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In un tempo di larga complessità e di crisi di valori si sta approdando all’inter- disciplinarietà tra le

scienze psicologiche e quelle teologiche. Questo manuale si propone come una guida rivolta ai formatori
nell’arduo e delicato compito di accompagnare it “chiamato” non solo nelFimmedìata libera “risposta” alla
vocazione, ma anche àirinterno del complesso percorso della vita consacrata, Dio è anche esperienza e
come tale è inserito in un ricco sistema di significati: il presente lavoro vuole servire da stimolo nel
cammino del “divenire”, mettendo in evidenza quei meccanismi psicologici che entrano in gioco nel
rapporto di amore con l’Amato e nel contesto dei consigli evangelici.
In occasione del 2015, Anno della Vita Consacrata, il manuale è stato rivisto ed arricchito di 24
allegati multimediali (nell’area Biblioteca Multimediale presente nel sito www.francoangeIi.it), che
rappresentano altrettanti approfondimenti tematici, a cura del prof. Cantelmi e della prof.ssa Costantini.
Numerosi esperti, psicologi, psichiatri, sacerdoti e consacrati illustrano ed approfondiscono le
caratteristiche della maturità umana del candidato alla vita. consacrata o ministeriale, nei suoi diversi
aspetti: psichici, affettivi e sessuali; in un’opera digitale corale al servizio della Chiesa.
Tonino Cantelmi, psichiatra, psicoterapeuta e docente universitario, è presidente dell'Istituto di Terapia
Cognitivo Interpersonale e dell'Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici. Primo in Italia ad occuparsi
dell'impatto della tecnologia digitale sulla mente umana (Internet Dipendenza, www.wikipedia.it; ha curato il
primo libro sulla dipendenza dalla rete: La mente in internet, Picein, 1999) ha fondato il CEDIS, ente per io studio
delle dipendenze comportamentali. Autore di numerosi libri, tra cui Tecnoliquìdità (Edizioni San Paolo, 2013) ed
Educare al femminile e al maschile (Edizioni Paoline, 2013), tradotti in molte lingue,
Giuseppe Congedo, psicologo clinico e psicoterapeuta, è ricercatore clinico presso l'Istituto di Terapia
Cognitivo Interpersonale. Ha conseguito il diploma post-lauream in Psicologia della Vita Consacrata presso l'APRA,
dove è attualmente professore invitato. È vice-coordinatore dei Servizio psicologico e psicoterapeutico a sostegno
della vita consacrata e sacerdotale "VASI DI CRETA".
Barbara Costantini, psicoioga clinica, psicoterapeuta e professore invitato ISSR dell'APRA, è coordinatore del
Servizio psicologico e psicoterapeutico a sostegno della vita consacrata e sacerdotale "VASI DI CRETA". Svolge attività
di ricerca presso l'Istituto di Terapia Cognitivo Interpersonale ed è consigliere nazionale dell'Associazione Italiana
Psicologi e Psichiatri Cattolici.
La passione per le conoscenze
ISBN 978-88-204-6273-4
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788820
462734

€ 22,00 (V)
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Tonino Cantelmi, Giuseppe Congedo, Barbara
Costantini
Psicologia per la vita consacrata
Seconda edizione, rivista ed arricchita di 24 allegati multimediali, per l’Anno della Vita
Consacrata
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I lettori che desiderano informarsi sui libri e le riviste da noi pubblicati possono consultare il nostro sito Internet: www.
francoaneeli. it e iscriversi nella home page al servizio “Informatemi” per ricevere via e.mail le segnalazioni delle novità.
Tonino Canteimi,
Giuseppe Congedo,
Barbara Costantini
Psicologia
per la vita consacrata
Seconda edizione, rivista ed arricchita di 24 allegati multimediali, per l’Anno della Vita
Consacrata
FrancoAngeli
In copertina: Amulfo veste e consacra sant’Eldrado, Novalesa, cappella di Sant’Eldrado
Copyright © 2012, 2* ed, 2015 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy.
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via Merano 18, 20127 Milano
Indice
Presentazione della seconda edizione e degli allegati
on line pag. 7

Introduzione » 9

1. Presupposti teorici: la natura della mente » 13


1. La conoscenza umana » 13
2. Le emozioni e il significato personale » 14
3. Le dimensioni del Sé » 15
4, L’attaccamento e la costruzione del Sé e della realtà » 21
5. Gli stili di attaccamento » 22

2. Le organizzazioni di significato personale nel percor-


so di crescita vocazionale » 25
1. Il rapporto con Dio nel candidato alla vita consacrata » 25
2. L’organizzazione di significato personale di tipo depressivo » 26
» 34
3. L’organizzazione di significato personale di tipo fobico
4. L’organizzazione di significato personale di tipo disturbi
alimentari psicogeni » 42
5. L’organizzazione di significato personale di tipo ossessivo » 50
6. Una griglia ad uso dei formatori per un’ipotesi di orga
nizzazione di significato personale » 56

3. Consigli evangelici: il vissuto di obbedienza, castità e


povertà nelle organizzazioni di significato personale » 58
1. Obbedienza, castità e povertà: un dono “liberante” » 58
2. Il voto di obbedienza: una scelta libera e liberatrice » 59
3. Il voto di castità: amare in pienezza di vita » 68
4. Il voto di povertà: la fiducia nella Provvidenza di Dio » 76
4. Il colloquio come strumento dì formazione pag. 83
1. Il colloquio: verso una definizione » 86
2. L’incontro attraverso il dialogo » 87
3. L’ascolto » 89
» 98
4. Il corpo si fa “parola”
5 ; Cenni sulla pragmatica della comunicazione umana » 99

5. La motivazione umana alla condotta morale:


una nuova ipotesi di interazione tra fattori cognitivi,
emotivi-affettivi e tendenze all’azione » 102
Introduzione » 102
1. Quali valori esprimono i miei comportamenti? » 103
2. Le teorie psicologiche dello sviluppo morale » 108
3. La complessità della mente: un sistema di significati personali
» no
4. Emozioni morali e condotta umana » 113
5. La motivazione umana alla condotta morale: una nuova ipotesi di
interazione tra fattori cognitivi, emotivi-affettivi e tendenze
all’azione » 117
6. Cristo e la “legge” dell’Amore » 126
7. Le emozioni e l’affettività: “con tutto il tuo cuore” » 128
8.1 pensieri: “con tutta la tua mente' ' » 131
9.1 comportamenti: “con tutta la tua forza” » 132
Sintesi finale » 134

5
Riflessioni conclusive » 135

Appendice A
Griglia orientativa per la valutazione dell'organizzazione di
significato personale
» 137

Appendice B
Congregazione per l’Educazione Cattolica - Orientamenti per
l’utilizzo delle competenze psicologiche nell’ammissione e nella
formazione dei candidati al sacerdozio
» 140

Bibliografia » 153
Presentazione della seconda edizione e degli allegati on line
«Facendomi eco del sentire di molti di voi e della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le
Società di vita apostolica, in occasione del 50° anniversario della Costituzione dogmatica Lumen gentium
sulla Chiesa, che nel cap. VI tratta dei religiosi, come pure del Decreto Perfectae caritatis sul
rinnovamento della vita religiosa, ho deciso di indire un Anno della Vita Consacrata » (Papa Francesco,
Lettera apostolica del Santo Padre Francesco a tutti i consacrati in occasione dell’Anno della Vita Consacrata,
21 novembre 2014).
In occasione del 2015, Anno della Vita Consacrata indetto dal Santo Padre Francesco, il manuale è stato
rivisto ed arricchito di 24 allegati multimediali, che rappresentano altrettanti approfondimenti tematici, a cura
del prof. Can- telmi e della prof ssa Costantini.
I capitoli allegati, di cui si riportano i titoli ed in parentesi i nomi degli autori, costituiscono uno strumento
di approfondimento dei temi topici posti a base della stesura del manuale di Psicologìa per la vita consacrata
e pertanto rinviamo alla loro lettura.
In essi verranno tratteggiati alcuni lineamenti della vita consacrata, a benefìcio soprattutto degli psicologi e
degli psicoterapeuti che si trovino a seguire terapeuticamente consacrati e ministri; e verrà approfondita la
psicologia dei processi vocazionali, a vantaggio soprattutto di candidati e formatori. Un’attenzione particolare
verrà data alla maturità affettiva e sessuale, in relazione ai consigli evangelici, accennando anche alle sfide che
la vita consacrata e ministeriale si trova ad affrontare nel terzo millennio.
1. Storia della vita consacrata (A. Taglìafico);
2. Antropologia della vocazione cristiana (P.L.A. Orozco, L. Scrosati);
3. La formazione alla vita consacrata nel Magistero della Chiesa: il ruolo del formatore (G. Sànchez);
4. La direzione spirituale: il molo del padre/madre spirituale (A. Tagliaft-
co);
5. Il molo della donna nell’accompagnamento spirituale (sr E. Stucchi);
6. Il servizio dell’autorità: il ruolo del superiore (G. Sànchez);
7. Introduzione alla teoria di Guidano: le organizzazioni di significato personale (B. Turella);
8. L’organizzazione di significato personale depressivo nel percorso di vita consacrata (M Aiello);
9. L’organizzazione di significato personale dap nel percorso di vita consacrata (M. Aiello)\
10. L’organizzazione di significato personale fobica nel percorso di vita consacrata (N. Groppone);
11. L’organizzazione di significato personale ossessiva nel percorso di vita consacrata (N. Groppone);
12. Il contributo dei test nel percorso di discernimento vocazionale (G. Congedo);
13. Affettività e sessualità: forme sane e disfunzionali di integrazione (E, Lambiate);
14. Condotte di dipendenza affettiva nella vita consacrata (don F. De Biase, M. Pensavalli);
15. Lo sviluppo sessuale (.N. Groppone);
16. Vita consacrata e dinamiche psicologiche: povertà, castità e obbedienza (M Lombard, sr F. Ruggiero, sr
M. B. Marchese, sr R. Longobardi);
17. “Antropologia della vocazione cristiana”: un omaggio a p. Rulla (T. Cantelmi, C. d’Urbano);
18. Un doloroso capitolo e una coraggiosa risposta. Il dramma degli abusi nella Chiesa Cattolica: i Report
americani, studi e ricerche (T. Cantelmi, C. d'Urbano);
19. Problematiche psicologiche e psichiatriche e vita consacrata (sr. T. Bergamo, B. Colacchia, N. Groppone,
P. Manocchio, M. Pensavallì);
20. Le dipendenze comportamentali (E. Lambiase);
21.1 disturbi del comportamento alimentare (A. Pavia, M. Stampone);

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22. L’invecchiamento (A. Peri);
23. Legge sulla privacy e vita consacrata (F. Mastrorosa);
24. Allegato: Decreto Generale “Disposizioni per la tutela del diritto alla buona fama e alla riservatezza”.
Gli autori dei capitoli allegati a questa seconda edizione sono consacrati,
laici consacrati, psicologi, psichiatri e sacerdoti, come verrà di volta in volta specificato. Molti di essi insegnano
in università pontifìcie.
Introduzione
«Ogni formatore dovrebbe essere un buon conoscitore della persona umana, dei suoi ritmi di crescita, delle
sue potenzialità e debolezze e del suo modo di vivere il rapporto con Dio» (Congregazione per l’Educazione
Cattolica, 2008).
Superata da diversi decenni quella diffidenza che impediva una proficua collaborazione tra le scienze
psicologiche e quelle teologiche, le due discipline, pur nel rispetto delle diversità dei saperi che le
caratterizzano, hanno fatto sentire sempre più la necessità di trovare punti di contatto: uno di questi è stato
riconosciuto nella vocazione (Cantelmi, Laselva, Paluzzi, 2004), particolare ambito della fede intesa come: «un
ineffabile dialogo tra Dio e l’uomo, tra l’amore di Dio che chiama e la libertà dell’uomo che nell’amore
risponde a Dio» (.Pastores dabo vobis, n. 36). La vocazione è pertanto opera di Dio: è la Sua grazia che agisce
sulla natura umana, richiedendo la corrispondenza della persona affinché questa azione possa essere efficace.
Tale chiamata, rivolta gratuitamente da Dio ad ogni essere umano in Cristo, deve essere compresa in
rapporto a due realtà antropologiche che fanno parte dell’uomo: innanzi tutto in quest’ultimo è presente la
possibilità, la “capacità” di autotrascendersi teocentricamente, cioè l’essere orientato verso qualcosa che va
molto al di là di se stesso, verso «Qualcuno da incontrare e da amare» (Frankl, 1977, p. 16); in secondo luogo la
chiamata di Dio incontra un’altra realtà antropologica, cioè tutte quelle limitazioni di varia natura che fanno
parte della persona umana e che possono ostacolare, in diversa misura, la sua libertà nel vivere tale tendenza.
In questo incontro tra Dio che chiama e l’uomo che risponde nella sua libertà, entrano in gioco dinamiche
spirituali, ma anche dinamiche di natura psichica che possono facilitare o meno tale risposta. In tal senso,
diviene oltremodo importante per la persona “chiamata” essere guidata nella conoscenza sempre più
approfondita di sé ed in questo ambito può risultare utile il contributo della psicologia.
È opportuno sottolineare che, proprio perché frutto di un particolare dono di Dio, la vocazione ed il suo
discernimento non sono di competenza delle scienze psicologiche, ma sono affidati alla cura morale e spirituale
dei formatori, nell’arduo compito di educare i futuri religiosi, religiose o sacerdoti. D’altro canto, se è
importante che ogni formatore abbia «la sensibilità e la preparazione psicologica adeguata» (Congregazione per
l’Educazione Cattolica, n. 4) per individuare eventuali ostacoli neirintegrazione tra maturità umana e cristiana,
egli non dovrà sostituirsi al ruolo dello psicologo, ma impegnarsi nel collaborare con la grazia di Dio per
accompagnare e dare forma ad una vocazione che da Dio stesso viene.
Nel processo di discernimento vocazionale, il formatore si troverà inevitabilmente di fronte a diverse
manifestazioni di squilibrio proprie del cuore umano; in altri casi, potrà incontrare candidati che provengono da
particolari esperienze che in qualche modo hanno lasciato ferite ancora non “guarite” e magari di cui il
candidato stesso è poco consapevole. In queste circostanze può essere utile il ricorso alla consulenza psicologica
per aiutarlo a superarle. Inoltre, rapporto della psicologia può essere importante nella valutazione della
situazione psichica del candidato, delle sue attitudini umane a rispondere alla chiamata divina e neir individuare
caratteristiche che sono in contrasto con la vita consacrata, indicando eventuali terapie, laddove fosse necessario
(Congregazione per l’Educazione Cattolica, n. 5).
Questo manuale si inserisce nel panorama sopra accennato, proponendosi come uno strumento utile ai
formatori nel percorso di accompagnamento di crescita vocazionale del candidato alla vita consacrata e
sacerdotale.
La “missione” di accompagnamento del formatore ha come obiettivo quello di sviluppare in modo
armonico la vocazione del candidato: proprio per il fatto che essa si articola e si sviluppa all’intemo della
dimensione sia soprannaturale che naturale, è importante che i responsabili della formazione abbiano gli
strumenti necessari per poter “leggere meglio” quella natura umana con cui entrano a contatto e che
rappresenta Vhumus più o meno fecondo nel quale prende forma la risposta alla chiamata di Dio (Goya, 2008).
Esiste dunque uno stretto rapporto tra la chiamata divina e la risposta umana: perché la vocazione possa
svilupparsi, è necessaria un’adeguata preparazione di chi se ne prende “cura” ed i suoi effetti saranno proporzio-
nali al grado di integrazione e libertà personale.
La grazia donata all’essere umano viene infusa in una realtà unica, col-' locata in uno specifico contesto
storico, culturale e sociale; l’esperienza spirituale è quindi vissuta da una persona concreta, in cui la realtà
soprannaturale incontra quella naturale: la grazia si adatta alla condizione della persona, come l’acqua versata in

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un bicchiere si adatta alla sua forma. Quanto più è sana la base naturale, tanto più la grazia di Dio può operare;
più la persona raggiungerà una maturità psichica, tanto più la risposta vocazionale sarà ricca e profonda. Allo
stesso modo la mancanza di libertà e i condizionamenti del passato costituiranno alcuni di quei limiti e
impedimenti sopra accennati all’azione di Dio (Goya, 2008).
Conoscere la natura umana del candidato e come questa può influire nella relazione con il divino, permette
al formatore di essere maggiormente preparato nel sollecitare il “chiamato” a divenire gradualmente più libero,
ponendosi nel giusto rapporto con Dio, con gli uomini e con le cose, promuovendo in lui la capacità di operare
delle scelte per sé fondamentali (Di Agresti, 2002) e quindi di far fiorire la propria vocazione dando frutti a
seconda delle potenzialità.
Nello specifico, in questo manuale viene proposto il modello teorico cognitivista post-razionalista elaborato
da Vittorio Guidano1, nel tentativo di fornire un valido aiuto nella comprensione dell’esperienza soggettiva uma-
na. Alla luce di questa cornice teorica si cercherà di analizzare il vissuto della persona “chiamata” nel suo
personale rapporto con Dio. Allo stesso modo verrà messa a fuoco l’esperienza dei voti di obbedienza, castità e
povertà relativa alla fase della consacrazione. In tale ambito verranno introdotti alcuni concetti come quelli
relativi ai processi di conoscenza tacita ed esplicita e dì organizzazione di significato personale. Verrà posta,
inoltre, una particolare attenzione al momento del colloquio tra il candidato e il formatore nella fase del percorso
formativo-educativo, cercando di fornire indicazioni che possano risultare importanti nello specifico di questa
relazione.
Infine, nell’ultimo capitolo, verrà presentata un’originale ipotesi motivazionale all’agire morale di
Barbara Costantini.
I
I

1 Vittorio F. Guidano, nato a Roma il 4 agosto 1944, psichiatra e psicoterapeuta romano è stato uno dei padri fondatori
del cognitivismo italiano insieme a Giovanni Liotti, con il quale ha scritto Elementi di psicoterapia comportamentale (1979)
e Cognitive processes and emotional disorder (1983). E stato autore di due libri fondamentali per lo sviluppo del modello
cognitivo post-razionalista: La complessità del sé (1987) ed II sé nel suo divenire (1991). È stato uno dei fondatori della
Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (S.I.T.C.C.) nel 1972 della quale è stato presidente fino al 1978. Ha
insegnato Psicoterapia Cognitiva nella Scuola di Specializzazione in Psichiatria della Facoltà di Medicina dell’Università di
Roma “La Sapienza”. Ha partecipato a numerosi Congressi nazionali e intemazionali, svolgendo corsi e conferenze in
università straniere. È morto il 31 agosto 1999 a Buenos Aires.

8
1. Presupposti teorici: la natura della mente
1. La conoscenza umana
In questo capitolo si cercherà di delineare l’approccio cognitivo postrazionalista elaborato da Vittorio
Guidano, nel tentativo di fornire un modello di comprensione di come la persona umana, a partire dalla nascita e
nell’interazione con il mondo esterno, percepisce se stessa, la propria realtà e gli eventi che le accadono nel
corso delle diverse tappe del ciclo vitale.
Guidano pone grande attenzione alla dimensione attiva, generativa ed intenzionale dei processi della
conoscenza individuale: in tale prospettiva l’individuo è visto, nel corso del suo sviluppo, come soggetto che
incessantemente e attivamente elabora ed organizza la propria realtà. I processi mentali sono pertanto
considerati come una continua attività di organizzazione di informazioni provenienti dall’esperienza vissuta dal
soggetto.
Il termine “post-razionalismo” introdotto dall’autore sta ad indicare il superamento di una psicologia
fondata sull’assunto che esista una realtà esterna unica e stabile, una realtà in cui il “senso delle cose” è già
contenuto e da cui il soggetto è indipendente, tanto da fame un’esperienza altrettanto oggettiva e stabile.
Guidano afferma, invece, che non esiste una realtà unica che sia valida per tutti {universum), ma una realtà
“multiversa”, costituita cioè da una pluralità di “possibili mondi e realtà personali”, costruita attivamente da
colui che la osserva secondo regole che assicurino il mantenimento della sua identità personale, la sua unicità e
la sua continuità nel tempo, elementi, questi, necessari alla sua stessa sopravvivenza. In altri termini è
l’individuo stesso che, da “osservatore” attivo della realtà in cui vive, introduce un ordine rispetto al fluire della
sua esperienza ed alle possibili ambiguità che gli si prospettano: l’ordine e le regolarità non sono pertanto
qualcosa di oggettivamente dato, ma sono piuttosto il frutto della nostra continua interazione con noi stessi ed il
mondo.
Secondo questa prospettiva, quindi, non siamo neutrali rispetto alla realtà che viviamo, in quanto facciamo
parte dello stesso sistema che stiamo osservando, della stessa realtà che stiamo conoscendo; la nostra
conoscenza del mondo può essere quindi considerata come il risultato di un processo autoreferenziale, perché
farà sempre riferimento a noi stessi e sarà inseparabile dalla nostra esperienza.
2. Le emozioni e il significato personale
Un aspetto importante da sottolineare è il ruolo primario che Guidano attribuisce alle emozioni nello
sviluppo della conoscenza: questa non è da intendersi semplicemente come logica e razionale, ma come
costituita in gran parte da processi emotivi, insieme ad aspetti sensoriali, percettivi e motori. Tali aspetti sono
imprescindibili dalla conoscenza; sarà poi il pensiero razionale a costruire, sulla base di questi elementi, ciò che
viene definito dall’autore uno specifico significato personale, che risponderà all’esigenza di mantenere una
coerenza interna all’individuo. Ogni persona quindi, a partire dalla propria unica esperienza, attiva un processo
continuo di ricerca, di spiegazione del proprio “esperire”, in modo da dare un ordine ad essa e sulla quale
percepire una continuità ed una coerenza del proprio Sé. Come Guidano afferma: «questo “sentirci vivere” e il
continuo spiegarcelo sono costitutivi della nostra natura e, come tali, alla base di qualsiasi possibile esperienza.
In nessun momento, quindi, un essere umano può mai prescindere dal suo punto di vista, sia perché è comunque
sempre in possesso di un’esperienza antecedente e risultante dalla sua prassi del vivere sia perché è comunque
sempre situato in una specifica tradizione storica» (Guidano, 1992, p. 7). In sostanza, esiste una realtà per ogni
persona, in ogni momento della sua vita, per ogni contesto che si trova a vivere.
Tale concezione dell’essere umano, come sistema conoscitivo che costruisce attivamente, ordinandola, la
realtà che vive, presuppone un’interazione ricorsiva tra quest’ultimo ed il suo ambiente «in cui le perturbazioni
reciproche comportano modificazioni dell’equilibrio (omeostasi) all’interno di quanto consentito e previsto
dall’organizzazione strutturale autopoietica delle parti in gioco» (De Santis, Turella, 2009, p. 83). Così uno
stesso evento (perturbazione), può produrre in soggetti diversi esperienze diverse; la diversità di tali esperienze è
avvertita soggettivamente proprio in seguito all’elaborazione del significato personale sopra accennato.
Seguendo il ragionamento dell’autore, emerge man mano la concezione dell’uomo come di colui che
mantiene un certo adattamento solo se riesce a dare un significato alle sue esperienze. Potremmo dire che egli è
alla ricerca continua di un senso della propria esistenza, senso che viene raggiunto grazie alla flessibilità dei suoi
schemi, i quali non si irrigidiscono di fronte a possibili invalidazioni, ma si articolano e si riorganizzano attorno
ad esse. Se la persona non riesce a mantenere un sufficiente livello di coerenza interna, non riuscendo ad
elaborare attivamente un nuovo significato, può anche andare incontro ad uno “scompenso” che, da un punto di
vista clinico, può essere rappresentato da un disturbo psicopatologico, coerente aneli’esso con la struttura
conoscitiva in cui si è verificato. In questo senso anche la sintomatologia, ad esempio una depressione o un
attacco di panico, rappresenta essa stessa un’attività che ha lo scopo di mantenere quella coerenza sopra
accennata, senza modificare gli schemi della persona.

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3
3. Le dimensioni del Sé
Abbiamo accennato all’imprescindibilità dell’aspetto emotivo e razionale nella costruzione della
conoscenza: l’autore definisce gli aspetti sensoriali, emotivi e immaginativi aspetti analogici, mentre il
ragionamento, il pensiero logico e la capacità di astrazione vengono chiamati analìtici. Aggiunge inoltre che il
Sé dell’individuo è un “processo” in cui compaiono due dimensioni fondamentali: l’essere soggetto (Io “che
esperisce”) ed il sentirsi oggetto (Me, ossia f immagine di sé). L'Io rappresenta la dimensione tacita
(inconsapevole) dell’esperienza, cioè la conoscenza analogica (più semplicemente la conoscenza emotiva),
mentre il Me rappresenta quella esplicita (consapevole), che riguarda gli aspetti analitici sopra accennati (la
spiegazione razionale). La conoscenza tacita è presente in tutti i processi mentali e fornisce alla persona gli
aspetti invarianti della sua percezione; la conoscenza esplicita si struttura in seguito all’internalizzazione del
linguaggio e si basa sui dati fomiti dalla conoscenza tacita.
Queste due istanze (lo “che esperisce” e Me “che spiega”) sono in continua dialettica, due dimensioni del
Sé sempre in “dialogo” tra loro: esse rappresentano due polarità di un processo circolare senza fine, nel quale la
spiegazione segue sempre il fluire dell’esperienza del nostro vivere nel mondo. La conoscenza dunque ha
origine attraverso tale processo, dando luogo a quel significato personale di cui sopra abbiamo parlato. Così
ogni persona, mentre pensa o agisce, avverte la presenza di emozioni connesse a ciò che sta facendo o pensando.
Questa modulazione emotiva è ciò che trasforma un evento in un’esperienza personale.
3.1. Sviluppi successivi sugli studi del Sé
Prima della sua scomparsa Guidano stava lavorando ad alcune idee che avrebbero reso il modello teorico da
lui proposto più articolato ed elaborato. Queste sue nuove formulazioni sono state oggetto di una lezione da lui
tenuta nel febbraio del 1999, pubblicata e commentata recentemente da Mannino (Guidano, 2010).
In particolare, essa rappresenta un nuovo inquadramento del costrutto delle organizzazioni di significato
personale, descritte in modo più specifico ed approfondito nel capitolo successivo, ma che si è scelto di
introdurre qui di seguito per consentire di accostarsi gradualmente e prendere familiarità con i concetti esposti
dall’autore nella sua teoria.
Come sopra accennato, Guidano considera il Sé come un processo all’interno del quale è ravvisabile una
dialettica continua tra YIo ed il Me. Nei suoi successivi studi, concernenti un approfondimento della modalità di
funzionamento del Sé, egli sostiene che quest’ultimo ha dei confini: cioè è caratterizzato, come spiega Mannino,
da una duplice interfaccia, una interna ed una esterna (Guidano, 2010).
Nello specifico, egli fa riferimento a due dimensioni psicologiche: la dimensione inwardness/outwardness
e la dimensione “dipendenza dal cam- po/indipendenza dal campo” (field-dipendence/field-indipendence). La
prima riguarda il rapporto che il soggetto ha con la propria esperienza immediata, in sostanza con se stesso; la
seconda riguarda il rapporto con gli altri, nella continua dinamica tra il bisogno di appartenenza e quello di
demarcazione.
3.1.1. La dimensione inwardness/outwardness
Analizzando più nello specifico la prima dimensione (inward/outward), essa riguarda, ad un primo livello,
il modo in cui viene fatta l’esperienza del soggetto e, ad un altro livello, la modalità con cui essa viene “messa a
fuoco”, quindi secondo quali caratteristiche l’esperienza stessa viene “riordinata”.
Riprendendo le istanze descritte precedentemente, si potrebbe dire che tale dimensione descrive da una
parte in che modo YIo “esperisce” e dall’altra come il Me “spiega”. Quindi, nella stessa dimensione sono
riscontrabili due livelli: il primo è costituito dal “sentire”, l’altro dal modo in cui Tindividuo “guarda” ed
interpreta questo “sentire”.
Considerando un continuum, ai cui estremi sono collocate le due polarità (inward/outward) che
caratterizzano la prima dimensione, è importante innanzitutto sottolineare che il configurarsi dell’una o
dell’altra dipende, come afferma Guidano, dal tipo di relazione che l’individuo ha instaurato con le figure di
riferimento che si sono prese cura di lui nel corso della sua infanzia. Cioè, un’attitudine inward o outward
dipenderà dal tipo di attaccamento del bambino nei confronti della figura di accudimento (Guidano, 2010).
Soggetti che, nel corso dell’infanzia, conosceranno da parte dei care- giver un atteggiamento più chiaro e
definito sperimenteranno pattern emozionali ben definiti. DÌ conseguenza, svilupperanno la capacità di valutare
se stessi basandosi soprattutto sul proprio “interno” e quindi sulle proprie emozioni e cognizioni: sono questi i
soggetti inward. Al contrario, fare esperienza di un atteggiamento genitoriale più ambiguo e indefinito, con-
correrà allo svilupparsi di un’esperienza emotiva più vaga e contraddittoria. In questo caso il soggetto svilupperà
un’attitudine ad interpretare la propria esperienza emotiva basandosi sull’esterno, come se si osservasse “dal di
fuori”: in questo caso ci si riferisce alla polarità outward.
Dunque è proprio a partire dall’attaccamento del bambino nei confronti della figura di accudimento e sulla
base del tipo di legame instaurato con essa che si verranno a strutturare i primi schemi emozionali. Questi, a loro

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volta, influenzeranno le modalità di lettura della propria esistenza (primato delle emozioni): queste “sfumature
affettive” rappresentano la matrice da cui la persona costruisce i significati personali che attribuisce ai propri
vissuti, ai comportamenti degli altri e alla natura delle relazioni che vive nel corso della sua esistenza; una
“cornice di riferimento” attraverso cui interpretare, comprendere se stesso e gli altri, i loro comportamenti
nonché le relazioni affettive che sperimenta.
Questo continuo processo di costruzione, che organizza stabilmente l’esperienza del Sé e della realtà, viene
definita da Guidano organizzazione di significato personale.
Vengono individuate dall’autore quattro organizzazioni di significato, ognuna intesa come particolare
configurazione caratterizzata da specifici pattern emotivi ricorrenti e da un “proprio” modo di leggere la propria
esperienza interna ed interpersonale1.
Le quattro organizzazioni sopra accennate e finora individuate sono: Vorganizzazione depressiva, V
organizzazione fobica, V organizzazione tipo disturbi alimentari psicogeni (DAP) e V organizzazione
ossessiva. 2
Da sottolineare che il costrutto di organizzazione di significato personale è stato sviluppato a partire da
un precedente costrutto, quello di «organizzazioni cognitive» (Guidano, Liotti, 1983). Quest’ultimo si riferiva a
specifiche configurazioni cognitive individuate in un contesto clinico che, quindi, rimandavano a determinate
categorie di disturbi mentali. Il nome delle diverse “organizzazioni” (“depressiva”, “fobica”, “DAP” e “ossessi-
va”) deriva, dunque, da osservazioni scaturite da uno studio effettuato in ambito psicopatologico.
Il concetto di organizzazione di significato personale, invece, sviluppato successivamente da Guidano,
svincola tali configurazioni da ogni riferimento alla patologia. Infatti, pur mantenendo quest’ultimo il nome
delle singole organizzazioni, testimoniandone in tal modo l’origine sopra accennata, le organizzazioni di
significato personale, a cui si fa riferimento in questo manuale, sono concepite come: «particolari modalità di
avvertire la propria esperienza e di attribuirvi un significato, ravvisabili in tutti gli esseri umani e non solo in
individui affetti da psicopatologia» (Guidano, 2010, p. 8).
Nel capitolo successivo ognuna di queste organizzazioni sarà descritta singolarmente per poterne mettere
in evidenza le caratteristiche principali.
Riprendendo ora le due dimensioni sopra accennate (inwardnessìoutward- ness e “dipendenza dal
campo/indipendenza dal campo”), si può già effettuare una prima distinzione delle quattro organizzazioni di
significato descritte da Guidano.
In riferimento alle due polarità introdotte precedentemente, rispetto alla prima dimensione ( inward!
outward), è possibile, infatti, metterne in luce le principali differenze, sia quelle relative al livello di esperienza
immediata, sia quelle relative alla modalità di attribuzione di significato all’esperienza stessa.
Come afferma l’autore, soggetti con attitudine inward sono caratterizzati al primo livello (Io che
“esperisce”) da emozioni basiche (basic feelings) e da vissuti con forte carico sensoriale. Per cui, al secondo
livello (Me che “spiega”), la “lettura” dei propri stati interni avverrà “in presa diretta” e la persona avrà pochi
dubbi su ciò che prova.
Invece, nei soggetti con attitudine outward le emozioni di base saranno poco definite e caratterizzate da
uno scarso carico sensoriale, quindi la “messa a fuoco” della propria esperienza “in presa diretta” risulterà più
diffìcile. Ecco perché, nel caso degli outward, Guidano parla di self-conscious emotìons, cioè di emozioni che,
per essere esperite, richiedono una valutazione. In un’esperienza emotiva di questo tipo (Io che “esperisce”), il
soggetto avrà, al contrario degli inward, molti dubbi sui propri stati interni: tale scarsa definitezza delle
emozioni di base favorirà pertanto una “lettura dall’esterno” impegnandolo in un lavoro di “interpretazione”
delle proprie emozioni per attribuirvi un significato. Tale processo avverrà facendo sempre ricorso a criteri
esterni, suscitando le self-conscious emotìons che nascono, appunto, da una valutazione di sé rispetto ad un
criterio: l’eventuale discrepanza tra la propria esperienza e lo standard cui il soggetto cerca di corrispondere
determinerà emozioni come vergogna, colpa, ecc.
È comprensibile come, in relazione alla maggiore (inward) o minore (ioutward) definitezza delle proprie
emozioni, la regolazione emozionale sia piuttosto differente: mentre, infatti, nei soggetti inward tale regolazione
consisterà in una “gestione” di stati emotivi interni piuttosto univoci e definiti, nei soggetti outward essa sarà
incentrata soprattutto su un lavoro di “interpretazione” di emozioni poco definite.
In base alle caratteristiche sopra descritte è possibile effettuare una prima differenziazione delle

2 Tali organizzazioni sono riscontrabili in ogni essere umano, sia nel soggetto “normale” che in quello affetto da una
patologia; la distinzione tra “normale” e “patologico” dipende dal modo in cui gli aspetti della percezione immediata del
mondo, con le emozioni esperite e la loro spiegazione, vengono integrati in termini di unitarietà e continuità del proprio Sé,
nel tentativo di mantenere stabile la coerenza interna: flessibile e articolata nei soggetti “normali”, poco articolata e rigida
nelle condizioni psicopatologiche.

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organizzazioni di significato accennate precedentemente. L’organizzazione “depressiva” e quella “fobica”
presentano, infatti, una modalità inward e quindi di “gestione” di emozioni definite; l’organizzazione
“ossessiva” e quella “DAP” sono invece caratterizzate da una modalità outward e quindi di “interpretazione” di
stati emotivi vaghi e poco definiti.
Tuttavia, per poter evidenziare le differenze tra le organizzazioni di significato inward (“depressiva” e
“fobica”) e quelle outward (“ossessiva” e “DAP”), è necessario analizzare anche le caratteristiche della seconda
dimensione sopra menzionata (“dipendenza/indipendenza dal campo”).
3.1.2. Dimensione “dipendenza dai campo/indipendenza dal campo”
Come si ricorderà, tale dimensione descrive l’interfaccia esterna del Sé, quindi il rapporto del soggetto con
gli altri. Come afferma Guidano, sogget- iifield-dependent, rispetto a delle situazioni nuove, tenderebbero a
ricercare negli altri indicazioni sul modo più opportuno di procedere, al contrario dei fìeld-independent che,
nelle medesime circostanze, farebbero maggiormente affidamento su se stessi, lasciandosi meno influenzare
dall’esterno. Altro aspetto che contraddistingue le due polarità di questa dimensione riguarda, nel caso di
soggetti field-dependent, l’approccio maggiormente interpersonale, tendendo questi ultimi a mantenere una
maggiore vicinanza fisica agli altri, preferendo situazioni interattive e ponendo maggiore attenzione a segnali di
carattere sociale. Nei soggetti field-independent, invece, l’approccio appare più impersonale, mantenendo
questi ultimi una maggiore distanza fisica dagli altri, ponendo minore attenzione alle opinioni altrui e mostrando
una preferenza a situazioni non sociali.
Come nel caso della prima dimensione, attraverso le caratteristiche appena descritte è possibile individuare
le due coppie di organizzazioni di significato che mostrano aspetti dell’ima e dell’altra polarità di questa
seconda dimensione.
Le organizzazioni di significato depressiva e ossessiva sono, infatti, caratterizzate da un approccio
all’esterno più impersonale e cognitivo per cui si mostrano più indipendenti dal campo (fìeld-ìndependent). Al
contrario, le organizzazioni di significato fobica e DAP mostrano modalità di rapporto con gli altri più affettive,
contestuali ed interpersonali, manifestando quindi una maggiore dipendenza dal campo (fìeld-dependent).
Se, come afferma Marmino (Guidano, 2010, p. 56), le due dimensioni inward/outward e field-
dependent/field-independent si considerano come relative ai processi di regolazione emozionale, è
comprensibile come le polarità ad esse relative si influenzino tra loro. Infatti, mentre la prima dimensione si
riferisce al “tipo” di regolazione, la seconda (fìeld-dependent/fìield- independent) riguarda le “modalità” con
cui tale regolazione è effettuata. Quindi, più nello specifico, mentre gli ìnward mostrano una regolazione
incentrata sulla “gestione” delle emozioni, negli outward tale regolazione è basata sulla sua “interpretazione”.
Inoltre, per effettuare questa regolazione, “gestione” o “interpretazione” che sia, mentre i fìeld-dependent
ricorrono a modalità “interpersonali”, ricercando un supporto emotivo, mostrando attenzione al punto di vista
altrui, ecc., i fìeld-independent utilizzano mezzi più “impersonali” e “cognitivi”.
Fìeld-dependent
i <
Org. FOBICA Org. DAP

Jnward ^ b Outward
“gestione ” stati interni “interpretazione ” stati interni

Org. DEPRESSIVA Org. OSSESSIVA

r
Fìeld-independent
Fig.l
Dall’incrocio delle due dimensioni, rappresentate graficamente su due assi ortogonali (fìg. 1), si ottengono
quattro spazi ognuno dei quali individua una delle quattro organizzazioni di significato. Soggetti outwardfìeld-
dependent corrispondono all’organizzazione di significato DAP; le polarità outward!fìeld-independent
individuano soggetti con un’organizzazione di significato ossessiva. Soggetti inwardfìield-ìndependent
coincidono con l’organizzazione di significato depressiva; l’organizzazione di significato fobica, infine, viene
individuata dalle polarità ìnwardfìield-dependent.

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4. L’attaccamento e la costruzione del Sé e della realtà
Per descrivere il modo in cui si articola e si costruisce il proprio significato personale, Guidano fa
riferimento alla teoria dell’attaccamento di Bo- wlby (1979, 1988). Essa rappresenta un’importante cornice
concettuale entro cui descrivere le tappe di sviluppo infantile ed in particolare della conoscenza emotiva. Il
bambino, infatti, impara a “conoscere” se stesso ed il proprio ambiente nell’interazione con le principali figure
di attaccamento, cioè quelle che si prendono cura di lui nel corso della sua infanzia. E quindi sulla base di queste
prime esperienze di attaccamento che il bambino inizia a costruire il proprio Sé e la realtà.
Ogni bambino “impara ad essere un Sé” attraverso gli altri Sé che trova intorno a lui: diversi studi
dimostrano, infatti, che i bambini cresciuti in isolamento non raggiungono una piena conoscenza di Sé. Questo
fenomeno è stato definito da Popper il “looking-glass effecf\ concetto che è stato poi ripreso da Guidano
nell’esplicitazione del suo modello teorico. Il Sé è il risultato di questo effetto-specchio ed è perciò definibile
come un “looking- glass self”\ il Sé si rispecchia, durante P infanzia, nelle figure primarie d’attaccamento.
Lo “specchio” all’inizio non è integro, è rappresentato da frammenti costituiti dagli aspetti della personalità
dei genitori, dalla qualità della relazione affettiva con loro e dalle caratteristiche socio-culturali della famiglia. È
il bambino che, per il suo bisogno di regolarità, organizza questi frammenti come in un mosaico.
L’interazione, quindi, è una condizione indispensabile per lo sviluppo della conoscenza di sé, ma lo è
altrettanto l’attività del bambino nel selezionare il contenuto di questa conoscenza.
Queste prime esperienze di attaccamento, a causa dello sviluppo cognitivo non ancora completo, sono
rappresentate dal bambino in forma analogica. Gli schemi emozionali che derivano dalle esperienze di
attaccamento e dai primi tentativi di distacco, diventano il nucleo metafisico della conoscen

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za3 e sono le basi per la costruzione di altre regole con le quali il bambino coordinerà i pensieri, le emozioni
e le azioni. A causa del realismo infantile e della presunta costanza dell’ambiente affettivo del bambino, questa
esperienza è 1’“unica possibile”: non esistono altri Sé, non esistono altre realtà.
Inoltre, poiché il notevole egocentrismo cognitivo porta al prevalere dei processi di assimilazione, una volta
formati, questi schemi subiscono soltanto dei minuscoli accomodamenti.
5. Gli stili di attaccamento
Dato il molo essenziale che queste prime esperienze svolgono nell’infanzia per lo sviluppo della personalità
e delle modalità con cui ogni persona costruisce il proprio punto di vista su di sé e sul mondo (il significato
personale), è importante soffermarsi sulle diverse forme di attaccamento descritte da Bowlby ed approfondite da
ulteriori ricerche portate avanti da una sua collaboratrice, Mary Ainsworth.
Come già è stato accennato il bambino, man mano che procede nello sviluppo, inizia a costruire una
modalità stabile di interpretare se stesso, le proprie esperienze ed il mondo circostante, sulla base delle emozioni
sperimentate all’interno della relazione con chi si prende cura di lui. Queste prime esperienze emotive
costituiranno un perno attorno al quale sarà centrata la sua esistenza ed eserciteranno un molo fondamentale
nell’esperienza immediata di sentire se stesso e gli altri.
Già dai primi giorni dalla nascita si inizia a creare un rapporto tra la madre (o chi si prende cura di lui) e il
bambino, in cui il piccolo esprimerà dei bisogni e la madre risponderà ad essi; le richieste del bambino non
saranno legate esclusivamente al soddisfacimento di bisogni primari ma, come diversi studi hanno dimostrato,
saranno finalizzate alla ricerca di una vicinanza e di una comunicazione con le figure di accudimento: infatti è
stato osservato che nel bambino esistono meccanismi cerebrali innati che lo spingono a soddisfare il bisogno di
contatto, conforto e rassicurazione. Si viene così a creare una “coppia” in cui i due attori instaurano una
relazione reciproca che cresce e si evolve nel tempo: il bambino suscita nella madre cura e affetto, mentre le
cure e le attenzioni di quest’ultima determineranno, a loro volta, risposte di affetto nel bambino. Si creerà,
allora, quello che dalla Ainsworth viene definito “effetto base-sicura” per cui, in presenza di stimo

3 Insieme delle convinzioni generali tacite costruite nell’infanzia e nell’adolescenza e derivanti da una generalizzazione
delle regolarità che emergono dalle situazioni vissute.
li minacciosi, il bambino si attaccherà alla madre e potrà allontanarsi da essa per soddisfare il suo bisogno
di esplorazione dell’ambiente. Da queste prime esperienze si verranno a formare nel piccolo dei modelli mentali
rispetto a se stesso e alle figure di attaccamento, modelli che costituiranno il prototipo per le relazioni
successive.
Coni’è comprensibile, la relazione di attaccamento è fondamentale per la formazione del senso di sé e per la
graduale capacità del bambino di percepirsi, a poco a poco, in maniera differenziata dagli altri, di “costruire un
ordine” rispetto all’insieme di sensazioni in cui è immerso e di iniziare a riconoscersi nella sua unicità.
Se il bambino avverte nella relazione la disponibilità fisica ed emotiva della figura di attaccamento, grazie
alla sensibilità di quest’ultima di percepire e rispondere in modo appropriato ai suoi bisogni, l’attaccamento si
definisce sicuro: il bambino svilupperà un modello di sé positivo, degno di ricevere amore, capace di tollerare
separazioni temporanee ed in grado di affrontare situazioni di difficoltà; inoltre si rappresenterà la figura
d’attaccamento e gli altri come disponibili a fornire aiuto in caso di bisogno.
Può accadere, tuttavia, che la figura di attaccamento non riesca a soddisfare adeguatamente i bisogni del
bambino perché assente affettivamente, disinteressata o distante a causa di impedimenti oggettivi; l’interazione
può essere anche caratterizzata, in altre situazioni, da un’incapacità di stabilire una comunicazione adeguata
basata sulla reciprocità e di considerare il piccolo in maniera appropriata: in tali circostanze il bambino imparerà
progressivamente a fare a meno della presenza di chi si prende cura di lui, formando un modello mentale di sé
come di una persona non degna di affetto e che deve contare solo su se stessa; la figura di attaccamento e gli al-
tri saranno percepiti come rifiutanti ed inaccessibili. Questo tipo di relazione di attaccamento viene definita
evitante.
Un’altra forma di attaccamento può nascere all’interno di una relazione in cui, chi si prende cura del
bambino, si relaziona in modo estremamente mutevole, dando luogo ad un rapporto irregolare e caotico ed
impedendo uno scambio comunicativo efficace. Il bambino a sua volta vivrà questa figura come non sempre
disponibile a concedere vicinanza e protezione, sperimentando così una relazione difficile ed incerta. Si formerà
allora un’immagine di se stesso come di una persona amabile in modo intermittente, vulnerabile e non in grado
di affrontare da sola le difficoltà. Anche la figura di attaccamento e gli altri verranno percepiti come minacciosi
ed imprevedibili, persone a cui poter chiedere aiuto ma, allo stesso tempo, da cui doversi difendere. Questo tipo
di attaccamento viene definito ambivalente.
Se il bambino, come purtroppo spesso accade, vive esperienze dì trascuratezza, abbandono o anche di
abuso, può determinarsi quello che viene definito attaccamento disorganizzato, che può dare luogo anche a
diversi quadri psicopatologici ed in cui la figura di attaccamento rappresenta un pericolo da cui difendersi;
questo tipo di attaccamento è caratterizzato da aspetti relativi sia a quello evitante che a quello ambivalente: il
bambino svilupperà modelli del sé e degli altri multipli e incoerenti, in cui ciascuno sarà vissuto come
minaccioso e pauroso e contemporaneamente impotente e vulnerabile.
I concetti fin qui messi in evidenza rappresentano un’utile cornice teorica di riferimento nella comprensione
di come la persona umana vive la sua esperienza e attribuisce ad essa significati “soggettivamente”, dal suo
punto di vista.
II “senso” di sé e della realtà viene “costruito attivamente” dall’individuo a partire dai processi affettivi e
conoscitivi che si sono strutturati ed hanno preso forma fin dalle primissime esperienze relazionali nel corso
dell’infanzia.
Nel capitolo successivo verranno evidenziate le caratteristiche principali di ogni organizzazione di
significato, quindi delle diverse modalità di attribuire significati alla propria esperienza; ognuna di esse,
successivamente, sarà inquadrata alla luce del particolare contesto della vita consacrata.

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2. Le organizzazioni di significato personale nel percorso di crescita
vocazionale
1. Il rapporto con Dio nel candidato alla vita consacrata
«Fin dal suo nascere l’uomo è invitato al dialogo con Dio» (Gaudium et spes 19, 1965).
Si è già accennato nell’introduzione di come per “vocazione” si intenda rincontro tra Dio che chiama e
l’uomo che risponde. Giordani chiarisce meglio questo concetto affermando che: «la vocazione non è solo un
dono di Dio, né solo un’espressione derivante dalla natura umana: essa è una relazione, un dialogo che si svolge
tra due persone libere. La vocazione, quale avvenimento di grazia, si esprime in modo comprensibile nella realtà
psicologica umana» (Giordani, 1979, p. 34). Secondo questa concezione si comprende l’importanza di mettere
in luce quegli aspetti che caratterizzano tale relazione che si sviluppa nel tempo. È un vero e proprio rapporto
d’amore quello che si instaura tra il “chiamato” e Dio all’interno del quale, inevitabilmente, la persona umana
metterà in gioco tutti i suoi dinamismi psichici: «il rapporto vissuto con Dio, come l’amore umano, fa appello a
tutte le risorse psichiche» (Giordani, 1979, p. 151).
Dio incontra Fuorno nella sua “storia”, lo incontra a partire dalla situazione esistenziale in cui si trova
immerso e la persona chiamata risponde con la sua umanità. Tale chiamata, che può avvenire in diversi modi ed
in diverse circostanze, produrrà una risonanza unica, come unica è la storia di ogni individuo. Riprendendo i
concetti di Guidano sopra esposti, si potrebbe dire che questo incontro con Dio ed il rapporto che la persona
“chiamata” instaurerà con Lui costituirà un’esperienza il cui significato, costruito attivamente, tenderà ad essere
influenzato dal “proprio” modo di leggere la propria esperienza di vita.
Qui di seguito verranno esposte nel dettaglio le quattro organizzazioni di significato sopra accennate:
l’intento è quello di analizzare come si struttura ed evolve ogni organizzazione e, successivamente, provare a
descrivere come è vissuto in ognuna di esse il rapporto con Dio, partendo dall’ipotesi che anche ad esso sarà
attribuito un significato personale e che anche questa esperienza, l’esperienza di questa relazione unica con Dio,
verrà processata, ordinata secondo quelle “regole” proprie ad ogni organizzazione. Anche alFintemo di questa
relazione, quindi, avverrà quella continua ricerca di senso, quella costante ricerca di significato che è propria
dell’uomo: essa avverrà integrando gli aspetti che riguardano il modo di “sentirsi” all’in- temo di questo
rapporto e le spiegazioni che man mano la persona “elaborerà” rispetto ad essi (livello tacito ed esplicito). Tale
processo avverrà in modo coerente con la “propria” modalità di “ordinare” l’esperienza così da mantenere
stabile il senso di unicità e continuità individuale nel tempo.
2. L'organizzazione di significato personale di tipo depressivo
Una persona con questo tipo di organizzazione di significato tenderà a rispondere ad eventi frustranti, anche
di portata apparentemente minima, in termini di perdita, rifiuto e delusione, reagendo ad essi con emozioni di
rabbia e disperazione.
La caratteristica principale nell’itinerario di sviluppo in questo tipo di organizzazione è, infatti, la continua
elaborazione di un senso di perdita dovuta al fatto che il bambino, nel rapporto con i suoi genitori, non fa espe-
rienza di un accesso emozionale sicuro e stabile: la figura di accudimento è percepita come distante, fredda e
abbandonica ed il piccolo man mano elabora un senso di separazione e. di distacco.
Nella storia del bambino “depressivo” si riscontra prevalentemente uno stile di attaccamento evitante e gli
eventi che possono favorire l’elaborazione di un’esperienza di perdita possono essere di diverso tipo, sia vissuti
separatamente che in combinazione tra loro. Ad esempio, può verificarsi, durante la fanciullezza, la morte di un
genitore, evento questo che coincide con un’esperienza di dolore; tuttavia, come sottolinea Guidano, non è il lut-
to in se stesso a determinare l’esperienza di perdita affettiva tipica di questa organizzazione: perché questo possa
accadere il bambino deve attribuirsi la responsabilità di tale perdita. È importante quindi il significato che la
famiglia ed il bambino attribuiscono alla morte ed è questo un elemento che fa la differenza: «non è tanto la
separazione in se stessa ad avere un’influenza sul bambino, quanto piuttosto la relazione che la precede,
l’accompagna e la segue» (Guidano, 1998, p. 146).
La perdita può essere anche rappresentata da una separazione prolungata da un genitore significativo nel
corso dell’infanzia o dell’adolescenza, ad esempio per motivi di lavoro o di salute; anche in questo caso il
bambino può ritenersi responsabile di tale distacco, elemento, questo, che può contribuire alla percezione di sé
come persona “non amabile”.
Un altro tipo di evento può essere rappresentato dall’esperienza di non essere mai stati in grado di ottenere
un attaccamento stabile e sicuro, nonostante gli sforzi attuati in questa direzione; può accadere che i genitori si
mostrino poco espansivi e distaccati e che attribuiscano particolare importanza al successo e al prestigio
personale ottenuto attraverso l’impegno e il sacrificio: rispetto a tali modalità educative altamente esigenti, essi
non sono in grado di offrire un sostegno emotivo adeguato all’impegno richiesto. Una relazione di questo tipo
«è caratterizzata da un controllo privo di affetto» (Carpino, Corsini, Frasca, Guglielmo, 2009, p. 201), proprio
perché l’aspettativa genitoriale di un elevato livello di prestazione non è accompagnata da quel calore e da
quell’affetto che sarebbero necessari per raggiungerlo e che potrebbero favorire un senso adeguato di
competenza personale.
Altrettanto frequente è il caso in cui la relazione genitore-bambino si inverte: è il genitore che richiede al
figlio di prendersi cura di lui, accusandolo di continuo di non essere degno del suo affetto, di essere quindi poco
amabile e inadeguato, mostrando un atteggiamento di rifiuto e di freddezza e caricandolo di responsabilità
senza supportarlo in modo adeguato o minacciandolo di abbandono. Situazioni di questo tipo possono verificarsi
nel caso in cui, ad esempio, muore uno dei due genitori e quello in vita richiede al bambino cure e assistenza,
favorendo in quest’ultimo l’assunzione di un “atteggiamento di accudimento” finalizzato alla riduzione
dell’angoscia del genitore stesso.
In ogni caso tali eventi saranno vissuti in termini di perdita, esperienza che costituirà lo schema di
riferimento attraverso il quale iniziare a percepirsi ed a cui saranno connesse sensazioni dirompenti di tristezza e
disperazione; in relazione ad esse, l’emergere della rabbia costituirà lo strumento più efficace per impedire che
disperazione e tristezza diventino così intense da risultare disadattive per l’equilibrio psichico.
Tale esperienza della perdita attiverà quindi due emozioni specifiche di base le quali, proprio perché attivate
per prime, costituiranno il punto di partenza per la costruzione di un significato personale depressivo: esse
rappresenteranno la coppia di emozioni più importanti ed in relazione alle quali si specificheranno tutte le altre.
Guidano, a tale proposito, ci regala un esempio che fa riferimento alla composizione di una strofa musicale: ogni
battuta avrà una relazione con una sola nota, ad esempio il Fa o il Mi, e tutte le altre, introdotte successivamente,
saranno in relazione alla prima perché è quella che apre e dà armonia alla linea musicale. Ad esempio, nel caso
dell’emozione della paura, questa potrà essere rappresentata dal non potersi fidare della propria capacità di
sforzo e quindi sulla paura di non poter contare su se stesso.
Nel corso dello sviluppo si strutturerà man mano la percezione di sé come di una persona poco amabile,
incapace di suscitare interesse negli altri e che difficilmente e solo con notevoli sforzi sarà in grado di costruire e
mantenere un rapporto sicuro e stabile. Ne deriverà un senso di solitudine che, a poco a poco, rafforzerà la
percezione di dover contare solo su se stessi nel gestire ogni circostanza e nell’affrontare il mondo. Il comporta-
mento sarà volto a minimizzare l’espressione dei propri bisogni e delle proprie emozioni negative, contando
solo su di sé proprio per evitare la possibilità di un rifiuto da parte delle figure di riferimento. Fin dalle prime
esperienze di attaccamento e nel corso della vita, quindi, la persona con questo tipo di organizzazione strutturerà
un senso di “solitudine epistemologica” che lo porterà, anche da adulto, all’autosufficienza assoluta e ad
elaborare in termini di perdita tutte le situazioni significative della vita.
Tali caratteristiche determineranno nel bambino una distanza emotiva e di isolamento dalle figure di
attaccamento, come anche dal gruppo dei coetanei con i quali avrà problemi a stabilire un contatto. Nel periodo
scolare e con l’emergere delle competenze cognitive, poi, diverrà importante il tema del “sentirsi riconosciuti”
per la propria bravura dalle figure di riferimento, insieme ad emozioni come la vergogna di fronte a situazioni
diffìcili, affrontate con atteggiamenti competitivi volti a ridurre la paura della sconfitta e accompagnate dalla
certezza di non poter essere consolati.
Riprendendo i concetti sopra esplicitati dell’/o “che esperisce” e del Me “che spiega”, si può meglio
comprendere come il bambino, a questa età, organizzi il senso di sé nelle due dimensioni dell’esperienza
immediata e della costruzione dell’immagine cosciente di sé: a livello tacito {Io) è presente l’esperienza di
perdita, cioè di non avere una base sicura, di non sentirsi amato e di sentirsi solo; Timmagine che man mano si
costruisce sulla base di tale esperienza è complessa e lo diviene sempre più nel corso della crescita (Me):
vengono percepiti aspetti negativi di sé, in quanto questa è l’unica spiegazione del fatto che a lui succedono cose
che ad altri bambini non succedono come, ad esempio, il fatto che gli altri genitori accudiscono i loro figli
mentre i propri genitori non si comportano nella stessa maniera: questo fatto viene spiegato in termini di una
propria colpa perché egli si vive incapace di farsi amare o si sente come persona che ha caratteristiche che
producono un rifiuto nell’altro.
Tuttavia, è presente anche un’immagine positiva riferita alle proprie capacità cognitive: l’esperienza di
attaccamento ha portato il piccolo a contare solo su se stesso e a far fronte a situazioni di angoscia senza
chiedere aiuto a nessuno. Egli sa che deve risolvere i suoi problemi da solo e non importa quanto grande sia
Pesperienza di angoscia e di abbandono che sperimenta: se da un lato, quindi, egli sente di possedere una
capacità che gli altri bambini non hanno, dall’altro anche questa è un’esperienza che produce un senso di
solitudine e di separazione rispetto agli altri. Ecco allora la complessità sopra accennata e riferita alla
costruzione della propria immagine: da una parte il sentirsi una persona che non può essere amata e allo stesso
tempo, dall’altra, una persona diversa, forse speciale.
In entrambi gli aspetti dell’ “esperire” e dello “spiegare”, è di fondamentale importanza comprendere
nell’organizzazione “depressiva” la dimensione dell’ attribuzione interna: in una coerenza interna di significato
organizzata sulla perdita, lo stile di attribuzione interna è quello che permette di ristabilire la sensazione di
essere “attore” nella lotta costante per il controllo di sé. Quando verso l’adolescenza si fa sempre più forte la
percezione di separazione tra sé ed il mondo, l’attribuirsi la responsabilità, la colpa di tale separazione permette
di raggiungere nuovamente il controllo attraverso lo sforzo per ridurla; se la responsabilità dell’insuccesso, del
fallimento, venisse attribuita all’esterno, infatti, ciò non farebbe altro che mettere la persona in una condizione
di totale impotenza e aumenterebbe la percezione di sé di essere senza difese rispetto ad una realtà ostile ed
avversa che non lo riconosce. Questo aspetto si può osservare, ad esempio, nel porsi obiettivi irraggiungibili o
quasi impossibili, aspetto questo che appartiene alla coerenza dell’organizzazione di significato depressiva:
questo significa avere la possibilità di guadagnare l’accesso al mondo, riducendo così la separazione avvertita e
ottenendo il riconoscimento e l’amore degli altri.
Il periodo dell’adolescenza, con l’emergere di modalità cognitive più astratte e articolate di ordinamento
della realtà, si configurerà come una “lotta attiva” contro le parti negative del sé, attraverso lo sforzo e l’autosuf-
ficienza: l’auto rimprovero e l’autoaccusa (disperazione) sono alternati ad un senso di efficienza personale
quando il giovane sente di dover lottare contro qualcosa (rabbia). Questi aspetti espongono la persona a fare
esperienze di perdite e di abbandono proprio a motivo delle difficoltà nel controllo della rabbia nel rapporto con
gli altri, aumentando così il senso di isolamento. La difficoltà nei rapporti interpersonali è riscontrabile maggior-
mente con le persone significative, in quanto è proprio con loro che si verificano scatti di rabbia incontrollabili.
La minima discrepanza con la persona affettivamente significativa è vissuta immediatamente come una perdita,
una ferita lancinante che lascia il segno e che produce una reazione di rabbia inadeguata per la situazione. Il
tutto avviene in modo così automatico che quasi la persona non se ne rende conto.
La formazione del legame in un'organizzazione “depressiva" è accompagnata dalla percezione costante
della perdita e questo è vissuto come un qualcosa da evitare attraverso la strategia del “non coinvolgersi”
affettivamente. Il “non attaccarsi” preserva dal timore del rifiuto ed il respingere l’altro suona come un doverlo
“salvare” dallo stare insieme con una persona indegna ed immeritevole come sente di essere. Questo porta,
tuttavia, a sottrarre dalla relazione parti autentiche del sé, incontrando l’altro in modo incompleto: la costante
certezza di essere abbandonati porta così ad instaurare relazioni a “basso coinvolgimento”, in cui gli aspetti più
intimi passano solo attraverso scoppi di rabbia.
Alla luce di quanto sopra esposto, si comprende come lo sviluppo dell’identità, in questo tipo di
organizzazione, sarà caratterizzato dalla relazione tra esperienza immediata e devastante di vivere la realtà con
un costante senso di perdita e fallimento (Io) e l’attribuzione negativa di Sé come unico modo possibile per
viversi (Me). «Sentirsi l’unico responsabile di una realtà negativa quindi, vivere la perdita, il fallimento (1’
“Io”) permette (al “Me”) di non sentirsi naufrago in un mare incontrollabile ed oscuro per una improvvisa
tempesta» (Carpino, Corsini, Frasca, Guglielmo, 2009, p. 201).
2.1. Il rapporto con Dio nell'organizzazione di significato di tipo depressivo
Sulla base di quanto è stato descritto relativamente all’organizzazione “depressiva”, emergono elementi
importanti che costituiscono, in un certo senso, il “tema di fondo” di questa particolare modalità di elaborare
l’esperienza ed attribuirvi un significato. Tenendo sempre in considerazione che le organizzazioni di significato
non sono da ritenersi come entità in se stesse, come categorie diagnostiche ma, in senso dinamico, come modi
diversi di processare la conoscenza, si può ipotizzare che questo “tema” specifico di ogni organizzazione
influenzi anche quel particolare ambito dell’espe- rienza che riguarda il rapporto con Dio.
Si è accennato al fatto che la persona con organizzazione “depressiva” ha un’immagine negativa di sé, del
mondo e del futuro: tale immagine viene costruita sulla base di una pervasiva sensazione di non essere amabile,
in seguito alla ripetuta esperienza di non aver trovato l’accesso all’amore e al conforto. Rispetto a questo vissuto
si è visto come le emozioni prevalenti che ne scaturiscono sono quelle della disperazione e della rabbia, di una
profonda sofferenza interiore che deriva dal “viversi” come una persona rifiutata e abbandonata.
Nell’ambito della vocazione, tenuto conto di questi aspetti, si può ipotizzare che il candidato alla vita
consacrata con una modalità “depressiva” di organizzare la sua esperienza, viva anche la relazione con Dio, a
livello tacito ed esplicito, attraverso questa “cornice” di significato. In questo continuo rapporto, in cui egli
tende nel suo cammino di fede all’incontro con Dio, la sensazione di non sentirsi amabile ai Suoi occhi o di
sentirsi escluso dal Suo amore (sensazione costante di perdita), potrebbe essere vissuta secondo emozioni
dirompenti di rabbia e disperazione, magari rispetto ad eventi critici anche di portata minima. In tali circostanze,
il “sentirsi abbandonato” potrebbe essere un elemento che maggiormente viene avvertito, rispetto ad altre
organizzazioni di significato, proprio perché “coerente” con l’immagine che il “depressivo” ha costruito di sé e
della realtà.
Questo insieme di sensazioni ed emozioni {Io “che esperisce”), derivanti da una percezione di Sé di “non
amabilità”, potrebbe rafforzare la sensazione di solitudine e di distanza nei confronti di un Dio avvertito
“rifiutante” e “abbandonico”, con il riattivarsi della sensazione di dover contare solo sulle proprie forze in un
“deserto” dove non c’è nessuno che potrà offrire una consolazione. “Sentire” Dio lontano, potrebbe innescare
nel candidato “depressivo” un atteggiamento di chiusura, di isolamento emotivo che lo porterebbe ad
allontanarsi a sua volta da Lui, per cercare di evitare un’ulteriore sofferenza scaturita dalla ferita lancinante del
“rifiuto”: “Signoreperché mi hai abbandonato? ” (disperazione).
In altre circostanze, il rapporto con Dio potrebbe essere vissuto con un tono emotivo di fondo caratterizzato
da sensazioni dirompenti di rabbia. Ad esempio, la persona candidata o consacrata potrebbe aspettarsi da Lui
una risposta oppure un “intervento”, magari rispetto ad un determinato fatto vissuto in modo problematico.
Tuttavia, egli potrebbe “sentire” di non essere stato ascoltato ed a tale evento potrebbe essere attribuito
nuovamente un significato di “perdita”, che di nuovo porterebbe al vissuto della delusione ed al sentirsi, per
l’ennesima volta, “rifiutato”. NelTestrema “sensibilità” a questo tema, tale discrepanza (tra le sue aspettative e
ciò che effettivamente egli “otterrebbe” da Dio), anche se fosse minima, potrebbe essere avvertita alla stregua di
un lutto.
D’altro canto, l’attribuirsi la responsabilità di questo vissuto (attribuzione interna), come conseguenza delle
proprie caratteristiche negative {Me “che spiega”), accompagnato da sensi di colpa anche molto forti, potrebbe
portare la persona “chiamata” a mettere in atto una serie di “sforzi” che si realizzerebbero in un “maggior
impegno”, a volte portato all’estremo attraverso “imprese impossibili”, finalizzato a ridurre la sensazione di
distanza e ad ottenere quell’amore di cui non si sente meritevole. Questo potrebbe tradursi, ad esempio, in un
maggiore sforzo personale nella preghiera, nel tentativo di “guadagnare” l’amore di Dio, oppure nel sacrificare
sempre di più
il proprio tempo e le proprie forze per il “prossimo”, trascurando però in modo significativo se stesso e senza
concedersi la possibilità di un aiuto, che nella coerenza di significato “depressiva” non viene accettato.
È interessante sottolineare come la “strategia” sopra accennata del “non coinvolgimento affettivo” è una
trama che si ripete nella storia del “depressivo”: la sensazione costante di perdita può accompagnare anche il
rapporto con Dio, che può essere vissuto, nelle diverse fasi di realizzazione di questo incontro d’amore, con la
paura di essere abbandonati e rifiutati. Tale strategia allora potrebbe tradursi, in determinate circostanze, in una
difficoltà ad affidarsi a Lui, al Suo Amore, alla Sua Provvidenza, nel tentativo di prevenire l’emergere di
emozioni terribili come la disperazione e la rabbia, derivanti dalla percezione dell’inevitabilità di essere
nuovamente abbandonato.
Questo tema affettivo di fondo fin qui descritto, può costituire anche l’essenza del rapporto del candidato
con i suoi formatori e superiori. Sarà allora importante per queste figure, fondamentali nel processo di crescita
vocazionale, tenere conto delle caratteristiche sopra evidenziate per non incorrere nel rischio di un isolamento
da parte del candidato “depressivo” che, soprattutto nei momenti più critici, potrebbe rappresentare un ostacolo
rispetto ad una scelta più consapevole.
La teoria di Guidano mette in luce come in ogni uomo esista un tema affettivo centrale, delle emozioni di
fondo che per la maggior parte della vita, in modo inconsapevole, giocano un molo fondamentale
nell’esperienza immediata di esistere: come sentiamo noi stessi e gli altri, come instauriamo relazioni, ecc. Esse
costituiscono, come già si è accennato, quella “cornice” attraverso la quale dare significati alla nostra storia.
Esistono tuttavia dei momenti critici che fanno parte della vita di ogni uomo, che creano sofferenza e che magari
difficilmente si riesce a far rientrare nei propri schemi abituali, all’interno della propria “cornice”. Anche in un
percorso individuale, che ha come obiettivo un discernimento vocazionale, come anche nella scelta di una vita
consacrata a Dio, periodi di crisi, di dubbio e di sofferenza possono presentarsi in ogni momento e con loro
possono portare nuove informazioni su se stessi, producendo emozioni e sensazioni a volte negative che non si
riescono a decodificare.
Questi eventi sono parte integrante nel cammino di ogni uomo e, anche se dolorosi ed in un primo momento
difficili da accettare, rappresentano dei momenti preziosi, in quanto possono permettere di raggiungere un
nuovo equilibrio nella continua crescita personale: essi possono essere l’occasione per comprendersi meglio, per
“allargare” ed arricchire i propri schemi di riferimento usuali. Accogliere quelle esperienze che contrastano con
il proprio abituale modo di “leggere” la realtà, può offrire l’opportunità di cambiare, di compiere un passo avanti
nella comprensione di se stessi e della realtà circostante.
Non si può pensare, tuttavia, di poter arrivare una volta per tutte ad un livello totale di comprensione e di
consapevolezza di noi stessi in quanto, come ricorda Pautore, il punto di vista che abbiamo su di noi e sulla
realtà risente di quelle caratteristiche che ci hanno portato ad essere quello che siamo e dalle quali non potremo
mai prescindere.
D’altro canto, è invece possibile aumentare la conoscenza di sé, di quel tema affettivo di fondo
caratteristico della propria organizzazione di significato, proprio cercando di vivere quei momenti critici,
accogliendo quelle emozioni e sensazioni che creano un turbamento interiore, ma che rappresentano una
“finestra” sul proprio mondo interno: questo può permettere allora di aumentare la flessibilità dei propri schemi,
di aumentare le emozioni che si possono sperimentare nonché di elaborarle ad un livello di conoscenza più
integrato. In questo modo si aprirà la strada a nuovi significati permettendo alla persona di uscire da meccanismi
sempre uguali che non consentono l’elaborazione di nuove esperienze.
Questa crescita personale, che in momenti più critici può necessitare anche di un aiuto, porta gradualmente
ad una maturità affettiva, mai pienamente raggiunta, ma sempre “in fieri” nel cammino di ogni uomo; essa varia
chiaramente da persona a persona ed avverrà attraverso percorsi specifici, caratteristici di ognuna delle quattro
organizzazioni, permettendo così, non solo di andare oltre se stessi ed incontrare l’altro in modo più autentico,
ma anche, nell’ambito più specifico della vocazione, di rispondere alla chiamata di Dio in maniera sempre più
libera instaurando con Lui una relazione sempre più svincolata da condizionamenti.
Nel caso di una persona candidata alla vita consacrata con un’organizzazione “depressiva”, la convinzione
di vivere una vita destinata al rifiuto e alla solitudine è alla base dell’esperienza del suo “sentirsi vivere” e porta
alla costruzione di un significato di inaccessibilità ad una relazione intima e reciproca che, come si è ipotizzato,
potrebbe costituire anche l’essenza del rapporto con Dio.
L’acquisizione di una maggiore consapevolezza di sé consisterebbe, allora, nel graduale riconoscimento di
questo tema centrale della perdita, fino ad arrivare a percepirlo non più come un destino inequivocabile, ma
come una delle esperienze possibili nel corso della vita e non più come l'unica. Ricercare e collegare nella
storia personale quegli eventi che hanno determinato la sensazione di non meritare nulla e nessuno, di non poter
essere amati e per questo destinati ad essere abbandonati, può permettere, a poco a poco, una maggiore
flessibilità nell’integrare ed elaborare le proprie esperienze emotive, arricchendo così gli schemi usuali di
attribuzione di significato.
Questo processo può aumentare gradualmente la capacità di riconoscere quelle situazioni che non
rappresentano una reale minaccia di abbandono, portando la persona ad andare oltre il proprio atteggiamento
difensivo e di chiusura e a reagire ad esse meno intensamente e rabbiosamente; in questo modo la persona può
aprirsi all’esperienza dell’incontro con l’altro e quindi anche con Dio, costruendo con Lui una relazione in cui è
possibile “affidarsi” e potersi “sentire” amato pienamente per quello che egli è, in modo unico e speciale, e
vivere la gratuità del Suo amore donatogli totalmente.
Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti
chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra
Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo (Is 62, 3-4).
3. L’organizzazione di significato personale di tipo fobico
La caratteristica principale di questo tipo di organizzazione di significato è la tendenza a rispondere con
paura e ansia a qualsiasi evento critico che possa essere percepito in termini di perdita di protezione o di
perdita di libertà e indipendenza; la realtà viene organizzata e decodificata attraverso il continuo confronto con
due polarità emotive in antitesi tra loro: il bisogno dì protezione, rispetto ad un mondo percepito come
pericoloso, ed il bisogno di libertà.
Per comprendere meglio come si struttura e si evolve la coerenza interna di significato di un’organizzazione
“fobica”, è necessario indagare, anche in questo caso, come già è stato fatto per quella “depressiva”, i modelli di
attaccamento sviluppatisi nel corso dell’infanzia; anche se in maniera diversa, le esperienze di un bambino
“fobico” nei primi anni di vita sono accomunate da una limitazione indiretta dei suoi tentativi di rendersi
autonomo nell’esplorare il mondo circostante. Nella maggior parte dei casi questa interferenza è il risultato di un
attaccamento ansioso dei genitori, i quali mostrano una carenza nel fornire adeguato calore emotivo e riescono a
mantenere uno stretto contatto con il bambino, limitandone indirettamente la fisiologica ricerca di autonomia o
spaventandolo, attraverso la descrizione di un mondo esterno pieno di pericoli, o mediante continue minacce di
abbandono. Tali modelli disfunzionali di attaccamento possono essere raggruppati in due grandi categorie che
possono presentarsi anche in combinazione tra loro.
Nel primo caso si riscontra un atteggiamento iperprotettivo dei genitori i quali, fortemente ansiosi, tendono
a fornire un’immagine del mondo esterno come pieno di pericoli perché essi stessi lo vivono in questo modo,
favorendo così nel piccolo una percezione di questo tipo; nello stesso tempo, essi insistono su una presunta
debolezza del bambino che lo potrebbe esporre a tali pericoli: ad esempio, una madre potrebbe dire al figlio di
non correre perché potrebbe cadere, oppure sottolineare la sua “fragilità” (debolezza fisica) o la sua incapacità di
“controllarsi” di fronte agli estranei (debolezza emotiva). In ogni caso il bambino sviluppa un’immagine
positiva di sé: egli si sente “protetto” perché è amato e perché è il mondo esterno ad essere “pericoloso”.
Un comportamento di questo tipo è dovuto ad una difficoltà da parte dei genitori, non riconosciuta, dì
tollerare le normali iniziative di distacco del bambino che, al contrario, vengono giustificate come un
atteggiamento di preoccupazione per le sue fragilità in un ambiente circostante minaccioso; ciò fa sì che tali
restrizioni e limitazioni passino al bambino come non dipendenti dai loro desideri o intenzioni, non esplicitando
che vogliono stare con il bambino per un loro bisogno. Anche in questo caso, Guidano ci fornisce un esempio
esplicativo di ciò che si intende per limitazione indiretta e di come questa modalità relazionale porti, man mano,
alla strutturazione di un tema molto importante per i “fobici”, cioè quello della lettura sensoriale delle
emozioni: l’autore afferma che il bambino, ad esempio, non ha mai delle limitazioni esplicite per giocare per
strada; la madre gli darà il permesso, ma inizierà a dirgli di stare attento alle macchine, di coprirsi, ecc., e
quando lui uscirà di casa si affaccerà alla finestra per guardarlo mentre gioca con gli amici. Questa situazione
farà sì che il bambino, dopo aver chiesto il permesso, inizi a vivere una sensazione di disagio senza sapere a chi
attribuirla; guarderà verso la finestra mentre gioca e, solo quando tornerà a casa, si sentirà sollevato. Egli non
vivrà il proprio malessere come legato alle intenzioni dei genitori, anzi penserà che questi ultimi gli vogliono
bene perché sono preoccupati per lui: egli non comprenderà come sì sente, ma vivrà quel malessere solo
fisicamente e non come uno stato psicologico legato all’episodio precedente vissuto con la madre ed alle sue
intenzioni. Guidano aggiunge che tale modalità di elaborare le emozioni aumenta il bisogno di protezione e che
essa determinerà quella lettura sensoriale sopra accennata, per cui le emozioni non determinano stati d’animo,
ma condizioni fisiche: come specifica l’autore: «il Me sarà “cieco” di fronte a modulazioni psicofisiologiche
dell’/o» (Guidano, 1991, cit in Guidano, 2007, p. 213).
In altre situazioni, la limitazione del comportamento esploratorio del bambino è operata attraverso un
comportamento genitorìale rifiutante: i genitori non sono percepiti come base sicura per l’esplorazione, per cui
egli si sentirà insicuro al di fuori dell’ambiente familiare. Le figure genitoriali tenderanno a mantenere
l’attenzione su loro stessi, minacciando di abbandonare la famiglia, lamentandosi continuamente di essere
malati, insoddisfatti o depressi e sul punto dì morire: tale atteggiamento, a volte dovuto a veri e propri disturbi
ansiosi dei genitori, trattiene il figlio dall*esplorare fi ambiente in modo autonomo perché egli teme che,
allontanandosi troppo, possa accadere loro qualcosa di grave o di poterli perdere. Da tale comportamento
genitoriale il vissuto del figlio sarà caratterizzato da un’aumentata limitazione della propria libertà e da un forte
senso di costrizione e paura legato al bisogno di esplorazione rimasto inespresso.
Un elemento importante per comprendere l’organizzazione “fobica” riguarda la modalità con cui si viene a
configurare il rapporto tra due classi di comportamento: quello esploratorio e quello di attaccamento. In genere
esse si sviluppano parallelamente e, anche se si manifestano secondo modalità diverse ed a seconda delle
circostanze, non sono da considerarsi come due polarità opposte: mentre quello di attaccamento è volto ad
assicurare la protezione del piccolo ed è un elemento necessario alla formazione di quella “base sicura” da cui
muovere alla scoperta del mondo, quello esplorato- rio permette di accedere alle informazioni dell’ambiente,
perché l’individuo possa adattarsi ad esso in modo proficuo. Attraverso l’equilibrio dei due sistemi il bambino
potrà quindi conoscere il mondo esterno e se stesso, riducendo così i pericoli e l’insicurezza. Inoltre, con
l’emergere della capacità di poter cogliere il punto di vista dell’altro e delle abilità cognitive correlate, egli potrà
condividere le scoperte che man mano andrà facendo, ampliando le proprie capacità relazionali, nonché la
capacità di espressione delle proprie emozioni ed opinioni.
Tale reciprocità dei due sistemi nel “fobico” non esiste; anzi, attaccamento ed esplorazione si legano tra
loro in modo antitetico, cioè si strutturano come due classi di comportamento ai lati opposti di uno stesso conti-
nuum. La costruzione dell’immagine di sé e della realtà avverrà all’intemo di una cornice in cui egli è costretto,
per ragioni adattive, a mantenere una vicinanza alle figure di attaccamento con conseguente compromissione del
comportamento esploratorio, che verrà limitato e rimarrà inespresso, innestando così un forte senso di
costrizione.
Anche il tema del controllo è centrale nella comprensione del significato fobico: da una parte, esso si
esprime nel controllare le relazioni significative che possono rappresentare protezione; dall’altra, si manifesta
nel controllo su se stessi, cioè di tutti quegli aspetti del sé che possono essere percepiti come “debolezza”, in
quanto, se affiorassero, ciò comporterebbe un “rischio” nella percezione di un “mondo pericoloso”. Qualsiasi
emozione, sia positiva che negativa, ad esempio entusiasmarsi o deprimersi, potrebbe essere vissuta come una
perdita dì controllo. Il controllo è un meccanismo che permette di raggiungere un equilibrio tra la sensazione di
pericolo rispetto alla propria incolumità, legata alla paura di rimanere solo, e la sensazione intollerabile di
costrizione legata alla percezione anche minima di limitazioni della propria libertà da parte dell’altro. Esso
presuppone la capacità progressiva di escludere, da un lato, tutte quelle sensazioni capaci di attivare il bisogno
di libertà e indipendenza e, dall’altro, la messa in atto di un repertorio di attività neurovegetative distoniche
(tachicardia, difficoltà respiratorie, ecc.) 1 che assicurano la vicinanza delle figure protettive, senza però
modificare la propria autostima e Eamabilità personale.
Questo mantenere a tutti costi un ipercontrollo sulle proprie emozioni e sensazioni, al punto di avvertirle
come qualcosa di esterno al proprio Sé profondo, comporta un loro evitamento automatico che non ne permette
l’elaborazione. La gamma emotiva del "fobico” risulterà quindi abbastanza ristretta: svincolando la propria
emozione dal Sé, non definendola come un tratto proprio o come una propria reazione, essa sarà più
comprensibile e accettabile alla luce di malanni fìsici o psicologici.
In questa situazione la paura risulterà così l’emozione più strutturata e più facilmente riconoscibile nella
gamma emotiva di un’organizzazione "fobica”, rappresentando la tonalità emotiva di base che accompagnerà il
soggetto in tutto l’arco della vita. Il senso di autostima e competenza personale dipenderà dalla misura in cui
sarà in grado di controllare la modulazione interna derivante dalla paura, riuscendo così a mantenere un equili-
brio più o meno stabile tra il bisogno di libertà e quello di protezione.
L’ipercontrollo si manifesta anche nei rapporti interpersonali con la tendenza a concentrarsi più sugli aspetti
pratici e concreti, consentendo al soggetto di manipolare il rapporto in funzione dei bisogni di protezione, senza
che però la propria libertà venga limitata. Tuttavia, il concentrarsi su aspetti formali e concreti della relazione,
non permetterà all’individuo "fobico” di viversi ed elaborare tutte quelle complesse sfumature che riguardano la
formazione, il mantenimento e la rottura del legame affettivo.
Inoltre, nel mantenimento della relazione, una volta che questa si è stabilizzata, il “fobico” dovrà
impegnarsi nel conservare l’equilibrio tra libertà e protezione, cioè dovrà riuscire ad avere una sensazione di sé
che gli possa permettere di avvicinarsi o allontanarsi liberamente dal partner o dalla famiglia quando lo vorrà,
senza sentirsi costretto a farlo. Naturalmente un equilibrio di questo tipo, abbastanza fragile, può essere
destabilizzato da molte situazioni tra cui, ad esempio, la notevole difficoltà che il “fobico” 4 avrà nel riconoscere
l’emergere del coinvolgimento affettivo con una figura significativa, dovendo evitare la percezione di sé come
dipendente dall’altro. Tuttavia soltanto esperendo dei disequilibri, via via sempre più articolati, tra le due
polarità emotive (bisogno di libertà e bisogno di protezione), l’organizzazione “fobica” arriverà ad un
progressivo ampliamento della gamma di emozioni decodificabili, esperendole così come proprie.
In riferimento a quanto sopra esposto, si può meglio comprendere il processo secondo il quale
un’organizzazione di questo tipo attribuisce significati alla propria esperienza di sé e della realtà: a livello tacito
{Io “che esperisce”) verrà avvertita come una minaccia o pericolo incombente qualsiasi separazione da una
figura protettiva, salvo sentirsi immediatamente costretti e limitati, non appena il contatto con quella stessa
figura venga ripristinato. La paura e il disagio, avvertiti attraverso il corpo, costituiranno gli elementi principali
dell 'Io che produrranno, man mano, lo svilupparsi di un’elaborazione sensoriale di ogni modulazione emotiva.
A livello esplicito {Me “che spiega”) si riscontra un profilo positivo di sé, di sentirsi amabile, sia rispetto al
comportamento protettivo dei genitori, sia nella valutazione di sé come di una persona in grado di mantenere un
controllo. L’emozione, l’espansività, verranno equiparate ad un senso di debolezza e fragilità emotiva e, come
tali, saranno escluse dalla propria gamma di emozioni decodificabili. A partire dall’adolescenza in poi, con
l’emergere di capacità autori- flessive, sarà possibile un’elaborazione più astratta del proprio atteggiamento
ipercontrollante: l’oscillazione delle due polarità emotive dell’/o sarà percepita, di volta in volta, come un senso
di fiducia sulla propria efficienza, se basato sulla conferma della propria capacità di saper trovare in tutte le
nuove situazioni figure protettive disponibili (bisogno di protezione), o con un senso di autonomia e
indipendenza, se sarà confermata la propria capacità di controllare i rapporti interpersonali in grado di fornire un
supporto protettivo (bisogno di libertà).
3.1. Il rapporto con Dio nell’organizzazione di significato di tipo fobico
In base a quanto sopra esposto, è possibile cogliere le caratteristiche principali che costituiscono una
“modalità fobica” di elaborare la propria esperienza ed attribuire ad essa un significato; anche in questo caso si
può ipotizzare che la relazione con Dio sia influenzata dalla modalità di costruire significati, a livello tacito ed
esplicito, propri di questo tipo di organizzazione.
Come si è visto, le emozioni prevalenti in un’organizzazione “fobica” sono l’ansia e la paura, che deriva dal
confrontarsi con un mondo percepito come minaccioso: tale vissuto, tuttavia, non è mai affrontato direttamente,
anzi viene evitato attraverso strategie di controllo sui propri vissuti emotivi e su persone significative
“identificate” come figure che possono assicurare una protezione. Questo controllo, che si può esprimere nelle
forme più disparate, non viene agito in modo intenzionale in quanto costituisce un bisogno costante ed

4 Questi meccanismi non consentono di elaborare semanticamente emozioni e sensazioni, ma di avvertirle come
estranee alla propria esperienza soggettiva, grazie ad un’attribuzione causale esterna. Esse verranno così incanalate
attraverso la proprìocezione, i meccanismi immaginativo-mnestici e gli schemi motori, in flussi piuttosto indecodificabili
che confermano ulteriormente la tendenza a riferire le proprie emozioni alle modificazioni corporee percepite (lettura
sensoriale delle emozioni).
inconsapevole e che fa da sottofondo alla sua intera esistenza.
L’“abilità” del “fobico” consiste proprio nel riuscire a mantenere la vicinanza degli altri senza “concedersi”
troppo, riuscendo così a mantenere fi equilibrio, di cui si è parlato sopra, tra bisogno di protezione e bisogno di
libertà. Come si è accennato, è un equilibrio “vitale” perché questi due aspetti, in tale organizzazione, si
escludono a vicenda: se si assicura la protezione, rispetto alla paura di essere solo in un qualsiasi contesto a cui
viene attribuito il significato di “pericoloso”, man mano egli avverte la necessità di allontanarsi dalla figura
“protettiva” con il progressivo aumentare del senso di costrizione. Tuttavia, una volta raggiunta la percezione di
agire senza limitazioni, in maniera autonoma, il temporaneo allontanamento dalla figura significativa innesca
nuovamente la paura della solitudine che conduce ancora alla ricerca di sostegno.
Si può immaginare che, anche nel particolare ambito della vocazione, tali meccanismi di attribuzione di
significato intervengano all’interno della relazione che la persona instaura con Dio.
Il Signore può essere vissuto come Colui che può assicurare protezione in momenti particolari della propria
esistenza, nei quali emozioni come paura e ansia si fanno sentire in maniera più forte. Questa è un’esperienza
comune, ma per il “fobico” può rappresentare un vero e proprio momento di “crisi”, perché può essere vissuto
come una “perdita di controllo” rispetto ad una realtà percepita come minacciosa e nella quale si attiva immedia-
tamente la ricerca di un aiuto. Il rivolgersi a Dio, allora, può assumere, anche in questo caso, la forma di un
“controllo” nel quale la persona si illude di “manipolarLo”, rassicurandosi all’idea che Egli, proprio perché lo
ama, interverrà secondo la sua volontà. Cercare Dio come “rifugio”, come protezione, magari attraverso una
preghiera più insistente o aumentando la frequenza della partecipazione ai sacramenti, vivendo questi particolari
momenti con un forte senso di paura, potrebbe essere una modalità di rapportarsi a Dio quando il “fobico” si
sente pervaso dall’ansia di rimanere solo, in balia dei pericoli percepiti attorno a lui.
E importante sottolineare che questi sono solo esempi di come, un candidato alla vita consacrata con
organizzazione “fobica”, potrebbe relazionarsi a Dio: in questa sede non si vuole entrare nel merito di
atteggiamenti come la preghiera od il ricorso ai sacramenti che, indiscutibilmente, sono da ritenersi
fondamentali nella vita del cristiano; l’aspetto su cui si vuole
centrare l’attenzione è lo sfondo emotivo che può caratterizzare tali comportamenti all’interno di questa
relazione che, proprio perché potrebbe risultare manipolatoria, quasi come se Dio fosse un “genio della
lampada”, non sarebbe vissuta a quel livello di libertà che potrebbe favorire un incontro pieno con il Suo
Amore, permettendo una scelta vocazionale più matura da parte del candidato.
Anche la novità può essere vissuta come “pericolosa” e, nel caso della persona “chiamata” con
un’organizzazione “fobica”, la possibilità di entrare in un percorso di discernimento vocazionale, che potrebbe
portare ad una scelta di vita consacrata “definitiva”, potrebbe essere vissuta con V attivarsi di un senso di
costrizione, perché identificata come una situazione “soffocante” nella quale potrebbe correre il rischio di una
limitazione della propria libertà. Allora Dio potrebbe essere vissuto, da fonte di protezione quale era nei
momenti di paura, come Qualcuno che potrebbe limitare la propria libertà personale, condizionando la sua
esistenza, imponendo restrizioni al suo bisogno di libertà ed innescando la sensazione di non poter avere in fu-
turo alcuna via di fuga.
Come è stato accennato più volte, in un’organizzazione “fobica” la realtà viene vissuta come una fonte di
pericolo: è comprensibile quindi come il controllo che viene esercitato su aspetti di sé, sia funzionale alla sua
“sopravvivenza”. In particolare saranno tenute sotto controllo tutte quelle emozioni e sensazioni che attivano
nella persona la percezione di una vulnerabilità e fragilità personale. Organizzare la propria vita nei minimi det-
tagli, prevedere e anticiparsi mentalmente le situazioni che potrebbero indurre paura o ansia, è la forma che nel
“fobico” assume questo controllo su di sé e che gli garantisce un buon livello di autostima. D’altro canto, pro-
prio per il fatto che in questo modo le emozioni non sono sufficientemente elaborate, si è anche detto che la
gamma affettiva risulta essere limitata e che, rispetto a situazioni critiche, difficili da gestire, il disagio ed il
malessere che ne deriva viene vissuto prevalentemente a livello corporeo (tachicardia, tremori, dolore al petto,
ecc.).
In tal senso si può immaginare anche lo sfondo che può caratterizzare, in determinate circostanze, il
rapporto con Dio: essere pienamente in forze, vedersi efficiente, capace di gestire la propria vita, può innescare
la percezione di “sentirsi” più vicino a Lui; in altri casi, magari in quei momenti in cui si avverte Dio “lontano”,
in cui certi fatti sono difficilmente comprensibili anche alla luce della fede, può affiorare improvvisamente nel
“fobico” un senso di angoscia opprimente, la paura di rimanere solo, “sentire” che Dìo non si sta prendendo cura
di lui e che non potrà quindi ottenere la Sua protezione da una realtà nella quale si sente minacciato. Si può
anche immaginare, in altri casi ancora, la difficoltà che può vivere il “fobico” ad “af
fidarsi” in certe scelte, ad esempio in particolari momenti del percorso di discernimento o in seguito a delle
proposte dei formatori: queste difficoltà possono farsi sentire in maniera più consistente se a certe situazioni
viene attribuito un significato di perdita della propria libertà che innesca, anche in questo caso, la sensazione di
costrizione più volte accennata.
Il significato personale “fobico” fin qui evidenziato inciderà inevitabilmente anche nel rapporto con
formatori e superiori. La comprensione di questi vissuti sarà allora, per questi ultimi, indispensabile per favorire
un processo di crescita personale, come presupposto fondamentale per una crescita vocazionale più consapevole.
Crescere nella consapevolezza di sé, del proprio tema affettivo di fondo, può rappresentare, per una persona
con organizzazione “fobica”, l’opportunità di vivere le relazioni legandosi all’altro senza strumentalizzarne
Vaffetto per soddisfare il proprio bisogno di “sentire” di avere sotto controllo la relazione. Vincere la paura di
perdere il controllo non è un cammino facile ma, come per le altre organizzazioni di significato, può permettere
di rendere più ricca l’elaborazione della propria esperienza, in particolare quella emotiva che, come si è visto,
nel “fobico” è molto limitata.
Anche nel caso del candidato “fobico” alla vita consacrata, i momenti critici, capaci di innescare in questa
organizzazione sensazioni di forte solitudine o di costrizione, rappresentano un’opportunità per soffermarsi ed
interrogarsi sulle situazioni che le hanno provocate, andando oltre gli abituali schemi di controllo, e per
integrare, nella propria esperienza, quelle emozioni avvertite fino a quel momento come estranee ed
incontrollabili. Questo processo può portare ad un ampliamento graduale della propria gamma emotiva e
favorire una percezione più chiara dei propri bisogni di libertà e protezione, verso una comprensione più
articolata e ricca di sé e della realtà.
Allentare il controllo su se stesso, sugli altri e anche nella relazione con Dio, può permettere di lasciarsi
permeare da quelle emozioni prima escluse, perché troppo coinvolgenti, ed entrare man mano a contatto con la
propria dimensione emotiva, riconoscendo e accettando progressivamente come propri anche quegli aspetti più
vulnerabili di sé. Tale processo può portare, anche nella persona che si trova all’interno di un percorso di
discernimento, a crescere nella propria vocazione, ad accettare gradualmente anche quegli aspetti di fragilità che
sono insiti in ogni essere umano, non attribuendo più ad essi un significato di debolezza da tenere sotto
controllo, ma vivendoli come una dimensione attraverso cui passare per favorire la crescita personale anche in
un’ottica di fede.
Ecco che allora, anche nei momenti in cui “si sente il silenzio di Dio”, la paura e l’angoscia possono
diventare meno opprimenti perché, in un rapporto nel quale il “fobico” può finalmente coinvolgersi, la fiducia di
non essere lasciato mai solo da Dio può crescere insieme ad un senso di autonomia personale. Inoltre, la
crescente comprensione di sé potrà portare gradualmente ad una maggiore capacità di affidarsi, senza per questo
sentirsi necessariamente limitati nel proprio cammino di fede.
Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! (Giovanni Paolo II, Omelia della Messa di inaugurazione
del pontificato, 22 ottobre 1978).
4. L'organizzazione di significato personale di tipo disturbi alimentari psicogeni
La caratteristica principale di questo tipo di organizzazione di significato è la percezione vaga e indefinita
di sé, con la tendenza a reagire ad ogni evento critico oscillando tra il bisogno assoluto di approvazione da parte
di figure significative e la paura, anch’essa assoluta, di poter essere invasi e disconfermati da esse. La tendenza
principale sarà quella di mettersi continuamente sotto esame, confrontandosi con gli altri, come se questi
fungessero da specchio, per il bisogno di ricevere conferme e, nello stesso tempo, con il timore di non piacere o
di non riuscire ad avere l’approvazione desiderata.
La persona con tale organizzazione, quindi, deve continuamente confermare la propria immagine attraverso
criteri esterni, per cui la propria identità sarà costruita in base ad essi. La percezione di sé potrà avvenire solo
attraverso gli altri, per cui l’individuo si renderà conto di chi è e delle proprie capacità soltanto attraverso il
modo con cui gli altri si comporteranno nei suoi confronti. È il contesto esterno, pertanto, a definire e spiegare
un’organizzazione di tipo disturbi alimentari psicogeni (DAP), anche se questo fosse rappresentato da un
comportamento banale di una persona significativa o meno.
Guidano individua alcune caratteristiche comuni delle famiglie all’interno delle quali si struttura ed evolve
una coerenza di significato “DAP”: il bambino riesce a mantenere un accesso emozionale ai genitori stabile e si-
curo nella misura in cui aderisce continuamente alle loro aspettative; la sensazione di corrispondere, in ogni
istante, ad esse, gli permette di sentirsi competente, amabile ed accettabile. D’altro canto, nel momento in cui il
bambino sente di perdere la corrispondenza ai genitori, perde anche il senso della propria amabilità ed
accettabilità. Uno stile di attaccamento di questo tipo viene definito evitante compiacente. In questo caso i
genitori possono essere percepiti come rifiutanti perché vogliono che loro figlio sia un modello di perfezione e,
per questo motivo, diventano critici ogni volta che il bambino non si comporta adeguandosi a questo standard:

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egli viene riconosciuto solo quando, aderendo ad esso, assume tutte le caratteristiche di facciata desiderate dai
genitori.
Una caratteristica principale di queste famiglie è l’ambiguità e la contraddittorietà, che si può riscontrare a
diversi livelli: ad esempio, i genitori sono particolarmente attenti agli aspetti formali della vita ed alla apparenza.
Viene offerta al bambino rimmagine di un matrimonio felice e perfettamente riuscito, ma all’interno del quale
viene accuratamente evitata qualsiasi manifestazione chiara di emozioni ed opinioni riguardanti i loro problemi
od insoddisfazioni. Essi tendono a dare di se stessi un’immagine di genitori totalmente dediti alla cura e al
benessere dei figli, ma il loro comportamento, più che a soddisfare i reali bisogni del bambino di ricevere so-
stegno emotivo, sono orientati alla ricerca di una conferma a questa immagine dall’esterno.
Altro aspetto fondamentale da considerare, riguarda la costante ridefinizione delle sensazioni ed emozioni
del bambino fino a quando questo non le avverte e le esprime secondo Ì canoni familiari. È come se fosse
implicita la regola che, per andare d’accordo e volersi bene, tutti debbano pensare allo stesso modo ed esprimere
opinioni in modo uniforme. Strategie di controllo parentali in questa direzione, possono essere rappresentate
anche da minacce riguardanti la possibilità di togliere l’affetto per ottenere un determinato comportamento: il
bambino percepisce che l’amore dei suoi genitori dipende dal comportamento che gli viene richiesto e che, se
non corrisponde a tale richiesta, verrà abbandonato. Amarsi significherà pensare le stesse cose dell’altro e non
esprimere mai opinioni o pensieri diversi.
In tale contesto, così poco differenziato, il bambino svilupperà un senso pervasivo di inaffidabilità rispetto
alla propria capacità di riconoscere e decodificare i propri stati interni e percepirà, di volta in volta, ciò che è
“possibile” provare e pensare soltanto all’interno di un rapporto particolarmente coinvolgente. Tutto ciò ha un
effetto abbastanza drammatico, se solo si pensa al fatto che il bambino si renderà conto che da solo non saprà
cosa prova ed avrà bisogno sempre degli altri per riconoscerlo.
L’organizzazione “DAP” viene definita anche “stile perfezionista ambiguo”, proprio a partire
dall’osservazione dei bambini con questo tipo di organizzazione che, sin dai primi anni di vita, esibiscono una
perfezione che tuttavia è solo di facciata: si potrebbe definire, come afferma Guidano, una perfezione
compiacente (Guidano, 2007), dato che essi si sforzano di imitare e simulare il comportamento degli adulti,
ripetendo le stesse frasi e le stesse parole, sentendosi come bambini più grandi e preferendo, di conseguenza, la
compagnia delle persone adulte. Al contrario, avvertono disagio in compagnia dei loro coetanei, non potendo
affrontarli da un punto di vista emotivo proprio perché non sono abituati a comportarsi come loro.
Una perfezione di questo tipo non è da confondere con quella che invece si può riscontrare
nell’organizzazione “ossessiva”, che verrà analizzata più avanti: l’esigenza della famiglia “ossessiva” sarà
completamente diversa da quella “DAP” Infatti, mentre per quest’ultima il bambino dovrà “apparire” perfetto e
non importa se lo è veramente, nella famiglia “ossessiva” non sarà importante l’immagine di perfezione, ma il
suo rigore morale e lo sforzo. Un elemento per meglio comprendere questa differenza risiede nel concetto di
“massimalità dappica”: essa consiste nel fatto che, in ogni situazione, deve essere presente fin dall’inizio un
“risultato massimo”, senza che esso sia stato raggiunto attraverso un processo di costruzione. Non è possibile
che esso prenda forma nel tempo: o esiste fin dall’inizio o non ci sarà mai; o una competenza è presente subito o
non la si avrà mai. Guidano, anche in questo caso, ci fornisce un esempio per esemplificare questo concetto: egli
racconta di una seduta con una paziente di quindici anni accompagnata dal padre, la quale manifestava il
desiderio di imparare a cavalcare, dato che vicino casa sua c’era un allevamento di cavalli, ma si lamentava
perché il padre non glielo permetteva. Il padre della ragazza diceva che la figlia non sapeva cavalcare e,
nonostante l’autore rispondesse che sua figlia, anche se non lo sapeva fare, avrebbe potuto imparare, egli
continuava a dire che lei non sapeva farlo: l’idea che trasmetteva questo padre era appunto che o si nasceva con
tale capacità o non si sarebbe potuto imparare a farlo. Questo esempio può essere utile per cercare di entrare
meglio nella costruzione di significato “DAP” e nella sua modalità di rapportarsi a se stessi e al mondo esterno;
alla luce dei concetti di “massimalità” e di perfezione sopra esposti, è comprensibile come uno dei problemi
principali di un “DAP” sarà quello di affrontare le situazioni: la strategia impiegata, in questi casi, sarà quella di
esporsi il meno possibile o di non coinvolgersi in nessuna attività e, se ciò non è possibile, l’unico modo sarà
quello di manipolare la propria esposizione al punto che non ci sia una disconferma.
Mentre nella fanciullezza verrà scelto un genitore come riferimento, corrispondendogli momento per
momento e raggiungendo in questo modo un senso di sé definito e accettabile, nell’adolescenza, con l’emergere
del pensiero astratto, P immagine dei genitori subirà un drastico cambiamento: questo processo avviene
normalmente nel corso della pubertà e dell’adolescenza e costituisce quel processo di differenziazione emotiva
che porta il ragazzo ad acquisire un maggior senso di individualità e di autonomia. In un’organizzazione di
significato DAP, tuttavia, questo stesso processo sarà vissuto come una tragedia in quanto, cambiando
l’immagine della figura di riferimento, cambierà anche il senso di Sé. Cambiando l’immagine del genitore, da

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“assoluta” a persona “comune”, anche il senso di competenza, che da lui dipendeva, cambia.
In un contesto familiare come quello sopra descritto, nel corso dell’infanzia il bambino incontrerà delle
difficoltà nel riconoscere in modo autonomo le proprie sensazioni ed emozioni, sviluppando un senso di sé vago
ed indefinito, insieme ad un senso di inaffìdabilità ed incapacità personale. Nel corso della fanciullezza viene
ostacolato in modo considerevole l’emergere del senso di “essere separato”, determinando una confusione nel
riconoscimento dei propri stati interni che può avvenire, d’altro canto, solo al- l’intemo di una relazione
invischiata con la figura di riferimento. Lo squilibrio adolescenziale sopra accennato, allora, è più facilmente
comprensibile, perché la scoperta dei limiti e dei difetti del genitore porta il ragazzo a sperimentare nuovamente
quel senso di vuoto e vaghezza in seguito alla delusione provata.
Dalla delusione familiare nascerà il problema della stabilizzazione del senso di sé, in quanto essa invaliderà
la strategia principale che era quella di corrispondere alle aspettative dei genitori. Il riaffiorare del senso di vuo-
to e la sensazione di vaghezza e indefinitezza, spingeranno l’adolescente a cercare una nuova relazione che
restituisca un senso stabile di sé: scegliere una persona a cui corrispondere, ma esponendosi il meno possibile, è
la “risoluzione adolescenziale” per non correre il rischio di sperimentare una nuova delusione. In questo modo
va strutturandosi il senso di coerenza “DAP” che caratterizzerà il suo stile affettivo: riferirsi ad una persona da
cui avere il massimo delle conferme affettive con la minima esposizione, evitando così una nuova possibile
delusione5.
In un’organizzazione “DAP”, ogni evento in grado di produrre uno squilibrio tra il bisogno di approvazione
ed il timore assoluto di intrusioni e disconferme, è accompagnato da un’alterazione dell’immagine corporea e
può produrre, in determinate circostanze, anche comportamenti alimentari disfunzionali: tuttavia un individuo
può avere una struttura cognitiva organizzata in questo senso anche senza presentare i sintomi del disturbo. Di-
versi possono essere i fattori che incidono su questa “fecalizzazione sul corpo”: in primo luogo, le variazioni
degli stati corporei rappresentano gli impulsi più facilmente discriminabili e affidabili; inoltre, l’accento della
famiglia sugli aspetti formali ed estetici contribuisce a fornire tali criteri come essenziali per la valutazione di sé.
“Essere grassi” diviene un modo per rappresentarsi il senso di fallimento: mentre nei casi di anoressia la persona
lotta continuamente contro questa immagine di fallimento attraverso un ipercontrollo dei propri impulsi
biologici (attribuzione esterna), nei casi di obesità questa lotta viene ben presto abbandonata perché la persona
non si ritiene all’altezza del compito (attribuzione interna). I quadri di tipo anoressico utilizzano “strategie
attive”, gestendo le discrepanze derivanti da delusioni e fallimenti nel prendere attivamente decisioni rispetto
alla propria vita, spinti da un atteggiamento di autosufficienza e controllo. Nei soggetti più “passivi”, come nei
casi di obesità e bulimia, le oscillazioni emotive, derivanti dalla percezione di disconferme e delusioni, sono
assimilate cercando di mantenere il più possibile inalterata l’immagine di sé. Tale processo avviene
“accettando” la propria negatività, strutturando modelli diversivi che spostano l’attenzione sull’aspetto corporeo
e manifestando passività e mancanza di controllo di fronte ai propri impulsi: in questo modo è come se dicessero
a se stessi che non è la propria persona a non essere accettata o rifiutata, ma il proprio corpo.
Nei casi di anoressia, quindi, si evidenzia una sorta di ribellione: “combattere per rimanere magri” fornisce
un senso di forza ed efficienza personale, perché si è capaci di dominare impulsi profondi e radicati. La persona
si percepisce delusa e ad essere deludenti sono gli altri (attribuzione esterna).
Nei casi di bulimia ed obesità la persona si è arresa rispetto al rifiuto e all’abbandono dell’altro; il
fallimento è certo, quindi subisce passivamente e si lascia andare. La persona si percepisce essa stessa
deludente e l’attribuzione è quindi interna.
■ In base a quanto fin ora è stato esposto, risulta maggiormente comprensibile l’esperienza del Sé in
un’organizzazione di significato DAP: a livello tacito si va strutturando fin dalla fanciullezza un’esperienza
dell’/e» caratterizzata da un senso di vuoto e di incompetenza personale, insieme alla paura di essere
disconfermati dagli altri. A livello esplicito, il “riconoscersi” dipenderà dalle aspettative della figura di
riferimento ed il Me coinciderà con l’immagine di sé capace di soddisfare tali aspettative: il tendere alla
perfezione costituirà la modalità per garantirsi giudizi positivi, essendo presente il costante bisogno di
approvazione ed un’estrema sensibilità alle critiche. L’immagine di sé dipenderà dal bilanciamento di questi due
aspetti, dando luogo ad un senso indefinito e altalenante di emozioni e sensazioni. La sensibilità alle critiche,
che si riscontra in un’organizzazione “DAP”, supera di gran lunga quella che si può riscontrare in qualsiasi altra
5 Guidano afferma che tale delusione, vissuta nel periodo adolescenziale, può essere il frutto di una scoperta “attiva”
oppure essere “passivamente” subita, avvertita come un evento schiacciante; queste diverse modalità incidono sullo stile
attributivo del “DAP”. L’attribuzione sarà esterna se saranno gli altri ad essere percepiti come intrusivi ed ingannevoli:
questo comporterà un “impegno” nell’esibire continuamente comportamenti autosufficienti e controllati che permetteranno
alla persona di mantenere entro limiti accettabili il senso di vuoto e di incapacità. L’attribuzione sarà invece interna nel caso
in cui P “impegno” sarà rivolto a ridurre l’effetto devastante delle disconferme, vissute come inevitabili perché attribuite ad
aspetti del sé come l’aspetto corporeo, piuttosto che al senso di vuoto e di incapacità.

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organizzazione di significato. Essere esposti ad una critica, specialmente se derivante da una persona
significativa, innesca una percezione di sé talmente intollerabile che può arrivare, in molti casi, ad un senso di
disorientamento totale e di annullamento. La descrizione che fa una paziente di Guidano, commentando le sue
reazioni in seguito ad un giudizio negativo, è oltremodo esplicativa: «È un attimo di sgomento assoluto e di buio
totale, come essere nell’acqua e sprofondando sempre più giù, sapendo che l’unica possibilità di riemergere
consisterebbe nell’ottenere di colpo l’approvazione dell’altro, che invece sembra più improbabile al di là di ogni
possibile speranza» (Guidano, 1998, p. 189).
4.1. Il rapporto con Dio neiVorganizzazione di significato DAP
Sembra che nella cultura occidentale l’organizzazione di significato personale tipo disturbi alimentari
psicogeni (DAP) sia la più frequente: si assiste infatti, in un contesto in cui i ritmi sono sempre più accelerati,
alla diffusione, tra gli altri, di messaggi che sottolineano l’importanza della prestanza fisica, della magrezza
quale sinonimo di bellezza, insomma dell’importanza dell’immagine e dell’apparire piuttosto che dell’essere. La
persona deve sempre confermare la sua immagine; questo è il tema fondamentale del “DAP” la cui identità,
come si è osservato, si costruisce in base a criteri esterni.
Come si è visto, una persona con questo tema affettivo di fondo, riesce a percepirsi come la figura di
riferimento, in quel momento, la vuole: si comporta come agli altri piace e finisce per credere di essere in quel
modo; è il senso di vuoto ed il senso di incapacità nel riconoscere i propri stati interiori che la spinge a ricercare
nell’altro un senso stabile di sé. Avvertire questo senso di vaghezza interiore e di vuoto costituisce una fonte di
disagio e di smarrimento che può essere colmato soltanto aderendo a standard di perfezione esterni: se riesce ad
aderire alle aspettative altrui, riesce a mantenere una tollerabile percezione di sé, sempre accompagnata, però,
dal timore di non piacere o di non riuscire ad ottenere l’approvazione desiderata.
Su questo sfondo si delinea la tendenza al perfezionismo che ha lo scopo di massimizzare i giudizi positivi,
divenendo nel contempo “abile” ad evitare il confronto, esponendosi così il meno possibile, in quanto questo
comporterebbe il rischio di incorrere in qualche critica particolarmente diffìcile da sopportare in
un’organizzazione di questo tipo.
L’aspetto fisico diviene di fondamentale importanza: un elemento primario che consente di piacere o meno
agli altri; esso rappresenta tuttavia una maschera che copre un nucleo interiore fragile, in cui le emozioni più
sperimentate sono la vergogna, il senso di inadeguatezza e di inferiorità.
Il punto di vista degli altri, soprattutto se figure significative, viene percepito come se fosse universalmente
valido: quindi il mettersi alla prova costantemente, “specchiandosi” in loro per il bisogno di essere confermati e
con il timore di non piacere, rappresenta una delle caratteristiche principali di questa organizzazione. È facile
dunque, in un’organizzazione “DAP”, che gli altri vengano idealizzati, come se fossero giudici del valore
personale, al punto che la persona cercherà di accontentare tutti e di non dispiacere nessuno, di riuscire a fare
qualcosa per ottenere quell’approvazione e quell’ammirazione tanto desiderata.
Sulla base di queste considerazioni, è possibile che tali caratteristiche emergano anche nel percorso di
discernimento vocazionale e che il candidato alla vita consacrata con questo tipo di organizzazione possa
attribuire, all’interno della relazione con i formatori e del personale rapporto con Dio, significati coerenti con
essa.
Il vuoto che caratterizza la sua esperienza interiore tenderà ad essere colmato ugualmente, in questo
specifico ambito, con l’approvazione degli altri: per cui, anche nel rapporto con il formatore, il candidato
cercherà di esibire un’immagine “perfetta”, cogliendo quelle che sono le sue aspettative, con l’obiettivo di
ottenere la conferma sulla propria persona. Questo potrebbe tradursi, ad esempio, nel riempire la giornata di
impegni, magari all’interno della realtà parrocchiale, oppure nel dover accontentare tutte le sue richieste
“mostrandosi” così impeccabile ai suoi occhi. Proprio perché il formatore potrebbe rappresentare per il
candidato “DAP” una figura significativa, è possibile che in quest’ultimo emerga ancora di più il timore di
sperimentare una critica o un rifiuto da parte sua; per questo motivo egli potrebbe mettere in atto, all’interno
della relazione, solo quei comportamenti e quegli atteggiamenti che rimanderebbero all’altro un’immagine po-
sitiva e quindi degna di approvazione. Questo processo ha maggiori probabilità di verificarsi se il formatore ha
una personalità carismatica: questo “possedere una caratteristica speciale” può far sentire la persona con tale
organizzazione altrettanto speciale ed accrescere il bisogno di sentirsi ai suoi occhi “unico” e “indispensabile”.
Il candidato cercherà allora di evitare il più possibile di esporsi, di svelarsi, “lavorando incessantemente” per far
sì che quell’immagine non cambi mai, indossando quella “maschera” che però nasconde un nucleo emotivo
fragile. La dipendenza dal contesto esterno e quindi anche dalle opinioni e dalla stima del formatore, possono
produrre delle oscillazioni rispetto alla stima di sé a seconda dei giudizi che il candidato riceve; egli potrebbe
anche destabilizzarsi se non ottiene tali conferme, giungendo in alcuni casi a mettere in crisi la propria
vocazione.

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Allo stesso modo questa dinamica potrebbe ripetersi nel rapporto con Dio: il “DAP”, nel tentativo di
“apparire” ai Suoi occhi secondo la “Sua volontà”, cercherà di aderire in ogni modo a quel modello ideale che
ha ricavato dalle indicazioni e dai consigli della Chiesa, dei formatori e della Parola di Dio, sperimentando
tuttavia, nel suo continuo mettersi alla prova, di nuovo quelle sensazioni pervasive di inadeguatezza, di vuoto e
di “non senso” della propria identità, laddove non riuscisse nel suo intento.
Si può immaginare dunque la difficoltà che può sperimentare la persona “chiamata” all’inizio del percorso
di discernimento vocazionale, nel momento in cui avverte dì non riuscire a rispondere “subito” ed in modo “per-
fettamente” adeguato a quel modello che viene da lei stessa identificato come ideale per seguire Dio 6. Tale
evento può essere vissuto come discrepante, destabilizzandola e scoraggiandola nel continuare il proprio
percorso.
E comprensibile come il “DAP” possa incontrare altre difficoltà anche nel giungere a valutazioni e a
compiere delle scelte personali sulla base di criteri interni; questo aspetto può costituire un problema nell’ambito
specifico della vocazione. La paura di esporsi nella relazione e l’impegnarsi nel mostrare un’immagine
competente e valida, non gli permetterebbe, infatti, di confrontarsi con il formatore attraverso le parti più
autentiche di sé. Questo elemento, se non identificato e affrontato, potrebbe costituire un ostacolo per il
candidato nel percorrere quel cammino di crescita personale, indispensabile per rispondere alla chiamata in
maniera più libera.
Nel tentativo di colmare il senso di vaghezza e di vuoto interiore, la persona “DAP” può ricercare anche
delle emozioni forti che gli consentano di superare questo stato di disagio: il candidato alla vita consacrata con
tale organizzazione potrebbe allora ricercare tali sensazioni ed emozioni anche all’interno della relazione con
Dio. Questa dinamica potrebbe essere espressa, ad esempio, nella preghiera, canale privilegiato di “incontro”
con il Signore: tuttavia, attuata con tali modalità, essa potrebbe essere vissuta con difficoltà nel momento in cui
le emozioni ricercate non emergessero, determinando una delusione ed il riaffiorare della sensazione di vuoto e
di smarrimento.
Sulla base di queste osservazioni, una maggiore consapevolezza di sé consiste, nel “DAP”, nella
progressiva demarcazione dagli altri che corrisponde ad un aumento altrettanto progressivo del proprio senso di
individualità e autonomia. Differenziandosi dagli altri e non basandosi più su punti di riferimento esterni, la
persona con questa organizzazione può imparare a scegliere in base ai propri bisogni ed alle proprie necessità.
Anche in questo caso, come per le altre organizzazioni, questo processo diviene possibile accogliendo quei
momenti più diffìcili che determinano
Taffiorare del senso di vuoto, non fuggendo più da esso e tentando di colmarlo con giudizi positivi sulla propria
persona, ma cercando di affrontarlo, anche con un aiuto, e di prenderne gradualmente consapevolezza. Questo
processo, anche se doloroso, costituisce una preziosa opportunità di crescita: la graduale consapevolezza può
anche permettere alla persona di mettere in discussione la propria tendenza al perfezionismo e l’esperienza della
delusione può entrare a far parte dei propri schemi come una situazione possibile e, non per questo, intollerabile.
Nel non considerare più l’altro come qualcuno di cui si teme il giudizio e, allo stesso tempo, di cui non
poter far a meno per colmare il vuoto interiore, la persona, anche quella candidata ad una vita consacrata, può
permettersi di instaurare relazioni facendo emergere la propria identità, rapportandosi così in maniera più
autentica. Allo stesso modo anche la relazione con Dio può essere vissuta in maniera più libera e consapevole,
non “impegnandosi” strenuamente per apparire “perfetta” ai Suoi occhi, ma aumentando la propria capacità di
rispondere più liberamente alla Sua chiamata, vivendo così l’opportunità di sperimentare quelPAmore che
“guarda il cuore”.
L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore (7 Sam 16,7).
5. L’organizzazione di significato personale di tipo ossessivo
In un’organizzazione di questo tipo la percezione di sé è ambivalente e dicotomica e si svolge lungo confini
di significato antitetici che oscillano secondo una modalità “tutto o nulla”. L’identità così si struttura nella conti-
nua ricerca di una certezza assoluta che viene percepita immediatamente come una perdita di controllo,
altrettanto assoluta, in presenza di eventi critici.
L’elaborazione del senso di sé ambivalente va ricercata, anche in questo caso, nei modelli di attaccamento
familiare; il comportamento di uno dei due genitori è infatti caratterizzato da sentimenti ambivalenti e antitetici
nei confronti del bambino, in modo che lo stesso atteggiamento può essere vissuto dal piccolo come se ci fosse
un 50% di possibilità di essere odiato e un 50% di possibilità di essere amato.
Tale ambivalenza del genitore consiste spesso in un atteggiamento ostile e rifiutante, ma nascosto da una
facciata esterna di interesse e dedizione; inoltre egli non ha una tendenza emotiva naturale verso il figlio, ma

6 Per meglio comprendere questa dinamica si rimanda al concetto di “massimalità dap- pica” citato precedentemente
nelle caratteristiche di questa organizzazione di significato.

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cerca dì imporsela, sforzandosi di raggiungerla: ad esempio si sforza di giocare con lui, ma si annoia e, per di
più, ciò lo fa sentire inadeguato.
Un’altra caratteristica importante dì queste famiglie è la presenza di un contesto prettamente verbale ed
analitico dove non c’è alcuna comunicazione di tipo analogico, senza emozioni o fisicità. In un ambiente di
questo tipo, caratterizzato dall’assenza di calore affettivo e di tenerezza, il bambino cresce in un contesto per lui
irrazionale poiché non comprende le domande che gli vengono poste. Guidano, a questo proposito, fa un
esempio: se il bambino di tre anni rompe un vaso, il genitore, invece di riprenderlo dicendo “non correre” o “stai
attento”, pretende che il figlio ragioni e che pensi all’azione che ha commesso. Se lo mette quindi sulle
ginocchia e gli chiede spiegazioni sul perché abbia rotto il vaso, spiegazioni logiche che non sono alla portata
del livello di sviluppo cognitivo del figlio.
Coesistono, quindi, due aspetti contraddittori: l’attenzione e la dedizione rispetto all’educazione morale e
sociale del bambino e l’assenza di espressioni di affetto, tenerezza o altre manifestazioni emotive; questo tipo di
comportamento sembra essere il requisito essenziale nell’itinerario di sviluppo “ossessivo”.
Altra caratteristica importante nello stile familiare è la richiesta al bambino di un senso di responsabilità e
maturità assolutamente sproporzionato rispetto alla sua età, come se fosse un “adulto in miniatura”. Grande
importanza viene attribuita ai valori morali ed etici i quali, più che essere l’espressione di ideali sinceri, sono
utilizzati per ottenere un controllo sulle emozioni e sul comportamento: tutte le sensazioni che risultano
incompatibili con tali valori sono “proibite”, non nel senso che devono essere controllate, ma che non devono
essere “provate” (Guidano, 1998).
Fin dai primi stadi dello sviluppo, quindi, emergono dei modelli dicotomici di riconoscimento di sé,
accompagnati dalla strutturazione di schemi emozionali inconciliabili che sono regolati attraverso un processo di
mutua esclusione; in questo modo viene ridotta notevolmente la possibilità di arrivare ad una percezione di sé
unitaria e integrata. Ad esempio, mentre un bambino con organizzazione “depressiva” ha un senso di sé che si
basa su entrambe le polarità della rabbia e della disperazione, un bambino “ossessivo” raggiunge un senso di sé
attendibile basandosi, di volta in volta, su una delle due polarità reciprocamente antitetiche: o è amabile e
accettabile o non lo è affatto. Perché possa essere raggiunta la “certezza” di un’immagine di sé attendibile, tutte
le sensazioni contraddittorie e inconciliabili con questa immagine, che continuamente affioreranno, verranno
escluse: man mano il bambino diverrà “disattento” alla continua modulazione emotiva e l’unico strumento di
comprensione della realtà diverrà il pensiero e la capacità linguistica.
Questo “primato del verbale”, sviluppatosi nel contesto familiare sopra descritto, sarà l’elemento che
permetterà di mantenere un equilibrio, escludendo selettivamente l’affiorare alla coscienza di sensazioni,
immagini, emozioni ed impulsi discrepanti. Laddove affiorassero comunque, verrebbe messa in atto una serie di
azioni diversive finalizzate a distoglierlo da un’ulteriore elaborazione: pensieri ripetitivi (ruminazioni, dubbi,
ecc.), connessi ad azioni stereotipate (rituali), costituiranno la modalità prevalente di controllo.
Nel periodo adolescenziale, sempre a causa di schemi emozionali contrastanti, la percezione di sé oscillerà
tra la categoria “amabile e accettabile” e quella opposta. Con lo sviluppo delle competenze cognitive, le emo-
zioni saranno mantenute a livello tacito della conoscenza e saranno privilegiate le competenze linguistiche e del
pensiero. Sarà quindi presente lo sforzo continuo nel raggiungere un’identità unitaria: in ogni situazione il
ragazzo sarà in grado di ottenere una percezione di sé “assoluta” e quindi presumibilmente certa: in un caso tale
percezione sarà “tutta positiva”, mentre nell’altro “tutta negativa”.
Secondo questa modalità (procedura “tutto o nulla”), in una situazione problematica in corso, la persona è
in grado di mantenere la certezza, seppur negativa, della propria identità evitando che la sua autostima scenda,
spostando temporalmente le immagini antitetiche di sé, in modo che il Sé negativo “attuale” sia immediatamente
abbinato alla positività del Sé “potenziale”, percepito cioè realizzabile in un immediato futuro (Guidano, 1998).
Questa “attitudine ossessiva”, che si manifesta nel dicotomizzare in aspetti antitetici l’esperienza, è
riscontrabile anche nei rapporti interpersonali con le persone significative. Si pensi ad esempio come le
difficoltà nel dare e ricevere tenerezza e calore emotivo possono ostacolare un coinvolgimento emotivo
autentico. Anche l’esperienza interpersonale sarà, allo stesso modo, strutturata in aspetti tra loro opposti, in
modo da “essere sicuri” di raggiungere quelli positivi evitando quelli negativi. Il dubbio, il posticipare, l’essere
continuamente preoccupato per i dettagli saranno elementi che accompagneranno tutte le situazioni significative
della vita affettiva allo scopo di evitare possibili errori e di ricercare continuamente l’atteggiamento “giusto” per
affrontarle.
Un altro aspetto caratteristico di questa organizzazione di significato è la difficoltà ad avere una visione
d’insieme delle cose, in quanto questa è data dall’immaginazione e non dal pensiero analitico. Tale caratteristica
di soffermarsi eccessivamente sui dettagli, denominata “sottoinclusione”, impedisce di distinguere ciò che è
rilevante da ciò che non lo è e può rappresentare un problema in tutte quelle situazioni in cui è necessario

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prendere una decisione. A sua volta, la difficoltà di raggiungere una decisione costituisce una condizione di
estrema vulnerabilità, perché in tale ambito è molto più probabile che affiorino sensazioni ambivalenti, con la
conseguente sensazione di incontrollabilità e incompetenza. Di fronte ad oscillazioni minime che riescano ad
eludere il “controllo”, è possibile una reazione spropositata ed eccesiva ed il percepirsi in balia delle proprie
emozioni può far affiorare delle sensazioni di vergogna e di indegnità personale.
Alla luce di quanto è stato esposto, si può meglio comprendere Torganizzazione “ossessiva” rispetto alle
due dimensioni dell’/o e del Me. L’esperienza immediata (Io) che si va strutturando nel corso dello sviluppo, in
seguito alla percezione ambivalente dei genitori, è caratterizzata dal “sentirsi” per opposti che si escludono:
essere amato o non amato, essere apprezzato o disprezzato, ecc. Tale ambivalenza emotiva viene affrontata nel
continuo sforzo di raggiungere un’unità ed una coerenza attraverso abilità esclusivamente cognitive. L’attività
del Me è quindi volta ad escludere dalla coscienza l’attivazione emotiva che può generare il dubbio di essere
una persona negativa, costruendo un’immagine cosciente di sé centrata sulla polarità opposta: per fare questo, lo
sforzo di mettere insieme tutte le prove che confermino tale immagine è continuo.
5.1. Il rapporto con Dio nell'organizzazione di significato di tipo ossessivo
Una modalità “ossessiva” di attribuire significati alla propria esperienza si può riscontrare anche nei
candidati alla vita consacrata con questo tipo di organizzazione: la profonda insicurezza e la continua incertezza,
come anche il sentire se stessi e la realtà circostante per “opposti”, secondo la “legge del tutto o nulla”, sono
aspetti che nell’organizzazione “ossessiva” potrebbero influire sulle scelte che, inevitabilmente, si presentano
nel percorso di discernimento vocazionale e costituire la base per la costruzione di significati anche all’interno
della relazione con Dio.
Si è già accennato al fatto che un aspetto tipico di questa organizzazione è la continua ricerca di una
certezza, la quale ha lo scopo di costruire un’immagine di sé coerente ed unitaria sul versante positivo. Il
controllo assoluto esercitato sulle proprie emozioni avviene tramite la loro spiegazione logica, escludendo così
tutte quelle sensazioni contraddittorie che potrebbero mettere in discussione l’immagine “perfetta” che si vuole
mantenere. Solo attraverso questo meccanismo la persona con tale organizzazione può “difendersi” da
quell’intollerabile senso di ambivalenza che altrimenti la pervaderebbe, facendo affiorare la sensazione di
perdita di controllo sulla realtà e su se stessa. Esso rappresenta, fin dall’infanzia, un modo per comprendersi e
per comprendere gli altri attraverso categorie logiche e razionali, ma per questo rigide e limitate, proprio perché
prive di quegli aspetti emotivi che rendono l’esperienza variabile e multiforme e, a volte, anche contraddittoria;
un’esperienza che, per una coerenza “ossessiva”, non è tollerabile.
Nella ricerca costante di una certezza, ecco che allora il dubbio diviene una modalità che accompagna tutte
le situazioni, in particolare tutti quegli eventi significativi nei quali viene ricercato il comportamento “giusto”
per evitare di commettere degli errori: la vocazione, per un candidato alla vita consacrata con organizzazione
“ossessiva”, può anch’essa rappresentare un ambito in cui incertezze e dubbi possono essere vissuti,
maggiormente rispetto alle altre organizzazioni di significato, come una vera e propria “battaglia interiore”,
proprio perché, come altri eventi significativi nella vita di ogni uomo, può suscitare emozioni e sentimenti
contraddittori.
All’interno di un percorso di discernimento vocazionale, inevitabilmente, possono sorgere dubbi che però,
nel candidato “ossessivo”, potrebbero rimettere tutto in discussione; ad esempio, potrebbe sorgere in lui il
bisogno di avere la certezza che in futuro, anche dopo aver preso i voti, sarà sempre in grado di seguire Dio
nella scelta a cui si sente chiamato, senza vacillare mai. Se non riuscisse, attraverso questa anticipazione
mentale, a risolvere ed a dissipare tali dubbi, potrebbe anche decidere di non intraprendere più questo cammino
perché si sentirebbe un “irresponsabile”.
E interessante sottolineare che questa attenzione estenuante nel ricercare il comportamento “giusto”,
“perfetto”, è diverso da quello che ritroviamo anche nell’organizzazione “DAP”: mentre in quest’ultima, infatti,
il perfezionismo è volto ad ottenere un’approvazione dagli altri (come anche da Dio), nel caso della persona che
ha intenzione di fare una scelta di vita consacrata con organizzazione “ossessiva”, esso risponde ad un’esigenza
interna di certezza, che mitiga quel senso di incontrollabilità che può sperimentare nelle diverse situazioni. L’
“altro”, allora, non è qualcuno a cui mostrare la perfezione per essere accettato ed amato ma, nel caso
dell’“ossessivo”, una sorta di metro di giudizio sulla propria capacità di mantenere rigorosamente il controllo su
se stesso e la realtà.
Si è più volte accennato al fatto che l’esperienza emotiva nell’ “ossessivo” viene costantemente tenuta sotto
controllo per evitare di entrare a contatto con sensazioni che potrebbero mettere in discussione l’immagine di
perfezione che ha bisogno di mantenere. Le emozioni non sono esperite, provate, ma spiegate, giustificate e
passano continuamente al vaglio della ragione e della logica: il rimandare, il “cercare di capire meglio”
rappresenta un modo per prendere le distanze da esse, per non esserne sopraffatto; tutto deve essere anticipato,

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calcolato per non avere sorprese. Il dubbio è una modalità “cognitiva” (i pensieri, il porsi continuamente
domande se una certa cosa è giusta o meno, ecc.) che permette di non essere invasi dalla paura e dal senso di
perdita di controllo. In questo senso è possibile ipotizzare che anche il rapporto stesso con Dio e tutta
l’esperienza che ne consegue saranno sempre “filtrati” dalla razionalità; sarà difficile per una persona che
intraprende la strada della vita consacrata e che abbia un’organizzazione di questo tipo, la possibilità di vivere
pienamente questo rapporto. Difficile sarà per lui lasciarsi andare, lasciarsi coinvolgere, forse anche in certi
momenti “affidarsi”, perché questo potrebbe essere vissuto come un evento a cui viene attribuito il significato di
non avere più il controllo.
È possibile allora immaginare che nel percorso di crescita vocazionale, a cui ogni candidato è chiamato, ma
anche successivamente, una delle difficoltà potrebbe essere rappresentata dall’escludere dalla coscienza
qualsiasi modulazione emotivo-immaginativa nel continuo rapporto con Dio riducendolo, di fatto, ad una
dinamica comprensibile esclusivamente alla luce della ragione.
Guidare il candidato “ossessivo” nel percorso di crescita vocazionale, significherà per il formatore porre
attenzione agli aspetti fin qui evidenziati che, inevitabilmente, emergeranno anche nel rapporto che si verrà a
creare con quest’ultimo lungo questo percorso.
Per la persona con organizzazione “ossessiva”, ogni attivazione emotiva nel corso dell’esperienza, anche
minima, viene avvertita in modo intenso ed esagerato, portando a delle reazioni anche eccessive che suscitano
sensazioni di incontrollabilità insieme ad un senso di vergogna e indegnità personale. Tuttavia sono proprio
questi momenti critici, in cui le emozioni sono avvertite come incontrollabili, che costituiscono una preziosa
occasione per poter accrescere la comprensione di sé e della propria esperienza. Allentare la ricerca costante
della certezza, dell’atteggiamento “giusto” in ogni aspetto della propria esistenza, significa abbandonare, a poco
a poco, la ricerca della perfezione, offrendo a se stessi Topportunità di aprirsi all’accettazione e alla
contemplazione del proprio mistero, spesso incomprensibile e inspiegabile.
Nella fase di discernimento vocazionale, intraprendere un genuino percorso di crescita personale significa,
per la persona con organizzazione “ossessiva”, scoprire gradualmente che, nella propria vita, il senso di
un’identità “certa” non può basarsi esclusivamente sul pensiero, quanto piuttosto nel riconoscere ed accettare
progressivamente la ricchezza e la varietà delle proprie emozioni, così uniche e speciali, anche nei loro aspetti di
debolezza e irrazionalità. Si può, in questa direzione, intraprendere la strada di una comprensione di se stessi e
della realtà sempre più articolata, costituita da diverse sfaccettature e, per questo, multiforme e spesso anche
incerta.
Aumentando così la propria flessibilità, la persona può crescere nella capacità di comprendere e accettare
anche le ambiguità che spesso si incontrano nella propria storia, senza che per questo venga completamente
messo in crisi il bisogno di perfezione; anche nella relazione con Dio essa potrà “abbandonarsi”, senza dover
tenere sotto controllo la dimensione emotiva, favorendo così l’instaurazione di un rapporto in cui non è
importante essere perfetto, aderendo a norme o regole assolute, ma donare tutto se stesso, anche le proprie
fragilità e debolezze, sperimentando così in modo più autentico quell’Amore che, ancora di più rispetto ad esse,
manifesta tenerezza e misericordia.
(...) vediamo come l’incontro autentico con Dio porti l’uomo a riconoscere la propria povertà e inadeguatezza, il
proprio limite e il proprio peccato. Ma, nonostante questa fragilità, il Signore, ricco di misericordia e di perdono,
trasforma la vita dell’uomo e lo chiama a seguirlo. L’umiltà testimoniata da Isaia, da Pietro e da Paolo invita
quanti hanno ricevuto il dono della vocazione divina a non concentrarsi sui propri limiti, ma a tenere lo sguardo
fisso sul Signore e sulla sua sorprendente misericordia, per convertire il cuore, e continuare, con gioia, a
“lasciare tutto” per Lui. Egli, infatti, non guarda ciò che è importante per l’uomo (Benedetto XVI, Angelus
Piazza San Pietro, domenica, 7 febbraio 2010).
6. Una griglia ad uso dei formatori per un’ipotesi di organizzazione di
significato personale
In questo capitolo sono state messe in evidenza le caratteristiche di ogni organizzazione di significato
analizzando, successivamente, come ognuna di esse possa influire anche nella specifica esperienza del rappòrto
personale con Dio.
Quanto è stato illustrato può risultare un utile criterio di riferimento per il formatore che si accosta al
candidato nel percorso di crescita vocazionale.
Qui di seguito verrà presentata un’intervista semi-strutturata che rappresenta un ulteriore strumento di aiuto
per il formatore, per orientarsi nell’individuazione dell’organizzazione di significato del candidato. Prima di
entrare nello specifico delle caratteristiche dell’intervista sono importanti alcune considerazioni preliminari.
Quest’ultima non è da intendersi come uno dei diversi test psicologici per la valutazione della personalità
dell’individuo né può essere utilizzata per fini diagnostici o terapeutici. Al contrario, deve considerarsi come

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una diversa modalità di raccolta di informazioni supplementari agli incontri svolti con il candidato e quindi da
utilizzarsi esclusivamente ai fini della crescita vocazionale dello stesso.
Proprio per questo viene definita griglia “orientativa” in quanto, attraverso di essa, non si identifica sic et
simpliciter una specifica organizzazione di significato tra quelle descritte. Dalla sua somministrazione e
correzione
emerge dunque vua* ipotesi che sarà verificata in itinere nei colloqui successivi.
L’intervista, che il candidato andrà a compilare autonomamente, dopo una breve spiegazione da parte del
formatore, si presenta sotto forma di griglia costituita da 20 item7. Ad ognuno di essi la persona attribuirà un
punteggio su una scala da 1 (“sono totalmente in disaccordo”) a 5 (“sono pienamente d’accordo”). Ogni item è
descrittivo di una specifica organizzazione di significato8: sono presenti cinque item per ogni organizzazione.
Più il punteggio sarà alto, maggiori saranno le probabilità che il candidato possa essere inquadrato
nell’organizzazione di significato descritta dall’item. L’unica eccezione riguarda l’item 17 che deve essere
valutato in senso “contrario” rispetto agli altri: per cui, nel corso della correzione, i punteggi 1 verranno
ricodificati come 5, i punteggi 2 come 4 e così via. Ad esempio, se il soggetto ha risposto con un punteggio 4,
quest’ultimo sarà valutato nella somma totale come punteggio 2.
Una volta terminata l‘intervista, il formatore, che si accingerà all’interpretazione della stessa, potrà
utilizzare la griglia di correzione riportata in Appendice.
In quest’ultima viene illustrata l’organizzazione corrispondente ad ogni item: ad esempio, l’item 1 è
descrittivo dell’organizzazione “depressiva”, il 2 di quella “fobica” e così via.
Utilizzando questa legenda, sommerà i punteggi relativi ad ogni organizzazione ed alla fine otterrà un
punteggio totale per ognuna di esse. Ad esempio DEP (“depressivo”) = 24, FOB (“fobico”) = 10, “DAP” =15,
OSS (“ossessivo”) = 8. In questo caso la persona ha ottenuto un punteggio più alto nell’organizzazione
“depressiva”, per cui si potrà ipotizzare per il candidato un’organizzazione di significato personale di questo
tipo:
Tale ipotesi potrà poi essere verificata ed arricchita da ulteriori informazioni che emergeranno nel corso dei
colloqui.
3. Consigli evangelici: il vissuto di obbedienza, castità e povertà
nelle organizzazioni di significato personale
1. Obbedienza, castità e povertà: un dono “liberante”
Nell5introdurre il tema dei consigli evangelici, può essere utile fare riferimento airimportanza che Goya
attribuisce, nell5ambito del processo formativo, ad una pedagogia positiva che possa facilitare l’assimilazione
di tali valori e che aiuti il consacrato ad acquisire quelle basi necessarie per superare eventuali resistenze (Goya,
2000). Nello specifico, la formazione al vissuto dei voti sarà incentrata sull5esposizione di quegli elementi teolo-
gici e psicologici che si riterranno indispensabili per la loro comprensione e per la formulazione di obiettivi
mirati a farli sentire come un «dono della Trinità santissima» ( Vita Consacrata, n. 20).
Una formazione di questo tipo eviterà al candidato una visione riduttiva dei consigli evangelici: spesso,
infatti, questi possono essere vissuti esclusivamente come espressione di un dono totale di se stessi a Cristo. Una
concezione di questo tipo, seppur non errata, proprio perché i voti rappresentano una risposta all’amore di Dio,
tralascia tuttavia un aspetto fondamentale nella loro comprensione e cioè che essi stessi sono un dono di Dio, un
“mezzo veloce” che Egli offre per raggiungere pienamente Cristo (Goya, 2000).
Incentrare, allora, la formazione su questo significato, permetterà al candidato l’interiorizzazione ed il
vissuto dei voti non in modo limitativo, come se questi fossero delle norme di comportamento: al contrario egli
potrà sperimentarli come una luce, un faro che orienta lungo il sentiero che conduce all’incontro con l’Amato.
In virtù di quanto è stato affermato è comprensibile, come sottolinea Goya (2000), come i tre consigli
evangelici possano essere considerati come strumenti che Dio dona all’uomo perché, attraverso di essi, possa
liberare il suo cuore dalla schiavitù dei tre grandi impulsi umani: l’impulso al possedere, al potere e al piacere
che coincidono con le tre concupiscenze

7 Cfr. Appendice A.
8 Cfr. Tab.l, Appendice A.

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ricordate da S. Giovanni: «la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della
vita» (IGv 2,16).
Il formatore che guiderà il candidato all5assimilazione di tale significato dei voti, lo aiuterà nel contempo a
viverli non esclusivamente come sua iniziativa, ma come iniziativa di Dio che fa il dono (Pigna, 2000) e lo
compie attraverso la consacrazione; un dono che in sé ha un valore liberante perché attraverso di esso l’uomo
può essere liberato dalla schiavitù delle passioni (Goya, 2008, pp. 103-106).
2. Il voto di obbedienza: una scelta libera e liberatrice
Affrontare la tematica dell’obbedienza, consiglio evangelico che, insieme a quelli di povertà e castità,
permette alla persona consacrata la sua piena realizzazione nella sequela Christi, comporta necessariamente
alcune riflessioni preliminari.
È importante, infatti, considerare il contesto socioculturale attuale in cui tale virtù evangelica si inserisce ed
il significato che questa potrebbe assumere al suo interno.
Negli ultimi decenni si è diffusa sempre più nella nostra società una cultura narcisistica, incentrata
sull’esaltazione dell’individualità e dell’autoaffermazione (Cantelmi, Laselva, 2010). Attraverso i mass media e
la pubblicità si assiste spesso all’esibizione di comportamenti egocentrici e competitivi, riflesso di una realtà
sociale che muta velocemente e vorticosamente, in cui le relazioni si fanno man mano più superficiali ed
instabili. Valori come l’amore oblativo e la fedeltà sembrano non trovare più spazio, soppiantati dalla ricerca
della libertà individuale, della realizzazione personale e del raggiungimento del successo ad ogni costo. L’uomo
appare ripiegato su se stesso, nell’affannosa ricerca dell’appagamento dei propri bisogni, mentre Valtro diviene
fonte di conferma della propria “immagine grandiosa” che cerca di costruire con fatica.
In un contesto come quello sopra descritto, la libertà sembra essere intesa come un “fare ciò che mi piace”,
come un pensare a se stessi senza preoccuparsi dell’altro. Essa viene concepita come dipendente dalle circo-
stanze, non come un vissuto interiore, come se si potesse raggiungere la “vera libertà” eliminando norme,
obblighi e limitazioni di vario genere nel conseguimento di un’indipendenza assoluta (Lombard Garcia, 2008).
In quest’ottica, libertà e obbedienza possono apparire come due realtà contrapposte che si escludono a
vicenda, in una dinamica del tipo “o si è liberi o si è obbedienti”, per cui un valore come quello dell’obbedienza
può rappresentare per la persona una privazione della propria libertà (Goya, 2008).
Questa apparente contraddizione è inserita in un’antropologia centrata sull’io, rafforzata dalla cultura
narcisistica sopra descritta, secondo cui soltanto l’autoaffermazione conduce alla felicità.
Per uscire da tale impasse, allora, è necessario leggere l’obbedienza alla luce di un’antropologia aperta alla
trascendenza (Cantelmi, Laselva, Paluz- zi, 2004), guardando la persona come creatura di Dio, creata per amore
da Lui e sulla quale c’è un progetto di vita e di salvezza. Ecco che il consiglio evangelico assume allora un
significato completamente nuovo, perché vissuto aH’intemo di una relazione d’amore in cui il chiamato ricerca
attivamente la volontà di Colui che lo ama.
Per il chiamato, quindi, vivere l’obbedienza all’interno di un’antropologia cristiana significa fare
l’esperienza di essere stato creato libero e di trovarsi in un rapporto nel quale Dio desidera da lui una risposta
che sia altrettanto libera, consapevole e responsabile e non, al contrario, vissuta come una costrizione che deve
essere “sopportata passivamente”. Il chiamato, dunque, può sperimentare un amore che chiede di essere accolto
e ricambiato liberamente, che non impone nulla ma, anzi, perdona ogni infedeltà. Così, come in una relazione
d’amore, tale rapporto spinge ad uscire da se stessi e ad accrescere sempre più la fiducia nell’Amato, favorendo
così la possibilità di un pieno abbandono nelle Sue mani.
Ecco come i due aspetti, che prima potevano sembrare contrastanti, si integrano in un nuovo significato di
un’obbedienza libera e liberatrice: in essa può nascere un amore a Dio che non rende schiavi, ma conduce la
persona a maturare ed a realizzarsi nell’assomigliare sempre più al suo Signore. Come si legge nel documento
Perfectae Caritatis (1965, n. 14b): «(...) l’obbedienza religiosa, lungi dal diminuire la dignità della persona
umana, la fa pervenire al suo pieno sviluppo, avendo accresciuta la libertà dei figli di Dio».
L’obbedienza non è più vissuta, quindi, come un “subire passivamente”, ma come un “vivere attivamente” e
con iniziativa, qualcosa che ormai appartiene all’individuo al punto che quasi “sgorga” da lui. Nella relazione
d’amore con Dio la volontà dell’Altro diventa la propria: è l’amore infatti che rende questo possibile. Come
afferma Benedetto XVI: «(...) La storia d’amore tra Dio e l’uomo consiste appunto nel fatto che questa
comunione di volontà cresce in comunione di pensiero e di sentimento e, così, il nostro volere e la volontà di
Dio coincidono sempre di più: la volontà di Dio non è più per me una volontà estranea, che i comandamenti mi
impongono dall’esterno, ma è la mia stessa volontà, in base all’esperienza che, di fatto, Dio è più intimo a me di
quanto lo sia io stesso. Allora cresce l’abbandono in Dio e Dio diventa la nostra gioia» {Deus caritas est, n.
17).
Parlando di obbedienza, non è possibile tralasciare un aspetto che rappresenta un’ulteriore dimensione della
stessa realtà evangelica che riguarda l’autorità (Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di
Vita Apostolica, 2008). Se è vero che in questa relazione d’amore con Dio il chiamato ricerca la Sua volontà,
egli compie tale consiglio evangelico obbedendo anche a quelle figure che il Signore sceglie per guidarlo in
questo processo.
Come viene ricordato nel documento sul servizio dell’autorità e dell’obbedienza, Dio manifesta la sua
volontà non solo attraverso lo Spirito Santo, ma anche «attraverso molteplici mediazioni esteriori»
(Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, 2008, n. 15). Seguire Gesù
“obbediente” significa, allora, riconoscere come nella Sua vita Egli abbia accolto ed interpretato la volontà del
Padre anche attraverso mediazioni umane. Tali mediazioni sono rappresentate, ad esempio, dalle leggi che
regolano la vita comunitaria e «dalle disposizioni di coloro che sono chiamati a guidarla» (Congregazione per
gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, 2008, n. 9). In questo senso il chiamato non
obbedisce alla persona del superiore o della superiora in se stessa, magari in base alla sua preparazione,
esperienza o alla sua fede. Egli obbedisce in quanto essi: «rappresentano legittimamente Gesù Cristo che ha dato
loro - anche in spirito di obbedienza - la responsabilità di rendere valido ed efficace» tale consiglio evangelico
(Lombard Garda, 2008, p. 36). Nell’obbedire ai superiori, pertanto, egli crede che essi rappresentino la volontà
di Dio: «Chi ascolta voi ascolta me» {Le 10,16).
2.1. Aiutare a vivere l’obbedienza
È comprensibile come non ci possa essere una vera obbedienza se non c’è una vera conoscenza dell’amore
di Dio per l’uomo e per i suoi limiti. Allo stesso modo è necessario per il chiamato essere guidato alla conoscen-
za ed all’accettazione di sé ed essere aiutato nell’approfondimento e nell’integrazione delle proprie fragilità. Il
voto, allora, potrà essere vissuto con un certo grado di maturità, con la capacità di dominare se stessi e di dirige-
re il proprio intelletto, la propria volontà e le proprie energie nella realizzazione del desiderio di assomigliare
sempre più a Cristo “obbediente fino alla morte”.
Un ruolo essenziale di guida in questo senso è rappresentato dal formatore; tuttavia, per svolgere il delicato
compito sopra descritto, sarà per lui necessario aver già compiuto in precedenza un lavoro su se stesso, per rico-
noscere e gestire in modo adeguato il proprio vissuto interiore, evitando così di essere da ostacolo
nell’accompagnamento del candidato.

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0
Per aiutare quest’ultimo a vivere l'obbedienza alla luce di un’antropologia aperta alla trascendenza, sarà
allora di fondamentale importanza per il formatore stesso aver preso coscienza, nel suo cammino spirituale,
dell’amore che Dio ha per lui ed aver fatta propria l’esperienza liberatrice di fare la volontà del Padre.
Solo così il “formatore obbediente”, cioè quello che sarà in un continuo ascolto di Dio e che avrà messo a
disposizione tutto il suo essere per se- guirLo, potrà guidare il candidato ad intraprendere il sentiero dell’ob-
bedienza, a volte piano, altre volte tortuoso, ed a comprenderne la vera essenza: «non la natura o la materia del
comando ma offrire la propria volontà a Dio riconosciuto come creatore e redentore» (Lombard Garda, 2008, p.
37).
Alla luce di queste considerazioni, sembra chiaro quanto il vissuto del consiglio evangelico
dell’obbedienza, come anche quello di povertà e di castità, sia intimamente connesso con l’esperienza che il
consacrato ha del proprio rapporto con Dio e, quindi, con il significato che a quest’ultimo viene attribuito. Come
è stato affermato precedentemente1, infatti, anche a tale esperienza può essere attribuito un significato secondo
le “regole” proprie di ogni organizzazione.
Crescere nella consapevolezza di sé ed essere guidato nel riconoscimento del proprio modo di attribuire
significati alla propria esperienza, può rappresentare per il chiamato l’opportunità di maturare nella relazione
con Dio.
Nei successivi paragrafi, pertanto, si cercherà di descrivere in che modo tali consigli potranno essere vissuti
nelle diverse organizzazioni di significato, partendo sempre dal presupposto che, in ognuna di esse, tale
esperienza sarà influenzata dai processi taciti di conoscenza propri di ogni organizzazione.
2.2. Obbedienza “depressiva”: io sforzo di amare
Come è stato osservato precedentemente, analizzando il rapporto con Dio nell’organizzazione “depressiva”,
un tema centrale è rappresentato dalla pervasiva sensazione di “non essere amabile”. È comprensibile allora
quanto, “agganciato” a questa sensazione profonda, Dio possa essere più facilmente vissuto come Qualcuno nei
confronti del quale l’amore va “conquistato”. Questo perché la gratuità del Suo amore viene vissuta, a livello
tacito, come incoerente con la percezione che il candidato “depressivo” ha di se stesso e cioè di “non amabile”.
Tale significato personale può chiaramente influire sulla modalità di esperire il voto dell’obbedienza nella
vita consacrata. In un significato “depressivo” infatti, esso sarà con molta probabilità vissuto come uno sforzo
continuo, nel tentativo di sentirsi meritevole dell’amore di Dio e dei superiori, in una logica (tacita) del tipo:
“più mi sforzerò di obbedire, più Dio mi amerà”. Questo impegno, volto al superamento della propria intrinseca
inaccettabilità (Arciera, 2002, p. 121), diviene una sorta di “cartina di tornasole” su cui si basa l’equilibrio
interno dell’organizzazione “depressiva”. Fin quando il chiamato avrà la sensazione che i propri sforzi nel
compiere la professione del voto corrispondono agli esiti desiderati, egli avrà la “conferma” che “sta lottando”
per migliorarsi; d’altro canto, sempre a causa del profondo senso di “non amabilità”, qualsiasi evento, percepito
come un fallimento rispetto ai propri sforzi di obbedire, potrà essere vissuto con un senso di inadeguatezza
(attribuzione interna) e con la sensazione di essere esclusi da questo amore.
Il senso di solitudine, conseguente al riaffiorare di questo tema specifico del “depressivo”, può portare,
come già si è descritto in precedenza, al “fare affidamento solo sulle proprie forze” 2, con il rischio, tuttavia, di
chiudersi in un isolamento emotivo, rafforzato dalla percezione di non poter avere nessun tipo di consolazione e
di aiuto. Il rischio consiste nel fatto che, in tale isolamento, caratterizzato da una «gestione solitaria della propria
tristezza e acredine e da uno sforzo silenzioso per migliorarsi» (Arciera, 2002, p. 119), il chiamato si priva
dell’esperienza di essere guidato nella comprensione di sé e di come quel fallimento, da lui percepito come un
dolore insopportabile, possa rappresentare, alla luce di una visione antropologica aperta alla trascendenza, un
nuovo significato da inserire nella propria esperienza.
Questa non è un’obbedienza libera, attiva, interiorizzata nel suo significato profondo, perché non inserita
alTintemo di una relazione d’amore caratterizzata da un rapporto di mutua fiducia.
L’esperienza relazionale che il “depressivo” ha interiorizzato fin dalla sua infanzia è, infatti, quella di un
rapporto in cui ha appreso progressivamente a fare a meno della presenza di chi si prendeva cura di lui.
Conseguentemente, ha costruito un modello mentale di sé come di una persona non degna di affetto ed un
modello mentale dell’altro come “rifiutante” ed “inaccessibile”. Si comprende, allora, quanto l’esperienza
dell’affidarsi sia discrepante con tale vissuto interiorizzato e come questo possa ripercuotersi anche
nell’obbedire con fiducia. La persona “depressiva” potrà pertanto vivere con maggiori difficoltà ciò che gli
viene richiesto come un atto d’amore nei suoi confronti, finalizzato al suo bene.

1
Cfr. cap. II, § 1.

6
1
L’obbedienza, quindi, sarà più facilmente vissuta come un atto servile, sopportata con fatica e non come
una dipendenza filiale nei confronti di un Padre amorevole che lo conosce nell’Ìntimo e che lo ama così com’è.
Da qui l’importanza, per il chiamato con un’organizzazione “depressiva”, di approfondire la conoscenza di
sé e di Dio per giungere ad un’obbedienza più consapevole e responsabile; nello specifico, il candidato “de-
pressivo” deve essere aiutato a riconoscere come propri i temi di “perdita”, “indifferenza” e “rifiuto” e di come
questi, proprio perché rappresentano il suo significato personale, possono contribuire alla costruzione di un
significato di Dio “rifiutante” e “abbandonico”. Maggiore è tale conoscenza, di sé e di Dio, più matura sarà
l’obbedienza.
2.3. Obbedienza “fobica”: il vincolo delia paura
Nel cammino di crescita vocazionale, lo sfondo emotivo proprio della modalità “fobica” di attribuire
significati all’esperienza, può influire, anche in questo caso, nella professione del voto dell’obbedienza.
Come si è visto, la limitazione indiretta dei tentativi di rendersi autonomo nell’esplorare l’ambiente fin
dall’infanzia, costituisce l’esperienza che aiuta a comprendere l’evoluzione del significato “fobico” e che ha
favorito lo strutturarsi della percezione di un mondo esterno “pericoloso”. Tale esperienza, vissuta alTintemo
della relazione con i genitori, ha determinato l’evolversi di un’attribuzione di significato in termini di perdita di
protezione, da un lato, e di perdita dì libertà, dall’altro.
Nelle sue diverse forme (trasferimenti, indicazioni o correzioni dei superiori, incarichi da portare a termine,
norme dell’istituto, ecc.), l’obbedienza, in tale organizzazione, può essere più facilmente percepita come una
limitazione del proprio bisogno di libertà. Infatti, simili situazioni sono proprio quelle che, con molta più
probabilità, possono mettere in crisi quel delicato equilibrio tra i due poli sopra descritti su cui la persona
“fobica” esercita un controllo, generando così uno stato di ansia ed un senso di costrizione.
D’altro canto, la paura derivante dalla sensazione di trovarsi a vivere aH’interno di una realtà “minacciosa”,
può rappresentare un elemento importante nel comprendere le motivazioni che spingono il “fobico”, in alcune
fasi del proprio cammino spirituale, a cercare di assicurarsi la “protezione”, non solo di Dio3, ma anche di figure
che in quel momento possono essere percepite come un sostegno. In particolare, nel contesto dell’obbedienza,
tali figure possono essere individuate nei consacrati che rivestono un ruolo di autorità in quanto “rappresentanti
di Dio”.
E comprensibile come in questo caso la professione del voto sia connotata da caratteristiche di dipendenza e
immaturità che mettono il candidato o il consacrato in una posizione di richiesta di rassicurazione e supporto a
fronte di ogni minima difficoltà. L’obbedienza, in questo caso, diviene infantile, gregaria, dove il suddito, per
motivi di immaturità di varia natura (bisogno di protezione affettiva, di accoglienza, di sicurezza, ecc.), rimane
in un atteggiamento troppo dipendente dal superiore (Goya, 2000).
In entrambi i casi, obbedienza esperita come perdita di libertà o come bisogno di protezione, si delinea un
vissuto del voto che non viene interiorizzato nella sua reale essenza. Infatti, essa è espressione di libertà interiore
(Lombard Garda, 2008), in quanto la persona “obbediente” esercita la propria libertà di scegliere di portare
avanti ciò che le viene chiesto come volontà del Padre, nel cammino di realizzazione personale tendente a
seguire e ad assomigliare sempre più a Cristo.
È quindi nella “scelta” continua ad aderire a tale volontà che si realizza la libertà dell’individuo: non più
determinata da vincoli o limitazioni esterne, ma esercitata responsabilmente e attivamente sulla base di un moto
interiore. Come afferma Giovanni Paolo II, l’obbedienza: «(...) è una particolare espressione della libertà
interiore, così come definitiva espressione della libertà di Cristo fu la sua obbedienza “fino alla morte”: “Io offro
la mia via per riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso”» {Redemptio- nìsDonum,
n. 13).
Anche in questo caso, è di fondamentale importanza per il formatore guidare il consacrato/chiamato
nell’approfondimento della conoscenza di Dio e dei suoi vissuti rispetto al voto. Tale processo può evitare i
rischi di un vissuto di Dio come autorità che opprime e limita la propria libertà o, ancora, di un Dio
“abbandonico” che improvvisamente lascia soli nel “sentiero della vita”.
Il formatore, allora, può avere un molo importante nel guidare il chiamato nell’entrare a contatto con le sue
paure alla luce della fede in Cristo, scoprendole non più come “fragilità”, ma come crepe in un “vaso di creta” in
cui il Signore ha scelto di manifestare la Sua Resurrezione. Tale processo può condurre il “fobico” ad un nuovo
significato su di sé e sulla sua relazione con Dio, libera e liberatrice.
2.4. Obbedienza “DAP”: l'immagine impeccabile
Anche il tema affettivo di fondo dell’organizzazione “DAP” può influire nell’attribuzione di significati al
vissuto del voto dell’obbedienza.
L’aspetto su cui è importante soffermarsi riguarda, in questo caso, il senso di vaghezza interiore e di vuoto
che determina un’incapacità nel riconoscere i propri stati emotivi interni e spinge l’individuo ad aderire a stan-

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Cfr. cap. II, § 3.1.

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2
dard di perfezione esterni nel tentativo di colmarlo. Una percezione stabile di sé, pertanto, può essere mantenuta
fino a quando la persona riesce ad aderire alle aspettative altrui, evitando il più possibile di esporsi per il timore
di incorrere in una qualsivoglia critica o disapprovazione che destabilizzerebbe l’immagine perfetta che cerca di
mostrare.
Nell’ambito della sequela Christi, attraverso il voto dell’obbedienza, è possibile che la persona con
un’organizzazione di questo tipo tenda, più facilmente delle altre, ad avere difficoltà nel vivere le indicazioni
che riceve in modo attivo e con un senso di responsabilità. Questo perché, come si è visto, la percezione vaga
che l’individuo ha di sé può rappresentare un ostacolo nell’interiorizzazione del valore intrinseco di questo voto.
La persona “DAP”, infatti, ha una difficoltà nel definirsi se non attraverso un criterio esterno: è possibile, allora,
che egli “costruisca” un’immagine impeccabile di “obbediente”, mettendo in atto comportamenti ed
atteggiamenti congrui con essa, così da ricevere una conferma ed un’approvazione che colmerebbero il vuoto
interiore e definirebbero in modo più stabile la percezione di sé. Se questo è vero, è altrettanto vero che
l’obbedienza sarebbe vissuta come uno strumento “esterno”, nel tentativo di ricevere una definizione di sé e non
più, quindi, come un valore fatto proprio che guida dall’interno la propria scelta vocazionale.
D’altro canto, come già si è osservato precedentemente nel rapporto con Dio, la paura di esporsi e di
confrontarsi sulle parti più autentiche di sé, nel tentativo di evitare possibili critiche o disconferme, potrebbe
rappresentare un serio ostacolo al processo di crescita personale che permetterebbe, invece, un vissuto del voto
più consapevole. Nel tentativo di “apparire” sempre “perfetta”, infatti, la persona si priverebbe della possibilità
di mostrare anche le inevitabili difficoltà sperimentate nel suo “cammino”: tuttavia, se da una parte questa
posizione la preserverebbe da possibili “correzioni”, che sarebbero vissute come un giudizio negativo, dall’altra
non le consentirebbe di entrare a contatto con il suo Sé reale alla luce della misericordia di Dio.
Quésti aspetti possono rappresentare una chiave di lettura utile per i formatori nel ruolo a cui sono chiamati;
nello specifico, è importante guidare la persona nell’interiorizzare il significato di un Dio che “non è venuto per
giudicarla”, ma desidera ardentemente dal consacrato che egli affidi a Lui proprio quelle parti di sé di cui si
vergogna e che tenta di nascondere, in modo da sperimentare pienamente il Suo Amore.
2.5. Obbedienza “ossessiva”: la norma da seguire
Anche nell’organizzazione “ossessiva” è interessante analizzare come questo modo di attribuire significati
all’esperienza possa incidere nel vissuto del voto dell’obbedienza.
In tal caso, come si è visto, l’aspetto centrale da tenere in considerazione è la profonda insicurezza e la
continua incertezza che caratterizza l’individuo con questo tipo di organizzazione. Il “sentire” se stessi e la
realtà (Io che “esperisce”) attraverso schemi emozionali inconciliabili, riduce la possibilità di raggiungere una
percezione di sé unitaria e integrata se non attraverso il pensiero e le categorie “razionali”: attraverso di esse,
infatti, la persona con organizzazione “ossessiva” eserciterà un controllo sulle proprie e- mozioni escludendo
sensazioni, immagini ed impulsi discrepanti con l’identità che si sforza di raggiungere nel tentativo di mantenere
un equilibrio.
Alla luce di queste considerazioni è possibile ipotizzare che nel contesto dell’obbedienza a Dio, alla Sua
volontà ed alle Sue mediazioni umane, la persona “ossessiva” possa percorrere questo “sentiero” in modo
eccessivamente legalista e scrupoloso, perdendo tuttavia la profondità ed il significato ultimo del voto e cioè
quello di realizzarsi pienamente come persona neirincontro con il suo Creatore.
In quest’ottica, la regola dell’istituto o ancora una prescrizione di un superiore, ecc., possono essere vissute
come un insieme di regole, di leggi esterne, come un sistema di valori di riferimento rispetto al quale la persona
“ossessiva” si sforza di costruire un’identità “perfetta” ed attraverso cui cerca di verificare la propria capacità di
mantenere il controllo su di sé e sulla realtà.
Come già si è accennato rispetto al percorso di discernimento vocazionale, anche nel contesto della vita
consacrata, quindi in seguito alla professione del voto, la persona “ossessiva” andrà incontro necessariamente a
situazioni che potranno attivare in lei emozioni e sensazioni avvertite come inconciliabili con l’immagine di sé
che faticosamente tenta di mantenere. È inevitabile infatti, nel percorso di crescita, vivere delle crisi, delle
difficoltà o più semplicemente trovarsi in situazioni in cui si sente di non riuscire ad aderire alla volontà di Dio.
Tali circostanze, tuttavia, possono rappresentare per la persona “ossessiva” un’esperienza che attiverà dubbi e
domande. Esse costituiranno una verifica, secondo schemi logici e razionali, della propria capacità di mantenere
un’immagine di sé coerente che permetterà al soggetto di non essere invaso da sensazioni di insicurezza, paura e
di perdita di controllo. E possibile pertanto che T “ossessivo”, percependosi secondo schemi rigidi del tipo
“sono obbediente/non sono obbediente”, di fronte ad una “caduta” nel corso del suo “cammino” oppure rispetto
ad un momento critico, possa persino arrivare alla conclusione che la propria scelta vocazionale non sia stata
una scelta “giusta” e decida così di abbandonare tutto, “sentendo” di aver tradito Dio e l’obbedienza alla Sua
volontà.

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Nel caso del chiamato/consaerato “ossessivo”, sarà indispensabile sperimentare nel corso del “cammino”,
soprattutto grazie all’aiuto dei formatori e dei superiori, una logica differente da quella inscritta nel suo mondo
emotivo e cioè quella della misericordia di un Dio che lo ama così come egli è, che muore di passione per lui,
per le sue contraddizioni e per i suoi limiti. Un Dio che non si ferma all’aderenza rigida alla legge, ma desidera
instillare nel suo cuore una “nuova legge”: quella dell’amore. Questo sarà possibile guidando la persona
nell’integrazione, alla luce di questo Amore, delle proprie contraddizioni interne, delle proprie debolezze e
inadeguatezze, per scoprirsi man mano creatura amata non nella perfezione, ma nella propria complessità e
ambiguità.
Come afferma Cencini è necessario: «(...) far comprendere che una logica naturale è insufficiente per far
comprendere la logica di Dio: la vita consacrata diventa ben misera se ad un certo punto non si ha il coraggio di
saltare la misura del razionale che è la pretesa di fatto riduttiva e mortificante della libertà umana di
comprendere tutto e che tutto sia chiaro e convincente» (Rovira, 2000, p. 342).
L’obbedienza, allora, potrà essere compresa attraverso nuove categorie di significato permettendo
all’“ossessivo” di dischiudersi man mano alla possibilità di lasciarsi sorprendere da Dio: «I miei pensieri non
sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie
sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri...» (Is 55,8-9).
3. Il voto di castità: amare in pienezza di vita
Nella vita consacrata, un’altra via da percorrere nella sequela Chrìsti è rappresentata dal voto della castità.
Essa è da intendersi come una chiamata a donarsi totalmente e «con cuore indiviso» ( Vita Consecrata, n. 21) a
Dio in risposta al Suo amore, riversato in esso per mezzo dello Spirito Santo.
Anche in questo caso, per comprendere il significato profondo e la vera essenza del voto, è importante porre
attenzione al contesto socio-culturale in cui tale chiamata si inserisce. Una cultura, quella del nostro tempo, che
non facilita certamente una spontanea maturazione e perfezione di questo consiglio evangelico (Goya, 2000).
Sembra, infatti, che nella nostra società si diffonda sempre più una banalizzazione della sessualità umana,
impoverendola e «collegandola unicamente al corpo» (Goya, 2000). L’amore viene spesso confuso con la
ricerca egoistica di felicità e con il soddisfacimento del proprio piacere, mentre la sessualità viene ridotta “a
gioco e a consumo” (Goya, 2008, p. 114) amplificata, in tale significato, da mezzi di comunicazione come
televisione ed internet.
In un contesto di questo tipo, l’assolutizzazione della sessualità e dell’egocentrismo affettivo, sostenuti
dalla ricerca di una soddisfazione immediata, divengono valori che contribuiscono alla formazione di un
significato riduttivo dell’amore, incentrandone il senso unicamente sull’“essere amati”. Inoltre, la comprensione
profonda del voto di castità viene ostacolata dalla difficoltà ad intendere l’amore come dono totale di sé, senza
che questo coinvolga necessariamente l’espressione sessuale. Tutto ciò viene reso, infatti, ancora più
problematico da una visione parziale dell’essere umano, centrata sulla dimensione sessuale e non sulla persona
nella sua globalità, intesa come centro di integrazione di tutte le sue componenti fisiche, psicologiche e affettive.
Diversi sono i documenti conciliari ed ecclesiastici (Goya, 2008, p. 149) che insistono sulla necessità di una
maturità psico-affettiva come base umana su cui costruire una maturità vocazionale e spirituale, che necessa-
riamente influirà sul vissuto del voto della castità.
A tale proposito si è più volte accennato all’importanza, per il candidato alla vita consacrata, di un percorso
formativo incentrato sull’approfondimento della conoscenza e accettazione di sé, al fine di favorire una crescita
nel processo di maturazione psicologica.
Altrettanto importante sarà guidare il chiamato, anche alla luce del Vangelo, alla continua ricerca di un
equilibrio, mai pienamente raggiunto, delle proprie dinamiche affettivo-emotive che, come si è visto,
costituiscono la base della costruzione di significati personali e che sono influenzate dalle prime esperienze di
attaccamento nel corso dell’infanzia. Un’affettività matura comporterà, pertanto, una sempre maggiore stabilità
emozionale ed una capacità relazionale armonica e cordiale con l’altro, integrando sentimenti, passioni ed
emozioni all’ideale di vita scelto.
Come si legge nel Codice di Diritto Canonico, il consiglio evangelico della castità: «implica T obbligo
della perfetta continenza nel celibato» (Codice di Diritto Canonico, can. 599). Per comprendere a fondo il
significato di questo articolo e come la castità non consista in una castrazione o mutilazione delTintegrità
dell’individuo, è necessario fornire alcune chiarificazioni rispetto agli elementi costitutivi della sessualità
umana. Essa, infatti, consta di un livello fisiologico, di uno psicologico e di uno affettivo. Quando si parla di
maturità sessuale fisiologica ci si riferisce all’anatomìa e alle funzioni degli organi di riproduzione che, fin
dalla pubertà, conferiscono alla persona la capacità generativa. Sentirsi uomo o donna riguarda, invece, la
dimensione della maturità sessuale psicologica e quindi il processo di identificazione maschile o femminile,
determinato dalla qualità delle relazioni dell’individuo nel corso del suo sviluppo. Pertanto tale dimensione non

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dipende essenzialmente dalla realtà fisiologica dell’individuo. La sensibilità, i sentimenti, la capacità di amare e
di essere amato sono, infine, elementi costitutivi della maturità sessuale affettiva che va oltre la realtà
biologica e psicologica della persona e pervade la totalità del suo essere e agire.
Spesso è proprio la dimensione fisiologica sopra accennata, quella della genitalità, ad essere identificata con
la sessualità, proprio perché separata dalle altre due. Tuttavia il suo valore è relativo, in quanto ha una valenza
soltanto in funzione ed al servizio delle altre due dimensioni, quella psicologica ed affettiva. Pertanto una
rinuncia a questo livello può permettere all’individuo di realizzarsi più pienamente sugli altri due piani, senza
che essa rappresenti un pericolo per la realizzazione della personalità.
3.1. Formare alia castità
Sulla base di queste considerazioni, appare chiaro come un amore maturo, nella sua dimensione oblativa e
di dono di sé, comporti necessariamente un processo di integrazione armonica dei tre livelli al servizio del
carisma, affinché il chiamato possa realizzare al meglio le proprie potenzialità, divenendo sempre più creativo e
fecondo nella propria missione apostolica (Goya, 2008). Come afferma Goya: «la formazione alla castità non
consiste, prima di tutto, nella rinuncia alla sessualità fisica, psichica o affettiva, ma nell’assumerla, incarnarla e
compierla nella “forma di castità consacrata”» (Goya, 2001, p. 74).
Come già si è osservato nel caso del voto dell’obbedienza, anche per la castità è possibile comprendere a
pieno il suo valore solo se essa viene vissuta e coltivata all’interno di una relazione profonda con se stessi e con
Dio.
Tutti gli uomini sono “chiamati alle nozze con Cristo”, come le dieci vergini del Vangelo sono chiamate
all’incontro con lo Sposo: così, se le persone coniugate rispondono a tale chiamata testimoniando nel matrimo-
nio la nuzialità divina, il consacrato, non rinunciando alla propria realtà maschile o femminile, testimonia e
richiama con la sua vita come Cristo sia l’unico vero Sposo, donando completamente se stesso nell’amarLo in
ogni persona “nuda, ammalata, carcerata...”9. Dunque, gli sposati nel Signore divengono “segno compiuto”
dell'unico destino ultimo dell’umanità invitata alle nozze con Cristo: è in tale rapporto con Dio che il voto della
castità viene inteso come una promessa di nuzialità a Lui, come una scelta libera alla base della quale arde il
bisogno di rispondere alla Sua passione per l’uomo.
Alla luce di quanto si è osservato e nell’ambito del contesto socio- culturale sopra descritto è necessaria,
oggi più che mai, una formazione volta ad aiutare il candidato a prendere coscienza della castità come un dono
di Dio e non viceversa, perché essa possa apparirgli come una «esperienza di gioia e libertà» (Vita Consecrata,
n. 88) e perché egli possa sentirsi un “prediletto” dell’amore del Padre che lo chiama per nome. Il voto della
castità potrà, allora, essere vissuto come una “perla preziosa” 10 11 da accogliere e custodire gelosamente,
divenendo valore inestimabile e spinta motivazionale anche di fronte a crisi e difficoltà nel corso del cammino.
3.2. Castità “depressiva”: il sacrificio senza la Grazia
La sensazione di non poter accedere all’amore e al conforto, nonostante l’impegno personale 5, può
connotare anche il vissuto della castità nella scelta di una vita consacrata. Vivere e comprendere la castità come
un dono di Dio e come “luogo” dove incontrarsi personalmente con Lui, rispondendo al Suo amore, può
rappresentare così un vissuto non coerente con un significato “depressivo” di sé, caratterizzato dalla propria non
amabilità. Per cui anche la castità potrà essere vissuta come un “sacrificio”, portato avanti con le sole proprie
forze, necessario per “ottenere in cambio” l’amore di Dio.
Tuttavia, qualsiasi evento percepito come un fallimento in questa direzione confermerà la propria coerenza
interna “depressiva”, attivando il riemergere di sensazioni di incapacità e indegnità personale (attribuzione in-
terna), accompagnate da sensi di colpa per “non essere riusciti ancora una volta” ad amare Dio e quindi a non
essere meritevoli del Suo amore (tema della perdita). La persona potrebbe, pertanto, sentire Dio “distante” e non
accogliente come in altre occasioni. Potrebbe anche avere grande difficoltà ad accostarsi ai sacramenti,
cosciente, da una parte, del Suo perdono (livello esplicito), ma percependosi comunque indegna (livello tacito).
In una dinamica di questo tipo, il tema della perdita contribuirà alla costruzione di un significato in cui
aumenterà la sensazione di separazione da Dio, rafforzando la percezione di sentirsi rifiutati e abbandonati da

9 Cfr. M 25,31-46.
10 Cfr. Ut 13,44-46.
11 Si è visto come lo stile di attaccamento evitante è quello che prevalentemente si può riscontrare
nell’organizzazione di tipo depressivo: l’esperienza di una relazione con figure di accudimento percepite come distanti e
abbandoniche diviene centrale nell’elaborazione di un significato rispetto ai propri vissuti, mentre la percezione di sé è
permeata dalla sensazione di non essere in grado, nonostante ì propri sforzi, di stabilire un rapporto in cui sentirsi amati a
causa di un’intrinseca negatività. Spesso questa percezione è stata rafforzata da esperienze nel corso dell’infanzia in cui
veniva attribuita grande importanza al successo personale attraverso l’impegno e il sacrificio: tuttavia tale richiesta da parte
delle persone che si prendevano cura del bambino non era supportata da un adeguato sostegno emotivo oppure associata a
minacce di abbandono.

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5
Lui.
Vivere il voto come esclusivamente dipendente dalle proprie forze, può rappresentare per la persona
“depressiva” un ostacolo alla possibilità di scoprirne il significato più profondo. Difficilmente egli potrà
chiedere aiuto, anche ai formatori, sempre per la paura di sentirsi rifiutato e di incorrere in un ulteriore
abbandono. Ciò potrebbe rafforzare una percezione “sacrificale” della castità, perpetuando nuovamente il
processo dello sforzo personale sopra descritto.
Il formatore avrà, dunque, un ruolo essenziale in questo senso nell’aiutare il consacrato “depressivo”,
guidandolo ad un nuovo significato di sé “agli occhi di Dio” come “amabile in tutte le sue parti”, anche e
soprattutto in quelle che lui stesso non accetta. Questo gli permetterà gradualmente di fare una nuova esperienza
d’amore, scoprendo in questo modo la castità come una grazia del Padre, come un mezzo per seguire il Figlio
attraverso l’aiuto dello Spirito Santo, non basandosi più esclusivamente sulle proprie forze.
3.3. Castità “fobica”: una “strategia” di controiio
Come si è visto, il tema del controllo su di sé e sugli altri è centrale per comprendere come si struttura
l’esperienza nell’organizzazione “fobica”. Vivere la realtà come “minacciosa” presuppone, infatti, l’esclusione
dalla coscienza di tutti quegli aspetti di sé che potrebbero far affiorare una percezione di debolezza o fragilità, in
quanto questi metterebbero in crisi il senso di efficienza e competenza personale ed attiverebbero
immediatamente la sensazione di perdita di controllo.
Anche le relazioni rappresentano per il “fobico” un aspetto da tenere sotto controllo, in quanto anche queste
possono potenzialmente rappresentare una minaccia al delicato equilibrio tra bisogno di libertà e protezione.
Così, anche il voto della castità potrebbe essere riduttivamente vissuto nella sola dimensione della
continenza, divenendo in tal modo una delle diverse “strategie” di controllo su di sé e sugli altri. Lo
sperimentarsi “capace di governarsi” in questo senso potrebbe, ad esempio, garantire al “fobico” il
mantenimento di un’immagine di sé di “soggetto controllante” di fronte alle “tentazioni”, rinfrancandolo nel suo
percorso di vita consacrata. D’altro canto, un qualsiasi cedimento in tale ambito potrebbe facilitare il riaffiorare
di una percezione di fragilità determinata dalla percezione della propria “incompetenza” nel gestire se stesso,
insieme all’emergere di sensazioni di paura e di ansia che renderebbero il “cammino” più difficoltoso.
Forse più che nelle altre organizzazioni di significato, è importante per il “fobico” una formazione che lo
guidi e lo educhi alla relazione con l’altro la quale, come si è visto, viene anch’essa tenuta sotto controllo.
Assicurarsi la vicinanza di figure significative senza mai coinvolgersi troppo rappresenta, infatti, lo schema di
base attraverso cui egli instaura e mantiene le relazioni, proprio in risposta al suo bisogno inconsapevole di
conservare l’equilibrio tra protezione e libertà.
Una dinamica interiore di questo tipo potrebbe rappresentare, tuttavia, un ostacolo alla formazione di
legami autentici e maturi: vivere l’altro con sentimenti di vera amicizia e profonda fraternità potrebbe, infatti,
risultare più problematico. Sarà importante, allora, per il “fobico” una formazione incentrata sul superamento
della propria tendenza a manipolare la relazione, affinché questa non venga necessariamente avvertita come una
potenziale minaccia, rispetto alla possibilità di perdere la propria libertà o come una possibile fonte di
protezione, di fronte all’emergere di sentimenti di paura. Così, alla luce della Parola e guidato dal formatore, il
“fobico” potrà man mano sperimentare la possibilità di coinvolgersi nel rapporto con l’altro come «Cristo seppe
avvicinarsi a tutti per offrire loro la buona novella» (Goya, 2000, p. 81).
Se è vero che per il consacrato la professione del voto della castità comporta la rinuncia volontaria di aspetti
come la possibilità di formarsi una famiglia propria, dell’amore coniugale e genitoriale, è anche vero che un
obiettivo fondamentale della formazione deve essere quello di educare a non confondere tale rinuncia con un
soffocamento del proprio mondo affettivo. L’educazione alla solitudine nella castità consacrata sarà, allora, un
aspetto che con il chiamato “fobico” dovrà essere affrontato con maggior attenzione. Più che nelle altre
organizzazioni di significato, infatti, si è visto come in quella “fobica” il “sentirsi soli” può rappresentare
un’esperienza avvertita come una vera e propria minaccia alla propria incolumità, suscitando sentimenti di ansia
e paura ed attivando immediatamente la ricerca di un aiuto esterno.
La formazione rappresenterà, allora, per il “fobico” un’importante possibilità per conoscere ed approfondire
i propri vissuti rispetto alla solitudine, scoprendo in Cristo un significato nuovo e positivo di quest’ultima,
perché vissuta con il Padre: «Io non sono solo, perché il Padre è con me» (Gv 16,32).
3.4. Castità “DAP”: la ricerca di conferma
Diversi autori sottolineano l’importanza di un processo formativo che aiuti il candidato ad approfondire
anche la conoscenza di sé per favorire lo sviluppo di quella maturità affettiva e psicologica, essenziale per
l’interiorizzazione dei valori vocazionali. In questo modo è possibile far luce su quelle difficoltà personali che
potrebbero rappresentare un ostacolo nel perseverare nella scelta di una vita consacrata.
Il formatore chiamato a guidare la persona con organizzazione “DAP” dovrà, allora, tener conto di come

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6
questo tema affettivo di fondo potrà costituire la base per la costruzione di significati anche nell’ambito della
professione del voto della castità.
L’aspetto importante da considerare riguarda, in questo caso, il senso di vuoto e di vaghezza interiore, che
spinge la persona a ricercare continua- mente nell’altro una conferma del proprio valore personale, vivendosi,
nel contempo, con la paura costante di non piacere o di incorrere in qualche critica o disapprovazione. Tale
dinamica interna può contribuire a vivere la castità come un mezzo per colmare questo vuoto, attraverso il
sentirsi riconosciuti nell’“impegno” delle proprie rinunce, soddisfacendo così il bisogno di accettazione.
Più che “essere” casto, il chiamato “DAP” potrebbe “apparire” tale, dirigendo il proprio comportamento
“continente” solo per dimostrare il suo valore. Allo stesso modo, egli avrà notevoli difficoltà ad usufruire della
guida indispensabile del formatore soprattutto nei momenti più critici e difficili per paura di deluderlo, temendo
opinioni che verrebbero avvertite come giudizi negativi su di sé. In tal senso, il formatore deve tenere conto di
questa estrema sensibilità, soprattutto alla luce del fatto che il chiamato potrebbe evitare di confrontarsi anche
rispetto a problematiche affettive che potrebbero rappresentare un serio pericolo alla sua crescita vocazionale.
3.5. Castità “ossessiva”: un valore come “verifica”
Il processo formativo, nei confronti del chiamato con organizzazione “ossessiva”, dovrà tenere conto delle
sue specifiche modalità di attribuire significati all’esperienza per poter comprendere più a fondo in che modo il
consiglio evangelico della castità potrà essere vissuto e per guidarlo ad una conoscenza più profonda dello
stesso.
Come si è visto, infatti, la continua incertezza che caratterizza questo stile di personalità viene fronteggiata
esercitando un controllo assoluto sulla sfera emotiva attraverso il pensiero. Si è osservato anche come questo
processo sia funzionale al mantenimento di un’immagine di sé positiva, nel continuo sforzo di escludere tutte
quelle sensazioni che potrebbero metterla in discussione, generando così una percezione di ambivalenza
intollerabile.
Come si legge negli scritti di San Cesario d’Arles: «(...) fra tutte le lotte (...) le uniche veramente dure sono
le battaglie della castità, dove il combattimento è quotidiano e la vittoria è rara» (Poli, 1996, p. 40). Questa ri-
flessione può essere utile per comprendere come l’esperienza della castità rappresenti un ambito nel quale
dubbi, paure e momenti di crisi inevitabilmente possono presentarsi anche con forza.
Nel chiamato con organizzazione “ossessiva” questi momenti, proprio perché faciliterebbero l’attivazione
di emozioni e sentimenti contraddittori, potrebbero essere vissuti come una perdita di controllo rispetto ai
tentativi di costruzione di un’identità consacrata “certa”. Eventi di questo tipo potrebbero, infatti, mettere in
discussione l’immagine di perfezione continuamente ricercata e verrebbero affrontati attraverso il ricorso a
categorie logiche e razionali.
Si è già osservato come nella storia evolutiva dell’ “ossessivo” venga attribuita grande importanza alle
regole ed ai valori morali12 e come qualsiasi emozione o sensazione, che venga avvertita come contraria ad essi,
generi un senso di incontrollabilità ed incompetenza. Pertanto, è possibile che anche la castità possa essere
interiorizzata e vissuta come una regola astratta e “assoluta”. Essa potrebbe rappresentare, allora, un ulteriore
criterio di controllo per verificare la “certezza” di essere un “buon consacrato”, ma innescare dubbi sulla propria
scelta vocazionale, laddove emergessero vissuti contrari ad essa: secondo la già citata legge del “tutto o nulla”,
nel caso del consacrato, ad esempio, anche la minima pulsione sessuale potrebbe portare alla convinzione di non
poter continuare la strada del sacerdozio.
Tuttavia, nella scelta della vita consacrata e nella professione del voto, seppur con un atto deciso di volontà,
egli non rinuncia alla propria natura umana maschile o femminile e a quegli istinti che gli appartengono, proprio
perché Dio, creandolo, li ha messi nel suo cuore.
È importante, allora, per il formatore guidare il chiamato alla scoperta della castità come dono di Dìo,
accompagnandolo nella conoscenza graduale di sé e nel discernimento della situazione di crisi. In questo modo
egli potrà man mano vivere questi momenti non più come incontrollabili e con sensazioni di indegnità
personale, ma come occasioni preziose per integrare aspetti di sé in modo più flessibile e articolato e per sentirsi
amato nelle sue “imperfezioni”.
4. Il voto di povertà: la fiducia nella Provvidenza di Dio
Per comprendere a pieno il significato della povertà consacrata, è importante leggerla entro il contesto della
povertà cristiana: «e questa non è altro che rappresentazione e continuazione nella storia della povertà di Cristo.
Il consacrato non è altro che un cristiano che cerca di seguire ed identificarsi con Cristo» (Rovira, 2000, p. 228)
il quale, per amore al Padre e agli uomini, rinuncia volontariamente alla Sua divinità facendosi uomo come noi,
dunque “povero”, limitato e soggetto alla realtà di creatura umana. La Sua povertà fondamentale consiste,
quindi, in questo svuotamento (kénosis), in questo Suo chinarsi sull’uomo: «E il Verbo si fece carne e venne ad
12 Cfr. cap. II § 5.

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abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Diverse sono le manifestazioni esterne della povertà di Gesù: dalla povertà del dolore fisico a quella del
dolore psichico dell’incomprensione, della calunnia e degli insulti. Una povertà che raggiunge il suo culmine
sulla croce: «senza beni (povertà materiale), senza dignità né diritti riconosciuti (povertà socio-politica),
oppresso dal potere politico (Pilato, l’invasore) e, ciò che è infinitamente più drammatico per un ebreo, dal
potere religioso (il Sinedrio, il Sommo Sacerdote: l’autorità politico-religiosa riconosciuta da Lui), persino
“povero” del Padre, sentendolo ora lontano» (Rovira, 2000, pp. 229-230). Il motivo di questo impoverimento
(Incarnazione) si deve leggere alla luce della Sua obbedienza al Padre, non per schiavitù, ma per amore
incondizionato a Lui, Sua unica vera ricchezza, che lo porta a vivere un amore altrettanto incondizionato per gli
uomini fino alla morte e “alla morte di croce”. Ecco che, allora, si può comprendere più a fondo il significato
della povertà di Cristo: essa non è innanzi tutto una “rinuncia a”, ma una scelta “in favore di”, con tutte le
conseguenze, compresa la morte di croce.
Il consìglio evangelico della povertà coinvolge globalmente l’intera personalità del consacrato il quale,
nella rinuncia volontaria al diritto, all’uso e alla libera disposizione dei beni, non è chiamato a distaccarsi
esclusivamente dalle “cose materiali”. Gesù, infatti, chiede a chi vuole seguirLo una povertà che va molto più in
profondità, proponendo un “cammino” nel quale sperimentare che l’unica vera ricchezza è Dio. Una povertà
quindi, quella evangelica, che non è solo materiale, ma anche spirituale e personale (Goya, 2000). Come afferma
Giovanni Paolo II: «Il Maestro di Nazaret invita il suo interlocutore a rinunciare a un programma di vita, nel
quale emerge in primo piano la categoria del possesso, quella dell’ “avere”, e ad accettare, invece, al suo posto
un programma incentrato sul valore della persona umana: sull’ “essere” personale con tutta la trascendenza che
gli è propria» (Redemptionis Donum, n. 4).
Si comprende, dunque, come i beni che il consacrato è chiamato a lasciare non sono solo quelli materiali;
essi sono rappresentati anche dai propri talenti, dai propri successi e fallimenti, dalle proprie aspettative e
delusioni, ecc.
Se questa è la povertà a cui Cristo chiama tutti i cristiani e, nello specifico, i consacrati, è di fondamentale
importanza una formazione che trasmetta questo significato positivo del consiglio evangelico: infatti, se fosse
presentata in primo luogo come rinuncia, sacrificio e quindi come qualcosa di negativo, non sarebbe evangelica;
come non lo sarebbe se escludesse l’i- nevitabilità di un’ascesi e della croce. Anche la povertà del consacrato:
«sarà, “prima e più che una rinuncia” (VC 16a), non “una negazione dei valori inerenti alla sessualità, al
legittimo desiderio di disporre di beni materiali e di decidere autonomamente di sé” (VC 87), anche se i mezzi
ascetici saranno necessari (VC 38b), ma una conseguenza della sua accoglienza incondizionata del mistero di
Cristo e del Regno (...)» (Rovira, 2000, p. 234).
Una formazione incentrata su tale significato dovrà, inoltre, tener conto del contesto socioculturale odierno
in cui essa si inserisce. Si è già accennato, infatti, come nella nostra epoca si diffonda sempre più una cultura
narcisistica13, una realtà in cui la lotta per il successo ed il potere favorisce la percezione del mondo esterno
come estensione di sé e degli altri come specchio delle proprie esigenze. In tale contesto si inserisce l’attuale
fenomeno del consumismo che alimenta la cultura dell’avere e del possesso.
L’atteggiamento implicito del consumismo sembra richiamare quello più arcaico di “incorporare”,
“inghiottire”. Il consumatore è come un bambino continuamente affamato delle cose: una condizione, questa,
che ben si affianca alla dipendenza da sostanze e da comportamenti. Infatti, se da una parte il consumo placa
l’ansia del possedere qualcosa che non può essere tolto, dall’altra porta la persona a volere sempre più in quanto,
ben presto, l’acquisto perde il suo carattere gratificante. Ecco, allora, che l’oggetto comprato assume un nuovo
valore rispetto al passato, quando veniva conservato perché poteva sempre essere utile; oggi l’automobile o il
vestito, come qualsiasi altro oggetto, divengono simboli di rango sociale, sostegni dell’Io, una vera e propria
appendice narcisistica che viene sostituita non appena il mercato ne propone un modello nuovo (Cantelmi T.,
Orlando F., 2005).
Come afferma Fromm, in una cultura in cui la meta suprema è rappresentata dall’avere e, anzi, dall’avere
sempre di più; «si direbbe che l’essenza vera dell’essere sia l’avere; che uno che non ha nulla, non è nulla»
(Fromm, 1988, p. 27). La “beatitudine” umana viene allora considerata quella dei “ricchi”, nel cercare, anche
sacrificandosi, di assicurarsi più beni possibili, sia quando essi fossero più strettamente materiali, sia nel caso in
cui questi fossero rappresentati da beni personali come la propria salute, le proprie scelte, i propri schemi, ecc.
È chiaro come, in una cultura di questo tipo, la povertà possa assumere un significato fortemente negativo,
venendo intesa come una condizione non da ricercare, ma, più che altro, da correggere o superare (Goya, 2008).
4.1. Formare alla povertà
Formare alla povertà evangelica significherà, allora, aiutare il consacrato a prendere coscienza del suo ruolo
13 Cfr. cap. Ili §2.

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e della sua importanza nella creazione, così che non sviluppi o mantenga una dipendenza dalle cose e dalle per-
sone. Vivere la povertà di Cristo diverrà, quindi, uno sforzo utile per liberare il suo essere profondo,
sgombrandolo dalle “cose” che potrebbero impedire la supremazia dell’“essere”. Il processo che lo condurrà a
questa graduale liberazione passerà inevitabilmente attraverso la conoscenza e l’accettazione di sé e del proprio
passato psicologico: ciò potrà avvenire ponendo come primo obiettivo della formazione l’immedesimazione con
la figura di Gesù, vera persona “povera” e dunque “libera”.
La graduale scoperta della propria indigenza, dei propri limiti e fallimenti e la lettura della propria storia
come una “storia di salvezza” compiuta da Dio nel Suo amore, aiuterà il consacrato a “liberarsi” dall’illusione
della sicurezza derivante dalle proprie possibilità, per giungere man mano all’accettazione di Dio come unico
Onnipotente e unica “ricchezza” su cui fare affidamento.
4.2. Povertà “depressiva”: la “rinuncia” limitata dalla sfiducia
Anche nel caso della povertà evangelica, elementi importanti per comprendere come questa possa essere
vissuta in un’organizzazione “depressiva” sono, ancora una volta, il tema della “perdita”, dell’attribuzione
interna e dello “sforzo personale”.
La fiducia del figlio che si affida totalmente alla cura amorevole del Padre può essere un concetto facile da
capire a livello teorico; tuttavia essa rappresenta un processo lento e graduale di presa di coscienza dei propri
limiti e della propria indigenza.
Con molta probabilità, soprattutto nelle prime fasi della vita consacrata, la persona “depressiva” tenderà a
fare affidamento sulle proprie risorse, sforzandosi, anche in questo caso, di superare la propria intrinseca non
amabilità per sentirsi degna dell’amore di Dio. Le rinunce a cui sarà chiamata potranno così essere vissute come
un obiettivo da raggiungere contando solo su se stessa.
Inevitabili, come nelle altre organizzazioni, saranno i fallimenti ed i momenti di crisi che si presenteranno
in questo percorso, ma che, in quella “depressiva”, con molta probabilità saranno avvertiti immediatamente con
un senso di incompetenza e di inutilità personale, generando così un significato di distanza dall’amore di Dio e
rafforzando il senso di solitudine.
Se è vero che, come sopra è stato accennato, la povertà evangelica costituisce anche l’esperienza della
povertà personale, come percorso attraverso il quale riconoscere ed accettare i propri limiti, è fondamentale che
il formatore accompagni il consacrato “depressivo” nella scoperta di un nuovo significato di questa sua povertà,
facendo sempre riferimento a Cristo, povero fino alla croce, ma ricco dell’amore del Padre.
La tendenza a percepire della realtà gli aspetti più manchevoli e sfuggenti (Arciero, 2002), potrà allora
essere gradualmente guidata a divenire più flessibile attraverso la costruzione graduale di una nuova visione di
sé, nella scoperta della propria dignità di uomo e di figlio di Dio. Ciò potrà contribuire alla riscoperta del proprio
valore personale ed allo sviluppo di quella fiducia filiale, indispensabile per potersi coinvolgere nel rapporto con
Dio, anche oltre il significato personale della perdita e del rifiuto.
4.3. Povertà “fobica”: la paura di rinunciare alla “ricchezza” del controllo
Seguire Cristo “povero”, facendosi povero come Lui, rappresenta per il consacrato la via preferenziale per
giungere al distacco affettivo dai beni materiali e dalle creature, così da non dipendere più da essi e non più vi-
vendoli come fonte della propria sicurezza.
Come si è visto precedentemente, la rinuncia volontaria al libero uso e disposizione dei beni non riguarda
esclusivamente quelli materiali: Cristo, infatti, chiede a chi vuole seguirLo di lasciare “tutto”, includendo in
questa scelta radicale la rinuncia anche ai propri affetti: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me;
chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me» (Mi 10,37).
Certo il Signore non chiede di disprezzare le persone care quanto, piuttosto, di vigilare sulla possibilità che
la relazione con gli altri non divenga essa stessa una “ricchezza” su cui poggiare la propria esistenza.
Come è stato già affermato, un vissuto maturo della povertà viene raggiunto attraverso un percorso lento e
graduale. Anche per il consacrato “fobico”, il vissuto della povertà può rappresentare un cammino lungo il quale
possono presentarsi situazioni critiche. In particolare, queste possono essere rappresentate da quegli eventi tali
da destabilizzare il delicato equilibrio che egli cerca di mantenere tra il bisogno di libertà e quello di protezione.
Si pensi, ad esempio, al consacrato che, in virtù del voto, si trova nella condizione di doversi rivolgere ai
superiori per richiedere del denaro per qualsiasi necessità: simili circostanze possono essere avvertite come una
restrizione della propria libertà, favorendo l’insorgere di un senso di costrizione.
Anche sperimentarsi “povero” nelle relazioni può evocare nel consacrato “fobico” emozioni intense di
paura ed ansia. Soprattutto nelle prime fasi della vita consacrata, “lasciare” il proprio nucleo familiare, i propri
affetti, quelle figure che fino a quel momento possono aver rappresentato una fonte di protezione, può innescare
la sensazione di una perdita di controllo. Si è più volte accennato, infatti, alla tendenza del “fobico” a
manipolare le relazioni in funzione del proprio bisogno di protezione, senza che la propria libertà venga limitata.

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È proprio in questa fase che la persona “fobica” deve essere più che mai aiutata e guidata dai formatori a
riscoprire, attraverso questa sua povertà personale, un nuovo significato di questa sua esperienza. Dio, infatti, lo
chiama ad una nuova libertà, attraverso cui scoprire la relazione con gli altri non come un fine necessario ad
assicurargli protezione, ma come un mezzo, come un talento che il Signore gli dona per incontrarLo e scoprire
in Lui la vera ricchezza. Solo giungendo a questa scoperta, il contatto con gli altri sarà finalizzato a dirigerli
alFincontro con la pienezza dell’amore del Padre.
Guidato dal formatore ed alla luce della Parola, nell’incontro graduale con Cristo, il consacrato “fobico”
potrà interiorizzare man mano il significato profondo della povertà a cui Dio lo chiama: anche nella povertà
delle sue “debolezze” fisiche o nella povertà dì non poter gestire una determinata situazione nonostante il
controllo esercitato, lo sperimentarsi gradualmente “dipendente” da un Dio al quale potersi liberamente affidare
senza sentirsi limitati, permetterà la scoperta della vera ricchezza su cui poggiare se stesso.
4.4. Povertà “DAP”: la “ricchezza” delle conferme
Come si è già accennato, è importante distinguere il perfezionismo “ossessivo” da quello “esibito”
nell’organizzazione di significato DAP. In quest’ultimo, infatti, esso risponde all’esigenza di sentirsi approvati e
confermati dagli altri e non, come nel caso dell’ “ossessivo”, di ristabilire un senso interno di certezza rispetto
alla propria identità.
Il perfezionismo “DAP” è stato definito anche compiacente14, proprio a sottolineare il fatto che il
comportamento della persona si “modella” in base ai criteri esterni, per ridurre al minimo le possibili critiche
che sarebbero avvertite come fortemente destabilizzanti.
Anche nell’ambito della promessa di povertà è possibile allora che, soprattutto nei primi anni di
formazione, questa possa essere esperita a livello tacito, da una parte nei termini di ricerca di approvazione
mentre, dall’altra, nel timore di poter incorrere in qualche giudizio negativo, in particolare nei confronti di figure
significative. Tale dinamica interna all’individuo potrebbe, allora, portarlo ad identificarsi con il “modello” di
povertà proposto, vivendolo, tuttavia, nei soli suoi aspetti formali, riuscendo con difficoltà ad interiorizzarla
come una scelta profonda da perseguire quotidianamente. In tal senso la dipendenza dal contesto esterno e dalle
opinioni altrui potrebbe rappresentare, se non affrontata, un ostacolo a questo processo.
Se è vero, infatti, che la povertà deve essere “visibile” dagli atti della persona, è fondamentale che essa sia
vissuta prima di tutto interiormente e cioè scaturisca dalla convinzione radicata di volersi identificare con Cristo.
Ciò sarà possibile, come si è visto anche nella descrizione delle precedenti organizzazioni, in seguito alla
progressiva accettazione dei propri limiti di creatura.
Il formatore che si accosterà alla guida del consacrato “DAP” dovrà allora aiutarlo a “rileggere” queste sue
emozioni di vergogna, questo suo bisogno di “avere” opinioni positive degli altri, come una sua povertà, come
un suo limite che, tuttavia, Dio vuole colmare con la ricchezza del Suo intenso amore per lui.
In tal modo, egli potrà man mano sentirsi amato per ciò che egli è (non per ciò che mostra all’esterno) ed
essere guidato dalla grazia di Dio a staccarsi profondamente dal possesso di questa “ricchezza”. Questo processo
potrà condurlo successivamente a vivere in modo più libero la propria vocazione.
4.5. Povertà “ossessiva”: la verifica continua del “teorema”
Riporre in Dio la propria fiducia, perché in Lui si fa l’esperienza di un Padre che provvede alla propria vita,
è la risposta che sgorga dall’uomo che scopre la sua povertà di essere creatura. E un’esperienza questa che, nel
consacrato con organizzazione “ossessiva”, deve essere guidata soprattutto nelle prime fasi della scelta di una
vita consacrata, tenendo conto delle sue modalità di attribuire significati all’esperienza.
È possibile, infatti, che, proprio in virtù dell’uso di categorie prevalentemente razionali e, quindi, del
ricorrere prevalentemente alla spiegazione logica per comprendere se stesso e la realtà, il vissuto del voto sia
piuttosto rigido e ancora non esperito nel suo significato più ampio.
La povertà come “ideale”, come schema rigoroso a cui fare riferimento per verificare la certezza e la
correttezza dei propri comportamenti e delle proprie scelte, costituirebbe allora un ambito in cui, ad esempio,
anche il minimo desiderio di possesso sarebbe avvertito come non ammissibile perché, appunto, inconciliabile
con esso.
E comprensibile come sensazioni, emozioni o immagini di questo tipo faciliterebbero, come già descritto
precedentemente, l’emergere di una sensazione di perdita di controllo. In tali circostanze, infatti, la persona
potrebbe sperimentare maggiore insicurezza ed incertezza, rispetto allo sforzo di portare avanti la promessa di
povertà fatta all’inizio della sua consacrazione.
Come tutti gli eventi discrepanti, anche questi sarebbero affrontati nel tentativo di ripristinare un maggiore
senso di certezza facendo ricorso al pensiero (dubbi, porsi domande, ecc.).
Anche eventi che non erano stati “previsti”, nel tentativo di programmare il proprio comportamento ed
14 Cfr. cap. Il § 4.

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anticipare le proprie risposte per non farsi cogliere impreparati, potrebbero costituire un turbamento rispetto alla
rigidità della persona “ossessiva”.
Senza l’attenta guida del formatore in grado di cogliere il significato del vissuto di povertà del consacrato
“ossessivo”, sarà diffìcile per quest’ultimo aprirsi ad un nuovo significato del voto e farlo proprio, facendosi
così più simile a Cristo.
Essere accompagnati nel percorso della povertà, può rappresentare, per la persona con tale organizzazione,
un’opportunità per rendere più flessibile la ricerca di una certezza assoluta, riuscendo in questo modo a
distaccarsi gradualmente da essa ed a riscoprire in Dio l’unica vera certezza della sua vita.

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4. Il colloquio come strumento di formazione
«Strumento precipuo di formazione è il colloquio personale, da tenersi con regolarità e con una certa
frequenza, come consuetudine di insostituibile e collaudata efficacia» ( Vita Consecrata, n. 66).
Nell’esortazione apostolica Vita Consecrata Giovanni Paolo II afferma che il fine a cui tende la
consacrazione a Dio, e la formazione ad essa, è “costruire” il discepolo di Cristo come colui che cresce
neU’unione e nella configurazione al Signore Gesù e al suo mistero di morte e resurrezione; una graduale
conformazione che porta la persona ad assumere, sempre più profondamente, gli stessi sentimenti del Figlio
condividendo la sua totale donazione al Padre e ai fratelli.
In altri termini, l’obiettivo finale dell’offerta di sé a Dio non è un ideale qualsiasi di perfezione ma la
formazione nel “cuore” del consacrato dei “sentimenti del Figlio”, Il termine “cuore” va inteso in senso biblico,
come espressione di tutto l’uomo, perché chi si consacra a Dio sia persona che ama con il cuore stesso di Dio e
del Figlio in croce (Cencini, 1997).
Se questo è il punto di arrivo della missione del consacrato, la formazione dovrà riguardare tutta la persona:
cuore, mente, volontà, memoria, fantasia ecc., dovrà essere una evangelizzazione dei sensi, sentimenti, desideri,
gusti, qualcosa che raggiunga la persona nella totalità del suo essere e della sua originalità, qualcosa che
implichi una conversione radicale che abbracci tutta la sua vita: non solo i comportamenti ma anche le sue inten-
zioni. Il processo formativo dovrà dunque assumere una connotazione tale da incidere profondamente nel
“sentire” dell’individuo.
Alla luce di quanto si è detto un aspetto su cui dovrebbe incentrarsi tale processo riguarda la formazione
alla libertà. Infatti, come afferma Cencini, se il fine della formazione fosse solo l’abilitazione a un certo tipo di
apostolato o a un certo stile di vita, o mirasse semplicemente al possesso di certe qualità virtuose funzionali per
il ministero, allora la metodologia pedagogica potrebbe seguire qualche altro percorso e criterio (ad es. il
rinforzo della volontà, la capacità di ascesi e rinuncia ecc.); se invece si deve formare il “cuore” è necessario che
il metodo formativo abbia come riferimento ideale un modello antropologico costituito dall’umanità e dal cuore
del Figlio, come espressione al massimo grado di una libertà che si trascende nell’amore al Padre. Dunque è
importante una formazione alla libertà che, nella sua metodologia, costituisca un aiuto per il chiamato a rendere
man mano sempre più salda la coscienza dentro di sé di trovarsi costantemente all’interno di un rapporto con il
Padre che lo ama e lo guarda come meravigliosa creatura ai suoi occhi, come guarda suo Figlio Gesù.
Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto (M 3,17).
Questa è in sintesi la formazione agli “stessi sentimenti del figlio”: un’esperienza dell’amore del Padre che
cambia l’esistenza del chiamato e lo rende capace di rispondere come il Figlio. Il cuore infatti non può essere
costretto, ma può e deve essere educato a scoprire anzitutto la grandezza della chiamata e la bellezza della
proposta, e reso capace e libero, per Fappunto di dare risposta come il Figlio ha risposto al Padre, donando la
sua vita per gli uomini, con quei “sentimenti” di compassione, generosità, abnegazione, oblatività e perdono che
il Figlio stesso ha manifestato nella sua vita terrena, specie sulla croce.
Nello specifico, l’autore sottolinea che il processo educativo alla consacrazione, fondato su una formazione
alla libertà, deve passare attraverso diverse fasi: una libertà intesa come coscienza dei propri condizionamenti
interni, anche inconsapevoli, taciti (libertà “da”) e una libertà come ricchezza di vita interiore e di amore per
Dio come conseguente qualità di desideri e forza di attuarli (libertà “per”). Libertà, insomma, come area e og-
getto di attenzione e formazione, dal punto di vista del metodo e del contenuto (Cenemi, 1997).
In quest’ottica appare chiaro come la conoscenza da parte del formatore del costrutto di organizzazione di
significato personale, esposto nei capitoli precedenti, può rappresentare un valido strumento, nel percorso
sopra accennato, nell’aiutare il formando a riconoscere gradualmente tali condizionamenti, costituiti da quelle
emozioni che, come più volte si è detto, rappresentano quei temi affettivi centrali attraverso i quali si
attribuiscono significati all’esperienza. Ecco che allora, avvalendosi anche, laddove sia necessario, di un
supporto psicologico, diviene possibile quel percorso verso gradi sempre maggiori di libertà per rispondere,
appunto in maniera più libera e consapevole, alla chiamata del Padre.
“Formare” il candidato alla vita consacrata è pertanto sinonimo di “educare”, è l’assumersi il delicato
compito di far luce sulle motivazioni rispetto a tale scelta e di accompagnare ad una maturità personale colui che
intraprende questo cammino, per condurlo verso una decisione più libera e consapevole.
L’impegno del formatore si traduce, dunque, nell’attenta osservazione di come la grazia di Dio va operando
nel soggetto specifico, accompagnandolo nella scoperta delle sue possibilità di rispondere alla «chiamata» (Bre-
sciani, 2002). È importante, quindi, che egli si mostri sollecito al “vero bene” del candidato, che cerchi con lui la
volontà di Dio nella sua storia, nell’interesse di trovare, nel “cammino” da percorrere insieme, la strada verso la
vera libertà di decisione. A questo proposito è illuminante l’esortazione di Giovanni Paolo II il quale, nel
rivolgersi ai formatori e alle formatrici, afferma che questi: «devono perciò essere persone esperte nel cammino
della ricerca di Dio, per essere in grado di accompagnare anche altri in questo itinerario (...). Ai lumi della
sapienza spirituale uniranno quelli offerti dagli strumenti umani, che possono essere d’aiuto sia nel
discernimento vocazionale, sia nella formazione dell’uomo nuovo, perché divenga autenticamente libero» (Vita
Consecrata, n. 66).
In questo processo, è la persona globale ad essere “presa in carico” nel discemere le sue possibilità di
crescita rispetto ai suoi limiti. Si comprende, allora, come la formazione rappresenti un servizio prestato
all’individuo, dove è importante un attento ascolto alla sua storia, alle sue esperienze ed ai suoi problemi,
«intervenendo con la cura e l’attenzione di un artigiano sulla singola persona» (Cencini, 1997, p. 595). Essa non
può essere considerata come un qualcosa di tecnico, una prassi operativa che ciascuno può apprendere e mettere
in atto senza coinvolgersi in prima persona; per questo motivo si comprende quanto sia fondamentale in questo
manuale dedicare uno spazio anche all’analisi di alcuni aspetti che entrano in gioco in quel particolare ambito
della .relazione tra formatore e candidato, che è rappresentato dal colloquio nell’accompagnamento di crescita
vocazionale.
Nella specificità di questo incontro tra formatore e candidato, si viene a delineare quella che si potrebbe
definire una “relazione ontica”: con questo termine si vuole porre l’accento sulla necessità di una particolare
attenzione, da parte del formatore, a quella tensione etica del proprio stare nella relazione. In essa si incontrano
due persone, due modi di vedere il mondo, due realtà, due esseri umani: colui che “si prende cura” del candidato
deve quindi assumere, nel rapportarsi a lui, una vicinanza tale che gli permetta di essere empatico, intuitivo e
capace di mettersi nella prospettiva dell’altro (Paluzzi, 2003).
Questo atteggiamento, da parte del formatore, permette la creazione di un clima di collaborazione e di
fiducia reciproca, necessario al candidato per potersi affidare alla sua guida.
1. Il colloquio: verso u n a definizione
Prima di entrare nello specifico della descrizione degli elementi che caratterizzano un colloquio, è
importante cercare di definirlo nell’ambito del processo di formazione.
Il termine colloquio deriva dal latino colloqui, che significa “parlare con”, “parlare insieme”: nella
quotidianità tutti noi siamo abituati ad interagire con gli altri attraverso modalità dialogiche e discorsive,
esprimendo ciò che vogliamo far sapere e ricevendo noi stessi delle informazioni.
Perché tale interazione possa avvenire sono necessarie alcune condizioni: innanzitutto la presenza di
almeno due persone, di cui una pone questioni e l’altra risponde; inoltre, lo scambio comunicativo comporta un
accordo comune perché questo possa realizzarsi. È necessario un argomento o un tema intorno al quale possa
avvenire la comunicazione ed è importante uno scopo, che può consistere in uno scambio di opinioni oppure
può avere come finalità lo scambio di una conoscenza. Infine, è essenziale un clima di agevolazione,
determinato dall’atteggiamento degli interlocutori, che possa favorire la conversazione.
Diverse sono le definizioni proposte dagli autori che si sono dedicati allo studio del colloquio, ma gli
elementi che le accomunano possono raggrupparsi in tre punti: a) processo interattivo; b) strumento; c) incontro
(Pa- luzzi, 2003).
ola vivente ed interiore della nostra condotta»-! -si configura come un processo interattivo che ha luogo tra
due persone e che, diversamente dalla conversazione, è finalizzato al conseguimento di un obiettivo; è uno stru-
mento, caratterizzato da uno scambio verbale e non verbale attraverso cui può svilupparsi un processo di
conoscenza; infine, permette un incontro tra una persona che chiede aiuto ed un’altra in grado di fornirglielo.
Nella specificità del colloquio che avviene tra formatore e candidato, la relazione che si viene a creare tra i
due attori di questo processo può definirsi come quella che in ambito psicologico viene chiamata “relazione
d’aiuto”, Si utilizza tale termine per fare riferimento a quelle situazioni in cui il colloquio non è tenuto da un
clinico (psicologo/psicoterapeuta), ma da un operatore, ad esempio un insegnante, un educatore, un formatore,
ecc., che offre un sostegno ad una persona che può trovarsi in una condizione di malessere, di disagio o in
qualsiasi altra situazione di bisogno.
Tenendo conto del processo di aiuto che avviene all’interno di questa relazione, possiamo definirla
“relazione di aiuto”: una relazione, cioè, in cui una delle parti ha lo scopo di favorire la “crescita” dell’altro e di
valorizzare le sue risorse e le sue potenzialità.
E attraverso tale processo, infatti, che la persona “aiutata” può acquisire nuovi comportamenti sentendosi
accolta, sostenuta e accompagnata verso una maggiore consapevolezza di sé nell’incontro con il Signore.
1.1. Il colloquio come “relazione di aiuto”
Perché la persona “chiamata” possa usufruire al meglio di tale relazione è importante che sia in grado di
acquisire la capacità di esplorarsi in profondità sia in relazione a sé stessa che rispetto al mondo che la circonda.
Tuttavia, proprio perché “guardarsi dentro” non è facile, è importante favorire le condizioni per consentirle di
percepire cosa sta provando. In tal modo potrà entrare a contatto con il suo vissuto e con il significato sul
proprio stato (fase di autoesplorazione).
Conseguenza dell’autoesplorazione è Vautocomprensione, cioè la possibilità di comprendere più
profondamente la propria esperienza avendo così la possibilità di riflettere su di essa.
Questi due passaggi possono favorire la messa in atto di nuovi comportamenti dettati
dall’autocomprensione. Quanto più a fondo la persona avrà la possibilità di conoscersi, tanto più riuscirà a
trovare comportamenti opportuni per affrontare la situazione.
Questi tre momenti - capacità di esplorarsi, di comprendersi e di adottare idonee strategie comportamentali -
costituiscono nel loro insieme un ciclo che caratterizza il colloquio come “aiuto”, la cui efficacia sarà di stimolo
per altre situazioni (Paluzzi, 2003).
2. L’incontro attraverso il dialogo
Alla luce di quanto esposto, il colloquio, come strumento di formazione del candidato alla vita consacrata,
può risultare molto utile nel percorso di discernimento vocazionale, in quanto consente di entrare nella dinamica
relazionale, permettendo di comprendere maggiormente la persona e le sue modalità interattive. La dinamica
interpersonale che si sviluppa al suo interno offre la possibilità di verificare la flessibilità delTindividuo nel rap-
portarsi con Paltro e può rappresentare per lui un’occasione preziosa di scoperta e sviluppo delle proprie
competenze e qualità, in vista della grandezza della “missione” a cui si sente chiamato.
E interessante allora, proprio per la ricchezza che può rappresentare questo strumento, metterne in luce
alcune caratteristiche che possono essere utili per usufruirne al meglio.
A tale scopo è necessario approfondire alcuni concetti sulla comunicazione. Questa viene intesa come un
processo fondamentale che risponde a bisogni di tipo fisico, sociale, psicologico, strumentale e rappresenta un
interscambio di significati. Perché possa avvenire una comunicazione attraverso un colloquio è necessaria,
come già specificato, la presenza di almeno due persone.

Fig.l
Nello schema viene raffigurata l’unità minima della comunicazione che viene definita atto comunicativo:
essa è composta da un emittente (E) e un ricevente (R) inseriti in un contesto, un codice (un sistema condiviso
di segni e simboli), un canale (il mezzo attraverso cui avviene la comunicazione: una lettera, il telefono,
internet, ecc.) ed un messaggio.
L’emittente codifica idee e sentimenti in un messaggio e lo invia, attraverso un canale, ad un ricevente. Per
rumore si intende qualsiasi forza che può interferire con una comunicazione efficace e può essere di diverso
tipo: esterno (ad es. un telefono che squilla), fisiologico (ad es. un udito compromesso), psicologico (ad es.
forze interne all’individuo che interferiscono con l’esprimere o il ricevere il messaggio). Il feedback è la ri-
sposta di R che consente ad E di capire se il messaggio è stato recepito ed apportare eventuali modifiche per
favorire uno scambio comunicativo più adeguato.
Dunque, nella comunicazione vengono trasmesse informazioni e poiché in essa i due interlocutori, che
definiremo A e B, si influenzano reciprocamente e contribuiscono insieme a creare il significato degli scambi,
tale processo deve essere considerato come circolare, all’interno del quale A e B sono contemporaneamente sia
emittente che ricevente. Se le immagini

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mentali di A e B coincidono, allora la comunicazione è riuscita (Marmocchi, Dall’Aglio, Zannini, 2004).
All’interno del colloquio avviene uno scambio comunicativo che, a livello verbale, si esprime attraverso il
dialogo; poiché la relazione tra formatore e candidato può assumere diverse forme da un punto di vista emotivo,
è importante che alcune modalità di conduzione dello stesso vengano evitate, in quanto potrebbero portare a
deviazioni della relazione stessa.
Una prima forma da evitare è sicuramente la discussione: uno scambio verbale di questo tipo si svolge in
un clima di rivalità, dove non c’è la comprensione dell’altro e l’accettazione della diversità delle idee. In un tale
contesto relazionale è facile che si generi nel candidato confusione e disaccordo, insieme ad una sensazione di
rifiuto rispetto alla propria persona, e che si possa arrivare ad un irrigidimento delle posizioni.
Altra modalità disfunzionale è rappresentata dall’ interrogatorio, che può prendere forma più facilmente
nel momento in cui il formatore si pone nella relazione con fare “indagatorio”, volendo “conoscere” per
soddisfare le proprie curiosità o per confermare le proprie valutazioni o pregiudizi. Tale modalità può generare
nel candidato sensazioni di imbarazzo e di ansia, determinando un clima difensivo nel quale non vengono presi
in considerazione i suoi veri bisogni, Qualora poi il formatore monopolizzasse rincontro imponendo le proprie
idee per soddisfare i propri bisogni, il colloquio potrebbe addirittura prendere la forma di un monologo (Paluzzi,
2003).
Un colloquio condotto attraverso la forma del dialogo, invece, permette che i due interlocutori possano
comprendersi e favorisce un clima all’interno del quale ognuno si dispone all’ascolto dei pensieri e degli stati
d’animo dell’altro.
3. L’ascolto
È proprio Vascolto la prima condizione che permette di prestare attenzione a chi sta parlando e di
comprendere il suo punto di vista, arrivando gradatamente alla comprensione empatica\ essa consente non solo
di giungere ad una comprensione corretta di ciò che l’altro dice, ma anche di porre attenzione al suo stato
d’animo, al suo punto di vista ed al significato che attribuisce a ciò che sta esponendo. Tale disposizione,
all’interno della relazione, aiuta a non rimanere ancorati ai propri pregiudizi ed al proprio punto di vista, ma
lascia liberi di accogliere un’opinione diversa da quelle personali ed offre, nel contempo, l’opportunità di entrare
nel mondo interiore di chi sta parlando, “sentendo” come egli “sente” e cogliendo il suo modo di ragionare e di
“leggere” se stesso e la realtà.

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Si può suddividere la capacità di ascolto in tre livelli, caratterizzati da certi comportamenti che hanno
effetto sull’efficacia dell’ascolto stesso (Cu- rina Cucchi, Grassi, 2011). Questi livelli non sono da considerarsi
come categorie distinte in cui rientrano tutte le persone: possono sovrapporsi o alternarsi a seconda di ciò che
succede. Appena ci si muove dal livello più superficiale a quello più empatico, la nostra possibilità di
comprendere e comunicare in maniera efficace cresce.
L’efficacia dell’ascolto può variare per diverse ragioni: ci sono situazioni e persone che limitano o
aumentano tale efficacia. Questo può accadere, ad esempio, quando c’è conflitto tra persone, quando l’emotività
sale, quando ci viene rivolta una crìtica, quando esiste molta distanza di potere o classe sociale, ecc. Anche i
dispiaceri, l’umore del momento, la non disponibilità e la preoccupazione possono alterare la capacità di
ascolto: è diffìcile, infatti, concentrarsi sugli altri quando si è troppo presi da problemi personali.
Se l’ascolto è insoddisfacente, l’interlocutore può sentirsi frustrato per non aver potuto completare il
discorso o nel vedere non compreso il proprio pensiero e può provare il desiderio di terminare il discorso o di
ristabilire il significato che voleva affermare: “Ma non volevo dire questo”, “Lasciami finire il discorso”. In
queste situazioni l’ascolto diviene inefficace o passivo o parziale.
Riprendendo i livelli sopra accennati, quello più superficiale, Vascolto passivo, è “a scatti”: colui che
ascolta si sintonizza alternativamente sulla conversazione ed è maggiormente centrato su se stesso, è senza
reazioni e spesso finge attenzione mentre pensa ad altro, formula giudizi, replica, consiglia o prepara ciò che
vuole dire dopo.
Al livello di ascolto intermittente, invece, la persona “sente”, ma non “ascolta” veramente: si trova ancora
ad un livello superficiale nella comunicazione e non comprende i significati più profondi di ciò che l’altro sta
comunicando. Tende ad ascoltare “logicamente” ed è interessata più al contenuto che al vissuto comunicato,
rimanendo così “staccata” dalla comunicazione. Anche in questo caso possono esserci incomprensioni tra i due
interlocutori.
Il terzo livello è caratterizzato dall’ascolto empatico: in questo caso l’uditore si astiene dal giudicare
l’interlocutore, cercando di mettersi nei panni dell’altro e tentando di vedere le cose dal suo punto di vista.
L’atteggiamento è consapevole, attento, presente, di chi conferma e risponde non lasciandosi distrarre. Chi
ascolta empaticamente pone interesse al linguaggio del corpo, ai pensieri e ai sentimenti dell’altro e “sente” di
dare solo attenzione all’ascolto; inoltre mostra, sia verbalmente che non verbalmente, che sta realmente
ascoltando, domandandosi cosa l’altro sente e prova e “filtrando” le domande su tale base.
Fig.2
L’immagine ci permette di comprendere meglio il concetto di empatia: una persona sostiene di avere
davanti un 9, mentre l’altra dice che il numero in questione è il 6, Potrebbero discutere tutta la vita senza
soluzione; l’unico possibile accordo, consiste nel vedere il numero mettendosi dal punto di vista
dell’interlocutore: questa è empatia.
L’atteggiamento del formatore che ascolta, pertanto, equivale ad una via di accesso privilegiata non solo
alle parole, ma anche al tema affettivo di fondo ed al significato che il candidato annette al proprio messaggio.
Una disposizione di questo tipo all’interno del colloquio, permetterà al formatore di comunicare
sicuramente in maniera più efficace: proprio perché ascoltando egli avrà avuto la possibilità di creare un clima
accogliente e di comprendere meglio il candidato nella globalità della sua persona, potrà a sua volta parlare,
esprimendosi non con Vintento di doverlo “convincere”, ma facendo conoscere le proprie disposizioni interiori e
le motivazioni che internamente lo animano.
Se, come è stato affermato all’inizio del capitolo, l’obiettivo della formazione è guidare il formando a
coltivare in tutta la sua esperienza gli stessi sentimenti del figlio, cioè guidarlo nello sperimentarsi figlio amato
dal Padre, è comprensibile come tale esperienza possa passare anche attraverso la relazione con il formatore il
quale, utilizzando anche lo strumento del colloquio individuale, con la sua accoglienza, disponibilità e ascolto
(amore alla persona), può favorire rincontro con l’amore di Dio.
3.1. L’assertività
Un altro aspetto della comunicazione, su cui è importante soffermarsi, riguarda la modalità di esprimere
messaggi, da parte del formatore, che possano contribuire a far sentire il formando accolto e non giudicato
all’interno della relazione. La possibilità di inviare dei messaggi chiari e non di manipolazione e controllo
sull’altro si poggia sulV assertività. L’assertività (dal latino “asserere” che significa “asserire”), o asserzione (o
anche affermazione di sé), è una caratteristica del comportamento umano che consiste nella capacità di
esprimere in modo chiaro ed efficace le proprie emozioni e opinioni, senza tuttavia offendere né aggredire
l’interlocutore. Essa consente, dunque, di esprimere la propria realtà interiore attraverso messaggi che non
contengano valutazioni, giudizi o interpretazioni sull’altro. Un esempio di questo tipo di messaggi sono i
cosiddetti messaggi Io o messaggi in prima persona (Marmocchi, Dall’Aglio, Zannini, 2004),
Esistono diversi tipi di messaggio Io, ad esempio i “Messaggi in Prima Persona Positivi”, che possono
contribuire a rafforzare il rapporto: comunicano sentimenti positivi e descrivono gli effetti positivi che il
comportamento dell’altro ha su di noi. In questo modo, la persona si sente riconosciuta e apprezzata e si evita un
giudizio che implica una valutazione del suo comportamento. Infatti, anche se il messaggio dovesse contenere
una valutazione positiva, quindi un giudizio positivo, esso non permetterebbe l’esplicitazione dei propri vissuti
che, invece, rappresenta un elemento importante che migliora la relazione. Ad esempio, un messaggio del tipo
“Sei stato bravo a fare questa cosa”, potrebbe essere espresso sotto forma di messaggio Io nel modo seguente:
“Apprezzo molto” oppure “Mi fa molto piacere che hai fatto questa cosa”.
Un altro tipo di messaggi sono i “Messaggi in Prima Persona Dichiarativi”: essi esprimono sentimenti,
convinzioni, opinioni personali, permettendo una maggiore conoscenza reciproca e favorendo l’instaurazione di
un rapporto più intimo e sincero. Ad esempio: “Per me è molto importante che rispettiamo gli orari” (opinione);
oppure: “Oggi sono un po’ stanco e faccio fatica a darti l’aiuto che mi hai chiesto” (stato fisico); o ancora: “Mi

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1
fa piacere quando troviamo del tempo per parlare insieme” (stato emotivo).
I messaggi Io includono anche i “Messaggi in Prima Persona Preventivi”: questi mettono a conoscenza
l’interlocutore dei nostri bisogni futuri, favorendo nell’altro la possibilità di collaborare rispetto al nostro
bisogno e prevenendo il conflitto. Un esempio di questo tipo di messaggi: “Nella prossima riunione avrei
bisogno di terminare in orario perché ho un appuntamento”.
I “Messaggi in Prima Persona di Confronto”, infine, possono essere utili ad affrontare una situazione di
conflitto, ad esempio quando si è feriti o ostacolati dal comportamento dell’altro. Facendo ricorso a questa
modalità comunicativa è possibile l’espressione dei propri bisogni nella speranza che l’altro cambi
comportamento. Possono presentarsi, infatti, situazioni in cui gli altri mettono in atto comportamenti che non
accettiamo e che suscitano in noi emozioni negative (ad esempio fastidio, risentimento, impotenza, disagio). In
questi casi, pur cercando di comprendere l’altro, occorre affrontare la situazione esponendo con chiarezza e
determinazione un tipo di messaggio che, non giudicandolo o colpevolizzandolo, possa nello stesso tempo
permettere di comunicare il nostro vissuto e le nostre opinioni. Ciò consente di riconoscere come proprie le
difficoltà e i sentimenti provati, comunicandoli in modo chiaro e comprensibile. Questo tipo di messaggio può
essere suddiviso in tre parti: 1. descrizione oggettiva e non valutativa, né interpretativa del comportamento
che non accettiamo; 2. esposizione degli effetti concreti e tangibili che questo comportamento ha sul
lavoro che si sta svolgendo insieme (ad esempio in un percorso di discernimento vocazionale); 3. sentimenti
che si provano a riguardo. Rispetto all’ultimo punto, ovviamente, è importante essere consapevoli dei propri
sentimenti e decidere se è opportuno manifestarli in quel contesto.
Questo tipo di messaggio lascia all’altro la libertà di decidere se modificare o meno il suo comportamento o
atteggiamento. Se lo si ritiene utile, si può segnalare quale potrebbe essere il comportamento adeguato sotto
forma di desiderio o invito, quindi non di ordine o di comando.
3.2. Le “barriere alla comunicazione”
Altro aspetto fondamentale da considerare è la descrizione di alcune modalità di scambio che, utilizzate dal
formatore, potrebbero impedire la creazione di un clima di accoglienza all’interno della relazione ed interferire
con uno scambio efficace. A tale scopo si può immaginare una situazione in cui una formanda, confidandosi con
la formatrice afferma: “Non so proprio cos’ho che non va...prima a suor Marta ero simpatica...ma ora non
più...non scende più a parlare con me...e se la cerco, la trovo sempre insieme a suor Paola...e loro due
parlano, si confidano a lungo e io resto lì da sola... le odio tutte e due...e questa cosa mi fa stare molto
male”. A questo punto si può provare a scrivere su un foglio la risposta che si darebbe a questo tipo di
messaggio. Se si confrontasse la nostra risposta con quella di un gruppo di persone, molto probabilmente ci si
troverebbe di fronte ad una serie di messaggi diversi, che potrebbero essere classificati in categorie che sono più
o meno dodici. Qui di seguito sono descritte nello specifico tali categorie, definite barriere alla
comunicazione, all’interno
delle quali possono essere raggruppati quei messaggi che, appunto, possono
ostacolare una comunicazione efficace.
1. Dare ordini, dirigere, comandare: in questo caso la persona comunica al suo interlocutore di fare qualcosa
sotto forma di ordine o di comando. Inviare messaggi di questo tipo può comunicare che i sentimenti
dell’altro non sono importanti e che egli debba conformarsi ai nostri sentimenti e ai nostri bisogni,
inducendolo cosi a non sentirsi accettato così com’è in quel determinato momento e che non c’è fiducia
nelle sue capacità. Questo atteggiamento può provocare risentimento o rabbia, minacciando, in questo
modo, la creazione di un clima relazionale accogliente.
2. Mettere in guardia, ammonire, minacciare: frasi del tipo “Se lo fai te ne pentirai”, oppure “Attento che...”
ecc., rappresentano messaggi che hanno in comune il sottolineare alla persona quali potrebbero essere le
conseguenze delle sue azioni. Come nel caso precedente, ciò potrebbe provocare nell’altro ostilità e
risentimento e la sensazione di non sentirsi accettato all’interno della relazione.
3. Esortare, moralizzare, fare la predica: questa categoria include messaggi del tipo “Dovresti...”, “E bene
che tu...”, che in genere consistono nel dire alla persona cosa dovrebbe fare o cosa sarebbe bene che
facesse. Porsi in questo modo all’interno della relazione, può far pesare sull’altro la dimensione del dovere
e degli obblighi, mandando un messaggio di sfiducia sulla sua capacità di giudizio, e può indurlo a credere
che è meglio accettare ciò che gli altri considerano “giusto”. In questo modo l’interlocutore può facilmente
sperimentare sensi di colpa.
4. Consigliare, offrire soluzioni o suggerimenti', questo tipo di messaggi consiste nel dire alla persona come
risolvere un problema, nel dargli consigli e suggerimenti e nel fornirgli risposte e soluzioni. In alcuni casi
questa modalità relazionale può essere interpretata dall’altro come prova del fatto che non ci si fida delle
sue capacità di giudizio o di trovare soluzioni. Inoltre, se utilizzata spesso, può indurre una dipendenza nei

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confronti del formatore, inficiando la crescita personale del formando, che non viene messo nella
condizione di trovare soluzioni proprie oppure, in alcuni casi, alimentando un senso di inferiorità.
5. Insegnare, argomentare, persuadere: se la relazione si irrigidisce nel cercare di influenzare la persona con
fatti, argomentazioni, ragionamenti, informazioni o con le proprie opinioni, essa può assumere caratteri-
stiche simili ad un rapporto del tipo “insegnante-studente”, con la possibilità di far sentire l’altro inferiore,
inadeguato e, anche in questo caso, non compreso nel proprio vissuto.
6. Giudicare, criticare, opporsi, biasimare: i messaggi che vengono inviati all’interlocutore sotto forma di
critica, come un giudizio o una valutazione negativa, sono quelli che, forse più di tutti gli altri, fanno sentire
l’altro inadeguato, inferiore, stupido, indegno, cattivo, contribuendo ad alimentare tale immagine all’interno
della relazione con il rischio di indurlo, nel tempo, a giudicarsi secondo tali categorìe. Inoltre, le critiche
possono contribuire a determinare una relazione conflittuale, invece che accogliente, inducendo l’altro ad
un atteggiamento difensivo che può tradursi o in un “contrattacco” o in una “chiusura” (nascondimento dei
propri sentimenti) e determinando l’accrescersi di sentimenti di ostilità. Com’è comprensibile, in questi casi
la comunicazione è fortemente ostacolata e la persona non si sente accolta.
7. Elogiare, assecondare', contrariamente ad un’opinione diffusa, a volte questo tipo di messaggi può avere
effetti negativi; infatti, in alcuni casi, la valutazione positiva può non coincidere con l’idea che l’altro ha di
sé in quel momento: in questo caso, dunque, non c’è “comprensione empa- tica”. In altri casi, l’altro può
“dedurre” che, come può essere giudicato positivamente, potrebbe esserlo anche negativamente. Inoltre, se
gli elogi positivi sono frequenti, un’assenza di elogio potrebbe anche essere interpretata come una critica o,
in altri casi ancora, il ricevere spesso elogi potrebbe condurre l’altro a dipendere da essi.
8. Etichettare, ridicolizzare, umiliare: anche questo tipo di messaggi può avere effetti devastanti
sull’immagine di sé dell’altro; frasi del tipo “Sei un viziato...”, “Non fare il sapientone...” sono umilianti e
contribuiscono farlo sentire indegno, cattivo e soprattutto “non amato”, inquinando la relazione.
9. Interpretare, analizzare, diagnosticare', dire alla persona quali sono i motivi del suo comportamento o
analizzare perché sta facendo o dicendo qualcosa, comunicare la propria “diagnosi” o “interpretazione”,
può generare sentimenti di imbarazzo nella persona, perché può farla sentire “smascherata” (nel caso in cui
l’interpretazione sia giusta) o (se sbagliata) può generare sentimenti di rabbia perché può sentirsi non capita
o ingiustamente accusata; ad esempio: “Lo fai solo per attrarre attenzione”.
10. Rassicurare, simpatizzare, consolare, sostenere', a volte cercare di far sentire l’altro meglio, di distrarlo
dal suo stato d’animo, di dissipare le sue emozioni, di negare la pesantezza dei suoi sentimenti può portare
ad inviare messaggi che, tuttavia, possono essere alimentati da una nostra difficoltà ad entrare a contatto
con il suo disagio. In tali circostanze inviare messaggi consolatori o di rassicurazione può comunicare
all’altro il nostro desiderio che egli smetta di sentirsi in un determinato modo. Tale atteggiamento porta a
minimizzare il vissuto altrui e la comunicazione può arrestarsi.
11. Inquisire, fare domande, indagare: questo tipo di “barriera” riguarda

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r atteggiamento “indagatorio”, già accennato precedentemente, che può assumere il formatore nella relazione,
ponendosi al suo interlocutore in modo disfunzionale. Cercare ragioni, motivi, cause, richiedere altre in-
formazioni, può indurre l’altro a credere che non si abbia fiducia in lui o che sì nutrano dubbi o sospetti nei suoi
confronti. Ciò può generare nell’interlocutore sentimenti di ansia e, ancora, rendergli più difficoltosa la
possibilità di “mettersi a fuoco” nel tentativo di trovare una soluzione propria.
12. Minimizzare, cambiare argomento, scherzare, distrarre : soprattutto nei casi in cui l’altra persona
sottopone una questione, inviare messaggi che sono diretti a distogliere l’attenzione dal problema, tirarsi
indietro, tentare di distrarla, anche facendo delle battute di spirito, può comunicare un disinteresse per
l’altro e che i suoi sentimenti non sono rispettati o addirittura rifiutati. Ciò può portarlo ad interrompere la
comunicazione, suscitando sensi di colpa, senso di inadeguatezza, riducendo l’autostima ed innescando
meccanismi difensivi.
Le descrizioni fin qui riportate sono da considerarsi come un ulteriore strumento di cui avvalersi all’interno
del colloquio nel processo formativo. Ovviamente, come per le altre nozioni sulla comunicazione descritte nel
presente capitolo, sono da intendersi non tanto come una regola da applicare rigidamente, quanto piuttosto come
un insieme di informazioni aggiuntive che il formatore può utilizzare nelle diverse situazioni che affronta
nell’incontro con il chiamato. Sono importanti nella misura in cui, attraverso di esse, è possibile riconoscere il
proprio modo di rispondere all’interno dello scambio comunicativo e per comprendere come sì parla, ovvero in
che modo sono inviati i messaggi al ricevente. Questo aspetto è molto importante; infatti, come viene chiarito in
maniera più specifica nel paragrafo inerente alcuni cenni sulla teoria della pragmatica della comunicazione
umana15, ogni volta che parliamo “a qualcuno” diciamo qualcosa “su di lui” definendo, in questo modo, la
relazione. Dunque, ogni volta che mandiamo un messaggio, comunichiamo, anche ad un altro livello, cosa
pensiamo dell’altro e cosa “sentiamo” per lui: in questo modo, gradualmente, l’altro costruisce un’immagine di
come lo percepiamo come persona.
Per non ostacolare, quindi, la creazione di un rapporto aH’intemo del quale il formando possa sentirsi
accolto, il formatore, oltre che sapersi riconoscere in qualche possibile “barriera”, può anche avvalersi di una
modalità efficace e costruttiva di rispondere ai messaggi dell’altro, ricorrendo, ad esempio, alle cosiddette
“frasi-invito”. Messaggi del tipo: “Capisco”, “Davvero”, “Raccontami”, “Di che cosa si tratta?”, “Cosa vuoi
dire?”, “Parla, ti ascolto”, “Spiegami meglio”, costituiscono risposte che non veicolano giudizi o sentimenti ma
che, semplicemente, incoraggiano a parlare aprendo le porte alla comunicazione.
3.3. L'ascolto attivo
Un’altra modalità che non consente semplicemente di aprire la comunicazione, ma di tenerla aperta,
consiste nel cosiddetto “ascolto attivo”. Ricordiamo che nel momento in cui il mittente invia un messaggio av-
viene un processo di codifica, che consiste, appunto, nel selezionare dei segnali che permettano di rappresentare
lo stato in cui si trova in quel momento. A questo punto, perché la comunicazione sia efficace, il ricevente deve
“decodificare” tale messaggio, processo che permette di comprendere il significato di ciò che sta realmente
accadendo “dentro” l’altro. Un fraintendimento nella comunicazione può avvenire nel momento in cui il rice-
vente attribuisce un significato diverso da quello che realmente il mittente intendeva mandare. Si può allora
decidere di verificare l’accuratezza del messaggio ricevuto tramite feedback, cioè esprimendo la propria
decodifica e consentendo all’altro di inviare eventuali messaggi di rettifica.
Con l’ascolto attivo, dunque, il ricevente tenta di capire i sentimenti del mittente ed il significato del suo
messaggio ed esprime con parole proprie ciò che ha compreso, attendendo conferma. Il ricevente, allora, non
invia un messaggio proprio, cioè una valutazione, un’opinione, un consiglio, ma invia esclusivamente la propria
decodifica del messaggio ricevuto.
Questa modalità aiuta l’altro a prendere coscienza del proprio vissuto e promuove l’intimità airintemo della
relazione.
3.4. Il “silenzio”
Entrando ancora più nello specifico del dialogo e dell’ascolto non si può tralasciare l’importanza che
costituisce, all’interno di questo processo, la condizione del silenzio. Esso rappresenta una componente
essenziale del colloquio, in quanto non può esserci ascolto se non c’è silenzio. Quando si è interessati ad
ascoltare, come anche quando si ha stima e amore per chi sta parlando, si rimane spontaneamente in silenzio.
Esso permette non solo di ricevere il messaggio di chi parla, ma anche di prendere contatto con se stessi,
facendo un silenzio interiore. Un silenzio, quindi, che riguarda anche quello delle proprie idee e dei propri
sentimenti, che conduce ad un atteggiamento eterocentrìco e quindi ad un ascolto “vero”.
Sicuramente il silenzio, soprattutto quello interiore, non è una condizione che si improvvisa, ma rappresenta
anch’esso un cammino personale che permette, a poco a poco, di vivere il rapporto con se stessi e con gli altri in
15 Cfr. § 5.

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maniera più profonda e proficua.
La disposizione al silenzio, nell’ascolto dell’altro, si traduce anche nel rispetto delle pause nel fluire
narrativo di chi parla. Queste possono avere diversi significati che possono essere colti solo se si sta veramente
ascoltando; rispettarle offre l’opportunità di accogliere le dinamiche interiori dell 'interlocutore.
Una pausa può esprimere una difficoltà a continuare il colloquio, richiedendo un intervento da parte di chi
ascolta. Altre volte, invece, può rappresentare un blocco emotivo o un bisogno di riflettere; in altri casi ancora
può indicare un momento in cui la carica emotiva, che accompagna le “parole” di chi le sta pronunciando,
diviene così intensa che, quella pausa e quel silenzio, comunicano essi stessi un’informazione importante.
4. Il corpo si fa “parola”
Queste ultime osservazioni permettono di introdurre una distinzione importante che deve essere fatta tra la
comunicazione verbale e quella non verbale. Lo scambio comunicativo tra i due partecipanti alla relazione è
generalmente mediato dalla parola, che rappresenta l’elemento principale della comunicazione verbale.
Tuttavia è importante considerare anche tutto ciò che nell’interazione non viene verbalizzato ma che, allo stesso
tempo, costituisce un veicolo fondamentale della trasmissione dell’informazione (Pa- luzzi, 2003).
Nello scambio verbale sono coinvolti elementi come l’intonazione della voce, la mimica, la postura ed ogni
altro aspetto del corpo, che forniscono informazioni importanti e che influenzano gli interlocutori nel processo
comunicativo: essi rappresentano alcune dimensioni della comunicazione non verbale che, se “ascoltati”,
possono essere preziosi per giungere ad una maggiore comprensione dell’altro e possono orientare il formatore
verso una comunicazione più efficace.
Un elemento non verbale importante riguarda, per esempio, Vespressione del volto e quindi tutti quei
mutamenti nella posizione degli occhi, della bocca, dei muscoli facciali, ecc. Il volto diviene così uno
“specchio” che riflette gli atteggiamenti e le emozioni della persona: ad esempio, il contatto degli occhi insieme
ad un sorriso possono indicare soddisfazione e conlentezza; oppure un volto sul quale appare un “rossore” può
essere indice di imbarazzo, disagio o ansia.
Elemento molto importante è rappresentato dallo sguardo nell’instaurarsi delle relazioni e nel comunicare
atteggiamenti interpersonali. Attraverso l’espressione degli occhi la persona può comunicare diverse
informazioni: ad esempio, un contatto diretto con gli occhi può indicare attenzione, voglia di contatto o affetto.
Uno sguardo “sfuggente”, che difficilmente incontra quello dell’interlocutore, può essere invece segno di
rispetto, oppure di soggezione o interruzione del contatto. Se gli occhi si muovono velocemente, questo può
essere un segnale di entusiasmo, oppure di curiosità o di ansia.
Anche la postura del corpo, nelle sue diverse espressioni, può indicare una varietà di emozioni: ad
esempio, le braccia incrociate possono indicare chiusura emotiva oppure riposo; braccia distese e rigide con
pochi movimenti possono essere espressione di rabbia e tensione. Anche le gambe incrociate possono indicare
chiusura emotiva, come anche riservatezza o riposo.
Nell’ambito della dimensione paralinguistica, si possono considerare il tono della voce, le vocalizzazioni16,
le pause del silenzio, ecc. Una voce bassa può esser segno di timidezza o esprimere una difficoltà ad aprirsi,
come rapidi cambiamenti di tono possono accompagnarsi a cambiamenti di stati d’animo. Un’esitazione o delle
interruzioni possono essere dovute ad uno stato di disagio o di ansia.
È opportuno sottolineare che gli indicatori fin qui riportati rappresentano solo alcuni dei comportamenti non
verbali che possono entrare in gioco nella comunicazione e non devono essere considerati riduttivamente come
se avessero un significato intrinseco. Essi non possono essere letti separatamente l’uno dall’altro, ma è
necessario contestualizzarli all’interno della relazione che si stabilisce tra formatore e candidato e sono solo un
esempio di come, all’interno del colloquio, il corpo può farsi “parola”.
5. Cenni sulla pragmatica della comunicazione umana
Alla luce dei concetti di comunicazione verbale e non verbale sopra accennati, è comprensibile come, in
una situazione di interazione, tutto il comportamento veicola informazioni ed ha un valore comunicativo, indi-
pendentemente dalle intenzioni consapevoli degli interlocutori. Inoltre è importante sottolineare come nello
scambio comunicativo tra due persone, quando uno dei due si rivolge all’altro dicendo qualcosa, non descrive
semplicemente il proprio stato soggettivo, il proprio vissuto ma, implicitamente, tende a definire la relazione,
“suggerendo” all’interlocutore di assumere un comportamento in funzione di quanto ha espresso.
Alcuni autori (Watzlawick, Beavin, Jackson, 1971) hanno concettualizzato il processo della comunicazione
umana attraverso alcuni assiomi (principi).
Nel primo assioma si afferma che non sì può non comunicare perché è impossìbile non avere un
comportamento.
16 Si intende con questo termine tutta quella varietà di suoni come ad esempio piangere, ridere oppure sbadigliare o
sospirare.

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5
Questo principio è comprensibile anche alla luce dei diversi esempi sopra esplicitati rispetto al silenzio.
Anche se Vinterlocutore non dice nulla, il suo comportamento, come appunto il restare in silenzio, ha comunque
valore di un messaggio che influenza a sua volta la risposta dell’altro.
Il secondo assioma afferma che ogni comunicazione è caratterizzata da un aspetto di contenuto e da
uno di relazione in cui il secondo classifica il primo determinando una metacomunicazione.
Ciò significa che, oltre a trasmettere un’informazione, la comunicazione impone un comportamento
all’interno della relazione: se un interlocutore afferma: “sto scherzando”, sta “comunicando sulla sua
comunicazione” (metacomunicazione). Pertanto, il primo livello della comunicazione è rappresentato dal
contenuto, cioè da ciò che si dice, ed avviene attraverso quello che gli autori definiscono linguaggio numerico,
esaminato, insieme a quello analogico, nel quarto assioma. Il secondo livello riguarda la relazione tra gli
interlocutori, cioè le definizioni che ognuno dà di se stesso, e si svolge tramite il linguaggio analogico, ossia la
comunicazione non verbale, che chiarisce il significato delle parole.
Il terzo assioma afferma che la natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di
comunicazione tra i comunicanti.
Ad esempio, un osservatore esterno che assiste ad un dialogo tra i due interlocutori, può considerare la loro
comunicazione come una serie ininterrotta di scambi. Coloro che, invece, partecipano all’interazione
introducono una “punteggiatura”; quindi una persona può ritenere che il suo comportamento sia solo una
reazione a quella dell’altro, non rendendosi conto di quanto egli stesso contribuisca a determinare il
comportamento dell’altro. Ognuno considera il suo comportamento come effetto di quello dell’altro non
accorgendosi che ne è anche la causa.
Nel quarto assioma si afferma che gli esseri umani comunicano attraverso il linguaggio numerico e
quello analogico.
Il linguaggio numerico (aspetto di contenuto) è quello che riguarda l’uso delle parole, cioè segni arbitrari
dovuti ad una convenzione semantica che seguono le regole della grammatica e della sintassi. Esso serve a
scambiare informazioni e a trasmettere conoscenze.

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6
Per linguaggio analogico (aspetto di relazione) si intende ogni comunicazione non verbale, che non
riguarda quindi la sintassi o la grammatica, ma la semantica. Spesso, infatti, le parole non sono sufficienti a far
capire il senso della nostra comunicazione, occorre una particolare inflessione della voce, un gesto, una mimica,
perché la nostra comunicazione sia chiara: una stessa comunicazione può sembrare offensiva in un contesto e un
semplice scherzo affettuoso in un altro. Il linguaggio analogico, quindi, riguarda la relazione tra due o più
persone e ne chiarisce le reciproche dinamiche.
Mei quinto ed ultimo assioma si afferma, infine, che tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o
complementari.
Nell’interazione simmetrica la relazione è basata sull’uguaglianza: il modello di comportamento dell’uno
tende a rispecchiare quello dell’altro, cioè i due interlocutori si trovano ad uno stesso livello di comunicazione.
Nell’interazione complementare la relazione è basata sulla differenza per cui le due posizioni degli
interlocutori sono diverse: una è superiore (one-up) e l’altra è inferiore {one-down). Ad esempio, una relazione
di questo tipo si può osservare nel rapporto madre {one-up) e bambino {one-down).
Alla luce di quanto è stato osservato nel presente capitolo, sono importanti alcune considerazioni. Il
percorso che si è tracciato, attraverso le tematiche affrontate, si presta ad essere considerato come una serie di
indicazioni che possono favorire l’instaurarsi di una relazione più efficace tra formatore e candidato.
Più che una serie di tecniche da applicare in modo standardizzato, lo spazio dedicato in questo capitolo al
colloquio si può allora intendere come uno spunto di riflessione: l’incontro che avviene tra formatore e
candidato è unico, irripetibile, come uniche e irripetibili sono le persone che vi partecipano. Non esiste quindi
una modalità rigida per rapportarsi di volta in volta all’altro, ma è necessario disporsi sempre con un
atteggiamento di apertura e curiosità rispetto a quell’“unicità” che si ha di fronte.
Se formare è un servizio, la disposizione interiore sarà quella di un grande rispetto della persona umana
nella quale sta operando la grazia misteriosa di Dio. Questo rispetto non deve essere pregiudicato dalla pretesa
di risolvere i problemi dell’altro, sostituendosi completamente nelle decisioni del candidato ed assumendo così
un atteggiamento direttivo e dominante. Quello del formatore sarà piuttosto un atteggiamento recettivo, di
accoglienza, che si apre, senza prevenzioni o difese, al “vero” ascolto.
5. La motivazione umana alla condotta morale: una nuova ipotesi di
interazione tra fattori cognitivi, emotivi-affettivi e tendenze
all’azione
«Sul rotolo del libro di me è scritto, che io faccia il tuo volere.
Mio Dio, questo io desidero, la tua legge è nel profondo del mio cuore» (Sai 40,8b-9)
Introduzione
Il comportamento deiruomo è influenzato da molteplici variabili. Pur osservando una condotta esteriore
eticamente irreprensibile, un individuo potrebbe, a livello intrapsichico (pensieri, motivazioni, desideri,
emozioni, intenzioni ad agire), non aderirvi pienamente. Ad esempio un individuo, in un gruppo, potrebbe non
parlare male di un altro per paura di essere criticato e non perché aderisca intimamente al valore del rispetto
altrui. È quindi da un’analisi più profonda dei comportamenti individuali che possiamo evincere la maturità
morale di una persona: se e quanto abbia scoperto autenticamente ciò che è bene e vi si orienti lìberamente
(Bresciani, 1993).
Le scienze psicologiche, attraverso il metodo sperimentale, hanno tentato di penetrare i meccanismi dello
sviluppo morale dell’uomo esaminando il processo che conduce alla formazione della coscienza morale e
utilizzando, in genere, come contenuti della stessa, categorie concettuali riconducibili, in qualche modo,
all’analisi etica tradizionale, come quelle presenti all’apice dello sviluppo morale proposto da Kohlberg (1971,
1976). Il tema tuttavia non si esaurisce nell’ottica dei livelli di giudizio morale (preconvenzionale,
convenzionale, post-convenzionale) proposti dall’autore, ma, utilizzando un approccio interdisciplinare,
possiamo arrivare a concepire la vita morale anche come dono di sé, nella carità1. Tratteremo quindi il 17 tema
dei comportamenti morali da un punto di vista psicologico, ma avendo come riferimento un’antropologia
cristiana.
Gli autori che troviamo nella letteratura psicologica si sono interrogati prevalentemente sul come avvenga
lo sviluppo morale dell’individuo, piuttosto che sul cosa, vale a dire a quali valori formarlo o a quale tipo di co-
scienza morale. Ogni autore ha sottolineato aspetti diversi di questo processo, in una molteplicità di prospettive
che rende ragione della ricchezza deiroggetto di studio.
Inizieremo con due interrogativi: dal momento in cui la coscienza di un individuo lo aiuta a conformarsi
alle norme della moralità, a quale moralità fanno concretamente riferimento i suoi atti: a valori cristiani o a
quelli del “mondo”? E dal momento in cui il formando alla vita consacrata o ministeriale proviene dal mondo18
quali valori troviamo, al giorno d’oggi, nella nostra cultura?
1. Quali valori esprimono i miei comportamenti?
La nostra società occidentale sembra dichiarare a sé stessa alcuni valori guida, ma nella prassi incoraggiarne
altri. Ad esempio, in nome della audience assistiamo in televisione a dibattiti politici all’insegna della sopraf-
fazione e dell’offesa. Comportamenti di solidarietà vengono presentati dai mezzi d’informazione di massa
(giornali, riviste, cinema, radio, televisione) come eccezionali, rafforzando in qualche modo l’idea che la
normalità non preveda gesti di mutuo soccorso, accordo, accoglienza, fratellanza, generosità e così via. In verità
esistono moltissime persone che compiono (spesso nel segreto) opere di bene, atti di carità e di perdono, ma
questi comportamenti non sono sotto i riflettori mediatici e per questo siamo tentati di sottovalutarne o ignorarne
la reale diffusione. Nello stesso tempo, sotto i nostri occhi, vi sono pochi modelli comportamentali virtuosi:
basti pensare agli atti compiuti nel traffico, nelle riunioni condominiali o nello sport, spesso ambito di truffe,
insulti, non rispetto del fair play o a forme di ostilità più o meno diretta verso chi è diverso per qualche
caratteristica fisica, comportamentale, culturale o sociale. Trasgredire le regole può addirittura sembrare
premiato: pensiamo a quanti vengano resi noti al grande pubblico per le loro condotte immorali (ad esempio
oggetto di indagini per reati civili o penali) e successivamente, non di rado, “paparazzati” in eventi riservati ai
VIP o invitati come celebrità nei programmi televisivi, diventando oggetto di gossip e curiosità, in un vortice
che finisce spesso per confondere visibilità con popolarità. A volte può essere addirittura considerato “stolto”19

17 Nel capitolo partiamo dalla dimensione umana dell’amore, per arrivare alla carità la quale è, in sé stessa, un dono
di Dio alfuomo «la carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dìo sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo
come noi stessi per amore di Dio» (Chiesa Cattolica, Catechismo della Chiesa Cattolica, Città del Vaticano, 1992, n. 1822).
18 «Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal
mondo, per questo il mondo vi odia» (Gv 15,19).
19 Spesso nella Scrittura si contrappone l’uomo saggio a quello stolto. Il primo pur sbagliando è in grado di
ravvedersi, il secondo sembra quasi impossibilitato a farlo «anche se tu pestassi lo stolto nel mortaio tra ì grani con il
pestello, non scuoteresti da lui la sua stoltezza» (Pr 27,22). Sempre sulla saggezza: «Conclusione del discorso, dopo che si è
ascoltato ogni cosa: Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché questo per l’uomo è tutto. Infatti, Dio citerà in
giudizio ogni azione, tutto ciò che è occulto, bene o male» (Qo 12,13-14).

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e non “saggio” chi rispetti le regole, rovesciando diametralmente la prospettiva biblica (e morale).
A rendere lo scenario morale attuale ancora più articolato concorrono le caratteristiche proprie del nostro
tempo, definito modernità liquida (Bauman, 2002) e dei suoi abitanti. Quando parliamo di regole da seguire
sottintendiamo, in qualche modo, che l’individuo sia un’unità integrata in grado di scegliere o meno per che
cosa optare. Le regole possono essere rispettate coerentemente qualora la persona non sia frammentata al
proprio interno. Eppure oggi l’identità, più che frammentata, appare liquida, ambigua. La stessa persona può
emettere comportamenti contraddittori tra loro che non esprimono la manifestazione di un conflitto di
intenzioni, ma rispondono a differenti parti di sé, varie identità, ognuna delle quali (amico, amante, genitore,
lavoratore, coniuge, professionista, volontario e così via) potrebbe avere, incoerentemente, degli specifici valori
di riferimento. La nostra società ha oltrepassato probabilmente una rassicurante categorizzazione del reale, per
essere entrata in uno spazio dove “regole e trasgressioni si fondono in un fluido indistinguibile”*. L’uomo
del terzo millennio più che ad un prisma, ricco di sfaccettature, somiglierebbe ad una nebulosa dagli - aspetti
indefiniti, ognuno dei quali avrebbe la capacità di seguire a modo proprio le regole (o crearsene addirittura di
proprie).
Dati questi brevi spunti intuiamo la complessità del tema e l’incertezza dei nostri tempi. Ma quali sono i
valori morali sottesi alla nostra cultura occidentale? Se ci basassimo su una lettura superficiale del reale
concluderemmo amaramente che alcuni dei valori-guida attuali siano la falsità, il possesso, la competizione a
tutti i costi, la realizzazione di sé tramite la prevaricazione e la strumentalizzazione dell’altro, il potere, il
denaro, la infedeltà ai progetti, alle relazioni, agli impegni presi, per citarne soltanto alcuni: tutti valori che
ispirano comportamenti contrari al rispetto della persona umana21.
Come siamo arrivati a questa indifferenza verso il prossimo e a quanto offenda la dignità umana? Le
regole morali si sono andate progressivamente indebolendo con raffievolirsi, nella nostra cultura, dei valori
cristiani. L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio ha portato ad una perdita di senso progressiva sia delle
regole che del sacro. I mezzi di comunicazione sociale hanno contribuito purtroppo spesso a diffondere un
clima di relativismo morale. Negli ultimi anni la Chiesa è tornata più volte con insistenza sul tema della
diffusione della secolarizzazione che, in Europa, ha permesso gradualmente l’abbandono degli schemi religiosi e
ha portato la moralità a chiudersi ai valori trascendenti. Sembra quasi che il senso stesso della trascendenza
abbia perso significato, in un mondo volto alla soddisfazione degli interessi personali e non aperto alle esigenze
del bene e alla verità del Vangelo6. I valori cristiani talvolta vengono aggrediti frontalmente, nel nostro clima
intellettuale, più spesso la secolarizzazione sembra farsi strada sommessamente, diffondendo una mentalità in
cui Dio è praticamente assente e con Lui la speranza escatologica. Di fronte alla deriva morale attuale sono
illuminanti le parole di san Giovanni Paolo II:
«E nell'intimo della coscienza morale che Veclissi del senso dì Dìo e delVuomo, con tutte le sue
molteplici e funeste conseguenze sulla vita, sì consuma. È in questione, anzitutto, la coscienza di ciascuna
persona, che nella sua unicità e irripetibilità si trova sola di fronte a Dio. Ma è pure in questione, in un
certo senso, la “coscienza morale ” della società: essa è in qualche modo responsabile non solo perché
tollera o favorisce comportamenti contrari alla vita, ma anche perché alimenta la “cultura della morte”,
giungendo a creare e a consolidare vere e proprie “strutture di peccato ” contro la vita. La coscienza
morale, sia individuale che sociale, è oggi sottoposta, anche per l'influsso invadente di molti strumenti
della comunicazione sociale, a un pericolo gravissimo e mortale: quello della confusione tra il bene e il
male in riferimento allo stesso fondamentale diritto alla vita» 1'.
omicidio, il genocidio, l’aborto, Veutanasia e lo stesso suicìdio volontario; tutto ciò che viola l’integrità della persona
umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, le costrizioni psicologiche; tutto ciò che offende la
dignità umana, come le condizioni di vita subumana, le incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la
prostituzione, il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di lavoro, con le quali i lavoratori
sono trattati come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili: tutte queste cose, e altre
simili, sono certamente vergognose» (Paolo VI (1965), Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo
Gaudium et spes, 7 dicembre, n. 27).
6
Card. Bertone, Discorso Introduttivo, Congresso Intemazionale “Cristianesimo e secolarizzazione. Sfide per la
Chiesa e per VEuropa”, Università Europea di Roma, 29 maggio 2007. Cf. http ://www.vatican.
va/roman_curia/secretariat_state/card-bertone/2007/documents /rc_seg-st_20070529_universita-europea_it.html.
7
Giovanni Paolo II Lettera Enciclica Evangelium vitae ai Vescovi ai presbiteri e ai dia-
Tra i vari aspetti che potrebbero aver contribuito al quadro valoriale attuale vogliamo ricordare anche V
emotivismo, definito come:
«la dottrina secondo cui tutti i giudizi di valore, e più specificatamente tutti i giudizi morali, non sono altro che
espressioni di una preferenza, espressioni dì un atteggiamento o di un sentimento, e appunto in questo consiste il loro
20 http ://www.toninocantelmi. com/ web/article-print-197 .htrnl.
21 Sul rispetto della persona umana: «Ciascuno consideri il prossimo, nessuno eccettuato, come un altro « se stesso »
[...] Inoltre tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di

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3
carattere dì giudìzi morali o di valore» (Macintyre, 1984).
Questo significa che potrei arrivare a considerare “buona” una scelta soltanto perché “piacevole”,
indipendentemente dal valutarla in relazione a criteri (e valori) oggettivi. L’approccio emotivista è soggettivo,
avulso da un piano valoriale oggettivo e trascendente, è legato al momento, non è duraturo (D’Ambrosio, 2009)
e non ha necessariamente il bene o il bene dell’altro come fine.
Sembra che la secolarizzazione non abbia riguardato soltanto il “mondo”, ma abbia teso spesso i propri
lacci anche alla vita religiosa e sacerdotale, indebolendo quella spirituale e carismatica. Ha, infatti, affermato il
Papa Emerito Benedetto XVI: «Il processo di secolarizzazione che avanza nella cultura contemporanea non
risparmia infatti purtroppo nemmeno le comunità religiose »8 e con coraggio, nello stesso discorso, ammette
che talvolta si sia registrata una «stanchezza spirituale e carismatica». In Europa molti ordini e congregazioni,
sia maschili che femminili, hanno visto negli ultimi decenni invecchiare i propri membri, sostituiti soltanto in
parte da nuove vocazioni e dolorosamente, sempre più spesso negli ultimi decenni, alcuni sacerdoti hanno
lasciato il loro ministero ed alcuni religiosi la vita consacrata. La “crisi” delle vocazioni ed il fenomeno degli
“abbandoni” possono essere spiegati da vari fattori; tra questi i problemi affettivi, il conflitto con i superiori, la
crisi di fede, ma anche la secolarizzazione (Oviedo, 2004). Quest’ultima, benché vi siano anche segnali positivi
di rinascita nella Chiesa, potrebbe aver contribuito massicciamente all’eclisse della coscienza morale
dell’uomo di oggi.
Il rischio che noi tutti stiamo correndo sembra essere quello di vivere in un mondo dove la fede sia
irrilevante ed il linguaggio perda ogni riferimento ai valori trascendenti. E poiché anche i religiosi ed i sacerdoti
potrebbero essere lambiti dalla secolarizzazione «le persone consacrate possono e deconi ai religiosi e alle
religiose ai fedeli laici e a tutte le persone di buona volontà sul valore e l’inviolabilità della vita umana, 25 marzo 1995, n.
24.
8
Benedetto XVI Discorso ai membri del Consiglio per i rapporti tra la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata
e le Società di Vita Apostolica e le Unioni Intemazionali dei Superiori e delle Superiore Generali, 18 febbraio 2008.

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vono ripartire da Cristo perché lui stesso, per primo, è venuto incontro a loro e le accompagna nel
cammino»9 così facendo potranno «plasmare le comunità, incidere in profondità mediante la testimonianza
dei valori evangelici nella società e nella cultura»10.
La «dittatura del relativismo»n, sembra aver comportato gravi implicazioni antropologiche che si riflettono
m
anche nella vita della Chiesa, pertanto il formatore dovrà rafforzare anche la retta coscienza12 del candidato alla
vita consacrata o ministeriale e la capacità di valutare se e quando i propri comportamenti incarnino o meno il
Vangelo.
La Chiesa è il «sale»13 necessario in questo tempo anche per combattere V eclissi del sacro14, prima ancora
dell'eclissi della coscienza morale. Afferma san Giovanni Paolo II:
9
Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica Istruzione Ripartire da Cristo: un
rinnovato impegno della vita consacrata nel terzo millennio, 19 maggio 2002, n. 21.
10
Giovanni Paolo II Lettera Apostolica Novo Millennio Ineunte, 6 gennaio 2001.
11
«A 150 anni dalla morte del Santo Curato d'Ars, le sfide della società odierna non sono meno impegnative [...] Se
allora c’era la “dittatura del razionalismo”, all’epoca attuale si registra in molti ambienti una sorta dì "dittatura del
relativismo Entrambe appaiono risposte inadeguate [...] Il razionalismo fu inadeguato perché non tenne conto dei limiti
umani e pretese di elevare la sola ragione a misura di tutte le cose [...]; il relativismo contemporaneo mortifica la ragione,
perché di fatto arriva ad affermare che l ’essere umano non può conoscere nulla con certezza al dì là del campo scientifico
positivo. Oggi però, come allora, l’uomo “mendicante di significato e compimento” va alla continua ricerca di risposte
esaustive alle domande di fondo che non cessa di porsi» (Benedetto XVI, Udienza Generale, 5 agosto 2009).
12
La coscienza è un: «giudizio morale sull’uomo e sui suoi atti: è un giudizio di assoluzione o di condanna secondo
che gli atti umani sono conformi o difformi dalla legge di Dio scritta nel cuore [...] Il giudizio della coscienza è un giudizio
pratico, ossìa un giudizio che intima che cosa l’uomo deve fare o non fare, oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto
[...] La coscienza formula così l’obbligo morale alla luce dalla legge naturale: è l ’obbligo di fare ciò che l‘uomo, mediante
l'atto della sua coscienza, conosce come un bene che gli è assegnato qui e ora» (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica
Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n. 59).
13
«Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato?» (Mt 5,13).
14
«Acquaviva è il primo a teorizzare V "eclissi del sacro " come di un fenomeno di dissacrazione vale a dire
svuotamento di significato dei riti che non permettono più l’esperienza del "radicalmente altro”. Egli identifica due effetti
storici dovuti alla trasformazione industriale della società: il primo è la “secolarizzazione del mondo ”, che vede la realtà
profana auto-legittìmarsi senza ricorso al sacrale-religioso; il secondo è la “secolarizzazione della religione” che si apre al
profano, adeguandosi ai tempi» (Bertolini M., Le teorìe sociologiche sulla secolarizzazione e della rinascita del sacro:
Sacro e religione nell’analisi sociologica, Cf. http://cronologia.leonardo.it/biogra2/sacro01.htm).
«L'uomo può escludere Dio dall’ambito della propria vita. Ma questo non si verifica senza conseguenze gravissime per
l’uomo stesso e per la sua dignità di persona [...] Vallontanamento da Dio porta con sé la perdita di quei valori morali che
costituiscono la base e il fondamento della convivenza umana. E la sua assenza produce un vuoto che si pretende di colmare
con una cultura — o, meglio, pseudocultura - incentrata sul consumismo sfrenato, nell’ansia di possedere e godere, e che
non offre altro ideale se non la lotta per i propri interessi e il piacere narcisista. La dimenticanza di Dìo, l’assenza di valori
morali di cui solo Lui può essere il fondamento, sono anche alla radice dei sistemi economici che dimenticano la dignità
della persona e della legge morale e considerano il lucro come l’obiettivo primario» (Giovanni Paolo II, 1993).
2. Le teorie psicologiche dello sviluppo morale
Molte sono state le teorie psicologiche che hanno tentato di descrivere e spiegare lo sviluppo morale della
persona umana, tra le quali ricordiamo Piaget (1932), Kohlberg (1971, 1976), Emde (1988), Turiel (1983a,
1983b), Hoffman (1984, 2000, 2001) ed Haidt (2001, 2007, 2010). Riportiamo brevemente alcuni spunti,
rimandando il lettore agli autori citati. Tra questi Tosservazione che l’individuo non subisca passivamente
l’educazione valoriale, ma sembri essere un agente attivo del proprio sviluppo morale: osserva gli altri, li prende
a modello e sviluppa articolati sistemi di aspettative situazionali, che ne guidano poi il comportamento.
Per quanto riguarda i metodi educativi (Hoffman, 1970), ve ne possono essere diversi ma è Vamore a
svolgere un molo fondamentale per lo sviluppo morale. Il bambino che vive un’esperienza affettiva positiva con
il genitore sviluppa fiducia verso di lui. Sa che il genitore concede e rifiuta per il suo bene. Può così
gradualmente interiorizzare la legge non come elemento limitante, ma come orientamento di vita che gli viene
trasmesso in una cornice d’amore. E l’amore ad educare le persone e questo è vero anche per la relazione con il
Signore: in fondo, solo chi ha avuto realmente esperienza del Suo Amore, può fidarsi di Lui ed accogliere la
Sua legge. Dio stesso, infatti, ha preparato il Suo popolo prima di dargli in dono la legge: facendo uscire Israele
dall’Egitto, aprendogli il mare, permettendo che l’acqua zampillasse dal pozzo, facendo arrivare le quaglie e
combattendo, per il Suo popolo, contro Amalek. Soltanto dopo tutte queste dimostrazioni di amore Dio ha
consegnato le tavole della legge ad Israele, e questi, dopo aver conosciuto la Sua benevolenza, ha potuto
accoglierle con gioia (cf. Jiménez Hemandez, 1998, p. 12).
La maturità morale della persona umana, che si riflette in comportamenti morali, è espressione della
maturità più generale della stessa; infatti, lo sviluppo morale è strettamente intrecciato a quello cognitivo,
emotivo e sociale. Non è soltanto necessario conoscere e comprendere le norme morali; tenere conto

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dell’esistenza degli altri e delle ricadute concrete ed emotive dei nostri comportamenti su di loro (sapendoci
empaticamente “mettere nei loro panni”); ma è anche necessario poter far leva sulle nostre emozioni morali
(Bellelli, Gasparre, 2009), affinché ci guidino ad una condotta virtuosa. Vedremo oltre Timportanza delle
emozioni, tra queste ve ne sono alcune chiamate, come anticipato, emozioni morali le quali non rappresentano
un ostacolo ai comportamenti morali, ma un aiuto formidabile, dal momento che non prendiamo le nostre
decisioni soltanto in relazione alla così detta “razionalità”. Per comprendere le nostre scelte comportamentali oc-
corre allora un approccio olistico alla persona, in quanto totalità, piuttosto che somma delle parti (memoria,
cognizione, emozione, motivazione, affettività e così via) dal momento che V identità morale attinge sia al
volere emotivo ed affettivo sia a quello razionale.
In una logica esclusivamente razionale di “equità”, spendere la vita per gli altri potrebbe apparire non
soltanto ingiusto, ma irragionevole. Atti eroici (come il martìrio o far nascere un bambino che abbia delle
difficoltà) sembrerebbero del tutto “folli”, compresa la croce di Cristo, se ci fermassimo alla sapienza e
all’intelligenza del mondo. L’uomo non segue soltanto la ragione, ma anche le proprie emozioni morali nonché
l’amore: l’amore, infatti, potrebbe spingermi a prendere una decisione morale in un’ottica di assoluta gratuità
verso il prossimo, benché questo impedisca il mio tornaconto personale. Per questo occorre precisare che
l’enfasi data alle emozioni morali nel presente estratto, seguendo la recente letteratura psicologica
sull’argomento, è per guidarci a comprendere i comportamenti morali in senso stretto, ma non necessariamente
quelli cristiani. Se ci aiutasse a comprenderli del tutto il cristianesimo sarebbe un moralismo: diremo, infatti, più
avanti che il centro dei comportamenti morali cristiani è l’amore, che può anche implicare emozioni morali, ma
conduce Ì nostri atti ben oltre il piano della “giustizia” (intesa come categoria razionale).
Torniamo all’importanza delle emozioni nel guidare il comportamento. Qualora avessimo avuto un’accesa
discussione con qualcuno, potremmo voler chiedere perdono, ma pensando di avere comunque ragione po-
tremmo essere troppo in collera per farlo. Pertanto considerare il perdono un valore importante, e conoscere la
sequenza degli atti opportuni per chiederlo, non mi garantirà l’esecuzione del comportamento: posso conoscere
un comportamento, sapere come eseguirlo materialmente, ma non essere motivato a farlo. I processi
motivazionali attingono anche a quelli emotivi ed affettivi e non soltanto a quelli cognitivi. Quindi quello che
penso e provo autenticamente (le mie emozioni, i miei bisogni) può con

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dizionare in modo importante i miei comportamenti, indipendentemente dai valori che posso
consapevolmente professare a me stesso e agli altri. Tornando all’esempio, se amassi la persona in oggetto
potrei andare oltre il mio “essere nel giusto” e riappacificarmi con lei; altrimenti pensare “ho ragione” potrebbe
portarmi a provare ad esempio “rabbia” verso l’altro; emozione che mi attiverebbe probabilmente o all’attacco
(continuare la discussione ad oltranza) o alla fuga (allontanarmi dall’altro, mettendo un “muro” di distanza).
Seguendo questo schema, che vedremo meglio più avanti, sembra quindi necessario partire prima di tutto da
quello che pensiamo per comprendere meglio i nostri comportamenti, inclusi quelli morali. Vediamo pertanto
quale possa essere il ruolo della cognizione nei comportamenti morali.
3. La complessità della mente: un sistema di significati personali
Conosciamo la realtà sperimentando sensazioni ed emozioni, elementi con i quali costruiamo
progressivamente i nostri schemi cognitivi. Le emozioni, infatti, hanno un ruolo primario nella costruzione
della conoscenza (Guidano, 1992).
Appena nati viviamo delle esperienze interpersonali, con coloro che si prendono cura di noi, che ci
forniscono dati sensoriali, percettivi e motori, ai quali rispondiamo emotivamente. Tuttavia non
immagazziniamo passivamente dati, ma tendiamo ad organizzare in modo attivo l’esperienza immediata. Il
pensiero razionale (la mente) costruisce significati sulla base di tali esperienze, in modo da mantenere una
coerenza interna. L’individuo è quindi protagonista attivo di un processo continuo di ricerca di spiegazione di
quello che prova, in modo da dare ordine al fluire della propria esperienza, e nello stesso tempo dare continuità e
coerenza al proprio Sé.
I primi schemi emozionali si strutturano grazie alla relazione con l’ambiente che circonda il bambino e sulla
base del tipo di legame di attaccamento (cf. Bowlby, 1982, 1989) di cui sta facendo esperienza. Si tratta di
schemi emotivi e senso-motori, preverbali e inconsapevoli {la conoscenza tacita), a partire dai quali ognuno di
noi costruisce schemi cognitivi, consci e verbalizzabili {la conoscenza esplìcita) (Guidano, Liotti, 1983). Il
processo di costruzione del Sé del bambino (De Santis, Turella, 2009) avviene dunque, inevitabilmente,
all’interno di una matrice di relazioni interpersonali e, potremmo aggiungere, si sviluppa, prima ancora di
nascere, già in rapporto con la mamma alTintemo della sua pancia, il primo “ambiente” con il quale si confronta
(il nascituro risponde emotivamente alle emozioni
no
della mamma, ai suoni, alla luce, alla temperatura e così via già all’interno dell’ambiente intrauterino).
Semplicisticamente e didatticamente separiamo le emozioni dai pensieri; questo ci aiuta distinguerli
reciprocamente, metterli a fuoco, verbalizzarli e ci facilita il lavoro di ordinarli, soprattutto nelle situazioni della
vita nelle quali pensiamo e conseguentemente proviamo più cose contemporaneamente: esperienza che può
generare confusione e disorientamento. I pensieri e le emozioni costituiscono piani profondamente
interconnessi, se ci soffermiamo a riflettere sul fatto che a partire dalle nostre sensazioni ed emozioni
elaboriamo degli schemi cognitivi, che possiedono quindi una connotazione emozionale.
Da un punto di vista “organico” emozione e cognizione sembrano aver sede in aree prevalentemente
separate e differenti del nostro cervello:
«costituiscono due funzioni psichiche di base che presentano una loro intrinseca specificità e distintìvìtà sìa a livello
fenomenologico (cognizione è conoscere e comprendere le cose; emozione è sentire ed essere motivati verso le cose) sia a li-
vello neurobiologico» (AnoIli, 2002, p. 75),
ma sembrano essere strettamente interdipendenti tra loro e questa interdipendenza si osserverebbe in molti modi.
Come?
Abbiamo affermato che a partire dalle nostre sensazioni ed emozioni elaboriamo degli schemi cognitivi.
Questi ultimi, a loro volta, per mantenere coerenza interna potrebbero portarci ad escludere o meno alcune
sensazioni., La mente è in grado di operare sulla realtà (esterna ed interna) una selezione di elementi coerente
con la “teoria” (schemi cognitivi) precedentemente costruita su di sé, su gli altri, sul mondo. Facciamo un
esempio. Se ogni italiano avesse un paio di occhiali con delle lenti personalissime, vi sarebbero, ogni sera,
milioni di visioni diverse della stessa luna. Se al posto della luna vi fosse un evento (ad esempio una visita del
papa nella propria città) ogni individuo “leggerebbe” quell’evento attraverso le proprie lenti (pensieri e
convinzioni preesistenti) in modo più o meno automatico e consapevole. In conseguenza al modo in cui sarà
stato interpretato e categorizzato l’evento l’individuo proverà alcune reazioni emotive piuttosto che altre (inoltre
la presenza di sensazioni potremmo dire “fuori schema” potrebbe essere negata, svalutata o “non classificata”).
Le emozioni non costituiscono soltanto la risposta agli eventi esterni, ma anche la reazione a quelli interni,
prendiamo ad esempio i ricordi o il flusso dei pensieri. Ad esempio, se le lenti dei miei occhiali fossero blu,
uscendo di casa una determinata mattina, potrei vedere il cielo azzurro scuro (in realtà grigio e coperto di nubi
minacciose). Contemplando il cielo azzurro scuro potrei provare alcune sensazioni (piacevoli o spiacevoli,
consapevoli o inconsapevoli). Camminando verso la fermata dell’autobus, sotto quel cielo, mi confronterei con
particolari pensieri ed emozioni; che a loro volta ne susciterebbero altri. Ad esempio potrei pensare, “chissà, con
questo cielo, che bel colore starà prendendo il mare”, provando un misto di piacere e curiosità, e soffermandomi
sul pensiero “come sarebbe bello essere in barca in questo momento” provare tristezza ed impotenza per essere
in città. Il pensiero della città però potrebbe portarmi a riflettere su quel nuovo progetto al quale sto lavorando,
suscitandomi preoccupazione per la stretta tempistica di consegna e per l’autobus che ancora non accenna ad
affacciarsi all’orizzonte. Il pensiero “sto facendo tardi al lavoro” potrebbe suscitarmi paura di fare tardi e questa
permettermi di recuperare nella memoria episodi analoghi e loro conseguenze. Se fossi una persona che tendesse
a preoccuparsi facilmente potrei prendere immediatamente il telefono e chiamare un taxi, per prevenire il
ritardo, se fossi invece una persona che tendesse a buttarsi giù d’umore potrei vivere questo momento come la
conferma di non essere all’altezza di arrivare puntuale dal mio capo e così via in un flusso esperienziale e
cognitivo interrotto, magari, soltanto dall’arrivo del tanto atteso autobus. Nel frattempo tante persone potrebbero
essere con me alla fermata dell’autobus e vivere in modi molto diversi quella stessa attesa, cielo, realtà e ri
suonare in modo del tutto personale da un punto di vista emotivo sia all’evento sia alle associazioni interne,
uniche per ogni individuo.
Pur non entrando quindi, come detto, nella complessità relativa a cosa sia antecedente o conseguente a cosa
(vale a dire se venga prima il pensiero o la sensazione/emozione o viceversa) possiamo osservare intanto quanto
essi siano in grado di influenzarsi reciprocamente: lo stato dell’umore tende a condizionare il flusso dei
pensieri, come la tipologia di pensieri tende ad avere importanti ripercussioni emotive.
Qualcuno si sarà chiesto: perché una persona dovrebbe avere lenti blu, un’altra invece rosse, un’altra ancora
gialle? Come anticipato nei capitoli precedenti illustrando le organizzazioni di significato, il bambino esperisce
sensazioni ed emozioni. Gradualmente potrà organizzare i contenuti emotivi ed affettivi in modo razionale,
auto-organizzando l’esperienza in un processo circolare tra VIo che sperimenta ed agisce e il Me che osserva e
valuta. Molti autori, infatti, distinguono all’interno del Sé, l’Io ed il Me (cf. Lut- te, 1987). L'Io sarebbe il Sé
come conoscitore, vale a dire quell’aspetto della persona che svolge la funzione di organizzare ed interpretare
l’esperienza, mentre il Me includerebbe tutte le caratteristiche che identificano l’individuo (materiali: ad
esempio il corpo o i beni; sociali: ad esempio i ruoli; psicologiche: meccanismi specifici; e così via (Damon,
Hart, 1982). In particolare, tra gli autori, facciamo riferimento a Guidano (1992) secondo il quale il bambino

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vive percezioni, sensazioni, emozioni e contemporaneamente interpreta, analizza, si spiega l’esperienza che sta
compiendo.
Ognuno di noi osserva la realtà conferendole specifiche caratteristiche, e tende poi a conservare più o meno
rigidamente la lettura effettuata con le proprie “lenti”. Possiamo chiamare queste lenti, come anticipato, organiz-
zazioni di significato (OSP22), derivate dal piano emotivo, ed in particolare dalla combinazione di quelle che in
termini tecnici vengono chiamate le emozioni basilari, quali tristezza, rabbia, gioia, paura, disgusto e sorpresa
(Toro, Ascrizzi, Cantelmi, 2011).
Quale potrebbe essere il ruolo della cognizione nell’emettere comportamenti morali? Secondo noi, di fronte
ad un dilemma morale la persona leggerà cognitivamente la situazione in funzione delle proprie “lenti” di si-
gnificato e dei propri valori autentici ed in relazione a questi elementi effettuerà un ragionamento morale, che
implicherà un giudizio attivo. Questo processo sarà naturalmente condizionato anche dagli elementi emotivi ed
affettivi (pregressi ed attuali) e porterà ad una scelta concreta: emettere od omettere un comportamento
(giudicato morale od immorale in relazione a valori oggettivi). Approfondiamo quindi gli elementi emotivi.
4. Emozioni morali e condotta umana
A cosa servono le emozioni? Nei secoli passati la dicotomia tra mente e corpo, ragione e sentimento ha
influenzato la riflessione e lo studio delle emozioni. Talora le passioni assumevano valenza positiva, più spesso
venivano considerate un fattore di disturbo del comportamento razionale, distintivo dell’uomo. Ritenute, infatti,
connesse alla parte “animale” dell’essere umano, una sorta di residuo del comportamento bestiale, sembravano
essere poco nobili come oggetto di studio e poco desiderabili da possedere. Le emozioni apparivano, nel
migliore dei casi, inutili se non addirittura un ostacolo per l’uomo, più che un aiuto. Oggi sappiamo che
emozioni e sentimenti, insieme a riflessi innati ed istinti, costituiscono importanti sistemi regolatori. Inoltre,
incredibilmente, potremmo dire che senza di esse sarebbe difficile essere “razionali”. Emozioni e sentimenti
sembrano essere addirittura indispensabili sia all’esercizio della razionalità, sia per il possesso di una mente
“sociale”, secondo le ricerche di Damasio (1994). L’uomo nasce con la capacità di provare emozioni, che
possiamo intendere come soluzioni automatiche “preconfezionate” da usare per affrontare i problemi che potrà
incontrare nel proprio adattamento all’ambiente. Possiamo quindi considerarle risposte fisiologiche che aiutano
a scegliere opzioni comportamentali vantaggiose da un punto di vista biologico.
L’uomo può provare emozioni grazie alla complessa architettura del proprio cervello. Lo sviluppo
dell’intelligenza, da un punto di vista evolutivo, sembra essere andato di pari passo con la possibilità di provare
emozioni: entrambe le funzioni sono quindi fondamentali per l’adattamento all’ambi ente. Possiamo guardare
alle emozioni come ad “antichi” strumenti di agire razionale (logiche “razionali” automatiche).
Dall’evoluzione23 avremmo ereditato un corredo di emozioni che provvede al neonato risposte comportamentali
in grado di aumentare le sue probabilità di sopravvivenza, pur con il limite che la gamma di reazioni possibili
non può essere sufficiente a far fronte a tutte le situazioni. Questa sorta di “equipaggiamento” di base, di cui
ognuno di noi sarebbe dotato, è inizialmente piuttosto grossolano. Il bambino crescendo potrà riflettere, ed
essere educato a farlo, sugli eventi che vive e sulle proprie reazioni emotive agli stessi, imparando a
“personalizzare” le risposte emotive e comportamentali ad ogni frangente. In questo senso, le emozioni sono una
base naturale sulla quale interviene l’apprendimento: il frutto di un processo di integrazione tra fattori
biologi- ci e culturali.
Le teorie della valutazione delle emozioni affermano che sia il modo con il quale una persona interpreti una
situazione - e non la situazione in sé stessa - a favorire un’emozione piuttosto che un’altra (cf. Siemer, Mauss,
Gross, 2007). Heider (1958) sembra essere l’autore che per primo abbia dato origine alla corrente delle teorie
“cognitive” delle emozioni, indicando il nesso tra le emozioni e gli stati cognitivi e rimarcando la loro influenza
reciproca. Molti autori si sono occupati di emozioni (cf. Tosini, 2008); tra questi ricordiamo Scherer (1984,
2001) e Frijda (1986) secondo il quale le emozioni sono influenzate da fattori cognitivi e differiscono tra loro
per le modalità di attivazione, il tipo di tendenza all’azione (Frijda, 1987) e la risposta del sistema nervoso
autonomo. Le emozioni (Frijda, 1988) insorgono in risposta ai significati (struttura di significato) che la persona
attribuisce ad una situazione, in funzione della rilevanza della situazione stessa per il benessere dell’individuo e

22 OSP indica organizzazione di significato personale.


23 Circa l’evoluzione, il Papa Emerito Benedetto XVI ha affermato: «vedo attualmente [...] un dibattito abbastanza
accanito tra il cosiddetto creazionismo e Vevoluzionismo, presentati come fossero alternative che si escludono: chi crede
nel Creatore non potrebbe pensare all’evoluzione e chi invece afferma l’evoluzione dovrebbe escludere Dio. Questa con-
trapposizione è un’assurdità, perché da una parte ci sono tante prove scientifiche in favore di un 'evoluzione che appare
come una realtà che dobbiamo vedere e che arricchisce la nostra conoscenza della vita e dell’essere come tale. Ma la
dottrina dell'evoluzione non risponde a tutti i quesiti e non risponde soprattutto al grande quesito filosofico: da dove viene
tutto? e come il tutto prende un cammino che arriva finalmente all’uomo?» (Benedetto XVI, Incontro con il Clero delle
Diocesi di Belluno-Feltre e Treviso, 24 luglio 2007).

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per il soddisfacimento dei suoi scopi ed interessi: più l’evento sarà importante per l’individuo, più impatterà sui
suoi desideri e scopi, più egli reagirà emotivamente. Possiamo considerare quella di Frijda una teoria di tipo
funzionalistìco\ le emozioni hanno uno scopo e servono per affrontare le situazioni attraverso azioni
appropriate, in modo rapido, con una minima quantità di elaborazione dell’informazione. Anche Ortony, Clore
e Collins (1988) hanno studiato il contributo delle cognizioni nei processi emotivi. Della loro teoria (nella quale
esaminano anche i rapporti tra eventi, agenti ed oggetti) riportiamo l’idea che vi sia una sorta di reazione a
catena che parta dalla focalizzazione (consapevole od inconsapevole) dell’individuo su un evento che
inducendo un’emozione lo prepari all’azione. Tra le teorie sulle emozioni ricordiamo, in ambito più specifica-
tamente psicoevoluzionista, Tomkins (1962), Buck (1984) ed in modo particolare Plutchik (1994), il cui
contributo ha costituito un punto di partenza per la presente ipotesi di lavoro.
Per quanto riguarda la moralità, le emozioni venivano ritenute, in passato, antagoniste al comportamento
morale: un’interferenza alla volontà. Oggi sappiamo invece che i comportamenti morali utilizzino il
propellente energetico fornito dagli stati emotivi sperimentati. A tal riguardo, riprendendo una serie di processi
che Frijda (1986) ipotizza, al culmine delle valutazioni del soggetto si collocherebbe la tendenza all’azione.
Pertanto emozioni diverse produrranno tendenze all’azione e una prontezza alla stessa {action readiness)
differenti, a seconda dell’interpretazione data al- Vevento-stimolo. Anche quando l’azione non sarà effettuata, il
vissuto emotivo sperimentato porrà la persona in uno stato motivazionale e cognitivo di “prontezza” per azioni
correlate all’obiettivo.
Le tendenze all’azione possono essere anche pro-sociali e morali, in base alle emozioni esperite. Haidt
(2003) ha classificato e descritto le emozioni morali, identificandole in funzione degli eventi elicitanti (o
scatenanti) e della motivazione o tendenza all’azione. Secondo l’autore le emozioni (generalmente) motivano
all’azione, in risposta allo stimolo elicitante, ed in particolare le emozioni morali possono essere divise in due
grandi24 e due piccole famiglie. Le due grandi famiglie sono: quella delle emozioni autocoscienti (auto-
consapevoli) quali senso di colpa, vergogna, imbarazzo; e quella delle emozioni di condanna degli altri quali
disprezzo, rabbia e disgusto; mentre le due piccole famiglie riguardano le emozioni di sofferenza per gli altri
(compassione) e quelle di apprezzamento per gli altri (gratitudine e considerazione25 26).
Le emozioni morali sarebbero, allo stesso tempo, prodotti della evoluzione e scripts19 culturali, modellati
dai significati e dai valori delle singole realtà locali. Le quattro famiglie di emozioni, infatti, sembrerebbero
essere presenti in tutte le culture, pur conservando delle differenze (Shweder e Haidt, 2000).
In sintesi: per compiere atti morali dovremmo lasciarci guidare dalle '■ emozioni morali, ma prima di
questo dovremmo chiederci che rapporto abbiamo in generale con le nostre emozioni?
La nostra società, succube in parte deU’emotivismo, è affannata nella ricerca di sensazioni a tutti i costi e
poco abituata a riflettere sulle emozioni. Inoltre spesso le persone non possiedono un ricco vocabolario emotivo
adeguato a verbalizzare le proprie esperienze, come anche le varie culture : si differenziano tra loro per le
caratteristiche del lessico emotivo disponibile. E noi, ad esempio, sapremmo decifrare le nostre emozioni di
fronte ad un dilemma morale chiedendoci: quale emozione sto provando? Possiede un nome? Cosa è accaduto?
Qual è Tevento che ha suscitato in me la reazione emotiva che sto provando? Quali pensieri sto facendo circa
l’evento? Quale significato gli sto dando? Quale comportamento posso scegliere per affrontare efficacemente la
situazione che sta generando in me le emozioni che provo? Potrebbe non essere semplice individuare le risposte
a queste domande, o perlomeno a tutte, anche per un candidato alla vita consacrata o. ministeriale. Questi però
potrà essere sostenuto dal proprio formatore, dal padre/madre spirituale, dal superiore, ed in alcuni casi anche
da uno psico- terapeuta, nel diventare sempre più consapevole della propria dimensione emotiva (ed affettiva). E
bene, infatti, che la persona sia adeguatamente consapevole di sé e dei propri dinamismi interni, per poter
rispondere sempre più liberamente e totalmente alla chiamata di Dio.
Riassumendo, le nostre relazioni con l’altro, con l’ambiente, con noi stessi, con il Signore, sono ricche di
emozioni: in ogni momento, in misura minore o maggiore, potremmo percepirne; ed i processi emotivi
influiscono, più di quello che nel senso comune si creda, nel prendere decisioni morali e nell’aderire o meno con
le proprie opere ai valori professati.

24 Rispetto a queste due famiglie cf. Rozin P., Lowery L., Imada S., Haidt J. (1999), The CAD triad hypothesis: a
mapping between three moral emotions (contempt, anger, disgusti and three moral codes (community, autonomy, divinity),
Journal of Personalìty and SocialPsychology, 16, pp. 574-586.
25 L’autore utilizza il termine “elevation”.
26 «Uno script (o copione, o canovaccio) è una forma schematica di conoscenza degli eventi, organizzata in modo
temporalmente e psicologicamente (non logicamente) sequenziale (...) la rappresentazione generale ed articolata di una
sequenza di azioni» (Anolli L. op. cit., 2002, p. 147).

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5. La motivazione umana alla condotta morale: una nuova ipotesi di
interazione tra fattori cognitivi, emotivi-affettivi e tendenze airazione
Quando ci soffermiamo a riflettere sulla nostra condotta morale ci rendiamo conto di non riuscire sempre ad
emettere comportamenti coerenti ai nostri valori (Rulla, 1985-1986). San Paolo ha descritto in maniera esem-
plare la lotta interiore dell’uomo per compiere il bene27. Ma come è possibile desiderare una condotta e, di
fatto, attuarne un’altra? Considereremo, in questa sede, tale conflitto esclusivamente sul versante psicologico
umano poiché, rispetto allo specifico dei comportamenti morali cristiani, dovremmo invocare anche la nozione
di peccato28, come scrive l’Apostolo delle Genti.
Secondo Frijda (1986) le emozioni possiedono una base biologica e sono sperimentate sia dagli animali sia
dagli esseri umani. L’uomo è in grado di compiere l’attività di concettualizzazione e categorizzazione semantica
delle esperienze emotive ed essere influenzato in maniera importante dalle norme e dai valori Ogni persona (in
modo assolutamente soggettivo, come abbiamo ipotizzato) sarebbe in grado di:
- analizzare un evento e codificarlo;
- comparare l’evento ad altri accaduti in precedenza;
- valutare la rilevanza dello stesso per gli interessi personali;
- valutare cosa fare (comportamento);
- valutare l’urgenza della situazione;
- effettuare un proposito d’azione.
Al culmine delle valutazioni del soggetto si collocherebbe quindi la tendenza all’azione e, come anticipato,
emozioni diverse produrrebbero tendenze all’azione e una prontezza alla stessa {action readiness) differenti, a
seconda dell’interpretazione data all’evento-stimolo: le emozioni quindi preparerebbero all’azione attivando
configurazioni di condotta. In relazione a come la persona sarà stata attivata seguirà una diversa risposta del si-
stema nervoso autonomo: modificazioni fisiologiche preliminari alla esecuzione di un’azione manifesta. Le
emozioni permetterebbero all’uomo di far fronte agli eventi della vita attraverso azioni appropriate al
raggiungimento dello scopo. Riportiamo, al riguardo, un prototipo di schema29 (fig. 1) di Van Lawick-Goodall
(1973), ripreso da Plutchik, per dimostrare che:
ale emozioni sono catene complesse di eventi con circuiti stabilizzanti che tendono a produrre qualche tipo dì omeostasi
comportamentale [...] a seconda della forza relativa di questi vari impulsi, si avrà una risultante vettoriale finale nella
forma di un ’azione manifesta, mirata ad avere un effetto sullo stimolo che ha innescato in primo luogo questa catena di
eventi» (Plutchik, 1994, p. 111).
Come possiamo osservare, nella fig. 1 vi sono una serie di elementi concatenati tra loro, collegati da circuiti
di azione e retroazione. Secondo noi, tale catena di accadimenti è criticabile così come raffigurata, ma didattica-
mente utile per immaginare una ipotetica sequenza che conduca la persona all’azione. Di fronte ad un evento,
come abbiamo visto, la persona tenderebbe a dare una personale lettura cognitiva della situazione, che darebbe
origine ad una reazione emotiva, che esiterebbe in un comportamento congruente alla stessa (esempio il mio
amico è triste, mi rattristo di conseguenza e lo abbraccio - comportamento).
Ma non sempre siamo consapevoli delle nostre azioni. In psicoterapia accade spesso che le persone
inizialmente non sappiano spiegarsi alcuni dei propri comportamenti. Poi soffermandosi a verbalizzare pensieri
e reazioni emotive, immediate e successive ad eventi salienti, si rendano conto che quei comportamenti,
considerati fino a poco prima “inspiegabili”, siano “logici” e non così casuali o estranei, come potessero
apparire inizialmente. Ognuno di noi può arrivare ad appropriarsi delle proprie scelte comportamentali, anche
poco gradite, comprendendo i fattori che condizionano i propri atti. Questa umile discesa nelle pieghe del
proprio animo e del proprio cuore rende possibile il cambiamento, superando la logica degli automatismi, per
adottare nuovi comportamenti (consapevoli) più soddisfacenti per noi.

27 «Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c ’è in me il desiderio del bene, ma non la
capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non
voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il
bene, il male è accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge dì Dio, ma nelle mie membra vedo un ’altra legge,
che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno
sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7,18-24).
28 La nozione (e la realtà) di peccato rende ragione delle criticità che l’uomo sperimenta nel seguire la legge di Dio:
«donde deriva, ultimamente, questa scissione interiore dell’uomo? Egli incomincia la sua storia di peccato quando non
riconosce più il Signore come suo Creatore, e vuole essere luì stesso a decidere, in totale indipendenza, ciò che è bene e ciò
che è male. “Voi diventerete come Dio, conoscendo il bene e il male " (Gn 3,5): questa è la prima tentazione, a cui fanno
eco tutte le altre tentazioni, alle quali Duomo è più facilmente inclinato a cedere per le ferite della caduta originale»
(Giovarmi Paolo E, Lettera enciclica Veritatis splendor, 6 agosto 1993, n.102).
29 Ripreso da Plutchik in Plutchik R. (1994), op. cit.\ tr. it. 1995, p. 112.

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Fìg. I - La catena complessa di eventi che definisce un ’emozione. Van Lawick-Goodall J., op. cit„ 1973
Cosa accadrebbe se provassimo a riflettere sull’agire morale utilizzando un prototipo di schema simile a
quello in fig. 1? Potrebbero esserci fattori consapevoli e non a condizionare, minare o limitare i nostri
comportamenti rendendoci meno liberi di scegliere effettivamente la nostra condotta? Possiamo ipotizzare che
un ’azione morale manifesta (o una scelta morale che implichi piu comportamenti finalizzati ad uno
scopo) rappresenti l’esito di complessa serie dì processi interni (fig. 2).
Come specificato sopra, cognizioni ed emozioni sono in un rapporto circolare tra loro e non dobbiamo
immaginare che si verifichi una sequenza lineare orizzontale da sinistra a destra, come figurativamente proposto
in fìg. 230. Nondimeno troviamo metodologicamente promettente, alla comprensione del complesso tema in
oggetto, supporre un ordine, una successione di componenti che tuttavia interagiscano tra loro linearmente e
attraverso molteplici circuiti di retroazione.
Emozioni e cognizioni, interdipendenti tra loro, avrebbero come effetto

30 Non facciamo effettivamente riferimento al paradigma Human Information Processing (HIP), entrato storicamente
in crisi molto presto, pur conservando l’idea che Puomo sia un “sistema” in grado di elaborare attivamente l’informazione in
ingresso. Cf. Barchiesi R., Carucci I., Conti A. (2009), Excursus storico dal comportamentismo al cognitivismo, in Cantelmi
T. (a cura di), Manuale dì Psicoterapìa Cognitivo-Interpersonale, Alpes Italia, Roma.

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Fìg. 2 - Un ’ipotesi motivazionale all’agire morale
un’intenzione ad agire. Questa potrebbe essere seguita o meno da un azione concreta, un comportamento
manifesto, esteriormente visibile. Ma perché alcune volte potremmo fermarci alle “buone” intenzioni ed altre
invece agire?
All’origine di un “dilemma morale” vi sarà uno stimolo, un input, una situazione che arrivi all’attenzione
del soggetto. Può trattarsi di un evento esterno (nel “qui” ed “ora”) od interno (un ricordo). Prendiamo ad
esempio la notizia di una raccolta fondi per costruire una scuola in un paese povero del mondo. L’evento (input)
sarà valutato cognitivamente dalla persona, in un “dialogo” interno costituito da un insieme di pensieri (es.
“sarebbe proprio utile dare dei soldi per questo scopo”, “l’istruzione è necessaria per dare un futuro ai bambini”,
e così via). Ipotizziamo, seguendo lo schema e dunque ipersemplificando il reale, che i pensieri (Guidano,
2007), elicitati (componenti cognitive) provochino un impatto emotivo31 sulla persona (esempio la contentezza
di poter aiutare dei bambini, la tristezza per le loro difficoltà di vita e così via). A questo punto il soggetto,
provando un’emozione (di fatto più emozioni contemporaneamente o in successione in relazione al flusso dei
pensieri), sarà protagonista nel proprio corpo di modificazioni fisiologiche (ad esempio risposte vegetative,
ormonali), potrà percepirne le componenti soggettive (sensazioni e vissuti emotivi) e potrà

31 Secondo una definizione di Plutchilc (Plutchìk R. (1994), op. cit.,; tr. it. 1995, p. 27): <<L ‘emozione è un insieme
complesso di interazioni tra fattori soggettivi e oggettivi, mediate da sistemi neurali/ormonali, che possono a) dare origine a
esperienze affettive come sensazioni dì attivazione e di piacere/dispiacer e; b) generare processi cognitivi come effetti per-
cettivi emotivamente rilevanti, valutazioni, processi dì etichettamento; c) attivare aggiustamenti fisiologici di vasta portata
alle condizioni elicitanti; d) portare a un comportamento che è spesso, ma non sempre, espressivo, finalizzato e adattatìvo».
rendere visibile all’esterno la reazione emotiva sperimentata (componenti espressive legate al comportamento
non verbale). L’emozione/i sperimenta- ta/e e l’attivazione corporea conseguente (che ipotizziamo seguendo la
letteratura scientifica abbiano lo scopo (Plutchik, 1994) di fornire la “benzina” per compiere l’azione) esiteranno
in una intenzione ad agire (esempio “vorrei dare i miei soldi per questa buona causa”), che potrà essere seguita
o meno da comportamenti concreti (esempio effettuare il bonifico bancario). L’azione eseguita avrà un effetto-
impatto sull’ambiente ed uno retroattivo sulla persona (emozioni, pensieri) rinforzando o meno l’intenzione di
eseguirla nuovamente in futuro.
Quando la persona presume di avere un’intenzione, ma di fatto non compie l’azione voluta potrebbe non
essere consapevole di altre catene processuali, attive contemporaneamente alla prima, che ostacolino o boi-
cottino l’esecuzione del comportamento consapevolmente desiderato. La conoscenza di sé stessi, dei proprio
“cuore”, della propria “mente”, dei propri dinamismi interni aiuta a rendere l’individuo consapevole di quello
che realmente desidera e non più di quello che esclusivamente crede di desiderare, o degli scopi, anche in
contrasto tra loro, perseguiti da diverse “parti” di sé. Per problemi grafici non abbiamo indicato nello schema in
fig. 2 più catene contemporaneamente e loro relazioni reciproche, ma ne prevediamo. Lo schema in fig. 1 ci
consente di:
1. prestare attenzione a vari fattori intrapsichici, più o meno consapevoli per il soggetto, preliminari ad
un’azione;
2. evidenziare l’importanza della valutazione cognitiva dello stimolo;
3. dare peso, nella realizzazione di un comportamento, forza condizionante dell’emotività (e dell’affettività),
superando la visione limitata delle scelte morali frutto della sola razionalità e care ai primi teorici dello
sviluppo morale (Kohlberg, 1971, 1976).
Abbiamo suggerito lo schema in fig. 2 (che amplia ed integra il primo) poiché qualora applicassimo così
com’è quello di Van Lawick-Goodall per “spiegare” l’agire morale noteremmo immediatamente straordinarie
lacune. Ne elenchiamo almeno tre, che svilupperemo sotto. Lo schema in fig. 1 :
1. non indica né i bisogni dell’individuo, né i suoi valori; elementi che tuttavia sono presenti e possono
condizionare anch’essi in maniera importante la realizzazione o meno di un comportamento;
2. non esplicita le operazioni attive (automatiche o meno) del soggetto per conservare la propria interpretazione
dell’evento, pur essendone prevista l’esistenza grazie ai segni grafici di feed-back,
3. ma soprattutto non contempla le varie dimensioni dell’uomo, dal momento che la persona umana, creata
ad immagine e somiglianza di Dio, è unità di corpo e spirito e non è riconducibile ad una visione “meccani
ci
cistica” del tipo azione-reazione, né interpretabile esclusivamente in virtù del piano genetico-biologico.
11 primo punto fa riferimento alla teoria dell’autotrascendenza teocentrica di padre Rulla (1985) che riflette
una visione antropologica cristiana della coscienza morale. L’Autore presenta un approccio olistico alla
personalità morale: il comportamento è presentato come frutto di valori (che orientano l’uomo
all’autotrascendenza) e di bisogni (la forza degli elementi affettivi). Il fine dell’uomo, secondo l’Autore, è
l’autotrascendenza teocentrica (vale a dire il superamento del proprio egoismo per donarsi a Dio, in cui l’uomo
trova la propria realizzazione). Tuttavia si presentano tre tipi di ostacoli alla realizzazione dell’autotrascendenza
teocentrica, legati ad altrettante dimensioni del sé. Secondo l’Autore il processo di intemalizzazio- ne dei valori
sarebbe un prerequisito per un autentico sviluppo morale, ma tale capacità sarebbe connessa alla consistenza
della personalità, non disturbata da motivazioni inconsce dissonanti rispetto ai valori.
Per quanto concerne il secondo punto occorre accennare che la persona, generalmente al di fuori della
propria consapevolezza, si impegna attivamente per conservare la propria visione del mondo ed esperienza
dello stesso. Abbiamo ricordato sopra il Cognitivismo Post-Razionalista, ma numerosi approcci teorici, con
linguaggi differenti, giungono a questa stessa evidenza: l’uomo tende attivamente a mantenere la propria
coerenza interna di pensiero e questo accadrebbe sia per motivazioni cognitive che affettive. Secondo l’Analisi
Transazionale, ad esempio, per mantenere il proprio assetto cognitivo ed emotivo, la persona è in qualche modo
costretta a ridefinire25 sempre quello che coglie. Erskine e Zalcman (1979)32 33, ad esempio, arrivano a spiegare
come e quanto l’uomo possa piegare la realtà ai propri meccanismi interni. La persona interpreta l’esperienza
della realtà in accordo con le proprie convinzioni (tentativi di dare spiegazione ad esperienze emozionali) per
cui fini-
rà con il dare attenzione ad alcuni eventi, ignorandone altri, o ad alcuni ricordi piuttosto che altri, per
accumulare “prove” a sostegno delle proprie convinzioni centrali. L’uomo si adopera per mantenere le proprie
convinzioni di copione27 (ed emozioni di copione) su di sé, sugli altri e sulla qualità della vi- j ta e, per
confermare le decisioni di vita che ha preso, può portare avanti, nelle relazioni interpersonali, anche dei giochi
psicologici (Berne, 1967).
Il terzo punto: lo schema in fig. 1 sembra consegnare una visione mec- 1 canicistica dell’uomo, che non
condividiamo, pur ritenendo possibile una i concettualizzazione che valorizzi eventuali interconnessioni tra
pensare- sentire-agire. Lo schema parte da un evento ed in qualche modo vede il comportamento come una
risposta ad esso, richiamando le teorie psicologi- !■ che stimolo-risposta. Occorre superare questa visione.
L’uomo, infatti, può r anche attivarsi per controllare l’ambiente, intervenire su di esso, contrastarlo o crearsi
opportunità per soddisfare i propri bisogni (stando all’esempio organizzare direttamente una raccolta fondi).
Non basta. L’uomo può anche autoregolarsi in funzione di conseguenze attese future e non necessariamente
immediate. Alcuni teorici dell’apprendimento sociale (Mischel, 1968, 1971, 1990; Bandura, 1986), infatti,
affermano che l’individuo possieda una capacità di autoregolazione che gli consenta di motivare sé stesso, darsi
obiettivi e prescrizioni e valutare il proprio comportamento che:
«appare regolato non tanto dalle sue conseguenze immediate, ma da quelle attese, e perciò dalla
capacità che il soggetto ha di rappresentare un ventaglio di conseguenze possibili [...] La gran parte del
comportamento umano è regolata non dai rinforzi esterni, ma dagli effetti che le proprie valutazioni
hanno sugli stessi soggetti che le esprimono, sotto forma di soddisfazione di sé, di autoappro- vazione, di
autocriticismo (Caprara, Gennaro, 1994)» .
Ed è tenendo conto di quando affermato fino ad ora che proponiamo, nel presente lavoro, una ipotesi
motivazionale alVagire morale (fig. 2), basata sui dati della letteratura scientifica. Vediamo allora più in
dettaglio lo schema proposto in fig. 2, dove troviamo una possibile catena di eventi:
1. possiamo ipotizzare che una situazione o un dilemma morale {evento stimolo);

32 La rìdefinizione è il processo attraverso il quale la persona distorce la propria percezione della realtà in modo da
adeguarla al copione personale (cf. Stewart L, Joines V. (1987), TA today, Lifespace Publishing, Nottingham; tr. it L’analisi
Transazionale, Garzanti, Milano 1990).
33 Gli A.A. hanno elaborato il Sistema Parassitario o Sistema di Ricatto, definito come: «Un sistema
autorinforzantesi, distorto, di sentimenti, pensieri e azioni tenuto in piedi da persone che stanno portando avanti il proprio
copione». Il Racket System è dunque un sistema distorto di pensieri-sentimenti, basato su una decisione di copione, presa
nella prima infanzia, che tuttavia si sviluppa nell’arco della vita, come adattamento per la sopravvivenza, per la protezione e
per l’ottenimento di “carezze” nella relazione interpersonale (cf. Erskine R.G., Zalcman MJ. (1979), The racket System: a
model for racket analysis, T.A.J., 9, pp. 51-59; tr. it. Il sistema dei ricatti: un modello per Vanalisi dei ricatti', in Bianchini
S., Scilligo P, (a cura di) (1991), Analisi Transazionale. Ipremi Eric Berne, IFREP, Roma).

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2. attiverà dei ragionamenti morali {pensiero), i quali terranno conto dei va- 34 35
lori-guida29 effettivi della persona (uguali o diversi da quelli consapevolmente desiderati). Nel nostro schema i
valori rientrano nella valutazione cognitiva, seguendo la letteratura che li vede “oggetti” di ragionamento
morale razionale, anche se secondo noi i valori sono anche elementi motivazionali, e non soltanto “concetti”;
una spinta, che attiva l’organismo al comportamento, finalizzata alla realizzazione di un determinato scopo;
3. a questo punto, in conseguenza del ragionamento morale effettuato, circa la situazione o il dilemma morale,
la persona reagirà o meno sperimentando un’emozione morale',
4. la reazione emotiva {emozione morale) produrrà un’attivazione fisiologica {modificazioni corporee) che
preparerà il corpo all’azione;
5. la persona quindi avvertirà degli impulsi all’azione {intenzione di agire) che biologicamente saranno
collegati in modo congruo con uno o più comportamenti correlati allo scopo (Plutchik, 1989) (esempio
emozione rimorso - comportamento riparazione; emozione tristezza — comportamento pianto; emozione
paura - comportamento fuga). Nello schema proposto i processi motivazionali sostengono le intenzioni
comportamentali, considerando la motivazione come una spinta all’azione per entrare in rapporto con
l’oggetto del “bisogno”36 37;
6. pertanto l’emozione morale, che ha attivato nella persona una intenzione comportamentale, esiterà
concretamente in un’azione {comportamento manifesto)',
7. e quest’ultima avrà conseguenze sulla realtà esterna e su quella interna {effetti dell’azione).
Lo schema in fìg. 2 è volutamente semplificato poiché rappresenta un’unica catena processuale (evento -
emozione morale - comportamento), ma la realtà è complessa, come pure le situazioni che ci troviamo a gestire
e le conseguenti decisioni che dobbiamo prendere. Lo schema reale, non raffigurato, prevede più catene
contemporaneamente (una catena per ogni emozione) che originano da un ’unica situazione-dilemma, che
vengono poi integrate e sovraordinate in un'unica spinta motivazionale finale. Un esempio chiarirà il
concetto.
Pensiamo ad esempio, in ambito biblico, al dilemma in cui si è venuto a trovare Abramo (Gen. cap. 22):
scegliere di uccidere il suo unico figlio Isacco, obbedendo alla volontà di Dio che gli chiedeva di sacrificarlo
come olocausto, o tenerlo in vita per amarlo ogni giorno, disobbedendo a Dio? Possiamo immaginare quanto
sarà stato straziante il suo ragionamento morale, quanti elementi avrà valutato e quante emozioni avrà provato:
un dilemma morale ha sempre tante sfaccettature e non produce una singola emozione morale. Possiamo
immaginare che a seconda di ogni emozione Abramo avrà avuto un’intenzione comportamentale congruente:
amando il figlio avrà voluto proteggerlo, pensando di perderlo si sarà sentito addolorato, riflettendo sulla
richiesta del Signore avrà provato stupore, rabbia, sgomento e così via, ma poi decidendo alla fine di obbedire
ed uccidere il figlio, avrà canalizzato tutte le proprie energie per questo scopo. Secondo noi, quindi, il
ragionamento morale produce molteplici reazioni emotive. Riflettendo sulle caratteristiche della situazione
avremo, infatti, numerosi elementi da valutare cognitivamente ed emotivamente che esiteranno in
comportamenti anche inconciliabili tra loro: esempio legare il figlio per deporlo sull’altare (obbedendo) oppure
slegarlo (per non fargli alcun male), ma effettuando una scelta morale (sacrificio) la spinta motivazionale avrà
dato una direzione a tutti i comportamenti. Sacrificare Isacco non comportava, infatti, un unico comportamento,
ma diversi (alzarsi di buon mattino, sellare l’asino, prendere con sé i servi ed il figlio Isacco, spaccare la legna e
così via). Abramo ha quindi compiuto molti comportamenti finalizzati a quello scopo (sacrifìcio), che avrebbe

34 li copione è definito da Berne come: «un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia,
rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi, e che culmina in una scelta decisiva» (cf, Berne E. (1972),
What do you say after you say hello?, Grove Press, New York; tr. it. Ciao...epoi ?, Bompiani, Milano 1979, p. 272).
35 Gennaro A. Comportamento, Disturbi del comportamento, Universo del Corpo, Trecca- ni.it, 1999. Cf.
http://www.treccanÌ.Ìt/enciclopedia/comportamento_(Universo-del-Corpo)/
361 valori personali (effettivi) potranno essere considerati da altri o da noi stessi mora- li/immorali, secondo valori
universali oggettivi proposti dall’analisi etica tradizionale, quali apice dello sviluppo morale (seguendo le opere citate di
Kohlberg vi sono tre livelli di giudizio morale: pre-convenzionale, convenzionale, post-convenzionale).
37 II tema dei bisogni in psicologia presenta alcune ambiguità. Diversi autori si sono occupati di definirli, categorizzarli
e stabilire se i bisogni siano tendenze innate all’azione o possano non determinare automaticamente l’uomo. Vi sono
certamente diversi tipi di bisogni, alcuni dei quali innati, universali e legati alla sopravvivenza ed altri tendenti alla crescita e
allo sviluppo del sé (ad esempio i bisogni di ricerca del senso ultimo della realtà e il bisogno di assoluto). Riteniamo
sostengano la spinta motivazionale, ma data la non chiarezza del costrutto teorico abbiamo preferito non inserirli
formalmente nello schema. Tra le varie distinzioni presenti in letteratura, infatti, rientrano anche i «"bisogni valoriali’’. Sono
quei bisogni che esprìmono l’esigenza di trovare dei significati ai comportamenti, sia presi singolarmente, sìa riferiti
all’intero arco vitale e alle sue diverse fasi e che si collocano prevalentemente nell’ambito dell’attività simbolico-creativa
dell’individuo, come, per es., il bisogno di ethos, cioè di dare un senso alle proprie scelte, quello di individuare dei valori
fondanti la progettazione della propria esistenza» (Pinkus L. Bisogno, Universo del Corpo, e or
Treccani.it, 1999. Cf. http://www.treccani.it/encìclopedia/bisogno_(Universo_d l_C P°X)-

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realizzato se non fosse intervenuto l’angelo del Signore a fermare la sua mano.
Nella nostra vita ci confrontiamo talvolta con dilemmi eclatanti, molto più spesso con situazioni meno
“estreme”, ma pur sempre critiche, che coinvolgono i nostri valori. Qualora l’impulso all’azione non fosse
seguito da un comportamento morale potremmo ipotizzare l’esistenza contemporanea di una o più catene
processuali (con altri ragionamenti, valori, emozioni, bisogni, motivazioni) antagoniste alla prima, in grado di
“sabotare” l’esecuzione del comportamento consapevolmente desiderato.
Dal punto di vista psicologico, lo schema in fig. 2 si potrebbe adattare a tutti gli uomini del mondo di buona
volontà, a tutti i giusti che hanno com-
portamenti moralmente corretti. Abbiamo scelto Abramo come “perno” tra i primi cinque paragrafi di questo
capitolo e gli ultimi: è l’esempio di un uomo che è andato oltre il ragionamento morale, ha compiuto un atto ài
fede. Dal prossimo paragrafo lasceremo le confortanti conclusioni delle scienze psicologiche per navigare verso
l’orizzonte del mistero dell’uomo.

6. Cristo e la “legge” dell’Amore


«Chi ama il suo simile ha adempiuto la legge» (Rm.l3,8b)
Nei paragrafi precedenti ci siamo chiesti come l’uomo, da un punto di vista psicologico, possa essere
moralmente giusto attraverso le proprie opere: ma il pieno compimento della legge è l’amore, che va ben oltre la
“giustizia” e ben oltre qualsiasi schematizzazione (come pure abbiamo proposto in fìg. 2). La carità, infatti, non
potrà mai essere schematizzata, né l’uomo potrà mai essere “ridotto” alla sua psiche. I processi psicologici ed il
mistero dell’uomo tuttavia si interfacciano, come vedremo nei prossimi paragrafi.
Le determinanti del comportamento morale sono all’interno delLuomo, nella coscienza, la parte più intima
di sé stesso, dove abita anche la legge di Dio. Questa verità è ribadita nelle preziose parole della Gaudium et
spesi
«Nell1 ìntimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve
obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento
opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest1 altro. L'uomo ha in realtà una legge
scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa delLuomo, e secondo questa egli sarà
giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario delLuomo, dove egli è solo con Dio , la cui
voce risuona nell1 intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il
suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli
altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono
tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più
le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive
della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza
che per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non sì può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la

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verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all ’abitudine del peccato »38.
C’è dunque una legge di amore verso Dio e verso il prossimo, che risuona nell’intimità del cuore
dell’uomo. Tutti i cristiani, ed in modo speciale religiosi e sacerdoti, possono con la loro vita cercare la verità ed
il bene, in retta coscienza, per riportare la moralità dell’uomo comune a riaprirsi ai valori trascendenti.
Al n. 2055 del Catechismo della Chiesa Cattolica39 40 leggiamo:
«Quando gli si pone la domanda: “Qual è il più grande comandamento della Legge?" (Mt 22,36),
Gesù risponde: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua
mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il
prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,37-
40). Il Decalogo deve essere interpretato alla luce di questo duplice ed unico co- mandamento della
carità, pienezza della Legge: “Ilprecetto: Non commettere adulterio, Non uccidere, Non rubare, Non
desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te
stesso. L ’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore”» (Rm 13,9-
10).
Specifica l’evangelista Marco: «Amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la
tua mente e con tutta la tua forza» (Me 12,30). Come poter fare questo?
Riprenderemo il tema delle emozioni (“con tutto il cuore”) e quello delle cognizioni (“con tutta la tua
mente”), per vedere come incidano sui comportamenti (“con tutta la tua forza”), nella consapevolezza di
come non sia possibile scindere i fattori intrapsichici gli uni dagli altri:
«la sequenza cuore-anima-mente-forza non va intesa come una successione di facoltà distinte,
autonome, eterogenee e quindi irriducibili tra loro, ma va interpretata piuttosto come una
“esplicitazìone” dei diversi aspetti di un’unica e oggettiva individualità profonda, detta cuore, la quale, in
definitiva, designa, come ha rilevato W. Eichrodt (1979), “complessivamente la personalità tutta intera, la
sua vita, interiore il suo carattere [...] l’attività spirituale cosciente e volitiva dell’io umano nella sua
totalità”. Nell’idea bìblica di “amare con tutto il cuore” non c’è dunque nessuna emotività irrazionale;
non c ’è nessuna esclusiva insistenza sul puro sentimentalismo, ma c’è piuttosto tanto un amor Dei
intellectualis quanto l’emozionante gratitudine per le meravìglie che Dio fa ascoltare e fa conoscere al
cuore e alla mente dì tutti gli uomini: c ’è, insomma la logica di un cuore-ragione coinvolto da Dio in un
dialogo d’amore infinito»2,3.
7. Le emozioni e l'affettività: “con tutto il tuo cuore”
Abbiamo appena letto nella citazione sopra che nell’idea biblica di «amare con tutto il cuore» non c’è
dunque nessuna emotività irrazionale o sentimentalismo (aspetti che hanno a che fare con le sensazioni, e non
con le emozioni e la loro funzione).
Osserviamo innanzi tutto quanto spesso compaiano citate le emozioni e l’affettività nella Parola di Dio
(«non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava
le Scritture?» Le 24,32b) e quanto spesso la Parola sia in grado di mettere in moto anche la nostra emotività ed
affettività (quante volte, come i discepoli di Emmaus ascoltando la Parola del Signore, abbiamo sentito ardere il
nostro cuore?).
Qual è il ruolo del cuore nel seguire Gesù vergine, povero ed obbediente?41. Nella Bibbia il cuore delfuomo
simboleggia la sede dell’emotività, della volontà, della coscienza spirituale e morale «essi dimostrano che
quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dai
loro stessi ragionamenti» (Rm 2,15a). Il cuore è anche metaforicamente la sede dell’anima e può vedere al suo
interno contraddizioni, fratture, doppiezze. Può aprirsi all’altro (e all’Altro) con delle riserve, delle aree “off
lìmits” o può esserne totalmente innamorato42. La vita consacrata, in una sintesi delle parole del Papa Emerito
Benedetto XVI significa «andare alla radice dell’amore per Gesù, con un cuore indiviso e senza anteporre
nulla a quest’amore»43.

38 Paolo VI op. cit., 7 dicembre 1965, n.16.


39 C.C.C., Parte terza, Sezione seconda.
Cf. http://www.vatican.va/archive/ccc_it/documents/2663cat473-668.PDF.
40 Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, Il cuore nella Sacra Scrittura. Cf.
http://www.disf.org/Voci/47.asp
41 «La vita consacrata, profondamente radicata negli esempi e negli insegnamenti di Cristo Signore, è un dono
di Dio Padre alla sua Chiesa per mezzo dello Spirito. Con la professione dei consigli evangelici i tratti caratteristici di Gesù
— vergine, povero ed obbediente — acquistano una tipica e permanente "visibilità’’ in mezzo al mondo, e lo sguardo dei
fedeli è richiamato verso quel mistero del Regno di Dio che già opera nella storia, ma attende la sua piena attuazione nei
cieli» (Giovanni Paolo II (1996), Esortazione Apostolica Post- Sinodale Vita consecrata, 25 marzo, n. 1).
42 Lonergan scrive che «la conversione religiosa è la conversione ad un innamoramento totale, quale fondamento
efficace di ogni autotrascendenza» (cf. Lonergan B J.F. (1975), Il metodo in teologia, Queriniana, Brescia).
43 Giornata mondiale della Gioventù 2011, Madrid 19 agosto 2011. Cf http://www. ma- dridl 1

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Nella Parola di Dio troviamo numerosi appelli alla conversione del cuore. Il termine viene utilizzato con
molteplici significati, ma:
«non è inteso come fonte esclusiva e autonoma dei sentimenti e tantomeno come un organo delle
emozioni distinto dall'organo dei ragionamenti e irriducibile ad esso. Al contrario: il significato focale del
concetto biblico di cuore è quello di sede del pensiero, dell’anima, della coscienza, dell’intelligenza (cf.l
Re 3,9; 5,9; Prv 6,32; 7,7) e della memoria (cf. Is 65,17; Ger 3,16). Ed esso, anziché un semplice
ricettacolo passivo di pensieri e ricordi, designa piuttosto l’organo dì tutte le operazioni intellettuali
dell’uomo: la facoltà del pensiero. Non a caso, per dire “pensare" nella Bibbia si usa il sintagma
“parlare con il cuore” (Qo 1,16; 2,15). Dio, l’unico vero e autentico saggio, è definito “saggio dì cuore"
(Gb 9,4). Non solo si ragiona e si pensa nel cuore (cf. Me 2,6; 2,8), ma con esso si prendono anche
decisioni volontarie e responsabili»44.
Nelle pagine del vecchio e del nuovo Testamento il cuore indica pertanto la sede delle decisioni morali e
non soltanto quella del “sentire”. Nella Sacra Scrittura troviamo situazioni e dilemmi che descrivono fedelmente
la condizione umana, di ogni tempo, comprese le emozioni; uomini del passato che vivono quello che, in diversi
momenti della vita, ognuno di noi sperimenta; Vira di Davide contro l’uomo di cui parla il profeta Natan (cf. 2
Sam 12,1 ss); la gioia di cui sono pieni i salmi (cf. Sai 16,11); la paura dei discepoli alla vista di Gesù che
camminava sul mare e si avvicinava alla loro barca (cf Gv 6,16-19), per citarne alcune. Lo stesso Gesù, ad
esempio, prova dolore e commozione per la morte del suo amico Lazzaro «Gesù [...] si commosse
profondamente, si turbò e disse: “Dove Vavete posto?’’. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere!”. Gesù
scoppiò in pianto» (cf. Gv 11,33- 35), sul monte degli Ulivi «Gesù disse loro: “La mia anima è triste fino al-
la morte ” (cf Me 14,34a) e “in preda all'angoscia, pregava più intensamente; e il suo sudore diventò come
gocce di sangue che cadevano a terra”» (cf. Le 22,44), e ancora davanti al lebbroso che lo supplicava in gi-
nocchio «mosso a compassione, stese la mano, lo toccò» (cf. Me 1,41 a).
Il Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, trattando del “cuore”:
«il cuore è sede di gioia, e di dolore (cf. Dt 28,4; Ger 4,19), di agitazione (cf Dt 19,6), di turbamento e
sgomento (cf. Gv 14,1; 14,27), di timore e dì rapimento (cf Gdt 11,1; 12,6), di adorazione dì Dio (cf. 1
Sam 12,24; Ger 32,40), degli affetti (cf Dt 6,5; Gdc 16,15), dei desideri (cf Es 35,21-26; Ger 29,13), del
rimpianto e della tristezza (cf Dt 15,10; 1 Sam 1,8), del coraggio (cf. 2 Sam 7,29; Sai 27,14), della fiducia
(cf Sai 5 7,8; 112,7)»45.
Anche noi proviamo queste stesse emozioni ed ecco che le varie “figure bibliche” appaiono persone simili a
noi, che ci hanno semplicemente preceduto nel tempo. Uomini e donne che hanno vissuto, come noi, emozioni e

.com/it/noticias/1642-deseo-que-vuestro-si-generoso-interpele-aliente-e-ilumine-a- todos-los-j ovenes.


44 Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, link cit.
45 Dizionario Interdisciplinare di Scienza e Fede, link cit.

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sentimenti, come quello doli’amore. Un amore che li porta ad essere protagonisti della Storia della Salvezza,
attraverso azioni concrete. Chi sono que- • ste persone? E chi sono i santi che illuminano i secoli? In che modo il
cuore potrebbe spingerci ad agire in modo retto, se non addirittura secondo fede?
Possiamo ipotizzare che l’esperienza emotiva ed affettiva di essere amati dal Signore, ci proietti verso di
Lui e verso il prossimo: sia interiormente sia esteriormente, attraverso atti concreti, comportamenti specifici che
utilizzino il propellente energetico fornito dagli stati emotivi/affettivi che proviamo. È per amore che, oggi
come nelle pagine della Bibbia, si accetta la sfida di vivere da cristiani, si risponde alla chiamata alla vita
matrimoniale o consacrata o ministeriale. Si risponde concretamente con amore perché si è ricevuto amore dal
Signore: la centralità di questa esperienza emotiva ed affettiva è, secondo noi, il motore del comportamento
morale cristiano. Possiamo ipotizzare che questo sia l’Evento centrale della nostra vita, in grado di rivoluzionare
pensieri, emozioni e comportamenti: un Evento, secondo noi, in virtù del quale ogni altro evento sarà vissuto
alla luce della fede. L’incontro con la Persona di Cristo, e l’esperienza affettiva-emotiva- cognitiva connessa,
influenzerà il modo con il quale la persona farà fronte alla realtà e a tutti gli eventi che le si presenteranno. Ed è
a questo punto che potremmo utilizzare lo schema in fig. 2, che parte da un evento stimolo. Ad esempio, se mi
trovassi ad accudire un parente sofferente che mi svegliasse in continuazione durante la notte, proverei una
condizione di acuta sofferenza fìsica per il sonno ripetutamente interrotto. Potrei pensare “sono distrutto dalla
stanchezza”, provare rabbia, frustrazione, delusione nei confronti della circostanza che ostacola il mio bisogno
vitale e “giusto" di dormire, ad avere l’intenzione comportamentale di fuggire. Se ascoltassi soltanto le mie
emozioni ed i miei bisogni di quel momento, essi mi porterebbero probabilmente lontano dalla persona
sofferente e questo, in definitiva, sarebbe utile e opportuno per la mia sopravvivenza (psico-fìsica). Potrei però
scegliere di continuare a vegliare l’altro: o per senso del dovere (per moralismo) o per affettività nei suoi
confronti o per Amore. In lutti questi casi sarebbero attivati altri schemi, che ipotizziamo paralleli, a trascendere
quello che penso, provo e le mie forze. La mia coscienza morale potrebbe portarmi ad agire in modo “giusto”,
aiutando tale persona bisognosa, ma la conversione del cuore potrebbe portarmi ad agire in modo cristiano,
trascendendo realmente me stesso per donarmi all’altro, avendo co- me fine il suo bene e non un qualche tipo
di tornaconto personale. Questi atti di accudimento non sarebbero allora soltanto spiegati dalla mia rettitudine
(emozioni morali e moralismo), né dal “sentimentalismo” verso l’altro
ISO

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(emotivismo) o dal legame affettivo, ma sarebbero un frutto dello Spirito Santo46.
In sintesi, il piano dell’emotività e dell’affettività costituiscono leve formidabili per comportarci in modo
moralmente corretto, ma senza rincontro con Gesù e l’azione dello Spirito Santo, dono di Cristo Risorto, il
nostro agire rimarrebbe nel piano del moralismo. E proprio sulla importanza dello Spirito Santo ci illumina il
Santo Padre Francesco:
«Qual è allora l’azione dello Spirito Santo [...] Anzitutto, ricorda e imprime nei cuori dei credenti le
parole che Gesù ha detto, e, proprio attraverso tali parole, la legge di Dio - come avevano annunciato i
profeti dell'Antico Testamento - viene inscritta nel nostro cuore e diventa in noi principio di valutazione
nelle scelte e di guida nelle azioni quotidiane, diventa principio di vita. Si realizza la grande profezìa di
Ezechiele: [...] «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spìrito nuovo... Porrò il mio spirito
dentro di voi e vi farò vivere secondo le mìe leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme»
(36,25-27). Infatti, è dall’intimo di noi stessi che nascono le nostre azioni: è proprio il cuore che deve
convertirsi a Dio, e lo Spirito Santo lo trasforma se noi ci apriamo a Lui» 47:
8.1 pensieri: “con tutta la tua mente”
Riprendendo la metafora degli occhiali, possiamo affermare che la conversione del cuore possa trasformare,
rinnovare, rigenerare le lenti della persona: un’esperienza totale, che investe schemi emotivi, cognitivi e
relazionali.
tu
I
II
Molte situazioni della vita possono generare importanti e fertili evoluzioni in un individuo (ad esempio una
malattia, un lutto, un’intensa amicizia, un amore corrisposto), ma la conversione costringe a riordinare radi-
calmente l’esperienza che, fino a quel momento, la persona ha compiuto di sé, degli altri, del mondo, del tempo
(passato, presente, futuro). La conversione porta a “ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come
quelle della terra” (Ef 1,1 Ob), a rivedere, cognitivamente ed emotivamente, la lettura degli avvenimenti
accaduti sino a quel momento, le relazioni di causa-effetto riguardanti gli eventi salienti del passato,
permettendo all’uomo di rileggere la propria storia con occhi nuovi o forse di leggerla, per la prima volta, con
gli “occhi” di Dio: con le lenti dell’amore.
La conversione del cuore, profondamente legata all’esperienza concreta affettiva e cognitiva dell’Amore di
Cristo, porta a riorganizzare l’immagine di sé e degli altri, e anche a ri-vedere l’esperienza emotiva del passato.
Ad esempio posso essere convinto che qualcuno abbia lasciato un segno positivo o negativo nella mia vita e, alla
luce della fede, dare una valutazione cognitiva ed emotiva completamente diversa e nuova degli stessi fatti. La
conversione quindi può indurre a rimettere in discussione tutti i significati dati in precedenza, in una rivoluzione
di vedute che, a sua volta, ha importanti ricadute emotive, cognitive, comportamentali e sensoriali/somatiche.
Le Scritture riportano l’esperienza di uomini e donne che hanno accolto il disegno salvifico di Dio
assumendo un cuore nuovo, ma anche nuove prospettive “mentali”: «possa egli davvero illuminare gli occhi
della vostra mente per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria
racchiude la sua eredità fra i santi» (Ef 1,18). Persone cambiate perché “toccate” e “guarite” nell’anima, nella
mente, nel corpo e nei sentimenti che vengono radicalmente trasformati: «le renderò le sue vigne e tra-
sformerò la valle diAcòr48 49 in porta di speranza» (Os 2,17).
9.1 comportamenti: “con tutta la tua forza”
«E Gesù gli disse: “Va', la tua fede ti ha salvato”. E subito riacquistò la vista e prese a seguirlo per
la strada» (Me 10,52). Bartimèo, cieco che sedeva immobile lungo la strada a mendicare all’uscita di Gerico, al
passaggio di Gesù Nazareno lo vuole incontrare perché spera di riavere la vista. Questa speranza lo spinge a
gridare quando passa Gesù e quando Egli lo chiama a gettare il mantello e balzare in piedi e dopo lo
straordinario “incontro” con Lui, grazie al quale riprende a vedere, non può fare altro che seguirlo per la strada.
Quest’uomo agisce con tutte le proprie forze per incontrare il Messia: grida, getta, balza, vede, e poi per
seguirlo, lasciando tutto, per la strada. E come saranno gli atti di Bartimèo dopo questo Incontro? Come userà le
proprie forze? La conversione religiosa42 consiste, prima di tutto, in esperienza concreta di amore, di incontro
con una Persona, che genera amore, orizzontale verso gli uomini e verticale verso Dio. Si, sono amato ed amo.

46 «Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, domìnio di sé;
contro queste cose non c’è legge» (Gal.5,22-23). Cf. Rosini F.; Itinerario sui frutti dello Spirito Santo,
http://lapartemigliore.org/site/index.php/i-frutti-dello
47 Francesco, Udienza Generale, 15 maggio 2013.
48 La valle di Acòr è ima delle valli nei dintorni di Gerico, il suo nome significa “valle di sventura”. Cf. La Bibbia
di Gerusalemme (1988), Edizioni Dehoniane, Bologna, nota 2,17, p. 1955.
49 Lonergan distingue una conversione intellettuale, una morale, una religiosa; non necessariamente in questa
successione (cf. Lonergan B.J.F. (1975), op. cit.).

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Allora potrò “leggere” con gli occhi della fede le situazioni che mi si presenteranno, potrò vedere nel prossimo il
volto di Cristo, provare emozioni e sentimenti nuovi, che mi porteranno ad atti nuovi, non biologicamente
determinati, andando oltre il “limite” della mia “carne”. Allora, con la Grazia di Cristo, potrò anche amare il
prossimo quando mi ferisce: «.amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano» (Le 6,27b);
poiché:
«L ’amore è paziente, è benevolo; l ’amore non invidia; l ’amore non si vanta, non si gonfia, non si
comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male,
non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa,
sopporta ogni cosa. L1amore non verrà mai meno» (1 Cor 13,4-10).
S. Paolo, infatti, ci invita ad avere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (Fil 2,5), amore e
compassione gli uni per gli altri. La fede50 permette di agire come Cristo, come leggiamo nel C.C.C. al n.1709:
«Chi crede in Cristo diventa figlio di Dio. Questa adozione filiale lo trasforma dandogli la capacità dì
seguire l’esempio di Cristo. Lo rende capace di agire rettamente e di compiere il bene. Nell’unione con il
suo Salvatore, il discepolo raggiunge la perfezione della carità, cioè la santità. La vita morale, maturata
nella grazia, sboccia in vita eterna, nella gloria del cielo»51.
La fede permette all’uomo di conformarsi alla “coscienza morale” di Gesù, e tramite essa discemere le
situazioni della vita, compiere le scelte di tutti i giorni, mantenere il dialogo con il Padre. Cristo può diventare il
criterio ultimo di bene morale: «la sua persona diventa, grazie allo Spirito, la regola vivente ed interiore
della nostra condotta»52.
Sintesi finale
Nel presente lavoro abbiamo proposto una ipotesi motivazionale all'agire morale (fig. 2), basata sui dati
della letteratura scientifica, che può essere utilizzata anche avendo una antropologia cristiana di riferimento. Da
tempo, infatti, si è visto possibile conciliare la psicologia con la dimensione spirituale della vita (Cantehni, La
Selva, Paluzzi, 2004) superando i limiti di alcune teorie psicologiche (Browning, Cooper, 2007). Il tema morale
deve essere trattato con un approccio interdisciplinare (cf. Gatti, 1985); Ma- dinier, 1982; Majorano, 1994;
Benedetto XVI, 2009), ma non può che avere Dìo come fondamento ultimo della dimensione morale (Lucas
Lucas, 2007). Dio è Amore e questo va oltre la giustizia: nella parabola degli operai mandati nella vigna (Mt.
20,1-16) il padrone paga un denaro sia i lavoratori del mattino sia quelli dell’ultima ora: questo ci può
scandalizzare. Eppure Egli paga i primi quanto pattuito con essi: il padrone quindi non è ingiusto con i primi, ma
buono con i secondi, di una bontà che va oltre la giustizia.
La capacità di autotrascendersi teocentricamente esige un Io maturo, libero da condizionamenti interni: più
la persona sarà matura da un punto di vista psico-affettivo più sarà in grado di incontrare ed accogliere l’alterità
del prossimo e l’Alterità di Dio, rendendo possibile quello che Cristo stesso ci chiede e cioè di amarci gli uni gli
altri come Lui ci ha amati53 e di non fare alcun male al prossimo54.
La vita morale è una risposta d'amore (Giovanni Paolo II, 1993) a Dio.
«Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me [...] infatti se la giustificazione viene dalla legge, Cristo è
morto invano» (Gal 2,20-21)
Riflessioni conclusive
Arrivare al termine di questo percorso e trarre delle conclusioni non rispecchierebbe l’intento del presente
manuale che, invece, vuole proporsi come uno stimolo a partire dal quale si può approfondire quel dialogo, a cui
si è accennato, tra scienze psicologiche e teologia.
Nel proporre ed illustrare la teoria di Guidano, applicandola al contesto specifico della vita consacrata, si è
evidenziato come l’uomo attribuisca continuamente significati personali alla propria esistenza a partire da quei
temi affettivi specifici di ogni organizzazione e si è ipotizzato che questo possa accadere anche nella relazione
con Dio e nel vissuto dei voti di obbedienza, castità e povertà.
Questo aspetto può rappresentare per il formatore un elemento utile quando si trova ad accompagnare il
candidato nel percorso di discernimento vocazionale e, successivamente, nel processo formativo dopo la consa-
crazione. Utile perché la cornice teorica presentata può costituire uno strumento in più da aggiungere al proprio
50 La Fede, secondo noi, porta con sé ed è legata ad un’esperienza emotiva-affettiva. Tuttavia in sé stessa è un dono
di Dio all’uomo, una delle virtù teologali, insieme alla Speranza e alla Carità, le quali «hanno come origine, causa ed
oggetto Dìo Uno e Trino», C.C.C., n.1812. Inoltre «Le virtù teologali fondano, animano e caratterizzano Vagire morale del
cristiano. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali. Sono infuse da Dìo nell’anima dei fedeli per renderli capaci di
agire quali suoi figli e meritare la vita eterna», C.C.C., n. 1813. Vi è quindi un collegamento tra la fede e l’agire da figli di
Dio, poiché (da fede senza le opere è morta» (Gc 2,26), cf. C.C.C., n. 1815.
51 Cf. http ://www.vatican. va/archive/ccc_it/documents/2663cat473-668.PDF.
52 C.C.C., n.2074.
53 «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato» (Gv 13,34).
54 «L'amore non fa nessun male al prossimo» (Rm 13,10).

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bagaglio esperienziale, per potersi accostare in modo più comprensibile all’insieme dei processi in continuo
svolgimento, propri della persona che ha di fronte.
Nell’awicinarsi al “chiamato”, il ruolo del formatore diviene indispensabile nel momento in cui la sua
“parola”, alimentata da quella di Dio, si fa “guida” nel cammino di crescita vocazionale. In tale ambito, fornire
indicazioni sugli aspetti essenziali del colloquio che avviene tra i due interlocutori nel percorso di crescita
vocazionale è stato un secondo aspetto che si è ritenuto indispensabile affrontare.
Se da una parte, allora, le tematiche affrontate nel manuale possono supportare il formatore nel condurre il
“chiamato” ad una risposta vocazionale più libera e matura, condizione indispensabile per vivere “in pienezza”
la propria vocazione, dall’altra tali strumenti non devono “spogliarlo” di quell’atteggiamento di umiltà
necessario per accostarsi al “mistero” della persona che ha di fronte. Come afferma Paluzzi: parlare della
formazione dei candidati alla vita consacrata significa porsi di fronte al “mistero dell’essere umano”,
«dell’uomo e della donna concreti che trovano in Cristo il “logos” per eccellenza, il significato primo ed ultimo
della propria esistenza, della propria identità, della propria vocazione nella storia» (Pa- luzzi, 2002, p. 3).

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Appendice A

Griglia orientativa per la valutazione dell’organizzazione di significato


personale
(Intervista semistrutturata)
Le frasi che seguono riguardano la sua esperienza di vita ed il suo modo di essere e sentire. Dopo
aver letto una frase indichi con una crocetta la casella che secondo lei la descrive meglio attribuendo un
punteggio su una scala da 1 (“sono totalmente in disaccordo”) a 5 (“sonopienamente d’accordo").
1. Temo di essere rifiutato dalle persone che amo 1 2 3 4 5

2. Mi da fastìdio sentirmi limitato nella mia libertà 1 2 3 4 5

3 4 5
3. È proprio vero che nella vita gli esami non finiscono 1 2
mai
3 4 5
4. Non so dire di no alle persone 1 2

3 4 5
5. Prima di prendere una decisione devo essere assolu-
1 2
tamente certo che sia quella giusta

6. Le critiche mi feriscono moltissimo 1 2 3 4 5

7. Quando le cose vanno male tendo a dare la colpa a me


1 2 3 4 5
stesso

8. È importante avere qualcuno su cui contare 1 2 3 4 5

9. Se non ho fatto il mio dovere fino in fondo me ne


1 2 3 4 5
vergogno con me stesso
3 4 5
10. La novità mi spaventa 1 2

3 4 5
11. Faccio fatica ad affrontare anche le cose piacevoli della
1 2
giornata
3 4 5
12. Se non ini sento del tutto sicuro tendo a rimandare le
1 2
decisioni che devo prendere
3 4 5
13. Se qualcosa non mi riesce bene me ne vergogno di fronte
1 2
agli altri
3 4 5
14. A volte sono assalito dal dubbio di non essermi com-
1 2
portato nel modo giusto
3 4 5’
15. In caso di necessità devo avere qualcuno su cui contare 1 2

3 4 5
16. Ci sono valori che non si possono discutere 1 2

3 4 5
17. Sono una persona che si fa voler bene 1 2

3 4 5
18. Quando sono in difficoltà non cerco Faiuto degli altri 1 2

3 4 5
19. Mi spaventa avere problemi dì salute 1 2

13
4
20. Mi interessano molto le opinioni che gli altri hanno di me 1 2 3 4 5

1
3
5
Tab. 1 ~ Tabella di correzione per la
griglia

DEP
1

FOB
2

3 DAP

4 DAP

5 oss
DAP
6

7 DEP

FOB
8

9 OSS

FOB
10

DEP
11

OSS
12

13 DAP

14 OSS

15 FOB

OSS
16

17 DEP

DEP
18

19 FOB

DAP
20

L’item 17 è Vunico della griglia che va valutato in senso “contrario”: per cui, nel corso della correzione, i
punteggi 1 verranno ricodificati come 5, i punteggi 2 come 4 e così via.
Ad esempio: se il soggetto ha risposto con un punteggio 4, quest’ultimo sarà valutato nella somma totale
come punteggio 2.
Appendice B
Congregazione per rEducazione Cattolica
Orientamenti per l’utilizzo
delle competenze psicologiche nell’ammissione
e nella formazione dei candidati al sacerdozio
1. La Chiesa e il discernimento vocazionale
1. «Ogni vocazione cristiana viene da Dio, è dono di Dio. Essa però non viene mai elargita fuori o
indipendentemente dalla Chiesa, ma passa sempre nella Chiesa e mediante la Chiesa [...] luminoso e vivo
riflesso del mistero della Trinità santissima» 1.
La Chiesa, «generatrice ed educatrice di vocazioni»55 56, ha il compito di discerne- re la vocazione e
l’idoneità dei candidati al ministero sacerdotale. Infatti, «la chiamata interiore dello Spirito Santo ha bisogno di
essere riconosciuta come autentica chiamata dal Vescovo»57.
Nel promuovere tale discernimento e nell’intera formazione al ministero, la Chiesa è mossa da una duplice

55 Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica post-sinodale Pastores dabo vobis (25 marzo 1992), n. 35b-c: AAS 84
(1992), 714.
56 Ibìd., n. 35d: AAS 84 (1992), 715.
57 Ibid, n. 65d: AAS 84 (1992), 771.

13
6
attenzione: salvaguardare il bene della propria missione e, allo stesso tempo, quello dei candidati. Come ogni
vocazione cristiana, la vocazione al sacerdozio, infatti, unitamente alla dimensione cristologica, ha un’essenziale
dimensione ecclesiale: «non solo essa deriva “dalla” Chiesa e dalla sua mediazione, non solo si fa riconoscere e
si compie “nella” Chiesa, ma si configura - nel fondamentale servizio a Dio - anche e necessariamente come
servizio “alla” Chiesa. La vocazione cristiana, in ogni sua forma, è un dono destinato all’edificazione della
Chiesa, alla crescita del Regno di Dio nel mondo»58.
Quindi, il bene della Chiesa e quello del candidato non sono tra loro contrapposti, bensì convergenti. I
responsabili della formazione sono impegnati ad armonizzarli tra loro, considerandoli sempre simultaneamente
nella loro dinamica interdipendenza: è, questo, un aspetto essenziale della grande responsabilità del loro servizio
alla Chiesa e alle persone59.
2. Il ministero sacerdotale, inteso e vissuto come conformazione a Cristo Sposo, Buon Pastore, richiede
doti nonché virtù morali e teologali, sostenute da equili-

58 Ibid., n. 35e: AAS 84 (1992), 715


59 Cf. ibid., nn. 66-67: AAS 84 (1992), 772-775.

1
3
7
brio umano e psichico, particolarmente affettivo, così da permettere al soggetto di essere adeguatamente
predisposto ad una donazione di sé veramente libera nella relazione con i fedeli in una vita celibataria 60.
Trattando delle diverse dimensioni della formazione sacerdotale - umana, spirituale, intellettuale, pastorale -
l’Esortazione apostolica post-sinodale Pastores da- bo vobis, prima di soffermarsi su quella spirituale,
«elemento di massima importanza nell’educazione sacerdotale»61, rileva che la dimensione umana è il fonda-
mento dell’intera formazione. Essa elenca una serie di virtù umane e di capacità relazionali che sono richieste al
sacerdote affinché la sua personalità sia «ponte e non ostacolo per gli altri nell’mcontro con Gesù Cristo
Redentore dell’uomo»62. Esse vanno dall’equilibrio generale della personalità alla capacità di portare il peso
delle responsabilità pastorali, dalla conoscenza profonda dell’animo umano al senso della giustizia e della
lealtà63.
Alcune di queste qualità meritano particolare attenzione: il senso positivo e stabile della propria identità
virile e la capacità di relazionarsi in modo maturo con altre persone o gruppi di persone; un solido senso di
appartenenza, fondamento della fiitura comunione con il presbiterio e di una responsabile collaborazione al
ministero del vescovo64 65; la libertà di entusiasmarsi per grandi ideali e la coerenza nel realizzarli nell’azione
d’ogni giorno; il coraggio di prendere decisioni e di restarvi fedeli; la conoscenza di sé, delle proprie doti e
limiti integrandoli in una stima di sé di fronte a Dio; la capacità di correggersi; il gusto per la bellezza intesa
come “splendore di verità” e Tarte di riconoscerla; la fiducia che nasce dalla stima per l’altro e che porta
all’accoglienza; la capacità del candidato di integrare, secondo la visione cristiana, la propria sessualità, anche in
considerazione dell’obbligo del celibato11.
Tali disposizioni interiori devono essere plasmate nel cammino di formazione del futuro presbitero, il quale,
uomo di Dio e della Chiesa, è chiamato a edificare la
comunità ecclesiale. Egli, innamorato dell’Eterno, è proteso all5autentica e integrale valorizzazione dell’uomo e
a vivere sempre più la ricchezza della propria affettività nel dono di sé al Dio uno e trino e ai fratelli,
particolarmente a quelli che soffrono.
Si tratta, ovviamente, di obiettivi che si possono raggiungere soltanto attraverso la diuturna corrispondenza
del candidato all’opera della grazia in lui e che sono acquisiti con un graduale, lungo e non sempre lineare
cammino di formazione66.
Consapevole del mirabile e impegnativo intreccio delle dinamiche umane e spirituali nella vocazione, il
candidato non può che trarre vantaggio da un attento e responsabile discernimento vocazionale, teso a
individuare cammini personalizzati di formazione e a superare con gradualità eventuali carenze sul piano
spirituale e umano. È dovere della Chiesa fornire ai candidati un’efficace integrazione della dimensione umana,
alla luce della dimensione spirituale a cui esse si aprono e in cui si completano 67.
2. Preparazione dei formatori
3. Ogni formatore dovrebbe essere buon conoscitore della persona umana, dei suoi ritmi di crescita, delle
sue potenzialità e debolezze e del suo modo di vivere il rapporto con Dio. Per questo, è auspicabile che i
Vescovi, fruendo di esperienze, di programmi e di istituzioni ben collaudate, provvedano a una idonea

60 Di tali condizioni viene data una descrizione molto ampia in Pastores dabo vobis, nn. 43-44: AAS 84 (1992), 731-736;
cf. C.I.C., cann. 1029 e 1041, 1°,
61 In quanto essa, «per ogni presbitero [...] costituisce il cuore che unifica e vivifica il suo
essere prete e il suo fare il prete»: Pastores dabo vobis, n, 45c: AAS 84 (1992), 737.
62Pastores dabo vobis, n. 43: AAS 84 (1992), 731-733.
63Cf. ibid.; cf. anche Concilio Ecumenico Vaticano II, Decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius (28 ottobre
1965), n. Il: AAS 58 (1966), 720-721; Decreto sul ministero e la vita dei presbiteri Presbyterorum ordìnis (7 dicembre 1965), n. 3:
AAS 58 (1966), 993- 995; Congregazione per l’Educazione Cattolica, Ratio fundamentalis ìnstitutionis sacerdote^ lis (19 marzo
1985), n. 51.
64 Cf, Pastores dabo vobis, n. 17: AAS 84 (1992), 682-684.
65 Paolo VI, nella Lettera enciclica Sacerdotalìs ccelibatus (24 giugno 1967), tratta esplicitamente di questa necessaria
capacità del candidato al sacerdozio ai nn. 63-64: AAS 59 (1967), 682- 683. Egli conclude al n. 64: «Una vita cosi totalmente e
delicatamente impegnata nell’intimo e all’esterno, come quella del sacerdote celibe, esclude, infatti, soggetti di insufficiente
equilibrio psicofisico e morale, né si deve pretendere che la grazia supplisca in ciò la natura». Cf. anche Pastores dabo vobis, n.
44: AAS 84 (1992), 733-736.
66 Nel percorso evolutivo assume un’importanza speciale la maturità affettiva, un ambito dello sviluppo che richiede,
oggi più di ieri, una particolare attenzione. «Si cresce nella maturità affettiva quando il cuore aderisce a Dio. Cristo ha
bisogno dì sacerdoti che siano maturi, virili, capaci di coltivare un’autentica paternità spirituale. Perché ciò accada, serve
l’onestà con se stessi, l’apertura verso il direttore spirituale e la fiducia nella divina misericordia» (Benedetto XVI, Discorso
ai sacerdoti e ai religiosi nella Cattedrale di Varsavia [25 maggio 2006], in: L ’Osservatore Romano [26-27 maggio 2006], p,
7). Cf. Pontificia Opera per le Vocazioni Ecclesiastiche, Nuove vocazioni per una nuova Europa, Documento finale del
Congresso sulle Vocazioni al sacerdozio e alla Vita consacrata in Europa, Roma, 5-10 maggio 1997, a cura delle
Congregazioni per l’Educazione Cattolica, per le Chiese Orientali, per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita
Apostolica (6 gennaio 1998), n. 37,
pp. 111-120.
67 Cf. Pastores dabo vobis, n. 45a: AAS 84 (1992), 736.
preparazione dei formatori nella pedagogia vocazionale, secondo le indicazioni già emanate dalla
Congregazione per l’Educazione Cattolica68.
I formatori hanno bisogno di adeguata preparazione per operare un discernimento che permetta, nel pieno
rispetto della dottrina della Chiesa circa la vocazione sacerdotale, sia di decidere in modo ragionevolmente
sicuro in ordine all5ammissione in Seminario o alla Casa di formazione del clero religioso, ovvero alla
dimissione da essi per motivi di non idoneità, sia di accompagnare il candidato verso r acquisizione di quelle
virtù morali e teologali necessarie per vivere in coerenza e libertà interiore la donazione totale della propria vita
per essere «servitore della Chiesa comunione»69.
4. Il documento Orientamenti educativi per la formazione al celibato sacerdotale, di questa
Congregazione per l’Educazione Cattolica, riconosce che «gli errori di discernimento delle vocazioni non sono
rari, e troppe inettitudini psichiche, più o meno patologiche, si rendono manifeste soltanto dopo l’ordinazione
sacerdotale. Il discemerle in tempo permetterà di evitare tanti drammi»70.
Ciò esige che ogni formatore abbia la sensibilità e la preparazione psicologica adeguate 71 per essere in
grado, per quanto possibile, di percepire le reali motivazioni del candidato, di discemere gli ostacoli
nell’integrazione tra maturità umana e cristiana e le eventuali psicopatologie. Egli deve ponderare
accuratamente e con molta prudenza la storia del candidato. Da sola, però, essa non può costituire il criterio
decisivo, sufficiente per giudicare l’ammissione o la dimissione dalla formazione. Il formatore deve saper
valutare sia la persona nella sua globalità e progressività di sviluppo - con i suoi punti di forza e i suoi punti
deboli - sia la consapevolezza che essa ha dei suoi problemi, sia la sua capacità di controllare responsabilmente
e liberamente il proprio comportamento.
Per questo, ogni formatore va preparato, anche con adeguati corsi specifici, alla più profonda comprensione
della persona umana e delle esigenze della sua formazione al ministero ordinato. A tale scopo, molto utili
possono essere gli incontri di confronto e chiarificazione con esperti in scienze psicologiche su alcune specifiche
tematiche.
3. Contributo della psicologia al discernimento e alla formazione
5. In quanto frutto di un particolare dono di Dio, la vocazione al. sacerdozio e il suo discernimento esulano
dalle strette competenze della psicologia. Tuttavia, per una valutazione più sicura della situazione psichica del
candidato, delle sue attitudini umane a rispondere alla chiamata divina, e per un ulteriore aiuto nella sua crescita
umana, in alcuni casi può essere utile il ricorso ad esperti nelle scienze psicologiche. Essi possono offrire ai
formatori non solo un parere circa la diagnosi e l’eventuale terapia di disturbi psichici, ma anche un contributo
nel sostegno allo sviluppo delle qualità umane, soprattutto richieste dall’esercizio del ministero , suggerendo
utili itinerari da seguire per favorire una risposta vocazionale più libera.
Anche la formazione al sacerdozio deve fare i conti sia con le molteplici manifestazioni di quello squilibrio
che è radicato nel cuore dell’uomo72 73 - e che ha una sua particolare manifestazione nelle contraddizioni tra
l’ideale di oblatività, cui coscientemente il candidato aspira, e la sua vita concreta - sia con le difficoltà proprie
di un progressivo sviluppo delle virtù morali. L’aiuto del padre spirituale e del confessore è fondamentale e
imprescindibile per superarle con la grazia di Dio. In alcuni casi, tuttavia, lo sviluppo di queste qualità morali
può essere ostacolato da particolari ferite del passato non ancora risolte.
Infatti, coloro che oggi chiedono di entrare in Seminario riflettono, in modo più o meno accentuato, il
disagio di un’emergente mentalità caratterizzata da consumismo, da instabilità nelle relazioni familiari e sociali,
da relativismo morale, da visioni errate della sessualità, da precarietà delle scelte, da una sistematica opera di
negazione dei valori, soprattutto da parte dei mass-media.
Tra i candidati si possono trovare alcuni che provengono da particolari esperienze - umane, familiari,
professionali, intellettuali, affettive - che in vario modo hanno lasciato ferite non ancora guarite e che provocano
disturbi, sconosciuti nella loro reale portata allo stesso candidato e spesso da lui attribuiti erroneamente a cause
esterne a sé, senza avere, quindi, la possibilità di affrontarli adeguatamente 74.

68 Cf, Congregazione per l’Educazione Cattolica, Direttive sulla preparazione degli educatori nei Seminari (4
novembre 1993), nn. 36 e 57-59; cf. soprattutto Optatam totius, n. 5: AAS 58 (1966), 716-717.
69 Pastores dabo vobis, il. 16e: AAS 84 (1992), 682.
70 S. Congregazione per l’Educazione Cattolica, Orientamenti educativi per la formazione al celibato sacerdotale (11
aprile 1974), n. 38.
71 Cf. Pastores dabo vobis, n. 66 c: AAS 84 (1992), 773; Direttive sulla preparazione degli educatori nei Seminari,
nn. 57-59.
72 Cf. Optatam totius, n. 11 : AAS 58 (1966), 720-721.
73 Cf. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes (7 dicembre 1965), n. 10; AAS 58 (1966), 1032-1033.
74 Per meglio comprendere queste affermazioni, è opportuno fare riferimento alle seguenti affermazioni di Giovanni
Paolo II: «L’uomo, dunque, porta in sé il germe della vita eterna e la vocazione a far propri i valori trascendentali; egli, però,
resta interiormente vulnerabile e drammaticamente esposto al rischio di fallire la propria vocazione, a causa di resistenze e
difficoltà che egli incontra nel suo cammino esistenziale sia a livello conscio, ove è chiamata in causa la responsabilità
morale, sia a livello subconscio, e ciò sia nella sua vita psichica ordinaria, che in quella segnata da lievi o moderate
È evidente che tutto ciò può condizionare la capacità di progredire nel cammino formativo verso il
sacerdozio.
«Si casus ferat»75 - ossia nei casi eccezionali che presentano particolari difficoltà -, il ricorso a esperti nelle
scienze psicologiche, sia prima dell’ammissione al Seminario sia durante il cammino formativo, può aiutare il
candidato nel superamento di quelle ferite, in vista di una sempre più stabile e profonda interiorizzazione dello
stile di vita di Gesù Buon Pastore, Capo e Sposo della Chiesa76.
Per una corretta valutazione della personalità del candidato, l’esperto potrà fare ricorso sia a interviste, sia a
test, da attuare sempre con il previo, esplicito, informato e libero consenso del candidato77.
Consideratane la particolare delicatezza, dovrà essere evitato Fuso di specialistiche tecniche psicologiche o
psicoterapeutiche da parte dei formatori.
6. È utile che il Rettore e gli altri formatori possano contare sulla collaborazione di esperti nelle scienze
psicologiche, che comunque non possono far parte dell’équipe dei formatori. Essi dovranno aver acquisito
competenza specifica in campo vocazionale e, alla professionalità, unire la sapienza dello Spirito.
Nella scelta degli esperti cui fare ricorso per la consulenza psicologica, per garantire meglio l’integrazione
con la formazione morale e spirituale, evitando deleterie confusioni o contrapposizioni, si tenga presente che
essi, oltre a distinguersi per la loro solida maturità umana e spirituale, devono ispirarsi a un’antropologia che
condivida apertamente la concezione cristiana circa la persona umana, la sessualità, la vocazione al sacerdozio e
al celibato, così che il loro intervento tenga conto del mistero dell’uomo nel suo personale dialogo con Dio,
secondo la visione della Chiesa.
Là ove non fossero disponibili tali esperti, si provveda alla loro specifica preparazione78.
L’ausilio delle scienze psicologiche deve integrarsi nel quadro della globale formazione del candidato, così
da non ostacolare, ma da assicurare in modo particolare la salvaguardia del valore irrinunciabile
dell’accompagnamento spirituale, il cui compito è di mantenere orientato il candidato alla verità del ministero
ordinato, secondo la visione della Chiesa. Il clima di fede, di preghiera, di meditazione della Parola di Dio, di
studio della teologia e di vita comunitaria - fondamentale per la maturazione di una generosa risposta alla
vocazione ricevuta da Dio - permetterà al candidato una corretta comprensione del significato e Yintegrazione
del ricorso alle competenze psicologiche nel suo cammino vocazionale.
7. Il ricorso agli esperti nelle scienze psicologiche dovrà essere regolato nei diversi Paesi dalle rispettive
Ratìones institutionis sacerdotalis e nei singoli Seminari dagli Ordinari o Superiori Maggiori competenti, con
fedeltà e coerenza ai principi e alle direttive del presente Documento.
a) Discernimento iniziale
8. È necessario, fin dal momento in cui il candidato si presenta per essere accolto in Seminario, che il
formatore possa conoscerne accuratamente la personalità, le potenzialità, le disposizioni e i diversi eventuali tipi
di ferite, valutandone la natura e l’intensità.
Non bisogna dimenticare la possibile tendenza di alcuni candidati a minimizzare o a negare le proprie
debolezze: essi non parlano ai formatori di alcune loro gravi difficoltà, temendo di poter non essere capiti e di
non essere accettati. Coltivano così attese poco realistiche nei confronti del proprio futuro. Al contrario, vi sono
candidati che tendono ad enfatizzare le loro difficoltà, considerandole ostacolo insormontabile per il cammino
vocazionale.
Il discernimento tempestivo degli eventuali problemi che ostacolassero il cammino vocazionale - quali
l’eccessiva dipendenza affettiva, l’aggressività sproporzionata, rinsufficiente capacità di essere fedele agli
impegni assunti e di stabilire rapporti sereni di apertura, fiducia e collaborazione fraterna e con l’autorità,
l’identità sessuale confusa o non ancora ben definita - non può che essere di grande beneficio per la persona, per
le istituzioni vocazionali e per la Chiesa.
Nella fase del discernimento iniziale, l’aiuto di esperti nelle scienze psicologiche può essere necessario
anzitutto a livello propriamente diagnostico, qualora ci fosse il dubbio di presenza di disturbi psichici. Se si
constatasse la necessità di una terapia, dovrebbe essere attuata prima dell’ammissione al Seminario o alla Casa
di formazione. L’aiuto degli esperti può essere utile ai formatori anche per delineare un cammino formativo
personalizzato secondo le specifiche esigenze del candidato.
Nella valutazione della possibilità di vivere, in fedeltà e gioia, il carisma del celibato, quale dono totale

psicopatologie, che non influiscono sostanzialmente sulla libertà della persona di tendere agli ideali trascendenti, respon-
sabilmente scelti» (Allocuzione alla Rota Romana [25 gennaio 1988]: AAS 80 [1988], 1181).
75 Cf. Ratio fundamentalis instìtutionis sacerdotalis, n. 39; Congregazione per i Vescovi, Direttorio per il Ministero
pastorale dei Vescovi Apostolorum Successores (22 febbraio 2004), n. 88.
76 Cf. Pastores dabo vobìs, n. 29d: AAS 84 (1992), 704.
77 Cf. S. Congregazione per i Religiosi e gli Istituti Secolari, Istruzione sull’aggiornamento della formazione alla
vita religiosa (6 gennaio 1969), n. 11 § IH: AAS 61 (1969), 113.
78 Cf. Giovanni Paolo II: «Sarà opportuno curare la preparazione di esperti psicologi i quali, al buon livello
scientifico, uniscano una comprensione profonda della concezione cristiana circa la vita e la vocazione al sacerdozio, così da
essere in grado di fornire supporti efficaci alla necessaria integrazione tra la dimensione umana e quella soprannaturale.»
(Discorso ai partecipanti alla Sessione Plenaria della Congregazione per l’Educazione Cattolica [4 febbraio 2002], n. 2:
AAS 94 [2002], 465).
della propria vita ad immagine di Cristo Capo e Pastore della Chiesa, si tenga presente che non basta accertarsi
della capacità di astenersi dall’esercizio della genitalità, ma è necessario anche valutare l’orientamento sessuale,
secondo le indicazioni emanate da questa Congregazione 25. La castità per il Regno, infatti, è molto di più della
semplice mancanza di relazioni sessuali.
Alla luce delle finalità indicate, la consultazione psicologica può in alcuni casi risultare utile.
b) Formazione successiva
9. Nel periodo della formazione, il ricorso ad esperti nelle scienze psicologiche,, oltre a rispondere alle
necessità generate da eventuali crisi, può essere utile a soste-, nere il candidato nel suo cammino verso un più
sicuro possesso delle virtù morali; può fornire al candidato una più profonda conoscenza della propria
personalità e : può contribuire a superare, o a rendere meno rigide, le resistenze psichiche alleò: proposte
formative.
Una maggiore padronanza, non solo delle proprie debolezze, ma anche delle 79 80 81 proprie forze umane e
spirituali25, permette di donarsi con la dovuta consapevolezza e libertà a Dio, nella responsabilità verso se stessi
e verso la Chiesa.
Non si sottovaluti, tuttavia, il fatto che la maturità cristiana e vocazionale raggiungibile, grazie anche
all’aiuto delle competenze psicologiche, benché illuminate e integrate dai dati dell’antropologia della vocazione
cristiana, e quindi della grazia, non sarà mai esente da difficoltà e tensioni che richiedono disciplina interiore,
spirito di sacrificio, accettazione della fatica e della croce 82 83, e affidamento all’aiuto insostituibile della grazia84.
10. Il cammino formativo dovrà essere interrotto nel caso in cui il candidato, nonostante il suo impegno, il
sostegno dello psicologo o la psicoterapia, continuasse a manifestare incapacità ad affrontare realisticamente, sia
pure con la gradualità di ogni crescita umana, le proprie gravi immaturità (forti dipendenze affettive, notevole
mancanza di libertà nelle relazioni, eccessiva rigidità di carattere, mancanza di lealtà, identità sessuale incerta,
tendenze omosessuali fortemente radicate, ecc.).
Lo stesso deve valere anche nel caso in cui risultasse evidente la difficoltà a vivere la castità nel celibato,
vissuto come un obbligo così pesante da compromettere l’equilibrio affettivo e relazionale.
4. La richiesta di indagini specialistiche e il rispetto dell'Intimità del candidato
11. Spetta alla Chiesa scegliere le persone che ritiene adatte al ministero pastorale ed è suo diritto e dovere
verificare la presenza delle qualità richieste in coloro che essa ammette al ministero sacro 85.
Il can. 1051, 1° del Codice di Diritto Canonico prevede che per lo scrutinio delle qualità richieste in vista
dell’ordinazione si provveda, tra l’altro, all’indagine sullo stato di salute fisica e psichica del candidato 86.
Il can. 1052 stabilisce che il Vescovo, per poter procedere all’ordinazione, deve avere la certezza morale
sull’idoneità del candidato, «provata con argomenti positivi» (§ 1) e che, nel caso di un dubbio fondato, non
deve procedere all’ordinazione (cf. § 3).
Da ciò deriva che la Chiesa ha il diritto di verificare, anche con il ricorso alla scienza medica e psicologica,
l’idoneità dei futuri presbiteri. Infatti, è proprio del
Vescovo o del Superiore competente non solo sottoporre a esame l’idoneità del candidato, ma anche
riconoscerla. Il candidato al presbiterato non può imporre le proprie personali condizioni, ma deve accettare con
umiltà e gratitudine le norme e le condizioni che la Chiesa stessa, per la sua parte di responsabilità, pone 87. Per
cui, in casi di dubbio circa l’idoneità, l’ammissione al Seminario o alla Casa di formazione sarà possibile,
talvolta, soltanto dopo una valutazione psicologica della personalità.
12. Il diritto e il dovere dell’istituzione formativa di acquisire le conoscenze necessarie per un giudizio
prudenzialmente certo sull’idoneità del candidato non possono ledere il diritto alla buona fama di cui la persona
gode, né il diritto a difendere la propria intimità, come prescritto dal can. 220 del Codice di Diritto Canonico.
Ciò significa che si potrà procedere alla consulenza psicologica solo con il previo, esplicito, informato e libero
consenso del candidato.
I formatori assicurino un’atmosfera di fiducia, così che il candidato possa aprirsi e partecipare con
convinzione all’opera dì discernimento e di accompagnamento, offrendo «la sua personale convinta e cordiale
collaborazione»88. A lui è richiesta un’apertura sincera e fiduciosa con i propri formatori. Solo facendosi

79 Cf. Congregazione per l’Educazione Cattolica, Istruzione circa i criteri di discerni-


80mento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro am
81missione al Seminario e agli Ordini Sacri (4 novembre 2005): AAS 97 (2005), 1007-1013.
82 Cf. Orientamenti educativi per la formazione al celibato sacerdotale, n. 38.
83 Cf. Pastores dabo vobis, n. 48d: AAS 84 (1992), 744.
84 Cf. 2 Cor 12, 7-10.
85 Cf C.I.C., cairn. 1025, 1051 e 1052; Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, Carta
circular Entre las mas delicadas a los Exc.mos y Rev.mos Seriores Obispos diocesanos y demàs Ordinarios canònicamente
facultados para llamar a las Sagra- das Ordenes, sobre Los escrutinios acerca de la idoneidad de los candidatos (10 novembre
1997): Notitioe 33 (1997), pp. 495-506.
86 Cf C.I.C., cann. 1029, 1031 § 1 e 1041, 1°; Ratio fundamentalis institutionis sacerdo- talis, n. 39.
87 Cf. Pastores dabo vobis, n. 35g: AAS 84 (1992), 715.
88 Ibìd, a. 69b: AAS 84 (1992), 778,
sinceramente conoscere da loro può essere aiutato in quel cammino spirituale che egli stesso cerca entrando in
Seminario.
Importanti, e spesso determinanti per superare eventuali incomprensioni, saranno sia il clima educativo tra
alunni e formatori - contrassegnato da apertura e trasparenza -, sia le motivazioni e le modalità con cui i
formatori presenteranno al candidato il suggerimento di una consulenza psicologica.
Si eviti l’impressione che tale suggerimento significhi preludio di un’inevitabile dimissione dal Seminario o
dalla Casa di formazione.
II candidato potrà rivolgersi liberamente o ad un esperto, scelto tra quelli indicati dai formatori, oppure ad
uno scelto da lui stesso e accettato da loro.
Secondo le possibilità, dovrebbe essere sempre garantita ai candidati una libera scelta tra vari esperti che
abbiano i requisiti indicati89.
Qualora il candidato, davanti ad una richiesta motivata da parte dei formatori, rifiutasse di accedere ad una
consulenza psicologica, essi non forzeranno in alcun modo la sua volontà e procederanno prudentemente
nell’opera di discernimento con le conoscenze di cui dispongono, tenendo conto del citato can. 1052 § 1.
5. Il rapporto dei responsabili della formazione con l’esperto
a) l responsabili del foro esterno
13. In spirito di fiducia reciproca e collaborazione alla propria formazione, il candidato potrà essere invitato
a dare liberamente il proprio consenso scritto affinché Fesperto nelle scienze psicologiche, tenuto al segreto
professionale, possa comunicare gli esiti della consultazione ai formatori, da lui stesso indicati. Essi si
serviranno delle informazioni, in tal modo acquisite, per elaborare un quadro generale della personalità del
candidato e per trarre le opportune indicazioni in vista del suo ulteriore cammino formativo o dell’ammissione
all’Ordinazione.
Onde proteggere, nel presente e nel futuro, l’intimità e la buona fama del candidato si presti particolare cura
affinché i pareri professionali espressi dall’esperto siano accessibili esclusivamente ai responsabili della
formazione, con il preciso e vincolante divieto di fame uso diverso da quello proprio del discernimento voca-
zionale e della formazione del candidato.
b) Carattere specifico della direzione spirituale
14, Al padre spirituale spetta un compito non lieve nel discernimento della vocazione, sia pure nell’ambito
della coscienza.
Fermo restando che la direzione spirituale non può in alcun modo essere scambiata per o sostituita da forme
di analisi o di aiuto psicologico e che la vita spirituale di per sé favorisce una crescita nelle virtù umane, se non
ci sono blocchi di natura psicologica90, il padre spirituale può trovarsi, per chiarire dubbi altrimenti non
risolvibili, nella necessità di suggerire una consulenza psicologica, senza comunque mai imporla, onde
procedere con maggior sicurezza nel discernimento e nell’accompagnamento spirituale 91.
Nel caso di una richiesta di consulenza psicologica da parte del padre spirituale, è auspicabile che il
candidato, oltre a rendere edotto lo stesso padre spirituale dei risultati della consultazione, informi altresì il
formatore di foro esterno, special- mente se lo stesso padre spirituale lo avrà invitato a questo.
Qualora il Padre spirituale ritenga utile acquisire direttamente lui stesso informazioni dal consulente,
proceda secondo quanto indicato al n. 13 per i formatori di foro esterno.
Dai risultati della consulenza psicologica il padre spirituale trarrà le indicazioni opportune per il
discernimento di sua competenza e per i consigli da dare al candidato, anche in ordine al proseguimento o meno
del cammino formativo.
c) Aiuto dell’esperto al candidato e ai formatori
15. L’esperto - in quanto richiesto - aiuterà il candidato a raggiungere una maggiore conoscenza di sé, delle
proprie potenzialità e vulnerabilità. Lo aiuterà anche a confrontare gli ideali vocazionali proclamati con la
propria personalità, onde stimolare una adesione personale, libera e consapevole alla propria formazio-

ne. Sarà compito dell’esperto fornire al candidato le opportune indicazioni sulle difficoltà che egli sta
sperimentando e sulle loro possibili conseguenze per la sua vita e per il suo futuro ministero sacerdotale.
Effettuata l’indagine, tenendo conto anche delle indicazioni offertegli dai formatori, l’esperto, solo con il
previo consenso scritto del candidato, darà loro il suo contributo per comprendere il tipo di personalità e le
problematiche che il soggetto sta affrontando o deve affrontare.
Egli indicherà anche, secondo la sua valutazione e le proprie competenze, le prevedibili possibilità di
crescita della personalità del candidato. Suggerirà, inoltre, se necessario, forme o itinerari di sostegno
psicologico.

89 Cf. n. 6 di questo documento.


90 Cf. nota n. 20.
91 Cf. Pastores dabo vobis, n. 40c: AAS 84 (1992), 725.
6. Le persone dimesse o che liberamente hanno lasciato Seminari o Case di
formazione
16. È contrario alle norme della Chiesa ammettere al Seminario o alla Casa di formazione persone già uscite
o, a maggior ragione, dimesse da altri Seminari o da Case di formazione, senza assumere prima le dovute
informazioni dai loro rispettivi Vescovi o Superiori Maggiori, soprattutto circa le cause della dimissione o del-
l’uscita36.
È preciso dovere dei precedenti formatori fornire informazioni esatte ai nuovi formatori.
Si presti particolare attenzione al fatto che spesso i candidati lasciano l’istituzione educativa di spontanea
volontà per prevenire una dimissione forzata.
Nel caso di passaggio ad altro Seminario o Casa di formazione, il candidato deve informare i nuovi
formatori della consultazione psicologica precedentemente effettuata. Solo con il libero consenso scritto del
candidato, i nuovi formatori potranno avere accesso alle comunicazioni dell’esperto che aveva effettuato la
consultazione.
Nel caso si ritenga di poter accogliere in Seminario un candidato che, dopo la precedente dimissione, si sia
sottoposto a trattamento psicologico, si verifichi prima, per quanto è possibile, con accuratezza la sua
condizione psichica, assumendo, tra l’altro, dopo aver ottenuto il suo libero consenso scritto, le dovute
informazioni presso l’esperto che lo ha accompagnato.
Nel caso in cui un candidato chiede il passaggio ad un altro Seminario o Casa di formazione dopo essere
ricorso ad un esperto in psicologia, senza voler accettare che la perizia sìa a disposizione dei nuovi formatori, si
tenga presente che l’idoneità del candidato deve essere provata con argomenti positivi, a norma del citato can.
1052, e quindi deve essere escluso ogni ragionevole dubbio.
. 36 Cf. C.I.C., can. 241, § 3; Congregazione per l’Educazione Cattolica, Istruzione alle Conferenze Episcopali circa
l’ammissione in Seminario di candidati provenienti da altri Seminari o Famiglie religiose (8 marzo 1996).
Conclusione
17. Tutti coloro che, a vario titolo, sono coinvolti nella formazione offrano la loro convinta collaborazione,
nel rispetto delle specifiche competenze di ciascuno, affinché il discernimento e T accompagnamento
vocazionale dei candidati siano adatti a «portare al sacerdozio solo coloro che sono stati chiamati e di portarli
adeguatamente formati, ossia con una risposta cosciente e libera di adesione e di coinvolgimento di tutta la loro
persona a Gesù Cristo che chiama all’intimità di vita con lui e alla condivisione della sua missione di
salvezza»92.
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nel corso dell'Udienza concessa il 13 giugno 2008 al sottoscrìtto Cardinale Prefetto, ha
approvato il presente documento e ne ha autorizzato la pubblicazione.
Roma, 29 giugno 2008, Solennità dei Santi Pietro e Paolo, Apostoli,
Zenon Card. Grocholewski
Prefetto
-I- Jean-Louis Bruguès, o.p.
Arcivescovo-Vescovo emerito di Angers Segretario

92 Pastores dabo vobis, n. 42c: AAS 84 (1992), 730.


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