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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

Dipartimento di studi linguistici e culturali

Corso di Laurea Magistrale in


Antropologia e Storia del mondo contemporaneo

In dialogo con la storia.


L’intervista come fonte e come forma di divulgazione
storica

Prova finale di:


Cuan Peter Sommacal
Relatore:
Giuliano Albarani

Correlatore:
Lorenzo Bertucelli

Anno Accademico 2014/15


1. Introduzione 5

2. Questioni metodologiche - L’intervista come fonte storica e come forma di divulga-


zione storica 11

a. Cenni storici 11

b. L’intervista come fonte storica: metodologia, problemi e criticità 17

c. La «nuova storia» e l’uso pubblico della storia 37

d. Esempi di interviste 57

3. Intervista a Silvio Miana 61

a. Metodologia e strumenti utilizzati 61

b. Trascrizione dell’intervista 67

c. Linea del tempo 143

4. Conclusioni 153

5. Bibliografia 159

• 5.1 Questioni metodologiche 159

• 5.2 Ricerca originale 163

• 5.2.1 Storia generale 163

• 5.2.2 Modena e provincia 166

• 5.2.3 Cooperazione 168

• 5.2.4 Partito 170

• 5.2.5 Sindacato 170


«La cosa più interessante è la ricchezza, la vivacità di particolari che può emergere da una
testimonianza orale. Mentre lo storico, se fa un lavoro di sintesi o anche di analisi dettagliata,
ha una visione in bianco e nero, qui c’è una visione a colori».
Paolo Spriano1
1. Introduzione
La tesi di laurea che vi apprestate a leggere è nata per rispondere, o meglio per cercare di ris-
pondere, a due domande, una di carattere metodologico e una, invece, di natura personale e
soggettiva.
La prima domanda a cui ho cercato di rispondere è se, e in che modo, sia possibile fare storia
attraverso l’intervista.
Il tema è attuale e degno di considerazione non solo per la posizione di rilievo conquistata
dalla storia orale negli ultimi decenni e la nascita tra gli storici, finalmente anche in Italia, di
una riflessione sull’uso pubblico della storia, ma anche per la diffusione delle interviste, delle
testimonianze orali e dei racconti di vita, nei testi di carattere storiografico o presunti tali; una
diffusione che in alcuni casi è avvenuta in modo incontrollato e privo dei criteri di scientifici-
tà propri della storiografia. Se un tale utilizzo dell’intervista, e delle fonti orali in generale, è
intollerabile nei mezzi di comunicazione di massa, tanto più lo è per la storiografia: lo storico
che faccia ricorso, durante la sua attività di ricerca, all’intervista, deve essere consapevole dei
mezzi e sulle modalità attraverso le quali raccogliere testimonianze orali, ma soprattutto delle
conseguenze sul risultato finale della ricerca che sia le caratteristiche delle fonti orali, sia le
scelte e le decisioni prese dallo storico, possono comportare.
Le oggettive difficoltà, in realtà non molto differenti da quelle che si affrontano quando si fa
ricorso a fonti scritte e tradizionali, non devono però causare un rifiuto o una ritrosia nell’uti-
lizzo delle interviste e delle fonti orali, poiché, altrimenti, si rischierebbe di perdere quelle
che sono le loro caratteristiche più importanti: queste peculiarità non si limitano al fatto di
aver ampliato l’orizzonte storiografico degli storici, ad esempio attraverso l’irruzione nella
storia di quanti ne erano precedentemente esclusi (le classi subalterne, i vinti), ma di aver
permesso, grazie al recupero delle loro memorie e della loro visione del mondo, di esaminare
avvenimenti e processi storici sotto una luce completamente diversa.

1Intervento al Convegno L’intervista strumento di documentazione, giornalismo-antropologia-storia


orale (Cacioli, 1987, p. 147).

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Se da un lato le testimonianze orali offrono, quindi, nuove occasioni di riflessione agli storici,
anche su argomenti già abbondantemente trattati ed esaminati, dall’altro agli storici contem-
poranei si presenta una grande responsabilità nei confronti dei propri lettori, degli intervistati
e della storia in generale: quella di non ignorare o considerare qualitativamente inferiori le
fonti orali, le testimonianze orali e le interviste; senza un’interessamento da parte degli storici
per le testimonianze orali, il rischio che si corre è quello di abbandonare questo tipo di fonti
non tradizionali nelle mani di autori che, nascondendosi dietro il nome di storici, di ricercato-
ri e di giornalisti, se ne serviranno per difendere nient’altro che i propri interessi o quelli dei
propri committenti.
La seconda domanda a cui ho cercato di rispondere nasce da un interesse personale, stretta-
mente correlato con il tema dell’intervista utilizzata come fonte storica e dell’uso pubblico
della storia: esistono altre forme di comunicazione della storia, altrettanto scientifiche e rigo-
rose rispetto alle forme “tradizionali”, ma meno complicate, meno difficili, meno pesanti,
meno esclusive e, invece, più dirette e in grado di raggiungere, coinvolgere e appassionare un
pubblico sempre più grande?
Questa ricerca di nuove forme di comunicazione pubblica della storia nasce da un’esigenza
che è nata durante la mia formazione scolastica ed è diventata più importante durante quella
universitaria, quella, cioè, di provare a comprendere le motivazioni alla base del costante e
progressivo distacco di una parte sempre maggiore della società, a partire dagli studenti, dalla
storia e, soprattutto, di cercare di avvicinarmi alle ricerche e alle pubblicazioni di quegli sto-
rici che, utilizzando nuove forme di comunicazione storica, tentano di contrastare questo al-
lontanamento.
Il rischio che questo allontanamento comporta è davanti ai nostri occhi, ed è strettamente cor-
relato al proliferare di quegli autori a cui ho accennato qualche riga sopra: se gli storici e gli
altri soggetti produttori di storia in maniera scientifica e rigorosa non s’impegneranno nella
ricerca di una nuova forma di comunicazione storica in grado di contrastare questo allonta-
namento, il pubblico si rivolgerà a quegli autori che si presentano come storici e ai loro lavo-
ri, costruiti su un uso scorretto e interessato delle fonti, il più delle volte privi di rigore e
scientificità, il cui pregio è quello di risultare accattivanti, diretti, di facile comprensione e in
grado di rispondere a un immediato interesse pubblico o privato; alcuni esempi di abuso
nell’uso pubblico della storia sono riportati da Giovanni De Luna (De Luna, 2004):

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a) l’uscita di un articolo sul Corriere della Sera nell’agosto del 1997 che riapriva dopo la
presentazione di un film sulla vicenda, ma senza nessuna nuova testimonianza e senza
nessun nuovo documento, il dibattito sull’eccidio di Porzȗs con toni polemici e con una
serie di «disinvolture metodologiche» (De Luna, 2004, p. 82) tipiche di un giornalismo
intento nell’ossessiva ricerca del “nuovo” e autoreferenziale fino al punto di «ingoiare e
digerire la storia, inseguendo esclusivamente le proprie priorità, riconoscendo rilevanza
di “fatti storici” solo agli eventi che scaturivano direttamente dal suo interno» (De Luna,
2004, p. 79);
b) per quanto riguarda invece il revisionismo, che ha come «obiettivo esplicito di incidere
sulla formazione del senso comune attraverso la revisione del giudizio sui principali
eventi della nostra storia recente» (De Luna, 2004, p. 79), De Luna riporta l’esempio dei
libri Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa2 e I balilla andarono a Salò. L’armata degli
adolescenti che pagò il conto con la storia di Carlo Mazzantini3. Entrambe le pubblica-
zioni, appartenenti al filone del revisionismo, della rivalutazione dei “ragazzi di
Salò” (come li aveva definiti anche l’allora presidente della Camera, Luciano Violante) e
della conseguente svalutazione del valore della Resistenza, sono nate sull’onda di una
critica alla democrazia repubblicana e al Welfare italiano (costruiti entrambi sui principi
dell’antifascismo) e, soprattutto per quanto riguarda la vicenda dei reduci della RSI, in-
fluenzate dalla presenza al governo di un partito (Alleanza Nazionale) che a quell’espe-
rienza continuava a riferirsi.
Tutti gli esempi, dagli articoli di giornale ai libri, condividono la mancanza di un lavoro di
studio, di ricerca e, soprattuto, di una critica delle fonti utilizzate.
È indubbio il fatto che gli storici non siano i soli responsabili di questo allontanamento (e lo
scopo di questa tesi non è quello di individuare tali responsabili), ma, è indubbio anche il fat-
to che gli storici contemporanei abbiano le possibilità e gli strumenti per intervenire e provare
a fermare e a cambiare questa situazione. O, almeno secondo me, hanno il dovere di provarci.
In che modo?

2 G. Pansa, Il sangue dei vinti, Sperling & Kupfer, Milano, 2003.


3C. Mazzantini, I balilla andarono a Salò. L’armata degli adolescenti pagò il conto con la storia,
Marsilio, Venezia, 1995.

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Sarebbe arrogante, ambizioso e, soprattutto, superiore alle mie reali possibilità e alla mia es-
perienza pretendere di avere una risposta universalmente valida e indicare una strada come
quella giusta da seguire; per questo motivo mi sono limitato, con la decisione di affrontare
una tesi di questo tipo e con il lavoro di ricerca che ha portato alla sua stesura, a provare a
cercare una strada giusta per me, una strada in grado di rispondere a queste domande:
Si può fare storia rigorosamente e scientificamente utilizzando le fonti orali, in particolare
l’intervista?
L’intervista può essere considerata un’efficace nuova forma di divulgazione storica?
La tesi, a livello strutturale, si presenta suddivisa in due parti:
• La prima, metodologica, in cui si tenta di affrontare la storia orale, la realizzazione di
un’intervista e l’uso pubblico della storia attraverso il confronto con la letteratura risalente
prevalentemente agli ultimi trent’anni, una letteratura non soltanto di tipo storico, ma anche
sociologico e, in parte, antropologico. Questa prima parte è ulteriormente divisa in quattro
paragrafi:
• Una breve introduzione storica sulla nascita e sulla diffusione della storia orale, con par-
ticolare attenzione per la situazione in Italia;
• Un secondo paragrafo, più corposo, in cui sono affrontate le caratteristiche specifiche
dell’intervista, i diversi momenti in cui questa si realizza, dalla fase preparatoria alla pub-
blicazione e alla conservazione, e, infine, sono analizzati i vantaggi e le criticità dell’uso
dell’intervista come fonte storica;
• Un paragrafo, intitolato La «nuova storia» e l’uso pubblico della storia, in cui, in parte, si
riprende quanto affermato nei paragrafi precedenti e si affronta, brevemente, il tema
dell’uso pubblico della storia, strettamente correlato con la storia orale e l’intervista, e la
necessità di ricercare una nuova forma di comunicazione storica;
• Un confronto tra due tipologie diverse di intervista, per applicare quanto sostenuto teori-
camente nei paragrafi precedenti. Le interviste scelte, nello specifico, sono Intervista sul
fascismo4 a Renzo De Felice curata da Michael A. Ledeen e La guerra sulla pelle: Servizi 


4 R. De Felice, M. A. Ledeen (a cura di), Intervista sul fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1975

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• segreti, Alleati e Resistenza nel racconto dell’agente ORI - OSS Ennio Tassinari1 a cura
di Davide Angeli e Marco Minardi;
• La seconda parte, anch’essa suddivisa in paragrafi, contiene la ricerca originale da me svol-
ta per questa tesi, che cerca di ricollegarsi con quanto trattato nella prima parte. La ricerca
consiste nella trascrizione di un estratto dell’intervista a Silvio Miana, emiliano classe 1926
di estrazione popolare (la sua era una famiglia di mezzadri), dirigente sindacale, prima
come capolega della Lega dei mezzadri, poi segretario della Camera del Lavoro di Castel-
franco Emilia (Mo) e, infine, segretario provinciale della Federmezzadri, segretario provin-
ciale (per la provincia di Modena) e regionale (per la regione Emilia Romagna) del Partito
Comunista Italiano, presidente della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue, e, infine,
deputato e senatore per PCI negli anni Settanta e Ottanta. I paragrafi in cui è divisa questa
parte sono:
• Un primo paragrafo contenente informazioni tecniche riguardanti la realizzazione dell’in-
tervista, date e luoghi in cui si è svolta, strumenti e tecniche utilizzate e, infine, modalità
di trascrizione;
• La trascrizione dell’estratto dell’intervista a Silvio Miana e l’apparato di note che l’ac-
compagna;
• Un ultimo paragrafo che contiene una breve contestualizzazione spazio-temporale dell’a-
zione di Miana fino al 1965, anno in cui, al momento del suo passaggio dall’Emilia a
Roma e dal partito al mondo della cooperazione, termina l’estratto dell’intervista.
• Completano la tesi le conclusioni e le indicazioni bibliografiche.

Sigle utilizzate:
• ASCMo, Archivio Storico del Comune di Modena
• ISRSC, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di
Modena

1D. Angeli e M. Minardi (a cura di), La guerra sulla pelle: Servizi segreti, Alleati e Resistenza nel
racconto dell’agente ORI - OSS Ennio Tassinari, Milano, Unicopoli, 2012
2. Questioni metodologiche - L’intervista come fonte storica e come forma
di divulgazione storica
Secondo Luisa Passerini la domanda di storia orale, e più in generale di quella che Giovanni
De Luna, riprendendo la lezione di Jacques Le Goff, chiamerà «nuova storia» (De Luna,
1993, p. 7), nasce dalla «tendenza a studiare meno gli altri, il lontano, l’esotico, l’eccezionale
e più se stessi, ciò che è vicino, il quotidiano, il normale. Si esprime nei tentativi di movimen-
ti politici per rintracciare le proprie radici storiche e culturali, come hanno fatto i movimenti
di liberazione nazionale e razziale, i movimenti delle donne, il movimento operaio, le mino-
ranze etniche e linguistiche» (Passerini, 1988, p. 31). La grande novità portata dalla storia
orale, e quello che l’ha avvicinata alle altre branche della nuova storia, è quella di aver causa-
to un allargamento del campo della storia e delle tecniche usate dagli storici e, soprattutto, di
avere l’ambizione di creare una storia totale, senza limitarsi ai racconti e alle memorie dei
grandi uomini, ma considerando anche quelli della gente comune: «umanizzazione della sto-
ria significa allora considerazione della società nel suo complesso e dell’individuo nel suo
complesso» (Passerini, 1988, p. 63).
L’argomento principale di questo capitolo, preceduto da un breve inquadramento storico della
diffusione della storia orale, con particolare attenzione per l’Italia, sarà l’uso dell’intervista
come fonte storica. Dopo un’analisi sulle varie fasi che precedono, costituiscono e seguono la
realizzazione dell’intervista, in cui mi concentrerò sulle caratteristiche peculiari della storia
orale rispetto alla storia tradizionale, affronterò il tema della nuova storia, di cui la storia
orale fa parte, e dell’intervista come forma di comunicazione pubblica della storia.
a. Cenni storici
Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, i primi contesti in cui è riuscita a conquistare l’atten-
zione da parte della società e del mondo accademico, la storia orale è nata sotto l’influenza di
due tendenze tra loro contraddittorie: da un lato veniva usata, in accompagnamento ad altre
fonti di carattere documentario, per studiare la vita e le vicende di uomini che avevano avuto
«vite significative» (Passerini, 1988, p. 34); dall’altro su di essa si basavano le ricerche
condotte dall’etnologia e dagli studiosi del folklore che studiavano «le sopravvivenze […] di
società e tradizioni […] inglobate e subordinate nel corso della crescita [dell’impero britanni-
co e di quello statunitense] […] ma non considerate da parte della […] storia ufficiale» (Pas-
serini, 1988, p. 34): nel secondo caso la storia orale era sintomo del bisogno da parte di questi

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gruppi sociali di ritrovare la propria identità, dopo che questa era stata soffocata e quasi dis-
trutta dalla società e dall’identità predominanti (Passerini, 1988).
In Italia la ricerca storica ha cominciato a interessarsi alle testimonianze orali durante gli anni
Trenta del secolo scorso, e i primi a utilizzarle sono stati alcuni socialisti, come Rinaldo Ri-
gola, Alfonso Leonetti, Angelo Tasca, Giuseppe Fiori, Corrado Barbagallo e altri ancora, in-
teressati a ricostruire la storia del movimento operaio, di Antonio Gramsci, dell’avvento del
fascismo e della Resistenza (Bermani, 1999, vol. I).
Nel dopoguerra e fino agli anni Settanta l’uso della testimonianza orale e l’affermazione di
ricerche storiografiche sulla cultura popolare e sulle classi subalterne, incontrò un brusco ral-
lentamento a causa non solo dell’opposizione del mondo universitario e accademico, ma
anche da parte dei partiti della sinistra. Gli accademici accusavano storici e ricercatori che,
come Rocco Scotellaro, Ernesto De Martino, Gianni Bosio e Danilo Montaldi utilizzavano le
testimonianze orali durante le loro ricerche, di non essere altro che studiosi di folklore e, di
conseguenza ritardatari: «il fatto folklorico è di solito contrapposto dagli storici al fatto pro-
priamente “storico”. Essi rifiutano ancora, certo più per ignoranza tradizionale che per prin-
cipio, qualunque fatto che non sia comprovato da documenti considerati strettamente
storici» (Van Gennep, 19091, p. 173, citato da Bermani, 1999, vol. I, p. 6).
Questa l’accusa lanciata da Arnold Van Gennep nel 1909 contro i pregiudizi della storiografia
occidentale, un’accusa che è ancora valida per la maggior parte della storiografia italiana nel
secondo dopoguerra. I partiti della sinistra e le istituzioni a loro collegate, come ad esempio il
sindacato, con la loro opposizione impedivano «il decollo di una storiografia che contrastasse
[le] “verità rivelate”» (Bermani, 1999, vol. I, p. 5) prodotte dalla storiografia ufficiale del par-
tito. Il nucleo del problema non risiedeva , per la storiografia accademica e di partito, nell’uti-
lizzo o meno delle testimonianze orali, ma dell’uso che di queste veniva fatto: le testimo-
nianze orali andavano controllate e, soprattutto, dovevano rispondere a una domanda ben
precisa del ricercatore, per evitare di incorrere «nella lesa maestà che un uso
“incontrollato” (e intendo privo di controllo censorio e ideologico) della storia orale poteva
arrecare a una storiografia che era concepita in toto come storiografia della classe
dirigente» (Bermani, 1999, vol. I, p. 9).

1 A.Van Gennep, La valeur historique du folklore, in Id., Religions Moeurs el Légendes. Essais
d’Ethnographie ed de Linguistique, Parigi, Societé du Mercure de France, 1909

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Le eccezioni, per quanto riguarda il ricorso alle testimonianze orali nella ricerca storica negli
anni precedenti al 1960, che rileva Bermani sono lavori che si concentrano sulla Resistenza,
come i lavori di Corrado Barbagallo2, il romanzo di Renato Nicolai sui fratelli Cervi3, le ri-
cerche di Silvio Micheli4 e quello di Raimondo Luraghi5, le «esperienze di storia
militante» (Bermani, 1999, vol. I, p. 16) sul movimento contadino e operaio, come quelle di
De Martino e Montaldi6 e, infine, le prime storie di vita di Scotellaro7 e Danilo Dolci8 (Ber-
mani, 1999).
A partire dagli anni Sessanta la storia orale incontra una maggiore diffusione, grazie al lavoro
di «piccoli gruppi critici, laboratori di esperienze esemplari alla ricerca di nuove forme di
cultura e politica» (Bermani, 1999, vol. I, p. 20) spesso isolati fra loro ma «accomunati da
un’esigenza di allargamento dei terreni di ricerca e di ampliamento delle fonti, da una spinta
ad andare oltre le dicotomie poste dalle tradizionali e speciose partizioni del sapere accade-
mico» (Bermani, 1999, vol. I, p. 21), gruppi che si basano sulle indicazioni teoriche fornite da
Gianni Bosio e dall’Istituto Ernesto De Martino, fondato nel 1966, e sull’influenza delle
opere di Montaldi, soprattutto dopo la pubblicazione delle Autobiografie della leggera nel
19619.
Durante gli anni Sessanta sono state esperienze importanti per la promozione dell’interesse
verso la storia orale, quelle della rivista del Nuovo Canzoniere Italiano e della collana I Di-
schi del Sole, attente alla tematica del canto sociale, di un’altra rivista militante e permeata di
oralità come Primo Maggio, della collana Mondo popolare in Lombardia della Casa Editrice
Silvana, dei numerosi gruppi legati all’Istituto De Martino (La Biblioteca Popolare di Piàdena

2C. Barbagallo, Napoli contro il terrore nazista (8 settembre - 1° ottobre 1943), Napoli, Casa editrice
Maone, s.d. (immediato dopoguerra)
3 R. Nicolai, I miei sette figli, Roma, Editori Riuniti, 1955
4 S. Micheli, Giorni di fuoco, Roma, Editori Riuniti, 1955
5 R. Luraghi, Il movimento operaio torinese durante la Resistenza, Torino, Einaudi, 1958
6 D. Montaldi, Un’inchiesta nel Cremonese, in «Opinione», Bologna, n. 2, giugno 1956, pp. 29-46
7 R. Scotellaro, Contadini del Sud, Bari, Laterza, 1954
8 D. Dolci, Banditi a Partinico, Bari, Laterza, 1955
9 D. Montaldi, Autobiografie della leggera, Torino, Einaudi, 1961

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e la Lega di cultura di Piàdena, il Circolo Gianni Bosio di Roma, il gruppo di Cerignola, il
Canzoniere Popolare e l’Archivio della Cultura di Base di Bergamo, il gruppo di Omegna e,
infine, l’Associazione culturale Società di Mutuo Soccorso Ernesto De Martino di Venezia) e,
infine, delle esperienze di formazione della classe operaia grazie al riconoscimento delle 150
a disposizione dei lavoratori riconosciute con la firma del contratto dei metalmeccanici del
1973 (poi esteso ad altre categorie)10.
A partire dalla fine degli anni Settanta, soprattutto nella fase del “compromesso storico”, cioè
dell’avvicinamento del PCI alle responsabilità di governo, le esperienze di promozione della
storia orale sopra elencate dovettero affrontare un attacco da parte del partito e del sindacato,
che le accusavano di concedere spazi eccessivi alla narrazione soggettiva di operai e militan-
ti, narrazioni che spesso discordavano con la storia “ufficiale” e accettata dal partito e dal
sindacato, arrivando, in alcuni casi estremi, ad accusare chi si occupava di storia orale di
promuovere una critica che avrebbe favorito l’insorgere della violenza e del terrorismo.
Nonostante questi attacchi, che, con toni meno accessi, continuano tutt’oggi, e nonostante la
scarsa considerazione della storia orale da parte delle istituzioni accademiche (ne sono una
prova la rarefazione della cattedre di Storia sociale nelle università e la mancata concessione
di fondi e finanziamenti per una ricerca basata sulle fonti orali) e statali (con il mancato im-
pegno nella conservazione e nella promozione di queste fonti) (Bermani, 1999), grazie
all’impegno dell’Istituto De Martino, degli Istituti Storici della Resistenza, di altre istituzioni
e di privati che raccolgono e conservano un gran numero di testimonianze orali, la storia
orale continua tuttora «a godere di buona salute perché - suo malgrado - in un paese dove le
leggi che presiedono all’accesso ai documenti conservati negli Archivi di Stato mortificano
cronaca e attualità, copre quel vuoto di informazione che è voluto dalle istituzioni e, andando
a oltre la mera psicologia dei singoli individui, fa emergere ricordi storici, sociali, politici e
istituzionali che rimandano al conflitto storicamente determinato e […] produce memorie che
si oppongono oggettivamente al tentativo di compattarle […] in un’unica storia, con un’ope-
razione ancora una volta burocraticamente dall’alto, dai vertici dello Stato» (Bermani, 1999,
vol. I, p. 61).

10Per una trattazione più approfondita di queste esperienze rimando al testo di Bermani indicato in
Bibliografia.

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Il punto di svolta per la storia orale in Italia può essere individuato nel convegno internazio-
nale di Bologna del 1976 dal titolo Antropologia e storia: fonti orali (Contini - Martini,
1993). Questo convegno rappresenta «il momento in cui si assiste ad un’apertura del mondo
universitario e della cultura scientifica accademica alle fonti orali» (Contini - Martini, 1993,
p. 82), l’uscita della storia orale dalla subalternità disciplinare e, infine, il riconoscimento del
suo ruolo privilegiato nell’indagine dei rapporti tra storia e memoria e tra storia e identità
(collettiva e/o individuale).
Per concludere questo breve paragrafo, si può affermare che la storia orale in Italia (almeno
fino alla fine degli anni Ottanta) si sia concentrata soprattutto su due temi: a) l’allargamento
del campo storiografico, attraverso l’affermazione della storia dei vinti, dei ceti subalterni; b)
l’attenzione verso forme di storia sociale e microstoria, in contrasto con i grandi modelli sto-
rici istituzionali e tradizionali. Invece, il limite degli storici orali italiani, secondo Luisa Pas-
serini, è stato quello di avere tralasciato il terreno della storia delle culture e delle idee, in
quanto considerata storia dei dotti, mentre in realtà si tratterebbe di «interpretazioni del mon-
do, opinioni verbalizzate, atti di comunicazione» (Passerini, 1988, p. 124) proprie anche delle
classi subalterne.


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b. L’intervista come fonte storica: metodologia, problemi e criticità
L’intervista11 non è utilizzata esclusivamente nella storia orale, è uno strumento a cui hanno
fatto più volte ricorso anche altre scienze sociali, l’antropologia e la sociologia, la psicologia
e la psichiatria e, naturalmente, il giornalismo.
Ognuno dei campi sopracitati ha utilizzato, e utilizza, l’intervista in modalità diverse, per
scopi diversi e con frequenza diversa; limitandosi a considerare l’antropologia e la sociologia,
Gabriele De Rosa, nel suo intervento al Convegno L’intervista strumento di documentazione,
giornalismo-antropologia-storia orale12, ha affermato che, al contrario di quanto avviene
nelle scienze sociali riportate sopra, l’intervista svolge per la storia soltanto un ruolo di ap-
profondimento, di integrazione, di chiarimento e di arricchimento della narrazione storica
(Cacioli, 1987).
Più che soffermarsi sulle differenze di scopo e di metodo, ritengo più opportuno concentrarsi
sui punti che rendono l’utilizzo dell’intervista un’esperienza comune a tutte queste discipline.
Atkinson suddivide l’intervista in tre fasi:
a) pianificazione;
b) svolgimento ed eventuale registrazione dell’intervista;
c) trascrizione e interpretazione (Atkinson, 2002).
Il giusto approccio e il mantenimento di un’alta soglia di attenzione e professionalità in tutte
le varie fasi, permette al ricercatore di ottenere un risultato di alta qualità, rispondente alle
richieste di scientificità ed eticità, e, soprattutto, valido per tutte le discipline.
La prima considerazione che è necessario fare riguarda il ricercatore che, durante e dopo la
realizzazione dell’intervista, assumerà la duplice veste di intervistatore e co-autore: lo storico
orale gioca, quindi un ruolo fondamentale, e non dovrebbe nascondere la sua presenza e la
sua influenza, poiché l’intervistatore, come ricorda Giovanni Contini «raccoglie e fissa la
conversazione, ma contemporaneamente la suscita, la sollecita, la orienta; parte del progetto
storiografico che lo guida nel porre le domande è incorporata nella registrazione, ma il lavoro

11N.B. Nel corso della mia analisi farò ricorso indistintamente ai termini “racconto” e “testimonianza
orale” per riferirmi al prodotto finale dell’intervista, e mi riferirò allo storico orale chiamandolo “ri-
cercatore” o “intervistatore” e al narratore con “informatore”, “narratore” o “intervistato”, pur ricono-
scendo la validità della tesi di Alessandro Portelli, che raccomanda di non usare i «termini di deriva-
zione processuale» (Portelli, 2007, p. 382), a causa del rischio di porre eccessiva enfasi sulla «accura-
tezza fattuale» (Portelli, 2007, p. 382) della fonte orale.
12 Tenuto a Roma dal 5 al 7 maggio 1986.

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ulteriore sul documento, la sua interpretazione e la scrittura su quanto si è riusciti a ricavare
dalla conversazione, costituisce un’appendice formidabile, per il futuro fruitore. Esso, infatti,
mostra “allo scoperto”, in tutta la sua importanza, il coautore, perché certamente dalle sem-
plici domande poste, conservate nel colloquio registrato e trascritto, il suo ruolo tende a sem-
brare subordinato, mentre l’intervistato, per converso, tende ad apparire più protagonista di
quanto in effetti sia stato, perché la sua personalità appare in piena luce dal racconto che
sempre fa centro sull’esperienza personale» (Contini - Martini, 1993, p. 14).
Proverò ora ad approfondire le varie fasi, partendo da quella della pianificazione.
Per pianificazione s’intende il momento preliminare all’intervista, in cui il ricercatore, che
presumibilmente andrà a svolgere in prima persona anche il ruolo dell’intervistatore, deve
prendere una serie di decisioni che avranno ripercussioni sul lavoro finito.
La prima decisione che, a dispetto dell’apparenza, risulta di cruciale importanza, è la scelta
della persona da intervistare; questa decisione non deve essere casuale e, soprattutto, si do-
vrebbe evitare che lo svolgimento dell’intervista venga deciso e previsto dal soggetto che sarà
intervistato, altrimenti il risultato finale non sarà un’intervista, ma quella che Dino Pesole
chiama “intervista a richiesta” (Pistacchi, 2010) e Enzo Roggi “intervista finta” (Cacioli,
1987), un tipo d’intervista diffusa nel giornalismo e che in realtà non è altro che un monologo
travestito da intervista e usato da un personaggio autorevole, ad esempio un politico o un
amministratore delegato di qualche azienda, per trasmettere un proprio messaggio all’opi-
nione pubblica.
La scelta dell’intervistato, dicevo, gioca un ruolo fondamentale: Luisa Passerini (Passerini,
1980) consiglia, prima di scegliere un testimone, di interrogarsi del tipo di rapporto che lo
lega alla sua epoca (è un rapporto eccezionale? per quale motivo? cosa lo differenzia dai suoi
contemporanei?), mentre Atkinson invita a scegliere un interlocutore con cui l’intervistatore
abbia qualcosa in comune, che si tratti del luogo di origine e/o di residenza, del tipo di forma-
zione, dell’orizzonte culturale, della vicenda biografica, affinché si instauri una relazione, che
è necessaria per creare un dialogo e un rapporto fra intervistato e intervistatore, fra informa-
tore e ricercatore, in grado di creare e mantenere aperti quegli «spazi narrativi» (Pistacchi,
2010, p. 6) che per Atkinson (Atkinson, 2002) e Alessandro Portelli (Pistacchi, 2010) permet-
tono una buona riuscita dell’intervista; Contini, citando Ron Grele, afferma che il tipo di rap-
porto in grado di dare vita a un’efficace «narrazione dialogica» (Contini - Martini, 1993, p.

!18
20), è un rapporto basato non sul conflitto o sull’accordo, ma sulla contrarietà: «in questo tipo
di rapporto, ciascuna parte continua a mettere alla prova l’altra, ad offrire nuovi fatti da spie-
gare, nuove interpretazioni con le quali fare i conti, nuovi problemi ai quali rispondere» (R.J.
Grele, 198513, pp. 258-259, citato da Contini - Martini, 1993, p. 21).
Pietro Clemente, a proposito del legame che si viene a creare tra l’intervistatore (o ricerca-
tore) e l’intervistato (o narratore), definisce l’intervista come «una pratica di relazione so-
ciale» (Pistacchi, 2010, p. 64). Esiste però un confine fra le due personalità, che può essere di
natura anagrafica, culturale o biografica, un confine che l’intervistatore non può valicare, ma
che può spostare in avanti, rendere meno definito, se riesce a creare una relazione efficace
con il soggetto dell’intervista (Portelli, 2007).
Non sempre è però possibile scegliere l’informatore, a volte, come dimostra il racconto delle
esperienze etnografiche di Martina Giuffrè o le ricerche di Giovanni Contini (Pistacchi,
2010), può capitare di “essere scelti” dal proprio informatore o di cambiare il soggetto
dell’intervista di fronte a tematiche e a testimoni che non si era preventivato di incontrare,
confermando in questo modo la validità della definizione che la stessa Giuffrè dà all’intervis-
ta, cioè quella di essere una fonte imprevedibile (Pistacchi, 2010).
Dopo la scelta della persona da intervistare e prima dell’intervista vera e propria è necessaria,
da parte del ricercatore, un’adeguata preparazione dal punto di vista tecnico e conoscitivo.
Per adeguata preparazione tecnica s’intende una conoscenza, il più possibile approfondita,
degli strumenti che saranno usati durante l’intervista, magnetofoni, registratori vocali, micro-
foni o videocamere; Giovani Contini, in occasione del suo intervento al Convengo L’intervis-
ta fonte di documentazione, storia orale, giornalismo, antropologia, sociologia14, racconta la
difficoltà che aveva incontrato nell’utilizzare la videocamera durante le sue interviste, diffi-
coltà che disturbavano sia lui sia l’intervistato, rischiando di compromettere la riuscita
dell’intervista (Pistacchi, 2010); anche Nuto Revelli, per fare un altro esempio, ha avuto in-
izialmente un rapporto problematico con gli strumenti tecnologici, nel suo caso il magnetofo-
no (Cacioli, 1987).

13
R. J. Grele, Private Memories and Public Presentation, in Id., Envelopes of Sounds - The Art of
Oral History, Chicago, 1985
14Organizzato dall’Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi a Roma, nei giorni 5-7 maggio
2009.

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Alla scelta della persona da intervistare e a una buona conoscenza degli strumenti, il ricerca-
tore deve affiancare anche un’ottima preparazione a livello teorico sulla vicenda biografica
del narratore e sul contesto sociale, culturale e geografico in cui questo è nato, cresciuto e ha
agito; se questo livello di conoscenza è necessario per un giornalista, un antropologo o un
sociologo, ancora di più lo è per uno storico. Infatti, anche uno storico come Paolo Spriano
che riconosce il valore autonomo della testimonianza orale, al contrario di storici come De
Rosa e Renzo De Felice che ritengono che il racconto storico abbia solo lo scopo di «inte-
grare o rafforzare la ricerca» (Cacioli, 1987, p. 156) e che questo «non […] abbia mai dato
nulla di preciso e soprattutto di veramente decisivo» (De Felice, 1975, p. 10), riconosce che
«l’intervistatore […] deve essere già stato in archivio quando va a intervistare» (Pistacchi,
2010, p. 147), non solo per riconoscere eventuali inesattezze nelle parole dell’intervistato, ma
anche per dimostrare un maggiore interesse alle parole del narratore, favorendo in questo
l’instaurazione di un rapporto sincero.
Un consiglio altrettanto importante, ma per certi aspetti meno scontato, che Atkinson rivolge
a quanti si apprestano a effettuare un’intervista, è che, preferibilmente, questa andrebbe rea-
lizzata in un ambiente conosciuto all’intervistato, come ad esempio la sua abitazione o un
luogo per lui importante, in modo che possa sentirsi il più possibile a proprio agio (Atkinson,
2002).
L’ultimo passaggio preliminare all’intervista vera e propria è quello che prevede una chiara
esposizione degli obiettivi della ricerca al soggetto intervistato; questa chiarificazione presen-
ta un doppio vantaggio: il primo è quello di contribuire alla creazione di quella relazione che
abbiamo visto essere condizione necessaria per una buona riuscita dell’intervista; il secondo,
invece, è la stipulazione di un patto collaborativo fra intervistato e intervistatore (Atkinson,
2002). L’importanza di questo patto risiede non solo nella tutela e nella difesa dell’informa-
tore, dei suoi diritti, tra cui quello alla privacy e all’anonimato, e dei suoi interessi, ad esem-
pio per quanto riguardo eventuali diritti d’autore derivanti dalla pubblicazione e diffusione
della ricerca: tornerò su questo tema quando affronterò le fasi successive all’intervista, per
ora mi limito a dire che, come suggerisce Atkinson, l’intervistato, soprattutto nella storia
orale, dovrebbe, in ogni momento, rimanere in possesso del racconto che decide di fare sulla
sua vita e avere sempre l’ultima parola sulle decisone delle cose da raccontare o meno, sulle

!20
correzioni in fase di trascrizione e sull’uso che verrà fatto delle proprie memorie (Atkinson,
2002).
Questo patto non serve però soltanto a tutelare l’informatore, ma anche il ricercatore che, in-
evitabilmente, durante l’intervista si viene a trovare in una relazione sbilanciata a favore
dell’intervistato, che assume il ruolo di custode del sapere; presentando chiaramente i propri
obiettivi e lo scopo della ricerca, l’intervistatore cerca di tutelarsi in caso di rinunce da parte
dell’intervistato ed evitare l’insorgere di possibili discussioni nate da fraintendimenti non ri-
solti in fase preliminare.
Prima di affrontare il tema della realizzazione dell’intervista, ci sono ancora delle considera-
zioni che è necessario fare che, pur non riguardando direttamente le fasi preparatorie dell’in-
tervista, sono importanti per un buon esito dell’intervista stessa; si tratta, infatti, di accorgi-
menti e predisposizioni che devono essere chiari all’intervistatore.
Il ricercatore che si appresta a fare un’intervista deve considerare il fatto che il suo progetto
di ricerca si trasformerà, quasi inevitabilmente, durante l’intervista (la stessa cosa è valida per
la “scaletta” di argomenti preparata dall’intervistato) (Contini - Martini, 1993) e che si tro-
verà a maneggiare una fonte caratterizzata da una forte soggettività, poiché «attraverso il
racconto autobiografico [l’intervistato] trasmette la sua verità personale» (Atkinson, 2002, p.
38), e «il primo aspetto di diversità delle fonti orali sta dunque nella loro capacità di infor-
marci, più ancora che sugli avvenimenti, sul […] significato» (Portelli, 2007, p. 11) che ques-
ti hanno per il narratore o per i narratori; e ancora: «la storia orale non è tanto testimonianza
di fatti, quanto costruzione fatta di parole, da parte dei ricercatori e curatori, ma anche da
parte dei narratori o testimoni: gli uni e gli altri si sforzano, attraverso il linguaggio, di dare
forma e significato all’esperienza e al ricordo» (Portelli, 2007, p. 351). Luisa Passerini defi-
nisce la memoria come un atto creativo, il processo del ricordare come «uno sforzo di riela-
borazione e trasmissione di significati del passato per il presente» (Passerini, 1988, p. 106), e
l’atto narrante come «memoria autobiografica, trasmissione di un’esperienza di vita, e tradi-
zione, cioè riformulazione e innovazione di qualcosa […] che si è ricevuto da generazioni
precedenti e che si vuole passare a generazioni future» (Passerini, 1988, pp. 107-108).
Insieme all’interpretazione che l’intervistato fornisce della propria esperienza di vita, spesso
dall’intervista emerge anche il «sistema di valori» (Contini - Martini, 1993, p. 30) che orienta

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o ha orientato il narratore, un sistema che, proprio come l’interpretazione, può cambiare du-
rante la vita dell’intervistato.
Dato il carattere estremamente soggettivo delle fonti orali, il compito dello storico orale non
dev’essere esclusivamente quello di portare a compimento il ribaltamento dei rapporti di for-
za e della gerarchia fra oggettività e soggettività, già iniziato dagli storici contemporanei che
si riconoscevano nella nuova storia, ma di ridefinire i rapporti fra loro: lo storico orale deve
«tener conto della tensione con l’oggettività» (Passerini, 1988, p. 19), senza però creare una
separazione netta con la soggettività.
Proprio a causa della loro soggettività, l’attendibilità delle testimonianze orali è un’attendibi-
lità diversa rispetto a quella delle fonti scritte, anche perché «la memoria umana non è ripro-
duzione esatta del passato, anzi spesso è letteralmente invenzione di un passato o fuga da
esso» (Passerini, 1988, p. 105): l’interesse delle testimonianze, dei racconti, non si riscontra
esclusivamente nella loro aderenza ai fatti, ma anche nella loro non aderenza a questi; una
fonte inattendibile dal punto di vista dell’aderenza ai fatti (che può realizzarsi tramite la
condensazione di fatti diversi all’interno di un unico episodio o lo spostamento nel tempo o
nello spazio di un evento) è più preziosa di una testimonianza aderente alla versione ufficiale,
poiché è in grado di portare alla luce una memoria diversa, spesso appartenente alle classi
subalterne o ai vinti, e permette di ricostruire la nascita e le dinamiche interne di autorappre-
sentazione di questa diversa memoria collettiva, ad esempio quella della classe operaia ita-
liana nei primi anni della Repubblica, o, più nello specifico, quella della classe operaia di una
singola realtà locale.
Aurelio Rigoli, Luisa Passerini, Levi, Scaraffia, Paolo Natoli e Renato Sitti nei loro interventi
al sopracitato Convegno internazionale di Bologna del 1976 (Antropologia e storia: fonti ora-
li), hanno sottolineato come il recupero delle fonti orali nella storiografia sia stato fondamen-
tale, poiché «è il recupero ancor prima che dell’oralità del mondo subalterno» (Bernardi -
Poni - Triulzi, 1978, p. 175) e «il recupero di una documentazione repressa, scomparsa, sva-
lutata, non solo per ricostruire dei fatti, degli avvenimenti, quanto specialmente per analizzare
una cultura, un diverso ordine di ciò che è stato ed è considerato importante, le radici di com-
portamenti individuali e collettivi che si è sin qui rinunciato a spiegare» (Bernardi - Poni -
Triulzi, 1978, p. 211): il recupero, quindi, di una cultura, di una visione del mondo, di un sis-
tema d’interpretazione della realtà delle classi subalterne che sono state a lungo ignorate dalla

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storiografia, attraverso l’uso di fonti che hanno occupato, anch’esse molto a lungo, un ruolo
di secondo piano rispetto alle fonti tradizionali; una duplice conquista di cittadinanza, per le
fonti orali e per il mondo subalterno, all’interno della storiografia.
Gianni Bosio, nel suo testo L’elogio del magnetofono15, ha caricato la ricerca sulle testimo-
nianze orali di «forti valenze politiche individuando nelle fonti orali il veicolo di afferma-
zione di una cultura antagonistica a quella dominante» (Bermani, 1999, vol. I, p. 137). Ripor-
to brevemente l’esempio della memoria collettiva della classe operaia di Terni riguardo l’uc-
cisione dell’operaio ventunenne Luigi Trastulli, esaminata da Alessandro Portelli (Portelli,
2007), per spiegare l’importanza di una testimonianza, in questo caso di una memoria collet-
tiva, non attendibile16. Luigi Trastulli fu ucciso durante degli scontri fra polizia e operai il 17
marzo 1949, mentre insieme ad altri operai si recava nella piazza del paese per partecipare a
una manifestazione contro l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico; sulla legalità di questa
manifestazione e sullo svolgimento degli scontri non c’è concordanza, ma non è di questo che
intendo occuparmi, quello che è importante è che la morte di Trastulli, nei racconti di alcuni
testimoni, viene posticipata fino alle lotte e agli scioperi contro i licenziamenti alle acciaierie
cittadine dei primi anni Cinquanta, e, in alcuni casi, anche le circostanze in cui l’operaio ha
trovato la morte sono alterate (investito da una jeep, raggiunto da colpi di mitragliatrice nei
pressi di un muro): questo dimostra che «il significato dell’evento ha relativamente poco a
che fare con le esatte circostanze in cui è avvenuto» (Portelli, 2007, p. 43), ma è importante
perché rappresenta un momento centrale, le lotte degli operai e la dura repressione del gover-
no, per la memoria collettiva della classe operaia. Portelli, partendo da questo esempio, indi-
vidua le tre funzioni principali della manipolazione della memoria collettiva:
a) simbolica: la morte di Trastulli rappresenta l’esperienza della lotta di classe di un’intera
città;
b) psicologica: per alleggerire l’umiliazione e la vergogna dei suoi compagni di lotta per
non aver saputo, o potuto, reagire;
c) formale: l’uccisione viene spostata in avanti per darle una funzione periodizzante (prima
e dopo i licenziamenti), aumentando così l’importanza sia dell’uccisione, che viene a

15G. Bosio, L’elogio del magnetofono, in Id., L’intellettuale rovesciato, Milano, Edizione Bella Ciao,
1975
16 Per una trattazione più approfondita rimando al testo di Portelli indicato in bibliografia.

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coincidere con un momento storico in cui le lotte erano condivise dall’intera cittadinanza,
sia delle stesse lotte contro i licenziamenti, che vengono rese più tragiche, e quindi più
importanti, dalla morte del giovane operaio (Portelli, 2007).
A proposito della mentalità (e dell’identità) collettiva, Alfredo Martini individua nelle fonti
orali lo strumento privilegiato per analizzarne non solo la sua formazione, la sua diffusione
ed, eventualmente, la sua disgregazione, ma anche per recuperare il rapporto del singolo in-
dividuo con la «visione del mondo locale» (Contini - Martini, 1993, p. 51): ad esempio, la
consapevolezza di appartenere a una data comunità o classe sociale, influenza la selezione, la
conservazione e l’esposizione dei ricordi; infatti, nei loro racconti «gli informatori esplicitano
spesso i meccanismi di trasmissione del passato, non tanto come trasferimento di ricordi per-
sonali e familiari, quanto di un patrimonio collettivo volto a dare continuità a un’identità ba-
sata su una comunanza di territorio, di ideali e di ideologie, di attività professionale e condi-
zione sociale, in un insieme che le storie compattano e rendono stabile nel tempo» (Contini -
Martini, 1993, p. 55). Questa posizione era già sostenuta da Halbwachs e da Jan Vansina: il
primo, a proposito della formazione e del ricordo, aveva sottolineato l’influenza che il pre-
sente e «i racconti, testimonianze o confidenze di altri» (Halbwachs, 2001, p. 144) esercitano
sulla visione che ognuno costruisce del proprio passato; mentre il secondo aveva attirato l’at-
tenzione degli studiosi di storia orale sull’importanza dei valori culturali che «svolgono un
ruolo determinante nella società di cui costituiscono la garanzia fondamentale per il funzio-
namento e la perpetuazione» (Vansina, 1976, p. 150) e che influenzano, in forme più o meno
implicite, i membri di quella comunità e causano delle deformazioni nelle loro testimonianze,
soprattutto per quanto riguarda conservazione o meno di un avvenimento nella memoria col-
lettiva e di quale significato attribuirgli: queste deformazioni possono essere causate, ad
esempio, dalle modalità con cui viene misurato lo scorrere del tempo oppure da una diversa
concezione (rispetto alla cultura del ricercatore) della nozione di verità storica (Vansina,
1976).
Conoscere le interpretazioni dei fatti, nel momento in cui questi due elementi non concorda-
no, è importante perché le interpretazioni, se da un lato cercano di acquistare l’oggettività dei
fatti, dall’altra possono influenzare l’organizzazione dei fatti stessi: un’interpretazione collet-
tiva, radicata e diffusa in una comunità, può arrivare a modificare i fatti stessi, o almeno la

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memoria che tale comunità ha del proprio passato, e l’identità condivisa da queste persone
può costruirsi su questa diversa interpretazione dei fatti (Portelli, 2007).
La soggettività delle testimonianze orali, che non solleva problemi e criticità per il giornalis-
mo e le scienze sociali, rischia invece di compromettere l’affidabilità delle testimonianze ora-
li, a cui è richiesta la stessa scientificità ed esattezza di quelle tradizionali; Portelli (Pistacchi,
2010 e Portelli, 2007), Contini e Giuseppe Galasso (Cacioli, 1987) affermano, in difesa delle
testimonianze orali, che il loro utilizzo non dovrebbe causare obiezioni e perplessità poiché
possono, e devono, essere controllate e verificate al pari delle fonti scritte, tra cui, fanno no-
tare efficacemente Contini e Portelli, ci sono molte trascrizioni scritte di testimonianze orali
che vengono accettate senza sollevare dubbi sulla loro veridicità, ad esempio le trascrizioni
dei verbali della polizia. Un’altra accusa che viene mossa all’attendibilità delle fonti orali è
che queste incorrono nel pericolo di incontrare imperfezioni della memoria dei narratori, ma
queste critiche non considerano, o non vogliono considerare, il fatto che anche le fonti scritte
non vengono create contemporaneamente all’evento, e che anch’esse nascono con uno sfa-
samento temporale che può portare a dimenticanze ed errori: «perciò il discorso sulla mag-
giore o minore attendibilità di fonti orali e scritte finisce per essere poco più di una difesa
strumentale di metodi consolidati che non vogliono mettersi in discussione» (Portelli, 2007,
pp. 15-16), e ancora, lo stesso Portelli, denuncia il pregiudizio di molti storici riguardo il
«primato sacrale della scrittura» (Bermani, 1999, vol. I, p. 157).
Curiosamente, come riporta Walter Ong, non soltanto nelle culture antiche, che erano società
in cui l’oralità ricopriva un ruolo fondamentale, ma ancora nell’Inghilterra del XII° secolo, le
testimonianze orali, in modo particolare quelle collettive, godevano di maggiore credibilità
rispetto ai documenti scritti in campo giudiziario e amministrativo; questo perché da un lato
la scrittura non era ancora stata completamente interiorizzata, e dall’altro perché i documenti
scritti erano facilmente e regolarmente contraffatti da professionisti della contraffazione di
documenti (Ong, 1986).
Le testimonianze orali non sono oggettive anche per un altro motivo: non sono mai uguali a
loro stesse. Una stessa persona, infatti, può fornire due, o più, racconti differenti se interroga-
ta da due intervistatori diversi, se si lascia trascorrere del tempo tra un’intervista e l’altra, o
se, nel frattempo, la costruzione della relazione fra i due soggetti dell’intervista, narratore e

!25
ricercatore, ha permesso al secondo di conquistare la fiducia del primo e di sciogliere la sua
riservatezza (Portelli, 2007).
Abbiamo già accennato alla definizione di Martina Giuffrè della testimonianza orale come
fonte imprevedibile a proposito della scelta dell’informatore, ma lo stesso concetto può essere
utilizzato per indicare l’imprevedibilità dell’argomento del racconto stesso; questa defini-
zione può essere accompagnata anche da quella, sempre proposta da Giuffrè, di intervista
come fonte rivitalizzante, che si trasforma in un «luogo privilegiato di costruzione di memo-
rie» (Pistacchi, 2010, p. 138), in grado, cioè, di innescare meccanismi che portano al recupero
di ricordi che sembravano essere andati irrimediabilmente perduti. Dipende dalla reattività e
dalla flessibilità dell’intervistatore adeguarsi all’imprevedibilità della testimonianza orale e
decidere se adattarsi alla direzione presa dal racconto dell’intervistato, rinunciando, almeno
temporaneamente, ad approfondire l’oggetto della sua ricerca, oppure se ricondurre l’intervis-
ta sui binari prestabiliti.
Data la natura imprevedibile e rivitalizzante dell’intervista, al ricercatore, come ricorda anche
Pesole, «spetta il compito di guida, di provocazione, di stimolo, oltre che di mediazione criti-
ca» (Pistacchi, 2010, p. 46), due compiti che l’intervistatore deve svolgere con grande atten-
zione, perché entrambi possono influenzare l’esito dell’intervista, anche se, almeno per quan-
to riguarda la storia orale, in momenti diversi. Il ruolo di guida deve essere assunto durante lo
svolgimento dell’intervista per guidare, attraverso il ricorso consapevole alle domande, il nar-
ratore nel caso in cui questo si stia dilungando in divagazioni eccessive o abbia tralasciato
argomenti importanti ai fini della ricerca; la difficoltà nasce dal fatto che, se è importante che
l’intervistatore non si faccia prevaricare dall’informatore, senza essere eccessivamente osse-
quioso e acritico nei suoi confronti, rischio dato dalla natura sbilanciata della relazione che
viene a costituirsi, allo stesso tempo deve evitare che l’intervista si trasformi in un interroga-
torio o, peggio, in una prevaricazione dell’intervistatore nei confronti dell’intervistato, dando
così vita a quella che Gianni Letta chiama un’intervista «prevaricatrice» (Cacioli, 1987, p.
26). In questo caso il rischio principale è quello di chiudere gli spazi narrativi faticosamente
creati in precedenza, e necessari per ottenere un racconto più ricco, approfondito e sincero.
Il compito di un bravo intervistatore, al contrario è quello di guidare l’intervista senza preva-
ricare il narratore, ponendo, nel momento opportuno, domande che comportino una risposta
aperta. Anche Jan Vansina, a proposito delle tradizioni orali, aveva già riconosciuto come le

!26
domande capaci di provocare una riposta aperta (che chiama anche domande dirette) siano da
preferire, poiché in questo modo si riesce a provocare una testimonianza e a dare inizio a un
racconto senza, però, prevaricare il narratore (Vansina, 1976).
Un metodo, suggerito da Contini, per cercare di salvaguardare il punto di vista dell’intervista-
to, consiste nel richiedere una «storia di vita» (Contini - Martini, 1993, p. 17), un prodotto
non spontaneo che viene influenzato dal rapporto fra intervistato e intervistatore e dal tipo di
ricerca, ma che permette al narratore di raccontare il proprio punto di vista su avvenimenti
del passato, rivelandone anche l’evoluzione e i cambiamenti (Contini - Martini, 1993).
L’intervista inoltre, come ricorda Portelli, deve essere un incontro tra due soggetti uguali,
«l’intervista è un esperimento di uguaglianza» (Portelli, 2007, p. 84), che si osservano reci-
procamente: se mancano l’uguaglianza e l’osservazione reciproca, l’intervista non sarà altro
che l’affermazione di una delle due personalità sull’altra. Il rischio di creare un dislivello di
potere, sbilanciato a favore del narratore o del ricercatore, deve essere neutralizzato (Portelli,
2007).
Se a proposito del ruolo di guida si è parlato di un rapporto a due tra l’intervistato e l’intervi-
statore, per comprendere l’importanza del ruolo del ricercatore come mediatore bisogna ag-
giungere un’altra figura a questa relazione, trasformandola così in una relazione a tre: il frui-
tore dell’intervista, cioè chi è interessato, oltre al ricercatore, a conoscere l’informazione pos-
seduta dal narratore. In una prospettiva di ricerca di storia orale, inizialmente, nella fase di
raccolta di una o più testimonianze narrate, il ruolo dell’intervistatore e del fruitore spesso si
sovrappongono e si confondono: i due ruoli si distingueranno nel momento in cui, una volta
raccolta l’intervista, il ricercatore la trascriverà in vista di una pubblicazione; nel caso invece
dell’intervista radiofonica o televisiva, l’intervistatore assume contemporaneamente il ruolo
di guida e mediatore, mentre il ruolo di fruitore viene assunto dal pubblico in ascolto.
Il ruolo di mediatore è necessario per permettere un’efficace diffusione della testimonianza e
la sua comprensione da parte dei fruitori, siano questi lettori, ascoltatori o telespettatori.
L’ultima, e più importante, predisposizione che il ricercatore deve fare propria è quella all’as-
colto, un ascolto attento e non superficiale: «ascoltare nel miglior modo possibile è l’obbiet-
tivo primario dell’intervistatore. Il ruolo dell’ascoltatore non è né facile, né passivo. Ascoltare
è un lavoro difficile, che richiede concentrazione e attenzione focalizzata. Ascoltare la narra-
zione autobiografica di un’altra persona significa essere un testimone di ciò che viene detto.

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Significa preoccuparci veramente di ciò che l’altro ha da dirci» (Atkinson, 2002, p. 55), e del-
lo stesso parere era anche lo storico Silvio Micheli, che nelle note introduttive di una sua
pubblicazione affermò che «saper ascoltare non è semplice né facile» (Micheli, 195517, p. 18,
citato da Bermani, 1999, vol. I, p. 14).
Ascoltare attentamente l’informatore, farlo sentire partecipe all’intervista e guardarlo diret-
tamente negli occhi sono accorgimenti necessari per mettere al narratore di essere a proprio
agio e di aprirsi; l’ascolto, come è evidente nella definizione di Atkinson sopra riportata, non
deve essere superficiale e disattento, ma sincero e interessato non tanto alle cose dette in sé
(che potranno essere controllate e analizzate una volta che l’intervista sarà stata effettuata),
ma attento alla persona che in quel momento ci sta parlando e ci sta raccontando qualcosa di
se stesso, rendendoci partecipi della sua esperienza di vita: l’essere umano, come ricorda
Luigi Lombardi-Satriani, ha la necessità di farsi ascoltare dai suoi simili (Cacioli, 1987).
Il ricorso alla forma non strutturata (aperta) o, al limite, semi-strutturata dell’intervista, e la
sua realizzazione suddivisa in più incontri, garantiscono l’apertura degli spazi narrativi ne-
cessari perché la testimonianza abbia un valore più profondo e perché si attivi il flusso di
memorie e ricordi; sociologi come Atkinson (Atkinson, 2002) e Maria Immacolata Macioti
(Pistacchi, 2010), storici come De Rosa (Cacioli, 1987) e giornalisti come Marino Sinibaldi
(Pistacchi, 2010), concordano sul fatto che l’intervista abbia bisogno di tempi lunghi per es-
sere realizzata; ad esempio, gli incontri tra De Rosa e Luigi Sturzo si sono svolti lungo un
periodo di cinque anni. Anche sull’importanza di ricorrere alla forma dell’intervista non-
strutturata (o aperta) concordano storici, come Sara Zanasi (Pistacchi, 2010), antropologi,
come Lombardi-Satriani (Cacioli, 1987) e sociologi come Franco Ferrarotti (Pistacchi, 2010).
Come ho anticipato, è durante la realizzazione dell’intervista che emerge il ruolo di guida
dell’intervistatore, ruolo che dev’essere svolto attraverso un sapiente uso di domande che
provochino una domanda aperta, che costituiscano uno stimolo per il narratore. Atkinson af-
ferma che il «compito primario dell’intervistatore autobiografico è aiutare l’intervistato a
identificare e trasmettere il significato della propria esistenza attraverso il racconto del suo
percorso di vita» (Atkinson, 2002, p. 66), e le domande, che allo stesso tempo non devono
essere né ossequiose né prevaricatrici, sono quindi lo strumento attraverso cui il ricercatore è

17 S. Micheli, Giorni di fuoco, Roma, Editori Riuniti, 1955

!28
in grado di guidare l’intervistato verso il livello dei sentimenti e verso il significato che lui
stesso attribuisce alla propria vita.
L’intervista, oltre che estremamente soggettiva, restituendoci non tanto la verità dei fatti, ma
l’esperienza che un individuo ha dei fatti e la sua visione sulla realtà (Atkinson, 2002), è
anche autoriflessiva, ci fornisce, cioè, la riflessione che il narratore fa della propria vita e del
ruolo che ha avuto e che ancora occupa nella società (Atkinson, 2002) e nella storia.
Se lo scopo del dialogo, secondo lo storico Lucio Villari, è quello di «cercare la verità, sco-
prire la verità, informare sulla verità di un personaggio» (Cacioli, 1987, p. 152), il compito
dello storico orale è anche, e soprattutto, sempre secondo Villari, quello di «cercare, attraver-
so la conoscenza degli individui, di recuperare il ruolo degli individui nella storia e di recupe-
rare anche la storia come somma non meccanica ma creativa di azioni storiche individuali e
collettive» (Cacioli, 1987, p. 154), andando contro le tradizioni teoriche e materialistiche del-
la storia che «riducevano sempre a fenomeni secondari quelli riguardanti l’individuo e l’inter-
iorità» (Passerini, 1988, p. 13), come ad esempio alcune indagini di ispirazione marxista che
non hanno assegnato un ruolo determinante all’individuo nella storia.
Quali sono le domande in grado di permettere all’intervistatore di guidare la testimonianza
orale del narratore? Le domande da evitare sono quelle che provocano una risposta chiusa o
monosillabica, mentre sono da preferire quelle di natura descrittiva, strutturale (che chiaris-
cono l’organizzazione delle conoscenze) e comparativa, che suscitano una risposta aperta
(Atkinson, 2002); lo stesso Atkinson riporta poi numerosi esempi di domande che potrebbero
essere utilizzate durante l’intervista, raggruppandole cronologicamente e per area tematica,
ad esempio quelle che riguardano la famiglia d’origine, l’educazione, i temi principali della
vita e le prospettive sul futuro.
Terminata la registrazione dell’intervista comincia la fase di trascrizione e interpretazione del
racconto, fase in cui può riemergere la soggettività dell’intervistatore che, fino a questo mo-
mento dovrebbe essere stata lasciata sullo sfondo per non condizionare il racconto dell’in-
formatore. A questo punto sociologia, antropologia e storia orale devono affrontare lo stesso
problema: come rendere in forma scritta una testimonianza o un racconto senza sconvolgere
la loro origine e le loro caratteristiche di fonti orali?
La sociologa Maria Immacolata Macioti individua, a proposito della trascrizione di una fonte
orale, due scuole di pensiero contrapposte:

!29
a) Una prima scuola ricerca una resa letterale del parlato, mantenendo le strutture tipiche del
parlato, come pause, esitazioni, ripetizioni, errori linguistici e forme dialettali; Alfredo
Martini e Alessandro Portelli condividono un’opinione simile riguardo la trascrizione di
una testimonianza orale: Martini, che sottolinea il fatto che la trascrizione non possa es-
sere considerata il documento originale e che non si possa sostituire a questo (il docu-
mento originale resta sempre la registrazione sonora) (Contini - Martini, 1993), alla tras-
crizione preferisce una descrizione che accompagni e guidi l’ascolto del racconto orale,
mentre la prima (la trascrizione) «troppo spesso […] sostituisce il documento originale,
limitando l’uso della fonte orale al solo elemento contenutistico e fattuale» (Bermani,
1999, vol. I, p. 146). Se da un lato una trascrizione completa della testimonianza, che
Martini definisce «ritrascrizione» (Contini - Martini, 1993, p. 141), è in grado di comu-
nicare con maggiore efficacia il contenuto del racconto dell’intervistato (a patto che il
ricercatore indichi in nota i tagli, le riscrizioni e gli aggiustamenti), dall’altro non bisogna
limitarsi esclusivamente al contenuto, poiché è necessario notare il fatto che «le forme
della narrazione forniscano ulteriori informazioni» (Contini - Martini, 1993, p. 146). Por-
telli, infatti, nel descrivere le caratteristiche delle fonti orali rispetto a quelle tradizionali,
sottolinea quegli elementi della narrazione orale portatori di significato (come le pause,
che sottolineano e accentuano i contenuti emozionali, l’uso del dialetto, che denuncia il
controllo del narratore su ciò che sta raccontando, o la velocità e il ritmo della narra-
zione) che è difficile trasferire in forma scritta: «abolire la fascia dei tratti soprasegmenta-
li significa appiattire l’affettività contenuta nel parlato (specialmente nel parlato popo-
lare) per ridurla alla presunta oggettività del documento scritto» (Bermani, 1999, vol. I, p.
152);
b) La seconda scuola di pensiero, al contrario, pur rispettando i contenuti della narrazione,
predilige una buona resa scritta, correggendo gli errori linguistici e grammaticali, elimi-
nando esitazioni e ripetizioni e, se necessario, riorganizzando la struttura stessa del rac-
conto (Pistacchi, 2010). Alla seconda scuola di pensiero appartengono Nuto Revelli (Ca-
cioli, 1987) e Atkinson, che suggeriscono di intervenire senza sconvolgere il significato
delle parole del narratore, ma cercando di creare una struttura più scorrevole e ordinata;
Atkinson, a questo lavoro di editing aggiunge che, a prescindere dal tipo di intervento
fatto, l’intervistatore dovrebbe, una volta prodotto una prima bozza di trascrizione, inol-

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trarla all’informatore (a meno che questi preferisca non riceverla) affinché possa leggerla
ed eventualmente proporre le proprie correzioni, sia per quanto riguarda il contenuto, sia
per quanto riguarda la trascrizione (Atkinson, 2002);
c) Esiste anche una terza scuola di pensiero, tipica di quella tradizione storiografica che as-
segna alle fonti orali un ruolo esclusivamente di sostegno al documento scritto, custode
dell’oggettività: la trascrizione, in questo caso, serve ad assimilare il racconto, la testi-
monianza orale a una fonte scritta, sopprimendo il suo carattere narrativo e operando
quella che Portelli definisce una «implicita manipolazione cognitiva» (Portelli, 2007, p.
379).
Per quanto riguarda invece l’interpretazione, Atkinson rileva la presenza di due aspetti più
importanti degli altri: validare il racconto e dare un senso alla narrazione (Atkinson, 2002).
a) Validare il racconto: non sempre è necessario trovare conferma del contenuto della testi-
monianza e cercare la correttezza delle informazioni che racchiude, «dopotutto la realtà
soggettiva è proprio quello che cerchiamo nella narrazione autobiografica» (Atkinson,
2002, p. 92), e la presenza di omissioni, di inesattezze spesso è più utile di quanto non
possa sembrare, perché può fornirci indizi sulla visione della storia da parte di un indivi-
duo o di una comunità e del ruolo che si ritagliano all’interno della società. Atkinson in-
dica tre standard a cui rivolgersi per validare il contenuto di un racconto: la coerenza in-
terna della narrazione, la corroborazione soggettiva o di terzi legati al narratore e l’effetto
persuasivo che ha il racconto sugli altri (Atkinson, 2002); a proposito della validità fat-
tuale delle fonti orali abbiamo già riportato le dichiarazioni di storici come Portelli (Pis-
tacchi, 2010 e Portelli, 2007) Spriano e Galasso (Cacioli, 1987), sul fatto che le testimo-
nianze orali possano essere controllate con gli stessi metodi e criteri adottati per le fonti
tradizionali, come il confronto con altre testimonianze.
b) Dare un senso alla narrazione: è in questo momento che la soggettività del ricercatore in-
terviene, per interpretare il contenuto. Atkinson afferma a tale proposito che in realtà un
racconto non avrebbe bisogno di ulteriore interpretazione: «l’atto stesso del raccontare è
una creazione di significato» (Atkinson, 2002, p. 96), il senso della narrazione nasce du-
rante la narrazione. Mentre per altre discipline, come sociologia e antropologia, il ricerca-
tore potrebbe cercare nel racconto la conferma o meno di una teoria, quella che Atkinson
chiama «interpretazione teoretica» (Atkinson, 2002, p. 101), lo storico orale non do-

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vrebbe cercare di interpretare quanto viene detto, che può rappresentare una memoria in-
dividuale o collettiva su un’esperienza di vita o su un particolare momento storico, ma
limitarsi a enfatizzare i contenuti più importanti e a fornire informazioni complementari;
la forma migliore per farlo è attraverso un’introduzione storica, l’uso di note e la produ-
zione di un commentario, che «offre il punto di vista di un soggetto diverso, che può dire
le cose con una voce diversa rispetto al narratore biografico» (Atkinson, 2002, p. 110).
Interpretare un’intervista, una testimonianza orale, non significa limitarsi a verificarne la ve-
ridicità o a dare un senso alla narrazione: un interprete, afferma nel suo saggio18 Jean Staro-
binski, «assicura dunque un passaggio; nello stesso tempo, bada a riconoscere il valore esatto
dell’oggetto trasferito, assiste alla trasmissione in modo da constatare che l’oggetto giunga al
destinatario nella sua integrità» (Le Goff - Nora, 1981, p. 205), oggetto che nel frattempo si è
«accresciuto di tutto l’apporto dell’attività interpretante» (Le Goff - Nora, 1981, p. 207).
Alessandro Portelli, a sua volta, sostiene che «spiegare un testo significa ritrovarci i quadri
sociali, ma anche tener conto di questo fatto universale che è la differenza fra gli individui, e
fra le loro storie» (Portelli, 2007, p. 245); uno storico orale, uno scienziato sociale che voglia
trarre da una testimonianza dei valori condivisi da una comunità, da un territorio, da una
classe sociale deve tenere conto dell’unicità di ogni racconto di vita, e che, di conseguenza, il
quadro generale si può cogliere solo attraverso la comparazione tra più racconti: «nessuno si
[sogni] di individuare quadri sociali della coscienza attraverso un solo racconto» (Portelli,
2007, p. 250), e, ancora, poiché «il fine del confronto fra diverse testimonianze è quello di
individuare meglio i loro rapporti con gli eventi di cui parlano» (Vansina, 1976, p. 177), la
comparazione tra più testimonianze orali risulta necessaria.
Il momento dell’interpretazione dell’intervista e della fonte orale è importante e imprescindi-
bile per lo storico orale non solo per non cadere nuovamente, come fa notare Luisa Passerini,
nel positivismo e nella sua accettazione acritica di fonti e documenti, interpretati come ogget-
ti in cui il significato è immediato e sempre veritiero, ma anche per evitare di strumentaliz-
zare il contenuto e il significato del racconto (Passerini, 1988): la storica raccomanda, prima
ancora di esaminare la credibilità e la veridicità del contenuto di una testimonianza, di rispet-
tare la memoria fornendo ai lettori (o agli ascoltatori) un’adeguata contestualizzazione, indi-

18J. Starobinski, La letteratura: il testo e l’interprete, in J. Le Goff e P. Nora (a cura di), Fare storia.
Temi e metodi della nuova storiografia, Torino, Einaudi, 1981, pp. 193-208

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cando le modalità e i tempi con cui questa è stata raccolta, di evidenziarne gli eventuali silen-
zi e, infine, di considerare l’ambito sociale in cui la testimonianza è stata prodotta o in cui si è
esercitata prima di essere raccontata al ricercatore, ricordando sempre che alla storia orale
«interessa […] stabilire una concezione della memoria come atto narrante e mediazione sim-
bolica, della quale studiare le diverse manifestazioni storiche e sociali. Scoprire discontinuità,
contraddizioni, inerzie, ma anche inventività e fedeltà della memoria […] può contribuire ad
ampliare e umanizzare il concetto di verità storica» (Passerini, 1988, p. 117).
A proposito della pubblicazione e della diffusione della trascrizione scritta della narrazione
orale Atkinson ricorda nuovamente come sia necessario muoversi nel massimo rispetto per il
narratore, che resta il proprietario del racconto, di cui devono essere tutelati diritti e interessi.
Se lo scopo primario della realizzazione di un’intervista, dal punto di vista del ricercatore, è
venire a conoscenza di storie e memorie, trovare conferma per una teoria o fornire informa-
zioni a un pubblico di ascoltatori, lo scopo “secondario”, «aiutare l’altra persona o i suoi fa-
miliari a raccontare questa vicenda» (Atkinson, 2002, p. 99), è altrettanto importante; lo di-
mostra anche quanto affermato da Valentina Lapiccirella Zingari a proposito dell’esperienza
della creazione di musei etnografici che contengono interviste e testimonianze orali in alcuni
territori, come una città di frontiera (nell’esempio in questione la città di Modane), che sono
diventati un «luogo di costruzione di rappresentazioni comuni, realizzazione comunitaria, tra
territori reali e comunità immaginate» (Pistacchi, 2010, p. 148).
Per chiudere occorre soffermarsi sulla conservazione e sulla promozione delle testimonianze
orali. La conservazione di un’intervista, di una storia di vita, è una problematica che deve es-
sere tenuta in considerazione dallo storico orale che, mentre procede con la raccolta e la re-
gistrazione dell’intervista, deve avere la consapevolezza di creare una fonte volta non solo
all’utilizzo immediato, ma anche a un utilizzo futuro da parte di altri ricercatori: per questo
motivo Martini consiglia agli studiosi di preoccuparsi fin dalle prime fasi della ricerca, della
predisposizione di una «scheda anagrafica» (Contini - Martini, 1993, p. 134) del documento
sonoro, contenente una serie di indicazioni sul contesto e sulle modalità in cui è stata realiz-
zata l’intervista (giorno, luogo, rapporto tra intervistato e intervistatore, strumenti utilizzati e
ulteriori annotazioni), in modo da favorire chi, in futuro, si avvicinerà a questo racconto.
A livello istituzionale, nonostante la presenza in Italia della Discoteca di Stato, istituita nel
1928 e incaricata di raccogliere e conservare i documenti orali, sonori, musicali prodotti in

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Italia, emergono alcune criticità conservazione e sulla promozione dei documenti sonori: Al-
fredo Martini rileva che, dato il carattere non accademico e, in alcuni casi, dilettantesco e
spontaneo, della ricerca basata sulle fonti orali, non sempre si è riflettuto sulla salvaguardia e
sulla conservazione dei materiali, a causa di scarsità di risorse, bassa qualità dei materiali
stessi, raccolti, il più delle volte, in ottica di un uso immediato e successivamente eliminati
(Bermani, 1999).
Nonostante l’attività di enti e istituzioni pubbliche e private, come, ad esempio, l’impegno
profuso dall’Istituto De Martino e dagli Istituti Storici della Resistenza per la promozione e la
conservazione delle fonti orali, affiancati sempre più dall’interesse di Regioni, Provincie e
Comuni, nonostante la conquista di una legittimità a livello accademico della storia orale,
l’interesse del pubblico per i racconti di vita e le memorie dei protagonisti della storia, nonos-
tante la consapevolezza del rischio di perdere o di non riuscire a utilizzare un grande patri-
monio di testimonianze orali, che hanno portato a «interessarsi maggiormente ai problemi di
conservazione e valorizzazione dei propri documenti orali e archivi sonori» (Bermani, 1999,
vol. I, p. 140), non si è ancora riusciti a risolvere le difficoltà sorte intorno alla conservazione
delle testimonianze orali: Sara Zanisi, infatti, nonostante citi alcuni esempi virtuosi, tra cui la
digitalizzazione dell’archivio sonoro di Duccio Bigazzi (da lei curata), denuncia una mancan-
za di risorse e di sforzi in quella direzione, la digitalizzazione, che consentirebbe una mi-
gliore e più sicura conservazione delle fonti e una loro maggiore accessibilità e verificabilità
(Pistacchi, 2010).
Le difficoltà maggiori si incontrano, quindi, non nella creazione di nuovo materiale, ma nella
conservazione del «materiale esistente, conservato in centinaia di luoghi, su supporti più di-
versi, molti in avanzato stato di degrado» (Bermani, 1999, vol. I, p. 142); in questo senso
Martini individuava nell’affermazione dell’informatica una possibile soluzione ma, nonos-
tante le grandi potenzialità offerte dalle nuove tecnologie, soprattutto a livello di promozione
degli archivi grazie all’ipertestualità, queste non risolvono completamente i problemi della
conservazione, sollevando a loro volta ulteriori criticità, di cui tratterò nel prossimo paragra-
fo.
Contini riscontra le stesse difficoltà a proposito della promozione degli archivi sonori, cau-
sate da una parte dal problema della violazione dei diritti di privacy dei diretti interessati,
dall’altra dal fatto che, spesso, questo tipo di documenti, viene conservato da enti che non

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riescono a garantire la loro promozione ed effettiva consultazione da parte del pubblico (Pis-
tacchi, 2010).

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c. La «nuova storia» e l’uso pubblico della storia
Nel paragrafo precedente ho affrontato l’intervista come fonte orale, quali sono le sue caratte-
ristiche principali, in che modo è possibile raccoglierla e come conservarla; in questo para-
grafo, invece, esaminerò un’altra tipologia di intervista, strettamente legata all’intervista-
fonte ma con alcune, rilevanti, differenze: l’intervista-forma di comunicazione pubblica.
L’intervista, infatti, al pari delle altre fonti non tradizionali di cui parlerò in questo paragrafo,
è caratterizzata dal fatto di aver indebolito e reso più indefinito il confine fra fonte e discorso
costruito dallo storico a partire dalla fonte; la difficoltà di riconoscere questa distinzione, al
contrario facilmente individuabile nelle fonti “tradizionali”, costituisce una delle caratteris-
tiche più importanti delle “nuove fonti” a disposizione delle storico contemporaneo.
Prima di proseguire nell’analisi dell’intervista-forma di comunicazione pubblica (e più in ge-
nerale dell’uso pubblico della storia) è necessario fare una puntualizzazione: l’esistenza, di
fatto, di due differenti tipologie d’intervista, che ho chiamato intervista-fonte e intervista-
forma di comunicazione pubblica, comporta per lo storico, che deve controllare questa distin-
zione, differenti modalità di approccio e utilizzo dell’intervista19.
L’intervista-fonte si avvicina alla concezione tradizionale di fonte, tenendo presente che, al
pari delle fonti “tradizionali”, questa non è una fonte neutra (anzi, particolarmente importante
risulta il rapporto fra gli interlocutori, ricercatore e testimone), ma soggettiva e soggetta a
imprecisioni e manipolazioni, volontarie o meno; rispetto a una fonte “tradizionale” e anche
all’intervista-forma di comunicazione pubblica, l’intervista-fonte si presenta con un alto gra-
do di spontaneità, immediatezza e informalità. Inoltre, l’intervista-fonte possiede le caratteris-
tiche tipiche di una fonte “tradizionale”, è in grado, cioè, di rispondere (se interrogata nel
giusto modo) a più interrogativi, posti da studiosi di discipline differenti o in momenti diver-
si, anche a distanza di molto tempo; ad esempio, la registrazione (o la trascrizione, se effet-
tuata rispettando le strutture del parlato) del racconto di vita di un mezzadro emiliano del se-
condo dopoguerra può rispondere a domande sulla situazione delle campagne durante il
conflitto, sulle trasformazioni sociali degli anni Cinquanta e Sessanta, sulle strutture linguis-
tiche o sul livello di alfabetizzazione dei contadini, e, ancora, questa fonte può essere interro-
gata anche a distanza di molto tempo per cercare risposte a domande diverse.

19Non considero, volutamente, le “interviste prevaricatrici” e le interviste-forma di comunicazione


pubblica nate da un approccio non rigoroso e non storicamente corretto con le fonti, che non dovreb-
bero essere utilizzate né come interviste-fonti, né come interviste-forma di comunicazione pubblica.

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L’intervista-forma di comunicazione pubblica, rispetto all’intervista-fonte, subisce maggior-
mente l’intervento dei soggetti coinvolti (ricercatore e testimone) e l’azione delle loro sogget-
tività, affronta un processo di correzione più profondo e risponde al bisogno di comunicare
qualcosa al pubblico o a una domanda di conoscenza da parte del pubblico: l’intervista-forma
di comunicazione pubblica è, quindi, frutto di un ulteriore lavoro di interpretazione e siste-
mazione (strutturale, grammaticale o a livello di contenuto attraverso tagli, aggiunte posterio-
ri o integrazioni con altri tipi di fonti) effettuato su un’intervista-fonte in vista di una sua
pubblicazione e di un suo ingresso nella sfera pubblica. Questo lavoro di correzione e siste-
mazione, anche se effettuato con consapevolezza e rigore, altera, infatti, più o meno profon-
damente il contenuto della fonte, adattandolo e modificandolo per rispondere a uno specifico
interrogativo o a un preciso percorso di ricerca.
Se, quindi, un’intervista-fonte è paragonabile a una fonte “tradizionale”, l’intervista-forma di
comunicazione pubblica è paragonabile a un’interpretazione (una stessa intervista-fonte può
dare vita a molteplici interpretazioni, a seconda di come viene interrogata e della soggettività
del ricercatore) che lo storico costruisce sulla base dell’intervista-fonte.
A causa della difficoltà nel separare fonte e discorso nelle fonti della contemporaneità, non
sempre è semplice distinguere un’intervista-fonte da un’intervista-forma di comunicazione
pubblica, ma lo storico e coloro che leggono o utilizzano un’intervista, devono essere in gra-
do di controllare questa distinzione per non correre il rischio di scambiare un’interpretazione
per una fonte; molti usi sbagliati (e in certi casi si può parlare di veri e propri abusi) dell’in-
tervista derivano, infatti, oltre che dalla mancata consapevolezza delle caratteristiche delle
fonti orali, dalla confusione tra interviste-fonti e interviste-forme di comunicazione, con le
seconde che vengono presentate come fonti, senza considerare il fatto che, invece, sono frutto
di un’ulteriore lavoro di interpretazione.
L’intervista, e le testimonianze orali in generale, possono essere considerate parte di quelle
fonti non tradizionali su cui si basa la «nuova storia» (De Luna, 1993, p. 7).
Jacques Le Goff ha fatto risalire la nascita della nuova storia alla fondazione della rivista An-
nales nel 1929, ad opera di March Bloch e Lucien Febvre, ma ha individuato anche alcuni
studiosi che, a partire dal XVIII° secolo, hanno anticipato alcune idee sulla nuova storia
contenute nella rivista: tra questi Voltaire che nelle sue Nouvelles considérations sur l’his-

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toire20 del 1744, denunciava la mancanza di opere storiche che trattassero «la storia degli
uomini anziché […] una piccola parte della storia dei re e delle corti» (Le Goff, 1980, p. 24),
Chateaubriand, Guizot e, soprattutto, Michelet e l’economista François Simiand.
Le idee alla base della rivista degli Annales, secondo Le Goff, erano la critica del fatto stori-
co, la collaborazione fra storici e altri scienziati sociali (antropologi, sociologi, ecc.), l’affer-
mazione della storia come racconto, l’attenzione per il presente della storia (Le Goff, 1983) e
la costruzione di una storia totale (Le Goff, 1980) in grado di «ricostruire una visione non
mutila della realtà umana. È questa l’esigenza di analizzare ogni aspetto della vita quotidiana
per ricostruire un senso ad attività che sembrano perderlo» (Passerini, 1988, pp. 64-65).
Le condizioni che, secondo Le Goff e Pierre Nora, permettono l’affermazione della nuova
storia sono l’emergere di tre nuovi processi, «[nuovi problemi] rimettono in discussione la
storia stessa; [nuove approssimazioni] ad essi modificano, arricchiscono, rovesciano settori
tradizionali della storia; [nuove tematiche], infine, compaiono nel campo epistemologico del-
la storia» (Le Goff - Nora, 1981, p. VIII), ma anche la presa di coscienza da parte degli stori-
ci, venuto meno il pensiero positivista, del relativismo della loro materia, del confronto forza-
to tra la storia, le scienze sociali e le altre scienze umane, che causano la crisi delle grandi
correnti di interpretazione storiografica e, infine, una riflessione sul ruolo dello storico come
produttore di storia (Le Goff - Nora, 1981): «ma la nuova storia non si accontenta di questi
risultati. Essa si proclama storia globale, totale e rivendica il rinnovamento di tutto il campo
storiografico» (Le Goff, 1980, p. 11).
La lotta degli Annales era una battaglia contro la storia politica e una concezione «evenemen-
ziale» (Le Goff, 1980, p. 16) della storia stessa, basata esclusivamente sugli avvenimenti che
coinvolgono i grandi uomini, cioè la minoranza di una comunità: la nuova storia dovrà essere
una storia che tenga conto della lunga durata in grado di spiegare le strutture, che Fernand
Braudel21 definisce come «realtà che il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a
lungo» (Le Goff, 1980, p. 84), i cambiamenti e le permanenze, ma anche di creare una nuova

20Il testo di Voltaire è ristampato in J. Ehrard e G. P. Palmade, L’Histoire, Parigi, A. Colin, 1964, pp.
161-163, citato da J Le Goff, La nuova storia, in Id., La nuova storia, Milano, Mondadori, 1980.
21 F. Braudel, Histoire et Sciences Sociales. La longue durée, in «Annales ESC», n. 4, ottobre-dicem-
bre 1958, ristampato in Ecrits sur l’histoire, Parigi, Flammarion, 1969, pp. 41-83 (trad. it.: Scritti sul-
la storia, Milano, Mondadori, 1973), citato da K. Pomian, Storia delle strutture, in J. Le Goff, La
nuova storia, Milano, Mondadori, 1980, pp. 81-110

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dialettica tra tempo breve e lunga durata, creando quella che Pomian, riprendendo quanto af-
fermato da Braudel, definisce una «tripartizione del tempo delle storia» (Le Goff, 1980, p.
109) che tenga conto della lunga durata di strutture, del tempo ciclico tipico delle congiunture
(oscillazioni cicliche all’interno di una stessa struttura) e il tempo breve degli avvenimenti,
delle rivoluzioni che possono sconvolgere una struttura, per non commettere lo stesso errore
degli storici tradizionali che ignoravano il concetto di lunga durata. Anche Jerzy Topolski,
pur riconoscendo l’importanza delle indicazioni di Braudel sulla considerazione della lunga
durata, afferma di non approvare che «il tempo lungo sia considerato al primo posto nell’ana-
lisi del passato» (Topolski, 1981, p. 91), e che il compito dello storico dovrebbe essere quello
di affiancare alla lunga durata anche il tempo breve, e con esso le azioni umane (Topolski,
1981).
La nuova storia dovrà avvicinarsi e collaborare con altri campi del sapere, come le scienze
dell’uomo, ad esempio la psicanalisi, le scienze esatte e, soprattutto, le scienze umane; dovrà
sviluppare una storia della mentalità; dovrà essere attenta al tempo presente; e, infine, dovrà
utilizzare nuovi tipi di documenti, anche di tipo quantitativo, realizzando quella che Le Goff
definisce come «rivoluzione documentaria» (Le Goff, 1980, p. 37), di cui mi occuperò fra
poco.
I grandi meriti della nuova storia, sia questa storia orale o storia dell’immaterialità, sono
quelli di aver riaffermato che senza l’attività degli individui non ci sarebbe stata storia e, so-
prattutto, di aver risposto in maniera “diversa” alla domanda: chi fa la storia? «Tutti quelli
che la prospettiva ristretta del concetto del potere politico aveva escluso: le donne in primo
luogo, e i bambini e i poveri» (Passerini, 1988, p. 59).
Cosa intende, invece, Giovanni De Luna quando parla di storia nuova? Lo storico campano la
definisce come una storia che ha visto emergere i nuovi media, fotografia, radio, cinema e
televisione, e affermarsi nuovi tipi di fonti, tra cui le testimonianze orali e quanto viene pro-
dotto dai nuovi media sopra elencati.
Non sono solo cambiati i tipi di fonte a disposizione dei ricercatori, anche il ruolo degli stori-
ci si è trasformato nell’ultimo secolo: si è passati dallo “storico-vampiro” di fine Ottocento,
che tentava di cristallizzare il passato di fronte ai profondi cambiamenti causati dalla Rivolu-
zione Industriale (De Luna, 2004), fino a quello che Bloch ha definito lo “storico-orco”, che
considera una fonte tutto quello che viene prodotto dall’essere umano e la cui qualità mi-

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gliore deve essere la «facoltà di apprendere ciò che vive» (Bloch, 1969, p. 54), in netta oppo-
sizione con lo “storico-antiquario”.
«Il buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua
preda» (Bloch, 1969, p. 41), dato che l’oggetto della storia, per lo storico francese, è proprio
l’uomo. I numerosi ruoli che lo storico è stato chiamato a interpretare sono «distinguibili sul-
la base del rapporto che [gli storici] hanno intrattenuto con lo spazio e con il tempo» (De
Luna, 2004, p. 45).
Di fronte all’emergere dei nuovi media e all’affermazione della nuova storia, lo storico non
può ritirarsi nella tradizione, ma deve accettare la sfida presentata della modernità, tentando
di «storicizzare il proprio rapporto con il mondo della comunicazione» (De Luna, 1993, p. 9),
modificando il rapporto con la materia e il proprio ruolo all’interno della società, anche per-
ché la produzione delle nuove fonti, in primis quelle orali, è stata influenzata dall’azione dei
mezzi di comunicazione e dalla «pressione ideologica e sociale esercitata da […] movimenti
per l’affermazione e riconoscimento delle loro identità culturali e delle loro radici
storiche» (Passerini, 1988, p. 131), dato che le fonti orali sono il mezzo privilegiato per ripor-
tare le voci degli esclusi nella storia.
In questa trasformazione l’irruzione dei nuovi media ha giocato un ruolo fondamentale: De
Luna inserisce tra i nuovi media, come ho già anticipato, la fotografia, la radio, il cinema e la
televisione, a cui si possono aggiungere, per quanto riguarda la più stretta contemporaneità, la
rete e le risorse informatiche; al netto delle differenze dal punto di vista tecnico, del supporto
utilizzato, del tipo di fonti prodotte, immagini mute (fotografia), suoni (radio) o immagini e
suoni (cinema e televisione), e, infine, cronologiche (la televisione ha occupato il ruolo pre-
cedentemente occupato dalla radio, e la rete si sta affermando a sua volta nei confronti della
televisione), i nuovi media presentano una caratteristica comune: svolgono contemporanea-
mente la duplice funzione di fonti e di modelli di narrazione per raccontare la storia; a queste
funzioni se ne può poi affiancare una terza, valida soprattutto per la televisione, di «produt-
trice indiretta di fonti, enfatizzando in questo senso il proprio ruolo di raccoglitore e diffusore
di memoria storica» (De Luna, 1993, p. 97), con l’esempio della trasmissione di Rai Tre “La
mia guerra”, che invitava gli ascoltatori a inviare i racconti della loro esperienza, o di quella
della propria famiglia, durante la Seconda Guerra Mondiale, scelta come evento caratteriz-
zante della nascita della Repubblica (De Luna, 1993).

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Jürgen Habermas, nel suo saggio Storia e critica dell’opinione pubblica, espone la sua vi-
sione critica riguardo la cultura di massa e la nascita dei mass media, che lo studioso tedesco
fa risalire alla metà del XIX° secolo: «la cultura di massa deriva infatti il suo nome equivoco
[…] dal fatto che l’allargamento della diffusione [della cultura] viene raggiunto con l’adatta-
mento alle esigenze di distensione e di distrazione di gruppi di consumatori di livello cultu-
rale relativamente basso e senza invece preoccuparsi di educare il vasto pubblico a una cultu-
ra sostanzialmente integrata» (Habermas, 2002, p. 190). La critica maggiore che Habermas
muove nei confronti dei mass media è quella di non aver educato il pubblico al contatto con
la cultura, bensì al consumo acritico di quanto gli veniva proposto, senza la possibilità di dare
vita a un dibattito; il rischio maggiore è dato dal fatto che la stampa e gli altri mezzi di comu-
nicazione, dal momento in cui hanno cominciato a produrre introiti, hanno attirato l’atten-
zione di privati e istituzioni e sono diventati manipolabili, e, in alcuni casi, «si sono trasfor-
mati in complessi di potere sociale» (Habermas, 2002, p. 217), perdendo in questo modo le
loro funzioni critiche: «mentre prima la stampa poteva soltanto mediare e rafforzare il dibatti-
to dei privati raccolti nel pubblico, adesso, viceversa, esso è plasmato dai mass media» (Ha-
bermas, 2002, p. 217), il cui compito centrale è diventato «la costruzione del consenso» (Ha-
bermas, 2002, p. 223).
Per quanto riguarda il loro ruolo di soggetti narratori e produttori di storia, nei nuovi media
«l’evocazione prevale sull’interpretazione» (De Luna, 1993, p. 31), dato che le immagini, i
suoni e i racconti parlano da soli, contengono in sé il proprio significato e non necessitano,
quindi, di un’interpretazione da parte dello storico; i nuovi media, infine, prediligono un ap-
proccio sincronico e non diacronico alla storia, non procedono cronologicamente, ma insisto-
no sulle connessioni fra fatti ed eventi non simultanei (De Luna, 2004). Grazie a queste carat-
teristiche dei nuovi media e del fascino che, soprattutto cinema e televisione, esercitano sul
pubblico, il racconto sta riacquistando forza nei confronti della storia quantitativa, mentre, al
contrario, «lo storico scienziato sociale sembra segnare il passo davanti allo storico narra-
tore» (De Luna, 1993, p. 33).
Lo storico contemporaneo deve, quindi, essere in grado di «raccontare efficacemente» (De
Luna, 2004, p. 54), poiché la narrazione prodotta deve essere in grado di trasmettere conos-
cenza al pubblico, senza abbandonare una ricerca rigorosa e scientifica. Anche uno storico
come Jacques Le Goff che effettua una separazione rigida e gerarchica fra la «storia degli sto-

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rici» (Le Goff, 1983, p. 35), la sola basata su criteri di scientificità, e la storia degli appassio-
nati, riconosce che nell’epoca dei nuovi media la storia ha bisogno anche di coloro che la
sanno raccontare, che lo storico francese identifica nei «mediatori semiprofessionali» (le
Goff, 1983, p. 36).
La costruzione di un rapporto con i media e l’utilizzo delle fonti che da essi derivano, sono
capacità sempre più necessarie per lo storico contemporaneo, non solo per avere la possibilità
di accedere a un repertorio, spesso sconfinato, di fonti e testimonianze, ma soprattutto per
sviluppare un approccio critico e una lettura attenta nei confronti dei nuovi media, senza ca-
dere in un rapporto di tipo passivo e subordinato (De Luna, 1993).
Un approccio critico alle fonti, di cui Bloch fa risalire le origini alla fine del XVII° secolo per
merito di studiosi tra cui spicca il nome di Richard Simon, con una concezione del dubbio
tipica della scienza cartesiana, in cui il dubitare non era più considerato un atteggiamento
mentale negativo ma «uno strumento di conoscenza» (Bloch, 1969, p. 85), unito a una ricerca
storica rigorosa e veritiera, restano ancora elementi strutturali e determinanti nel lavoro dello
storico, soprattutto nel momento in cui questo deve competere con la narrazione più coinvol-
gente dei nuovi media e la diffusione dell’uso pubblico della storia.
Cosa si intende per uso pubblico della storia?
Nicola Gallerano definisce l’uso pubblico della storia come «tutto ciò che si svolge fuori dai
luoghi deputati della ricerca scientifica in senso stretto» (Gallerano, 1995, p. 17): all’aumento
dei produttori di storia, tra cui troviamo i nuovi media, l’arte, la letteratura, le scuole, i musei,
vari tipi di associazioni e istituzioni, che promuovono una lettura della storia dal punto di vis-
ta del gruppo sociale che rappresentano, e, infine, la politica, ha fatto da contrapposizione una
diminuzione, per numero e rilevanza, degli spazi accademici in cui discutere la storia, spazi
di cui si sono appropriati i soggetti sopra elencati.
De Luna e Gallerano non concordano pienamente con la definizione di uso pubblico della
storia di Jürgen Habermas, che la definisce come storia fatta in prima persona con obiettivi
politici e di costruzione del consenso, al contrario della storia scientifica, che è caratterizzata
dall’uso della terza persona e dall’oggettività dello storico, che non si deve lasciare influen-
zare dai pregiudizi e dalla propria biografia: «noi conduciamo la discussione alla ricerca di
una giusta risposta [riguardo il rapporto con le responsabilità storiche dei tedeschi e la loro
identità], parlando in prima persona. Non bisogna confondere questa arena [i giornali e gli

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articoli attraverso cui gli storici discutono], in cui siamo tutti in causa, con la discussione de-
gli studiosi che, nel corso del loro lavoro, devono assumere il punto di vista della terza perso-
na» (Rusconi, 1987, p. 106).
La definizione di uso pubblico della storia di Habermas nasce all’interno di quella che è stata
definita «Historikerstreit» (Rusconi, 1987, p. VIII), la discussione tra storici, filosofi e socio-
logi nata dalla pubblicazione di un articolo di Ernst Nolte sul Frankfurter Allgemeine Zeitung
il 6 giugno 1986; l’articolo di Nolte22 e la discussione che da esso sarebbe scaturita, coinvol-
sero numerosi autori sul problema della relazione fra i tedeschi contemporanei e i crimini na-
zisti della Seconda Guerra Mondiale e, più in generale, sulla costruzione stessa dell’identità
del popolo tedesco.
Il rischio che lo storico tedesco intende denunciare è la diffusione al pubblico, attraverso la
mediazione dei mass media, di visioni revisionistiche e apologetiche della storia nate per
soddisfare l’interesse di una parte politica, e non basate sulla rigorosa metodologia di critica e
di verifica degli storici di fronte al pluralismo delle tradizioni su cui si basa l’identità colletti-
va di un popolo (Rusconi, 1987).
De Luna, al contrario, riconosce che la principale differenza fra gli storici contemporanei e
quelli tardo-ottocenteschi e primo-novecenteschi, consiste proprio nell’accettazione, da parte
dei primi, della propria soggettività e della propria biografia, che non devono più essere nas-
coste in nome di un’oggettività di stampo positivista, ma dichiarate esplicitamente: Jean La-
couture sosteneva, a tale proposito che lo storico contemporaneo «condannato alla distorsione
della soggettività […] trova salvezza nel rendere espliciti i propri orientamenti. Palesandosi
per quello che è si neutralizza, si apre le vie dell’equità. Segnalando la propria parzialità, può
ritrovarsi imparziale. È quando procede nell’ambiguità che […] corre il maggior pericolo di
allontanarsi dall’operazione storica» (Le Goff, 1980, p. 225). Topolski definisce la soggettivi-
tà come la visione del mondo dello storico che «crea una prospettiva in base alla quale egli
studia il passato» (Topolski, 1997, p. 69): l’oggettività resta un mito positivista, mentre la vi-
sione del mondo dello storico, le sue credenze (beliefs), la sua parzialità sono evidenziate nel
racconto dalle scelte retoriche, lessicali, dall’interpretazione degli eventi e persino dalla sele-
zione delle fonti su cui si basa il racconto stesso (Topolski, 1997).

22 E. Nolte, Il passato che non vuole passare, in G. E. Rusconi, Germania: un passato che non passa.
I crimini nazisti e l’identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987

!44
L’ingresso in scena della soggettività dei ricercatori è una rivoluzione comune anche ad altre
scienze sociali, come ad esempio l’antropologia dopo la pubblicazione postuma dei diari per-
sonali di Malinowski. Portelli, parlando delle testimonianze orali, nello specifico del rapporto
fra il ricercatore e il narratore, ribadisce la necessità di non cancellare la presenza del ricerca-
tore dal prodotto finale della ricerca (sia questo un testo o un documento audiovisivo) in
nome della presunta «autonomia della fonte» (Bermani, 1999, vol. I, p. 161), poiché le fonti
orali non sono oggettive, e la stessa presenza dello studioso, anche se cerca di eclissarsi, in-
fluenza l’esito dell’intervista, modificando il contenuto del racconto.
Perché la definizione di Habermas, ripresa anche da Le Goff, che afferma che i media sono «i
depositari di [una] visione mitica del passato» (Gallerano, 1995, p. 66) basata su miti, tradi-
zioni e versioni “ufficiali” (prodotte, ad esempio, dallo Stato con intenti propagandistici),
mentre la storia degli storici si basa su regole scientifiche ed è dotata di una sua autonomia,
non è accettata pienamente da Gallerano e De Luna?
De Luna afferma che davanti all’aumento degli «agenti di storia» (De Luna, 2004, p. 75), che
ha causato la fine del monopolio di creatori e fornitori di interpretazioni detenuto dalle grandi
istituzioni (Stato, Chiesa e Partito), gli storici non possono «essere ancorati a [uno] sdegnoso
quanto impossibile rifiuto a priori» (De Luna, 2004, p. 73) dell’uso pubblico della storia,
mentre Gallerano avverte che «l’uso pubblico della storia non è insomma una pratica da rifiu-
tare o demonizzare pregiudizialmente: può essere un terreno di confronto e di conflitto che
implica il coinvolgimento dei cittadini e non solo degli addetti ai lavori, attorno a temi essen-
ziali; può rivelare lacerazioni profonde e ferite della memoria e farle tornare alla luce» (Gal-
lerano, 1995, p. 19).
Il rifiuto pregiudiziale dell’uso pubblico della storia e la mancata costruzione di un rapporto
con i nuovi media e le fonti che essi producono, causano non solamente una mancata com-
prensione delle dinamiche interne e delle caratteristiche dei media e dell’uso pubblico della
storia, che viene lasciato strumento esclusivo dei nuovi produttori di storia, con tutte le
conseguenze negative che questo comporta, ma non permette nemmeno agli storici di com-
prendere che la nascita di questi nuovi produttori e l’aumento degli spazi in cui è possibile
discutere di storia hanno favorito una democratizzazione della diffusione di conoscenza stori-
ca (De Luna, 2004). Lo storico contemporaneo non può permettersi di non considerare i nuo-
vi media: già negli anni Settanta Pierre Nora notava che «il monopolio della storia comincia-

!45
va ad andare ai mass media. Ormai gli appartiene. Nelle nostre società contemporanee è es-
clusivamente per il loro tramite che l’avvenimento ci colpisce» (Le Goff - Nora, 1981, p.
141); i media stanno limitando sempre maggiormente il ruolo di mediatore dello storico fra il
pubblico e gli avvenimenti, che vengono diffusi in modo ridondante (nelle società tradiziona-
li, al contrario, si cercava di rarefarne la diffusione) e spettacolarizzato, rendendo più difficile
la sua decifrazione e comprensione (Le Goff - Nora, 1981).
Un altro merito che si può attribuire ai nuovi media è quello di avere portato alla luce anche
versioni “non ufficiali” della storia, come quelle delle classi subalterne. Secondo Marc Ferro,
condirettore degli Annales, citato da Peppino Ortoleva nel suo saggio Storia e mass media23, i
media rappresentano il terreno di scontro, il luogo in cui si esprime «il conflitto e la negozia-
zione continua» (Gallerano, 1995, p. 67) fra la «storia-stato» (Gallerano, 1995, p. 67), quella
prodotta dal potere politico per legittimare le istituzioni, anche a costo di modificare i fatti, e
la «storia-società civile» (Gallerano, 1995, p. 67), che difende e conserva l’identità e la me-
moria delle classi subalterne; a questo proposito, pur andando apparentemente fuori tema,
occorre citare quanto ha affermato Alessandro Portelli a proposito della storia orale: «il lavo-
ro della storia orale consiste, sostanzialmente, nel cercare di riconnettere il punto di vista lo-
cale dal basso con la visione scientifica globale dall’alto: contestualizzare il locale, e rendere
il globale consapevole dell’esistenza del locale» (Portelli, 2007, p. 166). Ritorna l’idea della
mediazione, della creazione di uno spazio in cui la Storia e la storia possano convivere e
completarsi a vicenda.
Un altro limite della definizione di Habermas consiste nella mancata considerazione del fatto
che, come nota Ortoleva, anche il libro di storia, anche quello più scientifico e oggettivo, può
essere usato come mezzo di «comunicazione di massa» (Gallerano, 1995, p. 69).
Gallerano, inoltre, concordando con De Luna e lo stesso Ortoleva, afferma che «l’utilità pub-
blica della storia è la sua giustificazione originaria» (Gallerano, 1995, p. 22), riportando
l’esempio di Tucidide che, nella sue Storie, afferma esplicitamente di aver effettuato una scel-
ta tra gli avvenimenti degni di essere ricordati e quelli invece destinati all’oblio, o dei libri
che storia che nascevano grazie al mecenatismo delle classi dominanti o per compiacere il
potere politico (De Luna, 2004); lo stesso Le Goff, pur mantenendo una rigida gerarchia fra

23P. Ortoleva, Storia e mass media, in N. Gallerano (a cura di), L’uso pubblico della storia, Milano,
FrancoAngeli, 1995, pp. 63-82.

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storia degli storici e storia dei media, affermando che «la storia […] è una scienza e dipende
da un sapere che si acquista professionalmente» (Le Goff, 1983, p. 36), riconosce come la
storia in Grecia, solitamente considerata la culla del pensiero storico occidentale, sia nata per
interessi sociali e politici, e che a lungo, anche ad esempio nel Rinascimento, abbia mantenu-
to uno stretto legame con il potere (Le Goff, 1983).
Più che chiudersi in un rifiuto sprezzante e istituire una gerarchia fra storici accademici e
nuovi agenti di storia, è utile, come afferma De Luna, capire le strategie adottate dai media e
confrontarle con quelle degli storici: i nuovi produttori di storia creano inevitabilmente delle
interpretazioni meno forti, meno convincenti e, soprattutto, funzionali a una visione di tipo
revisionistico della storia; la vicenda della riabilitazione dei “ragazzi di Salò”, e la conse-
guente svalutazione del valore della Resistenza (De Luna,. 2004), è esemplare per compren-
dere come un’interpretazione di questo tipo sia fortemente legata a un contesto o a un inter-
esse politico, a un interesse privato, o di un’azienda, un’associazione, e specifica per rispon-
dere a una domanda di un certo tipo di pubblico preoccupandosi soltanto dell’immediato
consumo e non su un’approfondita ricerca dei documenti (scritti, orali, ecc.) e neppure su una
critica delle fonti (De Luna, 2004). Soprattutto i racconti e le testimonianze orali, a causa del-
la loro soggettività, rischiano, se non sono accompagnati da un’attenta analisi e interpreta-
zione da parte degli storici, di rispondere alla domanda di storia in modo incompleto, im-
provvisato e strumentalizzato (Passerini, 1988).
Gli storici devono affrontare i nuovi media, soprattutto nella loro veste di produttori di storia,
perché questi «intervengono direttamente nelle guerre, costruiscono gli eventi bellici, si inse-
riscono nei delicati meccanismi della formazione e selezione della classe politica, alimentano
i circuiti che innervano le memorie e le identità collettive» (De Luna, 2004, p. 195).
«È precisamente con questo “storico della gente” che il nostro “storico narratore” deve com-
petere nell’arena dell’uso pubblico della storia. E la strada con cui può riaffermare la propria
diversità - se non la propria superiorità intellettuale - è ancora una volta quella del ritorno alle
fonti» (De Luna, 2004, p. 97).
Di quali fonti sta parlando De Luna?
Le fonti a disposizione dello storico contemporaneo sono, naturalmente, profondamente di-
verse da quelle che avevano a disposizione gli storici tardo-ottocenteschi o primo-novecen-
teschi, così come è diverso l’approccio dello storico nei loro confronti: «la storia è una cosa;

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la conoscenza storica è un’altra; la nostra storia è solo quella che noi conosciamo; e quella
che noi conosciamo la conosciamo non per esperienza diretta ma attraverso le tracce che ha
lasciato dietro di sé, e che noi riusciamo a trovare e a capire» (De Luna, 2004, p. 100). Le
fonti oggi a disposizione sono sempre più variegate ed eterogenee, adatte a rispondere alle
domande di una storia sempre più attenta alla mentalità degli individui e alla loro interiorità:
«la nuova storia […] appare in definitiva caratterizzata proprio da questa capacità quasi illi-
mitata di utilizzare materiali e fonti nuove; soprattutto la storia della mentalità conferma
questa dilatazione del territorio dello storico» (De Luna, 2004, p. 101); e, ancora: «ogni cosa
è una fonte per lo storico della mentalità» (Le Goff - Nora, 1981, p. 249), documenti di natura
fiscale e amministrativa, arredamenti funerari, agiografie e documenti letterari che rivelano la
psicologia del tempo che gli ha prodotti, e anche i luoghi, i mezzi di produzione e di diffu-
sione (i mass media ad esempio) di queste fonti. Le Goff a proposito della storia della menta-
lità, che rientra nelle direzioni d’indagine dello storico nate con l’affermarsi della nuova sto-
ria, ha affermato che con mentalità si deve intendere il modo di pensare collettivo di una co-
munità, di un popolo, di un certo gruppo di persone, una mentalità che può avere la meglio su
dottrina e leggi, una mentalità che cambia molto lentamente e può essere studiata come fe-
nomeno di lunga durata (Le Goff - Nora, 1981).
Gli storici contemporanei non hanno rinunciato all’utilizzo delle fonti di carattere monumen-
tale privilegiate dai loro predecessori, ma hanno rivoluzionato il modo di rapportarsi con
loro: se nell’Ottocento e durante i primi anni del Novecento il rapporto era profondamente
condizionato dal pensiero positivista, che vedeva nelle fonti la capacità di esprimersi auto-
nomamente senza l’intervento dell’interpretazione dello storico, a partire dagli anni Trenta
del secolo scorso gli storici hanno cercato di scardinare la subalternità dello studioso nei
confronti dei documenti, ricercando nuovi tipi di fonti, interrogandosi sull’assenza di infor-
mazioni su un particolare tema o avvenimento, concentrandosi maggiormente su una storia
intesa come conoscenza sugli uomini più che come scienza del passato (De Luna, 2004).
Anche la critica delle fonti si è trasformata: da una critica volta esclusivamente alla verifica
della validità e veridicità delle fonti, ancora fondamentale, ma che non considerava l’inten-
zionalità con cui queste fonti si producevano e accettava l’arbitraria selezione su eventi e fatti
da ricordare effettuata nel passato, gli storici contemporanei sono giunti fino all’interroga-

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zione del documento, la cui efficacia è direttamente dipendente dalla validità delle domande
che gli vengono poste (De Luna, 2004 e Bloch, 1969).
Per quanto riguarda il tipo di fonti a disposizione degli storici contemporanei, Bloch, Le Goff
e De Luna affermano che, per la storia contemporanea, è in atto una «vera e propria rivolu-
zione documentaria: è l’irruzione del quantitativo […]» (Le Goff, 1983, p. 118), con l’aumen-
to della fonti a disposizione dello storico, che non si limitano più ai soli documenti scritti o
alle fonti monumentali (monumenti, edifici, monete, ecc.), ma che ora coinvolgono anche gli
altri sensi dello storico, come ad esempio l’udito (De Luna, 2004), o ancora: «tutto ciò che
l’uomo dice o scrive, tutto ciò che costruisce e che tocca, può e deve fornire informazioni su
di lui» (Bloch, 1969, p. 71); tra queste nuove fonti De Luna inserisce i sogni, le testimonianze
orali, le immagini, le canzoni, i racconti, i film, le fonti informatiche e i corpi, mentre Le
Goff aggiunge le tradizioni di un popolo, «la tradizione è certamente storia […] è in effetti
una sorta di antistoria nella misura in cui si oppone alla storia ostentata e animata dai domina-
tori» (Le Goff, 1983, p. 55), e i silenzi, «bisogna fare l’inventario degli archivi del silenzio, e
fare la storia a partire dai documenti e dalle assenze di documenti» (Le Goff, 1983, p. 93).
Per lo storico contemporaneo però queste testimonianze non si limitano più al ruolo di
conferma di un fatto storico o di accompagnamento a una narrazione scientifica, ruolo che gli
attribuiva lo stesso Le Goff, ma sono diventate «elemento costitutivo della realtà storica» (De
Luna, 2004, p. 135).
Come deve avvicinarsi uno storico contemporaneo a questa grande vastità di fonti a sua dis-
posizione?
Sono validi gli stessi accorgimenti e la stessa attenzione metodologica che valgono per le tes-
timonianze orali: l’autenticità, la scientificità, la correttezza di queste fonti possono essere
verificate come quelle delle fonti tradizionali; l’impossibilità di validare la loro esattezza non
può essere quindi invocata come giustificazione per non considerare queste fonti non tradi-
zionali.
La tradizionale critica delle fonti si distingue in una critica esterna, volta a determinare l’au-
tenticità di un documento, investigando anche su eventuali manomissioni, e una interna, che
esamina il contenuto di un documento e la sua credibilità.
Le Goff pone alcune considerazioni a proposito della critica della veridicità delle fonti: la
prima è che anche un documento falso può essere un testimone estremamente prezioso, poi-

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ché fornisce informazioni sulla mentalità di chi l’ha prodotto e sulle caratteristiche dell’epoca
che l’ha utilizzato come se fosse vero; la seconda è che vanno esaminate attentamente le in-
tenzioni di produzione dei documenti, poiché queste possono rivelare le strutture di potere
della società che ha deciso di produrre e conservare, consapevolmente o meno, quel docu-
mento: «nessun documento è innocente. Esso deve essere giudicato. Ogni documento è un
monumento che bisogna saper destrutturare, smontare» (Le Goff, 1983, p. 95). Già Marc
Bloch nella prima metà degli anni Quaranta, nella sua Apologia della storia lasciata incom-
piuta e pubblicata grazie a Febvre24, aveva affermato che a uno storico «interessa maggior-
mente quel che [una testimonianza] lascia intendere, senza averlo voluto dire in maniera es-
plicita» (Bloch, 1969, p. 69), sia questa testimonianza volontaria o involontaria, sia che
contenga deformazioni o meno.
Al pari delle fonti documentarie, anche le nuove fonti possono incorrere in manomissioni e
alterazioni, si pensi per esempio agli odierni programmi informatici per l’alterazione della
fotografia e all’uso della tecnologia in campo cinematografico; per questo motivo allo storico
che faccia uso di queste fonti è richiesta una competenza tecnica e una conoscenza sul fun-
zionamento dei nuovi mezzi tecnologici, così come allo storico è sempre stata richiesta una
grande competenza nel rapporto con le fonti d’archivio e documentarie. Come già ricordato
per le testimonianze orali e per i documenti tradizionali, è necessaria la consapevolezza del
fatto che una fonte “falsa” possa rivelarci molto di più rispetto a una autentica, essendo «in
grado di alimentare determinati percorsi di ricerca» (De Luna, 1993, p. 18): De Luna riporta
l’esempio di prodotti cinematografici alterati o che riportano una realtà distorta degli eventi,
ma che, allo stesso tempo, ci trasmettono, se analizzati con attenzione, l’interpretazione del
periodo storico e dei loro committenti/realizzatori sui temi che sono trattati.
L’analisi su queste fonti deve comprendere l’intenzionalità con cui queste sono state prodotte,
non soltanto per testarne l’attendibilità, ma soprattutto per comprendere quale significato at-
tribuirgli: una fotografia ufficiale di un personaggio politico solitamente ha intenti propagan-
distici, e quindi sono maggiori le possibilità che sia stata alterata o inscenata artificialmente
(in questo caso la ricerca sui motivi che hanno portato alla sua manomissione è più interes-
sante di quella limitata al contenuto della fotografia), mentre una fotografia di carattere fami-

24Marc Bloch, a causa del suo coinvolgimento nella Resistenza francese, fu catturato dai nazisti, tor-
turato e poi fucilato vicino a Lione il 16 giugno 1944.

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liare, che nasce per ritrarre una persona amata o un oggetto, sottraendolo in questo modo allo
scorrere del tempo, è, tendenzialmente, più autentica e meno soggetta a manipolazioni; allo
stesso modo una «storia ufficiale è più soggetta a deformazioni [di una ] storia privata, dal
momento che questa non ha che pochi interessi pubblici da difendere, per non dire
nessuno» (Vansina, 1976, p. 98), anche se lo stesso Vansina riconosce in seguito che, in certe
culture, anche una testimonianza privata può essere deformata per interessi personali (presti-
gio, ascesa sociale, buona impressione di fronte al ricercatore) del narratore, interessi perso-
nali che sono condizionati dal tipo di società in cui vive l’informatore (Vansina, 1976).
Lo storico contemporaneo deve, quindi, acquisire la capacità di fare parlare le fonti nonos-
tante se stesse, per «leggere […] le testimonianze anche contro le intenzioni di chi le ha pro-
dotte» (De Luna, 2004, p. 188).
Un’altra caratteristica di queste nuove fonti, cui ho fatto riferimento riguardo l’intervista e le
testimonianze orali, è che sono estremamente soggettive, non offrono una trasposizione effet-
tiva del reale, ma l’interpretazione che un testimone, dal suo punto di vista, offre di un even-
to.
Un campo di ricerca che le fonti fotografiche, radiofoniche, cinematografiche, televisive e
orali, permettono di investigare è quello della mentalità di un singolo individuo o di una co-
munità su un particolare tema o momento storico; in questo caso lo storico dovrà affrontare
uno studio di lunga durata, in cui affiancherà alla ricerca in archivio e alle fonti tradizionali,
tutte quelle fonti alternative che giudicherà funzionali alla sua ricerca (De Luna, 1993): la
selezione delle fonti dovrà avvenire seguendo non un criterio gerarchico, tra documenti nobili
e meno nobili, ma secondo un criterio di «funzionalità al programma di studi
predisposto» (De Luna, 2004, p. 109), «infatti non sono le fonti a definire la […] problemati-
ca [dello storico], ma è la problematica a definire le sue fonti» (Le Goff - Nora, 1981, p. 12)
come dichiara François Furet nel suo saggio Il quantitativo in storia25, e ancora lo stesso Fu-
ret afferma che «la storiografia contemporanea non progredisce che nella misura in cui deli-
mita il suo oggetto, definisce le sue ipotesi, costituisce […] le sue fonti il più accuratamente
possibile» (Le Goff - Nora, 1981, p. 17). Per quanto riguarda la storia orale, la costruzione
delle proprie fonti è la «condizione [della sua stessa] esistenza» (Passerini, 1988, p. 42), una

25F. Furet, Il quantitativo in storia, in J. Le Goff e P. Nora (a cura di), Fare storia. Temi e metodi della
nuova storiografia, Torino, Einaudi, 1981, pp. 3-23

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costruzione che è soggetta all’influenza di due soggettività, quella del ricercatore e del narra-
tore, fatto che, come ho evidenziato nel capitolo precedente, ha attirato gli attacchi da parte
della storia accademica, soprattutto per quanto riguarda l’inaffidabilità della memoria dei tes-
timoni; a queste accuse gli storici orali hanno risposto sottoponendo allo stesso tipo di critica
le fonti tradizionali, dimostrando che queste incorrono negli stessi limiti attribuiti alle fonti
orali.
Il lavoro dello storico, in questo caso, comprenderà anche la fase di costruzione delle fonti,
non nel senso materiale del termine, ma la costruzione di quella che De Luna definisce, ci-
tando Jerzy Topolski, la loro «struttura informativa» (De Luna, 1993, p. 25): per struttura in-
formativa si definisce ciò che le fonti rivelano dalle domande che pone loro il ricercatore; la
capacità di interrogare efficacemente le fonti, siano queste fonti documentarie a cui vengono
poste domande diverse da quelle fatte nel passato, o l’interrogazione ex novo di nuove fonti,
resta una capacità fondamentale che lo storico deve possedere. Secondo lo storico polacco,
nella storiografia contemporanea lo storico deve diventare un soggetto attivo, senza più limi-
tarsi a un rapporto passivo con le fonti e con il mondo esterno; questo nuovo ruolo dello sto-
rico emerge dalla caratteristiche e dalle funzione che assume la ricerca storica contempora-
nea:
a) scoperta di nuove categorie di fonti;
b) costituzione di fonti attraverso le domande poste dal ricercatore;
c) interpretazione delle fonti.
«La costituzione della fonte è il coronamento del lavoro di ricerca di fonti atte a rispondere
alla domanda che interessa lo storico» (Topolski, 1981, p. 41): le domande che il ricercatore
contemporaneo pone alle fonti che sceglie di utilizzare durante la sua ricerca sono necessarie
per trasformarle da statiche a dinamiche (la loro struttura informativa dipende, infatti, dal
modo in cui sono interrogate), e da potenziali a effettive.
Luisa Passerini evidenzia che il carattere rivoluzionario delle fonti non tradizionali e della
nuova storia, non è quello di aver ribaltato la tradizionale gerarchia fra uomini illustri e masse
oscure, accentuando il loro ruolo della storia, e di aver portato all’interno del campo di ricer-
ca anche la mentalità e le fonti immateriali, ma di aver messo in «dubbio il concetto di evento
storico in quanto fatto significativo e della storia come ricerca di ciò che è realmente accadu-

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to» (Passerini, 1988, p. 43) e aver restituito importanza al ruolo fondamentale dello storico
nella costruzione del sapere storico.
Topolski, ancora a proposito delle strutture informative, differenzia una struttura informativa
dal punto di vista del contenuto, che chiama «struttura informativa1» (Topolski, 1981, p. 43),
e una dal punto di vista del rapporto che si viene a creare fra la fonte e lo storico, la «struttura
informativa2» (Topolski, 1981, p. 43). Questa seconda struttura informativa non consente sol-
tanto allo storico di comprendere l’attendibilità e le caratteristiche della fonte su cui sta lavo-
rando, se questa sia diretta o indiretta (cioè se tra lo storico e la fonte si interpone un media-
tore), indirizzata o non indirizzata (se era destinata alla comunicazione o meno), ma, soprat-
tutto, gli permette di interpretare il contenuto stesso della fonte: «la costituzione della struttu-
ra informativa2 ha quindi grande importanza per la formazione delle strutture
informative1» (Topolski, 1981, p. 45).
Secondo De Luna il rapporto che si viene a creare fra fonte, storico e il rapporto reciproco fra
di loro, dovrebbe essere un rapporto in cui tutti i membri si trovino in una situazione parita-
ria, condizione necessaria perché la ricerca storica abbia buon esito (De Luna, 1993).
Un’ultima considerazione che ho riportato all’inizio di questo paragrafo ma che, per la sua
importanza, è necessario ripetere, riguarda un’altra caratteristica propria delle nuove fonti,
che le differenziano ulteriormente rispetto alle fonti “tradizionali”: il fatto cioè di aver, sos-
tanzialmente, annullato la separazione tra la fonte e il discorso (o l’interpretazione) che lo
storico costruiva a partire dalla fonte. Le nuove fonti, siano esse fotografie, filmati, testimo-
nianze orali o interviste, possono apparire contemporaneamente fonti (nell’accezione tradi-
zionale del termine) e forme di comunicazione pubblica, anche se, come ho spiegato a propo-
sito dell’intervista-fonte e l’intervista-forma di comunicazione pubblica, persiste la profonda
differenza che intercorre tra una fonte e l’interpretazione costruita dallo storico: proprio per-
ché l’interpretazione è una costruzione, più o meno rigorosa e scientifica, in cui riveste un
ruolo importante la soggettività dello storico, questa non può essere confusa con una fonte
che, anche se non è più possibile considerare qualcosa di oggettivo, può dare origini a nume-
rose e diverse interpretazioni.
Gli storici contemporanei, il cui lavoro non si limita più soltanto a raccogliere le fonti e a cos-
truire un’interpretazione, devono controllare questa caratteristica delle fonti che hanno a loro
disposizione e, soprattutto, devono essere in grado di competere non soltanto con quelli che

!53
De Luna ha chiamato “storici della gente” (De Luna, 2004) , ma anche con le fonti stesse a
loro disposizione, che, apparentemente, in molti casi nascono come prodotti già pronti a fare
il loro ingresso nella sfera pubblica.
La conservazione delle fonti prodotte dai nuovi media costringe lo storico contemporaneo a
confrontarsi con problematiche in un certo senso simili a quelle che solleva la conservazione
e l’archiviazione delle fonti documentarie tradizionali, anche se di senso opposto: se da un
alto le fonti tradizionali nascevano da una selezione degli eventi degni di non essere dimenti-
cati e venivano poi archiviate e catalogate secondo logiche conservative, dall’altro le nuove
fonti, soprattutto quelle televisive e radiofoniche, che sono prodotte senza operare una sele-
zione gerarchica, vengono conservate secondo ragioni economiche e produttive; si decide di
conservare quello che in seguito potrebbe essere venduto o riprogrammato. In Italia un’ecce-
zione è costituita dall’archivio audiovisivo dell’Istituto Luce, anche se negli ultimi anni, gra-
zie a un’alta richiesta da parte del mercato di programmi di storia, si è incominciato a seguire
logiche più conservative anche nell’archiviazione della programma radiotelevisiva (De Luna,
2004).
Un grande aiuto per favorire la conservazione delle fonti, documentarie e orali, è arrivato
grazie ai nuovi sistemi informatici di digitalizzazione e archiviazione e alla nascita degli ar-
chivi digitali.
Anche questi archivi, nonostante permettano una più semplice conservazione di grandi quan-
tità di dati, non sono esenti da criticità, soprattutto per quanto riguarda la conservazione e la
veridicità delle fonti. Per quanto riguarda la conservazione, non è scontato che un’informa-
zione digitalizzata e informatizzata abbia una durata maggiore rispetto a un documento carta-
ceo: i siti web possono essere chiusi o oscurati, rendendo le informazioni irraggiungibili, i
sistemi di archiviazione (floppy disk, cd rom, hard disk esterni, chiavette usb) sono conti-
nuamente aggiornati e sostituti da sistemi completamente diversi nel giro di pochi anni, con
tutte le difficoltà che derivano dalla conversione dei documenti da un formato all’altro.
Nei documenti informatici, inoltre, «la distinzione tra l’originale e la copia viene a perdere
senso» (De Luna, 2004, p. 170), fatto che, unito alla facilità della loro modifica, che non las-
cia traccia delle versioni precedenti e dell’autore di questi cambiamenti, rende difficile
confermare la veridicità dei documenti informatici. A queste considerazioni è necessario ag-
giungere che lo storico contemporaneo deve avere la consapevolezza che la rete, al pari degli

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altri media, se da un lato ha permesso una forte democratizzazione del sapere e l’ampliamen-
to degli spazi a disposizione per le versioni “non ufficiali”, dall’altro ha causato un incremen-
to e una maggiore visibilità dei documenti prodotti da autori deliranti, con la diffusione, ad
esempio, di revisionismi e teorie del complotto.
De Luna si interroga anche sulla possibilità che i nuovi media possano, in futuro, costituire
validi strumenti didattici per gli studenti: il ruolo che lo storico individua per loro è quello di
integrazione e sovrapposizione con i tradizionali manuali nella narrazione storica, ma, così
come aveva affermato per gli storici, costruire un rapporto con i nuovi media è essenziale per
«allenare i ragazzi a una permanente vigilanza critica nei confronti del flusso di immagini e
suoni che la società contemporanea produce ossessivamente» (De Luna, 1993, p. 36).

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d. Esempi di interviste

Tenterò ora di analizzare due interviste sulla base della caratteristiche indicate nei paragrafi
precedenti, senza giudicare la validità o meno del contenuto dei racconti.

Le interviste che ho scelto sono Intervista sul fascismo26 a Renzo De Felice curata da Michael
A. Ledeen e La guerra sulla pelle: Servizi segreti, Alleati e Resistenza nel racconto dell’a-
gente ORI - OSS Ennio Tassinari27 a cura di Davide Angeli e Marco Minardi.
Le differenze che si notano prima ancora di cominciare a leggere i due testi sono la grande
distanza cronologica fra le due interviste, quella di De Felice risale, infatti, al 1975, mentre
quella a Tassinari è stata pubblicata nel 2012, e la diversa caratura del narratore: se da un lato
la figura di Renzo De Felice è conosciuta, quanto meno fra gli storici, e la sua biografia fa-
cilmente recuperabile anche in rete28, dall’altro l’esperienza durante la Seconda Guerra Mon-
diale di Ennio Tassinari e la sua vita erano poco note29, almeno fino alla pubblicazione
dell’intervista.
Data la fama di De Felice e delle sue pubblicazioni, l’intervista consiste in una riflessione
sulla storia del fascismo, riflessione basata sulle opere e sulla straordinaria ricerca dello stori-
co su Mussolini; l’intervistatore non interroga De Felice sulla sua vicenda biografica, fatta
eccezione per la prima parte, che contiene domande riguardanti la sua formazione e i suoi
maestri, «dove e con chi hai portato avanti i tuoi studi di storia italiana? chi riconosci come
tuoi maestri?» (De Felice, 1975, p. 1), il suo avvicinamento alla tematica del fascismo, «in
che occasione poi è iniziata, e quali sono state le tappe della tua indagine sul fascismo?» (De
Felice, 1975, p. 7) e, infine, se abbia o meno fatto ricorso a racconti e altre fonti orali, «[…]
ci sono personaggi del ventennio, sia di parte fascista, sia di parte avversaria che ti sono sta-
ti particolarmente utili? Cioè, ci sono degli archivi “vivi” degli uomini che ti hanno raccon-

26 vd. nota precedente.


27 vd. nota precedente.
28Renzo De Felice, nato a Rieti nel 1929, allievo di Chabod e Croce, ha insegnato Storia dei partiti
politici e Storia contemporanea a Roma. Interessato prima a studi sul giacobismo italiano, si è poi
concentrato su problemi di storia del fascismo. È morto a Roma nel 1996.
29Ennio Tassinari, nato a Sant’Alberto di Ravenna nel 1921, antifascista dopo l’8 settembre, con al-
cuni compagni, partì in bicicletta e, dopo aver attraversato il fronte, entrò a far parte dell’Organizza-
zione della Resistenza Italiana. Dopo la guerra tornò nel ravennate e diventò dirigente di un’impresa
cooperativa di costruzione.

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tato cose particolarmente importanti?» (De Felice, 1975, p. 10), e l’ultima, in cui i due sog-
getti discutono sulle critiche mosse in Italia in seguito alla pubblicazione dei lavori di De Fe-
lice, «[…] mi sembra che in Italia il tuo lavoro sia stato abbastanza contestato. Non è stato
accolto tanto favorevolmente come altrove» (De Felice, 1975, p. 108), e sul futuro della sto-
riografia italiana sul fascismo, «E allora, quali sono secondo te le prospettive di sviluppo del-
la storiografia italiana sul fascismo?» (De Felice, 1975, p. 113).
Più che una vera e propria intervista, Intervista sul fascismo appare come una discussione fra
due esperti riguardo un argomento su cui entrambi possiedono una buona, se non ottima, co-
noscenza, e quello che restituisce ai lettori è un interessante approfondimento sulle opere di
De Felice (opere che rimangono imprescindibili per chiunque abbia intenzione di studiare il
fascismo, la Seconda Guerra Mondiale e la storia europea del Novecento) e sulla sua interpre-
tazione della storia del fascismo in generale, approfondimento che, grazie alla struttura aperta
dell’intervista, risulta maggiormente appassionante e di più chiara e diretta comprensione, ma
il cui limite (probabilmente anche a causa del periodo storico in cui è stata realizzata l’inter-
vista, periodo in cui in Italia la storia orale basata sui racconti di vita aveva appena comincia-
to a ritagliarsi spazio all’interno del mondo accademico) maggiore resta quello di dire poco, o
nulla, sull’esperienza di vita dell’intervistato.
Al contrario, La guerra sulla pelle, illumina non solo vicende meno note della Seconda Guer-
ra Mondiale, cioè l’azione degli agenti segreti italiani dell’ORI (l’Organizzazione della Resis-
tenza Italiana) in appoggio ai servizi segreti militari statunitensi (OSS - Office of Strategic
Services) durante la lotta per la liberazione dell’Italia dal nazifascismo, «Leggendo qualche
informazione su di te, ho letto che combattesti nelle fila dell’ORI. Cos’era questa organizza-
zione di cui facesti parte?» (Angeli - Minardi, 2012, p. 15) e «Prima però, vorrei che mi par-
lassi un po’ di questa organizzazione di cui facesti parte, l’ORI» (Angeli - Minardi, 2012, p.
67), ma anche la storia di vita di uno di questi agenti, Ennio Tassinari, «Tu come diventasti
antifascista ad esempio?» (Angeli - Minardi, 2012, p. 18), «Partendo dalle tue origini, chi
era Ennio Tassinari da ragazzo?» (Angeli - Minardi, 2012, p. 77) e, ancora, «[…] racconta-
mi prima di tutto come iniziò il tuo impegno nella cooperativa edile» (Angeli - Minardi,
2012, p. 150).
Questa intervista, al contrario di quella esaminata in precedenza, si avvicina maggiormente
alle più importanti pubblicazioni di storia orale, ad esempio quelle di Nuto Revelli sul mondo

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dei contadini30 e di Alessandro Portelli sulla storia del movimento operaio della città di Ter-
ni31, poiché consegna ai lettori non solo la storia di vita di Tassinari, ma anche la sua visione
del mondo e l’interpretazione che egli fa della storia: «Ed è risaputo, quando intervengono i
poteri forti, i poveri e le sinistre generalmente han sempre da rimetterci» (Angeli - Minardi,
2012, p. 112), «non c’è un confronto politico aperto che dibatta sui veri temi sociali, la sinis-
tra non è più sinistra, disorganizzata, e la destra pensa solo a rubare soldi e potere per i suoi
politici» (Angeli - Minardi, 2012, p. 123), «d’altronde, permettimi questa piccola riflessione
in chiave odierna, gli americani sono ancora oggi un popolo di guerrafondai, ne han sempre
sentito il bisogno e lo stanno dimostrando anche ora» (Angeli - Minardi, 2012, p. 126) e, in-
fine, «che poi se mi permetti, su questo repentino volta faccia tipicamente italiano, dal saluto
romano al pungo chiuso, ad essere onesto ho sempre nutrito tanti dubbi. […] Per questo ho
sempre detto che il popolo italiano sentirà sempre il bisogno di un capo, del padrone. Ci sen-
tiamo ancora dei sudditi, e questo fa abbastanza riflettere» (Angeli - Minardi, 2012, p. 129).
Infatti, a differenza di Intervista sul fascismo, il dialogo fra l’intervistatore e Tassinari si
concentra sia sull’esperienza militare durante la Resistenza (argomento centrale dell’intervis-
ta) sia sulla vita dell’intervistato prima, durante e dopo la guerra, e sulla sua interpretazione
della guerra, delle vicende politiche dell’Italia Repubblicana, dei grandi temi internazionali
(comunismo, Cina, …).
Quello che resta al lettore, oltre alla conoscenza delle vicende di uomini che erano fino a quel
momento erano rimaste nell’ombra, è la visione del mondo che emerge dal racconto di Ennio
Tassinari, una chiave di lettura che si può non condividere, ma attraverso cui è letta (e raccon-
tata) tutta la sua esperienza di vita.
Per quanto riguarda le caratteristiche che dovrebbe presentare la pubblicazione di un’intervis-
ta, indicate nei paragrafi precedenti, entrambi i lavori presentano punti di forza e criticità:
a) La soggettività degli intervistatori emerge in tutte e due le interviste, e la centralità del
loro ruolo è sottolineata dalla capacità di guidare le interviste con domande che provoca-
no una risposta aperta;

30 N. Revelli, Il mondo dei vinti: testimonianze di vita contadina, Torino, Einaudi, 1977
31 A.Portelli, Biografia di una città. Storia e racconto: Terni, 1830-1985, Torino, Einaudi, 1985 e Id.,
L’uccisione di Luigi Trastulli, Terni 17 marzo 1949: la memoria e l’evento, Provincia di Terni, 1999

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b) Nelle due interviste il rapporto fra intervistatori e intervistati è diverso, Ledeen e De Fe-
lice sono entrambi storici con poco più di dieci anni di differenza, mentre fra Tassinari e
Angeli si avverte più distanza, sia a livello cronologico sia per differente formazione ed
esperienze di vita, ma in entrambi i casi si tratta di un rapporto fra due soggetti che si ris-
pettano reciprocamente e senza disuguaglianze di potere;
c) In ambedue i lavori mancano indicazioni sul luogo e le date in cui si sono svolti gli in-
contri, anche se all’interno della prefazione dell’intervista a Tassinari sono almeno indi-
cate la situazione e le motivazioni che hanno portato alla realizzazione dell’intervista;
d) La contestualizzazione storica del contenuto dell’intervista è presente in entrambe le in-
terviste, ma solamente in La guerra sulla pelle, dove un saggio di Marco Minardi sull’es-
perienza dell’Organizzazione della Resistenza Italiana, vengono fornite in maniera appro-
fondita quelle informazioni complementari che, secondo quanto affermato da Atkinson,
dovrebbero accompagnare il racconto dell’intervistato sotto forma di un’introduzione sto-
rica e di note; la breve appendice di Intervista sul fascismo riguardo le persone e avveni-
menti storici citati è, a mio avviso, eccessivamente schematica;
e) Entrambe le interviste non presentano note e/o indicazioni sul lavoro di trascrizione ope-
rato sui racconti di De Felice e di Tassinari, e mancano informazioni sul luogo di conser-
vazione del documento sonoro originale, se questo è stato conservato;
f) Il fatto che sia Intervista sul fascismo sia La guerra sulla pelle non presentino un’inter-
pretazione da parte dell’intervistatore non costituisce, a mio avviso, una criticità, perché i
due lavori, per motivi diversi non la richiedono: De Felice fornisce un’interpretazione di
secondo grado (un’interpretazione dell’interpretazione contenuta nelle sue pubblicazioni)
sulla storia del fascismo, mentre, secondo quanto afferma Atkinson, lo storico orale non
dovrebbe cercare di interpretare un racconto di vita, categoria alla quale appartiene il rac-
conto di Tassinari.

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3. Intervista a Silvio Miana
Per motivi di spazio e di equilibrio fra le due parti della tesi, metodologica e di ricerca, si è
deciso di riportare di seguito solo un estratto dell’intervista, date le grandi dimensioni della
stessa. La versione completa dell’intervista, con un apparato di note ridotto e quindi di più
semplice lettura, sarà contenuta in un volume di futura pubblicazione.
a. Metodologia e strumenti utilizzati
Il primo incontro con Silvio Miana e la sua famiglia si è svolto presso l’Istituto per la Storia
della Resistenza e della Società Contemporanea di Modena il 22 maggio 2015 in presenza del
prof. Giuliano Albarani.
L’incontro è servito per avviare la relazione fra intervistato e ricercatore e per definire alcune
questioni preliminari allo svolgimento dell’intervista.
a) Scopo dell’intervista. Si è deciso che l’intervista non si sarebbe limitata a raccogliere una
testimonianza da utilizzare per dimostrare l’ipotesi di questa tesi di laurea (la possibilità
di fare storia attraverso un’intervista e, soprattutto, l’efficacia dell’intervista come nuovo
mezzo di comunicazione storica), ma sarebbe continuata anche dopo la raccolta del mate-
riale necessario e avrebbe fatto parte di un progetto di più ampio respiro: raccogliere la
memoria e il racconto di vita di Silvio Miana, in vista di una futura pubblicazione. In
questo modo lo scopo “primario” dell’intervista, in questo caso la realizzazione di una
tesi di laurea, si mescola e si confonde con quello “secondario”, cioè la raccolta della sto-
ria di vita di Silvio Miana (Atkinson, 2002);
b) Scelta della sede in cui effettuare l’intervista: su richiesta di Miana si è deciso di incon-
trarsi presso l’Istituto Storico;
c) L’ultimo punto affrontato è stato quello della tutela dei diritti dell’intervistato, realizzata
attraverso il rispetto della sua decisione su cosa trascrivere o meno e, soprattutto, attra-
verso l’invio delle prime ipotesi di trascrizione a Miana, in modo che potesse controllarle
ed eventualmente proporre delle correzioni.
Grazie a questo incontro preliminare, si è riusciti a stabilire quel patto collaborativo che,
sempre secondo quanto afferma Atkinson (Atkinson, 2002) è necessario per tutelare i diritti
dell’intervistato e del ricercatore
Il primo incontro per la registrazione della prima parte dell’intervista si è svolto la mattina del
3 giugno 2015; il tempo trascorso tra i due incontri è stato necessario per permettermi di ap-

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profondire la vita di Miana, la sua attività, le vicende di quelle organizzazioni che l’hanno
visto protagonista, il Partito Comunista Italiano, la CGIL e la Lega Nazionale delle Coopera-
tive e Mutue, e per preparare una prima traccia di domande, da seguire nel caso di momenti
di stallo o difficoltà durante l’intervista.
La cadenza degli incontri successivi (in totale gli incontri necessari per realizzare questa pri-
ma parte dell’intervista sono stati cinque), che si sono susseguiti quindicinalmente durante
l’estate, è stata stabilita in base ai tempi necessari per la trascrizione della registrazione
dell’intervista e la sua lettura da parte di Miana. La costante rilettura delle trascrizioni e la
loro correzione, a cui è stato dedicato completamente l’incontro del 26 giugno, hanno favori-
to l’emersione di ricordi ed episodi che altrimenti sarebbero andati perduti e la sistemazione
di quanto era già stato detto, andando in questo modo ad arricchire costantemente il racconto
di vita di Miana. Se questo, quindi, da un lato ha migliorato i contenuti, dall’altro, purtroppo,
ha ridotto, in parte, la spontaneità della testimonianza orale, una spontaneità che mi sono im-
pegnato a salvaguardare il più possibile.
Durante gli incontri ho lasciato il maggiore spazio possibile al racconto di Miana, mettendo
da parte, come d’altra parte era prevedibile, la scaletta di domande, e limitandomi a guidare
l’intervista per superare i momenti di difficoltà e per approfondire temi particolarmente inter-
essanti che erano stati solo accennati. Seguendo le indicazioni teoriche riportate nel primo
capitolo ho utilizzato prevalentemente domande non strutturate che prevedessero una risposta
aperta, articolata e che stimolassero il flusso di ricordi dell’intervistato (ad esempio «Cosa ti
ricordi dei giorni della Liberazione?»); solo nei casi necessari, ad esempio per la data di nas-
cita o per la durata del suo percorso scolastico, ho fatto ricorso a domande chiuse (ad esem-
pio, «Quando sei andato a Piumazzo hai detto che hai ripreso la scuola, fin dove sei arriva-
to?»).
Tecnicamente per registrare gli incontri ho utilizzato un registratore digitale (Olympus
WS-812) e contemporaneamente appuntavo a mano, per non interrompere il flusso del rac-
conto, oltre a date e nomi, per rimediare nel caso di imperfezioni tecniche, le domande e i
chiarimenti da fare a incontro concluso.
L’ultima considerazione per la fase di realizzazione dell’intervista riguarda la presenza dei
figli di Miana, Carla e Marco, durante gli incontri: la loro presenza è stata particolarmente
utile, perché, oltre a mettere ulteriormente a suo agio il padre, i loro interventi hanno favorito

!62
l’emersione e l’approfondimento di episodi, riguardanti soprattutto la vita personale dell’in-
tervistato, che altrimenti non sarebbero stati trattati.
Per quanto riguarda, invece, i criteri di trascrizione ho optato, seguendo la posizione difesa da
Atkinson nel primo capitolo e quanto richiesto dall’intervistato, per una buona resa scritta del
racconto, naturalmente con il massimo rispetto per i contenuti.
Ho scelto di non fare trascorrere troppo tempo dalla registrazione alla trascrizione, per suddi-
videre il lavoro e riuscire, in questo modo, a sopperire con la memoria a eventuali imperfe-
zioni tecniche della registrazioni; nello specifico ho realizzato una prima stesura, il più fedele
possibile al parlato e, in seguito, utilizzando questa prima stesura come fosse una brutta copia
e riascoltando la registrazione in caso di dubbi, ho realizzato una seconda stesura. In questa
stesura ho eliminato le strutture tipiche del parlato che compromettevano una lettura scorre-
vole del testo, ho eliminato ripetizioni e incertezze, riformulato le domande e corretto gli er-
rori grammaticali (concordanze, tempi verbali, …). Contemporaneamente, data la comune
volontà di realizzare un buon testo scritto, ma non un saggio pesante e troppo tecnico, ho cer-
cato di salvaguardare la ricchezza della testimonianza orale di Miana, rispettando, il più pos-
sibile, la spontaneità e l’informalità dell’intervista; un esempio è l’aver mantenuto nel testo
costruzioni dialettali e aver trascritto fedelmente le parti in dialetto, che ho poi tradotto in
nota.
Una volta terminata questa fase ho inviato questa seconda stesura a Miana; a questo punto,
dopo le eventuali correzioni dell’intervistato, inserivo la seconda stesura, ora in forma quasi
definitiva, insieme alla altre in una narrazione più ampia, anch’essa controllata da me e da
Miana per eliminare, ad esempio, errori che erano sfuggiti alle precedenti correzioni e per
armonizzare tra loro le varie parti.
Riporto di seguito un esempio delle diverse fasi di trascrizione dell’inizio della testimonianza
di Silvio Miana:
a) Prima ipotesi di trascrizione, fedele al parlato: «Sono nato a Castelletto di Serravalle …
in provincia di Bologna … ehm … nel millenovecento… nel 27 settembre del 1926. La
mia famiglia è una famiglia di mezzadri che coltivava un podere ai piedi di delle colline
del di castello di Serravalle. Famiglia … composta … da 12 persone perché il due due
fratelli che avevano sposato due sorelle … la … il … e … la famiglia che aveva delle e

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dei legami con l’agricoltura. In quel podere dove sono nato era … oh stamattina non mi
viene mica!»;
b) Seconda ipotesi di trascrizione: «Quando e dove sei nato? Sono nato a Castelletto di Ser-
ravalle, in provincia di Bologna, il 27 settembre del 1926. La mia famiglia era una fami-
glia di mezzadri, che coltivava un podere ai piedi delle colline del castello di Serravalle;
era composta da dodici persone, perché due fratelli avevano sposato due sorelle. La mia
era una famiglia che aveva dei legami con l’agricoltura, e in quel podere dove sono nato
era… Oh, stamattina non mi viene mica!»;
c) Trascrizione definitiva, dopo i suggerimenti di correzione da parte dell’intervistato:
«Quando e dove sei nato? Sono nato a Castelletto di Serravalle, in provincia di Bologna,
il 27 settembre del 1926. La mia famiglia era una famiglia di mezzadri, che coltivava un
podere ai piedi delle colline del castello di Serravalle. Era composta da dodici persone,
perché due fratelli avevano sposato due sorelle e vivevano tutti assieme».
Nel passaggio dalla prima alla seconda ipotesi di trascrizione ho eliminato le ripetizioni, le
esitazioni, ho cercato, correggendo la punteggiatura, di migliorare la scorrevolezza del testo,
mantenendo una struttura quanto più possibile fedele a quella del parlato, con l’uso di periodi
brevi e preferendo la coordinazione alla subordinazione; infine, ho aggiunto in forma esplici-
ta la mia domanda (in corsivo), che invece durante l’incontro era rimasta sottintesa.
Ho mantenuto la struttura fedele al parlato anche nella trascrizione definitiva, nonostante
l’eliminazione dell’esclamazione finale di Miana, che contribuiva a esplicitare le caratteris-
tiche orali e informali del racconto.
Questi momenti di correzione, come ho anticipato, se hanno ridotto la spontaneità del raccon-
to e allungato i tempi di lavoro, oltre ad aver arricchito i contenuti, sono stati necessari per
rispettare i diritti e la volontà dell’intervistato che deve sempre rimanere in possesso del pro-
prio racconto, attraverso la correzione o la scelta di cosa includere o meno all’interno della
narrazione.
Dato lo scopo della tesi, dimostrare se sia possibile o meno fare storia attraverso un’intervista
e se questa possa costituire un efficace mezzo di comunicazione storica, e data la natura stes-
sa del tipo di fonte utilizzato, soggettiva e influenzata dai meccanismi della memoria, la tras-
crizione dell’intervista non è accompagnata da un commento o da un’interpretazione su quan-
to emerso durante gli incontri; un altro motivo per l’assenza di un’interpretazione è che, se-

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condo quanto afferma Atkinson (Atkinson, 2002), più che l’interpretazione dello storico, è
importante che il racconto restituisca la visione del mondo e della storia da parte dell’intervi-
stato.
Questo non significa che il contenuto del racconto vada accettato acriticamente, infatti la
trascrizione è accompagnata da un importante apparato di note, frutto di una mia operazione
di ricerca realizzata consultando fonti primarie e secondarie, il cui scopo è approfondire,
contestualizzare, storicizzare e verificare quanto emerso durante la realizzazione dell’inter-
vista.
Ho redatto le note in vista di una futura pubblicazione dell’intervista completa a Silvio Mia-
na, pubblicazione rivolta non tanto a un pubblico di specialisti, per i quali la maggior parte
delle note risulterebbe superflua, ma rivolta, soprattutto, a un pubblico di non specialisti, che
leggendo l’intervista potrebbero essere spinti a interessarsi ad approfondire e chiarire un ar-
gomento, un avvenimento o una biografia; l’intenzione con cui ho redatto le note è stata pro-
prio quella di fornire agli eventuali lettori non specialisti un primo riferimento, quanto più
possibile accurato storicamente e scientificamente, per orientare i loro approfondimenti.
Il rapporto tra il racconto e le note che l’accompagnano, come dimostrerò più dettagliata-
mente nelle conclusioni di questa tesi, è quello che rende possibile una ricerca storiografica
scientifica e rigorosa basata su una testimonianza orale.
L’estratto dell’intervista riportato nel paragrafo successivo, e l’intervista nel suo complesso,
contenuta nella futura pubblicazione, appartengono, a causa delle correzioni e della modalità
di trascrizione che ho scelto di adottare, alla categoria dell’intervista-forma di comunicazione
pubblica. Un’intervista-forma di comunicazione pubblica costruita a partire da un’intervista-
fonte, ma pur sempre una forma di comunicazione e divulgazione storica basata sulla ripro-
duzione dell’oralità e un prodotto sostanzialmente pronto per essere utilizzato editorialmente.
Nonostante questo, come ho già scritto precedentemente in questo paragrafo, ho cercato di
salvare e mantenere quanto più possibile dell’intervista-fonte nella trascrizione definitiva e,
soprattutto, nell’apparato di note che accompagna l’intervista, costruito sulla base dell’inter-
vista fonte.
Infine, per quanto riguarda la conservazione dell’intervista: la trascrizione, come ho accenna-
to precedentemente, sarà contenuta nella futura pubblicazione contenente la storia di vita di

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Miana sotto forma di intervista, mentre le registrazioni effettuate durante gli incontri sono
conservate da me e dalla famiglia Miana a cui, su loro richiesta, sono state inviate.

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b. Trascrizione dell’intervista
Quando e dove sei nato?
Sono nato a Castelletto di Serravalle, in provincia di Bologna, il 27 settembre del 1926. La
mia famiglia era una famiglia di mezzadri, che coltivava un podere ai piedi delle colline del
castello di Serravalle. Era composta da dodici persone, perché due fratelli avevano sposato
due sorelle e vivevano tutti assieme.

Era molto tempo che la tua famiglia viveva su quel podere?


Da quarant’anni.

Un tempo molto lungo …


Quarant’anni. E tra l’altro i due fratelli furono chiamati alle armi, sia mio padre, Giovanni,
che mio zio Silvio, morto in seguito a malattie contratte durante la Prima Guerra Mondiale.
Quindi il podere veniva coltivato con l’apporto soprattutto delle donne.

Questo è molto interessante.


La famiglia di mio zio Silvio era composta da quattro donne, la moglie più tre figlie e la fa-
miglia di mio padre, prima che arrivassimo io e mio fratello Paolo, era formata da quattro
donne, mia madre e le mie tre sorelle, Mafalda, Silvia e Paolina. Quindi mio padre era a capo
di una famiglia di dieci persone che vivevano insieme per coltivare questo podere insieme,
che era uno di quei poderi che aveva una casa padronale, dove in una parte della casa abitava
il mezzadro e nell’altra parte abitava la famiglia del cosiddetto padrone che era il proprietario
del podere. La vita era fatta di molta fatica, poiché c’erano poche macchine agricole che, tra
l’altro, non venivano gestite dagli stessi agricoltori, quindi tutta la lavorazione della terra ve-
niva fatta con le braccia. Per esempio, l’aratura si faceva con i buoi, la mietitura con il falcet-
to a mano e la trebbiatura, invece, avveniva su ordinazione delle trebbie alle aziende artigiane
che gestivano queste macchine e anche i trattori per l’aratura. Anche la lavorazione della ca-
napa era manuale e comportava un lavoro particolarmente faticoso, sia nel taglio che nella
macerazione e nell’imballaggio per l’ammasso. La trebbiatrice e l’imballatrice funzionavano
con motori a vapore, alimentati a loro volta con la pula del grano, che era l’involucro della
spiga

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In generale, com’era l’agricoltura allora? Era un’agricoltura poderata, i campi erano divisi in
poderi, almeno in tutta la zona della valle del Samoggia e in buona parte dell’Emilia Roma-
gna. Vi convivevano tre forme di conduzione del terreno: conviveva la forma dell’azienda
agricola cosiddetta in economia che veniva lavorata dai braccianti avventizi, e quindi aveva
una lavorazione stagionale; poi c’era la forma della mezzadria e c’era la forma della proprietà
privata coltivatrice diretta, cioè di coltivatori diretti. Tra i contratti previsti vi era anche il
contratto di compartecipazione, una forma importante soprattutto per la bassa modenese, in
cui prevaleva la proprietà coltivatrice diretta e le forme che erano chiamate di compartecipa-
zione, anche queste regolate da un apposito capitolato: il filo conduttore era che il proprieta-
rio concedeva un pezzo di terra a un contadino, che doveva lavorarlo e impegnarsi a fare tutto
ciò che era necessario per produrre un buon raccolto. Non pagava l’affitto, ma in cambio do-
veva dare dal 40 al 60 percento del raccolto, e doveva assumersi tutti gli oneri delle coltiva-
zioni.
Era una vita piuttosto dura e abbiamo avuto la fortuna di avere un padre quale è stato il mio,
in grado di condurre il podere facendo molto economie e non facendo mancare nulla di indis-
pensabile alla famiglia. Mio padre, tra l’altro, ha fatto il militare, chiamato alle armi con la
leva della classe 1888, nel Corpo Bersaglieri, durante la guerra di Libia nel 1911, successi-
vamente nella Prima Guerra Mondiale è stato fatto prigioniero con la ritirata di Caporetto,
quindi fu portato in un campo di concentramento in Austria. Poi fuggirà dal campo, attraversò
i Balcani e arrivò in Italia via Salonicco. È mancato da casa per sette anni, quindi hanno
provveduto mia madre e mia zia insieme hanno sostituito i capi famiglia, perché, come dice-
vo, anche mio zio è stato chiamato alle armi, per poi morire in conseguenza alle gravi malat-
tie contratte durante la guerra.
Mio padre proveniva da una famiglia numerosa, erano in quattro fratelli: lui e lo zio Silvio si
dedicarono all’agricoltura e si insediarono in questo podere a Castelletto che si chiamava La
Piana, molto conosciuto perché era un bel podere. Gli altri due fratelli: uno, Rodolfo, emigrò
prima in Giappone a cercare lavoro, ma andò male, ritornò, si sposò, poi assieme alla moglie
e ai primi figli nati in Italia, emigrò negli Stati Uniti d’America, precisamente in California
nel 1911, dove si insediò come agricoltore; nel 1953 ci venne a trovare, mi ricordo bene

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l’anno perché era l’anno della lotta contro la cosiddetta “legge truffa1”: arrivò a Modena, a
casa di mio padre questo signore di 80 anni, vestito bene con un cappello “Panama”, arrivan-
do in aereo a Milano. Il suo rientro in Italia fu notato anche dai giornalisti, tant’è che ne parlò
il Corriere della Sera2 in un trafiletto.

1 Con “legge truffa” s’intende il tentativo compiuto dall’allora presidente del Consiglio, Alcide De
Gasperi, di riformare la legge elettorale italiana, passando da un sistema proporzionale a uno maggio-
ritario, la cui più importante novità consisteva nell’assegnazione di un premio di maggioranza (il 65%
dei seggi) a quel partito, o lista, che avesse raggiunto almeno la metà dei voti più uno; in caso di man-
cato quorum si sarebbe seguito il sistema precedente.
Il disegno di legge fu approvato dal consiglio dei ministri il 18 ottobre 1952 e presentato alla Camera
dei Deputati il 21 dello stesso mese. Il disegno incontrò la strenua opposizione da parte del Partito
Socialista, di quello Comunista, delle destre e, almeno inizialmente, dei piccoli partiti laici (Partito
Liberale, Partito Repubblicano e Partito Socialista Democratico che, il 15 novembre, si accordarono
con la DC). Il dibattito in aula, soprattutto dopo la costituzione di un comitato di nove membri della
Commissione interni della Camera per velocizzare le operazioni di esame di ulteriori proposte, fu ac-
ceso (scoppiarono anche dei disordini) e le sinistre presentarono prima con Pietro Nenni una proposta
sospensiva (respinta) e poi una pregiudiziale sull’incostituzionalità della legge, ritenuta simile alla
Legge Acerbo (voluta da Mussolini nel 1923, prevedeva il premio di maggioranza dei 2/3 dei seggi al
partito che avesse superato il 25% delle preferenze), pregiudiziale respinta il 9 dicembre. Il disegno di
legge trovò l’opposizione di singole personalità dei partiti laici, come Pietro Calamandrei (fu lui uno
dei primi a definire la nuova legge elettorale come “legge truffa”), Ferruccio Parri, Carlo Cassola e
Tristano Codignola che, insieme ad altri dissidenti fonderanno i movimenti di Unità Popolare e Al-
leanza Democratica Nazionale per contrastare i partiti centristi. Il 14 gennaio 1953, per bloccare l’op-
posizione e i rallentamenti causati dalle opposizioni, De Gasperi pose la fiducia, che fu votata, dopo
una seduta di 70 ore, dalla Camera il 21 gennaio, dopo che il giorno precedente la CGIL aveva pro-
clamato lo sciopero generale. L’opposizione continuò anche al Senato, mentre le sinistre continuavano
a chiedere di sottoporre il disegno di legge a referendum; il presidente del Senato, Giuseppe Paratore,
opponendosi al ricorso alla fiducia per l’approvazione di una legge elettorale, si dimise, ma, il 29
marzo la legge fu approvata anche dal Senato. Il presidente della Repubblica promulgò la legge il 31
marzo e sciolse le Camere il 4 aprile, mentre le elezioni furono fissate per il 7 giugno.
Il risultato elettorale della DC e dei suoi alleati, grazie all’opposizione delle sinistre e dei movimenti
dei dissidenti laici (UP e ADN) che raccolsero circa l’1% dei voti, non fu sufficiente a raggiungere il
quorum richiesto (l’alleanza guidata da De Gasperi raggiunse il 49.8% delle preferenze).
Il fallimento della nuova legge elettorale, abrogata l’anno seguente, segnò anche la fine dell’era di De
Gasperi, che si dimise nell’agosto 1953 (Pieroni, 2007).
2 Il Corriere della Sera fu fondato a Milano nel 1876 da Eugenio Torelli-Viollier, che lo diresse per
circa 20 anni, dando al giornale un orientamento liberale moderato. Con la direzione di Luigi Alberti-
ni, che durò dal 1900 al 1925, il giornale diventò il primo quotidiano nazionale, e avversò duramente
le posizioni di Giolitti. Non favorevoli al fascismo, Luigi Albertini e il fratello, che gli era succeduto,
furono costretti a lasciare la direzione e la proprietà nelle mani della famiglia Crespi, che deteneva la
maggioranza delle quote. A causa dell’adesione al fascismo, dopo la Liberazione la pubblicazione fu
sospesa fino al maggio del 1945, mentre il giornale riprese il titolo originario nel 1959. I direttori del
dopoguerra, tra cui figura anche Giovanni Spadolini, conservarono l’orientamento moderato, fino a
quando negli anni Settanta, con la direzione di Piero Ottone, si registrò una svolta a sinistra, svolta
che spaccò la redazione (con l’allontanamento, tra gli altri, di Indro Montanelli) e che tolse al giornale
il sostegno delle forze politiche ed economiche più conservatrici. Nel 1974 la maggioranza delle quo-
te passò al gruppo editoriale Rizzoli. Gli anni Ottanta furono un periodo di crisi, sia dal punto di vista
finanziario, sia per la scoperta che , di fatto, la proprietà era nelle mani di affiliati alla loggia massoni-
ca della P2. Il giornale perse il primato tra i giornali italiani, per riconquistarlo solo alla fine degli anni
Ottanta grazie al passaggio di proprietà (RCS Editori) e al lavoro di direttori come Piero Ostellino e
Ugo Stille.

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L’altro fratello, Carlo, invece si dedicò al mestiere del falegname, sempre rimanendo in paese
con la moglie Marianina, che gestiva una drogheria, uno di quei negozietti che vendevano un
po’ di tutto. Anche questa era una famiglia numerosa, infatti gli zii avevano cinque figli, Pao-
lina, Olga, Anselmo, Roberto e Gerardo.
Io sono arrivato in un periodo in cui la famiglia si era ormai stabilizzata sul podere della Pia-
na e anche i rapporti col proprietario, che poi era un piccolo proprietario imparentato con le
autorità fasciste del paese, erano abbastanza stabili. Dico abbastanza stabili perché la mezza-
dria si basava su un capitolato che prevedeva la partecipazione alla spesa per la conduzione a
metà, 50% il proprietario e 50% il mezzadro, e così anche il ricavato veniva ripartito a metà;
il capitolato prevedeva però una serie di cose: ad esempio la famiglia poteva avere il pollaio
e allevare il maiale per procurarsi la carne . Però c’erano delle contropartite: bisognava fare
delle regalie al proprietario in occasione delle feste pasquali e natalizie, oppure si poteva sta-
bilire che le donne del mezzadro andassero a casa del proprietario per fare le pulizie o prepa-
rare i pranzi in occasione delle festività. Ma in seguito, questi capitolati furono messi in dis-
cussione fortemente dalle lotte socialiste che seguirono la Prima Guerra Mondiale: infatti a
Castelfranco, Bazzano e, in generale, in tutta la parte dei comuni che si trovano sulla valle del
Samoggia, il movimento socialista e il sindacalismo avevano messo profonde radici tra le ca-
tegoria dei mezzadri e braccianti sotto la guida di dirigenti che hanno lasciato profondi segni

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nelle coscienze e nella vita della nazione, parlo di Argentina Altobelli3, di Massarenti4 e di
Agnini5. Attraverso molte lotte questi movimenti, presenti nelle regioni italiane in cui preva-
leva il contratto di mezzadria, portarono avanti conquiste significative, come alcune impor-
tanti riforme del capitolato di mezzadria, che però furono poi eliminate dal fascismo6.

3 Argentina Bonetti in Altobelli (Imola, 1866 - Roma, 1942) dopo aver studiato legge a Parma, si av-
vicinò prima ai repubblicani e in seguito ai socialisti. Nel 1886 a Bologna divenne membro del Con-
siglio direttivo della Società operaia femminile e, nel 1893 entrò nella Commissione esecutiva della
neonata Camera del Lavoro bolognese. Partecipò al Congresso costitutivo della Federazione nazionale
lavoratori della terra, e nel 1904 fu eletta segretaria della Federterra. In seguito aumentarono le sue
responsabilità, soprattutto all’interno della Confederazione generale del lavoro (CGdL) e del Partito
socialista. In seguito alla marcia su Roma nel 1922, dopo aver già abbandonato il Consiglio direttivo
della CGdL e il Partito Socialista, si ritirò dalla vita politica (Anatra, 1969).
4 Giuseppe Massarenti (Molinella, 1867 - Molinella, 1950). Laureato in farmacologia a Bologna nel
1893 e colpito dalle misere condizioni di vita dei contadini si avvicinò agli ambienti socialisti. Dopo
un primo arresto e una prima condanna partecipò nel 1892 al Congresso costitutivo del Partito dei
lavoratori (poi Partito socialista dei lavoratori italiani). A Molinella costituì la locale sezione socialista
e la Lega di resistenza bracciantile. Eletto nel Consiglio comunale nel 1895 fondò la Società coopera-
tiva di consumo, prima di incorrere in altri arresti e denunce. Fuggito in Svizzera per sfuggire all’arre-
sto per diffamazione, dopo il suo ritorno nel 1906 fu eletto sindaco di Molinella, carica che dovette
abbandonare nel 1914, in seguito allo scioglimento dell’amministrazione comunale per degli scontri
fra crumiri e scioperanti. Per evitare l’arresto riparò a San Marino, dove rimase fino al 1920, data in
cui fu nuovamente eletto sindaco dopo essere stato assolto dalle accuse di peculato e appropriazione
indebita. Costretto a recarsi a Roma a causa delle violenze fasciste a Molinella, aderì al Partito socia-
lista unitario, prima di essere arrestato e condannato al confino fino al 1931. I condizioni di estrema
indigenza e rinchiuso in manicomio fino al 1944, nell’aprile del 1948 fu candidato al Senato per il
Partito socialista dei lavoratori italiani ma non fu eletto (Sircana, 2008)
5 Gregorio Agnini (Finale Emilia, 1856 - Roma, 1945). Diplomato alla scuola di commercio di Geno-
va, nel 1886, tornato in Emilia dopo aver assistito all’epidemia di colera di Palermo del 1884, fondò
un’associazione di braccianti (l’Associazione operai e braccianti di Finale Emilia)), la prima coopera-
tiva di produzione e lavoro del modenese. Eletto deputato nel 1891 (carica che manterrà fino al 1926,
quando fu dichiarato decaduto con gli altri deputati dell’opposizione), partecipò alla fondazione del
Partito socialista e fu membro della direzione del partito. Arrestato più volte e strettamente vigilato
dal fascismo, dopo la fine della guerra divenne, brevemente, membro e presidente della Consulta na-
zionale (Violi, 1960; Osti Guerrazzi - Silingardi, 2002).
6 Grazie all’azione dei sindacati e dei socialisti nell’estate del 1920 i mezzadri avevano ottenuto un
capitolato con alcuni miglioramenti per la loro condizione, come l’abolizione della fornitura obbliga-
toria di manodopera gratuita e la divisone al 50% di tutti i prodotti, ma già dal 1921 i proprietari rea-
girono escomiando numerosi mezzadri. I rapporti di forza furono poi riportati a favore degli agrari dal
regime fascista con una serie di accordi e capitolati fra il 1926 e il 1934: la ripartizione dei prodotti fu
cambiata, con il 55% per il proprietario e il 45% per il mezzadro, per il quale si aggiunse anche l’ob-
bligo di pagare di tasca propria la manodopera bracciantile, e, soprattutto, furono rimesse in vigore le
corvées (i lavori che il mezzadro deve svolgere, gratuitamente per il proprietario) e le regalie, cioè la
fornitura gratuita di determinati generi alimentari in particolari occasioni (Osti Guerrazzi - Taurasi -
Trionfini, 2012).

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Ecco, in questa situazione la mia famiglia era una famiglia di ispirazione socialista, infatti
mio padre era stato militante attivo della Lega7 dei mezzadri di Castelletto. Allora c’erano le
Leghe di categoria che facevano capo alla Camera del Lavoro e le Leghe rappresentative
delle varie categorie di lavoratori della terra, che aveva dato vita alla Confederterra8, che per
altri aspetti verranno riprese anche nel secondo dopoguerra. Ma al tempo stesso la mia fami-
glia era cattolica praticante, infatti non è un caso che io da ragazzino comincio a servire mes-
sa e lo farò per cinque anni, che le mie sorelle e le mie cugine erano nei cori della parrocchia
e che mio padre ogni tanto veniva investito da incarichi nella parrocchia. Bisogna evidenziare
che, a quell’epoca, c’era un analfabetismo molto diffuso e che gli uomini che andavano in
guerra e le donne che rimanevano a casa avevano bisogno di qualcuno per tenere la corris-
pondenza. La posta indirizzata alle famiglie arrivava al parroco, il quale leggeva e rispondeva
per loro. Molti di questi giovani soldati hanno imparato le prime lettere dell’alfabeto sotto le
armi, mio padre era uno di questi. Questo per dire che la parrocchia aveva anche un ruolo so-
ciale e culturale.
Però sempre profondamente socialisti, infatti io ho cominciato a capire e avere le prime noti-
zie su che cos’era questo socialismo dai racconti di mio padre e dei suoi amici.
Le stalle dei contadini, soprattutto in autunno e in inverno, erano il luogo delle riunioni e de-
gli incontri dei mezzadri e dei braccianti, i quali lavoravano solo da ottanta a cento giornate
l’anno con salari miseri, pertanto venivano a scaldarsi e a bere un bicchiere di vino oppure si
ritrovavano nelle osterie. Nei loro racconti, nelle loro chiacchierate rammentavano gli episodi
del servizio militare, della guerra di Libia del 1911, della grande guerra del 1914-1918, della
prigionia e poi di quello che succedeva a casa al ritorno, l’inizio della la formazione del fas-
cismo e della sua violenza. Siamo negli anni del 1918-1926. Gli incontri nelle stalle, però,

7 Le Leghe di Resistenza (o con altre denominazioni) nacquero nella seconda metà dell’Ottocento, e
costituirono un’evoluzione delle precedenti Società di Mutuo Soccorso. La diffusione delle Leghe
nell’industria e nell’agricoltura (con alcune differenze: le prime si organizzarono per “mestiere” e si
articolarono nelle Commissioni Interne in fabbrica; le seconde, organizzate su base territoriale, con-
fluirono nella Federterra nel 1901, sciolta dal fascismo nel 1926, e poi nel dopoguerra nella Confeder-
terra) segnò il passaggio dalla tutela borghese all’autotutela di classe, e dal mutualismo alla presenta-
zione di un programma politico, di rivendicazioni economiche e al ricorso allo sciopero. Di fatto, le
Leghe, costituirono il livello base per l’organizzazione sindacale su base territoriale e verticale (Osti
Guerrazzi – Silingardi 2002; Loreto, 2009; Del Rossi – Loreto, 2013).
8 La Federterra fu fondata nel 1901 a Bologna. Dopo aver raccolto oltre 240 mila adesioni nel 1902,
nel 1904 la Federterra fu sostituita da un semplice Segretariato, ma nel 1906, sotto la guida di Argen-
tina Altobelli (vd nota precedente), riprese slancio (Loreto, 2009).

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non erano fatti solo di questi racconti di vita vissuta e della guerra, ma erano anche un mo-
mento di ricreazione perché c’erano le serate in cui si declamavano le “zirudelle9”, le storie
che si raccontavano nelle piazze, nei mercati, storie trasformate in poesie in rima e in favole.
In quegli anni il fascismo si affermava con la violenza, la demagogia e il populismo che lo
contraddistingueva. Promuoveva all’interno delle scuole le organizzazioni fasciste: tra i bam-
bini delle elementari i “figli della lupa”, tra i ragazzi di oltre i dieci anni le formazioni dei
“balilla” e tra quelli di età più adulta le organizzazioni degli “avanguardisti. Sia i ragazzi che
le ragazze dovevano comprarsi le divise e molte volte nascevano dei problemi, soprattutto per
le famiglie che avevano molti figli e non avevano i soldi per le divise e allora venivano chia-
mate dal direttore scolastico10.
Era comunque una vita molto paesana e per quello che riguarda la stampa: chi la leggeva? I
quotidiani li leggevano quasi esclusivamente le categorie più abbienti. Mio padre comprava
un giornale alla settimana che, in Emilia Romagna, era soprattutto il Resto del Carlino11. In-
somma, era comunque una vita fatta di relazioni prevalentemente paesane, con momenti im-
portanti di incontro che erano i mercati settimanali, che non si svolgevano in tutti i paesi, ma

9 La zirudella è un componimento dialettale tipico dell’Emilia Romagna. Nata come una poesia in
versi ottonari e rime baciate con contenuti umoristici, tramandata oralmente da autori prevalentemente
analfabeti, dall’Ottocento ha perso in parte le componenti umoristiche e di accompagnamento musica-
le, per essere recitata in piazze o durante i mercati con contenuti ispirati a fatti e notizie reali (Carpani,
s.d.).
10Il controllo totalitario esercitato dal fascismo prima della Seconda Guerra Mondiale era esercitato
anche attraverso organizzazioni di massa, il cui scopo era quello di inquadrare la popolazione. Per
quanto riguarda i giovani, la loro formazione era controllata dalla Gioventù Italiana del Littorio, nata
nel 1937 in sostituzione all’Opera nazionale Balilla (istituita nel 1926 per sottrarre la formazione dei
giovani dalle organizzazioni laiche e cattoliche). L’iscrizione era obbligatoria e i ragazzi, fino al com-
pimento dei 21 anni, erano divisi secondo l’età e il sesso: Figli della lupa fino agli otto anni, Balilla o
Piccole Italiane fino ai quattordici, Avanguardisti e Giovani Italiane fino ai diciotto e, infine, Giovani
fascisti/e (Silingardi - Montanari, 2006).
11Il Resto del Carlino è un giornale fondato a Bologna nel marzo 1885. Fino al 1909 il proprietario
Amilcare Zamorani gli diede una linea politica democratica, filo-studentesca e filo-operaia, anti-con-
servatore e anti-clericale ma, dopo quella data il giornale passò in mano all’agraria bolognese, che
cambiò la linea politica in liberal-nazionalista. Dopo una breve parentesi nel 1919 di orientamento
vicino al socialismo riformista con Mario Missiroli, il Resto del Carlino si orientò decisamente a fa-
vore dello squadrismo agrario bolognese e del partito fascista. Fino al 25 luglio 1943 il giornale fu
controllato dal Partito Nazionale Fascista (o direttamente o tramite personaggi legati al regime come
Dino Grandi, proprietario dal 1940 alla caduta del fascismo) e successivamente, a partire dal settem-
bre 1943, fu sottoposto all’autorità del comando tedesco e della Repubblica di Salò; all’uscita dell’ul-
timo numero, il 20 aprile 1945 il direttore era il gerarca fascista Giorgio Pini. Dopo essere stato sciol-
to dal CLN e un periodo di gestione da parte degli Alleati (con il nome di Corriere dell’Emilia), il
giornale tornò in edicola nel luglio 1945 con il nome di Giornale dell’Emilia sotto la direzione del
moderato Tibalducci, per poi riacquistare il nome storico nel novembre 1953, dopo che nel 1946 era
tornato in mano degli agrari bolognesi. (Guicciardi, 1985).

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avevano dei centri con delle loro tradizioni, come ad esempio il mercato bestiame di Bazza-
no.
Dalla quinta elementare cominciai a leggere il giornaletto che si chiamava Il Balilla12 che
trattava le avventure di guerra in Italia e in Africa. Ma la mia aspirazione, diffusa anche tra
tanti altri, era quella di cominciare a guardare oltre il paesello. Da che cosa si era affascinati,
almeno per quello che mi riguardava? Dalla divisa dei carabinieri. Tant’è che la famiglia di
miei cugini che abitavano sempre a Castello di Serravalle, ha avuto due dei loro membri nei
carabinieri, e uno di questi ha fatto anche carriera: è diventato maresciallo. Molti anni dopo
andando a fare un comizio in un paesino della Romagna, a Brisighella, si presentò il mares-
ciallo del paese, con tanto di saluto, e mi disse: «Noi siamo cugini». Questo per dire che poi,
evidentemente, il susseguirsi degli avvenimenti mi hanno portato in tutt’altre direzioni man
mano che ho imparato a conoscere questa società.
L’altra mia passione era l’aviazione, tant’è che all’inizio del ‘43 feci il tentativo di iscrivermi
al centro per la formazione dei piloti di Modena, ma dovetti lasciar perdere perché era obbli-
gatorio entrare nei corsi dell’esercito e io ero troppo giovane.
Il ’43 è l’anno della caduta e delle sconfitte militari del fascismo, ma è anche l’anno dello
sbarco degli alleati in Sicilia e nella nostra regione cominciano i bombardamenti dell’avia-
zione angloamericana. La città di Modena viene colpita pesantemente13 e vengono presi di
mira altri obiettivi periferici, come ad esempio la fabbrica SIPE di Spilamberto e i ponti sul
fiume Panaro. Ogni notte volava a bassa quota un aereo militare che sganciava le sue bombe
là dove appariva qualche luce o qualche movimento. La stessa rete ferroviaria minore che
collegava i Comuni della provincia con la città di Modena venne presa di mira e mitragliata.
Quindi siamo in piena guerra e in questi momenti si lascia perdere ogni aspirazione o pas-
sione personale.

12 Il Balilla fu una rivista fondata a Milano con il nome Il Giornale dei Balilla come periodico ufficia-
le dei gruppi balilla. Acquistato nel 1925 dal quotidiano fascista Popolo d’Italia cambiò la denomina-
zione in Il Balilla, che mantenne anche quando, nel 1931, divenne l’organo ufficiale dell’Opera Na-
zionale Balilla. La rivista continuò a essere pubblicata fino al giugno del 1943 (Cocciolo, 2011/2012).
13 13Oltre ai mitragliamenti, Modena fu colpita da alcuni bombardamenti da parte dell’aviazione degli
Alleati: il primo colpì la zona ferroviaria e i quartieri Sacca e San Cataldo il 14 febbraio 1944, il se-
condo il centro storico il 13 maggio dello stesso anno, il terzo il 22 giugno del 1944 e, infine, il 18
aprile 1945 furono attaccate le caserme fasciste. Complessivamente, anche se si tratta di numeri non
verificati, le incursioni aeree degli Alleati causarono circa 1400 morti e oltre 2000 feriti (Silingardi -
Montanari, 2006).

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Ti volevo chiedere un paio di cose. Prima hai parlato di scuola, hai fatto fino alla quinta
elementare e ti sei fermato o sei andato avanti a studiare?
Ho fatto la quinta elementare e poi mi sono fermato. Riprendo la scuola dopo il trasferimento
della mia famiglia da Castelletto di Serravalle a Piumazzo, frazione di Castelfranco Emilia.
Ecco, di questo trasferimento direi di parlare un momento. Perché avviene questo trasferi-
mento nel 1937? Avviene per uno scontro che mio padre ebbe con il figlio del vecchio pro-
prietario che era morto e a cui era subentrato questo figlio che poi diventerà il capo della bri-
gata nera14 di Castelletto di Serravalle, Malaguti Arnaldo. La rottura nasce dal fatto che ques-
to padroncino era andato al mercato del bestiame di Bazzano e aveva venduto due vacche
senza dire niente al mezzadro, che era mio padre.
Quindi aveva violato gli accordi e le consuetudini nella condotta dell’azienda agricola. Poi
mio padre era abituato con il vecchio padrone con il quale tutti i problemi di gestione del po-
dere venivano risolti di comune accordo. Così per la prima volta la famiglia Miana esce dalla
mezzadria e prende un podere in affitto. Non fu solo questo il motivo che ci condusse al tras-
ferimento, c’era anche il fatto che noi figli eravamo diventati più adulti e il podere non cor-
rispondeva più le entrate sufficienti alle esigenze di tutta la famiglia, quindi c’era il problema
di trovare una collocazione più adatta. Il podere preso in affitto venne a sua volta subaffittato
da mio padre a un industriale, che era il titolare della cartiera di Magazzino di Savignano.
Questo industriale stava cercando un podere in affitto per assicurarsi un minimo di prodotti
dell’agricoltura, perché durante la guerra era obbligatorio il tesseramento per l’approvvigio-
namento dei prodotti alimentari.
Ecco da quel momento sono tante le novità, in particolare per quanto riguarda l’ambiente e le
relazioni. È tutto molto diverso da Castelletto di Serravalle: ho fatto nuove amicizie, quindi
una volta andavo a Spilamberto e un’altra a Castelfranco, così cominciai a vedere il territorio

14 Le brigate nere, ufficialmente note come Corpo Ausiliario delle Squadre d'Azione delle Camicie
Nere, istituite dalla Repubblica di Salò il 1° luglio 1944, furono il frutto della militarizzazione del
Partito Fascista Repubblicano per contrastare le azioni dei partigiani. Diffuse in tutto il territorio anco-
ra controllato dai fascisti, e formate anche da delinquenti comuni, furono responsabili di violenze e
omicidi, denunciati anche dalle stesse autorità fasciste (Silingardi - Montanari, 2006).

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della provincia modenese. E in più io ero nell’Azione Cattolica15 di Piumazzo e il parroco, il
vecchio parroco don Turilli, era un’antifascista16, e più tardi abbiamo anche saputo che era

15 L’Azione Cattolica, come recita lo statuto, è «una Associazione di laici che si impegnano libera-
mente, in forma comunitaria ed organica ed in diretta collaborazione con la Gerarchia, per la realizza-
zione del fine generale apostolico della Chiesa» (De Antonellis, 1987, p. 373), in modo particolare si
occupa della formazione cristiana della coscienza degli uomini. La sua fondazione si fa risalire alla
nascita della Società della Gioventù Cattolica Italiana il 29 giugno 1867 per opera di Giovanni Ac-
quaderni e Mario Fani, che si occupava principalmente di fornire sostegno morale e materiale al Papa
e alla Gerarchia ecclesiastica e di educare cattolicamente la gioventù italiana. I precursori della nasci-
ta della Società della Gioventù furono le Amicizie Cattoliche di inizio Ottocento, il primo Congresso
cattolico internazionale a Malines (Belgio) nel 1863, l’enciclica Quanta Cura di Pio IX (in cui si de-
nunciavano i mali del liberalismo e si affermava l’intransigenza del mono cattolico di fronte allo Stato
Liberale) e l’esperienza dell’Associazione Cattolica Italiana per la difesa delle libertà della Chiesa in
Italia. Dopo la riunificazione dell’Italia le associazioni cattoliche, strette tra il Papa e lo Stato, cerca-
rono di realizzare uno stato unitario intimamente cristiano in cui convivessero armoniosamente le li-
bertà civili e religiose. L’ultimo quarto dell’Ottocento fu caratterizzato dalla “stagione dei congressi”,
con la fondazione dell’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici in Italia nel 1875, e dalla fine del-
l’isolamento dei cattolici dalla vita pubblica, con l’elezione di Leone XIII nel 1878, con il Congresso
di Lucca del 1887, dedicato al mondo del lavoro e al problema operaio, e con l’enciclica Rerum No-
varum (maggio 1891) che conteneva l’esplicazione della dottrina sociale cattolica.
Nel gennaio 1916 nacque ufficialmente l’Azione Cattolica, che riuniva la Società della Gioventù Cat-
tolica Italiana, l’Unione delle Donne, le tre unioni nate dallo scioglimento dell’Opera dei Congressi
(popolare, elettorale, economico-sociale), la Gioventù Femminile e lo scoutismo. I compiti dell’Azio-
ne Cattolica erano quelli di educare la coscienza popolare, osservare i doveri religiosi, sociali e civili,
e la difesa dei principi cristiani. Nel 1918 nacquero poi il sindacato cattolico (Confederazione Italiana
del Lavoro) e terminò ufficialmente il non expedit (il divieto per i cattolici di partecipare alla vita po-
litica) con la nascita del Partito Popolare Italiano di Sturzo.
Nel 1922 Papa Pio XI riformò l’Azione Cattolica, attribuendole esclusivamente compiti religiosi e
attribuendo la nomina dei dirigenti al clero.
Per quanto riguarda i rapporti con il fascismo, nonostante la soppressione dello scoutismo cattolico e
delle associazioni sportive, l’Azione Cattolica fu l’unica organizzazione non fascista a rimanere legale
anche se le furono affidati, dopo i Patti Lateranensi del 1929 e gli accordi del 1931 (in seguito a un
temporaneo scioglimento), compiti esclusivamente spirituali e gli fu imposta la nomina di dirigenti
non invisi al regime. Nel 1940 una nuova riforma di Pio XII escluse dalle cariche direttive i laici, a
cui furono lasciati incarichi consultivi e ausiliari. Dopo la fine della guerra, il nuovo statuto del 1946
sancì il ritorno dei laici a incarichi di responsabilità e la suddivisione in strutture specializzate (Uomi-
ni, Donne, Gioventù maschile e femminile) affiancate da organizzazioni legate all’Azione Cattolica
(Coldiretti, scout, Centro Sportivo Italiano, ACLI).
Nel 1948, in appoggio alla DC (con cui i rapporti non furono sempre distesi) e per favorire la diffu-
sione di una coscienza democratica, nacquero i Comitati Civici, mentre nel novembre del 1953
l’Azione Cattolica raggiunse la cifra di oltre tre milioni di iscritti, che caleranno progressivamente
(De Antonellis, 1987).
16Ulisse Turilli, la cui adesione a un Comitato di Liberazione Nazionale è confermata da Arnaldo Bal-
lotta (Ballotta, 2005), fu parroco della parrocchia San Giacomo di Piumazzo dal 1921 al 1951.

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membro del Comitato di Liberazione Nazionale17 della frazione di Piumazzo. Inoltre allac-
ciammo rapporti con il rapporto con il titolare18 di un’osteria-drogheria, che si trovava
sempre lì, vicino a Piumazzo, nella località La California, che era, ma l’abbiamo imparato
dopo, una cellula comunista della Resistenza. Ah, sai l’altra cosa che facemmo? Un allaccia-
mento clandestino con l’energia elettrica che passava nelle vicinanze per poter avere una ra-
dio. Insomma, abbiamo portato così la radio a casa perché la maggioranza delle abitazioni di
campagna non avevano l’energia elettrica, che comincerà a diffondersi solo dopo la guerra.
Siamo già nel 1944-1945. Prima non c’erano queste possibilità di comunicazione, così ci in-
ventammo questa cosa qui che ha retto in tutti gli anni della guerra senza che se ne accorges-
sero. Eravamo tre o quattro famiglie e noi ragazzi avevamo fatto questo lavoro sotto la guida
di un operaio che faceva l’elettricista.
Fino ad allora avevamo usato le radioline a galena, molto diffuse a quei tempi. È stata la pri-
ma cosa che ho portato a casa da Bazzano, dove la comprai per pochi soldi. La galena era un
minerale, e le radio avevano una tavoletta con una specie di puntina che si puntava e così si
riusciva ad avere un collegamento con le radio nazionali, perché di radio locali non ce n’era-
no.

Cosa si ascoltava? Che programmi c’erano alla radio?


Musica e poi c’erano le ore della cultura fascista.
Ecco, questi sono stati i momenti di vita di quel periodo, poi c’è lo scoppio della guerra, ne
vogliamo parlare?

17Il Comitato di Liberazione Nazionale, fondato a Roma il 9 settembre 1943 e presieduto da Ivanoe
Bonomi, costituì l’unione dei partiti antifascisti (Partito Comunista Italiano, Democrazia Cristiana,
Partito d’Azione, Partito Liberale Italiano, Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria e Democrazia
e Lavoro), e coordinò la Resistenza (ogni partito aveva le proprie brigate partigiane) e ricoprì, nelle
zone liberate, il ruolo di governo, esercitato spesso con grande indipendenza dal governo Badoglio, di
cui avrebbe dovuto fare le veci. Diviso tra Comitato di Liberazione Nazionale Centrale (a Roma) e il
Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, presieduto da Pizzani con sede a Milano, il CLN, so-
prattutto al Nord, si divise ulteriormente nei vari comitati regionali, provinciali, comunali, rionali e di
fabbrica. Sciolti ufficialmente con l’elezione della Costituente, il loro ruolo politico era già cessato
con la fine del governo Parri nel dicembre del 1945 (Delle Piane, 1948).
18 Secondo la testimonianza di Fernanda Rossi (riportata in Ballotta, 2005) Arnaldo Galletti, gestore
dell’osteria California, era un noto esponente antifascista di Piumazzo, organizzatore del movimento
partigiano, appartenente alla brigata “W. Tabacchi” (ISRSC, Elenco dei partigiani e patrioti ricono-
sciuti dalla Commissione regionale Emilia-Romagna) e membro del CLN locale (in cui rappresentava
il PCI), a lungo ricercato dai nazifascisti. I fratelli Artioli, sempre secondo la testimonianza della Ros-
si, furono assassinati durante un rastrellamento che aveva come obiettivo principale proprio il Galletti
(Ballotta, 2005).

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Io direi di farlo dopo …
Dopo.

Quando sei andato a Piumazzo hai detto che hai ripreso la scuola, fin dove sei arrivato?
A Piumazzo avevo un mio amico, che faceva la scuola agraria, non per diventare perito per-
ché la scuola professionale di Spilamberto durava solo un anno anziché tre anni, e mi diceva
che era una buona scuola. Lui era figlio di un casaro e mi diceva che insegnavano anche tutte
le altre cose collegate all’agricoltura. Anche mio padre fu d’accordo e disse: «Con questa
agricoltura che si deve modernizzare è bene che tu vada». Fu lui, insomma, che mi incorag-
giò e quindi andai, feci questa scuola, questo corso, dopo di che …

Hai fatto un anno?


Un anno, il corso a Spilamberto durava un anno. Dopo di che sempre mio padre disse che sa-
rebbe stato bene continuare gli studi, pur continuando a lavorare in campagna.

Era sempre tuo padre che ti stimolava …


Sì, è sempre stato mio padre che mi stimolava a fare queste cose. Così mi iscrissi alla scuola
media di Bazzano.

Andavi con la bicicletta?


Sempre in bicicletta, tra l’altro una me la portarono via a Spilamberto … Vabbè, e mi sono
preso anche il diploma di terza media a Bazzano. Avevo ritardato tra la fine della scuola pro-
fessionale di Spilamberto e quella di Bazzano e l’ho fatta in piena guerra. Tra l’altro ricordo
sempre che una professoressa di storia che aveva il marito in guerra veniva tutte le settimane
a prendere il pane fresco del forno di casa mia e un anziano professore di disegno che ci in-
segnava le misure dell’ettaro, la divisione delle terre in biolche, le tornature e come tracciare
le strade di campagna. Aveva un senso pratico della vita, infatti ci faceva disegnare le cose
pratiche della vita. Tant’è che, in seguito, questo metodo l’abbiamo usato nel fare la rileva-
zione delle fortificazioni tedesche e repubblichine lungo il fiume Samoggia, e attraverso il
Comitato di Liberazione la nostra mappa arrivò al comando militare alleato che guidava

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l’avanzata. Gli si diede le informazioni su dov’erano situate le postazioni tedesche anticarro:
infatti, diversi carri armati rimasero colpiti dai bazooka tedeschi che erano collocati nei bun-
ker.

Avevate il forno a legna nella casa di campagna?


Abbiamo sempre avuto i forni a legna, sia a Castelletto, dove c’erano forni vecchi, antichi, sia
a Piumazzo.

Cambiamo un momento argomento, sempre restando nella campagna modenese. I mulini che
c’erano a Piumazzo, nelle nostre zone, erano gestiti dal padrone o dai contadini?
Erano gestiti da artigiani: i mugnai. Ce n’era uno anche vicino a casa mia, col canale che pas-
sava proprio ai lati del nostro podere, e macinava grano e granturco e altre granaglie che ser-
vivano per gli animali. I mulini erano azionati dall’acqua che scorreva nei canali e che face-
vano girare i meccanismi delle ruote. Questi mulini avevano avuto una funzione molto im-
portante durante la guerra, perché la produzione del grano, dell’orzo, del granturco, di tutti i
cereali era stata contingentata dalle autorità fasciste. Quando veniva la trebbiatrice a casa a
trebbiare ti mettevano un loro guardiano, al quale si doveva consegnare il raccolto. Il conta-
dino poteva tenere la sua parte e il resto lo doveva consegnare al cosiddetto ammasso. I fa-
mosi ammassi del grano che erano già sorti durante il fascismo, ma che erano utilizzati per
per l’alimentazione bellica19. I contadini, però, avevano trovato il modo di arrivare alla treb-
biatura dopo essersi già accaparrati per conto loro una parte del raccolto. Sai come? Il grano
veniva falciato e raccolto in covoni, che a loro volta si ammassavano in montagne di covoni.
Allora di notte i contadini con le reti di metallo del loro letto, prendevano un mazzo spighe
che sfregavano forte sulle reti per togliere il grano dalle spighe, facendo una fatica enorme …

Però riuscivi a metterti da parte qualcosa.


Esatto, allora riuscivi a metterti da parte qualcosa, poi nascondevi questi manipoli del grano
in mezzo ai covoni. Era una delle forme più artigianali per sfuggire a questi controlli. Questa
era la situazione.

19Per ammasso si intende la strategia seguita dal regime fascista per assicurare l’approvvigionamento
della popolazione, che prevedeva l’obbligo della consegna dei prodotti agricoli a centri di raccolta a
un prezzo prestabilito (Silingardi - Montanari, 2006).

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Vuoi sapere come si svolgeva la trebbiatura?

Certo
Fino a dopo gli anni Sessanta la trebbiatura si faceva con queste tre macchine collegate l’una
all’altra: una era quella che azionava tutto il resto, ed era la macchina con la caldaia a vapore,
che si alimentava soprattutto bruciando la parte della spiga del grano che si toglie via, la pula,
a cui si aggiungevano gli scarti dei prodotti della campagna. Poi c’era la trebbia, che trebbia-
va il grano, quindi la paglia passava alla terza macchina, l’imballatrice che imballava la pa-
glia del grano che serviva ai contadini per le stalle. Queste erano le tre macchine che faceva-
no la trebbiatura, e in generale i titolari di queste macchine erano degli artigiani che si erano
dedicati alla gestione di questo lavoro. La trebbiatura avveniva nel cortile di ogni podere ed
era la famiglia ospitante la trebbiatura che offriva il pranzo e le bevande agli addetti alle mac-
chine. Altre aziende artigiane gestivano le macchine per la lavorazione delle canapa e per
l’aratura.

Ho letto un libro sulle basse di Spilamberto20, che parla delle lotte dei mezzadri contro il
marchese Rangoni …
Ah, ecco …

E mi sembra che lì si parli di questi mulini, in cui l’accesso veniva ostacolato da parte del
proprietario, che cercava di esercitare un controllo su quanto grano, o comunque su quanti
cereali, venivano macinati.
Forse per la questione della spartizione. L’azienda Rangoni21 la conosco bene perché più tar-
di, quando sarò alla Federmezzadri alla Camera del Lavoro di Modena, l’azienda Rangoni

20
D. Betti, I colone delle basse. Lotte mezzadrili a Spilamberto nel secondo dopoguerra, 1945-1955,
Modena, Edizioni Nuovagrafica, 1993
21 La vertenza e le lotte nell’azienda del marchese Rangoni di Spilamberto tra la proprietà e i mezza-
dri, iniziati nel dopoguerra, si concluderanno nel 1955 con la sconfitta dei coloni, che saranno esco-
miati a partire dalla primavera del 1950. I momenti più importanti furono i due periodi di autogestione
dell’azienda, con i mezzadri che formarono una Commissione aziendale e si organizzarono in coope-
rative. Alle iniziative dei coloni il proprietario, il marchese Rangoni, scelse di reagire attraverso la via
giudiziaria, cui seguirono sequestri giudiziari, arresti e allontanamenti forzati. Anche i mezzadri pro-
varono a citare il proprietario per non aver rispettato il Lodo De Gasperi, ma senza ottenere nulla
(Betti, 1993).

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sarà una di quelle vertenze che ho seguito fin dall’inizio. Il problema principale era quella
della nuova ripartizione del prodotto, ma una delle questioni più combattuta fu quella dei ca-
seifici, perché si erano costituiti sotto forma cooperativa, ma erano cooperative in cui il mez-
zadro aveva un voto, mentre il proprietario aveva tanti voti quanti erano i mezzadri nelle sue
aziende, mentre il mezzadro non aveva niente, era una rappresentanza …

Simbolica
Simbolica. Poi, quando parliamo di Rangoni parliamo degli anni in cui a Modena, forse più
che nelle altre parti d’Italia, ci trovammo tante di quelle vertenze giudiziarie che non si finiva
più. Il marchese Rangoni, il famoso marchese Rangoni ha rovinato la sua azienda pur di cac-
ciare via tutti i contadini, dal primo fino all’ultimo. Sai, una mattina sono andato dentro la
casa Rangoni qui nel centro di Modena, in via Farini, dove i contadini, talmente esasperati,
erano entrati tutti nel cortile, praticamente in casa, e io arrivai appena in tempo per impedire
eccessi. Poi mi beccai anch’io una delle tante denunce22, perché queste manifestazioni dei
mezzadri, dei braccianti, si svolgevano non solo nelle piazze, ma anche davanti alla case dei
proprietari delle aziende.
Ecco poi c’è un altro periodo, della Resistenza durante la Repubblica di Salò.

Parliamo di questo. Il primo momento della tua formazione hai detto che è avvenuto in fami-
glia e nelle stalle, poi abbiamo parlato delle persone che incontri a Piumazzo, il vescovo …
L’arciprete.

Ah sì, giusto, l’arciprete e poi il proprietario dell’osteria …


Quello dell’osteria, Galletti.

Quindi parti da una prima formazione familiare, poi se ne aggiunge un’altra di quest’altro
tipo. A questo punto parlerei di come è continuata.
Oltre a questo c’era la voglia di uscire da questa situazione. Mi ricordo che guardavo i ragaz-
zi del paese appartenenti a famiglie benestanti, con cui ero amico, che avevano tutto, e io non

22 Silvio Miana (poi assolto in appello) e altri sindacalisti il 13 ottobre 1949 furono condannati ad al-
cuni mesi di reclusione per «esercizio arbitrario delle proprie ragioni» (Betti, 1993, p. 59), in merito
alla vertenza Rangoni.

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avevo mai niente. E questa era una cosa che non accettavo. Perché bisogna tener presente che
con le donne, noi ragazzi giovani, quando cominciamo a uscire, ad andare in paese, al cinema
(e a me il cinema piaceva molto), come facevamo? Non potevamo essere sempre lì a chiedere
i soldi a nostro padre! Così, per procurarci due soldi, allevavamo conigli, piccioni e colombi
che, poi, vendevamo al mercato domenicale degli animali da cortile a Spilamberto.
Ah poi, ecco, come viviamo i giorni del ’43 e del ’44 con la sconfitta del fascismo e l’avven-
to del governo di Badoglio… Ricordo sempre che nei giorni della caduta del fascismo ero a
lavorare a Manzolino per dare una mano a un mio zio, un fratello di mia madre, che aveva un
podere da coltivare e i suoi figli erano sotto le armi, allora mio padre mi mandava ogni tanto
ad aiutarlo.
Il giorno che imparammo che Mussolini era caduto, non il giorno esatto perché lo imparam-
mo il giorno dopo quando la notizia fu diffusa alla radio, ci furono delle feste. Sai cosa si fa-
ceva? Facemmo una ballata a casa di un mio carissimo amico di Piumazzo, la notte tra il 25 e
il 26 luglio. In quei giorni organizzammo una festa da ballo in una di queste case di campa-
gna, e verso mattina sentiamo il ruggito di una colonna di carri armati che passava da Bazza-
no e veniva giù lungo la strada e che, successivamente, occupò anche Spilamberto. Cosa suc-
cede? Pensavamo: «Ormai la guerra è finita, la libertà, facciamo, …», ma poi ci sono i fatti
dell’occupazione tedesca e della formazione delle brigate nere. In quei giorni ci fu una fuga
in massa dei nostri soldati, dell’esercito italiano, dalle caserme, che poi arrivavano da molte
famiglie di campagna e chiedevano abiti civili, e in generale molti contadini davano gli abiti
che si avevano in casa, un paio di calzoni, una camicia, perché i soldati erano oggetto di cac-
cia da parte dei tedeschi. Questa è una cosa importante perché trovarono ospitalità diffusa
nelle case dei braccianti, dei contadini, della povera gente e i vestiti da militare che lasciava-
no lì venivano bruciati, perché se arrivava una perquisizione in casa e trovava una divisa
dell’esercito italiano scattava un meccanismo di rappresaglia.
Ecco qui ci si trova subito di fronte a un altro problema: tutti i giovani chiamati alla leva se
non si presentavano rischiavano anche la fucilazione. Non si rischiava poco insomma, o
quanto me la …

La prigione?
Sì, la prigione sì, ma come cosa di transito …

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La deportazione?
Ecco, la deportazione era la porta d’ingresso per l’arruolamento nelle brigate nere o per il
campo di concentramento. Io fui tra quelli più fortunati, perché nato a settembre, mentre la
chiamata alla leva si fermava a giugno, ai primi sei mesi dell’anno. Quindi pareva che fossi in
libertà, ma dovevo stare attento perché potevo essere rastrellato in qualsiasi momento per an-
dare o nei campi di concentramento oppure dove avevano bisogno. Infatti, un giorno incappai
in un rastrellamento da parte di un’ organizzazione che avevano i tedeschi, la Todt23: che in
quel momento gestiva una forma di reclutamento per lavori dell’esercito italiano e tedesco.
Praticamente, ci mandarono a demolire uno zuccherificio che si trovava lì tra il confine di
Bazzano e Piumazzo. Durante quella settimana, caricando e impilando delle traversine (per-
ché si disfacevano anche le ferrovie) di legno, di quercia, pesanti, una slittò e mi venne ad-
dosso e sono rimasto svenuto per alcune ore. Fui soccorso dal medico del paese, poi è stata
una botta di striscio, perché se mi avesse preso in testa mi avrebbe ammazzato. Fu dopo
quell’infortunio lì che, stando a casa, tagliai l’angolo e non mi presentai più. Quindi, con al-
cuni altri, scappammo, ma dove potevamo rifugiarci? Boh, non sapevamo cosa fare: doveva-
mo andare a casa? Con mio padre, poveretto, avevamo già iniziato in famiglia la discussione
sul fatto di andare in montagna perché eravamo con quel Galletti, di cui ti ho parlato prima,
dell’osteria della California, che aveva i contatti. Avevamo imparato a conoscere quelli che
reclutavano per la resistenza in montagna. Mio padre addirittura andò a parlare con lui: «Mio
figlio non è chiamato alla leva, quindi può starsene a casa».
«Sì, ma vostro figlio corre dei rischi a stare a casa, state attenti, bisogna che lui si rifugi da
qualche parte, che non si faccia trovare per strada, che non si faccia trovare …».
Dovevo vivere nella clandestinità e tanti come me, perché non c’erano solo quelli nati negli
ultimi mesi del ’26, c’erano anche quelli del ’27, del ’28. Eravamo un gruppo che eravamo
tutti tra i quattordici, i quindici, i sedici e i diciassette anni, e facevamo degli incontri, delle
riunioni fra di noi. Ma avviene un episodio tragico che colpì due fratelli che erano fra noi, i

23 Organizzazione creata in Germania nel 1933 dall’ingegnere Fritz Todt per contrastare la disoccupa-
zione. In Italia durante la Seconda Guerra Mondiale fu utilizzata in supporto all’esercito tedesco e per
completare la fortificazioni delle linee di difesa attraverso sia volontari (la “ferma” di sei mesi equiva-
leva al servizio militare e offriva un buon trattamento economico) sia lavoratori reclutati a forza (Si-
lingardi - Montanari, 2006).

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fratelli Artioli24. Oggi una strada porta il loro nome, quella che va a Spilamberto passando il
ponte del Panaro e arrivando sulla strada che collega Castelfranco e Bazzano, che, tra l’altro,
era anche un punto d’incontro. Una sera eravamo a parlare di queste cose, e loro avevano già
deciso di andare, per questo si erano organizzati. Dei due fratelli uno era del ’28 e uno era
ancora più giovane. La stessa notte arrivò la brigata nera che li massacrò di botte lungo la
strada, e i loro corpi rimasero lì, sulla strada della California. Il primo a soccorrere questi due
giovani ormai morenti fu una ragazza, Fernanda Rossi25 di Piumazzo. Lì scattò una rabbia
infinita e mio padre fece un rifugio nel fienile coperto da balle di paglia e la notte si dormiva
lì; successivamente facemmo un rifugio anche in campagna, nascosto dalle erbe.
Si cominciò ad avere dei contatti perché il sindacato clandestino aveva cominciato a fare le
riunioni clandestine dei mezzadri, così si formò la Lega dei mezzadri e il Fronte della Gio-

24I fratelli Ermes (18 anni) e Giuseppe (16) Artioli, partigiani della Brigata “W. Tabacchi”, la notte
del 14 giugno 1944, furono massacrati nei pressi della località La California da un reparto della Guar-
dia Nazionale Repubblicana guidato da Gastone Zamboni e Italo Alboni (Ballotta, 2005).
25Fernanda Rossi, nata a Monteveglio nel 1925, ma trasferitasi con la famiglia, contadina, vicino alla
località La California, è stata staffetta e ha preso parte alla Resistenza all’interno della brigata “W.
Tabacchi” (ISRSC, Elenco dei partigiani e patrioti riconosciuti dalla Commissione regionale Emilia-
Romagna). Dopo aver assistito all’eccidio dei fratelli Artioli decise di incrementare il suo impegno nel
movimento partigiano, fino a quando, nel dicembre non fu arrestata nel corso di un rastrellamento e
condotta al carcere bolognese di San Giovanni in Monte, dove rimase fino a pochi giorni prima della
Liberazione (Ballotta, 2005).

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ventù26 che era l’organizzazione giovanile unitaria del Comitato di Liberazione, Fronte che
non era una cosa solo del Partito Comunista.
Questo partito l’abbiamo imparato a conoscere soltanto dopo; certo, sentivamo anche parlare
di comunisti, ma in quel periodo conoscevamo soltanto questi elementi partigiani.
Molte volte le riunioni erano religiose, gli incontri si svolgevano nella parrocchia di Piumaz-
zo, dove c’era il vecchio prete che ti faceva dei discorsi antifascisti senza dire mai «dovete
fare questo, andare, eccetera», era molto attento a non esporsi più di tanto.
Le mie sorelle erano più anziane di me: la Mafalda era del ’15 e sposò Ernesto Boldrini, agri-
coltore che faceva parte di una nota famiglia fascista con un grosso podere a Piumazzo, ma
non era militante. Mentre la Paolina era del ’17 e convolò a nozze durante la guerra con Fer-
ruccio Setti, un contadino antifascista, colto e istruito che conosceva i fondamenti delle dot-
trine socialiste. Quando ci fu l’armistizio Ferruccio era militare in Libia e rimase prigioniero
dell’esercito americano. In seguito aderì alla formazione del nuovo esercito italiano al fianco
degli Alleati. Fu in quel periodo che, grazie all’incontro con Ferruccio imparai a conoscere le
prime nozioni teoriche delle dottrine socialiste.

26 Le prime idee e riflessioni politiche e organizzative per la formazione di un’organizzazione giova-


nile sono nate a Milano grazie a Gian Carlo Pajetta. Nell’ottobre del 1943 fu diffuso a Milano il primo
manifesto del Fronte della Gioventù per l’indipendenza nazionale e per la libertà, scritto ancora da
Pajetta, prima di essere sostituito da Gillo Pontecorvo ed Eugenio Curiel. Il Fronte nasceva come or-
ganizzazione giovanile antifascista di massa e soprattutto unitaria, non doveva essere un’emanazione
dei partiti antifascisti (che mantenevano le proprie sezioni giovanili); i suoi compiti furono individuati
nella partecipazione alla lotta armata, sia direttamente con la formazione di brigate sia fornendo uo-
mini e mezzi alle formazioni partigiane in montagna, ai GAP (Gruppi di Azione Patriottica) e ai SAP
(Squadre di Azione Patriottica), nelle attività culturali, sportive, politiche e di propaganda e, infine,
nell’organizzazione di azioni economiche e sindacali. Il 5 gennaio del 1944 uscì il primo numero del
Bollettino del Fronte della Gioventù e, prima della fine del mese, i giovani cattolici e democristiani
entrarono nel Fronte, realizzando quell’unità ideale e di azione fra i giovani che rimase, però, difficile
da mantenere. Nell’ottobre del 1944 il CLNAI riconobbe ufficialmente il Fronte della Gioventù, dopo
molte discussioni fra i partiti antifascisti riguardo l’accettazione delle organizzazioni di massa nel
CLN. Durante la Resistenza il Fronte si impegnò attivamente, subendo numerose perdite, tra cui quel-
la di Eugenio Curiel, ucciso dopo essere stato riconosciuto da un delatore, e gli sforzi dell’organizza-
zione furono riconosciuti durante la Conferenza dei Giovani Comunisti (Milano, gennaio 1945). Il
Fronte si impegnò attivamente, a liberazione avvenuta, nelle discussioni sul futuro stato repubblicano
(alcune proposte furono l’abbassamento a 18 anni del diritto di voto e la creazione di un sottosegreta-
riato per la gioventù) ma, nel 1947, dopo l’uscita di tutti i movimenti giovanili a causa della prepon-
deranza dei giovani aderenti al PCI, il Fronte della Gioventù cessò praticamente di esistere.
In provincia di Modena i primi gruppi aderenti al Fronte si formarono nell’ottobre del 1943, seguendo
le indicazioni del Fronte di Bologna, di quello regionale (il CLN dell’Emilia Romagna era stato tra i
primi a riconoscere ufficialmente il Fronte) e quello di Milano. Ai socialisti e ai comunisti si aggiun-
geranno, entro la primavera del 1944, giovani cattolici, indipendenti e del partito d’azione. Le perso-
nalità di rilievo furono quella di Maria Beltrami, Germano Gualdi, Renzo Gasparini (fucilato nel di-
cembre del 1944) e Sandro Cabassi, fucilato il 26 ottobre 1944 (De Lazzari, 1974).

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Ti va di parlarmi della Resistenza? Della tua partecipazione alla Resistenza?.
In verità io non mi sono trovato a partecipare a scontri armati veri e propri, non ero in prima
linea, ma piuttosto mi sono trovato a occuparmi di altre attività, come ad esempio la distribu-
zione di volantini, la realizzazione dei documenti falsi, la protezione del bestiame dai seques-
tri fascisti, l’approvvigionamento di provviste e vettovaglie per i partigiani in montagna e poi
c’erano le riunioni clandestine dove si ricevevano le istruzioni per la Resistenza. L’altra atti-
vità importante che fu affidata a me, insieme ad altri due compagni giovani, consisteva nel
mappare, diciamo così, le fortificazioni che i tedeschi avevano costruito lungo tutto il Sa-
moggia, dall’area di Bazzano a quella di Anzola, che, di fatto, erano soprattutto bunker armati
di anti-carro.
Nell’estate del ’44 si dava per scontato che le truppe alleate sarebbero arrivate prima dell’in-
verno; si diceva che volessero arrivare fino al Po nell’autunno del ’44, e questo incoraggiava
a non essere più coperti dall’assoluta clandestinità, ma ad agire con maggiore libertà. Nell’a-
rea di Castelfranco ci sono state decine di morti, alcuni anche fucilati nelle carceri27 perché,
come ho detto, si dava per scontato che ormai l’avanzata degli Alleati era in atto e si sarebbe
arrivati a giorni alla liberazione: fiduciosi della imminente liberazione ci preoccupavamo di
meno delle coperture clandestine, prestando il fianco alle spiate fasciste. Questo non giustifi-
ca ma spiega anche le molte vendette, che furono condannate drasticamente dai movimenti
partigiani e dai Partiti antifascisti. Molti partigiani di fatto innocenti hanno subito anni e anni

27 Il Forte Urbano di Castelfranco Emilia, costruito nel corso del Seicento per volere di Papa Urbano
VIII, assunse la funzione di luogo detentivo nel 1828. Dal 1932 il regime decide di trasformarlo in
carcere per i detenuti politici condannati dal Tribunale speciale. Si calcola che durante il ventennio
oltre 1200 siano transitati nel carcere di Castelfranco Emilia. Durante la guerra civile fu teatro di bru-
tali esecuzioni, tra le quali quella di tredici giovani il 29 marzo 1944 e quella di tre antifascisti il 20
aprile dello stesso anno (Osti Guerrazzi – Taurasi – Trionfini, 2012).

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di galera, accusati di crimini infondati per i morti nel cosiddetto “triangolo della morte”28. Il
“triangolo della morte” non è quello che è stato presentato da tutta la stampa, dall’offensiva
anti-partigiana29, dal revisionismo del dopoguerra , però è vero che ci sono state delle ven-

28 Per “triangolo della morte” si intende la zona compresa tra Castelfranco Emilia, Piumazzo e Man-
zolino, che fu teatro di numerosi casi di violenza post-bellica. Massimo Storchi, considerando la pro-
vincia di Modena tra la fine della guerra e l’inizio del 1947 propone una scansione temporale che in-
dividua tre momenti di picco della violenza: 1) la “grande ira” tra la fine del conflitto e la fine di giu-
gno del 1945, in cui il calo degli omicidi coincide con l’inizio dei processi della Corte d’Assise
Straordinaria (27 giugno); 2) l’inverno 1945; 3) i primi sei mesi del 1946, con un calo successivo al
referendum costituzionale del 2 giugno.
Lo storico individua anche la tipologia prevalente di vittime: fascisti armati, organizzati e attivi contro
i partigiani e la popolazione civile (membri della Guardia Nazionale Repubblicana, delle Brigate
Nere, militari della Repubblica di Salò, aderenti al fascismo dopo il 25 luglio 1943). La giustizia
sommaria che colpì non fu dovuta solamente a motivazioni politiche, a queste, infatti, bisogna ag-
giungere vendette personali, legate a vicende di paese, familiari; si creò in questo modo una pluralità
di moventi: politici, personali, legati alla conflittualità di classe (soprattutto nel 1946), anti-clericali.
Storchi denuncia la mancanza di una ricerca storiografica “scientifica”. Le discussioni, i dibattiti, dal
dopoguerra ai giorni nostri, sono stati strumentalizzati politicamente e ideologicamente, e si sono ba-
sati su stereotipi (comunista = assassino vs partigiano = eroe): è mancata una riflessione sul carattere
del conflitto, sui problemi della violenza e dell’oppressione del regime prima della guerra, sull’eleva-
to tasso di violenza toccato durante il conflitto vero e proprio (l’Emilia Romagna è stata teatro di vio-
lenze di massa da parte dei nazi-fascisti), sulla confusione del dopoguerra e sulle difficoltà del ritorno
alla normalità, sull’impreparazione dei partiti politici, sulla gestione dell’ordine pubblico da parte del-
le forze dell’ordine (il modenese presentava un alto tasso di criminalità comune, che veniva però con-
notata politicamente), sulla mancata epurazione e sulla disparità di trattamento tra ex-fascisti ed ex-
partigiani (i primi godettero di determinati privilegi, mentre i secondi furono accusati delle azioni
compiute durante il conflitto e, considerati delinquenti comuni, in alcuni casi non beneficiarono del-
l’amnistia “Togliatti”, dl. n. 4 del 12 giugno 1946, sui reati politici), sull’improvvisa smobilitazione
delle forze partigiane che aggravò i già pressanti problemi di povertà e disoccupazione e sulla svalu-
tazione del conflitto sociale (ridotto a delinquenza comune) da parte del governo centrista e delle for-
ze dell’ordine, svalutazione che era parte integrante dell’offensiva governativa contro il movimento
operaio, i partigiani e le sinistre (Storchi, 1995).
29 Per offensiva contro il movimento partigiano si intende l’aumento esponenziale dei processi, so-
prattutto dopo il 18 aprile 1948 (sconfitta elettorale del Fronte Popolare), intentanti contro ex parti-
giani, accusati di omicidi e altre violenze immediatamente dopo la fine della guerra. Se denunce e
processi erano, in realtà, cominciati prima dell’aprile 1948, dopo questa data si registra un inaspri-
mento dei provvedimenti repressivi da parte della magistratura e del governo (protagonista è, soprat-
tutto, il ministro dell’Interno Scelba), che coinvolsero anche persone che in quel momento ricoprivano
anche cariche amministrative, politiche, all’interno del sindacato e della cooperazione. Al netto del-
l’effettiva presenza di partigiani colpevoli di violenze e omicidi nei giorni seguenti alla Liberazione,
la somma delle condanne complessive a cui vengono condannati gli imputati è altissima (solo nel mo-
denese si superano i 2000 anni di reclusione), soprattutto se paragonata all’inefficace azione dell’Alto
commissariato per le sanzioni contro il fascismo e delle Corti straordinarie d’Assise nel perseguitare i
compromessi con fascismo e nazismo; l’amnistia Togliatti mise poi formalmente fine al processo di
epurazione, anche se si giunse al paradosso che, mentre molti fascisti, accusati di crimini compiuti
durante la guerra, riuscirono a beneficiare dell’amnistia, i partigiani furono accusati di reati comuni,
non coperti dall’amnistia.
L’offensiva, condotta in un momento di grande tensione fra il blocco occidentale e quello sovietico,
contestando il valore e criminalizzando i partigiani di sinistra, aveva lo scopo più ampio di delegitti-
mare politicamente e democraticamente le sinistre, soprattutto il PCI, e di ridurre il conflitto sociale a
un fenomeno di comune delinquenza (Briguglio - Caroli - Del Prete - Fedele, 2014; Silingardi - Mon-
tanari, 2006).

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dette: il problema è che bisogna capire cosa c’è stato prima, cosa fu quel periodo, cosa fu il
fascismo e la “Repubblicchetta di Salò30”.

Certo le vendette non nascevano da sole.


I torturati, ad esempio. Ti porto un esempio: il fratello di mia moglie, Erminio Chiappelli, il
più anziano di undici fratelli e sorelle, era del 1910, era rimasto a casa a lavorare nel podere
di famiglia a Piumazzo, perché non era stato chiamato alle armi, mentre tre fratelli più giova-
ni erano in montagna …

Come si chiamavano?
Antonio, Italo e Aldo31. Erano nelle brigate della divisione partigiana Modena - Montagna32,
a capo della quale c’era il famoso comandante Armando, che si chiamava …

30 Con Repubblica di Salò (o Repubblica Sociale Italiana) si indica la denominazione assunta dal re-
gime fascista instaurato dopo la liberazione di Mussolini nel settembre del 1943 nel territorio italiano
occupato dai tedeschi (tedeschi che di fatto detenevano il potere effettivo, relegando la RSI a poco più
di uno stato “fantoccio”). Il territorio comprendeva il Centro-Nord Italia, fatta eccezione per quei ter-
ritori direttamente annessi alla Germania, come Trentino, Alto Adige e Friuli Venezia Giulia.
31 Antonio, Italo e Aldo Chiappelli, riconosciuti partigiani, fecero parte della brigata “Bigi”, apparte-
nente alla Ia Divisione Modena - Montagna (ISRSC, Elenco dei partigiani e patrioti riconosciuti dalla
Commissione regionale Emilia-Romagna). Italo, che fu riconosciuto partigiano dal gennaio 1944 fino
alla Liberazione (ISRSC, Elenco nominativo dei partigiani della Ia Divisione Modena M delle classi
1924 e 1925 iscritti per leva al distretto di Modena), fu ferito nell’ottobre del 1944 nei pressi di Mon-
tefiorino (ISRSC, Elenco nominativo suppletivo dei partigiani feriti e ammalati).
32 L’esigenza di unificare i vari gruppi di partigiani sulle montagne modenesi nacque nell’aprile del
1944, dopo le stragi (ad esempio, a Monchio, 17 marzo) e i rastrellamenti del mese precedente, con la
formazione del battaglione “Ciro Menotti”, con a capo Mario Ricci (Armando) e con commissario
politico Osvaldo Poppi (Davide), che riuniva oltre 900 uomini. Dopo l’occupazione di Montefiorino
(18 giugno 1944) si decise di formare il Corpo d’Armata Centro - Emilia, con a capo ancora Arman-
do, costituito da quattro divisioni modenesi e due reggiane, per un totale di oltre 5000 uomini. In se-
guito agli attacchi dei nazi-fascisti e allo sconfinamento di Armando, seguito da altre brigate che for-
meranno la divisione Modena - Armando, la divisione Modena -Montagna, formata da non più di 500
uomini, fu più volte riorganizzata, anche a causa di tensioni fra i partiti antifascisti (soprattutto DC e
PCI), fino alla nomina come comandante di Saverio Sabbatini (Weiner) nel marzo 1945 (contempora-
neamente all’unificazione dei GAP e dei SAP della pianura con la costituzione della divisone Modena
- Pianura, comandata da Italo “Gino” Scalambra); la divisione Modena - Montagna partecipò alla li-
berazione della montagna modenese, arrivando fino a Sassuolo, ma non della città. Al momento della
Liberazione la divisione era costituita da oltre 4000 uomini, divisi in brigate, tra le quali la “Dolo”, la
“Dragone”, la “Italia montagna” (democristiana) e la brigata “Matteotti” (Silingardi, 1998).
N.B. Per un maggiore approfondimento sulla storia della Resistenza nella provincia di Modena ri-
mando a C. Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena, 1940-1945, Milano,
FrancoAngeli, 1998.

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Mario Ricci.
Mario Ricci33, bravo. E comunque, dicevamo, Erminio viene arrestato nel dicembre del 1944
a Castelfranco dalla brigata nera di San Giovanni in Persiceto, che lo portò a Bologna nel
carcere di San Giovanni in Monte34, dove gli antifascisti e i partigiani venivano sottoposti a
ogni forma di angheria e di tortura per avere da loro notizie sul movimento partigiano, e lui,
poveretto, fu torturato per giorni e giorni e giorni perché volevano sapere dove erano i suoi
fratelli. Poi fu trasferito nelle carceri tedesche di Verona e successivamente nel campo di

33 Mario Ricci (Armando) nacque in una frazione di Pavullo nel maggio del 1908, da una famiglia
contadina di ideologia socialista. Dopo il servizio militare emigrò in Francia, dove si iscrisse al Partito
Comunista Francese. Partecipò alla guerra civile spagnola come commissario politico di una brigata
Garibaldi, una volta rientrato in Francia fu arrestato e internato nel 1940. Nel 1941 rientrò a Modena
ma fu condannato a cinque anni di confino a Ventotene (Latina). Dopo la caduta del fascismo fu libe-
rato e fece ritorno a Pavullo, dove venne richiamato alle armi. L’8 settembre 1943 la caserma di Ma-
ranello, presso cui era stato assegnato, fu circondata da reparti tedeschi ma riuscì a fuggire. Cominciò
la sua attività partigiana al comando di un proprio reparto fino a diventare prima comandante della
brigata “Ciro Menotti”, poi, con la nascita della Repubblica di Montefiorino (zona libera controllata
dai partigiani dal 18 giugno 1944 fino ai primi giorni di agosto dello stesso anno, in cui si istituirono
amministrazioni democratiche, le cosiddette Giunte Popolari), comandante del Corpo d’Armata Cen-
tro - Emilia. Dopo l’attacco tedesco passò il fronte, dove riorganizzò le formazioni e convinse gli Al-
leati a non smobilitare i reparti partigiani: la divisione Modena - Armando fu una delle poche ricono-
sciute dagli Alleati e che fu schierata in linea con i reparti anglo - americani. Dopo la Liberazione fu
nominato sindaco di Pavullo dal CLN, carica che ricoprì fino 1960. Deputato, presidente dell’ANPI
provinciale, decorato con la medaglia d’oro per il valore militare nel 1953, morì a Pavullo nell’agosto
del 1989 (Losi - Montella - Silingardi, 2012).
34 Il complesso di San Giovanni in Monte, edificato nel XIII° secolo fu sede conventuale fino all’epo-
ca napoleonica. Successivamente fu adibito prigione, funzione che mantenne fino agli anni Ottanta
del Novecento.
Durante l’occupazione tedesca San Giovanni in Monte continuò a svolgere lo stesso ruolo, racco-
gliendo gli arrestati dai fascisti e dai nazisti, e fu sede della Polizia di sicurezza e Servizio di sicurezza
(Sipo-SD), cioè la polizia politica e il servizio segreto delle SS, comprendenti anche la Gestapo.
Durante la guerra ospitò oltre 7000 detenuti (partigiani, ebrei, antifascisti, renitenti alla leva), mentre
alcune centinaia di prigionieri fu uccisa e un numero maggiore fu deportato.
Il 9 agosto del 1944 un nucleo di partigiani della 7a Gap che il 9 agosto 1944, attaccò il carcere favo-
rendo l’evasione di gran parte dei prigionieri della sezione maschile.

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concentramento di Bolzano-Gries35, poi a un certo punto l’hanno mandato a casa anziché
ammazzarlo, come fecero con tanti altri36. Questo per dirti …

Del clima che si era venuto a creare.


Molti furono i giovani che per varie ragioni non poterono raggiungere le brigate partigiane in
montagna e trovarono forme di partecipazione e di organizzazione in pianura. Per quanto ri-
guarda la zona di Piumazzo - Castelfranco vennero create moltissime basi clandestine per
l’organizzazione della Resistenza. Come si svolgeva la Resistenza in pianura? In varie ma-
niere, con la diffusione di volantini che pervenivano alle organizzazioni locali, con la difesa
del patrimonio delle case dei contadini, ad esempio ci si adoperava contro il rastrellamento
che facevano i fascisti per conto dei tedeschi andando a prendere il bestiame nelle stalle dei
contadini, e quante volte lungo la strada vi furono gruppi partigiani per rimandare il bestiame
sequestrato nelle loro stalle. O ancora la lotta per sottrarre i cereali dall’obbligatorietà
dell’ammasso. Poi c’era l’attività d’informazione sulle lotte dell’antifascismo in Italia, per
quanto era possibile fare attraverso fogli clandestini. Inoltre i gruppi che operavano in pianu-
ra avevano anche il compito di organizzare i rifornimenti alimentari per la montagna. Sono
tanti gli episodi molto belli ma anche molto pericolosi, perché se ti incontravi con le pattuglie
tedesche o della Repubblica di Salò, queste non si limitavano al sequestro, ma ti portavano
direttamente in carcere.
Ci furono modi diversi di partecipazione alla Resistenza, anche quello di produrre documenti
falsi per la circolazione di giorno, perché, evidentemente, di notte era molto pericoloso circo-
lare. Io mi sono occupato, come ho detto prima, di documenti di circolazione falsi, sai in che
modo? C’era una ragazza, che era l’amante di un ufficiale tedesco, che era della California e
aveva accesso alle scrivanie dove questo comandante tedesco faceva i permessi, i documenti.

35 Costituito nel luglio del 1944, si calcola che nel campo di Bolzano-Gries siano transitati circa 9500
persone, tra prigionieri politici, partigiani, prigionieri alleati, ebrei e zingari, di ambo i sessi e di tutte
le età. Tra la fine di aprile e i primi di maggio 1945 i deportati vennero progressivamente liberati e il
Lager chiuso.
36Erminio Chiappelli, anche lui partigiano come i fratelli e membro della brigata “W.
Tabacchi” (ISRSC, Elenco dei partigiani e patrioti riconosciuti dalla Commissione regionale Emilia-
Romagna), arrestato il 19 dicembre 1944, fu portato dal carcere di San Giovanni in Persiceto prima
presso il comando regionale delle SS, nei pressi dei Giardini Margherita di Bologna, poi al carcere di
San Giovanni in Monte (Ballotta, 2005). Nel febbraio 1945 fu trasferito prima a Verona e poi nel
campo di concentramento di Bolzano-Gries, dove rimase fino al febbraio 1945. Fu assegnato al Bloc-
co M. e ricevette la matricola 10521 (http://www.ciportanovia.it/chiappelli-erminio)

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Noi riuscimmo a convincerla a far fuori una ventina di questi documenti che servivano per
chi doveva andare su in montagna, per chi doveva tenere i collegamenti, per le staffette.

Come si chiamava la ragazza, ti ricordi?


Era di Modena, e aveva una sorella che veniva fino al Ponte Rosso, vicino alla California, a
prendere da mangiare per lei, riuscendo ad alimentare lei e la sua famiglia. Non abbiamo mai
saputo il nome preciso di questa ragazza, si rifiutava di dare il suo nome per proteggersi.
Sono tanti gli episodi di cui si potrebbe parlare di case, per esempio delle case di contadini
sequestrate dai tedeschi che nascondevano spesso gli antifascisti e i partigiani provenienti da
ogni parte d’Italia. Anche a Castelfranco, a casa di mio padre, a casa dei Chiappelli e a casa
di Ferruccio Setti, che poi ha sposato una mia sorella, Paola. Poi c’erano delle case dove sta-
zionavano dei tedeschi, soprattutto ufficiali e sottufficiali, e contemporaneamente vi stazio-
navano anche delle basi partigiane, sono tanti questi casi.
Quando arriva la liberazione di Roma, nell’estate del ’44 ci fu, come dire, non grande festa
perché non si poteva parlare di festa, ma un’ondata di incoraggiamento nella gente, si crea
uno stato di speranza perché lo si vede come un momento in cui finalmente ci si avvicinava
alla Liberazione. Quell’estate sulla strada che da Piumazzo porta verso Bazzano, eravamo in
otto o in dieci e ci siamo messi a cantare a squarciagola La Canzone del Piave37! Allora ci fu
un mezzadro che lavorava lì sulla strada che l’aviva sèimper ‘na pòra da mat, nuèter al cia-
mèeva “Masutmà”, che s’lè méss in mèz alla stréda, puvràtt, con la forca in mano, à gh fer-
mè: «M’assì mat? Ma s’arivèn chè à gh brusén tótt38»! Era l’aspirazione a vedere la libera-
zione.

37 La Canzone del Piave, composta da Ermete Giovanni Gaeta nel giugno del 1918, fu utilizzata dopo
l’armistizio come inno nazionale, in sostituzione della Marcia Reale, data la compromissione della
Monarchia con l’avvento del fascismo. Nell’ottobre del 1946, dopo il referendum costituzionale,
l’inno di Mameli, Il canto degli italiani, divenne l’inno ufficiale della Repubblica Italiana (Meloncel-
li, 1998; Ridolfi, 2003).
38“Aveva sempre una paura da matti, noi lo chiamavamo “Masutmà”, si è messo in mezzo alla strada,
poveretto, con la forca in mano, ci ha fermato: «Ma siete matti? Se arrivano qui ci bruciano tutto!»”.

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Si andava anche diffondendo sempre più l’ascolto per chi aveva la radio in casa, di Radio
Londra39, che era proibitissima dal regime, perché com’è noto era un canale di collegamento
che mandava messaggi in codice alla Resistenza e, dopo un inverno molto duro in monta-
gna40 e in pianura, i partigiani avevano ripreso le azioni su tutto il fronte dell’Emilia e della
Toscana. Poi arrivarono i giorni della Liberazione: ricordo sempre che in quei giorni, sia a
Piumazzo che a Castelfranco, scesero i partigiani dalla montagna, dove avevano combattuto e
partecipato insieme alle forze armate alleate per la liberazione della montagna, mentre in pia-
nura si era andati occupando i centri più importanti. Infatti, la Liberazione di Modena avviene
il 22 di aprile. Nelle campagne si vedevano arrivare attraverso i campi colonne di carri armati
con militari di colore giganteschi, e la gente di campagna che li guardava, li osservava e li
accoglieva, battendo le mani e offrendo il vino, e i soldati, ricambiavano con cioccolatini e
con le sigarette, che erano una cosa del tutto nuova.

Hai visto anche i soldati brasiliani?


I brasiliani venivano giù dalla linea gotica, da Montese, Zocca e arrivarono giù a Spilamber-
to, fino a Castelfranco, per congiungersi con l’armata che veniva da Bologna, e c’era di tutto
nelle forze armate, mica erano tutti soldati americani, quelli erano soprattutto ufficiali e sot-
tufficiali, la gran parte dei soldati, nelle nostre zone, erano soprattutto brasiliani41.

39 Con il nome di Radio Londra si indicano una serie di programmi radiofonici trasmessi dall’emitten-
te britannica BBC (British Broadcasting Corporation) a partire dal settembre 1938, quando si diede
notizia dell’incontro a Monaco di Baviera tra Regno Unito, Germania, Francia e Italia (che si conclu-
se con l’annessione dei territori abitati dai Sudeti, di etnia tedesca, in Cecoslovacchia alla Germania).
Durante la Seconda Guerra Mondiale il programma assunse, oltre alla diffusione delle principali noti-
zie, altri due scopi: il primo era quello di diffondere in Italia la propaganda antifascista, il secondo era
la trasmissione di messaggi cifrati per la Resistenza letti durante la diretta dal conduttore (Sponza,
2013).
40 L’inverno tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945 fu uno dei momenti più difficili per i combattenti
della Resistenza, poiché alle già difficili condizioni meteorologiche, che rendevano difficile le ricer-
che di cibo e di riparo, si aggiunsero la spietata controffensiva dei tedeschi (dopo la fine dell’espe-
rienza della Repubblica di Montefiorino iniziano le stragi di partigiani e civili compiute dai nazifasci-
sti), la diminuzione dei lanci di rifornimenti da parte degli Alleati e, soprattutto, il 13 ottobre si diffuse
un comunicato del generale statunitense Alexander che ordinava la sospensione dell’offensiva contro
la linea Gotica. Il mese seguente la notizia arrivò anche ai partigiani, che furono costretti a riorganiz-
zare le brigate per evitare uno sfaldamento (Silingardi - Montanari, 2006).
41 Il Corpo di Spedizione Brasiliana (Força Expedicionária Brasileira - FEB) fu costituita dopo che il
Brasile dichiarò guerra alla Germania il 22 agosto 1942. Aggregata alla 5a armata a partire dal luglio
1944, partecipò ai combattimenti sull’Appennino tosco-emiliano contro la linea Gotica, fu protagoni-
sta della liberazione di Montese e, successivamente, si spostò verso Sassuolo, Formigine, Parma e
Alessandria (Silingardi - Montella, 2006).

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Cosa ti ricordi dei giorni della Liberazione?
In quei giorni ero con i giovani del Fronte della Gioventù, ma cosa ho fatto di concreto? Non
è che abbiamo fatto grandi cose, riunioni, discussioni, dopo di che sai cosa faceva il Fronte
della Gioventù a Piumazzo nei giorni subito dopo la Liberazione? Ci siamo ripresa la vecchia
Casa del Popolo42, che, dopo il sequestro alle organizzazioni socialiste, era diventata sede dei
fascisti, e noi vi abbiamo organizzato una sala da ballo. C’abbiamo lavorato tanto: siamo an-
dati a prendere i tavoli da una parte, il cemento e i mattoni dall’altra, e l’abbiamo rimessa a
posto per organizzare delle feste. Questa era la nostra principale attività subito dopo la Libe-
razione.
In quei giorni si ritorna al lavoro con intensità e ardore per tornare a una vita normale, per la
ricostituzione dei partiti, dei sindacati e delle cooperative, e il Fronte della Gioventù si pre-
sentava come l’organizzazione più importante dei giovani, perché era stata lanciata e sostenu-
ta dal Comitato di Liberazione. In quel periodo con Ezio Bompani43, Arrigo Morandi44, Ser-

42 Le Case del popolo nacquero dall’esigenza, data dal rafforzamento dei partiti operai e delle orga-
nizzazioni sindacali, di avere uno spazio con la duplice funzione di luogo d’incontro e di svago per i
lavoratori e, soprattutto, come spazio a disposizione per le attività delle organizzazioni politiche e sin-
dacali socialiste. In Emilia le prime Case del popolo nacquero nel primo decennio del Novecento (la
prima in Italia fu la sede della cooperativa di consumo di Massenzatico, Reggio Emilia, aperta nel
1893), a Modena nel 1914.
Proprio per la loro natura di spazio “altro” rispetto al potere costituito (le Case del popolo rappresen-
tavano un contropotere basato su un modello socialista con valori comunitari e d’identità collettiva)
questi spazi subirono incendi e devastazioni da parte della violenza fascista. Dopo questa fase i fasci-
sti decisero di occupare le Case del popolo, che spesso diventarono sede della locale Casa del fascio,
e, soprattutto, di incamerare e sequestrare i loro beni. Dopo la fine della guerra le organizzazioni sin-
dacali, cooperative e operaie avrebbero rioccupato le Case del fascio, ma dovettero affrontare la rea-
zione dello Stato che non solo non risarcì i danni che queste organizzazioni avevano subito, ma decise
nel 1954 di prendere possesso di questi spazi, anche con la forza (Osti Guerrazzi - Taurasi - Trionfini,
2012).
43 Ezio Bompani (Modena, 1924). Partigiano, nome di battaglia “Ermes”, fu commissario di forma-
zione per le brigate “Selvino Folloni” e “Roveda” della Divisione Modena - Armando. Ferito nel no-
vembre del 1944, fu presidente provinciale del Fronte della Gioventù modenese, e dopo la fine della
guerra fu un dirigente del PCI nazionale. Dopo la sua esperienza politica lavorò presso l’ANPI, la
Confesercenti e, infine, come presidente provinciale dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi
di Guerra (AMIG). Nel dicembre 2010 è stato nominato Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repub-
blica Italiana.
44 Arrigo Morandi (Modena, 1927 - Modena, 2002). Tra i fondatori del Fronte della Gioventù provin-
ciale, prese parte alla Resistenza. Presidente nazionale dell’Unione Italiana Sport Per Tutti (UISP) dal
1957 al 1971 e presidente nazionale dell’Associazione Ricreativa e Culturale Italiana (ARCI) dal
1971 al 1979, nel 1979 fu eletto al Senato per il PCI, dove rimase fino al 1987.

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gio Rossi45 e altri amici dirigenti provinciali, avevamo il problema di come finanziare il
Fronte della Gioventù, e un giorno ci venne l’idea di rivolgerci ai contadini per una raccolta
delle balle di paglia, i cosiddetti “balèin”, per poi rivenderli agli allevatori di bestiame. Fu un
successo! Il Fronte era un’organizzazione unitaria, di cui ricordo bene le prime iniziative che
realizzammo a Piumazzo: la prima fu appunto quella della sala da ballo, la seconda fu met-
tere in piedi una compagnia teatrale di recitazione e la prima opera che allestimmo fu la Lu-
cia di Lammermoor di Donizetti, con la sala piena di piumazzesi per vedere questa recita del
Fronte della Gioventù. Che emozione incredibile!
In quel periodo c’era un grande fervore, c’era la voglia e il bisogno di tornare ad una vita de-
mocratica: rimettemmo in piedi le associazioni di categoria sociali, sindacali e politiche.
Mi piace ricordare di quegli anni l’organizzazione sindacale delle mondine: la Lega della
mondine, che si organizzava per andare a lavorare nelle risaie del Piemonte e dell’Emilia.
Nella provincia di Modena si calcola che fossero dalle nove alle diecimila le mondine che
ogni anno lavoravano il riso, oltre a quelle che andavano nella Bassa modenese e nel carpi-
giano.
Così si formò la mia prima esperienza nel Fronte della Gioventù, tra gli anni della clandesti-
nità e, soprattutto, dopo la Liberazione. In particolare mi appassionai ai problemi dei mezza-
dri, dei contadini. Per esempio, cominciai a partecipare alle riunioni dei mezzadri, anche
spronato da mio padre che mi diceva sempre: «Vacci mo’ tu, qualche volta». Così imparai a
capire meglio cosa significava la riforma del contratto di mezzadria, di cui avevo già sentito
parlare nelle riunioni clandestine.
Ogni sabato pomeriggio, c’era l’assemblea della lega dei mezzadri, che erano i più disciplina-
ti per quanto riguarda la partecipazione. Bisogna ricordare che il fascismo aveva ripristinato
il cosiddetto capitolato della mezzadria, un capitolato di tipo feudale, che non lasciava nessu-
na libertà ai contadini perché, oltre alla ripartizione del prodotto al 50% e alla partecipazione

45 Sergio Rossi (Carpi, 1925 – Modena, 2015). Partigiano comunista, dopo la Liberazione ricoprì nu-
merosi incarichi: dirigente del PCI carpigiano e modenese, segretario provinciale della Confederterra
dal 1949 al 1952, presidente della federazione provinciale di Legacoop dal 1957 al 1961 (http://mo-
dena.legacoop.coop/wp-content/uploads/2013/11/storico.pdf), vice-presidente della provincia di Mo-
dena e assessore allo Sviluppo Economico dal 1963 al 1965, assessore alla programmazione dal 1965
al 1966 e, infine, presidente della provincia modenese dal 1966 al 1973 (Guaraldi, 2009). Dopo la fine
dell’incarico in provincia fu attivo nell’ANPI, presidente dell’Azienda Regionale delle Foreste e, suc-
cessivamente, prima vice-presidente poi presidente dell’Istituto per la Storia della Resistenza e della
società contemporanea dal 1974 al 1998.

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alle spese della conduzione del fondo, c’era anche il fatto che il mezzadro poteva essere
mandato via dal proprietario in qualsiasi momento. La data di ogni anno per l’esecuzione de-
gli escomi, ovvero la disdetta del contratto, era San Martino, l’11 novembre, una data che tut-
ti i vecchi ricordano benissimo, perché era il giorno del trasloco del mezzadro.

Da qui deriva, infatti, il detto “fare San Martino”, che significa fare su e andare via.
Fare su e andare via, caricare tutto quello che c’era da caricare e andare via, in un nuovo po-
dere quando si riusciva a trovarlo.
Arriva poi un giorno che mi chiama il segretario della sezione del PCI di Piumazzo, un vec-
chio comunista, Bruno Graziosi46, e dice: «Abbiamo deciso che tu fai il capolega». «Come fai
il capolega?» gli risposi. Alla fine accettai, con un po’ di preoccupazione e incosciente entu-
siasmo. Per me fu un’esperienza importante e formativa: per la prima volta mi trovai ad af-
frontare e discutere direttamente con quelli che venivano definiti i “padroni”. Con i mezzadri
ci si organizzava e si andava a trovare i padroni nelle proprie residenze, sia quelli che risiede-
vano a Modena sia quelli che risiedevano nelle altre città dell’Emilia, andavamo anche a Bo-
logna in bicicletta da Piumazzo. Si sottoponeva loro un modulo con cui si chiedeva il riparto
del prodotto al 53%, e si chiedeva che un 4% del prodotto lordo del podere venisse accanto-
nato per essere destinato a lavori di migliorie del podere e delle case dei contadini. È bene
ricordare che il fenomeno della mezzadria era diffuso soprattuto in Emilia Romagna, Tosca-
na, Umbria, Abruzzo e Marche. Quegli anni di lotta ebbero una prima conclusione positiva

46 Bruno Graziosi (Savignano sul Panaro, 1914 - Bazzano, 2008) nacque in una famiglia socialista.
Trasferitosi a Piumazzo nel 1933, nel 1937 entrò in contatto con esponenti del PCI locale, e partecipò
alla distribuzione dell’Unità e alla raccolta di denaro per il Soccorso Rosso. Chiamato alle armi nel
1940, dopo l’armistizio entrò nella Brigata “Stella Rossa”, dove ricoprì anche il ruolo di commissario
politico. Dopo la Liberazione diventò segretario della sezione del PCI di Piumazzo e nel marzo del
1946 entrò nel Consiglio Comunale di Castelfranco Emilia. Arrestato nel 1949 per l’omicidio di Um-
berto Montanari, nonostante si fosse sempre proclamato innocente, e poi condannato nel 1954 insieme
a, tra gli altri, Amedeo Golfieri, segretario dell’ANPI di Castelfranco Emilia. Dopo la sua scarcera-
zione ricoprì nuovamente la carica di segretario del PCI della sezione di Piumazzo (Losi - Montella -
Silingardi, 2012).

!95
con il decreto emanato dal governo presieduto da De Gasperi, il cosiddetto “lodo De Gaspe-
ri47”.
Nel 1947 sono chiamato a dirigere la Camera del Lavoro di Castelfranco, per sostituire Gara-
gnani. Avevo vent’anni. Accettai dopo essermi consultato anche con mio padre, che aveva il
problema di portare avanti il podere, perché le sorelle si erano tutte sposate ed era rimasto
solo mio fratello Paolo. Fui nominato dall’assemblea composta da tutti i rappresentanti delle
leghe del territorio di Castelfranco. Questo periodo fu per me fondamentale per capire i veri
problemi dei lavoratori e dei braccianti. E qual era il loro problema? Il lavoro, perché lavo-
rando dai novanta ai cento giorni l’anno, questa era la media provinciale, evidentemente, non
sostenevi la famiglia. Mi colpirono in modo particolare le condizioni di lavoro delle mondine
che andavano due volte l’anno in Piemonte, la prima volta per mettere il riso, interrando le
piantine a mano, poi per la monda del riso, e anche questa operazione veniva fatta a mano.
Erano non solo ragazze ma anche donne anziane, che facevano 13 - 14 ore al giorno sotto il
sole, nell’acqua, con solo una mezz’ora per mangiare un boccone che si portavano dietro a
mezzogiorno, poi dormivano nelle stalle, negli stalloni o nei porticati per gli attrezzi. In trenta
giorni di lavoro portavano a casa allora circa venti/venticinque mila lire e un chilo di riso.

47 Il “lodo De Gasperi”, proposto nel marzo del 1946 dal governo per cercare di calmare la tensione
nelle campagne tra mezzadri, che richiedevano un riparto più favorevole, la cessazione di regalie e
corvées e l’abolizione dell’escomio per giusta causa, e gli agrari che si opponevano intransigentemen-
te, prevedeva l’inizio di trattative per la stipulazione di un nuovo patto, un’indennità di guerra per i
mezzadri e una proroga dei contratti in essere. Le tensioni non diminuirono, con gli agrari che rifiuta-
vano di sottoscrivere il lodo (non obbligatorio), e solo nel giungo del 1947 il lodo divenne legge e,
insieme ai successivi accordi della “tregua mezzadrile”, istituì un riparto al 53% al mezzadro e 47% al
proprietario, con l’obbligo per quest’ultimo di destinare ogni anno il 4% del prodotto in lavori di mi-
glioria affidati ai braccianti (Bertucelli, 2001; Osti Guerrazzi - Silingardi, 2002).

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Parlo del ’47, ’48, ’49… Questa situazione cominciò a cambiare solo con il grande sciopero48
del ’49 che durò molti giorni, grazie anche all’impegno del segretario generale della CGIL,
Giuseppe Di Vittorio49, e con quella del giovane sindacalista bolognese, allora segretario na-
zionale dei braccianti Luciano Romagnoli50. Fu grazie al loro importante lavoro che si getta-
rono le basi per un nuovo contratto, più umano e più remunerativo.

48 Gli scioperi delle mondine si collocano cronologicamente nella grande stagione di scioperi tra i la-
voratori dell’agricoltura del secondo dopoguerra. In seguito allo sciopero dei braccianti in Val Padana
nel settembre del 1947, attraverso il quale i lavoratori conquistarono le otto ore lavorative, i minimi
salariali, l’indennità di contingenza e il sussidio di disoccupazione, le agitazioni continuarono anche
negli anni seguenti: nel 1948 fu rinnovato il contratto di monda, con l’innalzamento del salario a 1000
lire giornaliere, 1 chilogrammo di riso e il pasto di mezzogiorno; il 1949, invece, fu l’anno del grande
sciopero nazionale, con un’adesione pressoché totale e che durò per oltre 40 giorni (maggio-giugno),
per applicare le conquiste della Val Padana a tutto il territorio italiano e per stipulare i contratti collet-
tivi nazionali, che furono siglati soltanto negli anni seguenti. Nell’autunno del 1950, un nuovo sciope-
ro dei braccianti e delle mondine della Val Padana (soprattutto nelle zone di Vercelli, Novara e Pavia)
bloccò per oltre diciassette giorni la raccolta del riso: i lavoratori entrarono in sciopero per ottenere
l’imponibile di manodopera, la fine delle disdette dei contratti senza giusta causa, le medicine gratuite
e il miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie. Grazie agli sforzi di Giuseppe Di Vittorio e
Luciano Romagnoli, segretario nazionale della Federbraccianti, si raggiunse un accordo riguardo
un’indennità per l’assistenza farmaceutica e per il miglioramento delle condizioni igienico/sanitarie.
L’accordo fu fondamentale per i miglioramenti salariali e contrattuali ottenuti negli anni seguenti
(Sassone, 1982; De Marco, 2006).
49 Giuseppe Di Vittorio (Cerignola, 1892 - Lecco, 1957), bracciante analfabeta e autodidatta, dopo un
impegno giovanile politico tra le fila del Circolo giovanile socialista, e sindacale, nelle Leghe di resi-
stenza e come dirigente delle Camere del Lavoro di Minervino Murge e Bari, nel 1921 fu eletto depu-
tato per il PSI, prima di aderire, nel 1926 al Partito Comunista d’Italia. Oppositore del fascismo fu
costretto all’esilio, durante il quale divenne segretario generale del sindacato clandestino. Dopo aver
partecipato alla guerra in Spagna fu arrestato dai nazisti a Parigi nel 1941 e mandato in Italia. Alla
caduta di Mussolini diresse per la corrente comunista le trattative per il Patto di Roma e, a guerra fini-
ta, diventò segretario generale della CGIL, carica che mantenne fino alla morte. Durante il suo incari-
co si fece promotore di «grandi intuizioni, quali il Piano del lavoro (1949), lo Statuto dei diritti dei
lavoratori (1952), il “ritorno alla fabbrica” della CGIL (1955), la rottura della “cinghia di trasmissio-
ne”» (Loreto, 2009, p. 99).
Costituente nel 1946 fu poi eletto deputato per il PCI nel 1948 (Loreto, 2009).
50 Luciano Romagnoli (Ferrara, 1924 - Roma, 1966) nel 1942 entrò nell’organizzazione giovanile
clandestina del PCI poi, dopo l’8 settembre, diresse le lotte contadine e la guerriglia partigiana fino al
gennaio 1945, quando entrò stabilmente nel CUMER (Comitato unificato militare Emilia Romagna),
l’organo che presiedeva a tutte le operazioni militari. Nel dopoguerra fu prima segretario del Fronte
della Gioventù bolognese e dell’Italia del Nord, poi organizzatore della Confederterra bolognese e dal
1948 al 1958 primo segretario della Federbraccianti nazionale. Dopo la morte di Di Vittorio entrò nel-
la segreteria nazionale del sindacato, da cui uscì nel 1961, già prostrato da una malattia che l’avrebbe
portato alla morte. Successivamente fu deputato per il PCI, membro della Direzione nazionale e re-
sponsabile per la Sezione Stampa e Propaganda del partito (http://www.anpi.it/donne-e-uomini/lucia-
no-romagnoli/).

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Ti interrompo. Prima di andare avanti vorrei chiederti di parlarmi dei rapporti tra i brac-
cianti e i mezzadri e i piccoli proprietari. Hai detto che la CGIL raccomandava di tener
conto delle differenze …
A quei tempi il rapporto con i coltivatori diretti non era facile, perché il bracciante vedeva nel
coltivatore diretto non tanto un avversario ma, come dire, una figura che non gli dava da la-
vorare. Questa la prima cosa, molto corporativa, e così è sempre stato. Bisogna ricordare che
con la riforma del capitolato di mezzadria, ci si avviava a una nuova e più equa ripartizione
del prodotto. In questo modo il piccolo proprietario, con uno o due poderi, si vedeva ridotto il
proprio reddito. Non è un caso, quindi, che la più forte associazione di categoria del mondo
agricolo era la Coldiretti, cosiddetta “bonomiana”, perché per molti anni fu diretta Paolo Bo-
nomi, esponente di primo piano della DC di De Gasperi51. Il rapporto fra la Coldiretti e la
Lega dei braccianti è sempre stato difficile. Il nostro sforzo era teso a costruire un sistema di
alleanza che, pur rispettando le diversità, ritrovasse l’unità per rinnovare il mondo dell’agri-
coltura. In quegli anni abbiamo vissuto dei passaggi piuttosto delicati, come ad esempio quel-
lo relativo alle opere per ammodernare l’agricoltura. In montagna, ad esempio, abbiamo avu-

51 La Coldiretti fu fondata il 31 ottobre 1944 con il nome Federazione Nazionale dei Coltivatori Diret-
ti (poi Confederazione Nazionale dei Coltivatori Diretti) da Paolo Bonomi (Romentino, 1910 – Roma,
1985), che ne rimase presidente fino al 1980, per riunire i coltivatori diretti e i piccoli proprietari ter-
rieri ignorati dalla CGIL unitaria fino al febbraio 1945, quando venne fondata l’Associazione Nazio-
nale dei Coltivatori Diretti. Di orientamento cattolico e favorevole al regime democristiano, la Coldi-
retti rifiutò di confluire nella CGIL, e si avvicinò alla Democrazia Cristiana e alla Chiesa (nel 1951 fu
istituito nella Coldiretti l’incarico di consigliere ecclesiastico). Il grande successo della Confederazio-
ne alla fine degli anni Sessanta fu dovuto non solo alla capacità di suscitare un’adesione consensuale
(grazie alla sua vicinanza alla religione e al suo impegno per valorizzare l’identità contadina) e “coer-
citiva” (la Coldiretti garantiva l’accesso alle risorse grazie ai suoi rapporti con il governo, e spesso
molti contadini possedevano la “doppia tessera”, cioè quella della CGIL e della Coldiretti), ma anche
ai suoi rapporti con la Democrazia Cristiana: era un rapporto di convenienza reciproca, perché se la
Coldiretti ampliava la base di consenso e di legittimità per il regime democristiano, il partito ne au-
mentava il prestigio e la capacità di penetrazione istituzionale, ad esempio in parlamento (Bonomi fu
deputato dal 1948 al 1983), nel Ministero dell’Agricoltura (con il governo Scelba si istituì la pratica
per cui uno dei sottosegretari fosse il vice-presidente della Coldiretti) o nella Federconsorzi, di cui lo
stesso Bonomi fu presidente (Lanza, 1991).

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to a Modena il senatore Medici52, che è stato ministro dell’agricoltura per molti anni con i
governi De Gasperi, esponente della DC, personaggio del mondo cattolico molto importante
e una persona con delle aperture molto interessanti: lui fece una battaglia per riuscire a fare
passare una legge che dava dei contributi per la costruzione di piccoli bacini di raccolta delle
acque in montagna. Bisognava trattenere in montagna l’acqua, che prima di arrivare in pianu-
ra, doveva soddisfare le esigenze della montagna, come l’irrigazione in agricoltura o l’ali-
mentazione dei pozzi. Queste iniziative, che non sempre le sinistre hanno saputo compren-
dere fino in fondo, hanno rappresentato una fase di miglioramento delle condizioni di vita dei
lavoratori dell’agricoltura. C’è una storia che racconta bene quel momento storico a Modena:
la storia del bosco del conte di Carobbio, tra Camposanto e San Felice53. Il conte a un certo
punto decise di mettere in vendita il bosco, e siccome c’era fame di terra da coltivare nessuno
si oppose alla vendita. Le organizzazioni sindacali che facevano capo alla CGIL e alla Confe-
derterra si fecero promotrici della costituzione di una cooperativa per l’acquisto e la gestione
del bosco. Invece la posizione dei sindacati che allora si chiamavano liberi, della CISL, sos-

52 Giuseppe Medici (Sassuolo, 1907 - Roma, 2000). Laureato in scienze agrarie a Milano, insegnò
prima all’Università di Perugia e poi a Torino, e nel 1938 elaborò, con altri, il piano per la bonifica del
Tavoliere delle Puglie. Avvicinatosi all’antifascismo cattolico e liberale nel 1942 ed eletto al Senato
nelle elezioni del 18 aprile 1948, fu sempre attento ai problemi dell’agricoltura, tanto da ricoprire la
carica di presidente dell’Istituto nazionale di economia agraria dal 1948 al 1963. Nel gennaio del 1954
fu nominato ministro dell’Agricoltura, carica che mantenne fino al luglio del 1955; l’anno seguente
diventò ministro del Tesoro, nel 1957 ministro del Bilancio e nel 1959 ministro delle Pubblica Istru-
zione fino al 1960. Dopo una breve parentesi di insegnamento all’Università di Roma, dal 1962 alle
dimissioni del 1965 ricoprì il ruolo di ministro senza portafoglio per la riforma della Pubblica Ammi-
nistrazione, ministro del Bilancio e, infine, ministro dell’Industria e del Commercio. Rieletto senatore
nel 1968 fu, fino alla fine dell’anno, ministro degli Affari Esteri, carica che ricoprì, dopo la sua quinta
elezione, anche dal maggio 1972 al luglio 1973. Gli ultimi incarichi che ricoprì, dopo il suo ritiro dal-
la vita politica, furono la presidenza della Montedison e del Centro studi Nomisma (Sircana, 2009).
53Il bosco della Saliceta era un ampio terreno nei pressi di Camposanto (Mo) di proprietà del conte di
Carobbio, acquistato dalla Cooperativa Braccianti Bosco della Saliceta nel 1949 su iniziativa di Er-
manno Gorrieri, approfittando della Cassa per la formazione della proprietà contadina (vd. nota se-
guente). I terreni sarebbero poi stati distribuiti dalla cooperativa bianca a famiglie di coltivatori diretti
(Osti Guerrazzi - Silingardi, 2002).

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tenuta da Gorrieri54, è quella di dividere la terra tra i singoli coltivatori diretti che ci si sareb-
bero insediati, con un intervento di un istituto appena nato che si chiamava la Cassa Contadi-
na55, che forniva dei mutui a condizioni agevolate. I coltivatori coinvolti vennero soprattutto
da fuori, dalla montagna e dal Polesine. Questa è stata un’altra pagina di fatti che spesso
viene dimenticata, ma invece dovrebbe essere citata sia dalle sinistre che dal movimento cat-
tolico. Mi ricordo alcuni di quei giovani, allora erano bambini, che sono poi diventati dirigen-
ti comunisti e del centrosinistra di Camposanto e Mirandola.

Torniamo alla tua esperienza a Castelfranco con la mezzadria, con i proprietari.


Sì, teniamo conto che quelle che contavano e che decidevano erano le grandi proprietà, che
erano condotte a mezzadria. Per esempio, posso citare alcune di queste proprietà più grosse,

54 Ermanno Gorrieri nacque a Magreta (Mo) il 26 novembre del 1920. Dopo aver fatto parte delle as-
sociazione studentesche dell’Azione Cattolica fu richiamato alle armi e divenne sottotenente degli
Alpini. L’8 settembre 1943 si trovava a Magreta dove organizzò il recupero di armi ed equipaggia-
menti per i partigiani, partecipò alla fondazione del Movimento giovanile per la resistenza e la rinasci-
ta (formato da cattolici e laici) e diventò rappresentante della Democrazia Cristiana all’interno del
Comitato militare del CLN. Dopo l’esperienza della Repubblica di Montefiorino fu nominato coman-
dante della 27a Brigata Garibaldi “Antonio Ferrari” (di composizione mista). Partecipò alla fondazio-
ne del CLN della Montagna, poi scese in pianura e coordinò le azioni della Brigata “Italia -
Pianura” (democristiana). Nel maggio del 1945 diventò segretario provinciale della Democrazia Cri-
stiana e, nel marzo 1947, entrò a far parte della Segreteria Provinciale della Camera del Lavoro, dove
restò fino alla scissione del 1948. Fino al 1958 fu segretario prima della LCGIL, poi della CISL; con-
temporaneamente svolse anche incarichi all’interno delle ACLI e dell’Unione Provinciale Cooperative
(presidente tra il 1951 e il 1960 e tra il 1963 al 1967).
Deputato per la Democrazia Cristiana dal 1958 al 1963, nel 1966 entrò nella Direzione nazionale del
partito. Dal 1966, per cinque anni, fu segretario regionale della Democrazia Cristiana dell’Emilia
Romagna, e dal 1970 al 1975 consigliere regionale.
Durante gli anni Ottanta collaborò con il Ministero del Lavoro e con la Presidenza del Consiglio dei
Ministri e nel periodo tra aprile e luglio del 1987 fu ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale
nel governo Fanfani. Il 14 dicembre 2000 ricevette la nomina a Cavaliere di Gran Croce, massima
onorificenza per meriti politici e sociali.
Morì a Modena il 29 dicembre 2004 (http://www.fondazionegorrieri.it).
55 La Cassa per la formazione della proprietà contadina, istituita con il decreto legislativo 5-3-1948 n.
121, parte dei provvedimenti presi dal governo per favorire la nascita della piccola proprietà contadi-
na (insieme, tra le altre, al decreto legislativo 24-2-1948, Provvidenze a favore della nascita della pic-
cola proprietà contadina), prevedeva la concessione di mutui trentennali a tasso agevolato per quei
contadini, singoli o riuniti in cooperative, che intendevano acquistare terreni. Inizialmente rivolta solo
al Meridione e alle Isole, l’anno seguente fu estesa a tutto il territorio nazionale, e in Emilia la percen-
tuale di nuove proprietà formate grazie ai decreti del governo fu del 65% (rispetto al totale delle terre
che cambiano di proprietà, con solo il 35% dei terreni che andarono ad aumentare proprietà già esi-
stenti) e la dimensione media, 3,3 ha., tra le più alte in Italia (Crainz, 1986).
Strumento promosso dal governo centrista, e appoggiato dalle ACLI, dai sindacati liberi, dalle coope-
rative bianche e dalle sezioni locali della DC, la Cassa per la formazione della proprietà contadina fu
inizialmente osteggiata dalle sinistre, ancora legate all’ ideale della conquista dei terreni, «la terra si
conquista, non si acquista» (Del Rossi, 2012, p. 116), che si mostrarono in ritardo rispetto alle orga-
nizzazioni cattoliche, come dimostra la vicenda del Bosco della Saliceta.

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come la proprietà del Poretto di Castelfranco Emilia che era di Dino Grandi56, ministro fas-
cista, dove lavoravano anche i fratelli e le sorelle di mia moglie, della famiglia Chiappelli.
Bisogna ricordare che in queste proprietà i mezzadri i mezzadri avevano formato i Consigli
d’Azienda57, che coordinavano l’attività sindacale.
Per modificare via via punti del contratto furono lotte durissime, ma il mezzadro non poteva
fare sciopero, perché aveva gli animali da accudire, quindi si usavano tutte le altre forme,
compresa quella che fu trasformata nel “Lodo De Gasperi” nel ‘47, cioè la conquista della
ripartizione al 47% al proprietario e al 53% al mezzadro, quindi tre punti in più. Un’altra ri-
vendicazione fu quella di accantonare ogni anno il 4% del reddito lordo del podere per desti-
narlo a investimenti per lo sviluppo della produzione agricola, per investimenti specializzati
per la produzione di frutteti, di vigneti o per rinnovare i vecchi impianti. L’altra cosa molto
importante era la condizione di vita del mezzadro, del bracciante, della gente di campagna: le
loro case in che condizioni erano? cos’era la casa del contadino? La casa del contadino com-
prendeva l’abitazione e la stalla, però nell’abitazione non c’era l’acqua, si usava l’acqua dei
pozzi artesiani, e quante volte l’acqua è stata trovata inquinata in quei pozzi. Non c’erano i
bagni in casa, avevano degli sgabuzzini fuori dalla stalla, dove c’era il pozzo nero di raccolta
dei liquami e il bagno lo andavi a fare nella stalla con dei secchi d’acqua che ti portavi dietro.

56 Dino Grandi (Mordano, 1895 - Bologna, 1988), figlio di un piccolo imprenditore agricolo e di una
maestra, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’università di Bologna nel 1913, ma ben presto si
avvicinò al mondo del giornalismo, diventando inviato per il Resto del Carlino. Arruolatosi volontario
nella Prima Guerra Mondiale, si guadagnò il grado di capitano degli alpini. A guerra finita terminò
l’università e, dopo l’assalto e l’eccidio a Palazzo d’Accursio a Bologna (in cui si era appena insediata
una Giunta comunale socialista), si iscrisse al Fascio di combattimento del capoluogo emiliano. Eletto
deputato nell’aprile del 1924 ricoprì gli incarichi di vicepresidente della Camera, sottosegretario al-
l’Interno, sottosegretario degli Esteri e ministro degli Esteri, carica che ricoprì cercando di accrescere
il prestigio internazionale del fascismo italiano. Ambasciatore a Londra fino alla firma del Patto
d’Acciaio (maggio 1939), dimostrò nel suo operato una tendenza a dissociarsi dalle posizioni dello
stesso Mussolini, il quale, al suo rientro in Italia, gli affidò il Ministero di Grazia e Giustizia. Contra-
rio all’entrata in guerra dell’Italia, rifiutò l’incarico di governatore della Grecia, e, in seguito, concepì
l’ordine del giorno con cui, il 25 luglio del 1943, Mussolini fu deposto. Nel 1940 aveva assunto la
proprietà del Resto del Carlino, che abbandonò dopo il 1943. Condannato a morte al processo di Ve-
rona nel gennaio del 1944 dalla Repubblica Sociale Italiana insieme agli altri fascisti “traditori” ed
estromesso dagli incarichi di governo dagli Alleati, emigrò prima in Portogallo poi in Brasile. Tornò
in Italia alla fine degli anni Cinquanta si trasferì nel Modenese dove aprì la sua azienda agricola (Nel-
lo, 2002).
57 I Consigli d’Azienda (o Consigli di Gestione) furono uno strumento utilizzato dai lavoratori per
partecipare alla gestione delle fabbriche o delle aziende agricole, per quanto riguardava, ad esempio,
l’organizzazione del lavoro e la gestione del personale. Entrarono in crisi con la fine del “biennio di
potere operaio” (1945-1947) e la ripresa da parte dei proprietari (Osti Guerrazzi – Silingardi, 2002).

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I letti avevano i materassi pieni di foglie di granoturco che venivano selezionate d’estate,
quando c’era lo spannocchiamento del granoturco nell’aia.
Questo fu uno degli aspetti portati avanti dalle organizzazioni sindacali, quello degli investi-
menti per rendere le case dei contadini più accoglienti, e fu una lotta anche questa piuttosto
dura, difficile. Nelle grandi aziende, in generale, il contadino conosceva il fattore che era il
direttore dell’azienda nominato dal padrone, perché in molti casi il padrone vero e proprio il
mezzadro non lo conosceva, o lo conosceva perché magari d’estate veniva a fare un giro in
campagna, oppure nei casi in cui i contadini avevano la casa attigua alla casa padronale in
campagna. Per queste rivendicazioni fu decisiva la costituzione dei Consigli d’Azienda, mai
riconosciuti, come strumento del sindacato.
Oltre all’azienda agricola nella zona di Piumazzo, Grandi aveva un’altra azienda nella zona
di Ganaceto. Un’altra grande azienda di Ravarino era di una società finanziaria di Genova: la
Saia.
Tra le più importanti, poi, c’erano le aziende dei marchesi Rangoni: quella dove la lotta fu più
dura, più difficile, fu l’azienda agricola di Spilamberto.
Sono queste le aziende dove la lotta dei mezzadri fu più lunga e accesa, perché come reazione
i proprietari usavano l’arma dell’escomio, a cui seguivano sempre le denunce sistematiche
dei proprietari terrieri che finivano in tribunale. In assenza di una legislazione adeguata in
materia, i tribunali applicavano le vecchie norme del codice fascista, che dava ovviamente
ragione ai padroni. Sono questi gli anni in cui assistiamo a importanti manifestazioni di soli-
darietà tra gli operai delle fabbriche e i lavoratori della terra. Nelle campagne c’era una forte
solidarietà, soprattutto dei braccianti, con gli operai delle fabbriche, perché dopo la guerra c’è
stata la ricostruzione della fabbriche, poi lo sviluppo, quindi l’ammodernamento, che passa
anche attraverso il licenziamento. A Modena ci sono degli episodi molto belli che non riguar-

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dano solo il 9 gennaio58, dove i braccianti e i mezzadri erano al fianco degli operai la mattina
davanti alle Fonderie Riunite, ma si trovavano a fianco degli operai anche quando c’è stata
lotta alla FIAT, la OCI FIAT di allora, con 250 licenziamenti in una situazione di disoccupa-
zione59. Sono momenti molto difficili, non mi dilungo perché sono raccontati diffusamente
nella letteratura del dopoguerra di Modena.

Prima di tornare a Castelfranco, hai accennato alle forme di lotte che usavano i braccianti e
i mezzadri. C’erano anche gli scioperi a rovescio? In cosa consistevano?

58 Il 9 gennaio 1950 davanti alla Fonderie Riunite di Modena e nelle vie limitrofe sei lavoratori (An-
gelo Appiani, Renzo Bersani, Arturo Chiappelli, Ennio Garagnani, Arturo Malagoli e Roberto Rovatti)
furono uccisi dalle forze dell’ordine durante una manifestazione per impedire la riapertura delle fon-
derie.
Il biennio precedente era stato caratterizzato dallo scontro tra i lavoratori e gli industriali che, inco-
raggiati dal clima favorevole dopo l’uscita delle sinistre dal governo nel 1947 e la vittoria elettorale
della Democrazia Cristiana nel 1948, cercavano di riconquistare la propria posizione dominante al-
l’interno della fabbrica, abolendo gli accordi siglati precedentemente e attaccando direttamente i lavo-
ratori. Agli scioperi dei lavoratori gli industriali, seguendo l’esempio di Orsi, il proprietario delle
Fonderie e delle due fabbriche della Maserati che aveva fatto fortuna durante il fascismo, risposero
con licenziamenti discriminatori di operai di sinistra e di delegati sindacali e con la serrata, cioè la
chiusura illegale degli stabilimenti (il 5 gennaio 1949 chiuderanno la fonderia Valdevit e le Candele
Maserati). In questa situazione il sindacato, costretto sulla difensiva dall’offensiva padronale, fu co-
stretto ad accettare accordi non favorevoli così, quando nell’ottobre del 1949 Orsi decise di licenziare
120 operai, il sindacato modenese decise di resistere. Il 3 dicembre Orsi comunicò la serrata dello sta-
bilimento e il licenziamento di tutti gli operai, per poi diffondere dei volantini il 28 dicembre con cui
annunciava la riapertura con 250 dipendenti (meno della metà di quelli al lavoro precedentemente)
selezionati a discrezione dell’azienda.
La manifestazione si svolse la mattina del 9 gennaio per impedire l’ingresso dei pochi operai che ave-
vano risposto al manifesto di Orsi, quando improvvisamente le forze dell’ordine appostate sul tetto
delle Fonderie spararono sulla folla, provocando i sei morti e un numero imprecisato di feriti. I lunghi
processi che seguirono, dopo aver cercato invano di attribuire le responsabilità dell’accaduto ai lavo-
ratori, accusati di essere armati e di voler occupare l’edificio, dimostrarono le responsabilità delle for-
ze dell’ordine e la magistratura ordinò un risarcimento a favore delle famiglie.
Nonostante la gravità di questo episodio abbia contribuito a smorzare i toni, la situazione per il sinda-
cato e i lavoratori rimase, almeno fino al 1955, critica (Bertucelli, 2001; Osti Guerrazzi - Silingardi
2002).
N.B. Per una trattazione esaustiva sull’eccidio delle Fonderie Riunite e sui processi che seguirono
rimando a L. Bertucelli, L’alba della Repubblica. Modena, 9 gennaio 1950. L’eccidio delle Fonderie
Riunite, Unicopoli, Milano, 2012.
59 Nel settembre del 1955 l’OCI FIAT di Modena decise di licenziare 248 lavoratori e di sospenderne
altri 150. Gli operai coinvolti erano tutti iscritti alla FIOM, la maggior parte era iscritta al PCI, e tra
questi erano compresi tutti gli eletti nelle Commissioni interne eletti dalla FIOM. Dopo un’iniziale
strategia unitaria delle tre sigle sindacali, la CGIL decise di occupare lo stabilimento, suscitando la
reazione di CISL e UIL. La vertenza si concluse con la firma di un accordo separato tra l’azienda e
CISL e UIL, con la riduzione del numero di licenziati e la promessa di reintegro dei sospesi, mentre i
lavoratori rimasti in azienda aderenti alla FIOM furono relegati nei reparti confino. Molti dei 248 li-
cenziati aprirono delle piccole aziende artigiane e, grazie all’apertura dei Villaggi Artigiani da parte
del Comune, contribuirono in maniera determinante al “miracolo economico” modenese (Bertucelli,
2001).

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Gli scioperi a rovescio erano gli scioperi in cui, quando un proprietario si rifiutava di fare de-
gli investimenti per lo sviluppo del podere o di adempiere ai lavori di miglioramento e tras-
formazione del podere, come ad esempio impiantare nuovi frutteti o i vigneti, i braccianti e i
mezzadri si facevano carico loro stessi di questi lavori. Il capolega poi segnava tutte le ore
fatte e alla fine presentava il conto al proprietario, il quale puntualmente non pagava e così si
finiva in tribunale. Tutta questa parte meriterebbe di essere approfondita e raccontata, racco-
gliendo testimonianze e leggendo anche i giornali dell’epoca.
Ma torniamo a Castelfranco.
Io a Castelfranco ci rimango poco, tra il 1947 e il 1948 come segretario della Camera del La-
voro. In quegli anni il governo mandò a Castelfranco il famigerato maresciallo Cau60, poli-

60 Il maresciallo dell’Arma dei Carabinieri Silvestro Cau, in servizio nel modenese tra il 1948 e la fine
del 1950, precisamente a Castelfranco Emilia con il compito di dirigere le indagini nel cosiddetto
“triangolo della morte”, fu accusato dai suoi superiori, da suoi commilitoni, dagli avvocati e parla-
mentari Umberto Terracini e Enzo Gatti, quest’ultimo modenese, di una serie di reati che comprende-
vano il furto aggravato, la concussione e la corruzione, la truffa ai danni dell’Amministrazione, la si-
mulazione di reato e la tentata strage e, infine, la violenza fisica e psicologica ai danni dei detenuti,
soprattutto ex-partigiani. Le violenze fisiche perpetrate da Cau comprendevano percosse con oggetti
contundenti e l’uso di una maschera antigas (attraverso la quale i sospetti erano costretti a bere acqua
salata) per estorcere false confessioni; le violenze psicologiche comprendevano l’obbligo di riesumare
i corpi delle persone giustiziate dai partigiani (in gran parte le vittime erano morte durante la guerra e
condannate a morte da un tribunale, non si trattava quindi di violenze posteriori al conflitto). Nono-
stante un memoriale consegnato dal comandante della tenenza di Castelfranco Emilia Rizzo (letto,
annotato e approvato dal capitano Massacesi di Carpi) al Comando generale dell’Arma dei Carabinie-
ri nell’aprile del 1950, le denunce dei torturati e le parole del capo della polizia, il generale D’Antoni,
che riconosceva fondata un’accusa di concussione, il maresciallo Cau fu prosciolto per insufficienza
di prove o mancanza di denunce, prima dalla Corte d’Assise di Modena nell’aprile del 1951, poi dal
tribunale di Modena nel novembre del 1955; Cau fu semplicemente allontanato dall’Emilia e poi con-
gedato. Fu il tenente Rizzo, invece, a essere costretto prima a ritrattare quanto aveva denunciato, poi a
essere punito con provvedimenti disciplinari, per aver permesso che si diffondessero voci e commenti
sull’operato dello Stato.
Terracini e Gatti in una prima interrogazione al Senato nel marzo del 1951, nel corso di un’interpel-
lanza, ancora al Senato, nell’anno seguente e davanti alla Procura Generale della Corte d’Appello di
Roma nel maggio del 1952, denunciarono i crimini di Cau, allegando agli atti il memoriale del tenente
Rizzo e le altre denunce, e la protezione che gli fu concessa da parte dello Stato e dalla Democrazia
Cristiana (Solidarietà Democratica, 1952).

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ziotto di fiducia di Scelba61, allora ministro degli Interni, proprio nel momento in cui si apre
l’offensiva contro la Resistenza, con gli arresti degli ex-partigiani e contro le organizzazioni
sindacali della sinistra. Una battaglia lunga e difficile. Una mattina Cau mi viene a trovare
alla Camera del Lavoro, si presenta e mette la pistola sul tavolo, poi dice: «Questa è la pistola
che viene assegnata a lei, da me. Perché lei gira da Piumazzo a Manzolino, a Gaggio, va in
giro la notte a fare le riunioni. Tenga conto che lei può essere colpito in qualsiasi momento,
perché qui si aggirano persone che debbono andare in galera». E io gli rispondo subito così:
«Caro maresciallo, io ho consegnato le armi a suo tempo, quindi non ne ho bisogno, ho
sempre girato di notte e continuerò a farlo». Seguì una discussione, ma alla fine Cau capì che

61 Mario Scelba (Caltagirone, 1901 - Roma, 1991). Di famiglia contadina si avvicinò fin da giovane,
anche grazie al padre, a Luigi Sturzo, al Partito Popolare Italiano e all’Azione Cattolica. Laureato in
Giurisprudenza a Roma nel 1921fu dirigente politico del PPI, partecipando anche all’ultimo Congres-
so prima dello scioglimento del partito da parte del fascismo. Avvocato commercialista nel 1930, du-
rante il fascismo fu sottoposto a sorveglianza e ammonito dal regime, rifiutando sempre di prendere la
tessera, per essere responsabile del quotidiano clandestino Il Popolo e, soprattutto, per essere stato il
segretario particolare di Sturzo, gestendone la corrispondenza. Dopo la caduta del fascismo entrò nel
CLNAI e nel luglio del 1944 diventò vice-segretario nazionale della DC. Descritto come efficiente
burocrate e uomo pratico, ma non teorico, fu ministro delle Poste e delle Telecomunicazioni nel 1945
e nel 1947, dopo essere entrato nel Comitato centrale della DC, diventò ministro dell’Interno, carica
che ricoprì fino al 1953. Seguace di Sturzo, con cui condivideva l’ideale dell’unione di religione cri-
stiana e giustizia sociale, repubblicano e antifascista, fu un sostenitore dell’uso della forza come dife-
sa del bene comune e della democrazia ancora incerta, in contrasto con il conflitto. Identificando il
comunismo e il socialismo con il fascismo, la sua gestione dell’ordine pubblico fu in funzione anti-
comunista: adottò le norme previste dal Testo Unico di Pubblica Sicurezza fascista del 1931, cercò di
azzerare l’influenza del CLN, a maggioranza comunista, sostituendo i prefetti nominati dal Comitato
di Liberazione con uomini di carriera che avevano servito anche durante il fascismo (fino all’8 set-
tembre 1943) e epurando gli elementi comunisti dalle forze di polizia. Aumentò gli effettivi delle for-
ze dell’ordine, istituì la Celere, mise uomini compromessi con il fascismo in posti di rilievo e, soprat-
tutto, cercò di mantenere costantemente il paese e le forze dell’ordine in uno stato d’allarme per una
presunta insurrezione comunista (il famoso piano “K”). Nonostante la promulgazione della cosiddetta
“legge Scelba” contro la ricostituzione del partito fascista, tollerò i movimenti e i partiti politici per
contenere e marginalizzare i movimenti di sinistra.
Dopo la mancata insurrezione in seguito all’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948, essendo difficile
accusare il Partito Comunista di agire contro lo Stato, Scelba dimostrò una radicale cultura anti-sinda-
cale, definendo lo sciopero come reato contro l’economia e accusando la CGIL e le Camere del Lavo-
ro di turbare l’ordine pubblico; l’attacco al movimento sindacale è contenuto nella circolare del 19
luglio 1948, in parte riportata da Loreto (Loreto, 2009). Approfittando della tensione internazionale
creata dalla guerra di Corea, Scelba, nel marzo del 1950, attuò una serie di ordinanze repressive al
limite della costituzionalità: dato che non era possibile, per una serie di motivi, dichiarare illegale il
Partito Comunista, era necessario limitare il movimento operaio, discriminando l’accesso per i comu-
nisti alla pubblica amministrazione, controllando le attività economiche “rosse” e affiancando un’of-
fensiva sociale da parte della DC per togliere spazio alle sinistre.
La gestione dell’ordine pubblico di Scelba causò, nel periodo tra il 1947 e il 1954, oltre 150 morti
(escludendo le forze dell’ordine), un numero imprecisato di feriti e condanne complessive per oltre
ventimila anni di carcere.
Presidente del Consiglio tra il febbraio del 1954 e il luglio 1955, ancora ministro dell’Interno nel 1960
dopo l’esperienza del governo Tambroni, presidente del Parlamento Europeo dal 1969 al 1971, fu de-
putato dal 1946 al 1968 e successivamente senatore fino al 1983 (Marino, 1995).

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non doveva insistere per non creare un caso. La tattica perversa di Cau era di presentarsi
come amico, come partecipe alle nostre lotte. Mi ricorderò sempre una sera d’inverno a Piu-
mazzo che venne all’assemblea nella Casa del Popolo e disse: «Ecco, si fa così, io sono rosso,
uno dei vostri»; e noi pensavamo: «Ma cosa dice questo qui?»
Voleva passare come uno di noi, mentre nelle vertenze con i padroni della terra, gli agrari,
diceva: «Quando uno non vuole sottoscrivere gli accordi, venga qui da me, lo denunci, lo
chiamo io in caserma». Era un’azione con cui cercava di penetrare dentro il nostro sistema
sindacale, politico, di questa zona di Castelfranco, di cui si parlava già come parte del “trian-
golo della morte”. In quel momento la caserma di Castelfranco diventò anche un centro di
tortura, e siamo negli anni del dopoguerra, in democrazia, teoricamente.
Un giorno arrivò a Castelfranco il segretario generale della Camera del Lavoro di Modena,
Arturo Galavotti62. Io l’avevo già conosciuto nei comizi, alle manifestazioni, lo conoscevo da
lontano, non da vicino e mi mise anche un po’ di soggezione. Mi fa qualche domanda, mi
chiede dove abito e informazioni sulla mia famiglia, poi, a un tratto, mi disse: «Senti un po’,
che ne dici di venire a Modena, alla Camera del Lavoro, nella segreteria della Federmezza-
dri?»
La prima risposta che diedi fu: «Ma non ho mica la motocicletta»; e lui subito: «Ma no, ab-
biamo alcune moto, alcuni motorini, residuati di guerra che vanno benissimo, li abbiamo sis-
temati. Uno di quelli lo puoi prendere tu se vuoi, ma che difficoltà hai?»
«Ma, che difficoltà… Ma niente, io devo dare una mano a casa a mio padre, nel podere», e
lui: «Con tuo padre adesso ci parlo io».

62 Arturo Galavotti (Concordia, 1910 - Modena, 1978) nacque in una famiglia socialista e, prima di
emigrare in Algeria nel 1932, lavorò nell’officina meccanica del padre. In Algeria entrò a far parte del
Partito Comunista Francese e partecipò ad alcune lotte sindacali prima di andare in Francia, dove si
stabilì nei pressi di Marsiglia. Dopo l’occupazione tedesca entrò nella Resistenza ma senza partecipa-
re a nessun combattimento, così nel 1941 ricevette l’incarico di reclutare compagni per tornare in Ita-
lia. Non trovandone, scelse di partire ugualmente e nel 1942 tornò a Concordia. Dopo aver cercato di
ricostruire la locale sezione del partito, l’8 settembre 1943 fu tra i promotori di un Comitato unitario
antifascista e diventò comandante dei distaccamenti gappisti della Bassa modenese fino al 1944. Tra
la fine del 1944 e i primi mesi del 1945 fu trasferito a Montefiorino, dove divenne segretario del CLN
della montagna, e poco prima della Liberazione di Modena entrò nel CLN provinciale come rappre-
sentante del PCI.
Segretario generale della Camera del Lavoro di Modena dal 1945 al 1953, nello stesso periodo fu an-
che consigliere comunale e membro della segreteria del PCI modenese. Dopo due anni trascorsi in
Sicilia come ispettore della CGIL nazionale rientrò a Modena dove fu di nuovo, per un breve periodo,
segretario della Camera confederale del Lavoro, poi, nel 1956 entrò nella Giunta comunale e nel 1960
divenne dirigente dell’Azienda municipalizzata per l’igiene urbana di Modena (Losi - Montella - Si-
lingardi, 2012; Osti Guerrazzi - Silingardi, 2002).

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Fatto sta che arrivo un giorno a Modena, e quel mattino lì alla Camera del Lavoro c’è lui, Ga-
lavotti, che mi presenta a un signore non più tanto giovane, un bell’uomo, e mi dice: «Questo
è il mio co-segretario»; questo si volta e dice: «No, io non sono il tuo co-segretario, sono il
co-segretario della Camera del Lavoro di Modena». Chi era questo? Ermanno Gorrieri.
Allora il sindacato era ancora unitario, sono gli ultimi tempi, sono già sorte le ACLI63, e si
stavano preparando alla scissione64.
Dopo mi portano nella sede della Federmezzadri, mi presentano il rappresentante della cor-
rente cattolica, Lugli Gaetano65. Poi incontro anche altri, fra cui l’addetto al servizio vertenze,
il socialista Ranzi, e chiedo: «Ma qui il segretario dei mezzadri chi è?»
E quelli mi rispondono: «Il segretario molto probabilmente dovrà andare via perché sai che
dobbiamo dare una mano anche alla CGIL del Sud, ci sono molti problemi». Era un certo
Cattini66…

Il segretario della Federmezzadri?


Il segretario della Federmezzadri di allora. Lavorai per un periodo di tempo, qualche mese,
con Cattini, che poi, un bel giorno sparisce e non si presenta più. Dopo qualche tempo ve-

63Le ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani) nacquero nell’agosto del 1944, fondate dal
sindacalista cattolica Achille Grandi (che aveva partecipato alla stesura del Patto di Roma per la cor-
rente cattolica), con lo scopo di creare un’organizzazione sindacale aderente alla dottrina sociale
espressa dal Vaticano. Il successo e la diffusione delle ACLI, che non si limitavano all’assistenza so-
ciale e spirituale, ostacolando il monopolio sindacale delle Camere del Lavoro, contribuirono ad ali-
mentare la tensione fra le varie correnti del sindacato (Osti Guerrazzi - Silingardi, 2002).
64 L’esperienza della CGIL unitaria, nata con la stesura del Patto di Roma nel giugno del 1944, si con-
cluse con la fuoriuscita della componente cattolica, che andrà a costituire la CISL, a causa dello scio-
pero politico proclamato in Italia dopo l’attentato al segretario del PCI Palmiro Togliatti del 14 luglio
1948. Successivamente anche repubblicani e socialdemocratici abbandoneranno la CGIL per formare
la UIL (Loreto, 2009).
65Gaetano Lugli (1917 – 2014), nato in una famiglia di contadini, partecipò alla Resistenza e alla li-
berazione di Torino. Entrato nel sindacato unitario nel 1945, fu tra i fondatori della CISL e dell’Unio-
ne Cooperative modenesi insieme, tra gli altri, a Ermanno Gorrieri (Osti Guerrazzi – Silingardi,
2002).
66 Silvio Cattini (Soliera, 1912 – Milano, 2006). Di famiglia contadina si avvicinò al comunismo nel
1932 ma, dopo essere stato arrestato nel 1936, si dichiarò pentito e accettò di diventare un informatore
per l’OVRA, la polizia segreta del regime. Inviato prima in vari luoghi di confino per raccogliere in-
formazioni, nel 1939 tornò in Emilia. Fino alla fine della guerra non ci sono notizie certe, salvo il ri-
chiamo alle armi nel 1942, nel dopoguerra, invece, entrò nel Partito comunista e diventò segretario
della Federmezzadri di Modena e ispettore nelle Marche per la Federmezzadri nazionale. Nell’autun-
no del 1949, scoperto il suo passato di informatore, fu espulso dal partito e dal sindacato (Losi – Mon-
tella – Silingardi, 2012).

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niamo informati che negli anni del Fascismo era stato in carcere e al confino, fino a cedere e
a diventare un uomo dello spionaggio fascista. Fu così che cominciai la mia attività da segre-
tario della Federmezzadri, avevo ventidue anni, che però durò poco, perché io dalla metà del
’49 fino al 9 gennaio del ’50 sono latitante …

Perché?
Alla Camera del Lavoro di Castelfranco mi sostituirà il mio amico Ilario Guazzaloca67 che,
scherzi del destino, seguirà un percorso molto simile al mio. A Modena per me saranno mesi
di attività intensa: dovevo imparare tutto, iniziando dalla conoscenza delle persone e del terri-
torio. Per questo cercavo di essere presente in tutti i momenti delle vertenze dei mezzadri e
nelle manifestazioni. E proprio a causa di queste manifestazioni mi beccai una bella serie di
denunce! Era necessario essere presenti per evitare violenze, ma d’altra parte, in quanto se-
gretario, per la Questura ero il responsabile diretto. Quindi alla metà del 1949 sono costretto a
darmi alla latitanza per evitare mesi e mesi di carcere in attesa dei processi. Mi spostavo
continuamente, vivevo nelle case dei contadini, tra Carpi e Reggio Emilia, dove ne ho appro-
fittato per frequentare una scuola di partito, poi andai a Monteveglio, ospite dai miei zii.
Questo periodo durò quasi un anno, finché gli avvocati del Comitato di Solidarietà68 mi in-
formarono che i mandati di cattura erano decaduti e così rientrai di corsa a Modena, per tor-
nare all’attività politica.
Erano i primi giorni del 1950. E proprio il 9 gennaio io ero lì, alle Fonderie Riunite, quando
Galavotti, il segretario della Camera del Lavoro, siccome quella mattina la città era comple-

67 Ilario Guazzaloca (Modena, 1924 - Modena, 2011). Segretario della Camera del Lavoro di Castel-
franco Emilia nel 1947, in seguito guidò la Federmezzadri e la Federbraccianti provinciali, prima di
diventare segretario provinciale della CGIL di Modena nel 1956. Nel 1960 andò a Roma, dove rimase
fino al 1965 lavorando presso il sindacato dell’industria alimentare. Presidente di Legacoop Modena
dal 1965 al 1973, in seguito fu presidente dell’Associazione regionale cooperative agricole e, infine,
fece ritorno a Roma dove rimase nella presidenza dell’ANCA (oggi Legacoop agroalimentare) fino al
1993.
68Il Comitato di Solidarietà Democratica nacque il 2 agosto 1948 per assistere i partigiani implicati in
procedimenti penali e gli arrestati in seguito a manifestazioni e scontri con la polizia. A livello nazio-
nale fu presieduto da Umberto Terracini, mentre nel modenese il punto di riferimento era l’avvocato
Enzo Gatti. Il Comitato si occupò, tra gli altri, degli imputati per l’eccidio delle Fonderie Riunite. Se-
condo i dati pubblicati da Terracini al Congresso del Comitato di Solidarietà Democratica di Modena
del 14 aprile 1953 «nel modenese sono 5.786 i cittadini processati tra il 1948 e il 1953. Tra questi 468
sono ex partigiani, di cui 321 assolti dopo aver scontato 173 anni complessivi di carcere preventivo e
58 ancora detenuti dovendo scontare condanne per complessivi 2.166 anni di reclusione» (Silingardi -
Montanari, 2006, p. 169).

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tamente isolata, con tutte le comunicazioni interrotte, mi mandò a Reggio Emilia in moto da
Walter Sacchetti69, allora segretario della Camera del Lavoro di Reggio, per telefonare a Di
Vittorio e riferirgli quello che stava succedendo a Modena. Sacchetti telefonò a Di Vittorio
davanti a me per informarlo della grave situazione e a un certo punto me lo passò, e io gli
dissi che da quando ero partito da Modena c’erano già stati tre morti e molti feriti. Di Vittorio
rimase molto colpito, assicurandoci il suo intervento immediato su Scelba per fare cessare
subito il fuoco della polizia e ristabilire le comunicazioni in città. Dopo il drammatico 9 gen-
naio e le grandi mobilitazioni che seguirono i solenni funerali, ci fu un’importante assemblea
al Teatro Comunale di Modena con tutte le forze di opposizione.
In quello stesso mese fui delegato al Congresso nazionale del sindacato dei mezzadri a Pesa-
ro, dove intervenni a nome dei giovani contadini: era il mio primo intervento in una sede na-
zionale. Ma non feci in tempo a consumare l’emozione che sul treno di ritorno ebbi una bella
sorpresina: due poliziotti mi beccarono e mi fecero scendere a Rimini. Evidentemente non
tutti i mandati di cattura era decaduti… Da Rimini per arrivare al carcere di San Giovanni in
Monte di Bologna ci misi otto giorni, a causa del continuo passaggio da un carcere all’altro.
A Modena, poi, rimango in prigione per quaranta giorni. Mi ricordo che Sant’Eufemia70 era
piena di braccianti, di mezzadri, di ex-partigiani; e fra quelli mi piace ricordare l’amico Bisi

69 Walter Sacchetti (Massenzatico, 1918 - Reggio Emilia, 2007). Iscritto al Partito Comunista nel
1935, arrestato nel 1939 e condannato dal Tribunale Speciale per la Difesa della Patria a 12 anni di
reclusione, dopo l’8 settembre uscì di prigione e prese parte alla Resistenza. Nel dopoguerra fu eletto
deputato per il PCI nel 1948 e nel 1953, mentre nel 1958 divenne senatore. Fu segretario della Came-
ra del Lavoro di Reggio Emilia, carica che occupò dal 1947 al 1958, e partecipò alle lotte del 1951
alle Officine Meccaniche Italiane Reggiane, che si conclusero dopo oltre trecento giorni di occupa-
zione. Fu anche presidente delle Cantine Cooperative Riunite di Reggio Emilia (http://www.anpi.it/
donne-e-uomini/walter-sacchetti/).
70 Il complesso di Sant’Eufemia nel centro di Modena, attuale sede di alcuni dipartimenti dell’Univer-
sità di Modena e Reggio Emilia, sorto sull’area di un monastero femminile Benedettino (risalente al-
meno al IX° secolo) è stato sede di moltissimo istituti: dopo il 1798, anno in cui il monastero fu sop-
presso, svolse la funzione di caserma per il corpo degli Artiglieri Cisalpini, per le truppe austriache e
per i Dragoni Estensi, ospitò la Società dei dilettanti del gioco del pallone e, a partire dai primi del
Novecento, i Gabinetti Sperimentali di Chimica, Farmaceutica, Igiene, Fisiologia e Materie Mediche
dell’Università. Nel 1891 vi furono trasferite le carceri politiche e nel 1830 le Carceri Giudiziarie, e
parte del complesso svolse le funzioni di carcere fino all’inaugurazione, nei primi anni Novanta, delle
attuali carceri di Sant’Anna.

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Umberto71, nome di battaglia “Omar”, Medaglia d’Oro alla Resistenza! Finalmente arriva il
processo che si conclude con assoluzione piena per non aver commesso il fatto.

Per cosa eri stato fermato?


Per un vecchio mandato di cattura, uno dei tre, che era sfuggito anche all’avvocato.
Dopo, quando rientro comincio una nuova partita.

Ti eri già iscritto al Partito Comunista?


Mi ero iscritto a Piumazzo nel ’45, ma sono soprattutto gli incontri che mi hanno portato via
via alla militanza attiva.

Quando trovavi il tempo per studiare?


Il mio primo impatto con la Camera del Lavoro fu molto significativo perché sin dalle prime
riunioni imparai a conoscere i leader politici e sindacali del nostro territorio: fra questi mi
preme ricordare, come già ricordavo Ermanno Gorrieri, Alfeo Corassori72, “Armando”, cioè il

71 Umberto “Omar” Bisi (Rovereto di Novi, 1923 - Modena, 1999). Comandante della Brigata gappi-
sta “W. Tabacchi”, operante nella pianura di Modena, partecipò anche ai combattimenti in liberazione
della città. Decorato con la Medaglia d’Oro al valor militare e con la “Bronze Star”, dopo la guerra fu
incarcerato. Dopo la completa assoluzione fu assessore ai Lavori Pubblici per il Comune di Modena e
amministratore per la Provincia. Presidente dell’ANPI di Modena, vice-presidente di quello regionale
e membro del Consiglio nazionale, dal 1998 è stato membro del Consiglio direttivo dell’Istituto per la
storia della Resistenza e della Società contemporanea di Modena (http://www.anpi.it/donne_e_uomi-
ni/1967/umberto-bisi)
72 Alfeo Corassori nacque a Campagnola (Reggio Emilia) nel novembre del 1903. Di famiglia comu-
nista si iscrisse alla federazione giovanile del partito socialista, ma già nel 1921 aderì al neonato Parti-
to comunista d’Italia e, insieme a Guido Giberti, Beatrice Ligabue, Carlo e Bruno Baroni, Elio Carra-
rini e Olinto Cremaschi partecipò alla fondazione della sezione modenese del partito. Accusato di fare
propaganda sovversiva durante il servizio militare, fu perseguitato dal fascismo per la sua attività po-
litica: a partire dal 1923 e fino all’armistizio subì numerose denunce, al pari di altri antifascisti, e ven-
ne condannato a diversi anni di prigione e di confino. Dopo l’8 settembre diventò responsabile della
sezione di Modena del Partito comunista e dirigente del movimento partigiano (nome di battaglia
“Walter Sala”) e, dopo la Liberazione, venne nominato sindaco dal CLN (carica confermata dalle ele-
zioni del 1946). Eletto alla Costituente, rifiutò l’incarico per dedicarsi all’amministrazione della città.
Sindaco fino al 1962, e ancora sottoposto a vigilanza da parte della Questura durante tutta la durata
della sua carica, morì nel novembre del 1965 (Losi - Montella - Silingardi, 2012).

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comandante Ricci, poi successivamente, fra gli altri, anche Rubes Triva73, Sergio Rossi e
“Mirko” Sighinolfi74. Erano momenti importanti, figure nelle quali avresti voluto riconoscer-
ti.

Una formazione sul campo.


Quello è un periodo molto confuso e molto intenso, mi chiedevano di andare da una parte e
dall’altra, però io non ero andato là per arrampicarmi. Ti racconto: quando arrivo dalla Came-

73 Rubes Triva (Mantova, 1921 - Modena, 2001). Trasferitosi a Modena nel 1933, conseguì il diploma
come maestro elementare. Durante la Resistenza entrò nel Comitato di Liberazione Nazionale e aderì
al PCI nel 1944. Eletto consigliere comunale nel 1946, fu assessore al Personale, alla Polizia e ai Tri-
buti. Nel 1951 fu eletto consigliere sia al Comune di Modena sia alla Provincia, dove ricoprì l’incari-
co di assessore al Personale, ottenne la delega all’istruzione nel 1957 e dal 1951 al 1960, anno in cui
tornò a ricoprire un incarico presso il Comune del capoluogo, fu Vice-Presidente della Provincia di
Modena (sotto la presidenza del socialista Bertelli). Come assessore comunale e provinciale si occupò
della nascita del primo Villaggio Artigiano alla Madonnina, fu attento alla formazione professionale
(l’istituto tecnico Enrico Fermi nacque nel 1957), all’edilizia scolastica, alle fonti energetiche, con la
nascita del Consorzio per la distribuzione del gas metano, all’autonomia delle istituzioni locali e alla
finanza locale, cercando di creare un sistema tributario più equo.
Nel 1962 succedette a Corassori alla carica di sindaco di Modena, carica che occupò fino al 1972. Du-
rante il suo incarico si trovò ad affrontare la trasformazione della città, dei suoi abitanti e a gestire il
ricambio della classe dirigente. Come sindaco si dedicò al potenziamento della scuola pubblica e della
cultura (ad esempio attraverso il Festival nazionale del libro economico), all’edilizia popolare, all’ap-
plicazione del Piano Regolatore (approvato nel 1953), alla costruzione di due nuovi villaggi artigiani
(a Modena Est e ai Torrazzi) e all’aumento dell’autonomia dei poteri locali per colmare i vuoti degli
altri livelli istituzionali. In generale, la sua amministrazione fu caratterizzata dall’attenzione per i di-
ritti di cittadinanza dei cittadini, attraverso un potenziamento dei servizi sociali a favore delle nuove
generazioni e dell’aumento di madri lavoratrici, con l’apertura di asili nido e scuole dell’infanzia, de-
gli anziani, attraverso il potenziamento dell’assistenza domiciliare e la creazione di spazi per la socia-
lizzazione (polisportive), e, infine, dell’intera cittadinanza grazie all’apertura del Policlinico nel 1964
e al potenziamento della rete di medicina preventiva.
Presidente dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) dal 1962 al 1972, nel 1972 fu eletto
alla Camera, e rimase deputato per quattro legislature (fino al 1987), durante le quali fu membro delle
Commissioni Bilancio e Finanze e Tesoro e, dal 1983 al 1987, questore della Camera (nello stesso
periodo in cui Silvio Miana ricoprì la stessa carica al Senato).
Dopo la conclusione dei suoi incarichi parlamentari fu presidente di Federambiente (1987-1993),
membro degli organi dirigenti dell’ANPI provinciale di Modena e della redazione di Resistenza Oggi
(Taurasi, 2004; Giuntini - Muzzioli, 2010; http://www.anpi.it/donne-e-uomini/rubes-triva/).
74 Marcello “Mirko” Sighinolfi (Nonantola, 1923 - Modena, 2009). Di famiglia operai e bracciantile,
dopo un apprendistato come operaio metalmeccanico nel 1943 fu arruolato nella Marina Militare.
Dopo l’8 settembre fece ritorno in Emilia ed entrò a far parte della 65a Brigata Garibaldi GAP “W.
Tabacchi” e, sempre durante la guerra, aderì al PCI. Nel dopoguerra fu dirigente dell’ANPI modenese
e fu eletto nella segreteria della Camera del Lavoro di Modena, partecipando al primo Congresso della
CGIL di Modena dopo la scissione. Trasferito in Puglia nel 1951, l’anno seguente fu segretario della
Camera del Lavoro di Bari, prima di diventare, nel 1956, vice-segretario organizzativo della CGIL
nazionale (carica che mantenne fino al 1966).
Segretario della CGIL dell’Emilia-Romagna e della Camera del Lavoro di Bologna fino alla fine degli
anni Settanta, successivamente si ritirò dalla vita pubblica ma continuò a collaborare con l’ANPI mo-
denese (di cui fu anche presidente) e con l’Istituto Storico di Modena (ANPI provinciale di Modena,
2009).

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ra del Lavoro di Castelfranco alla Federmezzadri di Modena, mi mandano a fare la prima as-
semblea di mezzadri a Concordia, con uno di questi motorini, un 125. Arrivo là in questo tea-
tro pieno, perché allora le riunioni si facevano nei teatri, e mi metto ad ascoltare, perché poi
alla fine dovevo parlare. Non è che si andava lì e si ascoltava soltanto, si doveva parlare per-
ché volevano che si raccontasse che cosa si diceva a Modena, eccetera, eccetera… Allora,
parlavano della ripartizione dei prodotti, di questa storia che il padrone non voleva concedere
l’allevamento familiare dei roi …

Cosa sono i roi?


Eh, cosa sono i roi? Me lo chiedevo anch’io, non sapevo cosa dire e allora ero lì con il segre-
tario della Camera del Lavoro di Concordia e gli chiedo: «Senti, io vengo dal bolognese, da
Castelfranco (allora c’erano delle varianti tra i capitolati delle diverse zone), cos’éin75 i roi?»
Quello mi guarda e mi risponde: «Come cos’éin i roi? Sono i maiali!»
Ecco, succedevano anche queste cose.

Cosa intendi per nuova partita?


Sempre nel 1950 entro a far parte anche del Comitato Federale della Federazione del PCI: si
trattava di un organismo più largo e rappresentativo del territorio, poi c’era la Direzione che
era invece un organismo più intermedio e poi una Segreteria operativa più ristretta. In quel
periodo mi mandano ad affiancare Walter Losi76, presidente della Lega delle Cooperative di
Modena e rimango alla Lega Cooperative per due anni, sempre come vice-presidente.

75 “Cosa sono”.
76Walter Losi (Soliera, 1908 - Soliera, 1988) nacque in una famiglia socialista; il padre, barbiere, era
membro del Consiglio Comunale. In gioventù subì alcune aggressioni da parte dei fascisti durante il
cosiddetto “Biennio Nero”, fino a quando nell’aprile del 1932 fu fermato e poi ammonito per la sua
adesione al PCI. Ricevuta l’amnistia per il decennale della marcia su Roma, mantenne un comporta-
mento prudente, tanto che nel 1935 fu radiato dall’elenco degli schedati. Accusato di possesso illegale
di armi nel novembre del 1936, nonostante l’esito negativo della perquisizione, fu vigilato fino al
1942. Dopo l’8 settembre partecipò alla Resistenza come membro della Brigata “Diavolo” e del Co-
mitato di Liberazione Nazionale di Soliera. Nel dopoguerra fu eletto come consigliere e assessore nel
comune di Soliera, dove rimase per tre mandati consecutivi. Dal 1949 al 1957 fu presidente della Fe-
derazione Provinciale Cooperative e Mutue di Modena (Losi - Montella - Silingardi, 2012).

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Successivamente, fra il ’54 e il ’55, sono inviato alla scuola di partito conosciuta come la
scuola delle Frattocchie77, a un corso di tre mesi.

Com’erano le Frattocchie?
Le Frattocchie erano un bello stabile costruito dalla Cooperativa muratori di Carpi sulle
prime colline romane, con delle sale spaziose, il ristorante e le camere da letto. I corsi erano
molto intensi e duravano tutta la giornata.

Cosa si studiava?
Intanto preciso che il corpo insegnati era composto anche da professori non comunisti. Il pro-
gramma di studi comprendeva fra le varie materie principalmente la storia, i problemi di eco-
nomia, di politica, di storia del movimento operaio, storia del socialismo e della nascita del
comunismo. C’erano anche conferenze e dibattiti sui temi importanti del momento. La scuola
non ti consentiva permessi per venire a casa, se non per motivi urgenti di famiglia, ma per-
mettevano alle mogli, o a uno dei tuoi familiari, di venirti a trovare. Infatti mia moglie, con
cui eravamo sposati già da quattro anni e con cui avevo già una figlia, Carla, di tre anni, fece
il viaggio insieme alla moglie del mio amico Liliano Famigli78, amato sindaco di Spilamberto
e assessore all’Istruzione al Comune di Modena. Anche lui ha avuto dei problemi con la Ma-
gistratura di allora.
Al rientro dalla scuola di partito vado a lavorare in Federazione come responsabile della
Commissione Agraria, perché allora c’erano le commissioni di lavoro che erano strumenti
della Direzione della Federazione. In quel periodo è in atto una fase di rinnovamento degli
organismi dirigenti della Federazione, e per gestire questo momento delicato la Direzione na-

77La scuola centrale del Partito Comunista Italiano per la formazione dei quadri dirigenti fu istituita a
Roma nel dicembre del 1944 e poco dopo si trasferì a Frattocchie, una frazione a una ventina di chi-
lometri di distanza dalla capitale. Rinominata Istituto Togliatti nel 1950 e, successivamente, Istituto di
studi comunisti Palmiro Togliatti, cessò la sua attività nel 1993.
78 Liliano Famigli (1921 - 1992) oltre al suo incarico come sindaco di Spilamberto, fu assessore all’i-
struzione del comune di Modena dal 1964 al 1980, riuscendo a realizzare un modello di scuola pub-
blica attenta ai bisogni dei cittadini e di alta qualità (modello apprezzato in Italia e all’estero), consi-
gliere provinciale e assessore all’ambiente tra il 1980 e il 1990, promuovendo un modello di tutela
ambientale (a lui si devono le casse d’espansione dei fiumi e l’istituzione dei parchi regionali nel-
l’Appennino) come parte integrante dell’economia e dello sviluppo sociale di un territorio (Guaraldi,
2009).

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zionale invia a Modena Giuseppe D’Alema79, il padre di Massimo, uomo colto e preparato
che introdurrà delle politiche innovative.
È un momento molto importante, perché si apre una fase di rinnovamento che non riguarderà
solo il gruppo dirigente della Federazione, ma anche il partito modenese nel suo insieme.
D’Alema rimane a Modena due anni, il tempo necessario per attuare un profondo ricambio,
con l’ingresso di figure giovani nei quadri non solo del partito, ma anche del sindacato. Il
Partito allora seguiva da vicino le faccende sindacali, naturalmente incidendo negativamente
sulla strategia unitaria della CGIL.
Questa processo di cambiamento andrà avanti fino alla metà del 1955, concludendosi con il
rientro a Roma di D’Alema, ma si pone il problema di un nuovo segretario della Federazione
e tra i vari candidati c’era anche il sottoscritto; alla fine, nel settembre del ’55, vengo nomina-
to, dal Comitato Federale, segretario della Federazione. Per me si apre un campo nuovo, mol-
to impegnativo per gli anni a venire.

Nel ’55, a ventotto anni, diventi Segretario del PCI a Modena, prima invece eri stato Segre-
tario della Camera del Lavoro di Castelfranco, della Federmezzadri e anche vice-presidente
della Lega delle Cooperative. Ho letto molte biografie, e questi passaggi, oltre che una cosa
molto comune, erano un valore aggiunto. Vorrei che mi parlassi di cosa ho significato per te:
ti aspettavi la nomina o è stata una doccia fredda?
Confesso che, ripensando a quel momento, non me lo aspettavo, anche perché in quel periodo
era molto impegnato nella Camera del Lavoro e nella Lega delle cooperative, diciamo che mi

79 Giuseppe D’Alema (Ravenna, 1915 - Roma, 1994). Figlio di un’antifascista, s’iscrisse al Partito
Comunista clandestino nel 1939. Dopo un incarico come dirigente della Federazione di Ravenna par-
tecipò alla Resistenza nel Ravennate, in Romagna e a Ferrara come organizzatore delle brigate parti-
giane, redattore di riviste clandestine e come responsabile del CUMER. Dopo la liberazione fu diri-
gente del PCI in Veneto, in Emilia Romagna e in Liguria fino all’elezione alla Camera dei Deputati
nel 1963. Durante la sua attività parlamentare, durata fino al 1983, fu presidente della Commissione
Finanze e Tesoro dal 1976 al 1979 (http://www.anpi.it/donne-e-uomini/giuseppe-dalema/).
Per quanto riguarda la sua esperienza a Modena, è necessario ricordare che dopo l’eccidio del 9 gen-
naio 1950 la Federazione modenese del PCI, durante la segreteria di Erasmo Silvestri, dovette affron-
tare gravi difficoltà dovute soprattutto, come avrebbe individuato poco tempo dopo lo stesso D’Ale-
ma, all’impreparazione di un partito (che aveva superato quota 80.000 iscritti) e della sua classe diri-
gente. Al suo arrivo a Modena come commissario alla fine del 1952, Giuseppe D’Alema individuò
immediatamente i tre maggiori problemi del partito modenese: l’impreparazione dei quadri dirigenti,
uno scarso livello politico e di elaborazione teorica, e, infine, l’eccessivo settarismo e isolamento so-
ciale. Gli obbiettivi della sua segreteria, durata fino alla metà del 1955, furono di aprire il partito alle
forze politiche vicine, agli intellettuali e al ceto medio, e di aumentare le capacità dei nuovi quadri
dirigenti (Bertucelli, 2004).

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è arrivata come una doccia semifredda, perché sono stato oggetto di varie consultazioni, per-
ché candidato non c’ero solo io, c’erano anche altri candidati, però il Comitato Federale, che
allora era l’organismo deputato alle decisioni più importanti, decise, mi piace ricordarlo,
all’unanimità che io dovevo andare a fare il segretario. Non c’è dubbio che i dieci anni tra il
’45 e il ’55 in campo sindacale e, contemporaneamente, sociale e politico nel PCI mi hanno
aiutato a capire da vicino le problematiche del mondo del lavoro della nostra terra e questo ha
concorso positivamente nella mia carriera politica.
Questi passaggi certamente non erano ricercati, questo ci tengo a dirlo, mi è sempre stato
proposto. Infatti, non appena D’Alema arriva a Modena, avviai un colloquio lunghissimo con
lui su tutte le criticità della complessa società di allora e sui problemi del Partito. Bisogna te-
ner conto che sono anche gli anni in cui si cominciano ad aprire nuove prospettive per uscire
dalla Guerra Fredda: basti pensare che a Modena la sinistra della Democrazia Cristiana, ca-
peggiata da Ermanno Gorrieri, con un gruppo di giovani, conduce la sua battaglia all’interno
della destra della Democrazia Cristiana e arriva a vincere il congresso! Un fatto impensabile
solo qualche anno prima. Questo apre nuove prospettive nei rapporti con il PCI, che a sua
volta apre un rinnovamento politico, ideale e organizzativo, non solo a Modena, ma in tutta
l’Emilia Romagna.

Vuoi parlarmi di cosa succede a Modena durante la tua segreteria?


Intanto mi piace ricordare che durante la mia segreteria nella provincia di Modena gli iscritti
al PCI toccano il numero di 85000. Poi bisogna tener presente il quadro complessivo in cui si
muoveva la nostra azione politica. Sono gli anni delle speranze di Kennedy, di Papa Giovanni
XXIII, del rapporto Chruščëv80. È un decennio in cui l’Italia esce dalla ricostruzione e si tro-
va ad affrontare le grandi trasformazioni economiche e sociali; trasformazioni che investono
la stessa strategia dei partiti, non solo quelli di sinistra, ma di tutti i partiti dell’arco costitu-
zionale. Posso citare il problema dell’industrializzazione, del passaggio dalla campagna alla

80Nel corso del XX° Congresso del PCUS, nel febbraio del 1956, il segretario del partito, Chruščëv,
denunciò in un rapporto i crimini di Stalin, avviando così il processo di destalinizzazione (chiusura
dei campi di concentramento, riabilitazione dei condannati). Questo rapporto aprì un grande dibattito
internazionale, anche in Italia: le riflessioni del segretario del PCI, Palmiro Togliatti, alla luce del rap-
porto di Chruščëv, sono contenute nell’intervista Nove domande sullo stalinismo rilasciata alla rivista
Nuovi Argomenti nel giugno del 1956 e nella relazione che presentò al Comitato centrale del PCI
(sempre nel giugno del ’56), relazione preparatoria all’VIII° Congresso del PCI, in cui avrebbe rilan-
ciato la strategia della “via italiana al socialismo” (Togliatti, 1986).

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città e dell’emigrazione dal sud verso il nord. Sono anni in cui si forma una nuova giovane
classe dirigente del PCI.
Anche sui temi internazionali si apre un dibattito che investe tutte le forze politiche, in parti-
colare la collocazione della sinistra a livello internazionale. L’intervento sovietico in Unghe-
ria81 apre un dibattito che coinvolge tutta la storia che fino a quel momento si conosceva:
l’invasione dei carri armati dell’Armata Rossa viene presentata come un intervento militare
teso a stroncare un colpo di stato di tipo reazionario, ma le cose non stavano così, perché, con
quell’intervento, si volle stroncare sul nascere una stagione di rinnovamento democratico nei
paesi del socialismo reale. Anche a Modena e in Emilia il dibattito investe non solo il gruppo
dirigente, ma anche gli iscritti e tutti gli schieramenti politici.
Sono anche gli anni della nascita e dell’affermazione del primo centrosinistra e quelli in cui
l’unità di azione fra socialisti e comunisti viene messa in crisi.
Quindi un Paese segnato da profonde tensioni, sia sul piano sindacale sia sul piano politico.
Tra l’altro questo avviene in un momento in cui è aperto un dibattito nel Partito sulle nuove
alleanze che bisogna portare avanti e su come gestire i rapporti col PSI, che non potevano e
non avrebbero dovuto essere di scontro ideologico, ma di strategie politiche rispetto alla si-
tuazione che si era venuta a creare in Italia e in Europa. Si comincia a discutere dei problemi
che riguardano non soltanto le trasformazioni economiche, ma anche l’occupazione, e la for-
mazione di un’industria, che si stava diffondendo non solo a Modena, ma anche in tutta
l’Emilia e in Italia. Si creano in questi anni le basi per i cosiddetti poli industriali di Sassuolo,
Mirandola, Carpi, Vignola e della montagna, che aveva come centro Pavullo. La creazione
dei poli di sviluppo è una caratteristica propria del mondo industriale, del mondo sindacale,
del mondo politico modenese: difficile trovare un’altra provincia in cui lo sviluppo non viene

81 Gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine ungheresi nell’ottobre del 1956 provocarono lo scio-
glimento del governo, la formazione di un esecutivo d’emergenza presieduto da Imre Nagy e l’arrivo
delle truppe sovietiche nel paese. Dopo un momento in cui sembrò possibile arrivare a una soluzione
pacifica (sull’esempio di quanto avvenuto poco prima in Polonia) nel novembre dello stesso anno le
truppe sovietiche attaccarono e stroncarono la rivoluzione; in seguito ci saranno numerose condanne a
morte, tra cui quella dello stesso Nagy. In Italia la posizione ufficiale del PCI fu quella di condannare
i rivoltosi ungheresi, etichettandoli come reazionari, e di difesa dell’intervento sovietico; questa posi-
zione attirò al partito comunista aspre critiche, anche dall’interno della sinistra e del movimento ope-
raio: dalla posizione ufficiale del partito si distaccarono la CGIL di Giuseppe Di Vittorio, numerosi
intellettuali vicini e iscritti al partito, che raccolsero la loro posizione nel Manifesto dei 101. La difesa
dell’intervento sovietico da parte del PCI segnò, di fatto, anche la fine del patto d’unità d’azione con
il partito socialista (Crainz, 1996).

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concentrato su un singolo tipo di industria o su un singolo territorio o comprensorio82. Di qui
nasce la politica dei comprensori, all interno della quale l’amministrazione provinciale inter-
viene con un ruolo nuovo rispetto a quelli assegnati dalla Costituzione, nel senso che la Pro-
vincia, dato che allora non avevamo le istituzioni regionali, assume una funzione importante
di coordinamento, anche per dotare il territorio provinciale di infrastrutture adeguate al nuovo
tipo di sviluppo. Ad esempio, a Modena nasce il primo quartiere dell’artigianato83, via via
verranno poi gli altri, e, in modi diversi, questo avviene anche nei luoghi che prima ho citato.
Su questi temi è stato scritto molto, anche a proposito dell’intervento delle partecipazioni sta-
tali a Modena: per esempio l’industria automobilistica aveva una crisi dopo l’altra, e la Mase-
rati si salva per l’intervento dell’azienda di stato che era preposta all’intervento di salvataggio
di quelle aziende84. Su questa politica c’è stata un’aspra critica da parte del Partito, per gli
interventi ritenuti non appropriati agli obiettivi dello sviluppo.

A proposito del Villaggi Artigiani è importante anche i ruolo dei lavoratori licenziati dalle
grandi industrie.
Molti di questi lavoratori disoccupati che vengono dalle Acciaierie Ferriere, dalla FIAT e dal-
le vecchie fabbriche, diventeranno i nuovi artigiani, i nuovi industriali. In provincia abbiamo
degli esempi di personaggi che sono ancora sulla breccia, che hanno cominciato con piccole

82 La caratteristica peculiare dello sviluppo industriale della provincia di Modena è la presenza e il


successo in uno stesso territorio di diversi poli di sviluppo: per definizione, infatti, un distretto indu-
striale è costituito da un insieme di imprese legate al medesimo processo produttivo e concentrate in
un determinato territorio. Invece nella provincia modenese si possono ricordare, solo per fare alcuni
esempi, il distretto biomedicale di Mirandola, quello ceramico di Sassuolo, quello meccanico di Mo-
dena e quello della maglieria a Carpi (Muzzioli, 1993).
83 Il primo Villaggio Artigiano nacque nel 1953 nel quartiere della Madonnina, grazie al sostegno del-
le istituzioni comunali (Bertucelli, 2001).
84 La Maserati, che nel 1971 era stata acquistata dalla casa francese Citroën, entrò in crisi nel 1975,
quando al calo del mercato dell’automobile si aggiunse la decisione della proprietà di affiancare alla
tradizionale produzione di vetture di lusso, la produzione di una vettura da gran turismo, assumendo
500 operai non specializzati. Dopo una dura vertenza sindacale si raggiunse l’accordo tra il sindacato,
gli enti locali e i nuovi proprietari per la salvaguardia dei posti di lavoro e la parziale riconversione
della Maserati. Gli acquirenti furono il costruttore De Tomaso e l’Ente gestioni e partecipazioni indu-
striali (GEPI, Società per le Gestioni e Partecipazioni Industriali), una società per azioni nata nel 1971
con capitale sottoscritto da IMI, IRI, EFIM e ENI (Finetti, 2001).
Non era la prima volta che per salvare un’azienda modenese era intervenuto un ente statale: nel 1965
l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano), una finanziaria pubblica preposta al salvataggio delle aziende in
difficoltà, era intervenuta per salvare le Acciaierie Ferriere (Finetti, 2001; Osti Guerrazzi - Silingardi,
2002).

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aziende artigianali che via via si sono sviluppate e sono diventate delle aziende con una di-
mensione a livello internazionale, sia sul piano dell’innovazione tecnologica, che della quali-
tà dei prodotti, oltre che sulla loro capacità di collocarli sui mercati internazionali, cito per
esempio la System di Fiorano e la Wam di Cavezzo, ma se ne possono citare decine di azien-
de di questo tipo nel nostro territorio. C’è anche lo sviluppo dell’industria di abbigliamento
nata con la diffusione del lavoro a domicilio, soprattutto nella zona di Carpi. In particolare
voglio ricordare che a Carpi partì la battaglia per la tutela dei diritti delle lavoratrici a domici-
lio, che vide fra le protagoniste l’amica Luciana Sgarbi85, la quale in parlamento si fece pro-
motrice del disegno di legge su quel tema, che si concluderà positivamente attorno agli anni
Settanta86.

Facciamo un passo indietro, hai accennato alla crisi polita che segue l’intervento sovietico
in Ungheria. A Modena come viene vissuto questo momento?
L’intervento sovietico in Ungheria provocò un profondo e diffuso turbamento sia nel PCI, che
negli altri partiti democratici. La linea prevalente del PCI fu quella di giustificare l’azione

85 Luciana Sgarbi (Soliera, 1930). Diplomata in dattilografia viene assunta dalla Camera del Lavoro di
Soliera dove, giovanissima, comincia la sua attività sindacale e politica, con l’iscrizione al PCI. Si
occupò dell’organizzazione delle mondine e, dopo aver scontato un periodo in carcere, nel 1953 si
trasferì a Roma per lavorare nella FGCI come vice-presidente della Commissione ragazze. Tornata a
Modena si occupò della FGCI e, fino al 1960, divenne una funzionaria per la Federbraccianti di Solie-
ra. Funzionaria dell’UDI (Unione Donne Italiane) tra il 1960 e il 1968, in quello stesso anno fu eletta
alla Camera per il PCI, dove rimase fino al 1976, occupandosi di lavoro a domicilio, delle madri lavo-
ratrici e della riforma del diritto di famiglia. Tra il 1974 e il 1976 fu vice-presidente della Commissio-
ne lavoro, assistenza e previdenza sociale, cooperazione (Bertucelli, 2004, pp.529 - 540)
86 Nel dopoguerra a Carpi erano già presenti 2500 lavoranti fisse a domicilio e altre 1500 erano saltua-
rie. Per il sindacato fu molto difficile raggiungere queste lavoratrici che, isolate, furono più soggette a
discriminazioni, anche salariali, all’instabilità del lavoro e alla mancanza di servizi sociali che potes-
sero aiutarle, come ad esempio gli asili nido. Le lavoratrici a domicilio, per la mancata applicazione
della legge 264 del 1958, non erano equiparate a lavoratrici in fabbrica, quindi il loro salario veniva
fissato unilateralmente dai committenti, senza contrattazione, ed erano prive di tutele previdenziali e
mutualistiche;inoltre erano costrette ad acquistare in proprio i macchinari, mentre i committenti si
limitavano a trovare mercato per la merce e a fornire la materia prima. A questa situazione i sindacati
e le lavoratrici reagirono con scioperi, repressi con multe, ma, per assistere a un aumento della mobili-
tazione, con scioperi e nascita di comitati di lavoratrici, si sarebbe dovuto aspettare almeno fino alla
fine degli anni Sessanta, dopo le lotte sociali del biennio 1968-69. Nel giugno del 1971 il sindacato,
nonostante le difficoltà di rapporto con le grandi aziende, lanciò una serie di trattative, appoggiato a
livello nazionale dall’interesse della sinistra e della DC per questa categoria di lavoratrici, per regola-
rizzarle dal punto di vista legislativo (con l’equiparazione del lavoro a domicilio a quello dipendente e
non più a quello artigiano) e contrattuale, con il controllo sindacale dei committenti e la regolarizza-
zione di salari e delle posizioni assistenziali e provvidenziali (Bertucelli, 2001; Finetti, 2001).
Rimando alla testimonianza di Agostino Rota, funzionario della Camera del Lavoro di Carpi per il
settore tessile e abbigliamento e successivamente segretario della Camera del Lavoro carpigiana (Ber-
tucelli, 2004, pp. 499-514).

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militare sovietica come tesa a stroncare un complotto reazionario delle forze imperialiste. A
Modena vi furono prese di posizione molto determinate contro l’intervento sovietico da parte
del circolo culturale Formiggini87, a cui appartenevano un folto gruppo d’intellettuali del PCI
e della sinistra. A queste si aggiunse anche un ordine del giorno della FGCI88 dello stesso te-
nore. La mia preoccupazione, come segretario del Partito a Modena, condivisa dalla maggio-
ranza del Comitato federale era quella di riuscire a mantenere prima di tutto l’unità del Parti-
to, basato su un profondo rinnovamento delle relazioni internazionali tese a conseguire la
piena autonomia dalla preponderanza politica sovietica, obiettivo che riuscì a ottenere Enrico
Berlinguer89 molti anni dopo. Questa linea fu alla base dell’ordine del giorno nel Consiglio
comunale di Modena a mia firma a nome del gruppo del PCI: un appello all’impegno di rin-

87Il circolo culturale Angelo Fortunato Formiggini, dedicato alla memoria dell’omonimo editore mo-
denese, morto suicida nel 1938 per protestare contro l’applicazione in Italia delle leggi razziali (Mon-
tecchi, 1997), fu fondato a Modena nel 1955 da parte di un gruppo di intellettuali di sinistra, sostenuti
dal PCI e dal PSI. Il circolo, che fu attivo fino alla fine degli anni Settanta, fu luogo di incontri, a cui
parteciparono personalità come Ernesto De Martino e Pier Paolo Pasolini, e sede di un laboratorio
culturale e politico. Il circolo, all’interno del quale fu attivo anche Albano Biondi, negli anni Sessanta
curò la pubblicazione di una rivista, Quaderni del Formiggini (Molinari, 2014).
88 La FGCI (Federazione Giovanile Comunista Italiana) nacque il 27 gennaio 1921, pochi giorni dopo
la nascita del Partito Comunista d’Italia, da una scissione con la Federazione Giovanile Socialista Ita-
liana. Ricostituita ufficialmente nel marzo del 1949, dopo l’esperienza del Fronte della Gioventù du-
rante la Resistenza, la FGCI intreccia la sua storia con quella del partito, seguendone picchi e momen-
ti di difficoltà, prendendo comunque parte alle grandi battaglie democratiche per il paese. Disciolta
nel dicembre 1990, la FGCI ebbe come illustri segretari nazionali, tra gli altri, Agostino Novella (futu-
ro segretario della CGIL), Enrico Berlinguer e Achille Occhetto (Berlinguer et alii, 1976).
89 Enrico Berlinguer (Sassari, 1922 - Padova, 1984). Iscritto alla facoltà di Giurisprudenza nel 1940,
nell’ottobre del 1943 s’iscrisse al Partito Comunista, diventando segretario della federazione giovani-
le. Arrestato nel gennaio del 1944, in seguito conobbe Togliatti a Salerno e iniziò a lavorare come
funzionare del movimento giovanile, fino a quando non entrò nel direttivo e nella segreteria del Fron-
te della Gioventù, unitario. Dopo lo scioglimento del Fronte e la costituzione della FGCI, Berlinguer
ne divenne il segretario generale nel 1949, carica che mantenne fino al 1955; dal 1950 al 1952 fu an-
che presidente della Federazione mondiale della gioventù democratica. Dopo il 1956 entrò nel Comi-
tato centrale del PCI, diresse la scuola di partito delle Frattocchie e, nel 1957, divenne vice-segretario
regionale della Sardegna. Nel 1958 entrò nell’ufficio di segreteria, sotto la direzione di Longo, e nel
1960 sostituì Amendola nell’incarico dell’organizzazione. Responsabile dell’Ufficio di segreteria fino
al 1966, quando Longo (succeduto a Togliatti) gli affidò l’incarico di rappresentare il PCI ai lavori
preparatori della conferenza internazionale dei partiti comunisti e operai. Nel 1968, dopo l’invasione
di Praga, Berlinguer al Cremlino sostenne la strategia delle “vie nazionali al socialismo”, che avrebbe
poi ripreso durante la stagione dell’Eurocomunismo.
Segretario del partito dal 1972 alla sua morte (causata da un malore durante un comizio), lanciò la
formula del “compromesso storico” (progressivo avvicinamento tra DC e PCI, grazie soprattutto agli
sforzi dei due segretari, rispettivamente Moro e Berlinguer), tramontata dopo la morte di Moro e le
scelte economiche dei suoi successori, e sostituita con la linea della “alternativa democratica” (Crave-
ri, 1988).

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novamento sociale e politico, ma anche un appello per lo sviluppo dell’autonomia dei partiti
comunisti dell’occidente90.

All’interno del partito c’erano anche delle posizioni più radicali?


Sì, dentro al partito modenese ci sono tutti gli intellettuali raccolti nel circolo culturale For-
miggini, che ha una grande funzione di rinnovamento culturale e politico. È proprio da questo
circolo che parte un appello per una condanna dell’intervento, e quindi la necessità di liberar-
si dall’ipoteca sovietica sui partiti comunisti dell’occidente e non solo sul PCI.
C’è anche una presa di posizione della Federazione Giovanile Comunista di Modena, che
condanna in modo aperto l’intervento sovietico. Allora nella FGCI c’era in formazione un
nuovo gruppo, che sarà poi il gruppo della Federazione di Emilio Debbi91, di Mario del Mon-

90 L’ordine del giorno firmato da Miana e da altri consiglieri del PCI (datato 30 ottobre 1956) fu letto
in apertura al Consiglio comunale del 3 novembre 1956, insieme alla mozione del gruppo socialista,
firmata da Umberto Zurlini (vd. nota seguente) e datata 29 ottobre 1956. L’ordine del giorno presenta-
to dal PCI, che esprimeva dolore per il sangue versato in Ungheria e un appello all’unità e alla pace
ma contemporaneamente sosteneva l’ipotesi che l’intervento sovietico fosse stato necessario per di-
fendere la democrazia da una controrivoluzione, fu poi ritirato durante l’aspro dibattito in Consiglio. I
comunisti votarono per la mozione presentata dai socialisti, con una riserva sul comma che riguardava
la condanna dell’intervento sovietico; la mozione del PSI fu approvata con 27 voti favorevoli su 46
presenti (si astennero i socialdemocratici, i democristiani e i missini). Durante il dibattito, che fu lun-
go e aspro, tanto da richiedere la riconvocazione del Consiglio, i comunisti e i socialisti, pur ricono-
scendo alcune profonde differenze per quanto riguardava l’interpretazione dei fatti d’Ungheria, ribadi-
rono la comune volontà di difendere l’unità fra i due partiti, e i socialisti, durante l’intervento di Zur-
lini, si rifiutarono di mettere sullo stesso piano fascismo e comunismo e dichiararono di non voler di-
ventare lo strumento attraverso il quale sconfiggere il Partito degli Operai (ASCMo, Mozione presen-
tata da un gruppo di Consiglieri (primo firmatario il consigliere Zurlini) sugli avvenimenti d’Unghe-
ria discussa dal Consiglio Comunale del 3 e 5 novembre 1956).

91 Emilio Debbi è stato segretario del PCI a Spilamberto (Mo) e membro del Consiglio regionale emi-
liano-romagnolo per la Ia legislatura (giugno 1970 - giugno 1975).

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te92, di Luciano Guerzoni93, di Lanfranco Turci94, di Renato Cocchi95 e di tanti altri che ven-
gono da quella FGCI e dal mondo culturale.
Si sta vivendo una stagione di intensi rapporti fra la Direzione nazionale del PCI e le federa-
zioni dell’Emilia Romagna, perché c’è un profondo fermento in tutto il Partito, e si parte da
qui per mettere sotto revisione anche i rapporti con le organizzazioni sindacali. È una stagio-
ne che vivo intensamente prima come segretario della federazione e poi come segretario re-
gionale nonché come membro della Direzione. Nasce in quegli anni la necessità di un sinda-
cato che caratterizzi in modo più aperto e preciso la propria autonomia. Esigenza, questa, che

92 Mario Del Monte (Modena, 1941 - Modena, 1994). Operaio, nel 1961 entrò nella Federazione Gio-
vanile Comunista di Modena, diventandone il segretario provinciale. Dopo il 1965 entrò in Consiglio
comunale, diventò segretario del Partito in città e membro della segretaria provinciale, diventandone
il segretario nel 1975. Sindaco di Modena dal 1980 al 1987, fu assessore regionale degli Affari legi-
slativi e generali e dal 1990 fino alla morte fu presidente della Lega Provinciale delle Cooperative e
Mutue di Modena (Franchini e Muzzioli, 2004).
93 Luciano Guerzoni (Modena, 1935). Operaio presso la FIAT e la Maserati, aderì da giovane al Parti-
to Comunista, di cui ricoprì incarichi direttivi; consigliere comunale e regionale (nel 1978), nel 1987
divenne presidente della Regione Emilia Romagna, incarico che ricoprì fino al 1990. Eletto al Senato
nel 1992 (XIa legislatura), rimase senatore fino al 2006 prima per il Partito dei Democratici della Sini-
stra poi con i Democratici di Sinistra. Dopo l’incarico al Senato, dove fu presidente della Commissio-
ne Parlamentare per le questioni regionali e vice-presidente della Commissione Parlamentare di in-
chiesta sulla cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti, è entrato nella presi-
denza nazionale dell’ANPI (http://www.lanostrastoria.regione,emilia-romagna.it)
94 Lanfranco Turci (Campogalliano, 1940). Iscritto alla FGCI di Modena, diventandone segretario
provinciale, dal 1960 al 1964 nella segreteria nazionale della FGCI a Roma, al suo ritorno a Modena
entrò nella segreteria provinciale del PCI. Nel 1970, dopo un incarico presso l’amministrazione pro-
vinciale, diventò consigliere regionale e assessore alla Sanità, mentre nel 1978, dopo la nomina a ca-
pogruppo del PCI nel Consiglio Regionale, fu eletto presidente della regione Emilia-Romagna, carica
che occupò fino al 1987. Presidente della Lega Nazionale Cooperative e Mutue dal 1987 al 1992, fu
eletto alla Camera dei Deputati nel 1992 con il Partito Democratico della Sinistra, dove rimase fino al
2001, quando fu eletto al Senato. Dopo aver abbandonato il partito nel 2006, nello stesso anno fu rie-
letto alla Camera per la lista “Rosa nel Pugno”, formata da socialisti e radicali (http://www.lanostra-
storia.regione,emilia-romagna.it).
95Renato Cocchi, eletto nel 1982 tra i membri del Comitato direttivo regionale del PCI dell’Emilia
Romagna, nell’aprile 1983 entrò nella Segreteria regionale. Consigliere regionale dal 1987 al 2000,
assessore alla Programmazione, Pianificazione, Ambiente dal 1993 al 1995, assessore al Turismo dal
1995 al 1996 e, infine, assessore al Territorio, Programmazione e Ambiente tra il 1996 e il 2000.

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investirà gli stessi rapporti tra sindacato e istituzioni, infatti, è proprio in quegli anni che
escono le politiche di programmazione economica del paese96.
Gli anni della mia segreteria sono anche segnati dai rapporti con Togliatti97, che si occupava
dell’Emilia in prima persona, così come se ne occupavano personalmente anche Luigi Lon-

96 La richiesta di una maggiore autonomia da parte del sindacato, che Musella definisce come richie-
sta di una «emancipazione dalla politica dei partiti» (Musella, 1994, p. 890), nasce da una riflessione
del segretario generale della CGIL, Giuseppe Di Vittorio, in seguito alle difficoltà incontrate dal sin-
dacato dopo la scissione del 1948, la sconfitta del 1955 nelle elezioni per il rinnovo delle commissioni
interne alla FIAT (con la CGIL che aveva perso la maggioranza) e in seguito all’invasione sovietica in
Ungheria, condannata dal sindacato. Durante l’VIII° Congresso del PCI (dicembre 1956, Roma) Di
Vittorio «sostenne la necessità che il partito liquidasse la teoria della cinghia di trasmissione» (Musel-
la, 1994, p. 891), che significava abbandonare la teoria che individuava nel sindacato (ma anche nel
movimento cooperativo) uno strumento di promozione del partito. Nonostante la morte del segretario,
gli sforzi per un profondo cambiamento del sindacato sono continuati anche con i suoi successori
(Musella, 1994).
97 Palmiro Togliatti (Genova, 1893 – Jalta, 1964). Figlio di due maestri elementari, s’iscrisse al Partito
Socialista nel 1914. Laureato in Giurisprudenza a Torino, dove conobbe Gramsci, partecipò alla Prima
Guerra Mondiale, e si avvicinò al marxismo grazie all’esperienza nel settimanale torinese Ordine
Nuovo. Partecipò alla fondazione del Partito Comunista d’Italia nel 1921, scrisse insieme a Gramsci le
“Tesi di Lione”, e, nel 1926 si trasferì a Mosca in qualità di rappresentante del partito italiano nel
Comintern. Nel 1927, dopo l’arresto di Gramsci, tornò in Francia e assunse la guida del partito. Dopo
l’avvento di Hitler fu richiamato in Russia (1934) ed entrò nella segreteria del Comintern, dove tenne
lezioni sul fascismo, che aveva studiato su suggerimento di Gramsci. Nel luglio del 1937 fu inviato in
Spagna come commissario politico e, successivamente, fu oggetto di una lunga inchiesta conclusa nel
1941 con l’allontanamento dal Comintern, allontanamento che durò fino all’invasione tedesca dell’U-
nione Sovietica. Rientrato in Italia nell’aprile del 1943 sostenne il governo di Badoglio e diffuse il suo
programma di accantonamento della questione istituzionale per favorire la lotta contro il fascismo (la
cosiddetta “Svolta di Salerno”, appoggiata anche da Stalin). Ministro della Giustizia con Parri e De
Gasperi, promulgò un’amnistia per favorire la riconciliazione nazionale, ma i suoi maggiori sforzi
furono indirizzati alla trasformazione del PCI in un partito di massa e ideologicamente pluralistico, il
“partito nuovo”, e alla creazione di una “democrazia progressiva” in cui i diritti politici si accompa-
gnassero a quelli sociali, principio che entrò anche nella Costituzione. Eletto nell’Assemblea Costi-
tuente, rimase in Parlamento fino alla sua morte, durante le prime quattro legislature. Dopo l’estro-
missione delle sinistre dal governo del 1947 e la sconfitta del Fronte Popolare Democratico nell’aprile
del 1948, fu colpito da un attentato nel luglio 1948, in seguito al quale l’Italia fu attraversata da scon-
tri e scioperi (che causarono la fine dell’esperienza della CGIL unitaria). Pur non rinunciando mai al
legame con l’URSS e il PCUS, nemmeno in seguito all’invasione d’Ungheria, durante il XX° Con-
gresso del partito sovietico (febbraio 1956) e l’VIII° Congresso del PCI (dicembre 1956) espose le
sue tesi delle “vie nazionali al socialismo” e della “coesistenza pacifica” fra le nazioni, tesi che saran-
no riprese e sviluppate dai suoi successori (http://www.anpi.it/donne-e-uomini/palmiro-togliatti/)

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go98 e Giorgio Amendola99. Eravamo in una folta schiera ad avere rapporti con Amendola,
che rappresentava l’ala innovatrice del PCI.
Insomma, io questo partito imparo a conoscerlo un po’ meglio in alcune occasioni, come
quella ad esempio della partecipazione come uno dei delegati modenesi al VII° Congresso del
PCI, che si svolge a Roma nell’aprile del ’51 all’Adriano (data della nascita di mia figlia Car-
la), ma il congresso più importante in quel momento storico sarà l’VIII°, che qualcuno chia-
mò “il congresso della svolta”, perché in quel contesto si affermarono i nuovi principi del PCI
in Italia100.

98 Luigi Longo (Alessandria, 1900 – Roma, 1980). Di famiglia contadina, s’iscrisse alla facoltà d’in-
gegneria, ma nel 1917 fu richiamato alle armi dopo la sconfitta di Caporetto. Dopo la fine del servizio
militare (1920) rientrò a Torino dove s’iscrisse prima alla Federazione Giovanile Socialista poi, dopo
l’adesione al Partito Comunista, alla Federazione Giovanile Comunista Italiana, dove entrò a far parte
del Comitato centrale. Arrestato nel 1923 e rilasciato l’anno seguente, nel 1927, dopo essersi trasferito
a Parigi, entrò nella segreteria del partito. Dopo un’esperienza in Svizzera come insegnante presso una
scuola per quadri, fu posto a capo dell’organizzazione del partito nel 1930 e ne divenne il rappresenta-
te presso l’Internazionale. Ispettore generale di tutte le brigate internazionali durante la guerra civile
in Spagna, al suo rientro in Francia fu arrestato, consegnato alle autorità italiane e mandato in confino.
Dopo la caduta del fascismo andò a Milano dove, una volta entrato nel CLNAI, divenne comandante
delle brigate d’assalto Garibaldi e vice-comandante dal Corpo Volontari della Libertà. Membro della
Costituente e costantemente eletto alla Camera dei deputati fino alla sua morte, fu stretto collaborato-
re di Togliatti, anche se più volte gli era stato proposto di prenderne il posto. Membro del neoformato
Cominform, sostenitore dell’intervento sovietico in Ungheria, nel 1964 sostituì Togliatti alla segrete-
ria del partito. La sua segreteria, durata fino al 1972 con l’elezione di Berlinguer che lo affiancava dal
1968, fu caratterizzata dai primi tentativi di distacco dall’URSS, come ad esempio la condanna del-
l’intervento in Cecoslovacchia e l’avvio dei contatti con i socialdemocratici europei (Sircana, 2005).
99 Giorgio Amendola (Roma, 1907 - Roma, 1980). Figlio di Giovanni, che prima di morire nel 1926
era diventato il capo dell’opposizione costituzionale al fascismo, si avvicinò precocemente all’antifa-
scismo e nel 1929 si iscrisse al Partito Comunista d’Italia. Assunta nel 1930 la direzione della Federa-
zione di Napoli, città dove si era trasferito in seguito alla morte del padre, nel 1932 fu arrestato ma
poté beneficiare dell’amnistia per il decennale della marcia su Roma, anche se rimase al confino fino
al 1937, anno in cui si trasferì in Francia, dove ricoprì diversi incarichi per il partito. Dopo lo scoppio
della guerra diventò uno dei responsabili del partito e fu il principale artefice del patto d’unità d’azio-
ne tra il PCd’I, il PSI e Giustizia e Libertà. Rientrato clandestinamente in Italia, dopo l’armistizio en-
trò nel Comitato esecutivo e nella giunta militare del CLN di Roma, partecipando e autorizzando a
numerose azioni militari nella capitale e nel Nord Italia. Sottosegretario della Presidenza del Consi-
glio dopo la fine del conflitto, fu eletto nella Costituente e nel 1947 (rimase in Parlamento fino alla
sua morte, avvenuta durante l’VIIIa legislatura) diventò segretario regionale del PCI in Campania,
Molise e Lucania, nel 1955 entrò nella segreteria del partito e fu deputato europeo dal 1969 (Fatica,
1988)
100 L’VIII° Congresso del PCI, tenuto a Roma nel dicembre 1956, si tenne in seguito al XX° Congres-
so del PCUS, il partito comunista sovietico, in cui il nuovo segretario, Nikita Chruščëv, denunciò i
crimini del suo predecessore, Stalin. Durante il congresso il segretario del PCI, Palmiro Togliatti,
espresse la teoria della “via italiana al socialismo”, cioè la necessità per l’Italia, come per gli altri
paesi, date le sue caratteristiche, diverse da quelle dell’Unione Sovietica, di giungere al socialismo
attraverso il rafforzamento della democrazia; l’Unione Sovietica doveva restare il modello di riferi-
mento, ma senza copiarne acriticamente lo sviluppo.

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Le profonde trasformazioni del paese investono tutte le forze politiche: nella Democrazia
Cristiana si fa strada e si afferma tutta la linea “morotea” che faceva capo a Moro101; nel Par-
tito Socialista ci sono varie fasi, si passa da De Martino102 a Craxi103. È un periodo storico
molto importante per il nostro Paese, in cui emergono i problemi dell’attuazione della Costi-

101 Aldo Moro (Maglie, 1916 - Roma, 1978). Nato in una famiglia piccolo borghese toscana, s’iscrisse
alla facoltà di Giurisprudenza a Bari e si avvicinò alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana
(FUCI), di cui divenne presidente nazionale nel 1939, dopo aver partecipato ad alcuni Littoriali della
cultura. Dopo la laurea cominciò la carriera come docente universitario e s’iscrisse alla DC nel 1945,
risultando eletto, l’anno seguente all’Assemblea Costituente. Presidente del Movimento dei Laureati
Cattolici dal 1945 al 1948, nel 1947 divenne vice-presidente del gruppo parlamentare. Vicino al grup-
po di Giuseppe Dossetti e attento alla “questione sociale”, fu sottosegretario agli Affari Esteri dal
1948 al 1950 (governo De Gasperi), presidente del gruppo dei deputati della DC dal 1953 al 1957 e
divenne un membro del Consiglio nazionale. Ministro di Grazia e Giustizia nel 1955 (governo Segni),
ministro della Pubblica Istruzione nel 1957 e nel 1958 (governi Zoli e Fanfani), nel 1959 fu eletto se-
gretario della DC. Presidente del Consiglio una prima volta nel 1963 (lo sarebbe stato per cinque volte
dal 1963 al 1976, con un’interruzione tra il 1968 al 1974), assunse poi la leadership della sinistra del
partito. Ministro degli Esteri dal 1969 al 1974 (governi Rumor e Colombo, ma non con Andreotti),
successivamente fu regista dei contatti tra il PCI e il DC, che portarono all’astensione del PCI per la
formazione di un governo monocolore DC presieduto da Andreotti. Sul punto di realizzare l’ingresso
del PCI di Berlinguer nella maggioranza di governo, Moro fu rapito dalle Brigate Rosse e, dopo 55
giorni di prigionia, assassinato (Craveri, 2012).
102Francesco De Martino (Napoli, 1907 - Napoli, 2002). Laureato in Giurisprudenza e docente uni-
versitario, nel 1943 s’iscrisse al Partito d’Azione, salvo poi entrare a far parte del Partito Socialista nel
1945, di cui fu più volte segretario nazionale (dal 1963 al 1968, dal 1969 al 1970 e di nuovo dal 1972)
fino al 1976, quando, favorevole a un riavvicinamento al PCI, fu sostituito da Bettino Craxi. Deputato
dal 1948 al 1983, fu segretario della Commissione Finanze e Tesoro e più volte vice-presidente del
consiglio con i governi Rumor e Colombo. Senatore dal 1983 al 1987, in seguito rinunciò alla candi-
datura in Parlamento essendo in posizione di minoranza nel partito. Nominato senatore a vita, si avvi-
cinò ai Democratici di Sinistra (Biagini, 1978).
103 Benedetto Craxi (Milano, 1934 - Hammamet, 2000). Figlio di un militante socialista, s’iscrisse al
partito nel 1952, svolgendo la prima attività politica all’Università di Milano. Dopo un periodo tra-
scorso nell’Unione Goliardica Italiana, nel 1960 tornò al partito, dove fu responsabile per i comuni
dell’area metropolitana di Milano e partecipò alla vita amministrativa del capoluogo. Eletto alla Ca-
mera nel 1968, profondamente autonomista, segretario del PSI nel 1976, nel 1983 diventò presidente
del Consiglio, dopo essersi avvicinato ad Andreotti. Dopo un rimpasto di governo nel 1986, data la
crisi fra Craxi e il nuovo segretario della DC, Romita, furono sciolte le Camere. Dopo l’arresto del
socialista Mario Chiesa e lo scoppio di “Tangentopoli” nel 1993 Craxi si dimise dalla presidenza del
partito e nel 1994 si auto-esiliò a Hammamet, in Tunisia, mentre in Italia fu condannato numerose
volte per tangenti e corruzione (Musella, 2015).

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tuzione104, anche sul piano istituzionale, dove il primo problema era quello delle Regioni, che
verranno poi create negli anni Settanta105. La costituzione delle regioni rappresenta una con-
quista molto importante e corrisponde agli anni in cui c’è un abbattimento delle barriere ideo-
logiche che dividevano il PCI e che avevano diviso il PCI da tante forze di sinistra, laiche e
cattoliche. A Modena ci sarà una forte partecipazione per la stesura dello statuto della Regio-
ne, che dovrà configurare il nuovo stato repubblicano.
Tornando a Modena, mi preme sottolineare alcune conquiste importanti, come quella di esse-
re riusciti a mantenere dei rapporti sempre aperti e unitari con il PSI durante tutto il periodo
del centrosinistra, e questo lo si deve, anche e soprattutto, ad alcuni uomini del Partito Socia-
lista molto impegnati nella politica unitaria a livello di enti locali e regionali e delle organiz-
zazioni sindacali e sociali. Potrei citare per tutti Zurlini106.
L’altra è che, a partire dalla Resistenza, si è andato formando un nuovo gruppo dirigente di
sinistra nella Democrazia Cristiana cresciuto a fianco di Gorrieri, che si è manifestato durante

104 Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, avvenuta il 1° gennaio 1948, in seguito all’espulsione
delle sinistre dal governo, subentrò il problema della mancata applicazione di alcuni dei principi costi-
tuzionali da parte del governo; alcuni esempi possono essere il ricorso, per la gestione dell’ordine
pubblico, al Testo Unico di Pubblica Sicurezza emanato dal regime fascista nel 1931, il mancato ri-
spetto delle libertà sindacali e la mancata istituzione delle Regioni (le Regioni a statuto ordinario sa-
rebbero state istituite, dopo lunghe discussioni, solo nel 1970). L’esigenza, per i governi centristi, era
quella di difendere la democrazia italiana da quelle forze ritenute ostili e antidemocratiche, come ad
esempio il PCI e la CGIL, accusati, soprattutto il primo, di “doppiezza” per il legame con l’URSS;
non potendo, e volendo, mettere fuori legge il Partito Comunista (nonostante le pressioni da parte de-
gli statunitensi), il governo cercò di limitare il loro spazio d’azione. Per questo periodo storico, che si
può far corrispondere alla prima stagione centrista (1947 -1958 o, formalmente, 1963), gli storici han-
no parlato di “democrazia protetta” o “democrazia limitata” e di applicazione formale, e non materia-
le, della Costituzione.
105Le regioni a statuto ordinario entrarono pienamente in funzione solamente nel 1970 con le prime
elezioni dei Consigli regionali e l’approvazione degli statuti (maggio 1971), nonostante l’ordinamento
regionale fosse previsto entro un anno dall’entrata in vigore della Costituzione. Questo ritardo fu cau-
sato, soprattutto, dalla visione accentratrice della Democrazia Cristiana e dal timore di una vittoria
delle sinistre nelle “regioni rosse” del centro Italia, che avrebbe sottratto queste zone al suo controllo;
per questo motivo la strategia adottata dai dirigenti democristiani fu quella di rimandare e posticipare
l’applicazione della VIIIa disposizione transitoria della Costituzione, che riguardava l’elezione dei
consigli regionali. La situazione cambiò con l’esperienza dei primi governi di centro-sinistra e con i
primi governi Moro: nel febbraio 1968 fu approvato il decreto legislativo n° 108, “Norme per la ele-
zione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto normale” (Strazza, 2008)
106 Umberto Zurlini (Modena, 1922 - 1968). Deputato per il PSI tra il 1958 e il 1963 e di nuovo, que-
sta volta con il PSIUP (Partito Socialista d’Unità Proletaria) dal giugno 1968 fino alla morte, nell’a-
gosto dello stesso anno. Zurlini, in veste di consigliere comunale, presentò una mozione (vd. nota pre-
cedente) riguardante i fatti d’Ungheria presso il Consiglio comunale di Modena nel novembre 1956
(ASCMo, Mozione presentata da un gruppo di Consiglieri (primo firmatario il consigliere Zurlini)
sugli avvenimenti d’Ungheria discussa dal Consiglio Comunale del 3 e 5 novembre 1956).

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tutto il corso degli anni attraverso il forte impegno che mette nella creazione della CISL107,
che sarà un nuovo sindacato che nasce dalla scissione con la CGIL, e di un’organizzazione
delle cooperative, che allora si chiamavano cooperative bianche108, oltre all’impegno profuso
nell’attività sociale fino alla formazione del PDS.
Da qui nasce la necessità di andare a un confronto, che vada oltre ai rapporti personali, sia a
livello politico che a livello di enti locali, fra il PCI, che era il partito di governo di gran parte
della provincia, e la nuova DC di Gorrieri. Il primo incontro, tra due delegazioni molto ri-
strette, di tre o quattro persone, lo si fa fuori Modena, in una trattoria di Magreta che era stata
un punto d’incontro anche durante la Resistenza. Ci si confronta attraverso un dibattito sui
problemi della politica internazionale, le concezioni della democrazia e dello stato repubbli-
cano, che evidenziava posizioni diverse e, per il momento, insuperabili. Si fece una lista dei
problemi sui quali si poteva giungere a una qualche forma di collaborazione sia a livello di
comuni che di provincia, oltre che nei rapporti tra le diverse organizzazioni sociali, tra la
CISL e la CGIL e così via. Questo incontro permette poi di andare a un confronto “pubblico”,
che si terrà nella sede della DC in piazza Sant’Agostino, dove due delegazioni al completo
s’incontrano per gettare le basi di una possibile collaborazione nella ricerca di soluzioni per i
problemi di Modena, dell’Emilia e del Paese. E da questo momento si portò avanti una politi-
ca di normalizzazione dei rapporti, senza più lo scontro ideologico, perché siamo all’inizio di
un profondo rinnovamento sia nel PCI che nella DC. Mentre, al contrario, si mostrò più tra-
vagliata la situazione interna al PSI, dove risultava sempre più difficile trovare una propria
collocazione autonoma nell’ambito del centrosinistra.

Cos’è venuto fuori dal primo incontro pubblico fra le Democrazia Cristiana e il PCI?
Molti temi, un confronto ampio e intenso, ma anche duro. Te ne dico una: è emersa la neces-
sità di aprire un confronto che non fosse scontro, uno scontro nel confronto, per innovare le
politiche a livello dei comuni e degli enti territoriali. Su questi temi che riguardavano le pro-

107 Nell’ottobre del 1948 si costituì a Modena l’Unione provinciale dei Sindacati indipendenti, aderen-
te alla LGCIL (Libera confederazione generale italiana del lavoro), mentre nel maggio del 1950 si
formò l’Unione provinciale della CISL, con segretario Ermanno Gorrieri (Osti Guerrazzi - Silingardi,
2002).
108
L’Unione Cooperative di Modena, aderente alla cattolica Confederazione Cooperative Italiane
(CCI), nacque nel 1948, in seguito alle scissioni successive all’attentato a Togliatti (luglio 1948).

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spettive dello sviluppo economico c’era una discussione aperta. Ti riporto due casi emblema-
tici. Del primo abbiamo già parlato, cioè del fatto che la DC di Modena attraverso il senatore
Medici, allora ministro dell’Agricoltura, presentò una serie di politiche per la montagna, che
metteva al centro lo sfruttamento delle risorse idriche per il nostro Appennino. Quindi, la DC
portò avanti una battaglia per l’approvazione di una legge che prevedesse l’erogazione di
contributi ai comuni e successivamente interverranno anche le Regioni con proprio finanzia-
menti per la realizzazione dei laghetti collinari. La DC di Gorrieri si impegnò con grande
convinzione, mentre le sinistre a Modena avevano molte perplessità sull’uso del denaro per
queste cose. L’altro caso, anche questo oggetto di una discussione molto importante, riguar-
dava l’individuazione degli interventi utili a favorire la nascita di nuove industrie: ad esempio
la DC, che allora aveva in mano il comune di San Felice, voleva fare un polo per l’industria-
lizzazione proprio in quella zona, la cosiddetta “Bassa” modenese, con il Comune che doveva
mettere a disposizione gratuitamente le aree fabbricabili e le infrastrutture adatte all’insedia-
mento delle industrie. La politica che invece decidemmo di portare avanti a Modena si con-
cretizzò con la nascita del primo Villaggio Artigiano con il sostegno del Comune, che ha fa-
vorito la nascita dell’insediamento portando in quella zona le strutture necessarie: l’acqua, la
luce e le strade. Su questi interventi si sviluppa un confronto che durerà negli anni, con l’ac-
cusa di un PCI molto legato ai temi dell’agricoltura e poco impegnato sul piano industriale.
Ci può essere qualcosa di vero, ma le cose non stavano proprio così, la stessa DC nelle cam-
pagne aveva la sua base elettorale soprattutto nei piccoli proprietari e nei coltivatori diretti
della famosa organizzazione bonomiana, la Coldiretti

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Prima di passare agli anni del Comitato regionale, vorrei chiederti come vengono vissuti a
Modena gli scontri contro il governo Tambroni109, alla luce soprattutto dei morti di Reggio
Emilia110.
Siamo nel luglio del 1960, un anno di grandi mobilitazioni antifasciste in tutto il paese contro
il governo Tambroni (che era sostenuto dal Movimento Sociale) e che si era distinto per le
risposte violente alla manifestazioni di piazza come testimoniano appunto i morti di Reggio
Emilia. La partecipazione ai funerali delle vittime fu talmente eccezionale da trasformarli in
una grande manifestazione contro l’eccidio e il Governo. A Modena c’era un clima di gran-
dissimo fermento con scioperi dichiarati nelle fabbriche, con assemblee e riunioni. E in città
ci fu una grossa manifestazione, soprattutto di giovani, contro il Governo Tambroni e gli ec-
cidi in atto, con un comizio nell’area del Tempio, vicino alla stazione ferroviaria, dato che la
Questura proibì l’uso di piazza Grande, di piazza Matteotti e di tutte le piazze centrali. Ci fu
davvero una straordinaria partecipazione da parte del mondo giovanile come dimostrano le
foto esposte nelle sedi locali del PCI. E l’oratore ufficiale fu Luciano Romagnoli.
Quel governo ebbe breve durata proprio grazie all’imponente mobilitazione di tutto il Paese e
si aprì una fase nuova che portò alla formazione del primo governo di centrosinistra111.

Quello scontro segna una svolta, un cambiamento dei rapporti con l’apparato dello Stato.

109 Nell’aprile del 1960 il democristiano Fernando Tambroni, dopo alcuni vani tentativi di apertura ai
socialisti, riuscì a ottenere la fiducia per il suo esecutivo monocolore, che necessitava però dei voti del
Movimento Sociale Italiano. La situazione esplose con lo sciopero generale indetto a Genova contro
la decisione del Movimento Sociale di svolgere il congresso nazionale in città; in rapida successione
scoppiarono disordini in diverse città, Roma, Licata, Reggio Emilia, Palermo e Catania, in cui si regi-
strarono morti e feriti tra i manifestanti. La CGIL in seguito ai morti di Reggio Emilia (vd. nota se-
guente) lanciò uno sciopero generale previsto per l’8 luglio, mentre CISL e UIL si tennero in disparte,
pur non appoggiando Tambroni. La situazione si risolse il 19 luglio quando, su pressioni di Aldo
Moro, Tambroni fu costretto a dimettersi, dando vita a un nuovo governo, il cosiddetto governo delle
“convergenze parallele”, che per la prima volta poté contare sull’astensione del Partito Socialista,
inaugurando in questo modo la stagione dei governi di centrosinistra (Loreto, 2009).
110Durante la manifestazione contro il governo Tambroni e il congresso del Movimento Sociale Ita-
liano, tenuta a Reggio Emilia il 7 luglio 1960, dopo che la CGIL locale aveva proclamato lo sciopero
generale, la polizia caricò e sparò contro i manifestanti causando 5 morti: Lauro Farioli (operaio, 22
anni), Ovidio Franchi (operaio, 19 anni), Marino Serri (pastore e partigiano, 41 anni), Afro Tondelli
(operaio e partigiano, 36 anni) e Emilio Reverberi (operaio e partigiano, 39 anni) (Loreto, 2009).
111 Il successore di Tambroni, Amintore Fanfani, formò due governi, nel 1960 e nel 1962, che, pur es-
sendo ancora monocolori DC, potevano contare, per la prima volta, sull’astensione da parte del PSI.
Il 4 dicembre del 1963, invece, Aldo Moro formò il primo governo di centro-sinistra “organico”, cioè
con la partecipazione attiva dei socialisti. Ad esempio, Pietro Nenni fu vice-presidente del Consiglio,
mentre Antonio Giolitti ministro del Bilancio.

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Sì, si cambiano questori, prefetti e anche il ministro dell’Interno112.
Ho sempre in mente un episodio di quell’estate: a me e Guido Fanti113, che era da poco il se-
gretario della Federazione di Bologna, viene proposto di andare a passare un periodo di ferie
ospiti del PCUS, del Partito Comunista Sovietico, prima a Mosca poi a Soči, sul mar Nero.
Noi ci eravamo illusi di riposarci e di goderci una bella vacanza al mare, invece ci ritroviamo
immersi in ben altre acque: saranno quindici giorni di discussione e di confronto a non finire
con i membri del PCUS, con i quali, diciamo così, non eravamo esattamente allineati! Il mat-
tino era libero, dedicato al mare, alle passeggiate, alle nuotate, invece il pomeriggio era con-
centrato nelle visite alle istituzioni locali, con incontri con i loro dirigenti locali. Fra questi ci
capitò di incontrare nientepodimeno che Chruščëv! Questi incontri erano mirati per cercare di
capire le strategie del PCI, soprattutto in relazione ai problemi internazionali, legati all’Euro-
pa e sui temi delle alleanze. Bisogna tener contro che il PCI, già allora, era il primo Partito
comunista d’Europa e in varie occasioni aveva marcato la propria autonomia. Erano discus-
sioni a non finire, tant’è che una mattina Fanti mi disse: «Io comincio a essere un po’ stanco,
che ne dici se ce ne torniamo a casa?».
Siamo nel ’62 quando mi chiamano a dirigere il Comitato regionale del PCI, tra l’altro in un
momento di rinnovamento delle strutture territoriali del PCI, perché c’era una richiesta di
maggiore autonomia da parte delle organizzazioni locali e periferiche. Si tratta di un dato ca-
ratterizzante che riguarda soprattutto l’Emilia nel corso degli anni Sessanta.
Lo stesso Comitato regionale dell’Emilia era molto ampio, e durante gli anni si è rinnovato,
sia nel numero dei componenti sia nell’organizzazione delle funzioni.
È importante ricordare che in quegli anni tra il ’58 e il ’62, si è andata formando una nuova
classe dirigente: i segretari di federazione che venivano dalla Resistenza vengono sostituiti

112 AlMinistero dell’Interno fu richiamato per un breve periodo, dopo gli scontri del luglio 1960, Ma-
rio Scelba (vd. nota precedente).
113 Guido Fanti (Bologna, 1925 - Bologna, 2012). Dopo aver collaborato con la Resistenza, nel 1945
s’iscrive al PCI; delegato al V° Congresso nazionale nel dicembre del 1945, successivamente entrò a
far parte della Federazione provinciale di Bologna. Alla fine del 1959 fu eletto segretario della Fede-
razione provinciale e regionale, nel 1960 entrò nel Comitato Centrale e nel 1965 nella Direzione na-
zionale del PCI. Sindaco di Bologna dal 1966 al 1970, nello stesso anno diventò il primo presidente
della neo-costituita regione Emilia Romagna, carica che occupò fino al 1976. Deputato dal 1976 al
1983 e senatore dal 1983 al 1987, dal 1979 al 1989 fece parte del Parlamento Europeo, diventandone
vice-presidente nel 1984 (Furlan, s.d.).

!129
dai trentenni in Romagna, a Piacenza, a Parma e a Reggio Emilia, che era una delle province
più travagliate da questo punto di vista.
Sono anni di profonde trasformazioni economico sociali e di sviluppo di un modello di capi-
talismo moderno, che ha visto in Italia la formazione delle Partecipazioni statali, come ad
esempio l’IRI, l’ENEL, l’ENI114 e della nostra piccola e media impresa soprattutto di caratte-
re artigianale, con l’espansione dell’intervento diretto dello Stato. In questa fase si aprono i
confronti sulle prospettive del Mezzogiorno e sulla necessità di una programmazione econo-
mica, che allora chiamavamo “democratica”.
In quel periodo il Partito aprì un confronto con il governo perché le Partecipazioni statali so-
stenessero anche le piccole e medie imprese e non solo le grandi aziende.
L’avvento delle regioni porta poi la nascita di altre strutture che, forse, oggi un esame un po’
più attento e più critico, dimostrerebbe che molte di queste sono ormai inutili e vanno supera-
te.
Era una situazione transitoria, si procedeva attraverso processi di rinnovamento che guarda-
vano avanti, alle nuove istituzioni e, come ho detto, alla sostituzione dei segretari delle fede-

114 Le Partecipazioni statali, cioè l’intervento dello Stato nell’attività economica attraverso il possesso
di partecipazioni azionarie in società private, si affermarono in Italia con il fascismo (l’IRI, infatti,
l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, nacque nel 1933 per evitare il fallimento delle banche poi,
in seguito, contribuì a salvare le industrie in difficoltà). Le Partecipazioni continuarono anche con la
nascita della Repubblica (il Ministero delle Partecipazioni Statali nacque nel 1956; l’ENI, Ente Na-
zionale Idrocarburi, fu fondata da Enrico Mattei nel 1953; l’ENEL, Ente Nazionale per l’Energia Elet-
trica, nacque nel 1962), e furono abolite con un referendum nel 1993.

!130
razioni: si cambia a Bologna con Fanti, ma anche a Ravenna con Sergio Cavina115, a Reggio
Emilia con Remo Salati116, a Ferrara con Piva117, a Forlì con Ceredi118 e così via.
Assumono nuovi poteri, di fatto, i Comitati regionali nella struttura di un PCI molto decentra-
to e su questo ci saranno parecchi discussioni che si trascineranno avanti negli anni, soprattut-
to dopo l’istituzione delle Regioni, quando si caratterizzerà meglio il ruolo dei Comitati re-
gionali.
In Emilia Romagna c’è un dibattito intenso e diffuso nel PCI a tutti i livelli, per il peso che la
nostra Regione ha assunto a livello nazionale, in virtù del forte radicamento del Partito. Per
questo la direzione togliattiana segue da vicino l’evoluzione del Partito in Emilia Romagna e
questa situazione è oggetto di un frequente scambio di idee tra me, Guido Fanti e Palmiro
Togliatti. Ricordo due episodi di quegli anni fra il ’61 e il ’63, in particolare una visita a To-
gliatti in ferie in Val d’Aosta, a Cogne, e un’altra volta quando, mentre io ero in ferie a Sesto-
la, in piena estate, venne a trovarmi Longo. Ricordo che andammo a pranzo a Pian del Falco,
perché Longo amava il “pranzo montanaro”, durante il quale cercai di spiegargli il quadro
della situazione in Emilia.
Sempre in quel periodo si apre una fase di confronto positivo con il Partito Repubblicano Ita-
liano, che era fortemente radicato in Romagna. Inizia un dialogo proficuo con il segretario

115 Sergio Cavina (Ravenna, 1929 - Bologna, 1977). Dopo aver aderito al PCI nel 1945 svolse attività
nel movimento studentesco, diventando, fino al 1951, segretario della FGCI provinciale di Ravenna.
Entrato nel Consiglio comunale della città romagnola nel 1956 (lo sarà fino al 1970), nel 1959 diventò
segretario della Federazione del PCI, carica che mantenne fino al 1965, quando fu eletto segretario
regionale del Partito Comunista dell’Emilia Romagna; contemporaneamente entrò nel Comitato cen-
trale e nella Direzione nazionale del partito. Consigliere regionale dal 1970 al 1976, in quello stesso
anno fu eletto presidente della Giunta Regionale dell’Emilia Romagna, carica che occupò fino al 1977
(http://www.lanostrastoria.regione.emilia-romagna.it).
116Remo Salati (Guastalla, 1921 - 2001). Antifascista, dopo la fine della guerra iniziò la militanza nel
PCI. Segretario del PCI di Reggio Emilia in occasione dell’eccidio del 7 luglio 1960, eletto senatore
nel 1963, dopo la fine del suo incarico parlamentare (IVa e Va legislatura) rimase a Roma, dove si oc-
cupò di questioni internazionali.
117Ismer Piva (Ferrara, 1921). Segretario della Federazione del PCI di Ferrara dal 1960 al 1967, nel
1966, durante l’XI° Congresso (Roma, gennaio 1966) entrò nel Comitato centrale del PCI. Eletto al
Senato nel 1968, vi rimase fino al 1976, ricoprendo anche la carica di vice-presidente della Commis-
sione permanente industria, commercio, turismo.
118
Giorgio Ceredi, segretario della Federazione del PCI di Forlì tra il 1961 e il 1969, fece parte della
Giunta regionale dell’Emilia Romagna tra il 1980 e il 1990.

!131
nazionale di allora, Oddo Biasini119, con il quale instaurammo un’amicizia tale per cui ci si
diceva tutto. Un rapporto che poi ritroverò anche più tardi, quando andrò alla Lega Nazionale
delle Cooperative, nei momenti di confronto con l’Associazione Generale delle Cooperati-
ve120.

Facciamo un passo indietro, cosa vi siete detti durante l’incontro con Togliatti a Cogne?
Togliatti voleva essere informato, poi io l’avevo già ricevuto due volte anche in Federazione
a Modena, quando era venuto a fare un comizio alla Festa dell’Unità, che si teneva nell’area
del piazzale della stazione delle corriere, poi è venuto altre volte, in visita o di passaggio
quando andava a Reggio Emilia con la Iotti121. A proposito della Iotti e del rinnovamento del
partito mi vengono in mente due episodi collegati fra loro perché si svolgono nella stessa
sera: siamo negli anni tra il ’62 e il ’63 e a Reggio Emilia un’ala del partito si rivolta contro il

119 Oddo Biasini (Cesena, 1917 - Cesena, 2009). Partigiano in una brigata composta da repubblicani,
consigliere comunale e assessore nel comune a Cesena, fu eletto alla Camera dei Deputati nel 1968,
dove rimase finto al 1987. Durante la sua carriera come parlamentare fu tre volte sottosegretario all’I-
struzione, nei governi Rumor e Colombo, segretario del Partito Repubblicano Italiano dal 1975 al
1979, ministro dei Beni Culturali e Ambientali con Cossiga e Forlani (dal 1980 al 1981) e vice-presi-
dente della Camera tra il 1983 e il 1987 (http://www.anpi.it/donne-e-uomini/oddo-biasini/).
120L’associazione Generale delle Cooperative Italiane (AGCI), nacque da un’iniziativa del gruppo di
ispirazione repubblicana, liberale e socialdemocratica che decise, nell’ottobre del 1952, di distaccarsi
dalla Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue. Il primo presidente fu Meuccio Ruini (Fabbri,
2011).
121 Leonilde (Nilde) Iotti (Reggio Emilia, 1920 - Roma, 1999). Figlia di un ferroviere socialista e di
una casalinga cattolica s’iscrive, grazie a una borsa di studio alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’U-
niversità Cattolica di Milano; laureata nel 1942 tornò a Reggio Emilia dove cominciò la carriera di
insegnante. Durante la Resistenza s’impegnò nei Gruppi di difesa della donna, tanto da diventare, nel
1945, segretaria provinciale dell’Unione Donne Italiane di Reggio Emilia. Avvicinatasi al PCI fu elet-
ta prima come indipendente al Consiglio comunale di Reggio Emilia, poi, dopo essersi iscritta al PCI,
all’Assemblea Costituente. Nello stesso anno iniziò una relazione con Palmiro Togliatti, già sposato,
che durò fino alla morte del segretario del Partito Comunista (1964), relazione che attirerà molte criti-
che interne dal partito; con Togliatti, in seguito alla strage delle Fonderie Riunite (vd. nota
precedente), adottò la sorella di uno dei caduti.
Entrata alla Camera con la Ia legislatura, vi resterà ininterrottamente fino alla dimissioni nel 1999
(XIIIa legislatura). Durante la sua lunga attività parlamentare si occuperà di tematiche inerenti la fa-
miglia e il ruolo della donna nel nuovo stato repubblicano, dell’introduzione e della difesa del divor-
zio, della riforma del diritto di famiglia, dell’approvazione di una legge sull’aborto; oltre a questi temi
fece parte della Commissione Affari Esteri e degli Affari Costituzionali.
Entrò nel Comitato centrale del PCI nel 1956 e nel 1962 nella Direzione nazionale (quando già diri-
geva la sezione femminile del partito), deputata al Parlamento Europeo dal 1969 al 1979, vice-presi-
dente della Camera nel 1972 e, in seguito, divenne il primo presidente donna della Camera dei Depu-
tati, carica che occupò per tre legislature dal 20 giungo 1979 al 22 aprile 1992. Durante la crisi di go-
verno del 1987 ottenne dal presidente della Repubblica, Cossiga, un incarico esplorativo per risolvere
la crisi senza ricorrere alle elezioni anticipate, ma l’incarico si concluse senza esiti (Sircana, 2004).

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succedersi della candidatura in Parlamento della Iotti, perché non è un buon esempio per il
paese a causa del fatto che convive, allora si diceva “che si era accompagnata”, con Togliatti.
Nilde Iotti fu eletta a Modena alla Camera e va ad affrontare, dopo le elezioni, una conferen-
za al teatro comunale di Reggio Emilia. In un teatro gremito affrontò il tema del divorzio in
un modo tale che ne esce fuori con le ali ai piedi; era una donna di coraggio. La stessa sera
che lei teneva questa conferenza io ero alla riunione del Comitato direttivo della Federazione
di Imola perché Gualandi122, il segretario della Federazione, se n’era andato con la sua segre-
taria e aveva lasciato la famiglia; a quel punto un gruppo di iscritti al partito, un folto gruppo,
chiede la sostituzione immediata di Gualandi. Mi avevano chiamato alla riunione perché io
avevo sostenuto la legittimità del segretario, non si poteva cacciare via per una cosa così; la
riunione durò fin verso le tre dopo mezzanotte e ci furono, tra l’altro, alcuni membri della
segreteria che mi chiesero di non stare tutta la riunione con loro, perché volevano essere libe-
ri di discutere, quindi dovevo aspettare la decisione fuori. Eravamo a questi livelli. Io ero a
dormire in una locanda vicino alla Federazione quando a mezzanotte mi chiamò il locandiere,
un compagno, che mi disse che al telefono c’era Nilde Iotti. Mi chiede com’era andata la riu-
nione a Imola per Gualandi, io le dico che erano ancora in riunione e lei mi risponde: «Qui
tutto apposto, mi hanno applaudito. Voglio sapere la situazione di Imola appena possibile,
perché non è mica possibile che in Emilia succedano queste cose, che partito siamo?»
Alla fine nel Comitato direttivo di Imola si andò ai voti e la tesi a favore del segretario della
Federazione vinse perché votò il gruppo della FGCI, furono i giovani della FGCI a salvare il
segretario. Tra l’altro Gualandi era figlio di un eroe della Resistenza123, e l’onta era maggiore;
addirittura sua madre venne a Bologna, al Comitato Regionale, chiese di me e mi disse:
«Adèsa te tè da dir a mi fiòl ch’al ciȃpa sò e al vȃg a cà sô124, va bene? Non si fa una cosa

122 Enrico Gualandi (Imola, 1930 - Imola, 2007). Figlio e nipote di partigiani, anch’egli partigiano, fu
il primo segretario della Federazione del PCI di Imola, sindaco della città tra il 1971 e il 1976 e par-
lamentare dal 1976 al 1987. Dopo l’esperienza al Parlamento ricoprì gli incarichi di presidente della
Lega delle autonomie locali e dell’ANPI di Imola prima di entrare nel Consiglio Nazionale dell’orga-
nizzazione.
123Guido “Il Moro” Gualandi (Dozza, 1908 - Imola, 1964). Iscritto al PCI dal 1930, subì numerosi
arresti e condanne fino al 1938 quando, tornato a Imola, sostituì il fratello Andrea in compiti di orga-
nizzazione nel PCI locale. Membro del primo comitato antifascista locale partecipò alla Resistenza
con funzione di commissario politico della IVa brigata Garibaldi (poi 36a brigata “Biancolini Garibal-
di”). Dopo la fine della guerra fu tra i fondatori di una cooperativa di partigiani e reduci per i trasporti
e assessore comunale tra il 1951 e il 1955 (Albertazzi, Arbizzani e Onofri, 1985-2003).
124 “Adesso tu devi dire a mio figlio che si prenda su e che vada a casa sua”.

!133
così». Questo per dirti che le vecchie concezioni della vita hanno ragioni profonde e sono du-
rate a lungo. In questo senso il ruolo di Togliatti fu decisivo, pur con tutte le sue contraddi-
zioni. Era certamente un uomo di grande cultura, e le sue convinzioni ideologiche e politiche
avevano portato il PCI ad assumere un ruolo importante nelle vicende del Paese e ad affer-
marsi come grande forza autonoma, pur non staccando mai completamente il cordone ombe-
licale dall’URSS.
Un altro punto di riferimento importante nei rapporti fra le periferia e la Direzione del Partito
era sicuramente Giorgio Amendola, che seguiva da vicino e con attenzione il processo di rin-
novamento degli organismi territoriali.

Che problemi ti trovi ad affrontare al Comitato regionale?


I problemi che ritrovo al Comitato regionale sono i problemi del PCI di allora: si pone il pro-
blema di un rilancio delle politiche del centrosinistra, allora in crisi d’identità, di un suo ri-
lancio, di un suo rinnovamento, anche se evidentemente in termini politici diversi da quelli
prospettati dai socialisti e dalla DC. Si lavora sui temi dello sviluppo economico, quindi si
organizzano le prime conferenze di programmazione economica; a Modena si preparano le
conferenze sulla formazione dei comprensori e si indicano già le linee direttrici delle politi-
che regionali.
In quel contesto il Partito deve affrontare anche il tema dei rapporti con i sindacati, con l’af-
fermazione di maggiore autonomia rivendicata dalla nuova segreteria di Luciano Lama125.

125 Luciano Lama (Gambettole, 1921 - Roma, 1996). Figlio di un capostazione e laureato in Scienze
Politiche a Firenze, dopo l’armistizio diventò comandante partigiano partecipando in prima persona
alla liberazione di Forlì. Nel 1946 fu nominato segretario della Camera del Lavoro di Forlì e s’iscrisse
al PCI, mentre l’anno seguente, chiamato a Roma da Di Vittorio, entrò nella Segreteria Confederale
della CGIL. Tra il 1952 e il 1958 diresse le federazioni dei chimici e dei metalmeccanici, prima di
rientrare nella segreteria di Novella. Eletto alla Camera dei Deputati, lasciò il seggio nel 1969, in ap-
plicazione del principio di incompatibilità della cariche sindacali e di partito, e l’anno seguente fu
eletto segretario generale della CGIL, carica che occupò fino al 1985. La sua segreteria fu caratteriz-
zata dall’impegno a favore dell’unità sindacale (con la nascita della Federazione CGIL-CISL-UIL) e
delle riforme, ma dovette anche affrontare la contestazione studentesca alla Sapienza di Roma nel
1977 e l’esplosione del terrorismo. Dopo la fine della Federazione unitaria e la sconfitta al referendum
sulla scala mobile lasciò il sindacato per ricandidarsi con il PCI; nel 1987 fu eletto e divenne vice-pre-
sidente del Senato e rimase in Parlamento fino al 1994, prima con il PCI poi con il Partito Democrati-
co della Sinistra. Dal 1989 fino alla morte fu sindaco di Amelia, in provincia di Terni (Loreto, 2009).

!134
In quegli anni ci mettiamo in discussione tutti e si pone il problema del ricambio dei grandi
sindaci della ricostruzione e dell’antifascismo, come Dozza126 a Bologna e Corassori a Mo-
dena, per fare due esempi illustri. Un problema non da poco, per il peso e per il vasto consen-
so che quei sindaci avevano nel territorio.
Questa esigenza di cambiamento si poneva in tutti i comuni dove il PCI governava allora.
Dopo un ampio e diffuso confronto si arriva a discutere con la Segreteria nazionale del Parti-
to la proposta di candidare a sindaco di Bologna Guido Fanti. Di conseguenza, essendo allora
Fanti segretario della Federazione di Bologna, si pone anche lì la questione della sua sostitu-
zione.
E lì sono in discussione diverse proposte tra le quali una era la nuova collocazione di Gallet-
ti127, rientrato in Italia dopo aver lavorato per molti anni alla Federazione Sindacale Mondia-

126 Giuseppe Dozza (Bologna, 1901 - Bologna, 1974). Nato in una famiglia di modeste condizioni
economiche abbandonò presto la scuola, prima di iscriversi, nel 1914, alla Federazione Giovanile So-
cialista (di cui sarà dirigente locale e regionale) e al Partito Socialista (1918). Sorvegliato dalla Prefet-
tura dal 1919, durante il “Biennio Rosso” fu amministratore dei terreni occupati. Dopo aver aderito al
PCd’I nel 1921, nello stesso anno divenne segretario della Federazione bolognese, mentre l’anno se-
guente, scampato a un assalto di squadristi guidati da Dino Grandi (vd. nota precedente), fu trasferito
a Roma. Arrestato, ma sempre rilasciato o resosi irreperibile, nel 1922, nel 1925 e nel 1926, nel 1923
diventò segretario della Federazione Giovanile Comunista d’Italia. Nel 1931 diventò membro del
Comitato centrale, dell’Ufficio Politico e responsabile supplente della sezione agitazione e propagan-
da; dopo un periodo a Mosca, nel 1932 a Parigi, diventò responsabile dell’organizzazione della segre-
teria del PCI. Durante la guerra civile spagnola organizzò il reclutamento dei volontari per le brigate
internazionali e compì alcune missioni in prima persona; sostenitore della necessità di eliminare dal
partito gli elementi trotzkisti, in quanto alleati del fascismo, gli fu affidato l’incarico della vigilanza
politica sul partito, fatto che, a causa del contenuto di alcuni articoli, gli attirò numerose critiche fino
all’allontanamento da ogni responsabilità dirigente. Clandestino in Francia dopo lo scoppio del con-
flitto, partecipò alla ricomposizione dei rapporti con i socialisti; tornato in Italia dopo l’8 settembre
1943, rappresentò, prima di tornare a Bologna, i comunisti nel CLN di Milano. Nominato sindaco dal
CLN dopo la liberazione della città, carica che fu confermata dalle elezioni del 1946; riammesso negli
organi direttivi del Partito (nel 1945 nel Comitato federale e in quello centrale, nel 1955 nella Dire-
zione nazionale) ed eletto all’Assemblea Costituente, non fu candidato al Parlamento per i suoi impe-
gni amministrativi nel capoluogo emiliano. Sindaco fino alle dimissioni, presentate per motivi di salu-
te nel 1966, rimase però nel consiglio cittadino (Tirelli, 1992).
127 Vincenzo Galletti (San Pietro in Casale, 1926 - Monte San Pietro, 1987). Nato in una famiglia di
coltivatori diretti, lavorò come operaio prima di prendere contatti con l’antifascismo nel 1943 e parte-
cipare alla Resistenza. Iscritto al PCI nel 1944, fino al 1954, anno in cui scelse di occuparsi di que-
stioni sindacali nella CGIL, ricoprì numerosi incarichi nel partito. Prima di tornare a Bologna nel
1964 ed entrare nel Comitato Federale del partito, ricoprì l’incarico di segretario dell’Unione interna-
zionale dei sindacati dei lavoratori agricoli e forestali a Praga, presso la federazione Sindacale Mon-
diale (vd. nota seguente). Consigliere comunale dal 1964 al 1975, fu segretario della Federazione di
Bologna dal 1966. Entrato nel Comitato centrale del partito nel 1966 e nella Direzione nazionale nel
1972, dal 1972 al 1977 fu presidente della Lega Nazionale Cooperative e Mutue, partecipando anche
alla Conferenza nazionale della cooperazione nell’aprile del 1977. Rientrato a Bologna entrò nel Co-
mitato regionale dell’Emilia Romagna e svolse alcuni incarichi nel capoluogo emiliano (Lama, s.d.).

!135
le128. Galletti era stato uno dei dirigenti e aveva lavorato a Praga, allora sede della Federazio-
ne Sindacale Mondiale.
In questo momento di rinnovamento mi viene fatta la proposta di sostituire Fanti, poiché ero
stato eletto nel Consiglio comunale di Bologna nelle ultime elezioni amministrative.
Nonostante il mio rifiuto, la sostituzione viene data per certa.

Non contava molto il tuo parere.


No, anche se alla fine poi è contato. Perché, proprio in quel frangente storico, si aggiunse an-
che il ricambio alla Lega Nazionale delle Cooperative che aveva convocato il suo congresso
nel giugno del 1964. Era infatti in corso una crisi che era scoppiata a causa della linea estre-

128 La Federazione Sindacale Mondiale (World Federation of Trade Unions, WTFU) nacque ufficial-
mente al Congresso di Parigi (3 ottobre 1945), rifacendosi all’esperienza dell’alleanza antifascista,
con l’unione, cioè di sindacati sovietici e alleati. La Federazione (d’ora in avanti FSM) aveva sede a
Parigi (poi dal 1951 a Vienna, dal 1956 a Praga e, infine a Cuba), e a cui aveva aderito anche la CGIL
(Di Vittorio era il rappresentante italiano nel Comitato esecutivo fino a quando, nel giugno del 1949,
fu nominato presidente della federazione), si richiamava agli ideali di pace e di unità internazionale, e
promuoveva il ruolo, indispensabile, della associazioni dei lavoratori nella ricostruzione economica e
democratica del mondo dopo la guerra. La FSM rimase unitaria fino al gennaio del 1949 quando,
dopo la riunione del Comitato esecutivo di Roma, la maggior parte dei sindacati occidentali, abban-
donarono la Federazione per fondare a Londra, nel dicembre 1949, la Confederazione Internazionale
dei Liberi Sindacati; nella FSM, oltre ai sindacati dei paesi socialisti, rimasero la CGIL, la CGT (fran-
cese) e i sindacati di molti paesi del terzo mondo.
La cause della rottura vanno ricercate nell’inasprimento delle tensioni fra occidentali e sovietici e nel
lancio del piano Marshall (giugno 1947).
I rapporti tra la CGIL e la FSM iniziarono a complicarsi a partire dal 1956 e a causa della chiusura
della Federazione, che rifiutava altri modelli di sviluppo che non fossero quello socialista e non rico-
nosceva il valore delle lotte dei sindacati occidentali. Dopo il 1968, con l’invasione della Cecoslovac-
chia, e con la ripresa della stagione unitaria in Italia, le tensioni aumentarono, fino a quando, nel 1978,
la CGIL abbandonò la FSM (Iuso, 2001)

!136
mista, ispirata alla Quarta Internazionale Comunista129 da parte di Paolicchi130, presidente
della Lega delle Cooperative che aveva sostituito il vecchio dirigente Giulio Cerreti131. Il

129 La Quarta Internazionale Comunista nacque ufficialmente nel 1938 a Parigi da Lev Trotsky, in op-
posizione al Comintern e alla politica stalinista in Unione Sovietica; Trotsky accusò lo stalinismo di
aver rinunciato all’esportazione della rivoluzione nel mondo, a favore invece della realizzazione del
socialismo in un solo paese, e di aver fatto dell’URSS uno stato operaio degenerato, totalitario ed ec-
cessivamente burocratizzato. Dopo il secondo conflitto mondiale, durante il quale gli esponenti del
trotzkismo furono arrestati e giustiziati da parte dei servizi segreti sovietici e dagli altri partiti stalini-
sti (Trotsky fu assassinato in Messico nel 1940), il Segretariato Internazionale della Quarta Interna-
zionale scelse la politica dell’entrismo, cioè di penetrazione nei partiti comunisti e socialisti, scelta
che portò all’uscita di alcuni partiti, che fondarono nel 1953 il Comitato Internazionale della Quarta
Internazionale. Nel 1963 la crisi si risolse, con la creazione del Segretariato Unificato della Quarta
Internazionale, attivo ancora oggi, nonostante altre scissioni, come quella del 1982 che portò alla na-
scita della Lega Internazionale dei Lavoratori (Marceca, 2011).
Per quanto riguarda il trotzkismo in Italia, dopo la breve esperienza del Partito Operaio Comunista di
Nicola Di Bartolomeo, la sezione italiana più importante fu quella dei Gruppi Comunisti Rivoluziona-
ri, di cui uno dei maggiori esponenti fu Livio Maitan. Dopo aver praticato l’entrismo fino al 1968, in
seguito alla nascita dei movimenti di contestazione che provocarono l’uscita di molti iscritti, si avvi-
cinarono al movimento del Manifesto e a Democrazia Proletaria, dentro cui confluiranno nel 1989,
dopo aver cambiato denominazione in Lega Comunista Rivoluzionaria IVa Internazionale. Entrati nel
Partito della Rifondazione Comunista nel 1991, si organizzarono nella corrente Sinistra Critica nel
2003 e abbandonarono il partito nel 2007 (Schwarz, 2004).
Dopo lo scioglimento di Sinistra Critica, la sezione italiana della Quarta Internazionale è rappresenta-
ta da due organizzazioni eredi di Sinistra Critica: Sinistra Anticapitalista e Communia. Anche in Italia,
come nel resto del mondo, esistono partiti e movimenti trotzkisti che non fanno parte del Segretariato
Unificato della Quarta Internazionale.
130 Silvio Paolicchi (San Giuliano Terme, 1921 - Milano, 2002). Nato in una famiglia contadina, in
seguito all’armistizio aderì alle idee comuniste ed entrò nelle Brigate Garibaldi; arrestato nel 1944 e
deportato in Germania, al suo ritorno in Italia svolse numerosi incarichi all’interno del partito, segre-
tario della Federazione di Pisa, dirigente nell’Organizzazione a Roma e nel 1962 entrò nel Comitato
centrale. Presidente della Lega Nazionale Cooperative e Mutue dal 1962, nel 1966 fu espulso dal par-
tito per essersi avvicinato alle posizioni della IVa Internazionale ed essere entrato negli organi direttivi
dei Gruppi Comunisti Rivoluzionari. Dopo aver aderito ad altri movimenti trotzkisti (Lega Comunista
nel 1977 e la Lega Operaia Rivoluzionaria nel 1980), nel 1991 aderì al Partito della Rifondazione
Comunista.
131 Giulio Cerreti (Sesto Fiorentino, 1903 - Sesto Fiorentino, 1985). Di famiglia socialista nel 1917
s’iscrisse alla Federazione giovanile socialista, diventandone anche segretario provinciale. Partecipò
al congresso di fondazione del PCd’I, svolgendo soprattutto attività sindacale fino a quando, nel 1927,
in seguito a persecuzioni e processi fu costretto a emigrare in Francia, dove divenne membro del Co-
mitato centrale del Partito Comunista francese. Durante la guerra civile in Spagna diresse, su incarico
della IIIa Internazionale, gli aiuti internazionali alla Repubblica; in seguito fu costretto a emigrare in
Belgio e in Danimarca, dove fu arrestato dai nazisti. Liberato dai sovietici, visse in Russia, entrando
nel Comintern e collaborando con Togliatti, fino al 1945 quando tornò in Italia e venne eletto alla Co-
stituente, durante la quale fu Alto Commissario dell’Alimentazione. Deputato fino al 1963 e senatore
fino al 1968, nel 1962 entrò nel Comitato centrale del PCI e dal 1947 al 1962 fu presidente della Lega
Nazionale Cooperative e Mutue.

!137
congresso straordinario si tiene al teatro Eliseo di Roma132, e mi viene chiesto di presentare la
mia candidatura, che matura in seno alla Direzione del Partito, in accordo con la componente
comunista della Lega. Presento la mia candidatura con le linee del programma, sul quale si
apre un dibattito che alla fine si conclude con un voto di astensione dei socialisti, motivato
dalla candidatura alternativa di Luciano Vigone133, già vice-presidente della Lega stessa. E da
lì il discorso si riapre e va avanti con Guido Fanti sindaco di Bologna, Silvio Miana alla Lega
Nazionale e Sergio Cavina, allora segretario della Federazione del PCI di Ravenna, al Comi-
tato regionale.
L’impegno più rilevante e forse il più delicato di quel periodo fu la preparazione della Confe-
renza delle “Regioni Rosse134”, che si tenne a Perugia nel 1963, cioè Emilia, Toscana, Um-
bria e Marche, che comporterà un lavoro di preparazione molto intenso perché c’era l’esigen-
za di presentare le linee guida strategiche delle “regioni rosse” e del loro ruolo nello sviluppo
del Paese.
La conferenza si apre in un momento in cui si trattava di preparare il terreno per un’alternati-
va democratica, superando il centrosinistra in crisi. Si trattava di interpretare le trasformazio-
ni economiche e sociali avvenute nel Paese, i limiti dello sviluppo del capitalismo cosiddetto
“di Stato”, le nuove politiche sociali e di riforma delle istituzioni, in primo piano la costitu-
zione delle Regioni.

132La sostituzione di Silvio Paolicchi con Silvio Miana avvenne durante il XXVII° Congresso della
Lega Nazionale Cooperative e Mutue che si tenne a Roma tra il 30 giugno e il 3 luglio 1965. Castro-
novo riporta che il congresso fu inaugurato da Paolicchi, mentre le conclusioni furono assegnate al
neo-presidente Miana (Castronovo, 1987).
133 Luciano Vigone, socialista, eletto vice-presidente della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue
durante il XXVI° Congresso della Lega (Roma, febbraio 1962), mantenne l’incarico fino alle dimis-
sioni nel dicembre del 1977, in seguito agli strascichi del caso Dunia (Menzani, 2014); ricoprì anche
l’incarico di consigliere nel Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) dal 7 novembre
1962 al 1989 (seconda, terza e quarta Consiliatura).
134 La conferenza delle “Regioni Rosse” (Emilia Romagna, Toscana, Marche, Umbria) si tenne a Pe-
rugia dal 13 al 15 settembre 1963. Tra le proposte discusse durante la conferenza, una delle più impor-
tanti riguardò un processo di rinnovamento del PCI e delle sue strategie politiche, rinnovamento basa-
to sull’esperienza di governo del partito nelle “regioni rosse”. Togliatti nel suo intervento conclusivo,
richiamando l’importanza di mantenere l’unità del partito, ribadì il centralismo del partito (Fanti -
Ferri, 2001).

!138
Alla preparazione della conferenza vi fu il concorso impegnato dei singoli Comitati regionali
e del gruppo dirigente del PCI, che allora attraversava una fase di confronto interno con le
istanze del gruppo di Ingrao135, Reichlin136 e del Manifesto137.

Qual era il problema?

135Pietro Ingrao (Lenola, 1915 - Roma, 2015). Nato in una famiglia di proprietari terrieri ma di sen-
timenti liberali e antifascisti, si trasferì a Roma, si laureò in Giurisprudenza e in Lettere e Filosofia e
prese contatto con l’organizzazione del PCI. Costretto a entrare in clandestinità nel 1942, collaborò
con la redazione dell’Unità a Milano prima di trasferirsi a Roma, dove entrò nel Comitato clandestino
dell’organizzazione del PCI. Nel 1947 Togliatti gli affidò la redazione dell’Unità (incarico che man-
tenne fino al 1957), nel 1948 entrò nel Comitato centrale del PCI e fu eletto in Parlamento (dove ri-
mase, ininterrottamente fino al 1992), mentre nel 1956 entrò nella Direzione nazionale del partito. Nel
1966, durante l’XI° Congresso del PCI rivendicò il “diritto al dissenso”, diventando il punto di riferi-
mento dell’ala sinistra del partito, senza mettere in discussione l’unità del PCI; presidente del gruppo
parlamentare comunista nel 1968 e presidente del Centro di Studi e Iniziative per la Riforma dello
Stato nel 1975, l’anno seguente fu eletto presidente della Camera dei Deputati, primo comunista a
occupare tale incarico, che ricoprirà fino al 1979. Oppositore della “svolta della Bolognina”, con cui
Occhetto trasformò il PCI nel Partito Democratico della Sinistra, tuttavia entrò nel nuovo partito, dove
rimase fino al 1993. In seguito si avvicinò prima al Partito della Rifondazione Comunista e in seguito
a Sinistra Ecologia e Libertà (Ursino, 1992; http://www.pietroingrao.it)
136 Alfredo Reichlin (Barletta, 1925). Trasferitosi a Roma partecipò alla Resistenza nelle Brigate Ga-
ribaldi e fece parte dei GAP. Nel dopoguerra s’iscrisse al PCI, fu vice-segretario della FGCI e diretto-
re dell’Unità dal 1957 al 1962 (e una seconda volta dal 1977 al 1980), quando fu allontanato per es-
sersi avvicinato alle posizioni della sinistra del partito. Segretario regionale del PCI in Puglia, nel
1968 fu eletto deputato alla Camera, dove rimase per sette legislature fino al 1994. Entrato nella Dire-
zione nazionale del partito durante la segreteria di Berlinguer, fu ministro “ombra” all’Economia dal
1989 al 1992, prima di partecipare alle trasformazioni del partito, fino alla nascita del Partito Demo-
cratico, presiedendo la commissione incaricata della stesura del Manifesto dei Valori.
137 Il primo numero della rivista mensile, in seguito quotidiana, Il Manifesto uscì nel giugno del 1969,
sotto la direzione di Lucio Magri e Rossana Rossanda, esponenti della corrente “di sinistra” del PCI,
che, da lì a poco (novembre del 1969) insieme ad altri della corrente, tra cui Luigi Pintor e Aldo Nato-
li, sarebbero stati espulsi dal partito. Natoli e Pintor rimasero in Parlamento, dando vita al primo
gruppo parlamentare del Manifesto, mentre nell’aprile del 1971 uscì il primo numero del quotidiano.
Dopo la sconfitta elettorale del maggio 1972, il gruppo del Manifesto si avvicinò al PDUP (Partito
D’Unità Proletaria, nato nel 1972 dalla fusione degli elementi del PSIUP, Partito Socialista Italiano di
Unità Proletaria, e del MPL, Movimento Politico dei Lavoratori,che non erano entrati nel PSI o nel
PCI); l’unione dei due gruppi avvenne ufficialmente nel 1974 con il nome di PDUP per il comunismo,
ma la tensione dei rapporti rimase alta, tanto che il primo Congresso si svolse soltanto nel gennaio
1976. In vista delle elezioni anticipate del giugno 1976, in seguito alla caduta del governo Moro, Lu-
cio Magri fu eletto segretario e, dopo molte discussioni, si decise di presentare liste unitarie con Lotta
Continua e Avanguardia Operaia, denominate liste di Democrazia Proletaria, che ottennero l’1,5 per-
cento dei voti, riuscendo ad entrare in Parlamento. L’anno seguente il PDUP si divise in nuovo PDUP
per il comunismo, con il gruppo legato a Magri e al Manifesto, e nuova Democrazia Proletaria, con il
gruppo legato al vecchio PDUP. Nel 1978 poi, il vecchio gruppo del Manifesto, radunato intorno a
Rossana Rossanda, abbandonò il partito; successivamente, durante la segreteria di Berlinguer e la fine
del “compromesso storico” il quotidiano si riavvicinò al PCI, mentre il PDUP si sciolse nel novembre
1984 per confluire nel partito comunista (Garzia, 1985).

!139
Si trattava, in sostanza, di riaprire il confronto con il PSI, con le sinistre socialiste e laiche
della sinistra italiana per un’alternativa al potere della Democrazia Cristiana; e in questo la
discussione sull’Italia rinnovata, nel senso che bisognava saper cogliere tutte le trasformazio-
ni che erano avvenute, e allora in questa ala esterna e interna del PCI c’era, come dire, una
visione dello sviluppo del capitalismo che non rispondeva alla realtà vera: cioè si diceva che
questo capitalismo nuovo si era affermato come una forza di rinnovamento e quindi di svuo-
tamento delle istituzioni, ma come avveniva questo? Anche attraverso l’adesione del PSI di
Craxi, che era il portabandiera di questa politica di svuotamento del PCI dalla sinistra. Il di-
battito, in sintesi, era questo: o si usava una linea di confronto e s’incalzava l’intesa e l’unità
sui temi reali dell’Italia e dell’Europa (già allora si poneva con forza il problema europeo),
oppure l’altra linea significava andare allo scontro. Nel Partito era in atto un confronto molto
impegnativo.
Quindi il ruolo che ebbe questa conferenza fu importante, però non riuscì a realizzare il suo
obbiettivo, quello di rilanciare il PCI come forza trainante della sinistra italiana su questi tra-
guardi, di passare attraverso il confronto, sia pure con lo scontro, ma avendo presente il tema
dell’unità delle sinistre socialiste e democratiche.
A proposito del mio intervento, si sapeva quello che avevo scritto, perché la relazione fu di-
scussa dalla Segreteria generale di Roma con Amendola, Ingrao, Di Giulio138, Chiaromonte139
e altri membri della Direzione. Quando arrivai a Perugia Ingrao mi chiese un incontro dove

138Fernando Di Giulio (Grosseto, 1924 - Grosseto 1981). Di famiglia medio borghese, prima dell’ar-
mistizio frequentò la facoltà di Giurisprudenza di Pisa e s’iscrisse al PCI nel 1942. Partigiano tra le
brigate Garibaldi e membro del CLN provinciale di Grosseto, dopo la guerra s’impegnò nella rico-
struzione della locale Federazione comunista, prima di essere chiamato da Togliatti a Roma nella
Commissione centrale di organizzazione, dove rimase per dieci anni. Nel 1956 fu eletto nel Comitato
centrale del partito e l’anno seguente entrò nella Federazione romana del partito dove, dal 1966 al
1975 fu responsabile della sezione lavoro di massa. Eletto alla Camera nel 1972, membro della Com-
missione Lavoro e Previdenza sociale, nel 1979 diventò presidente del gruppo parlamentare del PCI
(Biscione, 1991).
139 Gerardo Chiaromonte (Napoli, 1924 - Vico Equense, 1993). Dopo essersi laureato in Ingegneria a
Napoli si trasferì a Milano, dove partecipò alle ultime fasi delle Resistenza e s’iscrisse al PCI. Chia-
mato da Amendola alla segreteria campana del Partito Comunista, entrò nel Consiglio comunale di
Napoli nel 1947 e fu tra i fondatori di Cronache Meridionali. Entrato nel 1960 nel Comitato centrale ,
nel 1962 diventò segretario regionale del PCI in Campania ed entrò nella direzione nazionale. Eletto
alla Camera nel 1963, nel 1969 diventò senatore e presidente della Commissione Agraria e nel 1975
entrò nella Segreteria nazionale del PCI. Rieletto al Senato fino alla sua morte, fu capogruppo dei se-
natori del PCI dal 1983 al 1986 e presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenome-
no della mafia e sulle altre associazioni criminali similari dal 1988 al 1992 e presidente del Comitato
parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di stato dal 1992 al 1993. Fu
anche direttore di Rinascita e dell’Unità (http://www.istitutochiaromonte.it).

!140
mi chiese come avrei presentato i problemi del centrosinistra e i temi dell’alternativa demo-
cratica. Io gli risposi che erano le linee uscite dall’ampio dibattito che vi era stato in tutti i
Comitati federali delle quattro “regioni rosse”.
La conferenza si concluse con un intervento politico di altro livello di Togliatti.


!141
!142
c. Linea del tempo
In questo paragrafo cercherò di fornire, attraverso una linea del tempo, una breve contestua-
lizzazione spazio-temporale centrata sulla biografia di Silvio Miana, sull’evoluzione delle
istituzioni che l’hanno visto protagonista (partito, sindacato e cooperazione), e sui principali
eventi locali, nazionali e internazionali.
• 23 ottobre 1844: a Rochdale, in Inghilterra, viene fondata la Società dei “Probi Pionieri di
Rochdale”, la prima esperienza economica fondata su principi e su un’organizzazione di
tipo cooperativo;
• 10 - 13 ottobre 1886: a Milano si svolge il Congresso costitutivo della Federazione Nazio-
nale delle Cooperative e Mutue (dal 1893 denominata Lega Nazionale delle Cooperative e
Mutue);
• 1891: nasce la Federazione Provinciale delle Cooperative di Modena;
• Gennaio 1891: a Milano, Torino e Piacenza vengono fondate le prime Camere del Lavoro;
• 14 - 15 agosto 1892: a Genova nasce il Partito dei Lavoratori Italiani di Filippo Turati che,
al Congresso di Reggio Emilia del 1893 fu denominato Partito Socialista dei Lavoratori Ita-
liani e, infine, con il Congresso di Parma del 1895 assunse il nome di Partito Socialista Ita-
liano (PSI);
• 1893: si svolge a Parma il I° Congresso nazionale delle Camere del Lavoro, durante il quale
viene fondata la Federazione Italiana delle Camere del Lavoro;
• 1901: nasce la Federterra;
• Giugno 1901: a Livorno si costituisce la FIOM, Federazione Italiana Operai Metallurgici;
• 29 settembre - 1 ottobre 1906: a Milano, Congresso Costitutivo della Confederazione Gene-
rale del Lavoro (CGdL), di cui viene eletto segretario Rinaldo Rigola;
• 1919 - 1920: “biennio rosso” in Italia, con proteste e agitazioni di contadini e operai;
• 1919: a Mosca viene fondata la Terza Internazionale dei Partiti Comunisti, denominata an-
che Comintern;
• 18 gennaio 1919: Luigi Sturzo fonda il Partito Popolare Italiano, cattolico;
• 23 marzo 1919: Benito Mussolini crea il primo fascio di combattimento;
• 1920 - 1921: “biennio nero” in Italia, caratterizzato dalle violenze fasciste contro le Camere
del Lavoro, le cooperative, le associazioni dei lavoratori, i socialisti, i comunisti e, in gene-
rale, tutti gli oppositori del fascismo;

!143
• 7 aprile 1920: in seguito alla protesta e alle agitazioni di operai e braccianti in piazza Gran-
de a Modena, la controffensiva padronale e delle forze dell’ordine provoca 5 morti e 15 fe-
riti;
• 21 gennaio 1921: a Livorno viene fondato il Partito Comunista d’Italia, PCd’I, in seguito
Partito Comunista Italiano, PCI;
• 27 gennaio 1921: nasce la Federazione Giovanile Comunista Italiana, FGCI;
• 12 novembre 1921: viene costituito il Partito Nazionale Fascista, PNF;
• 30 ottobre 1922: grazie all’appoggio reale e alla mancata opposizione alla marcia su Roma
si forma il primo governo guidato da Mussolini;
• 14 novembre 1925: il fascismo scioglie la Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue;
• 20 - 26 gennaio 1926: a Lione si svolge il III° Congresso del PCI, con l’approvazione delle
cosiddette “Tesi di Lione”, il documento politico di Antonio Gramsci;
• 3 aprile 1926: la legge n. 563 (parte delle leggi “fascistissime”) riconosce il sindacato fasci-
sta come unico ad avere la facoltà di stipulare contratti e, in questo modo, abolisce la libertà
sindacale, istituendo anche il divieto di sciopero e di serrata;
• 27 settembre 1926: Silvio Miana nasce a Castelletto di Serravalle (Bo);
• Novembre 1926: scioglimento forzato di tutti i partiti e delle associazioni di opposizione,
istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato e dell’OVRA, la polizia segreta
del regime;
• 4 gennaio 1927: auto-scioglimento della CGdL su decisione delle vecchie classi dirigenti.
Bruno Buozzi, segretario generale della CGdL dalla fine del 1925 ed esule in Francia, deci-
de di ricostituire la CGdL riformista, mentre in Italia i comunisti, nel febbraio delle stesso
anno, costituiscono clandestinamente una Confederazione generale del lavoro di orienta-
mento comunista;
• 1934: viene siglato il patto d’unità d’azione fra PCI e PSI, superando le tensioni dovute alla
tesi del “socialfascismo”, che accusava i socialisti di costituire l’ala sinistra della borghesia;
• 1934: il Capitolato Provinciale di Mezzadria cancella le conquiste dei sindacati e dei socia-
listi nel 1920 e ripristina un riparto favorevole ai proprietari e, soprattutto, le corvées e le
regalie;

!144
• 15 marzo 1936: in Francia le due Confederazioni del lavoro si riuniscono e redigono la
“Piattaforma d’azione della CGL unitaria”, da realizzarsi dopo la sconfitta del nazi-fasci-
smo;
• 1937: la famiglia di Silvio Miana si trasferisce a Piumazzo, frazione di Castelfranco Emilia
(Mo);
• 1938: a Parigi, Lev Trotsky fonda la Quarta Internazionale Comunista;
• 1° settembre 1939: l’attacco tedesco alla Polonia segna l’inizio della Seconda Guerra Mon-
diale;
• 10 maggio 1940: l’Italia entra in guerra a fianco della Germania;
• Settembre 1942: nasce la Democrazia Cristiana, DC;
• 1943: Stalin scioglie il Comintern;
• Marzo 1943: i primi scioperi in Italia contro le ristrettezze economiche e l’insicurezza cau-
sata dai bombardamenti sono i primi segnali di un’opposizione non soltanto economica, ma
anche politica al regime;
• 25 luglio 1943: Mussolini viene sfiduciato e destituito;
• 8 settembre 1943: viene reso noto l’armistizio fra l’Italia e gli Alleati;
• 9 settembre 1943: fondato a Roma il Comitato di Liberazione Nazionale, CLN;
• 18 settembre 1943: a Salò nasce la Repubblica Sociale Italiana, RSI, con a capo Mussolini;
• ottobre 1943: a Milano, per merito di Pajetta, Pontecorvo e Curiel nasce il Fronte della
Gioventù, organizzazione giovanile unitaria e antifascista;
• 14 febbraio 1944: primo bombardamento su Modena;
• 1° marzo 1944: sciopero nazionale organizzato da lavoratori e partigiani, primo sciopero di
natura espressamente politica, a cui le autorità nazi-fasciste reagiscono con arresti, deporta-
zioni e fucilazioni;
• 29 marzo 1944: tredici giovani sono fucilati presso il Forte Urbano di Castelfranco Emilia
(Mo);
• Giugno 1944: liberazione di Roma;
• Aprile 1944: scioperi a Modena contro la deportazione degli operai in Germania, scioperi
che continueranno durante l’estate con azioni di sabotaggio e di occultamento di impianti e
macchinari nelle fabbriche, mentre in campagna si combatte per scongiurare l’ammasso di
grano e bestiame a favore dei tedeschi; “svolta di Salerno” del segretario del PCI Palmiro

!145
Togliatti, che accetta di entrare con gli altri partiti antifascisti nel secondo governo Bado-
glio, anteponendo in questo modo la lotta antifascista alla volontà di opporsi alla monar-
chia;
• 3 giugno 1944: nasce la Confederazione Generale Italiana del Lavoro, CGIL, unitaria, con
il patto di Roma siglato da Giuseppe di Vittorio (PCI), Canevari (PSI) e Grandi (DC);
• 14 giugno 1944: eccidio dei fratelli Artioli;
• 1 luglio 1944: istituzione del Corpo Ausiliario delle Squadre d’Azione delle Camicie Nere,
le cosiddette “brigate nere”;
• Agosto 1944: Achille Grandi fonda le Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, ACLI;
• Ottobre 1944: in Emilia si formulano nuovi patti colonici più favorevoli per i mezzadri, in
totale rottura con il Capitolato Provinciale di Mezzadria del 1934;
• 31 ottobre 1944: Paolo Bonomi fonda la Coldiretti;
• 1945 - 1947: “biennio di potere operaio”, caratterizzato dalle numerose vittorie e conquiste
da parte del movimento operaio e dai suoi sostenitori. Questo periodo cesserà a partire dal-
l’espulsione delle sinistre dal governo e dalla conseguente ripresa dei poteri reazionari (Sta-
to, polizia, agrari, imprenditori);
• 28 gennaio - 1° febbraio 1945: Congresso della neonata CGIL nelle zona liberate, in cui
sono eletti i primi segretari generali, Di Vittorio per i comunisti, Grandi per i democristiani
e Lizzardi per i socialisti;
• 11 febbraio 1945: nasce il patronato INCA (Istituto Nazionale Confederale di Assistenza);
• 16 aprile 1945: viene ratificata ufficialmente la nascita della Camera del Lavoro di Modena,
guidata da una commissione esecutiva di cui fanno parte esponenti di tutti i partiti antifasci-
sti;
• 22 aprile 1945: Modena è liberata, Alfeo Corassori viene designato sindaco dal CLN; gli
iscritti alla locale sezione del PCI aumentano improvvisamente di numero, passando da al-
cune centinaia a oltre 20000;
• 25 aprile 1945: liberazione di Milano, data scelta come ricorrenza per festeggiare la Libera-
zione dell’Italia dal nazi-fascismo;
• Maggio 1945: nasce la Confederazione Cooperativa Italiana, cattolica, grazie al sostegno da
parte della DC;

!146
• Maggio 1945: dopo l’esperienza nel Fronte della Gioventù e l’iscrizione alla sezione di
Piumazzo del Partito Comunista Italiano, Silvio Miana diventa capolega della Lega dei
mezzadri;
• 7 - 8 maggio 1945: la Germania si arrende agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica;
• 24 giugno 1945: Convegno delle Camere del lavoro del Nord a Milano, in cui si decide
l’adesione di queste strutture alla CGIL;
• 27 giugno 1945: a Roma, nasce l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, ANPI;
• Luglio 1945: il bolognese Leonida Roncagli sostituisce Dalife Mazza alla segreteria del PCI
di Modena;
• 1 - 3 settembre 1945: XX° Congresso140 della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue a
Roma, in cui ne viene ratificata ufficialmente la ricostituzione (anche se la Lega era già sta-
ta ricostituita nel maggio dello stesso anno per iniziativa dei partiti antifascisti). Presidente
viene eletto il socialista Emilio Canevari;
• Ottobre 1945: I° Convegno del PCI di Modena; gli iscritti sono diventati oltre 50000;
• Ottobre 1945: nasce l’Unione Donne in Italia, UDI;
• 3 ottobre 1945: nasce la Federazione Sindacale Mondiale;
• 20 ottobre 1945: I° Congresso della Camera del Lavoro di Modena, Arturo Galavotti viene
eletto segretario generale, il sindacato vive un vero e proprio boom di adesioni che, alla fine
del 1947, supereranno quota 120000;
• 18 novembre 1945: a Modena viene rifondata formalmente la Federazione Provinciale
Cooperative e Mutue, con presidente Gaetano Bertelli;
• 27 giungo 1946: per cercare di calmare la situazione nelle campagne viene proposto il Lodo
De Gasperi, non obbligatorio, con molti agrari che si rifiutano di firmarlo e riconoscerlo;
• 2 settembre 1946: il Referendum costituzionale segna la nascita della Repubblica Italiana e
sancisce l’esilio per i Savoia;
• 24 settembre 1946: discorso di Togliatti a Reggio Emilia, Ceto Medio e Emilia Rossa, in cui
il segretario insiste sulla necessità per il PCI di impegnarsi nella strategia di alleanze con il
ceto medio, punto centrale del “partito nuovo” che aveva in mente il segretario;

140 XX° congresso dalla fondazione della Lega (1886), il primo dopo la sua ricostituzione. I dirigenti,
scegliendo di continuare la numerazione progressiva dei congressi, scelsero la via della continuità con
l’esperienza cooperativa pre-fascista.

!147
• 1947: Silvio Miana, dopo un periodo di affiancamento al vecchio segretario, diventa segre-
tario della Camera del Lavoro di Castelfranco Emilia (Mo);
• 1° maggio 1947: strage di Portella della Ginestra;
• 12 maggio 1947: De Gasperi espelle le sinistre dal governo, sancendo in questo modo la
fine dell’esperienza dei governi di unità nazionale;
• Giugno 1947: I° Congresso della CGIL unitaria a Firenze; il “lodo De Gasperi” diventa
legge;
• 24 giugno 1947: viene firmato l’accordo della “tregua mezzadrile”;
• Giugno 1947: XXI° Congresso della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue a Reggio
Emilia; il comunista Giulio Cerreti, scelto personalmente da Togliatti, diventa presidente;
• Settembre 1947: nasce il Cominform che, nelle intenzioni sovietiche, doveva sostituire il
disciolto Comintern; sciopero dei braccianti in Val Padana;
• Dicembre 1947: viene approvata la legge Basevi (dal nome del suo promotore, Alberto Ba-
sevi) che tratta della regolamentazione della cooperazione e soprattutto affida il controllo
ordinario agli organi interni della stessa Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue e quello
straordinario allo Stato. La legge prevede anche l’istituzione di un fondo specifico per la
cooperazione all’interno della Banca Nazionale del Lavoro;
• 3 dicembre 1947: alla presenza di Silvio Miana (in veste di segretario provinciale della Fe-
dermezzadri di Modena), il marchese Rangoni sottoscrive il “Lodo De Gasperi” e si impe-
gna a rinunciare alle azioni legali nei confronti dei coloni;
• Gennaio 1948: VI° Congresso nazionale del PCI, in cui Togliatti parla di “via italiana al so-
cialismo”, un primo allontanamento dalle direttive del partito sovietico;
• 1 gennaio 1948: entra in vigore la Costituzione della Repubblica Italiana; l'articolo 45 ri-
guarda proprio la cooperazione, che si vede in questo modo riconoscere il proprio ruolo nel-
la Repubblica141;
• 5 marzo 1948: approvata la Cassa per la formazione della piccola proprietà contadina;

141Riporto il testo dell’Art. 45 della Costituzione: “La Repubblica riconosce la funzione sociale della
cooperazione a carattere mutualistico e senza fini di speculazione privata. La legge ne promuove e
favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura con gli opportuni controlli il carattere e le
finalità” (Pizzorusso - Romboli, 1975).

!148
• 15 aprile 1948: con il decreto Fanfani il controllo sul collocamento nelle campagne passa in
mano allo Stato142;
• 18 aprile 1948: sconfitta elettorale del Fronte Popolare (socialisti e comunisti);
• 14 luglio 1948: attentato a Togliatti e fine, dopo la proclamazione dello sciopero generale,
dell’unità sindacale;
• 2 agosto 1948: nascita del Comitato di Solidarietà Democratica;
• 15 settembre 1948: dopo la fuoriuscita dai cattolici dalla CGIL nasce la LCGIL (Libera
CGIL che, dopo la fusione con i vertici della FIL nel gennaio 1950, assumerà, il 30 aprile
1950, l’attuale denominazione, CISL, Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori);
• 1949: Silvio Miana, dopo un periodo di affiancamento, diventa segretario della Federmez-
zadri della provincia di Modena;
• Maggio - giugno 1949: sciopero nazionale dei lavoratori agricoli;
• 4 giugno 1949: repubblicani e socialdemocratici abbandonano la CGIL e fondano la FIL
(Federazione Italiana dei Lavoratori), a cui si uniranno anche i socialisti autonomisti. Dopo
la fusione dei quadri della FIL con la LCGIL, la base fonderà, il 5 marzo 1950, l’Unione
Italiana del Lavoro (UIL);
• Settembre 1949: approvata una legge che regola gli imponibili di manodopera (“per la mas-
sima occupazione in agricoltura”);
• Ottobre 1949: II° Congresso della CGIL a Genova, durante il quale Di Vittorio presenta il
suo Piano di Lavoro. Il Piano143 è una vera e propria proposta di politica economica nazio-
nale che unisce sviluppo e democrazia volta a guidare la modernizzazione dell’Italia;
• 13 ottobre 1949: Silvio Miana e altri sindacalisti furono processati, poi assolti, in merito al
loro coinvolgimento nella vertenza all’azienda del marchese Rangoni;

142 Questa, secondo le parole dello stesso Di Vittorio, sarebbe stata una grande vittoria per l’Italia, con
il collocamento che viene sottratto dalle mani dei possidenti, ma una sconfitta per l’Emilia, dove la
gestione del collocamento era in mano delle associazioni dei lavoratori (Osti Guerrazzi - Silingardi,
2002).
143 Nel dettaglio il piano prevedeva la nazionalizzazione dell’energia elettrica e la costruzione di cen-
trali idroelettriche, un programma di bonificazione e irrigazione e un piano edilizio per costruire abi-
tazioni, scuole e ospedali. Tutto ciò sarebbe stato possibile grazie ai sacrifici e alla mobilitazione della
classe dei lavoratori e a una tassazione più democratica, che doveva colpire soprattutto i ceti privile-
giati (Del Rossi, 2012).

!149
• 28 ottobre 1949: la Camera del Lavoro di Modena presenta il suo Piano di rinascita dell’e-
conomia provinciale, che riguardava gli stessi temi proposti nel Piano della CGIL naziona-
le;
• 9 gennaio 1950: eccidio della Fonderie Riunite a Modena; Erasmo Silvestri sostituisce Leo-
nida Roncagli alla segreteria provinciale del partito; Silvio Miana entra nel Comitato Fede-
rale della Federazione modenese del PCI;
• Maggio 1950: a Modena, sulla scia di quanto stava accadendo a livello nazionale, nascono
l’Unione provinciale della CISL, con segretario Ermanno Gorrieri, e la Camera sindacale
provinciale della UIL, con a capo Mario Bertani;
• 21 ottobre 1950: il Parlamento approva la “legge stralcio”, che prevedeva la distribuzione
della terra ai braccianti, causando, però, un’eccessiva polverizzazione delle dimensioni del-
le imprese agricole;
• 1952 - 1954: Silvio Miana occupa la carica di vice-presidente della Lega delle Cooperative
di Modena; in seguito, dopo un nuovo periodo nella segreteria della CGIL di Modena144,
frequenta un corso di tre mesi presso la scuola di partito delle Frattocchie;
• Giugno 1952: XXIII° Congresso della Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue a Milano:
scissione con alcuni socialdemocratici e repubblicani che fondano l’Associazione Generale
Cooperative Italiane, AGCI;
• 1953: la Federazione provinciale del PCI di Modena viene commissariato, con l’arrivo di
Giuseppe D’Alema, che prende il posto di Silvestri;
• 1953: a Modena, presso il quartiere della Madonnina nasce il primo Villaggio Artigiano;
• 31 marzo 1953: viene promulgata la nuova legge elettorale maggioritaria, la cosiddetta
“legge truffa”, che fu abrogata l’anno seguente dopo la sconfitta elettorale della Democrazia
Cristiana;
• 1954: sconfitta della CGIL sul tema del conglobamento, che consisteva nell’assorbimento
nella paga base dell’assegno di carovita e di altre indennità, aumentando in questo modo i
livelli salariali;
• 3 marzo 1955: la FIOM perde la maggioranza nelle elezioni per il rinnovamento della
Commissione Interna della Fiat. Nel sindacato inizia, su iniziativa di Di Vittorio, una rifles-
sione e un’autocritica sulla situazione, riflessione che porterà al ritorno del sindacato in

144 Testimonianza di Gildo Ronchetti (riportata da Bertucelli, 2004, p. 475).

!150
fabbrica, a un riavvicinamento tra le tre principali sigle sindacali, all’autonomia del sinda-
cato dal partito (infatti, durante l’VIII° Congresso del PCI nel 1956 viene, di fatto, cancel-
lata la teoria della “cinghia di trasmissione”);
• Settembre 1955: oltre 250 licenziamenti alla OCI - FIAT di Modena; Silvio Miana sostitui-
sce il commissario Giuseppe d’Alema alla guida della Federazione modenese del Partito
Comunista Italiano ed entra nel Consiglio Comunale di Modena;
• Febbraio 1956: XX° Congresso del PCUS, Partito Comunista dell’Unione Sovietica, in cui
il nuovo segretario Nikita Chruščëv denunciò i crimini di Stalin e scioglie il Cominform;
• Ottobre - Novembre 1956: invasione sovietica dell’Ungheria;
• Dicembre 1956: VIII° Congresso del PCI, Togliatti espone la teoria della “via italiana al
socialismo”;
• 27 marzo 1957: con la firma del trattato di Roma nasce la CEE, su iniziativa di Italia, Fran-
cia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e Lussemburgo;
• Novembre 1957: muore Di Vittorio, gli succede alla segreteria della CGIL Agostino Novel-
la;
• Aprile 1960: V° Congresso della CGIL, in cui si decide di affiancare alla tradizionale con-
trattazione sindacale una contrattazione aziendale, all’interno della strategia della riconqui-
sta delle fabbriche da parte del sindacato;
• luglio 1960: sciopero a Genova contro il governo Tambroni;
• 7 luglio 1960: strage di Reggio Emilia, con sette morti, durante una manifestazione contro il
governo Tambroni;
• 1962 - 1965: Silvio Miana diventa segretario del Comitato Regionale dell’Emilia Romagna
del PCI ed entra nel Consiglio comunale di Bologna;
• 10 settembre 1962: Rubes Trivia è il nuovo sindaco di Modena;
• 1963: Pierino Menabue è il nuovo segretario provinciale della Camera del Lavoro di Mode-
na;
• Luglio 1963: dimissioni di Cerreti, sostituito da Paolicchi alla presidenza della Lega Nazio-
nale delle Cooperative e Mutue;;
• settembre 1963: conferenza delle “Regioni Rosse” a Perugia;
• 21 agosto 1964: muore Togliatti, gli succede Luigi Longo;

!151
• 30 giugno - 3 luglio 1965: XXVII° Congresso della Lega Nazionale delle Cooperative e
Mutue a Roma, durante il quale Silvio Miana sostituisce alla presidenza Silvio Paolicchi.

!152
4. Conclusioni
È possibile fare storia attraverso l’intervista?
L’intervista può essere un’efficace nuova forma di divulgazione storica?
Sono queste le domande che mi hanno accompagnato e guidato costantemente durante la ri-
cerca e a cui ho cercato di dare una risposta attraverso questa tesi.
La risposta alla prima domanda è, relativamente, semplice, ed è contenuta nelle parole e nei
testi degli autori che ho consultato e che mi hanno guidato nella stesura del primo capitolo: la
conclusione a cui sono giunti, conclusione che condivido pienamente, è che sì, è possibile
fare storia attraverso un’intervista, un racconto di vita o una testimonianza orale, allo stesso
modo in cui è possibile fare storia con fonti scritte, d’archivio, le cosiddette fonti “tradiziona-
li”.
Non è, infatti, la tipologia della fonte a cui si ricorre che funge da discriminante, bensì l’at-
teggiamento e il tipo di approccio alla fonte utilizzato dallo storico che determina il valore
della sua ricerca. Se lo storico contemporaneo utilizza, o si costruisce, le sue fonti rigorosa-
mente e scientificamente ed è in grado di riconoscerne vantaggi o svantaggi, allora la sua ri-
cerca risulterà valida e corretta dal punto di vista storiografico.
Nel primo capitolo ho dimostrato, riferendomi al pensiero di storici e studiosi di altre disci-
pline che lavorano con fonti orali (soprattutto sociologi e, in parte, antropologi), come sia
possibile fare ricorso a questa tipologia di fonti (alla cui categoria appartengono anche le in-
terviste) nello stesso modo con cui gli storici hanno utilizzato e continuano a utilizzare le fon-
ti “tradizionali”.
Al netto delle, ovvie, differenze tra loro, tutte le tipologie di fonti (“tradizionali”, orali oppure
quelle costruite dai nuovi media) possono ugualmente incorrere in alterazioni, volontarie e
involontarie, e allo stesso modo possono essere controllate e verificate da parte del ricerca-
tore.
Per quale motivo, allora, l’utilizzo delle fonti “tradizionali” non solleva le stesse critiche, gli
stessi dubbi e le stesse perplessità rispetto all’utilizzo delle fonti orali?
L’estratto dell’intervista a Silvio Miana non è altro che un’ulteriore dimostrazione del fatto
che attraverso una testimonianza orale sia possibile esaminare un determinato periodo (in
questo caso gli anni compresi tra i primi decenni del Novecento e la prima metà degli anni
Sessanta) della storia italiana, a livello locale o nazionale.

!153
Senza dubbio, per anticipare una possibile obiezione, quella che ci restituiscono le parole di
Miana è una storia filtrata attraverso la sua visione del mondo (quella di un dirigente emiliano
della sinistra italiana) e non un’analisi oggettiva di quel periodo della storia del nostro paese,
ma non per questo motivo la sua testimonianza dovrebbe essere considerata di minor valore o
meno affidabile rispetto a una storia, ad esempio, della Federazione modenese del Partito
Comunista Italiano basata esclusivamente su documenti d’archivio (che spesso, paradossal-
mente, non sono altro che trascrizioni scritte di origine orale); l’oggettività, d’altro canto, che
non costituisce un obbiettivo per chi fa ricerca con le fonti orali.
Sicuramente la sola trascrizione della sua testimonianza, per quanto accurata, non sarebbe
stata sufficiente per poter considerare la trascrizione alla stregua di una ricerca “tradizionale”,
ed è per questo motivo che il ruolo dello storico rimane imprescindibile, anche nell’utilizzo di
fonti che, apparentemente, sembrano non necessitare di un lavoro di interpretazione: l’inter-
vento della soggettività e del punto di vista del ricercatore, che questo si concretizzi durante
la ricerca (attraverso, ad esempio, la scelta di chi intervistare e di quali domande porre), nella
produzione di un apparato di note, di un commento o di un’interpretazione, è necessario per
garantire al prodotto finito il grado di rigorosità e scientificità richiesto dalla storiografia.
Ma l’estratto dell’intervista, o meglio, l’intero processo che ha portato alla trascrizione
dell’intervista a Silvio Miana, non serve soltanto a rispondere alla prima domanda (se sia
possibile fare storia attraverso l’intervista) ma serve, soprattutto, a rispondere all’altro inter-
rogativo, per il quale, sinceramente, mi interessava maggiormente trovare una risposta: l’in-
tervista può essere un’efficace nuova forma di divulgazione storica?
Anche in questo caso la domanda ha trovato una risposta affermativa: l’intervista può essere
un’efficace forma di comunicazione storica, a condizione che presenti una serie di caratteris-
tiche e sia realizzata seguendo le modalità che ho descritto nel primo capitolo.
La caratteristica più importante che deve avere un’intervista per poter essere utilizzata effica-
cemente come forma di comunicazione storica è l’equilibrio fra rigore e leggerezza: soltanto
in questo modo il risultato della ricerca sarà al tempo stesso rigoroso e scientifico, a livello di
interpretazione, commento o apparato di note, ma anche diretto, leggero e appassionante nei
contenuti e nella forma.
Ho sperimentato in prima persona la difficoltà nel raggiungere e mantenere questo tipo di
equilibrio durante il mio lavoro di ricerca, soprattutto nel cercare di mantenere un alto livello

!154
di informalità nel racconto di Miana, di fronte al suo desiderio (altrettanto legittimo) di pro-
durre un testo più controllato e accurato dal punto di vista del contenuto e della struttura.
La trascrizione definitiva dell’intervista, più che una dimostrazione della possibilità di utiliz-
zare l’intervista come fonte storica (per dimostrare questo servirebbe, come ha affermato Por-
telli, una comparazione tra un grande numero di interviste) costituisce il cuore stesso della
tesi in quanto ha fornito una risposta alla mia ricerca di un una nuova forma di comunica-
zione storica, più diretta, coinvolgente e appassionante; ho scelto di affrontare un lavoro di
questo tipo, con tutti i rischi che questo comporta, come ad esempio l’impossibilità di creare
un rapporto informale e profondo (dal punto di vista collaborativo) con l’intervistato, o il ris-
chio di ottenere un prodotto non soddisfacente, dal punto di vista della comunicazione, pro-
prio per il bisogno di rispondere a questa mia esigenza.
Un’esigenza, quella di trovare e utilizzare nuovi strumenti e mezzi di comunicazione storica,
a cui credo che gli storici contemporanei non possano più sottrarsi, dato lo spazio sempre
maggiore che i nuovi media si stanno ritagliando come produttori e diffusori di storia. I nuovi
media, allo stesso modo degli autori che si nascondono inappropriatamente dietro al nome di
storici, ricercatori e giornalisti, producono e diffondono una storia che, al netto della, possi-
bile, mancanza di rigorosità e scientificità (fortunatamente esistono esempi, riportati anche da
Nicola Gallerano, di validi prodotti storici nati e sviluppati grazie ai nuovi media), si presenta
con un aspetto più stimolante, accattivante e immediata, rispetto a un saggio storico più tradi-
zionale.
Non è mia intenzione sostenere che la forma del saggio tradizionale sia da abbandonare, ri-
tengo, al contrario, che le sue migliori caratteristiche e i suoi punti di forza debbano costituire
l’orizzonte di riferimento e fungere da parte integrante all’interno dei nuovi strumenti di co-
municazione storica, per realizzare quell’equilibrio tra rigore e leggerezza di cui ho parlato in
precedenza.
Allo stesso tempo credo, però, che alla produzione di saggi tradizionali, rivolti soprattutto,
ma non esclusivamente, a un pubblico di professionisti, sia necessario affiancare la promo-
zione di nuovi strumenti di comunicazione storica, qualsiasi essi siano (interviste, prodotti
audiovisivi, serie televisive, pellicole cinematografiche, programmi di divulgazione scientifi-
ca, rievocazioni storiche di battaglie e mestieri, costruzioni di tipologie di edifici utilizzando
le tecniche del tempo a cui appartengono, o altri strumenti ancora), per raggiungere di nuovo,

!155
e in maniera più efficace, il grande pubblico non specializzato che continua a essere interes-
sato alla Storia, ma che ha diritto di trovarsi di fronte a prodotti migliori, sia dal punto di vista
della rigorosità sia dal punto di vista comunicativo.
Per concludere non è più possibile per uno storico contemporaneo non riconoscere l’impor-
tanza che le interviste, i racconti di vita e le testimonianze orali, hanno conquistato all’interno
della storiografia; non solo perché, come hanno sostenuto storici e ricercatori autorevoli
come, ad esempio Alessandro Portelli, le critiche mosse alla storia orale appaiono ormai
come una «difesa strumentale di metodi consolidati che non vogliono mettersi in discus-
sione» (Portelli, 2007, pp. 15-16), e ancora, lo stesso Portelli, nient’altro che un pregiudizio
riguardo il «primato sacrale della scrittura» (Bermani, 1999, vol. I, p. 157), ma anche perché
gli storici contemporanei hanno degli obblighi e delle responsabilità nei confronti della storia
stessa. Questi obblighi non si limitano al fatto di utilizzare degli strumenti come l’intervista e
le testimonianze orali per ampliare il proprio campo d’indagine, per illuminare con una luce
diversa campi e tematiche che fino a pochi decenni fa non sembravano offrire ulteriori spazi
d’indagine, per non disperdere la storia e la memoria di quelle classi, di quei protagonisti del-
la storia a lungo ignorati e, soprattutto, per trovare un nuovo mezzo di comunicazione storica
in grado di riavvicinare la Storia al grande pubblico.
Prima di concludere questa tesi è importante sottolineare il fatto che non sono soltanto le tes-
timonianze orali delle classi subalterne e dei vinti a offrire enormi potenzialità agli storici:
sarebbe, infatti, riduttivo e penalizzante proprio per le potenzialità delle fonti orali, limitarne
l’impiego soltanto a una storia socialmente e politicamente impegnata, rifiutando allo stesso
tempo di considerare le testimonianze dei non appartenenti alle classi subalterne (ad esempio
dirigenti politici e sindacali, imprenditori e industriali, intellettuali e benestanti), ricadendo in
questo modo nella stessa discriminazione che hanno a lungo subito i vinti e gli sconfitti. Per
esaminare in maniera approfondita un evento storico o un’epoca, infatti, è necessario racco-
gliere il maggior numero possibile di testimonianze, anche se discordanti tra loro, per rius-
cire, in questo modo, a guardare l’oggetto della ricerca da tutti i punti di vista.
La responsabilità più grande che gli storici contemporanei, che è anche la sfida più grande
che gli si pone davanti, hanno nei confronti della storia e del pubblico è quella di non abban-
donare questi nuovi campi d’indagine, le memorie di questi protagonisti e i nuovi mezzi di
comunicazione storica ai nuovi media e a quegli autori che, approfittando degli spazi lasciati

!156
dagli storici, pubblicano e diffondono lavori e interpretazioni che non difendono nient’altro
che i loro interessi o quelli dei loro committenti. Questi lavori, spesso, sono costruiti sull’uti-
lizzo di interviste “prevaricatrici”, la definizione è di Gianni Letta (Cacioli, 1987), o di inter-
viste “finte”, definizione di Enzo Roggi (Cacioli, 1987); nel caso in cui, al contrario, le inter-
viste siano state realizzate in modo corretto, seguendo le modalità indicate nel primo capitolo,
ad essere, spesso, scorretto è l’uso che ne viene fatto, un uso che non considera le loro carat-
teristiche peculiari: le interviste possono essere utilizzate alla stregua di fonti oggettive,
quando invece il loro carattere soggettivo è già stato dimostrato e più volte ribadito, oppure il
contenuto può essere accettato acriticamente, senza un lavoro rigoroso e scientifico di verifi-
ca e di interpretazione di quanto viene detto.
Gli storici contemporanei, la storiografia e il mondo accademico, devono riconoscere l’im-
portanza del ruolo delle interviste, e delle fonti orali in generale; un ruolo non più esclusiva-
mente di integrazione, di approfondimento e secondario, ma autonomo, di pari importanza
rispetto alle fonti tradizionali, se non più importante, almeno per quanto riguarda l’aspetto
della comunicazione.

!157
!158
5. Bibliografia
• 5.1 Questioni metodologiche
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• Id., Introduzione alla storia orale: esperienze di ricerca, vol. II, Roma, Odradek, 1999
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• R. De Felice, M. A. Ledeen (a cura di), Intervista sul fascismo, Roma-Bari, Laterza, 1975
• G. De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico: le fonti audiovisive nella ricerca e nella
didattica della storia, Scandicci (Firenze), La Nuova Italia Editrice, 1993
• Id., La passione e la ragione: il mestiere dello storico contemporaneo, Milano, Bruno
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• N. Gallerano (a cura di), L’uso pubblico della storia, Milano, FrancoAngeli, 1995
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passa. I crimini tedeschi e l’identità tedesca, Torino, Einaudi, 1987, pp. 11-24
• Id., L’uso pubblico della storia, in Id., Ibid., pp. 98-109
• Id., Storia e critica dell’opinione pubblico, Roma-Bari, Laterza, 2002
• M. Halbwachs, Memoria collettiva e memoria storica, in Id., La memoria collettiva, Mi-
lano, Edizioni Unicopoli, 2001, pp. 123-166

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dall’antichità al giorno d’oggi, Roma-Bari, Laterza, 1987
• Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza, Linguaggi, comunica-
zione e uso pubblico della storia: l’Annale Irsifar, Milano, FrancoAngeli, 2002
• J. Le Goff (a cura di), La nuova storia, Milano, Arnoldo Mondadori, 1980
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• P. Natoli e R. Sitti, Presupposti per un intervento della cultura orale nella storiografia, in
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• L. Passerini, Storia e soggettività: le fonti orali, la memoria, Scandicci (Firenze), La
Nuova Italia Editrice, 1988
• M. Pistacchi (a cura di), Vive Voci: l’intervista come fonte di documentazione, Roma,
Donzelli Editore, 2010
• A. Portelli, Storie orali: racconto, immaginazione, dialogo, Roma, Donzelli Editore,
2007
• A. Rigoli, Lo sbarco degli alleati in Sicilia del 1943, tra prospettiva storiografica “ege-
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• Id., Il tempo nella narrazione storica, in Id., Ibid., pp. 88-106
• Id., Marc Bloch e Fernand Braudel: le premesse della loro metodologia, in Id., Ibid., pp.
185-198

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• Id., Narrare la storia: nuovi principi di metodologia storica, Milano, Bruno Mondadori,
1997
• J. Vansina, La tradizione orale: saggio di metodologia storica, Roma, Officina Edizioni,
1976


!161
!162
• 5.2 Ricerca originale
• 5.2.1 Storia generale
• http://www.anpi.it/chi-siamo/
• http://www.anpi.it/donne-e-uomini/oddo-biasini/
• http://www.anpi.it/donne-e-uomini/giuseppe-dalema/
• http://www.anpi.it/donne-e-uomini/luciano-romagnoli/
• http://www.anpi.it/donne-e-uomini/palmiro-togliatti/
• http://www.ciportanovia.it/chiappelli-erminio
• http://www.istitutochiaromonte.it
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gate partigiane, b. 5, serie 3 Elenchi nominativi, fasc. 1
• Elenco nominativo suppletivo dei partigiani feriti e ammalati, Archivio dell’Istituto Sto-
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• 5.2.3 Cooperazione
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• S. Cruciani, La CGIL e le Camere del Lavoro da Giuseppe Di Vittorio a Bruno Trentin, in
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• F. Montella, L’insediamento territoriale delle Camere del Lavoro a Modena e provincia
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• L. Musella, I sindacati nel sistema politico, in Storia dell’Italia Repubblicana, I, La cos-
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