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XAVIER TORRES ISANS

IL BANDITISMO IN SARDEGNA, UNA VISIONE COMPARATA

Troviamo banditi generosi (ladri nobili), banditi d’onore, milizie irregolari o banditi guerriglieri, e
persino banditi definiti “sociali”, cioè una sorta di difensori dei poveri e degli oppressi.

Il banditismo sardo è un singolare caso di lunga durata.

I geografi della geografia possibilista francese si sforzarono di combattere gli eccessi della
geografia determinista e risaltarono l’azione e l’incidenza degli individui nell’ambiente naturale e
nella sua configurazione.

Il banditismo mediterraneo è stato interpretato come una manifestazione di antagonismo ancestrale


fra i pastori delle montagne e i contadini (e borghesi) della pianura. È uno scontro di generi di vita, i
pastori senza un’occupazione regolare, con il caratteristico orgoglio dei nomadi, si dedicavano
regolarmente al saccheggio delle aree di pianura.

Braudel ha confermato una simile interpretazione. Una montagna povera e senza risorse, male
poteva sopportare un qualche incremento di popolazione. Quando la pressione demografica
oltrepassava una soglia così bassa, la montagna espelleva in maniera drastica la gente in eccesso
convogliandola verso le prospere terre della pianura. Il banditismo dunque, non fu altro che una
variante delle razzie di montagna.

Il banditismo catalano del XVI secolo, secondo Vicens Vives, risponde a una condizione di spirito
della Catalogna del Cinquecento. Secondo Joan Reglà il banditismo è la saturazione demografica
della montagna, che va riversandosi con violenza verso la pianura.

La fama della montagna dell’interno sarda, la Barbagia, e del carattere indomito dei suoi abitanti era
molto nota. Maurice Le Lannou, un geografo francese, rimarcò il contrasto fra la pianura e la
montagna. In Sardegna le condizioni naturali hanno segregato fin dall’inizio due gruppi sociali ben
distinti: i pastori della montagna centrale, legati alla transumanza,e i contadini sedentari delle fertili
pianure. I pastori della montagna erano guerrieri per necessità, erano obbligati periodicamente a
scendere in pianura alla ricerca di pascoli per le loro greggi. Le loro incursioni in pianura sono
autentiche trasgressioni di origine climatica che non possono essere arrestate. Secondo Le Lannou,
questa lotta tra contadini e pastori era già nota in epoca romana che si è tramandata senza soluzione
di continuità sino all’età contemporanea, quando pastoralismo e banditismo sono diventati sinonimi.

I contadini hanno le loro parcelle di terra che lavorano tutti gli anni; se qualcuno le vuole calpestare
o attraversare, deve chiedere il permesso. Nessuna legge può impedire che un pastore si appropri di
tutto quello che il suo sguardo può abbracciare. Pastore e bandito sono la stessa cosa o quasi.

Chi parla di banditismo parla anche di altre violenze che ne possono conseguire. Là dove non
arrivava il feudalesimo (la giustizia feudale) il risultato era la vendetta e il banditismo endemico.
Secondo Braudel questa era l’origine dei banditi.
Fra il 1820 e il 1860 le chiusure delle terre e l’abolizione (o privatizzazione) degli ademprivi (beni
di proprietà comunale destinati alla rotazione agropastorale) comportarono alcune conseguenze
nefaste per la società pastorale barbaricina. Il catasto del 1851 fa il resto. Si creò una borghesia
agropastorale, i prinzipales, radicata nelle aree urbane ed in lotta con i contadini ed i pastori poveri
molti dei quali trovarono nel banditismo la via d’uscita.

I pastori sardi ridotti in miseria diventarono prima o poi la mano destra, gli uomini d’arme della
nuova borghesia locale agropastorale. L’assimilazione tra pastori e banditi, e fra banditismo e la
Barbagia sarebbe una questione contemporanea. Durante l’età moderna il pastore barbaricino non
gioca alcun ruolo privilegiato nella cronaca del banditismo isolano.

Nella Sardegna moderna il banditismo non fu mai un semplice affare di pastori pressati più o meno
dal bisogno. Neanche i pastori catalani dello stesso periodo erano tutti montanari. In Catalogna
come in Sardegna o nel paese Valenzano, ad alimentare il banditismo era la violenza dei nobili
piuttosto che quella dei semplici pastori o montanari. Così in Sardegna, come nella Catalogna
moderna, non tutti i banditi erano figli della miseria. La vendetta era presente sia in Catalogna che
in Sardegna, la rivincita aveva un ruolo importante, si trattava di un regolamento di conti fra gente
comune.

Il feudalesimo era l’autentico fondamento del banditismo sardo e mediterraneo in epoca moderna.

I rappresentanti della casa d’Austria, sopraffatti dagli avvenimenti o per giustificare la propria
incapacità, esagerarono il fenomeno del banditismo. Le autorità locali tentarono di ridimensionare
la gravità della situazione per salvaguardare il buon nome, l’onore della regione o della località agli
occhi del monarca perché i privilegi locali dipendevano da meriti senza macchia, ma anche perché
la repressione del banditismo su larga scala comportava una spesa straordinaria o la sospensione di
un certo numero di privilegi stamentari.

I nobili si lamentavano delle prammatiche reali che miravano a limitare il diritto di potare e
utilizzare certe armi. In Catalogna tra fine XVI e inizio XVII il conflitto si indirizza sull’uso delle
armi da fuoco come fucili a pietra focaia. In Sardegna ai nobili dava fastidio il non poter “mettere
mano alla spada” liberamente quando fosse necessario, perché lo vietava una prammatica reale del
1591.

Secondo Braudel e Reglà il banditismo prosperava in montagna e alle frontiere; e soprattutto nella
montagna di frontiera. I banditi catalani potevano scegliere la strada per sfuggire alla giustizia:
verso la Francia attraverso i passi pirenaici, verso il regno di Valenza o verso i confini
dell’Aragona. Non risultava semplice invece scappare dalla Sardegna o da Maiorca. Ma i banditi
potevano sempre trovare rifugio presso la giurisdizione ecclesiastica o signorile.

Gli anni intorno alla prima metà del XVII secolo furono gli anni di massima attività della banda
comandata da Manunzio Flore e Andrea Addis, di Bono (Goceano) che terrorizzava intere contrade
delle zone interne pastorali, ma imperversava anche in Logudoro e nei dintorni di Sassari e
Anglona. Si trattava di una quadrilla di una ventina di uomini, per lo più nativi del capo di Sassari e
del Logudoro; ben armati, commettevano ogni sorta di delitto, omicidi, violazioni, furti di vacche e
cavalli. Il viceré offrì ai membri della banda una remissione dei delitti in cambio del loro esilio
dall’isola. Era un metodo abituale che dimostra l’impotenza delle autorità. I banditi però finirono
giustiziati o condannati alle galere durante la repressione posta dal viceré di Gandía, attuata
mediante l’erogazione di premi in denaro ai delatori.

La repressione viceregia si rafforza nel periodo 1596-1614, cioè fra i viceregni del conte d’Elda e
del duca di Gandía, ma il banditismo sardo rifioriva periodicamente.

Tra il 1630 e il 1640 i principali focolai erano sempre in luoghi come Bono, Ozieri, Osilo,
Chiaramonti e altre località comprese nel Goceno/Logudoro fino a Sassari e all’Anglona. Il
banditismo sardo avrebbe raggiunto l’apice nella seconda metà del XVII secolo. Alcune quadrilles
raggiungevano duecento banditi. Un tale Giovanni il Gallurese era in quel tempo il capo della banda
più famigerata che operava nel capo di Sassari.

Durante il viceregno del marchese di Caramassa (1665-1668) la situazione sfuggì di controllo


quando tutto il regno, e non solo i territori del nord Sardegna, si sarebbero riempiti di banditi. Molti
studiosi del periodo hanno trovato indizi di un malessere sociale molto diffuso specialmente nella
regione compresa tra il Logudoro e l’Anglona, terre feudali del conte d’Oliva e dei marchesi
d’Orani e di Cea dove la protesta sociale non si poteva discernere dalle lotte delle fazioni feudali.
Nel 1668, al tempo degli omicidi del marchese di Laconi e del viceré marchese di Caramassa, i
feudi del nord dell’isola, vivaio di banditismo, conobbero l’uno e l’altro fenomeno. Alcuni
spalleggiavano il marchese di Cea, ricercato per l’omicidio del viceré marchese di Caramassa.
Sembra che ci fossero gli abituali conflitti locali in luoghi come Ozieri, Pattada, Nughedu e Nule.
Col passar del tempo i bandos nobiliari e le rivalità intestine stroncarono qualsiasi tentativo di
rivolta sociale o antifeudale.

Di pastori banditi ce n’erano un buon numero. La Sardegna era uno dei granai del Mediterraneo già
dall’antichità. L’allevamento del bestiame, i formaggi e le esportazioni della lana erano attività
caratteristiche dell’economia isolana. L’economia pastorale era caratteristica della Barbagia e delle
contrade del Marghine, del Goceano e del Nuorese. L’allevamento del bestiame avrebbe modellato
il paesaggio, la distribuzione della popolazione, la dinamica dei conflitti sociali e persino una
cultura e una mentalità.

La geografia del banditismo nei secoli XVI e XVII non ha gran che di pastorale né di strettamente
barbaricino. I principali focolai del banditismo pare che fossero nei Capi di Sassari e di Gallura e in
generale nel triangolo settentrionale del Logudoro, nei dintorni di Sassari e dell’Anglona (una
contrada di pastori a quel tempo ricca e molto fertile) e soprattutto la Gallura a seconda dei periodi,
al pari delle contrade di montagna e pastorali del Marghine e del Goceano. Il furto di bestiame, non
si localizza soltanto nella Barbagia. I pastori furono oggetto di disposizioni specifiche.

Secondo il parere del cronista Aleo, la vera radice del problema non era una cultura specifica né una
vera necessità, ma l’invidia. Pare che l’invidia sia l’origine o lo stimolo di ogni sorta di guerre e
rancori. L’invidia è anche una forma di contagio sottile e questo colpisce solo la gente di rango
elevato, come i principi, i nobili, i ricchi e i dotti. Invece i poveri, i miserabili sono immuni. La
conclusione è che l’origine del banditismo va cercata fra i personaggi di alto rango e non fra i
poveri o i bisognosi. Aleo descriveva in questo modo uno dei tanti conflitti feudali della Sardegna
moderna, ossia il violento scontro fra i marchesi di Laconi e di Villasor. Il cappuccino cronista
quindi collega il banditismo isolano al feudalesimo locale. Se i numerosi ladri e banditi dei capi di
Sassari e di Gallura potevano agire impunemente era, per Aleo, perché godevano della protezione
degli abitanti più ricchi e potenti di quelle contrade i quali a loro volta li utilizzavano per loro
rivalità intestine o per le lotte di fazione. Il fenomeno era stato descritto anche da Guicciardini,
allora ambasciatore fiorentino. I viceré locali erano dello stesso parere, in Sardegna come in
Catalogna. È stato il duca di Albuquerque, viceré del principato tra il 1616 e il 1619 a trovare la
formula più appropriata: no hubiera bandoleros si no los sustentaran y criaran caballeros. I cavalieri
del regno di Sardegna proteggevano ladri e assassini.

Il feudalesimo in Sardegna è inseparabile dalla conquista catalano-aragonese del secolo XIV. gli
antichi giudicati sardi,in decadenza eccetto il giudicato d’Arborea, furono rimpiazzati da una
ragnatela di giurisdizioni signorili di provenienza eterna. La conquista portò nell’isola una
moltitudine di case feudali originarie della Corona d’Aragona che vi lasciarono un’impronta
duratura: i Carrós (ramo d’Arborea e della contea di Quirra) e i Centelles (ramo valenziano dei conti
d’Oliva), entrambe di origine valenziana.lassenteismo di questi e di altri grandi signori favorì
l’emergere graduale di una nobiltà locale minore. Nel corso del XVI secolo i ranghi della feudalità
sarda crebbero e si rinnovarono, attraverso l’incorporazione di famiglie di mercanti o di
professionisti delle lettere e del diritto. Il risultato fu il consolidamento di una piccola e media
nobiltà autoctona ambiziosa e turbolenta. Il feudalesimo evidenzia una violenza e una specifica
conflittualità, come la guerra privata tra fazioni signorili per cupidigia o denaro. Secondo Aleo i
ricchi sono le persone abitualmente più perfide e invidiose. Questa cupidigia signorile poteva
assumere varie forme:

 Il furto
 Furto di bestiame, spesso opera di ladruncoli protetti dai signori locali
 Dispute giurisdizionali
 Successione dei feudi, a causa della quale la conflittualità poteva dividere una stessa dinastia
(es. disputa per il marchesato di Laconi)

Queste violenze raramente restavano circoscritte all’interno dei feudi: i legami clientelari e di
parentela creavano difficoltà e dividevano le oigarchie urbane, coinvolgendo anche magistrati della
Reale Udienza.

In Catalogna succedeva lo stesso. La frammentazione di molti patrimoni feudali poteva accendere


tanti conflitti simultaneamente in più luoghi. Nel 1586 la morte senza eredi del conte di Quirra
provoca reiterati conflitti armati fra Joaquim Carrós, cugino del defunto, e Violant, sorella del
conte, nel villaggio catalano di Centelles. Con l’aiuto dei signori banditi NYERROS della città e
vegueria di Vic, Enric de Cardona, marito di Violant, nel 1601 occupò, manu militari la baronia di
Centelles. Nel 1607, in prossimità della morte della marchesa di Quirra, la guerra intestina si
riaccese, stavolta in Sardegna, fra il marchese Cristòfor Centelles e sua suocera Marianna de Pinós.

La guerra privata fra signori feudali era per sua stessa natura una guerra di tutti contro tutti. In
Catalogna, tra la fine del XVI secolo ed il primo terzo del secolo XVII i banditi si dividevano in
NYERROSe CADELLS. Anche in Sardegna c’erano i nyerros e i cadells. Se in Catalogna i veri
nyerros e cadells erano invariabilmente equiparati ai guelfi e ai ghibellini delle città medievali
italiane, anche le fazioni sarde si potevano accostare a quelle del principato. In Sardegna nel secolo
XVII i nyerros e i cadells erano i Castellví, marcheis di Laconi, e gli Alagón, marchesi di Villasor.
Gli Alagón erano a capo della feudalità settentrionale , cioè dei feudatari del Sassarese e dei
procuratori dei duchi di Mandas e dei conti di Oliva; i Castellví, assieme ai loro parenti Cervelló,
Zatrillas, ecc., polarizzavano i feudatari del capo di Cagliari. Una politica matrimoniale adeguata e
una buona rete di relazioni di vassallaggio e clientelari potevano favorire una fazione o l’altra.

La rivalità fra i Castllví e gli Alagón (aragonesi), veniva da lontano. Un signore bandolero come
Augustín de Castellví era a quel tempo il principale difensore del regno o capo dell’opposizione al
viceré di turno.

Gli Alentron, famosi bandoleros in Catalogna, erano nyerros e intransigenti nel rivendicarle libertà
catalane. I cadells loro avversari erano per forza favorevoli al re. In Sardegna i Castellví sarebbero
stati nyerros e gli Alagón cadells. Questi ultimi stavano al lato del conte-duca Olivares a favore
dell’unione delle armi, gli altri compiono ripetutamente alla testa dell’opposizione del regno,
capeggiano rivendicazioni dell’esclusiva delle cariche e delle prebende per i naturals e naturalizzati
sardi, della votazione del servicio de cots previa soddisfazione delle greuges,
dell’istituzionalizazione di una rappresentanza parlamentare permanente di carattere politico e non
solo fiscale, alla maniera della Deputazione catalana.

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