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§ 1. La Sardegna nella prima fase del dominio dei Savoia (dal 1720 al 1750 c/a)
I primi trent’anni del dominio sabaudo sull’isola sono una fase di immobilismo, i pochi interventi significativi non
vanno oltre la repressione dei fenomeni di banditismo.
Sul piano istituzionale i Savoia conservano le forme del vecchio Regno di Sardegna, ma cessano di convocare il
Parlamento, che viene “di fatto” abrogato, pur conservando un’esistenza nominale.
1
Il governo sabaudo mirò a tenere sotto controllo
l’ordine dell’isola e ad intraprendere la lotta Un paese “miserabile e spopolato”
contro il banditismo, fenomeno esteso in tutta la
regione, con delinquenti che agivano spesso Il primo Viceré sabaudo, marchese di Saint-Remy (1720/23 e
indisturbati. Si trattava spesso di contadini 1726/27), scriveva a Vittorio Amedeo II: « Tout le plus grand
costretti a darsi alla macchia nel corso di mal, Sire, que je vois dans ce pays, c’est que la Noblesse est
vendette familiari, altre volte di vittime di abusi pauvre, le pays misérable et depeuplé, les gens paresseux et sans
aucun commerce, et l’air est bien mauvais sans q’on puisse
feudali. Spesse volte, però, dietro questi gesti si
remédier ».
intravedeva anche la presenza attiva del mondo In un colloquio a Torino con Montesquieu, Saint-Remy disse che
feudale che sfidava i poteri dello Stato con “se il Re avesse voluto donargli la Sardegna non l’avrebbe mai
l’intento di conquistare nuovi spazi di accettata, giacché vi era stato quasi sempre ammalato”.
autonomia. Il fenomeno assunse intensità negli “Non c’è né aria né acqua. L’acqua è tutta salmastra e salata”. Il
ultimi anni del ‘600 e nei primi del ‘700. Saint-Remy mandava a prendere a Pisa l’acqua potabile. “Per
Il problema del banditismo venne affrontato cinque mesi all’anno non si può uscire dalle città a causa
con decisione dal Viceré marchese di Rivarolo dell’intemperie [=malaria]. Si possono percorrere spesso più di
(che tenne la carica nel triennio 1735-8 e fu il venti miglia senza trovare né una casa né un albero. Cagliari è
primo Viceré a compiere un viaggio attraverso una città vilaine”. (cit. da A. Mattone La storia della Sardegna.
Una chiave di lettura).
l’isola e un’accurata visita a molti villaggi)
tramite una sistematica repressione militare.
I dati demografici del Settecento, pur confermando il cronico
Durante il suo viceregno vennero mandate sul
sottopopolamento dell’isola, mostrano che partecipò
patibolo 432 persone ed alla galera o al confino dell’andamento di crescita proprio dell’epoca:
oltre 3000.
L’azione ebbe comunque effetti passeggeri, che Anno Abitanti
non riuscirono a fermare un fenomeno radicato 1728 310.000
nelle strutture profonde della società rurale 1751 360.000
isolana. 1782 430.000
L’atteggiamento puramente conservativo del governo sabaudo cambia alla metà del secolo, quando si fa ormai chiaro
che non ci sono possibilità di cedere l’isola in cambio di ampliamenti più appetibili. Sia pure in ritardo, la Sardegna
conosce una fase di assolutismo illuminato.
Tra i risultati positivi si possono riconoscere la riforma delle due Università di Cagliari e Sassari e l’istituzione dei
“monti frumentari”, che miglioravano le condizioni della classe contadina, aumentando così la produzione agricola e la
redditività delle terre.
2
La riforma dei “monti frumentari” diede i suoi frutti
col miglioramento della produzione. Ma era solo un La gestione comune delle terre
primo passo: rimanevano due problemi assai più
difficili: la questione della proprietà della terra e Nella Sardegna del Settecento solo poche terre (vigneti, oliveti)
quella dei diritti feudali. erano recintate ed adibite ad un unico tipo di coltura. La gran parte
veniva gestita con un sistema di “campi aperti” (simile, per es., a
Già il Cossu, accanto alla presenza dell’usura ed
quello in uso in Inghilterra prima delle “enclosures”- cfr. GSV 2,1,
all’arretratezza delle tecniche, aveva indicato come pag. 104), connesso a forme rudimentali di rotazione, gestito in
causa principale del malessere contadino e della modo comunitario, secondo regole che troviamo codificate anche
poca produzione, i tributi feudali. Secondo i suoi nella “carta de logu” arborense.
calcoli, l’insieme dei tributi (decima ecclesiastica, Riportiamo la sintetica descrizione data dalla storica L. Scaraffia:
donativo regio, tributi feudali e altro) si aggirava “Ogni comunità si garantiva la sopravvivenza destinando una parte
attorno al 35% del prodotto lordo delle attività del territorio (per lo più del demanio comunale…) al seminativo
agricole. (“vidazzone”), mentre l’altra veniva lasciata al pascolo
Un'altra difficoltà ineludibile era indicata (per (“paberile”). Il seminativo era ogni anno ripartito in sorte fra quelli
esempio dal professore gesuita Francesco Gemelli, che intendevano coltivarlo.
Gli abitanti del villaggio avevano quindi diritto di uso comune per
dell’università di Cagliari) nell’assetto arcaico della
la parte a pascolo, d’uso individuale (fino al raccolto) per la parte
gestione delle terre, basato su usi comunitari, che
coltivata [dopo il raccolto, però, anche questa veniva aperta al
non permetteva la formazione della “proprietà pascolo comune]”. In genere ogni parte del terreno disponibile
perfetta”, ossia non permetteva che un veniva per due anni destinata a vidazzone e per altri due a paberile.
appezzamento di terreno rimanesse in modo Trarre dalle usanze comunitarie di gestione della terra una visione
permanente sotto il controllo di un unico idilliaca (nel senso dell’egualitarismo) sarebbe errato, e non
proprietario, divenendo – in tal modo – suscettibile spiegherebbe i problemi di cui abbiamo detto alla scheda precedente
di migliorie. (precarietà della condizione del contadino povero, usura ecc.).
Entrambi i problemi erano, però, complessi e Pur caratterizzata dalle usanze comunitarie, la società del villaggio,
saranno affrontati solo nell’Ottocento, sotto il non era egualitaria: “più che di proprietà comunitaria – scrive la
regno di Carlo Felice (1820/23: editto delle Scaraffia – si può parlare di diritti sulla terra esercitati da parte di
individui intesi come rappresentanti della loro famiglia, nell’ambito
“chiudende”) e di Carlo Alberto (1835: abolizione
del villaggio”. Il controllo delle risorse era legato “alle relazioni di
dei feudi). status all’interno della comunità”, che comprendeva pastori e
Nell’immediato, al breve periodo riformistico contadini (in diversa proporzione a seconda delle zone), ma anche
seguì la fase delle insurrezioni (anni Novanta del clero e piccola nobiltà. “Fra i vassalli (agricoltori e pastori)
Settecento), segnata dal riflesso delle Rivoluzione esistevano delle differenze di status […] Una parte dei produttori
Francese, che si concretizzo nella rivolta che pure disponeva del diritto di semina sulle terre del villaggio,
antipiemontese del 1794 e nei moti antifeudali. non aveva i mezzi per seminarle e doveva ricorrere ad un contratto
Il forzato soggiorno della corte sabauda in Sardegna, con coloro – i cosiddetti “prinzipales” – che avevano disponibilità
dovuto alla conquista napoleonica del Piemonte di risorse produttive e monetarie”.
(1799-1814) imporrà un ravvicinamento dei sovrani Per concludere queste notizie, si può precisare che, pur difettoso ed
(Vittorio Emanuele I e soprattutto Carlo Felice) alla immobilistico, tale sistema corrispondeva ad un equilibrio fra le
realtà isolana, che – nel bene o nel male – li spingerà componente contadina e pastorale della società sarda; equilibrio
che ne aveva lungo i secoli plasmato il funzionamento. Questo
all’intervento legislativo.
aspetto non venne tenuto in considerazione dai legislatori che lo
In sintesi: il riformismo sabaudo ha i meriti ed i affronteranno nell’Ottocento. Essi credevano, non senza ragioni,
limiti di un’iniziativa dell’alto1, secondo i canoni che la componente pastorale fosse quella più arretrata e meno
dell’assolutismo illuminato (un “razionalizzare per suscettibile di progresso. Volevano ampliare lo spazio agricolo a
meglio comandare”). scapito di quello pastorale; quest’ultimo, però, finirà per mostrarsi
Tentò di incidere sulle disuguaglianze sociali e di difficilmente comprimibile.
abolire privilegi di clero, nobiltà e classi Per questo e per altri problemi, la creazione della “proprietà
dominanti, di migliorare la produttività, ma fu perfetta” in Sardegna tramite le “chiudende” produrrà esisti molto
un’esperienza breve e non operò con convinzione meno positivi di quelli auspicati dai suoi primi sostenitori.
nel coinvolgimento della società locale, che
sovrani e funzionari piemontesi guadavano sempre
con diffidenza.
1
Una sintesi dell’età delle riforme dovrebbe ricordare il riordino delle due università sarde (1764), che fu addirittura una
rifondazione, dato che le attività di insegnamento erano all’epoca pressoché cessate in entrambe.
Altri tentativi, nel campo economico, riguardarono la gestione diretta da parte dello Stato delle miniere del Sulcis, male
amministrate dai concessionari (ma fu una “falsa partenza”: il progetto commissionato dal Bogino risultò
antieconomico). Migliori esiti ebbe l’introduzione di nuove coltivazioni (gelso, tabacco, cotone) ed il potenziamento di
saline e tonnare. Un altro ambito fu la repressione degli abusi e dei privilegi del clero sardo, ipertrofico (2% della
popolazione) e poco motivato, sul cui malcostume si era pronunciato anche il Papa Benedetto XIII. (L. Scaraffia: “La
carriera ecclesiastica – nel clima immobilistico della vita economico-sociale della Sardegna di allora – era quasi la sola
via possibile di ascesa sociale per una nobiltà povera e sdegnosa, all’uso spagnolo, di ogni attività industriale e
commerciale”).
3
§ 3. Le insurrezioni degli anni ’90 / 1793-95: Il tentativo di invasione francese e la rivolta antipiemontese
2
La guerra all’Austria era stata dichiarata, come sappiamo, nell’Aprile 1792 dal governo girondino durante l’ultima fase
della Monarchia. In quello stesso anno il Regno di Sardegna entrò a far parte della prima coalizione antifrancese
alleandosi con Austria e Prussia, alle quali l’anno successivo si sarebbero associate Gran Bretagna, Spagna, Olanda ecc.
3
Erano disponibili meno di 3000 soldati in tutta l’isola. D’altra parte il Re Vittorio Amedeo III aveva già avuto seri
problemi nel difendere i propri territori continentali dall’attacco dei Francesi, che si erano appena appropriati della
Savoia e di Nizza (Settembre 1792)
4
Alcuni giorni dopo (25 Febbraio) veniva respinto anche un altro – minore – tentativo di invasione francese (vi
partecipava anche il giovane Napoleone Bonaparte) che, partendo dalla Corsica, aveva attaccato l’isola della Maddalena.
L’unico successo, i Francesi lo ottennero nell’Isola di San Pietro, la prima porzione di territorio sardo occupata (6
Gennaio) e l’unica – assieme a Sant’Antioco – in cui poterono lasciare una guarnigione. I Carlofortini accolsero
favorevolmente la spedizione. L’isola venne ribattezzata Isola della Libertà. La spedizione (sbarcata il 6 gennaio) era
capeggiata dal noto esponente giacobino Filippo Buonarroti, che proclamò la repubblica e dettò la costituzione dell’isola,
abbatté la statua di Carlo Emanuele III, che si trovava nella pubblica piazza, e la sostituì con l’albero della Libertà.
L’esperimento durò qualche mese, fino a quando la flotta spagnola non fece sloggiare i Francesi (25 Maggio).
4
Abbiamo detto che “i Sardi” respinsero l’invasione. Spieghiamoci meglio.
Bisogna, infatti, precisare che la maggior parte degli sforzi nella difesa dell’isola contro il tentativo francese erano stati
organizzati e realizzati proprio da elementi autoctoni, mentre l’inerzia del Viceré destava preoccupazione e scandalo.
In previsione dello scontro con i francesi, i nobili sardi richiesero la convocazione straordinaria degli Stamenti per
attuare le necessarie misure difensive, ma il
Viceré negò l’autorizzazione5.
Lo Stamento militare (che rappresentava la Una precisazione importante
nobiltà) si riunì ugualmente.
In particolare clero e nobiltà locali assoldarono Lo Stamento Militare era rappresentativo della Nobiltà del Regno.
delle milizie ausiliarie a proprie spese. La difesa Come già detto sopra, il Parlamento sardo era una tipica istituzione
di ancien régime, e raggruppava la rappresentanza secondo i criteri
contro un eventuale sbarco francese nel Sulcis
di una società per ceti. Gli altri due Stamenti erano quello
venne organizzata dal Vescovo di Iglesias. Lo Ecclesiastico e quello Regio. Quest’ultimo era formato dai
Stamento militare finanziò ed organizzò una rappresentanti delle sette Città Regie “non infeudate” dell’isola
milizia ausiliaria di circa 4000 uomini. (Cagliari, Sassari, Alghero, Bosa, Iglesias, Castelsardo e Oristano)
Dal punto di vista di clero e nobiltà, il timore nei che non potevano considerarsi rappresentate dai feudatari. Tutto ciò
confronti della Francia rivoluzionaria era suona arcaico, e in effetti lo è.
piuttosto ovvio6, ma riuscirono anche a Occorre però ricordare che la Nobiltà rappresentata nello Stamento
coinvolgere la popolazione. Militare non era più solo la nobiltà feudale, ma una parte
importante di essa proveniva da famiglie di origine borghese, che
Il successo nella difesa dell’isola suscitò grande avevano di recente acquisito il titolo e le cui fortune si erano
formate nel campo dei commerci e delle professioni (soprattutto
entusiasmo sia nel popolo che nelle classi
avvocati).
dirigenti.
Perciò gli Stamenti vanno visti non solo nella loro caratteristica
Ci si aspettava la riconoscenza del Re: l’élite (conservatrice) di rappresentanza della società per ceti, ma –
locale pensava che fosse, perciò, giunto il almeno in parte – come espressione delle élites di una società che
momento di chiedere più autonomia, posti nella (all’epoca del “riformismo sabaudo”) aveva sperimentato una
pubblica amministrazione, il ripristino delle modernizzazione e sotto le vecchie forme presentava anche
vecchie libertà del “Regnum Sardiniae”, esigenze nuove.
compreso il ruolo attivo del Parlamento.
L’atteggiamento di Vittorio Amedeo III, della corte e del Viceré li deluderà ed esaspererà i contrasti tra Sardi e
Piemontesi.
“Paradossalmente – scrive lo storico Piero Sanna – il movimento patriottico che avrebbe guidato la prima fase della “sarda
rivoluzione” maturò nel clima di un’accesa propaganda antirivoluzionaria e di una generale mobilitazione contro l’armata
‘liberatrice’ della giovane repubblica francese”.
Accadde così che, nella difesa dell’isola dall’attacco francese, si segnalarono alcuni dei personaggi che sarebbero in seguito
stati sospettati come “giacobini” o che si sarebbero resi protagonisti delle insurrezioni antipiemontese ed antifeudale.
Nell’immediato, nonostante l’ostilità del Viceré ad ogni iniziativa dei Sardi, i tre Stamenti si riunivano e discutevano
delle richieste dal fare al Sovrano.
Il 13 Maggio si accordarono su un documento contenente un insieme organico di richieste da presentare a Torino.
Note come “cinque domande” si esprimevano nei seguenti punti:
1. Convocazione ufficiale del Parlamento Sardo da parte del Re e ripristino della convocazione decennale;
2. rispetto dei privilegi e delle leggi fondamentali del regno;
3. assegnazione esclusiva ai sardi degli impieghi e degli incarichi nell’amministrazione civile, militare ed ecclesiastica
dell’isola, con la sola eccezione della carica di Viceré;
4. istituzione, a Cagliari, di un Consiglio di Stato che affiancasse il Viceré;
5. istituzione, a Torino, di un ministero speciale per gli affari sardi.
5
Balbiano appare preoccupato soprattutto del rischio che le difficoltà militari della Monarchia sabauda potessero indurre
nei sudditi isolani delle aspirazioni di autonomia, e tutto il suo comportamento appare accentuare (data la drammaticità
delle circostanze) quella diffidenza nei confronti dei Sardi che appare quasi una costante della storia
dell’amministrazione sabauda.
Una mossa “forte” come quella dell’autoconvocazione degli Stamenti (che non venivano più riuniti dal 1698) mostra
che era comunque reale – nell’élite sarda – la volontà di rilancio di un proprio ruolo politico e che i suoi timori non erano
infondati.
6
Un cronista coevo dei fatti, il padre Tommaso Napoli, scrive: “La nobiltà ed il clero, cui premeva sommamente
difendersi dai Francesi, che allora l’avevano contro quei due ceti, e gli spogliavano di tutto e anche massacravano, si
radunarono in tutta fretta, in forma di stamento, che equivale a parlamento, e presero le più forti misure per scuotere
l’indolenza del governo”.
5
Sei rappresentanti (due per ciascuno dei tre Stamenti) vennero incaricati di recarsi a Torino per presentare le “cinque
domande” direttamente al Re. La delegazione partì alla fine di Agosto e raggiunse la capitale piemontese il 4 Settembre.
Il sovrano li riceverà solo tre mesi dopo il loro arrivo, e si limiterà a promesse molto generiche. Diveniva sempre più
chiaro che non c’era alcuna volontà di accettare le richieste.
A Cagliari si diffondeva il malcontento. La situazione venne fatta precipitare dal comportamento del Viceré, che fece
arrestare (28 Aprile 1794) due avvocati cagliaritani (Pintor e Cabras) molto amati dalla cittadinanza, sotto l’accusa di
cospirazione, illudendosi di stroncare con la paura le velleità di autogoverno dei Sardi.
La notizia dell’arresto fece immediatamente (il giorno stesso) insorgere la città. La folla assaltò il palazzo viceregio.
In breve tempo tutti i piemontesi presenti a Cagliari (erano circa 500, tra funzionari e loro familiari) vennero costretti alla
resa ed imbarcati forzatamente per il continente7; lo stesso accadde – pochi giorni dopo – nelle altre località sarde. I
poteri del Viceré vennero assunti dalla Reale Udienza.
I Sardi, pur confermando la lealtà al sovrano sabaudo, si autogovernavano8.
Nella nuova situazione emergevano, però, i contrasti fra i diversi orientamenti dell’élite sarda, che era inevitabilmente
disomogenea, socialmente e ideologicamente.
Si evidenziavano diverse tendenze:
− legittimisti (conservatori filosabaudi), il cui maggiore esponente era il Marchese della Planargia Gavino Paliaccio;
− a questi si andava ravvicinando anche un gruppo di moderati, che aveva il proprio esponente più prestigioso in
Gerolamo Pitzolo9;
− democratici (sospetti di “giacobinismo”), propensi ad appoggiarsi sulla mobilitazione popolare e perfino ad una
rottura con il Piemonte. Inizialmente apparvero come un fronte unitario. Ne facevano parte, tra gli altri, gli avvocati
Cabras e Pintor, il comandante della milizia popolare Vincenzo Sulis e il giudice della Reale Udienza Giovanni
Maria Angioy.
In seguito alla radicalizzazione della lotta antifeudale (vedi pagine seguenti) quest’ultimo schieramento si dividerà:
l’Angioy si attesterà su posizioni rivoluzionarie, sulle quali pochi erano disposti a seguirlo.
Quando il Re scelse di sostituire con dei sardi in alcune delle più importanti cariche i piemontesi espulsi, le sue
preferenze andarono – come era prevedibile – ad esponenti del “partito” lealista (tra gli altri i già menzionati Pitzolo e
Planargia), suscitando il malcontento dei più convinti democratici ed esasperando il conflitto fra le parti.
Nonostante la mediazione del Viceré Vivalda, a Cagliari le tensioni si accrebbero, fino a che due successive agitazioni
(Marzo e Luglio ’95), fomentate dai democratici, culminarono nell’uccisione del Marchese della Planargia e del Pitzolo.
7
Si fece eccezione solo per l’Arcivescovo di Cagliari, Mons. Melano, che godeva della stima della popolazione.
8
Vittorio Amedeo III nominò subito un nuovo Viceré, nella persona di Filippo Vivalda, assai più abile diplomatico di
quanto fosse stato il Balbiano. Vivalda non ritenne opportuno raggiungere l’isola prima di Settembre ed esercitò le
proprie funzioni in modo prudente, tenendo conto degli equilibri politici sardi.
9
Il Pitzolo si era distinto nelle giornate della lotta antifrancese come comandante della cavalleria, conquistando una vasta
popolarità. Aveva poi fatto parte della delegazione mandata a Torino per presentare le “cinque domande”.
6
§ 4. Le insurrezioni degli anni ’90 / 1795-96: L’insurrezione antifeudale
La sconfitta dell’Angioy segnò la fine della fase più acuta del movimento eversivo contadino e anche l’inizio della
restaurazione dell’autorità piemontese. Quest’ultimo processo non fu immediato e per alcuni anni il governo fu costretto
a sedare delle rivolte. Assieme al movimento antifeudale, però, si andava esaurendo anche il movimento antisabaudo.
Il movimento rivoluzionario sardo fallì proprio nel momento in cui si creavano nel continente (con la “campagna
d’Italia” di Napoleone Bonaparte) le condizioni per fondamentali cambiamenti sociali e politici.
7
§ 5. L’editto delle chiudende e l’abolizione dei feudi
L’esigenza espressa in tale richiesta è comprensibile se pensiamo che negli anni ’40 la monarchia sabauda di
Carlo Alberto si orientava in senso riformatore, attraverso una cauta liberalizzazione delle istituzioni e l’alleanza
(anche dal punto di vista doganale) con lo Stato Pontificio di Pio IX ed il Granducato di Toscana. Il processo
sarebbe culminato, nel 1848 (sia pure sotto la pressione del movimento insurrezionale liberale) nella concessione
dello Statuto Albertino e nell’inizio dell’impegno “risorgimentale” della monarchia sabauda.
La “fusione” fu concessa nel 1847. All’indomani della fusione i suoi stessi fautori dovettero ricredersi sulle
passate speranze di miglioramenti che l’isola avrebbe conseguito con la rinunzia alle strutture tradizionali. Ad
esempio, l’estensione alla Sardegna della legislazione del Piemonte portò conseguenze infelici in campo fiscale.
Di fronte a nuove manifestazioni di malessere la risposta del governo fu repressiva. La nomina del commissario
Lamarmora segnò l’inizio di una linea di rigore. La Sardegna vedeva riconfermato il suo stato di inferiorità
© Daniela Daga (II Liceo Cl. sez. E) - The Murgian Archive Foundation
8
Riepilogo
1. I Duchi di Savoia divennero Re di Sardegna nel 1720. Dopo il lungo periodo della dominazione iberica (secoli
XIV-XVII), l’isola entrava di nuovo nell’orbita di uno stato italiano.
La definizione della Sardegna come “pays miserable et depeuplé” data dal primo viceré sabaudo rispondeva,
purtroppo, alla realtà. Infestata dalla malaria, l’isola aveva, a inizio Settecento, una popolazione di c/a trecentomila
abitanti e scarse risorse economiche, basate sulla pastorizia e su un’agricoltura di sussistenza.
I primi trent’anni del dominio sabaudo (1720-1750 c/a) furono una fase di immobilismo, i pochi interventi
significativi non andarono oltre la repressione dei più gravi fenomeni di banditismo.
Sul piano istituzionale i Savoia conservano le forme del vecchio Regno di Sardegna, ma cessano di convocare il
Parlamento (un organismo rappresentativo dei ceti, affine a quelli di molti altri stati europei di ancien régime), che
venne “di fatto” abrogato, pur conservando un’esistenza nominale.
2. Pur in una concezione strettamente assolutistica del governo, nell’ultimo periodo del regno di Carlo Emanuele
III (1730-73), sotto il ministero del conte Gian Lorenzo Bogino (1759-73), venne avviata una fase di “riforme
dall’alto”, secondo lo stile del “dispotismo illuminato”.
Tra le altre cose venne riattivato un insegnamento di buon livello nelle due Università di Cagliari e Sassari
(all’epoca gravemente decadute), che contribuì a migliorare il grado di istruzione e di competenza delle élites locali.
Altri problemi riguardavano lo sviluppo economico. L’agricoltura sarda era condotta con metodi molto rudimentali.
La possibilità di renderla più produttiva era compromessa da un sistema di proprietà basato sull’alternanza di
coltivazione e pascolo, in un sistema di “campi aperti”, nel quale non esisteva la proprietà perfetta e ogni
appezzamento di terreno coltivabile era soggetto, dopo il raccolto, all’uso da parte della comunità (in particolare al
diritto di pascolo).
Un altro problema era quello della cronica povertà della classe contadina, che la metteva in balia dello strozzinaggio
dei “prinzipales” (benestanti) locali. Questi ultimi spesso richiedevano percentuali esorbitanti del raccolto in cambio
dell’anticipazione di quelle scorte di grano per la semina che il contadino non riusciva a mettere da parte, stretto in
condizioni di vita al limite della sussistenza.
Su tutto questo gravavano, inoltre, i tributi feudali. Secondo i calcoli dell’economista Giuseppe Cossu, l’insieme dei
tributi sui prodotti agricoli (decima ecclesiastica, donativo regio, tributi feudali) si aggirava attorno al 35% del prodotto
lordo.
Il problema della proprietà della terra e quello (strettamente connesso) dell’abolizione del feudalesimo erano però
difficili da affrontare, perché troppo compromessi con gli interessi delle classi aristocratiche.
Durante il ministero del Bogino, grazie soprattutto all’impegno del già citato Cossu, venne invece trovata una
soluzione abbastanza efficace al problema dell’usura con l’istituzione dei “monti frumentari”, delle istituzioni
comunitarie dalle quali i contadini potevano farsi anticipare le sementi a basso tasso di interesse.
3. Alla fine del Settecento il malessere della classe contadina si espresse in una serie di rivolte antifeudali, nelle
quali la popolazione di interi villaggi si rifiutava di versare i tributi (1789-93).
Su questa situazione di disagio irruppero i riflessi della Rivoluzione Francese. Nel Gennaio 1793 una flotta francese
tentò di occupare l’isola, bombardando Cagliari e tentando uno sbarco nella marina di Quartu.
Anziché dall’inetto e diffidente viceré Balbiano, la difesa dell’isola venne condotta dalle forze assoldate e dirette
dalla nobiltà locale, con grande coinvolgimento delle stesse classi popolari. I notabili Sardi sfidarono apertamente
gli ordini del viceré, autoconvocandosi nella forma del vecchio Parlamento sardo (Stamenti). In seguito al successo
nella difesa dell’isola, speravano nella gratitudine del Re Vittorio Amedeo III, al quale presentarono un organico
piano di ripristino delle autonomie del Regno, che implicava la regolare convocazione del suo organo
rappresentativo. Veniva richiesto, inoltre, il coinvolgimento attivo dell’élite locale nell’amministrazione e nel
governo (Le “Cinque Domande”, 13 Maggio 1793).
La risposta che ebbero fu deludente e creò malcontento.
In occasione di un’azione repressiva voluta dal Viceré Balbiano, la popolazione di Cagliari insorse (28 Aprile 1794)
ed espulse dall’isola tutti i funzionari piemontesi.
Pur confermando la lealtà al sovrano sabaudo, i sardi passarono ad una fase di autogoverno, nella quale ebbero un
ruolo preminente le rappresentanze riunite negli Stamenti.
Nella nuova situazione emergevano, però, i contrasti fra i diversi orientamenti dell’élite sarda, che era
inevitabilmente disomogenea, socialmente e ideologicamente.
Si andava da conservatori filosabaudi, a moderati (che non volevano procedere oltre la rivendicazione di qualche
spazio in più per l’élite sarda nell’apparato di governo), fino a gruppi aperti alle idee rivoluzionarie francesi, che
volevano procedere verso mutamenti più profondi. Alcuni di questi ultimi pensavano che la “rivoluzione sarda”
avrebbe dovuto far proprio quell’obiettivo antifeudale che tanto agitava le classi povere.
4. L’occasione per il radicalizzarsi della rivoluzione fu dato dalla recrudescenza delle rivolte contadine (1795), che
avevano il proprio epicentro nel sassarese.
9
Accadde, inoltre, che i notabili sassaresi, allarmati dal prevalere presso il governo di Cagliari delle tendenze
democratiche e dall’accentuarsi delle ribellioni contadine, proclamassero una sorta di secessione dal capoluogo,
cercando di fare della propria città il baluardo della tendenza controrivoluzionaria.
Da Cagliari vennero inviati a Sassari due eminenti “patrioti” (Francesco Cilocco e Gioachino Mundula, entrambi di
origine sassarese), appartenenti al circolo democratico (o “giacobino”, come si diceva allora) riunito attorno al
Giudice della Reale Udienza Don Giomaria Angioy. Sotto la loro guida, il 28 Dicembre ’95, Sassari veniva
assalita da migliaia di contadini in rivolta.
Da questo momento, però, il movimento democratico cagliaritano iniziò a mostrare chiare le proprie divergenze
interne. La gran parte dei suoi esponenti non voleva giungere ad una rottura così netta con l’ordine sociale esistente.
Il “giacobino” Angioy si trovava isolato nel suo radicalismo.
Gli Stamenti decisero di inviarlo a Sassari, ufficialmente con l’incarico di mettere ordine nella convulsa situazione,
ma in realtà con lo scopo di allontanare dal capoluogo una presenza che stava diventando ingombrante.
Angioy trasformò il suo viaggio verso Sassari in una vera e propria campagna antifeudale, che gli suscitò
numerosissimi consensi. Accolto trionfalmente dai Sassaresi (28 Febbraio ‘96), ritenne giunto il momento di
organizzare una vera e propria “marcia” verso Cagliari (2 Giugno), con obiettivi apertamente rivoluzionari: abolire
il feudalesimo, distaccare la Sardegna dal Piemonte e proclamare la repubblica.
Gli Stamenti reagirono dichiarandolo fuorilegge.
Dopo alcuni scontri di minore entità, il 10 Giugno le truppe rivoluzionarie di Angioy furono sconfitte e sbandate ad
Oristano dalle milizie inviate da Cagliari. Angioy fuggì verso Sassari e si imbarcò per la Francia.
La sconfitta dell’Angioy segnò la fine del movimento eversivo contadino e anche l’inizio della restaurazione
dell’autorità piemontese. Assieme al movimento antifeudale si andava esaurendo anche il movimento antisabaudo.
5. Il 3 Marzo 1799 giungeva a Cagliari il re Carlo Emanuele IV (1796-1802), costretto ad abbandonare il Piemonte
dopo la conquista francese (Dicembre 1798). La corte si stabilì nel Palazzo Viceregio, e vi rimase fino alla caduta di
Napoleone ed alla Restaurazione (1815).
È nel periodo immediatamente successivo che vennero affrontati gli annosi problemi dell’assetto delle terre
dell’isola.
È nel 1820, durante il regno di Carlo Felice, che si arrivò a un “editto sopra le chiudende”, per il quale i
privati erano autorizzati a recintare i terreni di proprietà, sottraendoli all’uso collettivo.
Pur avendo fra i suoi obiettivi teorici anche quello di favorire e garantire la piccola proprietà contadina, in
genere la privatizzazione delle terre favorì soprattutto i ceti già benestanti, che poterono avvalersi anche dei
poteri che detenevano nelle amministrazioni, negli uffici e negli appalti pubblici, oltre che del loro predominio
sociale, per accaparrarsi larga parte delle proprietà.
Sotto il regno di Carlo Alberto (1831-49) si portò a termine l’eliminazione del sistema feudale (1836).
Vi era ormai la consapevolezza che il regime feudale impediva lo sviluppo economico dell’isola e la necessità
di non presentarsi agli occhi dell’Europa come l’unico Stato ad avere conservato una simile struttura.
Carlo Alberto scelse la via della contrattazione con i singoli feudatari e del riscatto dei loro diritti feudali,
dietro pagamento da parte dello Stato di una somma equivalente al valore dei diritti stessi.
Tale somma era addebitata ai comuni, che a loro volta la distribuivano a tutti gli abitanti. In sostanza tutto il
peso economico ricadeva sulle popolazioni locali, costrette a pagare a caro prezzo la loro liberazione.
Un’altra svolta maturò negli anni 40 e si concluse nel 1848 con la fine del “regnum Sardiniae" e la perdita
dell’autonomia.
La maggioranza delle classi dirigenti sarde chiese la completa unione legislativa con i domini continentali del
Re di Sardegna. Ciò implicava l’abolizione di tutta la legislazione autonoma del “Regnum Sardiniae”, e dei
suoi organi amministrativi e rappresentativi (gli Stamenti, che – almeno sulla carta – esistevano ancora).
Ispirata alla volontà di partecipare al processo di riforme che si andava profilando all’epoca nel Piemonte di
Carlo Alberto, la “fusione perfetta” con il Piemonte non diede i risultati auspicati e lasciò un senso di profonda
delusione in coloro che ne erano stati promotori.
Salvatore Murgia
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