di treni
rumoroso, si trasforma in uno snodo che mi rende la vita più facile è
sicuramente positivo. L’idea di fare la stazione Prenestina e legarla alla
futura Metro C era vista come qualcosa che avrebbe migliorato
sicuramente la vita degli abitanti. Sono passati venti anni, la Metro C poi
si è fatta, anche se ha aperto dopo almeno dodici anni di cantiere di
quello che era stimato, e oggi quello che si vede come frivolo è che ad
oggi la metro ha sicuramente alzato il valore immobiliare degli affitti e il
collegamento con Fiumicino trasformerà totalmente l’utenza del
quartiere, che già da alcuni anni è in vocazione commerciale. Quando
ancora semplicemente se ne parlava [riferimento alla futura stazione
ferroviaria] i vari rappresentati istituzionali locali descrivevano il futuro
prossimo del Pigneto come futuro turistico.»
Attraverso l’utilizzo della piattaforma Inside Airbnb, nata con lo scopo di
misurare l’impatto degli affitti di breve locazione nelle città di tutto il mondo, è
stata effettuata un’analisi sull’impatto che questa tipologia di affitto avrebbe sul
quartiere oggetto di questa ricerca:

149
In dettaglio il V Municipio Prenestino – Centocelle. Il blu indica la presenza di stanze condivise, il verde le camere in appartamento condiviso e il
rosso gli interi appartamenti disponibili.
150
In questo caso si è voluto isolare il quartiere di nostro interesse per mostrare nel dettaglio l’uso intensivo della piattaforma Airbnb.
151
Da questo monitoraggio effettuato il 17 gennaio 2019 emerge chiaramente dalla
prima immagine come nell’intero Municipio V, fatta eccezione di una
significativa presenza di appartamenti locati nel quartiere di Centocelle, la
maggiore e prorompente presenza sia per lo più concentrata all’interno dei
confini del quartiere Pigneto.

Tipologia degli annunci dei proprietari, singoli o multipli, nel Municipio V.

L’ultimo grafico svela lo scopo della creazione del sito web Inside Airbnb, infatti
il creatore Murray Cox324 si pose l’obiettivo di informare sia cittadini che sindaci
dell’impatto di Airbnb nelle loro città; Cox mette a disposizione questo
strumento per sfuggire al mito della “favola comunitaria” e assumere
consapevolezza della gestione degli appartamenti come strutture alberghiere e ci
siano spesso alle spalle multiproprietà immobiliari, distaccandosi completamente
dall’idea canonica di sharing economy. Si tratta dello stesso processo che è stato
recentemente documentato nei Quartieri Spagnoli di Napoli: lo storico quartiere
popolare, che per lungo periodo è stato descritto come malfamato e pericoloso,

324
https://ilmanifesto.it/inside-airbnb-dentro-il-capitalismo-digitale/
152
negli ultimi anni è diventato una grande meta turistica in cui ricercare la
“napoletanità” come esperienza folcloristica325. Il rischio che si corre in tutte le
grandi città italiane in questo momento è che le multiproprietà passino dalle
mani di costruttori e palazzinari a quelle di agenzie e multinazionali in grado di
rilevare molti appartamenti o interi palazzi da mettere in affitto su Airbnb. Il
problema dell’affitto a breve locazione così diffuso si ripercuote su chi, non
possedendo immobili, è costretto ad accedere ad un affitto a lunga locazione,
poiché di appartamenti destinati all’affitto annuale nei centri delle grandi città
sono rimasti pochi e con prezzi molto elevati.
Domenica 14 ottobre 2018, sempre all’interno di “Logos – Festival della
parola”, è stata organizzata una giornata al “lago che combatte”, si tratta del
“lago della Snia”, un lago nel centro di Roma, una lunga storia di opposizione
alla cementificazione. Il quartiere Pigneto ha un lago naturale e questa è forse la
cosa più sorprendente che si possa scoprire e visitare sul territorio, perché
accanto ad una via consolare come quella della Prenestina è difficile immaginare
che possa esserci uno spazio così genuino ed esteticamente, ma non fisicamente,
distante dal traffico e dalla frenesia quotidiana che ci si aspetta in una grande
metropoli. Il lago è aperto tutti giorni, dal mattino al tramonto, ed è
autofinanziato con la cassa di resistenza del 25 aprile che viene raccolta in
piazza Nuccitelli-Persiani e tramite le iniziative promosse dal centro sociale
eXSnia e quelle del Forum Territoriale Permanente del Parco delle Energie. Il
10 ottobre 2018 il Consiglio Regionale Del Lazio ha approvato l’ordine del
giorno promosso dal Gruppo Consigliare Lista Civica Zingaretti, sostenuto
anche dai consiglieri del Movimento 5 Stelle, ad avviare le procedure per
l’apposizione del vincolo di “monumento naturale” all’area del lago ex Snia-
Parco delle Energie. E’ chiaro di come questa notizia, arrivata solo qualche
giorno prima della giornata organizzata al lago, abbia messo in moto la volontà
degli attivisti a perseguire e raggiungere questo obiettivo, e per far sì che la
procedura venga completata è stata presentata un’ulteriore istanza al presidente
della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, e all’Assessore all’Ambiente, Enrica
Onorati, sottoscritta da centoventi personalità del mondo accademico, scientifico

325
Gainsforth, S., Napoli si è arresa a Airbnb, L’Espresso, n.3, anno LXV, 13 gennaio 2019,
pp.58-61
153
e artistico326. La giornata di domenica 14 ottobre è stata una giornata di festa,
impegno e partecipazione, momenti di condivisione e di intrattenimento. Non
sono stata in grado di stimare le persone presenti ma erano sicuramente tante e di
qualsiasi età. La giornata si è conclusa con un lungo corteo per la via Prenestina,
una folla guidata da uno striscione che recitava «LAGO PER TUTT* /
CEMENTO PER NESSUN* / PARCO SUBITO». La giornata è stata inoltre
animata dal gruppo romano Assalti Frontali che proprio al lago nato nella zona
dell’ex fabbrica hanno dedicato nel 2016 un pezzo dal titolo “Il lago che
combatte”.
«Palazzinaro amaro
sei un palazzinaro baro
per tutto il male fatto a Roma
adesso paghi caro
al funerale del tuo centro commerciale
è bellissimo vedere
il nostro lago naturale»327

La giornata a cui ho avuto il piacere di partecipare ha restituito appieno l’idea di


lotte e impegno sul territorio portate avanti con costanza e determinazione da più
di venticinque anni. Il lago è oggi quotidianamente fruibile a tutti perché una
parte della comunità si è ribellata a quella che sembrava una classica storia di
speculazione. La storia dell’ex fabbrica è una storia di singoli che hanno
combattuto per trasformare l’area in un luogo pubblico, a dispetto dei progetti
portati avanti dalla proprietà: nel 1995 viene occupato il centro sociale; nel
1997 è inaugurato il Parco delle Energie; nel 2003 è approvato il progetto
della Casa del Parco; nel 2005 iniziano i lavori per la realizzazione del
Quadrato (spazio teatrale polifunzionale all’aperto), terminati nel 2011; nel
2012 viene aperta la Casa del Parco; nel 2014 la mobilitazione ottiene la
formalizzazione dell’ultimo esproprio, riguardante l’area del lago328. Le

326
https://lagoexsnia.wordpress.com/2018/12/10/area-ex-snia-monumento-naturale-il-mondo-
accademico-scientifico-e-ambientalista-a-sostegno-della-nuova-istanza/
327
Inizio del testo della canzone “Il lago che combatte”, perfetta sintesi delle vicende
susseguitesi in più di venti anni nella zona dell’ex fabbrica SNIA-Viscosa.
328
https://www.dinamopress.it/news/ex-snia-tutta-monumento-naturale/
154
conquiste sono state raggiunte passo dopo passo dagli abitanti, con l’aiuto
della natura, di quella falda che sgorgando ha impedito un progetto di
cementificazione e quindi la privatizzazione di uno spazio oggi finalmente
pubblico. La storia dell’ex fabbrica SNIA-Viscosa è una storia lunga e da
molti studiata, in questa sede si è potuto appena fare un accenno per capire
l’importanza delle pratiche cittadine e per evidenziare come al Pigneto
l’abitudine all’azione collettiva si perpetui da tantissimo tempo. La voce di
Marta però mi sembra importante per andare oltre le vicende, quelle
burocratiche per esempio, perché in grado di restituire perfettamente quello
che per lei ha voluto dire la partecipazione, l’appartenenza ad un gruppo e la
condivisione di obiettivi:
«Io ero da sempre nel quartiere e partecipavo qualche volta, per esempio
alla lotta per il lago nel Novanta ci sono stata e anche alle manifestazioni,
però in modo molto laterale, non ero addentrata nell’organizzazione. Però
il Parco era importante perché ho cominciato ad andare al Parco, che in
realtà era aperto dal ’96/’97, quando è stato inaugurato era bellissimo,
tutto curato, allora il servizio giardini funzionava e c’erano dei giardinieri
che avevano parlato con le persone del quartiere, perché diciamo quella
lotta è stata portata aventi proprio dal Comitato di Quartiere, perché non
c’era ancora il comitato del Parco e tutte le altre realtà che sono nate poi.
Il Comitato di Quartiere allora aveva voluto dialogare con i giardinieri,
allora non era così forte questo coinvolgimento delle persone che
volevano partecipare al processo decisionale, e infatti il viale di ingresso,
ancora me lo racconta un signore anziano che era nel Comitato di
Quartiere mi diceva che avevano deciso insieme, infatti se ci vai c’è un
pino e un cipresso, un pieno e un cipresso, perché lui voleva la Toscana
con il cipresso e i giardinieri i pini romani. Questo è un aneddoto per dirti
quanto già allora fosse forte questo senso di appartenenza e di volontà di
stare nelle decisioni e non delegare tutto al comune, anche quando
facevano le cose buone, come in questo caso. Io ho cominciato ad andarci
quando i miei nipotini erano piccolini ed era bellissimo poi piano, piano
però ha iniziato ad essere abbandonato, era sempre meno curato e c’era il
piccolo parco giochi che in un certo momento è stato chiuso perché era
155
pericolante e invece di sistemarlo ce l’hanno portato via. Da quel
momento, dall’esigenza di riavere quei giochi mi sono avvicinata al
Comitato del Parco e però sono stata fortunata perché a volte questi
comitati rimangono molto chiusi, nel loro piccolo, invece io ho incontrato
nel 2004/2005 delle persone straordinarie che ancora adesso frequento,
che sono importantissime per me. Prima di tutto si sono stabiliti rapporti
di amicizia e poi queste persone avevano una visione che allora mi
mancava, per esempio per il Parco un “sistema Parco” e poi non solo
l’angoletto per i bambini ma anche tutto il parco… Poi mi hanno
cominciato a parlare del lago, che io non ignoravo ma l’avevo
dimenticato, come se lo avessi rimosso, perché non si vedeva, stava lì giù
e poi allora non c’erano né il quadrato e né la casa del Parco e queste
persone sapevano di questi progetti, perché ne avevano discusso quelli
del Comitato di Quartiere. Io non li sapevo e allora ho cominciato non
solo a riunirmi al Comitato di Quartiere ma anche a quello per il Parco.»
Le tematiche trattate nella giornata di lunedì 22 ottobre 2018 durante
l’assemblea pubblica tenutasi nella piazzetta Nuccitelli-Persiani ricordano quelle
dell’incontro di Logos – Festival della parola, o meglio è come se quegli
argomenti fossero stati il naturale proseguo della prima giornata e
l’esemplificazione di quanto il microsistema Pigneto fosse stato contaminato e di
quanto fosse ancora costantemente esposto al rischio di una snaturalizzazione.
Possiamo parlare di una sorta di format dell’incontro, poiché la serata è stata
incentrata sulla libera possibilità di intervenire a tutti i presenti in piazzetta e di
utilizzare un microfono messo a disposizione al centro della piazza. Nella serata
sono state presentate iniziative che avevano lo scopo della riappropriazione della
piazza, giornate organizzate a favore di una risocializzazione di quello spazio
pubblico che era stato messo in pericolo dalla costruzione dell’adiacente locale
KRAM. Il tenore degli argomenti portati in piazza quella sera è stato variegato
ma, come presentato dalla locandina, vi era un chiaro invito alla discussione di
tematiche legate al reiterato aumento di locali notturni, la preoccupazione di
espulsioni degli abitanti in affitto, come conseguenza della messa a profitto del

156
territorio, discorsi specifici riguardanti il locale abusivo KRAM329 ed ancora una
volta è emersa la preoccupazione su una possibile turistizzazione del quartiere.
Oltre ad interventi incentrati sulla questione specifica del locale abusivo, i
contributi particolarmente interessanti sono stati quelli di abitanti schierati
contro una strumentalizzazione delle strade e delle piazze del Pigneto,
soprattutto contro quello che è stato definito il «paravento della riscoperta
culturale del Pigneto». Non è la prima volta che mi è capitato di sentire di come
l’arte e la cultura siano state sfruttate nella zona per un ritorno economico, come
abbiamo già visto nel caso della street art o dell’importante passato
cinematografico. Un cittadino svizzero ha raccontato la sua vita al Pigneto
durata soli quattro anni, di come si è trasferito dal quartiere Trastevere e di
essere scappato perché oramai diventata «come Disneyland». La paura che
anche questo quartiere diventi come Trastevere è un’associazione che nell’arco
dei tre mesi mi è stata ripetuta più volte e da persone differenti;
nell’immaginario dei cittadini romani o di quelli che vivono o hanno vissuto a
Roma, Trastevere incarna il perfetto esempio di un territorio invivibile, luogo
per turisti e registi, dove le attività commerciali si sono completamente
disancorate dal vivere quotidiano e messe a funzione del passaggio occasionale.
Una delle ragazze che ho conosciuto a Roma in questi mesi durante una
chiacchierata riferendosi ad un locale al Pigneto mi dice: «Era pieno di turisti…
E io pensavo, ma perché non se ne vanno a Trastevere? Che già un pezzo della
città se lo so presi?!». Nelle parole degli abitanti, Trastevere rappresenta il
modello negativo a cui non tendere, dal quale allontanarsi e non cercare di
emulare, perché Trastevere ha perso la romanità, è stato svenduto ai turisti
benestanti, disancorandosi dal contesto e diventando una sorta di cartolina senza
abitanti, un’immagine pronta al consumo, una realtà codificata negli itinerari
turistici. Quando nel 2008 il Collettivo Malatempora la Guida al Pigneto. Dove
pulsa ancora la vita di quartiere nelle pagine iniziali fece il seguente riferimento
alla condizione di Trastevere:
«Mutatis mutandis, succede quello che negli anni Settanta era successo a
Trastevere, quartiere che era stato della mala nel dopoguerra […], poi scoperto
da alternativi, artisti e stranieri che ne seppero vedere la bellezza dei vicoli e

329
Nei giorni successivi sono stata informata della presenza del proprietario del locale e di due
suoi collaboratori, questo però ha deciso di non prendere la parola e di non replicare in alcun
modo alle accuse che gli furono mosse.
157
della vita ancora antica, dove poco costavano gli affitti e poco le osterie. E per
questo ci vennero ad abitare e lo resero vivo, animato, godibile finché,
lentamente ma inesorabilmente, nel ventennio tra gli Ottanta e i Novanta,
diventò alla moda, e poi caro, e poi museale e turistizzato a morte. […]
Il piccolo Pigneto, fuori dalle mura e fuori da ogni giro che conta è una specie
di bella addormentata, che negli anni Novanta viene scoperto perché costa poco,
perché non è invaso dalle macchine, e perché ha una magia che ormai la città
dentro le mura non ha più.
Alternativi di varia estrazione, ma anche nuove famiglie, pittori, musicisti,
creatori d’ogni genere, anche del web, e poi studenti universitari. Attirati dai
prezzi più che convenienti e dalla vicinanza con il centro cominciano a venirci a
vivere.»330

A dieci anni di distanza da questa pubblicazione bisogna chiedersi se, dagli anni
Novanta, il Pigneto sia cambiato. E’ diventato alla moda? Assolutamente sì,
soprattutto trai giovani universitari e tra coloro che cercano una “movida
alternativa”, imbevuta di una retorica culturale. E’ più caro? I dati forniti dalla
Borsa Immobiliare di Roma testimoniano che ci fu un forte aumento nel 2006,
per poi ridimensionarsi, senza però mai tornare ai prezzi pre-boom, nel 2011-
2012. E’ museificato e turistizzato? In questo caso si parla di una parziale
realizzazione di questi due avvenimenti; è chiaro che i tour turistici e la Metro C
abbiano favorito l’arrivo in zona di nuovi avventori, ma la risposta a questa
domanda si potrà dare solo nell’arco di un lungo periodo, vedendo quando e se
verrà realizzata la Stazione Ferroviaria Pigneto e i mutamenti al tessuto sociale
che questa apporterà. Sarebbe anche necessaria un’osservazione precisa e
puntuale sui piani urbanistici presenti e futuri e inoltre un controllo sull’apertura
di attività commerciali per la somministrazione di cibo e bevande. Un ulteriore
intervento di quella sera molto interessante è stato fatto da un signore che
richiedeva di presentare richiesta al Municipio V dell’inserimento del quartiere
«nella fascia A, affinché diminuiscano le concessione delle licenze»; il
riferimento è alla deliberazione comunale 35/2010331 che prevedeva di:
«istituire per il quadrante Pigneto (meglio descritto nella planimetria allegata e
delimitata con le seguenti vie perimetrali: Via Romanello da Forlì (compresa tra
Via Prenestina e Via Conte di Carmagnola), Via Conte di Carmagnola
(compresa tra Via Romanello da Forlì Via Alberto da Giussano), Via Alberto da
Giussano (compresa tra Via Conte di Carmagnola e Via del Pigneto), sono
ammesse al bando sia lato destro che sinistro. Invece le restanti vie perimetrali,
quali Via del Pigneto (da Piazza dei Condottieri a Piazza Cavallini), Via
Casilina (da Circonvallazione Casilina a Piazza del Pigneto), Circonvallazione
Casilina (tutta) e Via Prenestina (dall’intersezione con Via Romanello da Forlì a

330
Collettivo Malatempora, op. cit. p.11
331
https://www.comune.roma.it/web-resources/cms/documents/CC_35_10.pdf
158
Porta Maggiore) un ambito territoriale, nel quale applicare la disciplina prevista
per la Zona A;»

La suddivisione in tre zone, la A, la B e la C, è stata istituita per una


regolamentazione dei criteri di qualità necessari per l’apertura di un nuovo
esercizio di somministrazione, fatta salva però la sussistenza di requisiti
strutturali; la Zona A coincideva inizialmente con il Centro Storico, il Rione
Monti, il Rione Trastevere, il Rione Testaccio, il Rione Celio, il Rione Borgo e
San Lorenzo, come è chiaro dalla delibera comunale in questione si è sentita
l’esigenza di inserire dal 2010 anche una parte del quartiere Pigneto,
essenzialmente quella dell’isola pedonale e poche altre vie, ammettendo però al
bando sia il lato destro che quello sinistro, dove si sta di fatto espandendo la
costante apertura di nuove attività. Quella sera in piazzetta Nuccitelli-Persiani
venne menzionata anche un’espressione che emerge spesso nelle osservazioni
critiche sui mutamenti urbani e cioè la volontà di creazione da parte delle
istituzioni locali di una “città vetrina”; la parte al di là del Ponte, quella dell’isola
pedonale, è sicuramente quella più investita da questa “vetrinizzazione”. In
riferimento a questo viene introdotto il concetto di Vanni Codeluppi che, insieme
al processo di spettacolarizzazione della società e degli individui, vi è anche
l’applicazione del concetto “vetrinizzazione” al contesto urbano: con questo
neologismo l’autore tende a mettere in luce di quanto in un’ottica neoliberista le
istituzioni locali abbiano ricreato nel cento storico una sorta di “centri
commerciali a cielo aperto”, fornendoli anche di luoghi «fortemente
spettacolari», come musei, alberghi, ristoranti e locali di intrattenimento. Il
centro storico portato come esempio da Vanni Codeluppi è ormai quello di
qualsiasi città grande o media italiana, un centro da quale sono state estirpate le
attività produttive in favore di quelle finanziarie e dei servizi, cambiando così
anche il range dei destinatari. Le città strizzano l’occhio a turisti e consumatori,
ricoprendosi di un aspetto esteriore «luccicante come una vetrina e oggetto di
moda da consumare nel tempo libero»332.
L’esperienza di questi tre mesi ha avuto come parole chiave
gentrificazione, turistizzazione e speculazione; le tre sono risultate

332
Codeluppi, V., La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui
e della società, Bollati Boringhieri, Torino, 2007, p.78

159
indissolubilmente collegate, al punto da sovrapporsi e da non riuscire a
distinguere i confini delimitanti tra esse. E’ emerso limpidamente quanto questi
processi non siano legati al contesto specifico, né esclusivamente alla sola città
di Roma ma queste siano in realtà problemi riscontrabili nella maggior parte
delle città occidentali. Il filo conduttore in grado di accomunare metropoli
spazialmente molto distanti è il perseguimento di strategie politiche che, negli
ultimi decenni, hanno scommesso sull’estrema messa a profitto del territorio,
rendendolo sia luogo di consumo che luogo da consumare.

160
Conclusione: gentrification e spazi urbani, il punto di vista etnografico

Credo sia sentimento normale e condiviso quello di non provare soddisfazione


alla fine di un percorso. Probabilmente solo per carattere, i limiti di questa ricerca erano
chiari ancora prima di iniziare. Mi era stato chiesto cosa avessi intenzione di fare una
volta arrivata a Roma, e soprattutto avevo interrogato me stessa a riguardo, non
trovando alcun tipo di risposta. Non sapevo cosa fare, o meglio, conoscevo la teoria ma
non la pratica: ho cercato il modo di tradurre in azioni e pratiche concrete i manuali di
antropologia e ho minuziosamente preso ispirazione dalle etnografie lette in questi anni,
incappando comunque negli errori del dilettante.
Per la necessità di rispettare alcune tempistiche ben definite, la ricerca sul campo è
durata tre mesi e poco più: il limite temporale è quello che ha segnato maggiormente il
lavoro; inutile negare che vivere sul campo più a lungo avrebbe fornito la possibilità di
partecipare attivamente ad ulteriori iniziative promosse da quel segmento di
popolazione su cui è stata puntata l’attenzione. Ulteriore tempo poteva essere impiegato
per approfondire a livello qualitativo le relazione instaurate con gli attori e aumentare
sul piano quantitativo il numero degli informatori. Inoltre, si sarebbe potuto rivolgere
l’attenzione su quegli abitanti considerati gentrifier, sia i liberi professionisti che hanno
eletto il Pigneto come quartiere più consono a loro ed anche su chi ha visto nella zona
un terreno fertile in cui espandere i proprio interessi commerciali.
Alla fine di un percorso è chiaro domandarsi se si è centrato il punto, soprattutto se le
premesse della ricerca siano state soddisfatte in pieno e se si può definire compiuto e
accademicamente rilevate il percorso di ricerca. Sulla base di questa autocritica è sorto
un problema nella descrizione della gentrification al Pigneto: come prima cosa, è stato
notato, grazie al supporto delle “memorie storiche”, che il processo di sostituzione di
classe sociale si è espanso per un lungo arco temporale e che ha visto come protagonisti
in precedenza quella classe creativa o, per dirla in maniera più brutale, quei giovani
neolaureati di sinistra che, senza inganno e senza pensare alle conseguenze, ricercavano
un’oasi tranquilla, genuina, non lontana dal centro ed economicamente abbordabile,
perché nella maggior parte dei casi il capitale economico è inferiore a quello culturale;
in un secondo momento, una volta che i primi avevano dato il via e reso cool la zona, si
sono stabilite le condizioni affinché si creasse un territorio attraente alla speculazione
commerciale e così sono nati e continuano a nascere le attività imprenditoriali,

161
soprattutto legate al mondo della ristorazione ma anche a quello dell’edilizia, in cui
risulta difficile svincolare la scelta del territorio dalla volontà di profitto. Questa non è
certo una novità, tutta la letteratura scientifica consultata parla di una gentrificazione
“spontanea e innocente” ed una conseguente legata principalmente all’andamento degli
affari in zona. Ciò che è sembrato rilevante è che al Pigneto tantissime persone parlano
e si oppongono alle pratiche di sostituzione di popolazione, in maniera maggiore
rispetto al resto dei quartieri italiani di cui ho esperienza, ma spesso questo accade senza
coscienza, intesa come mancanza di consapevolezza dell’essere uno gentrifier. Eleggere
il Pigneto a quartiere della propria dimora, non tanto oggi ma soprattutto dieci anni fa,
aveva una marcata connotazione, voleva in un certo senso dire chi si era e cosa si
pensava, voleva essenzialmente rivendicare tre cose: di avere una buona/elevata cultura,
di essere giovani e di avere una vena nostalgica nei confronti dell’autenticità di una
dimensione abitativa pressoché familiare. Sono tre elementi non recriminabili ma è
impossibile non sostenere che le attività e gli stili di vita che sono conseguite dai primi
nuovi abitanti abbiano contribuito a rendere il Pigneto quel luogo di cui oggi ci si
lamenta.
La maggior parte della letteratura scientifica sulla gentrification è prodotta fuori
dall’Italia, soprattutto nel mondo accademico anglosassone e statunitense, il che, oltre a
dei limiti linguistici, ha comportato l’impossibilità di reperire tutti i testi, essendo alcuni
non presenti nelle biblioteche italiane e dovendo così ricorrere al loro impiego e al loro
studio mediante i filtri di altri autori.
Il terzo punto è più un dubbio che un limite: involontariamente, per indole o per
incoscienza, l’attenzione si è focalizzata su due attori sociali del quartiere che hanno
messo e continuano a praticare atti di resistenza contro le logiche dominanti
neoliberiste. Negli anni in cui il ceto medio si sta sempre più impoverendo, la questione
abitativa è chiaramente diventata il fulcro nevralgico per la grande fascia di popolazione
che non può più permettersi di sottoscrivere un mutuo. Aver posto l’attenzione sulle
piccole opposizioni quotidiane, messe in moto soprattutto contro la speculazione
commerciale, edilizia e abitativa, la trasformazione urbana a favore di un beneficio di
pochi derivato dalla somministrazione di cibo e bevande e la paura di una sempre
maggiore perdita di relazioni di vicinato, ha confinato le frequentazione in un segmento
di abitanti, ben delineato, riconoscibile e a volte marginalizzato. Il dubbio sorge dalla
consapevolezza racchiusa in questa esperienza di ricerca etnografica urbana e in quello

162
che Claude Lévi-Strauss considerava come l’unica possibilità di pratica nel contesto
metropolitano, ovvero quegli ambiti della società contemporanea non ancora intaccati
dalla complessità. Chiaramente, non si tratta di segmenti non intaccati dalla complessità
ma di una sorta di enclave urbana che non si rassegna ad una modernità acritica che
rende il suolo e le abitazioni prima fonte di profitto e non vede la Capitale d’Italia come
una macchina della crescita.
Nonostante dubbi, errori, incertezze, i momenti e gli incontri che hanno
costellato questi tre mesi hanno fatto sì che vivessi, per ricollegarci al paragone iniziale,
un piacevole rito di passaggio. Il tassista che mi accompagna a Roma Termini si
informa sui miei ultimi mesi e mi dice: «Signorì, lei sicuro è brava e si capisce da come
lo dice che je piace… C’ha il tono de voce che ‘o fa capire… Ma si ricordi che una cosa
così l’ha potuta fare perché semo a Roma, perché a noi romani ce piace pallà!». Aveva
ragione. Non avrei mai potuto replicare. Così, quando con le mie valigie, mi ritrovai
davanti l’ingresso della stazione, capii che il merito doveva essere diviso: metà a me e
l’altra metà a quelle persone incontrate a cui “je piace pallà”!

163
Ringraziamenti

Un ringraziamento ad Armando Cutolo, che per primo mi ha aiutato a credere in questa


ricerca.
A Pietro Meloni per i preziosi consigli e la pazienza dimostrata nel chiarificare dubbi.
Grazie a tutti gli amici che mi sono stati accanto in questi mesi di cambiamenti e
insicurezze.
A Matilde e Alessandra per il supporto d’oltralpe; a Clelia per la bizzarra complicità.
A Giacomo, per avermi accompagnata a Roma e per essere pinguino presente e
premuroso.
Grazie agli estremi della mia famiglia: a mia nonna, novantuno anni di indipendenza; a
mia nipote, un amore di un anno e poco più.
Ai miei genitori, la mia parte migliore: a mia madre per la prorompente determinazione,
a mio padre per la corazzata fragilità.

164
Bibliografia

Agamben, G., L’uso dei corpi. Homo sacer, IV, 2, Neri Pozza Editore, Vicenza, 2014

Agostini, I., Scandurra, E., Miserie e splendori dell’urbanistica, DeriveApprodi, Roma,


2018

Amoroso, B., Berdini, P., Castagnola, A., Castronovi, A., Caudo, G., Cellamare, C.,
Ricoveri, G., Rossi-Doria, B., Sartogo, V., Scandurra, E., Troisi, R., Modello Roma.
L’ambigua modernità, ODRADEK, Roma, 2007

Appadurai, A., Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello
Cortina Editore, Milano, 2014, (The Future as Cultural Fact. Essays on the Global
Condition, 2013)

Arendt, H., Vita Activa. La condizione umana, Bompiani, Milano, 1989, (The Human
Condition, 1958)

Associazione Culturale Futuro (a cura di), Invito al Pigneto. La città giardino del
Prenestino, Fratelli Palombi Editori, Roma, 2000

Attili, G., Decandia, L., Scandurra, E., Storie di città. Verso un’urbanistica del
quotidiano, Edizioni interculturali, Roma, 2007

Balandier, G., Antropologia politica, Armando editore, Roma, 2000, (Anthropologie


politique, 1967)

Barberi, P., E’ successo qualcosa alla città. Manuale di antropologia urbana, Donzelli
Editore, Roma, 2010

Berdini, P., Nalbone, D., Le mani sulla città. Da Veltroni ad Alemanno storia di una
capitale in vendita, Edizioni Alegre, Roma, 2011

Bourdieu, P., La distinzione. Critica sociale del gusto, Mulino, Bologna, 2001, (La
distinction. Critique sociale du jugement, 1979)

Bridge, G., A global gentrifier class?, Environment and Planning A, 2007, Vol. 39, N.
1, pp. 32-46

Callari Galli, M. (a cura di), Mappe urbane. Per un’etnografia della città, Guaraldi,
Rimini, 2007

Casellas, A., Dot-Jutgla, E., Pallares-Barbera, M., Artists, Cultural Gentrification and
Public Policy, Urbani Izziv, Vol. 23, supplement 1: KNOWLEDGE, NETWORKS
AND WORK: RELATIONAL DIMENSIONS OF REGIONAL GROWTH,
Urbanisticni institute Republike Slovenije, (2012), pp.S104-114

165
Cellamare, C. (a cura di), S.M.U.R. Self made urbanism Rome: Roma città
autoprodotta: ricerca urbana e linguaggi artistici, Manifestolibri, Castel San Pietro
Romano, 2014

Codeluppi, V., La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli


individui e della società, Bollati Boringhieri, Torino, 2007

Collettivo Malatempora, Guida al Pigneto. Dove pulsa ancora la vita di quartiere,


malatempora editrice, Roma, 2007

D’Eramo M., Il selfie del mondo. Indagine sul’età del turismo, Giangiacomo Feltrinelli
Editore, Milano, 2017

Dal Lago, A., Giordano, S., Sporcare i muri. Graffiti, decoro, proprietà privata,
DeriveApprodi, Roma, 2018

De Certeau, M., L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma, 2001,


(L’invention du quotidien. I Arts de faire, 1990)

De Martino, E., Angoscia territoriale e riscatto culturale nel mito achilpa delle origini.
Contributo allo studio della mitologia degli aranda, in de Martino, E., Il mondo
magico, Edizioni Scientifiche Einaudi, Editore Boringhieri, Torino, 1958, pp.261-276

Debord, G., La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano, 1997, (La Société
du Spectacle, 1992)

Fabietti, U., Storia dell’antropologia, Zanichelli, Bologna, 2011

Ferrarotti, F., Spazio e convivenza. Come nasce la marginalità urbana., Armando


editore, Roma, 2009

Florida, R., Cities and the creative class, New York, Routledge, London, 2005

Florida, R., L’ascesa della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni,
Arnaldo Mondadori Editore, Milano, 2003, (The Rise of Creative Class, 2002)

Foucault, M., Spazi altri. I luoghi delle eterotopie, Mimesis Eterotopia, Milano, 2001

Glass, R., Urban Sociology in Great Britain: a trend report, in London. Aspects of
Change, Centre for Urban Studies, Macgibbon & Kee Ltd, London, 1964

Hall, S., Jefferson, T., Resistance through Rituals. Youth subcultures in post-war
Britain, Routledge Taylor & Francis Group, Oxford, 2006

Hannerz, U., Esplorare la città: antropologia della vita urbana, il Mulino, Bologna,
1992, (Exploring the City. Inquiries Toward an Urban Anthropology, 1980)

Hardt, M., Negri, A., Comune. Oltre il privato e il pubblico, RCS Libri, Milano, 2010,
(Commonwealth, 2009)

166
Hardt, M., Negri, A., Impero. Il nuovo ordine nella globalizzazione, Rizzoli, Milano,
2002, (Empire, 2001)

Harvey, D., Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall
Street, Il Saggiatore S.r.l., Milano, 2013, (Rebel Cities, 2012)

Harvey, D., Giustizia sociale e città. Tesi liberali, Giangiacomo Feltrinelli Editore,
Milano, 1978, (Social Justice and the City, 1973)

Harvey, D., Giustizia sociale e città. Tesi socialiste, Giangiacomo Feltrinelli Editore,
Milano, 1978, (Social Justice and the City, 1973)

Harvey, D., L’esperienza urbana. Metropoli e trasformazioni sociali, il Saggiatore,


Milano, 1998, (The Urban Experience, 1989)

Ilardi, M., La città senza luoghi. Individuo, conflitto, consumo nella metropoli, Costa &
Nolan spa, Genova, 1990

Insolera, I., Roma moderna. Da Napoleone I al XXI secolo, Giulio Einaudi editore,
Torino, 2011

La Cecla, F., Contro l’urbanistica, Giulio Einaudi editore, Torino, 2015

La Cecla, F., Mente Locale. Per un’antropologia dell’abitare, Elèuthera, Milano, 1996

Lees, L., Slater, T., Wyly, E., Gentrification, Routledge Taylor & Francis Group, New
York, 2008

Lefebvre, H., La rivoluzione urbana, Armando Armando Editore, Roma, 1973, (La
révolution urbaine, 1970)

Lefebvre, H., Il diritto alla città, Ombre corte, Verona, 2014, (Le droit à la ville, 1968)

Lenzini, F., Riti urbani. Spazi di rappresentazione sociale, Quodlibet, Macerata, 2017

Lévi-Strauss, C., in Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano, 1966,


(Anthropologie structurale, 1958)

Ley, D., Artists, aestheticisation and the field of gentrification, Urban Studies, 2003,
Vol. 40, N. 12, pp. 2527-2544

Li Causi, L., Uomo e potere. Una introduzione all’antropologia politica, Carocci


editore, Roma, 2013

Loughurst, B., Smith, G., Bagnall, G., Crawford, G., Ogborn, M., McCracker, S.,
Baldwin, E., Introducing Cultural Studies, Routledge, New York, 2013

Lutter, C., Reisenleitner, M., Cultural Studies. Un’introduzione,, Cometa, M. (a cura


di), Paravia Bruno Mondadori Editori, Milano, 2004, (Cultural Studies. Eine
Einführung, 2002)
167
Mead, M., Lettere dal campo. 1925-1975, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1979,
(Letters from the Field. 1925-1975, 1977)

Park, R. E., Burgess E. W., McKenzie, R. D., La Città, Edizioni di Comunità, Milano,
1967, (The City, 1925)

Pisanello, C., In nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche securitarie, ombre
corte, Verona, 2017

Pitto, C. (a cura di), Antopologia Urbana, Programmi ricerche e strategie,


Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1980

Pompeo, F. (a cura di), Pigneto-Banglatown. Migrazioni e conflitti di cittadinanza in


una periferia storica romana, Meti Edizioni, Roma, 2011

Procter, J., Stuart Hall e gli studi culturali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007,
(Stuart Hall, 2004)

Ranaldi, I., Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York, ARACNE
editrice, Roma, 2014

Redfern, P. A., What makes gentrification “gentrification”?, Urban studies, 2003, Vol.
40, N. 12, 2351-2366

Saitta, P., Gentrification o speculazione? Note analitiche sugli abusi di un termine, in


Urbanistica 3 Quaderni, 2017, n.13, (numero monografico Anti-gentrification nelle
città (Sud) Europee, a cura di Annunziata Sandra), pp.103-109

Sassen, S., Città globali. New York, Londra, Tokyo, UTET Libreria s.r.l., Torino, 1997,
(The Global City. New York, London, Tokyo, 1991)

Sassen, S., Le città nell’economia globale, il Mulino, Bologna, 2010, (Cities in a World
Economy, 2006)

Scandurra, E., Vite periferiche: solitudine e marginalità in dieci quartieri di Roma,


Ediesse, Roma, 2012

Scandurra, G., Il Pigneto: un’etnografia fuori le mura di Roma. Le storie, le voci e le


rappresentazioni dei suoi abitanti, CLEUP, Padova, 2007

Scarpelli, F., Romano, A. (a cura di), Voci della città. L’interpretazione dei territori
urbani, Carocci, Roma, 2011

Secchi, B., Prima lezione di urbanistica, Gius. Laterza & figli, Bari, 2000

Semi, G., Gentrification. Tutte le città come Disneyland?, il Mulino, Bologna, 2015

Severino, C.G., Roma mosaico urbano. Il Pigneto fuori Porta Maggiore, Gangemi
Editore, Roma, 2005
168
Signorelli, A., Antropologia urbana. Introduzione alla ricerca in Italia, Edizioni
Angelo Guerini e Associati s.r.l, Milano, 1996

Simmel, G., Le metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma, 2000, (Die
Groβstädte und das Geistesleben, 1903)

Smith, N., Williams, P., Gentrification of the city, Routledge, Oxford, 2007

Smith, N., The Evolution of Gentrification, in Houses in Trasformation: Interventions in


European Gentrification, NAi010 publishers, Rotterdam, 2010

Sobrero, A. M., Antropologia della città, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1993

Turner, V., Dal rito al teatro, il Mulino, Bologna, 1986, (From Ritual to Theatre. The
Human Seriousness of Play, 1982)

Vitta, M., Dell'abitare. Corpi spazi oggetti immagini, Giulio Einaudi editore, Torino,
2008

Weil, S., La prima radice, SE SRL, Milano, p.1990, (L’enracinement. Prélude à une
déclaration des devoirs envers l’être humain, 1949)

169

Potrebbero piacerti anche