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Cuore e acciaio

CAP 1
Nel 1868 si chiude un lunghissimo periodo di pace in Giappone. L’epoca Tokugawa o Edo ( 1603-
1868), durante la quale i samurai hanno combattuto molto meno e sono entrati in crisi come privi
di una casta sociale. La crisi era soprattutto interiore, da qui il fiorire nell’epoca letteraria dei
metatabi mono, le “storie dei vagabondi”, poi frequenti anche a livello cinematografico.
Con la restituzione Meiji (1868-1912) fino al principio dell’epoca Showa (1926-1989), nascono
molte scuole di arti marziali, ed è in particolare all’inizio del XX secolo che avviene la rivoluzione,
ovvero il passaggio dal Jutsu (in latino “arte” e in senso specifico “tecnica”) a Do. Bujutsu indica
l’insieme delle discipline (marziali o guerriere) del samurai che hanno sempre avuto come scopo
quello di rendere inoffensivo l’avversario o di nuocergli fino alla morte. La diffusione delle armi da
fuoco alla fine del 800 fa diventare il bujitsu più obsoleto e da qui nasce l’esigenza di trasformare il
jitsu in do. Ovvero un percorso interiore finalizzato a una approfondita consapevolezza del sé,
raggiunta con l’unione corpo e spirito attraverso un severo allenamento marziale.
Kano Jigoro, l’inventore del judo, a soli 22 anni apre a Tokyo un suo dojo, il mitico Kodokan (ko
significa “processo di apprendimento” e kan è il lungo aperto, “luogo di promozione e
insegnamento della via”). Lo scopo era quello di offrire 9 tecniche di addestramento fisico e
morale. Ma la rivoluzione di Kano passa attraverso l’etichetta, l’utilizzo del judogi per la pratica
(kimono) e il sistema di grandi kyu/Dan adottato anche dall’aikido. Il successo del judo matura
abbastanza rapidamente. Nel 1886 la questura di Tokyo organizza un torneo tra ryu di jujitsu, il
Kodokan vince 13 gare su 15 (Sanshiro Sugata film).
Sanshiro Sugata realizzato da Kurosawa non ha vita facile a causa della censura di quei tempi. Il
film narra di un’amicizia affettuosa tra Sanshiro e la figlia di un avversario, gira scene sentimentali
che vengono osteggiate dai revisori perché accusate di “mollezza occidentale” e viene distribuito
con 17 min in meno. Il valore politico della pellicola sfugge forse agli occidentali, perché relativo al
confronto tra le due arti marziali. I duelli affrontati da Sanshiro sono 5. L’ultimo duello è con il
nobile Higaki e si svolge su una collina. Sanshiro sta per soccombere quando ha la visione di un
fiore di loto che sboccia, diventa tutt’uno con la natura, “cede” all’avversario e quindi vince,
perché la via è esattamente questa: armonizzare se stesso con il mondo e poi introiettare la forza
dell’altro.
Il colpo di genio di Kurosawa è quello di mostrare il cambiamento inverso del judoka. Il grande
successo di questo film ha portato alla creazione di un sequel (Sugata Sanshiro parte seconda) e
addirittura di un videogioco. I 5 rifacimenti e un seguito di sei decenni di Sugata Sanshiro sono la
riprova della popolarità del personaggio. La conferma arriva da Hong Kong, da Johnnie To.
Throw down (buttare giù, far cadere), i protagonisti sono: una ragazza, Mona aspirante cantante,
un ragazzo judoka Tony e un ex campione di judo, Sze-to, costretto al ritiro a causa di un glaucoma
che lo sta rendendo cieco. Tony lo aiuta a recuperare la forma fisica ma si presenterà al suo
incontro con Kong, bendato. Johnnie To rappresenta un mondo quasi irreale dove tutti praticano
judo. Egli sottolinea l’importanza del rialzarsi dopo ogni caduta.
Redbelt diretto da David Mamet, racconta la storia di Mike Terry, maestro di jujitsu brasiliano che
rifiuta l’agonismo ma alla fine è costretto a gareggiare perché travolto dai debiti. È il Budo, lo sport
praticato dal brasiliano che porta ad un’elevazione psicologica ben prima che fisica, anche se alla
fine del film, nell’eccellente lunga scena di combattimento Mike vince perché nel contesto
spettacolarizzato delle MMA, la lotta prevale sulla competizione. Il combattimento che chiude
Redbelt rimanda a quello finale di Sugata Sanshiro, ma qui si perde una qualunque connotazione
mistica e poetica, anzi la tenacia di Mike sta proprio nel voler strappare alla prosaicità
mercantilista del lungo (un’arena dove tutto è corrotto) il senso ultimo del Budo.

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