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PREMESSA

L’obiettivo della presente ricerca è quello di analizzare il concetto di “oggetto

sonoro” introdotto dal compositore francese Pierre Schaeffer all’interno del suo

testo principale, il Traitè des objets musicaux. Quest’opera venne, a suo tempo,

accantonata e dimenticata forse troppo velocemente sia dai comuni lettori, sia

dalla critica specializzata e ciò fu in primo luogo causato dalla complessità ed

eterogeneità dei contenuti in essa affrontati. La proposta avanzata in

quest’opera, che sembra incarnare quel senso di rinnovamento caratteristico di

buona parte dell’esperienza musicale novecentesca, è quella di rifondare e

ridefinire l’idea stessa di musica a partire da una riflessione su ciò da cui ogni

linguaggio musicale possibile prende necessariamente le mosse: il suono.

In un’epoca di trasformazioni sempre più rapide e vorticose, il Traitè

rappresenta un vero e proprio ritorno alle origini: per comprendere come abbia

origine qualunque prassi musicale è necessario in primo logo riflettere su cosa

sia il suono, su quali rapporti esso stringa con la realtà da cui trae origine, su

quali siano le possibili modalità d’ascolto. La riflessione sulla musica impone

dunque di porsi immediatamente al di fuori della musica stessa, ricominciando

dalla materia sonora.

Il tentativo di Schaeffer ha dunque, in primis, un valore filosofico:

interrogandosi sull’universo sonoro, egli intende gettare le basi per una

fenomenologia del suono che sappia contrapporsi a concezioni fiscaliste da un

lato (significativa da questo punto di vista la sua critica al metodo

dell’acustica) ed allo psicologismo dall’altro.

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Stando a questa premessa Schaeffer sembrerebbe interrogarsi sulla possibilità

di un ascolto pre-linguistico, su quella modalità percettiva che precede ogni

sistema di valori musicali possibile.

In realtà la domanda schaefferiana appare ancora più radicale se si considera

attentamente l’“oggetto sonoro”, inteso come il manifestarsi del suono in sé

stesso.

Per potersi dire oggetto sonoro, un suono deve poter essere ascoltato non

soltanto al di fuori di ogni valenza culturale, ma anche al di fuori da ogni

rapporto con la realtà da cui esso è scaturito: un oggetto sonoro autentico – e in

ciò consiste la purezza cui allude Schaeffer- è il suono al di fuori di ogni

possibile rimando percettivo. Esso non deve dunque farsi portatore di alcun

significato e soprattutto di alcuna informazione sulla fonte sonora che lo ha

generato.

Analizzando il concetto di “oggetto sonoro” e l’idea, di cui esso si fa portatore,

di un ascolto puro, sarà possibile mostrare in che misura la proposta

schaefferiana di una rifondazione del musicale a partire dal suono stesso possa

essere considerata valida e feconda. Lungi dal voler proporre unicamente una

chiarificazione del concetto-guida del Traitè, il tentativo è piuttosto quello di

mostrarne il fascino e la vivacità: il concetto di oggetto sonoro, pur aprendosi a

considerazioni di carattere metafisico, può portarci a riflettere sul complesso

legame che si instaura tra i suoni e la realtà da cui essi hanno origine.

La ricerca si articola in tre capitoli.

Nel capitolo primo viene introdotto il problema dell’oggetto sonoro e viene

chiarita l’impostazione metodologica di Schaeffer, attraverso l’analisi della

critica nei confronti del metodo della fisica acustica.

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Il concetto di “oggetto” viene ulteriormente a chiarirsi grazie alla successiva

analisi dei caratteri tipici del suono. Emergono in questo paragrafo i problemi

principali in cui si imbatte il cammino verso l’ascolto puro, primo tra tutti il

problema della fonte sonora. Una prima possibilità di “generare” oggetti sonori

emerge nell’ultimo paragrafo in cui si analizza il discorso schaefferiano sulla

registrazione elettro-acustica.

Nel secondo capitolo viene introdotto il concetto di acusmatica ed analizzata la

teoria schaefferiana dei quattro ascolti.

Nell’ultimo capitolo infine viene presa in considerazione l’analisi del

paesaggio sonoro quotidiano svolta dallo studioso canadese Murray Schafer e

viene analizzato più nello specifico il problema della fonte sonora, lasciato

precedentemente in sospeso.

Prima di introdurre il concetto di oggetto sonoro è però opportuno inquadrare il

Traitè des objets musicaux nel contesto storico e culturale in cui ha avuto

origine.

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INTRODUZIONE: Elementi di novità della
musica novecentesca

Nel 1948 Pierre Schaeffer, ingegnere e tecnico del suono presso l’ente

radiofonico francese, registrò il rumore dei motori a vapore di alcune

locomotive, arrivando a creare, in seguito a varie manipolazioni del materiale

così ottenuto, una breve composizione dal titolo Etude aux Chemins de fer.

Questo brano rappresenta l’inizio della sua attività di ricerca sonora e musicale

e segna nel contempo la nascita della cosiddetta “musica concreta”. Nel 1949

fu lo stesso Schaeffer a chiarire il senso di questa definizione all’interno della

rivista Polyphonie:

« concreto […] il materiale di base perché presente in natura, e


concreta la musica che trae origine da esso, in opposizione alla
musica tradizionale definita astratta. Noi abbiamo chiamato la
nostra musica concreta, poiché essa è costituita da elementi
preesistenti, presi in prestito da un qualsiasi materiale sonoro - sia
rumore o musica tradizionale. Questi elementi sono poi composti in
modo sperimentale mediante una costruzione diretta che tende a
realizzare una volontà di composizione senza l'aiuto, divenuto
impossibile, di una notazione musicale tradizionale. »

Negli anni successivi si svilupperà a Parigi un vero e proprio gruppo di

ricerca sulla musica concreta, di cui uno dei maggiori esponenti fu certamente

Pierre Henry, il quale collaborò attivamente con Schaeffer nella realizzazione

di alcune delle composizioni più rappresentative di questo periodo, Symphonie

pour un homme seul (1949-1950) e Orpheé (1953). Il gruppo di musica

concreta costituì un’autentica avanguardia all’interno del panorama musicale

europeo di questi anni, ma ciò fu dovuto soprattutto all’elevato livello

tecnologico raggiunto nell’ambito della registrazione elettroacustica; lo stesso

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Schaeffer era noto più come ingegnere del suono e tecnico radiofonico, che

non come compositore e la sua fama in questo ambito era tale da stimolare i

musicisti di tutto il mondo a raggiungere Parigi per saggiare di persona le

nuove possibilità offerte alla composizione musicale.

La nuova musica potrebbe essere definita come una sorta di “collage” sonoro,

in cui i classici suoni strumentali vengono assemblati e manipolati in vario

modo insieme ad altri suoni di diversa provenienza. Secondo Schaeffer la

concretezza di questa nuova modalità compositiva emergeva dall’utilizzo di

suoni estrapolati dalle situazioni di vita quotidiana, che rispetto a quelli

immateriali della musica tradizionale, apparivano certamente più tangibili e

appunto concreti: il trillare di un campanello o il latrato di una sirena potevano

essere inseriti, previa registrazione, in un brano e mescolati con i suoni eterei

degli strumenti classici.

Gran parte della cosiddetta musica colta o elevata si caratterizza, al contrario,

come “astratta”, proprio per il suo trascurare la vivacità e la ricchezza di

significati posseduti dal paesaggio sonoro dell’uomo. Contro questa musica,

capace ormai soltanto di riflettere viziosamente sulle sue strutture di

riferimento, sul suo linguaggio, è necessario un rinnovamento che mostri

l’importanza di un ritorno ai contenuti ed alla materia sonora concreta.

Tuttavia non è soltanto la musica tradizionale a caratterizzarsi come “astratta”,

ma anche quella nuova corrente che si stava sviluppando in quegli stessi anni:

la musica elettronica. Schaeffer affronta direttamente la polemica nei confronti

di questa disciplina nella parte introduttiva del suo testo teorico principale, il

Traitè des objets musicaux, in cui effettua un raffronto atto a identificare di

ognuna pregi e difetti.

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Parlando di musica elettronica, egli si riferisce nello specifico a quel nuovo

modo di comporre basato sulla cosiddetta sintesi del suono, di cui il maggiore

esponente fu Karlheinz Stockhausen. Grazie al sintetizzatore la creatività del

compositore poteva finalmente attingere a un ventaglio di possibilità

virtualmente infinito: questo nuovo mezzo infatti consentiva di creare dal nulla

nuovi suoni mai uditi prima d’ora. Tale allettante promessa, che sembrerebbe

permettere il disvelarsi di un universo sonoro sconosciuto, cela tuttavia una

grande limitazione: la sintesi, ovvero la creazione di sonorità nuove, si realizza,

in pratica, inserendo in un calcolatore dei valori corrispondenti ai parametri

fisici del suono che si vuole ottenere. E’ questa l’astrattezza di cui Schaeffer

taccia la musica elettronica: questo modo di comporre non è concreto perché

comporta la perdita di quel rapporto fabbrile con lo strumento musicale, che ha

caratterizzato l’attività umana fin da tempi antichissimi. Se la creazione del

suono non avviene più mettendo direttamente in vibrazione la materia, bensì

inserendo dei numeri in un calcolatore, si perde la possibilità di verificare

immediatamente, attraverso l’ascolto, il suono che si è prodotto.

La pretesa di creare virtualmente qualsivoglia suono rischia inoltre di condurre

al riduzionismo: l’intero universo sonoro, che comprende sia le sonorità

potenziali sia quelle già esistenti, verrebbe così ridotto a scarni rapporti tra

parametri fisici quali ampiezze, durate, ecc… escludendo di fatto la dimensione

concreta dell’ascolto.

Una riflessione sulla nuova tecnica della registrazione elettroacustica, intesa

come la possibilità di catturare e manipolare qualsiasi suono presente in natura,

può invece portare a risultati di ben maggiore spessore.

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Ed è proprio di un tale studio che si sente la necessità al giorno d’oggi, di un

approccio teorico che a partire dalla frammentarietà dei numerosissimi esempi

di registrazioni oggi disponibili, sappia sviscerarne il senso e la portata

filosofica.

Queste sono in breve le motivazioni che spingono Pierre Schaeffer alla stesura,

nel 1966, del Traitè des objets musicaux, monumentale saggio interdisciplinare

che, lungi dal costituire unicamente un fondamento teorico alla “musica

concreta”, rappresenta un interessante studio sul suono e sulla percezione

uditiva.

Per meglio comprendere quale sia l’importanza del tentativo schaefferiano e

quali i risultati cui esso giunge, è forse opportuno leggere il Traité des objets

musicaux alla luce di quel profondo senso di rinnovamento che investì gran

parte della cultura musicale del ‘900: rinnovamento non soltanto formale e

quindi legato essenzialmente alla ridefinizione di un linguaggio ormai obsoleto

ed inadeguato ad esprimere le tensioni di un’epoca di vorticose trasformazioni,

ma anche sostanziale, nella misura in cui veniva messo in discussione il

materiale stesso di cui si costituisce la musica.

Proprio questi sono gli elementi di novità: il sempre più massiccio ricorso a

nuove sonorità e il tentativo di riformulare il linguaggio musicale.

Per quanto concerne il problema della materia sonora, una delle necessità più

pressanti espresse dalla congerie culturale di questo periodo è il bisogno di

allargare sempre più l’orizzonte musicale, elevando al rango di Musica tutto

ciò che fino a quel momento era stato considerato con il termine dispregiativo

di rumore e relegato nell’ampio dominio del non-musicale.

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Uno degli antesignani di questa tendenza fu certamente Luigi Russolo, il quale

indicò nel breve testo dal titolo L’arte dei rumori. Manifesto futurista un

possibile percorso per l’ammodernamento della musica. A questo scopo ideò e

costruì l’intonarumori, marchingegno che rispondeva a una duplice esigenza:

in primo luogo consentiva di integrare i materiali timbrici dell'orchestra

tradizionale mediante l’introduzione di rumori e in secondo luogo di regolarne

l’intonazione. L’intento dell’originale invenzione di Russolo fu limitato a

scandalizzare gli ascoltatori del tempo, mostrando loro quanto fossero esigui i

confini dello spazio sonoro in cui si compiacevano d’essere costretti. La sua

provocazione tuttavia restò tale e non fu mai finalizzata all’ampliamento dei

mezzi espressivi messi a disposizione del compositore.

Di spessore ben maggiore furono le composizioni di Edgar Varesé. Qui i

“rumori” ed i suoni della vita quotidiana non sono più, come in Russolo, il fine

ultimo della musica, ma dei mezzi utilizzati all’interno di composizioni

musicali che sono fatte sì di suoni, ma che non si riducono ad essi.

In questo senso Varèse parlava della sua opera Amériques, in un passo del suo

scritto teorico Il suono organizzato:

« Amériques è l’interpretazione di uno stato d’animo, è un pezzo di


musica pura che non ha niente a che fare con i rumori della vita
moderna che alcuni critici hanno voluto ritrovarvi. Se proprio
bisogna applicargli un’etichetta, chiamiamolo un tema meditativo,
nato dalle impressioni di uno straniero che indaga sulla immense
possibilità di questa vostra nuova cultura. L’utilizzo di effetti
musicali intensi è semplicemente la mia reazione istintiva alla vita
così come la vedo, ma si tratta della rappresentazione musicale di
uno stato d’animo, e non di un quadro sonoro. »1

1
E. Varèse, Il suono organizzato - scritti sulla musica, Ricordi/Unicopli, Milano 1985, p.55

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Il titolo del saggio propone fin da subito una nuova definizione di musica, che

se da un lato estende l’essere musicale a tutto ciò che è suono, senza

distinzione alcuna tra suono e rumore, dall’altro dimostra l’intento di introdurre

un nuovo modo di comporre, che da qui in poi prese sempre più piede:

assemblare e organizzare in strutture complesse i singoli suoni

precedentemente ottenuti tramite le tecniche di registrazione elettroacustica:

« Poiché il termine “musica” sembra essersi progressivamente


ridotto fino a significare molto meno di quel che dovrebbe,
preferisco ricorrere all’espressione “suono organizzato”, così da
evitare la tediosa questione: “ma è musica?”. “Suono organizzato”
sembra cogliere più precisamente l’aspetto duplice della musica,
che è insieme arte e scienza, con riferimento alle recenti scoperte di
laboratorio che ci hanno permesso di sperare in una sua
incondizionata liberazione; il termine poi, senza alcun dubbio, si
addice agli sviluppi della mia musica e a ciò che essa richiede. »2

Al di là del dibattito sulla materia sonora, il secondo problema con cui si

confronta la musica novecentesca coincide senza dubbio col superamento del

linguaggio tonale. Questa istanza di rottura rispetto agli schemi del passato è

ben sintetizzata da G. Piana in un passo del suo Filosofia della Musica:

« Ciò che la pratica musicale ha sempre mostrato di sapere – che


nessun privilegio intrinseco spetta al linguaggio della tonalità dal
punto di vista espressivo – arriva infine alla più chiara
consapevolezza teorica, e con ciò viene a cadere l’idea di un
sistema fondamentalmente prossimo più di ogni altro all’essenza
stessa della musica, come anche l’idea di un finalismo interno
capace di operare la subordinazione di ogni forma di espressione
musicale entro una prospettiva unitaria. »3

2
Ivi, p.68
3
G. Piana, filosofia della musica, Guerini 1991, p.11

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Se quello tonale è soltanto uno dei linguaggi musicali possibili e perciò, in

ultima analisi, il frutto di una prassi condivisa all’interno di una comunità

storicamente e culturalmente determinata, nulla vieta a questo punto l’apertura

alle altre culture musicali extraeuropee, a quelle forme di espressione che fino

a questo momento venivano relegate al di fuori del dominio della Musica con

la emme maiuscola. Nel ventesimo secolo si assiste alla nascita, sempre

maggiore, di studi etno-musicologici ed all’uso crescente di suggestioni

popolari e strumenti etnici nella composizione musicale.

E’ a partire da questa sommaria e incompleta descrizione di alcuni dei motivi

più tipici della ricerca musicale novecentesca che bisogna leggere il Traitè des

objets musicaux per comprendere come il tentativo di Schaeffer sia per molti

versi in sintonia con questo clima generale di veloci trasformazioni.

Gli elementi tipici cui si è fatto riferimento – il bisogno di nuove sonorità ed il

tentativo di ridefinire il linguaggio musicale – sono per il compositore francese

dei problemi vivi e di una certa complessità. Il volto della musica stava

mutando fisionomia e lo sviluppo crescente delle tecnologie applicate aveva

permesso di raggiungere dei risultati fino a pochi anni prima inimmaginabili.

Tutto stava cambiando in fretta, troppo in fretta forse perché ci si potesse

rendere conto delle reali implicazioni delle trasformazioni in atto.

Nell’opera del francese i due problemi sono strettamente connessi tra loro: se si

estende il dominio del Musicale a tutto ciò che è suono e rumore, si deve

necessariamente fare a meno del linguaggio e del sistema di notazione

tradizionali, non essendo questi più in grado di esprimere l’universo sonoro

nel senso più ampio del termine.

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Se inoltre, come aveva affermato Varèse, la musica è sostanzialmente suono

organizzato, è necessaria una riflessione sulla materia sonora che riesca a

descrivere quali siano i caratteri tipici del modo d’essere del suono e quali le

modalità del suo presentarsi nel decorso percettivo. Se la musica è in primo

luogo suono, una riflessione sulla musica deve tradursi, in prima analisi, in una

descrizione generale del suono e dei suoi elementi specifici.

L. Russolo e il suo intonarumori

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