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05/04/22, 15:20 Il lusso di essere italiani
L’Italia dovrebbe diventare ciò che è. Si potrebbe riassumere in questo concetto di nietzschiana memoria la visione che Dario
Rinero, Ceo del Gruppo Poltrona Frau, ha del Paese e della consapevolezza che dovrebbe ispirare i suoi abitanti. E cos’è il
Belpaese secondo il manager cresciuto in Barilla e Coca-Cola e dal 2009 approdato a una società che oltre all’omonimo brand,
creato a Torino nel 1912, comprende altri due marchi top del design made in Italy del calibro di Cassina e Cappellini? È la terra
dell’eccellenza di vivere, lui la definisce The Italian way of living , un modo d’essere tutto nostro, di cui dovremmo fare tesoro al
punto da trasformarlo in una strategica Risorsa Paese. «Abbiamo il nostro petrolio sotto gli occhi e sembriamo non ac‐
corgercene», sostiene il dirigente anche lui d’origine torinese, che racconta quanto la storia del suo gruppo – che ha fatto
dell’“intelligenza delle mani” (ovvero della capacità tutta tricolore di saper creare e pensare oggetti di rara bellezza) la sua ragion
d’essere – sia emblematica per far comprendere alle aziende come, quando vuole, anche l’Italia può trasformarsi in una
protagonista incontrastata dei mercati internazionali (vedi l’investimento di mezzo miliardo di dollari fatto dagli americani di
Haworth nel febbraio 2013 per aggiudicarsene il controllo). Ecco, l’Italia è tutto questo e molto altro, basterebbe convincersene e
agire di conseguenza…
Cominciamo col dire com’è andato per il Gruppo Poltrona Frau il 2014?
È stato un anno in crescita rispetto al già ottimo 2013, in buona progressione e in continuità rispetto alla serie iniziata negli ultimi
anni, fatta da una sostanziale tenuta dei mercati più consolidati in Europa, unita a un costante incremento sui mercati
internazionali. Soprattutto asiatici e, più recentemente, nordamericani.
La crescita americana è più imputabile alla ripresa dell’economia Usa o al vostro ingresso nel Gruppo Haworth?
L’attribuirei maggiormente alla crescita del mercato americano. Per darle un’idea, in quell’area nei precedenti 10 anni si erano persi
grosso modo tre-quarti dell’export italiano del mobile. Siamo quindi nel pieno di una vera fase di recupero. Un discorso a parte
merita invece il mercato domestico, dove nello stesso periodo il consumo di prodotti d’arredo era sceso di oltre il 50%. Ebbene, su
questo fronte il nostro gruppo è in controtendenza, perché nel 2014 ha nuovamente registrato un piccolo incremento, confermato
anche dal trend dei primi mesi del nuovo anno.
A cosa è dovuta questa differenza di marcia?
Penso che attenga alla capacità delle marche nel nostro portafoglio di offrire prodotti percepiti più come beni di investimento che
di semplice consumo. Durante le crisi si assiste quasi sempre a un distintivo processo di polarizzazione: da una parte clienti che
non solo confermano ma a volte incrementano l’acquisto di beni di alta gamma (trade-up); mentre dall’altra parte clienti che
abbassano le loro aspettative e vanno alla ricerca di prodotti più economici (trade-down). In questo sommovimento la parte che
viene più compressa è quasi sempre la fascia di aziende che sta a metà di questo guado, che non ha né un posizionamento high
end, né uno value for money. In più, se si osservano tutte le maggiori crisi che hanno ciclicamente afflitto l’economia mondiale,
colpisce come le grandi marche ne siano sempre uscite rafforzate. Secondo me, grazie alla loro straordinaria capacità di
trasmettere sicurezza anche nei periodi difficili. In più, quando il ciclo economico riprende, sono normalmente le prime a ripartire
traendone i maggiori benefici.
In questi anni avete fatto qualcosa per sostenere questa attitudine della marca o vi siete
limitati ad “assecondarla”?
Colpisce che, alla fine di tutte
Il nostro è un percorso ininterrotto che dura da oltre 100 anni per Poltrona Frau, quasi 90
le maggiori crisi mondiali,
per Cassina, ormai 70 per Cappellini, tutte aziende che sono state fondate da
LE GRANDI MARCHE NE SIANO SEMPRE
imprenditori visionari che le hanno gestite a lungo, e che già negli anni ’60 hanno
uscite rafforzate
intravisto le grandi opportunità offerte dall’export, attraverso l’apertura di uffici e punti
vendita diretti all’estero. Si è trattato di una vera e propria strategia di
internazionalizzazione delle marche, non di una semplice attività di esportazione, che fa
sì che oggi il 75% del nostro fatturato si sviluppi all’estero, il 30% del quale Oltreoceano. Ciò mi fa dire che la nostra attitudine si
mantiene forte grazie all’ispirazione che continuiamo a trarre dai padri fondatori dei nostri grandi marchi.
Anche se un passaggio molto importante è stato, nel 2003, l’approdo al Fondo Charme.
È un’altra esperienza che racconto con piacere perché, malgrado alcune volte si associ sbrigativamente ai fondi un’immagine
negativa, nel nostro caso si è rivelata un vero successo. Grazie a un fondo atipico per composizione, creato anche in questo caso
da imprenditori visionari (da Montezemolo a Della Valle), con un’ampia visione internazionale, e che aveva colto le opportunità in
vista per i gruppi più strutturati nella domanda di beni di lusso a livello globale. Che, infatti, negli ultimi anni ha puntualmente
continuato a crescere.
E lo farà ulteriormente…
È vero, perché come un fiume carsico si inabissa da una parte per sgorgare altrove. Ciò Dario Rinero
significa che le grandi aziende globali sono quelle strutturalmente più in grado di
catturare la domanda in una nuova geografia per fronteggiare il rallentamento dei
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05/04/22, 15:20 Il lusso di essere italiani
consumi in un’altra. Ecco perché il fondo ha deciso di creare un bouquet che federa tre LE PASSIONI
brand dell’eccellenza italiana, così come i francesi hanno fatto nella moda, creando di (http://www.businesspeople.it/Peop
fatto un gruppo che rispetta il Dna delle singole entità dando a ognuna la forza necessaria Story/La-passioni-di-Dario-Rinero)
a presidiare i mercati. Tutte prospettive che hanno poi motivato una grande major Usa DI DARIO RINERO
come Haworth ad acquisire il nostro gruppo, a dimostrazione del fatto che quando (http://www.businesspeople.it/Peop
un’impresa italiana riesce a costruire una progetto chiaro, ben distintivo e a vocazione Story/La-passioni-di-Dario-Rinero)
globale riesce ad attrarre gli investimenti internazionali più qualificati.
Tuttavia, in seguito al vostro passaggio a Haworth si è fatto un gran parlare del fatto
che venisse ceduto un altro pezzo importante del made in Italy.
Mi consenta di ribadire che, al netto delle chiacchiere, per me ciò che definisce veramente la nazionalità di un’azienda sono due
cose: dove si prendono le decisioni e dove si produce. Il resto è puramente secondario. Perché, se un’azienda è posseduta al
100% da un italiano e delocalizza completamente l’attività in Polonia, per me non è italiana, mentre lo è se di proprietà di un
americano che produce e decide in Italia. Haworth ha acquisito il Gruppo Poltrona Frau senza alcun progetto di integrazione, visto
che loro sono attivi nel settore dei mobili per ufficio (dove sono tra i leader) che ha logiche diverse dalle nostre. Per quanto ci
riguarda siamo rimasti indipendenti come prima. Il management è lo stesso, così come lo è il prodotto, la cui produzione rimane
ovviamente in Italia. Mi sembra, quindi, che l’unico rischio che corriamo sia solo quello di poter diventare più forti, di ampliarci e di
poter offrire ancora più opportunità di lavoro. Così com’è successo nella moda alle aziende italiane che sono entrate nell’orbita di
Kering e di Lvmh.
Prima ha accennato all’importanza della dimensione sovranazionale delle imprese. Lei ha spesso stigmatizzato il fatto che il
95% delle aziende siano troppo piccole e spesso non competitive. Il che, in verità, non è un problema solo del vostro settore.
Si possono obbligare le imprese a crescere?
In effetti, nonostante sia un vanto del made in Italy, il settore dell’arredo denuncia ancora forti limiti: il valore della produzione nel
2014 è rimasto invariato rispetto al 2013 a 12,5 miliardi, oltre il 60% è esportato in 50 Paesi con un evidente apporto alla bilancia
commerciale. Ma il tessuto industriale è composto da 27 mila aziende, con un fatturato medio di 600 mila euro e una media di
addetti pari a 6,3. Con queste dimensioni, poche sono in grado di esportare. Eppure, gli studi econometrici indicano chiaramente
la positiva correlazione tra produttività e capacità esportativa. È ovvio che chi è più grande e più efficiente esporti più facilmente,
ma è vero anche l’inverso: cioè che attraverso l’aumento dell’export si diventa più efficienti in casa. Esiste poi anche un tema legato
alla managerialità: la totalità di queste aziende è a gestione familiare. E, pur essendo un estimatore del capitalismo familiare,
avendo lavorato 15 anni in un’azienda come Barilla, colpisce come nell’arredo, a differenza della moda e dell’alimentare, un vero
processo di managerializzazione non si sia ancora innescato. L’intero settore, quindi, si trova di fronte a un grave ritardo evolutivo.
Cosa si può fare?
Il nostro può essere un modello: abbiamo creato una piattaforma che non ha certo ancora terminato la sua capacità catalizzatrice.
Altre opportunità sono rappresentate da fondi piuttosto che da gruppi capaci di aggregare più aziende. E poi si deve attivare
un’azione di governo che, a mio avviso, è sempre mancata. Personalmente non credo negli incentivi, in un governo che ti costa
tanto salvo poi ritornarti una parte in sgravi e bonus. Meglio sarebbe un governo snello, che assolva al suo compito e nello stesso
tempo lasci libera l’impresa di svolgere adeguatamente il suo mestiere. Non che la munga e poi la sussidi… Mi piacerebbe un
governo ispiratore dello sviluppo che dica: «Se tu che fai 100 e lui che fa 50 vi mettete insieme, il surplus di 150 lo tratto con una
tassazione agevolata». Solo così si dà alle aziende l’opportunità di crescere e creare occupazione. Le stesse associazioni di
settore non sono state capaci di ispirare e trasmettere quanto fosse diventato vitale il cambiamento. Mi piacerebbe, inoltre, un
Paese in cui si facesse di più per tutelare la proprietà intellettuale: è incredibile come nella patria di Leonardo e della creatività, ci
sia un livello di salvaguardia inferiore a quello vigente in Svizzera o in Belgio.
È l’eterna questione della tutela del made in Italy.
Certamente, ma non si può continuare a consentire a chiunque di copiare i nostri prodotti e di poterli vendere tranquillamente in
Italia e nel mondo. Eppure, si tratterebbe di un’azione di governo a costo zero, che oltre a tutelare le nostre aziende
contrasterebbe il sommerso. In più oggi il Paese è nelle condizioni di fare una politica a favore dell’industria più incisiva che nel
passato, riconoscendone la fortissima vocazione manifatturiera e concentrandosi sui suoi plus, che coincidono con l’indubbia
capacità di emozionare e attrarre un turismo medio-alto di gamma. Perché il ruolo principale di uno Stato è proprio quello di iden‐
tificare i propri punti forti e di investire le proprie risorse là dove esse verranno ottimizzate e moltiplicate. Infine, una parola sugli
imprenditori del mio settore, ai quali mi permetto di dire che la svolta decisiva avverrà solo nel momento in cui un grande numero
di loro capirà che lo scenario è cambiato e che oggi bisogna saper fare un passo indietro per poterne fare due avanti domani.
Percepisce che ci sono quanto meno i presupposti di questa consapevolezza?
Credo che, alla luce delle trasformazioni avvenute negli ultimi dieci anni – delle quali noi siamo stati in qualche misura anche un
po’ precursori –, sia diventata evidente la necessità di cambiare. Se lei mi chiede se ciò sia successo per un’evoluzione culturale o
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05/04/22, 15:20 Il lusso di essere italiani
per gli effetti della crisi, tendo a dire più per quest’ultima. Però, alla fine l’importante è non disperdere le straordinarie capacità di
questi brand, qualche volta anche molto piccoli, che sono il frutto di molti decenni di grande creazione intellettuale e manuale.
Personalmente mi sento più povero quando leggo che un’azienda chiude, perché penso a ciò che come Paese, industrialmente e
culturalmente, perdiamo. Proprio in quest’ottica due anni fa abbiamo fatto una piccola acquisizione, la Simon, un gioiello dell’ec‐
cellenza tricolore che portava in dote prodotti straordinari come i capolavori di Carlo Scarpa, per me i più bei tavoli architettonici
mai creati nella storia del design. Capitali simili non possono andare dispersi, sono un patrimonio del nostro Paese e possono
diventare splendide opportunità di sviluppo. Come gruppo sentiamo anche la responsabilità di tutelare questo patrimonio, e
quando possiamo siamo sempre disposti a interventi di salvaguardia.
Diversi imprenditori del lusso lamentano proprio una sottovalutazione delle
opportunità di sviluppo offerte dal settore, e non solo da parte delle istituzioni,
Esiste un indiscusso pregiudizio tutto italiano
nonché un pregiudizio che – per esempio – i francesi non hanno.
riguardo alla RICCHEZZA E AL LUSSO,
È vero, ma ancor prima del lusso, il pregiudizio riguarda la ricchezza. Si tratta di un
DOVUTO SENZ’ALTRO ad aspetti culturali
atteggiamento tutto italiano, dovuto certamente ad aspetti culturali, e che
probabilmente si ricollega anche al fatto che qualche volta nel nostro Paese la
ricchezza sia stata generata in maniera non corretta. Tuttavia, costituisce una
grossa semplificazione vedere un piccolo artigiano che con impegno fa prosperare la sua azienda e può permettersi una grande
casa e una bella macchina, e sospettarlo quasi automaticamente di evasione fiscale. Di rado c’è lo sforzo di andare più in là, per
comprendere che dietro il suo successo c’è tanto lavoro, passione per quello che fa, weekend passati a lavorare, rischio finanzia‐
rio, notti insonni… In più, questo generico atteggiamento anti-ricchezza spesso sfocia in una declinazione anti-industriale, perché –
nel solito esercizio semplificatorio – l’industria viene vista un po’ come lo strumento generatore della ricchezza, quindi del lusso.
Invece – anche se qualche segnale positivo si comincia a intravedere – è ora che nell’agenda programmatica del nostro Paese si
torni a parlare di industria, e soprattutto di industria alto di gamma, visto che non avrebbe senso pensare di poter competere sul
terreno della produzione a basso costo di manodopera. Con la nostra capacità di saper creare prodotti straordinari come nella
moda, nell’alimentare, nelle auto, nel design di lusso, oggetti capaci di emozionare a livello globale, basterebbe fare dell’Italia una
volta per tutte la patria della bellezza. Ebbene, io credo profondamente che sia questo il nostro petrolio, una fonte inesauribile di
energie che vivificherebbe non solo il manifatturiero e il turismo ma molti altri settori economici.
A proposito del nostro “petrolio”, ci saranno due eventi in cui potrà mettersi prestissimo in mostra. Il prossimo Salone del
mobile, ad aprile, e – esattamente due settimane dopo – l’inaugurazione dell’Expo di Milano.
Personalmente sono un po’ emozionato per l’Expo: avendo due figlie di 11 e 13 anni, sono molto incuriosite e mi fanno un sacco di
domande. Per quanto mi riguarda cerco di spiegare loro che l’unico precedente per l’Italia è stato nel 1906, un’edizione
straordinaria che contò ben cinque milioni di visitatori (un’enormità considerati i tempi), 35 mila espositori, 40 Paesi partecipanti.
Era un’epoca entusiasmante: Milano era una prestigiosa capitale tecnologica e vantava la prima centrale termoelettrica costruita
in Europa nel 1883, che accese in quell’anno le luci della Scala, mentre proprio nel 1906 fu inaugurata la galleria del Sempione. Fu
una straordinaria avventura, spero proprio che sia di buon auspicio per l’intero Paese, a me piace pensarla così, anche se avrei
preferito un tema altrettanto universale, che puntasse però sul concetto di creatività e di bellezza. Ma, come si dice, primum
vivere deinde philosophari
, quindi nutrire il pianeta ha la sua giusta precedenza... Il Salone del mobile sarà, invece, una sorta di
aperitivo dell’Esposizione universale: i 300 mila visitatori internazionali previsti saranno un assaggio di quanto ci aspetta tra
maggio e ottobre.
Ha la sensazione che le aziende riusciranno a cogliere questa opportunità?
Se c’è una cosa che contraddistingue le aziende italiane è certamente la reattività, in quanto a velocità e capacità adattativa
siamo imbattibili. Quindi, sono certo che alla fine ognuna riuscirà a fare il suo meglio. Così come Poltrona Frau Group: siamo pronti
a ricevere le migliaia di clienti che ci verranno a trovare da tutte le parti del mondo durante il Salone, mentre in occasione di Expo
attiveremo tutta una serie di iniziative ed eventi a rotazione all’interno dei nostri showroom. Per noi il 2015 è un anno particolare,
perché si celebra il cinquantenario della produzione Cassina dei mobili di Le Corbusier, Jeanneret, Perriand. È previsto un fitto
programma di manifestazioni con mostre e attività culturali all’interno di diversi musei.
Proprio Cassina di recente ha annunciato la creazione di un nuovo tessuto morbido, che assomiglia alla pelle, ma creato da
una combinazione tra poliestere e poliuretano, il waterborn. Tutte le vostre aziende sono caratterizzate da una forte spinta
creativa verso l’innovazione. Come si fa a sposare tale vocazione con la componente tradizionale che comunque
contraddistingue marchi storici come i vostri?
È una combinazione molto naturale, comune a molte aziende, che nasce dallo svegliarsi tutte le mattine col pensiero di creare
qualcosa di nuovo, considerando un patrimonio ormai acquisito quanto realizzato fino al giorno prima. Provo a spiegarlo più
chiaramente al netto della “filosofia”… Per esempio, se prendiamo Poltrona Frau, tra i primi 10 prodotti per vendite ce ne sono
alcuni in produzione da 100 anni – come Chester – o Vanity Fair che è del ‘30, mentre un buon 50% della lista è stato lanciato solo
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negli ultimi 5-7 anni, vedi Archibald del 2009. Lo stesso dicasi per Cassina con i mobili di Le Corbusier, Jeanneret, Perriand. Nello
stile come nei materiali, c’è una capacità di nutrire i “fiori nella serra” senza con questo rinunciare a uscire fuori per andare a
cercarne di nuovi. Non esiste alcun altro portafoglio di prodotti d’arredo che abbia la stessa valenza, è come dire Hermès e le sue
Kelly. Ebbene, noi vogliamo ispirarci proprio da queste grandi aziende che sanno nel tempo reinterpretare la tradizione. Pensi che
in Poltrona Frau utilizziamo lo stesso tipo di pelle che usavamo un secolo fa, questo però non ci ha impedito di creare la Soul, un
tipo di pelle naturale e non trattata, piuttosto che la Heritage o la Century, una pelle nuova ma screpolata in modo da sembrare
usata come se avesse 50 anni. Da noi non esiste un unico grande genio che pensa per Poltrona Frau, ma i nostri prodotti sono il
frutto dell’impegno di centinaia di persone che, in fabbrica e nei laboratori come sui mercati, ogni giorno vedono cose nuove
traendone ispirazione che traducono in prodotti. Proprio in questa sapienza e capacità innovativa diffusa risiede la forza dell’ec‐
cellenza italiana.
Scorrendo il vostro codice etico, si leggono indicazioni precise su materiali e processo
produttivo. Il che è un dato importante visto che di recente si è polemizzato molto sui
Se c’è una cosa che distingue
prodotti di lusso. Cosa fate per non incorrere, per esempio, nelle critiche mosse a
le aziende italiane è la reattività:
Moncler?
IN QUANTO A CAPACITÀ ADATTIVA
Da almeno cinque anni, realizziamo un rapporto di sostenibilità del nostro gruppo, dove
siamo imbattibili
dichiariamo con grande trasparenza le nostre policy, tra cui il controllo e la certificazione dei
fornitori. Li visitiamo spesso, così come i nostri clienti visitano noi: nel caso dell’automotive,
per esempio, lavoriamo con Ferrari, Maserati, Porsche, Jaguar, Audi, che sono anch’esse
aziende molto attente al tema. Una semplice cosa abbiamo imparato sul campo: che una buona materia prima ha una soglia di
prezzo sotto il quale non si può scendere senza che ciò comporti processi critici. Bisogna continuamente vigilare e valutare, è
un’etica comportamentale che coinvolge le persone ancor prima delle aziende.
Mi spiega in cosa consiste il concetto di The Italian way of living da lei teorizzato?
Quando negli anni ’70 e ‘80 l’Italia ha cominciato a esportare, l’accezione made in Italy si riferiva essenzialmente alla realizzazione
produttiva nel nostro Paese. Verso la fine degli anni ’90, c’è stata invece un’evoluzione in cui si è passati all’Italian lifestyle, nella
quale il focus si spostava dal prodotto al produttore, cioè fatto da un italiano con tutte le implicazioni di gusto che ciò
comportava. Adesso siamo entrati in una terza dimensione esperienziale, con The Italian way of living o, come cita lo slogan di
una famosa marca di acqua minerale, Live in Italian
. Cioè si è passati a un significato ancora più ampio, perché comprende in un
solo colpo le colline, le piazze, i campanili, i musei, le montagne, il sole, attiene al nostro modo di stare insieme, si tratta di
un’esperienza molto più immersiva, perché è uno stile di vita, che va ben oltre – lo dico con molto rispetto – al made in Germany…
Made in Italy adesso vuol dire che quel prodotto è figlio di un mondo di eccellenze culturali e manifatturiere, che ti coccolano,
facendoti gustare ottimi sapori e indossare bellissimi abiti, invitandoti a vivere così come farebbe un italiano. Non c’è nessun altro
Paese al mondo che possa dire e fare altrettanto.
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