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STORIA MEDIEVALE

MARTEDI’ 15 FEBBRAIO

Il professore vorrebbe organizzare un’uscita a Verona

Saggio introduttivo di Giuseppe Sergi “idea di medioevo” discute del modo in cui il medioevo è
stato percepito in passato. Può essere lettura iniziale prima di a rontare il manuale. E poi seconda
lettura dopo aver studiato il manuale.

L’esame si avvia con la discussione di questo saggio.

Esame dialogato in cui ci aiuta a esprimere il nostro pensiero, colloquio in cui dobbiamo
esprimere la nostra percezione della storia medievale.

Manuale di Giovanni Vitolo “Medioevo e caratteri originari di periodo di transizione”, ha struttura


tradizionale

“Manuale di storia medievale” di Andrea Zorzi

“introduzione alla storia medievale” Albertoni, Collarini, Lazzari

Bordone e Sergi “dieci secoli di medioevo” testo tto e concettuale, più interessato alle logiche di
potere all’interno delle società.

3 appelli in estate e 1 in autunno, verbalizza il prof della parte introduttiva.

Testi per i non frequentanti: le donne nell’Alto Medioevo Lazzari; castelli medievali A. Settia.

Alla parola storia sono associati più signi cati

Il primo fa riferimento alla totalità dei fatti avvenuti

Fa riferimento alla disciplina di studio e ricerca

Il senso comune de nisce storia come tutto quello che ci siamo lasciati alle spalle, esso non
costituisce di per sé un errore. Guardare verso il nostro passato ci aiuta a riconoscere e ritrovare
elementi comuni.

Il secondo signi cato di storia possiede una precisa epistemologia: branca della loso a che si
occupa delle condizioni sotto le quali si può avere conoscenza scienti ca e dei metodi per
raggiungere tale conoscenza. Questa disciplina ha strumenti di lavoro e metodi.

Il passato non può essere separato dal fatto che esiste anche una interpretazione dello stesso.

Qualcuno ha proposto di dividere in maniera netta i due signi cati indicando storia come l’intero
passato e storiogra a come la scienza che se ne occupa.

La storia secondo Bloch è “la più di cile di tutte le scienze” perché si tratta della “scienza degli
uomini nel tempo”. “Il materiale di studio colto sia come singolo individuo sia nel suo agire
all’interno delle aggregazioni che lo contengono”. Il principio fondamentale di questa scienza è
quello della dimensione temporale, dello scorrere.

Dove troviamo la storia? Storia è l’insieme di quanto gli storici hanno scritto, seguendo il metodo
e gli strumenti che sono propri della disciplina. Tutta la produzione storiogra ca è storia ciò che
cambia è il livello di specialismo.

MERCOLEDI’ 16 FEBBRAIO

Note a pie di pagina/para testo = possibilità data a chiunque di veri care attraverso una fonte
quello che stiamo dicendo.

Secondo Bloch è auspicabile che ogni buon libro di storia presenti un resoconto del percorso di
ricerca seguito che parta dalle domande iniziali e dalle ipotesi formulate per arrivare a descrivere il
tipo di lavoro svolto sulle fonti.

La storia come forma di conoscenza non è solo tra le più antiche e le più alte, ma è una delle più
autentiche espressioni dell’ingegno e della creatività umana.

La storia è qualitativamente più diversa dalle scienze che possono appoggiare i loro risultati sulla
veri ca sperimentale.

• La storia è oggettiva o soggettiva? Per la grande storiogra a tedesca ottocentesca il senso dei
fatti storici era contenuto nei fatti stessi e il compito dello storico è semplicemente quello di
descriverli. Le correnti più polemiche del novecento hanno invece rovesciato questa
concezione, sostenendo che i dati che lo storico utilizza non esistono indipendentemente dal
metodo che egli adotta per raccoglierli e dalle teorie che utilizza per interpretarli. Inoltre il
fenomeno storico esiste solo nel momento in cui lo storico va a cercarlo. Sul complesso
argomento dell'oggettività della disciplina si è giunti ad alcuni punti fermi. Lo storico deve
perseguire non tanto una improbabile e teoretica oggettività della storia, quanto una semplice
ma concreta obiettività intellettuale. Si deve perciò operare secondo l’onesta sottomissione alla
verità che consiste nel seguire un rigoroso metodo lologico e documentale, nel presentare
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risultati fondati sulle fonti, esposti in modo aperto e veri cabile, indicando chiaramente gli
elementi a sostegno della propria tesi, ri utando schemi e teorie pregiudiziali che risultano in
contraddizione con l’evidenza fornita dai documenti. Una volta attenuti a questi principi è giusto
e legittimo che lo storico non escluda dal proprio lavoro le sue idee, la sua passione intellettuale
e civile e per no le sue emozioni: deve tuttavia farne un uso quanto più si può esplicito e
riconoscibile.

Lo storico è tenuto ad interpretare i documenti.

La prima nalità della storia è quella di conservare una memoria consapevole.

La storia rende leggibile in termini razionali l’esperienza umana nel tempo.

Conoscere il proprio passato e avere coscienza del cammino delle generazioni che ci hanno
preceduto è una delle condizioni indispensabili per formare dei cittadini consapevoli e
indipendenti.

Il principale valore formativo dello studio della storia è proprio questo: l’educazione alla
problematicità.

Una delle principali acquisizioni della storiogra a novecentesca consiste nel fatto che la storia
deve interessarsi a tutte le dimensioni dell’agire umano.

Prima di spiegare i singoli fenomeni lo storico deve inserirli nel loro contesto.

La storia educa a comprendere prima di giudicare a voler conoscere prima di ritenere di sapere.

La nalità ultima è la comprensione del lungo percorso compiuto dall’uomo nel tempo, al ne di
rendere meglio intelligibile lo stesso presente.

Lo storico è in realtà mediatore attivo tra il passato e il presente degli uomini.

I fondamenti della disciplina storica

Il tempo e lo spazio

I concetti fondamentali per l’avviamento agli studi storici e per un approccio corretto alla
disciplina sono:

- Successione

- Simultaneità

- Durata

- Ordine temporale

Lo sviluppo di queste capacità è fondamentale.

La storia conosce solo la dimensione lineare e sequenziale, caratterizzata dal prima e dal dopo
secondo un tempo rettilineo.

Bloch sosteneva che la categoria della durata può essere intesa come: “La forza di inerzia che
tiene ancorata una data società alle caratteristiche che la identi cano come tale”.

Le forze di inerzia sono sempre molto importanti, oggetto di interpretazione storica: tradizioni e
istituti che svolgono oggettive funzioni conservatrici, così come tutte quelle forme identitarie che
consentono ad una data società di continuare a riconoscersi come tale.

Ogni società umana è attraversata da un perenne stato di instabilità, a uno stato che è costitutivo
dei suoi componenti, che continuano a cambiare a causa del ciclo biologico della vita e della
morte.

Allo storico spetta il compito di individuare nel tessuto del divenire i nodi essenziali: i mutamenti
che di volta in volta appaiono fondamentali, gli aspetti di continuità e di discontinuità con le fasi
precedenti.

Transizione = alcuni assetti di una società mutano in profondità

Rivoluzione = quando tali trasformazioni avvengono con particolare velocità

Solo alcuni passaggi radicali nella storia europea possono essere de niti come rivoluzioni:

Il passaggio che 10000 anni fa portò dalla caccia e raccolta allo stile di vita basato sulla
produzione del cibo.

Reazione = si indica ogni comportamento collettivo che tende a far regredire la società ad uno
stadio che appare già superato (es congresso di Vienna).

La proposta di Braudel sulla storia: nell’introduzione del libro “Civiltà e imperi del mediterraneo
nell’età di Filippo II” egli spiegò di avere diviso il suo lavoro in tre arti distinte, corrispondenti a tre
di erenti scansioni del tempo storico:

1. Una storia quasi immobile, quella dell’uomo nei suoi rapporti con l’ambiente

2. Una storia tradizionale in rapporto con l’individuo che coincide con la storia fattuale

3. Una storia sociale

Egli non nega il fascino degli avvenimenti politici e militari che più colpiscono l’immaginario
collettivo.

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Uno dei compiti dello storico è quello di collocare con precisione i fenomeni sulla scala temporale.

Non può esistere opera storiogra ca senza datazione, né può lo studioso rimanere lontano dalla
dimensione fondante del tempo storico.

La cronologia è un insieme coerente di date riferite ad un determinato oggetto di studio. La


costruzione di una cronologia è il frutto di una scelta e di una interpretazione che necessita dio
una selezione preliminare degli eventi essenziali.

Meglio sarebbe individuare alcune date fondamentali, selezionarle.

Sarebbe utile crearsi delle griglie cronologiche personalizzate che rispecchino gli interessi propri.

Il lavoro di periodizzare è un momento fondamentale.

Periodizzare signi ca attuare una operazione di carattere interpretativo, ha anche valore


persuasivo e perciò un arti cio retorico che trasmette la visione sintetica di un determinato
processo storico nel suo complesso.

Esistono periodizzazioni di tipo convenzionale che sono generalmente accettate.

I VARI APPROCCI INTERPRETATIVI

L’alto medioevo è stato più volte oggetto di cattive interpretazioni, cadendo vittima di due grandi
narrazioni che hanno avuto notevole importanza nel corso dei due secoli passati e che hanno
depositato e tramandato una falsa immagine di questo periodo: il nazionalismo e la modernità.

Cosa intendiamo con questi due elementi in qualche modo fuorvianti?

La storia dell’alto medioevo è posta tradizionalmente alle origini di molti stati nazionali europei sia
in modo autentico, sia come elemento mitico.

L’alto medioevo diviene quindi parte di una teologia secondo la quale gli eventi avvengono in
funzione di un ne o scopo.

La lettura della storia in termini di “inevitabili conseguenze” è così piegata a dimostrare come ogni
comunità, nazione sia la migliore.

L’Europa non è nata nel medioevo e non è esistita una identità comune intorno all’anno 1000 per
l’area che va dalla Spagna alla Russia, dall’Irlanda all’Impero bizantino, fatta eccezione per un
debole senso di comunanza.

Le identità di carattere nazionale, verso l’anno mille, non erano neppure abbozzate; se lo erano, lo
erano appena in parte.

Le barriere geogra che di carattere naturale hanno aiutato a creare una sorta di identità comune.

Impero Bizantino era ben sviluppato dal 400 no all’anno 1000, al contrario Francia Germania e
Spagna non potevano vantare tale evoluzione; una possibile evoluzione è forse possibile
ipotizzarla per la Danimarca; i territori slavi furono troppo incoerenti per sviluppare una qualche
identità speci ca legata a una qualche dinastia regnante.

L’alto medio è stato anche caratterizzato da narrazioni che collocano sul medioevo all’interno
delle grandi narrazioni della modernità.

La tipologica narrazione pone la storia medievale nel mezzo a ciò che viene prima e a ciò che
segue. Per quanto riguarda questo aspetto dobbiamo tenere conto che sono stati gli umanisti.

Ci sono due elementi di cambiamento:

Il primo riguarda le generazioni successive agli umanisti che già durante il tardo XVII secolo hanno
voluto di volta in volta rivendicare per sé stessi il concetto di modernità, addirittura contestando il
livello culturale raggiunto durante il rinascimento stesso.

Dall’altra parte gli storici hanno lavorato nel corso del secolo scorso per cercare di salvare quanto
meno i secoli centrali del medioevo dall’acqua di costituire una sorta di obbrobrio storico.

Hanno quindi provato a salvare i secoli del medioevo.

Il risultato di questi due sviluppi di erenti ha portato alla visione deformante di un millennio di
storia, dall’anno mille circa no ai giorni nostri, basato su successioni continue e collegate tra loro
di progressi e di cambiamento verso la modernità.

Ancora ad oggi le conquiste del mondo classico risultano quasi come delle luci che risplendono e
che illuminano i secoli bui, caratterizzati dalla barbarie che avrete contrassegnato l’alto medioevo.

La caduta dell’impero romano D’Occidente nel V secolo è vista come un fallimento primordiale
che ignora la prosecuzione dell’esperienza orientale.

GIOVEDI’ 17 FEBBRAIO

A partire dagli anni 70 gli storici hanno intrapreso una svolta che ha visto gruppi di studiosi
intraprendere l’alto medioevo.

Vengono meno anche una serie di mode storiogra che che dipendevano da intenti moralizzatori e
che indicavano nel periodo compreso tra il 400-500 d.c e l’anno mille un periodo “inferiore”.

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Era sempre e comunque un periodo oscuro (Dark Ages) indi erentemente si decidesse di far
dipendere la caduta dell’impero romano d’occidente da una debolezza interna, dall’attacco
esterno o da entrambi i fattori.

La caduta dell’impero romano d’occidente rimaneva sempre un fattore negativo, un trauma dal
quale l’Europa e le società del mediteranno avrebbero impiegato secoli per risollevarsi.

Questa ripresa sarebbe avvenuta per qualcuno con l’età di Carlo Magno (re dal 768 e imperatore
dall’800 all’814), oppure per altri con l’espansione economica e con la riforma religiosa dell’XI
secolo.

In questa temperie culturale la sopravvivenza a est di un impero orientale era scarsamente


enfatizzata, mentre i miti generativi delle nazioni, collocati per la maggior parte nell’alto medioevo,
sopravvivevano indiscussi.

Tutto questo è cambiato o sta cambiando; l’alto medioevo oggi è studiato da numerosi storici e
con diverse iniziative si vuole promuovere una indagine più approfondita di questo arco
cronologico consistente.

(In Inghilterra la presenza negli anni ’70 ad Oxford di personaggi del calibro di Peter Brown e di
Michael Wallace-Hadrill, e di Walter Ullmaman a Cambridge hanno cambiato profondamente il
panorama degli studi.)

(In Italia personaggi come Giovanni Tabacco a Torino, Cinzio Violante a Milano hanno contribuito a
di ondere l’interesse e a moltiplicare gli sforzi per indagare questo periodo non solo all’interno di
questi contesti di eccellenza.)

Si è passati dallo studio dei siti cimiteriali e dagli oggetti in metallo, agli argomenti di quella che è
de nita la nuova archeologia che per l’appunto dagli anni ’80 del secolo scorso si occupa
principalmente delle relazioni spaziali e dei sistemi economici e di cultura materiale, e che hanno
portato ad un più stretto dialogo con l’analisi storica e con l’analisi dei documenti.

In tutti i paesi dell’occidente quindi si sono moltiplicati i gruppi di ricerca che si sono preoccupati
di fare piazza pulita di tutta quella serie di pregiudizi di cui abbiamo parlato.

Dagli anni ’70 del secolo scorso si sono moltiplicate le cattedre di archeologia medievale che
prima non esistevano neppure se non in alcune aree ristrette d’Europa.

Oggi il quadro e le competenze scienti che in questo settore si sono complicate e moltiplicate.

La ricerca è diventata sempre più internazionale.

Il panorama oggi è più internazionale rispetto al passato.

Vi è una nuova riconsiderazione che considera all’interno del mondo romano un culmine culturale
e politico intorno al IV secolo, e non più quindi tradizionalmente nel II secolo d.c, quello cioè
caratterizzato dalla cosiddetta pax romana.

Questo perché la violenza dei barbari è stata riconosciuta come un topos narrativo, mentre ai
barbari stessi è stata riconosciuta una capacità di muoversi in un mondo ancora fortemente
romanizzato, cioè ricco di valori romani.

Il VII secolo spesso visto in relazione all’occidente come momento buio, si è scoperto avere di
fatto tramandato il più elevato numero di testi classici rispetto a qualsiasi altro periodo, indicando
che tra il V e VI secolo non ci fu un declino netto della tradizione classica e della cultura scritta.

Gli storici sono molto più inclini a dare credito alle tesi catastro ste rispetto a quelle continuiste e
più divergono con le posizioni degli archeologi.

Solo alcune province dell’impero a oriente (Siria, Palestina e Egitto) smentiscono questo quadro
fosco.

La s da tuttora è provare ad armonizzare i dati archeologici con quelli storici.

Talvolta abbiamo poche fonti a disposizione per scrivere la storia dell’alto medioevo.

Le grandi narrazione sono un punto di partenza assai importante; è il caso della Historia
Francorum di Gregorio, vescovo di Tours e proveniente da una famiglia senatoriale gallo-romana,
Gregorio fu infatti anche autore di tutta una serie di vite di santi (di genere agiogra co e
moralizzatore). L’intento di Gregorio è moralizzatore e che quindi molti avvenimenti da lui introdotti
nella narrazione potrebbero essere stati inventati per rendere più e cace questo suo intento.

Anche le fonti legislative presentano problemi di natura simile; le leggi infatti non descrivono quasi
mai come si comporta la popolazione, quanto piuttosto l’indirizzo dato al legislatore rispetto ad
una popolazione.

Eppure no a qualche decennio fa le fonti legislative venivano lette con tutt’altra consapevolezza
dagli storici, specie da quelli del diritto. Oltre altre fonti alto medievale possono essere analizzate
e criticate allo stesso modo. Costituiscono una sorta di eccezione le fonti di carattere legalistico
che per la maggior parte dei casi sono incentrate intorno al possesso e al controllo della terra.
Ovviamente anche all’intento delle carte private che tramandano questo tipo di atti ci possono
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essere intenzioni dissimulate (ad esempio si stillavano dei documenti di vendita della terra per
dissimulare il prestito di denaro che la legislazione ecclesiastica condannava in modo assoluto).

Abbiamo a che fare con realtà limitate all’intento di un contesto europeo che dipende da ricchi o
meno depositi documentali presso le varie istituzioni ecclesiastiche che li hanno conservati.

Nel medioevo e alto medioevo la maggior parte del materiale che ad oggi possiamo rinvenire lo
troviamo in archivi di natura ecclesiastica.

Si utilizzavano pergamene, tavolette.

Per essere e cace, l’analisi delle carte private deve essere condotta su di un campione
signi cativo, e ciò nel contesto europeo è raramente possibile. Allo stesso modo le fonti
archeologiche possono essere particolarmente ricche e illuminare quei contesti che normalmente
le fonti scritte non evidenziano, soprattutto le culture materiali.

MARTEDI’ 22 FEBBRAIO

Verso la ne dell’impero d’Occidente. Il paradigma storico-culturale delle popolazioni


“germaniche”.

All’interno del modo in cui sono stati descritti i sistemi di interazione tra mondo romanico e
germanico stanno tutta una serie di istanze a carattere politico che hanno in uenzato il nostro
modo di approcciare il problema.

POPOLAZIONI IN MOVIMENTO

• Gli spostamenti delle popolazioni nomadi erano stati inibiti dagli sforzi dei grandi imperi, che
avevano cercato di segnare la fascia occupata dai sedentari da quella occupata dai nomadi
attraverso degli ostacoli di natura militare

• Per difendersi dalle aggressioni provenienti dall’attuale mongolia, ad esempio, l’impero cinese
aveva eretto a partire dal III secolo a.C la grande muraglia per migliaia di chilometri lungo il limite
settentrionale del paese.

• Analogamente l’impero romano aveva costruito nel corso del I secolo d.C il cosiddetto Limes:
un sistema di fossati, palizzate, torri, fortezze e accampamenti che doveva difendere i con ni
centro-settentrionali dalle popolazioni insediate oltre questo limite

• Erano sistemi difensivi in grado di arginare, ma non di impedire le pressioni demogra che delle
popolazioni insediate oltre i con ni.

• Quando le pressioni demogra che si fecero più consistenti, le barriere caddero sia in Cina
(intorno al IV secolo d.C), sia nell’occidente latino.

• I protagonisti di queste spinte furono popolazioni unniche che spinsero dall’Asia centrale verso
Occidente a determinare i grandi rivolgimenti degli assetti insediativi nell’Europa continentale

• La spinta determinata dagli Unni sulle popolazioni germaniche fu forte, infatti, già a partire dal IV
secolo; in particolare fu cruciale la pressione esercitata dagli spostamenti Unni dall’asta verso le
steppe della Russia meridionale (intorno alla metà del IV secolo)

• I territori sui quali si esercitò la pressione delle popolazioni unniche erano però già insediati da
altre popolazioni, che la tradizione storiogra ca ci indica come i Sarmati per quanto riguarda i
territori a est del ume Don, e i Goti a ovest del medesimo ume. Questi ultimi erano a loro volta
suddivisi in Ostrogoti (o goti dell’est), stanziati cioè tra il basso Don e il Dniestr, e i Visigoti (o goti
dell’ovest), tra il basso Dniestr e il Danubio.

• In seguito alle pressioni unne, quindi, si misero in modo una serie di altre popolazioni (Alani,
Vandali, Svevi).

• Particolarmente importanti per le sorti dell’impero furono le vicende che riguardano gli
spostamenti dei Visigoti, che scon ssero l’esercito imperiale nella battaglia di Andrianopoli del
378 e che uccisero l’imperatore Valente (si occupa della parte orientale, ha orientamento lo-
ariano). Egli raggiunge un accordo con i Visigoti i quali premono sul Danubio e chiedono di poter
essere accolti all’interno dei territori del Danubio stesso. Il tutto viene gestito in maniera
improvvida, abbiamo i racconti da Amiano Marcellino il quale scriverà anche della battaglia di
Andrianopoli. La cattiva gestione di questo trasferimento di un gruppo in particolare di visigoti
all’interno dei territori dell’impero, declina poi in maniera negativa tanto che questi gruppi,
inizialmente insediati perché nella prospettiva imperiale signi cava assicurarsi la produttività,
vengono accolti male, hanno una serie di opposizioni a livello locale. Viene gestita male anche
dai comandanti i quali arretrano rispetto all’area dove si espandono questi visigoti, arretrano
superando l’area occupata dai rilievi montuosi verso Andrianopoli. Questo gruppo di visigoti si
espande e saccheggia territori e vedono raggiunti da altri gruppi di visigoti e alani. Grande ruolo
la cavalleria e che sbaraglia in una battaglia campale l’esercito romano (che aveva il suo forte
nella fanteria). L’imperatore ferito si rifugia in una tenda, la tenda va a fuoco e morirà. Succederà
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Teodosio, il quale emana un editto in cui cerca di paci care un territorio che aveva subito questo
forte impatto anni prima con i Visigoti.

• Di fronte alla spinta di queste popolazioni, le strutture difensive dell’impero furono costrette a
cedere e dovettero essere trovare di volta in volta formule di erenti per insediare e tentare di
armonizzare i nuovi venuti all’interno dei territori imperiali.

• Questi grandi spostamenti sono stati tradizionalmente de niti, secondo una visione catastro sta
e razzista, non solo come “invasioni”, ma come invasioni “barbariche”, mutando il termine dalla
“civilissima” società greca ellenistica.

• È più corretto riferirsi a questi fenomeni di mobilità di individui, di gruppi di individui o di numeri
consistenti di popolazioni, con il termine di “grandi migrazioni” o di “grandi migrazioni di popoli”

• Invasioni barbariche o migrazioni di popoli? È chiaramente un problema di prospettiva e di


agenda politica, oltre che di interpretazione storica

• La storiogra a tedesca, ad esempio, ha rintracciato nelle popolazioni de nite come


“germaniche” l’origine della propria nazione; ha perciò de nito con accezione positiva questo
momento, de nendolo come un’età di movimento di popoli de niti letteralmente
Volkerwanderung e Volkerwanderungszeit

• La tradizione italiana che ha a lungo cercato di creare le basi di un’identità nazionale


contemporanea oltre che sul Risorgimento, sul passato glorioso di Roma, ha rintracciato invece
nell’elemento germanico e negli spostamenti di popolazioni i fattori distruttivi che hanno causato
la ne della storia di Roma imperiale

• Il fenomeno delle migrazioni di individui e di popolazioni è stato perciò etichettato come


“invasione di massa”, che ha messo ne ad una civiltà e ha lasciato spazio all’elemento
barbarico

• Per procedere alla descrizione dell’ambiente culturale che a partire dall’Ottocento ha


caratterizzato l’età delle migrazioni della tarda antichità e la caduta dell’impero romano
d’occidente nei modi che abbiamo descritto sopra, abbiamo bisogno di fare alcuni passi
indietro e ripercorrere alcune tappe della produzione storiogra ca

• La storiogra a ottocentesca ha proposto la fusione di tre temi già ampiamente a rontati a


partire della metà dell’Ottocento:

- La ne del mondo romano e le cosiddette “invasioni barbariche”

- L’economia altomedievale

- L’agiogra a

NAZIONI E NAZIONALISMO

• Le esigenze di contribuire alla costruzione delle nazioni moderne diedero vita a discorsi di
natura storica di stampo nazionalistico

• Il nazionalismo divenne un programma politico che, promosso in una prima fase degli
intellettuali e in seguito di uso tra le masse, segnò profondamente la storia mondiale a partire
dal XIX secolo.

• Al cosmopolitismo illuminista sostituì le idee di nazione, di popolo, di identità e di appartenenza


con due conseguenze fondamentali:

- Accelero lo sgretolarsi dei grandi imperi dell’Europa centrale e balcanica

- Favorì la nascita di nuovi stati nazionali

• I processi attraverso i quali le diverse idee Tito nazionali si formarono e vennero promosse variò
da zona a zona, da caso a caso.

• I diversi stati promossero campagne informative ed elaborarono programmi scolastici nalizzati


alla di usione della cultura del nazionalismo

• Il ne ultimo fu quello di propagandare l’idea che le genti insediate entro gli stessi con ni
nazionali costituivano popoli etnicamente coesi in quanto condividevano la stessa storia, lingua
e cultura

• La storia e l’archeologia assunsero un importante suolo sia nella legittimazione dei nuovi stati,
sia nell’elaborazione della nozione di popolo etnicamente connotato e diverso dagli altri.

• Ciò avvenne attraverso la creazione di miti delle origini che preservavano le antiche civiltà quali
anticipatrici dei moderni popoli e delle moderne nazioni

• In questa temperie culturale furono fondati i primi grandi musei e le prima grandi raccolte
nazionali:

- Il British Museum nel 1752

- Il Louvre nel 1793

- Museo nazionale del bargello a Firenze, istituito per regio decreto il 22 giugno 1865

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• La ricerca storica, quella lologica e quella archeologica, che no ad allora erano state materia
di interesse quali esclusivamente per eruditi o collezionisti, divennero progressivamente delle
discipline istituzionalizzate

• Promosse dagli stati stessi, esse iniziarono ad essere trattate e considerate come vere e proprie
materie scienti che, dotandosi di uno statuto e di una corporazione professionalizzata che
viveva cioè esclusivamente del proprio mestiere

LA FINE DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE E L’IMPATTO DEI “BARBARI”

• La storiogra a di stampo nazionalista si pose essenzialmente le seguenti domande, che


rispondevano a delle concrete esigenze di natura politica:

- Chi sono gli antenati delle Nazioni del presente?

- Quali ne erano le caratteristiche culturali?

• Le risposte irono declinate diversamente, a seconda cioè del punto di vista e degli interessi
nazionali speci ci

• L’alto medioevo, de nito come periodo “delle grandi migrazioni”, cominciò ad essere
rappresentato come il momento cruciale in cui furono fondati gli stati nazionali dell’Europa
Occidentale

• Le diverse gentes che avevano invaso l’impero romano d’Occidente furono perciò presentate
come etnicamente coese, ciascuna portatrice in se di una cultura distinta che avrebbe dato
origine a sua volta, e con poche, insigni canti varianti, ai popoli moderni

• Il loro stanziamento entro il Times romano portò alla fondazione dei regni romano barbarici che,
sostituendosi all’organizzazione imperiale romana, gettarono le base dei moderni stati nazionali

• Lo stato nazionale, sorto dalla sintesi tra l’elemento romano e quello barbarico, rivendicava la
propria nobiltà da entrambi gli elementi culturali, ponendo l’accento sull’uno o sull’altro
elemento a seconda degli interessi politici in gioco

• L’ipotesi di una corrispondenza tra regno romano-barbarico e stato nazionale era supportata dal
fatto che alcuni dei nomi di questi antichi popoli, quali per esempio i Germani, Franchi, Anglo
Sassoni hanno dato e ettivamente origine al nome di nazioni e di popolazioni rintracciabili

LA GERMANIA E L’EUROPA

• Vi fu una volontà forte di sottolineare il ruolo svolto dall’irruzione dei barbari nel segnare la ne
del mondo antico e il crollo dell’impero

• “le invasioni germaniche che portarono alla sotruzoione del acco impero romano furono terre
come il ri esso di una inesorabile bisogno di azione e avventura” lo scrisse Karl Theodor
Strasser nel 1933

• Si a ermò quindi il concetto che l’Europa si sarebbe costituita nei suoi elementi essenziali
durante il medioevo

• Il medioevo quindi sarebbe germanico e l’Europa stessa sarebbe stata di conseguenza una
costruzione germanica

• Si procedette quindi a individuare una cultura germanica delle origini, i cui tratti distintivi furono
desunti da Tacito e dalla sua Germania, o meglio De Origine et Situ Germanorum. Le
caratteristiche principali sono: egualitarismo sociale, presenza di uomini guerrieri, donne caste e
valorose, mancanza di proprietà privata

• I popoli stanziati all’interno dei con ni tedeschi, in ne, furono contraddistinti da tratti culturali
comuni, che costituirono la base culturale degli abitanti della Germania contemporanea

• La selezione di un passato comune glorioso permetteva di legittimare l’esistenza della nazione,


la coesione e l’autenticità delle genti comprese al suo interno e la loro de nizione come gruppi
etnici. Questo processo in uenzò non soltanto la selezione e la lettura del passato ma anche i
metodi di indagine elaborati per disvelare il passato nazionale

L’OTTOCENTO NAZIONALE E ROMANTICO

• Alcuni intellettuali giocarono un ruolo fondamentale in questo processo, procedendo ad


esempio alla raccolta e alla successiva edizione di tutta una serie di testi originali che dessero
testimonianza della natura del popolo tedesco in epoca medievale

• Jacob e Wilhelm Grimm: abe (1812-1822)

• Saghe germaniche

• Nell’area prussiana nasce “I monumenta Germania Historica” fondati dal riformista prussiano
Heinrich Friedrich Karl Reichsfreiherr.

• “il villaggio comunitario” proposto da Ludwig Von Maurer, propone l’idea che esiste un villaggio
in cui in queste comunità condividono risorse e non perseguono la proprietà privata

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• Karl Lamprecht, docente di università di Marburg e di Leipzig, ha insistito molto sulla psicologia,
attribuendo alla storia la caratteristica di psicologia applicata, e usando criteri psicologici come
criteri di spiegazione casuale. Ha avuto il merito di far valere una concezione della storia come
Kulturgeschichte, come storia cioè di epoche di civiltà.

GERMANIA, EUROPA, ARCHEOLOGIA

• Il metodo di procedere secondo l’impostazione nazionalista è particolarmente chiaro nel caso


della ricerca archeologia

• Esso si fondava un metodo di studio e un’interpretazione dei manufatti volta a identi care,
attraverso gli stili, le forme e le tecniche produttive i diversi Milieu culturali che venivano attribuiti
ai diversi popoli menzionati delle fonti scritte e presentati come delle entità etnicamente distinte

• Il metodo di ricerca, chiamato paradigma storico-culturale si basava: sul presupposto che ogni
popolo antico avesse prodotto culture materiali uniformi per tecniche, forme e stili, che a loro
volta si di erenziano da quelle prodotte da altri gruppi, in base a una conscia volontà di
distinzione etnica

• Ogni gruppo etnico era ritenuto conservatore e poco incline alle innovazioni, per tutte le
informazioni nella produzione materiale entro uno stesso territorio erano spiegate come il
risultato di processi migratori su larga scala di genti portatrici di una particolare e nuova cultura

• Si riteneva inoltre che i popoli più progrediti tendessero ad occupare aree caratterizzate da una
cultura più arretrata e vi imponessero la propria. Fu così possibile individuare la cultura materiale
di diversi popoli antichi e studiare i processi di colonizzazione da parte dei gruppi più evoluti

• Gustav Kossinna introdusse nello studio della cultura materiale antica le nozioni di con ne, di
omogeneità e di continuità nell’espressione culturale. Queste tre nozioni fondative del
paradigma storico culturale erano state estrapolate dal concetto di eticità, tipico del
nazionalismo novecentesco. L’approccio storico culturale du applicato da Kossinna nelle sue
ricerche archeologiche in Polonia, dove scavò diversi reperti preistorici. Fu in grado di
individuare una tipica ceramiche slava, grezza che si di erenziava da quella prodotta dai
germani -> fossero portatori di civiltà in quanto decisamente più progrediti.

• Fu Giulio cesare il primo a introdurre il termine di Germani per designare le popolazioni stanziate
al di la del Reno. In precedenza i romani distinguevano tra la massa dei barbari due soli gruppi,
quello dei Celti e degli Sciti

• Nella tarda antichità il termine di Germani perse valore a mano a mano che comparvero nuove
de nizioni più circostanziate

MERCOLEDI’ 23 FEBBRAIO

GERMANIA, EUROPA, ARCHEOLOGIA

• Sulla scia del successo di Kossinna vennero avviati due programmi nazionali di ricerca:
Ostforschung e Westforschung. Lo scopo fu quello di mettere in luce i ritrovamenti archeologici
attribuibili agli antichi Germani. Questi studi divennero estremamente funzionali per la
legittimazione della politica espansionistica promossa dai Nazisti

• Kossina aveva applicato tale metodo all’interpretazione degli insediamenti preistorici emersi
oltre il con ne orientale

IN FRANCIA: FRANZ PETRI

• Fu in particolare Franz Petri, attivo nei territori dell’antica Gallia settentrionale, che interpretò i
cimiteri a le/righe altomedievali, di usi in quelle zone, come espressione tipica della cultura dei
Germani. Spesso sono sepolture di tipo privilegiato

• Hitler, dopo aver letto il libro di Petri, dichiarò nel 1942 che “quelle sono antiche terre tedesche e
che dovevano tornare alla loro proprietà”

IN SPAGNA: HANS ZEISS

• Approfondì la possibilità di individuare i visigoti in Spagna attraverso i ritrovamenti delle


necropoli, in particolare attraverso alcuni speci ci elementi di corredo, ritenuti caratteristici del
costume tradizionale dei Germani, ma non condiviso dai Romani

• Per identi care i diversi gruppi etnici attraverso lo studio dei corredi tombali si utilizzò un
concetto molto di uso allora negli studi sul folklore, sviluppati nella seconda metà
dell’ottocento: vale a dire il concetto di Tracht (=costume tradizionale).

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• Gli studiosi del folklore collezionarono gli abiti tradizionali delle diverse comunità rurali, queste
ultime glori cate in quanto conservatrici delle antiche usanze.

• Tra i ritrovamenti funerari della Spagna, Zeiss individuò, quali elementi caratteristici del costume
tradizionale dei visigoti le bule che erano frequentemente deposte nelle tombe

• Alcuni anni dopo egli riprese e revisionò i lavori di Petri in Francia ma, resosi conto che non era
possibile classi care come germani tutti i cimiteri emersi in Gallia settentrionale, elaborò un
nuovo criterio di identi cazione

• Poiché le bule erano rare in Gallia, egli stabili che qui tutte le sepolture con armi erano
appartenute ai germani mentre quelle che ne erano prive potevano de nirsi come gallo-romane

• Gli “Herrenschicht” germani che conquistarono la Gallia e posero il loro dominio sui romani
assoggettati erano perciò sepolti con le armi, simbolo del loro potere.

• dunque, sia in Spagna che in Gallia, Zeiss applicò il paradigma storico-culturale ai ritrovamenti
funerari

• Data la grande disomogeneità delle tipologie di oggetti presenti, assunse quale principio
generale che i germani potevano essere distinti dalla presenza di elementi in metallo

• Talora questi erano identi cabili con elementi decorativi del costume femminile, altrove erano
rappresentati da elementi dell’armatura caratteristici.

• Il principio introdotto da Petri e Zeiss fu ulteriormente sviluppato nel periodo successivo alla
seconda guerra mondiale

• In particolare, Joachim Werner approfondì ulteriormente le ricerche in quella stessa direzione


distinguendo, all’interno della cultura materiale germanica, tante culture materiali quante erano
le gentes menzionate dalle fonti scritte

• Fu così considerato possibile ricostruire attraverso ritrovamenti funerari il costume tradizionale


dei diversi gruppi.

• Più di cile risultò la ricostruzione del costume maschile dato che le armi, oggetti funzionali e
non decorativi, presentano un minore numero di varianti e le loro forme erano in generale più
omogenee

• Le armi sono di normale presenti in minor percentuale rispetto ai gioielli, ad eccezione che in
Gallia

• Quando oggetti stranieri erano ritrovati fuori dal loro abituale contesto territoriale, essi non
venivano interpretati come l’esito di commerci, scambi o doni, ma come il risultato di
spostamenti di piccoli gruppi o di individui che si erano portati appresso gli attributi distintivi
della loro appartenenza

• Con questo metodo si è ritenuto possibile mappare gli spostamenti delle diverse gentes
barbariche, fossero queste rappresentate da gruppi consistenti o da migranti solitari

TESTI PER LA MIGRAZIONE: LE “ORIGINES GENTIUM”

• I grandi spostamenti alto medievali si trovano narrati all’interno di un preciso genere letterario
altomedievale: Origines gentium.

• Si tratta di racconti mitici, di usi nel corso dell’alto medioevo e che, riprendendo dei topos
letterari

• In particolare, seguendo il modello biblico, hanno raccontato le imprese eroiche di diversi gruppi
di barbari in cammino verso la terra promessa

• I vari testi delle Origines sono divenuti le guide seguite dagli archeologi per ricostruire le tappe e
le cronologie delle migrazioni dei diversi gruppi. Nei luoghi menzionati venne ricercata la cultura
materiale databile al presunto periodo di occupazione, tentando di evidenziare una continuità
nella produzione materiale lungo le linee della migrazione

• È chiaro che, nella prospettiva storico-culturale, gli oggetti ritenuti prodotti della cultura
tradizionale dei barbari in marcia potevano comparire in un dato territorio solo e soltanto entro
l’arco cronologico del loro accertato stanziamento

• In questo modo tutta la cronologia degli oggetti, delle tombe e delle necropoli era interpretata e
scandita alla luce degli spostamenti documentati dalle fonti scritte

UN CASO ESEMPLARE: I LONGOBARDI

• Secondo il metodo a ermato nel corso dell’ottocento, i longobardi sarebbero stati tra gli
antenati dei Germani immigrati in Italia nel VI secolo

• Il termine di Langobardia/Lombardia dovrebbe quindi segnare lingusiticamente la principale area


della loro dominazione

• La migrazione longobarda della Scandinavia all’Italia fu descritta per la prima volta nella Origo
Gentis Langobardorum, che venne trascritta insieme all’editto di Rotari, promulgato nel 643.
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Lo scopo dell’orino era di legittimare la dinastia longobarda, attraverso la compilazione scritta
della discendenza dei re che condussero il popolo longobardo dalla Scandinavia all’Italia.
Questo testo circola tanto che fu ripresa e ulteriormente ampliata nella Historia Langobardorum
composta verso la ne del VIII secolo da Paolo Diacono

• Queste le tappe principali della migrazione: Scandinavia, bacino dell’Elba, Pannonia, Italia

• I nomi dei luoghi in cui i longobardi transitarono, descritti nell’Origo e ripresi da Paolo, ossia
Scoringa, Mauringa, Golanda e più a sud Anthab… sono luoghi fantastici il cui nome e la
scansione tripartita hanno soprattutto un valore simbolico

• La presenza longobarda nella Germania settentrionale, lungo le sponde del ume Elba e più
tardi in Pannonia, risulta documentata anche da fonti non leggendarie contemporanee al loro
stanziamento in quelle aree

• Strabone racconta delle guerre di Augusto e Tiberio che avevano cacciato i Germani oltre il
Reno e l’Elba, dove erano stanziati i longobardi.

• Tacito nella Germania descrive i Longobardi come un piccolo gruppo di prodi guerrieri stanziati
nell’area del ume Elba, popolo combattivo e capace di mantenere la propria integrità. Scopo di
tacito è esaltarne la purezza. La copia più antica del testo di Tacito è conservata in un codice
manoscritto di metà del IX secolo prodotto presso il centro scrittorio del monastero di Fulda,
nella fondazione che era stata promossa da Bonifacio e che presto divenne uno dei centri di
raccolta di testi e di irradiazione di opere nel mondo carolingio. Si tratta come spesso accade in
questi casi di un manoscritto miscellano, che contiene cioè testi di autori diversi ricomposti e
giustapposti l’uno all’altro. Oltre alla Germania, dello stesso Tacito si conserva anche l’Agricola,
e poi il Dialogus de Oratoribus e dei frammenti del De Grammaticis et Rethoribus di Svetonio. Il
codice manoscritto fuoriuscì dalla biblioteca del monastero e venne conservato nel vicino centro
umanistico medievale dell’abbazia di Hersfeld sotto il nome di Codex Hersfeldenisis, dove
venne rinvenuto nel 1421 dall’arcivescovo di Milano in transito da quelle parti, in quanto al
seguito dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Segnalato al papa, Nicolò V se ne
interessò e lo fece arrivare a Roma insieme ad altri testi. Alla morte del proprietario in molti si
interessarono al codice. Una parte con l’Agricola venne nelle mani di un nobile marchigiano
impiegato come diplomatico alla corte di Callisto III. Rimasto per secoli nella biblioteca nobiliare
a Jesi, fu rinvenuto a inizi del 900 da un professore di latino e greco. Messo all’asta nel 1929
verrà poi ritirato. Durante il regime nazi fascista Hitler cerca di farselo dare da Mussolini. Dopo il
1943 i soldati nazisti rastrellarono i palazzi marchigiani della famiglia che le possedeva senza
rinvenire il manoscritto. Venne depositato a Firenze, subì l’alluvione ed ora è nella biblioteca
nazionale di Roma.

• Nel testo di Velleio Patercolo i Longobardi riappaiono nelle guerre Marcomanne; insieme agli
Ubii essi invasero la Pannonia ne 167 d.C

• Dopo un silenzio di oltre tre secoli i Longobardi riemersero come attori nelle guerre gotiche di
Procopio di Cesarea. Descrisse la loro presenza in Pannonia e il loro spostamento in Italia,
ponendo l’accento sulle relazioni diplomatiche tra Longobardi e Bisanzio. Vengono de niti come
alleati, avevano mandato dei contingenti di armati alla guerra di Bisanzio sia contro i Persiani,
sia contro i Goti, in cambio di denaro e di terra: si tratta delle Poleis del Norikon e delle fortezze
della Pannonia. Nel racconto di Procopio i Longobardi non gurano come un eroico popolo in
marcia verso una terra promessa, ma compaiono invece come un gruppo di soldati, spesso
disordinati e irruenti, ingaggiati come alleati di Bisanzio e certando coinvolti negli spostamenti
bellici della politica dell’impero.

• I termini Lombardia e Lombardo, impiegati per de nire l’attuale regione italiana e i suoi
anbitanti,e. Che si vorrebbero far risalire ai Longobardi, sono usati con signi cati che noi
conosciamo oggi solo a partire dal XIX secolo. Nel IX secolo la Langobardia includeva tutti i
territori dell’Italia governati dai Longobardi. Per tutto il medioevo Langobardia ebbe una valenza
geogra a e non identitaria: nessuno si identi cava come Lombardo.

• Il termine Lombardo appare nel XIII secolo in Inghilterra, Francia e nelle Fiandre per de nire
genericamente i mercanti italiani.

Come avvengono il realtà le migrazioni? Si tratta veramente di migrazioni di massa?

Oggi sappiamo che sono fenomeni a catena. Vi sono condizioni sociali determinate che spingono
alla partenza e delle condizioni attrattive.

Ci sono ondate migratorie che solitamente si strutturano in catene e che si dirigono verso una
meta nota e con tempi lenti.

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L’Origo Gnetis Langobardorum -> Alboino, re dei longobardi regnò in italia per tre anni e fu ucciso
a verona nel suo palazzo da Elmichi e da sua moglie Rosmunda. Elmichi volle regnare ma non
potè perché i Longobardi volevano ucciderlo…

GIOVEDI’ 24 FEBBRAIO

Nella narrazione dell’Origo gentis Langobardorum ci sono elementi geogra ci, vi è già l’impronta
longobarda. Il testo si conclude con l’accenno a Rotari, Grimoaldo, Costantino.

Ne esiste un’altra versione contenuta nel Codice Ghotarum che trasmette un testo analogo con
migliorie cronologiche

L’emanazione dell’editto di Rotari dipende da una necessità di codi ca da parte del re nel
momento in cui mette in campo una progressiva espansione oltre i con ni.

LE MIGRAZIONI E I PROCESSI DI INTEGRAZIONE

Tra il XVIII e inizio XIX abbiamo l’emergere del nazionalismo. Si è manifestato in forme diverse da
regione a regione.

Il metodo è quello della creazione di comunità immaginate (Anderson) articolato in tre momenti:

- Intellettuali consapevoli che si impegnano nello studio della lingua, cultura e storia all’interno di
questo discorso nazionalistico

- Fase più espansiva in cui una volta elaborate le strategie signi cative entrano in campo i
patrioti che devono rendere popolari le idee elaborate dagli intellettuali

- L’apogeo di questo movimento nazionale che raccoglie a una di usione all’interno della
popolazione

Sono processi comuni alla stagione che va dal XVIII secolo, processo che può essere riscontrato
all’interno di questi contesti.

Nel XIX secolo gli intellettuali e gli uomini politici crearono delle nazioni nuove, nazioni la cui
immagine hanno in seguito proiettato retrospettivamente in un passato lontano come l’lato
medioevo.

Il nazionalismo moderno è nato in un clima intellettuale permeato dalla fascinazione delle elites
culturali europee, soprattutto in ambito francese e tedesco. Anche se in realtà la troviamo anche
nei paesi bassi, università tedesche…

Alla ne del medioevo e all’inizio del rinascimento le elites politicamente attive disponevano di
svariate categorie per de nire le identità e organizzare la loro azione collettiva

La nazione era una di queste categorie

Il sentimento di appartenenza a una nazione non rappresentava il più importante di questi legami.

A partire dal rinascimento molti intellettuali di Francia, Germania ed Europa dell’est iniziano a
identi carsi con quelle popolazioni che furono vittime dell’espansionismo romano. (in Francia ci si
interroga su quando debba essere identi cata la nascita di uno stato francese più di un popolo).

In Francia, nel periodo pre e post rivoluzionario, c’è un modello legato all’assolutismo e forte
contrapposizione fra aristocrazia e ceto popolare.

Si a erma nel corso del tempo l’idea che questa nobiltà derivi dall’antichità e che questo terzo
stato derivi dalla popolazione che era stata conquistata dai romani e ridotta in schiavitù.

Questa concezione a ondava le sue radici in una antica tradizione elaborata nel medioevo.

Ad un certo punto l’orientamento all’interno di questo contesto cambia progressivamente. Questa


aristocrazia avrete scon tto i romani e sarebbero stati i liberi guerrieri attorno al quale si fonda il
ceto dirigente della Francia.

Queste ideologie derivavano dalla Germania di Tacito.

La questione centrale era quindi a chi spettasse regnare: all’aristocrazia in quanto gruppo oppure
al re?

Nel corso del V secolo si tracciano i diritti dell’aristocrazia franca che conquista i territori. Loro
soltanto e i nobili erano i veri francesi.

La rivoluzione francese rappresentò un cambiamento radicale nel modo di vedere e interpretare il


passato. Si ripresero le tesi dell’origine della nobiltà riconoscendo i franchi degli invasori, e nei
galli i veri francesi, sottomessi dai Romani prima e dai franchi poi.

Metà del VI secolo

Questo periodo e queste popolazioni germaniche godono di buona o cattiva stampa in base alla
stagione politica.

Anche in Italia alcuni problemi di manifestano attorno al modo in cui si spiega la presenza
longobarda e la si integra nella grande narrazione della nazione. Anche lei ha bisogno di proporre
una sua interpretazione nazionale.

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Questa storiogra a è rimasta un po vittima della visione dalle fonti di carattere papale-romane.
(liber ponti calis = raccontano in una successione cronologica, che si aggiorna continuamente, le
storie dei diversi ponte ci che si susseguono).

Per provare a dipanare la questione interpretativa di questa parentesi longobarda bisogna provare
a prendere posizione.

Chi erano i longobardi di cui si parla? La risposta è al tempo stesso facile e di cile. Per una certa
storiogra a sono un popolo germanico dunque straniero di origine lontana e settentrionale, di
religione inizialmente pagana, verranno poi convertiti al cristianesimo nella versione ariana (non
confondere la questione dell’arianesimo. Ariano non coincide con pagano. Primo concilio
ecumenico in cui si dibatte la questione ariana nel 325 a Nicea, organizzato dall’imperatore
Costantino e si dibatte sul testo base che deve mettere d’accordo le varie chiese regionali che
hanno orientamenti e background loso ci di erenti. L’arianesimo verrà bannato per un certo
periodo ma nella stagione politica successiva viene recuperato), che impianta con la violenza
delle armi una nuova dominazione politica, de nita come Regnum Langobardorum, sulle macerie
dell’Italia Romana.

Questo regno, che avrebbe rappresentato il punto più basso di un processo evolutivo iniziato con
la “decadenza dell’impero” e con le prime “invasioni barbariche”, durò circa due secoli nché
nalmente nel 773-774 non fu conquistato dai Franchi, alleati dei papi.

Dopo il 774, sarebbero scomparsi dalla storia italiana, assorbiti dalla popolazione indigena, e la
storia avrete ripreso il suo corso naturale.

Nel caso dei Longobardi, l’idea di uno sterminio o di un’emigrazione di massa come per i loro
predecessori Ostrogoti non è stato preso in considerazione, ma l’esito nale descritto è sempre lo
stesso: il loro annullamento in quanto popolo. Questa interpretazione non è del tutto sbagliata: lo
è il fatto di identi care i longobardi come un elemento alieno che trascina la storia italiana fuori dal
sua alveo naturale, di tradizione romana e cristiana, e non come dei nuovi arrivati che si
inseriscono in una storia in forte evoluzione e divenendone un fattore decisivo di trasformazione.
Per gli specialisti di questo periodo, quindi, è più corretto attenersi a questa seconda linea
interpretativa che non alla prima

La prima interpretazione riecheggia ancora delle polemiche di età risorgimentale, piene di


risentimento nei confronti degli occupanti austriaci di cui i Longobardi sarebbero stata una sorta
di anticipazione/pre gurazione.

La cultura italiana in questo senso deve molto alle impostazioni del saggio del 1822 di Alessandro
Manzoni, oltre all’Adelchi, in cui trova vigore la matrice cattolica che o re molto credito alla
propaganda franco-papale di VIII secolo.

Non si tratta di riabilitare i Longobardi, quanto di attribuire una collocazione più corretta di questo
periodo storico nelle vicende della storia d’Italia, recuperando così quel passaggio “barbarico”
comune al resto d’Europa e che la cultura classicista in Italia ha cercato di rimuovere anche
materialmente, cancellandolo per esempio negli scavi archeologici a favore degli elementi classici.

(Alessandro Manzoni: Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia, 1822.

Scuola cattolico liberale/neoguelfa incentrata su due problemi:

- La condizione giuridica dei Romani sottomessi

- Il giudizio sull’azione papale che chiamò in Italia i franchi )

CARLO TROYA (1841)

Sulla condizione dei romani vinti dai Longobardi e della vera lezione d’alcune parole di Paolo
Diacono a tale argomento

- libertà/servitù dei Romani

- Vigenza del reddito romano in età longobarda

- Sopravvivenza dei municipia

- Le chiese e gli ecclesiastici secondo quale legge vissero?

A questo punto si pone il problema della dissoluzione dei municipi romani

I comuni nascono da ordinamenti cittadini longobardi, sopravvissuti tra il IX e X secolo

Aporia del dibattito:

- Se i municipia erano caduti, allora i comuni erano un prodotto della cultura di origine germanica

- Se si salvava l’origine latina dei comuni, invece, occorreva ammettere che gli ordinamenti
precedenti erano sopravvissuti e che la “rottura longobarda” non era poi stata così epocale.

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I longobardi della ne del VII e dell’VIII secolo non costituivano un’etnia dominante su una
popolazione di diversa origine, ma erano la totalità degli abitanti liberi del regno longobardo, non
quindi un popolo selvaggio uscito dalle mitiche foreste della Germania

La storiogra a più recente ha abbondantemente insistito sul fatto che i contatti delle popolazioni
barbariche con l’impero furono antichi, stretti e consolidati e su come questi stessi avessero
in uenzato le culture barbariche.

La questione delle identità dei membri delle stirpi barbariche rappresenta un tema di
fondamentale importanza. Alboino stesso, alla partenza dalla Pannonia dove era stato un federato
di Bisanzio, unì i suoi fedeli a brandelli di popolazioni sottomesse e persino a provinciali romani
residenti nella Pannonia e nel Norico.

La storiogra a tedesca ha visto nella guerra greco-gotica (535-553) il dramma degli ostrogoti, una
stirpe tedesca e il confronto fatale del nobile eroe germanico con i soldati di un impero bizantino
in decadenza, personi cati dai generali-enunchi.

Gli studiosi più moderni hanno evocato la guerra greco-gotica come una crisi decisiva della tarda
antichità in Italia, contrapponendo la prosperità del regno di Toedorico il grande ai disastri senza
ne del periodo bellico e delle sue conseguenze.

La testimonianza di Procopio di Cesarea avalla questa concezione catastro ca. Ma sono stati
proprio i Bizantini a distruggere il mondo romano in Italia durante la conquista? Abbiamo una
perdita progressiva di importanza della nobiltà romana e anche l’avvicendarsi di nuovi ceti
barbarici che segnano una di erenza. Di sicuro sappiamo che durante questa fase iniziale in cui
prendono piede i longobardi in Italia, a Roma il senato smette di riunirsi. Questa dimensione e
trasformarsi dell’aristocrazia senatoria non è dovuta a una ne cruenta ma è anche dovuta a una
trasformazione progressiva di questa società che vede cambiare progressivamente le condizioni
progressive.

Dovremo perciò distinguere tra processi di erenti che non sempre si svilupparono parallelamente:
alcuni furono di lunga durata, altri dipesero da eventi militari.

I contemporanei non condividevano la percezione di una irreversibilità che per noi oggi è così
evidente. In fondo l’Italia del VI secolo era già sopravvissuta a due secoli di guerre e di invasioni,
dimostrando una notevole capacità di adattamento alle circostanze.

La restrizione della base agricola ed economica, le di coltà della vita urbana, il venir meno
dell’antico ceto senatorio, la perdita dei tradizionali legami di sfruttamento che avevano fatto
dell’Italia il centro dove si consumava il surplus proveniente del mondo mediterraneo,
l’estraniazione di un impero romano considerato sempre più greci.

Tutti questi elementi contribuirono in concerto ad impedire la ricostruzione del sistema tardo
romano nella penisola, le misure assunte per irrobustire l’amministrazione civile e il controllo
politico dell’esercito nel 554 dopo la vittoria di Giustiniano.

Nel corso del primo trentennio del secolo VI, l’impero aveva ritrovato una certa stabilità e le
risorse a disposizione del sovrano erano aumentate.

Conseguentemente Giustiniano aveva deciso di investire somme considerevoli nelle campagne


militari in Occidente i cui successi e meri, tanto quando gli insuccessi, sono noti.

Questa o ensiva politici e militare determinò delle nuove opportunità di carriera per i barbari.

L’attrazione esercitata dall’esercito romano per i barbari non era una novità: già verso la ne del IV
secolo la metà degli u ciali romani era di origine barbarica.

Nel VI secolo il pericolo rappresentato da un imbarbarimento delle sfere militari si era visibilmente
ridotto ed il controllo su questa straordinaria macchina da guerra era saldo.

La guerra greco-gotica, secondo la descrizione di Procopio di Cesarea, riguardò diversi gruppi di


guerrieri più o meno specializzati le cui origini erano assai diverse; molti di loro erano di origine
barbarica, ma sembra impossibile distinguerli in modo netto dai romani.

I generali che combattevano questa guerra greco-gotica avevano spesso insistito sui rinforzi ed
alcuni guerrieri barbarici erano noti per le loro particolari capacità.

I militari avevano avuto molte buone opportunità per fare carriera durante le o ensive di
Giustiniano.

L’aristocrazia senatorio ed i grandi proprietari terrieri, tanto favoriti durante la “restaurazione”


giustinianea, avevano perduto il loro ruolo dominante. Nuovi elementi barbarici, scarsamente
assimilati, rimpiazzarono il ceto dominante barbarico più romanzato, tanto che è di cile trovare
traccia delle elites italiche dell’età precedente il 568 tra i Longobardi di alto rango.

I Longobardi avevano già fatto la loro comparsa in Italia durante la guerra greco-gotica al anco
delle truppe di Bisanzio.

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In quell’epoca i Longobardi erano stanziati in Pannonia.

L’accordo con i Bizantini prevedeva la concessione della Polis Norikon e le fortezze pannoniche.
Notiamo che la terminologia utilizzata da Procopio di Cesarea non è del tutto pertinente, poiché si
parla più di una provincia del Norico, ma di semplice poleis.

Si pensa che la parte del Norico coincida con i territori sloveni di Emona, Poetovio o Celeia o in
più generale quella parte del Norico che i franchi tralasciarono di occupare.

Le fortezze pannoniche menzionate potevano invece corrispondere a quei castelli


precedentemente ostrogoti nel sud della Pannonia che erano rimasti in una certa misura intatti.

Anche se Procopio descrive una regione dal carattere ancora fortemente urbano è davvero
di cile immaginare un sistema tributario, e quindi capacità di esazione scale regolare, dopo la
caduta del dominio ostrogoto.

Le di coltà dei longobardi con i Gepidi e la necessità da parte dei Bizantini di sostenerli anche
militarmente potevano contribuire ad occultare a lungo uno schieramento di truppe bizantine
davanti alla porta tradizionale dell’Italia, cioè i Balcani.

Al 547 risale l’accordo tra Longobardi e Bizantini, al 549 la nomina da parte di Giustiniano di suo
nipote Germano quale comandante supremo delle truppe bizantine impegnate nella guerra greco-
gotica. Germano legittimò la sua posizione ad aspirante a governare l’Italia con un matrimonio
con Matasunta, nipote di Teodeorico e vedova di Vitige.

Germano ricevette denaro e l’incarico di arruolare in Illiria e in Tracia per marciare verso l’Italia
attraverso i Balcani.

Contemporaneamente a queste operazioni venne radunato un esercito di supporto ai Longobardi


in lotta con i Gepidi, nella speranza di poter mobilitare in seguito anche un grosso contingente di
longobardi contro i Goti in Italia e di poter riacquistare Sirmium, la città caduta in mano ai Gepidi e
che controllava un’importante linea di rifornimenti verso l’Italia. Ma questo piano non riuscì.

Ciò non signi ca voler ignorare la prospettiva dell’ottico Gentis Langobardorum, quando cogliere
degli elementi prima che essi siano inseriti da Paolo Diacono all’interno di una sorta di sviluppo
lineare degli eventi.

I Longobardi furono integrati nel sistema bizantino nel VI secolo. Solo dopo circa mezzo secolo
che essi erano entrati nel vecchio territorio dell’impero veniamo a conoscenza di un accordo con
l’impero.

Il territorio dove si insediarono i Longobardi non viene de nito nell’orino Gentis… come Norico ma
come Rugiland, il paese dei Rugi.

Gepidi e Longobardi, intuite le mosse di Giustiniano, si a rettarono a trovare un accordo e a


stipulare una tregue tra loro; fu così che l’esercito bizantino si venne a trovare in grossa di coltà,
non potendo proseguire verso l’Italia né tornare indietro per le minacce di Gepidi e Eruli.

La marcia attraverso le provincie balcaniche era resa di coltosa dalle minacce di assalti barbarici.
La politica di aggiramento dei Balcani dal parte di Giustiniano per a rontare i goti suscitò grosse
aspettative nei guerirei Longobardi e Gepidi.

Vi furono tra il 550 e il 552 diversi episodi di guerra s orata tra Longobardi e Gepidi che
impedirono ai Bizantini di proseguire il tragitto verso l’Italia e li costrinsero a trattare ripetutamente
proprio con loro.

Solo nell’aprile del 552 Narsete fu in grado di lasciare Salona con le truppe bizantine, di marciare
verso l’Italia, evitando i Franchi nel Norico e i Goti in Veneto, e procedendo lungo l’adriatico con le
truppe Longobarde concesse dal re longobardo Alduino.

Contemporaneamente alla spedizione in Italia, truppe longobarde mossero guerra ai Gepidi


scon ggendoli; la battaglia sull’Asfeld fu tramandata dalla storiogra a longobarda e venne
ricordata come una delle più cruente di tutta la storia della Pannonia.
Anche Turismondo, il glio di Turisindo (il capo dei Gepidi), fu tra i caduti; secondo il racconto di
Paolo Diacono lo avrebbe ucciso lo stesso Alboino, glio di re Audoino. Dopo la prima serie di
guerre longobardo-gepide, in Pannonia vi fu una dozzina di anni di relativa pace.
Ma l’evoluzione sul medio Danubio di una concentrazione di guerrieri a amati di successo messi
in moto dalla politica di Giustiniano non fu facile da bloccare e la generazione successiva,
rappresentata da Alboino, agì diversamente da Audoino e da Turisindo.
Nella primavera del 565, con la morte di Giustiniano, giunsero al potere a Bisanzio i critici della
politica di Giustiniano; invece di procedere al rinnovo dei patti e della concessione dei tributi
lungo il con ne danubiano, fu promossa una forza militare di controllo. I Longobardi furono così
costretti ad agire.

RICAPITOLANDO:
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Un regno longobardo sul Danubio esisteva dalla ne del V secolo ca. Sotto la sovranità del re
Wachone, dal 510 al 540 ca., esso si estese lentamente dall’attuale Austria meridionale verso sud-
est su aree signi cative dell’antica provincia della Pannonia.
L’espansione avvenne n dove lo permisero gli Ostrogoti, che dall’Italia controllavano il sud della
Pannonia e il Norico attraverso una serie di alleanze.
Nella zona orientale del bacino carpatico, intorno alla Tisza e n dopo la Transilvania, n dalla
caduta del regno di Attila esisteva un regno gepido.
Quando dal 535 la potenza degli Ostrogoti decadde per le iniziative bizantine sotto l’imperatore
Giustiniano, i Gepidi occuparono Sirmio, l’antica città imperiale della bassa Sava in Pannonia, e
allo stesso tempo i Longobardi si allargarono verso il sud della Pannonia con il permesso
dell’imperatore. Da questi spostamenti nacque il con itto tra Gepidi e Longobardi.
Intorno al 550 il re longobardo Audoino condusse nel giro di pochi anni tre campagne contro i
Gepidi, alternate da tregue, che si conclusero nella primavera del 552 con la de nitiva vittoria
longobarda.
Nello stesso periodo il generale bizantino Narsete portò a termine la sua vittoria decisiva sul re
ostrogoto Totila con una spedizione militare attraverso i Balcani e con il sostegno di contingenti
longobardi.
Nella grande battaglia del 552 contro i Gepidi svoltasi sull’Asfeld, compare per la prima volta
Alboino, il glio del re longobardo Audoino. A lui è attribuita l’uccisione di Turismondo, il glio del
re gepida Turisindo.
Segue un periodo di conciliazione e di stabilità, all’interno del quale Paolo Diacono nella sua
Historia Langobardorum colloca alcune leggende che servono a connotare la gura di Alboino,
destinato a guidare il suo popolo in Italia salendo su un monte e guardando la terra promessa,
come già aveva fatto Mosé (HL, I, 24).
Anche i Longobardi, quindi, del 568-9 erano un popolo in buona parte nuovo, diciamo in
formazione, con elementi barbarici federati e provinciali alleati che li accomunano ad altre
popolazioni barbariche già in relazione con il mondo romano di allora.
Allo stesso tempo non si devono ignorare le conquiste violente nel periodo della formazione del
Regnum Langobardourm dei primordi, pur tenendo presente che possediamo ben poche fonti no
alla ne del VII secolo, mentre molto di più e meglio possiamo dire per il secolo VIII.
L’avvio del regno fu faticoso, e la conquista della penisola avvenne contro l’esercito di Bisanzio
senza grandi battaglie campali, con lente fasi di penetrazione nel territorio.
Nel 712, anno di inizio del regno di Liutprando, il regno aveva il suo baricentro nell’Italia
settentrionale a nord del Po, con in più l’Emilia, la Toscana, il ducato di Spoleto e il ducato di
Benevento.

MARTEDI’ 1 MARZO
E' significativo che il regno di Odoacre, che interrompe la continuità del passaggio delle insegne,
non si caratterizza per un regno politico ovvero non ha conseguito specifiche alleanze e non ha
puntato su un regno caratterizzato etnicamente.
Gli storici si sono a lungo chiesti se egli fosse stato un germano o un Unno, un Erulo o un Turingio.
La ricerca spasmodica delle sue origini significa di fatto mancare l’obiettivo, poiché è proprio
l’ambiguità l’elemento centrale della sua figura.
Le fonti contemporanee sono contraddittorie proprio perché l’eterogeneità dei soldati al seguito di
Odoacre costituiscono l’elemento caratterizzante la situazione in Italia intorno alla metà del V
secolo.
Odoacre fu una creazione della corte di Attila in Pannonia, un centro di potere assai articolato dove
si potevano incontrare aristocratici di differenti origini (gruppo ristretto di persone che ruotano
attorno a un leader).
Unni, goti e Gepidi e molti altri elementi barbarici, così come i Romani, convennero e costituirono
un network di potere che sarebbe sopravvissuto per breve tempo alla morte di Attila nel 453.
Il padre di Odoacre, Edica, era stato uno dei notabili di questa corte cosmopolita, così come lo
erano stati i padri dei predecessori di Odoacre e del suo successore, Teodorico il grande.
Dopo il 453 Edica aveva fondato un piccolo regno di Sciri lungo il medio Danubio; quando gli
Ostrogoti lo spazzarono via nel 469, Odoacre si spostò in Italia e suo fratello Hunolfo a
Costantinopoli. Dopo aver servito nel corpo speciale al seguito dell’imperatore, Odoacre divenne il
comandante delle truppe federate in Italia che erano formate per buona parte da elementi
barbarico assoldati in Pannonia.
Nell’estate del 476 le truppe federate cacciarono l’imperatore Romolo Augustolo e suo padre
Oreste, e nominarono Odoacre re.
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Nel caso in cui ci sia una elevazione da parte dell’esercito di un elemento non ci può essere
elezione imperiale ma solo regio.
La ribellione non intendeva minacciare il potere imperiale e Odoacre venne considerato/presentato
come uno dei tanti re barbarici desiderosi di assicurarsi il potere all’interno di un sistema imperiale
romano.
Il re infatti mandò le insegne imperiale a Costantinopoli, dichiarando che non era necessario
procedere con una nuova nomina imperiale per la parte occidentale dell’impero. Nonostante fosse
ancora soggetto nominalmente all’imperatore e a Bisanzio, Odoacre risultò di fatto essere la
suprema autorità in Italia.
Il suo regno non ebbe una identità etnica specifica. Si comportò come una sorta di re d’Italia e
pone la propria residenza preso il palazzo imperiale di Ravenna.
Gli storici hanno considerato il 476 come un momento critico e coincidente con la caduta
dell’impero romano d’Occidente e perciò il momento in cui si lasciò la classicità e iniziò il
medioevo.
Ma i contemporanei di quei fatti non mostrarono alcuna consapevolezza di questo cambiamento.
Odoacre mantenne le forme e i contenuti dell’amministrazione romana in Italia.
Cera davvero poco di germanico nel suo modo di governare, a parte l’origine di molte delle sue
armate (e che i contemporanei hanno definito come barbariche).
Ma non fu se non agli inizi del VI secolo, con Teodorico in particolare, che i Romani si rivolsero
all’imperatore a Costantinopoli per avere aiuto in Italia e solo allora ci si riferì alla situazione
italiana e ai suoi re barbarici come a un’anomalia. Fu allora, infatti, che le origini dei problemi
dell’Occidente vennero identificati retrospettivamente nella figura di Odoacre.
Giordanes, che scrisse a Costantnopoli intorno alla metà del VI secolo, descrisse il colpo di stato
del 476 come se si fosse verificata una vera e propria invasione barbarica. In verità Odoacre portò
con se una relativa pacificazione; paradossalmente fu l’intervento imperiale a modificare il quadro
complessivo.

Teodorico, re dei Goti, fu uno di quei generali già al servizio dell’impero che aveva costruito una
posizione di forza nei Balcani alla testa di truppe federate.
L’imperatore d’oriente Zenone, nel tentativo di diminuire la forza di Teodorico nei Balcani, gli ordinò
di procedere con la deposizione di Odoacre in Italia e di regnare in suo nome. Teodorico raccolse
perciò una armata vasta e multietnica e invase l’Italia del 489.
Teodorico cercò di trasformare il suo esercito barbaro, mobile ed eterogeneo in un popolo gotico
stanziale, stabile e capace di coesistere pacificamente nell’Italia romana. L’obiettivo fu di dare ai
goti che gli furono fedeli la civiltà” (valori più tipici romani).
Tentò di convincerli ad adottare il principio romano d’autorità della legge e le tradizioni di tolleranza
e di consenso nella società civile che i suoi uomini avrebbero dovuto difendere con il loro valore
militare.
Teodorico intese mantenere Goti e Romani come due comunità separate, una militare e l’altra
civile, interdipendenti e poste sotto la sua suprema autorità.
Teodorico perseguì quella che è stata definita un’ideologia etnografica che distinguere tra i soldati
e i civili, che provvedevano tramite il contributo delle tasse al mantenimento dei primi. Due
nationes sotto un'unica persona.
Il potere di Teodorico si basava sul potere militare dei Goti
Benché sostenuto dagli amministratori romani, Teodorico cercò di privilegiare l’elemento gotico e di
controllare la burocrazia romana tramite i comites.
Privilegiò la chiesa in quanto chiesa della legge dei Goti, ma vigilò che rimanesse una chiesa
minoritaria a cui proibì di fare proselitismo presso gli ortodossi, maggioritari.
Sottolineando l’elemento gotico del suo regno, insistette sul fatto di discendere dalla leggendaria
famiglia degli Amali. Con le altre gentes strinse legami matrimoniali o adottivi attraverso le
rispettive famiglie reali.
Una progressiva cancellazione delle specificità gotiche in seno all’esercito portò ad una reazione
anti-romana. La tensione crebbe ulteriormente con la morte di teodorico e con l’assassinio della
figlia Amalasunta, episodio che diede a Giustiiniano la possibilità di intervenire.

Chi erano i Goti ? La letteratura tradizionale ha voluto riconoscerne nei Goti un popolo di ordine
forse Scandinava, che visse nell’odierna Polonia e che si mosse nelle steppe a nord del Mar Nero.
Alla fine della loro migrazione avrebbero formato dei regni della Gallia e Spagna (visigoti) e in Italia
(ostrogoti).

Wolfram scoprì che con Goti erano definiti i pirati dell’Egeo, mercanti della Crimea, contadini
Balcani…
Questi gruppi fluttuarono, fecero confluire in loro popolazioni di origine differente, crebbero di
numero con il successo e allo stesso modo svanirono nel momento in cui incontrarono il fallimento.
Il termine goto fu impiegato dagli scrittori romani.
Non erano considerati dei Germani, erano classificati come Sciti, al pari degli Unni.
Ma i filologi nel corso del XIX secolo hanno identificato il gotico come una lingua germanica.
Recentemente è stato proposto che il termine goto è stato indicato come termine convenzionale
con la quale si indica una elite militare che godette dei privilegi del sistema romano, piuttosto che
l’identità ereditata e attentamente riservata dai soldati.
È difficile immaginare che i goti possano essere stati un’invenzione.
Non è nemmeno chiaro se e come indicare quanti dei Goti immigrati in Italia nel VI secolo
discesero dai Goti presso Attila.
La loro storia fu frammentata e i Goti combatterono e morirono su entrambi i fronti e negli opposti
schieramenti nelle battaglie principali di quei secoli.

L’esercito con il quale Teodorico conquistò l’Italia fu composto forse da 30.000 soldati che
avanzarono con moglie e figli al seguito, arrivando così a contare circa 100.000 unità circa.
In Italia altre truppe di Teodorico si associarono quelle che erano già state di Odoacre.
Da tempo l’esercito era in mano ai barbari e ciò non costituiva una novità.
Non sono indicati quindi come elemento negativo, mentre erano gli esattori fiscali ad essere visti
come nemici della popolazione.
Alla popolazione romana improbava poco chi governasse effettivamente e molti nobili romani.
Allo stesso tempo Teodorico volle coinvolgere i senatori romani per cooperare nel governo e
coinvolse specialisti nell’amministrazione civile come Cassiodoro per aiutare i Goti a stabilirsi in
Italia, garantire il sistema amministrativo e di rifornimento statuale.
L’amministrazione del regno parte a Ravenna a Roma è stanziato il ceto senatorio.
Si è discusso a lungo se i soldati Goti abbiano ricevuto delle parti di terra o solo delle
corresponsioni di tasse. Si è recentemente convenuto che inizialmente i Goti abbiano ricevuto
parte delle tasse.
Teodorico e i suoi consiglieri romani cercarono di creare una miscela durevole a livello culturale,
all’interno della quale i Goti avrebbero mantenuto il loro status e il loro prestigio militare, adottando
i costumi e la cultura della società romana.

Un aspetto rimase distinto: l’elemento religioso e il credo ariano.


Abbiamo dei testi in gotico sopravvissuti come il Codex Argenteus di Uppsala che contiene parte
del Nuovo Testamento.
I goti mantennero perciò una loro lingua e un credo distinto.
Il regno di Teodorico (493-526) decide all’Italia un periodo di pace e di relativa prosperità; ma il
consenso presso il ceto senatorio venne progressivamente meno, soprattutto nel momento in cui
Giustiniano fu in grado di consolidare il suo potere a Bisanzio.
Di conseguenza in Italia si cominciò a guardare a lui come a una possibile soluzione alternativa a
quella gota.
Quando nel 535 re Teodato depose la consorte e co-rettrice Amalasunta, figlia di Teodorico,
Giustiniano colse l’occasione per attaccare.
La guerra greco-gotica (535-553) durò per quasi vent’anni e mandò in rovina una parte
considerevole delle infrastrutture pubbliche della penisola.
Lo storico Procopio di Cesarea fu un testimone oculare degli eventi e ha lasciato un dettagliato
racconto degli stessi nel suo “storia delle guerre” in otto libri, scritte tra il 551 e il 553. Ci dice che
gli stessi Bizantini furono avvertiti come estranei; non più Romani, ma Greci.

(Con la morte di Amalasunta e Teodato termina la dinastia degli Amali.


Si susseguono Witige che sposa Matasunta, nipote di teodorico
Totila e infine Teia)

Nella loro propaganda gli Ostrogoti rappresentarono i Bizantini come degli invasori e
sottolinearono come proprio le loro armate gasserò composte da una congerie di truppe
barbariche: Eruli, Unni, Goti, Slavi…

In questo contesto politico Franchi, Burgundi, Alamanni cominciarono ad attaccare l’Italia


Settentrionale autonomamente e intorno al 540 sembrava che i bizantini avessero già vinto la
guerra.
Ma gli amministratori e gli esattori delle tasse provocarono il malcontento tra la popolazione,
lasciando quindi la possibilità di successo ai Goti per una controffensiva.
La guerra andò avanti con una serie di episodi favorevoli all’una o all’altra parte: le città venivano
prese e perse, le guarnigioni venivano lasciate andare sane e salve e spesso cambiavano campo.
Quando il regno goto in Italia capitolò tra il 552 e il 553 l’Italia si erano notevolmente impoverita e
la peste aveva decimato la popolazione.
In alcune aree la resistenza si protrasse grazie all’apporto dei Franchi che nel frattempo avevano
esteso la propria influenza su tutto l’arco alpino.
Si stava profilando quell’assetto non più organizzato sull’unitarietà.
Le città difese da mura in parte vanno declinando. Lasciano spazi vuoti ma rimase comunque il
centro dal quale l’aristocrazia mosse i propri interessi.
Ma l’impoverimento generale diminuì le ricchezze che potevano essere spostate dalle periferie
verso un governo centrale.
L’esercito non poteva essere mantenuto se non con un livello assai elevato di tassazione.
Anche l’Italia diventa progressivamente una provincia, l’imperatore è soltanto nella parte orientale,
sta diventando una provincia dell’impero.

I RIASSETTI LOCALI DURANTE E DOPO L’ETA’ GIUSTINIANEA


- L’inizio del VI secolo tra Occidente e Oriente
Nel VI secolo la differenziazione tra Occidente e impero domano d’Oriente era molto avanzata in
tutti i campi.
In occidente vi è una contrazione dell’economia urbana mercante con un ridursi progressivo
dell’ampiezza dei circuiti degli scambi, mentre in Oriente le città conservano una grande vitalità
commerciale.
Mentre in occidente vanno a crearsi questi regni romano-germanici creati dalla politica imperiale
orientale, l’oriente va riorganizzando dopo avere allontanato i problemi derivati dalle popolazioni
urne, gote, germaniche.
L’impero d’Oriente appare sempre più diverso dal vecchio stato romano e si presenta ora come
bizantino.
Bisanzio era stata fondata nel VII secolo a.c da colonizzatori greci sulle rive del Bosforo.
I lavori iniziarono nel 324 e sei anni più tardi, l’11 maggio del 330, venne solennemente inaugurata
ala nuova città che prese il nome di Costantinopoli.
Fu collocata fuori dall’amministrazione provinciale come Roma. Ha un suo senato e un prefetto
cittadino e i suoi abitanti ottennero privilegi analoghi a quelli dei romani.
Nasce come città già cristiana e nel corso dei secoli diventa il centro della cristianità orientale.
Anche la sua chiesa sub una evoluzione tale da giungere ad eguagliare il prestigio di quella di
Roma.
Continua ad esistere un solo impero romano e nel corso del IV secolo questo fu talvolta retto da un
unico sovrano. Ma con l’avvento di Arcadio e Onorio l’unità non sarebbe più stata ricostruita.
L’impero di Bisanzio usci’ relativamente indenne dalle grandi migrazioni del V secolo e sopravvisse
alla data fatidica del 576, che segnò la caduta dell’Occidente in mano ai barbari. I sovrano di
Costantinopoli non accettarono tuttavia il fatto compiuto.

In quest’epoca rivendicarono al contrario il diritto a governare tutti i territori appartenuti all’impero


romano.
Tale aspirazione fu parzialmente tradotta in pratica da Giustiniano I (527-565), che riuscì a
riconquistare l’africa romana, l’Italia e parte della Spagna strappandole ai barbari che vi si erano
insediati nel secolo precedente.
Giustiniano è una delle personalità di maggior rilievo nella storia di Bisanzio. Il suo nome, oltre che
alla riconquista, è legato alla grande codificazione del diritto romano, il Corpus Iris Civilis.
A lui fece capo un grande programma di costruzioni, civili, militari ed ecclesiastiche, che diedero
un’impronta indelebile alla sua epoca. L’esempio ancor oggi più tangibile, da questo punto di vista,
è dato dalla famosa chiesa di S. Sofia di Costantinopoli, che rappresentò per secoli il cuore della
vita religiosa della capitale cristiana.
Il suo lungo regno fu inoltre segnato da una notevole fioritura letteraria, che ne ha fatto uno dei
periodi più brillanti della cultura di Bisanzio.

I successi politici e militari di Giustiniano furono però in gran parte effimeri. Dopo la sua morte
l’impero subì una profonda crisi, essendo sottoposto agli attacchi concentrici degli Avari e degli
Slavi nella penisola balcanica, dei Persiani in Oriente, dei Longobardi in Italia e alla controffensiva
visigota in Spagna.

Molti sforzi vennero compiuti dall’imperatore Maurizio Tiberio, che reggo dal 582 al 602, per
ristabilire la supremazia militare, ma la situazione sembrò precipitare con il governo di Foca
(602-610), quando la parte orientale del mondo romano fu sul punto di crollare come già
l’occidente un secolo prima.

La crisi fu tuttavia superata grazie all’opera di un altro celebre sovrano, Eraclio, giunto al potere nel
610.
Con una serie di fortunate campagne Eraclio riuscì a piegare la potenza persiana conducendo le
sue armate direttamente in territorio nemico.
Sotto il suo regno comparvero sulla scena gli Arabi, per secoli in seguito nemici indomabili
dell’impero, la cui prima espansione avvenne ai danni di Bisanzio, in stridente contrasto sulle
vittorie riportate su altri fronti.
Nel 634, sotto la guida del califfo Omar, gli Arabi irruppero nel territorio dell’impero, conquistando
prima la Siria, poi la Palestina e la Mesopotamia bizantina.
Nel 640 fu la volta dell’Armenia e cominciò nello stesso tempo la conquista dell’Egitto, che come
già per Roma era una regione di grande importanza per Bisanzio. Più tardi, nel corso del VII
secolo, sarebbero inoltre caduti nelle loro mani territori dell’Africa imperiale.
Con l’età di Eraclio si considera comunemente esaurita la prima fase della storia di Bisanzio, che
può essere definita anche come periodo tardo-romano.

I termini di periodizzazione possono essere dati da una serie di cambiamenti, che alterarono la
tradizionale struttura amministrativa romana, dando all’impero una configurazione che avrebbe
mantenuto per secoli.
Alcune magistrature scomparvero, per dar luogo ad altre, e l’amministrazione periferica si modificò
con una netta prevalenza dell’autorità militare su quella civile, in nome delle preminenti esigenze di
difesa dai nemici esterni.
Venne tra l’altro abbandonato l’uso del latino, che fino a quel momento era stato ancora la lingua
ufficiale, per essere sostituito dal greco.
Lo stesso sovrano non fu più indicato con l’antico intitolata romana di Imperator, Caesar, Augustus
bensì con quella greca di Basileus.
Si entrò in sostanza nella fase più propriamente bizantina in cui, pur nel legame ideale con le
origini, gli elementi orientali tendevano a divenire predominanti sulla tradizione romana.
La chiesa assunse un ruolo più incisivo nella vita pubblica e la cultura si fece esclusivamente
greca.
Ciò non significa che i Bizantini abbiano rinnegato l’origine romana.
Al contrario sarebbero rimasti sempre idealmente legati a questa nel corso di tutta la loro storia,
continuando a definirsi “romani” in contrapposizione ai barbari, che vivevano al di fuori dell’impero.
Il mondo bizantino, chiaramente delineato nei suoi tratti più specifici tra il VI e VII secolo, trae le
sue origini dall’età di Diocleziano e di Costantino e delle riforme:
1. La riforma della struttura della società romana
2. La riforma religiosa, con la fede cristiana che divenne una componente fondamentale della vita
dell’impero
3. La riforma del rapporto stato-chiesa, in cui furono gettate le base di un legame profondo fra i
due ambiti che divenne caratteristico della storia di Bisanzio.

Fino a Costantino l’impero romano era stato caratterizzato essenzialmente da due elementi: la
forte struttura statale e la cultura ellenistico-romana.
Questi sopravvissero entrambi nell’impero bizantino, ma come tratti caratteristici emersero la
religione cristiana e uno strettissimo legame tra stato e chiesa.
La chiesa si trovò in una posizione privilegiata, ma fu sempre subordinata alla volontà imperiale.
A Bisanzio si affermò il principio del cesari-papismo, con l’imperatore che assunse responsabilità e
competenze anche in campo spirituale.
La civiltà costituisce, quindi, lo sviluppo della civiltà romana su basi parzialmente nuove.

L’impero bizantino poteva considerarsi uno stato degno di questo nome: disponeva di una solida
burocrazia, di un sistema fiscale efficientissimo, di un esercito permanente, di scuole pubbliche e
di una flotta agguerrita.
La coscienza di apparteneva alla tradizione greco-romana non impedì ai Bizantini di assorbire
liberamente stimoli culturali e idee di altri popoli.

Bisanzio non ereditò da Roma soltanto le robuste strutture statali e le ambizioni alla creazione di
un impero universale, ma anche due ordini di problemi:
1. Quello dei rapporti con le popolazioni barbariche e, soprattutto, della loro pressione sulle
regione a sud del Danubio.
2. Quello dei dissidi di carattere religioso, tumultuosi e laceranti.

Preoccupò sopratutto la pressione germanica degli Ostrogoti, stanziati in Pannonia, sulla penisola
balcanica.
Il problema ostrogoto fu risolto convincendo Teodorico a dirigersi verso Occidente per abbattere
Odoacre (488).
Il problema della potenza germanica all’interno dell’impero trovò inoltre una soluzione grazie
all’alleanza con il bellicoso popolo degli Isaurici, stanziati in Asia Minore, suddito dell’impero, ma
ufficialmente non barbaro.
Le ribellioni dei capi dovettero essere combattute con delle guerre regoli e la loro resistenza fu
vinta sotto Anastasio I (491-518), che procedette ad una loro deportazione in massa.
La pace sociale era inoltre minacciata dalle dispute di carattere religioso in alcune regioni come
Egitto e Siria, le dispute si associavano alle ambizioni autonomistiche locali.
La dottrina monofisita godeva di grande popolarità in queste aree ed era stata avversata con
sanguinose persecuzioni.
Il monofisismo attribuiva a Cristo non soltanto una persona sola, ma anche una sola natura, quella
divina: era stato condannato durante il Concilio di Calcedonia (451), riconoscendo inoltre la
supremazia del vescovo di Costantinopoli a Oriente e quello di Roma a Occidente.
Nel tentativo di un compromesso, l’imperatore Zenone (474-491) tentò nel 482 di accordarla
all’ortodossia conciliare ecumenica proclamando l’Henotikon (o editto dell’unione).
Opera dei patriarchi di Costantinopoli e Alessandria, il sentivo fallì e provocò lo scisma detto di
Acacio, durato circa trent’anni e che vide su posizioni avverse Roma e Costantinopoli.
La politica nei confronti dei monofisiti fu però oscillante.
Dopo le posizioni oscillanti di Anastasio I, morto senza un successore nel 518, venne eletto
Gisutino I (518-527), un contadino originario dell’Illiria che aveva fatto il suo Cursus Honorum
all’interno dell’esercito, cui successe il nipote Giustiniano (527-565), educato a corte.
Essi tentarono la via dell’intransigenza nei confronti delle comunità cristiane di Egitto e Siria, e
perseguitarono ebrei e dissidenti.
L’Henotikon venne revocato e le posizioni ortodosse di Calcedonia divennero la linea politica
dell’impero.

MERCOLEDI’ 2 MARZO
Nella primavera del 527 Giustino si ammalò e Giustiniano fu proclamato Augusto; nel mese di
agosto morì e Giustiniano gli successe.
Teodora, moglie di Giustiniano e sua consigliera, che egli aveva sposato aggirando una legge che
impediva il matrimonio tra un senatore e un’attrice, tentò la mediazione religiosa proteggendo i
monofisiti, ma era una scelta politica questa destinata a lasciare degli scontenti soprattutto a
Costantinopoli e nei Balcani, dove più forti erano le posizioni anti-monofisite.
Tra i vari movimenti di tensione ricordiamo la rivolta di Nika del 532.
Furono messe in atto missioni evangelizzatrici nell’area danubiana e del Mar Nero, e in Africa,
dove tra Egitto e Abissinia si rafforzarono le posizioni della chiesa monofisita di Alessandria.
La chiesa di Roma trovò in Giustiniano non soltanto un protettore, ma un capo estremamente
fermo, che ne fece una sua fedele collaboratrice.
Grazie alla sua fermezza ottenne l’obbedienza di papa Vigilio, contrario alla conciliazione con il
monofisismo voluta dall’imperatore.
Sotto Giustiniano venne così celebrato il quinto concilio ecumenico di Costantinopoli nel 533, che
fu incentrato su due temi principali:
1. La condanna dei cosiddetti Tre Capitoli, un tentativo espungere tre autori (teodoro di
Mopsuestia, Teodoreto di Ciro, Iba di Edessa) controversi per trovare un compromesso tra
ortodossi e monofisiti.

2. La condanna dell’Origenismo come forma di contrasto alle posizioni pagane neoplatoniche di


cui Origene, discepolo alla lontana di Plotino, era accusato.

La politica religiosa di Giustiniano fallì e le tensioni sulla questione monofisita si acuirono, con
ricadute sull’Italia stessa.
Papa Vigilio fu convocato forzatamente a Costantinopoli e fu tratto in arresto finchè non accettò la
condanna dei tre capitoli.
L’arcivescovo di Aquileia, Paolino, che con l’occasione divenne patriarca, insieme ad altri vescovi
dell’Africa settentrionale non accettò tale condanna e non volle riconoscere papa Pelagio, allineato
alle posizioni di Giustiniano.
Ebbe così origine lo scisma di Aquileia, detto anche dei tre capitoli, e destinato a protrarsi per c
circa un secolo e mezzo, rientrando intorno all’anno 700.
L’alleanza di Giustiniano con il papa e la politica di unità del mondo cattolico erano una condizione
necessaria all’attuazione di un grandioso progetto di riconquista dell’Occidente.

LA POLITICA DI BISANZIO SOTTO GIUSTINIANO (527-565)


L’imperatore intendeva restaurare l’impero universale di Roma il cui ricordo, vivissimo, era
rinvigorito dalle aspirazioni dell’episcopato a fare del cristianesimo la religione universale.
L’idea che Giustiniano cercò di realizzare, cara alla grande aristocrazia che ancora deteneva il
potere, fu quella di un impero coincidente con il mondo cattolico.
Vi fu quindi un cambio di rotta nella politica bizantina: vi fu il tentativo di riaffermare la superiorità
dell’impero rispetto ai regni barbarici, il cui credo era orientato verso la fede ariana.
Il progetto di restaurazione dell’autorità imperiale nel Mediterraneo comprendeva quindi il ritorno
ad un’unica confessione religiosa ufficiale, quale simbolo della ritrovata unità politica.
Le guerre di riconquista furono effettuate appoggiandosi ai latifondisti e ai gruppi di mercanti
interessati al commercio internazionale.
Le circostanze erano ora favorevoli:
1. l’impero, dopo una fase di riacutizzarsi delle guerre con i persiani a inizio VI secolo, aveva
concluso una pace con i Parti e, dopo una nuova fase conflittuale, nel 531 poteva ritirare delle
truppe dai confini orientali.
2. I regni romano-barbarici del mediterraneo erano indeboliti da crisi dinastiche interne
3. Goti e Vandali, entrambi ariani, si erano urtati spesso con i romano-cattolici, molti dei quali
simpatizzavano per l’impero d’oriente.
A fare le spese dell’espansionismo di Bisanzio fu dapprima il regno vandalo, che fu rioccupato tra il
533 e il 534.

La riconquista non si limitò a riportare l’Africa sotto il dominio dell’impero.


Ricreò i rapporti sociali anteriori all’occupazione dei vandali, che scomparvero come popolo.
Restaurazione del potere imperiale significò dunque restaurazione sociale.
Significato analogo ebbero le riconquiste in Italia e in Spagna. Il recupero dell’Italia fu avviato nel
535 da Belisario, il fidatissimo collaboratore di Giustiniano che aveva rioccupato la provincia
d’Africa.
Il regno goto era però molto più solido di quello vandalo e abbattere non fu facie: la guerra greco-
gotica, pesantissima soprattutto per le popolazioni locali, fu quindi lunga e difficile.
Procopio di Cesarea, lo storico che vi prese parte come segretario del generale Belisario, ne
descrisse con grande efficacia la triste sequela di carestie, epidemie, sofferenze per la
popolazione.
Dopo venti anni di battaglie l’Italia fu infine recuperata dagli eserciti bizantini guidati da un altro
generale di Giustiniano, Narsete.
L’aristocrazia latifondista romano-italica riottenne allora i suoi schiavi, i suoi coloni, gli animali e i
privilegi di cui gli ultimi re goti l’avevano spogliata, grazie alla Prammatica Sanzione (554).
Anche nella penisola, insomma, la restaurazione imperiale significò la restaurazione die vecchi
rapporti sociali: ma fu una restaurazione di breve durata poiché 15 anni dopo i longobardi
strapparono gran parte della penisola all’impero.
Le grandi conquiste di Giustiniano furono concluse da una spedizione in Spagna che strappò ai
Visigoti la parte sud-orientale della penisola iberica (554); di questa campagna però siamo poco
informati.
Ai territori dell’impero d’oriente furono così riaggregate una parte della Spagna, Italia e gran parte
dell’Africa settentrionale.
Il mediterraneo tornò così ad essere un mare inverno dell’impero.

GIUSTINIANO E LA SUA CORTE (527-565)


Rioccupata l’Italia e parte delle coste dell’Africa e della Spagna, Bisanzio dimostrò di saper
assolvere una importante funzione che Roma aveva esercitato per secoli: garantire nel
Mediterraneo la sicurezza delle comunicazioni navali, che le incursioni e gli atti di pirateria dei
Vandali avevano minato. Le attività commerciali ne avevano favorite.
Un ulteriore impulso fu dato dall’apertura di nuovi passaggi verso la Cina, che liberarono Bisanzio
dalla pesante tutela persiana sui traffici con l’Estremo oriente.
In quegli anni avvenne l’introduzione nell’impero della coltura del baco da seta, divenendo così
indipendente nella produzione e nel commercio di questo bene di lusso.

Ma come erano state possibili le riconquiste così importanti anche dal punto di vista economico?
Dobbiamo guardare il funzionamento della macchina statale e individuare l’opera di
riorganizzazione di Giustiniano che egli operò su tre livelli
A. Riscossione regolare delle imposte, divenute particolarmente pesanti per il completo
esaurimento finanziario del paese a causa delle guerre. La forte pressione fiscale divenne una
caratteristica costante dell’impero bizantino e, come già in epoca di Diocleziano, fu una delle
cause principali dell’indebolimento dei contadini e dell’estendersi dei latifondi.
B. Centralizzazione e potenziamento della burocrazia, pur se non su basi di rinnovamento
radicale. Continuò a sopravvivere il principio di Diocleziano della separazione tra potere
militare e potere civile nelle province. In alcune regioni di frontiera Giustiniano diede la
preminenza alle autorità militare su quelle civili
C. Riorganizzazione totale della legislazione che diede un fondamento giuridico al potere
autocratico dell’imperatore, la cui volontà fu dichiarata legge suprema.
La riorganizzazione legislativa fu opera di Triborniano, che operò a caso di una commissione di
dieci saggi, classificò e raccolse in poco meno di un anno di lavoro quanto poteva venire utilizzato
dell’antica legislazione romana, tenendo però conto del trionfo del cristianesimo e dell’evoluzione
dei costumi.
Questo codice non sopravvive, mentre si conserva una edizione rivista di quattro anni e mezzo
successiva in 12 libri. Il risultato fu la redazione del Corpus Iris Civilis, redatto tra il 528-533, che
comprendeva: il Codex Iustinianeus, una collezione di tutti gli editti imperiali ancora in vigore a
partire dall’epoca di Adriano (117-138); Pandette o Digestum, una raccolta semplificata di pareri e
sentenze dei più autorevoli giuristi di età classica; Istitutiones, un manuale per lo studio del diritto;
Novellae, le sentenze promulgate dallo stesso Giustiniano dopo il 533.

Durante i primi anni di regno da parte di Giustiniano, nipote di Giustino I, l’imperatore dovette
fronteggiare anche l’opposizione interna (anzitutto Bisanzio) da parte dei Demi cittadini dovuta
all’inasprimento fiscale e capeggiata dai nipoti dell’imperatore Anastasio I (491-518), Ipazio e
Pompeo.
Nel 533 scoppiò una rivolta promossa da parte dei Demi di Bisanzio.
Parte della città andò a fuoco, inclusa S. Sofia che venne ricostruita da Giustiniano insieme al
palazzo imperiale.
La rivolta di “Nika” ebbe luogo a Costantinopoli all’inizio del 532, quando il popolo della capitale si
sollevò contro l’imperatore al grido di “Nika”, con cui era solito incitare i propri campioni nelle corse
di carri.
La rivolta maturò infatti nell’ambiente dell’ippodromo ad opera delle fazioni sportive dei Verdi e
degli Azzurri, che avevano assunto nella prima età bizantina una forte connotazione politica
organizzandosi in una sorta di partiti, in parte militarizzati, con i quali doveva misurarsi
l’assolutismo imperiale.
Azzurri e Verdi, tradizionalmente rivali, si coalizzarono contro il fiscalismo giustinianeo e, per cause
occasionali, diedero l’avvio a un moto durato alcuni giorni da cui fu causato l’incendio della città.
Giustiniano, asserragliatosi nel suo palazzo, fu sul punto di abbandonare la partita, ma la
situazione fu salvata dall’intervento dell’esercito che assalì i popolani facendone grande strage.
Venne ripreso l’esempio di Costantino I: il potere imperiale è superiore e si fa garante dell’unità
ecclesiastica.
Giustiniano presiedette i Concilia, emanò gli editti, nominò i vescovi.
Propugnò la lotta all’eresia che implicò però lo scontro frontale con le identità religiose di carattere
regionale e sovra-regionale che si erano sviluppate nel frattempo sia in Oriente, sia in Occidente.

TRIONFO SUI VANDALI

Nel 534, dopo una breve campagna, Belisario ebbe ragione del regno dei Vandali che si era
costituito un secolo prima nell’Africa Romana.
Fu la prima delle grandi riconquiste giustinianee, seguita poi dal recupero dell’Italia e di parte della
penisola iberica sottratta ai Visigoti. Il generale, tornato a Costantinopoli, ebbe l’onore del trionfo
che fu zonato anche da Gelimero, l’ultimo re dei Vandali.

“Quando Belisario giunse a Bisanzio con Gelimero e i Vandali fu giudicato ben meritevole di
ricevere quegli onori che nei tempo antichi venivano conferiti ai generali Romani che avessero
riportato le vittorie più importanti e più degne di celebrità. Era già passato un lasso di tempo di
circa seicento anni senza che nessuno avesse ricevuto tali onoranze, eccetto Tito e Traiano e tutti
gli altri imperatori che avevano mosso guerra a qualche popolazione barbarica e ne erano riusciti
vincitori.
Belisario fece sfilare per il centro della città tutte le spoglie di guerra e i prigionieri, in quella
solenne processione che i Romani chiamano Trriumphum, non però nella maniera antica, ma
andando a piedi da casa sua fino al circo e là percorrendo ancora il tratto delle cancellate fino al
punto dov’era il seggio imperiale.
Qui si trovavano disposti tutti gli oggetti preziosi del bottino che è norma riservare per il servizio di
un sovrano: sedili d’oro e cocchi sui quali è costumanza che venga trasportata la moglie di un re,
una grande quantità di gioielli costituti di pietre rare, coppe d’oro e tutte le altre cose necessarie
per una mensa reale.
C’era inoltre dell’argento, per un peso di molte migliaia di talenti, e l’immensa ricchezza di tutto il
tesoro regio, perché Genserico aveva saccheggiato ilPalatino, come abbiamo narrato in un
precedente capitolo, e tra il resto c’erano anche i tesori degli Ebrei che Tito, figlio di Vespasiano,
aveva portato a Roma, con altri; dopo la distruzione di Gerusalemme.
Vedendo questi ultimi, un’ebreo, c’hera seduto vicino ad un conoscente dell’imperatore disse:
“credo che sia pericoloso portare questi tesori dentro il palazzo reale di Bisanzio. Non è possibile
che essi stiano in altro luogo se non dove li aveva messi la prima volta Salomone, il re dei giudei.
Per causa loro, infatti, Genserico è riuscito ad espugnare la reggia dei Romani e adesso l’esercito
romano ha espugnato quella dei Vandali”.
Quando gli vennero riferite queste parole, l’imperatore fu preso da paura e subito dopo mandò ogni
cosa ai templi cristiani di Gerusalemme.
Nel trionfo, tra i prigionieri di guerra c’era anche lo stesso Gelimero il quale portava sulle spalle
una specie di manto di porpora, con la famiglia e tutti i Vandali più alti di statura e belli di
corporatura.
Gelimero, appena giunse nel circo e vide l’imperatore assiso su un’alta tribuna, e il popolo dall’altra
parte, guardandosi intorno e considerando in quale triste situazione egli invece di trovava, non
pianse e non si lamentò, ma non cessò di meditare la sentenza ebraica che dice: “Vanità delle
vanità, tutto è vanità”.
Quando giunse sotto la tribuna imperiale, gli tolsero il manto di porpora e lo costrinsero a gettarsi
attorno ai piedi dell’imperatore in atto di riverenza. Anche Belisario fece così, mettendosi con lui
come supplice davanti all’imperatore.
L’imperatore Giustiniano e l’imperatrice Teodora fecero dono di discreto somme di denaro a tutti i
figli e discendenti di Ilderico nonché ai famigliari dell’imperatore Valentiniano, e a Gelimero
concessero delle terre, non certo di poco valore, nella Galazia, permettendogli di vivere la con la
famiglia.
Però Gelimero non potè essere assolutamente ammesso tra i patrizi, perché non volle abiurare la
religione ariana. Qualche tempo dopo Belisario celebrò anche il trionfo secondo le antiche usanze.
infatti, essendo stato eletto console, gli toccò essere portato a spalle dai prigionieri di guerra; poi
dal cocchio trionfale gettò alla folla parte del bottino fatto nella guerra contro i vandali. Così il
popolino guadagnò dal consolato di Belisatio coppe d’argento, cinture d’oro e svariati altri oggetti
preziosi del tesoro dei Vandali, e parte che si fosse rinnovata dopo tanto tempo un’antica
consuetudine in disuso”.

532 venne raggiunta la pace con l’impero persiano a fronte della corresponsione di un pesante
tributo in denaro
533-534 il générale Belisario riconquistò l’Africa dei Vandali e li espulse anche dalla Sicilia
535 dopo la morte di Amalasunta, Belisario incominciò la conquista dell’Italia dai Goti.
535-553 si combatte la guerra greco-gotica in Italia. Si tratta di un conflitto molto lungo, che vede
numerose fasi alterne, con la ripresa della parte gotica con Totila

553 una volta risolta positivamente la situazione in Italia, ebbero inizio le operazioni per la
riconquista della Hispania
554 Giustiniano promulgò la prammatica Sanzione a favore del vecchio ceto proprietario in Italia.
Dopo il 553 non vi è più traccia dei Goti in Italia.
Determinò l’affermazione dell’identità politica e funzionale gota e viene assorbita nel contesto della
riconquista bizantina

LA PRAMMATICA SANZIONE (554)


• Estensione all’Italia del Codice di Giustiniano: che rimangano valide tutte quelle cose che
avevano concesso Amalasunta, Atalatico e Teodato; che le donazioni fatte da Totita siano tutte
annullate.

TRA VI E VII SECOLO: LO STANZIAMENTO DEGLI SLAVI


La vita dell’impero bizantino fu caratterizzata tra la fine del VI e inizio del VII secolo da due
fenomeni di grande rilievo:
- Una paurosa crisi interna provocata da guerre civili e rivolte militari che gli imperatori Maurizio e
Foca tentarono inutilmente di arginare
- L’incapacità di difendere le frontiere dalle minacce di Persiani, Avari e Slavi in Oriente, Visigoti e
Longobardi in Occidente
L’impero dispiegò tutte le sue forse per difendersi, ma andò incontro a amputazioni territoriali
gravissime.
L’Italia, la regione più importante tra quelle riconquistate con enormi sacrifici da Giustiniano, fu
occupata in gran parte dai Longobardi a partire dal 568.
Cordova, il caposaldo bizantino in Spagna, fu ripresa definitivamente dai Visigoti nel 584
Quanto agli Slavi, essi non si limitarono più a effettuare incursioni: verso il 580 le tribù stanziate
presso il medio Danubio si riversarono disordinatamente sulla penisola balcanica e persero
possesso stabilmente dei territori occupati.
Il loro insediamento in terra bizantina avvenne in collegamento con la popolazione mongola degli
Avari, che era penetrata nell’Europa centrale.
Per Bisanzio fu un avvenimento determinante; nulla di simile era accaduto nei secoli precedenti e
le stesse migrazioni germaniche avevano influito sulla politica bizantina, ma con carattere
temporaneo.
L’insediamento definitivo di nuclei slavi nei Balcani su larga scala nel corso del VII secolo aprì un
lungo processo che portò alla formazione degli stati slavi in queste regioni.
Le enormi perdite territoriali tra fine VI e inizio VII secolo spostarono definitivamente il baricentro
dell’impero verso Oriente. L’epoca bizantina, nel senso più pieno della parola, era ormai in corso.
Importanti misure organizzative consentirono a Bisanzio di conservare i resti dei possedimenti in
Occidente.
L’imperatore Maurizio (582-602) non rispettò la separazione tra potere militare e civile che aveva
costituito uno dei cardini dell’amministrazione romana e raggruppò nelle due luogotenenze militari,
o esarcati, di Ravenna e di Cartagine, quanto rimaneva delle province d’Italia e Africa.
L’amministrazione militare e politica di queste luogotenenze fu affidata agli esarchi che dovevano
provvedere alla difesa con milizie locali.
La concentrazione di tutti i poteri nelle mani dei capi militari si estese rapidamente e divenne la
base del cosiddetto sistema dei temi, sorto al tempo di Eraclio (610-641).
Uno dei grandi imperatori bizantini, Eraclio dovette difendere l’impero anche dagli attacchi dei
persiani che avevano conquistato quasi tutta l’Asia Minore.

Egli raccolse e consolida allora le forze restanti di Bisanzio e pose le basi di un sistema che
avrebbe caratterizzato per secoli l’amministrazione provinciale dello stato bizantino medievale.
Il territorio dell’Asia minore non ancora raggiunto dal nemico fu suddiviso in circoscrizioni, unità
amministrative a carattere decisamente militare, al cui vertice c’era un generale che, come gli
esarchi di Ravenna e Cartagine, esercitava il massimo potere civile e militare.
Crollò del tutto il vecchio ordinamento amministrativo che risaliva a Diocleziano e Costantino e che
si basava sulla distinzione, nelle province, del potere militare da quello civile.
Ai soldati furono attribuiti in proprietà privata ereditaria dei fondi; in cambio essi dovevano prestare
un servizio militare parimenti ereditario.
L’amministrazione dei temi assomigliava cioè al vecchio istituto tardo-romano del territorio di
frontiera difeso da soldati-coloni detti limitanei.

Il sorgere con Eraclio del sistema tematico non significò l’immediata abrogazione delle
circoscrizioni pubbliche precedenti. Ci vollero quasi tre secoli prima che tutto l’impero fosse
suddiviso in temi e funzionasse una nuova organizzazione interna.
La riorganizzazione dell’esercito ebbe conseguenze importanti.
L’impero fu liberato dal gravoso impegno dell’arruolamento di mercenari ed ebbe a disposizione
truppe assai più economiche: i coloni-soldati erano interessati a difendere le proprie terre.
Si rafforzò la piccola proprietà; sul breve periodo il nuovo ordinamento diede risultati lusinghieri e
nella lotta tra Bizantini e Persiani, si verificò un capovolgimento radicale, grazie anche al
finanziamento della chiesa greca a favore dello stato.
Eraclito riuscì a sconfiggere i Persiani e a riconquistare tutti i territori già dell’impero: Armenia,
Mesopotamia romana, Egitto, Siria, Palestina. Ebbe grande importanza la riforma militare e
amministrativa e che pose i fondamenti dello stato bizantino medievale.

Due capitali:
- Ravenna (sede dell’esarca d’Italia e della metropoli ecclesiastica)
- Roma (sede del duca bizantino e sede del vescovo della città/papa)
In seguito alle conquiste dei longobardi i territori Italici rimasti in mano bizantina subirono una
riorganizzazione amministrativa. La Descriptio Orbis Romani di Giorgio Ciprio, opera geografica
redatta all’inizio del VII secolo, descrive l’Italia suddivisa in cinque provincie.
Giorgio Ciprio è un armeno che redige la sua descrizione dell’Italia sulla base di informazioni
giudicate non sempre attendibili. Uno dei principali studiosi dell’Italia bizantina, Salvatore
Cosentino, diversamente da Giorgio Ravegnani e da altri, ritiene che la descrizione di Giorgio sia
del tutto inaccurata in quanto smentita da fonti coeve italiche.
Suddivisione dell’Italia: Urbicaria. Annonaria, Emilia, Campania, Calabria.
Dopo la migrazione longobarda vi fu una forte militarizzazione dei territori rimasti all’impero.
Il comando generale dal 584 venne conferito all’Esarca.
Il territorio venne suddiviso in ducati, strutture di comando militare territoriale.
I territori interessati sono:
• Ducato romano (parte del Lazio e Tuscia meridionale)
• Esarcato (Romagna)
• Le due Pentalopoli (Marche settentrionale, area di Perugia)
• A Sud (Puglia e Calabria, la costa della Campania, le isole)
• A Nord (la Liguria il veneto orientale e l’Istria)
Si tratta di un territorio a macchia di leopardo, con vie di comunicazione spesso difficili e tortuose.

IL DUCATO ROMANO
Roma era uno dei cinque patriarcati codificati dal Concilio di Calcedonia (451), cioè chiese madri
perché fondate direttamente da un apostolo: Costantinopoli, Antiochia, Gerusalemme, Alessandria,
Roma.
La chiesa di Roma affermò la sua particolarità grazie alla sua doppia apostolicità; poiché i suoi
fondatori sarebbero stati sia Pietro che Paolo.
Il papa si riteneva il successore di Pietro a cui cristo aveva affidato un ruolo di guida nei confronti
degli altri apostoli. Inoltre, Roma poteva contare sul prestigio eccezion ale della sua sede, l’antica
capitale dell’impero.
Bisogna tenere presente che il processo di affermazione papale non è lineare ne di breve periodo.
L’aspirazione al primato di Roma, sostenuta con particolare tenacia da due papi, Leone I (440-461)
e Gelasio (492-496), in un primo tempo fu ignorata o contrastata in occidente.
In Oriente la teoria del primato romano si scontrò con le pretese di Costantinopoli che vantava la
sede imperiale. Più che il patriarca di Costantinopoli, era lo stesso imperatore a opporsi alle
pretese di Roma.
In tal modo egli sosteneva l’autorità di un patriarca che poteva essere da lui facilmente controllato,
a differenza di un papa lontano e più difficilmente raggiungibile.

GIOVEDI’ 3 MARZO
PAPA GREGORIO I MAGNO (590-604)
Nato intorno alla metà del V secolo, fu un discendente dell’aristocrazia senatoria, forse legato al
gruppo degli Anicii.
Probabilmente ricoprì la carica di praefractus Urbi: ebbe responsabilità amministrative e
giurisdizionali su Roma e sull’Italia suburbicaria durante la fase di espansione longobarda in cui
l’esarca e più in generale i Bizantini furono in difficoltà nell’intervenire.

A partire da Gregorio I e poi successivamente in modo ufficiale, la carica di praefectus urbi fu


assorbita dai pontefici e inglobata nelle loro mansioni, in coesistenza con il potere militare del duca
bizantino.
Durante il pontificato di Gregorio quando giunsero a Roma i ritratti del nuovo imperatore Niceforo
Foca e di sua moglie Leonzia, il senato si riunì per l’acclamazione rituale.
Mancando il numero legale partecipano alla cerimonia anche i membri del clero romano e la
riunione si svolse nel palazzo papale del laterano.
Dopo il 603 il senato scomparve come organismo istituzionale, e l’appellativo di clarissimi non
indicò più i membri di un’istituzione ma venne a caratterizzare una classe sociale.

A partire da Gregorio Magno il papa svolse alcune importanti funzioni di tipo “imperiale”:
• Trattò la pace con i Longobardi
• Sfamò la popolazione di Roma importando grande dalle proprietà papali della Sicilia, che si
sostituiscono ai depositi statali
• Cominciò a prendere piede l’idea del Patromomnium Sancti Petri, erede dei beni e delle terre
bizantine in Italia a sud del fiume Po.

Opere di Gregorio Magno:


- Esegesi biblica: Regula Pastoralis, rivolta ai vescovi
- Dialogi (594): propone un modello di santità concreta e operativa. Fu una fonte per la figura di S.
Benedetto di Norcia, la cui Regula fu adottata nel corso dell’VIII e soprattutto del IX secolo da
tutti i principali monasteri dell’impero carolingio.

L’EVOLUZIONE DELL’ARISTOCRAZIA IN ITALIA NELL’ALTO MEDIOEVO


L’ordine senatorio romano fu il modello principale al quale le aristocrazie alto medievali dell’Europa
occidentale guardarono perché fu basato:
- Sulla proprietà della terra
- Incarnò il concetto di nobiltà
- Fu strettamente collegato al prestigio dell’esercizio del potere politico e delle antiche
ascendenze, senza però escludere la possibilità di ascesa a Homines Novi (soggetti affermatisi
recentemente)
- Specialmente in Italia l’aristocrazia alto medievale sorse dalle ceneri del vecchio ceto senatorio
Fino all’anno 500 l’aristocrazia italiana aveva mostrato un profilo assai più conservatore che nel
resto dell’Europa occidentale, dove invece le famiglie senatorie avevano imparato a convivere con
le elites militari provenienti dalle popolazioni barbariche insediatesi all’interno di quelle che erano
state le provincie dell’impero.
In Italia questo processo avvenne assai più tardi, vale a dire solo dopo che i Goti consolidarono il
loro potere con l’ascesa al trono di Teodorico (493)
In Italia perciò i due gruppi, aristocrazia senatoria e elites militari barbariche, rimasero
sostanzialmente separati.
I senatori continuarono a mantenere i loro uffici pubblici senza interruzione, svolsero funzioni
pubbliche e continuarono il loro modo di vivere in un contesto sociale, politico e istituzionale che in
teoria, così come in pratica, preservò inalterata l’antica res publica.
L’ideologia ufficiale durante il regno di Teodorico mantenne le caratteristiche civili riservate
all’aristocrazia senatoria, che continuò a reggere gli uffici burocratici più prestigiosi, come ad
esempio quello di prefetto del pretorio dell’Italia, in chiaro contrasto con l’incombenza del tutto
militare di difendere la romanitas che era invece affidata per intero ai Goti.
In pratica quindi le differenze tra i due gruppi non erano poi così grandi.
Da una parte infatti vi furono senatori che adottarono uno stile di vita differente e ricoprirono
addirittura degli incarichi militari.
Dall’altra parte alcuni membri delle elites gote entrarono nel senato ed ottennero il titolo di vir
illustribus che era risegato ai senatori dal rango più elevato che prendevano parte alle assemblee.
Divenne più difficile per il ceto senatorio abbandonare Roma e spostarsi alla corte del re goto a
Ravenna per ricevere gli alti uffici più strettamente legati all’amministrazione del palazzo.
Nondimeno i principali due clan aristocratici -quelli degli Anicii e quello dei Dieci- ebbero
frequentemente incarichi di prestigio tra cui quello di caput senatus e quello di prefetto del
Praetorium.
Al fianco di queste famiglie era cresciuta una nobiltà italiana provinciale, organizzatasi intorno alla
corte di Ravenna e che includeva molti personaggi famosi, tra cui Cassiodoro, e molti altri.

Erano tutti personaggi caratterizzati dalla grande proprietà terriera attraverso la quale
alimentavano la propria ricchezza.
Mentre in precedenza le grandi famiglie senatorie avevano proprietà estese in molte delle province
dell’impero, ora le proprietà dell’aristocrazia provinciale erano concentrate in aree molto più
limitate, spesso localizzate all’intento di un territorio municipale.
Le grandi famiglie che controllavano il senato erano perciò parzialmente svantaggiate.
Alcune di loro, come ad esempio la Gens anicia, si erano spostate a Costantinopoli per stare più
vicine all’imperatore e godere quindi di rapporti privilegiati con la corte.
Nonostante quindi fossero espressione di un nuova oligarchia politica, le loro basi economiche
erano assai fragili rispetto al passato.
La tendenza delle elites senatoriali di identificarsi con la città di Roma è evidente sopratutto per gli
sforzi di impedire al papato di impossessarsi della città.
Ravenna era invece la sede di un’aristocrazia legata all’amministrazione del palazzo.
Roma si andava configurando come il centro dove il ceto senatorio e il potere papale si allevano
per controllare le proprietà ecclesiastiche, la maggior parte delle quali erano il frutto
dell’evergetismo dell’aristocrazia senatoria.
Durante le prime crisi del regno gotico, negli anni finali del governo di Teodorico, si crearono
ulteriori spaccature tra senato romano e regnanti ostrogoti.
La guerra tra goti e bizantini segnò la fine delle grandi famiglie senatorie in Italia.
Difficoltà economiche e persecuzioni dell’aristocrazia sono registrate soprattutto durante il regno di
Totila.
La prammatica Sanzione del 554 cercò di restaurare le proprietà senatorie che erano state
confiscate e perse durante la guerra.
Quasi quindici anni dopo la Prammatica Sanzione l’Italia divenne nuovamente terra di conquista,
questa volta da parte dei Longobardi.
Dal punto di vista delle vicende dell’aristocrazia questo fu un vero e proprio momento di svolta.

Tre passaggi famosi della narrazione di Paolo Diacono descrivono la progressiva eliminazione
della classe politica dominante romana, senatoria e provinciale negli anni successi alla conquista.
Durante il regno di Clephi (572-574) “molti potenti romani furono messi a morte o costretti a
lasciare l’Italia”; ma anche negli anni immediatamente successivi (574-584) “ molti nobili romani
furono uccisi per la loro ingordigia” da parte dei duchi longobardi.
Questa situazione ha molto a che vedere con le modalità secondo cui si era svolta l’invasione,
poiché i Longobardi non furono insediati come alleati dell’impero, cosa che era invece accaduta
con i Goti.
I vari tentativi dei Bizantini per diminuire la porta del potere longobardo condusse i re e i duchi a
reagire talvolta anche violentemente.
Ma queste descrizioni non possono essere prese alla lettera.
La scomparsa progressiva del ceto senatorio non fu il risultato di un’eliminazione fisica e alcuni
esponenti di questo ceto, ad esempio, entrarono nelle fila dell’amministrazione del nuovo regno
longobardo.
Il nuovo regno non tendeva ad erigere barricate: come negli altri regni romano-barbarici c’era
spazio per entrare nelle fila dell’aristocrazia.
Ma il ceto senatorio progressivamente scomparve, e con esso i suoi valori, gli stili di vita, la cultura
e la capacità amministrativa.
I senatori o i grandi proprietari terrieri che sopravvissero all’arrivo del Longobardi e alle prime fasi
di insediamento, ebbero un solo modo per integrarsi: diventare essi stessi dei Longobardi.
I racconti di Paolo Diacono trovano conferma nell’improvvisa quanto totale scomparsa nei territori
longobardi di riferimenti a figure identificabili come tipiche del ceto senatorio romano.
In realtà, insieme alla durezza della conquista longobarda, un fattore che contribuì alla scomparsa
del ceto senatorio fu la relativa lentezza con la quale essi abbracciarono la carriera ecclesiastica.
altrove, ad esempio in Gallia e Spagna, era stato relativamente veloce ed esteso il fenomeno che
avevano visto esponenti del ceto senatorio accaparrarsi il controllo degli uffici episcopali.

Solo dopo la conquista longobarda nei territori bizantini le grandi famiglie senatorie collegarono le
loro fortune alle istituzioni episcopali che avevano nel frattempo assunto un ruolo fortemente
sociale ed amministrativo.
L’indebolimento del ceto senatorio in Italia fu poi ulteriormente fiaccato dalla divisione territoriale
che si venne a creare tra domini bizantini e longobardi.

Ciò significa che coloro i quali si trovarono all’interno dei territori conquistati vennero tagliati fuori
da Roma, il centro tradizionale di residenza del ceto senatorio e la città in cui le maggiori famiglie
senatorie avevano le loro radici.

La situazione fu differente nei territori che rimasero sotto il controllo bizantino.


Le lettere di papa Gregorio dimostrano che molti esponenti delle vecchie famiglie della grande
aristocrazia, anche se tecnicamente residenti a Roma, in realtà vissero permanentemente in Sicilia
oppure a Costantinopoli, e che non ebbero alcuna intenzione di tornare tra le armi nemiche.
Al massimo essi potevano inviare del denaro al fine di riscattare i prigionieri.
Ma ragionando ora su una scala d’azione più circoscritta, parte del ceto senatorio e dei grandi
proprietari terrieri continuò a risiedere all’interno dei territori dell’Italia bizantina.
Papa Gregorio scrisse numerose lettere proprio a costoro, ricordando il compito di sorvegliare sulle
anime dei loro rustici.
La maggior parte dei nobili ai quali egli si rivolse risiedettero nell’Italia meridionale e in Sicilia, ben
lontano quindi dalle aree di espansione dei combattivi longobardi.
Per evitare di dare l’impressione che il ceto senatorio sopravvisse in toto e senza crisi nelle regioni
bizantine, bisogna ricordare che fu proprio sotto il pontificato di papa Gregorio I che si riunì per
l’ultima volta il senato a Roma nel 603.
Tra il 625 e il 628 papa Onorio I trasformò la Curia Senatus all’interno del foro romano in una
chiesa dedicata ad Adriano.
L’ultima persona che può essere identificata con sicurezza come un membri del senato è il padre
dello stesso Onorio, il proconsole Petronio.
Questo episodio suggerisce che nei vent’anni dopo l’ultima riunione del senato, Onorio abbia
proceduto alla trasformazione del ceto senatorio in un ceto di chierici.
In ogni caso in questo periodo il ceto senatorio andava diminuendo di numero perché il titolo di Vir
Illustribus non poteva già essere ottenuto, ne vi erano più nomine imperiali o assemblee.
La pochezza delle fonti rende difficile ricostruire la composizione delle elites nel regno dei
longobardi. Ci sono comunque segni inequivocabili che la nuova classe dirigente fu parecchio
eterogenea.
L’eterogeneità della nuova classe dirigente riflette anche la composizione etnica mista generale e
vi erano distinzioni ulteriori che metteranno in risalto alcuni clan rispetto ad altri.
A livello archeologico si può dire che nel corso del primo secolo di insediamento l’aristocrazia
evidenzia un profilo assai militarizzato. Questo non significa che costoro costituissero
un’aristocrazia longobarda sotto il profilo etncio, ma che i valori tipici di un’aristocrazia guerriera
prevalevano sul carattere più prettamente civile del ceto senatorio.
Così si determina soprattuto attraverso l’analisi degli oggetti associati alle sepolture.
Diversamente dalle sepolture attribuite alla gens Langobardorum in Pannonia, colpiscono una
serie di sepolture con corredo guerriero sia maschile che femminile soprattutto nelle aree di
confine con i territori bizantini.
Nel 680 fu stipulato il primo vero e proprio trattato tra bizantini e longobardi; si tratta di una data
simbolica che permette di seguire l’evoluzione dell'aristocrazia in Italia fino alla conquista franca.

Una serie di evoluzioni si impongono abbastanza nitidamente:


- In primo luogo lo sviluppo dell'Elite nei due territori bizantino e longobardo aveva prodotto due
gruppi sociali dalle caratteristiche simili
- Se l'aristocrazia longobarda era tradizionalmente guerriera, quella bizantina era pure essa
denominata milizia, i suoi membri erano detti milites
- Intorno alla metà del VII secolo il reclutamento delle truppe veniva sempre più su base locale,
rendendo la disponibilità di terra una delle basi economiche fondamentali per far parte dell’Elite.
Alcuni termini come Militia Neapolitanorum o Ravennensium, ma anche Militia o exercitus
Romanorum o Veneticorum indicano una composizione sociale che andava però ben oltre
l’aristocrazia.
Lo stesso vale ad esempio per quei milites Comaclenses che commerciavano lungo il Po ed che
sono attestati in un accordo commerciale tra bizantini e longobardi di inizio VIII secolo.
Queste categorie comunque includevano anche quelle di nobiles o di nobiliores, attribuendo a
questi una funzione militare e identificandoli come parte di una gerarchia che andava dai duchi fino
ai tribuni.
Questi ultimi in particolare costituivano un ceto potente di proprietari terrieri che si erano stabiliti
all'inizio dell'VIII secolo in torno alle Venetiae.

Il termine milizia aveva un significato sociale, militare e politico, collegato all'organizzazione dei
ducati e degli esarcati bizantini.
Allo stesso tempo duchi e tribuni erano espressione dell'aristocrazia terriera, a capo inoltre di un
seguito armato di fedeli.
Tra gli esponenti del ceto dirigente italo bizantino c'era anche il clero, con i suoi primates
ecclesiae, l'espressione di gruppi urbani. Questi gruppi urbani aspiravano agli uffici cittadini più in
vista, abbondanti ad esempio in una città come Roma, ma non solo a Roma ovviamente.

L'aristocrazia guerriera era costituita da proprietari terrieri che ricoprivano inoltre importanti uffici
ecclesiastici e le cui attività politiche erano soprattutto urbane. Dagli anni 20 dell'VIII secolo in poi
queste Elite offrirono una leadership importante soprattutto in quelle province che tentavano di
emanciparsi da Bisanzio.
Nonostante le apparenze, il profilo sociale dell'aristocrazia nei territori longobardi non era molto
differente. L'unica vera differenza è costituita dalla qualità delle fonti, poiché mentre le aree
bizantino non hanno conservato documentazione privata, assai differente la situazione nei territori
longobardi.
La rappresentazione ideologica delle due aristocrazia era comunque differente.
A Roma come a Napoli dove si stava costituendo il patrimonio ecclesiastico, forte il richiamo al
Senato.
L'uso regolare del titolo di consul indica la crescita di un'aristocrazia cittadina legata soprattutto le
principali figure ecclesiastiche.
militia, consul e senatus erano quindi i termini usati nei territori bizantini che li rendono solo
apparentemente assai distanti da quelli longobardi.
Nel regno longobardo infatti, la gens langobardorum o exercitales, aveva nel re e nei suoi giudice,
il suo ceto dirigente.
In realtà la situazione era assai simile a quella dell'Italia bizantina, con una classe dirigente basata
sulla proprietà terriera. Anche l'aristocrazia longobarda era principalmente urbana, nonostante la
grande disponibilità di terra.
Si pensi all'esempio di Brescia citato da Paolo diacono, in cui erano insediati un numero elevato di
nobili longobardi alla fine del VII secolo. Furono soprattutto i piccoli proprietari terrieri a vivere al di
fuori delle città o in centri minori.
Coloro che ricoprivano invece ruoli politici amministrativi importanti risiedettero prevalentemente in
centri di un dato rilievo, come Cividale del Friuli, Brescia o Lucca.
Ciò significa che il termine longobardo non espressi in realtà mai un concetto di appartenenza
etnica, e Paolo diacono utilizza un'ideologia politica per descrivere un'aristocrazia che in realtà non
poteva che essere longobarda per definizione, ma che nascondeva una realtà ben differente da
quella trasmessa dall'immaginario collettivo.

DUE LIVELLI DI ARISTOCRAZIA LONGOBARDA


Le fonti disponibili per l'VIII secolo ci permettono di ricostruire la società longobarda con maggiore
dettaglio.
I riferimenti e membri delle famiglie più prestigiose sono scarsi nelle fonti, mentre sono più
frequenti in Paolo diacono anche se i veri protagonisti della narrazione della Historia
Langobardorum sono i re.
Le uniche informazioni che riguardano i duchi provengono quasi esclusivamente da Spoleto e di
Benevento; poiché erano quasi dei principati sovrani, per cui le realtà sopravvivono anche una
serie di decreti emessi dalla cancelleria centrale.
Mentre troviamo molti riferimenti all'aristocrazia dell'Italia settentrionale nelle pagine di Paolo
diacono, sono rimasti pochi pezzi documentari.
Ciò comporta numerose difficoltà, poiché diviene difficile stabilire una scala dei livelli di ricchezza a
disposizione delle famiglie dirigenti.
L'assenza di documentazione scritta potrebbe suggerire che fosse mancata l'autocoscienza delle
famiglie più altolocate, o che i patrimoni fossero in una certa misura meno mobili. Le proprietà più
compatte potrebbero riflettere inoltre la tendenza dei coeredi a salvaguardare il patrimonio
familiare e di assicurarsi che la creazione delle doti non andasse a distruggere l'unitarietà dei
patrimoni stessi.
Anche le fonti legislative gettano una luce sulla composizione sociale durante la prima parte
dell'VIII secolo.

Gli obblighi militari contenuti nelle leggi di Liutprando, ad esempio coinvolgevano gli uomini liberi
della società longobarda dividendoli in due gruppi. Quelli che possedevano un cavallo da guerra e
quelli che invece un cavallo da guerra non lo possedevano e definiti come minimi homines.
Questa suddivisione corrisponde per molti versi a quella contenuta nel capitolo 62 delle stesse
leggi di Liutprando, quando il re dovete stabilire il rango delle persone obbligate a pagare il
Wergeld (una composizione pecuniaria) e furono identificati due gruppi:

MARTEDI’ 9 MARZO
Venerdì 18 uscita didattica a Verona dalle 9.30 fino all’una indicativamente.
Continuo di quello scritto sopra
Uno composto dagli Exercitales, ovvero le minimae personae del valore di 150 soldi
L’altro di persone dal valore pari al doppio
Un elemento che complica un po la situazione è costituito dai gasindi, i fedeli del re, che furono
valutati 200 soldi

Una generazione dopo, intorno al 750, quando re Aistolfo/Astolfo emanò le sue cosiddette “leggi
militari”, nel secondo capitolo furono individuati non pia di due, ma tre gruppi.
Questi possono riflettere tecniche militari nuove, oppure un’articolazione sociale differente,
prevedendo due livelli più ricchi che possedevano i cavalli da guerra, mentre il terzo gruppo degli
homines minores non li possedeva.
Può darsi quindi che l’ulteriore suddivisione sia il risultato di una precisione legislativa maggiore.
La spiegazione migliore è tuttavia quella di ritenere che tutti questi fattori avevano giocato un ruolo.
In ogni caso, il gruppo successivo di leggi militari relative alla mobilitazione dell’esercito, il
capitolare di Lotario dell’825, che ci porta quindi nel cuore del periodo carolingio, divise la
popolazione libera in due gruppi: i bharigildi capaci di armarsi da soli, e quelli che dovevano unirsi
ad altri per potersi armare.
Nei primi decenni del IX secolo armarsi completamente significava attrezzarsi come cavaliere;
possiamo perciò dire che la distinzione sociale di base in termini di obbligazione militare rimase
sempre la stessa: la società si divideva tra coloro che erano cavalieri e coloro che non lo erano.
La trasformazione del servizio militare per il re sembrava avere quindi aperto nuove opportunità di
ascesa sociale soprattutto per gli appartenenti al primo gruppo sociale.
I Potentes a cui ci si riferisce nel capitolo due delle leggi di Aistolfo sono descritti come i proprietari
di almeno sette casae massariciae (unità di produzione, aziende contadine e dotazione che viene
loro assegnata).
Questo numero indica la base minima, non è il tetto massimo di beni immobili ed infatti gli
esponenti delle Elite longobarde possedevano estensioni di terra di gran lunga più vaste.
Ma sette fattori erano indicate dal legislatore in quanto in grado di fornire la base economica per
armare un cavaliere con equipaggiamento pesante, ed era proprio questo l'obiettivo delle leggi di
Aistolfo.
Questa fonte indica anche la presenza di un ceto di proprietari, la cui ricchezza consisteva
esclusivamente nel denaro.
Non stupisce quindi che nel capitolo tre, Aistolfo abbia incluso anche i negotiatores, o mercanti, tra
coloro che potevano essere mobilitati al pari dei proprietari di terra.
I più ricchi tra questi erano detti maiores et potentes e furono inclusi tra coloro che avrebbero
dovuto combattere a cavallo. I capitoli 2 e 3 delle leggi dunque indicano chiaramente come la
ricchezza dell'aristocrazia longobarda derivassero al denaro così come dalla terra.
I re longobardi fecero donazioni munifiche ai loro sostenitori, i più importanti dei quali erano i
gasindi, collegati al re da un legame di fedeltà esplicito. Di questi doni rimangono delle notizie
indirette che testimoniano la diffusione di questi rapporti.
I longobardi rimpolpano il patrimonio regio ed esiste anche una riserva regia che l’autorità regia
porta con sé nel momento in cui c’è il passaggio di consegna da un re a un altro. Il fisco regio è un
sistema che non si deve svuotare completamente. E poi tutti coloro che sono fedeli al re possono
subire la confisca dei bene così come coloro che muoiono senza eredi.
C’è una cancelleria che distribuisce i beni.
Di queste relazioni doni abbiamo maggiore testimonianza nei territori di confine, come ad esempio
nella Toscana Spoleto, forse perché la distanza suggeriva ai fedeli di ottenere delle garanzie
scritte.
Il riconoscimento formale di questi doni poteva essere meno necessario per coloro che stavano più
vicini alla corte e che potevano essere compensati in altro modo, come ad esempio le concessioni
di uffici pubblici.

Potrebbe essere stato questo il caso di Gisulfo di Lodi o di Taido di Bergamo. La famiglia di Gisulfo
in particolare risulta circondata da figure denominate come gasindi, gastaldi (funzionari per conto
del re che gestiscono la Curtis) o viri magnifici, titoli solitamente riservati ai più vicini alla figura del
sovrano.
L'aristocrazia otteneva quindi posizioni privilegiate dal rapporto diretto con il potere regale.
Espressione della media aristocrazia e ad esempio la pisana Ghittia, il cui archivio contiene una
lista di 88 carte che testimoniano la pluralità di relazioni a livello locale e centrale.
I riferimenti nella documentazione a grandi patrimoni sono scarsi e nella maggior parte dei casi
deriva dalle carte di fondazioni delle chiese e degli ospizi o dei monasteri familiari.
Grandi investimenti da parte delle aristocrazie nel sacro.

Le grandi proprietà erano composte da diverse domocoltiles, organizzate in casae massariciae, E


lavorati in parte direttamente in parte a fitto.
Le terre dei grandi possessori non erano limitati al territorio della loro città e le proprietà del
gasindo Taido si stendevano tra i territori di Bergamo, Verona e Pavia.
Anche nell'Italia meridionale i beni dell'aristocrazia erano diffusi nei territori più vicino alle due città
capitali di Benevento e di Salerno.
I possessi erano quindi distribuiti su aree vaste, ma avevano solitamente un cuore cittadino, dove
gli aristocratici risiedevano, e dove fondarono spesso monasteri e xenodochia.
Insieme all'abitudine alla vita cittadina non mancava nemmeno quello al consumo di beni di lusso,
talvolta importati da Bisanzio come testimonia l'accordo di Liutprando con i milites di Comacchio.
Spostamento navale su fiumi che ad oggi dobbiamo immaginare più vasti e abbondanti.
Somma in denaro erano disponibili tra la piccola e la media aristocrazia e, ovviamente in maggior
misura tra i sovrani longobardi e loro discendenti, come ad esempio la badessa di San Salvatore/
santa Giulia di Brescia Anselperga, figlia di re desiderio e della regina Ansa.
Anche quando il denaro non era direttamente scambiato, i beni oggetto della transazione erano
comunque espressi in denaro.
Il morgengabe, il dono nuziale dovuto dal marito la moglie effettuato il giorno dopo il matrimonio,
poteva consistere ad esempio in oggetti, servi ed animali, ma essere stimato in un controvalore
indicato con una somma di denaro.
Se le famiglie di Gisulfo o di Taido appaiono assai ricche, il gruppo dei friulani legati i duchi di
quella regione appaiono ancora più ricchi, in grado di fondare più monasteri nei pressi di Cividale
del Friuli così come nella Toscana meridionale, ma proprietari di bene estesi dal Friuli al Veneto
all’Emilia.
Ultimo caso si tratta dello strato superiore dell'aristocrazia del regno, radicata nella regione
settentrionale dell'Austria è collegata con la famiglia regale di origine friulana (Ratchis e Aistolfo,
predecessori di Desiderio).
Si tratta inoltre di una delle poche famiglie per le quali si può risalire indietro di quasi quattro
generazioni, cosa assai rara in un contesto tutto sommato povero di fonti documentarie e narrative.

La conquista franca del regno dei longobardi non diminuì numericamente l’aristocrazia indigena,
se non i nobili radicati nella regione dell’Austria. Non abbiamo un tracollo di questa aristocrazia
longobarda che non entra in crisi se non a ridotto della ribellione di Rottgaudo.
Una fallita rivolta nel 776 da parte dell’aristocrazia veneto-friulana contro i franchi provo infatti una
reazione decisa da parte di Carlo Magno, l’idea era quella di provare una salita da sud e trovare un
raccordo nella parte nord orientale della penisola cosa che non avverrà perché stroncata dalla
rivolta.
Tra i rivoltosi vi è il fratello di Paolo Diacono, quest’ultimo per liberare il fratello si reca alla corte di
Carlo e scrive un’opera (un longobardo che esalta un franco).
La soluzione fu quella di insediare al posto degli aristocratici longobardi dei conti franchi (persone
di fiducia), mentre a molti furono confiscate le proprietà e altri furono costretti o scelsero la fuga
verso gli Avari.
Alcuni accettano la presenza dei franchi mentre per gli appartenenti alle classi medie e inferiori
furono anni particolarmente duri.
Il vecchio ceto dirigente non potè essere sostituto in toto con tanta facilità, e nella documentazione
spoletina e toscana non ci sono attestazioni di amministratori franchi fino al primo decennio del IX
secolo.
Si espande il sistema vassallatico già presente nel regno dei franchi, è un modo tipico di
relazionarsi da parte dell’aristocrazia franca con il potere regale.

Studi prosopografici sulle famiglie aristocratiche franche che si insediarono in Italia durante il regno
di Carlo Magno hanno rivelato la fragilità dei loro insediamenti territoriali e la brevità delle loro linee
genealogiche.
Nella prima fase di dominazione carolingia in Italia è difficile trovare ad esempio più conti
appartenenti alla stessa famiglia radicati in Italia, così come è difficile rintracciare il successo
genealogico in Italia in seguito alla detenzione dell'ufficio di conte/comes.
Difficile anche rintracciare dei vescovi franchi attivi in questo periodo in Italia; le cose cambiano
significante dopo l’834, con la sottomissione di Lotario a suo padre, Ludovico il Pio, ed il suo
definito radicamento in Italia. Significa che dobbiamo immaginare i patrimoni dislocati in varie parti
dei territori dell’impero, abbiamo la ricomposizione dell'impero che non è più mediterraneo ma
continentale in cui nel momento in cui avvengono queste tripartizioni tra i figli l’aristocrazia deve
fare una scelta di campo e selezionare il proprio asset patrimoniale e farlo transitare nei confini del
regno affidato al re a cui diventano fedeli previa la possibilità di perdere i propri patrimoni collocati
nel regno di un altro dei figli dell’imperatore.
In quest'occasione molti esponenti delle famiglie dirigenti franchi abbandonarono la loro terra e si
radicarono in Italia, ottenendo cariche laiche ed ecclesiastiche e rimpiazzando così le famiglie
aristocratiche di ascendenza longobarda.
Tra le famiglie franche che si radicarono in Italia ricordiamo i Supponidi, insediati a Brescia,
Parma, Piacenza, Modena e, per un breve periodo, anche a Spoleto e che si imparentarono con i
carolingi quando una figlia di Adelchi, conte di Parma e forse imparentato con l'ultima dinastia
regnante longobarda, sposò il figlio di Lotario, Ludovico II.
Anche gli Unrochingi e i Guidoni ottennero ducati e marchesati rispettivamente in Friuli e a
Spoleto, mentre i conti/marchesi di Toscana discesero da un conte Bonifacio/pontefacio, di origine
bavara, e attestato a Lucca dal secondo decennio del IX secolo.
Le fonti anche in questi casi sono lacunose, ed è difficile tracciare delle storie abbastanza
dettagliate anche per costoro.
Tra quelle di discendenza longobarda che crebbero nel corso del IX secolo ricordiamo la famiglia
comitale degli Aldobrandeschi, che da Lucca si radicò nella Toscana meridionale lungo i secoli a
venire.

Sappiamo poco della struttura delle famiglie aristocratiche in questo periodo.


Elemento significativo era sicuramente dato dall’importanza della linea di discendenza per parte
femminile, che costituiva l’elemento di collegamento tra agglomerati familiari differenti.
Esempi di quanto detto si trovano in numerosi aggregati aristocratici, tra cui le famiglie dei
Supponidi e degli Unorchingi da una parte, e delle famiglie comitali o marchionali di toscana e di
Spoleto dall’altra.
Queste erano famiglie rispettivamente legate tra loro da alleanze matrimoniali incrociate..
Gli Unorchingi inoltre erano legati ai Carolingi, poiché Everardo, il duca del Friuli che seguì Lotario
nel suo radicamento in Italia, aveva sposato Ghisla, la figlia dell’imperatore Ludovico il Pio e di
Giuditta, sua seconda moglie.
Nel caso appena citato, così come molti altri casi che si rintracciano nella documentazione italiana,
la linea femminile costituiva quella di rango più alto, un fatto riconosciuto in un importante
documento come il testamento di Everaldo e di Ghisla, datato all’anno 867.
Questo testamento differisce dalla maggior parte degli altri che ci sono conservati poiché vede la
compartecipazione di entrambi i coniugi, probabilmente coetanei tra loro.
Di norme infatti il marito era assai più anziano della moglie, rendendo quindi inutile il dettare
insieme un testamento. Nel caso di Everardo, era stato un missus di Carlo Magno tra l’801 e l’813,
e uno dei testimoni del testamento dettato da Carlo stesso nell’811.
Attestato come comes nell’839, egli si ritirò nel monastero di st-Bertin. Nella Neustria del regno
franco, dove morì intorno all’853.
La sua area di interesse di attività sembra essere stata quindi il nord della Neustria, corrisponde
grosso modo a quell'area controllata anche nella generazione successiva da Everardo e da Ghisla.
Se Unroch fa parte di quei personaggi dell'entourage di Carlo Magno che mantennero la loro
posizione anche durante i tormentati anni di governo di Ludovico il Pio, Everardo dovette la sua
carriera alla fedeltà a Lotario I e al suo figlio, Ludovico Secondo imperatore governante sul regnum
italiae.
Questa famiglia avrebbe raggiunti livelli più alti della gerarchia sociale nella generazione
successiva quando il loro secondo genito, di nome Berengario, divenne prima Re d'Italia e poi
nell'888, imperatore.

Il carattere tipicamente carolingio risulta evidente da numerosi elementi, tra i quali spiccano ad
esempio i beni mobili lasciati al primogenito di nome Unroch.
Tra i vari oggetti vi furono infatti una corona contenente un frammento della reliquia della vera
croce di Cristo, possesso che costituiva una sorta di caratteristica esclusiva della dinastia
carolingia.
Il testamento contiene anche numerosi elementi che ci possono aiutare a comprendere la cultura
di questi personaggi di rango assai elevato.
Al primogenito Unroch, Everdardo destino le insegne del potere come una spada comparti in oro,
una cintura (simbolo del potere) e degli speroni in oro con gioielli incastonati, una tunica ricamata
con oro, un mantello ed una fibula anch'essi doro, così come altri oggetti d'oro ed argento.
Ma c'erano pure paramenti di lusso per la cappella di famiglia, anche se guarniti in oro e
quant’altro.
I metalli scandivano la gerarchia interna alla famiglia di Everdardo poiché a Berengario, il secondo
genito, furono riservati oggetti simili anche se realizzati in argento in avorio, anziché in oro.
Anche al terzo genito Adalardo furono destinati oggetti di comando militare, decorati in avorio e
oro, ma la maggior parte degli altri oggetti erano realizzati in vetro, cristallo e argento.
Al quarto figlio maschio Rodolfo furono destinati assai meno oggetti, nessuno per la parata
militare, ma diversamente dagli altri ricevette una somma di denaro consistente.
Oltre a descrivere una gerarchia interna alla singola famiglia attraverso l'attribuzione degli oggetti,
ricaviamo pure una rappresentazione del loro status sociale basato in primo luogo sull'abilità
militari e sul ruolo dei cavalieri, ed indicato chiaramente dalle armi e dall'attrezzatura militare ad
essi destinata, nonché sulla carità cristiana e la devozione religiosa rappresentate dagli oggetti di
culto inclusi nel testamento.
Il ruolo delle donne, subordinato ma sei rilevante all'interno delle famiglie aristocratiche
organizzate secondo un modello agnatizio, È rivelato dalle disposizioni riservate alle tre figlie
femmine Engeltrude, Giuditta, Eilwich e Ghisla nella suddivisione di terre e beni mobili.
Ancora una volta sono i beni mobili a costruire un chiaro indicatore del ruolo attribuito ai figli.
I beni mobili destinati alle famiglie comprendevano piatti metalli preziosi e reliquiari decorati in oro.
Ma erano soprattutto i libri a costituire una differenza vera e propria con i figli maschi. A loro furono
destinati non solo messali e testi agiografici, ma dirittura dei codici contenenti le leggi dei
longobardi e le collezioni di leggi capitolari imperiali.
Ciò significa che Everardo del Friuli e Ghisla, di Chiara ascendenza carolingia, non previde un
ruolo interamente passivo per le loro figlie, per quanto esse sarebbero rimaste strettamente legate
alle scelte del nuovo gruppo familiare cui sarebbero state destinate.
L'ultimo genito e inoltre entrò come monaco nel monastero Reggio imperiale di San Salvatore/
santa Giulia di Brescia.
I beni immobiliari della famiglia erano ovviamente beni fondiari, descritti talvolta in termini generali
come tutto ciò che si possedevano in Alamannia ed in Langobardia, ma altre volte si fecero
riferimento a singole Curtes, le strutture fondiarie tipiche dell'aristocrazia in grado di mantenere
anche i passi che nel caso di Everardo si trovavano nei pressi di Treviso.

In generale però molte delle famiglie di epoca carolingia che fecero parte della cosiddetta
Reichsaristokratie avevano poche radici in città, nonostante si fossero spesso conti o vescovi con
sede cittadina.
Ciò che più importava era avere una proiezione sovra cittadina e mantenere i contatti con la
dinastia carolingia, per avere dell'opportunità di affermazione anche futura.
La piccola aristocrazia invece rimaneva radicato soprattutto intorno a un centro cittadino e al suo
territorio, concentrando qui suoi interessi sia che facesse parte degli immigrati venuti da oltralpe,
sia che fossero famiglie già precedentemente li radicate.
Proprio la dimensione diocesana cittadina sembra caratterizzare la maggior parte di
quell'aristocrazia che non si caratterizza per i rapporti diretti e continui con la corte imperiale
regale.
Intorno alle città sedi di un episcopato vennero concentrandosi gli interessi della media e piccola
aristocrazia, che si caratterizza quindi per una residenza spesse volte urbana o sub urbana E per
patrimoni compresi all'interno di un singolo territorio diocesano.
Proprio la diffusione dei patrimoni fondiari, basi per determinare la ricchezza e l'influenza politica
del ceto aristocratico, ci consente di stabilire una gerarchia interna all'aristocrazia, che meglio
ancora potremmo definire con il termine francese di Elite.
Sulla base della diffusione del patrimonio potremmo distinguere un'aristocrazia imperiale, del
regno, sovraregionale, regionale, diocesana, multi zonale, di villaggio…

All'interno di queste tipologie possiamo individuare anche delle specializzazioni: Elite che si
specializzarono nella carriera militare (milites) E dalla quale uscirono i vassalli (vassi) regi o
vescovili, ma anche i funzionari pubblici.
Altre che si caratterizzarono per la specializzazione professionale; è il caso di notaio e giudici ad
esempio.
Ma è anche il caso di Elite specializzate nel perseguire carriere ecclesiastiche.
La documentazione italiana di VIII-XI secolo ci consente di delineare una pluralità di tutti questi
esempi; non possiamo tuttavia procedere a questo tipo di descrizione per tutte le aree della
penisola.
Molto dipende dallo stato della conservazione della documentazione privata, conservata e
tramandata per quest'epoca più risalente esclusivamente da istituzioni ecclesiastiche.
Tralasciando l'aristocrazia più titolata, attiva su di uno scacchiere assai ampio possiamo
concentrare la nostra attenzione soprattutto sulle realtà marginali, spesso rurali, che emergono
abbastanza frequentemente dalla documentazione, è arrivare a descrivere abbastanza nel
dettaglio esponenti del ceto dei piccoli proprietari locali.

MERCOLEDI’ 9 MARZO
IL REGNO DEI FRANCHI E L’EUROPA
Gli autori romani definirono collettivamente come germani tutti i popoli che comparvero sulla
frontiera del Reno, indipendentemente da qualsiasi criterio di carattere linguistico o etnico.
Fra questi Germani, i Romani distinguevano quelli che vivevano nella regione settentrionale del
Reno come i Franchi, un nome nuovo che comparve nel III-IV secolo e che indicava i “coraggiosi, i
liberi”, e quelli che occupavano la regione meridionale del Reno, come gli Alamanni, cioè “il
popolo”.
Dal momento che Franchi e Alamanni sono due parole di origine germanica, i romani dovevano
averla prese o dai membri di questi gruppi stessi, o da qualche loro vicino di lingua germanica.
Nell'uno nell'altro figurano tra gli antichi nomi dei popoli della riva destra del Reno: si tratta perciò
di termini nuovi e gli studiosi hanno provato a collocarne le origini nella regione dell’Elba.
È più probabile che non fossero migrati da alcun posto, ma che più semplicemente fossero due
gruppi indigeni da tempo stabilitasi lungo il reno, ma che avevano adottato una nuova identità
collettiva.

Sconfitti da Gallieno (253-268) e da Aureliano (270-275), i Franchi come anche i Goti erano
divenuti intorno al 270 dei foederati dell’impero romano.
I foederati si imegnavano a rispettare le frontiere dell’impero, a fornire uomini all’esercito, e in
alcuni casi, a pagare dei tributi supplementari in bestiame e/o mercanzie.
Gli antichi Franchi, come gli Alamanni, erano composti da gruppi distinti: i Camavi, i Cattuari e gli
Ansivari, che a loro volta avevano numerosi regales e duces che comandavano su di una parte
della collettività e tra loro per la supremazia.
I franchi non solo potevano identificarsi allo stesso tempo con questi piccoli gruppi e con la
confederazione Franca in senso più ampio, ma potevano identificarsi anche con il mondo romano.
La prova è dato da un'iscrizione di III secolo della Pannoni a su di una pietra tombale di un
guerriero Franco al servizio di Roma: Francus ego cives, miles romanus in armis (sono un cittadino
franco, ma un soldato romano sotto le armi). Sono quindi identità fluide dal punto di vista
dell’appartenenza, complessità sociale.
Non si tratta di una semplice dichiarazione di identità barbarica.
La lingua e la terminologia utilizzate tradiscono quanto profondamente l’idea romana di
cittadinanza avesse permeato questa società guerriera.
I guerrieri romani barbari potevano usare questa doppia identità per migliorare la loro posizione sia
nell’impero, sia all’interno del proprio popolo.
Alla fine del IV secolo il generale Franco Arbogasto, benché al servizio dei romani, si servì della
sua posizione nell'impero per proseguire la sua lotta contro i regales franchi al di là del Reno.
I franchi erano regolarmente assoldati nell'esercito imperiale come truppe ausiliarie: ottennero
inoltre ruoli di responsabilità, come Bonito e suo figlio Silvano.
Nel 355 Silvano, comandante della guarnigione romana di colonia, fu proclamato imperatore dalle
sue truppe; dopo avere tentato di tornare dal suo popolo, i franchi, venne assassinato dagli
emissari dell'imperatore Costantino.
I successivi comandanti barbari di ordine franca come Arbogasto impararono la lezione ed
evitarono di comportarsi come degli usurpatori, esercitando tuttavia un grande potere nell'impero
d’occidente.

La loro situazione rimaneva precaria fuori dentro l'impero, guardati con sospetto dei loro rivali
romani, anche se in generale erano affidabili quanto i loro colleghi. Allo stesso tempo, in quanto
ufficiali romani fedeli alla religione romana, pagano cristiana, vi erano nel mirino delle fazione
antiromane e nelle loro zone d’origine.
Nel momento in cui costoro puntavano la loro carriera per ottenere i gradi più elevati del comando
militare rinunciavano a guidare un popolo barbaro fuori dall’impero.
I franchi combatterono con il generale romano Ezio (454) affrontando ai campi Catalaunici nel 451
l'esercito di Attila (composto da svevi, Burgundi, oltre che gepidi, goti e discendenti degli unni
dell’ansia centrale).

Il tipo di regime istituito dei Visigoti, ripreso dai vandali e dagli Ostrogoti e che consistette nella
creazione e mantenimento di due comunità distinte, non ortodosse romana e civile, l'altra Arianna,
Barbara e militare, poste entrambe sotto l'autorità unica di un re barbaro riconosciuto dall'impero,
si rivelò un fallimento.
I regni creati dai franchi nel nord della Galia e quelli dei piccoli re di Britannia, in cui le distinzioni
tra romani e barbari scomparvero rapidamente, si dimostrarono più duraturi.
Anche se i franchi furono inizialmente federati dell'impero, essi non avevano alcun esperienza
diretta del mondo mediterraneo, di Costantinopoli o dell’Italia.
Erano troppo lontani dalle tradizioni culturali di un Teodorico o di un Cassiodoro.
Tutto ciò consentire una trasformazione più semplice e, nel lungo termine, più profonda di questi
popoli, dando così vita a nuove realtà sociali e culturali.
La società Franca era il prodotto di una fusione tra popolazioni indigene e diversi nuovi arrivati
sotto l'autorità politica delle famiglie che, con il tempo, finirono per considerarsi eredi degli eroi
della mitologia germanica.

Nel V secolo, una serie di regni rivali, ciascuno guidato da un capo militare o da un sovrano,
emersero tra le macerie dell'amministrazione provinciale romana.
Alcuni di questi capi erano re franchi che guidavano gruppi formati essenzialmente da barbari che
avevano legami su entrambe le sponde del Reno.
Altri erano membri dell'aristocrazia gallo romana, sostenuti da eserciti composti da provinciali
romani e da barbari.
I membri della famiglia dei Merovingi appartenevano alla prima di queste due categorie: essi
avevano i loro ordini eserciti di barbari discendenti dei franchi salii, che si erano stabiliti nell'impero
probabilmente alla fine del IV secolo occupando il territorio tra Mosa e Mosella.

I fedeli del re franco Childerico, che avevano raggiunto ricchezza e potere combattendo per
l'impero, ad esempio, sembra che fossero pronti a trasferire la loro obbedienza ad aristocratici
signori della guerra romani quando ciò corrispondeva ai loro interessi.
Nominato Rex Francorum nel 481, a partire dal 486 il figlio di Childerico, Clodoveo, estese il suo
potere a partire a partire dal regno del padre che aveva per centro la regione di Tournai in Belgio,
verso sud e verso est.
In questa fase ha inizio l'espansione Franca.
Quello dove occupò le tre terre occupate da Siagrio, incentrate su Soissons, il centro
amministrativo della provincia romana Belgica Secunda.
Espande il suo territorio anche verso i Turingi.
Sconfisse gli Alamanni tra il 496 e il 506.
Sconfisse e uccise il re visigoto Alarico secondo nel 507 e cominciò la conquista del regno dei
Visigoti a nord dei Pirenei, abbattendo il regno di Tolosa.

Il processo di espansione portò i franchi a conquistare nel 534 il regno dei Burgundi, e tra il 531
534 a sconfiggere definitivamente quello dei Turingi.
Non sembra che lui fosse inizialmente un coordinamento con il potere imperiale; solo sotto
Anastasio venne riconosciuto a Clodoveo il titolo di console onorario.
Gli ultimi anni di Clodoveo prima della sua morte, avvenuta intorno al 511, furono impegnati a
sconfiggere gli altri re franchi e rivali della propria famiglia, a capo di reni simile a quello del padre
Childerico, a Colonia, a Cambrai e altrove.
L’etnogenesi del regno franco di Clodoveo assunse connotati differenti rispetto a quelli dell'Italia di
Teodorico o dell'Aquitania visigota.
Clodoveo non fondò le proprie conquiste su mandato diretto dell'impero, ne cercò di creare una
sorta di società attuale sul modello dei barbari della generazione precedente.

I franchi Salii erano da molto tempo in Gallia ed erano profondamente coinvolti nelle lotte politiche
imperiali e regionali da generazioni.
L’autorità di Clodoveo era stata riconosciuta dai rappresentanti dell'aristocrazia gallo romana,
come il vescovo Remigio di Rains molto prima della sua conversione al cristianesimo.
La sua integrazione dei centri di potere rivali provocò un cambiamento meno drastico di quello dei
re barbari che l'avevano preceduto.
Clodoveo raccolse inoltre quel poco di amministrazione civile romana che ancora sopravviveva.
I franchi, diversamente da Teodorico ed altri capi Goti, non sembrano aver nutrito alimentato un
forte sentimento identitario che li distingue sia dalla popolazione romana.
La famiglia di Clodoveo si proclamava forse di origine semidivina, ma nessuna tradizione
genealogica Franca poteva rivaleggiare con le generazioni di eroi e dei della tradizione gotica.
Piuttosto che richiamarsi a tradizioni antiche distinte da quelle di Roma, i franchi sottolinearono i
tratti comuni.
Già nel VI secolo essi si presentarono come discendenti degli antichi Troiani, riallacciandosi così
da un punto di vista genealogico ai loro vicini romani.
I franchi erano pronti non solo a condividere gli avi con i romani, ma anche a professare una
religione comune.
Prima del VI secolo alcuni franchi si erano convertiti al cristianesimo, tanto ariano quanto
ortodosso, mentre altri, tra cui la famiglia di Clodoveo erano rimasti fedeli alla tradizione religiosa
pagana.
Clodoveo fu probabilmente molto vicino all'arianesimo, sebbene la data della sua conversione
rimanga oggetto di discussione (486?).
Nulla impediva ai franchi di Clodoveo e ai provinciali romani del suo regno uniti ora dalla stessa
religione e da una stessa leggenda concernente le origini, di forgiare un'identità comune.
E ciò che avvenne nel giro di qualche generazione, dato che la popolazione a nord della Loira
divenne e si definì franca.
La grande forza della sintesi Franca fu proprio la creazione di una società unificata a partire dalla
duplice eredità della tradizione romana e di quella barbarica.
Clodoveo E i suoi successori assorbirono le divisioni amministrative delle Civitates e stabilirono le
loro capitali nei vecchi centri amministrativi romani.
Queste civitates rimasero quindi dei focolai di orgoglio regionale ed identità come già lo erano
state nella tarda antichità.
L'organizzazione militare merovingica rafforzò quest'identità in quanto le responsabilità militari
furono affidate ai conti/comites.
Il regno di Clodoveo non era il regno dei franchi; si trattava piuttosto di uno dei tanti regni franchi e
quando Clodoveo assorbì i suoi rivali e i regni dei suoi vicini, si confrontò con sentimenti di identità
regionale.

Nel corso del VI secolo si formarono tre regni franchi distinti:


- La Neustria a occidente, con centri in Soissons, Parigi, Tours, Rouen e dove i franchi erano
apparsi in origine per difendere il potere imperiale e per poi sostituirlo
- l’Austrasia, formata dalle regioni a est del Reno e dalla Champagne, Reims e in seguito anche
Metz
- La Burgundia, che includeva l’antico regno dei burgundi lungo il Rodano e grand parte della
Gallia fino alla capitale di Orleans
Tra Loira e Reno si trovava il cuore del potere franco
Nei processi espansivi franchi se per incorporare i vecchi regni mantenendo in vita le tradizioni
regionali.
Fu questo il caso anche di territori di nuova acquisizione a est del Reno, in Alamannia, in Turingia
e in Baviera.
I Merovingi governarono queste regioni attraverso i duchi, uomini di origine Franca insediati con
armati franchi, ma al potere grazie ai rapporti familiari e clientelari con l’aristocrazia locale.

Le grandi capacità di integrazione dei franchi, oggi ampiamente riconosciute, sono state invece
oggetto di interpretazioni divergenti nel tempo, a seconda delle stagioni storiografiche.
Vediamo l'esempio della sepoltura di Childerico, padre di Clodoveo, rinvenuta a Tournai (belgio)
nel 1653.
Il rinvenimento ha dato modo nel corso del tempo di identificare in Childerico il campione in cui si
sarebbero affrontati barbarie civilizzazione, elemento germanico romano, paganesimo e
cristianesimo.

Molte delle informazioni su Childerico provengono soprattutto dal secondo libro delle Historiae di
Gregorio di tours, l'autore che di Childerico dice essere stato di stirpe regia e figlio di un pressoché
sconosciuto Meroveo, morto intorno al 481.
Childerico era certamente percepito come un barbaro: era pagano, aveva comportamenti sessuali
deprecabili, era il re di una popolazione germanica, alleato con il germanico popolo dei Turingi, e
aveva combattuto contro i romani al fianco di Odoacre.
La scoperta della sua tomba del suo corredo nel 1653, immediatamente all'esterno delle mura
romane della città di Tournai, vicino alla chiesa di St. Brice, successore di Martino a tours, vennero
pubblicati due anni dopo, salvando così dall'oblio il ricordo del tesoro rubato a Parigi nel 1831.
I reperti confermano le successioni delle fonti scritte: il sigillo regale con la scritta, un tesoro di
centinaia di solito oro emessi dalle zecche di Teodosio Secondo (408,450) e di Zenone (476,491).
Il sigillo è stato fatto per essere utilizzato, quindi esistita una cancelleria reggia; il re è
rappresentato come un Rex crinitus, conforma le descrizioni di Gregorio di tours. Inoltre il report
un'armatura di stile romano così come un mantello, il paludamentum solitamente indossato dagli
ufficiali romani.
C'erano quindi elementi che rimandavano la cultura romana, tra cui una grande fibula croce trovate
sul petto del re, e altri elementi decorativi che richiamavano una cultura unna o pannonica/
turingica.

Molti scavi condotti nel 1938 hanno modificato il quadro mettendo in luce un sepolcreto più ampio,
databile VII secolo, e la sepoltura di cinque destrieri associato al corpo del re.
Se è così capito che era era stato sepolto in un tumulo, che se culture simili avevano
corrispondenze in area Morava o in Danimarca, e che dopo la deposizione era decollato un culto
associato alla sepoltura.
Gli storici hanno di volta in volta enfatizzato alcuni aspetti:
- Ferdinand Lot, Robert Latouche e Georges Tessier tra gli anni 40 e 80 del secolo scorso hanno
indagato la sepoltura e hanno individuato di volta in volta un grande leader al servizio di Roma,
un re franco desideroso di denaro, e quindi avide barbaro, un piccolo capo di tribù germanica in
relazione con le divinità espresso dall’acconciatura.
- In reazione a queste tesi, storici più recenti (tedeschi) hanno presentato Childerico come un
capo germanico, ma al servizio di Roma, riconosciuto dai Romani stessi come re.
I tre storici francesi hanno perciò insistito sull'elemento barbarico e germanico, mentre i tre storici
tedeschi hanno cancellato l'elemento germanico per mettere in risalto l'elemento romano, il fatto
cioè di essere stato un ufficiale dell'esercito romano.
Oggi abbiamo raggiunto un'interpretazione più equilibrata in cui tutti e due gli aspetti sono stati
valorizzati.
Si tratterebbe quindi di un vero germano, ma al contempo di un ufficiale dell'impero romano.
Allo stesso modo la sepoltura di Childerico È stata valorizzata dai suoi successori, dando così
continuità alla sacralità del luogo impiantandovi un culto cristiano.

Dopo il 496. La sepoltura di Clodoveo e Clotilde


La Basilica Apostolorum fu costruita all’inizio del VI secolo come chiesa funeraria per Clodoveo e
la moglie Clotilde.

Le cariche del Palatium:


• Palatium = si intende sia l’edificio sia la corte regia e le persone che la compongono
• Episcopus
• Maior domus (cura il fisco regio)
• Cunicularius (cura la persona regia)
• Camerarius (cura il tesoro regio)
• Referendarius (esattore delle imposte)
• Nutriti

Il regno franco andò incontro a un processo di lunga stabilizzazione. Fu formato da due regni
principali: Austrasia (Reims-Metz) e Neustria (Parigi)
Vi fu una formazione di due aristocrazie locali, ognuna con un proprio re.
Spostamento a nord dell'asse politico del mondo franco.
Potenziamento dell'aristocrazia fondiaria con vastissime proprietà.
Fine della tassazione di ascendenza tardo-romana.

Diffusione dei monasteri privati


Diffusione del monachesimo di stampo irlandese (missioni sul continente di Colombano).
Entro l’inizio del VIII secolo sono noti 550 monasteri privati, di cui 320 fondati nel VII secolo; 230 di
questi sorsero in Austrasia e in Neustria.

Caratteristiche dell’Austrasia = area scarsamente urbanizzata, al confine con popoli non


sottomessi all’egemonia franca (Frisoni, Sassoni, Slavi).
Vi furono gruppi familiari egemoni, Arnolfingi e Pipinidi.
Durante il VII secolo le due famiglie si unirono.
Detenzione della carica di Maestro di palazzo di Austrasia, che si tenta di rendere ereditaria.
Nel 657 fallisce il primo tentativo di farsi eleggere re dei Franchi.

I Pipinidi
657-670 i Pipinidi scompaiono temporaneamente dalla scena politica.
687 Pipino II (maggiordono di Austrasia) sconfigge il maggiordomo di Neustria (Bercario),
diventando l’unico maestro di palazzo.
687-751 si svolge un lungo processo di avvicinamento al potere regio, che si articola in una
complessa strategia.
Carlo martello, figlio di Pipino, succede al padre dopo un'intensa lotta con i suoi fratelli. Emana
diplomi con l'appellativo di Princeps francorum (primo tra i franchi).
Combatte anche contro altri nuclei aristocratici che non avevano alcun intenzione di accettare la
sua supremazia, soprattutto in Aquitania e in Provenza.
Gli aristocratici franchi erano disposti ad accettare la supremazia del re merovingio appartenente a
una dinastia sacrale, ma accettarono poco volentieri di essere sottoposti all'autorità di una famiglia
di origine e status pari a loro.
Nel 732 sconfisse gli arabi a Poitiers, ma insieme a loro anche i gruppi aristocratici meridionali.
L'esito finale fu non solo il contenimento a sud dei Pirenei della spinta islamica, ma l'effettiva
sottomissione delle regioni meridionali al potere franco austrasiano.
I successi militari misero a disposizione di Carlo Martello un ingente bottino in ricchezza mobile
-denaro e gioielli- e soprattutto fondiaria, che egli ridistribuì fra i suoi fedeli, incrementandone il
numero, la potenza e la fedeltà nei propri confronti.
737-741 Carlo Martello governò il regno senza nominare alcun re merovingio.
743 i figli di Carlo Martello, Pipino III e Carlomanno, fecero nominare re il merovingia Childerico III
(743-751).
744 fu istituito un collegamento con il papa Zaccaria tramite il monaco anglosassone Winfrith
Bonifacio.
744-750 venne intrapresa la riforma della chiesa franca.

Dopo la sinodo di Whitby (664) la chiesa anglosassone aveva definitamente optato per la versione
romana del cristianesimo, eliminando le influenze irlandesi. La chiesa anglosassone aveva perciò
rinsaldato i suoi legami con il papa.
Identità della chiesa anglosassone: quella più pura perché direttamente legata a Roma.
Le missioni anglosassoni godettero della protezione franca. Esse rappresentarono una fase di
penetrazione pacifica del cristianesimo romano in regioni che, con poche eccezioni, erano ancora
estranee a contatti stabili con il papato.
Anche se più tardi i Carolingi ne rivendicarono integralmente il merito, l’avvio del processo fu opera
dei vescovi e dell’aristocrazia franca che risiedeva nelle regioni confinanti.
Più tardi i maestri di palazzo assunsero un ruolo di primo piano, e già Carlo Martello promosse
missioni presso i Frisoni.
Fu soprattutto con l’azione del monaco anglosassone Wynfrith (672-754) che la cristianizzazione
della Germania fece importanti progressi. Giunto sul continente, egli si recò direttamente a Roma
per ottenere l’autorizzazione alla sua azione anche in Germania.
Ottenutala e assunto il nome romano di Bonifacio, in qualità di vescovo missionario operò presso
Sassoni, Turingi e Frisoni fino alla sua morte, avvenuta a opera di questi ultimi nel 754.
Nella Germania centrale e in Baviera nacque una chiesa costruita secondo il modello episcopale e
sottomessa all’obbedienza romana. Furono poste le basi per una progressiva integrazione delle
popolazioni della Germania nel mondo latino-cristiano, anche mediante l’impulso dato alla
creazione di agglomerati cittadini.

Il centro di una diocesi doveva per tradizione essere ubicato in una città, e molti dei centro scelti da
Bonifacio a questo scopo si avviarono lentamente sulla via della formazione di un centro urbano; fu
questo, per esempio, il caso di Utrecht nell’attuale Olanda.

Carlomanno e Pipino III pensarono di sfruttare il prestigio di Bonifacio per riformare la chiesa
franca. Con il permesso del papa, tra il 742 e il 744 quest’ultimo convocò una serie di concili per
costruire una chiesa sul modello romano.
Gli obiettivi furono:
- Innalzamento del livello culturale del clero mediante lo studio delle sacre scritture, la
conoscenza dei canoni, l’adozione della liturgia della chiesa di Roma
- Sostituzione degli indegni. Attribuendo comportamenti devianti e una scarsa cultura, molti dei
precedenti vertici della chiesa franca, specie abati e vescovi non collegati in maniera stabile alla
clientela dei Pipinidi, furono sostituito con uomini vicini ad essi.
- Diretta penetrazione in Neustria della clientela pipinide
GIOVEDI’ 10 MARZO
I PIPINIDI
Grazie all’azione dei missionari anglosassoni, e in particolare di Bonifacio che agì in Germania con
il consenso sia di Pipino che dei papi, iniziarono a tessersi forti legami fra i maestri di palazzo e il
papato.
Il deficit di legittimità che aveva impedito sino a quel momento di eliminare il re merovingio
Chilperico III, ho superato sostituendo l'antico carisma dei Merovingi (una dinastia che aveva
regnato per ben 274 anni) una nuova legittimità su base ecclesiastica attraverso il ruolo
determinante di controllo della chiesa Santa riformata da Bonifacio.

I conflitti tra fratelli nel mondo franco


La situazione interna regno franco fu complicato dei contrasti fra i vari membri della famiglia
Pipinide:
- Nel 743 Grifone, fratello di Carlomanno e di Pipino, fu tonsurato in un monastero, viene
estromesso dalla politica e costretto ad entrare nel monastero che significa abbandonare
l’ambizione a svolgere una politica attiva
- Pipino III e il fratello maggiore Carlomanno si spartirono il regno, ma nel 747 Carlomanno si recò
a Roma e fu tonsurato come monaco da Papa Zaccaria ritirandosi a Montecassino. Non
sappiamo esattamente cosa spinge il fratello maggiore a mollare il regno, più probabile che lui
volesse lasciare il posto al figlio ma la politica di Pipino III è molto aggressiva e i figli di
Carlomanno fanno una brutta fine
- Drogone, il figlio di Carlomanno e potenziale suo erede, fu ucciso nel 753.
L'origine aristocratica dei pipì nidi implica una divisione ereditaria del potere in parti uguali, una
prassi che È contrastata tramite l'eliminazione fisica o con la monacazione, vera e propria
reclusione per la vita (anche se vi sono episodi di uscita dal chiostro per la ripresa delle redini del
regno, come nel caso di Ratchis nel regno longobardo)

Il colpo di stato del 751


Le fonti coeve sono molto sobrie sull'avvenimento che fu invece diffusamente narrato (anche in
modi diversi con dati differenti) a partire dalla fine dell'VIII secolo secondo questo schema:
1. Ambasceria a Papa Zaccaria da parte di Pipino che chiese se fosse più giusto che reggesse il
potere chi deteneva solo il titolo Regio oppure chi lo esercitava effettivamente.
2. Unzione da parte dei vescovi franchi di Pipino III, sacralizzazione dell’aristocratico che vuole
farsi vescovo
3. Unzione da parte di Bonifacio
Dapprima si ebbe l'elezione da parte dell'aristocrazia franca; poi vescovi consacrarono nuovo re
mediante l'unzione, ossia versandogli sulla fronte l'olio santo. Si trattava di una cerimonia le cui
origini erano nella Bibbia, dove si narrava l'unzione degli antichi re d'Israele, e che si era affacciata
già sporadicamente in passato nell'Occidente barbarico, nella Spagna visigoto ta e nell'Inghilterra
anglosassone. Funzione ecclesiastica conferì a Pipino quella legittimità che fino ad allora era
mancata e maestri di palazzo.
Tra la fine del 753 e l'inizio del 754 Papa Stefano secondo si recò in Francia e ripeté lui stesso,
solennemente, l'unzione del re e dei suoi figli a Parigi, nella chiesa di Saint Denis nell'estate del
754. Il Papa era venuto con uno scopo preciso: chiedere aiuto contro i longobardi.


La trama di rapporti stretti dei papi nei decenni precedenti con i Pipinidi e la chiesa franca E la loro
collaborazione al definitivo consolidamento della nuova dinastia rappresentavano tutti i fattori che
mettevano il Papa nella condizione migliore per ottenere il risultato che si era prefisso affrontando
il difficile viaggio a nord delle Alpi: sollecitare un deciso coinvolgimento del re franchi nella lotta per
il predominio in Italia.
Per fondare la stabilità delle proprie clientele anzitutto in Austriasia, i Pipinidi inaugurarono una
terminologia è un rituale che sanzionava in modo pubblico i legami di dipendenza militare che, nel
contesto dell'VIII secolo, acquisirono un valore di alleanza politica con i Pipinidi stessi.
Dopo il 751 la stessa terminologia è lo stesso legame fu riproposto i grandi delle altre regioni del
regno.
Nel 757 Pipino si recò a Compiegne, Dove il duca dei barbari, Tassilone III gli avrebbe giurato
fedeltà in qualità di suo Vassus cioè “si raccomandò in vassallaggio con le mani”.
In realtà si tratta di un episodio contenuto in una fonte di inizio anno secolo che racconta i fatti
secondo un'ideologia affermatosi a cavallo tra VIII e IX secolo, ma che riflette la mentalità politica
del tempo.
Come era codificato il rituale, in segno di subordinazione il vassallo metteva le mani giunte in
quelle del suo “senior”, con questa cerimonia si diventava uomo di altro uomo.
Era un rapporto bilaterale tra due soggetti di diversa condizione gerarchica: il vassallaggio
implicava un contro dono una ricompensa, materiale o immateriale: terra, nutrimento, protezione.
Nella prima metà dell'VIII secolo i Pipinidi fecero un uso piuttosto ricorrente di questo legame e
donarono terre del fisco Regio, che si controllavano in quanto maggiordomi, ai loro vassi.
Su questi beni fiscali ci creano anche delle istituzioni monastiche che hanno giurisdizione
particolare, hanno gestori che possono essere controllati dal capo-abate in ruolo al momento.
Dato l’incremento numerico dei vassi dei Pipinidi, essi scelsero poi di ricorrere a concessione
vitalizie (il beneficium/i beneficia) che sarebbero dovuti rientrare nella proprietà del signore dopo la
morte del vassus.
I Pipinidi ricorsero al vassallaggio quando non erano ancora re, ma amministratori del fisco Regio,
usufruirono delle confische di terre ai loro nemici.
Precaria: contratto con cui si ri affidano le terre monastiche a nuovi contadini (cambia dunque la
clientela dei monasteri, poiché i contratti dei monasteri nemici sono rinegoziati con contadini scelti
dai Pipinidi).
Il modello vassallatico (clientela armata privata) fu in seguito largamente copiato dall'aristocrazia,
che adottò terminologia e formule.
Il linguaggio vassallatico È ampiamente adottato nelle fonti franche successive (dalla fine dell'VIII
secolo circa) per esprimere il consenso nei confronti dell’excalation pipinide al potere e la
volontaria (o forzata) sottomissione dei potenti al loro dominio.
Nell'VIII secolo, però, la clientela militare privata non fu prerogativa dei soli Pipinidi, anche se non
sono attestate di dominazione altrettanto univoche per chi serviva militarmente altri gruppi
aristocratici.

La fine del regno longobardo


Nel 754, oltre che re dei franchi, Pipino, insieme con i suoi figli Carlo e Carlomanno, era stato
consacrato dal Papa Stefano secondo anche Patricius Romanorum, un titolo che in precedenza
era stato portato dei funzionari bizantini, in primo luogo dall'esarca d’Italia.
Assegnandolo ai sovrani franchi, il Papa aveva voluto indicare la sua volontà di coinvolgerli nella
speciale tutela verso la città di Roma, il suo territorio e la sua chiesa.
Si trattava di un'esplicita usurpazione di prerogative che appartenevano all'imperatore di cui
l'esarca gli altri funzionari erano i rappresentanti in Italia.
Nel 751 l’esarcato di Ravenna era caduto nelle mani dei longobardi e il Ducato di Roma fu
assoggettato al pagamento di un tributo, il che equivaleva a riconoscere il suo inserimento nel
regno longobardo.
Tra il 753 e il 754 Papa Stefano secondo si recò nel regno dei franchi per chiedere l'appoggio di
Pipino contro i longobardi.
Nel 755 nel 756, con due campagne militari, i franchi di Pipino terzo sconfissero i longobardi i
territori conquistati da Astolfo nel 751 non vennero restituiti ai bizantini, legittimi proprietari, ma al
Papa.
Si formò il primo abbozzo territoriale di quello che sarebbe successivamente stato definito con il
Patrimonium sancti Petri, secondo un accordo stretto quindi tra Pipino III e il Papa.
Negli anni successivi con re desiderio (757,774) vi furono altre crisi con Roma.

Il re longobardo rifiutava infatti di restituire al Papa le terre dell'Italia centrale che il vescovo di
Roma proclamava e rivendicava come un'appartenenza alla chiesa di Roma:
- in quanto erede politica dell’impero nell’ex-Italia bizantina
- In quanto Sancta Dei ecclesia reipublicae Romanorum, “santa chiesa di Dio dell’impero dei
Romani”, come si esprime una fonte ufficiale romana, il Liber Pontificalis
È da collocare a questo periodo la redazione a Roma del Constitutum Constantini, un documento
falso secondo il quale il Papa sarebbe stato nominato dall'imperatore, quando quest'ultimo si
apprestava a trasferirsi nella sua nuova capitale, Costantinopoli sua erede in occidente.
La questione si trascinò lungo:
- perché desiderio era stato eletto con il favore dei franchi
- Perché desiderio aveva svolto una politica interna che gli aveva procurato grande consenso
Avevo organizzato il matrimonio di tre figlie su quattro con i duchi rispettivamente di Benevento
Arechi, i Tassilone di Baviera, e con Carlo Magno (?) Quando questi non era ancora successo al
padre.
La quarta figlia era stata destinata a diventare rectrix al monastero regio di San Salvatore di
Brescia, fondata dagli stessi desiderio e Ansa.
Era dunque nel frattempo maturato un'alleanza matrimoniale tra desiderio e Pipino, che vide il
matrimonio di Carlo Magno con una figlia di desiderio (e dalla quale non conosciamo il nome).
Un progetto che trovò la ferma opposizione del Papa, ma senza risultati.

Nel 771 il fratello di Carlo magno, Carlomanno, che aveva regnato insieme a Carlo dal 768 (dalla
morte cioè di Pipino III) morì; la sua vedova i suoi figli trovarono rifugio presso desiderio, che li
protesse.
Nel 773,774 Carlo assediò lungo Pavia, sconfisse desiderio e deportò in Francia, presso il
monastero di Corbie, il re, sua moglie Ansa e una sua figlia (non si sa esattamente quale).
Carlo unì al suo titolo quello di Rex Langobardorum.

Dopo la conquista del regno longobardo si scontrarono due diverse concezioni del futuro politico
della penisola italiana, lunedì parte papale e l'altra di parte Franca.
Il tracollo bizantino nei decenni precedenti il 774 e la necessità di resistere ai longobardi, infatti,
aveva portato i papi a considerarsi veri successori degli imperatori in Italia, gli eredi dell'unico vero
governo legittimo, quello romano.
C'era cioè, nella posizione papale, al tempo stesso il riconoscimento di un legame forte diretto con
Roma e l'Italia non longobarda e, più vagamente, un'ispirazione a ricoprire un ruolo decisivo
nell'intero assetto italiano.
Papa Adriano primo (772-795) intendeva relegare i franchi al Nord, per affidare loro il controllo
delle regioni dove la forza dell'aristocrazia longobarda appariva più difficile da controllare, mentre
l'Italia centrale, a sud della linea che da Luni a ovest andava a Monselice a Est, doveva passare
sotto il dominio di san Pietro e della chiesa di Roma.
In un primo tempo sembra possibile realizzare questo progetto perché molti grandi longobardi, fra i
quali il duca di Spoleto, si sottomisero ad Adriano.
Ma la forza militare Franca si rivelò capace di calamitare intorno a sé tutte le realtà politiche
regionali, sia ex bizantine (esarcato e pentapoli) sia longobardi (Spoleto), così che il regno
longobardo sotto i franchi conservo gli ampi confini che aveva assunto negli ultimi tempi prima
della discesa di Carlo.

Nell'inverno 775-776 rivolta degli aristocratici in Friuli e nel Veneto (rivolta di Rotgaudo), ti avevano
cercato di collegarsi con il duca di Benevento, che aveva salvato a mezzogiorno dalla conquista
franca e si era alleato con i bizantini sognando un impossibile rivincita nel nome di Adelchi, che nel
774 si era rifugiato a Bisanzio. La rivolta venne soffocata, i patrimoni dei ribelli furono confiscati.
Al Nord, la classe dominante longobarda venne rapidamente a patti con i franchi: in una prima fase
però, i duchi, espressione della grande aristocrazia longobarda furono sostituiti nel giro di qualche
decennio del nuovi ufficiali pubblici, detti Comites (conti) che erano in larga maggioranza di
provenienza transalpina, e un ristretto gruppo di franchi si stabilì in Italia.
Carlo non sostituisce anche dal punto di vista identitario il concetto del regno longobardo con un
altro concetto, lascia vivo il regno longobardo e assomma nuove tradizioni di legge. Non nega il
passato e c’è una transizione molto lenta verso la dimensione carolingia.
I rappresentati locali del potere continuano a venire chiamati ancora con la vecchia terminologia
longobarda.

Anche le cariche vescovili furono affidate a individui di origine franca o dei territori già controllati; la
carica di abate dei principali monasteri regi fu di norma ricoperta da Franchi.
Il giorno di pasqua del 781, infine, Carlo nominò suo figlio Pipino (prima si chiamava Carlomanno)
correggente del regno dei Longobardi, accentuando il carattere autonomo del nuovo regno
all’interno della grande denominazione franca.

Al papa rimasero il ducato romano, parte della Sabina e della Tuscia meridionale e il ducato di
Perugia. Su Ravenna e sulla Pentapoli -che pure erano state incluse già nella promissio carisiaca,
che era stata solennemente confermata da Carlo a Roma, nella pasqua del 7754- le sue pretese
ricevettero invece un riconoscimento teorico e intermittente.
Tutta la denominazione papale conservava un profilo incerto. Chiara era solo la sua
subordinazione al superiore al superiore potere di Carlo; per il resto essa, se non era più
semplicemente il patrominium sancti Petri, ossia il complesso di proprietà fondiarie della chiesa
romana, non era però ancora in nessun modo classificabile come uno stato.
E con questo suo carattere istituzionale ibrido convisse per secoli.
A sud l’antico ducato longobardo di Benevento, che comprendeva buona parte dell’Italia
meridionale continentale, sfuggì alla conquista franca nonostante le ripetute campagne di Carlo,
Pipino e dei loro successori.
Il suo duca, Arechi, genero di Desiderio, prese il titolo di princeps langobardorum, esprimendo così
la sua volontà di proseguire la tradizione politica dei re longobardi di Pavia.
La Langobardia minor -ossia il principato di Benevento- rimase ai margini dell'Europa dominata dai
franchi.
Su di essa esercita un'influenza via via crescente Bisanzio dei possedimenti italiani che le
rimanevano: la Sicilia, la Sardegna e le città costiere campane (Napoli, Gaeta, Amalfi).

In posizione particolare si trova a Venezia, ossia il Ducato veneziano, dato che una vera e propria
Venezia città ancora non esisteva.
Il territorio venetico costituiva formalmente un ducato bizantino, ma incluso nel regno longobardo;
in realtà, dall'epoca della crisi iconoclasta il Ducato si era reso quasi indipendente, sotto un duca
eletto dal clero dei tribuni, gli esponenti principali dell'aristocrazia locale.
Crollato il regno, Venezia seppe mantenersi in equilibrio tra le due aree politiche principali, quella
Franca e quella bizantina -quest'ultima saldamente installata sulla sponda balcanica dell’Adriatico-
mantenendo e anzi in robuste endo progressivamente la propria indipendenza, sia pure al prezzo
di una teorica sottomissione a Bisanzio.
Questa situazione fu riconosciuto ufficialmente nell'812 dalla pace di Aquisgrana, che poneva fine
all'ostilità franco bizantina e assegnava la Venezia alla sfera di influenza dell'impero orientale.
Dalla sua posizione di intermediaria naturale fra est e ovest, oltre che dalla modestia della sua
estensione in terraferma, il Ducato veneziano fu spinto a intensificare la sua attività marittima.
Agli inizi del IX secolo mercanti veneziani erano presenti in Siria e in Egitto, oltre che,
naturalmente, a Bisanzio e nelle grandi città portuali dell’impero.

Le guerre di Carlo Magno


La base su cui si reggeva il potere di Carlo era prima di tutto militare.
Non deve stupire perciò il dinamismo guerriero del regno di Carlo, scandito da campagne militari
che si susseguirono con ritmo annuale, ogni primavera, quando le condizioni del terreno
rendevano possibile agli eserciti mettersi in moto.

La Sassonia (772-804)
La tradizionale spinta Franca verso la Germania era stata rinsaldata dalle missioni anglosassoni,
che erano state appoggiate dalle armi degli eserciti dei Pipinidi.
Sotto Carlo, tale spinta si espresse soprattutto nelle trentennali campagne contro i sassoni
(772,804). La Sassonia comprendeva allora tutta la Germania settentrionale, tra il Mare del Nord,
l’Ems, l’Elba e i monti dello Harz.
Divisa in varie popolazioni, da tempo già tributari dei franchi, essa rappresentava una spina nel
fianco per i suoi vicini a causa delle incursioni che i sassoni effettuavano periodicamente nel regno
franco a scopo di bottino.
Le campagne contro i sassoni furono presentate come una guerra di religione.
I franchi nel 772, con una grande campagna, distrussero il principale santuario sassone, dove
veniva dorata la Irminsul, un idolo forma di colonna che rappresentava il titanico albero che

reggeva l'inverso intero, mostrando così di voler procedere non solo alla sottomissione militare, ma
anche una conversione al cristianesimo dei sassoni per assimilarli definitivamente.
Conversioni in massa, forzate, al cristianesimo e anche con l'uccisione dei prigionieri che
rifiutavano di convertirsi.
Severa legislazione antipatia Ana, imposta la Sassonia sottomessa, che equiparava i delitti contro
la religione a quelli commessi contro le autorità politiche.
Il rifiuto del battesimo o la non osservanza del digiuno erano puniti con la morte, così come la
cospirazione contro il sovrano.
Contestualmente alla conquista militare, in Sassonia fu messa in piedi l'intera struttura di una
nuova chiesa cristiana, basata su diocesi, chiese battesimali e fondazioni monastiche.

Baviera (794) e Khanato avaro (796)


Più a sud, fu definitivamente annessa la Baviera, la regione cristiana da tempo nell'orbita Franca,
ma anche alleato dei longobardi, dove Carlo pose fine all'ambigua politica semindipendente di un
antico vassallo franco (il suo cugino), il duca di Baviera Tassilone III da lui deposto nel 788. La
Baviera diventò così parte integrante del dominio franco.
In tal modo Carlo ereditò da Tassilone la necessità di un confronto militare con gli Avari.
Carlo ne ebbe ragione con una serie di campagne, terminate nel 796, che portarono alla
sottomissione e alla loro fine politica.

Danesi
Nei primi anni del IX secolo iniziarono le incursioni piratesche da parte dei danesi, che costrinsero i
franchi a costruire, nel sud dello Jutland, il Danewirke, un lungo terrapieno fortificato che aveva lo
scopo di tenere sotto controllo i movimenti dei danesi, senza per questo interrompere i fruttuosi
scambi commerciali fra le aree interne e quelle esterne alla dominazione franca.

Anglosassoni
Importi commerciali con il mondo anglosassone, che erano basati su forti interessi commerciali,
oltre che sul legami religiosi passavano invece soprattutto per la Mercia, il regno anglosassone più
potente durante tutto l'VIII secolo, il cui re Offa cerco in tutti modi di consolidare un legame con
Carlo, progettando in bano, un matrimonio che avrebbe unito le due stirpi, limitandone in molti
modi lo stile di governo per cercare di consolidare un potere dinastico 8 adottando per esempio
l’unzione regia).
Da diversi punti di vista, si può dire che il mondo carolingio esercitasse una sorta di egemonia
politico culturale sulla Mercia e, per suo tramite, sugli altri regni anglosassoni.

Aquitania
Nel meridione, i carolingi si confrontarono con l'Aquitania, che cercava di sfuggire alla piena
assimilazione al mondo Franco e, più in là di essa, con l'emirato di Cordova.
E spedizioni al di là dei Pirenei e Borough un modesto risultato, la costruzione della marca di
Spagna, con capitale Barcellona, estesa tra i Pirenei e l’Ebro, che assimilò costumi istituzioni del
mondo franco.
Altre nazionalità periferiche e marginali (Bretoni a nord, Baschi a cavallo dei Pirenei verso
l’oceano) sfuggivano ai franchi.
Invece il regno cristiano delle Asturie, sorto a nord-ovest della Spagna a opera di forze ostili
all’assimilazione allo stato cordovese, riconobbe una vaga supremazia da parte di Carlo Magno.

MARTEDI’ 15 MARZO
Le guerre portano nel corso di alcuni decenni a far coincidere i confini di questo regno con quelli
del mondo cristiano.
Da essa rimanevano fuori realtà che allora potevano essere considerate periferiche o grandi realtà
cristiane macchiate però dall’eresia, come l’impero iconoclasta di Bisanzio.
eresia, naturalmente, secondo la dottrina professata dalle chiese occidentali e soprattutto da quello
di Roma, che con Carlo aveva stabilito un legame privilegiato.

Tutta l’età carolingia è caratterizzata da una notevole abbondanza di fonti:


- a carattere storiografico -cronache, annali- (Historia Langobardorum)
- A carattere normativo -capitolari, concilia-
- A carattere poetico
- A carattere epistolare

- A carattere trattatistico
Sono testi tutti pesantemente condizionati dal gioco politico, tendono a giustificare l’ascesa di
questa dinastia. La corte carolingia impose una forte riscrittura della storia del passato recente:
non solo al fine di giustificare e presentare come inevitabile l’ascesa al trono della famiglia e di
screditare i merovingi.
Ma anche per celare le forti tensioni di correnti fra i vari esponenti della famiglia, con la grande
aristocrazia franca o con la stessa chiesa di Roma.
Anche testi non ha carattere storiografico, ma carichi di valore politico, come le lettere inviate dei
papi ai carolingi, furono piegati dalla volontà di plasmare un'immagine del regime carolingio priva
di qualsiasi angolo oscuro.
E 792 Carlo fece raccogliere queste lettere in un volume, il Codex Carolinus, ufficialmente per
salvarle dalla distruzione dovuta al passare degli anni: in realtà, la raccolta includeva ovviamente
solo le lettere che il sovrano voleva fossero tramandate, mentre delle altre si perse ogni traccia.
Ciò significa che di un rapporto assolutamente fondamentale per comprendere tutto il periodo,
quale quello fra i papi carolingi, noi in buona parte conosciamo solo quello con lo stesso Carlo
volle che fosse tramandato.

GLI ANNALES
Ripresa di un genere di narrativa storica di origine classica: elenco degli anni, in ordine
cronologico, con l'elenco degli eventi più importanti.
Essi erano prodotti soprattutto nei principali monasteri del regno: Lorsch, St. Bertin, Fulda.
Venivano redatti gruppi di anni insieme (visione retrospettiva dei fatti)

CAPITOLARI E CONCILIA
Aggiunti all'elegia altomedievale, prendono il nome da “capitulum” (rubrica), sono emanati dal re.
Norme specifiche aggiunte per realtà locali. Si vanno a posizionare a monte della normativa già
esistente, molto intensa per l’Italia (capitolari italici).
Concilia: verbali delle adunanze vescovili che discutono, localmente, i temi poi oggetto della
legislazione secolare.

Carlo Magno imperatore (800)


Verso la fine dell'anno ottocento, Carlo Magno fu costretto a recarsi a Roma per riportarvi il Papa
Leone III, che ne era fuggito dopo essere evaso fortunosamente dal carcere dov'era stato recluso
dei suoi oppositori interni che avevano lanciato contro di lui accuse infamanti.
In San Pietro, alla presenza del re, il Papa si purifico solennemente dell'accusa e i suoi avversari
furono duramente puniti. Due giorni dopo, la notte del 25 dicembre ottocento, durante la messa, il
Papa incoronò Carlo imperatore dei romani.
Stando alle fonti di parte Franca il re non sarebbe rimasto troppo soddisfatto delle modalità della
cerimonia che assegnavano un ruolo attivo solo al Papa e romani che per tre volte, secondo l'uso
antico, lo acclamarono imperatore.
“Nello stesso giorno santissimo della nascita del signore, essendo entrato il re nella basilica di San
Pietro apostolo per celebrare le solennità della messa, ed essendosi seduto davanti all'altare, dove
si era immerso nella preghiera, il Papa Leone gli impose la corona sul capo, e fu chiamato da tutto
il popolo romano: a Carlo, Augusto, coronato da Dio, grande il pacifico imperatore romano, vita e
Vittoria!. E dopo le laudi fu adorato dal Papa secondo l'uso degli antichi principi e da quel
momento, deposto il nome di Patrizio, fu chiamato imperatore ed Augusto.”
REX FRANCORUM ATQUE PATRICIUS ROMANORUM
Sì modi concreti con i quali avvenne l'elezione pesarono certo le contingenti difficoltà del Papa,
che ritenne forse di superarle con un'azione eccezionale, il cui prestigio si sarebbe riversato sia su
di lui che sul suo alleato franco.
Anche la difficile situazione di Bisanzio, sul cui trono sedeva l'imperatrice Irene dopo un colpo di
stato, poté forse accelerare il corso degli eventi.
Non è pensabile che Carlo e i suoi franchi non avessero considerato da tempo la necessità di
compiere un simile passo che sanzionasse l'enorme aumento di potenza del re e il suo essere
diventato il vero punto di riferimento della chiesa in Occidente, l'autentico capo dell'intero popolo
cristiano e non più, come gli altri re barbarici del passato, il sovrano di un solo popolo.
Da parte sua, Carlo da alcuni anni si stava facendo costruire un avere propria capitale imperiale ad
Aquisgrana nel cuore delle antiche terre franche, con palazzi e una chiesa (la cappella palatina)
ricalcati sul modello di Costantinopoli (o forse di Ravenna).

Era la prova che il sovrano e coloro che lo affiancavano stavano già pensando da tempo
all'assunzione di una dimensione imperiale. Nel 794 Carlo aveva convocato un sinodo Francoforte
in cui era stata ribadita la condanna dell'iconoclasti a sostenuto invece dall'imperatore di Bisanzio,
vanificando così tentativi compiuti da questi ultimi di trovare un accordo con il Papa. Era un
intervento in materia di fede, alla maniera degli imperatori romani bizantini, che nessun sovrano
dell'Occidente post romano aveva mai osato compiere.

I problemi di un imperatore e di un impero


La successione al regno era stato avviato concedendo ai figli di Carlo una co reggenza specifica:
- a Pipino il regno dei longobardi (+810)
- A Ludovico l’Aquitania
- A Carlo il giovane la Neustria (+811)
La successione all’impero implica la differenza di un figlio rispetto agli altri, pur in presenza di
uguali diritti.

La struttura amministrativa
Nonostante le cure di Carlo e dei suoi successori, l'impero carolingio non ebbe mai strutture
amministrative molto sofisticate.
Mancavano sia una rete di funzionari omogenea e ben distribuite sul territorio, sia un sistema di
circoscrizioni territoriali uniforme.
Inoltre, i diversi regni assorbiti nell'impero di Carlo continuarono ad avere una loro vita autonoma
(per esempio quello longobardo).
Al vertice dell'apparato pubblico era il palazzo imperiale, pallida imitazione della macchina
burocratica tardo romana e bizantina.
Esso coordinava lo sfruttamento delle grandi proprietà fondiarie del fisco pubblico, che
rappresentavano la base materiale del mantenimento della corte e di tutto l'apparato centrale del
dominio carolingio.
Infatti non fu compiuto alcun tentativo di rimettere in piedi un qualche sistema di riscossione delle
imposte fondiarie.
Oltre che con le terre fiscali, i membri del palazzo e lo stesso sovrano i suoi familiari potevano
contare sul mantenimento diretto da parte dell'aristocrazia fondiaria, laica ecclesiastica, in
occasione degli spostamenti della corte.
La funzione del palazzo, in particolare di quello di Aquisgrana, dove Carlo soggiorno a lungo negli
ultimi anni del suo regno, era inoltre politica in senso lato..
Allorché diminuì, con il passare degli anni la mobilità del sovrano, il palazzo divenne il luogo dove
si realizzava l'incontro fra l'imperatore e l'aristocrazia, dove cioè i legami personali, un tempo
cementati nelle campagne militari, venivano rinnovati periodicamente, mediante soprattutto lo
scambio rituale di donativi.
Gli spazi palatini dovevano disegnare inoltre, sul modello bizantino ravennate, una chiara
gerarchia di potere, plasticamente rappresentata dalla suddivisione degli spazi che il sovrano, la
corte e il popolo occupavano all'interno della cappella palatina di Aquisgrana.

L’amministrazione locale
Il potere locale era esercitato dei conti, accanto i quali c'erano alcuni duchi, titolari di più comitati
oppure posti a capo di realtà territoriali che coincidevano con grandi aggregati etnico tribali (per
esempio in Germania).
Che conti, insieme ai capi delle Marche (dette Marchiones a partire dalla fine del regno di Ludovico
il Pio), erano i protagonisti della grande scena politica dell’impero. L'area di esercizio dell'attività
comitale all'ovest e a sud (in particolare in Italia) faceva riferimento alla vecchia rete delle città
romane, mentre a est, soprattutto al di là del Reno, e a nord quest'area era meno definita e faceva
riferimento insediamenti non sempre carattere cittadino.
All'interno dei diversi territori l'attività degli ufficiali pubblici era almeno in teoria controllato dai
vescovi ai quali furono conferiti ampi poteri di sorveglianza e intervento nella vita politica. Compito
dei conti era quello di partecipare, insieme con il re, al governo della società cristiana, e quindi si
spiega il loro stretto rapporto con l'autorità vescovile.
I missi (inviati): erano funzionari itineranti inviati nelle varie regioni con poteri di controllo e talvolta
anche di governo, come avvenne, per esempio, in Italia durante la minore età di Pipino, quando il
governo fu per lunghi anni nelle mani dei missi, il più noto dei quali fu l’abate Adalardo di Corbie.

L’aristocrazia imperiale

Un altro elemento di forza fu rappresentato dal costruirsi, negli anni di formazione della vasta
dominazione carolingia, di un ristretto gruppo di famiglie che possiamo definire come aristocrazia
imperiale.
Lo studio prosopografico -ossia la minuziosa ricostruzione delle traiettorie individuali dei singoli
membri di queste famiglie e dei loro legami parentali- a permesso di identificare un ceto
aristocratico che ricoprì cariche nei vari regni nei quali era suddiviso l'impero carolingio,
spostandosi anche in zone lontane da quelle dove erano collocati i loro beni di famiglia.
Questa grande aristocrazia era molto più ricca delle varie altre famiglie incluse nel sistema
carolingio, al quale doveva la sua stessa fortuna. Un membro tipico di questa aristocrazia fu per
esempio Everardo, conte o marchese del Friuli (morto nell’865), che sposò la carolingia Gisla, figlia
di Ludovico il Pio e nipote di Carlo Magno, e che era originario della Neustria e proprietario di
vastissimi beni fondiari sia in Francia che in Germania.

Le immunità
I grandi ecclesiastici, vescovi e abati, furono coinvolti nella gestione del governo carolingio.
Nei confronti di abbazie episcopati Carlo fu prodigo di concessioni di immunità: quest'ultima
metteva le terre immunitarie a riparo da qualunque intervento (giudiziario, fiscale, di leva militare)
da parte degli ufficiali pubblici, conti compresi.
Il rapporto fra le terre immuni e gli uomini che vivevano su di essa e il resto della società era
assicurato dagli avvocati, grandi laici che avevano il compito di condurre all'esercito e al tribunale
del conte gli uomini dell’immunista (il vescovo o abate).

I vassi o vassalli
Carlo riuscì, e come lui ci riuscirono anche i suoi immediati successori, a mantenere saldamente il
controllo dell'aristocrazia locale, appoggiandosi anche i Vassi Dominici, I suoi vassalli diretti, che
erano uniformemente distribuiti, con benefici e terre di proprietà, nei vari regni che costituivano
l’impero.
Ho inoltre sottolineato sin d’ora che il legame vassallatico risultava diffuso anche tra gli aristocratici
che non avevano ricevuto alcuna funzione pubblica da parte regia.

Correctio ed adomonitio
Centrale nella politica di Carlo fu l'idea della correctio, ossia di riforma, il cui scopo generale era
quello di costruire un regno cristiano sotto il profilo del comportamento morale, dell'osservanza
della retta dottrina, del funzionamento delle strutture istituzionali della chiesa.
Di qui il ruolo fondamentale del battesimo come chiave di Volta dell'intero edificio della società
cristiana, e del credo, in quanto veicolo dell'ortodossia; la diffusione di testi di età carolingia sul
battesimo e sul credo ne è la prova.
Ne deriva la necessità di uniformità del testo biblico.

L’immunità
Per molto tempo si è pensato che la concessione dell’immunità fosse un processo autodistruttivo
da parte dell’imperatore.
In realtà non è cosi, ma è la dimostrazione che la forza regia può limitare il raggio d’azione dei suoi
finanziari.
L'immunità del IX secolo hanno come oggetto precisi ambiti d'azione e obiettivi: le rendite
risparmiate devono essere spese per le luminarie delle chiese.
La diffusione dell'immunità in età carolingia si spiega non con una volontà di rinuncia alle proprie
prerogative da parte del potere pubblico, come si è scritto in passato, bensì con il tentativo da
parte del potere centrale di rafforzare la potenza sacrale dello Stato.
Infatti chiese e monasteri immuni erano di regola sottoposti alla Tuitio imperiale, ossia la
protezione da parte del sovrano, che era attivamente coinvolto nelle questioni religiose e
patrimoniali che riguardavano le diverse istituzioni ecclesiastiche (per esempio la nomina
dell’abate) finendo in questo modo per esercitare un forte controllo su di esse.

Il potere pubblico
Gli enti immuni, con i loro possessi in continua espansione per le donazioni pubbliche private,
rappresentarono una straordinaria risorsa per il potere Regio.
Il potere pubblico carolingio in conclusione si basava su di un triplice coordinamento di forze: della
struttura pubblica, della rete vassallatica, degli enti immuni protetti dal sovrano.

I rapporti vassallatico-beneficiari furono meno universalmente diffusi in età carolingia di quanto si


sosteneva un tempo.
L'immunità concessa gli enti ecclesiastici erano quindi degli strumenti di governo e non
manifestazione di impotenza dell'apparato pubblico.
Queste tre forze avevano al loro interno potenzialità di sviluppo fra loro contrastanti; tali sviluppi si
manifestarono solo in seguito, a mano mano che ci si inoltra nel IX secolo, in occasione dei conflitti
per la successione reggia imperiale e dell'accrescersi della consapevolezza aristocratica di essere
determinante nella scelta di sostenere questo o quel candidato.

La divisione dell’impero carolingio (843)


Nel corso del IX secolo si assiste al lento capovolgimento dell'assunto iniziale:
- da: senza i Carolingi non ci sarebbe l’aristocrazia
- A: senza il supporto aristocratico non ci sarebbero i carolingi
I movimenti del re, oltre che per le campagne militari per l'assemblea, avvenivano soprattutto per
celebrare le festività principali cristiane: il Natale e la Pasqua.
Perciò che riguarda il calendario liturgico fu imposta uniformità nella celebrazione della feste
cristiane in tutto l'impero che era basata, oltre che sulle due festività cardine, sulla celebrazione del
culto dei santi.
Quest'ultimo quindi diventa centrale nella costruzione del tempo cristiano, unico in tutto l'impero
(anche se uno spazio sarà lasciato anche ai santi locali, ma solo in aggiunta ai culti comuni).
In esso i martiri del primo cristianesimo e quelli romani, i vescovi gallo-romani e poi merovingi, i
monaci e i missionari franchi e anglosassoni stavano gli uni accanto agli altri.

Il culto dei santi e le traslazioni di reliquie


I santi da venerare (e che operano miracoli) sono controllati dall’alto.
Non vi sono più (fino al X secolo) Vitae di santi locali (come in età merovingia); non vi sono più
vitae di sante.
Si diffonde un nuovo genere letterario: le Traslazioni (cioè i trasporti delle reliquie da un luogo a un
altro).
La società carolingia non sperimenta il sacro, ma soltanto la sua narrazione.
Il culto dei santi significava venerazione profonda per le loro reliquie. Esse davano evidenza
materiale alla storia cristiana e fornirono un accesso privilegiato alla sfera del sacro: di qui i
numerosissimi doni di reliquie da parte di Carlo Magno, che le possedeva come un suo tesoro
personale, e che gli fece monasteri e chiese, specie a quelle di nuova fondazione.
E nelle regioni di nuova conquista la loro presenza costituiva un tentativo di sacralizzare il senso
carolingio quei paesi, con la forza ideologica rappresentato dalla presenza fisica delle reliquie di
santi gallo romani e franchi.

Lingua e scrittura
La lingua dei classici era indispensabile per tutte queste operazioni: grande interesse dei chierici
carolingi per i capolavori letterari dell’antichità.
I codici tanto antichi contenenti i classici circolavano fra i monasteri e le chiese episcopali, dove
venivano copiati, e si formarono così sia i primi nuclei di biblioteche in paesi nuovi per la cultura
scritta, come la Germania, nei monasteri di Lorsch o Fulda, o la futura Svizzera, a S.Gallo, sia si
rafforzarono le importanti biblioteche la dove esistevano già, come nell’antica Gallia, a Corbie,
Luxeuil, Fleury.
Scrittura utilizzata: minuscola carolina.
Una scrittura semplice insegnata in tutti i centri scrittori dell’impero.

Il nuovo latino carolingio scrittosi distacco così dalla lingua parlata, nei territori romanzi,
interrompendo un processo che lo stava avvicinando ai nascenti volgari.
Allo stesso tempo, pur puntando tutto sul latino come tessuto connettivo dell'amministrazione
dell'impero e della liturgia cristiana, si riconobbe il valore di altre lingue: nel concilio di tours
dell'813, ci si raccomandò che i predicatori, per farsi comprendere, parlassero, seconda dei casi, in
rusticam romanam linguam aut theotiscam, ossia in lingua romanza o tedesca, le lingue del popolo
parlate a ovest e ad est del Reno.

Lingua scritta

Depista de Litteris Colendis, una missiva del 797, nella quale si affermava come necessario che gli
enti religiosi debbano accondiscendere a istruire nell’esercizio delle lettere coloro che siano in
grado di appresero “perchè colore che si sforzano di piacere a Dio vivendo rettamente non
trascurino di piacergli anche parlando correttamente”.
Il testo esprime bene l’ideale culturale carolingio: lo studio filologico e grammaticale viene messo al
servizio di un’elevazione del livello morale e religioso, che si riflette positivamente sul governo
dell’impero cristiano.
Le conseguenze del lavoro degli intellettuali Carolingi furono notevolissime.
La maggior parte delle opere di autori antichi giunte sino a noi risalgono codici manoscritti prodotti
in età carolingia, e che costituiscono gli archetipi di tutta la successiva tradizione manoscritta, fino
ad arrivare alle prime edizioni a stampa.
Qualche dato numerico: sopravvivono solo 2000 codici circa scritti nel periodo precedente l'anno
200, circa 7000 scritti nel solo IX secolo.
Il nostro debito verso gli intellettuali carolingi enorme, in quanto la nostra conoscenza dei classici
deriva dal lavoro svolto da loro.
Bisogna sottolineare che ciò che noi oggi conosciamo deriva dalle lontane scelte compiute da
costoro, e quindi ciò che essi non copiarono o che comunque decisero di non conservare nelle
biblioteche, fu in buona parte destinata alla scomparsa per la rovina dei codici nei quali era scritto
o talvolta per la loro raschiatura ai fini di un successivo riutilizzo.

Il regno in Italia (844-875)


Morto Lotario, il regno italico con la corona imperiale era passato suo figlio Ludovico Secondo, che
era già Rex Langobardorum dall'844, e che si disinteressò dei domini paterni a nord delle Alpi,
concentrando la sua attività in Italia.
Ludovico Secondo, nonostante il suo titolo imperiale, fu un sovrano sull’italiano. In questo ambito
relativamente limitato egli interpretò il suo ruolo con il massimo impegno, cercando di consolidare
la dominazione carolingia in Italia.
Nel centro Nord, essa si appoggiava sui vassalli più potenti, tra i quali i principali erano i Supponidi,
titolari di vari comitati, e i marchesi del Friuli, di Ivrea, della Tuscia, di Spoleto, tutti appartenente a
grandi famiglie di immigrati transalpini.
In più Ludovico poteva contare sul controllo dei beni del fisco, degli episcopali e della rete dei
maggiori monasteri.
Certamente vi erano dei segnali che il complesso equilibrio tra queste forze cominciava ad
alterarsi, ad esempio a vantaggio dei vescovi molte città, ma complessivamente il potere di
Ludovico era saldo e la sua egemonia politico militare indiscutibile.
Andelberga, moglie di Ludovico II, compare come intermediario/intercessore nei diplomi regi.
È detta sia dulcissima coniux sia concors regni.
860 = carta di dotalicium con elenco terre fiscali. Prova scritta della pubblicità del matrimonio.

MERCOLEDI’ 16 MARZO
Il papato e le terre bizantine
Al centro della penisola Giua la chiesa di Roma, con la sua ancora informe dominazione
territoriale, dove alcuni papi del periodo, come Nicolò I, riuscirono anche a giocare un ruolo politico
decisivo, intervenendo nei conflitti interni alla famiglia carolingia, quali la lunga contesa legato al
divorzio di Lotario II.
Quest'ultimo, rimasto unico erede al nord di Lotario I, alla fine fu costretto a sottomettersi alla
volontà papale, dietro la quale c'era la volontà politica dei suoi zii, ansiosi di impadronirsi del suo
dominio).

E a sud sfuggivano all'autorità diretta dell'imperatore le terre longobarde i bizantini, inserito in


un'area priva di forte potere centrale.
I bizantini erano ancora presenti in Sicilia come dominazione diretta, mentre le città greche
tirreniche (Napoli, Gaeta, Amalfi) avevano trovato un loro equilibrio politico sotto dinastie locali di
funzionari resisi autonomi.
Il meridione continentale invece dall'849 era diviso fra due formazioni politiche fra loro rivali, i
principati longobardi di Benevento e di Salerno, eredi dell'antico ducato beneventano.
All'interno del principato salernitano -il più dinamico grazie al porto della sua città capitale rifondata
dal duca Arechi II alla fine dell'VIII secolo- si profilava sempre più nettamente l'autonomia del
comitato di Capua, sotto una dinastia locale di gastaldi-conti.

La frantumazione politica del meridione era quindi molto forte. Tuttavia a partire dall'840 circa esso
si trova sotto la minaccia crescente dei saraceni, per Ludovico II si aprì uno spazio nuovo di
intervento.
Presentandosi come protettore delle popolazioni cristiane del sud, egli strappò Bari ai saraceni,
che vi si erano installati trasformandolo in un emirato chi era al tempo stesso un pericoloso nido di
pirati, e stabilì una precaria egemonia sul mezzogiorno.
Alla sua morte nel 875, il sistema di potere da lui messo in piedi, già incrinato da una prima
reazione ostile del principe di Benevento Adelchi -chi lo aveva addirittura temporaneamente
imprigionato nell’871- crollò del tutto il sud e tornò ad essere disputato fra i principi longobardi, i
saraceni e i bizantini.
I bizantini colsero i maggiori frutti della situazione, creando di nuovo una dominazione territoriale
sul continente che nei decenni successivi, con il nome di Catepanato di Langobardia, sarebbe
diventata nel tempo sempre più importante.

Nella crisi che seguì la scomparsa di Ludovico II, il papato si inserì rivendicando sei la capacità di
disporre della corona imperiale.
Papa Giovanni VIII (872-882), convocata un sinodo dei vescovi italiani a Ravenna, assegnò la
corona a Carlo il calvo che unì così l’Italia al regno della Francia occidentale che già possedeva
(875).
Ma la morte a breve distanza l'uno dall'altro di Ludovico il germanico e dello stesso Carlo il calvo fu
seguito da una serie di sfortunati eventi che eliminarono dalla scena i vari eredi maschi carolingi.
Nell'884 rimase solo Carlo il grosso, figlio di Ludovico il germanico. In quanto eredi Alamannia
questi si era già fatto nominare re d'Italia nell'879 e imperatore nell'881; la morte dei suoi rivali
carolingi di spianò la strada per una riunificazione totale dell'impero, la prima dall'840, data che
coincide con la morte di Ludovico il Pio (ludovico I).
La riunificazione dell'autorità imperiale di Carlo il grosso fu effimera e più teorica che reale. I
problemi più pressanti che si ponevano in quel momento infatti non erano legati alla sopravvivenza
della complessa impalcatura unitaria dell'impero, bensì erano quelli della difesa delle popolazioni
dalle incursioni normanne e saracene, in continuo aumento, alle quali si sarebbero aggiunte le
scorrerie degli Ungari.
E le lotte intorno alla carica imperiale in fondo distoglievano i ceti dominanti della loro principale
occupazione, la difesa locale. Così l'impero morì di morte naturale, almeno nella sua impegnativa
forma carolingia.
La crisi dell'impero trascinò con sé un restringimento di orizzonti del papato, rinchiuso ormai in una
dimensione romana o al massimo centro italiano, incapace di approfittare anche di situazioni
favorevoli come quello offerto dalle cosiddette decretarli pseudo Isidoriane, E una raccolta di falsi
canoni di concili che circolava dalla seconda metà del IX secolo nella chiesa franca e che aveva lo
scopo primario di indebolire il potere dei metropoliti nei confronti dei vescovi, ma che, al tempo
stesso, era costretto a ribadire i vincoli di subordinazione dei vescovi stessi nei confronti del
papato

La deposizione di Carlo il Grosso (888)


Era un'occasione per affermare la prima zia di Roma sulla potente chiesa franca: ma fu
un'occasione che andò quasi totalmente sprecata a causa della scarsa statura intellettuale politica
dei papi succeduti a Giovanni VIII.
In questo quadro la deposizione di Carlo il grosso a un certo modo un carattere emblematico.
Cazzo Carlo, privo di eredi maschi adulti e colpito da una grave crisi epilettica durante la dieta di
Tribur dell'887, fu deposto dei grandi e confinato in una villa pubblica dove morì.
Con lui ebbe fine la dinastia carolingia nella linea di discendenza diretta maschile.
Gli ultimi carolingi avevano fallito proprio nel loro compito principale, proteggere le popolazioni loro
affidate.
Così come nel 751 l'ultimo re merovingio era stato deposto in quanto inutile, ora lo stesso
appellativo veniva adottato per l'ultimo dei carolingi a significare che il prestigio dinastico elaborato
dalla famiglia carolingia non era stato sufficiente a far dimenticare all'aristocrazia che il buon re si
misurava non solo della sua nobile origine, ma soprattutto in base alla sua efficacia.

La situazione interna dell'impero carolingio era stata aggravata dall'improvvisa e dura minaccia
militare che venne a pesare sulle regioni dell’Occidente.
Lo scatenarsi delle incursioni vichinghe saracene, in uno scenario compreso tra le coste
meridionali del Mediterraneo e il nord continentale, contribuì a destabilizzare la società carolingia.

Alla fine dello stesso secolo gli Ungari si unirono, da oriente, a vichinghi e saraceni, completando
l'accerchiamento delle vecchie regioni carolingia e riproponendo all'Occidente l'antica minaccia dei
nomadi.
Si tratta delle cosiddette seconde invasioni. Il loro sviluppo temporale andò approssimativamente
dal 750 al 950.
Di fronte i danni provocati da queste seconde invasioni ci si deve chiedere prima di tutto come mai
l'impero carolingio, che solo pochi decenni prima aveva imposto la sua schiacciante forza militare
contro tutti i suoi nemici, non sia stato in grado di opporsi in modo efficace alle incursioni.
I conflitti interni e gli stessi processi di trasformazione sociale, non bastano a spiegare del tutto un
simile insuccesso che va interpretato innanzitutto dal punto di vista militare.
In questo campo non si deve pensare ad una superiorità numerica degli aggressori o una loro
superiorità in fatto di tecnica militare o di armamento.
Tutt'altro: la superiorità tecnologica era tutta dalla parte carolingia, tant’è vero che i capitolari
imperiali proibivano con durezza di vendere armi e pirati vichinghi o ad altri nemici esterni.
Il motivo chiave un altro: l'impero carolingio non era preparato difendersi. Infatti l'esercito carolingio
era fatto per l'aggressione premeditata, ossia per campagne di attacco nelle quali era formidabile;
ma essendo lento sia riunirsi chiamo muoversi, non era capace di resistere incursioni rapide e
improvvise, né tantomeno era in grado di prevenirle.
Inoltre i vassalli che ne costituivano il nucleo fondamentale, erano disponibili a partecipare
all'esercito solo per un numero limitato di giorni.
La stessa cavalleria, strumento militare eccellente e capace di fornire una schiacciante superiorità
era utilizzabile per le campagne solo nelle stagioni nelle quali il foraggio era abbondante, e anche
in quei casi per poco tempo dato l'elevato costo del suo mantenimento.
Insomma la concentrazione dell'esercito era macchinosa e per di più era possibile solo in un posto
stabilito con molto anticipo, data la difficoltà delle comunicazioni.
La difesa territoriale esisteva quasi solo in teoria. Inoltre all'interno dei conflitti locali la presenza di
entità esterne fu spesso utilizzata contro i propri nemici interni.
Tutto ciò metteva l'impero nelle mani di aggressori inattesi e imprevedibili.
Le invasioni misero insomma nudo i limiti di fondo della costruzione carolingia, la fragilità delle sue
basi:
- la mancanza di vere finanze
- Di estese fortificazioni
- Di una marina
- Di un esercito permanente
- La vastità del territorio in rapporto all'atomizzazione della vita sociale
- La stessa sostanziale indifferenza delle popolazioni verso le sorti generali dell’impero
- Il complesso ruolo dell'aristocrazia, che sfruttò le invasioni come mezzo per indebolire il potere
dei sovrani, o anche la stessa azione di questi ultimi, che alternarono guerre accordi sulla base
della loro agenda politica interna.
L'unica difesa realmente efficace era quella locale. Ed essa fu supportata in primo luogo da quegli
stessi grandi vassalli signori che erano così tiepidi nel soccorrere imperatori, ma che trovarono
proprio in questo ruolo difensivo un mezzo efficace per accrescere e rafforzare la propria
supremazia sugli abitanti che venivano protetti dalle loro armi.

I danesi furono in prima fila fin dall’811 nell'aggressione verso l'impero carolingio.
In questo caso, il periodo più caldo dell'aggressione inizio con l'850 circa: i vichinghi risalirono i
grandi fiumi e misero sotto attacco tutto il regno della Francia occidentale, la Frisia e la Lotaringia.
Le chiese, i monasteri le popolazioni vennero più volte depredati e i tributi in denaro vennero
spesso pagati per evitare il saccheggio.
Poi intorno all’880 si verificano dei mutamenti: i campi temporanei che i pirati costruivano nei punti
di sbarco sulle coste marittime fluviali, per ripararsi durante il saccheggio delle zone circostanti,
cominciarono in alcuni casi a diventare permanenti, almeno sulle coste del Mare del Nord, e lo
sfruttamento della popolazione divenne più regolare e meno violento.
Nell’911, prendendo atto della situazione, il re della Francia occidentale, Carlo il semplice,
concessi in feudo al campo vichingo Rollone la terra che da allora fu detta Normandia, e che
divenne un ducato.
In cambio Rollone giurò fedeltà vassallatica al sovrano e si convertì al cristianesimo. Da questo
momento i normanni difesero le stesse terre che prima depredavano; il peso delle incursioni iniziò
diminuire ed essi si integrarono rapidamente nel mondo franco, assorbendone lingua, religione e
cultura pur senza perdere le loro spiccate attitudini guerriere.

Dappertutto intorno al 930 circa, l'impeto delle incursioni vichinghe e danesi si placò. Farne un
bilancio è difficile, anche perché è indubbio che la loro violenza fu esasperata nel racconto che ne
fanno le fonti, che peraltro sono quasi tutte di provenienza ecclesiastica, scritte cioè in quelle
chiese e monasteri che per la loro ricchezza furono più di tutti i posti nel mirino degli attacchi.

Subito dopo la deposizione di Carlo il grosso, nell'888, non essendoci maschi adulti di stirpe
carolingia, l'aristocrazia dei vari regni elesse dei Re al suo interno.
L'ufficio utilizzando tutti i rituali politico ecclesiastici della regalità consolidatesi in età carolingia,
quali le assemblee e i rituali di inaugurazione officiati dai vescovi. In sostanza si può dire che il
sistema di potere carolingio cerco di continuare ad andare avanti, anche se indebolito, senza i
carolingi. Ma alla lunga il tentativo fallì, perché la mancanza di sovrani di discendenza maschile
carolingia legittima conferì loro un deficit di legittimità: Da qui scaturirono inevitabilmente violenti
conflitti interni fra le fazioni aristocratiche, posta di fronte e di solito ad una dura scelta:
sottomettersi opporsi con le armi.
Infatti le opportunità del periodo precedente, rappresentate da una pluralità di corti carolingia e
verso le quali indirizzare la propria fedeltà, era venuta meno. Tali conflitti si sommarono agli altri
fattori di debolezza nell'incrinare progressivamente la forza e l'incisività dell'azione dei poteri
pubblici nel periodo post carolingio.

La Francia
Una prima divaricazione politica netta ci fu tra Francia e Germania. In Francia fu eletto re Oddone,
conte di Parigi, capo della resistenza della città i pirati vichinghi, che apparteneva la stirpe dei
Robertini, poi detti Capetingi.
Nei decenni successivi, mentre continuavano le incursioni vichinghe, il potere Reggio fu esteso
lungo fra carolingi e Capetingi finché questi ultimi salirono definitivamente al trono con Ugo Capeto
nel 987. Ma i Capetingi controllavano di fatto solo l’lle de france, ho un territorio non più grande di
quello dei più forti fra i loro vassalli.
Si avviò quindi un processo di dissociazione del regno in unità minori, i cosiddetti principati. Tra
quelli destinati a vita più lunga c'erano il Ducato di Normandia, le contee di fiandra, di champagne,
di bretagna, d’angiò, di Tolosa, di Borgogna e di Aquitania.
Non tutti erano frutto del dinamismo di dinastie di origine comitale: la Normandia era un'eredità
delle incursioni vichinghe, la Bretagna e l'Aquitania erano antiche unità amministrative carolingie.
Nel sud del paese si erano creati due piccoli regni autonomi, di Provenza e di Borgogna.

La Germania
L’evoluzione della Germania è simile solo in apparenza quella francese.
La differenza principale era dato dalla presenza in Germania, di grandi aggregazioni territoriali su
base etnica i ducati. Fu proprio questo sottofondo etnico tribale che garantì una maggiore solidità
ai poteri regionali rispetto i principati francesi, perché bloccò l'eccessiva intraprendenza delle
dinastie locali.
Per questi motivi il potere centrale rimase più forte.
I carolingi dapprima si mantennero sul trono con Arnolfo di Carinzia, discendente legittimo di
Ludovico il germanico, che fu eletto nell'888 re di Germania; dopo un periodo di instabilità, i duchi
e gli altri grandi diedero la Corona prima Corrado duca di Franconia, poi morto questi, Enrico I
duca di Sassonia che organizzo definitivamente il regno come un'unione di ducati etnici: Sassonia,
Franconia, Svevia, Baviera, qui si aggiunse anche la Lotaringia, strappata ai re della Francia
occidentale.

E la penisola italiana
La lotta per il potere all'interno dell'antico regno longobardo si scatenò violenta, dopo la fine della
dinastia carolingia, e portò sul trono gli esponenti di alcune antiche famiglie franche trapiantate in
Italia, nessuno dei quali riuscì però a fondare una dinastia.
Ciò derivava anche dalla relativa debolezza della grande aristocrazia laica del regno, tutta di
origine transalpina, che si era fusa solo in modo imperfetto con la piccola e media aristocrazia
indigena, e che era ancora molto legata proprietà interessi a nord delle Alpi.
La scomparsa di un potere unitario a sud e a nord delle Alpi fu un duro colpo per l'aristocrazia di
questo tipo. Tuttavia anche in Italia si erano formate grandi aggregazioni territoriali, di origine
pubblica, le marche di Spoleto, Tuscia, Ivrea, Friuli, e fu da esse che uscirono gli attori principali
della vicenda politica.

Dopo l'ottocento 87, la lotta si scatenò fra Guido marchese di Spoleto e Berengario marchese del
Friuli e vide inizialmente il prevalere del primo il quale nell'891, cinse anche la corona imperiale
unendola a quella di Re d’Italia.
Guido seguiva così una tradizione che risaliva a Ludovico Secondo, re d'Italia e imperatore, e che
aveva le sue radici nello speciale rapporto di protezione di collaborazione al tempo stesso che il
sovrano italico aveva con il Papa e la chiesa di Roma.
E poco importava che un sovrano come Guido fosse tanto debole da non riuscire a imporsi senza
contrasti nemmeno nel suo regno.
Proprio il valore particolare, di basi legittima per una rivendicazione del titolo imperiale, che aveva
la corona del regno italico, finì per attirare in Italia il re di Germania Arnolfo di Carinzia, chiamato
da una fazione dell'aristocrazia e della chiesa ostile a Guido e capeggiata da Papa formoso.
Battuto facilmente Guido e conseguito a sua volta il potere imperiale, Arnolfo, ammalato si
improvvisamente, dovette però ripassare in gran fretta le Alpi attraverso un paese che gli era
diventato immediatamente ostile.
Scomparso il sovrano tedesco, la lotta tra le dinastie di Spoleto e del Friuli si riaccese immutata
finché dopo il breve regno del figlio di Guido, Lamberto, morto per un incidente di caccia nell'898, il
potere rimase infine a Berengario I del Friuli che non riuscì mai esercitarlo realmente al di fuori
dell'Italia nord-orientale.

I nuovi re usciti dalla crisi del potere imperiale carolingio nell’887-888 furono dunque sovrani
complessivamente piuttosto deboli, ad eccezione dei re di Germania.
Essi continuarono comunque a muoversi sempre entro un quadro concettuale politico carolingio
sia per ciò che riguardava l'idea del ministeri regio, O il rapporto con la chiesa o quello con la
stessa idea imperiale: come dimostrano i ripetuti aspiranti al titolo imperiale che, nel periodo che
intercorre fra la deposizione di Carlo il grosso e l'elezione di un imperatore forte e autorevole come
Ottone I di Sassonia, cinsero la corona a Roma.
Questo a dimostrazione della forza della tradizione carolingia e dell'impronta che sapeva impresso
sulla società, all'interno di un Occidente che ormai possiamo definire alto medievale e non più
semplicemente post romano.

Le cause della caduta dell'impero carolingio (888)


- crisi dinastica
- Aggressioni militari esterne
- Indebolimento istituzioni per ereditarietà delle cariche
- Forze centrifughe dei Sub regni
Conseguenze
- E creazione di regni indipendenti
- Titolo imperiale legato a regno italico e all'incoronazione romana
- Ereditarietà delle cariche pubbliche laiche: da comitati a contee
- Appoggio istituzionale sugli episcopati
Il regno italico
- titolo imperiale
- Elezione reggia, solo alcune incoronazioni
- Ruolo della capitale Pavia: funzione del palatium
- Continuità delle istituzioni pubbliche regie
Regno franco occidentale
- Crisi del potere pubblico e aumento dell'autonomia dei principati
- Aggressioni normanne
- Limitazione dell'autorità pubblica regia
- E dai comitati carolingi ai principati territoriali
E regno franco orientale
- affermazione della dinastia dei duchi di Sassonia
- Ottone I: conquista l'Italia e il titolo imperiale
- Riaffermazione dell'autorità pubblica
- Strutturazione in Ducati: Lotaringia, franconia, Svevia, Baviera e Austria
Vecchia interpretazione: feudalesimo
Vassallaggio come feudalesimo: strumento di inquadramento dello Stato
Struttura statale: piramide del potere
Karl Marx: modello produttivo feudale

Vassallaggio (no feudo)


Nascita e sviluppo rapporti vassallatico beneficiari in età merovingia e carolingia
Diffusione del vassallaggio di laici ed ecclesiastici
Assenza della piramide feudale sino al XII secolo

E crisi del potere pubblico (X e XI secolo)


L'ereditarietà delle cariche
Sviluppo della giurisdizione vescovile
Lontananza e difficoltà del potere Regio

E signorie territoriali (no feudo)


Dalla signoria fondiaria
Alla signoria territoriale o di banno

L'incastellamento (fine IX-X secolo)


Storiografia giuridica: crisi regia e aggressioni esterne
Innovazioni storiografiche: conflittualità interna e modificazione insediamento
Dati archeologici: modello toscano e trasformazione del paesaggio e dell'insediamento dal VI
secolo in avanti

E feudalesimo (dall’XII secolo)


Capitolare di Quierzy di Carlo il calvo e Constitutio de feudi di Corrado II: ereditarietà progressiva
dei benefici vassallatici, da quelli maggiori a quelli minori.
Feudo “oblato” I riaffermazione del potere imperiale con Federico I di Svevia
Piramide feudale come mezzo di aggregazione istituzionale nelle monarchie nazionali

L’ evoluzione cittadina: dalla città altomedievale a quella vescovile e comunale


La rinascita urbana è tradizionalmente connessa allo sviluppo demografico e economico che
investì l'Europa occidentale dopo l'anno 1000.
E ma il potenziamento cittadino si colloca all'interno di un fenomeno distinto e più vasto: quello
dell'incremento generale dei poteri su base locale che contrassegna l'Europa che era stata
carolingia e che alle sue premesse nell'VIII secolo, anche longobardo.
E il risveglio politico delle città si svolse sul medesimo terreno di cultura che alimentò negli stessi
secoli poteri signorili delle campagne, cioè la disgregazione delle grandi strutture di inquadramento
assicurate dall'impero costruito dei franchi.
E ciò significa ammettere una certa analogia tra autonomie cittadine e proliferazione signorile: si
trattò di due forme istituzionali diverse, espresse da gruppi sociali differenti, di un grande
movimento verso il protagonismo locale dei nuclei di potere.
In secondo luogo, se il tratto più visibile del nuovo tono di vita urbana dopo l’XI una formazione
degli enti comunali, non per questo città e Comune devono essere ritenuti come dei sinonimi.
La parola comune indica infatti il particolare assetto istituzionale che la società cittadina si diede
quando raggiunse l'autogoverno, in forma piena o in quella più debole di una certa autonomia
amministrativa.
Non tutte le città furono però dei comuni, e altre che pure lo furono assunsero tale organizzazione
in forma così sbiadita da rendere incerta la loro denominazione.
D'altra parte non tutti i comuni furono delle città, come dimostra la vasta proliferazione italiana dei
piccoli comuni rurali o ancora in caso estremo, l'assunzione di strutture istituzionali di tipo
comunale da parte di aggregazioni consortili signorili nel contado.
L’impalcatura comunale fu il segno diffuso e visibile della rinascita cittadina.
Infine è opportuno porre una distinzione tra movimento comunale e civiltà comunale.
Per movimento comunale si intende in senso lato l'acquisizione totale o parziale di autogoverno da
parte di collettività urbane, che avvenne in forme largamente differenziate e con notevoli sfasature.
In questo movimento l'Italia fu l'avanguardia, ma la dimensione europea del fenomeno è
innegabile.
La civiltà comunale fu invece un fatto prettamente italiano, o meglio di quella parte della penisola
corrispondente al regno italico. Dal punto di vista istituzionale la civiltà comunale italiana fu
contrassegnata da un sistematico parallelismo negli sviluppi locali ed ha una forte circolazione di
esperienze da un centro all’altro.
Sotto il profilo sociale siamo in presenza di morfologia articolate, che per la loro stessa
articolazione davano luogo a possibilità di ascesa e di promozione.

Dal punto di vista culturale, l'ideologia cittadina fu imperniata sul concetto di civitas come sede di
libertà.
La nascita degli auto governi cittadini fu una rivoluzione rispetto all'assetto dei poteri esistenti? A
tale domanda sono state date risposte positive quando si è sottolineata la componente mercantile
e commerciale dell'autonomia urbana, negative quando sono stati sottolineati gli aspetti feudali
signorili.
Una possibile via di uscita questa interpretazione dicotomica e quello indicato dal sociologo Lewis
Mumford che hai indicato nei centri urbani una sorta di luoghi di perenne disponibilità ad accogliere
esperienze diverse per poi restituirle rielaborata in organismi nuovi.
Le città basso medievali funzionarono politicamente, rispetto i poteri esistenti, come un laboratorio
di trasformazione.
Questa versione concilia la situazione di partenza ma ne sottolinea il modo originale di
combinazione nell'ambiente urbano.
La città medievale ereditò dall'urbanesimo antico una funzione di centralità.
In età romana vi facevano capo le attività di difesa, culto, mercato, gestione pubblica: il sistema
territoriale gravitava nel suo insieme sul polo urbano.
Su questa funzione di centralità si erano cumulati tra il III e V secolo fenomeni che avevano
accentuato la fisionomia cittadina: rafforzamento costruzione ex novo delle cerchie murarie,
spostamento parziale dei gruppi dirigenti, declino delle curie cittadine con il radicamento in
campagna di parte dei gruppi dirigenti.
La gestione della cosa pubblica entro le mura passò direttamente a funzionari dello Stato e la città,
già fisicamente separato dal territorio, ne viene distinta anche dal punto di vista politico
amministrativo in quanto punto di specifico interesse da parte del potere centrale.
Nelle aree di fitta organizzazione il processo si svolse con particolare evidenza e la città rimase la
sede degli organi politici, giudiziari e amministrativi.
Nonostante una decadenza materiale della città che si verificò un po' ovunque, si conservò la
centralità della città in quanto punto di interesse nevralgico che la distingueva dal mondo
occidentale che si andava ruralizzando.
Alla conservazione della nozione dei poli urbani come luoghi della politica contribuì in modo
determinante la presenza vescovile, intorno alla quale si organizzò la comunità, ora caratterizzata
anche dal culto cristiano e quindi capace di esprimersi in forme nuove.
Emerse un gruppo di cittadini eminenti che partecipavano all'elezione del difensor civitatis E del
rappresentante diocesano: clero, curiali e grandi proprietari.

GIOVEDI’ 17 MARZO
Il reclutamento di vescovi delle sedi maggiori avvenne dalle fila dell’aristocrazia senatoria,
tradizionalmente in colloquio con il potere centrale, e diede vita ad un rapporto privilegiato tra stato
e città che si perpetuò, anche nell’Italia ostrogota, nella Gallia e nella penisola iberica visigota.
Se ai rappresentanti del potere romano-germanico immessi in città spettarono competenze militari
e giudiziarie, ai vescovi toccò di portare in salvo la tradizione della civitas come punto centrale del
territorio e come ambito di civiltà superiore, e di collegare tale tradizione ai vertici dei nuovi regni,
originariamente estranei ai valori urbani.
La città vescovile preservò nei secoli iniziali dell’alto medioevo l’idea e la realtà dei poli urbani
come momenti alti della convivenza di uomini e esperienze.
Le prerogative vescovili, in presenza di un potere centrale debole, si ampliarono nel campo
dell’assistenza e della tutela, fino a sconfinare nella dimensione pubblica.
I vescovi erano sempre più percepiti come episcopi civitatum, legati cioè più ad un funzionario
amovibile, agganciato alla dimensione cittadina.
Il decollo deciso di tale preminenza fu segnato tra il IX e il X secolo quando avvenne una crescita
delle autonomie cittadine, e insieme ad esse lo sviluppo politico della medesima identità cittadina.
In seguito soprattutto ai momenti di debolezza dell’autorità centrale del periodo post-carolingio,
vennero emanati una serie di diplomi che concessero ai vescovi responsabilità pubbliche che
andavano ad integrare e talvolta a sostituire, in modo variabile che dipende da caso a caso, gli
ufficiali regi, e in particolare i comites.
E quando gli ufficiali regi non furono più nominati, alla chiesa vescovile cittadina toccò l’integrale
esercizio di poteri di natura pubblica sulla città e su contado/comitatus, dove la stessa era presente
in modo ponderante grazie ai numerosi possessi fondiari e alle chiese battesimali.
Il conferimento formale di un diploma, spesso relativo al districtus (il potere di coercizione),
giungeva nella maggior parte dei casi a ratificare l’autonomia episcopale nei confronti dell’ufficiale
regio.

D’altra parte la concessione di poteri pubblici attraverso un diploma potè fungere da modello di
viluppo della potenza vescovile in direzione temporale anche nelle situazioni in cui un
riconoscimento ufficiale non vi fu affatto.
La fase matura del regime vescovile delle città giunge a svilupparsi nel secolo XI, e coincide con il
rilancio economico e demografico dell’Occidente che alimentò il nuovo protagonismo di ceti urbani.
Il vescovo si circondò di collaboratori, vassalli e concittadini maggiorenti, che esercitarono il
governo della città all’interno delle curie episcopali e che elaborarono delle proprie competenze
proprio nel governo della dimensione urbana.

Impero tardo-antico (III-V secolo d.C)


- fine dello schiavismo e “colonato”
- “annona” E il commercio di Stato
- Industria militare di Stato e rifornimento dell’esercito
- Macro aree economiche (Gallia settentrionale, Spagna, Gallia meridionale-Liguria, Italia centro-
meridionale-Nord-africa, Pannonia-Balcani, Egitto-Costantinopoli …)

Economia alto medievale (VI-VIII secolo)


- scomparsa delle villae e allentamento del controllo sui contadini
- Ragionalizzazione e localizzazione degli scambi
- Trasformazione dell'insediamento cittadino e rurale
- Nascita di villaggi e frazionamento della proprietà terriera (Gallia settentrionale VS Italia centro-
settentrionale)

Età carolingia e signorile (IX-XI secolo)


- sistema curtense
- Aumento del controllo aristocratico su liberi contadini (esempio: placito istriano)
- Asservimento signorile dei contadini e scomparsa degli schiavi
- Usi di contratti di livello e di precaria come strutturazione di network clientelari e politici
Sviluppo economico (XI-XIII secolo)
- E le città: investimento agrario
- Trasformazione dei contratti agrari
- Disboscamento e agricoltura di sussistenza
La crisi tardo medievale (XIV-XV secolo)
- crisi economica
- Carestie e epidemie
-
- Contrazione demografica
Alimentazione e demografia
- età tardo antica (II-V secolo): alta mortalità (pestilenze ricorrenti) e alimentazione povera
- Alto medioevo (VI-IX secolo): aumento della natalità e alimentazione cerealicola
- Crisi tardomedievale (XIV-XV secolo): collasso demografico
Urbanesimo tardo medievale
- crisi e scomparsa delle città (V-VII secolo): Britannia, Gallia settentrionale
- Italia: crisi (III secolo) -> contrazione, ma tenuta delle città (V-VII) -> inizio sviluppo (IX-X secolo)
- Tenuta e sviluppo dell’urbanesimo: Africa settentrionale e Medio Oriente (VI-X secolo)
- Dibattito: storici “continuisti” vs archeologi “castrofisti”
La città vescovile (X-XI secolo)
L'Italia centro settentrionale fu lo spazio in cui la transizione fra città vescovile e città comunale si
svolse con maggiore linearità tra la fine del secolo XI e l'inizio del XII secolo.
Il passaggio viene normalmente ritenuto compiuto quando troviamo insediato il governo della
collettività cittadina o una magistratura permanente, pur se di solito rinnovata annualmente: si
trattava di un gruppo di consoli in numero variabile, occasionalmente coadiuvati dalle riunioni di un
arengo (l’assemblea generale del popolo) e di un consiglio cittadino.

La cronologia tradizionale della comparsa dei consoli va assunta come indice di priorità di sviluppo
comunale in un luogo rispetto un altro, e più in generale un'assunzione di autonomia che cade
negli ultimi decenni dell'XI secolo.
Non si può dubitare che già in età pre comunale i cittadini riuscissero esprimere una certa iniziativa
autonoma.
Un impegno prioritario di sovrani carolingi e dei loro successori fu quello di promuovere iniziative
volte ad assicurare la competenza e a ribadire la superiorità morale dell'episcopato del clero
cittadino.
Furono proprio alcune iniziative in campo religioso che segnarono durevolmente, anche in Italia, il
volto della città vescovile.
Ciò accade ad esempio con la faticosa ma capillare affermazione delle canoniche delle cattedrali.
Sin dal principio del IX secolo (816) le norme dei capitolari e il favore dei sovrani promossero la
costruzione, presso ogni complesso episcopale, di strutture comunitarie nelle quali chierici
chiamati officiare la cattedrale e a coadiuvare più da vicino al vescovo nel suo governo pastorale
avrebbero dovuto condurre vita comune, osservando inoltre una regola.
L'esperienza comunitaria che si voleva impiantare nel cuore della chiesa cittadina appariva
garanzia di rigore morale, in quanto ostacolo alle forme di stabile concubinato, assai diffuse tra i
chierici di ogni ordine, e di una regolata gestione di beni.
Gli ultimi erano messi in comune dei canonici, e sottratti così alla dispersione per via ereditaria e
ad una gestione orientata soprattutto da interessi familiari e privati.
La forma di vita claustrale, improntata al modello monastico, appariva inoltre come una premessa
favorevole a quasi condizione necessaria perché spiritualità e cultura tornassero a fiorire con gli
studi nei centri episcopali.
Il decollo delle canoniche, che incontra notevoli resistenze e che conobbe molte false partenze,
venne realizzato con il pieno XI secolo.
Esso venne incentivato sia da elargizioni private, sia da ricche donazioni di beni e di diritti da parte
del regno e dei vescovi stessi, i quali attribuirono i canonici funzioni e proventi della cura pastorale
nello spazio urbano e del suburbio.
Patrimonio e diritti di queste canoniche si sarebbero presto distinti da quelli dell'episcopato, e
divennero ovunque tanto consistenti non solo da assicurare i membri del collegio canonicale una
ricca sussistenza, ma anche da proiettare lo stesso capitolo della cattedrale al vertice del potere
cittadino.

Affermandosi anche come centri scolastici, le canoniche delle chiese cattedrali contribuirono alla
formazione culturale liturgica del clero maggiore, i canonici contribuirono a consolidare il prestigio
sociale del vertice ecclesiastico cittadino nel momento in cui la sua potenza secolare si accresceva
e otteneva il riconoscimento politico da parte del regno.
Per l'intreccio fra autorità religiosa e potenza secolare, le canoniche delle cattedrali avrebbero
assunto sin dal X secolo un ruolo di potere e influenza non solo nella chiesa locale, ma anche nella
città.
Naturale fu reclutamento dei canonici dalle famiglie della maggiore aristocrazia urbana e del
territorio.
I capitoli affermarono autonomi ambiti di dominio signorile, aggregando proprie clientele
vassallatiche.
Il capitolo della cattedrale si affermò così come il luogo di istituzione nel quale la società urbana
trovava più diretta e fedele espressione, imponendosi come strumento che consentiva alle sue
Elite di partecipare e contrapporsi al potere di un vescovo che non sempre proveniva dal suo seno
e che molte volte poteva essere di nomina regio imperiale.
La crescita dei poteri civili dei vescovi rappresenta il sintomo più vistoso della trasformazione
compiuta tra IX e XI secolo nel rapporto tra episcopato e città.
Fu una trasformazione che non si esaurì nello sviluppo politico della potenza ecclesiastica, ma
investì in profondità il corpo stesso della società urbana, affondando le sue radici nel ruolo nuovo
che la chiesa locale stava assumendo.
Con l'affermarsi dei vescovi tra i grandi dell'impero attorno i quali ruotava il nuovo sistema di
mediazioni del potere consolidatosi alla vigilia del II millennio, si chiudevano invece per le Elite
urbane i vecchi spazi di autonomia.
Nuovi percorsi verso l'egemonia sociale si aprivano loro invece all'ombra del vertice ecclesiastico
cittadino:
- assunzione di una funzione legata all'esercizio di poteri civili passati sotto il controllo della
chiesa vescovile

- Ingresso nella clientela vassallatica tramite la quale episcopato i capitolo della cattedrale davano
corpo alla difesa della città e al controllo militare di precisi territori
- Accoglienza di un membro della famiglia nel collegio canonicale della cattedrale cittadina
Si tratta di percorsi molteplici, che ingrassavano nelle città i ranghi degli agenti o dei fideles della
chiesa, compensati con il godimento di benefici sul patrimonio fondiario o sui cespiti economici
dell'episcopato o del capitolo.
Sì infittiva così la trama dei legami di reciproca dipendenza tra segmenti sempre più ampi della
società urbana e il suo vertice ecclesiastico.
La crescita della potenza mondana della chiesa vescovile non era avvertita come contraddittoria
rispetto alla sua missione religiosa e sacerdotale, dalla quale piuttosto non appariva separabile.
L'assunzione da parte dell'episcopato di prerogative civili e politiche sulla città e sul territorio
urbano appariva anzi un esito naturale proprio perché andava integrare una responsabilità già
esercitata, sul piano religioso, da parte della chiesa vescovile.
Era una responsabilità politica, dato che erano parte integrante la custodia e la gestione degli
elementi identitari attorno i quali la collettività urbana andava addensando la consapevolezza di sé
come corpo politico organizzato.
L'imporsi di un compiuto governo vescovile nelle città del regno italico non appare quindi il frutto di
una decisione preordinata dall’alto.
Certo non fu il frutto della supposta scelta dell'impero di trasferire i vescovi controllabili poteri di
riottosi conti, trasformando così presuli in funzionari politici.
Da questa interpretazione sia invece composta la lettura storiografica, dell'esistenza di vescovi
conti (NO!)
La peculiare esperienza di governo che assommava nel vescovo l'interezza delle responsabilità
politiche e religiose sulla città si impose infatti in ragione anzitutto di una dialettica interna alle
società urbane, di cui l'episcopato era parte integrante ed espressione eminente.
Già tra 10º e XI secolo il ruolo egemonico assunto dei vescovi nelle città del regno italico sembra
dunque configurarsi come rapporto di collaborazione oltre che di inquadramento istituzionale,
rispetto una società urbana articolata e culminante in un'Elite collegata alla potenza economica e
all'apparato amministrativo e feudale del suo vertice ecclesiastico.
Questo tratto caratteristico della città vescovile italiana, nei diversi contesti locali e nelle diverse
forme in cui quel modello si realizzò, aiuta a valutare correttamente quanto accade in molte di
quelle stesse città nel corso dell'XI secolo e al principio di quello successivo quando il laicato
cittadino, per esprimere dal corpo il potere della città intesa come soggetto politico, non fece
riferimento più solamente la chiesa vescovile, ma espresse organi suoi propri all'interno del
nascente comune.
La maturazione della coscienza di sé come soggetto politico autonomo ruotò attorno alla figura
vescovile, intorno alla quale si vennero organizzando i testi agiografici sulla vita e i prodigi operati
dei santi patroni della città, le cui reliquie vennero traslate nella cattedrale e nelle altre basiliche
cittadine.
Questi luoghi di culto, intorno ai quali si organizza la crescita dello spazio urbano in decisa
espansione, vengono edificati o rinnovati per l'occasione su iniziativa di vescovi, canonici, abati e
vanno consolidando i legami tra lo spazio fisico e il corpo sociale della città.
Attraverso queste operazioni la città rielabora, riscopre e inventa i suoi miti e le sue leggende,
plasmando immagini del proprio passato nel quale trovare puntuale conferma alle attese di
cambiamenti del presente.
Se nel corso dell'XI secolo è ancora una volta soprattutto la chiesa vescovile a disporre degli
strumenti culturali e operativi capaci di orientare a proprio vantaggio questa elaborazione, di cui
non sfugge la valenza politica, presto essa venne affiancata da una pluralità di attori.
Sono in primo tempo monasteri canoniche cittadine che si impongono con ulteriori centri di potere
e fungono da riferimento per corpi sociali e gruppi familiari attivi nell'articolato tessuto sociale della
città.
Più tardi, a partire dal XIII secolo, fu il tessuto stesso della società urbana detta comunale che
emergeranno nuovi protagonisti di questa incessante elaborazione culturale.
Nello stesso contesto le nuove istituzioni politiche della città si affiancheranno ai vertici
ecclesiastici cittadini anche nel controllo degli aspetti costruttivi decorativi della cattedrale stessa,
identificata ancora come il principale emblema dell’identità cittadina.
Si avvierà anche in questo modo il trapasso dalla gestione ecclesiastica alla gestione comunale, o
signorile, del patrimonio identitario di simboli e memoria rappresentato dalle leggende, dei culti e
dagli spazi sacri della città.

La nuova aspirazione all'autonomia istituzionale della città non sfociò in un brusco sovvertimento
dei precedenti assetti del potere, ma in una lunghissima fase di maturazione, durante la quale i
primi organismi del comune vissero in simbiosi con le strutture della chiesa vescovile, che ancora
operava come vertice istituzionale e politico oltre che come referente della comunità urbana.

La fase consolare (XI-XII secolo)


Come si pervenne all'istituzione secolare? Non si può dubitare che già in età pre comunale i
cittadini riuscissero ad esprimere una certa iniziativa autonoma.
I maggiorenti del primo ceto consolare erano non di rado uniti al vescovo da un rapporto di fedeltà
vassallatica; identificabili esempi di transizione composta fra regime vescovile della città e regime
comunale, quanto casi di tensione che mostrano l'esistenza di una spinta all'autogoverno maturata
nella città di regime vescovile.
Questa coscienza civica già operante ridimensiona l'atto formale che portò alla formazione del
Comune: non fu una coniuratio E come altrove, ma non in Italia, ma non fu nemmeno
un'espressione privatistica di quella sola parte che avesse “giurato il comune” (G.Volpe).
La sua precisazione pubblicistica avvenne grazie al ceto di giurisperiti, già attivi a fianco del
vescovo.
La pluralità di modi in cui si giunse al Comune può essere chiarita da alcuni esempi. A Milano la
confluenza dei tre ordini di Capitanei, valvassores e cives nel collegio consolare indica la presenza
dell'ente comunale accanto all'elemento urbano dei cives, quello dei maggiori vassalli vescovili, i
capitanei, e la rete feudale, i valvassori.
A Genova il Comune sembra sorgere come una federazione cittadina delle varie compagnie che
erano associazioni rionali a carattere militare capeggiate dai milites e dagli armatori mercantili.
L'altra specificità italiana è data dalla formazione dei territori dipendenti dall'ente comunale che
altrove non si svilupparono, e chi dipende fortemente dai ceti fondatori.
La città vescovile pre comunale aveva già posto le premesse per una dilatazione dell'influenza
cittadina con un'egemonia territoriale di tipo signorile; raccogliendo nell'eredità il Comune si
espanse grazie ceti che lo guidarono, capaci di offrire potenza militare, denaro e competenze
giuridiche, fenomeni che divennero dirompenti nel corso del XIII secolo.
In particolare i giudici e notai misero. I termini della teoria detta della “comitatinanza”, che
individuava nello spazio del comitatus o della diocesi l’ambito di sviluppo naturale del Comune.
Lo scontro vincente contro i tentativi di restaurazione imperiale del Barbarossa valse a mettere
definitivamente a punto i cardini di questa ideologia.
E la pace di Costanza (1183) che riconobbe ai comuni la facoltà di eleggere i propri consoli che
avrebbero dovuto poi ricevere un'investitura imperiale, di costituire leghe e di edificare fortificazioni
fu momento di alta legittimazione, sentita come necessaria più dall'imperatore svevo che dai
comuni stessi.
Questa potente capacità di costruire affermare un'ideologia costituisce il terzo tratto che individua
l'esperienza di autogoverno italiano rispetto alle altre realtà del continente.
I casi del Midi francese in parte ricalcano quelli italiani, con presenza di milites a fianco dei
burgenses; nella Germania e nella Francia continentale le autonomie cittadine furono sviluppate
soprattutto dei ceti mercantili e rimasero isolate sul territorio, con una cronologia generalmente più
tarda dell’Italia.
Più in generale nell'Europa settentrionale vi è una base di partenza arretrata, dove la città stessa
deve fermarsi.
La crisi dell'impero e dell'ordinamento episcopale nei secoli 11º e 12º aprì ovunque un processo di
affrancamento dei nuclei politici locali; mentre in Italia aiutò l'affermazione dei centri urbani, nel
regno teutonico esaltò il protagonismo delle dinastie ducali e le città mantennero più allungo la co-
gestione del potere con il vescovo.
Se nella Francia meridionale si hanno città consolari, nella Francia del nord sono presenti i comuni
riconosciuti dal re o dal signore locale, e città di franchigia, controllate da un rappresentante locale
del re o del signore.
Chiama nel contesto tedesco dove l'elemento borghese fu prevalente, le città lottarono per uscire
dalle tutte le regionali o signorili locali ed ottenere lo stato di città libere, con l'esenzione di alcuni
pagamenti fiscali e militari, grazie al riconoscimento regio diretto.
L'esperienza comunale italiana può essere seguita secondo la prospettiva degli apparati
funzionariali e dei ceti dirigenti, dove il secondo sviluppo è meno lineare del primo.
In età consolare abbiamo una presenza abbastanza diffusa dell'elemento feudale soprattutto
nell'Italia lombarda (Milano, Cremona, Piacenza, Lodi, Bergamo, Novara Vercelli); più variata la
Toscana e l'Umbria, mentre è più rara l'assenza di queste forze all'interno del primo comune.

Dal punto di vista della storia delle istituzioni, la prima fase e riflette il profilo dei nuclei di potere
attivi in città, con un sistema di consoli poco variato, dove solo con la fine del XII secolo compaiono
i consoli di giustizia.
Tra la fine del XII inizio XIII secolo la vecchia aristocrazia consolare ingloba alcune nuove famiglie.
È il momento dell'innesto delle esperienze podestarili, in cui si ricerca una razionalità di governo in
un clima di forte competizione per l'ufficio consolare.

MARTEDI’ 22 MARZO
L’Italia tra XII-XIII secolo
Dopo il concordato di Worms del 1122 la presenza politica del papato un dato irreversibile, che si
manifesta attraverso il controllo crescente dell’episcopato.
Altro strumento di controllo sono i concili ecumenici, di cui ben quattro nel corso del XII secolo si
svolsero a Roma, in S. Giovanni in Laterano.
Rimane aperta la questione dei rapporti tra l’autorit pontificia e le maggiori potenze politiche che
si vanno organizzando in regni: il punto nodale rimane il controllo delle cariche ecclesiastiche,
nonostante il compromesso raggiunto.
L’azione del papato non omologa a quella di un monarca, ma si nutre di un’ideologia
universalistica che pone il pontefice al di sopra di qualsiasi potere.
La competizione con il re germanico, parzialmente risolta con la questione delle investiture,
riguarda il primato delle autorit politiche della cristianit .
Al di l delle rivendicazioni puramente teoriche e ideologiche, il ricorso alle ragioni e al linguaggio
della superiorit universale rappresentano, soprattutto tra XII e XIII secolo, tanto per il re tedesco
quanto per il papa, un modo per giustificare i ripetuti tentativi di allargare il proprio ambito di
governo specie in Italia.
I disegni universalistici del regno germanico e del papato hanno fondamenti dottrinali e caratteri
simbolici molto differenti, ma per ragioni diverse entrano in crisi all’incirca nello stesso periodo, fra
la met del XII e i primi anni del secolo successivo.
Da allora la sovranit dei regni e delle altre grandi formazioni politiche non potranno pi essere
messe in discussione.
Il conflitto relativo a due modi opposti e antagonisti di concepire il potere imperiale si esplica
soprattutto in occasione della discesa di Federico I a Roma per ottenere l’unzione imperiale. Il
Barbarossa si trov di fronte ad una serie di problemi dettati dal fatto che Roma aveva da poco
instaurato il regime comunale, restaurando inoltre il Senato romano.
I rappresentanti del comune si dichiararono disposti ad accogliere il re se questi fosse stato
disposto ad accettare le condizioni del comune stesso e a pagare una certa somma.
Allo stesso tempo papa Adriano IV pretese nell’incontro di Sutri con Federico I l’omaggio del re
(reggere le briglie del cavallo del pontefice, a piedi, in segno di sottomissione) secondo il
cerimoniale gi celebrato nell’incontro del 742 con Liutprando e ricordato nella Donazione di
Costantino.
Federico I da parte sua rivendicava l’autonomia del suo potere, anche dalla tradizione imperiale
romana.
Federico ribad infatti che Dio aveva conferito a lui, unto del Signore e senza mediazioni, il compito
di esercitare l’autorit regia e imperiale, e di assicurare con le armi la pace della Chiesa.
Il suo potere era diretto, non mediato dal pontefice, e il suo intervento a Roma un atto dovuto in
presenza di turbamenti nella vita della Chiesa.
Il pontefice incoronandolo non gli aveva conferito il potere imperiale e concesso un beneficio di tipo
feudale; il potere gli era stato dato dalla volont di Dio attraverso l’elezione da parte dei principi
elettori.
Il potere imperiale splendeva come la luce del sole rispetto a quella delle altre stelle, l’imperatore
svolgeva la funzione di vicario in terra del “rex regum et dominus dominantium”.
Proprio a partire dal 1158, anno cruciale per Federico I, si inizi ad usare il termine sacrum
imperium, intendendo Federico il vicario di Cristo, sovrano senza le mediazione papale.
Le concessioni che non potevano essere fatte n al comune di Roma, n alle pretese papali, non
potevano essere concesse nemmeno alle altre citt italiane.
Nella discesa successiva Federico I rivendic per la parte imperiale un insieme di prerogative
pubbliche, molte di natura fiscale, che vanno sotto il nome di iura regalia.
Tali prerogative spettavano in linea di principio al re, ma da tempo erano state assorbite nella sfera
dei poteri signorili e dei governi comunali.
Le rivendicazioni dell’imperatore intendevano rafforzare non solo la base finanziaria del proprio
governo, manifestare la propria forza e rintracciare i precisi presupposti giuridici.




















Era insieme un programma politico e una necessit amministrativa che avrebbero avuto nel diritto
romano e in quello canonico i fondamenti delle ideologie a confronto.
Dai comuni Federico pretese il giuramento di fedelt e l’impegno a rispettare le regalie come giuste
prerogative imperiali, e che le citt si uniformassero ai modelli di comportamento di tipo feudale.
Dopo avere ottenuto la sottomissione di Milano, l’imperatore convoc a Roncaglia, presso
Piacenza, una dieta generale cui parteciparono personalit ecclesiastiche e laiche, magistrati e
giudici delle citt e i dottori dello Studium di Bologna.
L’arcivescovo di Milano riconobbe che il potere di emanare leggi spettava all’imperatore e che la
sua volont era legge.
I giuristi bolognesi stilarono un elenco dettagliato di iura regalia spettanti all’imperatore in quanto re
d’Italia.
Strade pubbliche, fiumi navigabili, porti e attracchi, esenzione dalle imposte, zecche, riscossione
delle ammende, amministrazione dei beni vacanti o confiscati, matrimoni, tasse per le spedizioni
militari, rendere giustizia, edilizia nelle citt , guadagni su peschiere e saline, scoperta di tesori o
miniere, terre pubbliche e propriet delle chiese (Constitutio de regalibus).
Le rivendicazioni di Federico non si limitarono alle regalie: proibizione delle guerre private e di ogni
tipo di associazione, incluse quelle tra citt e citt , tentando di imporre propri funzionari (rettori e
podest ) nelle citt stesse nel tentativo di riportare l’Italia centro-settentrionale sotto il dominio
imperiale.
Anche Roma avrebbe dovuto pagare un censo, cosa che mand in subbuglio Adriano IV e i
cardinali.
Federico I pretendeva di intervenire per anche in ambito spirituale, come prima di lui avevano
fatto Costantino, Teodosio, Giustiniano, Carlo Magno e Ottone. Si apriva quindi la via allo scisma.
Alla morte di Adriano IV nel 1159 vi furono due candidati romani (Alessandro III e Vittore IV) e
Federico pretese di divenire arbitro della contesa in una sinodo convocata a Pavia nel 1160.
Qui venne scelto Vittore IV, sostenuto dall’imperatore, dalla Germania e dalle citt imperiali del
nord Italia.
Per tutta risposta Alessandro III, sostenuto a livello europeo, scomunic Federico I e lo scisma si
trascin fino al 1177, quando dopo la sconfitta di Federico contro la Lega lombarda, a Venezia egli
venne assolto.
Anche la scelta dell’imperatore di partecipare alla III Crociata nel 1188, venne da lui affrontata nella
convinzione che spettasse all’imperatore punire gli infedeli in Terra Santa.
Al princeps, supremo giudice e vertice dell’universo, apparteneva il monopolio della legislazione;
da qui il favore agli studi di diritto a Bologna e lo sviluppo di una “politica del diritto”.
Pi in generale l’interesse per il diritto, e per quello comune in particolare va ricondotto a pi
cause: la generale ripresa culturale del XII secolo, lo sviluppo universitario, la nuova ideologia
imperiale, l’imitazione di costituzioni imperiali carolinge, inedite necessit gestionali e burocratiche
dettate dalle diverse istituzioni pubbliche contemporanee.
L’impero di Federico Barbarossa un impero romano-germanico che si proietta su tutta la
cristianit , anche se governa sul regno di Germania, regno d’Italia, regno di Borgogna.
I progetti di supremazia furono concentrati soprattutto sulla penisola italica, dove dal 1158 si
opposero oltre al pontefice Alessandro III anche alcuni comuni lombardi, tra cui Milano.
Molti mantennero l’obbedienza al Barbarossa, in opposizione a Milano, tra cui anche Pisa e
Genova, e che riuscirono ad operare la distruzione di Milano nel 1162, favorendo cos le alleanze
intercomunali e la loro coesione.
Gi nel 1164 si form una lega fra i quattro maggiori comuni veneti (Padova, Verona, Treviso,
Vicenza).
Nel 1167, in occasione della quarta discesa di Federico I in Italia per farsi incoronare dall’antipapa
Pasquale III, si costitu il primo nucleo della lega lombarda (Cremona, Brescia, Bergamo, Mantova,
Milano).
Nel dicembre dello stesso anno le due leghe si fusero, costituendo la grande alleanza comunale
che avrebbe affrontato negli anni seguenti l’imperatore.
La lega cos allargata godette dell’appoggio legittimante di Alessandro III; nonostante il formale
riconoscimento dell’autorit imperiale, l’opposizione fu finalizzata al ripristino della situazione
giuridica precedente Roncaglia.
Nel 1174 Federico I ridiscese in Italia per la quinta volta, ma nonostante il lavoro intenso per
spezzare le solidariet trasversali tra Lega, papato e regno meridionale, il 29 maggio 1176
l’esercito imperiale fu sconfitto a Legnano.
Non fu una disfatta, ma si cerc un compromesso che fu concretizzato con la pace di Venezia del
1177, l’armistizio di sei anni e la pacificazione con il papato.































Nel 1183 l’imperatore sanc la pace definitiva con i comuni con la pace di Costanza; furono
riassegnati ai comuni gli iura regalia rivendicati a Roncaglia, i comuni poterono autogovernarsi ed
eleggere propri ufficiali, amministrare la giurisdizione di primo grado, adoperare la propria
normativa (consuetudini) e erigere fortificazioni a scopo difensivo.
Ottenne cos il consolidamento delle proprie posizioni in patria, minacciate dal potere signorile di
Enrico il Leone in Germania, e la pacificazione con i comuni dell’Italia centro-settentrionale.
Ma affinch la pacificazione fosse fruttuosa, Federico fu costretto il giorno dopo la pace di Venezia,
per la revoca della scomunica, ad accogliere Alessandro III sul sagrato della chiesa di San Nicola
al Lido e a riaccompagnarlo al termine dell’ufficio liturgico a piedi, tenendo le briglie come uno
strator, manifestando in pubblico la sua subordinazione.
Furono inoltre ristabiliti buoni rapporti con la dinastia normanna in Sicilia, e venne celebrato a
Milano il 27 gennaio 1186 il matrimonio tra Costanza d’Altavilla, figlia di Ruggero II e quindi zia di
Guglielmo II re di Sicilia, ed Enrico, il secondogenito di Federico Barbarossa, gi incoronato rex
Romanorum nel 1169.
Nessun elemento lasciava prefigurare l’unione della corona imperiale con quella normanna a
quell’altezza cronologica; l’imperatore mor attraversando il fiume Selef, in Asia Minore, il 10
giugno 1190, sulla strada per Gerusalemme.
Enrico VI fu incoronato imperatore nel 1191 da Celestino III; fu avversato da Tancredi di Lecce e
da Enrico il Leone e dai principi tedeschi, contrari all’ereditariet della corona germanica.
Mor a Messina nel 1197 senza essere riuscito a affermare l’idea imperiale laicizzata, e lasciando il
giovane Federico, di soli tre anni, nato a Jesi il 26 dicembre del 1194.

Nello stesso periodo, a Roma, venne incoronato Lotario dei conti di Segni, che prese il nome di
Innocenzo III, secondo un rituale che si ispir alla imitatio imperii nei simboli e nei gesti.
Unto con l’olio santo e consacrato vescovo, ottenne il pallio che simboleggia la pienezza del potere
pontificio.
Dopo la messa venne insediato sul trono di fronte all’altare di San Pietro, vicino alle reliquie del
santo; guidato sulla scalinata che introduce all’atrio della basilica, l’arcidiacono sostitu la mitria (o
mitra) con la tiara.
Ricevette poi il bacio dei piedi da parte dei cardinali, l’acclamazione del popolo; montato sul
cavallo bianco, incoronato della tiara, attravers la citt per prenderne possesso e recarsi in San
Giovanni in Laterano e ai Palazzi lateranensi, sede del vescovo di Roma e, secondo il Constitutum
Constantini, dono dell’imperatore Costantino stesso.
I pellegrini e il popolo ricevettero del denaro.
Nel 1209 Innocenzo III incoron imperatore Ottone IV, il quale lesse un nuovo giuramento
introdotto nel cerimoniale pontificio nel quale si impegnava a rispettare i possedimenti e le leggi
pontificie. Il potere imperiale risultava delegato da quello spirituale.
Il nuovo “stato pontificio” si definiva grazie al crollo del potere imperiale, piuttosto che per
l’iniziativa dei pontefici.
La morte improvvisa di Enrico VI nel 1197 aveva lasciato un vuoto di potere in Italia centrale
occupato dalla chiesa.
La debolezza dell’impero consent al pontefice di agire sulla base del testo del Constitutum per una
serie di rivendicazioni territoriali, ratificate dall’aspirante al trono Ottone IV di Brunswick, sul
territorio compreso tra Radicofani e Ceprano, Esarcato di Ravenna, Pentapoli, Ducato di Spoleto,
terre della contessa Matilde e contea di Bertinoro.
Nel settembre del 1207, in un Parlamentum indetto a Viterbo, il papa convoc i rappresentanti dei
territori pretesi dalla dominazione pontificia per rivendicare uno stato territoriale.
Anche se il progetto non ebbe successo, Innocenzo III previde che i rettori delle province dello
stato fossero dei rappresentanti del potere centrale che svolgevano funzioni amministrative,
coadiuvati da tesorieri, funzionari della Camera apostolica.
Gli organi di governo della chiesa erano costituiti dalla Cappella papale, dalla Cancelleria e dalla
Camera apostolica: i loro uffici avevano sede nei Palazzi lateranensi, e gli uffici di maggiore
responsabilit erano gestiti da persone vicinissime al pontefice che facevano parte della sua
famiglia o gli erano imparentati.
La Cappella presiedeva le funzioni liturgiche e le cerimonie di corte.
L’Italia tra XII e XIII secolo
La Cancelleria redigeva i documenti ufficiali, con a capo un cancelliere in stretto rapporto con il
papa.
La Camera (o tesoreria) svolgeva l’attivit di gestione e amministrazione delle finanze.
















Al governo della chiesa collaborava il collegio dei cardinali, con cui il papa si riuniva in concistoro
tre volte la settimana per giudicare le cause.
Ai cardinali erano affidati compiti giudiziari e amministrativi: venivano mandati in missione come
ambasciatori, amministravano lo “stato della Chiesa” come cancellieri, tesorieri o vicari.
Composto da circa cinquanta persone, il collegio cardinalizio era di provenienza romana o laziale,
spesso caratterizzato da amicizie o parentele con il pontefice.

La fonte che ci racconta di come fosse organizzata l’amministrazione pontificia il Liber censuum,
realizzato alla fine del XIII secolo da camerlengo Cencio, in seguito papa con il nome di Onorio III.
Nel Liber sono registrati i beni che fecero parte del Patrimonium Sancti Petri, i tributi e i pagamenti
dovuti da citt , castelli e stati vassalli, cui si aggiungeva l’obolo di San Pietro e i censi dei
monasteri protetti dalla santa sede.
Oltre alle tendenze verso la creazione di uno stato pontificio secondo lo schema tipico di uno stato
secolare, si venne diffondendo la tendenza al ritorno ad una vita apostolica, alla povert
individuale, ad una chiesa povera.
Le spinte vennero soprattutto dal mondo laico e ripresero vigore le tensioni eterodosse gi presenti
in precedenza, come la pataria e il catarismo.
Si svilupparono soprattutto movimenti pauperistici come quelli guidati da Arnaldo da Brescia e da
Valdo, che sostenevano la castit e la povert individuale e collettiva.
Non mancarono i movimenti pi radicali, che negavano presupposti teologici e che predicavano la
comunione dei beni e il rifiuto della gerarchia ecclesiastica.
La predicazione dei laici non fu tollerata dalla chiesa che rischiava di perdere uno degli strumenti
principali di controllo ideologico, specie se la predicazione era tenuta in lingua volgare.
Nel 1184 Lucio III aveva accostato l’eresia alla predicazione non autorizzata.
Nel documento papale si precisava che era compito dei vescovi inquisire e condannare i sospettati
di eresia, mentre del potere laico l’eseguire le condanne.
Qualche anno dopo Gregorio IX (1227-41) avoc a Roma il controllo dell’eresia e cre l’ufficum
fidei (tribunale dell’inquisizione), istituito in molte sedi.
La proibizione della predicazione colp tutte le correnti pauperistiche: sia quelle che cercarono di
non staccarsi dalla chiesa e ottenere almeno parte dell’approvazione del papato, come valdesi e
umiliati, sia quelli pi radicali come i catari, che si contrapponevano all’organizzazione cattolica.
Innocenzo III raggiunse un accordo con gli umiliati, concedendo spazio ai predicatori scelti
all’interno delle loro comunit , ma approvati dai vescovi.
Non altrettanto con i valdesi che dichiararono il Vangelo superiore a qualsiasi legge canonica e che
i sacramenti potessero essere amministrati anche da laici.
Innocenzo III convoc il IV Concilio lateranense il 1°novembre 1215, presso cui convennero i
rappresentati laici: i procuratori di Federico II e dell’impero di Bisanzio, dei re di Francia, Inghilterra,
Ungheria, Gerusalemme, Cipro e Aragona.
Non vennero trattate solo questioni religiose; si discusse di aiutare i poveri, di come ricoprire il
posto vacante di patriarca di Costantinopoli, del riconoscimento dei gruppi religiosi (tra cui forse
anche l’ordine francescano, anche se un decreto conciliare proib la fondazione di nuove comunit
religiose), furono condannate le eresie, la dottrina trinitaria di Gioacchino da Fiore, furono definiti i
procedimenti inquisitoriali e la funzione della predicazione.
Si discusse ancora sul sistema di tassazione che avrebbe dovuto riguardare cattedrali e conventi,
del riconoscimento di Federico II, dell’organizzazione delle scuole delle cattedrali.
Particolarmente significative furono le decisioni prese in relazione alla confessione e agli obblighi
relativi, e che obbligavano ad un colloquio annuale tra ogni cristiano e il proprio sacerdote.
Vi fu quindi un controllo attento da parte di Innocenzo III per ogni aspetto religioso che caratterizz
tutto il suo pontificato.
Altri aspetti che trovarono una precisa determinazione furono ad esempio i processi di
canonizzazione, il controllo del culto dei santi e delle reliquie e il divieto del loro commercio.

Le guerre sante tra XII-XIII secolo


Anche la crociata fu al centro dei temi conciliari, dato il successo fallimentare della II Crociata
(1145-48) e la III Crociata (1188-92), indetta l’anno dopo la caduta di Gerusalemme.
Innocenzo III fu convinto che si trattasse di una guerra giusta, di una guerra santa, per cui alla
violenza bisognava rispondere con la violenza.
Nell’agosto del 1198 Innocenzo III proclam la crociata, guidata dal papa in persona, ma le truppe
iniziarono a radunarsi molti mesi dopo e la IV Crociata si svolse in un clima molto diverso da
quanto auspicato.

















Interessi economici e politici deviarono l’esercito prima verso la costa dalmata per riconquistare
Zara e sottrarla, favorendo i veneziani, al re cristiano Irme di Ungheria (1202), poi verso
l’ortodossa Costantinopoli, conquistata nel 1204.
Da una guerra santa contro gli infedeli, la IV Crociata si trasform in guerra fratricida tra cristiani.
Nel 1212 Innocenzo proclam inoltre la crociata per la riconquista dei territori musulmani in
Spagna.
Gli eserciti di Francia, Le n e Portogallo, insieme ai re Pietro II d’Aragona e Sancio VIII di Navarra
si radunarono a Toledo e ottennero la vittoria di Las Navas de Tolosa.
Una guerra santa era stata organizzata anche nei territori dell’Europa nord-orientale, nel Baltico, e
port alla formazione di uno stato della Chiesa alle dirette dipendenze da Roma, nel territorio
intorno a Riga.
Crociate contro gli slavi del Baltico erano state organizzate nel 1147 e 1171; l’occasione era stata
l’uccisione del vescovo della Livonia.
Negli anni successivi fu concesso a chi aveva fatto voto di recarsi a Gerusalemme di sciogliere il
voto combattendo nel Baltico, tanto che nei quarant’anni seguenti si assistette a crociate perpetue,
campagne di conquista condotte ogni estate, che erano anche missioni di conversione.
Altrettanto avvenne in Lituania, Estonia e Finlandia, con la collaborazione di ordini militari che si
macchiarono di ogni tipo di atrocit e furono poi sostituiti dai cavalieri teutonici.
L’eresia catara, invece, era molto diffusa nell’Europa orientale, da dove proveniva, in Linguadoca,
Provenza, nei grandi centri commerciali della Francia settentrionale e della Germania, in
Lombardia, in Veneto, in Toscana, Umbria, Lazio, dove vennero coinvolte citt pontificie come
Orvieto, Viterbo e anche Roma.
I catari attirarono artigiani, mercanti, imprenditori, banchieri borghesi, nobili di origine signorile o
provenienti dall’aristocrazia municipale, uomini di cultura che utilizzarono soprattutto tessitori e
lavoratori del cuoio per la diffusione della dottrina.
Spesso la diffusione dell’eresia catara ebbe implicazioni di carattere politico soprattutto nei
momenti di maggiore conflittualit tra papato e impero.
A Viterbo, ad esempio, i catari appoggiarono con forza nel 1239 il partito ghibellino e Federico II
nel suo scontro con il pontefice, e vennero progressivamente ridotti al silenzio solo con
l’insediamento di una serie di istituti religiosi, primo fra tutti quello dei domenicani.

Le guerre sante contro gli Albigesi


Nella Francia meridionale l’uccisione del legato pontificio subito dopo la scomunica nei confronti
del conte di Tolosa Raimondo VI pronunciata dallo stesso legato innesc la violenta reazione
cattolica, e fu richiesto l’intervento dell’autorit secolare.
Il re di Francia Filippo Augusto intervenne militarmente, scatenandosi nella speranza di ottenere
benefici materiali come le terre sottratte agli stessi eretici.
Il risultato fu un massacro generalizzato e la conquista di centri come Carcassonne e Albi, ma non
la scomparsa dalla regione dei catari, i quali subirono un’inquisizione generale del 1223 per
volont del pontefice Gregorio IX e ulteriori persecuzioni negli anni successivi.

L’ideologia imperiale di Federico II e l’Italia


Il 27 novembre 1220, cinque giorni dopo la solenne incoronazione in San Pietro, Federico II eman
un documento che espresse la volont di pacificare, nell’unit e nella concordia, tutta l’Italia.
Il lessico federiciano riprese quello della cancelleria di Federico I, anche se i contenuti sembrano in
parte diversi.
Se l’ambizione imperiale era ancora quella di una unificazione, pochi anni dopo (1227) l’imperatore
si trov scomunicato da Gregorio IX e avversato dai comuni dell’Italia centro-settentrionale.
Nei fatti c’ una continuit senza soluzione con la politica di Federico I nella scelta che port allo
scontro con il papato e con i comuni dell’Italia centro-settentrionale.
Tuttavia Federico II propose il coinvolgimento politico delle popolazioni del regno contro la
ribellione dell’alleanza guidata da Milano.
Tutta l’Italia torn a frammentarsi nella contrapposizione tra regno e oppositori dell’imperatore, in
un’opposizione politica all’impero definita dai contemporanei come una “faziosa alleanza italiana”.
Allo stesso tempo divennero sempre pi forti i motivi di imitazione dell’antico, di un classicismo
dell’ideologia imperiale, in un tentativo evidente di svincolare il potere imperiale dai
condizionamenti pontifici.
Un esempio di questa ripresa forte dell’ideologia imperiale collegata direttamente al mondo
romano il trionfo, celebrato a Cremona dopo la vittoria di Cortenuova (27 novembre 1237) con un




















cerimoniale tanto vicino all’antico quanto nessun imperatore medievale aveva realizzato, e che
presuppone uno studio attento delle fonti classiche.
Negli anni successivi la cancelleria imperiale dichiar pi volte la volont di riformare la situazione
politica italiana.
In particolare rimanevano da soggiogare gli ultimi ribelli in Liguria, di pacificare il Ducato di Spoleto
e la Marca anconetana, area rivendicata dalla Chiesa.
Federico II decise quindi di inviare il figlio Enrico in Italia (1239) proprio perch l’Italia tornava ad
essere una delle regioni dell’impero; torn a porsi il problema della sottomissione dei comuni
dell’Italia settentrionale, problema innanzitutto imperiale, e quindi tedesco, ma che ora coinvolge
anche il regno con uomini e denari (tasse per le attivit militari).
Proprio a partire da Federico II il regno di Sicilia divenne parte attiva nella politica italiana e
continu ad esserlo anche dopo la scomparsa della dinastia sveva.
La personalit di Federico II e lo scontro con il papato scatenarono odi profondi e la polemica
raggiunse livelli fino ad allora mai toccati, e perseguita con ogni mezzo.
Federico venne dipinto come uxoricida, uccisore del figlio, come in costante relazione con i
musulmani, accusato di avere fatto assassinare Gregorio IX, di avere tentato la stessa cosa con
Innocenzo IV, avere perseguitato chierici e laici, di avere imprigionato cardinali.
Ancora, ai saraceni impiegati nel suo esercito fu imputato di avere stuprato le donne cristiane
davanti agli altari, e la corte di Federico fu descritta come piena di eretici.
Al concilio di Lione del 1245 Federico venne scomunicato e deposto come imperatore e come re, i
suoi sudditi svincolati dall’obbligo di fedelt e fu prevista la scomunica a chi l’avesse aiutato.
Era il colpo quasi definitivo, cui seguirono la disfatta militare di Parma (1248) con la perdita del
tesoro imperiale e dei simboli del potere (la corona), la sconfitta e l’imprigionamento a Bologna del
figlio Enzo (1249).

Il collasso della presenza sveva


Il crollo di Manfredi e dei ghibellini in Italia si ebbe quando la diplomazia pontificia riusc a saldare
gli interessi del re di Francia Luigi IX, detto il santo, con quelli del papato.
Il progetto a lungo perseguito di annientare gli Svevi e separare il regno di Sicilia dall’impero and
in porto con l’accordo definito nel 1264 che prevedeva per Carlo d’Angi , fratello del re di Francia,
l’investitura del regno di Sicilia.
A condizione, tra l’altro, di tenere quest’ultimo diviso dall’impero e dal regno di Germania, il
riconoscimento del diritto di successione, il pagamento di un censo annuo di 8.000 once d’oro e di
una somma molto consistente al momento della conquista, l’obbligo di armare trecento cavalieri
che combattessero ogni anno per tre mesi agli ordini del papato nello “Stato pontificio e in tute le
altre terre della Chiesa”.
Nello stesso anno Carlo d’Angi venne eletto senatore di Roma e dei romani, carica concessagli a
vita.

MERCOLEDI’ 23 MARZO
Mutamenti sociali, economici, religiosi nell’Europa Occidentale (XIII-XV secolo)
Attilio Stella
La rivoluzione documentaria
1. Nei secoli XII-XIII ha inizio un netto incremento delle fonti scritte e un miglioramento della loro
archiviazione e conservazione.
2. Gli archivi ecclesiastici perdono centralit
3. Si moltiplicano gli attori produttori e conservatori di documentazione:
- I nascenti governi centrali (regni, principati, «stati regionali»)
- Fonti normative (statuti, consuetudini, libri iurium, etc.)
- Fonti giudiziarie (atti di processi, deposizioni testimoniali, citazioni...)
- Fonti fiscali (ad es., i grandi catasti, censimenti per il calcolo del gettito fiscale)
- Scritture e archivi privati (compravendite di terre, testamenti, carte dotali…)
- Scritture mercantili (documenti contabili, contratti di credito…)
I. Mutamenti socioeconomici. Il Duecento
La societ tardomedievale (sec. XIII-XV) rimane in prevalenza agraria, nonostante l’evidente
crescita demografica ed economica delle citt .
La societ rurale rimane prevalentemente soggetta a una variegata presenza signorile – di chiese,
signori proprietari di castelli, piccole e grandi aristocrazie fondiarie – alla quale si affiancano
gradualmente i proprietari laici cittadini.


















Nel corso del Duecento si concludono per alcune linee di tendenza sul piano ambientale,
insediativo e sociale le cui origini possono essere individuate nei due secoli precedenti:
• Si raggiunge l’apice di un periodo di forte crescita demografica
• Progressiva riduzione delle aree incolte
• Crescente specializzazione delle colture
• Stabilizzazione della rete insediativa

1. Crescita demografica e riduzione delle aree incolte


- Fra 1000 e 1300 circa si ha una fase climatica favorevole – le temperature medie si innalzano,
aumentano i raccolti – che permettono una forte crescita demografica in tutta Europa.
- Il paesaggio agrario subisce profonde trasformazioni: comunit e signori di adoperano per un
sempre pi estensivo disboscamento e per la bonifica di paludi e acquitrini – elementi che avevano
dominato il paesaggio altomedievale.
- I boschi e le loro risorse, nelle are a forte colonizzazione, si riducono fino quasi a sparire (es.
pianura padana)
2. La produzione agricola cambia
- Si passa da un’economia silvo-pastorale a un’economia fondiaria e monetaria, influenzata dalla
ripresa degli scambi su medio e ampio raggio
- Cresce la necessit di rifornire di grani l’accresciuta popolazione urbana
- Si creano anche interdipendenze fra territori lontani
3. Dinamiche insediative
- Parallelamente alla colonizzazione dell’ambiente, hanno luogo importanti dinamiche che
interessano i quadri insediativi
- Dall’incastellamento (secc. X-XI) alla formazione e cristallizzazione delle signorie rurali (sec. XI-
XIII), i castelli spesso mutano nelle funzioni, ma dominano ancora il paesaggio nel tardo medioevo.
- Si formano nuovi abitati – borghi, villaggi, «ville franche» – che talvolta ricordano nel nome
l’azione umana di erosione dell’incolto (ad es. Ronco/Ronchi; Pal : toponimi che compaiono con
maggior frequenza fra i secoli XI-XIII).
- Nel Duecento villaggi, borghi e castelli vengono inquadrati istituzionalmente al loro interno
(definizione dei distretti rurali) e al loro esterno (sono integrati in quadri territoriali pi ampi – regni,
principati, diocesi)

I. Mutamenti socioeconomici. Il Tre- e Quattrocento


1. Linee di continuit
- Le strutture insediative e la distrettuazione sono sostanzialmente stabili
2. Linee di discontinuit
- Inizia la cosiddetta ‘piccola glaciazione’ che porta a una serie di carestie – le due pi pesanti si
registrano nel 1317 e nel 1318.
- Gli equilibri secolari fra uomo e risorse si rompono: l’aumento della popolazione va pi veloce
dell’aumento della produzione agricola, vi sono pi varie crisi di sussistenza.
- Le guerre aumentano di scala, durata e intensit , e portano all’appesantimento della tassazione –
ci accende le grandi rivolte contadine del Trecento (la Jacquerie francese, 1358; Peasants’ revolt
inglese, 1381) e i primi movimenti di banditismo rurale (i Tuchins in Alvernia, Francia centrale,
1378-1384)
- Si diffonde la Peste Nera (1347-1350)
Effetti della pestilenza
- Drastica compressione demografica (un terzo della popolazione complessiva muore)
- Spopolamento di molte citt e conseguente crisi economica e di mercato
- Alleggerimento della tensione demografica e riequilibrio fra popolazione e risorse ambientali.
- La societ rurale torna a sfruttare principalmente le terre migliori, quelle meno produttive sono
abbandonate
- La scarsit di manodopera porta a un rialzo dei salari
I. Mutamenti socioeconomici. Le citt
Il concetto di citt : possibili elementi da considerare
- Antichit dell’insediamento – continuit coi municipia romani o con antiche sedi diocesane
- Esistenza di forme di autogoverno, di rappresentanza, di quadri normativi che attestino
un’autocoscienza della comunit urbana (autodefinizione)
- Alta popolazione





















- Alta articolazione interna – presenza di diversi ‘ceti’, settori produttivi, servizi: uno spazio
multifunzionale e pi complesso rispetto ai centri rurali.
- Presenza di un mercato: le citt diventano centri di raccolta e smistamento di beni che iniziano a
circolare su medio e ampio raggio.

I. Mutamenti socioeconomici. I commerci


Rotte commerciali marittime
Un ruolo fondamentale fu giocato, su scala continentale, dalle ‘repubbliche’ marinare (Venezia e
Genova su tutte) e dal Duecento dalle citt portuali provenzali (Marsiglia) e catalane (Barcellona).
Nei mari del nord il commercio fu monopolizzato da citt portuali che si sarebbero riunite nella
“lega anseatica”, formalizzata nel corso del Trecento, basata su Hanse (societ ).
Rotte commerciali terrestri
Si rafforzarono anche i commerci via terra soprattutto lungo le principali arterie fluviali (il Po, il
Reno, la Loira etc.) e le grandi vie del pellegrinaggio – la via francigena e il cammino di Santiago.

I. Mutamenti socioeconomici. Attivit manifatturiere


La produzione di manufatti in molte aree (Fiandre, Italia centro-settentrionale, Francia
settentrionale) nel corso del Trecento raggiunge livelli di produzione e forme di integrazione che
possono definirsi pi di tipo industriale che artigianale.
Le stoffe sono le merci di maggior valore nel commercio medievale. La produzione dei manufatti
pregiati in lana in particolare stimola l’interdipendenza fra aree anche molto distanti fra loro, su
scala continentale.
Nel Trecento i “lanaioli” (mercanti-imprenditori) fiorentini importano lana inglese ed essenze tintorie
dall’Oriente, producono panni di alta fattura e a loro volta li esportano in Europa centrale – il
mercato della lana e del tessile in generale si muove soprattutto su un asse nord- sud.
Oltre alle stoffe, assumono grande importanza la lavorazione del cuoio, dei metalli – sia per oggetti
di uso quotidiano che per armi e armature – e il settore edilizio, sempre pi orientato alla
costruzione in calce e pietra invece che in legno.

I. Mutamenti socioeconomici. Il credito


La crescita economica, che accompagn lo sviluppo di citt e campagne, fu accompagnata da un
aumento della battitura di monete.
Questo aumento non regge i ritmi di crescita economica nel Duecento, e il ricorso al credito diviene
molto frequente, creando nuove opportunit di guadagno ma anche nuove forme di dominazione
del mondo contadino.
Esempio: Italia comunale. Nell’Italia centro-settentrionale si registra un pesante indebitamento
della societ rurale. La crisi si aggrava col sopraggiungere delle carestie del Trecento: prestiti
semplici o su ipoteca portano al trasferimento in massa della propriet contadina nelle mani di
creditori cittadini.
Banche. Si formano le prime compagnie di banca e di commercio – che traggono profitto da questi
margini di guadagno e da questi squilibri economici, ma che dall’altro lato catalizzano i commerci.
Le banche fiorentine giocano un ruolo primario nell’economia dell’intero continente.

I. Mutamenti socioeconomici. La societ urbana e il ceto ‘borghese’


Si afferma un ceto ‘borghese’, formato dalle componenti non nobili ed emergenti.
In Italia centro-settentrionale si ha inizialmente un rimescolamento delle aristocrazie. Dante
Alighieri critica l’affermazione di “genti nuove” ingrassate da “s biti guadagni” (Inferno, XVI, 73).
La progressiva chiusura cetuale della nobilt porta a una netta contrapposizione fra questi ceti
nobiliari e quelli nuovi, definiti appunto dei populares, che incrementano il loro ruolo politico e in
molti casi danno vita ai cosiddetti “comuni di Popolo”. A Verona, nel 1259, la Mastino della Scala,
appartenente a un lignaggio cittadino di tradizione avvocatesca e non militare, costru le basi del
suo potere grazie all’appoggio dei populares.
In tutta l’Europa occidentale nel corso del Duecento i ceti borghesi, estranei alla nobilt , divengono
interlocutori politici fondamentali, stabilmente rappresentati, soprattutto a partire dal Trecento, nei
parlamenti e nelle grandi assemblee di regni e principati.
Si supera il modello di societ ‘tripartita’ (i tre ordini: oratores, bellatores, laboratores = clero,
aristocrazia guerriera, lavoratori non nobili).
Il passaggio epocale, il riflesso sociale di un profondissimo passaggio da un’economia
signorile- fondiaria a un’economia monetaria, incentrata sulle citt .






















I. Mutamenti socioeconomici. Comunit e associazionismo


Nella societ tardomedievale le comunit , le forme di associazionismo, la formalizzazione delle
solidariet orizzontali assumono un crescente rilievo sociale e politico.
Nelle campagne, le comunit rurali si organizzano come collettivit , acquisiscono una loro
autocoscienza politica, riuscendo a disegnare uno spazio politico in precedenza sconosciuto al
mondo contadino.
Molte comunit urbane sviluppano proprie consuetudini e norme di convivenza, via via pi
formalizzate, dando luogo a forme di auto-governo e di rappresentanza politica – fenomeno che va
ben oltre quello dei comuni italiani.
Associazioni fra citt – le cosiddette leghe – danno vita ad accordi commerciali (Lega Anseatica,
nel Trecento) o ad alleanze militari (ad esempio la Lega Lombarda, 1167; 1225), che incrementano
sensibilmente il peso dell’azione politica dei ceti dirigenti urbani.
Le artes (o mestieri, gilde, corporazioni): associazioni libere di professionisti create per
promuovere interessi economici comuni e garantire tutela e mutuo soccorso ai loro membri. In
Italia assumono una connotazione politica in chiave antinobiliare – sono le artes a sostenere i
governi di Popolo. Ovunque, per , sono uno strumento fondamentale per l’affermazione
professionale e politica dei ceti borghesi.

II. Aspetti religiosi e istituzionali. Il papato nel Duecento


Nel corso del Duecento, il papato si adopera nel consolidare gli orientamenti in senso monarchico
gi emersi nel movimento di riforma del secolo XI.
Si consolidano in particolare due elementi: il diritto canonico e l’organizzazione istituzionale
Il diritto canonico si basa su una variet di fonti – le Sacre Scritture, i Padri della Chiesa, i canoni
conciliari, le decretali emesse dai pontefici.
Attorno al 1140, Graziano compila il cosiddetto Decretum Gratiani, che diviene testo di
insegnamento a Bologna e viene poi riconosciuto dalla Chiesa come una compilazione ufficiale.
Nei sec. XIII-XIV si amplia con l’aggiunta di nuove collezioni di decretali (Liber Extra di Gregorio IX,
1234; Liber sextus di Bonifacio VIII, 1298; Clementinae di Clemente V, 1312).
Si tratta di un corpo normativo che legittima e uniforma l’ordinamento giuridico della chiesa e
fornisce uno strumento di governo oggettivo, identico e applicabile per tutta la cristianit .
Si costruisce un’organizzazione centralizzata: si definisce il ruolo dei cardinali (consiglieri
permanenti, agenti e diplomatici pontifici), si sviluppa un apparato burocratico (la «camera» o
tesoreria; la cancelleria, etc.).
Problemi irrisolti
Conferire uniformit normativa e di governo a territori molto diversi fra loro compito arduo – sono
i sinodi diocesani a dover garantirla nei rispettivi territori, ma il loro rapporto col clero locale spesso
si sviluppa in autonomia rispetto ai dettami conciliari.
Rimane quasi impossibile garantire una sufficiente preparazione del clero locale, spesso
inadeguato, culturalmente e moralmente, a servire i mutati obbiettivi politici e spirituali che il papato
si pone.
In conclusione per si rafforza significativamente il ruolo politico, la concezione monarchica del
potere pontificio, una teocrazia fondata sulla supremazia del sacerdozio su ogni altro potere
temporale.

II. Aspetti religiosi e istituzionali. Monachesimo e movimenti ereticali nel Duecento


Nel Duecento si smorza l’ondata di riforme monastiche sorte lungo i secoli XI-XII (camaldolesi,
vallombrosani, certosini e cisterciensi), ispirate al pauperismo e dedite all’eremitaggio.
Questi movimenti si istituzionalizzano e arricchiscono, quindi il problema della povert evangelica
e le aspettative per un rinnovamento morale della Chiesa si ripropongono in forme anche estreme.
L’esempio dei catari eloquente. Sono comunit che si autodefiniscono di «buoni cristiani»,
sviluppano un’organizzazione parallela a quella della chiesa cattolica, di cui rifiutano le gerarchie.
Nel corso del Duecento la lotta antiereticale prende corpo con maggior forza ideologica e
istituzionale, fra le molteplici strategie di affermazione del Papato – si pensi alla retorica della lotta
all’infedele delle Crociate.
Nei confronti dell’eterodossia, o di un sospetto di eterodossia, la Chiesa adott un approccio
duplice:
1) L’assimilazione dei movimenti disposti ad assoggettarsi
2) La repressione di chi restava fedele a posizioni dichiarate eretiche.
Fra gli strumenti repressivi si fa strada l’inquisizione.





















La lotta all’eresia non fu solo repressione, ma fu spesso anche compromesso. Lo provano sia
l’integrazione di varie correnti pauperistiche nell’alveo della cattolicit (ad esempio gli umiliati nel
1201), sia la capacit del papato di integrare, e quindi piegare ai propri fini, due movimenti che
avrebbero rappresentato una vera e propria rivoluzione nel monachesimo occidentale: francescani
e domenicani.

II. Aspetti religiosi e istituzionali. Gli


ordini mendicanti
Francesco d’Assisi era un laico ritiratosi a vita penitenziale attorno al 1205-06, conducendo una
vita ispirata al modello di povert evangelica. Raccolse presto attorno a s vari ‘fratelli’ e si
sottomise al pontefice, Innocenzo III, da cui ottenne l’approvazione ufficiale nel 1209.
Domenico di Caleruega era un chierico castigliano che entrato in contatto coi catari nel sud della
Francia si convinse della necessit di predicare la fede negli ambienti ereticali e, poi, nell’intera
cristianit . Si raccorda subito con l’autorit pontificia, ottenendo pieno riconoscimento da papa
Onorio III (1217), e ha luogo la svolta pauperistica del movimento.
L’affermazione degli Ordini mendicanti comporta un radicale cambiamento delle fonti di
sostentamento (e quindi degli interlocutori sociali): questi enti vivono di “offerte” in denaro; il loro
successo sancisce la crisi del monachesimo benedettino e del suo plurisecolare impianto signorile
e fondiario.
Il nuovo monachesimo si rivolge alla citt e si plasma attorno alla nuova economia monetaria che
si andava affermando nella societ tardomedievale.
Il papato insomma in grado di assorbire e piegare alle sue esigenze questi due movimenti,
coinvolgendoli entrambi nella lotta antiereticale.
L’esaltazione del potere sacerdotale e la sua pretesa supremazia giuridico-politica sul potere
secolare raggiungono il loro apice dopo la morte dell’imperatore Federico II (1250) e la
susseguente crisi dell’Impero.
Si forma una saldissima alleanza politica fra il papato e l’alta nobilt francese – inaugurata da
Carlo d’Angi , fratello del re di Francia, attorno al quale si polarizz il partito guelfo in Italia.
Si intravedono chiaramente i segni di una profonda crisi della concezione monarchica (teocratica)
del Papato e dell’universalismo.
L’enfasi sulla teocrazia, sulla supremazia politica, rese il Papato un potere sempre pi terreno e
sempre meno spirituale, rendendolo oggetto di lotta per l’egemonia all’interno del collegio
cardinalizio, aprendo gravi crisi interne verso fine del Duecento.
L’elezione di un monaco eremita, papa Celestino V (1294), per sovvenire alla crisi fallisce, viene
eletto Bonifacio VIII, un nobile laziale della famiglia dei Caetani, che riafferma subito l’idea che il
papa fosse fonte di ogni giurisdizione e legislazione.
Si arriva alla rottura col re di Francia, Filippo IV il Bello, e all’umiliazione di Anagni (1302).

II. Aspetti religiosi e istituzionali. Il papato nel tre e quattrocento


Negli ultimi due secoli del medioevo, con la definitiva formazione di regni e stati regionali, si assiste
a un’accentuazione delle particolarit nazionali e regionali, con cui il Papato dovette confrontarsi.
Uno dei campi di confronto pi acceso fu ancora quello delle nomine episcopali.
Nel corso del Trecento [con Clemente VI (1344) e Urbano V (1362)] si estese la riserva pontificia,
ovvero il diritto di elezione del clero da parte del papa, a tutti i benefici maggiori della cristianit .
Era una misura per limitare la tendenza alla localizzazione del clero – le lites ecclesiastiche si
andavano infatti definendo all’interno di territori circoscritti, andando a creare un ceto
giuridicamente definito all’interno dei nascenti stati, coi quali i rapporti erano pi diretti che col
papato.
La riforma diocesana promossa nel corso del Trecento segu tre principali direttive mirate a limitare
questa localizzazione dell’alto clero:
1) Si accentu la mobilit geografica dei vescovi – le carriere ecclesiastiche si sviluppano in
diverse sedi, dove un vescovo spesso insediato per tempi brevi.
2) Si tese a scegliere figure slegate dal clero locale, figure di profilo “internazionale” con
prospettive di carriera
3) Si assegnano spesso ai vescovi impegni politici che li tengono lontano dalle diocesi loro
assegnate.
Per far fronte a questa accresciuta mobilit dei vescovi, le diocesi si dotarono di apparati
burocratici pi stabili – tribunali e cancellerie vescovili, si introduce la figura del vicario generale,
dell’officiale, etc...


























La stabilit del sistema diocesano forse uno dei pi importanti elementi di continuit nella Chiesa
occidentale, che permette di attenuare l’idea che Tre- e Quattrocento siano stati solo secoli di crisi.

II. Aspetti religiosi e istituzionali.


L’esperienza avignonese (1305-1378)
Con la morte di Bonifacio VIII (1303) si rinsald il legame fra Papato e corona francese. La curia si
trasferisce in Francia, ad Avignone – sotto Clemente V.
Ad Avignone si avvicendano sette papi tutti originari del sud della Francia, le cui politiche mirarono
a sottrarre la curia pontificia ai continui dissidi fra le aristocrazie romane.
Si rinnov il collegio cardinalizio, incrementando la componente non romana, in particolar modo
quella francese, per evitare raggruppamenti familiari e fazioni all’interno del concistoro.
Si consuma anche un altro conflitto con l’Impero. Nel 1338, l’imperatore Ludovico il Bavaro e i
grandi elettori tedeschi dichiarano che l’elezione dell’imperatore non doveva essere pi legittimata
dalla conferma papale – ci che rivela la consapevolezza che l’Impero non era pi concepito come
un potere universale, ma si proponeva come un corpo politico ‘germanico’, uno fra i vari regni
europei.

II. Aspetti religiosi e istituzionali. Lo


Scisma d’Occidente (1378-1414)
L’esperienza avignonese fu sin dal principio percepita come temporanea e prosegu per decenni
nel mito di un imminente ritorno a Roma.
Ritorno a Roma. L’elezione di Urbano VI (1378) [Bartolomeo Prignano, gi arcivescovo di Bari]
avvenne dietro pressioni del popolo romano e fu mal digerita dai cardinali francesi, che risposero
con l’elezione di Clemente VII [Roberto di Ginevra], che si insedi ad Avignone.
La spaccatura provoc una crisi politica di scala continentale che divise l’intero Occidente –
situazione che si aggrav ulteriormente nel 1409, quando un concilio tenutosi a Pisa per
riavvicinare le parti port all’elezione di un terzo papa, Alessandro V.
La fine dello Scisma si ebbe solo nel 1414, col concilio di Costanza (1414-17), che ebbe
importantissime ripercussioni politiche per la Chiesa.
Si formula allora il concetto di superiorit dogmatica e canonistica del concilio sul pontefice, ci
che pass alla storia come conciliarismo. Nonostante il potenziale eversivo di quest’affermazione,
in realt il principio fu utilizzato non per sovvertire ma per dare stabilit alla monarchia papale.

II. Aspetti religiosi e istituzionali. Il Quattrocento


Il Quattrocento, pur aprendosi con la risoluzione di questa crisi, rimane un secolo difficile per la
Chiesa romana.
Da un lato si assiste al rafforzamento delle strutture diocesane, delle burocrazie degli apparati di
governo della chiesa, cos come anche a una rinnovata vitalit delle esperienze monastiche sorte
nell’alveo dell’ortodossia.
Dall’altro per , permanevano molti problemi di lunga data, ai quali se ne affiancarono di nuovi. La
preparazione del clero locale rimaneva una questione spinosa, ed era ora aggravata
dall’incapacit della Chiesa di adeguare le sue strutture e la sua mentalit a un laicato sempre pi
preparato culturalmente. Nascono nuovi fermenti teologici e culturali (il caso di Jan Hus, teologo
boemo arso al rogo nel 1415, il pi lampante) ai quali la chiesa non in grado di rispondere
adeguatamente.
Si fa problematico anche il rapporto con le nascenti chiese nazionali, in particolar modo quella
francese. Nel 1437 Carlo VII di Valois convoc autonomamente il clero francese,
dando vita a una tradizione ecclesiastica tutta di matrice francese, la chiesa “gallicana”, legata a
una corona che si poneva come garante delle sue libert .
La Chiesa romana non fu in grado di adattarsi a queste molteplici istanze di riforma e la risposta
pi immediata fu un apparente irrigidimento.
Si inasprisce la lotta all’eterodossia all’interno della societas christiana, dove risiedono i nuovi
«nemici della fede».
Culmine di questo atteggiamento il Summis desideantes affectibus, un documento emanato da
papa Innocenzo VIII nel 1484, in cui si sanciva il quadro normativo-canonistico sulla stregoneria e
sulla sua repressione, compiendo un itinerario che stava conducendo a una nuova stagione di
violenza repressiva.
Manc , in conclusione, una capacit di adattamento a processi sociali, politici e culturali –
mancanza che pochi decenni dopo, alle soglie dell’et moderna, avrebbe portato a spaccature di
lunghissimo periodo nell’Occidente cristiano.




































GIOVEDI’ 24 MARZO
Monarchie e stati regionali in Europa occidentale (sec. XIII- XV)
Sono fenomeni e chiavi di lettura della storia medievale che si sovrappongono a quelli già visti ieri
Regni e principati ‘feudali’
Osservata retrospettivamente, a partire cio dagli assetti monarchici del tardo medioevo e dell’et
moderna, l’Europa occidentale dei secoli XI-XIII appare caratterizzata da una lato dalla
stabilizzazione politica nelle maglie di un sistema di poteri fortemente frammentato, fondato su
preminenze militari e fondiarie in ambiti molto ridotti, dall’altro dall’emergere di ordinamenti
monarchici destinati a costituire il quadro di riferimento della successiva storia europea.
Tradizionalmente l’avvio del processo di costituzione di forti poteri monarchici in Inghilterra,
Francia, nella penisola iberica e nel Mezzogiorno d’Italia stato interpretato come un episodio
della storia ininterrotta del potere pubblico, che vede momenti di decadenza a causa di forze di
forze usurpatrici delle sue prerogative, e di restaurazione su iniziativa di dinastie o personaggi.

Questioni storiografiche: l’emergere dei regni ha dato luogo a delle narrative, talvolta caratterizzate
da toni ideologici, che hanno sottolineato come le nuove entità politiche e monarchiche non
fossero altro che una continuazione di un potere pubblico mai venuto meno. In questa lettura
continuista del poter pubblico si sono quindi interpretati i momenti di decadenza come un effetto di
forze disgregatrici e usurpatrici e la riaffermazione dell’entità monarchica in termini di restaurazioni,
Verificando la distanza della struttura di tali regni dalle moderne monarchie stato coniato il
modello della “monarchia feudale”, secondo cui la restaurata autorit regia avrebbe realizzato un
sistema gerarchizzato di fedelt vassallatiche legate a concessioni di terre e deleghe di poteri che
avrebbero costituito la trama essenziale delle relazioni tra sovrano e regno, al di l degli embrionali
sviluppi di un sistema di governo fondato su apparati burocratici.
Questa visione presenta dei punti problematici:
- sottolinea eccessivamente l’aspetto persona e individuale (legami tra sovrano e signori
territoriali) e ignora l’importanza di embrionali sviluppi di apparati burocratici
- La cristallizzazione di un tipo di stato feudale rappresenta una lettura teleologica della storia
europea, come una dei supposti stadi di una ininterrotta storia degli aspetti statali culminata
nello stato moderno (ad oggi si tende ad escluderla).
Tale formula contiene elementi rispondenti alla strutturazione dei rapporti fra poteri monarchici e
quelli dei signori territoriali, ma la sua cristallizzazione in un “tipo” di stato ha rappresentato un
elemento di forte travisamento della realt dei secoli centrali del medioevo, trasformandosi in uno
degli “stadi” dell’ininterrotta storia degli assetti statali, culminata nello “stato moderno”.
Questo quadro interpretativo, ancora radicato nella cultura scolastica e manualistica, appare oggi
molto invecchiato a fronte del notevole lavoro di ricerca e rielaborazione compiuta negli ultimi
decenni.
stata ridimensionata la teoria dell’onnipresenza delle relazioni di tipo vassallatico-beneficiario.
Sono state sottolineate le trasformazioni che l’idea di regalit ha subito tra le esperienze romano-
germaniche dei primi secoli del medioevo e il XII e XIII secolo.
Si identificato un modello statuale proprio del tardo medioevo e della prima et moderna, non
dedotto dagli ordinamenti pubblici pi maturi (per intenderci, quelli settecenteschi e ottocenteschi).

Nella societ di XI secolo la condizione per l’esercizio di potest di comando su qualunque scala
territoriale era il possesso di grandi patrimoni signorili.
In origine i re furono essi stessi dei grandi signori territoriali; su questa identit fondarono la
costruzione di una legittimit monarchica.
I poteri monarchici ebbero sempre alla loro origine e conservarono a lungo una natura patrimoniale
e signorile, non differenziandosi quindi radicalmente sotto questo aspetto dai poteri esercitati dai
signori territoriali.
La realizzazione di quadri unitari di potere non fu perci prerogativa di coloro che detennero o
acquisirono l’identit regia, ma anche di coloro i quali avevano stabilizzato intorno ai propri
patrimoni familiari titoli comitali o ducali di derivazione carolingia, riuscendo a farsi riconoscere
l’autorit su una scala territoriale pi ampia.
A differenziare il ruolo dei re da quello degli altri signori concorse l’elaborazione di nuovi contenuti
ideologici e giuridici della regalit : progressivamente sia il patrimonio, sia il titolo regio divennero
indipendenti rispetto alla persona che li deteneva.
La corona, l’insegna regia per eccellenza, divenne simbolicamente la nozione astratta che indic il
complesso di patrimoni, diritti e prerogative regie.























Tra le strade seguite in quest’affermazione ebbe particolare rilievo la rivendicazione del carattere
sacro della monarchia, in rapporto diretto con la divinit .
Caratteri comuni della vicenda delle monarchie del pieno medioevo furono di natura politica,
ovvero l’accettazione da parte della grande maggioranza di signori e comunit locali della
superiorit del re e la cessione di parte delle giurisdizioni.
La costruzione di tali ordinamenti monarchici non signific il superamento del particolarismo: le
nuove dinastie regie non intendevano semplificare la pluralit di soggetti titolari di giurisdizioni e
poteri.
Il loro ruolo fu essenzialmente di coordinamento, oltre che di garanzia e di tutela e in questo senso
si procedette all’uso di uno strumento flessibile come il rapporto vassallatico che metteva in
relazione con la monarchia la complessit dei poteri consolidati o in crescita.
Si tratt di un rapporto vassallatico reinterpretato e rimodellato in senso tutto favorevole al
vassallo, il quale vedeva sempre pi definiti e limitati i suoi doveri.
Un rapporto quindi sganciato dalla rigidit dell’omaggio al signore e dall’ereditariet del beneficio.

Altro elemento cardine per la costruzione dei nuovi ordinamenti politici fu lo sviluppo di strumenti di
controllo fiscale e giuridico, sulla base di elementari strutture di uffici domestici deputati
all’amministrazione del patrimonio di re e di principi, sia di apparati capaci di esercitare in nome del
sovrano un controllo territoriale su un raggio vasto quanto il regno stesso.
La crescita del numero e la differenziazione della tipologia degli agenti regi, la loro
specializzazione funzionale e dei loro uffici, la specializzazione dell’entourage reale, l’emergere di
forme consiliari di governo: sono tutti elementi che si trovano nei regni a precoce sviluppo (inglese
e normanno di Sicilia), sia in quelli che si stabilizzarono con processi pi lunghi (Francia,
monarchie iberiche).

Solamente tra fine XII e pieno XIII secolo le trasformazioni monarchiche assunsero un indirizzo
preciso e queste iniziarono ad operare efficacemente sulle societ dei singoli organismi politici.
Le radici di questi cambiamenti vanno per ricercate nei mutamenti dell’XI e del XII secolo, che
videro affermarsi le basi economiche dei poteri delle dinastie.
L’affermazione dei poteri monarchici and di pari passo con lo sviluppo di una riflessione senza
precedenti nel campo degli studi giuridici, con la ripresa e l’esegesi del Corpus iuris civilis di
Giustiniano. Raccolta legislativa fatta compilare nel VI secolo dall’imperatore.
Nel secolo XI i dottori della scuola bolognese ricostruirono filologicamente dando avvio a una
nuova concezione del diritto basata sull’interpretazione di questi testi. Furono fautori di una
concezione assoluta del potere imperiale: elemento importante per l’importanza della scuola
riconosciuta dall’imperatore; importante soprattutto per Federico I perché la concezione verticistica
sviluppata da questo nuova scientia iuris faceva dipendere da lui qualsiasi giurisdizione terrena (ne
fece ampio uso anche il Barbarossa).

Inghilterra
Conquista normanna con Guglielmo il conquistatore nel 1066, che implement i metodi di governo
del suo ducato e che mise sotto uno stretto controllo i possessori attraverso un inventario di terre,
“Domesday book” (1086) a fini fiscali, si fanno censire tutte i terreni del regno.
All’interno del potere inglese si forma una struttura di tipo piramidali.
Enrico II Plantageneto, della dinastia dei duchi angioini, eredit a met XII secolo il regno
normanno d’Inghilterra, e i possessi in Francia:
Si forma anche lo Scacchiere (corte contabile), sheriffs (agenti patrimoniali del re), Costituzioni di
Clarendon (1164-66) che definirono l’ambito della potest giudiziaria del re e misero in crisi le
tradizionali immunit del clero (Thomas Becket).
Ai tentativi di centralizzazione dell’amministrazione regia fecero seguito gli anni di indebolimento di
Giovanni, sconfitto a Bouvines da Filippo II Augusto, re di Francia, e dichiaratosi vassallo del papa
nel 1213, si pensa che pochi decenni prima si era consumato un forte conflitto con la chiesa di
Roma in cui il suo predecessore aveva limitato fortemente l’azione dei tribunali ecclesiastici sui
crimini commessi dal clero in Inghilterra. Questo avrebbe portato all’assassinio dell’arcivescovo di
Canterbury.
XIII sec.: la feudalit approfitt della debolezza del re e ottenne la concessione della Magna Charta
(1215), che diede il riconoscimento dei diritti feudali e la possibilit di contrastare le imposizioni
fiscali straordinarie. Si crea un fortissimo raccordo tra aristocrazia minore e amministrazione regia
mediata dai Baroni.























Si sviluppa la Magna Curia, organo consultivo cui il re deve rivolgersi nella sua azione di governo.
Si crea un forte legame tra aristocrazia minore e amministrazione regia; sviluppo del “Common
Law”.
Si afferm il parlamento inglese verso la fine del medioevo.
La pratica di convocare rappresentati per discutere di politica era stata intermittente fino alla metà
del 1200.
Il precedente più importante viene creato, per la creazione di un parlamento stabile, da un barone
ribelle Simone di Monfort. Terminare le prerogative del re Enrico III, figlio di Giovanni, senza alcuna
autorizzazione da parte del re, nel 1264 Simone convoca tutti gli arcivescovi, vescovi e abati del
regno e oltre loro due cavalieri per ogni contea e due rappresentati per ogni città. Si tratta di uno
schema ricalcato a partire dal 1295, ma in realtà si trattava di un organo convocato per discutere
soprattutto la raccolta di fondi straordinari nel contesto delle numerose guerre in cui il re si era
immischiato.
Il mezzo scelto per dare voce politica ai vari componenti della societ e che va organizzandosi in
una camera alta (Lords), e una bassa, o dei Comuni, che rappresentano i vertici regionali, distinti
per contea, e le lites urbane.
- Conquista di aree di confine, come quella del Galles
- Guerra dei “Cento anni” (1337-1453), terminata si apre la guerra civile (sotto)
- Guerra delle “Due Rose” (Lancaster vs York), che dopo un lungo scontro avrebbe portato al
successo una nuova dinastia, quella di Enrico VII Tudor. Vengono uccisi tutti i componenti maschi
di Lancaster e York.
Nel 1341 si creano i Cons, componenti non nobili, e membri delle élite urbane. Si trovano
separatamente dal clero e dalla nobiltà. Si crea la separazione delle due camere

Francia
Sforzo dei Capetingi che giunse a maturazione all’inizio del XIII secolo, attraverso le istituzioni
feudali.
Tentativo con Filippo II Augusto di allargare il controllo su tutto il regno dei Franchi occidentali;
allargamento dell’influenza della dinastia sui beni dei Plantageneti, in difficolt in Inghilterra
(campagna militare in Normandia e Bretagna nel 1204).
La sconfitta di Giovanni d’Inghilterra a Bouvines (1214) pose fine al pluridecennale conflitto con i
Plantageneti. Ampliamento delle dipendenze legate direttamente alla corona e delle entrate fiscali;
necessit di organizzare il tesoro regio, anche in seguito alle campagne anti-catare e alla
conquista della Linguadoca.
I balivi svolsero funzioni di ufficiali patrimoniali regi; la curia regis si trasform e comparve un
Parlement che fece da corte di primo grado.
La domus regia, o Hotel du roi, divenne un luogo di celebrazione della monarchia e un organo di
governo attraverso una serie di dipartimenti amministrativi e burocratici.
Il regno di Francia nella metà del 1200 è un regno costruito sui domini diretti del re e in parte su
alleanze e dominazioni. Il re in seno al potere regio, viene formulata la nozione di sovranità, re
come sovrano del popolo francese e non in termini feudali.
Il concetto di sovranità è più ampio perché vuole creare un legame diretto fra re e tutta la comunità
dei sudditi.
Nel 1258, con il riaccendersi delle guerre private, Luigi IX impose la fedelt a tutti i signori e
trasform la superiorit feudale del re in sovranit sulla societ del regno.
Al rafforzamento della concreta capacit di governo della corona si accompagn una migliore
definizione dell’ideologia della regalit :
- fasto delle cerimonie di incoronazione
- enfasi sul significato della consacrazione del re.
Nel XIV sec.: Filippo il Bello favor l’organizzazione burocratica dello stato (Stati generali)
Guerra dei “Cento anni” (1337-1453), causata da una serie di concause, al centro delle quali
stanno i rapporti di dipendenza feudale tra il re plantageneto d’Inghilterra e il re capetingio di
Francia.
Annessione del ducato di Borgogna.
In Francia il re si impone come sovrano ma i quadri normativi, le leggi e amministrazioni in vigore
nel territorio sono ancora stabilite su scala regionale se non nelle singole città. Regno che si basa
sul diritto consuetudinario decentralizzato.

Castiglia e Aragona
















Nel 1002 mor il grande califfo ommayade al-Mansur; il califfato dell’Andalus entr in crisi con una
serie di divisioni interne dopo il 1031.
I regni cristiani organizzarono una vigorosa azione militare, accaparrandosi estesi patrimoni e
dando avvio alla “reconquista”.
Con la morte di Sancho III, re di Navarra, si definirono i tre poli retti in regno di Le n, Navarra e
Castiglia
Reazione degli Almoravidi-Almohadi, che dal nord-Africa si proiettarono in Spagna nei primi
decenni del XII secolo, contrastando l’espansione dei cristiani.
La reconquista divenne una guerra di logoramento reciproco, trasformando la societ della
penisola iberica in una societ di frontiera.
Varie direttrici della reconquista furono seguite, tra cui quella che nel 1147 riusc a raggiungere
Lisbona.
Nel 1212 una partecipazione congiunta di forze cristiane ebbe la meglio sulle truppe almohadi a
Las Navas de Tolosa.
Vennero messe in atto diverse politiche di occupazione e colonizzazione delle terre gi
musulmane; inoltre i vari sovrani spagnoli poterono contare su estensioni di patrimonio immensi.
XIII-XIV sec.: sviluppo territoriale (Sicilia e Italia meridionale)
Unificazione con Isabella di Castiglia e Fernando d’Aragona
Presero forma e potenza Aragona, che si mosse verso il Mediterraneo, e Castiglia, che nel 1230 si
unific con Le n e che si espanse nelle regioni centro-meridionali, muovendo poi verso Andalusia
e Murcia.
In mano musulmana rimase solo Granada, destinata a cadere solo nel XV secolo.
La monarchia castigliana godette di enorme prestigio sulla base delle imprese militari – Ferdinando
III (1230-52) e sui grandi patrimoni regi.
In rappresentanza dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica sorsero le Cortes, che approvarono e
regolarono la ripartizione della fiscalit regia.
Grande vitalit dell’opposizione politica di carattere aristocratico che nella seconda met del XIII
secolo port a diverse ribellioni.
La monarchia aragonese si configur come una unione personale di diversi regni (Aragona,
Maiorca, Valencia) e di altri domini (Catalogna, Rossiglione, Cerdagna).
Le imprese di Giacomo I (1213-76), e le conquiste di Maiorca e Valencia, avevano fatto aggregare
aristocrazie e corona.
La posizione del re era tuttavia assai differente da quella del re castigliano, perch non aveva mai
ottenuto l’unzione o la consacrazione, mentre l’autorit del re si basava su di un giuramento
reciproco sulla base delle leggi consuetudinarie.
In questo senso va letta la concessione nel 1283 da parte di Pietro III del Privilegio General, che
obblig il re al rispetto delle leggi consuetudinarie.
Rafforzamento delle strutture amministrative centrali e territoriali, formazione di gruppi di ufficiali
professionisti, dialogo fra regno e societ politica tramite assemblee rappresentative, centralit
della nobilt e peso politico crescente delle lites urbane: tutti questi sono elementi comuni dei
quattro regni iberici tardomedievali di Castiglia-Le n, Portogallo, Navarra, Catalogna-Aragona.
L’unificazione delle due corone di Castiglia e Aragona avvenne nel 1479.

Impero “tedesco”
Fase dinastica (X-XIII sec.): dinastia di Sassonia (Ottoni), di Franconia (Salii), di Svevia (castello di
Weibling = ghibellini). Venne mantenuto un forte controllo sull’episcopato e si mantenne vivo il
principio elettivo della carica regale.
Federico I Barbarossa di Svevia fu eletto in quanto discendente per parte di madre anche dalla
casa guelfa (Welf).
Fase di rielaborazione dei diritti legati al potere monarchico, ridefinizione delle relazioni di tipo
feudale con gli altri principati tedeschi.
Moltiplicazione dei palatia regi, delle entrate e dei ministeriales.
Fase di instabilit con la morte di Enrico VI: elezione di Ottone di Brunswick, della casa di Baviera.
Ottone IV fu incoronato imperatore, ma fu scomunicato per aver minacciato i domini pontifici: mor
nel 1218 e al suo posto fu eletto Federico II.
Insieme allo Statutum in favorem principum, concessione che decret la giurisdizione semi-
autonoma dei grandi domini, Federico rafforz la giurisdizione regia con un Giustiziere centrale e
increment l’azione della Cancelleria.



























Si afferm il principio per cui sette principi laici ed ecclesiastici ebbero la prerogativa di eleggere il
re. Si tratta dei vescovi di Magonza, Treviri e Colonia, il re di Boemia, i principi di Palatinato,
Sassonia e Brandeburgo.
Dopo la morte di Federico II (1250) e quella del figlio Corrado IV (1254) si apr la fase detta del
“grande interregno”, con il rafforzamento dei poteri principeschi.
Prosegu la fase “elettiva”, nonostante il tentativo di controllo da parte di
una singola dinastia: Lussemburgo (1346-1438), Wittelsbach, Asburgo.
“Bolla d’oro” (1356): promulgata dall’imperatore Carlo IV di Lussemburgo- Boemia, fiss le
procedure e ritualit dell’elezione del re di Germania e i diritti di pertinenza regia (zecca, sale,
giurisdizione di ultima istanza).
L’organizzazione territoriale fu basata sui L nder, retti da un signore territoriale e comprendenti al
loro interno istituzioni diverse (citt e signorie fondiarie). Quelli del Tre-Quattrocento possono avere
avuto origini molto diverse tra loro.
Ripresa dinastica dal XV sec.: Asburgo e riforma di Massimiliano, con il rafforzamento del ruolo
della Baviera.

Italia meridionale
Il regno normanno, esteso dalla linea del Garigliano alla Sicilia che nacque nel 1130, con la
solenne incoronazione del titolare della contea di Sicilia Ruggero d’Altavilla ebbe origine da
vicende complesse.
L’insediamento di nuclei di cavalieri normanni, giunti al servizio dei principi longobardi e dei
bizantini di Puglia in lotta tra loro, si era svolto sulla base delle conquiste dei capi militari e sulle
investiture formali da parte delle autorit regionali.
Sui successi militari, invece, Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, costru una fitta trama politica in
appoggio formale ai poteri ecclesiastici (Montecassino) e papali, nella funzione di forza
antibizantina, tanto da essere elevato a duca di Puglia, Calabria e Sicilia.
Nel 1071 avvenne la conquista dell’intera provincia bizantina, mentre la conquista della Sicilia
musulmana avvenne come lotta contro i nemici della fede.
Nel 1130, dopo una serie di conquiste e approfittando di uno scisma, Ruggero II si fece ungere e
incoronare a Palermo come re di Sicilia.
Per realizzare l’azione di governo vi fu un mix di strutture normanne e comitali (camerari, forestari),
musulmane (dohana), pi giustizieri e baiuli per funzioni di giustizia e amministrazione dei diritti
patrimoniali del re nei centri cittadini.
Nel Mezzogiorno si impose un sistema che punt sullo sfruttamento dei redditi del re in quanto
signore fondiario, in Sicilia entr in funzione un sistema centralizzato, basato sulla corte di Palermo
e sui funzionari.
La morte di Ruggero II nel 1154 scaten una serie di insurrezioni.
Anche sotto il nuovo re Guglielmo si scaten una rivolta nel 1160-1 che indebol la posizione regia.
Con Guglielmo II, re nel 1166, si ebbe una dura repressione e la decisione di saldare l’alleanza con
gli Svevi tramite il matrimonio di Costanza con Enrico, figlio di Federico I.
Dopo gli ultimi Altavilla, la politica repressiva di Enrico VI e la lunga assenza di Federico II, il rientro
del re tedesco segn la ripresa della politica tipica delle altre monarchie in fase di rafforzamento in
altre aree del continente (no a interpretazione romantica di Federico).
Tentativo di recuperare i beni della corona usurpati nel periodo della sua assenza.
Liber Augustalis – costituzioni di Melfi, 1231
Venne implementata una rete di tribunali e posta una serie di funzionari a capo delle finanze della
corona, per una valorizzazione dei beni del demanio.
Manfredi diede spazio alle citt e alla grande propriet fondiaria.
Nel 1265 avvenne il drastico cambio di regime con l’investitura di Carlo d’Angi nel regno siciliano.
La rivolta dei Vespri (1282), la nascita di un movimento autonomo aragonese in Sicilia interruppe il
progetto di Carlo d’Angi , ma rafforz il ruolo dell’aristocrazia nel regno di Sicilia citra (futuro regno
di Napoli).
Pietro III re d’Aragona venne coinvolto nelle vicende siciliane dalla componente filo-sveva.

Italia centro-settentrionale
Crisi della rete delle autonomie politiche comunali al centro-nord; da uno spazio multipolare si
pass progressivamente ad alcuni stati regionali di ragguardevoli dimensioni territoriali.
Repubblica fiorentina, repubblica di Venezia, ducato di Milano, stato pontificio, oltre ai regni
meridionali di Napoli e Sicilia.






















La crisi comunale consistette in una crescente inadeguatezza delle istituzioni cittadine a tenere
insieme interessi molto diversi tra loro.
Nelle fasi pi estreme si crearono magistrature straordinarie monocratiche (podest o capitano del
popolo) affidati, talvolta per lunghi periodi, a un personaggio capace di sedare le lotte per il
predominio interno.
Questo tipo di esperienza caratterizz soprattutto le citt toscane, attraversate dalle lotte di fazione
(guelfi e ghibellini), in cui un capitano di guerra divenne podest e capitano di popolo: Uguccione
della Faggiola a Pisa, Castruccio Castracani a Lucca.
La signoria nacque come un espediente provvisorio.
Non vi fu abrogazione dei comuni cittadini, che fornirono anzi la base istituzionale per i crescenti
poteri signorili. Le signorie cominciarono ad apparire nell’Italia padana: Ezzelino da Romano su
Verona, Vicenza e Padova tra 1226 e 1259 e Oberto Pelavicino su alcune citt della Lombardia
occidentale negli anni sessanta del XIII secolo.
Principati territoriali “signorili”: Visconti, Gonzaga, Este, Savoia; emersero anche personaggi
dell’ lite comunale senza trascorsi “militari”: i della Scala a Verona, i Carraresi a Padova.
Nacquero per la prima volta formazioni politiche pluri-cittadine, sottoposte alla dominante.
Ma a fianco delle trasformazioni del comune in signoria, abbiamo episodi di progressivo
restringimento degli spazi politici in senso oligarchico.
Principati territoriali “urbani”: si formarono delle oligarchie di governo come a Venezia (1297 -
serrata del Maggior Consiglio), Genova, Firenze, Siena.
Venezia e Firenze si espansero velocemente e in contemporanea (1400 ca.-1430 ca.) per opporsi
all’espansione viscontea di Gian Galeazzo.
Stato della chiesa e “cattivit ” avignonese (1309-1377)
Pace di Lodi (1454), sottoscritta da Venezia e Milano e equilibrio degli stati: segue la caduta di
Costantinopoli del 1453

DATA DI PRE APPELLO NEL MESE DI MAGGIO









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