Sei sulla pagina 1di 330

I paesaggi d’Europa tra storia, arte e natura

Atti della Conferenza Trilaterale di Ricerca 2005-2007

Die Kultur der Landschaft in Europa


Akten der Trilateralen Forschungskonferenz 2005-2007

Les paysages d’Europe entre histoire, art, nature


Actes de l’Atelier de Recherche Trilatéral 2005-2007

A cura di – édité par – herausgegeben von:

RITA COLANTONIO VENTURELLI

VILLA VIGONI
Deutsch-Italienisches Zentrum
Centro Italo-Tedesco

2008
I paesaggi d’Europa tra storia, arte e natura
Atti della Conferenza Trilaterale di Ricerca 2005-2007

Die Kultur der Landschaft in Europa


Akten der Trilateralen Forschungskonferenz 2005-2007

Les paysages d’Europe entre histoire, art, nature


Actes de l’Atelier de Recherche Trilatéral 2005-2007

A cura di – édité par – herausgegeben von:

RITA COLANTONIO VENTURELLI

Cura redazionale e impaginazione – révision et mise en page – Redaktion und Satz:

ANKE ELISABETH FISCHER

VILLA VIGONI
Deutsch-Italienisches Zentrum
Centro Italo-Tedesco
Via Giulio Vigoni 1
I-22017 Loveno di Menaggio (CO)
www.villavigoni.eu

2008
INDICE – INDÈXE – INHALT

Introduzione – introduction – Einleitung

RITA COLANTONIO VENTURELLI


Alcune riflessioni sulla possibilità di definire 7
un nuovo modello culturale di paesaggio europeo

Prima parte – première partie – erster Teil


I paesaggi d’Europa nelle scienze della vita, del territorio, dell’uomo e della società
Les paysages d’Europe comme objets des sciences de la Vie, de la Terre, de l’Homme et de la Société
Die Landschaften Europas in den Natur-, Kultur- und Gesellschaftswissenschaften

RITA COLANTONIO VENTURELLI – ANDREA GALLI – GIOVANNA PACI


Multidisciplinarietà e ricomposizione del sapere. 17
Un contributo per la gestione del paesaggio culturale

GIORGIO MANGANI
Topica del paesaggio 34

HANSJÖRG KÜSTER
Natur und Landschaft in naturwissenschaftlicher Sicht: 44
Zwei Begriffe, die unterschieden werden müssen

ALFONS DWORSKI
Architektur- und Landschaftsverständnis im Wandel von Ort und Zeit. 49
Einige Episoden der europäischen Ideengeschichte am Leitfaden
von Architektur- und Landschaftsbetrachtungen

YVES LUGINBÜHL
Gouverner un paysage 62

FRANÇOISE DUBOST
Un point de vue ethnologique sur l’esthétique du paysage 72

3
Seconda parte – deuxième partie – zweiter Teil
I paesaggi d’Europa nella letteratura e nell’arte
Les paysages d’Europe comme objets des démarches de connaissances des paysages
en tant qu’œuvres de l’art et de la littérature
Die Landschaften Europas in Literatur und Kunst

RAFFAELE MILANI
Determinazione di un’estetica del paesaggio 77

MICHEL COLLOT
Paysage et identité(s) européenne(s) 82

YVES LUGINBÜHL
Paysage et politique 90

GIORGIO MANGANI
I casi della necessità 102

GABRIELLA ROVAGNATI
Venezia: una leggenda. Declinazioni di un paesaggio nella letteratura tedesca 124

MICHEL COLLOT
Le visible et l’invisible: les Paysages avec figures absentes de Philippe Jaccottet 157

RAFFAELE MILANI
Il paesaggio letterario come paesaggio reale. Spunti da Gabriele D’Annunzio 166

4
Terza parte – troisième partie – dritter Teil
I paesaggi d’Europa come progetti di paesaggio e di ‘governance’
Les paysages d’Europe comme projets de paysage et gouvernances de projets de paysage
Die Landschaften Europas – Landschaftsplanung und ‚Governance’

RITA COLANTONIO VENTURELLI ET AL.


Riflessioni metodologiche e applicative sulla gestione integrata del paesaggio 173
Il tempo libero sull’acqua: il “paesaggio delle ville storiche” del Lago di Como 189
Per un paesaggio della “produzione Marche-Italian Style”: 209
il caso di studio dell’area metropolitana di Ancona

PIERRE DONADIEU
Le paysage, identités paysagères et le développement durable urbain 236

GIOVANNI BUZZI
La dimensione economica e sociale del paesaggio culturale extraurbano 250

PIERRE DONADIEU
Le Landscape urbanism est-il un nouveau modèle de pratiques paysagistes ? 259

PAOLA BRANDUINI
La gestione delle trasformazioni nel paesaggio agricolo periurbano. 272
Permanenze storiche e paesaggi futuri

PIERRE DONADIEU
Les professionnels du paysage et la construction des biens communs paysagers. 291
Le cas de l’agriculture urbaine

Abstracts 306

Gli autori – les auteurs – die Autoren 327

5
Introduzione – introduction – Einleitung

6
RITA COLANTONIO VENTURELLI

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA POSSIBILITÀ DI DEFINIRE UN NUOVO


MODELLO CULTURALE DI PAESAGGIO EUROPEO

Was mir den Hauptantrieb gewährte, war das


Bestreben die Erscheinungen der körperlichen
Dinge in ihrem allgemeinen Zusammenhange, die
Natur als ein durch innere Kräfte bewegtes und
belebtes Ganze aufzufassen. (Ciò che mi ha
dato la spinta principale è stata
l’ispirazione a concepire i fenomeni degli
oggetti fisici nella loro connessione
generale, la natura come una totalità
mantenuta in movimento e in vita da
forze interiori.)
Alexander von Humboldt

1. I presupposti storici

In un momento in cui continua a interessare ancora molto il dibattito sulle radici religiose della
cultura europea, sembra opportuno chiedersi se anche la cultura del territorio e del paesaggio possa
essere ricondotta a una matrice comune.
Si può dire che fino all’età medievale è riconoscibile un’impronta unitaria che, sotto certi aspetti,
collegava alcune forme insediative dell’Europa occidentale. Infatti, l’impero romano aveva imposto
alcuni principi organizzativi spaziali che, ad esclusione di Roma, si ripetevano costantemente,
indipendentemente dalla tipicità dei singoli luoghi in cui venivano applicati: la colonizzazione aveva
comunque un’ispirazione militare, e quindi delle regole inderogabili. Sugli impianti urbani e agrari
romani, simili ovunque, trasformati più tardi dalle esigenze di adattamento alle conseguenze – del
declino prima e della decadenza poi – dell’impero romano, si innestarono i modelli urbani e rurali
medievali, dettati dagli sviluppi culturali che nel frattempo stavano gradatamente sostituendo il
pragmatismo romano ed i nuovi principi ispiratori.
Così, mentre il sistema politico ormai lasciava il posto alle forme più nuove, il territorio
continuava a trasformarsi spontaneamente secondo un paradigma che manteneva ancora, anche nelle
nuove espressioni spaziali, delle regole insediative simili in ogni luogo. Infatti, anche se le tradizioni
locali della lavorazione agricola del suolo imponevano il risultato di un’immagine molto diversa da
luogo a luogo, tuttavia la cartografia delle città medievali testimonia dei modelli che, pur nelle loro
diverse declinazioni che formalmente denotano una nuova libertà di adattamento alle specifiche
esigenze climatiche, orografiche e difensive, concettualmente ruotano tutti intorno a dei punti fissi. Essi

7
sono rappresentati dai luoghi collettivi religiosi e civili, a cui viene dedicata tutta l’attenzione
progettuale.
Infatti, nella città medievale esisteva una sorta di doppio regime, poiché, mentre una volta
tracciato un quadro di riferimento articolato in areae, e cioè in unità di isolato, le abitazioni – di
qualunque classe sociale – vi venivano edificate secondo i criteri dettati liberamente dal proprietario,
l’obbiettivo prioritario dell’organizzazione urbana era quello dello spazio collettivo. Dunque, ciò che
accomuna il paesaggio medievale non è un unico modello, ma la riconducibilità di numerose forme
insediative ad alcuni modelli organizzativi e formali basati tutti su principi analoghi, peraltro non
programmati né imposti, ma adattati ai luoghi in cui venivano applicati. Ed è questa una delle forme di
equilibrio più interessanti tra l’assenza di precisi strumenti di piano, intesi nell’accezione attuale, come
sembrano ribadire gli studi più recenti sulle rappresentazioni ideali disponibili, e la realizzazione delle
esperienze costruttive degli edifici – quasi esclusivamente di quelli collettivi – affidate ai “mastri” senza
una precisa organizzazione edilizia.
Anche il paesaggio agrario ha un suo rapporto simile ovunque con la città: gli orti privati e i
pascoli collettivi, le selve e i campi aperti sono lo sfondo costante dei castelli feudali come dei borghi
inerpicati in posizione difensiva 1. Anch’essi riflettono un’opera di cura costante delle zone 2 produttive
periurbane, fortemente collegata con i principi ispiratori del modello culturale che ha generato la
rinascita medievale degli insediamenti urbani 3.
Allora, dai documenti e dalle immagini disponibili, e alla luce delle interpretazioni che ne
forniscono oggi le scuole più accreditate, sembra che si possano trarre alcune lezioni dal modello
medievale che si sintetizzano in alcuni punti essenziali:

• La libertà di adattamento dei principi ispiratori comuni del processo di trasformazione


genera una specie di “piano strategico” che si sviluppa continuamente;
• La mancanza di un controllo minuzioso dell’autorità politica sulle scelte di maggior dettaglio
può contribuire all’organizzazione e all’espressione di una società più articolata;
• L’enfasi data alle funzioni collettive è la base dello sviluppo dell’identità locale;
• Il rapporto con il territorio extraurbano contribuisce in maniera sostanziale alla corretta
organizzazione spaziale urbana.

1 Il testo di riferimento più importante su questo tema rimane sempre E. SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza,
Bari, 1961.
2 Per una riflessione molto approfondita e multidisciplinare sulla città medievale, si rimanda a: B. FRITSCHE – H.-J.

GILOMEN – M. STERCKEN (a cura di), Städteplanung – Planungsstädte, Chronos, Zurigo, 2006.


3 A questo proposito, si rimanda al saggio: R. COLANTONIO VENTURELLI, Il paesaggio: concetto ed espressione fisica, “Nuova

informazione bibliografica”, n°4, ottobre – dicembre 2006.

8
Forse, queste riflessioni sul paesaggio medievale possono essere considerate come alcune delle
linee comuni da porre alle origini del paesaggio europeo, che poi si perderanno a causa della formazione
di diverse identità culturali, della formazione e della separazione sempre più accentuata delle diverse
culture nazionali, come ad esempio avviene per l’Umanesimo e per il Rinascimento, e quindi dello
sviluppo dei differenti modelli di gestione del paesaggio. Pertanto, mentre in Italia si affermava un
nuovo paradigma, quello medievale si sviluppava coerentemente nel resto dell’Europa, prolungandosi
fino quasi al XVII secolo.
Dai risultati emersi nei primi due incontri, il gruppo di lavoro della Conferenza di ricerca ha
mostrato come in fondo anche oggi si può parlare di alcuni aspetti che accomunano le diverse forme di
paesaggio, ma sembra che tra questi aspetti comuni prevalgano quelli negativi. Ciò che assimila tutti
sembra essere l’appiattimento imputabile al diffondersi del modello culturale globale, con tutte le sue
conseguenze di insostenibilità e di intollerabilità. Ebbene, è proprio su questi due punti che bisogna
fondare l’azione futura: da un lato sulla diffusione dei problemi simili, e dall’altro sulle diverse
esperienze culturali che possono essere messe a disposizione per risolverli.

2. I presupposti scientifici emersi dalla Conferenza di ricerca

Sempre dalla Conferenza di ricerca, è emerso anche che l’orientamento scientifico


multidisciplinare sembra rispondere in modo più appropriato all’esigenza di scegliere delle tracce per
guidare il confronto interno del gruppo, ma anche per dare un contributo chiaro al dibattito
internazionale che si sta svolgendo sul tema dei nuovi paesaggi.
Come è noto, la matrice scientifica multidisciplinare non è una novità recente: il primo interprete del
tentativo di organizzare le conoscenze scientifiche in questo senso è stato Alexander von Humboldt
che dice:

Es sind aber die Einzelheiten im Naturwissen ihrem inneren Wesen nach fähig wie durch eine
aneignende Kraft sich gegenseitig zu befruchten. Die beschreibende Botanik, nicht mehr in den
engen Kreis der Bestimmung von Geschlechtern und Arten festgebannt, führt den Beobachter,
welcher ferne Ländern und hohe Gebirge durchwandert, zu der Lehre von der Geographischen
Verteilung der Pflanzen über den Erdboden nach Maaßgabe der Entfernung von Aequator und der
senkrechten Erhöhung des Standortes. Um nun wiederum die verwickelten Ursachen dieser
Vertheilung aufzuklären, müssen die Gesetze der Temperatur-Verschiedenheit der Klimate wie der
metereologischen Processe im Luftkreise erspähet werden.
(Trad. it: I dettagli della conoscenza della natura sono per loro intima essenza capaci di integrarsi
reciprocamente attraverso una forza di attrazione. La botanica descrittiva, non più delimitata nella
ristretta cerchia della determinazione di generi e specie, conduce l’osservatore che attraversa paesi
lontani e alte montagne alla teoria della distribuzione geografica delle piante sulla terra, secondo la
misura della distanza dall’equatore e dell’altitudine del luogo. Per spiegare di nuovo le complesse
ragioni di questa distribuzione si devono tenere presenti le diverse temperature dei climi e dei

9
processi meteorologici dell’atmosfera. Così, ogni classe di fenomeni conduce l’osservatore avido di
conoscenza ad un’altra classe di fenomeni attraverso la quale essa viene sostenuta o dalla quale
dipende) 4.

Accanto alle potenzialità multidisciplinari, uno dei fattori che hanno permesso al gruppo di lavoro
di avvalersi dei propri robusti presupposti operativi è stato quello dell’appartenenza dei suoi membri ai
diversi riferimenti culturali legati inevitabilmente alle diverse origini geografiche. Questi due fattori,
quello della multidisciplinarità e quello dell’internazionalizzazione, i quali si rivelano spesso degli
ostacoli per un dibattito proficuo, hanno permesso al contrario di far collaborare le diverse scuole di
pensiero, i diversi campi disciplinari e le diverse concezioni nazionali. Dunque, un tentativo di
ricomporre i vari aspetti del sapere ha prodotto una base di lavoro comune per ricomporre una
concezione scientifica unitaria, dal quale dedurre i presupposti per un possibile modello fisico: la
(ri)composizione del sapere si è adoperata per la ricomposizione del paesaggio.
Questa ricomposizione è avvenuta attraverso la ricerca, l’enfatizzazione e l’approfondimento delle
interfacce, e non dei singoli campi; o meglio, dall’ottica comune di studiare i rapporti è scaturita quella
prima idea del modello culturale integrato che ha poi aiutato a trasferire questi presupposti in un
modello ispiratore formale del paesaggio.

3. Il nuovo modello culturale delineato

Si possono rintracciare chiaramente alcune proposizioni del pensiero sviluppato durante i due
incontri dedicati al confronto tra le diverse posizioni di partenza. Questo confronto si è svolto
seguendo le tre declinazioni del concetto di paesaggio che hanno guidato il lavoro di tutto il gruppo:
quella del paesaggio come racconto e invenzione, quella del paesaggio come scienza e rappresentazione, e quella del
paesaggio come progetto e come governance. Si può dire che le posizioni dei singoli apporti si possono
esprimere molto sinteticamente nell’espressione di queste tre diverse articolazioni, come segue.

a) - Il paesaggio come racconto e invenzione


Il paesaggio è un’immagine, quindi il paesaggio è la natura, ordinata secondo concetti estetici.
Mentre la natura è un’entità oggettiva, che può essere influenzata solo con difficoltà, il paesaggio è un’
entità soggettiva, quindi una costruzione determinata dalla percezione dell’uomo 5. Dunque, l’estetica del
paesaggio non deve limitarsi solo allo studio e all’analisi delle immagini del paesaggio stesso, per quanto
ciò costituisca il suo ambito specifico, ma deve dirigere la sua attenzione verso un disegno organico

4A. VON HUMBOLDT, Kosmos, Eichborn, Francoforte, 2004, p. 3.


5U. KÜSTER, Kunst und Landschaft: Raum und Bild. Überlegungen zur Landschaft in der Kunstgeschichte und zu Bünhnenbildentwürfen von
Pierre-Adrien Pâris, in: R. COLANTONIO VENTURELLI – K. TOBIAS (a cura di) La cultura del paesaggio, Olschki, Firenze, 2005.

10
dell’intervento dell’uomo nell’ambiente, inteso come specifico contesto fisico. Pertanto, attraverso
l’interpretazione, subentra un’ulteriore categoria, che è centrale nella concezione estetica del paesaggio:
quella dell’intenzionalità, della coerenza dell’intervento progettuale come ponte tra passato e futuro, tra
memoria e nuove funzioni di spirito e materia. In questo senso, secondo Milani, “progettare significa
ridefinire un disegno di relazioni, comporre un tessuto di forme” 6.

b) - Il paesaggio come scienza e rappresentazione


Secondo Donadieu, la costruzione di un futuro auspicabile è un progetto di società 7. Infatti,
l’antitesi città – campagna è decisamente superata in vista del concetto di “campagna urbana”: così,
l’ostilità si trasforma in collaborazione con la città. Dunque, i luoghi periurbani o “parchi di campagna”
sono eco-simbolici, perché da un lato rinnovano e accrescono il valore ecologico dell’intero territorio
urbano, mentre dall’altro rispondono alle esigenze di esprimere non solo l’identità locale, ma anche la
concezione culturale corrente di spazio a servizio della collettività.
Pertanto, il settore produttivo agricolo assume un nuovo ruolo economico e sociale complesso,
e cioè quello di produttore di reddito integrato con varie altre attività, e insieme di sostegno allo
sviluppo urbano fornendo, oltre agli spazi di riequilibrio ambientale, anche una parte
dell’approvvigionamento alimentare della città. Allora, il contributo progettuale, che deriva dalla
riconnessione tra la nuova ruralità e la nuova città, consiste nel proporre un significato diverso
all’assetto del territorio urbano ed a quello periurbano, al territorio differenziato nelle strutture, ma
organizzato in modo unitario sia dal punto di vista funzionale, sia da quello degli strumenti di
pianificazione del territorio stesso.

c) - Il paesaggio come progetto e come governance


Seguendo le affermazioni di Hansjörg Küster 8, si può dire che, poiché il paesaggio è un
prodotto della cultura dell’uomo, diventa tautologico parlare di paesaggio culturale. Invece, la natura è
un’entità compiuta in sé, con le sue leggi intrinseche e con la sua tendenza alla stabilità che la porta a
trasformarsi continuamente attraverso l’autoregolazione. Pertanto, per poter studiare il paesaggio è
necessario rifarsi al concetto proposto da Alexander von Humboldt come sintesi di numerosi aspetti.
Quest’ottica mette in crisi, ancora una volta, la frammentazione del sapere e le sue conseguenze
negative che si sono ripercosse in molti campi. Tra le più pericolose, vi sono senz’altro quelle politiche,
che condizionano a loro volta le modalità gestionali del paesaggio, ignorando il fatto che la vera scienza

6 R. MILANI, Il paesaggio è un’avventura, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 165.


7 P. DONADIEU, Campagne urbane, Donzelli, Roma, 2006.
8 H. KÜSTER, Geschichte der Landschaft in Mitteleuropea, C. H. Beck, München, 1995.

11
del paesaggio non fa capo ad una singola disciplina, ma è una sintesi delle conoscenze razionali e delle
istanze emotive dell’uomo.
Infatti, secondo il suggerimento di chi scrive e del gruppo di cui fa parte, esistono
essenzialmente tre fattori delle politiche pianificative e gestionali del paesaggio: il patrimonio delle
risorse, la conoscenza scientifica e tecnologica, e l’opinione pubblica. Quando questi tre fattori sono in
equilibrio, e il punto focale di questo equilibrio viene definito ogni volta in modo diverso in funzione
delle singole situazioni, la trasformazione del paesaggio proposta da un’azione di piano ha buone
possibilità di riuscita. Dunque, si tratta di coinvolgere nel processo decisionale tutti gli attori interessati
che costituiscono la cosiddetta governance.
In uno dei due contributi portati alla Conferenza dagli studiosi che hanno seguito questo
indirizzo viene dimostrato come, in due diversi casi di studio, sia stata proposta una precisa
correlazione tra una strategia articolata di ricomposizione del paesaggio e la trasformazione della
governance locale in una good governance, come espressione della collettività degli attori pubblici e privati
che sono interessati a qualsiasi titolo alla gestione del paesaggio.

Dunque, tornando alla posizione culturale espressa dalla Conferenza, essa si può riassumere per
grandi linee nei seguenti punti chiave, i quali costituiscono una specie di “manifesto” del gruppo:
• Il fatto che i problemi riguardanti il paesaggio sono comuni deve essere considerato un
vantaggio;
• La costruzione di un futuro auspicabile è un progetto di società;
• Lavorare individualmente ed insieme per la ricomposizione del sapere può contribuire a
formare un modello culturale complesso che si possa riflettere sulla formazione di alcuni
principi ispiratori validi per la declinazione flessibile dei diversi paradigmi del paesaggio
europeo;
• Il concetto di paesaggio definito dal gruppo comprende due accezioni che si integrano,
superando i rigidi confini tradizionali:
- la prima accezione, secondo Raffaele Milani, suggerisce che “l’arte del paesaggio è
un complesso di forme e dati percettivi, un prodotto del fare e della fantasia. Il
paesaggio, nel suo statuto morfologico, non ha canoni e tecniche, non è un’attività, ma
un rivelarsi di forme in consonanza con l’intervento materiale e immateriale
dell’uomo” 9;
- la seconda, tratta da Hansjörg Küster, afferma che il paesaggio è un prodotto della
cultura dell’uomo, dunque dal punto di vista della scienza, la natura e il paesaggio sono
due concetti che devono rimanere distinti;
9 R. MILANI, op. cit., p. 102.

12
• Quindi, poiché la matrice culturale da proporre deve essere in grado di integrare le due
accezioni, essa non può che rifarsi alla matrice complessa che deriva dal pensiero di
Alexander von Humboldt, attualizzandone il significato;
• Dunque, l’ottica scientifica più adatta da seguire è quella multidisciplinare;
• Per quanto riguarda le origini del paesaggio europeo, bisogna considerare alcuni spunti
ricavati dai modelli culturali ed insediativi medievali come dei possibili paradigmi
ispiratori da rendere attuali ed applicativi;
• Per evitare che la riflessione scientifica svolta rimanga un prodotto esterno al mondo
reale, è necessario rafforzare il rapporto del gruppo di lavoro con la governance del
territorio e del paesaggio. In questo senso, i risultati prodotti si possono considerare un
buon supporto che può contribuire allo sviluppo di quella good governance che è formata
da tutti gli attori coinvolti nello sviluppo del nuovo paesaggio e europeo, ricomposto e
disegnato per l’uomo.

4. Lo scenario del nuovo modello insediativo possibile e i primi riflessi del modello culturale
proposto

Le linee propositive del modello insediativo, che si può ipotizzare come conseguenza della
costruzione del modello culturale esposto nei punti precedenti, sono il risultato di un autentico lavoro
collettivo. Infatti, il gruppo degli studiosi che hanno partecipato alla Conferenza non ha seguito le
modalità tradizionali della ricerca, secondo le quali ogni componente disciplinare fornisce un prodotto
specifico, ma al contrario queste linee esprimono il dibattito che si è sviluppato durante gli incontri, in
cui ciascuno ha messo a disposizione di tutti gli altri le proprie conoscenze.
Pertanto, il modello insediativo possibile che viene proposto non consiste in una
rappresentazione spaziale, ma in uno scenario in cui si traducono le riflessioni sulle tendenze culturali in
atto, delle quali si escludono quelle che potrebbero esasperare l’incoerenza e la frammentazione
culturale, e di conseguenza quella fisica. Dunque, non vengono proposte tanto delle ricette valide
sempre e comunque, quanto la definizione di ciò che non deve essere in nessun modo presente.
Pertanto vengono escluse le seguenti situazioni:
• Mancanza di scenari di riferimento complessivi da scegliere ed adottare nei casi specifici;
• Frattura tra i soggetti decisionali e gli attori interessati alla redazione degli strumenti gestionali
del paesaggio;
• Redazione di strumenti pianificativi che si occupano di un solo settore di intervento per volta,
senza collocarsi in un quadro definito di organizzazione complessiva ed integrata del paesaggio
nel suo complesso;
13
• Mancata considerazione della coscienza collettiva ed individuale della popolazione locale;
• Mancata considerazione del “sentimento del paesaggio” che la cultura locale nutre nei confronti
dei luoghi di appartenenza 10;
• Scenari abitativi tutti uguali tra loro, accomunati dalla mancanza di uno stile organizzativo, come
dimostrano la realtà, ma anche una certa concezione della globalizzazione pericolosamente
malintesa;
• Ruralità separata e/o confusa con la città;
• Soluzioni prive di flessibilità.

Le istanze fondamentali che ne derivano impongono, tra le caratteristiche irriununciabili, che


l’uomo ritorni ad essere al centro delle azioni di trasformazione del paesaggio e dell’impiego delle sue
risorse. Si tratta di porsi degli obbiettivi di sostegno delle trasformazioni compatibili con le scelte
culturali, di crescita dell’identità e di tutela di tutte le dimensioni di cui l’uomo dispone. Pertanto, la
dimensione estetica, ad esempio, deve avere almeno la stessa importanza di quella economica, e ciò in
tutte le scelte che riguardano l’espressione fisica del modello culturale.
E’ in questo senso che si può richiamare correttamente il fatto che il paesaggio è un rivelarsi di
forme in consonanza con l’intervento materiale e immateriale dell’uomo, e quindi che il diritto alla
bellezza, presente ad esempio nella costituzione finlandese, comincia ad esprimere anche sul piano
giuridico un’esigenza ormai irrinunciabile dell’uomo. Quest’esigenza deve essere soddisfatta sia nel
paesaggio urbano, sia in quello extraurbano, anzi forse qui la richiesta potrebbe essere ancora più forte,
proprio in virtù di un senso di riequilibrio rispetto ad alcune situazioni urbane consolidate ed ormai
difficili da contrastare. Ma che senso può avere parlare di paesaggio agrario e di ruralità in un momento
in cui la popolazione urbana raggiunge il 70%, al termine del primo secolo “interamente urbano” – cioè
in cui per cento anni di seguito essa ha superato costantemente il 50% della popolazione totale?
Il valore della risposta sembra essere contenuto proprio nel fatto che tanto più la città acquista
la sua importanza demografica e fisica, tanto più si cerca un rapporto con il territorio non urbano.
Infatti, le nuove politiche agricole tengono conto sicuramente delle necessità ambientali, ma anche della
produzione agricola che, pur subendo delle trasformazioni, rimane comunque un aspetto fondamentale,
soprattutto se si riesce a rimettere in contatto e in rapporto con le esigenze alimentari della città.
Dunque, si profila la possibilità di recuperare il significato antico del territorio extraurbano, che è sorto
nel Medio Evo, sotto due aspetti: quello dell’integrazione del mercato locale con i prodotti del luogo, e
quello della ricomposizione delle zone periferiche con le zone centrali attraverso la riorganizzazione
funzionale ambientale dell’intera regione urbana. Ecco che il sostegno allo sviluppo dell’identità locale

10 Sul concetto di rigenerazione urbana si rimanda a: T. HALL, Urban Geography, Routledge, New York, 2005.

14
viene promosso partendo proprio da quelle situazioni marginali che sono state più a lungo le più
degradate, e che al contrario possono offrire delle importanti possibilità di riequilibrio.
Così, gli strappi, le ferite e le profonde lacerazioni di cui parla Milani, possono essere
ricomposte progettando, e cioè ridefinendo un disegno di relazioni, componendo un tessuto di forme.
Ma le forme rivelano un’organizzazione spaziale indifferenziata delle città, che sempre più spesso
diventano delle metropoli generate dal modello della cultura della trascuratezza, dell’economia del
commercio massificato, della ricerca più spietata della rendita urbana. Invece, la città ha bisogno di
essere rigenerata, poiché il suo declino sembra essere denunciato da molte parti10. L’interpretazione dei
problemi e delle loro cause deve produrre dei programmi che siano collocati nei diversi contesti storici,
geografici e politici, ma prefigurati anche in base alla dimensione temporale, gradualmente, e a quella
spaziale, per parti di città. Dunque, la rigenerazione fisica del paesaggio passa attraverso la rigenerazione
del modello culturale che ne deve sostenere la trasformazione futura, proprio perché il paesaggio è
l’espressione tangibile della cultura dell’uomo.
Se è vero che i problemi sono generali e che le regole sono sempre meno locali, bensì sono
nazionali o perfino internazionali, è tanto più vero che le soluzioni da trovare devono essere locali; ma
attenzione: non è più la frammentazione che deve dominare, ma il rispetto di alcune valenze plurime
che partono da una strategia comune, in modo tale che la governance locale vi si possa rapportare,
declinando i paradigmi generali nei casi specifici. Altrettanto, si richiede che le singole realtà locali si
confrontino con la strategia più vasta espressa dalla capacità di colloquiare con le istanze delle governance
dei livelli superiori.
Allora, rispondendo all’interrogativo iniziale riguardo alla possibilità di rintracciare delle radici
comuni del paesaggio europeo, sicuramente la nostra risposta è positiva e tenta di essere unitaria;
avvalendosi della ricchezza delle istanze scientifiche e culturali derivanti dalla pluralità dei soggetti
partecipanti all’ “avventura” della Conferenza di ricerca, le radici culturali future forse possono scaturire
da quell’idea di libertà che propongono Peter Hall e Ulrich Pfeiffer nel loro documento introduttivo
all’Expo di Hannover del 2000, e cioè l’idea della libertà di circolazione degli abitanti sorretta dall’idea
della libertà intellettuale e culturale: una visione futura ispirata al modello della civiltà ateniese 11.
A nome di tutti i partecipanti alla Conferenza di ricerca e a nome mio personale desidero
ringraziare la Deutsche Forschungsgemeinschaft, la Maison des Sciences de l’Homme di Parigi e
l’Università di Trento per il generoso contributo che hanno dato per la realizzazione dell’intero
progetto, nonché il personale di Villa Vigoni. In particolare, ringrazio Anke Fischer per la grande
dedizione a questo complesso lavoro e Aurore Leconte, Tommaso Limonta, Julia Müller, Mirsini
Nikodimou e Caterina Sala per la loro e attenta e puntuale collaborazione.

11 P. HALL – U. PFEIFFER, Urban 21, DVA, Stoccarda/Monaco, 2000.

15
Prima parte – première partie – erster Teil:
I paesaggi d’Europa nelle scienze della vita, del territorio, dell’uomo e della società
Les paysages d’Europe comme objets des sciences de la Vie, de la Terre, de l’Homme et de la Société
Die Landschaften Europas in den Natur-, Kultur- und Gesellschaftswissenschaften

16
RITA COLANTONIO VENTURELLI – ANDREA GALLI – GIOVANNA PACI

MULTIDISCIPLINARIETÀ E RICOMPOSIZIONE DEL SAPERE.


UN CONTRIBUTO PER LA GESTIONE DEL PAESAGGIO CULTURALE

Questo contributo è dedicato al


professor Wolfgang Haber, che
ha inaugurato con noi la stagione
delle riflessioni sul paesaggio a
Villa Vigoni.

Nel documento scientifico preparatorio dell’EXPO 2000 di Hannover, pubblicato nel volume
dal titolo Urban 21, con un’espressione molto felice, Peter Hall e Ulrich Pfeiffer dicono che con il XX
secolo si è chiuso “il primo secolo interamente urbano”, volendo indicare che, per la prima volta nella
sua storia, oltre il 50% della popolazione umana ha vissuto per cento anni di seguito concentrata nelle
aree urbane 12. Questo dato statistico compendia in sé l’intreccio dei risultati di moltissimi processi
fortemente interrelati tra loro che hanno trasformato lo stato dell’ambiente umano, con un ritmo
sempre più accelerato, e hanno determinato nuovi ruoli e nuovi aspetti delle sue componenti – e cioè
degli ecosistemi naturali, che comunque conservano delle leggi proprie, e degli ecosistemi trasformati
dalla cultura dell’uomo, e quindi dalle sue capacità tecnologiche sviluppate attraverso i secoli, applicate
sia alle funzioni insediative, sia al sistema rurale in tutti i suoi aspetti.
Ma è proprio verso il suo compimento che questo secolo comincia a vedere il tramonto del suo
stesso prodotto, e cioè di quella rivoluzione urbana che ha generato la città e che ora va declinando per
lasciare il posto al risultato di una rivoluzione più recente, quella informatica. L’espressione fisica di
questo nuovo prodotto culturale si comincia ad intravedere in un modello spaziale poco differenziato,
in cui la città e la campagna sfumano una nell’altra, confondendosi e diffondendosi senza soluzione di
continuità 13.

Questi sono gli stadi più recenti del processo di trasformazione del paesaggio culturale, ma
sicuramente non sono gli ultimi, dal momento che, per sua definizione, il paesaggio culturale è
l’espressione fisica immediata del modello culturale che l’uomo sviluppa in quel momento specifico
della sua storia. Ma l’uomo non è sempre esistito, quindi la sua opera di trasformazione del paesaggio
naturale è cominciata ad un certo punto della storia della biosfera, e continuerà finché egli esisterà;
però, se un giorno per ipotesi smettesse di esercitarvi la sua influenza, il paesaggio continuerebbe a
trasformarsi ugualmente, seguendo quelle leggi intrinseche e spontanee che hanno regolato, regolano e

12 P.
HALL – U. PFEIFFER, (a cura di), Urban 21, DVA, Stoccarda/Monaco, 2000.
13Per una esposizione molto lucida di questo tema, si rimanda a: P. ROSSI (a cura di), Modelli di città, Edizioni di Comunità,
Torino, 2001.

17
regoleranno gli ecosistemi naturali. Allora, citando il titolo del primo capitolo dell’opera di Hansjörg
Küster sulla storia del paesaggio della Mitteleuropa, si può dire che la storia del paesaggio nel suo
complesso è “una storia senza inizio, senza data, senza fine” 14.
E’ proprio seguendo questa impostazione che scaturisce il primo quesito a cui dare una risposta,
indispensabile per proseguire nel ragionamento: che cosa si intende per paesaggio? Nell’ambito scientifico
transdisciplinare, sembra fornire alcuni principi utili in questo senso l’ecologia nel suo campo di lavoro
specifico dell’ecologia del paesaggio, secondo la quale il paesaggio si differenzia essenzialmente dal
concetto di ambiente, definito sempre in senso soggettivo, e cioè riferito a un soggetto. Infatti esso è
l’insieme eterogeneo degli elementi, dei processi e delle relazioni che costituiscono l’ecosfera,
considerato nella sua natura di entità:
- unitaria e differenziata, che ne fa un complesso unico, compiuto e articolato;
- ecologico-sistemica, che lo definisce come un aggregato superiore di ecosistemi,
o sistema di ecosistemi, naturali e antropici;
- dinamica, che lo identifica con un processo evolutivo, nel quale si integrano le
attività spontanee e quelle derivanti dall’azione della collettività umana, nella loro
dimensione storica, materiale e culturale.
Dunque, posto un paesaggio P e un soggetto S (vegetale, animale, umano, singolo o collettivo)
in esso contenuto, si definisce ambiente relativo a S l’insieme degli elementi di P con i quali S intrattiene
una qualsiasi relazione (le relazioni possono essere fisiche, chimiche, biologiche, psicologiche, sociali,
percettive, culturali, ecc.). Ne deriva che la scienza ambientale studia le relazioni intercorrenti fra un
soggetto prefissato e gli elementi del paesaggio che, nel loro complesso, ne definiscono l’ambiente
stesso, in quanto legati al soggetto da determinate relazioni”.
Seguendo quest’ottica scientifica, si può dire che la storia del rapporto tra l’uomo e l’ambiente si
inserisce nella storia del paesaggio. Nella sua continua azione di inserimento, l’uomo ha trasformato
delle porzioni di territorio che inizialmente erano molto ridotte, impiegando dei tempi piuttosto lunghi,
ma che poi, utilizzando i suoi mezzi tecnologici sempre più avanzati, è riuscito ad ampliare sempre più,
impiegando dei tempi sempre più ridotti. Dunque, la scala temporale e la scala spaziale si pongono in
una relazione reciproca inversa. Infatti, mentre l’uomo segue le sue logiche ed attua le trasformazioni
conseguenti, le evoluzioni del paesaggio naturale continuano secondo le leggi intrinseche, con tempi
molto più lunghi di quelli, seppur lunghi, dell’azione antropica, e che, nella loro lentezza,
continuerebbero a svilupparsi anche in un’ ipotetica assenza dell’uomo. La fig. 1 mostra il confronto tra
i due tipi di azioni.

14 H. KÜSTER, Geschichte der Landschaft in Mitteleuropa, C.H.Beck, Monaco, 1995.

18
Schema (a)

Schema (b)

Fig. 1 – Confronto fra il processo della pianificazione tradizionale (metodo interdisciplinare) [schema (a) tratto da: R.
Colantonio Venturelli – G. Gibelli, Ecologie, in: A. Clementi (a cura di), Interpretazioni di paesaggio, Moltemi, Roma, 2002] e
il processo della pianificazione integrata [schema (b) tratto da: R. Colantonio Venturelli – G. Gibelli, Ecologie, op. cit.].

Pertanto, è molto diverso studiare un fenomeno collocandolo su una scala spaziale ampia o su
una più ridotta, così come è molto diverso se viene inquadrato in una prospettiva temporale breve o in
una più distesa: si ottengono risultati differenti, ma soprattutto più appropriati o meno appropriati allo
scopo che si è prefissato. Poiché tutto deve essere commisurato agli obbiettivi della ricerca che si
intende svolgere, si può proporre di passare in rassegna molto rapidamente alcuni dei modelli più noti
del paesaggio culturale che si sono affermati nel tempo per capire come si possono prefigurare le
potenzialità future in funzione dell’interpretazione dei modelli passati e di quello attuale.
Tralasciando per il momento le trasformazioni del paesaggio avvenute secondo le sue leggi
intrinseche, che determinano lo stato attuale degli apparati dell’habitat naturale, si può dire che quelle
del paesaggio culturale si siano realizzate attraverso un intreccio continuo d’interrelazioni tra le strutture
fisiche e le funzioni da esse ospitate che condiziona il paesaggio culturale. Dunque, questo rapporto di
adattamento reciproco e continuo ha caratterizzato l’habitat umano e i suoi apparati, fin dall’inizio della
sua storia, che coincide con la scoperta da parte dell’uomo delle sue capacità di piegare i processi
naturali alle proprie esigenze produttive.

19
La rivoluzione agricola, poi quella urbana, poi quella energetica e infine la rivoluzione
informatica, come viene indicata sempre più spesso, hanno sottolineato i passaggi più importanti di
questa storia. Si possono confrontare in modo sintetico le tappe più note del processo d’interazione tra
le strutture, le funzioni e i flussi di energia nell’habitat umano per avviare una riflessione sulle sue
possibilità future. In particolare, il significato di questa operazione risulta più chiaro se si scelgono come
zona di osservazione due territori che hanno subito delle evoluzioni in parte simili, ma in parte diverse
negli stessi periodi considerati. A questo fine, sono stati prescelti due casi, entrambi italiani; il primo è
situato nell’area geografica dell’Italia settentrionale, che è la sede di quella particolare forma di
conurbazione denominata come la “megalopoli mediterranea”, e in particolare nella parte lombarda
della pianura padana; il secondo caso è al centro della penisola, ai margini esterni di questa
conurbazione, e praticamente coincide con la regione Marche.
Nella storia dell’urbanizzazione del mondo occidentale si possono rinvenire alcuni modelli che
hanno strutturato con forza e notevole persistenza la cultura urbana successiva e che spesso si sono
contrapposti in una sorta di antagonismo ideologico e culturale. Pertanto, l’obbiettivo di questo
contributo è quello di presentare alcuni di questi modelli, pur con la consapevolezza dell’inevitabile
difficoltà di inscrivere in schemi unitari e conclusi tutte le realtà oggetto di analisi e del rischio di
perdere in rigore e coerenza nella fase comparativa delle diverse situazioni, che sono schematizzate
nella fig. 2.

Fig. 2 – Schema dell’evoluzione storica del modello spaziale urbano, rurale ed ecologico del paesaggio

20
Fig. 2 – continua

Il primo modello, certamente non in ordine di tempo, bensì di interesse per la nostra ricerca, è
quello generato dalla cultura greca, una cultura fortemente identitaria, in cui la città è l’elemento attorno
al quale si condensa l’appartenenza civica. E l’alterità è determinata in rapporto 15 all’esclusione dalla
polis, che si manifesta con la netta chiusura verso i barbari e gli stranieri, ma anche con la chiusura di
ogni città nei confronti dell’altra. Le contrapposizioni fra le diverse poleis sono determinate dall’ideologia
del proprio ghenos su cui si fondano, il quale costituisce il contrassegno della loro reciproca differenza: i
conflitti insorgono solo quando una polis tenta l’invasione dell’altra, altrimenti vi è pace nella
riconosciuta differenza. Ogni città costituisce uno stato, con proprio statuto giuridico e politico. Il
modello dell’antica Grecia è fortemente gerarchico, eppure non esclude il momento della reale
partecipazione alla vicenda collettiva, che avviene nell’agorà, luogo deputato al confronto democratico.

15L’intero brano è di Valerio Romani, il quale, nel primo capitolo del suo libro intitolato Il paesaggio. Teoria e pianificazione
(Franco Angeli, Milano, 1994) parla ancora più diffusamente delle differenze tra il concetto di ambiente e quello di
paesaggio.

21
Il rapporto che lega la polis al suo territorio, dalla cui coltivazione la classe dominante trae la
propria forza economica e sociale, è particolarmente importante; infatti, la città e la campagna non sono
spazi rigorosamente distinti: i campi si trovano a ridosso delle case, gli orti stanno, non di rado,
all'interno del centro abitato. Sorta ai piedi di un’altura per lo più scoscesa e fortificabile, l’acropolis che
per tutta l’età arcaica è rimasta all’interno della polis, sprovvista di mura, mostra un reticolo viario
disordinato e tortuoso, tra edifici piccoli e addossati l’uno all’altro. Molte città greche sorgono in
prossimità della costa dove si trova il porto, vero e proprio centro urbano minore. L’insediamento
avviene sempre in forma rispettosa della natura ed in rapporto di integrazione con essa.
Al contrario, il modello romano rispecchia l’attitudine alla conquista della società che lo
propone: l’insediamento, in questo caso, si manifesta in modo aggressivo nei confronti del territorio.
Infatti, i Romani determinano un nuovo assetto urbano sulle terre verso le quali si espandono con la
localizzazione di insediamenti posti in ragione della loro funzione strategica di coordinamento rispetto
alla produzione agricola proveniente dai vasti ambiti rurali circostanti.
I centri di nuova formazione privilegiano le zone pianeggianti di fondovalle, più accessibili per
la logistica; la scelta dello spazio geografico per l’edificazione ex novo della città riflette un criterio
selettivo che tiene conto di condizionamenti ambientali di carattere funzionale (la electio loci di Vitruvio)
e di altri fattori quali la centralità territoriale, la posizione di rilievo nell’ambito dei percorsi e la
vocazione insediativa dell’area, già interessata a importanti stanziamenti indigeni.

Dovunque Roma abbia fatto pervenire le sue legioni, immediatamente dopo sorgeva una strada. La strada, si
potrebbe dire oggi secondo una fortunata formula di un grande studioso dei mass-media, Mc Luhan, era il
messaggio. La strada, cioè, era una protesi e un’arteria, era un prolungamento e un potenziamento
dell’organismo imperiale, serviva a trasportare eserciti e merci, prodotti e idee 16.

A connettere questa maglia insediativa e ad assicurarne i collegamenti con l’ Urbs è il sistema


infrastrutturale delle Vie consolari e una serie di imponenti opere di ingegneria, quali ponti, viadotti,
trafori, atte a superare agevolmente le difficoltà, anche orografiche, di collegamento.
L’organizzazione dello spazio rurale è sottoposta alla ripartizione centuriale, che viene orientata
rispettando le direzioni di decumani e cardines. Anche dal punto di vista sociale Roma rappresenta un
modello completamente diverso rispetto a quello greco: infatti, esso è un modello di mescidanza.
Dunque, il mondo romano fonda la propria identità sul diritto e non sul ghenos; ovvero, l’identità del civis
romanus è predicabile all’infinito, mentre l’essere polites di Atene non lo è. Roma è una città-mondo, che
accoglie chi vuole essere integrato al suo interno.
Un altro modello estremamente importante per una ricostruzione delle tipologie urbane in
ambito europeo è quello barocco, che, pur manifestandosi in forme e modi diversi, viene considerato
come l’ultimo stile universale dell’arte europea. I suoi tratti principali sono il dinamismo, la predilezione

16 I. RICHMOND (a cura di ), Architettura e ingegneria, in J.P.V.D. BALDSON, I Romani, Il Saggiatore, Milano, p. 198, 1975.

22
per la forma aperta, che consente di cancellare idealmente i limiti spaziali per dare un’impressione di
sconfinatezza. La concezione barocca, anticlassica per definizione, ha un intento dinamico e
cinematografico e concepisce lo spazio come un processo, un divenire. La città viene progettata
ricalcando la forma di figure geometriche quali il quadrato, l’ennagono, la stella (Karlsruhe), ma con
disinvolta indifferenza per la topografia. La nuova unità urbanistica fondamentale diviene la strada, che
si configura come asse prospettico grandioso capace di garantire un continuum architettonico e illusori
effetti di prolungamento delle distanze. Essa assume sempre maggiore importanza anche come Via
Triumphalis per la parata dell’esercito, espressione visibile della forza del potere. La città barocca ha
un’impostazione con strade radiali che si aprono improvvisamente su grandi spazi, enormi piazze con
edifici monumentali su cui essa converge, mentre lo sviluppo edilizio avviene prevalentemente in forma
verticale, in quanto la città è ancora confinata entro le fortificazioni che la proteggono da minacce
esterne.
In concomitanza con l’emergere dello stile barocco in città, la campagna vive un periodo di
grande trasformazione: verso la fine del ‘500, infatti, in Italia il paesaggio agrario consolida un processo
che ha inizio nel Medioevo e per il quale esso si distingue a seconda delle aree geografiche. Ad esempio,
in Lombardia esso viene caratterizzato dal sistema irriguo della marcita, che con i suoi canali ed i prati
delimitati dalle piantate di gelso e vite alberata permette una diffusione crescente delle colture pratensi
e, di conseguenza, di integrare le tecniche dell’allevamento con quelle dell’agricoltura. Così, la
produzione si organizza attorno a grandi unità di trasformazione, quali le cascine che divengono il tipo
edilizio della Pianura Padana irrigua; in questa regione sono a corte chiusa e si trovano al centro di più
fondi accorpati.
Nelle Marche, invece, il nuovo ordinamento agrario è fondato sul patto mezzadrile e, tra XV e
XVI secolo, dà vita alla civiltà propriamente urbana, offrendo la traccia per un’urbanizzazione diffusa.
Il sistema di conduzione mezzadrile prevede l’assegnazione al socio-colono di un podere da coltivare e
di una casa per sé e la sua famiglia, con l’impegno di devolvere la metà del raccolto al proprietario. I
suoi esiti sociali si esplicano in una sostanziale stabilità demografica, nel costante presidio del territorio,
nella ripresa di un buon rapporto città - campagna, ovvero metropoli - colonia. Ad essere escluse dai
benefici effetti dello sviluppo mezzadrile sono le aree montane più interne, anche se presentano
comunque degli aspetti meno drammatici che nel resto d’Italia.
Già a partire dal ‘700 divengono evidenti i germi di ciò che nel secolo successivo darà inizio alla
rivoluzione paleo-industriale: nasce, infatti, un nuovo ordine capitalistico e con esso la “città borghese”
libero-scambista. L’orologio scandisce implacabilmente le attività della giornata, che vengono così
inquadrate in un ordine rigoroso. La logica del maggior profitto conduce a sfruttare più intensamente i
suoli, a scopi sia residenziali, per la costruzione di slums destinati ad accogliere i nuovi servitori di una
gleba meccanizzata, sia produttivi, per la costruzione di fabbriche. La città emblema di questo periodo è

23
la smoky town dove coesistono persistenze antiche, come la cattedrale, e opere del progresso,
rappresentate dalle ciminiere.
Invece, la campagna continua a mantenere i suoi caratteri peculiari che, in Italia, la eleggono a
“bel paesaggio”, già decantato dai viaggiatori che ammirano il suo aspetto ameno e ordinato. In
Lombardia, come in tutta la Pianura Padana, il paesaggio è caratterizzato da sistemazioni di tipo
permanente ed intensivo, mentre in ambito umbro-marchigiano esse sono variegate, originando
un’estetica del disegno del territorio che prevede “un grande e antico affresco fatto di alberate, fossi,
querce camporili, siepi, filari e folignate di viti, case coloniche, canneti e salceti, strade campestri,
laghetti o pozzi, alternanze di colture, alberi da frutta e olivi, tipico delle economie volte
all’autosufficienza della famiglia mezzadrile” 17.
Purtroppo, non viene dedicata la stessa attenzione al patrimonio forestale, in via di sempre più
rapida degradazione a causa di disboscamenti e dissodamenti inconsulti. L’assalto alle selve cresce con
ritmo più intenso nel Settecento, in concomitanza con un cospicuo aumento demografico e la messa a
coltura dei boschi da parte della popolazione più povera, che cerca così di ottenere la quantità di cereali
volta a soddisfare i suoi bisogni primari. Tutto questo ha un’altra ricaduta nella perdita del legame
produttivo e soprattutto di relazione culturale con le zone montane che iniziano quindi ad essere
marginalizzate; il rapporto con la “risorsa bosco” comincia infatti ad allentarsi proprio a causa
dell’eliminazione di molte essenze arboree tradizionali: legno di quercia destinato ad essere impiegato
come materiale da costruzione e nella cantieristica navale, legno di faggio per la produzione di carbone
o di attrezzi, carpino e ghiande per l’alimentazione di ovini e suini, pietra da impiegare nell’edilizia. Così,
viene a cadere il rapporto fra fitocenosi e zoocenosi, e cioè l’allevamento del bestiame, le attività
artigianali legate alla montagna, la raccolta dei piccoli frutti del bosco e così via.

L’identità del paesaggio, a cui si accennava in precedenza e che deriva da un lungo processo di
costruzione collettiva dello stesso, in Italia viene messa in crisi dagli sconvolgimenti edilizi, e prima
ancora sociali e territoriali, che a partire dal secondo dopoguerra hanno indotto delle modifiche
sostanziali all’immagine tradizionale del nostro Paese. Infatti, il cambiamento radicale del quadro, che
ha subito un’accelerazione a partire dagli anni ‘60, è stato determinato soprattutto dal progressivo
abbandono del settore primario a favore di altre attività – l’industria manifatturiera, quella turistica ecc.
– che hanno avuto un impatto pesante sul territorio. Ma oltre alle ripercussioni ambientali e paesistiche
tutto ciò ha comportato anche un disorientamento della popolazione, che si è trovata nella difficoltà di
non riuscire a governare dei processi di cambiamento radicali e celeri, così come fa notare Turri:

Le modificazioni del paesaggio in passato erano lente, erano rapportate al ritmo dell’intervento manuale,
paziente, prolungato nel tempo e quindi facilmente assorbibili sia dalla natura che dagli uomini: l’elemento
nuovo gradualmente si inseriva nel quadro psicologico della gente. Ma quando l’inserimento, come è accaduto

17 S. ANSELMI, Marche, Laterza, Bari, 1975, p. 45.

24
negli ultimi decenni, è rapido, violento, l’assorbimento avviene con difficoltà o è rimandato alla successiva
generazione 18.

Tali trasformazioni sono determinate dall’evoluzione dei tempi storico-culturali: quelli che,
infatti, erano i tempi lunghi dell’organizzazione della geografia, subiscono un’improvvisa accelerazione
ad opera, innanzitutto, del mutato ambiente immateriale, e cioè socio-economico e politico.

Quest’accelerazione produce una nuova vision, che non ha più rispondenza nell’agricoltura, ma
nello sviluppo produttivo, il quale ha due caratterizzazioni:

- il modello accentrato della grande industria, che esprime un’indifferenza localizzativa rispetto alle
specificità territoriali e si insedia, quindi, per grandi poli, seguendo logiche proprie della produzione
fordista (l’esempio italiano è quello del triangolo industriale Milano-Torino-Genova);

- il modello del distretto produttivo della Terza Italia (Bagnasco 1977), che invece è forte di un
radicamento complesso nel territorio, il quale costituisce allo stesso tempo sia il luogo dell’economia,
sia quello della costruzione della società civile. Tale modello consiste in una forma di
industrializzazione, diffusa prevalentemente nel Centro Italia, fondata su piccole e medie imprese e
diluita sul territorio, di cui riutilizza preesistenze e strutture. Fu denominato Terza Italia per indicarne il
presunto carattere di “economia periferica”, in quanto il centro del sistema produttivo veniva ancora
considerato al Nord.

Entrambi i modelli non sono più integrati rispetto alla sostenibilità che in precedenza veniva
garantita dal presidio sul territorio e dalla difesa del suolo, ma ora comincia a dissolversi proprio con
l’esodo verso quelle aree dove si vanno formando gli insediamenti produttivi. In ambito lombardo i
grossi centri industriali e commerciali si espandono sempre di più, con uno sbilanciamento baricentrico
verso Milano, che assume i caratteri di una città metropolitana, mentre, per quanto riguarda le Marche,
si assiste a uno spopolamento dall’interno verso la costa e le aree di fondovalle. A tal proposito, si noti
come le premesse del modello dei sistemi produttivi che si aggregano lungo le strutture lineari del
pettine costiero-vallivo siano state gettate dalla ferrovia, il cui tracciato, dovendo correre in pianura e
privilegiando quindi la costa, è già discriminante rispetto ad altre aree più interne o collinari.
Negli ultimi venti anni circa si è verificato il passaggio dalla produzione fordista (di capitalismo
sistemico, in cui la complessità della produzione viene suddivisa in moduli organizzativi elementari e
standardizzati) a quella post-fordista (di capitalismo reticolare, che si avvale di tecnologie relazionali e,
dunque, deterritorializzate), in cui la fabbrica non si lega più ad un luogo. Infatti, in un’economia post-
fordista, il sistema territoriale di piccole città e piccole imprese non costituisce più valore in sé, ma solo
se inserito in un’ottica che è stata definita glocale, e cioè che attui una riterritorializzazione delle reti

18 E.TURRI, Il paesaggio come teatro, Marsilio, Padova, 1998, p. 48.

25
lunghe che competono globalmente ma hanno un ancoraggio locale. La rete funziona in questo caso
come bene relazionale della comunità locale e del sistema territoriale che, grazie ad essa, può
promuovere strategicamente le proprie risorse, mentre lo spazio cessa di essere euclideo per
trasformarsi in uno spazio a geometria variabile a seconda delle connessioni attivate e la singola città
vive solo se riesce a tramutarsi in nodo 19. Il territorio diventa un meta-territorio che funge da
incubatore per le potenzialità locali e nel quale si realizza una vera e propria poliarchia, ovvero una
distribuzione di poteri e funzioni articolati nel grande arcipelago dell’economia.

La città cambia seguendo i mutamenti socio-economici: diventa sede delle economie immateriali
(ICT), delle funzioni direzionali e dei servizi in risposta alle nuove domande sociali. Essa, in seguito alla
crisi delle economie tradizionali, diventa teatro di enormi cambiamenti urbani: la dismissione, infatti,
delle grandi aree industriali fordiste determina la riconversione degli spazi e costringe a un
ripensamento delle strutture verso attività terziarie e quaternarie. In questo contesto, le infrastrutture
non sono più importanti per movimentare le merci, bensì in chiave di accessibilità alle reti.

Una delle tematiche maggiormente analizzate dagli studi urbani di area vasta riguarda la
dispersione degli insediamenti, la città diffusa 20, caratterizzata da una forte dispersione a bassa intensità.
Questo fenomeno riguarda ormai molte regioni europee, di cui ridisegna lo spazio urbano e trasforma
l’habitat, modificando pratiche e usi del territorio 21. Si creano nuove figure, alternative a quelle della
concentrazione. Figure che, ad un primo sguardo superficiale, potrebbero sembrare casuali e generatrici
di caos, ma che invece seguono nuove e inedite regole proprie. Lo stesso concetto di prossimità cambia,
e nascono relazioni sempre più estese tra spazio dei luoghi e spazio dei flussi. A tali modificazioni non
sono estranei i processi socio-economici intervenuti nel tempo: la conquista di una enorme flessibilità
tecnologica consente di decentrare gli impianti fuori dalla città consolidata. Di conseguenza anche le
scelte residenziali si orientano all’esterno della città compatta, in zone dove il costo delle aree è minore,
e minori sono anche i vincoli urbanistici ed istituzionali. Inizialmente l’abitazione “rururbana” incarna il
desiderio di qualità ambientale di chi è costretto a subire la congestione, l’inquinamento e l’insicurezza
della città.
L’automobile svincola dalla fissità della residenza e permette maggiore accessibilità. L’elevata
mobilità significa abitare un territorio allargato. Ma nel tempo questa tendenza alla dispersione
insediativa si configura sempre meno come processo di tracimazione verso anelli via via più ampi,
diventando, invece, processo di tarmatura 22 del territorio, con gravi ricadute anche su quegli aspetti che
si proponeva di evitare (congestione, inquinamento, ecc.). La città contemporanea o post-urbana è il

19 Cfr. G. DEMATTEIS in http://www.fub.it/telema/TELEMA15/Dematteis.html (marzo 2002).


20 Si veda F. INDOVINA ET AL., La città diffusa, DAEST, Venezia, 1990.
21 Cfr. F. PAONE (a cura di), Le trasformazioni dell’habitat urbano in Europa, in “Urbanistica” n° 103/95 e S. MUNARIN – M.C.

TOSI, Tracce di città, Franco Angeli, Milano, 2001.


22 Si fa qui riferimento alla definizione francese di mitage urbain.

26
luogo del decentramento e della diffusione, si incarna in sistemi urbani complessi dove divengono
pervasivi residenza, lavoro, servizi, e si contrappone a quella tradizionale che mostra, invece, “un
principio di continuità, di narrazione, di interrelazione tra le scale, di lunga durata delle regole e dei
dispositivi dell’organizzazione spaziale” 23.
La preferenza accordata al modello insediativo disperso si fonda su scelte eminentemente
individuali e il sistema urbano che ne deriva si configura come “città senza memoria, disinteressata
all’identità storica stratificata nei luoghi collettivi quanto invece protesa alla qualità di quelli privati” 24.
La villetta è, infatti, il nuovo iconema della megalopoli padana (Turri 2000), insieme al capannone, sia
esso fabbrica, ipermercato o luogo di stoccaggio. Le nuove figure insediative sono, quindi, quelle della
dispersione, ma anche dell’espansione lineare lungo le strade di fondovalle e le infrastrutture della
viabilità le quali, con logiche di razionalità minimale, vengono sfruttate come capitale fisso sociale che
consente di realizzare economie di produzione per l’attività edificatoria.
Si è visto come l’evoluzione dei modelli insediativi sia stata condizionata da mutamenti epocali
in ambito socio-economico e culturale, che sono riconducibili a tre momenti fondamentali:

- prima rivoluzione industriale, nata in Inghilterra tra il 1760 e il 1830, resa possibile dal carbon
coke e dall’energia a vapore, che hanno soppiantato le forme energetiche fino ad allora in uso
(energia solare, del fuoco, cinetica ottenuta dal lavoro animale);
- seconda rivoluzione industriale, affermatasi tra gli anni Settanta dell’Ottocento e la prima
guerra mondiale, azionata dalle nuove energie del petrolio e dell’elettricità;
- terza rivoluzione industriale, sviluppatasi dopo il secondo dopoguerra, fondata sull’energia
atomica e sull’informatica.

Questa “terza ondata” 25, in cui le nuove tecnologie consentono scambi di informazioni in
tempo reale con ogni angolo del globo, realizzando l’utopia dell’ubiquità, provoca lo scollamento fra
urbs e civitas: il territorio, infatti, acquisisce una nuova aggettivazione, tramutandosi in territorio della
rete”. Il paradigma della rete è quello che meglio sembra rispondere alla necessità di lavorare sulle
relazioni tra i nodi del sistema urbano contemporaneo, sulla natura estensiva e policentrica del recente
sviluppo territoriale. Innanzitutto è opportuno ricordare che la metafora reticolare si presta a una
molteplicità di interpretazioni, di cui le più praticate sono quelle relative alle reti infrastrutturali e
urbane. Esse, infatti, riescono, forse meglio delle altre, a cogliere i caratteri delle spinte alla diffusione.
Ma esistono anche le reti economiche di cooperazione/competizione (rintracciabili nei distretti

23 F. CHOAY, L’orizzonte del post-urbano, Officina, Roma, 1992, p. 22.


24 E. MICELLI, La casa della città diffusa, in “Economia e società regionale”, n.55, 1996, p. 91.
25 A. TOFFLER, La terza ondata, Sperling e Kupfer, Milano, 1987.

27
produttivi interni al modello NEC), le reti del loisir (caratterizzate dalle relazioni fra “iperluoghi
dell’esperienza”), e quelle ecologiche.
Per fare ordine all’interno delle definizioni si potrebbe procedere a una prima distinzione tra reti
ambientali (che, in un sorta di categorizzazione sulla scorta di “punto, linea, superficie”, accolgono i
corridoi ecologici, il sistema dei parchi fluviali, di aree protette e parchi) e reti della mobilità. Queste
ultime si distinguono ulteriormente in reti materiali (su cui viaggiano persone e cose) e reti immateriali
(che veicolano informazioni e conoscenze).

L’aspetto innovativo derivante dall’approccio in termini di rete consiste nel fornire una visione
del sistema urbano come sistema di relazioni, crocevia di flussi – principalmente immateriali – che lo
attraversano e lo collegano ad altri centri. Lo spazio di riferimento non è più, dunque, solo reale, bensì
virtuale, all’interno del quale perdono consistenza le stesse nozioni di centro e periferia. Lo spazio non
è più euclideo e isotropo, ma è uno spazio a geometria variabile, dove il vantaggio competitivo non è
più garantito dalla prossimità fisica, bensì dalle sinergie reciproche che si instaurano tra i nodi del
sistema e dall’accessibilità agli stessi.

Se ci si sofferma sul concetto di “rete di città”, intendendo con ciò “un insieme di relazioni
selettive ed orizzontali – non gerarchiche – tra centri, che consentono di ottenere una serie di vantaggi
territoriali” 26, appare subito evidente che ogni singolo centro, indipendentemente dalla propria
dimensione, può rafforzare il suo ruolo territoriale grazie alle esternalità di rete. Tale ruolo, infatti, viene
determinato dalla scoperta e valorizzazione delle vocazioni proprie del centro 27. Il sistema reticolare si
configura come aperto e costituisce una sorta di “internazionale delle città”, in cui si scambiano beni,
informazioni, cultura e tutto quanto concorre a stimolare l’innovazione 28.

Ma la pervasività della rete introduce a un equivoco di fondo, un concetto dicotomico e


schizofrenico: da un lato si esalta la possibilità di globalizzazione, il senso di totalità e unitarietà,
dall’altro emerge la minaccia della lacunarietà e della dimensione frattale del medesimo modello.

In questo processo la città si trova disorientata, o meglio “disfatta” (Sernini 1988): da metropoli
si trasforma in conurbazione urbana e poi in megalopoli, per infine tentare di recuperare un
radicamento al territorio attraverso la carta dello sviluppo locale.

La questione risiede nella presa di coscienza che la città, che oggi accoglie più della metà della
popolazione mondiale, sta fallendo nel fornire risposte adeguate alla sfida di sostenibilità ecologica,
sociale, economica.

26 R. CAMAGNI – G. DE BLASIO (a cura di), Le reti di città: teoria, politiche e analisi nell’area padana, Franco Angeli, Milano, 1993.
27 A tal proposito si veda A. BONOMI, Il distretto del piacere. Bollati Boringhieri, Torino, 2000.
28 Sul tema si vedano i contributi di: R. CAMAGNI (a cura di), Le reti di città, Franco Angeli, Milano, 2001; B. CURTI – L.

DRAPPI, Gerarchie e reti di città, Franco Angeli, Milano, 1990; E. RULLANI, Città e cultura nell’economia delle reti, Il Mulino,
Bologna, 2000; S. SASSEN, Città globali, Utet, Milano, 1997.

28
Le politiche urbane e gli strumenti cercano di adeguarsi, come testimoniano alcuni degli esempi
migliori (Urban21, Forum mondiali, Convenzione europea del paesaggio, SDEC, Towards an Urban
Renaissance), ma le strategie e le politiche istituzionali per una good governance non devono dimenticare
che un’efficace azione locale si consegue solo con la partecipazione e il coinvolgimento proattivo della
popolazione, perché la domanda di piano espressa dalla società sia tradotta in termini pianificativi
sostenibili in modo multiforme.

Questa schematizzazione non ha l’intenzione di presentare degli approfondimenti, ma piuttosto


quella di mostrare uno sforzo metodologico per rendere sistematico un confronto tra i diversi modelli
culturali e i loro influssi sulla formazione di quelli del paesaggio culturale; dunque, questa traccia
potrebbe essere utilizzata per sviluppare ulteriormente una metodologia di ricerca che integri sia le
riflessioni sulle tipologie strutturali e funzionali, sia quelle sulle tipologie culturali che le hanno generate,
e che stanno generando il modello attuale e quello futuro, nella misura in cui ciò è prevedibile. Di qui
scaturisce il secondo quesito:
Ha senso continuare ad usare il concetto di scale spaziali e temporali per descrivere il paesaggio contemporaneo?
E’ evidente come non sia possibile dare una risposta univoca a questo quesito, e soprattutto
unitaria, che derivi da uno studio improntato ad un’unica ottica disciplinare. Infatti, si possono fare
degli ottimi studi sulle strutture e sulle funzioni rivolti alla misurazione dei fenomeni, come fa
prevalentemente la scuola tedesca dell’ecologia del paesaggio, oppure improntati alla progettazione,
come avviene nel caso dell’ecologia del paesaggio praticata negli Stati Uniti 29. In questo modo, si può
ottenere un numero molto elevato di informazioni sullo stato del paesaggio attuale, e si può dedurre
con buona approssimazione e in modo spesso accettabile quale fosse lo stato fisico del paesaggio in una
determinata epoca passata, ricostruendone la matrice che ha generato il modello predominante
attraverso lo studio delle testimonianze con mezzi tecnologici sempre più avanzati. Ci si può spingere
fino a ricostruire le esigenze estetiche che hanno generato il giardino all’italiana; quelle etiche che hanno
tutelato le selve greche, i boschetti romani, i giardini giapponesi, ecc.; le esigenze produttive agricole,
belliche e amministrative dei romani che hanno devastato i boschi e spartito il suolo attraverso la
centuriatio; quelle culturali dei greci, che hanno inserito i teatri greci nella natura e quelle politiche che
hanno ispirato la riforma territoriale di Clistene, ma anche, a latitudini diverse e a distanza di numerosi
secoli, la muraglia cinese o il muro di Berlino; ed infine le esigenze più o meno corrette di risanamento
ambientale alla base delle bonifiche e della cementificazione dei fiumi.
Si può ricostruire tutto ciò, ma l’uomo, che ha operato queste trasformazioni secondo le sue
esigenze di volta in volta diverse, come si è formato il modello culturale che ha determinato e generato

29La bibliografia relativa ai due filoni è molto ricca; in questa sede, valgano per tutti rispettivamente: H. LESER,
Landschaftökologie, UTB, Stoccarda, 1991, e R.T.T. FORMAN – M. GODRON, Landscape Ecology, John Wiley & Sons, New
York, 1986.

29
queste azioni? Quali dimensioni della sua cultura hanno inciso realmente sulla concezione del paesaggio
che lo ha condotto alla formazione del modello culturale di quel momento? E poi, il passaggio da
questo modello culturale alle trasformazioni fisiche del paesaggio è stato sempre così immediato?
La divisione del sapere che ha caratterizzato il nostro modello culturale incide fortemente sulle
difficoltà di dare una risposta univoca. Tra le lezioni che vengono dal passato, ce n’è una che può far
riflettere sulle capacità espressive dell’antica unità del sapere: si può immaginare che Ambrogio
Lorenzetti non volesse distinguere tra la teoria politica e l’organizzazione territoriale del paesaggio
agrario suburbano attraverso le tecniche più raffinate, quando ideò il dipinto del Buon governo, in cui
l’ordine politico e l’assetto equilibrato del territorio coincidono (fig. 3).

Fig. 3 – Ambrogio Lorenzetti, Il Buon Governo, Museo Civico, Siena.

In questo caso, come forse sempre avviene, il modello culturale influenza chi organizza il
paesaggio, appunto il governo comunale, ma anche chi lo percepisce, lo valuta positivamente e lo
descrive attraverso la trasmissione del suo significato ideale, che probabilmente ha anche un significato
didascalico, come sembra che voglia esprimere Lorenzetti 30. Dunque, anche la percezione individuale e
la coscienza collettiva hanno un ruolo fondamentale non solo nello studio della funzione
d’informazione svolta dal paesaggio, ma anche nella sua formazione, come sostengono alcune ricerche
molto recenti 31.
Non mancano dei tentativi di ricostruire una storia unitaria attraverso la storia dell’ambiente 32 o
attraverso la cosiddetta “Global history” 33 che possono essere senz’altro di aiuto in questa operazione.
Però, quello che interessa più da vicino in questa sede è l’uso della lezione del passato per capire la
nostra contemporaneità come la base per l’azione futura. In questo tentativo, la scienze umane hanno
un compito essenziale. Dunque, si pone l’esigenza di ricomporre il sapere necessario per lo studio del
paesaggio globale attraverso alcuni punti, quali ad esempio:

30 Si veda, a questo proposito, E. SERENI, Storia del paesaggio agrario, Laterza, Bari, 1996.
31 Per una trattazione molto lucida del tema, si rimanda a: B. JESSEL, Elements, characteristics and character – Information functions of
landscapes in terms of indicators, di prossima pubblicazione in un volume collettivo di prossima pubblicazione.
32 J. R. MC NEILL, Qualcosa di nuovo sotto il sole, Einaudi, Torino, 2002.
33 Su questo tema si è tenuto un convegno molto significativo presso il Centro Italo-Tedesco Villa Vigoni nel maggio 2004.

30
- l’avvio del dialogo multidisciplinare indispensabile per creare gli strumenti culturali adatti
all’interpretazione, allo studio e quindi alla gestione integrata del paesaggio;
- il superamento delle collaborazioni tradizionali paratattiche per creare gli strumenti scientifici adatti,
quali ad esempio degli indicatori sintetici spaziali e temporali, oppure strutturali e funzionali;
- la collaborazione sintattica per riflettere sulle “interfacce” dei settori d’interesse disciplinare utili per
individuare le possibili linee concrete di studio multidisciplinare.
Ma allora a questo punto si pone il terzo quesito:
Si possono stabilire dei parametri di lettura multidisciplinare del paesaggio? Verrebbe spontaneo
rispondere che questi strumenti di lettura possono essere degli indicatori, i quali aiutano a descrivere e a
misurare i fenomeni. Ma esistono dei rischi dovuti proprio alla divisione del sapere, che ha provocato
una marcata dicotomia tra la ricerca scientifica e le sue applicazioni ai diversi livelli, e che ha generato in
risposta la necessità sempre crescente dell’integrazione e dell’interdipendenza tra la teoria e le sue
applicazioni 34. Quindi, è necessario tentare di innescare un processo continuo che, oltre a rispondere a
questa esigenza, serva anche come una verifica sperimentale degli assunti teorici e come una possibilità
di affinamento e di stimolo per alcuni nuovi temi di ricerca. E questo è tra gli scopi di questa serie di
incontri di lavoro comune.
Dunque, si possono provare ad individuare delle “famiglie“ di concetti comuni di carattere
generale da cui far scaturire le misurazioni analitiche da applicare per una gestione corretta del
paesaggio culturale. A questo scopo, si propone uno schema del tutto generale che mostra come le
grandi categorie del paesaggio, quella naturale e quella culturale, suddivisa negli agroecosistemi e nei
tecnoecosistemi, possano essere studiate incrociando le conoscenze relative alle varie scale spaziali e alle
diverse scale temporali (fig. 4).

34 Su questo tema, si rimanda a: M. G. GIBELLI, Riflessioni conclusive, in M. G. GIBELLI (a cura di), Gli indicatori ecologici alla scala
del paesaggio, Siep-Iale, Milano, 2003.

31
on a
time
scale (*) past present future

(which have (which will


ceased to exert a presumably
on a spatial direct action) (now exerting arise)
scale (**) their action)
Spontaneous Biological, soil- Spontaneous
Semi –natural landscape

biological, soil- related, geo- biological and


related, geo- morphological, soil-related
morphological, and climatic processes
and climatic processes requiring strong
processes in influenced by human
Natural and semi– scarce relation the close management
natural systems to anthropic relationship with and support
activities anthropic
activities which Indicators: of
Indicators: often affects trends (e.g.
detectable their reactions heterogeneity of
evidence and landscape
scientific Indicators: of evolution,
reconstructions landscape ecology ecological
networks,
(relict flora, and normative reduction of soil
Global landscape

paleosoil, erosion)
paleobotanics)

Production Production Production


processes as a processes (^) of processes (^)
function of different but requiring
man’s action interrelated balancing
and of sectors (e.g. among the
economic agriculture + different sectors
requirements parks + involved
Agricultural and tourism), which
forest systems Indicators: determine flows Indicators: of
historical of the of energy, trends (e.g.
agricultural people, agro-ecological,
landscape and of animals, ecological
Cultural landscape

landscape materials and networks,


ecology information transformations
of the
Indicators: agricultural
normative, landscape)
socio-economic
(e.g.
equitability),
statistical, of
landscape
ecology
(gradients
according to
Müller and his
model), agro-
ecological

32
Urban- Productive, Productive, social,
industrial systems historical, social,
social, economic, land-
economic, war- economic, land- related, and
related, land- related, and urban processes
related, and urban processes related to the
urban processes related to the flows of
flows of individuals,
Indicators: individuals, information and
historical of the information and energy
urban landscape, energy increasingly
of urban interrelated to
ecology Indicators: the other types
(structural and normative, of systems and
functional, statistical, of bound to them
according to urban ecology, with a mutual
Müller) of landscape dependence
ecology
(structural and Indicators: of
functional: trends
gradients)
(*) years, decades, centuries (hundreds, thousands)
(**) macro-regional, regional, local, sub-local
(^) in a broad sense; they include the production of both material (farm produce) and immaterial (services) goods
Fig. 4 – Internal processes of the landscape as a whole and types of the respective indicators

Partendo da questo schema, ogni conoscenza disciplinare può rintracciare il suo campo di
azione, e soprattutto riflettere sulle possibilità di collegarsi con le altre competenze presenti nel gruppo
per riflettere sulle quelle interfacce comuni a due o più campi che permettono di fondere le analisi e i
giudizi in modo più sintetico possibile, e quindi più significativo. Viene in mente che si potrebbe
proporre un motto che interpreti lo spirito di questa operazione scientifica, quale ad esempio:
“Ricomposizione del sapere per ricomporre il paesaggio”.

33
GIORGIO MANGANI

TOPICA DEL PAESAGGIO 35

Prendere un interesse immediato alla bellezza della


natura […] è sempre segno di un animo buono; e,
quando questo interesse è abituale e si accoppia
volentieri alla contemplazione della natura, esso
mostra almeno una disposizione dell’animo
favorevole al sentimento morale.
Emmanuel Kant, Critica del Giudizio

Urbino stava lassù, ignorata, isolata come un


castello di ammalati. Chiunque saliva in piazza,
cittadino o contadino, guardava il paesaggio e
capiva ogni cosa.
Paolo Volponi, La strada per Roma

1. Tra contenuto e forma


Un’analisi molto sintetica delle idee e degli studi contemporanei sul paesaggio rivela una chiara e
profonda dicotomia tra interpretazioni che si fondano sul contenuto oppure sulla percezione, della
quale resta una eco nella definizione “ancipite” data del paesaggio dalla Convenzione europea (una
determinata parte di territorio, come è percepita dalle popolazioni e il cui aspetto è dovuto a fattori
naturali ed umani e alle loro interazioni).

Le componenti geografica, ambientalista ed ecologica della famiglia di discipline che si sono


dedicate allo studio del paesaggio hanno sottolineato, nell’ultimo secolo, il carattere “oggettivo” di
questo concetto rispetto ai suoi aspetti percettivi ed estetici.
Anche se non insensibili alla bellezza del paesaggio, geografia ed ecologia hanno manifestato
sempre maggiore diffidenza per quel che, in esso, non fosse riconducibile ai dati fisici. Lo studio del
paesaggio geografico per esempio, soprattutto in Italia, si è affermato proprio in opposizione al
concetto estetico privilegiando l’analisi dei suoi fattori, costitutivi di una unità organica composta da
elementi fisici, storici e sociali, naturali e antropici. Un percorso che, come ha sottolineato Eugenio
Turri in un ormai classico manuale (Antropologia del paesaggio), ha cercato di sostituire la fisiologia alla
fisionomia del paesaggio.
E proprio i geografi più sensibili al paesaggio culturale e alle componenti sociali e soggettive
costitutive del paesaggio come Eugenio Turri – lo ha notato Paolo D’Angelo – hanno preso le distanze

35
Pubblicato sul “Bollettino della Società Geografica Italiana”, n. 3 (2005), pp. 557-566.

34
dagli atteggiamenti contemplativi e pittorici del paesaggio, che appaiono un residuo dell’approccio
estetico considerato aristocratico e legato alla cultura romantica e borghese.
L’ecologia e le scienze ambientali, per parte loro, hanno strutturato il loro pensiero sulle nozioni
di ecosistema, ecotopo, ecocomplesso, geosistema, che costituiscono una risposta, secondo la logica della
complessità, agli atteggiamenti deterministici delle scienze di impianto positivistico. L’ecosistema e i
suoi sinonimi si possono, dunque, considerare uno sforzo di mediazione messo in campo dall’ecologia
per dialogare con le scienze umane, ma restano fondati sulle componenti oggettive del paesaggio. Essi
possono includere alcuni fattori percettivi e culturali, ma la nozione fondativa della scienza ecologica,
per l’attenzione che porta agli equilibri naturali, è strutturalmente antagonistica rispetto al possibile
stravolgimento, per azione umana, di un equilibrio naturale rivolto alla creazione di un altro equilibrio.
Anche la progettazione di un parco o di un giardino fondati su prevalenti modelli culturali, pure attenti
all’equilibrio ambientale, sono alterazioni dell’ecosistema originario. Un parco o un giardino implicano
una gestione artificiale, anche se complessa, della natura.
La filosofia opposta a quella ecologica si fonda invece sul carattere prevalentemente percettivo e
soggettivo del paesaggio, come quella codificata da Georg Simmel (1858-1918) nel primo ventennio del
Novecento nella sua Filosofia del paesaggio: una Stimmung individuale, fondata sulla percezione di una
organicità di elementi costitutivi. Questa idea, tradizionalmente caratteristica del romanticismo
ottocentesco e della percezione pan-pittorica del paesaggio, ha ripreso nuovo vigore nei nostri anni in
forme meno individualiste e più sociologiche, soprattutto in Francia. Secondo queste analisi (per es. nei
lavori di Berque) il paesaggio è sempre un ecosistema e un simbolo assieme. Franco Farinelli, un
geografo, ha parlato di “arguzia” del paesaggio per sottolineare questa sua duplice capacità di essere e di
rappresentare, al tempo stesso, la cosa percepita.

2. Tentativi di convergenza
Rispetto a questa contrapposizione profonda non è mancato chi ha cercato di recuperare un
punto di mediazione e di convergenza tra le due sensibilità, apparentemente impegnate entrambe, in
modo solidale, a combattere per la difesa del paesaggio, ma con idee profondamente diverse in
proposito.

Un primo tentativo di questo genere nasce dalla profonda consapevolezza sociale della minaccia
che incombe nella nostra epoca sugli equilibri naturali. Essa tende a produrre una deriva psicologica ed
epistemologica che porta alla fusione (per es. nei lavori di Tiezzi e Seel) delle idee della bellezza e della
natura. Il carattere etico della natura, la sua capacità di fare attenzione agli equilibri diventa il
fondamento della sua bellezza. Bello e buono coincidono. Vi è, anzi, chi arriva a sostenere, come Jay
Appelton (The Experience of Landscape, 1996), che la percezione estetica del paesaggio è un residuo della

35
nostra tendenza, filogeneticamente trasmessa, a ricercare ambienti favorevoli alla sopravvivenza. Ci
piacciono i paesaggi fluviali perché vi troviamo abbondanza di acqua, le vedute dall’alto (come
sosteneva anche Yves Lacoste negli anni Settanta per censurare una cultura vedutistica fondata
sull’estetica militare) perché più sicure, e così via.
Un tentativo più complesso è quello del filosofo dello spazio Edward S. Casey (Representing Place,
2002), che contrappone il place (cioè il paesaggio) allo space. Egli sostituisce una contrapposizione forte
alla relazione dialettica sostenuta dai geografi “umanisti” americani della scuola di Yi-Fu Tuan e di
Robert D. Sack, che pensavano invece possibile una composizione tra i due momenti (per loro vi è,
nello sviluppo dell’environment, una tendenza naturale verso l’equilibrio; certezza che oggi,
probabilmente, ci appare meno fondata rispetto agli anni Sessanta). Per Casey lo space è uno spazio
matematizzabile, astratto, isotropo e continuo, mentre il place è il luogo dei confini, delle singolarità,
della percezione individuale. Il place ha un orizzonte, lo space no. Esso contiene l’insieme dei valori che
hanno senso per l’uomo. Esso incorpora l’habitus di una comunità, cioè il repertorio dei suoi valori e dei
suoi modelli comunitari. Tra le componenti del place è il paesaggio (cioè l’insieme dei suoi caratteri
culturali) a svolgere la funzione di mediazione, necessaria (tra le generazioni e, orizzontalmente, tra le
persone) per far interagire il self, l’individuo, con il luogo (“i luoghi, scrive Casey, non sono supporti
esterni della nostra vita, essi sono in noi”). In questa funzione il paesaggio è un fattore dinamico. Se si
concepisse infatti solo l’identità del place, cioè la sua specificità locale, saremmo costretti a contrapporre
all’omologazione tendenziale dello space l’ “idiolocalismo” del place, con risultati paralizzanti (che è
esattamente ciò che sta avvenendo oggi). Il paesaggio è, in altre parole, lo strumento dinamico che,
grazie al peso su di esso esercitato dai valori culturali fluidi, la percezione, la storia, l’individuo e la
società, consente un dialogo; non tanto tra place e space (come pensavano i geografi umanisti americani),
che sarebbe una conversazione tra sordi, ma tra places differenti.
Si tratta di una sintesi non lontana da quella proposta in Italia da Paolo D’Angelo (Estetica della
natura, 2001), che parla di paesaggi come identità estetiche dei luoghi, dove l’identità non è considerata un
loro requisito intrinseco, ma connesso alla loro percezione e, pertanto, fattore dinamico come quello
suggerito da Casey.

3. Una prospettiva (geografica) retorico-linguistica


Anche accettando le elaborazioni più recenti rivolte a valorizzare in forme nuove la dimensione
culturale del landscape, le analisi che ho raccolto tendono a strutturare la relazione uomo/paesaggio nei
termini di una relazione diretta.
Se analizziamo il rapporto che sta all’origine della invenzione del paesaggio e del funzionamento
retorico che agisce nella sua rappresentazione mentale, vediamo però che questa percezione non è

36
immediata, che essa segue un percorso filtrato da alcune strutture linguistiche e formali. Ciò avviene,
inoltre, secondo un percorso per certi versi contrario a quello “naturale” e fondato su di una procedura
molto precisa, persino codificata nei manuali retorici e mnemonici, strettamente connessa alla
descrizione dei luoghi, che si fonda non tanto sulla meraviglia della natura, ma su una meraviglia
artificiale (cioè prodotta dall’immaginario culturale), cui è demandata la percezione stessa e la
comprensione della natura.
Alla base delle mie osservazioni è la constatazione, dedotta soprattutto dalla storia della
geografia, della cartografia e delle relazioni interculturali, che transfert di questo genere, anche quelli
instaurati tra una comunità culturale e la natura, non sono fondati sulla trasparenza ma
sull’Immaginario, nel senso proposto da Stephen Greenblatt (il quale ha chiarito che gli incontri, e gli
scontri, tra le culture non si fondano su di un impatto tra “mondi” diversi, ma tra immaginari diversi,
cioè tra le forme di rappresentazione immaginaria dei propri mondi e di quelli degli altri).
Non c’è trasparenza nella relazione tra le culture, come non c’è tra cultura e natura. Il rapporto è
filtrato dall’Immaginario, dal sistema “figurale” (cioè delle immagini) utilizzato in ciascuna cultura per
memorizzare le informazioni di base, costitutive della comunità. E’ l’Immaginario a fungere da luogo di
incontro tra le culture e tra natura e cultura.
Poiché la percezione e la rappresentazione del paesaggio sono fondate, sin dall’origine, sui
meccanismi che presiedono anche al funzionamento retorico della cartografia e della veduta
paesaggistica, cercherò di trarre spunto, in questa trattazione, dai miei studi sulla teoria cartografica per
spiegare cosa intendo per “topica del paesaggio”.

4. La contemplazione e la meditazione geografica


Un’analisi della pragmatica (in senso linguistico) del comportamento geografico, cioè delle
modalità in cui avviene la percezione, la significazione, la memorizzazione e la manipolazione delle
informazioni geografiche, rivela come questi atti (cioè la contemplazione e la meditazione del paesaggio) si
configurino, sin dall’inizio, come atti linguistici.

Una questione analoga è sorta nella storia della cartografia, una disciplina che ha molti punti in
comune con la teoria del paesaggio. Un’antichissima tradizione tendeva infatti a considerare le mappe di
oggi come una evoluzione di originari segni pittorici, ovvero, in alternativa, di diagrammi primitivi.
Edward Casey (sempre lui) ha chiarito che invece la mappa è, sin dalle sue origini, un prodotto di
entrambe le tipologie di segno. Vi convivono simboli, pittogrammi e parole. Le parole possono anche
non esserci, possono essere, cioè, sostituite da segni, ma questi designano (senza essere imitativi) le cose,
o meglio i loro nomi (per esempio, il Mar Rosso, sulle carte geografiche, è rosso perché, secondo la
logica dei rebus, indica il nome del mare, non la cosa significata). La struttura compositiva di una

37
mappa dimostra che, comunque, la relazione tra i pittogrammi, è una relazione linguistica. Non ci sono,
come pensava William Warburton nel 1744 a proposito dei geroglifici, mappe extralinguistiche, pure
icone, perché, come ha scritto David Freedberg, anche il processo che consente il riconoscimento del
realismo che fonda la comprensione del codice imitativo dei pittogrammi è un processo costruito
socialmente e linguisticamente. Dunque, le cose sono complicate sin dall’inizio. Quando compare una
mappa è già entrata in funzione una mnemotecnica linguistica. Anche le pure immagini hanno bisogno,
per essere comprese, di un linguaggio che si attiva all’atto dell’interpretazione. Il rapporto tra l’uomo e
la natura non è un rapporto diretto, ma è mediato dal linguaggio e dalle sue strutture.
Come nasce un paesaggio, in termini percettivi? Attraverso la delimitazione del suo spazio
rispetto al continuum del territorio. E’ una scelta che nasce dalla percezione, mediata dall’immaginario
culturale della comunità di cui il percettore fa parte.
L’atto della contemplazione è una actio cum templo, cioè consiste nell’identificare, nel cielo, una
porzione di spazio entro la quale avranno significato determinati fenomeni naturali (per es. il passaggio
di uno stormo di uccelli, un fulmine, ecc.) da utilizzare per la divinazione. Identificato prima nel cielo, il
templum proietta la sua ombra, la sua figura in terra e delimita lo spazio del sacro, ma anche lo spazio
della città (che viene fondata secondo lo stesso procedimento). E’ lo spazio della cultura che si
sovrappone alla natura.
L’atto stesso della contemplazione quindi, si struttura, linguisticamente, come una mnemotecnica,
come una scrittura. Ciò avviene attraverso una operazione molto precisa, cioè sovrapponendo allo
spazio naturale uno spazio virtuale, immaginario, costituito di segni narrativi, una griglia di segni
mentali (come era la centuriatio romana, che, prima di essere una lottizzazione territoriale, era un sistema
per rendere comprensibile lo spazio attraverso la sovrapposizione di un sistema logico e narrativo, cioè
strutturato di punti di riferimento). Questi segni culturali convivono con le emergenze della natura,
contrassegnandole di narrazioni. La pianta e le altre componenti del paesaggio hanno un significato
morale, religioso, sociale, sessuale, terapeutico secondo una logica di reciprocità. Ne ha dato, per la
Grecia classica, un esempio illuminante Marcel Detienne ne I giardini di Adone.
Lo spazio reale convive con quello culturale in modo materialmente efficiente: non c’è, non ci
può essere, percezione di una parte del paesaggio naturale senza l’utilizzo di questa griglia di significati,
perché il sistema delle narrazioni connesse ai luoghi non serve tanto a renderli simbolici, ma a
individuarli, a percepirli. (Non è, in sintesi, la rappresentazione dello spazio ad essere simbolica, ma la
simbolizzazione, la significazione ad essere cartografica).
La cosa funziona nello stesso modo nella lettura della volta celeste, nell’astronomia e
nell’astrologia. L’identificazione delle stelle è possibile rintracciando le costellazioni, che sono figure
mnemoniche, narrative e simboliche (il carro, l’orsa, il toro) antropo e zoomorfe (o simili alle figure

38
naturali più comuni) utilizzate per orientarsi entro il continuum dello spazio celeste. Senza queste figure
simboliche e culturali, la natura non si riesce neppure a “vederla”.
Un comportamento di questo genere non è affatto esclusivo del mondo antico. Ricorderò in
proposito il labirinto di Versailles, progettato da Le Brun e Le Nôtre alla fine del XVII secolo e
concepito quale itinerario pedagogico per il delfino di Francia: esso era strutturato sulla sovrapposizione
al luogo naturale di un sistema topografico di rappresentazioni morali, l’interpretazione delle quali
consentiva, secondo un percorso logico (e moralmente edificante), di trovarne l’uscita. E ancora in
piena stagione rivoluzionaria, a Parigi, la Convenzione discuteva di utilizzare i giardini del Luxembourg
come sistema informativo del nuovo ordinamento dello stato basato sui dipartimenti provinciali fluviali,
costruendo, attraverso immagini fatte di bosso e di sculture, una specie di mappa virtuale del paese
sovrapposta ai giardini, in modo da consentire, passeggiando, un facile apprendimento popolare del
nuovo sistema amministrativo.
L’uso delle figure per memorizzare era così legato allo spazio che tutta la tradizione classica
(arrivando fino ai nostri giorni attraverso la devozione religiosa cristiana) lo utilizzava non tanto per
memorizzare le informazioni connesse ai luoghi, ma anzi impiegava i luoghi per memorizzare le
informazioni generali. Le informazioni da memorizzare, cioè, venivano agganciate a figure collocate
lungo un percorso noto (le aiuole di un giardino, le stanze, i loggiati, i palazzi e le città della memoria)
per favorire la loro ordinata archiviazione, il loro recupero e l’eventuale riassemblaggio nella
composizione retorica.
Aristotele consigliava di usare mentalmente le lettere dell’alfabeto o le stanze di casa propria.
Così, nel percorso a,b,c,d,e, se ci si fosse dimenticati di c, gli altri segmenti dell’itinerario mentale
avrebbero potuto aiutare a recuperare l’informazione (la stanza o la figura) momentaneamente perduta.
Geografia e cartografia (cioè la descrizione dei luoghi attraverso la scrittura, ovvero attraverso scrittura
e figure assieme) diventavano così le scienze fondamentali dell’arte della memoria perché usavano
figure (reali o mentali) collocate nello spazio. Strabone scrive chiaramente che questa è la funzione
specifica della geografia: dare informazioni elementari, di base, attraverso i luoghi geografici (non sui
luoghi geografici), cioè utilizzandoli come sistema retorico per ricordare le narrazioni connesse alle
regioni e alle città: storie, miti, personaggi famosi, curiosità. Nel II secolo dC un maestro di scuola
alessandrino, Dionigi Periegete, utilizza la mappa del mondo come un’enciclopedia per spiegare ai suoi
studenti i rudimenti della cultura di base, non certo la geografia come la intendiamo noi oggi. A metà
del Settecento e in pieno illuminismo i manuali di “geografia per fanciulli” fanno la stessa cosa.
La descrizione e la rappresentazione dei luoghi (non c’è differenza) sono dunque una topica, cioè
un repertorio di informazioni da utilizzare per la composizione retorica o anche per la scelta morale.
Non c’è infatti differenza tra cercare l’exemplum giusto (cioè la citazione) per scrivere un’orazione, o da
imitare in un comportamento. La memoria usa la topica per memorizzare, e, attraverso la giusta topica

39
(cioè implementando di esempi giusti il repertorio utilizzato), sarà facile accedere al giusto
comportamento. La memoria è infatti la “porta della morale” e con essa la geografia (cioè la
descrizione/rappresentazione della natura/topica secondo i meccanismi della
contemplazione/meditazione).
Se la contemplazione consiste quindi nell’identificare lo spazio significante sovrapponendolo a
quello reale, la meditazione consiste nel recuperare mentalmente in quello spazio, attraverso
l’osservazione delle figure (e quindi anche delle componenti del paesaggio/giardino: i topia), le
informazioni loro connesse (dei concetti, oppure interi passi della tradizione. Memoria ad res, memoria ad
verba).
La topica/morale è così intima della topografia che quest’ultima viene considerata da
Quintiliano (Inst. or. IX,2) la più efficace forma di persuasione. E anche l’arte dei topiarii (la topiographìa)
cioè dei giardinieri, confusa con la topografia, è considerata, piuttosto che una manipolazione della
natura, una composizione retorica dei significati connessi alle piante in funzione persuasiva. Costruire
un giardino significa infatti, già nel mondo antico, costruire periodi e discorsi attraverso i significati dei
fiori e delle piante, avvalendosi della loro bellezza per colpire l’emozione e radicarsi nella memoria del
percettore. Giardini come biblioteche, come luoghi della meditazione e della scelta etica, nei quali,
tuttavia, la meraviglia, non è prodotta dalla osservazione della natura, ma dalle narrazioni emotivamente
rilevanti associate alle componenti naturali del paesaggio. Il paesaggio culturale è questo. La lettura della
sua fisiologia non può distinguersi dalla fisionomia perché è quest’ultima, in quanto sistema linguistico,
a consentire di leggere le sue componenti naturali. In questo comportamento paesaggi e mappe
seguono le stesse modalità di funzionamento.
Le mappe, come i paesaggi, non parlano di natura, ma di cultura. Non rappresentano luoghi, ma
loci retorici. Non indicano cose, ma parole. La percezione è certamente un atto soggettivo, ma segue
logiche linguistiche e retoriche codificate.
Il paesaggio deve dunque essere bello perché fonda il suo funzionamento sulla capacità delle
figure utilizzate di colpire l’emozione e favorire così il radicamento mnemonico (che è proporzionale
all’emozione provata). Ma la sua prima percezione (ammesso che possa esistere) è già una percezione
strutturata dai significati che evoca. La quale, a cascata, riprodurrà, nella manipolazione del paesaggio
vero, una sua progressiva qualificazione territoriale come luogo “estetico”.
In questo, credo abbia ragione Gombrich quando sostiene che la nostra percezione della natura
è filtrata dall’arte. Ma l’arte è probabilmente solo uno dei suoi filtri, perché vi sono anche altre griglie
sovrapponibili al paesaggio.
In ogni caso, come ha ricordato David Freedberg, la percezione della realtà è mediata dalle
costruzioni simboliche della società. Certi paesaggi vengono scelti perché più capaci di altri di
rappresentare emotivamente le topiche di una comunità. Questa scelta favorisce poi l’ulteriore sviluppo

40
della funzione loro affidata, perché consolida socialmente la convinzione che quel paesaggio è bello e
rappresenta qualche cosa di più di una qualità congiunturale. In questo modo la percezione della forma-
paesaggio agisce come le figure dei codici miniati. Esse venivano collocate prima del testo, per
condizionarne la lettura secondo un registro programmato, oppure alla fine del testo per riassumerne i
tratti pertinenti (quindi con la stessa funzione). In entranbi i casi le figure agivano con la logica delle
costellazioni astrali: influivano, cioè, sullo skopòs della lettura, condizionandola emotivamente. Come le
stelle agivano sullo skopòs della vita “guardando” l’ora della nascita (appunto, l’“oroscopo”).

5. Il paesaggio persuasivo
Considerare il paesaggio secondo la pragmatica del suo funzionamento linguistico e retorico mi
sembra consenta il ritrovamento, entro una sorta di analisi tecnologica delle strutture mentali, di una
confluenza tra le analisi “contenutistiche” e quelle “formali” del paesaggio in campo. Essa gli restituisce
la sua funzione simbolica, ma entro un processo socialmente mediato di costruzione di senso che evita
probabilmente di tornare ai modelli romantici, senza perdere di vista le componenti “oggettive”. Il
paesaggio infatti, in questa interpretazione, nasce da una percezione socialmente mediata, ma, in quanto
repertorio morale, produce comportamenti e, quindi, perfeziona la realtà rispetto al modello. Nello stesso
modo gli atlanti producono le identità nazionali (invece di documentarle) e le guide turistiche producono gli
itinerari (agiscono, cioè, prima del successo sociale del percorso).
La percezione individuale del paesaggio convive dunque, materialmente, con la sua funzione,
codificata, di repertorio di informazioni, ma anche di teatro delle norme cui attenersi. I contadini
marchigiani produttori di uno dei paesaggi più apprezzati d’Italia, segmento della piantata mediterranea,
consideravano per esempio il loro paesaggio come un repertorio normativo di regole di
comportamento e di significati morali dettati, ovviamente, dalle classi dirigenti. Come succede agli
ecologisti che celebrano la bellezza dell’ecosistema, anche per i contadini la bellezza del paesaggio
coincideva con il sistema dei valori inculcato dalle convenzioni. Il contadino sta in campagna, mentre il
padrone sta in città e guarda dall’alto il paesaggio coltivato. La citazione di Volponi di apertura
sottolinea come chi saliva a Urbino e vedeva il paesaggio agrario del Montefeltro coglieva ancora, nel
secondo dopoguerra, il sistema delle relazioni sociali; capiva quel che c’era da capire.
Reciprocamente, i signori (come nei due ritratti del duca Federico da Montefeltro e di Battista
Sforza di Piero della Francesca) rappresentavano il buon governo del principe coincidente con il
paesaggio coltivato e bonificato e, ancora due secoli dopo, si autorappresentavano come pastori arcadi
nelle favole pastorali recitate nei loro teatri di corte.
Non era solo il paesaggio rappresentato a funzionare da repertorio normativo, da topica, ma
anche quello vero; che veniva infatti celebrato da aristocratici e viaggiatori come un giardino.

41
Il problema di oggi è che probabilmente il sistema dei significati connessi al territorio si è perso.
Non abbiamo più il codice linguistico dei significati secondi connessi al territorio, quelli che lo
trasformavano appunto in paesaggio (la stessa cosa è successa per la toponomastica, nata per dare
“figure emotive” ai luoghi, derive meditative come quelle descritte da Proust nel capitolo Nomi di paesi
della Recherche, oggi diventati puri segnali stradali).
L’invadenza dei “non luoghi” di oggi non è solo di natura progettuale, è anche legata a questa
carenza di significati meditativi connessi ai luoghi, sostituiti da pure funzioni; una vittoria dello space sul
place. I paesaggi consentivano infatti derive interpretative, i “non luoghi” hanno solo sensi unici.
Quanto esposto sin qui consente di comprendere le ragioni della tendenziale confluenza storica tra
pensiero etico e cultura del paesaggio, anche prescindendo dalla componente conservativa e militante
degli ambientalisti.
La scelta etica è stata infatti epistemologicamente intrinseca alla scienza del paesaggio, perché
fondata sui suoi stessi, intimi meccanismi di funzionamento. Ciò spiega perché Kant sostenesse che
amare la natura equivaleva ad avere un animo buono; perché la geografia umanistica (per es. nel
pensiero del geografo americano R. S. Sack), come l’ecologia del paesaggio, abbiano teso a identificarsi
con la scelta etica e politica (“Il male, scrive Sack nel 1997 nel suo Homo Geographicus, è l’assenza di
intrinseci valori geografici. Il luogo può diventare cattivo perché è carente di questi valori”). Spiega per
quale motivo la Land Art americana e l’arte ambientale europea abbiano finito per trasformare l’opera in
puro gesto simbolico, in azioni o installazioni, traducendola in puro atto concettuale, in “esempio”
morale.
D’altra parte, in tutta la tradizione classica (ma si trattava di un’immagine frequentemente
presente anche sui frontespizi degli atlanti del Sette e Ottocento), la scelta etica era stata rappresentata
dall’emblema di “Ercole al bivio” tra la strada stretta e in salita del bene e quella larga e in discesa del
male. Un emblema che rappresentava concretamente la morale come un percorso nello spazio.

42
Riferimenti bibliografici

J. APPELTON, The Experience of Landscape, Chichester-New York, J. Wiley & Sons, 1996.
E. BATTISTI, Iconologia ed ecologia del giardino e del paesaggio, a cura di G. Saccaro Del Buffa, Firenze,
Olschki, 2004.
A. BERQUE, Les raisons du paysage, de la Chine antique aux environnements de synthèse, Paris, Hazan, 1995.
J.M. BESSE, Face au monde. Atlas, jardins, géoramas, Paris, Desclèe De Brouwer, 2003.
E. S. CASEY, Representing Place. Landscape, Painting and Maps, Minneapolis, University of Minnesota Press,
2002.
E. COCCO, Etica ed estetica del giardino, Milano, Guerrini e Associati, 2003.
P. D’ANGELO, Estetica della natura. Bellezza naturale, paesaggio, arte ambientale, Roma-Bari, Laterza, 2001.
M. DETIENNE, I giardini di Adone, Torino, Einaudi, 1975.
F. FARINELLI, L’arguzia del paesaggio, in AA. VV., Il disegno del paesaggio italiano, a cura di V. Gregotti,
“Casabella”, 1991.
L. FINKE, Introduzione all’Ecologia del paesaggio, a cura di R. Colantonio Venturelli, Milano, Angeli, 1993.
D. FREEDBERG, The Power of Images. Studies in the History and Theory of Response, Chicago, The University
of Chicago Press, 1989.
E. GOMBRICH, La teoria dell’arte nel Rinascimento e l’origine del paesaggio, in Id. Norma e forma, Torino,
Einaudi, 1973.
S. GREENBLATT, Meraviglia e possesso. Lo stupore di fronte al nuovo mondo, Bologna, Il Mulino, 1994.
Y. LACOSTE, A quoi sert le paysage? Qu’est-ce qu’un beau paysage? (1977), ora in A. Roger (a cura di), La
théorie du paysage en France, 1975-1995, Champ Vallon, Seyssel, 1995.
G. MANGANI, Somatopie. Curiosità cartografiche, in “FMR”, n.s. n. 3, 2004.
R. MILANI, L’arte del paesaggio, Bologna, Il Mulino, 2001.
R.S. SACK, Homo Geographicus. A Framework for Action, Awareness, and Moral Concern, Baltimore, Johns
Hopkins University Press, 1997.
S. SHAMA, Paesaggio e memoria, Milano, Mondadori, 1995.
M. SEEL, Etisch-Aesthetische Studien, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1996.
G. SIMMEL, Filosofia del paesaggio, in Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, a cura di L. Perucchi, Bologna, Il
Mulino, 1989.
E. TIEZZI, Il capitombolo di Ulisse. Nuova scienza, estetica della natura e la scienza, Milano, Cortina, 1998.
H.F. TUAN, Topophilia. A Study of Environmental Perception, Attitudes, and Values (1930), New York,
Columbia University Press, 1990.
E. TURRI, Antropologia del paesaggio, Milano, Comunità, 1974.
E. TURRI, Il paesaggio come teatro, Venezia, Marsilio, 1998.
W. WARBURTON, Essai sur les hiéroglyphes des Egyptiens, Paris, 1744.

43
HANSJÖRG KÜSTER

NATUR UND LANDSCHAFT IN NATURWISSENSCHAFTLICHER SICHT:


ZWEI BEGRIFFE, DIE UNTERSCHIEDEN WERDEN MÜSSEN

Im täglichen Sprachgebrauch des Deutschen, aber wohl auch anderer Sprachen, werden die
Begriffe „Natur“ und „Landschaft“ häufig synonym gebraucht. Beide werden für gegensätzliche
Bezeichnungen zu „Stadt“ oder auch „Kultur“ gehalten, etwa dann, wenn man sagt: „Ich gehe hinaus
in die Natur.“ Man spricht im Deutschen von einem Gegensatz zwischen „Naturlandschaft“ und
„Kulturlandschaft“. „Naturlandschaft“ ist vom Menschen bzw. seiner Kultur unbeeinflusst,
„Kulturlandschaft“ durch Mensch und Kultur geprägt. Aus naturwissenschaftlicher Sicht sind diese
Formen der Verwendung der Begriffe Natur und Landschaft einerseits, Naturlandschaft und
Kulturlandschaft andererseits nicht akzeptabel.

Die Entwicklung der modernen Biologie im 18. Jahrhundert setzte unter anderem mit der
Klassifizierung von Erscheinungen der Natur ein: Arten von Tieren und Pflanzen wurden beschrieben,
und zwar in einer Art und Weise, die jedem, der mit den Artbeschreibungen umgeht, klar macht, dass
eine Art eine Konstante sei. Dabei ist in Wirklichkeit nur die Beschreibung der Art konstant, nicht aber
die Gruppe der Individuen, die zu der Art gerechnet werden. Eine Klassifizierung der biologischen
Vielfalt wäre auf andere Weise nicht möglich gewesen, doch muss klar betont werden, dass keine
Gruppe von Lebewesen, die zu einer Art gerechnet werden, als Konstante aufgefasst werden darf:
Diese Gruppe besteht aus Individuen, die entstehen und vergehen und niemals mit gleichen
Eigenschaften wieder geboren werden. Die Entstehung immer wieder anderer Individuen ist eine
wichtige Voraussetzung dafür, dass sich Populationen von Tieren oder Pflanzen im Lauf der Evolution
weiter entwickeln.

Auch die moderne Geographie begann ihre eigenständige Entwicklung unter anderem mit einer
Einteilung der Welt in Landschaftsräume. Diese wurden ebenfalls als Konstanten beschrieben, und
auch diese dürfen nicht als Konstanten aufgefasst werden. Denn in ihnen laufen ökologische
Entwicklungen ab: Lebewesen entstehen und vergehen. Es kommt ferner zur Ausbildung eines
irreversiblen Energieflusses: Bei der Photosynthese wird Lichtenergie in chemische Energie
umgewandelt, und diese wird im Verlauf der Zellatmung in andere Energieformen transformiert, die
letztlich als Wärmeenergie von der Zelle bzw. vom Ökosystem abgegeben werden. Dieser elementare
Vorgang des Lebens, der in allen Ökosystemen und in allen geographisch definierten Landschaften
abläuft, ist entscheidend dafür verantwortlich, dass sich deren Konstitutionen beständig verändern.

44
Organische Substanz wird zum Teil abgebaut, zum Teil sedimentiert, unter dem Einfluss von
Lebewesen werden Gesteinsschichten zersetzt und ihre Bestandteile ins Meer gespült.

Aus naturwissenschaftlicher Sicht sollte klar sein: Natur verändert sich unaufhörlich, und ein
Ökosystem ist keine Konstante, sondern ein Prozess. Wir selbst und unsere Umwelt sind in diesen
beständigen Wandel mit eingeschlossen.

Die Menschen wollen sich aus einem elementaren kulturellen Antrieb auf einen solchen
natürlichen Wandel nicht einlassen: Sie streben stabile Lebensbedingungen für sich als Individuen oder
als Gruppe an. Ausdruck des Willens, stabile Lebensbedingungen zu schaffen, kann es aber dann
gerade nicht sein, die Natur zu schützen. Denn ein Schutz der Natur bedeutet Schutz des Wandels –
und den will man gerade dann nach Möglichkeit verhindern, wenn man stabile Bedingungen schaffen
möchte.

Im Gegensatz zur Natur kann Landschaft als stabile Größe gedacht werden. Sie ist ohnehin
immer dann stabil, wenn ein Maler sie erkannt hat und auf einer Leinwand fixiert. Das Bild auf der
Leinwand ist ebenso stabil wie die Beschreibung einer Pflanzen- oder Tierart und wie die auf einer
Landkarte eingezeichnete Landschaft. Auf der Leinwand und auf der Landkarte besteht eine konstante
Landschaft als eine Momentaufnahme von Natur, die sich in beständiger Wandlung befindet. Das
fixierte Abbild der Natur kann als Leitbild fungieren: Aus vielen Gründen kann es die Überzeugung
von Menschen sein, dieses Bild nicht nur auf der Leinwand, sondern auch in der „Realität ihrer
Umwelt“ festzuhalten. Weil dabei aber akzeptiert werden muss, dass Natur sich stetig verändert, muss
dann gegen die Veränderung vorgegangen werden: Bäume müssen geschnitten, Heideflächen beweidet
werden, und Wiesen brauchen den regelmäßigen Schnitt.

Aus diesen Ausführungen wird klar, dass Natur mit und ohne Menschen bestehen, das heißt:
sich beständig verändern kann. Aber eine Landschaft existiert nur dann, wenn der Mensch sie bewusst
(oder auch unbewusst) erkennt. Landschaft wird immer aus kultureller Sicht konstruiert oder definiert.
Daher kann es prinzipiell keine Naturlandschaft geben. Auch dann, wenn Menschen auf eine
„jungfräuliche“ Landschaft blicken, die noch nie zuvor berührt wurde, ist ihr Bild, das sie sich davon
machen, eine Leistung der Kultur. Daraus folgt dann, dass der Begriff „Kulturlandschaft“ nicht
verwendet werden muss. Er ist eine Tautologie, weil Landschaft immer kulturell bestimmt ist. Alles,
was der Mensch betrachtet und im Geist oder in der Realität, „kulturell“ festhalten möchte, ist
Landschaft.

Während Natur niemals nachhaltig ist (weil sie sich verändert), kann das Bemühen der
Menschen um die Bewahrung von Landschaft als Ziel von Nachhaltigkeit gedeutet werden. Weil sich
Natur immer verändert, ist in ihr eine Nachhaltigkeit im Sinne von Stabilität nicht zu verwirklichen.
Aber die stetige Pflege einer Landschaft, das stetige Bäumeschneiden, Pflügen, Ernten, Unkrautjäten

45
usw., hat etwas mit dem Anstreben von Nachhaltigkeit zu tun: Wenn alle diese Aktionen alljährlich
erfolgen, erhält die Landschaft ein in jedem Jahr wieder gleiches oder nahezu gleiches Aussehen. Das
Ziel, das dahinter steht, kann als Anstreben von Nachhaltigkeit umschrieben werden.

Wenn man den Begriff Naturschutz ernst nimmt, so ist darunter ein Schutz der Dynamik zu
verstehen. Diese Schutzstrategie besteht in der Praxis des Naturschutzes dann, wenn man sich für einen
Prozessschutz entscheidet. Doch oft wird unter Naturschutz eher eine Bewahrung des Status quo
verstanden, eines Zustandes, der mit Natur nichts zu tun hat, da ja Natur sich ständig wandelt. Das
eigentliche Ziel, das dabei – mit dem Etikett „Naturschutz“ – verfolgt wird, ist der Schutz einer
Landschaft, die Bewahrung eines Leitbildes mit allen darin enthaltenen Strukturen, auch einer
Biodiversität, also bestimmter Pflanzen- und Tierarten.

Dieses Ziel ist wichtig, aber man kann es nicht Naturschutz nennen. Es handelt sich dabei
vielmehr um das zentrale Ziel des Landschaftsschutzes. Eine solche begriffliche Klarstellung ist keine
philologische Spitzfindigkeit, sondern eine sachliche Notwendigkeit. Das Ziel, einen Zustand in unserer
Umwelt zu bewahren, muss nämlich den Zustand nicht nur gegenüber den verändernden Eingriffen
des Menschen bewahren, sondern auch – und das ist entscheidend – gegen die Dynamik der Natur.
Stets ist ein kultureller Einfluss notwendig, um natürliche Veränderung zu verhindern und um nach
Möglichkeit einen Zustand zu bewahren. Dies zeigt sich im Garten und in der Agrarlandschaft, in den
Wäldern wie auf Heideflächen, die nur dann waldoffen bleiben, wenn dort regelmäßig Tiere auf die
Weide geschickt werden.

Die Gegebenheiten in einem solchen Ökosystem können mit naturwissenschaftlichen


Analysemethoden untersucht werden. Den Naturwissenschaftlern sollte bei ihrer Arbeit aber immer
klar sein, dass ihr Untersuchungsgegenstand von Natur aus keine Stabilität aufweist, sondern dass
Stabilität angestrebt wird, wenn menschlicher bzw. kultureller Einfluss dafür sorgt.

Man kann sich einer Landschaft nicht nur mit naturwissenschaftlichen Analysen nähern. Stets
wird auch die Synthese gebraucht, die nach der Vorstellung Alexander von Humboldts vom
Landschaftsmaler zu leisten ist. Das braucht nicht wörtlich genommen zu werden. Nicht jeder
„Landschaftsmaler“ im Sinne Humboldts produziert etwas auf einer Leinwand. Ein Landschaftsmaler
als Synthetiker kann auch etwas Schriftliches verfassen, eine Landkarte zeichnen oder ein Musikstück
komponieren. Das Werk des Landschaftsmalers kann ebenso eine mit naturwissenschaftlichen
Methoden geleistete Synthese sein. Wichtig ist, dass diese Synthese auf zahlreiche Aspekte eingeht und
Zusammenhänge knüpft. Die Synthese ist genauso wenig wie die Analyse jemals abgeschlossen. Immer
wieder können neue Details erforscht werden, aber auch immer wieder neue Zusammenhänge. Leider
ist unsere heutige Wissenschaft, vor allem in den naturwissenschaftlichen Fächern, heute vorrangig auf
Analyse bedacht; viele naturwissenschaftliche Publikationsorgane akzeptieren nur eine

46
Argumentationskette, die von einer Frage ausgeht, dann die Methode darstellt, Ergebnisse und eine
Diskussion, aber damit die Synthese gerade nicht leistet. Es gibt zwar die literarische Form des
wissenschaftlichen Essays, doch keine wirklichen Synthesen im Sinne Alexander von Humboldts. Die
Landschaft müsste aber in Synthesen dargestellt werden, denn Planer (auch Politiker) brauchen diese.
Mit Ergebnissen von Analysen können sie kaum etwas anfangen, und selbst können sie die Synthesen
nicht leisten. Daher findet heute fahrlässigerweise sehr häufig eine Landschaftsplanung statt, ohne dass
die Ausgangssituation der Landschaft in einer Synthese beschrieben ist. Wir verzichten auf die
Synthesen einer Landschaftswissenschaft – und sind uns noch nicht einmal darüber bewusst!
Landschaftswissenschaft ist nicht Geographie oder Landschaftsökologie, sie ist eine darüber oft weit
hinaus reichende Synthese, die rational begründbares Wissen und emotionale Vorstellungen der
Menschen ausdrücklich einbezieht.

Wir brauchen die Landschaftswissenschaft vor allem als Basis für die Information von Planern,
aber auch der allgemeinen Öffentlichkeit. Es ist wichtig, dass Fachleute und Laien sich um richtiges
Hinsehen bemühen, bevor sie Entscheidungen treffen. Sie müssten vom Landschaftswissenschaftler,
dem Landschaftsmaler im Sinne Alexander von Humboldts, im Betrachten der Landschaft unterrichtet
werden. Dabei ist zunächst das zu beschreiben, was als scheinbarer Zustand erkennbar wird. Dieser
kann dann in den Lauf einer Entwicklung eingeordnet werden. Dabei ist der kulturelle Einfluss, der
gegen die natürliche Dynamik einwirkt, zu beschreiben.

Jeder Mensch, der sich mit Landschaft befasst, kann auf sie Einfluss nehmen, in welcher Form
sie bewahrt werden sollte. Die Bewahrung von Landschaft wird durch kein Naturgesetz
festgeschrieben, sie ist auch nicht durch einen Staat oder durch die Jurisdiktion festgelegt. Kein
Wissenschaftler allein, auch kein Künstler allein bestimmt den „richtigen“ Zustand einer Landschaft.
Sondern alle Menschen sind aufgerufen, sich gemeinsam über das Erscheinungsbild „ihrer“ Landschaft
in Gegenwart und Zukunft Gedanken zu machen. Diese Gedanken sind individuell und durchaus
verschieden. Aber es ist unabdingbar, dass ein intersubjektiver Kompromiss darüber herbeigeführt
wird, welche Landschaft geschützt werden soll – als Raum der Arbeit, als Raum der Erholung, als
Raum der Empfindungen, als Heimat.

Ein intersubjektiver Kompromiss über die Zukunft von Landschaft kann nur unter Menschen
herbeigeführt werden, die etwas über die Landschaft wissen und die sich auch darüber bewusst sind,
dass keine absolute Notwendigkeit besteht, diese oder jene Richtung für die Entwicklung der
Landschaft zu wählen. Der intersubjektive Kompromiss ist keine Konstante, sondern er kann und
muss immer wieder neu herbeigeführt werden. Ein Bewusstsein für Landschaft und ein Bewusstsein für
den Charakter des intersubjektiven Kompromisses zu entwickeln sind eminent wichtige pädagogische
Aufgaben, die sich aus der Beschäftigung mit der Wissenschaft von der Landschaft ergeben. Der

47
Schutz der Landschaft hängt daher sowohl von der Qualität der Synthesen als auch der Qualität der
pädagogischen Arbeit ab. Nachhaltigkeit des Schutzes von Landschaft beruht also nicht in erster Linie
auf Gesetzen der Natur oder der Jurisdiktion, sondern auf dem Verständnis der Menschen und der
Kunst der Pädagogen, die sie unterrichten.

48
ALFONS DWORSKI

ARCHITEKTUR- UND LANDSCHAFTSVERSTÄNDNIS IM WANDEL VON ORT UND ZEIT.


EINIGE EPISODEN DER EUROPÄISCHEN IDEENGESCHICHTE
AM LEITFADEN VON ARCHITEKTUR- UND LANDSCHAFTSBETRACHTUNGEN

Vorbemerkungen zu den Begriffen „Architektur“ und „Landschaft“

Architektur in kulturwissenschaftlicher Perspektive


Architektur wird in den folgenden Untersuchungen aus einer kulturwissenschaftlichen
Perspektive betrachtet, damit treten sowohl technische als auch künstlerische Aspekte in den
Hintergrund. Es ist nur von Bauwerken und materiellen, raumbildenden Artefakten die Rede. Also von
Substanz. Dies im Gegensatz zum Begriff „Landschaft“, der eine vage Kategorie beinhaltet.

Da Architektur Raum einnimmt…


Da Architektur Raum einnimmt ist sie in jedem Fall an einen Ort gebunden. Meist ist der Ort
mit einer geographisch eindeutigen Stelle identisch. Die Stelle kann auch qualitativ bestimmt sein, so
z.B. ist ein Hausboot Architektur und an einen geographisch unbestimmten, aber nicht beliebigen Ort
gebunden, an fahrbares Wasser. Ein solcher Ort konstituiert sich aus einer bestimmten Infrastruktur.
Architektursimulationen im Cyberspace und übertragene Bedeutungen wie „Friedensarchitektur“ oder
„Rechnerarchitektur“ sind ortlos, substanzlos und bleiben hier außer Betracht.

Architektur für einen gegebenen Zweck


Da Architektur von Menschen für einen gegebenen Zweck auf der Basis existenter
Sinnkonzepte entworfen und hergestellt wird, sind zeitliche und räumliche Referenzmarken in eine
zunächst menschenleere, maßstablose und geschichtslose Welt gesetzt. Architekturgeprägte
menschliche Lebensentfaltungsräume werden auch baukulturelle Regionen genannt, womit die
sinnstiftende Beziehung zwischen Mensch, Ort und Artefakt zum Ausdruck kommt.

„Regionale Architektur“
Unter „Regionaler Architektur“ soll nicht mehr, aber auch nicht weniger als die Summe des
baulichen Geschehens in einer bestimmten Region verstanden werden, es handelt sich also weder um
eine historische noch um eine baukünstlerisch wertbestimmende Kategorie. Regionalismus hingegen ist
eine soziokulturelle Einstellung, wonach das räumliche Sein – die Raumbindung – bestimmender für

49
das Bewusstsein sei, als soziales Sein bzw. Herrschaftsbindung. An diese Frage knüpfen sich auch die
politischen Gegenentwürfe „Regionalismus“ versus „Internationalismus“ an.

„Regionalistische Architektur“
Unter „Regionalistischer Architektur“ sollen architektonische Gestaltungen verstanden werden,
denen bestimmte, in unterschiedlicher Weise von regionalen Strukturen inspirierte Stilprogramme
zugrunde liegen. Man sollte deshalb nur von „Architektonischen Regionalismen“ sprechen, um die
Vielfalt regionalistischer Phänomene im Auge zu behalten.
Architektonischer Regionalismus ist also kein expliziter „Stil“ sondern eine Tendenz, eine
implizite Art etwa auf problematische Seinslagen zu reagieren wie urbane Verelendung, kulturelle
Identitätskrisen, Umweltdegradation oder Globalisierung.

Was ist Landschaft?


Ein nicht oder noch nicht gesehener bzw. erträumter Raum kann nicht Landschaft sein. Sehen
oder träumen sind Modi menschlicher Wahrnehmungen. Wir wissen zum Beispiel nicht, ob Milben
Landschaftsempfindungen haben, und wenn es so etwas gäbe, welche Wahrnehmungen sich daran
knüpften. Landschaft ist demnach eine kulturell definierte Wahrnehmungskategorie, ein möglicher
Sachverhalt, der durch menschliche Betrachtung eines Ausschnittes der Erdoberfläche entstehen kann.
„Der Mensch ist das Maß aller Dinge.“ Genauer gesagt: Der menschliche Empfindungs- und
Wahrnehmungsapparat ist das einzige Referenzsystem jeder dem Menschen zugänglichen
Weltbeschreibung und jeder Welterkenntnis. Selbst die Götter mussten und müssen sich diesem Gesetz
beugen, wenn sie in irgendeiner Weise wahrgenommen werden wollen. Begriffe wie „Natur“ und
„Landschaft“ bezeichnen keine Existenzen per se wie etwa „Stein“ oder „Wurm“ sondern Aggregate
menschlich interpretierter Sachverhalte und Raumwahrnehmungen.

Substanz oder Sachverhalt?


Einen substanziellen Begriff wie „Stein“ bzw. auch „Architektur“ kann man durch
objektivierende Beschreibung zweifelsfrei definieren: Es wird festgelegt, dass ein Stein durch Stoff
(Gestein, Mineral) und Gestalt (größer als Sandkorn und kleiner als Felsen) mit notwendiger und
hinreichender Genauigkeit beschrieben werden kann. Damit ist auch festgelegt, was „Nicht-Stein“ ist.
Der vage Sachverhalt „Landschaft“ lässt sich so weder fassen noch abgrenzen. Im alltäglichen
deutschen Sprachgebrauch gibt es wenig Zweifel, was gemeint ist, wenn das Wort „Landschaft“ fällt.
Praktisch immer ist durch einen Sinnzusammenhang klar, ob ein Bild (Wandschmuck), eine
Traditionsgesellschaft oder eine attraktive Gegend gemeint ist. Weil hier ein flexibler Sprachgebrauch
vorliegt, der in anderen Sprachen aus ähnlichen aber keineswegs gleichen inhaltlichen Schnittmengen

50
zusammengesetzt ist, kann es wohl eine alltagstaugliche, aber keine prinzipielle Gewissheit darüber
geben, was Landschaft ist.

Was ist nicht Landschaft?


Ebenso aussichtslos sind die Versuche, prinzipiell zu fassen, was nicht Landschaft heißen soll.
Dass zum Beispiel verwüstete Tagbaugruben zu den Strukturwandel-Folgelandschaften gezählt werden,
ist zwar nicht populär, aber Stand der Forschung. Ob es aber zulässig wäre, etwa alle Blumentöpfe von
Sevilla als Moleküle, als homöopathische Dosen von Landschaft zu interpretieren und damit in
Fachkreisen innovativ zu werden, kann ein Streitfall sein. Manieristische Kunstgriffe dieser Art werden
im Folgenden außer Betracht bleiben, so auch abgeleitete Anwendungen des Vokabels, die im Bereich
der Politik, des Kunsthandels und der Poesie gebräuchlich sind.
Bestimmte Sprachen erleichtern bzw. begünstigen bestimmte Denkstile, verweisen aber auch
auf kulturspezifische, in der Praxis fast unüberwindliche Schranken der Verständigung über Welt- und
Raumbeschreibungen. So müssen wir es für möglich halten und akzeptieren, dass es Kulturen gibt oder
geben könnte, die Sachverhalte wie „Landschaft“ in Sprache und Weltbeschreibung nicht
konzeptualisiert haben, die europäische Raumkategorien nicht brauchen und kennen, die sich aber mit
einer den Europäern möglicherweise unzugänglichen Raumbeschreibung zweifelsfrei koordinieren und
orientieren.
So wird es erklärlich, dass etwa Australien dem heutigen europäisch-touristischen Blick
sehenswerte und erhabene Landschaften bietet, und dieser Sachverhalt in den üblichen Medien
dargestellt und kommuniziert werden kann. Die Ureinwohner, die sich selbst in untrennbarer, ständiger
magischer Einheit mit dem heiligen Territorium begreifen, finden sich mit ihren, für uns jedoch im
doppelten Wortsinn „unbeschreiblichen“ Orientierungssystemen – mit raumbildenden Gesängen,
Traumpfaden und Churingas – erfolgreich und völlig andersartig zurecht.

Landschaft ist eine Raumbeschreibung


Der Rahmen des hier behandelten Landschaftsbegriffes ist demnach eine Kategorie
menschlicher, genauer gesagt, europäischer Raumbeschreibung. Alle Fragen bezüglich der Landschaft
basieren auf vorgelagerten oder historischen Fragen nach den jeweiligen Natur- und Raumbeziehungen.
Ausgangspunkt ist immer die Frage, was das betrachtende Subjekt im Blick auf die überschaubare
Geographie wahrnimmt, schätzt, sucht, beachtet, welche Interessen an Natur und Raum den
Sachverhalt Landschaft konstituieren und wie sich das Subjekt in Beziehung zum Objekt bringt.
Diese Beziehungen zu entschlüsseln ist in aufgeklärter Tradition Selbstbefragung und Empirie,
in religiösen und mystischen Traditionen Offenbarung oder Gotteserfahrung. Das Bedürfnis nach
umfassenden Raum- und Welterklärungen dürfte eine unverzichtbare anthropologische Konstante sein.

51
Ihre praktischen Ausformungen bilden einen breiten Fächer etwa zwischen den Gegensätzen von der
Weltabgewandtheit hinduistischer Traditionen bis zum positiven Daseinsbezug manichäischer Mystik,
wonach sich der schöpferische Lichtgott in der Lektüre des liber naturae offenbare. Die Regel ist, dass es
eine Regel geben muss; die Beständigkeit liegt in der Vielfalt und im Wandel der Raummodelle.

Raummodelle im Wandel
Das vorherrschende Raummodell urbanisierter Gesellschaften am Beginn des 21. Jahrhunderts
ist zwar noch vom bipolaren Stadt-Land Modell der europäischen Zivilisationsgeschichte bis etwa 1950
geprägt, wird aber seither zunehmend von Urbanisierungs- und Globalisierungsphänomenen
aufgebrochen. In den allgemeinen Kulturwissenschaften gilt derzeit das Thema Spatial Shift als aktuell.
Gemeint ist damit die progressive Auflösung eines physisch-zentrierten Raumes, wie er etwa in der
historischen Begrifflichkeit von „Heimat“ verdichtet war, zugunsten ortloser Präsenzen. Konnte man
das historische Raummodell mit einer handfest sichtbaren Zwiebel (Ringe um ein Zentrum)
vergleichen, so kann man sich die ortlosen Präsenzen als großteils unsichtbares Rhizom oder Myzel
(Netzwerk) verbildlichen.
Zukünftige Raummodelle werden sich vielleicht im Wesentlichen aus Netzwerken von Orten
und Nichtorten entwickeln. 36

Vorwiegend sesshafte Lebensentfaltungen


Vorwiegend sesshafte Lebensentfaltungen in zeitlicher und räumlicher Kontinuität werden
weniger, ausgedehntes Schweifen wird wieder zur Regel. In den kommenden Raummodellen wird die
traditionelle Stadt-Land-Dialektik verblassen, und eine bis jetzt noch namenlose Raumkategorie wird
mit komplexen, urbanistischen Begleiterscheinungen das durchdringen, was heute noch „offene,
bäuerliche Kulturlandschaft“ genannt wird. Dies wird auch von der ehemals umfassenden
Funktionalität zur einseitig touristisch-modischen Ästhetisierung von historischen Stadtkernen führen,
die noch das System von baugeschichtlich aufeinander folgend gewachsenen Ringen zeigen. 37
Die neuen urbanisierten Kulturlandschaften müssen vollständige Lebensentfaltungsräume, bzw.
Schweifgebiete sein. Ein kritischer Rückblick auf die dynamische Geschichte von Sesshaftigkeit versus
Schweifen wird zeigen, dass menschliche Raummodelle evolutionär zu sehen sind:

36 Vgl. dazu: M. KÜHN, Vom Ring zum Netz? Siedlungsstrukturelle Modelle zum Verhältnis von Großstadt und Landschaft in der
Stadtregion. http://www.nsl.ethz.ch/index.php/en/content/view/full/343/.
37 Vgl.: http://landluft.server2.scalar.at/04/media/pdf/Doku_Wohnen_und_Arbeiten_in_Neupoella_Email.pdf.

52
Das Depot
Von Anfang an steht das Wohnen an erster Stelle, es muss auch ohne jede „Hardware
Architektur“ funktionieren; die Verhaltensweise steht vor dem Gebauten. Wie sich Menschen ohne
Gebautes sozial in Raum und Zeit orientieren können, mag folgender Hinweis beleuchten:
Die Aborigines in Australien haben keine Siedlungen oder Behausungen. Sie leben fast nackt,
fast ohne technische Infrastruktur schweifend in der Wüste. Aber sie benötigen beispielsweise
unbedingt einen eingegrabenen Stein, der mit einer symbolischen Ritzung Gemeinschaftsordnung und
Recht für ein bestimmtes Territorium stiftet, der regelmäßig ausgegraben, betrachtet und wieder
zurückgelegt wird. Er kann, aus unserem Blickwinkel gesehen, als magische Landkarte, Grundbuch und
kosmisches Manifest eigener, unwidersprochener Existenz gelten und verstanden werden. Gewiss
braucht der Mensch solche Depots. Dort müssen identitätsstiftende Objekte respektiert und
unangefochten aufgehoben sein. Modernere, komplexere Erscheinungsformen von Depot sind z.B.
Nekropolen, Kultplätze, Thesauri, Museen, Urkundensammlungen, Bibliotheken im öffentlichen
Sektor und die wichtigen persönlichen Dinge im Privaten. Grabbeigaben sind das letzte individuelle
Depot.
Ob Datensätze im Cyberspace virtuelle Dokumente über Identität, Besitz und Vermögen das
manifeste Depot ersetzen können, oder ob die elektronische Entmaterialisierung der persönlichen
Habe zu merkwürdigem Übersprungverhalten, zu disfunktionalen Ersatzhandlungen führt, ist noch
nicht klar. Vermutlich ist das zähe Beharren am freistehenden Einfamilienhaus, an einem Eigengrund
den man besitzbekräftigend umschreiten kann, auch als Nachhall archaischen Territorialverhaltens zu
verstehen.

Der Initiationsplatz
Aus der Mehrzahl einigermaßen kohärenter Gesellschaftsstrukturen könnte eine Tabelle
temporärer nachfunktionaler Positionen abgeleitet werden: Die Spalten wären Lebensabschnitten
zugeordnet: Kleinkinder, Schulkinder, Adoleszente bis hin zu Greisen, und in den Zeilen wären
Funktionen bzw. Qualifikationen nach Status gereiht einzutragen wie: Töpfern, Kochen, Pflanzen,
Jagen, Heilen, und Positionen wie Hirt, Weberin oder Schamane. Offensichtlich sind kulturspezifische
Lebenssituationen, z.B. die Heiratsfähigkeit oder Ehrwürdigkeit des Greisenalters, wichtiger als
abgezählte Lebensjahre.
Übertritte einer Person aus einer Lebenssituation in eine andere werden in aller Regel öffentlich,
an bestimmten, konsekrierten Initiationsplätzen nach zumeist dreiteiligen Übergangsritualen vollzogen:
Ausgliederung, Neutralisierung und Angliederung. Dafür geeignete Plätze, an denen die Regeln des
Alltagslebens außer Kraft gesetzt sind, müssen existieren, die Gesellschaftsstruktur wird raumrelevant.

53
Die tribale Raumkonstruktion z.B. der schon erwähnten Aborigenes kann als komplettes
Basismodell von funktionsfähiger sozialer Raumkonstruktion gelten: An einer besonderen Stelle hat der
Clan seinen Churingastein eingegraben, womit das Schweifgebiet gesichert ist. Das Depot ist in
Ordnung. Ein Ort, wo die Toten, die Nicht-mehr-Lebenden, möglicherweise auch die Noch-nicht-
Lebenden ständig anwesend sind.
Saisonal sucht man einen neutralen Treffplatz der gesamten Stämme auf, jenseits der
Alltagswelt. Dort liegen bevorzugt auch die Initiationsplätze, die „besonderen Orte des Austausches“:
Rechtsfreie, bedenkliche und sogar verbotene Orte, bedrohlich und attraktiv zugleich.
Dort finden die Auseinandersetzungen rivalisierender Lokalgruppen statt, dorthin werden
Unreine und Unangepasste verbannt, dort wird aber auch unter Beachtung strikter Übergangsrituale
Exogamie praktiziert. Um legal dorthin gelangen zu können sind gewisse Überschreitungsrituale, also
„rites de passage“, notwendig. Wenn Riten und Raum einander unterstützen, sind die Initiationsplätze in
Ordnung.
Ein strukturell gleiches, ritualisiertes soziales Ereignis fand z.B. im 19. Jahrhundert statt, wenn
etwa ein Augsburger Goldschmied auf die Walz ging: Zuerst wurde ein Verabschiedungsritual
durchgeführt (=Verlassen der Heimat), dann eine Neutralisierung (=die Wanderschaft in
Durchzugsräumen, Zunftkleidung) und zuletzt ein Angliederungsritual, z.B. eine zünftige Aufnahme
bei einem Goldschmied in Hamburg (=rituelle Aufnahme in einer korrelierten Lokalgruppe). An
diskreten Orten finden die Raufereien mit Rivalen statt, oft verbunden mit Sondierungen in der
Damenwelt (=explorative Aggressionen in Initiationsräumen). Wir finden darin ein elementares
räumliches Verhalten im Lebenszyklus junger Männer, die Phase manchmal aggressiver Exploration,
die oft der Familiengründung vorangeht. 38

Antikes Raummodell
Europäische Antike, Frühmittelalter: Die altgriechische Polis und ihre europäischen
Folgeformen sind der Natur abgerungene Kulturbereiche, Verarbeitungsplätze, die komplementär zu
den ländlich-dörflichen Gewinnungsplätzen zu verstehen sind. Vermutlich ist die bäuerliche
Kulturlandschaft erst seit dem Hochmittelalter von fest verorteten Dörfern im heutigen Sinn
gekennzeichnet. In Jütland und Schwaben wurden Gemarkungen erforscht, in denen die dörflichen
Gebäude mehrmals verlegt wurden.
Brandrodungsbauern in Südostasien verlegen heute noch ihre Dörfer, wenn die Wege zu den
Anbaufeldern zu weit werden, oder wenn animistische Omina dies verlangen.
Dies lässt ein geradezu fremd anmutendes Raummodell hervortreten: Das „Dorf“ ist im
Wesentlichen nur die Gemarkung, das bewirtschaftbare Land. Die baulichen Anlagen sind eher als

38 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Initiation.

54
mittelfristige Provisorien vorzustellen, die immer wieder, etwa im Generationentakt, verlegt wurden.
Individualeigentum war unbekannt bzw. auf persönliche Habe eingeschränkt. Lediglich Kult- und
Bestattungsplätze blieben über längere Zeit am gleichen Ort. Damit tritt uns sogar in der
mitteleuropäischen Geschichte der Kulturlandschaft so etwas wie ein Halbnomadismus, eine innerhalb
eines Schweifgebietes oszillierende und nur auf ein ortsfestes, kultisches Depot bezogene
Raumkonzeption entgegen.
Plakativ gesagt: Die eingezäunte Gemarkung, die bäuerlich genutzte Kulturlandschaft, ist der
eigentliche Wohnraum; Haus und Dorf kommen später.

Mittelalterliche Natur- und Raumbeziehung


Beschwörung und Bekämpfung charakterisieren die mittelalterliche Naturbeziehung: Sowohl
vorchristliche numinose Welterklärungen als auch der biblische Fluch: „Im Schweiße deines
Angesichts...“ erzeugen eine defensiv aggressive Haltung gegenüber der Natur. Der Mythos von der
Vertreibung aus dem Paradies kleidet ein Entfremdungstrauma in Bilder. Kultur wird als
Zurückdrängen von Natur, als produktiver Ordnungseingriff in ein Chaos verstanden. Die
Grundmuster der bäuerlichen Kulturlandschaft entstehen: Die bewirtschaftete Lichtung und
Gemarkung als Keimzelle dörflicher Siedlung und, im Gegensatz dazu, der eher urbane Hortus conclusus,
das Paradiesgärtlein, sind die Raumelemente, aus denen sich Modelle künftiger Siedlungen herleiten
lassen. Die frühen Gesellschaften haben durchaus klassenspezifische Raumbindungen:
Der Bauer, Dörfler, ist verpflichtet das Land zu bewirtschaften, ist damit an die Scholle
gebunden. Der – schweifende – Jäger, Ritter, Adelige hat unter anderem die Pflicht, später das
Vorrecht, dem Bauern Schutz zu geben, das heißt gefährliche Tiere und Menschen zu vertreiben bzw.
zu vernichten.
Was dem Bauern das Feld ist dem Jäger das Revier. Was dem Bauern das „Nutztier“ ist dem
Herren das Wild. Die Ambivalenz von Reiz und Gefahr findet in der Wahl von Wappentieren
bildlichen Ausdruck: Ein Bär zum Beispiel verweist darauf, dass der Träger sowohl Bären bannen kann,
als auch selbst über Bärenkräfte verfügt; vielleicht ist dies eine Resonanz früherer totemistischer
Vorstellungen vom Tier als Gott, Dämon und Ahne.
Die mittelalterlich-frühneuzeitliche Architektur lässt deutlich das entsprechende Raummodell
erkennen: Urlandschaft als Feindesland, Gemarkung als Verteidigungsgenossenschaft, Stadt als ein von
der Natur gesäuberter bzw. die Natur dominierender Ort der Freiheit: Stadtmauern, Zäune, wehrhafte
Sockelgeschosse, verschließbare Häuse, bevorzugte Verwendung von ewigem Stein vor vergänglichem
Holz. Die Kommunikationsstruktur ist durch die Kriterien des Fußgehens, Reitens und des
Karrenverkehrs geprägt.

55
Das Raummodell des europäischen Humanismus und der Aufklärung
Die Begriffe „Humanismus“ und „Aufklärung“ sind hier in erster Linie als Sinnkonzepte und
erst in zweiter Linie als Epochenbezeichnung gemeint. Kerngedanke dieser Sinnkonzepte ist das
aristotelische Objektivierungsprojekt oder die Überzeugung, dass man in einer Kaskade logisch
einwandfreier Schlüsse bis zu den „letzten Erkenntnissen und Wahrheiten“ vordringen könne.
Hinsichtlich des Naturverständnisses bewirkt die cartesianische Wende eine folgenschwere Umkehrung
der Dominanzverhältnisse: Die bislang beherrschenden und numinosen Kräfte der Natur wurden zu
hantierbaren Forschungsgegenständen degradiert. Der rational erkenntnisfähige Mensch setzte sich
selbst an einen beherrschenden Spitzenplatz über die Natur.
Adel und hohe Geistlichkeit verlassen die engen, oft noch ummauerten Stadtpaläste und
geometrisieren in noch nie dagewesener Weise die Landschaft. Die barocken Schlösser und Stifte sind
solitäre Gesamtkunstwerke, in denen alle Aspekte von Landschaftsarchitektur einem integralen, oft
allegorischen Bild von triumphaler Herrschaft dienen. Die undiszipliniert belassene Natur dient oft nur
noch als Rohmaterial für groteske Dekorationen oder manieristische Kontrastkulissen.

Am Vorabend der Französischen Revolution


Am Vorabend der Französischen Revolution durchziehen Vorahnungen vom Bevorstehenden,
vom unaufhaltsamen Fall der absolutistischen Hybris, die vorausdenkenden Köpfe. Wie oft in prekären
Seinslagen einer urbanen Zivilisation, wendet sich nun ein mitunter irrational übersteigertes Interesse
den vermeintlich elementaren Strukturen des Lebens zu. Adeliges Landleben, Borkenhütten und
Schäferspiele im englischen Garten als Gegenkonzept und Neuanfang. Die Architekturtraktatisten
versuchen ihre Erneuerungsthesen auf Urhüttentheorien, auf die Fragen nach der elementaren Conditio
Humana abzustützen. Im Romantischen Klassizismus verbindet sich eine gesteigerte Sensibilität für das
Naturhafte, die man den antiken Griechen unterstellt; „Edle Einfalt, stille Größe“, vermischt mit dem
Topos vom ebenfalls edlen Wilden.

Europäische Romantik
Die nachnapoleonische Neuordnung Europas, der schrittweise Übergang von
traditionslegitimierten (König-)Reichen zu territorial legitimierten und national verfassten Staaten, hat
einen wesentlichen politischen Paradigmenwechsel zur Folge: Adel und Geistlichkeit des Ancien Régime
leiteten ihren originären Herrschaftsanspruch aus einer Legitimationskette ab, die mit legendären
Hierokratien begann und, über die griechisch-römische Antike vermittelt, den Anspruch alter
europäischer Herrscherhäuser auf Gottes Gnadentum begründete.

56
Diese Legitimationskette zerriss um 1848 endgültig, die im Sinne der Aufklärung egalitär
verstandene Frage nach der Conditio Humana richtete erstmalig den Blick auf das Volk als eigentliches
Konstituens des politischen Staates und auf die Landschaft als Konstituens des Territorialstaates. 39
Vorformen der wissenschaftlichen Volkskunde gelangten zu akademischem Rang, patriotische
Sammlungen von Lied- und Sagengut glichen vorweggenommenen Unabhängigkeitserklärungen.
Volkskultur trat als eigenwertiger Kern nationaler Identität ins breite Bewusstsein, ländliche Haus- und
Siedlungsformenkunde wurde in die akademische Architektenausbildung aufgenommen, nobilitierte
Folklorismen mischten sich in die bildungsbürgerliche Wohnkultur. Diese regionalistische
Grundströmung manifestierte sich in bemerkenswerten Auffächerungen von nationalen Natur- und
Landschaftsbeziehungen:

Nationalromantik und Regionalismus im Ostseeraum


Die Architekturgeschichte der Länder um die baltische See ist über Jahrhunderte hinweg von
einer prägnanten Schichtung von lokaler Volkskultur und überregionaler Elitekultur geprägt: der
Deutsche Ritterorden, und die Hansespannen, ein relativ einheitliches Netzwerk von Herrschafts- und
Handelsniederlassungen, über die ausgedehnten und vielfältigen Kulturräume der Pommern, Esten,
Litauer, Polen, Russen, Karelier, Finnen, Schweden, Dänen und anderen. Ein Austausch zwischen der
lokalsprachlichen Basiskultur und etwa dem französisch sprechenden Milieu der Herrschenden findet
kaum statt. Dementsprechend wurde der großräumig verbreitete baltische Klassizismus der
Herrschenden neben den lokalen, vernacularen Architekturen der Beherrschten zur architektonischen
Parallelkultur. 40
Erst um 1850 wird etwa die bis dahin nur fragmentarisch niedergeschriebene Kalevala im
Ganzen komplettiert als Nationalepos editiert, die erste Verschriftlichung der finnischen Sprache durch
einen schwedischen Nationalromantiker (Lönnrot). Gesellius, Lindgren und Saarinen nehmen die
Bildwelten der Kalevala in das Gestaltungsprogramm des Bahnhofs von Helsinki oder der
Künstlerkolonie Hvitträsk auf. 41
Weil der Klassizismus als Stilprogramm deutscher, schwedischer bzw. russischer
Fremdherrschaften empfunden und abgelehnt wurde, insbesondere von einer nationalromantisch
inspirierten bildungsbürgerlichen Elite, den fortschrittlich orientierten „Jungfinnen“, war ein gerader
und ebener Weg zur „Finnischen klassischen Moderne“ ohne faschistisches Katastrophenintermezzo
bis in die Nachkriegszeit vorgezeichnet.

39 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Conditio_humana.
40 Vgl.: http://www.nba.fi/en/seurasaari_museumhauser sowie
http://de.wikipedia.org/wiki/Bild:Helsinki_Cathedral_in_July_2004.jpg.
41 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Bild:Helsinki_Railway_Station_20050604.jpg;

http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Hvittrask-3.jpg sowie
http://www.broehan-museum.de/finnl5.htm#_ednref5.

57
Dieser führt über Alvar Aalto, Reima Pietilä, Kaija und Heikki Siren und anderen zu den
„Finnischen Tugenden“, die in Deutschland und Österreich nach 1945 zu den wesentlichen Quellen
architektonischer Inspiration werden. Nach der militant antiintellektuellen Blut-und-Boden-Sicht der
NS-Episode eröffnet der „Skandinavische“ Blick auf Architektur und Landschaft neue
Unbefangenheiten, sowohl in der Lektüre historischer Volksarchitektur als auch im Gestalten von
neuem Bauen, einem poetischen Realismus. 42
Anders jedoch in Schweden, wo der gustavinische Klassizismus als bildungsbürgerlicher
Nationalstil gültig blieb und sich die Architektur über Gunnar Asplund, Sigurd Leverentz und später
Ralph Erskine in einer ungebrochene Linie hin zu einer subtil-zurückhaltenden Baukultur entwickelt.
Das schwedische Natur- und Landschaftsgefühl fand in den Aquarellen von Carl Larsson weit
überregionales Interesse und Verbreitung, bis heute sind die populären Bilder von schwedischer
Landidylle durch Larssonsches Licht, Farben und Formen charakterisiert, die Produktgruppe
„Skandinavische Landhausstil“ hält einen fixen Platz im Repertoire heutiger Einrichtungshäuser
besetzt. 43

Nationalromantik und Regionalismus im deutschsprachigen Europa


Im Gegensatz zu den meisten europäischen Staaten zerfiel das Habsburgerreich nach dem
Wiener Kongress nicht in Nationalstaaten, sondern hatte noch rund 100 Jahre als „Donaumonarchie“,
d.h. als Vielvölkerstaat, Bestand. Im krassen Gegensatz etwa zu Schweden, wo nationalromantische
Tendenzen staatstragend bzw. königstreu wirksam wurden, hatten nationalromantische Programme in
der Habsburg-Monarchie immer auch separatistische Aspekte. Expressiver Folklorismus charakterisiert
z.B. das Werk von Dusan Jurkovic. 44
Exkurshaft sei hier ein Blick auf das komplizierte Verhältnis autoritärer Herrschaften zu
regionalistischen Tendenzen gerichtet: Das „Dritte Reich“, die stalinistische Ära, das Mussolini-,
Franco- und Salazarregime förderten einen kulturdiktatorisch definierten Staatsfolklorismus, eine
soldatisch zu verstehende Heimattreue und verfolgten unnachsichtig autonome regionale Kulturen. So
z.B. wurde Emil Steffans Elsässische Baufibel zwar in den späten 30er Jahren in Auftrag gegeben, doch
erst Anfang der 80er Jahre publiziert.
In Norddeutschland geht von der im späten 19. Jahrhundert von C.F. Haase gegründeten
hannoverschen Bauhütte eine auf der Wiedererweckung der gotischen Backsteintradition begründete,
regional-regionalistische Schule hervor. Diese Programmatik blieb über den Expressionismus hinaus
fruchtbar. Hinweisend seien Fritz Höger, der Worpsweder Kreis und Meinhard von Gerkan genannt.

42 Vgl.: http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Villa_Mairea.jpg.
43 Vgl.: http://www.sub.su.se/national/pglob55.htm.
44 Siehe unter http://www.jurkovic.cz/.

58
In Süddeutschland wurde Theodor Fischer 45 im frühen 20. Jahrhundert Vaterfigur einer
regionalistischen Schule, die sich als Synthese von klassischem Kanon, einer aus Naturformen
hergeleiteten Ästhetik bzw. Proportionslehre und vermeintlich „Deutscher Baukultur“ verstand. Dem
Theodor Fischer-Kreis zuzuordnen sind sowohl tendenziell moderne Architekten wie Bruno Taut und
Lois Welzenbacher, als auch Konservative wie Paul Bonatz und Walter Schmitthenner. Hier sei eine
Vermutung eingeschoben: Die „Modernen“ haben sich auf der Suche nach wesentlichen
Anknüpfungspunkten für Erneuerung direkt mit Natur und Landschaft auseinandergesetzt, eine neue
Lektüre des liber naturae gepflogen, während die „Konservativen“ mehr aus der Heimatidee und
politischer Geschichte zu schöpfen versuchten.
Die K.u.K.-Monarchie verstand sich leicht föderalistisch als Vielvölkerstaat und zugleich
wesentlich zentralistisch, da der Führungsanspruch des Deutsch-Österreichischen Elements als
vorausgesetzt und legitimiert galt. Die Staatsarchitektur blieb konservativ-historistisch. Die Wiener
Moderne um 1900 verstand sich großmaßstäblich urban, mitunter radikal intellektuell. Mehrere
Architekten der Wiener Otto-Wagner-Schule, die oft aus den slawisch-ungarischen Kronländern
stammten, integrierten heimatliche Folklorismen in das dekorative Repertoire des Jugendstils: Jan
Gocar, Max Fabiani, Joze Plecnik 46 und andere.

„Neues Bauen“ versus „internationaler Heimatstil“


Im Zuge des Ersten Weltkrieges wurden sämtliche Positionen bürgerlicher Wert- und
Kultursysteme destruiert und die scheinbar ewigen Gewebe von tradierten Zivilisationslinien zertrennt.
Dadaismus und Avantgarde thematisierten die Nichtigkeit aller Regeln. Das „Neue Bauen“ versucht
mit voraussetzungslosem humanistischen Blick auf die Welt den Anfang einer neuen, besseren und
breiteren Zivilisation in qualitätvoller Einfachheit zu finden. 47
In aggressivem Gegensatz dazu stehen Regionalisten, Traditionalisten und Heimatschützer. Die
Regionalisten reagieren – ähnlich wie hundert Jahre zuvor – mit dem Versuch, die gerissenen Fäden der
Geschichte wieder zusammenzuknüpfen und darüber hinausgehend den Krieg als Läuterung und die
Überlebenden als heldische Elite zu sehen. Bevorzugung des individuell Handwerklichen in Abwehr
gegen die seriellen Industrieprodukte. 48

45 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Theodor_Fischer.
46 Vgl.: http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Plecnik_kapelica_Grad_Kacenstajn.JPG.
47 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Bild:Weissenhof-Luftbild-2004.01.jpg sowie

http://commons.wikimedia.org/wiki/Image:Weissenhof_photo_house_Hans_Scharoun_east_side_Stuttgart_Germany_20
05-10-08.jpg.
48 Vgl.: http://de.wikipedia.org/wiki/Bild:Stuttgart-Kochenhofsiedlung-2006.jpg.

59
Natur und Landschaft aus dem Resonanzboden faschistischer Gesellschafts- und
Welterklärungen wahrgenommen, tritt nun in den Modalitäten von Sentiment, Heros und Pathos
architektonisch in Erscheinung. 49
Dementsprechend findet die architektonische Umsetzung im so genannten Blut- und Bodenstil
und dessen kleinbürgerlicher Schwachform, dem „internationalen Heimatstil“, statt. 50

Neue Wahrheitssuche
In der Sackgasse der Salonkultur des Fin-de-Siècle wandte sich ein vertieftes Interesse der
japanischen Kultur zu. Der „dekorationsbezogene Japonismus“ des späten 19. Jahrhunderts war ein
wesentlicher Ideenzufluss des Jugendstils und des Art Nouveau.
Anders jedoch inspirierte die elementare Klarheit, Material-, Maß- und Fügungsgerechtigkeit
des „strukturbezogenen Japonismus“ Architekten wie Bruno Taut, Ludwig Mies van der Rohe, Konrad
Wachsmann oder Phillip Johnson zu völlig neuen Raummodellen: Die Dialektik von freier Naturform
und kunstvoller Regelhaftigkeit, von Dauer und Vergänglichkeit, von Reichtum und Leere, die Ästhetik
des Kargen und die Identität von Außen- und Innenraum, die Reduktion auf räumliche Sachverhalte
wie „Wand“ oder „Nichtwand“. 51
Eine der Arbeitshypothesen des Neuen Bauens ist die Voraussetzungslosigkeit und
Geschichtslosigkeit von „Wahrheit“. Das Wahrheitsgebot in Konstruktion und Funktion verbietet jede
Art von sentimentaler Aufladung oder Aufcodierung etwa mit Zeichen von Naturnähe. In den
Traktaten der Moderne, etwa von Adolf Loos und Le Corbusier, wird eine wesentliche Unterscheidung
zwischen Natürlichkeit und Naturförmigkeit getroffen: (sinngemäß:) dem Haus wohne eine andere
Natürlichkeit inne als dem Baum. Die Authentizitätsforderung verlangt, dass nur tatsächliche Natur,
und keinerlei Ableitung, in neuen Raumgefügen wirksam werden kann.
In Nordamerika entwickelte Frank Lloyd Wright das Konzept des Hauses als Resonanz von
Landschaft. Daraus folgt die radikale Hinterfragung eines geschlossenen Hauses, das nur vermittels
Türen und Fenstern mit dem Umraum verbunden ist. Die „Zerstörung der Schachtel“ – so ein
programmatischer Aufruf – erfordert die Neuinterpretation von Wänden und Öffnungen etwa als eine
Elaboration freistehender, raumleitender Scheiben. 52

49 Vgl. zum Beispiel: http://www.lernort-vogelsang.de/essays/Architektur_auf_Vogelsang.php und

http://de.wikipedia.org/wiki/Siegesdenkmal_Bozen.
50 Vgl.: http://www.geschichte-s-h.de/vonabisz/heimatschutzarchitektur.htm#top.
51 Vgl.: http://perso.orange.fr/laurent.buchard/Japonisme/index.html und

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/a/ab/Katsura.jpg.
52 Vgl.: http://www.e-architect.co.uk/boston/frank_lloyd_wright_house.htm und

http://www.wirtzgallery.com/exhibitions/2003/2003_06/shulman/js07.html.

60
Neue Perspektiven der Natur- und Weltsicht
Im Zuge der Weltraumforschung seit Mitte der 60er Jahre mit dem Höhepunkt der
Mondlandung 1969 stehen unbezweifelbare Fotos vom „Blauen Planeten Erde“ allgemein und überall
zur Verfügung. „Mondlandschaft“ wird zu einem neuen Wahrnehmungssachverhalt. Durch Abwürfe,
kontrollierte Hinterlassenschaften und Staubspuren, die den Mond anthropogen verändern, entstehen
Bereiche von Kulturlandschaft. Angesichts der blauen Kugel wird die Begrenztheit und Ganzheit der
Erde sinnfällig. Globalisierung wird anschaulich, der Orbit zum Verkehrsraum. 1972 wird der erste
Bericht des Club of Rome unter dem Motto „Unser Ziel ist die gemeinsame Sorge und Verantwortung
um bzw. für die Zukunft der Menschheit!“ veröffentlicht. Die globale Sicht löst einen folgenschweren
Wandel des Raummodelles aus: Belebter, belebbarer Raum als unverzichtbare und unvermehrbare
Ressource. Unter den Geboten der Nachhaltigkeit erscheint die Kulturlandschaft der Zukunft als ein
integrierter, netzartig oder rhizomatisch strukturierter Lebensentfaltungsraum.

Zusammenfassung
Landschaft ist ein menschlicher Wahrnehmungssachverhalt. Erst durch ein betrachtendes
Subjekt wird eine geographische Gegebenheit zur Landschaft.
Wahrnehmungen gründen sich auf bestimmte menschliche Umweltkenntnisse und auf
bestimmte Interessen und Erwartungen. Diese, auf die natürliche Umgebung gerichteten Interessen,
Erwartungen und Kenntnisse von Menschen sind eingefügt in und bedingt durch die historische,
soziale und regionale Situation, die Weltbeschreibung des betrachtenden Subjekts oder der Gesellschaft.
Durch Architektur werden die Regeln von Abgrenzung bzw. Verflechtung zwischen Innen und Außen
manifestiert. Diesen Regeln liegt immer, zumindest implizit, eine bestimmte Haltung zu Natur und
Landschaft, eine bestimmte Art von Raumgebrauch zugrunde.
Bäuerlicher Raumgebrauch strukturiert die bäuerlichen Kulturlandschaften und authentischen
regionalen Architekturtypologien. Bürgerlicher Raumgebrauch verwertet vorhandene
Kulturlandschaften, gelegentlich im Einklang mit regionalistischen Programmen.
Das historische ständisch-bipolare Raummodell, Bauernlandschaft versus Bürgerstadt, bildet die
heutigen sozialen Gegebenheiten nicht mehr ab. In Zukunft werden rhizomatisch vernetzte,
multifunktionale Lebensentfaltungsräume die weitere Ausformung der Kulturlandschaft und der
Architektur zugleich bestimmen. Die Zukunft der Architektur ist mit der Zukunft der Landschaft
identisch.

61
YVES LUGINBÜHL

GOUVERNER UN PAYSAGE

Né au XVème siècle et issu de l’aménagement du territoire aux Pays-Bas, le terme paysage a été
approprié par de nombreux groupes d’acteurs dans les pays d’Europe occidentale. En premier lieu par
le monde artistique qui, proche des sphères du pouvoir politique, a formalisé l’idéal du paysage tel que
les sociétés pouvaient l’entrevoir, après deux siècles de crise alimentaire, démographique, sécuritaire et
sanitaire. Cet idéal paysager représentait un pays beau comme une campagne prospère, offrant aux
populations majoritairement paysannes une alimentation suffisamment riche, en paix, indemne
d’épidémies et permettant un développement économique se traduisant par la croissance
démographique. Si les Pays-Bas figurent en première ligne dans cet imaginaire social et politique, c’est
sans doute parce qu’ils représentaient le symbole de la puissance guerrière et commerciale de l’Europe
du nord, mais que se trouvant sur un territoire confiné par les marais et la mer, ils durent mettre en
place un projet d’aménagement du territoire qui leur permettait d’ancrer cette puissance dans leur
paysage, celui des polders. Ainsi est né le Landskap, c’est-à-dire le pays où l’on peut vivre et surtout bien
vivre : un pays bucolique.
Une majorité de scientifiques s’accorde pourtant pour affirmer que le terme « paysage » est issu
du domaine artistique, mais sans avoir jamais vérifié le contexte d’où est issu le terme. Qu’il ait été
approprié par les artistes et principalement par les peintres ne fait aucun doute, il n’en est pas pour
autant né dans leur milieu. Mais il n’est pas certain non plus que les origines du terme soient identiques
d’un pays à l’autre : le terme anglais « landscape » semble en effet avoir eu, dès son apparition un sens
tourné vers le spectacle de la campagne, tel que les scènes peintes pouvait le représenter, au contraire
des Pays-Bas où ce n’est qu’après que le terme, inscrit dans le domaine de l’aménagement fut approprié
par les artistes. Il est encore difficile d’affirmer, en l’absence de recherches historiques sérieuses, que
tous les termes des langues d’Europe occidentale ont des origines précisément connues. Il reste de
nombreux doutes qui pourraient être levés si la recherche se consacrait à des analyses approfondies.
On en reste désormais au tableau suivant des premières occurrences du terme dans les langues
d’Europe occidentale, à quelques imprécisions près, pour la langue allemande en particulier dont
certains font remonter la première occurrence du terme à 1502 ou même à l’époque médiévale :

62
Langues anglo- Langues latines
saxonnes
hollandais landskap 1462 portugais paisaggem 1548
allemand Landschaft 1520 ( ?) français paysage 1549
anglais Landscape ou italien paesaggio 1552
Landskipe 1598
espagnol paisaje 1708

Il serait d’ailleurs intéressant de compléter ce tableau avec les langues d’Europe centrale et orientale
dont l’on sait que certains ont emprunté les mots à plusieurs langues d’Europe occidentale comme la
Russie pour laquelle il existe deux termes, Landschaft qui renvoie au paysage géographique et paysage qui
représente la part culturelle du spectacle des pays. D’autres langues d’Europe centrale ont un mot qui
est en fait un suffixe qui doit s’adjoindre un autre mot pour signifier paysage rural, paysage urbain ; c’est
le cas du hongrois « taj », notamment.

Une succession des acteurs du paysage dans l’histoire

Il paraît donc clair que le paysage a été tout d’abord un mot appartenant au langage de
l’aménagement du territoire et qu’il était lié à l’émergence du capitalisme et à l’intérêt que les
bourgeoisies européennes ont marqué à l’égard de l’investissement financier dans l’aménagement
agricole des territoires, après une crise profonde des peuples européens due à de multiples facteurs :
péjoration climatique, épidémies, guerres et incapacité du système économique à satisfaire les besoins
essentiels des populations, c’est-à-dire l’alimentation. Celle-ci ne pouvait pas s’améliorer en raison de
pratiques féodales qui opposaient au développement de l’élevage un obstacle technique et social :
l’interdiction de clore les champs et la vaine pâture.
La Renaissance constitue ainsi une période de calme relatif où les pouvoirs politiques
entrevoient un espoir possible de procéder à des améliorations des systèmes agronomiques et
d’entraîner un développement de la production animale ; mais si cet horizon idéal nourrissait la vision
prospective des agronomes savants, les populations paysannes étaient encore et pour longtemps sous le
joug écrasant des pouvoirs seigneuriaux qui ne voyaient pas forcément d’un œil favorable un
changement dans la gestion territoriale dont ils tiraient leur profit principal et qui justifiait souvent leur
place à la tête de leurs terres depuis des siècles.

63
Le paysage est alors passé dans le langage de l’art qui était le mieux à même de faire rêver les
maîtres des territoires princiers qui pouvaient contempler, à travers les œuvres des peintres, les
campagnes heureuses dont ils rêvaient pour eux-mêmes et peut-être pour leurs sujets, populations
souvent misérables qui ne devaient pas avoir de nombreuses occasions d’admirer les toiles de pays
bucoliques.
Ces campagnes prospères, utopies paysagères, amorcèrent cependant un mouvement social à
l’échelle de l’Europe entière, mais qui était strictement réservé à l’élite, aristocrates et bourgeois qui peu
à peu, se mirent à découvrir les réalités des paysages peints par des artistes. Les acteurs qui se sont
emparés du paysage à partir du XVIIème siècle mais surtout au XVIIIème sont ainsi les touristes. Alors
que les voyages étaient souvent des épreuves pour ceux qui devaient traverser des pays dont le spectacle
n’était encore pas souvent celui de la prospérité et du bonheur universel, les avancées de l’art et de la
théologie scientifique permirent à ces populations favorisées d’orienter leurs regards vers la campagne,
la mer ou les littoraux et les montagnes, dont l’image se renversa peu à peu, et passa d’un spectacle
effrayant à celui du bucolique, du pastoral ou du sublime. C’est ce mouvement qui inventa le
pittoresque de la fin du XVIIIème siècle et qui connut un succès considérable au XIXème siècle avec des
publications nombreuses dans tous les pays d’Europe de géographies nationales puis régionales (la
France pittoresque, l’Alsace pittoresque, par exemple). Ces pratiques touristiques se développèrent
évidemment avec les chemins de fer et se manifestèrent par les guides touristiques, les grandes
associations de tourisme et d’alpinisme, comme les clubs alpins 53 et le Touring Club 54.
Le XIXème siècle est d’ailleurs une période féconde pour le paysage, mais qui a entraîné une
dérive sémantique du terme, le réduisant aux paysages pittoresques ou sublimes, voire bucoliques, mais
qui devaient être protégés du progrès technique. Cette signification entraîna dans divers pays européens
la promulgation de lois de protection des paysages qui furent défendues par des personnages politiques
auxquels se joignirent des artistes. C’est le cas en France où le député du Jura Charles Beauquier réussit
à faire adopter par la France la loi sur la protection des monuments naturels ; il compta avec l’aide du
Touring Club auquel adhéraient des artistes comme Cézanne ou George Sand.
Ce processus politique et social, d’une certaine manière, a ramené le paysage dans le domaine de
l’aménagement du territoire, même si de timides avancées, surtout utopistes, avaient été engagées en
France notamment vers la fin du XVIIIème avec les théories des jardins et des paysages, comme celles du
Comte d’Ermenonville, René-Louis de Girardin et de son architecte Jean-Marie Morel, qui virent dans
l’aménagement du paysage le moyen de parvenir au bonheur universel.

53 Le premier club alpin est anglais, créé en 1853 par Pocoke. C’est la même année que des artistes du mouvement des

peintres de Barbizon obtiennent la protection de la forêt de Fontainebleau.


54 Il compta jusqu’à 80.000 adhérents en France, qui se réunissaient en comités locaux et pratiquaient des excursions où les

membres dessinaient ou peignaient les paysages.

64
Mais ce sont les géographes qui avancèrent des théories plus construites au XIXème siècle.
Alexander von Humboldt et Elisée Reclus sont les premiers à s’emparer du paysage et à proposer des
réflexions sur ce que le terme recouvre, notamment Elisée Reclus qui adhère d’une certaine manière à
l’idée de la dégradation des paysages par les pratiques sociales et en particulier celles des agriculteurs qui
mutilent les arbres en les taillant pour se procurer du bois de chauffage. Mais cette notion n’est pas
vraiment un de leurs paradigmes favoris. C’est seulement à la fin du XIXème siècle que l’Ecole de
géographie française fait du paysage un concept qui permet de comprendre les relations entre la nature
et les sociétés, à travers notamment la notion de « genre de vie ». A partir de ce moment, le paysage
reste privilégié des géographes, jusqu’au moment où la géographie physique et la géographie humaine
fassent éclater la géographie unitaire (ou presque) et s’opposent dans un combat théorique, après la
Seconde guerre mondiale, et abandonnent pratiquement le paysage. En France, les géographes
physiciens en font un concept qui n’a de sens que par rapport aux mouvements tectoniques et la
géomorphologie, la géographie humaine l’abandonne sauf deux géographes qui l’inscrivent encore
comme un concept qui explique les formes de l’apparence de la terre en cherchant à lier support
physique et biologique et activités humaines.

Le paysage entre dans la complexité

Les années 1970 marquent, en France, un tournant dans les significations du paysage. A
l’ancienne acception qui désigne les paysages remarquables, pittoresques, sublimes, bucoliques ou
pastoraux s’ajoute une nouvelle signification qui fait du paysage, en quelques décennies, un concept
complexe des approches scientifiques : il devient tout à la fois, s’étant chargé des anciennes conceptions
qui ne disparaissent pas, mais auxquelles s’ajoutent celles que les sciences sociales et écologiques lui
attribuent. D’un côté, le paysage devient ce que les activités sociales forment, par leurs pratiques, à la
surface de la terre et auxquelles les sociétés attribuent des systèmes de valeurs esthétiques, symboliques
et phénoménologiques. De l’autre, c'est-à-dire du côté de l’écologie, le paysage devient un concept
renvoyant davantage aux flux de matière biologique et résultant des processus biophysiques.
Par ailleurs, il est entré dans le domaine de l’aménagement du territoire, mais se débarrasse peu
à peu, mais jamais totalement de l’ancienne conception bourgeoise ; il représente, pour les praticiens de
l’aménagement du paysage, une voie qui tente de réinscrire le sensible dans un champ opératoire qui
avait été considéré par ces mêmes praticiens comme trop empreint de scientificité ou plus exactement
de scientisme.

65
Si le fossé qui existe entre les approches scientifiques et les pratiques des « paysagistes » ne se
comble qu’avec difficulté, les sciences sociales et les sciences biologiques et écologiques se sont
rapprochées pour faire du paysage un concept qui permet de comprendre les interactions entre le social
et le naturel ; il est désormais admis presque unanimement que le paysage est à la fois un objet matériel
et un processus immatériel : d’un côté les activités sociales transforment les paysages matériels par leurs
pratiques et d’un autre, les transformations du paysage matériel modifient les représentations que les
acteurs s’en font. Le paysage est au centre d’interactions continues et complexes qui agissent dans les
deux sens, et non dans un seul, comme le terme impact, à la mode dans les années 1970, tendait à le
sous-entendre. Le paysage est un concept complexe qui a une dimension matérielle et une dimension
immatérielle et se trouve au cœur des interactions entre les sociétés et la nature.
Afin de préciser cette complexité, un exemple de recherche interdisciplinaire qui a été engagée
en France est développé ci-après : celui de la baie du Mont Saint-Michel et de ses bassins versants.

L’exemple du Mont Saint-Michel et de sa baie

Pendant des siècles, le Mont Saint-Michel, qui connût des phases différentes de construction fut
un monument élevé à la religion et en particulier à l’Archange Saint-Michel qui terrassa le dragon, c’est-
à-dire le diable sur le Mont Dol. Un monastère fut élevé pour célébrer le Saint et dès le Moyen Âge, le
monument fut l’objet de multiples pèlerinages issus de toute l’Europe. On compta parmi ces pèlerins
des enfants qui se dirigèrent vers le Mont Saint-Michel par bandes rassemblant plusieurs milliers de ces
enfants abandonnés, venus chercher un espoir. Jusqu’en 1934, on allait au Mont par la voie des sables,
en partant souvent de Genêts, petite commune situé sur la rive ouest du Contentin : des guides
expérimentés conduisaient les pèlerins à travers les sables découverts à marée basse où il était risqué de
s’aventurer en raison des sables mouvants et surtout de la rapidité de la mer montante qui avançait à la
vitesse d’un « cheval au galop ». Au-delà des nombreuses légendes qui planent sur la baie, il est vrai que
chaque année, de nombreux visiteurs se font prendre sur un banc de sable qui émerge pour quelques
minutes encore de la marée montante et qui doivent leur salut au système de sécurité mis en place par la
police avec des hélicoptères prêts à décoller dès qu’une alerte est donnée ; des vigiles inspectent la baie
avec des jumelles en été pour dénicher les touristes imprudents et prévenir les secours.
Pendant des siècles, le Mont Saint-Michel a été un monument religieux, objet de ces pèlerinages.
Mais la foi a régressé et les touristes viennent pour la plupart pour voir le mont et contempler la marée
montante ou les sables exondés à marée basse où de très nombreux oiseaux se déplacent à la recherche
de vers ou de coquillages. A la foi a succédé la contemplation de la grande nature qui est l’une des
manifestations les plus répandues du rapport social à la nature aujourd’hui.

66
Mais cette « île-mont », qui a été rattachée au continent en 1934 par une digue, connaît un
processus biophysique inéluctable : l’ensablement de la baie et l’avancée des marais salés, espace
couvert d’une végétation spécifique qui supporte le sel ; ces marais salés sont inondés lors des marées
les plus fortes ; c’est là que des éleveurs envoient des moutons qui se nourrissent de ces plantes
halophiles. Jusqu’à une date récente, les moutons étaient conduits par des bergers dans ces marais qui
comportent de nombreux pièges et notamment les « criches », sortes de petits ravins pratiqués par l’eau
qui redescend à marée descendante et qui creuse ces talwegs assez profonds où les moutons qui y
tombent en voulant les traverser risquent de ne plus pouvoir sortir.
La végétation des marais salés est composée de plantes diverses acceptant l’eau saumâtre :
puccinellie, fétuque, soude, salicorne, aster des marais, et chiendent, pour ne citer que les plus
répandues. C’est cette dernière espèce, le chiendent, qui est la cause des malheurs du Mont Saint-
Michel. En effet, depuis une quinzaine d’années, il s’étend sur les marais salés et constitue, lorsqu’il
croît en hauteur, des pièges à sédiments. Bien évidemment, l’ensablement n’est pas dû uniquement à la
progression du chiendent ; il est surtout dû aux courants marins qui tournent dans la baie et rapportent
des quantités de sables considérables ; la progression du chiendent ne fait qu’accélérer le processus. Les
études de sédimentologie et d’écologie ont alerté les pouvoirs publics du phénomène et des travaux
gigantesques sont prévus et même engagés pour tenter de freiner l’ensablement qui risquerait de
provoquer la fin d’une image mondialement réputée, celle du Mont Saint-Michel entouré des eaux ; en
effet le Mont Saint-Michel est inscrit sur la liste du patrimoine mondial de l’UNESCO. Les ingénieurs
qui ont étudié le processus en reconstituant dans une maquette immense les courants marins ont
également accusé la digue de bloquer les sédiments qui ne peuvent pas poursuivre leur route avec les
courants marins et qui se déposent de chaque côté de la digue.
Aussi une mission Mont Saint-Michel a-t-elle été créée pour étudier un projet de
désensablement de la baie : la démolition de la digue remplacée par une passerelle avec un véhicule
automatisé de transport des touristes du continent vers le mont, la réalisation de parkings sur le
continent alors qu’ils se trouvaient sur la digue et sur les sables près du Mont Saint-Michel, et un
barrage sur le Couesnon, fleuve côtier qui débouche en face du mont : ce barrage aurait la fonction
d’une chasse d’eau, se remplirait à marée haute, et à marée basse, les eaux emmagasinées seraient
lâchées pour chasser les sédiments vers le large. Ce projet pharaonique est en cours de réalisation. Mais
pour les chercheurs, il reste une question fondamentale à laquelle ils souhaiteraient bien pouvoir
répondre : pourquoi le chiendent se répand-il sur les marais ?
Pour eux, cette question s’inscrit dans une problématique de processus complexes qui lient le
phénomène en question, la progression du chiendent à tout un ensemble de faits biologiques et
physiques dans lesquels la modification des chaînes trophiques des êtres vivants (végétation, animaux)

67
de la baie et des bassins versants est primordiale : il devient ainsi presque impossible d’analyser un
processus comme un fait simple et linéaire ; il entre dans un système où tout est lié et pour la
compréhension duquel il faut tenir de multiples questions ensemble : si le chiendent s’étend, il faut aussi
regarder ce qui se passe avec les populations des anatidés (canards) qui s’alimentent avec des plantes des
marais, il est nécessaire d’analyser les répercussions que ce fait a sur les populations des poissons (bars)
dont les femelles pondent dans les criches des marais, celles qui résultent des pratiques de chasse, celles
qui se produisent sur les élevages de moules ou d’huîtres qui se nourrissent d’algues microscopiques
(diatomées) que l’on trouve dans les marais, etc.
Il faut donc changer les méthodes d’analyse et s’engager dans l’interdisciplinarité. C’est
pourquoi une équipe réunissant des écologues, des géographes, des biogéographes et des agronomes a
engagé un programme de recherche qui s’intitule : « « Gouverner la terre et la mer ». Les hypothèses
formulées en première phase de ce programme pour tenter de comprendre la progression du chiendent
sont les suivantes :

– : modification génétique du chiendent


– nitrification du milieu des prés salés
– modification des pratiques des éleveurs de moutons

Afin de vérifier ces hypothèses, il était nécessaire de procéder à un changement d’échelle


d’analyse, d’assurer le passage de la baie maritime à la baie des bassins versants, en particulier pour
tester l’hypothèse de la nitrification du milieu des prés salés qui peut provenir des rejets des effluents
animaux dans les champs des bassins versants des fleuves côtiers qui se déversent dans la baie, comme
le Couesnon, la Sélune, la Sée et le Guilloult. Et d’une manière générale, analyser comment les acteurs
de la baie gouvernent les milieux.

Comment analyser la gouvernance des milieux de la baie ?

A cette question initiale qui consiste à se demander « Qui gouverne quoi, où, quand, et comment ? »,
l’équipe de chercheurs a répondu en analysant par des enquêtes les représentations et les pratiques des
acteurs de la baie (agriculteurs, mytiliculteurs, acteurs institutionnels, acteurs politiques), a identifié les
pôles de concentration de l’azote dans les bassins versants par une analyse biogéographique et a réalisé
une cartographie floristique des prés salés. On entrera pas dans les détails méthodologiques de ces
diverses analyses et on fournira ici quelques résultats des recherches, tout en attirant bien l’attention que
ces résultats peuvent être remis en question par des recherches ultérieures.

68
Les agriculteurs gouvernent le milieu qu’ils mettent en production en fonction des facteurs
économiques et de la rationalité du travail ; ce sont à la fois les questions de rendement et de la facilité
des tâches qui guident leurs pratiques culturales : par exemple, ils localisent les parcelles de prairies de
manière à ne pas avoir à déplacer les animaux sur de longues distances ; les parcelles de prairies sont en
général proches du siège d’exploitation afin qu’ils puissent surveiller les animaux et les conduire à
l’étable ou à la salle de traite de manière aisée, sans avoir à traverser une route. Par ailleurs ils raisonnent
la fertilisation et l’épandage des excédents d’effluents animaux en fonction des normes imposées par les
politiques : sachant que la norme de présence de nitrate dans l’eau est de 50 mg par litre, ils savent qu’ils
ne doivent pas dépasser une certaine dose d’engrais ou de lisier dans les champs. C’est la norme qui
guide leurs pratiques et non la volonté de respecter la qualité de l’eau ; comme le dit un agriculteur
rencontré sur un bassin versant de la baie, ils ont perdu leur culture du milieu et ils possèdent davantage
une culture technique qui s’inspire des normes des politiques. Cet enseignement doit cependant tenir
compte de nuances qui s’expriment chez certains d’entre eux et qui montrent que tous les agriculteurs
n’ont pas des pratiques rigoureusement identiques et qu’il existe un groupe d’agriculteurs qui se posent
des questions sur leur métier et sur les conséquences de leurs pratiques. Mais d’une manière générale, il
paraît clair qu’il y a chez eux une absence d’une conscience de participation à un processus qui affecte la
baie du Mont Saint-Michel. Ils ne comprennent pas que leurs pratiques agricoles puissent avoir des
répercussions sur le milieu de la baie, qui leur semble trop éloignée, bien que certains aient la vue sur le
Mont Saint-Michel depuis chez eux.
Il y a cependant une différence forte entre la baie normande et la baie bretonne : les agriculteurs
bretons sont davantage encadrés par les syndicats agricoles et ils se conforment bien plus aux mots
d’ordre de la profession. Par exemple, l’une des hypothèses secondaires du programme de recherche
consistait à supposer que les agriculteurs normands avaient respecté le bocage, ses talus et ses haies. Les
transformations normandes se sont produites récemment et rapidement, alors que les disparitions du
bocage breton sont beaucoup plus anciennes et progressives, révélant que les agriculteurs bretons ont
assez tôt suivi les mots d’ordre des syndicats pour s’adapter au changement, mais que cette adaptation a
été progressive et non massive. En Normandie, les transformations du bocage sont récentes,
manifestant davantage une résistance aux recommandations des syndicats, jusqu’à ce que la situation se
renverse au profit de jeunes agriculteurs après la disparition de la classe âgée et attachée au bocage.
Quant aux pratiques des éleveurs de moutons de prés salés, ils ont cherché à se passer des
bergers qui conduisaient les troupeaux dans les marais : ils ont préféré clore les marais en Normandie et
laisser les moutons divaguer à la recherche de leur nourriture. L’effet est un moins bon contrôle du
tapis végétal et le chiendent qui est mangé à un stade jeune par les moutons a pu se développer ; en
même temps, il est vraisemblable que les éleveurs ont complété l’alimentation des moutons avec de la

69
nourriture venue du continent. Dans la partie bretonne, les marais salés sont beaucoup moins étendus
et sans doute plus dangereux. Les éleveurs continuent à utiliser des bergers. Il semble en outre
vraisemblable que les éleveurs pratiquaient l’écobuage sur les parties des marais envahies par le
chiendent. Cette pratique s’est arrêtée il y a environ 15 ans, ce qui correspond au début de l’extension
du chiendent.
Par ailleurs, les éleveurs entrent en concurrence sur les prés salés avec de nombreux autres
acteurs : chasseurs de canards, pêcheurs à pied et touristes, qui gênent leur activité et le contrôle de la
croissance de la végétation est moins rigoureuse.
La « gouvernance du milieu marin et de l’estran est en outre complexifié par les interactions
avec les activités des ostréiculteurs et des mytiliculteurs. Ces éleveurs de coquillages sont obligés de
respecter un milieu marin indemne de bactéries en particulier fécales qui nuisent à la commercialisation
des coquillages et surtout des moules qui filtrent l’eau de mer avec leur appareil digestif et ingèrent les
diatomées, algues microscopiques qui leur donnent leur couleur orangée et fait leur réputation (moules
de bouchot du Mont Saint-Michel). Les mytiliculteurs sont en conflit avec les agriculteurs qui déversent
dans les champs les excédents d’effluents animaux, qui risquent d’entraîner vers la baie des bactéries
fécales. Avec les éleveurs de moutons également, car les déjections de moutons sur les marais salés se
mélangent à l’eau marine et la polluent. Il s’agit ainsi d’un premier conflit à l’égard de la gouvernance du
milieu entre terre et mer. Mais les mytiliculteurs ont également souhaité étendre leur domaine d’élevage
et ont installé des bouchots (piquets destinés à supporter les cordages auxquels se fixent les moules)
vers l’est de la baie (et non vers l’ouest où ils entrent en concurrence avec les ostréiculteurs), dans une
aire proche des marais salés exploités par les éleveurs de moutons. Cette extension ne s’est pas faite
sans problème. Les mytiliculteurs qui étaient assez solidaires et réunis en un seul syndicat se sont
dispersés et 4 syndicats ont vu le jour, révélant une perte de cohésion du groupe et de nouveaux
conflits. Cependant, les mytiliculteurs manifestent une très bonne connaissance du milieu marin, en
raison de la nécessité d’observer la qualité de l’eau et les conditions atmosphériques à cause des risques
que la mer oppose à la pratique de l’élevage des coquillages. Cette connaissance du milieu marin se
manifeste par une capacité d’observation minutieuse de la turbidité de l’eau, des conditions
météorologiques, des courants marins, des marées, etc. Il s’agit ici d’une véritable culture écologique qui
diffère de celle des agriculteurs.
On remarque donc que la gestion du milieu marin et du milieu terrestre est l’objet de multiples
facteurs tant biologiques que sociaux. C’est ce qui fait la complexité de la gouvernance de la terre et de
la mer que les élus expérimentent avec beaucoup de difficultés.

70
Les pratiques institutionnelles et politiques de gestion de l’eau

En effet, les élus municipaux se trouvent confrontés à la question de la gestion de l’eau pour
l’approvisionnement de leurs électeurs et habitants de leur commune. L’augmentation des taux de
nitrates dans l’eau potable leur pose évidemment un problème crucial. En général, les communes
possèdent un système d’approvisionnement en eau autonome avec des captages dans les nappes
phréatiques locales. Mais depuis les épandages des effluents azotés dans les champs par les agriculteurs,
ils se trouvent devant un dilemme difficile à résoudre.
S’ils souhaitent conserver une autonomie de la fourniture d’eau pour leur commune, ils doivent
exercer un contrôle vigilants et rigoureux sur ces épandages et sur les pratiques agricoles. Mais ils savent
bien que ces mêmes agriculteurs sont également des électeurs et que leur poids dans la population
municipale est plus important que leur représentativité dans le corps électoral. Ils sont donc obligés de
composer avec les agriculteurs pour éviter de les faire passer dans le camp des adversaires politiques.
Une autre solution leur est offerte : connecter le réseau communal d’approvisionnement en eau
à un réseau extérieur qui dépend d’un syndicat de distribution d’eau possédant une usine de traitement
pas nanofiltration. Ainsi, l’eau aura des taux de nitrates faibles. Mais le coût du traitement de l’eau se
répercute sur le prix de l’eau. En même temps, ils affranchissent les agriculteurs de pratiques plus
écologiques et c’est la qualité de l’eau des nappes phréatiques qui s’en ressent.
La gestion d’un paysage est donc une affaire complexe où de nombreux facteurs, politiques,
écologiques, sociaux, etc., entrent en jeu et demandent une vigilance et une observation suffisamment
large pour tenter de prendre en compte tous ces facteurs. Les décideurs ne sont pas forcément armés
face à cette situation. Et les médias qui interviennent dans la transmission des informations simplifient
souvent les connaissances transmises par les scientifiques parce qu’elles sont trop complexes pour leur
public de lecteur. Gouverner un paysage est donc non seulement une affaire de politique et de gestion
de données écologiques et sociales, mais également un processus de transfert des langages savants vers
la sphère profane des simples habitants ou du monde politique. Or cette question du langage est
primordiale, car c’est par le langage que les sensibilités à l’égard du cadre de vie et du paysage
s’expriment et donnent un sens aux objectifs des politiques d’aménagement du territoire. C’est aussi par
le langage que le paysage prend forme dans les représentations collectives qui élaborent les sensibilités
populaires, fondement de la compréhension du monde.

71
FRANÇOISE DUBOST

UN POINT DE VUE ETHNOLOGIQUE SUR L’ESTHETIQUE DU PAYSAGE

La question de l’esthétique du paysage était au cœur d’une recherche que j’ai menée à l’occasion
de la Loi Paysage de 1993. Pour donner du retentissement à cette loi, le ministère de l’Environnement
avait lancé une campagne publique, demandant aux Français d’envoyer la photographie de leur paysage
préféré avec un texte d’accompagnement. 9000 réponses avaient été recueillies. Une soixantaine de
photos, les plus artistiques, avaient été sélectionnées pour faire l’objet d’une exposition et il fut
demandé à un artiste réputé, Lucien Clergue, de les commenter. Restaient les milliers d’autres, dont la
qualité esthétique était moindre mais qui présentaient néanmoins un intérêt majeur, puisqu’elles
reflétaient l’image qu’ont les Français de leur paysage et indiquaient les raisons de leurs préférences. On
m’a demandé d’analyser ce corpus. L’étude a montré que les Français s’intéressent bien moins aux
paysages remarquables qu’aux paysages ordinaires, avec lesquels ils ont des liens affectifs ou familiers.
Les hauts lieux, les grands sites naturels étaient quasiment absents, et à très peu d’exceptions près les
photographes amateurs avaient une attache personnelle avec l’endroit photographié : lieu de naissance
ou d’enfance, lieu de vacances, et plus souvent encore lieu de résidence. « Il suffit de regarder pour voir
le beau à sa porte » : plusieurs textes affirmaient ainsi que le paysage le plus banal est idéalisé par la
charge affective qu’il comporte. La dimension esthétique était également présente dans les réponses
sous forme de dénonciation virulente des « nuisances » - dans certaines régions comme la Bretagne ou
la Provence-Côte d’Azur, plus de la moitié des photos et des commentaires mettait l’accent sur les
désastres et les saccages causés par l’urbanisation ou la modernisation agricole 55.
Paysages quotidiens, paysages dégradés : on sait que la volonté de les prendre en compte et de
ne pas s’en tenir aux paysages exceptionnels est affirmée avec force dans la Convention européenne du
paysage. Quelle en est la conséquence pour l’esthétique du paysage ? Dans quelle mesure peut-on parler
d’une esthétique ordinaire? A cette problématique de l’ordinaire et du remarquable, s’ajoute celle des
modes de représentation du paysage. Et dans l’exemple que je viens de citer, de ce mode de
représentation particulier qu’est la photographie. La photographie est à la fois un art (dont la légitimité
en tant qu’art est reconnue, même si elle l’a été plus tardivement que la peinture ou la littérature), et une
pratique d’amateur très courante, qui ne requière pas de compétence ou de savoir particuliers. Tout le
monde photographie des paysages.
Mais il faut aussi remarquer que cette distinction entre l’ordinaire et le remarquable, entre
l’artiste et l’amateur, a été largement subvertie, à l’époque contemporaine, par les artistes eux-mêmes.

55 L. CLERGUE – F. DUBOST, Mon paysage (le paysage préféré des Français), Paris, Marval, 1995.

72
Pas seulement par ceux qui, comme Lucien Clergue, portent un jugement d’artiste sur des photos
d’amateur. Mais de manière plus radicale, et je voudrais vous citer deux passages du livre de Jean
Dubuffet, L’homme du commun à l’ouvrage – on sait que Jean Dubuffet, en marge d’une oeuvre artistique
de grande importance, fut l’un des promoteurs de « l’art brut ».

Un tel appétit de permanence est au cœur de l’homme qu’il désire avidement, et c’est bien touchant,
une survie de ses joies et de ses vérités. Sa beauté, comme il voudrait la croire fixe, son étoile
polaire ! – Qu’il y renonce ! Sa beauté languit et meurt comme tout ce qui est humain, une nouvelle
et jeune beauté lui succède, qui vieillit à son tour. Nous nommons beau ce qui nous passionne, et
rien ne passionne longtemps l’homme et seule est permanente sa passion, dont l’objet change. […]
Ce qui enchantait nos pères ne nous enchante plus, ni même ce qui nous enchantait la semaine
dernière 56.

et plus loin, cet autre passage :


Il est d’usage de regarder cette foi dans l’existence de la beauté, et le culte rendu à cette beauté, comme
la justification capitale de la civilisation d’Occident. Le principe même de civilisation est inséparable
de cette notion de beauté.
Je trouve cette idée de beauté une maigre et peu ingénieuse invention. Je la trouve médiocrement
exaltante […] Cette idée que notre monde serait constitué pour la plus grande part d’objets laids et
d’endroits laids, tandis que les objets et endroits doués de beauté seraient des plus rares et difficiles à
rencontrer, je ne la trouve pas très excitante. Il me semble que l’Occident, à perdre cette idée, ne ferait
pas une grande perte. S’il prenait conscience que n’importe quel objet du monde est apte à constituer
pour quiconque une base de fascination et d’illumination, il ferait là une meilleure prise. Cette idée-là,
je pense, enrichirait plus la vie que l’idée grecque de beauté 57.

Deux extraits bien caractéristiques de ce grand pourfendeur de la culture établie que fut Jean
Dubuffet. Le premier d’entre eux, toutefois, rejoint un point de vue partagé par beaucoup d’historiens,
de sociologues ou de philosophes : la notion du beau est relative, les jugements de goût varient dans le
temps, il y a une historicité du paysage. Mais Dubuffet va bien au-delà : est beau tout objet (ou tout
endroit) pourvu qu’il nous passionne, nous fascine, nous illumine. Cette affirmation nous aide-t-elle à
pénétrer au cœur de l’expérience esthétique, à commencer par la plus ordinaire ?

On retrouve cette problématique de l’ordinaire et du remarquable, appliquée aux


représentations du paysage, et à la photographie en particulier, dans une recherche collective lancée par
la Mission du patrimoine ethnologique au ministère de la Culture. Cette recherche, à laquelle j’ai
participé, a abouti à la publication d’un livre, Paysage au pluriel 58 .
Les ethnologues sont arrivés tardivement dans la recherche sur le paysage (bien après les
philosophes, les historiens ou les géographes), et ils ont eu l’ambition d’utiliser cet appel d’offre pour
construire un point de vue spécifiquement ethnologique. A la question « Qu’est-ce que le paysage ? »

56 J. DUBUFFET, l’Homme du commun à l’ouvrage, Paris, Gallimard, 1973, p. 61.


57 ibid. p. 72-73.
58 Paysage au pluriel. Pour une approche ethnologique des paysages. Textes réunis par Claudie Voisenat. Paris, Editions de la Maison

des Sciences de l’Homme, 1995.

73
que posent tous les spécialistes du paysage (Raffaele Milani dans son livre L’arte del paesaggio, lui
consacre un chapitre), ils ont substitué la question « Qui parle (ou ne parle pas) du paysage, comment et
pourquoi ? ». C’est le parti pris commun, la règle du jeu à caractère proprement ethnologique, qui a
donné sa cohérence à l’ensemble, même si l’appel d’offre n’était pas réservé aux seuls ethnologues et se
voulait pluridisciplinaire.
Qui parle (ou ne parle pas) du paysage ? L’absence du mot « paysage » dans le discours
n’implique pas forcément l’absence du sentiment de paysage. Dans son live, Raffaele Milani admet que
la sensibilité paysagère peut se frayer d’autres voies, s’exprimer par d’autres signes que ceux du langage
et je suis de cet avis. La question de savoir si ce sentiment du paysage existe dans les sociétés exotiques
fait cependant l’objet de débats chez les anthropologues. Dans le livre Paysage au pluriel, Maurice Bloch
pose la question à propos des Zafimaniry, qui vivent dans une région forestière à l’est de Madagascar et
cultivent des essarts conquis sur la forêt. Dans les premiers temps de son séjour, Maurice Bloch est
frappé de l’importance extrême que les Zafimaniry accordent à la clarté et à la vue qu’ils peuvent avoir
d’un point élevé. L’émotion qu’ils manifestent devant ces vues dégagées lui paraît proche de la sienne,
mais il réalise ensuite son erreur : ils ne voient que leurs propres empreintes et celles de leurs ancêtres et
valorisent par-dessus tout la clarté conquise au détriment de la forêt. Autrement dit, leur émotion se
rapporte à une conception du monde tout à fait étrangère à la nôtre 59.
Dans nos sociétés, le terme de paysage existe depuis quatre ou cinq siècles, il appartient au
langage commun, même si tous ne l’emploient pas, ou n’ont pas les mêmes références historiques ou
savantes. Et il existe pour tous des paysages consacrés, des modèles communs, des topoï, qui
structurent la perception de l’espace. On connaît le rôle de la littérature et de la peinture dans la
fabrication des modèles paysagers, mais comment sont-ils transmis aux gens ordinaires, ceux qui n’ont
guère de culture littéraire ou artistique ? L’un des auteurs du livre, Alain Mazas, a étudié le rôle de
l’école, notamment de l’école primaire. Dans les manuels de lecture, les descriptions occupent une
grande place et apportent des clés de lecture du paysage en donnant les mots pour le dire. Les manuels
de géographie, par leur analyse de traits caractéristiques, contribuent eux aussi et d’une autre manière à
structurer l’imaginaire des enfants en l’enrichissant de motifs paysagers : le bois, le vallon, le sentier, la
rivière…
Martyne Perrot s’est intéressée au rôle de la carte postale (nous retrouvons ici la photographie)
dans la valorisation touristique de l’Aubrac, ce haut plateau granitique, très dénudé, situé au cœur du
Massif central. Les cartes postales autrefois valorisaient le paysage habité et travaillé, les pâturages à
vaches, les champs de narcisses, les maisons de granit couvertes de lauzes de pierre. Aujourd’hui,
l’image diffusée est celle de grands espaces découverts aux horizons immenses qui en font un lieu de

59 Voir aussi le débat avec Claude Lévi-Strauss, Philippe Descola et d’autres, «Les sociétés exotiques ont-elles des
paysages ? », Etudes rurales, n° spécial « De l’agricole au paysage », n°121-124, janvier-décembre 1991, p. 151-158.

74
solitude et de dépaysement. C’est l’esthétique du vide qui fonde désormais l’originalité du pays (bien
que l’on cueille toujours en Aubrac les narcisses qui servent de base à la parfumerie et qu’on y fabrique
des fromages réputés et fort bien commercialisés).
Yves Luginbühl a utilisé lui aussi les cartes postales et les photographies des dépliants
touristiques dans une des contrées de Normandie, le Domfrontais, pour illustrer le décalage entre les
représentations proposées et la réalité actuelle : les images montrent le modèle régional traditionnel,
avec pommiers et vaches dans les prés, alors que les agriculteurs suppriment leurs arbres fruitiers,
laissent le bocage se dégrader, et ont transformé nombre de pâtures en champs de maïs ; ou bien
l’image proposée, parce que valorisante et signe de prospérité, est celle des élevages de chevaux, avec
leurs belles demeures, leurs barrières blanches et leurs pelouses soignées, mais c’est une image
d’emprunt : les haras qui sont nombreux dans les pays d’à côté, sont rares dans le Domfrontais. Dans
un cas comme dans l’autre, le « paysage de convention » n’est plus le paysage réel.
D’autres études enfin, trop nombreuses pour que je puisse les citer, analysent la diversité des
regards portés sur un même espace. On sait que cette perception a varié dans le temps, elle varie aussi
selon les gens. L’habitant ne regarde pas le paysage rural de la même façon que le touriste. Le chasseur
et le randonneur, l’agriculteur et l’ingénieur écologue, les anciens habitants et les nouveaux installés ou
les résidents secondaires, n’ont pas les mêmes représentations, ni les mêmes usages, ni les mêmes
intérêts. Le paysage des uns n’est pas celui des autres, autant de sources de conflits, autant d’enjeux de
pouvoir, autant d’objets d’analyse pour l’ethnologue qui se donne pour tâche de cerner le rôle du
paysage dans l’imaginaire social. On ne peut espérer forger une esthétique commune et dépasser des
conflits inévitables sans connaître la force affective et le poids symbolique qu’attachent au paysage ceux
qui l’habitent et le transforment au jour le jour.

75
Seconda parte – deuxième partie – zweiter Teil
I paesaggi d’Europa nella letteratura e nell’arte
Les paysages d’Europe comme objets des démarches de connaissances des paysages
en tant qu’œuvres de l’art et de la littérature
Die Landschaften Europas in Literatur und Kunst

76
RAFFAELE MILANI

DETERMINAZIONE DI UN’ESTETICA DEL PAESAGGIO 60

Vediamo apparire, nella conquista umana dello spazio naturale, nell’ansia di sfruttare il territorio,
nell’operare senza sosta su forme e materiali, dei criteri di modificazione, descrizione e progettazione,
come di tutela e conservazione che vengono ideati e messi a punto da un approccio multidisciplinare.
Tali criteri disegnano diversi percorsi, tra modernità e tradizione. Il rapporto uomo-paesaggio mostra
come essi cooperino a uno stesso avventuroso destino. E’ il lavoro a condurre l’uomo nel regno delle
trasformazioni che lui stesso promuove, per il paesaggio è invece il complesso di varie mutazioni
strutturali e naturali a organizzare il piano dei suoi segni evolutivi. Entrambi sembrano raccontare
qualcosa perché vivono di un fare reciproco, come di uno scambio legato anche al mito e alla memoria:
l’uno con un insieme di dati, usure del tempo, catastrofi, distruzioni, tutti elementi diffusi nei luoghi
per segni sovrapposti e intrecciati, l’altro con un sistema di opere, immagini e sentimenti. Potremmo in
un certo senso pensare a un incrocio di racconti, quello degli uomini e quello del territorio. L’acqua, la
pietra e la terra da un lato, il contadino, lo scultore, l’architetto dall’altra.
Tutto ciò ruota attorno al tema centrale dell’identità dei luoghi, lungo secoli di sconvolgimenti.
Usiamo questa espressione, identità, proprio per affermare però un valore insignito dell’eterogeneità e
del divenire. Il paesaggio è espressione della natura, del mito, della cultura, della storia. E’ scultura del
tempo e dello spazio. Risulta illuminante, a questo proposito, un pensiero di Rosario Assunto.
Leggiamo in Il paesaggio e l’estetica (1973):
Il paesaggio è natura nella quale la civiltà rispecchia se stessa immedesimandosi nelle sue forme; le quali, una
volta che la civiltà, una civiltà con tutta la sua storicità, si è in esse riconosciuta, si configurano ai nostri occhi
come forme, a un tempo, della natura e della civiltà […]. Quasi tutto il paesaggio da noi conosciuto come
naturale è un paesaggio plasmato, per così dire, dall’uomo: è natura cui la cultura ha impresso le proprie
forme, senza però distruggerla in quanto natura; e anzi modellandola per ragioni che, in prima istanza, non
erano estetiche, ma in sé implicavano quella che potremmo chiamare una coscienza estetica concomitante; e
finivano con l’esaltare, mettendola in evidenza, la vocazione formale […] di cui la natura, in quanto materia,
volta per volta si rivelava dotata. 61

La varietà di percezione e sentimento del paesaggio che è alla base di queste osservazioni muove
anche dal tema dello sdoppiamento e dell’enigma, come affermava Rilke, per aprire alla nostra mente le
immagini di ciò che appare reale, rappresentato, simbolico. Ma è allo stesso tempo un tema già descritto
da Leopardi:
All’uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed
immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi. Egli vedrà cogli occhi una torre, una
campagna; udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso coll’immaginazione vedrà

60 Vorrei ricordare coloro che, soprattutto negli anni sessanta e settanta, contribuirono a fornire una nuova critica del

paesaggio: Rosario Assunto, Cesare Brandi, Lucio Gambi, Vittorio Gregotti, Emilio Sereni, Eugenio Turri.
61 R. ASSUNTO, Il paesaggio e l’estetica, Giannini, Napoli, 1973, vol. I, p. 365 e vol. II, p. 29.

77
un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e
il piacevole delle cose. Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non
sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la
sensazione 62.

Si schiude, con questa riflessione, un’immagine seconda, capace di aprire orizzonti più ampi, più
profondi. Nel corso dei secoli, soprattutto nel Novecento, l’aspetto del territorio e la rappresentazione
del paesaggio sono cambiati notevolmente. Osserviamo grandi mutamenti paralleli alle profonde
modificazioni della sensibilità umana e della conoscenza. Ciò è avvenuto tra i modi della cultura e della
storia, tra le immagini del simbolo e della critica, tra i valori della tradizione e dell’evoluzione. La teoria
e l’esperienza si sono fuse nel tempo delle trasformazioni e delle memorie. Tuttavia è sempre questa
immagine seconda che s’afferma in un disegno di verità.
Il paesaggio, reale o immaginario, può risultare infatti come il prodigio di una verità dello
sguardo, della mente, del sentimento che si muove insieme o in riferimento al movimento e al fare
umano o naturale. Lo producono l’umanità e la storia, in una geografia ricchissima di culti, miti,
divinità. In questo contesto la natura, spontanea o artificiale, materiale o artefatta, non è più divisa in
due nature a seconda del lavoro dell’uomo e del principio dell’imitazione; essa è unica. Non si tratta più
di stabilire se è l’uomo o la natura il nostro principale punto di riferimento, il motore attorno al quale
muovere tutte le visioni. Di fronte alle più varie manifestazioni del mondo ci sentiamo trasportare oltre
le presenze tangibili e fabrili per divenire, come diceva Jünger, contemplatori solitari in un belvedere
affacciato sull’invisibile.
La forma di un luogo non è un canone, ma una trama di segni che si modificano: contorni,
sagome, linee disegnano figurazioni e arabeschi. Può identificarsi in una morfologia che incrocia
sensibilità, emozioni, intuizioni, datità e che attira su di sé allegorie e simbologie. Essa, morfologia, vive
di una propria vita estetica. All’origine del sentimento che proviamo per la vista di un paesaggio, c’è una
fenomenologia degli elementi: il cipresso, l’ulivo, il castagno, il mandorlo o la quercia, una certa qualità
della terra o della roccia ecc. Appaiono e scompaiono contorni, parti rilevate, fogge, strutture in
mutamento. Un seme, posto nel terreno, germoglia, fiorisce, dà frutti, compone un oggetto, un orlato
del paesaggio, un arabesco di linee. Una pietra, esposta all’erosione del tempo, crea nuove figurazioni.
Tutto è in trasformazione, la natura, come la cultura. Il luogo non è fatto di astratte visioni, ma di un
insieme di fattori: profilo, testura, colore, fioritura, crescita, deformazione ecc. Vive nell’architettura
vegetale, fisica, e nell’atmosfera. La vita estetica attraversa il corso della vita biologica. L’insieme delle
forme è una totalità composta da parti, legate non tanto da una relazione di giustapposizione e
contiguità, quanto piuttosto da leggi intrinseche che tengono insieme il tutto: somiglianza, prossimità,
simmetria, chiusura, continuità di direzione e loro opposti. La condizione dell’assetto e la relazione tra

62 G. LEOPARDI, Zibaldone, a cura di Rolando Damiani, Milano, Mondadori, 1997, pp. 2077-2078.

78
gli elementi fanno emergere le forme alla vista. Il suo campo percettivo è un campo dinamico che tende
a una struttura.
La composizione e l’articolazione dell’arte del paesaggio si rivela anche nelle materie: terra, roccia,
sabbia ecc. Non ci sono, come nell’arte in senso stretto o nell’artigianato prezioso, materiali ricchi o
poveri. Lo splendore della sabbia o della pietra può superare quello di una vena d’oro. I materiali sono
l’aspetto esteriore, sensibile degli elementi fisici. L’osservatore dirige e ricrea le direttrici insite in essi. Il
paesaggio porta alla luce una materia sensibile che riconduce a se stessa come presenza o come essenza
delle cose allo stesso tempo. Dalle leggi della forma e della descrizione dei materiali, come dal loro uso
più estremo, emerge la costituzione estetica del paesaggio: una composizione di caratteri, secondo
impressioni legate alla densità fisica dei corpi, ma anche alla loro smaterializzazione, come quando esse
sono assunte in una categoria affettiva. E l’architettura vi ha un ruolo centrale, con il suo produrre in
relazione alla terra abitata che mostra tipologie di ordine tecnico e simbolico per congiungere ciò che è
fisico e spirituale. In questo modo, si raggiunge una promozione umana di tipo plurisensoriale e poietica. Il
paesaggio può essere inteso come una categoria dinamica, plurivoca e transculturale.
La situazione mostra il risultato della cultura e della storia. Abbiamo infatti una visione
dell’ambiente composta da numerosi elementi. Paesi, villaggi, borghi, montagne, spazi coltivati, foreste,
fiumi, grandi e piccoli spazi naturali appartengono al nostro repertorio umano di appartenenza:
contadini, mercanti, viaggiatori, esploratori, guerrieri, pellegrini, ecc. Dai vari documenti sui distretti
territoriali, dalle varie carte dei luoghi, dai vari diari di viaggio, si trae un immenso catalogo di immagini del
mondo. Superfici, luci e forme compongono un ordine delle cose i cui effetti lasciano emergere continue
relazioni fra architettura e natura. La relazione indica il paesaggio come risultato di un continuo scambio.
L’esperienza estetica, nell’intreccio di percezione, conoscenze, lavoro, rappresentazione e
contemplazione, prevede l’interazione tra uomo e ambiente. Dal punto di vista progettuale ciò significa
cogliere, nei paesaggi, i transiti tra la memoria e la necessità del nuovo per un equilibrio tra passato e futuro,
affermando un’ipotesi allo stesso tempo conservativa e inventiva se riusciamo a collegare le diverse
funzioni e utilizzazioni dei luoghi. L’intervento è in sostanza il paesaggio come prodotto di un
trattamento compositivo della natura intorno a noi. Possono essere impiegate delle tecniche di
modificazione del suo assetto morfologico e dei suoi codici visivi capace di esprimere i caratteri di quel
certo luogo, oppure possono essere impiegate delle modificazioni di rappresentazione dello stesso
luogo, attraverso citazioni che spingono a separare, elevando l’uno o l’altro aspetto, lo sguardo del
soggetto e i tratti distintivi dell’oggetto naturale o urbano. Sembra che il paesaggio spontaneo o
costruito si presentino ai nostri occhi riuscendo a enunciare una vera poetica, una vera pratica e teoria
del mondo intorno a noi. In questo senso possiamo dire, con Simmel, che il paesaggio esprime la natura
che si rivela esteticamente.

79
C’è infatti un disegno di forme in mutamento nella storia del territorio come dell’animo umano,
espressione di un’identità che abbiamo sottolineato essere composita. Il paesaggio è dunque sia reale,
un’arte fornita dal fare e dalla cultura di un popolo, sia mentale, legato alla rappresentazione e alla visione
del mondo. E’ quest’identità composita, insieme al principio di “relazione”, che dovrà essere messa in
campo. La scelta di qualità estetiche dipenderà dalle regole del gusto, della tradizione, della
conservazione, dai processi di innovazione rispetto alle risorse. Non vi sono regole assolute. Ogni
particolare situazione va analizzata nel suo contesto e nelle decisioni che assumono le comunità.
Si può aggiungere che il paesaggio viene comunemente percepito e sentito nell’amore del passeggiare e
del viaggiare. Inoltre il paesaggio aperto dal viaggio porta i segni dell’incontro e del dono. Il viaggio è
legato a una ricerca dell’altro e a un desiderio di esplorare mondi ignoti. In quest’avventura possiamo
dire che l’esperienza si mostra anche nel segno di un regalo. Vogliamo incontrare persone nuove e
sperimentare cose nuove, ma siamo spinti anche dal desiderio di allontanarci da ciò che è ripetitivo e
abitudinario. Attraversiamo paesi sconosciuti, parliamo con gente mai vista prima, confrontiamo la
nostra identità con quella di altri. Sotto il segno della relazione e del contatto riceviamo e diamo in
umiltà, cercando di imparare dal mondo che non conosciamo, affrontando lezioni di vita. Gli oggetti
che offriamo agli amici lontani, al nostro ritorno, vive di uno scambio tra i luoghi, risente della cultura
di provenienza. Dietro un oggetto, piccolo o grande che sia, sorgono i paesaggi: un universo di
situazioni, persone, cose, immagini, sentimenti, profumi, suoni. Anch’essi sono un regalo che appare e
si sparge tra le cose ricevute, comprate, avute per caso.
Il dono, come il viaggio, vive nel ricordo. Vediamo e sentiamo sempre frammenti di realtà e di
esperienze che cerchiamo poi di ricomporre. Mettiamo in ordine fotografie, diapositive, filmati,
appunti, ma sono le immagini che abbiamo dentro di noi che ristabiliscono un legame con quei
documenti. In fondo, tutte queste immagini frammentarie ci portano sempre tra rovine e, se questi
pezzi appartengono al passato, l’impressione si fa più forte. Claude Lévi-Strauss, in Tristi Tropici, aveva
notato l’analogia tra ricordo e rovina, facendo un discorso ricco di sapienti metafore. Il tempo, più che
estinguere i ricordi travolti da un fluire incessante, costruisce, con i frammenti dell’esperienza vissuta,
delle fondamenta utili al mio procedere verso un equilibrio e una visione d’insieme più chiara. C’è un
ordine del presente e un ordine del passato che entrano nello spazio gettato tra il mio sguardo e il suo
oggetto. Nello spazio intermedio osserviamo un agitarsi di ricordi confinanti, con crolli improvvisi di
certezze e scomposizioni di date, luoghi e della loro relazione; emergono particolari, soccombono
periodi interi. Alle cancellazioni inspiegabili corrispondono curiose evoluzioni di deboli tracce lontane.
Avvenimenti tra loro senza apparente rapporto volano gli uni sugli altri per arrestarsi improvvisamente
in una costruzione della mente che li trattiene in un disegno complessivo. Il ricordo è una rete nella
quale cadono i resti della vita vissuta. Il dono vi appartiene pienamente e si scompone nell’affetto delle
cose e delle persone ritrovate o riconosciute.

80
La narrazione, orale o scritta, è il filo che intesse le varie parti dell’esistenza e della storia: diamo
un nome alle cose e le colleghiamo tra loro. Siamo spinti a credere nell’esistenza di una lingua
universale, forse anche di un’eloquenza stessa della natura. Potremmo definire una visita o una passeggiata
attraverso una serie di punti panoramici e di movimenti, in modo da interpretare le cose intorno a noi
come un’articolazione di immagini che ci accompagnano e ci corrispondono, come un insieme di segni
che ricordano appunto una lingua. Quest’esperienza ricca di datità, di metafore, di pensieri, è una
fluttuazione simile anche alla musica ed è in sostanza irriproducibile. Il mondo, riprodotto
tecnicamente, non soddisfa il nostro animo che vuole andare oltre la miseria di una copia meramente
meccanica e afferrare la verità di questo linguaggio o di questa lingua se vogliamo pensare a un insieme
più organico di segni. Dalla terra, dal cielo, dalle nuvole, dai lampi, dal mare, dai deserti, dalle varie
manifestazioni della natura traspare un linguaggio inafferrabile, sospeso, fatto di tracce, di cenni che ci
rimanda a una sintonia segreta, a quella che potremmo chiamare scrittura cifrata della natura, a un
geroglifico delle forme intorno a noi. Sembra nascosta nei boschi, nei muschi e nelle pietre una cifra
segreta che non riusciamo subito a trascrivere o a capire. Il registro linguistico è composito. Siamo
trascinati in una percezione dalle tinte oracolari e misteriose, o dalle felici conciliazioni e associazioni,
oppure ancora dalle atmosfere oniriche. La nostra arte sarà data dalla capacità di afferrare queste letture
e interpretazioni. Su tutto si manifesta l’ordine di una profondità insondabile. Il mondo sembra rivelare
una mistica grammaticale, una scrittura cifrata ovunque dispiegata. Leggiamo le nuvole, gli astri, i gusci
d’uovo, le conchiglie e le pietre come infiniti segni di questa scrittura magica, segretissima. La natura
diventa un rifugio, l’uomo torna in se stesso attraverso la lingua delle pietre, degli alberi, degli animali.
S’appresta anche un vero e proprio dialogo con la natura. In una pagina di grande suggestione,
Van Gogh ha confessato: “Vedo che la natura mi parla, mi dice qualcosa come se stenografassi. In
questa stenografia possono esserci parole indecifrabili, errori o lacune, ma qualcosa è rimasto di ciò che
hanno detto quel bosco o quella spiaggia o quella figura” 63. Dalle foglie, dai fiori, dai tronchi d’alberi,
dai ruscelli, dalla tenera erba della piccola valle tra i monti, come dalla roccia si compongono misteriosi
e segreti sussurri, lamenti e grida che il vento trasforma in una soffice scrittura sparsa nell’aria, in un
canto della terra.
Per terminare, si può dire, con una formula tanto sintetica quanto magistrale di Simmel, che “il
paesaggio è natura che si rivela esteticamente”. Tutto il mondo delle forme, delle percezioni e dei
sentimenti ne è implicato.

63 Lettera del 1882, n. 228, in Tutte le lettere, 3 voll., a cura di M. Donvito e B. Casavecchia, Silvana Ed., Milano, 1959.

81
MICHEL COLLOT

PAYSAGE ET IDENTITE(S) EUROPEENNE(S)

L’Europe apparaît aujourd’hui à beaucoup de ses citoyens comme une machine technocratique,
ou un vaste marché. Si l’on veut lui donner une âme, et construire son unité, il faut se tourner vers son
patrimoine culturel, et chercher en lui ce qui peut parler le plus directement aux européens par-delà les
frontières. Mon hypothèse est que le paysage est un des lieux dans lesquels une identité européenne
peut s’incarner et se construire. Lieu de mémoire, mais aussi lieu de rencontre et horizon de la
construction européenne
Dans un texte récent, intitulé Une certaine idée de l’Europe 64, George Steiner fait du paysage un des
quatre piliers de l’identité culturelle de l’Europe. Si l’on veut que la notion d’Europe ne reste pas une
entité lointaine et désincarnée, il faut la faire vivre dans l’expérience concrète de ses habitants : « Même
la plus abstraite, la plus spéculative des idées doit être ancrée dans la réalité, dans la substance des
choses » 65. L’Europe s’incarne aux yeux de Steiner dans ses paysages, comme dans ses cafés ou dans les
noms de ses rues.
S’il y a une culture européenne, elle commence avec l’agriculture et la gestion des espaces
naturels ; elle inclut les usages sociaux et quotidiens de ces espaces, que sont l’urbanisme ou le tourisme.
C’est aussi une culture du sensible et de la sensibilité, qui est façonnée par l’art et par la littérature, mais
qui ne s’y réduit pas. Le paysage permet donc d’ancrer l’identité européenne à la fois dans l’expérience
la plus commune et la plus concrète et dans la culture la plus savante.

La définition classique de l’identité européenne tend à l’identifier avec quelque notion abstraite :
la liberté individuelle, la Nation, la Raison. Le paysage fournit au contraire un fondement sensible
à l’idée européenne. Cela ne relève pas pour autant d’une démarche irrationaliste ou nationaliste,
mais d’une autre rationalité, d’ « une raison qui ne lâcherait pas en route le sensible », comme le
souhaitait le poète Francis Ponge 66.

Cette recherche des fondements sensibles d’une identité ouverte anime par exemple le projet
d’un recensement des lieux de mémoire européens. Pierre Nora propose d’y inclure, au même titre que
les hauts lieux de la culture et de l’Histoire européennes, « les lieux géographiques, que ce soient les
grands fleuves, comme le Rhin ou le Danube, que ce soient les grands massifs, comme les Alpes » 67.
Cette « topologie de la mémoire européenne » aurait le double avantage d’être concrète et de

64 Arles, Actes Sud, 2005.


65 Une certaine idée de l’Europe, op. cit., p. 23.
66 « La nouvelle Araignée », Pièces, Œuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, t. I, Paris, 1999, p. 801.
67 Dans Europe sans rivage, Actes du symposium sur l’identité culturelle européenne, Paris, Albin Michel, 1988.

82
transgresser les frontières ; il s’agit, aux yeux de Nora, d’échapper à la coupure entre une identité
nationale close sur elle-même et une identité européenne abstraite, introuvable : de « trouver le collectif,
mais dans le national, le générique, mais dans le spécifique ».
Il me semble que le paysage a joué et peut jouer encore dans l’avenir un rôle important dans cet
échange entre l’expérience concrète et les constructions symboliques, entre les identités locales et
nationales et une identité européenne en devenir. Pour le comprendre, il suffit de revenir aux origines
du mot paysage et à ses définitions les plus simples ; si les langues romanes ont eu besoin de ce mot
nouveau, formé par suffixation à partir du mot pays, c’est que le paysage n’est pas le pays, mais une
image du pays. Cette image exprime certes l’attachement au pays, mais elle le met aussi à distance et en
déborde les limites, en l’ouvrant à un horizon. Cette notion, que j’ai étudiée ailleurs 68 me semble
indissociable de la conception européenne du paysage ; elle permet de concilier, la singularité d’un point
de vue avec l’ouverture à l’autre et à l’univers, le local et le global. L’horizon donne au paysage ses
contours et sa physionomie, mais il l’articule aussi à un ailleurs. S’il trace une frontière autour du pays,
celle-ci est perméable, et mobile ; elle est une invitation au voyage. L’invention du paysage a coïncidé
avec la découverte de terres nouvelles et lointaines, qui ont considérablement élargi la vision du monde
des européens.
Le paysage apparaît ainsi comme un espace transitionnel, qui offre un modèle pour concevoir
une identité ouverte, dont l’affirmation n’exclut pas l’ouverture à l’altérité. S’il existe une identité
européenne, elle suppose le respect de la diversité culturelle des pays qu’elle réunit, et l’échange avec les
autres continents. Ce ne peut être qu’une identité plurielle et ouverte, comme l’indique la graphie
adoptée pour mon titre. Or le paysage me semble avoir été souvent et pouvoir être encore aujourd’hui
un des lieux où construire une telle identité.

Le passé
Dans son livre sur les Les figures paysagères de la nation 69, François Walter insiste sur le rôle qu’a joué
le paysage en Europe, du XVIème au XXème siècle, dans l’affirmation et la constructions des identités
nationales. C’est indiscutable, mais ce qui ne l’est pas moins, c’est que les grands moments d’émergence
de la notion de paysage et de son expression linguistique, artistique et littéraire ont largement débordé
les frontières nationales : il existe une culture européenne du paysage.
Je me bornerai à en citer quelques exemples particulièrement révélateurs.
L’invention du mot paysage lui-même témoigne d’une circulation intense et rapide des idées et des
pratiques artistiques d’un pays d’Europe à l’autre. Si l’on en croit les recherches de C. Franceschi, le

68 Voir mes essais sur L’Horizon fabuleux, Paris, Corti, 1988 ; et La Poésie moderne et la structure d’horizon, Paris, PUF, 1989.
69 Les figures paysagères de la nation : territoire et paysage en Europe (16ème-20ème siècles), Paris, Éditions de l’EHESS, 2004.

83
terme serait d’abord apparu en français dans le milieu des artistes italiens travaillant à la décoration du
château de Fontainebleau : ce serait donc le fruit d’une coopération franco-italienne 70. Sur le modèle et
à la suite du mot français ont été forgés très rapidement les mots italiens, espagnols, portugais. Le mot
allemand Landschaft existait déjà, mais avec un sens différent ; c’est sur le modèle de ce mot ancien qu’a
été créé le mot néerlandais landschap, dont le sens pictural a été adopté en allemand, et dont la formation
a inspiré le mot anglais landscape.
C’est un bel exemple de traduction d’une langue à une autre, qu’il faut mettre en parallèle avec
les échanges qui existaient entre les foyers de création artistique où s’inventait la peinture de paysage, en
Flandre, en Allemagne et en Italie notamment. On peut donc dire que la notion et l’art du paysage sont
dès l’origine largement européens. François Walter fait remarquer lui-même que les paysages de Patinir,
71
souvent considéré comme le premier peintre de paysage en Occident « juxtaposent en dépit de toute
vraisemblance les éléments les plus divers du paysage européen : les terres cultivées, les forêts, les
montagnes, les cours d’eau et les cités » 72.
Plus tard, ce sont deux peintres français, Poussin et Claude, qui, à partir de l’héritage gréco-latin,
celui de Virgile et de Théocrite, inventeront la campagne romaine, qui va être pour longtemps vue par
les touristes à travers le modèle pictural du classicisme à la française. La découverte et la promotion
artistique et littéraire des Alpes est un autre temps fort de l’histoire du paysage en Europe, comme l’ont
montré les travaux de Claude Reichler 73. Elle a concerné simultanément plusieurs pays, et pas
seulement ceux dont le territoire fait partie de l’arc alpin. Les Alpes de Haller ont connu par exemple un
succès largement européen, grâce aux traductions qui s’en sont très vite répandues. À la même époque,
la mode du « jardin anglais » fait tache d’huile sur le continent et va marquer durablement la
physionomie des paysages européens : Taine voit par exemple dans les environs du Lac Majeur « la
fraîcheur d’un paysage anglais parmi les nobles lignes d’un tableau de Claude Lorrain » 74.
75
Un autre exemple plus récent de ces « convergences européennes » est fourni par la politique
de protection des paysages qui s’est développée simultanément dans plusieurs pays d’Europe, entre
1900 et 1930. La coopération dans ce domaine s’est renforcée depuis une vingtaine d’années, du fait la
prise de conscience de la menace écologique, qui ignore les frontières. Les « éco-artistes » américains
Helen et Newton Harrisson ont intitulé Peninsula Europe une série d’installations où la carte du continent

70 M. COLLOT (dir.), Les Enjeux du paysage, Bruxelles, Ousia, 1997.


71 C’est à son propos que Dürer emploie, pour la première fois en allemand, semble-t-il, le terme de Landschaftsmaler, dans
une lettre de 1521.
72 François Walter, op. cit., p. 152.
73 Voir notamment La Découverte des Alpes et la question du paysage, Chêne-Bourg, Georg, 2002.
74 Cité par F. WALTER, op. cit., p. 168.
75 F. WALTER, op. cit., p. 248.

84
est travaillée de manière à effacer les frontières politiques pour faire apparaître les traits géophysiques
qui fondent son unité : chaînes de montagnes ou grands fleuves par exemple 76.

Cette prise de conscience des menaces qui pèsent sur un patrimoine naturel et culturel commun
a abouti à l’élaboration d’une Convention européenne du paysage, signée à Florence en 2000, qui
présente à la fois un état des lieux et une perspective d’avenir.

Le présent et l’avenir
Par son aptitude à dépasser les frontières, le paysage peut contribuer à la constitution d’une
mémoire européenne, mais aussi à celle d’une identité européenne encore à venir. Il a un rôle à jouer
dans la construction d’une Europe, « unie dans la diversité », car il peut exprimer à la fois une
individualité, l’attachement à un « pays », aux singularités locales, régionales, ou nationales, et
l’ouverture au monde. Il se construit en effet à partir du point de vue d’un individu sur une étendue de
pays que l’horizon délimite mais ouvre aussi à l’appel de l’ailleurs.

Le lien entre paysage et identité se situe à trois niveaux distincts mais complémentaires. Le
paysage que j’aime est « mon paysage », lié à mes valeurs les plus intimes ; mais il est aussi lié aux
valeurs d’une communauté, région ou pays, sans pour autant se fermer aux apports de modèles
étrangers, qui contribuent à la construction d’une culture européenne.

La Convention européenne du paysage a consacré ce rôle du paysage et bien pris en compte


cette triple dimension : « Le paysage », lit-on dans son préambule, « concourt à l’élaboration des
cultures locales et […] représente une composante fondamentale du patrimoine culturel et naturel de
l’Europe, contribuant à l’épanouissement des êtres humains et à la consolidation de l’identité
européenne » 77. Le commentaire qui l’accompagne insiste sur l’articulation de ces multiples identités :
individuelle, régionale ou nationale et européenne :

La reconnaissance d’un rôle actif des citoyens dans les décisions qui concernent leurs paysages
peut leur donner l’occasion de s’identifier avec les territoires et les villes où ils travaillent et
occupent leur temps de loisir. En renforçant la relation des citoyens avec leurs lieux de vie, ils
seront en mesure de consolider à la fois leurs identités et les diversités locales et régionales en vue
de leur épanouissement personnel, social et culturel. […]

Les paysages d’Europe présentent un intérêt local, mais ont aussi une valeur pour l’ensemble de
la population européenne. Ils sont appréciés au-delà du territoire qu’ils recouvrent et des
frontières nationales.

76Une présentation de ce projet est disponible à l’adresse suivante : www.schweisfurth.de/peninsula-europe.html.


77Le texte de la convention est disponible à l’adresse suivante :
http://conventions.coe.int/Treaty/fr/Treaties/Html/176.htm.

85
Mais de quelle identité européenne cette attention au paysage peut-elle être aujourd’hui
porteuse ? Je ne pourrai à ce propos qu’émettre quelques hypothèses, en m’appuyant sur les réflexions
des quelques intellectuels et écrivains qui ont récemment essayé de cerner cette identité fuyante, et qui,
pour ce faire, ont eu eux aussi recours à l’image ou à la notion de paysage.

Vers une identité européenne ?

L’identité européenne qui tend à se dégager de ces réflexions ne saurait résulter de la somme des
identités nationales, ni de leur synthèse, mais plutôt de leur mise en dialogue. C’était déjà en 1987 l’idée
directrice d’un livre d’Edgar Morin, qui plaçait l’Europe sous le signe de la complexité : « L’Europe est
un Complexe (complexus : ce qui est tissé ensemble) dont le propre est d’assembler sans les confondre
les plus grandes diversités et d’associer les contraires » 78. Si l’Europe a une identité, elle se fonde sur sa
diversité ; si elle a une unité, elle ne peut être que plurielle, unitas multiplex. N’étant plus en mesure
d’imposer sa civilisation comme universelle, elle doit affirmer son identité par la mise en valeur de sa
différence et de sa diversité, menacées par l’impérialisme d’autres modèles, et par une mondialisation
uniformisatrice :

La nouvelle conscience européenne est de plus en plus sensible à la diversité culturelle sans
pareille de l’Europe ; elle comprend que cette diversité constitue son patrimoine ; elle perçoit de
mieux en mieux que la culture européenne est une polyculture 79.

Et ce n’est pas à mes yeux un hasard si Edgar Morin fait ici intervenir la référence aux paysages comme
manifestation sensible et exemplaire de cette unidiversité :

L’effet propre de la conscience et du mouvement écologiques, en ce qui concerne la culture


européenne, c’est qu’il préservent non seulement les diversités animales et végétales, non
seulement la beauté et la diversité des paysages européens, mais aussi les diversités ethniques et
régionales 80.

Après la chute du mur de Berlin, l’Europe a vu s’accroitre à la fois l’espoir d’une réunification et
le risque d’une résurgence des nationalismes, qui s’est manifestée de façon sanglante dans les Balkans
dans les années 1990. Cela a conduit les intellectuels à distinguer l’affirmation d’une identité européenne
de toute revendication étroitement identitaire. C’est le sens du Manifeste de Strasbourg signé en novembre
1991 par les écrivains qui participaient au Carrefour des Littératures européennes :

L’histoire européenne inlassablement le répète : les périodes d’épanouissement culturel


coïncident avec la multiplication des échanges et des contacts avec l’extérieur ; les époques de

78 Penser l’Europe, Paris, Gallimard, 1987, p. 25.


79 Ibidem, p. 149.
80 Ibidem, p. 150.

86
décadence et d’effondrement se caractérisent par une recherche stérile de valeurs propres, la peur
de l’Autre et le repli sur soi. L’espace culturel européen déborde toujours l’espace politique, et
l’identité nationale s’aiguise toujours à l’active reconnaissance de celle des autres 81.

Pour construire son identité l’Europe doit s’ouvrir à un double horizon : l’horizon interne des
diverses cultures qui la composent et l’horizon externe du monde qui l’entoure : « Il n’y aura pas de
renouveau en Europe sans une audacieuse ouverture de la conscience aux autres hommes, aux autres
nations, aux autres cultures » 82. Il faut donc « penser l’Europe à ses frontières », comme le proposait le
programme « géophilosophie de l’Europe » animé en 1992 par Jean-Luc Nancy. Celui-ci recourt à la
dialectique du pays et du paysage pour essayer de faire comprendre comment l’Europe peut se
constituer à la fois comme une vue d’ensemble, un paysage, et comme une multiplicité et une diversité
de pays :

L’Europe n’est rien d’autre qu’une mosaïque de pays — un paysage de pays […] Je dirais
volontiers qu’un tel paysage est — une écriture.
Un « paysage », ce serait la combinaison d’un ensemble, de sa rythmique, ou de sa modulation, et
de la singularité des « vues » qui peuvent le peindre ou l’écrire. Chacune étant, sur le mode
leibnizien, pars totalis du paysage, mais aucune n’en formant la totalisation ni l’identification 83.

De cette ouverture à la diversité et à la pluralité, la géographie de l’Europe offre plusieurs


images possibles, notamment celles qui insistent sur sa position à l’extrémité du continent Eurasiatique.
Celle de la Péninsule, par exemple, que nous avons rencontrée chez les Harrisson, et que Gonzague de
Reynold relevait déjà chez Noblot en 1725 : « L’Europe est une grande presqu’île » 84. Autre image
géographique récurrente : celle du cap, qu’employait Valéry dans son texte de 1919 sur La crise de
l’esprit :
Qu’est-ce donc que cette Europe ? C’est une sorte de cap du vieux continent, un appendice occidental de
l’Asie. Elle regarde naturellement vers l’Ouest. Au sud, elle borde une illustre mer dont le rôle, je devrais
dire la fonction, a été merveilleusement efficace dans l’élaboration de l’esprit européen 85

C’est cette image que Jacques Derrida a reprise dans une conférence prononcée à Turin en 1990 :
« Dans sa géographie physique et dans ce qu’on a souvent appelé, comme le faisait Husserl par
exemple, sa géographie spirituelle, l’Europe s’est toujours reconnue elle-même comme un cap » 86.
Derrida voit dans cette position géographique de l’Europe, baignée de toutes côtés par les mers et par
l’Océan, l’emblème d’une identité paradoxale, ouverte à l’altérité :

81 Désir d’Europe, Paris, La Différence, p. 7.


82 Ibidem, p. 8.
83 Penser l’Europe à ses frontières, La Tour d’Aigues, éditions de l’Aube, 1993, p. 15-16.
84 Cité par G. DE REYNOLD, Qu’est-ce que l’Europe ?, Paris, Egloff, 1941.
85 Œuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, tome I, Paris, Gallimard, 1957, p. 1004.
86 L’Autre Cap, Minuit, 1991, p. 24.

87
Le propre d’une culture, c’est de n’être pas identique à elle-même. Non pas de n’avoir pas
d’identité, mais de ne pouvoir s’identifier […] que dans la non-identité à soi ou, si vous préférez,
la différence avec soi. Il n’y a pas de culture ou d’identité culturelle sans cette différence avec soi 87.

Cette ouverture à l’altérité va de pair avec une ouverture au devenir, qui rend l’Europe capable
de changer de cap : « Et si c’était cela, l’Europe, l’ouverture à une histoire pour laquelle le changement
de cap, le rapport à l’autre cap ou à l’autre du cap est ressenti comme toujours possible ? ». S’impose
dès lors l’image de l’horizon, que Derrida relève dans beaucoup de discours sur l’Europe, celui de
Valéry par exemple :

Valéry observe, il regarde, il envisage l’Europe, il y voit un visage, une persona, il la considère
comme un chef, c’à d un cap. Cette tête a aussi des yeux, elle est tournée d’un certain côté, elle
scrute l’horizon et veille dans une direction déterminée 88.

« L’Europe se voit à l’horizon » 89, remarque Derrida, mais il prend ses distances vis-à-vis de cette
image, car comme Lévinas il ne voit dans l’horizon qu’une limite (« l’horizon, c’est, en grec, la limite »), alors
qu’il est aussi une ouverture sur l’ailleurs et sur l’inconnu. Orientée vers l’Océan, ce cap qu’est l’Europe
n’est-il pas tourné vers ces autres mondes qui l’ont conduit à sortir d’elle-même et dont la découverte a
profondément renouvelé sa culture et son identité ?
Que cet appel du large et de l’horizon ait à voir avec l’identité européenne, on pourrait en
trouver une confirmation du côté de l’étymologie du mot Europe lui-même. Elle est très incertaine et a
fait l’objet d’interprétations très diverses ; mais toutes semblent établir un lien entre le nom de l’Europe
et l’horizon. Les unes font venir le mot de l’hébreu Ereb ; il désignerait alors « le pays du couchant ».
Regardant vers le soleil couchant l’Europe peut y voir l’image de son déclin inéluctable, comme c’est le
cas chez Hölderlin, qui fait de l’Europe l’Hespérie ; mais on peut y voir au contraire un appel au
mouvement, au dépassement : pour Claudel, par exemple, c’est l’appel du soleil couchant, « l’appel de
l’horizon et de la mort » qui a poussé Christophe Colomb à découvrir l’Amérique.

Les autres font d’Europe un mot d’origine grecque, forgé à partir d’ops : le regard, et d’euru, qui
signifie large. Il signifierait donc « aux larges yeux », « qui voit large », ou « qui voit loin ». C’est le sens
que retenaient par exemple les fondateurs de la revue Europe, et que je ferai mien pour conclure. Dans
le premier numéro de cette « revue de culture internationale », René Arcos, élargissait la conscience
européenne aux apports venus de tous les horizons. Et c’est une fois encore l’image du paysage qui lui
permettait de penser ce nécessaire échange entre « la patrie européenne » et l’ailleurs :

87 Ibidem, p. 16.
88 Ibidem, p. 25.
89 Ibidem, p. 33.

88
Europe […] le beau nom, et comme il convient à la race clairvoyante qui le reçut par hasard en
héritage ! Et comme il nous oblige à nous en montrer plus dignes encore, afin que nous devions
vraiment des Européens, des hommes qui voient largement, — qui découvrent, dans les lignes
du visage de leur province, le prolongement d’autres provinces à l’infini, — qui lisent partout des
parentés et des concordances, et s’en éprouvent agrandis90.

En prenant soin de ses provinces et de leurs paysages, en préservant ce qu’ils reflètent d’une
identité locale, régionale, ou nationale, l’Europe ne se replie pas pour autant sur elle-même ni sur son
passé. Car tout paysage communique d’horizon en horizon avec le monde entier et avec l’avenir. Le
paysage est donc pour l’Europe à la fois une origine où se ressourcer et un horizon vers lequel se
dépasser. L’identité qu’elle peut ainsi construire ne résulte ni du sol ni du sang ; elle est de l’ordre du
projet. C’est une identité-horizon.

90 Europe, n°1, février 1923, p. 110.

89
YVES LUGINBÜHL

PAYSAGE ET POLITIQUE

Que le paysage entretienne avec la politique des liens étroits ne fait aucun doute. Les
transformations des paysages sont le plus souvent liées à des politiques économiques qui agissent sur
l’état de l’occupation du sol : la PAC intervient dans la distribution spatiale des productions agricoles et
dans la concentration des exploitations agricoles, entraînant des modifications du parcellaire ; avant elle
la politique française de remembrement a provoqué indirectement la disparition de nombreuses haies
séparant les parcelles. Dans un autre registre, les politiques de logement et d’urbanisme modifient
l’aspect des villes, les étendent sur des territoires auparavant ruraux et agricoles.
Mais le lien entre l’évolution politique européenne et les paysages n’a jamais fait l’objet de
véritable réflexion approfondie, alors que les changements survenus dans la pensée politique au cours
des siècles a une relation très forte avec les sens que le paysage a recouverts et la place qu’il a tenue dans
les préoccupations des milieux du pouvoir ; les pouvoirs princier, seigneurial, royal, puis républicain ont
en effet eu une influence déterminante sur la manière de penser et d’organiser les territoires, et par là
sur les paysages. Même avant que le terme existe dans les langues européennes, les pouvoirs avaient un
regard tendu vers la formalisation d’un paysage en accord avec leur pensée politique. C’est cette
trajectoire de la relation entre paysage et politique qui sera retracée rapidement ici, mais qui demanderait
bien évidemment des développements plus amples.
Comprendre ces relations entre la pensée politique et la pensée du paysage exige cependant
certaines conditions qui n’ont jusqu’alors pas vraiment été remplies par les courants scientifiques qui
ont émis des théories épistémologiques sur le paysage :

- tout d’abord, remettre le paysage dans son contexte historique et ne pas le penser par
rapport au contexte actuel,
- expliciter les relations entre les sociétés et la nature,
- préciser la nature des rapports sociaux,
- et approfondir le rapport à l’esthétique.

C’est seulement si l’on pense le rapport entre paysage et politique dans cet ensemble de
conditions, sans les dissocier, que la trajectoire du terme et son succès actuel, notamment avec la
Convention Européenne du Paysage qui a été ratifiée par de nombreux pays européens, peut être
comprise.

90
I. Avant le paysage : régime féodal

Une pensée paysagère du territoire


Le contrôle du territoire était bien évidemment primordial pour les seigneurs et princes de
l’époque féodale. La féodalité, qui supposait des rapports de domination de l’aristocratie sur les vassaux
ne pouvait se passer de la maîtrise de l’espace sur lequel celle-ci régnait. Rien cependant, en dehors des
représentations picturales des territoires de cette époque ne laissait supposer que le pouvoir princier
avait comme objectif de maîtriser en même temps le paysage lui-même. Mais ces représentations sont
pourtant édifiantes. La célèbre fresque qu’Ambrogio Lorenzetti peignit en 1336 sur les murs d’une des
salles du palais ducal de Sienne révèle en effet une pensée du paysage, en l’absence du terme
« paesaggio » dans la langue italienne. La fresque, intitulée Le bon et le mauvais gouvernement montre, dans
une allégorie de la relation entre pouvoir et paysage, les effets d’un bon gouvernement, d’un côté et
d’un mauvais gouvernement, de l’autre. Réalisée à une période où Florence et Sienne se faisaient la
guerre et envahissaient régulièrement le territoire du voisin avec des armées qui pillaient les biens et les
hommes, cette fresque illustre une sorte d’utopie féodale, à travers une représentation d’un beau
paysage gouverné par un bon gouvernement qui sait faire régner la justice : la scène du bon
gouvernement représente en effet un procès où les justiciables attendent d’être jugés, pendant que la
société vaque à ses activités productrices de biens, alimentaires et autres.
La ville et la campagne, d’égale dimension, sont en pleine effervescence de travail et de
production : on bat le blé, une caravane apporte à la ville les denrées qui lui sont nécessaires, des
paysans chassent les oiseaux qui pillent les raisins de la vigne, le duc de Sienne sort de la ville pour
inspecter la société sur laquelle il règne et qui lui montre que tout le monde travaille, en paix. Dans la
ville, c’est le même tableau : artisans et maçons sont au travail, les commerçants sont dans leurs
boutiques,… mais les bourgeois richement vêtus dansent au milieu de la place, heureux et désœuvrés.
Travail, paix, justice, efficacité du pouvoir, mais pour une élite sociale qui profite de ce climat de
prospérité et de tranquillité. La société féodale n’est pas égalitaire, mais l’ordre règne et le paysage le
révèle.
Le mauvais gouvernement offre un spectacle différent et même totalement inverse : la ville a
pris une dimension plus grande, la campagne est parcourue par des bandes de pillards, les villages sont
en feu ; la ville est livrée au meurtre, au viol et au pillage. Pas de pouvoir juste, c’est, comme le
montrent les inscriptions sur la fresque, le règne de l’avarice, de l’orgueil, de l’injustice, etc. Le
personnage au centre du mauvais gouvernement ressemble au diable, le rôle de l’église dans cette
époque est évidemment essentiel pour mieux comprendre la pensée politique et du territoire.

91
Cette représentation du rapport entre pouvoir et paysage est évidemment fortement
symbolique. Mais elle apporte un enseignement essentiel : il existe bien une pensée de ce rapport qui
repose sur la capacité du pouvoir à maîtriser le territoire et le mettre en production pour une société
inégalitaire certes, mais où toutes les classes sociales profitent de ce pouvoir de contrôle. Le pays est
bien gouverné, il nourrit sa population et apporte la paix.

Les règles de la féodalité


Si l’on revient à une description plus froide de la société médiévale, le tableau éclaire l’évolution
qui suivra cette période : les pays sont en effet régis par les règles de la féodalité :
- la propriété est alors réservée au seigneurs et au clergé, ou aux riches bourgeois et aux
laboureurs.
- Les terres sont concédées aux paysans sous des formes diverses avec des régimes de loyers
ou de métayage.
- La règle générale en Europe (du nord surtout) est l’interdiction de clore son champ pour
permettre l’usage de la vaine pâture.
- Les rapports entre la société médiévale et les ressources naturelles sont régis par des règles
orales et surtout par les droits d’usage et les corvées. Ces droits et devoirs impliquent des
rapports à la nature particuliers qu’il serait trop long de développer ici.
- Mais il existe de nombreuses exceptions, y compris dans la clôture des champs qui peut être
autorisée, mais alors pour protéger les cultures contre les animaux qui divaguent dans les
chemins et les terres collectives, le plus souvent terres pauvres, marais, maquis, landes,
forêts. La terre collective dont la forme varie selon les pays est la terre des pauvres, qu’ils
défendent âprement contre les seigneurs qui souhaitent en faire des terrains de chasse.

Un système économique de contraintes


L’économie de ce système féodal est une économie contrainte par les règles seigneuriales nombreuses
qui bloquent toute évolution. Les cultures majoritaires sont des céréales panifiables et quelques cultures
industrielles textiles et oléagineuses. Les cultures protéiques sont rares (fèves, lupins, notamment).
L’élevage est limité aux terres incultes et collectives ou les forêts. Ce système limite ainsi la production
animale pourtant souhaitable mais que les riches se réservent : les très nombreux procès révèlent une
lutte difficile entre ceux qui ont accès aux territoires de chasse, les seigneurs, et les autres, qui sont
limités aux terres collectives et aux tenures concédées par ceux qui tiennent le pouvoir.

92
En outre toutes les activités sont soumises au ban et à de multiples contraintes fiscales qui
grèvent l’activité.

Les crises de la féodalité


Ce système ne durera pas au-delà du XIVème siècle : à partir de la moitié de ce siècle, une crise
profonde marque les sociétés européennes. Cette crise ne peut se comprendre par une unique cause ;
c’est la convergence de plusieurs facteurs qui intervient pour entraîner ces sociétés pourtant
relativement prospères dans un fort déclin démographique :
- La contradiction du système agricole qui demande, en phase d’expansion démographique,
comme ce fut le cas aux XIIème et XIIIème siècles, une extension des cultures panifiables.
Cette extension diminue d’autant les terres vouées à l’élevage qui ne fournit pas
suffisamment d’alimentation protéique aux populations.
- L’arrivée de la peste en Europe, qui touche inégalement certes les pays, mais qui entraîne de
nombreuses disparitions de population.
- Une péjoration climatique qui, avec plusieurs étés humides et froids, des hivers très
rigoureux, provoque des famines et entraîne des morts nombreuses.
- La guerre de cent ans qui débute au même moment.

C’est donc une véritable crise sociale qui se manifeste et qui ne prendra fin que vers le milieu du
XVème siècle, avec, évidemment des variations géographiques dans le continent européen.

II. Le renouveau du XVème siècle : la « Renaissance »

Renaître : ce verbe symbolise parfaitement cette nouvelle période qui naît après la phase de crises
sociales et qui fait dire ainsi aux sociétés européennes que le temps est venu d’un projet de nouveau
territoire qui rompt avec un système obsolète et les conduisant dans une impasse. De très nombreux
facteurs interviennent dans cette renaissance, mais ce qui présente ici un intérêt particulier est
l’apparition du terme paysage dans les langues européennes et qui ouvre une perspective sur l’avenir.
Cette apparition a été souvent, mais à tort, présentée comme une initiative des milieux
artistiques. En fait le premier mot qui signifie « paysage » dans les langues européennes est d’origine
flamande et sa signification renvoie clairement à l’aménagement du territoire. Il est vrai cependant que
les autres langues qui adoptent le terme le placeront dans le domaine de la production de l’art, mais le

93
processus de transfert du domaine de l’aménagement à celui de l’art se comprend aisément à la lumière
de l’usage du mot en Hollande.

Dates des premières occurrences du mot paysage dans les langues d’Europe occidentale

Langues anglosaxonnes Concepì Date connue de la


première occurrence
Hollande Landskap 1462
Allemagne Landschaft 1502
Angleterre Landscape (ou Landskipe) 1598

Langues latines

Portugal Paisagem 1548


France Paysage 1549
Italie Paesaggio 1552
Espagne Paisaje 1708

Les Pays-Bas offrent en effet un exemple significatif du sens du mot à la Renaissance, dans un
contexte qu’il est nécessaire de rappeler pour permettre de bien comprendre la place du mot dans la
société flamande : la Hollande est considérée à cette époque comme un pays phare qui tient sa
puissance à son économie fondée sur le commerce et appuyée par une flotte commerciale et militaire
développée. Mais elle est en même temps un pays exigu, dont une grande part du territoire est occupée
par des marais. Pour préserver sa place dans l’Europe du nord, la Hollande se lance alors dans une
entreprise systématique de colonisation de la mer par la technique éprouvée des polders, qui avait,
certes, débuté plus tôt, mais qui connaît à ce moment un regain décisif. Ce projet se manifeste ainsi par
une vision prospective du pays qui devient le « Landskap », traduisible par « le pays où l’on peut vivre ».
Projet de territoire, le Landskap constitue une utopie paysagère qui permet d’étendre le domaine
agricole pour nourrir une population croissante et alimenter la marine en marins et en denrées
commercialisables. Le Landskap contribue donc à la richesse du pays et l’on comprend mieux ainsi que
cette représentation de la campagne prospère qui apparaît comme les fonds des tableaux de l’époque ait
eu un tel succès. Les artistes participent, en « artialisant » cette vision utopique, selon le terme proposé
par Alain ROGER, au renforcement d’un pays prospère et riche, aux campagnes bucoliques, où vit une
paysannerie heureuse. En outre, les polders qui sont réalisés sur la mer intérieure de la Hollande, le
Zuyder Zee, permettent, dans les premières années de la colonisation de produire de l’herbe qui sert à
nourrir les animaux, comme en témoignent certaines toiles du XVème siècle. L’agriculture hollandaise

94
connaît ainsi une phase de modernisation qui n’a rien évidemment de commun avec l’agriculture
intensive actuelle, mais qui procure à la population une alimentation plus riche où la viande et les
produits laitiers ne sont pas aussi faiblement représentés que dans l’époque médiévale. C’est ainsi que le
modèle paysager pastoral s’impose, à côté du modèle bucolique.
Mais ces deux modèles ne sont en fait que des réminiscences de la culture antique : le bucolique
et le pastoral renvoie à Virgile, mais également à la culture chrétienne (le berger qui conduit son
troupeau vers de verts pâturages et des eaux paisibles 91). Cette esthétique accompagne l’utopie
paysagère qui est également un projet économique ne profitant pas de manière égalitaire à l’ensemble de
la société, mais qui permet l’accès à une alimentation plus riche, composée d’une proportion plus
importante de protéines 92.
Si les théories scientifiques de l’époque ne sont pas encore prêtes à conceptualiser cette
amélioration de l’alimentation, il n’en reste pas moins que les agronomes de nombreux pays s’engagent
sur la voie de la découverte des bienfaits de l’élevage dans la pratique agricole et dans une réflexion sur
les avantages d’être propriétaire de ses champs, ce qui n’était pas le cas dans la majeure partie des
paysanneries européennes, où la pratique des terres collectives était encore âprement défendue contre
les abus des seigneurs qui y voyaient l’opportunité d’y développer des territoires de chasse ou des
forêts.

III. Nouveau contexte politique : Monarchie constitutionnelle et libéralisme

Le XVIIIème siècle inaugure une nouvelle période qui sera déterminante pour le paysage, non
seulement dans ses formes, mais aussi dans sa pensée. Alors que l’Europe des élites s’engage dans la
critique de la monarchie absolue et recherche les voies de la liberté d’expression et des droits de
l’homme, l’Angleterre met en pratique les principes d’une monarchie constitutionnelle, mais surtout
instaure un nouvel ordre politique et économique, devançant par là la théorie économique qu’Adam
SMITH précise dans « La richesse des nations ». Rompant avec les règles de la féodalité, l’Angleterre met
en place la propriété individuelle du sol. En réalité, dès le XIIème siècle, le pays avait commencé à
instaurer le droit à enclore les champs pour l’élevage, mais c’est en 1750 que le véritable mouvement en
faveur de la propriété individuelle se produit, consolidé en 1801, puis en 1845 et 1860 que le parlement
anglais met fin par divers « enclosures acts » à la règle féodale.

91 Voir le Psaume 23, cantique de David, Nouveau Testament : « L’Eternel est mon berger, je ne manquerai de rien. Il me

fait reposer dans de verts pâturages, Il me dirige près des eaux paisibles »
92 Bien évidemment, cette pratique ne donne pas lieu à une conceptualisation théorique de l’alimentation, puisque c’est bien

plus tard, au XXème siècle que l’équilibre alimentaire entre glucides, protides et lipides sera théorisé.

95
Dans le même temps, les agronomes anglais, suivant la tendance qui s’est manifestée en Europe,
inventent la culture des herbages, graminées (ray-grass, fétuque), mais surtout légumineuses (sainfoin,
trèfle et luzerne) qui permettent d’enrichir le sol en azote et évitent le repos de la terre par la jachère.
Cette révolution technique qui accompagne la révolution politique et foncière conduit à la
transformation du paysage anglais : le bocage, paysage de prairies encloses et contenant le bétail s’étend
massivement en Angleterre 93 que la France suivra un peu plus tard, au XIXème siècle, après l’instauration
de la propriété individuelle du sol par la Révolution française.
Le projet anglais constitue un véritable projet économique et social, qui entraîne le pays dans
une révolution agricole, qui favorise l’élevage, mais également industrielle. En effet, les gentlemen farmers
qui contribuent à la transformation de la campagne anglaise sont également souvent des entrepreneurs
de l’industrie qui se développe dans la même période : industrie charbonnière, métallurgique et textile
où les petits paysans, chassés de la campagne par le rachat massif de l’espace par les couches riches de
la population viennent constituer la main d’œuvre nécessaire aux usines. C’est d’ailleurs à cette période
que l’exode rural se produit, entraînant la constitution de grands domaines agricoles où les aristocrates
et grands bourgeois sollicitent les concepteurs de jardins94 pour édifier les fameux parcs anglais ; ceux-ci
rompent avec le style français géométrique et mettent en scène dans les campagnes des parcs imitant la
nature, faite de courbes de formes sinueuses, parodiant le modèle pastoral.
C’est ainsi que se développe une nouvelle sensibilité à la nature, qui trouvera son point
culminant avec ce projet esthétique où la nature « naturelle » est le modèle et où les traces de
l’artificialité doivent disparaître. William GILPIN, critique d’art anglais précise les principes de cette
esthétique qui élimine du paysage les traces du travail humain et de la pénibilité : le beau paysage doit
être naturel et ne pas révéler les activités humaines. Ce modèle aura un succès important au-delà des
frontières de l’Angleterre, puisqu’il s’imposera comme le modèle esthétique du jardin dans la majorité
des pays d’Europe au XIXème siècle.

IV. Nouveau contexte politique : la démocratie

Les nouveaux régimes politiques démocratiques qui se mettent en place progressivement en


Europe inaugurent une nouvelle pensée de la nature. Mais en fait, cette pensée hérite de l’histoire et les
modèles qui sont apparus dans les périodes antérieures sont toujours opératoires, même s’ils ne sont
pas totalement mis en scène de manière identique. La culture paysagère qui s’est développée en Europe
est faite de l’accumulation des modèles historiques mais s’y ajoutent également des références issues de

93 Au milieu du XIXème siècle, 21% du territoire anglais était enclos, soit 28000 km2.
94 Les plus connus sont Capability Brown et Humphrey Repton.

96
l’apparition des sensibilités sociales locales. Celles-ci existaient certainement auparavant, mais elles
étaient enfouies et ne pouvaient pas s’exprimer en absence de la démocratie. L’absolutisme et le
centralisme (comme en France) écrasaient les aspirations locales. C’est après les années 1960 que les
nouvelles sensibilités sociales sont apparues, notamment en y introduisant des préoccupations
environnementales. Le paysage s’est ainsi enrichi du versant écologique et a perdu le sens esthétique qui
prévalait au XIXème siècle et qui lui donnait un sens bourgeois et sélectif dénoncé par les scientifiques
qui s’y sont de nouveau intéressés à partir de cette période des années soixante.
Les nombreuse recherches réalisées un peu partout en Europe révèlent en effet une pensée
sociale du paysage qui se structure autour des modèles anciens et des représentations du XVème siècle,
mais qui se complexifie avec les revendications sociales locales.

Que reste-t-il de l’utopie paysagère?


En premier lieu, il est manifeste que le caractère utopique du paysage a subsisté : lorsque des
individus sont interrogés sur le sens du paysage, la première réaction est claire : un paysage est toujours
beau. Le mot lui-même renvoie à un spectacle agréable, faisant re-émerger la signification que lui
donnaient la société hollandaise de la Renaissance. Toujours beau, le paysage s’appuie sur deux valeurs
sociales qui se déclinent dans le langage par l’intermédiaire de substantifs et de qualificatifs pouvant être
rangés sous ces deux valeurs :
- la beauté
- la liberté

La beauté est alors synonyme d’harmonie, terme souvent utilisé lorsque l’on parle de paysage, et
cette harmonie peut être celle
- des formes : il s’agit alors de l’harmonie esthétique
- des hommes avec la nature : c’est la préoccupation écologique qui se manifeste
- des hommes entre eux : c’est alors l’harmonie sociale

La liberté renvoie à
- celle de jouir de la nature, d’y accéder sans contrainte
- celle de la façonner selon ses besoins et ses aspirations.

Bien évidemment, ces divers aspects de la beauté et de la liberté sont plus ou moins développés
dans le discours des individus selon leur appartenance à un groupe social défini. L’harmonie esthétique
est davantage présente chez les cadres que chez les ouvriers qui prônent eux-mêmes l’harmonie sociale.

97
Les agriculteurs revendiquent la liberté de façonner le paysage selon leurs besoins (la production), alors
que chez les classes d’âge jeune, la liberté renvoie davantage à celle d’agir, de se déplacer ou de
s’exprimer sans contrainte.

La laideur des paysages dégradés


Cependant, si le premier sens du paysage est positif, la réflexion sur la situation actuelle soulève la
question de la laideur des paysages dégradés. Cette laideur s’oppose terme à terme aux deux valeurs qui
font du paysage un concept utopique. La laideur renvoie effectivement :
• - aux questions esthétiques (disharmonie des formes)
• - aux questions écologiques (le spectacle d’un lac pollué ne peut être satisfaisant)
• - aux questions sociales : un ensemble d’immeubles de banlieue ne peut être un beau paysage,
car son spectacle renvoie au chômage, à la délinquance, à la drogue.

Parallèlement à la liberté s’opposent les contraintes de la vie en société et qui imposent à l’individu
des obstacles comme l’impossibilité d’accéder à des espaces appropriés par une minorité sociale (les
plages privées du littoral par exemple) ou la difficulté pour les jeunes de s’exprimer en toute liberté dans
les espaces publics qu’ils estiment trop policés.

Les représentations sociales des paysages : trois échelles


Mais ce qui caractérise fondamentalement les représentations sociales des paysages est leur structure
selon trois échelles : une échelle « globale », une échelle locale et une échelle individuelle.

• L’échelle globale est celle qui pourrait être considérée comme la culture académique que
diffusent les grands médias (la culture artistique des musées, la culture littéraire, photographique
et cinématographique, etc.) ; cette échelle culturelle est peut-être celle qui fait partie de l’identité
européenne. Elle se structure autour des modèles paysagers dont le bucolique et le pastoral
auxquels s’ajoutent le sublime, le pittoresque, le régional, le pittoresque écologique)

• L’échelle locale est celle qui se manifeste dans une société vivant dans un territoire délimité. Elle
renvoie à la mémoire sociale du lieu, aux rapports sociaux qui s’établissent dans ce territoire et
qui peuvent s’exprimer par des conflits, ou encore par une culture du milieu « naturel », culture
empirique élaborée par la confrontation de l’individu à la matérialité des objets qui composent
le paysage.

98
• L’échelle individuelle est celle de la culture de l’individu considéré comme unique : c’est
l’expérience paysagère que celui-ci se forge dans sa trajectoire sociale et qui n’est pas réductible
à celle du groupe.

Imbrication des échelles


Ces trois échelles ne sont pas dissociées les unes des autres dans la représentation du paysage
que se construit l’individu : elles s’imbriquent et permettent de comprendre pourquoi des avis
contradictoires peuvent exister chez un même individu : un même paysage peut en effet, être à la fois
considéré comme beau parce qu’il répond au modèle « global » et comme laid parce qu’il correspond à
l’échelle locale. Dans la Beauce, région de plaine céréalière du bassin parisien, il n’est pas rare que des
habitants affirment que le paysage créé par le blé ondoyant sous le vent au soleil couchant soit beau
(référence au poème de Charles Péguy) et soit également laid, parce qu’il renvoie à la condition des
ouvriers agricoles qui se louaient auprès des hobereaux pour la moisson, tâche pénible et dure qui a
laissé une mémoire sociale vivace dans la population beauceronne. Un autre exemple cité par Victor
HUGO vient également confirmer cette contradiction : dans « Histoire d’un crime », Victor HUGO
raconte qu’il est dans un train dans l’est de la France peu après 1870. Il s’endort et en se réveillant,
découvre par la fenêtre du train le paysage bucolique d’un vallon verdoyant. Demandant à son voisin où
ils se trouvent, celui-ci répond : « Sedan » 95. Le paysage du vallon se transforme alors en scène de guerre
avec les cadavres des fantassins et les éclairs des canons.
Par ailleurs, l’évaluation d’un paysage par un individu est rarement univoque. Elle est le plus
souvent complexe, car elle fait référence aux différentes dimensions qui ont été évoquées, c'est-à-dire la
dimension esthétique, la dimension sociale et la dimension écologique. Il est donc nécessaire
d’envisager les différentes échelles pour comprendre comment un individu apprécie un paysage et
comment cette appréciation peut donner lieu à des contradictions.

L’évolution des représentations sociales des paysages


Ces représentations sociales des paysages ne sont pas stables. Elles évoluent avec le contexte
social, politique, écologique et économique ; les nouvelles sensibilités qui sont apparues à partir des
années soixante doivent en effet leur apparition à la forte recomposition sociale qui s’est manifestée
dans les sociétés européennes avec l’élargissement des classes moyennes et l’émergence des
préoccupations environnementales.
95Référence à la bataille de Sedan où la France perdit la guerre contre les Allemands le 2 septembre 1870 et où Napoléon III
capitula.

99
Avant les années 1990, le plus souvent, le paysage était synonyme de campagne pour la majorité
des Français. Depuis cette date, les représentations ont changé : le paysage est devenu la nature, la
campagne s’effaçant pour n’être plus qu’en seconde position après la campagne dans les avis des
individus interrogés. Cette transformation des représentations sociales sont dues à un ensemble de
facteurs parmi lesquels la crise agricole et alimentaire avec l’encéphalite spongiforme bovine, les nitrates
dans les eaux superficielles et profondes, la fièvre aphteuse, la grippe aviaire, etc. Ces crises ont modifié
l’image que les Français se faisaient des agriculteurs. Ceux-ci sont devenus des entrepreneurs qui n’ont
pas la même image que les paysans d’autrefois, censés savoir gérer la nature et ne pas entraîner des
problèmes écologiques. Ceci ne signifie pourtant pas que la campagne a disparu des représentations
sociales : elle est toujours présente, mais elle est devenue la campagne nostalgique des paysans.
Le paysage est la nature lointaine, parce qu’elle seule est indemne des dégradations causées par
les hommes. C’est en tout cas ce qu’affirment les jeunes pour lesquels le paysage rêvé est la savane
africaine, le grand nord ou la forêt d’Amazonie ; mais ces avis changent selon les groupes sociaux et en
particulier les classes âgée en restent à la campagne pour désigner le beau paysage. Il serait d’ailleurs
possible de développer ici les fortes disparités sociales de ces représentations du paysage.

Nouveaux rapports au paysage


Ces nouveaux rapports au paysage et à la nature ont introduit des modifications dans le sens
même du terme. Le paysage se rapproche progressivement du cadre de vie, alors qu’il était réduit avant
la Seconde Guerre Mondiale aux paysages remarquables. Désormais, la plupart des individus voient
dans le paysage ce qui est autour d’eux, même si l’ancienne conception subsiste. Ce changement se
manifeste par de nouvelles exigences de la société qui souhaite davantage se préoccuper de son cadre de
vie et participer aux décisions qui le transforment.
C’est dans ce sens que la Convention Européenne du Paysage milite pour un paysage
« citoyen », où les populations donnent leur avis et participent à tous les stades de l’élaboration des
politiques et des projets d’aménagement. Bien évidemment, il est encore trop tôt pour affirmer que
toute la société s’est engagée dans cette voie ; il s’agit d’une tendance forte qui n’est pas encore
vraiment opératoire dans les pays de démocratie récente comme les pays d’Europe centrale où tout acte
collectif réactive les souvenirs d’une période de pouvoir désormais haï. Mais la tendance existe et
particulièrement à l’échelle locale où les élus se trouvent confrontés à des revendications ou des
contestations des décisions prises sans avis de la population.

100
La Convention Européenne du Paysage qui prône la participation des populations à
l’élaboration du cadre de vie reçoit ainsi un vif succès dans la majeure partie des pays d’Europe : elle est
la convention européenne la plus ratifiée de toutes les conventions que le Conseil de l’Europe a
élaborées. Il est sans doute difficile que cette tendance se manifestera par des faits parfaitement
conformes à ce qui est défendu dans la Convention Européenne du Paysage, mais le mouvement est
lancé et il ne peut que se développer. On ne peut que le souhaiter pour le bien-être des populations
européennes.

Conclusion : nécessité de repenser le projet de paysage


Ces transformations des représentations sociales des paysages et du contexte dont elles sont
indissociables incite ainsi à revoir les méthodes d’élaboration des projets d’aménagement et des
politiques publiques :
- tout d’abord, en rapprochant la recherche de l’action politique qui sont le plus souvent
encore séparées par un fossé d’ignorance mutuelle et qui campent souvent sur leurs
positions respectives.
- Ce qui signifie également que les savoirs savants ont autant de rôle à avoir dans l’action
politique que les savoirs profanes : les connaissances empiriques des habitants d’un lieu sont
des savoirs qui peuvent avoir une place essentielle dans la compréhension d’un lieu et dans
son aménagement.
- Les projets et les politiques publiques ne peuvent plus se concevoir comme des orientations
contraignantes venues des sphères du politique sans que les divers acteurs soient consultés
et associés aux décisions. On comprend pourquoi les formes de procédures contractuelles
soient aujourd’hui plus enclines à correspondre à des objectifs partagés et discutés.
- Même si les modèles paysagers anciens sont toujours opératoires, il est nécessaire d’inventer
de nouveaux modèles qui correspondent aux formes de production de nouveaux paysages
mais qui affirment la nécessité impérative de renouveler la symbolique du vivant.

101
GIORGIO MANGANI

I CASI DELLA NECESSITÀ

1. Due luoghi “laureati”


La relazione da me presentata nella prima sessione del Convegno sul Paesaggio Culturale di
Villa Vigoni, nel gennaio 2005, era incentrata sulla spiegazione del funzionamento del paesaggio come
“topica”, repertorio di significati e valori morali costitutivi dell’identità locale.
La presente relazione costituisce l’esemplificazione, attraverso l’analisi di due casi particolari, del
metodo e delle osservazioni teoriche da me proposte nel 2005.
Su suggerimento degli organizzatori del convegno ho scelto il paesaggio del Lario e quello delle
Marche come modelli. Il primo per omaggio nei confronti dell’istituzione che ci ospita e il secondo
perché è materia che conosco meglio di altre.
Il confronto dei due “casi” mi era apparso originariamente una sfida piuttosto difficile. Ma in
fase di approfondimento ho potuto cogliere tratti comuni nella percezione del sentimento del paesaggio
legati al peso e al comune ruolo svoltovi dall’attività meditativa individuale, anche se le forme nelle quali
questa sensibilità si è manifestata sono state molto diverse, se non opposte, nei due territori.
Per necessità di modellizzazione ho forse anche accentuato, nella trattazione, le differenze e le
opposizioni tra i due sentimenti paesistici, ma era una necessità dovuta all’intento di proporre i due casi
come occasione per discutere nel merito di come, secondo me, funziona il sentimento del paesaggio,
cioè il “paesaggio culturale”, tema della nostra comune indagine.
L’analisi compiuta ha trovato un singolare punto di contatto tra le due località del quale ho
preso più completa consapevolezza solo a compimento della stesura della relazione. Entrambi i
sentimenti del paesaggio trovano, infatti, nel lauro e nel suo simbolismo un passaggio strategico.
Benedetto Giovio, storico locale, ricorda nella lettera XXIV che il nome del Lario potrebbe derivare dai
numerosi lauri che abbondano sulle sue rive, oppure da un uccello, il Laro, una specie di nibbio, che si
ciba di pesci.
La mia analisi ha posto in risalto, nell’esame dei documenti, il ruolo centrale rappresentato dalle
ville pliniane e dai loro simbolismi nella definizione del sentimento del paesaggio locale. Poiché l’altra
villa posseduta da Plinio era stata edificata nei pressi di Ostia e di Laurento, nel podere chiamato
Laurentinum, è probabile che il simbolo del lauro abbia avuto un ruolo importante, secondo
l’immaginario geografico e paesaggistico di Plinio (nel senso che ho cercato di ricostruire in questo
lavoro), nelle implicazioni culturali e simboliche dei due luoghi.

102
Il lauro, in quanto arbusto sempreverde, era per la cultura romana il simbolo della fama e della
vita eterna che la fama garantiva, come anche il mito di Dafne esemplificava. Di alloro si copriva il capo
il generale vittorioso, che portava anche un ramoscello di alloro in mano. L’arbusto divenne poi
esclusivo degli imperatori romani, per poi trasformarsi nel simbolo caratteristico del martirio per i santi.
Piante di alloro costituivano la struttura portante di giardini autorevoli come quelli della casa di Livia
(moglie di Augusto), nell’età del principato.
Quanto alle Marche, il peso esercitato da Loreto (originariamente il laureto di Recanati dove si
andò a posare la santa Casa di Nazareth), dal suo santuario e dalla devozione del rosario nella diffusione
e nel radicamento del senso del paesaggio è stato così forte, come ho cercato di spiegare qui e in altri
miei precedenti lavori, da rendere il lauro e la rosa mariana due pietre miliari dei processi simbolici
connessi al paesaggio marchigiano.
Indipendentemente dall’etimo toponomastico delle due località, che restano tuttavia assai
omofone (cosa che, nella logica del simbolo, le rende automaticamente anche etimologicamente
imparentate), il simbolismo del lauro deve dunque aver giocato un peso significativo nel sentimento
locale in entrambi i casi studiati. In entrambi i contesti geografici il simbolismo del lauro è la spia di un
modo di percepire il paesaggio di cui si è forse persa consapevolezza in età moderna, ma che continua
ad agire in qualche maniera sotto traccia.

2. In sintesi
Il sentimento del paesaggio del Lario si presenta modellato sulla valorizzazione delle proprie
specificità (a cominciare da Plinio il giovane, che ne esalta per primo la sua bellezza e ricchezza, fino a
Gianfranco Miglio, nei nostri tempi, uno degli ideologi del Leghismo) secondo uno stile di pensiero
vicino alla filologia umanistica nell’ambiente colto, ma in maniera non troppo diversa nel sentimento
popolare, come avviene nel diffuso culto di San Lucio, il santo formaggiaio della Val Cavargna.
Questa attenzione per gli aspetti caratteristici, corografici del Lario sembra conseguenza della
considerazione attribuita ad alcuni aspetti “deterministici” della storia e della natura che, nel porre
l’attenzione sulle cause materiali, favoriscono una sensibilità per la “personalità” del luogo, invece di
deprimerla.
Per contro, il sentimento del paesaggio delle Marche, dalle sue origini nei secoli XIII-XIV (i
secoli della ricolonizzazione agricola e dello sviluppo dell’insediamento urbano) fino alle campagne
pubblicitarie della Regione (che si riconoscono nel motto “L’Italia in una regione”), si concentra
soprattutto nella celebrazione dei suoi aspetti “esemplari”, microcosmici dell’Italia, con l’effetto di
deprimerne la coscienza storica e identitaria a vantaggio però di una sorta di “metafisica” del paesaggio
universale.

103
In entrambi i casi ha giocato un ruolo strategico il sentimento religioso del paesaggio e del
territorio. Nel Lario tuttavia sono entrati in gioco la tradizione umanistica e classica del giardino e della
villa (intesi come luoghi della meditazione), introdotte pesantemente nella percezione del paesaggio dallo
storico locale Paolo Giovio, nel XVI secolo, autore di una sua fortunata descrizione. Nelle Marche,
invece, soprattutto dopo il secolo XVI, quando il santuario lauretano diventa un’arma devozionale
contro la riforma protestante, il sentimento del paesaggio, tradizionalmente coltivato nell’ambiente
monastico locale, viene come “pastorizzato”, epurato di sensibilità empiriche, trasformato in un
paradigma della meditazione interiore (ciò avviene in ambiente religioso, ma in forme che persistono
anche in contesti laici e persino agnostici come nella “metafisica della siepe” di Giacomo Leopardi, nella
quale è l’impedimento della vista del paesaggio, causato dalla siepe, a favorire l’effetto meditativo e
immaginopoietico).
Potremmo definire, per gusto del paradosso, barbaro, cioè rivolto ad una tendenza
individualizzante, l’atteggiamento nordico, che è, invece, dei due presi in esame, quello più intramato di
valori umanistici e classici, e greco quello marchigiano, più tendente ad allontanarsi dalla dimensione
locale alla ricerca di sensazioni universali.

3. Il Lario
Il primo autore a celebrare le “singolarità” del Lario è C. Plinio Cecilio Secondo il giovane, in
alcune delle sue lettere. I Plini sembra siano stati tra i primi romani ad apprezzare questi luoghi e ad
acquistarvi delle proprietà.
Nella lettera a Romano (IX, 7), Plinio dice di possedere nel Lario diverse ville, ma soprattutto fa
cenno a due di esse, che chiama rispettivamente “Tragedia” e “Commedia”. “Una, alta costruita sugli
scogli come a Baia, si affaccia sul lago; l’altra, costruita anch’essa secondo il modo di Baia, è sulla riva del
lago. Pertanto sono solito chiamare, dice, quella “Tragedia” e questa “Commedia”; quella perché si erge
quasi sui coturni, questa invece sugli zoccoli. Ciascuna ha le sue attrattive; e l’una e l’altra sono
maggiormente care a chi le possiede, appunto per la loro stessa diversità” (la Copia della retorica).
Questo passo è estremamente significativo dei meccanismi che si stanno attivando, nel II secolo
dC, nel costruire un certo atteggiamento verso il luogo, destinato a durare nel tempo.
Vi si sottolinea intanto il ruolo centrale della “varietà”: le due ville sono complementari, come i
due sentimenti morali verso il “teatro del mondo” (che era un tormentone della filosofia stoica prima di
diventarlo della morale cristiana), il tragico e il comico, ed è la loro integrazione che dà alla percezione
del paesaggio il carattere della varietà.
Poi c’è il carattere topico della vita in villa, come esso si è ormai codificato in questo periodo
nella cultura romana. Nella contrapposizione otium/negotioum che aveva caratterizzato l’età repubblicana,

104
che codificava le funzioni della domus romana contrapposta alla villa suburbana (dove si sceneggiava il
rapporto tra l’impegno politico della città e il disimpegno della residenza di campagna), il ruolo centrale
era stato fino a quel momento affidato alla domus. Ma in età imperiale è la vita in villa ad assumere una
nuova centralità. L’attività meditativa, tradizionalmente praticata in villa, è infatti quel che resta alla
classe dirigente romana di rango senatorio nell’età del potere assoluto.
La villa, anzi, sta diventando la metafora dell’impero. Roma è la domus e l’intera penisola è il suo
giardino, sicché tutto il paese, se non l’impero, vengono immaginati come una sorta di villa, come
succede nella villa adriana di Tivoli, microcosmo nel quale ogni padiglione rappresenta e sta per una
diversa regione dell’impero.
La vita di Plinio nella villa lariana è dunque dedita all’attività meditativa (contrapposta al negotium
politico) perché il paesaggio, come il giardino, svolge la funzione di aiuto per la memorizzazione delle
informazioni (fiori, piante e animali, i topiai, sono simboli, figure del repertorio culturale memorizzato e
recuperato alla coscienza attraverso l’osservazione): una topica.
Figura retorica della topica sono infatti la caccia e la pesca, cioè la procedura usata per
rintracciare sui repertori (libri o giardini della memoria), attraverso i simboli mnemonici cui sono stati
associati, i passi della letteratura, della mitologia e della tradizione che si vogliono recuperare.
E infatti Plinio sottolinea delle sue ville lariane la facilità di pesca. “Dalla villa chiamata
‘Commedia’ puoi pescare tu stesso e gettare l’amo dalla tua camera e quasi dal letto (il letto e il cubiculum
erano i luoghi della meditazione e della ruminatio mnemonica: dove, quindi, si esercitava la pesca
retorica), come se fossi in barca”. L’attività meditativa è facilitata dalla ricchezza dei pesci e dalla
posizione della villa sulla riva.
Ma la distinzione tragedia/commedia, apparentemente motivata dalla diversa quota dei due
edifici è in realtà una metafora delle due forme diverse di sentimento del paesaggio che si traduce in
percezione morale del mondo. In entrambi i casi è la posizione dell’osservatore a determinare il
sentimento: lo sguardo tragico, tradizionalmente rappresentato, nel mondo rinascimentale, dal pianto
(verso la condizione del mondo) di Eraclito, è uno sguardo dall’alto che censura la miseria umana; quello
della commedia, rappresentato dal riso di Democrito, ci riporta in mezzo al mondo per censurare in
altro modo la vita umana. In entrambi i casi, la tragedia e la commedia rappresentano le condizioni della
vita umana come maschera che recita la sua parte nel gran teatro del mondo.
Il paesaggio lariano, con il suo repertorio di fauna acquatica e di flora lacustre, si presenta
dunque agli occhi di Plinio come luogo della topica, come una sorta di enciclopedia ad uso della
meditazione in villa. Anche il caso della cosidetta “fonte pliniana”, che getta acqua in maniera
intermittente (Ep. IV, 30) viene percepito come un modello del funzionamento degli oceani (“O anche
questa fonte ha lo stesso modo di comportarsi dell’oceano, e per la stessa ragione per cui esso si avanza
e si ritira, anche questo modesto corso d’acqua alternativamente si contrae e si ingrossa?”).

105
Con Plinio il Lario è già un modello retorico. Ma è con Paolo Giovio che esso assume in età
moderna, nel XVI secolo, i caratteri di un luogo “singolare” e “memorabile”.
Il rapporto con la prima celebrazione del genius loci è garantito dall’imitazione umanistica che
caratterizza il pensiero di Giovio; anzi dei due Giovio, Paolo e suo fratello maggiore Benedetto,
antiquario, archeologo e studioso del Lario, uomo di memoria prodigiosa, che offre l’occasione per
contrapporre retoricamente, e secondo l’abitudine umanistica, i due fratelli comaschi ai due Plinii (il
vecchio e il giovane), come se avvenisse l’ideale trasmissione di un testimone della tradizione dagli uni
agli altri.
Benedetto Giovio (1471-1545), più anziano di Paolo, fu cultore di storia e di archeologia, con
particolare interesse per la storia del Comasco. Sue una Historia patria rimasta inedita sino al 1629, De
templis et coenobiis civitatis et agri comensis, De prisco urbis situ et publicis aedificiis.
Anche se la descrizione del Lario è tradizionalmente materia riservata al più noto fratello, autore
della Chorographia Larii, Benedetto non fu meno impegnato di Paolo nel percepire e tramandare il senso
del luogo. Lo fece anche in una serie di Carmina (oggi alla Braidense di Milano, AE XI 27) tra i quali
alcuni dedicati alle fonti del Comasco, composti nel 1529, secondo la tradizione umanistica e
petrarchesca, e la serie In tres deos monticulas (1532), per i santi protettori delle montagne lariane, tra i quali
quello dedicato a San Lucio.
Paolo Giovio (1486-1552) aveva invece studiato medicina a Pavia e a Padova, ma dopo aver
esercitato per poco tempo l’arte medica a Como, si era dedicato alla storia, abbracciando la carriera
ecclesiastica, trasferendosi a Roma alla corte papale, diventando (nel 1528) vescovo di Nocera de’
Pagani, ed entrando poi al servizio del cardinale Alessandro Farnese.
La sua opera principale sono le Historiae, dedicate prevalentemente alla narrazione dei suoi anni e
alla celebrazione dei suoi protettori, ma è noto anche per importanti studi sulle imprese (Dialogo
dell’imprese militari e amorose, edito postumo a Roma nel 1555), allora di gran moda, e per i suoi Elogia
(Venezia 1546 e Firenze 1551), versione a stampa dei ritratti dei personaggi illustri di tutti i tempi che
egli aveva materialmente raccolto nel Museo, allestito proprio nella sua villa di Como.
Nel suo ritiro comasco, Paolo si sentiva e si identificava, infatti, con Cicerone a Tusculum, con
Aulo Gellio nella villa di Erode Attico, con Plinio al Laurentinum, ma anche con Landino a Camaldoli o
Poliziano nella villa medicea di Fiesole. Nel suo periodo romano (1513-21), con lo stesso animo, aveva
celebrato e frequentato la casa dello jesino segretario papale Angelo Colocci, i giardini del quale, presso
la chiesa di Santa Susanna, erano stati allora identificati con quelli di Sallustio (gli umanistici “Horti
sallustiani”). Il giardino era, come nella tradizione monastica e petrarchesca, il luogo della cultura: una
biblioteca.

106
I Giovio (originariamente Zobio), originari dell’isola comacina, vantavano testimonianze di un
loro ruolo autorevole nella classe dirigente locale sin dal secolo XII, dopo, cioè, lo smantellamento del
castello, avvenuto nel 1169. La famiglia sembra collegata al patronato dell’insediamento monastico che
prese luogo nell’isola nel secolo XIII come Hospitalis de insula, poi dedicato a S. Maria Maddalena (il
rapporto è confermato dallo stesso Paolo Giovio nel Larius (1537) quando scrive di “Balbiano, sobborgo
dell’isola, dove la mia famiglia possiede ricordi dei suoi antenati, cioè un podere e fabbricati di singolare
munificenza anche se ormai in rovina”. Nel 1596 i Giovio vendettero la loro proprietà al cardinale
Tolomeo Gallio che vi farà erigere l’attuale palazzo Balbiano).
L’isola, posta al cuore del lago e luogo di origine della famiglia, è dunque il tramite per il quale la
figura di Paolo Giovio si identifica come genius loci del Lario. L’isola compare infatti nello stemma di
famiglia.
“Ancor oggi, scrive Paolo Giovio nella sua descrizione del Lario, inoltre, sullo stemma gentilizio
portiamo, a ricordo della nostra origine, il castello dell’isola circondato tutt’intorno dal lago; con
l’aggiunta dell’aquila romana concessaci a titolo d’onore da Federico Barbarossa, come da poco tempo
abbiamo aggiunte le colonne d’Ercole concesseci dall’imperatore Carlo V come segno della sua generosa
approvazione per i miei lavori letterari”.
Lo stemma è stato ritrovato recentemente rappresentato su di un arazzo oggi al Victoria and
Albert Museum di Londra con un prato fiorito, definito tradizionalmente “millefiori”, appartenuto agli
ultimi eredi della famiglia e ancora esposto nel palazzo di Como prima del 1894 insieme ad altri arazzi
che sceneggiano il motto di famiglia coniato da Giovio: “Fato prudentia minor”.
Il significato del motto e dello stemma, cui era aggiunta a volte la parola greca ANAGKE
(necessità) sono strategici per la comprensione del sentimento del paesaggio del Lario coniato e diffuso
dai due Giovio nelle loro opere e replicato dalla letteratura e trattatistica locale successive fino ai nostri
giorni.
Il motto voleva infatti significare, ricodificando in senso contrario un precedente motto di
Virgilio (Georgiche, I, 1415-1416) Fato prudentia maior, e quindi con forte determinazione, che la prudentia
(cioè la virtù umana come se la poteva rappresentare un esponente di spicco del rinascimento italiano)
non riesce a competere con il fato (che Giovio intendeva in senso classico, anche se dichiarava in
maniera un poco conformista di considerarlo la divina provvedienza cristiana). L’uomo, per quanto
virtuoso, è sempre in un equilibrio instabile, in balìa degli eventi voluti e amministrati dal fato. Concetto
ribadito da Anagke, che non era altro se non la morale cui rimandava Plinio quando richiamava il
rapporto simbolico tra la tragedia e la commedia rappresentato dalle sue ville lariane: l’uomo, cioè, attore
tragico o comico sulla scena della vita, costretto a recitare il copione voluto dal fato, oggetto del pianto
di Eraclito e del riso di Democrito.

107
Il tema della necessità tornava come un tormentone esistenziale anche in una impresa di Giovio
ispirata alla leggenda che i castori, i testicoli dei quali erano noti per le loro proprietà medicinali,
conoscendo il motivo per il quale venivano cacciati, si recidevano i testicoli a morsi lasciandoli come
preda ai loro persecutori per garantirsi la fuga. L’impresa, forse motivata da un grande amore troncato
forzatamente nel periodo padovano, era sovrastata anch’essa dalla parola anagke.
Per comprendere in che modo questa sensibilità sia all’origine del sentimento del paesaggio di
Giovio dobbiamo considerare alcuni fattori della sua biografia intellettuale. Innanzitutto Giovio aveva
studiato medicina a Padova e la scienza medica del tempo era profondamente imparentata (specie a
Padova) con la scienza astrologica. Esisteva una specifica branca, la medicina astrologica, che curava
organi e malanni in relazione alla loro condizione di “corrispondenti” nel corpo umano (inteso come un
microcosmo) dei corpi celesti studiati dall’astrologia e delle loro “proprietà”.
Giovio era stato inoltre allievo di Pomponazzi, grande teorico del determinismo astrologico.
Nell’identificare nello stemma famigliare l’isola comacina, come centro e origine del casato in stretta
connessione con il motto e i suoi significati, Giovio riprendeva e applicava, dunque, con metodo e
precisione, la tradizione della geografia astrologica tolemaica. Tolomeo aveva descritto nella Tetrabiblos
come non solo gli individui, ma anche le regioni geografiche e le popolazioni che le abitavano, avevano
“impresse” nel loro dna (in relazione alla posizione geografico/astrologica da essi occupata, in
somiglianza con quello che accadeva nella medicina astrologica) le caratteristiche dei loro modi di vivere
e della loro storia.
Le stelle condizionavano usi, costumi e storia dei popoli a seconda della loro posizione
geografica (Jean Bodin, qualche anno dopo, alla ricerca di una scienza della politica, e applicandovi lo
stesso principio, estenderà l’influenza delle stelle anche alle “costituzioni” delle nazioni). Le singolarità dei
luoghi erano dunque qualcosa di più di semplici curiosità, erano espressione e sintomo di leggi
deterministiche della natura, regolate da dio, che diversificavano a sua volontà le regioni del mondo. Le
diversità erano un segno della provvidenza.
Nel complesso simbolico di gusto medievale degli arazzi “millefiori” che ospitavano lo stemma
di famiglia, il giardino fiorito e popolato di animali (in genere usato nell’iconografia della devozione
mariana come “prato simbolico e mistico” e luogo della meditazione e della preghiera) non era dunque
altro che un “paesaggio-mondo” nel quale compariva in posizione centrale il Lario e l’isola comacina
con il suo castello per rappresentare la propria personalità geografica identificandosi con la famiglia
Giovio. Il “luogo” era una premessa deterministica del successo e dell’immortale fama concessa alla
propria patria dal letterato e storico rinascimentale grazie alle trattazioni delle sue Historiae e dei suoi
Elogia. La fama era un requisito provvidenziale dei Giovio che traeva origine e linfa dalla loro origine
comasca (ma che vi si riverberava con positivi effetti).

108
Il concetto veniva ribadito in una medaglia coniata negli ultimi anni di vita di Giovio, incisa da
Francesco da S. Gallo, nella quale egli veniva rappresentato come medico mentre teneva con una mano
il grande In folio delle sue Historiae e con l’altra avvicinava al libro un uomo nudo disteso sul pavimento.
La frase in calce spiegava, come d’uso, il concetto della figura: Nunc denique vives, ora finalmente vivrai.
L’attività storica di Giovio, ben più di quella di medico, era in grado di garantire la vita eterna attraverso
la fama prodotta dalle sue opere, assai più importante di un effimero ristabilimento fisico reso possibile
dall’arte medica.
La filosofia morale (e l’assimilabile idea del paesaggio lariano) di Giovio, così incentrate sui
fattori deterministici dell’astrologia, cercarono tuttavia di aprire uno spiraglio alla speranza, di dare un
qualche senso a quel “minor” della sua divisa che pure riservava uno spazio di manovra, anche se
marginale, alla prudentia (che, nella cultura rinascimentale, significava proprio la capacità di scegliere le
azioni da adottare nel comportamento sulla scorta delle esperienze umane e storiche precedenti, in
questo senso la storia era magistra vitae). A questo scopo fu dedicata pertanto l’altra sua ragione di vita, la
collezione di ritratti di personaggi illustri. Anche questo non era senza significato. Gli effetti del fato
potevano essere cioè compensati dall’exemplum. La prudenza aveva un’efficacia minore del fato, ma
poteva comunque ingaggiare una battaglia con le stelle avvalendosi dell’aiuto degli esempi morali
rappresentati dalla vita dei grandi personaggi. La storia tornava a rappresentare, anche negli Elogia e nel
collezionismo di Giovio, la funzione di repertorio di esempi da imitare e da rievocare alla memoria. La
stessa funzione attribuita da Giovio e da Plinio ai loro giardini e al paesaggio del Lario. E infatti la
collezione dei ritratti fu allestita da Giovio proprio nella villa sul lago (Giovio cercò di acquistare, senza
riuscirvi, anche la fonte pliniana, e si dovette accontentare di organizzare nei suoi pressi dei piacevoli pic
nic cortigiani per i più autorevoli ospiti).
Con l’aiuto di questi esempi, percepiti come nella tradizione cristiana dei santi, il rinascimentale
Paolo Giovio intendeva dunque offrire ai visitatori del Lario (e ai lettori dei suoi Elogia, repertorio
portatile dei ritratti raccolti nella villa) un supporto morale (cioè suscettibile di “imitazione” umanistica)
alle scelte imposte dal caso e dal fato nella vita di ciascuno.
Già ai tempi della redazione del Larius il progetto del Museo era iniziato e sarà terminato nel
1543. “A sinistra, per chi salpi dal Borgo Vico, scrive Giovio intorno al 1537, c’era una volta
l’ombrosissimo platano di Plinio, immortalato nelle sue lettere; e là, in memoria di lui ed in onore delle
Muse e di Apollo, sto edificando il mio Museo che godrà di una magnifica vista”.
Ma è il fratello Benedetto a descriverlo meglio e nel dettaglio nella sua lettera allo stesso Paolo
che ne tratta secondo i canoni tardo medievali e umanistici dell’Ubi sunt? (cioè il ritornello utilizzato per
rappresentare letterariamente le rovine di Roma: “dove sono ora i grandi edifici del potente popolo di
Roma? Dove gli eserciti che conquistarono il mondo?” ecc. Tipico luogo comune delle descrizioni
geografiche, caratterizzavano la trattazione delle prime guide di Roma, i Mirabilia Urbis Romae).

109
Gli edifici, come gli uomini, sono mortali, scrive Benedetto Giovio, per cui bisogna soccorrere, per
garantire l’immortalità, con la letteratura. La descrizione del Museo – come poi avvenne davvero – è
dunque più capace di garantire, grazie alla fama che gli assicura, il ricordo tributato dai posteri alla
grande collezione.

Il Museo di Paolo Giovio [scrive Benedetto] è situato non lontano dalla città di Como, nel sobborgo sulla
sinistra della città. […] Dopo la porta che dà adito alla costruzione, c’è un atrio e poi un lungo portico
sostenuto da colonne di pietra. Dal portico si entra in una grande sala che guarda a oriente: è quella
propriamente chiamata “Museo” perché un famoso pittore vi ha dipinto le nove Muse e Apollo, recanti gli
strumenti musicali e le altre insegne che gli antichi poeti loro attribuivano. Nel salone c’è una porta che mette
su una terrazza prospiciente il lago, circondata da cancellate di ferro, perché vi si possa stare con sicurezza ed
ammirare il lago o a gettar l’amo per pescare. […] Dal cortile si può passare in un altro porticato, anch’esso
sostenuto da colonne e tutto coperto di dipinti: sono specialmente ritratti di poeti contemporanei, che si vedon
salire il Parnaso diretti alla fonte Ippocrene. […] In mezzo al portico zampilla una fontana – la cui acqua
proviene, incanalata, da una sorgente del vicino colle – costituita da una statua di marmo che emette acqua dai
seni. […] Vi è anche, vicino al salone che si chiama propriamente “Museo”, una stanzetta destinata allo studio e
allo scrivere e riservata ai ritratti o ai busti di tutti gli studiosi nativi di Como.

La celebre collezione gioviana, poi ampiamente imitata nel mondo rinascimentale, era solo la parte
più originale, dunque, di una collezione più ampia dedicata alla celebrazione delle Muse (come era stato il
Museion di Alessandria, che era in sostanza una biblioteca), strutturata in “stanze della memoria” (parti di
un complessivo palazzo della memoria costituito dalla villa, nel quale va sottolineata l’attenzione per i
personaggi nativi di Como come ulteriore segno del genius loci) secondo i precetti della scienza
mnemonica antica. La villa era, come era di moda al tempo di Giovio, un vero e proprio “teatro del
mondo” nel quale era costume raccogliere, dietro o sotto i busti dei personaggi, copia delle loro opere
più celebri).
Per molti anni lo storico comasco investì gran parte delle proprie risorse per raccogliere e
commissionare copie dei ritratti degli uomini celebri della storia e del suo tempo. Caratteristica dei ritratti
doveva però essere il loro realismo, la loro rassomiglianza all’originale e al volto.
Seguace di Pomponazzi, Giovio non poteva infatti non seguire e condividere le teorie
fisiognomiche che venivano codificate in quegli anni dal napoletano Giambattista della Porta. Il volto
portava impressi i segni della vita riservata a ciascuno dal fato. Come avveniva per i luoghi geografici, i
loro segni distintivi, i loro “caratteri” erano il modo per rintracciare, come su una carta geografica o un
paranatellonta (trascrizione su carta della posizione degli astri alla nascita compilata dagli astrologi) i fattori
condizionanti della vita (come si vede, anche la collezione degli esempi morali era, a sua volta, il risultato
di un compromesso tra il fato e la prudenza).
La geografia era la fisiognomica dei luoghi; la fisiognomica la mappatura dei caratteri antropologici.
C’era una specie di “quantificazione del qualitativo”. L’attenzione per gli aspetti deterministici, cioè, della
vita e della natura, favoriva un’attenzione nuova per i “caratteri” dei volti, come dei luoghi, per le loro
singolarità, trasformando l’osservazione empirica fondata sugli exempla della tradizione retorica (cioè una

110
topica di associazioni figurali del tutto soggettiva) in un metodo razionale che valorizzava il dato
empirico e preludeva allo sviluppo della scienza galileiana.
Fu per questo motivo, grazie a questa sensibilità “semiotica”, che Giovio potè esercitarsi in una
delle più significative e dettagliate descrizioni del Lario.
La descrizione fu redatta da Paolo Giovio come omaggio retorico-cortigiano al senatore Francesco
Sfrondati che aveva ricevuto nel 1537, in cambio di un’ambasceria presso Francesco I di Francia per
conto di Carlo V, i diritti feudali di conte della parte orientale del Lario. Il testo, presentato come
resoconto di un vero viaggio lungo il lago redatto in pochi giorni, raccolse probabilmente lettere e
documenti di tempi diversi restando nella biblioteca di casa Sfrondati fino a quando Dionisio Semenzaio
ne fece lettura presso di loro e lo fece stampare, nel 1559, dallo Ziletti di Venezia con il titolo Descriptio
Larii Lacus. Il testo è la fonte del capitolo sul lago apparso sull’atlante Theatrum orbis terrraum (Anversa,
dall’edizione 1606) di Abramo Ortelio che garantì alla descrizione gioviana prestigio e fama
internazionali.
Come ha scritto Ernst Gombrich 96, il testo di Giovio sul Lario è una delle prime testimonianze
moderne di sensibilità estetica per la natura, ma soprattutto della capacità di cogliere i caratteri specifici
del luogo. Giovio non fa, tuttavia, che applicare alla descrizione del lago l’impianto retorico dei suoi
Elogia, la raccolta di biografie esemplari, sul modello di Plutarco, che faceva da corrispettivo letterario
della sua collezione di ritratti. Egli, cioè, rintraccia alcuni “caratteri”.
Giovio era infatti interessato alla geografia e alla corografia (oltre che sul Lario, scrisse una
Descriptio Britanniae ed una dell’Etiopia, intrattenendo rapporti di grande stima con Gorge Lily, amico e
collaboratore del cartografo e geografo dei Paesi Bassi, Abramo Ortelio, che aveva utilizzato come
fonte). Ma anche i suoi cataloghi come il De romanis piscibus, 1524, facevano parte di una attenzione
elogiativa per i luoghi, percepiti sempre come loci retorici, secondo la tradizione umanistica e petrarchesca.
Redigere un catalogo, fondato necessariamente su un codice descrittivo, significava infatti adottare la
retorica dell’elogio. Il descrivere, in quanto procedura che “faceva vedere” le cose, implicava procedure
persuasive e pubblicitarie del tutto note agli autori e al pubblico del tempo. Per questo motivo Giovio fu
tra i primi estimatori dei paesaggi simbolici (parerga) dei dipinti di Dosso Dossi, considerati
normalmente, ai suoi tempi, un genere minore.
Nella biografia, nella fisiognomica e nella corografia quel che si doveva fare infatti era rintracciare
nel continuum dei segni, quelli che avevano un significato, quelli caratteristici. La stessa cosa era successa
nella compilazione dei ritratti che astrologi di fama come Gerolamo Cardano redigevano a conclusione
dei loro calcoli appuntati tachigraficamente sui paranatellonta. Le prime trattazioni biografiche, nel secolo
XVI, furono infatti adattamenti di profili astrologici come quelli redatti da Gaurico e da Cardano. Nel

96
E. GOMBRICH, Norma e forma. Studi sull’arte nel Rinascimento, Mondadori Electa, Milano, 2003, p. 113 ss.

111
XVII secolo un altro grande medico inglese, Gabriel Harvey, considerava gli Elogia di Paolo Giovio
come degli oroscopi.
Come si vede la geografia astrologica, la fisiognomica e la trattazione degli exempla morali e storici
si confondevano in un comune registro compositivo. Si trattava comunque di elogia, e infatti vennero
generalmente confusi come generi apparentati. Apparteneva all’elogio anche il genere corografico: le
prime descrizioni di città erano state infatti degli elogi (come il Panatenaico di Elio Aristide o l’Elogio di
Firenze di Bruni), ed erano percepite come elogi figurati anche le prime vedute di città apparse a stampa
nelle botteghe di Roma e di Venezia ai primi del Cinquecento, con grande successo di mercato.
A chiarire il contesto di “genere” della trattazione di Giovio (cioè la tendenza a considerare il Lario
non solo un luogo geografico ma anche, e prevalentemente, un locus retorico) la descrizione del lago
riprendeva gli argomenti di Plinio. Si cercava, per esempio, di rintracciare la “Commedia” nella villa di
un tale Sigismondo, sottolineando che era dotata di una ricca fonte dalla quale “si può pescare dalle
finestre con l’amo e la canna” (dove è evidente il ritornello dell’associazione retorica e simbolica
villa/pesca insistito, nella trattazione, fino alla noia). E anche la “Tragedia” veniva rintracciata nel luogo
in cui era stato poi costruito il castello fatto abbattere da Gian Galeazzo Visconti quaranta anni prima
della stesura del testo.
Le osservazioni di Benedetto e Paolo Giovio sul Lario, recuperando i fondamenti della tradizione
classica e presentandosi come esercizio retorico umanistico rinascimentale capace di “sceneggiare”
diverse istanze della cultura del tempo (dalla sensibilità per l’astrologia e per gli emblemi alla
caratterizzazione dei luoghi in senso cartografico; e infatti ne fu tratta nel Larius una mappa a corredo)
divennero ben presto la nuova “topica” della regione lacustre, il repertorio di informazioni, narrazioni e
argomenti cui attingere per ulteriori descrizioni come quelle di Francesco Cigalini (De nobilitate patriae,
1554 ca), di Tommaso Porcacchi (La nobiltà della Città di Como, 1568, definita la prima guida turistica del
Lario), di Luigi Rusca (Il Lario, rime, 1626), fino alla monumentale antologia critica di Gianfranco Miglio
(Larius, 1959).
Così le osservazioni e tipizzazioni di Giovio divennero un modo per orientare lo sguardo e la
percezione futura del Lario, per creare, cioè, un “paesaggio culturale”.

3.1. La devozione di San Lucio


Quel che si nota a osservare oggi le ingenue e azzardate interpretazioni corografiche del grande
storico rinascimentale comasco (azzardate anche per il suo tempo, visto che le sue teorie storiografiche e
morali gli provocarono accuse di scarsa ortodossia; cosa poco commendevole per un vescovo quale era)
è il loro tentativo di imbastire, entro un paradigma prevalentemente etico, un’interpretazione
“scientifica” e morale assieme del comportamento umano e del genius loci locale (capaci di favorire

112
l’attenzione per i caratteri originali del luogo) che trova una sponda nel diffuso sentimento religioso
popolare lariano legato alla cosidetta “Confessio Rhetica”, cioè il modo specifico nel quale le istanze
della devotio moderna e della riforma furono percepite e vissute da queste parti.
Come è noto, uno degli argomenti di contrasto tra cattolici e riformati fu proprio la teoria della
predestinazione della salvezza (solfidianismo, sola fide salus) e il dibattito sul “libero arbitrio” che
riprendeva i temi cari all’emblema di Giovio. Qualche traccia di eresia può aver sfiorato il pensiero del
letterato comasco, che tuttavia pare piuttosto attratto dalla tradizione ermetica che dalla Riforma, ma
certamente fu Benedetto a essere in frequente contatto con autorevoli pensatori vicini alla cultura
riformata, come Erasmo e Melantone. Ma tutto l’ambiente comasco, valtellinese e svizzero nei dintorni
del lago sembra avere accarezzato un sentimento particolare della sensibilità religiosa incentrato sul ruolo
centrale della carità come fattore determinante della salvezza spirituale.
Questa sensibilità per la carità fu sceneggiata in forme che toccano profondamente il sentimento
del paesaggio e dei luoghi.
Nel 1576 per esempio, una nobile famiglia di Teglio, in Valtellina, i Besta, imparentati con i
Giovio, avevano fatto affrescare una sala da pranzo del loro palazzo con un mappamondo a forma di
cuore, derivato da quello stampato dall’editore riformato Karl Vopel nel 1545 a Colonia, in occasione
del matrimonio di Carlo I Besta (cattolico) con Anna Travers (calvinista).
Il mappamondo cordiforme era diventato in quegli anni una specie di icona eretica (Mercatore,
che ne aveva stampato uno nel 1538, aveva passato guai seri rischiando la pena capitale) per via del
significato che il cuore aveva assunto nell’iconografia popolare delle sette: la carità.
Il tema della carità era infatti centrale in tutte le sensibilità delle sette riformate. Esso
rappresentava in sostanza il rapporto intimo, avversato dalla Chiesa romana, che le nuove confessioni
religiose predicavano di stabilire con dio. Il cuore, toccato da dio, diventava caritatevole, viceversa la
carità era il sentimento che creava le condizioni ideali per venire illuminati e quindi salvati, sia pure per
imprescrutabile scelta divina.
Questo argomento era diventato centrale, a metà del XVI secolo, nei movimenti eretici della
Valtellina e dei Grigioni, componenti la cosidetta “Confessio Rhetica”, una chiesa che intendeva
rivendicare la propria autonomia da Roma, ma anche dalla Diocesi di Milano.
A introdurre il ruolo centrale della carità nella vicina Valtellina, dal 1542 ca, era stato l’eretico
Camillo Renato. Per lui al centro della fede era l’interiorizzazione del messaggio di Cristo che avveniva
attraverso l’atto mistico della mensa del Signore. Questo atto consisteva nella manducatio, cioè nel ricordo
della cena di Cristo, che nella tradizione monastica medievale consisteva nella ruminatio, cioè il richiamo
mentale delle informazioni memorizzate attraverso l’aiuto di figure e simboli. Poiché il cuore era
considerato l’organo della memoria (in quanto essa si radicava soprattutto grazie a immagini emotive
capaci di colpire l’immaginazione), si capisce come potesse essere considerato efficace e simbolico

113
rappresentare in una sala da pranzo il mondo a forma di cuore. Attraverso il ricordo/ruminatio della cena
del Signore (solo ricordo, senza implicazioni ortodosse come la presenza transustanziale di Cristo) il
corpo mistico veniva immagazzinato, incorporato e impresso (come una forma sulla cera, si diceva) nel
cuore. Il Cor/Pus di Cristo diventava cuore (cor), cioè memoria e, di lì, seme che germogliava
macerandosi (pus), creando le condizioni per generare un uomo totalmente nuovo.
La funzione della carità nella trasformazione interiore dell’uomo era argomento centrale anche in
opere devozionali di sensibilità riformata come il Beneficio di Cristo (Venezia 1543), molto diffuse anche
nell’ambiente popolare valtellinese e comasco.
E’ significativo che nel nord Europa si fosse arrivati a concepire la carità come una figura
cartografica del mondo. Nell’ambiente dotto degli umanisti del nord questo significava che il mondo,
come il cuore umano, era il luogo in cui doveva avvenire la scelta morale, la lotta tra il bene e il male,
dove la virtù umana (e rinascimentale) doveva liberarsi dalle catene del demonio. Qualcosa di molto
simile a quello che pensavano i due Giovio progettando la loro collezione di ritratti a scopo morale sulle
rive del lago, percepito come il luogo della meditazione e quindi della memoria.
Ma anche al livello popolare le cose non stavano diversamente. L’antica tradizione di ospitalità di
viaggiatori e pellegrini che si era radicata lungo i valichi alpini aveva già codificato in San Lucio uno dei
suoi exempla morali più diffusi, del tutto analogo a quelli paludati di Paolo Giovio.
L’oratorio di San Lucio di Cavargna, in quota 1542 m slm, sorge, infatti, ancora oggi, in
prossimità del passo omonimo e rappresenta, oltre al culto del santo (che ha qui probabilmente la sua
tomba), un luogo di passaggio e di ospitalità per i viaggiatori.
Il culto di San Lucio (Luguzzone, Uguzo, Uguccione) si configura, infatti, come una celebrazione
dell’ospitalità gratuita e sacra delle valli alpine e dell’alpeggio, nella probabile crisi che essa incontra al
passaggio verso una società in cui le antiche consuetudini feudali impattano nuovi diritti di proprietà
borghesi. Il santo, umile operaio formaggiaio, viene infatti cacciato dal proprio padrone perché solito
regalare ai poveri pezzi del formaggio prodotto. Passato alle dipendenze di un altro padrone, più liberale,
Lucio è all’origine di una miracolosa abbondanza e viene ucciso per vendetta e invidia dal vecchio
padrone.
L’immagine classica di Lucio è con la forma di formaggio rotonda in mano e con il coltello che
serve a tagliare il pezzo della forma destinato alla carità.
L’atto caritativo diventa qui la celebrazione dei diritti consuetudinari di montagna e della
necessità del mutuo soccorso. Ma la devozione popolare prima e poi, dalla fine del xvi secolo, l’autorità
ecclesiastica (quando, con Carlo e Federico Borromeo, si cerca di rilanciare, in chiave controriformista,
la devozione popolare prima snobbata) trasformano la devozione di San Lucio nella apoteosi della carità
che cerca di ritessere le trame della devozione lombarda verso l’ortodossia in una regione come questa
pericolosamente attraversata da diffuse sensibilità riformate.

114
Una mappa della regione che rappresenta il territorio del Lago di Lugano e della Val Cavargna
registra infatti come avvenuta, nel xviii secolo, questa celebrazione del santo formaggiaio come nume
tutelare dell’area, cooptato nel pantheon della Diocesi milanese, a fianco delle sue autorità religiose, il
culto del quale riceve il pellegrinaggio di San Carlo Borromeo all’Oratorio di Cavargna nel 1582 e quello
di Federico nel 1606. La carità rientrava in questo modo nell’alveo della comunità di fede romana.
Se tuttavia andiamo al nucleo costitutivo del culto di San Lucio e del formaggio vi registriamo
invece diversi segmenti di quel sentimento del paesaggio venato di determinismo riformato diffuso negli
strati popolari di queste parti.
In un famoso libro, Carlo Ginzburg ha ricostruito, per esempio, come un mugnaio friulano
condannato per eresia avesse concepito l’origine del mondo, invece che per creazione divina, come
evoluzione materiale dalla “materia grossa” originaria, in maniera non troppo dissimile a quello che
succede nella trasformazione del latte in caglio dal quale si ricava il formaggio. Anche se si trattava di
una lettura piuttosto originale di testi popolari come Il fioretto della bibbia, l’interpretazione di Menocchio,
così si chiamava, sembra tradire una tendenza creativa e popolare a vedere nel formaggio una
dimensione simbolica, ma anche contemporaneamente materialistica, oggi difficile da comprendere. Nel
suo ragionamento il mugnaio friulano, come ha osservato Ginzburg, aveva dimostrato infatti una
capacità protoscientifica di trovare spiegazioni plausibili ed empiriche alla genesi del mondo a partire
dalle informazioni a lui disponibili.
Oltre a offrire un modello cosmogonico popolare, nel culto di San Lucio il formaggio diventava
anche uno strumento della carità e sottolineava il carattere provvidenziale della “varietà” e abbondanza
della natura che in quegli stessi anni un altro eretico che aveva avuto rapporti con Camillo Renato e
aveva frequentato la Valtellina e il palazzo Besta di Teglio, Ortensio Lando, andava predicando nel suo
Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia, 1548 (dove per mostruose si devono intendere le
singolarità dei luoghi in senso positivo).
Il tema della “diversità”, delle “singolarità”, come si vede, era imparentato con una sensibilità,
diffusa nella regione, sia al livello colto che popolare, di tipo deterministico.
Se le classi dirigenti potevano registrare nel mappamondo cordiforme le coordinate per orientarsi
nelle loro scelte morali è ben possibile che le classi popolari vedessero nel formaggio qualche cosa di più
articolato e complesso di un genere alimentare, capace di dare al suo dispensatore la capacità di garantire
la prosperità, l’ospitalità, la cura dei mali della vista (forse per deriva linguistica da Lucio/Lux, ma certo
anche l’illuminazione del cuore caritativo aveva il suo peso).
Il rapporto con il caglio spiega anche, forse, per quale motivo il culto di San Lucio e quello di
San Rocco, da queste parti, si siano a un certo punto sovrapposti e identificati (anche nella data della
festività, il 12 luglio). In entrambi i casi la carità era evidentemente centrale, ma le pustole e la cura della

115
peste, caratteristiche di San Rocco, sembrano ben conciliabili con la confidenza del santo formaggiaio
con gli agenti mutageni della materia, i batteri alla genesi del caglio del latte.
Il sentimento del paesaggio del Lario, dunque, per tracciare un primo, sommario bilancio,
sembra incardinato su alcuni argomenti che ci sembrano invariati nel tempo:

- la ricchezza e varietà della natura (l’acqua, il pesce, i frutti dell’alpeggio), analizzate con un forte
senso del determinismo, percepite come tratti “caratteristici” di una personalità locale che trova un
corrispettivo nel carattere degli abitanti;
- l’ospitalità e la carità, come espressione dei valori di una “comunità” di montagna che si
confronta socialmente con la natura.

Entrambi questi sentimenti hanno tuttavia, nella cultura alta come in quella bassa, la
consapevolezza delle limitazioni imposte dalle leggi naturali, cui si può sopperire con la virtù, la
coscienza sociale, la genialità, ma senza eccessi di fiducia, facendo sempre attenzione alle limitazioni
imposte alle scelte possibili. Fato prudentia minor.
La consapevolezza degli aspetti deterministici dell’esistenza e della natura è tuttavia, a sua volta,
capace di valorizzare un forte sentimento identitario locale che registra soprattutto nella tradizione
storica i suoi caratteri originali.
In età moderna e sotto il peso di ideologie di più ampia portata ed efficacia rispetto alle tradizioni
locali, il peso del modello gioviano della villa-teatro del mondo evolverà verso il sistema delle ville del
lago e dei loro giardini. Il modello caritativo, ma protomaterialistico, del santo formaggiaio si muoverà
verso una cultura diffusa rivolta allo sfruttamento della natura fondato sulla tecnologia, ma anche
ispirato a valori filantropici e di progresso sociale, quali quelli testimoniati dai fondatori di Villa Vigoni.
Per un effetto evolutivo i fattori deterministici enfatizzati dalla tradizione classica e riformata si sono nel
tempo trasformati in ciò che poteva apparire originariamente impossibile: la fiducia in se stessi e per il
progresso.

4. Le Marche
Differentemente dal Lario, ove il sentimento del luogo viene codificato sulla base di modelli
retorici classici con caratteri specifici dal XVI secolo, nelle Marche, regione tradizionalmente agricola e
intensamente coltivata sin dall’età romana, prevedibilmente disseminata di culti legati alla fertilità (come
quelli della dea Cupra che si sviluppano nella tarda antichità), il sentimento del paesaggio deve essersi
formato e diffuso abbastanza presto.

116
Fu tuttavia proprio nella fase in cui la selva aveva riconquistato gran parte del territorio coltivato,
nei secoli V-X dC, che si deve essere diffuso un sentimento del paesaggio nuovo, ispirato dalle tecniche
meditative monastiche.
Il modello monastico di tipo orientale trovò nelle Marche probabilmente un terreno fertile, vista
la tradizione culturale bizantina delle città adriatiche e i contatti marittimi e commerciali mai interrottisi.
Questa sensibilità monastica per la vita eremitica, facilitata dalla diffusa presenza di selve e di boschi,
tuttavia, recuperò, anche qui, ma entro i canoni del nuovo pensiero cristiano, le forme della meditazione
antica, legata all’utilizzo del giardino, dell’orto e della selva per l’esercizio della memorizzazione.
Giardino, orto e selva, come era già avvenuto nel mondo greco-romano, furono i luoghi della preghiera
perché i fiori e le piante, in quanto figure mnemoniche, agivano quali veicoli della memoria, sia nella fase
della memorizzazione che in quella del richiamo degli argomenti. Si andava a scuola nel giardino e nel
giardino si recuperavano le informazioni richiamate alla mente dalle stesse immagini usate per
imprimersele nella memoria. Anche le biblioteche, quando cominciarono a essere costruite, presero il
nome dei giardini, la silva silvarum, il viridarium, il giardino fiorito, e i loro armaria venivano percepiti e
chiamati come le aiuole del giardino.
Le tecniche meditative che regolavano l’input e l’output mnemonico furono codificate dai
Cistercensi e le Marche furono una delle uniche tre aree italiane in cui si insediarono due monasteri
cistercensi, eretti a Fiastra dal 1142 e a Chiaravalle (nel 1172) nei pressi di Ancona, con il nome di S.
Maria in Castagnola, entro un ampio bosco di castagni ancora visibile nelle corografie del xv secolo.
La tempestiva diffusione in questa regione della predicazione e dei monasteri francescani introdusse, dal
XIII secolo, nuove pratiche particolarmente significative per lo sviluppo di un particolare sentimento del
paesaggio.
I francescani furono infatti all’origine di una sensibilità religiosa fondata sull’emotività, destinata
cioè a coinvolgere l’uditorio delle nuove piccole città che dal XIII secolo cominciavano a popolarsi e a
sorgere nel paesaggio marchigiano in fase di nuova colonizzazione agricola, il “bel paesaggio” agrario
che si andava coltivando tra le diverse città. Nelle Marche, come accadde a Siena, il “buon governo” fu
così percepito a partire dalla constatazione del “bel paesaggio” intensamente coltivato, segno di un
rapporto corretto con il governo della città e frutto dell’istituto della “mezzadria”, il patto colonico che
cominciava a diffondersi.
I francescani predicano nel XIII-XV secolo l’interiorizzazione dell’immagine della passione come
i pastori di sensibilità riformata della Valtellina due secoli dopo. Essi cercano di creare le condizioni per
un miglioramento delle condizioni di vita materiali delle masse urbane; ma anche per favorire la speranza
di una salvezza futura basata sulle opere di misericordia, sull’intercessione della Vergine, dei santi, e per
l’effetto positivo delle opere pie dei vivi a vantaggio dei defunti.

117
Essi adottano in questa strategia un approccio “materialistico” al divino: santificano la natura
come espressione della provvidenza e primo approccio all’Itinerarium mentis in deum (come codificato dal
francescano Bonaventura da Bagnoregio); cercano di sviluppare un proto welfare urbano, si adoperano
per attivare microprestiti su pegno per le classi povere ma non completamente inerti.
In questa strategia mirata sulle folle urbane, la predicazione francescana fa ampio uso delle
tecniche retoriche antiche, accentuando la funzione didattica dell’exemplum. Essi cercano in sostanza di
sviluppare l’orazione mentale dei devoti, utilizzando nelle prediche, nelle macchine d’altare come negli
opuscoli a stampa figure emotivamente efficaci, capaci di aiutare l’interiorizzazione e la memorizzazione
del messaggio cristiano.
In questo sforzo essi sono tra i primi a mettere a punto la cosidetta “composizione di luogo”;
una tecnica retorica applicata alla predicazione, ma anche all’orazione mentale individuale, che, secondo i
canoni dell’arte della memoria antica, utilizzava uno spazio noto, come quello di una città, o le stanze di
un palazzo, per sceneggiare e memorizzare le scene della passione e della vita di Cristo poste nella giusta
sequenza.
Siamo in grado di ricostruire questa tecnica meditativa – portata alle sue massime capacità
retoriche probabilmente dalla predicazione di Bernardino da Siena – da alcuni testi devozionali editi solo
nel XV secolo, che debbono aver codificato una pratica che sembra molto vicina alla sensibilità della più
originaria predicazione francescana.
La fonte principale è il Zardino de oration fructuosa attribuito a Nicola da Osimo (1370 ca – 1453),
ma probabilmente da attribuirsi a un autore a noi sconosciuto, vicino ai progetti di riforma religiosa dei
veneziani Ludovico Barbo e Lorenzo Giustiniani, redatto alla metà del secolo, ma edito a Venezia nel
1494.
Già nel titolo il testo si richiama alla tradizione della meditazione che trovava ideale
ambientazione nel giardino, nell’orto o nella selva, in modo particolare nella devozione mariana. Non a
caso il testo è stato posto in relazione con il Prato spirituale di Giovanni Mosco, che era di cultura e
formazione orientale, e con la pratica del rosario.
L’origine veneziana di questa sensibilità non costituisce un ostacolo a considerare quanto
predicato nel Zardino esemplificativo della sensibilità religiosa marchigiana. Ciò sia per i consistenti
legami che sono storicamente intercorsi tra Marche e Veneto, ma anche per i rapporti che lo stampatore
dell’opera, Bernardino Benati, ha avuto con altri predicatori francescani marchigiani come il beato
Marco da Montegallo, teorico dei Monti di pietà, che presso la stessa stamperia pubblicava, negli stessi
anni, sue opere molto simili come la Corona della preziosa Vergene Maria Madre, il Libro intitulato de la divina
lege e la Tabula de la salute, la trattazione dei quali si incentra sulle immagini mentali, suscitate dal testo con
l’aiuto di alcune tabulae.

118
Il Zardino mira a diffondere, come molti altri testi francescani di questo periodo, l’orazione
“affettuosa”, cioè fondata sulla capacità di rivivere interiormente la passione di Cristo. Strumento
retorico per ottenere questa partecipazione emotiva individuale e intima dell’orante è appunto la
cosidetta “composizione di luogo” (qui teorizzata), cioè l’ambientazione della scena in un luogo, aperto
o chiuso, noto al devoto (o all’uditorio, qualora si tratti di predicazione) e quindi in grado di rendergli
familiare la scena e di consentirne la più facile memorizzazione.
Il meccanismo non è altro che l’applicazione alla devozione religiosa di uno dei precetti dell’arte
della memoria antica, ma esso deve essersi affinato, entro la cultura francescana, dopo l’esperienza delle
sacre rappresentazioni e dei presepi viventi, l’invenzione dei quali la tradizione attribuisce al santo di
Assisi.
La rievocazione del presepe attraverso la partecipazione emotiva dei fedeli, entro un paesaggio
noto come quello di casa propria, aveva un potenziale devozionale molto forte e se ne trova una eco
iconografica molto longeva, che comincia nel XIV secolo, nei santi patroni raffigurati con le città a loro
dedicate rappresentate in forme realistiche, con tratti caratteristici, che arriva sino ai nostri giorni.
Origine o conseguenza della pratica diffusa tra Marche e Umbria dei presepi viventi, la composizione di
luogo ha trovato qui un terreno di coltura piuttosto fertile e spiega i motivi profondi del tradizionale
municipalismo della regione. E’ infatti attraverso l’interiorizzazione di questi paesaggi, urbani o rurali,
che si è sviluppata, con la preghiera interiore, la soggettività, la consapevolezza di sé dei marchigiani,
come individui e come comunità.
Non si tratta infatti di immagini paesaggistiche, ma di icone della memoria, preliminari ed
essenziali per lo sviluppo della stessa consapevolezza della soggettività, cresciuta proprio con la pratica
della preghiera interiore.
Questo atteggiamento ci consente di comprendere meglio come il senso del paesaggio umbro-
marchigiano passasse attraverso una simbolizzazione individualizzata, profondamente influenzata dalla
predicazione francescana. La tradizione dei manuali mnemonici antichi saccheggiati dagli estensori delle
Artes praedicandi prescriveva infatti che le immagini paesistiche utilizzate dovevano essere realistiche ma
sufficientemente indefinite perché ciascun orante vi potesse agganciare le catene meditative personali.
Ognuno aveva le proprie immagini mentali.
La stessa percezione del monte, tratto caratteristico del sistema paesaggistico marchigiano
incentrato, come è noto, sulle colline, era una percezione filtrata dall’idea del Calvario. L’iconografia dei
Monti di pietà, per esempio, sviluppatisi e teorizzati prima che altrove tra Umbria e Marche, nel XV
secolo, si basava sulla figura del “monte” a forma di tumulo sormontato dal vessillo di Cristo e dalla
figura della passione. Il “monte” era, nelle argomentazioni a favore della creazione di questi istituti di
credito caritativi, il gruzzolo di denaro che i devoti sottoscrittori dovevano offrire per consentire
l’attivazione dei Monti di pietà. Ma l’associazione mentale con il Calvario fondava il retropensiero

119
costituito dalla salvezza dell’anima dell’offerente, a sua volta fondato su una argomentazione che
ricalcava la logica della rendita finanziaria: paghi uno ora per avere dieci nell’aldilà.
Dopo una lunga tradizione medievale che aveva visto nel monte il luogo del peccato e del
diavolo, l’istituzione dei Monti di pietà era sintomo di una più positiva percezione popolare
dell’ascensione, negli stessi anni in cui il Purgatorio cominciava a venire rappresentato come una
montagna dove la speranza non era più totalmente negata.
Queste aspirazioni sociali erano maturate, entro il paesaggio urbano, per effetto della mediazione
francescana.
La tecnica della composizione di luogo, che troviamo codificata nel XV secolo nei manuali
devozionali, andava di pari passo, nelle Marche, con una precoce pratica della devozione mariana
connessa all’impiego del rosario.
Il rosario, costituito di cento grani di legno di rosa, non era altro però che un giardino virtuale e
portatile che consentiva, entro il progetto di interiorizzazione dell’orazione mentale, l’inanellamento di
una serie di immagini, ripetute per essere mandate più facilmente a memoria, del tutto analogo alle
procedure adottate nel mondo antico e pagano per memorizzare (grazie ai giardini, gli orti, i loggiati)
passi o concetti della tradizione.
La composizione di luogo da una parte e la recitazione del rosario dall’altra, (connessa a una
vasta letteratura, anche a stampa, che applicava questa tecnica a forme di devozione più complesse come
il Prato mistico, ecc.) sono dunque all’origine dello specifico sentimento del paesaggio della cultura
marchigiana.
Per quanto la predicazione francescana debba aver svolto un ruolo particolarmente efficace,
anche altri ordini mendicanti si ritrovarono in questo genere di sensibilità, e in alcuni casi essi vennero
proprio fondati nelle Marche, come è il caso dei brettinesi e dei silvestrini (dei quali ultimi si comprende
facilmente la devozione silvestre), cui si affiancarono, con gli stessi strumenti teorici e devozionali, i
domenicani e gli agostiniani.
La devozione del rosario era già ampiamente diffusa nelle Marche nel XIV e XV secolo, ma sarà
con il santuario di Loreto a diventare nota nel mondo e a rappresentare il nuovo modo di pregare e di
percepire l’orazione mentale dell’età della Riforma Cattolica, della quale Loreto e il suo santuario
mariano diventano nel XVI secolo l’avamposto strategico (il motivo della nascita a Loreto piuttosto che
altrove di questo culto è, a questo punto, facilmente comprensibile).
La pratica del rosario è anzi all’origine del mito della Santa Casa di Loreto. Concepito
probabilmente come pratica meditativa di origine orientale e poi codificata dai cistercensi, l’orazione
mentale messa in moto dal rosario era una variante della contemplazione intima del tempio di
Gerusalemme, inteso come sistema di simboli della storia sacra. L’orante meditava immaginando di
elevarsi in volo e di vedere il tempio, come descritto nel libro di Ezechiele, e di coglierne i significati

120
profondi. Sicché la recita del rosario diventava analoga alla forma di levitazione mentale sul palazzo della
memoria (il tempio di Salomone). Rosario e composizione di luogo facevano uso degli stessi strumenti.
E insieme essi davano origine al mito della Santa Casa di Maria che si trasferiva materialmente e in volo
da Nazareth al “Laureto” di Recanati (assimilabile al giardino e all’orto meditativo). La stessa santa Casa
era appunto un palazzo della memoria costituito di una sola stanza.
La pratica del rosario e del culto mariano, diffusisi in tutto il mondo e soprattutto nelle aree
dell’Europa dell’est ove aveva attecchito l’eresia riformata, fecero il successo di questa forma di
preghiera originariamente praticata soprattutto nell’Italia centrale. Nell’Anconitana di Ruzante i
marchigiani venivano già presi in giro, nel XVI secolo, per l’eccesso di devozione legata alla circolazione
dei santini e dei rosari di Loreto.
Strutturato nel solco della meditazione religiosa, il senso del paesaggio dei marchigiani si
presenta allora come fondativo dell’identità locale, ma nello stesso tempo come incapace di incorporarsi
nella storia. Esso è componente strutturale dell’identità locale perché, in quanto strumento dell’esercizio
del pensiero, ha contribuito a fare da contenitore e veicolo dei pensieri più intimi e come tale a costruire,
entro le icone delle “città della memoria”, il senso stesso dell’individuo. Ma, trattandosi di veicoli e
strumenti di un realismo prevalentemente retorico e persuasivo, queste immagini sono state
tradizionalmente percepite piuttosto per liberarsi dai vincoli della storia e della geografia che per
valorizzarne gli aspetti identitari.
Le “catene” del rosario (cioè le associazioni mnemonico-immaginative provocate dalla
meditazione dei sacri misteri condotte nel rosario) erano infatti considerate capaci di “liberare”,
giocando sul doppio significato, il fedele dai vincoli dell’egoismo. Così, quando la vittoria di Lepanto (il
7 ottobre 1571) dei Cristiani contro i Turchi fu attribuita alla devozione del rosario, le catene che
avevano legato i cristiani prigionieri ai remi delle galee nemiche furono portate personalmente da don
Giovanni d’Austria, capo della spedizione militare, a Loreto per essere fuse e diventare i nuovi cancelli
del santuario (cioè un presidio del culto mariano). Le catene (del rosario) “liberavano” dal peccato e
rendevano il miles christianus consapevolmente attrezzato contro l’eresia di ogni tipo e lo elevavano verso
una condizione superiore, libera da orpelli terreni.
Il senso del paesaggio dei marchigiani, laico e religioso, che ne deriva, sembra dunque
identificabile piuttosto nella negazione della singolarità dei luoghi, nella prevalente ricerca di una loro
“esemplarità”. Loreto è diventata già nel XVI secolo un simbolo universale (e ancora oggi è una specie
di territorio apolide). Recanati, altro santuario laico della poesia, è diventata il luogo della metafisica del
paesaggio piuttosto che di un paesaggio, per effetto della negazione del vedere, e quindi dell’attivazione
dell’immaginazione immortalata da Giacomo Leopardi nell’Infinito.

121
E anche Urbino e il paesaggio del Montefeltro di Paolo Volponi, pure se descritti con realismo e
con senso profondo del territorio, hanno assunto nella sua opera il carattere ideale di capitali,
neoruraliste, della reazione al neocapitalismo industriale del secondo dopoguerra.
Le Marche hanno prodotto un modo che definirei “arcadico” di concepire il paesaggio (e infatti
l’Arcadia fu fondata a Roma nel 1690, e si sviluppò per effetto di un gruppo di possidenti agrari
prevalentemente marchigiani, sotto la custodia del maceratese Giovanni Mario Crescimbeni e sotto un
papa, urbinate, Clemente XIV Albani, che voleva rilanciare l’economia pontificia attraverso la riforma
agraria), trasformandolo in pura energia emotiva e immaginaria.
Pensato come strumento di liberazione, questo paesaggio ha però finito (come i presepi di San
Francesco) per essere piuttosto una forma mentale che un veicolo per trasmettere valori specifici e
storici. Anche l’efficacia delle immagini del paesaggio agrario del più grande fotografo marchigiano,
Mario Giacomelli, sta forse nella loro astorica matericità, nella loro funzione di icone astratte, delle quali
è inutile spiegare il significato.
Percepito come pura energia emotiva, allora, il senso del paesaggio marchigiano può ritrovarsi
nella ricerca contemporanea, di cui registriamo ogni giorno la casistica nel territorio di oggi, di nuove
tipologie di abitazioni considerate come “tradizionali” ma che fondono in forme postmoderne il cotto
del mattone, l’elemento tradizionale, con l’estetica del Mulino bianco e dei ranch texani della serie
“Spaghetti Western”.
Ripensato entro la griglia di riferimenti culturali oggi dettati dal cinema e dalla televisione, il
senso del paesaggio marchigiano continua nell’assemblaggio creativo di componenti narrative che
confermano lo statuto emotivo che esso ha esercitato, nel lungo periodo, nella cultura delle Marche.

122
Bibliografia

AA.VV., San Lucio di Cavargna. Il Santo, la chiesa, il culto, l’iconografia, Cavargna, 2000.
AA.VV., Paolo Giovio. Il Rinascimento e la memoria, atti del convegno (Como, 3-5 Giugno 1983), in
“Raccolta storica” pubblicata dalla Società Storica Comense, vol. XVII, 1985.
M. BELLONI ZECCHINELLI – L. M. BELLONI, Hospitales e Xenodochi. Mercanti e pellegrini dal Lario a Ceresio,
Menaggio, Attilio Sampietro Editore, 1997.
M. CARRUTHERS, The Craft of Thought. Meditation, Rhetoric, and the Making of Images, 400-1200, Cambridge,
Cambridge University Press, 1998.
A. CATTABIANI, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Milano, Mondadori, 1996.
C. GINZBURG, Il formaggio e i vermi. Il cosmo di un mugnaio del ‘500, Torino, Einaudi, 1976.
G. GRIGIONI DELLA TORRE, Ville storiche sul lago di Como, Ivrea, Priuli e Verlucca, 2001.
G. MANGANI, Universalizzare il locale: Loreto e Recanati, in N. Cecini, A. Paglione. K. Sordy, a cura, Loreto
Recanati. Luoghi dell’anima, Loreto, 2004, pp. 242-247.
G. MANGANI, Cartografia morale. Geografia, persuasione, identità, Modena, Franco Cosimo Panini, 2006.
G. MIGLIO (a cura di), Larius. La città ed il lago di Como nelle descrizioni e nelle immagini dall’antichità classica
all’età romantica, Milano, Edizioni Luigi Alfieri, 1959.
T. C. PRICE ZIMMERMANN, Paolo Giovio. The Historian and the Crisis of Sixteenth-Century Italy, Princeton,
Princeton University Press, 1995.
S. SETTIS, Le pareti ingannevoli. La villa di Livia e la pittura di giardino, Milano, Electa, 2002.
E. A. STÜCKELBERG, S. Lucio (S. Uguzo), il Patrono degli Alpigiani, in “Monitore Officiale della Diocesi di
Lugano”, 1912.

123
GABRIELLA ROVAGNATI

VENEZIA: UNA LEGGENDA.


DECLINAZIONI DI UN PAESAGGIO NELLA LETTERATURA TEDESCA

Pensare di aver ragione di tutti i modi che la letteratura conosce per la descrizione di un
paesaggio, significa inseguire un’utopia o compiere un peccato di hybris. Conviene quindi rinunciare a
priori a ogni velleità di proporre un quadro esaustivo di questa declinazione del paesaggio affrontata
con il medium del linguaggio e procedere non solo limitando il proprio campo d’azione, ma anche nella
piena consapevolezza di offrire soltanto qualche exempla. Partendo da una prospettiva germanistica, mi
limiterò qui a segnalare alcuni modi della letteratura tedesca di proporre un determinato paesaggio,
tentando un approccio che non sia del tutto arbitrario, ma non abbia neppure alcuna pretesa di
sistematicità. Ovviamente questa antologia altro non vuol essere che il nucleo di un eventuale work in
progress, passibile di una dilatazione ad libitum.
Una volta deciso di circoscrivere per il momento la scelta a qualche indicazione paradigmatica, il
passo ulteriore è stato quello di individuare quali soggetti potessero essere funzionali a questo scopo. Si
è quindi tralasciato il genere teatrale, che non manca certo di descrizioni paesaggistiche, ma richiede per
le sue peculiarità di genere, una contestualizzazione di più ampio respiro perché se ne possano cogliere
le sfumature. Più immediato è invece l’impatto che permettono di raggiungere prosa e poesia, i due
generi da cui – almeno inizialmente – si è pensato di trarre brani, adatti e far intendere come i diversi
scrittori affrontino il problema, senza che si renda indispensabile un inquadramento del testo in una
rete troppo ampia di nessi e relazioni.
Poiché l’esemplarità in letteratura è tipica del genere della leggenda – l’etimologia di legenda (in
latino la forma neutra plurale sostantivata del participio futuro passivo del verbo legere) fa riferimento
all’abitudine diffusa nei monasteri medioevali di leggere ad alta voce in refettorio durante la
consumazione dei pasti, brani tratti dalle vite dei santi proposti ai confratelli come modelli di
edificazione -, ci si è chiesti che cosa, nella letteratura di lingua tedesca, costituisca da sempre un
paesaggio leggendario. Una delle possibili risposte, fra le più appariscenti per chi è di madrelingua
italiana, è stata: Venezia. Poeti e letterati di lingua tedesca non cessano di cantare questa città che è
insieme luogo e atmosfera, realtà e immaginario, concretezza e metafora, bellezza e putrescenza, estasi e
malattia, sensualità e menzogna, verità e maschera.
Ecco dunque qualche esempio di come la città lagunare è stata recepita da alcuni poeti e letterati
d’origine austriaca o tedesca.

***
124
Originario della Turingia, Johann Jacob Wilhelm Heinse (1746-1803), dopo aver soggiornato
in Italia per tre anni (1780-1783), diede alle stampe il suo romanzo Ardinghello ovvero le isole felici (1787),
una “storia italiana” come recita il sottotitolo, ambientato nel Rinascimento. Il testo è considerato
importante perché è, nella letteratura tedesca, uno dei primi romanzi che ha per protagonista un artista
– in questo caso un pittore della scuola di Tiziano – e che è una delle ultime espressioni del movimento
libertario dello Sturm und Drang. Proprio a Venezia, Heinse fa incontrare al suo eroe la prima donna
che determinerà in maniera significativa il suo destino e nella stessa città gli fa giungere la notizia della
morte di suo padre, assassinato a Creta. Così per Ardinghello Venezia è, oltre che luogo perturbante per
la sua vita interiore, soprattutto città mediatrice di importanti suggestioni estetiche, di carattere
pittorico, come dimostra il brano seguente:

Ich ging unter anderm Namen nach Venedig, um dort, während ich ihn auskundschaftete, die Werke
Tizians zu studieren und vom Paul Veronese und Tintorett zu lernen; und meine Tante schickte mir von meinem
Mütterlichen, soviel ich brauchte. Paul gewann mich bald lieb, so wie der Greis Tizian, den ich in seinen letzten
Tagen oft mit Singen und Spielen ergötzte; und sie weihten mich in verschiednen von ihren Geheimnissen ein, weil
sie Auge bei mir fanden.
Es war mir nun lieb, daß ich außer meinem eignen Vergnügen noch etwas gelernt hatte, womit ich mich
auf allen Fall durch die Welt schlagen konnte.

Ma neppure l’architettura veneziana lascia Ardinghello indifferente, data la sua venerazione per
il Palladio; i palazzi veneziani, tutti belli, sono a suo dire lo specchio di una concezione politica non
basata sul dispotismo e la repressione:

Als wir von Vicenza weggereist waren, sprachen wir viel über die Gebäude zu Venedig und den
Palladio. Ardinghello hielt Venedig für einen der merkwürdigsten Orte in der Baukunst; und sagte: hier wäre
nicht nur ein Stil, sondern man sähe darin die Geschichte derselben der neuern Jahrhunderte; und erkenne immer,
daß ein Senat von vielen Personen da herrsche und nicht ein einzelner oft elender Mensch ohne Talent und
Geschmack, weil man nichts ganz Schlechtes unter den öffentlichen Gebäuden fände wie in andern Residenzen.
Er liebte den Palladio vor allen neuern Baumeistern, nannte ihn eine heitre Seele voll des
Vortrefflichsten aus dem Altertum, und daß er davon mitteile, und aus sich selbst, soviel sich für seine
Zeitverwandten schicke.

***

Il grande Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832), nel corso del suo viaggio in Italia del
1786 – viaggio che fu quasi una fuga dall’angustia della corte di Weimar, dove lavorava dal 1775, e che
lo portò a sviluppare una poetica nuova, ispirata all’antichità classica – dedica a Venezia pagine e pagine
del suo Viaggio in Italia. Qui di seguito si riporta la breve descrizione del viaggio da Padova a Venezia,
fatto con il burchiello navigando sul Brenta, sulle cui sponde è tutto un succedersi di bei palazzi e
splendidi giardini:

125
Venedig, den 28. September 1786.

Wie es mir von Padua hierher gegangen, nur mit wenig Worten: Die Fahrt auf der Brenta, mit dem
öffentlichen Schiffe in gesitteter Gesellschaft, da die Italiener sich vor einander in acht nehmen, ist anständig und
angenehm. Die Ufer sind mit Gärten und Lusthäusern geschmückt, kleine Ortschaften treten bis ans Wasser,
teilweise geht die belebte Landstraße daran hin. Da man schleusenweis den Fluß hinabsteigt, gibt es öfters einen
kleinen Aufhalt, den man benutzen kann, sich auf dem Lande umzusehen und die reichlich angebotenen Früchte
zu genießen. Nun steigt man wieder ein und bewegt sich durch eine bewegte Welt voll Fruchtbarkeit und Leben.

E questa è la dichiarazione di stupore e meraviglia del poeta nel momento in cui gli è dato di mettere
piede in una città che finalmente per lui non è più un miraggio, ma un luogo concreto, da ammirare a
sazietà e in solitudine:

[…]
Venedig

So stand es denn im Buche des Schicksals auf meinem Blatte geschrieben, daß ich 1786 den
achtundzwanzigsten September, abends, nach unserer Uhr um fünfe, Venedig zum erstenmal, aus der Brenta in
die Lagunen einfahrend, erblicken und bald darauf diese wunderbare Inselstadt, diese Biberrepublik betreten und
besuchen sollte. So ist denn auch, Gott sei Dank, Venedig mir kein bloßes Wort mehr, kein hohler Name, der
mich so oft, mich, den Todfeind von Wortschällen, geängstiget hat.
[…]
Ich bin gut logiert in der “Königin von England”, nicht weit vom Markusplatze, und dies ist der größte
Vorzug des Quartiers; meine Fenster gehen auf einen schmalen Kanal zwischen hohen Häusern, gleich unter mir
eine einbögige Brücke und gegenüber ein schmales, belebtes Gäßchen. So wohne ich, und so werde ich eine Zeitlang
bleiben, bis mein Paket für Deutschland fertig ist, und bis ich mich am Bilde dieser Stadt satt gesehen habe. Die
Einsamkeit, nach der ich oft so sehnsuchtsvoll geseufzt, kann ich nun recht genießen; denn nirgends fühlt man sich
einsamer als im Gewimmel, wo man sich allen ganz unbekannt durchdrängt. In Venedig kennt mich vielleicht
nur ein Mensch, und der wird mir nicht gleich begegnen.
[…]

Il giornale di viaggio goetheano contiene pagine di pura descrizione in cui il paesaggio, benché
egli lo veda per la prima volta, risulta al poeta già noto attraverso il filtro dell’arte, in quanto di quel
panorama conosce già diverse riproduzioni mediate da incisioni su rame. Quello che è invece del tutto
nuovo è l’unicità urbanistica della città, un intrico di calli e di ponti, che non si può conoscere se non
attraverso l’esperienza concreta.

Über der Wasserfläche sieht man links die Insel St. Giorgio Maggiore, etwas weiter rechts die Giudecca
und ihren Kanal, noch weiter rechts die Dogane und die Einfahrt in den Canal Grande, wo uns gleich ein paar
ungeheure Marmortempel entgegenleuchten. Dies sind mit wenigen Zügen die Hauptgegenstände, die uns in die
Augen fallen, wenn wir zwischen den zwei Säulen des Markusplatzes hervortreten. Die sämtlichen Aus- und
Ansichten sind so oft in Kupfer gestochen, daß die Freunde davon sich gar leicht einen anschaulichen Begriff
machen können.
Nach Tische eilte ich, mir erst einen Eindruck des Ganzen zu versichern, und warf mich ohne Begleiter,
nur die Himmelsgegenden merkend, ins Labyrinth der Stadt, welche, obgleich durchaus von Kanälen und
Kanälchen durchschnitten, durch Brücken und Brückchen wieder zusammenhängt. Die Enge und Gedrängtheit
des Ganzen denkt man nicht, ohne es gesehen zu haben. Gewöhnlich kann man die Breite der Gasse mit
ausgereckten Armen entweder ganz oder beinahe messen, in den engsten stößt man schon mit den Ellbogen an,
wenn man die Hände in die Seite stemmt; es gibt wohl breitere, auch hie und da ein Plätzchen, verhältnismäßig
aber kann alles enge genannt werden.

126
Ich fand leicht den großen Kanal und die Hauptbrücke Rialto, sie besteht aus einem einzigen Bogen von
weißem Marmor. Von oben herunter ist es eine große Ansicht, der Kanal gesäet voll Schiffe, die alles Bedürfnis
vom festen Lande herbeiführen und hier hauptsächlich anlegen und ausladen, dazwischen wimmelt es von Gondeln.

Le pagine citabili dal giornale di viaggio di Goethe relative a Venezia sono molte e la descrizione
dei monumenti può risultare molto interessante per lo storico dell’arte. Ma non c’è solo ammirazione
per la stupenda perla della laguna. In quest’altro brano, Goethe, sempre attento ad allargare i suoi
interessi anche agli avvenimenti naturali, dopo aver descritto il noto fenomeno dell’acqua alta, lamenta,
con sensibilità ecologica, l’incuria a cui Venezia viene abbandonata, e la lamentazione è di un’attualità
sconcertante:

Wenn sie ihre Stadt nur reinlicher hielten, welches so notwendig als leicht ist und wirklich auf die Folge
von Jahrhunderten von großer Konsequenz. Nun ist zwar bei großer Strafe verboten, nichts in die Kanäle zu
schütten, noch Kehrig hineinzuwerfen; einem schnell einfallenden Regenguß aber ist’s nicht untersagt, allen den in
die Ecken geschobnen Kehrig aufzurühren, in die Kanäle zu schleppen, ja, was noch schlimmer ist, in die Abzüge
zu führen, die nur zum Abfluß des Wassers bestimmt sind, und sie dergestalt zu verschlemmen, daß die
Hauptplätze in Gefahr sind, unter Wasser zu stehen. Selbst einige Abzüge auf dem kleinen Markusplatze, die,
wie auf dem großen, gar klug angelegt sind, habe ich verstopft und voll Wasser gesehen.
Wenn ein Tag Regenwetter einfällt, ist ein unleidlicher Kot, alles flucht und schimpft, man besudelt beim
Auf- und Absteigen der Brücken die Mäntel, die Tabarros, womit man sich ja das ganze Jahr schleppt, und da
alles in Schuh und Strümpfen läuft, bespritzt man sich und schilt, denn man hat sich nicht mit gemeinem, sondern
beizendem Kot besudelt. Das Wetter wird wieder schön, und kein Mensch denkt an Reinlichkeit. Wie wahr ist es
gesagt: das Publikum beklagt sich immer, daß es schlecht bedient sei, und weiß es nicht anzufangen, besser bedient
zu werden. Hier, wenn der Souverän wollte, könnte alles gleich getan sein.

Con un altro breve brano dal Viaggio in Italia si intende mostrare la poliedricità di uno scrittore
come Goethe che non aveva alcuna pregiudiziale gnoseologica e sempre cercava di coniugare estetica e
scienza, dedito ad un’interdisciplinarietà che fa belli, anche se spesso non attendibili, i suoi trattati
scientifici e scientificamente competente la sua opera poetica. Qui Goethe, attento all’alternarsi di alta e
bassa marea, è salito sul campanile di S. Marco per vedere che aspetto abbia la città con la laguna nel
momento della bassa marea:

Den 9. Oktober.

Heute abend ging ich auf den Markusturm; denn da ich neulich die Lagunen in ihrer Herrlichkeit zur
Zeit der Flut von oben gesehen, wollt’ ich sie auch zur Zeit der Ebbe in ihrer Demut schauen, und es ist
notwendig, diese beiden Bilder zu verbinden, wenn man einen richtigen Begriff haben will. Es sieht sonderbar aus,
ringsum überall Land erscheinen zu sehen, wo vorher Wasserspiegel war. Die Inseln sind nicht mehr Inseln, nur
höher bebaute Flecke eines großen graugrünlichen Morastes, den schöne Kanäle durchschneiden. Der sumpfige Teil
ist mit Wasserpflanzen bewachsen und muß sich auch dadurch nach und nach erheben, obgleich Ebbe und Flut
beständig daran rupfen und wühlen und der Vegetation keine Ruhe lassen.
[…]
Die dem Meere entgegengebauten Mauerwerke bestehen erst aus einigen steilen Stufen, dann kommt eine
sacht ansteigende Fläche, sodann wieder eine Stufe, abermals eine sanft ansteigende Fläche, dann eine steile Mauer
mit einem oben überhängenden Kopfe. Diese Stufen, diese Flächen hinan steigt nun das flutende Meer, bis es in
außerordentlichen Fällen endlich oben an der Mauer und deren Vorsprung zerschellt.

127
Nel 1790, dopo un altro breve viaggio di Goethe in Italia, nacquero invece i Venezianische
Epigramme (“Epigrammi veneziani”), spesso anche molto critici nei confronti del paese dell’arte, dove,
come denunciano con chiarezza i versi seguenti, grevi di conseguenze per l’immagine che i Tedeschi poi
ebbero a lungo del nostro paese, non solo le strade sono ancora dissestate, ma dove regnano
indisciplina e disonestà:

Das ist Italien, das ich verließ. Noch stäuben die Wege,
Noch ist der Fremde geprellt, stell er sich, wie er auch will.
Deutsche Redlichkeit suchst du in allen Winkeln vergebens;
Leben und Weben ist hier, aber nicht Ordnung und Zucht;
Jeder sorgt nur für sich, mißtrauet dem andern, ist eitel,
Und die Meister des Staats sorgen nur wieder für sich.
Schön ist das Land; doch ach! Faustinen find ich nicht wieder.
Das ist Italien nicht mehr, das ich mit Schmerzen verließ.

Un Goethe attento ai dettagli architettonici di una città che conosce molto bene rivela il successivo
epigramma:
20

Ruhig am Arsenal stehn zwei altgriechische Löwen;


Klein wird neben dem Paar Pforte wie Turm und Kanal.
Käme die Mutter der Götter herab, es schmiegten sich beide
vor den Wagen, und sie freute sich ihres Gespanns.
Aber nun ruhen sie traurig; der neue geflügelte Kater
Schnurrt überall, und ihn nennet Venedig Patron.

Rane disgraziate appaiono invece al poeta tedesco gli abitanti di Venezia:

25

Unglückselige Frösche, die ihr Venedig bewohnet!


Springt ihr zum Wasser heraus, springt ihr auf hartes Gestein.

L’aspetto invece più sensuale di una città che, costruita com’è sull’acqua, fa dell’instabilità affettiva un
suo vanto, è illustrato dai due distici seguenti, dedicati alle meretrici di Venezia:

27

Alle Weiber sind Ware; mehr oder weniger kostet


Sie den begierigen Mann, der sich zum Handel entschließt.
Glücklich ist die Beständige, die den Beständigen findet,
Einmal nur sich verkauft und auch nur einmal gekauft wird.

***

128
Personaggio dalla vita avventurosa, il sassone Johann Gottfried Seume (1763-1810), autore di
numerosi resoconti di viaggio, nel suo testo autobiografico Passeggiata verso Siracusa nell’anno 1802, parla
di Venezia come di una città occupata e piena di mendicanti, di cui sembrano interessargli soprattutto le
numerose chiese:

Den dritten Februar, wenn ich mich nicht irre, kam ich in Venedig an und lief sogleich den Morgen
darauf mit einem alten, abgedankten Bootsmanne, der von Lissabon bis Konstantinopel und auf der afrikanischen
Seite zurück die ganze Küste kannte und jetzt den Lohnbedienten machen mußte, in der Stadt herum; sah mehr
als zwanzig Kirchen in einigen Stunden, von der Kathedrale des heiligen Markus herab bis auf das kleinste
Kapellchen der ehemaligen Beherrscherin des Adria. Wenn ich Künstler oder nur Kenner wäre, könnte ich Dir viel
erzählen von dem, was da ist und was da war. […]. Der Palast der Republik sieht jetzt sehr öde aus, und der
Rialto ist mit Kanonen besetzt. Auch am Ende des Markusplatzes, nach dem Hafen zu, haben die Österreicher
sechs Kanonen stehen, und gegenüber auf Sankt Georg hatten schon die Franzosen eine Batterie angelegt, welche
die Kaiserlichen natürlich unterhalten und erweitern. Die Partie des Rialto hat meine Erwartung nicht befriedigt;
aber der Markusplatz hat sie auch so, wie er noch jetzt ist, übertroffen.
Es mögen jetzt ungefähr drei Regimenter hier liegen; eine sehr kleine Anzahl für ernsthafte Vorfälle!
[…] Das Militär und überhaupt die Bevölkerung zeigt sich meistens nur auf dem Markusplatze, am Hafen, am
Rialto und am Zeughause; die übrigen Gegenden der Stadt sind ziemlich leer.
Wenn man diese Partien gesehen hat und einigemal den großen Kanal auf- und abgefahren ist, hat
Venedig vielleicht auch nicht viel Merkwürdiges mehr; man müßte denn gern Kirchen besuchen, die hier wirklich
sehr schön sind.
Das Traurigste ist in Venedig die Armut und Bettelei. Man kann nicht zehn Schritte gehen, ohne in
den schneidendsten Ausdrücken um Mitleid angefleht zu werden; und der Anblick des Elends unterstützt das
Notgeschrei des Jammers. Um alles in der Welt möchte ich jetzt nicht Beherrscher von Venedig sein; ich würde
unter der Last meiner Gefühle erliegen.
[…]. Die niederschlagendste Empfindung ist mir gewesen, Frauen von guter Familie in tiefen,
schwarzen, undurchdringlichen Schleiern knieend vor den Kirchtüren zu finden, wie sie, die Hände gefaltet auf die
Brust gelegt, ein kleines hölzernes Gefäß vor sich stehen haben, in welches die Vorübergehenden einige Soldi
werfen. Wenn ich länger in Venedig bliebe, müßte ich notwendig mit meiner Börse oder mit meiner Empfindung
Bankerott machen.
[…] Auf der Giudecca ist es, wo möglich, noch ärmlicher als in der Stadt; aber eben deswegen sind
dort nicht so viele Bettler, weil vielleicht niemand hoffen darf, dort nur eine leidliche Ernte zu halten. Die
Erlöserskirche ist daselbst die beste, und ihre Kapuziner sind die einzigen, die in Venedig noch etwas schöne
Natur genießen. Die Kirche ist mit Orangerie besetzt, und sie haben bei ihrem Kloster, nach der See hinaus, einen
sehr schönen Weingarten. Diese, nebst einigen Oleastern in der Gegend des Zeughauses, sind die einzigen Bäume,
die ich in Venedig gesehen habe. Die Insel Sankt George hält bekanntlich die Kirche und das Kapitel, wo der
jetzige Papst gewählt wurde, und wo auch noch sein Bildnis ist, das bei den Venetianern von gemeinem Schlage in
außerordentlicher Verehrung steht. Der Maler hat sein Mögliches getan, die Draperie recht schön zu machen. Die
Kirche selbst ist ein gar stattliches Gebäude und, wie ich schon oben gesagt habe, mit Batterien umgeben.
Die Venetianer sind übrigens im allgemeinen höfliche, billige, freundschaftliche Leute, und ich habe von
vielen derselben Artigkeiten genossen, die ich in meinem Vaterlande nicht herzlicher hätte erwarten können.

***

Città romantica per eccellenza, Venezia è naturalmente molto presente nella letteratura del
periodo romantico, che pure rivolge la propria attenzione più al Medioevo germanico che al meridione.
A Venezia è ambientata anche Una storia con la mandragola (1810) del barone Friedrich de la Motte
Fouqué (1777-1843) che narra la vicenda di un giovane mercante tedesco, Richard, che a Venezia,
appunto, dopo aver scialacquato il suo patrimonio in piacevolezze varie, incontra un capitano
benestante che gli offre la possibilità di arricchirsi in maniera repentina acquistando una radice di

129
mandragola che, a suo dire, è in grado di esaudire tutti i desideri di chi la possiede; che per ottenerne i
benefici si debba vendere l’anima al diavolo, sembra a tutta prima un dettaglio trascurabile. Il racconto
si apre con un’immagine della città in tutto conforme alla tradizione: è un luogo dove si mangia e beve
bene e si viene accolti come principi da meravigliose fanciulle, salvo poi verificare che in quella sorta di
paradiso terrestre tutto va pagato profumatamente:

In Venezia, die weit und breit berühmte welsche Handelsstadt, zog eines schönen Abends ein junger
deutscher Kaufmann ein, Reichard geheißen, gar ein fröhlicher und kecker Gesell. Es gab eben zu der Zeit in
deutschen Landen mannigfache Unruhe, um des Dreißigjährigen Krieges willen; deshalben war der junge
Handelsmann, der sich gern einen lustigen Tag machte, ganz besonders damit zufrieden, daß ihn seine Geschäfte
auf einige Zeit nach Welschland riefen, wo es nicht so gar kriegerisch zuging, und wo man, wie er gehört hatte,
ganz köstlichen Wein und viele der besten und wohlschmeckendsten Früchte antreffen sollte, noch der vielen
wunderschönen Frauen zu geschweigen, von welchen er ein absonderlicher Liebhaber war.
Er fuhr, wie sie es dorten zu tun pflegen, in einem kleinen Schifflein, Gondel geheißen, auf den Kanälen
umher, die es in Venezia statt der ordentlichen gepflasterten Straßen gibt, und hatte seine große Lust an den
schönen Häusern und den noch viel schöneren Weibsgestalten, die er oftmals daraus hervorblicken sah. Als er
endlich gegen ein höchst prächtiges Gebäude herankam, in dessen Fenstern wohl zwölf der alleranmutigsten
Frauenzimmer lagen, sprach der gute junge Gesell zu einem der Gondoliere, die sein Schifflein ruderten: “Daß
Gott! wenn es mir doch einmal so wohl werden sollte, daß ich nur ein Wörtlein zu einer von jenen wunderschönen
Fräulein sprechen dürfe!” - “Ei”, sagte der Gondolier, “ist es weiter nichts als das, so steigt nur aus und geht
kecklich hinauf. Die Zeit wird Euch droben gewißlich nicht lang werden.” [...]
Das schien dem jungen Burschen des Versuchens schon wert, auch hatte der Gondolier nicht eben
gelogen. Die Schar der liebreizenden Fräulein nahm den Fremden nicht allein holdselig auf, sondern es führte ihn
auch die, welche er für die Schönste aus ihnen hielt, in ihr eignes Gemach, wo sie ihn mit den auserlesensten
Trink- und Eßwaren bewirtete, und auch mit manchem Kuß, ja, ihm endlich ganz und gar zu Willen ward. Er
mußte mehrmalen bei sich denken: “Ich bin doch fürwahr in das alleranmutigste und wunderbarste Land
gekommen, so es auf dem Erdboden gibt: zugleich aber kann ich auch dem Himmel nicht genugsamlich danken
für die Anmutigkeiten meiner Person und meines Geistes, vermittelst deren ich den fremden Damen so sehr
gefalle.”
Als er nun aber wieder von hinnen wollte, forderte ihm das Fräulein funfzig Dukaten ab, und weil er
sich darüber verwunderte, sagte sie: “Ei, junger Fant, wie vermeint Ihr doch, Euch der schönsten Courtisane aus
ganz Venedig so gar umsonst erfreut zu haben? […]”

***

Se la Venezia di Goethe è una città vista con gli occhi di chi non ne ammira soltanto la bellezza
monumentale, ma ne evidenzia anche i difetti urbanistici, ecologici e sociali, se quella di Fouqué è un
covo di lestofanti e di persone di grande disinvoltura morale, una fantasmagorica città dei miracoli che
si manifestano nel silenzio della sera è invece la Venezia presentata nel brano successivo, tratto dal 23°
capitolo del III libro del romanzo giovanile Ahnung und Gegenwart (1815) di Joseph von Eichendorff
(1788-1857), barone di origini salesiane ed esponente del romanticismo tedesco seriore:

An einem schönen Sommerabende fuhr ich einmal in Venedig auf dem Golf spazieren. Der Halbkreis von
Palästen mit ihren still erleuchteten Fenstern gewährte einen prächtigen Anblick. Unzählige Gondeln glitten
aneinander vorüber über das ruhige Wasser, Gitarren und tausend weiche Gesänge zogen durch die laue Nacht.
Ich ruderte voll Gedanken fort und immer fort, bis nach und nach die Lieder verhallten und alles um mich her still
und einsam geworden war. Ich dachte an die ferne Heimat und sang ein altes, deutsches Lied, eines von denen, die
ich noch als Knabe Angelina gelehrt hatte. Wie sehr erstaunte ich, als mir da auf einmal eine wunderschöne
weibliche Stimme von dem Altan eines Hauses mit der nächstfolgenden Strophe desselben Liedes antwortete. Ich
sprang sogleich ans Ufer und eilte auf das Haus zu, von dem der Gesang herkam. Eine weiße Mädchengestalt

130
neigte sich zwischen den Orangenbäumen und Blumen über den Balkon herab und sagte flüsternd: ›Rudolf!‹ Ich
erkannte bei dem hellen Mondenscheine sogleich Angelina. Sie schien noch mehr sprechen zu wollen, aber die Tür
auf dem Balkon öffnete sich von innen, und sie war verschwunden.
Verwundert und entzückt in allen meinen Sinnen, setzt ich mich an einen steinernen Springbrunnen, der auf
dem weiten, stillen Platze vor dem Hause stand. Ich mochte ohngefähr eine Stunde dort gesessen haben, als ich die
Glastür oben leise wieder öffnen hörte.

***

Di ambientazione veneziana è anche un racconto del romantico tedesco forse più poliedrico e
geniale, Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822). Il sondo volume della raccolta I fratelli di
Serapione, pubblicata nel 1819, contiene un racconto dal titolo Doge e Dogaressa, ispirato a un quadro di C.
Kolbe esposto nell’Accademia delle arti di Berlino nel 1816, come spiega l’autore stesso
nell’introduzione, splendido esempio di ekphrasis, ossia di descrizione di un dipinto. I due amici che si
chiedono se il quadro sia prodotto della pura fantasia o si basi su un evento storico realmente accaduto,
vengono illuminati da un terzo artista sul significato storico del dipinto. L’inizio, nonché cornice del
racconto presenta la Venezia trasfigurata nel quadro, ossia la città nell’interpretazione del pittore, quindi
una Meta-Venezia:

Ein Doge in reichen prächtigen Kleidern schreitet, die ebenso reich geschmückte Dogaresse an der Seite,
auf einer Balustrade hervor, er ein Greis mit grauem Bart, sonderbar gemischte Züge, die bald auf Kraft, bald auf
Schwäche, bald auf Stolz und Übermut, bald auf Gutmütigkeit deuten, im braunroten Gesicht; sie ein junges
Weib, sehnsüchtige Trauer, träumerisches Verlangen im Blick, in der ganzen Haltung. Hinter ihnen eine ältliche
Frau und ein Mann, der einen aufgespannten Sonnenschirm hält. Seitwärts an der Balustrade stößt ein junger
Mensch in ein muschelförmig gewundenes Horn, und vor derselben im Meer liegt eine reich verzierte, mit der
venetianischen Flagge geschmückte Gondel, auf der zwei Ruderer befindlich. Im Hintergrunde breitet sich das mit
hundert und aber hundert Segeln bedeckte Meer aus, und man erblickt die Türme und Paläste des prächtigen
Venedig, das aus den Fluten emporsteigt. Links unterscheidet man San Marco, rechts mehr im Vorgrunde San
Giorgio Maggiore. In dem goldnen Rahmen des Bildes sind
die Worte eingeschnitzt:

“Ah senza amare


Andare sul mare
Col sposo del mare
Non può consolare.”

“Ach! gebricht der Liebe Leben,


Kann auf hohem Meer zu schweben
Mit dem Gatten selbst des Meeres
Doch nicht Trost dem Herzen geben.”

Vor diesem Bilde entstand eines Tages ein unnützer Streit darüber, ob der Künstler durch das Bild nur
ein Bild, das heißt, die durch die Verse hinlänglich angedeutete augenblickliche Situation eines alten abgelebten
Mannes, der mit aller Pracht und Herrlichkeit nicht die Wünsche eines sehnsuchtsvollen Herzens zu befriedigen
vermag, oder eine wirkliche geschichtliche Begebenheit habe darstellen wollen. […] Von den Freunden unbemerkt,
hatte sich hinter ihnen ein Mann hingestellt von hohem edlen Ansehen, den grauen Mantel malerisch über die
Schulter geworfen, das Bild mit funkelnden Augen betrachtend. - Man geriet ins Gespräch und der Fremde sagte
mit beinahe feierlichem Tone: “Es ist ein eignes Geheimnis, daß in dem Gemüt des Künstlers oft ein Bild aufgeht,
dessen Gestalten, zuvor unkennbare körperlose, im leeren Luftraum treibende Nebel, eben in dem Gemüte des
Künstlers erst sich zum Leben zu formen und ihre Heimat zu finden scheinen. Und plötzlich verknüpft sich das
Bild mit der Vergangenheit oder auch wohl mit der Zukunft und stellt nur dar, was wirklich geschah oder

131
geschehen wird. Kolbe mag vielleicht selbst noch nicht wissen, daß er auf dem Bilde dort niemanden anders
darstellte, als den Dogen Marino Falieri und seine Gattin Annunziata.”

***

Meno carico di aspettative e meno ansioso di esotico, il meteoropatico e insicuro viennese


Franz Grillparzer (1791-1872), il nome forse più significativo del teatro alto dell’ottocento asburgico,
ha un approccio del tutto diverso alla città lagunare, come ci racconta nella sua autobiografia,
rievocando il suo viaggio in Italia del 1819:

Ich kam halb krank in Venedig an, was mich aber nicht hinderte, die wundervolle Stadt, diese versteinerte
Geschichte, mit all ihrem Zauber in mich aufzunehmen.

A tutta prima la città, come scrive in maniera esplicita nel suo Diario, non esercitò su
Grillparzer grande attrattiva, sopraffatto dai miasmi e dalla lordura, poi però anch’egli fu costretto a
riconoscere che Venezia - che da lontano gli appariva come un favo composto di mille celle, ma privo
di miele -possedeva comunque un fascino assolutamente unico:

Man hat oft den ersten Anblick von Venedig als so wunderbar beschrieben, ich habe es kaum so
gefunden. Es hat zwar allerdings etwas Befremdendes, Häuser und Paläste gerade aus dem Meere heraufsteigen
sehen, aber die Phantasie ersetzt leicht das fehlend Erdreich und man glaubt eben einen breiten Fluß mit vielen
Inseln vor sich zu sehen. […] Den ersten Eindruck den Venedig auf mich machte, war befremdend, einengend,
unangenehm. Diese morastische Lagunen, diese stinkenden Kanäle, der Schmutz und das Geschrei des
unverschämten, betrügerischen Volkes geben einen verdrießlichn Kontrast mit dem kaum verlassenen, heitern
Triest. Wenn man sich aber erst ein wenig erholt hat und den Totaleindruck dieser schwarzen Steinmassen
gesondert auf sich wirken lässt, dann wird man ebenso ergriffen als man vorher verstimmt war. […] Wer nicht
sein Herz stärker klopfen fühlt wenn er auf dem Makusplatz steht, der lasse sich begraben, denn er ist tot,
unwiederbringlich tot. Dieses Palast des Doge[n], ein Bild der Republik und der Stadt, mit seinem unförmlichen
Körper auf den Stützen wunderlicher Säulen und Bögen ruhend, vereinend die Starrheit in seinen ungefügen
unbeworfenen Wänden mit aller Zierlichkeit der Kunst in seinen Arkaden und Zinnen. Ich weiß nicht warum,
aber mir fiel ein Krokodil ein, als ich ihn sah, obschon seine Form nicht die geringste Ähnlichkeit mit diesem Tier
hat.

***

Animato da uno spirito che lo spinse lontano da una patria che sentiva come angusta, il conte
bavarese Karl August von Platen (1796-1835), dopo aver partecipato alle guerre napoleoniche, a
trent’anni lasciò definitivamente la Germania per condurre una vita vagabonda attraverso l’Italia, dove
concluse la sua breve vita a Siracusa. Platen è certo il maggior cantore di Venezia nella poesia tedesca
dell’Ottocento. Alcuni dei suoi Sonetti (1824) dedicati a questa città che amò profondamente,
dimostrano come per lui Venezia fosse la terra dei sogni
Il sonetto XVII descrive l’arrivo del poeta a S. Marco e la sua ammirazione per il Palazzo
Ducale, tanto bello e imponente ai suoi occhi che quasi non osa pensare di poterne oltrepassare la
soglia:

132
Mein Auge ließ das hohe Meer zurücke,
Als aus der Flut Palladios Tempel stiegen,
An deren Staffeln sich die Wellen schmiegen,
Die uns getragen ohne Falsch und Tücke.

Wir landen an, wir danken es dem Glücke,


Und die Lagune scheint zurück zu fliegen,
Der Dogen alte Säulengänge liegen
Vor uns gigantisch mit der Seufzerbrücke.

Venedigs Löwen, sonst Venedigs Wonne,


Mit eh’rnen Flügeln sehen wir ihn ragen
Auf seiner kolossalischen Kolonne.

Ich steig ans Land, nicht ohne Furcht und Zagen,


Da glänzt der Markusplatz im Licht der Sonne:
Soll ich ihn wirklich zu betreten wagen?

Nel successivo sonetto (XIX) Venezia è presentata come labirinto e come arcano che acquisisce
però una sua suddivisione sistematica se osservato dall’alto del campanile di S. Marco:

Dies Labyrinth von Brücken und von Gassen,


Die tausendfach sich ineinanderschlingen,
Wie wird hindurchzugehn mir je gelingen?
Wie werd ich je dies große Rätsel fassen?

Ersteigend erst des Markusturms Terrassen,


Vermag ich vorwärts mit dem Blick zu dringen,
Und aus den Wundern, welche mich umringen,
Entsteht ein Bild, es teilen sich die Massen.

Ich grüße dort den Ozean, den blauen,


Und hier die Alpen, die im weiten Bogen
Auf die Laguneninseln niederschauen.

Und sieh! da kam ein mut’ges Volk gezogen,


Paläste sich und Tempel sich zu bauen
Auf Eichenpfähle mitten in die Wogen.

Ma forse il più citato dei Sonetti venezani di Platen è il XXII, che lamenta in toni accorati la
decadenza di Venezia, soggiogata dalla smania imperialistica di Napoleone. La città appare qui soltanto
come l’ombra di se stessa, la sua fama passata è calpestata, il leone alato, suo simbolo, è stato abbattuto,
le carceri sotto il Ponte dei sospiri sono vuote e i cavalli di bronzo che adornano il campanile di S.
Marco portano il basto loro imposto dall’imperatore corso:

Venedig liegt nur noch im Land der Träume


Und wirft nur Schatten her aus alten Tagen,
Es liegt der Leu der Republik erschlagen,
Und öde feiern seines Kerkers Räume.

Die eh’rnen Hengste, die durch salz’ge Schäume


Dahergeschleppt, auf jener Kirche ragen,

133
Nicht mehr dieselben sind sie, ach! sie tragen
Des korsikan’schen Überwinders Zäume.

Wo ist das Volk von Königen geblieben,


Das diese Marmorhäuser durfte bauen,
Die nun verfallen und gemach zerstieben?

Nur selten finden auf des Enkels Brauen


Der Ahnen große Züge sich geschrieben,
An Dogengräbern in den Stein gehauen.

***

Fatale fu Venezia per l’aristocratico salesiano Moritz von Strachwitz (1822-1847) la cui breve
vita, dedicata soprattutto alla letteratura, si concluse dopo un viaggio a Venezia in cui il conte contrasse
una malattia mortale. In terzine – strofa non molto diffusa nella lirica tedesca – è il suo omaggio alla
città nel momento del commiato in autunno; purtroppo, dice il poeta, non può abbandonarsi alla magia
delle fate dei flutti, ma parte con nel cuore il desiderio di poter un giorno rivedere il suo prodigio
“d’acqua e di pietra” e di farsi di nuovo avvolgere nel sonno dalla sua malinconia:

Venedig

Venedig schwimmt in des Meeres Düften,


Schon rankt sich farbig in Gewind’ und Lauben
Des Herbstes Rebe über samtnen Triften.

Der erste Staub beginnt am Weg zu stauben,


Und fast verwundert hör’ ich wieder Pferde
Nach langer zeit im Morgenwinde schnauben.

Doch fast erbittert mich die grüne Erde! -


Du edle Stadt aus Wasser und aus Steinen,
Weiß Gott, wann ich dich wiedersehen werde.

Als wie ein Traumbild willst du uns erscheinen,


Und wie ein Traumbild seh’ ich dich verwehen,
Und schaue nach und möcht’ am liebsten weinen!

Denn wer gehört das Lied der Meerfeen,


Der starrt so lang ins feuchte Aug’ der Tiefe,
Bis er versinkt - und wird nicht mehr gesehen!

Und wenn mich nicht ein andres Auge riefe,


So scheu und tief, wie Adria’s Gewässer,
Geblieben wär’ ich bis mein Herz entschliefe -

Und nirgend schläft ein müdes Herz besser!

***

Il grande drammaturgo ottocentesco Friedrich Hebbel (1813 - 1863), arrivato al successo da


origini modestissime, si concesse nel 1852 un viaggio Venezia, che per lui fu la realizzazione di un

134
sogno; nella poesia dedicata alla città lagunare (l’edizione completa delle poesie di Hebbel uscì nel
1857), tuttavia, invita tutti a vivere Venezia non come una fiaba avulsa dalla realtà, ma a guardarla anche
nella sua concretezza storica:

Venedig

Wie ein verwirklichter Traum begrüßt dich das bunte Venedig


Wenn Du es flüchtig durchschiffst: nicht die versunkene Stadt
Glaubst du vor dir zu sehen, von welcher die Dichter erzählen,
Diese dünkt dir im Meer gleich von Tritonen erbaut,

Und du taumelst dahin, wie unter Korallen und Muscheln,


Und verwunderst dich nur, daß dich die Flut nicht ereilt.
Alles übrige paßt hinein in den Rahmen: der Doge,
Der sich den Wellen vermählt, und das vermummte Gericht,

Ja die Brücke der Seufzer, erschienen dir hier so natürlich,


Wie in des Ozeans Nacht Fische mit Sägen im Haupt.
Lass dir aber vom Führer berichten, wie alles entstanden,
Und das phantastische Bild löst in Vernunft sich dir auf!

***

Un tono assai più divertito e divertente presenta invece il sonetto che il barone anseatico Detlev
von Liliencron (1844-1909) dedica a Venezia, rievocando l’anno 1819 in cui il filosofo Arthur
Schopenhauer s’incontrò nella città lagunare con Lord Byron. Più che di un incontro, nei versi di
Liliencron si parla di uno scontro fra due gondole sul Canal Grande; per via dell’urto i due clienti si
ridestano così dalla loro estasi estetica e – benché indispettiti dall’accaduto – si presentano e fanno
reciproca conoscenza:

Unvermutetes Zusammentreffen

Ein unerhörter Fall hat sich begeben:


Zwei Gondeln stießen im Canale Grande
Unsanft zusammen. Das war eine Schande,
Wer glaubt je, solch Plumpstück zu erleben.

Die Insassen, die just vor Wonne beben


Bei ihrer Schönen, unter der Guirlande,
Erwachen aus der Liebe seligem Brande,
Um ihre Stirnen zornig zu erheben.

Will heut das Schicksal einen Festtag feiern?


Sie drohn sich an und liegen auf der Lauer:
Wer wird sein Quidproquo zuerst entschleiern?

Es rieselt durch die Welt ein heiliger Schauer:


Cosí mi chiamo, well Milordo Byron!
“Und ich, ich heiße Arthur Schopenhauer.”

***

135
Molto significativa fu l’impressione che Venezia esercitò su uno fra i poeti di lingua tedesca fra i
più grandi del secondo Ottocento, lo svizzero Conrad Ferdinand Meyer (1825-1898), anima
tormentata e incline alla depressione, per il quale il viaggio in Italia, intrapreso insieme alla sorella dopo
il suicidio della madre – che si era tolta la vita nel 1858 – costituì un momento di autentica
rigenerazione. A Venezia Meyer dedicò diverse poesie, scritte in tempi diversi, ma pubblicate soltanto
nel 1882. Maestro della ballata storica, Meyer, racconta per esempio nella serie di quartine che seguono
la storia della fondazione di Venezia, mettendola in bocca a Giorgine che intona questo canto su
richiesta della bella Giulia Vendramin. Partendo dall’invasione degli Unni che mettono a ferro e fuoco
Aquileia, costringendone gli abitanti a rifugiarsi sulle isole della laguna, viene qui illustrato l’evolversi
della città a partire dai suoi albori per dimostrare che il vero motore della sua nascita è stato l’amore:

Venedigs erster Tag

Eine glückgefüllte Gondel gleitet auf dem Canal Grande,


An Giorgione lehnt die Blonde mit dem roten Samtgewande.
“Giorgio, deiner Laute Saiten hör ich leise, leise klingen -”
“Julia Vendramin, Erlauchte, was befiehlst du mir zu singen?”

“Nichts von schönen Augen, Giorgio! Solches Thema sollst du lassen!


Singe, wie dem Meer entstiegen diese wunderbaren Gassen!
Fessle kränzend keine Locken, die sich ringeln los und ledig!
Giorgio, singe mir von meinem unvergleichlichen Venedig!”

“Meine süsse Muse will es! Es geschieht!” Er präludierte.


“Weiland, eh des heilgen Markus Flagge dieses Meer regierte,
Drüben dort, wo duftverschleiert Istriens schöne Berge blauen,
Sank vor ungezählten Jahren eine Dämmrung voller Grauen.

Durch das Dunkel huschen Larven, angstgeschreckte Hunde winseln,


Schreie gellen, Stimme warnen: ‚Löst die Böte! Nach den Inseln!’
In den Lüften haucht ein Odem, wie es in den Gräbern modert -
Schaurig tagen Meer und Himmel! Aquileja brennt und lodert!

Von der Stätte, wo die stillen, ungezähmten Flammen wogen,


Kommt ein dumpfes Menschenbrausen nach dem freien Strand gezogen:
Attila, die Gottesgeissel, jagt auf blutbesprengten Pfaden
Krieger mit zerbrochnen Schwertern, Fraun mit Schätzen schwer beladen.

Wie zum Hades Schatten wandern, ziehn zum Meere die Gescheuchten,
Das die purpurrot gefärbten Wolken weit hinaus beleuchten,
Witwen, Waisen schreiten jammernd, schweigend stürzen wunde Männer,
Mitten im Gewühle bäumen Wagen sich und scheue Renner.

Knie wanken, Füsse gleiten, Kästchen brechen, draus die hellen


Goldnen Reife rollend springen und die weißen Perlen quellen.
Nackte Küstenkinder starren gierig auf das rings zerstreute
Gold, und doch betastets keines - Etzels ist die ganze Beute!

136
Schiffer rüsten dunkle Nachen, drüber Wogen schäumend schlagen,
Durch die weiße Brandung werden bleiche Fraun an Bord getragen -
Mit der Rechten an die phrygsche Mütze langt der Meerplebejer
Beut zum Sprung ins Boot die Linke dem behelmten Aquilejer.

Schon entflieht ein Schiff mit wehnden Segeln, flatternden Gewanden


Drin sich weitgetrennte Lose sonder Wahl zusammenfanden,
Unbekannte Hände drücken sich in angstbeklommenem Traume
Aquilejas Überbleibsel schmiegen sich in engem Raume.

Letzte Scheideblicke wendend, sehn sie noch den Himmel bluten


Aber tiefer stets und ferner brennen die gesunknen Gluten.
Still verglimmt der Heimat müde Todesfackel. Auf die Ruder
Beugt sich Unglück neben Unglück, Bruder seufzend neben Bruder.

Eine Fürstin küsst ein Knäblein, ein dem Edelblute fremdes,


Eine Sklavin wärmt ein fürstlich Kind im Schoss des Wollenhemdes -
Unter ihnen eine Tiefe, über ihnen eine Wolke -
Liebe taut vom Himmel, Liebe wächst in diesem neuen Volke.

Über eines Mantels Flattern, sturmverwobten greisen Haaren


Will das Schweben einer Glorie einen Heilgen offenbaren,
Dieses ist der heilge Markus, rüstig rudernd wie ein andrer -
Nach den nahenden Lagunen lenkt die Fahrt der selge Wandrer.

Neben ihm der Jugendschlanke schlägt die Wellen, dass sie schallen,
Wirren Locken sind die Kränze schwelgerischer Lust entfallen.
Der Bacchant wird zum Äneas. Niederbrannte Trojas Feuer.
Mit den rudernden Genossen sucht er edles Abenteuer.

Mählich lichtet sich der Osten. In der ersten Helle schauen


Kecke Männer tief ins Antlitz morgenbleicher schöner Frauen
Lieblich Haupt, das blonde Flechten wie mit lichtem Ring umwinden,
Bald an einem tapfern Herzen wirst du deine Heimat finden!

Scharf gezeichnet neigt sich eines Helden narbge Stirne denkend


In das göttliche Geheimnis ewgen Werdens sich versenkend;
Rings in Stücke sprang zerschmettert Romas rostge Riesenkette,
Neue Weltgeschicke gönnen junger Freiheit eine Stätte ...

Wie geworfen aus dem Himmel heiter spielend von Auroren


Schwimmt ein lichter Kranz von Inseln in die blaue Flut verloren,
Durch die Brandung gehn die Kähne mit beseelten Ruderschlägen,
Fischer stehen, schaumgebadet, und sie rufen sich entgegen:

Flehnde kommen wir, Veneter! Drüben flammt ein weit Verderben!


Unsre Seelen sind entronnen einem ungeheuern Sterben!’
‘Freuet euch! Ihr lebt und atmet! Hier ist euch Asyl gegeben!
Friede sei mit euren Toten! Freude denen, die da leben!’

Machtvoll, Schwert und Ruder tragend, wallen Genien vor den Böten;
Auch ein Schwarm von Liebesgöttern flügelt durch die jungen Roten -
Über das Gestein der Insel geht ein Hauch von Lust und Wonne
Ahnungsvollem Meer entsteigend, prangt Venedigs erste Sonne.

Blonde Julia, deiner Heimat Ursprung hab ich dir verkündet,


Liebe hat die Stadt Venedig, Liebe hat die Welt gegründet -

137
Deiner Augen strahlend blauer Himmel würde bleichen ohne
Liebesfeuer und verstummen, wie die Laute des Giorgione!’

Più direttamente autobiografica è invece la poesia seguente, che rievoca un lungo soggiorno
italiano di Meyer che, innamorato del sud e dalla vocalità delle lingue romanze, si tratteneva volentieri al
di qua delle Alpi, ambientando anche molti dei suoi bei racconti in terra italiana. Dai versi seguenti
trapela il grande amore di Meyer per l’arte italiana, qui nello specifico per Tiziano – che per altro gli
ispira anche la ballata precedente –, pittore che ha evidentemente tratto la sua forza espressiva dalla sua
gente e dalla realtà di Venezia. Se nel ricordo la fisicità – architettonica e olfattiva – della città
s’annebbia, sempre ben vivo è un episodio vissuto dal poeta in prima persona: lo scoramento di una
fanciulla che si vede tradita dal proprio innamorato e, trascolorata, viene allontanata dalla madre dal
luogo che ha scatenato in lei quel dolore incoercibile:

Venedig

Venedig, einen Winter lebt ich dort


Paläste, Brücken, der Lagune Duft!
Doch hier im harten Licht der Gegenwart
Verdämmet mehlig mir die Märchenwelt.
Vielleicht vergaß ich einen Tizian.
Ein Frevel! Jenen doch vergaß ich nicht,
Wo über einem Sturm von Armen sich
Die Jungfrau feurig in die Himmel hebt,
So wenig als den andern Tizian -
Doch kein gemalter war’s - die Wirklichkeit:
Am Quai, dem nächt’gen, der Slavonen war’s.
Im Dunkel stand ich. Fenster schimmerten.
Zwei dürft’ge Frauen kamen hergerannt.
Hart an die Scheibe preßt’ das junge Weib
Die bleiche Stirn. Was drinnen sie erblickt,
Das sie erstarren machte, weiß ich nicht.
(Vielleicht den Herzgeliebten, welcher sie
An eines andern Weibes Brust verriet.)
Ich aber sah den feinsten Mädchenkopf
Vom Tod entfärbt! Ein Antlitz voller Tod!
Die Mutter führte weg die Schwankende...
Die beiden Tiziane blieben mir
Stets gegenwärtig; löschen sie, so lischt
Die Göttin vor dem armen Menschenkind.

Ma la poesia di Meyer dedicata a Venezia che è fra le sue più famose è certamente quella
dedicata al Canal Grande, colto nel momento del tramonto, in cui l’arcana fascinazione di questa arteria
d’acqua raggiunge la sua massima intensità. Un raggio di sole serotino avvolge in una tarda luce
purpurea risate e ammiccamenti malandrini che poi si spengono come il paesaggio che affonda nelle
tenebre:

138
Auf dem Canal grande

Auf dem Canal grande betten


Tief sich ein die Abendschatten,
Hundert dunkle Gondeln gleiten
Als ein flüsterndes Geheimnis.

Aber zwischen zwei Palästen


Glüht herein die Abendsonne,
Flammend wirft sie einen grellen
Breiten Streifen auf die Gondeln.
In dem purpurroten Lichte
Laute Stimmen, hell Gelächter,
Überredende Gebärden
Und das frevle Spiel der Augen.

Eine kurze, kleine Strecke


Treibt das Leben leidenschaftlich
Und erlischt im Schatten drüben
Als ein unverständlich Murmeln.

***

Venezia, che sempre godette di grande popolarità presso i tedeschi, diventò il simbolo degli
ultimi splendori di ogni grande romanticismo dopo la scoperta che di questa città fece Richard Wagner.
Il grande musicista giunse nella città lagunare per la prima volta nel 1858 e, come dice nei suoi diari, a
lui sembrò subito di non essere approdato in uno spazio reale, ma in un mondo di favola. A Venezia,
allora ancora austriaca, Wagner compose, com’è noto, il suo Tristan, e a Venezia, durante il suo sesto
soggiorno morì nel 1883. Friedrich Nietzsche (1844-1900), che inizialmente era stato un grande
ammiratore di Wagner e poi lo aveva attaccato per i suoi eccessi di decadenza, fu, come il compositore
di cui in fondo continuò a sentirsi l’erede, soggiogato dal fascino di Venezia. Nel settimo capitoletto del
suo testo autobiografico Ecce homo, scritto nel 1888, Nietzsche, dopo aver dichiarato che per lui Venezia
è sinonimo di musica, dedica alla città questa poesia, dove si sottolinea soprattutto l’acustica di uno
spazio crepuscolare al cui moto cullante è facile abbandonarsi:

In brauner Nacht

An der Brücke stand


jüngst ich in brauner Nacht,
Fernher kam Gesang:
goldner Tropfen quoll’s
über die zitternde Fläche weg.
Gondeln, Lichter, Musik -
trunken schwamm’s in die Dämm’rung hinaus...

Meine Seele, ein Saitenspiel,


sang sich, unsichtbar berührt,
heimlich ein Gondellied dazu,
zitternd vor bunter Seligkeit.
- Hörte jemand ihr zu?...

139
Nell’appendice a La gaia scienza, uscita nel 1882, Nietzsche tornò a dedicare una poesia a
Venezia. Si tratta in questo caso di quattro strofe di sette versi a rima alterna che esprimono l’euforia
del filosofo che rivedendo a Venezia prova per un momento una sensazione d’autentica felicità. La
spontaneità di questa esplosione di entusiasmo per Venezia è sottolineata dal ripetersi a mo’ di
ritornello e per due volte alla fine di ogni strofa l’esclamazione: “Mia felicità!”. Travolto da
quest’ebbrezza, l’io lirico invia sul mare canti come uno storno di colombi e vorrebbe “sorbire fino in
fondo” l’anima della Basilica di S. Marco che “ama, teme, invidia…” non meno dell’aguzzo e severo
Campanile che adorna quella piazza di sogno, che tuttavia raggiunge l’apice della sua bellezza al
crepuscolo:

Mein Glück!

Die Tauben von San Marco seh’ ich wieder:


still ist der Platz, Vormittag ruht darauf.
In sanfter Kühle schick’ich müßiger Lieder
gleich Taubenschwärmen in das Blau hinauf -
und locke sie zurück,
noch einen Reim zu hängen ins Gefieder
- mein Glück! Mein Glück!

Du stilles Himmels-Dach, blau-licht, von Seide,


wie schwebst du schimmernd ob des bunten Bau’s
den ich was sag ich? - liebe, fürchte, neide...
die Seele wahrlich tränk’ ich gern ihm aus!
Gäb’ ich sie je zurück? -
Nein still davon, du Augen-Wunderweide!
- mein Glück! Mein Glück!

Du strenger Turm, mit welchem Löwendrange


stiegst du empor hier, siegreich, sonder Müh’!
Du überklingst den Platz mit tiefem Klange -:
französisch, wärst du sein aigu?
Bleib’ ich gleich dir zurück,
ich wüßte, aus welch seidenweichem Zwange...
- mein Glück! Mein Glück!

Fort, fort, Musik! Lass erst die Schatten dunkeln


und wachsen bis zur braunen lauen Nacht!
Zum Tone ist’s zu früh am Tag, noch funkeln
die Gold-Zieraten nicht in Rosen-Pracht,
noch blieb viel Tag zurück,
viel Tag für Dichten, Schleichen, Einsam-Munkeln
- mein Glück! Mein Glück!

***

Nel tardo Ottocento, Venezia diventa meta obbligatoria per gli intellettuali tedeschi, ma anche
luogo prediletto per coppie in luna di miele. Nel romanzo Effi Briest (1895) di Theodor Fontane (1819-

140
1898) la giovanissima protagonista, che sta per sposare per decisione dei suoi genitori un burocrate
rigido e assai più anziano di lei, di cui non è affatto innamorata, esorcizza i suoi timori e le sue angosce
esaltandosi all’idea di un viaggio di nozze che la porterà a Venezia, di cui racconta:

Ich freue mich sehr auf Venedig. Da bleiben wir fünf Tage, ja, vielleicht eine ganze Woche. Geert hat mir schon
von den Tauben auf dem Markusplatze vorgeschwärmt, und daß man sich da Tüten mit Erbsen kauft und dann
die schönen Tiere damit füttert.

La ragazza che paventa la pedanteria del suo futuro consorte che le vuol mostrare pinacoteche e
gallerie d’arte, si rallegra all’immagine più turistica e banale di Venezia: quella di piazza S. Marco invasa
dai piccioni a cui dar da mangiare piselli secchi, tolti da un cartoccio.

***

Fra gli ammiratori incondizionati di Venezia, da cui rimase affascinato fin dal suo primo viaggio
in Italia nel 1901, non poteva mancare Hermann Hesse (1877-1962), che così descrive il suo arrivo
nella città lagunare:

Ankunft in Venedig

Du lautlos dunkler Kanal,


Verlassenen Bucht,
Uralter Häuser graue Flucht,
Gotische Fenster und maurisch verziertes Portal!
Von tiefem Traum besiegt,
Vom Tode eingewiegt
Schläft hier die Zeit
Und alles Leben scheint so weit, so weit!
Hier will ich ganz allein
Durch alte Gassen gehn,
Bei Fackelschein
An Goldentreppen stehn,
In blinde Fenster sehn,
Bang-glücklich wie ein Kind im Dunkeln sein.

La poesia, scritta da un giovane di ventiquattro anni, non eccelle certo per originalità. E’
interessante tuttavia notare che, mentre molti scrittori d’oltralpe sottolineano con irritazione il baccano
di Venezia e dei Veneziani, Hesse ne coglie qui, neo-romanticamente, il prodigio nel silenzio. Hesse
tornò a Venezia ancora nel 1903 e alla città dedicò un ciclo di sei Ballate, dal titolo complessivo di
Colloqui fra gondole, di cui qui si riporta soltanto un esempio:

II.

Was ich träume, fragst du? Daß wir beide


Gestern starben und im weißen Kleide,
Weiße Blumen in den losen Haaren,
In der schwarzen Gondel meerwärts fahren.
141
Glocken läuten fern vom Campanile,
Werden leiser, werden bald vom Kiele
Übergurgelt, den die Wellen schlagen.
Weiter meerwärts werden wir getragen
Dorthin, wo mit himmelhohen Masten
Schiffe schwarz am Horizonte rasten,
Wo die Fischerbarken mit den feuchten
Rot und gelben Segeln tiefer leuchten,
Wo die blauen großen Wogen brausen,
Wo die wilden Schiffermähren hausen.

Dort durch eines Wassertores blauen Rachen


Segelt abwärts unser leichter Nachen
In die Tiefen, deren weite Räume
Fremd erfüllen die Krallenbäume,
Wo die Muscheln, die verborgen glimmen,
Bleiche Riesenperlen köstlich schimmern.
Scheue Silberfische glänzen leise
Uns vorbei und lassen Farbengleise,
Deren Furche andre überglänzen
Mit den goldenroten schlanken Schwänzen.

Träumend dort in meilentiefer Tiefe


Wird uns sein, als ob zuweilen riefe
Einer Glocke Ton, ein Windeswehen,
Deren fernes Lied wir nicht verstehen,
Deren fernes Lied von engen Gassen
Redet, die wir langeher verlassen,
Und von Dingen, die wir ehemals kannten,
Und von Wegen, die wir ehemals fanden.

Einer Straße, eines Kircheninnern


Werden wir verwundert uns erinnern,
Eines Gondelrufs und vieler Namen,
Die wir manches Mal Vorzeit vernahmen.
Lächelnd, wie im Schlaf die Kinder pflegen,
Werden wir die stummen Lippen regen
Und das Wort wird, eh wir’s können lallen,
In Vergessenheit und Traumtod fallen.

Über uns die Schiffe gleiten,


Dunkle Barken bunte Segel breiten,
Weiße Vögel in der Sonne fliegen,
Blanke Netze auf dem Wasser liegen,
Und darüber hoch und rein gezogen
Eines Sonnenhimmels blauer Bogen.

***

Assai meno semplici suonano i molti versi del vastissimo poema L’aurora boreale (1910) del
cosmico triestino Theodor Däubler (1876-1934) che sono dedicati a Venezia, città che ebbe una parte
importante nella giovinezza dell’autore. Nei toni dell’espressionismo Däubler esprime in tono mistico e

142
patetico in questo immenso poema - 30 000 versi - la propria idea di cosmogonia. Neppure i passi
dedicati a Venezia fanno eccezione; qui soltanto uno dei molti passi dedicati alla città lagunare:

Oh Farbenstadt Venedig, dir zu Füßen


Verstreut und legt ein grüner Strom Juwelen,
Das Meer will jedes Dogenhaus begrüßen,
Es dürfen nirgends Fluthgeflechte fehlen.
Auf himmelblauem Dunkelgluthengrunde,
Verbrähmt und strickt das Meer vor jedem Schlosse
Prunkteppiche und seiner Tiefe Funde
Umschwärmen leuchtend jede Seekarosse.
Harmonisch sind des Meeres Sonnenstoffe.
Vor Marmortreppen webt es Zängelspitzen
Und droht verfinsternd steil das Gothisch Schroffe,
So hilft es sich mit Silbewirbelwitzen.
Die reinsten Flammen sind Türkisen, Rauten,
Doch hebt das Meer oft Perlenspiegel,
Narzissen schwemmt es vor die Schimmerbauten
Und rothe Nelken vor Verwitterungsziegel.
Ein wahrer Prachtdamast ruht vor den Stufen
Der Muttergotteskirche “la Salute”
Das Meer hat allen Prunk emporgerufen,
In diesem Teppich wirkt es Grundtribute.
Die Kirchenkuppel blickt mit mildem Auge
Zur Spenderin der Reinheit auf, zur Sonne,
Da scheint es fast, als labe sich und sauge
Ein Tempelwunsch am stillen Milchtagsbronne.
Venedig, die Empfindungsinseln stiller Stunden
In deinen Fluthen, geb ich dir in Liedern wieder,
Venedig, bunte Fernen sind in dir verbunden,
Verschwundene Namen öffnen hier die Schlummerlieder.

***

Avvolta in un’altra atmosfera e simbolo di un mito diverso è invece la città nella famosa novella
Morte a Venezia (1912), scritta da Thomas Mann (1875-1955) fra il luglio del 1911 e il luglio successivo
e destinata ad avere grande popolarità anche nel nostro paese, soprattutto grazie alla versione
cinematografica che di questo testo propose Luchino Visconti nel 1970. Nel racconto manniano la città
appare come lo spazio in cui Dioniso gioca in maniera sfrenata con Eros e Thanatos, coniugandoli in
un connubio di voluttà e lesionismo che trionfa nella morte del protagonista guidato nell’aldilà da
Tadzio, il ragazzo di cui si è invaghito, che si trasforma in un lagunare Ermes psicopompo. Venezia è
qui città della malattia e della marcescenza esteriore ed interiore, luogo della seduzione e della
disponibilità a farsi sedurre, dove l’ansia di recupero della giovinezza perduta diventa ridicolaggine e la
gondola somiglia alla bara. Ogni pagina di questa stupenda novella potrebbe essere qui citata per
illustrare il tratto malato e decadente di una città che è simbolo di una bellezza il cui sfacelo diventa
sempre più corrosivo più rapido si fa il cammino del protagonista verso la morte. Prendiamo solo un

143
esempio dal terzo dei cinque capitoli in cui è suddivisa la novella, scegliendo il momento in cui lo
scrittore Aschenbach arriva a Venezia:

Der Himmel war grau, der Wind feucht; Hafen und Inseln waren zurückgeblieben, und rasch verlor sich
aus dem dunstigen Gesichtskreise alles Land. Flocken von Kohlenstaub gingen, gedunsen von Nässe, auf das
gewaschene Deck nieder, das nicht trocknen wollte. Schon nach einer Stunde spannte man ein Segeldach aus, da es
zu regnen begann.
In seinen Mantel geschlossen, ein Buch im Schoße, ruhte der Reisende, und die Stunden verrannen ihm
unversehens. Es hatte zu regnen aufgehört; man entfernte das leinene Dach. Der Horizont war vollkommen. Unter
der breiten Kuppel des Himmels dehnte sich rings die ungeheure Scheibe des öden Meeres; aber im leeren,
ungegliederten Raume fehlt unserem Sinn auch das Maß der Zeit, und wir dämmern im Ungemessenen. Schattenhaft
sonderbare Gestalten, der greise Geck, der Ziegenbart aus dem Schiffsinnern, gingen mit unbestimmten Gebärden,
mit verwirrten Traumworten durch den Geist des Ruhenden, und er schlief ein.
Um Mittag nötigte man ihn hinab, damit er in dem korridorartigen Speisesaal, auf den die Türen der
Schlafkojen mündeten, zu Häupten eines langen Tisches, an dessen unterem Ende die Handelsgehülfen,
einschließlich des Alten, seit zehn Uhr mit dem munteren Kapitän pokulierten, die bestellte Mahlzeit nähme. Sie
war armselig, und er beendete sie rasch. Es trieb ihn ins Freie, nach dem Himmel zu sehen: ob er denn nicht über
Venedig sich erhellen wollte.
Er hatte nicht anders gedacht, als daß dies geschehen müsse, denn stets hatte die Stadt ihn im Glanze
empfangen. Aber Himmel und Meer blieben trüb und bleiern, zeitweilig ging neblichter Regen nieder, und er fand
sich darein, auf dem Wasserwege ein anderes Venedig zu erreichen, als er, zu Lande sich nähernd, je angetroffen
hatte. Er stand am Fockmast, den Blick im Weiten, das Land erwartend. Er gedachte des schwermütig-
enthusiastischen Dichters, dem vormals die Kuppeln und Glockentürme seines Traumes aus diesen Fluten gestiegen
waren, er wiederholte im Stillen einiges von dem, was damals an Ehrfurcht, Glück und Trauer zu maßvollem
Gesange geworden, und von schon gestalteter Empfindung mühelos bewegt, prüfte er sein ernstes und müdes Herz, ob
eine erneuernde Begeisterung und Verwirrung, ein spätes Abenteuer des Gefühles dem fahrenden Müßiggänger
vielleicht noch vorbehalten sein könne.
Da tauchte zur Rechten die flache Küste auf, Fischerboote belebten das Meer, die Bäderinsel erschien, der
Dampfer ließ sie zur Linken, glitt verlangsamten Ganges durch den schmalen Port, der nach ihr benannt ist, und
auf der Lagune, angesichts bunt armseliger Behausungen hielt er ganz, da die Barke des Sanitätsdienstes erwartet
werden mußte.
Eine Stunde verging, bis sie erschien. Man war angekommen und war es nicht; man hatte keine Eile und
fühlte sich doch von Ungeduld getrieben. Die jungen Polenser, patriotisch angezogen auch wohl von den militärischen
Hornsignalen, die aus der Gegend der öffentlichen Gärten her über das Wasser klangen, waren auf Deck
gekommen, und, vom Asti begeistert, brachten sie Lebehochs auf die drüben exerzierenden Bersaglieri aus. Aber
widerlich war es zu sehen, in welchen Zustand den aufgestutzten Greisen seine falsche Gemeinschaft mit der Jugend
gebracht hatte. Sein altes Hirn hatte dem Weine nicht wie die jugendlich rüstigen Stand zu halten vermocht, er war
kläglich betrunken. Verblödeten Blicks, eine Zigarette zwischen den zitternden Fingern, schwankte er, mühsam das
Gleichgewicht haltend, auf der Stelle, vom Rausche vorwärts und rückwärts gezogen. Da er beim ersten Schritte
gefallen wäre, getraute er sich nicht vom Fleck, doch zeigte er einen jammervollen Übermut, hielt jeden, der sich ihm
näherte, am Knopfe fest, lallte, zwinkerte, kicherte, hob seinen beringten, runzeligen Zeigefinger zu alberner Neckerei
und leckte auf abscheulich zweideutige Art mit der Zungenspitze die Mundwinkel. Aschenbach sah ihm mit
finsteren Brauen zu, und wiederum kam ein Gefühl von Benommenheit ihn an, so, als zeige die Welt eine leichte,
doch nicht zu hemmende Neigung, sich ins Sonderbare und Fratzenhafte zu entstellen; ein Gefühl, dem
nachzuhängen freilich die Umstände ihn abhielten, da eben die stampfende Tätigkeit der Maschine aufs neue begann
und das Schiff seine so nah dem Ziel unterbrochene Fahrt durch den Kanal von San Marco wieder aufnahm. So sah
er ihn denn wieder, den erstaunlichsten Landungsplatz, jene blendende Komposition phantastischen Bauwerks,
welche die Republik den ehrfürchtigen Blicken nahender Seefahrer entgegenstellte: die leichte Herrlichkeit des Palastes
und die Seufzerbrücke, die Säulen mit Löw’ und Heiligem am Ufer, die prunkend vortretende Flanke des
Märchentempels, den Durchblick auf Torweg und Riesenuhr, und anschauend bedachte er, daß zu Lande, auf dem
Bahnhof in Venedig anlangen, einen Palast durch eine Hintertür betreten heiße, und daß man nicht anders als wie
nun er, als zu Schiffe, als über das hohe Meer die unwahrscheinlichste der Städte erreichen sollte.
Die Maschine stoppte, Gondeln drängten herzu, die Fallreepstreppe ward herabgelassen, Zollbeamte stiegen
an Bord und walteten obenhin ihres Amtes; die Ausschiffung konnte beginnen. Aschenbach gab zu verstehen, daß er
eine Gondel wünsche, die ihn und sein Gepäck zur Station jener kleinen Dampfer bringen solle, welche zwischen der
Stadt und dem Lido verkehren; denn er gedachte am Meere Wohnung zu nehmen. Man billigt sein Vorhaben, man

144
schreit seinen Wunsch zur Wasserfläche hinab, wo die Gondelführer im Dialekt mit einander zanken. Er ist noch
gehindert, hinabzusteigen, sein Koffer hindert ihn, der eben mit Mühsal die leiterartige Treppe hinunter gezerrt und
geschleppt wird. So sieht er sich minutenlang außerstande, den Zudringlichkeiten des schauderhaften Alten zu
entkommen, den die Trunkenheit dunkel antreibt, dem Fremden Abschiedshonneurs zu machen. “Wir wünschen
den glücklichsten Aufenthalt”, meckert er unter Kratzfüßen. “Man empfiehlt sich geneigter Erinnerung! Au revoir,
excusez und bon jour, Euer Exzellenz!” Sein Mund wässert, er drückt die Augen ein, er leckt die Mundwinkel,
und die gefärbte Bartfliege an seiner Greisenlippe sträubt sich empor. “Unsere Komplimente”, lallt er, zwei
Fingerspitzen am Munde, “unsere Komplimente dem Liebchen, dem allerliebsten, dem schönsten Liebchen...” Und
plötzlich fällt ihm das falsche Obergebiß vom Kiefer auf die Unterlippe. Aschenbach konnte entweichen. “Dem
Liebchen, dem feinen Liebchen”, hörte er in girrenden, hohlen und behinderten Lauten in seinem Rücken, während
er, am Strickgeländer sich haltend, die Fallreepstreppe hinabklomm.
Wer hätte nicht einen flüchtigen Schauder, eine geheime Scheu und Beklommenheit zu bekämpfen gehabt,
wenn es zum ersten Male oder nach langer Entwöhnung galt, eine venezianische Gondel zu besteigen? Das seltsame
Fahrzeug, aus balladesken Zeiten ganz unverändert überkommen und so eigentümlich schwarz, wie sonst unter allen
Dingen nur Särge sind, es erinnert an lautlose und verbrecherische Abenteuer in plätschernder Nacht, es erinnert
noch mehr an den Tod selbst, an Bahre und düsteres Begängnis und letzte, schweigsame Fahrt. Und hat man
bemerkt, daß der Sitz einer solchen Barke, dieser sargschwarz lackierte, mattschwarz gepolsterte Armstuhl, der
weichste, üppigste, der erschlaffendste Sitz von der Welt ist? Aschenbach ward es gewahr, als er zu Füßen des
Gondoliers, seinem Gepäck gegenüber, das am Schnabel reinlich beisammen lag, sich niedergelassen hatte. Die
Ruderer zankten immer noch, rauh, unverständlich, mit drohenden Gebärden. Aber die besondere Stille der
Wasserstadt schien ihre Stimmen sanft aufzunehmen, zu entkörpern, über der Flut zu zerstreuen. Es war warm
hier im Hafen. Lau angerührt vom Hauch des Scirocco, auf dem nachgiebigen Element in Kissen gelehnt, schloß der
Reisende die Augen im Genuß einer so ungewohnten als süßen Lässigkeit. Die Fahrt wird kurz sein, dachte er;
möchte sie immer währen! In leisem Schwanken fühlte er sich dem Gedränge, dem Stimmengewirr entgleiten.
Wie still und stiller es um ihn wurde! Nichts war zu vernehmen als das Plätschern des Ruders, das hohle
Aufschlagen der Wellen gegen den Schnabel der Barke, der steil, schwarz und an der Spitze hellebardenartig bewehrt
über dem Wasser stand und noch ein Drittes, ein Reden, ein Raunen,-das Flüstern des Gondoliers, der zwischen den
Zähnen, stoßweise, in Lauten, die von der Arbeit seiner Arme gepreßt waren, zu sich selber sprach. Aschenbach
blickte auf, und mit leichter Befremdung gewahrte er, daß um ihn her die Lagune sich weitete und seine Fahrt dem
offenen Meere zugekehrt war. Es schien folglich, daß er nicht allzu sehr ruhen dürfe, sondern auf den Vollzug seines
Willens ein wenig bedacht sein müsse.
-Zur Dampferstation also! sagte er mit einer halben Wendung rückwärts. Das Raunen verstummte. Er
erhielt keine Antwort.
-Zur Dampferstation also! wiederholte er, indem er sich vollends umwandte und in das Gesicht des
Gondoliers emporblickte, der hinter ihm, auf erhöhtem Borde stehend, vor dem fahlen Himmel aufragte. Es war ein
Mann von ungefälliger, ja brutaler Physiognomie, seemännisch blau gekleidet, mit einer gelben Schärpe gegürtet und
einen formlosen Strohhut, dessen Geflecht sich aufzulösen begann, verwegen schief auf dem Kopfe. Seine
Gesichtsbildung, sein blonder, lockiger Schnurrbart unter der kurz aufgeworfenen Nase ließen ihn durchaus nicht
italienischen Schlages erscheinen. Obgleich eher schmächtig von Leibesbeschaffenheit, so daß man ihn für seinen Beruf
nicht sonderlich geschickt geglaubt hätte, führte er das Ruder, bei jedem Schlage den ganzen Körper einsetzend, mit
großer Energie.
***

La prima lirica dalla sezione Canto dei trapassati della raccolta Sebastian in sogno (pubblicata solo
postuma nel 1915) del salisburghese Georg Trakl (1887-1914) è composta di tre cinquine e intitolata A
Venezia. Si tratta di versi che esprimono una profonda solitudine esistenziale, dove Venezia è solo un
pretesto, vissuto fra le pareti di una stanza arredata con gusto tipicamente “veneziano”, per quanto si
può arguire dallo scintillio argenteo del lampadario e dalla nuvolaglia rosea, probabilmente dipinta sul
soffitto. Persino il mare non dà segni di movimento in una città che sembra paralizzata, come lo è l’io
lirico, irrigidito nel proprio tormento che della vita esterna conserva solo il ricordo del sorriso di un
bimbo malato.

145
In Venedig

Stille in nächtigem Zimmer


Silbern flackert der Leuchter
Vor dem singenden Odem
Des Einsamen;
Zaubrisches Rosengewölk.

Schwärzlicher Fliegenschwarm
Verdunkelt den steinernen Raum
Und es starrt von der Qual
Des goldenen Tags das Haupt
Des Heimatlosen.

Reglos nachtet das Meer.


Stern und schwärzliche Fahrt
Entschwand am Kanal.
Kind, dein kränkliches Lächeln
Folgte mir leise im Schlaf.

***

Al 1918 risale la pubblicazione della novella di Arthur Schnitzler (1862-1931) Il ritorno di


Casanova, che presenta il libertino, già ultracinquantenne e orma privo delle sue doti deduttive, che
rientra nella città natale per diventare spia; al suo crollo fisico si appaia qui il suo progressivo cedimento
spirituale che lo induce ad accettare un servizio di delatore davvero poco dignitoso. Ecco perché, a
conclusione del racconto, il riavvicinamento ai luoghi della sua giovinezza dopo un quarto di secolo
d’assenza, è un tuffo progressivo nei ricordi e insieme la verifica dell’impossibilità di recuperare
emozioni per sempre perdute:

Es war am dritten Morgen seiner Reise, daß er, von Mestre aus, den Glockenturm nach mehr als
zwanzig Jahren der Sehnsucht zum erstenmal wieder erschaute, - ein graues Steingebilde, das einsam ragend aus
der Dämmerung wie aus weiter Ferne vor ihm auftauchte. Aber er wußte, daß ihn jetzt nur mehr eine Fahrt von
zwei Stunden von der geliebten Stadt trennte, in der er jung gewesen war. Er entlohnte den Kutscher, ohne zu
wissen, ob es der vierte, fünfte oder sechste war, mit dem er seit Manta abzurechnen hatte, und eilte, von einem
Jungen gefolgt, der ihm das Gepäck nachtrug, durch die armseligen Straßen zum Hafen, um das Marktschiff zu
erreichen, das heute noch, wie vor fünfundzwanzig Jahren, um sechs Uhr nach Venedig abging. Es schien nur
noch auf ihn gewartet zu haben; kaum hatte er unter Weibern, die ihre Ware zur Stadt brachten, kleinen
Geschäftsleuten, Handwerkern auf einer schmalen Bank seinen Platz eingenommen,
als sich das Schiff in Bewegung setzte. Der Rimmel war trüb; Dunst lag auf den Lagunen; es roch nach faulem
Wasser, nach feuchtem Holz, nach Fischen und nach frischem Obst. Immer höher ragte der Campanile, andre
Türme zeichneten sich in der Luft ab, Kirchenkuppeln wurden sichtbar; von irgendeinem Dach, von zweien, von
vielen glänzte der Strahl der Morgensonne ihm entgegen; - Häuser rückten auseinander, wuchsen in die Höhe;
Schiffe, größere und kleinere, tauchten aus dem Nebel; Grüße von einem zum andern wurden getauscht.
Das Geschwätz rings um ihn wurde lauter; ein kleines Mädchen bot ihm Trauben zum Kauf; er
verzehrte die blauen Beeren, spuckte die Schalen nach der Art seiner Landsleute hinter sich über Bord und ließ
sich in ein Gespräch mit irgendeinem Menschen ein, der seine Befriedigung darüber äußerte, daß nun endlich
schönes Wetter anzubrechen scheine. Wie, es hatte hier drei Tage lang geregnet? Er wußte nichts davon; er kam
aus dem
Süden, aus Neapel, aus Rom … Schon fuhr das Schiff durch die Kanäle der Vorstadt; schmutzige Häuser
starrten ihn aus trüben Fenstern wie mit blöden, fremden Augen an, zwei-, dreimal hielt das Schiff an, ein paar
junge Leute, einer mit einer großen Mappe unterm Arm, Weiber mit Körben stiegen aus; - nun kam man in

146
freundlichere Bezirke. War dies nicht die Kirche, in der Martina zur Beichte gegangen war? - Und dies nicht das
Haus, in dem er die blasse, todkranke Agathe auf seine Weise wieder rot und gesund gemacht hatte? - Und hatte
er in jenem nicht den schuftigen Bruder der reizenden Silvia braun und blau geprügelt?
Und in jenem Seitenkanal das kleine gelbliche Haus, auf dessen wasserbespülten Stufen ein dickes
Frauenzimmer mit nackten Füßen stand … Ehe er sich noch zu besinnen vermochte, welche Erscheinung aus
fernen Jugendtagen er dahin zu versetzen hatte, war das Schiff in den großen Kanal eingelenkt und fuhr nun auf
der breiten Wasserstraße langsam zwischen Palästen weiter. Es war Casanova, von seinem Traume her, als war
er erst tags vorher denselben Weg gefahren. An der Rialtobrücke stieg er aus; denn eh’ er sich zu Herrn Bragadino
begab, wollte er in einem nahen kleinen, wohlfeilen Gasthof, dessen er sich der Lage, aber nicht dem Namen nach
erinnerte, sein Gepäck unterbringen und sich eines Zimmers versichern. Er fand das Haus verfallener, oder
mindestens vernachlässigter, als er es im Gedächtnis bewahrt hatte; ein verdrossener, unrasierter Kellner wies ihm
einen wenig
freundlichen Raum mit der Aussicht auf die fensterlose Mauer eines gegenüberliegenden Hauses an. Doch
Casanova wollte keine Zeit verlieren; auch war ihm, da sich seine Barschaft auf der Reise beinahe gänzlich
erschöpft hatte, der niedrige Preis des Zimmers sehr erwünscht; so beschloß er, vorläufig hier zu bleiben, befreite
sich vom Staub und Schmutz der langen Reise, überlegte eine Weile, ob er sich in sein Prachtgewand werfen sollte,
fand es dann doch angemessen, wieder das bescheidenere anzulegen, und verließ endlich den Gasthof.

***
La Venezia di Casanova – che era anche quella del Tintoretto e del Canaletto – affascinò
moltissimo anche un altro poeta del cosiddetto gruppo della “Giovane Vienna” come Schnitzler: Hugo
von Hofmannsthal (1874-1929), che ambientò in quell’atmosfera storica il suo dramma L’avventuriero e
la cantante (1897), la sua prima commedia, Il ritorno di Cristina (1910) e parte del suo unico romanzo,
rimasto frammentario, Andrea ovvero i ricongiunti, al quale il poeta lavorò dal 1913 al 1924. Così descrive
Hofmannsthal l’arrivo del protagonista nella città lagunare, un luogo estraneo e strano, che tuttavia gli
ispira fiducia:

“Das geht gut”, dachte der junge Herr Andreas von Ferschengelder, als der Barkenführer ihm am
12. September 1778 seinen Koffer auf die Steintreppe gestellt hatte und wieder abstieß, “das wird gut, läßt mich
da stehen, mir nichts dir nichts, einen Wagen gibts nicht in Venedig, das weiß ich, ein Träger, wie käme da einer
her, es ist ein öder Winkel, wo sich die Füchse gute Nacht sagen. Als ließe man einen um sechs Uhr früh auf der
Rossauerlände oder unter den Weißgärbern aus der Fahrpost aussteigen, der sich in Wien nicht auskennt. Ich
kann die Sprache, was ist das weiter, deswegen machen sie doch aus mir was sie wollen! Wie redt man denn
wildfremde Leute an, die in ihren Häusern schlafen - klopf ich an, und sag: Herr Nachbar?” Er wußte, er würde
es nicht tun, - indem waren Schritte hörbar, scharf und deutlich in der Morgenstille auf dem steinernen Erdboden;
es dauerte lange, bis sie näher kamen, da trat aus einem Gäßchen ein Maskierter hervor, wickelte sich fester in
seinen Mantel, nahm mit beiden Händen ihn zusammen und wollte quer über den Platz gehen. Andreas tat einen
Schritt vor und grüßte, die Maske lüftete den Hut und zugleich die Halblarve, die innen am Hut befestigt war.
Es war ein Mann, der vertrauenswürdig aussah, und nach seinen Bewegungen und Manieren gehörte er zu den
besten Ständen. Andreas wollte sich beeilen, es dünkte ihn unartig, einen Herrn, der nach Hause ging, zu dieser
Stunde lang aufzuhalten, er sagte schnell, daß er ein Fremder sei, eben angekommen aus Wien von Villach in
Kärnten und über Görz. Sogleich erschien ihm weitschweifig und ungeschickt, daß er die Stationen genannt hatte,
er wurde verlegen und verwirrte sich im Italienischreden.
Der Fremde trat mit einer sehr verbindlichen Bewegung näher und sagte, daß er ganz zu seinen Diensten
sei. Von dieser Gebärde war vorne der Mantel aufgegangen, und Andreas sah, daß der höfliche Herr unter dem
Mantel im bloßen Hemde war, darunter nur Schuhe ohne Schnallen und herabhängende Kniestrümpfe, die die
halbe Wade bloß ließen. Schnell bat er den Herrn, doch ja bei der kalten Morgenluft sich nicht aufzuhalten und
seinen Weg nach Hause fortzusetzen, er werde schon jemanden finden, der ihn nach einem Logierhaus weise oder
zu einem Wohnungsvermieter. Der Maskierte schlug den Mantel fester um die Hüften und versicherte, er habe
durchaus keine Eile. Andreas war tödlich verlegen im Gedanken, daß der andere nun wisse, er habe sein
sonderbares Negligé gesehen; durch die alberne Bemerkung von der kalten Morgenluft und vor Verlegenheit wurde
ihm ganz heiß, so daß er unwillkürlich auch seinerseits den Reisemantel vorne auseinanderschlug, indessen der

147
Venezianer aufs höflichste vorbrachte, daß es ihn besonders freue, einem Untertan der Kaiserin und Königin
Maria Theresia einen Dienst zu erweisen, um so mehr, als er schon mit mehreren Österreichern in Freundschaft
gestanden habe, so mit dem Pandurenobersten Baron Reischach und mit dem Grafen Esterhazy. Diese
wohlbekannten Namen, von dem Fremden hier so vertraulich ausgesprochen, flößten Andreas großes Zutrauen
ein.

A Venezia, bella in apparenza e corrotta nel profondo, Hofmannsthal (1874-1929) dedica anche
un brano del suo dramma lirico La morte di Tiziano (1892), ambientato nel 1576, anno della morte del
grande pittore. Uno degli allievi del maestro morente, Desiderio, esteta raffinato come gli altri del
gruppo, dalla villa del Maestro - locus amoenus per eccellenza - guarda da lontano alla città di Venezia,
vista come il luogo della vita attiva e quindi come covo di volgarità con cui non mescolarsi:

Siehst du die Stadt, wie sie jetzt drunten ruht?


Gehüllt in Duft und goldne Abendglut
Und rosig helles Gelb und helles Grau,
Zu ihren Füßen schwarzer Schatten Blau,
In Schönheit lockend, feuchtverklärter Reinheit?
Allein in diesem Duft, dem ahnungsvollen,
Da wohnt die Häßlichkeit und die Gemeinheit,
Und bei den Tieren wohnen dort die tollen;
Und was die Ferne weise dir verhüllt,
Ist ekelhaft und trüb und schal erfüllt
Von Wesen, die die Schönheit nicht erkennen
Und ihre Welt mit unsern Worten nennen...
Denn unsre Wonnen oder unsre Pein
Hat mit derihren nur das Wort gemein...
Und liegen wir in tiefem Schlafe befangen,
So gleicht der unsre ihrem Schlafe nicht:
Da schlafen Purpurblüten, goldne Schlangen,
Da schläft ein Berg ein Berg, in dem Titanen hämmern -
Sie aber schlafen, wie die Austern dämmern.

***

In più di un’occasione ha dedicato versi a Venezia anche il malinconico e schivo Rainer Maria
Rilke (1875-1926), legato alla città da amicizie e affetti. Il primo componimento lirico qui presentato è
tratto dalla raccolta giovanile Le undici visioni di Cristo, risalente probabilmente al 1897, ossia alla prima
visita del poeta alla città lagunare, avvenuta poco prima del suo incontro con Lou Andreas Salomé, che
avrebbe dato una svolta al suo destino. Rilke allora si spinge a Venezia da Arco, usando come guida Il
viaggio in Italia di Goethe, che tuttavia ben presto gli appare troppo lucido, privo di “atmosfera”. Nella
lunga poesia Rilke descrive la città lagunare in maniera tradizionale, salvo farvi comparire un Cristo che
lega il proprio destino a quello del martire risorgimentale Silvio Pellico, che, prigioniero degli austriaci,
si converte:

148
Venedig

Die junge Nacht liegt wie ein kühler Duft


auf dem Canal , und grauer nun und greiser
sind die Paläste und die Gondeln leiser,
als führte jede einen toten Kaiser
in seine Gruft.
Und viele fahren, aber eine schwenkt
jetzt scheu und ängstlich in die tiefsten Gassen,
weil tiefste Liebe oder tiefstes Hassen
ihr Steuer lenkt.
Vor einem Marmorhaus mit staubger Zier
drängt sie sich horchend an die Wappenpfähle.
Und lange ruhte keine Gondel hier.
Die Stufen warten. - Fern aus heller Kehle
am Canal grande singt ein Gondolier,
und suchend irrt sein Lied durch die Kanäle.
Der Fremde steht und trinkt den Klang voll Gier,
in lauter Lauschen löst sich seine Seele:
Vorrei morir...

Der Abend zog vorbei am Erdgeschoß


des Dogenhofs, und die Reflexe rannten
hin wie ein Schwarm von wunden Flagellanten.
Er aber stand so einsam ernst und groß
am Fuß der stolzen Treppe der Giganten,
und seiner Blicke dunkle Bogen spannten
sich nach dem Fenster, dessen Flächen brannten:
sie heißen es das Fenster Pellico’s.
Er nickte leise, so als stände jener
noch dort, der einst in ewig öder Haft
ergeben wie ein echter Nazarener
verzichtete auf Zorn und Kampf und Kraft.
Vielleicht giebt er den Gruß zurück und rafft
des Vorhangs Falten. Wenn noch seinen Namen
Verliebte, (die) des Wegs vorüberkamen,
zusammenträumen mit den Sündendramen,
erschien er hoch im heißen Fensterrahmen,
er lächelte das Lächeln einer zahmen
in Fesseln müd gewordnen Leidenschaft. -
Und jener unten lächelte es mit.
Dann stieg er stufenan mit scheuem Schritt
und stand oft still, im vollen Abendscheine,
drin die Arkaden, wie versteinte Haine,
zu harren schienen, daß er sie durchweine,
so traurig war er; denn es war der Eine,
der immer dankte, wenn er sprach: ich litt.
Sein Haupt war schwer, und schweren Fußes ging
er in die leeren Marmorbogengänge,
an denen wie vergessenes Gepränge
der rote, raschverwelkte Abend hing.
Ihn fröstelte, und hastig ward sein Schreiten,
das bang erklang im hallend langen Gang.
Vor seiner eignen Lehre war ihm bang:
vor jener Lehre der Vergänglichkeiten.
Sie wuchs um ihn in säulenstarrem Hohne:
so wächst der Zorn dem rachgieren Sohne,

149
der aus des greisen Vaters feiger Frohne
zu eignem Wort und eignem Weh sich wand.
Er lief zuletzt. Und wie gerettet stand
er endlich still auf einsamem Balkone
und lauschte, was in langem, leisem Tone
die matte Woge sang dem Abendland.

Da knistert neben ihm ein Schleppgewand:


und bei ihm kniet in hoher Mützenkrone
mit weißem Bart ein purpurner Patrone,
und leise faltet sich die Hand zur Hand.
Und Jesus nickt und fragt den alten Mann:
“Schwarz ist der Hafen. Wo sind eure Feste?
Giebts keine Gäste mehr? An die Paläste
legt niemals mehr der bunte Jubel an?
Ich warte schon so lange, wo sind sie
die mich verehrt, die wundersamen Alten
mit Silberbärten, lang und tiefgespalten -
die Vendramin und Papadopoli.
Ich weiß: die Nacht bewohnt in euren kalten
Palästen jetzt das beste Prunkgemach.
Denn ihr seid lang gestorben, und den Jungen
ist Lied und Lachen gar so bald verklungen
in einer Zeit, die nur mit Eisen sprach.
Jetzt sind die Gassen alle kalt und und brach,
und Trauer nur, in halbem Traum gesungen,
langt oft den flüchtenden Erinnerungen
aus einem engen grauen Hause nach.
Von keinem Lande wissen eure Stufen,
und alles kam, wie es die Vorsicht will.
Der Hochmut hohe Häuser starben still,
und nur die Kirchen dauern noch und rufen.”
“Ja, Herr”, spricht jetzt der Doge und entfaltet
die Hände nicht. “Der Todes Ohnmacht waltet
mit tausend tiefen Schauern über uns.
Und deine Glocken locken lauten Munds.
Du giebst noch immer große, reiche Feste
und machst, daß deine gernbereiten Gäste
in deinen Hallen Elend und Gebreste
vergessen und wie Kinder selig sind.
Und jedes Volk, das gerne noch als Kind
sich fühlen mag, folgt in die Prachtpaläste
die du ihm aufgetan und betet blind.
Doch ich bin alt. Ich seh die Zeiten rollen
bis in den Tag, da keine Völker mehr
wie Kinder sein und Kinder spielen wollen;
denn mögen alle deine Glocken grollen,
dann bleibt auch dein Palast für ewig leer.”
Der Alte schwieg. Wie betend blieb er knien.
Sternknospen sprangen an den Himmelsachsen.
Und dieses Knien schien weit hinauszuwachsen
vorbei an Christo und weit über ihn...

A Venezia Rilke, che alla città dedica anche qualche breve prosa, tornò più volte; inizialmente, la
città gli era apparsa triste e sconsolata come una stanza non riscaldata, ma durante il soggiorno del 1907
essa conquistò pian piano Rilke, che ne divenne un suo ammiratore incondizionato. Qui il poeta ebbe a

150
fortuna di abitare nell’appartamento della principessa Marie von Thurn und Taxis, che dava
direttamente sul Canal Grande, frequentò archivi e biblioteche, salotti e pinacoteche, ebbe una tenera
relazione e si godette i bagni al Lido, cercando sempre di tenersi lontano da un turismo chiassoso, che
invece lo irritava. Fra le Poesie nuove, c’è anche un bel sonetto, dedicato al tardo autunno veneziano, dove
il poeta si stacca dalla banalità di gondole e colombi che appartengono ai clichè turistici più triti:

Spätherbst in Venedig

Nun treibt die Stadt schon nicht mehr wie ein Köder,
der alle aufgetauchten Tage fängt.
Die gläsernen Paläste klingen spröder
an deinen Blick. Und aus den Gärten hängt

der Sommer wie ein Haufen Marionetten


kopfüber, müde, umgebracht.
Aber vom Grund aus alten Waldskeletten
steigt Willen auf: als sollte über Nacht

der General des Meeres die Galeeren


verdoppeln in dem wachen Arsenal,
um schon die nächste Morgenluft zu teeren

mit einer Flotte, welche ruderschlagend


sich drängt und jäh, mit allen Flaggen tagend,
den großen Wind hat, strahlend und fatal.

Questo sonetto fa parte di un gruppo di liriche veneziane, contenute nella seconda sezione delle
Poesie nuove; fra queste si trova anche la lirica sulla basilica di S. Marco, dove l’aspetto descrittivo
concreto è ridotto al minimo:

San Marco
Venedig

In diesem Innern, das wie ausgehöhlt


sich wölbt und wendet in den goldnen Smalten,
rundkantig, glatt, mit Köstlichkeit geölt,
ward dieses Staates Dunkelheit gehalten

und heimlich aufgehäuft, als Gleichgewicht


des Lichtes, das in allen seinen Dingen
sich so vermehrt, daß sie fast vergingen -,
Und plötzlich zweifelst du: vergehn sie nicht?

und drängst zurück die harte Galerie,


die, wie ein Gang im Bergwerk, nah am Glanz
der Wölbung hängt; und du erkennst die heile

Helle des Ausblicks: aber irgendwie


wehmütig messend ihre müde Weile
am nahen Überstehn des Viergespanns.

151
***

Due sonetti su Venezia si trovano anche nell’antologia lirica L’acqua s’arrotonderà, pubblicata nel
1963, del filosofo e poeta Rudolf Pannwitz (1881-1969), la cui opera, influenzata da Stefan George, si
caratterizza per la grafia rigorosamente minuscola. La scelta di una griglia formale rigida come quella del
sonetto rispecchia al meglio il carattere rigoroso e il piglio apodittico di questa personalità sconcertante,
che tanta ascendenza ebbe su Hofmannsthal maturo. Il primo dei sonetti di Pannwitz sembra in effetti
scolpire nelle parole uno spazio architettonico dalle linee precise e disposte secondo una stratificazione
ben calcolata (cinque cupole, tre portali, archi a tutto tondo e torrette), capace di assorbire e riflettere la
luce in un sorprendente gioco cromatico che rende ebbri perché è altrettanto splendente al tramonto
quanto nell’ora del meriggio.

Venedig /San Marco

San Marco, seitlich edelste paläste


In langen fronten auf dem platz gerichtet.
Der dom ein farbenrausch ist hingedichtet.
Dich fünffach überwölbt der kuppeln veste.

Portale drei. daroben - edle reste -


Hellenisches viergespann. Der raum durchlichtet /
Rundbögen säulen türmchen hoch geschichtet.
Das überprächtige ganze lädt zum feste.

Von mosaik erstrahlende fassade


Und irr gezuck von schwingen muntrer tauben:
Bis des gestirnten himmels goldne pfade

Die diamantne linie der lauben


Vedunkelt mit juwelen - ohne schade
Dem don: er glänzt wie mittags / schwer zu glauben.

Mentre il primo sonetto descrive la basilica nel suo splendore esterno e la vede inserita nel
contesto della piazza, il secondo prende invece in esame l’interno della chiesa e di nuovo ne passa in
rassegna nicchie e cappelle ed archi che s’intrecciato e s’uniscono fino a chiudersi in un’unità armonica;
dopo le linee, si passa anche qui ai colori particolari che irradiano dai mosaici e illuminano le figure
umane e le varie creature, nonché i vari ornamenti e arzigogoli alle pareti che insieme formano un unico
tripudio a Dio dinanzi al quale i fedeli s’inginocchiano a pregare:

152
2

O eine welt aus gold! in fächern gießen


Die kuppeln weitum sonne, farben fangend
Ist jede nische. bögen raumschön hangend
In langer flucht sich an einander schließen.

Von ihnen lichte pfeiler niederfließen.


Und mosaikisch alle flächen prangend:
Figuren heilig die und die verlangend
Nach paradiesisch zartrstem genießen.

Die seelenwonne starr und überschwänglich


Blickt hier aus meinen pflanzenhaft gebannten
Und körpern fleisch- und knochenfrei und länglich

Und stern und blume zieren harte kanten


An den gewanden: ob ihr stil vergänglich
Der beter kniet vor diesen Gott-entbrannten.

***

Il drammaturgo, critico teatrale e poeta Georg Britting (1891-1964), intitola a Venezia una
poesia della raccolta Il calendario indisturbato, pubblicata per la prima volta nel 1956, quando l’autore
conosceva l’Italia da ormai trent’anni. Negli otto versi non rimati predomina un senso di putrescenza e
di morte:

Venedig

Wie schwarze Schwäne gleiten die Kähne hin.


Rauh tönt der Ruf der Gondoliere. Stumm,
In Öl gesotten, glänzt das Kleinzeug
Starriger Fische im Kupferkessel.
Venedig glüht im sterbenden Gold. Sein Blut
Verströmt ein altes Wappen im Abendrot.
Die Taschenkrebse der Kanäle
Klettern behende am faulen Holze.

***

Il germanista, scrittore e poeta zurighese Robert Faesi (1883-1972) in una poesia composta di
due quartine a rima alterna, sottolinea la fragilità di Venezia, chiamando in causa l’arte dei vetrai di
Murano, che dalle loro cannule gonfiano il materiale incandescente trasformandolo in preziosi oggetti
di estrema delicatezza che diventano quasi il simbolo della città stessa, che vive sotto la minaccia di un
possibile sprofondamento:

153
Venedig

Die Stadt aus Glas - mit sachter Kunst geblasen;


Nur daß der Kelche keiner mehr enthält
Als Licht. Lächelnd ist alles umgestellt:
Das Wasser füllen ungefüllte Vasen.

Verletzlich zart ist Anmut. Immer bricht


Vom Rand ein unersetzlich feiner Splitter.
Dann geistert regenbogenfarb Gezitter
Wehmütig und das Kleinod. Weint das Licht?

***

Molto meno tenera è l’immagine che di Venezia delinea Rolf Hochhuth (nato nel 1931).
Divenuto famoso per il suo dramma Il Vicario, in cui attacca il Vaticano per la sua connivenza con il
regime fascista, il drammaturgo Hochhuth, sempre polemico nei confronti delle istituzioni clericali,
attacca la chiesa anche nella seguente poesia. La sua è una Venezia, colta nel momento dell’invasione
turistica di Pasqua. Hochhuth rievoca qui tutti gli stereotipi che si connettono a Venezia, dalla
sdolcinatezza dei walzer di Johann Strauß (dall’operetta di Una notte a Venezia ) al variopinto popolo dei
visitatori, dove non mancano maestrine, gay inglesi e monache che si fingono innocenti. Il patriarca di
Venezia, ora che finalmente è finita la Quaresima, si getta famelico sulle vivande di una tavola
imbandita subito dopo aver celebrato la messa solenne per la resurrezione di Cristo in una basilica, in
cui ogni oggetto d’arte è frutto di un latrocinio. E’ una Venezia ridotta a merce, quella di Hochhuth,
dove a trionfare sono gli oggetti kitsch dei vetro di Murano:

Ostern

Straußens Walzer auf San Marco,


komponiert in jenen Jahren,
da Venetien Wien gehörte.

Fiatflitzer, Pizzaesser
hagre Katzen, Filmkritiker
Lehrerinnen, schwule Briten
Inder, Sari, roter Turban
Nonnen, wegsehend, weil ein Terrier
stämmig einen Pudel stößt.

Dort Höchstselbst der Patriarch,


der bis eben fasten mußte,
stürmt vom Hochamt an die Tafel.

Früh im Dom, der Räuberhöhle


- was dort Kunst ist, ist gestohlen -,
glaubt man an die Auferstehung.
Die Piazza glaubt dem Umsatz,
den Muranos greller Glaskitsch
zweimal wöchentlich erzielt.

154
***

Una sorta d’immedesimazione con la città prova invece l’ebra ucraina Rose Ausländer (1907-
1988) di fronte a Venezia, una città che in questa sua poesia del 1986, dice di sentire come sua, anche
perché nonostante la sua apparente fragilità, resiste e non affonda mai:

Mein Venedig

Venedig
meine Stadt

Ich fühle sie


von Welle zu Welle
von Brücke zu Brücke

Ich wohne
in jedem Palast
am großen Kanal

Meine Glocken
läuten Gedichte

mein Venedig versinkt nicht

***

E dopo questa serie di poesie, torniamo alla prosa, con un autore contemporaneo.
Venezia, nella sua labirintica complessità, appare a W. G. Sebald (1944-2001) quasi oscena,
come egli scrive esplicitamente nel suo racconto dal titolo italiano, All’estero, della raccolta Vertigini;
Venezia è per lui un luogo di turbamento continuo, anche perché la vive nella consapevolezza che le
sue percezioni sono fortemente influenzate dalle immagini che di questa città gli hanno fornito le
letture di Casanova, Grillparzer, Hofmannsthal, Schnitzler, Kafka. Sebald sa che la sua è una Meta-
Venezia, che lo angoscia e lo getta in uno stato di apatia simile al rigor mortis. Per questo decide di
abbandonare in fretta e furia la città, che scatena in lui senso di vertigine, mania di persecuzione, orrore.
La sua Venezia non ha nulla in comune con la tradizionale città da sogno proposta dalle guide
turistiche, ma somiglia piuttosto a una trappola mortale:

Wer hineingeht in das Innere dieser Stadt, weiß nie, was er als nächstes sieht oder von wem er im nächsten
Augenblick gesehen wird. Kaum tritt einer auf, hat er die Bühne durch einen anderen Ausgang wieder verlassen.
Diese kurzen Expositionen sind von einer geradezu theatralischen Obszönität und haben zugleich etwas von einer
Verschwörung an sich, in die man ungefragt und unwillentlich einbezogen wird. Geht man in einer sonst leeren
Gasse hinter jemandem her, so bedarf es nur einer geringfügigen Beschleunigung der Schritte, um diejenigen, den
man verfolgt, die Angst in den Nacken zu setzen. Umgekehrt wird man leicht selbst zum Verfolgten. Verwirrung
und eisiger Schrecken wechseln einander ab. Verwirrung und eisiger Schrecken wechseln einander ab. Es war
darum mit einem gewissen Gefühl der Befreiung, daß ich, nachdem ich eine Stunde lang fast unter den hohen
Häusern des Ghettos herumgegangen war, bei San Marcuola wieder den Grossen Kanal erblickte. Eilig wie ein
Einheimischer auf dem Weg ins Geschäft bestieg ich ein Vaporetto. […]

155
Es ist in dieser Stadt ein anderes Aufwachen, als man es sonst gewöhnt ist. Still bricht nämlich der Tag an,
durchdrungen nur von einzelnen Rufen, vom Hinauflassen eines blechernen Rolladens, vom Flügelklatschen der
Tauben. […] Ganz und gar unwirklich, als müsste sie gleich zerrissen werden, dünkte mich darum die Stille
über der Stadt Venedig an diesem frühen Morgen der Allerheiligentags, an dem die weiße Luft durch die
halboffenen Fenstern meines Zimmers hereindrang und alles verhängte, so daß ich wie mitten in einem Nebelmeer
lag. […] Die zweite Nacht in Venedig verging, und es vergingen der Allerseelentag und eine dritte Nacht, aus der
ich am Montagmorgen erst in einem eigenartigen Zustand der Gewichtslosigkeit wieder zu mir kam. Ein heißes
Bad, die Butterbrote und der Rotwein von gestern und die Zeitung, die ich mir heraufbringließ, setzten mich so
weit wieder instand, daß ich meine Tasche packen und ich wieder auf den Weg machen konnte.

***

Il lavoro di ricerca di testi letterari in lingua tedesca su Venezia, come si deduce facilmente da
questo breve exursus, non può che configurarsi come un torso, come qualcosa di non finito, che
necessita di continuo aggiornamento. Pur nella sua consapevole limitatezza, questa passerella risulta
tuttavia come un caleidoscopio dalle formazioni variopinte e multiformi che dimostra come le parole
non hanno ancora cessato di fotografare, nelle loro mille diverse combinazioni, un paesaggio che non
smette di essere fonte d’ispirazione per chi ha fatto della penna il proprio strumento di lavoro. Piuttosto
evidente è che Venezia, più ci si avvicina alla modernità, dove la disponibilità alla trasfigurazione
sembra venir progressivamente meno, sembra cessare di essere spazio della fiaba e del mito, e
all’apoteosi si sostituisce spesso la critica e, se mai, una fantasmagoria di segno negativo.

156
MICHEL COLLOT

LE VISIBLE ET L’INVISIBLE:
LES PAYSAGES AVEC FIGURES ABSENTES DE PHILIPPE JACCOTTET

Si j’ai choisi d’évoquer le cas de Philippe Jaccottet, c’est qu’il est un des poètes contemporains
qui a interrogé avec le plus de constance les rapports entre paysage et poésie, qui sont au cœur de son
œuvre depuis plus de cinquante ans. Sa démarche me paraît donc exemplaire ; mais avant d’en dégager
quelques-uns des principaux enjeux, il me faut rapidement la situer dans son contexte géographique,
historique, et littéraire.

Contexte géographique

Jaccottet est né en Suisse romande, en 1925 ; il a fait ses études à Lausanne. On peut penser que
son intérêt pour le paysage s’ancre dans une tradition culturelle et littéraire helvétique. Et de fait, il a
reconnu sa dette envers son aîné Gustave Roud, qu’il a rencontré adolescent et qui a consacré une part
importante de son œuvre à l’évocation poétique du paysage. Mais Roud était aussi le traducteur de
Hölderlin et de Novalis, et par son intermédiaire, c’est peut-être surtout au romantisme allemand que
Jaccottet s’est initié.
À la différence de Roud, pourtant, Jaccottet n’a guère célébré son pays natal ni ses paysages. Il a
éprouvé très tôt le désir de sortir des « jardins clos de la Suisse ». Après-guerre, il accepte d’aller
travailler à Paris pour le compte d’un éditeur suisse ; et après sept hivers passés dans la capitale, il
décide de s’installer à Grignan, où il vit toujours.
Et c’est là qu’il dit avoir ressenti pour la première fois l’appel du paysage, et qu’il a commencé à
écrire sur ce thème. Les paysages de la Drôme provençale sont pourtant moins spectaculaires et moins
chargés de souvenirs littéraires que ceux de la Suisse. Et Jaccottet insiste volontiers sur leur caractère
somme toute banal, qui ne les empêche pas d’exercer sur lui un pouvoir d’attraction qui ne s’est jamais
démenti.
Si j’ai rappelé brièvement cet itinéraire qui a conduit Jaccottet à la rencontre du paysage, c’est
parce qu’il illustre une distinction utile pour notre réflexion : le paysage n’est pas le pays, et il faut
parfois prendre ses distances vis-à-vis du pays pour découvrir le paysage. Celui-ci n’est donc pas
nécessairement lié à une problématique de l’enracinement ; il est souvent découvert à la faveur du
voyage ou de l’exil. À la différence du pays, le paysage n’a pas de frontière, si ce n’est celle que trace
l’horizon, mais elle est ouverte et perméable. L’installation de Jaccottet à Grignan ne correspond pas

157
non plus à un parti pris régionaliste : il y reste en contact avec les milieux littéraires suisses et parisiens,
et il traduit des textes de plusieurs pays et langues d’Europe.
C’est l’occasion de souligner que l’évolution de la notion et de l’art du paysage occidental a été
marqué, en de nombreux moments de son histoire, par une incessante circulation des idées et des
hommes d’un pays à l’autre de l’Europe. C’est l’un des intérêts de cette notion aujourd’hui que de
pouvoir traverser les frontières, comme en témoigne notre réunion. Le paysage bien sûr peut être lié à
l’affirmation d’une identité locale, régionale ou nationale, mais il peut aussi contribuer à l’élaboration
d’une identité européenne, qui se cherche.

Contexte historique

On peut être étonné de voir un jeune poète, au sortir de la seconde guerre mondiale, en pleine
guerre froide, choisir un thème apparemment bien éloigné des préoccupations de ses contemporains.
Indifférence à l’histoire ? Non : bien que protégé par la neutralité suisse, Jaccottet a été marqué par les
horreurs de la guerre ; son premier recueil, Requiem, réunit des poèmes inspirés par des photos de
97
maquisards français exécutés par les allemands . Le cas de Jaccottet n’est pas isolé : il rejoint par
exemple l’attitude d’un poète pourtant très engagé, Francis Ponge, qui a vécu la déroute de l’armée
française en 1940, et qui, à peine démobilisé, s’est mis à écrire non pas sur la situation historique, mais
sur un petit bois de pins 98.
Le paysage serait-il un refuge contre les tragédies de l’histoire ? Pas seulement. La guerre, la
shoah, la menace atomique ont été vécus comme une véritable « perte du monde », pour reprendre
99
l’expression d’Hanna Arendt ; elles ont ouvert à Jaccottet « les abîmes du réel » . Dès lors pour
beaucoup d’artistes et d’écrivains, la création est apparue comme une tentative pour retrouver une
relation perdue avec le monde ou pour le « prendre en réparation » 100.
Et face à la faillite des idéologies, au danger de l’abstraction, ils ont eu recours à l’expérience
sensible, concrète, pour retrouver un sens, à ras de terre :

Pour nous qui vivons de plus en plus entourés de masques et de schémas intellectuels, et qui
étouffons dans la prison qu’ils élèvent autour de nous, le regard du poète est le bélier qui
renverse ces murs et nous rend, ne serait-ce qu’un instant, le réel ; et, avec le réel, une chance de
vie 101.

97 P. JACCOTTET, Requiem, Lausanne, Mermod, 1947.


98 Voir F. PONGE, « Le carnet du bois de pins », dans La Rage de l’expression, Paris, Gallimard, collection Poésie, 1976.
99 P. JACCOTTET, Une transaction secrète, Paris, Gallimard, 1987.
100 Voir F. PONGE, « Le Murmure », dans Méthodes, Paris, Gallimard, 1961, p. 193.
101 P. JACCOTTET, L’Entretien des Muses, Gallimard, 1968. p. 301.

158
Contexte littéraire

Au sortir de la seconde guerre mondiale, le Surréalisme s’essouffle, et un retour au réel se


dessine très nettement dans la génération de poètes qui commencent alors à écrire. Gaétan Picon parlait
à ce propos d'un « nouveau réalisme », expression qui prête à confusion, mais désigne bien une
tendance, à laquelle Jaccottet peut être rattaché, à condition de bien comprendre de quel type de
« réalisme » il s’agit.
Faisant lui-même le bilan d’un siècle de poésie française, à la fin de l'Entretien des Muses, il met
l’accent sur le rapport qu’elle entretient avec le réel et avec l’expérience concrète : « Jamais la poésie
n’avait accueilli dans la parole une ampleur, une diversité, une intensité, une profondeur pareille de
102
réalité [...] » . Il insiste sur « la passion des choses, des choses simples, solides (telles celles dont est
bâti le monde paysan », des « réalités » « élémentaires » 103.
Mais si cette réalité élémentaire peut être source de poésie, c’est précisément qu’elle échappe
aux « schémas intellectuels », au langage conceptuel, et défie la logique ; si bien que, dans le même texte,
ces choses simples et solides apparaissent infiniment complexes, paradoxales, et elles laissent place à un
mystère insaisissable, qui appelle non la mimésis mais la poiesis :

La poésie est au plus près d’elle-même dans la mise en rapport des contraires fondamentaux :
dehors et dedans, haut et bas, lumière et obscurité, illimité et limité. […] On comprend mieux de
quelle sorte de réalisme il s’agit dans la poésie moderne : non pas simplement d’un minutieux
inventaire du visible, mais d’une attention si profonde au visible qu’elle finit nécessairement par
se heurter à ses limites; à l’illimité que le visible semble tantôt contenir, tantôt cacher, refuser ou
révéler 104.

Or ces paradoxes, qui sous-tendent l’expérience poétique, structurent aussi l’expérience du


paysage : apparemment évidente et immédiate, celle-ci comporte pourtant une part invisible, qui donc
saurait faire l’objet d’une approche « réaliste » au sens habituel du terme. Elle transgresse les clivages
habituels entre sujet et objet, intérieur et extérieur, imaginaire et réel.
On peut le comprendre en se référant à l’horizon qui est constitutif de tout paysage : le tracé de
la ligne d'horizon dépend à la fois de la topographie, du relief, et du point de vue de l’observateur : c’est
un phénomène à la fois objectif et subjectif, c’est une ligne imaginaire, qui n’appartient pas à la réalité
objective, mais qui est pourtant constitutive de notre rapport au réel. Elle marque l’appropriation de
l’espace par le regard, mais en même temps ce qui lui échappe : elle se situe à la limite du visible et de
l’invisible.

102 Ibidem, p. 300.


103 Ibidem, p. 302.
104 Ibidem, p. 304.

159
C’est sur cette union paradoxale du visible et de l’invisible que je voudrais insister en parcourant
avec vous quelques textes de Jaccottet, pour en dégager une phénoménologie, une métaphysique, et une
poétique du paysage.

Phénoménologie

J’évoquerai plus spécialement La Promenade sous les arbres, parue d’abord en 1957 105, et les Paysages
avec figures absentes de 1970 106, deux livres qui tentent d’expliciter la relation entre poésie et paysage. Le
premier coïncide avec la découverte des paysages de Grignan, qui apparaît d’emblée comme un modèle
de l’expérience poétique :

Je fus saisi, plus violemment et plus continûment surtout qu’autrefois, par le monde extérieur. Je
ne pouvais plus détacher mes yeux de cette demeure mouvante, changeante, et je trouvais dans sa
considération une joie et une stupeur croissantes; je puis vraiment parler de splendeur, bien qu’il
se soit toujours agi de paysages très simples, dépourvus de pittoresque, de lieux plutôt pauvres et
d’espaces mesurés. Or, cette splendeur m’apparaissait de plus en plus lumineuse, aérée, et en
même temps de moins en moins compréhensible. De nouveau, ce mystère nourricier, ce mystère
réjouissant me poussait comme d'une poigne très vigoureuse vers la poésie (PA 19).

Cette expérience apparaît d’emblée paradoxale : elle associe le sentiment d’une évidence
éclatante (le poète « ne peut détacher ses yeux » du spectacle qui s’offre à lui dans une « splendeur »
« lumineuse »), et celui d’un « mystère » « de moins en moins compréhensible », qui le frappe de
stupeur. Or c’est précisément ce mystère logé au cœur même de l’évidence qui fait de cette expérience
une expérience poétique.
Si le paysage s’offrait tout entier au regard des yeux ou de l’esprit, il donnerait lieu à une
nomenclature minutieuse, ou à une contemplation muette. Parce qu’il reste un « mystère », le paysage
exige ce travail sur la langue, et sur la réalité qu’est la poésie :

Plus il semblait se dérober à l’expression, plus je ressentais le besoin de l’exprimer quand même,
comme si le travail que j’aurais à faire sur les mots pour y parvenir allait m’aider à l’approcher,
c’est-à-dire, aussi bien, à être de plus en plus réel (PA 19).

On retrouve, dans Paysages avec figures absentes, et dans le titre même du livre, cette alliance
paradoxale du visible et de l’invisible :

Dès que j’ai regardé, avant même – à peine avais-je vu ces paysages, je les ai sentis m’attirer
comme ce qui se dérobe [...] ma pensée, ma vue, ma rêverie, plus que mes pas, furent entraînées
sans cesse vers quelque chose d’évasif, plutôt parole que lueur, et qui m’est apparu quelquefois
analogue à la poésie même. (PFA 21-22).

105 Cité dans l’édition de 1980 (La Bibliothèque des arts, Lausanne), abrégée en PA.
106 Citée dans l’édition originale (Gallimard, Paris, 1970), abrégée en PFA.

160
Le paysage ne se révèle qu’au prix d’un voilement simultané : « Miroir au cadre de sable, où la
terre (car c'est toujours la terre) se fait incertaine, où elle s’ouvre et se voile » (PFA 85). Ce dévoilement-
voilé est inscrit dans la structure même du visible, qui ne va pas sans une part d’invisible. La lumière
elle-même, à force d’intensité, peut devenir aveuglante : « C’est une chose invisible (en pleine lumière,
alors qu’il ne semble pas que rien puisse la cacher, sinon justement la lumière) » (PFA 67). La clarté est
obscure aux yeux de Jaccottet, car si elle rend toutes choses visibles, sa source demeure invisible :

Oui, la lumière même, si belle, si changeante, que je vois en ce moment éclairer toutes ces feuilles
du mois de mai et ces grands espaces jusqu’aux montagnes allongées à l’horizon, la lumière
même est obscure, difficile à comprendre, attirante à jamais comme tous les secrets
indéchiffrables 107.

Le crépuscule, en particulier, associe les éclairages les plus riches et les ombres les plus longues, opacité
et transparence :

Ce soir-là, une vue plus déchirante et plus secrète encore m’attendait quand, la rue ayant tourné
vers l’horizon opposé, le levant, j’aperçus au-dessus des murs et des toits, entre les rares arbres, la
montagne basse éclairée par le soir, juste veinée de très peu de neige à la cime. Je sais encore
moins comment elle me parla, ce qu’elle me dit. C’était une fois de plus l’énigmatique luminosité
du crépuscule » (PFA 19).

L’horizon illustre exemplairement cette coïncidence de la merveille et de l’énigme. Dans le


paysage le plus familier, il introduit une part irréductible d’étrangeté : « C’est encore une énigme à
l’horizon paisiblement campée, une merveille qui nous accompagne tous les jours et semble souhaiter
d’être comprise » (PA 57). L’horizon inscrit aux limites du visible le mystère d’un monde invisible et
lointain :

J’aime cet espace que les montagnes définissent mais n’emprisonnent pas, comme quelqu’un peut
aimer le mur de son jardin, autant parce qu’il suscite l’étrangeté d’un ailleurs que parce qu’il arrête
son regard; quand nous considérons les montagnes, il y a toujours en nous, plus ou moins forte,
plus ou moins consciente aussi, l’idée du col, du passage, l’attrait de ce qu’on n’a pas vu (PA 63).

La question se pose dès lors de savoir si cet inconnu qui se laisse entrevoir à l’horizon du
paysage est un autre monde, si cet invisible est d’une autre nature que le visible.

Métaphysique

Le secret que recèle le paysage n’est-il pas d’ordre sacré ? Il inspire constamment à Jaccottet des
images et des idées religieuses, comme celle de « paradis » par exemple, venues tout droit de son
éducation protestante, fortement nourrie de la lecture de la Bible. Mais Jaccottet les récuse, leur en

107 P. JACCOTTET, Tout n’est pas dit, Cognac, Le Temps qu’il fait, 1994, p. 25.

161
préférant d’autres, issues de sa culture classique, et encouragée par la nature méditerranéenne et par la
présence, aux environs de Grignan, de quelques vestiges d’un sanctuaire des Nymphes : là « s’élève une
chapelle, qui fut un petit temple ; et l’on peut voir encore, dans l’église du village voisin, un autel dédié
aux nymphes que ce temple honorait » (PFA 25).
Cette préférence pour la mythologie grecque tient à ce qu’elle exprime un sacré païen,
indissociable d’une civilisation paysanne et d’un sentiment de la nature qui inscrit la transcendance, non
dans un autre monde, mais dans l’immanence de notre monde : « Évoquer cette inscription d’ailleurs
plus qu’à demi effacée semblerait suffire à faire comprendre que cet appel venait de très loin, du temps
presque impossible à imaginer où l’on croyait que les dieux habitaient les sources, les arbres, les
montagnes » (PFA 25).
Mais Jaccottet souligne qu’il s’agit là d’une croyance lointaine, et il insiste sur l’ « effacement »
du nom des dieux. Les figures de la mythologie grecque ne sauraient livrer la clé du mystère des
paysages de Grignan, qui vient à la fois de plus loin et de plus près. Ce ne sont là que des images, qu’il
faut écarter, car elles risquent de masquer une vérité plus obscure et plus évidente, remontant d’un
passé immémorial et pourtant toujours présente dans les phénomènes les plus éphémères :

Je ne croyais pas, est-il besoin de le dire ? que les nymphes fussent revenues, ni même qu’elles
eussent jamais été visibles. Simplement, c’était comme si une vérité qui avait parlé plus de deux
mille ans avant dans des lieux semblables, sous un ciel assez proche, qui s’était exprimée dans des
œuvres que j’avais pu voir ou lire [...] continuait à parler non plus dans des œuvres, mais dans des
sites. [...] Encore était-ce trop préciser; pour être tout à fait exact, je devrais, après avoir évoqué
l’image de la Grèce, l’effacer, et ne plus laisser présents que l’Origine, le Fond : puis écarter aussi
ces mots; et enfin, revenir à l’herbe, aux pierres, à une fumée qui tourne aujourd’hui dans l’air, et
demain aura disparu (PFA 30).

Le poète doit effacer toutes ces traces de cultes et de cultures, récuser la séduction des images
pour accéder au fond où toute figure s’abîme et prend sa source, — à une origine qui n’est située dans
aucun passé historique ni même préhistorique mais qui est toujours-déjà présente et inaccessible, et
chaque jour recommencée :

Ces paysages [...] n’étaient donc ni des musées proposés à la curiosité de l’archéologue, ni des
temples ouverts à quelque culte panthéiste [...] Ils m’avaient paru simplement cacher encore [...] la
force qui s’était traduite autrefois dans ces monuments, et que je pouvais à mon tour espérer
recueillir, essayer de rendre à nouveau plus visible. Peut-être était-ce parce qu’il n’y avait plus en
eux de marques évidentes du Divin que celui-ci y parlait encore avec tant de persévérance et de
pureté (PFA 31-32).

Le paysage revêt bien aux yeux de Jaccottet une dimension sacrée, mais c’est un sacré sans dieu
et sans figure. Pour une conscience moderne, le sacré ne saurait revêtir d'autres figures que celles des
apparences sensibles; c’est ainsi par exemple qu’ « il est apparu » à Hölderlin « alors qu’il ne s’y

162
attendait nullement, dans le monde ou à travers le monde [...] Dans certaines figures du monde visible,
c’était l’Inconnu, l’Invisible, l’Infini qui venait à sa rencontre » (PFA 141).

Il y a là aussi pour Jaccottet le principe d’« une nouvelle ère du regard », qu’illustre la peinture
moderne lorsqu’elle dépouille le paysage de toutes les figures dont l’avait encombré l’art de la
Renaissance, pour le restituer à sa nudité et à sa vérité originelles :

Quand je regardais les paysages de Cézanne, où je pouvais retrouver ceux qui m’entouraient, je
me disais [...] qu’en eux, où il n’y avait que montagnes, maisons, arbres et rochers, d’où les figures
s’étaient enfuies, la grâce de l’origine était encore plus présente [...] Plus de scènes aujourd’hui,
plus de figures, et ce n’est pourtant pas le désert (PFA 33-34).

Cette dé-figuration du paysage dans la peinture moderne est l’aboutissement d’un processus de
laïcisation entamé, selon les historiens de l’art, dès la renaissance, à partir du moment où le fond
paysager a progressivement pris le pas sur les scènes et figures religieuses auxquelles il servait de décor.
Elle n’exclut pas pour autant chez Jaccottet la persistance du sentiment du sacré, fût-ce sur le mode de
la nostalgie : « ces bosquets ns sembleront toujours habités, serait-ce par une absence » (PFA 43), et
cela explique l’ambiguïté du titre qu’il donne à ses textes, qui maintient une relation paradoxale « avec »
les « figures absentes ».
Jaccottet prend acte de la faillite des religions, de l’éloignement des dieux ; mais il reste sensible
à l’irruption d’une transcendance au sein même de l’immanence. L’expérience du paysage met en
relation l’homme avec ce qui le déborde dans le cosmos, elle inscrit l’invisible dans le visible. C’est une
modalité privilégiée de cette « relation d'inconnu » qui est pour Jaccottet au cœur de l’expérience
humaine et de la poésie :

De toutes mes incertitudes, la moindre (la moins éloignée d’un commencement de foi) est celle
que m’a donnée l’expérience poétique; c’est la pensée qu’il y a de l’inconnu, de l’insaisissable, à la
source, au foyer même de notre être. Mais je ne puis attribuer à cet inconnu, à cela, aucun des
noms dont l’histoire l’a nommé tour à tour (PFA 179).

Cette transcendance inscrite dans l’immanence du monde sensible appelle non le discours de la
révélation, mais celui de la poésie qui se rapporte à l’inconnu en tant que tel.

Poétique

Le paysage littéraire est trop souvent envisagé à partir du modèle pictural selon le vieil adage ut
pictura poiesis. Or le propre de l’écriture est de prendre aussi en charge les aspects invisibles du paysage.
Philippe Jaccottet congédie non seulement les figures qui faisaient du paysage classique le simple décor

163
d’une scène historique, religieuse ou mythologique, mais se détourne de toute figuration, qui laisserait
échapper la part infigurable du paysage.
Il commence par éviter toute référence à une localisation précise : la première version du texte
liminaire de Paysages avec figures absentes, publiée d’abord séparément, s’intitulait « Paysages de Grignan » ;
Jaccottet a supprimé le nom de lieu et donné à ce texte le titre même du recueil. Et il ne cesse d’insister
sur l’absence de « pittoresque » de ces paysages, qu’il préfère en hiver, lorsqu’ils sont « dépouillés ».
D’emblée, il rejette le modèle de la description, qui réduit l’inconnu au connu :

Je ne veux pas dresser le cadastre de ces contrées [....] Le plus souvent ces entreprises les
dénaturent, nous les rendent étrangères; sous prétexte d’en fixer les contours, d’en embrasser la
totalité, d’en saisir l’essence, on les prive du mouvement et de la vie; oubliant de faire une place à
ce qui, en elles se dérobe, nous les laissons tout entières échapper (PFA 10).

Du paysage, la description se voulant objective, sacrifie la vérité intérieure, au profit d’une


réalité tout extérieure, qui devient « étrangère ». Se voulant exhaustive, elle en fige les altérations, et
méconnaît la part de mystère qui est à la source de l’émotion poétique : « on peut décrire, décrire
108
encore », « la surprise, l'émotion venait d'un foyer plus secret, antérieur à la description » .
À la description, Jaccottet préfère l’évocation, qui ne recherche pas l’exhaustivité, fait la place à
la subjectivité, et laisse autant à deviner qu’à voir, car l’essentiel du paysage est invisible. Cet art de
l’évocation s’exprime pleinement dans les poèmes en vers de Jaccottet, et notamment dans ceux du
recueil intitulé Airs, où il s’inspire du modèle du haï-ku et où le paysage est réduit à quelques détails, qui
suffisent à en suggérer l’atmosphère et la tonalité affective :

Sérénité

L’ombre qui est dans la lumière


Pareille à une fumée bleue 109

Mais il est présent aussi dans ses textes en prose, qui affichent leur caractère fragmentaire, que
souligne par exemple l’abondance des points de suspension. Jaccottet y adopte volontiers le modèle de
la promenade, qui lui permet de « dire les choses en passant », allant d’un aspect à l’autre du paysage de
façon apparemment aléatoire : « J’ai pu seulement marcher et marcher encore, me souvenir, entrevoir,
oublier, insister, redécouvrir, me perdre. Je ne me suis pas penché sur le sol comme l’entomologiste ou
le géologue : je n’ai fait que passer, accueillir » (PFA 10-11). L’évocation est aussi un mode d’expression
indirecte, qui respecte le mystère du paysage : « L’on finit par penser que toutes les choses essentielles
ne peuvent être abordées qu’avec des détours, ou obliquement, presque à la dérobée. Elles-mêmes,
d’une certaine façon, se dérobent toujours » (PFA 22).

108 P. JACCOTTET, La Semaison, Paris, Gallimard, 1984, p. 81.


109 P. JACCOTTET, Poésie (1946-1967), Paris, Gallimard, collection Poésie, 1971, p. 147.

164
Parmi les détours qui s’offrent pour exprimer la dimension cachée du paysage, ceux de
l’image semblent s’imposer au poète. Mais le surréalisme a appris à Jaccottet « le danger de l’image qui
dérive » (PFA 60) ; elle tend à substituer à la réalité un monde imaginaire, trahissant ainsi la vérité du
paysage :

Ces images en disent toujours un peu trop, sont à peine vraies ; il faudrait voir en elles plutôt des
directions. Car les choses, le paysage, ne se costument jamais ; les images ne doivent pas se
substituer aux choses, mais montrer comment elles s’ouvrent, et comment nous entrons dedans
(PFA 16-17).

L’invisible ne saurait se figer dans une image fixe ; il ne peut être que suggéré par une succession
d’images approximatives, qui se complètent et se critiquent mutuellement :

Et là au-dessus, encore une fois, comment dire, comment ne pas trahir ce qu’on a vu, au bas du
ciel, cette lumière rose et or ? On pense rapidement, tour à tour : ostensoir, joaillerie, Byzance,
auréole, nimbe … Encensoir aussi, fumée, et dans la fumée, là où elle se défait, une seule étoile,
cristalline. Pourtant, c’est encore autre chose, de plus surprenant, de plus simple. Prononcer des
mots comme ostensoir, encensoir, c’est encore égarer l’esprit. On sent qu’il faut chercher plus
profondément en soi ce qui est atteint, et surtout l’exprimer plus immédiatement (PFA 17-18).

L’invisible du paysage ne peut se donner à lire qu’en creux, en négatif, et l’écriture n’en est
qu’une tentative d’approche perpétuellement différée :
« ainsi, par une suite de négations », le poète « approch[e-t-il] quand même d’une découverte quant à ces
paysages » (PFA 29).

Aussi bien la vérité poétique ne réside-t-elle pas dans une impossible adéquation à un objet
essentiellement fuyant, mais dans une approximation dont l’imperfection même relance constamment le
désir d’écrire, et de voir. Le paysage pose au poète « une question sans réponse » 110. Mais la fonction de
la poésie est peut-être moins d'apporter une réponse que de laisser ouverte la question ; moins de
déchiffrer l’énigme du paysage que d’en faire partager le mystère :

La vérité sur les énigmes que nous propose le monde extérieur est peut-être que celles qu'on
déchiffre s'annihilent, que les indéchiffrables seules peuvent nous nourrir et nous guider. Poésie
nourrissonne et servante des énigmes (PA 93).

110 P. JACCOTTET, La Semaison, op. cit., p. 167.

165
RAFFAELE MILANI

IL PAESAGGIO LETTERARIO COME PAESAGGIO REALE.


SPUNTI DA GABRIELE D’ANNUNZIO

La ricerca estetica mira a capire il significato e il valore del paesaggio dal punto di vista di
un’analisi delle forme. Si può considerare l’esperienza percettiva e l’attività umana, l’illusione della
lettura sentimentale e la smaterializzazione del nostro oggetto dal punto di vista della storia e della
cultura, come dell’immagine letteraria. In quest’ultimo caso il paesaggio diventa un’arte diffusa, una
poiesis e una poesia ovunque disseminate, e notiamo un campo di interazioni simboliche tra l’uomo e
quest’immensa scultura vivente che è la natura modificata dall’uomo. L’approccio è inizialmente
interdisciplinare, ma aperto alla metafora. Osserviamo uno scambio di posizioni tra soggetto e oggetto,
nel disegno complessivo del reale che ci attornia, rappresentato, immaginato, enunciando i problemi
della memoria, dell’identità, della composizione secondo un indice di caratteri e presentando una
categoria questa volta poetica, non più sociologica o antropologica, nell’ermeneutica del paesaggio.
Procediamo dunque sviluppando il cosiddetto genio creativo o immaginativo che ha tante concordanze
con le idee dell’ enigma e dello sdoppiamento.
L’ambito estetico si occupa del rapporto tra ciò che la letteratura immagina, descrivendolo, e ciò
che è direttamente visibile all’osservatore: situazioni e caratteri possono riunirsi in un caso da analizzare,
o in una serie di casi capaci di fornire un quadro di tipologie della visione in rapporto eventualmente a
un discorso retorico che sarà riferito, in particolare, almeno nella mia ricerca, alla metafora. Nel caso da
me esaminato, la stratificazione culturale rende spontaneo, possiamo dire naturale, un atteggiamento
mentale e inventivo che chiamiamo di meraviglia, atteggiamento basato su una strategia dell’artificio per
guardare i paesaggi non come sono, ma come si vorrebbe che fossero.
Tutto è naturale perché tutto è profondamente culturale. Questo fatto investe anche la
psicologia nelle modalità del comportamento della nostra mente. A certe condizioni, l’osservazione e la
contemplazione ripristina uno stato di meraviglia nei confronti della natura capace di sostituire i
caratteri e le proprietà di un paesaggio con altri appartenenti alla nostra immaginazione e nostra
condizione affettiva. Ci capita di sostituire un paesaggio d’acqua a un altro paesaggio d’acqua, di
sostituire un paesaggio di montagna a un altro paesaggio di montagna, di voler vedere un paesaggio
greco in un paesaggio pugliese, o di sentirci in Mongolia quando invece ci troviamo nella valle di
Castelluccio: trasformiamo i colori e le forme di un castello del Tirolo in un villaggio tibetano e così via.
La cosa non è così recente, ma appartiene alla natura del nostro guardare e contemplare da molti secoli.
Basti pensare a Villa Adriana e al culto delle memorie mitologiche che l’imperatore voleva

166
“concretamente” attorno a sé per il piacere di un’ immedesimazione in un luogo eccezionale. Nelle
descrizioni, la letteratura non fa che promuovere il suo paesaggio come fosse obiettivo e reale.
Assistiamo a uno scambio, il paesaggio reale si fa paesaggio letterario, il paesaggio letterario si fa
paesaggio reale. perché sia l’uno che l’altro sono calati nel mito, in un principio di narrazione il cui
enigma torna sempre. Il veicolo è la metafora, cioè una figura retorica che appartiene alla
rappresentazione mentale e alla lingua del mondo, delle cose del mondo organizzate dallo sguardo
umano.
Siamo, nonostante tutto, come perseguitati dall’idea di una lingua universale portata dalla
metafora; portati a credere che esista un’eloquenza della natura, come suggerisce T.W. Adorno 111.
Potremmo caratterizzare e definire una visita o una passeggiata attraverso punti panoramici e
movimenti, in modo da interpretare le cose intorno a noi come un’articolazione di immagini che ci
accompagnano e ci corrispondono, un insieme di segni che ricordano una lingua. Quest’esperienza ricca
d’immagini, figure, pensieri è una fluttuazione simile alla musica ed è in sostanza irriproducibile. Una
natura mediata dalle tecniche di riproduzione meccanica e virtuale rischia l’annientamento del suo senso
e valore. Turner e gli impressionisti, per esempio, hanno tradotto lo spirito del paesaggio, non lo hanno
semplicemente riprodotto. La mera soggettività non riuscirebbe a definire, in una passiva registrazione
sensibile del mondo, quel piacere che ci assale come per incantamento e che possiamo chiamare
enigma. E’ la dissoluzione dell’io nell’immaginazione a fornire tale piacere.
La natura appare, ai nostri occhi, come un vero e proprio spettacolo che richiede viva o assorta
partecipazione: le nuvole, i lampi, gli squarci di cielo, le tempeste sul mare, i deserti, ecc., sono scene
degne di uno Shakespeare che pure in parte le ha rappresentate. Traspare dalle sue manifestazioni un
linguaggio inafferrabile, sospeso, fatto di tracce, di cenni che ci rimanda a sintonie segrete. E vi sono
modi assolutamente diversi per trattarne. Lo sappiamo dagli innumerevoli esempi letterari e pittorici, da
Friedrich a Corot da Leopardi a Proust. Lo sguardo estatico ha, nella letteratura contemporanea, infiniti
risvolti evocativi che forniscono altri paesaggi. Scegliamo un passo, tra i più belli, dalla Recherche di
Marcel Proust:
La siepe formava come una fila di cappelle che scomparivano sotto la distesa dei loro fiori affastellati ad
altare; sotto di esse, il sole posava in terra una sua scacchiera di luce, come se avesse traversato una vetrata;
il loro profumo si diffondeva altrettanto untuoso, altrettanto circoscritto nella sua forma come se mi fossi
trovato dinanzi all’altare della Vergine; e i fiori, egualmente adorni, reggevano, con aria distratta, ciascuno il
proprio sfavillante mazzolino di stami; tenui e radianti nervature di stile “fiammeggiante”, come quelle che
in chiesa traforavano la balaustra della tribuna o le traverse delle vetrate, e sbocciavano in un candido
incarnato di fior di fragola 112.

Quante cose, dall’una all’altra e da quest’ultima a un’altra ancora richiamate, in un principio


d’incessanti analogie, in un fluire senza posa, nel tempo dello spirito, nella semplice sacralità che

111 Estetica, 1970, ed. it. 1975, pp. 89-112.


112 M. PROUST, Alla ricerca del tempo perduto, La strada di Swan, trad. di Natalia Ginzburg, Einaudi, Torino, 1963, I vol., p. 148.

167
afferma il saper vedere della mente. E noi siamo là, già prima dell’opera dell’arte, in un delirio del
“come se”. Noi contemplatori viviamo, protagonisti sconosciuti, quelle immagini prima della loro
elaborazione inventiva. Come ha precisato Ernst Cassirer nel Saggio sull’uomo:

Io posso passeggiare e sentire il fascino del paesaggio. Mi posso rallegrare della mitezza dell’aria, della
freschezza dei prati, della varietà e dell’allegria dei colori, del fragrante profumo dei fiori. Ma poi sento che
avviene un improvviso mutamento nel mio spirito. Da questo momento vedo il paesaggio con occhio
d’artista, comincio a farne un quadro. Sono entrato in un nuovo regno, non più quello delle cose esistenti,
ma quello delle “forme viventi”. Abbandonata l’immediata realtà delle cose, vivo ora nel ritmo delle forme
spaziali, dell’armonia e del contrasto dei colori, dell’equilibrio tra luce e ombra. L’esperienza estetica
consiste in questo assorbirsi nell’aspetto dinamico della forma 113.

Il discorso metaforico ci appartiene mentalmente ancora prima dell’elaborazione tecnica della


letteratura e della pittura.
C’è qualcosa di antico in questa dimensione. Abbiamo ricordato Villa Adriana. Ma negli ultimi
tre secoli il nostro sguardo si volge indietro nel tempo come per riappropriarsi del vuoto lasciato dalla
separazione tra uomo e natura avvenuta ancora prima, fornendo, esso stesso, una meditazione sul
tempo. Traspare una “riflessione” nostalgica sulla fine dell’incanto originario quando, per usare le
parole di Klages, terra, cielo, nubi, acque, flora e fauna “avvolgevano la nostra vita individuale come in
un’arca, intessendola nel grandioso accadere universale” 114. Incanto che ci fa anche ricordare, sul piano
più esteso di un interesse per il sapere antico, come alcune pratiche terapeutiche fossero connesse al
senso d’unità della natura; lo dimostra la fama di Arie, acque e luoghi, un libro attribuito a Ippocrate o di
sua proprietà. Un intero mondo, sollecitato in parte da curiosità scientifiche, si dischiude ai nostri occhi,
superando la soglia dell’immediata realtà e facendoci intravedere il fondo degli elementi che sono alla
base di ogni scoperta estetica. Ma infinito è il catalogo dei luoghi e dei paesaggi in questo discorso
metaforico della lingua della natura.
Anche la città è paesaggio. Da essa possiamo uscire nella natura (lo hanno fatto Socrate e Fedro),
in uno scambio tra la città e la campagna, ma possiamo anche entrare nella città, per vivere dentro la
contemplazione delle strutture architettoniche. Ogni architettura è paesaggistica e favorisce un rapporto
educativo, tra ambiente e spirito. Essa si modifica al nostro passaggio, alla mobilità del nostro sguardo,
come alla luce e alle stagioni. La vista e il nostro corpo praticano una contemplazione tra l’interno e
l’esterno, tra ciò che è al di fuori e lontano e ciò che è al di dentro e più piccolo e che si snoda davanti ai
nostri occhi. C’è una correlazione strettissima tra l’esperienza estetica del paesaggio naturale e del
paesaggio urbano. Come l’uomo abita la terra, così abita la città. Aggregati urbani piccoli o grandi
possono essere la realizzazione di utopie rinascimentali o moderne, ma la città o la metropoli, con le sue
piazze, i quartieri, gli edifici, i monumenti, può essere disorientante e creare un fenomeno di

113 E. CASSIRER, Saggio sull’uomo, Roma, Armando, 1968, p. 216.


114 L. KLAGES, L’uomo e la terra, a cura di L. Bonesio, Milano, Mimesis, 1999, p. 38.

168
impressioni molto diverse. Honoré de Balzac (Ferragus), per esempio, descrive Parigi come il più
delizioso dei mostri. Tuttavia, che sia la Londra di Henry Fielding, la Roma di Gabriele D’Annunzio, la
Parigi di Charles Baudelaire, la Torino di Friedrich Nietzsche, la Praga di Franz Kafka, la Venezia di
John Ruskin: ciò che importa è l’incontro con il luogo sognato, immaginato e che viene sostituito a
quello reale. A due diverse descrizioni letterarie dello stesso luogo corrispondono due luoghi
evocativamente diversi nella rappresentazione che viene offerta.
In questi panorami di elaborazioni mentali, non possiamo non pensare a Gabriele D’Annunzio,
così sensibile all’antico come al moderno (“custode della tradizione, promotore della modernità”), se
vogliamo trovare un caso di paesaggio letterario realizzato. Potremmo anche ricordare il look outche
Victor Hugo fece costruire in cima alla Hauteville House, a Guernesey, una specie di gabbia di vetro
per contemplare il mare. Ma D’Annunzio si presta come esempio eclatante e totale. Basta leggere Le
Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, i vari taccuini, gli scritti giornalistici, e tanti spunti dalle sue
opere per rendersi conto della sua venerazione per la natura e il paesaggio. Fino ad arrivare a una vera e
propria composizione del paesaggio sotto la guida del sapere poetico. Ciò accade al Vittoriale.
Avremmo potuto prendere dei paesaggi a confronto, nella rappresentazione che ne avevano data
Petrarca o Manzoni, Dante o Pirandello e nella loro attuale realtà. Tuttavia, la scelta di D’Annunzio
nasce dal fatto che, nel luogo ricreato a Gardone, il Poeta inventa un’architettura della visione che sposa
realtà e artificio, memoria e illusione. Giardino e paesaggio s’incontrano in un’avventura dello sguardo.
Normalmente il senso dell’avventura non dipende in generale da un prima e da un dopo, è incoerente,
irregolare, non privilegia un sistema di osservazione. Ma qui, al Vittoriale, esiste invece un fatto curioso
e nuovissimo: un’avventura meditata, ordinata come in un testo letterario, secondo un processo di
similitudini, promosso da culti simbolisti e futuristi. Ha una componente che possiamo considerare
onirica, perché legata alla fantasia. Eppure è anche documento della storia in una specie di follia
spaziale. Basta farsi prendere dallo scorrere del tempo della visione, in una posizione fissa, quasi da un
qualunque punto di vista, nel giardino e nel parco, per rendersi conto che si entra in una fase diversa del
vedere, si entra nel principio della contemplazione. Ma come l’ha voluta e studiata il Poeta, non come
potremmo noi decidere che sia. Ogni cosa sta al posto di un’altra. Siamo condotti in un giardino-
paesaggio letterario dove appunto è la metafora a governare. In generale, vediamo sempre frammenti,
reliquie di realtà, di esperienze, segni e memorie che ci vengono ricomposte in un tutto apparentemente
vacillante. Vince il nostro sguardo errabondo. Pezzi sparsi di storia e di gesta, come rovine di un’anima
invasata.
Notiamo una sequenza di similitudini. Muoviamo dal fatto che, in questo luogo, la metafora è il
genio dell’Imaginifico. Essa (metafora) è generalmente intesa come una parola usata al posto di un’altra
per rendere un referente con un significato diverso. Si tratta di un trasferimento semantico che si basa
su una parentela di somiglianza. In sostanza qui si sostituisce a un’immagine un’altra immagine, a un

169
paesaggio un altro paesaggio. Così come immaginava architetture 115 immaginava i luoghi
sull’architettura:

Sguardi dal Vittoriale:


1) La nave Puglia, geniale allestimento dentro il parco, degno di un grande regista, invita a vedere non
un lago davanti a sé, ma il mare Adriatico; anzi guida questo genere di visione.
2) In un punto del parco, sembra di essere a San Giusto, a Trieste, guardando verso il grande golfo.
Quel particolare punto favorisce il ricordo e fa nascere alla vista il luogo lontano.
3) Nei giardini privati, per la loro struttura compositiva a terrazze, sembra di essere a Ravello che
conserva una delle più belle viste del Mediterraneo: un belvedere d’eccezione.
4) I sassi del carso, segni disseminati in un limitato spazio verde, gli permettevano di passare tra quei
ricordi come un gigante in una geografia miniaturizzata. Teatro della distanza e della prossimità che
esalta il protagonista.
5) La cascata, con la divisione dei due rivi, potrebbe essere stata pensata secondo modelli giapponesi,
shintoisti e buddisti (forse influenzata da rappresentazioni giapponesi nella Prioria). Importanti
appaiono i percorsi d’avvicinamento per vedere la cascata come in un’inquadratura che diventa sempre
più esplicita.
6) Il teatro evoca l’atmosfera della Magna Grecia o della Grecia antica e dei suoi teatri, fuoco di sguardi
sul panorama circostante; forse cita quello di Taormina in particolare.
Tutto ciò rientra nel disegno di un citazionismo e di una frenesia antiquaria ovunque profusi,
intriso di memorie guerresche come d’aure mitiche. In questo regno della metafora, il paesaggio reale,
ciò che sta davanti a noi, si fa da parte, cede il posto a un altro paesaggio, il paesaggio evocato,
immaginato. Le forme del paesaggio reale diventano attori di uno spettacolo diverso, secondo un
apparato di similitudini. Il paesaggio letterario, immaginato dal Poeta, diventa un paesaggio
assolutamente reale. Il paesaggio reale si trasforma in un paesaggio immaginario.
Il Vittoriale muta l’aspetto, cambia: da “ascetario” si fa isola silenziosa e profumata, abitata dai
fantasmi del mito; un’isola del Mediterraneo, un’Itaca ideale e misteriosa, ma viva, ammantata dallo
spirito greco, da quello spirito che è comunque risultato comunque di un principio di contrasto, come
precisa il Poeta nei suoi viaggi. In una crociera del 1985 annota:
Lo spirito greco è fatto della reazione continua dell’uomo contro la personalità delle cose. Le cose, avendo
una personalità così precisa e così forte, s’imponevano all’uomo come un sopruso. L’uomo reagiva. Di qui
le magnifiche personalità dei Greci – reazione contro le cose, per l’istinto di predominio. Eccitante il
paesaggio. Gli alberi stessi della pianura, tra Patros e Pirgo, così distanti gli uni dagli altri, non sono
personae? V’è un gran pino davanti al Museo (di Corinto). Ha una forma e una voce proprie. 116

115 Si veda il bel libro di C. CRESTI, Gabriele D’Annunzio, “architetto imaginifico”, Angelo Pontecorboli, Firenze, 2005.
116 G. D’ANNUNZIO, Altri taccuini, a cura di Enrica Bianchetti, Mondadori, Milano I ed., 1976, p. 6.

170
Anche nel Vittoriale contempliamo uno scontro di personalità: l’uomo, il Poeta, le cose e vi
sentiamo aleggiare lo “spirito greco”. Siamo anzi permeati dallo spirito greco. In un diverso passo dei
Taccuini, ebbe a dichiarare D’Annunzio: “Tutto qui è dunque una forma della mia mente, un aspetto
della mia anima, una prova del mio fervore…”. Una consonanza di temi che ritornano sul paesaggio
come categoria mentale che offre spazio all’immaginazione. Come visitatori, ci si sente spinti a
veleggiare nel Mediterraneo per via di uno strano “trasognamento” 117 con un desiderio di mare, di selva,
di pietra, e di giacere, come lui, nella voluttà d’essere “diversi e inconoscibili, persi in una solitudine
piena di apparizioni e di prodigi”. Lo spirito greco, tensione armonica, ritorna in uno stato di misurata
ebbrezza. Il Vittoriale è l’armatura di trasognate essenze. Guardando verso il lago come fosse un angolo
di Grecia, sembra di vedere quello spazio di mare che divide Itaca da Cefalonia. Entriamo in un luogo
mitico che si sovrappone a quello oggettivo del lago. D’Annunzio lo descrive così, nel passo dei Taccuini
sopra ricordato:
… Siamo nel mare classico. Grandi fantasmi omerici si levano da ogni parte. Entriamo nel canale. Itaca è
petrosa, ma Cefalonia è ricca di vigneti, di uliveti e di cipressi. Una moltitudine innumerevole di cipressi
alti e svelti è sparsa per il pendio, e dà a tutta l’isola un aspetto pensoso… Io vorrei esplorare l’isola
silenziosa su cui i cipressi sembrano ombre lunghe ed esigue come un cimitero 118.

Trasognamento. Quante volte, afferma il Poeta, “la mia vita non è se non trasognamento!
Sognare è una cosa, trasognare è un’altra. La realtà mi si scopre a un tratto e mi si approssima con una
sorta di violenza imperiosa… A un tratto ella (la realtà) si dissolve, si difforma, si trasforma, assume
l’aspetto del mio più segreto fantasma…” 119. Il Vittoriale, in un teorico abbraccio tra visione d’interni e
visioni d’esterni, è il risultato di questo delirio ineffabile che ricrea i paesaggi. D’Annunzio si pone oltre
una linea, oltre un confine tra due mondi: “Ne sorge un sentimento di lontananza e solitudine che mi
circonda e mi fa simile a un’isola senza radice” 120.

117 G. D’ANNUNZIO, Dell’attenzione, Zurigo, 5 settembre 1899, in Il venturiero senza ventura, 1924, p. 1107.
118 G. D’ANNUNZIO, Taccuini, a cura di E. Bianchetti, Mondatori, Milano, 1976, II ed., pp. 39-40.
119 G. D’ANNUNZIO, Dell’attenzione, cit. p. 1104.
120 Ibid., p. 1105.

171
Terza parte – troisième partie – dritter Teil
I paesaggi d’Europa come progetti di paesaggio e di ‘governance’
Les paysages d’Europe comme projets de paysage et gouvernances de projets de paysage
Die Landschaften Europas – Landschaftsplanung und ‚Governance’

172
RITA COLANTONIO VENTURELLI

RIFLESSIONI METODOLOGICHE E APPLICATIVE SULLA


GESTIONE INTEGRATA DEL PAESAGGIO

I – Principi metodologici

1) Definizione di paesaggio come sistema complessivo


Il modello produttivo regionale, inteso come quel modello insediativo in cui la concezione di
città si amplia, cominciando a interessare anche la scala territoriale, è nato nel momento in cui la
produzione manifatturiera è stata trasferita al di fuori dell’ambito urbano, seguendo la logica duplice sia
di utilizzare le materie prime in un luogo che fosse più vicino possibile alla loro estrazione, sia di
raccogliere la manodopera e di impiegarla negli ampi spazi rurali, più favorevoli ai nuovi principi
dell’economia di scala 121. E’ il periodo successivo alla prima grande affermazione della meccanizzazione
della produzione, quella che Leonardo Benevolo chiama l’epoca della “città post-liberale”, che si può
collocare negli ultimi decenni del XIX secolo e che imprime al territorio quell’assetto che si consoliderà
in seguito, sostenuto anche dagli accordi tra istituzioni pubbliche e proprietà privata 122. In questo
modello insediativo, che ispirerà tutti i piani regolatori per un lungo periodo successivo, la destinazione
d’uso degli spazi è rigorosamente suddivisa in zone fortemente specializzate, distinguendo tra quelle
residenziali e quelle industriali, tralasciando qualunque indicazione per quelle agricole.
Gran parte dell’assetto territoriale attuale è ancora nettamente influenzato da questo modello
concettuale che denota l’impronta di un modello culturale in cui le discipline che presiedono alla
gestione del territorio sono scisse tra loro e, quando riescono a collaborare, lo fanno in modo
interdisciplinare, e cioè accostando una visione scientifica all’altra, senza riuscire ad integrarsi in una
visione olistica di fondo, come è espresso nella fig. 1 123.

121L. MUMFORD, La cultura delle città, Edizioni di Comunità, Torino, 1999, cap. V, “La struttura regionale della civiltà”.
122L. BENEVOLO, Storia della città, Laterza, Bari, 1993, vol. IV, “La città contemporanea”.
123 Lo schema è tratto da: R. COLANTONIO VENTURELLI – G. GIBELLI, Ecologie, in: A. CLEMENTI (a cura di),

“Interpretazioni di paesaggio”, Meltemi, Roma, 2002.

173
Fig. 1 – Schema del processo della pianificazione tradizionale (metodo interdisciplinare)

Ma il territorio è il risultato di una serie di processi naturali e antropici che può essere studiato e
gestito soltanto in termini transdisciplinari, orientati da una visione sistemica e olistica, quale è quella
che è alla base del concetto di paesaggio nell’accezione anglosassone. In questo senso, nell’ambito
scientifico transdisciplinare, sembra fornire alcuni principi utili l’ecologia nel suo campo di lavoro
specifico dell’ecologia del paesaggio, secondo la quale il paesaggio si differenzia essenzialmente dal
concetto di ambiente, definito sempre in senso soggettivo, e cioè riferito a un soggetto. Infatti esso è
l’insieme eterogeneo degli elementi, dei processi e delle relazioni che costituiscono l’ecosfera,
considerato nella sua natura di entità:
- unitaria e differenziata, che ne fa un complesso unico, compiuto e articolato;
- ecologico-sistemica, che lo definisce come un aggregato superiore di ecosistemi,
o sistema di ecosistemi, naturali e antropici;
- dinamica, che lo identifica con un processo evolutivo, nel quale si integrano le
attività spontanee e quelle derivanti dall’azione della collettività umana, nella loro
dimensione storica, materiale e culturale.
Dunque, posto un paesaggio P e un soggetto S (vegetale, animale, umano, singolo o collettivo)
in esso contenuto, si definisce ambiente relativo a S l’insieme degli elementi di P con i quali S intrattiene
una qualsiasi relazione (le relazioni possono essere fisiche, chimiche, biologiche, psicologiche, sociali,
percettive, culturali, ecc.). Ne deriva che la scienza ambientale studia le relazioni intercorrenti fra un
soggetto prefissato e gli elementi del paesaggio che, nel loro complesso, ne definiscono l’ambiente
stesso, in quanto legati al soggetto da determinate relazioni” 124. Allora è possibile sintetizzare questa
visione olistica del paesaggio secondo lo schema espresso in fig. 2.

124 L’intero brano è di Valerio Romani, il quale, nel primo capitolo del suo libro intitolato Il paesaggio. Teoria e pianificazione

(Franco Angeli, Milano, 1994) parla ancora più diffusamente delle differenze tra il concetto di ambiente e quello di
paesaggio.

174
Fig. 2 – Rappresentazione schematica del paesaggio complessivo come risultato dell’azione dei
numerosi processi che contribuiscono a determinarne l’assetto.

Riepilogo
• Nascita del modello produttivo regionale
• Inadeguatezza del metodo interdisciplinare
• La concezione olistica come la più adatta allo studio del paesaggio inteso come il risultato
dell’azione dei numerosi processi che contribuiscono a determinarne l’assetto

2) Il rapporto tra il modello culturale e il modello di paesaggio


La concezione olistica del paesaggio conduce direttamente alla costruzione del modello
culturale che si intende proporre come il riferimento fondamentale per il paesaggio futuro. Dunque,
il modello del paesaggio culturale che ne deriva, basato sulla complessità del sistema delle
componenti del paesaggio e delle loro interrelazioni, deve ispirarsi necessariamente a questa visione.
Anche il “nuovo paesaggio della produzione”, che sia agricola e/o industriale, farà parte del
paesaggio complessivo, e quindi dovrà essere costruito e gestito secondo quei principi della
pianificazione integrata che si possono tradurre nei criteri più operativi solo se si riesce ad attuare
un metodo realmente multidisciplinare per avviare, attuare e controllare l’intero processo di piano
alle diverse scale spaziali e temporali.

175
Riepilogo
• Rapporto diretto tra concezione olistica del paesaggio e modello del
paesaggio futuro
• Il “nuovo paesaggio della produzione”
• Multidisciplinarietà e pianificazione integrata

3) Il metodo utilizzato
Esistono due paradigmi che si possono assumere rispetto allo studio, alla pianificazione e alla
gestione del paesaggio 125. Da una parte, il paradigma dell’ecologia, in particolare quello dell’ecologia
urbana e dell’ecologia del paesaggio, il quale si fonda su una visione ad ampio spettro delle
problematiche territoriali e considera tutti gli aspetti ambientali contemporaneamente; dunque,
quest’ottica produce una molteplicità di progetti di elevata qualità che durano nel tempo, nessuno dei
quali approfondisce gli aspetti tecnici del controllo ambientale. Al contrario, dall’altra parte, il
paradigma della gestione ambientale affronta i problemi immediati, i casi di emergenza, e quindi cerca la
soluzione di un problema alla volta, separandolo dal contesto, e ponendosi l’obbiettivo di approfondirlo
per eliminarlo con tutte le tecnologie disponibili.
Tenendo conto dei presupposti scientifici e culturali esposti come la sua ispirazione
fondamentale, la scelta metodologica del gruppo di lavoro “Osservatorio sul paesaggio culturale” non
può che essere quella che si basa sui principi dell’ecologia del paesaggio, che conduce alla pratica del
processo di pianificazione integrata, ben diversa dall’impostazione pianificativa tradizionale illustrata
nella fig. 1. Confrontandola con la fig. 3, si può notare chiaramente come il metodo scelto sia l’unico
che possa condurre agevolmente a superare le difficoltà imposte dalla consuetudine al lavoro
giustapposto e non integrato, dei gruppi di esperti provenienti dalle diverse matrici disciplinari 126. Ma
proprio è per questa scelta ispirata all’integrazione delle competenze che il gruppo riconosce anche
molta importanza alle competenze tecniche relative alle singole problematiche specifiche, le quali
pertanto vengono affrontate al pari delle altre nel momento in cui venga richiesta la loro soluzione
particolare, tentando in questo modo di assumere una posizione culturale e scientifica dallo spettro più
ampio possibile, è cioè seguendo quei principi scientifici transdisciplinari che conducono alla sintesi
delle conoscenze e, quindi alle decisioni gestionali realmente integrate (fig. 3).

125 Per una riflessione molto ampia circostanziata sulle scelte derivanti da questi due diversi paradigmi nella gestione urbana
in Scandinavia, v. Urbanistica n. 124.
126 Entrambi gli schemi sono tratti da: R. COLANTONIO VENTURELLI – G. GIBELLI, op. cit.

176
Fig. 3 – Schema del processo della pianificazione integrata

Riepilogo
• Confronto tra il paradigma ecologico e quello della gestione ambientale
• La posizione assunta dal gruppo “Osservatorio sul paesaggio culturale”
• Metodo transdisciplinare e pianificazione integrata

4) L’obiettivo dello studio


Lo scopo principale dello studio che si sta sviluppando è quello di costruire una metodologia
che risponda a quelle esigenze che sono state esposte, e cioè di organizzare una sintesi delle
conoscenze, tradizionalmente separate, al fine di promuovere un modello culturale, e quindi un
processo di piano, realmente integrato. In questo senso, è indispensabile stabilire che tale processo sia
composto da diverse fasi, basate essenzialmente sulle analisi orientate secondo i principi illustrati, e che
riguardino il paesaggio nella sua interezza, ma scomposto nelle due grandi categorie illustrate nella fig.
1, e cioè in quella del paesaggio semi-naturale e in quella del paesaggio culturale.

La seconda fase, quella della diagnosi, valuterà lo stato del paesaggio così scomposto, mentre
quella successiva, quella della prognosi, ricomporrà tutte le valutazioni effettuate in un giudizio sulle sue
potenzialità, preparando la fase delle scelte pianificative e normative, in cui si esclude la collocazione di
quelle strutture che accoglierebbero delle funzioni non compatibili con lo stato del paesaggio e con le
potenzialità determinate dai processi che vi si svolgono. Il controllo continuo, la gestione costante dello
stato, il sostegno dei processi compatibili avviati e in atto assicurano che il processo si svolga secondo

177
un andamento ciclico che, partendo dal paesaggio considerato nel suo carattere complesso e sistemico,
ritorni al paesaggio stesso (v. fig. 4) 127.

Fig. 4 – Schema metodologico dell’analisi e della gestione del paesaggio inteso in senso sistemico

Oltre a quello rigorosamente metodologico, l’avvio di un simile processo ciclico avrebbe anche
il significato di tentare di rispondere alle esigenze sempre crescenti della società contemporanea di
raggiungere un livello accettabile di organizzazione sostenibile complessiva dell’assetto sociale, ma
anche dell’equilibrio ecologico e di quello economico. In questo senso, la responsabilità più
determinante è quella che appartiene alla cosiddetta governance, e cioè non ad un solo decisore pubblico,
ma a tutto quel complesso intreccio che si è formato tra gli alti livelli decisionali dell’economia, della
finanza, della politica e dell’amministrazione pubblica, spesso troppo connessi tra loro, ma purtroppo
spesso anche distanti dagli operatori di livello meno elevato e, soprattutto, dalle espressioni più efficaci
della cultura. La fig. 5 mostra un modello di equilibrio raggiungibile da una governance illuminata,
assolutamente improponibile nella sua versione ideale, ma sicuramente proponibile come schema di

127Tratto da: R. COLANTONIO VENTURELLI, Il concetto di sostenibilità e quello di compatibilità nella pianificazione ambientale / Der
Begriff von Nachhaltigkeit und Vereinbarkeit in der Umweltplanung, in “ATLAS”, n. 19, luglio 2000.

178
riferimento da adattare di volta in volta alle singole realtà che le conoscenze multidisciplinari sono
chiamate a studiare per avviare il processo pianificativo integrato (fig. 5)128.

Fig. 5 – Good Governance: una concezione complessiva che vede lo sviluppo sostenibile come obiettivo centrale

I casi di studio che si presenteranno sono stati scelti proprio in funzione di questo obbiettivo;
inoltre, si tenterà di confrontare i risultati dello studio con quelli che si sarebbero potuti ottenere
utilizzando un metodo di lavoro tradizionale.

Riepilogo
• Processo ciclico per fasi della pianificazione integrata
• Concetto di sostenibilità multidimensionale
• Rapporto tra sostenibilità multidimensionale e governance

5) Gli strumenti utilizzati


La descrizione dello stato del paesaggio nella fase dell’analisi e la sua valutazione in quella della
diagnosi, è indispensabile per determinare il grado di sostenibilità multidimensionale che il paesaggio
presenta e/o potrà raggiungere rispetto al suo stato attuale. La multidimensionalità a cui ci si riferisce
non potrà mai essere realmente equilibrata in ogni sua componente, come propone lo schema ideale

128 Nostra elaborazione da: P. HALL – U. PFEIFFER, Urban 21, DVA, Stoccarda Monaco, 2000.

179
della fig. 5, ma sicuramente potrà avvicinarsi alla condizione migliore misurata rispetto allo stato attuale
e a quello potenziale pronosticato.
Essenzialmente, i grandi gruppi in cui si possono far rientrare le componenti della sostenibilità
multidimensionale sono tre: quello della sostenibilità sociale, quello della sostenibilità economica e
quello della sostenibilità ecologica. Pertanto, la metodologia di lavoro del gruppo si avvale degli
strumenti che sembrano i più adatti allo scopo, e cioè quello di alcune entità che siano in grado di
descrivere e di misurare le componenti del paesaggio ed i processi economici, sociali ed ecologici che vi
si svolgono. Questi “descrittori” e questi “misuratori” aiutano a sviluppare sia le prime due fasi, quella
dell’analisi e quella della diagnosi, sia il ritorno costante al controllo gestionale del paesaggio, come
mostra la fig. 6 129.

Phases directly involved in the application of the principles and methods of landscape ecology

Phases controlled by landscape and urban ecology

Fig. 6 – Methodological approach to the analysis and management of the landscape as a whole with
indicators

In realtà, queste entità misuratrici e descrittrici non si differenziano molto da quegli indicatori
che vengono utilizzati sempre più spesso negli studi analoghi degli ultimi anni. Ma in questo caso è
bene precisare che tali indicatori devono essere scelti in modo appropriato per ciascuna situazione, e
dunque non una volta per tutte in precedenza ma commisurati alle caratteristiche di quella specifica

129 R. COLANTONIO VENTURELLI – A. GALLI, Integrated indicators in environmental planning: methodological considerations and
applications, in un numero di prossima pubblicazione della rivista “Elzevire”.

180
situazione territoriale su cui si opera. Inoltre, essi dovranno misurare e descrivere tutte le componenti
dello stato ecologico che possono essere rintracciate, della pressione economica che le attività
produttive esercitano sull’ambiente e delle risposte che la società tenta di dare alla situazione specifica
attraverso le regole che si è imposta. Il quadro sinottico seguente fornisce un riferimento generale da
cui partire per definire gli indicatori utili per i diversi casi applicativi (fig. 7).

on a
time
scale (*) past present future

(which have (which will


ceased to exert a presumably
on a spatial direct action) (now exerting arise)
scale (**) their action)
Spontaneous Biological, Spontaneous
biological, soil-
related, geo-
morphological, soil-related, biological and
and climatic
processes in geo- soil-related
Natural and semi– scarce relation
natural systems to anthropic morphologica processes
activities

Indicators: l, and climatic requiring


Semi –natural landscape

detectable
Global landscape

evidence and processes strong human


scientific
reconstructions
(relict flora,
influenced by management
paleosoil,
paleobotanics) the close and support

relationship
Indicators: of
with trends (e.g.
heterogeneity of
landscape
anthropic evolution,
ecological
activities networks,
reduction of soil
erosion)
which often

affects their

reactions

Indicators: of
landscape ecology
and normative

181
Production Production Production
processes as a processes (^) of processes (^)
function of different but requiring
man’s action interrelated balancing
and of sectors (e.g. among the
economic agriculture + different sectors
requirements parks + involved
Agricultural and tourism), which
forest systems Indicators: determine flows Indicators: of
historical of the of energy, trends (e.g.
agricultural people, agro-ecological,
landscape and of animals, ecological
landscape materials and networks,
ecology information transformations
of the
Indicators: agricultural
normative, landscape)
socio-economic
(e.g.
equitability),
statistical, of
landscape
Cultural landscape

ecology
(gradients
according to
Müller and his
model), agro-
ecological

Urban- Productive, Productive, social,


industrial systems historical, social, social, economic, land-
economic, war- economic, land- related, and
related, land- related, and urban processes
related, and urban processes related to the
urban processes related to the flows of
Indicators: flows of individuals,
historical of the individuals, information and
urban landscape, information and energy
of urban energy increasingly
ecology interrelated to
(structural and Indicators: the other types
functional, normative, of systems and
according to statistical, of bound to them
Müller) urban ecology, with a mutual
of landscape dependence
ecology
(structural and Indicators: of
functional: trends
gradients)

(*) years, decades, centuries (hundreds, thousands)


(**) macro-regional, regional, local, sub-local
(^) in a broad sense; they include the production of both material (farm produce) and immaterial (services) goods
Fig. 7 – Internal processes of the landscape as a whole and types of the respective indicators

In definitiva, non si tratta di stilare un elenco di indicatori e poi applicarli ai vari casi, come è
avvenuto ad esempio da parte dell’Unione Europea a proposito dell’indagine sulla sostenibilità locale, in

182
cui la scelta era obbligata dalla necessità di confrontare molte situazioni differenti 130, ma di definire gli
indicatori specifici secondo un preciso modello che possa descrivere la multidimensionalità nel modo
più corretto possibile. In questo senso, il modello Pressione – Stato – Risposta (PSR) sembra essere il
più adatto 131.

Riepilogo
• Gli indicatori come misuratori e descrittori di ciascuna situazione specifica
• Indicazioni generali per l’applicazione degli indicatori
• Il modello Pressione – Stato – Risposta (PSR)

6) L’applicazione
L’applicazione del modello PSR non garantisce di per sé alcun risultato, ma tenta di stabilire un
equilibrio tra i vari gruppi di indicatori, confrontandoli e specificandoli. Lo schema seguente illustra la
possibilità di misurare e descrivere una determinata unità territoriale, scegliendo la scala di indagine più
opportuna e secondo tutti gli indicatori più adatti, il suo stato ecologico, il peso ambientale esercitato
dalle sue attività economiche e la risposta che la società ha dato, e cioè la posizione che la popolazione,
direttamente o attraverso i suoi rappresentanti, ha assunto rispetto alla situazione attuale.

Ecologia (stato)

unità territoriale (alla scala più opportuna)

Società (risposta) Economia (pressione)

Fig. 8 – rappresentazione grafica del modello PSR

Ma questa risposta è data sotto molte forme, non tutte facilmente misurabili in termini
numerici, e dunque è particolarmente interessante riuscire a confrontarle tra loro. Infatti, essa è molto
articolata: si esprime sotto la forma della normativa in tutti i suoi aspetti, sotto la forma della
partecipazione della popolazione, sotto la forma delle tradizioni sociali ancora attive, ecc. In sintesi, essa
si esprime in un modello culturale, generato sicuramente dal rapporto biunivoco degli abitanti con quel

130UNIONE EUROPEA, Verso un profilo di sostenibilità locale – Indicatori comuni europei, Schede metodologiche, novembre 2002.
131Per una trattazione molto completa al riguardo, si rimanda a: H. WIGGERING – F. MÜLLER, Umweltziele und Indikatoren,
Sprinter, Berlino Heidelberg, 2004.

183
determinato luogo; ecco quindi che si ritorna al punto fondamentale di tutto lo studio, e cioè al
condizionamento reciproco esistente tra il modello culturale e il modello di assetto del paesaggio.
Riuscire ad esprimere in una forma sintetica tutte le indicazioni derivate dallo studio condotto secondo
questi principi metodologici, ed orientarli verso le scelte decisionali più appropriate, è lo scopo
dell’esperienza scientifica che il gruppo di lavoro si è prefissato, operando su due casi concreti che sono
stati proposti rispettivamente da due istituzioni, e sono apparsi particolarmente significativi per
l’applicazione metodologica stessa 132.

Fig. 9 – Definizione di compatibilità (fonte: V. GIACOMINI – V. ROMANI, Uomini e parchi, Franco Angeli,
Milano, 2002.)

132 Lo schema è tratto da: V. GIACOMINI – V. ROMANI, Uomini e parchi, Franco Angeli, Milano, 2002.

184
Riepilogo
• Applicazione del modello PSR a un’unità territoriale
• Le caratteristiche della Risposta da inserire nel modello PSR
• Espressione in forma sintetica delle indicazioni ottenute dal modello e
loro traduzione in termini pianificativi e gestionali

7) I casi di studio
I casi di studio scelti dal gruppo di lavoro per l’applicazione del metodo “Osservatorio sul
paesaggio culturale” sono due: uno legato al mondo della produzione industriale e artigianale e l’altro a
quello rurale. Il primo si occupa di alcune aree produttive e artigianali del comprensorio territoriale
situato nella provincia di Ancona, il secondo della valle del torrente Sanagra, in Lombardia. I referenti
sono rispettivamente la Comunità montana delle Alpi Lepontine e la CNA – Confederazione nazionale
della piccola e media impresa e dell’artigianato.
Entrambi sono particolarmente rappresentativi per il differente modello culturale di base,
attuale e futuro, per le risorse disponibili e per l’assetto fisico del territorio. Essi vengono studiati e
presentati separatamente, ma se ne possono confrontare le peculiarità e i rispettivi sviluppi nello
schema riepilogativo della fig. 10.

185
Articolazione del lavoro del gruppo
CNA - Confederazione nazionale Comunità montana delle Alpi
Istituzioni della piccola e media impresa e Lepontine- Val Sanagra
referenti dell’artigianato
(Sede provinciale di Ancona)
Convenzione di ricerca scaturita Convenzione di ricerca stipulata con
Spunti per la dall’iniziativa di un convegno la Comunità montana sulla base di
ricerca organizzato dalla CNA nel 2004 esperienze precedenti e/o
contemporanee, quali:
• Prodotto multimediale del
2002
• ricerca MIUR del
2003
• AIP (edizioni 2003 e 2004)
• coordinamento scientifico
del progetto “Per un’area di
riequilibrio” del 2005
Schemi ridotti di apparati Schemi ridotti di apparati
Descrizione
con apparati

1. E’ corretto continuare a operare 1. E’ proprio il disordine che deve


Quesiti in modo che la produttività e la guidare lo sviluppo di queste zone
fondamentali produzione si contrappongano in “interurbane”?
maniera squilibrata nei sistemi 2. Come si può giungere ad un
industriali e in quelli agricoli? modello insediativo “infraurbano”
2. Quale modello di sviluppo che si opponga a quello
complessivo può scaturire dal “interurbano”?
mutamento di questo rapporto tra 3. Quale ruolo possono svolgere i
produttività e produzione? diversi gruppi sociali nella
3. Quale modello insediativo ne ricomposizione di questo paesaggio?
può conseguire da proporre alle
amministrazioni locali, e quindi da
inserire negli strumenti di piano?

186
Particolarità emerse 1. Indispensabilità dell’integrazione 1. Stratificazione e coesistenza di
dallo sviluppo specialmente con le competenze diversi modelli insediativi e di diversi
integrato della umanistiche e con quelle interessi sociali
economiche, oltre a quelle 2. Necessità di ricomporre questi
ricerca competenze già presenti nel gruppo, modelli per giungere ad un nuovo
che hanno ormai un rapporto modello di paesaggio “ricomposto”
consolidato in quanto
tradizionalmente più affini tra loro
2. Indispensabilità della
partecipazione del pubblico
1. Differenziare le attività produttive 1. Attivare, attraverso tutte le azioni
Risposte ai quesiti della costa da quelle dell’entroterra, concertate per le tre fasce, un flusso di
specifici dei casi di secondo un criterio di idoneità dei informazioni, di collaborazioni e di
luoghi, delle strutture disponibili e del intenti unitari
studio individuate modello sociale e culturale
attraverso la
metodologia
elaborata 2. Imprimere a ciascuna area produttiva 2. Promuovere la ricomposizione delle
un carattere specifico e riconoscibile varie parti frammentate del paesaggio in
un’unica realtà territoriale
multifunzionale

3. Identificare e fissare alcune


invarianti:
a) di tipo ambientale, ad esempio 3. Avviare un processo di
nel rapporto con il paesaggio organizzazione spaziale che rifletta
circostante; coerentemente un modello culturale
b) di tipo economico, ad esempio sicuramente nuovo, ma che richiama
nella tipicità della lavorazione, e molto da vicino quello, robusto,
quindi del marchio, dei prodotti che longevo e basato sulla cooperazione
vengono confezionati in quel tra le varie componenti sociali- anche
determinato luogo e non in altri (in se più flessibile nella definizione degli
modo simile alla valorizzazione dei spazi funzionali -per il
terroir rurali); raggiungimento degli obbiettivi
c) di tipo sociale: ad esempio nel comuni- il quale ha generato a suo
rapporto con il contesto sociale tempo il “paesaggio delle ville
circostante e nel raccordo con i storiche” (questionari ai cittadini).
principi di tutela e di sviluppo del
paesaggio in tutte le sue dimensioni
culturali e produttive (questionari
alle imprese e ai cittadini).
Risposte ai quesiti 1- Scala spaziale: inversione della tendenza all’appiattimento disaggregato
generali posti della “nuova urbanità” verso l’integrazione e la caratterizzazione
nell’edizione dell’identità fisica e sociale dei luoghi
precedente della 2- Scala temporale: determinazioni delle fasi temporali delle trasformazioni
Conferenza di ricerca qualitative da contrapporre ai mutamenti trascinati dalla velocità che ha
generato soltanto la crescita quantitativa

187
Modello insediativo possibile Apparati Apparati

Le arre produttive differenziate per Le componenti dei tre paesaggi si


le loro caratteristiche d’identità sono collegano e si interagiscono grazie
accomunate dall’idea di rispecchiare all’apporto di conoscenze
il nuovo modello culturale, umanistiche:
appunto: • “Il paesaggio della nuova
• “Il nuovo paesaggio della ruralità”
produzione” • “Il paesaggio degli eventi
culturali”
• “Il paesaggio delle strutture
temporanee”

Conclusioni, risultati Si è tentato di esprimere in modo più appropriato le risposte integrate, ma


raggiunti, quesiti aperti soprattutto di tradurle in alcuni strumenti analitici e propositivi sia con degli
indicatori sintetici appropriati, sia con dei suggerimenti gestionali specifici
per ogni caso di studio, adattando ai singoli contesti le risposte date in via
generale. Rimangono aperti numerosi possibili sviluppi futuri, legati
soprattutto alla traduzione dei principi suggeriti in termini di pianificazione
attuativa.

Fig. 10 – Riepilogo e confronto dei casi di studio presentati

Riepilogo
• Le ragioni della scelta dei due casi di studio
• I referenti dei due casi di studio

188
RITA COLANTONIO VENTURELLI – ANDREA GALLI
(IN COLLABORAZIONE CON ERNESTO MARCHEGGIANI E GIOVANNA PACI)

IL TEMPO LIBERO SULL’ACQUA:


IL “PAESAGGIO DELLE VILLE STORICHE” DEL LAGO DI COMO

La strategia è l’arte di utilizzare le


informazioni che si producono
nell’azione, di integrarle, di formularle in
maniera subitanea determinati schemi di
azione, e di porsi in grado di raccogliere
il massimo di certezze per affrontare ciò
che è incerto.
Edgard Morin, 1985

1) Introduzione
L’occasione immediata per l’approfondimento di questo caso di studio è nata dal rapporto che
si è instaurato tra la Comunità montana delle Alpi Lepontine e il DISASC – Dipartimento di Scienze
applicate ai sistemi complessi dell’Università politecnica delle Marche, e in particolare con l’AGRUR –
Area gestione delle risorse urbane e rurali. Infatti, una porzione del territorio della Comunità
comprende il bacino del fiume Sanagra, la cui denominazione romana indica le qualità delle sue acque,
che erano ritenute terapeutiche. Dal 2005 questo territorio è soggetto alla normativa vigente per i Parchi
locali di interesse sovracomunale (PLIS), e quindi regolato da un piano, ancora in fase di ideazione, del
parco stesso. Esso rappresenta uno strumento del governo del territorio specifico della Regione
Lombardia, la quale lo ha istituito nella propria legge urbanistica; di qui l’interesse dell’AGRUR a
partecipare agli studi preparatori del piano mediante un apposito incarico di ricerca.
D’altronde, l’AGRUR, sotto la responsabilità scientifica dei docenti Rita Colantonio Venturelli e
Andrea Galli, aveva già sviluppato le conoscenze scientifiche necessarie per affrontare quest’impegno in
altre occasioni passate, quali ad esempio lo svolgimento di una ricerca sull’area vasta del “paesaggio
delle ville storiche”, intitolata Villa Mylius Vigoni: un microcosmo tra passato e futuro, di cui si parlerà più
avanti e i cui risultati sono stati raccolti in un prodotto multimediale su CD. A questa prima ricerca ne è
seguita una seconda, intitolata: Analisi, valutazione e gestione integrata delle risorse in territori rurali soggetti a
moderata ed elevata pressione antropica: alta valle del fiume Esino (Ancona) e valle del torrente Sanagra (Como). Casi di
studio dell’Italia centrale e dell’Italia settentrionale, e quindi il coordinamento scientifico di un progetto
articolato in tre parti specifiche intitolato Per un’area di riequilibrio, svolto su incarico del Centro Italo-
Tedesco Villa Vigoni. Il gruppo di ricerca che ha studiato questi temi fa parte di quello più vasto,
denominato Osservatorio sul paesaggio culturale, che si è formato nell’ambito della Conferenza di ricerca Il
paesaggio culturale tra storia, arte e natura.

189
Infine, vale la pena di ricordare anche il contributo derivato dall’esperienza di didattica avanzata
che si è svolta nell’ambito del workshop annuale denominato Accademia internazionale di progettazione, e che
ha sviluppato in due diverse edizioni due temi molto vicini a quelli relativi all’incarico di ricerca. Tutti
questi presupposti saranno richiamati nei punti opportuni.

Riepilogo
• Lo spunto per lo sviluppo di questo caso di studio
• Le ricerche preliminari
• I presupposti scientifici della ricerca

2) Il “paesaggio delle ville storiche” della fascia lacustre occidentale del Lago di Como
Il territorio relativo al caso di studio appartiene a quella vasta regione geografica che
praticamente coincide con l’Italia settentrionale, che alcuni geografi negli anni settanta del secolo scorso
hanno denominato come la possibile “Megalopoli mediterranea”, indicando la presenza di alcuni fattori
complessi che potevano far pensare a una conurbazione simile a quelle che si erano sviluppate nella
costa occidentale degli Stati uniti d’America e nell’Europa centrale 133. Sono molti i caratteri peculiari di
questa realtà territoriale, e tra questi risulta particolarmente evidente quello, peraltro intrinseco al
concetto stesso di megalopoli, dello squilibrio esistente tra le diverse zone che la compongono (fig. 1).
E’ uno squilibrio tra i diversi gradi di concentrazione delle strutture urbane presenti al suo interno, ma
anche culturale tra le componenti della popolazione che vi abita, gestionale tra le differenti impostazioni
del governo del territorio, ecologico tra lo stato delle diverse zone.

Fig. 1 – La pressione esercitata dalla conurbazione milanese sull’area di riequilibrio della regione insubrica

In quest’ambito, la regione dell’Insubria, a cavallo tra il Cantone del Ticino e la provincia di


Como, rappresenta un’unità geografica, culturale e territoriale di particolare rilievo per la sua storia e per
le testimonianze della civiltà che l’ha forgiata in modo omogeneo, anche se le diverse impostazioni

133Si confronti, a questo proposito, C. MUSCARÀ (a cura di), Megalopoli mediterranea, Francoangeli, Milano, 1978 e E. TURRI,
La megalopoli padana, Marsilio, Venezia, 2000.

190
gestionali del territorio, quella italiana e quella svizzera, rendono evidente per molti aspetti la diversa
appartenenza delle singole zone ad un’amministrazione politica piuttosto che all’altra.

In particolare, nella zona cosiddetta “dei tre laghi” – quello di Lugano, quello di Piano e quello
di Como – nel versante del lago di Como, che oggi è caratterizzato da un assetto urbanistico di tipo
decisamente periferico metropolitano lungo la strada che collega Lugano a Porlezza, dalla seconda metà
dell’ottocento in poi, invece, si era insediato un modello molto particolare che si può ancora
rintracciare. Si tratta di quel “paesaggio delle ville storiche”, che occupa la fascia lacustre degradante
verso la linea costiera e che rappresenta uno dei paesaggi riconosciuti come i più entusiasmanti dal
punto di vista percettivo; infatti, si è pensato da più parti di proporlo come una parte possibile di quel
patrimonio culturale che l’UNESCO considera di pertinenza dell’intera umanità (fig. 2).

Fig. 2 – Il “paesaggio delle ville storiche” del lago di Como

Al centro del lago, si è configurato il cosiddetto “triangolo lariano” (fig. 3), formato dalle ville
storiche conservate quasi interamente nella loro integrità originale, che era impiantata secondo il
modello insediativo tipico di quelle proprietà: l’edificio storico, il parco progettato secondo i diversi
canoni proposti dai principi dell’epoca, ma sempre proposto come il prolungamento all’esterno
dell’edificio, e il suolo agricolo, destinato alla produzione dei beni necessari alla sopravvivenza delle
famiglie degli agricoltori e ad una parte delle esigenze di consumo dei proprietari. Queste ville sono tre,
e cioè Villa Carlotta e Villa Mylius Vigoni, sulla sponda occidentale, e, di fronte alla prima, in linea d’aria
diretta ma sul punto della biforcazione dei due rami del lago, villa Melzi. Non è un caso che proprio in
una di queste ville, la Villa Mylius Vigoni, che ospita il Centro Italo-Tedesco, si sia formato quel gruppo
di lavoro denominato Osservatorio sul paesaggio culturale, di cui si accennava in precedenza 134.

134 Qui si fa riferimento alla Conferenza trilaterale franco-italo-tedesca che ha generato la presente pubblicazione.

191
Fig. 3 – Il “triangolo lariano” e le ville storiche del lago di Como

Quest’ampia fascia territoriale del versante che degrada verso il lago può essere distinta a sua
volta in tre fasce parallele: la prima, quasi coincidente con la parte alta del bacino del torrente Sanagra, è
montana o alto-collinare, e i suoi ecosistemi hanno un carattere di tipo rurale, con alpeggi e attività
produttive che contribuiscono alla persistenza di quei caratteri tipici del paesaggio produttivo agro-
silvo-pastorale che conserva una sua validità ecologica (fig. 4).

Fig. 4 – Le tre fasce che compongono il territorio del bacino del torrente Sanagra

La seconda fascia è la più particolare e insieme più delicata dal punto di vista del rapporto tra le
condizioni ecologiche, quelle economiche e quelle insediative prodotte dall’antico modello culturale che
ha generato il paesaggio attuale, e l’uomo che oggi vi riconosce le sue radici storiche, se ne sente parte,
ma a volte è anche attratto inevitabilmente da quelle nuove forme culturali non certo esaltanti che
trovano la loro massima espressione in alcuni tratti della stretta fascia costiera sottostante. E’ questo il
vero “paesaggio delle ville storiche”, che si è formato con i ritmi e le leggi della storia del tempo libero,
il quale ha trasformato, da vero protagonista, il paesaggio dai tempi della prima industrializzazione
lombarda in poi. Infatti, la borghesia, soprattutto quella milanese, comincia a investire i propri capitali
acquistando delle proprietà agricole con i proventi derivati per lo più dalle attività collegate con la prima

192
fase dell’industrializzazione, determinando così dei rapporti indissolubili di reciproca dipendenza e
collaborazione con la vita rurale locale 135, e instaurando definitivamente la presenza della tipologia
insediativa della villa in questi luoghi. Le testimonianze delle diverse forme della vita rurale, allora
estremamente povera e legata, seguendo l’alternanza delle stagioni, alla lavorazione delle materie
minerarie, soprattutto del ferro, sono oggi ancora molto efficaci, e costituiscono uno degli elementi più
profondamente radicati nella popolazione locale attuale 136. Ma è quello del tempo libero il vero
paradigma di riferimento delle trasformazioni dell’assetto fisico del paesaggio; infatti, accanto alle
residenze, sono sorte le prime attrezzature per lo sport, quali ad esempio i campi da golf, progettati
soprattutto per il numeroso pubblico inglese, ma sono nate anche quelle per il divertimento all’aperto,
come dimostra la presenza dei parchi storici attrezzati per i giochi 137.

Esiste anche una seconda tipologia insediativa molto diffusa nella prima e nella seconda fascia, e
cioè quella del borgo. Essa presenta dei caratteri specifici differenti da quelli tipici, ad esempio
medievali, di altre parti d’Italia, ma costituisce pur sempre un modello relativamente antico che presenta
delle caratteristiche ricorrenti in tutta la regione transfrontaliera dell’Insubria. Uno di questi caratteri si
ricollega direttamente all’antica attività economica prevalente degli abitanti, quella silvo-pastorale, che
creava uno stretto rapporto tra l’abitato e il territorio circostante, i quali risultavano così fortemente
integrati.
Attualmente, quest’integrazione non esiste più: il borgo è sede di altre attività, legate a
un’economia spesso turistica, a volte esclusivamente residenziale, che si sono insediate gradualmente al
posto di quelle precedenti, trasformandone l’identità originaria, e scindendone completamente i legami
con il territorio rurale, anche in quei casi in cui esso vive ancora secondo le leggi dell’economia agricola.
Tra le cause di questa frattura, c’è la trasformazione del ruolo sociale ed economico degli addetti
all’agricoltura, che oggi abitano in luoghi molto più distanti. Gli esempi in questo senso sono numerosi
nella regione, e alcuni di essi sono stati oggetto di un’edizione del workshop annuale denominato
“Accademia internazionale di progettazione”, di cui si accennava in precedenza 138. Qui lo stato
dell’edilizia è accettabile, sostanzialmente non ci sono edifici fortemente degradati, anche se la qualità
degli interventi operati a volte non è all’altezza né del passato né di un possibile buon livello attuale; le
funzioni sono essenzialmente residenziali, spesso legate al turismo “di ritorno”, e cioè alla presenza
degli antichi residenti che vi tornano soltanto nel periodo delle vacanze, ma anche a quello dei nuovi

135 Per una trattazione più specifica sull’argomento, si rimanda a: R. COLANTONIO VENTURELLI (a cura di), Per un osservatorio
sul paesaggio culturale, prodotto multimediale su CD, 2002.
136 I. VIGONI, Menaggio e dintorni, Noseda, Como, 1961.
137 Per una trattazione più specifica sull’argomento, si rimanda a: R. COLANTONIO VENTURELLI – A. GALLI – C. LEPRATTI

– V. MARTINEZ. – H. PESSOA, Il tempo libero e la formazione del “paesaggio delle ville storiche” del lago di Como in: S. BERTOLUCCI –
G. MEDA RIQUIER (a cura di), “Ville storiche del lago di Como: verso innovativi modelli di gestione”,
Comunicazioni/Mitteilungen, Villa Vigoni, IX, 3, 2005 – numero speciale.
138 Cfr. R. COLANTONIO – F. VENTURELLI, Il paesaggio del tempo libero, in: “Metamorfosi”, n°63, novembre 2006; C. LEPRATTI

– V. MARTINEZ, AA03, TU Darmstadt, Fachbereich Architektur – Entwerfen und Raumplanung, Darmstadt, 2003.

193
proprietari, e in parte sono anche di uso del tempo libero: ad esempio, vi si organizzano cicli di concerti
o rappresentazioni teatrali, e non soltanto nel periodo centrale dell’estate, sicuramente più frequentato.
Le trasformazioni più recenti, che si sono sovrapposte in modo disordinato, soprattutto nella
terza fascia, quella stretta e costiera, sono dovute essenzialmente alla massificazione del turismo più
recente che, appoggiandosi alla strada Regina, ha creato la frammentazione delle funzioni delle ville e ha
determinato la perdita di una parte dell’identità del loro rapporto significativo con il lago (fig. 5).

Fig. 5 – Gli apparati paesistici del territorio a cui appartiene il bacino del torrente Sanagra

A questa separazione delle strutture e delle funzioni legate alle due accezioni antitetiche del
tempo libero che attualmente si riscontrano – quella delle ville storiche, spesso appartenenti ancora alle
famiglie dei primi proprietari, oppure sofferenti a causa di difficoltà gestionali, a volte chiuse del tutto, e
quella del turismo di passaggio che “usa e getta” il paesaggio e ne consuma le sue strutture –
corrisponde una trasformazione ecologica profonda, che vi è direttamente collegata e che è ha avuto un
ritmo molto rapido negli ultimi sette – otto decenni (fig. 6a/6b) 139.

Fig. 6a – Ricostruzione del mosaico ambientale al 1936, scala 1:25.000 con indicazione della proprietà
Vigoni (rosso) e Bagatti Valsecchi (blu).

139 Le immagini citate sono tratte dal contributo di Gioia Gibelli all’interno del prodotto multimediale citato.

194
Si nota la concentrazione del bosco di conifere in corrispondenza delle proprietà delle ville (piccoli sistemi auto-
sostenibili con importante funzione di capisaldi del governo del territorio), l’alto grado di eterogeneità paesistica,
la presenza diffusa di elementi antropici plurifunzionali a bassa intensità d’uso (prati e seminativi, vigneti, ecc.),
considerabili come elementi di transizione tra le aree antropiche ad alta intensità d’uso (insediamenti) e le aree
seminaturali (boschi). Il governo è diffuso su tutto il territorio.

Fig. 6b – Ricostruzione del mosaico ambientale allo stato attuale, scala 1:25.000

Si nota l’aumento delle superfici boscate, l’aumento dei boschi con conifere, l’aumento degli insediamenti che si
configurano in modo tale da costituire “barriere” nel sistema territoriale. Sono scomparsi i frutteti e
sensibilmente diminuiti i prati e seminativi ed è aumentata l’intensità d’uso di quelli rimasti nei fondo valle. In
sintesi è diminuita l’eterogeneità paesistica e in generale è aumentata l’intensità d’uso degli elementi del paesaggio:
il risultato è un aumento del “contrasto” del mosaico ambientale che generalmente si accompagna ad una
diminuzione dell’equilibrio del sistema territoriale.
In un mutato contesto territoriale, si modifica anche il ruolo del sistema delle ville che hanno perso la
connotazione di autosostenibilità in seguito alle trasformazioni globali del mondo agricolo (es. diminuzione del
tradizionale valore economico del bosco). Esse necessitano quindi di nuove metodiche di conduzione per trovare
funzioni sostenibili sia da un punto di vista ambientale che economico acquisendo così una rinnovata importanza
negli equilibri del territorio.

Così, la fascia delle ville ha perso il rapporto significativo e determinante che aveva con il lago,
con le tradizionali vie di comunicazione sull’acqua e con la fascia montana retrostante, un tempo
strettamente collegate tra loro, facendo precipitare tutte le forme d’interesse – economico, sociale,
culturale – verso la parte più bassa del versante, fino ad appiattirsi e accumularsi sulla linea costiera. Ciò
ha provocato a sua volta un forte decremento della capacità di autosostentamento della prima fascia,
addossando alla terza il compito di provvedere a tutto il territorio. Poiché quest’azione di
schiacciamento non può continuare, dal momento che ha costi economici ed ecologici troppo alti per la
terza fascia, è necessario che ci si impegni a fare in modo che la prima torni ad essere significativamente
produttiva e sufficiente per il riequilibrio dell’intera zona.

Dunque, è indispensabile che i numerosi aspetti di questo paesaggio – scientifici, storico-


artistici, economici – siano investiti dalle diverse matrici disciplinari che possono, integrandosi,

195
restituirne un’immagine scientifica complessa per suggerire delle azioni d’intervento integrate ed
efficaci.

Riepilogo
• Le caratteristiche fisiografiche e quelle antropiche
• Il modello culturale originario e la formazione delle tre fasce del paesaggio
attuale secondo il paradigma del tempo libero
• La necessità delle competenze scientifiche multidisciplinari che studiano il
rapporto tra la molteplice identità della popolazione e l’identità ecologica del
paesaggio

3) I principi ispiratori della ricerca


Il paradigma del tempo libero come fattore di trasformazione del paesaggio culturale, declinato
nei suoi aspetti principali, quello della residenza, quello dello sport e quello del tempo libero, ha
contribuito notevolmente all’insediamento di quella tipologia territoriale, che ormai è piuttosto diffusa,
ma con connotazioni diverse specifiche da luogo a luogo, e che è stata definita recentemente come la
“nuova urbanità” 140. La dinamica generatrice di questa tipologia consiste nel dissolvimento del
paesaggio urbano in quello rurale, nel disciogliersi vicendevole dell’uno nell’altro, generando un assetto
territoriale privo di caratteri distintivi. Un certo tipo di presenza urbana è dappertutto, un certo tipo di
ruralità emerge accanto a queste presenze, senza un concetto ordinatore conduttore. La scelta di questo
caso di studio, in cui le concentrazioni urbane sono scarse e non ben definite, mentre i caratteri rurali
stanno perdendo la loro incisività, è legata sia alla presenza di alcuni aspetti già evidenti del fenomeno a
cui si accennava, sia ad alcuni potenziali rischi che si potrebbero verificare, e che si possono intravedere
fin d’ora attraverso un disordine insediativo a tratti piuttosto pronunciato. Ma è proprio il disordine che
deve guidare lo sviluppo di queste zone “interurbane”?
La risposta è senz’altro negativa, tuttavia non è facile tradurla in azioni progettuali se non si
passa prima attraverso una riflessione sullo stato reale del paesaggio complessivo e sulla sua
scomposizione per unità territoriali significative dal punto di vista del rapporto che i diversi elementi
assumono al loro interno. Infatti, a ben vedere, l’attuale frammentazione del paesaggio non è che lo
specchio fedele di un altro tipo di frammentazione: di quella sociale. All’organizzazione spaziale del
modello generatore del “paesaggio delle ville storiche”, basato sull’impiego fortemente interdipendente
dei capitali borghesi e delle risorse rurali, comprese quelle umane, è seguito l’assetto territoriale attuale,

140Per una riflessione molto attenta sul tema, si rimanda a: F. OSWALD – N. SCHÜLLER (a cura di), Neue Urbanität, gta
Verlag, ETH Zürich, 2003.

196
generato dalla profonda scissione tra gli interessi delle diverse componenti sociali che oggi vi operano, e
cioè in sintesi da tre grandi gruppi.
A quello dei proprietari attuali delle ville, in parte discendenti dalle famiglie originarie, ma spesso
anche ad esse assolutamente estranei, come ad esempio i grandi operatori nel campo della moda o dello
spettacolo, si sono affiancati gli operatori turistici su vasta e piccola scala – dai gestori delle strutture
ricettive agli agenti immobiliari ai commercianti; agli interessi di questi due gruppi si aggiungono, spesso
contrapponendosi, quelli della popolazione residente. Infine, bisogna menzionare come anche la
popolazione fluttuante, rappresentata dalle presenze turistiche, giornaliere ma anche settimanali o
quindicinali, può avere un suo peso nell’espressione delle esigenze d’uso delle risorse locali, anche se,
per sua natura, non può esprimere un’opinione confrontabile con quella di un gruppo omogeneo,
stabile e significativo 141.
Il tentativo che si vuole sviluppare è proprio quello di proporre un modello di riorganizzazione
spaziale che tenda a superare l’attuale risultato di quel processo di confusione culturale che lo ha
generato a favore dell’espressione di un altro modello, e cioè di quello di una nuova riconnessione tra
tutte le potenzialità sociali e culturali, tra tutte le azioni locali già avviate e quelle future dirette allo
sviluppo integrato del territorio e dell’ambiente, tra tutte le componenti sociali rivolte all’interazione e
alla cooperazione più stretta.
E’ solo quest’idea di riorganizzazione e di sostegno all’integrazione che può generare anche un
riflesso coerente e concreto sull’assetto territoriale ed ambientale, trasformando la frammentazione
“interurbana” nella logica della compattezza “infraurbana”. Così, si tratta di passare dalla dispersione
senza senso alla ricomposizione organizzata, dal modello della speculazione finanziaria a quello della
ricchezza del corretto sostegno dei processi ecologici e tecnologici rivolti al potenziamento di tutte le
risorse, dall’allontanamento reciproco delle componenti sociali alla loro cooperazione, da un paesaggio
splendido ma poco coerente a un paesaggio di grande qualità culturale, ecologica e percettiva.
Traducendo queste indicazioni in termini spaziali, il concetto della continuità non si esprime
soltanto in uno schema bidimensionale organizzato per livelli orizzontali successivi, come è raffigurato
nella fig. 5, ma si identifica da una parte con il nuovo modello culturale che il gruppo di lavoro
multidisciplinare si è sforzato di elaborare, e dall’altra con l’assetto del paesaggio considerato nella sua
tridimensionalità, che si può esprimere graficamente attraverso quelle connessioni verticali che
ricollegano tra loro le interfacce dei diversi elementi appartenenti alle diverse componenti del paesaggio
stesso (fig. 7).

141Si noti come, da un questionario diffuso recentemente dalla Comunità montana delle Alpi Lepontine, è emerso che una
parte della popolazione fluttuante è rappresentata da un gruppo piuttosto numeroso di turisti, per lo più tedeschi ed inglesi,
che per consuetudine trascorrono le vacanze tutti gli anni in questi luoghi e che hanno una loro precisa opinione sulla loro
integrità, peraltro rivolta essenzialmente alla salvaguardia più rigorosa. Tale opinione è sicuramente da considerare.

197
Fig. 7 – Le interfacce tra gli apparati paesistici e l’azione culturale dell’uomo

Dunque, tornando alla scomposizione per fasce del paesaggio a cui si accennava, che non
risponde esclusivamente a un criterio fisiografico, ma soprattutto al rapporto reciproco che tali risorse
fisiografiche hanno con le consuetudini abitative della variegata popolazione attuale, si può dire che in
ciascuna di queste tre fasce bisogna approfondire le dinamiche dei fenomeni che vi hanno sede, e
tenerle sotto controllo, stabilendo degli indicatori significativi della pressione, dello stato e della risposta
di tali fenomeni, per poi utilizzarli come la base delle azioni progettuali integrate da suggerire 142.
Pertanto, gli indicatori devono essere scelti opportunamente perché siano realmente rispondenti a
queste esigenze, e non una volta per tutte, in precedenza, secondo dei criteri precostituiti 143.
In questo senso, bisogna segnalare che esistono già tre strumenti di governo del territorio,
ciascuno relativo a una fascia territoriale, i quali, oltre a rappresentare delle forme gestionali interessanti
e in parte originali, possono fornire anche una traccia importante per la definizione degli indicatori da
utilizzare, soprattutto per quanto riguarda quelli di risposta del modello PSR (v. “Metodologia
generale”). Infatti, la prima fascia comprende al suo interno il parco della Val Sanagra, uno di quei
parchi locali di interesse sovracomunale (PLIS) che la Regione Lombardia, unica in Italia, ha istituito
nella propria legge urbanistica.
L’interesse disciplinare specifico per questa tipologia risiede nel fatto che essa, oltre alla sua
originalità, prevede la stesura di un piano apposito di gestione territoriale di ordine superiore a quello
comunale, a cui quest’ultimo deve quindi adeguarsi. Ciò significa che questo piano non può che
integrare le direttive urbanistiche comunali con quelle rivolte alla gestione degli ecosistemi agro-silvo-
pastorali e di quelli boschivi. In questo senso, il PLIS può rappresentare un ottimo mezzo per

142 Per un testo molto approfondito sul tema, si rimanda: H. WEGGERING – F. MÜLLER (a cura di), Umweltziele und
Indikatoren, Springer, Berlino, 2004.
143 Le caratteristiche principali degli indicatori da stabilire sono in: F. MÜLLER, Ecosystem Indicators for Integrated Management of

Landscape Heatht and Integrity, in: S. E. JØRGENSEN – R. COSTANZA – FU-LIU XU (a cura di), Handbook for Ecological Indicators
for Assessment of Ecosystem Healt, CRC Press (Taylor & Francis Group), Boca Raton – Londra – New York – Singapore, 2005,
pp. 277 –303.

198
consentire l’avvio di quel processo di rafforzamento ecologico, e quindi del suo autosostentamento
economico, che potrebbe contrastare la tendenza di questa fascia territoriale a “gravare”, come si diceva
in precedenza, sulle altre due, e soprattutto su quella costiera che non può più permettersi di sopportare
questo peso.
La seconda fascia, quella “dei borghi e delle ville”, per così dire, appartiene in parte al territorio
investito da un’importante iniziativa, anch’essa unica, che la Regione Lombardia ha avviato
recentemente e che riguarda un progetto molto ampio di recupero programmato di alcuni monumenti.
Infatti, a differenza di quanto è avvenuto finora per i singoli monumenti restaurati e poi abbandonati a
una successiva gestione dotata di risorse incerte da dedicare alla sua manutenzione futura, e spesso
priva di risorse, questo nuovo indirizzo regionale contenuto nell’ “Accordo quadro di sviluppo
territoriale” (AQUST) prevede che essi, una volta ritornati allo stato di agibilità, vengano poi seguiti
nella loro “vita” successiva, attraverso successivi controlli ed azioni di continuo monitoraggio ed
intervento. E’ evidente come quest’ottica possa avvantaggiare non soltanto i singoli monumenti, ma
tutto il territorio investito da questo progetto 144.
Per quanto riguarda la fascia costiera, è importante segnalare l’iniziativa presa dal Comune di
Menaggio nell’ambito di Agenda 21. Questo strumento non è certamente originale né specifico ma, per
la sua stessa natura, può fornire un contributo notevole al coinvolgimento della popolazione nello
sviluppo di quel nuovo modello culturale che si intende proporre. Infatti, interessando tutte le
componenti sociali – dai proprietari delle ville storiche agli imprenditori turistici alla popolazione
residente – questo strumento può svolgere un ruolo doppiamente importante: da un lato, esso
organizza una risposta alle esigenze locali di avviare un processo di sviluppo sostenibile secondo i
principi della Carta di Aalborg, che non vengono discussi in questa sede sotto il profilo scientifico,
dall’altro può rappresentare un’occasione preziosa per invitare tutte queste componenti sociali a
dibattere insieme le aspettative e le potenzialità concrete di un nuovo modello insediativo.
Allora, utilizzando tutti gli strumenti scientifici e quelli gestionali a disposizione, l’idea che
scaturisce quasi spontaneamente è quella di attivare, attraverso tutte le azioni concertate per le tre fasce,
un flusso di informazioni, di collaborazioni e di intenti unitari che faccia sorgere la possibilità di
ricomporre in un’unica realtà territoriale le varie parti frammentate del paesaggio, avviando così un
processo di organizzazione spaziale che rifletta coerentemente un modello culturale sicuramente nuovo,
ma che richiama molto da vicino quello, robusto, longevo e basato sulla cooperazione tra le varie
componenti sociali per il raggiungimento degli obbiettivi comuni, che ha generato a suo tempo il
“paesaggio delle ville storiche”.

144 REGIONE LOMBARDIA, La conservazione programmata del patrimonio storico architettonico, Guerini e associati, Milano, 2003.

199
Riepilogo
• La “nuova urbanità” come generatrice dell’assetto attuale del paesaggio
• “Infraurbano” vs. “interurbano”
• Alcuni criteri per l’uso degli indicatori nell’elaborazione delle linee di azione
progettuale

4) Per la ricomposizione e il riequilibrio del “paesaggio delle ville storiche” del Lago di
Como
Nell’assetto attuale delle tre fasce individuate nel “paesaggio delle ville storiche”, che la “nuova
urbanità” ha determinato secondo i suoi principi di dissolvenza e di mescolanza, risulta chiaro come le
strutture tecno-ecosistemiche, e cioè quelle forgiate dall’azione antropica, abbiano raggiunto il punto
massimo della loro maturità. Ciò significa che non è necessario, anzi può risultare dannoso, favorire
delle azioni per accrescerne la quantità, mentre può risultare particolarmente vantaggioso creare delle
occasioni per lo sviluppo non soltanto della loro qualità fisica, ma soprattutto delle nuove funzioni che
esse potrebbero accogliere, rinnovandone in parte anche gli usi.

Per quanto riguarda le strutture semi-naturali boschive e quelle agro-ecosistemiche produttive,


strettamente interrelate tra loro in questo tipo di paesaggio, esse devono essere sostenute con alcuni
accorgimenti che permettano loro di rafforzarsi e assumere quel valore ecologico che le metta in grado
di svolgere un ruolo di riequilibrio anche economico, e quindi di sostenersi in modo autonomo rispetto
alle altre strutture tecno-ecosistemiche. Pertanto, è necessario che gli interventi sugli agroecosistemi
siano di tipo definitivo e più incisivo sia dal punto di vista strutturale, sia dal punto di vista funzionale.

Dunque, è chiaro che le tre fasce in cui è stato scomposto il paesaggio siano organizzate
secondo dei principi diversi, come peraltro si accennava anche nel paragrafo precedente. Allora la
“nuova urbanità” presente potrà tradursi in un “paesaggio ricomposto”, secondo quel modello, a cui si
accennava, che risulta differenziato per criteri d’intervento, ma unitario sia per la sua organizzazione
spaziale, sia per la ricomposizione sociale. Così, al suo interno, si potranno organizzare
autonomamente, e poi ricollegare funzionalmente, tre tipologie di paesaggio, che si potranno indicare
sinteticamente come: “il paesaggio della nuova ruralità”, relativo alla prima fascia, “il paesaggio degli
eventi culturali”, nella seconda fascia, e “il paesaggio delle strutture temporanee” nella terza. Per ognuna
di queste tipologie verranno proposti di seguito i criteri organizzativi specifici.

200
a) – “Il paesaggio della nuova ruralità”

Il sostegno agli ecosistemi agrari e forestali consente, come si diceva in precedenza, di fare del
parco della Val Sanagra il motore dello sviluppo di una molteplicità di attività che non devono
appartenere a un unico settore, ma differenziarsi profondamente tra di loro, proprio per evitare che
l’omogeneità provochi una specializzazione eccessiva degli ecosistemi stessi, e quindi ne rinnovi la
debolezza. Pertanto, le azioni d’intervento riguarderanno essenzialmente tre settori di attività: la
produzione agro-silvo-pastorale, la formazione professionale e il tempo libero nei suoi molti aspetti.

In particolare, le attività produttive sono rivolte allo sviluppo e alla riqualificazione degli alpeggi;
al ripristino di colture tradizionali scomparse o molto ridotte, quali il gelso, il castagno, l’olivo, la vite a
scopi produttivi, ma solo nel caso in cui le indagini economiche lo riterranno conveniente, e
dimostrativi; al recupero e al restauro di alcuni edifici rurali; allo sviluppo dell’attività dei “crotti”
esistenti per l’attività agrituristica e alla riqualificazione di alloggi già esistenti per il turismo e
l’agriturismo.
L’idea di introdurre delle attività rivolte alla formazione scaturisce dall’intento di ricavare dei
suggerimenti gestionali derivati dalla conoscenza integrata tra le varie analisi e interpretazioni
disciplinari del gruppo di ricerca, a loro volta dettate dalle potenzialità che il modello culturale locale
offre ai fini dello sviluppo di quel modello del “paesaggio ricomposto” che si intende proporre. La loro
discussione ha condotto a due considerazioni: da una parte ha recepito l’esigenza rilevata nella
popolazione residente di avviare allo studio degli ecosistemi forestali le generazioni che si occuperanno
in futuro di questo territorio, in cui essa si identifica culturalmente in modo molto stretto; dall’altra, essa
si è basata sull’osservazione e sulla riflessione in merito agli interventi, di livello a volte molto poco
soddisfacenti, sul patrimonio edilizio locale.
Dunque, le iniziative rivolte alla formazione riguardano l’istituzione di una scuola secondaria
forestale, con possibilità di ospitare stage e incontri con altre scuole in rete; l’istituzione di un centro
multilivello, dalle elementari all’università, per la documentazione e per l’aggiornamento continuo sui
materiali e sulle tecniche edilizie tipiche dell’Insubria, che raccolga il materiale utile per conoscerne la
storia, le applicazioni attuali e le informazioni essenziali, con l’obbiettivo di formare una “scuola locale”
di maestranze, di allievi e di tecnici qualificati per l’uso di materiali e di tecniche di elevata qualità per il
restauro e la manutenzione dell’edilizia locale, in stretto contatto con le scuole del Cantone del Ticino,
con scambi continui di docenti e di studenti. In questo senso, anche l’architettura “vernacolare” può
ricavarne un ottimo ausilio.
Infine, le linee propositive gestionali per la riorganizzazione tematica dei percorsi di visita
didattici e culturali del parco della Val Sanagra riguardano: l’attività agricola nelle zone collinari e
montane, la valorizzazione dei suoi caratteri attuali e delle sue potenzialità; le testimonianze del
201
rapporto tra l’uomo e il suo ambiente di vita attraverso l’impiego delle risorse produttive prima e dopo
la “rivoluzione industriale”, quali l’estrazione del ferro e la lavorazione del legno, l’impiego dell’acqua e
le sue conseguenze sull’attività agricola e sulla società; le testimonianze della vita rurale dalla fine del
XVIII secolo agli inizi del XX, e il collegamento dei percorsi del parco con quelli interni a Villa Mylius
Vigoni per la visita dei rustici che, nel loro stato di conservazione, ne rappresentano un segno evidente;
le testimonianze della vita borghese dalla fine del XVIII secolo agli inizi del XX, con visite alla
proprietà Bagatti Valsecchi e alla proprietà Mylius Vigoni; il turismo stanziale a scopo di studio e di
ricerca.

Quest’ultimo punto richiama immediatamente la tematica della tipologia insediativa, tipica di


questa prima fascia territoriale e della seconda, di cui si accennava al punto 2), e cioè quella del borgo,
strettamente legata al modello culturale che le ha generate. Infatti, sono ancora molto ben individuabili i
numerosi segni lasciati dalla presenza delle cultura materiale legata alla vita rurale e all’attività produttiva
agro-silvo-pastorale entrata in rapido declino pochi decenni fa, per lasciare il posto non all’abbandono,
ma a una nuova interpretazione del rapporto tra l’uomo e il suo ambiente. Oggi, tale rapporto passa
attraverso l’introduzione di alcune funzioni, in parte legate ancora all’attività agricola e in parte di
origine più recente, derivanti dal turismo di breve e/o di lungo periodo. Così, accanto agli antichi
mulini, ai ponti di pietra e all’antica chioderia, oggi trasformata in un ristorante in cui consumare le trote
allevate nelle acque del fiume Sanagra, si svolge un’attività di recupero edilizio piuttosto intensa, non
sempre di livello elevato, che potrebbe avere delle conseguenze non del tutto positive, soprattutto se
sommate ad altre iniziative prive di un coordinamento generale. Dunque, si propongono
spontaneamente alcune possibilità di recupero della logica del borgo da opporre alla tendenza alla
diffusione di una specie di periferia urbana generalizzata, intervenendo in un’ottica complessiva che
colleghi le linee progettuali di più ampia scala con quelle di scala più dettagliata, fino ad arrivare alla
riprogettazione dei giardini e dei piccoli orti murati ancora presenti nei borghi.
Accanto a questi spunti più immediati, per così dire, lo sviluppo delle tecnologie informatiche
forniscono una linea d’intervento più articolata, che darebbe la possibilità a ciascun borgo di entrare a
far parte di una rete immateriale che offrirebbe degli ottimi spunti sia per il rinnovo delle funzioni
legate al tempo libero della popolazione fluttuante, sia per il suo uso da parte della popolazione
residente. La proposta, che consiste nel trasformare il borgo tradizionale in un “borgo cablato”, si
rivolge a due diversi profili di utente del tempo libero: da una parte è rivolta a quel tipo di turista che si
reca in uno dei borghi della Val Sanagra per spegnere il computer e uscire a incontrare persone e luoghi
collettivi; dall’altra, a quel turista che si reca in uno dei borghi per accendere il computer e concentrarsi
sul suo lavoro intellettuale in un ambiente particolarmente adatto dal punto di vista sia delle strutture
informatiche disponibili, sia della cornice dei sistemi naturali, semi-naturali e rurali che lo circondano.
In questo senso, anche la popolazione locale, e in modo particolare gli addetti alle attività agricole e a

202
quelle da essa indotte, può usufruire della rete cibernetica messa a disposizione da questo intervento per
migliorare la gestione delle proprie attività, e insieme per riqualificare il rapporto tra l’attività produttiva
e la residenza 145.

b) – “Il paesaggio degli eventi culturali”

La seconda e la terza fascia sono quelle in cui è forse più evidente la necessità di avviare il
processo di trasformazione della “nuova urbanità” in quel “paesaggio ricomposto”, sia nel senso fisico,
sia in quello culturale, a cui si accennava in precedenza. Anche se le due fasce si differenziano per alcuni
caratteri fondamentali, e quindi si propongono interventi diversi, tuttavia la presenza delle ville storiche,
sia sulla costa degradante sull’acqua, sia sulla riva del lago, sia a volte perfino sull’acqua, ne costituisce
l’elemento di collegamento. Dunque, tutte le proposte che riguardano il tema dell’interfaccia vengono
illustrate in questo stesso punto.

E’ su questa valenza fondamentale del paesaggio che si basa la sua ricomposizione attraverso le
due grandi direttive di azione, contemporanee e strettamente collegate tra loro: da un lato la
realizzazione di una serie di eventi che facciano avvicinare il pubblico alle strutture di questo particolare
patrimonio, il quale richiama a sua volta una lunga serie citazioni letterarie, storiche, artistiche,
botaniche; dall’altro, la scelta e l’approfondimento dei contenuti culturali, nonché l’organizzazione dei
servizi, dei tempi e delle dinamiche che richiede questa realizzazione. Ciò comporta sicuramente molte
occasioni di tipo economico per tutte le attività collegate al settore del tempo libero, ma anche alcuni
vantaggi per la conduzione stessa delle proprietà storiche.

Ad esempio, un consorzio formato dagli amministratori, dagli operatori interessati a qualsiasi


titolo, dagli esperti incaricati di volta in volta, nonché dai proprietari interessati, potrebbe organizzare il
programma degli eventi relativi alla stagione delle presenze turistiche, peraltro piuttosto prolungata in
questi luoghi, da aprile a novembre, ispirandosi a un tema dominante per la stagione stessa. Tutti i
luoghi collegati con questo tema, dai particolari punti del paesaggio alle strutture delle ville, potrebbero
essere visitati secondo le modalità concordate con il consorzio. In qualche modo, anche se con molte
differenze, è ciò che è avvenuto nel 2004 in occasione delle celebrazioni del centenario della nascita di
Giuseppe Terragni a Como.

Questo circuito di visite, di iniziative e di diffusione culturale, legato ad un tema specifico e


stagionale, potrebbe fare da cornice a quello più duraturo, formato da quei luoghi che ormai sono una
meta entrata nella consuetudine del turismo locale, o addirittura nella mitologia del turismo mondiale,
come nel caso, ad esempio, di Bellagio. In questo senso, esiste già uno spunto di rilievo che,

145 Il tema del “borgo cablato” è stato sviluppato nell’edizione del 2004 dell’Accademia internazionale di progettazione, i cui

risultati sono stati presentati in varie sedi, tra cui si ricorda quella della DBU – Deutsche Bundesstiftung für Umwelt, a
Osnabrück, in occasione di un convegno dedicato ai temi del recupero ambientale, nel settembre di quello stesso anno.

203
opportunamente adeguato in alcuni punti, potrebbe diventare il nocciolo centrale di un circuito ben più
ampio. Infatti, partendo dall’imbarcadero di Tremezzo, raggiunto dal lago o da terra, si propone
immediatamente la visita della famosissima Villa Carlotta; poi, invece di tornare indietro, percorrendo a
piedi un sentiero da mettere in sicurezza in alcuni punti che oggi si presentano pericolosi, si potrebbe
arrivare fino a Villa Vigoni, visitarla attraverso i percorsi progettati appositamente 146, e poi scendere
verso il lago attraverso il sentiero che conduce a Nobiallo e subito dopo a Menaggio, imbarcarsi di
nuovo e tornare a Tremezzo o in qualunque altro punto del lago servito dal battello (fig. 8).

Fig. 8 – Un possibile percorso misto di visita a piedi e in battello

Così, in un’organizzazione complessiva delle visite legate sia agli eventi stagionali sia alle mete
consolidate nella tradizione, che si potrebbe allargare gradatamente, potrebbero cominciare a essere
interessati ad aprire le loro dimore storiche anche alcuni di quei proprietari che attualmente non
riconoscono alcun motivo per farlo, ma che potrebbero, al contrario, offrire un notevole contributo alla
diffusione della conoscenza del patrimonio di questi luoghi. Essi potrebbero ottenere in cambio alcuni
vantaggi, di tipo fiscale come di tipo gestionale. Per fare ciò, sarebbe necessaria un’organizzazione di
tipo collegiale connessa al consorzio a cui si accennava in precedenza, la quale provvedesse a fornire e
gestire tutti quei servizi integrati che sono essenziali per garantire la sicurezza, la riservatezza e il livello
culturale indispensabili perché le occasioni di apertura al pubblico e di visita di questi organismi
delicatissimi delle ville e dei loro parchi si mantengano al livello adeguato al loro molteplice valore.

146 Si rimanda, a questo proposito, al progetto intitolato Per un’area di riequilibrio, citato al punto 1).

204
Forse questa potrebbe essere la strada giusta per far convogliare tutti gli interessi presenti in una
serie articolata ma univoca di obbiettivi culturali ed economici, ma anche ecologici, poiché in questo
modo anche la fascia più interna, come nel caso del percorso circolare illustrato, che dal lago riconduce
al lago stesso passando attraverso la visita delle due ville storiche, potrebbe essere ricollegata alle altre
due e, attraverso una sua riorganizzazione nel senso esposto al punto precedente, ricostruirsi
ecologicamente e autonomamente. In questo processo di ricomposizione dai molteplici aspetti, che alla
lunga potrebbe creare delle reti materiali e immateriali, si possono pensare delle forme di diffusione,
oltre che delle informazioni, anche di alcuni prodotti, materiali e immateriali. Infatti, se il “borgo
cablato” può ricevere, elaborare e restituire le informazioni, il suo territorio può anche produrre e
diffondere quei prodotti agricoli locali che, se se ne potesse ricavare un ritorno economico realmente
significativo, potrebbero essere diffusi nelle altre due fasce, aggiungendo un ulteriore aspetto
caratterizzante.

c) – “Il paesaggio delle strutture temporanee”

Lungo il lago, l’auspicato potenziamento della mobilità pubblica e privata sull’acqua può
comportare certamente una trasformazione anche nell’uso delle strutture insediative. La diminuzione
del traffico su gomma e il coordinamento del flusso turistico e delle merci preludono a una specie di
“isola pedonale”, in cui il passaggio dei mezzi non è escluso completamente, ma certamente
contingentato. Questa è la condizione essenziale affinché in tale scenario si possano collocare delle idee
di riorganizzazione che integrino e completino la riqualificazione di tutte e tre le fasce. Pertanto, si tratta
di intervenire, dove si ritiene opportuno, sempre nell’ottica di salvaguardare le strutture di pregio e di
riqualificare quelle meno significative, senza peraltro sommare alcun intervento nuovo di tipo
permanente alle strutture esistenti.

Dunque, l’idea è quella di proporre comunque delle forme di intervento che non riguardino in
alcun modo l’espansione delle strutture insediative destinate alla residenza o ai servizi, ma di
promuovere la realizzazione di un sistema di forme di segnalazione, di riorganizzazione sia funzionale
sia visiva, di comunicazione del grande patrimonio culturale che risiede in questo paesaggio, che
assumano molto raramente il carattere della struttura permanente, ma che in generale conservino
sempre e comunque lo spirito dell’identificazione culturale. Il “paesaggio ricomposto”, che deriva
dall’azione congiunta del nuovo modello culturale e di quello del paesaggio complessivo, deve essere
segnalato dal lago e dalla terraferma da una serie di strutture che, proprio per il loro carattere
temporaneo, sottolineano la presenza di alcuni eventi, collegati alle tematiche individuate secondo i
criteri illustrati al punto precedente.

205
Ad esempio, l’Isola Comacina potrebbe essere collegata alla costa attraverso una struttura
studiata appositamente, sia nella forma sia nei materiali, per facilitarne l’accesso da parte dei visitatori
che volessero raggiungere la chiesa romanica sull’isola, la quale, attraverso un’opera di restauro ancora
in corso e la realizzazione di un antiquarium previsto dall’AQST, di cui si accennava in precedenza, si
appresta a diventare un luogo di estremo interesse. Ma lo stesso si può dire anche per altri luoghi
trasformati in modo significativo dal paradigma del tempo libero secondo altre declinazioni: quella
ludica, che ha tra gli esempi più significativi il “Giardino del Merlo” a Dongo, e quella sportiva,
rappresentata in maniera molto particolare dal Club del Golf di Croce di Menaggio, la cui fondazione
risale al 1907 da parte di una famiglia inglese, al secondo posto della classifica dei Club del Golf più
antichi d’Italia.

Questo club narra molte vicende contemporaneamente: la presenza del turismo straniero,
inglese e tedesco, che per secoli ha scelto questa direttiva per iniziare il Grand Tour in Italia; l’esigenza di
trasformare gli ecosistemi naturali in funzione di esigenze non produttive ma legate al tempo libero,
riproducendo così artificialmente una porzione del paesaggio anglosassone, con canoni ed effetti non
sempre di lieve impatto; il passaggio dal carattere popolare dello sport del golf, diffuso nel paesaggio
quasi naturale, al carattere elitario ed esclusivo assunto dopo il suo trapianto in un luogo estraneo.
Dunque, attraverso una rielaborazione che sottolinea la presenza di eventi particolari, quale ad esempio
i festeggiamenti per il compimento del secolo del club di Croce, le testimonianze più antiche e meno
antiche possono mostrare il loro valore non solo passato, ma anche attuale e potenziale. Infatti,
l’occasione del giubileo di una struttura sportiva, anche se non direttamente collocata sul lago e
sicuramente non aperta al grande pubblico, può richiedere tuttavia l’installazione di una di quelle
strutture temporanee, caratterizzanti e flessibili, che richiamano gli eventi che si svolgono nelle fasce di
paesaggio più vicine alla costa, collegandole in un effetto di continuità spaziale e percettiva.

Ma ciò che preme sottolineare è l’importanza fondamentale che riveste il disegno di queste
strutture: esse devono costituire un impegno collettivo di grande livello creativo da parte di architetti
del paesaggio, di progettisti strutturali, di designer, di esperti della progettazione dello spazio in tutte le
sue forme. La collegialità di questo lavoro rappresenta un altro degli aspetti innovativi della possibile
esperienza di riorganizzare il paesaggio, poiché si mette a disposizione e affianca lo sforzo collettivo di
tutte le componenti sociali per raggiungere l’obbiettivo comune di ricomposizione. Dunque, si profila
ancora un altro aspetto di quel modello culturale da riflettere nel modello nel “paesaggio delle strutture
temporanee”.

Se esse fossero realizzate singolarmente, o richiamassero l’attenzione su un solo luogo,


avrebbero un ruolo, per quanto di rilievo, comunque molto limitato; al contrario, la loro diffusione in
un numero adeguato, e il loro opportuno collegamento, potrebbero creare una rete di interventi a

206
piccola scala che, tutti insieme, potrebbero conferire al paesaggio quel nuovo carattere fondativo che
ricollegherebbe in qualche modo tutto il lago a una scala molto più vasta. Così, l’idea di restituire allo
specchio d’acqua gli aspetti più qualificanti dell’antica identità si traduce nel tentativo di riorganizzare il
lago e il suo immediato entroterra in un’unica entità territoriale, operando degli interventi che
favoriscano il continuo salto dalla scala più ridotta a quella ampia. In questo senso, può essere molto
utile riflettere sull’esperienza avviata in Svizzera con l’Expo 02, poi ripresa e ampliata da Oswald nel
suo saggio transdisciplinare sul dissolvimento del paesaggio, e quindi proposta per lo sviluppo
sostenibile della regione del Giura 147.

Ed è proprio il carattere temporaneo di queste installazioni, collocato in un progetto culturale, e


quindi territoriale, di grande respiro, che ha la forza di attrarre continuamente il pubblico, invitato ogni
nuova stagione a visitare il paesaggio storico che si rinnova sempre e continuamente: la sua
temporaneità diventa così il suo carattere permanente. Il paesaggio si arricchisce momentaneamente di
strutture temporanee che gli permetteranno di tornare al suo stato attuale quando viene meno lo scopo
per cui sono state installate; ma, essendo flessibili, esse saranno installate nella stagione successiva con
altri fini, per segnalare un altro tema e altri eventi a esso collegati, nello scenario delle ville storiche che
non sarà più immobile, ma si trasformerà momentaneamente, accogliendo i visitatori secondo quei
principi organizzativi, economici e gestionali, accennati in precedenza, che ne tutelano la qualità.

Questo modello del “paesaggio ricomposto” si colloca molto bene nella scala più vasta di tutta
la regione megalopolitana padana, poiché ne può costituire un’occasione di riequilibrio culturale,
territoriale e ambientale, così come può esserlo per tutta l’Insubria. Infatti, seguendo solo uno dei tanti
spunti tematici che potrebbero essere scelti per l’avvio del processo per la ricomposizione e il
riequilibrio del “paesaggio delle ville storiche” del Lago di Como, si può pensare di organizzare un
percorso che si spinga fino a condurre a visitare le proprietà extraurbane della famiglia Mylius, da
Loveno di Menaggio fino a Sesto S. Giovanni, utilizzando i mezzi pubblici di trasporto sul ferro e
sull’acqua, per ricostruire non soltanto la storia di una famiglia, di un periodo politico e culturale molto
significativo per le vicende italiane, ma soprattutto per mostrare come il suo prolungamento, sotto certi
aspetti, fino a oggi, rappresenti un complesso di cause concomitanti che sta alla base della
frammentazione culturale del paesaggio attuale. Nonostante l’apparente paradosso e la loro stridente
scissione, le cupe aree industriali dismesse di Sesto e il paesaggio incantato delle ville storiche hanno la
stessa radice storica, sono state generate dalla disgregazione dello stesso modello culturale, e richiedono
lo stesso coraggio di riflettere e di tentare la strada di una ricomposizione e di un riequilibrio.

147 Cfr. F. OSWALD, Die Stadt im Schmelztiegel, in: F. Oswald – N. Schüller (a cura di), op. cit., pp. 31-57.

207
Riepilogo
• “Nuova urbanità” e “paesaggio ricomposto”
• “Il paesaggio della nuova ruralità”
• “Il paesaggio degli eventi culturali”
• “Il paesaggio delle strutture temporanee”
• Significato del modello proposto nel riequilibrio a scala locale, megalopolitano e
dell’Insubria
• Schema metodologico – applicativo della ricerca del gruppo multidisciplinare

208
RITA COLANTONIO VENTURELLI – ANDREA GALLI – GIULIO PETTI
(IN COLLABORAZIONE CON MONICA BOCCI – MARIA EMILIA FARACO – GIORGIO MANGANI –
ERNESTO MARCHEGGIANI – GIOVANNA PACI)

PER UN PAESAGGIO DELLA “PRODUZIONE MARCHE-ITALIAN STYLE”:


IL CASO DI STUDIO DELL’AREA METROPOLITANA DI ANCONA

Il prodotto interno lordo non tiene conto dello


stato di salute delle nostre famiglie, della qualità
della loro educazione e della gioia dei loro giochi.
Non comprende la bellezza della nostra poesia o
solidità dei nostri matrimoni, l’intelligenza delle
nostre discussioni o l’onestà dei nostri dipendenti
pubblici. E’ indifferente alla decenza delle nostre
fabbriche e insieme alla sicurezza delle nostre
strade. Non tiene conto né della giustizia dei
nostri tribunali né della giustezza dei rapporti tra
noi. Il prodotto interno lordo non misura né la
nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra
saggezza né le nostre conoscenze né la nostra
compassione né la devozione al nostro paese.
Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la
vita meritevole di essere vissuta, e può dirci tutto
dell’America, eccetto se siamo orgogliosi di essere
americani.
Bob Kennedy

Introduzione
Lo spunto per lo sviluppo di questo caso di studio è stato fornito da un convegno sul tema della
riqualificazione del centro storico della città di Ancona (capoluogo della Regione Marche) organizzato
nel dicembre del 2003 dalla CNA – Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media e
impresa, in particolare l’Associazione provinciale di Ancona, a cui ha fatto seguito un incontro sullo
stesso tema, tra gli iscritti all’Associazione provinciale e i responsabili della ricerca che viene presentata
in questa sede, e cioè Giulio Petti, allora dirigente del Comune di Ancona, Rita Colantonio Venturelli e
Andrea Galli, entrambi docenti dell’Università Politecnica delle Marche (DISASC -Dipartimento di
scienze applicate ai sistemi complessi, AGRUR – Area gestione risorse urbane e rurali). Questo gruppo
di lavoro fa parte di quello più vasto, denominato Osservatorio sul paesaggio culturale, che si è formato
nell’ambito della Conferenza di ricerca trilaterale franco-tedesco-italiana più volte citata.

1) Gli scopi della ricerca


La consapevolezza che la posizione competitiva delle singole imprese è influenzata anche dalle
caratteristiche tangibili e intangibili di un’area territoriale, insieme all’esigenza di perseguire uno
sviluppo sostenibile, sta spingendo gli Enti pubblici e il mondo dell’impresa a concepire e a impostare la
gestione del territorio in un’ottica nuova, più integrata e basata su un approccio organico e relazionale.

209
L’attuazione e la realizzazione di questa “gestione condivisa ed integrata” sposta l’attenzione sul
“territorio”, sulle opportunità di integrazione sociale, economica e ambientale esistenti fra le diverse
realtà pubbliche e private presenti in un’area geografica, e sulla necessità di coniugare la valorizzazione
con l’innovazione. In questo senso, la sostenibilità, intesa come perseguimento di uno sviluppo
compatibile con lo stato ecologico del paesaggio ed equo sia sotto il profilo economico sia sotto quello
sociale, permea sempre di più le politiche a scala locale, dove vi è una maggiore facilità a implementare
puntualmente i principi che ne formano la struttura.

La logica del command and control è ora superata da un approccio proattivo, di forte motivazione
nel perseguire i propri scopi di miglioramento ambientale ed efficienza ecologica. Dunque, il primo
passo consiste nell’aiutare le imprese del distretto a prendere coscienza, ad esempio tramite lo
strumento del bilancio ecologico, del risultato della propria attività e di quanto questo pesi sia a livello
ambientale che di reali costi vivi per l’impresa stessa. Si ritiene poi di grande importanza il raccordo con
la pianificazione, i cui temi andrebbero affrontati all’interno di una logica sistemica in grado di eliminare
la separatezza indotta, tra l’altro, dalle demarcazioni territoriali. Per quanto concerne la
programmazione, le attività in fase di dismissione andrebbero riconvertite e riorganizzate in funzione
del contesto, mentre quelle di nuovo impianto dovrebbero avere un carattere sempre più flessibile, che
ne consenta in futuro un’eventuale trasformazione. Pertanto, si ribadisce la necessità di impostare una
pianificazione integrata, che coordini tutti gli altri processi decisionali settoriali.

Nel caso dell’area di studio si è operato a un triplice livello: il transetto territoriale dalla costa
verso l’interno, un ulteriore approfondimento sulle zone campione e il livello della singola impresa.
Infine, è stato effettuato un tentativo di bilancio ecologico riferito alle attività che insistono sulla stessa,
diffondendo un questionario in forma anonima a un campione di imprese per conoscere la superficie
occupata dall’azienda, la superficie verde ove esistente, il tipo di materiali e la quantità annua impiegata
nella produzione, i consumi energetici, i rifiuti prodotti. Dall’analisi delle voci di bilancio emerge che
una larga percentuale di consumi è dovuta al trasporto del prodotto finito alla destinazione finale
(imballaggi, carburante e olio esausto). Impostare una politica di gestione di questo segmento
produttivo e di ottimizzazione dei consumi porterebbe sicuramente a un contenimento degli stessi con
notevole beneficio anche per l’ambiente. Dunque, uno degli scopi fondamentali della ricerca è proprio
quello di contribuire a individuare e suggerire l’uso adeguato degli strumenti di gestione ambientale da
integrare con un’adeguata programmazione territoriale, non soltanto per quanto riguarda le aree su cui
si è concentrata maggiormente l’attenzione, ma anche per la costruzione di un’ottica di rinnovamento
gestionale orientata a un nuovo rapporto tra produttività e produzione.

210
2) Gli obbiettivi della ricerca
Il gruppo di ricerca si è proposto di indagare sul rapporto tra il modello produttivo complessivo
attuale e quello produttivo locale marchigiano, con particolare riferimento all’area di studio individuata,
determinandone le dinamiche del possibile sviluppo e i suoi riflessi nei confronti del modello
insediativo futuro.

Dunque, i quesiti fondamentali che si sono posti al centro della ricerca, e ai quali ci si è posto
come obbiettivo di dare una risposta, soprattutto per decifrare le trasformazioni territoriali e ambientali
proponibili, si possono sintetizzare come segue:

• è corretto continuare a operare in modo che la produttività e la produzione si


contrappongano in modo squilibrato?

• quale modello di sviluppo complessivo può scaturire dal mutamento di questo rapporto tra
produttività e produzione?

• quale modello insediativo ne può conseguire da proporre alle amministrazioni locali, e quindi
da inserire negli strumenti di piano?

Riepilogo
• Riflessioni generali sul modello di sviluppo attuale
• Gli effetti di un processo di deindustrializzazione attivo a livello mondiale,lo sbilanciamento
marchigiano del rapporto produttività/produzione ed i fattori di criticità e di crisi del
sistema: l’analisi ambientale della mobilità, l’aggravio dei costi sociali
• Gli scopi della ricerca
• Gli obbiettivi della ricerca ed i quesiti fondamentali

3) Il paesaggio della produzione industriale e l’assetto territoriale “a maglia larga”


Nel paesaggio dell’Italia centrale si rispecchia quel modello culturale che è collegato con le
istanze storiche dell’Umanesimo, e che ha improntato a sua volta le origini dell’assetto attuale del
paesaggio stesso. Le sistemazioni collinari, i campi regolari delle vallate pianeggianti, le coltivazioni a
rotazione sono le caratteristiche tipiche del paesaggio agrario rinascimentale 148. Anche se gli ecosistemi
produttivi sono stati trasformati dalle tecniche di coltivazione successive, che hanno permesso il loro
sfruttamento sempre più intenso, tuttavia l’impianto originale dell’ordinamento territoriale è ancora
molto evidente in numerosi tratti del paesaggio attuale.

148 Per uno studio esaustivo del tema, si rimanda a: E. SERENI, Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari, 1996.

211
Ad esempio, è questo il caso del territorio dell’area metropolitana di Ancona, dove le regole
insediative hanno seguito la logica della cosiddetta “maglia larga”, e cioè della localizzazione poco
compatta dei centri produttivi e dei centri urbani – per lo più di modeste dimensioni, localizzati sui
rilievi e spesso ben conservati. In particolare, seguendo le trasformazioni del modello culturale, e quindi
con l’avvento della ferrovia e con l’imporsi delle esigenze dell’impiego delle risorse idriche per la
produzione, gli insediamenti produttivi e quelli residenziali si sono spostati nei fondo valle, invadendo il
territorio pianeggiante e causando spesso dei rischi ambientali di notevole entità 149.

Le maglie ampie del tessuto precedente hanno cominciato a essere riempite e a restringersi, fino
ad assumere un carattere sempre più compatto; ma, in assenza di un principio ordinatore che le
governasse, questa compattezza non ha contribuito ad imprimere un’organizzazione spaziale rivolta alla
valorizzazione e alla tutela degli spazi aperti, bensì ha dato luogo ad un’occupazione sempre crescente
dello spazio, erodendolo continuamente ed in modo indiscriminato. Il sorgere dei capannoni industriali
in modo sgranato e casuale negli interstizi delle maglie, sommato all’abbandono del modello produttivo
agrario mezzadrile precedente senza che ne subentrasse uno nuovo e organizzato, ha provocato un
risultato spesso fortemente preoccupante, non soltanto per la situazione attuale ma anche per le
minacce crescenti di rischi futuri di diverso genere, legati alla compatibilità ambientale, alla perdita
dell’identità territoriale, alle trasformazioni sociali 150.

Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che si traduce sia in termini di organizzazione economica,


sia in termini di percezione del paesaggio da parte della popolazione che vi risiede, che verte una parte
dell’originalità della ricerca intrapresa, la quale necessita dell’apporto delle competenze economiche e di
quelle territoriali, ma anche di quelle che riguardano la storia, la cultura e l’identità di quell’uomo che ha
un rapporto costante e diretto con il “suo” paesaggio, trascorrendovi la sua vita 151. In particolare, l’area
interessata dalla ricerca comprende sette comuni: Ancona, Falconara Marittima, Chiaravalle,
Montemarciano, Monte San Vito, Agugliano e Polverigi.

Il territorio in oggetto comprende la fascia costiera e la collina dell’entroterra anconetano fino


all’area che si snoda all’intorno dell’asta fluviale dell’Esino dalla foce verso l’interno. La struttura a
pettine del territorio marchigiano rappresentata dai bacini fluviali principali che dall’area appenninica
scendono paralleli fino alla costa caratterizza anche l’area di studio. Il bacino del fiume Esino che da
Fabriano giunge fino all’Adriatico è l’asse che attraversa le tre fasce che corrono parallele alla linea di
costa: dall’appenninica a quella collinare fino a quella costiera.

149 Per una sintesi delle trasformazioni subite dal paesaggio marchigiano, si confronti lo schema illustrativo presentato dal
gruppo Colantonio – Galli nella prima edizione della Conferenza di ricerca “Il paesaggio culturale tra storia, arte e natura”,
Centro Italo-Tedesco Villa Vigoni, Loveno di Menaggio, 31/1 – 2/2 2005.
150 Si confrontino, a questo proposito, le immagini relative a questo punto.
151 Per una riflessione sul tema, si rimanda a: G. MANGANI, Il paesaggio marchigiano e (è) l’Arcadia, contributo al convegno sul

tema del paesaggio tenutosi ad Ascoli nell’ottobre del 2003.

212
L’area costiera rappresenta l’ambito più fortemente urbanizzato, occupato dalle grandi
infrastrutture ferroviarie, autostradali e portuali.

L’asse del fiume Esino è caratterizzato da altrettanti importanti aree urbanizzate e da una
complessa rete infrastrutturale: oltre alle infrastrutture viarie (SS 76 e SS 16) nell’area tra Falconara –
Chiaravalle – Jesi sono localizzati l’asse ferroviario Ancona-Roma e il nodo aeroportuale. Pur ricadente
all’interno del comune di Jesi, il nascente interporto rappresenta una infrastruttura nevralgica per
l’assetto economico-produttivo dell’intera area. Tale area si connota quindi come una delle più
fortemente urbanizzate della regione, con la più alta presenza delle grandi infrastrutture di interesse
regionale, quali l’areoporto e l’interporto.

I Comuni che sono situati ai lati della pianura dell’Esino sorgono su ambiti collinari caratterizzati
dal rapporto tra paesaggio agrario marchigiano e i centri storici collocati lungo i crinali, quali quelli di
Polverigi, Agugliano, Montemarciano e Monte S. Vito. Non ultimo, la presenza dell’impianto della
Raffineria Api di Falconara, dopo gli incidenti accaduti nei primi anni del 2000, ha imposto
l’individuazione dell’Area ad Alto Rischio di Crisi Ambientale (AERCA) che ha introdotto ulteriori
vincoli ambientali con cui gli enti locali devono operare le dovute verifiche ogni qualvolta si intervenga
nei processi di trasformazione territoriale.

Riepilogo
• Il modello culturale originario
• La “maglia larga” e gli insediamenti produttivi nell’area metropolitana di
Ancona
• La necessità delle competenze scientifiche che studiano il rapporto tra l’identità
della popolazione locale e quella del paesaggio

4) Per un nuovo paesaggio della produzione dal “made in Marche” al “Marche-Italian style”
L’idea di fondo che deve governare qualsiasi trasformazione del territorio è quella di inaugurare
una nuova politica della produzione, basata essenzialmente su due punti: da una parte c’è la necessità di
riorganizzare l’assetto del territorio raggruppando le imprese in alcune delle aree esistenti, dando loro il
ruolo di aree produttive intercomunali, in cui far convergere le nuove richieste di localizzazione e quelle
di trasferimento delle imprese, incentivandole con ogni mezzo in questa operazione. Ovviamente, ciò si
potrebbe realizzare soltanto a patto che i proventi della tassazione delle imprese venissero ridistribuiti
tra tutti i comuni interessati a consorziarsi a questo fine, come sta avvenendo, ad esempio, in altre realtà
italiane 152.

152 Si veda, a questo proposito, l’esperienza del Piano provinciale di Bologna.

213
Dall’altra parte, si propone che le aree industriali escano dal loro anonimato che le rende tutte
uguali nella mancanza di identità e di qualità. Dunque, è fondamentale che la differenziazione tra l’una e
l’altra, operando in modo da conferire una caratterizzazione prevalente per ciascuna di esse, renda tipica
un’area rispetto a tutte le altre, sia nelle attività svolte, sia nell’integrazione tra di esse. Ad esempio,
mentre una di esse può trasformarsi in un parco eco – industriale a ciclo chiuso, un’altra può diventare
un’area di produzione integrata con l’agricoltura ma anche con la residenza, collegando le funzioni tra di
loro; un’altra ancora può svilupparsi tenendo conto delle testimonianze dell’archeologia industriale,
dove sono presenti, e così via. Però, alcuni requisiti devono essere fissati in modo stabile per tutte le
aree, e costituire così delle invarianti:

a) di tipo ambientale:
- nel rapporto con il paesaggio circostante
- nel risparmio di risorse e di energia derivante dal raggruppamento e dall’accorpamento delle
attività che si possono collegare tra loro, producendo di conseguenza dei grandi vantaggi
economici e di cooperazione
- nella riqualificazione e nella nuova attenzione agli aspetti architettonici e bio-architettonici

b) di tipo economico:
- nella tipicità della lavorazione, e quindi del marchio, dei prodotti che vengono confezionati
in quel luogo
- nel rilancio economico attraverso la ristrutturazione dell’assetto complessivo di ciascuna
area
- nel fornire le aree di servizi alle imprese

c) di tipo sociale:
- nel rapporto con il contesto sociale circostante
- nel creare dei consorzi di aziende in ciascuna area perché le singole aziende siano
rappresentate nel dialogo con le amministrazioni da un’azienda capofila che viene delegata,
sviluppando così i presupposti per la cooperazione e la condivisione
- nell’integrazione delle aree produttive con il piano della mobilità, con particolare riguardo al
trasporto pubblico
- nel raccordo con i principi di tutela e di sviluppo del paesaggio in tutte le sue dimensioni
culturali e produttive.

214
Riepilogo
• Proposta di far uscire le aree produttive dall’anonimato, differenziandole l’una
dall’altra, ed operando in modo da conferire una caratterizzazione prevalente a
ciascuna di esse
• Determinazione di alcune invarianti comuni a tutte le aree produttive

5) Per un nuovo paesaggio della produzione dal “made in Marche” al “Marche-Italian style”
5.1. Il modello insediativo differenziato
Viene proposto un esempio di sviluppo qualitativo per ciascuna delle tipologie di area
individuate: ad esempio, quella in via di formazione potrebbe avere un indirizzo più marcatamente
ecologico, mentre quella quasi completata potrebbe averne uno più economico, e quella in via di
completamento potrebbe assumere una connotazione sociale – nel senso del dialogo con l’esterno;
quella vicino al corso dell’Esino, potrebbe collegarsi con il parco fluviale e il sistema delle centraline
elettriche storiche che sono presenti a poca distanza, e quindi non essere la sede altro che di attività
produttive dimostrative del processo d’insediamento storico, quasi un museo della produzione.
Dunque, si possono dare dei criteri di sviluppo diversi per ciascuna area 153.

Per realizzare questa pluralità di caratteri, si definiscono alcuni indicatori, da stabilire in base alle
specificità delle singole aree, che descriveranno il loro stato e le loro potenzialità secondo il modello
stato – pressione – risposta (SPR), e che saranno utilizzati anche come strumento di controllo nella
gestione complessiva delle aree stesse.

Infine, per ciascuna area, viene contattata un’impresa perché collabori nella stesura del suo
bilancio ecologico e illustri le sue scelte rispetto alla certificazione ambientale volontaria. In questo
modo, essa darà un contributo collaborativo alla valutazione ambientale dell’area di studio, ad esempio
attraverso il bilancio ecologico esemplificativo, da costruire con i parametri disponibili,
metodologicamente significativi per comprendere l’ordine di grandezza del bilancio stesso. L’obbiettivo
della collaborazione è quello di dimostrare come, se entrasse nell’uso comune questo strumento,
l’azienda potrebbe giungere ad autovalutarsi 154.

In conclusione, lo schema concettuale proposto, realizzato in forma tridimensionale, esprimerà


meglio i risultati dello studio se diventerà multidimensionale, illustrando le numerose componenti
interagenti del paesaggio alle quali vengono applicati gli indicatori 155.

153
Parchi eco-industriali.
154
R. COLANTONIO VENTURELLI, (a cura di), op .cit.
155
Ad esempio, quelli impiegati da E. GIGLIO INGEGNOLI, Valutazione ecologica di un lotto per eventuali trasformazioni produttive, in
“Urbanistica”, n. 125.

215
Da così:
Ecologia (stato)

unità territoriale (zona produttiva, impresa, ecc.)

Società (risposta) Economia (pressione)

A così:

unità territoriale (zona produttiva, impresa,


ecc.)

In questo schema multidimensionale le componenti dell’indagine vengono messe a sistema per


costruire il corretto supporto alla pianificazione territoriale integrata.

Riepilogo
• Il coinvolgimento delle imprese attraverso la distribuzione di alcuni questionari
• Definizione degli indicatori secondo il modello stato – pressione - risposta
• Articolazione dei diversi livelli della ricerca
• Trasformazione del modello concettuale tridimensionale SPR in modello
multidimensionale

5.2. Quadro tematico

5.2.1. Gli strumenti di gestione del sistema insediativo 156


Alcune prime indicazioni di metodo che emergono dalla ricerca impongono di distinguere
l’operatività riferita a due diverse specifiche situazioni:

156 A cura di Monica Bocci.

216
le aree produttive esistenti o in fase di completamento: in questi casi è necessario mettere a punto
obiettivi e metodologie di intervento volte e migliorare e riqualificare gli ambiti già insediati,
tenendo conto dei piani e degli strumenti di gestione esistenti e non trascurando la messa a
punto di meccanismi di incentivi eco-ambientali tali da favorire gli obiettivi appena descritti;
le aree produttive di nuovo insediamento: qui, in misura ancora più incisiva, valgono gli indirizzi
volti a insediare le nuove aree produttive, tenuto conto della complessità dei fattori legati sia
alla necessità di fornire adeguate infrastrutturazioni, sia alla riduzione dell’impatto
ambientale.
La legge regionale n. 16/2005 contiene un articolato che preannuncia le linee guida della politica
territoriale marchigiana in materia di insediamenti produttivi: obiettivo è il miglioramento della qualità
insediativa delle imprese sul territorio, sia di quelle esistenti che di quelle di nuova localizzazione. Se,
come cita la legislazione regionale vigente, si definiscono “aree produttive ecologicamente attrezzate
quelle aree destinate ad attività industriali, artigianali e commerciali dotate di requisiti urbanistico-
territoriali, edilizi e ambientali di qualità, nonché di infrastrutture, sistemi tecnologici e servizi
caratterizzati da forme di gestione unitaria, atti a garantire un efficiente utilizzo delle risorse naturali e il
risparmio energetico”, si possono delineare strumenti e obiettivi coerenti con quanto già sottolineato.

5.2.2. Gli strumenti di gestione del sistema ambientale 157


Il bilancio ecologico è uno strumento che misura l’impatto della componente antropica, tramite
le sue attività residenziali e produttive, sulle risorse ambientali e fornisce un’informazione qualitativa e
quantitativa sullo stato dell’ambiente, sulla disponibilità delle risorse naturali sottoposte a pressione,
sulle prestazioni ambientali delle aziende che operano nell’area in esame.

Lo stato di un sistema, generalmente ampio e complesso, viene reso percepibile mediante indicatori,
ovvero strumenti in grado di quantificare informazioni in maniera sintetica, immediatamente visibile e
semplificata. Per la scelta degli indicatori da impiegare nel presente studio, ci si è orientati su quelli già
utilizzati per il calcolo del bilancio ecologico della Regione Marche effettuato nel 1985 ad opera di un
gruppo interdisciplinare di lavoro coordinato da Rita Colantonio Venturelli.

La ricerca citata 158, prima del genere in Italia, è estremamente interessante per la metodologia
adottata: infatti, la valutazione è avvenuta in base a diverse aree produttive omogenee, individuate
tramite un indice di specializzazione e uno di localizzazione, e le informazioni sono state raccolte a
partire dalle caratteristiche interne delle singole imprese (ampiezza, numero addetti, dati Istat ecc.) e dal
tipo e dalla quantità di materiali impiegati nella produzione. Queste ultime informazioni sono state

A cura di Giovanna Paci.


157

I risultati sono confluiti nella pubblicazione: R. COLANTONIO VENTURELLI, I potenziali del paesaggio, Clua Edizioni,
158

Ancona.

217
definite sulla scorta delle categorie proposte dall’ingegnere svizzero Müller-Wenk, ideatore dello
strumento: consumo di materiale e di energia, residui solidi e aerei, rifiuti liquidi e termici.

Il bilancio finale è dato dalla somma dei prodotti di tutti i materiali impiegati nella produzione
per i relativi coefficienti di equivalenza, che si calcolano considerando la scarsezza ecologica degli stessi
materiali o delle sostanze.

Nel nostro caso la ricerca è stata condotta – come già accennato – prendendo in prestito
categorie e coefficienti del precedente gruppo di lavoro che, dato il tempo intercorso, avrebbero dovuto
essere aggiornati. Non si è fatto perché più che la precisione del dato ci interessa l’impostazione
metodologica e la definizione di un ordine di grandezza del fenomeno rappresentato. Quindi, è stato
distribuito un questionario in forma anonima a un campione di imprese, chiedendo di fornire alcuni
dati, tra cui la superficie occupata dall’azienda, la superficie verde ove esistente, il tipo di materiali e la
quantità annua impiegata nella produzione, i consumi energetici, i rifiuti prodotti.

5.2.3. Gli strumenti di gestione del sistema rurale 159


Il contesto territoriale e le sue risorse non possono più essere considerate variabili esogene
all’impresa. La capacità di percepire l’ambiente, il territorio e il paesaggio, non come fattori limitativi
della produzione, ma come valori competitivi e spendibili è il presupposto per le imprese al fine di
‘internalizzare’ nuovi fattori di competizione, come ad esempio la certificazione di prodotto in funzione
dell’area di produzione. Il territorio è il risultato dell’opera incessante dell’uomo che lo abita, al
contempo, matrice mnemonica e trasportatore, nel tempo, dei valori capitalizzati e delle esperienze
millenarie su di esso stratificatesi. E’ necessario recuperare la capacità di collegare prodotti e servizi,
offerti dalle aziende italiane, al valore aggiunto rappresentato dalla bellezza delle città d’impronta
romana e storia rinascimentale, e dalle campagne “splendide” del gran tour ottocentesco, che fanno da
cornice.

Le attività agricole, e la ‘ruralità’ dei luoghi, fino a oggi marginali e parallele rispetto alle politiche
di sviluppo degli altri settori, possono essere chiamate in causa nel tentativo di risolvere la frattura che
ha prodotto negli ultimi 50 anni la separazione tra luoghi del vivere, del lavorare e del tempo libero, e
anonimi non-luoghi antropologici 160. In tale quadro, l’agricoltura, operando su vaste porzioni del
territorio, rappresenta uno dei principali fattori di trasformazione del territorio – e della società – e
antropogenesi del paesaggio. In secondo luogo, tra le attività economiche dell’uomo, l’agricoltura fin
dalla sua origine ha dovuto confrontarsi con la dimensione spaziale e sistemica del rapporto

159A cura di Ernesto Marcheggiani.


160Dai luoghi della modernità baudelairiana, ferventi di attività costruttive ma ispirati alla memoria del passato, ai nonluoghi
antropologici della surmodernità, anonimi e sterili (M. AUGÉ, “Non luoghi”, elèuthera, 1996).

218
uomo/territorio. Lo scenario agricolo recente è ricco di esempi virtuosi di sinergie tra prodotto e area
di produzione che da tempo sono realtà pienamente operative; produzioni agricole legate alla filiera
vitivinicola, olivicola, casearia – ma se ne contano molte altre – realizzate in territori di pregio in cui la
valorizzazione delle risorse unitamente a sistemi certificati di garanzia dei marchi di tutela (DOP, DOC,
IGP, ecc.), permettono l’offerta dei prodotti a prezzi significativamente superiori alla media di analoghe
merci, anonime rispetto alla loro origine.

Il contesto storico: la memoria del passato


Seguendo le principali tappe della sua formazione, il modello territoriale marchigiano, fin dalla
preistoria, è rappresentato dall’attività agricola 161; già nel Paleolitico è accertata la presenza umana lungo
i terrazzi del fiume Esino e del fiume Misa, così come sulle pendici del monte Conero, basata sulla
coltivazione di cereali e sull’allevamento di bestiame domestico.

L’evoluzione storica di tale sistema ha visto la nascita e la crisi – dal contratto mezzadrile, alla
formazione dei grandi poderi cinquecenteschi, fino alle tipologie abitative e funzionali rurali nel corso
del XVIII secolo – di un sistema che palesava già nel secolo passato le prime avvisaglie di squilibrio fra
le risorse a disposizione e i fabbisogni; squilibrio che diverrà particolarmente evidente nel corso della
seconda metà del secolo ventesimo (fig. 1).

Fig. 1 – Il paesaggio rurale marchigiano (in alto)


e compromissione del paesaggio agrario (in basso)

Il catasto del 1929 (provincia di Ancona) testimoniava ancora un territorio provinciale ripartito in due principali “Regioni
161

Agrarie”: montagna e collina.

219
Il contesto territoriale
Analizzando, oltre al contesto storico, quello fisiografico, è importante sottolineare come le aree
dell’indagine CNA, se osservate a grande scala, appaiono poste tra un waterfront costiero e un agrifront
caratterizzato per la maggior parte da attività legate a diverse forme di agricoltura e dalla presenza di
centri storici puntiformi, intercalati ad aree seminaturali, posti su onde sinclinali con sviluppo parallelo
alla linea di costa che a partire dalla zona più interna degradano nella distesa delle colline dolci fino alle
aree pianeggianti delle pianure al limitare della linea adriatica. Le aree collinari meno acclive e il sistema
a pettine dei fondovalle dei bacini fluviali e delle pianure a ridosso della costa, rappresentano la sede
dove negli ultimi cinquant’anni si è concentrata la maggior parte del tessuto residenziale, produttivo
industriale e infrastrutturale e la sua espansione a macchia d’olio, che peraltro non sta risparmiando le
altre aree (fig. 2).

Fig. 2 – Modello spaziale dei casi di studio

220
J4 J5
J1 J2 J3 J6
15% < p ( 30% < p (
p ( 2% 2% < p ( 8% 8% < p ( 15% p > 60%
30% 60%
I1
109605 98031 129494 128262 10575 0
q ( 200 m
I2
200 m ( q <300 1193 4927 13570 19187 4562 0
m
I3
300 m ( q <400 67 724 2891 6431 2180 0
m
I4
400 m ( q <600 74 296 977 1955 711 0
m
I5
600 m ( q <800 0 0 0 0 2 0
m
I6
0 0 0 1 0 0
q > 800 m
Tab. 1. – classi di quota e di pendenza utilizzate per costruire le unità fisiografiche, e frequenza relativa delle celle
unitarie di superficie 250 m2

Possibili sinergie tra imprese agricole e gli altri settori


Dalle analisi condotte a scala di area vasta, emerge chiaramente che i soggetti centrali del
presente studio, le PMI, sono calate in un complesso sistema territoriale: immerse in una matrice
prevalentemente agricola, da un lato, e contigue alle aree urbane e alle principali infrastrutture. E’
auspicabile una nuova integrazione in cui l’agricoltura, in funzione delle “contiguità” e in rapporto alle
attese del nuovo piano di sviluppo agricolo regionale (strumento principe che ne regola lo sviluppo a
livello regionale), si integri positivamente per innescare sinergie di sviluppo sostenibile. Un’agricoltura
che insieme alle sue radici più classiche svolga anche funzioni nuove, opportunamente sostenuta
creando interconnessioni tra gli attuali strumenti di piano e finanziamento o creandone di nuovi ad hoc a
partire dall’ispirazione e dagli stimoli che provengono dalle politiche a livello comunitario e
internazionale.

221
Si potrebbe delineare, per esempio, un modello basato su tre livelli o distretti:

1° livello/distretto: aree agricole marginali, zone svantaggiate e zone soggette a vincoli ambientali, in cui le
misure agro-ambientali siano finalizzate alla conduzione di terreni agricoli secondo tecniche a basso
impatto ambientale e protettive dell’ambiente, per la salvaguardia del paesaggio e delle caratteristiche
tradizionali dei terreni agricoli. In cui privilegiare il monitoraggio ambientale relativamente ai rischi di
erosione dei suoli e di inquinamento delle acque superficiali e profonde, benefici in termini di riduzione
dell’erosione del suolo, stabilità delle zone in pendio e miglioramento paesaggistico andrebbero a
vantaggio anche delle comunità locali, tra l'altro, qualificando maggiormente l’offerta turistico-ricreativa;

2° livello/distretto: avvicinadosi alle zone di fondovalle, in cui si concentrano gli insediamenti residenziali
e produttivi e gli assi infrastrutturali, le imprese agricole potrebbero enfatizzare le funzioni di
valorizzazione del contesto e migliorare la qualità del paesaggio anche della produzione industriale con
un’accelerazione sinergica dei valori marginali. Considerando che la spesa per gli aiuti erogati dal PSR
darebbe un rendimento maggiore se se si contabilizzassero anche le ricadute positive per i gli altri
settori;

3° livello/distretto: aree dove la stretta interrelazione tra territori residuali agricoli, zone industriali sature o
in espansione e aree periurbane, in cui l’agricoltura (periurbana) svolga azioni simbiotiche (v.
“Metodologia generale”), perdendo le sue funzioni più classiche e concentrandosi, per esempio, sulle
nuove tecniche per la produzione di energia pulita (biodiesel o da biomasse), oppure aiutando le aree
industriali limitrofe nello smaltimento delle scorie partecipando alla realizzazione di filiere a “emissione
zero” o “filiere “locali” a basso impatto di energia in sinergia con aziende artigiane. In particolare nelle
aree periurbane e perindustriali una nuova agricoltura, opportunamente sostenuta da strumenti di piano
e regolazione economica e politica, massimizzerebbe i risultati concentrandosi anche sulla sostenibilità
delle compromesse funzioni sociali legate alla perdita del sistema seminaturale nell’area.

5.2.4. Gli strumenti di gestione delle aree produttive della costa 162

Lo sviluppo delle attività produttive e il rapporto con il paesaggio: considerazioni di metodo


Anche lo sviluppo delle attività produttive industriali non potrà che partire dall’obiettivo di
valorizzare la singolarità dei luoghi (fig. 3), individuando forme economiche appropriate ai luoghi,
potenziandone le risorse interne, nella consapevolezza che tale valorizzazione deve anche fondarsi sugli
obiettivi di riequilibrio ecologico e, laddove presenti, di eliminazione, o almeno di riduzione dei rischi
ambientali, introducendo il tema dell’identità culturale che si esprime nella complessità di relazioni tra
ambiente fisico, antropico e costruito, che dà luogo alla configurazione del paesaggio, attraverso la

162 A cura di Giulio Petti e Maria Emilia Faraco.

222
riappropriazione della dimensione simbolica, spirituale, storica e memoriale. Lo strumento da utilizzare
per il raggiungimento di questi obiettivi non sarà quindi rappresentato dalla zonizzazione classica di
P.R.G., bensì da un progetto urbanistico edilizio, attraverso il quale possono più adeguatamente essere
rappresentate non solo la dimensione funzionale, ma anche quella culturale nelle sue articolazioni
formali, estetiche e simboliche che, basate sull’identità storica, concorrono a caratterizzare e distinguere
un luogo da un altro.

Fig. 3 – Il tratto costiero anconetano

223
Alla luce di queste considerazioni, l’analisi della soluzione recentemente proposta per l’assetto
del Porto dall’Autorità Portuale, seppur particolarmente interessante dal punto di vista funzionale-
organizzativo e apprezzabile per le possibilità a essa collegate di restituire l'arco portuale storico alla
città, ripristinando quel sistema di relazioni con la città storica perduto nel secolo scorso, che può
cambiare il volto dell’intera città, deve acquisire la configurazione di un progetto urbanistico-
architettonico dove possano trovare la giusta considerazione gli aspetti paesaggistici intesi come
rappresentazione di sintesi delle molteplici forme di azione e significazione della cultura in ambito
naturale, storico e simbolico.

Inoltre in un’area in cui, oltre a una criticità ambientale diffusa, legata ai modelli di sviluppo
precedenti, si aggiungono anche le criticità specifiche individuate in sede di Dichiarazione di AERCA
(Area a elevato rischio di crisi ambientale) di Ancona, Falconara, Bassa Valle dell’Esino, per le quali già
il Piano di Risanamento individua le azioni urgenti, qualsiasi proposta di modello insediativo, quali
quelle esaminate nei precedenti paragrafi, non potrà che strutturarsi sull’obiettivo prioritario di
eliminazione o almeno di riduzione dei rischi ambientali presenti.

In particolare le azioni da intraprendere dovranno essere collocate all’interno di un piano


strutturale che proponga un sistema di viabilità di connessione diretta e dedicata al porto.

Le previsioni che riguardano le attività portuali, che rappresentano il settore produttivo


principale della città di Ancona, dovrebbero, quindi, essere coerenti con gli obiettivi di messa in
sicurezza del sistema infrastrutturale costiero, ma anche di consolidamento e stabilizzazione delle aree
costiere in frana, nonché con gli obiettivi di ripristino e valorizzazione del sistema di relazioni tra
entroterra e litorale marino, così come proposto anche dai progetti esistenti e non realizzati, e in
definitiva con l’obiettivo complessivo di riqualificazione ambientale, paesaggistico e funzionale della
fascia costiera che si sviluppa dall’arco portuale di Ancona fino a Falconara.

Le aree produttive della costa


La struttura della mobilità dell’area anconetana è dotata della presenza di tutte le tipologie
infrastrutturali: ferrovia, autostrada, aeroporto, porto, ma è carente delle interconnessioni che
colleghino in modo diretto e non promiscuo i diversi flussi di traffico di persone e di merci; questa
situazione penalizza particolarmente il porto anconetano.

Gli spazi portuali, in particolare quelli del reinterro della zona della Zipa, originariamente
destinati anche ad attività che oggi risultano improprie (ma che sono state il volano dell’iniziativa) oggi
si vanno razionalizzando e si orientando verso la cantieristica da diporto che tuttavia per essere
competitiva richiede servizi di formazione e di commercializzazione attualmente inesistenti. Per quanto

224
riguarda il settore delle merci va presa in esame la previsione avanzata dalla nuova Autorità Portuale di
realizzare una penisola dedicata alle destinazioni commerciali e produttive, che si attesta sulla darsena
attuale in corso di completamento e che pertanto dovrebbe aver già precostituito l’assetto ambientale .
La previsione di un reale trasferimento delle attività improprie dal porto storico alla nuova sede
consentirebbe un attracco specifico alle navi-merci e passeggeri, questi ultimi in aumento a fronte di
una attuale parziale recessione del settore delle merci favorendone l’inversione di tendenza.

Conclusioni
Il tentativo di rispondere ai quesiti fondamentali posti dalla ricerca ha condotto a una serie di
conclusioni, che vengono esposte in relazione a ogni quesito, come segue:

È corretto continuare ad operare in modo che la produttività e la produzione si contrappongano in modo squilibrato?
Il modello di sviluppo a cui nel corso della ricerca si è fatto riferimento, ha strutturato il
territorio marchigiano non solo dal punto di vista economico, ma anche insediativo, basandosi su una
pressoché totale coincidenza del concetto di produttività con quello di produzione industriale. La
produttività di un territorio, invece, risulta essere un concetto ben più ampio, che integra nella sua
accezione anche quella di qualità.

Il quesito posto ripropone, quindi, implicitamente la fondamentale dicotomia tra sviluppo


quantitativo e sviluppo qualitativo: può una crescita fondata unicamente su basi monetarie essere
sostenibile, ovvero – così come viene intesa nella dizione francese di développement durable – durevole nel
tempo?

La monocultura produttiva che ha guidato lo sviluppo degli ultimi decenni si è imposta con una
tale forza da impedire l’esaltazione di altre potenzialità offerte dal territorio.

Ciò che, a nostro avviso, può riequilibrare tale rapporto tra produttività e produzione è
l’adozione di una visione integrata, che tenga conto di tutte le componenti ambientali, economiche,
sociali.

Quale modello di sviluppo complessivo può scaturire dal mutamento di questo rapporto tra produttività e produzione?
L’impetuoso sviluppo produttivo che si è verificato a partire dagli anni ’60 ha impresso una
notevole accelerazione alle modifiche del territorio marchigiano, omogeneizzandone i caratteri e
cancellando i segni del “bel paesaggio” italiano, che resistevano da secoli. Il risultato sono stati
capannoni dai volumi sempre uguali, villette residenziali in aree agricole, zone industriali nelle aree di

225
fondovalle. Tale nuovo sviluppo è stato visto come segno di modernità e, spesso, si è cercato di
importare stilemi di un modello di crescita metropolitana già in essere in altre zone di Italia, ma del
tutto estraneo alla tradizione regionale, senza, peraltro, tenere in alcuna considerazione i costi che una
simile diffusione urbana e produttiva comporta.

Il modello da riproporre con decisione consta nel ritorno alle invarianti ed è l’unico in grado di
garantire un riequilibrio territoriale, integrando al contempo sviluppo insediativo, economico, culturale
e sociale.

Quale modello insediativo ne può conseguire da proporre alle amministrazioni locali, e quindi da inserire negli strumenti
di piano?

Prima di ipotizzare qualunque risposta, è assolutamente determinante stabilire qual è l’aspetto


fondamentale che il modello insediativo futuro deve evitare di assumere. Infatti, il territorio dell’Italia
centrale è stato escluso da quel processo di trasformazione che ha generato prima il cosiddetto
“triangolo industriale” tra Milano, Torino e Genova, e poi la più vasta “megalopoli mediterranea”, e che
ha inglobato praticamente tutte le regioni settentrionali italiane, dalla Valle d’Aosta alla Liguria e
all’Emilia Romagna. Questa marginalizzazione ha favorito il radicamento di un modello insediativo
diverso, basato su alcuni fattori fisiografici, economici, storici e sociali che hanno determinato nelle
Marche, e in particolare nell’area metropolitana di Ancona, da un lato la sopravvivenza di alcune
consuetudini gestionali politiche ed economiche che la caratterizzano in maniera peculiare; dall’altro, la
trasformazione più lenta, anche se a volte comunque invasiva, delle strutture territoriali. Dunque,
l’esclusione dal processo metropolitano, rapidissimo e travolgente, spesso interpretata nel passato come
un limite molto pesante, in realtà si sta dimostrando come una pluralità di potenzialità formidabili,
poiché ha permesso di conservare, forse inconsapevolmente, l’originalità di ampie porzioni del
territorio e dei suoi rapporti con gli abitanti. Ebbene, è proprio per questo potenziale ancora presente
che è impossibile pensare a importare passivamente un modello insediativo metropolitano, peraltro
ormai superato, e soprattutto generato da un modello rispondente ad altre matrici culturali. Per quanto
possa essere impegnativo, è indispensabile sforzarsi di tratteggiare un modello insediativo rispondente a
quelle invarianti territoriali che sono state definite nella ricerca. In questo contesto, le zone produttive
possono svolgere un ruolo importante, assumendosi la responsabilità di invertire alcune tendenze
negative in atto, e divenendo così, al contrario di quanto la consuetudine non le abbia fatte apparire
finora, un motore dello sviluppo qualitativo dell’ambiente.

226
In quest’ottica, i rapporti con il paesaggio agrario e con i caratteri culturali dell’uomo che vive e
lavora in quei luoghi, diventano la base su cui fondare quelle caratterizzazioni, specifiche di ciascuna
zona produttiva, che sorreggono tutta la logica pianificativa del territorio che le ospita, da travasare poi
negli strumenti di piano. Alcuni esempi metodologici dimostrativi sono illustrati nella ricerca.

Riepilogo
• Riflessioni conclusive
• Risposte ai quesiti fondamentali

227
Glossario

Accordo di programma
Atto amministrativo, istituito con legge 142/1990, promosso da Presidente delle Regione, dal
Presidente della Provincia o dal Sindaco, e sottoscritto da tutti gli enti pubblici interessati alla
definizione e alla realizzazione integrata e coordinata di opere, interventi o programmi di interventi.
Qualora l’oggetto dell’accordo di programma sia in contrasto con gli strumenti urbanistici vigenti, esso
ne costituisce variante, che in ogni caso deve essere approvata dal Consiglio comunale del Comune
interessato, a pena di decadenza (vedi D.Lgs. 267/2000).

Apparato paesistico
Suddivisione degli ambienti di un territorio secondo il criterio della funzione paesistica, come proposto
da Odum fin dal 1971. Secondo Ingegnoli, si distinguono:

apparati habitat naturale:


- scheletrico (dominato dai processi geomorfologici);
- connettivo (elementi con funzioni connettive);
- stabilizzante (elementi con alta metastabilità);resiliente (elementi ad alta capacità di recupero);
- escretore (il reticolo fluviale).

apparati dell’habitat umano:


- protettivo (piantagioni a funzione protettiva);
- produttivo (sistemi agricoli);
- abitativo (sistema di residenza e servizi);
- sussidiario (funzioni industriali, energia, trasporti).

Azzonamento
Dall’inglese zoning, divisione del territorio in aree omogenee, dal punto di vista della destinazione e delle
funzioni. Anche zonizzazione.

Area metropolitana
L’area metropolitana è una zona circostante un’agglomerazione (o una conurbazione) che per i vari
servizi dipende dalla città centrale (metropoli) ed è caratterizzata dall’integrazione delle funzioni e
dall’intensità dei rapporti che si realizzano al suo interno.
Il concetto di area metropolitana è diverso e più ristretto rispetto a quello di regione metropolitana.
In Italia le aree metropolitane sono state individuate sin dalla Legge 142/90 (modificata da numerosi
interventi successivi) nelle zone circostanti le città di Bari, Bologna, Firenze, Genova, Milano, Napoli,
Roma, Torino, Venezia.
Le regioni a statuto speciale hanno facoltà di individuare autonomamente aree metropolitane. A oggi,
sono state proposte Palermo, Catania, Città dello Stretto (Messina - Reggio Calabria), Cagliari e Trieste.
All’interno delle area metropolitane Italiane, la normativa prevede la possibilità di istituire un nuovo
Ente Locale: la città metropolitana.

Area Vasta
E’ rappresentato da un modello di policentrismo a rete, con centri di dimensione medio-piccola,
relativamente compatti e separati da trame verdi consistenti, ben collegati tra loro e con un polo
centrale di dimensioni maggiori.

228
Secondo studi recenti, la Città Metropolitana può solo essere l’area centrale di un disegno più ampio
che descrive, per il periodo lungo, i piani di sviluppo di un’area vasta previsti dalla Regione interessata.
I problemi dello sviluppo dell’area vasta sono affrontati con strumenti e modalità multi-disciplinari: le
discipline economiche, geografiche, urbanistiche, sociologiche e giuridiche-istituzionali, offrono
importanti contributi per lo sforzo interpretativo dei fenomeni considerati.
Gli aggregati di area vasta e metropolitani sono caratterizzati dalla concentrazione territoriale di attività
di trasformazione industriale e di produzione di servizi.

Bacino
Area geografica definita da fattori fisici, socioeconomici o di relazione: bacino idrografico, di traffico o
di pendolarità, di utenza di una determinata infrastruttura ecc.

Bilancio di impatto ambientale


Dall’esperienza americana dell’Environmental Impact Assessment. Strumento conoscitivo preliminare, di
natura sia fisico-tecnologica che socioeconomica, che delinea una ipotesi di costi/benefici rispetto ad
una azione proposta (opera o attività).

Capacità insediativa
Quantità teorica di popolazione insediabile in un territorio, stabilita dagli strumenti urbanistici (P.R.G.)
secondo un indice metri cubi pro-capite.

Cartografia
Insieme dei rilievi grafici convenzionali, eseguiti con tecnica varia, di uno spazio. Può riguardare
l’altimetria, la distribuzione dei vari servizi a rete, la vegetazione, le infrastrutture, gli usi del suolo, gli
elementi geologici, vari temi analitici (popolazione, attività ecc.).

Centro abitato
Agglomerato, spazio edificato o elemento funzionale di varie dimensioni, perimetrabile e distinguibile,
in grado di esercitare attrazione nei confronti di un insediamento più ampio. E’ quindi un aggregato
edilizio con caratteristiche urbane, dotato di opere diurbanizzazione primaria e secondaria. L’ISTAT
definisce il centro abitato “aggregato di case continue o vicine con interposte strade, piazze e simili [...]
ove sogliono concorrere gli abitanti dei luoghi vicini”.

Comparto (edificatorio o edilizio)


Aggregazione di più unità catastali per conseguire dimensioni più ampie di aree e fabbricati, da
trasformare secondo un indirizzo unitario attraverso piano particolareggiato.

Completamento
Zona di completamento, ovvero considerata satura, salvo alcune porzioni ancora suscettibili di
edificazione. E’ caratteristica delle aree centrali o di immediata espansione.

Comprensorio
Territorio comprendente più Comuni, di dimensione inferiore a quello di una Regione costituzionale,
coincidente o meno con una circoscrizione amministrativa, individuato per fini di pianificazione
urbanistica, programmazione socioeconomica, gestione di attrezzature e servizi.

Conferenza dei servizi


Articolazione amministrativa, istituita con legge n. 142 del 1990, indetta da un ente pubblico quando il
procedimento preveda l’acquisizione di intese, concerti, nulla osta o assensi di altre amministrazione
pubbliche (vedi D.Lgs 267/2000).

229
Contributo di costruzione
Somma da versare al Comune per ottenere la concessione edilizia. Si compone di varie quote, relative a
vari parametri: quota di urbanizzazione per le relative spese; quota di costruzione per edifici o impianti
residenziali, turistici, commerciali; quota ecologica per le opere di smaltimento nel caso di insediamenti
industriali e artigianali; quota ambientale per le opere di risistemazione di luoghi alterati da
insediamento di attività produttive.

Conurbazione
Saldatura di vari centri urbani di una certa importanza in un continuum di grandi dimensioni, a scala
regionale. E’ analogo all’agglomerazione, ma se ne distingue per l’assenza di un centro ordinatore
principale.

Convenzione
Contratto fra operatori pubblici e privati in campo edilizio o urbanistico, per garantire la realizzazione
di servizi e spazi collettivi, o i prezzi di vendita e locazione degli immobili. La lottizzazione
convenzionata introdotta dalla legge 765/1967 mira a realizzare opere di urbanizzazione accollandone
in parte l’onere agli operatori privati.

Delega
Trasferimento di competenze da parte di un’autorità superiore. Esempio: dallo Stato alle Regioni della
materia urbanistica nel 1972; dalle Regioni ai Comuni per l’approvazione di strumenti urbanistici
esecutivi.

Densità
Misura della concentrazione spaziale di un fenomeno: densità abitativa/di popolazione (in area urbana
per ab/ha, a scala territoriale per ab/Kmq), o edilizia, che indica il rapporto mc/mq fra i volumi
edificati e le rispettive superfici.

Destinazione d’uso
Funzione (residenza, attività produttive ecc.) a cui, in base alle norme urbanistiche e edilizie o nei fatti, è
destinato uno spazio o edificio urbano. Può essere principale, quando qualifica le caratteristiche di una
zona, complementare quando integra quella principale; eventuale quando pur non rientrando nei primi
due casi non è esplicitamente in contrasto con essi.

Diritto di superficie
Autorizzazione concessa dal proprietario di un’area a realizzare sulla stessa una costruzione, la cui
proprietà rimane separata da quella del terreno.

Ecologia
Insieme o modello di relazioni fra gli esseri viventi e tra loro e l’ambiente fisico e biotico.

Ecologia del paesaggio


Scienza multidisciplinare di affrontare la complessità dei sistemi ecologici e del paesaggio sia attraverso
un approccio ai processi che agli organismi.

Ecosistema
Concetto che esprime un determinato livello di organizzazione e analizza le relazioni fra compartimenti
piuttosto che all’interno degli stessi.
La struttura dell’ecosistema è costituita da fattori abiotici, popolazioni di produttori, popolazioni di
consumatori, popolazioni di decompositori.

230
Edificabilità
Attitudine di una determinata porzione di territorio ad accogliere costruzioni. E' definita dalle norme
urbanistiche ed edilizie di zona.

Impatto ambientale
Insieme di effetti sull’ambiente delle modifiche indotte da trasformazioni d’uso: residenziali, produttive
ecc. Assume connotati sia fisici che socioeconomici, che possono essere giudicati con la procedura
tecnica-decisionale della Valutazione di Impatto Ambientale (VIA).

Incentivo
Gli incentivi sono costituiti da tutte le azioni (anche di concessione di contributi in conto interessi o in
conto capitale nonché di convenzionamento con gli operatori del credito per l’erogazione di mutui, a
tasso agevolato o meno, o di project financing) idonee a favorire e a sostenere iniziative e interventi da
parte di soggetti pubblici e/o di operatori privati.

Indicatore e indice
Il dibattito attuale sugli strumenti di misura e analisi in campo ecologico, ambientale, normativo e
pianificatorio distingue due grandi categorie: indicatori e indici. La prima categoria è inerente a “cosa
misurare” e con il termine indicatore si intendono grandezze identificabili che servono per la
descrizione dello stato di una situazione o di un sistema complesso. Gli indicatori sono distinti, a loro
volta, in tre famiglie: (1) indicatori di pressione, intesa come “peso dell’attività su…” (2) indicatori di
stato, e infine, (3) indicatori di regolazione, o normativi reazione politica, che assistono funzioni di
regolazione attivate attraverso provvedimenti non necessariamente legislativi (sensu OCSE).
Per indice si intendono le modalità di misura o valutazione di un determinato indicatore; in ultima
sintesi, l’algoritmo utilizzato.

Misure di salvaguardia
Norme in pendenza dell’approvazione di strumenti urbanistici generali, introdotte dalla legge 3
novembre 1952 n. 1902, a fini di tutela del territorio. Consistono nel non autorizzare opere in contrasto
con un piano solo adottato dall’amministrazione.

Perequazione urbanistica
Nel linguaggio urbanistico si intende generalmente per perequazione quel principio la cui applicazione
tende a ottenere due effetti concomitanti e speculari: la giustizia distributiva nei confronti dei
proprietari dei suoli chiamati a usi urbani e la formazione, senza espropri e spese, di un patrimonio
pubblico di aree a servizio della collettività.

Pianificazione attuativa
Pianificazione particolareggiata, che realizza in dettaglio le scelte del piano regolatore generale (PRG):
piani per gli insediamenti produttivi; piani di zona per l’edilizia popolare; piani di lottizzazione; piani
particolareggiati; piani di recupero, ecc.

Pianificazione generale
In urbanistica, per caratteristiche e contenuto delle prescrizioni, la scala di pianificazione non
direttamente esecutiva: piani territoriali di coordinamento; piani regolatori generali; piani intercomunali.
Le più recenti leggi regionali hanno già individuato due livelli di piano attraverso cui si ridefinisce il
PRG: il piano strutturale e il piano operativo, accompagnati da un regolamento urbanistico che
individua l’articolazione degli stessi. Il primo individua le invarianti territoriali, il secondo è relativo alla
programmazione degli interventi, infatti è conosciuto anche come “piano del Sindaco”.

231
Pressione ambientale
Si intende la somma degli impatti sull’aria, sull’acqua, sul suolo, sul clima e – in generale – sull’ambiente
prodotti dagli insediamenti produttivi esistenti e di presumibile produzione da parte degli insediamenti
produttivi previsti dagli strumenti urbanistici generali od attuativi. Sulla base della pressione ambientale
(accertata e/o valutata) debbono essere approntate, in relazione alle diverse esigenze, adeguate misure
di neutralizzazione oppure di mitigazione e di compensazione. La valutazione della pressione
ambientale tiene conto delle diverse tipologie di insediamento produttivo (aree industriali; aree miste
industriali, commerciali, direzionali; aree miste industriali e residenziali).

Produttività ecologica
Capacità di produrre biomassa nell’unità di tempo stabilita, a differenza di quella economica che si
misura tramite unità di misura monetaria.

Produzione ecologica
Quantità di biomassa prodotta.

Programma di riqualificazione urbana e di sviluppo sostenibile del territorio – PRUSST


Raggruppamento di progetti innovativi in ambito urbano, regolati dal D.M. 8-10-1998, aventi l’obiettivo
di avviare una sperimentazione sulle azioni amministrative più efficaci per attivare i finanziamenti che
sarebbero stati previsti nel quadro di sostegno comunitario. I finanziamenti nazionali previsti
derivavano dalle disponibilità non utilizzate dei precedenti Programmi di riqualificazione urbana.

Project Financing
E’ un insieme di procedure che consentono di realizzare opere pubbliche con l’apporto di capitale e
competenze proprie del settore privato. Essenzialmente il Project Financing (o Finanza di Progetto) è
normato dalla Dir. 93/37 della CEE (14 giugno 1993) “Direttiva del Consiglio che coordina le
procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori” e dalle successive modifiche e integrazioni.
Per l’Italia dalla Legge 11 febbraio 1994, n.109, “Legge quadro in materia di lavori pubblici” e
successive modifiche e integrazioni. Le fasi principali di un’operazione di Project Financing sono la
costruzione e la gestione dell’opera realizzata, attraverso la quale l’investitore deve rientrare del capitale
investito e attraverso la quale deve ottenere un congruo profitto. E’ per questo che il finanziamento
dell’opera ruota attorno non tanto alle garanzie che sono capaci di fornire i soggetti promotori
dell’iniziativa, ma alle qualità tecnico-economiche del progetto. E’ il progetto che deve essere in grado
di generare flussi di cassa e che deve costituire la garanzia primaria per il rimborso del debito e per la
remunerazione del capitale di rischio. La fase di gestione dell’opera diventa perciò di primaria
importanza nell’economia complessiva dell’operazione dato che solo una gestione efficace potrà
consentire di generare i flussi di cassa necessari a soddisfare tutti i soggetti investitori.

Protocollo d’intesa
È un accordo fra enti pubblici (al quale possono, in varia forma, partecipare anche soggetti privati)
caratterizzato da una certa genericità. Può trattarsi di un accordo fine a se stesso, oppure di un accordo
preliminare a uno più dettagliato e più rigidamente vincolante; un esempio di questo tipo di accordo è
dato da quello che può scaturire da una conferenza di servizi convocata (ai sensi dell'art. 34 del D.lgs.
267/2000) al fine di verificare la fattibilità di un accordo di programma. Spesso si usa erroneamente
l’espressione accordo di programma per definire accordi nei quali difettano i contenuti per essi previsti
dalla legge, e che sono in realtà dei protocolli di intesa.

Regime dei suoli


Insieme delle leggi e norme che regolano l’uso e la proprietà del suolo, in particolare urbano, nei
rapporti tra operatore pubblico e privato.

232
Rendita
Corrispettivo economico che il proprietario di un immobile acquisisce cedendone ad altri lo
sfruttamento. E’ assoluta la rendita intesa come corrispettivo dell’affitto o cessione. E’ differenziale la
rendita che esprime le differenze di collocazione degli immobili nel contesto urbano (più o meno vicino
al centro, in zone più pregiate dal punto di vista ambientale).

Risanamento
Azione urbanistica o edilizia originariamente tesa alla bonifica igienica dell’abitato o del suolo, spesso
attraverso sventramenti, demolizioni e ricostruzioni. Risanamento conservativo è ripristino e protezione
delle caratteristiche originarie degli edifici o di gruppi di edifici, analogo al restauro.

Rischio
E’ la base della probabilità e determina le decisioni. Questa definizione distingue il rischio
dall’incertezza nella quale le probabilità sono sconosciute. Oggi, si è consapevoli che rischio e
vulnerabilità non sono più limitati all’attività individuale, ma potenzialmente si diffondono al di fuori
della sfera individuale di controllo. Ad esempio, sono oggi evidenti le molteplici minacce alla
sopravvivenza dell’umanità e dell’ambiente naturale. Dimensione, intensità e qualità di rischio e
vulnerabilità impongono il coinvolgimento delle persone e delle loro comunità sociali. Controllo ed
azioni, volte a prevenire ed a reagire al rischio, devono essere sviluppate a livello locale nell’ambito di
una consapevolezza globale.

Sistemi Informativi Territoriali (SIT) o Geographical Information System (GIS)


Strumenti informatici per raccogliere, memorizzare, richiamare, trasformare e referenziare dati
spazialmente riferiti.

Sostenibilità
Il problema ambientale è di difficile soluzione; in generale occorre una strategia globale.
I paesi sviluppati, pur comprendendo solo un quarto della popolazione mondiale, consumano l’80% dei
beni del mondo. I paesi in via di sviluppo consumano il loro ambiente e le loro risorse rinnovabili più
rapidamente di quanto possano ricostituirlo.
Il concetto di “sviluppo sostenibile” offre una indicazione per una strategia ambientale; esso tiene
conto della compatibilità ambientale, ma anche delle aspirazioni dei Paesi in via di sviluppo e delle
necessità delle generazioni future.
Risulta comunque fondamentale tenere presenti le componenti della sostenibilità, all’interno
dell’obbiettivo della massima integrazione delle politiche al suo raggiungimento.
- sostenibilità economica, ossia operare in modo che le scelte societarie aumentino il valore
dell'impresa non solo nel breve periodo ma soprattutto siano in grado si garantire la continuità
aziendale nel lungo periodo, attraverso l’applicazione di un avanzato modello di corporate
governance;
- sostenibilità sociale, ossia promuovere una condotta etica negli affari e contemperare le
aspettative legittime dei diversi interlocutori nel rispetto di comuni valori condivisi;
- sostenibilità ambientale, ossia produrre minimizzando gli impatti ambientali diretti e indiretti
della propria attività produttiva, per preservare l’ambiente naturale a beneficio delle future
generazioni.

Standard
Dotazione, espressa in termini numerici, di aree e attrezzature pubbliche secondo indici prefissati:
verde, parcheggi, scuole, strutture sanitarie ecc. Alle quantità relative indicate dagli standard, devono
adeguarsi gli strumenti urbanistici e le relative realizzazioni. In Italia gli standard urbanistici sono stati
fissati dal Decreto Interministeriale 2 aprile 1968, n. 1444, che fissa limiti all’edificazione e rapporti
massimi tra insediamenti e spazi pubblici.

233
Tutela
Serie di azioni finalizzate alla difesa e valorizzazione di uno spazio naturale o costruito, nei suoi aspetti
storici e ambientali. La tutela può essere attiva quando si sostanzia in azioni di trasformazione e uso,
passiva quando si basa su vincoli all’uso.

Unità di paesaggio
Rappresentano ambiti territoriali con specifiche, distintive e omogenee caratteristiche di formazione e
di evoluzione. Esse permettono di individuare l’originalità del paesaggio, di precisarne gli elementi
caratterizzanti e consentiranno in futuro di migliorare la gestione della pianificazione territoriale
integrata, specificando gli aspetti olistici del paesaggio.

Urbanistica
È la disciplina che studia e regola i processi di antropizzazione del territorio. Nata come arte e tecnica
dello sviluppo urbano (e fra arte e tecnica si è sempre posta, attratta ora dall’una ora dall’altra, senza
avere mai una chiara e conclusa definizione dei suoi strumenti di azione) ha ormai assunto in Italia,
prima nella forma e nelle intenzioni con la legge urbanistica del 1942, e ora man mano nella realtà – sia
pure tra ritardi e ostacoli – il ruolo di disciplina del territorio, essendo ormai chiaro che lo sviluppo
edilizio non è certo l’unico fenomeno che determina l’assetto del territorio e che l’abitare, il risiedere, il
lavorare ha per luogo non solo la casa e la città, ma il territorio nel suo insieme. L’urbanistica ha per
strumenti di conoscenza l’analisi, per mezzi di intervento gli strumenti urbanistici e per oggetti una
vasta gamma di realtà territoriali, da quelle corrispondenti a parti di città o di territori oggetti di piani
attuativi, a quelle del territorio regionale oggetto di piani di inquadramento. Il significato del termine
non è quindi più quello letterale, essendo l’operatività dell’urbanistica ormai ampliata a realtà non solo
urbane. Per comodità, ma senza una stretta divisione di compiti, l’urbanistica può suddividersi in
pianificazione territoriale e pianificazione urbana.

Validità del piano


Arco di tempo nel quale lo strumento urbanistico ha valore di legge: indeterminato per gli strumenti di
pianificazione generale; determinato per gli strumenti urbanistici attuativi.

Valutazione ambientale strategica – VAS


Procedura prevista dalla Direttiva 2001/42/CE concernente la valutazione degli effetti di determinati
piani e programmi. Si tratta di un processo sistematico inteso a valutare le conseguenze in campo
ambientale di una politica, di un piano o di iniziative nell’ambito di un programma, ai fini di garantire
che esse siano pienamente incluse e affrontate in modo adeguato fin dai primi stadi del processo di
formulazione delle decisioni, allo stesso modo delle considerazioni economiche e sociali.

Valutazione d’impatto ambientale –VIA


Analisi e giudizio degli effetti ambientali, sociali, produttivi di una trasformazione introdotta dall’uomo.
Si articola in un’analisi tecnico-scientifica sui costi e benefici di un’opera o iniziativa (bilancio di impatto
ambientale), e in una decisione di carattere politico. E’ obbligatoria per tutti gli interventi riguardanti la
pianificazione e lo sviluppo del territorio suscettibili di determinare un impatto significativo e rilevante

Variante
Modifica parziale o totale di uno strumento urbanistico, a seguito di modificazioni avvenute nella
normativa o nel territorio che il piano intende governare.

Vincolo
Limitazione all’uso di un ambiente, o territorio, o parti di esso, prescritto da un piano o da un
programma. Può essere urbanistico, idrogeologico, o paesaggistico ecc.

234
Zona omogenea
Parte di territorio con caratteri di omogeneità, o individuata come tale dallo strumento urbanistico e
sottoposta a relative norme tecniche. In un territorio comunale, secondo il Decreto Interministeriale 2
aprile 1968, n. 1444, si individuano attraverso il piano urbanistico zone omogenee contrassegnate da
una lettera dell’alfabeto: “A” per le parti di interesse storico e pregio ambientale; “B” per le aree
parzialmente edificate e prive di particolare interesse ambientale; “C” per le zone di espansione
dell’abitato; “D” per gli insediamenti produttivi; “E” per l’uso agricolo; “F” per attrezzature o impianti
di interesse generale.

235
PIERRE DONADIEU

LE PAYSAGE, IDENTITES PAYSAGERES ET LE DEVELOPPEMENT DURABLE URBAIN

Introduction : Le paysage, l’identité, la ville durable et le bien commun

La relation sensible, principalement visuelle, à l’espace et à la nature des sociétés humaines,


repose sur les interprétations de ce qu’elles en perçoivent 163. Ces perceptions et représentations, dans
les sociétés occidentales, font appel à de nombreuses valeurs qui donnent un sens au monde habité
(l’écoumène au sens de BERQUE, 1995). Ces évaluations, individuelles et collectives, relèvent de la
satisfaction, d’une part de besoins physiques et mentaux fondamentaux (bien-être et mal-être), d’autre
part de demandes sociales et culturelles (signes esthétiques et symboliques identitaires, lieux de
mémoire et de liberté, biens patrimoniaux naturels et culturels, utilités de l’espace, etc.) Elles
caractérisent le cadre de vie des habitants, qu’ils soient sédentaires ou mobiles, et la relation à leur
territoire de vie. L’ensemble de ces relations est souvent appelé paysage, de manière floue dans les
discours politiques et techniques, et en référence à des champs disciplinaires comme ceux des sciences
géographiques, écologiques et sociales. Cette doxa technico-politique fait référence à la revendication
d’un droit au paysage, que l’on peut comprendre comme une aspiration sociale à disposer et jouir de
cadres de vie remarquables autant qu’ordinaires, et qui a été concrétisée par la convention européenne
du paysage de Florence en 2000. Des politiques publiques de paysage, plus ou moins formalisées selon
les Etats, sont apparus progressivement en Europe, pour donner un cadre légal à ces aspirations
individuelles et collectives parfois utopiques 164.

La construction des identités individuelles et collectives par la médiation du paysage est donc un
enjeu social et politique de l’aménagement de l’espace important parmi d’autres. Dans un cadre localisé
de vie qui n’offre pas de prises paysagères 165 à l’individu habitant, celui-ci ne peut construire sa propre
identité, celle qui le distingue ou le rapproche des autres (l’Altérité). Ces prises sont des formes des
paysages vécus, qui deviennent alors des signes familiers, dont la permanence rassure et dont la
destruction ou la disparition désespèrent 166. Collectives, les identités paysagères contribuent ainsi à
façonner les identités territoriales et politiques comme celles de la Suisse 167 et de l’Angleterre 168. Ces

163 Convention européenne du paysage, 2000.


164 P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys, 2005 ; P. DONADIEU – M. PERIGORD, Le paysage, entre
natures et cultures, Paris, A. Colin, 2007.
165 A. BERQUE, Les raisons du paysage, de la Chine antique aux environnements de synthèse, Paris, Hazan, 1995.
166 E. BIGANDO, La sensibilité au paysage ordinaire des habitants de la grande périphérie bordelaise, Thèse de doctorat en Géographie,

Université de Bordeaux, 2006.


167 F. WALTER, Les figures paysagères de la nation, territoire et paysages en Europe (XVIe-XXe siècles), Paris, EHESS, 2004.

236
constructions paysagères, à la fois matérielles et immatérielles (le chalet dans la montagne suisse, le
bocage anglais, le bleu tunisien du village emblématique de Sidi-Bou-Said par exemple) peuvent-elles
mobiliser les valeurs du développement durable, et en particulier celles qui aspirent à la construction
des villes durables ?

La notion de développement durable (sustainable development), inventée par Madame Brundtland


en 1987, est considérée par les scientifiques comme une utopie ou une doctrine relayée, depuis le
sommet de Rio-de-Janeiro de 1992, principalement par les pouvoirs politiques. Elle vise surtout à
transmettre aux générations futures un héritage matériel et immatériel compatible avec leurs intérêts
humains, vitaux et non vitaux. Cette idéologie, fondée sur la critique de la pensée productiviste et
techniciste, tente de concilier des finalités contradictoires, économiques (emploi, richesse),
environnementales (ressources, risques), sociales (équité) et culturelles (identités) de la vie humaine sur
la Terre. Concernant la catégorie de pensée de la ville durable, les scientifiques depuis le début des
années 1990 en France ont largement investi le champ depuis différents domaines d’études urbaines
(géographie, histoire, écologie, sociologie, urbanisme, sciences politiques, architecture, etc.). Les uns
pensent qu’il ne s’agit que d’une appellation supplémentaire d’un changement rêvé de politiques
publiques inefficaces, succédant à d’autres utopies historiques 169, les autres démontrent que les chartes
d’Athènes (1933) et d’Älborg (1994) ne sont pas de même nature et qu’il existe une discontinuité
idéologique, voire épistémologique, entre elles. Certains géographes s’accordent à dénoncer la réduction
par les pouvoirs urbains d’une ambition complexe à des additions vaines d’actions « durables »
sectorisées (lutte contre l’étalement urbain, économie d’énergie, recyclage des déchets, mixité sociale,
actions citoyennes, etc.) 170. Beaucoup de chercheurs remettent en cause l’exemplarité des bonnes
pratiques (les modèles de quartiers écologiques et de villes vertes en Europe du Nord, celui aussi de la
ville austère et frugale par exemple) comme méthode de diffusion d’un nouveau progrès. Ils montrent
les limites d’actions bureaucratique (réglementer), scientiste (surestimer la connaissance scientifique des
faits naturels et sociaux) et intégrés (gouvernance, concertation) du fait de la remise en cause difficile
des pouvoirs publics sectorisés. En bref, pour les uns, la ville durable ne serait qu’un rêve
sociopolitique, séducteur et inaccessible, pour les autres, elle représenterait une opportunité pour penser
et évaluer différemment les modes urbains de vies humaine, végétale et animale de manière multi ou
supradisciplinaire. Que peut alors apporter la notion de bien commun à la recherche utopique d’un
monde meilleur ?

168 H. BULLER, « La Countryside britannique : un espace symbolique », in Vers un rural postindustriel, Rural et environnement dans

huit pays européens (M. Jollivet édit.), Paris, L’Harmattan, 1997.


169 GAUDIN, 1998 ; BRUNET, 1997 cités par A. MATHIEU – Y. GUERMOND (édit.), La ville durable, du politique au scientifique,

CEMAGREF, CIRADIFREMER, INRA, 2005.


170
A. MATHIEU – Y. GUERMOND (édit.), La ville durable, du politique au scientifique, op. cit., p. 16.

237
Le socioéconomiste Ricardo PETRELLA 171 appelle bien commun les biens matériels ou
immatériels dont l’usage social se traduit par un sentiment d’appartenance aux groupes dont les
membres ont en commun l’usage de ces biens publics ou privés (par exemple, non seulement l’usage du
puit communal par les habitants d’un village ou celui d’une église ou d’une mosquée, mais les règles
d’usage de ce puit et les rites et valeurs de la religion elle-même). Le bien commun est donc, comme le
définissent les économistes, ni exclusivement public, ni seulement privé.

Nous appellerons bien commun paysager les biens matériels et immatériels qui sont issus de la
similarité des relations humaines polysensorielles à l’espace et à la nature et qui concrétisent un projet
d’intérêt commun. Le sens religieux de la relation visuelle des habitants à l’église (propriété publique) de
leur village définit par exemple un bien commun paysager local. Il concerne ceux qui considèrent
l’édifice comme symbole de leurs croyances et lieu de leur culte. Il en est de même en France pour les
biens communaux, lieux autrefois propriétés de la commune à des fins de pâturage et d’affouage. Au
Maghreb, les biens collectifs, qui relèvent soit de communautés religieuses (habous), soit de fractions
tribales qui en font par exemple un usage pastoral et sylvo pastoral, entrent dans la catégories des biens
communs paysagers. Le bien matériel perd son sens paysager relatif si aucune perception et aucune
conscience humaine n’en sont constatées, ainsi que son sens collectif, s’il n’est que sous le contrôle des
pouvoirs publics (Etat, Région, Province, département, groupe de communes, commune). Ainsi
formulé, le sens paysagiste du mot paysage, qui le réduit aux aménagements paysagers décoratifs et
publics et à la protection publique des sites patrimoniaux remarquables, est étendu à celui de cadre de
vie construit par et pour ceux qui y projettent leurs valeurs communes. Il ne se confond pas avec la
qualification de territoire qui n’en représente que la dimension sociale (appartenance) et politique
(étendu spatiale de l’exercice des pouvoirs publics).
Le texte qui suit essaiera de montrer que l’idée de paysage durable, en remettant les sensibilités
humaines au monde en devenir au centre des projets et des actions d’aménagement de l’espace, permet
de construire les identités individuelles et collectives comme biens communs paysagers locaux et
globaux. En effet, les pratiques paysagères qui en sont issues privilégieront sans doute en priorité les
valeurs de survie collective face aux risques locaux et globaux, comme au cours de l’histoire, elles l’ont
été (les biens communaux et collectifs des sociétés traditionnelles ont été des garanties sociales de
survie à l’échelle locale).

171
R. PETRELLA, Le bien commun. Eloge de la solidarité, Bruxelles, Labord, 1996.

238
Le paysage durable, outil d’action publique ou nouvelle utopie ?

Le paysage comme bien commun


La notion de paysage désigne à la fois ce qui, dans l’environnement humain est perçu, la
manière dont cette perception est interprétée, et les projets que ce jugement suscite. À la fois objective,
subjective et projectuelle, elle n’est réductible ni à des matérialités connaissables (les paysages de la
géographie, les images des artistes), ou à des jugements ou à des émotions (les paysages vécus et
contemplés), ni à des volontés individuelles et collectives d’anticiper les évolutions des paysages en
prenant en compte les enjeux sociaux et politiques. L’idée de paysage traduit l’ensemble complexe de
ces relations, qu’il est toujours tentant de simplifier. Elle est globale et trajective, et relationnelle plus
que systémique 172.

Dans les sociétés occidentales, où son origine est culturelle (picturale et littéraire), la relation au
paysage fait une large place aux valeurs esthétiques. L’expérience des paysages beaux et laids peut être
cependant interprétée autant selon la posture kantienne (le beau s’éprouve indépendamment des utilités
et intérêts de ce qui est perçu), que selon la posture platonicienne (le beau est assimilable à ce qui est
bon et utile). La beauté et la laideur de paysages et de lieux sont alors exprimées en fonction de critères
esthétiques (harmonie et disharmonie des formes perçues), environnementaux (bien-être/mal-être,
promesse de santé ou de pathologie des êtres vivants) et sociales (ségrégation/mixité de l’espace public,
plein emploi/chômage, liberté/coercition des individus, mise en valeur/abandon de l’espace, etc.).

Les valeurs sont mobilisées selon des échelles variables de concernement des individus. À
l’échelle individuelle, l’expérience de « mon paysage » n’est pas celui de l’Autre (« son paysage ») même
si le paysage est matériellement identique. Il est singulier et s’inscrit dans le parcours de vie de chacun,
comme dans son contexte social et culturel. À l’échelle locale du groupe, « notre paysage » diffère en
effet de « leur paysage ». Il enregistre une mémoire sociale inconsciente ou revendiquée dans des lieux
de vie.

Enfin, il existe une troisième échelle de mobilisation des valeurs, celle, supralocale, qui
impliquent des territoires politiques et culturels, régionaux, provinciaux, nationaux et supranationaux.
Ces échelles spatiales globalisantes 173 peuvent concerner les communautés et organisations européennes
(Union européenne, Conseil de l’Europe) ou internationale (l’UNESCO, la FAO, l’ONU par exemple).
Elles offrent aussi des rêves de paysages lointains, et exotiques : rêves de nature sauvage ou de villes

172 A. BERQUE – P. DONADIEU – Y. LUGINBÜHL – P. AUBRY – J.P. LE DANTEC – A. ROGER, Mouvance 2, soixante-dix mots
pour le paysage, Paris, éd. De la Villette, 2006.
173 Yves Luginbühl, séminaire ENSP, février 2007.

239
fascinantes pour le temps d’un voyage touristique. Elles permettent l’existence là aussi de biens
communs aux groupes qui en font usages (les touristes, les organisateurs et les bénéficiaires du
tourisme) parfois aux dépens d’autres groupes sociaux.

Selon ces échelles d’évaluation, mais aussi selon les facteurs objectifs qui font varier les paysages
(nuit/jour, saisons, climats, géologie et hydrologie, modes de mise en valeur, politiques publiques,
structures sociales, etc.), les évaluations du paysage perçu peuvent être convergentes ou divergentes.
Une ville peut être belle la nuit et laide le jour, ou inversement, un marécage urbain peut-être considéré
comme répulsif, car dangereux pour les uns (une mère de famille avec des enfants) ou attractif pour les
autres (un ornithologue ou un botaniste) pour des raisons de richesse écologique. Les espaces
d’activités agricoles autour des villes auront plutôt une fonction de décor esthétique idéalisé pour les
cadres supérieurs alors que les agriculteurs en feront d’abord leur cadre de vie professionnelle.

En tant que biens à constituer en commun, le paysage, souvent objet de tensions, de dissensions
et de conflits entre les partis prenantes de son évolution ou de sa stabilité d’usages, est construit –
protégé, restauré ou créé – au sein de pratiques de gouvernance, faisant des places très variables aux
acteurs sociaux et politiques selon les pays. En effet, c’est le changement des paysages qui est un enjeu
culturel, social, environnemental et économique, tant pour les habitants que pour les acteurs publics.
Les ruptures brutales (une tempête destructrice ou une construction autoroutière à fortes nuisances)
désespèrent les habitants concernés en Europe, mais pas les automobilistes ; les plus lentes (l’étalement
urbain, les déprises agricole et industrielle, les conséquences écologiques des pollutions de l’air et de
l’eau), inquiètent ou indiffèrent, mais interpellent les pouvoirs publics 174. Les biens paysagers communs
et disputés selon les intérêts privés et publics en présence peuvent-ils être produits selon l’éthique
utopiste de la ville idéale « durable » ? Quels sont ces biens communs dans les régions urbaines ?

Le paysage comme bien commun durable


Ces biens communs paysagers et urbains existent aujourd’hui. Ce sont par exemple toutes les
infrastructures dites vertes : les bois, forêts, parcs et jardins publics et privés, les cimetières, les terrains
de sports, les zones de protection des nappes phréatiques, les voieries routières, piétonnes, cyclistes et
ferroviaires, les couloirs de lignes électriques à haute tension, les canaux, les ports, les espaces

174 P. DONADIEU – M. PERIGORD, Le paysage, entre natures et cultures, Paris, A. Colin, 2007.

240
agricoles 175 etc. Ils n’excluent pas des biens paysagers non verts, les patrimoines architecturaux ou
industriels par exemple.

Héritées des idéaux occidentaux de ville du XIXe et XXe siècles : la ville hygiénique, esthétique
et fonctionnelle, les politiques publiques produisant ces équipements urbains ont été reconduites avec
un relatif consensus dans la plupart des villes du monde. Elles contribuent à l’élaboration de biens
communs paysagers dans la mesure où ces derniers ne sont pas seulement publics et pas uniquement
privés. C’est le cas par exemple des concessions du Bois de Boulogne et de Vincennes faites par la ville
de Paris à des organisations privées d’utilité publique ou non (les restaurants, les clubs de tennis, les
sociétés de pêche et d’équitation, les hippodromes, etc). Celles-ci valorisent les ressources publiques des
Bois parisiens en les réservant à des publics particuliers (clients des restaurants, amateurs de courses
hippiques, membres de clubs sportifs, etc.). Sélectionnés par des organisations habilitées par la Ville de
Paris, les usagers de ces concessions bénéficient de services privés, qui leur sont communs, sans pour
autant devenir communautaires (sauf peut-être quand les concessions sont faites à des organisations
religieuses : la pagode boudhiste à Vincennes). De même, dans l’espace accessible aux publics, les
usagers des Bois (qui ne sont plus des clients) peuvent contribuer à l’entretien des espaces fréquentés en
payant des droits d’entrée comme dans le parc de Bagatelle 176. Accessibles dans un cadre gratuit ou
onéreux, ces biens paysagers urbains en sont-ils pour autant durables ?

La ville durable idéale, inscrite dans les courants américains du New Urbanism ou de la Smart
Growth, est au Canada « aménagée selon les principes de la conservation des ressources, de l’équité et de
l’accessibilité » 177. Ces valeurs utopiques privilégient alors la proximité et la densité de l’urbanisation, qui
de fait deviennent une condition favorable au bien commun paysager en réduisant le temps nécessaire
aux transports. L’idéal canadien est alors la ville compacte monocentrique ou polycentrique. Un autre
volet de ce projet de ville durable est en effet de la rendre « autosuffisante » en conservant dans sa
proximité les espaces agricoles, boisés et de protection des eaux et de la biodiversité. L’action publique
de lutte contre l’étalement urbain vise alors à réorienter les raisons des choix de localisation des
ménages dans les banlieues (coût faible du sol, habitat pavillonnaire, aggrégation ethnolinguistique, goût
pour la nature). Dans ce contexte politique, les biens communs paysagers fournisseurs d’aménités et de
services résidentiels, sont créés dans les centralités, en évitant de limiter les accès aux biens immobiliers
pour les plus faibles revenus et d’encombrer la circulation dans les centres 178. C’est donc la localisation

175 P. DONADIEU, « La construction de la ville-campagne, vers la production d’un bien commun agriurbain », Colloque
international de Turin « Creare paesaggi » organisé par l’ordre des architectes italiens (« La costruzione della città-campagna,
verso la produzione di un bene comune agriurbano » in « In ogni modo » (C. Cassatella et F. Baglioni édit.), Firenze, Alinea,
pp. 80-85, 2005b.
176 P. DONADIEU, « Les Bois parisiens », in Atlas de la nature, Paris, APUR, 2006.
177 SENECAL et al, in A. MATHIEU – Y. GUERMOND, op. cit., p. 75.
178 A. MATHIEU – Y. GUERMOND, op. cit., p. 77.

241
des biens communs paysagers comme outil de la ville durable sans trop de dépendance de l’automobile
qui devient un enjeu : dans les centres principaux, ou dans les centres secondaires des métropoles
comme les villes nouvelles en France.

Une autre dimension politique des biens communs paysagers urbains durables est celle de la
naturalisation des villes qui a autant d’adeptes que d’adversaires. D’un côté les logiques
« substantialistes » qui invitent à intégrer des valeurs objectives économiques, environnementales et
sociales données à l’avance pour concilier le local et le global, le court et le long terme. De l’autre les
rationalités « procédurales » et politiques qui construisent et hiérarchisent les actions publiques
« durables », sans normes à priori, au sein d’une gouvernance de projets 179. Du point de vue des
politiques vertes et d’une logique « substantialiste », il s’agira alors de favoriser – top down – la lutte
contre les incidences microclimatiques des pollutions de l’air urbain (l’épuration de l’air), la lutte contre
les nuisances phoniques (écran phonique), la restauration des milieux et populations spontanées
menacées (biodiversification), enfin la qualité et la quantité des espaces publics de loisirs. D’un point de
vue « procédurale », – bottom up – il s’agira d’associer dans une gouvernance publique les acteurs réels
des ressources et des espaces (techniciens des espaces verts des villes, agents de la gestion forestière,
agriculteurs, organisation de jardiniers, etc.) aux usagers des espaces (association de quartiers par
exemple). Au Québec, la conciliation consensuelle de ces deux logiques a été mise en oeuvre avec
succès dans le plan d’action du Saint Laurent Vision 2000 180. En matière de politique de forêts urbaines,
elle peut aussi se traduire par des transferts de pouvoirs de gestion publique comme à Strasbourg de
l’Etat (l’ONF) à la communauté urbaine 181.

Interprétée à travers les notions de biens communs, de gouvernance et d’actions publiques, la


notion de paysage durable se présente à la fois comme un outil d’action publique et comme un
ensemble de valeurs d’intérêt public. Elle peut donc être comprise comme, d’une part une aspiration
complexe à une qualité de cadre de vie individuel et collectif, et d’autre part une construction sociale de
biens matériels partageables au nom de valeurs communes inscrites dans l’idéologie de la durabilité.
Parmi celles-ci, les valeurs économiques, environnementales et sociales du développement durable sont
idéalement transformables en biens communs paysagers pour autant que sont conciliés dans des
procédures de concertation et de gouvernance, les aspirations et projets des représentants des acteurs
publics, collectifs et privés locaux. Qu’en est-il de l’identité individuelle et sociale, en tant que facteur de
mise en œuvre de la ville durable ? Autrement dit, dans quelles conditions peut-on observer une

179 GAUTHIER – LEPAGE, in A. MATHIEU – Y. GUERMOND, op. cit.


180 GAUTHIER – LEPAGE, op. cit.
181 A. DECOVILLE, La forêt frontière de la ville ? Mise en perspective de deux villes rhénanes : Strasbourg et Karlsruhe, Thèse de doctorat

de l’Université L. Pasteur de Strasbourg, 2006.

242
adhésion sociale (commune) à des processus constructifs, déconstructifs, conservateurs ou créateurs
d’identités paysagères désignées comme durables ?

Le rôle de l’identité paysagère dans la construction des paysages durables

La relation entre l’identité des populations et la notion de paysage est explicitement faite dans la
Convention européenne du paysage. Elle est reprise dans l’article 5 du décret du 20 décembre 2006
portant application de la Convention en France : « Chaque Partie s’accorde à reconnaître juridiquement
le paysage en tant que composante du cadre de vie des populations, expression de la diversité de leur
patrimoine culturel et naturel, et fondement de leur identité ».

La relation identitaire est repérable dans les paroles des habitants par les expressions : mon
paysage, nos paysages : ma rivière, notre parc, mon coin de pêche ou de promenade, mon jardin.
L’identité individuelle ou collective est construite avec des fragments d’espace vus et vécus qui sont
symboliquement ou réellement appropriés : le clocher de l’église ou le minaret de la mosquée, le
magnolia du jardin, le château voisin. L’identité des populations ainsi construite se définit par rapport à
celle des Autres : l’altérité : leur forêt, leur minaret, son jardin. Les Autres sont des individualités (le
voisin) ou des collectifs (le terrain de sport de la commune, les musulmans, les chrétiens) : la place
publique de la commune peut être leur ou notre place selon le degré de concernement de chacun par les
affaires publiques communales. Des jugements différents sur un élément du paysage déclenchent des
tensions : l’ espace agricole de la dernière ferme de la commune est à protéger pour les uns, à construire
pour les autres.
L’identité paysagère est une valeur qui est souvent attachée à celles du bien-être et de la beauté.
La modification imprévue d’un paysage approprié déclenche des crises collectives (mécontentement,
création d’associations de défense) violentes ou larvées. Plus généralement l’identité distingue et qualifie
des paysages quand la monotonie ou le changement menace. C’est pourquoi, l’identité paysagère n’est
pas dissociable du processus de transformation des relations entre les hommes et leurs espaces : Elle est
conservée, construite ou bien disparaît, dans un contexte conflictuel ou non.

La conservation des identités paysagères


C’est le processus le plus connu et le plus fréquent. Les paysages, protégés de la ruine ou de la
destruction, sont immobilisés par les pouvoirs publics, et le plus souvent figés dans une permanence
rassurante et consensuelle. Ouverts à la fréquentation du public, ils donnent à voir des lieux
symboliques d’identités des territoires : nationaux comme les jardins du château de Versailles, la tour de
Belem à Lisbonne ou les jardins de Stourhead en Angleterre ; religieux comme la « colline éternelle » de

243
Vézelay ou celle du Sacré-Cœur de Montmartre à Paris ; régionaux à l’instar des paysages nords italiens
du lac de Côme, des chaumières restaurées ou neuves de la Normandie ou de la Grande Brière au nord
de Nantes, ou encore réhabilités comme les paysages vernaculaires de canaux (les conches) de La
Venise verte dans le Marais poitevin. Ainsi maintenus, en tant que lieux de mémoires et de plaisirs
visuels, par des actions publiques qui mobilisent l’argent des contribuables, ces paysages s’inscrivent
dans de nouvelles économies territoriales : celles du tourisme, de la résidence et du loisir. Produits par
de nouveaux projets sociaux et économiques, ils prolongent les apparences de cultures agraires (le
marais, le bocage) ou industrielles (les terrils charbonniers) révolues, qui deviennent ainsi les cadres des
activités d’aujourd’hui et de demain. Dans les milieux urbains, les signes identitaires sont omniprésents :
à côtés des formes patrimonialisées architecturales et urbaines, le citadin et le touriste identifient les
architectures orientales et les couleurs (le rouge) des communautés asiatiques (Chinatown) dans la
plupart des métropoles, ou bien la couleur bleu pâle et emblématique du bleu tunisien. Très revendiqué
le bleu est aussi celui des villages du Connemara en Irlande et des îles grecques. Mais il y a aussi l’ocre
des façades italiennes et la blancheur immaculée des médinas arabes et des villages des Pouilles. Ces
singularités ont été parfois des inventions historiques (le bleu de Sidi-Bou-Said a été prescrit et mis en
œuvre par le baron d’Erlanger au début du siècle dernier), mais les créations sont toujours
contemporaines.

La création des identités paysagères


Dans les sociétés occidentalisées, européennes ou non, il y a deux façons de créer des identités
paysagères. Soit la matérialité perçue est volontairement changée à cet effet, ce que font d’une part les
professionnels du paysage, quand ils créent des parcs, jardins et espaces publics et privés, et d’autre part
les acteurs privés et publics quand ils changent les paysages matériels pour affirmer leurs valeurs, par
exemple économiques (une nouvelle entreprise dans l’espace périurbain) et/ou environnementales (une
construction de haute qualité environnementale – HQE - notamment). Soit les regards sur cette
matérialité changent, et créent des paysages qualifiés ou disqualifiés, reconnus localement ou non, ce
qui peut aussi être le fait des professionnels du paysage, architectes du paysage ou non.

Quand l’architecte paysagiste allemand Peter Latz crée à Duisbourg nord au début des années
1990 le parc de l’Emscher, il monumentalise les vestiges d’une usine sidérurgique, installe des nouveaux
lieux paysagers végétaux et minéraux et propose de nouvelles pratiques de lecture aux visiteurs 182.
L’ancienne usine devient un cadre social de loisirs, un espace de pédagogie de la science écologique et
un musée de la sidérurgie disparue de la Ruhr. Parce qu’elle offre autant des signes de mémoire locale

182P. DONADIEU, « Le Landscape urbanism en Europe : des friches industrielles au développement durable urbain », Jola, n° 2,
2007.

244
que des lieux de création artistique, elle est devenue pour les habitant de Duisbourg et de la Ruhr
« notre parc » : un espace apaisant de remémoration autant que de scénographie écologique du
changement prévisible d’un lieu en voie de reconquête par la végétation spontanée des bouleaux
forestiers.

Dans le contexte français, où l’appel roboratif à la nature est beaucoup moins évident que chez
les Allemands, l’intérêt marqué pour les jardins familiaux et communautaires (très nord européens par
ailleurs) témoigne d’une autre façon de créer des identités paysagères et des lieux de mixité sociale.
Dans le parc Balzac à Angers par exemple, la création de petits jardins et de leurs cabanes peintes en
bleu pâle (presque tunisien d’ailleurs) concrétise la volonté municipale de prêter aux citadins des
immeubles collectifs voisins un espace visible de liberté et d’expression de groupes. Pendant la belle
saison, et à l’occasion des vacances ou des week ends, le jardin devient le lieu d’une convivialité où se
resserrent les liens entre les membres des familles et leurs invités, en fonction des origines ethniques
notamment 183. L’identité paysagère se confond alors avec celle des origines des jardiniers et de leurs
entourage.
Des processus sociaux et spatiaux proches sont à l’œuvre, quand, près de Toulon, les
communes achètent des parcelles de vieilles oliveraies centenaires pour les mettre à la disposition des
activités de loisirs des habitants des communes ; quand au sud de Paris, à Sceaux, les coulées vertes qui
occupent le passage souterrain du TGV sont en partie utilisées par des concessions de jardins ; quand
dans les communes périurbaines des petites et moyennes villes françaises, des espaces ordinaires
agricoles, aquatiques et de peupleraies sont rachetés par les collectivités pour créer des espaces publics
de promenade et de pêche, là où il n’en existait pas ; quand, enfin, dans l’ouest français, les entrées des
lotissements aux toits monotones en ardoises bleutées arborent des signes distinctifs étranges : la figure
en bois d’une fée forestière ou les troncs curieux appelés localement « trognes » : « nos trognes » 184.

Cessation et pertubation d’identités paysagères : entrée et sortie de conflits


L’identité paysagère n’est pas éternelle. Les habitants de Suresnes, à l’ouest de Paris, ont
aujourd’hui oublié que leur colline : le mont Valérien, était au XVIIe siècle un haut lieu de pélerinage 185.
Cette amnésie ne suscite aucune nostalgie perceptible. Un paysage a succédé au précédent : aujourd’hui
celui d’une forteresse militaire. Longtemps, cette amnésie a été le plus souvent la règle de l’évolution
des paysages, jusqu’à l’invention de l’idée de patrimoine en tant que signe et condition de l’identité
sociale et individuelle.

183 P. DONADIEU et al., « Les jardiniers restaurent notre monde », Les Carnets de paysage n° 9, 2003.
184 H. DAVODEAU, « L’enjeu paysager, vecteur de l’appropriation de l’espace », Travaux et documents de l'Unité Mixte de Recherche
6590 (ESO), n°21, 2004, p.79-83.
185 S. SCHAMA, Le paysage et la mémoire, Paris, Seuil, (traduit de l’anglais par Josée Kamoun), édité en 1995 à New York), 1999.

245
Depuis que l’Etat français a fait des paysages et de son territoire, le patrimoine de la nation
(1995), la ruine et l’abandon d’un héritage visible posent question aux acteurs publics français. Par
exemple, l’abandon actuel, par leurs propriétaires, des talus plantés de hêtres qui protègent du vent les
bâtiments des « clos-masures » de Haute-Normandie, suscite des projets de conservation par l’Etat
(Direction régionale de l’environnement) et les communes concernées dans le cadre de ZPPAUP (zone
de protection du patrimoine architectural et urbain). N’est-ce-pas pour les ethnologues un bien
commun d’identité régionale à désigner comme tel et à conserver ? La menace d’une urbanisation ou
d’une exploitation industrielle (carrières alluviales) non contrôlable mobilise dans les régions
périurbaines d’Ile-de-France, l’outil juridique du classement de site, par exemple pour protéger les sites
des falaises de la Roche-Guyon dans la vallée de la Seine, ou bien ceux de la Bièvre et du val de Gally
près de Versailles.

Toutefois, dans de nombreux cas, c’est l’Etat lui-même qui déclenche des tensions, voire des
conflits avec les riverains des autoroutes et des centrales nucléaires qu’il aménage et installe. Dans le cas
d’une forte mobilisation sociale locale (consensus identitaire au sens de M.L. Rouquette), il peut y avoir
refus d’accepter « ces paysages » nouveaux, même si les protestataires y trouvent des intérêts (transport,
énergie). Il en est de même pour les collectivités qui veulent créer des incinérateurs d’ordures
ménagères, accueillir des déchets nucléaires, ou autoriser l’implantation d’éoliennes. « Nos paysages »
(ceux des groupes hostiles au changement) ne peuvent être modifiés sans « notre » assentiment,
position validée par le recours réglementaire aux enquêtes publiques et la circulaire du 1er mars 2007 aux
préfets. Il leur est demandé d’organiser une fois par an, « au titre de l’affirmation d’une politique
publique des paysages, une journée annuelle d’information et de concertation associant les principaux
acteurs du paysage ».

Les tensions et les conflits relatifs à l’espace sont, pour les géographes et les sociologues, les
moteurs normaux des changements géographiques et sociaux locaux, régionaux et mondiaux.
Ils ne doivent pas être évités, mais compris et reconnus par les acteurs sociaux. Dans de nombreux cas,
les partis en présence sortent du conflit les opposant entre eux et avec les acteurs publics. Le cas des
basses vallées angevines 186 est un cas d’école, aussi connu par les chercheurs en sciences sociales que
celui de la crise de la pêche des coquilles Saint-Jacques de la baie de Saint-Brieux dans les années 1970.

Dans la région urbaine inondable de la ville d’Angers (9 000 hectares), au début des années
1990, à la confluence de la Maine, de la Sarthe et de la Mayenne, l’extension des peupleraies privées de
rapport (50 hectares par an) menaçait les dernières prairies d’élevage, autant que les biotopes du râle des

D. MONTEMBAULT, « L’histoire comparée du Val d’Authion et de la Loire armoricaine en Anjou : pour comprendre la
186

nouvelle appropriation citadine des paysages ligériens », revue Norois n° 192, 2004, pp. 47-62.

246
genêts et les activités de loisirs des Angevins. Comment concilier les ambitions économiques des uns
(généralisation de la populiculture), les difficultés des éleveurs et la protection du bien commun menacé
(l’ornithofaune et les lieux diversifiés de promenade) ? C’est l’Etat, et principalement la Direction
départementale de l’agriculture avec les organisations agricoles (ADASEA) et la Ligue pour la
protection des oiseaux (LPO) qui a initié le processus de fabrication de nouvelles règles paysagères.
D’un côté, une zonation des extensions possibles des peupleraies a été approuvée, de l’autre des espaces
non ou peu plantés occupés par les activités d’élevage, de protection de la nature et de loisirs ont été
désignés dans les documents d’urbanisme locaux. Un nouveau produit, « presqu’un label », aujourd’hui
vendu sur les marchés locaux : « l’éleveur et l’oiseau », est issu de nouvelles pratiques extensives
d’exploitation des prairies, à fauche tardive, qui garantissent la nidification réussie de l’invisible oiseau
nommé râle des genêts. Les paysages des Basses vallées sont ainsi devenues des paysages communs aux
populiculteurs, aux éleveurs, aux naturalistes et aux promeneurs. Cette identité paysagère commune et
récente (nos paysages des basses vallées), et qui en pratique correspond à un partage consensuel (par
évidence acquise au sens de Rouquette) de l’espace, n’exclut pas une sociabilité plus forte entre acteurs,
mais ne l’induit pas nécessairement.
Pour la communauté d’agglomération d’Angers (Angers Métropole), qui s’est auto-proclamée «
ville durable », cette sortie de conflits, permettant la multifonctionnalité d’un espace convoité et
désormais identifié comme fragment de territoire urbain (les basses vallées, l’île Saint-Aubin), contribue
à l’image d’agglomération exemplaire vendue dans son marketing international, notamment au Japon.
Elle renforce son attractivité urbaine. Construits à la fois de manière « substantialiste » (top down) et
« procédurale » (bottom up), ces paysages, perçus comme naturels sont autant des éléments de l’identité
urbaine (nos Basses Vallées), que ceux des identités des producteurs de formes rurales et des
consommateurs de temps et d’espaces de loisirs de plein air. Ils peuvent donc être qualifiés de paysages
« soutenables » au sens où les scientifiques ont traduit ce slogan politique : à la fois économique,
environnemental, social et culturel. La situation locale n’en est pas pour autant paradisiaque et stable.

Conclusion

L’identité paysagère n’est qu’une composante de la construction sociale et culturelle des


paysages en tant que « partie des territoires perçue par les populations ». Elle est la partie sensible
(visible surtout) des espaces vécus qui est offerte au regard des hommes habitant et circulant. Pour cette
raison, comme dans le cas de l’identité vestimentaire, le sens du paysage exprime la manière dont il est
fabriqué et pensé, et pour qui. Les valeurs – économiques, écologiques, sociales, historiques, etc. – qui y
sont repérables sont autant de moyens de fabriquer des identités individuelles et sociales attachées à des
signes et à des fragments de territoire.

247
Ces identités sont ancrées dans les expériences humaines de l’espace concerné. Elles se
confondent souvent avec les faits d’y être né, de l’habiter, mais aussi de parler une langue commune, d’y
avoir des pratiques communes (pécher, chasser, cuisiner, jouer). Au-delà des limites spatiales des
territoires de chacun et des conflits sociaux et ethniques qui peuvent s’y nouer, la construction des
identités paysagères peut tisser de nouvelles relations entre ceux qui regardent et ceux qui produisent les
paysages.

Incluse dans les débats d’une gouvernance urbaine, la notion de paysage est à la fois une
matrice, un outil et un produit de politiques publiques : d’image, de patrimoine, de sécurité, de bien-être
collectif, de création ou de limitation d’espace public, etc. Les réponses peuvent être conservatrices,
mais aussi créatrices de nouveaux paysages partagés. Lorsqu’il y a conflit, elles peuvent déboucher sur
des trêves arbitrées par les pouvoirs publics, mais pas nécessairement sur une pacification définitive.

Enfin, les valeurs du développement durable sont aujourd’hui parties prenantes de la


production du sens commun des paysages qui s’y réfèrent, pour les acteurs publics comme pour les
acteurs privés et collectifs. En dépit des controverses qui concernent une notion très utopiste, mais
indispensable à l’action et à la pensée de l’action, l’idée de paysage durable peut, elle, être très réaliste.
Car elle dit à travers les paroles des protagonistes des actions, si l’éthique du soutenable est une
référence pour eux, et quelles résistances et adhésions sociales sont offertes à l’incitation publique à
mobiliser de « bonnes pratiques » de production des paysages, à les choisir, à les hiérarchiser, et in fine à
faire des territoires un cadre de vie habitable pensé ou non à l’échelle globale.

248
Bibliographie

A. BERQUE, Les raisons du paysage, de la Chine antique aux environnements de synthèse, Paris, Hazan, 1995, 192
p.
A. BERQUE – P. DONADIEU – Y. LUGINBÜHL – P. AUBRY – J.P. LE DANTEC – A. ROGER, Mouvance 2,
soixante-dix mots pour le paysage, Paris, éd. De la Villette, 2006.
E. BIGANDO, La sensibilité au paysage ordinaire des habitants de la grande périphérie bordelaise, Thèse de doctorat
en Géographie, Université de Bordeaux, 2006, 503 p.
H. BULLER, « La Countryside britannique : un espace symbolique », in Vers un rural postindustriel, Rural et
environnement dans huit pays européens (M. Jollivet édit.), Paris, L’Harmattan, 1997.
H. DAVODEAU, « L’enjeu paysager, vecteur de l’appropriation de l'espace », Travaux et documents de
l'Unité Mixte de Recherche 6590 (ESO), n°21, 2004, p. 79-83.
A. DECOVILLE, La forêt frontière de la ville ? Mise en perspective de deux villes rhénanes : Strasbourg et Karlsruhe.
Thèse de doctorat de l’Université L. Pasteur de Strasbourg, 2006, 400 p.
P. DONADIEU et al., « Les jardiniers restaurent notre monde », Les Carnets de paysage n° 9, 2003.
P. DONADIEU – E. MAZAS, Des mots de paysage et de jardin, Dijon, Educagri, 2002.
P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys, 2005a.
P. DONADIEU, « La construction de la ville-campagne, vers la production d’un bien commun
agriurbain », Colloque international de Turin « Creare paesaggi » organisé par l’ordre des architectes
italiens (« La costruzione della città-campagna, verso la produzione di un bene comune
agriurbano » in « In ogni modo » (C. Cassatella et F. Baglioni édit.), Firenze, Alinea, pp. 80-85, 2005b.
P. DONADIEU, « Les Bois parisiens », in Atlas de la nature, Paris, APUR, 2006.
P. DONADIEU, « Le Landscape urbanism en Europe : des friches industrielles au développement durable
urbain », Jola, n° 2, 2007.
P. DONADIEU – M. PERIGORD, Le paysage, entre natures et cultures, Paris, A. Colin, 2007, 124 p.
A. MATHIEU – Y. GUERMOND (édit.), La ville durable, du politique au scientifique, CEMAGREF,
CIRADIFREMER, INRA, 2005, 285 p.
D. MONTEMBAULT, « L’histoire comparée du Val d’Authion et de la Loire armoricaine en Anjou : pour
comprendre la nouvelle appropriation citadine des paysages ligériens », revue Norois n° 192, 2004,
pp. 47-62.
R. PETRELLA, Le bien commun. Eloge de la solidarité, Bruxelles, Labord, 1996.
S. SCHAMA, Le paysage et la mémoire, Paris, Seuil, (traduit de l’anglais par Josée Kamoun), édité en 1995 à
New York), 1999.
F. WALTER, Les figures paysagères de la nation, territoire et paysages en Europe (XVIe-XXe siècles), Paris, EHESS,
2004.

249
GIOVANNI BUZZI

LA DIMENSIONE ECONOMICA E SOCIALE DEL PAESAGGIO CULTURALE EXTRAURBANO

I nuovi paesaggi culturali extraurbani

Quando, provenendo da nord, si vola verso l’aeroporto di Malpensa, dopo aver superato l’arco
alpino si passa sopra la città diffusa che da Milano si espande sino ai piedi delle Alpi Meridionali, in
seguito si scende di quota sorvolando il Parco del Ticino e, infine, per atterrare, si ritorna verso nord
curvando sopra le risaie che si estendono in direzione del fiume Po. Questo percorso costituisce una
vera e propria sintesi dei quattro principali tipi di paesaggi culturali dell’Europa odierna.
Il paesaggio agro-pastorale tradizionale alpino – che dal Settecento in poi ha attratto milioni di
ammiratori e di turisti – conosce fenomeni di abbandono di differente intensità e carattere, fatta
eccezione dei centri del turismo invernale. In particolare, nelle aree alpine e prealpine situate lungo il
versante meridionale l’agricoltura ha subito un vero e proprio collasso e la popolazione è diminuita non
soltanto in termini relativi ma anche assoluti. Il paesaggio al di sotto del limite della vegetazione è
monopolizzato dal bosco che ha invaso campi, prati e ha già parzialmente inghiottito i maggenghi, le
stazioni intermedie delle migrazioni agro-pastorali alpine.
Il paesaggio urbano si dilata in tutte le direzioni, lungo gli assi stradali, con le sue strutture di
produzione, di servizio e d’abitazione, fagocitando i villaggi, i borghi e le città preesistenti. Milano e il
suo immediato hinterland ospitano 2,5 milioni di abitanti che generano 8 milioni di movimenti
giornalieri. La stragrande maggioranza della popolazione vive per gran parte dell’anno in paesaggi
artificiali divoratori di energia, produttori di enormi quantità di scarti urbani e induttori di inquinamenti.
Il paesaggio agrario moderno è in gran parte occupato dalle monoculture cerealicole (nel nostro caso
dal riso) o da quelle foraggiere per nutrire del bestiame allevato in vere e proprie fabbriche di animali.
Pur estendendosi su una superficie sempre di molto superiore di quella della città diffusa, questo
paesaggio agrario è gestito da una esigua minoranza di agricoltori. Le macchine e la chimica hanno
sostituito le migliaia di braccia un tempo chiamate a seminare e mondare le risaie, a raccogliere,
trasportare e commerciare il riso. Per aumentare le rese e ridurre il lavoro manuale anche l’agricoltura
moderna consuma grandi quantità di energia e induce inquinamenti talvolta più incisivi e duraturi di
quelli prodotti dalle città.
Nel paesaggio del parco si esercita lo sviluppo sostenibile, si tutelano la biodiversità, i paesaggi
naturali e quelli culturali tradizionali. Qui vive un esiguo numero di abitanti e – fortunatamente – i

250
fruitori di queste aree protette sono ancora una minoranza rispetto alla grande massa che si riversa nei
luoghi del turismo tradizionale.
Fatta eccezione dal paesaggio urbano della città diffusa, le tre categorie di paesaggi sopradescritti
fanno parte della grande famiglia dei paesaggi culturali extraurbani. Tra di essi e la città diffusa si sviluppa
un paesaggio periurbano in cui si mescolano insediamenti residenziali o produttivi e superfici agricole;
quest’ultime accolgono le più disparate attività produttive e del tempo libero oppure che giacciono
abbandonate.

La centralità dell’agricoltura nella formazione dei paesaggi extraurbani

„Die Landwirtschaft ist die wichtigste Kunstfertigkeit und der hauptsächliche Beruf unter aller weltlichen
Arbeiten. (Fra tutte le attività umane, l’agricoltura è l’arte più importante e la principale professione).” Così scriveva
nel 1774 Martin Schmid 187, un illuminista grigionese pieno di curiosità per il lavoro dei contadini-
pastori alpini. Effettivamente, la gran parte dei paesaggi culturali extraurbani è il prodotto delle
pratiche, delle tecniche, delle economie e delle politiche agricole, un’arte che per millenni ha modellato
e gestito l’ecumene creando quella varietà di paesaggi tradizionali che costituisce una delle principali
ricchezze culturali dell’Europa.
Chi si occupa di scienze del paesaggio, volente o nolente si vede confrontato con due
paradossi. Il primo paradosso è costituito dal fatto che la contemplazione colta del paesaggio è
un’invenzione della città che concerne solo marginalmente la campagna. Chi produce paesaggi non li
percepisce in primo luogo come opere d’arte ma soprattutto come oggetti utili da cui trarre di che
alimentarsi e/o un reddito. Il cittadino vorrebbe conservare quei paesaggi che hanno ispirato la
letteratura e le arti figurative – diventati in seguito attrazione turistica e persino veicolo pubblicitario –,
mentre per il contadino la libertà di trasformarli costituisce la principale garanzia di sopravivenza.
Il secondo paradosso è la generale assenza dai dibattiti, dalle conferenze, dai simposi e dalle pubblicazioni
dedicate ai paesaggi culturali extraurbani di coloro che questi paesaggi li gestiscono e li trasformano.
Che l’arte del contadino sia predestinata a non essere ammessa alla mensa del sapere? Eppure,
l’illuminista Martin Schmid non ha esitato a definire l’agricoltura l’arte più importante fra tutte le attività
umane.
Si potrebbe formulare allora la domanda precedente in modo diverso. Senza l’esperienza e il
coinvolgimento dei contadini o, almeno, delle scienze agronomiche, non arrischia la scienza dei
paesaggi di essere un sapere astratto, mutilato e impotente?

187 J. MATHIEU, Bauern und Bären. Eine Geschichte des Unterengadins von 1650-1800, Bozen, 1994.

251
Alcuni elementi determinanti della storia del paesaggio culturale nella dimensione economica
e sociale

Dall’antichità sino alla rivoluzione industriale, il 90% della popolazione abita nei territori
extraurbani. A ondate successive le città sono aumentate di numero e si sono diffuse dalle aree
subtropicali temperate fino a raggiungere il circolo polare artico. A questo proposito si ricordano la
colonizzazione fenicia, quella greca, quella romana, le numerosissime fondazioni di città in età alto
medievale e la colonizzazione tedesca dell’Europa Orientale che hanno potato alla nascita di quella che
Max Weber ha chiamato la Città Europea 188. Le dimensioni delle città preindustriali sono molto
modeste. Tra il 1700 e il 1800 il grado di urbanizzazione medio dei paesi dell’Europa Occidentale oscilla
tra il 9% e l’11%. Nel 1700, in Europa (senza la Russia) le città che superano i 20 mila abitanti sono
soltanto 130, 22 delle quali si trovavano in Italia. Dopo Londra e Parigi (con più di 500 mila abitanti) le
città più popolose sono Napoli, con 210 mila abitanti, e Amsterdam, con 150 mila abitanti 189. In questo
contesto demografico sostanzialmente stabile i paesaggi culturali si sono modificati molto lentamente
acquisendo però tratti distintivi molto marcati.
Alla fine del XX secolo, nelle società occidentali prendono il sopravvento le attività di servizio e
la tecnica. Le energie animate (cioè la forza degli uomini e degli animali) sono soppiantate dalle energie
inanimate (carbone, petrolio, atomo) facilmente e capillarmente distribuibili (elettricità). In Europa,
meno del 5% della popolazione vive oggi delle attività agricole. La società occidentale si è emancipata
dal lavoro della terra e non partecipa più direttamente a modellare il paesaggio.
Ma quali sono i tratti distintivi dell’agricoltura industriale e postindustriale? A questa domanda non è
sufficiente rispondere ricordando lo sviluppo delle pratiche, delle tecniche e delle politiche agricole.
Appaiono altrettanto determinanti i trasporti, le tecniche di conservazione degli alimenti e le mode
alimentari.
I primi fenomeni di globalizzazione dell’agricoltura sono già presenti in epoca romana ma sono
circoscritti entro i limiti dell’impero. Le radici di questo moderno fenomeno si possono far risalire alla
fondazione della Compagnia delle Indie. Ma, sino alla decadenza dell’Impero Britannico e rispetto
all’insieme dei paesaggi culturali tradizionali, i paesaggi extraeuropei destinati alle monoculture (per
esempio, del cotone, del te, del caffè, del tabacco, dell’oppio o delle spezie più svariate) occupano
superfici relativamente modeste anche se sovente determinanti per i destini di intere regioni. Ancora
prima dello sviluppo dei moderni mezzi di trasporto già si assiste a fenomeni di spostamento delle
pratiche monoculturali da un continente all’altro. Il cotone dal Medio Oriente viene trapiantato in

188 W. SIEBEL (a cura di), Die europäische Stadt, Frankfurt a. M., 2004.
189 P. BAIROCH, De Jérico à Mexico. Villes et économie dans l’histoire, Paris, Gallimard, 1985.

252
quelle aree del sud degli Stati Uniti che si affacciano sull’Atlantico e la produzione di caffè viene
trasferita dalla Penisola Araba al Centro e Sud America.
Alla fine dell’Ottocento, l’avvento delle ferrovie e dei bastimenti consente un enorme aumento
della quantità, della velocità e della sicurezza delle merci trasportate. Questi nuovi mezzi di trasporto
inducono le prime incisive quanto rapide trasformazioni dei paesaggi europei. Per esempio,
l’importazione per ferrovia di grandi quantità di cereali prodotti a buon mercato nell’Europa Orientale
trasforma l’Altopiano Svizzero da area cerealicola in area riservata alle attività di allevamento per la
produzione di latticini, in questo favorito anche dall’invenzione della cioccolata al latte e dalle migliori
rese del bestiame allevato in pianura rispetto a quello di montagna. Quasi contemporaneamente
l’importazione di grandi quantità di seta prodotta in Estremo Oriente è responsabile della scomparsa in
pochi decenni dei paesaggi promiscui del gelso che dominavano le campagne del Piemonte e della
Lombardia collinare prealpina.
Dopo la seconda guerra mondiale, la mobilità per via terra e per via mare conosce un secondo
grande balzo in avanti. Grazie alle tecniche di conservazione chimica (conservanti) e fisica
(refrigerazione, congelazione o messa sotto vuoto) si rendono possibili il trasporto a grande distanza e
l’immagazzinamento per periodi sempre più lunghi di tutte le derrate alimentari deperibili. Assieme alla
velocità, al basso costo dei trasporti e a queste nuove tecniche di conservazione, le pratiche di
produzione che consentono una quasi totale indipendenza dal clima e dalle stagioni (vedi le coltivazioni
hors-sol in serre asettiche) hanno indotto la delocalizzazione e l’estemporalizzazione di molti prodotti
dell’agricoltura. Presto si potranno mangiare durante tutto l’anno pomodori prodotti a basso costo a
ridosso del circolo polare artico grazie a serre riscaldate e illuminate artificialmente dall’energia naturale
dei geyser islandesi. La delocalizzazione assume proporzioni sempre maggiori anche a causa delle grandi
differenze sociali ed economiche tra gli stati occidentali e quelli in via di sviluppo. Per esempio, il 70%
del territorio necessario per coprire l’attuale fabbisogno svizzero di prodotti alimentari si trova al di
fuori dei confini nazionali, in gran parte in paesi oltre oceano 190. Si deve supporre che le altre nazioni
ricche dell’Europa Occidentale si trovino in una situazione del tutto analoga.
I veri architetti che modellano gran parte dei paesaggi culturali del mondo sono sempre di più
gli interessi del commercio mondiale e le multinazionali che producono, trasformano e distribuiscono le
derrate alimentari condizionando le economie e le politiche dei paesi esportatori e importatori di
prodotti agricoli.
La dimensione economica e sociale del paesaggio si trova confrontata con due paradossi. Il
primo paradosso è dato dal fatto che nelle aree del mondo in via di sviluppo e nel terzo mondo si
sottraggono grandi superfici necessarie all’alimentazione della popolazione locale mentre in Europa si

L. Würtenberger – C. Binder – T. Köllner, Nachhaltige Landwirtschaftspolitik macht an der Grenze nicht halt, in „Gaia“ 3-2004.
190

Nel calcolo citato non sono state considerate le superfici destinate alla coltivazione di piante tessili.

253
abbandonano tutte quelle produzioni e quei territori non più in grado di sostenere la concorrenza dei
prodotti alimentari importati da paesi poveri che producono a basso costo e/o dove non vigono leggi
di protezione dell’ambiente. La crisi dell’agricoltura e delle politiche agricole europee è anche una crisi
dei paesaggi culturali confrontati con il dilemma tra il loro sfruttamento intensivo, semi intensivo o il
loro abbandono.
Il secondo paradosso è la conseguenza del primo. Mentre la società e il mercato liberalizzati
pretendono dagli stati la rinuncia al protezionismo e ai sussidi a favore di un’agricoltura a cui si chiede
più rispetto per l’ambiente (costringendo così i contadini a scegliere pratiche produttive con impatti
ambientali sempre più incisivi e inquinanti), la medesima società investe risorse per tutelare vasti
santuari di paesaggi culturali tradizionali, comunque anch’essi esposti a buona parte delle immissioni
dannose prodotte sia dai paesaggi urbani, sia da quelli dell’agricoltura industriale.
A livello percettivo, e disastri naturali permettendo, per le società postindustriali la natura da
fenomeno onnipresente, onnipotente e imprevedibile è diventata fenomeno esotico, addomesticato,
puramente scenografico, e persino oggetto di speculazione (si veda la messa sotto brevetto delle
sementi, anche quelle non modificate geneticamente, o la privatizzazione delle risorse d’acqua potabile).

I tre scenari evolutivi proposti da Andreas Muhar


(Traduzione e sintesi della redazione)

Dieci anni fa, Andreas Muhar 191 – professore di ecologia e pianificazione del paesaggio presso
l’Università di Vienna – si chiedeva se “è sostenibile preservare e ricostruire i primi paesaggi conosciuti
dell’inizio dell’Ottocento facendo astrazione del contesto sociale che li ha prodotti?” Formulando
questa domanda Muhar ricordava che i paesaggi culturali tradizionali sono, in effetti, il prodotto “di una
collettività dove persistevano ancora i caratteri di una società feudale suddivisa in classi impermeabili e
dove per una minoranza di latifondisti laici e religiosi lavorava una maggioranza di servi della gleba alla
mercè di ricorrenti carestie e di mentalità patriarcali repressive. Questi paesaggi non erano tavole
imbandite bensì veri e propri campi di battaglia cruenti dove ognuno combatteva per la propria
sopravvivenza quotidiana.” L’autore concludeva che, per contro, “l’agricoltura è oggi confrontata con
problemi ben più gravi e il voler preservare dei paesaggi specchio di una società affamata e ingiusta” –
oltre ad essere “segno dell’ipertrofia di una società dello spreco” – non aiuta certamente a risolverli
visto che, in Europa, si stanno in effetti delineando due differenti e preoccupanti scenari:

191 A. MUHAR, Landschaft von gestern für die Kultur von Morgen, in „Topos“ 6-1994.

254
• Scenario 1: Il paesaggio del GATT
Con l’applicazione sistematica e definitiva degli accordi tariffali del GATT (General Agreement on
Tariffs and Trade – Accordo generale sulle tariffe e sul commercio, 1947-66) l’agricoltura
conoscerà un’ulteriore razionalizzazione e verrà concentrata sui terreni migliori. Si rinuncerà alle
colture promiscue (per esempio, l’allevamento combinato con le colture foraggiere e la
frutticoltura) a favore di monoculture intensive e sempre più specializzate. Le grandi aziende
agricole industrializzate saranno ancora affiancate da piccole aziende che operano nell’economia di
nicchia delle produzioni biologiche ma che non assumeranno mai rilevanza economica. Alcuni
paesaggi culturali tradizionali verranno eccezionalmente mantenuti come scenografie richieste
dall’economia del tempo libero. Ma soltanto i più redditizi centri turistici saranno in grado di
finanziare la gestione di questi paesaggi-museo. Assieme alle aziende di media grandezza, gran
parte delle aree dell’arco alpino dovranno, invece, essere abbandonate.
• Scenario 2: Il paesaggio della protezione naturalistica
Gli attuali sussidi all’agricoltura di mercato saranno convertiti in premi ecologici conformi alle
direttive del GATT con lo scopo di mantenere un minimo di popolazione agricola chiamata a
curare i paesaggi culturali. La protezione della natura diventerà un importante fattore economico,
sociale e di politica agraria. Il territorio extra urbano si presenterà come una scacchiera di aziende
agricole a produzione intensiva (che si occupano della produzione di derrate alimentari per i
consumi di massa) inframmezzate da aree protette ai fini ecologici (diversità biologica, protezione
contro l’erosione e il degrado dei suoli, ecc.), che offrono derrate alimentari biologiche di nicchia
ma il cui prodotto principale è in effetti il paesaggio stesso. In questo caso non si potrà comunque
ottenere una diminuzione sensibile del fabbisogno energetico e neppure delle immissioni nocive
dovute prodotti utilizzati per la massimizzazione delle rese (concimi, pesticidi, insetticidi).
Dopo aver constatato che:
• oggi più nessuno misconosce il fatto che i sistemi industriali di produzione agricola richiedono un
enorme dispendio di energie non rinnovabili e conducono a un degrado dei suoli, dell’aria e
dell’acqua non più illimitatamente espandibile,
• che questo significa spostare la discussione sulla preservazione dei paesaggi culturali dal
mantenimento delle forme storiche alle risposte da dare agli attuali problemi di equiliobrio
ecologico e di sviluppo sostenibile.
Andreas Muhar concludeva proponendo che sarebbe “auspicabile che i paesaggi culturali del
futuro diventino quelli dove i sistemi di produzione potranno avvalersi di un minimo di risorse
(finanziarie, energetiche, tecniche) e dove dovranno essere presi in considerazione, ossia internalizzati,
anche i costi esterni dovuti ai processi di trasformazione, di conservazione e di trasporto delle derrate
alimentari come pure di eliminazione dei materiali di imballaggio. In questo contesto lo sguardo dello

255
storico non servirà tanto a ricostruire i paesaggi culturali tradizionali bensì a recuperare quelle
conoscenze perdute che hanno permesso ai nostri antenati di ottimizzare il rapporto tra lavoro e
prodotto facendo capo ai nuovi mezzi tecnici, all’energia solare o ad altre fonti energetiche rinnovabili.
Il paesaggio dovrebbe trasformarsi da specchio di sfruttamento insensato della natura e degli uomini da
parte di altri uomini in un sistema economico circolare riproducibile. (Eine Landschaft, die nicht
Spiegelbild der Ausbeutung von Natur und Menschen durch die Menschen ist, sondern sich and den
Prinzip der Kreislaufwirtschaft orientiert).”
Purtroppo, questo progetto di “paesaggio giusto specchio di una società giusta schizzato da Muhar
si trova confrontato con una collettività dove predomina una mentalità a tal punto nichilista da farci
credere che solo adottando, in maniera metodica, e su ampia scala, il principio del consumo e della
distruzione degli oggetti, possiamo garantirci identità, stato sociale, esercizio della libertà e
benessere” 192.

Due proposte operative

L’esempio austriaco
Agli inizi degli anni Novanta, l’Austria ha dato inizio a un vasto progetto nazionale di ricerca sui
paesaggi culturali (KLF – Kulturlandschaftsforschung). Nella prima fase di realizzazione del programma
(1992-1998) la ricerca si è concentrata sul tema dell’interdisciplinarietà mentre nella seconda fase,
ancora in corso, si è scelto come tema centrale l’elaborazione di linee guida dello sviluppo sostenibile.
“Il programma di ricerca KLF si è dato tre obiettivi programmatici: la riduzione sostanziale
delle immissioni di origine antropica, l’ottimizzazione del rapporto tra biodiversità e qualità di vita e la
promozione di alternative di sviluppo delle dinamiche di trasformazione dei paesaggi culturali.
Le novità della proposta austriaca sono individuabili nei due principali obiettivi del programma,
in particolare l’interdisciplinarietà della ricerca (approccio olistico) e la transdisciplinarietà della sua
applicazione da intendere come dialogo continuo tra scienza e società, tra conoscenza e pratica.
Oltre a questi aspetti, anche in Austria rimane sempre prioritaria la preoccupazione di tutti i
paesi alpini di contenere per mezzo di incentivi pubblici l’emigrazione della popolazione dalle valli e il
conseguente abbandono dei paesaggi culturali. Inoltre, la biodiversità - che è un dato oggettivo
misurabile - viene messa a confronto con la qualità di vita, quest’ultima molto più difficilmente
decifrabile.”

192 U. GALIMBERTI, I vizi capitali e i nuovi vizi, Feltrinelli, Milano, 2005.

256
L’esempio svizzero
La Scuola universitaria professionale di Rapperswil e il Service Romand de Vulgarisation Agricole
hanno proposto lo strumento della Concezione dell’evoluzione del paesaggio (CEP) inteso come
dispositivo metodologico per progettare e gestire un’evoluzione sostenibile del paesaggio.
La CEP non propone però un metodo standard ma delle procedure adattabili alle più disparate
situazioni con l’obiettivo di elaborare un progetto di massima (esquisse) dell’evoluzione di un
determinato paesaggio culturale ai fini della sua utilizzazione durevole e della sua valorizzazione
ecologica ed estetica. L’elaborazione di una CEP è anzitutto un processo partecipativo che intende
coinvolgere tutti quegli attori che utilizzano un determinato paesaggio (per esempio, i contadini), che
applicano le leggi che regolamentano queste utilizzazioni (per esempio, i funzionari comunali e
cantonali) o che usufruiscono del medesimo paesaggio passivamente (per esempio, i turisti e gli
abitanti). Per favorire il successo di una Concezione dell’Evoluzione del Paesaggio e dei suoi obiettivi
tutti gli attori coinvolti devono in tutti i casi condividere una visione olistica del paesaggio pur avendo
coscienza del fatto che ogni paesaggio è indissociabile dalla percezione individuale di chi lo utilizza e da
quella di chi lo contempla.
Un progetto CEP non implica costrizioni di carattere giuridico, non deve dunque sottostare alle
procedure politico-amministrative spesso lente e complicate. In questo modo si possono individuare
soluzioni partendo da premesse scientifiche e tecniche libere dalle costrizioni della loro immediata
fattibilità e da quelle di regole amministrative sovente obsolete o troppo settoriali.
I progetti CEP possono nascere per motivi contingenti e interessare piccole o grandi porzioni di
paesaggi: la correzione di un corso d’acqua, la revisione di un piano regolatore, un gruppo di agricoltori
che vuole coordinare i contributi di compensazione ecologica, un progetto di bonifica fondiaria, un
ente turistico che intende migliorare l’immagine di una località applicando il principio della sostenibilità
economica, un servizio forestale che deve organizzare delle piantagioni protettrici, un’associazione
naturalista che intende valorizzare ecologicamente un paesaggio degradato, ecc.

Conclusioni

Il modello ideale di carattere sociale ed economico proposto da Muhar, l’approccio


primariamente scientifico del modello austriaco e quello più pragmatico del modello svizzero hanno in
comune la visione olistica dei problemi del paesaggio e come obiettivo la promozione di alternative alle attuali
dinamiche di trasformazione dei paesaggi culturali tradizionali e di quelli moderni.

257
Nell’utilizzazione attiva e passiva dei paesaggi, la sostenibilità dovrebbe prevalere sulla
produttività mentre gli obiettivi di carattere estetico-formale dovrebbero armonizzare con quelli di
carattere etico-funzionale.
Le politiche di pianificazione e di gestione dei paesaggi extraurbani – soprattutto le politiche
agricole – dovrebbero mirare al superamento della generale tendenza alla selezione dei paesaggi in buoni e
belli da contemplare (le aree naturalistiche protette e i parchi) e in cattivi e brutti per produrre (le aree forestali,
agricole e quelle costruite). In altre parole, in futuro non si dovrebbe aver più bisogno di paesaggi
protetti come antidoto alla cattiva coscienza di tanti disastri ecologici e sociali.
Sin tanto che il buon governo non sarà riuscito a trasferirsi dal Palazzo Comunale di Siena al
Palazzo di Vetro di New-York rimangono comunque ampliamente irrisolti i paradossi di una società e
di una politica internazionale sostanzialmente contraddittori, se non proprio ambigui.

258
PIERRE DONADIEU

LE LANDSCAPE URBANISM EST-IL UN NOUVEAU MODELE DE PRATIQUES PAYSAGISTES ?

Dans les années 1990, l’architecte paysagiste allemand Peter Latz est intervenu à la demande des
pouvoirs urbains de Duisbourg sur des sites abandonnés par l’industrie sidérurgique. L’un d’entre eux
ne sera pas détruit, mais conservé à l’état de ruines. Le public est aujourd’hui invité à visiter les anciens
hauts-fourneaux, reconquis en partie par une végétation spontanée de bouleaux. En dix ans, l’usine est
devenue un lieu de mémoire autant qu’un site de tourisme industriel. Depuis cette date, cette réalisation
est devenue emblématique pour la plupart des théoriciens anglophones de l’aménagement de l’espace,
qu’ils écrivent dans le cadre du landscape urbanism 193 ou dans celui de l’architecture du paysage 194.
Pour expliquer la diffusion de l’expression landscape urbanism en Europe comme en Amérique du
Nord depuis une dizaine d’années, on peut faire l’hypothèse que ces nouvelles pratiques ainsi nommées
ont été et sont toujours une réponse à deux grandes questions posées depuis trente ans, d’une part aux
architectes et aux urbanistes, d’autre part aux architectes paysagistes. La première concerne le devenir
des paysages postindustriels et l’autre les nouvelles manières de fabriquer les villes et leurs paysages en
les inscrivant dans les valeurs du développement « soutenable ».
Ces questions récurrentes dans la plupart des pays occidentaux concernés par le déclin des
industries lourdes depuis trente ans a amené les enseignants de certaines écoles d’architectes,
d’urbanisme (urban design) et d’architecture du paysage (landscape architecture) à renouveler leurs
formations professionnelles 195. Un nouveau champ de pratiques et d’enseignement a été nommé
landscape urbanism à la fin des années 90 aux Etats-Unis. Dans d’autres pays comme la France, ce
néologisme n’apparaît pas, mais il semble bien que les pratiques professionnelles et de formation des
écoles d’architecture du paysage, notamment à Versailles, aient évolué très tôt dans un sens comparable
à certaines écoles américaines et anglaises d’architecture et d’urbanisme. Peut-on affirmer aujourd’hui
qu’un même modèle de pratiques a inspiré les professionnels du paysage (au sens large) de part et
d’autre de l’Atlantique ? Ce thème peut être étudié à partir de nombreuses publications au cours de ces
huit dernières années 196.

193 K. SHANNON, « From theory to resistance : landscape urbanism en Europe », in The Landscape Urbanism Reader (édit. C.
WALDHEIM), 2006.
194 S. HERRINGTON, « Framed again : The Picturesque Aesthetics of Contemporary Landscapes ». Landscape Journal 25 : 1-06,

2006. Cet article a en commun avec le précédent le parc nord de Duisburg par Peter Latz et le parc sidérurgique de Caen par
Dominique Perrault.
195 Ce renouvellement de la pédagogie date en pratique à l’Ecole nationale supérieure du paysage de Versailles de 1985, date

à laquelle l’architecte paysagiste Michel Corajoud a pris la direction pédagogique de l’établissement. Dès cette époque, les
principes des théories et pratiques qui allaient ensuite être nommés Landscape urbanism étaient enseignés.
196
Notamment : J. CORNER (ed.), Recovering Landscapes : Essay in Contemporary Landscape Architecture, New York, Princetal
Architectural Press, 1999. M. MOSTAFAVI – N. CIRO (eds.), Landscape Urbanism : A Manual For The Machinic Landscape,

259
1. – Le Landscape urbanism : une forme de gestion des paysages postindustriels
Les origines de l’expression
L’idée de créer une nouvelle expression « landscape urbanism » est née à Chicago en 1997 dans le
département d’architecture de l’université de l’Illinois. L’architecte Charles Waldheim a inventé pour les
étudiants en architecture une formation qui porte ce nom. Elle est définie, au début, comme « une
branche de l’écologie du paysage qui s’intéresse aux espaces urbains abandonnés par l’industrie » 197. En
Europe comme aux Etats-Unis, des réponses partielles avaient été déjà apportées à cette question
importante d’aménagement urbain et périurbain. En 1975, Richard Haag avait parmi les premiers
retenu l’idée de créer des lieux de mémoire industrielle en créant le « Gaz works park » à Seattle 198. Peter
Latz, 20 ans plus tard, avait créé selon le même principe le Park Nord à Duisbourg le long de la rivière
Emscher en y apportant des notes écologiques (le respect des dynamiques végétales de reconquête
spontanée du site) et artistiques.
Dans un article récent, Kelly Shannon fait références à d’autres théoriciens et philosophes pour
expliquer l’émergence de cette idée. Au théoricien américain Kenneth Frampton qui a développé en
1983, à partir des thèses du philosophe français Paul Ricœur la notion de « Régionalisme critique » 199.
Pour résister à l’homogénéisation technique de la civilisation technologique mondiale, il suggère de
s’appuyer sur les caractères des sites et du (génie) des lieux à aménager. Au philosophe français
Sébastien Marot 200, qui a forgé en 1995 la notion de suburbanisme (à la fois méthode de planification et
d’expérimentation, et champ théorique et critique de l’urbanisme) et en a désigné l’opérateur principal
l’architecte paysagiste, qu’il situe curieusement entre le urban designer et la « paysannerie agraire ». Il
indique que le concepteur paysagiste doit fonder ses projets d’abord sur la géographie et la mémoire du
site, et faire valoir toutes ses potentialités dans la négociation avec les commanditaires pour produire
l’espace public urbain et périurbain. À l’urbaniste belge Marcel Smet (2002), des concepts de paysage
permettent de travailler avec les incertitudes du développement des territoires. Si ces travaux tentent de
promouvoir l’idée de paysage urbain (urban landscape) et du paysage comme outil de l’aménagement, il ne
semble pas qu’ils aient donné un sens explicite à la notion de Landscape urbanism qu’ils n’utilisent pas.
Au début des années 2000, une autre interprétation du landscape urbanism est donnée par
l’architecte américain Ignacy Bunster-Ossa. Il considère que cette expression désigne un mode
écologique ou soutenable (au sens du sustainable development) d’aménagement des espaces ouverts aux

London : AA Publications, 2003 et C. WALDHEIM (ed.), The Landscape Urbanism Reader, Princeton Architectural Press, Jul
2006.
197 G. SHANE, « The emergence of landscape urbanism, reflexion on Stalking Detroit », Harvard Design Magazin, 2003-2004,

n° 19.
198 P. NICOLIN – F. REPISTHI, Dictionnary of today’s landscape designers, Milano, Skira, 2003.
199 K. FRAMPTON, « Towards a Critical regionalism. Six Points for an Architecture of Resistance », in Hal Foster (ed.), The

Anti-Aesthetic essays on Postmodern Culture, Seattle, Bay Press, 1983.


200 S. MAROT, « L’alternative du paysage », Le Visiteur,1995, p. 54-77 et Sub-urbanism and the art of memory. London, AA

Publications, 2003.

260
usages urbains. Dans ses textes et ses projets, il inclut dans cette notion le recyclage et l’épuration des
eaux urbaines de surface, les techniques d’économie d’énergie dans les bâtiments, l’utilisation jugée
bénéfique du végétal sur les toits et les façades, les mesures d’enrichissement floristique et faunistique
du milieu urbain, et la conservation des agricultures, des jardinages et des boisements urbains 201. « The
objective is to create a seamless green urban fabric fusion, rather than division, is the order ». Dans ce projet
conforme aux valeurs écologiques et sociales du développement durable et des agendas 21 de la
conférence de Rio-de-Janeiro en 1992, tout l’espace de la ville, construit ou non, est concerné. Le
landscape urbanism ne se limite plus aux espaces postindustriels. Il planifie le « vert » des espaces ouverts
dans la ville et le met pratiquement en oeuvre sous la forme d’une architecture et d’un urbanisme
écologique 202. Ne doit-on pas chercher des raisons plus complexes à l’apparition de la notion de
Landscape urbanism ? Doit-on limiter ces raisons à une alternative rationnelle – sitologique et écologique
– à la « tabula rasa » des architectes et des urbanistes ?

Les sources du landscape urbanism


La première semble être les concepts et méthodes de la Landscape ecology (discipline issue de la
Geoökologie et de la Landschaftsökologie), terme inventée en 1938 par le géographe allemand de l’est Carl
Troll 203. En République Démocratique Allemande, la finalité planificatrice de ces travaux, sociale autant
que politique, était de rationaliser les rapports matériels entre activités sociales, économiques et
environnement naturel. En fait, les éléments biologiques, pas plus que la dimension subjective n’y
avaient une grande place 204. Les dimensions écologiques, en revanche, sont devenues plus explicites
dans les travaux de l’architecte paysagiste américain Ian Mac Harg. Son ouvrage de 1969 Design with
nature qui sera traduit en français en 1979 (Composer avec la nature) induira le courant anglo-saxon de
planification écologique. Mais il faudra attendre la fin des années 1980 pour constater dans les travaux
franco-américains de Richard Forman et Michael Godron l’apparition d’une véritable science
écobiologique travaillant à l’échelle du paysage avec des concepts originaux (connectivité, matrice,
corridors, etc.) 205.
La seconde source, issue de la pensée et de la culture de l’architecture et de l’architecture du
paysage, mais aussi des positions politiques des maîtres d’ouvrage publics, reprend l’idée de la
reconversion des sites industriels abandonnés, soit pour en faire des lieux de mémoire, soit pour les
réaffecter, avec ou sans conservation des bâtiments, à d’autres usages économiques, sociaux et culturels.

201 I. BUNSTER-OSSA, « Landscape urbanism », Urband land, Juillet 2001.


202 Qui correspond à l’application en France des normes de haute Qualité Environnementale, mais aussi à des pratiques
originales à références vernaculaires (architecture en terre, architecture en bois, etc.).
203 C. TROLL, Landscape ecology, Pub. Unesco, Delft, 1966.
204 G. ROUGERIE – N. BEROUTCHACHIVILI, Géosystèmes et paysages, Colin, 1991, p. 72.
205 R.T.T. FORMAN – M. GODRON, Landscape ecology, New York, John Wiley and sons, 1986.

261
À Paris par exemple, à l’initiative de l’Etat comme de la ville, de nombreux parcs ont été ainsi créés sur
l’emplacement d’anciens abattoirs (le parc de La Villette, le parc Georges Brassens) ou d’anciennes
usines et entrepôts (le parc André Citroën, le parc de Bercy). Dans tous ces cas (sauf celui de A.
Citroën), l’aménagement a gardé la mémoire matérielle du patrimoine architectural des anciennes halles
(La Villette, G. Brassens) ou des chais (Bercy). Ils se sont inscrits dans les théories émergentes du
Landscape Urbanism en affirmant des relations explicites au site et à son histoire 206.
La troisième source nous paraît être celle de l’abondant débat philosophique et épistémologique
sur le paysage depuis les années 1980. Les conditions de l’usage de la notion de paysage ont depuis cette
époque fait l’objet d’interminables controverses entre spécialistes de différentes disciplines. Alors que
les théoriciens anglosaxons cherchaient à sortir du seul paradigme de l’écologie, en lui opposant des
postures culturalistes et professionnelles, historiennes et géographiques 207, les spécialistes français, sans
concertation apparente avec leurs collègues d’Europe ou d’Amérique du Nord, prenaient une voie
comparable avec les travaux des paysagistes Michel Corajoud, Bernard Lassus et Gilles Clément, du
philosophe Alain Roger, de l’historien Jean-Pierre Le Dantec et des géographes Augustin Berque et
Yves Luginbühl 208. En Allemagne, les positions théoriques du philosophe Joachim Ritter 209 et en France
d’Aaugustin Berque ont convergé pour expliquer l’intérêt actuel de la notion de paysage. La
conséquence du dualisme occidental moderne, qui sépare le sujet connaissant de la nature à connaître et
à maîtriser, est la nécessité d’avoir recours à la notion de paysage pour reconstruire les relations des
hommes à l’espace et à la nature rompues par la rationalisation moderne. L’usage du mot paysage n’est
plus alors défini seulement dans les champs géographique, historique, sociologique ou écologique mais
aussi dans celui de l’anthropologie humaine et culturelle 210. Dans ce dernier champ, le sens du terme
paysage est également expliqué par les distinctions que l’anthropologue Philippe Descola fait entre les
sociétés naturalistes – celles de culture occidentale (à paysages au sens de A. Berque) – et les autres
(animistes, totémistes et analogistes) sans paysage.

Figures du landscape urbanism dans l’architecture du paysage


Les quatre origines, écologistes, architecturales, paysagistes et épistémologiques du landscape
urbanism se retrouvent selon des dosages variables dans les théories et pratiques des architectes
paysagistes contemporains.

206 H. SOULIER, La friche urbaine : déchet ou ressource ? Thèse de doctorat en architecture de l’Université Paris 8, 2006, 349 p. et
annexes. Il est notable que cette thèse n’évoque pas la notion de landscape urbanism alors qu’elle en développe largement les
principes.
207 M.O. CONZEN, (édit.), The making of the american landscape, New York : Routeledge, 1994.
208 A. BERQUE (édit.), Mouvance, cinquante mots pour le paysage, Paris : éd. De la Villette, 1999.
209 J. RITTER, « Zur funktion des Ästhétishen in der modernen gesellschaft », in : Schriften zur förderung der westfälischen Wilhem

universität, Heft 54, Münster, 1979. Cité par D. Ipsen et H. Weichler, Landscape urbanism.
210 P. DESCOLA, Au-delà de nature et culture, Paris, Gallimard, 2005, 628 p.

262
Dans les travaux de l’architecte paysagiste américain James Corner, qui a succédé à Ian Mac
Harg à l’université de Pennsylvanie, l’urbanisme paysagiste prépare l’espace ouvert urbain à de
nouvelles activités connues ou inconnues. Reprenant les idées de Charles Waldheim, il définit trois
étapes du processus de reconquête du site industriel abandonné : d’abord la déconnection matérielle du
site de la ville, la démolition des usines, puis la révégétalisation naturelle (dynamiques végétales
spontanées) ou artificielle (plantations) du site. Celle-ci permet ensuite de réimplanter dans la matrice
végétale obtenue les activités économiques, résidentielles ou environnementales qui sont jugées
opportunes. Leur arrêt entraînera ensuite le même scénario qui fait alterner dans le même espace
processus écologiques et processus socioéconomiques. Ce type de pratique intègre l’incertitude relative
à l’arrivée et à la durée des implantations humaines. Il prévoit de détruire un paysage condamné quand
sa rentabilité économique ou ses usages sociaux disparaissent, puis d’attendre le retour d’une
implantation en végétalisant le site vacant.
En France, ce modèle est connu chez les paysagistes depuis les années 1980 sous la forme du
préverdissement des sites industriels abandonnés. Nombreux sont aujourd’hui les paysagistes français
qui ont été sollicités par les pouvoirs publics pour intervenir sur les friches industrielles. Invité par
l’Établissement public de la métropole Lorraine, le paysagiste Jacques Sgard a été appelé pour « mettre
en place une trame verte structurante accompagnée d’une démarche d’urbanisme » 211 selon les
techniques de végétalisation mises au point par l’Institut de développement forestier 212 et développées
par l’ingénieur horticole Jean-Claude Hardy. Le but à Hagondange, Villerupt, Homécourt-Jœuf,
Micheville et Pompey, où le naufrage de la sidérurgie lorraine était visible, était de « réaliser des plans
d’urbanisme avec une trame végétalisée structurante, mais dont la contrainte ne soit pas trop forte pour
préserver une certaine souplesse d’usage ultérieur » 213. À Villerupt, la mémoire de la mine reste
aujourd’hui visible sous la forme de murs de soutènement qui donnent au site une allure de « forteresse
à la Vauban » et les fronts de taille sont colonisés par les bouleaux et les saules ; le cirque de l’ancienne
mine de fer à ciel ouvert était il y dix ans le cadre d’un festival du film italien.
Les mêmes idées ont été reprises ensuite par les jeunes paysagistes français élèves de Jacques
Sgard. Parmi eux, Michel Desvignes et Christine Dalnoky ont réalisé la plantation forestière de friches
industrielles du site du dôme du Millenium à Londres, en tant que « nature intermédiaire » destinée
ensuite à accueillir des quartiers résidentiels. C’est la même idée que Michel Desvignes et François
Grether ont utilisé pour intervenir sur la zone d’abandon industriel à la confluence entre la Saône et le
Rhône à Lyon. À Londres, ils donnaient de cette notion la définition suivante : « Un environnement
vivant à une échelle géographique, qui procure des qualités à un territoire pour composer avec elles plus
tard ». Leur projet prévoyait d’envahir le site aux sols pollués avec des végétations arborées plantées.

211 A. VIGNY, Jacques Sgard, paysagiste et urbaniste, Liège, Mardaga, 1995.


212 C. GUINAUDEAU, Planter aujourd’hui, bâtir demain, le préverdissement, Paris, IDF, 1987.
213 A. VIGNY, op. cit., p. 91.

263
12 000 arbres ont ainsi été mis en place pour créer un paysage forestier qui devait évoquer la
forêt alluviale qui aurait pu spontanément se mettre en place sur les rives de la Tamise. Selon leurs
propres termes, ils ont cherché à définir une « esthétique de la transformation » 214.
Dans tous ces cas la notion d’« urbanisme paysagiste » qui n’est pas encore inventée
formellement (l’expression n’existe pas en France) n’est pas utilisée. Pour désigner ces pratiques
apparues avec la création du Centre national d’études et de recherches du paysage (CNERP) de Trappes
près de Versailles (1972-1978), c’est l’expression de « paysagiste d’aménagement » qui se substitue
parfois à celle d’architecte paysagiste. Elle distingue ceux qui, comme le pionnier Jacques Sgard, ont
réalisé des plans de paysage à l’échelle de très vastes territoires ruraux ou urbains autant que des actions
opérationnelles locales.
D’autres exemples sont souvent cités en Europe : celui de la création d’un parc sur un vieux site
sidérurgique à Caen par l’architecte Dominique Perrault 215, les boulevards périphériques de Barcelone
par l’équipe de Bernardo de Sola 216. Beaucoup d’autres réalisations pourraient être ajoutées dans la
mesure où elles témoignent de projets – d’architectures, de villes, de quartiers, de jardins,
d’infrastructures – qui s’incorporent au site existant, à son écologie et à son histoire et apportent du
bien-être aux habitants. D’une manière plus générale, le savoir-faire paysagiste, est apparu nécessaire à
la fabrication de la ville, comme l’analyse l’urbaniste française Ariella Masboungi dans son ouvrage
Penser la ville par le paysage 217.
Enfin, il existe en France une dernière pratique qui pourrait relever de l’urbanisme paysagiste,
dans sa phase gestionnaire de l’espace public produit par les concepteurs. Il s’agit de ce que les
techniciens des espaces verts des villes appellent la gestion différenciée (ou gestion écologique ou
harmonique). Inspirée de l’exemple de quelques villes des Pays-Bas, d’Allemagne et de Suisse, cette
pratique, expérimentée en France dans les années 1980 à Rennes et Orléans, et par quelques architectes
paysagistes (Gilbert Samel, Gilles Clément) vise à réduire l’usage des pesticides et des engrais autant
qu’à diversifier les formes des espaces verts publics (des plus horticoles aux plus naturels) 218. Elle a été
reprise dans le cadre du développement durable urbain et de l’application de la norme Iso 14 001.
En résumé, le Landscape urbanism désigne les « bonnes pratiques » de l’aménagement de l’espace
qui répondent autant aux commandes des pouvoirs des collectivités publiques, qu’à la demande de
qualité du cadre de vie des habitants d’une ville ou d’un quartier. Les praticiens, à la demande des
pouvoirs publics, contribuent ainsi autant à produire des nouveaux paysages urbains que l’infrastructure

214
M. HUGLIEZ, « Michel Desvignes et Christine Dalnoky », in Créateurs de jardins et de paysages (M. Racine édit.), Versailles,
ENSP/Actes Sud, 2002, p. 338. Voir aussi C. DALNOKY – M. DESVIGNES, “Pixel d’arbres pour Greenwich”, in Pages
Paysages n° 7, 1998-99.
215 K. SHANNON, op. cit. ; S. HERRINGTON, op. cit.
216
K. SHANNON, op. cit.
217 A. MASBOUNGI (édit.), Penser la ville par le paysage, Paris, ed. de la Villette, 2002.
218 G. AGGERI, La nature sauvage et champêtre dans les villes : origine et construction de la gestion différenciée des espaces verts et publics. Le

cas de la ville de Montpellier, Thèse de doctorat en sciences de l’environnement de l’ENGREF/ENSP, 2004, 323 p.

264
verte publique de l’espace urbain et périurbain de la collectivité qui les déterminent en partie. Cette
infrastructure verte et aquatique est engendrée par des processus écologiques spontanées (successions
écologiques) ou techniques (plantations, végétalisation aidée). Elle préserve des signes de mémoire de
l’activité économique disparue, met en scène le site et la ville pour ses usagers, et pour une grande partie
reste accessible aux publics citadins, voire aux touristes. Potentiellement, car réversible, l’infrastructure
verte et ses paysages sont destinés à accueillir de nouvelles activités économiques et sociales.
La notion de paysage est devenu alors un outil de fabrication de la ville autant qu’une finalité de
l’aménagement dans la mesure où elle place les hommes, et notamment les citadins, au centre de la
fabrication urbaine. Cette position est celle de la culture professionnelle des architectes paysagistes
depuis que ce métier existe et que le jardin en a été le laboratoire et la matrice de pensée. Elle est
nouvelle pour les urbanistes fonctionnalistes qui rejoignent ainsi les positions des urbanistes et des
historiens de l’urbanisme dits culturalistes par Françoise Choay 219. Cette posture est-elle applicable aux
territoires périurbains ?

2 – L’urbanisme paysagiste est-il aussi une forme de gestion des paysages péri urbains post
agricoles ?
Les espaces ouverts des régions urbaines comportent selon les villes une part très variable
d’espaces agricoles et non agricoles qui dépend de la nature des paysages périurbains. La ceinture verte
de la région parisienne comporte autant de boisements que d’espaces agricoles. Les périphéries de
Toulouse et Milan sont essentiellement agricoles, et celle de Londres est à dominante boisée. En
Europe, le changement de politique européenne agricole en 2006 va peut-être modifier le
comportement des agriculteurs. En France, la diminution incessante du nombre d’agriculteurs (bientôt
moins de 450 000) se traduit souvent par l’agrandissement des exploitations agricoles, mais l’abandon
des parcelles et des fermes est un phénomène constant dans tous les espaces où l’agriculture ne
rassemble pas les conditions de sa compétitivité (dans les montagnes, les zones humides et les régions
périurbaines notamment). L’abandon des activités agricoles peut-il être compris de la même façon que
les friches industrielles et interprété selon les mêmes principes du landscape urbanism analysés
auparavant ?
Les théories du landscape urbanisme n’abordent la question des relations entre l’agriculture et la
ville que sous un angle métaphorique. En citant de manière récurrente la contribution de Rem Koolhas
au projet de Melun-Senart en 1987 (un archipel d’îles urbaines dans un océan agricole), les
commentateurs soulignent le rôle souhaitable de l’activité agricole dans la « faible urbanisation », ce que
Bernard Secchi appelle la « citta diffusa » 220, Paola Vigano la « ville dispersée » 221, Yves Chalas « la ville-

219 F. CHOAY, « Doctrines et théories d’urbanisme non progressistes », Histoire de la France urbaine, Vol. 4, La ville de l’âge
industriel, Paris, Le Seuil, 1983, pp. 252-255.
220 B. SECCHI, Prima lezione di urbanistica, Rome, Bari, Laterza, 2000.

265
campagne ou la ville-nature » 222 et Pierre Donadieu « la campagne urbaine » 223. Dans ces visions de la
ville avec ce qui traditionnellement n’en fait pas partie (la ruralité), il est fréquent que les producteurs de
boisements comme d’agricultures n’existent pas aux yeux des experts de la ville. Ces projets supposent
en effet des acteurs agricoles permanents, ce qui n’est pas toujours le cas.

Un urbanisme paysagiste agricole existe déjà


Il apparaît sous deux formes : les fermes pédagogiques et les agricultures de plaisance (hobby
farming, community gardens). A Duisbourg, à côté du parc Nord créé par Peter Latz, une ferme
pédagogique a été créée par la ville sur le site industriel ancien. Elle réunit des prairies plantées de
pommiers, des pâturages pour les moutons et les vaches et des jardins familiaux pour les citadins
voisins. Cette ferme authentique, dotée de hangars, d’étables et de matériels agricoles a une mission
d’abord urbaine : montrer les activités agricoles aux citadins et à leurs enfants, mais aussi leur vendre
des produits agricoles de qualité et de proximité. Ces fermes existent dans la plupart des villes
européennes à Lausanne, comme à Paris (au bois de Vincennes ou dans le Parc du Sausset au nord de la
capitale), à Marseille, Londres, Amsterdam ou Francfort/Main. Elles exploitent parfois des reliques
d’espaces agricoles, ou sont le plus souvent des créations volontaires des pouvoirs publics.
Une seconde forme, celle des fermes de plaisance, est beaucoup plus répandue dans le monde
entier. Elle suppose que l’activité agricole n’est pas l’activité principale du propriétaire qui la finance,
éventuellement, avec son revenu principal. Dans ce cas, les friches agricoles n’apparaissent pas, car le
déficit possible de revenus agricoles est pris en charge par le propriétaire. Ces phénomènes sont
fréquents dans les régions méditerranéennes du nord et du sud notamment avec les activités de vergers
(les oliviers et les agrumes notamment dans les régions périurbaines 224) qui sont la propriété de citadins
proches ou lointains.
Cet « agriurbanisme » se fait parfois grâce à des urbanistes qui protègent des sites ruraux
périurbains remarquables comme en Italie à Fiesole. Il peut aussi se passer des hommes de l’art comme
en Tunisie où la villégiature urbaine garantit, un certain temps, la survivance des espaces agricoles de
villégiature et de rapport (swani). Dans d’autres cas, en revanche, comme dans certains parcs publics
périurbains de Montpellier, les services techniques urbains font appel à un agriculteur pour cultiver un
champ de fleurs bleues et rouges, afin d’évoquer la mémoire impressionniste du parc Méric où vécut le

221 P. VIGANO, Territories of a new modernity, Napoli, Electra, 2000.


222 Y. CHALAS – G. DUBOIS-TAINE, La ville émergente, La Tour d’Aigues, L’Aube.
223 P. DONADIEU, Campagne urbane, una nuova proposta du paessagio della città (a cura di M.V. Mininni), Roma, Donzelli, 2005,

205 p.
224 C’est le cas des olivettes des collines protégées de l’urbanisation à Fiesole près de Florence ou des vergers des swanis

tunisois ou soussis consacrés à la villégiature.

266
peintre Frédéric Bazille 225. Symbolique, la forme agricole éphémère s’inscrit alors dans une vision
esthétique et artistique du paysage urbain. Art, mémoire et nature sont ici associés. C’est aussi le cas
plus nostalgique de la recréation de nombreux petits vignobles de « mémoire » dans une centaine de
communes d’Ile-de-France. À ces catégories d’agriculture urbaine s’ajoutent les jardinages familiaux et
communautaires, plus fréquents au nord de l’Europe qu’au sud. Dans certains cas, leurs productions,
souvent à rôle d’insertion sociale, peuvent prendre une forme commerciale par exemple avec le réseau
AMAP (Association pour le maintien de l’agriculture paysanne) qui désigne en France des formes
d’horticulture artisanale contractuelles entre producteurs et citadins consommateurs (abonnement à des
paniers journaliers de fruits et légumes).
Dans ces deux formes, l’agriculture réelle ou symbolique est conservée ou recréée autour de la
ville par la volonté des citadins et de leurs représentants. Cependant, si les activités agricoles
disparaissent à l’avenir autour des villes plus vite que l’urbanisation ne les consomme, peut-on imaginer
que les démarches d’urbanisme paysagiste puissent être utilisées ? Que faire des friches agricoles près
des villes ?

Prévenir ou suivre la déprise agricole ?


Prévenir la disparition de l’agriculture autour des villes est la solution la plus logique, mais sans
doute pas la plus réaliste. En effet, les agricultures que rencontrent les tissus urbains en expansion
appartiennent à trois catégories décrites par les dernières synthèses des chercheurs 226.

Il y a : Celles qui sont traditionnellement associées à la ville pour alimenter en produits frais les
consommateurs citadins. Soit elles sont expulsées par les villes qui se renouvellent et se densifient, soit
elles persistent dans le tissu urbain en répondant aux nouvelles demandes (agricultures biologiques ou
de proximité). Parfois ces activités se relocalisent dans les périphéries nouvelles. Elles relèvent de
différentes formes d’agricultures dites urbaines dans la mesure où ville et agriculture entretiennent des
relations à bénéfices réciproques, notamment dans un cadre de projet politique urbain.

Celles qui se sont développées, en tant qu’agricultures rurales à distance des villes, et sont
déstabilisées par l’arrivée des fronts ou des essaimages urbains liés aux villes dominantes. Leur
pérennité est le plus souvent remise en cause par la vente des terrains agricoles pour la construction
avec ou sans relocalisation loin de la ville ou bien par la concurrence de la ville pour l’usage de la

225 G. AGGERI – P. DONADIEU, « La nature sauvage dans les parcs urbains : du wild garden à la gestion différenciée », Les
Carnets du paysage n° 9, 2003.
226 A. FLEURY (édit.), Multifonctionnalité de l’agriculture périurbaine, Cahiers de la multifonctionnalité n° 8, 2005.

J. NASR – M. PADILLA (eds.), Interfaces : agricultures et villes à l’est et au sud de la Méditerranée, Delta/IFPO, Beyrouth, 2004.
O.B. SMITH – P. MOUSTIER – L.J.A. MOUGEOT, Développement durable de l’agriculture urbaine en Afrique francophone, (A. Fall eds.),
Edition CIRAD / CRDI (Ottawa), 2004.

267
ressource en eau. Il s’agit dans ce cas d’agricultures dites périurbaines au sens géographique. L’existence
de filières organisées et de stratégies de qualité des produits est néanmoins un facteur de stabilité des
exploitations agricoles.
Celles qui, enfin, ont développé, grâce à la multifonctionnalité de l’agriculture, des stratégies
d’adaptation à la proximité urbaine, soit pour assurer la survie de familles (agricultures de crise), soit
pour procurer de nouveaux revenus aux exploitants (diversification) et de nouveaux services à la ville
(jardins familiaux, insertion sociale, fermes pédagogiques, loisirs urbains).
Dans le premier cas, l’état d’abandon, dans des situations en général très urbaines est transitoire,
car il signifie le plus souvent une perspective proche d’urbanisation. Le maraîcher ou l’arboriculteur a
abandonné son exploitation et le propriétaire (qui peut être le même) l’a vendu ou est en instance de le
vendre. Parfois s’intercalent des formes d’attente de vente comme la location précaire (sans bail) à des
céréaliculteurs demandeurs de terres. Mais cette demande risque de n’être plus aussi forte après la
réforme de la PAC qui n’indexe plus les aides sur les surfaces cultivées en céréales et en oléo-
protéagineux.
Dans le second cas, plus périphérique à la ville centre et dense, les surfaces libérées par les arrêts
d’exploitation de fermes sont souvent résorbées, soit par une redistribution des terres entre fermiers
voisins, soit par des reprises régulées en France par des organismes publics fonciers comme les
SAFER 227, le Conservatoire national de l’espace littoral ou les conservatoires d’espaces naturels
régionaux qui les rachètent pour les revendre à des agriculteurs ou les ouvrir au public.
En Europe de l’Ouest, le scénario du désastre agricole comparable à celui de l’industrie lourde
européenne est donc peu probable. En revanche, une vision durable (sustainable) de la région urbaine
impliquant un agriurbanisme procurant des bénéfices tant aux citadins qu’aux agriculteurs reste un
enjeu des politiques urbaines. Il passe, c’est le troisième cas, par la reconnaissance de la multifonctionnalité
de l’agriculture par les pouvoirs publics et agricoles aux dépens des conceptions spécialisées et intensives
qui ont été promues par le passé. Ces agricultures de services et de produits, d’entreprises, résidentielles,
de loisirs et de tourisme, rassemblées ou non au sein de parcs agricoles comme à Barcelone ou à Milan
sont aujourd’hui des alternatives connues, qui ne nécessitent pas d’attendre des activités nouvelles
comme dans le cas post industriel. Sans doute ne représentent-elles qu’une alternative, familiale et
paysanne surtout, à l’agriculture entrepreneuriale, mais des cas connus de diversification des fermes
importantes montrent que ce n’est pas aussi simple !
L’urbanisme agricole, un cas de figure de l’urbanisme paysagiste, est évidemment une notion
paradoxale. Cette pratique débutante suppose que le projet urbain peut admettre l’agriculture comme
une composante ordinaire de la ville, ce qui suppose des conditions : de proximité, de nature des

227 Société d’aménagement foncier et d’établissement rural.

268
exploitations et des pratiques, de sécurité des produits alimentaires et d’accessibilité aux citadins. Il est
surtout diffusé dans les villes des pays du Sud.
Il n’y aura donc pas à chercher à éteindre « l’incendie » hypothétique des enfrichements
agricoles massifs des régions périurbaines, mais à orienter les politiques publiques urbaines
précocement vers les alternatives à favoriser dans les projets urbains en termes de développement
durable urbain.

Un urbanisme paysagiste agricole soutenable


On a vu que l’urbanisme paysagiste pouvait aussi s’inscrire dans une vision résolument
soutenable de la ville. Pour y parvenir, il lui est nécessaire d’agir à la fois sur la création et la
conservation des emplois, sur le renouvellement des ressources naturelles sensibles (l’eau, l’air, le sol,
l’énergie, la biodiversité notamment) et sur la répartition équitable des richesses produites autant que
des ressources et des emplois : tâche titanesque !
Ce qui est plus à portée de main est de savoir si les activités agricoles à maintenir avec la ville
peuvent concourir au projet de ville soutenable. Si l’agriculture est restreinte aux modèles de l’entreprise
agricole défendus par les syndicats agricoles majoritaires en France, il est difficile de défendre une
vision ambitieuse hors des intérêts de ces catégories professionnelles. En revanche si, comme le
permettent ses définitions scientifique et juridique, l’agriculture regroupe toutes les activités liées à la
croissance et au développement des végétaux et des animaux sur un sol ou sur un substrat, le cadre
agricole est beaucoup moins contraint. Il englobe l’agriculture marchande, mais aussi la pêche et la
chasse, la sylviculture, la foresterie urbaine ainsi que toutes les activités de productions de biens et
services de nature (jardinage, parcs publics, ingénierie paysagiste, réserves et parcs naturels, etc.).
Dans ce cadre, le projet urbain et de paysages doit en pratique choisir pour demain la gamme
des activités, des usages et des espaces qui est réservée à l’urbanisme paysagiste : ceux qui relèvent de la
sécurité civile : les coupures agricoles des zones forestières méditerranéennes, les zones inondables, les
zones de protection des captages d’eau, les couloirs aériens, les couloirs de transport d’énergie, les
infrastructures routières, etc. ; ceux qui relèvent de la sécurité alimentaire de proximité : les espaces
agricoles et horticoles ; ceux qui relèvent de la conservation de la biodiversité (les réserves naturelles, les
parcs, les zoos, les trames de corridors biologiques) ; ceux qui relèvent des usages de loisirs et de
tourisme (les parcs d’attractions, les parcs naturels, les forêts urbaines et périurbaines, les squares et
parcs publics, les parkways, etc.), sans compter tous les espaces liés à des équipements qui relèvent du
service public (les cimetières, les terrains de sports, les écoles, crèches, lycées et universités, les
hôpitaux, etc.).

269
Vue sous cet angle, l’agriculture paysagiste et urbaine fournit sans doute plus de services que de
produits à la ville et détient un potentiel impressionnant de fonctions : alimentaire, énergétique,
environnementale, patrimoniale, touristique, sociale, économique, symbolique, esthétique, etc.
Considérée dans une perspective de durabilité, la mobilisation de ce potentiel relève d’abord des
pouvoirs politiques et agricoles, et ensuite de l’expérimentation faite qui n’en est qu’à ses débuts. S’il
existe une situation post-agricole, c’est celle qui apparaîtra après l’époque agri-industrielle, et qui pour
une partie relèvera des formes d’agricultures paysagiste et urbaine.

Conclusion
La notion de landscape urbanism désigne des activités de planification et d’aménagement de
l’espace ouvert sous influence urbaine. Elle met en relation des théories et pratiques qui étaient, soit
juxtaposées, soit isolées les unes des autres : celles des architectes (concevoir et réaliser un édifice) ; des
urbanistes (concevoir, planifier et mettre en œuvre l’organisation urbaine) ; des paysagistes (concevoir et
planifier la ville en intervenant principalement dans les espaces ouverts) ; des spécialistes des systèmes
vivants (écologues, agronomes, forestiers), sociaux (sociologues) et culturels (historiens, ethnologues,
artistes). Elle met l’accent sur les « bonnes pratiques » nouvelles de la production de la ville : intégrer le
site, son histoire, son écologie et sa géographie dans le projet urbain de territoire, et le faire pour et avec
les habitants dans une perspective soutenable.
À l’origine, ces pratiques sont apparues en Amérique et en Europe du Nord à la fin des années
1960, sous les appellations de planification écologique et paysagère (avec Ian Mac Harg aux Etats Unis,
Bernard Fischesser et Jacques Sgard en France notamment) 228. Elles ont pris en charge ensuite la
question du devenir des paysages post-industriels, puis post-agricoles (en France avec les pratiques dites
de « paysage d’aménagement » qui concernent autant la ville que l’espace périurbain, rural, montagnard
et littoral). Enfin, elles se sont inscrites dans les « bonnes pratiques » suggérées par les valeurs du
développement soutenable, notamment en admettant la réversibilité de l’usage des espaces ouverts et
les incertitudes du développement économique. Ces deux évolutions ont été proches de chaque côté de
l’Atlantique, mais avec une écoute des pouvoirs publics urbains et gouvernementaux et une
gouvernance urbaine plus importante en Europe de l’Ouest 229.
L’apparition dans les différentes langues de la notion d’urbanisme paysagiste (traduction
possible en français de landscape urbanism 230) dans le vocabulaire de l’aménagement de l’espace présente
donc plusieurs intérêts :

228 En fait elles ont surtout adapté à des contextes urbains nouveaux la tradition de la planification urbaine du paysage
qu’avaient expérimenté et diffusé F.L. OLMSTED à la fn du XIXe siècle et vulgarisé J.C.N. FORESTIER en France dans son
ouvrage (Grandes villes et système de parcs) en 1908.
229 K. SHANNON, op. cit.
230 On peut aussi traduire par « urbanisme paysager » (plus large que urbanisme paysagiste qui implique seulement les

paysagistes) ou par « urbanisme paysagique » ( qui suppose surtout des approches scientifiques géographiques).

270
- Elle nomme des pratiques professionnelles hybrides nouvelles, d’une part entre art, architecture,
paysagisme, urbanisme, d’autre part entre experts de disciplines comme l’écologie du paysage,
l’agronomie, la foresterie, l’histoire, la géographie, l’économie, la sociologie, etc. Ces
« hybridations » sont de plus en plus voulues et organisées par les maîtres d’ouvrage de
l’aménagement du territoire (les collectivités notamment : de la région à la commune).
- Elle désigne une préoccupation explicite d’introduire des projets (des visions) de paysage comme
moteurs du développement local urbain. Dans les régions urbaines d’Europe de l’ouest, les
notions de ville-paysage, ville agricole, ville-parc ou ville-nature, montrent que les conceptions
de la ville ont changé et sont désormais élaborées à l’échelle de vastes territoires
intercommunaux urbains et périurbains en tenant compte des propriétés des sites et des lieux.
Leur utilisation indique que les regards des citadins sont devenus des références pour l’aménageur
et l’élu, comme alternatives à des conceptions des villes fondées par les techniciens et les
pouvoirs politiques seulement sur les exigences de logement, de flux de transport,
d’équipements collectifs, d’emplois et de sécurité publique. L’urbanisme paysagiste signifie que
les images et les fonctions de la ville doivent être associées selon des modalités variables avec les
points de vue (lieux, images et opinions) des citadins 231.
- La notion d’urbanisme paysagiste désigne donc une association de compétences professionnelles
(l’architecte, l’urbaniste et l’architecte paysagiste surtout), plus qu’un modèle de pratiques prêt à
faire penser et agir. En témoignent en France l’attribution des grands prix nationaux
d’urbanisme à des architectes paysagistes (Michel Corajoud, Alexandre Chemetoff) et
l’implication ordinaire aujourd’hui en France des paysagistes dans la fabrication des nouveaux
documents d’urbanisme (Schéma de cohérence territoriale et plan local d’urbanisme).
- L’urbanisme paysagiste s’inscrit en général dans la mouvance des idées du développement et de la
ville soutenables, mais pas toujours de manière explicite : les enjeux planétaires de l’aménagement
sont souvent masqués par des enjeux locaux, régionaux ou nationaux.

Pour les professionnels de l’architecture et de l’urbanisme, il s’agit bien d’idées et de pratiques


nouvelles qui sont diffusées depuis dix ans. En revanche, pour les architectes paysagistes français, ces
nouvelles pratiques avaient été enseignées dès le début des années 1980.
L’urbanisme paysagiste correspond moins à un modèle nouveau de pratiques professionnelles,
qu’à la désignation récente de savoir-faire nés il y a une trentaine d’années en Amérique du Nord
comme en Europe.

231 P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys.

271
PAOLA BRANDUINI

LA GESTIONE DELLE TRASFORMAZIONI NEL PAESAGGIO AGRICOLO PERIURBANO.


PERMANENZE STORICHE E PAESAGGI FUTURI

Il paesaggio agricolo periurbano sta subendo profonde e veloci trasformazioni e con esso il
significato che gli viene attribuito e le politiche che i diversi Paesi mettono in atto per governarlo. Si
riscontra un’esigenza a livello europeo ad accogliere le istanze del territorio agricolo e a integrarle
maggiormente nei processi di pianificazione urbana: ne è testimonianza, tra le altre iniziative, la
formazione della rete di regioni europee Purple (PeriUrban Regions PLatform Europe) che si fa carico di
trasmettere all’Unione Europea le sollecitazioni delle aree agricole periurbane e di generare strumenti
per la conservazione degli spazi agricoli.
Tali spazi non sono connotati solo dal situarsi al margine della città, costretti a diminuire
progressivamente per l’inevitabile espansione delle aree destinate alle costruzioni urbane: l’attività
agricola che si svolge su di essi ha generato e può continuare a generare rapporti di mutua dipendenza
con la città stessa, che si sono evoluti nel corso del tempo e che cambiano in base alle società, ma che
per molti paesi europei sono assimilabili.
Il problema della gestione degli spazi agricoli intorno e all’interno delle agglomerazioni urbane è
sempre più oggetto di discussione nelle politiche di governo del territorio. Spazi rurbanizzati o
caratterizzati da un’edilizia diffusa si mescolano con spazi aperti incastonati in insediamenti di grandi e
medie dimensioni.
Qual è la qualità e il ruolo di questi spazi aperti? Sono spazi ancora agricoli, dove gli agricoltori
continuano a coltivare le colture tradizionali o provano nuove colture che possono attirare il mercato
cittadino, o dove i cittadini coltivano il loro orto; sono spazi lasciati dall’agricoltura per problemi di
affittanza o proprietà, in attesa di diventare altro e ora occupati abusivamente da popolazioni nomadi
sempre più stanziali o da extracomunitari in attesa di un permesso di soggiorno; sono spazi in attesa di
una nuova destinazione d’uso, lasciati dall’industria e pronti a divenir luogo di residenze.
Situazioni di agricoltura periurbana odierna possono essere simili in diverse metropoli europee:
eccesso di urbanizzazione, contrazione dell’agricoltura, intralcio nella circolazione dei mezzi agricoli,
difficoltà nel rinnovo contrattuale. Ma il peso che ciascuno di questi fattori ha nella gestione del
territorio dipende dalle peculiarità dello sviluppo dell’agricoltura in quella zona. Prendendo ad esempio
metropoli di notevole sviluppo urbano, quali Parigi e Milano, esse presentano problemi simili per il
consumo di suolo, ma il problema fondiario e del rinnovo dei contratti risulta decisamente più
pressante a Milano; la circolazione dei mezzi agricoli tra aree frammentate presenta difficoltà in
entrambe le realtà, ma a Milano la proprietà risulta più compatta e accorpata al centro aziendale, mentre

272
in Ile-de-France l’acquisto di piccoli terreni da parte degli agricoltori la rende più frammentata e con
difficoltà di accesso maggiori 232.

Fig. 2 – La distribuzione attuale delle parcelle coltivate in relazione ai proprietari in due comuni periurbani
dell’Ile-de-France (a sinistra) e dell’intorno milanese (a destra): in area milanese rimangono più accorpate e
distribuite intorno al centro aziendale (la cascina) (elaborazioni di Teresa Fresu).

La continuità dell’agricoltura delle aree prossime alla città costituisce una risorsa per la gestione
degli spazi aperti vegetali di cui i cittadini esprimono necessità nei loro movimenti del tempo libero: essi
trovano occasione di ricreazione (ad esempio lungo i sentieri e ripe fluviali), offerta di servizi da parte
dalle aziende agricole (agriturismi, maneggi, fattorie didattiche) e di produzioni locali (raccolta diretta o
vendita dei prodotti). Il costo di manutenzione di tali spazi “verdi” è molto basso o pressoché nullo per
la collettività se continuano a essere oggetto di cure da parte degli agricoltori poiché inseriti in un
sistema produttivo; se gli stessi divenissero parchi urbani avrebbero costi di gestione assimilabili a quelli
del verde pubblico comunale che, estesi su ampie superfici quali quelle agricole, sarebbero insostenibili
per la collettività.

Le permanenze del paesaggio agricolo periurbano


La grande mescolanza e accostamento di funzioni e di spazi generano in questi territori un
paesaggio multiforme, ma talvolta caotico, confuso, dove spesso è difficile riconoscere i tratti storici, la
costruzione degli insediamenti, così come la struttura del paesaggio agrario storico.
Eppure anche nel caso vi siano campi coltivati con le tecnologie più moderne, permangono in
genere estese tracce delle strutturazioni antiche del territorio: ad esempio nella pianura del basso

232
T. FRESU, L’agricoltura periurbana. Proposte di metodo d’indagine e analisi comparata tra due casi di studio nelle aree periurbane di Parigi
e Milano, Tesi di laurea in Scienze e Tecnologie Agrarie, Facoltà di Agraria, Università degli Studi di Milano, A.A. 03-04.

273
milanese i campi di riso livellati perfettamente grazie all’ausilio della strumentazione laser collegata al
trattore, sono perimetrati dai tracciati delle strade che risalgono ai Romani e dalle canalizzazioni delle
acque che derivano dall’opera di bonifica medievale dei Cistercensi e degli Umiliati.
Molte di queste linee e di questi spazi sono rimasti lì da secoli e non sono stati mutati nel corso
del tempo: sono le invarianti di un territorio che si consolidano nella memoria più o meno
inconsapevole della popolazione.
Per consolidare l’agricoltura di questi paesaggi è possibile avanzare per diversi contesti urbani
europei proposte simili di valorizzazione, che riguardino ad esempio la diversificazione dell’attività
agricola, con uno scambio di soluzioni da un territorio all’altro: ma un’operazione di valorizzazione che
guarda solo alla situazione presente senza comprendere quali sono state le ragioni più lontane dello
sviluppo di quest’agricoltura e della forma di paesaggio cui ha dato origine non basta.
E’ importante andare a guardare le ragioni storiche, sociali ed economiche della trasformazione
dei paesaggi e i segni delle modifiche un tempo avvenute ed ancora oggi presenti: leggere il palinsesto
del paesaggio, non per singoli oggetti ma per “sistemi di paesaggio” 233.

Una lettura per sistemi


E’ consolidato il metodo di riconoscimento del valore storico del singolo manufatto, la cascina,
la chiesa, il mulino, sostenuto da una tradizione di inventari dei beni culturali e da una tutela che ha
gettato le basi nella salvaguardia del singolo bene. Più difficile è riconoscere il sistema agricolo che sta
intorno al singolo bene, che gli ha dato senso nel corso del tempo e che spiega le ragioni della sua
collocazione, della sua forma, dei suoi materiali; oppure l’insieme di manufatti agricoli (cascine, ponti,
ponticanali, rogge, chiuse ecc.) vitali per il funzionamento dell’agricoltura, della produzione, della
cascina come centro fisico gestionale della campagna produttiva; ma soprattutto la volontà singola e/o
collettiva che ha mosso le fila di un progetto di vita che si è tradotto in progetto di paesaggio. Una
lettura per avvenimenti essenziali di ogni epoca storica e loro concatenazioni va integrata con la
comprensione delle intenzioni dei soggetti che hanno partecipato agli avvenimenti e che hanno
prodotto determinati paesaggi 234.
Una lettura per sistemi non si limita alle permanenze materiche, ma cerca di comprendere anche
le logiche progettuali che hanno guidato alla formazione dei luoghi e che permangono ancora oggi
leggibili, in tutto o in parte, nello stato attuale. Consente di comprendere meglio le motivazioni della

233
Per sistema di paesaggio si intende un’organizzazione dei luoghi fondata su relazioni fisiche, funzionali, simboliche, naturali,
espressione di una coerenza progettuale unificante, singola o collettiva, realizzata, integrata, modificata nel corso del tempo.
Si veda a tal proposito il saggio di L. SCAZZOSI, Leggere e valutare i paesaggi, in L. SCAZZOSI (a cura di) Leggere il paesaggio.
Confronti internazionali, Gangemi, Roma, 2002.
234
S. LANGÈ, La dimensione della ricerca storica nel processo di conoscenza del paesaggio, in A. GHERSI (a cura di) Politiche europee per il
paesaggio: proposte operative, 2007, Gangemi, Roma, p. 39.

274
trasformazione del paesaggio in determinate e significative epoche storiche: nel caso dei manufatti
consente di comprendere le aggiunte, le nuove costruzioni in relazione alle coltivazioni e se le relazioni
che hanno dato vita a un singolo manufatto sono ancora esistenti e leggibili.

Due metropoli a confronto


Nonostante ci siano problemi comuni tra gli attuali territori periurbani delle diverse metropoli,
le soluzioni per la conservazione e la valorizzazione non possono essere le stesse: ogni paesaggio
agricolo ha le sue peculiarità e la sua storia.
Osservando ad esempio le situazioni dell’agricoltura intorno a Milano e a Roma all’Unità d’Italia
si assiste a scenari totalmente diversi. I paesaggi agricoli periurbani delle due grandi città provengono da
situazioni storiche molto differenti che hanno portato a un aspetto del paesaggio molto diverso. Da un
lato l’efficienza agronomica dall’altro la scarsa produzione.
Il carattere di efficienza dell’agricoltura lombarda, milanese in particolare, non è recente, ma è
emerso in tutte le epoche storiche nonostante le crisi agrarie e il susseguirsi delle diverse dominazioni
(spagnola, austriaca, francese ecc.); l’agricoltura intorno a Roma si è confermata in vari momenti storici
sempre come poco efficiente da un punto di vista agronomico. Per comprenderlo non basta guardare
alle singole permanenze, ma occorre essere attenti alle relazioni storiche instaurate, ovvero al “sistema
di paesaggio”, attraverso la ricostruzione delle vicende e delle dinamiche storiche di trasformazione che
nel corso delle diverse epoche hanno condotto all’attuale assetto.
Nel 1861 la campagna di Roma è in genere poco coltivata, suddivisa in grandi proprietà
subaffittate, adibita al pascolo o a coltura estensiva gestita a quarteria (coltivata per un anno e lasciata a
riposo per tre), senza sistemazioni agrarie e alberature, poche strade e in pessimo stato 235; la città svolge
la funzione di magazzino di fieno e foraggio (come testimoniano i nomi di alcune strade); verso la fine
dell’Ottocento vengono iniziate le bonifiche dell’Agro romano dai proprietari coordinati da stato e
comuni; all’inizio del Novecento avvengono le grandi urbanizzazioni (ippodromo, aeroporto…) che si
insediano in alcune grandi tenute dei nobili romani.
A Milano dopo la metà dell’Ottocento è invece presente un’agricoltura fiorente, dedita nella
pianura irrigua a sud all’allevamento del bestiame, alla produzione casearia e alla coltivazione del riso,
contrassegnata da grandi unità aziendali (fino a migliaia di ettari) e gestita da affittuari che ricevono in
consegna la terra dai proprietari sulla base di contratti decennali e la fanno coltivare a salariati, legata
nella pianura asciutta a nord all’allevamento del baco da seta, prodotto all’interno di ristrette unità
poderali. L’incremento della produzione e l’efficienza nelle coltivazioni non sono frutto di una recente

235
L. BORTOLOTTI, Le persistenze della Campagna Romana:alcuni aspetti della sua evoluzione storica, in A. CAZZOLA (a cura di),
Strumenti e metodi per la conoscenza del paesaggio della Campagna Romana, Quaderni della Ri-Vista Ricerche per la Progettazione del
Paesaggio, numero 1 volume 2, maggio-agosto 2004, Firenze University Press, Firenze.

275
conquista di benessere ma “il risultato di una razionale applicazione dei progressi agronomici, avvenuti
per effetto di un secolare processo di sistemazione idraulica e di bonifica.” 236
Che cosa rimane nel paesaggio agrario oggi? Nell’intorno romano rimangono “immutati” fino a
oggi i pascoli e dove non c’è stata urbanizzazione permangono i tratti del paesaggio pastorale in cui non
è avvenuta alcuna intensificazione colturale. In una ricerca sull’evoluzione del paesaggio di Cerveteri, a
nord di Roma, è stato evidenziato come si possono ancora riscontrare permanenze materiche
superficiali (le necropoli), morfologiche (gli spalti rocciosi, alcune vie etrusche di attraversamento
dell’attuale città, la divisione degli appezzamenti), di relazioni (commerciali tra il litorale e i monti),
simboliche (le fortificazioni, la cittadella, le necropoli) e funzionali (abitative dei borghi) risalenti agli
Etruschi 237.
A Milano, nelle zone più urbanizzate del nord, così come nella più agricola area sud, si può
ancora riscontrare una sostanziale continuità nelle forme. L’orditura dei campi del Settecento ricompare
oggi adattata a un sistema viario urbano, in quanto l’espansione urbana si è basata sul sistema delle
trame agricole e fondiarie già esistenti. Questo a chiaro beneficio della permanenza dei maggiori
tracciati storici. Oggi sono dunque riconoscibili sia la continuità negli usi storici del territorio
(canalizzazioni ancora utilizzate, coltivazioni arboree…), sia le dismissioni di cui sono presenti ancora
alcune tracce (per esempio alberi in ex vite maritata, ora solo in mezzo ai piccoli orti).

Un cambiamento di sguardo
Motore di coesione fisica, funzionale e simbolica era l’agricoltura intorno alla cui produzione
ruotava tutta la vita. Molti dei metodi per analizzare il paesaggio agrario sono legati alla pianificazione
tradizionale legata alle esigenze dello sviluppo urbano 238, ma è importante cambiare l’ottica di analisi,
dall’urbanizzato al tessuto agricolo.
Rispetto alla quotidiana perdita di tracce e al cambio di uso dei campi agricoli, il paesaggio
periurbano è più minacciato dalle trasformazioni che provengono dalle esigenze urbane, tanto da
cambiare significativamente l’aspetto dei luoghi. Cambiano le ragioni del comporre e del costruire e
nuovi sistemi si sovrappongono, cambiano gli elementi passati e si sovrappongono nuovi ordini
compositivi e funzionali.

236
D. LIMONTA, L’agricoltura lombarda dal Settecento ad oggi:appunti storici, sociali, economici e scientifici, in Lombardia – verde,
giugno-luglio 2005, www.agricoltura.regione.lombardia.it.
237
C. ROBBIATI, Siti Unesco e paesaggio verso un modello di Piano di gestione. Il caso di Cerveteri, Dottorato di Ricerca in Architettura.
Urbanistica e Conservazione dei luoghi dell’abitare e del paesaggio, XVIII ciclo, Politecnico di Milano, 2006-07.
238
A. CAZZOLA, Quale chiave di lettura per il paesaggio agrario? Permanenze, persistenze e trasformazioni nei paesaggi agrari della campagna
romana, Quaderni della Ri-Vista Ricerche per la Progettazione del Paesaggio, numero 1 volume 3, settembre-dicembre 2004,
Firenze University Press, Firenze.

276
In tale contesto “il palinsesto può apparire impoverito o minacciato ma è raramente
completamente distrutto o sostituito da un completo nuovo paesaggio” 239. I processi di trasformazione
del paesaggio sono inevitabili, ma si tratta di riconoscere i sistemi agricoli storici, valutare quanto di essi
rimane e fare in modo che le nuove trasformazioni non alterino irrimediabilmente i manufatti puntuali,
lineari e i loro rapporti simbolici, funzionali e percettivi. Oggi sono cambiati i rapporti sociali ed
economici di un sistema agricolo storico, però possono esistere ancora i manufatti facenti parte di esso:
filari e doppi filari di alberi all’ingresso delle proprietà, siepi che si rinnovano costantemente negli anni
ma la cui collocazione permane, così come la massa, il tracciato, l’ingombro visivo, il cambiamento
climatico (in estate dal caldo nel campo al fresco della siepe lungo il canale). Molto spesso ci sono
ancora i segni del rapporto instaurato dalla campagna con la città ma sono meno percepibili perché
compromessi da una serie di sovrapposizioni, come ad esempio i commerci, le stazioni per il trasporto
merci dalla campagna alla città che diventano mezzi per i cittadini di raggiungere la campagna la
domenica 240: un rapporto non così conflittuale come spesso accade ora per le veloci trasformazioni.

Sistemi di paesaggio storico

IX-XIV secolo XVIII - inizio XIX secolo

Vie d’acqua naturali


Vie d’acqua naturali
Canali artificiali per navigazione e irrigazione
Struttura viaria romana con aggiunta di collegamenti tra
Prevalenza divisione fondiaria in grandi proprietà
feudi
private
Divisione fondiaria e amministrativa in Contadi (potere
Divisione amministrativa in Province e Distretti
laico) e Pievi (potere religioso)
Ville agricole e di villeggiatura lungo canali di
Coltivazioni di cereali e vite in coltura promiscua alternati a
navigazione
pascoli e boschi
Realizzazione giardini e orti a fianco delle ville
Formazione piccoli nuclei rurali
Presenza oratori isolati
Costruzioni filande
Coltivazioni di cereali (frumento, granturco) con vite
maritata al gelso ai margini dei campi; prati
adaquatori; pochi pascoli e boschi; coltivazione vite per
uva da tavola
Disegni di Laura Frigerio

239
L. SCAZZOSI, Agricultural land in periurban areas – a plaidoyer for a palimpsest, in Fieldwork: Landscape Architecture Europe,
Birkhäuser, Basel-Boston, 2006, pp. 36-43.
240
Ad esempio piccole stazioni di Palaiseau in Ile de France.

277
Continuità nel tessuto agrario e nuova urbanizzazione
A nord-ovest di Milano, verso il Ticino, i terreni mantengono ancora oggi, per la maggior parte,
l’uso storico del suolo risalente al 1730 (poche marcite, ampio tratto di brughiera e di aratorio) con
colture già riscontrate nei catasti settecenteschi e ottocenteschi; esistono tratti di brughiera storica della
Valle del Ticino, che ancora oggi mantiene le proprie caratteristiche botaniche e faunistiche, cosi come
sono permanenze la viabilità, l’orditura dei campi, le alberature, le visuali e i punti panoramici dell’area.
Le trasformazioni sono avvenute in epoca recente a causa della costruzione del collegamento tra
l’aerostazione di Malpensa con l’autostrada per Torino, che taglia completamente l’area
compromettendo l’ecosistema dei corridoi ecologici ivi presenti 241.

Fig. 3 – Sintesi delle permanenze dell’orditura storica dei terreni nell’area a sud di
Malpensa: la sovrapposizione della trama dei campi antecedente al 1830 sull’urbanizzato
attuale mostra come, nell’espansione della città, il reticolo urbano delle strade si sia
sovrapposto al reticolo dei campi mantenendo gli stessi tracciati (elaborazione grafica
Laura Bonicelli).

In una situazione vicina lungo l’Olona, a nord ovest di Milano, sebbene l’urbanizzato abbia
occupato gran parte dell’area agricola, l’orditura dei campi ancora presenti è rimasta pressoché invariata
dall’epoca del catasto teresiano; la permanenza di manufatti agricoli è costituita dai mulini da grano, la
cui attività risale al 1200 circa. Il tracciato del fiume Olona è rimasto invariato tranne che in un tratto tra
due mulini a causa della costruzione del depuratore, mentre i tracciati stradali sono quasi totalmente
cambiati; l’unica parte invariata è quella prossima al Castello Visconteo; spesso le strade sterrate sono
state asfaltate ma non sono state allargate, quindi hanno mantenuto la stessa dimensione.

241
L. BONICELLI, Tutela, riqualificazione e valorizzazione dei caratteri paesaggistici dell’area di Sant’Antonino Ticino, Tesi di Laurea, Rel.
Prof. Lionella Scazzosi, corel. Arch. Cincia Robbiati, A.A. 2003-04, Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura Civile.

278
Permanenze di manufatti e dei relativi sistemi agricoli
Nella zona sud di Milano alcune cascine, come la cascina Ronco a San Donato, mantengono
ancora oggi in modo più o meno riconoscibile i segni di un’organizzazione agricola efficiente e di una
progettualità unificante e costituiscono preziosi documenti di quel dinamico sistema agricolo che nel
corso di tutte le epoche storiche ha governato le terre milanesi.
Rispetto all’espansione settecentesca della cascina 242 qualcosa è cambiato: la perdita principale è
quella della stalla che chiudeva e completava la corte dal lato del borgo; inoltre le baste (ricoveri) dei
maiali sono state eliminate. Alcune attività non sono più svolte, come la pilatura e la trasformazione del
latte in formaggio, poiché gli agricoltori hanno sostituito, a seguito dell’incendio della stalla,
l’allevamento delle bovine da latte con bovine da carne; ma i locali che un tempo ospitavano le attività
di trasformazione dei prodotti agricoli (casera, mulino, pila) sono ancora presenti e in discrete
condizioni, e necessiterebbero solo di manutenzione ordinaria per ritornare funzionanti.
I limiti della proprietà terriera sono pressoché rimasti gli stessi dalle prime testimonianze
catastali dei possedimenti del marchese Gagnola 243, proprietario della cascina dal 1739 al 1790 a oggi:
solo alcuni campi a sud, confinanti con la cascina, hanno lasciato il posto a una recente urbanizzazione
residenziale, frapponendosi all'asse visivo che idealmente esce dalla corte.
Il reticolo principale dei campi, segnato dai canali irrigui, è ancora leggibile, così come la fascia
arborata lungo il cavo Danese. Gli usi dei campi si sono naturalmente evoluti in funzione del mercato
agricolo ma anche dell’influenza della città: i “prati di marcita” e gli “adacquatori arborati vitati” del
catasto teresiano hanno lasciato il posto alle risaie e ai pascoli e poi agli attuali campi di mais, soia e
orzo e qualche coltura orticola 244.

Casa da masssaro

Aratorio

Aratorio vitato con moroni

Aratorio adacquatorio a vicenda

Prato adacquatorio

Prato di marcita

Risaia

Costa con arbori forti

Orto

Pascolo

Fig. 4 – Cascina Ronco: evoluzione dal 1754 (catasto teresiano) al 1855 (catasto lombardo-veneto) allo
stato attuale 2005 dell’uso del suolo, della maglia poderale (campi e strade), dei canali di irrigazione, della
vegetazione ripariale.

242
Planimetria presente all'archivio E.C.A. di Milano, ora I.P.A.B. - Istituzioni di pubblica assistenza e beneficenza.
243
I possedimenti del marchese Luigi Cagnola sono segnalati dal Catasto Teresiano, 1754, Archivio di Stato di Milano, bob.
12.
244
P. BRANDUINI, Un sistema rurale da tutelare: la cascina Ronco a Poasco, Atti del convegno Giardini, Contesto, paesaggio. Sistemi di
giardini e architetture vegetali nel paesaggio. Metodi di studio, valutazione e tutela, Olschki, Firenze, 2005.

279
La percezione sociale del paesaggio agricolo
Il riconoscimento scientifico dei segni fisici su di un paesaggio non è sufficiente per capire se
tali permanenze sono comprese e riconosciute dalla popolazione che vive il territorio. Un paesaggio è
“vivo” per come viene percepito dalla gente e se sollecita verso azioni di salvaguardia e di
valorizzazione.
La percezione sociale dei soggetti nei confronti del paesaggio dipende sia da fattori personali
legati all’esperienza – che consente di tenere mentalmente presenti situazioni, sensazioni e oggetti
percepiti in passato, in particolare relativi all’appropriazione dello spazio – sia da fattori “collettivi” o
comuni, legati alla cultura di appartenenza, alle immagini e informazioni trasmesse dai mezzi di
comunicazione pubblici (quali campagne di informazione degli enti amministrativi – governo, regioni,
comuni) o commerciali.
La percezione sociale non è la percezione individuale né la somma delle percezioni dei singoli
individui, né un valore medio dei punti di vista delle percezioni individuali; è un fenomeno dove
l’aspetto qualitativo è molto più importante di quello quantitativo, frutto del rapporto instaurato da una
popolazione con il suo territorio e delle diverse percezioni che di esso ha, e ha avuto nel corso della
storia. Indagare sulla percezione sociale dei luoghi è utile per comprendere quali sono i luoghi più
rappresentativi all’interno o all’esterno dell’insediamento per gli abitanti, per i quali è importante non
alterare l’immagine.

Strumenti di rilevazione
Tra gli strumenti più utilizzati per rilevare l’attuale percezione del paesaggio in generale e anche
agricolo in particolare, è quello dell’intervista che può essere di tipo diretto (a domande chiuse) o
indiretto o semi diretto (a domande aperte).
Per comprendere come è cambiato un territorio nella percezione degli abitanti si può realizzare
un piccolo Atlante iconografico, raccogliendo cartoline, stampe, incisioni, mappe storiche che
raffigurino l’insediamento nel contesto paesaggistico e luoghi all’interno dell’insediamento. Si possono
svolgere delle interviste dirette agli abitanti unite allo studio dei documenti di storia locale (archivi
parrocchiali, comunali ecc.).
Utili informazioni sulla percezione del paesaggio da parte di una comunità si possono
comprendere attraverso le fasi di lettura partecipata del paesaggio dei laboratori di progettazione che
sono frequenti in aree urbane (contratti di quartiere e programmi Urban) ma che si stanno diffondendo
anche in aree rurali (Agende 21). A tal proposito una sintetica descrizione delle modalità sono
presentate nella scheda “progettazione partecipata”.

280
La conoscenza dei luoghi agricoli da parte della popolazione
Ad esempio le interviste svolte nel lavoro di ricerca sui mulini dell’Olona 245 hanno messo in
evidenza che i cittadini, pur attraversando spesso sia a piedi sia in bicicletta l’area e dichiarando la
conoscenza della storia dei manufatti agricoli, non conoscono le colture praticate; gli agricoltori invece
si dichiarano poco informati dei progetti di trasformazione, a differenza dei cittadini che conoscono i
progetti di trasformazione anche del territorio agricolo.

Le aspettative dei cittadini nei confronti dell’agricoltura


Talvolta le aspettative dei cittadini si rivolgono a un’immagine arcadica della campagna e non
corrispondente alle reali modifiche occorse nel tempo: in alcuni casi se non trovano le componenti
tradizionalmente riconosciute e presenti nella loro infanzia nella grande cascina agricola, ovvero
coltivazione dei campi e allevamento di vacche da latte, si trovano spaesati e non riconoscono il valore
dell’attività della cascina. I cittadini non si interrogano sulle ragioni che hanno portato all’eventuale
cambiamento delle pratiche agricole, all’abbandono dell’allevamento o della trasformazione dei
prodotti, ma desiderano ritrovare costantemente la loro rappresentazione mentale della cascina, con i
campi ben ordinati e gli animali in stalla.
Talvolta il complesso rurale viene riconosciuto come un elemento forte della storia locale e la
popolazione si fa portavoce della sua salvaguardia. E’ il caso di un’associazione di cittadini del sud
Milano che si sono riuniti per opporsi alla trasformazione in residenza del borgo di Viboldone, antica
abbazia degli Umiliati che fa parte del sistema monumentale religioso e agricolo che ha costruito la
campagna milanese, così come di un gruppo di abitanti del borgo di Poasco (nel comune di San
Donato, una delle città simbolo dello sviluppo tecnologico milanese) ha firmato una petizione per
mantenere l’attività agricola in una cascina la cui parziale esclusione dal perimetro del Parco Agricolo
Sud esponeva al rischio di completa trasformazione in residenza.

Il riconoscimento sociale della funzione paesaggistica dell’agricoltura


In un’indagine di confronto tra due situazioni franciliane (comune di Morainvilliers e altopiano
dell’Essonne centrale) e due milanesi (Comune di Locate Triulzi e area dei navigli e abbazie nel Parco
sud Milano), all’interno delle quali sono stati individuati i principali attori (agricoltori e amministratori) e
le funzioni che essi attribuiscono all’agricoltura periurbana è emerso un quadro diverso tra le due realtà
periurbane. E’ stato ipotizzato uno scenario delle tendenze di trasformazione del paesaggio a partire dal

245
Sono state svolte in totale 56 interviste, di cui 50 a cittadini e 6 ad agricoltori, ovvero tutti quelli operanti nell’area
d’esame e sono state finalizzate a comprendere la conoscenza dell’area (strade sterrate, manufatti rurali, colture) e la
posizione nei confronti dei progetti di trasformazione (PLIS, vasche di laminazione).

281
significato che i diversi attori attribuiscono al paesaggio. Tutti gli agricoltori di Evry riconoscono la
funzione paesaggistica dell’agricoltura: ciò significa che si collocano come attori chiave dell’immagine
dell’altopiano. Essi notano l’apprezzamento dei cittadini quando vengono fornite loro spiegazioni sui
lavori agricoli e in tal senso rafforzano la coscienza del ruolo svolto e il senso di orgoglio a rimanere in
questa zona. Considerano il risultato della loro azione sugli spazi aperti come benefico per l’insieme dei
fruitori del territorio e in particolare per i cittadini.
Gli agricoltori delle aree milanesi hanno difficoltà a riconoscere il loro ruolo di gestori del
paesaggio e dunque a porsi come i principali promotori della qualità paesaggistica delle terre dove
operano. Allo stesso modo non comprendono appieno le potenzialità commerciali che la cura del
paesaggio può avere sulla loro attività. Il rapporto degli agricoltori con la città è maggiormente di
“difesa” piuttosto che di “sfruttamento”. Gli agricoltori non si rendono conto delle possibilità di
commercializzazione diretta che la presenza della città offre loro, ma sono abituati a distribuire i loro
prodotti attraverso canali codificati di vendita (il latte alla Centrale di Milano o alla Cooperativa di
Peschiera Borromeo, il riso attraverso un mediatore, ecc.). Vedono i servizi che la città può offrire loro
quando essi si recano in città, ma pochi pensano a come portare i cittadini presso di loro e a ricavare
ulteriore reddito dall’offerta di prodotti e servizi. In tal senso nella maggior parte di loro si nota il
desiderio di rimanere all’interno della propria cascina come in una isola felice, lontana dalla confusione
della città, che resta comunque a portata di mano quando necessario.
A una scarsa disponibilità ad accogliere il pubblico, giustificata con una scarsa frequenza di
contatti, non corrisponde un reale allontanamento dei cittadini da parte degli agricoltori, ma cordialità e
apertura: infatti anche quando dichiarano di non “essere fatti per dar retta alla gente”, trovano piacere
se un passante chiede loro informazioni e se manifesta riconoscenza nel mantenimento delle strade
campestri pulite dai rifiuti urbani. Il rapporto saltuario con il singolo cittadino è più facile da gestire che
l’idea di gestire un gruppo di cittadini in cascina o sui campi.

La mediazione tra agricoltori e Comune


L’operazione svolta dal comune di Locate Triulzi con la consultazione degli agricoltori per il
Piano delle Cascine 246 ha consentito di definire il riuso dei fabbricati in accordo con le istanze dei
proprietari e degli affittuari, dando l’opportunità al comune stesso di comprendere come viene vissuto il
rapporto degli agricoltori con il territorio comunale. Il comune ha cercato di accogliere le richieste di
ogni singolo agricoltore favorendo il recupero delle cascine anziché la costruzione di nuovi edifici
residenziali, valorizzando l’ampliamento della fruizione della campagna, attraverso le proposte di

246
T. FRESU, op.cit.

282
agriturismo e diversificazione colturale, nonché incoraggiando il contatto fra abitanti desiderosi di
coltivare un orto e gli stessi agricoltori.
Vi è carenza di terreni liberi nell’area comunale e un’elevata domanda di terra da parte degli
abitanti e ciò rende lunga la lista di attesa per ottenere un appezzamento. Si tratta di un’esigenza da non
sottovalutare, purtroppo non facile da soddisfare nel breve periodo, ma positiva dal punto di vista
dell’aggregazione sociale, in considerazione dell’allungamento della vita media della popolazione e del
ruolo terapeutico e antidepressivo, delle attività di orticoltura e giardinaggio. Probabilmente nell’ottica
di ampliare la multifunzionalità o la pluriattività, la ricettività e la diversificazione dell’indirizzo
produttivo dell’azienda, qualche agricoltore potrebbe accettare di essere coinvolto in un progetto di
agricoltura sociale.

Quale tutela per il paesaggio agricolo periurbano?


Il peso crescente che negli ultimi anni è stato attribuito all’identificazione e alla valutazione dei
paesaggi periurbani porta con sé la necessità di definire metodi e strumenti per la sua lettura, e un ruolo
importante è riservato allo scambio di informazioni e al confronto tra esperienze diverse.
Il problema è comune a molte aree metropolitane europee. Molti paesi dell’Europa possono contare su
una cultura del paesaggio di lunga data rivolta soprattutto a una scala vasta (nazionale e regionale), ora
però si ha anche l’esigenza di rivolgersi alla scala locale puntando alla qualità dei luoghi sia nelle sue
parti eccezionali, sia in quelle ordinarie e degradate.
Il paesaggio agricolo periurbano è spesso oggetto di minore tutela perché considerato già
compromesso o non considerato nella totalità delle sue problematiche o per i conflitti di uso del suolo.
Ad esempio in Inghilterra la legislazione per la protezione delle siepi (1997) prevede la richiesta di un
permesso di taglio solo per quelle situate a margine delle terre comuni, protette, agricole, forestali o per
l’allevamento equestre, da cui rimangono escluse quelle a confine di un sito residenziale o sportivo,
frequente nel periurbano 247.
Nel Parco agricolo Sud Milano la definizione dei confini è durata un decennio per la difficoltà
dei 61 comuni di cedere aree al parco sulle quali non poter esercitare un controllo diretto e la possibilità
di rilasciare autorizzazioni per la costruzione.

La salvaguardia dei manufatti agricoli


La tutela del paesaggio ha lentamente progredito dalla tutela del manufatto eccezionale a quella
del manufatto cosiddetto “minore”: dall’opera di pregio architettonico e artistico a quella rurale. E così
con la salvaguardia di piccoli manufatti accessori, ma in realtà fondamentali al funzionamento

247
COUNTRYSIDE COMMISSION, Vision for a sustainable multifunctional rural-urban fringe, 15 December 2004.

283
dell’agricoltura, si è cominciato a guardare al mondo rurale come a un territorio ricco di piccole
testimonianze della cultura di un luogo e di un popolo.
La salvaguardia di elementi vari sparsi nel territorio non garantisce la continuazione nella
leggibilità di un precedente sistema agricolo, perché le relazioni visive sono spesso compromesse (filari,
campi, canali), oppure sono trasformati i luoghi organizzatori del sistema (se anche permangono
l’insieme dei canali, filari e ponti, può mancare la cascina oggi trasformata in residenza e con perdita dei
suoi caratteri.
La cascina lombarda, ad esempio, è un insieme di edifici progettati per ospitare attività
strettamente legate alle produzioni dei campi, alle trasformazioni dei prodotti, all’immagazzinamento
dei prodotti per la trasformazione e per l’alimentazione degli animali che producevano latte che in parte
era venduto e in parte trasformato nella cascina stessa. Dunque un sistema complesso che per
funzionare ha bisogno, oggi, come al tempo della sua concezione, dei campi da cui trae la sua ragion
d’essere. Alcune delle attività allora presenti non sono più svolte, ma gli edifici insieme ad alcuni
strumenti rimangono a testimoniare le motivazioni per le quali sono stati realizzati (la pila, il mulino, gli
attrezzi dell’officina): essi testimoniano non tanto un preciso momento temporale quanto l’evoluzione
storica dell’economia agricola che si è riflettuta sulle tecniche, sulla vita sociale, sull’uso degli spazi e
degli edifici della cascina stessa.
Questa evoluzione non si può né si deve immobilizzare, perché vorrebbe dire immobilizzare
l’economia all’interno della quale si reggono.
Talvolta però l’economia urbana conduce a dei cambiamenti così rapidi che rischiano di
modificare l’esistente in brevissimo tempo e di perdere traccia dei mutamenti avvenuti. Solo se un
fabbricato agricolo svolge ancora una funzione per l’agricoltore la sua manutenzione è sostenibile
(come per impedirne il crollo e perderne traccia); solo se un agricoltore ha la certezza di mantenere
l’attività agricola a medio o lungo termine può impegnarsi economicamente nel recupero dei fabbricati
rurali e nel loro riutilizzo con funzioni complementari all’attività agricola quali quelle legate alla
fruizione cittadina del tempo libero.
Nel momento in cui siano garantite queste condizioni è possibile per l’agricoltore esprimere gli
altri ruoli che riveste, in particolare di manutentore del paesaggio, e dimostrare l’identità e la qualità
architettonica dei suoi fabbricati di fronte ai cittadini.
L’impegno della pubblica amministrazione nel mantenimento delle cascine e nel perdurare il
loro legame con l’agricoltura è più significativo quando è evidente l’importanza attribuita dalla
collettività al valore di memoria che la cascina trasmette e che può essere dimostrata ad esempio con
una petizione per il suo mantenimento.

284
La prosecuzione del ruolo di patrimonio sociale che una cascina riveste deve però essere
perseguito attraverso la salvaguardia dell’unità inscindibile del nucleo edificato e dei suoi campi, così
come testimoniato dai documenti storici e ancor oggi leggibile.
Senza questa unità il fabbricato agricolo non rende esplicite le ragioni della sua nascita nel
territorio e del suo perdurare nel tempo né resiste il suo ruolo di vettore della memoria rurale storica,
richiesto proprio dalla popolazione odierna e specialmente nelle aree periurbane dove l’accostamento di
usi del territorio e degli edifici è spesso più caotico.
Questo è valido nel caso di opere straordinarie come ordinarie, come ricorda la Convenzione
Europea del Paesaggio 248, ovvero di complessi monumentali riconosciuti dalla legislazione 249 come di
testimonianze “minori” della capacità di concepire e realizzare un progetto articolato di edifici uniti da
relazioni funzionali sociali, visive all’interno di un’azienda agricola.

Le tutele del paesaggio periurbano


Le forme tradizionali di tutela sono quelle vincolistiche che hanno dato luogo alle aree protette
per la necessità di delimitare prioritariamente un territorio e vincolarlo per poterlo salvare
dall’espansione urbana e poter conseguentemente agire su di esso per valorizzarlo. Fanno parte del
gruppo i parchi metropolitani 250. Tra di essi ve ne sono alcuni la cui attenzione si focalizza sulla
salvaguardia della qualità paesistica del nuovo edificato, come il Parco delle Groane, altri più attenti alla
lettura delle preesistenze e del tessuto agricolo storico, quali il Parco Sud Milano e il Parco del Ticino.
Il Parco delle Groane, nel Piano di Settore Zone edificate e norme paesaggistiche 251 fornisce precise
indicazioni per la costruzione del nuovo residenziale, produttivo e terziario, e presta poca attenzione al
recupero dell’esistente. Si occupa della compatibilità dei nuovi usi con le finalità del Parco, delle
dimensioni, dei materiali e dei colori dei nuovi fabbricati, di quantificare le opere di mitigazione e
compensazione ambientale, ma non provvede a indicazioni per la collocazione dei nuovi manufatti, nel
rispetto dei tracciati viari esistenti, delle forme dei campi e degli edifici rurali.

248
CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO, Art. 1, Firenze 2000.
249
In base al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, 2004, già sottoposte a tutela secondo il cosiddetto vincolo
monumentale ai sensi della Legge 1089/39. Ad esempio, nel caso del Castellazzo di Bollate, villa e parco settecentesco con
accanto il nucleo dei fabbricati agricoli organizzato in due grandi corti chiuse, quest’ultimo rischia di essere trasformato in
sola residenza, mentre è importante per consentire la trasmissione del valore di unicità progettuale tenere in vita il legame
con la produttività agricola, senza musealizzare la passata funzione agricola, ma conservando il più possibile delle funzioni
che siano testimonianza dell’uso agricolo per il quale gli edifici sono stati costruiti e insediando nuove funzioni agricole e/o
artigianali che producano un reddito tale da rendere l’attività economicamente sostenibile, e che avvicinino il mondo urbano
(i cittadini) alle pratiche agricole e che in particolare alla storia agricola del borgo.
250
Così definiti e riuniti in categoria nel corso della II Conferenza Nazionale sulle Aree Protette svoltasi a Torino nel 2002 e
riportate nel sito www.parks.it.
251
PARCO DELLE GROANE, Piano di settore zone edificate e norme paesaggistiche per l’edificazione nel Parco (PSE) - Variante generale
2004 in adeguamento della variante al PTC.

285
E’ una tutela degli aspetti compositivi degli edifici, volta a garantire un’uniformità del nuovo e a
evitare eccessi di originalità, che si rifugia nella compensazione ambientale delle opere per assicurare un
livello di equità nella concessione di una nuova costruzione: la commistione delle funzioni sembra
indurre più a un’attenzione verso le altre attività produttive che al recupero dell’attività agricola,
limitando le potenzialità di sviluppo del paesaggio periurbano solo agli insediamenti produttivi e alle
villette.
Nel Parco Sud Milano invece, tra le norme generali di tutela dell’attività agricola, viene conferito
un carattere di centralità al raccordo tra “l’attività produttiva agricola con quella di tutela vegetazionale-
faunistica e ambientale-paesaggistica” 252. In un articolo del Piano Territoriale di Coordinamento 253 si
stabilisce che le “norme di tutela ambientale-paesaggistica debbono tutelare gli elementi del paesaggio e
dell’ambiente agrario, quali alberature, fasce boscate, siepi, filari, reticolo idrico naturale ed artificiale,
fontanili, zone umide, marcite, e debbono evitare l’alterazione di elementi orografici e morfologici del
terreno, nonché l’effettuazione di sbancamenti, spianamenti e bonifiche che comportino l'asportazione
di materiali”.
In tal senso sono consentiti e promossi “progetti di riequipaggiamento della campagna (filari,
alberature e siepi); di arredo di centri aziendali ed agglomerati rurali; di conversione di boschi
monospecifici esistenti in boschi misti; di rimboschimento e di recupero di aree degradate”.
Per la realizzazione delle stesse il Parco prevede delle forme di agevolazione o compensazione
per l’imprenditore agrario. La regola basilare vigente sul territorio del parco è che ogni intervento (al di
fuori dell’ordinaria manutenzione, quale la potatura) sull’equipaggiamento arboreo e arbustivo della rete
irrigua primaria e secondaria (ad esclusione di quella aziendale), deve comportare un complessivo
aumento di naturalità con particolare riferimento alle diversità floristiche, alla presenza di specie
autoctone e alla ricettività per la fauna.
In un successivo articolo 254 propone, promuove ed incentiva interventi di tutela, conservazione
e potenziamento degli ecosistemi naturali del parco, tra cui recuperare, ricostruire e potenziare la trama
storica del rapporto vegetazione-acqua che caratterizza il paesaggio ed i territori agrari evitando
l’alterazione dei tracciati delle acque e delle strade rurali ed incentivando la dotazione di alberature di
ripa.
Nella definizione dei “territori agricoli e verde di cintura urbana” sono date precise indicazioni
per la tutela del paesaggio. Il piano individua, nei territori di cintura urbana, aree soggette a prescrizioni
circa la valorizzazione dell’ambiente, la qualificazione del paesaggio e la tutela delle componenti della
storia agraria, per le quali il piano di cintura urbana può ulteriormente prevedere specifiche azioni e

252
PARCO AGRICOLO SUD MILANO, Piano Territoriale di Coordinamento, Bollettino Regione Lombardia, suppl. straord. N°38.
Milano, 2000.
253
Art. 16 “norme generali di tutela ambientale-paesaggistica”.
254
Art. 20 “norme generali di tutela della vegetazione ed equipaggiamento naturale del paesaggio agrario”.

286
prescrizioni. Tali piani sono finalizzati a coordinare interventi di diversa natura nei territori di cintura
urbana, e contengono tutte le restrizioni atte a riqualificare i margini urbani e a definire le componenti
paesistiche in ordine al recupero delle fasce di collegamento tra città e campagna. Il piano di cintura
urbana deve inoltre individuare gli interventi volti al recupero paesistico delle aree degradate e delle aree
aventi un utilizzo improprio o incompatibile con il parco, nonché le revisioni riguardanti la
qualificazione ambientale degli orti urbani esistenti o di nuova realizzazione, nei casi in cui siano
considerati ammissibili.
Nel Parco del Ticino viene prestata particolare attenzione alla tutela degli edifici e degli
insediamenti rurali: in tal senso viene fatta una classificazione di qualità degli insediamenti in tre
categorie 255 con relativi interventi edilizi ammessi; si consiglia di ristrutturare secondo le tipologie
definite da un abaco; vengono indicati quali criteri di base il rispetto della fisionomia originaria
dell’insediamento, delle caratteristiche tipologiche degli edifici, del rapporto tra edifici e contesto
esterno (recinzioni, viali ecc.); si invita a chiudere i porticati, se necessario, con superfici vetrate, a non
dividere gli spazi comuni (corte) e in caso di pavimentazioni, a utilizzare lastricati d’uso comune; si
indicano i materiali delle partizioni del fabbricato e le tipologie costruttive locali. Nelle aree
naturalistiche sono indicate prescrizioni più restrittive per la conservazione della morfologia e della
naturalità del paesaggio agrario, poiché è vietata qualsiasi forma di bonifica, nonché livellamenti,
sbancamenti o spianamenti del terreno. Le ragioni però sono conseguenti ad un rispetto della flora e
delle fauna e non discendono da ragioni di tutela storico paesaggistica. Nelle aree agricole comprese
nelle zone e ambiti di rispetto delle zone naturalistiche viene espressa l’esigenza di rispetto delle
caratteristiche del paesaggio agrario: sono pertanto vietati non solo gli sbancamenti e gli spianamenti,
ma anche gli accorpamenti fondiari, le modifiche della rete viaria e si invita alla manutenzione degli
elementi morfologici esistenti.
Nelle forme di tutela del paesaggio periurbano talvolta si assiste ai migliori esempi di tutela del
paesaggio agrario, come nel Parco del Ticino e nel Parco Sud Milano: all’interno di tessuti agricoli
storici talvolta molto compromessi dalla nuova edificazione e infrastrutturazione e di fronte a forme di
pressione urbana consistente, nascono modelli di salvaguardia restrittivi e attenti alle preesistenze.

255
Le tre classi sono:
1. edifici o elementi di alto valore architettonico, tipologico, storico, ambientale; interventi ammessi: restauro e
risanamento conservativo
2. edifici o elementi che concorrono a definire e a caratterizzare il complesso e la sua struttura; interventi ammessi:
ristrutturazione edilizia
3. edifici o elementi di scarso o nullo valore, superfetazioni, elementi deturpanti; interventi ammessi: ristrutturazione,
demolizione e ricostruzione (per gli edifici privi di valore storico architettonico)
(Regolamento relativo alle modalità per l’individuazione ed il recupero degli insediamenti rurali dimessi, Del.n.106 del
26/10/2005).

287
Riconoscere le specificità dei paesaggi
Per il governo delle trasformazioni sono nuovamente di grande aiuto i concetti espressi nella
Convenzione Europea. Essa mette in evidenza il problema della qualità di tutti i luoghi di vita delle
popolazioni, di tutto il territorio; infatti non parla di singolo paesaggio ma della globalità dei paesaggi
europei, che comprende aree urbane e periurbane, agricole, naturalistiche, sia straordinarie che
ordinarie.
In gran parte dei Paesi Europei, fino ai decenni più recenti, si identificavano aree o componenti
del paesaggio di particolare interesse e si attribuivano valori secondo una gerarchia assoluta allo scopo
di proteggerle attraverso normative caratterizzate da vincoli e limitazioni all’agire ma, soprattutto,
distinti da quelle parti ritenute prive di particolari qualità che venivano lasciate a più libere
trasformazioni.
Anche la Convenzione mette in evidenza la necessità di identificare e valutare i paesaggi ma lo
fa parlando di paesaggi al plurale mettendo in questo modo l’accento sulle specificità di ogni luogo e
sulla necessità di conoscerle.
Prevede, quindi, politiche rivolte non solo alla salvaguardia di paesaggi esistenti a cui si
riconosce una qualità, ma anche alla produzione di nuovi paesaggi di qualità attraverso innovazioni,
adeguamenti e recuperi in quanto il paesaggio deve essere una risorsa sia culturale che economica.
Lo scopo è quello di agire a tutto campo per risolvere i problemi specifici che ogni parte del paesaggio
presenta per assicurare una qualità generale.
L’esperienza recente di vari Paesi mette in risalto come la regolamentazione della libertà di
trasformazione dei luoghi da parte dei singoli attraverso norme diventi efficace se accompagnata da
attività di sostegno agli enti locali, agli operatori, ecc. Ed è in questa direzione che la Convenzione di
Firenze sottolinea l’importanza della gestione rivolta ad individuare: i criteri di manutenzione a medio o
lungo termine, gli interventi di carattere eccezionale sulla fisicità dei manufatti, la valutazione degli
investimenti necessari e disponibili, le competenze amministrative da coinvolgere, l’individuazione delle
risorse su cui poter contare, la formulazione di coordinamento degli enti, degli operatori, ecc.
Per attuare la tutela dei valori e il governo delle trasformazioni serve quindi una consapevolezza
diffusa sia dei molteplici significati che i paesaggi hanno per le popolazioni, sia del loro potenziale
valore di risorsa economica e di utilità sociale e individuale.
Per tutto questo non basta solo la conoscenza, ma diventa importante anche la comunicazione,
per arrivare a definire indicazioni e norme paesaggistiche (piani, progetti, indirizzi, ecc.) che, come
accade nell’esperienza internazionale più matura, sono sempre più visti come uno strumento di
descrizione e comunicazione piuttosto che una passiva regolamentazione attraverso norme.
Conoscere e valutare i paesaggi significa, essenzialmente, leggere e comunicare le differenze e le
specificità che li contraddistinguono, sottolineandone anche problemi e potenzialità.

288
E’ sempre la Convenzione europea del Paesaggio che invita a “una protezione dei paesaggi,
tramite azioni di conservazione e di mantenimento degli aspetti significativi o caratteristici di un
paesaggio, giustificati dal loro valore di patrimonio” 256: per poter garantire la qualità dei paesaggi e la
qualità di vita delle popolazioni bisogna gestire le trasformazioni, tutelando, vincolando e mantenendo il
paesaggio nelle sue attuali condizioni, ma anche riqualificando e recuperando le zone degradate,
valorizzando le qualità diffuse e le risorse locali.
Per garantire quella qualità, è utile ricercare le specificità storiche, culturali, sociali che si
ritrovano nella comprensione dell’evoluzione che ha avuto quel paesaggio e che l’ha portato all’aspetto
attuale, rendendolo unico: quindi la sua specificità nella storia.

Quali paesaggi futuri?


Nella visione del paesaggio come sistema anche il significato del recupero si allarga. Preservare
un sito o un singolo manufatto non basta, bisogna garantire la continuità nel tempo dell’insieme degli
elementi che costituiscono il sistema.
La legislazione italiana in materia di tutela si è evoluta in tal senso e ha allargato le zone di
protezione intorno ai manufatti soggetti a vincolo monumentale, così come ha definito meglio la
protezione paesaggistica (vincolo indiretto) 257.
Non sempre tutti gli elementi che compongono il sistema sono protetti, non sempre sono
riconosciuti nel vincolo ed è loro attribuito un valore. Soprattutto l’azione di imposizione del vincolo
non basta a preservare un paesaggio, ma ci vuole un’azione di riconoscimento di elementi e relazioni e
una valorizzazione.
Non è facile definire il riuso appropriato o compatibile come si usa dire. Compatibile è un
termine troppo generico per bastare a influenzare le scelte degli imprenditori e il giudizio che devono
esprimere i valutatori (tecnici comunali). Lascia molte possibilità ai primi e non aiuta i secondi a
criticarle e respingerle.
Di fronte al problema del riuso, molti studi si preoccupano di definire nuovi usi per evitare che
si perda il bene (si degradi al punto da essere irrecuperabile) nel presente, cercando funzioni innovative
e rispondenti a esigenze future, senza capire quale è stato il significato del bene nel paesaggio, come si è
modificato nel tempo, quali significati ha assunto nelle varie epoche, come ha modificato il paesaggio e
come il contesto economico-sociale storico ha influenzato il suo aspetto 258.
Per la gestione nel tempo dei paesaggi può essere utile porsi tre domande fondamentali: Quale
paesaggio abbiamo? Verso quale paesaggio andiamo? Quale paesaggio vogliamo?
256
CONVENZIONE EUROPEA DEL PAESAGGIO, capitolo 1, art. 1, definizioni, Firenze 2000.
257
Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, Decreto Legislativo numero 42 del 22 gennaio 2004.
258
In Inghilterra, relativamente al contesto periurbano (urban fringe) mentre la Countryside Agency si preoccupa soprattutto di
suggerire nuovi usi dei manufatti, l’English Heritage si sofferma sulle relazioni del manufatto con il suo contesto nelle varie
epoche storiche prima di arrivare a definire quelle attuali dalle quali partire per proporre nuovi usi.

289
Si tratta di comprendere lo stato attuale del paesaggio, fatto dal permanere di un passato
agricolo nei segni del territorio e nelle memorie della gente e di una qualità degli attuali luoghi di vita
delle popolazioni che abitano le campagne intorno alle città, di visualizzare le continue trasformazioni
in corso, le grandi opere così come i meno estesi ma costanti ampliamenti dei quartieri urbani, le
trasformazioni dei fabbricati agricoli così come i cambiamenti delle attività agricole, di definire quale
paesaggio è desiderato, esplicitamente e concordemente tra gli attori in gioco, quale paesaggio si vuole
che garantisca una buona qualità di vita dei suoi abitanti.

290
PIERRE DONADIEU

LES PROFESSIONNELS DU PAYSAGE ET LA CONSTRUCTION


DES BIENS COMMUNS PAYSAGERS.
LE CAS DE L’AGRICULTURE URBAINE

Introduction
En France, comme dans la plupart des pays du nord de l’Europe, les professionnels du paysage
ont pris une part de plus en plus importante à l’aménagement des territoires ruraux et urbains. De 1970
à 2000, l’effectif des paysagistes en activité, architectes et ingénieurs, est passé de 100 à au moins 3000.
Que font ces professionnels que n’ont pas su faire ou qu’ont mal fait les architectes, les urbanistes et la
plupart des ingénieurs et entrepreneurs des travaux publics ou privés dans les espaces urbains ou
ruraux ?
Ce texte montrera que, au-delà du rôle de décorateur de paysages qu’ils n’ont pas souvent
adopté, l’enjeu était pour eux d’un autre ordre : construire de nouveaux paysages partageables par la
plupart des destinataires de l’aménagement ou de la planification. En cherchant à proposer, et parfois
en parvenant à réaliser ou à faire réaliser un projet de paysage, ils ont pu donner un sens (c’est-à-dire
des valeurs) appropriable par tous ceux qui devenaient les spectateurs et parfois les acteurs de cette
transformation, ou de cette conservation plus ou moins inventive 259. L’envers du « décor » a été
d’éliminer les acteurs sociaux dont les paysages produits n’étaient pas compatibles avec le projet accepté
par les pouvoirs publics. De ce point de vue, le professionnel du paysage est un acteur à part entière de
la recomposition sociale et spatiale des territoires sous administration publique. Il devient alors l’un des
médiateurs des relations entre les pouvoirs publics et les habitants, où plus exactement un facilitateur
des transformations locales du paysage matériel et de ses représentations.
Les mutations des rapports sociaux et spatiaux entre l’agriculture et la ville sont à ce titre exemplaires.

1 Le professionnel du paysage : un régulateur de l’organisation des paysages agriurbains en


France
Une régulation de plus en plus forte pendant cinquante ans
Pendant quarante ans en France, de l’après-guerre aux années 1990, les espaces agricoles autour
des villes étaient en général perçus par tous les acteurs concernés comme une réserve foncière vouée au
développement du tissu urbain et à ses infrastructures. Tous les acteurs des territoires y avaient intérêt,

259P. DONADIEU, « Pour une conservation inventive du paysage », in Cinq propositions pour une théorie du paysage (Berque édit.),
Seyssel, Champ Vallon, 1994, pp. 51-80.

291
le propriétaire des terrains qui allait bénéficier d’une substantielle rente foncière, l’agriculteur d’une
indemnité d’éviction et les élus de l’imposition des nouveaux habitants. Cette situation reste encore
aujourd’hui ordinaire dans la plupart des pays développés ou non, par exemple à l’Est et au Sud de la
Méditerranée 260. Toutefois, l’idée que l’agriculture urbaine puisse être bénéficiaire aux catégories sociales
défavorisées (au titre du développement durable) est développée de plus en plus et fait l’objet de
nombreux travaux de recherches agronomiques dans les pays en voie de développement 261.
L’idée que la notion de paysage puisse porter un intérêt pour des valeurs spatiales et sociales,
territoriales ou patrimoniales communes, n’émergea pratiquement en France dans le discours public
qu’à partir de 1945. D’une part furent créées par ordonnance les commissions des « sites, perspectives
et paysages » chargées de veiller à l’application de la loi sur la protection des monuments naturels et des
sites de 1930, d’autre part fut mise en place par décret une formation d’architectes paysagistes dans la
« section du paysage et de l’art des jardins » au sein de l’Ecole nationale d’horticulture de Versailles.
La notion de paysage porta ainsi pendant la période de croissance économique et de relatif
dirigisme étatique (1950-70) à la fois les valeurs de protection des paysages remarquables (valeur
d’identité nationale) et celle de l’urbanisme fonctionnaliste de la charte d’Athènes (l’espace vert comme
espace récréatif et d’épanouissement social). Dans ce dernier cas, les paysagistes étaient chargés
explicitement du verdissement des espaces extérieurs aux nouveaux ensembles d’habitation 262.
Les lois d’urbanisme des années 60 ne retinrent que la dimension protectrice des idées de
paysage. En 1967, la loi d’orientation foncière créa les Schémas directeurs et les Plans d’occupation des
sols : article L.123-2 « Dans les zones à protéger en raison de la qualité de leurs paysages [...] les plans
d’occupation du sol peuvent [...] opérer des transferts de COS (coefficient d’occupation du sol) ». Cela
signifiait que les agents de l’Etat pouvaient modifier le rapport entre la surface de l’espace construit et
celui de l’espace non construit.
Dans la loi sur la protection de la nature de 1976 « la protection [...] des paysages est d’intérêt
général » et de 1977 sur l’architecture « le respect des paysages naturels ou urbains [...] est [...] d’intérêt
public », les textes sont plus vagues. Seule la circulaire du ministère de l’Intérieur de 1973 s’intéressa à
l’action paysagiste en fixant les normes de surface verte par habitant dans les agglomérations. Pendant
les années 70, la réponse à la question des paysages urbains à créer passait surtout par la création de
parcs et de jardins. Celle des paysages ruraux et urbains en mutation relevait surtout de la science
sitologique naissante 263 et des perspectives protectionnistes et restauratrices qu’offraient les sciences
écologiques.
260 J. NASR – M. PADILLA (édit.), Interfaces : agricultures et villes à l’Est et au sud de la Méditerranée, Delta édit., 2004.
261 O.B. SMITH et al. (édit.), Développement durable de l’agriculture urbaine en Afrique francophone, enjeux, concepts et méthodes,
CIRAD/CRDI, 2004.
262 F. DUBOST, Les paysagistes et l’invention du paysage, Sociologie du travail, 4, 1983 ; B. BLANCHON, «Les paysagistes français

de 1945 à 1975 », Les Annales de la recherche urbaine, n° 85, 1999.


263 P. FAYE – M. TOURNAIRE, Travaux du Centre d’études techniques du génie rural et des eaux et forêts de Grenoble de 1975 à 1995,

1974.

292
Les ministères publics, notamment ceux de l’Environnement, de l’Equipement et de
l’Agriculture, n’envisagèrent de considérer les paysages « ordinaires et quotidiens » qu’avec la création
de la mission interministérielle du Paysage en 1979. Les expressions de « grand paysage » et de « paysage
d’aménagement » vinrent exprimer, de manière pragmatique et un peu floue, le besoin d’encadrer la
production des paysages issus du développement économique du pays. Cette évolution politique, qui
supposa une expérimentation d’au moins 10 ans (1979-1990) et la formation des opérateurs paysagistes,
se concrétisa au plan juridique par la loi de 1993 sur « la protection et la mise en valeur des paysages et
modifiant certaines dispositions législatives en matière d’enquêtes publiques ». Elle marqua au cours des
années 90 le début d’un vaste déploiement d’actions publiques de paysage (plans de paysage, chartes de
paysage, atlas de paysage, 1% paysages autoroutiers, zones de protection du patrimoine architectural,
urbain et paysager, mesures agrienvironnementales, etc.).

Dans ce nouveau cadre d’expérimentation des plans de paysage, certaines villes comme Rennes
en 1993, s’intéressèrent à la conservation de leur agriculture périurbaine en faisant appel à des
architectes paysagistes devenus également des planificateurs. Il devenait en effet flagrant que le district
urbain (aujourd’hui communauté d’agglomération) devait s’intéresser aux paysages engendrés par son
extension extra urbaine. Contenir cette expansion dans des gros bourgs périphériques en préservant les
espaces agricoles, notamment céréaliers, fut un objectif inscrit dans le schéma directeur de l’époque264.
C’est à la même période, dans la ceinture verte de la Région Ile-de-France ainsi qu’à Grenoble,
qu’émergèrent les politiques de protection des espaces agricoles périurbains.

Aujourd’hui : les plans de paysage des Schéma de cohérence territoriale (SCOT) et des plans locaux d’urbanisme (PLU)
L’idée que les pratiques paysagistes ne se réduisent pas à la protection des sites remarquables, au
verdissement et au fleurissement urbain ne transparaît pas clairement dans la loi Solidarité et renouvellement
urbain (SRU) de 2000. Pourtant la loi SRU fait reposer le PLU sur le plan d’aménagement et de
développement durable (PADD) débattu publiquement. Cela signifie que des valeurs communes à une
majorité d’habitants concernés doivent apparaître dans le projet et notamment dans le plan de paysage
qui peut être demandé en amont du SCOT ou du PLU. Ces valeurs peuvent aussi émaner d’instances
publiques régionales, nationales ou internationales et inspirer la construction du sens des nouveaux
paysages territoriaux.
Par exemple, dans le schéma directeur d’Angers, dès 1994, la politique de protection des Basses
vallées angevines inondables (BVA) désignait les paysages de prairies comme des biens communs
précieux : autant pour des raisons naturalistes (l’intérêt de la protection des populations d’un oiseau : le
râle des genêts) que pour des raisons paysagistes (l’intérêt esthétique des espaces ouverts prairiaux
264 P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys, 2005, p. 362.

293
menacés par l’extension des peupleraies). Dans le récent SCOT de la communauté d’agglomération, les
basses vallées font partie de la région urbaine et leur conservation est affirmée pour plusieurs raisons :
paysagères, de loisirs de plein air, de conservation du patrimoine naturel (inscription dans le réseau
européen Natura 2000), mais aussi agricole (un label d’élevage : « la viande et l’oiseau » a été créé). Le
même type de projet, ou du moins très comparable, a été mis en œuvre dans les Schémas de Cohérence
Territoriale (SCOT) et les Plan Locaux d’Urbanisme (PLU) des communautés urbaines de Strasbourg et
de Lyon 265.
L’idée de plan de paysage n’est pas neuve en France, mais ne s’est développée que très
lentement. Dès la fin des années 1960, le paysagiste Jacques Sgard, qui avait obtenu un diplôme
d’urbaniste aux Pays-Bas, introduisait cette pratique dans l’enseignement de la Section du paysage de
l’école d’horticulture de Versailles qui était dominé par la tradition des parcs et jardins urbains. Cette
pratique a ensuite été développée dans la formation donnée au Centre national d’étude et de recherche
du paysage (CNERP) de Trappes (1972-1978), puis relancée dès 1982 par la Mission du Paysage dans le
cadre des ateliers pédagogiques régionaux expérimentaux de l’ENSP de Versailles. Elle fut ensuite
reprise par le ministère de l’Equipement, sous forme de commandes expérimentales à quelques
paysagistes et bureaux d’études au début des années 1990. Par la suite, surtout depuis 2000, elle fut
largement utilisée, notamment à partir de la loi « Chevènement » de 1999 sur l’intercommunalité et de la
loi SRU.
Le plan de paysage est en effet présenté par le ministère de l’Environnement 266 comme un outil
d’anticipation du devenir des paysages soumis à de fortes probabilités de mutation, notamment pour
des raisons d’urbanisation ou de proximité urbaine comme de déprise agricole ou industrielle. Plus
qu’une défense d’espaces menacés, il doit argumenter et illustrer un projet de construction de paysages.
Pour cette raison, il mobilise des valeurs relevant autant des forces de mutation (économiques,
démographiques, politiques, sociales) que des formes paysagères matérialisant et symbolisant ces
valeurs. Par exemple dans les BVA, le plan de paysage établi par les paysagistes et par la Direction
Départementale de l’Agriculture a abouti à un plan de régulation des espaces, d’une part plantables avec
des peupliers, d’autre part protégés de cette plantation (prairies) 267. Dans ce cas, il s’agit d’un
compromis entre acteurs au nom de biens et services communs (le patrimoine naturel des prairies, le
loisir urbain) et de biens privés économiques et patrimoniaux (les peupliers, l’élevage). Ce type de sortie
de conflits n’est pas la règle. Dans d’autre cas, les pouvoirs urbains peuvent évincer les agriculteurs, ou
au contraire leur accorder une place prépondérante.

265 S. AUTRAN, Les infrastructures vertes à l’épreuve des plans d’urbanisme, l’agglomération lyonnaise, la construction d’une
stratégie, Lyon, CERTU, 2004.
266 B. FOLLEA – C. GAUTIER, Guide des plans de paysage, des chartes et des contrats, Ministère de l’Aménagement du territoire et de

l’environnement, Paris, 2001.


267 S. LE FLOCH, « Le peuplier dans la peinture de paysage, esthétique et originalité d’un arbre de l’ordinaire », Paysage et

aménagement, 34, 1996, p. 14-22.

294
2. La régulation des paysages agricoles périurbains
L’agriurbanisme est encore au stade de l’utopie. Néanmoins, les valeurs que ses promoteurs
portent relèvent-elles réellement du bien commun ? Cette communauté est-elle celle des économistes
(le bien commun n’est pas exclusif du bien privé non compatible en revanche avec le bien public) ?
Cette utopie est-elle une chimère ou est-elle réaliste ? Tous les citadins peuvent-ils bénéficier des
avantages promis par l’agriurbanisme ? Aux nouvelles régions urbaines agricoles, ne peut-on pas
opposer les avantages plus séduisants des villes arborées et/ou aquatiques ?

Un enjeu tardif de la croissance urbaine


Dans le Plan d’aménagement et d’organisation générale (PADOG) de la région parisienne de
1965, l’espace agricole, représenté en blanc, n’existait pas pour les pouvoirs publics urbains et les
planificateurs. Or les travaux du géographe M. Phlipponeau (1956) montraient très bien que
l’agriculture, par ses champs et ses agriculteurs, était présente autour de la capitale : les arboriculteurs
dans leurs vergers, les maraîchers dans leur marais et les agriculteurs sur leurs vastes parcelles de
grandes cultures (céréales, betteraves, protéagineux, etc.). Les uns alimentaient le marché parisien, les
autres approvisionnaient les marchés nationaux et internationaux. Appartenant au monde rural, ils
étaient exclus de la représentation de la ville qui pouvait de toute évidence se développer à leurs dépens.
La plupart des agriculteurs avaient d’ailleurs intégré dans leurs projets cette évolution, les uns pour
délocaliser leurs parcelles et leur exploitation à distance de Paris (les maraîchers), les autres pour
préparer la vente des terrains en vue de constituer un capital de retraite.
S’il y avait un intérêt commun à cette consommation d’espace à cette époque, il était public : il
fallait créer des logements, notamment pour les rapatriés d’Afrique du Nord de 1956 à 1965. L’intérêt
public était, comme encore aujourd’hui, de libérer des terrains pour la construction, de prévoir
l’extension de la capitale, et non de protéger des espaces agricoles qui apparaissaient être en quantité
illimitée et de peu de valeur relative.
À partir des années 70, la politique des villes nouvelles autour de Paris confirma l’intérêt de
l’espace agricole comme réserve foncière. D’autant plus que le début de la crise environnementale
urbaine rendait précieux la plupart des espaces boisés périurbains et urbains et les écartait, pour des
raisons sociopolitiques, de l’urbanisation ou de la destruction par les infrastructures (autoroutes, voies
ferrées, etc.).
L’espace agricole n’apparut réellement comme tel dans la planification régionale qu’à partir du
moment où la Région d’Ile-de-France manifesta son intérêt pour la protection des espaces non
construits agricoles et forestiers sous la forme des zones naturelles d’équilibre (ZNE) dans le schéma

295
directeur d’aménagement et d’urbanisme de la région Ile-de-France (SDAURIF) de 1976 268. Ce projet
de protection des espaces agricoles fut repris dès 1985 dans le projet de ceinture verte de l’IAURIF puis
dans le SDRIF de 1994 où apparaissent, du point de vue de l’Etat signataire du décret, les espaces
agricoles auparavant invisibles (par exemple ceux du plateau de Saclay à 40 kilomètres à l’ouest de
Paris). Dès cette époque, les travaux des paysagistes pour l’IAURIF (Institut d’aménagement et
d’urbanisme de la Région d’Ile-de-France), notamment ceux de Jacques Sgard et de Pierre Marie
Tricaud, soulignaient l’intérêt des espaces agricoles en tant qu’espaces ouverts multifonctionnels, à la
fois structures du paysage urbain et espaces économiques et de loisirs.
Toutefois la planification de l’Etat était loin de converger partout avec les prévisions du plan
vert de la Région 269 (IAURIF, 1995), comme avec celles des syndicats intercommunaux. Le SDRIF, en
effet, prévoyait parfois des secteurs d’urbanisation là où la Région ne l’envisageait pas, par exemple
dans la boucle arboricole et maraîchère de Chanteloup-les-Vignes dans le Nord du département des
Yvelines. Le bien commun agricole de la Région n’était donc pas nécessairement celui de l’Etat qui
avait besoin d’espaces à urbaniser, ni celui des communes qui envisageaient aussi la mutation des
terrains agricoles en voie d’abandon en terrains à urbaniser et en parcs publics. Dans d’autres Régions
comme celle de Rhône-Alpes, c’est la convergence de projets du département de l’Isère, de la ville de
Grenoble et de l’agence pour le développement agricole de l’Y grenoblois (ADAYG) qui a abouti à la
protection des terres agricoles de la région urbaine.
L’idée de bien commun agricole périurbain est donc portée d’abord par les collectivités
territoriales et urbaines qui s’appuient sur les projets des associations d’agriculteurs et d’élus (l’ADAYG
à Grenoble) et sur ceux des paysagistes et des urbanistes (la ceinture verte d’Ile-de-France, le district de
Rennes). Dans le cas du district de Rennes comme dans celui du plateau du Saclay, il y a eu
convergence entre les projets des paysagistes et ceux des élus.

Le projet de paysage et le projet agriurbain : des outils de la volonté publique avec ou sans les agriculteurs
Dans le cas du plateau de Saclay (Yvelines et Essonne) à l’ouest de Paris, la construction de la
conscience d’un bien commun résulte de la convergence progressive entre les propositions des
techniciens de l’IAURIF, les vœux des élus et la pression des associations locales de défense de
l’environnement et de l’agriculture.
Maintenu en espace rural par le SDAURIF de 1976, les 5600 hectares du plateau de Saclay (dont
2600 hectares agricoles) au sud de Versailles représentaient le quatrième espace d’importance de la

268 M. BOURAOUI, L’agriculture, nouvel instrument de la construction urbaine, étude de deux modèles agriurbains d’aménagement du territoire :
le plateau de Saclay à Paris et la plaine de Sijoumi à Tunis, Thèse de doctorat en sciences de l’environnement ENGREF/ENSP,
2000.
269 IAURIF, Plan vert régional d’Ile-de-France, Institut d’aménagement de la région Ile-de-France, 1995.

296
ceinture verte francilienne proposée au début des années 1980. Il apparaissait, dans les cartes de
l’IAURIF, comme « espace vert public ou privé d’usage public ». À l’origine de cette prise de
conscience d’un paysage agricole à préserver, la revendication dans un « Livre blanc » édité en 1976 par
les 25 000 chercheurs et techniciens qui travaillaient sur le plateau (universités, grandes écoles, centres
de recherches, etc.). Celle-ci portait sur la limitation de l’urbanisation, l’exclusion d’un projet autoroutier
et l’affirmation de la vocation agricole du plateau.
Face au maintien du projet autoroutier, mais aussi à la menace d’extension de la ville nouvelle de
Saint-Quentin-en-Yvelines, fut créé en 1988 un collectif d’associations : l’union des associations de
sauvegarde du plateau de Saclay. Etaient invoqués, dans un article Des Nouvelles de Rambouillet en 1989,
« la coupure du plateau, le saccage des réserves ornithologiques des étangs de Saclay, et […] la
disparition des terres agricoles : véritable poumon vert de la région » 270. Face à cette pression sociale
locale, l’Etat, via le préfet de Région, demanda à un nouveau syndicat intercommunal d’étude et de
programmation de Saclay (SIPS), qui deviendra en 1991 le District (DIPS) regroupant les 15 communes
concernées, de définir une politique d’aménagement 271. Sous la forme d’un plan d’actions paysagères
(PAP) élaboré par les urbanistes et paysagistes de l’IAURIF, cette politique prévoira en 1996 le
maintien de 2000 hectares de terres agricoles et l’extension du pôle scientifique et urbain sur 600
hectares.
C’est à partir de ce plan que sera ensuite négociée l’adhésion des 12 agriculteurs du plateau à
une politique agriurbaine, sous la forme des contrats territoriaux d’exploitation (CTE) à partir de 2000,
mais sans succès. En effet, les handicaps des agriculteurs dans cette région urbaine sont importants :
difficultés de circulation des engins agricoles sur les routes, choix limité des productions végétales
(abondance des pigeons), dégradations des récoltes, éloignement des services aux agriculteurs, etc.,
même si certains se placent dans une stratégie d’adaptation aux marchés urbains (location de bâtiments,
compostage, pensions pour chevaux, vente directe, cueillette directe, circuits courts de vente, visites de
fermes, jardineries).
Le bien commun agricole paysager, en pratique une infrastructure urbaine verte sur le plateau de Saclay,
est donc une construction sociopolitique qui se fait à l’interface de logiques strictement privées (l’agriculteur
libre dans son exploitation) et strictement publiques (l’espace agricole comme parc paysager public et
l’agriculteur comme jardinier). La mise en paysage commun ne s’opère que si les acteurs privés et
publics entrent dans une relation « gagnant-gagnant » ; par exemple si les agriculteurs de la commune de
Saclay ont intérêt à rester sur le plateau autant que la Région et les collectivités le souhaitent ; ce qui est
évidemment loin d’être réalisé et encore incertain en 2005, surtout dans le contexte de la réforme de la
PAC et du « découplage » des aides européennes entre le montant des aides et la production. Ces

M. BOURAOUI, op. cit. p. 195.


270

Le District est devenu en 2003 la Communauté d’agglomération du plateau de Saclay avec 9 communes réunissant 97 000
271

habitants.

297
actions communes relèvent aujourd’hui de la communauté d’agglomération et notamment des rachats
de terres agricoles qu’elles opèrent via l’agence régionale des espaces verts et de la SAFER. Le lien
entre agriculteurs et citadins se fait par une agriculture de services et notamment par les cueillettes à la
ferme et les ventes directes.

Les alternatives à l’espace ouvert périurbain : des villes agricoles ou boisées ?


La communauté de biens paysagers entre producteurs et spectateurs d’espaces n’est déclarée
que si les clients de ce marché de biens réels et symboliques sont satisfaits. Réels car il s’agit d’espaces
concrets ; symboliques parce ce qu’ils représentent d’autres valeurs que celles que leurs producteurs leur
donnent. Quand, en 1978, le département de Seine-Saint-Denis créa avec des paysagistes le parc du
Sausset, il remplaça des terres productrices de céréales et de betteraves à sucre par un espace
essentiellement boisé (200 hectares). Le projet politique des élus était de compléter l’équipement en
espaces verts d’un département qui en était très dépourvu à l’exception du parc de La Courneuve (400
hectares). À cette époque, les paysages céréaliers n’étaient porteurs d’aucune aménité urbaine
contrairement aux arbres des parcs publics. Le bien paysager qui était mis à disposition des usagers était
public, comme son accès à des fins récréatives. Il ne supposait qu’une composition paysagère faisant
une large place aux structures arborées de boisement et de bocages. Il ne fit pas place à des agriculteurs,
même si l’idée en fut émise par les paysagistes.
Si, en vingt ans, il a été possible dans quelques agglomérations françaises d’imaginer un espace
vert sous une forme agricole plutôt qu’arborée, c’est que la demande sociale de paysage avait changé.
Comme l’ont montré les sociologues Bertrand Hervieu et Jean Viard 272, les formes de campagne se sont
transformées pour la majorité des Français en paysages pour le tourisme, la villégiature ou la résidence.
D’alimentaire, la campagne est devenue d’abord un cadre idéal de vie avec des attributs paysagers
persistants comme l’eau, l’herbe, la fleur et l’arbre. Nulle place en général pour ceux de l’agro-industrie :
le tracteur, la serre, les tunnels plastiques, les ensilages et les fosses à lisier en sont exclus. Les Français,
prisonniers d’une imagerie désuète, n’ont plus su reconnaître les campagnes d’aujourd’hui et cultivent
souvent la nostalgie d’un âge d’or rural mythique. Leur besoin d’arbres a atteint une frénésie quasi
compulsive comme dans certaines villes anglaises 273.
En d’autres termes, l’espace agricole périurbain (en général sans arbres ou ligneux à l’exception
des vergers et des vignes) n’entre dans la catégorie des biens communs paysagers que si le projet
alternatif de paysage arboré est éliminé. Or le rejet de cette forme symbolique puissante ne va pas de

272B. HERVIEU – J. VIARD, Au bonheur des campagnes (et des provinces), La Tour d’Aigues, l’Aube, 1996.
273S. NAIL, « L’idée de nature en milieu urbain », in Nouvelles valeurs dans l’Angleterre d’aujourd’hui (M. Charlot édit.), Presses
Sorbonne Nouvelle, 2003.

298
soi. Car l’arbre, à la fois permanence et mouvement saisonnier cyclique, est le paradigme de
l’appartenance (de l’enracinement) à un territoire et de l’esthétique paysagère. La haie résiste, le bosquet
subsiste dans les campagnes comme l’arbre fruitier solitaire car ils symbolisent des valeurs humaines
essentielles 274. Ce qui n’est pas le cas des cultures sous serres ou des élevages de poulets.
C’est pourquoi l’opérateur paysagiste traditionnel, formé à l’art des jardins et de la composition
paysagère, est très démuni dans un projet agriurbain s’il ne connaît pas le vocabulaire paysager de
l’agriculture contemporaine et s’il n’en a pas de représentations précises. Cette difficulté est moindre
avec le forestier car l’arbre est un élément commun entre les deux praticiens, même si les logiques
économiques de la sylviculture peuvent les séparer totalement comme dans le cas des basses vallées
angevines.
La régulation paysagiste des projets agriurbains oscille donc toujours entre des solutions
conformes à la réalité matérielle produite par l’économie (pas de travestissement arboré, herbacé ou
fleuri) et des solutions décoratives dites paysagères, entre un point de vue proche de ceux des
agriculteurs et de ceux des citadins. Si le point de vue utilitaire du « paysageur » (par exemple
l’agriculteur qui produit le paysage agricole) doit s’imposer, c’est parce qu’il est mis en image comme tel,
sans déformations, avec le risque de n’être pas adopté par le public 275. S’il l’est, doit-on supposer que
sans artifice cosmétique, le paysagiste peut constituer en bien commun le produit de l’agriculteur
paysageur ? Dans ce cas, le paysagiste aura réduit voire annulé le décalage entre la réalité et son image. Il
montrera ce que la ville et l’agriculteur acceptent ensemble de produire. Comment cette opération est-
elle possible ? S’agit-il d’admettre comme dans le cœur vert agricole et arboré de la Randstadt aux Pays-
Bas qu’il existe un modèle paysager rural à ne pas transgresser ? Ou bien s’agit-il de ne mettre en image
et en scène que les paysages porteurs de valeurs acceptables par les acteurs sociaux concernés ? Ce qui
revient peut-être au même.

3. Les enjeux de la construction d’un bien commun paysager agricole : les pratiques de la
désignation
Nous admettrons que la construction d’un bien commun paysager est fondée par la désignation
de celui-ci par un groupe social qui en devient le titulaire, c’est-à-dire en est, en quelque sorte, responsable. Or
désigner veut dire, selon l’étymologie latine, à la fois marquer d’un signe (signaler, choisir) et représenter
(dessiner) 276. Ce qui veut dire que celui qui désigne peut aussi être un dessinateur (designer). C’est ainsi
que procède la mise en paysage d’un espace par désignation, soit par des dessinateurs (les architectes

274 R. DUMAS, Traité de l’arbre, essai d’une philosophie occidentale, Actes Sud, 2002.
275 P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys, 2005, p. 362.
276 Désigner signifie aussi nommer quelqu’un à une fonction dont il devient ainsi titulaire. Design, riche du mot dessin et

dessein, est un emprunt récent à l’anglais design (1959) issu du mot français dessein qui signifiait à la fois dessin et but jusqu’au
XVIIe siècle (Rey, 1992).

299
paysagistes qui mettent en images), soit par des opérateurs qui ne le sont pas, mais marquent eux aussi
d’un ou plusieurs signes les formes du paysage qu’ils choisissent ou font choisir.

Les acteurs paysagistes sélectionnent les acteurs gagnants


Les architectes et les ingénieurs paysagistes sont sollicités par les collectivités urbaines pour
réaliser des plans de paysage ou préparer des chartes de paysage. Ce sont des opérateurs investis d’une
légitimité par la formation qui leur a été donnée et le diplôme qui l’a sanctionnée : celui de paysagiste
DPLG notamment. Par ce titre, l’Etat a sélectionné des experts capables d’anticiper les évolutions d’un
paysage et d’en reconnaître les qualités et les fonctionnalités dans le cadre d’un projet (de paysage).
Pour ces praticiens, la notion de paysage n’évoque pas de valeurs en soi, mais un projet de mise
en cohérence des fonctions et des formes de l’espace perçu (bâti ou non). Face à un espace à aménager,
à grande et moyenne échelles géographiques, et qui devient alors un site à travailler pour le recomposer,
les postures professionnelles des concepteurs varient.
Les uns, plutôt plasticiens, privilégient la reconnaissance sensible du site qui s’appuie surtout sur
les pratiques de désignation des formes et des relations à établir entre elles. Les formes du site, c’est-à-
dire sa géographie physique – soutiennent des paysagistes comme Gilles Vexlard et ses élèves 277 –
portent le potentiel de cohérence et de composition du paysage local à faire advenir. Le paysagiste, en
dessinant croquis et plans, désigne la structuration des formes et fonctions susceptibles d’être
reconnues par les usagers comme paysages appréciables. Seul le succès du projet mis en œuvre peut
alors révéler un public qui se l’est approprié et en a fait alors un bien public. Car, dans ces cas, il s’agit
surtout de biens publics (parcs, squares, places, rues, etc.) rarement remis en questions par les usagers,
mais autant des lieux d’expériences (place) que des porteurs de paysages (images).
Les autres, plus scientifiques, s’attachent d’abord à analyser l’évolution des formes et des
fonctions d’un paysage. À cet effet, ils mobilisent de nombreuses disciplines productrices de
connaissances scientifiques : la géographie physique et sociale, l’écologie des populations et de la
restauration, l’histoire, l’économie, le droit, la sociologie, les sciences de l’environnement et celles des
techniques, etc. De leurs points de vue, ce sont les connaissances acquises sur le site par les sciences et
les valeurs projetées qui motivent le parti de projet. Par exemple, la dynamique végétale pour le
paysagiste Gilles Clément consulté pour le jardin du Rayol dans le Var ou le parc Matisse à Lille. Ces
paysagistes, qui dessinent, cherchent à mettre en place des actions didactiques et exemplaires des
valeurs esthétiques, éthiques et fonctionnelles qu’ils veulent illustrer dans leurs réalisations.
Beaucoup de paysagistes tentent la synthèse des approches dites sensibles (plasticiennes ou
poétiques) et des approches scientifiques. Mis en situation d’interpréter les questions des élus et de

277La plupart des paysagistes français s’inscrivent dans la filiation de Jacques Simon, Michel Corajoud et Bernard Lassus qui
sont à la fois des architectes paysagistes et des designers paysagistes.

300
répondre à celles des autres techniciens de l’aménagement, ils créent un espace de projet pluraliste, à la
fois spécialisé (la prestation du paysagiste perçu comme un spécialiste à côté de l’urbaniste et de
l’architecte) et généraliste (le paysagiste comme coacteur de la cohérence paysagère : esthétique,
symbolique et fonctionnelle, du territoire d’une collectivité).
Porteur d’un projet de paysage à mettre en œuvre sous forme de plans, chartes ou contrats avec
les collectivités, ils portent donc aussi les valeurs éthiques et esthétiques que les choix politiques
entraînent. Privilégier les formes agricoles revient à disqualifier les formes forestières et les sylviculteurs,
les formes urbaines et les formes industrielles et bien d’autres encore. Mais ce choix de l’opérateur
paysagiste, qui ne dit pas qui produit les formes agricoles, donne un avantage aux agriculteurs qui
s’adaptent aux marchés urbains comme à ceux du tourisme, en bref les emmène vers une agriculture de
services que néanmoins la plupart redoutent. Ce qu’une Politique Agricole Commune, demain plus
rurale qu’agricole, ne peut que conforter, et les lobbies agricoles majoritaires déplorer.

Les acteurs non paysagistes aussi


Hors des paysagistes porteurs de la compétence officielle de désignation et de réalisation
paysagiste, il existe d’autres acteurs qui se présentent sur le même créneau de compétences
professionnelles : celles de savoir ou de vouloir accompagner la recomposition sociale et spatiale des
territoires des collectivités. La plupart sont des scientifiques issus de culture géographique,
agronomique, écologique ou urbanistique.
Ces derniers ne sont pas enclins à une réponse de type « projet de paysage » à un client public
(maître d’ouvrage) comme la plupart des paysagistes. Leurs paradigmes sont ceux de la connaissance
scientifique déterminant l’action publique, ou de la médiation sociale.
En général de formation scientifique, ils font l’hypothèse que les formes du paysage ne sont pas
un donné géographique à recomposer, mais un produit spatial et social à comprendre. C’est pourquoi
ils dessinent peu ou pas, cartographient beaucoup, et s’attachent à chercher les causes des faits
paysagers et des questions sociales et politiques de paysage. Les uns sont producteurs de connaissances
mobilisables par les acteurs publics pour modifier ou créer les actions publiques ; les autres sont
engagés dans l’action sur les territoires communaux ou intercommunaux, notamment dans les parcs
naturels régionaux.
Chercheurs de laboratoires du Centre national de la recherche scientifique ou encore de
l’Institut national de la recherche agronomique (INRA), géographes, historiens, agronomes, sociologues
ou écologues, ils expliquent par exemple les paysages des néobocages de l’Ouest de la France. Les
logiques de replantation de haies par les agriculteurs en fonction de leur encadrement technique

301
apparaissent comme une cause de l’évolution des paysages agricoles des Côtes d’Armor 278. En Ille-et-
Vilaine, dans la région de Rennes, c’est le rapport symbolique et fonctionnel des agriculteurs aux arbres
des haies qui apparaît surtout déterminant 279. Le fait d’avoir confié aux agriculteurs le soin de replanter
les arbres sur leurs parcelles pose la question de l’usage des fonds publics pour engendrer les biens
communs paysagers ainsi créés. L’absence fréquente de projets publics dans les collectivités concernées
par ces plantations restreint le bénéfice des plantations aux groupes agricoles et ne l’élargit pas souvent
aux usagers non agricoles de la campagne (promenade, équitation, cyclisme, pêche, etc.). Dans ces cas,
ce sont les modalités des actions paysagères qu’il faut revoir en conseillant utilement les collectivités
territoriales (Région, département, communauté d’agglomération, etc.) et l’Etat. Le chercheur, en
repérant les acteurs gagnants et perdants dans ces actions publiques, donne les moyens de mieux
dépenser les fonds publics et engage à mieux préciser les objectifs des politiques paysagères. En général,
elles ont été peu précises avec des objectifs plus spatiaux que sociaux.
Comme les précédents, les médiateurs de paysage, animateurs du développement rural dans les
parcs naturels régionaux par exemple, s’intéressent à l’action paysagère. Le paysage est pour eux un
outil de l’action publique. Constatant eux aussi le décalage entre les formes paysagères produites par
l’économie et le statut des sols, et ce qu’en attendent, de manière souvent contradictoire, les habitants,
ils accompagnent sur le terrain la mise en œuvre des projets urbains ou ruraux de développement. Ces
actions dites paysagères produisent entre communes des différences spatiales que mettent à profit ceux
qui recherchent des identités sociales de territoires. Sont autant d’enjeux locaux, la préservation d’un
marais, la restauration du petit patrimoine hydraulique, le tracé de sentiers piétonniers, la conservation
de savoir-faire locaux, la reconquête de terrains abandonnés, de friches, de landes, la maîtrise du
reboisement autant que de l’urbanisation, etc. Définies par les politiques de parcs, ces actions
s’enchaînent pour produire des paysages parfois singuliers, parfois normalisés en fonction des rapports
entre logiques d’actions communales et intercommunales. Là aussi disparaissent les acteurs locaux et
leurs paysages qui ne peuvent s’inscrire dans ces recompositions sociopaysagères : industriels et éleveurs
polluant les eaux, lignes électriques jugées nuisantes, propriétaires négligents, etc. Parallèlement
émergent les « bonnes pratiques » qui visent à réduire le décalage entre les formes produites et
« consommées » : planification paysagère et urbaine, plantations de l’espace public, gestion hydraulique,
accès à l’espace, restauration patrimoniale, création architecturale encadrée, etc. Parfois le « pays résiste
au paysage », comme dans les régions de marais, mais peut être pas pour très longtemps 280.

278 M. TOUBLANC, « Un dispositif d’évaluation sommaire au service d’une action publique incertaine. L’exemple de la
reconstitution du paysage de bocage dans le département des Côtes-d’Armor », in L’évaluation du paysage une utopie nécessaire ?
(D. Puech et A. Rivière-Honegger édit.), CNRS, Montpellier, UMR 5045, 2004, pp. 465-486.
279 S. PERICHON, L’évolution des paysages d’arbres et de haies en Ille et Vilaine – Histoire récente vue par trois générations d’agriculteurs.

Thèse de doctorat en sciences de l’environnement, Paris, ENGREF-ENSP, 2003.


280 E. LAMBREY, Perceptions et représentations des marais : du vu au vécu, les liens sensibles entre les hommes et les marais, Thèse de

doctorat en géographie culturelle de l’EHESS, 2 tomes et annexes, 2004.

302
En résumé, les paysagistes en titre formulent plutôt des projets d’action sur les formes
matérielles du paysage avec d’inévitables répercussions sociales ; alors que les non paysagistes 281
préfèrent informer les pouvoirs publics ou agir avec les acteurs sociaux pour modifier le paysage
produit. Mais ces deux types de pratiques interfèrent dans la réalité des pratiques d’aménagement de
l’espace et ces interférences sont mal connues.
On aura compris que ces pratiques paysagistes, proches de l’action de terrain et des pouvoirs
publics, sont engagées dans l’encadrement du développement économique et social des villes et des
campagnes. L’enjeu dans les régions urbaines est autant de conserver les héritages paysagers, locaux et
nationaux, que de les adapter à l’évolution des marchés qui font évoluer les paysages agricoles, et à celle
des regards qui les contemplent ou cherchent à les comprendre. Cette dépense d’argent et d’énergie ne
saurait cesser tant que les regards des citadins sur les paysages périurbains ne s’accorderont pas avec ce
qu’ils en attendent. Ce qui n’arrivera peut-être jamais, car les paysages de l’agriculture ne peuvent
devenir communs de manière durable, que s’ils relèvent du patrimoine public ! Cette aporie trouvera
une solution soit dans une quête publique incessante et épuisante du paysage idéal, soit dans la
construction d’un double regard à la fois contemplatif et compréhensif. Ce qui relève du
fonctionnement normal et équilibré de notre cerveau !

Conclusion
Il existe en France comme dans la plupart des pays du nord de l’Europe une catégorie de
professionnels de l’aménagement de l’espace qui pratiquent l’architecture du paysage et la planification
du paysage. Ces praticiens sont mobilisés par les pouvoirs publics pour accompagner le développement
économique et social, et réduire l’écart problématique entre les formes paysagères produites et leurs
représentations sociales.
Dans le cas des espaces agricoles des régions urbaines, ces professionnels du paysage ont
participé à la désignation progressive des paysages agriurbains comme infrastructures d’espaces ouverts
et verts d’agglomérations de plus en plus étalées. Cette construction sociale est passée d’abord par la
reconnaissance publique de l’idée de paysage ordinaire comme outil de la construction des territoires
des collectivités. Ces actions publiques : plans, atlas et chartes de paysage sont toujours des outils de
projets recommandés par l’Etat et relayés plus ou moins par les collectivités.
Dans une seconde étape, c’est l’espace agricole qui, après avoir été ignoré par la planification
urbaine jusqu’à la fin des années 1970, fut désigné comme digne de protection en Ile-de-France. Il fallut
cependant attendre le SDAURIF de 1994 pour que, en Région parisienne et notamment avec

281Il ne s’agit ici que de distinction des professionnels du paysage entre eux : d’un côté les paysagistes diplômés comme les
paysagistes DPLG en France, de l’autre ceux qui n’ont pas ce diplôme d’architecture du paysage, mais sont concernés par les
mêmes pratiques.

303
l’expérience du plateau de Saclay, les paysages agricoles commencent à être considérés comme précieux
pour l’intérêt général, à la fois par les professionnels du paysage et de l’urbanisme, les élus et les
associations de protection de l’environnement. Cette prise de conscience est loin d’être généralisée dans
les agglomérations françaises.
Le succès de ces pratiques, à Grenoble et Rennes, comme en région parisienne, mais aussi
aujourd’hui à Lille, Nantes et Lyon ne mobilisa pas nécessairement les agriculteurs. Selon les cas, leurs
intérêts étaient ou non convergents avec les intérêts des élus et ceux de l’Etat et des collectivités. Par
ailleurs, il fallait que le projet agriurbain s’impose à l’alternative d’une occupation boisée du sol que
recommandaient souvent les paysagistes. En outre il fallait faire admettre que le paysage agricole entre
dans le tissu urbain sous sa forme brute, sans être affecté par les apprêts paysagistes et leurs modèles de
parcs et de jardins.
Cette reconnaissance d’un bien commun paysager agriurbain impliqua une évolution des
pratiques paysagistes pour ne plus faire appel au modèle stylistique et idéologique de la campagne
pittoresque et préconiser, prosaïquement, les formes produites par l’agriculture contemporaine
ordinaire 282. Deux types de réponses ont été faites par les professionnels du paysage. Les uns, experts
paysagistes légitimés par l’Etat, ont souhaité agir principalement sur les formes du paysage avec
d’inévitables conséquences sociales (sélection). Les autres, chercheurs ou animateurs ont agi plutôt sur
les producteurs de paysage, soit directement, soit par l’intermédiaire des pouvoirs publics. Tous ont
abouti au même résultat : la recomposition sociale et spatiale des territoires concernés. Dans ce
processus long, les agriculteurs des régions urbaines peuvent être gagnants ou perdants selon leurs
capacités à s’adapter aux marchés urbains et à l’action politique urbaine.
Issues de l’univers des architectes de jardins ou des sciences de la nature et de la société, les
pratiques des paysagistes se sont adaptées, de manière différente, à une nouvelle demande sociale de
paysage, celle de campagnes ordinaires « telles que perçues par les populations ». Cette définition du
paysage dans la convention européenne du paysage de 2000 ne dit pas que les paysages agricoles
désignés par les opérateurs seront reconnus par tous. Mais, partageables par le plus grand nombre, ils
ne seront produits « durablement » que par ceux qui en saisissent les enjeux singuliers à l’interface des
mondes ruraux et urbains. Pour ce faire, il semble que le pouvoir de désignation doive être confié à la
fois à des designers et à des scientifiques, compétences entre lesquelles les sociétés habitantes
arbitreront si elles le jugent nécessaire.
Ainsi peut être construit le bien commun paysager, ni exclusivement privé, ni exclusivement
public. Il permet de faire exister des espaces ouverts hybrides qui redéfinissent les formes de la ville
étalée et la contiennent.

282S. HERRINGTON, « Framed again : the Picturesque Aesthetics oof contemporary Landscapes », Landscape Journal, 25 : 1,
2006.

304
Bibliographie

S. AUTRAN, Les infrastructures vertes à l’épreuve des plans d’urbanisme, l’agglomération lyonnaise, la construction d’une
stratégie, Lyon, CERTU, 2004, 319 p.
B. BLANCHON, «Les paysagistes français de 1945 à 1975 », Les Annales de la recherche urbaine, n° 85, 1999.
M. BOURAOUI, L’agriculture, nouvel instrument de la construction urbaine, étude de deux modèles agriurbains
d’aménagement du territoire : le plateau de Saclay à Paris et la plaine de Sijoumi à Tunis, Thèse de doctorat
en sciences de l’environnement ENGREF/ENSP, 2000, 427 p.
F. DUBOST, Les paysagistes et l’invention du paysage, Sociologie du travail, 4, 1983.
P. DONADIEU, « Pour une conservation inventive du paysage », in Cinq propositions pour une théorie du
paysage (Berque édit.), Seyssel, Champ Vallon, 1994, pp. 51-80.
P. DONADIEU – M. PERIGORD, Clés pour le paysage, Gap, Ophrys, 2005, p. 362.
R. DUMAS, Traité de l’arbre, essai d’une philosophie occidentale, Actes Sud, 2002, 255 p.
P. et B. FAYE et al., Site et sitologie, Comment construire sans casser le paysage, Paris, J.J. Pauvert, 1974, 159 p.
B. FOLLEA – C. GAUTIER, Guide des plans de paysage, des chartes et des contrats, Ministère de l’Aménagement
du territoire et de l’environnement, Paris, 2001, 129 p.
B. HERVIEU – J. VIARD, Au bonheur des campagnes (et des provinces), La Tour d’Aigues, l’Aube, 1996.
S. HERRINGTON, « Framed again : the Picturesque Aesthetics oof contemporary Landscapes »,
Landscape Journal, 25 : 1, 2006.
IAURIF, Plan vert régional d’Ile-de-France, Institut d’aménagement de la région Ile-de-France, 1995, 259 p.
E. LAMBREY, Perceptions et représentations des marais : du vu au vécu, les liens sensibles entre les hommes et les marais,
Thèse de doctorat en géographie culturelle de l’EHESS, 2 tomes et annexes, 2004, 488 p.
S. LE FLOCH, « Le peuplier dans la peinture de paysage, esthétique et originalité d’un arbre de
l’ordinaire », Paysage et aménagement, 34, 1996, p. 14-22.
S. NAIL, « L’idée de nature en milieu urbain », in Nouvelles valeurs dans l’Angleterre d’aujourd’hui (M. Charlot
édit.), Presses Sorbonne Nouvelle, 2003.
J. NASR – M. PADILLA (édit.), Interfaces : agricultures et villes à l’Est et au sud de la Méditerranée, Delta édit.,
2004, 429 p.
O.B. SMITH et al. (édit.), Développement durable de l’agriculture urbaine en Afrique francophone, enjeux, concepts et
méthodes, CIRAD/CRDI, 2004, 173 p.
M. TOUBLANC, « Un dispositif d’évaluation sommaire au service d’une action publique incertaine.
L’exemple de la reconstitution du paysage de bocage dans le département des Côtes-d’Armor », in
L’évaluation du paysage une utopie nécessaire ? (D. Puech et A. Rivière-Honegger édit.), CNRS,
Montpellier, UMR 5045, 2004, pp. 465-486.
S. PERICHON, L’évolution des paysages d’arbres et de haies en Ille et Vilaine – Histoire récente vue par trois
générations d’agriculteurs. Thèse de doctorat en sciences de l’environnement, Paris, ENGREF-ENSP,
2003, 311 p.
M. PHLIPPONNEAU, La vie rurale de la banlieue parisienne : étude de géographie humaine, Paris, A. Colin, 1956.
M. TOUBLANC, « Un dispositif d’évaluation sommaire au service d’une action publique incertaine.
L’exemple de la reconstitution du paysage de bocage dans le département des Côtes-d’Armor », in
L’évaluation du paysage une utopie nécessaire ? (D. Puech, A. Rivière-Honegger, édit.), CNRS,
Montpellier, UMR 5045, 2004, pp. 465-486.

305
ABSTRACTS

Introduzione – introduction – Einleitung

RITA COLANTONIO VENTURELLI

ALCUNE RIFLESSIONI SULLA POSSIBILITÀ DI DEFINIRE


UN NUOVO MODELLO CULTURALE DI PAESAGGIO EUROPEO

Deutsche Zusammenfassung:
Der Beitrag untersucht die historischen Vorgaben, an denen sich das künftige Kulturmodell der europäischen
Landschaft inspirieren könnte. Besonders berücksichtigt wird dabei die mittelalterliche Raumordnung, da dort
gemeinsame Wurzeln aufgedeckt werden können. Ausgehend von den disziplinenübergreifenden Ergebnissen
der Forschungskonferenzen der Jahre 2005 und 2006 wird das neue Kulturmodell skizziert, das den drei
Hauptaspekten der gemeinsamen Überlegung gerecht wird: Landschaft als Erzählung und Erfindung; Landschaft
als Wissenschaft und Darstellung; Landschaft als Projekt und Governance. Als Folge des neuen Kulturmodells
wird ein mögliches neues Landschaftsmodell entwickelt, das diejenigen aktuellen bzw. leicht vorhersehbaren
Tendenzen ausschließt, die nicht den dargestellten kulturellen Prinzipien entsprechen. Daraus ergibt sich der
Entwurf eines möglichen physischen Szenariums, ohne dass Aussagen über die effektiven räumlichen Charakteristika
getroffen werden.

Résumé français :
Le texte interroge les prémisses historiques sur lesquelles pourrait se baser le futur modèle culturel du paysage
européen. Dans cette perspective, les principes de l’organisation de l’espace au Moyen-âge jouent un rôle
fondamental puisque c’est à cette époque qu’on peut observer de fortes similitudes sur le plan européen.
Les résultats pluridisciplinaires obtenus durant les deux conférences organisées en 2005 et 2006 ont permis
d’esquisser un nouveau modèle culturel. Ce nouveau modèle culturel s’appuie sur les trois axes de réflexion
développés par le groupe de recherche : le paysage comme récit et invention ; le paysage comme science et
représentation ; le paysage comme projet et gouvernance.
Le modèle culturel ainsi établi a un impact direct sur un possible nouveau modèle de paysage. Ce modèle de
paysage exclue les tendances actuelles ou aisément prévisibles qui ne correspondent pas aux principes culturels
énoncés par le groupe de recherche. Il en découle l’ébauche d’un possible scénario physique qui ne fournit pas
encore d’indications spatiales concrètes pour le nouveau modèle de paysage.

Prima parte – première partie – erster Teil

RITA COLANTONIO VENTURELLI – ANDREA GALLI – GIOVANNA PACI

MULTIDISCIPLINARIETÀ E RICOMPOSIZIONE DEL SAPERE.


UN CONTRIBUTO PER LA GESTIONE DEL PAESAGGIO CULTURALE

Deutsche Zusammenfassung:
Entwicklungen wie die landwirtschaftliche Revolution, die städtische Revolution und schließlich die
Revolutionen im Energiesektor und im Informatikbereich haben die wichtigsten Etappen der Geschichte
begleitet. Ein synthetischer Vergleich zwischen einzelnen Abschnitten des Interaktionsprozesses zwischen

306
Strukturen, Funktionen und Energieflüssen im menschlichen Habit kann dazu dienen, Überlegungen über die
Zukunft dieses Habitats anzuregen. Für einen solchen Vergleich empfiehlt es sich, zwei Gebiete zu wählen, die
im selben Zeitraum teils ähnliche, teils unterschiedliche Entwicklungen durchlaufen haben. Aus diesem Grund
wurden für die vorliegende Studie zwei italienische Beispiele gewählt: das erste betrifft Norditalien und
insbesondere den lombardischen Teil der Poebene; das zweite befindet sich in Mittelitalien und betrifft vor allem
die Region Marken.
Der Beitrag gliedert sich in drei Fragestellungen, die er zu beantworten versucht:

1) Was ist mit dem Begriff “Landschaft” gemeint?


Das Landschaftssystem befindet sich in einem kontinuierlichen Entwicklungsprozess. Die einzelnen
Umwandlungsprozesse – sowohl die vom Menschen eingeleiteten als auch die spontan entstandenen – haben
eine Kulturlandschaft geschaffen, in der der Mensch Spuren unterschiedlicher Ausprägung hinterlassen hat:
Dazu gehören ästhetische, ethische, kulturelle, administrative, politische und die Umwelt betreffende Spuren.
Die Strukturen und Funktionen der Kulturlandschaft lassen sich anhand der Analyse einiger Modelle aus
Vergangenheit und Gegenwart darstellen, die im Beitrag kurz beschrieben und miteinander verglichen werden.

2) Ist es sinnvoll, weiterhin das Konzept räumlicher und zeitlicher Skalen zu verwenden, um die zeitgenössische Landschaft zu
beschreiben?
Es besteht die Notwendigkeit, das Wissen für ein allgemeines Studium der Landschaft neu zu organisieren;
wichtig wären vor allem:
- die Aufnahme eines multidisziplinären Dialogs zur Entwicklung von kulturellen
Instrumenten, die die Analyse und die integrative Landschaftsplanung ermöglichen;
- die Überwindung der traditionellen, parataktischen Formen der Zusammenarbeit, um
geeignete wissenschaftliche Instrumente zu entwickeln;
- eine syntaktische Zusammenarbeit und ein Nachdenken über “Schnittstellen” zwischen
einzelnen Disziplinen, an denen man ansetzen könnte, um mögliche konkrete
Ansatzpunkte für eine Zusammenarbeit zu finden.

3) Gibt es Parameter für eine multidisziplinäre Auffassung der Landschaft?


Spontan würde man hier an Indikatoren denken, die dabei helfen, die Phänomene zu beschreiben und zu
messen. Jedoch hat die Untergliederung des Wissens zu einer ausgeprägten Dichotomie zwischen der Forschung
und ihrer Anwendung in den unterschiedlichen Bereichen geführt. Dies wiederum hat die wachsende
Notwendigkeit einer Integration und Interdependenz zwischen der Theorie und ihrer Anwendung nach sich
gezogen. Es sollte also versucht werden, einen kontinuierlichen Prozess anzuregen, der dieser Notwendigkeit
gerecht wird und zudem als experimentelle Überprüfung der theoretischen Annahmen und als Impuls für neue
und weiterführende Forschungsthemen dienen kann. Dies gehört zu den Zielen der gemeinsamen Treffen im
Rahmen der Forschungskonferenzreihe. Gedacht ist an ein gemeinsames Vorgehen mit folgenden Zielsetzungen:
- Erarbeitung einiger Grundbegriffe, die die Grundlage bilden für analytische
Untersuchungen im Hinblick auf eine korrekte Verwaltung der Kulturlandschaft;
- Anwendung der so erarbeiteten Methode auf Fallstudien mit dem Ziel, spezifischere
Indikatoren zu ermitteln.
Abschließend wird ein Motto vorgeschlagen, das die angestrebte wissenschaftliche Ausrichtung folgendermaßen
zusammenfasst: “Neuordnung des Wissens für eine Neuordnung der Landschaft”.

Résumé français :
Les révolutions successives – agricole, urbaine, énergétique et informatique – ont accompagné la marche de
l’Histoire. Une comparaison synthétique des étapes historiques du processus d’interaction entre structures,
fonctions et flux énergétiques dans l’habitat humain peut nourrir une réflexion sur le possible développement
futur des lieux de vie de l’être humain. Afin de procéder à une telle comparaison et d’obtenir des résultats clairs,
il est préférable de choisir comme sujet d’observation deux territoires qui ont subi durant la même période des
évolutions en partie semblables et en partie différentes. C’est pour cette raison que la présente étude a retenu les
deux exemples de territoire italien. Le premier se situe en Italie du Nord, dans la partie lombarde de la plaine du
Pô. Le deuxième territoire étudié se trouve au cœur de la péninsule italienne, dans la région des Marches.
La présente étude s’articule autour de trois problématiques suivantes :

307
1) Qu’est-ce qu’on entend par ‘paysage’ ?

Le paysage est un système en perpétuelle évolution. Les différents processus de transformation – tant ceux ayant
une origine humaine que les processus naturels – ont donné naissance à un paysage culturel dans lequel l’être
humain a laissé son empreinte, qu’elle soit esthétique, éthique, culturelle, administrative, politique ou qu’elle
touche à l’environnement. Les structures et les fonctions du paysage culturel peuvent être analysées à l’aide de
modèles récents ou plus anciens. Ces modèles sont décrits et comparés brièvement dans l’article.

2) Est-il sensé de continuer à utiliser le concept d’échelles spatiales et temporaires pour décrire le paysage contemporain

Il est nécessaire de réorganiser les savoirs qui ont trait à l’étude du paysage et :
- de développer un dialogue multidisciplinaire, indispensable à la création d’instruments
culturels permettant l’interprétation, l’étude et la gestion intégrée du paysage ;
- d’abandonner les collaborations traditionnelles paratactiques pour créer des instruments
scientifiques adaptés ;
- de mettre en place une collaboration syntactique, c’est à dire dans un premier temps de
réfléchir aux possibles “interfaces” entre les diverses disciplines afin de trouver des
terrains communs en vue d’une coopération concrète.

3) Quels paramètres de lecture multidisciplinaire du paysage ?

D’un prime abord, on penserait que ces instruments de lecture multidisciplinaire pourraient être des indicateurs
qui aideraient à mesurer et à décrire les phénomènes liés au paysage. Toutefois, la division du savoir entre
plusieurs disciplines a créé une dichotomie évidente entre la recherche scientifique et son application. Cette
division a pour conséquence une nécessité toujours croissante d’intégrer savoir théorique et applications
pratiques.
Il est donc nécessaire de chercher à initier un processus continu qui puisse répondre à cette exigence
d’intégration, mais aussi offrir la possibilité de mettre les théories au banc d’essai et stimuler l’émergence de
nouveaux thèmes de recherche. La définition de ce processus figure parmi les objectifs de la présente série
d’Ateliers de Recherche. On se propose de procéder comme suit :
- déterminer des concepts fondamentaux composant la base des recherches analytiques
qui auront pour finalité la gestion correcte du paysage culturel ;
- appliquer la méthode ainsi obtenue à des cas concrets avec pour objectif d’affiner les
indicateurs.
En guise de conclusion, on pourrait proposer la devise suivante, reprenant l’esprit de la démarche scientifique
adoptée: “Recomposition du savoir pour recomposer le paysage”.

GIORGIO MANGANI

TOPICA DEL PAESAGGIO

Deutsche Zusammenfassung:
Man kann im 20. Jahrhundert zwei Arten von Landschaftsanalysen unterscheiden: Während sich die erste
Analyserichtung auf die objektiven Komponenten der Landschaft konzentriert, steht bei der zweiten Richtung
die psychologische und perzeptive Dimension im Vordergrund. Allerdings gab es in den letzten Jahren auch
Tendenzen, beide Richtungen zu kombinieren. Anhand einer aus der geographischen und kartographischen
Theorie abgeleiteten rhetorisch-linguistischen Landschaftsanalyse kann man herausarbeiten, dass sozial und
historisch geprägte rhetorische Strukturen die Lesart von Landschaften im Laufe der Geschichte beeinflusst
haben. Die (reale sowie auch die vorgestellte) Landschaft wurde, den rhetorischen Gesetzen folgend, zum
mnemonischen Repertoire. Die Landschaft ist somit nicht nur das Ergebnis menschlichen Handelns und

308
menschlicher Wahrnehmung, sondern fungiert auch als Erzeugerin menschlichen Verhaltens. Diese Feststellung
erlaubt es, die zwei Hauptmerkmale der Landschaft in strukturierter Form zu verbinden – einerseits „organisches
Ensemble aus objektiven Komponenten“ und andererseits „wahrgenommenes Objekt“ – und den traditionellen
Gedanken zu überwinden, der davon ausgeht, dass die Wahrnehmung der Landschaft nur vom
„Gemütszustand“ des Betrachters abhängig sei.

Résumé français :
Au XXème siècle, on distingue deux types d’analyse du paysage : le premier se concentre sur les composantes
objectives du paysage, tandis que le deuxième en examine la dimension psychologique et perceptive. Toutefois,
ces derniers temps, on observe une tendance visant à concilier ces deux approches. Grâce à une analyse
rhétorico-linguistique du paysage, dérivée de la théorie géographique et cartographique, on peut établir que, au fil
du temps, la lecture du paysage a été filtrée par des structures rhétoriques, conditionnées par la société et par
l’histoire. D’après les lois établies par la rhétorique, le paysage tant physique que sa représentation intellectuelle a
été utilisé comme support mnémonique. Par conséquent, le paysage n’est pas seulement le résultat commun de
l’action et de la perception humaines, il joue aussi le rôle d’initiateur du comportement humain. Cette
constatation permet de faire le lien entre les deux aspects du paysage : c’est un ensemble organique présentant
des composantes objectives ainsi qu’un objet perçu. Il s’ensuit que, contrairement aux idées reçues, la perception
du paysage dépasse l’« état d’âme » de celui qui le contemple.

HANSJÖRG KÜSTER

NATUR UND LANDSCHAFT IN NATURWISSENSCHAFTLICHER SICHT:


ZWEI BEGRIFFE, DIE UNTERSCHIEDEN WERDEN MÜSSEN

Riassunto italiano:
In tedesco i due concetti di “natura” e “paesaggio” vengono spesso utilizzati in maniera sinonimica. Si parla di un
contrasto tra “paesaggio naturale” e “paesaggio culturale”. Il “paesaggio naturale” non viene influenzato
dall’uomo e dalla sua cultura, mentre il “paesaggio culturale” ne viene invece modellato. Da un punto di vista
scientifico-naturalistico questo utilizzo dei concetti di “natura” versus “paesaggio” da un lato, e di “paesaggio
naturale” versus “paesaggio culturale” dall’altro, non è tuttavia accettabile. La natura si trasforma in continuazione:
un ecosistema non rappresenta infatti una costante, bensì un processo. Contrariamente alla natura, il paesaggio
può essere pensato come una dimensione stabile. La natura può esistere con o senza uomini, ma un paesaggio
esiste solo se l’uomo lo riconosce, coscientemente o anche incoscientemente. Il paesaggio si costruisce o si
definisce sempre a partire da un punto di vista culturale, ed è questo il motivo per cui non si può per principio
accettare il concetto di paesaggio naturale. Da ciò consegue che la formula “paesaggio culturale” non debba
essere utilizzata; essa è infatti una tautologia, dal momento che il paesaggio è sempre culturale.
Se si considera il concetto di protezione della natura, bisogna comprenderlo in termini di protezione di un
processo dinamico, mentre spesso con tale idea si intende piuttosto una conservazione dello status quo, di una
condizione che con la continua trasformazione della natura non ha niente a che vedere. Il vero scopo che in
questo modo viene perseguito è la protezione di un paesaggio, la preservazione di un modello con tutte le
strutture che questo modello comprende. Tale fine è della massima importanza, ma non può essere definito
protezione della natura; si tratta piuttosto dello scopo principale della protezione del paesaggio.
A un paesaggio non ci si dovrebbe accostare solo con analisi scientifico-naturalistiche; esso dovrebbe poter
essere rappresentato anche in termini di sintesi, poiché è questo di cui hanno bisogno i progettisti (e anche i
politici). Tutti gli uomini sono chiamati a riflettere insieme sull’immagine del “loro” paesaggio nel presente e nel
futuro. A questo riguardo, è indispensabile che possa svilupparsi un compromesso “intersoggettivo” su quale
paesaggio debba essere protetto – come spazio di lavoro, di riposo, di sentimento o come patria.

309
Résumé français :
En allemand, les expressions « nature » et « paysage » sont souvent employées comme synonymes. On parle par
exemple d’un contraste entre « paysage naturel » et « paysage culturel », en affirmant que le « paysage naturel » ne
serait pas influencé par l’homme et sa culture tandis que le « paysage culturel » serait forgé par l’être humain.
Toutefois, d’un point de vue scientifique, cette utilisation des concepts « nature », « paysage », « paysage naturel »
et « paysage culturel » n’est pas recevable. La nature est en perpétuelle transformation : un écosystème n’est pas
une constante, mais un processus continu. En revanche, le paysage peut être pensé comme une dimension stable.
La nature peut exister avec ou sans l’être humain, mais un paysage existe seulement si l’homme le perçoit, de
manière consciente ou inconsciente. Le paysage se construit ou se définit toujours à partir d’un point de vue
culturel. C’est la raison pour laquelle on ne peut, par principe, accepter le concept de « paysage naturel ». Il
s’ensuit que l’expression « paysage culturel » est une tautologie, vu que le paysage est toujours culturel.
Si l’on considère le concept de protection de la nature, il faut l’entendre comme protection d’un processus
dynamique. Souvent, on conçoit plutôt la protection de la nature comme conservation du status quo. Or cette
acception occulte complètement le processus de perpétuelle transformation de la nature. Le véritable but de la
protection de la nature est en réalité la protection d’un paysage, la préservation d’un modèle et de ses structures
intrinsèques. Ce dessein est certes de la plus grande importance, mais il ne peut être défini comme protection de
la nature en tant que telle : il faudrait plutôt parler de protection du paysage.
Un paysage ne devrait pas être analysé seulement par les sciences naturelles. Il devrait également faire l’objet de
synthèses de différentes approches, étant donné que les urbanistes (et aussi les politiciens) ont besoin d’analyses
prenant en compte toute la complexité du sujet. Chacun est appelé à réfléchir sur l’image de « son » paysage, au
présent comme au futur. A cet égard, il est indispensable qu’on trouve un compromis « intersubjectif » sur le
paysage à protéger – comme espace de travail, lieu de repos, support de sentiments ou patrie.

ALFONS DWORSKI

ARCHITEKTUR- UND LANDSCHAFTSVERSTÄNDNIS IM WANDEL VON ORT UND ZEIT.


EINIGE EPISODEN DER EUROPÄISCHEN IDEENGESCHICHTE
AM LEITFADEN VON ARCHITEKTUR- UND LANDSCHAFTSBETRACHTUNGEN

Riassunto italiano:
Il paesaggio è uno stato di cose che dipende dalla percezione umana: una realtà geografica diventa paesaggio
solamente attraverso un soggetto che la osserva. Le percezioni si fondano su determinate conoscenze umane
dell’ambiente, nonché su interessi e aspettative definite. Questi interessi, aspettative o conoscenze orientate
all’ambiente naturale, fra loro connesse, sono dovute alla situazione storica, sociale e regionale, alla descrizione
del soggetto osservante o della società.
Attraverso l’architettura si rendono manifeste le regole della delimitazione, per esempio tra l’interno e l’esterno,
nonché quelle dell’interconnessione. A queste regole sottostà sempre, per lo meno implicitamente, un
determinato atteggiamento nei confronti della natura e del paesaggio, cioè un preciso modo di utilizzare lo
spazio.
L’uso rurale dello spazio struttura il paesaggio culturale della campagna e le autentiche tipologie architettoniche
regionali, mentre l’uso cittadino sfrutta il paesaggio culturale esistente, all’occasione in armonia con i programmi
regionali.
Il modello spaziale storico cetual-bipolare, paesaggio rurale versus città borghese, non rappresenta più le
caratteristiche sociali attuali; in futuro l’ulteriore sviluppo del paesaggio culturale e dell’architettura verrà definito
da spazi vitali multifunzionali, interconnessi in modo rizomatico.
Il futuro dell’architettura coincide con il futuro del paesaggio.

Résumé français :
Le paysage est intimement lié à la perception humaine : une réalité géographique devient « paysage » seulement à
travers un sujet qui l’observe. Les perceptions de l’observateur se fondent sur des connaissances humaines de
l’environnement, sur ses intérêts propres et des attentes bien définies. Ces intérêts, attentes ou connaissances vis

310
à vis de l’environnement dépendent des situations historique, sociale et régionale ainsi que de la description qu’en
fait l’observateur ou la société.
C’est à travers l’architecture que se manifestent les règles de la délimitation – par exemple entre intérieur et
extérieur ou bien leur interconnexion. Ces règles dépendent toujours, au moins implicitement, de l’attitude
choisie à l’égard de la nature et du paysage ou bien de la façon d’utiliser l’espace. L’utilisation rurale de l’espace
structure le paysage culturel de la campagne et les typologies authentiques de l’architecture régionale.
L’urbanisme quant à lui exploite le paysage culturel existant, occasionnellement, en harmonie avec les
programmes régionaux. Le modèle spatial historique bipolaire lié aux structures sociales – le paysage rural versus
la ville bourgeoise – ne correspond plus aux caractéristiques sociales actuelles. A l’avenir, le développement du
paysage culturel et de l’architecture sera défini par des espaces vitaux plurivalents, interconnectés au sein de
réseaux. Le futur de l’architecture coïncide avec celui du paysage.

YVES LUGINBÜHL

GOUVERNER UN PAYSAGE

Deutsche Zusammenfassung:
Der Beitrag gibt zunächst einen Überblick über die Entstehung und Entwicklung des Begriffs „Landschaft“, der
im 15. Jahrhundert in den Niederlanden entstand (Landskap) und dort von Anfang an in erster Linie im
Zusammenhang mit Landschaftsplanung und Raumordnung verwendet wurde. Im Laufe der Jahrhunderte
wurde der Begriff in den verschiedenen Ländern mit Idealvorstellungen des Sublimen und Pittoresken
aufgeladen. Im Frankreich der 1970er Jahre beschäftigen sich zunehmend auch die Sozialwissenschaften und die
Ökologie mit Landschaft, und der Begriff gewinnt an Komplexität: Er bezeichnet seither sowohl ein materielles
Objekt (die konkrete und veränderbare Landschaft) als auch einen immateriellen Prozess (die Vorstellungen von
„Landschaft“, die der Mensch sich macht) und steht damit im Spannungsfeld zwischen Natur und Gesellschaft.
Am Beispiel des Mont Saint-Michel und der zunehmenden Versandung dessen Bucht illustriert der Beitrag die
vielfältigen Faktoren, die im komplexen System der Landschaft wirken und miteinander in Verbindung stehen:
Zum Beispiel wird der Versandungsprozess der Bucht durch ein vermehrtes Wachstum der Gemeinen Quecke
(Agropyrum repens) begünstigt, das wiederum möglicherweise Konsequenzen für die Nahrungskette hat und
seinerseits unter anderem durch Nitrifikation der Salzwiesen entstanden sein könnte. Die Verwaltung eines
solchen Gebiets stellt die Verantwortlichen vor die Herausforderung, unterschiedlichen Akteuren mit zum Teil
kontrastierenden Interessen (Landwirtschaft, Schalentierzucht, Tourismus, Trinkwasserversorgung, etc.) gerecht
zu werden und biologische, ökologische, politische und soziale Faktoren gleichermaßen zu berücksichtigen.

Riassunto italiano:
Il contributo offre una visione d’insieme sull’origine e sullo sviluppo della nozione di “paesaggio”, nata nel XV
Secolo nei Paesi Bassi (Landskap), dove fin dall’inizio veniva utilizzata nel contesto della pianificazione e della
gestione del paesaggio. Nel corso dei secoli il termine si arricchì, nei vari Paesi, con l’accettazione dei concetti di
“sublime” e “pittoresco”. A partire dagli anni Settanta del Novecento, i sociologi e gli ecologisti francesi
cominciarono a interessarsi in maniera crescente alle problematiche paesaggistiche e il termine acquistò la sua
attuale complessità: da allora indica sia un oggetto materiale (il paesaggio concreto e modificabile), sia un
processo immateriale (le rappresentazioni del “paesaggio”), e viene dunque a collocarsi tra natura e società.
L’esempio del Mont Saint-Michel e del progressivo insabbiamento della sua baia illustra i molteplici fattori che si
intrecciano e si influenzano vicendevolmente nel sistema complesso del paesaggio: il processo di insabbiamento è
favorito, tra l’altro, dall’espansione crescente della gramigna (Agropyrum repens); tale espansione avrà
probabilmente delle ripercussioni sulla catena alimentare e potrebbe essere causata, a sua volta, dalla
nitrificazione dei prati salati.
La gestione di un tale territorio pone i responsabili davanti alla sfida di dover essere all’altezza di attori diversi
con interessi in parte contrastanti (agricoltura, acquacoltura, turismo, approvvigionamento con l’acqua potabile
ecc.), considerando fattori biologici, ecologici e politici.

311
FRANÇOISE DUBOST

UN POINT DE VUE ETHNOLOGIQUE SUR L’ESTHETIQUE DU PAYSAGE

Deutsche Zusammenfassung:
Der Beitrag geht aus von den Ergebnissen einer nationalen Umfrage zu den bevorzugten Landschaftstypologien
der Franzosen: Es zeigte sich, dass die Mehrheit der Franzosen weniger die herausragenden Beispiele für
Landschaftskultur zu ihren Lieblingslandschaften deklarierte, als vielmehr gewöhnliche Landschaften ihrer
Umgebung mit subjektiver emotionaler oder affektiver Bedeutung. Dies wirft die Frage auf, inwiefern man von
einer „Ästhetik des Gewöhnlichen“ sprechen kann. In ethnologischer Perspektive gilt es zu untersuchen, wer wie
und warum über Landschaft spricht (bzw. nicht spricht). Die Ergebnisse unterschiedlicher Studien zeigen die
Komplexität dieses Forschungsgebietes: Die ästhetische Auffassung von Landschaft wird zum einen durch die
Traditionen einer Gesellschaft geprägt; andererseits ändert sich das Landschaftsideal mit der Zeit im Zuge der
sich wandelnden äußeren Lebensbedingungen. Auch muss das Idealbild einer Landschaft nicht unbedingt der
aktuellen Landschaftsrealität entsprechen. Zudem wird Landschaft individuell unterschiedlich wahrgenommen,
und vor allem der emotionalen und symbolischen Komponente der Landschaftsbindung muss Rechnung
getragen werden.

Riassunto italiano:
Il contributo prende spunto dagli esiti di una inchiesta nazionale sulle tipologie di paesaggio preferite dai
Francesi: ne è risultato che la maggioranza dei Francesi annovera tra i paesaggi preferiti non tanto i grandi esempi
della cultura paesaggistica, quanto piuttosto i paesaggi consueti da cui sono circondati, che rivestono per loro un
significato personale emotivo o affettivo. Questo esito ripropone la domanda se e in che modo si possa parlare di
una “estetica dell’abituale”. In una prospettiva etnologica vale la pena esaminare chi, come e perché parla di
paesaggio (o non ne parla). I risultati di svariati studi dimostrano la complessità di tale campo di ricerca: da un lato
le tradizioni di una società condizionano il sentimento estetico del paesaggio; dall’altro l’ideale paesaggistico si
può modificare nel tempo, man mano che cambiano le condizioni esterne di vita. Anche il paesaggio ideale non
corrisponde necessariamente alla realtà paesaggistica attuale. Inoltre, il paesaggio viene percepito in modo diverso
dalle singole persone; è quindi da considerare con particolare attenzione la componente emotiva e simbolica del
legame paesaggistico.

Seconda parte – deuxième partie – zweiter Teil

RAFFAELE MILANI

DETERMINAZIONE DI UN’ESTETICA DEL PAESAGGIO

Deutsche Zusammenfassung:
Dieser Beitrag versucht, die Bedeutung und den Wert der Landschaft als ästhetische Kategorie zu bestimmen.
„Landschaft“ ist ein Grundbegriff der menschlichen Sensibilität und ist mit komplexen Reflektionen über die
vielfältigen Manifestationen der Natur und deren Verarbeitung in Kunst und Literatur verbunden. Die
ästhetische Erfahrung wird über ein dichtes Netzwerk aus kritischen Bemerkungen und Gefühlsausdrücken zu
einem kognitiven Prozess und eröffnet ein noetisches und ontologisches Feld. Ästhetische Kategorien sind
Indikatoren für die Beziehungen, die von unserer subjektiven Bewertung und unseren eigenen Empfindungen

312
abhängen; als solche vermögen sie, zwischen der menschlichen Intention und der inhärenten Natur der Welt zu
vermitteln und können dadurch die wahre Struktur der Objekte und Phänomene offen legen.
„Landschaft“ wird heutzutage zunehmend mit Ökologie, Geographie und Landnutzung gleichgesetzt, soll jedoch
in diesem Beitrag auf ihren ästhetischen Wert und ihre Funktion hin analysiert werden – Kategorien, die
Aufschluss geben über ihre kulturelle und historische Identität.
Für gewöhnlich gilt die Landschaft als Evolution einer Konstanten, einer Vielfalt von unterschiedlichen
Komponenten, deren Bedeutung gleichwohl “identisch” ist, da sie implizit in der Sprache und im menschlichen
Leben verwurzelt sind. „Landschaft“ ist die Antwort auf ein emotionales Bedürfnis, gibt aber gleichzeitig auch
der Suche nach Abstraktion Ausdruck. In der Landschaft finden wir ethische Wahrheit, denn wir feiern nicht nur
die „ungezähmte“ Natur, sondern auch den Lebensraum, der die Menschen verbindet, den Ort des Zwingenden
und des Möglichen, den Aristoteles als endekhomenon bezeichnete, eine Realität, in der wir nachdenken können
und die wir auch verändern können.
Die Landschaft als ästhetische Kategorie wird somit zu einem philosophischen Instrument; als ein vom
Geschmack abhängiges Produkt interagiert sie mit künstlerischen Prozessen: Landschaft wird mit bildnerischem
Auge betrachtet und erfahren, wird theatralisiert oder in Reisetagebüchern beschrieben. Landschaft wird jedoch
auch in einem weiter gefassten Kontext diskutiert: Die Figur des Menschen wird dabei in die Natur, Geschichte,
Kultur oder in Mythen integriert, und der Mensch besitzt die Fähigkeit, das Geheimnisvolle, Unerklärliche und
Unsichtbare zu verstehen. Objekte der Natur, auch diejenigen, die in keinerlei Zusammenhang zur menschlichen
Produktion stehen, können zum künstlerischen Ausdruck werden – und dies geschieht auf der Grundlage einer
mehr oder weniger bewussten Bewertung der Natur als ästhetische Erfahrung.

Résumé français :
Cette contribution essaie de définir le sens et la valeur du paysage comme catégorie esthétique. Le « Paysage » est
une notion fondamentale de la sensibilité humaine et est lié à une réflexion complexe sur les multiples
manifestations de la nature dans l’art et la littérature. L’expérience esthétique devient un processus cognitif à
travers un réseau dense de remarques critiques et d’expressions sentimentales : elle devient noétique et
ontologique. Les catégories esthétiques indiquent une dépendance des objets et des phénomènes par rapport à
notre évaluation subjective et nos propres sensations. En tant que telles, elles servent d’intermédiaires entre
l’intention humaine et la nature inhérente du monde et peuvent révéler la véritable structure des objets et des
phénomènes.
De nos jours, la notion de « paysage » est de plus en plus assimilée à l’écologie, à la géographie et à l’exploitation
du terroir. Cet article a toutefois pour objectif d’analyser la notion de « paysage » au regard de sa valeur
esthétique et de sa fonction et ainsi de mettre à jour l’identité culturelle et historique du paysage.
Communément, on considère le paysage comme étant l’évolution d’une constante, d’une multitude de
composantes différentes, dont le sens est néanmoins « identique », vu qu’elles sont enracinées implicitement dans
la langue et dans la vie humaines. Le « paysage » répond à un besoin émotionnel et exprime en même temps la
recherche de l’abstraction. Dans la nature, nous trouvons une vérité éthique : on ne célèbre pas seulement la
nature « sauvage » mais aussi l’espace vital qui connecte les humains, le lieu du coercitif et du possible, nommé
endekhomenon par Aristote, une réalité qui nous invite à la méditation et que nous pouvons influencer.
Le paysage comme catégorie esthétique devient ainsi un instrument philosophique. Dépendant de la personne
qui l’observe et de ses goûts, le paysage interagit avec le processus artistique : il est perçu et expérimenté par les
yeux du peintre, est théâtralisé ou décrit dans les carnets de voyage. Le traitement du paysage peut aussi s’ouvrir à
un contexte plus vaste : la figure humaine se trouve intégrée dans la nature, dans l’histoire, dans la culture ou
dans les mythes et possède la faculté de comprendre le mystère, l’inexplicable, l’invisible. Les objets de la nature,
y compris ceux qui n’ont aucun rapport avec une activité humaine, peuvent devenir expression artistique. Cette
transformation s’opère sur la base d’une évaluation, plus ou moins consciente, de la nature comme expérience
esthétique.

313
MICHEL COLLOT

PAYSAGE ET IDENTITE(S) EUROPEENNE(S)

Deutsche Zusammenfassung:
Der Beitrag geht von der Hypothese aus, dass die Landschaft einen Ausgangspunkt für die Konstruktion einer
europäischen Identität darstellen kann. Die Landschaft spielt seit jeher eine wichtige Vermittlerrolle zwischen der
konkreten Erfahrung und symbolischen Konstruktionen, zwischen lokalen und nationalen Identitäten bzw. einer
sich herausbildenden europäischen Identität. Die Landschaft ist ein Raum des Übergangs; als solcher kann sie ein
Modell anbieten für eine „offene Identität“, die die Öffnung zum Anderen nicht ausschließt. Um seine Identität
zu konstruieren, muss Europa sich sowohl dem Horizont der unterschiedlichen innereuropäischen Kulturen als
auch dem äußeren Horizont der Europa umgebenden Welt öffnen. Wenn Europa seine Landschaften und die in
ihnen enthaltenen lokalen, regionalen oder nationalen Identitäten pflegt und erhält, so bedeutet das nicht, dass
Europa sich nach außen hin verschließt, denn jede Landschaft kommuniziert über den eigenen Horizont hinaus.
Daher ist die Landschaft für Europa zum einen eine Quelle des Ursprungs, aus der es schöpfen kann, und zum
anderen ein Horizont, der ihm erlaubt, über sich selbst hinauszugehen.

Riassunto italiano:
Il contributo parte dall’ipotesi che il paesaggio possa rappresentare un punto chiave per la costruzione di
un’identità europea. Da sempre il paesaggio gioca un ruolo di mediazione importante tra l’esperienza concreta e
le costruzioni simboliche, tra le identità locali e quelle nazionali o riconducibili all’identità europea che si va
formando. Per il suo essere spazio di transizione, il paesaggio può offrire un modello di “identità aperta”, che
non esclude l’apertura verso l’altro. Per costruire la propria identità, l’Europa deve aprirsi su un duplice
orizzonte: da un lato quello delle sue diverse culture interne, dall’altro quello del mondo esterno. Se l’Europa
cura e conserva i suoi paesaggi e le identità locali, regionali e nazionali che in essi sono contenute, non significa
che si chiuda in se stessa: ogni paesaggio comunica oltre il proprio orizzonte. Per questo motivo il paesaggio
rappresenta per l’Europa una fonte originaria di rinnovamento e un orizzonte che le consente di andare oltre se
stessa.

YVES LUGINBÜHL

PAYSAGE ET POLITIQUE

Deutsche Zusammenfassung:
Landschaft und Politik stehen in einem engen Zusammenhang, der in diesem Artikel in seinen unterschiedlichen
Facetten aufgezeigt wird: Auf der einen Seite hängen die Umwandlungsprozesse der Landschaft oft mit
wirtschaftspolitischen Entscheidungen zur Bodennutzung zusammen. Auf der anderen Seite betreffen
stadtentwicklungs- und wohnungsmarktpolitische Entscheidungen oftmals auch die Landschaft, indem sich die
Stadtgrenzen verschieben und auf vormals ländliche Gebiete ausdehnen.
In einem Rückblick auf die vergangenen Jahrhunderte zeigt sich, dass die Veränderungen im politischen Denken
immer einen starken Einfluss auf die jeweilige Landschaftsauffassung bzw. den Stellenwert der Landschaft
hatten: Die jeweiligen Machtinhaber bestimmten die Art und Weise der Gebietsordnung und somit auch die
Landschaftsentwicklung. Der Freskenzyklus Die gute und die schlechte Regierung von Ambrogio Lorenzetti aus dem
Jahr 1336 zeugt bereits von dem Gedanken einer regierungsabhängigen Landschaftsentwicklung, wobei das
italienische Wort paesaggio erst in der Renaissance Eingang in die italienische Sprache findet. Im England des 18.
Jahrhunderts entwickelt sich im Zuge der Abschaffung der Feudalherrschaft und der Einführung des privaten
Bodenbesitzes, der landwirtschaftlichen und der industriellen Revolution eine neue Sensibilität für die Natur: Der
Englische Garten entsteht und prägt ein neues ästhetisches Ideal, dem zufolge die Landschaft „natürlich“ sein
und keine Spuren der menschlichen Aktivität aufweisen soll. Dieses Modell sollte die Gartenkultur der
europäischen Länder im 19. Jahrhundert entscheidend bestimmen, während im 20. Jahrhundert mehr und mehr

314
ökologische Aspekte in den Vordergrund treten. In der heutigen Zeit lässt sich beobachten, dass Landschaft
zunehmend als Bestandteil der individuellen Lebensumstände wahrgenommen wird, zu dem die Bevölkerung ein
Mitbestimmungsrecht wünscht. Dem trägt die Europäische Landschaftskonvention Rechnung, indem sie die
Zusammenarbeit mit der Bevölkerung bei allen Stadien der Erarbeitung von Landschaftspolitiken und –
planungsprojekten fordert.

Riassunto italiano:
Il paesaggio e la politica si trovano in un rapporto di stretta intercorrelazione che quest’articolo indaga nelle sue
molteplici sfaccettature: Da un lato le trasformazioni del paesaggio dipendono spesso da decisioni di politica
economica riguardanti l’utilizzo del terreno; dall’altro le decisioni sullo sviluppo urbano e sull’alloggio influiscono
spesso anche sul paesaggio, visto che i confini delle città si allargano fino a comprendere terreni che una volta
erano rurali.
Attraverso una retrospettiva sui secoli passati si può esaminare come i cambiamenti del pensiero politico abbiano
sempre avuto forti ripercussioni sulla concezione del paesaggio e sull’importanza accordatagli: i potenti
decidevano sull’ordine e sulla gestione del terreno e in questo modo anche sul paesaggio. Il ciclo di affreschi
L’allegoria del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti del 1336 ci offre una testimonianza di come lo
sviluppo del paesaggio sia dipendente dalla governance, anche se il termine paesaggio entrerà nella lingua italiana solo
in epoca rinascimentale. Nell’Inghilterra del XVIII Secolo, l’abolizione del feudalismo, l’introduzione della
proprietà terriera privata, la rivoluzione dell’agricoltura e quella industriale contribuirono all’emergere di una
nuova sensibilità nei confronti della natura: è in quel periodo che si sviluppa il “giardino all’inglese”, legato a un
nuovo ideale estetico che preconizza la massima “naturalezza” del paesaggio, privo di tracce riconducibili
all’attività umana. Tale modello determinerà in maniera decisiva la cultura del giardino nei Paesi europei durante
il XIX Secolo, mentre a partire dal XX Secolo gli aspetti ecologici prevarranno sempre più su quelli estetici. Al
giorno d’oggi si osserva che il paesaggio viene percepito in modo crescente quale parte integrante del quadro di
vita individuale, un elemento alla cui gestione la popolazione chiede di poter collaborare. La Convenzione
Europea del Paesaggio riconosce tale richiesta e rivendica il principio della cooperazione con la popolazione
durante tutti gli stadi dell’elaborazione di politiche e progetti di gestione paesaggistica.

GIORGIO MANGANI

I CASI DELLA NECESSITÀ

Résumé français :
La perception générale du paysage du Lac de Côme semble être fondée sur ses caractéristiques spécifiques, déjà
évoquées dans les écrits de Pline le Jeune (IIème siècle après Jésus-Christ) qui en exalte pour la première fois la
beauté et la richesse, ou bien, pour citer un exemple plus récent, dans ceux de Gianfranco Miglio, un partisan du
mouvement politique « Lega Lombarda » dans les années cinquante du XXème siècle. Ces représentations
rappellent la philologie humaniste de certains cercles littéraires du XVIème siècle ayant pour thème de prédilection
le Lac de Côme. Ces représentations se retrouvent également, et sans différences notoires, dans les expressions
littéraires du culte populaire de San Lucio, protecteur des fromagers de la « Vallée Cavargna ». La perception du
paysage du Lac de Côme semble donc être « déterminée » par des facteurs historiques et naturels qui exercent leur
influence sur le comportement humain.
A contrario, dans la région des Marches, la représentation du paysage semble être déterminée plus par la
considération de son caractère « exemplaire » que par ses spécificités physiques ce qui se traduit par une
célébration métaphysique du « paysage universel ». Il s’agit là probablement d’une conséquence du rôle important
que revêtent dans cette région les jardins, les paysages et les forêts pour la méditation religieuse. Les nombreux
monastères et les ordres mendiants se servaient en effet souvent des fleurs et des plantes glanés dans le paysage
comme d’instruments mnémoniques pour la méditation et la prière, comme le démontre par exemple la place du
rosaire qui devint la prière traditionnelle du Sanctuaire de Loreto, situé près d’Ancône.

315
Deutsche Zusammenfassung:
Die allgemeine Wahrnehmung der Landschaft des Comer Sees scheint auf ihren spezifischen Charakteristika zu
beruhen, die schon in den Schriften von Plinius dem Jüngeren (2. Jh. n. Chr.) genannt werden, der die Schönheit
und den Reichtum dieser Landschaft bewunderte; auch bei Gianfranco Miglio, einem Verfechter der politischen
Bewegung „Lega Lombarda“ in den 1950er Jahren findet sich diese Art der Wahrnehmung wieder. Dieses
Landschaftsgefühl erinnert an die humanistische Philologie, die am Comer See in literarischen Zirkeln im 16.
Jahrhundert praktiziert wurde, ist aber auch, in ganz ähnlicher Weise in der populären Verehrung für San Lucio,
den Schutzpatron der Käser des Cavargna-Tals, wieder zu finden. Die Landschaftswahrnehmung am Comer See
scheint also auf eine „deterministische“ Betrachtung der historischen und natürlichen Faktoren zurückzuführen
zu sein, die das menschliche Verhalten beeinflussen.
Im Gegensatz dazu scheint sich die Landschaftswahrnehmung in den Marken eher an der Betrachtung des
„exemplarischen“ Charakters der Landschaft als an deren Besonderheiten zu orientieren, was sich in einer
metaphysischen Verherrlichung der „universellen Landschaft“ widerspiegelt. Dies ist möglicherweise eine Folge
der wichtigen Rolle, die in dieser Region den Gärten, Landschaften und Wäldern für meditative und religiöse
Aktivitäten zukommt. Man denke etwa an die zahlreichen Klöster und Bettelorden, die häufig Blumen und
Pflanzen als mnemonische Instrumente für Meditation und Gebet nutzten, oder an den Rosenkranz, der zum
traditionellen Gebet des Wallfahrtsortes Loreto bei Ancona wurde.

GABRIELLA ROVAGNATI

VENEZIA: UNA LEGGENDA. DECLINAZIONI DI UN PAESAGGIO NELLA LETTERATURA TEDESCA

Deutsche Zusammenfassung:
Der Beitrag gibt einen Überblick über die Schilderung der (urbanen) Landschaft Venedigs in der
deutschsprachigen Literatur: Von Heynse bis Arthur Schnitzler, von Goethe bis Rudolf Pannwitz, über E.T.A.
Hoffmann, Grillparzer, Hofmannsthal und Nietzsche – um nur einige zu nennen – entwickelt sich das Bild einer
Stadt, die seit der Grand Tour des 18. Jahrhunderts bis hin zur Spätromantik und darüber hinaus immer eine
Sonderstellung in der Vorstellung deutschsprachiger Dichter und Schriftsteller eingenommen hat.
Eindrucksvoll ist zum Beispiel die Ballade von Conrad Ferdinand Meyer, die Giorgione den Entstehungsmythos
Venedigs aus einer Begegnung zwischen Liebe und Tod vortragen lässt. Rilke stellt dagegen im Venedig
gewidmeten Gedicht aus Christus. Elf Visionen eine unmittelbare Verknüpfung zwischen der Dekadenz der
Lagunenstadt und der Vision einer künftigen Dekadenz des Christentums her und bricht mit der thematischen
Kontinuität, die Venedig oft mit Ausdrücken aus der Traum- oder auch Alptraumwelt beschreibt. Für letzteres
liefert Sebald ein Beispiel, der ein Venedig in trüber und nebeliger Stimmung schildert. Vom Traum zum
Alptraum entwickeln sich die Ereignisse hingegen in Thomas Manns Novelle Der Tod in Venedig, die einen
Höhepunkt der literarischen Schilderung Venedigs darstellt und den Mythos der Lagunenstadt minutiös und
allumfassend wahrnimmt, der, auch dank der Verfilmung durch Luchino Visconti, dauerhaft in das allgemeine
Kollektivbewusstsein eingegangen ist.

Résumé français :
L’article fournit une vue d’ensemble de la description du paysage urbain de Venise dans la littérature allemande :
de Heynse à Arthur Schnitzler, de Goethe à Rudolf Pannwitz, en passant par E.T.A. Hoffmann, Grillparzer,
Hofmannsthal, Nietzsche et d’autres encore. Il en ressort l’image d’une ville qui, du Grand Tour au XVIIIème
siècle jusqu’à la Spätromantik et bien au-delà, a toujours occupé une place particulière dans l’imaginaire des poètes
et écrivains de langue allemande.
La ballade de Conrad Ferdinand Meyer en est une bonne illustration. L’auteur fait réciter à Giorgione le mythe
de l’origine de Venise, née de la rencontre de la mort et de l’amour. Rilke, en revanche, dans le poème dédié à
Venise issu du cycle Christ. Onze visions, crée un lien dialectique entre la décadence de la ville lagunaire et la vision
d’une future décadence du christianisme. Rilke rompt ainsi avec la continuité thématique d’une littérature qui voit
Venise souvent décrite avec des expressions qui relèvent du rêve ou du cauchemar. Cette dernière dimension se
retrouve chez Sebald qui évoque un jour de Toussaints passé à Venise dans une atmosphère brumeuse et
lugubre. Dans La mort à Venise de Thomas Mann, le cours des événements passe, du songe au cauchemar. Cette

316
nouvelle marque l’apogée de la description, minutieuse et exhaustive à la fois, de la ville lagunaire ainsi que de
son mythe, qui, entre autres grâce à l’adaptation cinématographique de Luchino Visconti, fait désormais partie
intégrante de notre imaginaire collectif.

MICHEL COLLOT

LE VISIBLE ET L’INVISIBLE: LES PAYSAGES AVEC FIGURES ABSENTES DE PHILIPPE JACCOTTET

Deutsche Zusammenfassung:
Philippe Jaccottet wurde 1925 in der französischen Schweiz geboren, lebte jedoch seit 1953 in Grignan,
Frankreich, wo er zum ersten Mal eine unwiderstehliche Anziehungskraft für Landschaften empfand. Diese
Erfahrung ist für ihn poetisch, da sie sich auf die Beziehung zwischen der inneren und der äußeren Welt, zwischen
dem Sichtbaren und dem Unsichtbaren, gründet. Diese versteckte Seite der Landschaft sollte nicht im religiösen
oder metaphysischen Sinn verstanden werden: Sie weckt ein Gefühl für das Sakrale, ohne jedoch den Glauben an
einen Gott zu implizieren. Daher müssen die modernen literarischen Landschaften Jaccottet zufolge frei sein von
mythologischen und poetischen Figuren, wie etwa Bildern oder Metaphern.

Riassunto italiano:
Philippe Jaccottet nacque nel 1925 nella Svizzera francese, ma dal 1953 visse a Grignan, in Francia, dove per la
prima volta subì il fascino irresistibile dei paesaggi. Questa esperienza fu per lui poetica, poiché fondata sulla
relazione tra il mondo interiore e quello esteriore, tra il visibile e l’invisibile. Questo lato nascosto del paesaggio
non deve essere interpretato in termini religiosi o metafisici: esso suscita un sentimento sacrale senza implicare la
fede in un dio. Di conseguenza, secondo Jaccottet, i paesaggi letterari moderni devono essere privi di figure
mitologiche e poetiche, quali immagini o metafore.

RAFFAELE MILANI

IL PAESAGGIO LETTERARIO COME PAESAGGIO REALE. SPUNTI DA GABRIELE D’ANNUNZIO

Deutsche Zusammenfassung:
Die Ästhetikforschung betrachtet die Landschaft aus dem Blickwinkel der Formenanalyse heraus. Aus dieser
Perspektive wird die Landschaft zu einer Form von Kunst: Sie regt uns an zu einer mentalen Haltung, in der wir
die Landschaft nicht in ihrer „objektiven“ Realität wahrnehmen, sondern in idealisierter Form. Die reale
Landschaft wird so zu einer literarischen Landschaft, und beide erhalten eine mythologische Dimension, die sich
Metaphern bedient und den Geist einer Landschaft in ein System aus Zeichen und Bildern übersetzt, das an das
Sprachsystem erinnert.
Die Wahrnehmung der natürlichen Landschaft ist eng mit der Wahrnehmung der architektonischen und urbanen
Landschaft verbunden: Auch hier wird die Wahrnehmung des realen Ortes häufig durch Orte der Phantasie
ersetzt, wie etwa das literarische Paris von Honoré de Balzac und Charles Baudelaire, das Prag von Franz Kafka
oder das Rom von Gabriele D’Annunzio, der ein besonders eindrucksvolles Beispiel dafür liefert, wie man das
poetische Wissen als Instrument zur Komposition und Transformation der Landschaft nutzen kann. In seiner
Villa del Vittoriale in Gardone entwickelte D’Annunzio eine visionäre Architektur, die Realität und Artefakt,
Erinnerung und Illusion, Garten und Landschaft miteinander verbindet zu einem „magischen“ Ort, geprägt von
den Werten des Symbolismus und des Futurismus. Es handelt sich um eine Art „literarischer Garten“, in dem die
Metapher allgegenwärtig ist und die reale Landschaft dem Reich der Phantasie weicht.

317
Résumé français :
La recherche esthétique tend à décrypter le paysage par l’analyse de ses formes. Dans cette optique, le paysage
devient une forme d’art : il nous incite à nous représenter le paysage mentalement, non pas dans son objectivité,
mais sous une forme idéalisée. Le paysage réel se transforme donc en paysage littéraire. Tous deux se trouvent
plongés dans une dimension mythologique reposant sur la métaphore qui ne se limite pas à reproduire, mais qui
traduit l’esprit du paysage par un système de signes et d’images semblable à celui d’une langue.
La perception du paysage naturel est fortement liée à celle du paysage architectural ou urbain où la perception du
lieu réel cède souvent la place à celle des lieux fantastiques et imaginaires, comme par exemple dans le Paris
littéraire d’Honoré de Balzac et de Charles Baudelaire, la Prague de Franz Kafka ou bien la cité de Rome vue par
Gabriele D’Annunzio. Ce dernier a su transformer de manière exemplaire le savoir poétique en instrument de
composition et de transformation du paysage. Dans sa Villa del Vittoriale à Gardone, D’Annunzio a inventé une
architecture visionnaire capable de concilier réalité et artifice, mémoire et illusion, où jardin et paysage se mêlent
pour devenir un lieu « magique », empreint des valeurs du symbolisme et du futurisme. Il s’agit ici d’une sorte de
jardin littéraire où, grâce à la métaphore omniprésente, la fantaisie et l’imaginaire évincent le paysage réel.

Terza parte – troisième partie – dritter Teil

RITA COLANTONIO VENTURELLI ET AL.

RIFLESSIONI METODOLOGICHE E APPLICATIVE SULLA GESTIONE INTEGRATA DEL PAESAGGIO


IL TEMPO LIBERO SULL’ACQUA: IL “PAESAGGIO DELLE VILLE STORICHE” DEL LAGO DI COMO
PER UN PAESAGGIO DELLA “PRODUZIONE MARCHE-ITALIAN STYLE”:
IL CASO DI STUDIO DELL’AREA METROPOLITANA DI ANCONA

Deutsche Zusammenfassung:
Die multidisziplinäre Forschungsgruppe der „AGRUR“ (Area gestione risorse urbane e rurali, Forschungsbereich am
Dipartimento di scienze applicate ai sistemi complessi (DISASC) der Universität Ancona) hat eine Methode zur
Gebietsanalyse, -diagnose und -prognose entwickelt, die den Planungsprozess unterstützen und eine
kontinuierliche Kontrolle des Gebiets ermöglichen soll. Diese Methode wird daher kurz beschrieben. In der
Forschungsgruppe sind unterschiedliche Kompetenzen und Fachbereiche vertreten; diese betreffen zum
Beispiel: Methoden und Instrumente zur Analyse und Verwaltung der ländlichen Landschaft (rural landscape
planner: methodology and GIS solutions), Instrumente und Methoden zur Umweltbewertung (environmental evaluation),
auf die Planung angewendete Landschaftsökologie (landscape ecology applied to planning) und historische
Kartographie (historical cartography).
Da die traditionelle interdisziplinäre Methode für Landschaftsanalysen wenig geeignet ist, wurde eine holistische
Auffassung zugrunde gelegt, die dem komplexen Gesamtzusammenhang der Landschaft gerechter wird.
Die erarbeitete Methode bildet die wissenschaftliche Grundlage für die Arbeit der Gruppe und liefert zudem
einen Ansatzpunkt für den Dialog mit den Institutionen, die für die Planung und Verwaltung des Gebiets
zuständig ist, so wie es in den hier vorgestellten Beispielen der Fall war. Unverzichtbare Grundlagen für das
Gespräch mit den Institutionen sind folgende drei Feststellungen:

a) Die Landschaft ist ein einheitliches, komplexes und dynamisches System, das sich durch die Einwirkung
spontaner Kräfte verändert, also durch spontane Prozesse und Kräfte, die durch menschliche Aktivitäten
ausgelöst werden. Landschaft ist somit ein komplexes Ökosystem, dessen integrativer Bestandteil der Mensch ist.
b) Vor dem Hintergrund, dem Bedürfnis nach einer neuen Art der Landschaftsverwaltung Rechnung tragen zu
wollen, stellt sich uns heute die Frage, welche aktuellen ethischen Funktionen die Landschaft ausüben soll.

318
c) Die Entwicklung einer neuen Landschaftsethik, die das Gleichgewicht zwischen den natürlichen Ressourcen
und den Bedürfnissen der Bevölkerung anstrebt, muss mit neuen Strategien zur Lösung sozialer Konflikte
gekoppelt sein. Diese Strategien sollten alle Akteure einschließen, die schöpferisch mit dem Gebiet arbeiten bzw.
in ihm leben.

Die entscheidende Verantwortung obliegt also der so genannten Governance. Damit ist nicht ein einziger
öffentlicher Entscheidungsträger gemeint, sondern ein komplexes Netzwerk, das die höchsten Ebenen der
Wirtschaft, Finanzwelt, Politik und öffentlichen Verwaltung umfasst. Oft sind diese Ebenen untereinander sehr
gut vernetzt, haben aber leider zu wenig Kontakt zu den Operateuren auf weniger hoher Ebene, die im
Kulturbereich effiziente Arbeit leisten.
Aus den Kontakten mit den verschiedenen Institutionen und aus einigen in den letzten Jahren durchgeführten
Forschungen haben sich zwei unterschiedliche, signifikante Gelegenheiten ergeben, die der Forschungsgruppe
erlaubt haben, eine Vermittlerrolle zwischen wissenschaftlicher Aktivität und Beratung der Governance auszuüben.
Diese beiden Gelegenheiten werden in Form von Fallstudien vorgestellt: Die erste Fallstudie beschäftigt sich mit
der Beziehung zwischen dem Siedlungssystem und dem ländlichen und natürlichen Kultursystem (Neuordnung
und Wiederherstellung des Gleichgewichts in der „Landschaft der Freizeit“ am Comer See); bei der zweiten
Fallstudie handelt es sich um die Beziehungen zwischen den industriellen Produktionssystemen und dem
zugehörigen Gebiet (die neue Landschaft der post-industriellen Produktion in der Region Marken). In beiden
Fällen standen essentielle Fragestellungen im Mittelpunkt, auf die versucht wurde, eine Antwort zu finden.

Die Analyse der ersten Fallstudie wurde durch den Kontakt zum Deutsch-Italienischen Zentrum Villa Vigoni,
zur DBU (Deutsche Bundesstiftung für Umwelt) und zur Comunità Montana „Alpi Lepontine“ angeregt. Folgende
Besonderheiten wurden festgestellt:
• Stratifizierung und Koexistenz verschiedener Siedlungsmodelle und unterschiedlicher sozialer
Interessen;
• Notwendigkeit einer Neuorganisation dieser Modelle mit dem Ziel, ein neu zusammengesetztes, neues
Landschaftsmodell zu erreichen.

Vor dem Hintergrund dieser Bestandsaufnahme rief die Phase der Diagnostik folgende Fragestellungen hervor:
• Muss es gerade die „Unordnung“ sein, die die Entwicklung dieser „interurbanen“ Gebiete bestimmt?
• Wie kann man ein „infraurbanes“ Siedlungsmodell erreichen, das sich vom „interurbanen“ Modell
unterscheidet?
• Welche Rolle können die unterschiedlichen sozialen Gruppen bei der Neuorganisation dieser Landschaft
spielen?
Die im Verlauf der weiteren Forschungen gefundenen Antworten auf diese Fragen können als Prognosen und
Empfehlungen an die Institutionen weitergegeben werden. Dazu gehören folgende Vorschläge:
• Für die drei herausgearbeiteten Gebietsuntergliederungen (Seebereich / Bereich am Fuß des Berges /
Bergbereich) sollte ein kontinuierlicher Austausch an Informationen aktiviert werden. Auch
Kooperationsprojekte und gemeinsame Absichten sollten erarbeitet werden.
• Die Harmonisierung der unterschiedlichen Landschaftssegmente zu einem einzigen, multifunktionalen
Gebiet sollte gefördert werden.
• Es sollte ein Prozess der Raumorganisation zugunsten eines neuen, kohärenten Kulturmodells angeregt
werden, das – wie auch aus der Umfrage zu den Wünschen der Bevölkerung hervorgeht – an die
langlebigen und robusten Strukturen der „Landschaft der historischen Villen“ anknüpft.

Die zweite Fallstudie wurde von der CNA Ancona (Confederazione nazionale della piccola e media impresa e
dell’artigianato) in Auftrag gegeben; sie orientierte sich an folgenden grundsätzlichen Fragestellungen, die die
integrierte Analyse ergeben hatte:
• Ist es richtig, weiterhin so zu arbeiten, dass Produktivität und Produktion in Industrie und Agrikultur in
einem unausgewogenen, widersprüchlichen Verhältnis stehen?
• Welches Gesamtentwicklungsmodell kann von einer Veränderung der Beziehung zwischen Produktivität
und Produktion abgeleitet werden?
• Welches Siedlungsmodell kann daraus entspringen und anschließend den lokalen Behörden zur
Integration in das Planungsinstrumentarium vorgeschlagen werden?

319
Die Besonderheiten, die während der Phase der Diagnostik herausgearbeitet wurden, legen es nahe, auch geistes-
und wirtschaftswissenschaftliche Kompetenzen in die Untersuchung miteinzubeziehen. Auch die Beteiligung der
Bevölkerung erscheint unabdingbar.

Die Phase der Prognose hat folgende Notwendigkeiten herausgestellt:


• Die Produktionsaktivitäten im Küstenbereich müssen sich von denen im Landesinneren unterscheiden,
entsprechend den Kriterien der örtlichen Angemessenheit, der verfügbaren Strukturen und dem sozialen
und kulturellen Modell.
• Jedes Produktionsgebiet sollte sich durch einen spezifischen und wieder erkennbaren Charakter
auszeichnen.
• Einige Fixpunkte sollten beachtet werden, die mit den spezifischen Variabeln in Verbindung gebracht
werden sollten:
a) im Umweltbereich: zum Beispiel die Beziehung mit dem Umland;
b) im Wirtschaftsbereich: zum Beispiel Bindung eines spezifischen Produktes oder einer Marke an einen
bestimmten Ort (wie es etwa im ländlichen Bereich mit der Aufwertung der Terroirs geschieht);
c) im sozialen Bereich: zum Beispiel die Beziehung zum sozialen Umfeld (zu vertiefen durch die an
Unternehmen und Bevölkerung verteilten Umfragebögen).

In beiden Fallstudien war es möglich, das neue Kulturmodell in groben Zügen bereits zu skizzieren, das die
Grundlage des angestrebten neuen Siedlungsmodells bilden soll. Vor diesem Hintergrund wird der Wert der
erarbeiteten wissenschaftlichen Arbeitsmethode deutlich: Durch die Kombination der Prinzipien der
Landschaftsökologie mit den sozialen und wirtschaftlichen Instanzen wird es möglich, eine integrierte Bewertung
zu formulieren und die spezifischen Merkmale eines Landschaftstyps zueinander in Beziehung zu setzen; hierbei
geht man von den physiographischen Merkmalen aus und bezieht nach und nach alle anderen Merkmale mit ein,
um schließlich Planungs- und Verwaltungsvorschläge zu geben.

Résumé français :
Le groupe de recherche multidisciplinaire de l’AGRUR – (Area gestione risorse urbane e rurali, unité de recherche du
Dipartimento di scienze applicate ai sistemi complessi (DISASC) de l’Université d’Ancône) a développé une
méthodologie permettant d’établir des diagnostiques et pronostiques en vue de soutenir la planification et le
contrôle continu du territoire. L’article décrit brièvement cette méthodologie adoptée par le groupe de recherche
au sein duquel sont représentés différentes compétences et courants de recherche, tels que les méthodes et
instruments d’analyse et de gestion du paysage rural (rural landscape planner: methodology and GIS solutions) ; les
instruments et méthodes relatifs à l’évaluation de l’environnement (environmental evaluation) ; l’écologie du paysage
appliquée à la planification (landscape ecology applied to planning) et la cartographie historique (historical cartography).
Etant donné que la méthode interdisciplinaire traditionnelle employée pour l’étude du paysage ne semble pas
adaptée, on a adopté une approche holistique, convenant mieux à la description du paysage comme étant le
résultat de l’action systématique de différents processus. La méthodologie ainsi élaborée sert de fondement
scientifique au travail du groupe. Elle fournit également une base de discussion pour engager le dialogue avec les
institutions responsables de la planification et de la gestion du territoire, comme c’était le cas pour les exemples
présentés dans cet article. La communication avec les institutions repose sur trois constatations préalables :

a) Le paysage est un système homogène, complexe et dynamique, qui se transforme sous l’action de
processus et forces spontanés déclenchés par les activités humaines. Le paysage est donc un écosystème
complexe dont l’homme fait partie intégrante.
b) Le problème qui se pose aujourd’hui afin de trouver un nécessaire nouveau mode de gestion du paysage
est de définir les actuelles fonctions éthiques du paysage.
c) Le développement d’une nouvelle éthique du paysage qui vise à atteindre un équilibre entre ressources
naturelles et besoins de la population doit être lié à de nouvelles stratégies de gestion de conflits sociaux.
Ces stratégies doivent reposer sur la collaboration de tous les acteurs qui façonnent le territoire et y
vivent.

En ce sens, la responsabilité revient à la gouvernance, et donc à une pluralité d’acteurs agissant aux plus hauts
niveaux décisionnels de l’économie, de la finance, de la politique et de l’administration publique. Souvent, ces

320
décideurs sont en étroite relation au sein de réseaux, mais n’ont malheureusement pas de contacts assez étroits
avec les acteurs se trouvant à des niveaux moins élevés et travaillant efficacement dans le domaine culturel.
Suite à des rencontres avec les diverses institutions concernées et aux recherches effectuées ces dernières années,
le groupe de recherche a eu deux occasions, certes différentes mais toutes deux significatives, de jouer son rôle
de médiateur entre développement scientifique et conseil de la gouvernance.
Ces deux occasions prennent la forme de deux cas d’étude qui représentent des exemples d’application de la
méthodologie proposée. La première étude s’est penchée sur le paysage du Lac de Côme et la relation entre
occupation du sol et systèmes culturels, naturel et rural (réorganisation et rétablissement de l’équilibre du
« paysage récréatif » sur les rives du Lac de Côme). La deuxième étude se concentre sur la région des Marches et
cherche à analyser les rapports entre systèmes productifs industriels et territoire concerné (un nouveau paysage
de la production post-industrielle dans la région des Marches).

La première étude a été inspirée par une prise de contact des chercheurs avec le Centre Italo-Allemand Villa
Vigoni, la DBU (Deutsche Bundesstiftung für Umwelt) et la Communauté de Montagne « Alpi Lepontine ». Les
chercheurs ont fait les observations suivantes :
• Stratification et coexistence de divers modèles d’occupation du sol et de divers intérêts sociaux ;
• Nécessité de réorganiser ces modèles avec pour objectif d’obtenir un nouveau modèle de paysage
« recomposé ».

Au vu de ce premier état des lieux, la phase de diagnostique a suscité les interrogations suivantes :
• Est-ce que le « désordre » doit nécessairement guider le développement dans ces zones
« interurbaines » ?
• Comment arriver à un modèle d’occupation du sol « infraurbain » qui se démarque du modèle
« interurbain » ?
• Quel rôle les divers groupes sociaux peuvent-ils jouer dans la recomposition du paysage ?

Les réponses apportées aux questions énoncées ci-dessus au cours de l’étude revêtent un caractère de
pronostique et recommandations et ont été, par la suite, soumises aux institutions :
• Activation d’un échange d’informations entre les trois zones territoriales mises en lumière : zone au pied
de la montage, zone de montagne et zone lacustre. Des projets conjoints et des intentions communes
doivent être développés.
• Harmonisation des diverses zones du territoire pour arriver à un territoire certes homogène, mais
multifonctionnel ;
• Programmation d’un processus d’organisation spatiale afin de créer un modèle culturel nouveau, mais
s’orientant vers les structures bien établies et anciennes du « paysage des villas historiques », comme la
population en a exprimé le souhait dans une enquête.

La deuxième étude a été commissionnée par la CNA (Confederazione nazionale della piccola e media impresa e
dell’artigianato, Province d’Ancône) et pose les questions issues de l’analyse intégrée :
• Est-il sensé de continuer à travailler de manière à produire un déséquilibre entre productivité et
production dans les systèmes industriels et agricoles ?
• Quel modèle de développement global peut-on faire émerger d’un changement de rapport entre
productivité et production ?
• Quel modèle d’occupation du sol peut-on proposer aux administrations locales afin qu’elles l’intègrent
dans leurs instruments de planification ?

Les particularités mises en évidence par la phase de diagnostique mettent en exergue l’utilité de la participation
du public ainsi que d’une coopération avec les sciences humaines et économiques. La phase de pronostique a
souligné la nécessité de :
• Parvenir à une différenciation des activités productives suivant la zone territoriale considérée : activités
différentes sur la côte et dans l’arrière-pays, adaptées aux lieux, aux structures en place et au modèle
social et culturel ;
• Donner à chaque zone de production un caractère spécifique et bien identifiable ;
• Identifier et fixer des constantes qui devraient être liées aux variables spécifiques des cas observés :
a) environnement : par exemple le rapport avec le paysage des alentours ;

321
b) économie : par exemple souligner le caractère typique d’une région en développant des produits
spécifiques ou une marque de type « appellation contrôlée » (comme c’est le cas dans les territoires
ruraux par la valorisation des « terroirs ») ;
c) contexte social : par exemple le rapport avec le contexte social et le respect des principes de tutelle et
de développement du paysage dans toutes ses dimensions culturelles et productives. Il faudrait
approfondir ce point grâce à des questionnaires distribués aux entreprises et à la population.

Les deux études ont permis d’esquisser un nouveau modèle culturel qui pourra être à la base d’un nouveau
modèle d’occupation du sol. La validité de la méthode de travail élaborée par le groupe de recherche semble être
ainsi confirmée par la pratique. En combinant les principes de l’écologie du paysage avec les nécessités sociales et
économiques, on parvient à formuler une évaluation intégrée et à articuler les caractéristiques spécifiques du
paysage analysé (en commençant par sa physiographie). Enfin, cette évaluation et le décryptage des relations
existant entre les différentes caractéristiques du paysage permettent de formuler des conseils et recommandations
en vue de la planification et de la gestion.

PIERRE DONADIEU

LE PAYSAGE, IDENTITES PAYSAGERES ET LE DEVELOPPEMENT DURABLE URBAIN

Deutsche Zusammenfassung:
Der Begriff der Landschaftsidentität, der sich auf die vorwiegend visuelle Erfahrung des erlebten Raums bezieht,
gehört zu den sozialen und kulturellen Werten, die in der Europäischen Landschaftskonvention von Florenz in
den Vordergrund gestellt wurden. Landschaftsidentitäten sind historische Konstruktionen mit einem Beginn und
einem Ende. In diesem Artikel wird die Art und Weise analysiert, in der die Identitäten auftreten, erhalten
werden, in eine Krise geraten und schließlich verschwinden. Einige von ihnen sind aus einer territorialen
Governance aus öffentlichen und privaten Akteuren hervorgegangen und sind Beispiele für aktuelle soziale
Projekte zur Konstruktion einer multifunktionellen Raumnutzung, die der Ethik einer nachhaltigen
Stadtentwicklung entspricht.

Riassunto italiano:
La nozione di identità paesaggistica, che si riferisce soprattutto all’esperienza visuale dello spazio vissuto, fa parte
dei valori sociali e culturali messi in evidenza dalla Convenzione Europea del Paesaggio di Firenze. Le identità
paesaggistiche sono costruzioni storiche con un inizio e una fine. L’articolo analizza le modalità secondo cui tali
identità si manifestano, vengono conservate, entrano in crisi e poi scompaiono. Alcune di esse derivano da una
governance territoriale che riunisce attori pubblici e privati e sono esemplificative di progetti sociali recenti per la
costruzione di un uso multifunzionale dello spazio che corrisponde all’etica dello sviluppo urbano sostenibile.

GIOVANNI BUZZI

LA DIMENSIONE ECONOMICA E SOCIALE DEL PAESAGGIO CULTURALE EXTRAURBANO

Deutsche Zusammenfassung:
Der geographische Raum von den Alpen bis zum Po beinhaltet vier verschiedene Kulturlandschaftsarten: die
alpine Acker- und Weidelandschaft, die immer häufiger aufgegeben wird; die urbane Landschaft, die sich mit ihrer
Infrastruktur immer weiter ausbreitet; die von Getreide- und Futteranbau geprägte moderne Agrarlandschaft sowie
die Parklandschaft (insbesondere der Parco del Ticino), in der ein Modell für nachhaltige Entwicklung angewendet
wird, das in der Lage ist, die natürliche Biodiversität und die kulturellen Traditionen zu erhalten. Ein Großteil der
extraurbanen Kulturlandschaften ist das Produkt der landwirtschaftlichen Verfahren und Techniken, die seit

322
Jahrhunderten auf das Gebiet einwirken und eine Landschaftsvielfalt geschaffen haben, die einen wichtigen
Bestandteil des europäischen Kulturerbes darstellt.
Die moderne Agrarlandschaft ist durch einen globalen Entwicklungsprozess entstanden, der seit Ende des 19.
Jahrhunderts den Import von Lebensmitteln begünstigt hat. So hat der Import großer Getreidemengen aus
Osteuropa die Schweizerische Hochebene von einem Getreideanbaugebiet zu einem Viehzuchtgebiet werden
lassen, während der Import chinesischer Seide in wenigen Jahrzehnten zum Verschwinden der
Maulbeerhainlandschaften in der Lombardei beitrug. Nach dem Zweiten Weltkrieg wurde durch die
Beschleunigung der Transportmittel und durch neue Konservierungstechniken eine wachsende Entkoppelung
der Produktion vom Ursprungsstandort möglich, die jedoch mit einer höheren wirtschaftlichen Abhängigkeit
von den Exportländern der wichtigsten Landwirtschaftsprodukte einherging. Heutzutage sind landschaftliche
Veränderungen also mehr denn je das Produkt der internationalen Handelswege.
Andreas Muhar, Professor für Ökologie an der Universität Wien, entwarf zwei verschiedene Szenarien für die
künftige Entwicklung:
1. Die systematische Anwendung der GATT-Tarifabkommen (General Agreement on Trade and Tarifs)
wird zu einer zusätzlichen Rationalisierung und Konzentrierung der Agrarproduktion führen.
Dies wird notwendigerweise einen Verzicht auf Mischkulturen zugunsten von einer intensiven
und immer spezialisierteren Monokulturnutzung nach sich ziehen. Die meisten traditionellen
Kulturlandschaften werden verschwinden, nur einige „Museumslandschaften“ werden zu
touristischen Zwecken erhalten bleiben.
2. Die Landwirtschaftszuschüsse werden in Öko-Prämien umgewandelt, um eine Mindestzahl an
landwirtschaftlicher Bevölkerung zu erhalten und damit den Schutz der Kulturlandschaften zu
ermöglichen. Der Naturschutz wird zu einem wichtigen Bestandteil der Agrarpolitik; eine
wachsende Anzahl an Flächen wird unter Schutz gestellt in einer ansonsten von modernen
Landwirtschaftsbetrieben mit intensiver Produktion dominierten Landschaft.
Mit Blick auf den hohen Verbrauch an nicht erneuerbarer Energie und auf die sinkende Qualität des Wassers,
der Luft und des Bodens, die die moderne Landwirtschaft verursacht, beschloss Muhar seine Analyse mit dem
Wunsch nach einem landwirtschaftlichen Produktionssystem, das die Beziehung zwischen Arbeit und Produkt
optimiert und dabei die Umwelt so wenig wie möglich belastet.
Unter den Ländern, die nationale Forschungsprojekte zur Kulturlandschaft entwickelt haben, verdienen
Österreich und die Schweiz besondere Erwähnung, denn sie haben eine holistische Sicht auf die
Landschaftsprobleme erarbeitet und eine harmonische Verknüpfung zwischen den ästhetisch-formalen und den
ethisch-funktionalen Zielen geschaffen.

Résumé français :
Le territoire géographique qui s’étend des Alpes jusqu’au fleuve Pô est caractérisé par la succession de quatre
types de paysage culturel : le paysage agro-pastoral alpin qui est progressivement abandonné ; le paysage urbain avec
ses infrastructures en expansion qui englobent villages et villes préexistantes ; le paysage agraire moderne dominé en
grande partie par les monocultures fourragères et céréalières ; le paysage du parc naturel (plus précisément du Parco
del Ticino) où l’on pratique un modèle de développement durable en vue de protéger la biodiversité naturelle et les
traditions culturelles.
La majeure partie des paysages culturels extra-urbains est le résultat des pratiques et techniques de l’agriculture
qui modèlent le territoire depuis des siècles. Il en a découlé la grande variété de paysages qui représente une des
principales richesses du patrimoine culturel de l’Europe.
Le paysage agricole moderne a été forgé par un développement global qui a commencé à partir de la fin du
XIXème siècle et qui a favorisé l’importation de certaines denrées alimentaires. Ainsi, l’importation de grandes
quantités de céréales de l’Est de l’Europe a transformé le plateau suisse, qui jadis produisait des céréales, en terre
d’élevage. De même, l’importation de la soie chinoise a contribué à la disparition, en quelques décennies, du
paysage des mûriers en Lombardie.
Après la deuxième guerre mondiale, l’augmentation de la vitesse dans les transports et les nouvelles techniques de
conservation ont contribué à une délocalisation galopante des productions. Parallèlement, la dépendance
économique par rapport aux pays exportateurs des principaux produits agricoles s’est considérablement accrue.
Plus que jamais, les transformations du paysage sont donc aujourd’hui le produit des flux commerciaux
internationaux.
Andreas Muhar, Professeur d’Ecologie à l’Université de Vienne, a proposé deux scénarios pour un
développement à venir :

323
1° : L’application systématique des accords du GATT (General Agreement on Trade and Tarifs)
conduira à une rationalisation et une concentration renforcées de la production agricole. Cela
entrainera nécessairement un abandon des cultures mixtes au profit de monocultures intensives
toujours plus spécialisées. La majeure partie des paysages culturels traditionnels disparaîtra, à
l’exception de quelques « paysages-musée » conservés à des fins touristiques.
2° : Les actuelles subventions allouées à l’agriculture seront converties en bonus écologiques afin
de maintenir une population rurale ayant pour mission de conserver les paysages culturels. La
protection de la nature deviendra une des clés de la politique agricole et verra s’accroître la surface
des territoires protégés qui s’inséreront dans un paysage dominé par des entreprises agricoles à
production intensive.
Face à la consommation élevée d’énergies non renouvelables et à la dégradation progressive de la qualité de l’eau,
de l’air et du sol causée par l’agriculture moderne, Muhar conclue son analyse en appelant de ses vœux un
système de production agricole qui optimise la relation entre le travail et le produit tout en minimisant au
maximum l’impact sur l’environnement.
Parmi les pays qui ont développé des projets nationaux de recherche sur les paysages culturels, l’Autriche et la
Suisse méritent une attention particulière : elles ont su élaborer une vision holistique des problèmes du paysage,
en harmonisant les objectifs à caractère esthétique et formel avec ceux de nature éthique et fonctionnelle.

PIERRE DONADIEU

LE LANDSCAPE URBANISM EST-IL UN NOUVEAU MODELE DE PRATIQUES PAYSAGISTES ?

Deutsche Zusammenfassung:
Der Artikel analysiert den Begriff „landscape urbanism“ im europäischen und insbesondere im französischen
Kontext. Dieser vor kurzem entstandene Begriff amerikanischer Herkunft bezieht sich auf den Wendepunkt, den
für die Landschaftsarchitekten Bernard Tschumis siegreiches Projekt beim Wettbewerb für den Parc de la Villette
(Paris) im Jahr 1982 verkörpert. Ab diesem Zeitpunkt veränderten sich die Praktiken der Landschaftsarchitekten
dahingehend, dass die zuvor wenig evolutionären Arbeiten zunehmend abgelöst wurden durch Projekte zur
„räumlichen Begleitung“ bekannter oder unbekannter ökonomischer, ökologischer und sozialer Entwicklungen,
die als „zu gestaltende Räume“ aufgefasst wurden. Angestrebt wurde insbesondere die szenographische
Aufwertung der postindustriellen Erinnerung und der örtlichen Geographie. Bei dieser Entwicklung spielten die
öffentlichen Mächte in Frankreich eine besondere Rolle; auch die Berücksichtigung des Begriffs „nachhaltige
Stadtentwicklung“ ist in diesen Zusammenhang einzuordnen.

Riassunto italiano:
L’articolo analizza la nozione di landscape urbanism nel contesto europeo, e soprattutto in quello francese. Tale
nozione molto recente, di origine americana, si riferisce alla svolta rappresentata, per gli architetti del paesaggio,
dal progetto vincente di Bernard Tschumi, in occasione del concorso del Parc de la Villette a Parigi, nel 1982. A
partire da tale data, i lavori degli architetti del paesaggio, caratterizzati fino ad allora da opere scarsamente
“evolutive”, hanno cominciato a svilupparsi sempre di più verso progetti di accompagnamento spaziale agli
sviluppi economici, ecologici e sociali, conosciuti o sconosciuti, considerati come “spazi da pianificare”. Tali
progetti si sono concentrati soprattutto sulla valorizzazione scenografica della memoria post-industriale e della
geografia dei luoghi. Sono stati di particolare rilievo in questo contesto il ruolo delle forze pubbliche francesi,
nonché la considerazione recente della nozione di sviluppo urbano sostenibile.

324
PAOLA BRANDUINI

LA GESTIONE DELLE TRASFORMAZIONI NEL PAESAGGIO AGRICOLO PERIURBANO.


PERMANENZE STORICHE E PAESAGGI FUTURI

Deutsche Zusammenfassung:
Die ländliche Landschaft am Stadtrand ist ein komplexes System, das in schnellem Wandel begriffen ist. Sie
besteht aus unterschiedlichen Komponenten und Beziehungen, die ihrerseits wiederum von verschiedenen
Akteuren abhängen, die auf sie einwirken. Sie beinhaltet die physischen Zeichen vergangener Generationen
ebenso wie die Bedeutungen, die ihr in den verschiedenen Epochen zugeschrieben wurden.
Um die laufenden Veränderungen in dieser Landschaft verstehen zu können, muss man die Permanenzen der
historischen Landschaftssysteme erkennen und untersuchen, wie die Bevölkerung diese Landschaften
interpretiert und in ihnen lebt.
Der öffentlichen Verwaltung obliegt es, diese Landschaft und die Wandlungsprozesse zu regulieren und
Entscheidungen über ihr Schicksal zu treffen. Was ist hierbei zu beachten? Um besser verstehen zu können, wie
sich eine ländliche Landschaft am Stadtrand im Lauf der nächsten Jahre verändern könnte und wie man den
Wandlungsprozess lenken kann, ist es hilfreich, zunächst die aktuellen Tendenzen, den derzeitigen
Entwicklungsstand und die Änderungsabsichten zu untersuchen, um dann angemessene Maßnahmen zum
Schutz und zum Erhalt sowie zur Aufwertung der Landschaft einzuleiten.

Résumé français :
Le paysage agricole périurbain est un système complexe se transformant rapidement. Il est constitué d’éléments
et d’interactions qui dépendent de différents acteurs exerçant à leur tour une influence sur les premiers. Le
paysage présente les signes physiques qui y ont été inscrits par les générations précédentes ainsi que les valeurs
qui lui ont été attribuées dans les diverses époques.
Afin de pouvoir comprendre les changements en cours dans ce paysage, il est important de reconnaître les
permanences des systèmes historiques présents dans les paysages et de cerner comment la population les
interprète et vit dans ces lieux.
L’administration publique est appelée à gérer le territoire et les transformations qui lui sont inhérentes, à prendre
des décisions sur le sort du paysage : que lui faut-il prendre en considération ?
Pour mieux comprendre comment un paysage agricole périurbain pourrait changer au cours des années à venir et
comment en guider la transformation, il faut d’abord analyser les tendances actuelles, faire un état des lieux et
déterminer quelles sont les intentions des divers acteurs en matière de changements. Ensuite, on pourra adopter
des mesures adéquates de protection, de conservation et de valorisation du paysage.

PIERRE DONADIEU

LES PROFESSIONNELS DU PAYSAGE ET LA CONSTRUCTION DES BIENS COMMUNS PAYSAGERS.


LE CAS DE L’AGRICULTURE URBAINE

Deutsche Zusammenfassung:
Seit mindestens fünfzig Jahren haben der französische Staat und die öffentlichen Stadtverwaltungen die Berufe
im landschaftlichen Sektor neu organisiert, um der sozialen Nachfrage nach Lebensqualität in Stadt und Land
(z.B. landschaftliche Identität, Wohlbefinden, Schönheit oder Gedächtnis) Rechnung zu tragen. Die
Landschaftsexperten intervenieren auf pragmatische Weise: durch den Schutz oder die Erneuerung des
Landschaftserbes oder durch Planung und Schaffung neuer Landschaften.
Handelt es sich um agriurbane Projekte, so bezeichnen die Landschaftsexperten die ländlichen Gebiete am
Stadtrand als „städtische Gemeingüter“, da es sich um Werte von allgemeinem Interesse handelt (man denke
etwa an die Nahrungsabsicherung in den Städten, die zivile Sicherheit, die Freizeitgestaltung oder an die

325
Vermeidung der weitschweifigen Stadtentwicklung). Im Namen der Befriedigung der öffentlichen Nachfrage
nach Lebensqualität und sozialem Wohlstand geht diese Einordnung einher mit einer Einteilung der Akteure in
Gewinner und Verlierer.

Riassunto italiano:
Da almeno cinquant’anni lo Stato francese e i poteri pubblici urbani hanno riorganizzato le competenze del
settore paesaggistico al fine di rispondere alla domanda sociale di garantire un’elevata qualità della vita urbana e
rurale (si pensi all’identità paesaggistica, al benessere, alla bellezza, alla memoria ecc.). Gli esperti di paesaggio
intervengono in maniera pragmatica, sia proteggendo o restaurando l’eredità paesaggistica, sia pianificando e
creando paesaggi nuovi.
Nel caso di progetti agri-urbani, gli operatori paesaggistici definiscono i paesaggi agricoli periferici come “beni
comuni urbani”, trattandosi di valori d’interesse generale (la garanzia alimentare nelle città, la sicurezza civile, il
tempo libero, la lotta contro la città allargata ecc.). In nome della necessità di soddisfare la domanda pubblica di
qualità della vita e benessere sociale, tale denominazione paesaggistica finisce per dividere gli attori in vincenti e
perdenti.

326
GLI AUTORI – LES AUTEURS – DIE AUTOREN

MONICA BOCCI
Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Scienze Applicate ai Sistemi complessi, Area
Gestione Risorse Urbane e Rurali, Facoltà di Ingegneria, Ancona.
E-Mail: boccimonica@tin.it

PAOLA BRANDUINI
Politecnico di Milano, Laboratorio di documentazione e ricerca per il paesaggio, Dipartimento di
Progettazione dell’Architettura.
E-mail: paola.branduini@polimi.it

GIOVANNI BUZZI
Architetto e geografo, Studi Associati SA, Lugano; attività didattica e di ricerca presso il Politecnico
di Milano, l’Università di Bologna e la Scuola universitaria professionale dei due Semicantoni di
Basilea.
E-mail: buzzi@sasa.ch

RITA COLANTONIO VENTURELLI


Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Scienze Applicate ai Sistemi complessi, Area
Gestione Risorse Urbane e Rurali, Facoltà di Ingegneria, Ancona.
E-Mail: r.colantonio@univpm.it

MICHEL COLLOT
Université de Paris III, Littérature française, Directeur de l’Unité mixte de recherche « Écritures de
la modernité », UMR 7171 associée au CNRS.
E-Mail : michelcollot@free.fr

PIERRE DONADIEU
Ecole nationale supérieure du paysage de Versailles, E.N.S.P.
E-Mail : p.donadieu@versailles.ecole-paysage.fr

FRANÇOISE DUBOST
Directrice de recherche au CNRS, rattachée au Centre de sociologie des arts à l’EHESS (Ecole des
hautes études en sciences sociales, Paris).
E-Mail : dubost.francoise@free.fr

ALFONS DWORSKI
Universität Hannover, Institut für regionale Architektur und Siedlungsplanung.
E-Mail: dworsky@iras.uni-hannover.de

MARIA EMILIA FARACO


Dirigente Servizio Arredo urbano, Comune di Ancona.
E-Mail: farmar@comune.ancona.it

ANDREA GALLI
Università Politecnica delle Marche, Dipartimento di Scienze Applicate ai Sistemi complessi, Area
Gestione Risorse Urbane e Rurali, Facoltà di Agraria, Ancona.
E-Mail: galli@univpm.it

327
HANSJÖRG KÜSTER
Universität Hannover, Institut für Geobotanik.
E-Mail: kuester@geobotanik.uni-hannover.de

YVES LUGINBÜHL
Université de Paris 1 – La Sorbonne, UFR Géographie ; directeur de recherche au CNRS, UMR
LADYSS ; consultant auprès du Conseil de l’Europe ; co-rédacteur de la Convention Européenne
du Paysage et de la Charte du Paysage Méditerranéen ; président du Comité Scientifique du
programme « Paysage et développement durable » du ministère de l’écologie et du développement
durable (France).
E-Mail : Yves.Luginbuhl@univ-paris1.fr

GIORGIO MANGANI
Direttore del Sistema Museale della Provincia di Ancona e della casa editrice “Il Lavoro Editoriale”.
www.giorgiomangani.it

ERNESTO MARCHEGGIANI
Università Politecnica delle Marche, Facoltà di Agraria.
E-Mail: e.marcheggiani@univpm.it

RAFFAELE MILANI
Università degli Studi di Bologna, Dipartimento di Filosofia.
E-Mail: milani@philo.unibo.it

GIOVANNA PACI
Università Politecnica delle Marche, Facoltà di Agraria.
E-Mail: paci.gio@libero.it

GIULIO PETTI
Università Politecnica delle Marche, Facoltà di Ingegneria.
E-Mail: giulio.petti@infinito.it

GABRIELLA ROVAGNATI
Università degli Studi di Milano, Facoltà di Lingue e Letterature straniere.
E-mail: gabriella.rovagnati@unimi.it

328

Potrebbero piacerti anche