Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
1
L’IMPERO JAB CRESCE, COMPRA KRYSPY PER 1,35 MILIARDI DI DOLLARI - COMUNICAFFE’ - 9 maggio 2016
http://www.comunicaffe.it/wp-content/uploads/2016/05/krispykreme4.jpgJAB, l’impero del caffè della famiglia
Reimann cresce ancora e si mangia le ciambelle di Krispy Kreme. Jab, la holding che fa capo alla famiglia austriaca, ha
annunciato infatto l’acquisto della statunitense Krispy Kreme Doughnuts per 1,35 miliardi di dollari. Il prezzo cash
per azione è di 21 dollari: il 25% in più rispetto alla chiusura del titolo di venerdì scorso. Le ciambelle Krispy vanno
così ad aggiungersi agli asset americani Peet’s Coffee & Tea, Caribou Coffee e Keurig Green Mountain. Quest’ultima,
produttrice delle celebri K-Cup, è stata acquistata da Jab nel dicembre scorso, con una mega-transazione da 13,9
miliardi di dollari. Krispy Kreme è una popolare catena che vende ciambelle e caffè. Il suo quartiere generale si trova
a Winston-Salem, in Nord Carolina. Ciambelle e altri dolciumi rappresentano quasi il 90% del fatturato costituito per
la parte rimanente principalmente da bevande e, soprattutto, da caffè. L’azienda ha cercato di potenziare la sua
offerta di caffetteria nel corso degli ultimi 2 esercizi lanciandosi anche nel mercato del ready-to-drink e del caffè
tostato confezionato. L’entrata nell’impero Jab dovrebbe contribuire a rafforzare questo trend. Jab ha effettuato una
campagna acquisti ferrata negli ultimi anni, spendendo 30 miliardi di dollari per comprare società in Europa e negli
Stati Uniti. Detiene il pacchetto di maggioranza in JDE (Jacobs Douwe Egberts), la massima società pure play nel
settore del caffè a livello mondiale nata lo scorso anno dalla fusione tra D.E. Master Blenders 1753 e Mondelēz
International’s. Il suo obiettivo ultimo è quello di sfidare la leadership globale di Nestlé nel settore del caffè.
DOMANDE.
Al di là del generico “sfidare la leadership globale di Nestlè”, quale può essere la logica strategica che collega le
diverse mosse di JAB nel settore del caffè?
Quali sono i rischi di questa strategia?
JAB è una private company, non quotata e a controllo familiare. Quali sono i pro e i contro del portare avanti
questa strategia con questo modello di governance?
2
SNAIDERO CHIUDE IN BAVIERA E SI RAFFORZA NEL SUO FRIULI - IL PICCOLO 2016-02-16
UDINE Qualità e razionalizzazione. Ecco le parole chiave che guidano il reshoring Snaidero. Una mossa strategica,
quella dei produttori friulani di cucine. Una mossa che guarda dritta al mercato. Perché è più facile vendere nel
mondo un prodotto completamente made in Italy. E infatti, alla chiusura della sede produttiva di Waldmünchen (in
Baviera restano gli uffici commerciali e la gestione amministrativa), corrispondono aperture di showroom in mezzo
mondo. Da Teheran al Sud Africa, passando anche da Oriente e Australia. «Abbiamo la necessità di razionalizzare e
migliorare le performance del gruppo, ecco perché abbiamo completamente trasferito in Italia la produzione»,
spiega il numero uno dell’azienda, Edi Snaidero. Anche se quel «completamente» va in parte corretto, alla luce del
fatto che la produzione francese localizzata nello stabilimento di Nantes continua a essere prevista nei piani
dell’azienda per la «posizione strategica». Nel 2016 la Snaidero compie 70 anni. Un compleanno che arriva alla vigilia
di un cda chiamato ad approvare un fatturato da 120 milioni, con una previsione di crescita a 130 milioni per il 2016.
Dallo stabilimento di Majano, comune con meno di 6 mila abitanti in provincia di Udine, Edi Snaidero lancia la linea
da seguire: «È il momento di investire, sia in termini di innovazione sia nella gamma del prodotto». Il piano globale
degli investimenti ammonta a 16 milioni per il 2016. Voce che comprende anche lo sviluppo commerciale, l’apertura
di nuovi punti vendita, supporto al circolante e l’implementazione tecnologica delle linee di produzione. Si punta
anche ad allargare la trasversalità del marchio con le linee icone, «il cuore del sistema», flexible e every one, «la
linea giovane di Snaidero». Il piano di investimenti guarda anche alla sede friulana di Majano. «In fabbrica stanno
entrando le nuove tecnologie – precisa Snaidero – macchinari che vanno a migliorare la competitività del prodotto,
ottimizzando il processo sia sotto il punto di vista della qualità sia dei costi». La Snaidero punta dunque su nuove
linee di produzione con una «forte dose di automazione». Evolve anche il modo di lavorare: «Miglioriamo la qualità
della bordatura – precisa il numero uno dell’azienda friulana –, grazie a tecniche laser la definizione è massima. Non
si vede la colla e c’è un’ulteriore crescita del livello qualitativo delle nostre cucine».
DOMANDE.
Nell’articolo si sostiene che “è più facile vendere nel mondo un prodotto completamente Made in Italy”. E’
sempre vero?
Qualità e razionalizzazione: cosa intende esattamente, Snaidero, con queste parole chiave?
La Snaidero è un’impresa che sta attraversando da almeno dieci anni una grave crisi economica, commerciale e
finanziaria. La strategia sopra descritta può essere la chiave per uscire dalla crisi?
3
LO SFOGO DEL MANAGER LICENZIATO: «HO SALVATO L’AZIENDA DAL TRACOLLO» - Messaggero Veneto 2016-04-
24
Non un semplice sfogo, ma una difesa con le unghie e con i denti di quanto ha fatto, in meno di sei anni, per la
Pilosio, l’azienda friulana di costruzioni leader nella realizzazione di ponteggi e casseformi. Dario Roustayan, 50 anni,
è l’ex amministratore delegato e presidente dell’impresa, che ha sede a Tavagnacco. A fine gennaio la proprietà, il
fondo Columna Capital con sedi a Londra e in Svizzera, gli ha dato, a sorpresa, il benservito, nonostante i positivi
risultati di bilancio. Giovedì il rappresentante del fondo Andrea Frecchiami e il nuovo manager Johann Strunz, hanno
illustrato le strategie di Pilosio, dando l’impressione di voler tagliare i ponti con il passato. Cioè con Roustayan
stesso, che però non ci sta. E contrattacca su tutto: commesse, rapporti con l’Arabia Saudita, possibilità di
espansione, margini di fatturato, gestione passata, compreso il Pilosio Building Peace Award. «Mi auguro davvero -
afferma il manager di origine iraniana - che Pilosio possa raddoppiare il fatturato in cinque anni, come affermato dal
mio successore, il manager Johann Strunz, durante la conferenza stampa di qualche giorno fa. Lo spero per la
società, per tutte le maestranze, ma anche perchè io sono e resto un socio di Pilosio, quindi è mio prioritario
interesse che le cose vadano per il meglio. Mi ha sorpreso l’affermazione di Strunz che ha dichiarato di aver trovato
“il portafoglio ordini un po’ asciutto” al suo arrivo. In realtà al 31 dicembre scorso il portafoglio ordini di Pilosio era
più che rispettabile. Tanto per fare un esempio, 10 volte più grande di quello che trovai io, nel 2010. Eppure
all’epoca non mi misi a piangere se avevo lavori per soli 180 mila euro, ma mi rimboccai le maniche, con tutto lo staff
e da lì cominciò la risalita». Un altro aspetto che sta a cuore a Roustayan è il legame con l’Arabia Saudita, Paese dal
quale il nuovo corso di Pilosio vuole essere meno dipendente. «Le maxi commesse della Medina - spiega l’ex
presidente - sono state una grandissima opportunità di crescita, una vera e propria palestra per
l’internazionalizzazione. Lì abbiamo capito come si gestiscono progetti complessi. E il fondo Columna Capital, se non
avessimo avuto quelle opere in Arabia Saudita, non avrebbe mai acquisito l’azienda friulana. Se Pilosio ha fatto il
salto di qualità, e oggi può vantare 43 milioni di fatturato, è proprio grazie a quei cantieri. E se il target è 80 milioni di
ricavi, significa che la base c’è già. Per quanto riguarda la strategia commerciale non vedo un taglio con il passato.
L’attuale amministratore punta sugli stessi mercati che abbiamo scoperto noi e sulle nostre filiali, come quella di
Toronto e Calgary in Canada, e di Durban in Sudafrica. Per non parlare dello stabilimento in Vietnam, una nostra
scelta. Io vedo tanta continuità». Non manca poi una frecciata alla nuova proprietà, Columna. «Il fondo ha tutto il
diritto di fare le scelte che ritiene più opportune - premette Roustayan - e può darsi che abbia trovato gente più
brava. Ma è bene chiarire che il loro rappresentante Frecchiami è un operatore finanziario che non ha mai gestito
un’azienda, nè viene dal mondo dell’impresa. Io nel 2010 mi ritrovai a salvare un’azienda che aveva 23 milioni di
debiti e un milione di risultato operativo. Era tecnicamente fallita e aveva un modello di business obsoleto. Quindi
non mi faccio dare certo lezioni di marketing e management da Frecchiami che, ricordo, prima di Columna Capital
lavorava presso il fondo di private equity “Bs” che nel 2007 fu l’artefice di una leva finanziaria che generò un debito
pari a 100 milioni di euro sul gruppo “Pm” di cui Pilosio faceva parte e portò la stessa azienda vicinissima a un crack
finanziario».
DOMANDE.
A cosa serve alla Pilosio uno stabilimento in Vietnam?
Arabia Saudita come “palestra di internazionalizzazione”. Cosa significa?
Roustayan sostiene che la Pilosio, nel 2010, aveva un modello di business obsoleto. Cosa intende dire?
4
Mediaset tiene aperto il dialogo con Vivendi – IL PICCOLO 11 GIUGNO 2015
MILANO Mediaset strizza l'occhio a Vivendi ma secondo il vicepresidente e ad, Pier Silvio Berlusconi, è ancora presto
per parlare di accordi, a partire dall'ingresso dei francesi in Premium. Qualche rimpianto per un matrimonio
impossibile, quello con Telecom, mentre è esclusa un'integrazione con Sky. «I rapporti con il gruppo Vivendi e con
Bolloré sono ottimi: ci siamo incontrati più volte per analizzare ipotesi di prospettive di sviluppo in futuro», tuttavia -
risponde Pier Silvio Berlusconi alle domande dei cronisti sui rapporti con il gruppo francese e in particolare sui
rumors relativi a una possibile intesa già a luglio - «mi sembra molto difficile» che si possano concludere accordi a
breve. «Gli ambiti di possibile collaborazione - spiega - sono vari, i contenuti internazionali, la pay tv non solo in
Italia, i vantaggi dei possibili incroci tra contenuti e telco: le prospettive sono ampie, c'è tanta carne al fuoco».
Vivendi dovrebbe entrare in possesso delle azioni Telecom dopo metà giugno (circa l'8,3% che la porterà ad essere il
primo azionista). Quando questa operazione sarà sistemata il gruppo che fa capo a Vincent Bolloré potrà
liberamente ripensare alle sue strategie e, secondo i rumors che circolano in ambienti finanziari, potrebbe dare il via
a un “domino” e sbloccare l'altra partita, quella con Mediaset. L'ad di Vivendi Arnaud de Puyfontaine ha avuto
occasione di dire che la quota in Telecom Italia «è un'opportunità» e potrebbe leggersi come un suo interesse a
partecipare alla piattaforma quadruple play cui già aderisce Sky ma il gruppo è uno dei protagonisti della partita per
le pay tv e, secondo indiscrezioni, l'interesse potrebbe estendersi anche alle tv in chiaro. «Vivendi - aggiunge ancora
Pier Silvio Berlusconi - si trova ad avere un business maturo e tantissima cassa: ha necessità di trovare nuove strade
di sviluppo puntando sui contenuti. E noi sui contenuti abbiamo una certa forza». Un'integrazione Sky-Premium
invece «ad oggi è una questione che non esiste», taglia corto il vicepresidente e ad Mediaset Pier Silvio Berlusconi.
«Con Sky non c'è nessuna trattativa aperta», sottolinea. «I buoni rapporti con la famiglia Murdoch ci sono sempre
stati, non c'è nessuna novità su questo fronte», ma «non siamo venditori». «Siamo più che contenti dell'ingresso di
Telefonica: la nostra strada è l'apertura a partner di tipo industriale, ma non siamo venditori», insiste il
vicepresidente e a.d Mediaset rispondendo alle domande dei cronisti a margine della presentazione della nuova
offerta pay a Portofino. Se un rimpianto c'è riguarda Telecom. L'alleanza «poteva essere una grande opportunità, ma
il momento è passato: è stata la politica a rendere poco opportuna una partnership che sarebbe stata fortissima, non
solo per le due aziende, ma per tutto il Paese».
SULLA BASE DEI CONTENUTI DELL’ARTICOLO E DELLE POSSIBILI CONVERGENZE E POTENZIALI SINERGIE TRA GLI
ATTORI CITATI, CHE COSA – SECONDO TE - HA IN MENTE MEDIASET PER IL SUO FUTURO? ESISTONO OPZIONI
STRATEGICHE ALTERNATIVE?
5
Aeroporto di Trieste troppo debole per stringere alleanze – MESSAGGERO VENETO, 13.6.2015
RONCHI DEI LEGIONARI Il nuovo collegamento Trieste-Barcellona realizzato da Vueling – mercoledì e sabato da oggi
e sino al 12 settembre con la possibilità di volare da El Prat in connessione verso altre 65 destinazioni – è il primo
passo, strategico, compiuto dalla nuova governance dell’aeroporto del Friuli Venezia Giulia, guidata da poco più di
un mese da Antonio Marano, per provare ad aumentare il volume di traffico dello scalo regionale. Un primo step
compiuto dall’erede di Sergio Dressi che, nelle prossime settimane, incontrerà anche i vertici di Alitalia per capire
quale ruolo avrà l’aeroporto Savorgnan di Brazzà all’interno dei piano di rilancio varato recentemente dalla
compagnia di bandiera italiana. In stand-by invece, almeno per il momento, la possibile alleanza con Save – società
gestore degli scali di Venezia, Treviso e Brescia – perché per Marano non ci si può sedere al tavolo delle trattative
partendo dall’attuale situazione di debolezza dell’hub friulano. «Prima di tutto dobbiamo fare i compiti a casa – ha
spiegato il presidente – e poi potremo pensare alle sinergie. Un conto è stringere alleanze con un pacchetto di rotte
ben definito, un altro è sedersi a trattare da quella posizione di oggettiva debolezza in cui si trova, attualmente, lo
scalo di Ronchi dei Legionari. La realtà è sotto gli occhi di tutti: i grandi hub ormai sono tutti accomodati, c’è in atto
un progetto di alleanze per gli scali di secondo livello e dobbiamo essere preparati. I tempi, senza dubbio, li detta
l’azionista, ma noi abbiamo il dovere di spiegare se e quanto siamo pronti». Fondamentale in questo senso, per
Marano, sarà la realizzazione del polo intermodale. «Ormai ci siamo – conferma -: sono state già raccolte le offerte
preliminari, entro un paio di mesi sarà definita la gara per l’assegnazione dei lavori e contiamo di posare la prima
pietra dei cantieri entro sei mesi». Quali saranno i tempi? «Due anni al massimo, al termine dei quali l’aeroporto sarà
il primo a essere collegato direttamente alla ferrovia». Bisogna rafforzare lo scalo, dunque, e in questo senso
l’accordo con Vueling – che non vola su Lubiana e può quindi attrarre una fetta di clientela slovena – può essere
molto positivo, soprattutto se inserito all’interno del sistema delle crociere. «La correlazione tra passeggeri e
crocieristica – ha concluso Marano – è un dato acclarato ed è per questo che Ronchi dei Legionari può e deve
diventare anche un volano per la crescita del porto di Trieste, soprattutto in virtù della collaborazione con Costa
crociere. Il nostro, ormai, è un sistema che deve muoversi all’unisono. Noi dobbiamo fare la nostra parte, i porti la
loro e Turismo Fvg deve dirci quali sono i mercati e i target di riferimento da aggredire».
IL FUTURO DELL’AEROPORTO DEL FVG APPARE, DALLA LETTURA DELL’ARTICOLO, DIPENDERE DALLE SCELTE DI
ALITALIA E SAVE. SULLA BASE DELLE POSSIBILI DECISIONI DI QUESTE DUE AZIENDE, RIESCI A FORMULARE DUE
POSSIBILI SCENARI STRATEGICI PER RONCHI? IN CHE SENSO, L’AEROPORTO E’ TROPPO DEBOLE PER STRINGERE
ALLEANZE? QUESTO SIGNIFICA CHE NON CI SARANNO ALLEANZE? CROCIERISTICA E TURISMO: SONO QUESTE LE
UNICHE PROSPETTIVE PER ALLARGARE IL MERCATO DELL’AEROPORTO?
6
Il mea culpa di Alitalia sulla Milano-Roma – REPUBBLICA.IT 5.6.2015
"Solo un imprenditore miope poteva non accorgersi di quello che sarebbe successo con l'alta velocità sulla Milano-
Roma. Bastava vedere cosa era successo in Francia con il Tgv e in Spagna con l'Ave. La gallina d'oro non c'era più".
Con queste parole l'amministratore delegato di Alitalia, Silvano Cassano, durante la conferenza stampa di
presentazione della nuova livrea del gruppo a Malpensa ha ammesso gli errori del passato che hanno portato l'aereo
a perdere quote di mercato verso il treno sulla rotta tra le più redditizie d'Europa. Proprio nella giornata, per altro, in
cui Trenitalia inaugura la flotta di nuovi treni che dovrebbero abbassare ancora il tempo di percorrenza tra le due
principali città italiane. "Per questo il nostro piano strategico prevede di rafforzare le rotte a lungo raggio - ha
spiegato Cassano - e in quest'ottica l'allenza con un gruppo come Etihad, che è perfettamente complementare al
nostro, rappresenta un perno fondamentale". Alitalia ha ogni intenzione di tornare a riappropriarsi di quegli spazi di
business che è stata costretta a cedere ad altri nel corso degli ultimi anni, ha aggiunto il manager. "Noi rispettiamo
gli accordi - ha detto Cassano - ma siamo determinati a riprenderci il traffico che abbiamo abbandonato nel passato.
Per questo abbiamo comunicato ad Air France che non intendiamo rinnovare l'accordo quando questo giungerà a
scadenza nel gennaio del 2017. E' un accordo squilibrato, che è stato firmato da un'Alitalia debole. Ora le cose sono
cambiate e non vogliamo più costringere i nostri passeggeri ad andare a Parigi o Amsterdam per poi raggiungere la
loro destinazione finale". Similmente Alitalia sta cercando di rinegoziare alcune clausole dell'accordo che la lega a
Delta Airlines per quanto riguarda le rotte verso le americhe. "Il nord e il sud America sono le nostre rotte prioritarie
- ha detto Cassano - e abbiamo la volontà di espandere la nostra presenza, ad esempio su San Francisco e Città del
Messico ma per far questo dobbiamo prima discutere con Delta. Per questo stiamo cercando di rinegoziare con loro
alcune clausole dell'accordo in modo da poter avere maggiore libertà d'azione". Quanto allo scalo varesino,
Malpensa è destinato ad essere "il nostro hub europeo per il cargo in Europa". Cassano ha spiegato: "L'Italia è il
secondo Paese industriale d'Europa, dobbiamo sviluppare il cargo, stiamo negoziando con Sea e siamo soddisfatti
degli sviluppi che vogliamo imprimere a questo aeroporto, per questo abbiamo disdetto il contratto con Air France".
COSA SPIEGA LA MIOPIA DI ALITALIA? CHE COSA AVREBBE DOVUTO FARE IN PASSATO? E CHE COSA INTENDE –
SECONDO TE – FARE OGGI PER RIPRENDERSI QUANTO PERDUTO? COSA NE PENSI DELLA DECISIONE DI NON
RINNOVARE L’ACCORDO CON AIRFRANCE? ERA UNA SCELTA OBBLIGATA?
7
Yahoo sull’orlo del baratro: così rischia di sparire uno dei portali pionieri di Internet LA STAMPA.IT 22/12/2015
Il ceo Marissa Mayer ha speso 3 miliardi in acquisizioni, ma non è riuscita a invertire la rotta. Secondo gli analisti nei
prossimi mesi ci sarà la resa dei conti.
La fine di Yahoo è vicina, “The end of Yahoo is near”. Chiunque fosse in grado di intendere e volere nell’anno 1995,
sarà rimasto scioccato da questo titolo, che lunedì mattina apriva le pagine economiche del quotidiano “Usa Today”.
Possibile che proprio Yahoo, il portale che ha introdotto miliardi di persone all’uso di internet, sia arrivato al
capolinea? Quando il suo domain era stato creato, il 18 gennaio 1995, impersonava la rivoluzione digitale, e adesso è
finito? Per anni Yahoo è stata la porta d’ingresso al web per miliardi di persone, ma ora, secondo molti analisti e
investitori, il gioco non vale più la candela. Non ha più una missione, oltre al traffico che ancora genera profitti
pubblicitari. Marissa Mayer, la Chief Executive Officer strappata a Google nella speranza che portasse con lei un po’
del carisma di Mountain View, ha speso 3 miliardi di dollari in acquisizioni, ma non è riuscita a dare una nuova
direzione alla compagnia. L’unica cosa che vale davvero è la partecipazione in Alibaba, e gli investitori si sono
stancati di buttare soldi nel pozzo senza fondo di una ristrutturazione che continua a fallire. Si è stancato soprattutto
“Starboard Value”, l’activist investor che ha deciso di fare i conti con il management. Quindi tra febbraio e maggio,
secondo “Usa Today”, ci sarà lo scontro finale. Gli investitori lanceranno una “proxy fight”, che cancellerà il consiglio
di amministrazione e l’intera dirigenza. Poi venderanno ciò che ancora vale qualcosa, incasseranno gli auspicati
profitti e andranno via. A quel punto Yahoo smetterà di esistere, almeno come l’abbiamo conosciuto fino ad oggi. Se
la previsione di “Usa Today” è giusta, lo vedremo dunque nel giro di qualche mese. Per chi era in circolazione nel
1995, la fine di Yahoo sarebbe uno choc. Ma il 1995 era la preistoria di internet, quando esistevano ancora Altavista,
Netscape, Compuserve, e anche i dinosauri sono scomparsi dalla Terra.
DOMANDE.
Secondo te, la crisi di Yahoo è anche frutto anche dell’evoluzione del contesto tecnologico e competitivo degli
ultimi anni?
Neppure Marissa Meyer sembra aver saputo rilanciare Yahoo. Ritieni che il suo insuccesso sia determinato
principalmente da una “cattiva” formulazione della strategia oppure anche da fattori interni di inerzia?
A seguito della imminente “proxy fight”, quali saranno i “possibili futuri” di Yahoo?
8
Rcs, nel piano industriale utile dall'anno prossimo: 60 milioni di tagli al 2018 REPUBBLICA.IT 21.12.2015
Rcs prevede nel piano industriale 2016-2018 di raggiungere un risultato netto positivo dal primo anno con ricavi
annui in crescita dell'1,5% ed efficienze nette per 60 milioni, 45 dei quali intervenendo su costi esterni e circa 15
connessi al costo del lavoro. Lo annuncia una nota. In particolare, via Solferino prevede nel piano "dismissioni" con
una "razionalizzazione" del portafoglio di asset non core, non funzionali al core business o non performanti,
"attraverso vendita al giusto prezzo, creazione di sinergie o semplificazione, costante verifica delle prospettive
economico-finanziarie". Oltre alla spagnola Veo, già prevista, si indica anche Sfera, l'unità del gruppo con
pubblicazioni periodiche su prima infanzia e nuove famiglie. In dubbio anche il futuro di Gazzetta Tv: "Faremo le
nostre valutazioni, vedremo come valorizzarla, la exit strategy sarà la migliore che potremo trovare per valorizzare
l'asset e faremo il possibile per trasferire questa piattaforma al mobile" ha detto l'ad di Rcs Laura Cioli spiegando poi
che il futuro di Rcs Sport non è in discussione. Nel dettaglio, Rcs prevede a piano iniziative di sviluppo nelle aree ad
alta potenzialità di crescita con focus sugli eventi sportivi, in particolare ciclismo e corsa. A medio termine valuterà,
spiega una nota, "opportunità di ulteriore sviluppo strategico anche attraverso partnership selezionate, il cui impatto
non è attualmente incluso a piano". Tra le iniziative di sviluppo Rcs cita poi l'audience internazionale di lingua
spagnola e una "trasformazione data-centrica", con conoscenza e profilazione dell'audience. Il gruppo prevede
anche l'introduzione di "nuovi modelli di abbonamento e paywall per monetizzare in modo adeguato i contenuti,
conoscere e finalizzare il lettore". Rcs intende quindi introdurre un paywall parziale (metered paywall) per l'edizione
online del Corriere della Sera entro fine gennaio. "I contenuti ad alta qualità devono essere pagati - ha detto l'ad Cioli
-. È molto importante anche per l'Italia sperimentarlo, noi saremo i primi a farlo". Per Rcs sarà importante, ha
spiegato, per l'impatto sui ricavi, ma anche per fidelizzare e profilare i lettori. Gli interventi sul costo del lavoro
previsti da Rcs nell'ordine dei 15 milioni di euro nell'arco di piano saranno il risultato, spiega l'azienda, di una
riduzione lorda di circa 40 milioni tramite "right-sizing delle funzioni corporate e di supporto e semplificazione dei
processi, ricorrendo anche ad accordi sindacali", "compensata da andamento inerziale e nuove assunzioni per circa
25 milioni". Al terzo anno di piano il flusso netto di cassa cumulato è previsto a 95-100 milioni. L'impatto delle
dismissioni nei tre anni è stimato a 110-120 milioni. L'utile netto è stimato nell'ordine dei 40 milioni di euro a fine
piano con un margine operativo lordo a 140 milioni e al 13% dei ricavi, escluse le componenti non ricorrenti. A fine
2015 il mol è atteso a 70 milioni (7% dei ricavi). Considerando anche gli investimenti e senza componenti
straordinarie il mol al 2018 è visto sopra i 110 milioni (25 a fine 2015). L'indebitamento netto è visto scendere a 290
milioni al 2018, con un rapporto di due volte il mol (escluse componenti non ricorrenti), rispetto al dato sotto i 500
milioni atteso quest'anno, e sotto i 400 milioni nel 2016.
DOMANDE.
In sintesi, quali sono le 5 principali linee di azione su cui si articola il piano strategico 2016-2018 di RCS?
RCS intende introdurre nuovi sistemi di pricing dei contenuti editoriali, specialmente sul canale online. Di cosa si
tratta?
Quali sono le convergenze in atto nel settore dell’editoria? Come conseguenza, per Rcs si potrebbe aprire la
strada a future alleanze e/o forme di consolidamento?
9
Aeroporto FVG: voli per l’est europa e più charter per l’estate. IL PICCOLO 13.12.2015
«Vogliamo che i friulani, al bivio dell’autostrada a Palmanova, svoltino a sinistra per arrivare a Ronchi e imbarcarsi su
un aereo e non vadano più a destra, verso Venezia o Treviso». La mission di Antonio Marano e Marco Consalvo,
vertici della società Aeroporto, nominati dalla Regione in questo turbolento 2015, che ha visto la definitiva uscita di
scena dell’ex presidente Dressi e del pagatissimo ex dg Stradi, è ambiziosa. Recuperare traffico (prima di tutto gli
udinesi e i pordenonesi) sullo scalo regionale, portare in attivo i bilanci, sistemare una struttura obsoleta, rendere
appetibile lo scalo, magari in vista di una possibile privatizzazione. Il direttore generale Marco Consalvo, 48 anni, non
si fa certo spaventare dall’impresa. Da manager a Napoli ha consentito a quell’aeroporto di raddoppiare i passeggeri
(da 2,5 milioni a 5 milioni). Lui non guarda ai successi del passato, è consapevole che il lavoro in Friuli Venezia Giulia
sarà tanto (gli hanno lasciato solo macerie, dicono i bene informati), ma la strategia in gran parte è delineata, adesso
dovrà essere rifinita, perfezionata, cesellata. Una strategia che non lascerà nulla al caso, e che sarà connotata da una
parola d’ordine: determinazione. Ingegner Consalvo, quali sono le basi del rilancio? «L’aeroporto deve stare e
muoversi sul mercato, in uno scenario che vede dei competitor ben attrezzati. Penso a Venezia, Verona, Lubiana. La
struttura dello scalo deve essere dimensionata sui collegamenti aerei: più servizi, più voli. Altrimenti non reggiamo».
Il traffico passeggeri continua a fare fatica. Dall’estate in poi è tornato il segno meno... «Novembre e dicembre sono
migliori. Novembre lo abbiamo chiuso con un più 4,4% rispetto allo stesso mese del 2014, dicembre potrebbe fare
ancora meglio, ci sono i collegamenti di fine anno per Barcellona. A fine 2015 stimiamo 745 mila passeggeri, con un
progresso dello 0,6%, circa 5 mila in più rispetto all’anno precedente. Numeri piccoli, ma pur sempre un segnale. Il
target che ci siamo dati per il 2016 è un più 5 per cento tra arrivi e partenze. Ma è un target cautelativo». Per
ottenere tale risultato c’è da allargare l’offerta. «Noi dobbiamo rappresentare un punto di riferimento per il turismo
e ci stiamo muovendo in più direzioni. Credo che l’Est Europa abbia potenzialità forti per questo scalo. C’è la Polonia,
un mercato molto interessante, Praga, Budapest, la Russia. E ancora Romania e Albania, per i viaggiatori cosiddetti
“etnici”». Tante compagnie hanno però già definito le rotte per la prima parte del 2016, mentre qui è necessario
invertire subito la tendenza negativa. «Certo, lo sappiamo. Per il 2016 potremo agire sui charter estivi, qui si può
lavorare con efficacia. E’ una finestra che si può utilizzare per nuove rotte con la Grecia e la Croazia, destinazioni
turistiche per eccellenza. E poi c’è la crocieristica, qui potremmo intercettare alcuni voli anche dalla Russia e dal
Nord Europa. Attualmente, sul fronte crociere, c’è un’eccedenza di traffico su Venezia e una carenza su Ronchi.
Proveremo a riequilibrare le cose». Poi ci sono le tre compagnie tradizionali: Alitalia, Lufthansa, Ryanair. Cambierete
approccio? «Con Alitalia vogliamo capire se è possibile aumentare la frequenza da e per Roma, in modo da facilitare
le connessioni con il resto del mondo. E vale un po’ lo stesso per Lufthansa su Monaco di Baviera. Con i dirigenti
commerciali di Ryanair abbiamo in agenda un appuntamento già la prossima settimana. Credo che ci siano margini di
sviluppo per la low cost irlandese, sia per tratte nazionali che internazionali. Anche se dovessimo perdere Alghero,
per il disimpegno di Ryanair con la Sardegna, troveremo altre rotte interessanti». Resterebbero però poche le linee
aeree che gravitano sul Fvg... «Cercheremo di introdurre nuove compagnie, tenendo conto dei mercati target ai quali
ho accennato prima. Ma i nomi, per adesso, sono prematuri». Puntare molte carte sul turismo significa avere una
sinergia strettissima con TurismoFvg. A che punto siamo? «Attendiamo loro indicazioni, la loro visione. Ci siamo già
parlati, abbiamo avuto contatti. Ci piacerebbe avere rapporti sempre più stringenti e proficui. Collaborare con
TurismoFvg diventa vitale, ma alcuni elementi sono da mettere a posto». Da anni tiene banco il tema di Venezia sì,
Venezia no. Sono possibili alleanze vere, o è solo pourparler? «Le alleanze si fanno a bocce ferme. Ed è un’ipotesi
che va affrontata quando il nostro scalo sarà in grado di camminare con le proprie gambe, di stare sul mercato
globale con un ruolo forte e delineato. Ci servono tre anni di lavoro per valutare ciò che faremo. Alla fine spetterà al
socio unico, alla Regione, decidere se allearsi, se restare da soli perché l’aeroporto è un asset strategico o se
privatizzare».
DOMANDE.
Il nuovo direttore generale ha diverse idee per il rilancio dell’aeroporto. Quali ostacoli prevedi per la loro
realizzazione?
Sono anni che si parla di sinergia stretta tra Aeroporto e TurismoFvg. Perché finora questa sinergia non ha
funzionato? Questa integrazione avrebbe senso anche in uno scenario di “privatizzazione” dell’aeroporto?
Cosa intende Consalvo quando dice “Le alleanze si fanno a bocce ferme”?
10
«Così illycaffè resterà indipendente» Parla il presidente Andrea Illy: «Piano strategico per
raddoppiare i ricavi in dieci anni. 300 nuovi punti vendita» Il Piccolo 2015-08-05
Raddoppio dei ricavi in dieci anni, raddoppio a 600 dei punti vendita monomarca, ampliamento della gamma dei
prodotti: illycaffè reagisce alla corsa alle concentrazioni sul mercato mondiale del caffè e lancia il guanto di sfida ai
big del settore. «Puntiamo su una crescita sostenibile per restare indipendenti», spiega il presidente e AD Andrea
Illy. Il bond da 70 milioni di euro annunciato al mercato consentirà all’azienda triestina di affrontare con le proprie
risorse il rapido consolidamento dell'industria mondiale di settore che oggi vale 80 miliardi di dollari. Il bond,
interamente sottoscritto da Pricoa Capital Group, potrà essere esteso dalla società fino a un massimo di 140 milioni
di dollari. Munizioni utili - spiega Andrea Illy - per «garantirci una maggiore flessibilità finanziaria per sostenere i
nostri progetti di sviluppo». Ogni giorno, 7 milioni di tazzine vengono servite con la miscela del caffè illy. La corsa alle
concentrazioni nel mondo del caffè è appena iniziata: «In uno scenario dove si stanno muovendo prede e predatori -
spiega Andrea Illy - ci garantiamo la sostenibilità finanziaria puntando sulla qualità piuttosto che sulla quantità». Lo
scenario competitivo è in movimento: «Il segmento del caffè tradizionale, che pesa per l’85% sui consumi a livello
mondiale, subisce la concorrenza del mercato delle monodosi (cialde e capsule). Per questo le imprese che non sono
forti nei sistemi porzionati, un business ipercompetitivo con molte barriere all’ingresso anche di natura tecnologica,
sono costrette a cercare linee di crescita esterna per evitare di trasformarsi in prede». Un rischio che non corre
illycaffè. Il piano strategico dell’azienda triestina, sottolinea Andrea Illy, avvalora la decisione, su consiglio
dell’advisor Roland Berger, di scartare l’opzione della quotazione in Borsa: «Siamo una azienda di famiglia. Così
proteggiamo il sogno del fondatore Francesco Illy (l’azienda è nata nel 1933) di produrre il più importante marchio
del caffè di qualità nel mondo». Illy delinea così una strategia di crescita che punta sull’individuazione dei migliori
bar, alberghi e ristoranti in tutto il mondo (rappresentano il 20% dei consumi totali di caffè) per aumentare le quote
di mercato. La società sta anche cercando di spingere nel settore del consumo domestico di alta qualità lanciando il
guanto di sfida alle capsule Nespresso sponsorizzate da George Clooney. Un modello di business (custumer solution)
per offrire il miglior servizio al consumatore ampliando la gamma dei prodotti (non solo capsule) e delle macchine
per il caffè (come la nuova Moka con il design di Alessi): «Siamo la marca di caffè più globale al mondo. Il piano
prevede il raddoppio a quota 600 dei nostri punti vendita monomarca con nuovi sistemi in distribuzione selettiva a
rivenditori indipendenti ma selezionati». Illycaffè non sta a guardare. I conti confermano una ripresa in atto. Nel
2014 illycaffè ha realizzato un fatturato consolidato di 391 milioni (+4,5%), un Ebitda di 62 milioni (+15%) e un balzo
del 50% dell’utile netto a quota 12 milioni dai 7,8 dell’esercizio precedente. In miglioramento la posizione finanziaria
netta dai 112 milioni di euro nel 2013 ai circa 97 milioni nel 2014. E anche il 2015 conferma il trend positivo: «Un
elemento fondamentale di questa strategia-chiarisce Andrea Illy- proviene da indicatori finanziari in ulteriore
miglioramento per quanto riguarda livello del debito e redditività». A livello di gruppo il fatturato ha raggiunto i
429,5 milioni di euro (in crescita del 4,5% sul 2013) con un margine operativo lordo di 62 milioni e un utile netto di 5
milioni. Il valore aggiunto di illycaffè, a livello consolidato, è stato pari a 137,4 milioni di euro (+11,4% rispetto al
2013) ed è stato tutto reinvestito all’interno dell’azienda.
DOMANDE.
Il settore mondiale del caffè è popolato da tanti piccoli torrefattori, ma anche da grandi imprese come Lavazza,
Nestlè, Starbucks. In che modo le caratteristiche strutturali del settore del caffè stanno orientando le strategie
delle imprese che vi operano?
Entro questo scenario, illy è ancora un operatore di medie dimensioni: quali ritieni siano i presupposti affinché
l’impresa triestina possa continuare ancora per lungo tempo la sua strada di successo in questo scenario?
Secondo te, a quali rischi è esposta l’impresa?
Nello specifico, quali sono le opportunità e i rischi derivanti dal rafforzamento della presenza “retail”, attraverso
il raddoppio dei punti di vendita monomarca?
11
Il piano di Icg per Valcucine: la tradizione si fa internazionale Monitor di Venezie Post, 11 gennaio 2015
Cambio al vertice per Valcucine: la maggioranza della storica azienda di Pordenone, fondata quasi 35 anni fa dai soci
Giovanni Dino Cappellotto, Gabriele Centazzo, Franco Corbetta e Silvio Verardo, verrà infatti acquisita dalla holding
industriale Italian Creation Group (Icg) di Giovanni Perissinotto e Stefano Core, attiva nei settori dell’home design e
del personal lifestyle. L’obiettivo dell’accordo, in base al quale Core e Perissinotto assumeranno la direzione di
Valcucine, è di rafforzare la presenza del marchio pordenonese di cucine di alta gamma in Italia e soprattutto
all’estero attraverso investimenti economici e sul personale; i fondatori, che resteranno soci di minoranza,
contribuiranno a questo processo. In particolare Gabriele Centazzo si occuperà di supportare Icg nelle attività di
comunicazione e posizionamento del brand, occupandosi degli aspetti relativi all’innovazione e all’ecosostenibilità, da
sempre una delle cifre della produzione dell’azienda friulana. Sempre Centazzo seguirà l’evoluzione dei prodotti
Valcucine sotto il profilo della ricerca tecnica, ingegneristica e stilistica. L’accordo punta ad avviare una nuova fase di
sviluppo per l’azienda pordenonese, che ha chiuso il 2013 con un fatturato di circa 36 milioni di euro e da sempre
caratterizza la sua produzione per il connubio tra estetica, creatività, soddisfazione dell’utente e funzionalità, con una
particolare attenzione al rispetto per la natura. Nell’impostazione di Valcucine, l’innovazione tecnologica deve dare
risposte sia alle esigenze dei clienti, sia alle necessità dell’ambiente, attraverso prodotti realizzati puntando all’uso
consapevole delle risorse ambientali e al risparmio delle materie prime. L’obiettivo di Icg e Valcucine è valorizzare,
attraverso l’intesa, il patrimonio di competenze e risorse umane della società e le risorse industriali del territorio,
fattori caratteristici dell’eccellenza made in Italy. Per Icg l’acquisizione della maggioranza di Valcucine rientra infatti in
un progetto più ampio di valorizzazione di marchi caratteristici della creatività italiana: si tratta della seconda
operazione di questo tipo, dopo l’acquisizione, nel 2013, della maggioranza dell’azienda di design Driade. La holding di
Core e Perissinotto punta a creare una rete di sinergie tra le diverse realtà industriali controllate, per supportare al
meglio i singoli brand, mantenendone comunque l’autonomia, l’identità di prodotto e il posizionamento di mercato
nel segmento alto di gamma. Il tutto con l’obiettivo di costituire un gruppo con la massa critica necessaria per poter
competere efficacemente sui mercati internazionali. L’internazionalizzazione, si sa, rappresenta una delle sfide più
importanti per le piccole e medie imprese italiane, cuore del tessuto produttivo del Paese: pur potendo contare su
una profonda conoscenza dei prodotti e su una grande attenzione alla qualità e alle tradizioni, molte di queste aziende
non sono infatti in grado di affrontare adeguatamente lo sbarco sul contesto internazionale. Servono processi
d’innovazione che spesso sono complessi da mettere in pratica: ed è in questo quadro che Icg si propone alle aziende
del made in Italy come partner specializzato nell’internazionalizzazione, per aiutarle a sfruttare appieno le
opportunità offerte dai mercati esteri. Rientra in questa strategia anche l’apertura, a inizio 2014, della filiale
americana IcGroup Usa, a New York, che si occupa proprio del posizionamento, della distribuzione e della vendita dei
prodotti delle aziende controllate per i mercati delle Americhe.
DOMANDE.
Dal punto di vista di Valcucine, quali possono essere i vantaggi derivanti dall’ingresso nel suo capitale del fondo
Italian Creation Group?
Dal punto di vista di Icg, quali sono le ragioni di questa acquisizione?
Su un piano più generale, come giudichi il progetto strategico complessivo della holding di Core e Perissinotto?
Da dove dovrebbero derivare le sinergie tra le società da essa controllate? Quali consideri i possibili punti deboli
e/o i rischi di questa strategia?
12
Due gioielli al secondo la crescita senza freni del lusso di Pandora. Repubblica.it 17 novembre 2014
Negli stabilimenti di Gemmopoli, a mezz’ora da Bangkok, settemila operai-orafi lavorano per l’azienda danese,
quotata a Copenaghen, diventata un colosso grazie ai suoi “charms” (braccialetti) ma che oggi punta anche su anelli e
collane. Un successo che ha qualcosa di fenomenale quello di Pandora, il colosso danese che ormai da un quarto di
secolo ha delocalizzato in Tailandia. Produzione: più di due gioielli al secondo. L’anno scorso — un autentico record —
gli stabilimenti di Gemmopoli, mezz’ora da Bangkok, dove gli oltre settemila operai-orafi fanno anche i turni di notte,
hanno sfornato 79 milioni di monili, rispetto ai 54 milioni dell’anno precedente. Uno spettacolo la crescita vertiginosa
di questo marchio di gioielleria. Deve il suo successo al meccanismo dello storytelling: bracciali componibili con
centinaia di pendenti diversi che raccontano ricorrenze, simboleggiano gusti, rappresentano percorsi e scelte
individuali. Dunque, gioielli personalizzabili. Un successo in totale controtendenza: più morde la crisi, più charms
beneauguranti si vendono: delicati, teneri, romantici, retrò, spiritosi, di design, miniature in argento, in oro 14 carati,
in pelle, in vetro di Murano, tempestate di brillantini ma anche in semplice legno di teak, per tutte le tasche: il lusso
deve essere accessibile a (quasi) tutti. La novità dell’autunno, in gioielleria da novembre, per ora solo negli Usa, sono
Minnie, Topolino & friends: 25 modelli diversi di charms raffiguranti i personaggi Disney. E dopo i charms il boom
riguarda in queste settimane anelli, il cui fatturato è aumentato del 200 per cento nel secondo trimestre dell’anno. È
Thomas Nyborg, responsabile di Pandora Production Thailand, la più grande fabbrica di gioielli del Paese, a raccontare
come Pandora sia riuscita in pochi anni a diventare uno dei tre marchi di gioielleria leader al mondo per vendita al
dettaglio, con Tiffany e Cartier: «Produciamo anche orecchini, collane, anelli, pendenti; il boom lo si deve ai nostri
copiatissimi charms, che rappresentano da soli il 69,6 per cento dei ricavi. Siamo quotati alla Borsa di Copenaghen
dall’ottobre del 2010, lo stesso anno in cui abbiamo debuttato in Italia. I nostri gioielli sono commercializzati in
ottanta paesi diversi nei sei continenti, in 10.300 punti vendita. Il mercato più importante è rappresentato dagli Stati
Uniti, mentre l’Italia, dove pure abbiamo 800 punti vendita, come la Francia e la Russia, sono per noi mercati
emergenti». Il balzo in avanti c’è stato nel 2013, quando per la prima volta le nuove collezioni sono passate da due,
com’era tradizione, a sette l’anno. Dal 2012 al 2013 la quantità di gioielli prodotti è aumentata del 40 per cento,
facendo impennare il fatturato che l’anno scorso è stato di oltre un miliardo di euro, mentre quello del secondo
trimestre di quest’anno ammonta a 342 milioni di euro, con un incremento che sfiora il 32 per cento. «Combiniamo
competenze artigianali con tecnologie innovative — sottolinea Nyborg — Il nostro è un modello di business integrato
verticalmente: progettazione, produzione in casa, design, marketing globale, distribuzione diretta nella maggior parte
dei mercati». Significativa è anche la vocazione etica del marchio. Controllo ferreo sulla provenienza delle materie
prime, attenzione all’ambiente, tutela dei lavoratori e in particolare della condizione femminile sono le sue linee
guida.
DOMANDE.
Quali sono i tre principali fattori alla base del successo di Pandora?
Secondo te, il caso Pandora potrebbe rappresentare un modello strategico di riferimento per le imprese italiane
del settore (come – ad esempio – Morellato)? Con quali presupposti e con quali rischi?
Il modello Pandora prevede l’integrazione tra produzione e distribuzione al dettaglio. Quali sono i vantaggi e gli
svantaggi di questa strategia rispetto a modelli strategici alternativi, centrati sulla distribuzione al dettaglio
(retail), come ad esempio Stroili Oro?
13
Gruppo Illy verso i 500 milioni. Il 90 per cento dal caffè COMUNICAFFE’ 2016-02-08
MILANO – Lo scorso anno il fatturato consolidato del gruppo Illy è cresciuto di oltre 50 milioni, attestandosi intorno
ai 480 milioni. «E quest’anno – ha annunciato Riccardo Illy, presidente della holding di famiglia, a Il Sole 24 Ore –
dovremmo superare di slancio la boa dei 500 milioni». Per continuare a crescere il gruppo triestino ha scelto di
investire (per esempio nel retail e nel vino di Mastrojanni) e, dove è necessario di accelerare lo sviluppo, come nel
cacao di Domori, cercando un alleato che spinga verso una maggiore proiezione internazionale. Inoltre uno sviluppo
sostenibile del gruppo ha bisogno di allungare il debito e Illy lo sta rinegoziando per portarlo da una durata media di
7 anni a 15. Nel portafoglio brand del gruppo triestino ci sono il caffè premium illycaffè (pesa per il 90% dei ricavi), il
cioccolato finissimo Domori (circa 12 milioni, +18%), i tè selezionati di Dammann Frères (stima di 33 milioni), marron
glacès e confetture di Agrimontana (Illy ha una partecipazione del 40%) e il Brunello e il rosso di Montalcino della
cantina Mastrojanni (2 milioni di ricavi) . «Il business del caffè va molto bene – ha spiegato Illy a Il Sole 24 Ore –
Inoltre continua il processo d’internazionalizzazione con una maggiore spinta all’export, siamo al 68%, e l’apertura di
negozi». Nel 2015 illycaffè ha inaugurato nel mondo 26 negozi, di cui 5 a gestione diretta. Il totale è oggi a 230 punti
vendita, compreso il flagship di piazza Gae Aulenti a Milano, a Porta Nuova. Inoltre illycaffè ha aperto (con i format
Shop, Caffè ed espressamente) 6 negozi in Cina, 5 in Corea, 3 negli Stati Uniti e diversi altri tra Oman, Italia, Spagna,
Olanda e Marocco. Ma come reagisce il gruppo Illy al processo internazionale di concentrazione? «Parlerei più di
polarizzazione che di concentrazione – risponde Illy – Noi siamo fuori, ma certo non sottovalutiamo la situazione. Il
nostro obiettivo è avere una miscela da offrire nei quattro ambiti di consumo: casa, fuori casa, lavoro e strada». Poi
l’imprenditore annuncia, a sorpresa, il rilancio dell’alleanza nell’espresso con capsule con Kimbo, partner con il quale
già nel settembre del 2013 era stata lanciata una macchina espresso per capsule che doveva scavarsi una nicchia in
un mercato stradominato da Nespresso e Lavazza. Nel vino la Mastrojanni di Montalcino ha rilevato recentemente
un ettaro a Brunello e oggi dispone di 33 ettari, di cui 17 a Brunello. La società agricola sta investendo 1,2 milioni per
inaugurare a giugno il relais, con un parte delle stanze che alla fine saranno 6 più 5 suites. A proposito nel 2015
l’azienda di Montalcino ha venduto 112mila bottiglie, con ricavi per oltre 2 milioni e un balzo, a valore, del 33,5%.
L’obiettivo è quello di arrivare, con i nuovi vigneti e l’introduzione del ciliegiolo, a 150mila bottiglie. Quanto a Domori
continua la ricerca di un partner «che dovrà avere – sottolinea Illy – un profilo commerciale e industriale e che
produca valore per entrambi. A oggi i contatti sono in corso con due candidati: uno italiano e uno francese. Entro
l’anno dovremmo chiudere l’accordo: il partner rileverà una quota di minoranza di Domori, molto piccola». Infine il
capitolo del debito: nel 2014 la posizione finanziaria netta del gruppo Illy era di 169 milioni e nel 2015 è lievemente
cresciuta. «Il problema non è certo il debito – precisa l’imprenditore – quanto trovare banche disposte ad allungarlo
oltre i 7 anni: il problema è molto diffuso ed è uno dei nodi da sciogliere del nostro sistema creditizio. Gli istituti
vanno oltre i 7 anni soltanto se hai un immobile da ipotecare». E poi Illy conclude ricordando di aver trovato persino
una banca slovena disposta a un finanziamento fino a 20 anni..
DOMANDE.
Perché per accelerare lo sviluppo di Domori il gruppo Illy ha bisogno di un alleato? Se l’obiettivo è dare una
proiezione internazionale a Domori, non è sufficiente far leva sulla già significativa presenza internazionale del
gruppo Illy?
In che modo la questione dell’indebitamento può avere delle implicazioni sulle strategie del gruppo Illy?
Riccardo Illy parla di “polarizzazione” del settore del caffè e dice “noi siamo fuori, ma non sottovalutiamo la
situazione”. Cosa intende dire?
14
Gli Agnelli puntano anche sul petrolio. IL PICCOLO 2016-02-11
MILANO. Dopo gli investimenti nell'editoria con l'aumento al 43% della quota nell'Economist e nelle riassicurazioni
con la conquista di PartnerRe, la holding della famiglia Agnelli spende ora 103,3 milioni per acquisire il 13% di
Welltec, società danese attiva nel campo delle tecnologie robotiche per l'industria petrolifera. A Piazza Affari sprint
del titolo che chiude a 25,36 euro (+7,41%). L'operazione rientra nella strategia di investimento di Exor che «include
anche - ricorda la società presieduta da John Elkann - l'acquisizione di quote di minoranza in società dotate di alto
potenziale di crescita, con l'obiettivo di sostenere imprenditori di talento nella realizzazione dei loro piani di
sviluppo». La decisione di investire nel settore petrolifero sembra una mossa in controtendenza con l'andamento
delle società petrolifere. In realtà è proprio il crollo del prezzo del petrolio a rendere gli investimenti nel settore
molto convenienti, mentre i cambiamenti strutturali stanno facendo emergere nuove opportunità. Le società del
settore hanno manifestato l'esigenza di tagliare gli investimenti e di estendere il ciclo di vita dei pozzi già in funzione.
DOMANDE.
Qual è, per Exor, la logica generale di questi investimenti diversificati, che comprendono anche partecipazioni
storiche in FCA (Fiat-Chrysler) e CNH (Case-New Holland)?
Che ruolo ha Exor nella gestione del suo portafoglio di investimenti?
Nell’articolo si dice: “è proprio il crollo del prezzo del petrolio a rendere gli investimenti nel settore molto
convenienti, mentre i cambiamenti strutturali stanno facendo emergere nuove opportunità”. Cosa significa? Sei
d’accordo?
15
La lettera di Fink ai top manager «Pensate meno al breve termine».CORRIERE.IT 2016-02-02
Per gli amministratori delegati e le aziende quotate che essi guidano, è tempo di un radicale cambio di approccio:
devono abbandonare la culture del breve termine che troppo spesso domina le loro scelte, «l’isteria degli utili
trimestrali», e concentrarsi molto di più sulle strategia di crescita nel lungo periodo. Ma in modo ancora più urgente,
i manager e i consigli di amministrazione dovrebbero cambiare un aspetto specifico di questa cultura: l’eccesso di
dividendi azionari in proporzione agli investimenti e, soprattutto negli Stati Uniti, un netto colpo di freno all’uso della
cassa aziendale per il riacquisto di azioni. È un programma ambizioso, ma articolato da quella che forse è la
personalità del settore privato più autorevole e influente sui mercati finanziari oggi: Larry Fink, presidente e
amministratore delegato di BlackRock. Con 4.600 miliardi di dollari in gestione dalla clientela e 135 squadre di
investitori in tutto il mondo, BlackRock è da tempo il più grande protagonista sui mercati globali. In molti Paesi, fra i
quali l’Italia, è il primo fra i primissimi azionisti delle aziende quotate sui listini principali. Non c’è quasi blue chip di
Piazza Affari che non veda il gruppo di Larry Fink fra i primi soci. Per questo l’appuntamento annuale di questi giorni,
la lettera di Fink ai Chief Executive Officers delle migliaia di grandi aziende di cui BlackRock è socia, non è solo una
formalità. Nella missiva di quest’anno, che presentiamo qui nella sua versione originale in esclusiva per l’Italia, il
leader del più grande gestore del mondo non si nasconde dietro frasi diplomatiche nel puntare il dito su quelle che a
suo avviso sono le distorsioni di Wall Street: «I dividendi pagati dalle aziende dello S&P 500 (il listino principale della
Borsa di New York, ndr) nel 2015 sono arrivati alla proporzione più elevata degli utili dal 2009». Questo rischio di
eccesso, secondo le analisi di BlackRock, è presente anche in Europa. Negli Stati Uniti poi si è diffusa sempre di più
un’altra caratteristica che penalizza gli investimenti e i piani di crescita delle imprese nel lungo periodo: «Al terzo
trimestre del 2015, i riacquisti di azioni sono cresciuti del 27%», rispetto a un anno fa. L’obiettivo, comprensibile, è di
restituire cassa agli azionisti sostenendo i titoli in Borsa. Ma, avverte Fink, non deve accadere «a spese degli
investimenti che creano valore. Per questo BlackRock chiede alle tante grandi aziende di cui è azionista di adottare
un approccio diverso. «Ciò di cui hanno veramente bisogno gli investitori e le altre parti interessate - scrive Larry Fink
- è una prospettiva sul futuro». I fronti sui quali i consigli di amministrazione devono fare chiarezza, si legge nella
lettera, sono quelli più rilevanti per i piani futuri: «Come l’azienda sta navigando nel panorama della concorrenza,
come sta innovando, come si sta adattando alle sfide della rivoluzione tecnologica o agli eventi geopolitici, dove sta
investendo e come sta sviluppando i suoi talenti». Non solo e, secondo Fink, non devono rimanere solo vuoti slogan:
«Le aziende dovrebbero lavorare per sviluppare parametri finanziari - adatti ad ogni impresa e ogni settore - che
sostengano una cornice di crescita di lungo periodo». La proposta di BlackRock è che anche i manager siano in parte
pagati in base a questi valori che vanno ben oltre i dati di un trimestre o di un anno. Il rischio secondo Fink, e il suo
monito agli amministratori delegati, è chiaro: «Senza piani chiaramente articolati, le aziende rischiano di perdere la
fiducia degli investitori - si legge -. Inoltre, le aziende si espongono alle pressioni di investitori concentrati nel
massimizzare i profitti di breve termine a spese del valore di lungo termine». Fink non propone di rinunciare all’uso
delle relazioni trimestrali. Ma queste devono diventare piuttosto un «elettrocardiogramma» di una strategia di lungo
respiro, senza l’ossessione degli utili per azione e delle previsioni a loro riguardo. Quanto a questo, taglia corto Fink,
«invitiamo le aziende a distogliersi dal fornirle».
DOMANDE.
La lettera di Fink è rivolta alle imprese quotate. E’, dunque, una questione di modello di governance? Le altre
imprese (non quotate) sono immuni da questi problemi? O ne hanno di altri tipi?
La lettera di Fink è rivolta più ai manager o agli azionisti/investitori? Che cosa si aspetta dalle due categorie di
stakeholders?
Cosa intende – in concreto - Fink quando propone che “anche i manager siano in parte pagati in base a questi
valori”?
Apple vuole diventare operatore virtuale, ma poi arriva la smentita – LA STAMPA 4 AGOSTO 2015 -Controllare
tutto, dall’hardware al software: è uno dei principi cui Apple non ha mai voluto rinunciare. E’ vero per i Mac, è vero
per l’iPod. Il dogma, attribuibile alla visione di Steve Jobs, nel caso di iPhone e iPad è diventato parte integrante della
narrativa pubblicitaria di Cupertino, un elemento utile per evidenziare la differenza fra la coerenza dell’ecosistema
Apple (e la sua natura chiusa, spesso oggetto di critiche) alla frammentazione di Android. Quando il vostro iPhone
invia un SMS, scarica una pagina web o effettua una chiamata, però, lo fa ancora attraverso la rete di un operatore
esterno, un soggetto terzo su cui Apple non esercita alcun controllo. A Cupertino lo sanno bene e stanno lavorando
per riuscire ad integrare anche quest’ultima area grigia. La soluzione, a meno che Apple non si metta a costruire
antenne e ripetitori, è una sola e passa per la creazione di un Mobile Virtual Network Operator (MVNO), in italiano
“Operatore virtuale di telefonia mobile”. Una rete controllata dall’azienda, insomma, cui collegarsi con una Apple
SIM. In pratica: Apple potrebbe offrire un proprio servizio di telefonia “affittando” spazio sulle reti di altri operatori
16
mobili. Nulla di rivoluzionario. Se avete mai inserito una SIM di PosteMobile o di CoopVoce nel vostro iPhone (giusto
per citarne un paio) avete già utilizzato un MVNO. Una soluzione talmente ovvia che le voci su un network Apple si
rincorrono ormai da anni, fin da quando, nel 2006, l’azienda registrò un brevetto che descriveva nel dettaglio proprio
l’implementazione di una rete virtuale di telefonia. Ora c’è di più: secondo le ultime indiscrezioni Apple avrebbe
avviato una fase di test avanzati negli U.S.A., con l’intenzione di estendere i propri piani anche all’Europa. Del resto i
vantaggi per l’utente iPhone sarebbero evidenti, perché il network Apple potrebbe offrire in ogni momento la
migliore ricezione disponibile e la connessione a Internet più veloce. L’utente potrebbe poi pagare il proprio
abbonamento direttamente dall’iPhone, come si paga un’app o una canzone scaricata da iTunes. Grazie ad un lauto
margine sull’hardware, inoltre, Apple potrebbe offrire piani tariffari altamente competitivi. L’avvio di una fase di test
non è ancora sufficiente a confermare che in futuro potremo usare i nostri iPhone su un network Apple. Le
dinamiche che governano i rapporti fra l’azienda e gli operatori sono molto complesse e potrebbe volerci ancora
qualche anno perché un carrier con il logo della Mela diventi realtà. Anche perché Cupertino deve persuadere AT&T,
Verizon e le controparti europee della convenienza di un modello di business basato sull’affitto delle reti e non più
sulla vendita di contratti a lungo termine agli utenti finali. Anche Google, nel frattempo, sta provando a battere la
stessa strada con Project Fi, un operatore virtuale disponibile solamente per Galaxy Nexus 6 negli USA. Segno che i
giganti del mobile vedono il mercato degli operatori di telefonia come una naturale area di espansione
futura. Aggiornamento del 4 agosto, ore 20.00: Apple ha smentito in maniera perentoria le voci sulla possibile lancio
di un proprio operatore virtuale di telefonia mobile. Una presa di posizione ufficiale da parte dell’azienda è una
curiosa eccezione ai no-comment che i portavoce Apple offrono solitamente in risposta alle richieste di commento
su indiscrezioni giornalistiche.
QUALI SONO I PRO E I CONTRO, PER APPLE, DEL DIVENTARE OPERATORE TELECOM VIRTUALE? COSA PENSI DELLA
SMENTITA DI APPLE?
17
Benetton, si apre la stagione delle scelte – IL PICCOLO, 31 AGOSTO 2015 - Ai piani alti del gruppo Benetton sono
stati in pochi a concedersi le ferie tra luglio e agosto. Al massimo qualche giorno in famiglia, ma con il cellulare
sempre acceso per eventuali necessità. Sono settimane cruciali per la famiglia di Ponzano Veneto, che sta cambiando
volto in maniera radicale al proprio perimetro di business. Nei giorni scorsi è stato perfezionato il passaggio del
50,1% di World Duty Free a Dufry, con il gruppo elvetico che ora deve affrontare l'Opa obbligatoria sulla quota
restante del capitale, con l'obiettivo di delistare la società italiana attiva nel travel retail, in particolare in ambito
aeroportuale. A questo punto Edizione, holding non quotata della famiglia Benetton con un valore degli asset
detenuti che supera i 10 miliardi di euro, si trova in pancia oltre 1,5 miliardi liquidi, pronti per nuovi investimenti. Dal
quartier generale non c'è voglia di sbilanciarsi in merito, anche se qualcosa filtra. Si è parlato di un coinvolgimento
dei Benetton nel risiko bancario che si sta aprendo dopo il decreto governativo che obbliga alla trasformazione in
Spa i primi nove istituti popolari, ma negli ultimi giorni questa prospettiva ha perso vigore. «L'ipotesi aveva una certa
credibilità nell'ottica di creare un polo veneto tra Banco Popolare, Popolare di Vicenza e Veneto Banca, ma oggi
l'unione a tre sembra di difficile realizzazione», spiega un analista. Più probabile che la famiglia veneta torni a
investire una parte importante della liquidità nell'immobiliare, che negli ultimi anni ha visto crollare i multipli nel
mercato italiano. Non è un caso se tutti i grandi gruppi internazionali del settore oggi mettono la Penisola ai
primissimi posti per le prospettive di investimento. Non è escluso che Edizione scelga di investire in accoppiata con
alcuni fondi sovrani, una strada già percorsa in passato con il fondo Gic di Singapore nell'avventura di Sintonia
(holding di partecipazioni infrastrutturali scioltasi da poco). Voci di corridoio raccontano inoltre di alcuni dossier
esaminati da Gilberto Benetton relativamente ad aziende manifatturiere italiane caratterizzate da una forte
vocazione internazionale. Le infrastrutture restano nel mirino, tanto che da più parti si vocifera di un possibile
interesse per London City Airport, uno scalo che sarà messo in vendita a settembre. Per Mediobanca Securities si
tratta di una preda interessante, a patto di spuntare multipli ragionevoli. Intanto proseguono i lavori anche per
quanto riguarda le partecipazioni già in pancia. Autogrill evidenzia da tempo limiti in termini di redditività nel
mercato interno e non è escluso che si decida per una scissione delle attività italiane da quelle estere. Dopo l'estate
è attesa la cessione del 30% di Aeroporti di Roma, che dovrebbe valorizzare a premio l'aeroporto (complessivamente
intorno ai 4 miliardi di euro). In divenire è anche il percorso del business dell'abbigliamento, che negli ultimi anni è
rimasto indietro rispetto ai concorrenti europei e che lo scorso anno è stato al centro di una riorganizzazione, con la
scissione di Benetton in tre rami: uno dedicato all'attività commerciale con in pancia i marchi (Benetton Group), uno
industriale (Olimpias Group) e l'ultimo immobiliare (con il nome di Schematrentanove). L'esercizio 2014 si è chiuso
con un risultato netto negativo di 16,8 milioni, contro il rosso di 138,26 milioni dell'anno precedente, a
dimostrazione del fatto che la riorganizzazione sta funzionando, ma non è sufficiente a recuperare il segno positivo.
Sicuramente si agirà ancora sul fronte della logistica, con l'obiettivo di velocizzarla, ma si ipotizzano anche accordi
con operatori internazionali e l'innesto di nuovi manager con esperienza nel ramo.
EDIZIONE STA CERCANDO DI DEFINIRE I CRITERI DI INVESTIMENTO PER I PROSSIMI ANNI. SUL PIANO GENERALE, CIOÈ
DEI PRINCIPI DI STRATEGIA APPLICATI A GRUPPI CONGLOMERALI COME EDIZIONE, CHE SUGGERIMENTI PUOI DARE?
18
Italcementi venduta ai tedeschi di Heidelberg – CORRIERE.IT 28 LUGLIO 2015 - Dopo oltre un secolo la famiglia
Pesenti esce a sorpresa da Italcementi. Il consiglio d’amministrazione di Italmobiliare, la holding presieduta da
Giampiero Pesenti, ha deciso di accettare l’offerta del gruppo tedesco Heidelberg per rilevare il 40% del gruppo in
cambio di 1,57 miliardi di euro e di una quota del capitale del primo produttore tedesco di cemento di cui la famiglia
Pesenti diventa il secondo socio. L’operazione prevede il lancio a Piazza Affari di un’offerta di acquisto e scambio
sulla quota residua di Italcementi, al prezzo di 10,60 euro per azione, lo stesso riconosciuto a Italmobiliare.
L’operazione segna un altro importante passo avanti nel processo di consolidamento in corso nel settore culminato
un mese fa con la maxi-fusione da 41 miliardi di euro tra i colossi Holcim e Lafarge. Una nota di Italmobiliare
aggiunge che il prezzo rappresenta un premio del 70,6% rispetto al prezzo medio ponderato di Borsa degli ultimi 3
mesi, per un valore complessivo di 1,666 miliardi di euro. Successivamente al closing dell’operazione,
HeidelbergCement sarà tenuta a lanciare un’Opa obbligatoria per cassa sul restante capitale di Italcementi al
medesimo prezzo pagato a Italmobiliare. L’accordo, come detto, prevede l’assegnazione a Italmobiliare, come parte
del corrispettivo di acquisto, di una quota del capitale di HeidelbergCement, a scelta di Italmobiliare, compresa fra il
4% circa e il 5,3% - tramite aumento di capitale riservato - che corrisponde a un controvalore di 560 e 760 milioni di
euro. Con questa partecipazione Italmobiliare diverrà il secondo azionista industriale di HeidelbergCement, con un
rappresentante all’interno del consiglio di sorveglianza. Italmobiliare, nell’ambito della stessa operazione, si impegna
ad acquistare da Italcementi le attività nel settore delle energie rinnovabili (Italgen) e nell’eprocurement
(BravoSolution), oltre ad alcuni immobili. Al closing dell’operazione, Italmobiliare potrà contare su circa 670-870
milioni di euro di cassa, in funzione della quota sottoscritta in HeidelbergCement. Il nuovo gruppo potrà contare su
una capacità produttiva totale di circa 200 milioni di tonnellate di cemento, 275 milioni di tonnellate di aggregati e
49 milioni di metri cubi di calcestruzzo, con un fatturato proforma 2014 di circa 16,8 miliardi di euro realizzato in
oltre 60 Paesi presenti in 5 continenti, sottolinea la nota. Il completamento dell’operazione subordinatamente alle
approvazioni da parte delle autorità antitrust è previsto entro il 2016. HeidelbergCement ha comunicato che
l’acquisizione sarà realizzata tramite un finanziamento ponte di 4,4 miliardi. Italcementi ha una capitalizzazione di
borsa di 2,3 miliardi contro i 13,3 miliardi di HeidelberCement. L’operazione rappresenta un multiplo di circa 11 volte
il margine operativo lordo del gruppo, contro operazioni simili nel settore condotte ad un multiplo compreso fra 6,7
e 8,9. «Un imprenditore sa che l’importante è garantire lo sviluppo futuro dell’attivitàpiù che arroccarsi nella
continuità del controllo dell’azienda», afferma Giampiero Pesenti, presidente di Italmobiliare. «Italcementi e
HeidelbergCement sono due società che operano in questo settore da ormai un secolo e mezzo. Questo lungo
cammino, con un solido bagaglio di conoscenza tecnica e imprenditoriale, viene ora messo in comune con una scelta
lungimirante per garantire continuità e crescita di entrambe le realtà», dice Pesenti. «La combinazione di
HeidelbergCement e Italcementi è ideale. Nel settore non esistono altri due maggiori gruppi con una tale
complementarietà geografica» spiega Bernd Scheifele, Ceo di HeidelbergCement. «Italcementi - aggiunge - con la
sua lunga tradizione, con i suoi marchi prestigiosi e la sua forte posizione in Italia e in altri mercati diventerà una
parte importante del gruppo HeidelbergCement. Unendo le forze saremo in grado di accelerare la crescita».
IL SETTORE DEL CEMENTO HA CARATTERISTICHE PECULIARI RISPETTO AD ALTRI SETTORI? QUAL E’ LA LOGICA DI
QUESTE OPERAZIONI DI CONSOLIDAMENTO? COSA INTENDE GIAMPIERO PESENTI QUANDO PARLA DI VANTAGGI DA
COMPLEMENTARIETA’ GEOGRAFICA TRA ITALCEMENTI ED HEIDELBERG?
19
Rilevato il 40% di L Capital, Calligaris ora è più italiana. La quota era stata ceduta nel 2007, il 60% era rimasto alla
famiglia manzanese. Nel 2013 (anno del 90º dell’azienda) il fatturato ha sfiorato quota 130 milioni. MESSAGGERO
VENETO, 1 giugno 2014
MANZANO. Il consiglio di amministrazione di Calligaris Spa, presieduto da Alessandro Calligaris, ha approvato
all’unanimità il progetto di bilancio, a pochi giorni di distanza dall’accordo per rilevare la quota del 40% di Calligaris
Spa, ceduta nel 2007 al fondo di private equity L Capital (gruppo Louis Vuitton Moet Hennessy) mentre il restante
60% era rimasto alla stessa famiglia Calligaris. Dopo sette anni di proficua convivenza, visti i risultati raggiunti dal
Gruppo, sempre più presente nei mercati internazionali con il proprio marchio e con i prodotti d’arredamento del
suo “Italian smart design”, Calligaris e L Capital hanno completato con reciproca soddisfazione il proprio percorso
assieme. Mediobanca ha agito quale advisor finanziario della famiglia Calligaris. La strategia di crescita basata su
marca, retail e internazionalizzazione cominciata nel 2008 ha consentito a Calligaris di crescere e performare meglio
il mercato, anche in questi anni di crisi dell’economia e dei consumi. Nel 2013, anno in cui è stato celebrato il 90º
dell’azienda, Calligaris ha realizzato un fatturato vicino ai 130 milioni di euro (126,5) con la quota export che dal
54,7% del 2009 è salita al 65,2%. Si conferma anche la profittabilità del gruppo con un Ebitda di 19,1 milioni di euro,
pari al 15,1% dei ricavi, mentre i debiti finanziari sono in riduzione a 48 milioni di euro. «Il risultato di Calligaris nel
2013 – dichiara Giorgio Gobbi, Ceo di Calligaris – riflette l’incrocio di diversi fenomeni e dei risultati dei progetti
strategici avviati nello scorso triennio. Il piano di sviluppo della Divisione Contract ha iniziato a dare i suoi primi frutti
tangibili e ha ulteriormente spinto l’azienda a rendere più veloci e flessibili le filiere di produzione e assemblaggio di
tutte le linee di prodotto. Grazie a tutto ciò, e a un costante monitoraggio della struttura dei costi, è stato possibile
mantenere un livello di redditività da gestione caratteristica superiore al 15%». Nel 2013 è proseguita la strategia di
internazionalizzazione del canale distributivo in circa 90 Paesi con l’apertura, tra gli altri, di tre nuovi store in Asia
(Singapore, Kuala Lumpur e Hong Kong), due a Londra, uno a Madrid e uno a Kiev in Ucraina. Nel 2014 sono già stati
aperti store monomarca a Beirut, Torino, Napoli, Bergamo e all’estero sono in fase di realizzazione gli store di New
York (Soho), Washington (Georgetown) e Dusseldorf. L’obiettivo è di far crescere, entro fine 2014, dagli attuali 450 a
550 i rivenditori partner con una quota dei ricavi sul fatturato, in aumento dal 42% del 2013 al 50%. In una fase
ancora di criticità dei consumi legati anche al bene-casa, Alessandro Calligaris ha deciso, in controtendenza con
un’industria della moda, del design e del lusso che vede sempre più marchi italiani essere acquisiti da gruppi
internazionali, di investire nell’azienda di famiglia facendola diventare ancora più italiana, non solo come marchio
vincente del “made in Italy” dell’arredamento ma anche a livello dell’assetto proprietario. Grazie all’ormai completa
managerializzazione del gruppo, quella è una scelta che per Calligaris segna una ripartenza con una nuova fase di
espansione, che potrà essere realizzata anche per linee esterne ed è più che mai coerente con la storia di un’azienda
che, dalla sua fondazione nel 1923, crede con fiducia nel futuro e nell’Italia. «In questi sette anni – dichiara
Alessandro Calligaris – noi e L Capital abbiamo lavorato insieme per far crescere l’azienda, sia per renderla più
competitiva sia per creare maggiore visibilità internazionale al nostro marchio, costruendo per questo il progetto di
investire sempre di più con i nostri partner in Italia e nel mondo». «Il futuro di qualsiasi azienda italiana che vuole
crescere e internazionalizzarsi – aggiunge – si basa sull’aspetto dimensionale. Per questo credo che il futuro di
Calligaris, pur essendo già oggi tra le dieci principali aziende dell’arredamento italiane, debba essere caratterizzato
da un’ulteriore crescita dimensionale per potere rafforzare, con adeguati investimenti, la presenza del Gruppo in
tutti i mercati di riferimento nel mondo. In questo senso dedicheremo grande attenzione a eventuali progetti di
aggregazione con aziende di settore, sinergiche alla nostra».
IN CHE MODO L’INGRESSO DEL FONDO L CAPITAL PUO’ AVER CONTRIBUITO A DELINEARE E REALIZZARE LA
STRATEGIA DI CRESCITA DI CALLIGARIS, BASATA SU MARCA, RETAIL E INTERNAZIONALIZZAZIONE NEL PERIODO 2008-
2014? IN CHE COSA POTREBBE CONSISTERE, PER CALLIGARIS, LA “RIPARTENZA CON UNA NUOVA FASE DI
ESPANSIONE” CON IL NUOVO ASSETTO PROPRIETARIO 2014? VEDI DEI PROBLEMI ALL?ORIZZONTE?
20
Lo shopping made in Italy di Morellato. Repubblica.it, 20 maggio 2013
PADOVA. È l’unico imprenditore italiano invitato dagli organizzatori del prestigioso “Link Jewelry Summit” — il forum
internazionale della gioielleria mondiale coordinato dall’International Herald Tribune che si è tenuto di recente a
Vienna — a rappresentare la gioielleria made in Italy. Anche perché Massimo Carraro, anima e guida del Gruppo
Morellato, è l’unico industriale del settore che continua a resistere al canto delle sirene dei fondi e gruppi
internazionali che si stanno comprando i marchi tricolore. Nel 2006 ha acquisito Sector, insieme alle controllate
Chronostar e Philip Watch. Brand con una forte identità, ma in una situazione gestionale e finanziaria molto pesante
che Carraro ha riportato alla ribalta mondiale: Sector No Limits con la sua impronta tecnico-sportiva. Philip Watch
con il suo heritage di storica maison, fondata nel 1858 a Napoli dal maestro svizzero Francois Philippe. Nel 2007,
coerente con la sua mission di polo aggregante dell’eccellenza italiana, ha acquisito la catena di gioielleria-
orologeria Bluespirit che oggi conta 220 punti vendita. Un’espansione che ha portato il “polo” di Carraro a diventare
il primo player in Europa a capitale totalmente italiano, oltre che leader mondiale nella produzione di cinturini per
orologi. Con un fatturato in crescita costante (nel bilancio 2012 ha raggiunto i 190 milioni, con 23 milioni di ebitda
contro i 21 del 2011) Morellato Group presidia il mercato sia con i propri marchi che in licenza, tra cui Just Cavalli,
John Galliano, Maserati e Miss Sixty. «Per essere sempre più il punto di riferimento per la gioielleria e orologeria
italiana nel mondo — racconta Massimo Carraro — a fine marzo abbiamo acquisito il marchio Pianegonda ». Perché
questa scelta? «Compriamo solo il meglio. E Pianegonda è uno dei brand di gioielleria in argento più noti in Italia e
all’estero che ha creato la sua identità grazie a Franco Pianegonda, fondatore e direttore creativo del marchio, che in
un dialogo continuo con la tradizione, l’eccellenza del made in Italy e l’arte, realizza creazioni contemporanee e
uniche nel loro genere». Uno stile in linea con i “gioielli da vivere”, cavallo di battaglia di Morellato. «Certamente.
Non dimentichiamo che nell’antichità il gioiello era vissuto come ornamento. E’ solo dal ‘600 che comincia a essere
visto come prezioso. Come pura ostentazione di uno status sociale. Non a caso per molto tempo i gioielli sono stato
un bene rifugio, un investimento: più pesano, più sono preziosi». Col risultato di tenerli in cassaforte. Al contrario di
ciò che avviene oggi che i gioielli sono tornati a essere un ornamento. Ma questo crea una competizione fortissima: il
mercato è invaso da miriadi di marchi. «Qui sta il punto. L a forza di reggere la competizione attraverso scelte
strategiche importanti su tre fronti: prodotto, distribuzione, internazionalizzazione. Oggi Morellato Group, oltre a
quelle italiane, controlla 9 società operative basate nei mercati strategici di riferimento: Hong Kong, Shanghai,
Barcellona, Stoccarda, Lione, New York, Dubai, Lugano e Mumbay. E ha un network distributivo di 200 monomarca
sparsi tra Europa, Americhe, Middle East e Greater China, e altri 4.000 multibrand e corner nei più importanti
department store del mondo».
CHE FONDAMENTO HA LA MISSION DI MORELLATO DI “POLO AGGREGANTE DELL’ECCELLENZA ITALIANA”? E LA SUA
STRATEGIA IMPOSTATA SU PRODOTTO, DISTRIBUZIONE, INTERNAZIONALIZZAZIONE? POTREBBE NON FUNZIONARE?
21
«Sono triste, ma solo così Forall fa il salto di qualità». Il giornale di Vicenza, 14.02.2014
C'è rammarico. C'è consapevolezza. Ci sono aspetti - cifre e garanzie - che non vuole confermare. Ma c'è una realtà
che vuole evidenziare: «Solo così l'azienda sarà in grado di prendere in modo più efficiente le decisioni che le
consentono di fare il salto di qualità». Manuela Miola, direttrice marketing di Forall Pal Zileri, volto pubblico del
gruppo e figlia di Aronne, presidente storico dell'azienda leader nell'abbigliamento di alta qualità declinato al
maschile, pesa parola per parola e solo ad una settimana dal nuovo colpo di scena che ha investito il mondo del
lusso. La cessione cioè del 65% del Gruppo Forall Pal Zileri ai reali del Qatar tramite la compagnia di investimenti
Mayhoola, il rimanente 35% è - per ora - dell'egiziana Arafa holdings. Le indiscrezioni sul valore dell'operazione sono
state diffuse per la prima volta ieri da “Il Sole 24 Ore”: il fondo che fa capo a Mayhoola avrebbe valutato la società
vicentina ad un multiplo di 16,5 volte l'Ebitda del 2013, che dovrebbe essere stabile rispetto ai 5,73 milioni del 2012.
Una cifra che potrebbe sfiorare i 95 milioni.
Come ha vissuto l'operazione? Da un punto di vista strettamente personale con una certa tristezza perché la mia
famiglia è coinvolta nella gestione dell'azienda fin dalla sua fondazione e io stessa ci lavoro praticamente da quando
mi sono laureata e quindi ho un legame affettivo molto forte con l'azienda e con le persone che ci lavorano. Mi
sarebbe piaciuto continuare ad essere parte del futuro dell'azienda sia come azionista che come manager, ma
quando si è in tanti bisogna accettare le decisioni che maturano in seno al gruppo.
Tanti quanti? I soci che rappresentavano la maggioranza italiana sono 17. Nella decisione di cedere ha pesato più il
frazionamento o la perdita di 3,6 milioni su un fatturato di 154? La perdita di bilancio in sé non è stata determinante.
E allora perché vendere? Sicuramente con una governance più snella e una proprietà più attrezzata dal punto di vista
delle risorse finanziarie disponibili l'azienda sarà in grado di prendere in modo più efficiente le decisioni che le
consentono di fare il salto di qualità che noi attuali proprietari non siamo riusciti a compiere in questi anni. Salto di
qualità, cosa intende? Per esempio gli investimenti in comunicazione e nel retail diretto per restare al passo con gli
altri player del lusso.
Perché gli emiri, dopo Valentino hanno puntato a voi? Leggendo la ricerca sul futuro del lusso di Boston Consulting
Group si nota che Forall ha oggi tutti i requisiti per competere con successo nello scenario del lusso: dispone non
solo di un brand noto e distribuito in tutto il mondo, ma anche della capacità di realizzare un prodotto di altissima
qualità. Il nostro non è quindi un marchio legato in modo effimero solo a qualche celebrity o ad una pubblicità
azzeccata, ma un nome che il cliente ricollega ad un prodotto della migliore tradizione sartoriale italiana che tutti i
consumatori più sofisticati ricercano. La mia impressione è che questa percezione sia ben chiara anche
all'acquirente.
Oggi è toccato a voi, da presidente della sezione moda di Confindustria Vicenza come valuta lo shopping straniero?
In questi anni il mercato della moda e del lusso è diventato sempre più globale e richiede per competere grandi
investimenti, in particolare nella comunicazione e distribuzione. Ben vengano quindi investitori dotati di spalle forti
che aiutino le nostre aziende a reggere il confronto con i big mondiali. Opportunità o depauparamento? Premesso
che ogni acquisizione fa storia a sé, quando un investitore compra un'azienda italiana del lusso acquista un brand
legato al territorio, un know how radicato nei lavoratori, un pezzo di storia delle comunità di riferimento e quindi
non ha interesse a distruggere. L'esempio più eclatante è quello di Bottega Veneta, ed è questo il futuro di successo
che auguro anche a Forall.
PERCHE’ I PRECEDENTI PROPRIETARI NON SONO STATI CAPACI DI FAR FARE A FORALL IL SALTO DI QUALITA’ CHE
POTREBBE INVECE DIVENTARE POSSIBILE CON IL FONDO MAYHOOLA? QUAL E’ INVECE LO SCENARIO PEGGIORE CHE
SI POTREBBE PROFILARE ALL’ORIZZONTE PER FORALL, IN SEGUITO ALLA SUA ACQUISIZIONE?
22
Segafredo, la tazzina di caffè arriva in Piazza Affari - CORRIERE.IT 15 MAGGIO 2015
La settimana prossima, il collocamento del gruppo con oltre 800 milioni di ricavi. Sarà la prima azienda dell’espresso
quotata sul listino italiano.
La tazzina di caffè Segafredo Zanetti è pronta per il debutto a Piazza Affari. E’ atteso in serata l’ok della Consob
mentre quello di Borsa Italiana sarebbe già in dirittura d’arrivo. Il roadshow presso gli investitori istituzionali con
l’avvio degli ordini potrà quindi partire a metà della prossima settimana,mercati permettendo. Il tour prevede tappe
in tutte le capitali finanziarie europee, tra Londra, Parigi e Francoforte dove l’imprenditore Massimo Zanetti ,
affiancato dai i global coordinator Banca Imi e Bnp Paribas e i joint bookrunners J.P.Morgan e BB&T, dovrà spiegare
numeri e prospettive dell’azienda che, se il programma sarà rispettato, sarà la prima realtà italiana quotata del caffè
al bar. In Borsa verrà presentato un gruppo cresciuto in un anno da 750 a 800 milioni di ricavi con un ebitda tra 60 e
63 milioni contro i 59 dell’esercizio precedente. Segafredo Zanetti è caffè made in Italy ma è anche presente in tutto
il mondo con marchi come Puccino’s in Gran Bretagna, Bon Café in Estremo Oriente, Chock full o’Nuts, Hill Bros e
Kauai negli Usa, Meira in Finlandia. Più i 400 negozi, le macchine per caffè e le cialde. L’azienda non trova modelli
comparabili tra le quotate all’estero. É un po’ come la Starbucks nel retail, un po’ Green Mountain nelle capsule Usa
e c’è chi sostiene abbia anche un po’ della Nestlé. Il quadro dell’operazione resta quello impostato circa un anno fa
quando la società guidata a livello operativo da Pascal Héritier aveva già immaginato un percorso di quotazione, poi
rimesso nel cassetto per la volatilità dei mercati in autunno. La Massimo Zanetti beverage group sbarcherà in Borsa
con un’offerta mista. Ci sarà un aumento di capitale fino a circa 150 milioni per assorbire risorse chiave e continuare
lo shopping. L’azionista metterà poi a disposizione per la vendita una quota di azioni. Il flottante sarà del 30% e potrà
salire con la greenshoe. La novità è che al listino approderà un gruppo più snello rispetto a solo un anno fa. Sono
state scorporate le attività di acquisto e gestione della materia prima, condizionate alla fluttuazioni dei prezzi e
quindi più incerte agli occhi degli investitori . L’operazione ha fatto scendere i debiti netti a 210 milioni, incluso il
costo dell’acquisizione di Bon café. L’azienda continuerà a investire sul mercato delle capsule e la quotazione servirà
poi per accedere a tutti gli strumenti offerti dal mercato.
SECONDO TE, CHE COSA POTREBBE FARE, CONCRETAMENTE, SEGAFREDO CON I 150 MILIONI DI AUMENTO DI
CAPITALE? CHE COSA IMPLICA PER SEGAFREDO ESSERE “UN PO’ COME LA STARBUCKS NEL RETAIL, UN PO’ GREEN
MOUNTAIN NELLE CAPSULE USA E (AVERE) PO’ DELLA NESTLÉ”? VEDI DEI PRO E DEI CONTRO IN QUESTO MODELLO
DI BUSINESS?
23
FedEx-Tnt Express: nasce colosso delle spedizioni - IL PICCOLO, 8 APRILE 2015
MILANO Il gigante americano delle consegne FedEx acquista l'olandese Tnt Express per 4,4 miliardi di euro.
Un'operazione tutta in contanti con cui il corriere statunitense punta a espandere la propria presenza in Europa e a
sfidare i rivali Dhl e Ups in un settore dove il boom dell'e-commerce sta offrendo grandi potenzialità di sviluppo
facendo dimenticare gli anni più bui della crisi finanziaria mondiale. La mossa di FedEx arriva due anni dopo l'affondo
del corriere rivale Ups che a suo tempo aveva cercato di mettere le mani su Tnt. Ma a gennaio del 2013 Ups fu
costretta a tirarsi indietro dopo che l'Antitrust decise di bocciare il progetto per violazione delle regole della
concorrenza nel settore, dal momento che Ups aveva già una rilevante presenza in Europa. Per l'Authority, infatti, la
fusione tra Ups e Tnt avrebbe trasformato il mercato Ue della logistica in un duopolio tra Ups-Tnt e Dhl di Deutsche
Post, tagliando fuori di fatto i gruppi concorrenti, a partire proprio dalla rivale americana FedEx. Tnt e FedEx si sono
detti «fiduciosi» riguardo al verdetto dell'Antitrust sulla fusione e prevedono di finalizzare la transazione nella prima
parte del 2016. Di fatto la fusione non dovrebbe trovare ostacoli visto che il corriere Usa ha sul mercato europeo
appena una quota del 2% mentre il gruppo olandese ha circa il 15%. In base ai termini dell'accordo, gli azionisti di Tnt
riceveranno 8 euro ad azione in contanti, con un premio del 33% rispetto all'ultima quotazione di Borsa del 2 aprile.
In realtà FedEx ha chiuso un ottimo affare: da tempo Tnt navigava in acque difficili ed era diventato un bersaglio
delle compagnie concorrenti: con la progressiva perdita di quote di mercato, il gruppo olandese ha cercato di
sopravvivere tagliando i costi, cedendo alcune attività e facendo investimenti per ampliare la sua rete di destinazioni
nel tentativo di conservare i clienti in un mercato europeo diventato molto debole per il settore. Nell'ultimo anno il
titolo Tnt ha perso il 17% in Borsa e nel quarto trimestre del 2014 Tnt archiviato una perdita di 137 milioni di euro.
LE DUE AZIENDE SONO FIDUCIOSE CHE L’ANTITRUST EUROPEO DARA’ VIA LIBERA, NON RISCONTRANDO EFFETTI
NEGATIVI SULLA CONCORRENZA. MA ALLORA, PERCHE’ UNIRSI? PER OTTENERE QUALI ALTRI VANTAGGI, IN
CONCRETO? SECONDO TE, COME FARA’ FEDEX A RIPORTARE TNT AL PROFITTO?
24
Col progetto Titan Apple sfida Google e Tesla: 100 ingegneri al lavoro sull’iCar - LA STAMPA 14/02/2015
Dal Wall Street Journal indiscrezioni sul piano segreto di Cupertino, che guarda al settore delle auto elettriche come
un nuovo spazio di crescita. Il progetto è partito lo scorso anno: tra i responsabili, alcuni ex dipendenti Mercedes e
Ford. Nel futuro di Cupertino non ci sono solo iPhone e smartwatch. Apple sta lavorando in segreto a un’automobile
elettrica. È questo, secondo il Wall Street Journal, che si nasconde dietro al progetto «Titan», al quale il Ceo Tim
Cook ha destinato un centinaio di persone guidate da Steve Zadesky, già ingegnere della Ford e nel team che ha
realizzato l’iPhone, e Johann Jungwirth, assunto dopo essere stato a capo della ricerca e sviluppo di Mercedes-Benz.
Questo non significa che presto guideremo un’auto con la Mela sul volante. Apple ha escluso, per ora, il lancio sul
mercato di una propria automobile e si starebbe concentrando principalmente sulla produzione di componenti
pensate per una vettura intelligente. Il sospetto che Apple stesse lavorando a un’automobile è stato alimentato in
questi mesi da tante piccole rivelazioni e immagini di ipotetici esemplari di Apple Car, tra cui il video di un misterioso
suv appartenente a Apple che si guida da solo per le strade di Concord, in California, con uno strano sistema di
videocamere sul tettuccio. Ma anche dalle parole dello stesso Tim Cook, che l’anno scorso aveva confermato
l’esistenza di progetti di cui nessuno sa niente al di fuori dell’azienda.
È probabile che a Cupertino abbiano intenzione di espandersi nel settore automobilistico: l’idea di produrre un’auto
è già all’ordine del giorno di un grande concorrente di Apple come Google, mentre Tesla Motors negli ultimi tempi
ha assunto circa 150 dipendenti Apple. E come dimostra anche l’ultimo Consumer Electronics Show di Las Vegas,
dove erano presenti tutti i maggiori produttori automobilistici, la battaglia per il mercato delle auto intelligenti si sta
facendo sempre più dura.
Ma soprattutto perché a Cupertino sanno di aver bisogno di spazi nuovi in cui inserirsi per poter crescere:
attualmente la maggior parte dei ricavi dell’azienda arrivano dall’iPhone, ma il settore degli smartphone non
continuerà a crescere sempre allo stesso ritmo e molti grandi nomi dell’hi tech stanno cercando alternative. Gli inizi
con i primi desktop sembrano lontani ma è dal lancio del Macintosh nel 1984 che a Cupertino cercano un modo per
trasformare ogni tecnologia d’avanguardia in un prodotto che dettasse la linea al mercato. E spesso ci sono riusciti:
prima dell’iPod esistevano già i lettori mp3, come prima dell’iPhone c’erano già gli smartphone, ma dopo il lancio dei
dispositivi Apple sono diventati quelli che cercavano di imitare la Mela. E c’è da chiedersi se presto non sarà così
anche per le automobili.
APPLE E AUTO ELETTRICA: SIAMO DI FRONTE AD UNA VERA E PROPRIA MOSSA STRATEGICA O AD UNA SEMPLICE
SCOMMESSA TRA LE TANTE? QUALI SONO LE CONDIZIONI PER SVILUPPARE UN MERCATO DELLE AUTO ELETTRICHE?
A TALE PROPOSITO, E’ PROPRIO NECESSARIO, COME TITOLA L’ARTICOLO, “SFIDARE” GOOGLE E TESLA?
25
Giochi Preziosi e Artsana verso lo scioglimento della joint venture. La Repubblica – 15 agosto 2016
Il polo del giocattolo nato nel 2015 rischia di avere vita breve. Investindustrial ha rilevato il 60% del gruppo che
controlla Chicco e ha sul tavolo il dossier dell'alleanza con Preziosi: probabile che una delle parti ceda la sua quota.
Rischia di non arrivare al secondo compleanno la joint venture nata nel 2015 tra la Giochi Preziosi e l'Artsana che ha
dato vita al polo italiano del giocattolo attraverso il conferimento a una newco dei rispettivi marchi attivi nel settore
retail, da Prenatal (Artsana) a Toys fino a Bimbostore (Giochi Preziosi). Un'operazione decollata con ambiziosi
obiettivi: "Fatturiamo già 800 milioni di euro, spiegava Enrico Preziosi, puntiamo a quota un miliardo nel giro di due o
tre anni poi ci quotiamo in Borsa". Sul fronte del giro d'affari quota un miliardo non è poi così lontana, ma affiché il
settore della distribuzione dei giocattoli e dei prodotti per bambini sia redditizio è necessario che la massa gestita
aumenti ancora. Nei primi nove mesi di vita la società ha iscritto a bilancio ricavi per 721 milioni di euro a fronte di un
utile operativo pari a 3,9 milioni di euro. Insomma poca cosa per i due azionisti a monte, Giochi Preziosi da una parte
e Artsana - che controlla tra gli altri il marchio Chicco - dall'altra. Ecco perché a breve è attesa una svolta nella
compagine azionaria. Ad aprile di quest'anno, la famiglia Catelli, proprietaria di Artsana, ha ceduto per circa 750
milioni di euro il 60% del capitale e il controllo dell'azienda al fondo Investindustrial del finanziere Andrea Bonomi. Un
investimento di medio lungo periodo per Bonomi che al momento dell'operazione annunciò l'intenzione di "investire
importanti risorse umane e finanziarie in quello che sono certo sarà un percorso comune di crescita che ci porterà a
raggiungere nuovi importanti traguardi". Un traguardo che passa anche attraverso la razionalizzazione delle
partecipazioni. A cominciare da quelle meno redditizie. Prima dell'estate sul tavolo di Investindustrial pare sia arrivato
il dossier della joint venture con la Giochi Preziosi. Preziosi e lo stesso Bonomi sarebbero d'accordo sulla necessità di
avere un solo azionista a capo delle società. In questo modo un solo "padrone" potrebbe prendere decisioni in
maniera più rapida e incisiva. D'altra parte la newco era nata dall'idea di due imprenditori, adesso che una delle
controparti è un investitore finanziario l'approccio e l'obiettivo dell'operazione sembrano destinati a cambiare. A
questo punto la strada sarebbe una sola: che uno dei soci rilevi la quota dell'altro. Ed è più probabile che a farlo sia
Bonomi. Enrico Preziosi, infatti, è appena riuscito a rimettere in careggiata la sua Giochi Preziosi, grazie anche
all'ingresso nell'azionariato del taiwanese Micheal Lee che ha rilevato il 49% dal capitale in mano alle banche e al
fondo di private equity Clessidra. Il mercato dei giocattoli, però, resta in sofferenza: lo scorso anno Giochi Preziosi ha
chiuso il bilancio con 900 milioni di ricavi e un utile operativo di 6,5 milioni di euro. Certo, nell'ultimo anno la
situazione debitoria nei confronti delle banche è migliorata passando da 335milioni di euro a 154 milioni, ma è difficile
che l'imprenditore campano voglia investire su un business poco redditizio. Più facile che cerchi risorse fresche per
sostenere il suo core business. A meno che non voglia passare la mano sul controllo dell'intero gruppo, ma si tratta di
un'ipotesi che per Preziosi "non vale neppure la pena di commentare".
DOMANDE.
1. Quali erano gli obiettivi strategici originari della partnership tra Giochi Preziosi ed Artsana?
2. Perché l’arrivo di Bonomi (investitore finanziario) dovrebbe cambiare le carte in tavola?
3. L’obiettivo originario rimane valido per Giochi Preziosi? Come potrà essere perseguito da ora in poi?
26
Oro Caffè in Arabia Saudita e Canada e guarda anche all’Iran. 24 luglio 2016, Comunicaffè
Cresce all’estero la domanda di caffè friulano prodotto dalla torrefazione Oro Caffè (7 milioni di euro di fatturato
complessivo nel 2015) e più precisamente in Arabia Saudita, primo acquirente che compone il 10% del fatturato, e in
Canada, al secondo posto dove si contano oltre 400 punti vendita distributori principalmente del caffè in capsule. La
torrefazione friulana Oro Caffè, oltre che in Italia, è in costante crescita anche all’estero. È notizia degli ultimi giorni,
infatti, che il primo acquirente straniero ha rinnovato un accordo per la fornitura mensile di diverse migliaia di chili di
caffè torrefatto della migliore qualità Oro. Si tratta della società araba “Road Cafè Co. Ltd.”, un’importante catena di
caffetterie drive-in dedicate ai viaggiatori su strada, presente con oltre 20 punti vendita localizzati nelle province
centrali e orientali dell’Arabia Saudita. Qui viene servito il caffè di Oro, sia espresso sia declinato in diverse ricette,
anche da asporto, per un volume d’affari che compone il 10% del fatturato totale della torrefazione friulana. «Con la
società Road Cafè Co. Ltd. siamo partiti da un ordine mensile di uno o due sacchi di caffè e oggi siamo arrivati a
consegnare un container al mese. Oltre ad essere per noi un ottimo risultato dal punto di vista economico, questa
operazione ci permette di accrescere la diffusione del caffè espresso italiano in Arabia Saudita, uno dei Paesi dove il
caffè è ai primissimi posti tra le bevande consumate» spiega Chiara De Nipoti, presidente del Cda di Oro Caffè. Nel
primo semestre del 2016, la quota di esportazione del caffè torrefatto di Tavagnacco è cresciuta anche in Canada,
dove Oro Caffè, nel 2014, ha aperto una filiale di distribuzione. Primo acquirente canadese è la catena Tjx,
proprietaria dei marchi retail HomeSense, Winners e Marshalls con 387 punti vendita, che distribuisce all’interno dei
propri negozi capsule Oro e compatibili Nespresso. Seguono Metro, la più importante azienda di distribuzione di
alimentari che in Ontario conta 135 punti vendita, Pusateri’s, catena di rivendita di prodotti alimentari di altissima
selezione e qualità con 5 punti vendita a Toronto, e Natures Emporium, market distributore di prodotti biologici,
locali e freschi. Sulla scia di questi positivi risultati, l’azienda friulana ha in serbo delle novità anche per il secondo
semestre dell’anno. Dal 25 al 28 Agosto 2016 Oro sarà infatti presente alla fiera iFood di Teheran, la kermesse
iraniana dedicata al mondo del food e del food processing: «Il mercato iraniano, uno con il più alto tasso di
popolazione del Medio Oriente, è in forte crescita ed è sempre più alla ricerca di prodotti europei da importare, tra
questi anche il caffè espresso» conclude Stefano Toppano, presidente di Oro Caffè.
DOMANDE.
1. Arabia Saudita, Canada, Iran: che tipo di percorso di internazionalizzazione sta seguendo la Oro Caffè?
2. Date le dimensioni dell’impresa, quali sarebbero le alternative strategiche a questo percorso di sviluppo
internazionale?
3. E’ immaginabile, in futuro, un passaggio dall’attuale modalità esportativa agli investimenti diretti all’estero? A
che condizioni?
27
Nasce il super polo del vino. La cantina La Delizia raddoppia la produzione, Il Piccolo 20 /8(2016
Un investimento imponente: 12,5 milioni di euro. Risorse che faranno della nuova area produttiva di Orcenico
Inferiore di Zoppola della cantina La Delizia di Casarsa (41 milioni di fatturato nel 2015) il più grande polo per la
vinificazione e la spumantizzazione in Friuli Venezia Giulia. Il primo step, sin dalla vendemmia di quest'anno, è
rappresentato dall'impianto di stoccaggio di 90mila ettolitri di Pinot Grigio e Prosecco. Spazi troppo stretti per una
produzione in aumento, spiegò poco più di un anno fa il direttore de La Delizia Pietro Biscontin, che è pure
presidente della Doc Fvg, al momento dell'acquisto dal curatore fallimentare dello stabilimento della Friulvini di
Zoppola (una delle principali realtà vitivinicole regionali fino al fallimento decretato nel 2009), dopo avere acquisito
un paio di anni prima i marchi della ex cantina. Ieri, nel giorno dell'inaugurazione, si è concretizzata definitivamente
un'operazione ambiziosa per una cooperativa da 450 soci viticoltori e 220mila ettolitri prodotti all'anno.
Un'operazione che ha portato all'installazione all'interno della struttura, alta 15 metri, dei primi serbatoi in acciaio
inox per lo stoccaggio del vino: in tutto sono 50 "giganti" dalla capacità di 1.900, 1.600 e 900 ettolitri che la ditta
Gortani di Amaro ha realizzato con un sofisticato sistema di controllo della temperatura. Ma l'intera struttura ha
numeri da record: solo la zona dei serbatoi è ampia più di 5mila metri quadrati, ai quali si aggiungono ulteriori aree
coperte fino a raggiungere le dimensioni di quasi due campi da calcio. «Una superficie complessiva di 11mila metri
quadri coperti - precisa il presidente de La Delizia Flavio Bellomo - che sarà gradualmente ultimata nei prossimi anni,
fino a raddoppiare la nostra capacità produttiva e di stoccaggio». Un sforzo con il quale la cooperativa, che tra l'altro
celebra quest'anno l'ottantacinquesimo anniversario dalla fondazione, vuole rispondere con maggiore forza alla sfida
globale dei mercati, con l'export che tocca il 60% della produzione: oltre ai canali distributivi consolidati in Usa,
Canada, Germania e Regno Unito, dove recenti statistiche di mercato indicano come il Prosecco sia richiesto tanto
quanto lo champagne francese, altre aree del mondo stanno iniziando a premiare la cantina friulana: dall'Europa
dell'Est, in primis la Russia, alla Cina, ma anche mercati vinicoli emergenti come Messico e Sudest asiatico. «Il 40% di
produzione destinata al mercato nazionale - fa sapere ancora Bellomo - è comunque per noi altrettanto
fondamentale, visto che è richiesto principalmente dal canale Horeca, Hotellerie-Restaurant-Cafè, e dalla grande
distribuzione, settori strategici per essere conosciuti e apprezzati in Italia». Nel nuovo polo logistico, alla vigilia della
vendemmia 2016, ci si prepara a partire con Pinot Grigio e Prosecco, sulla scia in particolare del gran momento delle
bollicine. «La cantina pordenonese ha colto al volo l'opportunità - osserva Dario Ermacora, presidente di Coldiretti
regionale e viticoltore di Ipplis, Colli Orientali -. Mi pare si possa parlare di un investimento corretto, tenuto
soprattutto conto della marginalità che il Prosecco consente. Una buona soluzione per tante aziende che hanno fatto
la scelta di conferire il prodotto in un gruppo cooperativo». Qualcuno, nel resto della regione, subirà l'impatto della
concorrenza? Ermacora parla di «fasce di mercato diverse». E la pensa così, in Carso, pure Benjamin Zidarich:
«Nessun problema. A Pordenone facciano pure quello che vogliono, è un mondo completamento diverso dal
nostro». Anche il tecnico consulente di varie cantine del Collio e di fuori regione Gianni Menotti (miglior enologo
d'Italia nel 2012) non vede contrasti tra i territori: «Tutto ciò che porta riconoscibilità alla regione è un vantaggio. E
se questo progetto servirà a incrementare la qualità del prodotto, tanto meglio. Le concorrenze sono sempre relative
quando le aziende hanno personalità». Un plauso all'iniziativa di Zoppola giunge anche da Debora Serracchiani,
presente al taglio del nastro con il vicepresidente Bolzonello: «Un esempio di qualità e coraggio imprenditoriale».
DOMANDE.
1. Si tratta di un investimento importante (12,5 milioni di euro). Quali sono i rischi che la cantina La Delizia è
destinata a correre, a seguito di questa scelta? C’erano alternative all’investimento in capacità produttiva?
2. I piccoli produttori regionali si riferiscono a La Delizia parlando di “un mondo completamente diverso dal nostro”.
Cosa intendono dire?
3. La Delizia è una cooperativa. Quali sono le implicazioni di questa forma di governance sulla strategia
dell’impresa?
28
DANIELI, LA RIPRESA NEL 2017. PARTE LA METAMORFOSI 2.0
IL CALO DEI COSTI DELLE MATERIE PRIME E UN MERCATO DELL’ACCIAIO DEPRESSO IN EUROPA HANNO PESATO SU
FATTURATO E UTILI NEI NOVE MESI. AL VIA LA RICONVERSIONE TECNOLOGICA
Il Piccolo 2016-05-16 di Christian Benna
MILANO Continua a sgretolarsi il mondo dell'acciaio. Dopo le trimestrali da incubo presentate da Thyssen e da
ArcelorMittal, tra il profit warning dei tedeschi e le perdite fragorose degli anglo-indiani, anche su Danieli si abbatte
la scure della crisi dei laminati. Il gruppo siderurgico di Buttrio soffre ancora la congiuntura negativa, per un mercato
globale messo sotto pressione dalla sovra capacità produttiva e dall'invasione dei prodotti low cost cinesi. Nei nove
mesi dell'anno fiscale 2015 la società, benché abbia avviato una trasformazione del suo business investendo
sull'alluminio e sulle forniture all'automotive, ha registrato un bilancio ricco di segni meno. Al 31 marzo il fatturato è
calato del 15% a quota 1,6 miliardi di euro e l'utile è sceso del 56% per 52 milioni di euro. Il portafoglio ordini tiene.
A livello produttivo il business non va male. Ne è una prova che il portafoglio ordini della società, seppure in
diminuzione del 6%, rimane robusto, pari a 2,9 miliardi di euro e di recente rinfrancato dalle prospettive in Iran (per
una mega commessa da 5,7 miliardi) e da quelle del Messico e del Vietnam. Ma il crollo dei prezzi dei prodotti
siderurgici continua a incidere negativamente su varie voci del bilancio. La crisi della siderurgia Ue. In uno scenario
ancora fosco per la siderurgia europea, in cui la Commissione Ue sta studiando nuove misure anti-dumping, la
società guidata da Gianpietro Benedetti riesce comunque a viaggiare su utili in territorio positivo. E conta di
recuperare il terreno perduto nel prossimo trimestre e di riprendere a crescere con decisione a partire dal 2017. Si
restringe anche il perimetro degli addetti per Danieli, circa un migliaio di persone in meno nell'arco dell'ultimo anno
portando il personale a 9.800 persone, di cui 6.000 localizzate in Friuli Venezia Giulia. Anche i dipendenti italiani
hanno tremato, quando, negli scorsi mesi, è stata ventilata l'ipotesi di cassa integrazione. L'allarme è poi rientrato
lasciando inalterato il lavoro nelle linee produttive. Il calo del fatturato. La società ha spiegato il calo del fatturato
citando alcuni "eventi imprevisti" nelle aree di realizzazione di impianti, aggiungendo tuttavia che «il minore volume
di ricavi del gruppo rispetto alle previsioni d'inizio anno sarà recuperato in parte nell'ultimo trimestre». La posizione
finanziaria netta, seppur in ribasso del 14% a 823,5 milioni di euro, si mantiene solida. Il 2016 proseguirà ancora
nell'incertezza per un settore che va incontro a una sua profonda ristrutturazione. E questo è un aspetto che
potrebbe costituire la base per un rilancio per il gruppo di Buttrio. Danieli si trova all'ultimo miglio di quella
metamorfosi 2.0 che la vede affermarsi come uno dei principali player negli acciai speciali, in particolar modo grazie
all'avvio dell'impianto Rotoforgia, e nella fornitura di impianti chiavi in mano per le fabbriche d'acciaio del futuro. La
produzione venduta nel periodo da Acciaierie Bertoli Safau, che impiega 1.200 dipendenti, ha raggiunto al 31 marzo
2016 circa 700.000 tonnellate, in linea con i volumi dell'omologo periodo dello scorso esercizio, ma in calo del 17%
(per un giro d'affari di 445,3 milioni di euro per valore a causa della crisi dei prezzi del prodotti finiti. Le fabbriche
d’acciaio 2.0. E poi c'è tutto il tema del plant making (ingegneria e costruzione impianti) che costituisce la maggior
parte del fatturato della società e che vede l'azienda tra i primi operatori globali. Danieli sta completando il processo
di integrazione di Fata spa, ex società del gruppo Finmeccanica, con la linea di prodotto Centro Alluminium. E qui
gioca la sua partita più importante la società di Buttrio. Perché le fabbriche d'acciaio del futuro avranno sempre più
bisogno degli impianti made by Danieli, che sono completamente automatizzate, tecnologicamente avanzati,
performanti e a basso impatto ambientale.
DOMANDE
1. STRUTTURA. Come si è arrivati alla situazione di sovra capacità produttiva globale nel settore dell’acciaio?
Perché a soffrirne di più è la siderurgia europea? In che modo si potrà realizzare una ristrutturazione del
settore?
2. STRATEGIE. Quali sono le direttrici strategiche, a livello di business e a livello corporate, su cui si sta
muovendo Danieli entro questo scenario? Quali sono le motivazioni di queste scelte? E i rischi? Esistono
strategie alternative?
3. PERFORMANCE. Come giudichi, alla luce della situazione settoriale e delle strategie intraprese, l’evoluzione
recente delle performance del Gruppo Danieli, anche considerando i dati dei primi 9 mesi dell’esercizio
fiscale 2015/2016?
29
30
BONO: «LA FINCANTIERI SARÀ LEADER SIAMO PRONTI A CRESCERE DEL 50%»
L’AMMINISTRATORE DELEGATO DEL GRUPPO: «SÌ, CI INTERESSA STX FRANCE CHE HA INFRASTRUTTURE ECCEZIONALI.
PORTAFOGLIO ORDINI FINO AL 2026 E ARRIVERANNO NUOVI CONTRATTI, ORMAI PROSSIMI A SATURARE GLI IMPIANTI»
IL PICCOLO 2016-05-27 di PAOLO POSSAMAI
«Stiamo trattando navi fino al 2025-26, stiamo definendo molti nuovi contratti. Prepariamo l’azienda ad affrontare una stagione
con volumi mai visti prima e un carico di lavoro che già oggi va sui 20 miliardi. Dobbiamo aumentare i volumi di produzione di
almeno il 50 per cento». Giuseppe Bono, 72 anni, confermato ieri amministratore delegato di Fincantieri per un altro triennio,
non si sottrae dall’uso del cannocchiale e nemmeno a chi gli chiede che azienda sarà nel 2025. «Immagino sarà il primo gruppo
dell’Occidente, con forte prospezione internazionale, protagonista nel consolidamento europeo, capace di aggregare e di
confermare l’Italia come leader manifatturiero. Il nostro comparto ha vissuto nel tempo radicali cambiamenti dell’assetto
competitivo. Negli anni ’80 l’Europa era ancora tra i leader mondiali nella costruzione di navi mercantili con una quota che si
aggirava intorno al 30% del mercato, scesa al 5% negli anni della crisi. Oggi ha circa il 10%, concentrato nei segmenti di maggior
contenuto tecnologico». Lei sta dicendo che il consolidamento nel settore navale procederà e che Fincantieri sarà un
protagonista? «Lo auspico. Nella nostra nicchia abbiamo fatto dei passi importanti in avanti attraverso la diversificazione perché
l’azienda non aveva le dimensioni per reggere la concorrenza e l’innovazione. Proseguiremo, faremo crescere il nostro ruolo. Se
l’Europa vuole essere protagonista, deve iniziare riconoscendo che la supremazia tecnologica è passata a Cina e Stati Uniti.
Abbattendo le barriere intra-comunitarie, la politica dell’Ue si è concentrata a regolare la concorrenza all'interno dei suoi confini
e ha perso di vista che la competizione è globale. Le faccio un esempio: gli Stati Uniti hanno 3-4 operatori telefonici, noi una
settantina. Vale anche per il settore navale. Se l’Europa vorrà raggiungere nuove frontiere tecnologiche dovrà agire in questa
direzione». Significa che ci sono troppi operatori in Europa e che voi vi candidate a fare da aggregatori? «Nel settore ci sono
quattro cantieri importanti in Europa, tra Italia, Germania, Francia e Finlandia. Temo siano troppi». Per esempio, confermate
interesse per Stx France? «Stx France non ci interessa dal punto di vista del mero aumento della capacità produttiva. Ma i
francesi hanno infrastrutture eccezionali, dispongono di un bacino lungo un chilometro, in assoluto il più grande in Europa, e
quindi guardiamo con grande attenzione a quel che succede a questo impianto e a questa azienda». Le acquisizioni sono anche
un modo per star dietro a un mercato che sta crescendo di nuovo? «Noi siamo quasi alla saturazione degli impianti. Abbiamo
ancora qualche scarico di lavoro temporaneo a Palermo e Castellammare, ma a breve riempiremo anche quegli stabilimenti.
Stiamo valutando di impiegare il cantiere rumeno di Tulcea (parte del network della controllata Vard, ndr), finora dedicato alle
tecnologie offshore e che assicura una qualità molto alta, per costruire sezioni e parti di scafo delle navi da crociera, visto che
l’l’aumento degli ordini ha ritmi esponenziali. Nel 2002 sono stati registrati 7,5-8 milioni di passeggeri sulle navi da crociera, 6,5
dei quali americani. Oggi siamo a 23 milioni e tutti gli esperti stimano a 36-37 milioni la quota nel prossimo decennio». Il
mercato cinese sfiora il milione di passeggeri, ma vari studi lo valutano 4,5 milioni entro il 2020. «Difatti abbiamo un accordo per
costruire navi in Cina in joint venture con il più importante cantiere del Paese, ma solo per il mercato cinese per non
cannibalizzare il nostro bacino occidentale. Operazione di notevole valore in prospettiva, perché lì, con un miliardo e mezzo di
persone contro i complessivi 800 milioni di Europa e Stati Uniti, ci sarà sviluppo futuro, volenti o nolenti». Obiettivi
particolarmente ambiziosi per i prossimi anni. Ma su quali leve agirete per recuperare redditività, in particolare in modo anche
da recuperare risorse in vista di acquisizioni e distribuzione di dividendo che la Borsa reclama? «Per il 2016 stimiamo un
aumento dei ricavi del 4-6%, una incidenza del margine operativo lordo del 5% circa e un risultato netto positivo. Ma nel 2018
sui target di due anni prima avremo un incremento dei ricavi del 16-23%, saremo al 6-7% per il margine operativo. E ancora,
puntando il cannocchiale al 2020, rispetto al 2018 il fatturato salirà ancora del 16-21%, il margine operativo sarà al 7-8%. In
questo arco di tempo, il debito netto scenderà da 0,4 miliardi nel 2015 a 0,1-0,3 miliardi nel 2020. Il punto è che il carico di
lavoro acquisito ci dà visibilità sul business per oltre cinque anni. Siamo in un momento straordinario per il mercato crocieristico,
la domanda esponenziale favorisce chi costruisce le navi perché questo trend implica un aumento dei prezzi. Negli anni della
crisi, invece i prezzi erano fatti dagli armatori. Inoltre, siamo arrivati a riempire tutti i cantieri e dunque sfoghiamo i costi su
maggiori volumi di lavoro». Riguardo ai vostri maggiori impianti, Monfalcone e Marghera, quali prospettive di lavoro vedete? «Il
portafoglio ordini riguardo a Monfalcone prevede nel 2017 la consegna di Majestic Princess per Princess Cruises e di Msc
Seaside per Msc, cui seguirà una gemella nella primavera 2018. A Marghera consegneremo nel prossimo autunno Seabourn
Encore, per Seabourne, nella primavera 2018 una unità per Carnival Cruise Line, nell’autunno dello stesso anno una unità per
Holland America Line. Inoltre, le cinque navi annunciate nell’aprile scorso saranno costruite tra Monfalcone e Marghera, ma non
sono ancora state assegnate. In termini di occupazione, fra Trieste e Monfalcone contiamo 2.500 dipendenti diretti e oltre 7mila
conteggiando l’intera filiera industriale. A Marghera invece abbiamo oltre 1.000 dipendenti, numero che sale a circa 3.500
considerando anche i lavoratori dell’indotto. Ma l’impatto dell’azienda sul Nordest, su forniture totali che in Italia sfiorano ogni
anno quasi i 2 miliardi di euro, è ben maggiore: tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, ovvero l’area che ospita una parte
preponderante dell’attività di progettazione e produzione di navi da crociera, gli acquisti di Fincantieri ammontano a 680 milioni
di euro e vengono distribuiti presso oltre 750 aziende del territorio, quasi tutte di taglia piccola e media».
DOMANDE
1. STRUTTURA. Bono afferma che il settore della costruzione di navi ha “vissuto nel tempo radicali cambiamenti
dell’assetto competitivo”. A cosa si riferisce? E cosa significa dire che “la supremazia tecnologica è passata a Cina e
Stati Uniti”? «Nel settore ci sono quattro cantieri importanti in Europa, tra Italia, Germania, Francia e Finlandia. Temo
31
siano troppi». Perché Bono ritiene necessarie ulteriori aggregazioni in Europa? Non ritieni che ci sia contraddizione con
la sua affermazione seguente: «Noi siamo quasi alla saturazione degli impianti”?
2. STRATEGIE. Quali sono le direttrici strategiche, a livello di business e a livello corporate, su cui si sta muovendo
Fincantieri entro questo scenario settoriale? Quali sono le motivazioni di queste scelte? E i rischi? Esistono strategie
alternative?
3. PERFORMANCE. Come giudichi, alla luce della situazione settoriale e delle strategie intraprese, l’evoluzione recente e le
previsioni future di performance del Gruppo Fincantieri?
32
CASO SNAIDERO
Il mercato è stagnante ma l’azienda cresce a due cifre in Italia e all’estero Alleanza con Pininfarina. Il
patron Edi: abbiamo modelli per tutte le tasche. Flessibilità e qualità. Il rilancio di Snaidero
MESSAGGERO VENETO 2016-09-17 di Maura Delle Case
MAJANO Zero virgola due. Meglio 0,2. Scritta in cifre fa ancor più impressione. E’ la timida crescita messa a
segno dal comparto cucine in Italia nei primi sei mesi dell’anno ed equivale di fatto a una situazione di
stasi. Salvo per Snaidero, che in quello stesso periodo, ha invece dimostrato una vitalità tutta nuova, figlia
di scelte aziendali, di prodotti d’alta qualità e di flessibilità. Convinto che essere in grado di rispondere in
tempi rapidi, di essere capaci di adattarsi alle esigenze di un mercato in costante movimento e ancora di
rispondere con prodotto ritagliato su misura siano gli ingredienti del successo. Certificato dai numeri. «Nel
primo semestre dell’anno abbiamo infatti messo a segno una crescita a doppia cifra sia in Italia che
all’estero. Siamo cresciuti del 10 per cento sul mercato interno, del 30 per cento in quello estero» fa
sapere il presidente Edi Snaidero fiducioso che ritiene di questo passo che l’obiettivo di fine anno con 130
milioni di fatturato possa essere centrato. Non è uno che ama i numeri l’ingegnere. A statistica, dati
economici, proiezioni preferisce da sempre la concretezza. Preferisce parlare di quel che ha sotto mano, di
quel che ha fatto. In questo caso dei 70 anni compiuti dall’azienda, motivo dell’Open Day in programma
per sabato prossimo. Com’è la Snaidero del 2016? «Un’azienda in evoluzione, con una gamma dei prodotti
rifatta, capace di rispondere a esigenze più complesse in modo più flessibile e sempre più customizzato.
Abbiamo all’arco tre aree prodotto. Quella delle icone, che ci vede collaborare con designer del livello di
Pininfarina, quella della massima sartorialità, capace di ritagliare su misura la cucina per ogni necessità e
desiderio, infine l’area Everyone, con gli stessi standard di qualità, ma orientata a un pubblico giovane
attento anche al prezzo». Qual è il segreto dell’importante segno più a fine primo semestre?
«La ricerca continua, l’innovazione, l’impegno per una flessibilità sempre maggiore. Che però costa svariati
milioni d’investimenti, proprio nell’ottica di un costante miglioramento dello standard produttivo». A sei
mesi dalla vendita della divisione franchising e dal reshoring delle produzioni tedesche a Majano qual è il
bilancio? «Stiamo seguendo un piano di investimenti e di sviluppo commerciale che inizia a dare i suoi
frutti, l’aver accentrato a Majano la produzione dell’azienda tedesca unitamente agli investimenti in
impianti attualmente in fase di avviamento ha l’obiettivo di migliorare redditività, efficenza e competitività
dell’azienda in un mercato sempre più complesso e globale». Assunzioni? «Ne abbiamo fatta qualcuna, ma
quel che mi pare significativo è che abbiamo ridotto moltissimo l’uso del contratto di solidarietà. In
giugno e luglio abbiamo lavorato a tempo pieno anche i sabati e un’ora in più al giorno. Merito
soprattutto dell’incredibile performance dell’export». In quali Paesi? «Vanno molto bene l’Inghilterra,
gli Stati uniti, l'Australia e tutto il Far East e la Turchia, tiene la Francia, arretra leggermente la
Germania ma ci stiamo ricavando però altri spazi con l’apertura di show room a Dubai, Teheran,
Singapore, Taiwan e diverse altre». Il mercato guarda fuori ma la produzione resta ancorata a Majano.
DOMANDE
1. STRUTTURA. La Snaidero opera da 70 anni nel settore delle cucine componibili. Che struttura ha questo
settore? Quali sono i fattori evolutivi che rappresentano sfide e opportunità per l’azienda friulana?
2. STRATEGIE. Edi Snaidero definisce la sua come “un’azienda in evoluzione, con una gamma dei prodotti
rifatta, capace di rispondere a esigenze più complesse in modo più flessibile e sempre più customizzato”
Quali sono – secondo te - le direttrici strategiche, a livello di business e a livello corporate, su cui si sta
muovendo Snaidero entro il suo settore di riferimento? Quali sono le motivazioni di queste scelte? E i rischi?
Esistono strategie alternative?
3. PERFORMANCE. Come giudichi, alla luce della situazione settoriale e delle strategie intraprese, le
performance passate del Gruppo Snaidero e le sue prospettive future?
33
SNAIDERO RINO S.P.A.
33030 Majano Codice fiscale 00153510300
Numero CCIAA UD0073629
Società privata
L'A.R. Globale di questa società è MR EDI SNAIDERO
Anagrafica
I dati di bilancio più recenti di questa società sono stati pubblicati originariamente in IFRS e trasformati nel formato di Aida.
Descrizione attività Produzione e vendita di mobili per cucina e per l'arredamento in genere, mobili in legno,
italiano metallo, o altro materiale, ad uso uffici e studi professionali, pareti mobili divisorie ed articoli
affini.
Descrizione attività Production and sale of kitchen furniture and furnishings in general, in wood and other
inglese materials.
The company offers a wide range of products such as interiors, under wall unit accessories, lighting products, cooking area
products, washing area products, cooker hoods, complementary furnishing items, storage products, worktops, and finishes
and accessories.
It is a global company with operating subsidiaries in Germany, China, France, the United Kingdom, Croatia, Belgium,
Lebanon, the Czech Republic, the United States, Italy, and Switzerland.
Storico
Established by Cavaliere Rino Snaidero
Attività principale
Manufacturing
Principale Stato
Italy
Anagrafica
I dati di bilancio più recenti di questa società sono stati pubblicati originariamente in IFRS e trasformati nel formato di Aida.
Ateco 2007 475110 Commercio al dettaglio di tessuti per l'abbigliamento, l'arredamento e di biancheria
per la casa
The company, with registered office located in Milano, Italy, is the European leader in manufacturing and marketing
household linen. It manufactures markets and distributes household textiles under the brand names of Zucchi, Bassetti,
Descamps, Jalla, Bear and Eliolona. Founded with only cotton spinning and weaving activities in 1920, the company is a
publicly quoted company.
The company is vertically integrated and produces a wide range of products that are distributed through various channels.
It is the sole producer of items designed and signed by established names such as Yves Saint Laurent, Christian Dior,
Pierre Cardin, Lacoste, Chipie and Warner Bros. Its dyeing and printing activities are carried out through Mascioni SpA and
Descamps SA. The company's raw textiles, materials and yarn are manufactured mainly through Standardtela (has two
facilities, located in the Piemonte and Abruzzo regions of Italy) and Standardtre (has a facility in the Basilicata region of
Italy).
The company has 14 facilities that cover the entire production chain from spinning to finished products. It has more than
60 product lines of manufactured yarns and fabrics sold to member group companies and to outside customers in Europe
and the United States.
Attività principale
Manufacturing
Stima dimensione
European leader in manufacturing and marketing household linen
Principali marchi
Zucchi; Bassetti; Descamps; Jalla; Bear; Eliolona
Principale Stato
Italy