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CASO GEOX1

GEOX
RESPIRA

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Questo caso è stato scritto dalla Dott.ssa Irene Dagnino del DISES. Copyright Università Cattolica del Sacro Cuore,
Piacenza, settembre 2004.

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GEOX: un’idea di ampio “respiro”?

Il successo di Geox si fonda sul brevetto rivoluzionario, sull’incisiva politica


commerciale e su un innovativo schema di impresa, fondato su una concezione
internazionale, sul lavoro di gruppo e sulla responsabilizzazione.

Mario Moretti Polegato

Nel 2003, secondo una analisi condotta dall’Ufficio Studi di Mediobanca, Geox si collocava al
quinto posto tra le medie imprese italiane più dinamiche, con un fatturato di 254 milioni di euro e
un utile netto di 30,7 milioni.
La sua crescita impressionante, ad un tasso medio del 40% all’anno, aveva attirato l’attenzione di
due grandi quotidiani internazionali, The Economist e Business Week, che citavano Geox come
esempio di imprenditorialità innovativa in un settore maturo, e parlavano dell’azienda di
Montebelluna come della “Ferrari della calzatura”.
In meno di 10 anni di vita Geox aveva saputo espandersi in 68 Paesi, creando una rete di circa 270
negozi monomarca, tra i quali quello di via Montenapoleone a Milano, di Madison Avenue a New
York, di Nathan Road ad Hong Kong e di Couo Dori-Ginza a Tokyo.

Il successo che Geox stava vivendo era il coronamento di una storia imprenditoriale iniziata nel
1992, sulle Montagne Rocciose del Nevada, con un’originale intuizione di Mario Moretti Polegato.

La storia
Le Montagne Rocciose del Nevada, un convegno del settore vitivinicolo, un paio di sneakers e un
uomo dallo straordinario intuito imprenditoriale sono gli elementi della nascita di un’idea davvero
innovativa.

Mario Moretti Polegato, nato nel 1952 vicino a Trieste da una famiglia di imprenditori impegnati da
più generazioni nel settore vitivinicolo, si trovava nel 1992, dopo gli studi in agraria e la laurea in
giurisprudenza, ad un convegno mondiale del settore vitivinicolo in Nevada per conto dell’azienda
di famiglia. In una calda mattina di sole, durante il jogging quotidiano, Mario Moretti Polegato
provò un tale fastidio ai piedi che decise di prendere un coltello e praticare dei fori sulla suola delle
sue sneakers per diminuire la temperatura interna: nasceva così l’idea che avrebbe cambiato il suo
destino di imprenditore.
Convinto dell’originalità della sua intuizione, al rientro in Italia cercò di svilupparla nei laboratori
di un piccolo calzaturificio di famiglia, che produceva (principalmente attraverso le lavorazioni di
terzisti) circa 500.000 paia di scarpe all’anno, soprattutto da bambino, commercializzate in parte

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con il marchio Pol, in parte con quelli Trussardi Junior, Snoopy e Chicco. Gli esperimenti sul
prodotto durarono un paio d’anni, ma fu la scoperta dell’esistenza di una membrana speciale
sviluppata dalla NASA per le tute degli astronauti a essere determinante. Si trattava di un materiale
speciale, impermeabile e traspirante, costituito da milioni di piccolissimi canali in grado di espellere
vapore acqueo, ma di impedire l’ingresso di acqua. Mario Moretti Polegato decise di utilizzare quel
tessuto per rivestire internamente le suole “bucate” delle sue scarpe e permettere l’aerazione interna.
Messa a punto l’idea e sviluppati i primi prototipi l’imprenditore veneto mise immediatamente in
atto tutte le misure necessarie per tutelare la rivoluzionaria invenzione, facendo richiesta di brevetto
in circa 100 paesi.
Brevetto alla mano, passò l’anno successivo a visitare tutte le principali imprese di calzature (Puma,
Adidas, Nike, Timberland, Reebok, Lotto e così via), per proporre la propria invenzione, senza
trovare però chi fosse intenzionato ad acquistarla. Le reazioni dei grandi della calzatura furono
scettiche e disinteressate, e nessuno riuscì a percepire le potenzialità di mercato che la suola forata
poteva rappresentare.
“Se crede così tanto nella sua invenzione, perché non si mette a produrre queste scarpe in
proprio?”. Questa frase, che accompagnava l’ennesimo rifiuto, risvegliò l’amore per la sfida di
Mario Moretti Polegato, che nel 1995 decise di partire da solo nel mondo della calzatura e diede
vita a Geox.
Geox, fusione tra la parola greca “geo” (terra) e la lettera “x” (che sta per tecnologia), venne
collocata a Montebelluna, luogo caro a Polegato perché sede dell’azienda vinicola di famiglia, e
cuore del distretto della calzatura sportiva.
Nel distretto di Montebelluna nel 2004 si concentravano infatti più di 400 imprese, che
producevano un fatturato complessivo di 1.600 milioni di euro (di cui il 70% dovuto all’export). A
Montebelluna avevano sede grandi multinazionali come Lotto, Diadora, Fila, Dolomite, Nordica,
Salomon, Stonefly, Tecnica, e un grosso numero di piccole e medie imprese a conduzione familiare,
specializzate nella produzione di materiali o componenti per calzature. A Montebelluna venivano
lavorate il 50% delle scarpe tecniche da montagna, il 25% dei pattini in linea prodotti a livello
mondiale, il 65% dei doposci, il 75% degli scarponi da sci e l’80% degli stivali da motociclismo.
E’ in questo contesto che Mario Moretti Polegato decise di dare consistenza industriale alla sua
invenzione.
In questa avventura scelse fin da subito di non lanciarsi da solo. Selezionò cinque persone, alle quali
cercò di trasmettere l’entusiasmo e la passione che lo animavano, e chiese loro di affiancarlo nella
gestione operativa dell’azienda. Questa visione aperta del business, basata sulla delega, sul lavoro
di gruppo e sulla responsabilizzazione, era ancora nel 2004 una delle chiavi del successo di Geox: ai
cinque manager iniziali ne erano stati aggiunti altri sette, impegnati nelle aree strategiche
dell’azienda (nella finanza, nell’amministrazione e controllo, nell’attività commerciale in Italia e
all’Estero, nello sviluppo del prodotto, nella gestione della produzione, nella ricerca e sviluppo,
nella logistica nelle risorse umane e nella comunicazione) e sotto di loro c’erano circa 2.700
dipendenti diretti (che arrivavano a 5.000 considerando il primo indotto). Ogni manager in Geox
aveva piena libertà di azione, nel rispetto della vision condivisa circa il futuro dell’azienda. “Devo
molto ai miei manager” riconosceva Mario Moretti Polegato, “perché siamo una squadra: io sono
quello che accende la luce, loro mandano avanti l’azienda”. Il compito principale dell’ideatore di
Geox era nel 2004 quello di continuare a sviluppare la visione strategica e di andare a comunicarla
e venderla in tutto il mondo. Mario Moretti Polegato era riuscito a svolgere questo ruolo in maniera
eccellente, tanto da essere nominato “Imprenditore dell’anno 2002” da Ernst &Young, Borsa
Italiana e Il Sole 24 Ore, e “Miglior Imprenditore Italiano nel Mondo 2003” da Ernst &Young
Global.

In meno di 10 anni di vita Geox era diventata il primo produttore di scarpe italiano e l’ottavo al
mondo, con una produzione (nel 2003) di 6,6 milioni di scarpe. Controllava stabilimenti produttivi

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in Italia e all’estero, aveva stretto accordi con partner stranieri ed era presente nei negozi di quasi 70
Paesi.
Questa rapida crescita della rete produttiva era stata in larga parte autofinanziata (il tasso di
autofinanziamento si aggirava intorno all’80%).

A giudicare dalle parole di Mario Moretti Polegato, nel 2004 la crescita di Geox non sembrava
finita. Il Centro Ricerca e Sviluppo dell’impresa di Montebelluna, che impiegava a tempo pieno 15
ingegneri e nel quale il gruppo Geox investiva circa il 4% del fatturato annuo, era alla continua
ricerca di soluzioni innovative. Venivano effettuati studi sulla sudorazione e sulla diffusione del
calore nel corpo umano, ed erano continuamente avviate ricerche in collaborazione con alcune
università in Italia e nel mondo, come quella di Padova, il CNR di Milano, l’Università di Monaco
di Baviera e quella di Oslo.

Il settore

La crescita che Geox stava vivendo nel 2004 era del tutto in controtendenza rispetto all’andamento
del settore calzaturiero. Il settore della calzatura stava attraversando infatti un periodo di crisi: il
tasso di crescita della domanda di calzature a livello internazionale (le cui dimensioni erano
stimabili intorno ai 4 miliardi di euro) era in calo. La crescita annua dal 1995 al 2001 si era attestata
intorno al 3%, passando da 10,5 miliardi di paia prodotte nel 1995 a 12,3 miliardi nel 2001, e questo
comprimeva i volumi di produzione e spingeva la competizione sulla leva prezzo. La concorrenza
dei competitor cinesi, che si stavano affermando sui mercati grazie ai forti vantaggi che
possedevano in termini di costi di produzione, rendeva la situazione ancora più critica.
L’industria calzaturiera italiana (che rappresentava circa il 20% del valore dell’intero “sistema
moda” italiano) risentiva pesantemente di questa crisi internazionale del settore. La produzione (in
termini di fatturato) era in calo, diminuivano le aziende impegnate nel settore (passate tra il 1995 e
il 2002 da 8.861 a 7.380) e si riduceva il numero di addetti.

La crisi del settore delle calzature in Italia nel 2004 era riconducibile, oltre che alla congiuntura
economica internazionale negativa, all’evoluzione sfavorevole del cambio euro-dollaro, che aveva
fortemente penalizzato le esportazioni, calate in quantità (nei primi 10 mesi del 2003) del 7% circa.
Le esportazioni coprivano circa l’80% della produzione italiana, e avevano come principali paesi di
destinazione la Germania, la Francia, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.

Per quanto riguarda gli aspetti strutturali, il settore della calzatura in Italia era molto frammentato.
In Italia operavano, accanto a pochi grossi gruppi internazionali, che in alcuni casi controllavano
l’intero processo di produzione della scarpa, moltissime imprese medio piccole, a gestione
familiare, specializzate in singole fasi del processo, o che esternalizzavano la gran parte della
produzione.
Anche dal punto di vista della distribuzione l’Italia presentava un quadro piuttosto frammentato. Le
scarpe venivano vendute prevalentemente nei piccoli punti vendita ed erano poco diffuse le grandi
catene distributive. Erano poche le imprese produttrici che decidevano di integrarsi a valle
attraverso la costituzione di una rete di negozi monomarca di proprietà o in franchising. Si trattava
generalmente di grossi gruppi diversificati, che operavano prevalentemente nel segmento dei beni di
lusso (Gucci, Prada, Louis Vuitton) e che offrivano all’interno dei propri negozi anche
abbigliamento e accessori.

Tra le imprese produttrici si individuava una forte tendenza a delocalizzare la produzione in Paesi a
basso costo della manodopera, come quelli dell’Europa Orientale o dell’Estremo Oriente, con
particolare riguardo alla Cina, nella quale si stava affermando un vero e proprio distretto

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calzaturiero estremamente specializzato. Un’altra tendenza in atto tra i produttori di calzature
italiani era poi un progressivo spostamento della produzione verso segmenti di maggior qualità e a
più alto contenuto stilistico e di design, nei quali era possibile godere dei vantaggi legati al “made in
Italy”.
Infine, soprattutto il comparto delle scarpe di lusso stava vivendo un processo di consolidamento,
attraverso le operazioni di acquisizione messe in atto principalmente dai grossi gruppi (Prada aveva
acquisito Church’s, Gucci Sergio Rossi, mentre Aeffe nel dicembre del 2000 aveva acquistato
Pollini).

Quello della calzatura era considerato da molti un settore ormai “maturo”, con una crescita della
domanda stabile, se non in diminuzione, nel quale l’innovazione di prodotto era estremamente
difficile. Il processo produttivo era difficilmente automatizzabile e richiedeva l’intervento di
personale specializzato in tutte le fasi della lavorazione. Una delle innovazioni più recenti introdotte
risiedeva nell’utilizzo di sistemi CAD (Computer Aided Design) per progettare i modelli delle
calzature che trasmettevano le informazioni agli impianti di taglio, in modo da ridurre il ciclo di
sviluppo del prodotto.

Il prodotto
“Non sono qui per vendere scarpe, ma per vendere una tecnologia”. Questa frase di Mario Moretti
Polegato, pronunciata in occasione dell’inaugurazione del negozio di Madison Avenue a New York
a marzo del 2004, sintetizzava bene la sua visione del business.

L’imprenditore di Montebelluna definiva Geox un’azienda tecnologica, che applicava la tecnologia


alle calzature e all’abbigliamento. La filosofia dei “prodotti che respirano” era infatti alla base di
tutta l’offerta del gruppo di Montebelluna. Con il marchio Geox erano vendute nel 2004 calzature
per uomo, donna e bambino e una linea di abbigliamento informale (lanciata nel 1998), fatta
produrre interamente da aziende terziste, che nel 2003 pesava per il 4% del fatturato complessivo
del gruppo.
Alla linea di scarpe con suola in gomma, traduzione industriale dell’iniziale intuizione
dell’imprenditore veneto, erano state aggiunte una linea di calzature in cuoio (frutto di una
successiva applicazione della membrana Geox, tutelata da apposito brevetto) e una linea speciale di
scarpe da ginnastica, basate sul brevetto STS (Side Transpiration System), che permettevano una
traspirazione ancora maggiore, adatta all’attività degli sportivi. La linea di abbigliamento, infine, si
basava su un apposito brevetto, che garantiva la fuoriuscita del calore dai capi, attraverso speciali
fori praticati in corrispondenza delle spalle. Alla base di questa invenzione sembra ci fosse, oltre
agli studi del Centro Ricerca e Sviluppo Geox, l’ennesima intuizione di Mario Moretti Polegato,
rimasto folgorato osservando il calore salire da una tazzina di caffè: il cosiddetto “effetto camino”
generato gli diede lo spunto per l’invenzione della linea di abbigliamento che “respira”.
Tutti i brevetti di Geox venivano continuamente migliorati e ne venivano registrate tutte le
modifiche incrementali: questo permetteva di rimandarne nel tempo la scadenza. Il brevetto relativo

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alla gomma, origine del successo di Geox, era stato registrato in 100 Paesi e la sua portata
rivoluzionaria era stata riconosciuta soprattutto negli Stati Uniti, dove era registrato come “brevetto
di invenzione e utilità”, riconoscimento rilasciato a poche invenzioni in grado di migliorare la
qualità della vita.

Geox vendeva scarpe sportive, calzature e sandali da donna in linea con le tendenze della moda,
scarpe classiche e formali da uomo e calzature da bambino. Le scarpe Geox, dal punto di vista
stilistico, erano moderne ma non trendy, seguivano la moda (anche se spesso con una stagione di
ritardo) rifiutandone però gli eccessi. Il design delle calzature, che, fino al 2003, veniva effettuato
nel Centro Stile Geox, situato nelle Marche, nel cuore del distretto in cui operavano grandi aziende
come Tod’s, era nel 2004 realizzato all’interno della sede di Montebelluna da designer interni
specializzati, per meglio gestire il flusso informativo tra i diversi reparti e accelerare la fase di
sviluppo dei nuovi prodotti. Mario Moretti Polegato riconosceva che il contenuto stilistico delle
scarpe fosse un elemento imprescindibile, al quale bisognava dedicare necessariamente attenzione
(soprattutto in una realtà come quella italiana), ma allo stesso tempo non riteneva che questo
dovesse togliere troppo spazio al vero elemento innovativo delle calzature Geox: la tecnologia. Il
presidente di Geox affermava:“Ci interessa soltanto rivolgerci al pubblico più largo possibile.
Lasciamo agli altri il compito di creare i gusti e le tendenze: noi ci limitiamo a seguirle”.

Le scarpe Geox erano rivolte a un pubblico vasto, non di elite, trasversale ai diversi segmenti nei
quali si scomponeva il mercato della calzatura. I clienti di Geox erano persone attente al comfort,
alla qualità e alla praticità più che al design, che desideravano scarpe moderne ma non vistose.
Erano disposti a pagare cifre comprese tra i 100 e i 200 euro (fascia di prezzo all’interno della quale
si collocavano le calzature Geox) pur di camminare con scarpe comode, confortevoli, adatte
all’ufficio come al tempo libero. Si trattava di persone che sceglievano la tecnologia prima del
modello della scarpa; che spesso entravano nei negozi Geox prima di sapere esattamente che
calzatura desiderassero e che raramente uscivano a mani vuote. L’obiettivo di Geox, perseguito
attraverso la diversificazione delle linee di prodotti, era quello di creare un “family brand”, un
marchio indirizzato a tutti i membri della famiglia, inclusi i bambini. Era questo l’obiettivo che
Geox stava cercando di perseguire anche con l’abbigliamento (nel 2004 aveva lanciato la prima
linea di abbigliamento per bambini, affiancando i prodotti già esistenti per gli adulti).
I clienti che Geox voleva attrarre erano “transnazionali”, alla ricerca dei valori della praticità, della
comodità, della salute e della qualità della vita, i quali non hanno confini. Per rispondere a questo
bisogno di tipo transnazionale, Geox sviluppava però linee di prodotto studiate appositamente per
ciascun Paese. Le scarpe erano infatti pensate per adattarsi perfettamente alla conformazione dei
piedi di consumatori di diversi Paesi (fisiologicamente diversi) e per avvicinarsi ai gusti e alle
tendenze dominanti nei diversi mercati locali. Le scarpe vendute in Germania erano realizzate, ad
esempio, con pelli spesse ed erano colorate con toni cupi, per trasmettere un’immagine di solidità e
di serietà. Le scarpe che Geox vendeva in Italia, invece, avevano colori luminosi, erano realizzate
con pelli sottili e con materiali eleganti e seguivano, anche se con sobrietà, le tendenze dettate dalla
moda.

Geox dedicava grande attenzione ai materiali con i quali realizzava le calzature e i capi. Venivano
effettuati, all’interno del Centro Ricerca e Sviluppo di Montebelluna, continui controlli sulle
proprietà di pelli e tessuti e sulle partite di materiale acquistato dai fornitori. Il Centro era dotato ad
esempio di apparecchiature in grado di testare l’abrasione dei tessuti (attraverso lo sfregamento dei
materiali), la resistenza delle suole alla flessione (attraverso 30.000 cicli di curvature ad
un’inclinazione di 90°) e la resistenza del colore sulle pelli e sui tessuti (attraverso prove, sia ad
umido che a secco). E anche la scarpa finita veniva sottoposta a ulteriori prove che simulavano, ad
esempio, la camminata di un uomo di 100 chili per 200 chilometri sotto la pioggia.

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In alcuni rari casi segnalati dai consumatori, però, la qualità delle scarpe Geox, alla base dell’offerta
dell’azienda di Montebelluna, non si era rivelata all’altezza delle aspettative, soprattutto in
condizioni estreme. Questo faceva pensare che il Centro di Ricerca e Sviluppo Geox dovesse ancora
sviluppare soluzioni tecniche definitive.

La produzione

Il processo di produzione delle calzature Geox era caratterizzato da oltre un centinaio di operazioni,
che richiedevano l’intervento di personale specializzato in quasi tutte le fasi di lavorazione.

I modelli delle calzature, realizzati dai designer, venivano trasferiti al reparto modelleria, che
tagliava la pelle e i tessuti e predisponeva la tomaia delle scarpe, indicando con una matita bianca la
posizione nella quale andava successivamente disposta la suola. Era proprio la preparazione della
suola ad essere la fase più critica nel processo di realizzazione delle calzature Geox, quella che
differenziava il processo adottato dall’azienda di Montebelluna da quelli degli altri produttori di
calzature.
Le suole, alle quali erano già stati praticati i fori, venivano sgrassate, spalmate di colla e inserite in
appositi forni che consentivano di riattivare la colla stessa. Solo al termine di queste operazioni di
preparazione i tecnici Geox posizionavano la speciale membrana e la inserivano all’interno di una
particolare macchina che esercitava una pressione a caldo, in modo da farla aderire alla suola. Per
dare un’idea della complessità di queste poche operazioni, si pensi che tra la preparazione della
suola e l’inserimento della membrana trascorrevano generalmente circa 40 minuti.
Le suole così ottenute venivano montate sulle tomaie predisposte dal reparto modellerie. La prima
operazione del montaggio consisteva nell’applicazione di una parte di materiale rigido all’interno
della tomaia (tra la fodera e la pelle), in corrispondenza del tallone. Questa operazione veniva
effettuata utilizzando colle speciali e macchine che permettevano di pressare e curvare la tomaia
adattandola alla forma del tallone. Si trattava di macchine computerizzate ed era sufficiente per
farle funzionare, posizionare la tomaia sull’apposito sottopiede in metallo e richiamare, nel software
il modello della scarpa. Ultimata questa fase, i tecnici procedevano alla chiusura del tallone e dei
laterali. La tomaia, che veniva mantenuta sul sottopiede in metallo, veniva posizionata su
un’apposita macchina, nel rispetto dei segni tracciati in modelleria (che indicavano le altezze da
rispettare affinché la scarpa non facesse male al piede), la quale applicava una piastrina laterale, dei
chiodi, stendeva la colla sui bordi e infine la chiudeva sui lati. La tomaia chiusa intorno al
sottopiede metallico cominciava ad assumere la forma di una calzatura e veniva posizionata in forno
per far asciugare la colla.
A questa forma veniva applicata la suola, in corrispondenza dei segni tracciati dalla modelleria.
Venivano spalmati sotto la tomaia due strati di colla (uno penetrava in profondità, l’altro rimaneva
in superficie) e veniva applicata la suola.
La scarpa così ottenuta era pronta per il finissaggio. Veniva messa all’interno di uno speciale
frigorifero, alla temperatura di 3 gradi sotto zero (per fissare i materiali), veniva pulita dalla colla in
eccesso e veniva inserita la speciale tallonetta forata Geox. L’ultima fase consisteva nel controllo
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qualità, effettuato da personale specializzato, e nell’inserimento, all’interno della calzatura, delle
stringhe, del cartellino Geox (nel quale erano indicate le caratteristiche della scarpa). La scarpa
finita veniva posizionata all’interno della scatola e spedita.

All’inizio della sua attività, Geox non produceva internamente le calzature. La fattura delle scarpe
veniva fatta progettare da studi di designer esterni (che spesso cambiavano da un anno all’altro),
prevalentemente nell’area fiorentina, mentre la fabbricazione veniva appaltata ad aziende terziste.
L’unica cosa che Geox produceva internamente erano le suole, seguendo una procedura
segretissima, tutelata dai brevetti.
Nell’arco dei suoi primi anni di vita, Geox aveva cominciato a riportare all’interno, nello
stabilimento di Montebelluna, alcune fasi del processo di realizzazione delle calzature, ma era stato
ancora l’intervento di partner esterni specializzati a permetterle di muovere i primi passi sui mercati
internazionali. Geox aveva stretto infatti accordi di licenza produttiva con alcuni grossi produttori
stranieri.
Elefant-Freudenberg di Francoforte (uno dei leader mondiali nel settore della conceria), alla
quale aveva affidato, dietro pagamento di royalties, l’esclusiva a produrre scarpe Geox
destinate ai mercati del Nord Europa;
Loake Schoemakers di Londra (uno dei più antichi calzaturifici britannici), alla quale aveva
concesso in licenza la produzione e la commercializzazione di scarpe con marchio Geox in
Gran Bretagna e Irlanda;
Ganda Wangsa di Subaraya nel distretto di Giacarta in Indonesia (una delle maggiori
imprese indonesiane, facente parte di un gruppo finanziario locale), alla quale aveva affidato
la licenza per la produzione e commercializzazione delle scarpe Geox nell’area indonesiana
(mercato da 3 milioni di scarpe all’anno);
la spagnola Erfor, alla quale aveva affidato la produzione di calzature per il mercato
spagnolo;
Calzados New Bird di Caracas (società specializzata nella produzione di mocassini), alla
quale aveva concesso la licenza di produrre e commercializzare scarpe Geox in Venezuela;
la thailandese Aa Footwear, alla quale aveva concesso la licenza di produrre scarpe Geox
per la Thailandia;
Flexi (società messicana leader sul mercato americano), alla quale aveva ceduto la licenza
per produrre scarpe Geox destinate al mercato americano.

Tutti i contratti prevedevano che Geox trasferisse il know-how, le suole, le membrane e il marchio,
dietro il pagamento di royalties.
Molti contratti di licenza erano ancora attivi nel 2004 (come quello con la messicana Flexi, che
permetteva a Geox di rimanere immune dalle fluttuazioni euro-dollaro, producendo in dollari ciò
che fatturava in dollari) e garantivano un fatturato aggiuntivo (che si sommava a quello consolidato
in bilancio) di circa 40 milioni di euro. Ma dal 2001, con il cosiddetto Progetto Europa, l’area
europea era passata sotto il controllo diretto dell’impresa di Montebelluna. Il Progetto Europa
prevedeva che non venissero rinnovati i contratti in scadenza con la tedesca Freudemberg e con la
spagnola Erfor, e che le aree coperte da queste due imprese fossero rifornite dagli stabilimenti
Geox, tra i quali era prevista una maggiore sinergia. Ciascun Paese era stato dotato di una rete di
vendita affidata a uomini di fiducia ed erano stati realizzati, nelle principali città, negozi
monomarca di proprietà di Geox che fungevano da apripista ad altri negozi in franchising. Dopo
l’esperienza tedesca e spagnola, il Progetto Europa era stato implementato anche in Francia e, a
partire dal 2004, anche nel mercato inglese.

Nel 2004 Geox produceva (direttamente o tramite accordi di licenza) in circa 28 Paesi. Possedeva
propri stabilimenti in Europa Orientale (Romania e Slovenia) e in Italia (a Montebelluna,
Signoressa, Biadene) e aveva dato vita a importanti realtà produttive in Vietnam e in Cina.

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Lo stabilimento di Timisoara in Romania, inaugurato nel 2000, rappresentava il più importante polo
produttivo per il gruppo di Montebelluna e impiegava da solo circa 1.700 persone. Aveva una
superficie di 20.000 metri quadrati e cinque linee di produzione ed era in grado di realizzare circa
20.000 suole e 10.000 paia di scarpe al giorno.
L’espansione della rete produttiva era stata resa possibile da una concezione di impresa moderna,
supportata dall’adozione di un sistema informativo in grado di collegare in modo efficiente la sede
di Montebelluna con gli stabilimenti e i partner esteri. Geox aveva adottato un sistema gestionale
integrato, sul quale erano state studiate soluzioni applicative capaci di tracciare e ordinare i flussi
informativi tra l’impresa e i suoi partner stranieri. La qualità delle connessioni era garantita da
soluzioni a banda larga, come connessioni satellitari punto a punto, il protocollo frame rely e le
connessioni veloci Adsl e Isdn. A questo si aggiungeva l’ampio uso della videoconferenza per
coordinare la rete produttiva.

I manager alla guida degli stabilimenti e delle filiali estere di Geox, nei Paesi nei quali l’azienda era
presente, erano quasi tutti formati all’interno, e spesso provenivano dalla Geox School, la scuola di
management interna alla società, fondata nel 2001. Nella scuola voluta da Mario Moretti Polegato,
aperta ai neolaureati di tutto il mondo, si approfondivano i temi del marketing, della comunicazione
e del retail, con particolare applicazione alla realtà specifica di Geox. Le lezioni teoriche erano
associate a progetti sul campo, seguiti da tutor aziendali. La nascita della Geox School, secondo
l’imprenditore di Montebelluna, rispondeva all’esigenza di formare i dirigenti del futuro, in grado di
trasferire all’estero la cultura, l’entusiasmo e le competenze (soprattutto tecnologiche) che Geox
sviluppava in Italia. La scuola serviva ad attirare i migliori talenti e ad assecondare la rapidissima
crescita del gruppo attraverso la formazione di persone in grado di gestire la complessità e lo
sviluppo.

La commercializzazione
Nel 2004 le scarpe Geox erano vendute in 68 Paesi ed erano presenti in circa 10.000 punti vendita.
Il 65% della produzione di Geox era venduta in Italia, mentre il 35% veniva esportata.

Geox Shop Dusseldorf Geox Shop Milano

Inizialmente la distribuzione delle scarpe Geox nei diversi Paesi era affidata esclusivamente a
partner stranieri. Il gruppo di Montebelluna aveva stipulato ad esempio accordi con la Regal
Corporation di Tokyo (uno dei maggiori gruppi giapponesi impegnati nel settore della calzatura),
l’austriaca Stiefelkoenig, la svizzera Voegele, la turca Effetto Istanbul o il gruppo cinese Aokang
Group (uno dei maggiori distributori di calzature in Cina, con oltre 2.800 negozi).
Nel 2004, oltre ai pochi accordi di commercializzazione che ancora venivano mantenuti con alcuni
partner (come quello con Regal Corporation, che continuava a distribuire in Giappone le collezioni
eleganti e classiche per uomo), Geox gestiva direttamente la distribuzione in molti Paesi. Aveva

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infatti filiali dirette in Germania, Francia, Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti (a Filadelfia) e
Giappone (che commercializzava le linee comfort per uomo, donna e bambino, non distribuite da
Regal). Erano gli Stati Uniti e il Giappone i Paesi sui quali Geox stava puntando. Si trattava in
entrambi i casi di mercati difficili, che richiedevano il controllo della rete distributiva. Secondo
Mario Moretti Polegato “per stare sul mercato americano non basta trovare un distributore: sono
necessari magazzini, negozi monomarca e una presenza solida nei department store”.

Mario Moretti Polegato era convinto che soltanto controllando la rete distributiva si potesse
comunicare in maniera efficace un prodotto innovativo, dalle caratteristiche tecnologiche uniche.
Questa convinzione era alla base della politica distributiva che il gruppo di Montebelluna stava
portando avanti, fondata sull’apertura di negozi monomarca, i Geox Shop, nelle principali città dei
Paesi nei quali commercializzava i suoi prodotti. I negozi monomarca erano, alla fine del 2003, 198,
di cui 69 all’estero, ma il piano di espansione predisposto da Mario Moretti Polegato prevedeva
l’apertura di nuovi punti vendita, fino ad arrivare, alla fine del 2004, a quota 270. Le aperture più
recenti erano state quelle di Madison Avenue a New York (vicino al negozio di Armani), di Nathan
Road ad Hong Kong e di Couo Dori-Ginza a Tokyo. In Italia Geox aveva una rete di negozi
capillare, il più importante dei quali era quello di via Montenapoleone a Milano. La politica dei
negozi monomarca è estremamente costosa ed è generalmente appannaggio di pochi grandi nomi
del lusso (come Prada, Gucci, Tod’s).
Tutti i Geox Shop avevano un layout e una struttura comuni (studiati dall’architetto Aldo Cibic),
estremamente originali rispetto al panorama dei negozi monomarca italiani. I negozi di Geox erano
caratterizzati da un ambiente moderno, luminoso, essenziale, proprio del mondo della tecnologia e
della ricerca. Il bianco luminoso delle pareti, interrotto solo dai caratteristici divanetti rossi, lasciava
in primo piano le calzature, vere protagoniste del negozio. Ma la vera caratteristica innovativa dei
Geox Shop era rappresentata dalla rivoluzione della tradizionale idea di vetrina. La vetrina non era
più solo esterna, ma era trasportata su tutte le pareti, attraverso l’utilizzo di grandi vele espositive
che si protraevano in avanti verso il pubblico, in modo da consentire ai clienti di toccare e guardare
da vicino tutte le calzature. I Geox Shop erano pensati per avere sempre la porta aperta, per invitare
il consumatore ad entrare, a osservare le scarpe e le innovative suole e a provarle.

A partire dal 2003 poi, in alcuni negozi monomarca, per fidelizzare i clienti era stata introdotta una
Geox Card chiamata “Link”, che offriva ai consumatori più fedeli una serie di vantaggi. I
sottoscrittori della carta ricevevano notizie in anteprima sulle nuove collezioni (attraverso la posta o
via e-mail), erano invitati a partecipare ad aperture speciali e a eventi straordinari, potevano
acquistare prodotti scontati in anticipo sui saldi e potevano partecipare a una raccolta punti che
aveva come premio prodotti a scelta delle collezioni Geox.

Nel 2004 il 30% dei Geox Shop erano di proprietà, mentre il restante 70% erano in franchising e
Mario Moretti Polegato puntava a mantenere nel tempo questa proporzione che riteneva vincente. Il

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contratto di franchising era studiato in modo tale che la maggior parte della spesa relativa al punto
vendita fosse di competenza del franchisor, mentre Geox si accollava il 20-30% dei costi.
Rimanevano a carico del gruppo di Montebelluna le spese relative alla formazione di alcuni addetti
da inserire nella struttura come quadri o responsabili di negozi e le spese relative alle campagne
promozionali e di marketing.
Geox investiva ogni anno circa il 10% del fatturato in comunicazione (percentuale altissima, alla
pari dei principali gruppi del lusso). La comunicazione che Geox effettuava era controllata, per tutti
i Paesi nei quali operava, dalla sede centrale di Montebelluna, ed aveva come contenuto principale
la tecnologia. A parte rari casi, Geox non faceva uso di testimonial del mondo dello spettacolo, ma
aveva come testimonial il prodotto stesso.

Campagna 2004 Campagna 2002 Campagna 2001

Le pubblicità di Geox (soprattutto quelle su stampa o su affissioni) erano prevalentemente


informative, trasferivano informazioni tecniche sulle proprietà e sulle caratteristiche del prodotto,
ma non erano accattivanti né coinvolgenti. Al centro dell’immagine c’era sempre il prodotto, la
scarpa o il capo di abbigliamento, illuminati da una luce particolare che li metteva in risalto e che ne
sottolineava le proprietà tecniche.

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Allegato 1 – Andamento del settore calzaturiero in Italia

1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002


Aziende 8.861 8.467 8.150 7.900 7.660 7.570 7.500 7.380
Addetti 124.228 122.186 120.500 117.300 114.015 113.100 111.650 107.008
Fatturato wholesale (ml 7.856 8.092 8.052 7.911 7.411 8.269 8.670 8.171
€)
(Fonte: ANCI)

Allegato 2 – Risultati consolidati 2000 - 2003 in milioni di euro

2003 2002 2001 2000

Ricavi netti 254.1 100% 180.3 100% 147.6 100% 91.6 100%
Variazione su anno prec. 40.9% 22.2% 61.1% 35.0%
Margine operativo lordo 50.3 19.8% 31.2 17.3% 16.0 10.8% 9.7 10.6%
Variazione su anno prec. 61.2% 95.0% 64.9%
Reddito operativo 38.9 15.3% 24.0 13.3% 11.8 8.0% 6.2 6.8%
Variazione su anno prec. 62.1% 103.4% 90.3%
Reddito netto 30.7 12.1% 19.4 10.8% 7.3 4.9% 3.4 3.7%
Variazione su anno prec. 58.2% 165.8% 114.7%

Investimenti in capitale
fisso 28.8 19.4 15.5 9.0
Mezzi di terzi 44.5 41.5 34.7 25.6
Mezzi propri 68.8 38.0 18.6 11.2
Tasso di indebitamento 0.6 1.1 1.9 2.3
(Fonte. Geox)

Allegato 3 – Dati commerciali 2000 – 2003

2003 2002 2001 2000


Export 37% 25% 18% 10%
Paia 6,6 mil 4,7 mil 3,8 mil 2,4 mil
N° Geox Shops 198 130 72 30
(Fonte. Geox)

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