Sei sulla pagina 1di 7

DALLA SPAGNA AI SAVOIA

Nascita regno di Sardegna sabauda 8 agosto 1720 con Vittorio Amedeo II

Fine 17 marzo 1861 con Vittorio Emanuele di Savoia

L’aristocrazia ricompare nella fase culminante dei moti angioiani e durante il processo di
liquidazione dei feudi. Fu un passaggio dal vecchio al nuovo dovuto al riformismo sabaudo.
Guardando alla politica delle riforme si coglie lo scontro tra nobiltà e corona. Al centro si colloca
l’istituzione dei consigli commutativi, quegli organismi di autogoverno delle comunità rurali
funzionali alla corrosione del potere baronale e destinati a durare nel tempo.

L’evento rimetteva in campo una società aristocratica che sembrava condannata a una sostanziale
immobilità. Bisognava ripercorrere il cammino dei rapporti dei Savoia con la feudalità isolana, a
partire dalla diffidenza affiorata nella fase iniziale, lungo il chiaro progetto di emarginazione
dell’élite locale dalle funzioni di governo e di servizio alla corona, fino al tentativo di
accentramento monarchico contro la tendenza centrifuga del potere feudale.

Si tratta di un’aristocrazia in grado di esercitare una solida egemonia sociale, di orientare le


ambizioni dei ceti emergenti verso titoli e alleanze matrimoniali nobilitanti, alle prese con continue
difficoltà finanziarie che ne incrinano il prestigio. il documento di protesta contro l’istituzione dei
consigli comunicativi rappresenta la mera rivendicazione di privilegi da salvaguardare più che
l’aspirazione a rivestire un nuovo ruolo attivo. L’espressione di questa protesta dimostra in qualche
modo il senso di identità di una “nazione” riconducibile alle leggi fondamentali e alle istituzioni
peculiari del Regnum Sardiniae. Le riforme imposte dal vertice torinese avrebbero posto la feudalità
di fronte a una logorante offensiva delle comunità rurali.

Esclusa da ogni funzione a corte e nello Stato anche dopo l’esperienza boginiana, l’aristocrazia si
avviava ad approfondire il suo distacco dalle autorità sabaude. Identità del regno e tensioni rurali
sarebbero confluite nei moti di fine secolo, conferendo a questa la duplice valenza antipiemontese e
antifeudale.

Una sorte imprevista per l’aristocrazia: la cessione del regno

Trattato di Londra 2 agosto 1718: aveva deciso in modo definitivo le sorti dei domini spagnoli nella
penisola italiana e nel Regnum Sardiniae; terminò il conflitto tra filippisti e carlisti. Vittorio
Amedeo avrebbe voluto trarre profitto dalle rivalità politiche interne alla nobiltà sarda, ma Saint
Remy lo avvertì che le tensioni tra carlisti e filippisti andavano progressivamente dissolvendosi.

Il Trattato di Londra fu completato più tardi dagli accordi di Vienna il 26 febbraio 1718 e di
Palermo l’8 maggio 1720.

18 luglio 1720 i piemontesi sbarcano a Cagliari. In soli otto giorni il Regnum Sardiniae assisté al
pacifico succedersi di ben tre dominazioni straniere: la spagnola, l’austriaca e la piemontese. Il tutto
si svolse nell’ambito cagliaritano. La nobiltà cagliaritana era lacerata in seguito alla guerra di

1
successione spagnola dai conflitti tra filippisti e carlisti e costretta di volta in volta a pagare con la
fuga dal regno e con la confisca dei beni il sostegno dato al partito soccombente.

Sotto l’arbitrato inglese l’11 aprile 1713 a Utrecht era maturato un nuovo equilibrio europeo e il 2
agosto a Londra era stato disegnato l’assetto definitivo del Mediterraneo, i trattati avevano dato
sanzione giuridica alla fine dell’egemonia spagnola. Alla diplomazia era spettato il difficile compito
di comporre in un nuovo ordine internazionale i loro reali rapporti di forza. Ciò aveva comportato
una politica di baratti che aveva permesso alle potenze maggiori di ridisegnare ai propri fini anche i
minimi aggiustamenti periferici e di disporre a proprio piacimento delle realtà politiche minori.

I Borboni avevano governato negli ultimi tre anni per diritto di conquista, dovettero riconsegnare
l’isola agli Asburgo. La tradizionale lealtà dell’isola verso la corona era uscita indiscussa dalla
recente scissione in due fazioni.

All’aristocrazia sarda toccò di prestare omaggio a un sovrano sabaudo che non aveva mai
combattuto o sostenuto, a un signore che le era sconosciuto.

L’incontro tra gli stamenti sardi e il viceré Saint Remy si svolse il 2 settembre, nella cornice di un
rigoroso cerimoniale consolidatosi nei secoli. Il clero, i militari e le città ricevettero da Saint Remy
il giuramento ch niente sarebbe mutato nelle leggi, privilegi e statuti del Regnum Sardiniae. La
celebrazione della continuità con il passato, quell’apparente immobilità mirante ad acquietare gli
animi sospettosi di novità fu solo iniziale. Alla potente e gloriosa corona spagnola subentrava un
piccolo quanto ambizioso principe dell’Italia settentrionale il cui ruolo di rilievo era merito soltanto
della felice posizione dei suoi domini a cavallo delle Alpi. Vittorio Amedeo II aveva giocato la
propria carta con abilità nella guerra di successione spagnola e ne era uscito accresciuto
territorialmente e rafforzato in prestigio. Da alcuni decenni Vittorio Amedeo II lavorava per
imprimere ai suoi territori omogeneità interna e individualità politica. Servendosi di una ristretta
élite governativa scelta personalmente fuori dell’antica aristocrazia e rassicurante per fedeltà aveva
avviato un imponente progetto di accentramento: intendeva rifondare i rapporti tra società e
principe e fare del suo il primo “stato moderno” italiano.

Aveva avviato una vasta rilevazione delle proprietà fondiarie e una revisione dei catasti locali che
avrebbero permesso una più equa distribuzione del carico tributario ed eroso le immunità dei ceti
privilegiati; col il reintegro nel dominio regio dei feudi ceduti illegalmente, un grave affronto per
l’aristocrazia, aveva posto le basi per una nobiltà più docile.

Nel 1717 fu definita e istituzionalizzata l’intera struttura dell’autorità centrale. Con la


riorganizzazione delle segreterie e dell’amministrazione finanziaria, una burocrazia accuratamente
divisa in comparti, servita da canali di rapida comunicazione con la periferia e destinata a ruotare
intorno alla figura del sovrano, conferiva all’amministrazione dello Stato di Vittorio Amedeo II
un’efficienza che non aveva confronti nelle grandi monarchie europee. la sua intenzione era quella
di perseguire l’integrazione dei propri domini, instaurare un rapporto organico tra Stato e ceti
sociali.

Il cambio avrebbe dovuto destare preoccupazione nell’aristocrazia. Ma la feudalità isolana usciva


profondamente mutata dagli eventi dell’ultimo ventennio. Le urgenze della guerra l’avevano
indebolita economicamente, costringendola all’erogazione continua di donativi e impedendole di
2
contrattarli adeguatamente con la corona, mentre la lacerazione interna tra le fazioni l’aveva
scompaginata per privarla infine delle sue voci più rappresentative. Lo stamento militare avrebbe
offerto allo sguardo del nuovo signore una ben fragile fisionomia.

I potenti feudatari spagnoli, i marchesi di Quirra e d’Orani, il conte d’Oliva e il duca di Mandas,
signori di quasi metà delle terre del regno erano residenti da tempo nella penisola iberica; là
detenevano più cospicui patrimoni e non avrebbero incrementato in alcun modo il lustro della
modesta aristocrazia sarda. Il cambio di dominio avrebbe indotto i Centelles e i Català, i Borgia, i
De Silva e i Bejar ad accentuare il distacco dall’isola, in cui il potere sarebbe stato delegato ai
“reggidori” e “podatari”. Inoltre le due più importanti famiglie feudali della Sardegna, gli Alagon e
i Castelvì, avevano lasciato la Sardegna. Nel secolo precedente erano stati avevano dominato la
scena politica e nobiliare del regno. Protagonisti di una sorda rivalità sempre pronta a trasformarsi
in violenta faida, nel Settecento avevano fatto pesare la loro contrapposizione anche in seno al
Parlamento e trascinato dietro di sé larghe fasce della nobiltà, dando spesso vita a schieramenti
concorrenti, capaci di esprimere di fronte alla corona problemi, tensioni e rivendicazioni dell’intero
stamento militare e di quello ecclesiastico e reale. La guerra di successione spagnola aveva li trovati
ancora una volta su fronti opposti, capifila delle due fazioni carlista e filippista e a conclusione del
conflitto né gli uni né gli altri fecero rientro nel regno.

Al ridimensionamento del vertice della piramide nobiliare si aggiungeva l’espansione della sua base
fin dal Seicento e proseguita senza freni nel Settecento,specialmente negli anni della conquista
austriaca e della riconquista spagnola, allorché i vincitori utilizzarono facili concessioni di diplomi
di nobiltà e cavalierato per rinsaldare i ranghi dei rispettivi sostenitori. Ciò deteriorò l’immagine
dell’intero ceto. Sotto una cuspide decapitata e più debole in prestigio si estendeva un pletorico
mondo di nobili e cavalieri privi di natali illustri, di sufficienti sostanze e fortune.

Al sovrano sabaudo la nobiltà sarda si presentava stremata finanziariamente, lacerata da divisioni


che ne minavano la compattezza e gettavano un’ombra sulla stessa lealtà alla nuova dinastia.

Unica arma per un’efficace contrattazione con la dinastia sabauda avrebbe potuto essere la clausola
sulla salvaguardia dell’autonomia istituzionale e legislativa del regno. Sancita dai trattati
internazionali, essa costituiva un limite all’esercizio di una sovranità piena e assoluta ed era
garantita dalle potenze firmatarie, soprattutto dalla Spagna che si era assicurata il diritto di
reversibilità ed era interessata a proteggere i numerosi signori iberici possessori di feudi nel regno.
Ma la nobiltà locale, ansiosa di ingraziarsi i nuovi governanti, non seppe farne un veicolo di politica
attiva. A loro interessava conservare lo status quo e non volevano avviare nessun progetto di
rinnovamento. Per tutto il Settecento alimentarono una resistenza passiva, non riuscendo ad arginare
validamente l’invadente iniziativa dei nuovi dominatori. Escluso il triennio rivoluzionario (1793-
1796), la nobiltà feudale fece aperto ricorso al peso della clausola e alla sua consacrazione
internazionale solo nella fase cruciale d’attacco governativo al proprio potere cetuale.

I principi di Savoia seppero far tesoro delle debolezze, delle divisioni e della cedevolezza degli
stamenti sardi. Al viceré e agli alti funzionari piemontesi nel regno furono proibiti comportamenti
che avrebbero offeso la suscettibilità locale, inasprito le diffidenze e rinfocolato le simpatie
sotterranee verso i precedenti dominatori. Dietro un’apparente benevolenza, essi improntarono la
loro presenza a una vigile cautela, specie nei confronti delle vecchie fazioni politiche i cui membri

3
stavano rientrando lentamente nel regno. Con studiata equanimità misuravano i favori ai partigiani
della Spagna e dell’Austria. Una rinnovata coesione dello stamento militare avrebbe potuto essere
ancora pericolosa, per cui era necessario lasciarli divisi. Fin dall’inizio si volle prevenire ogni
rischio di contestazione della nuova dinastia e coloro che istigavano la rivolta antipiemontese
venivano arrestati.

La corte torinese provvide a indebolire anche i legami dell’aristocrazia con i signori residenti fuori
dal regno. Perciò impose la vigilanza sulla corrispondenza e sulle partenze dal regno, mentre ai
procuratori dei feudatari fu vietato di assistere alle assemblee dei nobili per il rinnovo del donativo.
Cominciava a prendere piede il clima di sospetto.

Dalla nobiltà non venne nessuna seria opposizione, mentre ci fu un’ostinata opposizione da parte
del clero e dei più alti prelati a causa della questione giurisdizionale. Non ci fu accordo tra la corte e
il papato sull’investitura del regno. Ciò delegittimava il potere sovrano agli occhi degli ecclesiastici
e favoriva il moltiplicarsi di episodi di insoddisfazione individuale. I funzionari piemontesi non
potevano tollerare le loro immunità che li teneva al riparo dall’azione punitiva dei tribunali regi. Si
raggiunse un concordato nel 1726 in cui si misero a tacere le voci più polemiche.

Un generale senso di disagio si diffuse nel regno a contatto con i nuovi dominatori. Agli occhi dei
piemontesi emergevano i tratti spagnoli di un regno legato da secoli alla penisola iberica, come pure
le esigue risorse, che facevano rimpiangere la Sicilia. Le finanze del regno, dissipate dalla guerra e
dalla negligenza di gestione, si rivelarono insufficienti per la difesa dal primo attacco di peste. La
sicurezza sociale era intaccata dai molti furti e omicidi alimentati da un’inestricabile rete di
vendette. Queste erano spesso impunite a causa di omertà, false testimonianze, connivenze e
protezioni ecclesiastiche o nobiliari. La giustizia baronale attendeva soprattutto alla riscossione
d’ammende, mentre quella regia restava impantanata in lungaggini procedurali e in esosità abusive
dei magistrati e dei loro subalterni.

Davanti a Saint Remy, il Regnum Sardiniae appariva pervaso da un acceso e incontrastato culto del
privilegio, di corpo o individuale, formale o sostanziale, esiziale per le pubbliche istituzioni. Per lui
il senso dell’onore sconfinava troppo spesso nella vendetta, nell’omicidio, nel dispregio della
giustizia sovrana. Nella sua corrispondenza si delineò lo stereotipo negativo del sardo, di duratura
fortuna nelle cancellerie sabaude.

Vittorio Amedeo II preservò intatte le istituzioni pubbliche del regno, dal viceré e dalla Reale
Udienza alla Reale Governazione di Sassari e all’amministrazione delle torri, fino alle truppe
miliziane e all’amministrazione feudale. Mantenne in vigore tutto il sistema delle fonti normative
ereditate dal passato, da quelle spagnole (prammatiche, carte reali e capitoli di corte) alla Carta de
Logu arborense e al diritto comune.

Tutto ciò però era fuorviante perché senza violarla apertamente, la politica torinese riusciva ad
aggirare i vincoli imposti dalle clausole internazionali e a svuotare di funzioni essenziali le
istituzioni isolane che le erano d’intralcio.

A pagare il costo più alto di questa politica accentratrice fu il parlamento. Riunito nella sua forma
plenaria per l’ultima volta nel 1698-99, finì col ridursi alla riunione delle sole prime voci dei tre
stamenti. La procedura abbreviata ed eccezionale era stata introdotta da Filippo V nel 1706,
4
nell’urgenza di ottenere il donativo in anticipo rispetto alla convocazione ordinaria delle corti del
regno. La formula sintetica fu subito adottata da Vittorio Amedeo II e l’assemblea rappresentativa
del regno, che per secoli aveva contrattato il proprio sostegno finanziario alla corona con la
concessione dei capitoli di corte, perdette ogni ruolo e significato politico. Se nella tradizionale
dinamica pattizia gli esponenti di città e clero e l’intera nobiltà erano riusciti ad arginare l’arbitrio
dei sovrani, nel Settecento gli stamenti dovevano accontentarsi di garantire ogni triennio il
versamento del donativo. Nessuna protesta si sollevò contro il silenzio imposto ai ceti.

Non poté invece restare insensibile alla restrizione delle proprie funzioni la suprema magistratura.
Con la riforma del 1717 i rapporti tra centro e periferia finirono per investire l’intera isola. Gli
ordini dovevano arrivare senza incontrare ostacoli da parte degli esecutori piemontesi o locali. Il
viceré accentrava nelle proprie mani le massime responsabilità e veniva liberato dal contrappeso
politico della Reale Udienza. Era più obbligato verso il sovrano che verso i suoi sudditi. Doveva
essere un esecutore abile e fedele degli ordini regi.

I magistrati della Reale Udienza furono spogliati del ruolo politico di consiglieri del viceré e posti
sotto controllo anche nelle più normali mansioni giudiziarie. Dovettero fare i conti con la sprezzante
supponenza dei funzionari piemontesi. I magistrati non reagirono con altrettanta docilità
all’offensiva viceregia contro le prerogative del massimo tribunale isolano. Il malumore covava
sotterraneo. Con Saint Remy si cominciò a interpellare la Reale Udienza solo per avallare
provvedimenti che avrebbero reso impopolare nell’isola la nuova dinastia. I modi duri del viceré
finirono con lo scontentare la corte. Le più odiose disposizioni governative sarebbero state assunte
formalmente dalla magistratura locale, onde preservare i vertici del governo dal malumore popolare.

Frustrazione e risentimento dei giudici non impedirono che il tribunale supremo dell’isola venisse
defraudato della propria funzione di consiglio vicereale. Comunque si considerava che le istituzioni
pubbliche non venissero scardinate, ma piuttosto razionalizzate e rafforzate.

Del tutto opposto fu il percorso dell’aristocrazia: lenta nel maturare la consapevolezza della propria
emarginazione, trascorse cinquant’anni in un sordo e crescente risentimento antipiemontese che
sarebbe deflagrato solo negli anni Settanta.

Nel orso del primo decennio solo raramente si cercò la collaborazione dell’alta toga. La conquista di
spazi nel governo isolano avrebbe dato i suoi frutti negli anni Sessanta e Settanta, durante il
ministero di Bogino. Sotto il regno di Vittorio Emanuele III, la maggior apertura di viceré e reggenti
stava modificando il clima negli alti uffici cagliaritani.

Bogino, diventato ministro per gli affari di Sardegna nel 1759, richiedeva più che mai ai funzionari
piemontesi contegno severo e probità cristallina, specialmente quando le riforme avrebbero
suscitato numerose controversie e coinvolto diverse personalità locali.

Nel giro di quarant’anni era venuto selezionandosi anche in Sardegna un gruppo di funzionari che
giungeva a condividere le vedute governative e appariva pronto a impegnarsi nell’ammodernamento
dello Stato e della società.

L’antica nobiltà del regno si avviava al duro scontro con il potere sabaudo prima dei moti
rivoluzionari di fine secolo. La magistratura del regno avrebbe contributo a emarginare l’alta

5
aristocrazia, a eroderne il potere, a incrinarne il prestigio, e ad alimentarne il risentimento
antigovernativo.

Il disagio della nobiltà dalla perdita di ruolo politico alla difesa del prestigio sociale

Le famiglie aristocratiche schierate da un ventennio in opposti schieramenti andavano unendo le


sorti dei loro rampolli, intrecciando destini patrimoniali e personali originariamente in
contrapposizione. Con l’instaurarsi del dominio sabaudo gli odi di un recente passato sbiadivano
nella memoria.

Giovanna Maria Cervellon va in sposa a Tomaso Nin.

Don Michele Cervellon, fatto marchese de las Conquistas da Filippo V nel 1704, passa dalla parte
dei carlisti dopo quattro anni insieme a Villasor a al conte di Montesanto.

Anche don Felice Nin, conte del Castiglio, non sarà più fedele a Filippo V.

I Savoia non potevano far conto su alcun vincolo di lealtà all’interno dell’aristocrazia sarda. I
partigiani di Francia e Austria avevano dovuto ripararsi nei domini dei Borbone e degli Asburgo.
Con l’insediarsi dei nuovi signori rientrarono quasi tutti nelle loro terre.

Non rientrò Artaldo Alagon, marchese di Villasor, capo della fazione imperiale e rivale del
marchese di Laconi. Si stabilì definitivamente a Vienna, i frutti dei suoi feudi in Sardegna
arrivavano in Spagna, dove l’unica figlia aveva sposato don Giuseppe da Silva conte di Montesanto.

Con Villasor rimane il marchese della Guardia, don Antonio Francesco Genovés. Nell’isola giunse
il figlio di questi, Bernardino.

Don Francesco Pes era un gentiluomo tempiese, membro di una famiglia nobilitata nel tardo
Seicento. Aveva parteggiato per gli austriaci e procurato notevoli adesioni nel Capo di Sopra. Fu
protagonista dei disordini galluresi del 1708. Dovette fuggire in Corsica per passare a Vienna e
riapparire in Sardegna al seguito delle truppe imperiali. Il veloce accumulo di ricchezze e di lustro
lo ripagò delle spese militari. Carlo III gli concesse le saline di Terranova, la tonnara dell’isola
Piana e il titolo di marchese di Villamarina. Compiuto il salto dalla piccola nobiltà di campagna
all’aristocrazia titolata, poteva ormai accreditarsi tra i signori più potenti e influenti del nord
Sardegna. Suo alleato era Giovanni Valentino, beneficiario della contea di San Martino. Fin dal
1720 la lealtà verso i Savoia valsero loro il riconoscimento del prestigio conquistato e la protezione
imperiale.

Più numerosi erano i sostenitori di Filippo V Borbone.

Don Francesco San Just conte di San Lorenzo tornò in Sardegna, ma non rinunciò a frequenti
soggiorni in Spagna, dove il fratello Ignazio San Just, ufficiale della marina, si avviava a una
promettente carriera. Il primogenito dei fratelli, don Dalmazzo, risiedette stabilmente in Sardegna.
Su di lui ricadde la gestione di un patrimonio familiare completamente dissestato e insufficiente al
decoro di una famiglia numerosa. Dopo un decennio presero il largo, privi di risorse e di prospettive
nel regno.
6
Vittorio Amedeo si era rivelato prodigo solo nel riconoscere titoli per il cui conferimento i sardi
dovevano essere disposti a sborsare delle somme importanti. L’alternarsi di potenze straniere aveva
precipitato nel caos gli uffici incaricati di certificarli. I nuovi regnanti si dimostravano riluttanti a
ridistribuire ricchezze e a soccorrere con uffici e gratifiche la nobiltà di sangue impoverita dai
conflitti di un ventennio. I San Just che restarono fedeli al loro antico signore ricevettero delle
ricompense: Giacomo ebbe l’incarico di governatore del Paraguay e del Potosì, gli altri ottennero i
gradi di colonnello di fanteria e di capitano di fregata.

Nemmeno i fratelli Masons erano rientrati in Sardegna. Felice, l’erede della baronia di Posada,
sarebbe diventato Grande di Spagna nel 1725, Giuseppe fece carriera nell’esercito e sarebbe
diventato Governatore delle Canarie e delle Filippine, Giacomo, darebbe stato ambasciatore a
Lisbona e a Parigi.

Anche don Giovanni Francesco di Castelvì, marchese di Laconi, rimase in Spagna. nel primo
ventennio del secolo aveva intrapreso una sfida familiare di prestigio e di potenza nei confronti dei
Villasor. Assente il suo irriducibile rivale, la scena isolana si presentava priva di ogni attrattiva.
Privo di antagonisti illustri e di eredi diretti, niente lo tratteneva nel regno. Alla sua morte, i titoli e
beni dei Castelvì sarebbero andati agli Aymerich di Villamar.

Nel 1732 il figlio della marchesa di Laconi don Antonio Giuseppe Aymerich si sposò con la
giovane Maria Tommasa Genovés, discendente del marchese della Guardia, ricco barone di
Portoscuso e partigiano degli Asburgo.

In breve tempo passioni e contrapposizioni politiche in seno alla nobiltà sarda s’erano indebolite a
tal punto che nemmeno la guerra di successione austriaca, sarebbe riuscita a riaccendere.

L’anomalia maggiore nel regno stava nello straripante potere di un’aristocrazia iberica titolare di
immensi feudi in Sardegna da far apparire irrilevante ogni altro possedimento e perfino il
patrimonio regio. Il patrimonio della corona consisteva in 38 ville dei Campidani di Oristano, Parte
Ocier Real e della Barbagia di Belvì. Su 365 villaggi sardi, 191 erano infeudati a casate spagnole,
circa metà della popolazione rurale versava tributi a nobili iberici. Da tempo i Nules, i Bejar, i
Gandia e gli Hijar guardavano con distacco alla Sardegna. Era loro indifferente la benevolenza del
principe sabaudo, verso cui non si ritenevano in alcun modo obbligati perché la loro esistenza era
legata alla corte di Madrid. I signori spagnoli indugiarono a lungo prima di un atto d’omaggio ai
Savoia che si sarebbe sovrapposto al vincolo di fedeltà verso il loro antico re spagnolo. Solo nel
1722 arrivò copia del giuramento prestato dai procuratori in nome degli aristocratici spagnoli.

I signori iberici sfuggivano al controllo delle autorità sabaude che non riuscirono a impoersi
neppure sugli ufficiali che ne gestivano i diritti e le rendite . i loro reggidori potevano ricorrere
all’immunità ecclesiastica per sottrarsi all’autorità regia. Gli ufficiali sabaudi avevano sperimentato
la riottosità della Chiesa sarda, le sue sistematiche invocazioni del privilegio del foro.

L’aristocrazia locale invece aveva spezzato i legami con la corona di Spagna, dovette riconoscere
l’autorità del principe sabaudo

Potrebbero piacerti anche