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La moda contemporanea II: Arte e stile dagli anni Sessanta alle ultime tendenze

Versace neobarocco

“Quel richiamo al passato mischiato con il presente esprimeva il desiderio di vedere due volti in ogni cosa:
un volto elegante e tradizionale e un volto d’avanguardia, il volto del passato e il volto del futuro”. Gianni
Versace (1946) riferimento al mito e ai suoi tempi remoti: rappresenta la reazione ai Minimalisti e alla
Moda povera e al “qui e ora”. Medusa, Gorgone malvagia con serpi al posto dei capelli, nel 1978 diventa un
logo, che si adagia su stampe, fibbie, etichette; riprende lo sguardo su “là e allora”, compresi i miti della
fantasia omerica e delle metamorfosi ovidiane. Il passato è da riscrivere, da rivisitare, come una “ripetizione
differente”. E’ collocabile sotto una decade dispari, a ogni rievocazione revivalista si aggiungono altre
suggestioni e arricchimenti. Versace è uno dei time travelers partiti da lontano, da Fortuny, passando per
Schiaparelli, per Pucci, Valentino, per il meme di espressione votato all’osservanza del polistilismo, del
pastiche, così come saranno Gaultier, Gigli, McQueen, Ghesquièere, Michele, Chalayan. Gli stilisti degli anni
’80, come Versace, si mostrano consapevoli del fascino della memoria, provoca scintille di contrasti
nell’unire pepli e cartoni animati, mosaici ravennati e film di fantasy, cavalieri medievali e storie di
fantascienza, legittimato da uno stile “neobarocco”, incurante di rispettare la correttezza delle fonti. “Il
passato non deve ispirare il revival: lo uso per guardare sempre avanti. Quello che intendo per classicità è
proprio la freschezza, la qualità delle sensazioni che provo e provoco. Classico per me vuol dire
contemporaneo”. Formulazione di due ipotesi di inquadramento per il contemporaneo: la via dell’invasione
spaziale, della conquista della terza dimensione, tradotte in moda da forme aperte che si allontanano dalla
silhouette, che strappano le superfici materiche e tattili, che percepiscono il passato come impiastro da
dimenticare come Balenciaga, Rykiel e Yamamoto; la seconda via invece avviata da De Chirico, rende
accessibile il passato e le sue rappresentazioni. “A volte mi diverto a giocare con la Grande Moda, a
ripensare con umorismo un grande personaggio da cui ho imparato qualcosa. In questo caso si trattava di
Marano Fortuny che mi aveva colpito non solo per la straordinaria lavorazione del tessuto ma anche per il
senso della classicità antica”. Sono presenti contrapposizioni dialettiche, massimalismo vs minimalismo,
soprattutto nel gusto barocco; cromofilia vs cromofobia, artificio vs natura, corpo narrante vs corpo
performativo, pure forme chiuse vs forme aperte. Spariscono le protuberanze organiche di Kawakubo o gli
sbuffi della materia grezza e colante per lasciare spazio alla dicotomia: ricco vs povero, “dal tessuto al
testo”. Quella di Versace è una “cosmesi”, cioè una messa in ordine, un abbellimento.

Dalla Magna Grecia al Grande Mazinga

In una corsa di richiami attinti dalla cultura alto-nobile e dalla cultura basso-popolare, l’opera di Versace si
sviluppa in un crescendo progettuale, dai tagli semplici e puliti di una moda a rivisitazione greco-romana
fino alle esuberanze del Barocco e del Rococò. Versace si forma nella sartoria della madre, a Reggio
Calabria, è lui che si occupa degli acquisti del negozio di famiglia, opportunità che gli consente di viaggiare
al Norda, tra la Toscana e la Lombardia, e di entrare in contatto con gli addetti del comparto moda. Nel
1972 si trasferisce a Milano, da poco aveva iniziato una collaborazione con un’azienda lucchese
specializzata in maglieria, la Florentine Flowers, dove impone una linea creativa inedita, basata su trecce e
maglie realizzate in sbieco. Nel 1973 Callaghan, rimasta orfana di Albini, firma un contratto con Gianni, il
quale solo nel 1975 impone la sua linea creativa e sforna il suo primo capolavoro: la foto di Bob Krieger che
immortala Veruschka con abito da sera bianco e pubblicata su Harper’s Bazaar è il manifesto del suo stile.
Rivisita lo stile impero, con la tunica attillata la corpo e tagliata in diagonale sul busto, a scoprire un seno, il
punto vita posto in alto, ad allungare le gambe; ora la silhouette se ne sta immobile, la posa plastica della
modella pietrificata dallo sguardo della Medusa, paragonata alla colonna nella foto. Colonna simbolo del
postmoderno, inteso come riciclaggio di stereotipi dell’antichità; la mimica della modella, teatrale e
impostata, profuma di finzione nella finzione, espressività svenevole da bella statuina che con indifferenza
potrebbe assumere il ruolo di una dea. Nel 1977 chiamato a disegnare le linee Complice e Genny di Arnaldo
Girombelli, per la F/W 1977-78: uso massiccio di pelle a contrasto con la seta, convertire il naturale con
l’artificiale, cioè di sagomare il carattere grezzo e primordiale dei materiali sulle forme rifinite di un topos
storico-letterario dello spadaccino. Tutto è attinto da un contesto e rimontato ad altro . per la P/E 1978 per
Callaghan si ispira a Guerre Stellari: volontà di muoversi tra passato-presente-futuro, rimandando anche al
mondo greco-romano, realizza tuniche con spalline da football americano; non ha niente in comune con lo
Space Design degli anni ’60,. Dal 1978, con l’aiuto del fratello Santo e la sorella Donatella, Versace fonda il
suo brand; il logo della Medusa racconta una limpida logica funzionale: la silhouette torna a marmorizzarsi,
abbandonando la performance, supporto narrante rivestito da abiti-quadro, abiti-scultura, abiti-testi, che
raccontano storie, esibiscono fregi, evocano atmosfere. Guarda all’armadio militare, al mondo folk,
reinterpreta il Giappone con kimono rifatti in pelle o creando camicie rivisitate a kimono, senza bottoni e
con fusciacca; si ispira anche all’abbigliamento sportivo, con capi casual e semplici, funzionali allo stilista a
reclutare profili chiusi e rifiniti. Nella P/E 1980-81 i volumi geometrici e le stampe millerighe formano
tuniche e chitoni, mentre con la F/W 1980-81 ribalta la sentenza di Loos su delitto dell’ornamento e
introduce decorazioni asburgico-mitteleuropee. Ripresi dalla moda maschile e dalla tradizione popolare, i
velluti a coste di diversa larghezza finiscono, novità, sui capi femminili, in particolare formano una mantella
da cavaliere decorata con stella e abbinata a una pellegrina ecclesiastica. I velluti per la sera diventano
fuseaux e aderiscono al corpo, colorati in tinte decise, giacche, pantaloni a palloncino. Con la P/E 1982
tocca l’Art Nouveau, la Secessione viennese, la Wiener Werkstatte e l’Art Déco. Il modello Mazinga è un
abito a righe verticali, spezzato da un cinturone-fusciacca con il ricamo a “mecha design” del Grande
Mazinga: è un accumulo di riferimenti culturali postmoderni. La maglieria F/W 1982-82 è ispirata alla
pittura vascolare con il blu spiccato e una particolare tessuto a maglia metallica: l’Oroton. Tratte
dall’immaginario medievale della cotta da cavaliere come in Rabanne, ma ben più fitte e comode, le tessere
richiamano una sgranatura dei pixel; l’uso di metallo a mo’ di tessuto sovrappone presente e tempi remoti
alla tecnica “a mosaico”. Omaggi a Klimt, Moser, Op Art. esplosione di technicolor; la vestaglia
rinascimentale della F/W 1989-90 è l’archetipo dell’horror vacui, che per impedire che nella veste
afflosciata alla Poiret che la fibra coli di vivacità iletica ne ricopre l’ampiezza di motivi floreali a contrasto
con i motivi in oro e in nero di stampo neobarocco, infoltito con i volti iconici di Marylin Monroe e James
Dean nell’abito “Warhol” della P/E 1991, simulando la Pop Art dell’artista. Nella F/W 1991-92, tempesta un
top di pietre preziose e lo abbina a un chiodo di pelle- ispirazione mosaici di Ravenna- oppure usa grafie in
bianco e nero su sfondo scuro, così da far risultare un ovale dorato con dentro l’immagine di Amore e
Psiche, con colori acidi e sulfurei. Nella P/E 1992 una sontuosa gonna in pizzo bianco si infiamma con fasci
di tessuto a stampe oro e nero, contrapposti alla camicia di jeans, ripresa anche con il celebre gonnellone
floreale e nelle scintille dell’”abitino barocco”, scenette di contadini e damigelle in crinolina da affresco
‘700 decorano una gonna a sbuffo dal taglio “mini” accostato ad un bolerino in denim. Nella P/E 1994
Elizabeth Hurley indossa un tubino nero con doppio spacco laterale, sul fianco del busto e sulla gamba,
ornato da una serie di spille da balia, trasformate in gioielli con tanto di logo Medusa. Un farsetto del ‘500
rifatto in pelle imbottita e attinta a un quadro di Giovanni Battista Moroni, costumi per il Dionysos di
Maurice Béjart, stampe animalier, San Sebastiano con frecce finte e foulard neobarocco, completo da
uomo in ghirigori Wiener Werkstatte graficizzati a fumetto, abito da sera scollato con spacco, asimmetrico,
con pieghe in omaggio a Madame Grès.
Moschino. Ready to where?

“Sono come un ristornate che cerca di fare bene dei piatti classici già inventati da chissà quale cuoco”;
Franco Moschino (1950) se posa e finzione devono essere, che la commedia abbia inizio dal ciambellano in
persona, dal menestrello Moschino, magari da uno dei suoi doppioni linguistici abbassati e ironizzati, quel
“Moschifo” che si distende sul petto delle sue T-shirt. Tableau vivant pensato come una summa di cliché
sull’Italia e sul Made in Italy, lo stereotipo è la cristallizzazione di un pensiero, il condensato di un
ragionamento ridotto al minimo, stereotipi da ridicolizzare. Seminudo Moschino indossa una corona di
allora che fa molto Sommo Poeta, nella mano sinistra stringe un fiasco d vino ricoperto di paglia, con tanto
di tovaglietta biancorossa, nelle vesti di italianissimo pittore nella mano destra regge una pizza, un
mandolino è appoggiato sul capitello di una colonna ionica, mentre la testa di una mucca a fumetto e la
cartolina kitsch di una veduta vesuviana completano la scena. Oltre al pop e al folk, persegue anche il
postmodernismo puntando sulla differenza di potenziale tra alto e basso; l’atteggiamento di Moschino è
irrispettoso, teso a boicottare anche i luoghi comuni della moda e del suo sistema di rappresentazione.
Nelle sfilate crea spettacoli teatrali e happening carnevaleschi, “Fashion, Fashoff” è uno dei suoi slogano
sulle magliette, “l’ironia, l’eclettismo, gli stili mescolati, la libertà nel vestire, lo stilista intellettuale, filosofo,
teosofo”. Trae spunto dichiarato a De Chirico e Magritte, maestri di citazioni e illusionismi. Non solo lo
stilista ne rielabora le atmosfere, fondendole, in disegni per vetrine e con didascalia inequivocabile;
Metafisica e Surrealismo sono anche gli ingredienti di base dei lavori che Moschino ha realizzato nella sua
attività parallela di artista. Sui bordi delle sue opere incolla mollette da bucato, componenti da
motocicletta, nappine a frutta finta, cuoricini dorati, peluche e occhiali da sole. “Tutti i vestiti e gli accessori
del mondo possono essere usati tra di loro, anche impropriamente, seguendo i propri desideri e
inclinazioni”. Lo stilista indossa anche un cappello storico da carabiniere mentre strimpella un mandolino, si
traveste da Braccio di ferro con pipa in bocca e bicipite teso, indossa una parrucca bionda come una Rrose
Sélavy duchampiana. Il suo volto con baffo poi finisce sul corpo di un bambino e di una bambina; “Ready to
where?” interrogandosi sullo scopo e sulla direzione della moda: pronti ad andare (ready-to-wear) ma
dove?

La sua creatività si manifesta in tre livelli congiunti:


1. Impiego di riferimenti culturali disparati
2. Gioco al ribasso che trasforma la citazione in gag stereotipata, da sberleffo ironico e virgolettato
3. Convergenza fra le prime due azioni ed equivale ad un balletto in maschera che debella ogni
pretesa di autenticità, di relazione uomo-mondo.

Trasformismo ludico e volontario, “la vita sono tanti atteggiamenti, anche la moda”.

Il teatrino degli stereotipi

Moschino frequenta l’Accademia di Brera, poi conosce Versace, con il quale collabora come illustratore. Dal
1977 al posto di Albini, è alla direzione di Cadette; nel 1983 apre la sua griffe e presenta una collezione in
cui mette in mostra le sue ottime capacità modellistiche: tailleur dai tagli perfetti, rigore e disciplina,
serpeggia la sottigliezza del doppio senso, di un gioco di parole. “Ho sempre mentito. Io non sono realtà e
gli abiti sono i miei sogni: entrate tutti a vedere- c’è la donna cannone, quella baffuta, saltimbanchi, la
Maga Magò, Arabella e sua sorella… ora sono diventato Arlecchino in carne ed ossa… entrate a comprare
Signore!”. “Io non sono realtà” è una dichiarazione che taglia i ponti con il Minimalismo e del poverismo,
impegnati a scavare nella polpa del mondo. I look della P/E 1984 sono semplici e informali, quasi sobri, abiti
abbinati a magiostrine e a cappelli da cowboy, con una camicia in pizzo, un vestito a righe verticali in bianco
e nero, di fatto l’ingrandimento straniato di un codice a barre, di quelli usati per gli articoli realizzati in
serie. Sembra una dichiarazione operativa: tutto è codificato e codificabile, inclusi gli atteggiamenti delle
modelle, con Pat Cleveland bravissima a mimare mosse manierate in un abito da sera al nero sul davanti e
con la bandiera dell’Italia sul retro. Più che sfilate gli show sono teatrini con canovaccio di scena e modelle-
attrici prese a impersonare la forma chiusa di una recita, caricandola; esce con una mannequin con pelliccia
leopardata e bigodini in testa, un’altra con chitarra a tracolla a incarnare il ruolo di una rockstar con
smanicato in pelle e stivali al ginocchio. Un abito rosso è rivisitato in pelle e con cappello da cowboy, il
tubino in oro è comicizzato da una storpiatura da Muppet Show con grifo e orecchie da suina, in gloria a
Piggy. Un abitino rosso viene incattivito con un chiodo di pelle e un velo vedovile in pizzo, guanti neri alle
mani, che stringono un coltello da cucina, dando a intendere che l’autrice dell’omicidio è lei. “Tutti gli stili
possono coesistere senza annullarsi fra loro. Questa coesistenza di stili diversi, se forti e definiti, trova in sé
una misteriosa armonia”. La P/E 1987 è un tripudio di stereotipia egizia, mentre la disseminazione dello
stilista è uno sberleffo al mondo del lusso e una delle sue maison più rinomate, Luis Vuitton. “L’apparenza
inganna” avverte Moschino in una foto di William Garrett, la moda racconta bugie e illusioni, così la grafica
della griffe francese è presente oro su nero nello scialle di un completo per la F/W 1986-87, solo che la “M”
di Moschino sostituisce il monogramma di LV; la collana è un cavatappi e il cappello un cilindro cinto da una
corona regale. Ritorna l’omaggio a Napoli, il lusso taroccato adorna i saloni di Villa Reale, a Milano. Il
vademecum del citazionismo postmoderno è in un look con trench e peplo greco-romano: il risultato è un
perfetto amalgama tra una crinolina larga e pomposa, un chiodo di pelle nera e un paio di sneakers,
tensione di opposti che nella stessa collezione contemplano una giacca in scozzese con abito andaluso,
mitra papale, cappelli con orecchie da topolino, cuffie da menestrello, la posa “I want you” con cilindro da
Zio Sam a stelle e strisce, o piumaggi da capo indiano su tailleur-gonna dalla tavolozza vivace. Con la P/E
1988 motteggia Chanel, trasformata per l’occasione nel canale televisivo che ne ricorda il profumo “Chanel
n.5”; ne cita i tailleur iconici stravolgendone la seriosità minimale: al posto dei bottoni colloca delle
girandole, dei fiori di plastica, o dei campanacci, come a usurpare il regno di Coco con la comicità surrealista
di Schiaparelli, suo meme diretto, citato con una sneakers usata come copricapo, “se non potete essere
eleganti siate almeno stravaganti”. “Haircraft” è un monopetto maschile trasformato in corpetto e
sormontato da un cappello-aeroplano, “Verdure Couture” citazione di Arcimboldo, “Cow-Boy-Oy-Oy” è un
triplice cappello da vaccaro, “Dolce e Sottana” è una torta in testa alla modella, in scherno a Dolce e
Gabbana. Anticipando Versace, realizza un bustino con spille da balia dorate, “la sicurezza e la comodità
sono la vera eleganza universale”. La pomposità dell’Aida e la marcia trionfale della F/W 1988-89: completo
con gonna ricavata da cravatte, un altro ispirato a Napoleone, un altro con posate placcate in oro a
sostituire i bottoni nella solita rivisitazione di Chanel, indossate da modelle caricate du bighe o su
baldacchini, trainate da culturisti usati come schiavi romani. L’effetto è esilarante, comico, teatrale, dallo
sfarzo cartonato dello spettacolo egizio-greco-romano-pop-trash si slitta alla posa affettata di una modella
che porta un abito con il trompe l’oeil di una ballerina con il ginocchio in retiré, a estrarre il massimo
distillato di finzione. Per la F/W 1993-94 mette in sfilata altri stereotipi, come la figura del prete con Bibbia
sotto braccio e completo nero con collare bianco, allo hippie in camicia fantasia, al professionista in giacca e
cravatta, al altino ispaneggiante in vestito bianco con chitarra, al Cartoon Man con foggia colorata, al
tamarro Rambo in canotta strappata, al Burino Texano, al Big Gym in jeans e maglietta attillata e manubri
tesi in alto. L’inaugurazione del monomarca in via Sant’Andrea partecipano la controfigura della Regina
Elisabetta, finti carabinieri e finti centurioni, finti Fred Astaire e Fata Turchina ecc. L’icona dello Smile
campeggia in una giacca della stessa sfumatura di giallo, un bolerino mostra un trompe l’oeil con seno
disegnato in alta definizione e colori al grigio che lo avvicinano ad una statua. Citazioni alla storia dell’arte,
come la Cappella Sistina in occhiali da sole, De Chirico con il suo busto da Ampollinaire, la Mona Lisa “a very
famous italian Singora” su una t-shirt, una giacca con le pagine rosa de “La Gazzetta dello sport”,
l’Arcangelo Gabriele appare alla Vergine in un furto con destrezza degli affreschi di Beato Angelico solo che
l’annunciazione avviene con “Ohi Mari’”, un collare e un cappello di peluche onorano Lagerfeld con una
tripla F “Fur For Fun” con la pelliccia farlocca fatta di orsacchiotti, spencer con sagoma e colori di Palazzo
Ducale di Venezia, abito cardinalizio in jeans e de-canonizzato da interferenze religiose.
Eterotopia e retrotopia in Gigli

Romeo Gigli (1949) inizia a sfilare nel 1983 a Milano e in seguito a Parigi, prima con il suo brand poi con
Callaghan; il suo minimalismo nasce in reazione agli eccessi della memoria e della dozzinalità del pop,
basandosi su rigori puri. “Esploro la forma, arrivo alla sintesi”, legge la silhouette come emanazione di
morfologie supreme, gusto per l’equilibrio della matematica, “poi aggiungo la decorazione: è come se fossi
un collezionista d’arte”. Postmodernismo, riciclaggio del sapere, influsso dei Paesi esotici che ha visitato da
giovane, di ciò che ha letto, “immagino nei dettagli una storia da raccontare”. Opera nel segno della
differenza e della rivisitazione senza curarsi di rispettare la collocazione originaria dei suoi prelievi,
riarrangiandoli in modo inedito. Intercetta l’eterotopia, sede dell’altro e della diversità, unisce impulsi
culturali molteplici e disparati, sovrappone, combina, incorpora e riscrive con leggerezza; è anche efficace
nello spalmare la sua eterotopia con quella di retrotopia alla De Chirico. “Anche io sono un originario”.

Nel villaggio globale

Dopo gli studi in architettura, inizia a viaggiare in Medio ed Estremo Oriente, attira l’attenzione di una
sartoria newyorkese “Dimitri” che gli chiede di collaborare. In Italia inizia a lavorare per Zamasport, azienda
novarese di cui fa capo Callaghan, in cui Gigli si sdoppia in un bivio operativo rispetto al brand con il suo
marchio: per Callaghan realizza capi con decorazioni fitte, come il paisley di una mantella conservata al MET
del 1989 in cui ricorrono anche forme morbide e cascanti. Uso di motivi ornamentali, tessuti vittoriani,
colletti a gorgiera che poi passeranno al suo allievo: McQueen. Lunghi tagli di giacche a frac abbinate a
gonne ampie, quasi a crinolina, silhouette aperte, fluide e sinuose, con richiami al mondo dell’arte, del
Manierismo e Preraffaelliti. Esibizione di materia processata attraverso una mistura di arcaismi e di etnie.
Genera un malinteso facendosi collocare al minimalismo per la sua firma, mentre risulta massimalista per
Callaghan (Zamasport). Si tratta di una falsa prospettiva in quanto le prime silhouette sono sì depurate da
elementi decorativi ma presentano tagli lontani dal minimalismo. Sinuosità ininterrotta, vitalità di curve,
parabole, ellissi, preferisce le asimmetrie, le giustapposizioni di fibre, pianificazioni tessutali. Per la P/E
1988, palette dalle tinte neutre, grigi, verdi, beige tenui e morbidi, completi pantalone maschili, over, che
dilatano i profili in una resa morente, fluida. Lunghe giacche con costruzioni di “spaesamento”, innestate su
pantaloni ad anfora in cromie soffuse. Via i bottoni, un nastro di Mobius serpeggia asimmetrico nella
scollatura di una camicia fatta a kimono ma con terminazioni a sbuffo. “Teodora di Bisanzio” della F/W
1989-90 prevale la stratificazione dei capi, a partire dalla guaina a bozzolo consentita da un uso sapiente
dei capispalla, larghi e avvolgenti, sovrapposizione livellata da un trattamento sfumaturale, celebra
l’esuberanza opaca delle fibre con nodi, insieme alla lucentezza di superfici ricche e ornate, decorativismo
di civiltà antiche. “Cristalli” è la P/E 1990, leggerezza, accessori spettacolari come orecchini preziosi
prolungati, ampolle che formano una sorta di pareo di vetro, corpetti a intarsi, immagini zoo e fitomorfiche.
“Esoterica” F/W 1990-91 rimanda al Manierismo italiano, cappotti-cocoon, tailleur pantalone ipertrofici con
ricami, baroccati, velluti preziosi. La decorazione si adagia ovunque, evocata dalla softness dell’era
elettronica; coopera con Peter Gabriel, nato “attorno al 1950” patron del Real World, cita il villaggio globale
di McLuhan “ormai abiti, abitudini, musiche e linguaggi si intrecciano e si confondono in ogni parte del
mondo”. Cangiantismi, riflessi, tessuti traforati riassemblati su linee in diagonale, in sbiechi leggeri, cappe di
seta finissima, stole pregiate, ondulazioni lente degli abiti “gli abiti prendono forma con il corpo”. Giacche
maschili over, esornazioni sontuose, ricrea rifrangenze di luce e maniche a prosciutto. In “Persiana” della
F/W 1994-95 i mulinelli di stucchi barocchi si colorano di rossi e viola, a contrasto con i tessuti dorati, tra
turbanti abbinati a completi da uomo. Risonanze bizantine di Ravenna e Venezia, veste le modelle in giacca
e cravatta in gessati o velluti a coste ben visibili per dare ancor più verticalità alla figura. I tessuti effondono
luminescenze e rifrazioni nonostante la palette sia sui toni invernali accostati a metalli nobili, i colli sono
larghi e sciallati, arricchiti da rose di tessuto.

I pittorici: Coveri, Marani, de Castelbajac

Ritorno di una tavolozza vivida ed esuberante. “Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro” (1977) è
un’opera di Mimmo Paladino, tra i protagonisti della Transavanguardia, lontana dall’Arte povera, dalla Land
e Body Art riabilitando tele e pennelli. Tessuti colorati, elementi iconici o aniconici, moduli pittorici, chiusi,
paratassi, chiaro, superficie. Enrico Coveri (1952) nel 1978 sfila per primo a Parigi con una silhouette
slanciata, con blazer corti e spalle accentuate in completi bianchi e neri, pantaloni a vita alta, con incursioni
di colore esuberante con motivi ornamentali. Forme semplici come le tute della Formula 1, trench a tinta
unita, total look, volant, maniche a sbuffo, gonne a palloncino, crinoline, tinta unita. L’arte coeva è dei
Nuovi-nuovi, della Transavanguardia, dei Nuovi Selvaggi tedeschi o della Bad Painting americana,
caratterizzate dai tratti sintetici, rilancio degli stilemi legati al Simbolismo, e dell’Espressionismo. I suoi abiti
aderiscono come una pellicola plasticosa, in cui l’America coincide con gli anni ’20, tute da sci con cappelli
da cowboy, maglieria con le trame della Wiener Werkstatte, un poncho arcobaleno si può abbinare a un
paio di jeans con greche e a un sombrero rosa shocking. Riprende gli omini di Keith Haring, lo scozzese è
rivisitato in tutti i colori, giallo di una giacca da uomo abbinata a una camicia blu, a un pantalone arancione
e a bretelle verdi; il suo tratto più caratteristico è il suo uso di paillettes, su capi per tutte le ore e ogni
tipologia, dai tubini ai costumi da bagno: le paillettes sono l’equivalente del mosaico, affine alla
stilizzazione delle icone e alla sgranatura dei pixel, dei contorni a quadratoni di videogiochi come Pac-Man o
Space Invaders. Uso della pelle dandole un aspetto innaturale e artificioso con tinture à plat, omogenee,
con colori pieni e saturi, spesso con orecchini “a bottone”.
Angelo Marani (1947) si fa promotore di un trapasso dal polo povero al polo ricco, con capi infittiti di
stampe dorate, di arabeschi barocchi, di intarsi a scene campestri o con motivi arcaizzanti. Stampa stucchi e
affreschi su una maglieria leggera, che realizza usando macchinari per la filatura sottile, da collant, così da
ottenere intrecci morbidi, elastici; pittoricismo favolistico omologo ai lavori di Bruno Benuzzi o Aldo Spoldi,
grazie a raffigurazioni schematiche ed essenziali. Uso di stampe animalier con colorazioni stranianti. Negli
anni 2000 esce allo scoperto iniziando a sfilare a Milano, dalla P/E 2000 “Amore e Psiche” fino alla P/E 2015
“Abstract Shapes”. Il colore è il suo forte, l’oro impera negli arazzi, in ricami sontuosi che tappezzano le
maculature dell’animalier abbinandosi anche ai fuseaux in pelle nera. Accostamenti imprevedibili,
provenienti dalla Wiener Werkstatte e dall’Impressionismo, nei broccati optical e nella festa dei colori.

Jean-Charles de Castelbajac (1949) uso di tessuti anche comprati a buon mercato, come tende della doccia,
cerate, pellicole di plastica. Le prime collezioni hanno tagli molto semplici, dalla rielaborazione di uniformi
militari e dell’abbigliamento da lavoro, con colorazioni vivaci, a righe; uno dei suoi capi preferiti è il poncho,
in diverse cromie, con colli avvolgibili, di cui inventa anche una versione a due posti. Progetta un giaccone
trasparente che mostra cuscini di piume viola, gialle, rosse, blu, o crea capi double face con mappe
stampate. Nei suoi abiti ci sono i segni parietali di Lascaux, con silhouette che ricordano tuniche e armature
medievali, in “abiti quadro”; dal 1982 in poi collabora con Ben Vautier, Gérard Garouste e Harvé di Rosa. Fa
la spola fra l’arte contemporanea e l’arte die cartoni animati, stampati su tessuti con gigantografie di Tom e
Jerry, Tin Tin, Snoopy o il gatto Felix, per arrivare a South Park e ai Pokemon. Gareggia con Moschino per i
prelievi basso-popolari, per gli abiti-peluche, anche quando disegna le collezioni per Iceberg o Benetton.

Altri marchi culto degli anni ’80, lanciati dall’ondata dei paninari diffusasi in Piazza San Babila a tutta Italia.
Logo in vista, i paninari indossano le felpe e pe t-shirt Best Company disegnate da Olmes Carretti,
prismatiche, sgargianti, portano i capi El Charro con le fibbie pacchiane mischiate ai pastelli Naj-Oleari, agli
zainetti Invicta, alle invenzioni di Massimo Osti per Stone Island con cotonature antigravitazionali. Il
pubblico femminile mima il travestimento bamboleggiante di Boy George o le false trasgressioni di
Madonna, quello maschile le pose e gli sguardi di Ray-Ban di Tom Cruise. Ricorso a elementi pittorici,
allegri, rigogliosi di pattern ornamentali.

Montana, dalle spallone a Lanvin

Claude Montana (1947) la silhouette dei “nati attorno al 1940” aveva fatto di tutto per rendersi neutrale,
organica e performativa; quella di Montana torna a ricreare complessi artistici che mantengono il loro
profilo di prodotto pittorico e scultoreo. Morfologie a spalle larghe e sagoma a V, restrizione del punto vita,
dilatazione delle spalline smisurate, divenute un triangolo rovesciato. La sua prima collezione risale al 1975
presentata in un ristorante parigino, Les Annèes 30. Ampiezza spropositata delle spalle, inclusioni di ori e
velluti, di inserti dichiaratamente ricchi, il suo materiale prediletto è la pelle, poiché il suo modo di usarla ne
ribalta l’origine primitivo per creare superfici da colorare, da adulterare con tagli chiusi. “E’ la pelle a
guidarmi e a imporre spalle larghe, vita stretta, scarpe basse e andatura militaresca” la usa anche per le
collezioni estive, in sagome attillate al corpo. La collezione presentata al Bond International Casino di NY nel
1981 mostra visibili manipolazioni strutturali, tra completi di blazer e pantaloni abbinati a copricapi
eccentrici, plasticosi, memori delle stravaganze schiaparelliane, per una moda sopra misura sia per
l’atmosfera di artificiosità sia per le dimensioni dei capi. Maglioni mastodontici, sorretti da spalline che
sbordano dal deltoide; il knitwear con inserti grafici dona un piglio da supereroina,. Nel 1987 realizza
pantaloni a vita altissima in cuoio tinta caffè, cinturone in bella vista a verticalizzare la figura e a enfatizzare
i top a frange, in scamosciato. Over esagerato, accentua e altera le misure dei baveri, delle maniche, dei
polsini, straniando le proporzioni canoniche e mantenendo comunque la forma iniziale. Alle estremità i
tessuti si induriscono, grazie anche all’uso di metalli, maniche a sbuffo e cappotti a campana, tagliati molto
corti sul davanti e allungati dietro, insieme a trench e bluse da marinaio, consistenza metallica, artificiosa
nella resa e nelle cromie, nei rosa, nei gialli, nei rossi. Dal 1989 viene chiamata alla direzione creativa di
Lanvin fino al 1992, uso del blu Ikb di Yves Klein, acceso, quasi elettrico che ricopre di gemme e ricami
preziosi, evitando gli eccessi. Le pellicce sono al naturale o colorate di un fucsia fluorescente, con
abbondanza di maniche a prosciutto, di sete luccicanti, impeccabili e allisciate da emanare una brillantezza
cangiante, carica di riverberi da materia inorganica. Sofisticato e portabile, gli ornamenti non prevaricano,
dosando il massimalismo.
Gaultier, cultura pop e Belle Époque

Jean Paul Gaultier (1952) “ho sempre cercato di bilanciare il classico con l’eccentrico”; nel 1989 incide un
disco che vende oltre 40.000 copie e appare in un video diretto da Jean-Baptiste Mondino: si chiama How
To Do That ritmo pop-elettronico; nel video è seduto a disegnare bozzetti e appare una forbice, strumento
con cui realizza i suoi collage vestimentari, ed è un tributo celebrativo ai 200 anni della Rivoluzione
francese. E’ attratto da ogni forma di eccesso, di artificialità, glorificazione del caos, i suoi capi emanano il
non plus ultra in termini di sofisticazione attraverso una ridda di oggetti prelevati dai contesti più disparati
e riassemblati in manomissioni anatomiche. “Mi affascinava l’idea di trasformare il corpo attraverso i
vestiti” è un intervento volto a sovrapporre al corpo una guaina artificiale, con un rivestimento di materiali
plastici, metallici. Nella sua operazione in accumulo, adora Saint Laurent, anche se Gaultier polarizza gli
estremi e crea maschere plateali, Frankenstein vestimentari “sono influenzato prima di tutto da ciò che
accade oggi”. Il pot-pourri delle epoche passate e la miscela dei tempi remoti assorbe i prodotti della
contemporaneità, compresa la sfera del kitsch e del trash, muovendosi sempre tra Londra (pop, energica,
alternativa) e Parigi (chic, pomposa, magniloquente). E’ stilista da rumoroso cancan, “creo costumi che
sbaragliano le regole, sopra le righe, per così dire”, amico giurato dell’overstatement, crea i figuranti di un
palcoscenico, da posa e da fiction. Niente tagli a vivo, legge la realtà ai suoi livelli più basici di ritorno alle
cose stesse e valevoli per il solo fatto di “esserci”, in Gaultier si trasforma in monile, in accessorio al ricco.
Rielabora, pulisce, tira a lucido articoli di impiego comune per dar loro lo statuto di merce nuova.

La rivisitazione del corsetto

Viene assunto da Cardin come assistente, dopo una parentesi da Jacques Esterel e da Jean Patou, torna da
Cardin per poi fondare la sua griffe nel 1976. Uso delle righe alla marinara, che da maglioni e t-shirt finirà
per decorare abiti da sera. Nel 1979 “Grease” ispirata ai Teddy Boys, abbinamenti tra chiodi neri, magliette
e gonne in tulle, che traducono il cambio di rotta passatista rispetto agli anni da Cardin. James Bond diventa
icona, chiude le forme della silhouette nell’aderenza al neoprene di The Divers, ispirata alle tenute da
sommozzatore. Cosmo pop e materie sintetiche, F/W 1981 “High Tech”, dedicata al riciclaggio con infusori
per il tè e lattine da conserva usati come bracciali, senza ruggine o segni di usura. La decorazione, stampata
simulando le trame dei circuiti elettrici, mostra le piste lamellari di schede madri e microchip; l’ornamento
sottolinea il carattere di finzione e di sovrabbondanza. I suoi pattern si fonderanno al corpo, in un
immaginario cyborg, di donne e uomini robot, che raggiungerà l’apice con Mugler e McQueen. Nel 1996
realizza per Givenchy una collezione dove unisce avvenirismo e passato in corpetti-micro-chip attaccati alle
forme femminili ed estesi al corpo intero come vene di fibra ottica. Rilancio del corsetto, soprattutto grazie
a Madonna, per la quale ha realizzato i costumi del tour 1990. Il corsetto viene rivisitato radicalmente, lo
stravolge, con la P/E 1983 “Dada” parte da una tinta datata e fuori dal tempo, il rosa écru, il corsetto si
prolunga fino a diventare un abito lungo, un abito-gabbia, a cui aggiunge i suoi iconici seni a coppe coniche.
Forma chiusa, guscio che sigilla la silhouette. Realizza la gonna da uomo nel 1985, per la F/W 1985-86 “Il
fascino fighetto della borghesia” mette in mostra completi da donna e uomo intrecciati a maglieria Aran,
cita poi Tatlin, F/W 1991-92 “Cancan francese” include i pantaloni di un completo blu elettrico allungati fino
al piede e sagomati a stivale, oppure stampe trompe l’oeil con il disegno sul retro di schiena e
fondoschiena, poi crinoline tagliate a minigonna e trench, frac su gonne. Una foto di Craig McDean per
Vogue per la haute couture 2002 riepiloga la sua filosofia: abito da sposa che può essere indossato da
manager o bodybuilder, decorazioni rococò, uso del metallo, gioielli, piume indiane fa da copricapo alla
sposa.
Lacroix, morbosa attrazione per il passato

Christian Lacroix (1951) ha la stessa langue di Gaultier, rivolta al culto della memoria, la parole però è
diversa, per la diversificazione di soluzioni fra loro, uno dei suoi punti nodali consiste nel riciclaggio e
nell’adesione ai fasti del passato, tutto resta “alto” tutto si trasforma in oro, in ricami e broccati sontuosi, in
pepite preziose, in una trama narrativa connessa alla favola “dal tessuto al testo”. La sua terra d’origine è la
Provenza, una dimensione geografico-culturale così variopinta che i riferimenti si riflettono nelle sue
collezioni; sfrutta ogni espediente per mischiare le cose, ogni tipo di riferimento culturale o di epoca
passata, omaggiando sempre al ricco, con gioielli e preziosità. Incoraggiato da Bergé e Lagerfeld, entra da
Hermes dove assiste Guy Paulin, poi passa alla direzione di Patou nel 1981: gonne a sbuffo, copricapi,
maniche a prosciutto enormi. Nel 1987 apre il suo atelier, la F/W 1987-88 haute couture è la sua collezione
prototipale: rosso vivo di una blusa con larghe maniche in pizzo contrasta con le righe in bianco e nero di
una crinolina, pied-de-poule di un abito malva con maniche e gonna a righe, è sgranato, alterato nelle
proporzioni come i motivi ornamentali, le cappe, i cappelli. Corpetti, vestitini a X strozzati a vitino di vespa,
con rasi a contrasto col vello delle pellicce, i pouf delle tournures si gonfiano a palloncino in abbinamento al
bolerino di un torero. Le masse iletiche dei suoi tessuti sono cristallizzati, inorganici; “oscillerò sempre tra il
casto piacere della purezza delle forme e l’euforica intossicazione dell’ornamento”, nel su horror vacui
sfociando nel kitsch. P/E 1988 haute couture il corsetto giallo saturo, pop, con una gonna a fantasia
multicolore con allure da bella statuina; assembla motivi oro e argento in un altro corpetto, su cui è
ricamato un sole metallico a decorare il velluto blu di u corpetto a maniche rosa con ghirigori metallici. Uso
di colori fluorescenti per grafie classiche, ipertrofie esagerate di particolari come fiocchi, colletti e
soprattutto croci, suo marchio di fabbrica. Mostra poco il derma, il rosso e oro dei teatri domina la veste
indossata da Christy Turlington “a caraco”, cioè con corpetto aderentissimo accompagnato a una gonna,
con una spuma informe a fare da scollo; preso da un quadro di Boldini viene il capo in raso color vaniglia
fotografato per Vogue da Irving Penn nel 1995, in cui il gonfiore del tessuto si concentra attorno al corsetto,
da cui si dipanano una lunga gonna a maniche a prosciutto, in una silhouette incurante di celebrare la
materia grezza. Le sue spose sono ornate da edicole votive, ossari e reliquiari, santini e statuette. E’
opulento, ossessionato al patchwork rivisitato in chiave elettronica, pattern a scacchiera, tessuti scozzesi e
quadrettati, motivi a fiori e cromie psichedeliche. Nella sua ultima parte, ha conferito alle fibre una patina
di antichità, usurandole e rattoppandole e poi ricolorandole “come se provenissero da un passato lontano”.

La donna bionica di Mugler

Nel 1972 esce “Metropolis” di Fritz Lang, importante non solo per la presenza di un robot, ma è completo
esteticamente, sintetizza lo spirito del tempo nelle scenografie; la donna-cyborg ha fattezze credibili.
Thierry Mugler (1949) ha come pane quotidiano il mecha design, prende spunto dai fenomeni naturali e
dalla sfera zoologica, è un regista di show, di spettacoli messi in scena nelle sfilate ed eseguiti sul
palcoscenico della vita quotidiana, la moda “è l’unica arte che cammina per strada”. Non crede alla moda
naturale, fluida, “la moda in se non basta, bisogna mostrarla attraverso la scenografia del teatro e dei
musical”. Nel 1984, per i suoi 10 anni di attività, allo Zenith organizza un evento con 6000 persone. Affinità
con Schiaparelli, tra circhi, gusci, carapaci strutturali; finzione in scena e nella vita si equivalgono, estetica
del frastuono del massimalismo assorbe suggestioni anche dal fumetto: Catwoman è la donna archetipo,
con la tuta attillata e la perfezione artefatta delle sue forme, costruisce mondi artefatti, sintetici e senza
organicismo: retrofilia con pizzi e merletti riscrivendo la donna in chiave anche robotizzata. Collabora con
Helmut Newton, scambiandosi anche di ruolo: nei suoi scatti le modelle appaiono come comparse piccole,
fuori scala, schiacciate dall’imponenza delle architetture sovietiche, quasi un atmosfera metafisica; ricrea
nuove dimensioni improbabili, la fotografia è funzionale alla manipolazione della realtà.
Droidi, corsetti, insetti e idroidi

Non studia moda, lavora in un negozio dove realizza abiti dalle spalle molto larghe e maxi capispalla
strutturati. Nel 1973 fonda il suo marchi e sfila nel 1975, con look attillati, chiusi a triangolo rovesciato, la
P/E 1977 “Mugler Race” rivolta alle gare motociclistiche prende spunto dal Secondo Futurismo, fotografi
sono Pierre et Gilles, e la modella iconica è Sayoko Yamaguchi, asiatica, “Bionic Sayoko”, natura + artificio.
Sfociata nel maifesto cyborg di Donna J. Haraway. Spalle larghe e imbottite, cuffie simili a elmetti con aletta
aerodinamica e maniche ingrossate al bicipite. Sì alle macchine celebrate in ripetizione differente, con
carenature, paraurti, specchietti retrovisori. Nella F/W 1979-80 “Spiral futuriste” glorifica il presente e
futuro con in più il pop, uso materiali sintetici e industriali, creature idrodinamiche, unghie puntute e
metalliche tipiche della donna-insetto, ambientazione surrealista, con luci e bagliori argentati. Look usati
anche da David Bowie. Apparizioni angeliche, una madonna con aureola a punte, abiti con branchie in “Les
Atlantes” 1989. Con “Hiver Buick” 1989-90, è al massimo della sperimentalità, con il corsetto viene fatto da
componenti di carrozzeria di automobili vintage, fanali, griglie di radiatori, affermazione della cultura sulla
natura, conversione in ginoide di una sessualità esibita attraverso una perfezione di forme inorganiche. Il
vestito è un armatura, composta da polimeri termoplastici a formare una corazza, mostrando porzioni di
pelle e le coppe del seno plastificate. Tutto deve apparire nuovo, cromie lucide e privo di segni del tempo,
al contrario della moda povera. Uso pietre preziose e strass, immagine di femminilità predatoria,
dominante e impenetrabile come l’esoscheletro che la riveste, hanno aculei, pungiglioni, rostri contundenti
e veleniferi, zampette. Il copro-corpetto è un insieme di lamelle dorate e scaglie iridescenti, piume e
pietruzze, paillettes e lamine. Lavorerà per il Cirque du Soleil.
Prada, decostruire la bellezza

Collaborazione fra Prada e Wes Anderson, come con James Lima; nella F/W 2008-2009 “Fallen Shadows”
reimpagina i fotogrammi di Luis Bunel cineasta surrealista e riprende Dalì, tributando De Chirico, Carrà e
Morandi. Fauni, ninfe, creature silvane: riedizione di Art Nouveau di Aubrey Beardsley e Hieronymus Bosch
con technicolor. Miuccia Prada (1948) è time traveller, attraversa parte degli anni ’80, matura negli anni ’90
e domina il 2000. Parla la langue della sofisticazione, della manipolazione artificiale “per me, il dibattito tra
nostalgia e modernità è fondamentale”; riprende Schiaparelli, “non mi sono mai considerata una
minimalista” ma è semplice, le sue linee all’inizio sono relativamente sobrie; due indirizzi di poetica la
caratterizzano: “ossessione” e “luogo comune”. Preleva le ossessioni femminili riguardo i codici
vestimentari e le scelte di rappresentazione, all’interfaccia tessile frapposta fra il mondo e l’immagine di sé;
incrina il profilo del “bello” canonico, del bel mostrarsi, dell’apparire mediocremente belle, banalmente
sexy. Individua i riti vestimentari del mondo borghese per sfiammarne l’insulsa ripetitività, per combattere i
codici del buon gusto. “infatti, il più del mio lavoro consiste nel distruggere- o almeno del decostruire- le
idee canoniche della bellezza, del fascino mediocre della donna borghese, bella, glamour”. La parole di
Prada sta nel lavorare di sfumature, di dissolvenze incrociate. Rifà le squame di pitone grandi in plastica con
paillettes, sostituisce i tacchi a spillo con le fiamme della carrozzeria roadster. Psichedelia hippie, grafismi
anni ’60, “se mai ho fatto qualcosa, è stato rendere il brutto attraente”. Uso del nylon rigenerato in tessuto
di lusso, le orribili carte da parati anni ’70 trasformate in tessuti spettacolari inediti e attuali, galosce da
pioggia trasformate in stivali “Sono nota per l’uso di materiali che non appartengono alla moda…per sfidare
le nostre aspettative circa il buono e il cattivo gusto.

Se gli androidi sognano pecore elettriche

Nel 1984 inventa lo zainetto in nylon Pocono, riferito ad un tessuto “effetto seta” ispirato all’ambito
militare che si usava per i paracaduti; la fibra a poliammide è raccontata in un video ad ambientazione
fantascientifica, tra ambientazioni high-tech e pecore sintetiche dalla cui tosatura si ricava l’oro nero per
abiti. Atmosfere artificiali, rifiuto di concessione primitivista, immaginario post-organico, forme chiuse e
strutture sovrapposte, materiali duri “la comodità è noiosa e deprimente. Non eccita, non stimola. Per me, i
tessuti rigidi e pesanti sono i più regali. Conferiscono alla donna un senso di dignità e di importanza”.
Guardaroba maschile nei tagli dei capi, linee pulite, uso colore poco apprezzato come il marrone, accostata
a rossi e fucsia vivacissimi usati in abiti anni ’50, mostrando la sua avversione per il falso purismo
dell’insieme. Le calzature sono l’espediente indossato per comunicare le riconfigurazioni dei look, abitini
stranianti e che riprendono i cartoni, in pelle di mucca e minigonne in conchiglie sintetiche, citazioni allo
Space Design, contrasti tra elementi grezzi e tessuti lisci. Scarpe Mary Jane con le calze richiamo al mondo
infantile, uso del nylon in palette monocroma, ribalta il machismo del mondo militare e riadatta al
femminile le uniformi tedesche; zip abbondanti, taglio a gilè degli smanicati e stivali al ginocchio, cliché
della lingerie. Uso del trompe l’oeil (Surrealismo), pattern della biancheria da casa dalle tende alle tovaglie
anni ’50, come la carta da parati, riprodotto su abiti, camicie. Con il nuovo millennio, 2000, cambio di rota:
uso tavolozza più acida a contrasto con tinte tenui, incremento hi-tech della sua moda. Omaggio alla
collezione “scandal” di YSL, con labbra stampate sui tessuti, cravatte, uso astuto pelliccia, uso sfacciato
dell’oro, su broccati, ricami, lamé, su intere superfici di tessuto. Capi ricavati da pizzi e merletti: codici di
seduzione pronta all’uso, riabilitati per cura omeopatica e inflazione costruttiva. Tessuti tecnici, stampe a
fiore, omaggiando la margherita di Mary Quant, con reggiseni indossati sopra camicie da uomo; femminilità
artificiale, con trapassi dall’armadio da uomo a quello da donna con capispalla over in tinte sature e
fluorescenti, abbinati in gonne in tulle, scarpe in plastica dalla forma futuribile, vestitini anni ’20 in fibre
sintetiche. Invece anche atmosfere dechirichiane con linee sobrie, nette e precise con incursioni fluo
oppure riprende il mito di Atlante. Abiti Art Déco in tono techno, pecore in “Nylon Farm”.
Ferretti, io sono leggera

Postmoderno, uso stimoli tra presente e passato e riarrangiati: Alberta Ferretti (1950) è un anello di
congiunzione fra diversi stili, con il fil rouge della leggerezza. Sia fisica, riposta sui tessuti fluttuanti e
immateriali, e una operativa, tipica dei time travelers, ovvero cita i capolavori della storia dell’arte.
Simbolismo, trasparenze alla Doucet, di d’Annunzio, di Lucile, Klimt e Hoffmann, volumi ampi e ariosi di
Clark, Rhodes, revival di Valentino, Lagerfeld, Versace o Moschino, McQueen, Ghesquiere. La sua cifra di
stile è la sottoveste riconvertita in abito, che risulta lontana dai look da manager; la sua femminilità si
manifesta attraverso l’apologia di un corpo sensuale, richiama le sinuosità e le dolcezze. Realizza fin
dall’inizio degli anni ’80, una sottoveste in satin grigio in taglio in sbieco (Vionnet) eros morbido, sussurrato
senza eccessi in uno stile “fluido, leggero, con inserti di chiffon e pizzo”; uso elementi impalpabili e
rarefatti, uso organze, stamine, chiffon. “La prima cosa che mi viene in mente è un movimento. Penso a una
donna che si muove, al suo atteggiamento, poi alle proporzioni e ai volumi”. Collaborazione con Vanessa
Beecroft, autrice di happening e Body Art; leggerezza connessa a quella di Calvino: incontro con la
diffusione della tecnotronica, della softness. Rimane comunque contemporanea, i suoi richiami all’età
classica, alle tuniche, ai pepli, sono resi contemporanei con uso anche di materiali nuovi, tessuti differenti
accostati, colori insoliti, “preferisco superare la perfezione di un solo stile per dare sempre un tocco di
imprevisto” , sposa le opere del Rinascimento con la materia grassa dell’Arte povera. “Volevo portare sulla
riviera un po’ di Saint-Tropez: lo stile hippie chic, gonnellone e pizzi”. Inizia nel 1974 a Firenze e nel 1980
con il fratello Massimo, fonda Aeffe, e inizia a produrre le linee di Coveri e Moschino; dal 1981 sfila a
Milano e nel 1984 crea Ferretti JeansPhilosophy, chiamato da lei “la piccola”, il cui nome è diventato poi
Philosophy. Scattata da Paolo Roversi, collocata a metà tra il decennio degli eccessi e della policromia
accesa e artificiosa, preferisce una palette neutra, mantiene vivo il rapporto con la corporalità che si
manifesta per il tramite di un organicismo tenue, ancestrale. Le trasparenze vengono dalle trame di pizzi, di
disegni impalpabili, stratificazioni soffuse, layering, , velluti sagomati in giacche, completi e sottovesti,
emanano rifrazioni di luce, contrapposizioni fra tagli maschili e femminili, blazer lunghi e corti da cui
emergono le sottovesti in pizzo. Tagli vivi, annoda i lembi delle organze, orna i merletti, rasi, sangalli, uso
anche di colori forti e stranianti. Sagome ad A, sagoma illiquidita e figurativa, tinte écru, gioielli, gemme
disegnate su piani metallici. Rosso papavero su ornamenti dai ritratti del 400 ma abbinati a stivali cuissard
lunghi alla coscia, tinta ruggine con lamine d’oro applicate sulla levità dello chiffon.
Capitolo quinto

Neominimalismo e Neopoverismo

La terra trema con Dolce & Gabbana

Dopo un decennio di esuberanze, si ripresentano le geometrie del minimalismo e le massi informi della
moda povera, ma con il prefisso “neo”, come normale evoluzione di forma con l’uso del colore e di qualche
elemento decorativo, igiene disinfettante delle forme geometriche e colata iletica. Domenico Dolce (1958)
e Stefano Gabbana (1962) possiedono due personalità antipodali, si completano; attratto dalle ricchezza
culturale e folkloristica della Sicilia, Gabbana, insiste sull’italianità, mentre Dolce, siciliano, voleva
staccarsene. Tratti marcati ed estremi, dell’Etna, è un Barocco “in bianco e nero”, “l’eccesso di decorazione
non è nel mio stile. Fuori mi piacciono le cose che sono molto squadrate e precise. Adoro il Costruttivismo
russo, l’art Deco, il modernismo anni ’60, poiché dentro la mia testa c’è già troppo viavai. Fuori voglio
l’ordine”. Slancio primitivo, spazialità pulsante, forme geometriche euclidee, influenzati dalla moda di
Comme des Garçons, ma lo fanno con tagli asimmetrici, pieghe, nodi e contorsioni, con una spinta interna,
con gonfiori e volumi che si relazionano con lo spazio, la fibra trema, fori e tagli a vivo “realizzammo i nostri
primi jeans strappati. Prendemmo la pietra pomice e facemmo a mano i buchi nel denim”. Progettazioni di
abiti progettati per essere indossati in modi diversi, come ad esempio una gonna che diventa maglietta o
abito allo stesso tempo. Aumento della densità delle pieghe e della massa materica, tanti bottoni sparsi
sulle superfici in modo da creare un numero di configurazioni variabili, raggrumate, vitalistiche. E’ la prima
manifestazione di un Barocco al nero che mergerà, conversione plastica delle tenebre in un eros fluido.
Realizzano immagini di equipollenza tra i capo e le ambientazioni scelte per la campagna pubblicitaria, le
modelle hanno pose spontanee, in un’idea di bellezza che viene da dentro. I neri e i grigi, con i materiali
sono informi, superfici raggrumate, mai lisce o piatte. Layering polposo che nelle gonne contrasta,
risaltando, con topo semplici o ricavati da geometrie decostruite e riassemblate. Taglio maschile, gessato,
oversize, uso della coppola, anni ’40. Citazione anni ’60 con stampa di un affresco di Raffaello, primo fra i
tanti ricorsi alla storia dell’arte: gli abiti di stringono alla silhouette e iniziano ad infittirsi di gemme, pepite e
cristalli, torna il corpetto come esaltazione della sessualità, lingerie provocante. Alla sartorialità dei tagli si
aggiungono stampe policrome, copiosità di motivi animalier. Giacche e cappotti piatti davanti e voluminosi
lungo la schiena e maniche (ammirazione per Balenciaga) con ornamento, esibizione della sessualità con
accenti sadomaso. Precisione dei tagli e qualità dei materiali, tra citazioni, cliché dell’italianità, stampe pop
e multicolor, esaltazione del ricco.

Lang, il sex appeal dell’inorganico

Helmut Lang (1956) concezione vestimentaria dell’”esperienza-con” il mondo, è il designer del


riduzionismo, dell’azzeramento, come “il” minimalista. Muta i memi delle strutture supreme con le
somministrazioni del “neo”, il suo neominimalismo è fluido, mobile, fertile, impuro, è aperto, smussato, si
sporca le mani, afferra la realtà, la spreme: ecco perché il neominimalismo si fonde con il neopoverismo.
Fusione arte e moda, non c’è nulla di statico, raccoglie la materia, la rielabora fino a quando il nucleo
residuale che rimane mostra la sua spinta intrinseca, di sostanza autonoma e vivente. La materia è dotata di
una sua pulsazione endogena, la fibra vive di vita propria e possiede una specie di respiro; il “sex appeal
dell’inorganico” è una condizione che contempla la sessualità scaricata sulle cose, tutti i suoi abiti sono
concepibili come “pelle surrogata”, di membrana organica e inorganica allo stesso tempo, distende sui suoi
capi strisce di resina, di gomma, di plastica, tratta i jeans macchiandoli, spruzza materia colante, molle o
schizzata, primordio, uso tagli a vivo, uso fasce disposte asimmetricamente, a turbare la silhouette
canonica, sia dilatate all’infuori come cordoni ombelicali come fossero una vibrazione vitalistica. Forme
semplificate, rifiniture chirurgiche per nettezza e precisione, colore da epidermide surrogata, giunture
applicate lungo i fianchi, “aperti” a slanciare la silhouette e denudare parte dell’anatomia. F/W 1994-95
Tubino in tinta écru allungato fino a mantella fluttuante, quasi uno strascico, dopo che il tessuto raggira il
busto proseguendo dall’asimmetria del modello a monospalla. Il suo “liquido denso” colato sul corpo,
attinge anche dal militare per colori e forme, come il gilet antiproiettile sui cui sono applicate strisce e
toppe; dalle strisce si passa ai tagli, in capi letteralmente “astratti”, stilizzati al massimo grado di
sottrazione, ridotti a semplici sagome lineari, a formulazioni sintetiche ed essenziali. Tessuto écru e tessuto
nero, sfrangiati, si sovrappongono in un layering asimmetrico, oppure si annodano, si attorcigliano. Lang
attribuisce alle sue opere una significazione simbolica, nel senso che riconosce uno slancio primitivo in
grado di inanellare un’intera comunità.
Follia primordiale in Costume National

Ennio Capasa (1960) (e il fratello Carlo) con il suo Costume National è neominimalista, soluzioni
geometriche e dinamiche, neominimali e neopovere. Trae ispirazione da Malevic, dalle composizioni di
Newman, le righe verticali di Buren, Fontana, Hartung, Soulages (Informale), Arte povera, Velàsquez, Pop
Art. nel 1983 si trasferisce in Giappone, sotto l’ala di Yamamoto, vitalismo “la mia follia primordiale,
l’ossessione estetico-creativa, il corpo delle donne nella sua essenza più astratta e concreta, l’inspiegabile
piacere dei vestiti… si toccava come plasma, volteggiava uscendo dalle teste e lento come fumo ci
avvolgeva”; questa carica vitalistica nei vestiti è arginata dalle forme geometriche. Nel 1986 avvia Costume
National, toglie le spalline riportando la figura femminile a dimensioni plausibili, più autentiche, “mi
concentravo su una donna lontana dai ridicoli eccessi anni ’80, una donna più vera”, volumi semplici e
monocromi, modanature e rilievi, trama corrugata nell’uso di trattamenti “poveri”. Ritmo vivace con
montaggi asimmetrici, giacca con screpolature in bianco date da una resina che richiama i cretti di Burri,
linee oblique, tavolozza fredda “adoro i colori e ne ho un rispetto sacrale, ecco perché li uso il meno
possibile”. Coniuga la necessità di azzeramento della sua generazione con geometrie fluidificate, con
fissaggi granulosi, inserti street, colorazioni fluo o trasparenze leggere.
Galliano dal povero al ricco

John Galliano (1960) nel 1984 alla Jubilee Hall del Covent Garden si laurea alla Central Saint Martins
mostrando la sua collezione e lasciando tutti a bocca aperta: ispirato alla moda postrivoluzionaria
mescolata ai codici dell’Estremo Oriente. Silhouette radicale, ottenuto attraverso l’unione del kimono e
forme occidentali, con l’applicazione di tasconi, risvolti esagerati ribattuti con fodere decorate e a contrasto
con tinte unite; la materia tessutale c’è, pulsa, ma si abbellisce, la sua poetica è “un difficile mix di contrasti
culturali color sangue rappreso”, “la semplicità è noiosa”, abiti grinzosi, asimmetrici, con colori naturali.
Indossabili al contrario- in double face o sottosopra- le maniche di uno spencer spuntano da una gonna, con
tappi di sughero inseriti negli intrecci delle lane e inserti readymade poveri, forme aperte e tessuti
annodati, tutti over. Torsioni, pieghe, avvitamenti, spaghi di canapa, abito avorio che mostra lana cotta in
tumulto, maniche raddoppiate, velluti colorati con un segno a spirale e in contrasto cromatico. Gonne con
sbuffi e gonfiori, “Clam Dress” millefoglie di organza organicistico, stratificato e allacciato, così da coprire le
trasparenze della superficie in righe fitte e casuali. Le sue ispirazioni sono William Blake e Charles James,
trasferitosi a Parigi, celebra il copro e l’eros, gioco di layering e sbiechi, capi da biancheria intima usati come
abiti. Processo inverso: dal povero al ricco, si capovolgono le proporzioni, posa e fiction, soluzioni implosive.
Piccola parentesi da Givenchy, poi dal 1996 al 2011 da Dior, tre principi: oversize e informe con affondi
popular, con una corsa all’oro; biancheria lilla abbinata a pelle di leopardo, da prostituta; ispirazione
africana, omaggio a Boldini con manti di tigre e sete cascanti, ritorno del corsetto e silhouette a vitino di
vespa. Blazer con pantaloni, con sopra gonna con spacco vertiginoso. Rock e barocco contrasti di ogni tipo,
uso dello sbieco persino sul jeans, giornali stampati su abiti. “Ricostruzione: decostruzione suona male. Io la
chiamo decontestualizzazione”. Una sella come borsa, giacca Barbour tagliata a gonna, trench diventa abito
da sera,. Haute couture F/W 2000-2001 “Freud or Fetish” erotismi in maschera, rifiniture superbe e vistosi
tagli a vivo, polsini strappati o colletti cuciti in altre parti del copro. Uso colori intensi e sgargianti, stampe e
decorazioni, Anti-Form policroma, masse spumose. “the Libertine Collection” P/E 2006 tinta dominante
rosso sangue con toni vermigli, da “sangue rappreso” su pelle tagliata a vivo, corsetteria in bianco dove
spruzzi e larghe macchie ematiche creano un miscuglio stupefacente di povertà e ricchezza, costruzioni
sontuose, un New Look che morde la carne del mondo. Retrofilia, sbuffo tessutale, i suoi abiti sono una
somma di virtuosismi progettuali. Costretto a lasciare il posto da Dior a Raf Simons, tonerà da Margiela nel
2014.
Marras, un tranquillo weekend di paura

Antonio Marras (1961) grafico-pittorico, collage, assemblaggi e installazioni, non confort, lugubri visioni,
lavoro a contrasti, calma-terrore, vecchio-nuovo, naturale-artificiale, procedere ad abbassamenti,
degradazioni; pizzi bruciati, tessuti fuligginosi, strappati, quasi carbonizzati, “poveri”, ma anche preziosi,
decorati, tracce ematiche. Sembra formare larve, embrioni. Richiama l’Espressionismo, Schiele, l’Informale
di Dubuffet e Fautrier, realtà regredita al suo stato primordiale, informe e primitivo, influssi del Dadaismo
per gli assemblaggi, oltre che Duchamp anche Hannah Hoch e Kurt Schwitters; “Sono molto attratto da ciò
che sopravvive al passaggio del tempo, che resiste fino ad oggi e trascende il tempo”. Budelli corrispondenti
a sei placente ricavate da lunghissime sottovesti al cui orlo sono cuciti cerchioni di bicicletta, arrugginiti;
Marras “apre”, sbrindella, strappa, lacera, smonta e rimonta, filtra le sue masse materiche con la cultura di
chi “sa troppe cose” e la distanza della memoria, volge lo sguardo a oggetti e situazioni e personaggi con
esistenze infelici, un rapporto dialettico con la carne del mondo. L’informe si impasta di piacevolezze
cromatiche e di edulcorazioni ornamentali- neopoverismo.

Mamuthones e Issohadores

Neopoverismo: salvaguardare forme espressive organiche ma colorate, appaganti. Sempre in Sardegna,


Mamuthones: primitiva e povera bestiale con la maschera nera con la pelle grezza di pecora, la mastruca, a
ricoprirne la sagoma; Issohadores: maschera bianca, costume più fine e colorato, con scialli, fazzoletti
ricamati e bottoni oro, emblema di una vestizione al ricco. I due riflettono le bande di oscillazione
dell’estetica di Marras, volto animalesco e ancestrale da un lato e versante sofisticato, ornato e ricercato
dall’altro. Stile di Marras, incline alla riappropriazione di elementi readymade modificati “a un pantalone
aggiungevo un bordo, a una camicia un ricamo, a una giacca un’applicazione”; per la sua collezione di alta
moda di Roma del 1996-97 “Fili Lai Lai” linee sciolte e morbide, che si avvolgono alla silhouette in tortuosi
viluppi di velluto, di orbace, di organza, ricamati, ingialliti a connotare una visitazione temporale: sembrano
creature del sottosuolo, con rami tra i capelli, occhi alieni, sacerdotesse nuragiche. Ricorso a filamenti-
ombelicali anche- “i laccetti rossi” convertibili in vene, capillari, di diramazione linfoide, con pizzi con
intrecci simili a reti neuronali, alle ramificazioni dei dendriti, in tinte écru. I beige, i neri, i bianchi dei capi
sono dipinti con vergature che adombrano simbologie arcaiche, disassemblato e rimontato il guardaroba
maschile si altera, con pezzi di giacca tagliuzzati e ricuciti, dimezzati a spencer o trasformati in coprispalle o
una borsa. Mantelle ampie, sia costellate di decorazioni e sia più crude e astratte, gonne enfiate da turgori
materici, gilet fatti a patchwork, fibre addizionate per rendere più evidente il movimento della massa
tessutale. Il fuoco è un elemento centrale, tra cui anche le modelle hanno la pelle coperta da fuliggine e
cenere, terra, roccia e riti fanno il paio con pizzi bruciati, rammendi e imbastiture, tessuti rovesciati e
cimosa in vista, come se il capo fosse un organismo dotato di respiro le cui toppe assomigliano a un
attecchimento micotico, biotessutale. In una sfilata la modella esce da una placenta realizzata con le stoffe
della collezione, vestita di garza e di concrezioni di sale. Moda fatta per entrare in sintonia con l’ambiente,
perlustrazione di uno “spazio pulsante”. Gli abiti, di un poverismo sontuoso, sono realizzati con cascate di
sale su sfondo nero, tessuti increspati e in oversize sotto i quali il copro è nudo, una spuma informe
sovrasta la capigliatura e consente alla silhouette di svettare in alto, mentre una panoplia di sete preziose si
abbina a enormi fermagli simili ad ossa. Veli sottili determinano trasparenze con tagli a vivo, superfici
ruvide e opache si alternano a stesure lisce. Per l’uomo usa il layering dove giacche usate e non stirate per
mostrare le superfici grinzose, si alternano a T-shirt con raffigurazioni stilizzate. Uso “là e allora” a fini
propri per raccontare storie, riutilizzo elementi logori, uso metallo su tessuti, trench accorciati e smanicati
tra beige e vinaccia, con pizzi prelevati da qualche centrotavola.
Margiela e il Neoconcettuale

Oversize taglia XXXXXL, “bianco sporco” che copre, erode, cancella, Martin Margiela (1957) si rende
anonimo, come nella sua moda che spegne, raffredda, silenzia e scolora, derubrica persino la sua
individualità a favore di una firma collettiva, Maison Martin Margiela, MMM, includendo l’intero staff. “Ho
sempre voluto associare il mio nome al prodotto che ho creato, non al mio volto”, richiama l’Arte
Concettuale, nata con il Dadaismo di Duchamp e sviluppatasi negli anni ’60 con Joseph Kosuth, On Kawara,
Yoko Ono, Gino de Dominicis: impiego mezzi leggeri e smaterializzati quali parole, numeri, fotografie,
oggetti ridotti al minimo ingombro, sul concetto, dove ciò che conta non è il manufatto finale ma un
pensiero. Moda di rottura, diversa, fuori sistema; aggiunge il “neo” contemporaneizzandosi, avvicinandosi a
Maurizio Cattelan, Andreas Slominski, Erwin Wurm; MMM mette il concetto al centro di tutto, sottraendo
all’abito la sua funzione base di rivestire e proteggere il corpo: prendere vestiti, decostruirli e farli indossare
girati di sghimbescio, oppure riproporre l’intera collezione di una stagione precedente, senza variare i capi
se non immergendoli, tutti, in una tintura al grigio o stampare la foto di vecchi abiti su tessuti nuovi.
Mostrare l’interno di una giacca, con tanto processo di costruzione- fodere, imbastiture, ecc- rovesciato ed
esibito come qualità caratterizzante. “Mi attengo a due principi: non nascondere e no puntare alla
ricchezza” “per me gli aspetti fondamentali di una silhouette sono le spalle e le scarpe. Penso che le spalle
stimolino un certo comportamento e che le scarpe provochino un certo movimento. E quando una certa
silhouette si muove in certo qual modo, io sono davvero molto contento”. Il vestito è inteso in qualità di
oggetto in grado di mutare l’assetto dei gesti, della deambulazione, di rinvigorire le doti dell’”essere”,
consente di indossare un’idea sanamente fuori norma e concepita per mandare all’aria la pericolosa cappa
delle abitudini. Amore per Duchamp, concetto quale visione “altra” si applica anche alla realtà preesistente,
“adoro gli abiti che non ho inventato io” e dunque li usa, li scuce, li ribalta, li replica. Collabora con un
microbiologo per cospargere 18 capi delle sue collezioni precedenti con una colatura di batteri, di lieviti e di
muffe che proliferano nei giorni di esposizione di una mostra e mostrano il brulichio di una superficie
vivente. La monocromia bianca, da limpida e uniforme si macchia, esposta alla caducità e alla consunzione,
“il bianco esprime la forza della fragilità oltre che la fragilità del tempo…non si tratta di un bianco assoluto,
ma di più bianchi, con ogni sfumatura possibile. In genere usiamo un bianco opaco per sottolineare lo
scorrere del tempo”.
In corpore, incorporeo, acromico

Dal 1980 Margiela è consulente di stile per diverse aziende italiane per poi diventare il braccio destro di
Gaultier nel 1984 e lavorare in contemporanea con marchi come Gibo e Fuzzi, anche se il suo sogno è
lavorare per Armani; in società con Jenny Meirens nel 1988 crea la sua griffe: riscopre la moda nipponica, a
proposito di Comme des Garcons afferma che era il futuro. Nella sua prima sfilata utilizzo del velo a
copertura del viso delle modelle, citando Magritte. Ai due principi di rovesciamento interno/esterno e della
povertà, si deve aggiungere un terzo elemento, declinato su una gamma di soluzioni paritetiche al
funzionamento degli apparati elettronici: così come i media restituiscono la realtà in una sindone senza
peso, fatta di pixel e restituiti dagli schermi, allo stesso modo gli abiti di Margiela seguono un identico
processo di evaporazione, perdono consistenza fisica per lasciare tracce residuali, testimonianze di un
passaggio. Riprende il meme artistico di Kosuth, che nelle sue terne di oggetto, fotografia dello stesso
oggetto e relativa definizione di vocabolario, aveva presentato lo svolgimento di una volatilizzazione, di un
mutamento di stato fra tre modi di riferirsi alla realtà. Uso di gioielli di ghiaccio che si sciolgono durante la
sfilata e colorano i capi, stampare foto in negativo di un abito sul tessuto di un altro, impiego di bianco su
mobili, telefoni, forbici, porte, su tutti gli articoli del suo laboratorio, corrobora la volontà di purificare, di
azzerare, di resettare. Oscilla tra abiti in corpore, fatti di materiali usurati e riciclati, e il loro corrispettivo
incorporeo, la loro versione in concetto. Dal copro delle cose alla loro essenza svaporata, P/E 1989 le
modelle intinte le scarpe di vernice rossa, camminando sulla passerella fatta di tela lasciano le orme
pedonali, quasi il succo del loro transito: si tratta di tabi, calzature da lavoro usate dagli operai giapponesi,
ricreati da Margiela in stivaletti con tacco a cilindro. Alcune modelle escono senza top, a pelle esposta, o
vestita da maglie in tinta écru su cui sono stati stampati dei tatuaggi a motivi etnici, flebili e trasparenti,
quasi in dissolvenza, a documentare la parabola di una smaterializzazione. Nascondere- inizializzare,
“riformattare”- il viso corrisponde ad una condizione antropologica sempre più pervasa dalle tecnologie
informatiche che, sfarinata la realtà, la scompongono in uno sciame di input elettronici basato su codici
alfanumerici. “Con il volto coperto, si vedeva solo il vestito e il movimento del vestito. E questo mi piaceva
tanto” correlabile all’esecuzione di una performance. Pure l’etichetta MMM sembra ispirarsi
all’azzeramento: anonima etichetta bianca apposta con 4 punti di cucitura agli angoli, infittita di numeri, di
“concetti” da 1 a 23 a contrassegnare l’identità delle diverse linee del brand. Rimanda a Piero Manzoni, che
oltre alla sua firma sui copri, usava numeri e lettere in quantità su sfondo neutro. La sua produzione,
subisce un trattamento azzerante, ma con l’uso di elementi già fatti allo stesso tempo ridonano ai look
sostanza ed evidenza plastica. Nel 1989 usando il tessuto usato come passerella con le orme delle scarpe,
ne fa un gilet, tenuto insieme da del nastro adesivo e ne realizza un altro con dei cocci di stoviglie
raccattate per la strada. Le spalline si accostano al collo, in una silhouette dove i diversi capi vintage si
accostano, e si uniscono a patchwork. Uso canotte da uomo aumentate del 200% nella taglia e risvoltate a
metà così da sovrapporre il tessuto per creare una specie di gonna; uso del cellophane di protezione dei
capi come parte integrante del look, corsetto sagomato da una dozzinale borsa di plastica e un gilet
costruito con i lacerti di cartelloni pubblicitari. Strania dei normali calzettoni militari per farne un maglione,
decine di guanti formano un top, capi costruiti con le placche riflettenti delle palle da discoteca. Per la F/W
1994-95 prende spunto dall’armadio della Barbie e ne ingigantisce le taglie su scala umana, compresi zip e
bottoni; su abiti bidimensionali stampa l’immagine di abiti anni ’30, ’40, ’50 in modo da ottenere un trompe
l’oeil dalla resa ologrammatica, che si confà alla sgranatura delle immagini elettroniche. Gambe delle
modelle dipinte in bianco e ricoperte da calze su cui ridisegna le sagome delle scarpe e delle cuciture;
styling alterato: baffi di vernice e bande agli occhi, chioma mai curata “mi piacciono i capelli spettinati”, i
lini grezzi dei manichini Stockman divengono l’abito vero e proprio, un readymade di una trapunta da letto
matrimoniale diventa cappotto, morbida e over, capi indossati con una rotazione d’angolo di 45 e 90 gradi,
abiti fatti con garze mediche, giacche con quattro maniche, abiti piatti con giromanica sul davanti e
presentati con Comme des Garçons. Nel frattempo ha lavorato anche da Hermes, che, rispettando l’identità
della griffe, sviluppa il taglio sartoriale, inventando capi da indossare attraverso istruzioni per l’uso atti a
suggerire l’esecuzione dei “gesti”: si tratta di performance e ciò deriva direttamente dalla corrente Fluxus:
anni ’50 e primi ’60, patrocinava un’arte per tutti mediante il ricorso a oggetti facilmente reperibili e muniti
di poche istruzioni di impiego. “Apri le zip laterali del vestito per trasformarlo in una tunica da portare sopra
i pantaloni”, “arrotola le maniche del pullover lungo un guanto al gomito”. Un impermeabile in materiale
leggero può essere ripiegato nella borsetta e diventare all’occasione una vestaglia da sera da portare sopra
un completo, un cardigan avvolto diventa una tracolla, cappotto da usare con o senza allacciature.
Tavolozza tenue e tinte fredde.
I Sei di Anversa

I Sei di Anversa sono: Ann Demeulemeester, Dries Van Note, Bikkembergs, Van Saene e Yee, Van
Beirendonck : sperimentalismo portabile, fa presa sul mercato; Anversa coniuga i radicalismo di Parigi e
Londra con il pragmatismo di Milano puntando l’occhio sui poverismi e sul pop del Sol Levante. Presenza
femminile di Ann Demeulemeester (1959) che fonda il suo brand nel 1985, acquista una casa di Le
Corbusier, che riflette il suo less is more di tipo funzionalista, con uso di forme geometriche, ma anche
vitalista; è tra neominimalismo e neopoverismo, senso spiccato per il layering, del bianco e nero, silhouette
aderente al corpo con tessuti a sbordare verso lo spazio; fiocchi e pieghe testimoniano movimentazioni
interne, dimensioni dei cappelli estenuate. Stropicciate, rugose, fluide, forme sospese fra il maschile e
femminile, soprabiti dilatati fino a terra con decine di bottoni lungo l’orlo dell’allacciatura o a infagottarsi in
membrane biomorfe. Asimmetria, irregolarità “quando ho iniziato a disegnare la collezione volevo trovare
una nuova silhouette, non ne potevo più di vedere donne chiuse in capi aderenti… così ho pensato a un
nuovo modo di concepire abiti, tagli e forme attraverso l’asimmetria: quando indossi un vestito, si crea una
dualità tra copro scolpito da un lato e un copro oversize, un copro astratto dall’altro”: silhouette scossa da
viluppi e tortuosità, interviene sui capi nominando con stampe ah hoc l’anatomia su cui poggia il tessuto
“braccio destro”, “corpo umano” , uso pelle, pelliccia e altri materiali organici conferisce una carica di
primitivismo. Scritte come di gesso su una lavagna si stagliano su un tessuto nero, anima gotica e oscura,
non c’è mai citazionismo puro e fine a se stesso, “penso davvero che Yohji abbia creato una nuova forma di
bellezza sessuale… emozione e sessualità sono concetti molto simili. Mi sforzo di avvicinarmi al sesso così
come lo sento, in modo onesto, non certo con le regole che ci vengono inculcate da anni”.

Dries Van Noten (1958) si concentra sul layering, “il ricco e il povero, il brillante e lo sbiadito, un maglione
enorme con una gonna di chiffon alimentano l’intensità del design”, attento ai valori della forma e
dell’equilibrio, dell’osare con parsimonia, ammassi, grumi materici carichi di appeal esistenziale, persino
primitivista. Operando per contrasti sia di forme che di tessuti, crea cortocircuiti, maglioni ampi e rilassati,
fibre avvolgenti, giustappone un cardigan, uno spencer e un pareo, amalgama una gonna a righe con una
gilet militare creando un’armonia. Stampe floreali, rose soprattutto; malgrado l’infittimento di stampe e
colori assuma un’animazione pulsatile, quasi biologica, le esornazioni tendono a prevaricare.
Dirk Bikkembergs (1959) filone sportswear, tenuta del copro, materiali pratici, elastici, funzionali, un outfit
non è una banale copertura del corpo, ha valenza psicologica e prostetica “per l’uomo ho creato l’illusione
di sentirsi forte e invincibile attraverso la forma e l’uso di materiali virili e resistenti”. Svolge ricerche sul
footwear, scarpa robusta fatta di pelle di cavallo, tomaie alterate, suole ultraresistenti, allacciature con cavi
elastici, realizzate per conferire sicurezza. Dalle calzature al total look: ottimizzare gli sforzi del corpo, non ci
sono orpelli, ogni elemento ha una funzione, mescolare tessuti e tagli da fashion design con fibre e
silhouette tecniche, tagli neominimali, geometrie accese da colori fluorescenti su sfondi neutri, incursioni
pittoriche.

Marina Yee (1958) tagli fluidi e monocromia, come Dirk Van Saene (1959) con piccole produzioni.

Confessioni di una maschera: Van Beirendonck

Walter Van Beirendonck (1957), fondatore del brand a suo nome, della linea W. &L. T. (traduzione:
“selvaggia, micidiale spazzatura”) dal 1993 al 1999 (per Mustang Jeans, nota azienda tedesca) e di
Aestheticterrorists dal 2002 al 2003. Esuberanza dei colori, ricorso ad elementi decorativi e trionfo
dell’artificio, “Quando ho fondato W.&L.T. ho sentito il bisogno di creare un personaggio, una specie di
alter ego, che dicesse tutto e di più. L’ho chiamato Puk Puk. In lingua papuasica significa “coccodrillo”, gli ho
pure disegnato un bel cazzo”, è un personaggio diabolico e angelico allo stesso tempo. Dal 2002 sembra
essere un kamikaze contro il gusto borghese, loffio e istituzionale. Neopop si rapporta al mondo delle merci
e dei prodotti industriali, anni ’60, abbandonare le icone anaffettive di Wharol, Wesselmann o Quant, per
orientarsi su articoli sensuosi e coinvolgenti, da Pop Heart, amabili; soggetti carichi di una vivacità
intrinseca, l’incidenza del cosmo pop ha creato un incastro tra la sfera dell’organico, dell’Es freudiano e la
sfera dell’inorganico, tra il “primario” e “secondario”. I ninnoli del mondo pop destano un senso di stupore,
di meraviglia e coinvolgimento rispetto a una sempre più marcata umanizzazione delle merci. Traduce
l’irruenza dell’informe nelle fattezze di oggetti e icone calde. Nel kitsch scorge un’epifania, come se le
buone cose di pessimo gusto godessero di un riscatto, “ci metto sempre del sesso in quello che faccio”.
Nella sfilata F/W 1999-2000 le prime due file sono occupate dai suoi giocattoli, a ricordare che i giochi
hanno una loro vita, nella prima collezione 1983 si ispira a pratiche sessuali senza freni Sado: volumi ampi,
scabrosi nei ricami al feticismo sadomasochista, ma con una matrice affettuosa dato che Sado è il suo
cagnolino. Vicino alla moda povera per il knitwear, i filati subiscono una sorta di denaturalizzazione, con
decorazioni inusuali per gli intrecci della maglieria, rimontati con ornamenti grafici e geometrici,
abbinamenti inconsueti e imprevedibili, o cuciti sul tessuto di una giacca. Uso oversize e stratificazione,
segni tribali e iconcine extra-terrestri, Puk Puk stilizzato a forma fallica, sagomine di Ufo, stelline, cuori e
fiorellini; un nucleo narrativo è ispirato alle vicende di Heidi filtrate attraverso la crudele, perversa
videoinstallazione di Mike Kelley e Paul McCartney: gli artisti scatenano perversioni splatter, stupri e
sbudellamenti, musichette zufolanti, verdi praterie e arcobaleni colorati. Stile techno, parrucche colorate,
bomber in plastica trasparente, stampe sgargianti per le t-shirt, tinte super-piatte e fluorescenti. Cavalieri in
maschera e dall’alto spuntano pupazzi di draghi, esercito di alieni con derma verde e blu, sintetico come gli
abiti in passerella. “Mi interessa capovolgere la realtà, rovesciarla”, modelli a volto coperto con scritte
inneggianti a un catalogo di pratiche sessuali e ormoni in subbuglio. Plastificazione dell’organico, perenne
giocattolizzazione, kitsch, innumerevoli loghi, trompe l’oeil esagerato che raffigura petto e peluria del
modello, uso modelli grassi simili ad orsi con icone con orsacchiotti. Omaggia Cardin per il mondo pop e la
tecnologia, poi abiti stile preppy con fantasie policrome, ricami, tinte pastellate seguiti da look decisamente
più estremi con colorazioni sature e fluorescenti, copricapi fallici, silhouette si esoscheletri, maschere da
wrestling decorate con margherite.

De la Prada e Marni: dal Neopop al Neogeo

Agatha Ruiz de la Prada (1960) citazionismi in voga nell’arte del momento, sugli abiti ricami quasi diretti a
stoccate espressioniste, segni istintivi, materici, preferenza per colori accesi; la Pop degli anni ’60 esprimeva
uno stile basato su tagli netti, con qualche riferimento ornamentale restando però marginale, con de la
Prada oltre alle campiture di Courreges o Quant, proliferano gli elementi decorativi, talmente vivaci da
sagomare l’intera struttura delle sue creazioni. Le sue icone non sono anaffettive come quelle del mondo
pop, ma calde e metabolizzate: Neopop, icone con aria di familiarità che le rende docili e affettuose. Il suo
“marchio registrato” più amato è il cuore, uso di doppia strategia: ipertrofia e iper-decorazione, ritrova
l’energia delle istanze infantili, nel vivere il mondo con una rinnovata freschezza percettiva; girelli per
bambini, tondini simili a tuorli d’uovo, omino Michelin trasformato in un piumino a striature bianche e
verdi, torta nuziale con colori arcobaleno, labbra ingigantite, occhi polifemici e occhi di bue. Ossessione per
il cuore in tutte le sue forme e varianti, con il trattamento ipertrofico il cuore colpisce il profilo di una
gonna, batte su un reggiseno, è al centro di un cappottino rosa, iper-decorazione sulle superfici di abiti e
ambiente.
Marni, fondato da Consuelo Castiglioni (1959) nel 1994, non ha una riconoscibilità di stile immediata,
matura con il tempo. Mosso da un certo eclettismo, da visoni un po’ accademiche e romantiche, materiali
grezzi e naturali. Uso pattern e tessuti sofisticati, plateale artificiosità. Il Neogeo è astratto-concreto, è
l’abbreviazione di “geometria nuova”, gamma di colori molto ampia e accostamenti spericolati, stampe
Neogeo con volumi puliti, uso neoprene, tessuti elasticizzati e pelli traforate, inorganiche con tinte sature e
omogenee, tagli affusolati e inediti, uso senape, bordeaux, salmone, blu, maniche di pelliccia a contrasto
con velli dai colori inconsueti. Uso layering, con tute a trapezio di diversi colori a sormontare cappotti, abiti
alla caviglia, pantaloni larghi e fluttuanti, bilanciati da geometrie chiuse e iper-colorate, superflat delle
stampe. Volumi asimmetrici, assembla vestiti con centinaia di cerchi in giallo, rosso, bianco, beige, cialde di
plastica che sembrano un omaggio ai colori primari di Mondrian. Oversize e organicismo in bianco in cui la
materia tessutale ospita un derma di esornazioni in alternanza fra trame vegetali-biomorfe e
cristallizzazione minerale. Dopo Castiglioni la direzione creativa passa a Francesco Risso.

Poell e Carpe Diem


Carol Christian Poell (1966), la sua famiglia ha un’azienda di pelletteria, e lui perciò ha confidenza con
cuoio e conce; nel 1995 con Sergio Simone fonda CCP: all’inizio le collezioni sono contenute con pochi pezzi
che hanno però un approccio maniacale nei dettagli e nella progettazione con una qualità da haute
couture, inseguendo un lusso degradato, le sue morfologie sono scosse, nervosamente abbellite da una
hyle che non smette di dimenarsi e dar conto di un vitalismo in fieri. Convergenza con Damien Hirst e Sarah
Lucas, neo-poveri, la tradizione a la sartorialità sono il suo punto di partenza ma li rinnova e li riscrive, le
sue pelli presentano cuciture a sutura, rimarginazioni di cicatrici perfette nell’evocare ecchimosi,
escoriazioni, forme esperenziali traumatiche ma positive lontano dal perbenismo e dall’ordinarietà. I
pantaloni sono cuciti a spirale partendo da un unico lembo di tessuto, con cuciture che non combaciano e si
interrompono in asimmetrie, cravatte realizzate con capelli, negli orecchini e nei bracciali sono incastonati
denti e ossa. Usa sangue vero per tingere la pelle, dà alle superfici un aspetto scabro e dà ai suoi abiti un
aspetto anti-form mediante l’uso di olii, grasso, latex o gomma. Presenta una collezione dentro le gabbie di
un canile, rifà le camicie di forza di qualche istituto manicomiale o, dentro le pareti di un macello, espone i
suoi abiti accanto alle mezzene di ovini e suini. Le maniche di un giubbotto di pelle si prolungano in guanti
con tirapugni incorporato o con tre dita, o giacche e pantaloni subiscono ferite diagonali di giunture spesso
ricoperte da nastro adesivo. Stivali e scarpe con anima di alluminio si accartocciano attorno al piede o
colano di una resina a sgocciolio dalle suole. Un trattamento brutalista assalta le forme, riempi un tessuto
di vetro polverizzato, basta un fascio di luce per provocare un improvviso lampo catarifrangente. Per una
sfilata i modelli galleggiano sull’acqua del Naviglio di Milano, lookbook realizzati in latrine maleodoranti,
come a esacerbare la riqualifica e la riconversione dello squallore in una bellezza lontana dal Bello
canonico.

Maurizio Altieri (1966) fondatore di Carpe Diem nel 1994 stile intrecciato nel tempo presente, ma i suoi
lavori sono fatti con un’artigianalità secolare creando correlazioni dirette con gli elementi della natura.
Pone l’accento sulle operazioni oltre che sulle opere finali, si potrebbe parlare di “process fashion”, fa
maturare pelli e tessuti per mesi interrandoli in un campo aperto, così da ottenere effetti dettati dal fango,
spara un colpo di fucile su una fila di t-shirt per impallinare la fibra con un’esplosione di buchi, di
bruciature, di squarci casuali. Le cuciture sono a spirale, esemplifica una tendenza nell’arte contemporanea
nello sviluppo dell’”estetica relazionale”: interazione a più livelli, quella basilare uomo-mondo tipica, in
moda, della linea Yamamoto-Kawakubo, cui si integra una relazione tra più persone. Cessazione del brand
nel 2007.
Owens. Il subumano, il disumano, il superumano

Rick Owens (1962) “Cagherei uno stronzo color nero sfavillante sul candido paesaggio del conformismo”, è
fuori da qualsiasi schema di ordinarietà, “Se mai riuscissi a offuscare i rigidi parametri di ciò che si considera
bello o esteticamente accettabile, avrò espresso il meglio di me nel dare a questo mondo qualcosa di
buono”, “Sento l’obbligo morale di compensare l’intolleranza e il bigottismo che talvolta sfuggono di mano.
Li accetto come parte della condizione umana in tutto il suo schifo e tutta la sua bellezza, ma rispondo con i
miei boati di serena depravazione per mettere le cose a posto”. Neopoverismo e Neominimalismo, attratto
dall’oscuro delle cose, sbuffo della materia; tra il 2017 e il 2018 ci fu la retrospettiva alla Triennale di Milano
“Rick Owens. Subhuman Inhuman Superhuman” palpito dell’Es, brutalmente dinamico e subumano nella
sua corporalità più genuina. Il suo inumano, lontano dal peso della cultura e di chi sa troppe cose, perde le
sue sembianze di riconoscibilità fino ad arrivare ad una silhouette biomorfa e cellulare, “la texture che
sembra dichiarare qualcosa di vero e autentico”. La sua celebrazione dell’Anti-form si basa sulla
consapevolezza che la ricerca estetica deve riconoscere la presenza di un’umanità “super”, con apparati
tecnologici integrati al corpo: antenne, silhouette espansa rispetto al corpo, pronta a captare onde e campi.

Dal 1994 inizia a disegnare, con un omaggio diretto a Beuys nell’uso di una pelliccia di coniglio. Nel 1998 in
“Monster” i tessuti appaiono gonfiati generando una silhouette movimentata, monocromia, asimmetria,
taglio vivo, agitazione e dinamismo. Nel 2002 debutta a NY, inizia a lavorare come direttore creativo di
Revillon; nel 2003 presenta “Sparrow” in tinte fredde con grigi, neri, marroni, vortici che dilatano i tessuti
costringendoli ad animarsi, estenuati dall’oversize e aggrumati dalla stratificazione. Tinte spesso ricavate
con tecnica a freddo, cioè mediante pigmentazione a basse temperature che non permette alle fibre di
allargarsi e di assorbire uniformemente il colore, mostrano ombre e sfumature casuali. Per la gravità i suoi
abiti si raccolgono a formare risacche di materia, come pantaloni raccolti alla caviglia, aumento ampiezza
colli, lembi che si annodano, abiti che si aprono e si fanno organo. Nel 2005 in “Scorpio” colli e spalline si
coagulano e si dirigono all’insù, uso pelli configurate a creare organi, budelli, protrusioni tubolari. Accanto
al potenziamento del “super” non bisogna dimenticare il “sub” di una moda connessa con i fermenti che
vengono dal basso, dalla bestialità del primordio, delle ombre oscure inneggiate nel nome della sua
seconda linea DRKSHDW. Veste sacerdotesse, raffinate, con top essenziali e geometrici abbinati a morbide
espulsioni di tessuto, con cappe, mantelle, in monospalla e con ampio uso di pelle, antenne nella
capigliatura “mi piace pensare alla moda come a una placida opportunità di partecipazione e
comunicazione”. Per l’uomo progetta le medesime protesi nei lunghi colletti, asimmetrici e strutturati, con
lunghe tuniche smanicate, gilè a zip incurvata, stivali visibili spesso portati su short con gamba in vista.
“Gente con abiti a strascico, figure incappucciate immerse nella spiritualità- tutto quel che faccio viene da
lì” altarini di fuoco a creare un’atmosfera liturgica e primordiale, bombe detonate dal di dentro, la nube
dell’informe invade lo spazio.
AF Vandevorst. Nel segno della croce

Passaggio dal testo al tessuto, coppia designer di Anversa, i coniugi An Vandevorst (1968) e Filip Arickx
(1969), meglio noti come AF Vandevorst. Spirito guida Joseph Beuys, il loro logo è una croce rossa, ad
indicare il disagio di una società malata per il dramma dell’inautentico, la perdita di contatto con la
dimensione organica, a rimedio di ciò Beuys si dedica alla ricerca di materiali poveri, come il grasso e il
feltro, a cui abbina dispositivi elettrici. I due coniugi si appassionano ai vecchi arredi di ospedali
raccogliendo ogni genere di attrezzatura, riscoprono i benefici del primordio, gli impulsi libidici, capi
dell’intimità, quelli più vicini alla pelle come la lingerie. Materia pulsante, viva e viscerale, indaga sulla sfera
dell’”essere”, collauda con il mondo uno slancio primitivo. Nel giro di pochi anni ribaltano la carica iniziale
introducendo elementi di glamour, realizzando persino un paio di stivali da 3.188.000 dollari. Croci rosse,
mondo dell’ippica e relativi equipaggiamenti, uniformi e giunture con rivetti, filati ampi, oversize, capi in
scomposizione, altri fluidi e morbidi, seguono i contorni della silhouette, uso divise militari e sezioni
tessutali più rigide da armatura, chiusura delle forme. Colori neutri e freddi su tessuti fluenti, softness
diffusa, abiti destrutturati e tagliati a vivo, over e monocromi, ma poi anche con inserti più ricchi con
accessori glamour, per esempio tacchi a spillo o brillantini, collezione ibrida di elementi a carattere
primitivista, pelli e pellicce, treccioni di filati in contrasto con pizzi e motivi ornamentali anche molto
colorati. Asimmetrie e grumi iletici in verde, bianco e nero, riferimento all’animalità, “abbiamo creato stivali
a forma di zoccolo equino perché la collezione si basava sull’idea di metà amazzone e metà centauro”
femminilità combattente e volitiva. Tinte da deserto assolato, tessuti leggeri e asimmetrici, ma con
interventi pittorici con cromie accese, così le pelli perdono la “vera natura” colorandosi di gialli fluorescenti,
fucsia con brillantini, sostanze plastiche e artificiali. AF Vandevorst ha il ruolo di griffe-ponte, forme aperte
via via più vetrificate e denaturalizzate.
Capitolo sesto

La sonata del tempo

McQueen Paranoid Android

La moda del remake dei nati attorno al 1970, consiste nel proseguire le mutazioni genetiche del
postumano, nelle manomissioni delle morfologie vestimentarie applicandole ai materiali delle epoche
passate, con sagome chiuse, figure divine e mitologiche a forma animale ma dai tratti perturbanti.
Alexander McQueen (1969), styling, lenti a contatto rosse, bianche e scure, per mutarne lo sguardo in
angeli dagli occhi neri. Macchine astrali addolcite dallo stemperamento di un know-how con la sontuosità
dei broccati, ricami e ori dedicati alla vestizione di streghe, prostitute, regine, angeli e demoni. Il suo
Surrealismo “prendo le mie idee dai Sogni…se hai la fortuna di usare qualcosa che hai visto in sogno. È
originalità pura. Non si trova nel mondo, ce l’hai solo in testa”. Il mondo lo si incontra in via immediata, lo si
maneggia attraverso il gioco combinatorio delle sue stratificazioni simboliche. “Il mio lavoro consiste nel
prelevare elementi del ricamo tradizionale, la filigrana e l’artigianalità da tutti i paesi del mondo. Ne esploro
la manualità, i disegni e i materiali per reinterpretarli a modo mio”. Allievo di Romeo Gigli, McQueen
aggiunge effetti speciali di mutazioni genetiche, per raggiungere un perfezionismo estremo. In “It’s only a
game” il palco è un enorme scacchiera di luci proiettate dall’alto, a illuminare le mosse di pedine, mette in
scena le controfigure dell’alienazione mentale, unione di pizzi, anfibi, metalli e organze. Si forma sul campo
della tradizione e impara le migliori tecniche di realizzazione degli abiti da uom; da Romeo Gigli acquista il
piacere dell’ornamento, dell’eterotopia e della retrotopia. Viaggia nel tempo e nello spazio, è
particolarmente vicino alla Gran Bretagna vittoriana, alla dinastia Tudor e Stuart, passione per la Scozia,
estetica del mostro, uno dei pezzi più noti è una giacca lunga quasi come un frac molto aderente al corpo,
contiene capelli umani che in controluce richiamano venuzze e capillari dentro un tessuto con la stampa di
un filo spinato. Pittoricismo fangoso e colante, quasi da sangue rappreso e da pigmentazione
espressionista, con seni in mostra o marchiati da impronte di mani frutto di palpeggiamenti, i residui dorati
del tessuto volgono al ricco, pantaloni a vita bassissima- i “bumsters”- che mostrano parte del gluteo.
Riedita la mitologia nordica, scozzese e irlandese, elementi artificiali, pizzi decorazioni militari e ori, colli e
colletti lunghi e affusolati, gorgiere ; stampe stilizzate e uso di piume irrigidite a corazza, colori graffiati, “la
bellezza può nascere nei luoghi più strani, anche in quelli più disgustosi”. La sua prima vera sfilata è
“Highland Rape” F/W 1995-96 rivisita il tartan che, stravolto, finisce su completi, tailleur, abbinato a
organze e pizzi, simmetrie quasi optical, baveri appuntiti e gorgiere, resa metallica dei corpetti. Si scaglia
contro il perbenismo, andrà alla direzione dell’haute couture di Givenchy. Corsetto al cui interno sono
infilati, visibili, decine di vermi reali e rappresi, ricami rinascimentali, maschere in pizzo con dita
scheletriche, gilè appuntito con baveri issati come lame, tableaux vivants di sezioni anatomiche ripetute
nell’ipertrofia dei colli, nel ferro contundente dei gioielli, nella strutturazione metallica di una giacca che
obbliga la portatrice a posture coreografiche e innaturali, giacche a spalle aguzze. Dagli abiti spuntano
corna di gazzelle, durezze fiamminghe, taglienti, corsetti cromati con spina dorsale, “Voglio infondere
potere alle donne, voglio che la gente abbia paura delle donne che vestono le mie creazioni”. Per Givenchy
cita dee, vestali, sacerdotesse greco-romane in forme chiuse, serrate fra corpetti dorati, scaglie di extra-
terrestri, corazze di creature ibride di mitologia omerica e fantascienza. Arte del vestire in una fruizione
quasi immobile, ricchezza finiture e perfezione dei tagli. Kimono con gonne e ornamenti indiani, Belle
Époque, anni ’20 e ’30, infiniti scippi culturali. Spalline con teschi di avvoltoi, piumaggi, montaggio delirante
delle forme. Atmosfere fembot, con tailleur ornati con circuiti di schede madri, microchip, decorazioni
fluorescenti di cappotti e pantaloni, corpetti illuminati a led. “che ti piaccia o no le mie passerelle sono una
forma di spettacolo” , cita il martirio di Giovanna d’Arco con cotte metalliche e corazze rimodulate sui
contorni di abiti corti e lunghi, silhouette attillate, lenti rosse, tagli sartoriali maschili alla donna. Figure
chiuse come il crostaceo con esocuticola, grandi cappe indurite bambolizzano la portatrice con lame e
terminazioni calcaree in abiti strutturati persino nei reticoli dei pizzi e abbinati a calzature di legno e
metallo, tacco in diagonale. Una modella sula girandola di un carillon si dimena con il tronco mentre due
robot per la verniciatura automatizzata delle carrozzerie la inondano di colore in una danza meccanica.
Oppure presenta le modelle dentro un cubo a superficie speculare su cui il pubblico vede la propria
immagine al suono asfissiante di un battito cardiaco, per poi la teca illuminarsi da dentro e rivelare un clima
da clinica mentale, stupefacenti capigliature creano boschi e dimore sulle teste delle regine, vestite con
abiti a gonna a sbuffo e dai colli imperiosi. Bustini e crinoline plasmate e durissime mentre i re vestono
casco e paraspalle da football americano. Stampe prese dai piumaggi degli uccelli e dalla pelle dei rettili in
cui impera l’artificio. I tagli alla Balenciaga vengono esagerati, sbeffeggiati da copricapi fatti di lattine e
cerchioni di automobili, trucco da clown grottesco. La sua ultima collezione, la “Plato’s Atlantis” P/E 2010
“Voglio condurvi in un viaggio che non avreste mai creduto possibile… le calotte polari si scioglieranno…il
livello delle acque si innalzerà… la vita sulla terra si dovrà evolvere per poter continuare a vivere sotto i
mari, oppure ancora una volta perire”, rimanda al Platone di Krizia, alle Meduse di Mugler, assorbe gli
effetti speciali del post human nell’agire sulla struttura molecolare di questa femminilità, prendendo a
parametro il mammifero che ha dato il nome alle celebri scarpe, l’armadillo. Le squame ossificate e le
scaglie cheratiniche dell’animale non si fermano alle calzature, pervadono i tessuti per effetto di questa
calcificazione di accagliano in armature, in corazze. Trasformazione dalle stampe alla struttura, prima
appiattite in riproduzioni da computer graphic, poi emergono in superficie solidificandosi in cristalli, zaffiri,
smeraldi, gocce di vetro, squame e lamelle. Tridimensionalità delle maniche a sbuffo, di cappe, colli simili a
membrane rapprese.
Ghesquière, nel regno degli anime

“Possiamo risvegliare gli abiti di ieri e infondere loro lo spirito di oggi?” “La mia passione per Star Wars
origina in parte dal medesimo approccio: da bambino ne sono rimasto folgorato, anche dal punto di vista
estetico”. Nicolas Ghesquière (1971) influenza dell’ondata di “anime” giapponese, dal mecha design di
Mazinga, Gundam, Jeeg robot, Daitarn 3, dolce Remi, l’infermiera Candy Candy, Lady Oscar, Holly e Benji,
Mila e Shiro. Affianca Gaultier, nel 1995 lavora per linee minori di Balenciaga destinate al mercato asiatico e
disegna tute da golf, abiti da sposa e da lutto, per poi passare alla linea creativa di Balenciaga. Rispetta i
codici della maison, tavolozza scura, morfologie morbide e fluide, quasi informi, vicine alla silhouette ma
cadenti con allargamento sulle spalle in una configurazione quasi a clessidra; i colori restano neutri, lisci con
geometrie precise e asimmetriche. Sagoma che tende ad asciugarsi, uso anche di un rosa quasi lezioso,
giacche, gilè e miniabiti assemblati a patchwork con tessuti indiani, colorati e scintillanti, a contrasto con
pantaloni cargo; “estetica del mixing”: collide il “là e allora” con le anime (giapponesi) del “qui e ora”. Dal
2003 i tessuti accolgono stampe dai tratti decisi e da colori cartooneschi, lineari e senza sfumature, come la
nettezza compositiva della silhouette. Nessuno spessore iletico, raffreddamento inorganico, tute futuribili
con paraspalle e corpetti. “Pensavo alle articolazioni dei robot. Alle componenti delle automobili. Ai droidi”,
guarda solo al cosmo dell’artificio, della fanta e della retro scienza. Estetica vicina alle rifiniture e alle forme
di una carrozzeria, irrigidite, luccicanti, leggings di ferro placcato in oro, da cui movimenti sembra di sentire
il rumore meccanico degli ingranaggi, catene che compongono il plateau delle scarpe e il cerchio dei
bracciali o che rinforzano le cinghie delle collane: geometrie ornamentali dell’Art Déco in 3D. Mixing,
elementi storici e militari uniti a tessuti multietnici e influenze street, realizza calzature con componenti in
plastica nelle tinte dei mattoncini Lego; compie un reboot da Balenciaga scavando nell’archivio. Abitini-
bustino molto corti strutturati come carapace o corazza, su cui stampa peone, ortensie, narcisi, si tratta di
una natura concepita in scatola, in una serra da sintesi inorganica, con “volumi grafici simili a delle
carrozzerie, alle auto sportive”. Campiture tessutali più simili a calandrature di alluminio in faglie rigide, in
scarpe-lamiere. “Vuitton è un marchio che può viaggiare attraverso lo spazio e il tempo” nel 2013 viene
nominato direttore creativo del marchio, come time traveler. Pelle alternata a knitwear, silhouette meno
rigida seppur chiusa, aumenta stampe e trompe l’oeil, escursioni temporali sempre più repentine nel
remissaggio dei prelievi “volevo celebrare l’individualità e i mille modi in cui la donna di oggi esplora e
mescola gli elementi della moda”, “oggi, con Louis Vuitton, vi porterò ai confini del mondo digitale”,
installazioni con grandi schermi animati dal flash di bit, saette multicolori come di un cyberspazio percorso
da eleganti eroine da videogioco; le modelle sono vestite con tute fantascientifiche abbinate a look retrò,
con pizzi e gonnelline, poi con chiodi a maniche ornate, in asimmetria, con il monogramma LV e righe
verticali, forme a clessidra, esornazioni luccicanti raffreddate da pattern dalla valenza grafica, magari di
catene in trompe l’oeil, resi ancora più efficaci dall’accostamento a fibre tecniche e filiazioni di memi da
Valentino. Per la F/W 2020-21 si è rivolto a Milena Canonero per vestire un coro di 200 cantanti, gigantesco
tableau vivant della storia del Louvre (ambientazione della sfilata) giubbotti da motociclista, bomber e
piumini, si abbinano ad abitini con gonne spumose, corte, sostenute a crinolina e con corpetto robotico,
tute da lancio per skydivers ispirate ai costumi di Elvis Presley proposte con bolerini tempestati di gioielli e
decorazioni, dentro il regno degli anime.
L’interzona di Simons

“Isolamento. Disordine. Incubazione. Questi elementi rappresentano anche alcuni aspetti del mio lavoro e
vengono dai Joy Division”. Raf Simons (1968) collusione diretta con il mondo, disordine, isolamento e
incubazione rappresentano i più efficaci acidi di corrosione degli schemi abitudinari: per ciò le sue
produzioni non rientrano fra quelle del suo cluster generazionale. La sua interrogazione sul “qui e ora” ha in
sé tuta l’estetica sofisticata che raccoglie suggestioni di altro tipo, anche relative al gioco e alla retrofilia.
Sovrappone diverse dimensioni di stile, a volte tenendole separate, altre no. La sua prima collezione è la
F/W 1995-96, in un video su sfondo bianco dove spiccano forme chiuse e monocrome (Cardin), da
minimalismo ortodosso, con pantaloni a sigaretta ispirati però ai mod, subcultura ribelle e sulfurea,
scortato dal rigore della geometria. Uso ossessivo della cravatta, abbinamento di completi a sneakers,
giacche monopetto con zip; oppure smanicati con la stampa di David Bowie (punk), camicie a maniche
corte, morfologie pulite. Ricorre al concetto di “interzona”, cioè una specie di parentesi che corrisponde sia
a un frammento di benessere sia al suo modo di concepire l’operazione vestimentaria: esprime l’epifania in
cui ci si sente tutt’uno con il mondo, in cui un abito diventa readymade. Geometrie con colori vividi o si
mostrano più ansiose, animate e smontabili,, giacche da uniforme scolastica, con cappuccio, look tra
abbigliamento formale e casual, giacca-vestito; tagli affilati, chirurgici, tagli molto skinny e grafie con la A
cerchiata, il simbolo dei movimenti anarchici. Silhouette lunga e slanciata, i modelli si muovono impassibili
come marionette, sfilano con casco, inno volontario alla maschera e alla mascherata, mentre le solite
giacche-vestito, piallate e spesso senza tasche, si alternano a pattern più smossi, soprattutto a stampe di
teschi e a trame di ragnatele; silhouette secca e pulita è frutto di un processo di sottrazione, con carattere
straniato, con smanicati allungati e poco rispettosi delle normali proporzioni. Dopo una pausa di un anno
nel 2002 torna con forme sommate per strati con abbondanza di cappucci e bomber che non concedono
nulla al minimal. Moda da campo, da guerriglia,, con cinghie, borracce, stringhe e loghi, molto nero e molte
stampe, con un polistilismo da trapezista. L’interzona si colloca come area franca che raccoglie vari stili. Per
Jil Sander usa una tavolozza fredda, di neri, bianchi, grigi e beige, contorni netti e puliti, con qualche fremito
cinetico, di tessuti non del tutto addomesticati dalla calma delle geometrie; poi colori acidi, tweed in
conformazioni asimmetriche contorte come lamiere metalliche, a creare corazze ed esoscheletri sempre
vicini al corpo. Nella couture forme retrofiliche come corpetti chiusi e rigidi, in silhouette sinuose,
pittoricismi, t-shirt e giacche accostate ad abiti da sera in cromie innaturali, volumi di Balenciaga fatti in blu
elettrico e rosso fuoco. Dal 2012 va da Dior per tre anni, sfoltisce, meno apparizione di Galliano, rivisita la
baschina del Bar in un completo con pantalone a sigaretta, abiti a peplo, stampe fluorescenti, fiori e
gemme, vetrificazione che controlla qualsiasi fuga di materia informe. Prende corsetti e crinoline, fa un
salto alla Nasa e li trasforma in tenute da astronauta, con toppe da Space Shuttle abbinate a motivi floreali,
tute spaziali aderenti alla silhouette e ornate di zirconi, o prolungate ad A con corolla.

Scott. I’m a Barbie girl

“Conosco solo il pop. E’ questo il mondo in cui vivo”, Jeremy Scott (1975), cartoni animati, cultura street,
loghi, follie camp, eccessi di kitsch, onnivoro del “qui ed ora” con approccio comico. Assunzione di una
stereotipia aspiratutto che non fa distinzioni fra cultura alta e bassa. Da Moschino riprende e riaggiorna il
teatro degli stereotipi in chiave bidimensionale, Barbie trova posto vicino Picasso o la lattina della Coca-
Cola accoglie la scritta “Enjoy God”, epica del quotidiano cristallizzata in mosse viste e riviste in cui
l’umanità è pressata a fumetto, a cartoon, dove tutto è bambolotto, coreografia da bella statuina culminata
nella sfilata di marionette da Moschino. Nel 1997 fa la sua prima sfilata, con tessuti raccolti dagli scarti delle
bancarelle, “Body Mortification” fondata sulle ragioni del corpo e sulle dinamiche di mutazione del
postumano, prolunga il tallone delle modelle con un tacco annesso al piede nudo mediante un bendaggio di
fasce elastiche, quasi delle garze ospedaliere, patagio che si distende da abiti e miniabiti indossati da Bjork
e da Marilyn Manson in posa per David LaChapelle. “Volevo lasciare il segno con qualcosa, diciamo, di
molto più ostentato”, sfilata tutta in oro, comprese maschere e corsetti, scarpe con il tacco asimmetrico,
logo in vista, forme chiuse anni ’80, abiti da sera succinti morbidi e fluttuanti, nei colori senza sfumature
delle caramelle e del packaging da snack. Trompe l’oeil in finti smoking e finte giacche. Esibizione sfacciata
della ricchezza, opulenza di abiti fatti con la stampa di migliaia di dollari, con il simbolo trionfante dei
bigliettoni verdi, con finte monete tintillanti, casalinghe intente a passare l’aspirapolvere in tacchi a spillo o
ad aprire un frigorifero zeppo di lingotti d’oro, una donna-barbie accarezza un mezzobusto effetto marmo,
calco dello stilista. A New York in un’esagerazione parodiata si improvvisa cerimoniere degli Oscar con un
finto red carpet, in un trionfo di posers, moine, smancerie, abiti lamé doari, maniche a prosciutto abbinate
a scarpe Adidas portando peluche e orsacchiotti, pattern leopardati. Abiti a forma di cibo, di gelati, di torte,
stampe di patatine fritte e packaging di snack, lampadari-candelieri come orecchini, crinoline e cornici da
opera d’arte. Dal 2013 alla guida di Moschino “I don’t speak Italian but I speak Moschino”, circoscrive il logo
di Mc Donald’s tagliato in modo che le gambette della “M” vengano incurvate a cuoricino, cita Moschino
che cita Chanel nei tagli chiusi del celebre tailleur ma con le macchie du mucca moschiniane, cartoon
quando usa il faccione di SpongeBob. “Pensavo a degli abiti da sera, con queste fogge decadenti, e balze
ostentate. Avrebbero potuto ben figurare in qualche stupenda festa notturna, alla moda, qualche decennio
prima. Ma poi li avrei abbinati a qualcosa di sottovalutato, a qualche elemento mondano, come una
gigantesca scatola di patatine, con la confezione e tutti gli ingredienti”. Posture da Barbie, collane e bottoni
sovradimensionati, personaggi Looney Tunes, catenoni da rapper, segnaletica di cantiere stradale,
coloratissima, con “Shop” al posto di “Stop”. Stereotipia delle seduzioni pronte all’uso, appiattimento della
psicologia a favore di icone, loghi e bamboline. Veste marionette mosse da fili con abiti ben fatti fin troppo
seriosi e accademici, con il virgolettato irriverente della posa e della fiction.
Viktor & Rolf, la moda è un buco nero

Viktor Horsting e Rolf Snoeren (entrambi 1969), noti come Viktor & Rolf, abiti “al contrario”, i pantaloni
diventano maniche, gonne partono dalla testa, moda carica di arricchimenti concettuali, ma i cui concetti si
applicano dentro il sistema della moda dentro i suoi codici di rappresentazione e costruzione. Le sue
creazioni si concentrano sul gioco di specchi di atmosfere da manipolare, si potrebbe parlare di un meta-
fashion, una moda che si autocita, “in quel periodo, nemmeno ci importava di occuparci della portatrice”
vestito concepito come opera da piedistallo e da ammirare come oggetto d’arte, “Anche se eravamo molto
attenti agli aspetti esecutivi… più che altro i nostri vestiti erano fatti per essere guardati, non per essere
indossati”. Come quanto, su un carillon, gli stilisti vestono la modella con nove strati di abiti elaboratissimi,
o mandano in passerella pupazzoni giganti con Dr. Martens ai piedi o presentano un enorme casa delle
bambole vestite con il meglio delle loro creazioni. “Fin da subito, ci veniva d’istinto includere elementi
storici… siamo ed eravamo consapevoli del peso della storia, la usiamo per creare qualcosa di nuovo”,
rivisita le silhouette di Chanel, Balenciaga, YSL, rivisitate in maniera inedita e sorprendente con uno styling
al nero e una comunicazione in chiave western. Abiti sbattuti, bruciati, azioni che provocano strappi, ulcere
e ammassi di colate materiche, agendo sulle forme della tradizione come strutture a crinolina e fibre ricche
e preziose; citano Yves Klein che nel 1961 aveva gettato nella Senna delle pellicole di oro puro dopo aver
venduto degli spazi di Parigi denominati “Zone di Sensibilità Pittorica”, materializzandoli in abiti dorati; con
“Le Parfum” realizzano 250 bottiglie da non aprire dato che l’essenza contenuta è tossica e causerebbe la
morte. Nel vestito, si guardi una decorazione debitamente “isolata” e posta su una tuta da ginnastica, si
guardi un colletto-gorgiera che si fa protagonista di un look, o il fiocco indurito, congelato di una mantella.
Tirano a lucido, imbellettano i vocaboli dell’haute couture ben consapevoli di agire su un materiale che si
presta al kitsch, fa sfilare con palloncini sotto i capi, in una silhouette che ricorda un fungo atomico; mutate
le proporzioni, talvolta moltiplicate per otto. Moda attinta lungo i viaggi nella storia e nel museo, abiti
adatti a farsi guardare come opere pittoriche e scultoree.
Chalayan e le macchine dello spazio-tempo
Hussein Chalayan (1970) salto nella “carne del mondo”, sotterra i suoi capi dopo averli cosparsi di polvere
di ferro e fatti arrugginire per mesi: capi cuciti e processati, con merletti, con filati preziosi e tradizionali.
Abiti dapprima curati, rifiniti, poi sempre più movimentati, percorsi da lacci e asimmetrie, nervosi e agitati,
infine strappati, corrosi, sbrindellati, con trattamenti poveristi. “Un abito degli anni ’60 viene tagliato per
rivelare il suo passato di vestito medievale. Un bustino vittoriano viene tagliato per rivelare una canotta di
jersey. Un abito anni ’30 viene tagliato per rivelare il suo passato di abito edoardiano”, “il design è una
maledizione o un incantesimo che getta l’abito e chi lo indossa in una curvatura temporale attraverso le
epoche della storia, come finire all’improvviso tra i resti di uno scavo archeologico”. Idea di macchina per
muoversi nello spazio-tempo, ossessione per la velocità, le migrazioni e la storia; passione per la tecnologia;
corpetto in legno sigillato con giunti metallici, casco ovoide, gusci, struttura ibrida, donna-macchina, dota le
sue guaine di elementi connessi al tema dello spostamento, abito con sedile portatile (Airplane Dress 1999),
o abito con stampo di resina e fibra di vetro azionabile con telecomando che rivela un abito leggerissimo in
tulle. Le forme e le atmosfere meccaniche, disumanizzate, riprendono in tutto e per tutto la pittura
Metafisica, nei manichini di de Chirico, nei bambolotti di Carrà, nelle secchezze vitree di Morandi; ispirato al
tema della velocità, il pittoricismo dei tessuti appare distorto da un’accelerazione che frulla gli elementi
figurativi rendendoli irriconoscibili, in carrozzerie contundenti.

Piccioli e Chiuri, Valentino e Dior

Nel 2007 Valentino si ritira dalle scene e, dopo una breve parentesi di Alessandra Facchinetti, nel 2008 le
subentrano due designer romani: Maria Grazia Chiuri (1964) e Pierpaolo Piccioli (1967) entrambi da Fendi
per una decina di anni e poi, dal 1999, da Valentino per gli accessori. La loro sfilata di esordio è la haute
couture P/E 2009, escavazione passatista con alterazioni morfologiche, costante “risignificazione” dare
nuovo valore a materiale noto passibile di essere ribaltato: un abito rifatto interamente in pizzo con collo
rigido, mantelle del ‘400 con pietre preziose ma dal taglio contemporaneo, strati di tessuto di un
monospalla asimmetrico, così aderente al copro da sembrarne un’estensione epidermica anche nella
neutralità del colore. Agitazione iletica fra la silhouette ribadita dai toni écru, cromie acide e fluorescenti,
miniabiti e completi con tinte a contrasto, volumi, immissioni ornamentali, vestito in stile Déco acceso da
un vivido rosa shocking con una blusa- quasi la rivisitazione di un bomber- a giunture rimarcate in giallo
fluorescente come il plateau delle calzature, costruite con fasce di fibra che si affastellano e si annodano.
Riscrittura di cappe, gonne a palloncino, corsetti e crinoline sete e pizzi in bianco e nero, tra fibre leggere e
altre pesanti. “Ricerca della leggerezza, nella sottrazione del peso”, fibre delicate per costruire capi pieni e
strutturati; nel loro intento di risignificazione di codici preesistenti pescano dall’archivio per rieditare per
rieditare la collezione dedicata alle maioliche di Delft del 1968 aggiornandola nei tagli, rifacendola su pelle
colorata, moltiplicano i pattern; decorazioni egizie, greche, moresche o indiane, felici di meticciarsi fra di
loro e di sfuggire a ogni tentativo di classificazione filologica, costellano le tuniche, i kimono o i sari. Nel
2016 Chiuri diventa direttore creativo di Dior lasciando a Piccioli tutta Valentino, “per me, Piero della
Francesca è molto più sovversivo degli artisti di oggi”. La P/E 2017 è un tributo al rosa psichedelico di
Zandra Rhodes, con un decorativismo freddo e circonstanziato “adoro le sfide, cambiare la percezione dei
colori è una buona cosa”, tinte sature vicine al Manierismo, sfrutta la massima potenzialità del colore à plat
senza sfumature, chiude la silhouette in tuniche slanciate con colletti alti, edoardiani, impeccabile nel dare
alla figura un cadere lento e ieratico, i suoi volumi possono apparire nelle fosforescenze o straniarli,
allungarsi, crescere a dismisura, in bianco. Chiuri è la prima donna alla guida di Dior, contrasti morfologici e
tessutali, presentando capi che oscillano fra immaterialità e protezione, durezza e trasparenza, avvalendosi
al contempo di divise da scherma e abiti da danza, sneakers alte con tulle o pizi, chiodo di pelle
sull’organza. Risignifica la tradizione Dior e la strania con prelievi grafici, trasforma in abito le tessere del
domino, una parentesi dentro la quale è lecito rivisitare la gabbia della crinolina e farne un abito intero o
alternare effetti optical alla stilizzazione della Wiener Werkstatte. Toni freddi e neutri da estensione
epidermica con femminilità più performativa e corporale sospesa fra richiamo museale e sfera organica; nel
suo polistilismo si cimenta con pagliacci ripresi “alla seconda”, in maschere e forme chiuse, da Picasso,
Cocteau e dal post-human di Cindy Sherman, stende una patina neutralizzante di colori neutri, freddi,
beige, avori, neri e bianchi, quasi malinconica.

Serafini, l’età dell’innocenza

Philosophy si basa sulla leggerezza, sia fisica, di materiali, ma anche contenutistica, girandola di riferimenti
culturali e vestimentari accostati in maniera insolita tra gli elementi del passato e i prodotti del presente.
Lorenzo Serafini (1973) gioca sull’”innocenza”: approccio lieve, spontaneo, si abbandona alle nostalgie con
toni morbidi e soffusi; prelievo codici retrò, di fiocchi, ruches, volant, maglieria a trecce, a cui da valenza
contemporanea. Uso insistito del bianco: su tutto il look, copre una mantella, i colletti, i fiocchi, gli
accessori, mano innocente delle trasparenze in organza, si aggruma nelle tattilità dei pizzi, in diverse
gradazioni, con materia vaporosa o ruvida, che prende dal passato. Uso di colorazioni in dissolvenza (come
Fortuny e la Ferretti), le trame delle decorazioni hanno una consistenza aerea, cita la ceramistica di Delft
con tocchi di blu su ogni capo, salopette in denim, mantelle in jeans, corpetti e abitini, polsini e colletti in
pizzo. Oppure filati a maglie larghe da cotta medievale, stretti da fusciacche in pelle e borchie; una delle sue
doti è la perfetta portabilità dei capi, forme a trapezio di pelle nera e liscia innestata a una cappa in pizzo
con maniche, collo a barchetta di un maglione da cui spunta una camicia trasparente, maniche a sbuffo,
gonne a crinolina, decorazioni arlecchinesche variate nei colori, con colli in diagonale, sotto il braccio, o con
volant in cuoio, corpetti in denim indossati sulla t-shirt e giacche a righe dalle spalle larghe; il diagonale
ricorre e ritorna con lo styling delle camicie, con le maniche una su e una giù, aperture dei capi
asimmetriche, bluse annodate si aprono per svelare canotte sottostanti con corsetti.

Età del ferro, invece, per Puglisi

Fausto Puglisi (1976) pesantezza, gravame fisico, elementi metallici, età dell’oro, sontuosità massimalista,
ostentazione sfrenata, uso e abuso di gemme, pepite, collane: somma Versace e Lacroix, e Lagerfeld. Senso
della caricatura, spinta agli eccessi, gusto per l’artificio dei materiali e dei colori, il suo overstatement è il
risultato di una ricerca che va dalla vasistica, simbologia del mondo greco-romano, televisione e cinema
anni ’70 e ’80; dalle raffigurazioni sacrali dell’iconografia cattolica si passa dalla Vergine Maria alla Madonna
del pop-rock, mostra una sessualità spudorata o, all’opposto, impone rigore quasi classico, vive di paradossi
e dialettiche unificate da uso di colorazioni intense ed esornazioni metalliche e tessutali. A Los Angeles
vende pezzi in edizione limitata alle pop star, soddisfando il piacere dell’esuberanza e dell’esibizione. Dal
2006 lavora come consulente per Donatella Versace e le sue creazioni sono vendute da Dolce & Gabbana.
Nel 2012 debutta e nel 2013 viene nominato direttore creativo di Emanuel Ungaro. “Quel misto di Sicilia, di
cultura romana e greca, di mistero, di sensualità mi è entrato nel sangue e oggi si può intravedere nei miei
abiti”. Il linothorax- le armature dell’antica Grecia riprese dai legionari romani- è rivisitato con due livelli di
straniamento: mutato al femminile, con decorazioni dall’ellenico al Barocco, abbinate a stampe leopardate,
o usate a tempestare biker da motociclista; le fasce ornamentali si infittiscono di reticoli, scacchiere, rombi,
denti di lupo e motivi a zig-zag, tinte sature, stese a campiture perfette e lastricate, con spacchi vertiginosi.
Silhouette aderentissime, su minigonne e su scarpe per un’estetica dell’appuntito e della durezza. Per
Ungaro si attiene allo stile della maison, decorazioni 3D e forza dei colori, riprende il tartan per rimontarlo
su chiodi, per farne tute attillate, vesti talari con spacco in un’irriverente profanazione del sacro.
Ambientazione metà chiesa barocca e metà discoteca, i capi sono un trionfo di santini religiosi, cuori kitsch,
crocifissi, pizzi e merletti assumono una foggia grafica da pressatura stilizzata, simmetrici e metallizzati
nell’inglobare le decorazioni placcate in oro. Medaglioni stampati, fiocchi abnormi, lamé dorato e colori
catarifrangenti.

Michele, citazioni spudorate

Gucci: foulard Flora disegnato da Vittorio Accornero nel 1966, realizzato per Grace Kelly; Tom Ford (1961)
“il mio è uno stile commerciale, ne vado orgoglioso”, “il lavoro di uno stilista sta nel captare le sensazioni
che sono nell’aria e trasformarle in qualcosa di concreto e che la gente possa comprare”. Frida Giannini
(1972) stile vivace e brioso, rilancia Flora, “veniamo da un lungo periodo di monocromia e io amo stampe e
colori. Ciò che intendo ottenere è un glamour intelligente che rappresenti la mia generazione”. Alessandro
Michele (1972) “Sono spudorato. Per me creare vuol dire rigurgitare, stravolgere e assemblare tutto ciò da
cui sono stato e sono costantemente attraversato”, “le mie fonti sono così evidenti che, forse a torto, non
ritengo necessario metterci sotto la didascalia”, “citare vuol dire riabilitare, trasformare. Chi lo nega
annienta totalmente l’atto creativo”, fonti del tutto eterogenee, “tutto quel che mi ispira e che cito, che sia
di ieri o di quattro secoli fa, mi accade nello stesso momento davanti agli occhi, quindi è presente. E’ il mio
presente, è la mia contemporaneità, ed è la sola che posso e che voglio raccontare”. Celebra momenti di
diversità, di stranezza, di affermazione individuale di chi indossa i suoi abiti, i suoi personaggi sono adornati
per vivere “senza centro”. Tornare indietro significa ritrovare le facoltà immaginative dell’infanzia, a
ripristinare un senso di stupore e meraviglia nei rapporti con il mondo. Condizione di Peter-Pan, in cui
ancora non intervengono i freni inibitori dell’età adulta. Sessualità fluida, multiforme, rispettosa e inclusiva,
“la mia idea di moda, per esempio, ha a che fare con l’imperfezione, non con la perfezione”. “Per me gli
accessori sono come reliquie; ci puoi fare quello che vuoi, le puoi usare come macchine del tempo”. Passa
dalla maglieria di Les Copains agli accessori di Fendi, lavora con Lagerfeld, Tom Ford. Nel 2015 viene
nominato direttore creativo di Gucci e per preparare la sua prima collezione ha solo 5 giorni, ispirazione al
vintage e al mercatino dell’usato, rimontate con capi distanti fra loro e deterritorializzate, “è il vintage che
io uso come linguaggio per dare prospettiva al nuovo e al bello. Chi l’ha detto che per essere moderni
bisogna cancellare tutto? Il fattore inquinante per me è fondamentale”. Uso insistito di fiocchi e lavallière
per i look da uomo, maglie in pizzo rosso, sandali e pantofole in pelliccia, stampe wallpaper anni ’70,
berretti con pompon, alterazioni di misure come maglioni rimpiccioliti, donne sfoggiano completi da uomo,
uso del classico fascione verde-rosso-verde, profusione di stampe, trama della doppia G, mocassini con
morsetto il tutto con trompe l’oeil, gonne gitane, bomber, borchie. I motivi floreali fanno un salto in
Oriente e invadono tute sportive, contagiano completi da uomo, pizzi nella camicie maschili, “il camp è un
inno alla libertà”. Maniche a sbuffo su trench o grafiche da sport, convivono broccati preziosi e borse con
graffiti, borchie punk e tessuti preziosi, kilt scozzesi con felpe, zeppe vertiginose, ricami con orsi, api, tigri,
tailleur Chanel in pelle, scarpe Mary Jane con perle, Flora rivisitata. Scenografia di una sala operatoria
asettica attraversata da citazioni ambulanti, geografiche, cronologiche, stole papali con tute a fiori e
passamontagna da wrestler con brillanti e occhiali oversize, loghi Paramount e personaggi manga, abiti del
‘500 con sneakers, teste mozzate, cuccioli di drago, cappotti metà feltro e metà tartan. “Rimasticare il
passato è un modo per non banalizzare vestiti e non ossessionarmi sulle lunghezze degli orli. Quel che mi
interessa, infatti, è raccontare una storia, e se qualcuno ci vede lacerti di altre storie, ben venga. Non mi
devo giustificare. L amia urgenza vera è quel che voglio dire”.
Capitolo settimo

Materia oscura e moda di strada

Saberi, verso esperienze primarie

Oblio, oscurità, materia, tendenza al nero e alla monocromia, si impone di cancellare, ricoprire le memorie
del passato con una coltre di iletismi, di “grasso della terra”, impiego di trattamenti volti a ritrovare una
collusione pulsante con il mondo, con resine, spalmature e tessuti feriti, celebrazione di una hyle indagata
fra le sue strutture interne; tecnologia, immagini pixellate. Boris Bidjan Saberi (1978) monocromia,
trattamenti radicali, iletici, disinteresse per tutto ciò che richiama museo, accademia, tradizione. Ritorno al
primordio, a esperienze autentiche ed estreme, motivo della “rete” letteralmente connettiva, capace di
impostare le traiettorie di un insieme, di un “campo” comunitario oltre che vestimentario. Lotta contro
l’ottusità del conformismo e dei luoghi comuni “nel mio mondo di definizione, l’autenticità raccoglie molte
parole che individuano un modo di agire sulla realtà e un modo di essere”, l’abito dà un potere addizionale
a chi lo porta, “la filosofia di BBS permette di sentire l’indumento come una seconda pelle, come una
protezione che dona forza”. Cotone, fibre e pelle sono spalmate di vinile, si può essere primitivisti
conferendo lo statuto di sostanza viva e palpitante agli elementi sintetici. Prende spunto da Beuys e usa il
feltro per ricoprire interamente il copro umano, evocando una colata vigorosa di elementi magmatici,
simpatizza con le energie del profondo. Forme geometriche e tubolari sostengono, riplasmandolo, il corpo
umano, con le asimmetrie, che arriva a rivestire collo e teste, in un perfetto equilibrio di tessuti rigidi e
morbidi. Uso pelle trasparente, moda tecno-organica, ormai totalmente sincronizzata al corpo umano,
ambienta le sue invenzioni in un’officina da meccanico, dove si possono reperire i nutrimenti con cui
cosparge i tessuti: grassi, olii, resine e cere, tagli a vivo, tinture a freddo, composizioni a strato,
disponendosi come una membrana metallica e preservatrice. Maglie, giacche, pantaloni e calzature dalle
forme inaspettate si piegano e si torcono. Manifestazione vitalistica nell’uso di sangue di maiale per tingere
i capi, a cui accanto spiccano tinte metalliche ottenute a freddo, copre intere superfici di pelle nera o
bianco ghiaccio con la consistenza densa del vinile o tratta cotone pesante con grasso. Accostamento
tessuti tecnici e naturali, uso pelli rugose da corteccia arborea, rovescia i codici vestimentari: linee nette e
definite, sul retro delle giacche tagli obliqui, superfici in sfrigolio tra testure opache e testure lucide, uso
“effetti speciali” nella reinvenzione di trench con maniche di pelle e cotone spalmato, stivali a suola
rinforzata con un ponte metallico, “non sono uno stilista, sono un carpentiere” a rimarcare i suoi interventi
manuali. Uso acidi, uso presse da metalmeccanico per pressare abiti, impiego solventi, azoto liquido o
catrame; ottiene effetti discromatici, uso rosso incandescente lo stesso emanato dai metalli in
surriscaldamento, con tute in pelle e accessori che richiamano attrezzi di lavoro. Oppure gelo del ghiaccio,
del geometrismo fluido e rappreso, tagli asimmetrici e layering; riformula l’anatomia con morfologie tra
Medio Oriente e Giappone, in tuniche e kimono mescolati a indumenti da campo militare, approccio
brutalistico di trattamenti e maltrattamenti mirati a stravolgere le forme delle tuniche, zaini, parka e
pantaloni, con lunghi lacci che estrudono come tentacoli, o meglio protesi extra-corporee, sempre
primitivizzate con pelli discromiche ed escoriate.

Il braccio destro di Altieri, Issei Fujita (1978) con Susanna Ferrante ha dato vita a Lumen et Umbra, brand
con morfologie nipponiche innestate su tagli occidentali e su tessuti con matericità granulosa, tattile,
escogita nuovi modi di assemblare maniche, per tagliare tasche, asimmetria, knitwear, bellezza data dalle
atmosfere dell’imperfezione del tempo, cerca momenti epifanici: strutture sgranate equiparabili a forature,
trame dei tessuti in vista. Una giacca-camicia ricavata da una vecchia tela è immersa in tintura a freddo e
assemblata con cuciture impensabili, con le varie sezioni del capo unite da una fettuccia che percorre
maniche, schiena, spalle, i lembi, sfrangiati, sembrano pensati per un indumento dotato di vita propria.

Simone Cecchetto (1972) fondatore nel 2006 prima di Augusta e poi di A1923. Tecniche della tradizione, si
specializza nell’arte della calzatura fatta a mano e reinventata nelle sue varie tipologie, a cui invita a chi
indossa a vivere la scarpa, a rovinarla; riformula la sneakers, rifatta con pellami pregiati e resistenti, in
cavallo, squalo, canguro o lama, forma iconica, alta, piegata all’insù, con tomaie rigide e stratificate,
pensata per essere vissuta se non maltrattata. Per i capi ne muta le configurazioni originarie, uso
allacciature variabili, zip ricurve e asimmetriche. Progettazione prodotto concepito come protesi podalica,
elemento extra-corporeo in grado di estendere l’anatomia del piede e innescare una postura fuori routine,
di fatto una performance. Le tinte cambiano, vivono, mostrano sfumature diverse per ogni condizione di
luce e di atmosfera.

Tiziano Rillo (1972) nel 2010 fonda 10sei0otto: pantaloni a cavallo basso, sperimenta con la pelle come con
il “mestizo”, ovvero una tintura a spruzzo ad aerografo e stesa a mano; cardigan in pelle elasticizzata e
tagliata a vivo, piumini in cavallo solcati da punti a sutura o da cuciture in diagonale, su tutta la superficie.
Cotoni, lini, lane e cachemire subiscono un trattamento che li primitivizza, parka rifatti in pelle e
mescolanza di tessuti, calzature con fondo in gomma o cuoio.
Damir Doma (1981) gestione dei volumi che convergono in soluzioni orientali e occidentali (si è formato da
Ann Demeulemeester e Raf Simons), tinte fredde, capi asimmetrici e stratificati, tagli limpidi e fluidi,
sempre in oversize; geometrie morbide e rigonfie, mescola elementi maschili e femminili, equilibrio di
controllo e primitivismo.

Tom Rebl (1976) sperimentazione e abilità costruttiva; oltre ai tagli asimmetrici, ai trattamenti a freddo,
all’uso di pelli e altri materiali legati alla sfera di valori primari, crea equilibri di principi opposti: giacche a
chiusura diagonale, volumi fluidi, allungati, stratificati, con cuciture a sutura, con gonne da guerriero e
atmosfere punk, post-apocalittiche. Su monocromie ruvide a tratti granulosi, interviene con l’oro con la
ricchezza dentro tagli poveri, tribali nell’uso di accessori anche estremi. Nero lucido, geometrie illiquidite e
spesso tagliate a vivo, uso abbondante elementi grafici e decorazioni, il tutto armonico.

Van Herpen, Pugh, Wang

Iris Van Herpen (1984) svela il reticolo elettromagnetico, con sovrapposizioni con il mondo della scienza,
“mi è sempre piaciuto lavorare con materiali che non posso controllare, come l’acqua, l’aria o l’energia”, la
sua opera è incentrata sul corpo e le sue interazioni con lo spazio, riplasma gli elementi della sfera biologica
per farne creature aliene “sono sempre alla ricerca di nuove forme di femminilità e di trasformazione”. I
suoi abiti sono composizioni ossee realizzate con stampanti 3D, ritagli geometrici e contundenti e spire che,
quasi scaturite dalle interiora, si attorcono al corpo. Si potrebbe definire “Biopop”: coniuga la sfera
biologica con quella del pop desunto dai videogiochi o dagli effetti speciali di un film di animazione.
Gareth Pugh (1981) toni punk e oscuri, silhouette dal piglio guerresco, con citazionismo nell’uso di gorgiere
e richiami alle maschere di carnevale. Poli opposti: da un lato forme taglienti, infittite e movimentate,
dall’altro sagome fluide e illiquidite. Volumi insufflati per poi ammorbidirsi, motivo ornamentale della
scacchiera, abiti si irrigidiscono in strutture simili ad armature da samurai o agli involucri degli animali
esotici.

Alexander Wang (1983) blackness, decostruzione, fluidità dei volumi, monocromia e oversize, asimmetria e
influenze street. Volumetrie agitate da torsioni tessutali, maniche rigonfie e tondeggianti; nella direzione da
Balenciaga cappotti “a bozzolo”, spalle arrotondate e tagli puliti.
Arthur Arbesser (1983) purismo di linee precise, ma mobili e vivaci, con toppe cromatiche che si allargano
in ampie stesure à plat, o si riducono a formelle ornamentali, spesso a contrasto con capi monocromi.
Infittimenti e sovrapposizioni si attivano grazie alla deambulazione della portatrice, che quasi attiva effetti
optical. Alle bande blu e arancioni si alternano elementi grafici quali frecce e intrecci trompe l’oeil, ma
anche stampe camouflage in tinte accese; ai bianchi e ai neri si aggiungono scacchiere gialle e brune, rosa e
verdi, strisce e losanghe; rombi e quadrettoni con stampe di motivi vegetali.

Marco de Vincenzo (1978) “Amo trasformare la materia, renderla tridimensionale anche attraverso un uso
audace del colore”, a sua cifra espressiva si basa sulla “geometria intesa come costruzione, progettazione”
“colore, texture e psichedelia”; esornazioni geometriche pulsatili, vive, mai sterilizzate. Mosaicizzazione di
superfici letteralmente pixellate nella sgranatura dei quadrettini, trame in rilievo che si riproducono come
cristalli o strutture molecolari, quasi mosse da un palpito vitale. Colori che vanno dai pastelli alla piena
saturazione dei vermigli o dei blu elettrici.
Francesco Risso (1982) dal 2016 direttore creativo di Marni, discepolo di Prada. Stampe wallpaper e omaggi
agli anni ’70, decorazioni digitali, spettrogrammi, rappresentazioni grafiche di qualche frequenza sonora,
mette insieme elementi di diverse origini e di differenti tipologie vestimentarie vicine allo streetwear.
Tecno-primitivismo: colori fluorescenti e materiali plastici, lucidi e brillanti, volumi e decorazioni
geometriche, pelli di serpente, abiti divisi a metà tra fibre di stampe e colori disomogenei, o sovrapposti in
stratificazioni dominate dall’oversize e misure “baggy”. I suoi capi vestono “ragazzi atipici, stravaganti, che
sfuggono alle diagnosi”, layering, patchwork in cui emerge l’orfismo di Delaunay; i look sono collage di
tessuti, geometrie ubriache, le superfici sembrano ossidate, asimmetria mostra tessuti forati da ragadi e
ulcere.

Karim Rashid ha coniato l’espressione di “Digipop”: stile cumulativo, policromo ed eterogeneo, incorniciato
da grafismi digitali. Juan Caro (1978) e Fabio Sasso (1980) fondano Leitmotiv: rosoni romanici incontrano
paesaggi di periferie, giostre, caroselli e immagini cosmiche, mutano trame tradizionali con inserti
imprevisti, decorazioni ispirate alle piste lamellari dei microchip o dando valenza artificiale a trame floreali;
emoji, robottini alla Depero, immagini speculari e stroboscopiche nelle borse progettate per Furla, il tutto
con un sapiente dosaggio di leggerezza.
Vivetta Ponti (1980) fonda Vivetta citazionista, passione per Schiaparelli, Gio Ponti, Fornasetti, ma con
carattere cartoonizzato, da illustrazione vintage. Colori pastellati, trompe l’oeil sulle stampe e sui colletti,
regressione infantile.

Massimo Giorgetti (1977) dal 2009 con MSGM Digipop, lussureggiante e iper-decorativo, policromia e
passatismo (ha lavorato per Pucci), unione di immagini e geometrie caleidoscopiche al macro, accosta
toppe dai colori saturi e perimetri precisi, composizioni allegre e caotiche, movimenti optical delle stampe,
tagli sartoriali, incontrano lo street con completi seriosi, tinte neutre, abbinati a felpe con cappuccio,
scritte, stampe camouflage; accumula numeri, lettere e immagini, capi larghi e comodi.

Gvasalia, Abloh, GCDS: non solo streetwear

Demna Gvasalia (1981) “l’oversize è il mio territorio”, direttore creativo di Balenciaga dal 2017, lavorato per
Margiela e Louis Vuitton. Assieme al fratello nel 2014 fonda il collettivo Vetements: omaggio a Margiela da
cui apprende l’uso dell’oversize sistematicamente, per usarne gli effetti di straniamento su un materiale
readymade, attenzione allo streetwear e alle subculture: coglie le frequenze del “qui e ora” ed evidenzia
una collusione con il mondo. Borsa Ikea rifatta in pelle o riappropriazione di celebri loghi come DHL o Bose
con un sabotaggio di tipo concettuale. Le incursioni street tra cui graffiti, musica rap e hip hop, skating,
funziona da acido corrosivo contro gli intellettualismi della citazione; sceglie luoghi veri e anticonvenzionali,
tra cui un gay club, un ristorante cinese, l’entrata di un Mc Donald’s. matericità del nero, geometria,
oversize esagerato, allungamento delle proporzioni come maniche dilatate e trench estesi ai piedi,
camouflage, felpe con cappuccio e leziose stampe floreali abbinate a stivali fluorescenti; rifacimento di capi
di altri brand in over “quel che facciamo qui riguarda sempre la riappropriazione di qualcosa che già esiste”
rivisita i tipi sociali rendendo la spontaneità casual e baggy. Da Balenciaga riadatti i valori “dal basso”
materici del fondatore ai canoni del lusso: esagera l’apertura dei colli, semplificazione del tessuto che
scappa e invade lo spazio, irrigidisce la fibra, indurisce la silhouette, la stratifica, la riempie di stampe
floreali abbinate in esuberanza, le borse sono la ricca versione in pelle di readymade come cassette porta
attrezzi o sportine per la spesa, giacche da uomo che si fanno vestito, imbottiture abnormi alle spalle,
disarmate da troppa seriosità grazie all’etichetta “Balenciaga” cucita in bella vista.
Virgil Abloh (1980) abile nella progettazione e nelle linee pulite, ragiona in termini di costruzione
architettonica e di igiene compositiva, soprattutto nella fase iniziale. Ordine anche attraverso l’uso
frequente di un carattere tipografico senza grafie, un font a “bastone” come l’Helvetica. Uso di una forte
componente concettuale, “Spesso dico in giro che Duchamp è il mio avvocato. E’ la premessa legale a
garanzia di ciò che faccio. Perché lo streetwear inizia con un gesto di riappropriazione di un logo, nel
rovesciarlo e nel ricucirlo”. La Deposizione di Caravaggio troneggia sulle felpe che lo stilista ha realizzato per
il suo primo brand, Pyrex Version nel 2012, trae suggestioni da Instagram e nel 2013 fonda Off-White “il
readymade è una nuova idea basata su elementi noti filtrati dall’ironia”, “oltre al tuo guscio di essere
umano, appartieni a questo mondo, chiaro e semplice”, “rifuggi dalle convenzioni, fatti catturare dal flusso,
vivi ‘nel momento’”, “fai qualcosa a caso per sforzare l’occhio a vedere cose che di norma non vede”,
“digitare con rapidità è una forma di pensiero”. Silhouette semplice, quasi geometrica, con zebratura in
diagonale, mescola la segnaletica stradale con lo street vestimentario, “se prendo una felpa da uomo e ci
metto la scritta ‘donna’ è arte” perché innesca un cortocircuito di percezione, dando un altro senso di
lettura a ciò che appare scontato, ad esempio usando la scritta “Botton” con tanto di virgolette al posto dei
bottoni reali. Asimmetria, stratificazione, accostamento di tipologie costruttive molto distanti, sottrazioni di
funzioni d’uso, così il readymade di un giubbotto in jeans chiede di essere portato al contrario, il dietro sul
davanti, tagli in diagonale, oversize, decostruzione e combinazioni fra l’alto e il basso. Guida le collezioni
uomo per Louis Vuitton in cui è più pulito e architetturale, bianco fluido e morbido per rifrangersi in colori
molto più vivaci in un polistilismo, oversize e layering, multiculturalismo e inclusività d genere, con elementi
pop.
Giuliano Calza (1988) guida GCDS che significa “God can’t destroy streetwear” colori briosi, polistilismo
“dove lo trovi un altro che legge libri di psicoterapia, conosce le serie tv, i fumetti manga, le icone anni ’90,
la cultura del clubbing e l’hip hop? GCDS può sembrare un gran zuppone di elementi incoerenti”,
personaggi dei cartoni animati con una smisurata componente di posa e fiction, di kitsch esagerato,
artificialità spinta e volutamente innaturale. Capsule collection insieme a Barilla con look vintage e
stereotipi, con iperboli, avatar da videogioco, reintroduce corpetti, maniche a sbuffo, tinte da candy shop
verso il pop giapponese.

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