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Psicologia nei processi

vocazionali
Lezioni ISSR: febbraio – giugno 2015
Dr.ssa Chiara D’Urbano

Adveniat Regnum Tuum!


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Sommario
Il dramma degli abusi nella Chiesa Cattolica.....................................................................................................2
Backround of the report...............................................................................................................................2
Nature and Scope.........................................................................................................................................3
Gestione degli abusi fuori della Chiesa.........................................................................................................5
Cause and Context........................................................................................................................................7
Fattori istituzionali e situazionali..................................................................................................................9
I programmi di formazione nei seminari diocesani.......................................................................................9
L’atto di abuso: insorgenza, persistenza e cessazione................................................................................12
Strategie per la prevenzione delle situazioni..............................................................................................14
Emozioni.........................................................................................................................................................17
L’inizio del processo vocazionale................................................................................................................17
La memoria affettiva...................................................................................................................................18
Importanza del mondo delle emozioni.......................................................................................................19
Tre dimensioni della persona.....................................................................................................................22
La ricerca (cenni):.......................................................................................................................................24
I meccanismi di difesa....................................................................................................................................25
Natura e caratteristiche dei meccanismi di difesa.....................................................................................26
I livelli di difesa...........................................................................................................................................28
a. Rifiuto del reale – Problemi di comportamento.............................................................................30
Trasformazione del reale – Problemi di immagine.................................................................................31
c. Realtà accettata – capacità creativa (meccanismi protettivi di controllo)...........................................33
Conscio ed inconscio......................................................................................................................................33
il sistema motivazionale.............................................................................................................................33
Influenza dell’inconscio: scelta e perseveranza.........................................................................................37
Le diverse motivazioni................................................................................................................................40
Consistenze ed Inconsistenze vocazionali......................................................................................................46
Consistenze e inconsistenze.......................................................................................................................46
LIVELLI DI INCONSISTENZE..........................................................................................................................48
GRADO DI CENTRALITA’ DELLE INCONSISTENZE.........................................................................................49
4 tipi di consistenze/inconsistenze intrapsichiche......................................................................................49
La comunità: 9 principi di base......................................................................................................................51
La comunità................................................................................................................................................51
9 principi ‘base’..........................................................................................................................................53
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Convegno Internazionale per formatori e formatrici 7-11 aprile 2015...........................................................55

Il dramma degli abusi nella Chiesa Cattolica


Backround of the report
Gennaio 2002: la Chiesa cattolica americana viene travolta dallo scandalo mediatico ‘pedofilia’
suscitato da un’inchiesta di un quotidiano riguardo ad un caso di molestie sessuali.

Il caso solleva scalpore perché, dando l’avvio ad ulteriori indagini, fa emergere come esso non sia
un caso isolato: numerosi sacerdoti finiscono sotto accusa. Giornali, televisione e siti web si
scatenano e l’opinione pubblica rimane chioccata, soprattutto per l’estensione del fenomeno

La Chiesa avrebbe insabbiato denunce e coperto i propri sacerdoti, limitandosi a spostare gli
stessi da una parrocchia ad un’altra, senza intervenire con chiarezza e decisione e senza alcuna
tutela verso le vittime.

Problemi gravissimi sarebbero stati sistemati ‘dentro casa’ per non suscitare troppo clamore, per
cui si sarebbe preferito un atteggiamento ipocrita piuttosto che un intervento deciso.

La Chiesa viene accusata di complicità e omertà con i preti pedofili, e questo sarebbe stato reso
lecito da due documenti con cui la Santa Sede avrebbe rivendicato competenza assoluta sulle
autorità civili

Il dramma era ed è serio e la Chiesa ne ha preso coscienza riconoscendosi in ritardo rispetto alla
portata e alla gravità della situazione, spesso mal gestita.

Esseri umani indifesi hanno ricevuto ferite che mai nessuno potrà sanare e di questo ministri
deputati al benessere spirituale si sono resi responsabili.

In questa riflessione ci avvaliamo delle ricerche condotte su commissione della Chiesa cattolica
stessa che non è rimasta inerte e ha saputo constatare l’inadeguatezza iniziale delle proprie
strutture dinanzi ai drammatici eventi.

Nel febbraio del 2004 viene presentato «Nature and Scope» (1959 – 2002) alla Conferenza dei
Vescovi Cattolici degli Stati Uniti. Lo studio riferisce cosa sta accadendo: numero di abusi, loro
distribuzione geografica e temporale, caratteristiche dei preti accusati e dei minori abusati, la
risposta della Chiesa e infine l’impatto economico della triste vicenda. Nel 2006 viene presentato
un Report supplementare. Rimane tuttavia al di fuori il perché sia accaduto tutto ciò che ha
sconvolto la Chiesa

Nel 2010 un nuovo e selezionatissimo team di ricercatori del medesimo gruppo presenta un nuovo
studio:

Cause and Context (1950 – 2010) che integra il precedente Report con ricerche socioculturali,
psicologiche, situazionali ed organizzazionali. Uno dei punti deboli delle precedenti ricerche, era
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stato infatti una lettura riduzionista del problema dell’abuso sui minori, spesso centrata
esclusivamente sulla natura del singolo, e sul livello di rischio individuale, nell’opinione comune,
peraltro, considerato elevato soprattutto in presenza di un ‘omosessuale’ o di un ‘celibe’. Scarsa o
nessuna attenzione veniva riservata al possibile contributo dei sistemi istituzionali, rispetto alla
radice del problema.

L’inevitabile limite di essere studi retrospettivi non inficia la fondatezza delle conclusioni cui sono
giunti, peraltro confermate da una quantità di studi trasversali.

Questi due studi, unici nel loro genere, sono stati condotti in modo molto accurato per l’ampia
campionatura di soggetti intervistati (preti accusati, preti non accusati, vescovi, consulenti ed
esperti nell’assistenza delle vittime di violenze), per l’impiego di fonti qualificate, per la
molteplicità di prospettive analizzate e per i confronti longitudinali con altri fenomeni, lungo un
considerevole arco di tempo.

Nature and Scope


Il materiale che il primo studio presenta è denso e dettagliato. Il problema degli abusi è
realmente assai vasto. Quasi il 95% delle diocesi e circa il 60% delle comunità ne sono rimasti
coinvolti. Nature and Scope indica dal 3% al 6% del totale dei preti
impegnati nel ministero, il numero di quelli incriminati, e circa il 2,7% i religiosi preti, il che
suggerisce, come prima osservazione, che, nonostante il rumore dei media, gli abusi di minori
nella Chiesa costituiscono comunque una piccola percentuale del totale di quelli che avvengono
negli Stati Uniti. Questo tuttavia non è di grande sollievo.

I preti abusanti sono per la maggioranza diocesani (69%); l’età, quando si inizia, varia dai 25 ai 90
anni, e il primo abuso, nel 40% dei casi, avviene tra i 30 e i 39 anni di età; la vittima è
generalmente una e per la maggior parte (81%) è di sesso maschile, dato che contrasta con la
distribuzione delle vittime di crimini sessuali negli Stati Uniti, dove c’è una prevalenza femminile.
Studi recenti condotti sugli abusi nelle istituzioni confermano comunque un’alta percentuale
maschile delle vittime di abuso.

Occorre notare, che il ‘titolo’ di preti pedofili che ormai i media divulgano con grande facilità, non
corrisponde alla realtà dei fatti, dal momento che meno del 5% dei preti con accuse di abuso ha
avuto condotte che corrispondano ai criteri diagnostici psichiatrici della pedofilia che riguarda
fantasie, impulsi e comportamenti sessuali verso bambini prepuberi, cioè intorno agli 11 anni di
età, come concorda la letteratura scientifica, pur se lo sviluppo avviene in età differenti.

Il dato, ovviamente, è tutt’altro che consolante, tuttavia esso evidenzia il rischio di una leggerezza
mediatica nel fornire al pubblico informazioni spesso parziali e non accuratamente documentate,
in un campo così delicato e complesso che, in quanto tale, invece esigerebbe la massima
discrezione.

Il tipo di abuso commesso varia tra oltre una ventina di modalità di espressioni. Purtroppo quasi
tutti
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i preti accusati hanno commesso più di una modalità di abuso coinvolgendo i giovani in attività
sessuali esplicite e solo pochi si sono limitati a contatti meno invasivi. Il 41% dei casi avviene
nell’abitazione del ministro, il 16% in chiesa, il 12% a casa della vittima, il 10% nelle case per
vacanze, il 10% a scuola e infine il 10% in macchina.  

“Non è bene che l’uomo sia solo” (Gn 2,18)

 La netta prevalenza dei preti diocesani nelle azioni di abuso non è passata inosservata. Se è
vero, che non è il celibato in se stesso a costituire la causa, né un fattore di rischio verso
comportamenti di devianza sessuale, è altrettanto vero che lo stile di vita condotto dalla maggior
parte dei preti diocesani è da considerare attentamente in quanto può minare il loro equilibrio
affettivo. Spesso soli nel loro ministero, senza un gruppo umano di riferimento e talvolta anche
isolati ‘geograficamente’, quando la parrocchia sia in periferia e quindi il prete non sia
immediatamente a contatto con altri con i quali possa avere uno scambio alla pari.

Gli oneri pastorali, la mancanza di una famiglia di appartenenza con il senso di solitudine che
questo comporta, l’umano bisogno di intimità che non trova espressione in rapporti di amicizia e
di affetto sani, l’essere senza una ‘supervisione’ riguardo al proprio operato, possono favorire
forme di devianza sessuale e quindi episodi di abuso.

Il religioso che viva in comunità e che quindi abbia incontri quotidiani di fratellanza, scambio e
‘vigilanza’, essendo meno solo, è maggiormente garantito rispetto a derive sessuali. Spesso, fra
l’altro, gli abusi avvengono proprio nella canonica dove il prete vive per conto proprio.

È questo un aspetto che oggi, a partire dalla formazione in seminario, viene preso sempre più
seriamente in considerazione mentre vengono incoraggiate piccole fraternità di preti che possano
condividere la preghiera, i pasti e quindi le responsabilità ministeriali, riducendo così il rischio di un
isolamento che, alla lunga, diventa insostenibile

Dal 1950 al 2002 si sono registrate delle evidenti oscillazioni ‘quantitative’ dell’incidenza del
fenomeno:

il numero di casi annuali è cresciuto costantemente


dal 1950 al 1970, in tutte le 14 aree episcopali nelle
quali la Conferenza dei Vescovi (USCCB) ha suddiviso
la Chiesa cattolica negli Stati Uniti, e ha raggiunto il
suo massimo picco tra la fine degli anni ’70 e gli inizi
degli ’80, per poi ridiscendere intorno al 1985, fino al
2002, quando comunque il numero continua a
decrescere. Il report supplementare del 2006 conferma questi dati di crescita e diminuzione.

Prima del 2002 tuttavia pochi incidenti erano a conoscenza dei leader civili o ecclesiastici, 1/3 di
tutti gli abusi emersi in quell’anno, in seguito all’interesse dei media, era la prima volta che
venivano registrati, nonostante fossero avvenuti anche molti anni prima.
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Questo silenzio può aver influito in qualche modo sull’incidenza degli abusi (ricordando tuttavia
che tale difficoltà di denuncia esplicita è tipica di ogni istituzione)? E come giustificare l’oscillazione
degli abusi?

Sarà il secondo Report ad affrontare l’aspetto ‘motivazionale’ di tutti questi dati.

Gestione degli abusi fuori della Chiesa


Sembra interessante e comunque utile proporre un quadro sulla gestione del problema da parte
di altre realtà istituzionali.

Nessuna organizzazione ha condotto studi specifici ed accurati sulla propria situazione, come ha
coraggiosamente fatto la Chiesa cattolica e questo rende difficile una comparazione percentuale
accurata riguardo agli abusi perpetrati al di fuori di tale realtà.

È solo del 2004 il report più rilevante in merito agli abusi scolastici considerati “deplorevolmente”
sottostimati, nonostante le diverse forme in cui si estrinsecano condotte sessuali inopportune,
soprattutto da parte di insegnanti ed educatori che, per il tipo di materia insegnata, trascorrono
del tempo individuale col singolo alunno, piuttosto che col gruppo classe. Ma la ricerca in campo
scolastico è ancora ad uno stadio ‘primitivo’, in quanto i dati finora raccolti non hanno rilevanza
statistica, cioè non sono generalizzabili.

Riguardo alle organizzazioni sportive dalla metà degli anni ‘80 esse hanno attivato una serie di
studi sul problema degli abusi specie da parte degli allenatori (coaches), come anche di altre figure
rilevanti: medici e psicologi sportivi. Spesso gli abusanti, nonché referenti sportivi, istaurano un
rapporto di fiducia con la famiglia (tattica del grooming), il che rende difficile l’individuazione del
problema in corso. Inoltre l’abuso, quando venga finalmente denunciato è ormai concluso da anni,
anche per il timore degli sportivi di possibili ripercussioni di vendetta, in particolare quando la
disciplina sportiva sia condotta a livello professionale. Anche questi studi, però, sono ancora
parziali e limitati.

Dagli abusi all’interno delle istituzioni religiose non sono esenti quelle non cattoliche: uno studio
del 1996 condotto all’interno delle Chiese protestanti riferisce di un 10% di condotte sessuali
devianti da parte dei propri ministri, di cui il 2-3% riguarda abusi su minori. Tuttavia i risultati
non sono indicativi della globalità del fenomeno nelle stesse Chiese e questo a causa delle
strutture autonome e autocefale in cui esse sono organizzate, ciascuna delle quali ha impiegato un
proprio sistema valutativo in merito alla questione ‘abusi’.

La rivista Time nel 2008 punta i riflettori sulla Chiesa Battista, la più ampia fra quelle protestanti,
facendo notare come, riguardo al problema della pedofilia, mentre l’attenzione viene concentrata
sulle parrocchie cattoliche, quelle protestanti, per l’assenza di gerarchia e la conseguente carenza
di sistematizzazione dei dati, sono spesso inefficienti, e tale negligenza ricade negativamente sui
leader riducendo la loro possibilità di intervento ed, evidentemente, sulla possibilità di giustizia
per le vittime.
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Ancora: I testimoni di Geova – così riferisce un reporter del New York Times nel 2003 - adottano,
verso i sexual offenders, una politica di matrice biblica che prevede una gestione privata dei casi di
abuso, valutati di fronte ad un consesso di anziani. L’accusa può essere supportata da due
testimoni che ne verifichino la veridicità, o dalla confessione diretta del colpevole. Non in tutti gli
stati, tuttavia, vige l’obbligo che le comunità sporgano denuncia alla polizia. Numerose sono state
le accuse di lassismo da parte di ex membri del Movimento, molti dei quali allontanati proprio per
tale atteggiamento critico verso la politica adottata dai Testimoni di Geova che avrebbero
insabbiato o comunque mal gestito la questione...

La Comunità ebraica dispone di due organizzazioni che si occupano di abusi, The Awareness
Center e Survivors for Justice, tuttavia l’ala ortodossa non approva l’ingerenza della cultura ‘laica’
nelle questioni interne alla famiglia naturale e di fede. Questo sistema protettivo verso
l’istituzione, pur motivabile, ha comportato l’ovvio risultato che il sistema di giustizia criminale
non è potuto intervenire sui sexual offenders e la mancanza di trasparenza non ha reso possibile
studi statistici sull’incidenza degli abusi all’interno della Comunità ebraica ortodossa

I pochi studi che sono stati condotti, comunque su un campione parziale, non sono
sufficientemente rappresentativi della situazione generale. Un segnale positivo di sforzo verso una
politica più attiva viene dal Distretto di Brooklyn che, attraverso un programma radiofonico,
incoraggia le vittime a denunciare gli abusi, e con varie attività nelle scuole e nelle comunità crea
spazi per poterne discutere più apertamente.

La famiglia è anch’essa frequente occasione di abusi, Nature and Scope rileva una similarità di
caratteristiche con il gruppo di preti abusanti e riporta studi condotti sul profilo del familiare che
abusi di un minore. La figura del prete e quella del familiare sono entrambi caratterizzati da un
ruolo di grande fiducia e di autorevolezza che riducono le distanze dalla vittima e facilitano
l’approccio intimo con lei. Gli studi condotti sulle dinamiche familiari possono quindi costituire un
ulteriore punto di riferimento nella comprensione della situazione abusi all’interno della Chiesa.

In linea generale le ricerche riportano che, rispetto a quelli ‘esterni’, l’abusante all’interno della
famiglia, - generalmente non è giovanissimo di età, non è recidivo con altri, ha un maggior grado
di istruzione ed è recettivo ai trattamenti cui si sottopone.

Il background di provenienza è problematico mentre nella vita attuale sembra essere


generalmente insoddisfatto della relazione col partner, tanto che spesso sono proprio i figli ad
essere avvicinati sessualmente; problemi di lavoro e/o problemi d’ansia possono essere cause
scatenanti il primo atto. C’è inoltre un forte legame tra abusanti intrafamiliari e dipendenza da
alcol…

Interessante notare, come altri studi riferiscono, che l’abusante all’interno della famiglia
generalmente non mostra segni di psicopatia, né atteggiamenti violenti che permettano un
‘riconoscimento’ a priori e non ha altri precedenti con la giustizia; presenta però una certa
vulnerabilità psicologica ed emozionale, personalità debole, scarsa apertura, e distorsioni
cognitive che tendono a minimizzare il dolore causato alla vittima. Cause and Context conferma i
medesimi risultati riguardo ai preti abusanti.
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Cause and Context


I dati emersi dalla precedente ricerca, sebbene abbiano rilevato una percentuale minima di abusi
nella Chiesa, rispetto al resto della società americana, e quindi abbiano collocato il problema come
storico-sociale, piuttosto che istituzionale-ecclesiastico, non potevano rimanere senza seguito.
Cause ad Context cerca di trovare risposte al perché la Chiesa abbia visto un notevole incremento
del problema in un ben preciso arco temporale e poi una nuova diminuzione che si è mantenuta
fino ad oggi.

• Dove Ella può aver mancato? Che cosa ha fatto aumentare e poi diminuire la frequenza
degli abusi?
• C’è qualcosa che possa ancora contribuire ad una sua riduzione?
• Qualcosa che possa prevenire l’insorgenza delle cause?

Il periodo storico maggiormente colpito, come è già stato anticipato e lo ricordiamo, abbraccia la
fine degli anni ’60 e la metà dei ’70. Il desiderio legittimo di ricondurre ad un’unica causa ben
definita e circoscritta il fenomeno dei sexual offenders non ha trovato però realizzazione in
nessuno dei due Report americani, che hanno dovuto fare i conti con la sua complessità sia in
seno alla Chiesa cattolica, che fuori, e quindi con la necessità di un’analisi multifattoriale: sociale,
psicologica, di sviluppo e situazionale. Tuttavia derive riduzionistiche non sono mancate.

Tra le cause scatenanti l’abuso i media si sono, infatti, concentrati spesso sul celibato a cui la vita
sacerdotale è legata, facendo passare, neppure troppo velatamente, il messaggio che chi sceglie di
rinunciare ad una vita di coppia, in nome di un Ideale, è ipso facto a rischio di devianza sessuale.

In realtà, stante l’impegno che il celibato richiede, a cui si associa una vita di castità in quanto
rinuncia ad espressioni sessuali/genitali in chi non abbracci una scelta di vita matrimoniale, non c’è
una ragione valida – e infatti non ci sono prove scientifiche al riguardo – per cui una pratica, che
ormai nella Chiesa ha secoli di vita, possa essere causa di un fenomeno di picco quale quello che
si è verificato negli anni suddetti.

A riprova di ciò, fra l’altro, si deve considerare che la grande maggioranza di abusi sessuali su
minori è stata compiuta da non-celibi! Il celibato, per ovvia deduzione, non può essere
annoverato tra le cause della crisi attraversata dalla Chiesa. Un altro dato da chiarire e spesso
oggetto di interpretazioni esplicative frettolose e distorte: l’impatto del Concilio Vaticano II è noto
che abbia ‘dissestato’ molti sacerdoti e religiosi/e che hanno abbandonato la via intrapresa;
questo ha comportato un aumento di lavoro per quelli rimasti ‘sul campo’ e senz’altro, per tutti,
un momento di disorientamento…

È possibile comunque ricostruire un identikit del ‘prete abusante’? Purtroppo no.

Test di personalità e valutazioni cliniche non hanno rilevato nel gruppo dei preti abusanti disturbi
dell’umore, disturbi cognitivi, né altre differenze psichiatriche in misura significativa rispetto al
gruppo di controllo. I preti con accuse di abuso non hanno più patologie di quelli che non hanno
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mai commesso simili reati. Si è voluta, inoltre, valutare la modalità di comportamentale sessuale
dei ministri che hanno avuto episodi di devianza verso i minori, prima e durante la vita del
seminario.

Coloro che avevano avuto esperienze sessuali prima di iniziare il cammino o durante la
formazione, più facilmente ripetevano tali esperienze anche dopo l’ordinazione sacerdotale,
tuttavia i partners scelti erano prevalentemente adulti. Dunque un comportamento sessuale
attuato prima dell’ordinazione, può far supporre che sarà ripetuto anche dopo l’ordinazione, ma
non permette nessuna inferenza rispetto agli abusi sui minori

In altre parole: preti che avevano avuto esperienze sessuali durante gli anni di seminario e
coloro che non ne avevano avute avevano la stessa probabilità di commettere abusi sui minori.
Lo stesso discorso vale riguardo alla masturbazione o alla pornografia: tali condotte, anche post-
ordinazione, non consentono nessuna relazione significativa rispetto ad episodi di abuso

Riguardo all’identità sessuale del partner, poiché l’omosessualità è stata spesso indicata tra i
fattori ‘a rischio’ il Report ha indagato anche sulla sua eventuale incidenza. Neppure in questo
caso, però, è emerso un risultato che permetta di collegare l’uno, l’omosessualità, all’altro, la
devianza verso i minori.

Piuttosto si può dire che: coloro che hanno avuto relazioni omosessuali prima di entrare in
seminario sceglieranno come partner adulti del medesimo sesso; coloro che invece non hanno
avuto relazioni sessuali verso il medesimo sesso scelgono il partner fra uomini ma anche fra
donne. Quanti hanno mantenuto vive relazioni omosessuali durante gli anni della formazione in
seminario, hanno proseguito nella medesima direzione dopo l’ordinazione, tuttavia i partners
erano prevalentemente adulti

Si è trovato, inoltre, quale filo rosso rilevante che accomuna le personalità dei preti abusanti i
minori, una ‘motivazione’ coattiva a ripetere (la teoria dell’abusatore abusato): la maggior parte
di loro era stata a sua volta abusata da piccola, o aveva avuto legami familiari deboli, e una scarsa
o nulla dimestichezza con l’argomento ‘sesso’. Tuttavia… poiché nessun dato permette un
rapporto diretto di causa-effetto, ciascun elemento anamnestico deve essere ulteriormente
contestualizzato con la personalità totale del ministro e nell’ambiente formativo che ha
sostenuto il suo cammino vocazionale: in generale i preti ordinati tra il 1930 e il 1970 mostrano
una maggiore vulnerabilità psicosessuale e maggiori difficoltà nel gestire la vita celibataria.

Riassumiamo queste ultime considerazioni per trarne alcune conseguenze:

non è possibile rinvenire una linea di demarcazione chiara e netta, del tipo
normalità/patologia che sia utilizzabile per identificare a priori soggetti a rischio di abuso
sui minori;
la storia familiare, come anche il comportamento sessuale prima e durante l’ordinazione,
hanno senza dubbio un peso notevole, ma non sono necessariamente predittivi di un
futuro abuso;
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una certa vulnerabilità psicologica/emozionale connota i preti abusanti, che però, da sola,
non basta a ‘giustificare’ l’esito dell’abuso.
La popolazione di preti abusanti, come del resto degli abusanti i minori, laici, è quindi eterogenea:
varia per età, razza, etnia, provenienza socio-economica.

Fattori istituzionali e situazionali


Diventano allora essenziali strumenti di valutazione adeguati che sappiano individuare disagi
psicologici che possono – lo sottolineiamo ‘possono’ – costituire, nel tempo, terreno fertile per
situazioni di devianza ma soprattutto un’accurata analisi dei fattori istituzionali e situazionali
associati all’abuso per poterne prevenire l’accadimento.

 La generazione di sexual offenders maggiormente interessata da situazioni di abuso ha ricevuto la


sua formazione prima degli anni ’70, il che riporta la questione nuovamente su un piano sociale
ed istituzionale. Questo non vuol dire deresponsabilizzare i singoli rispetto ai loro agiti, quanto
piuttosto ampliare l’analisi tenendo conto di cosa è avvenuto nella Chiesa, e prima ancora nel
‘mondo’, negli anni ‘incriminati’.

Tra i fattori che Cause and Context ha rinvenuto essere rilevanti per il cambiamento nell’incidenza
degli abusi nella Chiesa ci sono: divorzio, uso di droga e criminalità, tutti registrati in un aumento
del 50% tra il 1960 e il 1980. Ciascuno di essi in qualche modo viola delle convenzioni istituzionali:
matrimonio e norme di condotta sociale. Il parallelismo è evidente. Una maggiore inquietudine ha
attraversato i costumi della società americana,e la Chiesa non ne è rimasta immune. Entriamo
però nello specifico

Il numero dei seminaristi, tra il 1950 e il 1959 è cresciuto del 28%, con la nuova organizzazione dei
seminari che ha ‘sganciato’, come non più obbligatorio, il seminario minore da quello maggiore, e
ha ottenuto l’accreditamento regionale e statale dei titoli di studio ottenuti nel percorso
istituzionale. Questo ammodernamento, se ha ridotto l’isolamento accademico - sociale dei
seminaristi, ha anche incoraggiato molti ad intraprendere la via del sacerdozio, attirati, forse, dalla
possibilità di portare avanti degli studi qualificati. Ma quali ambienti hanno accolto tali richieste?

L’attenzione si va allora restringendo, inevitabilmente, sulle strutture formative che erano


chiamate a recepire le accresciute domande di ingresso in seminario. Nessuno, tuttavia, è riuscito
a ‘localizzare’ specifiche strutture seminariali: i preti abusanti provenivano da tutto il territorio
degli Stati Uniti.

I programmi di formazione nei seminari diocesani


 È ormai noto che la formazione nei seminari, come negli istituti religiosi, ha compiuto un suo
ulteriore percorso di revisione e cambiamento (già attivato dal Concilio Vaticano II), peraltro lento
e non uniforme, negli ultimi 25 anni, in seguito alle direttive del Vaticano e delle Conferenze
Episcopali come risposta ai problemi di abuso nella Chiesa. Fino alla metà degli anni ’80 i
programmi formativi riguardavano ambiti spirituali, accademici e pastorali, mentre alle tante
parole relative alla necessità di un equilibrio maturo e di un’umanità integrata, non corrispondeva,
nel concreto, un cammino umano previsto nello specifico
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La “formazione umana”, secondo la nota espressione di Giovanni Paolo II nell’Esortazione


apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis del 1992 – “senza un'opportuna formazione umana
l'intera formazione sacerdotale sarebbe priva del suo necessario fondamento” (n.43) – era
considerata, pur non esplicitamente, una sorta di ‘lusso’, secondaria comunque a quella spirituale.

Lo scopo ultimo era quello di garantire fedeltà ministeriale e uno sviluppo maturo soprattutto per
il bene delle persone che i ministri avrebbero servito nella futura attività pastorale e per
“accettare i pesi della vita sacerdotale, in particolare il celibato” (così riferisce testualmente il
Report).

La persona in se stessa aveva un ruolo piuttosto strumentale rispetto all’apostolato da portare


avanti. Figure ibride di ‘consulenti’ e ‘tutor’ provvedevano invece a coadiuvare la conoscenza di sé
e quindi il foro esterno. Il discernimento era logicamente fondato sulle qualità spirituali del
candidato, ma la valutazione avveniva in modo piuttosto ambiguo dato che i direttori spirituali non
potevano prendere parte agli incontri in merito, a motivo della confidenzialità del rapporto col
giovane. E così progressi e limiti della persona in cammino rimanevano confinati in un foro
interno...

A metà degli anni ’90, per quanto alcuni cambiamenti nei contenuti formativi si rendano
evidenti, è ancora relativamente scarsa l’attenzione agli aspetti umani nella preparazione dei
seminari, o meglio essi iniziano ad essere accennati ma non è previsto, se non in rarissimi casi, un
programma specifico con obiettivi e scopi ben definiti. Purtroppo occorre attendere il dramma
del post 2002 per poter registrare una vera svolta nella formazione sacerdotale e, solo tra il 2005 e
il 2010, i programmi dei seminari finalmente dedicano un’attenzione adeguata alla maturazione
umana, anche dal punto di vista della sessualità, perché il candidato impari a vivere, in modo
consono, un celibato casto.

L’attenzione alla persona diventa più completa e quindi meno settaria: gli aspetti umani, spirituali,
intellettuali e pastorali, i 4 pilastri formativi, sono ormai considerati correlati e quindi inscindibili,
sebbene ciascuno abbia una propria specificità di contenuti e scopi.

Particolare importanza viene riservata allo sviluppo di relazioni fraterne positive e all’interazione
fra seminaristi. Viene incentivata, inoltre, la formazione di una coscienza morale propria, non
delegata pertanto all’istituzione, perché ciascuno diventi responsabile della propria condotta, ed
emotivamente maturo, capace di scegliere il bene e di vivere in castità secondo l’ideale di vita
abbracciato

Gli incontri di valutazione a questo punto assumono anch’essi un altro spessore: c’è un’equipe
formativa che valuta il processo di crescita del candidato secondo le diverse prospettive e indica
alla persona stessa i punti deboli sui quali deve concentrarsi il suo impegno.

Vengono presi in seria e specifica considerazione la comprensione, da parte del candidato, del
significato del celibato e di cosa esso implichi, i comportamenti da lui tenuti, l’impegno ascetico e
le conoscenze teologiche acquisite.
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Per la prima volta vengono esplicitati alcuni parametri che devono essere accuratamente valutati
prima dell’ordinazione sacerdotale, in linea con le indicazioni del Magistero:

esperienze o inclinazioni omosessuali;


se il candidato sia stato vittima di abusi e come è stata affrontata la questione;

Viene chiarito, inoltre, che diventa causa di dimissione il venire a conoscenza di una qualunque
attività di natura sessuale verso minori o un’inclinazione verso di essi. Infine: i seminari diventano
più sensibili e quindi vigilanti nel verificare che il candidato sia verosimilmente in grado di
affrontare una vita celibe e sia sufficientemente maturo dal punto di vista affettivo

Si può quindi concludere che:

- i cambiamenti sociali che hanno caratterizzato la decade ’60 – ’70 con il relativo aumento
di comportamenti devianti, hanno toccato tanto la società civile, quanto la Chiesa;
- la pratica del celibato, che ha radici remote, non ha avuto caratterizzazioni diverse nel
corso della storia della Chiesa che possano giustificare l’aumento di abusi fra gli anni ’60 e
gli anni ’80;
- non sono emerse differenze significative fra coloro che sono stati educati fin dal seminario
minore e quelli educati solo nel maggiore
- il problema degli abusi è un problema nazionale: non ci sono particolari incidenze in
determinate aree geografiche;
- - infine la maggior parte dei preti accusati di abuso ha frequentato il seminario prima degli
anni ’70 e molti di essi erano in seminario fra gli anni ’40 e gli anni ’50.

Alla luce di tutte le considerazioni fatte finora è lecito pertanto concludere – ed è quanto riferisce
Cause and Context – che non può trovarsi una ragione attribuibile a qualche deficit della Chiesa
cattolica, per l’aumento degli abusi sessuali sui minori negli anni ’70 - ‘80, perché il fenomeno di
devianza sessuale può definirsi un fenomeno storico-sociale, che ha riguardato tutta la società,
anche in altre forme di abuso: droga e criminalità. Ciò che invece ha avuto una positiva incidenza
nella diminuzione degli abusi, dal 1985 in poi – segno che la Chiesa ha preso in seria
considerazione la crisi in corso – è stato il rinnovamento dei programmi formativi per i candidati
al sacerdozio.

I seminari hanno aumentato gli standard selettivi dei candidati, introducendo un percorso
specifico di ‘formazione umana’, che aiuti la persona a rendersi conto delle esigenze della vita che
sta scegliendo e di cosa significhi abbracciare il celibato, cosa lo favorisca e cosa lo minacci nel
concreto di ogni giorno; hanno affiancato figure professionali esterne per sostenere e verificare la
maturità umana del futuro prete; hanno reso più rigoroso il discernimento in vista
dell’ordinazione sacerdotale, in quanto non devono essere presenti dubbi riguardo la capacità del
candidato di saper affrontare una vita di astinenza sessuale.

I dati parlano da soli in merito all’efficacia di tali cambiamenti: da 975 i preti accusati fra il 1985 e il
1989 il numero è sceso a 253 fra il 1995 e il 1999 e ancora a 73 fra il 2004 e il 2008
12

 L’atto di abuso: insorgenza, persistenza e cessazione


Ricordiamo, inoltre, che una piena consapevolezza del peso e della pervasività di tali esperienze su
giovani esseri umani purtroppo è solo di recente acquisizione… Le vittime sessuali colpite in
giovane età riportano problemi spesso irreparabili o con i quali dovranno sempre ‘fare i conti’
lungo il corso della vita:

 problemi di ansia;
 problemi depressivi fino ad ideazioni suicidarie per l’insostenibilità del peso morale;
 abuso di sostanze per stordire e tentare di cancellare l’esperienza spesso protratta nel
tempo;
 problemi emotivi come gestione della rabbia, risentimento, difficoltà a convivere con
un’immagine di sé ormai ‘macchiata’, e quindi accompagnata da
 perdita di stima;
 sentimenti di vergogna e colpa.
L’identità sessuale e le relazioni interpersonali restano anch’esse segnate sovente
irreparabilmente: la fiducia negli altri è stata minata, e le reazioni sono le più disparate:

incapacità di stringere relazioni affettive profonde, comportamenti sessuali promiscui,


instabili, confusi,
disturbi comportamentali e addirittura antisociali, disturbi alimentari,
forme di delinquenza…

Ogni ambito di vita della vittima viene in qualche modo solcato da un’esperienza che è ancor più
grave, rispetto ad una qualunque forma di violenza, in quanto perpetrata da una persona di
estrema fiducia quale può essere un ministro della Chiesa.

Un Autore che si è occupato dell’insorgenza dell’atto di abuso è Finkelhor, citato da Cause and
Context,il quale ha individuato in 4 fattori le condizioni previe perché si verifichi un abuso
sessuale:

1. motivazioni all’abuso;
2. superamento delle inibizioni interne;
3. superamento dei fattori esterni;
4. superamento della resistenza del minore

La I. precondizione riguarda la ‘motivazione’ dell’abusante che può consistere in una sorta di


‘vicinanza emotiva’ con la vittima e in un crescente bisogno sessuale affiancato da difficoltà verso
relazioni interpersonali ‘normali’. Particolarmente interessanti gli altri 3 fattori che riguardano il
superamento di una serie di resistenze.  

Premesso che il prete abusante sia in grado di ‘intendere e di volere’ e quindi disponga del
proprio libero arbitrio, cosa gli permette di superare le inibizioni interne?
13

un meccanismo di ‘razionalizzazione’ che si avvale di ‘scuse’ (excuses) e ‘giustificazioni’


(justifications) – le ‘tecniche di neutralizzazione’ – fa sì che l’abusante ottunda la propria coscienza
e l’abuso possa non soltanto essere iniziato, ma anche perdurare nel tempo.

I cognitivisti parlano di ‘credenze atipiche’ o ‘distorsioni cognitive’ degli abusanti per indicare
questa condizione di minimizzazione dei danni, fino alla negazione del male prodotto sulle vittime
innocenti, considerate consenzienti dal momento che non si lamentano, non riferiscono in famiglia
l’accaduto e magari fanno domande di curiosità sul sesso

Le ‘scuse’ prodotte generalmente riconoscono che c’è stato un comportamento deviante ma


l’abusante si discosta da esso, non attribuendolo a se stesso (“deviance disavowal”) e quindi
negando una propria responsabilità: ‘non stavo bene’, ‘colpa di istinti cattivi’… di ‘impulsi
peccaminosi’.

Le scuse possono anche far ricadere la colpa sulla vittima che è stata ‘seduttiva’ e ‘precoce’
favorendo un approccio sessuale e non tirandosi indietro da esso; in altre parole: è stata
consenziente, colludendo col desiderio del ‘partner’, o addirittura favorendolo.

È il caso, ad esempio, delle famiglie che invitano a casa propria, nella più assoluta fiducia, il prete
che poi invece ne abuserà; quest’ultimo attribuirà ai familiari della vittima la causa dei successivi
danni.

In qualche modo, dunque, egli non si identifica con il ‘cattivo sé’, ‘il sé peccatore’, e lo considera
estraneo, finendo però per passare egli stesso come vittima, per delle ingiuste accuse!

Le ‘giustificazioni’ non sono meno sconcertanti: esse rivestono di positivo la ‘relazione’ vittima-
abusante, negando assolutamente l’esistenza stessa di un danno, considerando come ‘nulla di
male’ il rapporto, ‘non sessuale’ e quindi solo affettivo.

Anzi, ad essere esecrabili sono gli stessi accusatori i quali, semmai ci fosse un qualche ‘errore’, non
sono in grado di perdonare e si arrogano il posto di Dio Misericordioso.

Mentre le scuse, quindi, riconoscono gli atti compiuti ma non riconoscono una ‘colpa propria’, le
giustificazioni, invece, negano in radice che sia stato fatto qualcosa che non andava, che qualcuno
abbia sofferto o che quello era il vero problema.

Le altre precondizioni attengono al superamento dei freni imposti dall’ambiente esterno. Nature
and Scope si è interessato dei fattori situazionali che possono favorire situazioni di abuso:

• il ruolo di fiducia del prete,


• il ricevere il minore in casa propria,
• la possibilità di trovarsi da solo con lui
sono alcune delle ‘occasioni ambientali’ propizie. Un’interessante questione attiene
all’incremento di vittime maschili durante gli anni di picco: sono aumentate le tendenze
omosessuali dei preti o le vittime maschili erano più facilmente accessibili?
14

Poiché ad un’eventuale crescita di omosessuali nei seminari negli anni ’80, non corrisponde, in
quello stesso periodo, un congruo aumento di vittime maschili, la prima ipotesi è da scartare.
Resta pertanto valida, e infatti è supportata da altri studi, la seconda ipotesi sul più facile ‘accesso’
a minori di sesso maschile, stante anche la possibilità, fino al 1983, di soli chierichetti maschi. A
conferma:

il numero delle vittime di sesso femminile è aumentato alla fine degli anni ’90 e gli inizi del 2000,
quando i preti hanno potuto accostarle con maggiore agevolezza (ad esempio durante i campeggi).

Strategie per la prevenzione delle situazioni


Riguardo all’aspetto situazionale si sono rivelati estremamente utili gli studi condotti sulle
strategie per la prevenzione delle situazioni a rischio di crimini (SCP, Situational Prevention
Models).

Questo ‘approccio’ si fonda sul presupposto che un crimine si possa combattere riducendo le
opportunità che venga commesso, stante il fatto che chi lo compie ha valutato costi e benefici
delle sue azioni e ha optato per procedere in esse. Non si indaga, quindi, sulle motivazioni
soggettive dell’agente, ma sulle circostanze esterne che rendono possibile l’agìto.

Vengono quindi proposte

5 strategie generali : (rendere più difficoltoso il crimine, aumentare i rischi nel compierlo, ridurre
il ’guadagno’, ridurre gli stimoli che possono provocare e rimuovere i pretesti) che abbracciano

25 tecniche più specifiche: qualche esempio: dall’aumentare le illuminazioni stradali, i controlli


notturni, il personale di sorveglianza nei locali, al ridurre le occasioni imitative ripristinando gli
spazi deturpati, eliminando gli atti di vandalismo; o ancora: ridurre le occasioni di anonimato
imponendo divise, uniformi, segni identificativi in coloro che offrono un servizio pubblico, ecc).

Consideriamo infine l’ultima precondizione dell’abuso, forse la più sconcertante, che riguarda il
progressivo avvicinamento alla vittima attraverso un crescente rapporto di fiducia soprattutto con
la famiglia del minore: la tecnica del grooming.

Qualche vittima riferisce come i genitori permettessero al ministro, ormai amico di famiglia, uomo
stimato e credibile proprio in virtù della sua vicinanza con Dio, di metterla al letto, dopo la cena a
cui era invitato regolarmente in ogni week end.

Altre vittime raccontano di una serie di doni attraverso cui il prete – ma lo stesso si è verificato
valido anche per le vittime sportive – avvicinava e offriva amicizia alle future vittime: biglietti
omaggio per spettacoli, viaggi, attenzioni particolari…

La fiducia, come si vede, è il tema centrale ed è il perno attorno a cui ruota l’abuso. Ed è purtroppo
fondamento e giustificazione per la sua persistenza accompagnata da un reverenziale e timoroso
silenzio da parte della vittima

Finalmente l’alba: la fine dell’abuso


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 Scuse, giustificazioni, minimizzazione del danno inferto, il non sentirsi un ‘criminale’ per quanto
commesso e, da parte della vittima, fiducia, pur mal riposta, paura di non essere creduti, di
perdere l’amicizia e la protezione magari dell’intera parrocchia, paura di essere accusati di esser
causa del male…tutto questo alimenta e sostiene, talvolta per anni, una situazione di abuso

La letteratura criminale nel valutare le cause della cessazione del crimine considera determinante
l’età, tuttavia questo fattore non vale nel caso dell’abuso sessuale verso minori perché
generalmente gli abusanti non sono giovanissimi e comunque non conoscono un’età limite, inoltre
hanno almeno un’istruzione di base.

Tra i fattori ambientali che contribuiscono al porre fine a comportamenti criminali un ruolo
importante giocano i rapporti ‘fra pari’, cioè il non frequentare più compagnie delinquenziali, e
l’iniziare un lavoro che quindi impegni diversamente il tempo, favorisca la maturazione personale
e lo sviluppo di nuove relazioni fra colleghi. Sono però più facilmente riferibili ai casi di abuso
all’interno della Chiesa, gli studi condotti a partire dal 1985 sui fattori psicologici interni che
intervengono a favorire la desistenza: il decentramento da sé, lo sviluppo di valori e
comportamenti sociali, un incremento di interazioni, un maggiore interesse per la comunità e per
un senso di vita.

Cause and Context per lo specifico contesto dell’abuso nella Chiesa sottolinea che, a causa di una
tardiva comprensione della gravità del crimine, del silenzio che spesso lo ha accompagnato e del
‘mal costume’ di tener celate le voci coraggiose e solitarie che hanno tentato di sottrarsi alla
manipolazione del prete abusante la comunità parrocchiale ha contribuito poco all’interruzione
del crimine anche per le scarse opportunità offerte alle vittime di ‘sfogarsi’.

Purtroppo le cause per la cessazione dell’abuso sono prevalentemente di tipo ‘esterno’: il prete
viene spostato di sede; cambiano le condizioni che favorivano la sua vicinanza al minore; o egli
inizia un trattamento, magari per altre ragioni. Solo il 2.4% interrompe l’abuso perché
sperimenta vergogna, rimorso e colpa. E ancora: si è tristemente constatato come spesso siano
state le vittime stesse che, dopo un tempo più o meno prolungato, sono riuscite a sottrarsi alla
situazione di abuso, per cui il prete è rimasto semplicemente impossibilitato. Naturalmente fattori
esterni e interni possono essere concomitanti e generalmente lo sono.

Segnali positivi ci sono e sono ‘numericamente’ evidenti:

la maggiore comprensione dell’enorme gravità di un abuso sessuale su un minore;


l’attenzione verso le vittime che ne rimangono coinvolte; la maggiore trasparenza richiesta
nell’operato dei ministri;
nonché un atteggiamento sempre più pronto ed attivo da parte delle autorità
ecclesiastiche di fronte a situazioni ambigue o riferite come abusanti;
una formazione sempre più attenta nei seminari…
hanno fatto decrescere il numero dei casi di crimini sessuali dagli anni ’90 ad oggi ed il numero
continua a diminuire.

Ciò che si può incrementare ancora è senz’altro una politica di prevenzione che tocchi i 3 ambiti
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a) dell’educazione/formazione,
b) delle strategie situazionali,
c) della sorveglianza.
Riguardo al primo aspetto aggiungiamo, rispetto a quanto già detto che la formazione, soprattutto
dei preti diocesani, la ‘cenerentola’ del passato, mira ad una sempre maggiore integrazione
dell’identità personale con i delicati compiti ministeriali.

Questo tuttavia non è sufficiente: occorrono risorse economiche per garantire un’adeguata
formazione nelle diverse tappe della vita sacerdotale, uno sguardo lungimirante per poter
sollevare temporaneamente dai suoi incarichi il prete che sia troppo oberato di lavoro, che appaia
stressato, gravato da solitudine…tutti fattori di rischio, come si è visto. Non basta quindi che siano
coperti gli anni canonici della formazione in seminario.

Riguardo alle strategie situazionali, ovviamente queste andranno adattate ai cambiamenti sociali,
per saper prevenire, nel tempo, il modus operandi sempre più evoluto degli ‘aggressori’.

Valgono anche per la Chiesa le strategie dei modelli SCP per ‘rendere più difficoltose’ le possibilità
di abuso, per ‘aumentare i rischi di essere scoperti’, per ‘ridurre i benefici’ di stringere legami con
minori, per ‘ridurre le occasioni’ e ‘rimuovere le giustificazioni’ attraverso un’adeguata attività
educativa su cosa sia opportuno e cosa non lo sia con i minori.

“Il compito di cercare di valutare il danno causato alla Chiesa dalla crisi è certamente avvilente e
può apparire un obiettivo irraggiungibile. È impossibile attribuire un valore alle migliaia di vittime
le cui vite sono cambiate per sempre. Non esiste prezzo per quelle povere vittime che hanno avuto
le loro vite distrutte dalla disperazione. […] Inoltre non possiamo trascurare le energie impegnate
da laici e laiche fedeli cattolici nel tentativo di difendere la Chiesa e le sue azioni di risposta alla
crisi, quando devono confrontarsi con critici, scettici o semplici persone realmente in cerca della
verità o di una qualche spiegazione ragionevole […]”.

Scicluna C.J., Zollner H., Ayotte D.J. op. cit., p.219.

Ne prendiamo dolorosamente e onestamente atto e tuttavia vorremmo concludere questo


itinerario con uno sguardo di speranza. Il cammino da percorrere è ancora lungo, è vero, ma si
devono riconoscere i molti passi avanti compiuti negli ultimi decenni da parte della gerarchia
ecclesiastica, dei responsabili delle diocesi, delle comunità e dei formatori. Certo non ci si può
fermare

Occorre rendere sempre più stabile nella Chiesa, come nella società, tutto ciò che si è iniziato per
prevenire e contrastare il dramma della violenza sui minori da parte di figure autorevoli e di
fiducia.

Occorre collaborazione fra società civile e comunità di fede, e tra coloro che hanno compiti di
responsabilità educativa, formativa, di sostegno.

Se poi, da credenti, sappiamo cogliere l’occasione delle drammatiche vicende di abuso per
considerare la nostra parte di responsabilità, allora devono interpellarci le molte sofferenze
17

individuali – che poi hanno trovato sfogo in forme di violenza – rimaste ‘sole’, non riconosciute,
non intercettate.

Se una crisi è in atto, pertanto, questa è innanzitutto una crisi di solidarietà in un mondo in cui
ciascuno procede spesso in solitudine, mendicante di ascolto, sostegno, aiuto, oberato da un
senso di insostenibilità del peso che porta.

Forse è il momento di aprire gli occhi sull’egoismo che caratterizza la nostra epoca e che ci rende
tanto ottusi e superficiali, quanto facili al giudizio.   Cf. Cantelmi T. Una pericolosa enfasi. Il
rischio di comportamenti emulativi e di rancori sociali, SIR, Servizio Informazione Religiosa, 10
maggio 2012

«Bisogna aprirti la via, mio Dio, e per far questo bisogna essere un gran conoscitore dell’animo
umano […]A volte le persone sono per me come case con la porta aperta. Io entro e giro per
corridoi e stanze, ogni casa è arredata in modo un po’ diverso ma in fondo è uguale alle altre, di
ognuna si dovrebbe fare una dimora consacrata a te, mio Dio. Ti prometto, ti prometto che
cercherò sempre di trovarti una casa ed un ricovero.In fondo è una buffa immagine: io mi metto in
cammino e cerco un tetto per te. Ci sono così tante case vuote, te le offro come all’ospite più
importante» (Etty Hillesum)

Emozioni
L’inizio del processo vocazionale
La memoria affettiva
Le emozioni nel processo decisionale
La struttura della personalità e le 3 dimensioni
La ricerca: cenni

L’inizio del processo vocazionale


Il cammino vocazionale è un processo e quindi si caratterizza per diverse fasi: L’appello divino

È Dio che comincia a operare nell’intimo della persona facendole gustare la possibilità di una vita
di totale ed esclusiva appartenenza a Lui. Per l’azione della Grazia si crea nel cuore dell’uomo
un’apprensione, un ‘gusto’, un desiderio di fare ciò che prima non era disposto a fare

con la ‘Gratia operans’, la Grazia operativa che cambia il cuore dell’uomo, Dio dona anche la
‘Grazia cooperans’, la Grazia cooperativa che influenza i passi successivi. La persona entra allora in
un movimento dinamico, si dispone ad ordinare la propria vita secondo quanto comprende essere
in linea con l’appello del Signore…

Cosa è chiamato a fare l’uomo attirato dal ‘gusto’ di Dio, che in qualche modo gli si è ‘rivelato’?
L’uomo deve discernere, valutare, giudicare valori che fino a poco prima non lo interessavano
Questa attività di giudizio non è un’operazione ‘oggettiva’, puramente razionale…

…oltre al mondo dei concetti, esiste quello delle immagini e dei simboli. Il concetto ha un’identità
intrinseca = identità con se stesso (un fiore è sempre un fiore che sia grande o piccolo); le
18

immagini ed i simboli sono pre-concettuali = possono avere significati diversi per le persone (un
fiore può significare amore per il Signore, amore per la natura, amore per il giardinaggio…)

La memoria affettiva
Cosa influisce sul dare significati? Nel processo decisionale entrano in gioco memoria affettiva ed
emozioni.

Quando ci troviamo di fronte ad una situazione noi ricordiamo e sperimentiamo ‘affettivamente’


situazioni simili vissute nel passato. La memoria del passato può essere di due tipi:

1) ‘di modalità specifica’: attivata dai sensi (odori, sapori, immagini)

2) la ‘memoria affettiva’: si rivive emotivamente la stessa situazione vissuta nel passato (dolore,
gioia, piacere)

Es: un bambino che è stato fisicamente punito dal padre o dalla madre può sviluppare un
atteggiamento emotivo di sfiducia verso figure di autorità maschili o femminili

La memoria affettiva, tende a cristallizzarsi e si rinforza fino al punto che la persona tenderà
anche in seguito a valutare emotivamente nello stesso modo (es. in modo ostile) anche situazioni
che non sono ostili = distorce giudizio ed interpretazione

Come mai la memoria affettiva è difficile da modificare?

1. gli atteggiamenti affettivi si sviluppano prima che il bambino possa riflettere

2. la memoria dei fatti (modalità specifica) tende a perdersi, ma gli atteggiamenti emotivi acquisiti
rimangono  difficili reinterpretarli quando si è perso il dato oggettivo (l’evento) che li ha
suscitati.

3. i nostri atteggiamenti emotivi influiscono sugli altri provocando le risposte che ci aspettiamo e
così il nostro stato emotivo si rafforza

Esempi di influenza della memoria affettiva : si può – consciamente – preferire un fiore perché era
quello preferito da una persona a noi affettivamente cara, ma si può anche – inconsciamente –
sentire attrazione o repulsione per una persona che ci richiama una figura significativa del passato,
che ha lasciato un’impronta profonda

Ecco perché alcuni rapporti possono diventare rigidi o unidimensionali, e non riescono ad
volvere…bloccati dalla memoria affettiva inconscia ci si fissa su determinati aspetti dell’altro,
mentre se ne trascurano altri importanti

Le ricerche (Rulla, Imoda, Ridick) sulle relazioni nell’infanzia ed adolescenza di giovani religiosi,
religiose, e seminaristi con i loro rispettivi genitori, rivelano in una percentuale molto alta di questi
giovani (90%), la presenza di attrazioni e repulsioni inconsce e represse. Tali attrazioni-repulsioni
influenzano il grado di maturità, anche vocazionale: circa il 70% dei soggetti durante i primi 4 anni
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di vita religiosa, nella relazione con figure di autorità o con i compagni, riviveva inconsciamente
relazioni significative avute nell’infanzia (genitori in primis) [Rulla, I, 79]

La parte affettiva, soprattutto quella inconscia che quindi sfugge al controllo, può influenzare e di
fatto influenza tutta la vita dell’uomo, e quindi anche la scelta vocazionale.

Più le emozioni che stanno dietro alle scelte sono inconsce, più esse giocano un ruolo importante
nel rendere selettive la memoria, l’immaginazione…e questa selettività precondiziona sia il
conoscere che il decidere e l’agire: alcune informazioni, persone e perfino valori riceveranno
attenzione privilegiata, altri saranno trascurati, altri distorti…

Importanza del mondo delle emozioni


Non entriamo nello specifico ma le consideriamo in quanto intervengano nel processo
vocazionale, nella formazione di una scelta. Seguiamo, tra le tante teorie a disposizione, quella di
Magda Arnold. 2 componenti dell’emozione: una statica e una dinamica

La componente statica è quella della valutazione: tutto ciò che è percepito, immaginato, ricordato
può essere valutato come buono, o come cattivo, come desiderabile o come non desiderabile, per
me, qui e ora. La valutazione consiste nell’accettazione o nel rifiuto dell’effetto che ci si aspetta
dalla situazione. Tale valutazione è immediata, intuitiva, cioè ha luogo prima della riflessione

La componente dinamica è costituita dall’attrazione verso ciò che è valutato come piacevole,
soddisfacente per me o dall’allontanamento da ciò che è valutato come spiacevole,
insoddisfacente, per me Perciò l’emozione si può definire: “la tendenza verso qualcosa valutata
come buona e via da qualcosa valutata come cattiva” (Arnold, 1970)

Si tratta quindi di una prima valutazione di base che è intuitiva, immediata e diretta, ed è
accompagnata da un insieme di cambiamenti fisiologici organizzati verso l’avvicinarsi o
l’allontanarsi L’oggetto è intuitivamente valutato come desiderabile/indesiderabile per il ‘qui ed
adesso’, poiché soddisfa/non soddisfa me stesso

A questa prima valutazione intuitiva fa seguito immediatamente l’impulso dell’emozione ‘verso’ o


‘via’ da quell’oggetto (persona, cosa, situazione). L’emozione stessa poi lascerà un residuo: ogni
emozione facilita lo sperimentare e l’esprimere la medesima emozione e questo crea un
atteggiamento emotivo = una disposizione emotiva abituale

Attenzione: qualunque disposizione emotiva abituale può avere un effetto paralizzante sulla
crescita della persona!

Inoltre questo tipo di valutazione intuitiva è presente sia nell’uomo che nell’animale, gli animali
sono costantemente diretti da valutazioni ‘istintive’. Oltre al poter valutare un oggetto come
desiderabile o meno, l’uomo ha una capacità che gli è unica di poter valutare in modo riflessivo,
intellettuale.

L’oggetto della valutazione intellettuale è tutto il processo della valutazione intuitiva, inclusa
l’emozione che l’accompagna. L’impulso concreto quindi viene valutato, prima di essere agito. C’è
20

prima una valutazione intuitiva e poi una riflessiva e nell’adulto conscio normalmente la
valutazione intuitiva non porta immediatamente all’azione, ma è completata/corretta da una
riflessione

Noi facciamo una valutazione che questo è ‘bene’ anche se comporta sofferenza o disagio e
valutiamo l’impulso verso di esso come appropriato. Questo giudizio riflessivo è capace di
trascendere il bene per me, qui ed adesso

Come la valutazione intuitiva, anche quella intellettuale/riflessiva porta ad un atteggiamento


intellettuale abituale. Non necessariamente la valutazione riflessiva sorge da un’emozione, anche
se l’emozione può giocare una parte nel formarla e nel mantenerla

La valutazione riflessiva permette di apprezzare un ‘oggetto’ in quanto importante in se stesso,


indipendentemente dal fatto che ‘mi tocchi’ o meno. Alla valutazione riflessiva può seguire o non
seguire un’emozione. Es.: una persona può apprezzare la vocazione religiosa in se stessa, ma
poiché non la considera bene per lei, non seguirà nessuna emozione (Rulla, I, 123)

Riassumendo, come nasce e si sviluppa l’emozione:

percezione , memoria affettiva prima valutazione intuitiva (el. statico) ,


attrazione/repulsione (el. dinamico) emozione intuitiva seconda valutazione riflessiva
eventuale emozione riflessiva azione/decisione/scelta deliberata Ne segue che…

La scelta di dare inizio ad un percorso vocazionale, segue da entrambe le riflessioni, quella intuitiva
che poi deve essere vagliata da quella riflessiva

Nella motivazione c’è sempre una parte conscia ed una inconscia. Sono presenti elementi emotivi
ed elementi razionali

Facciamo un altro passo avanti all’interno del ‘processo vocazionale’, considerando il soggetto
protagonista di questo processo, dal punto di vista della ‘struttura’ che lo caratterizza. Si tratta di
un’‘oggettivizzazione’ astratta ed esemplificativa, con la quale si tenta di ridurre le ambiguità e di
comprendere meglio ossatura e processi della personalità.

Ci serviamo di concetti mutuati dalla teoria di p. Luigi Maria Rulla sj, l’Antropologia della
vocazione cristiana

L’Antropologia della vocazione cristiana nasce nel primo post-concilio con l’intento di ovviare sia ai
limiti di un ‘riduzionismo dal basso’ in cui l’uomo è visto come un essere tutto e solo incentrato su
se stesso o sulle relazioni che a partire da sé costruisce … sia ai limiti di un ‘riduzionismo dall’alto’ o
di uno spiritualismo astratto per cui è sufficiente conoscere e volere i valori assoluti perché questo
porti automaticamente al loro raggiungimento

Il contributo centrale della teoria di Rulla – l’Antropologia della vocazione cristiana – può
riassumersi in queste parole: salvo il primato della Grazia divina, i dinamismi, le forze psico-
sociali dell’uomo, consce ed inconsce, influenzano la libertà dell’uomo per l’autotrascendenza e
quindi possono interferire col processo vocazionale in modi e gradi diversi
21

Consideriamo gli aspetti strutturali, entro i quali inseriremo gli elementi contenutistici. Gli elementi
contenutistici ci dicono ‘che cosa’ spinge o attrae la persona, gli elementi strutturali ‘perché’ è
spinta o attratta da certi contenuti piuttosto che da altri.

Possiamo rappresentare la persona in Io ideale e Io attuale

L’Io ideale comprende:

l’Ideale personale (IP), tutto ciò che la persona vorrebbe essere o realizzare;

l’Ideale istituzionale (II), la percezione che l’individuo ha degli ideali che una istituzione o
una società propone ai suoi membri. Implica diversi comportamenti o ruoli concepiti
dall’individuo ma che non necessariamente corrispondono ai ruoli proposti dall’istituzione

L’Io attuale comprende:

Io manifesto o conscio (IM): il concetto di sé, ciò che il soggetto ritiene effettivamente di
essere o di fare anche se non l’ha mai formulato espressamente;

Io latente o inconscio (IL): quelle caratteristiche che il soggetto ha senza saperlo, e che si
rivelano attraverso test proiettivi

Il rapporto fra Io ideale e Io attuale costituisce la cosiddetta “dialettica di base”:

la tensione ontologicamente presente nell’uomo, e che lo accompagna per tutto il corso della
vita, fra ciò che egli è e ciò che vorrebbe essere, fra ciò che conosce di sé e ciò che invece lo
spinge senza che egli possa rendersene conto

In altre parole: le due strutture dell’Io ideale e dell’Io attuale, sono in relazione dialettica, di
opposizione: da una parte c’è l’Io ideale, cioè la tendenza all’autotrascendenza illimitata espressa
da ciò che l’uomo vorrebbe essere o fare, dall’altra c’è l’Io attuale cioè la limitatezza espressa da
ciò che l’uomo fa ed è.

La dialettica di base, in quanto relazione tra opposte forze motivazionali, è inerente al sistema
motivazionale dell’uomo: l’uomo desidera, anela essere confrontato con qualcosa che va al di là
di sè, ma deve sempre fare i conti con la propria finitezza, limitatezza

Questo scarto, tuttavia, non lo esime da un impegno di conoscenza delle proprie dinamiche
profonde, e quindi dallo sforzo per ‘ridurre’ la distanza fra l’esperienza reale con le sue
incongruenza e fragilità e l’ideale perseguito

Tre dimensioni della persona


3 forme assume la dialettica di base. Immaginiamo, cioè, tre prospettive dalle quali possiamo
osservare l’uomo. La persona porta occhiali con tre lenti di colore diverso; così ella vede e
risponde secondo tre prospettive (o dimensioni) diverse

Queste tre dimensioni sono sempre presenti nelle persone, secondo caratteristiche proprie a
ciascun individuo, però una o due dimensioni prevalgono nella motivazione secondo un polo
22

positivo o negativo Questa visione tridimensionale può essere utilmente usata per scopi di
discernimento, diagnostica, accompagnamento…

La prima prospettiva – la I dimensione –

è quella che deriva dall’accordo più o meno grande tra Io ideale conscio e Io attuale manifesto.
Qui l’uomo è visto nella sua capacità prevalentemente conscia o di essere libero e responsabile

Poiché le strutture in dialettica sono entrambe consce, c’è libertà e responsabilità da parte della
persona per quanto riguarda la sua resistenza o meno all’autotrascendenza. Cioè: l’uomo è capace
di compiere ciò che sceglie, “lo voglio, lo faccio”. Questa dimensione è quella che dispone alla
virtù o al peccato

Nella terza prospettiva – la III dimensione – anch’essa prevalentemente conscia, l’uomo è valutato
in base al binomio ‘normalità’/‘patologia’.

Qui la non realizzazione dell’autotrascendenza non è questione di peccato, perché il soggetto può
non avere affatto la libertà di scelta. Il fallimento assume allora l’aspetto del “non posso”

La II dimensione è quella più rilevante, quella dell’ ‘uomo comune’, dove si gioca tutto il discorso
motivazionale

È la dimensione del “bene apparente” contro il “bene reale” o dell’errore non colpevole in quanto,
nello scegliere, l’uomo non è completamente libero e perciò non può ritenersi moralmente
responsabile. Sbaglia, ma non pecca! Se la dialettica non è più fra peccato/virtù o fra
normalità/patologia cosa limita l’esercizio effettivo della libertà verso l’autotrascendenza?

La dialettica fra conscio e inconscio: l’inconscio può portare l’uomo a comportarsi in modo che
neppure lui saprebbe giustificare; la mancanza di coerenza qui non implica il peccato deliberato,
proprio perché essa è di natura inconscia. Pur volendolo, di fatto “non faccio”

Poiché nella II dimensione non è più questione di virtù/peccato, in quanto libertà e responsabilità
sono più o meno limitate dall’inconscio, qui si tratta di considerare armonia o disarmonia
nell’individuo del conscio con l’inconscio

Come scrive S. Paolo (Rom 7, 15-20): “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non
quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. […] Io so infatti che in me, cioè nella mia carne,
non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non
compio il bene che voglio, ma il male che non voglio”

Riguardo all’inconscio, esso è una forza psicogenica ‘normale’ in ogni uomo, che tende a
permeare parecchie sue azioni e dimostra notevole resistenza, tuttavia non deve essere
considerato in senso psicoanalitico la forza dominante come se l’uomo agisse sempre e comunque
in base a qualche forza ingannevole e segreta
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Limite dei precedenti modelli formativi che assegnavano al libero arbitrio e quindi ad intelligenza
e volontà il dominio assoluto della vita psichica, per poi giudicare in termini di peccato ogni
eventuale cedimento.

La seconda dimensione è particolarmente importante perché nella realtà di ogni giorno vi si gioca
la contraddizione fra Io attuale e Io ideale, e le è ascrivibile la maggior parte delle motivazioni
dell’individuo o del gruppo; qui si collocano le consistenze e inconsistenze vocazionali

L’influsso dell’inconscio sulla predisposizione del soggetto a decidere in un modo piuttosto che in
un altro (willingness) – inconscio presente nella seconda dimensione – aiuta a comprendere come
mai resti “danneggiato” l’atto di volontà (willing) pur rimanendo intatta la capacità di decidere
(will)

A conferma dell’esistenza e frequenza della II dimensione nel nostro agire, citiamo alcuni esempi
(Rulla, I, p. 183ss): si pensi ad imperfezioni e limitazioni in cui si è agito per inavvertenza o per
sorpresa; opinioni, idee in famiglia, sul lavoro, in comunità, seminario… sono difese con tanto
calore, veemenza, rigidezza, quando non comportano né peccato, né psicopatologia; come mai?
come mai spesso ci si crea aspettative che sono false, esagerate, e tuttavia ci si attacca
tenacemente ad esse?

- alcune nostre relazioni col prossimo sono di difesa tese a stabilire le distanze, i nostri
privilegi …come mai tendono a perpetuarsi nonostante i nostri sforzi? come mai spesso
non ce ne rendiamo conto?;

- le nostre tendenze a dare per ricevere…o a fare la ns strada, magari senza schiacciare gli
altri, ma comunque mettendo avanti noi stessi…spesso non ce ne rendiamo conto e anche
qd gli altri ce lo fanno notare non riusciamo a cambiare; come mai?

- come mai si può essere molto gentili col quelli ‘di fuori’ mentre si continua ad essere pieni
di amarezza e dominio su quelli ‘di casa’?

- perché alcuni individui rimuovono dal centro della loro attenzione parecchi problemi che di
fatto esistono e che non vogliono (in buona fede) riconoscere come esistenti?

- quanto di quello che è chiamato ‘prudenza’ nel prendere decisioni o nell’agire, può essere
motivato dalla paura di sbagliare, o di essere criticati o di diventare meno popolari?

- si proclama di voler servire la comunità ecclesiale e invece inconsciamente si cerca di far


carriera, di essere gratificati…di usare la com.à per una ricerca di sé…

 Da qui l’urgenza di saper collocare nella ‘giusta’ dimensione la dinamica della persona, per poterla
accompagnare nel processo di risposta a Dio. Le persone differiscono tra loro secondo un grado
continuo di maturità per ciascuna dimensione, che può andare da una disarmonia/contraddizione
minima tra Io attuale e Io ideale ad una massima.
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Per la I dimensione i ‘più maturi’ sono quelli disposti alla virtù, i ‘meno maturi’ sono quelli più
disposti al peccato;

Per la II dimensione i ‘più maturi’ sono quelli portati più al bene reale, i ‘meno maturi’ quelli più
portati al bene apparente;

Per la III dimensione i ‘più maturi’ sono quelli che non presentano psicopatologie…

La persona in discernimento o in cammino vocazionale può essere inconsistente non solo perché
‘non vuole’ impegnarsi

(I dimensione), né perché ‘non può’

(III dimensione)… a causa di fragilità psicologiche

La ricerca (cenni):
- p. Rulla, voll. 1, 2,3 -

non si può dire che i giovani che abbracciano una vocazione sacerdotale/religiosa siano più maturi
(I e II dimensione), né più o meno ‘normali’ (III dimensione) rispetto ai laici-laiche che non hanno
fatto questa scelta

Ciò che li caratterizza è la presenza di un più elevato Io ideale specialmente per i contenuti
autotrascendenti, cioè il desiderio di autotrascendersi verso Cristo, più che di autorealizzarsi

Tuttavia gli stessi valori autotrascendenti proclamati all’entrata in vocazione possono essere –
almeno in parte – espressione di bisogni inconsci che sono in contraddizione con gli ideali
proclamati

Si proclama un valore autotrascendente, spesso, per soddisfare un bisogno egocentrico. La


persona che entra può avere in se stessa non solo una parte di Io che è germinativo della
vocazione, ma anche una parte che è vulnerabile e di ostacolo alla crescita

Questa situazione di ‘opposizione’ alla crescita vocazionale è presente in grado significativo in circa
il 60-80% delle persone che entrano in vocazione. Perciò, la persona che all’inizio del cammino
vocazionale proclama ideali trascendenti se vuole crescere in essi, deve integrarli col resto della
personalità altrimenti essi restano esteriori, in superficie, e non vengono internalizzati

Si è anche visto riguardo ai mutamenti istituzionali dopo il Concilio Vaticano II, che:

- si sono abbassati i valori autotrascendenti a cui aspira l’Io ideale della persona

- mentre riguardo alla libertà e

capacità di internalizzare, il cambiamento è più apparente che reale L’ambiente non sembra
influire significativamente sui risultati della formazione e dunque è “irrilevante” per le tre
dimensioni strutturali della persona che sono transituazionali e transtemporali.
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= il cambiamento esterno delle strutture istituzionali non tocca le strutture interiori delle persone
e quindi non incide sulla maturità e sulla perseveranza

Se il terreno non è preparato e lavorato, il seme non porta frutto (cf. Mt 13,1-23). Cosa favorisce
allora l’internalizzazione = processo di cambiamento interiore alla luce di un valore, per la sua
importanza intrinseca? (cf. Rulla, I, 318)

L’elemento ‘chiave’ è la II dimensione e la maturità della persona in tale dimensione, infatti…

Entrata

Più una persona è matura nella I e II dimensione, più tenderà ad avere aspettative che mirano a
favorire la trascendenza per gli ideali trascendenti. Viceversa, meno una persona è matura, più
tende a simbolizzare in modo regressivo, irrealistico e perciò opposto all’internalizzazione

Perseveranza

le persone con un maggiore grado di maturità nella II dimensione tendono a mantenere la


decisione presa. La perseveranza è solo parzialmente in relazione con la I dimensione e con la III

La mancata perseveranza è indice di NON internalizzazione degli ideali proclamati. Di conseguenza


ciò che ostacola, che oppone maggiore resistenza all’internalizzazione… è soprattutto la II
dimensione (influsso dell’inconscio). Se non viene affrontata e gestita è quella che più tende a
peggiorare nel tempo

La II dimensione infatti è quella nella quale gli ideali trascendenti si oppongono a bisogni inconsci.
È fondato affermare che una valutazione della maturità-immaturità della II dimensione è un indice
sufficientemente attendibile della disposizione o meno all’internalizzazione degli ideali
trascendenti

Importanza del conoscere se stessi, per cercare di far emergere le motivazioni inconsce che
sottostanno ad una scelta di vita e che interferiscono con la crescita e l’internalizzazione, e
lavorare su di esse lungo tutto il percorso formativo e lungo tutto il cammino Il semplice scorrere
del tempo non basta! Non bastano i cambiamenti esterni! Non basta la sola proclamazione di
ideali trascendenti!

I meccanismi di difesa
 Natura e caratteristiche dei meccanismi di difesa
 I livelli di difesa
 Rifiuto del reale – Problemi di comportamento
 Trasformazione del reale – Problemi di immagine
 Realtà accettata – capacità creativa (meccanismi protettivi di controllo)
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Partiamo dalla stima di sé. È l’insieme delle rappresentazioni di se stessi. La loro integrazione
armomica costituisce una stima di sé realista che deriva da una valutazione sufficientemente
oggettiva di sé, include il sentimento della dignità personale, il riconoscimento dei propri limiti e
l’apprezzamento del potenziale umano.

La stima ha una continuità nel tempo (continuità ‘longitudinale’) e per tutti gli aspetti dell’io
(continuità ‘trasversale’). È impossibile vivere in una situazione di non stima di sé!

La mancanza di stima produce:

 sbalzi di umore;
 sentimenti di vuoto
 difficoltà a percepirsi realisticamente
 incapacità di empatia e di giudizio.
Tuttavia… la mancanza di stima di sé si può compensare (ma non risolvere!) attraverso una via
abbreviata… Quella dei meccanismi di difesa. Il deficit originario rimane, ma viene coperto da una
stima di sé compensatoria o difensiva.

Questo sistema di copertura rimane precario, perché non risolve, ma funziona da tampone. La non
stima di sé è sempre pronta a riemergere specie in situazioni difficili o ambigue. E allora occorrono
altre difese che rafforzano l’immagine falsata di sé dietro cui nascondersi…

Poca stima di sé – difese – stima compensatoria… la storia però non finisce qui! Il passo successivo
deve essere la stima compensatoria creduta come realista La stima difensiva è percepita come
vera stima di sé. La persona crede di essere davvero come si rappresenta. Si crea una differenza
tra stato reale della persona e percezione di esso con conseguente distorsione di tutto ciò che non
conferma la sensazione compensatoria…tutto questo è possibile attraverso i meccanismi di difesa

Natura e caratteristiche dei meccanismi di difesa


Ogni giorno ci imbattiamo in minacce alla stima di noi stessi: un’iniziativa andata male, una brutta
figura, un’umiliazione…tutto questo ci fa sentire deboli, incerti, non amati.

Il nostro io ne soffre e si affretta a medicare la ferita narcisista. L’autodifesa è la più antica legge
della natura

Essi indicano un processo mentale abituale, inconscio e a volte patologico che la persona usa per
far fronte a conflitti con la realtà esterna e/o interna affettiva. Difesa indica quindi autoprotezione
contro tutto ciò che minaccia la propria autoconsiderazione.

È un difendere o recuperare la stima di sé ma su basi non corrette, cioè eludendo il problema. La


persona NON difensiva guarda in faccia la realtà, anche se imbarazzante e si costruisce un sistema
di vita in cui tiene conto anche dei propri difetti e timori.

I meccanismi di difesa assolvono alcuni scopi:

a) mantenere l’equilibrio della persona di fronte a situazioni difficili. Come stimarsi anche
dopo un fallimento? Come gratificare se stessi nonostante le proibizioni della società?
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b) proteggere o recuperare la stima di sé minacciata dalle forze pulsionali: ho fatto una


scelta di vita eppure continuo a sentire emozioni contrarie; sono disponibile agli altri ma c’è
anche il rancore che mi disturba; mi piace vedermi forte ma ogni tanto incontro la paura…

c) neutralizzare conflitti con le persone o parti della realtà altrimenti sentite come
irrisolvibili: se la realtà non conferma le mie opinioni che fare? Se un mio collega lo sento
rivale cosa fare senza rischiare la lotta aperta?

Tutti i meccanismi di difesa hanno 3 caratteristiche comuni:

a) negano, falsificano o deformano la realtà interna ed esterna;

b) sono automatici e non atti deliberati;

c) operano nell’inconscio così che la persona non è consapevole di cosa avviene.

Constatare l’esistenza di tali meccanismi non comporta nessuna valutazione morale sul soggetto
che li usa.

Proprio perché inconsci sono sempre osservabili, ma a partire dai loro effetti.

Producono infatti distorsioni sistematiche, danno luogo a stili difensivi e possono simbolizzarsi in
tratti corporali come, fra l’altro, comportamenti sprezzanti, l’arroganza… Le difese sono dei
processi: danno origine a ‘stili difensivi’ = modi di funzionare costanti della persona. Le difese si
manifestano in uno stile ‘indurito’, fatto di modi automatici, ripetitivi e cronici. L’interessato li
vive come disagio, non come libertà interiore: non conosce i termini del problema, ma il problema
lo avverte

Normali o patologici?

3 criteri distinguono l’uso adattivo delle difese:

a) scopo: se le difese vanno nella direzione della soluzione del conflitto in termini realistici,
sono adattive.

Disadattive invece se vanno nella direzione dell’evitare il conflitto.

b) modalità d’uso: una difesa è adattiva quando è flessibile, cioè appropriata alla soluzione, e
quando il suo uso è limitato ad essa.

Disadattive quando è rigida, automatizzata e generalizzata. In questo caso il comportamento


indotto dalla difesa non è limitato alla situazione, ma appare in modo stereotipo e in situazioni
diverse

La prima quindi è una risposta alla realtà, la seconda una reazione ai propri impulsi. Scegliere di
essere allegro in situazioni difficili è diverso che fare sempre il buffone.

c) effetti: la difesa è adattiva se permette di controllare il conflitto, in quanto protegge ed


abilita la persona a funzionare meglio.
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È disadattiva se perpetua il conflitto o crea ulteriori svantaggi alla personalità intera. Essere
vigilanti nel senso di prudenti è diverso dall’essere sospettosi verso tutto e tutti.

La distinzione tra difese adattive e disadattive non può essere categorica: una difesa adattiva in
una certa età o situazione può diventare disadattiva in un’altra.

Vantaggi delle difese

I meccanismi di difesa offrono 2 vantaggi:

a) evitano alla persona il confronto con uno stimolo interno o esterno pericoloso;

b) permettono gratificazioni sostitutive (rassicurarsi senza esporsi) e riducono ad un livello


sopportabile gli effetti delle frustrazioni.

Le difese quindi permettono una certa gratificazione altrimenti non raggiungibile. Temendo di non
poter preservare la stima di sé tramite il confronto con la realtà, la si mantiene tramite la
mediazione delle difese.

Finché non intravvedo la possibilità di salvare la stima anche su basi realistiche continuerò a
difendermi!

I livelli di difesa
Come può bastare una stima che non regge alla prova della realtà? fittizia e falsificata dalle difese.
Mi reputo rispettoso dell’autorità, invece non ho il coraggio delle
mie idee. Mi ritengo una persona libera, invece in nome del carisma sto cercando la mia
affermazione esibizionistica… Queste illusioni possono bastarmi?

No, non bastano! Nessuno può tollerare una stima di sé costruita su un piano di falsità. Una
sicurezza artificiale non dà sicurezza. Eppure la persona si difende e poi si difende dal riconoscere
che si sta difendendo! Le difese ‘centrali’ servono per difendersi da un conflitto, quelle
‘periferiche’ servono a negare a noi stessi l’uso delle prime. Non è possibile una demarcazione
netta tra i livelli di difesa, tuttavia si può dire che i più centrali sono più inconsci

Ci vogliono mesi, a volte anni per portare una persona ad accettare che si sta difendendo.

Ogni volta che si affaccia questa possibilità…la persona tenderà a rifiutarla come ‘cosa che non le
appartiene’!

Solo se accetta la possibilità di illudersi senza volerlo, potrà poi passare a identificare i punti
nodali della propria personalità. Prima di convertirsi occorre sentire la necessità della
conversione, e prima ancora ammettere che è normale = può capitare che ci si racconti delle
storie e poi le si prenda per verità

Quindi…più è ricco il sistema difensivo, minori saranno l’oggettività della conoscenza e l’uso
creativo del potenziale interno con il risultato della stima di sé su basi compensatorie.

Diversi Autori propongono una gerarchia delle difese, in base a 2 variabili


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- Grado di distorsione: una particolare difesa quanto distorce, quanto rende ciechi?

- Oggetto della distorsione: una particolare difesa quale distorsione produce? A cosa rende
ciechi?

Ogni difesa ci offre 3 informazioni:

- quanto è adattiva;
- a quali problemi è correlata;
- come la persona si mette in rapporto con la realtà interna ed esterna
Questa gerarchia è approssimativa, tuttavia ha un suo valore, perché in base alla difesa
impiegata possiamo avere degli indizi circa la maturità di una persona

Grado di distorsione: quanto una difesa rende ciechi?

4 gradi, partendo dal più ‘invalidante’:

1. Difese narcisistiche: degli aspetti della realtà esterna sono negati, rifiutati. Es: un fatto crea
ansia? Lo ignoro così per me non esiste più.

2. Difese immature: la realtà non viene negata, ma trasformata. E questo la persona lo fa


non agendo direttamente sulla realtà (come nel caso dei deliri e delle allucinazioni), ma
agendo sul rapporto con la realtà. Altera la risposta emotiva ad una determinata realtà
pesante, in modo da darle una tonalità diversa da quella originale. Es: invece che debole mi
sento onnipotente, imbattibile…

3. Difese nevrotiche: non si pretende più che la realtà sia diversa; la si accetta apportandovi
delle modifiche. Viene reinterpretata in modo da assicurarsi un miglior adattamento
sociale. La persona è in grado di rispondere alle richieste sociali, ma il suo problema è
interiore: il rapporto con i propri sentimenti. Es: soffocare sentimenti fastidiosi
(repressione); giustificare un sentimento inaccettabile con ragioni plausibili
(razionalizzazione), togliere la tonalità emotiva ad un fatto (isolamento).

Difese mature: permettono l’accettazione del reale, la buona gestione di esso e dei sentimenti
interiori. Possiamo quindi parlare di meccanismi di controllo, di gestione di sé: anticipazione,
umorismo

Continuum di chiusura-apertura al reale.

Oggetto di distorsione: quale è il problema che richiama una particolare difesa? Difendersi vuol
dire non affrontare…che cosa?

- problemi di comportamento: alcune difese suggeriscono un disadattamento non solo psicologico


(scorretta gestione dei sentimenti), ma anche sociale (incapacità di trattare efficacemente con
l’ambiente). Es: la proiezione impedisce l’autocritica; la negazione oscura i termini esatti della
situazione; la scissione fa ragionare in termini di «tutto buono» o «tutto cattivo», con sbalzi
continui di umore.
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- problemi di immagine: la persona è capace di lavorare, ma non di amare, può essere anche
di successo, ma non riesce a formare relazioni mature perché ha un’immagine irrealistica di
sé e degli altri (onnipotenza, idealizzazione).

- problemi di autostima: la logica di queste difese conduce la persona a non accettarsi nei
propri sentimenti verso i quali si opera una selezione e una censura

C’è quindi una gerarchia che va verso il sempre maggior impatto costruttivo nei confronti delle
vicissitudini della vita. Si può distinguere la maturità psicologica da quella sociale. Le due non si
identificano: si può essere adattati socialmente, ma con la confusione interiore. Quella psicologica
è più ampia di quella sociale: dove c’è disadattamento sociale c’è anche quello psicologico, dove
c’è adattamento sociale non è detto che ci sia anche quello psicologico.

Analizziamo le difese che più interessano l’area della crescita formativa.

L’ordine è crescente: da quelle più pervasive e disadattive a quelle più mature

a. Rifiuto del reale – Problemi di comportamento


Ritiro sociale:

Tendenza a ripiegarsi su di sé, come conseguenza di disagio nei confronti della realtà e dei propri
sentimenti. Si esprime come mancanza di iniziativa, incertezza sul proprio ruolo, disagio nei
rapporti sociali.

Prepensionamento precoce. Altro esempio: costruirsi un ‘nido’: si cerca la propria sistemazione e


nessuno può interferire. Secondo importanti ricerche questa difesa gioca un ruolo centrale nella
crisi dei preti (parrocchia come rifiugio)

Acting out: È un modo di chiedere aiuto senza chiederlo!

letteralmente ‘buttar fuori’. È la scarica diretta di un desiderio o impulso inconscio per evitare di
diventare consapevole dell’affetto che accompagna tale desiderio o impulso. Ad esempio:
comportamenti aggressivi, impulsivi per non dover fare i conti con i sentimenti di paura,
solitudine. Ci si mostra forti o prepotenti per nascondere la propria debolezza, inadeguatezza.
Pensiamo alla delinquenza minorile.

Proiezione:

spostare all’esterno il pericolo interno. «Se ho dovuto agire così, è perché l’istituzione mi ha
costretto».Ci sono 2 forme di proiezione.

Supplementare: evitare di riconoscere i propri impulsi inaccettabili attribuendoli ad altri.


«Non sono io ad essere nervosa, sei tu!».
Complementare: è indurre nell’altro uno stato, un’emozione, provocarla e poi reagire di
conseguenza, così da poter dire: «Sì sono nervosa, ma perché tu mi ci hai fatto diventare»

Difesa comoda ma pericolosa:


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- blocca la comunicazione: vedere l’altro attraverso se stessi impedisce di percepirlo quale


egli veramente è;distorce la realtà: deformata da una percezione soggettiva guidata dai
propri pregiudizi che spingono a cercare indizi che si vogliono essa contenga; crea vigilanza
in chi la usa: sospetto, tendenza a collezionare torti, rancore… ego-sintonica: non è
considerata un problema da chi la usa, per cui non farà nulla per correggersi e neppure si
accorge di usare l’altro come schermo.

È alla base del fenomeno del capro espiatorio!La proiezione contribuisce alla formazione di sette:
ci coalizziamo fra noi e buttiamo su altri aspetti inaccettabili di noi stessi. Gli altri visti come
‘nemici’ contro cui difendersi. Alcune condizioni favoriscono l’uso di questo meccanismo:
ambiente complesso, senso di inadeguatezza personale, bisogno di sicurezza contro contraddizioni
o dubbi…

Negazione:

aspetti dolorosi della realtà sono inconsciamente trattati negando la loro esistenza. Questa difesa
annulla un’importante funzione dell’io: riconoscere e sottoporre ad esame critico la realtà degli
oggetti. Negli adulti dovrebbe apparire solo in modo temporaneo, di fronte ad eventi stressanti.

Fissazione:

affrontare situazioni attuali con modalità tipiche di uno stadio precedente di sviluppo. Ad esempio:
anziché vivere di convinzioni autonome, la persona si lascia guidare da aspettative altrui, dalla
paura di punizioni, da aspettative esterne

Trasformazione del reale – Problemi di immagine


Onnipotenza: Fantasie e comportamenti che tradiscono una pretesa di potere assoluto. Si
manifesta così: tendenza alla grandiosità, pretesa di essere onorati e rispettati in quanto persone
‘speciali’, tendenza a svalutare ciò che offusca la propria sicurezza. Alla base: insicurezza e
inferiorità.

Idealizzazione primitiva: tendenza a vedere situazioni, persone, ideali come totalmente buoni, in
modo da neutralizzare gli aspetti negativi. Es: il religioso che ha un’immagine della vita comune
come perfetta…

Reinterpretazione del reale – Problemi di autostima


Formazione reattiva: esprimere un pensiero, un affetto o comportamento che nella forma o nella
direzione manifesta sono opposti al sottostante impulso inaccettabile. Es: nascondere la paura con
atteggiamenti temerari, soffocare di cure il prossimo quando si desidera essere curati. La difesa si
ravvisa «nel troppo», condotta forzata, esagerata. Il comportamento è corretto, ma non sorretto
da sottostante convinzioni.

La formazione reattiva produce un buon adattamento sociale, ma il pericolo è che quando certe
sicurezze vengono messe in crisi, la difesa cede… Si spiegano così certi cambiamenti «improvvisi»:
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il sistema difensivo si è «rotto» portando via la facciata e la vera natura, prima rifiutata, esce in
modo incontrollato. Da cosa fuggiamo?

Aggressività: compiacenza e cura dell’altro per soffocare un impulso inaccettabile, salvo


scatti di prepotenza quando qualcosa non va.
Dipendenza affettiva: il bisogno di affetto è coperto da comportamenti diametralmente
opposti, ad esempio indifferenza e freddezza.
Sessualità: la paura di cedere che rende rigidi e puritani. È lo scandalizzarsi facile.
Insicurezza: per paura di trasgredire ci si attacca al dovere, per paura di dubitare si diventa
dogmatici.

Compensazione:

sforzo psichico per bilanciare deficit (reali o immaginari) fisici o psichici. È simile alla formazione
reattiva ma ha a che vedere con la stima di sé. Non ogni compensazione è una difesa, ma può
servire per un migliore adattamento alla realtà, la differenza sta nel fatto che se non è possibile
utilizzare come forza un determinata ‘debolezza’, non ci si dispera, perché la persona può
sviluppare altre soddisfazioni.

Razionalizzazione:

consiste nel portare ragioni plausibili per le proprie azioni o opinioni; si crede di spiegarle mentre
si ignorano le vere motivazioni che ne sono la sorgente. È la logica dell’uva acerba. Difesa efficace:
chi la usa finisce per credere alle scuse che porta!

Intellettualizzazione:

consiste nell’evitare il problema pratico portandolo ad un livello teorico. Chi in terapia, ad


esempio, anziché parlare delle proprie emozioni, le spiega. Chi anziché parlare dei problemi reali
che ci sono in comunità parla della teologia della comunità. È una fuga nei concetti intellettuali che
sono emotivamente neutri.

Isolamento:

evitare il sorgere di una reazione affettiva minacciosa confinando selettivamente la propria


attenzione sugli aspetti cognitivi, non emotivi. Chi, anziché esprimere le proprie emozioni, ne parla
freddamente, come se non gli appartenessero. Affetto incapsulato, NON integrato nella
personalità

Spostamento:

dirigere l’affetto, il sentimento, l’emozione verso un oggetto diverso e meno coinvolgente di quello
appropriato. La classica vicenda di chi se la prende col capo sul lavoro e poi si rifà sulla moglie… Un
esempio della pratica pastorale: la coppia che insiste su un problema (ad esempio economico), ma
in realtà la vera questione è un’altra.

Repressione:
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escludere dalla coscienza contenuti psichici al fine di evitare l’ansia. È un meccanismo previo cioè
senza passaggio dalla previa valutazione di ciò che viene rimosso. È simile alla negazione come
processo, ma non come contenuto. Lì è la realtà esterna ad essere trasformata Si dice che la
repressione sia «la madre di tutte le difese», perché le altre servono per mantenere e rafforzare la
repressione, a quale è utilizzata per controllare quei potenti impulsi che vanno contro desideri,
voglie, la buona opinione di sé…

c. Realtà accettata – capacità creativa (meccanismi protettivi di controllo)


Soppressione:

Decisione conscia di postporre l’attenzione a impulsi o conflitti consci e di controllare e rendere


inefficaci idee, impulsi, emozioni dissonanti con lo stile di vita scelto. Esclusione consapevole e
voluta, fatta in forza di motivazioni e utile perché al servizio di un ordine di vita.

Anticipazione: previsione realistica delle difficoltà future.

Umorismo: segno maturo di saper prendere atto delle proprie incongruenze, di saper
ridimensionare se stesso, saper integrare i propri limiti e accogliere il buono di sé. L’umorista (non
l’ironico, il comico o il denigratore), costituisce una presenza positiva nel gruppo, facilita lo
scambio e ridimensiona i problemi.

Conscio ed inconscio
 il sistema motivazionale
 Influenza dell’inconscio: scelta e perseveranza
 Le diverse motivazioni

il sistema motivazionale
Motivazioni diverse e contraddittorie possono essere alla base dello stesso comportamento.

Le azioni umane risultano alimentate da varie possibili determinanti più o meno consce. Non esiste
una motivazione tutta conscia o tutta inconscia.

Due mondi diversi, con leggi a volte antitetiche, con origini differenziate fanno parte e sono
espressione dell’unico io. L’io che programma, decide, vuole… è lo stesso che si crea false
aspettative, meccanismi auto ingannatori, che si perde in circoli viziosi.

Un atto conscio può nascere da motivi in parte inconsci.

Così la teologia morale lo riconosce quando distingue tra peccato e peccatore, tra responsabilità
dell’atto e responsabilità personale: elementi inconsci possono far sì che il soggetto non sia
soggettivamente colpevole.
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Nella stessa linea va la teologia spirituale quando distingue tra santità soggettiva e santità
oggettiva. La prima indica la risposta che di fatto la persona sta dando a Dio. La seconda la risposta
che la stessa persona potrebbe dare a Dio se fosse libera di usare tutte le sue capacità. Fattori
inconsci possono ostacolare la persona nel riconoscere ed usare tutti i propri talenti.

C’è però anche una zona intermedia: tra conscio ed inconscio c’è comunicazione.

È vero che l’inconscio può diminuire la responsabilità morale, l’uso della libertà e generosità con
cui la persona risponde a Dio, tuttavia. NON si può escludere del tutto la responsabilità
personale.In qualche modo anche l’inconscio è sotto la gestione dell’io. Il «non ci posso fare
niente è fuori del mio controllo» è solo parzialmente vero!

L’io esercita una certa direzionalità anche sullo stato inconscio: può accettare, assecondare,
rinforzare certe dinamiche inconsce. Tutto questo senza deliberazione conscia, ma col ‘vago
sentore di farlo’. Una persona può non essere responsabile di tutte le sue modalità di azione, ma
rimane responsabile per la posizione che prende di fronte ad esse o per il rifiuto di prendere
posizione.

Azione conscia e azione deliberata

L’azione conscia è quell’azione in cui il soggetto è consapevole del suo contenuto e dell’atto del
suo agire. Ad esempio guidare: sono consapevole che sono su un’auto per strada e che sto
guidando. All’interno dell’azione conscia ci sono poi vari gradi di consapevolezza. Al massimo
grado di autocoscienza c’è il giudizio sulla validità di ciò che sto facendo.

L’azione deliberata si caratterizza per una qualifica ulteriore: la consapevolezza del motivo del mio
agire. Nell’azione deliberata c’è una mappa che guida le singole azioni; le varie azioni sono
espressioni parziali di un piano consciamente formulato dalla persona.

Guido l’automobile, lavoro, comunico con gli altri e tutto questo al fine di realizzare un progetto di
vita. Quindi l’azione deliberata è un’azione volontaria, cosciente che contiene un progetto del
«verso dove»; l’elemento che rende sensata e comprensibile l’azione deliberata è l’essere-diretta-
verso-qualcosa. Quindi ogni azione deliberata è un’azione conscia, mentre non è sempre vero il
contrario: posso essere conscio di ciò che sto facendo, senza aver prima deciso se farlo o meno. In
questo caso è un’azione conscia, ma non deliberata.

Dobbiamo tenere presente che lo sviluppo dell’uomo può essere pensato come un progressivo
affermarsi della direzionalità da parte dell’io: da un comportamento reattivo, il bambino passa a
comportamenti sempre più originali ed autonomi. Crescendo il suo comportamento sarà sempre
meno stimolato da bisogni interni e impulsi e sempre più motivato da processi complessi che
superano l’immediatezza.

Nell’adulto – salvo i casi di psicopatologia – ci sono sempre un certo grado di anticipazione,


immaginazione, pianificazione, consapevolezza. Non è sostenibile dunque la teoria freudiana che
attribuisce uno scarsissimo peso alla motivazione conscia
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Forti impulsi, nell’adulto, possono spiegare la forte tendenza verso quell’azione, ma non bastano
DA SOLI a spiegare l’azione.

Ridare all’io la paternità delle sue azioni vuol dire che le azioni hanno contemporaneamente
diverse fonti motivazionali.

Un esempio: l’atto di obbedienza non lo si può sbrigativamente spiegare solo come ricerca della
figura paterna e neppure come purissimo atto di fede. È la risultante di una pluralità di
suggerimenti. L’ideale personale mi dice: se vuoi servire Dio e fare la sua volontà sii obbediente.
L’ideale istituzionale dice: ci si aspetta che tu sia obbediente. L’ideale sociale dice: non essere
troppo dipendente dai tuoi superiori se non vuoi passare per ridicolo. L’io manifesto: la
collaborazione con i superiori soddisfa il bisogno di aggregazione. L’io latente inconscio: stai
attento a non fidarti troppo perché ti useranno.

Quindi ciascun aspetto dell’io suggerisce una diversa possibilità di azione. Il tutto in un processo
rapido, di solito non avvertito.

Di fronte ai diversi suggerimenti l’io emette un atto conclusivo: scelgo, decido, voglio, desidero.
Tuttavia…anche se scelgo di obbedire quei suggerimenti inconsci derivanti dai miei bisogni di
evitare il pericolo e difendermi influiranno sul modo di
obbedire dando ad esso una tonalità anche difensiva: al di
là e nonostante la mia disponibilità, allora trasparirà una
certa vigilanza e riserva

Se potessimo scomporre quell’atto nelle sue parti


vedremmo che è retto da due logiche:

1) i suggerimenti consci dati dai valori sono accettati e


si organizzano in una logica del «desidero vivere i
valori tramite l’obbedienza»;

2) i suggerimenti dei bisogni inconsci sono subiti e si organizzano dando luogo alla logica del
«è meglio non fidarsi troppo». Logica non deliberatamente organizzata dal soggetto e
tuttavia – sotto forma di vaga sensazione – da lui avallata e nutrita…

La persona sa che è obbediente e lo è per dei valori, ma non sa che la sua obbedienza le serve
anche per evitare il pericolo e difendersi; pensa di aver scelto liberamente, ma non sa di essere
anche sotto la logica della paura. Dietro al suo obbedire c’è una mappa conscia di servizio ed una
inconscia di difesa. La motivazione conscia emerge dalle affermazioni verbali della persona, quella
inconscia, indirettamente, dal comportamento della persona, e quindi si ricava per inferenza.

Due mappe concorrono a motivare la stessa azione con la conseguenza dannosa che quando sono
contraddittorie, l‘agente lavora contemporaneamente su due fronti. È importante però riflettere
che: l’intenzione inconscia sopporta un certo grado di consapevolezza da parte dell’io.
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Che si lascia avvicinare, manda messaggi emotivi, crea stati d’animo…L’inconscio è imprevedibile,
ripetitivo ed automatico e tuttavia non è bizzarro! Siamo responsabili anche di quello e non solo
dell’intelletto e della volontà

Due esempi:

Una ragazza riferisce che il suo sogno sarebbe quello di sposarsi... «ma sa, gli uomini pensano solo
ad usarti, poi ti buttano via. Io sono stata sfortunata». Poi continua dicendo: «ho sempre cercato
di stabilire una relazione sul piano della conoscenza reciproca, del rispetto, della comunione…ma
gli uomini vanno sempre a finire lì….» Fin qui l’intenzione conscia e la mappa razionale.

Andando avanti nella spiegazione risulta però chiaro che è lei stessa a dare una certa impostazione
agli incontri (intenzione inconscia): si veste in modo provocante, si sforza ‘di essere carina’ (gesti
ambigui…). Qui c’è un bisogno di gratificazione erotica e di esibizionismo che origina un’intenzione
inconscia di seduzione. Questa ragazza è davvero ignara di ciò che capita?

Un prete di successo scoperto ad intrattenere una relazione amorosa con una sua parrocchiana
così spiega: «ci sono delle forze inconsce in me di cui non mi rendo conto. C’è in me un bisogno di
affetto che risale all’infanzia. Non l’ho voluto…». È una spiegazione forse non errata, ma parziale.
È vero che ci può essere un bisogno, ma il bisogno non è la spiegazione sufficiente senza
riferimento allo stile di vita attuale di quella persona. Non tutti i preti che hanno un bisogno di
affetto stringono poi relazioni romantiche. Quel fatto riflette anche lo stile attuale: se infatti
guardiamo bene notiamo che ‘quell’incidente’ non è del tutto ‘irrazionale’ o ‘imprevedibile’, anche
in altre aree della sua personalità appaiono tendenze manipolatorie forse non volute, ma di cui la
persona ha un qualche sentore.

In entrambi i casi la persona è parzialmente consapevole = non è consapevole del bisogno che sta
alla base, ma è consapevole che almeno in certi momenti c’è qualcosa che emerge.

Non sa cosa inconsciamente stia perseguendo, ma di certo sa che qualcosa deve essere chiarito,
che c’è una ‘logica’ non adeguatamente spiegabile solo alla luce dell’intenzione conscia. Con
azioni e omissioni la persona lascia spazio alla mappa emotiva, la avalla o la rinforza. Dire che
l’intenzione inconscia può essere consapevole anche se non deliberata vuol dire che anche la
logica inconscia è farina del mio sacco!

Quella logica inconscia non è mero residuo del passato (di cui quindi non siamo affatto
responsabili), ma anche qualcosa di elaborato attualmente: l’azione può nascere da bisogni che ci
portiamo dietro dal passato, ma anche da uno stile di vita contemporaneo. Infatti se si
approfondisce lo stile della persona spessissimo si nota che certe stonature non sono poi così
rare o anomale…

Da una parte il comportamento è sperimentato come ego-alieno: qualcosa che la persona non
vuole interamente, non sentito del tutto come suo ma il risultato di un artificio… dall’altra parte lo
stesso comportamento riflette lo stile della persona che lo compie: è un campione del suo modo
di vedere, degli atteggiamenti abituali. È un comportamento sintomatico. Qualcosa che la persona
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ha imparato a mettere in atto progressivamente con sempre minore consapevolezza e maggiore


automatismo.

Torna allora la domanda: quale è la nostra responsabilità di fronte all’azione?

Nei confronti dell’inconscio siamo responsabili:

- per quanto facciamo per coscientizzarlo. L’inconscio si nasconde e tuttavia emerge in tanti
momenti e atteggiamenti del vivere quotidiano: motivazioni, intenzioni, sentimenti,
emozioni… naturalmente conoscere ciò che si nasconde, non è facile e non è immediato,
occorrono pazienza e fatica. Rientra in questa responsabilità la disponibilità a lasciarsi
aiutare per conoscersi meglio

- per quanto ne teniamo conto. Chi ne ha afferrato la presenza nella propria vita, nel
proprio vissuto, non darà per scontata l’autenticità dei propri atti! E neanche di quelli
altrui. Quel ‘sentore’ che c’è qualcosa che non va, renderà la persona vigile e attenta in
quella determinata area e quindi responsabile della precauzioni che prende/non prende,
per quanto fa/non fa per limitare l’influenza dell’inconscio

- per come l’inconscio si è formato in noi. Sappiamo che l’inconscio emotivo ha radici
nell’infanzia e dunque indipendentemente dalla sua volontà. Ma non tutto l’inconscio ha
quell’origine. Alcune tendenze, atteggiamenti…vengono gratificati sistematicamente
(ragazza seduttrice, prete manipolatore…). La gratificazione sistematica di quelle tendenze,
con ‘concessioni’ magari insignificanti, le ha progressivamente spinte nella zona inconscia
attraverso una ‘sedimentazione progressiva’, che prevede vari passaggi, varie fasi…

Influenza dell’inconscio: scelta e perseveranza


Motivazione inconscia

- prime leggere e consce gratificazioni;


- abitudini sempre meno controllate e ponderate;
- dinamismo automatico sempre più nascosto ed esigente;

In altre parole: la persona si sentirà sempre più attratta da ciò che si concede regolarmente e
l’attrazione, oltre che essere sempre più potente, scatterà in modo sempre più emotivo-
automatico e di conseguenza perderà sempre più l’aspetto problematico di realtà dissonante e
negativa, di ‘tentazione’, per divenire qualcosa di scontatamente normale. Spontaneo-dunque-
lecito

Responsabilità dunque non prossima, ma remota nella formazione di certi atteggiamenti. ‘Vago
sentore’ inteso come sensazione che una persona normalmente ha di quelle tendenze che stanno
sedimentandosi nell’inconscio, ma che non sono ancora del tutto trasferite in quella ‘zona’. Vago
sentore come residua possibilità di un controllo razionale, come segnale di un disagio che chiama
quindi in causa la propria responsabilità (il far qualcosa se si percepisce qualcosa che non va…).
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Spontaneo-dunque-lecito. La difficoltà nell’affrontare il ‘sentore di disagio’ consiste nel fatto che


l’io si mette sulle difese, perché la realtà intrapsichica profonda mette paura e minaccia la stima
di sé.

In che modo l’inconscio può influire negativamente sulle scelte di vita? Che relazione ha col
processo decisionale? E con la capacità dell’uomo di perseverare nei valori scelti?

Ogni decisione responsabile contiene delle considerazioni che superano i vantaggi immediati legati
al qui ed ora. I valori danno la forza per l’impegno. Motivati dai valori, accettiamo di trasformarci
progressivamente attraverso un processo di destrutturazione (tralasciamo ciò che contraddice la
scelta fatta) e ristrutturazione (impariamo stili che rinforzino i valori scelti). Nella decisione
responsabile esiste un ideale ‘germinativo’: un nucleo di valori da sviluppare e ai quali conformarci

Questa forza trascendente che fonda qualunque tipo di vero impegno è particolarmente evidente
nella scelta vocazionale religiosa e sacerdotale. L. Rulla ha dimostrato che l’entrata in vocazione è
in relazione non tanto con ciò che una persona è, quanto con ciò che vorrebbe essere, con ciò che
idealmente desidererebbe fare.Proprio perché si decide in base agli ideali, essi possono essere in
parte irrealistici. Senza saperlo le persone possono orientarsi verso una scelta nel tentativo di
gratificare i bisogni o nello sforzo difensivo di venire a capo di conflitti sottostanti

Accanto ad un ideale ‘germinativo’ esiste un ideale ‘vulnerabile’. Rulla ha trovato che tra i
candidati alla vita sacerdotale e religiosa ci sono mancanza di realismo e vulnerabilità, legata in
parte alla presenza di bisogni subconsci inconsistenti con gli ideali. Questo tipo di idealismo,
poiché di natura compensatoria, impedisce l’ascesi personale. L’individuo cerca nei valori ciò che
essi non potranno dargli mai deluso, adotterà sempre più stili difensivi proclama valori ma non vi si
adegua i valori non reggono alla prova del tempo

Varie ricerche confermano che esiste una correlazione significativa: c’è corrispondenza tra
identità e realismo di valori. Più l’identità è consistente e stabile, più i valori sono realistici,
durano nel tempo e si intensificano. Minore è l’identità, più i valori, eccessivamente alti all’inizio,
perdono significato con il passare del tempo L’incertezza circa la propria identità è compensata
attraverso l’elaborazione di un sistema grandioso di ideali, che, data la loro funzione difensiva, non
possono essere integrati nella vita insignificanti frustranti.

Inoltre non si può identificare l’importanza attribuita dalla persona ad un determinato valore, con
la sua capacità di vivere quello stesso valore!

Chi, come fondamento della propria vocazione, proclama il servizio agli altri, potrebbe non essere
così idoneo a farlo… Viceversa chi si schernisce di certi ideali potrebbe invece essere capace.
L’inconscio può creare discrepanza tra ideali professati e predisposizioni psichiche le persone
possono avere ideali alti che non corrispondono alle aree della personalità forti

…questo capita nell’80% dei casi! Le ricerche hanno trovato che nei gruppi vocazionali si valutano
enfaticamente valori quali obbedienza, servizio, collaborazione…eppure nelle stesse persone ci
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sono, a livello di personalità, difficoltà che contrastano l’attuazione di quei valori. Perché si
enfatizza proprio ciò che non si riesce a vivere?

Il fondamento dell’irrealismo consiste nell’uso strumentale dei valori, che diventano pseudo
valori, auto-cura di problemi e conflitti. Questo assume 2 forme:

1) Gratificazione vicaria: il valore serve per soddisfare un bisogno inconscio inaccettabile. Es:
servire gli altri per essere riconosciuto nelle proprie capacità oblative (esibizionismo);
essere in buoni rapporti con tutti per soddisfare il proprio bisogno di dipendenza.
L’individuo NON rinnega i valori professati, ma li distorce mettendoli al servizio di scopi
contrastanti il valore stesso

2) Fuga difensiva: il valore serve per eliminare bisogni inconsci inaccettabili. Attraverso la
scelta si cerca di soffocare ciò che altrimenti sarebbe irrisolvibile. Es: accettare la
sottomissione per evitare di riconoscere la propria aggressività o per non dover sostenere
la responsabilità delle proprie idee; la comunità per evitare la solitudine. Anche qui il valore
è trasformato in pseudo-valore. Processo inconsapevole: l’uso di meccanismi di difesa
salvaguarda la stima di sé, altrimenti minacciata se quei processi divenissero consci. Ciò che
è gratificazione vicaria o fuga è vissuto come virtù, carisma, volontà di Dio…

Al vantaggio di salvare la stima di sé si associa la coazione a ripetere: più un bisogno viene


affrontato con gratificazione vicaria o fuga, più si acutizza e diventa esigente, costringendo la
persona a ripetere in modo massiccio ed esteso il suo stile… Contrariamente a quanto si potrebbe
pensare più un bisogno è inconsciamente soddisfatto o evaso, più diventa prepotente!

Talvolta ci si illude che un qualche aspetto della vita religiosa venga a risolvere deficit e paure
personali…nei primi anni ci si potrà sentire rassicurati, ma col tempo quei problemi personali
riappariranno con maggiore intensità, costringendo a ricorrere a stili sempre più rigidi e difensivi:

La persona passa dall’illusione alla delusione! Così si spiegano i falsi miglioramenti, le crisi
(apparentemente improvvise), entusiasmi passeggeri,il perpetuarsi di stili autoingannatori senza
imparare dagli errori fatti

Le aspettative irrealistiche portano alla frustrazione. Più uno è frustrato, più si illude; più si illude
più è frustrato e più si illude ancora. Si stabilisce così un circolo vizioso che ha due conseguenze
deleterie nel campo della perseveranza e della capacità di internalizzare.

Perseveranza: a causa della frustrazione le aree vulnerabili della persona diventano sempre più
rilevanti e centrali. La persona nel tempo si sentirà estranea alla propria scelta o si adatterà alla
vita costruendosi un ‘nido’.

Internalizzazione: maggiore è la frustrazione maggiore è lo spreco di tempo ed energie che la


persona disperde, a scapito di preoccupazioni più autotrascendenti

Chiunque si lamenta di una particolare situazione deve rendersi conto che egli stesso ha
contributo a crearla. Chi soffre emotivamente è co-responsabile della propria situazione, anche se
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può trattarsi di una minima responsabilità. Finché la persona non accetta questa responsabilità
non avrà nessun motivo per cambiare proverà a cambiare l’ambiente!

Le diverse motivazioni
La motivazione quindi è ciò che è capace di muovere la persona. Indica l’insieme dei motivi e
delle attese che lo spingono ad agire. Dato che il processo della decisione inizia sempre con una
valutazione intuitiva, ci sono dei «motivi emotivi». Tuttavia perché l’azione sia matura, occorre un
motivo razionale che nasca dalla valutazione riflessiva. L’atto della scelta è messo in moto da un
giudizio intuitivo ma esige una decisione deliberata.

Il criterio del ‘mi piace’, non è sufficiente per fondare un’azione libera e non dà garanzie sulla
perseveranza. Tutti i motivi devono essere in parte consci. Tra i motivi inconsci, le memorie
affettive che riaffiorano… Il motivo dominante è quello che prevale, cioè coordina e finalizza tutte
le energie implicate nell’azione e dà ad esse significato e direzionalità.

3 modi di essere motivati (Kelman):

Compiacenza:

la persona adotta un atteggiamento, al fine di ottenere una ricompensa o evitare una punizione
dal gruppo di appartenenza o da un’altra persona, senza convinzione circa il contenuto del
comportamento. Premi-punizioni sono soprattutto di carattere psicologico: ritiro dell’affetto, non
considerazione, sentimenti di colpa.

Non vi è dunque un reale consenso. La persona non necessariamente crede nei contenuti e nel
valore dell’atteggiamento, semplicemente spera di ottenere un vantaggio e vi si adatta…

Es: chi si conforma all’autorità facendo passivamente tutto quello che lui/lei dice… In termini
sociali anche l’ambiente può favorire un clima di compiacenza: ad esempio un leader che si fa
valere promettendo ricompense o punizioni; è una forma di ricatto che spinge a conformarsi per
evitare spiacevoli conseguenze. Conformità solo esteriore e temporanea in presenza dell’autorità.
Funzione utilitaria degli atteggiamenti, essendovi in gioco premi e ricompense, ma può essere in
relazione anche con la funzione difensiva dell’io se il premio è di natura psicologico-morale. Dal
punto di vista strutturale la persona compiacente è inconsistente: ha bisogno di sostegni esterni
per aderire ai valori.

Identificazione:

la persona adotta un comportamento per stabilire o mantenere una relazione gratificante con
un’altra persona o gruppo. Tale relazione è gratificante perché aiuta la persona a conservare
un’immagine positiva di sé. Relazione reale o fantastica.

Es: il bambino che ripete i gesti dell’eroe e si sente partecipe della sua potenza.

3 forme di identificazione:
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1) Classica: la persona assume parzialmente o totalmente l’identità del modello: vuole essere
come lui, o essere lui.

2) Reciproca di ruolo: le due parti si identificano a vicenda per cui uno tende ad agire secondo
le aspettative dell’altro e viceversa.

3) Con un gruppo: per conservare e migliorare l’immagine di sé la persona modella il


comportamento secondo le aspettative del gruppo e queste sono formulate in vista di una
risposta da ottenere

Il motivo dell’aggregazione è l’autodefinizione: come membro di un gruppo mi sento che


valgo. Queste 3 forme ci dicono che grazie all’identificazione la persona si comporta come
l’altro vuole, secondo le aspettative dell’altro o come il gruppo vuole.

Identificazione e Compiacenza:

L’identificazione è di qualità superiore rispetto alla compiacenza. Qui c’è anche


un’accettazione privata-interiore, oltre che pubblica-esteriore dell’atteggiamento adottato:
ci si crede veramente… Inoltre la manifestazione pubblica di quell’atteggiamento non è
condizionata dall’osservabilità da parte dell’agente influenzante: quell’atteggiamento è la
risultante di una relazione identificatoria con un gruppo o una persona vista come
attraente e non come detentrice di premi o punizioni.

La differenza più grande è che il processo di identificazione è uno stadio necessario per
l’acquisizione dei valori. Per apprendere i valori occorrono dei modelli di riferimento. Il
modello è un essere umano che dà corpo nella sua umanità ad una realtà difficilmente
comunicabile in astratto solo con nozioni intellettuali. Se manca il modello vivente, la
persona umana, che in fondo funge da ‘testimone’, viene a mancare l’esempio su cui
costruire se stessi

Ambivalenza dell’identificazione

Processo insufficiente perché l’atteggiamento che attiva è attivato solo nel contesto della
relazione auto-definitoria; gli atteggiamenti appresi vengono messi in atto solo nel contesto
di QUELLA relazione. Le motivazioni NON sono ancora diventate convinzioni = non sono
integrate nel sistema dei valori della persona ma tendono a rimanere relegate a ben
precise condizioni (l’approvazione altrui). Inoltre: l’assunzione del comportamento è
strumentale alla relazione e la sussistenza di esso dipende dalla sussistenza della relazione.

L’identificazione è quindi un processo di apprendimento ambivalente e costituisce uno stadio


intermedio nella maturazione dei motivi, ma mai la meta. Il punto finale dovrebbe essere
l’assunzione di comportamenti in quanto creduti profondamente e quindi indipendentemente
dal rinforzo sociale. Possono nascere sì da una relazione, ma poi devono perseverare oltre essa

Cosa fa scattare l’identificazione?


Quale parte dell’io viene gratificata?
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Come fa l’identificazione ad aumentare


la stima di sé?
Su quali contenuti dell’io agisce?

Ciò che fa scattare l’identificazione è la percezione nell’altro di qualcosa che serve per il senso del
proprio io. Grazie alla relazione l’io trova maggiore identità. Se però una relazione si regge su
bisogni dell’uno e dell’altro che vengono appagati, rischia di non consentire la crescita L’imitazione
di un modello può portare all’autonomia di scelta, ma può anche bloccare entro una relazione di
reciproca dipendenza.

Occorre allora distinguere: L’identificazione è fonte di crescita nella misura in cui fa apprendere
atteggiamenti che aumentano i valori. È bloccante quando gratifica quella parte dell’io
contraddittoria ai valori (identificazione non internalizzante). Più sottile è la differenza quando
l’identificazione soddisfa valori, ma nello stesso tempo, bisogni contrari ad essi. Ad
esempio: un leader di comunità che vuole la promozione del gruppo, ma nello stesso tempo anche
il riconoscimento della sua ‘proprietà’ sul gruppo stesso!

Non tutti i bisogni sono in se stessi contrari ai valori, anzi alcuni possono favorire l’adesione (ad es.
il bisogno di affiliazione). È importante allora valutare a servizio di ‘cosa’ sono certi bisogni… Ciò
che in concreto complica le cose è il fatto che l’identificazione non internalizzante è sperimentata
emotivamente più gratificante dell’altra con l’errata conclusione che ‘se mi piace mi fa anche
bene’! mi piace ≠ da mi giova

Spesso siamo misteriosamente attratti da persone o ambienti che in qualche modo stimolano i
nostri

problemi irrisolti,
sono in sintonia con i bisogni frustrati,
ci danno la possibilità di non affrontare le nostre immaturità.

L’identificazione internalizzante, invece, nasce all’interno di relazioni non soffocanti, che lasciano
un margine di libertà o la promuovono e non cercano di riempire la solitudine. Solitudine ed
autonomia aspetti essenziali per la crescita

Internalizzazione:

secondo questo processo la persona accetta un’influenza sociale facendo suoi valori ed
atteggiamenti, perché ne vede la validità intrinseca e li scopre coerenti con il proprio sistema di
valori. Internalizzare quindi vuol dire far proprio qualcosa, riconoscere in quella ‘cosa’ l’identità
personale.

Il motivo dell’adesione è il contenuto stesso dell’atteggiamento e non le pressioni sociali di


compiacenza o le relazioni gratificanti con qualche fonte influente. La proposta dell’altro è
accettata non perché è l’altro che la fa, ma perché è ritenuta valida e l’altro è credibile. Ciò che è
stato internalizzato – proprio perché sorretto da una valutazione interiore - diventa socialmente
indipendente e parte del sistema di valori della persona, una vera convinzione.
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Quindi un comportamento è attuato perché ritenuto idoneo a portare alla massima realizzazione i
valori. Una persona ritenuta valida, credibile, di fiducia, ne è portatore e quindi ‘testimone’ ed
‘ispiratore’, ma poi l’altro li fa suoi. Per la perseveranza non occorre il rinforzo sociale: la
gratificazione è già nel vivere il valore stesso, al quale si è fedeli anche quando non c’è applauso o
quando si deve pagare cara questa fedeltà

Non bisogna però confondere l’internalizzazione con la razionalità: non basta la testa, come non
basta il solo cuore o la sola volontà. L’internalizzazione avviene attraverso un’integrazione
mentale-affettivo-volitiva.

Il nucleo e la forza risiedono nella capacità del contenuto di essere soddisfacente, per se stesso,
per la sua relazione con il sistema dei valori della persona. Mentre gli atteggiamenti per
compiacenza ed identificazione non si integrano col resto della personalità, ma tendono piuttosto
a rimanere artificiali o isolati, il comportamento internalizzato diventa parte integrante della
persona.

L’internalizzazione è un fattore unificante della personalità. La sede dell’identità diventa la


convinzione e di conseguenza il coinvolgimento diventa personale In sintesi l’apprendimento
internalizzante implica queste componenti:

la capacità di cogliere un valore nella sua validità intrinseca e verità oggettiva;


un’esperienza di forte attrazione rispetto a quel valore;
il saper scorgere in esso il contenuto del proprio io ideale, cioè qualcosa che trascende e
realizza

L’internalizzazione è un obiettivo a cui tendere. Un progetto formativo deve avere come obiettivo
quello di favorire la capacità di internalizzare, cioè di avviare un processo di apprendimento che
abbia sempre meno bisogno di rinforzi esterni e si focalizzi sempre più su convinzioni interne.

La capacità di internalizzare dà un tono specifico alla vita della persona, in particolare la


caratterizza per 3 aspetti:

a) Realismo nelle aspettative:

chi vive per convinzioni che sono socialmente indipendenti, vede se stesso nella giusta
dimensione, senza buttarsi via e senza esaltarsi, va incontro alla vita con atteggiamento realista,
senza attendersi la gratificazione di tutti i propri bisogni, non si metterà nell’atteggiamento di chi
pretende di ricevere, ma di chi si dispone a dare. L’accostarsi al valore senza secondi fini consente
di percepire la realtà in modo globale, senza escludere aspetti indesiderati, senza unilateralismi.

Il realismo favorisce di conseguenza l’efficacia: poiché si annuncia qualcosa percepito come vero in
se stesso e sperimentato come vero nella propria vita si diventa credibili. L’apprendimento non
internalizzante, al contrario, favorisce aspettative irrealistiche, e quindi il fenomeno della
distorsione percettiva che poi condiziona tutta la vita della persona impedendole di formulare
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giudizi obiettivi, e quindi facendole mal-interpretare ogni aspetto del quotidiano: se stesso, gli
altri, le relazioni, il discernimento…tutto resta distorto!

Parallelamente si ingigantiscono le aspettative irrealistiche… un mondo di speranze ed ideali


sempre più utopici che quindi vanno ad aumentare il senso di frustrazione e delusione Rabbia,
senso di fallimento, isolamento, chiusura, ritiro dalla realtà comunitaria, costruzione di un nido a
propria misura… ovviamente fortemente compromessa resta la testimonianza

b) Tensione di rinuncia

Saper internalizzare non vuol dire semplificarsi la vita e non avere più fatiche e disagi. Per vivere
è necessaria un po’ di tensione che rappresenta l’energia psichica, la molla di ogni passione.La
capacità di internalizzare comporta la tensione di rinuncia = sensazione sopportabile di sofferenza
determinata dalla rinuncia alla gratificazione di un bisogno che però non è al centro dell’attenzione
emotiva, in altre parole:la rinuncia a bisogni che confliggono con i valori abbracciati!!

La rinuncia non crea frustrazione, perché è ben motivata! La persona si riconosce nel valore scelto,
ne avverte l’attrazione e questo le dà la forza di controllare i bisogni ad esso opposti. Sacrificio
cosciente, liberamente accettato, che fa soffrire ma non invade le aree psichiche, insistente, ma
controllabile

Perché ciò sia possibile sono necessarie due condizioni psicodinamiche:

1) al centro dell’attenzione e dell’attrazione emotiva è un valore e non un bisogno;

2) la tensione per non aver gratificato un bisogno dissonante non invade l’intero apparato
psichico, rimane controllabile e non condiziona le facoltà mentali. L’alternativa esclusa non
scompare, ma rimane attraente, tuttavia sarà tenuta sotto controllo dall’altro contenuto
internalizzato che attrae più potentemente.

I progetti formativi devono sfatare il mito dell’uomo con possibilità illimitate, come se l’uomo
maturo potesse esprimere sempre tutte le proprie potenzialità. L’uomo maturo è l’uomo che sa
autolimitarsi. L’altro tipo di tensione è la tensione di frustrazione: se seguo l’impulso poi c’è lo
scrupolo, se seguo il valore poi mi sembra di perdere qualcosa di necessario. Il comportamento
derivante sarà instabile e contraddittorio

Non soddisfare il bisogno produce un’ansia diffusa, rinunciarvi significa sentire un vuoto che pesa
sul funzionamento generale della personalità, disturba l’attenzione e l’attività ed è difficilmente
controllabile. Mentre rinuncia la persona avrà l’impressione di essere stata defraudata di un suo
diritto, idealizzerà il frutto proibito o lo disprezzerà. In ogni caso non potrà essere contenta e
convinta della propria scelta. Osservanza esteriore e non reale passione

Si innesta un processo di logorio interno che pregiudica la perseveranza nell’impegno intrapreso,


quando la persona non saprà più trovare le motivazioni sufficienti per continuare a dire di no ad
un bisogno sempre più esigente.

c) Esercizio dei ruoli


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Un’ulteriore conseguenza del processo di internalizzazione è la capacità di dare direzione


armonica e unificante alle varie attività e ruoli. Poiché sono le convinzioni a scandire la vita la
persona saprà meglio organizzare i diversi ruoli, dare l’importanza che meritano, ordinarli e viverli
come mezzi per realizzare la sua opzione ideale. La capacità di internalizzare dà uno stile alla vita
della persona e favorisce l’efficacia del suo lavoro: ogni attività è utilizzata come mezzo per
realizzare dei valori

C’è un rapporto preciso tra opzione valoriale di fondo e vari ruoli intermedi: la prima è un fine, i
secondi un mezzo, dei modi per rendere operativi e manifestare i valori. La persona quindi NON
confonde convinzioni di fondo e attività passeggere, non ripone in queste ultime la sua identità,
la sua fiducia, sa che possono cambiare e non sono fondamentali

Se non ci fosse la capacità di internalizzare al I posto verrebbe l’attività , il ruolo…la persona si


identifica con esso e purtroppo questo non è infrequente nella VR. Il ruolo diventa l’assoluto, il
valore un accessorio!

L’inversione inizia senza consapevolezza…idealmente il piano dei valori non cambia, tuttavia la
persona cerca sempre più gratificazioni, conferma di stima ed identità nel ruolo piuttosto che nel
valore (identificazione non internalizzante).

La persona mette casa in quell’attività! Diventa inamovibile, diventa ‘sua’! Rinunciarvi


significherebbe mettere in crisi l’identità. Apparentemente la persona si mette tutta in quello che
fa, tuttavia lo stile è di sottile narcisismo, e col tempo… la persona si annoia di quell’attività, di
quel ruolo, o li protegge aggressivamente (‘è roba mia!’).

Il ruolo fine a se stesso, sganciato dai valori, inevitabilmente………….stanca! Crea frustrazione,


delusione, con serie compromissioni sull’efficacia e perseveranza vocazionale

Ecco perché è fondamentale fondare bene le motivazioni di inizio processo vocazionale, ma non
solo… tornare continuamente ad esse, vigilare e discernere tutte le proprie azioni, avere il coraggio
di mettersi in discussione e confrontarsi per verificare sempre che i valori siano al vertice e non si
siano invece frapposti altri idoli

Consistenze ed Inconsistenze vocazionali


 Consistenze e inconsistenze
 Livelli di inconsistenze
 GRADO DI CENTRALITA’ DELLE INCONSISTENZE
 4 Tipi do consistenze/ inconsistenze intrapsichiche

Non basta «praticare le opere buone davanti agli uomini», (cf. Mt 6,1) come «scribi e farisei» (cf.
Mt 23,23-28) né basta dichiarare intenzioni apprezzabili (cf. Mt 7,21; 21,28-31). Nelle Lettere ai
Romani e ai Galati, Paolo ci ricorda che la creatura nuova in Cristo non si fonda solo sull’osservanza
della legge e sul semplice ascolto della Parola. Occorre puntare sul modo di essere interiore. Ciò
che per Gesù è importante è il ‘cuore’, la sede delle intenzionalità della persona
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Il cuore… È il ‘luogo’ in cui, progettualità ed intenzionalità, si dipanano. È pure la sede in cui un atto
dalla portata anche minima può avere ripercussioni enormi per il soggetto. È il terreno più o meno
favorevole all’assimilazione dei valori trascendenti Attenzione quindi, più che alle intenzioni e ai
comportamenti, alla ‘psicodinamica’ o al nucleo profondo della personalità

Più volte abbiamo parlato dell’importanza dell’internalizzare i valori, cioè del farli propri perché
diano un orientamento vero e coerente alla vita. Ciò che favorisce o al contrario limita questo
processo così centrale nel cammino vocazionale sono le consistenze ed inconsistenze

Consistenze e inconsistenze
Il termine consistenza richiama l’idea dell’armonia, della non contraddizione. Tale concetto è
collegato quindi alla ‘verità’ della cosa in questione e alla sua capacità di conseguire il fine. È
consistente una casa che ha fondamenta profonde, delle pareti robuste, la cui struttura garantisce
solidità, sicurezza e riparo a chi vi abita

Applicando il concetto alla conformazione intrapsichica dell’essere umano, si può definire la


consistenza come una situazione interna e profonda di armonia tra le strutture dell’Io e le relative
componenti. Si può parlare di consistenza su diversi piani:

1) psicologico-esistenziale:

relazione di accordo e complementarietà tra i diversi livelli della vita psichica. C’è
inconsistenza quando c’è conflittualità: ciò che piace contrasta con ciò che giova; si vuole
raggiungere un fine, ma si rifiutano i mezzi per poterlo fare. Si apprezza un valore, ma poi
non si accettano le sue esigenze

2) logico-mentale:

è la non contraddizione tra due conoscenze. Il contrasto fra due conoscenze è molto
sentito quando riguarda l’immagine di sé. In questo caso tende a scattare una tendenza ad
eliminare l’elemento cognitivo contenente una valutazione negativa dell’IO. Il caso tipico è
quello di chi di fronte ad un insuccesso lo minimizza, così facendo pone resistenza ad
accettare valutazioni negative che riguardano il concetto di sé.

Tendenza verso la stabilità della nostra immagine, per cui rifiutiamo le nformazioni che
contraddicono il ‘concetto di sé’, come errate. Se mi considero stupido, qualunque
attestato di intelligenza sarà interpretato come ‘errore di valutazione’ e perciò rifiutato.
Siamo portati ad ignorare quegli aspetti di noi che NON confermano quello che PENSIAMO
DI ESSERE

3) intrapsichico-strutturale:
riguarda il rapporto tra le componenti dell’Io, cioè tra Io attuale e Io ideale, e di
conseguenza tra i contenuti dell’Io, bisogni-valori-atteggiamenti. Ci concentriamo sulle
consistenze/inconsistenze strutturali

Definizione di consistenza:
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Un individuo è consistente quando è motivato nel suo agire, sia a livello conscio che inconscio da
bisogni che sono in accordo con i valori; è inconsistente quando è motivato da bisogni (inconsci)
che non sono in accordo con i valori. Dal punto di vista dei contenuti, elemento centrale: rapporto
bisogni-valori; gli atteggiamenti di conseguenza …delle strutture: armonia o non contraddizione
fra componenti dell’Io ideale e quelle dell’Io attuale (manifesto o latente)

La persona consistente è armonicamente integrata, perché le componenti del suo io e le sue


strutture sono messe in moto dall’unica forza motivante, interagiscono costruttivamente tra loro
verso uno stesso obiettivo. La persona inconsistente vive in uno stato di disaccordo interno, non
ha in mano la propria vita perché una motivazione che non conosce smentisce e contraddice la sua
proclamazione di valori. L’individuo avverte le conseguenze, ma non l’origine.

La persona inconsistente ha meno libertà nello scegliere il proprio progetto di vita, poiché una
forza inconscia ne condiziona le scelte e ne limita la capacità di realizzarle.

La persona consistente vive una situazione di trasparenza interna ed esterna : proclama un valore
che ritiene essere lo scopo della sua vita (V) + il bisogno che lo attrae è conforme all’ideale (B) + e
si impegna per realizzarlo con un atteggiamento coerente (A) è una persona ‘vera’

Le consistenze quindi sono caratterizzate dal fatto che i valori ed i bisogni sono in accordo fra loro;
mentre le inconsistenze dalla contraddizione tra valori consci e bisogni inconsci. Meglio parlare di
‘aree’ inconsistenti.

Le inconsistenze non indicano ‘psicopatologia’, qui intendiamo quelle vocazionali che sono quelle
correlate al perseguimento dei valori. Non indicano cattiva volontà perché siamo in aree inconsce.
Consistenze ed inconsistenze possono convivere, non esiste la persona TUTTA inconsistente, né
quella TUTTA consistente. L’indice di maturità è dato proprio dalla prevalenza di aree forti o deboli

Le inconsistenze però nel tempo possono minare le consistenze e col tempo divenire centrali.

Ci sono diversi ‘tipi’ di inconsistenza a secondo delle strutture implicate.


Diverse ‘aree’ di inconsistenza a seconda dei contenuti implicati.
Diversi ‘livelli’ di inconsistenza a seconda del grado di consapevolezza.
Diversi ‘gradi di funzionalità’ a seconda dei gradi di centralità delle inconsistenze.
Caso A:

Un sacerdote ha chiari i valori personali e si comporta secondo quegli ideali (consistenza tra ideali
e io manifesto). Tuttavia egli stesso riferisce con dispiacere che ogni volta che l’autorità parla egli
la critica (inconsistenza tra concetto ed esigenze di ruolo). Emerge inoltre che tende ad essere
individualista, ci tiene ad affermare la propria autonomia (inconsistenza tra ciò che fa – io
manifesto – e ciò che sente senza riconoscerlo – bisogno di autonomia nell’io latente).

Possibile interpretazione: La continua critica all’autorità è un mezzo per affermare


inconsciamente, opponendosi, la propria autonomia e la disponibilità agli altri è subordinata al
fatto che la gestisca comunque come vuole. Una persona che deve affermarsi e si cautela con chi
può limitarla.
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Casi B e C:

Due persone hanno lo stesso problema di masturbazione ma lo vivono in modo diverso:

B): lo sente non conforme a sé, sta male quando gli capita. È ‘egodistonico’;

C): anch’egli vede il problema ma… «lo so che sbaglio, ma non posso fare altrimenti, dopo mi sento
meglio; e poi non bisogna drammatizzare, in fondo questo è il mio difetto, ciascuno ne ha uno». È
‘egosintonico’.

LIVELLI DI INCONSISTENZE

Il livello si riferisce al grado di consapevolezza del conflitto. Si può avere una gerarchia: dal livello
conscio a quello inconscio. È importante capire che spesso le difficoltà spirituali in realtà sono
espressione di inconsistenze inconsce vocazionali. Non è questione di valori, ma di difficoltà ad
armonizzarli con i bisogni. Non comprenderlo significa perdere tempo pensando che la persona
non sia abbastanza generosa con Dio e quindi non aiutandola a progredire!

Senza capire la natura vera dei problemi, questi possono acuirsi, essere ‘peggiorati’ da interventi
educativi errati! Ad esempio: se una persona è ribelle perché si sente poco brava (problemi di
stima), la predica sull’orgoglio non farebbe che aumentare il problema della ribellione. Più le si
dice che non è brava (la si rimprovera) più avrà atteggiamenti ribelli! Piuttosto si deve lavorare
nell’aumentare l’autostima, una volta compreso che la ribellione nasconde in realtà una
valutazione negativa di sé.

Inoltre… Una consistenza può in realtà sottendere un’inconsistenza. Si parla allora di ‘consistenze
difensive’ che corrispondono comunque ad un’inconsistenza. Da qui l’importanza di un’opera
educativa mirata e oculata… non è tutt’oro quello che luccica! Occorre saper discernere fin
dall’inizio le difficoltà inconsce prima che si radicalizzino e sia troppo tardi per un cammino di
crescita vocazionale.

Ricordiamo che di solito la Grazia non rimedia i problemi, i limiti, in modo straordinario. L’azione
della Grazia di solito non tocca le limitazioni naturali inconsce a vivere gli ideali trascendenti che
la persona si propone. Dio vuole la cooperazione dell’uomo, potrebbe fare tutto da solo, ma di
solito non procede così

GRADO DI CENTRALITA’ DELLE INCONSISTENZE


Il grado di coinvolgimento dell’Io è diverso: dal dispiacere, all’ignoranza, alla sopportazione,
all’autocompiacimento…

3 criteri per cogliere la diversa centralità di un’inconsistenza:

1) se quell’aspetto (o ‘variabile’) è considerato come mezzo necessario


per mantenere dei fini personali. Ad esempio quando rinunciare all’aggressività significa un
minor gusto per l’ideale… È la situazione di chi sta bene con gli altri (fine personale), solo
quando c’è da far battaglia (variabile centrale)
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2) se quell’aspetto è considerato importante per la stima di sé, anche quando è un


impedimento alla crescita. ‘Più domino, più sono qualcuno’. Prevale il volere emotivo. Vale
anche il contrario: attività e privazioni che vanno contro la stima di sé sono difficili da
sostenere. La difficoltà a rinunciare – pena il crollo della stima di sé – rende problematica la
perseveranza. Si accetta il valore solo fino ad un certo punto: ad esempio se ho bisogno di
sostenermi attraverso esibizionismo e autonomia, la disponibilità sarà compromessa. Quando
l’autostima è legata ad un valore e contemporaneamente ad un bisogno opposto, ne nasce un
conflitto!

3) La persona è incapace di adottare meccanismi protettivi contro l’influenza di un attributo


anche quando questo è sentito in modo negativo. La persona anziché risolvere il problema
cercherà di giustificarlo… Ricordiamo che lo stesso problema può avere funzionalità diverse per
ciascuna persona. Il vero segreto di qualunque cammino formativo è non solo proporre valori
ed atteggiamenti da seguire, ma anche aiutare a comporre bisogni e valori

Vari di tipi di combinazioni che possono istaurarsi fra i contenuti dell’Io, cioè tra i valori, terminali e
strumentali, i bisogni e gli atteggiamenti. Si presuppone che chi inizia un percorso vocazionale o sia
già impegnato in esso abbia presenti i valori cristiani. Un secondo presupposto è che valori e
bisogni hanno una forza motivante più grande di quella degli atteggiamenti e perciò tendono
meno a cambiare

4 tipi di consistenze/inconsistenze intrapsichiche

1) Consistenza sociale: è data dall’armonia fra valore, bisogno e atteggiamento

V+, B+, A+

Es. al valore di carità (V), corrisponde la spinta naturale (B) ad aiutare gli altri; valore e bisogno poi
convergono in atteggiamenti di cortesia, disponibilità, generosità (A). Si parla di consistenza
sociale in quanto la persona è ben adattata

2) Consistenza psicologica: consonanza tra valore e bisogno, ma non veicolata da


atteggiamenti corrispondenti

V+, A-, B+

Per esempio un giovane potrebbe essere animato da vera carità (V+) e dotato di un naturale
desiderio di generosità, di andare incontro alle necessità dei suoi simili (B+). Tuttavia ha uno stile
aggressivo che rende ‘rudi’ i suoi modi di gestire i rapporti (A-). Si parla di inconsistenza
psicologica in quanto c’è coerenza nelle strutture interne dell’Io, la persona ‘ha della stoffa’, ma
occorre lavorarci, perché non è ben adattata…

3) Inconsistenza psicologica: è data dalla disarmonia tra valori e bisogni, pur essendoci
atteggiamenti conformi ai valori

V+, A+, B-
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Per esempio è il caso della persona consacrata con un atteggiamento obbediente verso i propri
superiori (V+, A+), atteggiamento che però nasconde una forte inclinazione aggressiva (B-).Si parla
di inconsistenza psicologica perché l’apparente adattamento esterno è attuato a prezzo di una
contraddizione interna del soggetto. «Questo popolo mi onora con le labbra, ma è lontano da me»
(Mt 15). Si tratta di ‘personalità conformiste’, l’adesione ai valori è ‘esteriore’, convenzionale

Un altro esempio: la persona ha bisogno di dipendenza affettiva, di essere sostenuta ed


incoraggiata dagli altri (B-), e questo bisogno è in contrasto con l’atteggiamento che ha di continuo
soccorso e disponibilità (A+) e con il valore della carità nel quale crede (V+).

La persona appare come un ‘buon cristiano’, e perciò socialmente adattata, ma è


psicologicamente inconsistente in quanto la facciata è minata da un bisogno inconscio. Il suo
‘dare’ è, in un’ultima analisi, al servizio di un bisogno, più o meno inconscio, di RICEVERE il suo
dare è molto fragile è come un ‘gigante con i piedi di argilla’ (Rulla, I, 301)

4) Inconsistenza sociale: si ha quando c’è disarmonia tra valore e bisogno e


l’atteggiamento è conforme al bisogno dissonante

V+, A-, B-

Per esempio è il caso della persona consacrata che, ‘travolta’ dal bisogno di dipendenza affettiva
(V+, B-), vive atteggiamenti che contraddicono la scelta di castità (A-). Proprio per questo stato di
contraddizione manifesta (che non vuol dire ‘conscia’), si parla di inconsistenza sociale. In casi con
tali psicodinamiche è facile trovare personalità ribelli’, cioè disadattate rispetto alle condizioni ed
esigenze della vocazione

Riguardo all’inconsistenza psicologica e sociale, la persona può passare facilmente da uno stato
ad un altro: le due inconsistenze sono simili riguardo alle due forze motivazionali maggiori, valori
e bisogni che sono in contraddizione fra loro; differiscono per la forza minore, gli atteggiamenti,
che possono essere d’accordo con i valori (inconsistenza psicologica) o con i bisogni (inconsistenza
sociale). L’esempio lampante è dato dagli ‘osservanti’ (inconsistenti psicologicamente) prima del
Concilio Vaticano II, che sono diventati dopo il Concilio i più ribelli (inconsistenti sociali)

La comunità: 9 principi di base


 La comunità
 9 Principi di base

«Quando si tratta di problemi della vita, posso spesso apparire come una persona ‘superiore’;
eppure nel profondo di me stessa, io sono come prigioniera di un gomitolo aggrovigliato, e con
tutta la mia chiarezza di pensiero a volte non sono altro che un povero diavolo impaurito. A volte
siamo così distratti e sconvolti da ciò che capita, che poi fatichiamo a trovare noi stessi. Eppure si
deve. Non si può affondare, per una sorta di senso di colpa, in ciò che ci circonda. È in te che le
cose devono divenir chiare.
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Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a
raggiungerla, più sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora Dio è sepolto. Allora bisogna
dissotterrarlo di nuovo» (Etty Hillesum, Diario).

La comunità
Chi appartiene ad un gruppo ne è in qualche modo leader e capo anche senza essere
legittimamente riconosciuto come tale. Nessuno, in un gruppo, è senza influenza sull’altro. Ecco
perché è importante lavorare su di sé, per poter poi star bene con gli altri. La maturità relazionale
dipende dalla maturità personale, fondata su una stima sana di sè

Occorre allora lavorare per acquisire una percezione sanamente realistica di se stessi: pregi e limiti
Il banco di prova della nostra crescita e di ciò che invece dobbiamo ancora migliorare – e non ci
sono limiti di età in questo! – è la vita comunitaria.

Ci sono domande tanto semplici quanto complesse nello stesso tempo e… per nulla scontate Alla
domanda che cos’è la comunità le risposte sono le più diverse. Così anche se si domanda che cosa
ci ispira la comunità. Inoltre si sta insieme, ma… perché si sta insieme? Che cosa si cerca stando
con gli altri? Cosa do agli altri e cosa pretendo dagli altri?

Possiamo dire che la comunità è per i valori del Regno, che la giustificano e fondano la vita
insieme.

Il che vuol dire che lo scopo della comunità è stare insieme per approfondire l’impegno
vocazionale. Essa è efficace nella misura in cui favorisce l’autotrascendenza, cioè se stimola le
persone ad abbracciare dei valori…ad amare Dio con tutto il cuore, la mente, le forze. O, da un
altro punto di vista, è efficace nella misura in cui riesce a favorire la consistenza interna, cioè la
conoscenza di sé, il rafforzamento dell’identità personale e il dono di sé per Dio

Dire che la comunità è proiettata verso il trascendente equivale a dire che essa favorisce la
tensione verso il meglio, stimola i membri a prendere posizione verso la propria vita e verso i
valori abbracciati.

Il riferimento ai valori è quanto di più scomodo e provocante si possa immaginare! Esso fa scattare
una serie di dicotomie tra opposti la cui soluzione non è per nulla facile. Ad esempio come
perseguire il giusto equilibrio tra il rispetto della persona e il bene comune, tra le esigenze e le
necessità dei singoli e quelle della comunità, tra i carismi personali e il progetto apostolico della
comunità.

I rapporti tra vita fraterna ed attività apostolica, in particolare negli istituti dediti alle opere di
apostolato, non sono stati sempre chiari e hanno provocato non raramente delle tensioni sia nel
singolo che nella comunità. Per qualcuno "il fare comunità" è sentito come un ostacolo per la
missione. E ancora: ubbidire o crescere nell’autonomia? Perdonare o stimolare? E tante altre…

Risolvere in qualche modo queste antinomie non vuol dire abolire una modalità in favore
dell’altra, occorre trovare piuttosto un criterio orientativo, alla luce del quale oggi parlare e
domani tacere.
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Si cammina su un filo sottile, quello che è buono oggi, può non esserlo domani. Il disegno
comunitario va continuamente ridefinito ed adattato. Potremmo disegnare la comunità come un
triangolo (Vivere insieme, Manenti), gli angoli alla base contengono i due poli delle dicotomie, che
contribuiscono alla costruzione della figura. La posizione e l’ampiezza dei due angoli alla base è
determinata dal VERTICE

È proprio la sua supremazia che determina il convergere delle linee non in modo arbitrario, o
parallelo o addirittura divergente.

Dato il peso determinante del vertice - il Regno ed i suoi valori – il problema non sarà quello di
decidere chi ha ragione e prevalere, ma…assicurare il primato del vertice. Questo rende UNICA la
comunità rispetto ad altri spazi umani, ad altre convivenze. Ecco perché essa diventa luogo
imbarazzante di decisioni, spesso sofferte ed impopolari. La comunità religiosa è il luogo ove
avviene il quotidiano paziente passaggio dall'"io" al "noi", dal mio impegno all'impegno affidato
alla comunità, dalla ricerca delle ‘mie cose’ alla ricerca delle ‘cose di Cristo’.

La professione religiosa è espressione del dono di sé a Dio e alla Chiesa, ma di un dono vissuto
nella comunità di una famiglia religiosa. Il religioso non è solo un "chiamato" con una sua
vocazione individuale, ma è un "convocato", un chiamato assieme ad altri con i
quali "condivide" l'esistenza quotidiana.

Il clima di convivenza in molte comunità è migliorato: si è dato più spazio alla partecipazione attiva
di tutti, si è passati da una vita in comune troppo basata sull'osservanza ad una vita più attenta alle
necessità dei singoli e più curata a livello umano. Lo sforzo di costruire comunità meno
formaliste, meno autoritarie, più fraterne e partecipate, è considerato, in generale, uno dei frutti
più evidenti del rinnovamento di questi anni.

"Vi preghiamo fratelli di aver riguardo per quelli che faticano tra di voi, che vi sono preposti nel
Signore e vi ammoniscono; trattateli con molto rispetto e carità, a motivo del loro lavoro“
(1 Tess 5,12-13).

La comunità cristiana non è infatti un collettivo anonimo, ma è dotata, fin dall'inizio, dei suoi capi,
per i quali l'Apostolo chiede considerazione, rispetto, carità. Non si può infine dimenticare che in
tutta questa delicata, complessa e spesso sofferta questione, gioca un ruolo decisivo la fede, e solo
la fede! che permette di comprendere il mistero salvifico dell'obbedienza

Infatti, come dalla disobbedienza di un uomo è venuta la disgregazione della famiglia umana e
come dall'obbedienza dell'Uomo nuovo è iniziata la sua ricostruzione (cfr. Rm 5,19), così sarà
sempre l'atteggiamento obbediente ad essere una forza indispensabile per ogni vita familiare.

La vita religiosa ha sempre vissuto di questa convinzione di fede ed anche oggi è chiamata a viverla
con coraggio, per non correre invano nella ricerca di rapporti fraterni e per essere una realtà
evangelicamente rilevante nella Chiesa e nella società
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Certo oggi è ingenuo pensare che la comunità, il vivere insieme si possano improvvisare. «La sola
buona volontà senza professionalità è ingenuità fanciullesca, che si imbarca in iniziative
schiaccianti» (Manenti)

La società è disgregata e disgregante, il mutamento dei valori è rapidissimo, i modelli di


riferimento evolvono prima ancora che possano stabilizzarsi, la tecnologia sta modificando
linguaggio e modi di essere in relazione, i nuclei familiari sono sempre più frammentati… Il vivere
insieme si è reso più complesso, perché noi siamo più complessi. Occorre diventare persone
competenti per essere in grado di far fronte alle sfide attuali.

Non basta volersi bene, non bastano il buon senso e i molti anni di vita, per affrontare e gestire
come responsabili di formazione e di comunità una serie di aspetti e problematiche in cui entrano
in gioco personalità diverse sia nella loro individualità, sia nella reciproca interazione. Occorre
prepararsi, diventare sempre più ‘esperti’, non dando mai per scontata la propria preparazione

Entriamo più nello specifico…che cos’è la comunità? Cosa ne può ostacolare una convivenza
serena?

9 principi ‘base’
1) La comunità è un gruppo con aspirazioni oblative = le persone che lo formano sono legate
da valori comuni e si lasciano guidare da essi. Lo scopo dello stare insieme è quello di
trasformare la socievolezza naturale in amore oblativo, non (solo) l’uno verso l’altro, ma
insieme verso Cristo

2) In comunità nessuno può essere autoreferenziato. Tutti e sempre si lasciano interrogare


dai valori abbracciati, dall’ideale scelto. La formazione è continua

3) Se le persone hanno un buon grado di maturità la comunità diventa luogo formativo, per
costruire e rafforzare l’identità e per trascendersi. Viceversa se prevalgono immaturità e
meccanismi di difesa è più facile che il dialogo e la comunicazione siano viziati, che i
conflitti disturbino il vivere insieme, che ci siano situazioni di manipolazione…

4) La comunità religiosa non trova giustificazione in se stessa (opere, apostolato, regole…),


essa è un mezzo per realizzare dei valori. Le opere non possono essere fini a se stesse, non
devono essere assolutizzate la comunità ha valore, le sorelle hanno valore e
senso anche quando sono ‘inefficienti’

5) E vissero felici e contenti’ è un motto che non si può applicare a nessuna comunità
cristiana. La comunità religiosa o laica è sempre conflittuale: pareri diversi, età diverse,
provenienze geografiche diverse, maturità diverse, storie di provenienza diverse. Il
problema non è l’assenza di conflitti ma COME vengono gestiti

Situazioni che tipicamente creano conflitto:

- unità/ differenziazione: favorire la realizzazione dei carismi personali o le esigenze della


comunità?;
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- rapporto anziani/giovani;
- convivenza: stare insieme vuol dire stare e fare sempre tutti insieme?
Individualità non vuol dire individualismo e comunità non vuol dire comunitarismo.
Fondamentale: il senso di appartenenza, senza il quale la persona segue solo le proprie
inclinazioni narcisistiche

6) La comunità dispone alla maturità vocazionale, ma NON ne è la CAUSA.

Non basta stare insieme per crescere! Ciò che causa la maturità vocazionale è la capacità di
internalizzare i valori, cioè di farli propri, di lasciarsi guidare concretamente da essi, e questo
dipende non dall’atmosfera del gruppo ma dalla capacità di ciascuno di mettersi in discussione,
dalle disposizioni interne di ogni persona. Ecco perché è importante lavorare innanzitutto sulla
maturità personale. La comunità offre però un’opportunità di crescita, può sollecitare
l’adesione ai valori. Il MODO di vivere i valori è favorito dal gruppo, ma il FATTO di viverli
dipende dall’adesione personale

7) Le relazioni anche personali NON fanno AUTOMATICAMENTE crescere.

Si può stare insieme anche in modo immaturo, si possono creare ‘alleanze’ e rapporti che
chiudono, che non fanno crescere, che mettono sulla difensiva duplice sfida per la
comunità: mantenere la propria identità nel tempo, non rendersi ‘ibrida’ e
contemporaneamente adattarsi alle nuove esigenze che trova nel cammino. Equilibrio non
facile, necessità di un accurato discernimento fissità rivoluzione

8) I cambiamenti devono toccare la persona, più che le strutture, e aiutarla ad aderire meglio
al messaggio evangelico, per far crescere

9) Spesso ci si concentra sui programmi, sulle attività da migliorare e questo talvolta


rappresenta una fuga dalle persone. È più facile agire sulle strutture, che su teste e cuori

In una gelida giornata d’inverno, due porcospini pieni di freddo si strinsero l’uno all’altro per
riscaldarsi. Ma si accorsero di pungersi reciprocamente con gli aculei; allora si separarono e così
sentirono nuovamente freddo. Prova e riprova, i porcospini riuscirono a trovare quella giusta
distanza che consentiva loro di scambiarsi un po’ di calore senza pungersi troppo. (Schopenhauer)

«La nascita di un ‘autentica autonomia interiore è un lungo e doloroso processo: è la presa di


coscienza che non esiste per te alcun appoggio o rifugio presso gli altri, mai. Che gli altri sono
insicuri, deboli ed indifesi… La ragazza che non sapeva inginocchiarsi e che pure lo aveva imparato,
sul ruvido tappeto di cocco di una disordinata camera da bagno […]. Vorrei poter rappresentare in
tutte le sue sfumature questo processo interiore, la storia della ragazza che aveva imparato ad
inginocchiarsi» (Etty Hillesum)

Convegno Internazionale per formatori e formatrici 7-11 aprile 2015


Attenzione a:
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Senso della VC
Senso della formazione oggi
Rapporto formatore – formando (nuove forme di leadership)
Card. De Aviz:

Siamo una specie in estinzione? Le esigenze formative nei contesti attuali sono diverse da quelle
dei nostri fondatori. Apertura alla cultura attuale; il nostro Dio non è statico non dobbiamo essere
chiusi alle novità D’altra parte perdere la propria storia è perdere la propria identità. Il passato
serve anche per imparare a cambiare quello che non andava

Michelina Tenace:

Imitare Cristo non è imitare la sofferenza, ma imitare colui che della propria divinità non ne ha
fatto un possesso geloso. Dio in Cristo ha vissuto l’umanità senza sconti, senza privilegi. Ecco
«l’imitazione di Gesù» Formare = far partecipare al modo di pensare di Dio, abbracciare l’umanità
La santità a cui mira la formazione allora è la pienezza dell’amore

Nella formazione si partecipa della Trinità, non la si «imita». La Trinità è circolazione di amore, di
dono. Formazione: unità nella diversità. L’unità è il dono di una Persona della Trinità all’altra, la
diversità è lo specifico del dono di ciascuno. La formazione NON deve uniformare, ma aiutare la
persona a «darsi». Ciascuno si dona come sa donarsi.

La vita religiosa dice: «tanto dai, tanto vali». E’ il darsi che conta non il «come». La vita consacrata
non può trovare altre categorie. Il vivere insieme non è un «dovere» ma è costitutivo del cristiano,
si fonda sul dono di sé, la cui fonte però è Dio. Attenzione ai fraintendimenti sulla vita comune Se
una comunità non si fonda sul dono di sé, non è vita comunitaria.

Il dono è associato alla gioia. Come mai le nostre comunità mancano di fascino? Forse perché non
hanno aiutato le persone a realizzarsi in umanità e divinamente vive.

La vocazione del consacrato è di essere perfetto nella misericordia, non nelle opere da compiere!
La formazione rischia di degenerare verso l’operato. Importanza dell’amicizia nella VC che ci educa
al rapporto con l’altro amico-nemico-a Dio

 Domanda tipica della formazione: «come»?

Dovremmo saper rinunciare a questa domanda. La formazione non può essere fatta su nessuna
forma e nessuno sa dove conduce! Non possiamo pensare di «schiacciare» le persone per farle
entrare nelle forme. Dovremmo formare alla relazione, non alla forma. Siamo in una cultura
individualistica. Riscoperta della teologia che segna la vittoria della comunione più che della forma.
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