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Gianni Micheli, Mezzo secolo di storia della scienza a Milano.

A cura di Marco Beretta, Marina Lazzari ed Elio Nenci

1
Premessa

La storia della scienza in Italia ha conosciuto un primo radicamento istituzionale solo


durante i primi anni ’60 del secolo scorso. Come apparirà chiaro anche dalla lettura delle
pagine che seguono, uno dei principali protagonisti della diffusione di questa nuova
disciplina nelle nostre università è stato Ludovico Geymonat che già nel 1947 tenne un
corso dedicato alla storia del calcolo infinitesimale e, poco tempo dopo, con la fondazione
del Centro di Studi Metodologici, richiamò con insistenza il ruolo strategico della storia
della scienza nel processo di rinnovamento della cultura italiana. Quando, nel 1956,
Geymonat venne chiamato a Milano a ricoprire la prima cattedra italiana di filosofia della
scienza, moltiplicò le iniziative per trasformare la storia della scienza e sottrarla sia da
stanche pratiche erudite sia da narrazioni agiografiche e celebrative. Di questo impegno è
testimonianza la celebre biografia di Galileo, pubblicata nel 1957, un libro che, attraverso
numerosi spunti polemici e un’originale rivalutazione delle tecniche nella scienza
galileiana, seppe rapidamente conquistarsi un amplissimo pubblico. L’importanza del
fermento culturale che pervase l’Università Statale di Milano durante gli anni ’60 assicurò
alla storia della scienza uno dei primi insegnamenti in Italia e Gianni Micheli che, ne è
stato il titolare per oltre 40 anni, ci ha voluto dare, in occasione del suo 80 compleanno,
un’appassionata testimonianza nell’intervista che qui pubblichiamo. Si tratta di un racconto
entusiasmante dal quale traspare bene la matrice culturale che distinse, fin dai primi passi,
il contesto milanese. La storia della scienza non era semplicemente, come è diventata oggi,
una professione accademica dai contorni teorici precisi; essa costituiva un efficace
strumento di indagine i cui risultati aspiravano ad aprire orizzonti nuovi a una cultura che,
anche a sinistra, era rimasta estranea, se non addirittura ostile, al mondo della scienza.
Gianni ci restituisce la ricchezza di questo clima estremamente vivace non senza
contribuire a ricercare le cause che, col tempo, ne hanno smussato ambizioni ed entusiasmi.
La testimonianza di Gianni è preziosa per un’altra, non meno importante ragione. La
passione con cui ha insegnato storia della scienza per oltre 40 anni, offrendo agli studenti
la possibilità di seguire corsi dedicati agli argomenti più diversi, rivela, oltre che la propria
curiosità, la vastità della materia e le diverse modalità storiografiche per affrontarla. Questa
ampiezza di vedute si riscontra molto bene nei percorsi di ricerca, molto differenti tra loro,
dei numerosi allievi che hanno continuato gli studi dopo la laurea. Nonostante la sterminata
varietà dei suoi interessi, Gianni ha sempre rifuggito dall’erudizione fine a sé stessa e non
ha mai nascosto, e tanto meno a lezione, la propria predilezione per la scelta di argomenti
che avessero una rilevanza storiografica generale. Di qui il suo interesse per la storia della
storiografia della scienza. La mancanza in Italia di una discussione aperta sui metodi e
finalità culturali della storia della scienza, non ha inibito Gianni ad affrontare questi temi
con continuità. Di questi interessi storiografici danno conto i saggi, originariamente
pubblicati tra il 1967 e il 2015, che vengono qui ristampati.
Nel congedare il volume per la stampa, vogliamo ringraziare Gianni per l’entusiasmo
con cui ha aderito a questa iniziativa e per aver reso così piacevoli i nostri incontri. Un
grazie va a Pina Madami per aver assecondato, con partecipe complicità, delle riunioni
contraddistinte da interessanti discussioni, buon umore, partecipazione e deliziose pause
conviviali. Un ringraziamento particolare infine va a Fabio Minazzi per averci
generosamente proposto di inserire il presente volume nella collana da lui diretta.

I curatori, Milano 14 febbraio 2016

2
Intervista a Gianni Micheli1

MARCO BERETTA: Vorrei prima di tutto che tu ci parlassi del tuo cursus studiorum,
delle tue prime passioni culturali e letture e infine delle tue frequentazioni intellettuali
giovanili.

GIANNI MICHELI: La mia formazione culturale avviene nel primo dopoguerra,


periodo in cui il paese cerca di risollevarsi dalle macerie materiali e morali lasciate dalla
guerra. C’erano carenze di ogni genere: economiche, alimentari, ma anche una fervida
speranza di cambiamenti epocali.
Sono nato in una famiglia di modeste condizioni economiche; fui però avviato al liceo
classico per espressa volontà di mio padre che riteneva di dover compensare la sua
mancanza di cultura iscrivendo il figlio a quella che riteneva fosse la scuola migliore. Sono
stato uno studente normale, ma con una spiccata passione per la lettura di ogni genere. Ho
ancora molti dei libri della mia formazione, sgualciti e mal ridotti. Appartengono alla
collezioni economiche di allora: Bur, Bmm, Coperativa del libro popolare, collana poi
confluita nella Economica Feltrinelli. Attraverso il libri pubblicati in questa collana
conobbi i classici del pensiero laico e progressista, Diderot, D’Alembert, Voltaire ecc. Si
potevano comprare con poche lire.
Terminato il liceo classico, dopo una breve esperienza a medicina fatta per compiacere
mio padre, mi iscrissi a filosofia, con l’intento di occuparmi di storia, in particolare di quei
temi della storia italiana che avevo desunto dalla lettura di De Sanctis, Croce, Gramsci.
All’Università ebbi la fortuna di trovare un gruppo di compagni molto più esperti di me
che mi fecero interessare all’attività politica. La maggior parte di questi amici erano
comunisti (Achille Occhetto, Luca Cafiero, Enrico Rambaldi), ma c’erano anche radicali
(Ettore Gelpi, Grazia Cherchi) e altri genericamente di sinistra (Michele Pacifico, Adriano
Carugo). In quel periodo feci le mie prime e sole esperienze politiche nell’ambito delle
organizzazioni giovanili del P.C.I., le mie prime letture marxiste e le mie prime discussioni
di carattere filosofico: ricordo un ricco e stimolante dibattito su Dewey e il marxismo allora
di moda, in occasione dell’uscita del libro di Giulio Preti, Praxis ed empirismo. 2

MARCO BERETTA: Da chi erano promosse le riunioni?


GIANNI MICHELI: Il centro di questa attività politica era il circolo Antonio Banfi,
(fig.1a e 1 b) fondato da Occhetto, in cui si discuteva se il marxismo dovesse essere una
metodologia o una concezione del mondo. Ricordo in particolare gli interventi di Pietro
Ingrao e di Lucio Magri che mi fece molta impressione per l’abilita con cui sapeva
conciliare marxismo e cristianesimo, e poi di Ludovico Geymonat, fautore, ovviamente,
del marxismo come concezione del mondo, e in polemica con la politica culturale del
partito comunista difesa da Mario Spinella. All’Università ebbi la fortuna di trovare dei
professori di notevole levatura e di grande personalità, primo fra tutti Banfi, di cui seguii
un corso di storia della filosofia su Hegel, e poi Cesare Musatti, Mario Dal Pra, Paolo Rossi
e Geymonat. Ricordo di Banfi l’eloquio brillante e vivace, di Musatti l’arguzia e
l’autoironia (una volta si accorse a metà lezione che stava ripetendo quella del giorno
precedente e rimproverò noi studenti per non averlo corretto; in una lezione sulla Gestalt
per indicare il rosso non vivace diceva rosso socialdemocratico), di Dal Pra le lezioni
precise e accurate svolte con dovizia di citazioni; di Geymonat la passione nel
propagandare l’interesse per la scienza. Quest’ultimo avendo saputo che molti di noi non
conoscevano i testi classici del marxismo sulla scienza, ci invitò subito a colmare quella
lacuna, se volevamo avere una cultura adeguata ai tempi. Le perorazioni di Geymonat
ebbero successo, almeno nei miei confronti.
MARCO BERETTA: La scelta dell'argomento di tesi in che misura ha condizionato le
tue ricerche successive?

1
Le domande sono state formulate da M. Beretta e E. Nenci. M. Lazzari si è occupata della stesura del
testo scritto e della sua revisione finale.
2
G. Preti, Praxis ed empirismo, Einaudi, Torino 1957.
3
GIANNI MICHELI: Per la tesi scelsi un argomento scientifico (fig.2), ma di carattere
filosofico: il meccanicismo. Il riferimento alla biologia e a Descartes mi fu suggerito da
una esercitazione che avevo fatto per il corso di Paolo Rossi su Bacone e dalla lettura del
libro di Franco Alessio su Harvey3. L’argomento era stato scelto da me e lo svolsi
autonomamente senza alcun ausilio, né da parte di Dal Pra, né di Geymonat, che non erano
competenti in materia. Da buon allievo di Dal Pra, impostai il mio studio sull’analisi dei
testi e delle fonti, e così studiai la biologia di Descartes alla luce della medicina
cinquecentesca. Potei constatare che Descartes aveva una conoscenza abbastanza estesa
della letteratura medica del tempo anche se i riferimenti ad essa sono quasi del tutto assenti.
Ebbi così modo di verificare allora che il maggior studio sulla questione, quello di Ètienne
Gilson, si era limitato all’analisi delle parti mediche del manuale dei gesuiti presso i quali
Descartes aveva studiato. Il fatto di essere stato in grado di correggere l’analisi di Gilson,
che consideravo un maestro come storico della filosofia, mi fece acquisire sicurezza in me
stesso e nelle mie qualità di studioso. Devo dire che in seguito ho attribuito la sua
improprietà di approccio al fatto che si fosse cimentato occasionalmente in uno studio di
storia della scienza. Mi laureai nel gennaio del 1960 con pieni voti e lode.
Sviluppai lo stesso argomento della tesi nel mio primo soggiorno parigino ampliando
ulteriormente il problema delle fonti e mi dedicai allo studio della medicina greca. Ero
giunto alla conclusione che per capire bene un autore del Seicento bisognava risalire ai
Greci. Arrivai a tale conclusione autonomamente seguendo lo sviluppo stesso della ricerca.
Mi sembrava di aver conseguito una acquisizione teorica generale. È in questo periodo
(1963 circa) che cominciò il mio interesse per la metodologia e la teoria della storia della
scienza che non ho più abbandonato. Lessi i classici della storia della medicina (Sprengel
e Daremberg) e poi Duhem, Tannery, Mach, Koyré, Meyerson, A. Rey e molti altri.
MARCO BERETTA: Ugo Cassina, che aveva studiato con Peano, ha insegnato storia
della matematica a Milano a partire dal 1951. Ne hai seguito i corsi? Che opinione ne aveva
Geymonat?

GIANNI MICHELI: Durante il corso su Peano che io ho seguito Ugo Cassina era spesso
citato da Geymonat come un personaggio singolare che riteneva che con Peano si fosse
conseguito il massimo nella logica. Senza avere il minimo senso del ridicolo Cassina
sosteneva (ed era una aneddoto che circolava alla facoltà di matematica) che Petrarca
tradotto nel linguaggio di Peano fosse meglio dell’originale. Del resto, di fatto, in facoltà
la storia della matematica era svolta da una sua collaboratrice, la dott. Maria Spoglianti. A
matematica la storia della disciplina cominciò ad essere presa in seria considerazione solo
con Massimo Galuzzi.
MARCO BERETTA: Che effetto ti fece la pubblicazione nel 1957 della biografia di
Galileo di Geymonat 4?
GIANNI MICHELI: Lessi il volume su Galileo di Geymonat ancora studente e mi
produsse subito una notevole impressione, anche se devo dire, non colsi allora i risvolti
personali di quel libro che mi apparvero chiari in seguito, anche perché me li fece notare
Geymonat stesso. Si tratta della connessione tra la battaglia di Galileo per fare accettare la
scienza moderna alla Chiesa e quella sua per introdurre la dimensione scientifica nel
patrimonio culturale del partito comunista. Tra l’altro ebbi l’opportunità di approfondire la
tesi dottrinale sostenuta nel libro, l’importanza della tecnica nell’opera scientifica di
Galileo, con Carugo, che allora stava scrivendo le note ai Discorsi galileiani 5 in
collaborazione con Geymonat. Trovavo la tesi plausibile e giusta la polemica con Koyré.
Più tardi, quando cominciai ad avere un rapporto più cordiale con Geymonat, gli chiesi
perché non avesse corroborato con una analisi puntuale sui testi la critica a Koyré ed ebbi
la seguente risposta: perché non la fai tu che sei tanto bravo? La cosa mi lasciò alquanto
perplesso, perché allora non pensavo che le critiche a Koyré fossero marginali rispetto alla
tesi centrale che voleva dimostrare nel suo saggio e di cui ho parlato prima. Frequentando
Geymonat ho potuto constatare la natura profonda della sua avversione alla matrice

3
W. Harvey: Opere. a cura di F. Alessio, Boringhieri, Torino 1963.
4
L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Toorino 1957.
5
G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a cura di A.Carugo, L.
Geymonat, Boringhieri, Torino 1958.
4
letteraria della politica culturale del partito comunista, e il suo disappunto per non essere
riuscito a cambiarla, o per lo meno a modificarla. Il libro su Galileo è la constatazione del
fallimento della sua battaglia all’interno del partito e l’inizio delle violente critiche fatte al
partito dall’esterno. È di quegli anni la polemica con Concetto Marchesi e il suo intervento,
molto critico, su Gramsci ad un convegno a Roma nel 1958.
MARCO BERETTA: Mi pare che l’influenza di Dal Pra abbia avuto un peso molto
importante nel tuo modo di affrontare la storia della scienza. È così? Del resto, a partire
dalla sua fondazione, la «Rivista critica di storia della filosofia» ha pubblicato numerosi
contributi di storia del pensiero scientifico e, nel 1963, aveva dedicato un importante
numero monografico a Vailati 6.

GIANNI MICHELI: Di Dal Pra dico solo che è stato il mio modello di professore. Da
lui ho imparato che l’insegnante è al servizio degli studenti e non viceversa, come accade
spesso nelle università italiane, e che verso gli studenti occorre avere pazienza, rispetto ed
essere sempre cortesi e disponibili, che il docente ha il dovere di preparare le lezioni al
meglio delle sue possibilità, senza barare in alcun modo. Se sono stato un buon insegnante
lo devo a lui. Dal Pra aveva avuto una formazione filosofica avulsa dai problemi scientifici.
Infatti la cultura filosofica italiana, negli anni in cui si era formato e in cui poi si era inserito,
non aveva alcun interesse per tali argomenti. Solo personalità di rilievo come Geymonat e
Preti, e più tardi Barone, coltivavano in quegli anni, le problematiche relative alla filosofia
della scienza, ma con una risonanza, nel dibattito filosofico del tempo, assolutamente
marginale. (figg. 3-4) Ancor meno praticata era la storia della scienza con qualche venatura
di carattere filosofico. I contributi di storia della scienza, soprattutto nelle discipline
matematiche e mediche, erano abbastanza numerosi, ma avevano una spiccata vocazione
specialistica, settoriale e nazionalistica. Tale situazione si protrasse ancora nei due decenni
successivi alla pubblicazione della «Rivista di storia della filosofia». Per dare un’idea delle
difficoltà, anche di ordine materiale, che gli studiosi di storia della scienza incontravano,
va detto che in quegli anni mancavano a Milano strumenti fondamentali per tale tipo di
studi. Ricordo che quando ero ancora un giovane ricercatore, cioè negli anni 60, non si
trovava a Milano la rivista Isis. Occorreva richiedere il microfilm degli articoli che
interessavano alla Biblioteca Vaticana e attendere parecchio tempo per averli. Quando, per
un caso, la biblioteca comunale di Milano acquistò la collezione completa della rivista (dal
1913), fu per me un evento. Passai una intera settimana a sfogliarla tutta.
L’interesse per la scienza, comunque, maturò ben presto nel giovane Dal Pra: già negli
anni 30, non però direttamente. Nacque all’interno delle ricerche filosofiche che veniva
svolgendo in quegli anni, come esigenza di ampliare il campo di riferimento della
prospettiva filosofica.
Dal Pra non si impegnò personalmente in ricerche di filosofia e scienza, ma l’intento
promozionale iniziale fu perseguito con tenacia, pazienza e passione e la cultura italiana
deve essergli grata per questo. Non pochi allievi, tra cui Maria Teresa Monti, Dario
Generali e il sottoscritto, sono stati da lui spinti e incoraggiati a diventare storici della
scienza professionisti; altri, e ricordo qui solo Giambattista Gori, Renato Pettoello, Fabio
Minazzi, a sviluppare temi filosofici attinenti alla scienza.
La promozione a favore dello sviluppo dei rapporti tra filosofia e scienza di Dal Pra non
si limitò all’attività di insegnante, ma all’attivazione di eventi di interesse culturale
generale e alla costituzione di un istituto preposto a finanziare quel tipo di sviluppo. Tra i
molti eventi di interesse culturale nati con tale intento per iniziativa di Dal Pra, segnalo
quello che, mio parere, è il più importante: la valorizzazione della figura e delle opere di
Giovanni Vailati, personaggio anomalo nella cultura italiana e a lungo dimenticato. Questa
impresa iniziò con l’acquisizione al Dipartimento di filosofia dell’università di Milano nel
1959 del fondo di libri e manoscritti posseduti dal filosofo cremasco. Proseguì nel 1963
con un importante convegno in cui i principali filosofi italiani del momento furono indotti
a confrontarsi con il pensiero del filosofo cremasco. E nel 1972, con la pubblicazione di un
primo volume di lettere, a cura di Giorgio Lanaro con una lunga introduzione di Dal Pra,
cui seguì quella di molte altre. L’interesse alimentato da Dal Pra per Vailati produsse
numerosi studi, condotti in vari periodi, che hanno contribuito a situare in modo adeguato

6
«Rivista Critica di Storia della Filosofia», a. XVII, 1963.
5
la sua figura di studioso nell’ambito della cultura italiana 7. L’istituzione cui facevo
riferimento è il ‘Centro di studi del pensiero filosofico del Cinquecento e del Seicento in
relazione ai problemi della scienza’, che fa parte del Consiglio Nazionale delle Ricerche,
sorto per iniziativa di Dal Pra nel 1971. La connessione tra filosofia e scienza contenuta
nella denominazione stessa del Centro riprende quanto Dal Pra aveva esposto nella
premessa della «Rivista di Storia della Filosofia» prima ricordata, relativamente
all’apertura della filosofia verso le altre branche del sapere. Il tema dell’allargamento
dell’ambito di riferimento della filosofia è chiaramente formulato nelle indicazioni
premesse ai volumi pubblicati dal Centro 8. Dal Pra ha dedicato all’attività del Centro una
notevole dose di energia e di passione che ho potuto constatare di persona perché allora
svolgevo mansioni di collaborazione per quanto concerneva la parte bibliografica. Certo le
pubblicazioni di testi e di ricerche del Centro non seguivano in tutto l’orientamento
programmatico, dato che veniva dato spazio a lavori di carattere filosofico con impatto
scientifico limitato, ma le pubblicazioni del Centro di carattere bibliografico e di contenuto
scientifico non furono poche durante la direzione del Centro di Dal Pra. Va detto che nel
Centro maturarono poi due grandi imprese editoriali aderenti allo spirito originario
dell’istituto: l’edizione delle opere di Cardano e di Vallisneri.
Dal Pra non si impegnò direttamente negli studi di filosofia e di storia della scienza per
la mancanza di una formazione scientifica in gioventù. In quegli anni la storia della scienza,
infatti, era considerata una disciplina specialistica e settoriale in cui potevano cimentarsi
solo gli operatori delle varie branche scientifiche. Anche la filosofia della scienza in quel
periodo aveva assunto con il neopositivismo una connotazione tecnica molto elevata.
Questo fatto può aver fatto sorgere in lui scrupoli eccessivi circa le proprie competenze,
producendo una sorta di reticenza nell’esprimere giudizi propri su singoli problemi
scientifici. Questa reticenza si attenuò in seguito rispetto alla filosofia della scienza: la
vicinanza con Preti gli rese familiari le tematiche neopositivistiche, il pensiero di Dewey
in cui è importante il discorso scientifico, l’opera di Russell e anche il dibattito
metodologico sulla scienza, argomenti su cui scrisse articoli, recensioni e interventi a
convegni. Ma la reticenza rimase sempre forte nell’ambito della storia della scienza su cui
fu restio ad impegnarsi, malgrado i corsi su Galileo e su Descartes 9, ( mettere il titolo del
corso) nonché la lettura dei più importanti libri di storia della scienza, come traspare dalla
rassegna degli studi sulla storiografia della filosofia e della scienza, pubblicata nel volume
Introduzione allo studio della storia edito da Marzorati nel 1970 (pp.441-494) 10, dalle
notizie sulle sviluppo delle scienze che vengono date nel suo manuale di storia della
filosofia, e dai numerosi riferimenti a problemi scientifici contenuti nei suoi scritti. Ma si
tratta di materiale espositivo in cui gli argomenti, pur presentati con chiarezza ed acume,
riflettono sempre le opinioni della ricerca storiografica corrente. La reticenza nel dare
giudizi personali su singole questioni scientifiche è confermata anche dalla personale
esperienza che ho derivato dalle discussioni avute con lui sui miei lavori e su quelli di altri,
ed è spiegabile solo con la consapevolezza di non essere sufficientemente preparato per
affrontare quel tipo di argomenti, stante la sincerità con cui esprimeva le proprie opinioni
e la facilità con cui discuteva e criticava le opinioni di altri su questioni filosofiche. Si tratta
7
Cfr. Filosofia e scienza nel pensiero di Giovanni Vailati; Momenti della tradizione filosofica di Giovanni
Vailati, in Studi sul pragmatismo italiano, Bibliopolis, Napoli 1984, pp.17-46 e 47-84. Il volume contiene
anche l’introduzione al volume delle lettere curato da Giorgio Lanaro e pubblicato a Torino da Einaudi, pp.
85-130.
8
«Nei suoi sviluppi più recenti, la ricerca storiografica ha messo in luce l’articolazione e la complessità
delle categorie, che presiedono al costituirsi del sapere moderno. All’idea di un ragione ‘pura’ e tutta risolta
nella sua consistenza speculativa, è venuta sostituendosi una consapevolezza più larga e approfondita delle
svariate connessioni che legano la riflessione filosofica agli altri ambiti e alle pratiche dell’esperienza
culturale. L’immagine di un’unica ‘svolta copernicana’ si è così arricchita con il riferimento alle molteplici
‘rivoluzioni’che hanno attraversato le vicende del nostro pensare. Studiare oggi il Cinquecento e il Seicento
significa confrontarsi con questo insieme di problemi e di suggestioni: la collana che raccoglie i risultati
dell’attività promossa dal Centro di studi del Consiglio nazionale delle Ricerche in collaborazione con
l’Università di Milano, riflette nelle sue distinte sezioni l’esigenza di intervenire sui punti nodali ove i
percorsi delle filosofie e delle scienze si intrecciano con le ragioni della vita civile e con il complesso mondo
delle credenze».
9
Tenne il corso su Descartes nell’anno accademico 1957-58. Sono interessanti le annotazioni sui rapporti
di Descartes con Beeckman. Il corso su Galileo è del 1961-62. Cfr. Fondo Mario Dal Pra, Milano 2005,
p.158, p. 206.
10
Col titolo di Sulle teorie della storiografia della filosofia e della scienza nel Novecento.
6
di un aspetto della sua personalità che mostra indirettamente la serietà e il rigore della sua
ricerca e che cercava di trasmettere con l’esempio ai suoi allievi. Dai colloqui che ho avuto
con lui ho avuto anche l’impressione che tale reticenza discendesse anche dal modo
superficiale e disinvolto con cui colleghi di storia della filosofia trattavano argomenti di
storia della scienza. L’impegno personale di Dal Pra come studioso di problemi scientifici
fu quindi limitato, ma non per questo meno significativo, dato che costituiva un supporto
serio e motivato per promuovere ricerche di storia della scienza e dare seguito in qualche
modo alla sua giovanile scoperta dell’importanza della scienza per la filosofia. Scoperta
che può considerarsi frutto di un grande apertura mentale e di una vivace curiosità, qualità
che rimasero inalterate anche in seguito. A queste sue qualità intellettuali devo aggiungere
anche la grande tolleranza che manifestava in ogni circostanza, e che venne messa a dura
prova negli anni della rivoluzione studentesca.

MARCO BERETTA: Nel 1964 Luigi Belloni ottiene l’incarico di insegnare storia della
scienza presso la facoltà di Lettere (dal 55 insegnava storia della medicina a Medicina) e
qualche tempo dopo tu diventi suo assistente volontario. Ci puoi dare un’idea di come si
svolgevano i corsi in quegli anni e come fu la tua collaborazione con Belloni?

GIANNI MICHELI: Quanto ai rapporti con Luigi Belloni, devo dire che ho un ottimo
ricordo di lui. Era persona amabile, ma piena di complessi e di idiosincrasie. Instaurai con
lui un rapporto di affettuosa amicizia. Mi insegnò quanto poteva con generosità senza farmi
pesare la sua indubbia competenza medica. D’altro canto, lui mi era grato per la gentilezza
con cui accondiscendevo alle sue manie. Era, in un certo senso, una vittima dell’esuberanza
di Geymonat e della sua volontà di diffondere ad ogni costo la storia della scienza.
Rappresentava l’esempio classico della dicotomia irrisolta tra scienza e filosofia che
colpiva gli scienziati italiani e che Belloni fu costretto a porsi in modo traumatico. Infatti
Geymonat nel 1965 ebbe la possibilità di inserire nell’organico della facoltà di filosofia
della Statale un insegnamento di storia della scienza. Era l’insegnamento che aveva
designato per me, ma non avendo io allora la libera docenza, necessaria per accedere
all’insegnamento, invitò Belloni che era incaricato di storia della medicina alla facoltà di
medicina, a coprire anche l’incarico di storia della scienza a filosofia. Belloni si rassegnò
per le superiori ragioni dello sviluppo della disciplina a questo sacrificio, che visse però in
modo drammatico e che io, in parte, riuscii ad attenuare. Siccome pensava e diceva di non
essere competente di filosofia, io dovevo essere presente sempre alle sue lezioni per
rispondere alle eventuali domande di filosofia da parte degli studenti, e negli ultimi anni
(in pieno 68) per rispondere alle possibili domande di politica. Confessava di non sapere
nulla neanche di politica. Inutile dire che non ci fu nessuna domanda di filosofia o di
politica alle sue lezioni. In compenso mi insegnò ad usare il microscopio e mi introdusse
agli aspetti tecnici della medicina cinquecentesca e secentesca di cui aveva una conoscenza
non comune. Inoltre mi fece conoscer e amare Malpighi, il più cartesiano dei galileiani, ma
purtroppo non riuscii a realizzare quello che voleva io facessi. Aveva elaborato il metodo
delle ripetizione degli esperimenti degli scienziati secenteschi e me lo aveva descritto e
spiegato con dovizia di particolari, anche con esempi pratici. Egli desiderava che io
elaborassi una teorizzazione di tale metodo, cosa che non mi riuscì di fare per vari motivi.
Cercai di sopperire in seguito a tale ‘mancanza’ (ma era già morto) con un contributo sul
microscopio delle natura di Malpighi, tema indicato da Belloni e che io sviluppai in senso
filosofico e generale. Negli anni in cui collaboravo al progetto editoriale dei Classici della
Scienza di Geymonat, con l’antologia di Cartesio che io ho curato (1966), 11 anche Belloni
lavorava per la stessa collana al volume su Malpighi 12 uscito l’anno successivo. Fu un
periodo di intenso scambio tra noi: io mi servii della sua competenza in storia della
medicina per porgli delle domande relativamente alle questioni mediche presenti nei testi
cartesiani, d’altra parte lui utilizzò il mio lavoro su Descartes. Ricordo che tenne quattro
corsi su Malpighi, estremamente puntuali, in cui trattava spesso della ripetizione degli
esperimenti. Mostrava d’altro canto una certa difficoltà ad elaborare un discorso di
carattere generale, avendo il gusto per la minuzia e la puntualità. Un esempio fu il suo
interesse per quello strumento per la misurazione della pressione nei liquidi attribuito a
11
R. Descartes, Opere scientifiche, vol.I, La biologia, a cura di G. Micheli, UTET, Torino 1966.
12
M. Malpighi, Opere scelte, a cura di L. Belloni, UTET, Torino 1967.
7
Descartes e noto col nome di “diavoletto di Cartesio”. Ricordo che condivise con me la sua
scoperta che tale strumento in realtà fu inventato da Raffaello Magiotti 13.

MARCO BERETTA: Nel 1966 partecipasti al convegno, promosso dalla Domus


Galilaeana, al 'Primo convegno internazionale di ricognizione delle fonti per la storia della
scienza italiana: i secoli XIV-XVI' (Pisa, 14-16, settembre) (fig. 5). Protagonisti
dell'iniziativa sembrano essere stati Geymonat e Giovanni Polvani, il quale tra l'altro, dopo
aver retto la presidenza del CNR, tornava a Milano proprio in quello stesso anno da rettore
dell'Università. Al convegno parteciparono illustri scienziati, storici, medici, storici della
scienza, e, senza dubbio da protagonisti delle discussioni, storici della filosofia. Nel
dibattito si delinea in effetti un divaricamento, destinato a durare, tra la posizione di
Geymonat volta ad assicurare alla storia della scienza uno statuto metodologico autonomo
e quella degli storici della filosofia, Eugenio Garin e Tullio Gregory in testa, che, pur con
sfumature diverse, rivendicano alla storia della filosofia un ruolo guida. Un'altra questione
animata dagli interventi di Carlo Maccagni e destinata a trascinarsi per decenni verteva
sulla collocazione storica e teorica della tecnica. Quale fu la tua reazione al ricco dibattito
che ne scaturì?

GIANNI MICHELI: Hai perfettamente ragione di sottolineare l’importanza di questo


convegno: pubblico immenso (un centinaio di persone), molta attenzione, discussioni
vivaci. Faceva parte della strategia di Geymonat di promozione della storia della scienza
presso filosofi, storici e scienziati. Il convegno fu organizzato da Polvani, cioè da Carlo
Maccagni sui temi a lui congeniali, mentre la discussione generale fu monopolizzata da
Geymonat. Le relazioni del convegno erano ampie e circostanziate e suscitarono molte
discussioni. Ebbe molta eco quella innescata dal giudizio di Vasco Ronchi sulle
sciocchezze contenute sul libro della magia naturale di Della Porta. Questo provocò la
reazione di Garin: “Resta tuttavia indiscutibile il fatto che non possono applicarsi ai secoli
da noi studiati i parametri contemporanei: ciò che a un lettore di tempi diversi sembra
assurda superstizione, riletto nel suo contesto ritrova un proprio valore” (p. 238 degli Atti
del Convegno) e di Paolo Rossi (“Abbiamo tutti sorriso ascoltando alcune affermazioni di
Della Porta. Ma non sarebbe impossibile suscitare un eguale sorriso leggendo alcune frasi
di Gilbert o di Keplero”, p. 239). Più equilibrato fu il giudizio di Luigi Firpo e di Mario
Gliozzi. In realtà, però, la polemica mi sembrava mal posta e provai anche a dirlo a Paolo
Rossi che nell’intervallo ironizzò a lungo sull’opinione di Ronchi. Infatti Ronchi diceva
che molte delle affermazioni di Della Porta erano sciocchezze anche a giudizio dei
contemporanei e citava il parere di Sagredo espresso a Galileo in una lettera del 1612.
Suscitò curiosità anche la denuncia ingenerosa da parte di Garin degli errori di carattere
bibliografico di Adriano Carugo (allora giovane ma già valido e noto studioso) e
l’imbarazzata ma corretta ammissione dell’errore da parte di Carugo stesso. La polemica
con Vasco Ronchi rimase fine a se stessa e non suscitò un dibattito sulla vecchia
storiografia e la nuova. Questa mancanza si riscontra anche nel dibattito generale guidato
da Geymonat, interessante di per sé, ma sterile. Questa mancanza la rilevo adesso. Allora
non l’avevo considerata perché non avevo ancora ben chiaro che Geymonat stava
proponendo quella che per lui era la rifondazione dell’area di storia della scienza. Ora mi
è evidente questo suo tentativo, ma anche che i termini di tale riforma erano limitati,
strumentali e confusi. L’occasione era data dall’istituzione di borse di studio da parte della
Domus Galileiana. Geymonat propose di trovare insieme quali potessero essere gli
elementi fondanti per la formazione di un tipo di ricercatore ideale di storia della scienza.
Era preoccupato di trovare docenti preparati per la nuova disciplina, dato che si apriva la
possibilità di creare nuovi corsi nelle facoltà scientifiche e umanistiche. Il dibattito risultò
interessante (uno dei partecipanti al Convegno lo storico Luigi Firpo dimostrò di avere una
buona conoscenza della scienza rinascimentale) ma astratto, e malgrado i molti inviti alla
concretezza, fornì indicazioni pratiche contraddittorie. In realtà, vedo bene ora, se si voleva
rifondare la storia della scienza, occorreva confrontarsi con la vecchia storia disciplinare,
tanto più che erano presenti al Convegno molti esponenti di quel tipo di storiografia: oltre

13
Sul tema si veda l’articolo Luigi Belloni, Schemi e modelli della macchina vivente nel Seicento: con
ristampa della lettera di R. Magiotti Renitenza certissima dell'acqua alla compressione (il diavoletto di
Descartes), «Physis», a. V, 1963, pp.259-298.
8
a Vasco Ronchi, Gliozzi, Carruccio, Forti, Arrighi, Belloni, Polvani. Ma penso che a
Geymonat non fosse ben chiara la profonda innovazione che era necessaria. Vedeva la
nuova storiografia come una articolazione, più criticamente fondata, di quella tradizionale.
Si spiegano così nello stesso Convegno gli inviti rivolti ad Arrighi ad assumere un
atteggiamento più generale nelle sue ricerche specifiche, e quelli, di cui sono testimone,
che faceva continuamente a Belloni perché scrivesse una storia generale della medicina.
Altrettanto limitata era la visione della storia della scienza propugnata da Garin, Paolo
Rossi, Vasoli, Gregory. Si tratta di una estensione delle ricerche di storia della filosofia e
della storia delle idee. Non doveva mancare, a mio parere, anche un aspetto strumentale.
Indirizzare gli allievi verso la storia della scienza voleva dire indirizzarli verso un settore
foriero di nuovi posti di docente, previsione che fu puntualmente confermata negli anni
successivi
MARCO BERETTA: Anche il 1967 pare un anno importante per il convegno del Centro
Studi Metodologici a Torino, dedicato ai problemi metodologici di storia della scienza.
L’importanza del convegno è sottolineata dalla presenza di oltre 90 iscritti, tutti molto
qualificati e rappresentanti delle discipline più disparate. Tra questi spiccano di nomi di
Nicola Abbagnano, Gino Arrighi, Francesco Barone, Norberto Bobblio, Luigi Bulferetti,
Paolo Casini, Mario Dal Pra, Luigi Firpo, Umberto Forti, Tullio Gregory, Augusto Guzzo,
Vittorio Mathieu, Pietro Omodoeo, Arrigo Pacchi, Luigi Pareyson, Giovanni Polvani,
Maria Luisa Righini Bonelli, Vasco Ronchi, Paolo Rossi, Vittorio Somenzi, Sofia Vanni
Rovighi, Franco Venturi e Carlo Augusto Viano. Geymonat vi riponeva grandi speranze e
nell’invitare Luigi Belloni a parteciparvi ne illustrava la forma e gli obiettivi così: Il
convegno “si articolerà in otto relazioni tenute da giovani e valenti studiosi (liberi docenti
o molto prossimi alla docenza) i quali hanno tra l’altro il compito di dimostrare che la
cultura italiana sta ormai avviandosi a raggiungere, anche in questo campo, un livello pari
a quello dei progrediti paesi europei ed extra-europei. […] Il Centro Studi Metodologici
[…] ritiene che il mezzo migliore per incoraggiare oggi, su un piano di assoluto rigore, le
ricerche di storia della scienza sia quello di aprire un’approfondita discussione sui problemi
di metodo ad esse connessi”. I giovani di cui parla Geymonat eravate tu, chiamato ad aprire
i lavori, Evandro Agazzi, Vincenzo Cappelletti, Mario Vegetti, Carlo Maccagni, Clelia
Pighetti, Felice Grondona, Pascal Dupont e Franz Brunetti. A Paolo Rossi Geymonat affidò
il compito di concludere il convegno. La tua relazione oltre a muovere critiche molto
fondate alla tradizione storiografica, pone con forza l'esigenza di un radicale rinnovamento,
delineando alcuni spunti intorno ai quali, almeno così mi sembra, hai sviluppato il tuo
percorso successivo. Per esempio mi pare tu abbia qui enucleato molto chiaramente il
progetto di trattare la scienza nazionale entro un quadro teorico nuovo volto a esaminare
“le idee scientifiche nel loro sviluppo dialettico e nei loro nessi con le caratteristiche
culturali di una determinata società.” Affronti anche il tema, allora ancora molto dibattuto,
dell’unità della scienza, ma invece di svilupparlo, come ha fatto Geymonat, prendendo
spunto dalla posizione di Enriques, ricorri allo sforzo messo in campo da Cassirer nel suo
Erkenntisproblem e proponi di collegare la storia della scienza allo sviluppo del problema
della conoscenza. Non mi pare che Cassiser abbia mai goduto grande popolarità tra gli
storici della scienza e men che meno tra quelli italiani: come sei giunto a privilegiare questa
posizione?
Accanto a questi temi che, come detto, sono rintracciabili nelle tue posizioni successive,
ce ne sono altri che mi pare tu abbia lasciato un po’ in disparte. A conclusione del tuo
saggio infatti hai presentato un programma metodologico forte e introdotto le categorie di
identità e logoramento attraverso le quali cerchi di spiegare il rapporti sussistenti tra logica
e storia della scienza. È stata proprio questa caratterizzazione ad attirarti le critiche di Paolo
Rossi che ti imputa di postulare inesistenti strutture conoscitive del pensiero scientifico e
rivendica alla storia una funzione più empirica ed aperta di quella che tu proponi. La tua
disputa con Rossi deve aver fatto un certo clamore perché sia il tuo intervento sia quello di
Rossi apparvero tali e quali anche in un fascicolo della «Rivista critica di storia della
filosofia». Ci puoi dare le tue impressioni di questa controversia e, più in generale, dei tuoi
rapporti con Paolo Rossi durante il suo periodo milanese?

GIANNI MICHELI: Per il Convegno promosso a Torino dal Centro di studi


metodologico, Geymonat per valorizzare la storia della scienza adottò una strategia diversa
da quella dell’anno precedente, quella di far parlare un gruppo di giovani studiosi, quasi
9
tutti suoi allievi, sulle prospettive e i metodi seguiti nelle loro ricerche. L’approccio diverso
dei relatori non creava problemi a Geymonat, anzi favoriva il suo disegno perché quel che
gli importava era promuovere la storia della scienza in quanto tale, non un tipo particolare
di storia della scienza. Essa doveva servire, infatti, a potenziare lo spirito critico degli
scienziati, mostrando il carattere non assoluto delle singole acquisizioni scientifiche. La
mia relazione (ero uno dei magnifici otto, alcuni dei quali erano allora e lo sarebbero stati
ancor più in seguito, studiosi mediocri) fu messa da Geymonat in apertura, forse perché era
la sola ad avere una spiccata impronta teorica. Rileggendo ora la relazione, devo dire che
si ricollega abbastanza agevolmente ai miei scritti di teoria della storiografia successivi. La
relazione suscitò una critica marginale da parte di Vasco Ronchi, il quale, avendo sentito
che ricordavo Newton e la gravitazione universale, mi disse che aveva dimostrato che tale
correlazione non era corretta. In realtà, non aveva capito che il riferimento faceva parte di
una citazione e risposi rimandando alla storico della filosofia ottocentesco Theodor
Gomperz, da cui avevo preso la citazione. Il mio contributo suscitò l’interesse di Bulferetti
e l’accusa di sostenere tesi neokantiane da parte di Paolo Rossi. Il suo aver amplificato
criticamente certi aspetti della mia relazione è dovuto alla particolare posizione che lui si
trovò ad avere in quel convegno. Come hai già ricordato, Geymonat gli aveva dato
l’incarico di concludere i lavori, implicitamente richiedendogli di tenere un atteggiamento
equilibrato ma nello stesso tempo critico nei confronti degli studiosi che lo avevano
preceduto. Paolo Rossi mi conosceva molto bene perché in quel periodo lavoravamo
insieme alla Vallardi e avevamo continui scambi intellettuali su quei temi, quindi fu per lui
naturale enfatizzare la posizione normativa contenuta nel mio intervento, osservando che
io avevo individuato categorie forti mentre lui privilegiava una pluralità di approcci
storiografici. 14 In realtà quello che mi interessava quando parlavo di ‘identità’ era porre in
evidenza la continuità nello sviluppo della ricerca, una realtà che non avevo ancora
concepito in termini di dialettica, riferendomi piuttosto alla coppia identité/réalité di Emile
Meyerson, studioso allora poco conosciuto e da me assai apprezzato. Forse il tema
dell’identità deriva più da Meyerson che da Cassirer, anche se, come si evince dal contesto,
il riferimento a Cassirer era il riconoscimento di un riuscito esempio di ricerca storica della
scienza di carattere filosofico. Ammiravo molto questo filosofo: in particolare fu per me
illuminante l’importanza da lui attribuita all’individuazione, nelle opere di un autore,
dell’idea portante dell’intero impianto teorico, quella che ne permetta la comprensione.
Credo di aver seguito tale orientamento nel mio approccio a Descartes trovando come la
teoria dei modelli costituisca la chiave di accesso al sistema.

MARCO BERETTA: Quanto hai ottenuto la libera docenza? E quale è stata


l'importanza della didattica e la sua relazione con i tuoi progetti di ricerca?

GIANNI MICHELI: Conseguii la libera docenza nel 1969 insieme con Maccagni. La
commissione era composta da Bonelli, da Belloni, da Guzzo, da Polvani e da Vasoli. Fu un
esame normale non particolarmente brillante. Ricordo solo che Guzzo mi rimproverò di
non aver citato i suoi studi sull’atomismo antico avendo io parlato dell’atomismo
14
Sono tornato sulla questione circa venti anni dopo in un intervento al congresso internazionale di Varese
dedicato a La scienza tra filosofia e storia in Italia nel Novecento, G. Micheli, La storia della scienza nella
cultura italiana, in Atti del congresso internazionale , Varese 1985, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma
1987, pag.295: «Le osservazioni critiche che verrò svolgendo hanno prevalentemente lo scopo di fornire un
quadro unitario nel quale inserire le diverse prospettive storiografiche. Esse rimandano implicitamente ad un
ambito di riferimento normativo. E’ inevitabile, infatti, che ogni bilancio storiografico muova da una presa
di posizione filosofica e metodologica. In molti storici c’è una malcelata diffidenza verso i modelli
metodologici che discende da una interpretazione riduttiva dei modelli proposti, quasi che il criterio
metodologico possa insegnare come va fatta una ricerca storica, la quale è, come tutti gli atti concreti, un
fenomeno molto complesso, in cui rientrano vari fattori, non sempre riconducibili ad elementi esclusivamente
teorici. Ritengo invece che i modelli abbiano valore in quanto servono a chiarire le ricerche che possono
ispirare e a stabilire un confronto con ricerche guidate da modelli diversi: l’aspetto normativo di essi va inteso
quindi in senso puramente funzionale. Tengo a precisare questo punto, perché in un convegno che si è tenuto
quasi venti anni fa, P. Rossi, replicando a una mia proposta normativa, rilevava contro di essa, il valore della
pluralità degli approcci storiografici. Il modello che proponevo allora (e che condivido pienamente, nella
sostanza, anche ora) era un modello aperto, costruito per chiarire delle ricerche specifiche e per situarle
rispetto a quelle di altri, e non per contrapporsi ad esse. La pluralità degli approcci storiografici è un valore
che ho sempre apprezzato. Quel che importa, quindi, è che gli assunti normativi che si propongono siano
sufficientemente aperti da individuare risultati positivi in prospettive diverse».
10
secentesco. Nello stesso anno 1969 ho cominciato la mia carriera di docente come
professore incaricato mantenendo tale ruolo fino al 1980, poi come professore associato, e
infine come professore ordinario (dal 2000). Il mio primo corso è stato su D’Alembert
(Discorso preliminare dell’Enciclopedia e una scelta di voci scientifiche). I miei corsi
successivi (in tutto sono stati 40) seguivano l’andamento delle ricerche che svolgevo nei
vari anni; però ho sempre avuto l’accortezza, quando gli argomenti dei miei studi erano
troppo specialistici, di introdurre nel corso anche qualche scritto di autori importanti.
Pensavo che lo studente che segue un corso di storia della scienza dovesse avere il diritto
di conoscere almeno qualche pagina significativa per lo sviluppo scientifico. Ho cercato di
fare lezioni con molte citazioni dai testi, avendo presente l’originale quando si trattava di
latino o greco, e richiedendo domande da parte degli studenti, anche se, devo dire, con
scarso successo. Ho anche insegnato loro i rudimenti della ricerca bibliografica, con
esercitazioni pratiche in biblioteca. Dicono che fossi un insegnante severo perché facevo
spesso ritornare gli studenti poco preparati alle tornate successive di esami e davo lodi solo
in casi eccezionali, ma ero anche, a volte, eccessivamente comprensivo, soprattutto verso
gli studenti con minori capacità. Mi sono sforzato di portare anche i laureandi meno dotati
alla stesura della tesi al meglio delle loro possibilità, a volte con dispendio di energie
notevole. La cosa era possibile perché non ho mai avuto tanti studenti agli esami e anche
le tesi non erano molte. In compenso ho avuto la soddisfazione di avere allievi eccezionali
che ricoprono ora vari insegnamenti in università italiane e straniere. Ricordo anche i miei
studenti anziani, che hanno portato nei corsi un impegno e una volontà di apprendimento
non comuni: tra loro c’erano ad esempio un medico, un ingegnere esperto di metallurgia e
addirittura un capitano di lungo corso su una petroliera, che si applicò ad una ricerca sulla
costruzione delle triremi nell’Arsenale veneziano nel XV secolo Sono dispiaciuto invece
per altri miei allievi molto bravi che per vari motivi non hanno potuto continuare ricerche
già avviate. Devo aver lasciato comunque un buon ricordo a tutti i miei studenti, perché, a
volte, quando li incontro occasionalmente per strada, si ricordano di me e del mio esame e
mi ringraziano per gli insegnamenti che ho dato loro, in un modo che mi commuove ogni
volta. Ora che sono da tempo in pensione ho a lungo cercato di continuare in qualche modo
il mio insegnamento svolgendo corsi integrativi, ma con nessun successo, date le normative
rigide che sono state introdotte nelle Università, ma non dispero poterci riuscire in futuro
dato che mi sento ancora capace, curioso di sapere e desideroso di trasmettere le poche
cose che ho imparato con tanta fatica.
MARCO BERETTA: Nel 1970 è uscito il primo volume della Storia del pensiero
filosofico e scientifico 15, un’opera che, nonostante la mole e l’ambizioso intento
programmatico, ha goduto di uno straordinario successo. Geymonat sperava di superare la
compartimentalizzazione del sapere insorta con la progressiva specializzazione delle
scienze estrapolandone i principi filosofici e delineare una “storia della ragione umana”
unitaria e complementare alla storia della filosofia. Complementare a questo intento, che
oggi pare velleitario, mi pare ci fosse il proposito non meno ambizioso, di sviluppare su
nuove basi l’assunto filosofico di Enriques dell’unità della ragione. Anche se l’impianto
dell’opera è molto rigoroso, le bibliografie critiche molto aggiornate e ragionate, immagino
sia stato un lavoro molto difficile conciliare l’esigenza di ricostruire storicamente le varie
fasi e le differenti caratteristiche delle scienze con l’approccio programmatico promosso
da Geymonat. Come si svolgeva questo lavoro di sintesi?

GIANNI MICHELI: La mia partecipazione alla Storia del pensiero filosofico e


scientifico di Ludovico Geymonat è stata un’esperienza esaltante. Geymonat era
sinceramente convinto di realizzare un’opera che avrebbe contribuito in modo
determinante al rinnovamento culturale dell’Italia, e riusciva a trasmettere la sua sicurezza
per tale iniziativa anche ai collaboratori (per lo meno a me). Ora, dato che tale
rinnovamento era rivolto, almeno secondo Geymonat prevalentemente contro la politica
culturale del partito comunista, lui si era convinto che Botteghe Oscure avrebbe cercato di
boicottare l’opera. Allora io lavoravo nella casa editrice Francesco Vallardi con Paolo
Rossi, intellettuale vicino al partito comunista insieme con Garin: Geymonat aveva pensato
non fosse inverosimile che, quando rimandavo la consegna di un capitolo, ciò avvenisse
15
L. Geymonat, Storia del pensiero Filosofico e scientifico, Garzanti, Milano 1970-1972, con Appendici
del 1976.
11
perché mi avessero incaricato di boicottare l’opera ritardandone la pubblicazione. Chiese
al figlio Mario e a Enrico Rambaldi di appurare se fosse vero che avessi il proposito di
‘silurare’ l’opera. La cosa, ovviamente, finiva quando consegnavo i capitoli. Le bizzarrie
di cui ho parlato mostrano però il clima di sovreccitazione in cui si stava svolgendo l’opera.
Per completare la descrizione del clima surriscaldato di quel momento si aggiunga il fatto
che tutto ciò avveniva tra il 68 e il 69 in mezzo ad assemblee, cortei, scioperi, discussioni
e litigi fra docenti. Scrissi per l’opera i capitoli su Galeno e l’ambiente culturale del secondo
secolo d.C., argomenti che avevo studiato a Parigi per la stesura del libro su Descartes,
quello generale sul meccanicismo e sulle scienze fisiche del secolo XVII, e poi quelli
sull’illuminismo che mi erano stati specificamente commissionati da Geymonat.
Particolare non irrilevante, in quel periodo incontrai Pina anche lei collaboratrice
dell’opera 16 che divenne la mia compagna. Geymonat, che passava per essere un ignorante
presso alcuni storici della filosofia che ho conosciuto, era in realtà competente in
matematica, in fisica, logica, in filosofia, filosofia della scienza e storia della scienza. È
vero che le sue ricerche in tutti questi campi risultano non molto approfondite, ma le
considerazioni che svolgeva, ancorché limitate, erano spesso acute e mai banali. Ho avuto
modo di constatare, quando ho collaborato alla Storia del pensiero filosofico e scientifico,
che aveva una conoscenza di prima mano di molti filosofi, come Cartesio, Comte, Kant,
Hegel, Marx, Engels e i principali autori marxisti, Mach, Russel, e poi, ovviamente di
Croce e Gentile, e i filosofi suoi contemporanei come Juvalta, Vailati e Martinetti.
Conosceva bene la matematica greca, Galilei, e soprattutto la matematica ottocentesca,
Cauchy, Poincaré, Hilbert, Cantor e alcuni classici di storia della matematica, come Chasles
e Zeuthen. Una volta ero presente ad un suo colloquio con un giovane cattolico e trovavo
che parlava con competenza sull’uso dei testi sacri da parte della Chiesa. Penso che
supplisse alla mancanza di approfondimento con una sicurezza di giudizio su un autore o
una questione, frutto, credo, di intuito. È anche vero che a volte mutava parere, ma con
molta disinvoltura e sincerità, confessando di non aver letto bene l’autore di cui parlava
male. È il caso di Bachelard che prima non apprezzava per i suoi riferimenti alla
psicoanalisi, e che poi invece giudicò avesse detto delle cose apprezzabili.
MARCO BERETTA: In questi stessi anni hai lavorato alla traduzione del Leviatano17
di Hobbes, lavoro in cui emerge il tuo interesse per un’opera politica. A cosa è dovuto?
GIANNI MICHELI: Il mio interesse per il Leviatano nasce da un tentativo di
comprensione del meccanicismo in generale, in quanto Hobbes presenta lo stato come un
corpo meccanico. La mia traduzione del Leviatano di Hobbes ha una storia lunga e
travagliata. Su incarico di Dal Pra feci un contratto con Laterza a metà anni 60. Non
rispettai però i termini di consegna in quanto era subentrato l’impegno per la Storia di
Geymonat. Terminata la mia collaborazione a quell’opera, ripresi il Leviatano e ne
consegnai una parte, ma il testo mi fu respinto dall’allora direttore editoriale Mistretta
adducendo osservazioni che io non ritenevo pertinenti e errori presunti. Mi feci rimandare
il testo e, su consiglio di Dal Pra, che aveva convenuto con me sulla inconsistenza delle
osservazioni fattemi, offrii la traduzione alla Nuova Italia, che la pubblicò. Era vero che
avevo preso troppo alla lunga il lavoro. All’inizio controllavo la mia traduzione con quella
del traduttore francese Tricaud. In due anni avevo controllato, si e no cento pagine. Poi
avevo elaborato una teoria di traduzione storica molto complicata. Infine sapevo poco
l’inglese, ma questo alla fine fu un vantaggio perché controllavo quasi ogni pagina in
biblioteca sul grande dizionario inglese della Oxford (credo che sia il miglior dizionario tra
le lingue moderne). Comunque impiegai quasi tre anni per completarla e passai una intera
estate con Pina a Londra per confrontare i passi della Bibbia citati da Hobbes, che sono
veramente parecchi, con le varie edizioni inglesi del periodo.

MARCO BERETTA: Hai collaborato a due opere, la Storia d'Italia 18 e


l’Enciclopedia 19, che hanno sancito due momenti di grande importanza nell'industria

16
Pina Madami collaborò all’opera con due contributi: L’esigenza di una ‘scienza sociale’: il costituirsi
della sociologia, vol. V, pp. 411-428 e Weber e gli indirizzi della sociologia contemporanea, vol. VI, pp.
932-968.
17
T. Hobbes, Leviatano, trad. di Gianni Micheli, La Nuova Italia, Firenze 1976.
18
Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1972-1976.
19
Enciclopedia, Einaudi, Torino 1977-1984.
12
culturale del nostro paese. Con la prima mi pare si sia data una svolta significativa agli
studi storici, vivacizzando una tradizione che ancora faceva fatica a tener dietro ai dibattiti
innescati dalla storiografia di altri paesi europei, in particolare la Francia. Il fallimento
editoriale dell'Enciclopedia ha segnato invece il rapido declino della casa editrice e, con
esso, la progressiva marginalità della cultura nella vita civile del paese. Entrambe queste
opere sono state concepite da uno storico, Ruggiero Romano, che ha soggiornato
lungamente in Francia, facendo proprie le lezioni storiografiche di Braudel e delle Annales.
Anche se cronologicamente viene prima la Storia d'Italia immagino che i tuoi primi
contatti con Romano siano avvenuti in seno all'ambizioso progetto dell'Enciclopedia.
Preferirei però seguire l’ordine cronologico delle opere perché immagino che tu ti fossi
fatto, alla sua uscita, un’opinione della Storia d’Italia Einaudi. Un’opera indubbiamente
molto importante e innovativa, ma sorprendentemente priva di un capitolo dedicato alla
scienza e alla tecnica. Come mai secondo te? E come è venuta l’idea di rimediare a questa
lacuna? Ci sono poi dei contributi, come quelli dedicati alla scuola e all’università che
verranno ripresi anche nel tuo Annale. Volevano essere una risposta alle loro evidenti
carenze? Ne parlasti con Romano?
Nell’introduzione e nei tuoi saggi sottolinei l’importanza centrale della tradizione nel
dare la forma particolare assunta dalla scienza italiana dal Rinascimento in poi. Trovo
sorprendente che nella maggior parte delle critiche che ti sono state mosse sia stata data
così scarsa attenzione a questo aspetto del tuo lavoro. Non mi sorprende dunque che tutti i
tentativi successivi di studiare la scienza italiana, non molti del resto, abbiano offerto
ricostruzioni decisamente più parziali e datate.
GIANNI MICHELI: Preferisco trattare insieme il periodo dell’Enciclopedia e degli
Annali perché sono interconnessi fra di loro. Nascono entrambi dalla mia amicizia con
Ruggiero Romano, nata molto prima, quando nel 1963 andai a Parigi per la prima volta,
ospite della Maison d’Italie nella Cité universitarie, di cui Romano era il direttore. La
Maison d’Italie era allora il centro della vita intellettuale italo-francese e Romano ne era il
personaggio chiave. Era una persona di spiccata polimazia e padroneggiava con maestria
tutti i campi del sapere storico: era stato allievo di Luzzatto, Chabod, Braudel. Aveva anche
interessi letterari: scrisse pregevoli studi su Leon Battista Alberti e su Giovanni Della Casa.
Era specialista egregio di storia del Sudamerica (è autore di uno studio fondamentale
sull’uso della coca in quei paesi). Uomo di sinistra, ma critico da sempre del comunismo
staliniano, era diventato amico di tutti gli storici dissidenti dei paesi dell’est, specie dei
polacchi. Per loro era un sicuro punto di riferimento a Parigi. Una volta, si parlava del
Capitale di Marx, disse che, insieme con altri due amici, di cui non ricordo i nomi, aveva
fatto una lettura comune di tale opera durata più di un anno. Gentile e generoso, ti aiutava
se poteva in qualsiasi modo. In quel periodo seguii le lezioni di Raymond Polin e di Lucien
Goldmann; mentre Koyré insegnava in America in quell’anno. Nel mio successivo
soggiorno parigino del 1968-69, seguii le lezioni di Paul Dibon, insigne cartesiano, di cui
poi divenni amico. Più volte ospite del Centro di Dal Pra, gli mostrai alcuni tesori della
biblioteca braidense, tra cui il cospicuo fondo di tesi accademiche di università nordiche
presenti nel fondo Haller. Nel primo soggiorno parigino ebbi come sodale E. Rambaldi
anche lui borsista. Eravamo entrambi fedeli frequentatori della Biblioteca Nazionale nella
vecchia sede di rue Richelieu. Nei due soggiorni conobbi giovani studiosi italiani: Guido
D. Neri, Minerbi, Fasano e altri. Ritrovai lì Ettore Gelpi che allora lavorava per l’Onu.
Rividi Romano qualche anno dopo, forse nel 1969, appena tornato dal mio secondo
soggiorno parigino. Mi contattò perché gli presentassi Geymonat al quale voleva affidare
la sezione sulla scienza nella Storia d’Italia Einaudi che allora stava uscendo. Ci vedemmo
all’università e per caso quel giorno era presente anche Geymonat. Così, senza che potessi
informare Geymonat su chi era Romano (credo non lo conoscesse) ebbe luogo il colloquio
nella sala professori della facoltà, e credo che Geymonat avesse preso Romano per un
funzionario della casa editrice Einaudi. Geymonat rifiutò la collaborazione adducendo la
mancanza di tempo essendo ancora impegnato nella Storia del pensiero filosofico e
scientifico. Gli propose di rivolgersi a Cappelletti, credo in modo ironico, dato che sapeva
chi era Cappelletti e anche perché penso avesse il dente avvelenato con la Einaudi. Ho
notato questa cosa anche altre volte, ma non ne ho mai saputa la ragione precisa. Dissi a
Romano che lo aveva preso in giro dato che Cappelletti non era certo la persona più adatta
per quel lavoro e per quella casa editrice. Romano di botto mi disse: perché non fai tu
l’articolo? Ovviamente, gli risposi che non ero in grado di scrivere un centinaio di cartelle
13
su tutta la scienza italiana. La cosa finì lì e la Storia d’Italia Einaudi uscì senza la parte
scientifica. Dopo qualche anno Romano mi contattò per la collaborazione all’Enciclopedia
Einaudi. Era, più o meno, l’anno 1973. Contattò anche Rambaldi che conosceva fino dai
tempi della Maison d’Italie e poi, tramite nostro, Massimo Galuzzi, e infine, tramite
Galuzzi, Betti, Marco Mondadori, Giorello. Si era appoggiato a noi, probabilmente perché
gli faceva comodo avere a propria disposizione collaboratori a Milano nel settore filosofico
e in quello matematico. Galuzzi era tra i pochi matematici italiani con interessi storici e
filosofici ed era stato da tempo incorporato nelle letture di testi filosofici organizzate da me
e da Rambaldi. Devo essere grato a Romano per avermi affidato delle voci così impegnative
per L’Enciclopedia, e per avermi di fatto indirizzato verso l’analisi linguistico concettuale
dei problemi filosofici. Sono stato sempre curioso di nuove forme di attività e di ricerca.
Questo per me era un settore nuovo che mi affascinò moltissimo e cercai di trovare delle
forme di trattazione adeguate. Devo dire che feci uno sforzo notevole. La prima voce Caos-
cosmo risente di questa mia difficoltà iniziale perché l’analisi è impacciata e non lineare.
Mi riuscirono meglio le altre voci, soprattutto Infinito (mi costò più di sei mesi di lavoro
continuo e indefesso, ma ebbi qualche soddisfazione perché i consulenti francesi di
Romano, Gil e Pomian commentarono favorevolmente la voce; mi ricordo il giudizio di
Gil riportatomi da Romano: ‘è un vero tesoretto’) e Natura. Nelle mie voci, in complesso,
traspare l’ampiezza di vedute, la mia vocazione razionalistica, la stretta connessione tra
analisi storica e teorica e, soprattutto, una raggiunta maturità nella trattazione generale di
temi storici e filosofici.
Debbo ringraziare ancora Romano perché quando mi offri di collaborare agli Annali
della Storia d’Italia per la scienza 20, mi spinse ad affrontare un settore di ricerca, quello
delle tradizioni scientifiche, allora come oggi, del tutto inesplorato. Vale la pena di
ricordare l’origine di quella mia ricerca. Devo dire che all’inizio non avevo compreso bene
il senso dell’opera che Ruggiero Romano voleva realizzare. Romano era la persona più
intelligente che io abbia mai incontrato e forse per questo era piuttosto ellittico e sbrigativo
nelle proposte. Così il primo progetto dell’opera che gli avevo presentato, volto ad
illustrare, più o meno analiticamente, i contenuti più rilevanti della scienza italiana nel
contesto dei vari momenti dello sviluppo della società civile, non incontrò la sua
approvazione. Romano sostenne che tale progetto non era omogeneo con i presupposti
della grande Storia d’Italia Einaudi e mi indirizzò verso un discorso non sui contenuti, ma
sui caratteri essenziali della scienza italiana.
I risultati non furono del tutto adeguati alle intenzioni e suscitarono alcune reazioni
positive, ma anche critiche molto forti all’impostazione e alla stesura dell’opera causate in
gran parte, a mio parere, da una incomprensione di fondo del progetto originario. Venne
cioè interpretato come una superficiale forma alternativa alla storia della scienza
disciplinare. Per parte mia, posso solo indicare i motivi di questa incomprensione che sono
riconducibili a manchevolezze e difetti dell’opera. A mio parere sono i seguenti: 1) alcuni
collaboratori non avevano compreso l’intento dell’opera per cui si sono avuti squilibri e
disomogeneità nella trattazione degli argomenti; 2) non erano stati illustrati con sufficiente
ampiezza gli elementi caratterizzanti dell’iniziativa editoriale, anche per una elaborazione
concettuale del problema allora incipiente. Si sarebbe dovuto rimarcare in maniera più netta
che non si voleva soppiantare la storiografia disciplinare, ma, se mai, integrarla e ampliarla
con il discorso sui caratteri della ricerca scientifica nazionale; 3) occorrevano studi
particolari che rimarcassero la dimensione delimitata ed empirica della scienza italiana (per
esempio la polemica Spallanzani- Needham) e altri che affrontassero in modo analitico il
confronto con la tradizione scientifica di altri paesi omogenei con l’Italia; 4) sarebbe stato
più persuasivo anche uno studio complessivo sulla genesi della delimitazione disciplinare
tra ’500 e ’600 e della sua permanenza nel corso dello sviluppo storico, analogo a quello
che era stato fatto relativamente al tema dell’emarginazione della scienza da parte della
cultura filosofica.
Ci furono anche reazioni positive come quella di Bulferetti e di Maccagni, il quale fu
tra i pochi a capire che avevo intrapreso un settore di ricerca nuovo e interessante, e
discussioni vivaci come quella tenutasi a Varese. Ma quel che mi colpì fu il fatto che le
polemiche erano pretestuose, fondate su fraintendimenti e non rispondenti alle tesi che
20
Annale III, Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal rinascimento a oggi, a cura di G. Micheli,
Einaudi, Torino 1980.
14
sostenevo. Sono contento comunque di averle corroborate nelle mie risposte alle critiche,
con interventi incisivi e appropriati. Forse c’erano motivi esterni a quella ricerca che
guidavano quelle critiche. L’ho sospettato, ma senza alcun riscontro. Più semplicemente
c’erano motivi personali, oltre ad una atavica propensione al fraintendimento, specialmente
nelle discussioni filosofiche moderne. Lì per lì mi venne in mente di scrivere una storia
delle discussioni filosofiche in età moderna e per qualche tempo raccolsi del materiale
molto interessante da questo punto di vista. Avevo intitolato il saggio che non scrissi “Il
fraintendimento come elemento fondante del dibattito filosofico”.
MARCO BERETTA: Qualche anno dopo la pubblicazione del tuo Annale è uscito
Malattia e medicina a cura di Della Peruta 21. Pur limitato alla storia della sanità in Italia
anche il volume di Della Peruta, incentrato com’è sulla storia sociale, offre una prospettiva
marxista ma con risultati di notevole interesse storiografico. La storiografia della scienza
marxista in Italia ha spesso dato risultati molto modesti ma in questo caso ci si trova di
fronte a un esperimento ben riuscito, e in continuità con alcuni capitoli della Storia d’Italia.
Sia l’approccio sia la forma data ai contenuti sono estremamente diversi da quelli pubblicati
nel tuo Annale che pure affrontava in diversi capitoli gli stessi temi. Tu cosa pensi di
Malattia e medicina?
Trovo poi abbastanza curioso che entrambi gli annali sono stati curati da te e Della
Peruta che lavoravate da decenni nella stessa facoltà, un segno ulteriore della vivacità del
contesto milanese. Al livello di politica istituzionale però i destini della storia della scienza
italiana si decidevano altrove e si misuravano, più che sulla creatività scientifica e culturale,
sul mero peso politico. Forse ha pesato il progressivo disinteresse per la storia della scienza
maturato negli ultimi anni di attività di Geymonat, ma è possibile che ci siano altri fattori.
Certo è che l’Università di Milano ha prodotto molti validi storici della scienza e della
medicina ma sono molto più numerosi quelli tra loro costretti a migrare di quelli che sono
riusciti, a fatica, a trovare una sistemazione in Italia. L’esatto contrario di ciò che è accaduto
in altri contesti e università.
GIANNI MICHELI: Ricordo con affetto i più che ventennali incontri con Franco Della
Peruta alla biblioteca di Brera, i pettegolezzi di facoltà e le notizie curiose che ci
scambiavamo, derivate dalle letture che si facevano in quel momento. Era diventato
professore alla Statale quasi nella stesso tempo di Berengo, altro storico frequentatore di
Brera che mi era molto simpatico. Tra l’altro, nella sua veste di storico risorgimentale,
Della Peruta mi fece apprezzare la figura di filosofo di Giuseppe Ferrari che non conoscevo
e mi rese simpatica la figura di Mazzini che non avevo mai potuto soffrire. Alla Statale
Della Peruta divenne studioso di storia sociale e di storia sociale della medicina di cui si
può considerare un vero e proprio pioniere. Ebbe subito una caterva di allievi che coprirono
ben presto tutti i settori. Gli studi sulla pellagra di Della Peruta e dei suoi allievi divennero
veramente esaustivi. I rapporti con Della Peruta sono stati sempre molto cordiali e per me
sempre istruttivi. Era una figura di intellettuale di sinistra vecchio stile, molto arguto, dotato
di una inveterata simpatia per l’Unione Sovietica e anche per Stalin. Ha sempre collaborato
con Teti, editore comunista per il quale aveva tradotto dal tedesco la storia universale
dell’Accademia delle scienze dell’Unione Sovietica, dicendo, (e probabilmente era vero)
che era un’ottima opera storica, se si esclude, ovviamente, il periodo riguardante l’Unione
Sovietica. Dirigeva per Teti anche una storia sociale d’Italia piena di ottimi articoli. Mi
convinse a collaborare con un articolo su Spallanzani. Cosa veramente rara: ricevetti anche
un piccolo compenso in denaro, e non mediante i ponderosi volumi della storia
dell’Accademia Sovietica con cui era solito pagare i collaboratori. Credo che tutti i suoi
collaboratori avessero ricevuto questo singolare trattamento economico.
L’analisi del contenuto del volume degli Annali dedicato alla medicina dà l’impressione
che Dalla Peruta non volesse confrontarsi direttamente con gli studi di storia della
medicina. Questa impressione è del resto corroborata dai colloqui che ho avuto con lui
mentre l’opera era in itinere. Avevo più volte espresso a Franco il mia valutazione negativa
sullo stato della storia di questa disciplina in Italia; questa mia posizione era rinforzata
anche dal giudizio di Belloni, che si era più volte espresso sulla superficialità e mediocrità
degli studi dei suoi colleghi storici della medicina. Credo comunque che Della Peruta
avesse una sorta di riluttanza, abbastanza comune tra gli storici della sua generazione, a
confrontarsi con studi specifici di storia della medicina. Penso ritenesse che indagini di
21
Annale 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Einaudi, Torino 1984.
15
questo tipo dovessero essere svolte esclusivamente da membri provenienti dallo stesso
ambito scientifico studiato, e che quindi non volesse affrontare argomenti in cui non si
sentiva sicuro. Questo traspare dal fatto che se Dalla Peruta avesse voluto fare
diversamente, cioè se avesse voluto direttamente mettere in rapporto le ricerche per la
preparazione del volume con gli studi di storia della medicina, si sarebbe cimentato egli
stesso nell’opera, scrivendo almeno un articolo generale per impostare la questione.
L’intento che voleva perseguire, indicato anche nella breve prefazione al volume, era
piuttosto quello di ampliare l’ambito di riferimento degli studi storici al settore della
medicina sociale, ampliamento che sarebbe servito anche ai cultori di un approccio interno
alle discipline mediche. D’altronde era personalmente avverso ad ogni forma d’intervento
polemico, che sarebbe stato, del resto, inopportuno, dato che il volume serviva anche e
soprattutto per dare spazio ai contributi dei suoi allievi.
MARCO BERETTA: Torniamo ora a parlare dell’Enciclopedia Einaudi. Il progetto
pensato da Romano aspirava a presentare nell’enciclopedia una geografia del sapere
contemporaneo rinunciando al nozionismo informativo e descrittivo che aveva fin lì
caratterizzato questo tipo di imprese. Ispirandosi all’Encyclopédie e, forse in misura
maggiore di quanto ammesso nella premessa, anche all’Encyclopedia of Unified Science,
Romano progetta “un’enciclopedia vivente” capace di produrre, sulla base
dell’identificazione dei nuclei filosofici presenti nelle discipline scientifiche
contemporanee, “degli effetti culturali ed epistemologici” a tal punto innovativi da
prefigurare, come conseguenza, una riconfigurazione del sapere. Vorrei sapere cosa
pensavi allora del progetto generale e del risultato che poi ne è scaturito.
Tu sei stato chiamato a scrivere molte voci, alcune delle quali essenziali per la
definizione della nuova grammatica del sapere immaginata da Romano. Benché in queste
voci, come più in generale nello spirito del progetto, la storicizzazione dei lemmi sia
sempre presente, non mi pare costituisca l’aspetto più importante. Ce ne puoi parlare?

GIANNI MICHELI: Dell’Enciclopedia ho un ricordo molto vivo, ma mi è difficile dare


un giudizio sereno, dato che in seguito attribuirono a tale opera e a Romano la crisi della
Einaudi, come traspare dal giudizio di Gian Arturo Ferrari espresso alcuni anni fa.
L’Enciclopedia nacque esclusivamente per il fascino che scaturiva dalla persona di
Romano e per la sicurezza con cui esponeva la struttura e la finalità dell’opera.
Parteciparono all’impresa quasi tutta la cultura francese, personaggi non indifferenti di
quella italiana (per restare a Milano, oltre a me, Rambaldi, le cui voci sono tra le cose
migliori che abbia scritto, Massimo Galuzzi, Betti ecc.) e poi polacchi, russi inglesi ecc. I
collaboratori risposero con entusiasmo e con un impegno notevole. Oltre alle voci da me
redatte svolsi all’Enciclopedia compiti di collaborazione come lettore di altre voci, (ricordo
il giudizio che diedi della voce Scienza di Amsterdamski) come estensore dei richiami e di
alcuni riassunti (ricordo quelli che feci per le voci Magia, Alchimia di M. Dal Pra). Allora
avevo un rapporto molto stretto con Romano: lo vedevo regolarmente una o due volte al
mese. Sono quindi in grado di dare un giudizio circostanziato e articolato
sull’Enciclopedia. Allora ero così entusiasta per le voci che mi erano state assegnate che
non badavo molto all’impianto generale dell’opera. Certo mi aveva colpito l’ambizione del
progetto, il non troppo velato rimando a Diderot con l’idea delle mappe dei saperi, la
difficoltà di trovare collaboratori non troppo disomogenei. Chiesi subito a Romano perché
non avesse scritto e non avesse intenzione di scrivere qualcosa nell’opera (aveva affidato
a Salsano la voce Enciclopedia, fatta bene certo, ma priva di quel mordente che sarebbe
stato necessario e che solo Romano poteva dare) e come pensava di amalgamare lavori che
erano frutto di concezioni diverse. Quanto al primo punto, ebbi sempre risposte evasive
anche quando osservai che l’Enciclopedia degli Illuministi era ben riuscita anche perché
Diderot e d’Alembert avevano scritto migliaia di pagine e si erano impegnati nel Discorso
preliminare e nel Prospectus a realizzare l’opera secondo gli intenti programmatici. Diede
una risposta meno evasiva alla seconda domanda. Pensava di ovviare a quell’inconveniente
sviluppando le connessioni fra le voci. L’inconveniente era reale e lo verificai io stesso: le
mie voci erano di carattere storico-filosofico, quelle di Amsterdamski erano totalmente
privi di dimensione storica. Quando parla di storia, si rifà a Koyré e particolarmente alle
sue idee più discutibili. In effetti l’evidenziazione delle connessioni possibili era l’elemento
portante di tutto il lavoro. Ogni voce aveva i rimandi ragionati: il tutto finiva a Betti, il
quale fu forse il primo ad impostare col computer un indice ragionato di un’opera così
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complessa. Certo, anche in questo caso, l’idea di considerare il sapere come un tutto pur
nelle sue varie suddivisioni e molteplici articolazioni e di trovare dall’esterno gli elementi
di unificazione tra i risultati dei saperi specifici, è un’idea geniale ma che aveva bisogno di
una elaborazione teorica adeguata che non mi sembrava realizzata allora e neppure ora. Ma
a parte queste carenze, l’opera rimane un tentativo di unificazione del sapere odierno
rimasto ineguagliato. La maggior parte delle voci sono ben fatte, tranne quelle, ma non
sono tante, plagiate, banali e superficiali. Alcune, come la voce Donna o Storia sono dei
veri gioielli. L’opera fu anche venduta bene, almeno nel periodo in cui io me ne occupavo
non avevo mai avuto sentore di difficoltà nelle vendite. Aveva suscitato interesse fra gli
insegnanti (ad alcuni che conoscevo feci avere io l’opera scontata). Se fu un passivo per la
casa editrice, ciò fu dovuto ad una pessima politica commerciale. All’inizio veniva venduta
al prezzo fisso di lire 35000 per tutti i volumi che venivano acquistati in abbonamento. In
un periodo di inflazione galoppante il prezzo di ogni singolo volume finì per aumentare.
Di qui la necessità di rivedere i contratti o di dover affrontare l’onere dei contenziosi. Tutti
questi elementi, connessi con la politica di vendita rateale che era costosissima,
indebolirono finanziariamente la casa editrice.
ELIO NENCI: Dalla metà degli anni Ottanta in avanti la storia della scienza e della
tecnica antica ha assunto nelle tue ricerche un ruolo fondamentale, e numerosi sono stati i
corsi universitari da te svolti su argomenti concernenti lo sviluppo del pensiero scientifico
nel mondo antico. Si tratta di un sostanziale spostamento d’interessi, o è comunque
ravvisabile una certa continuità con i lavori da te svolti nei due decenni precedenti? E in
che modo lo svolgimento delle lezioni ha contribuito a determinare il tuo approccio alle
tematiche affrontate?
GIANNI MICHELI: Non molto tempo dopo l’uscita del volume degli Annali proposi a
Franco Angeli la pubblicazione di una collana di classici di storia della scienza, ma non se
ne fece niente. Non c’era mercato sufficiente per quel tipo di libri, mi disse, ma in
alternativa mi propose una serie di volumi sul tipo degli Annali. Forse era stato colpito dal
grande successo che avevano avuto gli Annali e il mio in particolare e voleva entrare in
quel tipo di pubblicazioni. Gli sottoposi un progetto molto elaborato di libri sul tipo dei
Source books in lingua inglese, ma costruiti in una prospettiva storica. Si trattava di
antologie di passi significativi riguardanti lo sviluppo delle discipline scientifiche con
commenti esplicativi. Il progetto che sarebbe stato presentato col titolo di “Fondamenti del
sapere scientifico nei vari comparti disciplinari” piacque all’editore che mi spinse a
perfezionarlo e a trovare collaboratori. Lavorai qualche mese all’iniziativa, misi insieme
una decina di collaboratori (Besana, Galuzzi, Mondella, Mangione, Dario Romano,
Bottazzini, Cosmacini). Ma dopo la prima riunione con i collaboratori l’impresa naufragò,
credo per due motivi: Mangione amplificò enormemente le difficoltà del lavoro e lo stesso
Angeli doveva averci ripensato dopo aver meglio considerato i costi. Devo dire che sono
stato molto contento che la cosa sia finita così. I collaboratori che non conoscevo bene
erano abbastanza riluttanti e probabilmente si sarebbero ritirati e io sarei rimasto
impelagato in un’impresa di difficile attuazione. D’altronde, già dopo qualche anno le serie
dei grossi volumi non riscuotevano più il successo di prima e probabilmente si sarebbe
ritirato anche Angeli. L’editore fu però molto corretto e mi pagò il corrispettivo per la
stesura del progetto con una cifra che mi parve congrua.
Avevo cominciato a lavorare alla sezione di meccanica che mi ero riservato, e qui mi
imbattei di nuovo nelle Questioni meccaniche pseudo aristoteliche, un testo che ha avuto
un ruolo veramente importante per la mia concezione della storia della scienza. Lo avevo
incontrato quando ero ancora studente e alle prime armi con la storia della scienza. Allora
pensavo, ed era ciò che avevo ricavato dalle poche letture che avevo fatto, che i testi antichi
di una disciplina scientifica avessero una relazione diretta con quelli successivi, cioè che
rappresentassero in forma rozza ed embrionale la formulazione moderna del fatto
scientifico. Ora questa relazione non l’avevo trovata allora e neppure una decina d’anni
dopo, quando mi si ripropose il problema delle Questioni meccaniche pseudo aristoteliche
per una tesi di laurea. In questa nuova occasione, decisi di studiare a fondo la questione.
Cominciai ad analizzare tutto ciò che era stato scritto sull’argomento partendo dal periodo
rinascimentale in cui l’opera venne conosciuta o riconosciuta, e non dagli studi moderni.
Questo fatto allora era di per sé una innovazione. Poi incominciai a studiare l’opera alla
luce dell’analisi linguistico-concettuale che avevo cominciato ad utilizzare per le voci
dell’Enciclopedia e secondo l’embrione di una concezione dialettica della scienza che
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cominciai ad elaborare in quell’occasione e di cui un primo documento è il mio contributo
della meccanica antica per la Storia della scienza Treccani 22. Rivedere questo pezzo
insieme
Questi studi sulla meccanica antica (da cui proviene il mio volume Alle origini del
concetto di macchina) 23 segnano l’inizio del rinnovato interesse per la scienza greca che
non ho più abbandonato. Seguirono studi su Erone (meccanica, automi, pneumatica)
Archimede, Euclide, sui rapporti scienza-tecnica, su Pitagora, su cui ho tenuto uno o due
corsi. Lo scritto sugli automi antichi e poi vari altri interventi sono il risultato di queste mie
ricerche: molti sono ancora inediti. A corroborare ed incrementare il mio interesse per la
scienza antica ha contribuito l’incontro, divenuto poi un sodalizio, con Ferruccio Franco
Repellini, tra i pochi studiosi italiani di filosofia antica che ha un concreto interesse per la
scienza dell’antichità. Avere a disposizione un vero esperto di Aristotele e della lingua
greca con cui discutere, è stato ed è un vantaggio non indifferente per i miei studi in questo
campo.
Mi chiedi se c’è una sostanziale continuità con i miei studi precedenti. Credo di si, anzi
ne sono certo, soprattutto se ripercorro i momenti che mi hanno portato a questi interessi.
È vero che questo ha sorpreso alcuni vecchi amici come Maccagni, il quale a Vinci, in un
recente convegno ha detto che “questo è un Micheli un po’ diverso da quello che avevo
conosciuto in gioventù”.
ELIO NENCI: Alcuni dei temi affrontati nei corsi tenuti negli anni Ottanta confluirono
nel volume ora ricordato Alle origini del concetto di macchina, in cui per la prima volta in
Italia si tentava una riflessione rigorosa e articolata sulla natura specifica della ‘meccanica’
greca. Tanto nelle lezioni universitarie, quanto nel libro, tu hai utilizzato sistematicamente
i testi di autori rinascimentali che tra fine ’400 e inizio ’600 studiarono e commentarono i
testi dell’antichità greco-romana. Si tratta di una modalità di studio che abitualmente non
viene praticata dagli storici della scienza antica. Quali sono le ragioni che ti hanno spinto
a fare questa scelta e come è stata accolta dalla comunità scientifica?
GIANNI MICHELI: Per la verità, come ho detto prima, è stata una necessità maturata
poco a poco. Per capire la biologia cartesiana, ho dovuto capire la medicina rinascimentale
e poi la medicina antica cui quella rinascimentale si ricollega direttamente. I miei studi su
Ippocrate e Galeno risentono di questa esigenza. Devo dire che si tratta, allora come oggi,
di un approccio non usuale negli studi di storia della medicina. I miei interessi per la
meccanica antica, nati dallo studio della meccanica secentesca costituiscono una
generalizzazione del mio originario approccio di lavoro per la storia della medicina. Sono
convinto tale metodo sia valido anche per chi voglia affrontare le questioni della scienza
antica. Devo dire che in questo ambito l’utilizzo della letteratura critica rinascimentale
(anche questo approccio non era usuale) mi è stato di grande aiuto perché ho potuto vedere
il cambiamento nella continuità esplorando i commenti alle opere antiche scritti nei secoli
successivi. È stato questo elemento che mi ha portato ad elaborare la mia concezione
dell’approccio dialettico nella storia della scienza. Non ti so dire come tutto ciò sia stato
accolto dalla comunità scientifica. Su Isis il recensore del mio libro sul concetto di
macchina era un po’ stupito. Devo dire anche che dopo il mio studio, l’approccio dilatato
nel tempo della letteratura critica è diventato normale anche in questo settore. Prima era
usato solo per singoli autori e per motivi particolari, come nei casi di Euclide e Vitruvio.
ELIO NENCI: La natura stessa dell’oggetto e della partizione della ‘meccanica’ antica
costringe lo studioso a interessarsi degli apparati tecnici descritti in tale disciplina. Tu hai
sempre mostrato l’esigenza di una conoscenza diretta di questi apparati, sia attraverso lo
studio dei resti frammentari di essi trasmessici dal passato, sia tramite l’osservazione di
alcune ricostruzioni successive. Questa impostazione ti ha portato a veri e propri viaggi di
studio in Spagna meridionale e in Germania (Saalburg). Cosa hanno rappresentato per te
questi viaggi e come hanno contribuito a una maggiore comprensione dello sviluppo delle
discipline scientifiche nel mondo antico?
GIANNI MICHELI: Hai fatto bene a ricordare i miei viaggi di studio alla ricerca di
macchine antiche. Ho visitato il museo di Saalburg dove sono custodite le catapulte residue
costruite da E. Schramm. Avresti potuto venire anche tu (eri a Monaco), ma non so per
quale motivo non hai potuto visitare il museo con me. Il museo di Monaco che abbiamo
22
Storia della scienza, Istituto Treccani, Roma 2001.
23
G. Micheli, Alle origini del concetto di macchina, Olschki, Firenze 1995.
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invece visitato insieme non mi ha fatto molta impressione: pochi, mi pare di ricordare,
erano i reperti originali. Poi, il Kunsthistorische Museum di Vienna dove sono presenti
automi da tavola cinquecenteschi di fattura tedesca. Sono rimasto colpito da una saliera
analoga a quella costruita ad Urbino e descritta da Baldi. Poi il museo di Neuchatel dove
sono conservati gli automi originali di Droz. Infine Merida in Spagna dove è conservato un
reperto relativo ad una pompa idraulica di epoca romana. Merida, tra l’altro, è il centro
della produzione del prosciutto Pata negra, che ho potuto degustare in gran quantità: il
prezzo, in loco, è inferiore a quello di Madrid o di Milano. Avevo fatto questi viaggi, grazie
ai finanziamenti dell’Università e del Ministero, verso la metà degli anni novanta, anche
per l’ambizione di ricostruire modelli di macchine antiche secondo procedure storiche e
non moderne come fanno tutti, ambizione che non ho mai potuto realizzare per mancanza
di finanziamenti e soprattutto di un partner interessato. Mi ero rivolto al Museo della
scienza e della tecnica di Milano ma senza risultati. La proposta di chiedere un
finanziamento al C.N.R, congiuntamente dal Museo e dall’Università non venne neanche
presa in considerazione. A Milano, al Museo, non ci sono reperti antichi originali e quindi
neanche la volontà da parte dei dirigenti di allora di occuparsene. Credevo di aver trovato
un partner ideale in Romano Nanni del museo leonardiano di Vinci, il quale mi aveva
contattato per collaborare all’elaborazione delle macchine leonardiane, ma la cosa non ebbe
seguito per mancanza di finanziamenti. Resta la magra consolazione di aver lavorato ad
una ricerca sulla ‘vitÈ. Ho raccolto e tradotto dal greco e dal latino tutti i documenti antichi
sull’argomento in un manoscritto di circa 200 cartelle che finirò per lasciarti per una
eventuale utilizzazione. Tra i molti progetti che non ho realizzato, questo delle macchine
antiche è quello che più mi ha lasciato un ricordo spiacevole. La mia aspirazione era quella
di costruire l’automa di Erone, cosa che non ha mai fatto nessuno, che io sappia. Ho visto
molti documentari con riproduzioni delle macchine pneumatiche di Erone, di quelle di
Archimede, della coclea e di altre, ma mai qualcuna del teatrino di Erone.
ELIO NENCI: Se ricordo bene fu durante lo svolgimento di un corso sulla storia degli
automi, che tu proponesti agli studenti una visita di gruppo al Museo di Neuchâtel dove
sono conservati i famosi automi costruiti da Pierre Jaquet-Droz, Henri-Louis Jaquet-Droz
and Jean-Frédéric Leschot. Si trattò di un viaggio di studio, un’uscita dalle aule
universitarie, non prevista nella normale vita accademica. Vorresti raccontarci questa
vicenda?
GIANNI MICHELI: A Neuchâtel, come mi hai ricordato, ho portato tutti i miei allievi
in gita. Tutti quelli che hanno partecipato alla visita hanno conservato un piacevole ricordo
dell’evento, perché alcuni di essi che ho incontrato per caso, anche a distanza di parecchi
anni, me lo hanno detto. Ero riuscito allora anche a fare avere un contributo da parte
dell’Opera universitaria agli studenti lavoratori per le spese del viaggio.
ELIO NENCI: Dalla fine degli anni Novanta più volte si presentò l’esigenza di costituire
un gruppo milanese che si occupasse di storia della scienza partendo da una visione
condivisa e ampia della disciplina. Numerose furono le riunioni a casa tua, nelle quali
emerse anche l’esigenza di fondare eventualmente una rivista che desse voce a questo
gruppo. Difficoltà di carattere economico non permisero di dare seguito all’idea. Altre volte
gli stessi problemi hanno impedito che alcuni progetti editoriali da te proposti si
realizzassero. Vorresti brevemente parlare di questi progetti e delle cause che ne
impedirono la realizzazione?
GIANNI MICHELI: Il tentativo di riunire un gruppo di storici per dar vita ad una rivista
si collega solo in parte ai recenti progetti editoriali falliti di pubblicare qualche mio scritto
(Bruno Mondadori e Einaudi) e a quelli non recenti (storia degli automi, non presa in
considerazione da Laterza e dalla Utet). Se ben ricordo, si trattava di persone interessate
alla storia e alla scienza (avevamo invitato anche Elena Brambilla). Devo dire che la cosa
venne a cadere da sé, data la complessità della realizzazione e quella di ampliare la
consistenza numerica del gruppo. Comunque, anche questo tentativo fallito, è indice della
difficoltà in cui vive oggi l’editoria italiana, divisa tra quella universitaria che pubblica di
tutto, ma non distribuisce e l’editoria privata che ha abbandonato la saggistica seria.
ELIO NENCI: Nel 2003 (19-21 Novembre) fu organizzato presso l’Università degli
Studi di Milano il convegno: Bernardino Baldi (1553-1617). Studioso rinascimentale:
poesia, storia, linguistica, meccanica, architettura. Tra gli enti finanziatori c’erano il
Dipartimento di Filosofia e il Dipartimento di Filologia Moderna dell’Università degli
Studi di Milano, il Dipartimento di Scienze per l’architettura dell’Università degli Studi di
19
Genova, il Max-Planck-Institut für Wissenschaftsgeschichte di Berlino e l’Istituto per la
storia del pensiero filosofico e scientifico moderno CNR. Sezione di Milano. Incentrato
sulla figura di uno studioso di interessi universali, il convegno si presentava come un vero
e proprio appuntamento di carattere multidisciplinare. L’interazione con studiosi di altre
discipline non era allora una novità per te. Vorrei sapere con chi furono negli anni i rapporti
più costanti, e intorno quali interessi comuni vennero a svilupparsi? Dato che stiamo
parlando di relazioni che si sono svolte nell’arco di più decenni e con persone di diverse
generazioni, mi piacerebbe sapere, vista la sempre crescente specializzazione degli studi,
se hai notato cambiamenti sostanziali nelle modalità di interrelazione tra gli studiosi delle
diverse discipline.
GIANNI MICHELI: La domanda che mi poni è molto interessante. La figura
emblematica di Baldi mi era, in certa misura, congeniale appunto per la varietà dei suoi
interessi ed è forse per questo che ha attirato la mia attenzione fin da quando, a metà degli
anni ottanta, ho fatto il corso sulle Questioni meccaniche pseudo aristoteliche.
Indubbiamente il mio interesse si è accentuato quando tu hai accettato di occuparti del
Baldi storico della matematica, e, più tardi, quando Antonio Becchi ha sottolineato la sua
importanza per la storia dell’architettura. In fondo, dobbiamo a Baldi la conoscenza e
l’amicizia di Antonio Becchi, uomo amabile e gentile, studioso di grande cultura e di vari
interessi e anche abile scopritore di manoscritti. La conoscenza di Becchi ha contribuito a
consolidare i rapporti dell’Università di Milano con il Max-Planck-Institut für
Wissenschaftsgeschichte di Berlino, cementato dalla sua abituale presenza a Berlino. La
collaborazione con l’istituto berlinese è ormai stabile, date anche le ricerche che tu hai
compiuto e continui a compiere a Berlino. La collaborazione ha già dato molti frutti, grazie
alla passione e all’energia del suo direttore Jürgen Renn, studioso, grande organizzatore, e
soprattutto persona generosa aperta e leale. Quando lo conobbi, circa vent’anni fa, si stabilì
subito fra noi un rapporto di simpatia in quanto io ero stato allievo di Geymonat, noto anche
all’estero per aver coniugato marxismo e scienza. La mia ammirazione per Renn si è poi
accentuata ulteriormente quando vidi che, insieme con un gruppo di validi collaboratori, si
era occupato in modo sistematico dei rapporti di Galileo con le tecniche, sviluppando così
un argomento caro a Geymonat e di cui aveva intuito l’importanza.
Indubbiamente le personalità di cultura polivalente mi hanno sempre affascinato, forse
perché sono uno studioso molto curioso di argomenti nuovi e di metodi nuovi di approccio
ad argomenti conosciuti. Mi sono occupato, infatti, di filosofia, di politica, storia della
medicina, di matematica e di meccanica antiche, di filosofia della scienza. Ora poi mi
interesso di essenzialmente di argomenti di storia della suddivisione disciplinare della
ricerca secondo la storia delle varie branche e del rapporto tra diverse culture scientifiche.
Questa mia inveterata curiosità non mi ha certo favorito accademicamente, ma ha trovato
conforto in alcune persone straordinarie che ho conosciuto. Mi riferisco, per non parlare di
Della Peruta di cui ho già detto, a L. Geymonat e R. Romano.
ELIO NENCI: Nel triennio 2007-2008 sei stato responsabile nazionale di un PRIN
intitolato: La tradizione della meccanica antica nel Rinascimento. Alle origini della
meccanica moderna: problemi filosofici, scientifici e filologici. Il risultato più tangibile di
questo progetto è stata la pubblicazione nel 2010 del testo latino riveduto e corretto con
traduzione italiana a fronte dei In mechanica Aristotelis problemata exercitationes di
Bernardino Baldi 24. Come spiegavi nella prefazione al detto testo, esso era il risultato di
una vera e propria opera collettiva. Durante la tua vita tu hai partecipato più volte a lavori
di carattere collettivo, e hai quindi una grande conoscenza delle difficoltà, dei vantaggi e
dei difetti connessi con questo tipo di lavori. Potresti fare un confronto fra le varie
esperienze, e spiegare quali sarebbero secondo te le modalità migliori per lo svolgimento
di questo tipo di ricerche?
GIANNI MICHELI: Quanto al volume su Baldi, mi chiedi giustamente il mio parere
sulle opere collettive, dato che quella su Baldi è la quarta a cui ho partecipato. Posso dite
la mia impressione su ciascuna di esse. In linea di massima, perché riesca bene un’opera
collettiva è importante che lo studioso che la dirige scriva più contributi che può perché ci
sia aderenza tra l’intento programmatico e il risultato. Ora nella Storia del pensiero
filosofico e scientifico la presenza di Geymonat è stata massiccia (ha scritto più di metà
24
B. Baldi, In mechanica Aristotelis problemata exercitationes, a cura di E. Nenci, Franco Angeli, Milano
2010.
20
dell’opera) e così l’intento è stato rispettato. All’inizio, l’editore aveva chiesto un
ampliamento del testo liceale e Geymonat aveva pensato di farlo da solo. Poi, siccome con
l’opera avrebbe potuto, come diceva, ‘lanciarÈ nel mondo degli studi i suoi allievi, ha dato
loro spazio per realizzare dei capitoli anche ampi. Tutti i collaboratori avevano metodi e
prospettive diverse fra di loro e diverse da quelle del direttore dell’opera. Ma questo non
ha arrecato alcun danno perché Geymonat aveva una concezione empirica della storia della
filosofia. Tutti gli approcci erano leciti purché amplificassero i rapporti tra scienza e
filosofia quando esistevano, indipendentemente dai metodi storiografici adottati. Devo dire
che Geymonat non è intervenuto in alcun modo sui miei articoli. Su mia richiesta, mi ha
corretto e reso più semplici alcuni punti della fisica di Huygens e basta. Per il resto era
rimasto molto colpito dal mio capitolo generale sul meccanicismo. Mi ha fatto sapere che
alcuni insegnanti gli avevano detto di averlo utilizzato molto nelle loro lezioni. Ne è
risultata un’opera omogenea, perfettamente adeguata agli intenti programmati. L’unico
elemento turbativo, non giustificabile sul piano dell’economia dell’opera è l’insolito spazio
che si è ritagliato Mangione con i suoi capitoli. Non so quali siano stati i motivi di questa
anomalia. Forse è stato tutto casuale. Mangione aveva scritto più del dovuto e siccome si
era sempre in ritardo sui tempi programmati per la pubblicazione, Geymonat aveva deciso
di non tagliare.
Della mia collaborazione all’Enciclopedia e del mio giudizio su di essa ho già parlato.
Quanto agli aspetti collaborativi del volume degli Annali, devo dire che non sono stati
molto felici, in gran parte per il poco tempo che avevo a disposizione per la ricerca dei
collaboratori. Alcuni capitoli sono risaputi e mediocri, altri invece troppo particolareggiati.
Malgrado le molte riunioni, non sono riuscito a trasmettere a tutti i collaboratori gli intenti
generali dell’iniziativa collettiva. In quest’opera, infatti, a differenza delle altre, non
importava tanto il contenuto, quanto la modalità di esposizione relativamente ad un solo
aspetto, quello della tradizione scientifica italiana. Molti collaboratori non hanno tenuto
nel debito conto questo aspetto, per cui parecchi articoli risultano sfasati. Inoltre io avrei
dovuto preparare un maggior numero di contributi, ma, pur avendo lavorato in quel periodo
come mai prima né dopo, non avevo potuto fare di più. Tutto sommato però, il volume è
risultato abbastanza aderente all’intento che appariva in modo netto nei miei capitoli ed è
stato inteso in quel senso. Ha avuto, come ho già detto, un grande successo editoriale e
alcune critiche del tutto non pertinenti. Credo però di essere riuscito bene a manifestare le
mie posizioni nelle risposte che ho dato ai critici. Sono molto soddisfatto per le mie
confutazioni di quelle di Pogliano perché mi ha dato modo di chiarire il mio pensiero su
Gentile e sul suo discepolo Garin. Geymonat, che avevo criticato un po’ troppo duramente
nel volume, quando ebbe letto la mia risposta a Pogliano, mi fece sapere che era
d’accordissimo (allora era un periodo in cui non ci parlavamo).
La traduzione di Baldi è l’opera collettiva più riuscita tra quelle cui ho partecipato. Era
anche facile perché l’intento era stabilito in modo chiaro e determinato. C’era un testo da
ricostruire e tradurre. Una volta chiariti i criteri per la ricostruzione delle molte figure
inserite nell’opera, stabiliti in modo preciso perché si basavano essenzialmente sull’utilizzo
di quelle inserite nel testo di una traduzione tedesca delle Exercitationes curata da Daniel
Mögling, l’uniformazione dei criteri della traduzione non ha creato molti problemi. Solo
per le note si è dovuti giungere ad un compromesso che però, nel complesso, non ha molto
disturbato. Quando l’oggetto e l’intento sono chiari come in questo caso, l’omogeneità dei
vari contributi viene da sé. Devo dire che la scelta dei collaboratori è stata ottima. Erano
tutti dotati di competenze diverse che si sono integrate fra di loro ottimamente. C’era un
architetto, un fisico, un matematico, uno studioso di filosofia aristotelica, un linguista, uno
storico della scienza antica, uno storico della scienza rinascimentale e uno storico della
scienza secentesco. Nell’insieme è stata un’esperienza esaltante. Credo che nessun testo
sia stato indagato e compreso fino in fondo come quello di Baldi. E credo sia stata
un’esperienza formativa per tutti, perché nulla, a mio parere, insegna di più ad un studioso,
quanto l’esercizio della traduzione di un testo che in questo modo viene compreso nella
sua interezza. A volte l’esercizio interpretativo risulta incapace di cogliere il testo e si arriva
alla conclusione che è l’autore stesso che ha scritto cose incomprensibili. Noi abbiamo
trovato un solo passo di questo tipo, verso la fine del testo. Dopo reiterati sforzi
interpretativi collettivi, siamo giunti alla conclusione che l’incongruenza era dello stesso
Baldi e che l’avrebbe tolta se avesse potuto rivedere il testo. Mi era capitato un caso simile

21
nella mia traduzione di Hobbes. Avevo trovato un passo, che non saprei più rintracciare,
che era incomprensibile, certamente frutto di una incongruenza dello stesso Hobbes.
ELIO NENCI: Dal 2002, con una cadenza di circa 15/18 mesi, si sono tenuti presso
Palazzo Feltrinelli (Gargnano) dei Seminari di studi sulla scienza antica e la sua tradizione,
giunti nel giugno del 2015 all’ottava edizione.(fig. 6) Come scrivevi nella prefazione al
volume intitolato La scienza antica e la sua tradizione (Milano, 2011) 25, questa pregevole
iniziativa, dovuta a te e a Ferruccio Franco Repellini, nasceva per favorire, all’interno della
piccola comunità degli studiosi di storia della scienza antica, “l’interscambio di
conoscenze” e soprattutto per “creare le condizioni che favorissero una collaborazione,
anche in base a discussioni aperte sulle differenti concezioni storiografiche”. Ampliando
l’ambito di riferimento cronologico fino al Rinascimento e agli esordi della scienza
moderna, questi seminari hanno visto la partecipazione di numerosi studiosi, e nelle ultime
edizioni si sono spesso dimostrati l’unico modo per mettere insieme in uno stesso luogo i
molti giovani ricercatori attivi in diverse città d’Europa. Come valuti in generale questa
iniziativa? È riuscita nell’intento di creare una comunità di studiosi un po’ più coesa? Cosa
andrebbe fatto per consolidare questa iniziativa e per migliorarla nel futuro?
GIANNI MICHELI: Gli incontri di Gargnano costituiscono una vera e propria iniziativa
collettiva fatta da me Elio e Ferruccio. Erano nati per promuovere lo sviluppo degli studi
di storia della scienza antica e stimolare il dibattito fra gli stessi, ed hanno, a mio parere,
realizzato gli intenti programmatici prefissati. Merito anche del modo con cui si sono svolti,
fortemente voluto da tutti noi: toni amichevoli, dibattiti aperti senza alcuna remora, al di
fuori, per quanto è possibile, delle abituali consorterie accademiche. Siamo riusciti a porre
tutti sullo stesso piano, giovani ricercatori e vecchi ricercatori come me (io sono il decano)
e Ferruccio. Abbiamo sempre avuto l’impressione che l’atmosfera da noi creata sia stata
bene accolta da tutti e che i partecipanti abbiano conservato un ricordo piacevole delle
giornate gargnanesi. Per cercare di migliorarle, bisognerebbe incrementare la presenza di
giovani in settori iperspecialistici come il siriologo Matteo Martelli. Per esempio, la musica
non è stata mai considerata a fondo. So che è stata fatta di recente una edizione di Tolomeo,
mi pare, da parte di un giovane studioso che potrebbe essere contattato. Finora gli interventi
più numerosi sono stati quelli sulla matematica, seguiti dai contributi su Platone e
Aristotele, poi da quelli sulla medicina. Alcuni campi di studio, come quello degli
strumenti, sono stati presenti in modo sporadico. Ci sono settori poi che abbiamo
considerato raramente: l’ottica, le varie tecniche conosciute nel mondo romano, la scienza
araba e infine la geografia.
A questo punto appare naturale trarre un bilancio della mia più che cinquantennale
attività di studioso. Partendo dagli aspetti meno positivi di questo bilancio. Ho lavorato
molto in vari settori, ma spesso non ho portato le ricerche fino alla fase di pubblicazione,
poiché nel frattempo avevo mutato interessi, o anche perché i risultati conseguiti non mi
soddisfacevano. Ho spesso concepito progetti troppo ambiziosi per poter essere realizzati,
e questo mi ha fatto perdere molto tempo, come nel caso della ricostruzione delle macchine
antiche. Mi domando spesso se ho perso delle occasioni. Forse non ho abbastanza favorito
e incrementato i rapporti con studiosi di altri paesi, anche a causa della mia difficoltà ad
esprimermi in inglese o in tedesco. Anche i miei rapporti con gli studiosi francesi sono stati
sporadici e non continuativi.
La mia attività ha ottenuto comunque anche esiti positivi, che qui ricordo. Anzitutto ho
contribuito a far diventare la ‘nuova’ storia della scienza una disciplina specialistica, come
quella antecedente legata alle singole discipline scientifiche, in grado di studiare in modo
analitico qualsiasi fatto scientifico, ma nello stesso tempo, diversamente dalla ‘vecchia’
storia della scienza displinare, aperta alle connessioni con altre branche del sapere storico,
filosofico, politico, economico e sociale. Poi ho concretamente contribuito a costituire e ad
arricchire l’insieme degli strumenti necessari a uno studioso. Ora la Biblioteca del
Dipartimento di Filosofia della Statale possiede tutte, o quasi, le riviste scientifiche di storia
della scienza, comprese quelle dedicate alle singole discipline scientifiche, oltre ad altre
pubblicazioni periodiche che indirettamente possono interessare la storia della scienza.
Possiede la maggior parte dei libri di storia della scienza editi in questo periodo, alcuni dei
quali reperiti presso librerie antiquarie. Ho detto in precedenza che ho lavorato molto in
25
La scienza antica e la sua tradizione, IV Seminario di Studi (Gargnano,13-15 ottobre 2008), a cura di
F. Franco Repellini, G. Micheli, Cisalpino, Milano 2011.
22
diversi settori, questo mi ha portato ad esplorare ambiti nuovi ed interessanti. Ho avuto
inoltre la fortuna di potere confrontare i risultati dei miei studi con quelli dei miei allievi,
che ho indirizzato verso campi di ricerca che mi sembravano interessanti. (fig. 7)
Nell’insieme ritengo che i miei studi di storia della scienza abbiano avuto fin dall’inizio la
finalità di interpretare i fatti scientifici in modo intrinseco, senza parametri a essi estranei.

23
TESTI

24
INDICE

Storia della scienza e storia della filosofia: problemi di metodo, in Atti del convegno sui
problemi metodologici di storia della scienza: Torino, Centro di studi metodologici, 29-31
marzo 1967, G. Barbera, Firenze 1967, pp. 22-38. p.

Il significato e l'importanza della storia della scienza, in Il problema delle scienze nella
realtà contemporanea: atti dei seminari varesini 1980-1984, introduzione e cura di M.
Massafra e F. Minazzi, FrancoAngeli, Milano 1985, pp. 163-171. p.

La storia della scienza nella cultura italiana, in La scienza tra filosofia e storia in Italia
nel Novecento: atti del Congresso internazionale, Varese, 24-25-26 ottobre 1985, a cura
di F. Minazzi e L. Zanzi, Roma Presidenza del Consiglio dei ministri, Direzione generale
delle informazioni, dell'editoria e della proprietà letteraria artistica e scientifica, Istituto
Poligrafico dello Stato, Roma 1987, 295-308. p.

Gli studi di storia della matematica, in La matematica italiana tra le due guerre
mondiali; atti del convegno tenutosi a Gargnano del Garda nel 1986, Pitagora, Bologna,
1987, pp. 265-278. p.

L’interesse per la storia della scienza in Preti, in Il pensiero di Giulio Preti nella cultura
filosofica del Novecento, a cura di F. Minazzi, FrancoAngeli, Milano, 1990, pp. 187-200.
p.

La storicità della scienza e la storia della scienza in Marx e Engels, in Friedrich Engels
cent’anni dopo. Ipotesi per un bilancio critico; atti del convegno internazionale di studi,
Milano 16-18 novembre 1995, a cura di M. Cingoli, Teti editore, Milano, 1998, pp. 162-
175. p.

Popper e l'origine della scienza, in Filosofia scienza cultura: studi in onore di Corrado
Dollo, a cura di G. Bentivegna, S. Burgio, G. Magnano San Lio, Rubbettino, Soveria
Mannelli 2002, pp. 535-544. p.

La concezione strumentale della storia della scienza in L. Geymonat, in Ludovico


Geymonat, un maestro del Novecento: il filosofo, il partigiano e il docente: atti dei
convegni di Barge, 11 ottobre 2008 e di Milano, 24 novembre 2008, a cura di Fabio
Minazzi, Edizioni Uniclopi; Milano, 2009, pp. 453-457. p

Lineamenti di una storia dialettica della scienza, in Le radici della razionalità critica:
saperi, pratiche, teleologie. Studi offerti a Fabio Minazzi per i suoi sessant’anni, a cura di
D. Generali, Edizioni Mimesis, Milano 2015, vol. II, pp. 699-706. p.

25
Premessa ai testi
Visti nell’insieme i miei scritti storiografici sulla storia della scienza, che coprono più
di un cinquantennio, rappresentano un quadro così unitario e compatto che mi ha sorpreso.
Infatti, tra l’elaborazione teorica del primo saggio, caratterizzato dalle nozione di
‘identificazione e logoramento’, e l’ultimo, caratterizzato da quella di ‘sviluppo dialettico’,
c’è un rapporto di omogeneità. Nel primo saggio il cambiamento delle idee scientifiche
viene genericamente indicato dal ‘logoramento’ continuo e progressivo nel tempo di una
teoria, cui subentra l’altrettanto progressiva sostituzione di una nuova teoria, cioè di un
nuovo rapporto di ‘identificazione’ tra realtà e concettualizzazione. Nell’ultimo saggio
l’introduzione del termine ‘dialettico’ costituisce una chiarificazione e una semplificazione
concettuale del susseguirsi dei fatti scientifici storicamente determinati, ma il quadro di
riferimento semantico è lo stesso. Certo la chiarificazione e la semplificazione è scaturita
progressivamente da tutta l’esperienza maturata nel corso di ciquanta anni di ricerche
relative ad ambiti disciplinari e periodi storici diversi, che mi hanno permesso di giungere
ad una visione generale coerente e sistematica dell’evoluzione dei fatti scientifici.
Tale elaborazione è stata resa ancora più incisiva anche, e soprattutto, in virtù di una
critica serrata dei presupposti che sono alla base degli studi di storia della scienza svolti in
tempi remoti e vicini. Critica della storiografia erudita fine a se stessa, tipica delle origini
della storiografia della scienza italiana (cfr. Annali). Critica del nazionalismo di fatto
caratteristico della storiografia della scienza negli ultimi secoli (storici tedeschi secolo
XIX), e di quello consapevolmente assunto (Duhem in Francia; in Italia spesso associato
alla pura erudizione). Critica della concezione empiristica e strumentale (Geymonat).
Critica dell’assunzione di fatto della storiografia più tradizionale senza connessione con la
propria teorizzazione (Preti). Critica dell’assolutizzazione della concezione induttivista
(positivistica) e deduttivistica (Popper), per cui la storia della scienza è travisata alla luce
di queste elaborazioni teoriche moderne. Critica della concezione moralistica della storia
della matematica, volta a rinsaldare e consolidare il patrimonio scientifico acquisito dalla
ricerca italiana (matematica italiana fra le due guerre). Critica dell’assunzione di parametri
esterni (sociologici, economici, marxisti) nella storia della scienza.
Il senso dei miei interventi teorici può essere visto come espressione di una tendenza
che vuole evitare d’introdurre parametri di riferimento estranei all’evoluzione delle
vicende storiche. L’evoluzione deve poter essere considerata entro l’ambito di riferimenti
e prospettive sentite e accolte dagli scienziati oggetto di indagine storica e secondo la
scansione temporale reale che si è realizzata.

26
Storia della scienza e storia della filosofia: problemi di metodo

È ben noto che in questi ultimi decenni gli studi di storia della scienza hanno avuto un
notevole sviluppo sotto l’impulso di diversi fattori (grande rilievo assunto dalle scienze
nell’ambito della società odierna, ampliamento di prospettive da parte degli storici e degli
storici della filosofia in particolare, esigenza di creare un collegamento tra la cultura
umanistica e scientifica); non si può dire però che essi nel complesso abbiano determinato
un notevole avanzamento nella consapevolezza, critica dei molti problemi connessi ad una
valutazione storica delle scienze.
Uno dei ‘bilanci’ più recenti in questo campo, quello di J. Agassi 26 presenta un quadro
particolarmente severo degli studi di storia della scienza nel complesso, e su molti dei rilievi
mossi dallo studioso anglosassone non si può non concordare, specie quando vengono
sottolineate le distorsioni, le carenze, le incomprensioni cui ha condotto nella valutazione,
per esempio, di autori come Keplero, Newton, Lavoisier, Faraday, una storiografia
tradizionale rigida, troppo sicura delle ‘verità’ acquisite. L’analisi di Agassi, pur ricca e
precisa nei dettagli, è però viziata da gravi difetti: è unilaterale, parziale, più uno sfogo
personale che una meditata valutazione; il quadro che presenta risulta essere costruito in
modo artificioso, e perciò è vago, poco chiaro, incerto nelle conclusioni. Agassi divide,
grosso modo, gli studiosi di storia della scienza secondo due grandi indirizzi: da un lato
quelli che seguono un’impostazione induttivistica, e dall’altro quelli che adottano nelle loro
ricerche una concezione convenzionalistica. Secondo lo studioso anglosassone, i primi si
rifanno alla problematica baconiana e alla sua distinzione dei pensatori in scientifici e
superstiziosi, osservatori e speculativi; lo storico induttivista pertanto esaurisce la sua ricerca
nello stabilire ciò che è adeguato o no alle asserzioni sulle singole scienze contenute nei
manuali odierni, nel dividere i fatti scientifici in bianchi e neri, corretti e non corretti.

La più semplice formula per una storia della scienza induttivistica è quella di arrangiare gli odierni
manuali scientifici in ordine cronologico, di descrivere alcune delle circostanze che si riscontrano
attorno all’accadere di un importante evento nella storia della scienza, di dire qualcosa circa i
principali attori coinvolti in quell’evento; di provvedere, in breve, al lato umano della scienza. 27

Da un punto di vista strettamente induttivistico, si tende ad espungere tutto ciò che è


extrascientifico, tutto ciò che non è riconducibile nell’ambito della mera induzione e, se mai,
come nel caso dell’induttivismo marxista, si è portati a dar rilievo ad influenze non
intellettuali, al background sociale e tecnico. Gli storici di tendenza deduttivistica o
convenzionalistica, per i quali le teorie scientifiche sono sistemi matematici entro cui
sistemare i fatti empirici, il criterio di scelta di una teoria rispetto ad un’altra non è quello
della verità e della falsità, bensì quello della semplicità; si ha pertanto una relativizzazione
del criterio. I convenzionalisti tendono a sottolineare la continuità nell’evoluzione della
scienza e a dar rilievo agli antecedenti di ogni singola dottrina; si avvalgono essenzialmente
di quella che Agassi chiama «tecnica dell’emergenza» ampiamente usata e divulgata
soprattutto da Duhem. Le regole di questa tecnica sono semplici: «Ogni idea ne ha una
precedente che assomiglia ad essa più di alcuna altra precedente; la si trovi! E si trovi tra le
due idee tutti quegli eventi, specialmente scoperte di fatti, che rendano più piana la
transizione tra di esse!». 28
A parere dello studioso anglosassone la storiografia convenzionalistica è più
apprezzabile di quella induttivistica nel senso che analizzare le idee scientifiche e
paragonarle con il background e i precedenti culturali e non con gli odierni manuali è meno
sviante; presenta però anch’essa limiti notevoli in quanto la semplicità è il suo solo criterio
di ricerca ed esso non è molto valido quando si tratta di controversie che coprono un lungo
periodo, in quanto si sottovalutano scuole quando sono ancora scientificamente importanti.
In effetti, nota Agassi, gli studiosi di storia della scienza non hanno saputo e non sanno

26
J. Agassi, Towards an historiography of science, Mouton, The Hague 1963.
27
Ivi, p. 2.
28
Ivi, p. 32.
27
evitare di far uso di procedimenti post mortem, cioè di esprimere dei giudizi con la saggezza
del dopo; ciò porta inevitabilmente ad una incomprensione storica delle varie teorie.
Le indicazioni positive con cui lo studioso anglosassone termina il suo saggio si basano
essenzialmente sul modello di esplicazione deduttiva elaborato da K. Popper nella sua
applicazione alla storia. Ogni esplicazione consta di asserzioni singolari (condizioni
iniziali), e di asserzioni universali (leggi universali); mentre la ricerca scientifica deve
concentrare la sua attenzione sulla ricerca e la prova delle leggi universali, la storia
concentra la propria attenzione sulla ricerca e la prova delle condizioni iniziali. Le gravi
deficienze rilevate da Agassi negli studi da lui esaminati sono da imputarsi pertanto
principalmente ad una scarsa coscienza del ruolo altamente problematico delle leggi
universali cui occorre far uso nella valutazione storica della scienza; una più precisa
caratterizzazione della natura e del ruolo di tali leggi potrebbe costituire un correttivo e un
efficace aiuto nell’analisi storica. Tutto ciò è, a mio parere, molto vago e artificioso, come
vaga e artificiosa è l’impostazione stessa del saggio, imperniato sulla distinzione astratta
tra induttivismo e convenzionalismo. Queste sono infatti categorie troppo generali, troppo
rigide, e soprattutto troppo avulse dal concreto sviluppo della storiografia (significativo è,
per esempio, il nessun rilievo dato a Comte che ha improntato tutta la storia della scienza
del secolo XIX) perché possano servire a caratterizzare l’opera di autori diversi, di età
diverse in modo preciso; sono pertanto etichette che raggruppano degli autori, senza che vi
sia una effettiva generalizzazione, storicamente determinata, del loro procedere.
L’esigenza metodologica sembra poi essere nulla più di una mera esigenza; giunge infatti
a dire «che sforzi metodologici consapevoli non sono necessari ad uno storico della scienza
per scrivere un’opera interessante e valevole. La gran varietà di tali storie della scienza, da
Priestley e Laplace a Burtt e Koyré indica che non c’è alcuna formula per scrivere una
storia della scienza stimolante». 29
L’atteggiamento di sfiducia verso una storiografia metodica 30 è del resto oggi molto
vivo e diffuso tra gli studiosi di storia della scienza, e non solo di essa. Ciò implica dare un
rilievo, più o meno esclusivo, nella storiografia, all’intelligenza dello studioso, alla sua
capacità di elaborazione personale dei dati storici, e quindi assumere prospettive
soggettivistiche. Una simile impostazione, applicata in particolare alla valutazione storica
della scienza, appare singolare e non può che condurre a risultati estrinseci, se si pensa che
la scienza, per sua stessa natura, è aliena da ogni concezione soggettivistica. Proprio questo
carattere venne ribadito con particolare vigore ed energia dai fondatori della scienza
moderna, i quali programmaticamente si rifacevano al buon senso e alla capacità di ogni
uomo, purché sorretto da un metodo rigoroso, di contribuire alla costruzione dell’edificio
della scienza. La scienza moderna è sorta appunto come un rifiuto della costruzione
individuale, pur ingegnosa, per far perno su un corpus di conoscenze obiettive, possibili a
tutti purché venissero seguite certe istanze primarie, certe regole essenziali. La fiducia in
un metodo che conduca in modo certo a nuove scoperte è condivisa da Bacone, Galilei,
Descartes e praticamente da tutti i nuovi scienziati del Seicento; essa non implicava,
ovviamente, un disconoscimento della ricerca personale (non mai così vigorosamente
rivendicata come dai fondatori della scienza moderna), bensì l’esigenza di incanalare tale
ricerca verso risultati collettivi’, fondati obiettivamente, cioè comprensibili e accettabili
da tutti. La dimensione dell’obiettività è tipica della scienza fin dalle origini: conoscenza
scientifica vuol dire infatti conoscenza posta in termini dimostrativi, cioè non messa nella
forma assertoria dell’intuizione mistica e ‘individuale’ ma in quella articolata e mediata
dell’asserzione razionale, che si fonda appunto su nessi accessibili a tutti. L’obiettività è
quindi sempre connessa con i criteri dimostrativi che la pongono, cioè con gli strumenti
concettuali usati che si situano in una linea di acquisizione progressiva. L’energia con cui
tale dimensione veniva rivendicata dai fondatori della scienza moderna, stava ad indicare
la conquista di una nuova e più feconda obiettività (la conquista del criterio dimostrativo
fondato sul meccanicismo) di contro alla obiettività ancora legata ai criteri elaborati nel
mondo greco, e ormai posta in crisi dalla ricerca rinascimentale anche da quelle concezioni
non scientifiche, ‘individualistiche’, della magia rinascimentale tanto disprezzate da
Galilei e Descartes. È pertanto tale esigenza antisoggettivistica che ha reso possibile la
29
Ivi, p. 78.
30
Tale atteggiamento non è sostanzialmente condiviso dallo stesso Agassi, il quale, come si è visto, ritiene
necessario, per un reale avanzamento degli studi di storia della scienza, un rinnovamento metodologico.
28
fondazione della scienza moderna.
Se si vuole considerare la storia come scienza, occorre assumere un atteggiamento di
fondo analogo. La tradizionale questione dell’obiettività storica, intorno a cui si è venuta
forgiando la moderna storiografia, ha posto in termini adeguati tale prospettiva, anche se è
rimasta sempre pur viva la tendenza (che ha dato frutti cospicui) a considerare la, storia
solo come un mezzo per arricchire umanamente se stessi e gli altri. L’esigenza di una
storiografia ‘scientifica’ risulta particolarmente sentita quando si tratta di una disciplina
come la storia della scienza il cui oggetto è, come si è visto, tradizionalmente un insieme
di conoscenze obiettive. Il problema si è posto e si pone in termini particolarmente
complessi. La storia della scienza, come disciplina autonoma, si è costituita solo verso la
fine del secolo XVII e più specificatamente nel XVIII, quando cioè si è formato un corpo
di conoscenze fondate, dal punto di vista dei metodi e dei contenuti, in modo
incontrovertibile, e si è ridotto sempre più il margine per dati e conoscenze non basate sulla
sperimentazione sistematica e non derivate in modo preciso dalle premesse generali
semplici e chiaramente formulate. È stato quindi necessariamente dopo la conquista di quel
mutamento ‘qualitativo’ nell’indagine scientifica costituito dalla fondazione della scienza
moderna, che si è posta la questione della considerazione storica della scienza. Uno
studioso contemporaneo ha giustamente osservato che nel Cinquecento, la scoperta di un
testo scientifico greco costituiva di per sé un reale avanzamento nella conoscenza, un
concreto stimolo alla ricerca; ora, una volta conseguita quella nuova concezione generale
dell’obiettività, della ‘verità’ scientifica, che inglobava e superava la precedente, i testi
scientifici classici, almeno per la maggior parte dei contenuti concreti, non erano più
immediatamente utilizzabili per la ricerca e venivano ad assumere un interesse diverso.
Comprendere storicamente quei dati voleva dire dare di essi una nuova valutazione, trovare
in essi un nuovo significato. Il metodo più semplice che si presentava per conseguire questa
valutazione era quello del confronto dei dati cui era giunto il pensiero scientifico con quelli
antecedenti; esso fu adottato nell’ambito della storiografia prammatica illuministica, ma in
forma lata e non articolata, ed ebbe il suo apogeo nel secolo XIX nella storiografia del
positivismo. Questo metodo, tradizionale ed ancor oggi usato, si è mostrato un potente e
fecondo mezzo d’indagine, in quanto esso permette un’analisi quanto mai dettagliata ed
inoltre una valutazione e una selezione dei dati estremamente differenziata; permette cioè
di dare un senso ad alcuni eventi, di espungerne altri, di delineare linee di sviluppo precise
e articolate, di cogliere nessi poco evidenti in se stessi. Esempi significativi dell’efficacia
dell’uso di tale metodo si possono ricavare dai maggiori storici del pensiero scientifico del
XIX secolo. É. Littré, per esempio, ha condotto i suoi studi su Ippocrate, sfociati nella sua
classica edizione delle opere del medico greco, in questa direzione. Studiare le concezioni
di Ippocrate, vuol dire, secondo lo studioso francese, situarle alla luce della scienza medica
dell’Ottocento, cogliere di esse quegli aspetti che si sono mostrati suscettibili di sviluppi
positivi e quelli che si pongono in una prospettiva diversa, rilevandone dettagliatamente le
differenze. Così la considerazione delle influenze climatiche e stagionali sul corpo e sullo
sviluppo delle malattie è un’idea feconda che la scienza ulteriore non ha ancora esaurito.
Tutta l’eziologia ippocratica, nel suo complesso, con il rilievo dato alle influenze esterne è

grande e bella e il corso del tempo e il progresso della scienza ne hanno rispettato le basi. Tuttavia
bisogna vedervi solo il primo scorcio, chiaro, è vero, e profondo della medicina greca, sulle cause
delle malattie. L’eziologia è ancora ai nostri giorni uno dei più importanti e difficili soggetti di
studio. Fu naturale ai primi medici e, tra gli altri, ad Ippocrate, di comprendere e di notare dapprima
la grande e unilaterale influenza degli agenti del mondo esterno: clima, stagioni, genere di vita,
alimentazione, tutte queste influenze furono segnalate a grandi tratti. Vedere le cose nell’insieme è
proprio della medicina antica; è ciò che ne fa il carattere distintivo, e ciò che le dà la sua grandezza,
quando l’insieme che ha colto è vero; vedere le cose in dettaglio e risalire per questa via alle
generalità, è proprio della medicina moderna.
Non sarebbe più possibile, oggi, edificare una eziologia comprensiva come quella che fa la dottrina
di Ippocrate. Molte influenze che si ignoravano al tempo del medico di Coo, sono state segnalate;
tutto ciò che è relativo ai contagi, ai virus, alle infezioni è venuto a prendere un posto importante
nell’insegnamento, e poi si è trovato che si ignorava ciò che si credeva di sapere.31

31
Hippocrate, Oeuvres complètes, a cura di É. Littré, J.B. Baillière, Parigi 1839, I, p. 444.
29
Così una dottrina più specifica, come la nozione di concozione, può essere utilmente
paragonata a quelle concezioni moderne che si basano sul principio che non si ha affezione
senza alterazione materiale, o più particolarmente alla nozione moderna di risoluzione.

Prendete la pneumonia - dice Littré - il medico antico, vedendo gli sputi da schiumosi e sanguinolenti
divenire spessi e giallastri, annuncia la concozione che accompagna la guarigione; il medico moderno,
auscultando il polmone malato, riconosce il progresso del miglioramento e intende il rantolo crepitante;
è la risoluzione che si opera. La concozione è dunque qui il segno esterno del lavoro interno che avviene
nel polmone; il medico antico seguiva il segno esterno; il medico moderno segue il lavoro interno. Nulla
di più istruttivo che studiare le soluzioni diverse fornite dalle scienze per un medesimo problema in
tempi differenti. La concozione dell’espettorazione e la risoluzione dell’epatizzazione sono due risposte,
separate da più di ventidue secoli, a questa questione: da quale segno si riconosce il lavoro di guarigione
della pneumonia? 32

Così la prognosi ippocratica equivale alla moderna semeiotica. Se la semeiotica è una


branca speciale della medicina, quella che indica il valore dei segni, e in alcuni casi è anche
subordinata alla diagnostica, la prognosi ippocratica ha un valore generale: «essa è la prima
costruzione scientifica che si conosca della medicina. A tale titolo, essa merita la nostra
attenzione, e la merita anche perché non è fondata su vedute razionali e ipotetiche, ma
perché parte da osservazioni ed esperienze reali». 33 Nella sostanza, quindi, il metodo antico
e quello moderno non differiscono nell’essenziale: sono entrambi metodi sperimentali,
basati sull’osservazione e sull’induzione. Quello antico, basato sulla rilevazione dei segni
comuni è generale, si attiene alla superficie; quello moderno ricerca in modo più
dettagliato, cerca di giungere alla conoscenza intima degli organi.
Del pari, se analizziamo un’altra classica opera della storiografia del secolo XIX, I
pensatori greci di Theodor Gomperz, opera in cui viene dato un grande rilievo al pensiero
scientifico visto in stretta connessione con il pensiero filosofico, vediamo come la tendenza
a dare una valutazione significativa alle teorie del passato sia fatta con la tecnica del
riferimento a teorie moderne. Esaminando la teoria cosmologica di Anassagora, rileva che
il pensatore greco dà un’esplicazione dell’universo essenzialmente naturalistica e
materiale; il primo impulso al movimento dell’universo sarebbe stato dato da un’entità
semimateriale, il Nus.

È solo in un punto, dunque, della sua dottrina della formazione del cielo e del mondo, per intero
concepita sotto il punto di vista meccanico e fisico, che egli si trova costretto a ricorrere
all’assunzione di un intervento superiore. Questa spinta iniziale dalla quale l’universo fino allora
rimasto immoto riceve il movimento di rotazione, ricorda in maniera sorprendente quella prima
impulsione che secondo l’assunto di molti astronomi dell’età moderna la Divinità avrebbe impresso
agli astri. E mi esprimo male, così dicendo; non è già soltanto che l’una assunzione ricordi l’altra:
esse sono una sola ed identica assunzione. Esse sono destinate a colmare proprio la medesima
lacuna della nostra conoscenza: rispondono ambedue al medesimo bisogno d’introdurre nella
meccanica celeste, accanto alla gravità, una seconda forza di origine ignota. Ma vediamo di non
essere fraintesi. Non intendiamo certo, con questo, attribuire al pensatore di Clazomene
l’anticipazione della teoria newtoniana della gravitazione universale, o la nozione del
parallelogramma delle forze; egli ignorava certo che le curve descritte dagli astri risultano di due
componenti, di cui una è la forza di gravitazione e l’altra è la forza tangenziale che viene riportata
a quel misterioso impulso originario. Ma quanto le sue idee si accostino ai principi fondamentali
dell’astronomia moderna basterà a farlo comprendere una breve riflessione. Negli ulteriori sviluppi
della sua cosmogonia, egli insegna che il sole, la luna e le stelle sono corpi strappati dal centro
dell’universo, cioè dalla terra, per la violenza della spinta rotatoria cosmica. Egli ammetteva dunque
delle proiezioni, del tutto analoghe a quelle supposte dalla teoria di Kant e di Laplace sulla
formazione del sistema solare. Ne rintracciava la causa in ciò che noi denominiamo forza

32
Ivi, p. 449.
33
Ivi, p. 455.
30
centrifuga, una forza, pertanto, che poteva produrre tale effetto solo dopo che quella tale rotazione
cosmica avesse avuto inizio e avesse raggiunto una velocità considerevole.34

Osserva, a proposito della teoria empedoclea dell’origine degli esseri, che essa è un
tentativo, rozzo quanto si vuole, ma analogo a quello di Darwin, di risolvere per via naturale
il problema della finalità del mondo organico. Tutta l’esposizione del pensiero aristotelico,
in particolar modo di quello biologico, è costellata di riferimenti continui e pertinenti a
teorie e dottrine moderne. Una siffatta storiografia è, nella sostanza, teleologica; pone
infatti come fine della ricerca un determinato stadio dello sviluppo cui è pervenuta ogni
singola disciplina, il quale costituisce il criterio essenziale dell’indagine; si tratta
praticamente di individuare degli errori.
Il problema dell’errore si pone in termini diversi: da un lato c’è l’errore frutto di carenze
nella disposizione degli strumenti concettuali e tecnici, dall’altro quello derivante dall’uso
di categorie generali non idonee per un’effettiva comprensione di determinati fenomeni.
Nel primo caso si tratta di comprendere la progressiva evoluzione degli strumenti
dell’analisi scientifica e l’inadeguatezza dei risultati precedenti; nel secondo caso di
valutare ciò che non si situa entro le linee di sviluppo poste come obiettive. Il limite
essenziale che si riscontra in simili ricerche è che il confronto tra i due termini del problema
è immediato. Non si tiene conto che dei dati sono esplicabili solo nell’ambito delle
categorie generali in cui sono inquadrati e degli strumenti concettuali di cui sono il frutto.
Ci si preclude pertanto ogni comprensione globale, cioè ogni effettiva comprensione
storica; la ricerca non è autonoma, ma acquista significato soltanto in una prospettiva
estranea ad essa. Viene falsata la nozione stessa di progresso scientifico, che non è mai di
contenuti e di metodi particolari, ma è piuttosto un articolato processo delle categorie
conoscitive in relazione alla totalità delle componenti i singoli momenti dell’età in cui si
sviluppano.
Questa storiografia realizzava nella sostanza gli intendimenti che Comte aveva proposto
e ampiamente divulgato. Egli si era espresso in una nota a Guizot, ministro della pubblica
istruzione, relativamente al problema della creazione di una cattedra di storia generale delle
scienze fisiche e matematiche al Collège de France, pubblicata nel «National» del1’8
Ottobre 1833, in questi termini:

L’osservazione esatta del cammino spesso così poco razionale in apparenza, seguito attraverso
i secoli dalla successione degli uomini di genio per acquisire quel piccolo numero di conoscenze
certe ed eterne che costituiscono il nostro dominio scientifico attuale, deve ispirare a tutti gli spiriti
elevati una profonda attrattiva, e può, nel medesimo tempo, facilitare il progresso effettivo delle
scienze, facendo conoscere meglio le leggi naturali del concatenamento delle scoperte. Oltre questa
utilità propria e diretta del nuovo corso proposto, è chiaro che tutte le considerazioni di qualche
importanza relative alla filosofia delle scienze, al loro metodo, al loro spirito e alla loro armonia,
vengono a ricollegarvi si naturalmente, e con questa felice garanzia che, collegate così allo sviluppo
storico della scienza umana, tutte le nozioni vaghe e arbitrarie se ne trovano escluse
necessariamente, per non lasciarvi sussistere che ciò che offrono di positivo. 35

Ma le ricerche storiche di tendenza positivistica seguirono solo parzialmente


l’insegnamento comtiano; il filosofo francese aveva cercato infatti di porre, almeno in linea
di principio, in forma meno immediata il problema dell’indagine storica della scienza. Lo
strumento elaborato da Comte per indagare l’evoluzione progressiva delle scienze, la legge
dei tre stadi (teologico, metafisico, positivo) risulta essere un primo tentativo, ancorché
generale, di valutare lo sviluppo storico delle scienze, di dare ad esso un senso non
estrinseco. Non starò qui a sottolineare le manchevolezze e i limiti della legge comtiana (la
sua astrattezza, la sua indeterminatezza, specie nel secondo punto, la sua scarsa aderenza
all’effettivo sviluppo storico). Mi basterà rilevare come essa sia stata poco feconda come
strumento di analisi; la maggior parte degli storici della scienza del secolo XIX preferirono
il più adeguato e meno rigido metodo del confronto immediato, lasciando

34
T. Gomperz, I pensatori greci, vol. I, La Nuova Italia, Firenze 1950 (3a ed.), pp. 329-330.
35
Citato in É. Littré, A. Comte et la philosophie positive, Librairie de L. Hechette et C.ie, Parigi 1863, pp.
204-205.
31
nell’indeterminatezza la ricerca delle leggi dell’evoluzione del pensiero scientifico, che
rimase per lo più allo stato di esigenza.
Più interessanti, in ambito strettamente storiografico, ci sembrano le concezioni
sviluppate da alcuni scienziati, come Mach e Duhem, rivolte ad indagare le categorie
psicologiche del procedere scientifico.
Pierre Duhem nella sua classica opera sulla teoria fisica, La théorie physique, son objet
et sa structure (1906), osserva, riprendendo la famosa espressione pascaliana e
generalizzandola in una astratta tipizzazione psicologico-nazionale, che si danno due
specie di mentalità: quelle ampie e quelle profonde. Mentre le menti ampie colgono un gran
numero di oggetti e di situazioni nei loro contorni reali e precisi, quelle forti, ma strette,
riescono meglio a concepire un complesso di dati, quando questi vengono formulati
mediante processi astrattivi. Se la mentalità ampia è tipica dell’Inghilterra, quella forte, ma
stretta, lo è della Francia, e ha in Descartes, che parte dagli oggetti più semplici, più astratti,
più spogli di accidenti sensibili, il suo più noto esponente. Ora è vero, secondo Duhem, che
il meccanicismo nel suo complesso rappresenta una grande vittoria dell’immaginazione
sulla facoltà astraente, e che esso ha avuto la sua espressione più completa in un genio
francese, Descartes; però quando si tratta di trarre le conseguenze, Descartes e quelli della
sua tempra, le derivavano logicamente dalle ipotesi prese a fondamento, costruendo un
sistema di deduzioni rigorosamente concatenate fra di loro. Le teorie create dai grandi
geometri del continente possono essere teorie esplicative o rappresentative, ma hanno in
comune il fatto di essere costruite secondo le regole di una severa logica.

Da questo metodo sono usciti quei maestosi sistemi della natura che prendendo a
fondamento un certo numero di postulati molto chiari, si sforzano di elevare una
costruzione perfettamente rigida e regolare ove ogni legge sperimentale si trova
esattamente collocata; dall’epoca in cui Descartes costruiva i suoi Principi di filosofia fino
al giorno in cui Laplace e Poisson edificavano sull’ipotesi dell’attrazione l’ampio edificio
della loro Meccanica fisica, tale è stato il perpetuo ideale della mentalità astratte e, in
particolare, del genio francese. 36
La mentalità inglese, invece, è nettamente caratterizzata dall’ampiezza della facoltà che
serve ad immaginare gli insieme concreti e dalla debolezza della facoltà che astrae e
generalizza. Questa forma particolare di mentalità genera una forma particolare di teoria
fisica; le leggi di un medesimo gruppo non sono coordinate in un sistema logico; sono
figurate da un modello; questo modello può essere d’altronde, sia un meccanismo costruito
con dei corpi concreti, sia una combinazione di segni algebrici, in ogni caso, la teoria
inglese non si sottomette, nel suo sviluppo, alle regole di ordine e di unità che impone la
logica. 37

L’astrattezza dell’impostazione storiografica di Duhem si palesa, se si osserva che


proprio Descartes è stato colui che ha dato la prima formulazione teorica dell’uso dei
modelli in fisica. Egli ha posto bene in evidenza come l’immaginazione sia lo strumento
più idoneo per la deduzione delle conseguenze dai principi. E ancora più si può constatare
tale astrattezza se facciamo attenzione al modo come concretamente Duhem svolge le sue
ricerche: egli pone sostanzialmente in ordine cronologico i testi concernenti un determinato
argomento analizzando logicamente ogni teoria e cercando di individuare i nessi logici tra
una teoria e l’altra. Lo sviluppo è piano, lineare e progressivo, ma non è adeguato sul piano
della concretezza storica; nella storia non si dà un progresso lineare. Il fine cui conduce la
ricerca è essenzialmente pedagogico. Ponendo una stretta correlazione tra lo sviluppo
psicologico dell’individuo e quello della specie, pare a Duhem che il metodo storico nelle
scienze fisiche possa essere il più efficace per forgiare criticamente lo scienziato e fargli
evitare gli eccessi del dogmatismo e del pirronismo. Perché sforzarsi di immaginare un
metodo adeguato per l’insegnamento, si domanda Duhem?

36
P. Duhem, La théorie physique, son objet et sa structure, Chevalier et Rivière Éditeurs, Paris 1906, p.
128.
37
Ivi, pp. 137-138.
32
Non abbiamo sotto gli occhi uno studente che, nell’infanzia, ignorava tutto delle teorie fisiche
e che, nell’età adulta, è pervenuto alla piena conoscenza di tutte le ipotesi su cui riposano quelle
teorie? Questo studente, la cui educazione è continuata durante i millenni, è l’umanità. Perché, nella
Formazione intellettuale di ogni uomo, non imitare il progresso con cui si è formata la scienza
umana. 38

Meno superficiale, costruito in modo più rigoroso è lo psicologismo di Ernst Mach.


Tutta la concezione dello scienziato austriaco è basata sul principio generale della scienza
come economia del pensiero, principio pienamente condiviso anche da Duhem. Secondo
Mach, l’uomo, per sopperire alle enormi difficoltà che comporterebbe una descrizione
diretta dei fenomeni di cui viene a conoscenza, si avvale, per meglio orientarsi in essi, di
nessi associativi e comparativi.

Dobbiamo ammettere che non sempre siamo in grado di dare di ciascun fatto una descrizione
diretta. Che, anzi, se d’un tratto fosse offerta alla nostra mente l’infinita copia dei fatti che veniamo
a conoscere poco a poco, dovremmo darci per vinti. Per nostra fortuna, la nostra attenzione è
eccitata principalmente dai fatti isolati e straordinari, dei quali acquistiamo maggior conoscenza
comparandoli coi fatti di ogni giorno. Di qui cominciano a svolgersi i concetti del linguaggio
comune. In seguito le comparazioni si fanno più svariate e più numerose, i gruppi di fatti già
paragonati acquistano maggiore estensione e facendosi pure più generali e più astratti i concetti che
ne risultano, diviene possibile la descrizione diretta.39

Questi nessi associativi e comparativi derivano da un’accumulazione istintiva nella


specie di esperienze, di osservazioni di fenomeni, operata sotto la spinta di bisogni pratici.
È questa conoscenza istintiva che guida la ricerca: essa precede sempre la conoscenza
cosciente, scientifica. È sempre pertanto una constatazione empirica, una convinzione
istintiva quella che determina e fonda una dimostrazione: lo scienziato non fa che porre in
rilievo questo fatto fondamentale dando ad esso coerenza logica.
Queste esperienze quando vengono esplicitate dallo scienziato subiscono un processo di
trasformazione, di interpretazione, estrinseco alla mera constatazione; si tratta di un
processo che conduce al periodo formale della scienza in cui vige in modo chiaro e
predominante il principio dell’economia del pensiero. È pertanto evidente che la
concezione di Mach è rivolta essenzialmente all’analisi psicologica dell’atto conoscitivo;
egli stesso riconosce che i suoi studi non sono che degli schizzi di conoscenza psicologica.
È stato giustamente osservato 40 che l’originalità di Mach sta soprattutto nel modo con cui
stabilisce le sue concezioni, cioè con una precisa e fedele analisi storica, ed esse, da un
punto di vista strettamente storiografico, si mostrano molto efficaci come strumento di
analisi. A mio parere esse risultano però essere estremamente limitate perché fondate su
una imprecisata correlazione tra psicologia dell’individuo e della specie. Ogni proposizione
scientifica viene considerata astrattamente e vengono studiate le modalità con cui si è giunti
alla sua formulazione. I procedimenti di Archimede, Stevino, Galileo, nell’essenza, tornano
tutti al medesimo, alla constatazione empirica di un fatto evidente. Ogni reale dimensione
conoscitiva è posta principalmente nella sfera dell’istinto e dell’inconscio.
Grande importanza ebbe nella storiografia del secolo XIX anche il tema della
rivendicazione nazionale. Nei suoi aspetti più positivi, esso ha costituito un notevole
stimolo alla ricerca e non solo perché ha permesso di porre in rilievo pensatori poco
conosciuti e di fare innumerevoli scoperte, ma perché ha consentito rivalutazioni e
svalutazioni clamorose. Basti qui pensare agli studi di Duhem, i quali, ponendo in rilievo
il ruolo importante che ebbero le ricerche svolte dai fisici della scuola parigina
nell’elaborazione della scienza moderna, diedero vita ad innumerevoli discussioni che,

38
Ivi, p. 442.
39
E. Mach, Del principio di comparazione nella fisica, in Letture scientifico-popolari, Bocca, Milano-
Roma-Firenze 1900, p. 197.
40
A. Rey, La théorie de la physique chez les physiciens contemporains, Félix Alcan Éditeur, Paris 1907,
pp . 96-97.
33
nella sostanza, hanno arricchito la valutazione storica della nuova fisica meccanicistica del
secolo XVII. L’esigenza rivendicativa ha inoltre consentito di vagliare in modo più attento
i singoli aspetti del metodo di indagine e di impostare, sia pure in forma piuttosto estrinseca,
il problema dei rapporti tra scienza e società.
Rispetto alla grande storiografia del secolo XIX, in seguito si è avuto, a mio parere, un
regresso, almeno da un punto di vista metodico. Si è rimasti fermi al metodo del confronto
immediato, oppure alla mera erudizione, oppure si è fatto uso di categorie retoriche, vaghe
e generiche, sociologiche. Certo si è manifestata la lodevole tendenza a comprendere le
concezioni scientifiche alla luce delle prospettive culturali dell’età in cui si sono formulate,
e in questa direzione sono stati pubblicati alcuni studi di rilievo come quelli di Lenoble e
di A.C. Crombie. Ma questa esigenza rimane sostanzialmente inoperante se nel contempo
non si cerca di individuare gli strumenti idonei per enucleare linee di sviluppo obiettive
nell’evoluzione della scienza. I risultati ‘significativi’ cui si perviene restano affidati
esclusivamente alla capacità personale dello storico di ricostruire determinati eventi; ogni
valutazione generale del procedere scientifico resta preclusa o rimane generica. Si pensi
solo al fatto che negli ultimi decenni non si è pubblicata alcuna opera paragonabile, per
ampiezza di prospettive e di sintesi, alle grandi opere di storia della scienza del secolo XIX
e dei primi anni del Novecento. Le opere di Sarton, Thorndike, Partington, o le due storie
generali della scienza, pubblicate in Francia, e frutto della collaborazione di diversi autori 41
non sono che giustapposizioni di eventi, persone, fatti, senza alcuna linea direttiva generale.
In alcune questioni si hanno conseguenze sorprendenti: per esempio, di recente si è avuto
un accresciuto interesse per l’astrologia, disciplina di cui si è sottolineata la grande
importanza storica. Orbene l’opera generale fondamentale sull’astrologia greca è quella, di
tendenza positivistica, del Bouché-Leclercq, 42 opera notevole di sintesi appunto perché i
vari aspetti dell’astrologia sono valutati alla luce di un principio generale di analisi, quello
volto a. comprendere la facoltà che agisce in modo più spontaneo e attivo sulla psicologia
collettiva, la facoltà di credere e di crearsi delle ragioni di credere. Nella sostanza, quindi,
la mancanza di una metodologia adeguata ha condotto e conduce a una visione
frammentaria e superficiale dello sviluppo storico delle scienze; il notevole accrescimento
quantitativo delle ricerche non ha portato a una interpretazione in senso unitario e globale.
A. Koyré, la personalità più rilevante negli studi di storia della scienza degli ultimi decenni,
sostanzialmente si muove ancora, almeno dal punto di vista della ricerca concreta, entro gli
schemi elaborati dalla storiografia del secolo XIX. Certo egli non l’accetta in toto e ne
combatte i gravi limiti (particolarmente la sua tendenza allo psicologismo e alla valutazione
estrinseca delle dottrine scientifiche). Egli si rifà in particolare all’impostazione duhemiana
che viene mutuata con originalità, ma anche impoverita. Koyré forse più di ogni altro autore
moderno ha insistito sul fatto che una determinata teoria scientifica va collocata nel suo
tempo, nella dimensione mentale, intellettuale, spirituale in cui è sorta e si è sviluppata, ma
questa tendenza egli l’ha intesa in senso accentuatamente individualistico. La sua
impostazione essenzialistica, platonica lo ha indotto a porre in particolare rilievo le ragioni
storiche e le motivazioni individuali che hanno condotto lo scienziato alla scoperta di
asserzioni vere. Particolarmente significativa è la sua esposizione della scoperta della legge
della caduta dei gravi; tale esposizione è volta essenzialmente a cercare di spiegare, di
comprendere i ritardi, le inesatte formulazioni della legge fino alla sua corretta definizione.

Per lo storico del pensiero scientifico, per lo meno per lo storico filosofo, lo scacco, l’errore,
soprattutto l’errore di un Galileo, di un Descartes, sono talvolta preziosi come le loro riuscite. Lo
sono forse di più. Sono, in effetti, molto istruttivi. Ci permettono talvolta di cogliere, e di
comprendere il cammino segreto del loro pensiero. 43

Del pari l’analisi dell’opera di Keplero è in gran parte occupata dalla lunga ed
estenuante lotta dell’astronomo tedesco per giungere alla scoperta della traiettoria reale di
41
Histoire de la Science, des origines au XXe sieècle, a cura di M. Daumas, Encyclopédie de la Pléiade,
Paris, 1957; Histoire générale des sciences, a cura di R. Taton, Presses Universitaires de France, Paris, 4 voll.
1957-1964.
42
A. Bouché-Leclercq, L’astrologie grecque, Ernest Leroux Éditeur, Paris 1899.
43
A. Koyré, Études galiléennes, 2. La loi de la chute des corps. Descartes et Galilée, Hermann, Paris
1939, p. 3.
34
Marte. 44 Si tratta, quindi, quella di Koyré, di una disamina, che pone in primo piano il
travaglio dello scienziato volto ad intendere la verità, che risulta pertanto essere il frutto di
una dialettica sostanzialmente individualistica. Tale indagine non esclude il ricorso alla
tipizzazione psicologica di stampo duhemiano, come appare nel saggio Dal mondo del
pressappoco all’universo della precisione, pubblicato in italiano proprio in questi giorni a
cura di Paola Zambelli. 45
A mio parere, una moderna storiografia della scienza deve rifarsi alla storiografia del
secolo XIX, riprenderne la tematica e le prospettive metodologiche, in forma diversa
ovviamente. Così il tema della scienza nazionale va ripreso, non certo in senso
rivendicativo, ma come esame dei rapporti tra sviluppo della scienza e della società nel suo
complesso, in modo da porre in termini storicamente determinati il problema delle
caratteristiche di una scienza nazionale. In effetti ogni tipo di nozione scientifica è in stretto
collegamento con la società che la esprime, ne riflette gli orientamenti e le prospettive, ma
in forma generale. Occorre pertanto creare strumenti concettuali differenziati, adeguati a
cogliere le idee scientifiche nel loro sviluppo dialettico e nei loro nessi con le caratteristiche
culturali di una determinata società. Così il problema del­ l’errore va valutato in modo
mediato, cioè storico. Esso è un concetto relativo alle premesse entro cui è articolato ed è
connesso con i criteri di dimostrazione usati. Se da un punto di vista generale si ha scienza
quando si ha un collegamento di fenomeni entro categorie generali, diverse sono le
esigenze e i criteri con cui tale collegamento viene effettuato in ogni epoca. Occorre
pertanto, per valutare una dottrina, servirsi non solo dei medesimi criteri con cui viene
fondata e cercare di esplicitarli, ma anche porli in una relazione operante con quelli
antecedenti, delineare la linea di sviluppo effettiva entro cui debbono essere situati e resi
significanti. Non basta cercare di situare un autore nel suo tempo, intenderne le concezioni,
le idee, anche molto lontane dalle nostre; occorre nel medesimo tempo dare un significato
storico ad esse. Ciò non può essere fatto se non mediante una prospettiva generale, una
valutazione complessiva e globale del procedere storico. Solo così, ‘situando’ quelle
determinate idee, quelle concezioni, quei risultati a un dato grado dello sviluppo in una
linea di acquisizione progressiva, storicamente obiettiva, è possibile avere una
comprensione adeguata. La verità e falsità di una dottrina deve essere giudicata in termini
del tutto intrinseci. Relativamente a una determinata dottrina, solo il giudizio di verità o
falsità che risulta dall’analisi, cioè quello espresso dai contemporanei, o dagli stessi studiosi
che seguono immediatamente, e anche da scienziati lontani nel tempo che ritengono
operante riprendere o criticare una teoria, deve essere accolto dallo storico. Un errore
quindi è tale solo se viene rilevato storicamente. Il travaglio dell’individuo verso la
comprensione della verità, è lo sforzo dell’individuo di adeguarsi ai criteri dimostrativi
tipici della sua epoca, o di crearne dei nuovi. Nel Rinascimento, età in cui si viene
frantumando il criterio dell’obiettività elaborato nella scienza classica greca, ma nel cui
ambito generale si continuavano a svolgere le ricerche scientifiche, si ha un criterio di verità
molto lato; a sostegno delle proprie asserzioni si portano le più svariate argomentazioni,
poco persuasive come lo sono del resto le critiche di posizioni altrui. Nel Seicento con la
conquista di una nuova dimensione dell’obiettività, il criterio della verità e della falsità di
una dottrina acquista una dimensione più netta, anche se non rigorosamente determinata.
Resta sempre possibile infatti la presenza di una soluzione diversa per una singola
questione: predomina il criterio pragmatico del successo esplicativo, oltre a quello della
semplicità e del ricorso alla sperimentazione; ma si hanno delle asserzioni che si
impongono progressivamente come fondate in virtù di una progressiva correzione. Così,
per esempio, le posizioni di Descartes e di Harvey sul problema del movimento del cuore
sono entrambe sufficientemente fondate, l’una più sul piano della maggiore esplicatività,
l’altra più sul piano della sperimentazione, perché potessero essere accolte, come in effetti
lo furono; sono le successive ricerche che dirimono la questione. Lo storico deve pertanto
basare il suo giudizio solo sulle critiche e le argomentazioni principalmente nell’età che
studia.
In effetti il problema essenziale per lo storico è quello di cogliere linee di sviluppo
nell’evoluzione delle singole scienze e del pensiero scientifico e di stabilire le strutture

44
Cfr. A. Koyré, La rivoluzione astronomica, Feltrinelli, Milano 1966.
45
A. Koyré, Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione, Einaudi, Torino 1967.
35
conoscitive fondamentali su cui si impernia tale sviluppo. Si tratta di cogliere l’andamento
progressivo di tali categorie conoscitive e di valutarle. Il problema pertanto è strettamente
filosofico e coincide con il problema della conoscenza. Fare storia delle scienza vuol dire
cogliere come si è concretamente articolato uno dei momenti fondamentali dell’umano
processo del conoscere, quello scientifico.
Il problema è stato chiaramente impostato da Ernst Cassirer, la cui concezione si è
mostrata un fecondo strumento di indagine storica; la sua opera sulla moderna teoria della
conoscenza è forse il risultato complessivo più avanzato cui sia finora pervenuta l’indagine
storica sulla filosofia e. sulla scienza. Egli ha chiaramente affermato che occorre cogliere
le idee nella forma del loro divenire storico.

Le idee acquistano il loro pieno significato solo nel progressivo formarsi dell’esperienza
scientifica: e la ragione di questo formarsi consiste unicamente nel fatto che le idee stesse vi si
presentano in diverse forme logiche. Solo in questa molteplicità risalta il loro senso e la loro attività
unitaria. La natura particolare di quei concetti logici fondamentali che la scienza crea nel suo
sviluppo esige che noi li consideriamo non come essenze separate e indipendenti l’una dall’altra,
ma nella loro successione e dipendenza storica. 46

Ha posto chiaramente in rilievo il limite e l’insufficienza dell’analisi psicologica;


l’analisi psicologica acquista valore solo nel modo, storicamente determinato, con cui viene
situata nell’evoluzione della specie. Ha bene afferrato l’inscindibile nesso che sussiste tra
scienza e filosofia, risolto sul piano della concreta correlazione storica.

Il rapporto tra filosofia e scienza è colto e descritto solo esteriormente, finchè si parla di
uno scambievole ‘influsso’ che ambedue esercitano l’una sull’altra. Un’azione di tal genere
non è privilegio di un singolo campo, ma vale in ugual senso per ogni contenuto e tendenza
della cultura. La formulazione del nostro compito per contro presuppone un più stretto
rapporto specifico tra i due campi del pensiero: essi sono sintomi indipendenti e
indispensabili di uno stesso progresso intellettuale. Per ciò che il concetto moderno di
conoscenza significa, Galileo e Keplero, Newton e Euler sono testimoni altrettanto
importanti e pienamente validi di Cartesio e Leibniz. 47

Ha sottolineato con energia che la disamina critica dello sviluppo storico delle categorie
concettuali presuppone una considerazione unitaria e globale, che costituisce la condizione
necessaria per l’inizio della conoscenza storica. Compito dello studioso risulta pertanto
essere quello di determinare gli elementi che compongono il tutto e la loro funzione nella
costituzione di esso. La funzione conoscitiva è quella simbolica; il filosofo tedesco l’ha
analizzata in modo generale e sistematico e l’ha estesa a tutto il complesso dell’umano
conoscere. 48 Il metodo usato è trascendentale: con la dottrina della forma del concetto e del
giudizio scientifico si determina l’obietto della natura nelle sue linee costitutive essenziali
e si coglie, mediante la funzione conoscitiva, l’oggetto della conoscenza nella sua
determinatezza.
Si intende qui porre il problema della ricerca storica nelle scienze, nella forma di
un’analisi operativa. I principi generali su cui si intende basare tale analisi sono
essenzialmente un principio di carattere logico, che chiamiamo dell’identificazione, ed un
principio di carattere storico, che chiamiamo del logoramento. Il primo designa il carattere
fondamentale di ogni atto conoscitivo, il quale, appunto, si basa sempre su un rapporto tra
due o più entità che vengono identificate fra di loro. I processi di identificazione
costituiscono e fondano ogni schema concettuale e si pongono in un processo che va dal

46
E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, vol. I, Einaudi, Torino 1952, p. 20.
47
Ivi, p. 26.
48
F. Kaufmann, Cassirer’s theory of scientific knowledge, in The philosophy of Ernst Cassirer a cura di
P.A. Schlipp, The Library of Living Philosophers, New York 1949, p. 188.
36
meno determinato al più determinato. Le identificazioni primitive e più semplici sono il
mero rapporto analogico arbitrario e il rapporto associativo che fonda il concetto generico.
In una linea di acquisizione progressiva si costituiscono poi nessi identificativi sempre più
precisi, articolati, fecondi. Così, la scoperta della proporzione matematica è la scoperta di
un nesso identificativo molto determinato che ha un ruolo importante in tutto lo sviluppo
della matematica greca. Così, si può vedere che nello sviluppo della biologia greca abbia
finito per assumere un ruolo predominante il nesso identificativo finalistico che postula,
nella sua generalità, un’unità logica regolativa cui vengono adeguati globalmente i
fenomeni. Questo nesso identificativo generale è risultato estremamente fecondo; sulla
base di esso, si sono costruiti innumerevoli nessi più particolari per l’esame dei singoli
fenomeni. La progressione da identificazioni indeterminate a identificazioni determinate,
mediante la quale si passa da un rapporto immediato a un rapporto sempre più mediato
verso la realtà, non è lineare, né cronologica, né quantitativa, ma dialettica. Si tratta di
un’acquisizione che è storica, e quindi da valutarsi e da cogliersi nelle sue connessioni reali
con lo sviluppo storico.
Il secondo principio, quello del logoramento, va inteso nel senso che ogni nesso
identificativo generale particolarmente fecondo, come quello del finalismo greco o quello
meccanicistico, sono sottoposti a uno sviluppo che li porta via via al completo esaurimento
delle loro risorse esplicative, almeno nella loro formulazione originaria. La matematica
greca nel suo complesso dà un esempio altamente significativo di come un insieme di
dottrine, di nessi identificativi generali possa esaurirsi, possa giungere cioè a un punto dello
sviluppo tale che da esso non si possono ricavare ulteriori conseguenze operanti; occorrerà,
per conseguire nuovi progressi, costruire nuovi nessi identificativi, nuovi metodi, magari
anche meno rigorosi di quelli antecedenti, ma più fecondi. Un altro esempio probante può
essere dato ancora dall’esame dell’evoluzione della biologia greca; con Galeno il nesso
identificativo finalistico era giunto, da un punto di vista metodico, a uno stadio avanzato di
sviluppo, oltre il quale non si poteva più andare. Il ricupero di Galeno nell’età
rinascimentale costituì la ‘scoperta’ storica di questo esaurimento; si pose in termini
impellenti il bisogno di un suo superamento che portò alla creazione di nuovi nessi
identificativi, quelli meccanicistici, più fecondi, operanti. Gli elementi che provocano il
logoramento di determinate dottrine sono di ordine interno ed esterno. Un nesso
identificativo generale si sviluppa fino a che è in grado di dare un’esplicazione precisa e
sistematica del complesso di fatti a cui si riferisce: il sorgere di nuovi elementi nella realtà,
il porsi di nuovi bisogni, la creazione di nuove esigenze, che si riflettono in nuove
esperienze, provocano la scoperta che le vecchie dottrine sono inadeguate, non più
operanti. Si ha conseguentemente la creazione di nessi identificativi più adeguati, più
obiettivi, che inglobano e superano i precedenti.
Con l’assunzione di tali principi è possibile, a mio parere, comprendere in modo
effettivamente storico, a un tempo lo sviluppo delle singole scienze e le connessioni che
sussistono fra di esse nello sviluppo, connessioni che sono a un tempo logiche e reali, e
dare un contenuto concretamente operante al tema dell’unità della scienza, e della scienza
con la totalità dell’operare umano, che è il presupposto fondamentale, necessario, che deve
guidare lo storico nella ricerca.

37
Il significato e l’importanza della storia della scienza49

I termini su cui si impernia il tema della presente relazione sono correlativi. Infatti,
l’importanza che ha la storia della scienza nell’ambito di una determinata cultura è
strettamente collegata con il significato che si dà a tale disciplina. Vediamo anzitutto il
problema del significato. Dare un significato alla ricerca storica sulla scienza è una cosa
complessa e dipende essenzialmente dalla definizione di ‘storia’ e di ‘scienza’ che si
assume in via preliminare. Del resto, questo è un problema che si pone in qualsiasi opera
di storia letteraria, artistica, politica, ecc.. L’idea della letteratura, dell’arte, della politica,
che lo storico adotta nella propria indagine determina il significato della sua ricerca. Per
cui si può dire che si hanno tanti significati quante sono le opere di storia che si producono
nei vari ambiti di ricerca. Naturalmente è possibile non porsi consapevolmente il problema
e assumere estrinsecamente l’oggetto della ricerca, così come è dato dalla tradizione o
accoglierlo in modo empirico, seguendo le più varie ed occasionali sollecitazioni. Ciò
accade spesso, ma in tal caso la ricerca storica non è criticamente e razionalmente fondata,
indipendentemente dai risultati più o meno efficaci cui può dar luogo; non è in grado di
proporre prospettive nuove e di promuovere una conoscenza più adeguata della realtà. La
novità e la verità di una storiografia si misura essenzialmente in relazione alla sua capacità
di produrre oggetti storiografici nuovi, più veri e meno parziali. La costituzione
dell’oggetto storiografico è quindi il modo con cui si realizza concretamente il significato
che si dà alla particolare ricerca che si conduce. L’oggetto posto dallo storico è nulla più
che un parametro unitario che aggrega secondo un’idea direttrice una serie di fatti, di eventi
e di concetti e li rende appunto significativi.
La significatività dell’aggregazione è in relazione alla capacità di spiegazione dei fatti
storici del parametro unitario specifico. Essa è maggiore quando l’aggregazione particolare
proposta è congruente con un parametro unitario generale, cioè con il disegno complessivo
che s’intende far emergere dalla totalità dei fatti storici. I singoli parametri unitari
particolari sono necessariamente limitati e parziali, ma, in una visione razionale e
progressiva della storia, tendono a comporsi fra di loro nella superiore sintesi unitaria, la
quale deve inglobare in sé anche i risultati di ricerche di scuole diverse, antecedenti e
contemporanee, anche di quelle condotte in base a parametri unitari non congrui con
l’intento esplicativo globale addotto dallo storico ‘razionale’, rilevando l’aspetto parziale,
ma reale, dei fatti storici, messo in luce da essi.
Detto questo in generale, si possono raggruppare gli studi di storia della scienza dal
punto di vista del loro significato in tre grandi classi:

1) quella in cui è predominante l’impostazione erudita;


2) quella in cui prevale la valutazione fatta sulla base degli schemi di riferimento
mutuati dall’assetto conseguito dalla scienza nel periodo in cui si situa lo storico;
3) quella dominata dall’esigenza di dare una valutazione storica in senso proprio.

L’orientamento erudito mira a conservare e a rievocare gli atti scientifici passati e


soprattutto le varie vicende che hanno dato origine a tali atti. Dà luogo in genere a raccolte
bibliografiche (catalogazione di libri, di saggi, di studi) su questioni specifiche; alla
raccolta e alla edizione di documenti, di memorie, di opere; a studi che tendono
esclusivamente ad accertare le circostanze esterne di scoperte, di formulazione di teorie, di
discussioni, ecc.. I risultati che vengono conseguiti sono frammentari, senza nessi e
articolazioni significative. La valutazione del contenuto degli scritti che si considerano è
di solito rimandata ad altri o al momento in cui si avranno sull’argomento conoscenze
maggiori. Il presupposto implicito è che dalla massa di conoscenze quantitative accumulata
emergerà un orientamento particolarmente significativo.
In realtà una valutazione viene data, ma si tratta di una valutazione estrinseca ed
empirica, non collegata al modo in cui si pone l’oggetto e al significato che si dà alla
ricerca, dato che il significato è anch’esso estrinseco e l’oggetto è semplicemente dato. Non

49
Conferenza tenuta sabato 15 marzo 1980.
38
stupisce pertanto che in tali ricerche si faccia uso di categorie trite ed equivoche, come per
esempio quella della rivendicazione nazionale o quella del ‘genio’. Questo tipo di storia
della scienza è stato di gran lunga dominante nell’ambito della cultura italiana dell’800 e
del ‘900. Cito solo alcune delle opere più importanti pubblicate in questo periodo: il
«Bullettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche e fisiche» del principe
Baldassarre Boncompagni, una delle prime riviste internazionali di storia della scienza che
presenta contributi di impronta marcatamente erudita; La biblioteca matematica italiana
dell’erudito e bibliografo Pietro Riccardi, opera imponente che raccoglie i dati essenziali
di tutti gli scritti matematici italiani fino all’inizio del secolo XIX; i numerosi studi di
Antonio Favaro su Galileo e la scuola galileiana.
Gli studi che propongono una valutazione analitica degli atti scientifici passati sulla base
delle conoscenze acquisite sono stati e sono i più numerosi. Lo status delle discipline
particolari in un determinato periodo dà in questo caso significato alle ricerche che si sono
svolte e che si svolgono, e sono condotte per lo più da persone che operano in settori
scientifici specifici. L’oggetto è stabilito in relazione alle partizioni disciplinari in cui si
articola il sapere scientifico in un determinato periodo, che vengono proiettate sul passato.
Ricerche siffatte hanno il vantaggio di formulare dei giudizi particolari molto articolati e
dettagliati e quindi molto incisivi poiché lo strumento metodico usato permette di stabilire
delle relazioni precise tra singoli enunciati diversi su enti o fenomeni determinati. I giudizi
sono differenziati sulla base dell’adeguazione o meno all’enunciato attuale che serve da
modello esplicativo. Se i giudizi che vengono espressi sono molto precisi, sono però anche
artificiosi. L’artificio sta nel fatto che si costruiscono oggetti storiografici che non hanno
attinenza con i fenomeni che si vogliono indagare, cioè il fenomeno storico reale. Il ‘canone
interpretativo’ è sovrapposto dall’esterno e conduce a delle deformazioni rilevanti e a delle
scissioni arbitrarie. Gli atti scientifici passati sono considerati quindi o antecedenti di atti
ulteriori o errori. Gran parte delle idee correnti sulla storia della scienza, o meglio,
sull’evoluzione della scienza sono ispirate a questo tipo di storiografia. Basti pensare ai
giudizi comuni che si danno sulle ricerche di alchimia, che vengono viste in relazione alle
vicende ulteriori della chimica: cioè come momenti preparatori della chimica moderna.
Oppure alle idee altrettanto comuni (la deformazione in questo caso è più sottile) sulla
storia della meccanica. Le usuali partizioni di questa disciplina vengono usate anche per
valutare le ricerche pre-newtoniane sul comportamento dei corpi in movimenti, in cui tali
partizioni non hanno molto senso.
Gli studi volti a dare una valutazione storica in senso proprio della scienza vogliono
invece giudicare gli atti scientifici passati in base a parametri intrinsechi, fondati
sull’aderenza alle ragioni, alle prospettive reali in cui tali atti sono stati formulati. La
costruzione dell’oggetto storico coincide con l’operazione del situare il fatto scientifico in
una dimensione evolutiva; la linea di sviluppo così elaborata è quella che dà significato
all’indagine. Si vuole cercare di capire la necessità del fenomeno storico preso in esame.
La maggiore o minore efficacia dei risultati che si conseguono, la più o meno ricca rete di
connessioni che si stabiliscono fra le conoscenze risiede tutta nei principi esplicativi che
possono essere più o meno consapevolmente assunti, negli strumenti operativi che ne
discendono e nel modo con cui vengono usati.
È necessario rilevare qui che le suddivisioni che ho introdotto negli studi storici sulla
scienza sono astratte e sono state proposte più che altro per ragioni di chiarezza espositiva.
In realtà in tutti gli studi di storia della scienza è presente sempre, in misura maggiore o
minore, un bagaglio erudito, qualche forma di valutazione scientifica, anche se a volte è
espressa in forma indiretta, e qualche forma di valutazione storica. Molto spesso sottili
indagatori di fatti scientifici specifici sono anche grandi eruditi e storici notevoli.
Una fondazione corretta del problema del significato della storia della scienza esige, a
mio parere, che questi elementi convergano nella costituzione di un oggetto storico in senso
proprio e che la valutazione sia affidata ad elementi intrinsechi organicamente e
razionalmente costituiti. Se si considera che un atto scientifico sorge in stretta connessione
con gli atti scientifici precedenti, può apparire cosa del tutto ovvia che le ricerche
scientifiche antecedenti vadano anzitutto comprese, perché possano poi essere sviluppate
o criticate. Ma è altrettanto ovvio che il processo di comprensione storica e il processo di
comprensione utile ai fini della ricerca scientifica spesso non coincidono. Anzi, solo in un
determinato periodo storico la storia della scienza può essere vista, in un certo senso, come
una attività che non si differenzia sensibilmente dalla ricerca scientifica. Infatti, solo fino
39
agli albori dell’età moderna le due specie di ricerche tendono a confondersi fra di loro. È
difficile sceverare, tra i numerosi scolii e commenti ai testi scientifici greci, il processo di
comprensione storica e quello che tende a chiarire e a sviluppare le argomentazioni date.
Nell’età rinascimentale, per esempio, i due momenti coincidono del tutto. Capire un testo
antico nella sua integrità e purezza costituiva di per sé un atto scientifico. La connessione
tra l’approccio scientifico e quello storico risulta naturale nell’età rinascimentale, in quanto
che in quell’epoca si riteneva possibile svolgere attività scientifica solo secondo i principi
e i metodi rigidamente stabiliti dalla tradizione classica. L’assimilazione netta e completa
di questi principi e di questi metodi rese possibile poi di liberarsi da essi e superarli. 50 Con
l’edificazione della scienza moderna e la conseguente conquista di un assetto disciplinare
e metodico diverso da quello antico, la valutazione dell’atto scientifico passato acquista
una dimensione radicalmente diversa. Il punto di partenza è l’acquisizione di nuove teorie
e di nuovi corpi di conoscenze che si impongono per il loro maggior livello di adeguazione
ai fenomeni rispetto a quelli antecedenti. È il caso, per esempio, della teoria delia
circolazione del sangue. È noto che la circolazione del sangue venne elaborata dal medico
inglese W. Harvey nei primi decenni del ’600, come conclusione di tutta una serie di
ricerche precedenti e di acquisizioni particolari, ottenuti però senza che venisse
sensibilmente alterato il quadro concettuale e l’orientamento metodico tradizionale. Questa
teoria, al suo apparire, trovò delle resistenze, suscitò discussioni e critiche proprio perché
era radicalmente innovativa rispetto alla fisiologia greca classica, cioè alla fisiologia
espressa nei testi di Galeno ed ancora accolta nei suoi principi costitutivi essenziali dai
medici rinascimentali. Le critiche e le diffidenze diminuirono però sempre di più nel corso
del secolo XVII, e alla fine la teoria fu accolta dalla maggior parte dei medici come un dato
acquisito. Si poneva allora il problema di valutare diversamente le teorie antecedenti dato
che esse non erano più utili per la ricerca effettiva ormai orientata in altro modo. Questa
diversa valutazione è la valutazione storica. La nascita di un giudizio storico in senso
proprio sugli atti scientifici passati scaturisce quindi necessariamente dall’evolversi stesso
della ricerca, in un preciso periodo, a seguito dell’edificazione della scienza moderna.
Precedentemente ciò era difficile in quanto che non vi era la possibilità di un discorso
scientifico alternativo. La scienza era vista, infatti, come un prolungamento, un
ampliamento, una precisazione della scienza greca: non si poneva il problema di una
valutazione storica a sé stante perché la valutazione storica coincideva con l’acquisizione
scientifica. La tendenza a spiegare su di un piano filosofico generale l’esistenza di atti
scientifici che non si ritenevano più adeguati o idonei o congrui con il patrimonio di
conoscenze ormai acquisito si manifesta con chiarezza verso la fine del ’600 e nel corso
del ’700. È questo il momento in cui appaiono le prime grandi opere di storia della scienza
nel senso moderno del termine, in cui si cerca di stabilire la ragione che ha reso necessaria
la nascita dell’asserzione erronea o dotata di verità parziale. Ciò venne fatto evidenziando
il percorso conoscitivo che l’ha generata 51 e situandola così in una serie di connessioni per
cui risulta essere un momento necessario per conseguire quella successiva 52 Tutti i

50
Su questo punto si veda il mio saggio L’assimilazione della scienza greca, in Storia d’Italia. Annali III
Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento ad oggi, a cura di G. Micheli, Einaudi, Torino
1980, p. 215 e segg.
51
Si tratta di un atteggiamento così generale e diffuso nell’eà dell’Illuminismo da essere fatto proprio
anche da scienziati e non solo dagli storici della scienza. Si veda questo passo caratteristico di G.L. Lagrange
Leçons élémentaires sur les mathématiques données à l’école normale en 1795, in Oeuvres a cura di J.A.
Serret, vol. VII, Gauthier-Villars, Paris 1877, p. 197: «Au reste, comme il n’est plus question de calculer les
logarithmes, si ce n’est dans des cas particuliers, on pourrait regarder comme inutile le détail où nous venons
d’entrer; mais on doit être curieux de connaître la marche souvent indirecte et pénible des inventeurs, les
différents pas qu’ils ont fait pour parvenir au but, et combien on est redevable à ces véritables bienfaiteurs
des hommes. Cette connaissance d’allieurs n’est pas de pure curiositè: elle peut servir à guider dans des
recherches semblables, et elle sert toujours à répandre une plus grand lumieère sur les onjets dont s’occupe»
52
Cfr. questo passo del Discorso preliminare all’Enciclopedia di D’Alembert sulla fisica cartesiana,
Enciclopedia, trad. italiana a cura di P. Casini, Laterza, Bari 1968, pp. 61-62: « Se Descartes, che ci ha aperto
la strada, non procedé tanto innanzi quanto ritengono i suoi partigiani, il debito che le scienze hanno verso di
lui non è certo così piccolo come pretendono i suoi avversari. Sarebbe bastato il suo metodo a renderlo
immortale; la sua diottrica è la più grande e bella applicazione che si sia mai fatta della geometria alla fisica;
infine, nelle sue opere, anche in quelle oggi meno lette, si vede brillare ovunque in genio creatore. Chi
40
momenti si pongono così in un processo evolutivo progressivo. La via, il percorso non è
arbitrario né soggettivo, ma naturale, spontaneo, obiettivo, tanto che si ritiene legittimo
poterlo ricostruire, ove non sia possibile documentarlo. 53 L’intento, esplicitamente
dichiarato, è che la storia deve contribuire a mostrare i cammini poco profittevoli, ad evitare
le intemperanze soggettive e gli errori. Di qui il carattere dichiaratamente utilitario della
storia della scienza.
Il problema del significato della storia della scienza è stato cosi correttamente impostato
fin dagli inizi. Da questo punto di vista, le formulazioni teoriche successive non sono che
sviluppi di questo approccio. Delineare linee di sviluppo particolarmente significative entro
cui situare le ricerche scientifiche particolari, e costruire una nozione di progresso sempre
più articolata, precisa e determinata, è ancora il compito dello storico della scienza che
intende dare fondamento razionale alla propria indagine. C’è da dire però che si tratta di
un intento realizzato solo in parte e molto spesso ad un livello non adeguato. E questo
perché non è stato sempre pienamente compreso il carattere di disciplina filosofica che ha
la storia della scienza. L’edificio dottrinale della disciplina, quale si è venuto costituendo
nel corso dell’Ottocento soprattutto e nel Novecento è stato costruito ad un livello di
consapevolezza filosofica relativamente modesto. Se si escludono Comte, Whewell,
Cassirer e qualche altro, le ricerche relative allo sviluppo storico della scienza sono state
coltivate da storici che non davano grande rilievo alla riflessione filosofica. Lo stesso
Mach, che può essere considerato uno dei più grandi storici della scienza e che diede alla
sua ricerca un ‘impronta teorica molto articolata, non si considerava un filosofo in senso
proprio. Una conseguenza di non poco momento è il fatto che tutto il complesso e articolato
insieme di teorie, metodi, concetti elaborato dalle filosofie di impronta storicistica
dell’Ottocento e del Novecento, che avrebbe potuto e potrebbe enormemente arricchire la
nozione di sviluppo scientifico, non ha per nulla influenzato gli studi di storia della scienza.
Si capisce a questo punto come il problema dell’importanza culturale, della storia della
scienza sia legato a quello del recupero e della piena acquisizione del suo significato
filosofico. La storia della scienza intesa come un mero esercizio erudito rimane
necessariamente racchiusa entro la cerchia ristretta di pochi iniziati. Può avere grande svi­
luppo, come è accaduto in Italia nel corso del secolo XIX e nella prima metà del secolo
XX, ma non avere alcun rilievo culturale. 54 La storia della scienza, intesa come
introduzione alle singole discipline scientifiche, diviene di fatto, uno dei vari settori
specialistici del sapere scientifico e svolge necessariamente un ruolo limitato. La storia
della scienza, come forma dell’erudizione storica o come branca a sé del sapere scientifico,
non può quindi svolgere la sua specifica funzione culturale che è quella di essere forse il
più efficace veicolo di mediazione del discorso scientifico. Per mediazione intendo qui,
non tramite tra cultura umanistica e cultura scientifica come è stato sostenuto, ma
acquisizione, nel­ l’ambito della cultura generale, della consapevolezza dei caratteri
dell’atto scientifico in sé stesso, compreso in tutta la sua concretezza, in quanto colto nel
suo sviluppo. Approfondendo, sviluppando e arricchendo la sua originaria vena filosofica,
la storia della scienza potrà essere lo strumento privilegiato per superare il sempre più

giudichi imparzialmente quei vortici, diventati ormai ridicoli, riconoscerà, oso dire, che non era possibile
allora immaginare nulla di migliore; le osservazioni astronomiche che ne hanno fatto giustizia erano ancora
imperfette, o non abbastanza salde; non v’era ipotesi più naturale di quella d’un fluido che trasporti i pianeti;
soltanto una lunga serie d’anni, avrebbero indotto ad abbandonare una teoria così seducente. La quale aveva
d’altra parte il singolare pregio di spiegare la gravitazione dei corpi mediante la forza centrifuga del vortice
medesimo: ed io non ho paura di affermare che questa spiegazione del peso è una delle ipotesi più belle e
ingegnose che siano state immaginate dai filosofi. E i fisici sono stati costretti ad abbandonarla, come attratti
loro malgrado dalla teoria delle forze centrali e da esperienze eseguite assai più tardi. Riconosciamo insomma
che Descartes, trovandosi a dover creare una fisica del tutto nuova, non avrebbe potuto crearla migliore; che
è stato necessario, per così dire, passare attraverso i vortici per giungere all’autentico sistema del mondo; e
che, se si ingannò circa le leggi del moto, fu almeno il primo a intuirle».
53
Cfr. questo passo tratto dalla classica opera di J.F. Montucla, Histoire des mathématiques, Nouvelle
édition considérablement augmentée, et prolongée jusque vers l’époque actuelle, tomo I, Henri Agasse, Paris
1799, préface, p. II: «J’ai d’abord remonté aussi haut qu’il était possible vers l’origine de ces sciences, j’ai
suivi ensuite leurs traces chez les plus anciens peuples, et substituant quelquefois à un développement
inconnu, un développement fictice et probablement peu différent du veritable».
54
Cfr. il mio saggio Scienza e filosofia da Vico ad oggi, in Storia d’Italia. Annali III, cit., p. 632 e segg.
41
marcato specialismo della ricerca scientifica odierna e per promuovere una presenza
effettiva della scienza e della razionalità scientifica nell’ambito della cultura.

42
La storia della scienza nella cultura italiana

Non mi propongo in questa sede di dare un quadro esaustivo delle ricerche di storia della
scienza che si sono avute in Italia negli ultimi cinquant’anni. E, del resto, disponibile una
accurata rassegna sull’argomento (anche se non recente), quella di L. Bulferetti, densa di
riferimenti bibliografici e con delle utili osservazioni critiche. 55 Mi limiterò ad illustrare
quelle che sono state, a mio parere, le linee di tendenza che hanno seguito gli studi storici
sulla scienza in Italia nel periodo esaminato da questo convegno, con particolare riguardo
al problema dei rapporti tra la storia della scienza e la cultura.
Le osservazioni critiche che verrò svolgendo hanno prevalentemente lo scopo di fornire
un quadro unitario nel quale inserire le diverse prospettive storiografiche. Esse rimandano
implicitamente ad un ambito di riferimento normativo. È inevitabile, infatti, che ogni
bilancio storiografico muova da una presa di posizione filosofica e metodologica. In molti
storici c’è una malcelata diffidenza verso i modelli metodologici che discende da una
interpretazione riduttiva dei modelli proposti, quasi che il criterio metodologico possa
insegnare come va fatta un ricerca storica, la quale, è, come tutti gli atti concreti, un
fenomeno molto complesso, in cui rientrano vari fattori, non sempre riconducibili ad
elementi esclusivamente teorici. Ritengo invece che i modelli abbiano valore in quanto
servono a chiarire le ricerche che possono ispirare e a stabilire il confronto con ricerche
guidate da modelli diversi: l’aspetto normativo di essi va inteso quindi in senso puramente
funzionale. Tengo a precisare questo punto, perché in un convegno che si è tenuto quasi
vent’anni fa, P. Rossi, replicando ad una mia proposta normativa, rilevava, contro di essa,
il valore della pluralità degli approcci storiografici. 56 Il modello che proponevo allora (e
che condivido pienamente, nella sostanza, anche ora) era un modello aperto, costruito per
chiarire delle ricerche specifiche e per situarle rispetto a quelle di altri, e non per
contrapporsi ad esse. La pluralità degli approcci storiografici è un valore che ho sempre
apprezzato. Quel che importa, quindi, è che gli assunti normativi che si propongono siano
sufficientemente aperti da individuare risultati positivi in prospettive diverse.
La necessità di un modello aperto, o che si sforzi di essere tale, va ribadita perché è stata,
ed è tuttora molto diffusa tra gli studiosi, la tendenza a porre in modo esclusivo i modelli
che si seguono, siano essi esplicitamente formulati e articolati in forma critica, oppure siano
estrinsecamente accettati. L’adozione di un modello chiuso comporta inevitabilmente un
difetto, quello di stabilire delle censure, più o meno esplicite, verso le ricerche che esulano
dal modello che si accetta. Non mi riferisco qui solo a censure di ordine politico o
accademico, ma alle molto più comuni forme di autocensura, che portano a valutare in
modo preconcetto le ricerche diverse e a non capire affatto le ragioni che le guidano. Per
porre in evidenza quanto sia usuale anche oggi un simile atteggiamento, mi limiterò ad
indicare come esempio la nota che si trova nelle pagina interna della copertina della rivista
«Archive for history of exact sciences» che qui trascrivo:

The crabbed, vague, and verbose style often called ‘scholarly’ is not acceptable. Authors should
reflect clear thought through chosen, specifìc words composed in direct, responsible, and active
syntax. Articles written in English should conform to the rules and counsels set forth in Sir Ernest
Gowers’ The Complete Plain Word, especially Chapters 6-9. The Editor cannot undertake to
rewrite papers and therefore will return at once to the Communicator such communicated
manuscriptes as he finds deficient in style, form, or clarity.

Questa nota ha ovviamente un’importanza assai limitata, ma essa è indicativa, nella sua
cruda e disarmante presunzione, di un comportamento che è proprio di molti storici della
scienza, anche seri e competenti come quello che ho citato, C. Truesdell. Le conseguenze
dell’atteggiamento censorio sono più gravi quando, in una determinata situazione culturale,

55
L. Bulferetti, Gli studi italiani di storia della scienza e della tecnica nell’età contemporanea, Marzorati,
Milano 1967.
56
Atti del convegno sui problemi metodologici di storia della scienza, Torino, Centro di studi
metodologici, 29-31 marzo 1967, Barbera, Firenze 1967, pp. 179-180; anche in P. Rossi, Storia e filosofia,
Einaudi, Torino 1969, pp.233-234.
43
l’adozione di un modello rigidamente inteso diventa predominante ed agisce in modo
esclusivo nella concreta prassi della ricerca storiografica. In tal caso la generalità degli
studiosi tende a considerare legittimo un solo procedimento entro il quale vengono
accettate solo varianti e modificazioni non sostanziali, e diventa naturale l’emarginazione
di ricerche diverse.
Gli studi di storia della scienza in Italia vennero a trovarsi in una situazione di questo
tipo almeno fino alla fine della seconda guerra mondiale. Una testimonianza eloquente si
può trovare nel processo intentato dagli storici della scienza italiani a Raffaello Caverni,
reo di aver condotto delle ricerche non conformi con gli orientamenti da essi seguiti.
Sebbene gli episodi a cui faccio riferimento siano avvenuti alcuni anni prima dell’inizio
del periodo considerato in questo convegno, essi sono tuttavia indicativi di una tendenza
protrattasi anche in seguito.
Il processo ebbe inizio nella X riunione della Società italiana per il progresso delle
scienze tenutasi a Pisa nell’aprile del 1919, in cui, su sollecitazione di C. Del Lungo, e
dopo una ampia discussione, venne approvato il seguente ordine del giorno:

La Sezione di storia delle scienze, udita la comunicazione del prof, Carlo Del Lungo, sopra la
Storia del metodo sperimentale in Italia di R. Caverni, di fronte a questo e ad altri rinnovati tentativi
antigalileiani, conferma il voto già espresso in questo Congresso, che cioè si ristampino in nuova
edizione nazionale le opere di Galileo mettendole in vendita e diffondendole il più possibile in
Italia e all’estero; fa inoltre il voto che per iniziativa della Società Italiana pel Progresso delle
Scienze sia fatta una recensione critica della Storia del Caverni nella quale vengano messi in chiaro
gli intendimenti ed i mezzi adoperati dall’autore nel giudicare l’opera di Galileo, e che a tale
pubblicazione, fatta possibilmente in più lingue, sia data amplissima diffusione fra tutti gli studiosi
in Italia ed all’estero. 57

Il processo assunse contorni più delineati e articolati in seguito: gli atti si possono
trovare nell’annata 1919-1920 della rivista «Archeion». La parte della pubblica accusa fu
sostenuta dallo stesso Carlo Del Lungo e da Antonio Favaro, quella di difensore d’ufficio
dallo scolopio Giovanni Giovannozzi e quello di giudice dal direttore della rivista Aldo
Mieli, il quale, nello scritto introduttivo ai tre articoli, pur con una certa cautela e un
moderato apprezzamento dell’opera in discussione, si mostra molto parziale. Condivide
sostanzialmente le critiche degli accusatori, fino al punto di far capire che gli articoli
pubblicati nella sua rivista erano una prima concreta realizzazione del progetto critico
formulato nella riunione della S.I.P.S.. 58
Non è il caso di entrare nel merito delle questioni trattate dagli accusatori; importa
invece sottolineare il carattere censorio che assumono le critiche e le motivazioni che
vengono addotte. Nella sostanza si rimproverano all’opera di Caverni l’impostazione
antinazionale, ritenendosi la sua interpretazione di Galileo del tutto gratuita e inutilmente
denigratoria; 59 la presenza di molti errori, di giudizi arbitrari nell’esposizione dei fatti
scientifici, e addirittura di manipolazione di testi; difetti nell’ordine della trattazione e nella
scelta degli argomenti ritenuti non consoni con l’andamento disciplinare dichiarato. 60
57
Atti, Roma 1920, p. 478.
58
A. Mieli, L’opera di Raffaello Caverni come storico (Cenni preliminari), in «Archeion», vol. I, 1919-
1920, pp. 262-263: «Noi vediamo nella Storia del metodo sperimentale in Italia un’opera di vera importanza
per lo sviluppo degli studi storici rivoli alle discipline scientifiche, e crediamo che i suoi risultati non devono
andare perduti per la scienza; riconosciamo però che la Storia, così come essa è, né per la lingua e lo stile, né
per_ l’ordinamento e per i giudizi, può pretendere un apprezzamento assolutamente benevolo. La Storia del
Caverni e quindi da rifare; basandosi su di essa, senza lasciar perdere alcuni dei risultati buoni ottenuti, uno
o più studiosi devono edificare un’opera nuova. È per questo però che è utile che la Storia del Caverni sia
sottoposta ad una critica stringente che ne mostri i difetti, la rettifichi, renda possibile la Storia futura. È utile
inoltre, ed in questo ci riferiamo anche all’ordine del giorno votato a questo proposito nel recente Congresso
di Pisa, che i lettori italiani e stranieri che vogliano servirsi dell’opera del Caverni, siano posti in guardia
contro le sue esagerazioni e le sue antipatie»,
59
Gli errori sono ovviamente interpretazioni diverse da quelle dei suoi critici.
60
C. Del Lungo, La storia del metodo sperimentale in Italia di Raffaello Caverni, in «Archeion», cit., p.
281: «Il Caverni nella sua insaziabile frenesia di perseguitare Galileo in ogni sua attività, è anche trascinato
fuori di strada, fuori del suo tema, già troppo vasto. La materia dei volumi IV e V, che riflette la trattazione
geometrica dei problemi della meccanica nelle opere di Galileo e dei discepoli, è estranea al metodo
sperimentale; e meno ancora ha a che fare col metodo sperimentale tutta quella analisi di proposizioni
geometriche fatta su frammenti gali1eani, che devon considerarsi come abbozzi o preparazione di dialoghi
44
Le accuse si ricollegano ad una concezione della storia della scienza ben delineata e
consolidata nella cultura italiana, e nella quale l’opera di Caverni non rientrava
completamente. I capisaldi di questa concezione possono essere considerati i seguenti: 1)
l’ambito della ricerca deve rimanere circoscritto essenzialmente alla scienza italiana, di cui
occorre rivendicare i meriti, amplificandone il ruolo e celebrandone l’importanza; 2) la
scienza nel suo complesso viene concepita come un insieme estrinseco di fatti che vanno
accumulati e sistemati entro gli schemi tradizionalistici e disciplinari (i concetti scientifici
vengono considerati alla tregua di mere mozioni); si riduce pertanto lo studio della scienza
alla ricerca erudita delle fonti e si nutre la fiducia di poter conseguire risultati obiettivi
sicuri, incontrovertibili, attribuendo alla propria interpretazione dei fatti scientifici l’alone
della verità. Si spiega così la preoccupazione quasi maniacale che hanno gli storici italiani
della prima metà di questo secolo di censurare e di espungere dal sapere scientifico
acquisito gli ‘errori’ consolidati e gli ‘errori’ nuovi come quelli diffusi da Caverni. La
valutazione deve attenersi ad un rigido criterio disciplinare, deve cercare di individuare nel
passato i primordi, più o meno evidenti, di singole scoperte, e le acquisizioni, più o meno
conclamate, dei risultati che si sono avuti nei vari settori di ricerca, considerando in modo
del tutto estrinseco o restringendo in modo marcato l’area delle connessioni fra varie
discipline e dei presupposti filosofici della ricerca.
Gli studi italiani di storia della scienza negli anni Trenta non si differenziano molto da
quelli degli anni precedenti e si uniformano ai principi che ho ora delineato. Gli argomenti
riguardano sempre la scienza italiana, l’esposizione è rigidamente disciplinare e la
trattazione ha un andamento estrinseco. Viene accentuato soprattutto l’aspetto
nazionalistico che assume toni molto accesi, in quanto che, anche nella storia della scienza,
come in altri settori della ricerca storica e scientifica, si riflettono gli intenti propagandistici
di esaltazione nazionale, propri del Regime fascista. I sette volumi pubblicati dalla S.I.P.S.
nel 1939 sono una testimonianza efficace del notevole sforzo collettivo compiuto dai nostri
storici della scienza per documentare la presenza ed il ruolo della scienza italiana fra
Ottocento e Novecento. 61
Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la sostanziale estraneità alla scienza
dell’idealismo crociano e gentiliano, divenuto predominante nell’Italia degli anni Trenta,
non ebbe influenze particolarmente negative sulla storia della scienza. Gli studi che
concretamente si venivano svolgendo, accogliendo e facendo propria una concezione
riduttiva della scienza, tradizionale nella cultura italiana, non potevano avere alcuna
funzione culturale rilevante, e potevano anche essere promossi e incrementati.
L’atteggiamento di Giovanni Gentile è particolarmente illuminante. Basti pensare al ruolo
decisivo che ebbe nella fondazione della Domus Galileiana, 62 al risalto che diede alle storie
delle singole discipline e alle biografie di scienziati nell’Enciclopedia italiana, alla quale
aveva chiamato a collaborare anche il suo deciso avversario di un tempo Federigo Enriques.
Gli studi che si pubblicano in questo periodo sono numerosi e alcuni, nei limiti di cui ho
detto, sono anche di rilievo. Basti pensare agli studi di storia della medicina di Arturo
Castiglioni, 63 ad Arturo Uccelli, 64 autore e coordinatore di una storia della tecnica molto
ampia e analitica, agli studi di storia della matematica di Gino Loria 65 e di Ettore

da aggiungere a quelli delle Nuove Scienze. È un’esegesi che, a parte il modo e il fine come è fatta, potrà
anche essere importante, ma che in quest’opera è fuori di posto, ed è inoltre insopportabilmente lunga e
disordinata. E così, mentre questa storia si estende accrescendosi inutilmente di mole, è del tutto manchevole
in ciò che concerne le scienze fisiche nel secolo XVIII, e specialmente la chimica, della quale non vi è cenno».
61
L. Silla (a cura di), Un secolo di progresso scientifico italiano, 1839-1939, opera storica redatta da circa
200 collaboratori sotto la direzione del Comitato scientifico della S.I.P.S., 7 voll., Società italiana per il
progresso delle scienze, Roma 1939.
62
Cfr. Marcello Tricarico, Storia e attività della Domus Galileiana, in «Scientia», a. LXIX, vol. 110,
1975, pp. 559-567.
63
A. Castiglioni, Storia della medicina, Unitas, Milano 1927, (nuova ed. Milano Mondadori, 1936).
64
A. Uccelli Storia della tecnica dal Medioevo ai giorni nostri, U. Hoepli Milano 1944; Cfr. anche
Enciclopedia storica della scienze e delle loro applicazioni, 2 voll., U. Hoepli Milano 1941-1943.
65
G. Loria, Storia delle matematiche dall’alba della civiltà al secolo XIX, II ed. riveduta ed aggiornata,
U. Hoepli, Milano 1950.
45
Bortolotti, 66 di storia della fisica di Vasco Ronchi, 67 di Giovanni Polvani, 68 di Mario
Gliozzi, 69 di storia della geografia di Roberto Almagià, 70 ecc.. Restano piuttosto sullo
sfondo i problemi relativi ad una concezione generale della storia della scienza, che sono
dibattuti soprattutto da Federigo Enriques e da Aldo Mieli, ma ad un livello non molto
soddisfacente.
Mieli fu la figura di maggior spicco della storia della scienza italiana del tempo. Profuse
in tutta la sua vita un impegno costante ed esclusivo, una passione ed una abnegazione
eccezionali nel cercare di promuovere ed incrementare la storia della scienza; investì in tale
attività anche le sue cospicue risorse finanziarie personali. Encomiabile rimane il suo
sforzo volto a favorire incontri, contatti, collaborazioni fra gli studiosi. Tra le molte
iniziative editoriali di cui si fece promotore, la più importante è la pubblicazione della
rivista «Archeion» (1919) che divenne l’organo ufficiale dell’Académie internationale
d’Histoire des sciences, associazione costituitasi a Parigi nel 1929, su iniziativa dello stesso
Mieli, e di cui egli fu il primo segretario perpetuo.
Animato da grandi ambizioni, ma anche privo di una considerazione realistica dei propri
mezzi, l’attività frenetica e convulsa di Mieli si realizzò in modo confuso e disordinato e
fu sempre mediocre nei risultati.
Nocque a Mieli il confronto con l’altro grande organizzatore degli studi moderni di
storia della scienza, George Sarton, personalità con la quale Mieli ha parecchi punti di
contatto, ma indubbiamente molto più razionale, ordinata e realista. Come Sarton, Mieli
volle cimentarsi in opere generali monumentali ed in grandi imprese collettive, ma non
riuscì mai però ad eguagliare Sarton su questo terreno, neanche lontanamente. Come
Sarton, mirava ad una concezione unitaria della storia della scienza che sapesse integrare
in una superiore visione i risultati delle singole discipline scientifiche. Teorizzò questo
proposito già nel suo primo tentativo di manuale generale di storia della scienza (su cui
tornò più volte fermandosi sempre agli inizi) in cui afferma che fin dagli anni del liceo «si
impadronì di me un acuto, irrefrenabile desiderio di conoscere e di spiegare l’insieme di
tutto il mondo. La tendenza del mio spirito era quella di potere, con l’aiuto di poche
premesse, arrivare a collegare fra di loro e comprendere tutti i fenomeni fisici e sociali,
artistici e filosofici» 71 Cercò di realizzare il suo intento dapprima per mezzo della
matematica, poi della fisica, della chimica, della filosofia; infine ritenne che la via storica
fosse la più congrua. La storia della scienza non era pertanto per lui una semplice somma
delle storie speciali, ma doveva scaturire dalla fusione e dalla sintesi di tutte le ricerche che
hanno portato alla conoscenza sistematica del reale, comprese quelle filosofiche. 72 Ma,
diversamente da lui, Sarton non aspirò mai a sintesi filosofiche, e se la sua risoluzione della
storia della scienza in una concezione unitaria vagamente umanistica è debole e retorica, è
indubbiamente più accettabile dei propositi filosofici velleitari e programmatici di Mieli.
Per Sarton del resto, Mieli nutrì sempre un misto di ammirazione e di risentimento per
la migliore riuscita delle sue imprese, cui non dovette essere estraneo, negli ultimi tempi,
la feroce stroncatura della sua opera sulla scienza araba, in cui Sarton lo poneva
pubblicamente alla berlina rilevando che non si poteva scrivere con pedanteria e saccenteria
della scienza araba senza sapere l’arabo. 73 Le sue patetiche autorivendicazioni di
66
E. Bortolotti, Studi e ricerche sulla storia della matematica in Italia nei secoli XVI e XVII, Zanichelli,
Bologna 1928.
67
V. Ronchi, Storia della luce, Zanichelli, Bologna 1939; Galileo ed il cannocchiale, Idea, Udine 1942
(nuova ed. Il cannocchiale di Galileo e la scienza del Seicento, Einaudi, Torino 1958).
68
G. Polvani, Alessandro Volta, Domus galileiana, Pisa 1942.
69
M. Gliozzi, L’elettrologia fino al Volta, Loffredo, Napoli 1937.
70
Cfr. i numerosi lavori di storia della cartografia e di storia delle esplorazioni.
71
A. Mieli, La scienza Greca. I prearistotelici. Storia generale del pensiero scientifico dalle origini a
tutto il secolo XVIII, Libreria della Voce, Firenze 1916, p. VII.
72
A. Mieli, Le .storia della .scienza in Italia, saggio di bibliografia di storia della scienza, Libreria ·della
voce, Firenze 1916, p. 3-4 e p. 5: «Con storia della scienza io intendo l’esame dello sviluppo di tutta quella
parte di attività del pensiero umano che è rivolta allo conoscenza sistematica del reale, sia sotto forma
speculativa che sotto forma empirica […] noterò come nella storia della scienza, per la definizione che sopra
ho dato, io comprendo la storia delle varie cosiddette discipline scientifiche e quella della filosofia, nel senso
più ampio. Un tal fatto, se può discordare con le opinioni teoriche di alcuni, quelli che della filosofia fanno
un semplice, spesso inutile ammennicolo delle scienze fisiche, o quelli che concepiscono come filosofia una
vana metafisica, è invece confortato dall’esame dello sviluppo storico».
73
G. Sarton, recensione a La science arabe et son rôle dans l’évolution scientifique, in «ISIS», vol. XXX,
1939, pp. 294-295: «Ce livre est un excellent symbole de l’ignorance générale relative à nos études. Par ‘nos
46
importanza sia in assoluto, 74 sia nei confronti di Sarton, 75 manifestano una sconcertante
insicurezza e ingenuità, e spiegano in parte l’insuccesso dei suoi tentativi di ricevere aiuti
e sovvenzioni statali in Italia per le sue attività. Egli spiega infatti l’insuccesso avuto nel
1925 col fatto che il ministro della pubblica istruzione Pietro Fedele non aveva comunicato
le sue proposte relative alla fondazione di una biblioteca e di un museo di storia della
scienza a Mussolini.

Il Duce - egli dice - certamente, nell’ampia visione che ha dell’insieme dei fatto sociali e
dell’interesse dell’Italia, avrebbe subito afferrato tutto quello di importante e di vitale che era
racchiuso nella mia proposta. Gli incoraggiamenti ed i mezzi opportuni non sarebbero certamente
allora mancati, e la costituzione della Accademia internazionale che io già vagheggiavo e della
quale avevo cominciato ad annodare le fila; avrebbe ufficialmente portato di colpo l’Italia alla testa
del movimento mondiale di storia della scienza, poiché era ben naturale che in tal caso essa fissasse
la sua sede in Roma. Invece, S. E. Fedele, tenendo chiusa la mia proposta nel suo ministero, non
solo le tolse tutto l’appoggio che le avrebbe potuto dare un uomo come Benito Mussolini, e che,
come in altri casi analoghi verificatisi, sarebbe stato decisivo, ma la condannò ad incontrare
difficoltà finanziarie non lievi che potevano soffocarla, e la soffocarono infatti. 76

Allontanatosi dall’Italia nel 1928, Mieli spostò la sua attività in Francia e poi, costretto

études’ je veux dire d’une part, les études arabes et d’autre part, l’histoire des sciences. Dans d’autres
domaines mieux connus du public instruit, un tel livre serait presque inconcevable. Par exemple si quelqu’un
s’avisait d’écrire un livre sur la science grecque, la première chose que l’on se demanderait serait ‘L’auteur
est-il un helléniste ?’ Bien entendu on n’exigerait pas qu’il ait découvert de nouveaux manuscrits ou édité
des textes, mais on s’attendrait à ce qu’il puisse contròler les traductions sur les originaux, et lire sans trop
de difficulté les textes non traduits. Cela seraient en quelque sorte des conditions minimales sans lesquelles
on ne l’écouterait même pas. Pourquoi faut-il en agir autrement quand l’arabe est en jeu ? On pourrait
maintenir qu’il est plus nécessaire d’être avant tout un honnete arabisant pour étudier la science arabe, qu’il
ne l’est d’être un bon helléniste pour étudier la science grecque, car dans le premier cas les traductions sont
moins nombreuses et les travaux d’approche moins solides, et souvent même inexistants.
D’autre part, le fait qu’un bluff de cette dimension puisse être fait par le ‘Secrétaire perpétuel de
l’Académie internationale d’histoire des sciences’ prouve assez que cette Académie n’a pas encore établi de
bonnes traditions. Serait-il concevable que le secrétaire d’une académie des sciences, fut-elle assez modeste,
écrivit un traité de physique sans connaitre de première main aucune partie de cette science ?
Je ne suis pas philologue et les discussions qui amusent les philologues de métier m’agacent souvent. Il ne
faut pas exagérer l’importance des mots et des signes (je l’ai déjà dit plus haut); ce sont les choses, les réalités,
qui importent. Mais il n’en est pas moins vrai qu’on ne peut avoir de vrais contacts avec les réalìtés arabes que
si l’on connait l’arabe assez bien. L’historien de la science qui ne peut lire les textes originaux avec assez de
facilité est exactement dans la même situation que celui qui n’a pas reçu d’éducation expérimentale. Tous deux
parlent de choses qu’ils ne connaisscnt point.
Ce jugement paraitra sévère, mais je ne puis le dissimuler parce que l’auteur n’a aucune indulgence pour
les autres, même ceux dont il a usé sans vergogne. Par exemple, il nous dit des Penseurs de l’Islam du baron
Carra De Vaux (p. 298) : «L’ouvrage est d’une lecture suggestive bien que relativement superficiel et écrit
en vue du grand public». Les mots ‘relativement superficiel’ dans la bouche de M. Mieli nous font sourire.
M. Carra De Vaux est un arabisant de vieille date, qui a édité plusieurs textes importants, et connait les choses
dont il parle. Sans doute n’a-t-il pas voulu dans ces volumes nous dire tout ce qu’il savait, ni surtout plus
qu’il n’en savait. Écrivant pour le grand public, il est toujours resté en deça plutòt qu’au delà de ses
connaissances. Le grand malheur c’est que M. Mieli fasse plutòt le contraire, et tache toujours de suggérer
des connaissances qu’il n’a pas, ou dont les racines sont tout à fait insignifiantes. Il juge cavalièrement des
livres qu’il n’a pas étudiés (s’il les a lus de bout en bout), et dont il ne pourrait apprécier la valeur qu’en
consultant des sources qui lui sont fermées. Cela n’est pas de l’érudition, mais du bluff». Il libro di Mieli uscì
da Brill, Leiden 1939 (ristampa 1966).
74
A. Mieli, Passato ed avvenire, considerazioni poste come prefazione al volume XXI dell’«Archivio di
storia della scienza» («Archeion»), 1938, p. 1: «Poiché, invero, con la fine di questo XXI volume che oggi
s’inizia si compirà un ventennio di vita di questo periodico [...] ed insieme un ventennio di lavoro proficuo
da parte mia, sia nella direzione di questa rivista, sia in molti altri e svariatissimi campi nei quali credo di
casere giunto a risultati non disprezzabili e che rimarranno».
75
A. Mieli, El desarrollo historico de l’historia de la ciencia y la funcion actual de los institutos de
historia de la ciencia, in «Archeion» vol. XXII, l940, p. 20: «Ciertamente Sarton, que durante la guerra se
habia trasladado a Estados Unidos, bajo la proteccion de la Carnegie Institution y de otras poderosas
organizaciones cientifcas, obtuvo un éxito material mucho major; mientras «Archeion», que no tuvo jámas
sólidos protectores financieros, debió vivir con los medios que su director lograba obtener. Pero desde el
punto de vista cientifico creo que las dos revistas, o mejor la obra general de sus dos directores, puede
estimarse de un valor parecido, aunque él que obtuvo mas dinero a veces olvida que es solamente a éste que
él debe un exito mayor».
76
A. Mieli, Passato ed avvenire, cit., p. 4.
47
dagli eventi politici, in Argentina, dove continuò la sua opera in favore della storia della
scienza fino al 1950, anno della sua morte. 77
È opportuno rilevare che anche Enriques, come Mieli, soprattutto negli anni Trenta
preferì indirizzare la sua opera più all’estero che in Italia. Ma non credo che le ragioni siano
da attribuire egualmente all’ambiente culturale italiano dominato dall’idealismo. La
concezione della storia della scienza professata da Mieli era quella condivisa in modo quasi
esclusivo dagli studiosi; essa era perfettamente compatibile con gli orientamenti di Gentile
e anche di Croce, e la non riuscita di Mieli era da imputarsi a ragioni contingenti. Il caso di
Enriques era diverso. Egli non aveva abbandonato l’ambizione di inserire la scienza in una
prospettiva filosofica e aveva solo spostato questi suoi genuini interessi filosofici
particolarmente verso la storia della scienza. Non è il caso di sottolineare qui la sostanziale
debolezza filosofica, anche in questo particolare settore della ricerca di Eariques, viziato
com’è dal presupposto psicologico e da una insufficiente nozione di sviluppo; come
conseguenza, si hanno pesanti fraintendimenti delle teorie e dei risultati della scienza
passata, specie di quella greca, campo preferito di indagine di Enriques. Quel che importa è
che, nella coscienza di Enriques, il suo tentativo di internazionalizzare il suo discorso
storico­filosofico, già iniziato con la pubblicazione della rivisto «Scientia» molti anni prima
muoveva dal convincimento di trovarsi in uno stato di completa emarginazione. 78
In breve la storia della scienza in Italia prima della seconda guerra mondiale, ha lo status
di una disciplina settoriale e specialistica, con orientamento tematico prevalentemente
nazionale, priva di motivazioni filosofiche, e con una scarsissima rilevanza culturale. Gli
interventi culturali più comuni sono del tutto estrinsechi, sono di tipo celebrativo o
rivendicativo (questione delle priorità) oppure di tipo pedantesco (la correzione degli errori
diffusi nella cultura generale). Quest’ultimo era un problema molto sentito in particolar
modo da Mieli. Nella costituzione del Comité international d’histoire des sciences, divenuto
poi l’Académie internationale d’histoire des sciences, in cui Mieli ebbe gran parte, furono
create una sezione sulle priorità e una sulla rettifica degli errori. In quell’occasione
Sebastiano Timpanaro senior aveva fatto in proposito delle osservazioni molto sensate. 79 Il
correggere gli errori è senz’altro un proposito non deplorevole, ma addirittura opportuno: si
veda ad esempio, la polemica giornalistica di Mieli a proposito dell’edificazione in Amalfi
di un monumento a Flavio Gioia. 80 Ma l’idea di voler diffondere e istituzionalizzare una tale
attività, discutibile per la vocazione censoria che manifesta (è facile contrabbandare come
errori di fatto delle interpretazioni che non si condividono) e tra l’altro pericolosa per chi la
esercita (in genere chi insiste molto nella denuncia degli errori altrui è un ottimo produttore
di errori in proprio) è un indice significativo del modo ingenuo e presuntuoso, e insieme
povero, con cui si concepivano i rapporti tra la storia della scienza e la cultura.
La ricerca storica sulla scienza muta progressivamente, ma sostanzialmente, nei decenni
successivi alla seconda guerra mondiale. L’elemento differenziale più importante è che non
è più esemplata su di un solo modello predominante, ma è scandita secondo prospettive,
approcci, metodi differenziati, spesso in contrasto fra di loro. Questo solo elemento fa sì che

77
Su Mieli cfr. il necrologio scritto da Pierre Sergescu, in «Archives internationales d'histoire des
sciences», vol. III, 1950, pp. 519-535.
78
Su Enriques si veda quanto ho detto in Scienza e filosofia da Vico ad oggi, in Storia d’Italia. Annali
III, a cura di G. Micheli, Einaudi, Torino, 1980, p. 619 segg.
79
S. Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza, Sansoni, Firenze 1952, p. 47: «Dice il prof. Gino
Loria, presidente della Commissione per la rettifica degli errori che questa Commissione ha il compito di
sradicare, per quanto è possibile, gli errori storici più diffusi. Egli ricorda che il Bertrand, nel suo volume sui
fondatori dell’astronomia moderna, dice che Copernico vide a Roma il Regiomontano e osserva giustamente
che la notizia è falsa perché, quando Copernico andò a Roma, il Regiomontano era morto da un pezzo.
L’osservazione era già stata fatta fin dal 1877 da R. Wolf, nella sua storia del1’astronomia, ma ciò nonostante
1’errore continua a essere ripetuto. È deplorevole, siamo d’accordo, e non abbiamo niente da ridire contro la
rubrica Corrigenda che sarà pubblicata in «Archeion»; ma bisogna dir forte che sarebbe molto più
deplorevole che non si avessero idee chiare sul pensiero di Copernico che ciò che davvero importa è la
conoscenza delle idee di Copernico e del loro valore storico. Gli sbagli di stampa sono odiosissimi (e pochi
li odiano come me) ma non bisogna poi credere che il correttore di bozze conti più dello scrittore. Non lo
crede nemmeno 1’«Archeion», che,_ nelle sei righe dedicate a Edison scrive per due volte male il nome del
grande inventore. Gli errori materiali come quello citato da Loria equivalgono in fondo a sbagli di stampa: e
un’opera di storia della scienza potrebbe essere bella e vera anche contendendone parecchi, mentre ella non
ha importanza se manca d’idee». Il passo fa parte di un articolo pubblicato nel 1932.
80
Cfr. L’invenzione della bussola, Flavio Gioia, monumentomania e scorrettezza giornalistica, in
«Archeion», vol. 6, 1925, pp. 273-275.
48
la ricerca odierna sia molto più ricca di quella di alcuni decenni or sono.
La storia della scienza, per così dire, tradizionale, è continuata in modo notevole e ha
avuto per parecchi anni come suo centro la Domus Galileana, che ha svolto e svolge tuttora
un ruolo di promozione generale della disciplina; ma si è progressivamente svuotata. I più
recenti sostenitori di tale indirizzo hanno dato infatti contributi ancor più settoriali e
frammentati di quelli del passato e non sono stati e non sono in grado di produrre opere
generali e di sintesi come quelle che hanno pubblicato negli anni 50 e 60 Gliozzi, 81 Frajese, 82
Forti 83 ecc.. Anche se alcuni sono ancor oggi eccezionalmente attivi, come Montalenti 84 che
parla addirittura in questo convegno, tutti si sono culturalmente formati negli anni Trenta. Il
solo storico disciplinare di rilievo maturatosi dopo la seconda guerra mondiale, è, io credo
Luigi Belloni, la cui opera, ha alcuni tratti molto caratteristici: nessuno, infatti, come lui ha
usato in modo così ampio e sistematico il metodo della ripetizione degli esperimenti.
I nuovi sviluppi e l’arricchimento della ricerca storica sulla scienza derivano in parte da
un mutato clima culturale il quale, dopo la crisi dell’idealismo, è diventato più vario e meno
univocamente caratterizzato, e in parte dal rinnovamento che ha subito la ricerca storico-
filosofica italiana e soprattutto dal modo con cui sono penetrate in Italia le tematiche
neopositivistiche, per merito di Giulio Preti e di Ludovico Geymonat. Preti e Geymonat, è
noto, non andavano d’accordo quasi su niente; ci sono però almeno due convergenze
estrinseche fra di loro assai significative. La prima è costituita dal fatto che il comune
interesse per il neopositivismo era associato ad un altrettanto comune interesse per una
corrente essenziale dello storicismo, il marxismo. Di qui la tendenza, viva in entrambi, a
considerare lo sviluppo storico della scienza come un elemento fondamentale della
riflessione filosofica, contrariamente a quanto avevano fatto fino ad allora i neopositivisti. È
questo un punto caratteristico anche di uno studioso più tardo del neopositivismo, Francesco
Barone, 85 che ha anch’egli nutrito un grande interesse per la storia della scienza. La seconda
consiste nel fatto che entrambi hanno tenuto in scarso conto i molti autori francesi del primo
Novecento, da Duhem, Rey, Meyerson fino a Koyré e Bachelard, che avevano sviluppato,
diversamente dai neopositivisti, una filosofia della scienza ancorata in modo serio e analitico
alla storia della scienza. Ciò vale più per Preti che per Geymonat, il quale deve molto a
Comte, autore non apprezzato dai neopositivisti, ed ha comunque considerato Koyré e, di
recente, anche Bachelard; ma nella sostanza anche per Geymonat, quel tipo di riflessione
storico-filosofica non legata alla tradizione storicistica, non è mai stata congeniale. Oltre a
queste convergenze estrinseche, vi è un altro punto di contatto molto importante tra Preti e
Geymonat, e che riguarda il complesso della loro personalità culturale. Essi, pur partendo da
punti di vista differenti, si sono sforzati di presentare nella cultura italiana le tematiche
neopositivistiche nella loro effettiva matrice e consistenza; l’intento critico non è mai
sfociato in una prospettiva deformante e riduzionistica. Pur nella diversità delle rispettive
concezioni, l’istanza storicistica, anche se formulata in modo per certi versi antitetico a
quella idealistica, ha reso accettabili nella cultura italiana le tematiche neopositivistiche, che
si sono in questi ultimi decenni ampiamente diffuse e consolidate nel nostro paese. 86
Ma, a parte l’interesse per lo sviluppo storico della scienza, che ha caratterizzato
l’impostazione generale del suo pensiero, non si può dire che Preti abbia coltivato in modo
ampio e significativo la storia della scienza. Le difficoltà intrinseche, connesse alla nota
tesi della distinzione tra scienza e pensiero scientifico da lui sostenuta, lo hanno condotto
ad esiti molto discutibili, specie nel suo scritto di sintesi, la Storia del pensiero scientifico,87
che rimane purtuttavia un libro denso e interessante, al di là delle evidenti manchevolezze.
Geymonat invece si è occupato in modo più continuo e sistematico di storia della
scienza, e ha dato in questa disciplina contributi più rilevanti di quelli di Preti. Citerò qui
solamente quella che considero l’opera migliore di Geymonat, La Storia del pensiero

81
M. Gliozzi, Storia della fisica, UTET, Torino 1962.
82
A. Frajese, Attraverso la storia della matematica, Le Monnier, Firenze 1969.
83
U. Forti, Storia della tecnica dal Medioevo al Rinascimento, Sansoni, Firenze 1957; Tecnica e
progresso umano: una storia delle invenzioni e delle industrie, nei loro rapporti con le scienze, le arti, la
società, Fabbri, Milano 1963; Storia della scienza nei suoi rapporti con la filosofia, le religioni, la società,
Dall’Oglio, Milano, 1968.
84
G. Montalenti, Storia della biologia e della medicina, UTET, Torino 1962.
85
Cfr. il recente F. Barone, Le immagini filosofiche della scienza, Laterza, Bari, 1983.
86
Su Preti e Geymonat, cfr. il mio Scienza e filosofia da Vico ad oggi, cit.
87
G. Preti, Storia del pensiero scientifico, Mondadori, Milano, 1957 (nuova ed. 1975).
49
filosofico e scientifico, che ha avuto una eco amplissima nella cultura italiana, non solo
filosofica. 88 Si tratta di un’opera collettiva, ma permeata in modo netto dallo spirito e dalla
prospettiva di Geymonat anche perché concretamente Geymonat stesso ha scritto buona
parte dei volumi. La visione complessiva dell’evoluzione della scienza, quale risulta dalla
Storia del pensiero filosofico e scientifico, è molto articolata ed efficace; emerge soprattutto
la grande capacità di Geymonat di esprimere opinioni chiare ed incisive su cose, persone
ed eventi del passato e del presente. Ma il quadro unitario e sistematico è più affidato alla
grande sicurezza di giudizio dell’autore, che gli permette di valutare e di situare in modo
coerente i singoli fatti scientifici e filosofici, che ad una esplicita enunciazione teorica circa
i rapporti scienza filosofia, che sono programmaticamente non legati a tesi rigide. 89
Un rinnovato interesse per la storia della scienza non è però venuto solo da filosofi della
scienza come Preti e Geymonat. In larghi settori della ricerca storico-filosofìca, la storia
della scienza ha avuto spesso un ruolo importante nel processo di emancipazione dalla
storiografia idealistica, iniziatosi dopo la seconda guerra mondiale. Basti pensare anzitutto
ad alcuni scritti di Antonio Banfi, 90 e poi alla pubblicazione della «Rivista critica di storia
della filosofia», fondata e diretta da Mario Dal Pra e al centro del C.N.R. diretto dallo stesso
Dal Pra, programmaticamente rivolto allo studio dei rapporti tra pensiero filosofico e
scienza nel Cinquecento e nel Seicento. La storia della scienza ha avuto un’udienza più
limitata nell’ambito della ricerca storica. Significativo è, per esempio, il fatto che i
moltissimi studi sullo sviluppo industriale italiano hanno avuto una caratterizzazione quasi
esclusivamente economica e politica; la componente tecnica è rimasta e rimane marginale.
Nel settore degli studi storici, l’attività di Luigi Bulferetti, molto intensa anche dal punto
di vista organizzativo, è stata a lungo isolata e per certi versi emarginata (anche questo fatto
può essere indicatore di quella vena censoria sempre presente nella cultura storica italiana).
Di impostazione e cultura filosofica, Bulferetti ha concepito in modo ampio e differenziato
le sue ricerche di storia della scienza (ricordo qui il saggio su Galileo particolarmente
incisivo) corroborandole con saggi teorici molto elaborati e nutriti. In questo ambito, è, a
mio parere, di grande interesse, il suo tentativo di studiare le connessioni tra storiografie e
scienza, su cui credo che ritorni anche nella relazione di questo convegno; nel settore
specifico della storia della scienza e della tecnica soprattutto Bulferetti vede un campo di
indagine d’elezione. 91
Ancor più limitato è stato l’interesse per la storia della scienza da parte degli storici della
letteratura; solo di recente si è avuto qualche cultore di quel vasto campo d’indagine che
va sotto il nome di scienza e letteratura.
Per la verità è solo dalla filosofia della scienza (nella particolare accezione che ha in
Preti ed in Geymonat) e poi dalla storia della filosofia che sono venuti spunti e stimoli per
una visione della storia della scienza diversa da quella tradizionale. Ha avuto grande
importanza in questa direzione, per una concezione, cioè, non esclusivamente disciplinare
della storia della scienza, la massiccia diffusione che si è avuta in Italia, a partire dagli anni
Sessanta, delle prospettive di Koyré e di quel vasto e complesso movimento che va sotto il
nome di storia delle idee. Essenziali sono stati in questo campo i contributi specifici di
Paolo Rossi ed i suoi numerosi interventi teorici. 92
La riflessione teorica sulla storia della scienza si è ulteriormente arricchita negli ultimi
anni, a seguito della diffusione degli scritti di Kuhn e dei suoi critici. Ma il dibattito che ne
è scaturito ha assunto i connotati di un discorso interno tra filosofi della scienza e ha
interessato solo marginalmente gli storici della scienza.
Si è avuta invece, a mio patere, una certa carenza di contributi su tematiche teoriche
legate agli sviluppi della concreta ricerca storica e soprattutto una carenza di discussione
tra sostenitori di tendenze e prospettive diverse. È forse un retaggio della tradizione e un
modo per continuare quelle censure di cui ho detto? Comunque la situazione realmente

88
L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, voll. 6, Garzanti, Milano, 1970-1972.
89
Ivi, vol. I, p. 5 e segg.
90
In particolare quelli su Galileo.
91
L. Bulferetti, Scienza e tecnica nella storia sociale, in «Miscellanea storica ligure», vol. II, 1961, pp.
311-392; La scienza come storiografia, E.R.I., Torino, 1970.
92
P. Rossi, I filosofi e le macchine, Feltrinelli, Milano 1962 (nuova ed. 1971); Clavis universalis. Atti
della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Ricciardi, Milano-Napoli, 1960 (nuova ed. Il
Mulino, Bologna 1983); I segni del tempo. Storia della terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico,
Feltrinelli, Milano, 1979.
50
pluralista in cui si trova oggi la ricerca storica sulla scienza rende sempre più difficile
mantenere un simile atteggiamento. Considero questo convegno uno strumento efficace
per superarlo e uno stimolo opportuno nella direzione di un confronto vivace e aperto.
La presenza di una pluralità di posizioni che, di per sé, lo ripeto, rappresenta una novità
sostanziale nella ricerca storica italiana sulla scienza, giustifica il titolo di questo convegno
sul quale sono completamente d’accordo.
Questo fatto, indice di un sostanziale arricchimento, spiega anche la diffusa e ampia
presenza odierna della storia della scienza nella cultura italiana. Ci sono almeno tre fattori
che la documentano in modo netto: 1) Si ha ormai nel settore della storia della scienza una
vasta e ricchissima produzione editoriale. Si pensi alla collana dei Classici della Scienza
U.T.E.T., che ha ormai più di vent’anni di vita; alle numerosissime traduzioni di studi che
si pubblicano ogni anno; ai molti convegni che si svolgono continuamente su vari temi
storico­scientifìci e su vari scienziati (maggiori e minori) e ai relativi atti che si stampano.
2) La storia della scienza e la storia delle singole discipline scientifiche è ormai inserita in
modo ampio e organico negli Statuti delle Università italiane; una cosa questa che gli storici
dei primi decenni del Novecento avevano sempre auspicato, ma realizzato solo in modo
disorganico ed estremamente limitato. 3) Lo sviluppo storico della scienza è ormai
concretamente parte integrante dell’insegnamento della filosofia nei Licei, o almeno in
larghi settori di essi, ed ha una sua trattazione nei vari manuali. C’è inoltre anche un’ampia
disponibilità degli insegnanti di altre discipline o di altre scuole medie superiori verso
argomenti storico-scientifìci, testimoniata dal1e continue richieste che pervengono di
lezioni e di conferenze.
È pur vero che i fattori che ho elencato presentano anche delle notevoli limitazioni. Si
può facilmente osservare, infatti, che la produzione editoriale è per certi versi
sovrabbondante, ed è ricca di contributi di scarso valore e di traduzioni inutili; che spesso,
nelle università, la storia della scienza viene considerata nulla più che una disciplina
specialistica, fra le tante che si trovano nei lunghissimi statuti delle facoltà; che la cultura
scientifica che si apprende nella scuola media non lascia tracce molto profonde nella
maggioranza degli studenti universitari. Inoltre, come ho rilevato prima, l’insensibilità di
storici e letterati, e soprattutto le censure degli scienziati verso una storia della scienza non
rigidamente disciplinare, connessa con la congenita mentalità volta a considerare
comunque la storia della scienza un campo di indagine marginale, sono presenze ancora
generalizzate nella cultura italiana, anche se ci sono ovviamente le dovute eccezioni. Mi
sembra però altrettanto certa la presenza di una tendenza nuova in Italia per quanto riguarda
la storia della scienza come disciplina in sé e nei suoi rapporti con la cultura. Si tratta però
solo di una tendenza che può, sì, svilupparsi, ma anche regredire.

51
Gli studi di storia della matematica

La storia della matematica in Italia ha una lunga tradizione che si può far risalire, se si
vuole, alle Vite dei matematici di Bernardino Baldi, scritte sul finire del Cinquecento. Nel
secolo XIX essa ha già una fisionomia ben delineata, dei cultori dotati di grande
personalità, come Pietro Cossali, Guglielmo Libri, Baldassarre Boncompagni e delle opere
di buon livello, certamente superiori a quelle di storia di altre discipline scientifiche, come
per esempio la medicina. Spicca soprattutto il «Bullettino di bibliografia e storia delle
scienze matematiche e fisiche», la prima rivista di storia della matematica, pubblicato per
iniziativa del principe Boncompagni tra il 1868 e il 1887. La rivista, rimasta famosa per
l’accuratezza ed il rigore filologico degli scritti che contiene, rappresenta bene, con la sua
impostazione specialistica, erudita e nazionalistica, le tendenze di fondo della ricerca
italiana di storia della matematica.
Gli unici studiosi che in qualche modo e per qualche aspetto si sono differenziati nel
secolo XIX dall’impostazione generale, Giovanni Schiaparelli e Raffaello Caverni, non
sono stati degli storici della matematica in senso stretto.
La storia della matematica nel periodo qui preso in esame non solo mantiene
sostanzialmente i caratteri tradizionali di ricerca specialistica, erudita e nazionalistica di
cui si è detto, ma li accentua e l’interpreta in modo rigido e schematico. Ci sono però due
novità: l’aumento notevole della produzione storiografica, e l’accresciuta udienza che ha
la storia tra i matematici cosiddetti creativi. Dico accresciuta udienza, poiché anche molti
matematici italiani del secolo XIX avevano avuto un vivo interesse, specialmente per la
storia delle discipline di loro competenza: si pensi solo all’introduzione storica di Felice
Casorati al suo libro sulla Teorica delle funzioni di variabili complesse. 93 In generale, i
matematici del periodo preso in esame possiedono una buona cultura storica che traspare
anche negli scritti sistematici e nelle testimonianze relative all’insegnamento. In alcuni,
come in Peano, è particolarmente approfondita ed essenziale e si riverbera nella sua ricerca.
Si veda in proposito, questo ricordo di un suo allievo, Giovanni Vacca:

Mi diceva più di una volta che avrebbe insegnato volentieri il calcolo prendendo come libro di
testo la Théorie des fonctions analytiques di Lagrange. Sapeva a memoria, e recitava volentieri,
lunghe pagine dei Principia di Newton e delle famose due lettere del 1676 di Newton a Leibniz.
Ammirava (con Abel) il limpido volume di Cauchy, il Cours d’analyse del 1821. Le sue lezioni,
variate ogni anno, rappresentavano uno sforzo continuo di raggiungere esposizioni più lucide.
Ricordo la prima parte del corso del 1903, iniziato seguendo i metodi della geometria degli
indivisibili di Bonaventura Cavalieri. Ricordo le lezioni sulla teoria dei numeri irrazionali, illustrati
col V libro di Euclide, le lezioni sulla rettificazione delle curve, partendo dalla esposizione di
Archimede. Ricordo infine la lettura delle pagine di Galileo e di Torricelli sulla caduta dei gravi, e
le lezioni sul calcolo delle variazioni, che interpretavano in forma nuova le classiche memorie di
Eulero e di Lagrange. Ma ho presente alla mente specialmente le lunghe discussioni davanti ai testi
classici, da Archimede, Euclide, Apollonio, fino ai più moderni Gauss, Dirichlet, Weierstrass, Dini,
Cantor [...] durante gli anni di compilazione dei cinque volumi del Formulario. 94

In altri, come in Severi, la conoscenza storica è particolarmente ampia e articolata.


Severi considera utile e importante la storia della matematica: «è sempre opportuno, dice
nelle sue Lezioni di analisi, per una migliore e più agevole comprensione dell’origine delle

93
Fratelli Fusi, Pavia 1868, volume I.
94
G. Vacca, Lo studio dei classici negli scritti matematici di Giuseppe Peano, in «Atti della Società
italiana per il progresso delle scienze», vol. II, Roma 1933, pp. 98.99 (XXII riunione tenuta a Roma tra il
9 ed il 15 ottobre 1932).
52
idee, seguirne lo sviluppo storico». 95 Anche se i numerosi contributi storici di Severi sono
di scarso valore, intrisi come sono di retorica, specialmente quelli non propriamente di
storia della matematica, sono tuttavia la testimonianza di un interesse intensamente e
amorevolmente coltivato per tutta la vita. Esso lo aveva portato a possedere una massa
veramente notevole di cognizioni storiche che si manifestano a volte in modo sobrio ed
efficace, come per esempio, nei complementi delle sue note Lezioni di analisi, ricche di
riferimenti storici precisi. Ma si può dire che quasi tutti i più noti matematici del periodo
manifestino un qualche interesse per la storia. Molti, più o meno occasionalmente, scrivono
di argomenti storici, come Guido Castelnuovo, Giulio Vivanti, Vito Volterra, Gaetano
Scorza, Enrico Bompiani, Alessandro Terracini, Giovanni Ricci, ecc. La multiforme
attività organizzativa di Federigo Enriques ebbe un ruolo notevole nel favorire l’interesse
per gli studi storici. Enriques era infatti il coordinatore per la parte matematica
dell’Enciclopedia italiana e le voci storiche scritte da Enriques o da lui commissionate
erano numerose e di ampiezza inusitata per una enciclopedia; era inoltre condirettore di
due riviste «Scientia» e il «Periodico di Matematiche», diverse per il contenuto e per il
pubblico a cui si rivolgevano, che davano ampio spazio, la prima alla storia della scienza
in genere, e la seconda alla storia delle varie branche della matematica e talvolta anche
della fisica. Il «Periodico delle Matematiche» anzi, nella serie IV diretta, a partire dal 1921,
da Enriques, divenne in pratica una rivista di storia della matematica; spesso gli articoli
erano scritti su sollecitazione della direzione.
Un’opera che esprime questo speciale interesse per la storia è la grande Enciclopedia
delle matematiche elementari e comp1ementi pubblicata a cura di Luigi Berzolari, Giulio
Vivanti e Duilio Gigli, e redatta da numerosi collaboratori, in cui i singoli argomenti trattati
sono tutti corredati da riferimenti storici analitici e precisi. 96
In questo contesto di generale interesse per la storia da parte della comunità matematica
italiana, non stupisce che la schiera degli storici della matematica professionali, cioè di
coloro che affrontano la ricerca storica basandosi sulla lettura delle fonti e della letteratura
critica e sulla ricerca dei documenti, sia molto nutrita. Agli inizi del periodo qui
considerato, il più importante storico della matematica era universalmente considerato
Antonio Favaro per via della sua accurata edizione delle opere di Galileo. Favaro si può
considerare il continuatore diretto dell’opera di Boncompagni, di cui era stato
collaboratore. Nato a Padova nel 1847, nel 1872 divenne professore di statica grafica
nell’università di Padova, dove rimase per un cinquantennio tenendo anche per qualche
tempo un corso di storia della matematica. Mori nel 1922. Corredò l’edizione nazionale
delle opere di Galileo portata a termine in vent’anni, con la pubblicazione di una serie
notevole di studi e di documenti attinenti a Galileo, alla sua scuola e ai precedenti
rinascimentali (specie Leonardo). 97 Diversi da Favaro, e diversissimi anche fra di loro per
personalità e per tipo di ricerca, ma molto noti e stimati anch’essi, erano Giovanni Vacca
e Gino Loria. Già maturi dopo la prima guerra mondiale, erano ancora attivi dopo la
seconda guerra mondiale. Giovanni Vacca, nato a Genova nel 1872, fu studioso di
multiformi interessi. Allievo e assistente di Peano, si interessò presto di storia della
matematica, divenendo collaboratore della «Bibliotheca mathematica» di Eneström del
«Bullettino di bibliografia e storia delle scienze matematiche», pubblicato dal Loria tra il
1898 ed il 1917. Fu amico di Giovanni Vailati, collaboratore del «Leonardo» di Papini e
Prezzolini critico di Croce. Studiò poi la lingua e la letteratura cinese divenendo un esperto
sinologo. Nel 1922 fu nominato professore di storia e geografia dell’Asia orientale, ma non

95
Volume I, Bologna Zanichelli 1943, (II edizione, nuova tiratura) la I edizione è del 1933; la II del 1938),
p. 68.
96
3 volumi, Hoepli, Milano 1930 segg.
97
Cfr. specialmente il necrologio di E. Bortolotti, Antonio Favaro, storico delle scienze matematiche, in
«Atti e memorie della R. deputazione di storia patria per le Romagne», quarta serie, vol. XIV, fasc. I-III,
estratto Stab. Poligrafici Riuniti, _Bologna 1924; G. Favaro, Antonio Favaro, Bio-bibliografia, in «Atti del
Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti», tomo LXXXII, parte prima, 1922-1923, pp. 221 segg.
(Contiene l’elenco degl’iscritti).

53
abbandonò mai le ricerche di storia della scienza. Morì a Roma nel 1953. 98 Gli studi di
Vacca sono scarni ed essenziali, di poche pagine, su argomenti molto precisi e
circostanziati. Quelli di Loria, indubbiamente lo storico italiano della matematica più
prolifico, comprendono invece storie generali e particolari, articoli vari, specifici e
complessivi, su varie branche della matematica di ogni periodo, biografie, scritti
metodologici e occasionali, recensioni e sono costituiti da parecchie migliaia di pagine.
Loria, nato nel 1862, fu professore di geometria superiore all’università di Genova dal
1886; in tale università tenne anche corsi di storia della matematica; mori a Genova nel
1954. Loria, costantemente presente negli organismi e nei congressi internazionali, era
molto noto anche fuori d’Italia. 99 Nel periodo preso qui in esame si veniva sempre più
occupando di storia della scienza in generale e di storia della matematica in particolare
anche Federigo Enriques, già molto conosciuto non solo come matematico, ma anche come
filosofo. La polemica sostenuta con Croce e con Gentile in occasione della impossibilità di
stabilire un confronto serio con le posizioni idealistiche che avevano teorizzato
l’emarginazione del pensiero scientifico dalla cultura e ritenuto più proficuo impegnarsi
direttamente nella ricerca storica e spingere i propri allievi in tale direzione. Svolse ricerche
soprattutto nel campo della matematica greca 100 e della riflessione metodologica. Storici di
grande personalità furono anche Ettore Bortolotti e Roberto Marcolongo, autore di un gran
numero di studi soprattutto su Leonardo da Vinci. 101 Ma vi furono molti altri storici della
matematica con contributi di vario livello ed importanza. Tra di essi ricordo: Enrico
Ruffini, allievo di Enriques, autore di studi sulla matematica greca, morto prematuramente
a soli 34 anni nel 1924, Amedeo Agostini, Ugo Cassina, scolaro di Peano, Francesco
Amodeo, Alpindo Natucci, e poi Ettore Carruccio, Attilio Frajese, e infine Ludovico
Geymonat.
Quel che sorprende in un quadro di pubblicazioni cosi vario, ricco e articolato, è la
straordinaria omogeneità dell’impostazione, delle prospettive, delle finalità delle ricerche
storiche. Tale omogeneità nasce in gran parte dalla funzione che viene riconosciuta alla
storia della matematica nell’ambito della ricerca. Questa funzione non si esaurisce
nell’inserimento delle ricerche specifiche in contesti più larghi e più consapevoli e neppure
nella riconosciuta efficacia didattica, ma attiene a qualcosa di più profondo che ha a che
fare con le radici stesse della ricerca che si era venuta svolgendo e si svolgeva in Italia. Si
voleva individuare l’identità sostanziale di tali ricerche per concepirle come un tutto e
acquisirle meglio come un valore collettivo. Mai come in questo periodo i matematici
italiani si sentono membri di un corpo organico dotato di varie articolazioni e suscettibile
di sviluppo, ma anche di regresso. Questo corpo è costituito ad un tempo dai matematici
italiani viventi e passati che sono collegati fra di loro da un rapporto di continuità
intensamente vissuto, che viene inteso come l’espressione di una tradizione di ricerca
nazionale. In altri campi del sapere, nella filosofia soprattutto, c’erano aspirazioni e
prospettive analoghe che avevano dato luogo a cospicue teorizzazioni sui caratteri precipui
della tradizione di pensiero nazionale, spesso in contrasto fra di loro. Non così nella
matematica. L’incapacità da parte degli storici di manipolare concettualmente i problemi
storici faceva sì che non si fosse in grado di dare una configurazione dottrinale precisa e
determinata a questo corpo che era divenuto a partire dalla seconda metà del secolo XIX
molto compatto, né di stabilire una successione temporale che ne fissasse le origini. Alcuni,
98
Cfr. U. Cassina, Giovanni Vacca, la vita e le opere, in «Rendiconti dell’Istituto lombardo di scienze e
lettere», Classe si scienze matematiche e naturali, tomo LXXXVI, 1953, pp. 185-200 (contiene l’elenco degli
scritti); E. Carruccio, Giovanni Vacca, matematico, storico e filosofo della scienza, in «Bollettino
dell’Unione Matematica Italiana», d’ora in avanti «B.U.M.I.», serie 3, vol. VIII, 1953, pp. 448-456.
99
A. Terracini, Commemorazione del socio Gino Loria, «Rendiconti Lincei, Sc. Fis. Mat. Nat.» vol.
XVII, 1954, pp. 402-421 (con elenco degl’iscritti).
100
Tra l’altro, si interessò alla pubblicazione di una nuova edizione degli Elementi di Euclide: Gli elementi
di Euclide e la critica antica e moderna, editi da F. Enriques col concorso di diversi collaboratori, Alberto
Stock, Roma 1925 il primo volume; poi Zanichelli, Bologna 1930 (II volume), 1932 (III volume), 1935 (IV
volume); i collaboratori furono M.T. Zapelloni, A. Enriques, A. Agostini, G. Rietti, R. Struik.
101
Cfr. in particolare, R. Marcolongo, Memorie sulla geometria e la meccanica di Leonardo da Vinci,
S.l.E.M., Napoli 1937.
54
infatti, ampliavano enormemente l’ambito temporale e vedevano addirittura in Archimede
il capostipite del corpo matematico nazionale. 102
Gino Loria si era più volte cimentato con questo problema. 103 Inclinava ad espungere dal
corpo italico Archimede, ma talvolta con incertezze e tendeva a considerare più proprio e
sensato porre Leonardo Pisano come l’iniziatore della tradizione matematica italiana. 104
Ma non riuscendo a concepire tale tradizione come un corpo dottrinale, Loria finisce
inevitabilmente per identificarla con il lungo elenco delle glorie nazionali. Il modo di
concepire la tradizione di Loria è interessante, perché viene a coincidere con quanto
pensavano la maggior parte dei matematici italiani, per i quali la coscienza di appartenere
ad un corpo importante costituiva uno stimolo ed una responsabilità. La loro
preoccupazione costante è quella di favorire con ogni mezzo la qualità e l’originalità della
ricerca e di non abbassare in nessun caso il rigore degli studi universitari, per mantenere
sempre al massimo livello una tradizione ritenuta gloriosa. Si veda per esempio questa
testimonianza di Giovanni Ricci:

Il primato dell’Italia nell’algebra classica è fulgido esso è rappresentato dai nomi di Leonardo da
Pisa, Scipione dal Ferro, Nicolò Tartaglia, Girolamo Cardano, Ludovico Ferrari, Raffaele Bombelli
[…] Ma si può dire anche che l’algebra moderna cominci con l’italiano Paolo Ruffini o, se si vuole,
con l’italiano Giuseppe Luigi Lagrange […] Di questo risveglio furono i principali artefici
Francesco Brioschi ed Enrico Betti, più tardi coadiuvati da Felice Casorati, Luigi Cremona,
Eugenio Beltrami ed Ulisse. Essi sentirono il bisogno di riallacciarsi alle principali correnti del
passato e di portare la matematica italiana all’altezza delle tradizioni […]. Sarò pago se il lettore
avrà la sensazione, anche pallida del panorama grandioso e se, attraverso le pagine più salienti
inquadrare l’evoluzione dei concetti analitici e quindi nello sviluppo scientifico mondiale, sentirà

102
Fra gli altri, F. Severi, Archimede, in «Scienza e tecnica» rivista generale di informazione scientifica
edita dalla S.I.P.S., 1939, pp. 737-752; «Le matematiche in Italia», in Annali della università d’Italia, 1939,
pp. 40-44) e F. Conforto, Geometria algebrica, in Un secolo di progresso scientifico Italiano 1839 -1939,
S.I.P.S., Roma 1939, vol. I, p. 125.
103
G. Loria, Le tradizioni matematiche dell’Italia, Discorso inaugurale della sezione storica del IV
Congresso internazionale dei matematici, Roma 1908, in G. Loria, Scritti, conferenze, discorsi sulla storia
delle matematiche, Cedam, Padova 1937, pp. 466-488; L’ininterrotta continuità del pensiero matematico
italiano, in «Periodico di matematiche», 1932, serie 4, vol. XII, pp. 1-16; Contributi dati dall’Italia alle
matematiche pure dai tempi più remoti ai giorni nostri, in «Mathematica» (Cluj), vol. XIV, 1938, pp. 155-
177.
104
G. Loria, Le tradizioni matematiche dell’Italia, in Scritti, cit. pp. 467-468: «Non crediate […] che io,
lasciandomi trascinare dall’entusiasmo pel mio tema o da vanagloria nazionale, faccia risalire le origini della
matematica italiana ad Archita Tarantino e Archimede Siracusano; non lo farò […] perché l ‘Italia
meridionale e la Sicilia, non solo furono sedi di fiorenti colonie elleniche, ma erano abitate da popolazioni
la cui intima affinità con i Greci è, a tacer d’altro, dimostrata dalla lingua che esse parlavano, la quale si
accosta assai più al sacro idioma dell’Ellade che ai dialetti usati nel resto d’Italia. D’altronde chi ignora la
nessuna parentela intellettuale fra il popolo greco e quello di cui l’itala gente è la continuatrice diretta? Se in
filosofia la Grecia divenne ad un tempo suddita e maestra di Roma, in matematica dominatori e schiavi
rimasero totalmente estranei gli uni agli altri; sicché i Romani, paghi di avere al loro servizio agrimensori
capaci di misurare le terre conquistale ed architetti in grado di eternare nel marmo la gloria delle loro armi,
superbi di aver saputo compiere la riforma del calendario […] riguardavano come sterili fantasticherie le
opere immortali dei grandi geometri della Grecia[…] Ecco perché noi Italiani andiamo bensì superbi di
proclamarci discepoli di Archimede , ma non ci sentiamo di accampare diritti ad esserne considerati gli eredi
legittimi, gli unici continuatori, riconoscendo onestamente che come tali possono al pari di noi, riguardarsi
tutti i popoli presso cui la Geometria è tenuta nel debito onore […]. Col Liber Abaci, pubblicato nel l202
dal Pisano Leonardo Fibonacci comincia la letteratura matematica italiana; L’ininterrotta continuità del
pensiero matematico italiano, cit. p. 2: «Dovremo noi vagare nella Magna Grecia per rintracciarvi quei
discepoli che Pitagora adunò attorno a sé nella sua patria di adozione […]. O sarà miglior consiglio,
oltrepassare il periodo d’infanzia della nostra scienza, per contemplarla già robusta nelle opere di Archimede
[…]. Io non mi atterrò né all’uno, né all’altro sistema, ché le dottrine pitagoriche recano un indiscutibile
marchio ellenico e Archimede contrassegna e forse determina l’apogeo della geometria greca. Preferisco
invece iniziare questo viaggio dall’epoca in cui l’umanità, destandosi da un lungo e profondo torpore, non
appena rimarginate le profonde ferite subite nel corso di ripetute invasioni barbariche, si appresta ad una
primaverile rinascita. Il risveglio avviene, in Italia durante il secolo in cui maturava la lingua che Dante
doveva elevare alla dignità di idioma caratteristico della stirpe. Il merito di averlo provocato spetta […] ad
un modesto ragioniere del Comune di Pisa, Leonardo Fibonacci […]»; nel saggio Contributi dati dall’Italia,
cit., i primi due paragrafi sono dedicati rispettivamente a Pitagora e Archita e ad Archimede.
55
i1 fatto concreto che le tradizioni della Rinascenza, luminose pei nomi di Del Ferro, Cardano,
Tartaglia. Ferrari, Torricelli, Cavalieri, Mengoli sono state alimentate dalla fede dei nostri analisti
del1’ultimo secolo, i quali hanno conservato e tuttora conservano un posto nobilissimo alla
Matematica italiana nel mondo. 105

O quest’altra, molto drammatica, di Severi:

Occorre che ci diamo tutti. Maestri e discepoli, e con appassionata foga, alla nostra missione, perché
depositari della gloriosa tradizione matematica italiana, che non è soltanto ricordo di un lontano
passato, ma realtà tuttora presente, bisogna scongiurare il pericolo che si profila all’orizzonte […]:
quello della nostra decadenza matematica.106

Il fatto che ad un certo periodo Peano, che evidentemente non aveva molto il senso della
tradizione, interpretasse in modo molto personale i suoi doveri d’insegnante dovette essere
sentito da molli non solo come un episodio imbarazzante, ma come una ferita inferta a1
corpo. 107

In un simile contesto si può facilmente comprendere la funzione fondamentale che ha la


storia della matematica: essa deve rinsaldare l’unità del corpo, esaltarlo e amplificarlo,
renderlo sempre più omogeneo perché sia uno stimolo per la ricerca e anche un modo per
appianare e attutire i contrasti di indirizzo. Si spiega così anche il fatto, di per sé paradossale,
che la storia della matematica, tanto apprezzata, non abbia uno status universitario adeguato.
Gli storici occupano cattedre di normali discipline matematiche, mentre la storia della
matematica come disciplina speciale ha un ruolo marginale nel curriculum universitario.
C’era una sorta di resistenza a considerare la storia della matematica come una disciplina a
sé, proprio perché essa doveva costituire un naturale complemento del bagaglio di
competenze di ogni matematico. Sulla base di quanto ho detto, mi pare che la forte
accentuazione nazionalistica della storiografia matematica di questo periodo non sia un fatto
contingente, legato al fascismo, né un semplice retaggio della cultura ottocentesca, ma una
modalità specifica di espletamento di quella funzione unificante e magnificante. La vena
nazionalistica, seppure con toni diversi, moderati (Enriques), non eccessivi (Loria), o tanto
accesi da apparire ossessivi (Bortolotti), è generalmente diffusa. Le seguenti parole di
Burali-Forti possono bastare per dare un’idea degli estremi cui poteva giungere. A Enriques
che, in una recensione della nuova edizione del suo manuale di logica gli aveva fatto
osservare l’inopportunità di «frasi dispregiative dell’opera di altri matematici, fra cui sono
alcuni grandi stranieri come Hilbert e Poincaré (e perfino del logico matematico Russell, che

105
G. Ricci, Analisi, in Un secolo di progresso scientifico italiano 1839-1939, cit., p. 55, p. 56, p. 124.
106
Discorso tenuto in occasione dell’inizio dell’anno accademico 1940-41 del Reale Istituto nazionale di
alta matematica, in «B.U.M.I.», serie 2, vol. 3, 1941, p. 139.
107
Cfr. la testimonianza di Alessandro Terracini, Ricordi di un matematico. Un sessantennio di vita
universitaria, Edizione Cremonese, Roma 1968, pp. 40-41, 42-43: «Quando io ero studente, Peano teneva
non soltanto il corso di Calcolo per gli studenti del secondo anno, ma anche quello di Analisi superiore per
quelli del secondo biennio. Francamente, a distanza di tanti anni non saprei più dire quale fosse il titolo del
corso di Analisi superiore nell’anno in cui lo frequentai e, anzi, ripensandoci su, direi che forse un titolo non
lo avesse nemmeno; perché – almeno a quanto posso dire in base ai miei ricordi dopo tanti anni – ritengo che
le lezioni si riducessero, al pari di quelle di Calcolo, a sfogliare il Formulario fermandosi sopra qualche
punto. […] Anche nelle tesi di laurea che egli assegnava, generalmente a signorine poco preparate, Peano,
nonostante l’azione esercitata da vari colleghi, approvava quelle tesi a occhi chiusi, senza assicurarsi in alcun
modo della preparazione delle candidate, tanto che vive ancora nella mia famiglia il ricordo di una sera che
il collega invitato a cena ed io ci presentammo a casa con tre ore di ritardo a causa di una penosa seduta di
laurea che si era conclusa con la bocciatura della candidata. Questa porta anche indirettamente la
responsabilità della istituzione a Torino dell’esame di cultura in matematica, che appunto da quel momento
è stato stabilito per evitare il ripetersi di casi consimili» E la testimonianza di Ludovico Geymonat, L'opera
di Peano di fronte alla cultura italiana, in Celebrazioni in memoria di Giuseppe Peano nel cinquantenario
della morte, Atti del convegno organizzato dal dipartimento di matematica dell’Università di Torino, il 27-
28 ottobre 1982, Turino 1986, pp. 7-8: «da qualche anno il grande matematico e logico occupava nella Facoltà
di scienze di Torino una posizione assai singolare; era stato privato dell'insegnamento fondamentale di analisi
infìnitesimale ed era stato, per così dire, confinato in quello (allora ritenuto secondario) di matematiche
complementari; provvedimento che aveva delle valide giustificazioni di ordine didattico, ma che aveva
profondamente amareggiato Peano, implicando un giudizio limitativo nei suoi riguardi».
56
pur tanto ha preso dal nostro Peano)», Burali -Forti cosi risponde:

Riguardo al ‘servilismo’ (è proprio la parola!) di alcuni (troppi) italiani, per scienziati, o


pseudoscienziati esteri, sono incorreggibile, e le mie opinioni non si modificheranno qualunque siano
gli argomenti che mi verranno portati, perché ogni argomento cede dinanzi ai fatti. Gli esteri sanno
far valere la loro opera scientifica, o artistica; e fanno bene. Gli italiani spesso denigrano l’opera
nostra scientifica, o artistica, a tutto vantaggio dell’opera degli esteri; e fanno male. Gli esteri si
appropriano, o tentano appropriarsi, quanto di buono, di bello, di importante abbiamo fatto noi
italiani; e noi li approviamo, li seguiamo e, purtroppo sono pochi i Bortolotti che, con squisito senso
di italianità e con grande competenza storica, sappiano rivendicare a noi ciò che è nostro.108

L’omogeneità funzionale spiega anche l’omogeneità strutturale. Non esistono differenze


rilevanti sul piano del metodo e del significato della ricerca. La storia della matematica è
intesa in m modo non problematico e non è soggetta ad alcuna discussione preliminare. Ad
un buon storico si richiedono essenzialmente questi requisiti: una buona conoscenza della
matematica in generale una conoscenza ottima della propria specialità, la volontà e la
pazienza per leggere direttamente i testi originali e per ricercare i documenti connessi con le
fonti; lo scrupolo di attenersi esclusivamente alle fonti interpretandole nel modo più
obiettivo ed imparziale possibile.
Colpisce la straordinaria incapacità di definire concettualmente il problema della
valutazione del fatto storico. Favaro, in due scritti sull’insegnamento della storia della
matematica all’università di Padova, distanti fra di loro una decina d’anni, espone le sue
scarne riflessioni metodiche in poche righe che si ripetono quasi testualmente nei due scritti.
Esse suonano cosi nella prima versione:

La storia delle scienze non è che la storia del metodo d’invenzione, ed è certo che l’esame dei
mezzi impiegati e delle vie battute per arricchire la scienza di scoperte feconde, conducendo a
seguire passo a passo i più fortunati novatori, non potrà riuscire che di vantaggio sommo a chi, pur
volendo alla sua volta ricalcare quelle tracce, dovrà pur giovarsi della esperienza del passato per
tentare l’avvenire [...] D’altronde è forse giusto, ragionevole e soprattutto conforme alle regole di
un buon metodo didattico il lasciare, come nella maggior parte dei casi avviene, che una scienza
venga esposta come se fosse uscita completa dal cervello dell’umanità, o per meglio dire non si sa
di dove, facendo sparire sotto una esposizione quasi dogmatica tutto quel lento e penoso lavoro da
mosaicista, al quale ogni generazione ha contribuito coi propri sforzi, esposizione che non è più
l’immagine vera d’una scienza coi suoi soggetti di discussione continua, profonda, ma apparisce
piuttosto una rivelazione, un sistema che non si sa né come abbia cominciato, né come progredirà?
Per fermo senza storia nessuna scienza è completa, senza storia nessun metodo didattico darà tutti
i buoni frutti che possono attendersene. 109

Loria nei suoi vari scritti metodologici, insiste solo su questioni estrinseche: preparazione
dello storico, ausili bibliografici, vari modi di ordinare la materia, ruolo delle biografie dei
matematici ecc.. 110 È comune la presunzione non ben definita, ma comunque assunta, di
considerare la storia della matematica come una disciplina matematica. Si è convinti che i
problemi storici si possano dimostrare e si dimostrino con le prove documentarie proprio

108
F. Enriques, Noterelle di logica matematica, in «Periodico di matematiche», serie 4, vol. I, 1921, pp.
233-234; la risposta di Burali-Forti è alle pp. 354-355.
109
Lettera di A. Favaro a B. Boncompagni, La storia delle matematiche nell’università di Padova, in
«Bullettino di bibliografia e di storia delle scienze matematiche e fisiche», vol. XI, 1878, pp. 800-801; l’altro
testo è il seguente: Otto anni d’insegnamento di storia delle matematiche nella R. Università di Padova, in
«Bibliotheca mathematica» (ed. Eneström), n. s., vol. I, 1887, pp. 49-54.
110
G. Loria, La storia delle scienze è una scienza ?, comunicazione fatta a Genova nell’ottobre 1922 alla
Società italiana per il progresso delle scienze; Intomo allo stato attuale degli studi sulla storia delle
matematiche, relazione presentata all’VIII riunione (Roma, 1916) della Società italiana per il progresso delle
scienze; Di alcuni aspetti sono cui presentansi le ricerche storiche nel campo matematico, in «Archeion»,
1932; Considerazioni e notizie intorno alla storia delle matematiche, comunicazione fatta alla R. Accademia
dei Lincei nella seduta del 21 maggio 1933; tutti questi testi sono raccolti in Scritti, cit., pp.3-48. Si veda
inoltre Guida allo studio della storia delle matematiche. Generalità-didattica-bibliografia, seconda edizione
rifusa ed aumentata, Hoepli, Milano 19l46, passim.

57
come si dimostra un teorema. Bortolotti ritiene che la scoperta e l’uso di questo vero metodo
storico sia una gloria italica anch’essa. Ritiene infatti che sia diffuso un indirizzo di ricerca
che tende a far concordare la storia come «l’ordinamento dei fatti nella successione del
tempo» con

l’ordinamento sistematico che assumono i fatti matematici, in forza di un programmatico


svolgimento razionale e progressivo delle idee. Ben di rado avviene che tale concordanza sia
verificata, e, quando non siano palesi, o non sussistano cause sufficienti e plausibili di tale apparente
irregolarità, lo storico che non vuol rinunciare alla prefissata linea di condotta, è naturalmente
portato a formulare ipotesi, che valgano a colmare le lacune, ad integrare la successione dei fatti, a
spiegare le inversioni, le stasi, i regressi, a stabilire i rapporti di causalità o di connessione fra i fatti
osservati.

Come esempi caratteristici di questo tipo di storici pone Mach e Caverni, ma soprattutto
Cantor nella cui opera, rileva con soddisfazione che sono stati trovati centinaia di errori.
«Contro questo andazzo - osserva Bortolotti - fin dalla seconda metà del secolo scorso, era
sorta in Italia una schiera di eruditi e di scienziati, che faceva capo al principe
Boncompagni, i quali cercavano di far rivivere le buone tradizioni del Cossali e del
Libri». 111
Si comprende come in questo contesto la discussione critica intorno alla disciplina si
manifesti nella forma dello scoprimento degli errori di fatto e della denuncia delle
interpretazioni alternative dei fenomeni storici. Bortolotti era in questo implacabile.
Conoscitore come pochi della matematica cinquecentesca e precinquecentesca, rilevava
con eguale compiacimento gli errori di Gino Loria (suo bersaglio preferito), 112 della
signorina Fausta Audisio, 113 di G. Verriest, autore di un libro divulgativo su Galois.
Bortolotti, che evidentemente non aveva il senso dell’ironia, giunse denunciare il Verriest,
colpevole di non aver tenuto nel debito conto i suoi scritti su Cardano, alla Commissione
permanente per la rettificazione degli errori, fondata nel 1929 presso la Académie
internationale d’histoire des sciences, presieduta da quello stesso Loria che Bortolotti
aveva precedentemente provato essere un cospicuo produttore di errori. 114 Bortolotti
doveva ritenersi particolarmente soddisfatto quando riuscì a screditare con un colpo solo,
e per di più su di un fallo banale, i due maggiori storici italiani della matematica, Favaro e
Loria. L’episodio è interessante e riguarda il termine capomozzo o capotagliato che
Bortolotti documenta con varie citazioni essere un termine comunemente usato nel
Cinquecento per indicare il trapezio.

La denominazione capotagliato o capomozzo, sembrava più propria che non la voce generica
trapezio, specialmente a quegli scienziati che avevano più atta e più profonda conoscenza della
geometria greca; e perciò si trova usata correntemente anche dal Torricelli, nelle sue Opere
geometriche, testé uscite in luce. Ma pare che la parola capomozzo sia riuscita del tutto nuova allo
scienziato che ha curato la pubblicazione delle opere del Torricelli, e che, non intendendone il
senso, egli abbia ricorso ai lumi del nostro maggior storico delle scienze matematiche. Questi, a
sua volta, avrebbe ricercato il parere dell’Accademia della Crusca, d’onde, com’era da aspettarsi,
è uscita una spiegazione arbitraria e strana che rende oscura, quasi inesplicabile, la elegantissima
dimostrazione di una bella proposizione di geometria data dal Torricelli nel suo Campo di tartufi.115

Il criterio operativo generalmente seguito nel lavoro storiografico è il seguente: sì


prendono le singole proposizioni costituenti l’assetto attuale delle varie branche della
ricerca matematica e se ne individuano i primi formulatori. Ma quasi sempre, anche quando

111
E. Bortolotti, Antonio Favaro, cit., pp.7.
112
La più nota delle critiche rivolte da Bortolotti a Loria riguarda l’infelice edizione delle opere di
Torricelli curata appunto da Loria; cfr. i documenti della polemica in «Periodico di matematiche», 1922.
113
E. Bortolotti, Sul numero π; intorno al Liber Abaci di Leonardo Pisano, in «Periodico di
matematiche», serie 4, vol. XI, 1931, pp. 110-113; 211-217.
114
Recensione in «B.U.M.I.», vol. XIII, 1934, pp. 294-295.
115
E. Bortolotti, Noterelle di terminologia matematica, in «Periodico di matematiche», serie 4, vol. 1, 1921,
pp. 129. Bortolotti riporta anche la nota dell’edizione faentina delle opere di Torricelli: «secondo gli
Accademici della Crusca Capomozzo si disse di figura geometrica a1la quale sia stato mozzato un angolo, e
perciò sia in certo modo decapitato (sic). Notizia data da A. Favaro [G. L]».
58
il riferimento è esplicito, la proposizione non si presenta nei modi ora acquisiti. Si tratta
allora di depurarla, per così dire, dalla forma storica, traducendola nel linguaggio attuale e
facendola emergere nella sua purezza. Una naturale estensione di questo procedimento
consiste nel far rilevare egualmente, quando i riferimenti storici non sono espliciti, la
presenza di quella proposizione mediante una opportuna lettura del linguaggio usato
dall’autore. Il pericolo, ovviamente, è quello di modernizzare la scienza del passato. Ma gli
storici italiani della scienza del periodo non credono di operare forzature. Bortolotti
polemizza per esempio, contro le modernizzazioni del concetto greco di infinito, 116 e
Marcolongo contro Duhem e Caverni che, a suo parere, modernizzano troppo Leonardo. 117
Essi infatti rispettano, o credono di rispettare i testi ricercando l’esatta corrispondenza
concettuale (non quella formale, ovviamente) tra la proposizione antica e moderna. Ma
l’approccio è possibile solo perché si confrontano fra di loro le singole proposizioni
isolandole, non solo praticamente, ma anche concettualmente, dal contesto generale in cui
sono formulate. Il significato di proposizioni simili è in realtà molto diverso. La
modernizzazione si ha inevitabilmente quando l’uso del linguaggio attuale non è un mero
espediente pratico e il ritrovamento di corrispettivi antichi di proposizioni moderne è il solo
scopo della ricerca.
Detto in altri termini, il testo antico viene aggredito direttamente senza mediazioni. Il
matematico greco, quello rinascimentale e quello moderno sono affrontati allo stesso
modo; la differenza tra i vari periodi viene ridotta alla sola diversità del linguaggio e delle
tecniche usate. Tale riduzione è indubbiamente possibile, ma conduce spesso a travisare il
punto di vista dell’autore considerato. Si veda per esempio la valutazione di un matematico
classico, Descartes, attraverso due articoli, uno di Enrico Bompiani 118 e l’altro di Gino
Loria. 119 Il primo è un riassunto ben articolato, con alcune osservazioni acute della
Géométrie, ma senza alcun riferimento a testi diversi. Il secondo invece è più complessivo:
analizza tutti gli scritti matematici di Descartes, cioè, oltre alla Géométrie anche la
corrispondenza e gli scritti giovanili. Ma in entrambi l’approccio al testo è diretto senza
mediazioni. Rilevano entrambi che la Géométrie non espone in modo esauriente e
soddisfacente la materia. Dice il Loria,

vi si cerca invano l’equazione della retta e l’espressione della distanza di due punti, fondamenti
essenziali della nostra geometria analitica»; nella corrispondenza inoltre non si trova una frase che
«si rapporti esplicitamente alle coordinate; inoltre il modo stesso con cui questi preziosi ausiliari
sono introdotti nella Géométrie sembra immaginato espressamente per dissimulare che si tratta di
una invenzione teorica e pratica della più alta importanza. 120

Sfugge ad entrambi, perché si vuole giudicare astrattamente la geometria, anzi le singole


asserzioni fatte da Descartes nel loro valore proprio legato agli sviluppi ulteriori della
geometria e dell’analisi, il carattere puramente strumentale e pratico della Géométrie che
è, nelle intenzioni di Descartes, un semplice saggio espositivo dell’efficacia euristica del
metodo analitico, cioè di un metodo generale visto in una relazione funzionale con la
soluzione o presunta soluzione del classico problema di Pappo. L’assenza di mediazioni
non permette di comprendere che non si può giudicare l’opera matematica di Descartes
sulla base delle motivazioni alla ricerca di un matematico moderno, o anche di un
matematico professionale del secolo XVII. L’attività matematica di Descartes era solo una
parte di una ricerca impegnata a fondare una nuova concezione generale della scienza.
Le caratteristiche della storia della scienza testé delineate sono condivise dalla generalità
dei cultori della materia. Per la verità un autore come Enriques sembra allontanarsene. Ha
infatti più volte sottolineato la necessità che la scienza debba essere considerata
essenzialmente sotto il profilo della concatenazione delle idee; non si trovano nei suoi
scritti grevi apparati eruditi; l’impostazione nazionalistica è sostanzialmente moderata.
116
E. Bortolotti, L’infinito ed il limite nella matematica antica, in «B.U.M.I.», serie 2, vol. I, 1939, pp.
47-60.
117
R. Marcolongo, Memorie sulla geometria e la meccanica di Leonardo da Vinci, cit., 109.
118
E. Bompiani, Che cosa contiene la Géométrie di Descartes, in «Periodico di matematiche», serie 4, vol.
I, 1921, pp. 313-325.
119
G. Loria, Descartes géométrie, in «Revue de métaphysique et de morale», vol. XXXXIV, 1937, pp.
199-220.
120
Ivi, p. 200.
59
Inoltre, Enriques, a un certo punto, spostò la sua attività più all’estero che in Italia. Ma
nella sostanza la sua ricerca era in qualche modo omogenea con quella generale, in primo
luogo perché non polemizzò direttamente con quel tipo di storiografia e poi perché la sua
opera metodica costituiva la teorizzazione di quel modo di procedere. La dottrina della
verità come approssimazione, la teoria dell’errore ecc., senza un adeguato concetto di
sviluppo storico, 121 si riduce a concepire la valutazione della scienza passata alla luce di
singole proposizioni della scienza formata attuale.
La storia della matematica, concepita come ho detto, in vista di una stretta ed esclusiva
funzionalità a1 corpo della matematica nazionale, visse in una situazione astratta e di
sostanziale estraneità rispetto alla vita culturale, politica e sociale della nazione. Lo stesso
corpo matematico nazionale relegato ai margini della cultura dall’idealismo, rinsaldò ed
esa1tò la propria caratteristica specialistica e tecnica, chiusa in sé stessa.
Gino Loria giunse a deplorare che i grandi matematici italiani dell’Ottocento
trascurassero per l’attività politica la loro ricerca.

Se alcuni matematici francesi e tedeschi poterono contribuire al progresso della nostra scienza
in più larga misura di italiani dotati di non inferiori mezzi intellettuali, gli è che seppero resistere
vittoriosamente ai seducenti inviti della politica, e così dicendo, non intendiamo svalutare alcuni
preziosi servigi resi alla loro patria da Betti, Brioschi, Cremona e Dini, ma soltanto rilevare che gli
allori che conquistarono come uomini pubblici vietaron loro di porre la loro firma ad un maggior
numero di scoperte matematiche. 122

Gli eventi politici si riverberano, del resto, in modo peculiare sul corpo matematico.
Così si ha l’impressione che le entusiastiche adesioni al fascismo di Severi e di altri siano
solo comportamenti atti a rafforzare posizioni di potere personale all’interno del corpo, e
che le dolorose forzate esclusioni dal corpo dei numerosi matematici ebrei, a seguito delle
leggi razziali, siano viste essenzialmente come fatti che turbavano e indebolivano
gravemente le potenzialità di ricerca del corpo.
In conclusione, bisogna comunque riconoscere che la ricerca italiana di storia della
matematica nel periodo qui considerato fu condotta con coerenza, serietà ed impegno e ha
dato luogo a risultati, entro i limiti che ho cercato di sottolineare, notevoli per la massa di
materiale raccolto e ordinato, e di livello incomparabilmente superiore anche in questo
periodo, a quello delle ricerche storiche in altre discipline, come la medicina o la chimica.
Il vero difetto di tale concezione della storia non sta tanto nel modo con cui venne condotta
la ricerca, che è criticabile ma pienamente legittimo, ma nella presunzione, coltivata con
saccenteria o alterigia, di ritenere erronee e quindi non accettabili approcci storiografici
alternativi; i fautori di tale concezione della storiografia, illudendosi di arricchire la ricerca
con risultati veri, in realtà la impoverivano.

121
Cfr. su questo punto il mio saggio Scienza e filosofia da Vico ad oggi, in Storia d’Italia. Annali III,
cit., p. 632 e segg.
122
G. Loria, Contributi dati dai vari popoli allo sviluppo delle matematiche, in «Scientia», 1921, in Scritti,
cit., p. 102,
60
L’interesse per la storia della scienza in Preti

La scienza ha un ruolo fondamentale nella filosofia di Preti. Il filosofo pavese aveva


maturato la convinzione che la dimensione rigorosa e pienamente razionale del pensiero
scientifico fosse il solo elemento capace di rinnovare la riflessione filosofica, invischiata
in larga parte in problematiche verbose e inconsistenti, particolarmente evidenti e diffuse
in Italia nel periodo fra le due guerre in cui si svolse la sua formazione. C’è un passo molto
noto in cui Preti fa capire chiaramente che fu questa convinzione ad orientare la sua scelta
filosofica. Il passo è il seguente:

Quando ho cominciato ad occuparmi di filosofia la situazione non era certo delle più
incoraggianti: era quel bellum omnium contra omnes, quell’urtarsi, più che di posizioni, di
ambizioni personali, di libidini di dominio e/o di servitù, di chiacchiere a vuoto dietro cui si
nascondevano pienezze di interessi non precisamente […] speculativi […] Di qui un bisogno di
trovare piani di discorso e metodi più positivi, più intersoggettivi, di poter fare della filosofia un
onesto mestiere e non un modo per urlare le proprie passioni o, peggio ancora, sfogare una specie
di personale libido loquendi. In questo stato di cose la seduzione della scienza è irresistibile. Di
fronte al filosofo di oggi, lo scienziato - e non solo il matematico o il naturalista, ma anche lo storico
o il filologo - appare una persona seria: è saldamente inserito in una tradizione univoca, e la può
modificare con metodi determinati e controlli categorici; potrà discutere con i suoi colleghi ma alla
fine avrà ragione oppure torto. Parla solo agli specialisti della sua disciplina, ma in fin dei conti
parla per lo meno a tutti questi specialisti (il filosofo dice di parlare a tutto il genere umano, ma in
pratica non riesce a parlare neppure al suo compagno di corso o al suo collega di Facoltà). 123

La piena acquisizione della razionalità scientifica costituisce quindi per Preti una sorta di
presa di coscienza originaria, una premessa indispensabile per il buon filosofare.
È significativo il fatto che l’incontro di Preti con l’empirismo logico nasca sulla base di
un’esigenza non molto diversa da quella che aveva mosso i primi neopositivisti a proporre
e a sviluppare il proprio programma di ricerche alternativo rispetto alla filosofia
tradizionale. E altrettanto significativo è il fatto che Preti, pur aderendo in modo critico e a
volte molto sofferto 124 all’empirismo logico, non abbandonò i due aspetti caratteristici della
problematica neopositivistica, espressione di quell’esigenza di rinnovamento e di rigore di
cui si è detto: la polemica antimetafisica e la concezione logico-linguistica della scienza.
Proprio la preponderanza data agli aspetti logico-linguistici del discorso scientifico rendeva
naturale la critica di mancanza di prospettiva storica rivolta ai neopositivisti. Preti non
condivide affatto tale critica. Osserva a questo proposito che

anche se molto spesso l’esposizione e la trattazione di determinati problemi da parte di empiristi


logici non fa espressamente la storia del problema, e soprattutto rifiuta di risolvere in tale storia il
senso di esso problema (ché, se è vero che ogni problema emerge dalla storia, è anche vero che si
pone per il presente in modo autonomo, e in quanto risolto diviene una conoscenza strumentale e
valevole per il futuro), tuttavia la dimensione storica è sempre presente; non solo, ma le stesse
ricerche e posizioni raggiunte dall’empirismo logico possono fornire utili parametri alla descrizione
storica. 125

Del resto è la stessa esperienza storica che giustifica gli «enunciati più delicati
dell’empirismo logico, come il principio di verificazione, o la pretesa di costruire linguaggi
ideali che servano poi di criterio analitico-critico per i linguaggi effettivi della scienza e

123
G. Preti, Il mio punto di vista empiristico, in Saggi filosofici, La Nuova Italia, Firenze 1976, voi. I, pp.
476-477.
124
Cfr._ Lettere inedite di Giulio Preti ad Antonio Banfi, a cura di F. Minazzi, in «Rivista di storia della
filosofia», a. 42, 1987, p. 87: «Con Carnap sono nel mio solito odi et amo. Un odio e un amore molto
complessi e fortemente intrecciati. (Invidio gli scettici-fanatici tipo Geymonat che possono abbracciare il
movimento, ingoiarlo in blocco e lavorarci dentro: io non concluderò mai niente per la mia impossibilità di
ingoiare in blocco e lavorare dentro)». La lettera è scritta da Camogli il 20 luglio 1950.
125
G. Preti, Il mio punto di vista empiristico, in Saggi filosofici, cit., vol. I, p. 493.
61
della stessa filosofia»126 Inoltre, secondo Preti, il neopositivismo può fornire utili parametri
di giudizi storici con i suoi metodi di analisi linguistica e con la sua tendenza a «liberare la
nozione di tempo da ogni pasticcio idealistico-dialettico, evitando tanto il mito del
superamento quanto l’appiattimento nella contemporaneità di tutto il mutarsi storico». 127
Ma tali osservazioni sono generiche (ogni filosofia comporta una presa di coscienza
storica) o non pertinenti (la scoperta di nuovi campi di indagine) o discutibili e comunque
impraticabili (incomparabilità di strutture discorsivo-ontologiche diverse). 128 Esse non
colgono il vero nodo del problema, se cioè una concezione puramente logica della scienza
sia in grado di valutare il reale processo evolutivo della scienza senza ridurlo ad un mero
stereotipo astratto.
Evidentemente a Preti ciò non sembrava possibile in quanto che, nutrito anche di una
cospicua esperienza storicista, sapeva che l’unico modo per dare un senso reale alla ricerca
storica era quello di fornirle una dottrina adeguata dello sviluppo. Di qui l’origine della
nota teoria di Preti che sancisce la distinzione tra storia della scienza e storia del pensiero
scientifico, teoria che risulta essere un espediente per eludere tale difficoltà. La
formulazione più netta e recisa della teoria data da Preti è la seguente:

Una storia propriamente della scienza non si può fare poiché la scienza in sé non si riconosce
una storia tutt’al più una cronaca. La scienza conosce solo il vero, il falso e il probabile, il verificato
e il confermato: perciò quell’aspetto, sconcertante per un uomo di cultura storica, che presentano
le ‘storie delle scienze’ fatte da scienziati, ridotte a biografie di uomini più o meno illustri e a
cronache delle scoperte e degli errori, fuori di ogni autentica prospettiva storica. Quello invece di
cui si può fare una storia è il pensiero scientifico; si può fare una storia delle prospettive, delle
categorie, degli scopi e dei metodi delle scienze, del loro divenire in una col divenire dell’umanità
in seno alla quale, secondo esigenze e situazioni concretamente diverse, concretamente si è fatto il
pensiero scientifico. Insomma il pensiero scientifico è il quadro di scopi e regole e valori di verità
entro cui sorgono e dal quale traggono significato concreto le singole ricerche scientifiche: una
storia fatta fuori di tale quadro si frantuma in sporadiche ricerche che sono prive di significato o,
peggio, alle quali si rischia di conferire (come avviene con le troppo confidenti traduzioni degli
enunciati del passato in enunciati moderni) significati arbitrari. Solo di questo quadro si può fare la
storia. 129

Con la distinzione tra storia della scienza e storia del pensiero scientifico Preti poteva
pensare di giustificare il ruolo teoreticamente secondario che attribuiva alla storia della
scienza e di giustificare nello stesso tempo la considerazione storica della scienza di cui
rivendicava la grande importanza. Poteva pensare inoltre di ovviare ad un grave difetto
della storia della scienza tradizionale: l’appiattimento nella modernità. Gli enunciati
scientifici, infatti, se sono considerati dal punto di vista del pensiero scientifico «non si
appiattiscono più nell’atemporalità del ‘vero’ e del ‘falso’ o nella contemporaneità della
scienza attuale: sono veri e propri fatti storici, e di essi è possibile una storia». 130
Ma adottando tale teoria Preti incorre in molte difficoltà e in non poche incongruenze.
Anzitutto situa la propria posizione in modo inadeguato. Il suo giudizio sulla tradizione
degli studi di storia della scienza è riduttivo. Dice, infatti, che

la vecchia storia della scienza si presentava troppo spesso come un elenco, arido, interminabile,
fastidioso di nomi di scienziati, biografie, e ‘scoperte’, il tutto in ordine cronologico e diviso per
epoche. Per quanto spesso prezioso dal punto di vista dell’informazione materiale, questo metodo
126
Ibid.
127
Ivi, p. 494.
128
Cfr. Ivi, 494-495: «Ogni epoca (e all’interno di essa, ogni corrente, ogni scuola, anche eventualmente
ogni singolo pensatore) quando raggiunge il suo equilibrio opera con linguaggi, strutture discorsivo-
ontologiche, criteri di verità, ecc., che hanno una loro oggettività e quindi verità; il passaggio ad altra forma
di pensiero non è pertanto un inveramento delle precedenti, quando, se mai, una trasvalutazione -comunque
si opera attraverso la creazione di strutture discorsivo-ontologiche diverse, e pertanto imparagonabili. Di
conseguenza non c’è superamento, e neppure ha senso la discussione di altre forme di pensiero come se esse
fossero nel nostro linguaggio: tutt’al più è possibile vedere quanto, e in che misura, restino nel nostro possibili
metodi, strutture, singoli contenuti (eventualmente tradotti) dei pensieri passati (ed altri perché il pensiero
altrui è per noi sempre un pensiero passato)».
129
G. Preti, Storia del pensiero scientifico, Mondadori, Milano 1957, prefazione, pp. 7-8.
130
G. Preti, Considerazioni di metodo sulla storia delle scienze, in Saggi filosofici, cit., vol. II, p. 274.
62
era assolutamente astorico e dipendeva da quel particolare dogmatismo che è (o almeno era)
caratteristico della mentalità degli scienziati, per i quali la ‘scienza’ vera è sempre una sola, quella,
per intenderci contenuta in un buon manuale accreditato alla storia della scienza non rimane quindi
altro compito che di stabilire quando e da chi sia stata ‘scoperta’ dimostrata o provata ogni singola
proposizione. Si tratta in fin dei conti di intitolare teoremi come se fossero le vie e le piazze di una
città. 131

Ma la storiografia puramente erudita di quel tipo è solo una parte della ricerca storica
sulla scienza che si era venuta svolgendo nel secolo XIX. Anche se in Italia 132 essa era
prevalente, non era così in altri paesi. Parametro di giudizio esclusivo era sì l’assetto che
la scienza aveva conseguito nelle varie discipline in quel periodo, ma la ricerca era condotta
su una nozione insoddisfacente, cioè schematica e astratta di sviluppo, ma articolata in
prospettive teoriche differenziate, e a volte particolarmente approfondite.
Inoltre, Preti ammette che non è possibile concepire i risultati scientifici veri
indipendentemente dai metodi e dalle concezioni filosofiche che li hanno generati.
Afferma, infatti,

Fra la ricerca scientifica e i suoi risultati non c’è lo stesso rapporto che passa fra l’impalcatura e
la casa costruita, o fra i successivi abbozzi e l’opera pittorica finita: i ‘risultati’ non sono una cosa
che una volta raggiunta è raggiunta e permette di buttar via o dimenticare tutto il materiale empirico
o l’insieme di ragionamenti che hanno condotto al risultato […]. Il cosiddetto ‘risultato’ non ha
alcun senso fuori dei materiali empirici e dei ragionamenti. 133

Tuttavia sostiene che i risultati scientifici veri hanno comunque un valore di verità
indipendente. Afferma infatti:

Gli enunciati scientifici, una volta che si siano dimostrati validi, possono venire trasferiti ad
altro universo di discorso tradotti, o interpretati, o sostituiti da altri aventi le medesime
conseguenze, o comunque ciò avvenga. ‘Scoperti’ entro una data concezione del mondo, per
determinati scopi (anche i più strani), con i metodi più varii, possono comunque rimanere validi: e
perciò non hanno storia. 134

Come conciliare queste asserzioni con quelle in cui sostiene il carattere storicamente
relativo di ogni verità? In realtà ogni enunciato scientifico assume un significato diverso,
secondo i diversi contesti storici in cui si situa. Così la circolazione del sangue significa
una cosa per Harvey, un’altra per Cartesio, per Malpighi o per un fisiologo contemporaneo.
Evidentemente il valore di verità indipendente che Preti riconosce agli enunciati scientifici
veri, è il mero valore di verità astratto, privo di ogni significato e quindi anche di significato
storico.
Ancora, Preti ammette una parziale evoluzione nel cammino che porta alla proposizione
scientifica vera, ma nello stesso tempo sostiene che l’enunciato scientifico è vero o falso,
e non si hanno quindi in questo caso gradualità o momenti intermedi. Ancora, quando si
può dire che un enunciato è vero? La dimostrazione del teorema della composizione dei
moti è data dall’autore dei Problemi meccanici pseudoaristotelici, o da Galileo o da
Newton? Il problema non può ridursi alla formulazione astratta dell’enunciato e non può
risolversi se non con una teoria storicamente determinata della dimostrazione scientifica.
Ancora, come si può conciliare l’affermazione che le teorie scientifiche sono incomparabili
con le molteplici affermazioni storicistiche di Preti?
In verità, le aporie in cui si dibatte il pensiero di Preti in questo campo nascono dal suo
tentativo di conciliare la concezione neopositivistica della scienza con la prospettiva
storicistica hegeliano-marxiana dello sviluppo storico. Il tentativo è interessante in sé, ma
mal riuscito perché occorreva una più ferma e coerente modifica dei presupposti iniziali.

131
G. Preti, Due orientamenti nell’epistemologia, in Saggi filosofici, cit., vol. I, p. 72.
132
Cfr. su questo punto il mio studio: La storia della scienza nella cultura italiana, in La scienza tra
filosofia e storia in Italia nel Novecento, a cura di F. Minazzi, L. Zanzi, Presidenza del consiglio dei ministri,
Istituto poligrafico dello Stato, Roma 1987, pp. 295-308 (ristampato in questo volume).
133
G. Preti, Materialismo storico e teoria dell’evoluzione, in Saggi filosofici, cit., vol. I, p .382.
134
G. Preti, Considerazioni di metodo sulla storia delle scienze, in Saggi filosofici, cit., vol. II, p. 274.
63
Spirito più critico che sistematico, inviso ad ogni concezione eclettica, Preti risolve le
aporie utilizzando, accanto a forme vere, forme stereotipate di pensiero. La cosa risulta con
evidenza se si considera la concreta ricerca storiografica di Preti, in particolare l’opera di
più ampio respiro, la Storia del pensiero scientifico. In essa Preti adotta pienamente lo
schema interpretativo della vecchia storia della scienza, per il quale i risultati scientifici
anteriori vengono valutati alla luce dell’assetto conseguito dalla scienza contemporanea
nelle varie discipline. Si tratta di una concezione che attua quell’appiattimento nella
modernità della ricerca scientifica passata che, si è visto, Preti critica nei suoi scritti teorici.
L’intento di Preti traspare perfino nell’uso frequente di stilemi tipici della storiografia della
scienza tradizionale. Ne do qui alcuni esempi: «Evidentemente Aristotele ignorava il
principio di inerzia: al suo posto invece poneva , per il solo moto naturale (l’unico di cui si
occupi nella Fisica), la legge del ‘luogo naturale’»; 135 «Si può dire che oggi la Fisica
aristotelica è definitivamente relegata nel museo delle anticaglie prescientifiche, mentre
invece, almeno come sfondo della mentalità di molti biologi, qualcosa della sua biologia
resta ancora»; 136 «Del resto non dobbiamo stupircene, se Tolomeo, il grandissimo
astronomo, insieme all’Almagesto consegnava ai posteri il Tetrabiblos, destinato a
diventare il testo fondamentale della superstizione astrologica [...] La civiltà europea stava
ormai entrando nella grande crisi dell’Età buia»; 137 «Pomponazzi è uomo del suo tempo: e
come molti altri (anche spiriti altrettanto colti quanto lui) crede alle magie degli stregoni e
alle predizioni astrologiche»; 138

In Leonardo da Vinci troviamo una prima confusa intuizione del concetto moderno di scienza
[…] Secondo la sua concezione, la scienza si basa su due fondamenti, entrambi essenziali ed
ineliminabili: l’esperienza e la ragione [...] Inutile dire poi che non si trova nessuna intuizione del
modo come si possano metodicamente connettere e intercambiare ‘esperienze’ e ‘ragioni’: per il
che forse bisognerà aspettare fino a Galileo. 139

«Copernico non era del tutto libero da pregiudizi metafisici d’origine pitagorico-
platonica»; 140 «A Galileo manca ancora il concetto di accelerazione e di conseguenza il
concetto moderno di forza»; 141 «G.E. Stahl sostenitore della natura chimica dei fenomeni
fisiologici - concezione che sarebbe stata sana e suscettibile di interessanti sviluppi se la
chimica stahliana non fosse stata del tutto a-scientifica e il suo iatrochimismo non fosse
finito in una concezione animistica della vita». 142
Preti non esita anche a servirsi di categorie tradizionali come quelle di razionalismo e
di empirismo. Non si può non sottolineare il tenore discutibile delle definizioni teoriche e
delle caratterizzazioni storiche dei due movimenti (iniziatore del cosiddetto razionalismo è
posto addirittura Galileo e Hobbes viene situato fra gli empiristi). 143
Uno dei temi più rilevanti dell’esposizione storica di Preti è la contrapposizione netta
tra scienza e problematiche mistiche e religiose. Preti insiste molto (e giustamente, come
la vecchia storiografia della scienza del resto) sul carattere laico che riveste il discorso
scientifico. Esso si manifesta quando la cultura greca entro cui sorge riesce ad emanciparsi
e a non essere più un sapere ristretto alle caste sacerdotali («la scienza greca è, dal crollo
della civiltà micenea in poi, caratterizzata dalla sua laicità. I suoi creatori sono stati dei
borghesi, oppure dei nobili che, volenti o nolenti, erano imborghesiti: la loro scienza era,
se mai, cultura di classe, ma non mai di casta»). 144 La riconquista di una nuova laicità
sancisce la nascita del pensiero scientifico. Esso è nato con la scienza copernicana: «e il
giorno in cui i teologi di tutte le denominazioni hanno concordemente condannato questa
scienza, con questo stesso atto hanno annunciato al mondo che era nato l’uomo

135
G. Preti, Storia del pensiero scientifico, cit., p. 92.
136
Ivi, p. 96.
137
Ivi, p. 136.
138
Ivi, p. 199.
139
Ivi, pp. 203-204.
140
Ivi, p. 227.
141
Ivi, p. 259.
142
Ivi, p. 369.
143
Ivi, p. 279.
144
Ivi, p. 20.
64
moderno». 145 Colpisce in queste frasi non tanto la natura schematica del giudizio di Preti,
del resto tradizionale, quanto la sua icasticità e perentorietà e l’uso spregiudicato dei
termini con cui viene espresso.
Del pari, per quanto concerne l’astrologia e le discipline occulte in genere, la
valutazione di Preti è netta e priva di sfumature, proprio come una parte della vecchia storia
della scienza. Così astrologia e alchimia vengono giustificate sulla base della loro
componente empirica. L’astrologia, infatti, è una «Superstizione che indubbiamente deve
aver reso anch’essa, ai primordi della civiltà, i suoi buoni frutti scientifici, fornendo le
prime tecniche calendariali e tenendo a battesimo l’indagine propriamente scientifica del
cielo, cioè l’astronomia». 146 E l’alchimia «trae le sue origini dalle tecniche manuali della
chimica metallurgica, e di rimando, nei secoli, renderà alla chimica preziosi contributi
tecnici per ciò che riguarda fabbricazione e uso di strumenti, preparazione e uso di solventi
e reagenti, tecnica delle leghe e degli amalgami metallici […]». 147 L’esposizione di tali
discipline è poi continuamente associata con il termine superstizione, riprendendo l’uso
trito e improprio di certa vecchia storiografia di stampo positivistico. L’astrologia e
l’alchimia sono infatti discipline dotte per eccellenza, almeno fino all’età moderna, e non
sono per nulla assimilabili a credenze popolari.
È bene però notare che Preti era in certo qual modo consapevole dei limiti del suo
lavoro. Si vedano, infatti, queste precisazioni: la prima riguarda la cultura greca nel suo
complesso:

Naturalmente, il quadro che siamo venuti prospettando rappresenta una forte idealizza­ zione
della realtà storica. Di fatto, né alle sue origini, e tanto meno nei suoi sviluppi successivi, il pensiero
greco è stato mai del tutto sgombro da elementi mitici e superstiziosi o da inceppi di
conservatorismo antiscientifico. 148

La seconda concerne la caratterizzazione della scienza moderna:

Tuttavia entro (dico ‘entro’, non solo ‘durante’) questo periodo, e inestricabilmente connesso
con tutti gli altri suoi aspetti c’è un filone - il filone che comincia con Nicolò Copernico e finisce
con Galileo Galilei. Esso opera veramente la prima grande rivoluzione scientifica dopo il ‘miracolo
greco’, la rivoluzione scientifica che, da Copernico, suole prendere il nome di rivoluzione
copernicana. Noi possiamo isolare questo filone - e di fatto tenteremo di farlo in questo capitolo:
ma si tratta di un’astrazione storica bensì legittimata dalla conoscenza di quello che ne è seguito
nei secoli successivi, ma non per questo meno astrazione. Ché questi uomini di cui dovremo parlare
erano pur essi degli uomini del Rinascimento, educati a quelle idee, attivamente inseriti in
quell’ambiente culturale. Solo che essi hanno avuto la ventura di trovare, tra le infinite vie di
pensiero di un secolo straordinariamente ricco, la via che doveva portare fino a noi - per questo,
perché siamo noi, con i nostri interessi attuali e la nostra attuale educazione, che scriviamo la storia,
essi meritano un posto a parte. 149

Una terza è riferita ad Alberto Magno, i cui «scritti restano ad un livello prescientifico, e
contengono un mucchio di cose che, alla luce della scienza moderna (prescindendo cioè
dalla prospettiva storica), appaiono strane e ridicole». 150
Le giustificazioni addotte da Preti non risolvono le difficoltà in cui si dibatte la sua
concezione, anzi le aggravano. È legittimo operare una selezione nelle fonti e trascegliere
astrattamente quei dati che possono essere consoni con lo sviluppo ulteriore della scienza,
ma se si ha la precisa consapevolezza di formulare uno schema astratto, occorre che questo
sia inserito in un contesto che gli dia un significato storico adeguato. La mera
giustificazione empirica addotta qui da Preti è debole e riduttiva, e soprattutto è una
giustificazione storica. Noi, dice Preti, che viviamo in un’epoca in cui la scienza riveste

145
Ivi, p. 14.
146
Ivi, p. 142.
147
Ibid.
148
Ivi, p. 22.
149
Ivi, pp. 220-221.
150
Ivi, p. 169.
65
una grande importanza e abbiamo avuto un’educazione scientifica, siamo indotti a scegliere
ciò che è congruo con i nostri interessi attuali cioè a delimitare astrattamente quel filone da
cui emergerà la scienza moderna. Ma allora e allo stesso modo, coloro che sono stati educati
ad apprezzare l’astrologia e l’alchimia (e sono molti ancor oggi) sono legittimati a isolare
nell’amalgama culturale rinascimentale il filone astrologico e alchimistico.
In realtà la giustificazione storica che propone Preti è estrinseca e implicita. Se un
astrologo contemporaneo scrive una storia dell’astrologia, ovviamente secondo il punto di
vista dell’astrologia, non farà opera storica, ma chi definisce i fatti scientifici alla luce di
quelli odierni e li valuta di conseguenza, riconoscendo una sorta di evoluzione degli
enunciati scientifici fino alla forma definitiva, può giustificare come storica la propria
ricerca e può rimandare, come fa qui Preti implicitamente (e prima di lui i positivisti) la
spiegazione dei fenomeni occulti ad una storia della superstizione. L’isolamento del
discorso scientifico dalle prospettive mistiche e religiose è sì legittimo, ma va visto secondo
le modalità con cui si realizza effettivamente nei vari momenti storici, come un cammino
progressivo che registra stasi, ricadute, come una lenta maturazione. La cosa imbarazzante
è che Preti avrebbe il contesto proprio per studiare i fenomeni superstiziosi non
prescindendo dalla prospettiva storica, il contesto del pensiero scientifico. Se Preti in altra
sede aveva difeso la definizione empirica di filosofia (cioè il noto adagio per cui filosofia
è ciò che è contenuto nei manuali di filosofia) e aveva polemizzato contro le definizioni
troppo larghe o strette, 151 in questa sede dà di pensiero scientifico una definizione stretta,
tendente ad escludere tutte quelle filosofie della natura (e almeno una parte dell’astrologia
può essere intesa come una disciplina razionale avente affinità con la filosofia della natura)
che non abbiano portato ad esiti positivi. Ma poi si trova nella necessità di dover parlare
del sistema aristotelico che per altro non rientra bene nel suo schema. 152 E si trova nella
necessità di trattare, anche solo per legittimarne l’esclusione da una storia del pensiero
scientifico, le filosofie rinascimentali della natura (ivi compreso il sistema di Paracelso). 153
E si trova anche costretto ad allargare il presupposto teorico stretto quando esso risulta
troppo inadeguato. Così dedica giustamente (dal suo punto di vista) grande rilievo alle
filosofie della natura di Cartesio e di Newton, ma deve poi dilungarsi anche sulla filosofia
di Bacone il quale «Come indagatore della natura non ha nessun posto nella storia della
scienza» 154 e riconoscere che Leibniz come «pensatore scientifico è forse la figura più
importante» del suo tempo, mentre i suoi contributi scientifici, fuori che nelle matematiche
pure, sono pressoché nulli». 155
Un altro elemento generale e molto importante per Preti è la connessione tra scienza e
tecnica. È un tema su cui Preti si è soffermato a lungo anche in scritti teorici e che nella
Storia del pensiero scientifico sviluppa ampiamente. Il tema è tanto importante che Preti fa
della stretta unione tra scienza e tecnica una caratteristica precipua della cosiddetta civiltà
occidentale. Essa è ribadita con la consueta icasticità e nettezza all’inizio della Storia in un
passo discutibile, ma denso di problemi e acuto. Il passo è il seguente:

151
G. Preti, Continuità e discontinuità nella storia della filosofia, in Saggi filosofici, cit., vol. II, p. 218-
219: «Ora io, adoperando un modello di definizione già usato da Eddington per la fisica, definirei come
filosofia ‘quello che si trova contenuto sotto questo nome in qualunque buon trattato di storia della filosofia’,
per esempio nel Windelband. Questo modo di definire non manca mai di sollevare proteste, lasciando con la
bocca amara molti lettori, soprattutto quelli meno esperti di metodologia scientifica. Malgrado questo
inconveniente, mi sembra però che sia il modo più onesto di definire in sede di discussioni storiche. Gli altri
più usuali modi di definire rischiano sempre di condurre a definizioni o troppo larghe o arbitrariamente
selettive. Le definizioni troppo larghe portano a confondere con la filosofia troppe altre forme di cultura,
rischiano di farne perdere di vista i problemi strutturalmente specifici, e di rendere impossibile l’impostazione
di molti problemi, d’indubbio interesse anche pratico, relativi all’eventuale distinzione e autonomia delle
forme di cultura».
152
G. Preti, Storia del pensiero scientifico, cit., p. 88: «La caratteristica del pensiero di Aristotele è un
gigantesco tentativo di cogliere entro i quadri di un sistema filosofico-speculativo le dottrine scientifiche sue
e in genere della sua età, e di costruire tale sistema in modo da renderlo idoneo all’ufficio di fondamento
della conoscenza scientifica. Ne è uscito un insieme in cui filosofia e scienza sono talmente fuse da divenire
inseparabili - in realtà, però, in cui la scienza è interamente risolta in filosofia. Per questo non possiamo
evitare di esporre, sia pure il più brevemente possibile, le linee della filosofia prima, o ‘metafisica’, in cui
appunto sono contenuti i principi del sistema».
153
Ivi, pp. 204-209.
154
Ivi, p. 285.
155
Ivi, pp. 333-334.
66
La nostra civiltà sta divenendo la civiltà. Aree dapprima completamente isolate dal mondo euro-
americano sono ormai entrate a far parte di questo mondo; altre vi stanno entrando. E non si tratta
soltanto di selvaggi o barbari tardivi che sotto la spinta dei dominatori euro-americani escono di
barbarie: si tratta anche di zone su cui è fiorita per millenni una vetusta e grande civiltà, di popoli
che erano già civili quando i nostri antenati non conoscevano ancora la scrittura, o presso i quali la
Civiltà era fiorente quando i popoli romano-germanici attraversavano l’Era Oscura: Cina, India,
Giappone, Islam [...] Oramai la civiltà sta diventando un’unica civiltà mondiale. Ma, propriamente,
di quale ‘civiltà’ si tratta? Coloro che valutano come elementi fondamentali della cultura la
grandiosità delle intuizioni religiose, la profondità della saggezza individuale, la razionalità dei
costumi o l’armonicità della vita possono ritenere persino superiori alla nostra alcune civiltà
asiatiche: ma sta di fatto che Indiani e Cinesi vengono a frequentare le nostre università oppure
organizzano le loro sul modello delle nostre. Che cosa ci invidiano? La tecnica, in primo luogo; ma
questa nostra tecnica che non è mero ricettario di determinate abilità pratiche, bensì qualcosa capace
di progredire continuamente, di crescere continuamente su se stessa: in altre parole questa nostra
tecnica che è scienza. Essa rappresenta e il lato più progredito e il lato più caratteristico della nostra
cultura, la punta d’avanguardia che, conquistando tutto il mondo, ne sta unificando la civiltà». 156

L’unione stretta fra scienza e tecnica porta Preti a superare certe ristrettezze della storia
della scienza disciplinare e a considerare la scienza nelle sue correlazioni con la vita
economica, politica e civile. Ma essa viene assunta come principio teorico essenziale,
mentre invece è una acquisizione squisitamente moderna, il risultato di un lento processo
evolutivo in cui le connessioni, pur frequenti e di rilievo, erano quasi sempre a senso unico.
La tecnica, fin dalle origini, e soprattutto agli inizi dell’età moderna, ebbe grande
importanza per lo sviluppo della scienza: ma l’influenza della scienza sulla tecnica è stata
rilevante solo in alcuni settori specifici ed è stata, almeno fino all’età dell’Illuminismo, più
che altro un tema letterario. Inoltre Preti non precisa bene l’assunto che propone e ciò lo
porta ad espressioni estremamente schematiche come questa: «La tecnica può esistere
senza la scienza - di fatto tutte le tecniche sono in generale nate prima delle corrispondenti
scienze che le hanno inglobate». 157 O a giudizi tanto perentori quanto arbitrari: «Sono in
genere trattati di arte mineraria, metallurgia e arte vetraria che hanno intenti meramente
pratici, ma raggiungono un tale livello di tecnicismo da rasentare la scientificità. Tra questi
ricordiamo la Pirotechnia (1540) del Biringuccio e l’Arte vetraria di A. Neri». 158
Tutti gli elementi che ho rilevato concorrono a rendere strutturalmente ambigua la Storia
di Preti. Non è una storia dei vari contesti storici, culturali e filosofici determinati in cui
sono maturate le varie scoperte scientifiche. E neppure una storia del pensiero scientifico
in senso stretto. È piuttosto un insieme, scarsamente amalgamato, di storia disciplinare
(della matematica e della fisica-matematica soprattutto, chimica e biologia sono presentate
in modo sommario) e di storia dell’epistemologia.
La discrepanza tra l’intento e l’effettiva realizzazione risulta anche da un punto
estrinseco, ma non per questo meno importante. Si tratta della delimitazione temporale
della Storia che Preti fa terminare praticamente nella prima metà del secolo XVIII. In un
breve capitolo conclusivo ed in un ancor più breve epilogo sono solo accennati i più
importanti problemi scientifici dei secoli XVIII, XIX e XX. Per una storia del pensiero
scientifico questa è una vera e propria distorsione non giustificata da Preti. Infatti, se è vero
che la riflessione filosofica sulla scienza del secolo XVII ha avuto una enorme importanza
storica, è pur vero che il pensiero scientifico, nella sua forma specifica e autonoma, si è
venuto realizzando nei secoli XVIII e XIX. Il fatto che nella Storia non sia neppure citato
Comte, non si discuta della filosofia di Helmholtz e di Mach, che nell’epilogo non ci sia
neanche un cenno al neopositivismo, lascia il lettore perplesso. Può pensare che ciò sia
dovuto ad una scelta editoriale o a motivi ancor più banali, ma può anche pensare che per
Preti la trattazione dell’opera di Comte o dei neopositivisti debba rientrare in una storia
della filosofia e non in una storia del pensiero scientifico.
Pur con tutti i difetti che ho sottolineato, il libro di Preti resta comunque utile e
interessante non soltanto per i numerosi giudizi acuti e penetranti che contiene, ma anche

156
Ivi, p. 13.
157
G. Preti, Considerazioni di metodo sulla storia delle scienze, in Saggi filosofici, cit., vol. II, p. 268.
158
G. Preti, Storia del pensiero scientifico, cit., p. 210.
67
perché riesce a dare un quadro complessivo unitario dello sviluppo della scienza. Insomma,
riesce a far capire che cos’è la scienza, pregio questo notevolissimo, per esempio da un
punto di vista didattico. Certo il concetto di scienza che Preti espone è quello schematico
e astratto tradizionale, ma si deve anche dire che si tratta di un concetto corroborato da una
lunga tradizione di studi filosofici e storici che lo ha reso plausibile, coerente e articolato.
Inoltre Preti lo espone con un livello di consapevolezza critica, indubbiamente superiore a
quello di un qualsiasi storico della scienza tradizionale. La storia della scienza odierna,
molto più problematica, ma anche molto più divisa nei suoi intenti, nelle sue prospettive
teoriche e nelle sue realizzazioni non è stata ancora in grado di produrre un lavoro di sintesi
di pari efficacia.
La Storia ha avuto una scarsa eco nella cultura italiana. Non ha avuto, per esempio,
alcuna recensione di rilievo sia quando fu pubblicata nel 1957, sia quando fu ristampata
nel 1975. 159 Credo che i motivi di questo disinteresse siano in parte riconducibili al clima
poco favorevole per una storia della scienza orientata filosoficamente esistente in Italia
negli anni Cinquanta, e, in seguito, al fatto che l’opera poteva apparire, non a torto come si
è visto, irrimediabilmente superata. Può darsi anche, come ha osservato A. Carugo nella
presentazione della seconda edizione, che la grande risonanza che ebbe Praxis ed
empirismo, libro uscito in concomitanza con la Storia, negli ambienti culturali e filosofici
italiani del tempo, abbia contribuito a soffocare la Storia del pensiero scientifico. 160 Ma
credo si debba tener conto anche del fatto che Preti stesso abbia voluto accreditarsi più
come storico della filosofia o come filosofo della scienza che come storico della scienza, e
che abbia voluto far seguire al ruolo teoreticamente secondario che affidava alla storia della
scienza, un relativo disinteresse per gli studi in quell’ambito. Si può spiegare così la
circostanza che prima della Storia abbia scritto praticamente un solo saggio storico di
argomento scientifico, l’introduzione all’antologia degli scritti di Newton pubblicata nel
1950 161 e che poi non abbia scritto più nulla.
Il saggio su Newton pur nei limiti imposti dalla collana essenzialmente divulgativa in-
cui fu pubblicato è forse la pubblicazione migliore sull’argomento che sia apparsa fino a
quel momento in Italia e presenta interesse ancor oggi, anche dopo l’enorme sviluppo che
hanno avuto da allora gli studi su Newton. Pur presentando l’opera di Newton nel quadro
dell’astratta contrapposizione tra razionalismo ed empirismo, è da rilevare soprattutto la
buona analisi delle definizione e degli assiomi del moto dei Principia, condotta alla luce
della discussione generale logico-linguistica sui caratteri di un sistema assiomatico.162
L’uso storiografico degli schemi mutuati dal neopositivismo, teorizzato da Preti, è condotto
con equilibrio e misura. È abbastanza strano che Preti abbia utilizzato poco questo metodo
nella Storia. Ma c’è da dire che si tratta di un approccio utile in analisi particolari. Se Preti
lo avesse sviluppato in studi specifici, avrebbe sicuramente arricchito i1 panorama della
storiografia della scienza italiano ancora caratterizzato in quel periodo da un indirizzo
molto omogeneo, ma appunto per questo, molto povero.

159
Cfr. in proposito, F. Minazzi, Giulio Preti: bibliografia, FrancoAngeli, Milano 1984, alla voce relativa.
160
G. Preti, Storia del pensiero scientifico, cit., ristampa 1975, con introduzione a cura di A. Carugo, p.
VII.
161
Newton, a cura di G. Preti, Garzanti, Milano, 1950.
162
Ivi, pp. 72 e segg.
68
La storicità della scienza e la storia della scienza in Marx ed Engels.

l. La dimensione scientifica ha un ruolo predominante e caratterizzante nella


concezione di Marx e Engels, anche se i due autori non ebbero una formazione specifica
in questo settore. Marx, infatti, si occupò all’inizio di filosofia e giurisprudenza, Engels
di filosofia e letteratura; in seguito la loro attività di studiosi fu orientata
prevalentemente verso questioni di carattere politico ed economico. L’interesse per la
scienza maturò in essi progressivamente, come una naturale estensione delle
problematiche metodologiche, relative alle indagini economiche, e come una esigenza
legata alla necessità di fondare su basi solide e oggettive la concezione materialistica
generale che avevano elaborato. L’esaltazione della scienza, vista come la più alta
conquista della ragione umana, era un modo per sottolineare e corroborare la matrice
razionale della loro prospettiva generale che voleva legare indissolubilmente
l’emancipazione dell’umanità alla conoscenza oggettiva della realtà naturale e umana.
Anche quando il termine ‘scientifico’ viene usato estensivamente, come nell’espressione
socialismo scientifico, viene usato per evidenziare in modo immediato ed incisivo
l’aspetto realistico, obiettivo, della loro visione razionale rispetto a quella, astrattamente
razionalistica, del cosiddetto socialismo utopistico. Per questo aspetto rigidamente
razionalistico, il modo di vedere di Marx e di Engels costituisce uno sviluppo in senso
realistico della concezione illuministica che considerava l’esercizio della ragione (e colui
che esercitava la ragione nel modo più alto era lo scienziato) come il mezzo più proprio
per liberare l’uomo dai pregiudizi religiosi e dai vincoli politici, sociali ed economici.
Tuttavia, malgrado che, nella fase della piena maturità, sia Marx sia Engels avessero un
bagaglio di conoscenze scientifiche sufficientemente ampio, si nota spesso nei loro
scritti un certo imbarazzo per l’inadeguatezza della loro preparazione che non li metteva
in grado di trattare una questione scientifica in modo analitico. Contrari per
temperamento e per formazione ad ogni atteggiamento dilettantesco, erano molto
esigenti, soprattutto verso se stessi. Gli sforzi fatti da entrambi per formarsi, malgrado le
molte preoccupazioni e i numerosi impegni politici, una solida cultura scientifica è
una testimonianza encomiabile della loro volontà e della loro serietà di studiosi. Così
Marx aveva cercato di approfondire gli aspetti fondamentali del calcolo infinitesimale
direttamente sugli autori che lo avevano creato e sviluppato; 163 ed Engels si era tenuto
costantemente informato per un lungo periodo su alcune delle questioni più dibattute al
suo tempo riguardanti la fisica, la chimica, la biologia.
Tra gli autori contemporanei che conoscevano si trovano, tra gli altri, a Lyll, H. von
Helmholtz, T. Schwann, J. von Liebig, R. von Virchow, E. Haeckel, J. Prescott Joule,
J.R. Mayer; in particolare attira la loro attenzione l’opera di C. Darwin, pubblicata nel
1859, di cui riconobbero subito l’importanza, non solo per la biologia, ma per tutta la
cultura scientifica. Engels discute ampiamente, a volte con acute considerazioni, alcune
tesi di Helmholtz, di Haeckel, di G. Wiedemann ed altri. È anche molto interessante
porre in rilievo i limiti e le lacune delle loro conoscenze; alcuni sono contingenti, altri
sono difficilmente spiegabili. Non si capisce infatti perché non abbiano considerato
alcuni aspetti della scienza del loro tempo che potevano essere di grande interesse per la
loro concezione. Per esempio non parlano mai delle geometrie non euclidee; non danno
alcun rilievo alla nascita del1’ingegnere moderno dotato di una solida base scientifica
teorica, propugnata dall’École polytechnique; in particolare Engels non si avvede
dell’emergenza della cosiddetta critica della scienza maturata negli ultimi decenni del
secolo XIX; e non si accorge dell’importanza dell’opera di Mach. Un suo giudizio su
questo autore avrebbe forse dato un altro sviluppo al marxismo teorico del Novecento.

2. Marx e Engels non avevano una concezione problematica della scienza, almeno
per quanto concerne la caratteristica essenziale di essa. ‘Scienza’ per loro vuol dire

163
L’interesse di Marx per la matematica comincia alla fine del decennio 1850 e si prolunga fino alla
morte; esso è testimoniato da numerosi manoscritti, pubblicati solo di recente e tradotti, in parte, in italiano:
K. Marx, Manoscritti matematici, a cura di F. Matarrese, A. Ponzio, Dedalo, Bari 1975.

69
stabilire, entro classi di oggetti determinati, delle relazioni invarianti o stabilire gli
elementi che strutturano gli oggetti in esame; 1’apparato teorico che fonda la ricerca deve
essere connesso con i metodi dimostrativi e sperimentali consolidati nel secolo XIX che
sono in grado dì rendere i risultati conseguiti veri, cioè atti a svelare, a livelli sempre più
approssimati, la re altà. Non è molto diversa dalla communis opinio, filosofica e
scientifica, del loro tempo. Altrettanto non ·problematici e altrettanto comuni nell’età in
cui vivevano sono altri aspetti delle loro vedute sulla scienza. Così l’assunto che le
discipline che indagano la società umana (la storia, 1’economia) debbano avere gli stessi
·caratteri di rigore e di obiettività delle discipline scientifiche propriamente dette era
condiviso in genere da tutta la cultura ottocentesca. Anche il concepire in stretta unione
scienza e tecnica era opinione largamente diffusa; del resto tale unione, nella seconda
metà dell’Ottocento, era una realtà concretamente vissuta. Anche coloro che sostenevano
Il carattere puro della ricerca, tenevano solo a distinguere il loro ruolo di indagatori
disinteressati da quelli che ne applicavano i risultati; non negavano certo la dimensione
pratica della scienza.
La nozione poi di progresso scientifico era talmente radicata nel secolo XIX da essere
divenuta ormai quasi un pregiudizio. Ma tutti questi elementi non certo originali vengono
trasfigurati e rinnovati da Marx e Engels mercé l’uso della categorie hegeliane, e vengono
amalgamati fra di loro in un insieme coerente e omogeneo. Infatti, con il rovesciamento
della dialettica hegeliana dalle sue origini idealistiche alla sua base reale e materiale, sia
Marx, sia Engels avevano maturato la convinzione di aver conseguito lo strumento
generale per interpretare in modo razionale e oggettivo ogni aspetto della realtà.
L’assunzione della dialettica come procedimento fondante di ogni ricerca implicava di
per sé il concepire ogni settore della realtà naturale e umana come un processo, come
storia. La storicità della scienza appare quindi essere fin dall’inizio l’estensione di un
principi teorico generale, ed è indipendente dalla conoscenza della realtà dei procedimenti
scientifici che sia Marx sia Engels avevano in modo superficiale, come si è detto, negli
anni della giovinezza. Più tardi, nella Ideologia tedesca, questo principio teorico è
esplicitamente conclamato in una formulazione netta e recisa:

Noi conosciamo un’unica scienza, la scienza della storia. La storia può essere considerata da
due lati, distinta nella storia della natura e nella storia degli uomini. Tuttavia i due lati non possono
essere separati; finché esistono uomini, storia della natura e storia degli uomini si condizionano a
vicenda. La storia della natura, la cosiddetta scienza naturale, qui non ci riguarda; dovremo invece
soffermarci sulla storia degli uomini perché quasi tutta l’ideologia si riduce o a una concezione
falsata di questa storia o a un’astrazione completa da essa. L’ideologia stessa è soltanto uno dei
lati di questa storia. 164

Ancora in quest’opera che delinea i canoni dell’interpretazione materialistica della


storia, i cui contorni sono ben noti, la scienza è considerata genericamente, come appare
dal passo testé citato in cui viene asserita l’estraneità dalla trattazione della scienza
naturale; il passo però è cancellato nel manoscritto. Il desiderio di dare completezza alla
dottrina fa sì che la scienza sia vista alla fine come le altre produzioni del pensiero, come
condizionate dall’attività pratica degli uomini, cioè dai bisogni che emergono dalle
attività economico-produttive che gli uomini hanno via via instaurato. Queste
significative espressioni non lasciano dubbi su quale fosse il loro effettivo parere sulla
questione:

Ma senza industria e commercio dove sarebbe la scienza della natura? Persino questa scienza
pura della natura ottiene il suo scopo, così come ottiene il suo materiale, soltanto attraverso il
commercio e l’industria, attraverso l’attività pratica degli uomini. 165

164
K.Marx, F. Engels, Opere complete (d’ora innanzi MEOC), vol. V, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 14,
nota.
165
Ivi, p. 26.

70
Ma l’incertezza mostra che già allora c’era la consapevolezza, consolidatasi in seguito,
che la scienza, diversamente dalle ideologie in senso proprio, gode di una sua autonomia
in quanto la sua funzione è quella di svelare le strutture concettuali e materiali che sono
oggettive. La limitatezza dei singoli risultati scientifici, con la conseguente loro intrinseca
parzialità, dipende dal fatto che sono legati a determinate condizioni economiche
necessariamente limitate e parziali, ma ciò non implica che non siano veri, che non siano
disvelamenti del tessuto reale. Tali disvelamenti trascendendo la loro particolarità nel
processo evolutivo in cui sono inseriti, diventano singoli momenti dell’appropriazione,
sempre più ampia e approfondita, del mondo da parte del genere umano. Per altro,
l’assunto dialettico permette di trasfigurare la nozione cumulativa e lineare di progresso
scientifico, originata dall’Illuminismo e fatta propria dai positivisti; il progressivo
disvelamento del mondo si attua secondo una dinamica circolare complessa e articolata,
che va dall’apparenza all’essenza, in cui l’attenzione è volta ai singoli momenti della
crescita del sapere. L’interpretazione materialistica della storia delineata nell’Ideologia
tedesca rimase il filo conduttore della dottrina di Marx e Engels. Ma per quanto concerne
la scienza, la concezione rigida e storicamente determinata che i due autori avevano
complicava ulteriormente il quadro di riferimento. Infatti, l’asserito condizionamento
economico aveva peso rilevante solo per la scienza propriamente detta, molto meno per
la cosiddetta prescienza. Se lo statuto metodologico e strutturale relativamente autonomo
della scienza dava maggior importanza che ad altre produzioni del pensiero alla storia
disciplinare interna, i contorni di questa erano soggetti ad una forte delimitazione. Questa
complicazione è affrontata soprattutto da Engels, anche se in modo indiretto, in termini
netti e perentori. Si veda questo testo giovanile: «Prima del diciottesimo secolo non v’era
scienza, la conoscenza della natura assunse la sua forma scientifica nel diciottesimo
secolo, o, in alcuni rami, solo qualche anno prima». 166 E questo altro testo della vecchiaia,
in cui la suddetta complicazione è risolta in modo sbrigativo:

Per quel che concerne poi gli ambiti ideologici maggiormente campati in aria, religione,
filosofia, ecc., questi hanno a che fare con un patrimonio che risale alla preistoria e che il periodo
storico ha trovato e si è accollato quella che oggi chiameremmo stupidità [Blodsinn]. Il fattore
economico è alla base di queste varie idee sbagliate sulla natura, sulla stessa condizione umana,
su spiriti, forze magiche ecc. per lo più solo in modo negativo; il basso sviluppo economico del
periodo preistorico ha come complemento, ma talvolta come condizione e persino causa, le idee
sbagliate sulla natura. E anche se l’esigenza economica era ed è sempre più divenuta il principale
impulso per la progressiva conoscenza della natura, sarebbe da pedanti voler cercare cause
economiche per tutte queste stupidità primitive. La storia delle scienze è la storia della graduale
eliminazione di questa stupidità, ovvero della sua sostituzione con stupidità nuove, ma sempre
meno assurde. 167

3. La distinzione netta tra scienza e prescienza si presenta in modo ricorrente nei


numerosi quadri storici in cui Engels presenta l’evoluzione della scienza. Valga per tutti
questo passo della Dialettica della natura:

Il lavoro fondamentale nel primo periodo, allora iniziatosi, della scienza naturale, fu
l’impossessamento del materiale più immediato. Nella maggior parte dei campi bisognava
cominciare da materiale del tutto greggio. L’antichità classica aveva lasciato l’Euclide e il sistema
solare tolemaico, gli arabi avevano lasciato la notazione decimale, i principi dell’algebra, la
numerazione moderna e l’alchimia; il medioevo cristiano nulla. In questa situazione prese
naturalmente il primo posto la scienza naturale più elementare, la meccanica dei corpi terrestri e
celesti e, accanto ad essa, al suo servizio, la scoperta e il perfezionamento dei metodi matematici.

166
F. Engels, La situazione dell’Inghilterra. Il secolo diciottesimo, MEOC, vol. III, Editori Riuniti, Roma
1976, p. 510.
167
Engels a Conrad Schmidt, 27 ottobre 1890, MEOC, vol. XLVIII, Editori Riuniti, Roma 1983, p. 522.

71
[...] Gli altri rami delle scienze naturali erano ben lontani perfino da una simile compiutezza
provvisoria. La meccanica dei liquidi e dei gas fu maggiormente elaborata solo verso la fine del
periodo. La fisica propriamente detta non andava ancora al di là dei primi principi, eccezion fatta
per l’ottica, i progressi eccezionali della quale furono provocati dalle necessità pratiche
dell’astronomia. La chimica si emancipò dall’alchimia soltanto con la teoria flogistica. 168

Tutto ciò è del resto conseguente con la prospettiva che riduce la scienza all’insieme
dei meri risultati veri. Infatti, se il criterio discriminante tra scienza prescienza è quello
estrinseco, storicamente determinato, che ha Engels, il risultato viene necessariamente
inteso in una forma avulsa dal suo significato e vale solo come risultato. Certo, come si è
detto, Engels considera le verità conseguite dalle singole discipline in modo non assoluto;
esse sono storicamente determinate, valide in relazione agli ambiti specifici in cui si sono
acquisite e quindi superabili man mano che si ampliano e articolano gli ambiti di
riferimento nel corso del processo conoscitivo della realtà naturale e umana. Le pagine
dell’Anti-Dühring sull’argomento sono una testimonianza straordinariamente viva e
appassionata a favore della storicità della scienza, da sempre sostenuta da Engels con
profonda convinzione. Ma il problema vero riguardante la storicità della scienza è quello
di stabilire una relazione significativa tra asserzioni qualificate come scientifiche e quelle
che le precedono e che non vengono più considerate scientifiche. La norma delle
approssimazioni successive vale solo una volta che si sia definita e stabilita una prima
verità. Engels dà di essa una esemplificazione efficace nell’Anti-Dühring:

Prendiamo come esempio la nota legge di Boyle, secondo la quale a temperatura costante il
volume dei gas varia in modo inversamente proporzionale alla pressione a cui sono sottoposti.
Regnault trovò che questa legge in certi casi non è giusta. Se fosse stato un filosofo della realtà
sarebbe stato in dovere di dire: la legge di Boyle è soggetta a mutabilità, quindi non è una verità
pura, quindi in generale non è una verità e quindi è un errore. [...] Ma Regnault, da uomo di
scienza, non si abbandonò a siffatte puerilità, invece continuò le sue indagini e trovò che la legge
di Boyle è in generale giusta solo approssimativamente, e in particolare perde la sua validità in
gas che possono essere liquefatti mediante pressione, e precisamente non appena la pressione si
avvicina al punto in cui sopraggiunge lo stato di fluidità. 169

In questo caso la correzione della legge di Boyle può intendersi come una maggior
approssimazione verso la comprensione del comportamento di tutti i gas in tutte le
condizioni possibili. Ma poche pagine prima parlando delle discipline che trattano gli
organismi viventi, afferma: «Che lunga serie d’intermediari è stata necessaria da Galeno
a Malpighi per dimostrare una cosa così semplice come la circolazione del sangue nei
mammiferi» 170 In questo caso il criterio delle approssimazioni successive non può valere
e le relazioni che si possono stabilire tra le concezioni di Galeno, di Harvey e di Malpighi
non possono che ridursi a tentativi di spiegare estrinsecamente quella specifica mancanza
di verità, proprio come coloro che sostengono la concezione lineare di progresso o come
gli hegeliani deteriori criticati nella Ideologia tedesca. Non solo, ma le relazioni che si
stabiliscono con le acquisizioni successive delle verità conseguite devono prescindere dal
significato che di volta in volta viene loro attribuito; nel caso specifico, per esempio la
circolazione del sangue è intesa già in modo completamente diverso da Harvey, da
Cartesio, da Malpighi.

4. Un altro riscontro obiettivo alla tesi dell’importanza del fattore economico nella
considerazione della storia umana in generale è per Marx e Engels la tesi della stretta

168
F. Engels, Dialettica della natura, MEOC, vol. XXV, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 321-322.
169
Ivi, pp. 87-88.
170
Ivi, p. 85.

72
connessione della scienza con la tecnica. Si tratta come si è detto, di un fenomeno che
assume connotati sempre più visibili nella vita sociale ed economica del secolo XIX e
Marx e Engels, come molti altri studiosi loro contemporanei, soprattutto quelli che si
ricollegano alla tradizione razionalistica, lo considerano un fatto generale e strutturale.
Allo studio della tecnica fu particolarmente interessato Marx e anche se in questo settore
le sue conoscenze sono in gran parte di seconda mano, fu in grado di esporre in modo non
superficiale, nel Capitale, la funzione della macchina nella grande industria. Comunque
dalle sue fonti e dall’elaborazione personale diretta e indiretta di questioni che aveva
potuto esaminare da vicino nel corso delle sue ricerche di economia politica, Marx aveva
ben acquisito il fatto dell’evoluzione empirica della tecnica fino al secolo XIX. In una
nota del Capitale e più diffusamente nei manoscritti sulla tecnologia, prendendo lo spunto
da alcune considerazioni di Darwin sulla tecnologia naturare, «cioè sulla formazione degli
organi vegetali e animali come strumenti di produzione della vita delle piante e degli
animali», tenta di vedere un analogo modo di procedere nell’evoluzione della tecnologia
in relazione alla somiglianza nella tendenza alla differenziazione, alla specializzazione e
alla semplificazione degli strumenti di lavoro. L’approccio si giustifica con il fatto che
«la differenziazione, la specializzazione e la semplificazione degli strumenti di lavoro
hanno la stessa origine della divisione del lavoro; se così non fosse, sarebbe necessaria
una conoscenza a priori della meccanica». 171 I bisogni legati allo sviluppo della
produzione sarebbero quindi una sorta di sostituto della meccanica teorica sorta solo nei
tempi moderni. L’ammissione è interessante perché rivela che il criterio generale con cui
Marx interpreta la tecnica è quello della connessione reciproca con la scienza: i lunghi e
faticosi passi dell’approccio empirico alle tecniche produttive si possono comprendere
solo alla luce dell’applicazione dispiegata della scienza teorica alla produzione.

5. È curioso che la reciproca dipendenza di scienza e tecnica, trasformata da Marx e


Engels da principio storicamente determinato a principio generale sia da loro utilizzata
solo sporadicamente e marginalmente, diversamente che nella sociologia di ispirazione
marxista e no, per spiegare fenomeni specifici della scienza e della tecnica moderna. In
quei pochi casi, poi, gli esempi addotti non risultano particolarmente felici. Così, quando
Marx dice che la definizione cartesiana degli animali come macchine pure e semplici è
vista con gli occhi del periodo manifatturiero 172 non fa una osservazione profonda, come
è stato detto, 173 ma semplicemente erronea. Nel formulare la sua dottrina Descartes ha
presente non già la produzione manifatturiera, ma la machina in generale, e più
specificamente gli automi e gli artifizi idraulici presenti in molti giardini della sua età.
Così quando Marx afferma che lo sviluppo delle scienze e delle invenzioni avvenne quasi
contemporaneamente in Inghilterra, Francia, Svezia e Germania, ma il loro impiego
capitalistico avvenne solo in Inghilterra perché solo là i rapporti economici erano tanto
sviluppati da rendere possibile lo sfruttamento del progresso scientifico da parte del
capitale, fa anche qui un’affermazione inesatta. 174 Infatti, per tutto il secolo XVIII lo
sviluppo della scienza in quei paesi fu diseguale: la Francia era di gran lunga la nazione
più avanzata in tutti i settori del sapere scientifico; la macchina a vapore, il ritrovato
tecnico più rilevante del periodo, solo in un senso molto limitato può essere vista come
un’applicazione della scienza teorica, e a giudizio di Marx stesso non ebbe un ruolo
decisivo nella crescita del capitalismo. Così quando Engels sostiene che «tutta
l’idrostatica (Torricelli ecc.) è stata provocata dal bisogno di regolarizzare i torrenti di
montagna nell’Italia del XVI e XVII secolo», 175 esprime un giudizio più pertinente, ma

171
K. Marx, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1964, voi. I, p. 414, nota; Zur Kritik der politischen
Oekonomie (Manuscript 1861-1863), trad. it. Capitale e tecnologia, quaderni V, XIX e XX, a cura di P.
Bolchini, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 74.
172
K. Marx, Il capitale, cit., I, p. 433, nota.
173
F. Borkenau, La transizione dall'immagine feudale all'immagine borghese del mondo, Il Mulino,
Bologna 1984, p. 15, (ed. tedesca 1934).
174
Cfr. K. Marx, Capitale e tecnologia, cit., p. 171.
175
Engels a W. Borgius, 25 gennaio 1894, MEOC, vol. L, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 226.

73
generico.

6. Il concetto evolutivo della scienza e la teoria del materialismo storico sono elementi
importanti della dottrina di Marx e Engels sulla scienza, ma non la esauriscono.
Nell’analisi concreta sono trasfigurati e inseriti in un complesso metodo d’indagine che
si può definire storico-sistematico. Tale metodo, la cui intonazione hegeliana è evidente,
è stato teorizzato da Marx in Per la critica dell’economia politica e sviluppato poi nel
Capitale per quanto concerne l’economia politica, ma siccome l’economia politica è
considerata come una scienza tout court, può valere in generale per tutte le scienze.
Secondo Marx la necessità del discorso scientifico nasce dalla dicotomia tra apparenza e
essenza. Se le scienze si sono realizzate partendo dal1’apparenza delle rappresentazioni
sensibili per giungere a cogliere progressivamente i nessi sostanziali e reali che legano
fra di loro classi di oggetti, il modo corretto di interpretarne lo sviluppo non è però quello
di ripercorrere le tappe dell’evoluzione reale, ma è quello di analizzare le categorie
fondamentali delle singole discipline secondo l’ordine logico e sistematico che assumono
nella forma più avanzata esistente. Per quanto concerne l’economia politica, dice Marx,
sarebbe

inopportuno ed errato far succedere serialmente le categorie economiche nell’ordine in cui sono
state storicamente determinanti. La loro successione è invece determinata dalla relazione in
cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese, e questa successione è
esattamente l’inverso di quella che sembra essere la loro successione naturale o di ciò che
corrisponde alla successione dello sviluppo storico. 176

La forma storica, dice Engels,

offre il vantaggio apparente di una maggior chiarezza, poiché viene seguita la evoluzione reale,
ma in realtà essa si ridurrebbe tutt’al più a una esposizione più popolare. La storia procede spesso
a salti e a zigzag, e si sarebbe dovuto tenerle dietro dappertutto, il che avrebbe obbligato non solo
a inserire molto materiale di poca importanza, ma anche a interrompere spesso il corso delle idee.
Inoltre non si può scrivere la storia dell’economia senza quella della società borghese, e il lavoro
non sarebbe mai arrivato alla fine perché mancano tutti i lavori preparatori. Il modo logico di
trattare la questione era dunque il solo adatto. Questo però non è altro che il modo storico,
unicamente spogliato della forma storica e degli elementi occasionali perturbatori.177

La giustificazione che adduce Marx è pertinente con il punto di vista hegeliano


opportunamente corretto:

Perché il corpo già formato è più facile da studiare che la cellula del corpo. Inoltre, all’analisi
delle forme economiche non possono servire né il microscopio né i reagenti chimici: l’uno e l’altro
debbono essere sostituiti dalla forza d’astrazione. Ma, per quanto riguarda la società borghese, la
forma di merce del prodotto del lavoro, ossia la forma di valore della merce, è proprio la forma
economica corrispondente alla forma di cellula. Alla persona incolta; l’analisi di tale forma
sembra aggirarsi fra pure e semplici sottigliezze: e di fatto si tratta di sottigliezze, soltanto che si
tratta di sottigliezze come quelle dell’anatomia microscopica. 178

Il riferimento alla biologia è interessante non solo perché mostra anche concretamente
che il metodo che Marx usa per l’economia politica è estendibile a tutte le discipline, ma

176
K. Marx, Introduzione [1857] ai Lineamenti fondamentali dell’economia politica, MEOC, vol. XXIX,
Editori Riuniti, Roma 1986, p. 40.
177
Recensione di Engels a K. Marx, Per la critica dell’economia politica, introd. di M. Dobb, Editori
Riuniti, Roma 1969, p. 208.
178
K. Marx, Il capitale, cit., prefazione alla prima edizione, I, p. 32.

74
anche per l’analogia che viene instaurata tra l’anatomia microscopica e la sottigliezza
dell’analisi economica. L’elemento semplice ed elementare, la cellula, che costituisce la
struttura portante dell’organismo, è come la forma di valore, la struttura portante della
vita economica; entrambe sono celate entro entità fenomeniche articolate e complesse che
sono i primi oggetti della riflessione scientifica. Come solo ad uno stadio avanzato dello
sviluppo della biologia (scoperta del microscopio e lunga consuetudine con l’anatomia
microscopica) si può penetrare fino alla forma prima dell’organismo, così si può giungere
a cogliere la forma prima della vita economica quando si è giunti ad uno stadio avanzato
dell’astrazione scientifica (quando l’economia politica già si è costituita e ha assunto una
forma sviluppata). Si giustifica allora il fatto che la forma di valore, che Marx ritiene di
aver scoperto, debba guidare la ricerca; essa permette di situare le scoperte anteriori in
una luce nuova, in una connessione logica ordinata e fondata e di relegare quel faticoso
cammino dell’uomo per giungere fino a quel punto nel campo dell’accidentale. La
storiografia della scienza tradizionale (nata nel secolo XVIII) che cercava di spiegare quel
faticoso cammino dall’apparenza all’essenza come una lunga sequela di errori, e di
giustificare quindi quegli errori in base alla natura del conoscere umano e alle circostanze
storiche, viene così trasfigurata e interpretata alla luce del presupposto hegeliano. Ma non
viene affatto superata. Il nesso prescienza­ scienza rimane inspiegato e di fatto le lacune
e le parzialità del processo di acquisizione anteriore sono viste come deficienze (quando
non sono meramente soggettive) oggettive, riconducibili a situazioni economiche
arretrate. I numerosi richiami storici che accompagnano l’esposizione sistematica della
dottrina riflettono bene questo orientamento. Si veda per es. il passo famoso dell’Etica
nicomachea, citato da Marx per significare che Aristotele ha ben visto che la nozione di
valore è un equivalente fra merci, ma non riesce a cogliere quale essa sia. 179 Si veda
ancora il lungo excursus storico che si trova a seguito del capitolo sulla merce in Per la
critica dell’economia politica. Petty riconosce il lavoro come fonte della ricchezza
materiale, ma interpreta il valore di scambio

così come esso appare nel processo di scambio delle merci, come denaro, e il denaro stesso egli
lo interpreta come merce esistente, come oro e argento.

Boisguillebert

anche se in modo inconsapevole, riduce effettivamente il valore di scambio di una merce a tempo
di lavoro, determinando il ‘vero valore’ [...] mediante la esatta proporzione in cui il tempo di
lavoro degli individui è ripartito sulle particolari branche industriali, e rappresentando la libera
concorrenza come il processo sociale che creerebbe questa proporzione esatta.

Franklin dà come misura del valore il lavoro. Ma

per i fisiocratici, come per i loro avversari, la questione scottante controversa non è tanto quale
lavoro crei il valore, bensì quale lavoro crei il plusvalore. Perciò trattano il problema in una forma
complessa prima di averlo risolto nella sua forma elementare, allo stesso modo che il corso storico
di tutte le scienze conduce ai reali punti di partenza di queste solo attraverso una grande quantità
di vie traverse e incrociate. A differenza di altri architetti, la scienza non soltanto disegna castelli
in aria, ma costruisce qualche piano abitabile dell’edificio prima di gettarne le fondamenta.

Steuart eccelle per

la rigorosa distinzione che egli fa fra il lavoro specificamente sociale, raffigurantesi nel valore di
scambio, e il lavoro reale che mira a valori d’uso.

179
Ivi, pp. 91-92.

75
Smith

proclamò come fonte unica della ricchezza materiale, ossia dei valori d’uso, il lavoro in generale
e cioè il lavoro nella sua figura complessiva sociale come divisione del lavoro. [...] Egli scambia
costantemente la determinazione del valore delle merci mediante il tempo di lavoro in esse
contenuto, per la determinazione dei loro valori mediante il valore del lavoro, oscilla ovunque si
tratti di chiarire i particolari, e l’equiparazione obiettiva compiuta a forza dal processo sociale fra
i lavori disuguali, egli la confonde con la parità di diritto dei singoli lavori individuali.

Infine Ricardo

elaborò nettamente la determinazione del valore della merce mediante il tempo di lavoro, ed egli
mostra che questa legge domina anche i rapporti di produzione borghesi che in apparenza più la
contraddicono. Le indagini di Ricardo si limitano esclusivamente alla grandezza di valore, e in
relazione a questa egli per lo meno sospetta che l’attuazione della legge dipenda da determinati
presupposti storici. 180

Si notino le espressioni: ‘agisce inconsapevolmente ...’, ‘non si accorge...’, ‘sospetta’.


Esse sono interessanti non solo perché mostrano in modo evidente, anche nella forma,
l’esigenza di dare un corredo evolutivo ai vari aspetti parziali e velati che il principio ha
assunto (i vari piani dell’edificio della scienza che via via vengono posti) e che possono
essere esplicitati a principio scoperto. Ma anche perché sono le tracce che rivelano il
modus inveniendi di Marx, che formula la sua dottrina sulla lunga consuetudine con gli
economisti classici che critica dall’interno rilevandone le insufficienze rese evidenti
proprio in base ai principi più astratti e generali che la critica storica, congiunta ad un
metodo di indagine più efficace, gli ha permesso di far emergere. La trattazione storica
(beninteso nella formula sostanzialmente hegeliana di cui si è detto) benché possa
apparire una mera appendice espositiva che accompagna, nelle note e negli excursus, la
sistemazione logica della materia, è in realtà l’espressione del metodo di indagine
fondante.

7. Engels estende di fatto a tutte le scienze la concezione del nucleo fondamentale che
Marx aveva sviluppato per l’economia politica, e abbozzato per l’analisi infinitesimale.
Egli ritiene che si siano avute alcune scoperte epocali avvenute nell’età a lui
contemporanea, la cellula, l’equivalente meccanico del calore, il processo evolutivo degli
organismi, a cui va aggiunta come premessa indispensabile la teoria della nebulosa di
Kant e Laplace; che permettono di valutare in modo nuovo lo sviluppo delle scienze e di
tutta quanta la natura. Ma Engels, diversamente da Marx, non aveva né la sensibilità, né
il gusto, né la pazienza per svolgere un ricerca storica approfondita. I suoi interventi di
tipo storico sono meramente esplicativi e anche piuttosto scarsi. Il più ampio è quello
sulla questione delle forze vive ed è condotto secondo il procedimento di cui si è detto.
Egli presenta la posizione di Leibniz non direttamente in base al testo dell’autore, ma
nell’esposizione che ne dà lo storico della matematica Suter, e osserva che la tesi di
D’Alembert (in questo caso illustrata con una citazione diretta dal Traité de dynamique)
secondo la quale la controversia era una pura questione di parole, in realtà non risolve
nulla.

D’Alembert avrebbe potuto risparmiarsi le sue tirate sulla mancanza, di chiarezza dei suoi
predecessori, perché egli stesso era altrettanto poco chiaro. E, in realtà, non si poteva venire

180
K. Marx, Per la critica dell’economia politica, MEOC, vol. XXX, Editori Riuniti, Roma 1986, pp.
329-335.

76
in chiaro della cosa fintantoché non si sapeva che cosa accadeva del movimento meccanico
apparentemente annullato. 181

La mancanza di un serio approccio storico impediva ad Engels di valutare dall’intemo le


varie teorie scientifiche e di esprimere su di esse un giudizio motivato. Egli si limita ad
accogliere le scoperte cosiddette fondamentali nella loro nuda estrinsecità e a dare di
esse una giustificazione solo logica e filosofica. La preoccupazione principale di Engels
è, infatti, quella di derivare dai risultati scientifici una visione della natura omogenea con
quella dell’uomo, per la quale sia l’uomo sia la natura siano ancorati ad una base
esclusivamente materiale che evolve seguendo un ritmo dialettico comune.
Malgrado le critiche mosse verso le filosofie della natura ottocentesche, la concezione
di Engels fu una filosofia della natura che si ricollega idealmente non solo al materialismo
del secolo XVIII, ma a tutta la tradizione filosofica laica e razionalista, di cui voleva
essere l’espressione più ampia e moderna. Si spiega così il forte interesse di Engels per
quegli scienziati che sentono vivamente l’impegno filosofico. Le critiche più stringenti
sono verso le filosofie insoddisfacenti sostenute dagli scienziati del suo tempo. La
concezione estrinseca della scienza permetteva per altro la separazione del risultato
scientifico vero (altamente apprezzato) dal presupposto filosofico (religioso, idealistico,
metafisico) spesso inconsapevolmente assunto e ritenuto erroneo o superato. È soprattutto
la polemica verso la concezione religiosa sostenuta da molti scienziati ottocenteschi che
ispira la ricerca filosofica di Engels, che egli conduce con piglio illuministico e con
risultati certamente più radicali e incisivi rispetto a quelli conseguiti dalla parallela
polemica antireligiosa degli scienziati e filosofi positivisti, che egli vedeva ancora
soggiogati alla metafisica, privi come erano dello strumento dialettico.

181
F. Engels, Dialettica della natura, cit., p. 391.

77
Popper e l’origine della scienza

Tra i filosofi della scienza odierni Popper è quello che ha mostrato maggior interesse
per la filosofia greca. Si tratta di un interesse selettivo limitato a pochi temi, tra cui
assumono un ruolo rilevante le filosofie naturali dei presocratici che Popper analizza, a
più riprese, in vari anni, in modo vivo e appassionato, come se fossero filosofie
contemporanee. La ricerca di Popper è mossa da un sincero desiderio di approfondimento
e di precisione e si basa su una lettura dei testi molto attenta e scrupolosa: è un
atteggiamento che non ha riscontro in alcun altro filosofo della scienza contemporaneo.
La prova di un interesse che è rimasto costante per tutta la vita è il volume Il mondo di
Parmenide che comprende le ultime elaborazioni filosofiche di Popper riguardanti
appunto Parmenide, insieme con la ristampa degli scritti antecedenti sui presocratici. 182
L’interpretazione di Popper dei presocratici è priva di dimensione storica. Questo
aspetto traspare subito dai collegamenti immediati che Popper stabilisce tra singole
affermazioni dei presocratici e idee scientifiche moderne. È vero che paragoni simili si
trovano anche nelle opere dei maggiori storici della filosofia e della scienza greche e che,
in quanto tali, non sono un sintomo di carenza di visione storica se sono sviluppati in
modo sobrio e circostanziato, ma i collegamenti di Popper sono formulati in una forma
eccessiva e priva di giustificazione. L’interpretazione di Popper non è solo astorica, ma è
anche fuorviante e ambigua, perché non si limita a proporre una concezione della scienza
particolare come modello interpretativo della scienza passata, presente e futura, cosa che
fanno normalmente tutti gli odierni filosofi della scienza, per i quali la storia della scienza
deve fornire esempi concreti che avvalorino il proprio modello, ma perché dà
l’impressione, in virtù dell’apparato filologico articolato e preciso, costruito con
grande acume e intelligenza, di voler dare un fondamento storico a quella particolare
concezione della scienza. Ma i riferimenti storici concreti e precisi non rendono la
teorizzazione astratta di Popper molto diversa da quella degli altri filosofi della
scienza odierni. Serve solo a integrare l’analisi logica dei fatti scientifici, che Popper
ha sviluppato per tutta la vita in modo acuto e approfondito e a rendere tutta la
costruzione teorica artificiosa perché la coincidenza tra analisi storica e logica dei
fatti scientifici è presupposta e non indagata criticamente. Il risultato è che i fatti
storici sono distorti alla luce di asserzioni palesemente dogmatiche, imbarazzanti
per chi ha posto come perno della sua dottrina l’attività critica e si è fatto sostenitore
della società aperta e confutatore implacabile di ogni ‘storicismo’ antico e moderno.
Non intendo qui discutere e valutare tutti i vari aspetti che scaturiscono
dall’analisi di Popper dei presocratici, ma solo quelli connessi con il discorso
generale di Popper sulla scienza e il modo con cui viene spiegata l’origine della
scienza . Il problema dell’origine della scienza porta naturalmente Popper a
riesaminare il tema del passaggio dal mito alla spiegazione razionale del mondo.
Dice Popper:

Alcuni autori moderni asseriscono che i filosofi greci furono i primi a proporsi di
comprendere gli eventi della natura. Vi mostrerò che si tratta di una spiegazione
insoddisfacente. I primi pensatori greci tentarono, effettivamente, di comprendere gli
eventi naturali. Ma lo stesso avevano fatto, prima di loro, i più primitivi creatori di miti. 183

Anzi, la spiegazione dei fatti naturali sulla base dell’azione di divinità risulta

182
K.R. Popper, Il mondo di Parmenide. Alla scoperta della filosofia presocratica, trad. it. a cura di F.
Minazzi, Casale Monferrato 1998 (l’edizione inglese è dello stesso anno).
183
K.R. Popper, Congetture e confutazioni, Bologna 1972, (ed. inglese 1969), IV Per una teoria
razionale della tradizione, p. 217.
78
essere più soddisfacente di una spiegazione che si serva di elementi razionali. La
tempesta sul mare si spiega, infatti, più facilmente facendo riferimento alla collera
di Poseidone che non ricorrendo all’attrito fra il vento e la superficie dell’acqua.

Penso, continua Popper, che l’innovazione introdotta dai primi filosofi greci fosse, in
termini generali, principalmente questa: essi cominciarono a discutere tali temi. Invece di
accettare la tradizione religiosa acriticamente, come se fosse inalterabile (al pari dei bambini
che protestano se la zietta cambia una sola parola della fiaba preferita), invece di tramandare
semplicemente una tradizione, la respinsero, e qualche volta inventarono perfino un nuovo
mito per sostituirlo all’antico. Dobbiamo riconoscere, credo, che le nuove narrazioni da essi
introdotte, erano fondamentalmente dei miti come quelle che le avevano precedute. Ma se
ne devono rilevare due caratteristiche peculiari. In primo luogo, non si trattava di semplici
ripetizioni, o rifacimenti, di antiche narrazioni: esse contenevano elementi nuovi. Non che
questo sia di per sé un grande pregio, esso tuttavia si aggiunge alla seconda e più rilevante
circostanza: i filosofi greci inventarono una nuova tradizione, consistente nell’assumere un
atteggiamento critico nei confronti dei miti, nel discuterli; nel non limitarsi, cioè, a
raccontare un mito, ma nell’accettare anche il confronto con colui al quale è stato esposto. 184
La mia tesi - continua ancora Popper - è che ciò che chiamiamo ‘scienza’ differisce dai
più antichi miti, non perché sia qualcosa di sostanzialmente diverso, ma perché va congiunta
a una tradizione, diremo, ‘di secondo grado’ che fa propria la discussione critica dei miti
[...]. Questa nuova tradizione introduceva l’elemento critico e polemico. Si trattava, credo,
di un fatto realmente nuovo, ed è ancor oggi una caratteristica fondamentale della tradizione
scientifica. 185
È dunque il mito, o la teoria, a indurci alle osservazioni sistematiche e a guidarle, poiché
queste sono intraprese al fine di sondare la verità di quelli. Da questo punto di vista,
l’accrescersi delle teorie scientifiche non dovrebbe ritenersi il risultato della raccolta o
accumulazione delle osservazioni; al contrario, quest’ultima deve considerarsi una
conseguenza dell’accrescersi delle teorie scientifiche. 186

È appunto la critica alla concezione tradizionale per cui la scienza procede


dall’osservazione e poi perviene alla teoria, che spinge Popper ad analizzare come si
è concretamente realizzata la scienza. Dall’analisi dovrebbe scaturire la confutazione
della visione tradizionale della scienza che chiama baconiana e la validità della
propria concezione. Negli antichi presocratici, sostiene Popper,

troviamo concezioni audaci e affascinanti, alcune delle quali costituiscono anticipazioni


singolari, e addirittura sorprendenti, di moderne acquisizioni, mentre molte altre sono assai
lontane dal bersaglio, da un moderno punto di vista, ma la maggior parte di esse, e proprio
le migliori, non hanno comunque niente a che fare con l’osservazione. Si prendano per
esempio alcune delle teorie intorno alla forma e alla posizione della terra. Talete, secondo la
tradizione, diceva “che la terra è sorretta dall’acqua, sulla quale galleggia come una nave,
e quando essa è scossa dal movimento dell’acqua, diciamo che c’è un terremoto”.
Indubbiamente Talete, prima di pervenire alla sua teoria, aveva osservato sia dei terremoti
che il rullio delle navi. Ma il punto centrale della teoria stava nello spiegare la sospensione
della terra, come pure i terremoti, mediante la congettura che la terra galleggia sull’acqua, e
per questa ipotesi (che anticipa così singolarmente la moderna teoria della deriva dei
continenti) 187 non poteva trarre alcuno spunto dalle sue osservazioni. 188

184
Ibid., p . 218.
185
Ibid., p . 219.
186
Ibid., p . 220.
187
Questo accostamento è apparso eccessivo anche a G.S. Kirk in un articolo critico su questo scritto di
Popper, Popper on science and the presocratics, in «Mind», a. LIX, 1960, p. 328.
188
K.R. Popper, Congetture e confutazioni, cit ., pp. 237-238.
79
Continua Popper:

Comunque l’affascinante teoria di Talete sulla sospensione della terra e sui terremoti, per
quanto non fondata in nessun senso sull’osservazione, è perlomeno ispirata da un’analogia
empirica o osservativa. Lo stesso non si può dire invece della teoria del grande allievo di
Talete, Anassimandro. La teoria di quest’ultimo sulla sospensione della terra è ancora in gran
parte intuitiva, ma non si avvale più di analogie osservative. In effetti la si può considerare
contraria all’osservazione. Secondo Anassimandro, “la terra [...] non è trattenuta da nulla, ma
sta ferma per il fatto che è egualmente distante da tutte le altre cose. La sua forma [...] è
simile a quella di un cilindro [ ...]. Noi camminiamo su una delle sue facce piatte, mentre
l’altra si trova dalla parte opposta”. Quella del cilindro, naturalmente è un’analogia osservativa,
ma l’idea della libera sospensione della terra nello spazio, e la spiegazione della sua stabilità,
non trovano alcuna possibile analogia nell’intero campo dei fatti osservabili. Questa concezione
di Anassimandro è a mio avviso una delle più audaci, rivoluzionarie e portentose idee di tutta
la storia del genere umano. Essa rese possibili le teorie di Aristarco e di Copernico. Ma la
via intrapresa da Anassimandro era ancora più difficile e audace di quella seguita da questi
ultimi. Immaginare la terra posta liberamente nel mezzo dello spazio, e affermare ‘che essa
sta ferma a causa della equidistanza e dell’equilibrio’ (come riferisce Aristotele parafrasando
Anassimandro), significa addirittura anticipare, in qualche misura, la concezione newtoniana
di forze gravitazionali immateriali e invisibili. 189

Secondo Popper, Anassimandro ha ragionato in questi termini. La teoria di Talete


sul sostegno della terra pone una sorta di regresso all’infinito nella ricerca di sostegni
al sostegno. Per ovviare a questi inconvenienti Anassimandro «ricorre alla simmetria
interna, o strutturale, del mondo, la quale garantisce che non esiste una direzione
privilegiata verso cui possa verificarsi un crollo». 190 Osserva ancora Popper:

Non può esservi alcun dubbio che le teorie di Anassimandro hanno un carattere critico
e speculativo piuttosto che empirico: e, considerate come approcci alla realtà, le sue
speculazioni critiche e astratte lo guidarono meglio dell’esperienza o dell’analogia
osservativa. Ma, può ribattere un seguace di Bacone, è proprio per questo che
Anassimandro non era uno scienziato. Proprio p.er questo parliamo della antica filosofia
greca, e non di scienza. La filosofia, com’è noto, ha carattere speculativo. E come tutti sanno
la scienza comincia soltanto quando al metodo speculativo si sostituisce quello osservativo, e
alla deduzione l’induzione. Questa replica, naturalmente, equivale alla tesi che, per definizione,
le teorie sono (o non sono) scientifiche, a seconda che traggano origine dalle osservazioni o
dai cosiddetti ‘procedimenti induttivi’. Sono tuttavia convinto che poche teorie scientifiche, se
non addirittura nessuna, cadrebbero sotto questa definizione e non vedo perché, in rapporto a
ciò, si debba dare importanza al problema dell’origine. Quel che conta in una teoria è il suo
potere di spiegazione e la capacità di superare le critiche e i controlli. Il problema dell’origine,
di come vi si è giunti - se attraverso ‘procedimenti induttivi’, come dicono alcuni, o con un
atto di intuizione - può risultare assai interessante, soprattutto per chi voglia tracciare una
biografia dell’inventore, ma ha poco a che fare con lo stato o la natura scientifica della
teoria. 191

La teoria di Anassimandro, è falsa, conclude Popper, ma lo stesso si può dire per


innumerevoli altre teorie. Di fatto,

molte teorie false hanno giovato alla ricerca della verità più di altre, meno interessanti, ancor
oggi accettate. Le teorie false possono infatti essere di aiuto in molteplici modi: per esempio,

189
Ibid., pp. 238-239.
190
Ibid., p. 240.
191
Ibid., pp. 242-243.
80
suggerendo alcune modifiche più o meno radicali, e stimolando la critica. Così la teoria di
Talete che la terra galleggia sull’acqua, riapparve in forma modificata in Anassimene, e,
in tempi più recenti, nella teoria di Wegener sulla deriva dei continenti. E già si è mostrato
quanto la teoria di Talete stimolasse la critica di Anassimandro. Analogamente, la teoria
di quest’ultimo suggerì una versione modificata: la teoria secondo cui la terra è un globo,
posto liberamente al centro dell’universo e circondato da sfere sulle quali si trovano i corpi
celesti. Stimolando la critica, essa condusse inoltre alla teoria per cui la luna risplende di
luce riflessa; alla teoria pitagorica del fuoco centrale e, infine, al sistema cosmico
eliocentrico di Aristarco e di Copernico. 192

Va rilevato anzitutto il carattere puramente congetturale 193 della teorizzazione di


Popper. Perché abbia validità occorre, infatti, che sia documentato in modo netto il
fatto che ci sia stato esercizio cosciente della critica da parte di Talete nei confronti
delle teorie mitiche e di Anassimandro nei confronti di quelle di Talete. Ora nelle
testimonianze conosciute relative a questi autori non c’è alcun riferimento, anche
indiretto, in tal senso. Solo più tardi in Senofane e Eraclito abbiamo dei frammenti che
attestano la critica del primo ai racconti mitici sulla divinità e del secondo alla polimazia
di Pitagora ecc.. 194 Non si tratta comunque di critiche a spiegazioni specifiche di fatti
naturali. Bisogna allora congetturare, data la mancanza di documentazione su uno
spunto critico originario, la presenza della critica dal semplice fatto che Talete non ripete
spiegazioni anteriori di fatti naturali e che Anassimandro cambia le spiegazioni di
Talete. È ciò che è costretto a fare Popper. Ma se si ammette questa congettura, bisogna
ammettere che anche nei miti ci sono tali esercizi critici, perché i miti sono spesso
diversi e non si ripetono quasi mai allo stesso modo, come pensa Popper. Basti pensare
al mito di Prometeo di cui si hanno varie e differenti versioni. 195 Miti razionali e miti
religiosi si inserirebbero in un’unica tradizione, per la quale si introducevano variazioni
nei racconti senza manifestazioni di censura o di insoddisfazioni ma solo per
testimoniare un diverso punto di vista. Pertanto non si avrebbe alcuna cesura tra mito
di primo e di secondo grado e nessuna soluzione di continuità fra i due atteggiamenti.
Anche Popper sembra riconoscere ciò in un altro studio.196
Ma non è tanto la mancanza di testimonianze esplicite a indebolire la tesi di Popper.
Le deficienze più gravi riguardano il modo con cui Popper ha costruito il suo apparato
concettuale e particolarmente il fatto che non distingue filosofia e scienza e che prospetta
in modo ambiguo e astratto il problema dell’origine della scienza. Nel primo caso tende
ad eludere il problema, anzi giudica con molta sufficienza la questione se personaggi
come Talete o Anassimandro debbano essere considerati scienziati o filosofi. Nel secondo
dà un significato limitato al tradizionale problema dell’origine della scienza che riduce
quasi in termini psicologici per evidenziare la spiegazione logica dell’origine della
scienza (ma sarebbe più esatto dire della scienza secondo la concezione di Popper). In
ambedue i casi Popper prescinde completamente dall’opinione che avevano i Greci della
scienza, di cui richiamo qui alcuni elementi essenziali. Il concetto di scienza è connesso
per i Greci con quello di techne. Technai era il termine con cui venivano designate le
attività conseguenti la divisione sociale del lavoro, fenomeno che si presenta in ogni

192
Ibid., pp. 243-244.
193
Uso qui ovviamente congettura non nel senso positivo di Popper, ma nel senso negativo di
elaborazione concettuale priva di fondamento reale.
194
Senofane, Esiodo ed Ecateo.
195
Si veda il mio studio sull’origine del concetto di disciplina scientifica di prossima pubblicazione.
196
K.R. Popper, Il mondo di Parmenide, cit., p. 158: «John A. Wilson afferma ripetutamente che gli
antichi egizi non erano apparentemente disorientati dal fatto che le loro varie creazioni mitiche fossero
contraddittorie. “gli egiziani – scrive – accolsero i miti diversi e non ne eliminarono alcuno”. Osserva anche
che nel medesimo documento o nella stessa iscrizione si possono trovare storie contrastanti ma
pacificamente coesistenti. Anche in Grecia troviamo narrazioni conflittuali, ma esse appartengono ad autori
diversi e, normalmente, a periodi diversi».
81
società civile abbastanza evoluta. Epistasthai era originariamente il verbo con cui si
designava il possesso dei requisiti che rendevano in grado di esercitare tali attività,
essenzialmente le attività produttive e di acquisizione, come la caccia e la pesca. In
seguito vennero collegate ad esse anche attività più complesse come la medicina e le
discipline di carattere matematico, come l’aritmetica, la geometria, l’astronomia, l’ottica
e la meccanica che avevano conseguito lo stato di corpi di conoscenze speciali già nel V
e IV secolo a.C. Molti dei cosiddetti presocratici erano anche dei technitai (Talete,
Democrito e Archita erano dei matematici, Anassimandro un astronomo, Alcmeone un
medico) ma la loro attività di technitai era ben distinta da quella di indagatori della realtà
naturale mediante ipotesi. Per i Greci, di norma, i contenuti specifici delle technai non
erano sottoposte a critiche, una volta che le varie proposizioni particolari erano ritenute
valide e inserite nei singoli corpi dottrinali esistenti. Certamente non mancavano metodi
per stabilire la verità o meno delle proposizioni nell’ambito delle varie discipline. Essi
dovevano stabilire la congruenza tra proposizione e principi e la derivazione delle
proposizioni solo dai principi propri alle discipline in questione, (aritmetica, geometria
ecc.) 197 Correlativamente, nei testi di carattere scientifico-tecnico, non c’è alcuna
riflessione filosofica sui metodi o sui principi costitutivi delle varie discipline. È
significativo il fatto che la filosofia della scienza antica sia stata sviluppata da filosofi
come Platone e Aristotele, e non da operatori delle singole discipline. Diverso è il caso di
una particolare techne, la medicina, in cui prospettive critiche nette e riflessioni
metodiche e generali si trovano già all’inizio 198 e diventano poi abituali.
È vero che in un certo senso la prospettiva critica è sorta in Grecia e costituisce un
evento di portata epocale perché ha reso possibile la nascita di un discorso razionalistico.
Ma si tratta di un elemento che riguarda solo la filosofia e non è originario. Emerge a un
dato momento in forma radicale (sofistica) che genera come reazione critiche sempre più
ricche e articolate su argomenti specifici. Tale prospettiva si consolida nella filosofia
classica ed è diventata poi abituale la connessione tra riflessione filosofica e discussione.
Ma la discussione non penetra in alcun modo nelle discipline scientifiche. Non
corrisponde al vero neanche l’enfatizzazione fatta da Popper della nozione di episteme.
Questo termine acquisisce, secondo Popper, una connotazione di maggior rigore
soprattutto per colpa di Aristotele, il quale crede di possedere una «conoscenza scientifica
dimostrabile». 199 In realtà per Aristotele, il rigore di una disciplina dipende
essenzialmente dal rango che occupa la disciplina nell’ambito di un ordinamento
gerarchico del sapere, per cui il ragionamento è più o meno rigoroso in relazione alla
organicità o alla semplicità dell’oggetto. Ma la scienza, in sé, è sempre una.
Come si vede, l’interpretazione di Popper non ha alcun riferimento con l’andamento
reale del conoscere scientifico. La fondazione e la successiva costituzione di esso non ha
nulla a che fare con la critica ragionata di singole asserzioni sui fenomeni naturali, che
non avevano quei caratteri di delimitazione e di precisione tipici di ciò che i Greci
consideravano, almeno all’inizio, scienza in senso proprio (proposizioni particolari su
aspetti parziali dei fenomeni naturali costituenti una classe delimitata di fenomeni che era
possibile derivare da principi specifici). Il discorso critico relativo a teorizzazioni sulla
realtà naturale emerge lentamente e all’interno di un tipo di conoscenza meno rigido di
quello tecnico e in cui gli assunti generali (ipotesi o congetture) avevano il compito di
dare un supporto unitario ad asserzioni singole derivate da analogie osservative o tratte
dalle technai. Diviene pienamente consapevole solo con Aristotele, il quale situa la sua
spiegazione generale e particolare della natura rispetto a quella precedente, che ritiene
superi i difetti e le insufficienze rilevate nelle altre. Questa elaborazione concettuale, che
per Popper fa parte integrante della scienza (nel senso popperiano del termine) greca

197
Cfr. in generale gli Elenchi sofistici di Aristotele e in particolare, la critica fatta da Aristotele alla quadratura
di Antifonte perché non fondata sui principi della geometria.
198
In alcuni testi del Corpus hippocraticum, come Antica Medicina e Sull’Arte. Sui motivi che hanno
determinato tale anomalia nella medicina, si veda il mio studio di prossima pubblicazione già citato.
199
K.R. Popper, Il mondo di Parmenide, cit., p. 22.
82
diventa poi una branca della ricerca filosofica generale e finisce per acquisire i caratteri
di quella, cioè di una ricerca basata sulla discussione e la critica, che sono poi rimasti i
caratteri tipici della filosofia occidentale. Il discorso di Popper potrebbe quindi essere
valido per la filosofia, ma non per quanto riguarda la scienza. Perciò il problema della
distinzione tra filosofia e scienza risulta essenziale e non può essere eluso, ma deve essere
giustificato almeno sulla base dei risultati e delle prospettive della scienza greca (cosa
che Popper non fa).
Allo stesso modo quanto dice Popper sull’origine della scienza risulta essere un mero
esercizio di teorizzazione astratta che prescinde completamente da quanto pensavano i
Greci sulla questione. Sull’origine della scienza i Greci avevano elaborato i prodromi di
una visione di schietta impronta razionalista che venne ampiamente ripresa e sviluppata
in età moderna i cui caratteri si possono sintetizzare in questi termini. Le singole technai
(comprendenti, come si è visto, le attività produttive, di acquisizione e teoriche) esistono
in natura nei loro elementi costitutivi e metodo­ logici essenziali. 200 Emergono e vengono
acquisite quando nasce in un popolo o in una regione, in virtù di circostanze peculiari
un’esigenza collettiva verso una determinata techne e nel contempo si trovano individui
sufficientemente geniali in grado di capire, afferrare e sviluppare quei nuclei essenziali
presenti in natura e di tramandarli poi ad altri fino a quando la techne raggiunge il suo
compimento. Le testimonianze più interessanti perché varie e articolate, sull’origine di
una singola techne sono quelle relative alla geometria. Tutte identificano con l’Egitto il
paese in cui si manifesta il bisogno collettivo, per via delle periodiche inondazioni del
Nilo che rendevano necessaria l’elaborazione di procedure atte a stabilire le divisioni
originarie dei campi (la geometria appunto) e con i funzionari del faraone gli inventori di
tale disciplina. La prima testimonianza sull’Egitto patria della geometria è quella di
Erodoto 201 che parla di geometria, non esistendo evidentemente ancora la distinzione tra
geometria teorica e geometria metrica (geodesia). Le testimonianze di Proclo 202 e di
Erone 203 situano, come Erodoto, la nascita della geometria in Egitto in relazione alle
inondazioni del Nilo, ma distinguono la geometria metrica da quella teorica. Per Proclo
la geometria teorica sarebbe uno sviluppo della geometria metrica in quanto passaggio
dall’imperfetto al perfetto, dai sensi alla ragione. Per Erone ci sarebbe maggior
connessione tra le due discipline per via della ricaduta della geometria teorica su quella
metrica. Un’altra testimonianza, quella di Aristotele, 204 prescinde dalla geometria
metrica, che evidentemente ritiene già acquisita, e vede la nascita della geometria (quella
teorica) dal fatto che i preti egiziani avevano tutto l’agio per sviluppare una disciplina non
indirizzata né al piacere né alla vita pratica. Posso solo dire che la teoria dell’origine della
scienza che avevano i Greci è congrua con la loro concezione globale, oggettivistica,
delimitata e non progressiva delle discipline scientifiche. È pienamente razionale e ha
trovato un suo sviluppo nella moderna idea illuministica e storicista della scienza. Quella
di Popper è profondamente ambigua, in quanto il problema storico dell’origine della
scienza è semplicemente rimosso. Assimila lo sviluppo storico a quello logico eludendo
così il problema di stabilire e di spiegare la diversità dei due momenti. I tentativi di
illuministi e storicisti di spiegare le discrepanze della storia rispetto alla logica hanno dato
luogo spesso ad esiti dogmatici, ma per lo meno non hanno ignorato, come Popper, il
problema.
In conclusione tutte le deficienze che ho finora evidenziato dipendono essenzialmente
dal fatto che l’elaborazione concettuale che sottende l’analisi di Popper fa riferimento ad
una visione della scienza parziale e non sufficientemente generale. In realtà, la concezione

200
Si tratta di una concezione che è esposta in modo netto e chiaro già nel Corpus hippocraticum negli
scritti Antica Medicina e Sull’Arte.
201
Storie, II, 109.
202
Commento al libro I degli Elementi di Euclide, 64,18-65,3.
203
Geometrica, in Heronis Alexandrini Opera quae supersunt omnia, IV 176,1-13; Metrica, inizio,
III,2.
204
Metafisica I, 981b13-25.
83
critica e falsificazionista di Popper e quelle proposte da altri filosofi della scienza odierni,
sono costruite in base alla scienza moderna elaborata a partire dal secolo XVII e perciò
sono in grado di spiegare, grosso modo, gli eventi scientifici che si sono susseguiti da
allora fino ad oggi, ma sono assolutamente incapaci di essere adattati alla scienza antica.
La cosa che dovrebbe far riflettere chi accetta queste interpretazioni è che le
concettualizzazioni astratte e parziali di scienza eludono o travisano il fatto che la scienza
moderna nasce da un processo di liberazione dalla scienza antica, per cui questa è
contenuta in quella non come momento effettivamente mantenuto, ma come momento
dialetticamente superato. Il carattere profondamente limitato della concezione della
scienza che ho rilevato può spiegare il fatto che Popper discetti di scienza greca facendo
scarsi riferimenti alle concezioni e ai risultati delle effettive discipline scientifiche greche
(geometria, astronomia, meccanica) e che assimili le ricerche sulla physis dei Greci con
gli studi moderni di fisica. Ma non si può spiegare il marcato interesse per la scienza greca
se non come una scelta soggettiva che rimane illusoria e inefficace per la riflessione
filosofica. In realtà tutto l’apparato storiografico addotto da Popper avrebbe un significato
plausibile solo se servisse a spiegare perché il procedere veritiero della scienza (della
scienza secondo Popper) non fosse avvertito dagli scienziati antichi. L’analisi storica
dovrebbe allora condurre a far apparire l’essere al di là delle apparenze (quello che si
credeva essere vero). Ma, ovviamente, per Popper questa sarebbe una plateale
concessione ad una concezione storicistica, per cui l’analisi storica resta un inutile orpello
per l’astratta analisi logica.

84
La concezione strumentale della storia della scienza in L. Geymonat

La storia della scienza è centrale nel pensiero di L. Geymonat fin dall’inizio della sua
attività di studioso di filosofia, imperniata sull’analisi della filosofia di Comte, il filosofo
cui si deve la prima riflessione moderna sistematica sul concetto di scienza e la sua storia.
La mancanza della dimensione della storicità della scienza è stata la critica che Geymonat
ha costantemente rivolto al neopositivismo in genere. La concezione storica della scienza
è stata poi ulteriormente potenziata dall’interesse sempre crescente di Geymonat, dagli anni
della maturità in poi, per le tematiche marxiste e materialistiche.
Ma se Geymonat ha sempre considerato la storicità della scienza l’assunto primario,
espresso in termini generali, della sua filosofia, ha dedicato però minore attenzione a
chiarire la natura di tale storicità, la sua delimitazione e gli sviluppi operativi cui poteva
dar luogo. Il tentativo di connettere il tema delle approssimazioni successive della
conoscenza scientifica con alcuni elementi del materialismo dialettico per fondare una
nuova concezione della progressività del razionalismo scientifico, sviluppata nell’ultima
fase del suo pensiero 205 non ha dato luogo a concreti esiti significativi.
Per ciò si nota un divario tra l’assunto teorico della storicità della scienza e la concreta
ricerca storiografica condotta da Geymonat che assume la dimensione della strumentalità.
La ricerca storica serve a evidenziare concretamente il carattere relativo e progressivo di
ogni scoperta scientifica nella direzione di una sempre più accentuata razionalità, a
confutare il naturale dogmatismo degli scienziati portati a considerare verità assolute gli
ultimi risultati conseguiti nelle discipline che professano, a rinsaldare nell’insegnamento
lo spirito critico di discenti e docenti. 206
L’approccio strumentale della storia della scienza si articola in varie forme. Citerò qui
due soli esempi, ma particolarmente significativi: gli studi su Galileo e la Storia del
pensiero filosofico e scientifico.
L’interpretazione geymonatiana di Galileo, quale risulta dalla biografia pubblicata nel
1956 207 e poi in numerosi altri scritti dedicati allo scienziato pisano 208 si basa su due punti
principali: evidenziare l’intento di Galileo di affermare il ruolo centrale della nuova scienza
nella cultura del tempo e il profondo rinnovamento che vi sarebbe stato se la nuova scienza
fosse stata consapevolmente accolta nelle istituzioni, poiché avrebbe inevitabilmente
favorito la diffusione, sempre più ampia ed accentuata, della libertà di critica e di ricerca;
sottolineare il ruolo fondamentale che ha avuto la tecnica nella ricerca scientifica galileiana
concepita come una dottrina capace di formulare in modo esatto i problemi e le risposte a
questi problemi che interessavano i tecnici. 209
Per quanto concerne il primo punto, quello più evidente, Geymonat vuol mostrare con
un esempio drammatico e significativo, quello di Galileo appunto, l’importanza per lo
scienziato dell’impegno politico, sociale e culturale in polemica con i sostenitori della
neutralità della scienza. Molto rilevante è anche il secondo punto che si ricollega
direttamente con il primo. Sottolineare, infatti, il grande interesse che Galileo aveva per le
tecniche è un altro modo di mostrare quell’esigenza di rinnovamento culturale e politico
cui aspirava lo scienziato pisano e di polemizzare con la visione platonizzante di Galileo
sostenuta da A. Koyré allora molto diffusa. L’interpretazione di Galileo sostenuta da
Geymonat è centrata, esatta e relativamente nuova per il periodo in cui era stata formulata,
la metà degli anni Cinquanta. È del resto singolare che l’attenzione degli studiosi non si sia

205
Cfr. tra i molti testi, L. Geymonat, Scienza e realismo, Milano, Feltrinelli 1977, pp. 167-169. Si
veda inoltre: L. Geymonat, Scienza e storia. Contributi per uno storicismo scientifico, a cura di F.
Minazzi, Bertani, Verona 1985, p. 121 segg. L’ampio saggio introduttivo di Minazzi è una ricostruzione
articolata delle varie fasi della concezione geymonatiana della storia della scienza nel quadro della
cultura italiana ed europea, in cui, tra l’altro, si danno indicazioni sull’origine della espressione
storicismo scientifico con cui Geymonat ha indicato, nell’ultima fase del suo pensiero, la sua teoria.
206 L. Geymonat, Il ruolo della storia nella ricerca e nell’insegnamento scientifico, in Scienza e
storia, cit., pp. 39-56.
207 L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Torino 1956.
208 Sono raccolti nel volume Per Galileo. Attualità del razionalismo, a cura di M. Quaranta, Bertani,
Verona 1981.
209 Cfr. L. Geymonat, Per Galileo, cit., p. 82, 121, 171-172, 176.

85
soffermata per molto tempo sui rapporti tra Galileo e le tecniche, dato che l’interesse per
le tecniche emerge in modo evidente da tutti gli scritti dello scienziato pisano. È solo nel
1927 che si ha il primo studio ampio, quello di Leonardo Olschki, il quale aveva collegato
Galileo alla tradizione tecnica tardo­medioevale e rinascimentale. 210 Geymonat e Carugo
hanno ripreso l’opera di Olschki sottolineando l’aspetto della domanda e dell’attesa di un
risultato preciso che discende dal problema tecnico che Galileo aveva ripreso da Tartaglia
e divenuto per lui concreta prassi di ricerca. 211 Ma avevano espresso tale aspetto solo in
termini generali senza svilupparlo ulteriormente, perché Geymonat riteneva che ribadire,
ancorché in termini generali, l’interesse di Galileo per le tecniche fosse sufficiente per la
critica a Koyré, e Carugo aveva indirizzato la sua indagine verso altri punti della ricerca
galileiana. A suo tempo ricordai a Geymonat che la vera critica a Koyré andava condotta
non solo sul piano biografico e sull’orientamento politico-culturale dell’azione galileiana
(piano su cui la ricerca di Geymonat era pienamente soddisfacente), ma andava svolta e
sviluppata anche sul piano dottrinale. Mi rispose che delegava ad altri tale compito,
pensando evidentemente che ciò che aveva scritto era sufficiente per gli scopi che si era
prefisso. Anche allora ricordo che presi la sua risposta come una conferma della sua
concezione strumentale della storia della scienza. Recentemente lo studio del rapporto
scienza-tecnica in Galileo è stato ripreso da J. Renn, P. Damerow e altri in una forma molto
elaborata e approfondita. 212
L’altro esempio che considero è particolarmente significativo perché si riferisce
all’opera più importante di Geymonat, la Storia del pensiero filosofico e scientifico.
All’origine doveva essere un semplice ampliamento del manuale di storia della filosofia
in uso nei licei, ma poi venne ampliata a dismisura con l’inserimento di capitoli redatti
dagli allievi 213 fino a diventare, secondo Geymonat, lo strumento principale per rinnovare
la cultura italiana a partire dalla scuola (era rivolto prevalentemente a studenti e docenti)
per diffondere una concezione della filosofia e della storia della filosofia antitetica a quella
idealistica ormai in crisi, ma allora ancora diffusa nelle scuole.
L’idea di collegare storia della scienza e storia della filosofia era una prospettiva incisiva
e di grande interesse in sé, ma non fu ben formulata da un punto di vista teorico. Prevalse
allora in Geymonat l’aspetto operativo che si manifesta con la definizione empirica di
filosofia e con l’assunto che le ricerche scientifiche e filosofiche andavano considerate
come aspetti diversi della razionalità umana da rivendicare e ribadire.
Si veda l’inizio dell’introduzione:

Alcuni decenni or sono, un valente e ben noto studioso di geometria, l’americano O. Veblen,
proponeva per la sua scienza la seguente paradossale definizione: ‘geometria è ciò che viene
ritenuto tale da un numero abbastanza grande di persone competenti’. Queste parole significano
manifestamente che, secondo Veblen non è possibile caratterizzare a priori il ‘nocciolo costitutivo’
di questa scienza: essa è in continuo sviluppo, e qualunque tentativo di circoscriverla in limiti
predeterminati finisce sempre col fallire di fronte alle innovazioni dei ‘competenti’. Il problema
essenziale sarà dunque quello di procurarsi una ‘vera competenza’ geometrica, attraverso l’esame
intelligente delle opere dei grandi geometri (della nostra epoca e di quelle passate) non già di
discutere in astratto su ciò che sia, o debba essere, la ‘vera geometria’. Orbene, se per il concetto
generale di scienza si presenta ovviamente una situazione del tutto analoga a quella ora accennata,
per quello di filosofia si presenta a nostro parere una situazione ancora più ardua e complessa. Non
solo vi è infatti, come per la geometria, chi cerca giorno per giorno di inserire in tale disciplina
qualche nuovo capitolo, ma vi è pure chi tenta sottrarle argomenti consacrati come ‘filosofici’ da
una lunga tradizione. Anche qui dunque, per orientarci di fronte a tali dibattiti, non ci resta che un
unico mezzo per sforzarci di acquistare poco a poco un’effettiva competenza sui problemi che gli
uomini hanno incluso - nelle varie epoche - entro il concetto di filosofia, cioè studiare il pensiero

210
Cfr. il mio studio, Scienza e tecnica: i testi della meccanica classica nell’opera di Galileo, in
«Galilaeana», a. 5, 2008, pp. 3-16.
211 Cfr. G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a cura di A.
Carugo, L. Geymonat, Boringhieri, Torino 1958.
212 Cfr. in particolare il saggio di J. Renn e M. Valeriani, Galileo and the challenge of the Arsenal,
in «Nuncius», a. 16, 2001, pp. 481-503.
213 Ma almeno metà dell’opera è stata scritta da Geymonat stesso. L’opera fu pubblicata tra il 1970
e il 1972, a Milano da Garzanti e comprende 6 volumi. Nel 1976 fu pubblicato un settimo volume.
86
filosofico attraverso un meditato esame del suo sviluppo storico. 214

Si veda anche quest’altro passo:

Una meditata riflessione sullo sviluppo del pensiero filosofico e del pensiero scientifico ci
mostrerà invece che, pur nascendo spesso da ambienti in parte diversi, queste due forme di pensiero
mirano in realtà al medesimo fine: ad accrescere la nostra consapevolezza critica intorno al mondo
in cui viviamo ed operiamo. [...] Pensiero filosofico e pensiero scientifico non sono affatto in
antitesi l’uno con l’altro, ma sono due facce della medesima razionalità che faticosamente si fa
strada nella storia dell’uomo. 215

L’impostazione empiristica, puramente constatativa, si articola quindi con la scelta


convenzionale di evidenziare tra le varie filosofie quella tradizionalmente più generale che
tratta i problemi conoscitivi e di appaiare ad essa il cosiddetto pensiero scientifico intesi
come due esercizi diversi e complementari della razionalità. In realtà questi assunti non si
connettono bene con i contenuti dell’opera che ha un intento decisamente strumentale,
quello di rivendicare e ribadire la connessione implicita e omogenea tra pensiero scientifico
e quella parte della tradizione filosofica che è omogenea ad esso che non si trovava nella-
cultura italiana e che Geymonat voleva appunto favorire con tale scritto. E spesso, e
paradossalmente, la componente filosofica tradizionale presente nella cultura italiana è
trattata a volte in modo eccessivo. Una più stretta riflessione teorica proprio sulla
connessione scienza-filosofia avrebbe permesso di essere più selettivi nella scelta degli
argomenti e di avere una trattazione più efficace anche per realizzare il disegno voluto.
Quel che manca quindi è una definizione rigorosa del rapporto scienza-filosofia. Infatti, la
scienza e la filosofia hanno origine, sviluppi, articolazioni, diverse nei vari periodi storici
e nei vari paesi, così come la loro connessione che può essere presente o assente in relazione
alle determinate situazioni storiche dei vari paesi. L’opera risulta pertanto essere una storia
della filosofia abbastanza tradizionale che dà particolare rilievo agli autori che hanno
spiccati interessi per la scienza con integrazioni anche molto ampie su problemi scientifici
specifici nei vari periodi. Così l’assenza della ricerca filosofica sulla scienza in Italia non
è spiegata, ed è una lacuna che io ho cercato di colmare nel mio studio sulla tradizione
filosofica e scientifica italiana, 216 condotto con uno spirito, almeno nelle intenzioni,
autenticamente geymonatiano, anche se critico nei confronti di alcuni contenuti dell’opera
a cui per altro avevo collaborato. La carenza teorica dell’opera è però riscattata da una
esposizione degli argomenti particolarmente serrata ed incisiva per la grande sicurezza con
cui vengono esposti temi essenziali degli autori che considera.
L’incisività dell’esposizione è l’aspetto più originale dell’opera. Gli autori anche lontani
nel tempo sono visti in un’ottica selettiva ma familiare. L’interpretazione è a volte riduttiva,
ma è sempre spiegata in modo semplice, chiaro ed efficace. Il lettore non è mai annoiato e
resta affascinato e l’entusiasmo dell’autore per l’impresa che aveva saputo trasmettere a me
e agli altri collaboratori dell’opera, si trasmette in parte anche al lettore. Sono le qualità che
hanno contribuito a fare dell’opera un vero successo editoriale durato parecchi anni.
Malgrado le lacune che ho segnalato, la Storia del pensiero filosofico e scientifico ha
contribuito, almeno in parte, a rinnovare la cultura italiana nella direzione voluta dal suo
autore.
In conclusione, se Geymonat non era uno storico in senso proprio, perché gli mancava
la coscienza della necessaria autonomia della ricerca storica e soprattutto la pazienza per
approfondire i problemi, aveva una qualità che compensava tali difetti, la capacità di vedere
l’aspetto fondamentale, il punto nodale attorno a cui si articolano i vari aspetti di una
dottrina o di un autore.

214
L. Geymonat, la Storia del pensiero filosofico e scientifico, cit., vol. I, p.5.
215
Ivi, pp. 12-13.
216
Cfr. il mio saggio Scienza e filosofia da Vico ad oggi, in Storia d’Italia. Annali III, a cura di G.
Micheli, Einaudi, Torino, 1980, pp. 552-675.
87
Lineamenti di una storia dialettica della scienza.

La moderna storia della scienza nasce verso la fine del secolo XVII e XVIII come
conseguenza della nascita della scienza moderna e della acquisizione, nella coscienza della
maggior parte degli operatori scientifici del tempo, non solo del fatto che la scienza
tradizionale era radicalmente cambiata, ma anche del fatto che il cambiamento sembrava
essere divenuto l’elemento, costitutivo ed essenziale, della ricerca. Infatti, tra Seicento e
Settecento, nessun astronomo segue il sistema tolemaico, nessun medico dubita che il
sangue circoli negli organismi animali, nessun fisico mette in discussione il fatto che i corpi
celesti e i corpi terrestri siano sostanzialmente simili e che siano sottoposti alle medesime
leggi. Inoltre, anche asserzioni particolari fatte dai fondatori della scienza moderna
risultano criticate dai ricercatori immediatamente successivi. È il caso della spiegazione
meccanicistica delle maree di Galileo che viene abbandonata a favore di quella newtoniana
basata sull’attrazione lunare, o la teoria cartesiana dei vortici altrettanto velocemente
abbandonata dopo Newton. Tutto ciò fa sì che apparisse con tutta evidenza che, come il
perdurare delle conoscenze acquisite era la caratteristica della scienza passata, la rapidità
dei cambiamenti era un elemento caratteristico della scienza moderna.
Questa nuova situazione portò un notevole cambiamento nella storia tradizionale della
scienza che aveva avuto una dimensione peculiare nell’antica Grecia. Essa era
rappresentata quasi esclusivamente da esponenti della scuola aristotelica; aveva un
carattere statico e serviva da supporto per la teoria della scienza. La storia della scienza in
età rinascimentale era rappresentata dalle biografie degli operatori e dalla raccolta di
conoscenze nei singoli comparti del sapere con intenti celebrativi ed eruditi. Accanto a tali
criteri che permangono rilevanti anche in seguito, emerge l’esigenza di spiegare, per lo
sviluppo della scienza, il cambiamento rivoluzionario avvenuto dal secolo XVIII in poi, e
di situare secondo un ordine genetico-evolutivo, i risultati conseguiti nelle varie età, visti
come un progressivo avvicinamento alla verità. La storia della scienza trova espressione
concreta in una forma relativamente nuova, cioè nella formulazione moderna delle
discipline scientifiche. Si era abbandonato del tutto l’approccio antico, rigido e delimitato
e soprattutto la separazione tra discipline fisico-matematiche e fisiche. La moderna
disciplina scientifica partiva da un principio unitario nell’oggetto e nel metodo, ed era
concepita in modo strutturalmente dinamico. Tutta la scienza era vista come un insieme
organico di discipline collegate e la storia della scienza come l’insieme della storia delle
discipline scientifiche.
La concezione disciplinare, di per sé naturale ed immediata, divenne caratteristica della
scienza storica. Dico naturale ed immediata perché i risultati conseguiti nei singoli settori,
avendo i connotati di asserzioni ben stabilite, integrabili fra di loro nel quadro di un assetto
sistematico rigoroso, venivano isolati nella loro astratta formulazione vera, avulsa dal
contesto della loro genesi concreta, e collegati fra di loro nei singoli comparti sistematici,
in modo da essere anelli di una catena che deve realizzarsi e svilupparsi, dando luogo a
momenti successivi, a loro volta integrabili coi precedenti. Si tratta di un’evoluzione lineare
in cui il risultato finale (cioè quello in cui vive lo storico) spiega i momenti antecedenti
come elementi parziali volti al raggiungimento del traguardo finale o come errori
conclamati e poi corretti. Lo storico deve dunque indirizzare la sua ricerca verso la
spiegazione di tali parzialità quando sono evidenti come tali e anche quando non lo sono
ed è emerso dalla sua ricerca, oppure indicare i motivi per cui si stabilisce un errore e come
si è giunti, eventualmente a correggerlo. In questo processo il fraintendimento è strutturale
perché viene alterato il quadro disciplinare in cui opera lo scienziato passato e anche
quando emergono risultati ritenuti veri, essi sono astrattamente coincidenti con quelli
presenti negli anelli successivi della catena. Lo sviluppo lineare è artificioso. È lo sviluppo
ricostruito poi dallo storico che considera la sequela di eventi che hanno come sbocco
l’ultimo, in modo consono con i requisiti della gnoseologia che sostiene chi compie la
ricostruzione. Più sbrigativamente, se non si riesce a inquadrare l’evento che si considera
nell’evoluzione che è sostenuta dallo storico, lo si espunge.
La caratteristica principale della storia della scienza come sviluppo lineare è che
prescinde completamente dal punto di vista degli autori che vengono considerati. È una
conseguenza immediata della concezione disciplinare assunta che privilegia il risultato
88
acquisito, da considerarsi a sé, rispetto al momento della sua acquisizione, da relegare nella
biografia degli operatori. L’assunto disciplinare evidenzia in modo netto lo sviluppo lineare
e dà ad esso coerenza e plausibilità. I motivi che hanno spinto la concezione disciplinare
ad avere un ruolo preponderante nella struttura e nella pratica della storia della scienza
vanno ricercati nel fatto che alle origini e per lungo tempo in seguito gli storici della scienza
erano scienziati attivi in qualche disciplina scientifica e la storia della scienza veniva
coltivata per servire come introduzione ai manuali delle singole branche del sapere
scientifico. È da questa esigenza che nasce l’intento prammatico caratteristico della
storiografia illuministica, cioè quello di individuare i meccanismi mentali che avevano
portato gli scienziati alla scoperta di nuovi oggetti o di nuove relazioni tra i fenomeni
naturali per incrementare la ricerca e anche per capire i modi che l’hanno ritardata, deviata
e fatta cadere in errore. Di qui la problematica illuministica del genio da cui derivano gli
studi successivi sulla psicologia della ricerca scientifica con evidenti connessioni con la
gnoseologia. A questo tipo di indagine si ricollega la storia dei concetti scientifici che
costituisce una branca collaterale della storia della scienza disciplinare, come quella
dedicata allo studio dei metodi e poi quelle che basano le ricerche su assunti sociologici ed
economici. Tali branche collaterali sono tutte riconducibili, come si è detto, alla
storiografia disciplinare e mantengono l’assunto dello sviluppo lineare.
È opportuno considerare che gli studi riferibili alla storiografia di tipo concettuale o alla
variante politica della storiografia sociologica si basano essenzialmente sull’analisi del
punto di vista dell’autore che si analizza e quindi, programmaticamente, non possono
prescindere da esso. Anche in questo caso però l’assunto dello sviluppo lineare è così forte
che conduce normalmente a un fraintendimento più o meno marcato dell’opinione
dell’autore che si analizza. È il caso degli studi sulla psicologia della ricerca scientifica.
Dò qui alcuni esempi di questo approccio, Uno è il processo di Galileo, che già allora
verteva sulla comprensione del punto di vista dello scienziato pisano. La valutazione di
Galileo martire della libertà di pensiero è palesemente anti storica. Lo è meno, ma
anch’essa frutto di una forzatura quella sostenuta con molta passione dal mio maestro
Ludovico Geymonat, per la quale lo scienziato pisano viene presentato come un proto
illuminista che si era speso pubblicamente, ma invano, perché la Chiesa accettasse e facesse
propri i risultati della scienza moderna. In realtà la vicenda galileiana era molto meno
drammatica di quanto possa apparire oggi, almeno nella fase antecedente il processo. Lo
divenne dopo il processo, per Galileo stesso e per la cultura scientifica del tempo in quanto
causò interventi censori diretti e indiretti, e opportunismi radicati e diffusi. Infatti, prima
del processo, il copernicanesimo era di fatto accettato da molti teologi e prelati della
Chiesa. Ciò illuse Galileo e lo indusse a volere una presa di posizione ufficiale da parte
della Chiesa. L’iniziativa era stata condotta da Galileo con molte probabilità di successo,
ma finì con gli esiti negativi di cui sappiamo A ciò contribuì non poco l’avversione dei
Gesuiti, cui la Chiesa aveva affidato la gestione dei fatti scientifici, ma anche l’intervento
teologico di Galileo con le lettere copernicane. Era cosa insolita e sospetta per un laico
come era lo scienziato pisano. L’altro è il caso di A. Koyré e la sua esposizione della
scoperta della traiettoria di Marte da parte di Keplero 217. L’analisi di Koyré è ben condotta,
ma non tiene nel dovuto conto il fatto che il racconto di Keplero della sua personale lotta
per scoprire la traiettoria di Marte ha una forte connotazione retorica e politica che falsa in
parte i connotati della ricerca.
Lo sviluppo dialettico, a differenza di quello lineare, poggia sulle opinioni degli autori
considerati. Anche l’errore è errore quando è riconosciuto come tale dallo stesso autore, o
da un autore contemporaneo o da uno successivo quando la proposizione in oggetto
riguarda una ricerca operativa in cui quella proposizione è un elemento rilevante. Allora la
proposizione che contiene l’errore viene corretta o annullata. A differenza dello sviluppo
lineare che è artificiale, quello dialettico è reale. È ancorato ai punti di vista degli autori
che considera. Gli oggetti su cui verte la ricerca, quindi, si susseguono secondo una logica
non precostituita, ma seguendo i più svariati percorsi secondo le diverse sollecitazioni che
l’intuito, l’abilità, il genio, le idiosincrasie, le tortuosità degli operatori che si succedono. I
momenti di sviluppo del percorso hanno l’immediatezza, la complessità, l’imprevedibilità
dei fatti. Pertanto non si snodano secondo un ritmo prestabilito, ma rilevato dopo, cioè ad
217
Cfr. La rivoluzione astronomica, Copernico, Kepler, Borelli, parte II, Keplero e l’astronomia nuova,
Feltrinelli, Milano 1966, pp. 99 e segg.
89
evento accaduto e quindi reale. La ricostruzione storica scandita su quei ritmi, scopre
quindi una sua intrinseca razionalità legata ad un oggetto che si perfeziona, si nega e si
riformula in una crescita continua e unitaria della conoscenza che si manifesta in
quell’oggetto. Quindi lo storico che vede le cose dell’ultimo anello della catena, sa che lo
sviluppo reale coincide con quello razionale. Ma non è presupposto all’inizio e non
coincide con lo sviluppo razionale astratto.
Cercherò ora di delineare i percorsi diversi per quanto concerne la meccanica
nell’evoluzione lineare e in quella dialettica. L’evoluzione lineare assume come punto di
riferimento il concetto odierno di meccanica. Esso viene proiettato alle origini e si trova
che in Grecia era stata formulata solo la statica, la quale era espressa in due forme, una
dinamica (rappresentata dalle Questioni meccaniche pseudo aristoteliche) in cui era già
presente in qualche modo il concetto di velocità virtuale, e una statica rappresentata dagli
Equiponderanti di Archimede, in cui la dimostrazione della legge della leva è espressa in
modo geometrico. I due aspetti verrebbero poi unificati da Galileo in base al principio
astratto di momento e ciò costituisce una sorta di prodromo della statica come disciplina
fisica 218. Nell’evoluzione dialettica si parte dal punto di vista degli antichi per i quali
meccanica è una disciplina che unifica sulla base di un principio le cosiddette macchine
semplici, cui sono ricondotti i vari congegni usati per trasportare e sollevare pesi. Tale
principio è la leva (riconducibile alla bilancia) e viene spiegato sia nelle Questioni
meccaniche sia nell’opera perduta di Archimede sulle bilance con riferimento ad un sistema
basato su due centri concentrici diseguali cui sono attaccati alle estremità del diametro di
pesi eguali che permangono in equilibrio (bilancia). Spostando i pesi si giunge a trovare un
nuovo equilibrio, la leva e la relativa legge. Il sistema di riferimento è simile nei due casi,
ma nelle Questioni meccaniche è formulato in base al moto naturale violento, in Archimede
no. Archimede integra poi la meccanica fisica con una meccanica teorica geometrica in cui
dimostra con mezzi puramente geometrici la legge della leva per poter poi utilizzarla per
la quadratura della parabola, dato che non si potevano usare proposizioni meccaniche in
geometria. Nel Medioevo cambia il quadro perché l’opera di Archimede sulle bilance era
già andata persa mentre non si conosceva lo scritto pseudo aristotelico, Si accoglie la
meccanica archimedea e si lavora su di essa integrandola con considerazioni dinamiche
analoghe a quelle delle Questioni meccaniche. Nel Rinascimento si ribalta ancora il quadro
pur rimanendo nell’ambito disciplinare greco (la meccanica è sempre la teoria delle
macchine semplici). Punto di riferimento sono gli Equiponderanti di Archimede, ma si
cerca di collegare le Questioni meccaniche, allora riscoperte, diffuse e criticate, in un
quadro che vuole essere unitario. Con Galileo si ribalta ancora la situazione. Galileo
riscrive in chiave fisica l’opera di Archimede e inserisce le proposizioni meccaniche in un
quadro mutato sulla base di un principio astratto, quello di momento, fondando in qualche
modo la meccanica moderna. Come si vede, è difficile individuare il vero punto di vista
dell’autore considerato, perché spesso mancano i documenti o perché è celato dallo autore
stesso. Per questo è necessario esprimere valutazioni sul punto di vista degli autori quando
si è in grado di motivarle in modo soddisfacente alla luce del contesto storico in cui sono
maturati. Si tratta di un approccio che va usato comunque con cautela. Nel caso in questione
si capisce la natura puramente geometrica degli Equiponderanti dalla struttura stessa
dell’opera, dalla rigidità dell’assetto disciplinare della ricerca scientifica greca; il contenuto
dell’opera sulle bilance dai frammenti enucleabili dall’opera di Erone sulla meccanica219;
la conciliazione di Archimede con il contenuto dell’opera pseudo aristotelica (allora
considerata di Aristotele) nasce dalla volontà di conciliare le due autorità antiche. Il
fraintendimento è anche favorito dal fatto che Guidobaldo Del Monte, il maggior artefice
di tale fraintendimento, non aveva notizia dell’opera di Erone, scoperta in traduzione araba
solo alla fine del secolo XIX. La volontà da parte di Galileo di unificare le due tradizioni
della meccanica antica è un fraintendimento moderno, perché non c’è alcun cenno, diretto
o indiretto di questa prospettiva da parte dello scienziato pisano 220. L’atteggiamento rigido
di Guidobaldo Del Monte ha contribuito ad estremizzare la visione antica favorendone il
superamento, insieme con la critica radicale delle Questioni meccaniche operata dai

218
Cfr. M. Clagett, La scienza della meccanica nel Medioevo, Feltrinelli, Milano 1972, p. 178.
219
Cfr. A.G. Drachmann, Fragments from Archimedes in Heron’s Mechanics, «Centaurus», 8, 1963, pp.
91-146.
220
Cfr. G. Micheli, Le origini del concetto di macchina. Olschki, Firenze 1995, p. 137.
90
commenti di Bernardino Baldi e Giovanni Guevara. Nell’approccio lineare Guidobaldo
viene espunto per il suo rigorismo legato alla meccanica antica.
Per sottolineare la diversità dell’approccio lineare e dialettico, adduco un altro esempio,
quello relativo alla circolazione del sangue. Nell’evoluzione lineare, la formulazione di
Harvey di questa teoria misconosciuta dagli antichi è faticosamente elaborata dal medico
inglese sulla base di una gran massa di dati sperimentali, acquisiti in parte dagli anatomisti
e in parte da personali ricerche individuali condotte con particolare perizia. Harvey usa
dunque il metodo sperimentale moderno e le deficienze della sua teoria (esistenza dei
capillari, ossigenazione del sangue) sono da attribuirsi alla mancanza di strumenti adeguati
(microscopio)e di osservazioni derivate da discipline non ancora esistenti come la chimica.
Nell’evoluzione dialettica la scoperta di Harvey nasce da molti fattori, la progressiva
acquisizione di dati anatomici tradizionali corretti, l’uso accurato della sperimentazione, e
soprattutto da una nuova concezione finalistica in luogo di quella strutturale galenica in cui
hanno gran parte le proprietà del cerchio e del movimento circolare desunte dalla letteratura
magica diffusa nel suo tempo. I più avveduti studiosi moderni, come W. Pagel, danno
grande evidenza a questi aspetti polemizzando contro la tesi di Harvey moderno
sperimentatore 221. In realtà quella di Harvey è la prima formulazione della circolazione del
sangue ed è espressa entro il contesto finalistico tradizionale, ancorché modificato. Si ha
una nuova formulazione quando, con Cartesio la circolazione del sangue è posta come
elemento fondamentale della fisiologia meccanicistica insieme con una nuova teoria del
movimento del cuore 222. La correzione dei dati cartesiani, operata da Borelli e da altri
iatromeccanici nonché la scoperta dei capillari fatta da Malpighi, dà l’impulso per una
nuova riformulazione meccanicistica della teoria 223, che solo nel 700, a seguito di una
generale revisione, assumerà l’assetto moderno.
L’approccio lineare, adottando la terminologia di Imre Lakatos, può essere inteso come
una ricostruzione razionale della scienza. Secondo Lakatos la ricostruzione razionale della
scienza presenta varie formulazioni in relazione ai principi di cui si avvale lo storico o il
filosofo della scienza. Lakatos individua una formulazione induttivistica,
convenzionalistica, falsificazionistca. Propone egli stesso una formulazione che chiama
‘metodologia dei programmi di ricerca scientifica’. La ricostruzione lineare della scienza
potrebbe far parte di questo elenco ricordando però che non è caratterizzata da una
connotazione teorica forte. In un certo senso le sussume tutte. L’approccio dialettico,
invece, può essere inserito solo impropriamente nella partizione di Lakatos in quanto
intende ricostruire lo sviluppo della scienza nei suoi termini reali e rintracciare la
razionalità negli elementi che l’hanno costituita in modo necessario 224. Non incontra
anomalie in quanto non ha un prospetto precostituito che le determina, e se ci sono, sono
quelle che hanno incontrato e risolto i vari operatori nei singoli momenti dello sviluppo.
L’approccio lineare privilegia le singole formulazioni di problemi delle varie discipline
che vengono considerate come momenti di un processo che conduce all’ultima
formulazione della disciplina presa in esame. Il contesto metodologico, fisico, economico,
sociale in cui appaiono suscita un interesse solo marginale in relazione alla formulazione
iniziale rispetto a quella successiva di un problema. Ma un problema svincolato dal
contesto disciplinare in cui è sorto e messo in altri contesti appare privo di significato.
L’approccio dialettico, invece, analizza le singole proposizioni all’interno del contesto
disciplinare in cui sono inserite. Le variazioni di significato, di mano in mano che la singola
proposizione si trasforma nel nuovo contesto metodologico, fisico, economico,
costituiscono l’elemento privilegiato della sua analisi. L’evoluzione dialettica, quindi,
considera le singole proposizioni accolte, identificando le critiche a cui vengono sottoposte
in riferimento ai sistemi e alle concezioni generali in cui esse sono inserite. Così le diverse
concezioni della meccanica antica sono criticate in dettaglio, assimilate e superate nel corso
dell’età rinascimentale, rifondate da Galileo, da Cartesio, e rielaborate di nuovo da

221
Cfr. W. Pagel, Le idee biologiche di Harvey, Feltrinelli, Milano 1979.
222
Cfr. R. Descartes, Opere scientifiche, I. La biologia, a cura di G. Micheli, UTET, Torino 1965.
223
Cfr. M. Malpighi, Sui polmoni, in Opere, a cura di L. Belloni, UTET, Torino 1967, pp. 69 e segg. Per
Borelli si veda R. Descartes, op. cit., pp. 194-195.
224
Cfr.I. Lakatos, La storia della scienza e le sue ricostruzioni razionali, in A. Musgrave (a cura di),
Critica e nascita della conoscenza, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 366-408.
91
Varignon, cioè sono inserite in concezioni generali diverse che rimodulano quelle
precedenti.

92
DIDASCALIE

Fig. 1b e 1b: Tessera del Circolo Antonio Banfi del P.C.I. per l’anno 1960.

Fig. 2: Copertina della Tesi di Laurea, La biologia di Descartes, Anno Accademico


1958-1959.

Fig. 3: Alcuni dei partecipanti a uno dei primi Seminari varesini (inizio anni ’80). In
piedi, in primo piano, da sinistra a destra si riconoscono Gianni Micheli, Arrigo Pacchi,
Mario Dal Pra Ludovico Geymonat, ???, Amedeo Vigorelli, Elio Franzini, ???.
Accovacciati sempre da sinistra a destra: Roberto Maiocchi, ???, Luigi Zanzi e Fabio
Minazzi.

Fig. 4: Gianni Micheli e Luigi Zanzi durante i lavori del Convegno su Giulio Preti
svoltosi a Milano nel 1990.

Fig. 5: Alcuni partecipanti al ‘Primo convegno internazionale di ricognizione delle fonti


per la storia della scienza italiana: i secoli XIV-XVI’ (Pisa, 14-16, settembre 1966) in gita
a Larderello. Gianni Micheli è il primo sulla destra.

Fig. 7: Ferruccio Franco Repellini e Gianni Micheli a Gargnano nel 2008 durante lo
svolgimento di uno dei Seminari sulla scienza antica e le sua tradizione.

Fig. 8: Gianni Micheli a Pavia nel settembre 2015 insieme ad alcuni suoi allievi divenuti
storici della scienza: Da sinistra a destra: Mariacarla Gadebusch Bondio (Institut für
Geschichte und Ethik der Medizin, Technische Universität München), Marco Beretta
(Dipartimento di Filosofia e Comunicazione, Università degli Studi di Bologna) e Elio
Nenci (Dipartimento di Filosofia, Università degli Studi di Milano).

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IMMAGINI

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