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In Italia il mondo della pittura, fino a circa la metà del XIII secolo, è
condizionato da un carattere astratto nel quale non è possibile escluderne la
componente bizantino–romanica, ma già incominciano ad emergere grandi
personaggi che riescono ad esprimere con nuovi linguaggi una più viva e
sentita umanità.
Anzi, inshaw Rivela la sua educazione Fiorentina, egli afferma la priorità del
volume. ciò, naturalmente, non significa che la sua cultura, come quella di
tutti i pittori della sua epoca, non si sia permeata di bizantinismi; significa
che è diverso il modo con cui questi sono 10pt. In altri termini sarebbe
antistorico giudicarlo privo di legami con i suoi antecedenti, quasi nato dal
niente.
Cimabue esce invece da quello stesso ambiente culturale Nel quale operano
Coppo di Marcovaldo è Giunta Pisano. evidente per esempio quale vicinanza
vi sia fra le croci dipinte da quest'ultima il crocifisso di San Domenico ad
Arezzo una delle prime opere mature di Cimabue. Ma più che le somiglianze,
anche troppo palese, È opportuno constatare le differenze, che rivelano
l'affermarsi di una nuova grande personalità. il corpo di Cristo si stacca dalla
croce con decisione, Facendoci percepire lo spazio vuoto se è il legno
retrostante. gli sbalzi anatomici sono ottenuti non soltanto con il Chiaroscuro
disposto intorno alle parti di levate, ma anche seguendo le curve con le
pennellate due. queste riconoscibili singolarmente sulla vicino si sintetizzano
nella nostra retina quando siamo collocati la distanza giusta, dando i volumi
compattezza e risalto possente.
il disegno al netto la linea incisiva, tesa. tutto esprime forza dolorosa: il viso,
con gli occhi serrati nella morte, defilato sulla spalla destra, egregiamente
drammatico i rialzi anatomici sono aggiunti completa decise. mi sono molte
caratteristiche bizantine, tramandate dall'uno all'altro pittore Giustina mi
Clementi stilistici, formule consuetudinarie, difficilmente eliminabili nella
pratica quotidiana della chiesa: per esempio gli occhi ad esse, la fossa come
una forcella della radice del naso, la tripartizione del ventre, la doratura del
perizoma delle vesti di Maria e Giovanni nei pannelli e lati del braccio
trasversale della Croce.
Sono però bizantinismi romanico gotici 2 punti non tengono a farci intuire
un'idea astratta ma renderci consapevoli di una realtà. per esempio la doratura
dei panneggi, pur essendo un simbolo, esprime un fenomeno naturale: la luce
che colpisce le pieghe sporgenti.
Bibliografia:
1240 ca Cenni di Pepo, soprannominato “Cimabue” a causa del suo carattere
orgoglioso e ironico (“cimabue” = “colui che scorna il bue”) nasce a
Firenze (Giorgio Vasari indica come anno esatto il 1240 nelle sue
Vite).
1250 Compie la sua formazione sotto maestri greci giunti a Firenze per
-60 lavorare in Santa Maria Novella: la fonte è sempre Vasari ma non ci
ca. sono certezze.
1272 Il 3 giugno di quest'anno è la data del primo documento che
riguarda il pittore: è registrato in un atto notarile a Roma, anche se
non sappiamo per quale motivo si trovasse nella città.
1274 Dipinge il Crocifisso di Santa Croce, che purtroppo è stato
-75 pesantemente rovinato durante l'alluvione di Firenze del 1966 e
ca. possiamo conoscere com'era in origine solo attraverso le fotografie
d'epoca.
1277 Secondo molti studiosi è in questi anni (sotto il papato di Niccolò
-80 III) che Cimabue realizza gli affreschi nella Basilica Superiore di
Assisi. Altri invece spostano il periodo assisiate agli anni 1288-1292
(sotto il pontificato di Niccolò IV).
1301 Gli viene affidato l'incarico di terminare il grande mosaico del
catino absidale del Duomo di Pisa: Cimabue riuscirà a realizzare
soltanto la figura del S
an Giovanni.
1302 Muore a Pisa.
Opere principali:
La croce riporta l'iconografia del Christus patiens, cioè un Cristo morente sulla
croce, con gli occhi chiusi, la testa appoggiata sulla spalla e il corpo inarcato a
sinistra. Il torace è segnato da una muscolatura tripartita, le mani appiattite sulla
croce e i colori preziosi, sia per l'uso dell'oro che del rosso.
Questo pittoricismo crea una pittura densa e pastosa, un corpo bronzeo, come
una lamina a sbalzo su una superficie piana, raggiungendo una tensione
muscolare e una volumetria ancora più marcate rispetto alla croce di Giunta a
Bologna.
Più dolce è il volto di Cristo, anche se ottenuto con uno stile ancora asciutto,
quasi "calligrafico". La smorfia di dolore è più realistica, in ossequio alle
richieste degli ordini mendicanti. il colore è steso in un tratteggio sottile che
imprime al volto uno stacco dalla tavola.
Sui volti di tutte le figure sono presenti una cavità profonda a forma di cuneo,
nel punto in cui il sopracciglio incontra la base del naso e sopra il labbro
superiore della Vergine è presente una striscia bianca che produce l'effetto di
uno sdoppiamento. Questi tratti bizantineggianti, che Cimabue ha ereditato dal
maestro o artista ispiratore Giunta Pisano, sono ancora presenti nel Crocifisso di
Santa Croce, ma scompariranno nelle opere successive. Ma è soprattutto il
profondo solco che dall'angolo dell'occhio attraversa tutta la guancia ad essere
rivelatore in questo senso: questo tratto arcaico è presente su tutti i volti di
questo crocifisso, solo accennato sul volto della Madonna dolente (ma assente
sugli altri volti) nel crocifisso fiorentino e del tutto assente a partire dalla
Maestà del Louvre, collocabile intorno al 1280.
I lati della croce sono decorati con figure geometriche che imitano una stoffa. Ai
lati del braccio orizzontale della croce sono presenti i due dolenti a mezzo busto
in posizione di compianto, che guardando lo spettatore piegano la testa e
l'appoggiano a una mano. Sono la Vergine e san Giovanni evangelista a sinistra
e destra rispettivamente, entrambi vestiti con l'agemina.
In alto è presente la scritta I.N.R.I. per esteso (Hic est Ihesus Nazarenus Rex
Iudeorum). Nel tondo in alto è raffigurato il Cristo benedicente.
Esistono tuttavia, rispetto all’opera del Giunta, delle differenze sostanziali sia
nelle forme, che risultano più incisive e forti, sia nel cromatismo che – pur
avendo minori effetti di lucentezza – è più vigoroso, potente e ben accordato
con le tonalità auree e rossastre della croce.
Cimabue (Cenni di Pepo, 1240-1302?), ha certamente una formazione
bizantina. Tanto alta è la sua fama che verrà ricordato anche dal Sommo
Poeta.
Esistono tuttavia, rispetto all’opera del Giunta, delle differenze sostanziali sia
nelle forme, che risultano più incisive e forti, sia nel cromatismo che – pur
avendo minori effetti di lucentezza – è più vigoroso, potente e ben accordato
con le tonalità auree e rossastre della croce.
Descrizione
Interpretazioni e simbologia
Storia
Il dipinto, che si trovava nella chiesa di San Francesco a Pisa (dove lo videro
Antonio Billi, l'Anonimo Magliabechiano e Giorgio Vasari), venne
trasportato a Parigi nel 1812, durante l'occupazione napoleonica da Jean
Baptiste Henraux, su interessamento diretto dell'allora direttore del Museo
Napoleone, particolarmente desideroso di implementare le raccolte di pittura
"primitiva" italiana. Fu oggetto delle spoliazioni napoleoniche. Dal 1814 fu
esposta al Louvre.
Descrizione
Appaiono curati tutti i dettagli, non solo la decorazione del trono, ma anche
la pieghettatura della veste di Maria, del bambino, degli angeli e perfino le
penne delle loro ali. I chiaroscuri degli incarnati sono modulati.
Inoltre si ha come l'impressione che gli angeli siano impilati uno sopra l'altro
piuttosto che uno dietro l'altro. Permane anche il problema della simmetria
ripetitiva degli angeli e della monotonia delle loro posture, con le teste reclinate
talvolta a destra, talvolta a sinistra, talvolta diritte, ma con una rappresentazione
invariabilmente “a tre quarti”. Appaiono disposti ritmicamente attorno alla
divinità secondo precisi schemi di simmetria, senza un interesse verso la loro
disposizione illusoria nello spazio: levitano infatti l'uno sopra l'altro (non l'uno
"dietro" l'altro).
Descrizione e stile
Essi sono riconoscibili dal cartiglio che recano in mano, contenenti versi del
Vecchio Testamento allusivi a Maria e all'Incarnazione di Cristo: appaiono
come testimoni che certificano l'evento prodigioso con le loro profezie, ed
evocano la discendenza del Salvatore dalla loro stirpe. Il primo, con il cartiglio
"Creavit Dominus Novum super terram foemina circundavit viro" è Geremia, a
cui seguono al centro Abramo ("In semine tuo benedicentur omnes gentes") e
David ("De fructu ventris tuo ponam super sedem tuam", e infine a destra Isaia
("Ecce virgo concipet et pariet") .
I due profeti centrali sono composti e solenni, quasi ripresi a discutere i misteri
della concezione e della verginità. Quelli laterali si torcono a guardare verso
l'alto, con una caratterizzazione assolutamente nuova; coi loro sguardi creano un
triangolo che ha il vertice alla base del trono di Maria. Può darsi che il
complesso delle quattro figure abbia una precisa spiegazione dottrinale: i
patriarchi al centro rappresentano la capacità raziocinate dell'uomo, che si
interroga sui misteri dell'incarnazione, mentre i profeti ai lati hanno sciolto ogni
dubbio avendola potuta contemplare nella sua pienezza, e ne sono rapiti
misticamente.
Le teste degli angeli sono inclinate ritmicamente verso l'esterno o l'interno,
evitando la rappresentazione di profilo, riservata allora solo alle figure
secondarie o negative (di lì a poco Giotto abbatterà questo principio). Ricordano
da vicino gli angeli della Maestà di Cimabue affrescata nella Basilica inferiore
di Assisi. I loro corpi sono solidi, modellati da un chiaroscuro delicatamente
sfumato e fluido (altra novità introdotta da Cimabue) nei panneggi delle vesti. I
colori rosso e blu delle loro vesti indicano la loro sostanza, ossia la fusione di
fuoco ed aria.
La tavola mostra lo stile maturo di Cimabue, in cui l'artista mostrò il
superamento più spinto della rigidità bizantina verso formule più sciolte e
umanizzate, che fecero di Cimabue secondo Vasari il primo a superare la
"scabrosa, goffa e ordinaria [...] maniera greca". La visione frontale del trono, il
volto della Vergine disteso e sereno, i dettagli del volto smussati e i chiaroscuri
sfumati pongono l'opera lontana dai canoni bizantini da cui Cimabue seppe
gradualmente affrancarsi.
La storia
Dalle Vite del Vasari (1568) si ricava che committenti furono i monaci di
Vallombrosa che la chiesero per l’altare maggiore della Chiesa di Santa
Trinità. Nel XV secolo (intorno al 1469-70, o forse poco dopo), per essere
sostituita dalla Trinità di Alessio Baldovinetti (Firenze, 1425 – Firenze,
1499), venne spostata su un altare laterale, e quindi trasferita nell’infermeria
del monastero di Santa Trinità. Ad inizio Ottocento l’opera si trovava presso
l’Accademia, ove vi rimase fino al 1919, anno in cui pervenne alla Galleria
degli Uffizi di Firenze.
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Nella vasta stesura parietale di segni calligrafici, con una elegante simmetria
nella composizione, le immagini ancora corrispondenti alle rigide regole
bizantine, ma apprensive e drasticamente lumeggiate, assumono una
drammaticità superiore. Risulta chiaro che la ricerca di un compromesso tra
spazio, movimento e plasticismo porta generalmente l’artista verso
l’insoddisfazione – che può tradursi in irrequietudine – oppure verso
l’esuberanza, quasi a riflettere la sua indole burbera e irascibile.
È questa una forte denuncia di Cimabue ove non affiora il minimo sintomo di
rassegnazione, in cui il dramma, già appena narrato dall’artista, si carica di
una problematica che rimarrà sempre attuale.
storia:
Nella metà inferiore, terrestre, il ritmo è reso altamente tragico dal triangolo di
linee di forza, dato dalle pose drammatiche delle due figure ai lati della croce, la
Maddalena a sinistra che distende le braccia e un ebreo che allunga il braccio
quasi a toccare il perizoma prolungato di Cristo, che simboleggia il
riconoscimento della figura divina di Cristo da parte di alcuni astanti.
Addirittura la Maddalena solleva anche un ginocchio, come se volesse lanciarsi
sulla croce accanto a Gesù. Scrisse Adolfo Venturi: «non è più il crocifisso con
ai lati le figure simmetriche del portaspugna e del portalancia, né quello con le
istorie del suo martirio su un cartellone! Nuova è la scena in cui il dolore e
l'odio irrompono da anime forti, le grida contrastano roboanti, i sentimenti si
urtano nella tempesta del cielo e della terra». Nella lunga coda del perizoma,
una novità iconografica, si moltiplicano le pieghe e le scanalature, con una
tendenza al realismo senza schematizzazioni, verso un recupero del
classicismo[1].
Ai lati si distendono due gruppi di figure. Quello di sinistra mostra Maria con la
mano al petto, nel gesto tipico del dolente, mentre Giovanni le prende la mano
per prendersene cura da allora in poi, secondo un episodio narrato solo nel
Vangelo di Giovanni. Seguono le tre Marie e una folla di personaggi in secondo
piano, tra cui si riconoscono numerosi uomini col capo coperto, gli Ebrei.
A destra invece si mischiano soldati romani ed ebrei, nelle loro espressioni di
perplessità (c'è chi si tocca la barba) e di scherno, ma qualcuno accenna a un
ripensamento, portando un dito alla bocca in segno di dubbio, e afferrandosi il
polso per indicare l'impotenza. Uno addirittura si batte il petto in segno di
pentimento, seguendo un passo del Vangelo di Luca (23, 47). Tra queste figure,
il volto giovanile dietro al centurione è pressoché identico a un personaggio
nell'Imposizione del nome al Battista nei mosaici del Battistero di Firenze (che
per questo fu attribuita a Cimabue). L'ultimo volto a destra in prima fila è molto
caratterizzato fisiognomicamente, a differenza degli altri, ed è stato ipotizzato
che si tratti di un autoritratto del pittore.
Il pittore mise i personaggi uno dietro l'altro per dare idea di profondità, ma non
seppe risolvere il conflitto di come essi poggiassero al suolo: ecco che i pochi
piedi dipinti (solo per le figure in primo piano), si pestano uno sull'altro, come
nei mosaici bizantini di San Vitale a Ravenna. I pochi colori originari superstiti,
sopravvissuti proprio in questa zona, dimostrano una grande raffinatezza, che
doveva da un effetto di delicata magnificenza: rosa, ocra, verde marcio,
marrone. Qui dopotutto era in corso la realizzazione della "più straordinaria
visione di forme e di splendori che artisti siano mai riusciti ad attuare" fino ad
allora[1].
San Francesco Alla base di questo triangolo sta rannicchiato san Francesco,
che è riconoscibile dalle stimmate e che si bagna col sangue di Cristo che scorre
sulla montagnola del Golgota fino al teschio nascosto di Adamo. Francesco
appare qui come intermediario tra l'evento sacro e il fedele[2]. La sua presenza è
stata interpretata anche come simbolo delle tribolazioni dell'ordine francescano
secondo le dottrine apocalittiche di Pietro Olivi e Gioacchino da Fiore, come a
dire che far soffrire Francesco e i suoi seguaci è come crocifiggere il Cristo una
seconda volta[1].
In ogni caso, ammettere un santo tra i giudei che furono responsabili della
crocifissione di Cristo (secondo la tradizione antigiudaica da san Giovanni in
poi) rappresenta un'apertura verso il mondo giudaico fino ad allora senza
precedenti, spiegabile forse con l'opera di redenzione ed evangelizzazione
universale portata avanti dai Francescani[6]. Duccio di Buoninsegna ad esempio,
nella Crocifissione della Maestà del Duomo di Siena, copiò la figura del
riconoscitore di Cristo da Cimabue, ma ne omise il nimbo, facendolo
ripriombare nell'anonimato della folla tumultuante[6]. A tale ipotesi di
accoglienza francescana può legarsi anche scelta di includere la preminenza
della figura della Maddalena, la prostituta pentita[5]. Il messaggio di Cristo
sembra così dare i suoi primi frutti già appena dopo la Crocifissione, con le
prime conversioni spontanee, allargandosi poi idealmente nell'espansione della
comunità credente attuata tramite gli Evangelisti, poi tramite la Chiesa e infine
arrivando a Francesco, il "nuovo evangelista"[7], raffigurato ai piedi della
croce[8].
Appare quindi un messaggio di speranza, che può riscattare anche chi ha errato,
invece di condannarlo insindacabilmente[9].
Maestà di Assisi
Sull’opera: “Madonna con il Bambino in trono, quattro angeli e San
Francesco” è un affresco di Cimabue, realizzato nel 1278-80, misura 340 x
320 cm. ed è custodito nella chiesa Inferiore di San Francesco (transetto
destro), ad Assisi.
Descrizione[
Situata nel transetto destro della basilica inferiore, mostra la Madonna col
Bambino in Maestà, cioè su un trono, tra quattro angeli e con una
rappresentazione di san Francesco in piedi a destra.
Il trono ligneo di Maria, elegantemente intagliato e un tempo abbellito da
dorature, è disposto in tralice come nella Maestà del Louvre, non ancora in
scorcio centrale come nella Maestà di Santa Trinita. Sulla spalliera si trova una
cortina ricamata. Maria tiene il Bambino sulle ginocchia con una sciolta
posizione asimmetrica, poggiando il piede destro su un gradino basso e quello
sinistro più in alto, anche per facilitare la tenuta del figlio che siede su quel lato.
Gesù, dal volto evidentemente ridipinto (come quello di Maria), tende una mano
a afferra con naturalezza un lembo della veste della madre, mentre Maria, dalle
dita lunghe e affusolate, gli accarezza un piedino. La forma delle mani è in
special modo tipica dell'artista e della sua cerchia, come si vede in opere come
la Madonna di Castelfiorentino. Alle ridipinture vanno ascritti anche i panneggi.
Stile
Descrizione e stile
A San Matteo viene abbinata la Giudea, a San Giovanni l’Asia, a S. Marco
l’Italia e San Luca la Grecia: gli evangelisti vengono rappresentati, secondo
la tradizione, con le regioni da essi stessi evangelizzate.
Le opere – eccetto il S. Matteo che andò in frantumi con il terremoto del
1997 ma che poi fu ricomposto in maniera certosina – si trovano in un
discreto stato di conservazione, soprattutto per ciò che concerne il valore
chiaroscurale, che qui conserva in parte il rapporto ritmico originale.
Secondo gli esperti si tratta certamente del primo ciclo pittorico dopo le
“storie” mariane, cui il Cimabue dava mano con articolata bellezza, e quello
ove egli ostenta – ancor più apertamente – il suo caratteristico linguaggio
pittorico e la sua più vasta vena poetica, che qui prende toni piuttosto irruenti
ma, allo stesso tempo, rigorosi.
Cristo in trono tra la Vergine e san Giovanni è il mosaico (385x223 cm) del
catino absidale del Duomo di Pisa. Si tratta dell'unica opera documentata di
Cimabue, che vi lavorò dal 1301, prima di morire l'anno successivo; lo
seguirono Francesco da Pisa e Vincino da Pistoia, che lo completarono nel
1320.
Descrizione e stile
Cristo sta assiso su un trono con un grande cuscino cilindrico, mentre benedice
e tiene aperto sulle ginocchia un libro su cui si legge "Ego sum Lux Mundi" ("Io
sono la luce del mondo"). La rigida frontalità ieratica del volto è contrapposta
alle complesse pieghettature del mantello azzurro che gli copre le gambe,
ravvivata dall'agemina, priva di schematismi che appiattiscono, ma anzi dalla
notevole resa volumetrica. L'orlo della veste rossa sottostante invece è più
piatto, e blocca il movimento e lo spessore del drappo soprastante. Anche qui
corre un'iscrizione. Il trono, a prospettiva inversa, mostra i bordi come se fosse
di forma trapezoidale, decorati da drappeggi sgargianti. Qui poggiano due
leoncini e due dragoni accovacciati. Un serpente e un basilisco si trovano invece
schiacciati sotto i piedi nudi di Cristo.
Ai lati si trovano la Vergine, con l'aureola gemmata e con la mano sinistra
sollevata e girata verso lo spettatore quasi a richiamare la sua attenzione, e san
Giovanni, che regge il libro e inclina dolcemente la testa, anche per assecondare
l'andamento dell'arcone. Questa figura è l'unica ritenuta interamente autografa di
Cimabue, Essendo l'unica opera documentata di Cimabue, la critica ha
ricostruito l'intero corpus delle opere dell'artista a partire da questo mosaico.
Abbastanza statico, è considerata da una parte della critica: una figura "fiacca e
stanca"[1], mentre un'altra parte parte vi legge influssi classicisti della scuola
romana, esaltandone la grazia (Supino, Chiappelli, Salmi, Battisti, Bologna.
Altri ancora vi vedono una figura malinconica ma senza imbronciature[2].
La figura del san Giovanni ha un'ampia dilatazione, una capigliatura gonfia,
un'aria malinconica quasi accennante al sorriso, regge il libro con entrambe le
mani, ha le dita massicce, il naso dritto, tutte caratteristiche che ritroviamo nel
Cimabue maturo, dagli affreschi di Assisi (1288-1292 circa) in poi e, in primis,
nella Maestà di Santa Trinita (1290-1300 circa).
In generale il mosaico intero evoca i mosaici delle chiese bizantine e normanne,
come Cefalù e Monreale in Sicilia, con una certa ampiezza nei panneggi
(sebbene discontinua), derivata dall'esempio dell'arte classica, mentre ancora
bizantine sono le schematizzazioni geometriche dei volti, delle mani e dei piedi,
con influssi neoellenici (cioè delle tendenze ultime nell'arte bizantina orientale)
nella delicatezza espressiva.
Gerarchie angeliche
La parte più vicina alla cupola mostra una serie di cornici con vivaci
decorazioni fitomorfe, alle quali segue una fascia con girali e rappresentazioni
figurate ritmate che somigliano a quelle della ruota nell'abside: una sorta di vaso
composto da elementi vegetali di fantasia corrisponde a ogni spigolo (allineati
nei registri più bassi si trovano le colonnine), dal quale escono due racemi che
creano grandi volute e un tralcio centrale. Dove si uniscono le volute
simmetriche e sopra agli elementi centrali si trovano testine entro clipei; sotto le
volute si trovano fontane elaborate alle quali si abbeverano copie di animali
derivate dalla simbologia paleocristiana: i cervi, i pavoni, gli arieti, gli aironi e
altri. Sotto questa fascia corre una cornice in cui si riconosce il motivo della
conchiglia.
L'anello successivo è occupato dalla rappresentazione, secondo lo
Pseudo-Dionigi, delle gerarchie angeliche, la cui identificazione è aiutata dalle
didascalie: al centro Cristo benedicente, col libro aperto in mano, è affiancato da
serafini (rossi) e cherubini (blu), i più prossimi a lui e gli unici con tre paia di
ali, ai quali seguono alternativamente a sinistra e a destra, separate da colonnine,
due coppie dei vari tipi di angeli, tutte identiche tranne quelle in asse con Gesù
che sono speculari:
● I Troni (da ora in poi a due ali), incaricati di trasportare con in
paradiso il trono di Dio e raffigurati con mandorle luminose nelle
mani, che secondo la convenzione bizantina simboleggiano proprio il
trono divino
● Le Dominazioni, da cui dipende l'ordine universale, rappresentate con
un lungo scettro sormontato dal trifoglio, simbolo della Trinità
● Le Virtù, che dispensano la grazia divina, infatti sono accanto a piccoli
uomini indemoniati che, seduti su blocchi, a esse si rivolgono
guardando in alto e stendendo le braccia, ricevendone la messa in fuga
dei diavoli che escono dalle loro bocche
● Le Podestà, che indossano corazze ed elmi crestati, incaricate di
sorvegliare la distribuzione dei poteri all'umanità
● I Principati, che vigilano sulle nazioni e stringono un vessillo crociato
● Gli Arcangeli, i grandi consiglieri inviati dal cielo, sono elegantemente
vestiti e recano cartigli, simboleggianti il messaggio divino.
● Gli Angeli, che sono i più vicini agli uomini e si prendono cura delle
loro preoccupazioni[3]
L'autore del primo registro, secondo Toesca, è lo stesso fra' Jacopo che lavorò
alla scarsella, coadiuvato da maestranze venete[2]. Le gerarchie celesti
spetterebbero invece, secondo la tradizione, ad Andrea Tafi e Apollonio, mentre
Ragghianti assegnò il Cristo al disegno di Coppo di Marcovaldo e le Potenze al
Maestro della Maddalena[2].
I tre spicchi sopra l'altare sono occupati dalla scena del Giudizio Universale.
Quello centrale è occupato quasi per intero dalla grande figure del Cristo
Giudice, che domina l'intera cupola da sopra l'altare. È seduto sui cerchi del
Paradiso e distende le mani, una rivolta all'alto, una al basso, a dirigere la
separazione tra giusti e dannati, mostrando con evidenza i segni della
crocifissione. La posizione delle gambe in tralice e la posa sfasata dei grandi
piedi evitando un effetto di rigida frontalità, grazie anche alla complessa
pieghettature della veste, resa straordinariamente dalle lumeggiature di tessere
dorate. Nell'aureola, col tipico motivo cruciforme, sono inseriti smalti simili a
specchietti, che compaiono anche nella decorazione del bordo della mandorla.
Ai suoi lati, organizzati su tre registri paralleli, si trovano in alto due schiere
angeliche quasi simmetriche, che portano i simboli della Passione e il necessario
per i giudizio, mentre due suonano le trombe dell'Apocalisse che sveglia, ai
piedi di Cristo, i mortali dai sepolcro.
Nel secondo registro si trovano due lunghi scranni addobbati come troni, su cui
sono seduti la Madonna (a destra di Cristo, con le mani levate), Giovanni
Battista (a sinistra, con un rotolo in mano) e i dodici Apostoli, ciascuno reggente
un libro aperto scritto coi più disparati alfabeti a ricordare la loro opera di
evangelizzazione del mondo dopo la discesa dello Spirito Santo. Tra i santi si
trovano teste d'angelo, affacciati da dietro gli schienali, ritmate gradevolmente
ora inclinandole verso destra ora verso sinistra. Ragghianti (1957) assegnò
queste scene a Meliore, in particolare confrontando san Pietro con il Dossale del
Redentore agli Uffizi.
Il registro inferiore mostra le rappresentazioni del Paradiso, a destra, e
dell'Inferno a sinistra. Le anime risorte sono subito prese da angeli o diavoli. Gli
Eletti sono sospinti verso un gruppo che, riconoscente a Dio, è accompagnato da
un grande angelo che tiene un cartiglio ("Venite Beneditti Patris Mei / Ossidete
Preparatum")[4] verso la Gerusalemme celeste. Qui un altro angelo, dalla veste
gemmata, apre la porta a un piccolo uomo trascinandolo per la mano; nella città
tre grandi patriarchi seduti tengono le animelle in grembo. Nella città celeste
crescono straordinarie piante variopinte e il terreno, simboleggiato da una
fascia, è un verde praticello punteggiato da fiorellini. Tra gli eletti, in prima fila,
si riconoscono un re e un frate domenicano, seguiti da tre vergini, alcuni
vescovi, e in fondo, un monaco con la chierica.
Orrendi diavoli con ali nere di pipistrello spingono invece i dannati verso destra
(sinistra di Cristo), dove essi si accalcano l'uno sull'altro calpestandosi,
tappandosi gli occhi e la bocca per il disgusto. La rappresentazione dell'Inferno
è dominata dal grande Satana cornuto, su un trono infiammato, che sgranocchia
un uomo mentre dalle orecchie gli escono due serpenti che addentano altrettanti
dannati. Mostri a forma di serpente, di rana o di lucertola escono dal suo corpo e
infieriscono sui dannati, che il diavolo calpesta. Gli animali che divorano i
dannati sono utilizzati per accentuare la natura insaziabile di Satana. Satana
viene spesso rappresentato nell'atto di inghiottire i dannati in quanto il motivo
infernale della "bocca divorante" riflette un'antica concezione della divinità
come principio creatore e distruttore. Le orecchie asinine sottolineano la natura
ferina e malvagia del demonio e sono l'attributo di Lucifero e dell'Anticristo. Le
corna derivano dalla rappresentazione del dio celtico Cernunnos e sono il
simbolo della sconfitta del paganesimo operata dalla Chiesa.[5]
I dannati sono gettati in voragini dai numerosi diavoli, impiccati, mutilati, arsi
allo spiedo, sbattuti o obbligati a bere oro fuso; un gruppo di dannate è avvolto
dalle fiamme. La scena infernale è attribuita concordemente a Coppo di
Marcovaldo, con alcune zone di minore irruenza assegnate da alcuni ad altri[2].