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Bernardo Nardi

ORGANIZZAZIONI DI PERSONALITÀ: NORMALITÀ E PATOLOGIA PSICHICA


Organizzazioni di Personalità: Normalità e Patologia Psichica Bernardo Nardi
Il libro propone un viaggio nelle neuroscienze e nella psicologia post-razionalista alla
ricerca di come ciascun soggetto sviluppa e mantiene, nel corso della sua vita, il proprio
significato personale, attraverso l’esperienza unica e irripetibile di sé e del mondo.

ORGANIZZAZIONI DI
Mediante la propria Organizzazione di Personalità, matura infatti competenze adattive
altamente specializzate – tacite e inconsapevoli, ma anche esplicite e consapevoli –
per focalizzare e gestire aspetti specifici dell’esperienza, acquisendo un suo modo di

PERSONALITÀ:
sentirsi e di esprimersi sul piano personale, affettivo e sociale. Esplorare come la psiche
fa esperienza e costruisce la coscienza di sé e del mondo è l’aspetto più affascinante e
complesso della conoscenza del funzionamento umano, che può essere indagato sia in
condizioni fisiologiche sia quando si verificano scompensi psicopatologici più o meno

NORMALITÀ E PATOLOGIA
gravi e persistenti.

PSICHICA

Bernardo Nardi, psichiatra, neurologo, dottore di ricerca, si è formato psicoterapeuta con


Vittorio F. Guidano. Nel suo curriculum figurano: ricercatore e docente di Psichiatria e
Psicologia Clinica dell’Università Politecnica delle Marche (Scuole di Specializzazione in
Psichiatria, Neurologia, Medicina Interna, ecc.; lauree Magistrali in Medicina e in Professioni
Sanitarie; lauree triennali in Dietologia e Ostetricia), Presidente del Corso di Laurea in
Educazione Professionale, direttore della Clinica Psichiatrica dell’Azienda Ospedaliero
Universitaria “Ospedali Riuniti” di Ancona, direttore del Centro Adolescenti per la Promozione
dell’Agio Giovanile di Ancona, presidente dell’Accademia dei Cognitivi della Marca, didatta
in Scuole di Psicoterapia Cognitiva riconosciute dal MIUR (tra cui la Scuola Bolognese di
Psicoterapia Cognitiva), membro dell’editorial board di riviste scientifiche internazionali. Dal
1999 ha organizzato con Mario A. Reda convegni annuali di Psicologia e Psicopatologia Post-
Razionalista. Ha pubblicato con la Franco Angeli di Milano “Processi Psichici e Psicopatologia
nell’Approccio Cognitivo” (2001), “CostruirSi. Sviluppo e Adattamento del Sé nella Normalità
e nella Patologia” (2007), “La Coscienza di Sé. Origine del Significato Personale” (2013), con
le Ediciones Universitarias de Valparaiso, “Reconstruir la Experiencia en las Organizaciones
Inward y Outward” a cura di Andrés Moltedo-Perfetti (2016), con L’Accademia dei Cognitivi
della Marca “Esperienza Soggettiva e Organizzazioni di Personalità” (2016) e “Organizzazioni
Bernardo Nardi

di Personalità: Normalità e Patologia Psichica” (2017).

Accademia dei Cognitivi della Marca ACCADEMIA DEI COGNITIVI DELLA MARCA
CODICE ISBN
€ 20,00 978-88-907421-8-7
Bernardo Nardi

ORGANIZZAZIONI DI
PERSONALITÀ:
NORMALITÀ E PATOLOGIA
PSICHICA

ACCADEMIA DEI COGNITIVI DELLA MARCA


Accademia dei Cognitivi della Marca, presidente: Bernardo Nardi
Si ringraziano, per la preziosa collaborazione nella realizzazione del volume,
la dott.ssa Marisa Del Papa, Segreteria dell’Unità di Psichiatria dell’Università
Politecnica delle Marche, la dott.ssa Rosella Colocci della Clinica Psichiatrica di Ancona
e la Lopez Eventi & Congressi

© ACCADEMIA DEI COGNITIVI DELLA MARCA

Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, del testo senza
autorizzazione scritta dell’Autore

Prima edizione. Ancona, Settembre 2017


INDICE

Cap. 1
Sviluppo e adattamento delle Organizzazioni di Personalità
Pag. 7
Cap. 2
Attaccamento e Organizzazioni di Personalità
Pag. 40
Cap. 3
Processi affettivi, cognitivi e stile relazionale
Pag. 60
Cap. 4
Sviluppo psichico: infanzia, adolescenza, età adulta
Pag. 94
Cap. 5
L’esperienza di sé
Pag. 124
Cap. 6
L’esperienza normale e psicopatologica
Pag. 159
Cap. 7
Il lavoro sull’esperienza soggettiva in psicoterapia
Pag. 243

Bibliografia
Pag. 339
SVILUPPO E ADATTAMENTO DELLE ORGANIZZAZIONI
DI PERSONALITÀ

SVILUPPO E ADATTAMENTO
Come facciamo esperienza di noi e del mondo? Come sviluppiamo il nostro modo
di fare esperienza, a partire dalle prime fasi maturative? Come assimiliamo
l’esperienza, usandola per costruire e mantenere il senso di identità che ci
consente di riconoscerci come unici nel tempo, nonostante le interazioni con gli
altri e i cambiamenti della vita? E ancora: cosa succede quando un’esperienza ci
appare così discrepante con il senso di noi che facciamo fatica o non riusciamo
per niente ad assimilarla? Quali processi di adattamento e quali fragilità
individuali rendono normale o patologico il modo di assimilare l’esperienza?
Come si può provare ad uscire da un disagio psichico?
Il libro propone un itinerario, sulla base delle attuali conoscenze, per cercare di
fare luce sui complessi fenomeni riguardanti il funzionamento psichico. Scriveva
Fedor Dostoevskij nei suoi Diari (1839): “l’uomo è un mistero. Un mistero che
bisogna risolvere, e se trascorrerai tutta la vita cercando di risolverlo, non dire
che hai perso tempo; io studio questo mistero perché voglio essere un uomo”.
L’itinerario che seguiremo riguarda le modalità con cui ogni soggetto, che
costituisce un sistema a complessità crescente, fa esperienza di sé e del mondo
attraverso le interazioni con l’ambiente significativo. Questo percorso può
avvenire lungo un continuum che va dalle modalità di adattamento più creative e
di successo a quelle più rigide e patologiche.
L’esperienza esprime il modo in cui la psiche entra in contatto con i vari aspetti
della realtà e li sperimenta attraverso le senso-percezioni, producendo attivazioni
emozionali e ricavandone una conoscenza, come ricorda l’etimologia latina
“experientia” (“ex” rafforzativo + “perior” = provo), corrispondente a quella
greca “empeirìa” (“ἐμπειρία”, da “ἐν”, “en” = in + “πεῖρα”, “peira” = prova).
Ogni esperienza della realtà che una persona fa nella sua vita è espressione della
rappresentazione che il cervello costruisce; non solo, ma anche la qualità,
piacevole o spiacevole, con la quale esso colora l’esperienza in corso è frutto
dell’attività dei suoi neuroni. Quest’attività, che determina attimo dopo attimo la
corrispondenza tra realtà esterna e rappresentazione interna, è vissuta dal
soggetto come oggettiva e univoca, mentre essa ha dei margini soggettivi più o
meno ampi, dato che, oltre a rendere possibile un contatto con il contesto in cui ci
si trova, risponde anche al bisogno di mantenere il più possibile coerente, stabile e
unitario il senso di sé. I colori che il nostro occhio “vede”, ma anche i coloriti
soggettivi che percepiamo come emozioni, sono strettamente legati al
funzionamento del nostro cervello e all’attività psichica mediante la quale ci
rendiamo consapevoli a noi stessi, né più né meno di come ci rendiamo presente e
acquisiamo consapevolezza della realtà che ci circonda.

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Esplorare come la psiche fa esperienza e costruisce la coscienza della realtà,
sviluppando e mantenendo il senso di sé in forma di significato personale, è
l’aspetto più affascinante e complesso della conoscenza del funzionamento
umano, che può essere indagato sia in condizioni fisiologiche sia quando si
verificano scompensi psicopatologici più o meno gravi e persistenti.
La costruzione della conoscenza (aspetto “costruttivista”) è un processo dinamico
e complesso (il sostantivo latino “processus”, dal verbo “procedere” = avanzare,
indica il succedersi di fenomeni connessi tra loro); questa costruzione si avvia fin
dalle prime fasi di sviluppo e coinvolge la psiche a partire dalle sue componenti
non consapevoli, di tipo motivazionale ed emozionale. Le basi biologiche, di cui i
progressi delle neuroscienze continuamente propongono approfondimenti,
rappresentano le strutture su cui fanno leva i processi motivazionali, emozionali e
cognitivi; la loro complessità non è solo leggibile in maniera riduttiva come
insieme di interazioni molecolari, ma va considerata anche in termini di storia
personale. Scienze di base e scienze cognitive si integrano reciprocamente nel far
luce sulla conoscenza (aspetto “epistemologico”): in cosa consiste, come si
sviluppa, che rapporto ha con il mondo, quali sono le sue risorse e i suoi limiti
(fisiologici e patologici).
Per comprendere i processi conoscitivi, che non sono una sorta di fotocopia della
realtà interna ed esterna, ma nei quali un ruolo fondamentale è svolto dalla lettura
soggettiva individuale (approccio “post-razionalista”), è fondamentale
considerare l’andamento nel tempo della costruzione della conoscenza e, più in
generale, dell’identità individuale (aspetto “evolutivo processuale”).
L’assimilazione dell’esperienza avviene, sulla base delle risorse fornite dal
patrimonio genetico, attraverso un rapporto attivo e reciproco con l’ambiente,
mediante la relazione di attaccamento, con evidenti funzioni adattive. Pertanto i
processi mentali emergono come attività di un sistema conoscitivo complesso
(aspetto “sistemico”); questo sistema consente il mantenimento della coerenza
interna (l’integrazione dei processi psichici che fornisce un senso unitario di sé),
nonostante i cambiamenti sperimentati durante la vita, a partire dalle sue prime
fasi.
Dalla relazione di attaccamento si sviluppa gradualmente uno stile affettivo e
relazionale che si orienta e si organizza in un modo unico e specifico per ogni
individuo. La costruzione di una organizzazione funzionale complessa consente
all’individuo di riconoscersi in maniera stabile, di progettarsi e di dare un senso a
sé e al proprio rapporto con il mondo, nonostante le trasformazioni e le
perturbazioni critiche cui va incontro nell’assimilazione dell’esperienza nel corso
della vita (Guidano e Reda, 1981; Guidano e Liotti, 1983; Reda, 1986; Guidano,
1987, 1991; Nardi, 2001, 2007, 2013, 2016).
La comparsa di alcune modalità di base – aventi le caratteristiche di processi
organizzativi dell’esperienza vissuta, in termini di costruzione del significato e,

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quindi, dell’identità personale – orienta in maniera attiva l’andamento evolutivo
della maturazione individuale. Queste modalità organizzative forniscono le basi
adattive per l’espressione della complessità di ciascun soggetto, consentendo, da
un lato, capacità plastiche di flessibilità e di riorganizzazione e, dall’altro lato,
competenze di elevata specializzazione. Pertanto, nell’interazione inscindibile tra
ciò che è genetico e ciò che è acquisito, emerge quel modo unico e irripetibile,
proprio di ogni individuo, di riordinare l’esperienza, di darle un significato
peculiare e costante nel tempo, di farne la trama per la costruzione dell’identità.
Dall’accoppiamento funzionale che si realizza nei Sapiens tra geni e
apprendimento, emerge la possibilità di esprimere all’interno di una medesima
specie una enorme varietà di culture e di modalità comunicative, ma anche
l’unicità di ogni essere umano.
Da quanto è finora noto (Manzi, 2016), la comparsa relativamente recente
dell’Homo Sapiens (datata intorno ai 200 mila anni fa) e la sua diffusione dal
continente africano a tutto il pianeta – soppiantando gradualmente le altre specie
che erano sopravvissute del genere Homo (risalente a oltre 1 milione di anni fa) –
è strettamente legata alle sue capacità cerebrali, in grado non solo di assicurare
una adeguata sussistenza in ecosistemi diversi, ma soprattutto di esprimere un
ricco mondo interiore, simbolico e consapevole, avviando una produzione
culturale e artistica sconosciuta alle altre specie. Nell’attiva e reciproca
interazione tra ogni soggetto che nasce e le figure genitoriali che lo/a accudiscono
e lo/a accompagnano iniziano a delinearsi i contorni personali entro i quali emerge
la personalità. Questa si manifesta, più che come un insieme di caratteristiche
derivanti dal funzionamento psichico, come la modalità unificante mediante la
quale ciascun individuo assimila e si riferisce l’esperienza. In questo modo la
personalità esprime il significato personale di un individuo e gli assicura il suo
senso di unicità e di continuità nel tempo, nonostante i cambiamenti e le
trasformazioni cui va incontro (Guidano e Reda, 1981; Guidano e Liotti, 1983;
Reda, 1986; Guidano, 1987, 1991, 2010).
Attraverso lo studio dell’attaccamento si può comprendere come i processi di
costruzione della personalità siano integrati tra loro in modo unitario, utilizzando
in via preferenziale, in situazioni e in contesti simili, quelle risposte – espresse
attraverso il canale emozionale, cognitivo e/o somatico – che sintonizzano
maggiormente la figura accudente (“care-giver”). Partendo dagli schemi che si
costruiscono nelle relazioni primarie prendono le mosse tutti i successivi rapporti
della vita. Lo stile di attaccamento dà gradualmente forma allo stile relazionale e
affettivo di un individuo (più o meno attivo o passivo, vincente o remissivo, ecc.).
Questo stile può essere espresso in maniera equilibrata e sicura se i processi che si
sviluppano a partire dalla relazione di attaccamento consentono di dare sicurezza
alla costruzione dell’identità, di demarcarla in maniera sufficiente senza
confonderla con i bisogni, le richieste ed i modi di funzionare degli altri. La

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scoperta di sé e la scoperta dell’altro vanno quindi di pari passo: non si possono
avere rapporti maturi con il proprio mondo interno se non lo sono quelli con il
mondo esterno e viceversa, così come non si può amare autenticamente gli altri se
non si riesce ad accettare la propria unicità, valorizzandola attraverso le risorse di
cui si dispone. Quando non si riceve amore nei rapporti significativi (nemmeno in
forma indiretta o da altre figure, oltre quelle genitoriali) è difficile – ma,
fortunatamente, è comunque possibile – darlo a sé e agli altri. Per far emergere
queste potenzialità adattive è fondamentale instaurare una relazione attenta alle
modalità di attaccamento ed ai canali comunicativi che il soggetto utilizza nella
costruzione del senso di sé. In ogni caso, la rappresentazione del mondo interno e
di quello esterno (“alterità”), che fa da base all’identità, nasce da come il soggetto
impara a sentirsi attraverso l’altro (Nardi, 2007, 2013, 2016).
La costruzione soggettiva della rappresentazione di sé e del mondo ha origine a
partire da attività discontinue (“isole di esperienza”) che gradualmente si fondono,
dando luogo a forme di coscienza più continue, in una specie di “film nel
cervello” (“movie-in-the-brain”, Damasio, 2000). Inizialmente si formano “scene
tipo” di base, “prototipiche” o “nucleari” (Tomkins, 1978; Abelson, 1981), che
sono rappresentazioni interne delle prime esperienze emotivamente significative.
Dal ripetersi e dal sovrapporsi di queste scene vengono progressivamente
individuate analogie, somiglianze e differenze. Infatti, fin dalle prime fasi di
sviluppo, il succedersi di situazioni analoghe ben caratterizzate, che si associano
ad attivazioni emozionali dello stesso tipo, porta a stabilizzare dei modi specifici
di percepirsi, attraverso i quali si formano le prime rappresentazioni di sé e del
mondo. Infatti, quando le scene si sovrappongono e si ripetono con modalità e
conseguenze simili, esse diventano un modello di quelle specifiche situazioni.
Attraverso questo modello il soggetto inizia a mettere a fuoco, da un lato, come
lo/a percepiscono gli altri, come tendono a trattarlo/a e cosa si aspettano da lui/lei
in certe situazioni e, dall’altro lato, come si deve comportare e cosa si può
aspettare dagli altri in quelle situazioni. Nel corso della maturazione, alle scene
nucleari vengono associati degli insiemi di ragionamenti, di comportamenti, di
processi decisionali. Essi consentono di riconoscere e di ordinare le scene nucleari
in raggruppamenti coerenti di esperienze emotivamente significative, in modo da
stabilizzare ed integrare sempre meglio il senso unitario di sé. Questo senso
unitario dà al soggetto la capacità di riconoscersi in una specie di canovaccio, di
“trama” o “struttura narrativa”, di “storyboard”, che è la storia personale.
Come ha osservato Moltedo-Perfetti (2017), riprendendo precedenti
considerazioni di Guidano (1987), “a partire dalla nascita gli esseri umani
sviluppano gradualmente una modalità soggettiva di organizzare l’esperienza
della propria vita, mediante una trama specifica di riferimenti generali, nella
quale i processi cognitivi sono organizzati all’interno di una configurazione
complessa, dando ai singoli elementi una coerenza sistemica determinata e

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autoreferenziale dell’esperienza percepita, e iniziano un processo attivo di
ordinamento e interpretazione degli eventi dell’ambiente esterno, che vengono
inseriti sequenzialmente in una trama narrativa determinata (o “script”) nella
quale si privilegiano certe esperienze o scene prototipiche, con una
configurazione unitaria particolare e specifica. Questa trama narrativa, che si
trova legata allo sviluppo del linguaggio, si andrà facendo ogni volta più astratta
ed elaborata nella misura in cui le capacità cognitive vanno sviluppandosi lungo
il ciclo di vita, permettendo, in questa maniera, diverse possibilità di integrazione
dell’esperienza vissuta. Pertanto, tanto più flessibile, articolata e astratta è la
trama narrativa, tanto più probabile sarà che gli eventi della vita possano essere
integrati in una maniera adattiva e coerente con l’immagine cosciente di sé, per
cui genereranno ristrutturazioni adeguate e consistenti, così come attivazioni
emotive all’interno di un range che non è percepito dal soggetto come
perturbante”.
La complessità della consapevolezza deriva quindi da innumerevoli processi, che
consentono di: a) centrare l’attenzione su qualcosa che è messa in primo piano
rispetto allo sfondo; b) operare un riconoscimento di sé; c) proseguire la
costruzione di una trama autobiografica; d) dare una lettura della realtà
compatibile con il mantenimento della coerenza interna. Il soggetto, attraverso la
sequenza delle sue rappresentazioni, arricchite dai contenuti emozionali e dalle
valutazioni razionali, è allo stesso tempo regista e sceneggiatore, ma anche
interprete e protagonista della sua conoscenza (Nardi, 2007, 2013).
Pertanto, nella relazione di attaccamento, attraverso l’interazione con le figure
significative, i processi maturativi che guidano lo sviluppo soggettivo consentono
di: a) differenziare e organizzare un repertorio di emozioni (coloriti soggettivi
transitori, che si manifestano come risposte individuali a stimoli ambientali
contingenti) e sentimenti (stati soggettivi più stabili e legati alla costituzione
individuale); b) modulare l’intensità, la durata e la frequenza degli stati emotivi;
c) organizzare l’attività senso-percettiva e motoria mediante la risonanza e la
partecipazione soggettiva nelle relazioni con altri individui; d) orientare, in
definitiva, l’organizzazione del repertorio emozionale e cognitivo individuale
(Bowlby, 1969; Ainsworth, 1985; Trevarthen, 1998; Crittenden, 1992; Nardi,
2001, 2007, 2013; Lambruschi, 2014). Un attaccamento fisiologico – attraverso la
sintonizzazione affettiva con una figura accudente, indispensabile per decodificare
il proprio mondo interno – permette al bambino di percepirsi amato e, quindi,
amabile, capace di utilizzare le risorse di cui dispone. In questo modo può iniziare
ad esplorare e conoscere l’ambiente, senza correre quei rischi che le sue capacità
non gli permettono ancora di fronteggiare.
Nei Sapiens le potenzialità adattive, legate alla complessità del cervello, sono
espresse non solo dalla comparsa di competenze non presenti in altre specie, ma
anche da nuove modalità di utilizzare le funzioni che nelle altre specie sono

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standardizzate e ripetitive (Nardi, 2007, 2013, 2016). Anzitutto, la percezione dei
segnali che attivano una reazione di stress si estende oltre gli stimoli stressanti
legati alla sopravvivenza (“stressor” primari, di base o generici). Infatti,
attraverso la relazione di attaccamento, il bambino inizia a identificare segnali più
complessi, specifici e diversificati, non direttamente collegati alle funzioni
istintive, ma il cui riconoscimento e la cui gestione sono fondamentali per
fronteggiare (“coping”) in modo fine e selettivo le situazioni significative e,
quindi, per realizzarsi nell’ambiente in cui impara a vivere (“stressor” secondari
specifici). Inoltre, nei processi della coscienza, le attivazioni emozionali, prodotte
in risposta agli stressor specifici e che il soggetto inizia a riconoscere come
proprie, diventano generative di significati personali, orientando e condizionando
le funzioni cognitive e la consapevolezza di sé (per essere poi, a loro volta,
regolate a feedback da queste funzioni corticali). Pertanto, nel cervello dei
Sapiens, le risposte agli stressor specifici che vengono apprese e le attivazioni
affettive corrispondenti che si sviluppano acquistano molteplici potenzialità e
forniscono alle risorse cognitive il sentiero attraverso cui sperimentare e riferirsi
l’esperienza. In questo modo maturano specifiche modalità di riferirsi l’esperienza
(“vissuto”), tendenzialmente invarianti, con altrettanto specifici coloriti
emozionali, attraverso cui il soggetto si percepisce unico e continuo nel tempo,
sentendosi presente a se stesso e in relazione con gli altri (Nardi, 2016).

ESPERIENZA IMMEDIATA E CONOSCENZA TACITA


La pratica clinica mette in evidenza che i soggetti tendono a presentare i loro
vissuti e i loro problemi in forma oggettiva, come qualcosa che accade (a volte
subendola, andando in crisi, destabilizzandosi, provando sofferenza) e che appare
estranea ed esterna rispetto a sé (quindi, come se fosse del tutto indipendente dal
modo in cui se la riferiscono). Partendo da questo vissuto, attraverso la messa a
fuoco di un episodio recente in cui il soggetto ha sperimentato il problema di cui
parla, è possibile cogliere non solo il tema di vita ad esso sottostante (di controllo,
di autonomia, di adeguatezza, di perfezione personale, ecc.) ma anche iniziare ad
esplorare il modo soggettivo di assimilare l’esperienza e di utilizzarla nel
mantenimento del senso di sé. Tramite la messa a fuoco del modo di funzionare di
un soggetto – Guidano (1987) indicava di farla come in una “moviola”
cinematografica – è possibile ricercare nuove forme, più adattive e flessibili,
rispetto a quelle abituali precedentemente utilizzate, mediante le quali possa
ricavare il senso di sé, purché siano compatibili con la sua organizzazione.
Costantemente, nel corso della vita, il soggetto si spiega l’esperienza che ha
appena fatto, utilizzandola nella costruzione dell’identità. Da un lato, sperimenta
un flusso continuo di senso-percezioni, immagini e attivazioni emotive ad esse
correlate. Dall’altro lato, questo insieme di esperienze fatte attimo dopo attimo e
delle quali ha scarsa consapevolezza è costantemente selezionato, elaborato e

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integrato a livello logico-analitico e verbale, per essere trasformato in spiegazioni
dell’esperienza vissuta (differite di meno di 0,5 sec rispetto all’esperienza
immediata), realizzando una conoscenza esplicita di sé e del mondo.
Come ha osservato Guidano (1987, 1991), ogni conoscenza è il risultato
dell’insieme di questi processi, per cui non è in modo univoco né “soggettiva”
(esclusiva dell’individuo) né “oggettiva” (indipendente dall’individuo) ma è,
appunto, al tempo stesso, soggettiva ed oggettiva: ogni interpretazione emerge
dalla continua e reciproca regolazione tra l’esperire e lo spiegare. Il flusso
dell’esperienza immediata è oggetto di distinzioni, riferimenti e riordinamento
(spiegazioni) in grado di trasformare l’esperienza in forma logica ed analitica.
Pertanto, l’esperienza procede, nel corso della vita, su due livelli in relazione
reciproca tra loro e attraverso i quali è costruita la conoscenza di sé e del mondo.
Un primo livello di esperienza, immediato e scarsamente consapevole, è costituito
dalla “esperienza immediata”. Essa esprime ciò che si prova (in forma di
sensazioni, percezioni, emozioni e rappresentazioni scarsamente consapevoli e
poco elaborate), come lo si prova (in termini di attivazioni emozionali), quando lo
si prova (in riferimento al contesto temporale), dando origine nell’insieme ad
un’esperienza globale, sfumata e di fondo.
Il fluire dell’esperienza immediata, essendo strettamente connesso con
l’ordinamento della realtà, è riferito all’esterno ed è vissuto come se si trattasse di
un’esperienza “oggettiva”, condivisa e valida per tutti. Pertanto, questa prima
componente dell’esperienza soggettiva fornisce il materiale grezzo essenziale per
assimilare ciò che si vive e integrarlo nel senso di sé. La messa a fuoco
dell’esperienza immediata consente inoltre di ricostruire il corrispondente livello
della coscienza soggettiva, costituito dalla conoscenza implicita “tacita”. Questo
livello conoscitivo di base è inconscio o solo parzialmente accessibile alla
consapevolezza, riceve una forte impronta dalle attivazioni emozionali e fornisce
una rappresentazione unica e continuativa di sé e del mondo, globale e generica,
attraverso forme di apprendimento e di memorizzazione di tipo automatico e
schematico (“procedurale”). Come osservava Leopardi nello Zibaldone (1817-
1832), anticipando nel clima romantico del tempo il concetto di conoscenza tacita,
il linguaggio vago e indefinito (contrapposto a quello della ragione) lascia spazio
alla immaginazione ed è proprio della poesia.
I contenuti taciti, derivando da senso-percezioni e da attivazioni emozionali in
buona parte sottocorticali, preesistono all’emergere delle modalità consapevoli
della coscienza (al contrario di quanto sostenevano i modelli psicanalitici in base
ai quali l’inconscio trarrebbe origine dal materiale “rimosso” dalla coscienza).
Come documentano le neuroscienze, infatti, le esperienze sottocorticali non
consapevoli, associate a comportamenti automatici e poi semiautomatici,
arricchite di coloriti emotivi, precedono e producono i fenomeni coscienti legati
alla corteccia, dapprima prevalentemente taciti, successivamente anche espliciti.

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Attraverso le polarità antagoniste dell’esperienza che si ripetono con sufficiente
regolarità, si forma livello tacito una rappresentazione globale interna di sé,
mediante forme di memorizzazione che precedono la comparsa della memoria
“cosciente” delle esperienze fatte (“esplicita”, “dichiarativa”).
Pertanto, il primo livello di conoscenza, implicito o “tacito”, è costituito da
processi che consentono di percepire le afferenze sensitivo-sensoriali e le
attivazioni emozionali, assemblandole in un insieme, come in un ologramma.
Dell’esperienza viene colto, attraverso le sue polarità antagoniste ed i pattern che
si ripetono con sufficiente regolarità, il senso “cenestesico” di sé (dal greco
“κοινός”, “koinòs” = comune + “αἴσθησις”, “aisthesis” = sensazione). La
conoscenza è generica, globale (“olistica”), continua; è fortemente improntata
dalle attivazioni emozionali e fornisce una rappresentazione unica e continuativa
di sé e del mondo attraverso forme di apprendimento e di memorizzazione di tipo
procedurale. Essa corrisponde all’esperienza così come viene fatta dal soggetto e
assicura la coerenza interna utilizzando processi di mantenimento del sé
tendenzialmente invarianti. Polanyi (1979, p. 36), attraverso l’osservazione del
modo in cui viene riconosciuta un’espressione facciale (che prescinde dalla
capacità di dire in base a quale elemento essa è stata riconosciuta), ha messo in
evidenza la grande estensione della conoscenza tacita, per cui “in generale
un’integrazione esplicita non può sostituirsi alla corrispondente integrazione
inespressa”: ogni soggetto conosce molto più di quanto è in grado di accorgersi e
di esprimere. La conoscenza emerge attraverso i processi conoscitivi taciti che
producono categorie di base per ordinare e assimilare l’esperienza, producendo –
nonostante le sue discrepanze – un sentimento coerente di continuità e unicità
personale.
Inoltre, come ha osservato Tomkins (1978), le modalità conoscitive tacite tendono
ad essere stabilizzate dal soggetto, che le utilizza senza esserne consapevole per
dare stabilità all’identità personale: “il soggetto sta guidando la sua automobile su
un’autostrada nuova di zecca, aperta da poco tempo. È una splendida giornata di
primavera (…) A un tratto, come uscito dal nulla, davanti ai suoi occhi compare
l’immagine disgustosa di un autocarro (…) Un cupo senso di disperazione e di
inutilità si abbatte improvvisamente su di lui. È perfettamente in grado di
identificare la ragione apparente di questa sua tristezza, ma avverte anche che
c’è qualcosa in più, che è troppo, che la sua reazione immediata è stata
sproporzionata rispetto a quanto è accaduto e che la tristezza che ne è derivata
sarà, di conseguenza, più intensa e duratura (…) In modo del tutto caratteristico,
egli non riesce assolutamente a rendersi conto del perché ogni cosa è per lui
percepibile solo nel modo particolare che gli capita di sperimentare (…) Egli
subisce la sua stessa abilità – strutturatasi gradualmente nel tempo – di
rielaborare continuamente lo stesso gruppo di scene nucleari in tutti i modi
possibili, senza peraltro sapere che è proprio questo che sta facendo”. Ne deriva

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che un cambiamento profondo è possibile solo se cambiano le modalità di
assimilare l’esperienza, che sono associate a specifiche attivazioni emotive: “in
assenza di emozioni non sembra possibile alcun tipo di cambiamento. Mentre il
pensare cambia di solito i pensieri, solo il sentire può modificare le emozioni,
aggiungendo nuove tonalità nella configurazione dei temi affettivi di base,
modificando la modulazione prodotta dall’esperienza immediata, con
riordinamento dei pattern di coerenza del significato personale” (Guidano, 1991).
Le considerazioni appena fatte rendono conto della difficoltà di stabilire una
correlazione esplicita diretta e immediata con il livello tacito, che il soggetto tenta
di operare quando ha bisogno di integrare nella sua coerenza interna un
significativo cambiamento in atto (Reda, 1986). In ogni caso, come ha osservato
anche Weimer (1974), resta difficile mettere a fuoco il livello tacito, proprio
perché è alla base del significato personale: “l’ipotesi di fondo che mi preme
suggerire è che l’intero problema della conoscenza tacita altro non è se non il
problema stesso del significato. Si può affermare, anzi, che questo è l’unico
problema che sia mai esistito in psicologia e che tutti gli aspetti che quest’ultima
ha messo a fuoco in vari campi altro non sono se non manifestazioni dello stesso
problema, dei diversi aspetti dello stesso elefante, un elefante che abbiamo
tentato di afferrare fin dall’alba del nostro pensiero riflessivo, senza mai riuscirci
completamente”.
Riprendendo questi concetti, Guidano (1987) ha osservato che il livello
conoscitivo tacito è fondamentale nella costruzione del senso di unicità e di
individualità che è alla base del significato personale: “il senso di unicità e
individualità personale è basato sull’unità organizzativa dell’ambito emotivo del
soggetto (…) L’ordinamento personale dell’insieme degli schemi emozionali
permette di riconoscere ed esperire un’ampia varietà di stati interni come aspetti
diversi di una dimensione di esperienza personale unica e continua (…)
L’ordinamento personale dell’insieme degli schemi emozionali permette di
riconoscere ed esperire un’ampia varietà di stati interni come aspetti diversi di
una dimensione di esperienza personale unica e continua”.

ESPERIENZA SPIEGATA E CONOSCENZA ESPLICITA


Un secondo e successivo livello, più complesso ed elaborato rispetto a quello
immediato, è costituito dalla “esperienza spiegata”. Si tratta di una ricostruzione a
posteriori di ciò che il soggetto ha sperimentato in presa diretta attraverso
l’esperienza immediata: le “spiegazioni” mediate dal linguaggio rappresentano
una delle tante possibili elaborazioni logico-razionali dell’esperienza immediata
appena vissuta – “perché” è accaduta, è stata fatta o è stata detta qualche cosa – in
modo da rendere l’esperienza coerente con quelle precedentemente vissute e
immagazzinate nella memoria. In altre parole, le spiegazioni servono a rendere
“assimilabile” l’esperienza, elaborandola e rendendola compatibile con il senso di

15
sé e del mondo che il soggetto ha. Grazie alle spiegazioni, l’esperienza permette
anche una riflessione su di sé e la costruzione di una immagine cosciente di sé
compatibile con la propria storia personale. Proprio per questo, le spiegazioni
non sono una “fotografia” del tutto fedele dell’esperienza immediata vissuta ma
costituiscono una sua rielaborazione che talvolta, se questo è necessario al
mantenimento della coerenza interna, è anche contaminata da forme di
autoinganno. In ogni caso, la capacità di spiegare e di ordinare l’esperienza
consente di viverla come se si trattasse realmente di un dato “oggettivo”.
Alle spiegazioni dell’esperienza corrisponde un secondo e più complesso livello
conoscitivo, il livello della conoscenza esplicita, che utilizza i processi logico-
analitici per rappresentare, in maniera compatibile al proprio funzionamento, il
mondo interno e quello esterno. Questo riordinamento avviene attraverso le
funzioni di tipo verbale che, partendo dal livello organizzativo tacito, strutturano
nel corso della vita una visione sempre più articolata e complessa di sé e del
mondo, fissandola attraverso la memoria dichiarativa ed elaborando la
conoscenza mediante il linguaggio e le altre funzioni simboliche. Senza il
riordinamento esplicito, la visione di sé e del mondo sarebbe in gran parte
inconsapevole, ma anche instabile, confusa ed episodica, determinando, quindi,
una identità altrettanto precaria. La rappresentazione logica e razionale del mondo
interno ed esterno permette sia di spiegare l’esperienza vissuta (funzione
esplicativa), sia di comunicarla agli altri (funzione comunicativa).
Mentre la conoscenza tacita nel suo fluire continuo è globale ma anche unica, la
conoscenza esplicita che ne consegue è limitata a quegli aspetti, immaginativi e
verbali, utilizzati per caratterizzare la situazione sulla quale si focalizza
l’attenzione. Tra i contenuti taciti vengono selezionati quelli che di volta in volta
sono più utili a mantenere la coerenza interna, in quanto meglio inseribili
nell’immagine di sé (perché meno discrepanti sotto il profilo della corrispondente
attivazione emozionale). Le spiegazioni dell’esperienza servono infatti a
raggiungere una consapevolezza il più possibile compatibile con il bisogno di non
alterare il proprio senso di identità. Il livello conoscitivo esplicito fornisce quindi
una lettura indiretta – selettiva ed elaborata – di quello implicito, pur essendo
legato ad esso da un filo che è possibile ricostruire e dipanare in psicoterapia.
L’assimilazione di ogni esperienza – così come la capacità che connota
l’intelligenza di gestire, affrontare e risolvere i problemi (“problem solving”) –
deriva dalla interazione reciproca tra i livelli organizzativi tacito ed esplicito. In
questo modo, di fronte a situazioni nuove e complesse, è possibile trovare
soluzioni adattive rispondenti ai propri bisogni.
Il passaggio dal tacito all’esplicito è evidente nelle trame narrative dei racconti,
come ha evidenziato Calvino (1988): “nell’ideazione di un racconto la prima cosa
che mi viene alla mente è un’immagine che per qualche ragione mi si presenta
come carica di significato, anche se non saprei formulare questo significato in

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termini discorsivi o concettuali. Appena l’immagine è diventata abbastanza netta
nella mia mente, mi metto a svilupparla in una storia o, meglio, sono le immagini
stesse che sviluppano le loro potenzialità implicite, il racconto che esse portano
dietro di sé. Attorno a ogni immagine ne nascono delle altre, si forma un campo
di analogie, di simmetrie, di contrapposizioni. Nell’organizzazione di questo
materiale che non è più solo visivo ma anche concettuale, interviene a questo
punto anche una mia intenzione nell’ordinare e dare un senso allo sviluppo della
storia – o piuttosto quello che io faccio è cercare di stabilire quali significati
possono essere compatibili e quali no, col disegno generale che vorrei dare alla
storia, sempre lasciando un certo margine di alternative possibili. Nello stesso
tempo la scrittura, la resa verbale, assume sempre più importanza; direi che dal
momento in cui comincio a mettere nero su bianco, è la parola scritta che conta:
prima come ricerca d’un equivalente dell’immagine visiva, poi come sviluppo
coerente dell’impostazione stilistica iniziale, e a poco a poco resta padrona del
campo. Sarà la scrittura a guidare il racconto nella direzione in cui l’espressione
verbale scorre più felicemente, e all’immaginazione visuale non resta che tenerle
dietro”.

MODALITÀ SOGGETTIVE DI RIFERIRSI L’ESPERIENZA


La continua interazione tra i due livelli dell’esperienza – quella immediata e
quella spiegata, il fare esperienza in presa diretta (“che effetto mi fa essere me
stesso/a”) e il ricostruire e interpretare l’esperienza appena fatta (“perché mi sento
in questo modo”) – consente di riferirsi nel tempo il flusso di sensazioni,
percezioni, emozioni e rappresentazioni interne, riordinandole ed integrandole in
maniera coerente con il senso di sé. Attraverso questi processi interattivi la
coscienza si fa presente a se stessa, costruendo una conoscenza che dapprima è di
base, globale, fortemente improntata dalle emozioni e scarsamente consapevole e
che diviene poi, nelle sue elaborazioni logico-analitiche, esplicita, accessibile alla
razionalità e pienamente consapevole. In questo modo, sia il flusso senso-
percettivo e le attivazioni emozionali (corrispondenti al livello dell’esperienza
immediata e alla modalità organizzativa tacita dell’esperienza), sia le successive
elaborazioni sotto forma di rappresentazione della realtà, di attitudini personali e
di autostima (corrispondenti al livello delle spiegazioni dell’esperienza e alla
modalità di rappresentazione esplicita dell’esperienza) consentono di riordinare
l’esperienza in forma di storia personale, di cui il soggetto è al tempo stesso
protagonista e osservatore critico, attore e sceneggiatore-regista.
A partire dalle osservazioni di Pribram (1971), per cui gli eventi cerebrali seguono
due diverse modalità di percepire e di elaborare l’informazione (continua e di
insieme, oppure discontinua e singola), è stato osservato che la regolazione tra i
due livelli conoscitivi consente di spiegare un apparente paradosso del
funzionamento psichico.

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Infatti, da un lato, esistono alcune modalità fondamentali, che si stabilizzano
precocemente e che permangono sostanzialmente costanti nella vita, con le quali
l’esperienza viene riferita a sé ed è trasformata in costruzione attiva di un
significato personale (“chiusure tacite”). Dall’altro lato, esistono numerose
possibilità di sviluppo e di cambiamento, che consentono di maturare e di
esprimere l’unicità di ciascun individuo, modificandola a seconda della fase e
delle esigenze della vita (“aperture strutturali”) (Reda, 1986; Guidano, 1987,
1991).
Il flusso multiforme dell’esperienza in entrata viene confrontato con le
rappresentazioni psichiche degli assetti ideo-affettivi memorizzati, che funzionano
da schemi di riferimento. In questo modo, durante la vita è attuata una costante
“messa a fuoco per contrasto”, che consente di differenziare nuove tonalità
emotive e ulteriori elaborazioni cognitive, sulla base del livello di consonanza o
discrepanza rispetto a questi schemi (Guidano, 1987). Come hanno sottolineato
Weimer (1974), Guidano (1987) e Balbi (2009), il senso unitario di sé deriva dai
processi di attribuzione di significato che ordinano le rappresentazioni interne
della realtà in forma di trama narrativa autobiografica. Rezzonico e Strepparava
(2004), a questo proposito, hanno osservato che il “processo di ordinamento
dell’esperienza individuale – il processo di attribuzione di significato – emerge
dunque a partire dalle basi biologiche, relazionali e dalla matrice socio-
culturale-storica in cui l’individuo si trova a vivere. Emerge attraverso la
mediazione del linguaggio, che trasforma la conoscenza emozionale e non
verbale (la conoscenza tacita) in conoscenza esplicita, verbalizzabile, cosciente e
auto attribuita. Il linguaggio infatti costituisce contemporaneamente sia la base
degli scambi comunicativi e della regolazione sociale, sia lo strumento che la
specie umana ha a disposizione per riordinare e ridescrivere la propria
esperienza”.
Le osservazioni etologiche hanno messo ulteriormente a fuoco le modalità
soggettive di fare esperienza, da cui si ricavano la conoscenza di sé e del mondo.
Come ha evidenziato Lorenz (1973), la diversità tra il comportamento umano e
quello delle altre specie non deriva tanto da una novità degli elementi strutturali
cerebrali, quanto piuttosto dai diversi e più elevati livelli di integrazione,
consentiti da una maggiore complessità costitutiva (“l’altra faccia dello
specchio”).
Appare quindi irrinunciabile considerare gli elementi soggettivi come una
variabile fondamentale da studiare, se si vuole comprendere non solo il
funzionamento umano – normale o patologico – ma anche come esso costruisce la
conoscenza, sulla quale si fonda anche la ricerca scientifica. Fare luce sui limiti
della soggettività, come anche sulle straordinarie e innumerevoli sfaccettature che
essa manifesta, rappresenta una delle sfide più affascinanti della ricerca futura, sia
a livello psicologico che scientifico generale. Del resto, in tutte le storie di vita

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narrata restano esclusi contenuti senso-percettivi, neurovegetativi, emozionali ed
affettivi che pure si sono effettivamente verificati. In ogni sistema personale
questa esclusione dal campo dell’attenzione consapevole avviene in modo
coerente con il mantenimento di un senso stabile e continuo della propria identità
narrativa. L’esperienza si fa storia attraverso queste forme di narrativa personale.
Dalle prime scene nucleari alla comparsa del linguaggio verbale (con la conquista
di un primo senso integrato ed unitario di sé) il pensiero concreto infantile colloca
gli scenari interni, in un mondo – positivo o negativo – che appare familiare,
univoco, certo e definito, che avviene nel “qui e ora” della situazione presente.
A partire dall’adolescenza, le capacità di astrazione spingono l’esperienza verso
l’impegno soggettivo: le certezze acquisite sono vagliate attraverso scelte che non
appaiono più univoche e universali, mentre la storia diventa un cammino dal “non
più” trascorso al “non ancora” venuto: il presente implica la scelta, aprendo la
coscienza alla riflessione sulle proprie capacità e sulle possibilità che le si aprono
davanti, nel confronto con il mondo. Pertanto, la capacità che un soggetto ha di
assimilare l’esperienza dipende da come e quanto egli riesce a riferirla a sé e
questo è possibile solo quando l’esperienza è sufficientemente compatibile con le
modalità soggettive tacite utilizzate fino a quel momento.
Come si nota quando compare una resistenza al cambiamento, non è il benessere
prodotto da una nuova esperienza che la rende di per sé assimilabile, mentre
risultano assimilabili le nuove esperienze (eventualmente, anche negative!)
compatibili con le rappresentazioni tacite e le corrispondenti attivazioni emotive
attraverso le quali il soggetto ha imparato a riconoscersi (Nardi, 2007, 2013).
L’esperienza che il soggetto percepisce – costituita da un insieme di
rappresentazioni interne connesse con un range di attivazioni emotive più o meno
ampio – inizia a formarsi fin dalle prime fasi di vita in modo discontinuo,
associata a “situazioni tipo” che attivano emotivamente il bambino. Attraverso il
sovrapporsi di tali situazioni e delle corrispondenti rappresentazioni e attivazioni
interne, si consolidano non solo il ricordo di ciò che è accaduto, ma anche (e
soprattutto) l’attivazione da esso prodotta (“che effetto ha fatto al soggetto essere
quello che ha sperimentato quella data esperienza”), fornendo in questo modo un
contributo – più o meno rilevante a seconda dell’attivazione percepita – alla
costruzione dell’identità.
In ogni esperienza presente, il soggetto attivamente si ripropone il passato
attraverso la memoria e si prospetta il futuro attraverso l’immaginazione. Con il
susseguirsi di episodi soggettivamente significativi, queste prime percezioni di sé
si rinforzano gradualmente, si integrano tra loro in un flusso continuo di
rappresentazioni (con le corrispondenti attivazioni emotive situazionali),
confluendo in un proto senso unitario di sé. A partire da esso, viene percepita e
confrontata ogni successiva esperienza, che risulta quindi più o meno assimilabile
a seconda del grado di discrepanza che essa mostra rispetto al senso di sé maturato

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fino a quel momento.
Nelle scelte il soggetto opera, quando può e senza esserne mai del tutto
consapevole, una specie di “casting” tacito delle persone significative con cui
costruisce un rapporto e degli scenari e dei modi in cui colloca e dà senso alle sue
esperienze. In proposito, le attivazioni emozionali significative nelle quali il
soggetto si riconosce (a livello tacito ed esplicito) assumono gradualmente un
valore predittivo, anticipando il futuro in base a ciò che il soggetto inizia ad
aspettarsi da una nuova esperienza. Ad esempio, un’attivazione di fondo
prevalente di solitudine porta ad attendersi in una situazione nuova di poter
contare sulle proprie risorse e non su un aiuto esterno; il sentirsi amati e accettati
porta a cercare in nuovi scenari ulteriori conferme positive, e così via, sia su un
registro di coloriti soggettivi prevalentemente positivi, sia – purtroppo – anche su
un registro di coloriti soggettivi prevalentemente negativi (ed è questo il territorio
della psicoterapia, che fornisce gli strumenti personali per scoprire le risorse
personali, attuali e potenziali, a prescindere dai coloriti messi in risalto dalle
esperienze di vita vissuta).
Questa considerazione spiega il fatto che a livello tacito il soggetto tende a
riprodurre attivamente situazioni nuove, che risultano conformi con quelle
significative simili sperimentate in precedenza come caratterizzanti la propria vita,
ricavandone una conferma di ciò che sente di essere, mentre a livello esplicito non
ha la consapevolezza di averle ricercate e riprodotte attivamente (tipo: “hai visto
che sono proprio così, che questo è il mio destino, che non ci posso far nulla”).
Non solo, ma tutti gli aspetti dell’esperienza che non sono compatibili con il senso
di sé in cui il soggetto si riconosce tendono ad essere percepiti come non rilevanti
e scarsamente significativi, per cui vengono messi tra parentesi, in attesa che
avvenga qualcosa che riconfermi invece le aspettative in cui ci si riconosce (ad
es., in un soggetto con un senso di sé costruito su un registro negativo: “sì, in
questo periodo apparentemente va abbastanza bene, ma vedrai che prima o poi
qualcosa mi andrà storto e comprometterà di nuovo tutto”).
In altri termini, a livello tacito vengono collegati tra loro solo i vissuti connessi
con quegli episodi o snodi esistenziali che il soggetto ha imparato a riconoscere
come caratterizzanti la sua vita e che producono stati emotivi sovrapponibili a
quelli consolidati nella memoria emozionale. Si tendono invece a trascurare ed a
svalutare, come marginali e occasionali, tutti quegli episodi che non si
percepiscono come rispondenti ai contenuti delle proprie rappresentazioni interne
della realtà. Accade qualcosa di analogo al gioco che richiede di collegare solo
alcuni dei tanti punti contenuti entro una cornice, seguendo un ordine preciso e
predeterminato, in modo da ottenere una figura preordinata, mentre non è prevista
la possibilità di prendere in considerazione tutti i punti presenti e di collegarli tra
loro in modi diversi, il che farebbe ottenere potenzialmente una molteplicità di
immagini alternative.

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La modalità di assimilare l’esperienza ricavandoci la propria identità – dapprima
senso-percettiva ed emozionale e successivamente anche cognitiva – è
fondamentale non solo per mettere a fuoco i processi taciti individuali legati alla
costruzione e al mantenimento del senso di sé, ma anche per comprendere
l’origine e la natura delle resistenze al cambiamento che emergono.
Pertanto, nel corso della psicoterapia, la riformulazione dell’esperienza dal tacito
all’esplicito consente al soggetto di iniziare a focalizzare il fatto che le modalità
che ha sempre utilizzato per riferirsi l’esperienza vissuta sono solo quelle abituali
con cui ha imparato a procedere, e che può utilizzare e riconoscere come proprie
anche altre modalità, più vantaggiose sul piano adattivo, integrando in questo
modo nel senso di sé anche le nuove emozioni percepite. Da questo punto di vista
anche i sintomi psicopatologici, che esprimono comunque un tentativo di
mantenere la coerenza interna rispetto al mondo, possono costituire il punto di
partenza per avviare un percorso esplorativo sul funzionamento personale. Il
soggetto scopre così di non avere come unica strada percorribile – in precedenza
vissuta come scontata e naturale – quella di legare indissolubilmente la sua
esperienza personale (e ciò che è, comprese le risorse potenziali di cui dispone)
alla sua storia, mentre questa consiste solo negli eventi che gli/le sono accaduti, i
quali non hanno quindi un legame diretto con le sue qualità, con il suo valore né,
tanto meno, con il suo “destino” futuro.

L’ORGANIZZAZIONE DI PERSONALITÀ (OP) COME ESPRESSIONE DEI


PROCESSI EVOLUTIVI INDIVIDUALI DELLA PSICHE
Nello studio delle capacità adattive di assimilare l’esperienza, appare evidente
l’utilità, sia epistemologica che clinica, di studiare la personalità con un approccio
processuale evolutivo, approfondendo i processi attraverso cui essa si sviluppa,
piuttosto che di utilizzare un approccio descrittivo categoriale, analizzandola
nelle sue sfere e funzioni, come si è fatto classicamente (Marchesi, Nardi et al.,
1986, 1992).
L’aspetto più specifico della capacità adattiva della psiche di assimilare
l’esperienza è la costruzione di un senso unitario di sé, inteso come “significato
personale”. Come ha sottolineato Bartlett (1993), “la caratteristica distintiva del
modo umano di ordinare l’esperienza consiste nella costante ricerca di un
significato”.
Il significato personale consente al soggetto di riconoscersi e di dare continuità
all’esperienza, mantenendo la coerenza interna e delineando la propria identità. La
definizione di significato indica il modo umano di fare esperienza, di assimilarla
attivamente e di costruire un senso di identità definito e univoco. In questo
processo di integrazione e di unitarietà, il cervello dialoga su più livelli con il
corpo (“soma”, dal greco “σῶμα”), ne recepisce i segnali, ne induce il
comportamento attraverso la motricità, lo modula mediante il sistema

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neuroendocrino e neuroimmunitario, lo esplora e se ne dà una rappresentazione; lo
fa suo anche quando subisce una mutilazione (si pensi al cosiddetto “arto
fantasma”, che il soggetto continua a sentire presente anche dopo una
amputazione); anzi, ingloba persino gli strumenti utilizzati nella percezione e nel
muoversi nello spazio (dagli occhiali ai pattini, agli sci, all’autovettura che guida).
Superando una concezione dualista (conseguenza di una deriva del pensiero
cartesiano) e facendo riferimento ad un approccio globale e unitario di mente che
si incarna (“embodiment”, dall’inglese “body” = corpo; Varela et al., 1992), in
condizioni fisiologiche mente e corpo formano un unico sistema integrato, di cui è
espressione l’individuo (latino “in” privativo + “dividuus” = diviso, quindi non
divisibile): non si può concepire una mente senza cervello (“brainless mind”) o
senza corpo, del quale il cervello fa parte (“bodyless mind”), né un cervello o un
corpo senza mente (“mindless brain”, “mindless body”). Come insegna la
medicina, se il corpo si ammala, soffre anche la psiche; se il cervello degenera,
gradualmente il corpo si disregola e non riesce alla lunga a sopravvivere.
Weimer (1974), che ha evidenziato lo stretto rapporto tra la ricerca di significato
ed i contenuti di esperienza che alimentano la conoscenza tacita (“l’intero
problema della conoscenza tacita altro non è se non il problema stesso del
significato”), ricorda che “il significato corrisponde alla relazione d’insieme fra
tutti i processi mentali ‘superiori’ senza essere identificabile in modo specifico
con nessuno di essi”.
Le linee guida di un approccio processuale post-razionalista per mettere a fuoco e
riformulare l’esperienza soggettiva sono state tracciate da Vittorio Guidano nel
modello delle “Organizzazioni di Significato Personale” (OSP): “il processo
essenziale di autoregolazione si identifica con la tendenza a mantenere la
coerenza interna del proprio significato personale… L’idea di base è il concetto
di ‘organizzazione cognitiva personale’, vale a dire di uno specifico assemblaggio
dei processi sottendenti l’elaborazione del significato personale grazie al quale
ciascun individuo, pur sperimentando numerose trasformazioni nel corso del suo
ciclo di vita, mantiene sempre il suo senso di unicità personale e di continuità
storica” (1988, pp.12-13). Guidano aveva preso lo spunto dalla psicopatologia per
formulare il modello delle OSP, ricavando il funzionamento normale di ciascuna
organizzazione a partire dallo scompenso clinico più comune in essa.
D’altra parte, il concetto stesso di cura richiede di ricercare, anche dentro le
patologie più gravi, le risorse adattive “sane” disponibili, almeno a livello
potenziale, su cui far leva per qualsiasi intervento finalizzato al miglioramento. I
disturbi clinici sono, per così dire, incidenti di percorso derivanti da una serie di
cause interne ed esterne e non la naturale evoluzione né della psiche né del corpo.
Muovendo da questi presupposti, di cercare il sano oltre il malato e non viceversa,
ho avviato un itinerario di ricerca che ha preso le mosse dalle risorse adattive
fornite da ciascuna Organizzazione di Personalità (OP), intesa come risultante

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dei processi fisiologici evolutivi della psiche che consentono di costruire e
mantenere un senso unitario e continuo di sé (Nardi, 2007-2016).
Il percorso evolutivo di costruzione di questo senso unitario di sé – e quindi del
significato personale – consiste nell’organizzare l’insieme della personalità in
modo unitario e coerente, a partire da quelle componenti senso-percettive e
psicomotorie e dalle corrispondenti attivazioni emozionali che il soggetto
riconosce come significative. Esse orientano di conseguenza i suoi processi
cognitivi (che, a loro volta, regolano a feedback le senso-percezioni e le
attivazioni emozionali).
La premessa da cui è partita la mia ricerca è stata infatti quella di considerare
ciascuna OP come un’espressione altamente specializzata delle capacità adattive
della psiche umana, e per questo motivo ho individuato per ciascuna OP una
denominazione fisiologica e ne ho ricercato le origini in relazione alle specifiche
capacità di risposta adattiva nei confronti di altrettanto specifici stressor evolutivi.
Ho conseguentemente investigato le risorse, disponibili al momento o potenziali,
fornite dalle OP anche nei soggetti con scompenso psicopatologico, considerando
tali risorse come la leva fondamentale sulla quale agire per produrre un
cambiamento migliorativo sul piano dell’adattamento.
Considerare la personalità non come una struttura composta da un insieme di
funzioni ma come un processo maturativo di un sistema organizzato e complesso
consente di vederla nel suo percorso evolutivo che nasce dall’incontro di ogni
nuovo individuo con le figure genitoriali con le quali costruisce una relazione di
attaccamento. Da questo incontro si si stabilizzano gradualmente quei modi di
esplorare e conoscere – affettivamente e cognitivamente – il mondo interno ed
esterno che definiscono la costruzione del significato personale, espresso nello
stile individuale di costruire le relazioni interpersonali (Nardi, 2007-2016).
In generale l’adattamento all’ambiente è un fenomeno che dipende ampiamente
dalle risorse individuali disponibili, a partire da quelle fisiche. Ad esempio, come
hanno dimostrato anche due nostri studi multicitati (Nardi et al., 2004, 2009), un
processo di adattamento a un nuovo clima e a mutate condizioni ambientali
(“acclimatazione”), come avviene alle alte quote che determinano una condizione
di ipossia, consente di contenere in modo accettabile la compromissione delle
funzioni cognitive (riduzione dell’orientamento spazio-temporale, dello span
mnesico, della fluenza verbale, delle capacità di giudizio, della perdita di dettagli
nel disegnare una figura). In questi casi, in cui è a rischio la stessa sopravvivenza,
un buon adattamento consente di evitare sia un eccessivo ripiegamento su di sé
con chiusura e introversione, sia di mantenere adeguate capacità di attenzione e di
valutazione delle situazioni, in modo da prendere decisioni corrette rispetto ai
rischi potenziali di una scalata.
Tuttavia, come avviene già nei primati (Parker et al., 2004; Davidson e McEwen,
2012), un soggetto può esprimere bene le sue potenzialità solo e viene a contatto

23
con agenti stressanti (“stressor”) che attivano livelli di stress proporzionali alle
risorse di cui dispone. Se la pressione ambientale è proporzionale alle risposte di
cui il soggetto dispone in un certo momento del suo sviluppo, lo stress assume un
ruolo positivo fondamentale nel promuovere la maturazione delle competenze
individuali (“eustress”).
Infatti, ogni cambiamento significativo, percepito come una novità, produce a
livello tacito attivazioni interne, positive o negative; ad esse il soggetto risponde
con variazioni comportamentali che cercano di gestire la nuova esperienza in
modo adattivo. Lo stato psichico interno segnala la persistenza o meno di una
discrepanza rispetto alla coerenza interna e mantiene, modifica o estingue di
conseguenza il mantenimento della risposta di adattamento.
Ricerche di notevole interesse, come quelle condotte da Belsky, Pluess et al.
(2009, 2012), hanno confermato che esiste uno stretto rapporto, sia positivo che
negativo, tra vulnerabilità e plasticità genetica, condizionando quindi la
sensibilità soggettiva all’esperienza (“plasticità evolutiva”). Ad esempio, uno
stressor positivo migliora il funzionamento individuale, facendo emergere una
sensibilità differenziale in specifici settori, domini o contesti ambientali. Queste
evidenze sperimentali confermano che gli aspetti relazionali e socio-culturali,
espressione dell’ambiente di appartenenza, possono agire non solo in negativo,
come fattori di vulnerabilità, ma anzitutto, in positivo, come fattori protettivi
promotori di sviluppo sulla “permeabilità” allo stress, agendo come modulatori
dell’endofenotipo.
In quest’ottica processuale evolutiva, le OP costituiscono l’espressione delle
capacità della psiche di sviluppare competenze altamente specialistiche nel gestire
gli aspetti dell’esperienza recepiti, emotivamente e cognitivamente, come
elementi chiave per la propria realizzazione. Esse rappresentano quindi modalità
conoscitive, tacite ed esplicite, complesse, che consentono di bilanciare, in modo
soggettivo ad elevata specializzazione, i bisogni opposti di continuità e di
cambiamento che si presentano nel corso della vita.
In altri termini, nel percorso evolutivo dei Sapiens, le capacità operative del
sistema nervoso centrale portano a diversificare alcune modalità particolari di
risposta a stressor specifici appresi mediante la relazione di attaccamento, che si
stabilizzano in ciascun soggetto e permettono di cogliere aspetti altrettanto
specifici dell’esperienza, utilizzandoli non solo per maturare una specializzazione
comportamentale, ma anche per definire la propria identità a livello tacito ed
esplicito (Nardi, 2016).
Ciascuna OP consente infatti di riconoscere e di imparare a gestire, nell’ambiente
relazionale e fisico in cui il soggetto cresce, alcune variabili specifiche che – oltre
quelle universali direttamente connesse con la sopravvivenza – promuovono lo
sviluppo di competenze altamente evolute, vantaggiose sia a livello personale che
relazionale (Nardi, 2007, 2013, 2015, 2016).

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A. L’esperienza nelle Organizzazioni di Personalità a reciprocità Fisica (OPF)
Nello sviluppo psichico (cfr. Capitoli 2 e 3), alcuni bambini si confrontano con
processi di attaccamento in cui le risposte di stress attivate all’interno della
reciprocità affettiva sono centrate sulla percezione della disponibilità fisica fornita
dai riferimenti significativi in termini di aiuto e supporto.
L’ambiente a reciprocità fisica privilegia i legami di sangue e quelli cooperativi,
individuando di conseguenza i riferimenti affidabili su cui contare in caso di
bisogno. Pertanto, la costruzione tacita del senso di sé si basa su un registro
relazionale fisico, che va da condizioni nelle quali si scopre di poter contare,
quando ce n’è bisogno, su una base sicura ad altre nelle quali, viceversa, si
devono sfruttare le istruzioni ricevute per la necessità di essere autonomi.
L’assimilazione dell’esperienza – che viene inserita nel senso di sé che il soggetto
sviluppa progressivamente, nell’ambito di un continuum tra senso positivo o
negativo che definisce la realizzazione personale – è guidata dalle attivazioni
senso-percettive interne e dalle emozioni di base rispetto a due fondamentali
categorie di stressor specifici che il soggetto apprende a riconoscere, a controllare
e a gestire per conseguire la propria realizzazione: quelle di pericolo (rispetto a
tutto ciò che può costituire una minaccia) e quelle di solitudine (come situazioni
in cui è necessario agire in prima persona).
Quando un bambino cresce in un ambiente a reciprocità fisica, i comportamenti
non verbali della figura accudente appaiono tendenzialmente stabili, si ripetono
con costanza nelle stesse situazioni – attraverso attivazioni interne sovrapponibili
espresse con le stesse emozioni di base – e sono attenti alla affidabilità e alla
sicurezza del contesto in cui ci si trova, mentre si basano meno su giudizi,
aspettative, regole e valori esterni. In questi casi, gli stressor specifici costituiti
dagli atteggiamenti accudenti diventano presto per un bambino “prevedibili” e
portano ad un riconoscimento tacito precoce degli stati interni utilizzati per
riferirsi l’esperienza contingente.
Percepire uno stato di benessere o di malessere interno rispetto al pericolo o alla
solitudine produce quindi una regolazione della conoscenza tacita di sé rispetto al
contesto, con conseguente (eventuale) aggiustamento comportamentale nei
confronti della situazione in cui il soggetto si viene a trovare, ricercando la
prossimità o distanziandosi. L’esperienza immediata viene letta tacitamente a
partire dalle proprie senso-percezioni e attivazioni emozionali (ad es., benessere o
malessere interno, tranquillità o paura). Dato che lo sviluppo affettivo è centrato
sulle emozioni di base (sperimentate prima di operare una valutazione cognitiva
del proprio comportamento in relazione al contesto esterno), le attivazioni interne
sono utilizzate sul versante comportamentale per regolare l’esplorazione
dell’ambiente, i rapporti affettivi e le relazioni sociali, rimodulando di
conseguenza la propria distanza rispetto al contesto esterno.

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Dal punto di vista evolutivo, inizialmente le senso-percezioni e le corrispondenti
emozioni coincidono con quelle della figura accudente, tanto che precocemente il
bambino, avendo imparato a riconoscerle e a prevederle, non ha più bisogno di
fare riferimento al care-giver per capire se la situazione che sta vivendo sia sicura
o meno. Tuttavia, in seguito, attraverso l’apprendimento e la maturazione di
nuove competenze operative, quando scopre di avere la capacità di gestire uno
stressor specifico (ad es., un tipo di pericolo), il soggetto attiva un cambiamento
dello stato interno (conseguente al fatto di poter controllare una situazione che
fino ad allora gli appariva pericolosa), per cui modifica le corrispondenti
attivazioni emozionali (ad es., sentendosi sicuro, non ha più paura).
Negli sviluppi fisiologici, quindi, i cambiamenti degli stati interni si sganciano
progressivamente dall’atteggiamento manifestato dal care-giver. Ad esempio, un
genitore può continuare a temere per l’incolumità del figlio in una situazione in
cui quest’ultimo ha maturato le competenze necessarie per cavarsela da solo. In
questo caso, il figlio può leggere il timore della figura di attaccamento
semplicemente come espressione dell’affetto che il genitore ha nei suoi confronti.
Pertanto, nelle OP a reciprocità fisica, la lettura dell’esperienza si basa
primariamente sulle attivazioni senso-percettive interne e sulle corrispondenti
emozioni di base, con una precoce messa a fuoco dei segnali interni, che
diventano centrali e guidano alla definizione del contesto esterno.
La reciprocità viene regolata su un registro fisico e spaziale prevalentemente in
termini di avvicinamento o allontanamento rispetto alle figure ed ai contesti che
sono significativi per il soggetto, nel modo più congruo a rispondere ai suoi stati
interni. L’equilibrio si raggiunge attraverso la capacità di gestire i segnali di
allarme che si attivano a livello soggettivo, in modo da conseguire una
conoscenza tacita ed esplicita di benessere e di tranquillità personale sempre più
matura e complessa.
Ciò avviene (Tab. 1) sia negli itinerari di sviluppo delle OPF nei quali l’ambiente
appare “on-line”, “vicino”, “disponibile” e “accessibile” volta per volta (come
nelle OPF Controllanti), sia negli itinerari di sviluppo delle OPF nei quali
l’ambiente appare “off-line”, “distante”, “meno disponibile” e “accessibile” di
tanto in tanto (come nelle OPF Distaccate).

Tab. 1. Reciprocità del care-giver a disponibilità Fisica


Disponibilità in termini di
Fisica aiuto e supporto,
sicurezza e affidabilità
vicinanza e lontananza
On-line Accessibile con istruzioni ogni volta che ce n’è bisogno
Off-line Accessibile con istruzioni date e verificate di tanto in tanto

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1. L’esperienza “on-line” delle OPF Controllanti (OPFC)
Nello sviluppo psichico che avviene nell’ambito di una relazione di reciprocità
Fisica in cui lo stressor specifico principale è percepito nelle situazioni di
pericolo – in quanto non controllabili – la sicurezza è data dall’apprendere
strategie sicure e dal fatto di poter contare su riferimenti affidabili, attraverso i
quali il bambino impara a cavarsela (vincolo educativo del legame come risorsa
maturativa).
Lo stressor specifico costituito dal pericolo (inteso come minaccia diretta o
indiretta, sia concreta e semplice, sia astratta e complessa) porta a sviluppare
come specializzazione adattiva la capacità di rispondere e gestire operativamente
situazioni percepite come minacciose, per poterle evitare o affrontare in sicurezza.
In questo modo, viene stimolata la maturazione della risorsa personale di
individuare e gestire contesti e figure affidabili/non affidabili. Questa capacità
gestionale è ricavata dalla percezione degli stati interni e, in particolare, dalle
tonalità somatiche ed emotive di tranquillità o di timore, che sono strettamente
connesse con gli strumenti operativi disponibili in quel dato momento.
Ciò avviene in un ambiente a reciprocità Fisica, quando il bambino può accedere
al care-giver ogni volta che avverte un bisogno interno di affetto e protezione (a
prescindere dal fatto che la risposta accudente sia positiva o negativa), per cui si
sviluppa una relazione di attaccamento “disponibile”. Questa disponibilità si
verifica sia nel tempo, situazione dopo situazione (attaccamento “on-line”), sia
nello spazio, ogni volta che cambia il contesto (attaccamento “vicino”, “a briglia
corta”) (Tab. 2).

Tab. 2. L’esperienza nelle OP a reciprocità Fisica On-Line Controllanti


Stressor Competenze Modalità adattive
Pericolo Attitudine operativa pratica Individuare i riferimenti su cui
contare e le minacce da evitare
Attenzione a come affrontare e Trovare modi e mezzi con cui
risolvere i problemi concreti gestire situazioni potenzialmente
pericolose
Ricerca delle condizioni che Gestire e risolvere le situazioni
assicurano sicurezza e stabilità in modo pratico
Selezione di strumenti e Relazionarsi con chi risulta
riferimenti affidabili in ambienti e affidabile rispetto alla necessità
in situazioni nuove contingente

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L’attenzione del care-giver è centrata sul proteggere il bambino e sull’aiutarlo a
riconoscere le situazioni pericolose e i riferimenti affidabili su cui può contare in
caso di bisogno. Ne deriva che il bambino, imparando a individuare situazioni ed
eventi pericolosi, è stimolato ad apprendere come prevenirli e gestirli,
aumentando in questo modo le sue competenze operative concrete. In questi casi è
favorita la maturazione della competenza di individuare, da un lato, ciò che
minaccia il proprio benessere e il controllo della situazione in cui ci si trova e,
dall’altro, i riferimenti protettivi affidabili e gli strumenti per gestire il problema o
la minaccia contingente. La fiducia nelle proprie capacità che ne deriva, definisce,
a livello tacito interno, quando è opportuno ricercare la vicinanza fisica ad una
figura (o a un ambiente) rassicurante o, viceversa, quando ci si può allontanare per
estendere il proprio raggio di esplorazione e cercare nuove prospettive.
La presenza di un care-giver disponibile quando se ne sente il bisogno (“on-line”,
fisicamente vicino), consente di utilizzare in modo vantaggioso i riferimenti
disponibili per imparare ad essere operativi e a risolvere i problemi, per avere
conferme su chi si può contare, per rafforzare i rapporti significativi, per
trasmettere alle nuove generazioni il proprio patrimonio di esperienza, per
scambiarsi e condividere competenze e nuove acquisizioni.
Il soggetto scopre gradualmente di potere, non solo percepire, ma anche
individuare i riferimenti affidabili in relazione al suo bisogno di sentirsi sicuro e,
allo stesso tempo, di avere a disposizione spazi di libertà di azione. Questo suo
orientamento tacito lo guida a gestire in prima persona i contesti della vita o,
quando ciò non è possibile, a individuare chi lo può fare al suo posto, dandogli/le
comunque sicurezza nel controllo della situazione. L’affidabilità degli altri è
ricavata proprio dalla risposta ottenuta rispetto ai bisogni interni e questo fattore
discriminativo guida l’individuazione dei riferimenti significativi e la costruzione
della rete relazionale.
La lettura dell’esperienza nelle OPF Controllanti avviene pertanto attraverso lo
sviluppo di tre capacità adattive fondamentali: a) imparare a prevenire e a gestire
tempestivamente i pericoli; b) individuare (quando serve) nuove figure affidabili
su cui si può contare; c) trovare i modi più pratici ed i mezzi più utili per gestire le
situazioni.
Ne deriva che, affrontando l’esperienza, le OPF Controllanti tendono a sviluppare
due abilità, di notevole vantaggio sul piano dell’adattamento personale e sociale.
La prima è data dalla “presenza di spirito”, che consente di individuare sul
momento ciò che occorre fare, anche in previsione di quelle che possono essere le
possibili conseguenze di ciò che accade. La seconda è la risorsa di “individuare su
chi si può contare”, selezionando le persone significative e gli strumenti ed i
mezzi ritenuti affidabili e scartando quelle figure e quegli strumenti che non
appaiono né affidabili né utili. La capacità di cercare riferimenti affidabili e spazi
disponibili per gestire le difficoltà ed i pericoli esprime dunque la risorsa tacita

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che il soggetto può scoprire di possedere e che può iniziare (o riprendere) ad
utilizzare.
In tutti i casi, negli itinerari di sviluppo fisiologici, matura progressivamente la
capacità di assimilare senza traumi le novità e di condividere con le figure
significative le proprie scoperte e i risultati ottenuti, passando da una reciprocità
prettamente fisica ad uno stile relazionale emotivamente più maturo, aperto ad una
crescente flessibilità riguardo alle opinioni ed alle scelte di vita che si possono
operare con reciproco vantaggio.

A2. L’esperienza “off-line” delle OPF Distaccate (OPFD)


Nello sviluppo psichico che avviene nell’ambito di una relazione di reciprocità
Fisica in cui lo stressor specifico principale è percepito nelle condizioni di
solitudine – in quanto non si ha a disposizione immediata un aiuto – la sicurezza è
data dal poter scoprire gradualmente le proprie risorse di autonomia, imparando a
contare sulle proprie capacità, affinate attraverso gli insegnamenti ricevuti dai
riferimenti affidabili (vincolo educativo del distacco come risorsa maturativa).
Lo stressor specifico costituito dalla solitudine (intesa come situazione in cui è
necessario agire in prima persona e, quindi, anche come spazio esperienziale ed
operativo disponibile per sé) porta a sviluppare la competenza fondamentale
dell’autonomia gestionale. Il soggetto matura un precoce senso di responsabilità
che lo spinge all’impegno personale. Sentirsi incoraggiato ad affrontare
gradualmente da solo l’esperienza gli/le consente infatti di sviluppare
precocemente le sue competenze gestionali, responsabilizzandosi, acquisendo
fiducia nei suoi mezzi e imparando ad apprezzare le sue capacità di autonomia, di
autodeterminazione, di affidabilità e di responsabilizzazione. Queste capacità
gli/le forniscono gli strumenti anche per costruire la sua rete relazionale e
ricercare nuove figure significative (Tab. 3).
Ciò avviene, in un ambiente a reciprocità Fisica, quando il bambino può accedere
al care-giver solo di tanto in tanto, dato che questo appare distaccato e non
sincrono rispetto ai propri bisogni interni contingenti di affetto e protezione (a
prescindere dal fatto che la risposta accudente sia positiva o negativa), per cui si
sviluppa una relazione di attaccamento “poco disponibile”. Questa limitata
disponibilità si verifica sia nel tempo, dato che il care-giver interviene solo
quando lo ritiene necessario, a prescindere dalle richieste dell’accudito
(attaccamento “off-line”), sia nello spazio, dato che il care-giver opera un
controllo a distanza, senza necessariamente intervenire (attaccamento “distante”,
“a briglia lunga”) (Tab. 3).
L’attenzione del care-giver è centrata sul promuovere l’autonomia del bambino,
incentivando la sua capacità di cavarsela da solo. Individuare e prevenire
situazioni in cui si è soli e si deve contare anzitutto sulle proprie capacità sono lo
stimolo per gestire l’esperienza, affinando le competenze operative concrete di cui

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si dispone. La fiducia nelle proprie capacità, che ne deriva, definisce, a livello
tacito interno, il proprio raggio di azione in termini di autonomia possibile, ma
anche la possibilità di condividere e rendere disponibile la propria esperienza con
vecchi e nuovi riferimenti significativi.
Tab. 3. L’esperienza nelle OP a reciprocità Fisica Off-Line Distaccate
Stressor Competenze Modalità adattive
Solitudine Autonomia gestionale Affrontare da soli nuove esperienze
senza cercare preliminarmente
aiuto e supporto esterni
Responsabilizzazione precoce Sviluppare la propria indipendenza
operativa vivendola come risorsa
fondamentale
Motivazione all’impegno Mettere a fuoco con l’introspezione e
in prima persona promuovere le inclinazioni personali
Saper mettere la propria Relazionarsi con chi sa accettare
autonomia a disposizione rispettare e apprezzare le proprie
degli altri capacità di autonomia

In questi casi è favorita la maturazione delle competenze gestionali autonome,


imparando a sentirsi sicuri anche quando ci si trova da soli e si devono affrontare
le situazioni in prima persona.
La relazione con un care-giver non sempre accessibile quando se ne sente il
bisogno (“off-line”, fisicamente distante), consente di promuovere la
specializzazione adattiva di attivare le risorse personali e gli strumenti di cui si
può disporre; in questo modo, il soggetto inizia ad individuare quando e come può
utilizzare le competenze acquisite, non solo in modo vantaggioso per sé, ma anche
per metterle a disposizione e condividerle con altri, facendone quindi uno
strumento di comunicazione interpersonale e di socializzazione.
Dato che la figura accudente non interviene volta per volta ma fornisce quelle
istruzioni e quella spinta che, tenendo conto delle capacità maturate, consentono al
bambino di aumentare gradualmente il suo raggio fisico d’azione e la sua
operatività autonoma, è possibile apprendere ad affrontare compiti e situazioni
nuove da soli in modo sereno (senza quindi sentirsi abbandonati) e acquisendo
fiducia nelle proprie capacità. La disponibilità off-line e distante spinge quindi a
scoprire gradualmente le proprie capacità di autonomia e di utilizzarle per
motivare l’impegno personale e per portare avanti i propri compiti sulla base delle
istruzioni ricevute. L’attitudine a fare da sé consente di costruire relazioni
discrete, nelle quali la condivisione operativa rispetta gli spazi e i modi che si è

30
abituati ad avere da soli. La lettura dell’esperienza nelle OPF Distaccate avviene
pertanto attraverso lo sviluppo di tre capacità adattive fondamentali: a) imparare
ad affrontare da soli nuove esperienze; b) individuare (quando serve) i modi per
valorizzare la propria autonomia; c) sviluppare la propria operatività con
determinazione, seguendo le inclinazioni personali messe a fuoco con
l’introspezione.
Ne deriva che, per gestire l’esperienza, le OPF Distaccate tendono a sviluppare
due abilità, di notevole vantaggio sul piano dell’adattamento personale e sociale.
La prima è la “autonomia di scelta”, che consente – quando ciò è possibile – di
prendere decisioni e di sviluppare e realizzare progetti facendo leva sulle proprie
risorse, senza pesare sugli altri, individuando tuttavia, quando serve, i riferimenti
stabili (scremandoli da quelli precari). La seconda è la “progettualità pratica a
lungo termine”, basata sulla autodeterminazione a completare ciò che si inizia
(facendo leva sulle forze e sulle risorse personali).

B. L’esperienza nelle Organizzazioni di Personalità a reciprocità Semantica


(OPS)
Nello sviluppo psichico, alcuni bambini si confrontano con processi di
attaccamento in cui le risposte di stress attivate all’interno della reciprocità
affettiva sono relative alla percezione della disponibilità di segnali forniti dai
riferimenti significativi in termini di giudizi, confronti, valori e regole da
rispettare.
L’ambiente a reciprocità semantica privilegia i legami sul piano ideale in termini
di promozione sociale e condivisione etica, orientando di conseguenza la ricerca
di approvazione e incoraggiamento da parte dei riferimenti significativi. Pertanto,
la costruzione tacita del senso di sé si basa su un registro relazionale semantico
(dal greco “σῆμα”, “sema” = segno, segnale), che va da condizioni nelle quali si
scopre di poter fare affidamento, quando ce ne è bisogno, sulle indicazioni fornite
dalle basi sicure ad altre nelle quali, viceversa, si devono sfruttare le istruzioni
ricevute, interiorizzandole e utilizzandole poi in modo autonomo e responsabile.
L’assimilazione dell’esperienza, che viene inserita nel senso di sé che il soggetto
sviluppa progressivamente (nell’ambito di un continuum tra senso positivo o
negativo di sé, che definisce i contorni della realizzazione personale) è guidata dai
segnali esterni e dalle corrispondenti emozioni (prevalentemente autovalutative e
sociali) rispetto a due fondamentali categorie di stressor specifici che il soggetto
impara a riconoscere, controllare e gestire per conseguire un senso di
realizzazione personale: quelle di giudizio (inteso come atteggiamenti esterni utili
a cogliere qualcosa di sé e della realtà, attraverso le attivazioni senso-percettive ed
emotive che esso provoca) e quelle di dovere (rispetto a ciò che viene indicato sia
giusto fare).

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Quando un bambino cresce in un ambiente a reciprocità semantica, i
comportamenti non verbali della figura accudente appaiono variabili a seconda
delle caratteristiche, dei giudizi e delle aspettative del contesto esterno o sono
dipendenti dal rispetto di determinate regole e valori, mentre si basano meno sui
segnali e sui bisogni interni. In questi casi, gli stressor specifici costituiti dagli
atteggiamenti accudenti appaiono inizialmente per un bambino “poco prevedibili”
e lo inducono ad una prioritaria attenzione tacita per l’ambiente esterno, che viene
quindi utilizzato precocemente per riferirsi l’esperienza e per regolare e
decodificare gli stati interni.
L’esperienza immediata è letta tacitamente a partire dalle senso-percezioni e dalle
attivazioni emozionali modulate dai segnali esterni (ad es., soddisfazione o
pentimento, orgoglio o vergogna). Pertanto, i segnali esterni sono utilizzati sul
versante comportamentale per regolare le interazioni con l’ambiente, i rapporti
affettivi e le relazioni sociali, rimodulando di conseguenza le attivazioni interne.
Dato che lo sviluppo affettivo è centrato sulle emozioni sociali (attivate sulla base
della valutazione cognitiva del proprio comportamento in relazione al contesto
esterno), il bambino tende ad imitare gli atteggiamenti della figura accudente nei
confronti dell’ambiente esterno; l’importanza prioritaria data ai segnali esterni lo/a
spinge a fare riferimento al care-giver (e successivamente ad altre figure di
riferimento) per capire se il suo comportamento, rispetto alla situazione che sta
vivendo, sia corretto o meno. L’empatia e la coerenza delle figure significative
appaiono quindi fondamentali nell’orientare lo stato affettivo che il bambino ha
quando esplora l’ambiente e si relaziona con gli altri.
In seguito, attraverso l’apprendimento e la maturazione di nuove competenze
cognitive, il soggetto diventa progressivamente capace di gestire uno specifico
tipo di stress in modo sempre più autonomo (ad es., di essere giudicato/a, di
svolgere un compito, di raggiungere un dato obiettivo). Questa scoperta attiva un
cambiamento dello stato interno (conseguente al fatto di aver appreso ad
affrontare adeguatamente una situazione per la quale fino ad allora era dipeso
dalla figura accudente) e modifica le corrispondenti attivazioni emozionali (ad es.,
il soggetto prova soddisfazione ed orgoglio e non più preoccupazione, vergogna o
colpa per non riuscire a fare qualcosa). Infatti, come ha sottolineato Guidano
(1987), riconoscere lo stato emotivo di una figura significativa è una condizione
necessaria per decodificare la stessa tonalità emotiva quando la si prova, ma
occorre d’altra parte che il soggetto impari anche a distinguere il proprio sé dalla
sorgente di identificazione. Solo in questo modo è possibile costruire in maniera
adattiva e definita la propria identità, mantenendo un equilibrio dinamico tra
tendenza verso l’esterno (appartenenza al contesto) e tendenza verso l’interno
(demarcazione dei confini personali).
Analogamente, nel corso della maturazione, occorre sviluppare la capacità di
apprendere a selezionare e a valutare in maniera sempre più duttile, astratta e

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critica le conferme e le disconferme ricevute dall’ambiente, costruendo progetti di
vita adeguati ai bisogni interni. In altri termini, l’identità non si sviluppa in modo
armonico senza il rispetto dell’alterità, così come non ci può essere dialogo
autentico se non si impara a prendere in considerazione e a rispettare sia il proprio
punto di vista che quello degli altri, con le rispettive esigenze legate all’unicità di
ogni individuo.
Il precoce sviluppo di un registro di decodifica semantica delle richieste esterne
favorisce la messa a fuoco tacita del contesto ambientale e produce una spinta
motivazionale a prestare attenzione agli atteggiamenti delle figure accudenti e,
successivamente, di tutte quelle che sono ritenute comunque significative.
Questi atteggiamenti all’inizio appaiono imprevedibili e spesso non rispondenti ai
bisogni interni (nella loro varianza legata alle esigenze del contesto o alle norme
da seguire) ma gradualmente, alla luce delle situazioni, delle aspettative e delle
regole esterne, iniziano ad apparire comprensibili e, almeno potenzialmente,
gestibili. Questo avviene sia nel caso di giudizi situazionali contingenti che danno
il parametro di ciò che ci si aspetta nel “qui ed ora”, sia nel caso di valori di fondo
ai quali ci si deve attenere, a prescindere dal variare delle contingenze e delle
circostanze.
Anche la reciprocità viene regolata prevalentemente su un registro semantico,
sulla base di quegli aspetti dell’ambiente che sono percepiti importanti per il
soggetto, nel modo più congruo a rispondere ai suoi bisogni.
Il senso di benessere, corrispondente ad uno stato psichico di equilibrio, viene
ottenuto attraverso la capacità di modulare gli stati interni soggettivi sulla base
delle informazioni esterne, conseguendo una conoscenza tacita ed esplicita di sé e
del mondo sempre più matura e complessa.
Ciò avviene (Tab. 4) sia negli itinerari di sviluppo delle OP a reciprocità
Semantica (OPS) nei quali l’ambiente accudente appare nei quali l’ambiente
appare “on-line”, “vicino”, “disponibile” e “accessibile” volta per volta (come
nelle OPS Contestualizzate), sia negli itinerari di sviluppo delle OPS nei quali
l’ambiente appare “off-line”, “distante”, “meno disponibile” e “accessibile” di
tanto in tanto (come nelle OPS Normative).

Tab. 4. Reciprocità del care-giver a disponibilità Semantica

Disponibilità in termini di
Semantica giudizi e indicazioni,
riferimenti e regole
valutazioni e valori
On-line Accessibile con istruzioni ogni volta che ce n’è bisogno
Off-line Accessibile con istruzioni date e verificate di tanto in tanto

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B1. L’esperienza “on-line” delle OPS Contestualizzate (OPSC)
Nello sviluppo psichico che avviene nell’ambito di una relazione di reciprocità
Semantica in cui lo stressor specifico principale è rappresentato dalle situazioni di
giudizio, la sicurezza è data dall’apprendere come orientare il proprio
atteggiamento verso i segnali esterni in modo da ottenere gratificazione e
approvazione. In questi casi, in cui ci si confronta con il giudizio e le valutazioni
esterne, l’attenzione è centrata sulla possibilità di riuscire ad esprimere e a far
apprezzare le proprie capacità (vincolo educativo del consenso come risorsa
maturativa).
Lo stressor specifico costituito dal giudizio esterno (inteso come rappresentazione
interna di quello che l’altro può pensare e fare, utile a cogliere qualcosa di sé)
porta a sviluppare come competenza fondamentale la capacità di gestire
l’esposizione personale, in modo da ottenere i risultati auspicati.
Ciò avviene, in un ambiente a reciprocità Semantica, quando il bambino può
accedere al care-giver ogni volta che avverte un bisogno di reciprocità e di scambi
comunicativi (a prescindere dal fatto che la risposta accudente sia positiva o
negativa), per cui si sviluppa una relazione di attaccamento “disponibile”. Questa
disponibilità si verifica sia nel tempo, situazione dopo situazione (attaccamento
“on-line”), sia nello spazio, mediante consigli e indicazioni forniti ogni volta che
cambia il contesto (attaccamento “vicino”, “a briglia corta”) (Tab. 5).
L’attenzione del care-giver è orientata nel seguire il bambino, passo dopo passo,
in modo che impari ad adeguarsi alle esigenze ed alle possibilità offerte
dall’ambiente, insegnandogli a farsi valere ed apprezzare.

Tab. 5. L’esperienza nelle OP a reciprocità Semantica On-Line Contestualizzate


Stressor Competenze Modalità adattive
Giudizio Gestione dell’esposizione Verificare gli obiettivi
in base alla situazione conseguibili e impegnarsi
per raggiungerli
Selezione di obiettivi e risultati Valorizzare le proprie capacità
adatti alle proprie caratteristiche realizzative e competitive
Capacità di cogliere atteggiamenti Saper prendere le persone
giudizi e aspettative degli altri per il verso giusto
Utilizzo di giudizi, risultati e Individuare da chi, in che modo
confronti per fare investimenti e quando si può essere
vantaggiosi apprezzati

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Individuare come avere successo e prevenire le situazioni in cui si può non
riuscire sono lo stimolo per apprendere come gestire il proprio comportamento in
modo adeguato, affinando progressivamente le competenze in termini di valore
personale. Il livello di fiducia nelle proprie capacità che ne deriva definisce, a
livello tacito interno, il raggio di azione in termini di esposizione e messa alla
prova, ma anche la possibilità di condividere le proprie risorse e il proprio modo
di essere con vecchi e nuovi riferimenti significativi che sanno apprezzarli/le.
In questi casi è favorita la maturazione della competenza di riconoscere i segnali
di approvazione, di selezionare i comportamenti vantaggiosi, di prevedere i
risultati che possono essere ottenuti ed i giudizi di merito che ne possono derivare.
La relazione con un care-giver disponibile quando se ne sente il bisogno (“on-
line”, semanticamente vicino), consente di maturare la specializzazione adattiva di
rispondere e gestire lo stress specifico relativo al giudizio esterno. Si sviluppa in
questo modo la risorsa personale di imparare a leggere e a prevedere le aspettative
esterne ed i risultati conseguibili, promuovendo le proprie risorse e individuando i
contesti in cui possono essere condivisi.
Le competenze sociali consentono di individuare e, spesso, anche di prevenire lo
stress specifico relativo al giudizio, in modo da orientarsi verso scelte alla propria
portata negli ambiti in cui si può essere apprezzati e valorizzati (senza percepire i
contesti negativi come espressione automatica di una propria incapacità o di un
proprio fallimento). In questo percorso adattivo, infatti, gli eventi positivi o
negativi della vita possono essere visti come indicatori di ciò che funziona o non
funziona, anche in termini di possibilità o meno di condividere situazioni e aspetti
esperienziali, senza ricavarne direttamente un presunto valore personale, quasi
come se quest’ultimo fosse un titolo quotato in borsa e sottoposto alle fluttuazioni
del mercato azionario.
L’alta disponibilità “on-line” e vicina consente di utilizzare, quando è utile, i
riferimenti disponibili per avere consigli e sciogliere dubbi, per ricevere conferme
(anche in forma di critica costruttiva), per scegliere obiettivi adatti alle proprie
attitudini e per costruire rapporti solidali, scambiando esperienze e reciproca
assistenza.
Il bambino, attraverso le attivazioni senso-percettive ed emotive corrispondenti
agli atteggiamenti, alle richieste, alle indicazioni delle figure significative, è
guidato nel cogliere aspetti di sé e del mondo, imparando a gestire i primi e a
rapportarsi utilmente col secondo.
Dall’insieme di queste esperienze situazionali il soggetto inizia a individuare i
temi di fondo che deve affrontare per la riuscita della sua vita, attraverso le
indicazioni, i suggerimenti, i confronti e gli strumenti che le figure significative
gli forniscono di volta in volta.
Inoltre, il fatto di fare riferimento alle figure primarie di attaccamento per leggere
gli atteggiamenti e le aspettative del mondo esterno (aggiornando di conseguenza

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il mondo interno e scegliendo il comportamento da tenere) porta a individuare, a
partire dall’inizio della scolarizzazione, nuovi riferimenti significativi – coetanei
ma anche adulti – da prendere come modello e termine di paragone.
La lettura dell’esperienza nelle OPS Contestualizzate avviene pertanto attraverso
lo sviluppo di tre capacità adattive fondamentali: a) individuare e verificare gli
obiettivi conseguibili e, di conseguenza, impegnarsi per raggiungerli; b)
individuare (quando serve) da chi si può essere apprezzati, puntando su di essi; c)
valorizzare la propria capacità realizzativa e competitiva, tenendo presenti gli
atteggiamenti ed i giudizi esterni.
Ne deriva che, per gestire l’esperienza, le OPS Contestualizzate tendono a
sviluppare due abilità, di notevole vantaggio sul piano dell’adattamento personale
e sociale. La prima è la capacità di “focalizzare le aspettative”, cogliendo ciò che
ci si può attendere o meno dagli altri. La seconda è la “attitudine al risultato”, che
esprime la capacità di scegliere gli ambiti di esperienza in cui si può riuscire
meglio ad esprimersi.
La lettura dell’esperienza che ne deriva è centrata – nella sua immediatezza di
senso-percezioni, immagini e coloriti soggettivi – su una decodifica in termini di
conferma o disconferma, in base alla quale, dai giudizi esterni o dai confronti con
gli altri, sono elaborati in maniera soggettiva e aggiornata l’immagine di sé (in
termini fisici, estetici, professionali, relazionali) e l’adeguatezza delle proprie
scelte e dei propri obiettivi.

B2. L’esperienza “off-line” delle OPS Normative (OPSN)


Nello sviluppo psichico che avviene nell’ambito di una relazione di reciprocità
Semantica in cui lo stressor specifico principale è percepito nel dovere di recepire
e fare propri valori, norme e regole, il senso di sicurezza personale viene ricavato
dal fare ciò che è giusto, partendo dal rispetto delle indicazioni ricevute (vincolo
educativo delle regole come risorsa maturativa).
Lo stressor specifico costituito dal dovere (inteso come fare ciò che è giusto)
porta a sviluppare la competenza fondamentale dell’impegno come base etica del
proprio comportamento. Partendo dalle indicazioni del care-giver, man mano che
matura, il soggetto assume un ruolo sempre più attivo nel verificare, integrare o
modificare ciò che deve o non deve seguire.
Ciò avviene, in un ambiente a reciprocità Semantica, quando il bambino non può
accedere al care-giver ogni volta che avverte un bisogno di reciprocità e di scambi
comunicativi (a prescindere dal fatto che la risposta accudente sia positiva o
negativa), dato che la figura accudente appare disponibile solo in determinate
circostanze e propone una reciprocità parca e misurata, responsabilizzando al
rispetto delle regole e dei valori indicati come importanti, per cui si sviluppa una
relazione di attaccamento “poco disponibile”.
Questa limitata e selettiva disponibilità si verifica sia nel tempo, mediante

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interventi educativi fatti solo quando se ne ritiene la necessità, a prescindere dalle
richieste del bambino, definendo modelli comportamentali da rispettare sempre
(attaccamento “off-line”), sia nello spazio, attraverso una vigilanza a distanza,
sorvegliando che il bambino si adegui alle richieste fatte senza intervenire volta
per volta (attaccamento “distante”, “a briglia lunga”) (Tab. 6).
L’attenzione del care-giver è centrata sul far seguire al bambino un percorso
maturativo responsabile e progettuale, la cui linea guida è il dovere di attenersi a
determinati valori e principi.

Tab. 6. L’esperienza nelle OP a reciprocità Semantica Off-Line Normative


Stressor Competenze Modalità adattive
Dovere (di fare Impegno e responsabilizzazione Vivere il senso del dovere
ciò che è precoci e stabili come bussola
giusto) della propria vita
Ricerca di valori che possano Sapersi impegnare in ciò
essere punti fermi di riferimento che è giusto fare
Individuazione di un programma Privilegiare impegno e
di vita cui attenersi correttezza rispetto a
risultati e confronti
Senso etico come base del Individuare con chi
proprio comportamento condividere ideali e scelte

Imparare a gestire responsabilmente il proprio comportamento sulla base degli


insegnamenti ricevuti è lo stimolo per apprendere come comportarsi correttamente
nelle diverse situazioni. Il livello di responsabilizzazione che ne deriva definisce,
a livello tacito interno, il proprio raggio di azione, sia per valutare l’impegno
personale che si deve mettere in una data situazione, sia per selezionare le scelte
da fare in quanto ritenute giuste, sia infine per impegnarsi nei rapporti con gli altri
in base alla condivisione di valori e competenze.
In questi casi è favorita la maturazione della competenza di responsabilizzarsi
imparando a rispettare regole e valori, a fare ciò che è giusto.
La relazione con un care-giver non sempre accessibile quando se ne sente il
bisogno (“off-line”, semanticamente distante), consente di promuovere la
specializzazione adattiva di rispondere e gestire lo stressor relativo al dovere
(inteso come fare ciò che è giusto), maturando la risorsa personale di individuare e
perseguire valori e linee guida esistenziali e verificando i contesti relazionali con
cui si possono condividere e promuovere.

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Mentre nelle OPS Contestualizzate giudizi esterni, confronti con gli altri e risultati
ottenuti sono utilizzati per verificare nel contesto contingente le risorse e le
competenze personali, nelle OPS Normative dai giudizi e dai confronti si tende a
ricavare soprattutto la corrispondenza e la condivisione con gli altri di ciò che
conta nella vita, per cui l’impegno personale assume un ruolo assolutamente
preminente – in quanto espressione dell’assunzione di responsabilità – rispetto ai
risultati (che invece non dipendono esclusivamente dal soggetto, ma anche da
variabili esterne che non sono quindi mai del tutto ascrivibili a sé).
La bassa disponibilità “off-line” e distante consente di scoprire gradualmente le
proprie risorse e di utilizzarle per motivare l’impegno personale, interiorizzando e
mettendo in pratica gli insegnamenti ricevuti. Una volta individuate, le linee guida
cui attenersi sono utilizzate anche come base per cercare con chi è possibile
condividerle, costruendo amicizie rette da un sentire comune.
Il bambino impara ad individuare una sorta di via maestra, che consente di
superare i limiti e gli aspetti contraddittori della vita. Apprendere a riconoscere
questi aspetti consente di mettere a fuoco i contrasti della vita, scegliendo quello
che appare migliore, dapprima sulla base delle indicazioni ricevute dal care-giver,
successivamente in modo sempre più responsabilmente autonomo. La possibilità
di fare riferimento a specifici criteri fatti propri consente di soppesare i pro e i
contro di una stessa situazione e di scegliere, quando ciò appare necessario, tra gli
aspetti contrastanti della realtà che appaiano equivalenti, senza sperimentare
ambivalenza (cosa che avviene solo negli scompensi clinici).
La scoperta della propria attitudine nella ricerca responsabile di valori e di regole
comportamentali connesse con tali valori consente di discriminare ciò che appare
utile da ciò che può essere superfluo, superando i chiaro-scuri dell’esperienza
mediante scelte responsabili, evitando il rischio di rimanere intrappolati in essi,
perdendosi in un perfezionismo ossessivamente vacuo. Questo orientamento tacito
consente inoltre di ricercare nelle diverse esperienze e stagioni della propria vita
ciò che può essere valorizzato e ciò che può essere condiviso con quanti
esprimono affinità elettive.
La lettura dell’esperienza nelle OPS Normative avviene pertanto attraverso lo
sviluppo di tre capacità adattive fondamentali: a) impegnarsi seguendo le linee
guida individuate come bussola della propria condotta; b) individuare (quando
serve) con chi si possono condividere motivazioni, valori, ideali e scelte di vita; c)
portare avanti con impegno i progetti in cui si crede, senza dare particolare peso al
confronto od alla competizione con gli altri.
Ne deriva che, per gestire l’esperienza, le OPS Normative tendono a sviluppare
due abilità, di notevole vantaggio sul piano dell’adattamento personale e sociale.
La prima è la capacità di “impegno centrato sui valori”, i quali forniscono le linee
guida per riferirsi l’esperienza in termini di attitudine personale sufficientemente
coerente, valida e stabile nel tempo. La seconda è la “solidarietà etica”, basata

38
sulla possibilità di condividere scelte e progetti giusti sui quali valga la pena
investire.
La lettura dell’esperienza che ne consegue è centrata – nella sua immediatezza di
senso-percezioni, immagini e coloriti soggettivi – su una decodifica di ciò che si
affronta in termini di sufficiente certezza, giustizia e margini di miglioramento, in
base ai quali viene ricavato il senso delle proprie scelte e dei propri orientamenti,
sia personali (affettivi, lavorativi, speculativi ed etici), sia relazionali.

C. L’esperienza nelle Organizzazioni miste o Combinate


Come si è detto, nell’itinerario di sviluppo di ciascun individuo, la maturazione
della sua OP fa da base al suo senso di unicità e di continuità nel tempo, fornendo
le modalità a partire dalle quali si attiva e mediante cui si riferisce e gestisce
l’esperienza.
Ogni OP consente infatti di selezionare in modo particolare alcune specifiche
suscettibilità senso-percettive, che derivano dal fatto che essa appare più
“permeabile” e “attenta” agli aspetti più significativi ed ai domini prevalenti nel
suo ambiente.
In questo modo ciascuna OP dispone di proprie attivazioni e di proprie
competenze valutative ed operative, attraverso le quali fornisce al soggetto risorse
adattive selettive e specializzate, che vengono affinate e perfezionate nel corso di
tutta la vita.
Tuttavia, osservare soggetti che presentano esclusivamente aspetti riconducibili ad
un’unica OP è piuttosto raro e ciò avviene all’interno di un ambito familiare e di
un gruppo sociale particolarmente omogeneo e/o in ambienti con una rete socio-
relazionale limitata e povera di scambi interpersonali.
Infatti, dato che ogni bambino cresce a contatto con figure significative (dapprima
familiari, poi anche extrafamiliari) che presentano OP diverse tra loro, non è
frequente osservare soggetti con OP esclusivamente di un tipo.
È invece comune riscontrare OP miste o, per meglio dire, OP “Combinate”, cioè
con caratteristiche proprie di due o più organizzazioni, sebbene in ogni caso in
ciascun soggetto una OP tenda a prevalere sull’altra (o sulle altre) e a regolarla
(regolarle).
Infine occorre osservare che la prevalenza di una organizzazione sull’altra (o sulle
altre) può variare nel corso della vita, soprattutto quando il soggetto è giovane e
quando si trova a dover cambiare – per vari motivi e vicissitudini – il contesto
significativo in cui vive, in cui si esprime e con cui si relaziona.

39
ATTACCAMENTO E ORGANIZZAZIONI DI PERSONALITÀ

ATTACCAMENTO E ADATTAMENTO
Il patrimonio genetico consente all’individuo di funzionare in modo flessibile e
predisposto al cambiamento (quindi non predeterminato, rigido e standardizzato),
acquisendo attraverso l’apprendimento le informazioni necessarie per maturare la
propria coscienza di sé.
Alla base di questa flessibilità è il sistema dell’attaccamento. Esso si sviluppa in
parallelo e interagisce con gli altri sistemi comportamentali che sono fondamentali
per la sopravvivenza, come quelli che regolano la ricerca del cibo, la difesa del
territorio, il comportamento agonistico competitivo, la determinazione di rapporti
di rango, l’accoppiamento, la riproduzione.
Pertanto, l’attaccamento ha un valore adattivo fondamentale e costituisce un
processo dinamico di risposta allo stress, con alcuni aspetti comuni a numerose
specie sociali: esprime infatti la competenza che un bambino ha, a partire dalle
prime fasi della sua vita, di mantenere la prossimità e di ottenere l’accudimento di
una figura genitoriale che fornisce cure e protezione (“care-giver”).
Le interazioni con il care-giver giocano un ruolo primario nello sviluppo delle
competenze affettive, cognitive e relazionali del bambino, soprattutto nei primi
due anni di vita; ciò non significa ovviamente che non si possa accompagnare in
modo costruttivo nella crescita soggetti che in tale periodo abbiano risentito
negativamente di una disregolazione nell’accudimento (ad es., bambini trascurati,
abbandonati e poi adottati). L’attaccamento, infatti, non è limitato solo ad ottenere
e mantenere la prossimità ad una figura genitoriale per essere accuditi, nutriti,
difesi e per sviluppare le competenze necessarie all’autonomia. Esso consente di
imparare ad individuare e a gestire (emotivamente e cognitivamente) aspetti
specifici della vita di relazione, fondamentali nella costruzione del senso di unicità
e continuità nel tempo. L’attaccamento si presenta quindi come uno stressor sia
primario sia specifico, fondamentale nel condizionare le competenze di cui
l’individuo dispone geneticamente, favorendole o frenandole (Nardi, 2007-2016).
Come hanno sottolineato in particolare Popper (1974), Bowlby (1972) e Guidano
(1987), l’attaccamento umano è fondamentale per lo sviluppo dell’identità,
intervenendo sulla maturazione delle varie competenze psico-comportamentali,
stabilizzando i pattern di attivazione emozionale, orientando selettivamente il
repertorio cognitivo e ponendo le basi per lo stile relazionale dell’individuo.
Scrive Popper (cit. in Guidano 1988, p. 48): “così come impariamo a riconoscere
noi stessi in uno specchio, il bambino diventa consapevole di se stesso vedendo il
suo riflesso nello specchio costituito dalla coscienza che le altre persone hanno di
lui”.

40
Bowlby (cit. in Guidano 1988, p. 49) osserva: “la possibilità di esperire una
madre e, successivamente, un padre incoraggianti, supportivi e cooperativi,
fornisce al bambino un senso del proprio valore personale, una fiducia nella
disponibilità degli altri e un modello adeguato su cui costruire le relazioni future.
Inoltre, la possibilità di esplorare l’ambiente esterno con fiducia e di interagire
efficacemente con esso facilita lo sviluppo di un senso di competenza. Da allora
in poi, purché le relazioni familiari continuino a essere favorevoli, non solo questi
schemi precoci di pensieri, emozioni e comportamenti persistono, ma la
personalità diviene sempre più strutturata per operare in modo abbastanza
controllato ed elastico, e sempre più in grado di continuare a funzionare in questo
modo a dispetto di eventuali circostanze avverse”.
Come hanno contribuito ad evidenziare, tra gli altri, Fonagy e Target (1977),
Watson (1980), Trevarthen, (1998), Crittenden (1992-1997), Nardi (2001),
l’attaccamento consente di: a) differenziare e organizzare un range di emozioni
(coloriti soggettivi transitori, che si manifestano come risposte individuali a
stimoli ambientali contingenti) e sentimenti (stati soggettivi più stabili e legati alla
costituzione individuale); b) modulare l’intensità, la durata e la frequenza degli
stati emotivi; c) organizzare l’attività senso-percettiva e motoria mediante la
risonanza e la partecipazione soggettiva nelle relazioni con altri individui; d)
orientare, in definitiva, l’organizzazione del repertorio emozionale e cognitivo
individuale. Un attaccamento fisiologico – attraverso la sintonizzazione affettiva
con una figura accudente, indispensabile per decodificare il proprio mondo interno
– permette al bambino di sentirsi amato e, quindi, amabile, capace di utilizzare le
risorse di cui dispone. In questo modo può iniziare ad esplorare e conoscere
l’ambiente, senza correre quei rischi che le sue capacità non gli permettono ancora
di fronteggiare (Nardi, 2007, 2013). Pertanto, l’attaccamento è alla base della
natura sociale delle relazioni umane, determinando i parametri in base a cui
ciascun soggetto apprende a riconoscere e ad attribuirsi le emozioni che prova,
anch’esse a loro volta funzionali alla coesione sociale.
L’attaccamento nei primi due anni di vita regola la prossimità alla madre
mediante sottosistemi che consentono di piangere, succhiare, aggrapparsi,
sorridere, seguire. Queste azioni richiamano e avvicinano la madre (piangere,
sorridere), consentono il contatto (succhiare, aggrapparsi) e mantengono la
vicinanza (seguire con lo sguardo, con l’orientamento posturale e con il
movimento). La maggioranza dei bambini risponde in modo differenziato alla
madre rispetto ad altre figure già a 3-4 mesi e il comportamento di attaccamento è
evidente dopo i 6 mesi (pianti e proteste se la madre si allontana; sorrisi, gesti e
grida di gioia quando lei si avvicina). Il mantenimento della vicinanza o il
tentativo di ripristinarla (seguire la madre che si muove in una certa direzione)
può essere modificato da processi precoci di apprendimento, che risultano poi
molto stabili (fenomeno di “imprinting”; Lorenz, 1949).

41
Come ha evidenziato Lambruschi (2016, 2017), lo stato mentale dei genitori è
centrale per plasmare i modelli operativi interni attraverso i quali il bambino si
riferisce l’esperienza e la utilizza nella costruzione della sua identità. I processi di
attaccamento esprimono configurazioni di relazioni interpersonali significative
che consentono di regolare e memorizzare i propri stati emozionali, imparando
specifiche modalità di “usare” la mente. Pertanto, il contesto relazionale, fornito
dalle sponde genitoriali, dà corpo al senso di sé del bambino, che cerca di
mantenere lo stato di relazione con loro adattandosi a livello tacito e oscillando
all’interno dello spazio consentito dal funzionamento e dalle aree critiche
emozionali dei genitori. L’identità individuale è quindi marcatamente
interpersonale e correlata al legame affettivo con le figure genitoriali di
attaccamento. La base sicura è fondamentale per organizzare le emozioni del
bambino che quando si sente fragile, debole e vulnerabile ha bisogno di un
riferimento forte e rassicurante, capace di trovare una soluzione ai problemi
prodotti dalle esperienze perturbanti. Ne deriva che il “parenting” (la funzione al
tempo stesso affettiva ed educativa genitoriale) avviene in modo sicuro ed
equilibrato quando il genitore è responsivo senza assumere per forza il controllo o
affermare il suo potere e quando utilizza il sistema di accudimento e cura e non
quello agonistico e competitivo. Come hanno evidenziato gli studi sulla
responsività del care-giver, una buona sensibilità della figura accudente consente
di percepire correttamente i segnali (anche taciti) del bambino, di recepirne con
prontezza e adeguatezza i suoi bisogni, di sintonizzarsi affettivamente
condividendo in questo modo ciò che il bambino prova (“empatia”), di intervenire
educativamente quando serve, producendo dei “momenti di rottura” (rispetto ai
bisogni interni del bambino) ma “riparandoli” poi con un atteggiamento di
comprensione e di supporto. Pertanto, un buon attaccamento dipende dalla
capacità genitoriale di essere sensibile ai bisogni del bambino, percependoli
correttamente, sintonizzandosi affettivamente, riparando empaticamente le
situazioni di rottura e fornendo risposte tempestive, coerenti, adeguate alle risorse
e al bene del bambino. In questo modo, il rispecchiamento empatico con
l’emozione critica manifestata dal bambino con un suo rifiuto consente di
introdurre quelle regole morali e sociali che promuovono l’adattamento mediante
una educazione sensibile: “capisco cosa provi, ma per il tuo bene quello che
chiedi non si può fare” (Lambruschi e Lionetti, 2016; Lambruschi e Delbarba,
2017).
Giuseppe Cesari (1990-1995), a proposito di ciò che caratterizza una base sicura
autorevole e non autoritaria, ha usato la metafora della guida: che conosce chi
accompagna (sapendosi mettere in suo ascolto e sospendendo ogni giudizio di
valore), sa mettere a fuoco le sue capacità e i suoi limiti attuali e, di conseguenza,
sa scegliere la strada giusta (che si adatta alle sue capacità e attitudini,
consentendogli/le di procedere con sufficiente sicurezza verso la meta concordata,

42
sia pure accompagnato/a, sostenuto/a e incoraggiato/a) ed ha la pazienza di tenere
il suo passo e non il proprio. Ad esempio, nei ricordi di soggetti che non hanno
avuto guide attente ai loro bisogni e alle loro risorse emergono temi, espressione
di disagio, quali: “mi hanno sempre detto quello che mi doveva piacere e
rimanevo confusa su cosa volessi veramente io”; “non mi davano il tempo di
imparare le cose con i mei ritmi, mentre pretendevano subito il risultato finale”;
“mi hanno sempre regalato tutto, senza darmi l’occasione di desiderare davvero
qualcosa”. Infine, come ha osservato Guidano (1988, p. 49), l’attaccamento non è
limitato all’infanzia, ma si esprime nel corso della vita con aspetti sempre più
complessi e diversificati, che caratterizzano lo stile affettivo e relazionale di un
individuo: “L’attaccamento svolge un ruolo diverso sulle capacità di
autorganizzazione a seconda degli stadi di sviluppo del ciclo di vita. Mentre nelle
fasi maturative esso esercita un’importante influenza direttamente sullo sviluppo
dell’identità, per l’intera durata della vita adulta i legami affettivi significativi
hanno un’influenza altrettanto importante sia sulla stabilizzazione della
conoscenza fin qui raggiunta, sia sull’ulteriore progressione verso livelli
strutturali sempre più complessi e integrati”.
Gli studi sull’attaccamento infantile (in particolare quelli di Bowlby, Ainsworth,
Crittenden) si sono avvalsi della osservazione etologica delle interazioni tra
accudito e accudente durante un’esperienza di separazione e di successivo
riavvicinamento definita “situazione di estraneità” (“strange situation”),
suddivisa in otto fasi successive di tre minuti ciascuna: 1) nella stanza di
osservazione vengono fatti entrare madre e bambino, che poi sono lasciati soli; 2)
il bambino ha la possibilità di esplorare l’ambiente e di utilizzare i giocattoli, da
solo o con la madre; 3) entra una persona estranea che sta in silenzio, poi parla
con la madre e quindi coinvolge il bambino in qualche gioco; 4) la madre esce,
lasciando il bambino con la persona estranea; 5) la madre rientra nella stanza,
mentre la persona estranea esce; 6) la madre esce di nuovo, lasciando però solo il
bambino nella stanza; 7) entra la figura estranea che, se necessario, cerca di
rassicurare il bambino; 8) rientra anche la madre. In questo modo è possibile
studiare sia gli atteggiamenti materni che quelli infantili, osservando come la
figura accudente, oltre a fornire protezione, costituisca una “base sicura” per
promuovere nel bambino la fiducia in se stesso necessaria per allontanarsi ed
esplorare l’ambiente, sviluppando così una progressiva autonomia. In questa
situazione si possono osservare le reazioni del bambino e della madre e, in
particolare, quanto il bambino percepisce la madre come base sicura e come
reagisce alla presenza di un estraneo e come bambino e madre reagiscono alla
separazione e al ricongiungimento.
Le varie modalità di attaccamento (Fig. 1 e Tab. 7), più che essere categorie
qualitativamente ben distinte le une dalle altre, possono essere considerate in
continuità l’una con l’altra. Questo continuum può andare da modalità

43
“organizzate”, ben compensate, bilanciate, sicure, equilibrate, integrate (pattern
B) a modalità “disorganizzate”, sbilanciate, insicure, non integrate e, quindi,
scompensate (pattern D), passando o attraverso modalità “difese”, talora con
atteggiamenti evitanti nei confronti dell’accudente (pattern A), oppure attraverso
modalità “reattive”, talora con atteggiamenti resistenti e coercitivi verso
l’accudente (pattern C).
Durante l’infanzia queste modalità non sono stabilizzate e, quindi, sono
ampiamente modificabili; d’altra parte, specie in una società complessa, le figure
accudenti che interagiscono con un bambino sono numerose fin dai primi anni di
vita. Attraverso l’insieme delle interazioni con queste figure familiari, scolastiche
e sociali, dallo stile di attaccamento emerge, nel corso dello sviluppo, lo stile
relazionale e affettivo proprio di ciascun individuo. Le varie forme di
attaccamento rimandano quindi a modalità comportamentali che, gradualmente,
nell’interazione reciproca con le figure significative, selezionano specifiche
tonalità di attivazione emozionale e di lettura cognitiva dell’esperienza, in modo
da garantire il miglior adattamento possibile (Nardi, 2001-2016).
I soggetti con attaccamento di tipo difeso ed evitante (pattern A) apprendono a
regolare deattivando il canale emotivo, per cui privilegiano il canale cognitivo
nello stabilire le relazioni con le figure significative, dato che queste rispondono
in modo negativo ai segnali emozionali: il bambino impara ad essere controllato,
cauto o inibito affettivamente, mantenendo una certa distanza e distacco dal care-
giver; sa prendersi cura dei genitori, in modo di averli con sé; si adegua alle loro
richieste e alle loro aspettative; si responsabilizza, apprende precocemente a
gestirsi anche da solo. Scopre infatti che controllando, gestendo, inibendo le
proprie emozioni e privilegiando il canale cognitivo (atteggiamento riflessivo,
responsabile, cooperativo) può ottenere attenzione, cura e affetto dalle sue figure
accudenti.
I soggetti con attaccamento di tipo reattivo, coercitivo o resistente (pattern C)
sperimentano che le figure accudenti sono sensibili ai segnali emotivi (talora
anche quelli somatici), che risultano quindi efficaci per sintonizzarle sui propri
bisogni, attirando la loro attenzione e rendendole più disponibili: il canale emotivo
viene privilegiato rispetto a quello cognitivo e attivato in caso di bisogno di
accudimento: in questi casi il bambino può piangere, protestare e fare i capricci; si
lamenta, si mostra fragile e bisognoso di conforto e cura; ricerca affetto con
atteggiamenti accattivanti, “seduttivi” ed assertivi, in modo da ottenere il massimo
accudimento possibile.
I soggetti con modalità di attaccamento bilanciato e sicuro (pattern B) imparano
ad armonizzare e ad integrare le espressioni di tipo emozionale con quelle di tipo
cognitivo, confrontandosi con figure accudenti che appaiono sostanzialmente
equilibrate, empatiche, sensibili, cosa che non riesce affatto nelle forme di

44
attaccamento più insicure e disorganizzate, nell’ambito di una reciprocità
disregolata spaventata e spaventante (pattern D).

Fig. 1. Modalità di attaccamento (modificata da Nardi, 2013)

Tab. 7. Attaccamento e selezione adattiva di canali comunicativi emozionali e/o


cognitivi (non sono riportate le modalità D in quanto esse sono sempre
espressione di un disagio psichico, più o meno marcato)
Attaccamento A Attaccamento B Attaccamento C

Atteggiamenti infantili: Atteggiamenti infantili: Atteggiamenti


infantili:

- inibiti - sicuri - capricciosi


- genitoriali - riservati - lamentosi
- compiacenti - estroversi - indifesi
- autosufficienti - accattivanti

Canale comunicativo: Canale comunicativo: Canale comunicativo:

- cognitivo - emozionale, - emozionale


cognitivo
(inibizione emozionale) (bilanciamento emozionale) (rinforzo emozionale)

Adattamento difeso Adattamento bilanciato Adattamento reattivo

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In sintesi, le emozioni regolano il legame o in modo bilanciato, o smorzandosi in
difetto (quando sono difese e distanzianti nei confronti di un care-giver che non
gradisce sollecitazioni) o amplificandosi in eccesso (quando sono coercitive e
reattive nei confronti di un care-giver che risponde solo se è sollecitato
emotivamente). La relazione con il care-giver consolida quindi specifici stili di
regolazione. In tutti i casi, il mantenimento del senso di sé, che plasma la coerenza
interna di ciascun individuo, si sviluppa all’interno dei pattern emozionali –
sperimentati in situazioni significative – nei quali il bambino ha imparato a
riconoscersi, confrontandosi con gli stati mentali delle figure genitoriali e
utilizzandoli per riferirsi l’esperienza. A livello adattivo tacito, il bambino tende a
mantenere stabili i modi abituali di sentirsi attraverso i quali si riconosce.
ATTACCAMENTO E ORGANIZZAZIONI DI PERSONALITÀ
Mediante risonanza magnetica funzionale è stato dimostrato che la gravidanza
rimodella il cervello delle donne, modificando le aree della corteccia cerebrale
(ricche di neuroni specchio che consentono di attribuire stati mentali a sé e agli
altri) che sono cruciali per accudire il figlio, percependone i bisogni e le
attivazioni emozionali. Queste modificazioni strutturali, indotte dagli ormoni,
sono ancora presenti a distanza di due anni dal parto e forniscono informazioni –
anche predittive – sulle modalità di attaccamento materno. Si tratta di
cambiamenti plastici simili alla “potatura” (pruning) dei neuroni che avviene
durante l’adolescenza, quando le connessioni neurali più deboli vengono eliminate
per potenziare altre reti neuronali più efficienti e specializzate (Hoekzema E. et
al., 2016).
Le modalità di attaccamento non consentono solo al bambino di imparare a
utilizzare il canale comunicativo (cognitivo, emozionale, somatico) che meglio
sintonizza la madre e, più in generale, chi fa da care-giver. Esse sono infatti
fondamentali per maturare competenze personali altamente evolute, in larga parte
non consapevoli (“tacite”), in modo da organizzare la propria personalità con
sufficiente continuità e stabilità, in rapporto alle caratteristiche dell’ambiente
sociale in cui si sviluppa. I processi di attaccamento mostrano che ogni esperienza
che il soggetto vive come nuova e non prevista fornisce lo stimolo stressante
(“stressor”), positivo o negativo, per le sue successive capacità di adattamento,
producendo un’attivazione interna a più livelli (neurovegetativo, muscolo-
scheletrico, neuro-immunitario oltre che, soprattutto, emozionale e cognitivo).
Un care-giver affidabile, che appare al bambino come una base sicura, non solo
sa esprimere quella empatia che consente al bambino di sentirsi accolto,
rassicurato e, quindi, incoraggiato a relazionarsi con l’ambiente, ma sa anche
dosare l’esposizione del bambino ai fattori stressanti ambientali in rapporto alle
competenze ed alle abilità che gradualmente matura. Inoltre, sa valorizzare quegli
aspetti personali che caratterizzano l’unicità del bambino, rendendo in questo

46
modo il confronto con gli altri un’opportunità per scoprire le risorse reciproche e
per potere condividere (quando è possibile) alcuni aspetti dell’esperienza, con un
conseguente arricchimento reciproco.
Attraverso una buona relazione con il care-giver il bambino può imparare a
distinguere, a riconoscere selettivamente e a fronteggiare elementi specifici
dell’ambiente, che funzionano non da stressor negativi (fattori di rischio per la
vulnerabilità individuale) ma da stressor positivi, in quanto favoriscono la
comparsa di capacità di adattamento (promuovendo la plasticità e la
specializzazione cerebrale), generando una condizione di benessere (“eustress”).
Nelle diverse specie, i processi di attaccamento consentono di maturare le capacità
operative autonome necessarie a fronteggiare gli stress primari, legati alla
sopravvivenza dell’individuo. In questo senso, i sistemi neurali dell’attaccamento
interagiscono in parallelo con i sistemi comportamentali motivazionali che
regolano la ricerca di cibo, l’agonismo, i rapporti di rango, la difesa del territorio.
Anche i Sapiens dispongono ovviamente delle risorse adattive di base (in larga
parte geneticamente determinate) per affrontare gli stress primari connessi con la
sopravvivenza individuale. Tuttavia, oltre a disporre di queste risposte, essi sono
in grado di imparare a riconoscere e gestire anche stress secondari specifici, che
attivano nuovi strumenti adattivi per regolare i rapporti intersoggettivi e le
interazioni socio-culturali. Essi, pertanto, mediante l’apprendimento di
competenze operative e speculative selettive, individuano e gestiscono in modo
specializzato i vari aspetti e contesti dell’esperienza in cui si vengono a trovare.
Ciò avviene nella direzione specularmente opposta alla polarità negativa dello
stressor in riferimento al quale ci si organizza: in una OPF Controllante il senso
di pericolo, in una OPF Distaccata quello di solitudine, in una OPS
Contestualizzata quello di giudizio negativo, in una OPS Normativa quello di non
fare il proprio dovere. In conseguenza di queste capacità, il bambino inizia a
sviluppare un suo repertorio, altrettanto specifico, di rappresentazioni interne, di
attivazioni affettive, di processi cognitivi e di comportamenti, che gli permette di
gestire con crescente competenza anche le situazioni stressanti significative di
secondo livello che ha imparato a riconoscere attraverso le figure che ha preso
come care-giver di riferimento.
Organizzazioni di Personalità a reciprocità Fisica (OPF)
La messa a fuoco abituale di stress specifici da pericolo (quando una situazione
appare non gestibile e controllabile) o di stress specifici da solitudine (quando non
si hanno a disposizione aiuti diretti e indiretti) attiva la ricerca della disponibilità
di aiuto da parte di riferimenti affettivi affidabili (“basi sicure”) o la messa in atto
delle risorse personali per gestirsi in modo autonomo. In entrambi i casi, la
reciprocità viene costruita prevalentemente sul registro fisico (presenza o assenza,
vicinanza o lontananza, disponibilità o indisponibilità; affidabilità o
inaffidabilità). In questo modo si sviluppano le Organizzazioni di Personalità a

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reciprocità Fisica: OPF (Fig. 2abcde; Tab. 8).
Pertanto, nelle OPF, la relazione di attaccamento è regolata, a livello tacito, su
parametri fisici quali vicinanza o lontananza, affidabilità o non affidabilità,
gestibilità di una situazione in modo autonomo o ricorrendo ad un aiuto esterno.
Nei Sapiens, da un punto di vista filogenetico e ontogenetico, le OPF sono state
verosimilmente le prime a comparire, assicurando la ricerca di riferimenti
affidabili, quando ci sono, o di autonomia, quando essi non sono disponibili
(Nardi, 2007-2016).
Nel corso dello sviluppo di una OPF, i comportamenti della figura accudente
appaiono ripetersi con costanza nelle stesse situazioni – sotto forma di attivazioni
interne sovrapponibili, espresse con le stesse emozioni di base – per cui questi
stressor specifici diventano presto per un bambino “prevedibili” e portano ad un
riconoscimento tacito precoce dei suoi stati interni utilizzati per riferirsi
l’esperienza contingente. L’esperienza immediata viene letta tacitamente a partire
dalle proprie senso-percezioni e attivazioni emozionali (benessere/malessere
interno, tranquillità/paura); lo sviluppo affettivo è centrato sulle emozioni di base
(sperimentate prima di operare una valutazione cognitiva del proprio
comportamento in relazione al contesto esterno); il canale fisico e quello
emozionale vengono privilegiati facendo da guida a quello cognitivo; le
attivazioni interne sono utilizzate sul versante comportamentale per regolare
l’esplorazione dell’ambiente, i rapporti affettivi e le relazioni sociali,
rimodulando di conseguenza la propria distanza rispetto al contesto esterno. Ogni
cambiamento significativo produce una attivazione interna, positiva o negativa,
che attiva una risposta adattiva di regolazione. Proprio i segnali interni spingono il
soggetto ad attivare ulteriori sforzi per gestire il persistere di malessere o farli
cessare quando prova benessere nel nuovo equilibrio raggiunto. Pertanto, in questi
processi taciti, lo stato interno segnala il raggiungimento di un nuovo equilibrio
adattivo.

Fig. 2a. Attaccamento e Organizzazioni di Personalità a reciprocità Fisica

48
Quando in un ambiente a reciprocità Fisica il bambino può accedere al care-giver
ogni volta che avverte un bisogno interno di affetto e protezione (a prescindere dal
fatto che la risposta accudente sia positiva o negativa), si sviluppa una relazione di
attaccamento “disponibile”, sia nel tempo, situazione dopo situazione
(attaccamento “on-line”), sia nello spazio, ogni volta che cambia il contesto
(attaccamento “vicino”, “a briglia corta”). Maturano in questo modo le OPF
“Controllanti”, che hanno come specializzazione adattiva la capacità di gestire
situazioni di pericolo, utilizzando il legame come vincolo/risorsa.
Quando in un ambiente a reciprocità Fisica il bambino può accedere al care-giver
solo di tanto in tanto, questo appare distaccato e non sincrono rispetto ai suoi
bisogni interni contingenti di affetto e protezione (a prescindere dal fatto che la
risposta accudente sia positiva o negativa) e si sviluppa una relazione di
attaccamento “poco disponibile” sia nel tempo, dato che il care-giver interviene
solo quando lo ritiene necessario, a prescindere dalle richieste dell’accudito
(attaccamento “off-line”), sia nello spazio, dato che il care-giver opera un
controllo a distanza, senza necessariamente intervenire (attaccamento “distante”,
“a briglia lunga”). In questi casi si sviluppano le OPF “Distaccate”, che hanno
come specializzazione adattiva la capacità di gestire situazioni di solitudine,
utilizzando il distacco come vincolo/risorsa.
Organizzazioni di Personalità a reciprocità Semantica (OPS)
La messa a fuoco abituale di stress specifici da giudizio (attraverso il confronto
con gli altri) o di stress specifici da dovere (quando è richiesto di rispettare regole
e criteri, in quanto buoni e giusti) attiva la ricerca della disponibilità di
approvazione da parte di riferimenti affettivi affidabili (“basi sicure”) o la messa
in atto delle risorse personali per fare ciò che si sente come proprio dovere. In
entrambi i casi, la reciprocità viene costruita prevalentemente sul registro
semantico (centrato sulle indicazioni date o ricavate indirettamente dai riferimenti
significativi). In questo modo si sviluppano le Organizzazioni di Personalità a
reciprocità Semantica: OPS (Fig. 2abcde; Tab. 8).
Pertanto, nelle OPS, la relazione di attaccamento è regolata, a livello tacito, su
parametri semantici quali approvazione o disapprovazione, apprezzamento o
critiche, adesione o meno a valori e regole da seguire. Da un punto di vista
filogenetico e ontogenetico, nei Sapiens l’espressione delle OPS richiede di
maturare in un contesto sociale complesso, in cui viene privilegiata l’attenzione ai
segnali relazionali (Nardi, 2007-2016).
Nel corso dello sviluppo di una OPS, i comportamenti della figura accudente
appaiono variabili a seconda del contesto esterno o dipendenti dal rispetto di
certe regole piuttosto che dal farsi condizionare in primo luogo da bisogni e
segnali interni, per cui gli stressor specifici costituiti dagli atteggiamenti accudenti
appaiono inizialmente per un bambino “poco prevedibili” e lo inducono ad una
prioritaria attenzione tacita per l’ambiente esterno, che viene quindi utilizzato

49
precocemente per regolare e decodificare gli stati interni nel riferirsi l’esperienza.
L’esperienza immediata viene letta tacitamente a partire dalle senso-percezioni e
dalle attivazioni emozionali modulate dai segnali esterni (ad es., soddisfazione /
pentimento, orgoglio / vergogna); lo sviluppo affettivo è centrato sulle emozioni
sociali (attivate sulla base della valutazione cognitiva del proprio comportamento
in relazione al contesto esterno); il canale fisico e quello emozionale vengono
costantemente verificati mediante quello cognitivo; i segnali esterni sono utilizzati
sul versante comportamentale per regolare le interazioni con l’ambiente, i
rapporti affettivi e le relazioni sociali, rimodulando di conseguenza le attivazioni
interne.
Ogni cambiamento esterno significativo produce una attivazione interna, positiva
o negativa, che attiva una risposta adattiva di regolazione di adeguamento ai
cambiamenti esterni. Proprio l’efficacia di questo adeguamento spinge il soggetto
ad attivare ulteriori sforzi per gestire il persistere di malessere o farli cessare
quando prova benessere nel nuovo equilibrio raggiunto. Pertanto, in questi
processi taciti, i messaggi esterni regolano lo stato interno nella ricerca di un
nuovo equilibrio adattivo.

Fig. 2b. Attaccamento e Organizzazioni di Personalità a reciprocità Semantica

Quando in un ambiente a reciprocità Semantica il bambino può accedere al care-


giver ogni volta che avverte un bisogno di reciprocità e di scambi comunicativi (a
prescindere dal fatto che la risposta accudente sia positiva o negativa), si sviluppa
una relazione di attaccamento “disponibile”. Questa disponibilità si verifica sia
nel tempo, situazione dopo situazione (attaccamento “on-line”), sia nello spazio,
mediante consigli e indicazioni forniti ogni volta che cambia il contesto
(attaccamento “vicino”, “a briglia corta”).

50
Maturano in questo modo le OPS “Contestualizzate”, che hanno come
specializzazione adattiva la capacità di gestire situazioni di giudizio esterno,
utilizzando il consenso come vincolo/risorsa.
Quando in un ambiente a reciprocità Semantica il bambino non può accedere al
care-giver ogni volta che avverte un bisogno di reciprocità e di scambi
comunicativi (a prescindere dal fatto che la risposta accudente sia positiva o
negativa), dato che la figura accudente appare disponibile solo in determinate
circostanze e propone una reciprocità parca e misurata, responsabilizzando al
rispetto delle regole e dei valori indicati come importanti, si sviluppa una
relazione di attaccamento “poco disponibile”. Questa limitata disponibilità si
verifica sia nel tempo, mediante interventi educativi fatti solo quando se ne ritiene
la necessità, a prescindere dalle richieste del bambino, definendo modelli
comportamentali da rispettare sempre (attaccamento “off-line”), sia nello spazio,
attraverso una vigilanza a distanza, sorvegliando che il bambino si adegui alle
richieste fatte senza intervenire volta per volta (attaccamento “distante”, “a
briglia lunga”). Maturano in questi casi le OPS “Normative”, che hanno come
specializzazione adattiva la capacità di gestire situazioni di dovere (nel senso di
fare ciò che è giusto), utilizzando le regole come vincolo/risorsa.

Fig. 2c. Attaccamento a reciprocità Fisica e Semantica e Organizzazioni di


Personalità (OP)

51
Fig. 2d. Attaccamento on-line e off-line e Organizzazioni di Personalità (OP)

Fig. 2e. Processi di Attaccamento e Organizzazioni di Personalità (OP)

52
Tab. 8. Come i processi evolutivi individuali si organizzano attraverso
l’esperienza dell’attaccamento in Organizzazioni di Personalità (OP)
Organizzazioni di Personalità a reciprocità Fisica (OPF)
- Esperienza immediata letta tacitamente a partire dalle proprie senso-percezioni e
attivazioni emozionali (ad es., benessere/malessere interno, tranquillità/paura)
- Sviluppo affettivo centrato sulle emozioni di base (attivate prima di operare una
valutazione cognitiva del proprio comportamento in relazione al contesto esterno)
- Attivazioni interne utilizzate sul versante comportamentale per regolare
l’esplorazione dell’ambiente, i rapporti affettivi e le relazioni sociali,
rimodulando di conseguenza la propria distanza rispetto al contesto esterno
1. “On-Line”: Organizzazioni Controllanti (OPFC)
Specializzazione adattiva: rispondere e gestire lo stress da pericolo
Risorsa personale: individuare e gestire contesti e figure affidabili/non affidabili
2. “Off-Line”: Organizzazioni Distaccate (OPFD)
Specializzazione adattiva: rispondere e gestire lo stress da solitudine
Risorsa personale: sviluppare l’autonomia e individuare le situazioni in cui
utilizzarla per sé e renderla disponibile per condividerla con altri

Organizzazioni di Personalità a reciprocità Semantica (OPS)


- Esperienza immediata letta tacitamente a partire dalle senso-percezioni e
attivazioni emozionali modulate dai segnali esterni (ad es.,
soddisfazione/pentimento, orgoglio/vergogna)
- Sviluppo affettivo centrato sulle emozioni sociali (attivate sulla base della
valutazione cognitiva del proprio comportamento in relazione al contesto esterno)
- Segnali esterni utilizzati sul versante comportamentale per regolare le interazioni
con l’ambiente, i rapporti affettivi e le relazioni sociali, rimodulando di
conseguenza le attivazioni interne
1. “On-Line”: Organizzazioni Contestualizzate (OPSC)
Specializzazione adattiva: rispondere e gestire lo stress da giudizio esterno
Risorsa personale: leggere (e prevedere) aspettative esterne e risultati
conseguibili, promuovendo le proprie risorse e individuando i contesti in cui
possono essere condivisi
2. “Off-Line”: Organizzazioni Normative (OPSN)
Specializzazione adattiva: rispondere e gestire lo stress da dovere (= fare ciò che
è giusto)
Risorsa personale: individuare e perseguire valori e linee guida esistenziali,
verificando i contesti relazionali con cui si possono condividere e promuovere

53
Come si è detto nel 1 Capitolo, analogamente a quanto avviene per le
caratteristiche fisiche ereditate geneticamente sia della linea paterna che materna,
anche a livello psichico un bambino – che ha genitori (o eventuali altri care-giver)
con Organizzazioni di Personalità diverse – presenta una OP “Combinata”, con
aspetti propri di due o più OP. Anzi, nel mondo contemporaneo, in cui ogni
bambino entra a contatto precocemente con una ampia rete relazionale, è quasi la
regola osservare OP Combinate. Da questo punto di vista, la descrizione di modi
individuali di funzionare facendo riferimento esclusivo ad un’unica OP
rappresenta più un modello teorico, utile a fini didattici, piuttosto che
corrispondente all’esperienza della vita reale delle persone. Si tende tuttavia a
parlare di individui con una determinata OP quando è ampiamente prevalente quel
tipo di chiusura organizzativa, per cui fare riferimento a quel dato modo di
assimilare e di riferirsi l’esperienza appare non solo giustificato, ma anche
efficace sul piano clinico e terapeutico per comprendere il funzionamento interno
di quel soggetto. D’altra parte, anche negli individui in cui è più evidente la co-
presenza di due o più modalità organizzative – il che consente di parlare in modo
esplicito di una OP Combinata – il senso di sé risulta comunque unitario, in
quanto esiste sempre una componente prioritaria che riordina e canalizza gli
aspetti propri dell’altra (o delle altre) OP presenti. Inoltre, nel corso della vita e a
seconda delle esperienze affrontate e delle competenze acquisite, il rapporto tra
queste modalità organizzative dell’esperienza può mutare anche sensibilmente. Ad
esempio, un tema contestualizzato di adeguatezza può fare da base, integrandolo,
ad uno controllante di pericolosità del mondo: la pericolosità del mondo
tacitamente modula e regola l’esposizione a situazioni in cui la propria
adeguatezza può essere messa alla prova da giudizi esterni. Oppure, un tema
controllante può essere gestito tramite un tema contestualizzato di giudizio, che
consente di prendere le distanze da ciò che spaventa a livello tacito: si può evitare
una situazione pericolosa e delimitare gli spazi di libertà gestibili in prima persona
spiegandosi che non è bene andare in posti dove si può essere giudicati da persone
malevole, invidiose e ostili. Per fare altri esempi, un tema controllante di minaccia
può integrare un tema normativo di giustizia (si può non temere gli altri se ci si
comporta bene) o un tema distaccato di solitudine (stringere troppo i rapporti con
una persona comporta un rischio eccessivo che è bene evitare).

DALL’ATTACCAMENTO ALLO STILE RELAZIONALE


Come si è visto, l’attaccamento ha un valore adattivo fondamentale consentendo,
fin dalle prime fasi di vita, di ottenere l’accudimento genitoriale, di modulare
progressivamente il proprio repertorio comportamentale e di far emergere la
coscienza di sé. La spinta adattiva per ottenere il massimo accudimento possibile
seleziona i modi di costruire il rapporto con il care-giver. Ovviamente, anche i
segnali del bambino orientano il comportamento della figura accudente, la quale

54
risponde ad essi in base alle tonalità soggettive di cui dispone. Gradualmente,
attraverso l’interazione con le figure significative, le varie forme di attaccamento
selezionano specifiche tonalità di attivazione emozionale e di lettura cognitiva
dell’esperienza. Pertanto, senza che ne siano in larga parte consapevoli, alcuni
bambini imparano che solo se reprimono le loro emozioni e se utilizzano il canale
cognitivo (responsabilizzandosi, facendo “i grandi” o “i bravi”, collaborando,
prendendosi cura dei loro genitori o rendendosi precocemente autonomi) possono
ottenere attenzione ed affetto dalle figure accudenti (“stile cognitivo”,
caratteristico delle modalità di attaccamento “difese” A). In contesti relazionali
diversi, altri bambini imparano ad utilizzare prevalentemente il canale emozionale
(con atteggiamenti affettuosi e accattivanti oppure capricciosi e oppositivi, a volte
anche attraverso manifestazioni di fragilità), se questo consente loro di
sintonizzare l’attenzione del care-giver sui propri bisogni, ottenendo il massimo
accudimento possibile (“stile emozionale”, caratteristico delle modalità di
attaccamento “reattive” C). In altri casi ancora, infine, è il bilanciamento tra
espressioni emozionali e gestione cognitiva a favorire l’accudimento genitoriale
(“stile bilanciato”, proprio delle modalità di attaccamento “bilanciate” B).
In tutti gli stili di attaccamento, la spinta adattiva ad ottenere il massimo
accudimento possibile guida in maniera prevalentemente non consapevole il modo
di costruire il rapporto con le figure accudenti. Attraverso questi processi, il
bambino inizia a farsi una propria idea di sé e del mondo, come le due facce di
un’unica coscienza della realtà, che poi verifica e aggiorna, man mano che amplia
le sue relazioni sociali. In proposito, già Michel de Montaigne (1580, pp. 204-
205) aveva osservato che “le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla
natura, nascono dalla consuetudine: ciascuno infatti, venerando intimamente le
opinioni e gli usi approvati e acquisiti intorno a lui, non può disfarsene senza
rimorso né conformarvisi senza soddisfazione”. Come hanno sottolineato
Lambruschi, Lenzi e Leoni (2004, p. 43), il senso di sé emerge e si stabilizza
attraverso i processi interni di organizzazione che sono attivati dall’attaccamento e
che consentono di ordinare le singole percezioni in modo coerente e unitario,
dando così una coerenza d’insieme ed una continuità nel tempo anche
all’esperienza soggettiva consapevole: “il Sé rappresenta un modello invariante di
esperienza attraverso il quale i processi psicologici si organizzano: esso ci
consente un’esperienza soggettiva organizzatrice che dà alle nostre percezioni,
altrimenti frammentate e incoerenti, un senso di coerenza e di unità. Senza tali
capacità di ordinamento soggettivo non saremmo in grado di porre una
distinzione tra noi stessi e gli altri e tra noi stessi e il mondo, e non potremmo
renderci conto della continuità della nostra esperienza nel tempo. La
caratteristica di tutti i primati è quella di vivere in un contesto sociale
estremamente complesso che ha trasformato il mero ambiente fisico in un mondo
intersoggettivo, una dimensione di realtà in cui il riconoscimento reciproco e la

55
differenziazione diventano essenziali per la vita stessa; in cui, fin dai primi
momenti di vita, l’individuo è in continua interazione con gli altri significativi e la
sua esperienza è costituita da queste interazioni”.
Attraverso lo studio dell’attaccamento si può comprendere che i processi di
costruzione del sé sono integrati tra loro in modo unitario, utilizzando in via
preferenziale gli stessi comportamenti e le stesse reazioni in situazioni e contesti
simili. Inoltre è possibile mettere a fuoco come la coscienza emerge attraverso la
relazione multisensoriale e psico-motoria con le figure significative, a partire dallo
sguardo e dalla espressività non verbale, come ha osservato Ciglia sviluppando
alcune intuizioni sul volto del “nuovo pensiero”, da Rosenzweig a Levinas, e di
Edith Stein. Osserva Francesco P. Ciglia (2010, pp. 91-94): “il volto umano è la
soglia e la porta d’ingresso dell’universo della parola. La sua prima apparizione
al cospetto dell’essere umano neo-nato innesca in lui il processo della
rigenerazione, della trasfigurazione e dell’illuminazione della sua animalità
nell’orizzonte della parola. Il volto umano si presenta sempre, all’origine, nella
modalità del volto altrui. Esso assume inizialmente dei lineamenti spiccatamente
materni (…) Lungo la strada del progressivo venire alla luce del volto altrui,
l’essere umano da poco venuto alla luce vive la prima ed insostituibile esperienza
dell’essere riconosciuto e dell’essere amato da altri. Quest’esperienza costituirà
(…) la condizione imprescindibile di possibilità e, insieme, l’avvio di
un’interrogazione sul senso che terrà impegnato l’essere umano lungo l’intero
arco della sua esistenza (…) Il filo che collega, in una relazione duale
strettissima, l’essere umano neo-nato con il volto altrui – con il volto materno – è
destinato a dilatarsi, a moltiplicarsi e a trasformarsi progressivamente in una rete
relazionale molto più ampia, che si popolerà gradualmente di una gamma,
virtualmente infinita di altri volti, dalla fisionomia reciprocamente differenziata.
Questi volti si costituiranno come i nodi sinaptici fondamentali che scandiscono
regolarmente ed incessantemente tutti i punti di intersezione dei fili che
costituiscono la rete in questione”. D’altra parte, nella dinamica tra processi
affettivi e processi cognitivi, come osserva ancora Ciglia (2017, p. 145), “nel
corso delle più profonde esperienze umane dell’amore – ricevuto in dono da altri
o ridonato ad altri – la domanda sul senso, certamente non a caso, si spegne
totalmente, avendo trovato una risposta assolutamente inequivocabile. Ma il
mistero, tuttavia, resta. Le esperienze dell’amore, infatti, sono sempre
estremamente fragili, discontinue, ambigue, costantemente esposte alla messa in
discussione, alla falsificazione, alla negazione”. Un bambino nasce con potenziali
risorse e fragilità, legate alla sua costituzione e, quindi, al suo patrimonio
genetico. Fin dall’attaccamento antenatale, inizia a interagire con l’ambiente, che
è costituito dalla madre e, dopo la nascita, da tutte le figure significative (“care-
givers”) che si occupano del suo accudimento. La complessità del cervello dei
Sapiens consente quella plasticità che lo rende capace di adattare a sé l’ambiente

56
come avviene in nessuna altra specie: per raggiungere questo scopo, è necessario
partire da uno stato iniziale di “immaturità” tale da consentire innumerevoli
percorsi maturativi e compiere un lungo periodo di apprendimento cognitivo,
motivato e condizionato dagli scambi affettivi con le figure significative. Questa
interazione, reciproca – che influenza anche l’accudente oltre che, soprattutto,
l’accudito – fa sì che quest’ultimo tenda ad esprimere quegli atteggiamenti e ad
attivare quei comportamenti che gli consentono il migliore attaccamento possibile
e il massimo di cure di cui ha bisogno; al tempo stesso, attraverso le risposte del
care-giver con cui interagisce, inizia a costruire la sua identità.
La consapevolezza di essere un tutto (“individuo” = non divisibile) staccato
dall’ambiente emerge dalla graduale scoperta e stabilizzazione di cosa prova e, di
conseguenza, di chi è e cosa può iniziare ad aspettarsi dagli altri e dalle situazioni
di cui fa esperienza. È come se, fin dai primi giorni di vita, ogni bambino fosse
inserito in un “set” di un serial, in un dato ambiente previsto dalla sceneggiatura
familiare, che gli affida un certo ruolo che deve iniziare a interpretare a modo suo,
con le risorse di cui dispone. Così, giorno dopo giorno, il bambino entra sempre
più “nella parte” e ci si identifica. Da questo punto di vista, l’ambiente condiziona
l’espressione delle risorse soggettive, tanto che ogni individuo inizia a vedersi nel
ruolo che gli è stato e si è ritagliato, con una parziale consapevolezza delle risorse
potenziali di cui dispone e che, se fosse cresciuto in un altro potenziale set
(ambiente relazionale), avrebbe potuto esprimere in modo anche molto diverso.
Il fatto di identificarsi in ciò che si è imparato a sperimentare di sé è evidente nelle
patologie psichiche, nelle quali l’individuo si sente più o meno rigidamente
vincolato o ingabbiato nel suo “personaggio”, non solo nel presente ma anche nel
futuro, utilizzando la sua storia come se coincidesse con le sue risorse, per cui si
rassegna a non cercare altre letture di ciò che è accaduto e non vede altre modalità
di riferirsi ciò che è successo, stabilizzando così coloriti affettivi, atteggiamenti,
comportamenti e scelte non funzionali. Queste considerazioni fanno comprendere
l’importanza del ruolo educativo (genitoriale ma non solo) per consentire ad un
bambino di “tirare fuori” (“ex ducere”) le proprie risorse anche quando sente – e
quindi pensa – di non averle (facendo coincidere errori ed eventi negativi con un
fallimento personale). In situazioni di disagio, gli interventi per favorire la crescita
personale devono essere rivolti anche alle figure accudenti, che altrimenti
continuano ad occuparsi del bambino con i limiti e i problemi che non hanno
potuto mettere a fuoco e risolvere.
Facendo riferimento allo sviluppo delle Organizzazioni di Personalità (OP), esse
iniziano a maturare fin dalla prima infanzia, per poi stabilizzarsi gradualmente.
Nelle OPF Controllanti gli investimenti relazionali e, soprattutto, quelli affettivi
sono attivati, sia precocemente sia in fasi più mature, attraverso messe alla prova
tacite rispetto al bisogno interno di sentirsi garantiti/te in modo affidabile sia sul
piano della protezione che su quello della libertà. Altre volte, invece, la ricerca di

57
nuovi orizzonti per esprimere le proprie capacità operative spinge a non operare
investimenti affettivi stabili precoci o ad allontanarsi dall’ambito familiare;
quest’ultimo, tuttavia, anche se si vive molto lontano, resta comunque un
riferimento, al quale, prima o poi, si tende a fare ritorno. In tutti i casi, gli
investimenti relazionali significativi sono guidati tacitamente dalla ricerca e dal
riscontro di affidabilità e di disponibilità in sintonia con gli stati interni.
Ovviamente i legami che sono percepiti più affidabili (se non sul piano operativo,
almeno su quello affettivo) restano quelli “di sangue”. L’affidabilità e la
disponibilità rispetto ai bisogni interni percepiti guida la selezione e il
mantenimento dei rapporti amicali sui quali si può contare. Analogamente,
quando si avverte la necessità di costruire un rapporto affettivo, l’alleanza di
coppia, attraverso le messe alla prova, è costruita tacitamente sul riscontro di una
figura che tiene al bene del soggetto, come viene ricavato dal fatto che essa è
presente e si attiva quando occorre, ma sa anche rispettare il bisogno del soggetto
di godere di propri spazi personali.
Nelle OPF Distaccate gli investimenti relazionali significativi sono guidati
tacitamente dalla ricerca e dal riscontro di affidabilità, responsabilità e costanza,
prima che di calore emotivo. L’alleanza di coppia, sulla base delle messe alla
prova, è costruita tacitamente sul riscontro di una figura stabilmente affidabile,
che tiene a stare con il soggetto apprezzandone l’autonomia, che lo/la accetta così
com’è senza chiedergli/le di cambiare e che questa disposizione è duratura e non
contingente e transitoria.
Nelle OPS Contestualizzate gli investimenti relazionali significativi sono guidati
tacitamente dalla ricerca e dal riscontro di apprezzamento, amabilità e importanza
personale ricavati dai segnali delle figure percepite come significative. L’alleanza
di coppia, sulla base delle messe alla prova, è costruita tacitamente sul riscontro
dell’apprezzamento da parte di una figura che è disponibile e capace di dare le
conferme alle quali il soggetto tiene e sulle quali investe, così come sa
gradualmente accettare o quanto meno tollerare le fragilità e le carenze che viene
man mano scoprendo, quanto più l’aumento di intimità di coppia porta il soggetto
ad abbassare le difese e ad esporsi più spontaneamente per ciò che è.
Nelle OPS Normative gli investimenti relazionali significativi sono guidati
tacitamente dalla ricerca e dal riscontro di condivisione di un progetto di vita in
accordo con i valori percepiti come giusti e irrinunciabili. L’alleanza di coppia è
costruita tacitamente sul riscontro di una figura che è disponibile e capace di
condividere, anche nell’unione di coppia, i valori di fondo che il soggetto vive
come importanti (“legami ideali”), al termine di un percorso piuttosto lungo in cui
il soggetto mette alla prova sia sé che l’altro/a, per essere sufficientemente
sicuro/a che entrambi possano rispettare l’assunzione di responsabilità che il
volersi bene e il condividere un progetto comune comportano.

58
In definitiva, in ciascuna OP, a partire dai processi che si attivano attraverso le
relazioni di attaccamento prendono le mosse tutti i successivi rapporti della vita.
Lo stile di attaccamento gradualmente dà forma allo stile relazionale e a quello
affettivo (più o meno attivo o passivo, vincente o remissivo, ecc.). Questo stile
può essere espresso in maniera equilibrata e sicura se i processi che si dispiegano
a partire dalla relazione di attaccamento consentono di dare sicurezza alla
costruzione dell’identità e di demarcarla in maniera sufficiente senza confonderla
con i bisogni, le richieste e i modi di funzionare degli altri: la scoperta di sé e
quella dell’altro vanno di pari passo. Non si possono avere rapporti maturi con il
proprio mondo interno se non lo sono quelli con il mondo esterno e viceversa,
così come non si può amare autenticamente gli altri se non si riesce ad accettare la
propria unicità, valorizzandola attraverso le risorse di cui si dispone. Quando non
si riceve amore nei rapporti significativi (nemmeno se in forma indiretta o da altre
figure, oltre quelle genitoriali) è difficile – ma, fortunatamente, è comunque
possibile – darlo a sé e agli altri. Per far emergere queste potenzialità adattive è
fondamentale instaurare una relazione attenta alle modalità di attaccamento e ai
canali comunicativi che il soggetto utilizza nella costruzione del senso di sé.
Infatti, la rappresentazione del mondo interno e di quello esterno, che fa da base
all’identità, nasce da come il soggetto impara a sentirsi attraverso l’altro.
Nelle trame narrative individuali, le relazioni di attaccamento continuano a
svilupparsi e a rimodellarsi tutta la vita; persino quando una relazione si
interrompe all’esterno, essa resta attiva nel dialogo interno. Attraverso
l’attaccamento l’individuo scopre la sua unicità e costruisce l’identità, con i ruoli
sociali ad essa connessi ed avvia la sua ricerca di senso. Sulle criticità emotive
prodotte si può lavorare in psicoterapia per indurre il cambiamento. Negli sviluppi
fisiologici, partendo dalle risorse personali scoperte attraverso le figure
significative, la ricerca di senso genera autonomia e fiducia nei propri mezzi,
aiutando a confrontarsi costruttivamente con gli stress della vita e aprendo a nuovi
percorsi e a nuove relazioni, memori di dove si è partiti. Prendendo come
riferimento metaforico l’Odissea omerica, Odisseo (“Ὀδυσσεύς”, in latino Ulixes,
Ulisse), dimentico del passato si sente “nessuno” (“οὐδείς”) nella dimensione
senza tempo dell’isola di Calipso (da “καλύπτω” = nascondo) ma, partendo dal
desiderio di riscoprirsi uomo con la sua identità, ritorna alle sue radici (“νόστος”,
“nostos”), si rimette in viaggio (“ὁδός”), affronta le difficoltà e approda infine alla
sua terra ed ai suoi affetti (Itaca, Penelope, Telemaco), nuovo punto di partenza
nel viaggio dell’esistenza, con una diversa e più matura consapevolezza di sé.

59
PROCESSI AFFETTIVI, COGNITIVI E STILE RELAZIONALE

PROCESSI AFFETTIVI E COGNITIVI


Le risorse affettive e cognitive si sviluppano in modo strettamente connesso tra
loro, per cui in condizioni fisiologiche il soggetto ricava dall’insieme dei suoi
processi psichici un senso di unitarietà e di coerenza personale.
L’integrazione tra emozioni e sentimenti, da un lato, e capacità logico-analitiche
razionali, dall’altro, sia a livello di conoscenza tacita che esplicita, consente
quell’espressione unitaria dell’attività psichica che è la coscienza di sé.
Senza i processi affettivi non sarebbero possibili non solo i fenomeni culturali in
senso lato, ma anche le diverse espressioni artistiche, le quali hanno una risonanza
emozionale prima ancora che razionale. Passione e ragionamento, spontaneità e
riflessione raggiungono un equilibrio originale in ogni attività creativa, come
osservava Nietzsche a proposito della tragedia greca, pur accentuandone
chiaroscuri e contrapposizioni (1871, I, 1): “avremo giovato molto alla scienza
estetica quando saremo giunti non solo al riconoscimento logico, ma anche
all’immediata sicurezza dell’intuizione la quale ci dice che lo sviluppo dell’arte è
legato al duplice elemento dell’apollineo e del dionisiaco; così come la
generazione dipende dalla dualità dei sessi in incessante lotta fra loro e che solo
periodicamente si riconciliano. Questi nomi li prendiamo in prestito dai greci, i
quali rendono percepibili all’intelligenza le profonde dottrine della loro visione
estetica non già per il mezzo di concetti astratti, ma con raffigurazioni chiare ed
incisive della mitologia. Alle loro due divinità che simboleggiavano l’arte, Apollo
e Dioniso, si riallaccia la nostra teoria, che nel mondo greco esiste un contrasto,
enorme per l’origine e i fini, fra l’arte plastica, cioè l’apollinea, e l’arte non
plastica della musica, cioè la dionisiaca; questi due istinti così diversi camminano
l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio, stimolandosi reciprocamente
a sempre nuove e più gagliarde reazioni per perpetuare in sé incessantemente la
lotta di quel contrasto, su cui la comune parola di ‘arte’ getta un ponte che è solo
apparente: finché in ultimo, riuniti insieme da un miracolo metafisico prodotto
dalla ‘volontà’ ellenica, essi appaiono finalmente in coppia e generano in
quest’accoppiamento l’opera d’arte della tragedia attica, che è tanto dionisiaca
quanto apollinea”.
Nel corso dello sviluppo, come si è detto, a partire dalla relazione di attaccamento
con le figure accudenti ciascun individuo impara a privilegiare quelle modalità, a
maggiore o minore espressione emozionale o cognitiva, che consentono la
migliore prossimità e reciprocità possibile. Pertanto, in alcuni contesti relazionali
il bambino impara ad adattarsi depotenziando il canale emozionale a vantaggio di
quello cognitivo, mentre in altri impara a fare il contrario. Ovviamente, tra i due

60
estremi, esiste un continuum di contesti intermedi nei quali i due canali trovano
una possibilità espressiva più bilanciata.
Inoltre, l’espressione delle funzioni affettive e cognitive è orientata dalla
costruzione dell’Organizzazione di Personalità (OP), Fisica o Semantica,
all’interno della quale queste funzioni sono fondamentali nel definire la qualità
dell’esperienza in corso, a livello sia tacito che esplicito.
Esiste quindi una costante interdipendenza tra sviluppo affettivo e cognitivo, che
fa da base a qualunque esperienza soggettiva. Quando l’individuo ha la possibilità
di scoprire il proprio mondo interno e quello dell’altro in modo sereno ed
equilibrato, può passare dallo stile affettivo di dipendenza, caratteristico delle
prime fasi della vita, allo stile affettivo possessivo, proprio dell’infanzia, senza
arrestarsi a questa fase ma progredendo ulteriormente verso lo stile affettivo
dialettico propriamente maturo: infatti solo quest’ultimo può cogliere, accanto al
proprio punto di vista e ai propri bisogni, anche quelli dell’altro.
In questo itinerario di sviluppo si può apprendere che voler bene è – anche –
volere il bene dell’altro e non solo il proprio, come ricordava Cesari (1995, p.
117): “osservando, anche senza approfondimenti particolari, gli organi della
sessualità ci rendiamo conto della complementarietà del femminile e del
maschile. Il che porta a dire, a qualsiasi indirizzo sociologico, clinico, scolastico
si possa appartenere, che la natura umana a causa del fatto che è sessuata è
relazionale. La sessualità è prima di tutto ed essenzialmente relazione. Non
esistono gesti, comportamenti, funzioni umane che si realizzano a prescindere da
questa relazionalità che, sia da un punto di vista biologico che da un punto di
vista psicologico ed esistenziale, si esprime proprio partendo dalla osservazione
di base della natura umana sessuata. Se, come si è detto, educazione sessuale è
educazione alla relazione, inevitabilmente si scopre l’importanza dell’altro, ci si
rende conto cioè che educazione sessuale è educazione alla scoperta dell’altro, è
educazione alla scoperta che noi siamo importanti per l’altro. Il concetto della
reciprocità nella sessualità agita è fondamentale per proporre il rapporto tra
persone, che si considerano reciprocamente alla pari in termini di dignità … Solo
nella relazione, nell’interazione con l’altro, l’individuo assume le proprie
capacità espressive nella loro pienezza e l’altro assume le sue capacità espressive
nella loro pienezza. Quindi, l’educazione sessuale è educazione alla relazione,
educazione all’altro, alla scoperta dell’altro e alla scoperta dell’importanza di
noi stessi per l’altro”.
Solo in questo modo, come osservava Saint-Exupéry (1999, p. 150), è possibile
“non confondere l’amore col delirio del possesso, che causa le sofferenze più
atroci. Perché contrariamente a quanto comunemente si pensa, l’amore non fa
soffrire. Quello che fa soffrire è l’istinto della proprietà, che è il contrario
dell’amore”.

61
PROCESSI AFFETTIVI
I processi affettivi danno il colorito soggettivo all’esperienza di ogni individuo e
ai suoi contenuti di coscienza, rivestendo un ruolo adattivo fondamentale.
Attraverso l’attaccamento, le attivazioni affettive iniziano ad essere integrate tra
loro e confrontate con quelle memorizzate in precedenza. L’insieme di questi
processi rende continua l’esperienza, dando forma nel tempo allo stile relazionale
individuale.
Fin dalle fasi più precoci dello sviluppo, quando le funzioni cognitive sono ancora
rudimentali, le sensazioni, le percezioni e le attivazioni affettive orientano le
modalità di contatto con l’ambiente e le risposte comportamentali, che si
esprimono con schemi senso-motori, prima generali e poi sempre più specifici,
sulla base della maggiore o minore consonanza che hanno rispetto alla coerenza
interna del soggetto.
Come si è detto nel Capitolo 1, nei Sapiens le attivazioni affettive assumono
nuove valenze e diventano generatrici del valore delle esperienze che il soggetto
fa, rendendole più o meno significative e sintoniche o discrepanti nei confronti
delle proprie aspettative, assumendo un ruolo critico nella costruzione del senso di
sé.
Le prime forme di risposta affettiva, guidate dalle informazioni genetiche, sono
globali, poco differenziate e si esprimono lungo l’asse piacere-dispiacere. Nella
loro attivazione ha una notevole importanza il sistema dopaminergico meso-
limbico, costituito dai neuroni dell’area ventro-tegmentale (VTA) mesencefalica,
i cui assoni raggiungono il nucleo accumbens, collegato con l’amigdala, con
l’ippocampo e con la corteccia associativa prefrontale. Questo circuito ha un
ruolo fondamentale nel determinare la gratificazione e la motivazione: produce
infatti un rinforzo positivo, conosciuto come “ricompensa”, che attiva emozioni
piacevoli (fino a veri e propri brividi: “chills”) e porta a ricercare gli stimoli che le
hanno indotte, evitando invece le situazioni di rinforzo negativo vissute come
“punizione”. Sia le esperienze piacevoli che quelle spiacevoli sono fissate nella
memoria, condizionando la qualità del senso di sé.
I processi affettivi si sviluppano gradualmente attraverso le esperienze soggettive
tacite, legate all’attivazione di sistemi comportamentali di adattamento che
maturano e si specializzano. Le attivazioni soggettive si strutturano in una
configurazione d’insieme, organizzata con complessità crescente nel corso della
vita. Questa configurazione consente di ordinare l’esperienza in modo da ricavare
una percezione stabile di sé e della realtà esterna. Ne è prova il fatto che entro il
secondo anno di vita il soggetto ha la capacità di riconoscersi allo specchio.
Progressivamente, le modalità iniziali di attaccamento divengono veri e propri
schemi affettivo-cognitivi, che forniscono un modello rappresentativo di sé,
caratteristico di ciascun individuo. Come ha osservato Wierzbircka (1992), la

62
difficoltà che si incontra nel mettere a fuoco l’affettività dipende dalla possibilità
solo parziale di tradurre le componenti affettive, prevalentemente non verbali, in
un codice verbale, semantico e logico-analitico.
Ad esempio, nessuna analisi logica strutturalista può trasmettere le emozioni
prodotte dai versi di poesia, come gli antichi frammenti greci, resi da Quasimodo,
di Alceo (63: “O coronata di viole, / divina dolce ridente Saffo”) e Saffo (31: “A
me pare uguale agli dei / chi a te vicino così dolce / suono ascolta mentre tu parli
/ e ridi amorosamente. Subito a me / il cuore si agita nel petto / solo che appena ti
veda, e la voce / si perde sulla lingua inerte. / Un fuoco sottile affiora rapido alla
pelle, / e ho buio negli occhi e il rombo / del sangue alle orecchie. / E tutta in
sudore e tremante / come erba patita scoloro: / e morte non pare lontana / a me
rapita di mente”) o dagli spartiti musicali, come una romanza della Traviata di
Verdi che fa vibrare di passione il libretto di Piave (Atto I, scena 3: “Di
quell’amor ch’è palpito / dell’universo intero, / misterioso, altero, / croce e
delizia al cor”). Analogamente, più un’esperienza è ricca di coloriti soggettivi,
meno risulta comprensibile dall’esterno e sovrapponibile con quella, analoga,
vissuta da altri e diventa quindi oggetto di contraddittorio a livello cognitivo,
come ricorda Platone nel Fedro (p. 145). “Socrate: Quando qualcuno pronuncia
la parola ‘ferro’ o ‘argento’, non pensiamo tutti alla stessa cosa? Fedro:
Certamente. Socrate: Ma quando si dice ‘giusto’ oppure ‘buono’? Non veniamo
condotti in molte direzioni differenti, e non siamo in disaccordo con gli altri e
anche con noi stessi? (…) E allora l’amore? Diremo che sia tra le cose che sono
oggetto di contraddittorio oppure no?”. Occorre quindi spostare l’osservazione
degli elementi descrivibili in modo oggettivo, che possono essere riscontrati in
soggetti diversi o nello stesso individuo in vari momenti della sua vita, alla
ricostruzione dell’esperienza soggettiva, corrispondente a queste manifestazioni
esteriori, che è invece espressione del modo unico di sentirsi di quell’individuo in
relazione all’esperienza che sta vivendo.
Emozioni, sentimenti e umore
I principali coloriti della sfera affettiva, che caratterizzano in modo unico come un
soggetto si sente attraverso le esperienze che vive, sono le emozioni e i
sentimenti. Le emozioni sono coloriti soggettivi a carattere rapido e transitorio,
che esprimono la risposta individuale a stimoli ambientali contingenti.
I sentimenti sono invece coloriti soggettivi tendenzialmente stabili e persistenti,
che consentono di esprimere i propri stati interni in relazione a persone, oggetti,
luoghi o situazioni vissuti come significativi.
Sia le emozioni che i sentimenti regolano l’umore, che è lo stato soggettivo,
globale e unitario, di fondo. L’umore esprime la disposizione o l’atteggiamento
interiore prevalente in un dato momento della vita psichica di un individuo e
presenta nel tempo oscillazioni (normalmente transitorie e di ampiezza limitata, a
volte anche frequenti) sia verso l’alto (gioia ed euforia; in condizioni patologiche

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fino all’eccitamento maniacale), sia verso il basso (tristezza, malinconia; in
condizioni patologiche fino alla depressione) (Bellantuono et al. 2009).
A. Emozioni
Le emozioni – con le attivazioni rapide e transitorie, in risposta a situazioni
contingenti, che le caratterizzano – esprimono quei coloriti soggettivi delle varie
esperienze affettivamente significative che danno forma ad ogni contenuto di
conoscenza, orientando di conseguenza le risposte adattive (latino “ex” +
“moveo” = smuovere). Esse sono il risultato di un processo evolutivo, legato ad
una serie di attivazioni fisiologiche aspecifiche, su base innata, che si verificano
quando occorre fronteggiare situazioni nuove e inattese.
Da queste attivazioni aspecifiche si differenziano emozioni primarie di base –
“basic emotions” – geneticamente determinate ma ampiamente condizionate
dall’apprendimento, caratterizzate da componenti sensitive, percettive,
neurovegetative e comportamentali. Compaiono poi anche emozioni secondarie,
caratterizzate da schemi più complessi ed integrati, con una evidente componente
cognitiva autovalutativa e sociale: “emotional schemata” (Lewis, 1993, 1994).
Le emozioni hanno un ruolo interpersonale fondamentale: non sono
comprensibili se non le si colloca nel contesto delle relazioni significative che
attraversano la storia di un individuo, fin dalle sue prime fasi di vita (ad es., il
pianto ha la valenza sociale di esprimere il bisogno di aiuto e di conforto del
bambino). Le emozioni entrano in questo modo nella costruzione del sistema di
rappresentazione di sé e degli altri. Anzi, la autorappresentazione delle emozioni
(cioè, la rappresentazione consapevole delle proprie attivazioni) è l’elemento
centrale intorno al quale si articola la costruzione del sé rispetto allo spazio
intersoggettivo nel quale l’individuo si trova a vivere. Pertanto, sotto il profilo
adattivo, le emozioni orientano i processi cognitivi (specie l’attenzione e
l’apprendimento), fornendo a questi processi l’attivazione soggettiva che
condiziona il modo in cui sono espressi nelle relazioni significative.
Studi classici di neuropsicologia hanno dimostrato che le emozioni non solo
danno più o meno rilievo ai ricordi, ma consentono che siano apprese prima e
ricordate più a lungo e nitidamente le esperienze che hanno una maggiore
risonanza emotiva (positiva o negativa). Analogamente, le emozioni possono
potenziare o inibire i comportamenti legati alla progettualità individuale: è
esperienza comune che un’aspettativa positiva sulla realizzazione di un evento
facilita il raggiungimento e la ricerca di ulteriori traguardi, mentre la sola paura di
non riuscire in un progetto può inibire e demotivare. Le attivazioni
neurovegetative collegate alle emozioni sono uno dei correlati più facilmente
riconoscibili, sia a livello soggettivo che oggettivo (pallore o rossore della cute,
tachicardia, tachipnea, ecc.). Esse sono legate alla discrepanza tra le aspettative
individuali e quelle esterne. Pertanto, quando c’è un contrasto tra le attese di un

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soggetto e quelle dell’ambiente, si attivano tonalità emotive che risultano
piacevoli o spiacevoli, a seconda di cosa il soggetto si aspetta di ottenere, in
riferimento al ricordo di esperienze simili fatte in precedenza e all’idea che ha di
sé. Le tonalità affettive forniscono quindi il senso generale e soggettivo
dell’insieme dei processi interni, che va dal benessere al malessere, svolgendo una
funzione unificante della motivazione e della volontà.
Attraverso queste tonalità il soggetto: a) mantiene l’integrità psico-fisica e la
coerenza interna; b) orienta il comportamento, valutando e scegliendo
attivamente l’eventuale utilizzo delle risorse disponibili, sia personali che
ambientali; c) regola la comunicazione con gli altri, specie nelle relazioni
significative (nelle quali è più evidente la tendenza di entrambi i soggetti che
interagiscono a modificarsi e ad influenzarsi in modo reciproco).
Nella prima infanzia le emozioni, non essendo soggette al filtro cognitivo (che è
in via di maturazione), sono facilmente scatenabili e poco inibite. Nel corso dello
sviluppo i processi di apprendimento, che si strutturano a partire dalla relazione di
attaccamento, consentono di assimilare i modelli educativi e culturali
dell’ambiente di appartenenza, in modo da ottenere il migliore adattamento
possibile, per cui le emozioni sono progressivamente selezionate e gestite
nell’ambito di un repertorio comportamentale sul quale gli aspetti cognitivi
giocano un ruolo sempre maggiore.
Numerosi ricercatori, tra i quali Mandler (1975) Ortony e Turner (1990),
Davidson e McEwen (1992), indagando lo sviluppo dello spettro emozionale,
hanno osservato che l’origine delle emozioni avviene con l’assemblaggio nel
tempo di elementi diversi, per cui ogni attivazione emotiva risulta di natura
“dimensionale” e “componenziale”. Le emozioni sono quindi specializzazioni
variabili di modalità generali di risposta espressiva e comportamentale, che
derivano da processi di elaborazione dell’informazione e che sono influenzate
dall’esperienza e dall’apprendimento. Esse si attivano nell’ambito di polarità
antagoniste: ad esempio, piacevolezza e spiacevolezza, tendenza ad avvicinarsi o
allontanarsi, ecc. Come hanno sottolineato Rezzonico e De Marco (2012), pur
essendo stati psichici transitori, le emozioni agiscono sulla organizzazione della
coerenza interna di ciascun soggetto in misura molto maggiore degli aspetti
cognitivi; anzi, i ragionamenti sono strettamente legati (anche se a volte in
maniera non facilmente ricostruibile) ai cambiamenti taciti prodotti dalle
attivazioni emotive. Infine, alle emozioni corrisponde un’attivazione psicomotoria
che, non solo è alla base dei comportamenti correlati con il tipo di emozione
sperimentata, ma entra anche nella rappresentazione anticipatoria di ciò che si può
provare in una futura esperienza che può evocare quella stessa emozione (Nardi,
2007, 2013). Attraverso i ricordi emozionali inizia precocemente a delinearsi
l’OP, mentre le attivazioni emotive contrastanti (senso di costrizione o solitudine,
sicurezza o insicurezza, benessere o malessere), orientano a livello tacito i margini

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di esplorazione ambientale e regolano la ricerca dei riferimenti significativi o il
distacco per cercare nuovi ambiti esterni. Al tempo stesso iniziano ad assumere un
valore previsionale su ciò che il soggetto può aspettarsi in futuro.
Le emozioni primarie di base hanno in genere insorgenza rapida e talvolta
possono ripetersi in rapida successione temporale (attivazioni ripetute “a raffica”).
Esse sono definite “universali”, in quanto non solo compaiono precocemente
(quando le attivazioni generalizzate di eccitazione si organizzano nei primi schemi
senso-motori fondamentali) in tutti gli individui di qualsiasi popolo e cultura, ma
trovano riscontri in attivazioni simili presenti in numerose specie animali. Ekman
(2003), a questo proposito, ha compiuto numerose indagini di tipo antropologico
sul riscontro delle emozioni primarie nella mimica facciale di soggetti
appartenenti a gruppi etnici e geografici differenti. Tuttavia, Jack et al. (2012),
mediante ricostruzione tridimensionale alla computer-grafica, hanno osservato che
l’espressione delle emozioni primarie non è del tutto universalmente
sovrapponibile. Ad esempio, gli “occidentali” esprimono ciascuna emozione
prevalentemente attraverso la mimica facciale, mentre gli “orientali” utilizzano
soprattutto l’espressione dello sguardo. In ogni caso, le emozioni primarie
coinvolgono strutture del tronco encefalico e del sistema limbico, sono piuttosto
stereotipate e ripetitive e non richiedono, per attivarsi, il coinvolgimento della
consapevolezza esplicita. In ogni caso, anche le emozioni di base vanno incontro
ad una rimodulazione nel corso di tutta la vita, interagendo con le altre funzioni
psichiche. Come ha osservato Damasio (1999), utilizzano il corpo (sistema
neurovegetativo, muscolo-scheletrico, ecc.) come “teatro” per esprimersi.
Attraverso i processi di attaccamento, le emozioni primarie sono amplificate e
privilegiate (insieme ai segnali corporei) nelle relazioni significative a reciprocità
fisica.
Sono considerate emozioni primarie la sorpresa, la paura, la rabbia, la tristezza e
la gioia:
a) La sorpresa. Una delle esperienze più comuni, vissute sia con
un’attivazione positiva che negativa, è quella della novità. L’emozione
conseguente a questo evento inaspettato (o contrario all’aspettativa di chi
lo sperimenta) è la sorpresa, espressa dal corrugamento della fronte,
dall’inarcamento delle sopracciglia, dall’allontanamento delle palpebre e
dall’abbassamento della mandibola. La sorpresa dura pochi istanti, si
associa ad un aumento della vigilanza e ad una attivazione del sistema
neurovegetativo ortosimpatico (tachicardia, aumento della pressione
arteriosa, ecc.) e dell’apparato muscolo-scheletrico (incremento del tono
muscolare). Questa emozione, che produce una discontinuità nel flusso
della coscienza, può attivare comportamenti molto diversificati, dalla
paura e al pianto fino alla gioia. Fondamentale, a questo proposito, è come
il soggetto ha memorizzato e interiorizzato la figura accudente che è

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presente in quel momento. Il riso ne è la prova: una situazione
potenzialmente pericolosa viene percepita dal bambino come una sorpresa
piacevole, tanto da farlo ridere e rilassare, perché il potenziale pericolo è
completamente annullato dalla fiducia in qualcuno che protegge e
rassicura: il viso non preoccupato ma anzi divertito del care-giver fa infatti
da garanzia e chiave di lettura;
b) la paura è un’emozione attivata da un pericolo esterno; determina una
risposta biologica dal significato adattivo di attivazione e di difesa che
coinvolge il sistema neurovegetativo simpatico (tachicardia, tachipnea,
vasocostrizione cutanea, sudorazione, tremori, midriasi) e quello
neuroendocrino (aumento della secrezione catecolaminergica, ecc.);
quando è eccessiva, persistente e inabilitante si parla di fobia (ad es., per lo
sporco: rupofobia; per i ragni: aracnofobia; per le altezze: acrofobia; per i
luoghi chiusi: claustrofobia; per gli spazi aperti: agorafobia; per avere una
parte del corpo brutta o deforme: dismorfofobia; per fare brutta figura con
gli altri: fobia sociale). D’altra parte la paura, pur essendo un’emozione
primariamente legata alla sopravvivenza, quando è sostenuta dalla
possibilità di esplorare l’ambiente avendo accanto una figura affidabile,
può produrre piacere e desiderio di novità. Anzi, la paura e il desiderio
esprimono due polarità di uno stesso equilibrio che regola la
psicomotricità e il comportamento: la paura può frenare, bloccare o
innescare il movimento, il desiderio lo attiva come cammino di ricerca. In
questo caso il movimento, grazie ai neuroni specchio prefrontali, può
essere anche solamente immaginario e, quindi, interiore: così, nel
muoversi verso ciò che desidera, il soggetto può verificare quanto tiene ad
esso, sfuggendo alla staticità del capriccio di volere qualcosa subito, che
spesso non interessa più una volta che, senza sforzo e senza desiderio, la si
è avuta;
c) la rabbia è un’emozione con manifestazione improvvisa e transitoria di
aggressività, rivolta in modo incontrollato verso un atteggiamento esterno
disturbante e che si vorrebbe diverso. La rabbia esprime una esperienza
immediata in cui ci si specchia attraverso il comportamento (agito o
mancato) di qualcuno da cui ci si aspettava qualcosa e che invece appare
svalutante od ostile; si ha pertanto un’attivazione emotiva a rapida
insorgenza, legata ad un cambiamento negativo che non si accetta e che
viene attribuito direttamente all’altro, nei confronti del quale si reagisce,
cercando di modificarne l’atteggiamento;
d) la tristezza è un’emozione associata ad un transitorio abbassamento del
tono dell’umore, che fisiologicamente stimola il senso di realtà e orienta a
rinunciare a situazioni non accessibili; il senso di solitudine e di non
aiutabilità stimola la spinta all’autonomia; anche i vissuti di fragilità,

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imperfezione, non amabilità, incapacità, fallimento possono riorientare la
motivazione soggettiva; in condizioni patologiche, quando non si riesce a
vedere sbocchi e vie percorribili, la tristezza può associarsi a lungo e
frequentemente al pianto, può indurre disperazione e può sfociare nella
depressione;
e) la gioia è un’emozione associata ad un transitorio innalzamento del tono
dell’umore in circostanze vissute come positive, che può arrivare
all’euforia e può essere accompagnata dal riso; essa produce benessere,
rinforza la motivazione e l’autostima.
Le emozioni secondarie – definite anche “sociali” per le loro evidenti componenti
relazionali – compaiono a partire dal secondo anno di vita, quando con lo sviluppo
del linguaggio verbale inizia a delinearsi la maturazione di un senso unitario di sé.
Esse consentono di valutare e riflettere sul proprio comportamento rispetto alle
situazioni ed alle richieste esterne e per questo sono definite anche emozioni
autoriflessive o autovalutative. È esperienza comune che i neonati non provano
orgoglio, vergogna o colpa e che queste attivazioni richiedono, per comparire, il
confronto con un messaggio esterno o con un criterio interno preso come
riferimento. Anche le emozioni secondarie hanno finalità adattive, stimolando una
regolazione dell’atteggiamento, del comportamento e della progettualità. Quando
invece diventano eccessive e persistenti, non consentono una regolazione del
proprio comportamento e producono disagio (eventualmente anche
psicopatologico).
Attraverso i processi di attaccamento, le emozioni secondarie, proprio per la
fondamentale importanza della valutazione cognitiva nella loro attivazione, sono
privilegiate nelle relazioni significative a reciprocità semantica.
Sono emozioni secondarie l’orgoglio, la vergogna, la colpa, l’imbarazzo, il
rammarico, la collera, il disprezzo, il disgusto (quest’ultimo, come si dirà, viene
da alcuni incluso nelle emozioni primarie):
a) l’orgoglio è un’emozione che consegue ad un successo o ad un
riconoscimento esterno e produce soddisfazione; a volte esprime una
accentuata stima di sé, delle proprie capacità, delle proprie condizioni e dei
propri meriti, che può isolare l’individuo e compromettere i rapporti con
gli altri;
b) la vergogna è un’emozione, legata a qualcuno che osserva e giudica (che
può essere il soggetto stesso o una persona significativa); comporta un
senso transitorio di inferiorità, inadeguatezza, incompetenza, fragilità, non
proponibilità nei confronti degli altri;
c) la colpa è un’emozione vissuta come una mancanza o un errore personale
per non essersi comportati bene, rispetto ad un codice di regole
interiorizzate (“pentimento”) o al fatto di non aver corrisposto ad
aspettative e richieste esterne da parte di figure significative (“pseudo-

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colpa”: scivolamento dal proprio punto di vista a quello di un altro che
inizialmente non è condiviso, ma che è fatto proprio per insicurezza o
dipendenza). Sotto il profilo sociale, la colpa è un regolatore delle
relazioni interpersonali e ha una funzione preventiva (non arrecare danno
all’altro) o riparativa (del danno commesso);
d) l’imbarazzo è un’emozione che esprime impaccio e disagio soggettivo in
circostanze o in rapporti sociali in cui non si sa cosa fare o come
comportarsi;
e) il rammarico è un’emozione che esprime dispiacere rispetto ad aspettative
relative a sé (interne) od ad altri (esterne) che sono state deluse, con
conseguente compromissione dell’autostima personale;
f) la collera è un’emozione, più marcata rispetto alla rabbia, che si associa ad
un comportamento aggressivo acuto e transitorio; è in genere rivolta verso
figure significative a cui normalmente si vuole bene o si tiene;
g) il disprezzo è un’emozione a tonalità negativa, sperimentata nei confronti
di un’altra persona o rivolta verso se stessi quando si percepisce una
inadeguatezza o una incapacità personale mal sopportata. Se è rivolto
verso gli altri (fatti oggetto di disistima, di scherno, di offese, di ingiurie,
ecc.) consente di ricavare un’immagine “superiore” di sé; viceversa,
quando il disprezzo è rivolto verso se stesso, il soggetto si sente
“inferiore”, indegno, inaffidabile, di scarso valore;
h) il disgusto è un’emozione acuta e solitamente persistente che esprime
avversione e ripugnanza per situazioni o persone che risultano in contrasto
con l’immagine di sé e con la propria coerenza interna. Quando porta ad
evitare situazioni pericolose (ad es., l’ingestione di cibi inappetibili o
velenosi) è considerato un’emozione primaria, fondamentale per la
sopravvivenza.
Infine, l’ansia (dal verbo latino “ango” = stringere, affannare) è un esempio della
natura componenziale delle emozioni. Essa consiste in un’attivazione emotiva
complessa, in cui emozioni come la paura, la sorpresa, la tristezza, la collera e la
vergogna si fondono con stati d’animo come l’interesse e la curiosità. L’ansia
produce un senso di attesa, apprensione e timore (più o meno intensi e duraturi),
non sempre facilmente riconducibili ad uno stimolo esterno specifico o ad una
condizione interna ben identificabile. In condizioni fisiologiche, l’ansia attiva la
vigilanza e prepara l’individuo ad affrontare con uno stato di allerta una nuova
situazione, prevenendo e fronteggiando gli aspetti potenzialmente pericolosi e
negativi. Quando l’ansia diventa eccessiva, invalidante e, quindi, patologica può
portare il soggetto a bloccarsi, come se fosse congelato (“freezing”), può
coinvolgere il corpo (“angoscia”), può portare al timore di avere una malattia
(“ipocondria”), può produrre una vera e propria patologia somatica (“disturbo
somatoforme”), può determinare infine una psicopatologia ad insorgenza acuta e

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particolarmente intensa, nella quale il soggetto ha la sensazione di perdere
completamente il controllo, di impazzire o di morire (“attacco di panico”).
Per quanto concerne le Organizzazioni di Personalità (OP), in quelle a
reciprocità Fisica (OPF Controllanti e OPF Distaccate) il repertorio soggettivo è
prevalentemente espresso dalle emozioni primarie di base, con un ampio utilizzo
anche del canale somatico; attraverso questi segnali il soggetto ricava lo stato di
benessere e di capacità di gestire o meno la situazione in cui si trova e,
conseguentemente, li utilizza per regolare tacitamente la sua distanza dagli altri
e/o dai contesti graditi o sgraditi.
Nel caso delle OP a reciprocità Semantica (OPS Contestualizzate e OPS
Normative) prevalgono le emozioni secondarie sociali, che vengono espresse in
seguito alla valutazione cognitiva del proprio comportamento in riferimento a
giudizi, aspettative, richieste, esigenze o norme esterne, che il soggetto fa proprie
e con cui si confronta.
B. Sentimenti
I sentimenti (dal latino “sentio” = accorgersi, sentire) sono coloriti soggettivi più
stabili e persistenti, per cui non appaiono direttamente legati ad aspetti contingenti
e reattivi dell’esperienza. Proprio per questa loro maggiore stabilità, si
caratterizzano in base alla qualità dello stato interno soggettivo. I sentimenti
fanno da base all’identità attraverso l’esperienza soggettiva di sentirsi
rappresentati nell’altro. Si tratta di un processo tacito che esprime la qualità di
come l’altro si fa presente in noi e, attraverso l’altro, noi ci facciamo presenti a noi
stessi, con tonalità comprese tra un registro positivo ed uno negativo. In questo
modo, i sentimenti consentono gradualmente di articolare e sequenzializzare il
senso di unicità personale, gestendo e regolando le discrepanze percepite a livello
tacito e producendo un’immagine consapevole di sé caratterizzata da coloriti e da
tonalità di fondo riconosciuti come propri.
I sentimenti vengono distinti in:
a) amore, quando il soggetto esprime un investimento positivo in relazione a
persone, oggetti, luoghi o situazioni percepite come significative;
b) odio, quando l’investimento è negativo;
c) indifferenza, quando l’investimento è tendenzialmente neutro e, quindi,
scarso.
Anche i sentimenti, come le emozioni, sono espressi sia attraverso il linguaggio
non verbale che quello verbale. D’altra parte, quando le parole sono utilizzate per
esprimere i sentimenti, esse attivano coloriti soggettivi che da un lato appaiono
universali, in quanto “comprensibili” da tutti, ma che, dall’altro lato, sono anche
soggettivi e unici, in quanto esprimono e riattivano aspetti esclusivi dello stato
interno di un individuo. Ne è prova la poesia, che parla più attraverso i sentimenti
e le emozioni che evoca piuttosto che con i contenuti logici, le strutture metriche,

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le regole e i criteri con cui viene composta, come è evidente in un celebre sonetto
di Dante (Vita Nuova, XXVI): “Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia
quand’ella altrui saluta, / ch’ogne lingua deven tremando muta, / e li occhi no
l’ardiscon di guardare. / Ella si va, sentendosi laudare, / benignamente d’umiltà
vestuta; / e par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare. /
Mostrasi sì piacente a chi la mira, / che dà per li occhi una dolcezza al core, / che
‘ntender no la può chi non la prova; e par che de le sue labbia si mova / un
spirito soave e pien d’amore, / che va dicendo a l’anima: sospira”.
Ma, come insegna la vita, sentimenti opposti come l’amore e l’odio si possono
mescolare o, meglio, si può passare dall’uno all’altro quando il soggetto a livello
tacito ricava dall’altro di cui è innamorato un proprio fallimento o, comunque, una
sua svalutazione. Così ne parla un soggetto con disturbo bipolare dell’umore
(“quando dentro casa mi pestano i calli rischio di perdere il lume della ragione,
dentro di me combattono una parte di odio e una di amore”). Così ne parlava, in
modo sublimato, il poeta latino Catullo facendo riferimento alla sua amata (e
odiata) Lesbia: “Òdi et amò. Quare ìd faciàm, fortàsse requìris. Nèscio, sèd fierì
sèntio et èxcruciòr” (odio e amo. Forse ti chiedi perché lo faccia. Non lo so, ma
sento che mi accade e mi tormento).
In relazione ai sentimenti va considerata l’empatia (dal greco “εμπαθεία”,
“empatéia” = sentire dentro), che è la capacità di fare inferenze su ciò che prova
un’altra persona, in termini di stati mentali relativi a emozioni e sentimenti. Lo
studio dei neuroni specchio ha approfondito la conoscenza delle basi
neurobiologiche dell’empatia. In particolare, è possibile discriminare le differenze
esistenti nell’attribuire gli stati emozionali a sé o agli altri. Infatti, quando si
osserva lo stato emozionale espresso da una faccia estranea (etero-osservazione),
si attivano la corteccia frontale inferiore, quella orbito-frontale laterale sinistra, il
solco temporale superiore, i poli temporali e il cervelletto destro. Quando si
osserva la propria risposta emozionale ad una data espressione facciale
(autosservazione) si attivano la corteccia frontale, la corteccia posteriore del
cingolo, del precuneo e del carrefour temporo-parietale di entrambi gli emisferi
(Vogeley et al., 2000; Singer et al., 2004).
Per quanto riguarda la sfera affettiva in generale, va osservato che, tra le emozioni
negative, possono essere riferite a sé senza grandi difficoltà quelle attivazioni
(come il dolore e il lutto) che salvaguardano e aumentano la coesione di gruppo.
Nei primati, il pianto costituisce un potente inibitore dell’aggressività altrui (sotto
il profilo etologico, non è pertanto un’emozione “debole”), mentre la rabbia
rappresenta o una modalità di sfogo o un tentativo di modulare la relazione con
l’altro.
Viceversa, le attivazioni affettive positive (un’emozione primaria, come la gioia;
un sentimento, come l’amore; atteggiamenti complessi, come la comprensione,
l’onestà, l’altruismo) sono solitamente riferibili a sé senza particolari problemi. In

71
chiave adattiva, la precarietà affettiva (e, in primo luogo, emozionale) è comunque
associata ad un rischio psicopatologico.
In tutte le OP, le tonalità affettive possono essere espresse all’interno di un
continuum tra una polarità abbandonica ed una competitiva ed esprimono
atteggiamenti attivamente passivi o attivi di costruire e mantenere i rapporti
all’interno del gruppo sociale di appartenenza. Le relazioni significative –
soprattutto quelle di attaccamento – hanno un ruolo fondamentale nel regolare le
emozioni di base e, di conseguenza, nel determinare il livello individuale di
tolleranza di un soggetto allo stress; esse consentono di innalzare o di abbassare
l’intensità delle risposte, ponendosi, a seconda dei casi, come fattori protettivi o di
rischio.
Le relazioni tra le espressioni emozionali facciali e le dimensioni della personalità
sono state indagate da Mobbs et al. (2005) mediante il NEO-Five Factor Inventory
(NEO-FFI), che valuta il nevroticismo, l’estroversione, l’apertura mentale, la
piacevolezza e la coscienziosità. È stato osservato che lo stile di personalità svolge
un ruolo fondamentale nella capacità di cogliere le variazioni del tono dell’umore.
Tuttavia questo modello considera la personalità solo come una configurazione
d’insieme e non come espressione di un processo evolutivo di organizzazione del
sistema psichico individuale, guidato dalle risorse di adattamento. Infatti, come si
è detto, la conoscenza tacita è fondamentale nel determinare come il soggetto si
sente nella relazione con le figure significative: da questo modo di sentirsi
dipendono le attivazioni emozionali e le elaborazioni cognitive ad esse associate
sia durante l’innamoramento, sia nei processi che costellano il mantenimento di
un rapporto significativo, sia gli effetti di un’eventuale rottura del rapporto.
I processi affettivi non rappresentano strutture statiche, ma sono dinamicamente in
divenire. Il rapporto tra la costruzione dell’identità e la stabilizzazione delle
modalità soggettive di riferirsi l’esperienza non è legato primariamente ai processi
cognitivi di cui siamo consapevoli ed i cui cambiamenti possono essere tanto
rapidi quanto non associati a nessuna modificazione importante del senso di sé.
Esso è invece strettamente connesso ai processi taciti che coinvolgono le
emozioni. Questi processi consistono in attivazioni percepite come coloriti
soggettivi più o meno piacevoli, neutri o spiacevoli e, quando superano una
determinata soglia, possono innescare cambiamenti profondi e a volte perturbanti,
proprio in quanto rimandano a come il soggetto si sente attraverso l’altro.
L’importanza dei processi affettivi è messa in evidenza dall’esperienza comune
che le attivazioni affettive condizionano i processi di memorizzazione. Il circuito
limbico di Papez è collegato a doppia via con l’amigdala, che è fondamentale per
registrare le attivazioni emotive.
Le emozioni possono a volte bloccare i ricordi, altre volte rievocarli, anche a
distanza di molto tempo, come ricorda il racconto conclusivo dei “Dubliners” di
Joyce (1914). In esso, al termine di un’ennesima, scialba e apparentemente

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insignificante festa di fine d’anno, l’ascolto di una “musica distante” (“listening to
distant music, a symbol of”) riaccende nella moglie del protagonista (coppia
apparentemente felice e realizzata) il ricordo di un amore adolescenziale per un
ragazzo morto di tisi che, pur essendo malato, l’aveva attesa fuori casa sotto la
pioggia cantandole, appunto, la melodia riconosciuta dopo tanti anni: le note della
“Fanciulla di Aughrim” l’avevano catturata riaprendole ricordi sopiti (“I think he
died for me”), l’avevano commossa fino alle lacrime e avevano prodotto una
nuova lettura, emotivamente più consapevole e ricca, della storia personale e del
rapporto di coppia, anche nel marito: “Gabriel se ne stava in un angolo buio
dell’ingresso e teneva gli occhi fissi sulle scale. Una donna era ritta sulla prima
rampa, anche lei nell’ombra. Non ne vedeva il viso ma vedeva il colore di
terracotta e rosa salmone della gonna che l’ombra faceva sembrare neri e
bianchi. Era sua moglie. Stava appoggiata alla ringhiera e ascoltava qualcosa
(…) Rimase immobile nel buio dell’ingresso, cercando di afferrare l’aria che la
voce cantava e tenendo gli occhi fissi sulla moglie. C’era grazia e mistero
nell’atteggiamento di lei, quasi che stesse simboleggiando qualcosa. Si domandò
cosa possa simboleggiare una donna in piedi su buie scale nell’ombra, in ascolto
d’una musica. Fosse stato un pittore l’avrebbe dipinta in quell’atteggiamento, il
cappello di feltro blu avrebbe messo in risalto il bronzo dei capelli contro
l’oscurità e le pieghe scure della gonna avrebbero messo in risalto i chiari.
Musica lontana, avrebbe chiamato il quadro (…) Alla fine si voltò verso di loro e
Gabriel le vide le gote colorite e gli occhi lucidi … Lei rivolse lo sguardo alla
lama di luce verso la finestra. ‘È morto’, disse alla fine. È morto quando aveva
solo diciassette anni’ (…) ‘Credo che sia morto per me’, rispose (…) ‘Era
d’inverno (…) Lui era malato (…) avrebbe studiato canto se non fosse stato per la
sua salute. Aveva una bellissima voce, povero Michael Furey … La sera prima di
partire ero in casa di mia nonna a Nun’s Island, facendo le valigie, e udii dei
sassolini battere contro la finestra. I vetri erano così bagnati che non riuscivo a
vedere, allora corsi giù com’ero e sgaiattolai in giardino. Trovai quel poveretto
ch’era tutto un brivido (…) Oh, il giorno che seppi che era morto!’ (…) Gli occhi
di Gabriel si riempirono di lacrime generose. Non aveva mai provato niente di
simile per nessuna donna, ma sapeva che un sentimento così doveva essere
l’amore (…) Qualche lieve fruscio sui vetri lo fece voltare verso la finestra. Aveva
ricominciato a nevicare (…) C’era neve in tutta l’Irlanda. Cadeva dovunque sulla
scura pianura centrale, sulle colline senza alberi, cadeva soffice sulla palude di
Allen e, più a occidente, cadeva sulle scure onde ribelli dello Shannon. Cadeva
anche nel solitario cimitero della collina dove Michael Furey era sepolto. Si
posava a larghe falde sulle croci contorte e sulle lapidi, sulle punte del
cancelletto, sugli sterili rovi spinosi. E lenta la sua anima s’abbandonò mentre
udiva la neve cadere lieve su tutto l’universo, lieve come la loro definitiva
discesa, su tutti i vivi, su tutti i morti”.

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Proprio alla possibilità di intervenire su pattern emozionali stabili e radicati –
anche quando sono negativi e, quindi, fonte di sofferenza e disagio – si deve il
fatto che la psicoterapia può produrre un cambiamento degli aspetti
psicopatologici: come è stato messo in evidenza dall’approccio post-razionalista,
lavorando sulle emozioni prodotte da come l’esperienza immediata dà luogo alla
conoscenza tacita è possibile cambiare le emozioni negative che fanno star male
un soggetto.
Infatti, se si interviene lavorando esclusivamente sul piano cognitivo attraverso
spiegazioni, consigli e insegnando nuove tecniche gestionali (approccio
“razionalista”) si può ottenere solo un maggior controllo delle emozioni
disturbanti ed una gestione contingente dei sintomi; d’altra parte, se non si incide
sul disagio di fondo, che è legato alla percezione instabile e perturbata di sé, i
sintomi possono ripresentarsi successivamente o ricomparire in altre forme.
C. Umore (Tono dell’Umore)
Per umore (latino “humor” = umido, bagnato) si intende lo stato emotivo ed
affettivo globale ed unitario di fondo (tono dell’umore); esso esprime la
disposizione o l’atteggiamento interiore prevalente in un dato momento della vita
psichica di un individuo, in termini di una certa qualità di piacere o dispiacere, di
attivazione o inibizione, di interesse o disinteresse nel rapporto con il mondo
interno e quello esterno.
Il tono dell’umore costituisce quindi la risultante dell’insieme di emozioni e di
affetti ed è legato sia ad aspetti congeniti, geneticamente determinati, sia ad
aspetti acquisiti attraverso il confronto con le esperienze fatte.
In condizioni fisiologiche, le oscillazioni dell’umore non sono mai marcate e
consentono al soggetto di adeguarsi coerentemente al contesto e alla situazione,
con un buon funzionamento personale, relazionale e prestazionale.
In questo caso l’umore viene definito eutimico e si caratterizza per essere
flessibile e congruo rispetto agli stimoli esterni, con una reattività equilibrata
rispetto ad essi.
Nei disturbi psicopatologici dell’umore, questo appare rigido e difficilmente
adattabile rispetto al variare degli stimoli o delle circostanze esterne e tende a
presentare oscillazioni oltre i limiti della norma. Di conseguenza, il soggetto non
riesce a modulare il proprio atteggiamento rispetto alla variabilità degli stimoli,
ma reagisce emotivamente in modo stereotipato.
Le principali oscillazioni psicopatologiche del tono dell’umore verso il basso
(deflessione) o verso l’alto (innalzamento) connotano rispettivamente l’umore
depresso e l’umore maniacale.
L’umore depresso (ipotimia) si manifesta con prevalenza di sentimenti di
tristezza, pessimismo, dolore, infelicità, colpa, accompagnati da rallentamento o
inibizione di tutta l’attività psichica e motoria. In questi casi si osserva una serie

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di modificazioni comportamentali, mimiche, gestuali, motorie e neurovegetative
(facies triste, tendenza al pianto, rallentamento ideo-motorio, tensione muscolare).
Tra i sintomi tipicamente associati all’umore deflesso ricorrono: disturbi del
sonno (più frequentemente insonnia terminale con risveglio precoce); alterazioni
delle abitudini alimentari (riduzione dell’appetito o iperfagia); facile affaticabilità
ed astenia; sintomi cognitivi, come riduzione della concentrazione, dell’attenzione
e della memoria; ideazione fortemente incentrata su temi di colpa, di perdita, di
indegnità, di non amabilità, che può arrivare, nei quadri clinici più gravi, fino a
deliri di colpa, di rovina, di negazione (depressioni deliranti). In alcuni casi i deliri
presenti nel disturbo depressivo possono essere anche incongrui con l’umore (ad
es., deliri di persecuzione). Inoltre, la depressione del tono dell’umore si può
associare a idee di suicidio con la possibilità, soprattutto quando la disperazione
diventa dominante, di passare all’atto (“acting out”).
Gli innalzamenti psicopatologici del tono dell’umore caratterizzano l’umore
maniacale (ipertimia), con euforia, facile distraibilità, riduzione del bisogno di
sonno, iperattività (che può giungere fino all’agitazione psicomotoria),
accelerazione delle idee e del linguaggio (ideorrea e logorrea), disinibizione
sessuale. I temi del pensiero, incentrati sulla ipervalutazione di sé, possono dare
luogo, quando vengono meno le capacità di giudizio e di critica, a deliri di
grandezza od onnipotenza (megalomanici).
Il soggetto, per l’abnorme autostima che sperimenta, può dare eccessiva
confidenza agli estranei, mostrare una smodata prodigalità, spendere tutto quello
che ha in acquisti incongrui, avere una incongrua tendenza alle battute di spirito,
lasciarsi andare a comportamenti rischiosi, scegliere abbigliamenti e acconciature
stravaganti. Con grande facilità l’umore maniacale attiva stati di eccitamento
aggressivo, soprattutto quando il soggetto si sente limitato o contrastato.
L’umore maniacale è tipicamente presente nei disturbi bipolari (episodio
maniacale) ma non è necessariamente sinonimo di questa categoria nosografica;
infatti, aspetti maniacali possono essere riscontrati anche nei disturbi
schizoaffettivi, nei disturbi neurologici (epilessia, tumori cerebrali) e nell’abuso di
sostanze. Nel caso dell’umore ipomaniacale, le caratteristiche cliniche sopra
descritte si manifestano con minore intensità e comportano una compromissione
meno marcata del funzionamento sociale e lavorativo del soggetto.

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PROCESSI COGNITIVI
I processi cognitivi sono orientati dalle attivazioni emotive e, a loro volta, le
regolano e coordinano, per cui, in condizioni fisiologiche, emerge un senso
unitario e coerente di sé.
I processi cognitivi derivano da una serie di funzioni, più o meno semplici e
complesse: sensazioni, percezioni, vigilanza, apprendimento, memoria,
attenzione, pensiero (con le funzioni simboliche), linguaggio.
Il termine “coscienza” comprende tutti i processi elencati, incluse le conoscenze
tacite, ricche di contenuti affettivi.
Senso-Percezioni e Vigilanza
Le sensazioni sono le funzioni di base che consentono di selezionare e rilevare i
vari tipi di stimoli ambientali, esterni o interni all’organismo. Esse sono legate alle
strutture periferiche che raccolgono più o meno selettivamente i vari tipi di stimoli
(recettori), alle vie nervose che li trasmettono dalla periferia al sistema nervoso
centrale (fibre afferenti) ed ai sistemi corticali specifici di raccolta e di analisi dei
segnali in arrivo (aree somestesiche post-rolandiche, aree visive occipitali, aree
uditive temporali, aree olfattive rinencefaliche). Accanto alle sensibilità
somatiche generali (tatto, pressione, temperatura, senso di posizione e di
movimento del corpo nello spazio) esistono sensi specifici (vista, udito, equilibrio,
gusto, olfatto).
Le percezioni sono funzioni psichiche, legate essenzialmente alle aree peri-
sensoriali della corteccia cerebrale, che consentono al soggetto di operare il
riconoscimento, la discriminazione e il confronto delle varie sensazioni. Esse
entrano a far parte, quindi, delle gnosie, ossia del riconoscimento dello stimolo
pervenuto al Sistema Nervoso Centrale (SNC). Attraverso questi processi psichici
riusciamo a trarre ed elaborare informazioni dal mondo in cui viviamo, a portare a
livello di coscienza, riconoscere e confrontare gli stimoli sensoriali fisici che
diventano informazioni psichiche. Una errata interpretazione di uno stimolo
esterno, realmente esistente, è chiamata “illusione”, mentre la comparsa di una
senso-percezione falsa, che non corrisponde ad un oggetto reale (ad es., vedere o
sentire qualcosa che non c’è) è definita “allucinazione” (visiva, uditiva, ecc.).
La vigilanza consiste nell’essere più o meno a contatto con l’ambiente, a seconda
che si sia svegli e attenti, rilassati, soporosi, addormentati in modo superficiale o
profondo. Essa rende possibile il contatto con l’ambiente attraverso due stati
funzionali diversi, in continuità tra loro, che sono quello della veglia e quello del
sonno. Nell’adulto il ciclo sonno-veglia ha andamento circadiano; viceversa, nel
corso dello sviluppo fetale, nella prima infanzia ed anche nella senescenza questo
ritmo appare polifasico e, quindi, ultradiano: il bambino alterna più volte nelle 24
ore periodi di veglia legati ai pasti e periodi di sonno; nell’anziano ricorrono

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spesso risvegli notturni e brevi sonni pomeridiani. In rapporto all’andamento
abituale del ritmo circadiano, si osservano due tipi di soggetti: quelli mattutini
(“allodole”, che si svegliano presto, riposati ed efficienti, e che sono più attivi
nelle prime ore della giornata) e quelli serotini (“gufi”, che hanno difficoltà ad
alzarsi presto e che si sentono più efficienti di sera, andando quindi a dormire più
tardi). Il sonno costituisce una periodica e reversibile interruzione dello stato di
veglia, caratterizzata da una riduzione della vigilanza (per sospensione della
reattività cosciente che caratterizza la veglia), da un aumento della soglia
percettiva agli stimoli e da uno stato pressoché completo di immobilità associato a
rilassamento muscolare. Nei soggetti adulti, nel corso del sonno notturno, si
succedono 4-6 cicli della durata di circa 100 minuti, caratterizzati ciascuno dal
succedersi di varie fasi: S1 e S2 o sonno leggero; S3 e S4 o sonno profondo;
SREM o sonno paradosso dai rapidi movimenti oculari (“rapid eye movements
sleep”). Ai fini del riposo e, quindi, di un buon funzionamento cerebrale in veglia,
non è tanto importante il tempo totale di sonno, quanto quello di sonno efficiente,
che è dato dalla somma del sonno profondo e di quello REM. In riferimento al
sonno esistono differenze quantitative e qualitative da soggetto a soggetto, con
uno stile individuale nel dormire legato alla personalità: vi sono, ad esempio,
buoni e cattivi dormitori. I primi, al contrario dei secondi, traggono beneficio da
meno ore di sonno al giorno in quanto hanno una maggiore percentuale di sonno
efficiente. Come hanno dimostrato numerosi studi, tra i quali anche alcune nostre
ricerche (Marchesi et al., 1983, 1985, 1989; Marchesi e Nardi, 1989), la qualità
del sonno interferisce con il ritmo circadiano di alcuni ormoni: ad esempio,
quando il sonno non è efficiente scompare il ritmo circadiano della prolattina e si
sfasano i picchi secretori dell’ormone della crescita. Correlati al sonno sono i
sogni, costituiti da attività psichiche qualitativamente diverse rispetto a quelle
della veglia, sebbene, specie nell’infanzia e nell’adolescenza, sia frequente anche
una fantasticheria diurna, il cosiddetto “sognare ad occhi aperti”, che serve ad
appagare di fronte a desideri irraggiungibili o a sfuggire alle perturbazioni critiche
dell’esperienza attuale. I sogni, che costituiscono esperienze del sonno espresse
soprattutto in forma di immagini e racconti, sono dovuti a particolari attività
cerebrali che si verificano sia durante le fasi REM che durante quelle non REM.
Nel primo caso, il sogno assume caratteristiche molto diverse dal pensiero da
svegli, in quanto le immagini, le situazioni e le sensazioni si collocano in un
contesto “irrazionale”, non rispondono ai criteri della logica, della morale,
dell’ordine spazio-temporale e appaiono indipendenti dalla volontà di chi sogna;
nel secondo caso, il sogno è frammentario, poco nitido e meno vivo, rappresenta
una rielaborazione di avvenimenti accaduti di giorno o nelle giornate precedenti e
si riferisce spesso ad episodi a contenuto emotivo spiacevole. È esperienza
comune che i contenuti dei sogni, specie quelli fatti durante le fasi REM, sono
fantasiosi e non seguono le comuni modalità di ordinamento spazio-temporale

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della veglia; sotto questo aspetto, la coscienza umana si esprime irriducibilmente
in due diverse modalità, quella del sonno e quella della veglia (Marchesi e Nardi,
2006). Tuttavia, come ricorda una intuizione di Shakespeare (“noi siamo della
materia di cui son fatti i sogni e la nostra piccola vita è circondata da un sonno”)
e come hanno indagato clinicamente Rezzonico e Liccione (2004, pp. 16-19), ad
un esame più attento ai contenuti soggettivi della coscienza di ogni individuo si
può osservare che una persona, sia quando è sveglia sia quando dorme e sogna,
elabora in forme diverse gli stessi temi di fondo attraverso i quali organizza la sua
identità e mantiene la sua coerenza interna: “uno dei problemi fondamentali che
sottendono il dibattito sull’attività onirica riguarda il valore psicologico da
attribuire al sogno. In questo contesto consideriamo il valore psicologico di un
comportamento umano come sinonimo di valore informativo sulla personalità di
chi lo produce (…) Gli autori che si avvicinano al (…) valore semantico
soggettivamente situato rigettano qualsiasi aprioristica attribuzione simbolica o
linea interpretativa metaforica. Al pari degli altri comportamenti umani, anche il
sogno acquisisce significato nel momento in cui il sognatore lo osserva con il
proprio strumento di valutazione, ossia con la propria conoscenza esplicita (…)
Non è quindi possibile sognare se non nei vincoli delle competenze cognitive del
sognatore stesso (…) In quest’ottica, nessun sogno presenta situazioni o
personaggi direttamente analizzabili secondo simbolismi o metafore
universalmente validi. Non è il sogno, di per sé, ad avere un senso compiuto, di
tipo simbolico o strettamente metaforico, ma è soltanto attraverso la sua
osservazione esplicita che il sognatore può costruirsi un significato del proprio
sogno”. Pertanto, i temi di base della coscienza, sia nello stato di veglia che
durante il sogno, sono gli stessi nello stesso soggetto, derivando dalle modalità
invarianti tacite di riferirsi l’esperienza e di mantenere la coerenza interna.
Apprendimento, Memoria e Neuroni Specchio
L’apprendimento è la funzione psichica che consente di modificare in maniera
stabile il comportamento in seguito ad uno stimolo specifico; è strettamente legato
alla memoria, della quale costituisce la fase di realizzazione dinamica in cui si
formano le varie tracce – gli engrammi mnesici – utilizzate per operare il
confronto, la valutazione e l’interpretazione delle successive esperienze.
La memoria è infatti la funzione psichica che consente di immagazzinare e
rievocare, richiamandole alla coscienza, le esperienze fatte. Il processo mnesico
prevede tre fasi: la fissazione, che permette di aggiungere nuove informazioni alle
tracce mnesiche già presenti, l’archiviazione e il consolidamento, che consentono
la permanenza degli engrammi registrati e la rievocazione del materiale
archiviato, che permette di far riaffiorare alla coscienza le esperienze memorizzate
e di confrontarle con quelle attuali, collocandole nel contesto spazio-temporale di
riferimento. In rapporto alla durata si distinguono una memoria immediata, data
dal numero di informazioni che un soggetto è in grado di ricordare subito dopo la

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loro presentazione, una memoria primaria o a breve termine, che riguarda eventi
recenti e non è ancora stabile, e una memoria stabile o a lungo termine, che può
durare indefinitamente. Nelle fasi di fissazione e di rievocazione un ruolo
essenziale è svolto dal circuito limbico di Papez (ippocampo, fornice, corpi
mammillari, fascicolo mammillo-talamico, talamo anteriore, corteccia limbica,
temporale e prefrontale). I processi di memorizzazione comportano una serie di
modificazioni della struttura dei neuroni e del loro modo di comunicare
reciprocamente nell’ambito di specifici settori del sistema nervoso centrale,
diversi a seconda del tipo di stimolo e di esperienza da registrare. Sotto il profilo
evolutivo, si possono distinguere: una memoria procedurale, presente anche nelle
specie semplici, che permette un apprendimento piuttosto meccanico e non
consapevole (se non nella fase di apprendimento) di automatismi e risposte
condizionate (ad es., nuotare, andare in bicicletta o guidare la macchina); una
memoria episodica, che consente di fissare eventi significativi, inizialmente sotto
forma di singole scene, quindi di sequenze di scene, che compare fin dal primo
anno di vita, sebbene se ne trovino tracce solitamente dopo i 2-4 anni di età; una
memoria dichiarativa, che si associa alla maturazione delle funzioni simboliche e
che permette la registrazione consapevole di fatti, volti e situazioni della vita
quotidiana. Non c’è conoscenza senza memoria di ciò che si è visto e vissuto,
come Dante si fa ricordare da Beatrice (Paradiso, V, 40-42): “Apri la mente a quel
ch’io ti paleso / e fermalvi entro; ché non fa scienza, / sanza lo ritenere, avere
inteso”. Pertanto, come ha scritto Italo Calvino (1975) “la memoria conta
veramente – per gli individui, le collettività, le civiltà – solo se tiene insieme
l’impronta del passato e il progetto del futuro, se permette di fare senza
dimenticare ciò che si voleva fare, di diventare senza smettere di essere, di essere
senza smettere di diventare”. Essa è fondamentale quindi per costruire e
mantenere un senso unitario di sé, in cui le componenti affettive e cognitive si
integrano in un “sentimento del tempo” che si fa anche significato personale,
come appare evidente nella lirica “I Fiumi” di Giuseppe Ungaretti: “Mi tengo a
quest’albero mutilato / abbandonato in questa dolina / che ha il languore / di un
circo / prima o dopo lo spettacolo / e guardo / il passaggio quieto / delle nuvole
sulla luna. / Stamani mi sono disteso / in un’urna d’acqua / e come una reliquia /
ho riposato. / L’Isonzo scorrendo / mi levigava / come un suo sasso. / Ho tirato su
/ le mie quattr’ossa / e me ne sono andato / come un acrobata / sull’acqua. / Mi
sono accoccolato / vicino ai miei panni / sudici di guerra / e come un beduino / mi
sono chinato a ricevere / il sole. / Questo è l’Isonzo / e qui meglio / mi sono
riconosciuto / una docile fibra / dell’universo. / Il mio supplizio / è quando / non
mi credo / in armonia. / Ma quelle occulte / mani / che m’intridono / mi regalano /
la rara / felicità. / Ho ripassato / le epoche / della mia vita. / Questi sono / i miei
fiumi. / Questo è il Serchio / al quale hanno attinto / duemil’anni forse / di gente
mia campagnola / e mio padre e mia madre. / Questo è il Nilo / che mi ha visto /

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nascere e crescere / e ardere d’inconsapevolezza / nelle distese pianure. / Questa
è la Senna / e in quel suo torbido / mi sono rimescolato / e mi sono conosciuto. /
Questi sono i miei fiumi / contati nell’Isonzo. / Questa è la mia nostalgia / che in
ognuno / mi traspare / ora ch’è notte / che la mia vita mi pare / una corolla / di
tenebre”.
Recentemente sono stati individuati sistemi neuronali altamente specializzati, che
consentono l’apprendimento per imitazione e la possibilità di pensare sia in prima
persona (“io”) che in terza persona (“me” visto da altri). Questi sistemi, detti dei
“neuroni specchio” (“mirror neurons systems”) si attivano non solo quando un
individuo compie o sente qualcosa, ma anche quando osserva un suo simile che fa
o prova quella stessa cosa. Essi sono stati descritti dal gruppo di Rizzolatti (2001)
nella corteccia frontale motoria dei primati (area F5, omologa a quella verbale di
Broca negli umani) e, successivamente, anche nelle aree somato-sensoriali e
insulari anteriori coinvolte, rispettivamente, nelle senso-percezioni e nel disgusto
(Geyser et al., 2003), nelle aree della corteccia frontale che gestiscono le
espressioni facciali e la motivazione (Iacoboni et al., 2005), nell’amigdala,
nell’insula, nel giro fusiforme e nella corteccia orbito-frontale e temporale, che
regolano le emozioni e l’empatia (Vogeley e Newen, 2003; Edelman, 2007).
Negli umani, così come (in parte) nei primati antropomorfi, i neuroni specchio
consentono di discriminare e riconoscere le azioni compiute da altri, di
comprenderne il significato, di rispondere ad esse nella maniera più adeguata sul
piano adattivo, di imitarle attraverso l’apprendimento. Questa capacità operativa si
attiva prima ancora che il soggetto ne abbia una consapevolezza esplicita. La
formazione di schemi mentali dei movimenti corporei rispetto agli oggetti esterni
consente al bambino di darsi un’idea dello spazio, come di un luogo individuato
dall’insieme di tutte le azioni possibili che lo possono raggiungere, sia
muovendosi direttamente e toccando, sia utilizzando degli strumenti.
L’attivazione dei neuroni specchio mentre si osserva qualcuno che fa qualcosa è
alla base della maggior parte degli apprendimenti, a partire dalla prima infanzia,
costruendo una serie di “azioni motorie potenziali” che il soggetto inizia a
sperimentare concretamente. Alcuni neuroni si attivano appena viene percepito un
movimento, altri durante la fase di preparazione del movimento attivante, altri
infine alla sua conclusione. La possibilità di codificare in una sequenza spazio-
temporale delle catene di azioni correlate tra loro consente sia di eseguire
fluidamente i propri movimenti, sia di anticipare l’esito di quelli osservati
compiere dagli altri. Nei Sapiens l’evoluzione dei sistemi dei neuroni specchio ha
fatto emergere le capacità imitative e comunicative intenzionali. Sono così
possibili comportamenti ritualizzati, legami e alleanze sociali, forme di
comunicazione specifiche ed univoche a livello logico-analitico, ma anche attente
ai contenuti emozionali soggettivi. Come hanno messo in evidenza Rizzolatti e
Sinigaglia (2006, pp. 2-4 e 183), la presenza dei sistemi specchio dimostra quindi

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che, per comprendere il comportamento degli altri, il cervello traduce le azioni, le
senso-percezioni e le emozioni osservate in un suo linguaggio neurale: “per
decenni ha dominato l’idea che le aree motorie della corteccia cerebrale
sarebbero destinate a compiti meramente esecutivi, privi di alcuna effettiva
valenza percettiva e, meno che mai, cognitiva (…) I neuroni specchio consentono
al nostro cervello di correlare i movimenti osservati a quelli propri e di
riconoscerne così il significato. Senza un meccanismo del genere potremmo
disporre di una rappresentazione sensoriale, di una raffigurazione “pittorica” del
comportamento altrui, ma questa non ci permetterebbe mai di sapere cosa gli
altri stanno davvero facendo (…) Il sistema dei neuroni specchio appare così
decisivo per l’insorgere di quel terreno d’esperienza comune che è all’origine
della nostra capacità di agire come soggetti non soltanto individuali ma anche e
soprattutto sociali (…) Al pari delle azioni, anche le emozioni risultano
immediatamente condivise: la percezione del dolore o del disgusto altrui attivano
le stesse aree della corteccia cerebrale che sono coinvolte quando siamo noi a
provare dolore o disgusto. Ciò mostra quanto radicato e profondo sia il legame
che ci unisce agli altri, ovvero quanto bizzarro sia concepire un io senza un noi
(…) Quali che siano le aree corticali interessate (centri motori o viscero-motori),
e il tipo di risonanza indotta, il meccanismo dei neuroni specchio incarna sul
piano neurale quella modalità del comprendere che, prima di ogni mediazione
concettuale e linguistica, dà forma alla nostra esperienza degli altri. Lo studio del
sistema motorio ci aveva indirizzato verso un’analisi neurofisiologica dell’azione
che era in grado di individuare i circuiti neurali che regolano il nostro avere a
che fare con le cose. La chiarificazione della natura e della portata del
meccanismo dei neuroni specchio sembra ora offrirci una base unitaria a partire
dalla quale cominciare a indagare i processi cerebrali responsabili di quella
variegata gamma di comportamenti che scandisce la nostra esistenza individuale
e in cui prende corpo la rete delle nostre relazioni interindividuali e sociali”.
Attraverso la sintesi di emozioni, pensieri, azioni e intenzioni riconosciute come
appartenenti a sé, il cervello elabora un’ampia gamma di immagini e
configurazioni diverse (Damasio, 1999, 2012; Edelman, 2007; Schulte-Rüther,
2007). Inoltre, Meyer e Damasio (2009) hanno osservato che le rappresentazioni
psichiche della realtà esterna, sia durante la loro formazione che nel corso della
loro rievocazione mnesica, hanno origine dall’attività neurale della corteccia
sensoriale primaria; i neuroni della corteccia associativa non entrano direttamente
nella codificazione dei contenuti mentali espliciti ma custodiscono i codici
necessari per ricostruire una approssimazione delle mappe percettive originali
della corteccia primaria. Il flusso ininterrotto di informazioni sensitive generali
(tattili, ecc.) e sensoriali (visive, uditive, ecc.), che consentono la formazione delle
rappresentazioni mentali corrispondenti al mondo esterno, avviene non solo dalla
periferia (ingressi recettoriali) verso i centri di integrazione (corteccia anteriore

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prefrontale e temporo-parietale), ma anche in direzione opposta (dalla corteccia
associativa a quella sensoriale primaria). La direzione periferia-centro sembra
connessa con la elaborazione di stimoli complessi e produce comportamenti
automatici, mentre la consapevolezza sensoriale di un oggetto richiede anche la
seconda attività. Come è stato messo in evidenza mediante risonanza magnetica
funzionale (fMRI), quando un soggetto pensa in prima persona attiva sistemi
localizzati nella corteccia prefrontale, parietale mediale e temporo-parietale
destra. Quando il soggetto pensa in terza persona, mettendosi quindi nella
prospettiva dell’altro, attiva non solo la corteccia prefrontale mediale destra e
sinistra, ma anche quella temporo-mediale sinistra. Questi dati indicano che in
entrambi i casi sono attivati sistemi neuronali condivisi localizzati a livello della
corteccia prefrontale mediale; quest’ultima rappresenta quindi un “nodo”
funzionale importante nel passaggio da una messa a fuoco interna ad una esterna.
Attenzione, Pensiero e Linguaggio
L’attenzione è la funzione cognitiva che consente di selezionare e mettere a fuoco
determinati stimoli ambientali rispetto ad altri che rimangono sullo sfondo.
L’attenzione comprende sia la capacità di concentrazione sia la capacità di non
distrarsi, grazie alla inibizione degli stimoli interni o esterni che possono
interferire negativamente. Essa è strettamente connessa alla vigilanza, che ha il
ruolo di modularla. L’attenzione si correla inoltre con altre espressioni psichiche
come la volontà, l’affettività, l’interesse. Essa è assicurata in primo luogo
dall’attività delle aree associative prefrontali della corteccia cerebrale; coinvolge
tuttavia numerose strutture di entrambi gli emisferi, sia a livello corticale che
sottocorticale. Sotto il profilo neuropsicologico, l’attenzione non è un fenomeno
continuo, ma fasico: essa può passare da volontaria e selettiva (conseguente alla
scelta e allo sforzo del soggetto di concentrarsi su un determinato oggetto) e da
concentrata (focalizzata su particolari contenuti con esclusione di altri), ad
aspettante (in maniera generica, tipica degli stati di allerta), e, infine, a dispersa,
(per così dire basale, meno pronta e focalizzata) a seconda delle diverse fasi dello
stato di veglia, delle esigenze della vita di relazione e della motivazione
soggettiva. Ovviamente, esiste una stretta relazione tra il livello d’attenzione e
l’affettività: i coloriti affettivi (sia positivi che negativi, insieme con la reazione di
allarme) attivano l’attenzione, mentre la fatica, la noia, l’abitudine, l’indifferenza
affettiva (ma anche stati psicopatologici come la depressione) la riducono.
Il flusso dei processi mentali che siamo soliti chiamare “pensiero” (immagini,
idee, simboli, rappresentazioni) è espressione di attività complesse che
consentono di conoscere la realtà, interna ed esterna. Sull’importanza dei
contenuti emozionali e non verbali si è già detto. Essi costituiscono la porta di
ingresso alla conoscenza esplicita ed ai suoi strumenti verbali logico-analitici.
L’ideazione rappresenta il processo che dà ordine e forma al pensiero. Essa è il
risultato dell’integrazione corticale di messaggi diversi, senso-percettivi, motori e

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affettivi, sia altamente specifici (si pensi ad una informazione visiva), sia globali e
diffusi (come la maggiore o minore vigilanza, legata alle vie plurisinaptiche,
specie a livello della formazione reticolare del tronco encefalico). Se la vigilanza
assicura il contatto con l’ambiente (da estremamente vigile e selettivo a fluttuante,
distratto e assonnato, fino ad essere minimo nel sonno profondo), il pensiero
utilizza la vigilanza e le diverse informazioni dando loro forme e contenuti
diversi, che si esprimono sia durante le varie fasi della veglia che in quelle del
sonno. Le funzioni individuali del pensiero hanno una specifica forma (modo in
cui vengono messe insieme idee e associazioni) ed un contenuto (l’idea che il
soggetto sta pensando). Mediante il pensiero viene valutata la realtà esterna ed
interna, verificando come inserirsi nel qui ed ora dell’esperienza (“esame di
realtà”). Questa valutazione è espressione della sequenza di idee e associazioni
che il soggetto opera per organizzare e collegare causalmente ciò che sperimenta,
arrivando a risolvere i problemi in un modo che appare coerente e ben orientato
nella realtà. Nella pratica clinica, quando il pensiero è costituito da un’idea o un
insieme di idee che dominano a lungo la vita del soggetto, assumendo
un’importanza superiore a tutte le altre, si parla di “idea prevalente”. Se il
pensiero diviene persistente, intrusivo e si ripete in modo incoercibile,
indipendentemente dalla volontà del soggetto, che lo critica ma non ne ha il
controllo, si parla di “idea ossessiva” (la quale in genere si associa a
comportamenti ripetitivi, attuati nel tentativo di neutralizzarli e sopprimerli,
definiti “compulsioni”). Quando infine il pensiero è così rigido e patologico da
apparire all’esterno evidentemente falso, mentre il soggetto non appare capace di
giudicarlo tale, di criticarlo e di cambiarlo, si parla di “idea delirante”. In
condizioni fisiologiche, la logica che consente l’esame di realtà e la soluzione di
problemi, sia di natura verbale che pratica, viene solitamente riferita come
espressione dell’intelligenza soggettiva e nel corso dello sviluppo passa da
modalità operative univoche concrete a quelle astratte, relative e
multidimensionali, che consentono di sviluppare metafore ed ipotesi.
I processi cognitivi, elaborati attraverso le funzioni associative della corteccia
cerebrale, consentono di esprimere le cosiddette funzioni simboliche, cioè delle
rappresentazioni interne (“simboli”) della realtà esterna. Esse consistono in:
“prassie” (acquisizione della prensione manuale e della capacità di compiere gesti
complessi nella sequenza giusta, in modo da conseguire uno scopo), “gnosie”
(capacità di riconoscere aspetti specifici della realtà) e “fasie” (capacità di
produrre e comprendere il linguaggio verbale).
I processi simbolici si esprimono mediante ragionamenti (selezione, confronto e
integrazione delle informazioni, riordinandole in un modo che il soggetto
percepisce coerente), giudizi (attribuzione di un valore positivo, negativo o neutro
alle varie situazioni dell’esperienza, attraverso una complessa serie di attività di
riordinamento e spiegazione dell’esperienza assimilata) e critiche

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(discriminazione e selezione coerente di ciò che si ritiene vero o falso, reale o
immaginario, giusto o sbagliato; attraverso la critica vengono valutati anche il
proprio comportamento e quello degli altri, selezionando ciò che si ritiene
accettabile da ciò che non può esserlo).
La maturazione del pensiero astratto e delle capacità logiche modula ma non
sopprime altre due modalità del pensiero, ricche di componenti affettive: quella
immaginifico-fantastica (che consente di svincolarsi dalla realtà, sulla base delle
attivazioni emotive che prevalgono in un determinato momento) e quella intuitiva
e creativa (che permette di cogliere e dar forma innovativa ai problemi,
progettando in modo originale e produttivo la propria vita). D’altra parte esiste,
una stretta relazione tra intuizione, creatività e pensiero divergente.
Il pensiero divergente esprime la capacità di affrontare un problema o una
situazione in modo diverso, non conforme alla prassi e flessibile; la creatività
permette di dar vita ad espressioni artistiche nuove ed originali, mentre
l’intuizione (“insight”) è la capacità di giungere ad una comprensione improvvisa
che consente di risolvere un problema, reinterpretare correttamente una situazione,
spiegare un quesito, superare l’ambiguità di una percezione (“Ah, ho trovato!”, l’
“eureka” di Archimede). L’insight compare in modo discontinuo rispetto al
pensiero immediatamente precedente, ma in realtà è il punto di arrivo di una serie
di processi cerebrali che avvengono in tempi differenti (Kounios e Beeman, 2009)
attivando la corteccia anteriore del cingolo e quella prefrontale (Dietrich e Kanso,
2010). Quest’ultima (area 10 di Brodmann) consente di integrare tutte le
operazioni cognitive, producendo una migliore risposta adattiva (Ramnani &
Owen, 2004). Nei processi creativi si verifica un’attivazione delle aree prefrontali
dorso-laterali, con una contemporanea inibizione di quelle della corteccia parietale
mediale del precuneo. Se non avviene questa inibizione (come accade in gravi
patologie mentali quali la schizofrenia) anche la memoria operativa e le capacità
innovative del soggetto sono compromesse. Mentre i neuroni che entrano a far
parte dei sistemi collegati con la periferia o con altre strutture del sistema nervoso
centrale maturano progressivamente le proprie competenze, quelli che restano
isolati vanno incontro ad una “potatura” funzionale Takeuki et al. (2011). Occorre
tuttavia tenere presente che i processi creativi non sono specificamente e
costantemente legati a singoli processi o aree psichiche, ma sono estremamente
plastici e diversificati anche nello stesso soggetto in fasi differenti della sua vita.
Tutti i processi del pensiero che sono stati descritti vengono percepiti
dall’individuo come oggettivi, senza essere cosciente (o essendolo solo
parzialmente) delle loro componenti soggettive, guidate dalle attivazioni affettive.
Come ricordava Guidano (1981), i resoconti verbali di un’esperienza consente di
dare una spiegazione del proprio modo di sentirsi attraverso l’altro che deve
essere congruo, dal punto di vista interno, con la costruzione del proprio senso di
identità.

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In chiave evolutiva, studiando i processi “metacognitivi” che consentono al
cervello di elaborare le idee (“pensare il pensiero”) e riflettere sulla propria
conoscenza, si può osservare una analogia tra sviluppo ontogenetico individuale e
sviluppo filogenetico della specie. Infatti, come è stato evidenziato nell’ambito
psicolinguistico, sia nel percorso evolutivo delle culture, sia durante lo sviluppo
ontogenetico, il linguaggio si esprime attraverso due fasi successive, quella della
parola orale e quella della parola scritta.
Nel linguaggio orale, tipico delle società primitive e dello sviluppo umano in età
prescolare, le informazioni sono immagazzinate e gestite attraverso associazioni
ritmiche e analogiche come proverbi, filastrocche, danze rituali. Il bambino vuole
sentirsi raccontare le favole sempre allo stesso modo, senza variazioni e senza
omissioni, altrimenti protesta. Anche gli antichi avevano bisogno delle certezze
espresse dai “mitemi”, termine coniato da Lévi-Strauss (1978) per indicare i nuclei
narrativi fondamentali di un mito, raccontato da un personaggio sacro o
“sciamano” (dal sanscrito “sramana” = monaco) o cantato da un cantore ufficiale
o aedo (dal greco “ἀοιδός”, “aoidòs”), come avveniva nel mondo greco arcaico
intorno al fuoco posto al centro della grande sala – chiamata, appunto, “μέγαρον”,
“megaron” – dove tutti si radunavano. La memoria orale ripetuta e trasmessa era
rassicurante per gli ascoltatori ai quali veniva rivolta, dava coesione alla società
che la recepiva e se ne appropriava e assicurava continuità al succedersi delle
generazioni. A queste considerazioni fa riferimento l’esplorazione del rapporto tra
mito e storia fatta da Havelock (1986). Mentre il mito (dal greco “μῦϑος”, “mythos”
= leggenda) è irrazionale, pre-scritturale ed è quindi in relazione diretta con il
canale emozionale, il logos (dal greco “λόγος” = parola, verbo, racconto), con le
sue caratteristiche di razionalità e scritturalità, ha permesso all’uomo di pensare a
sé e al mondo in termini più distaccati e riflessivi, mediante le capacità di
ragionamento, di giudizio e di critica.
Il linguaggio scritto, comparso nell’evoluzione umana con l’invenzione
dell’alfabeto e che caratterizza la vita a partire dalla scolarizzazione, consente di
separare conoscente e conosciuto e, quindi, di promuove la crescita del sé
attraverso la ricerca di significato. L’alfabeto non esprime più un disegno, sia pure
schematico, corrispondente ad un oggetto o ad un concetto, ma crea una
corrispondenza tra un segno e un suono. La scrittura alfabetica è un’invenzione
greca perché, anche se deriva da quella fenicia, i cui segni avevano ancora una
valenza simbolica e sacrale, solo con i greci le singole lettere sono diventate segni
fonemici, che hanno iniziato ad esprimere un nuovo ordine, quello del logos. La
scrittura ha introdotto, accanto all’ascolto, la lettura, che può essere differita
rispetto alla comunicazione verbale ed anche ripetuta e rivisitata. Ciò ha
consentito la nascita di uno spazio individuale interiore, separato dalla trama,
autonomo e critico rispetto a quanto narrato. La parola scritta infatti produce una
distanza tra lettore e oggetto della narrazione: permette al soggetto che legge di

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non identificarsi totalmente con ciò che viene narrato, ma di rappresentarselo
secondo la propria soggettività. Attraverso le funzioni razionali della coscienza,
che esprimono il logos, emerge la capacità di mentalizzare se stessi e il mondo.
L’utilizzo del pensiero astratto, che subentra nel corso della maturazione
adolescenziale a quello concreto della fanciullezza, cambia la qualità del rapporto
tra conoscenza soggettiva e realtà, rendendo possibili la formulazione di ipotesi e
le relative verifiche. La realtà “oggettiva” diviene conoscibile solo attraverso la
“soggettività” dell’individuo che la percepisce.
Sotto il profilo ontogenetico, l’uscita dall’ordine del mito, grazie all’acquisizione
del pensiero astratto, consente lo sviluppo di una dimensione storica personale più
duttile e relativa, il cui filo conduttore è costituito da una nuova forma di trama
narrativa, nella quale anche il senso del tempo esprimere un ordine lineare
univoco. Come ho scritto (Nardi, 2012, p. 12), “la storia la fanno le pietre e le
persone. Le pietre fanno la storia perché resistono tenaci all’usura del tempo, e i
segni che esso lascia non fanno che renderne più prezioso l’aspetto. Alle pietre,
fin dall’origine dell’uomo come specie, è stato affidato il compito di essere
strumento del vivere quotidiano e testimonianza della sua presenza, segno
tangibile di civiltà non solo materiale (…) La storia la fanno le persone, che
hanno dato anima alle pietre e che di generazione in generazione hanno costruito
i frutti di una cultura (…) Dunque la storia, si tratti di persone o pietre, non esiste
senza memoria. La memoria ordina i fatti, assicura una continuità tra passato e
futuro, lega gli eventi alla risonanza emotiva che hanno suscitato e continuano a
suscitare. Anzi, non ci può essere identità, personale ma anche cittadina, senza
memoria. E dato che l’identità è intimamente legata al senso della storia, è
primario mantenerla e alimentarla, perché persone e pietre continuino a parlare,
nel vento sottile della storia, e a scaldare pensieri e sentimenti”.
In questa trama si possono rintracciare elementi propri sia del livello
dell’esperienza immediata, sia di quello delle spiegazioni dell’esperienza: i primi
connessi con il fluire continuo di senso-percezioni, di immagini e di attivazioni
emozionali correlate; i secondi con il successivo riordinamento dell’esperienza
attraverso spiegazioni logico-analitiche che producono l’immagine consapevole di
sé. In questo modo, da un lato, l’ “io”, legato al fluire continuo dell’esperienza
immediata, esprime il sé protagonista, che percepisce e agisce in prima persona e
in presa diretta l’esperienza che sta vivendo. Dall’altro lato, attraverso il
riordinamento, la valutazione e le spiegazioni dell’esperienza, il soggetto può
riconoscere, comprendere e valutare il “me” che agisce, esprimendo il sé
narratore. Dall’interazione tra questi aspetti, che caratterizzano le trame narrative
della coscienza, dipende la capacità di mantenere il senso di unicità personale e di
continuità nel tempo, nonostante i cambiamenti che il soggetto sperimenta nella
vita (Guidano, 1987). Riprendendo le considerazioni espresse da Ricoeur (1993),
nel considerare il “sé come un altro”, Morin (2002, p. 59) ha ricordato il

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paradosso per cui “l’oggettività non può che venire da un soggetto”: “Una qualità
essenziale del soggetto è l’attitudine a oggettivare, a cominciare dall’attitudine a
oggettivare se stesso (…) È questa capacità del soggetto di vedersi come oggetto
(Me), senza smettere di essere soggetto (Io), che gli permette di assumere nel
contempo il suo essere soggettivo e oggettivo, di trattare oggettivamente il suo
problema soggettivo come quello di una malattia. È ciò che gli dona la capacità
di sopravvivere nel mondo, cioè di confrontare in ogni circostanza un principio di
realtà con il principio di piacere”. L’oggettività di ciò che è soggettivo va dunque
posta al centro dell’indagine sulla coscienza, come ricordava Guidano (1992, pp.
14-15): senza dubbio l’aspetto più singolare del modo umano di ordinare
l’esperienza consiste nella costante ricerca di un significato, come appare
evidente sia dal punto di vista evolutivo che da quello ontogenetico (…) A livello
individuale, questa ricerca incessante di significato prende forma nel ciclo di vita
attraverso l’elaborazione e il mantenimento di un significato personale coerente;
in altre parole, come l’individuo che avverte la sua vita (‘Io’) si pone in relazione
al «che significa essere un essere umano» portato avanti dalla tradizione in cui
vive, riuscendo così a definirsi e riconoscersi in modo continuativo e univoco
(‘Me’)”. Nella psiche si organizzano quindi dei modi di esplorare e conoscere –
affettivamente e cognitivamente – il mondo interno ed esterno, espressi nello stile
individuale di costruire e mantenere il senso di sé e di relazionarsi con gli altri.
Le abilità logiche verbali ed analitiche del pensiero, assumendo progressivamente
un ruolo guida nel dare un senso unitario esplicito (quindi, consapevole) al sé e al
suo rapporto con il mondo, mostrano che gli elementi conoscitivi non sono fatti
solo da una serie di unità di informazione, ma possono cambiare ed essere
aggiornati durante la vita senza produrre necessariamente cambiamenti sensibili
del senso di sé. L’esperienza evidenzia infatti che i cambiamenti cognitivi
possono essere molteplici, frequenti, spesso rapidi, ma non sempre danno luogo
ad attivazioni soggettive significative. Viceversa, i cambiamenti emozionali
appaiono molto più direttamente legati a quelli della coerenza interna e producono
sempre un riassetto del senso di identità. Spesso per mantenere unitaria la
coerenza interna si costruiscono a livello cognitivo veri e propri pattern di
autoinganno. Pertanto, sono i cambiamenti emozionali quelli più connessi con la
soggettività. A partire da essi gli stati interni sono percepiti come aspetti diversi di
una esperienza personale unica e continua (Nardi, 2007, 2013).
D’altra parte, la complessità della coscienza trova la sua coerenza interna nella
reciproca regolazione delle risorse affettive e cognitive. Quando esse si esprimono
nelle loro valenze adattive, il soggetto può utilizzare coerentemente le acquisizioni
fatte e può sperimentare nuovi percorsi, nei quali intuizione e creatività non
appaiono dirompenti ma sono in linea, pur nella diversità, con la propria OP. In
questo è la profondità etica della coscienza, che può essere colta solo se si utilizza
anche la capacità emozionale di meravigliarsi, come ricordava Kant (1788, Critica

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della Ragion Pratica, pp. 197-198): “due cose riempiono l’animo di ammirazione
e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la
riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se
fossero avvolte nell’oscurità, o fossero nel trascendente fuori del mio orizzonte; io
le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia
esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile
esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile,
con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro
movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia
dal mio io indivisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che
ha la vera infinitezza, ma che solo l’intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò
anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una
connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e
necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla
affatto la mia importanza di creatura animale che deve restituire al pianeta (un
semplice punto nell’Universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata
provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece,
eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la
mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente
dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può
riferire dalla determinazione conforme ai fini della mia esistenza mediante questa
legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa
vita, ma si estende all’infinito”. Inoltre, come ha osservato Balbi (2011), la stretta
interazione tra aspetti emozionali e cognitivi consente di avere stati mentali che si
riferiscono ad altri stati mentali, propri o di altri, i quali, a loro volta, si possono
riferire ad altri stati mentali ancora (“meta-rappresentazioni”). Questa capacità
regola le intenzioni e il comportamento, prendendo in considerazione quello che
un’altra persona ci può attribuire, in rapporto al sentimento che questa persona
prova per noi (“intenzionalità ricorsiva”): “le emozioni, biologicamente più
antiche delle cognizioni, costituiscono un sistema che dirige l’attenzione e
controlla l’ambiente, assegnando alla coscienza una valutazione immediata e
globale del contesto, che facilita una rapida risposta adattiva. Ciononostante in
noi umani nulla accade fuori dai confini dell’autocoscienza, in modo che questa
attività regolatrice del sistema emozionale è a sua volta mediata dal sistema
personale. A differenza di quanto accade negli animali, a livello umano, il sistema
emozionale comporta sempre complessi strati di processi di ordine cognitivo ed
affettivo che definiscono il suo funzionamento (..). Con l’avvento dei primati,
circa quaranta milioni di anni fa, sorge una nuova forma di relazione tra i
membri del gruppo, che genera un incremento del sentimento di differenziazione
individuale e una manipolazione più efficace delle proprie emozioni, per

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assicurare il mantenimento delle buone relazioni gruppali e di amicizia tra i
membri, fondamentali per la sopravvivenza individuale. I primati vivono in un
dominio di vincolo mentale, nel quale le emozioni sono mediate da operazioni
metarappresentazionali, che sono rese possibili dall’emergente capacità cognitiva
di attribuire stati mentali intenzionali all’altro e di coordinarsi con l’altro
manipolando i propri stati mentali. Per la prima volta nella storia della vita, un
animale è capace di simulare di avere uno stato intenzionale diverso da quello
sperimentato, con la finalità di generare una falsa credenza nell’altro. La
realizzazione di questa manovra richiede una complessa operazione cognitiva che
consiste nella distinzione tra il proprio stato soggettivo, che l’individuo
sperimenta, e il punto di vista oggettivo, cioè l’attribuzione che l’individuo fa di
come viene visto dall’altro. Questa forma di mediazione psichica delle emozioni
svolge la funzione di adeguare il comportamento alle esigenze, di ordine politico
e sociale, in cui vivono i primati ... Tale sistema affettivo metarappresentazionale
comincia ad operare molto precocemente e in maniera tacita nel neonato umano
con sviluppo normale (...) Noi umani, prima che nel mondo delle relazioni
comportamentali concrete, viviamo nel mondo delle relazioni di stati intenzionali,
nel quale mondo si dispiega un dominio emozionale costituito, anziché dalle
proprie emozioni discrete, da sentimenti complessi e rappresentazioni affettive
astratte. Questo dominio si caratterizza, inoltre, per il fatto, apparentemente
paradossale, che una maggiore differenziazione dagli altri implica
simultaneamente un incremento massimo della dipendenza affettiva dagli altri.
Da una parte, la possibilità di una massima differenziazione individuale conduce
all’esperienza di identità personale (autocoscienza astratta); dall’altra, la
rappresentazione di un senso stabile di massima reciprocità, da parte di un altro
significativo (vincolo metarappresentazionale astratto), si trasforma in una
condizione imprescindibile per la continuità del sentimento personale continuo e
viabile. Questa condizione è il risultato della dipendenza reciproca, esistente
dall’inizio della vita, tra affettività e coscienza. Entrambe le istanze
dell’esperienza fanno parte di uno stesso processo dialettico, nel quale procedono
in modo simultaneo e parallelo, a livelli ogni volta più astratti di organizzazione.
La percezione di una nuova esperienza affettiva propria, nel corso della relazione
con l’altro, facilita una migliore demarcazione dall’esperienza altrui e promuove
nel neonato umano un’espansione della sua coscienza che, a sua volta, lo prepara
a nuove distinzioni della propria esperienza (...) Questo processo passa
ciclicamente per momenti di meta-stabilità, nei quali la rappresentazione della
relazione significativa, e del proprio modo di essere nella stessa, viene
riformulata in accordo con nuovi punti di vista, generati da discrepanze affettive.
Cosi, progressivamente durante la l’infanzia e l’adolescenza, si costruisce la
metacoscienza affettiva individuale, che sarà la base dell’organizzazione
dell’identità in ogni persona. Questa è la rappresentazione, astratta e tacita, di

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una trama di sentimenti di reciprocità affettiva costruita nel corso di una
relazione interpersonale significativa e riformulata in ciascuna istanza critica del
proprio ciclo vitale. Questa rappresentazione segna i confini entro i quali il
sistema operativo lineare della coscienza fenomenica può funzionare senza
alterazioni, applicando con efficacia le sue risorse alle relazioni della persona
con il mondo fisico e sociale”.
Coscienza
La coscienza – che comprende sia i contenuti conoscitivi espliciti che quelli taciti,
ricchi di componenti affettive – viene fatta coincidere empiricamente con la
capacità di rendersi conto degli aspetti esterni e interni della realtà. Quando è
riferita a sé – aspetto autoreferenziale – si parla comunemente di “coscienza di
sé”.
Da un punto di vista clinico, nell’ambito della coscienza vengono indagati aspetti
riconducibili a tre aree: a) l’ampiezza del campo di coscienza, cioè la capacità di
essere consapevoli di una serie di contenuti e situazioni; b) la lucidità dello stato
di coscienza, cioè la capacità di centrare l’attenzione su contenuti ben definiti; c)
l’orientamento spazio-temporale della coscienza, cioè la capacità di collocare
correttamente nello spazio e nel tempo i vari contenuti della coscienza.
Nei disturbi psicopatologici che coinvolgono i processi cognitivi ci può essere una
difficoltà più o meno evidente a percepire e a riferirsi l’esperienza in maniera
adattiva: ad esempio, in conseguenza di quadri organici (come un trauma cranico)
ci possono essere lacune mnesiche che determinano una perdita di tracce
memorizzate subito prima (amnesia retrograda) o dopo l’evento traumatico
(amnesia anterograda), oppure disturbi psichici caratterizzati da alterazioni
qualitative della memoria (paramnesie), che possono consistere in ricordi reali ma
falsati (illusioni mnesiche o allomnesie) e falsi riconoscimenti (allucinazioni
mnesiche o pseudomnesie), con l’impressione di avere già visto o vissuto una
situazione in realtà mai fatta (déjà vu, déjà vécu) o, al contrario, di non
riconoscere, non ricordare più e vivere come estranea un’esperienza realmente
vista o vissuta (jamais vu, jamais vécu).
Falsi ricordi possono comparire sia come tentativo non cosciente di riempire le
lacune mnesiche determinate dall’alcolismo cronico o dai processi degenerativi
demenziali (confabulazioni), sia come espressione di uno stato psichico delirante
(con la certezza di aver vissuto certe esperienze presenti, in realtà, solo nella
propria immaginazione).
A queste alterazioni mnesiche si associano abitualmente disturbi dell’attenzione,
che non riesce a focalizzarsi stabilmente su qualcosa, attratta da altri stimoli poco
significativi (distraibilità) o che può ridursi globalmente e fluttuare (disattenzione
o ipoprosessia).

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PLASTICITÀ E SPECIALIZZAZIONE EMISFERICA
Nel corso della vita, i sistemi neuronali perdono parte delle loro “capacità
plastiche” a vantaggio di una crescente “specializzazione funzionale”, orientata in
larga parte dall’apprendimento. Esiste una notevole variabilità nei processi di
specializzazione, legata alle capacità di adattamento dei sistemi coinvolti. La
specializzazione di specifiche competenze in ciascun emisfero è il risultato di
processi attivi di adattamento che fanno emergere nuove competenze senza
perderne molte altre, in una “competizione” nell’utilizzo dello spazio corticale
disponibile. Gli studi sui rapporti tra attenzione e specializzazione emisferica
hanno dimostrato che ciascun emisfero è in grado di orientare l’attenzione
spaziale anche alla sfera sensoriale dell’altro emisfero (con collegamenti che non
coinvolgono solo le fibre del corpo calloso, dato che questa capacità è in parte
conservata anche dopo una disconnessione emisferica). Quando un emisfero è
fortemente preso da un compito attentivo riduce le capacità dell’emisfero
controlaterale di svolgere un altro compito, utilizzandone quindi, in parte, le
strutture. Sotto questo aspetto, i soggetti con i due emisferi disconnessi
conservano maggiori capacità prestazionali dei singoli emisferi nello svolgere più
compiti attentivi contemporaneamente.
Numerose conoscenze sulla specializzazione emisferica derivano dagli studi sulla
disconnessione tra i due emisferi, dovuta a cause congenite o chirurgiche, con
interruzione delle fibre di collegamento tra essi costituite in gran parte dal corpo
calloso e in piccola parte dalla commissura anteriore e da quella posteriore. In
caso di disconnessione emisferica, quando si proiettano immagini diverse
rispettivamente alla parte destra del campo visivo – quindi, all’emisfero sinistro –
e alla parte sinistra del campo visivo – quindi, all’emisfero destro – il soggetto è
in grado di indicare e disegnare le immagini, ma non è capace di descrivere –
attraverso l’emisfero “verbale” sinistro – quelle che hanno raggiunto
esclusivamente l’emisfero destro. Inoltre l’emisfero sinistro, quando deve spiegare
perché la mano sinistra – collegata all’emisfero destro – associ tra loro,
indicandole o disegnandole, le immagini giunte solo all’emisfero destro, dato che
non conosce le motivazioni che hanno portato l’emisfero destro a fare le
associazioni tra le immagini percepite, fa una “interpretazione” utilizzando solo le
informazioni di cui dispone e producendo, di conseguenza, una ricostruzione
logica ma almeno in parte falsa. Così ne parla Gazzaniga (1990): “la corteccia
frontale sinistra è implicata in maniera cruciale nei compiti di codificazione (pp.
11-12). La maggior parte dei soggetti con cervello diviso possiede un linguaggio
solo nell’emisfero sinistro. I pochi che sono dotati di un linguaggio in entrambi
gli emisferi ci permettono di esaminare quanto l’introduzione del linguaggio
nell’emisfero destro sia in grado di potenziare la capacità cognitiva complessiva
di questa struttura cerebrale (p. 12). Sembra più probabile che vi siano circuiti
deputati a certe attività mentali, e che le componenti implicate in ogni capacità

91
mentale siano collegate tra loro da interconnessioni corticali sia intra- che
interemisferiche (…) I fenomeni su base percettiva associati con la superiorità
dell’emisfero destro potrebbero significare semplicemente che l’emisfero sinistro
è impegnato a svolgere più operazioni innescate dallo stimolo di quanto non
faccia l’emisfero destro (…) Questo suggerisce che, dopo la commissurotomia, la
presenza di certe capacità linguistiche potrebbe essere l’elemento dal quale
dipende se l’emisfero destro sarà o no in grado di svolgere compiti percettivi o di
elaborazione spaziale (pp. 26-27). Molti ricercatori non considerano più
l’immaginazione come un processo unificato facente parte del sistema propositivo
del linguaggio umano. Si pensa piuttosto che essa consti di diversi sotto-processi,
ciascuno gestito da aree cerebrali nettamente distinte (…) Le ricerche effettuate
finora sembrano indicare che, quando un compito richiede una processazione in
due tempi, cioè la produzione di un’immagine e poi il riconoscimento di parti
dell’immagine stessa, l’emisfero destro mostra un chiaro deficit. È come se
l’emisfero destro non potesse accedere alla conoscenza che pure possiede, per
utilizzarla nella soluzione di problemi (…) Quindi, l’emisfero destro riesce ad
estrarre un’informazione da una sequenza limitata facente parte di una serie di
stimoli, e ad usarla per facilitare i giudizi percettivi successivi. Ma quando si
considera questa capacità alla luce delle altre sue incapacità, appare evidente
come quella capacità sia relativamente automatica e proceda in assenza di una
pianificazione creativa (…) La capacità di formare immagini sembrerebbe perciò
esistere indipendentemente da un linguaggio propositivo (…) Evidentemente, la
capacità di riprodurre sequenze funziona indipendentemente dai processi del
linguaggio (pp. 29-36) (…) La disconnessione degli emisferi ha un effetto marcato
sulle capacità di richiamo, mentre resta normale quella di riconoscimento (p. 39).
Gli emisferi separati si affidano ad un comune sistema di orientamento che serve
a mantenere un singolo punto focale di attenzione, sistema che utilizza
l’informazione visiva proveniente da entrambi gli emicampi (p. 48). La mia idea,
ispirata da ricerche sul cervello (…) è che la nostra specie generi pensiero e
conoscenza come conseguenza di una speciale facoltà del cervello umano di
interpretare gli eventi. Questo sistema interpretativo, che appare legato alla
capacità di trarre deduzioni, ha la sua sede, nella maggior parte degli uomini,
nell’emisfero sinistro, ed io sono sempre più convinto che esso si trovi nel
territorio di distribuzione dell’arteria cerebrale media di sinistra. Ciò che non è
ancora chiaro è se i tipi di deduzioni che possono essere fatte riguardo ad una
serie di eventi (dati) siano o no limitati. In altri termini, il sistema interpretativo
della nostra specie ha un repertorio finito di algoritmi sui quali fondarsi
nell’interpretazione del significato dei dati che gli pervengono? (p. 60). Si può
dimostrare che l’emisfero destro può dare inizio ad una risposta specifica
dell’emisfero sinistro senza che quest’ultimo sia in grado di accedere
coscientemente a questa informazione. In breve, (…) le risposte possono essere

92
iniziate e completate al di fuori della sfera della coscienza (p. 61). Il quadro che
emerge dallo studio dei cervelli divisi, sia per la applicazione di una elegante
tecnica di disconnessione nel controllo dell’epilessia, che per effetto di lesioni
focali prodotte da un infarto o da un tumore, suggerisce un modello del cervello
sostanzialmente fondato su processi paralleli cooperanti nella nostra vita
cosciente. Le loro funzioni procedono indipendentemente, così come la maggior
parte degli altri processi fisiologici, al di fuori della sfera della nostra coscienza.
Impadronirsi di tutte queste attività e dar loro un senso sembra essere la funzione
di processi specifici che si svolgono nell’emisfero sinistro del cervello umano.
Questa funzione, la funzione dell’interprete, opera sui prodotti delle attività
modulari per costruire uno schema che possa spiegare la logica sottesa a tutte le
attività che risultano in un comportamento. Il comportamento, ahinoi, diventa un
portato di ciò che di volta in volta noi crediamo sia la verità (p. 67)”. Pertanto,
mentre l’emisfero destro fornisce resoconti dell’esperienza più veridici, limitati e
contingenti, legati agli aspetti degli stimoli che lo raggiungono, l’emisfero sinistro
ricostruisce le esperienze vissute costruendo schemi logici ai quali adatta anche
gli elementi legati alle altre esperienze (anche quelli non veri, purché siano
coerenti con lo schema utilizzato). Infatti, le aree verbali dell’emisfero sinistro
sono alla continua ricerca di un significato, per dare un ordine soggettivo alle
esperienze fatte. Questa ruolo di “interprete”, d’altra parte, lo espone al rischio di
compiere errori, operando inclusioni o generalizzazioni eccessive o fornendo una
ricostruzione del passato in contrasto con ciò che è realmente accaduto.
Le attitudini logico-analitiche dell’emisfero sinistro – la cui capacità di risolvere
problemi, di individuare strategie di ricerca, di ordinare gli aspetti percepiti e di
costruire una consapevolezza di sé e del mondo è molto più ampia e profonda
rispetto a quella del più veritiero e schematico emisfero destro – consentono
all’individuo di integrare attivamente i vari dati ricavati dall’esperienza,
utilizzando spiegazioni più o meno elaborate e verosimili. Il riordinamento
consapevole dell’immagine di sé e del mondo emerge attraverso le spiegazioni e
la lettura esplicita dell’esperienza, con una trama narrativa che utilizza solo una
parte dell’insieme di senso-percezioni, immagini ed emozioni, in larga parte
inconsapevoli, che caratterizzano il fluire dell’esperienza durante la vita. Pertanto,
come ha osservato Guidano (1992), ogni conoscenza è sempre il risultato di una
interpretazione: “ogni interpretazione è il prodotto emergente di un processo
continuo di regolazione reciproca tra l’esperire e lo spiegare, grazie al quale il
fluire dei pattern di esperienza immediata diventa passibile di distinzioni e
riferimenti, dando luogo a un riordinamento (spiegazione) in grado di
trasformare l’esperienza stessa in quei pattern”.

93
SVILUPPO PSICHICO: INFANZIA, ADOLESCENZA, ETÀ ADULTA

INFANZIA E FANCIULLEZZA
Nella vita si osserva una graduale maturazione psichica. In genere questa
maturazione è descritta “dall’esterno” e studiata attraverso la sequenza di tappe
maturative “oggettive” e “standard” che si succedono nel corso dello sviluppo. Il
limite di questo approccio sta nel considerare i percorsi maturativi individuali
sovrapponibili e collocabili in categorie predefinite, trascurando il vissuto
soggettivo. Viceversa, solo esplorando il modo unico con cui un individuo vive le
sue esperienze e dà ad esse specifiche colorazioni soggettive (che gliele rende più
o meno significative), è possibile mettere a fuoco come queste iniziano ad essere
utilizzate per dare un senso coerente alla propria vita e, attraverso questo
processo, per costruire il senso di sé. Al tempo stesso, fin dalla prima infanzia, la
memoria delle esperienze significative e delle corrispettive attivazioni emozionali
funge da aspetto previsionale su ciò che il soggetto si attende dalle esperienze
future. Esplorare l’unicità di ogni persona consente di scoprire sia le risorse
organizzative di cui dispone che i limiti che presenta. Solo tenendo presenti
entrambi questi aspetti è possibile accompagnare il soggetto attraverso i
cambiamenti legati alla crescita, facendo in modo che ogni crisi possa
rappresentare un’opportunità maturativa, per conseguire una complessità
funzionalmente più adeguata ai nuovi scenari aperti dall’esperienza. Facendo leva
sulle risorse maturate e gestendo i propri limiti il soggetto può infatti scoprire che,
cambiando il modo di affrontare un problema compatibilmente con il suo
sviluppo, può migliorarsi rimanendo tuttavia in continuità e in coerenza con se
stesso. In altri termini, i cambiamenti significativi non destabilizzano quando sono
compatibili con le attivazioni affettive e i corrispondenti modelli operativi interni
attraverso i quali il soggetto ha imparato a riferirsi l’esperienza e a trasformarla in
senso di sé, operando un riconoscimento tacito su base emozionale.
Nel corso dello sviluppo fetale, la massima densità di neuroni si raggiunge tra il
terzo e il sesto mese di gravidanza, toccando il culmine della loro crescita
prenatale. Negli ultimi mesi prima della nascita il cervello subisce una drastica
“potatura” (pruning) in cui i neuroni non necessari sono eliminati (Giedd, 2008).
Nei primi tempi della vita extrauterina il bambino inizia a interagire con il
mondo esterno, stabilendo una relazione intensa e reciproca con il care-giver:
segue oggetti in movimento, fissa oggetti vicini, si orienta nella direzione da cui
proviene un suono, imita semplici gesti (aprire la bocca, protrudere la lingua,
ecc.), riconosce una voce familiare. Attraverso la capacità di correlare i gesti della
mano ai vocalizzi materni comincia a condividere convenzioni sociali
(Trevarthen, 1993, 1998). In definitiva, il bambino vive le prime fasi della sua vita
in una dimensione prevalentemente senso-motoria, non verbale e procedurale,

94
tacita. L’importanza di una buona reciprocità con il care-giver – soprattutto nei
primi due anni di vita – è uno dei fattori più importanti di promozione della salute
mentale, così come una disregolazione affettiva è un elemento di rischio nello
slatentizzare le fragilità costituzionali e del neurosviluppo che un bambino
potrebbe avere. Il bambino, inizialmente, non è ancora in grado di differenziare se
stesso dall’ambiente circostante. Una progressiva maturazione del senso di sé è
espressa da quelli che vengono definiti “organizzatori della vita psichica” (Spitz,
1959): a) il sorriso spontaneo, osservabile intorno al terzo mese, è la risposta
attraverso il contatto oculare ad un volto esterno rassicurante; rappresenta un
comportamento assertivo, che consente di stimolare la benevolenza del care-giver;
b) il riso, che compare intorno al quarto mese, è un’espressione di rilassamento,
in una situazione percepita come piacevole e priva di pericolo; consente, in
presenza di una base sicura affidabile, di vivere, in maniera positiva, intensa e
gioiosa, una novità, che, invece, in assenza di un care-giver rassicurante, allarma e
spaventa; c) la paura dell’estraneo, osservabile intorno al settimo-ottavo mese,
rappresenta una tappa ulteriore nella demarcazione rispetto all’esterno, con la
scoperta che l’altro (il care-giver) non è sempre è presente e disponibile. Il
bambino ha quindi acquisito una capacità discriminativa evoluta, con un
riconoscimento dei volti familiari (“prosopognosia”, dal greco “πρόσωπον”,
“prosopon” = faccia + “γνῶσις”, “gnosis” = conoscenza) memorizzati stabilmente
(“persistenza facciale”, “still face”); d) la comparsa del linguaggio verbale, dopo
il primo anno di vita, con l’apprendimento della negazione: il “no” esprime la
conquista di un primo senso unitario di sé, staccato dall’ambiente; attraverso
questa presa di coscienza e affermazione di sé, il bambino inizia a confrontarsi
con l’ambiente cercando anche modi alternativi rispetto a quelli che gli vengono
proposti; la risposta dell’adulto deve quindi essere mirata alle competenze che il
bambino ha allo stato attuale e non va gestita come se si trattasse di una sfida: ad
esempio, il bambino ha già la capacità di capire se qualcosa, come un cibo, gli
piace o meno, ma non ha ancora la competenza per poter scegliere cosa mangiare,
non sapendo di quali sostanze e di quante calorie ha bisogno per crescere: non si
dovrebbe quindi dire a un bambino “mangia questo perché è buono”, come se il
gusto fosse qualcosa di condivisibile oggettivamente, ma, se mai, “mangia questo
perché ti fa crescere”. Come si è detto a proposito dell’attaccamento, in un
“parenting” sicuro il genitore è responsivo senza affermare il suo potere, in
quanto utilizza il sistema di accudimento e cura e non quello agonistico
competitivo. In questo modo, il rispecchiamento empatico con l’emozione critica
manifestata dal bambino quando gli viene negato ciò che chiede, opponendosi al
suo rifiuto (“no”) consente di introdurre quelle regole morali e sociali che
promuovono l’adattamento mediante una educazione sensibile: “percepisco il tuo
bisogno, capisco che sei triste e arrabbiato, ma per il tuo bene questa cosa non si
può fare” (Lambruschi e Lionetti, 2016; Lambruschi e Delbarba, 2017).

95
Nello sviluppo del linguaggio, delle espressioni facciali e della gestualità e nella
comprensione delle richieste, delle intenzioni e dei pensieri di una figura
accudente, l’apprendimento si avvale, fin dalle prime fasi della vita, della
imitazione (abilità mediante la quale un individuo replica, dopo averla osservata,
un’azione fatta da un altro che gli sta di fronte); essa può avvenire grazie alla
rotazione mentale sia con modalità speculare (imitando il gesto dell’altro come in
uno specchio), sia con modalità anatomica (imitando gli stessi effettori anatomici
e, quindi, lo stesso meccanismo neurale). Come è stato osservato da alcuni studi,
incluso uno nostro (Sansonetti et al., 2017), le risposte libere, senza istruzioni,
sono prevalentemente speculari, mentre le risposte guidate con istruzioni
rispettano quasi sempre la modalità anatomica. Queste risposte richiedono
l’efficienza funzionale delle fibre del corpo calloso che collegano i due emisferi e
consentono di guardare la realtà da un punto di vista diverso rispetto a quello di
osservazione abituale (“perspective taking”). L’imitazione si avvale di neuroni
specchio e di sistemi localizzati a livello del giro frontale inferiore, compresa
l’area di Broca, dell’emisfero sinistro, della corteccia parietale posteriore destra,
dei solchi temporali superiori, delle aree premotorie, parietali e temporali.
Nella prima infanzia le esperienze producono attivazioni globali e indifferenziate
(come il pianto), che poi gradualmente si diversificano e si specializzano, ma che
restano, per la predominanza delle emozioni (soprattutto quelle di base) e del
pensiero concreto, nel “qui e ora” dell’esperienza che si sta vivendo. I principali
momenti di crisi e i loro esiti dipendono da come evolve la consapevolezza di sé
come individuo separato dalla madre: crisi di pianto se non si è accuditi; paura
dell’estraneo; timore di essere abbandonati dalle figure di riferimento; esigenza,
spesso associata a timore, di iniziare ad esplorare il mondo; scoperta del “no”
all’inizio del linguaggio come modo di verificare se è consentito o meno dalle
figure di accudimento di fare qualcosa di diverso rispetto alle richieste (Cesari,
1990, 1994, 1995; Nardi 1995, 2001, 2007). Nel corso dell’infanzia le esperienze
continuano ad essere vissute “in presa diretta”, utilizzando il campo percettivo
immediato. Esiste una simmetria del tempo pressoché totale, per cui il soggetto è
immerso nel presente: ha un’esperienza immediata di sé e della realtà, che è quella
del momento in cui vive. Il bambino è totalmente preso dalle esperienze che fa
attimo dopo attimo e rivolge l’attenzione a come può ottenere l’accudimento, che
prova a gestire in modo onnipotente e assoluto. Vive in un qui e ora magico e
reversibile in cui può entrare e da cui può uscire, come è raccontato nelle favole e
come trova riscontro nei miti e nelle tradizioni orali delle società arcaiche. In
proposito, Eliade (1989) fa notare che “se si osserva il comportamento generale
dell’uomo arcaico si è colpiti da questo fatto: gli oggetti del mondo esteriore,
come gli atti umani propriamente detti, non hanno valore intrinseco autonomo.
Un oggetto o una azione acquistano valore, e in questo caso, diventano reali, in
quanto partecipano, in un modo o nell’altro, di una realtà che li trascende (…)

96
L’oggetto appare come un ricettacolo di una forza esterna che lo differenzia dal
suo ambiente e gli conferisce senso e valore (…) L’uomo arcaico non conosce
atto che non sia stato posto e vissuto anteriormente da un altro, da un altro che
non era un uomo. Ciò che egli fa, è già stato fatto; la sua vita è la ripetizione
ininterrotta di gesti inaugurati da altri (…) Per l’uomo arcaico la realtà è
funzione dell’imitazione di un archetipo celeste; (…) la realtà è conferita dalla
partecipazione al ‘simbolismo del centro’: le città, i templi, le case diventano
reali per il fatto di essere assimilate al ‘centro del mondo’; (…) rituali e gesti
profani significativi (…) realizzano il senso a loro dato soltanto perché ripetono
deliberatamente certi atti posti ab origine da dei, da eroi o da antenati (pp. 16-
18). Le società ‘primitive’ (…) vivono ancora nel paradiso degli archetipi (…) il
tempo viene registrato soltanto biologicamente, senza che gli si permetta di
trasformarsi in ‘storia’, cioè senza che la sua azione corrosiva possa esercitarsi
sulla coscienza per mezzo della rivelazione della irreversibilità degli avvenimenti
(…) Queste società si rigenerano periodicamente per mezzo della cacciata dei
‘mali’ e la confessione dei peccati (pp. 101-102)”.
Nel corso della seconda e terza infanzia (fanciullezza), in coincidenza con la
scolarizzazione, l’affermarsi del pensiero concreto consente la progressiva
scoperta del mondo. L’assimilazione di norme e regole di vita permette di mettere
a fuoco un senso della realtà più adeguato sul piano personale, superando la
visione onnipotente della prima infanzia. Il pensiero concreto, legato agli oggetti
e alle situazioni percepite nel campo dell’esperienza, porta a vivere le esperienze
come oggettive ed univoche e a ricercare il “cosa”, il “come” e il “perché” di ciò
che accade, dando per scontato che esiste comunque un’unica risposta alle
domande che ci si pone. Ogni aspetto della realtà è letto in modo univoco e punti
di vista alternativi sono visti come “sbagliati” (se non anche “cattivi”): ne sono
prova il voler sentire una favola con la stessa trama e le stesse parole o il voler
riavere un giocattolo che si è rotto e non un suo sostituto, magari più bello.
Pertanto, il pensiero concreto è caratterizzato dal fatto di essere egocentrico,
realistico (cioè, strettamente aderente alla realtà che viene percepita) e dalla
tendenza a costruire schemi operativi piuttosto semplici, con regole e con valori
fissi. Ad esempio, bello e buono coincidono e sono ricavati dall’atteggiamento nei
propri confronti (“chi mi vuole bene è buono e bello, chi fa del male è brutto e
cattivo”); analogamente, ciò che è vero viene attribuito a ciò che dice la persona
dalla quale il bambino si sente amato. Gradualmente il bambino inizia a farsi una
rappresentazione del mondo più complessa, attraverso la definizione dei concetti
di classi, generi e quantità, con la possibilità di risolvere problemi e di interagire
attraverso il gioco, prima parallelo poi cooperativo, e l’esperienza scolastica con
un mondo relazionale progressivamente più ampio, ma comunque ancora
sostanzialmente limitato. Il fatto di considerare la realtà e le situazioni che si
verificano da un punto di vista “oggettivo”, cioè come se la lettura che se ne dà sia

97
l’unica possibile, determina quello che viene definito “realismo infantile”. Per
questo, se una stessa situazione è proposta in modo contrastante (ad es., da un
genitore rispetto all’altro, da altri familiari rispetto ai genitori, dalla scuola rispetto
ai genitori) si determina un’esperienza emotivamente disturbante, oltre che
logicamente incomprensibile (in genere per il bambino ha “ragione” chi gli vuole
bene). Regolando l’esperienza con una modalità fortemente concreta, nell’infanzia
il soggetto gestisce la prossimità fisica ed emozionale rispetto alle figure
significative verificando gradualmente i margini di libertà possibili e quelli di
accettazione dei suoi comportamenti. D’altra parte, il pensiero concreto limita la
possibilità di elaborare l’esperienza in modo soggettivo ed originale, lontano dai
modelli proposti dalle figure di riferimento, intrafamiliari ed extrafamiliari. Fin
dall’infanzia, la psiche matura attraverso fasi di cambiamento lento, omogeneo e
continuo, e fasi critiche di trasformazioni rapide e qualitativamente rilevanti. In
questo modo, l’esperienza inizia ad essere riordinata all’interno di una storia
personale, come trama narrativa della propria vita. In questa trama narrativa,
sulla base della risonanza affettiva con cui le singole esperienze sono vissute, ad
ogni elemento vengono attribuiti significati specifici. Se ne ricava un senso che
viene percepito come unico, oggettivo e condivisibile (“universo cognitivo”),
nonostante il fatto che esso è stato scelto dal soggetto nell’ambito degli infiniti
sensi possibili (“multiverso cognitivo”). Come ha osservato Guidano (1988, pp.
64-65), la costruzione del senso di sé e del mondo, nonché la propria amabilità e
le capacità che il soggetto si attribuisce, sono orientate dalle relazioni significative
con le principali figure di attaccamento: “il ‘realismo’ infantile rende
assolutamente idiosincrasica la precoce relazione genitore-bambino, data anche
la complementarietà pressoché totale dell’infante nei confronti dei genitori (…):
a) una prima serie di informazioni significative proviene dagli aspetti affettivi
dell’attaccamento dei genitori nei confronti del bambino (… amabile e
competente … non amabile e incapace…); b) una seconda serie di informazioni
significative proviene dal modo in cui i genitori facilitano o ostacolano la ricerca
di autonomia da parte del bambino (…) Fin dalle primissime fasi dello sviluppo il
bambino possiede sia le sensazioni di base sia la capacità di comunicarle
attraverso attività motorie espressive. La qualità della reciprocità genitore-
bambino che si viene a stabilire nella prima infanzia costituisce una fonte di dati
essenziale per l’organizzazione delle sensazioni di base fondamentali, grazie alle
connessioni che tali sensazioni acquisiscono gradualmente con la percezione,
l’immaginazione e l’attività motoria (…) Solo nel corso del secondo anno, e
grazie al raggiungimento di un riconoscimento di sé abbastanza stabile, il
bambino diviene capace di localizzare dentro di sé le tonalità sensoriali di base e
le emozioni fondamentali che da queste prendono forma, organizzandole come
sue esperienze emotive prototipiche”. Il funzionamento prevalentemente concreto
del pensiero – legato agli oggetti e alle situazioni percepite nel campo

98
dell’esperienza, vissute come oggettive ed univoche – porta a cercare di scoprire il
cosa, il come e il perché delle esperienze fatte, dando per scontato che esiste
comunque un’unica risposta alle domande che ci si pone. Balbi ha osservato che
“l’esperienza di continuità del bambino viene regolata in modo concreto, in
funzione del mantenimento di una determinata qualità del legame con l’adulto
significativo: nell’infanzia, in termini di prossimità fisica ed emozionale, e nella
fanciullezza in termini di accettazione del proprio comportamento. Durante
queste tappe, il funzionamento delle strutture cognitive, senso-motorie,
preoperatorie e operatorie concrete, facilitano la messa fuori focus dei sentimenti
discrepanti (causati, per esempio, dalla mancanza di reciprocità, o dai sentimenti
ambivalenti o dalle percezioni di inganno e manipolazione) che possono esistere
nella dinamica del legame”. Gradualmente, fin dall’infanzia, attraverso le varie
relazioni di attaccamento, iniziano a delinearsi itinerari di sviluppo specifici, che
portano alla comparsa delle varie Organizzazioni di Personalità (OP).
Negli itinerari di sviluppo infantile delle OP a reciprocità Fisica (OPF), la lettura
dei segnali interni si autonomizza precocemente, centrandosi sulla gestione
operativa del proprio benessere o malessere nei rapporti significativi, regolando
tacitamente la distanza con l’ambiente esterno; ciò consente di maturare una
crescente attitudine a gestire le situazioni di pericolo o di solitudine. La scoperta e
la valorizzazione delle proprie competenze e del proprio senso pratico consente di
organizzare operativamente l’attività personale e di sviluppare tramite esse le
relazioni. I rapporti extrafamiliari vengono comunque selezionati in base alla
verifica dell’affidabilità delle figure su cui si può contare e regolando la distanza
da esse in base ai bisogni interni percepiti.
Nei bambini con OPF Controllante, la lettura dell’esperienza è centrata – nella
sua immediatezza di senso-percezioni, immagini e coloriti soggettivi – su una
decodifica in termini di sicurezza o di pericolo, in base ai quali viene ricavato il
controllo della situazione e, conseguentemente, quanto ci si può fidare del
contesto in cui ci si trova. Il bisogno di individuare e mantenere la prossimità
fisica, nei confronti delle figure e dei contesti ambientali percepiti come affidabili,
costituisce l’assetto di base che consente la regolazione tra attaccamento e
comportamento esplorativo, che restano interdipendenti tra loro. La sicurezza e la
fiducia derivanti dal calore emozionale ricevuto dalle figure di riferimento
permette di ampliare gradualmente il proprio raggio di azione, esplorando
ambienti sconosciuti, acquisendo nuove competenze e sicurezze, divenendo in
prima persona una base di riferimento affidabile per i coetanei.
Ni bambini con OPF Distaccata, la competenza di rispondere agli stressor
specifici fisici prodotti in situazioni di solitudine che richiedono un impegno in
prima persona consente di utilizzare le attivazioni interne ed i segnali somatici per
regolare la relazione con l’ambiente, in modo da mantenere stabile la coscienza
tacita di sé. Proprio partendo dal vincolo – solo apparentemente negativo – di

99
separazione e distacco, emergono modalità adattive che consentono di generare
strategie autonome per gestire le situazioni contingenti e perseguire gli obiettivi
prefissati, che fanno da base per ampliare il proprio raggio d’azione. È del resto
esperienza comune che le espressioni più creative e a volte più originali vengono
espresse proprio quando si parte da vincoli cui attenersi e da limiti da rispettare.
Una libertà teoricamente illimitata non spinge a specializzare le proprie
competenze e non fa da stimolo ad una autonomia creativa e progettuale.
Negli itinerari di sviluppo infantile delle OP a reciprocità Semantica (OPS), la
lettura dei segnali esterni si affina precocemente nell’infanzia, regolando lo stato
interno di benessere o di malessere attraverso la rispondenza ai segnali esterni
percepiti come positivi o negativi. Ciò consente al soggetto di maturare una
crescente attitudine a regolare la messa a fuoco interna tacita sulla rispondenza
alle richieste ed alle regole esterne individuate come riferimenti significativi nella
gestione delle situazioni e dei contesti di vita. Questi cambiamenti degli stati
interni, modulati dai riscontri esterni, facilitano progressivamente la crescita
personale attraverso l’individuazione di ulteriori riferimenti significativi. Allo
stesso modo, la relazione con le figure accudenti familiari appare sempre più
regolata dalla qualità dei sentimenti e della stima reciproca. In caso contrario, le
attivazioni di insicurezza tendono, sul versante passivo, ad operare una chiusura
rispetto all’ambiente o, sul versante attivo, ad attivare una sfida basata
sull’opposizione e sulla trasgressione, con ricerca di modelli e stili
comportamentali “opposti” rispetto a quelli familiari. La scoperta, la
valorizzazione e l’utilizzo delle indicazioni fornite dall’ambiente consente di
organizzare la propria vita in base a ciò che funziona con gli altri, agli interessi
comuni ed ai valori che sono condivisibili. Intuendo l’atteggiamento esterno, è
possibile mettere a fuoco cosa si può far emergere del proprio mondo interno nel
contesto ambientale in cui ci si trova, allacciando di conseguenza relazioni più o
meno strette in base agli aspetti semantici condivisi.
Nei bambini con OPS Contestualizzata, la presenza di modalità equilibrate di
accudimento / attaccamento consentono di ricavare una buona identificazione
emozionale e cognitiva con le figure genitoriali riuscendo, al tempo stesso, a
differenziarsi da esse e a comportarsi in modo analogo anche nelle relazioni
extrafamiliari (con insegnanti, coetanei, amici). Proprio in base all’apprendimento
il bambino impara a decodificare i chiaro-scuri e le sfumature dell’esperienza,
senza ricavarne un’ambiguità e una inconsistenza personale (cosa che avviene
invece negli scompensi clinici).
Nei bambini con OPS Normativa, la possibilità di ordinare e spiegare in maniera
soddisfacente la presenza di aspetti antitetici e contrastanti della realtà consente di
stabilizzare il proprio assetto emozionale e di costruire la propria identità in
termini di accettabilità e di valore. Il controllo dell’esperienza viene operato in
base a quanto qualcosa o qualcuno appare attendibile e credibile, sulla base dei

100
criteri e dei valori nei quali il soggetto è cresciuto.
ADOLESCENZA
Definizione e confini
Il concetto di adolescenza è una conquista piuttosto recente della società
occidentale: tra i primi a parlarne è stato Victor Hugo (1866), attingendo alla
medesima tavolozza che tanto colpì impressionisti come Monet, il quale colse le
diverse gradazioni di colore che la luce genera nelle varie fasi del giorno sulla
facciata della cattedrale di Rouen: “aveva quella fuggevole grazia che segna la
transizione più squisita, l’adolescenza, i due crepuscoli mescolati, l’inizio di una
donna nella fine di una bambina”. Come ha osservato Franḉoise Dolto (1990, p.
8), “la nascita è una mutazione che permette il passaggio dal feto al neonato e il
suo adattamento all’aria e alla digestione. L’adolescente subisce una
trasformazione di cui non può dire nulla. Egli stesso, per gli adulti, è oggetto di
interrogativi che, da parte dei genitori, sono carichi di angoscia o pieni
d’indulgenza”.
Nelle società tradizionali, così come per secoli è avvenuto anche nel mondo
occidentale, dall’infanzia si passava “direttamente” all’età adulta attraverso un
evento di passaggio, un rito di iniziazione, una cerimonia dal valore simbolico. In
questo modo si acquisiva automaticamente lo status di adulto, con relativi oneri e
competenze, a prescindere dai processi di maturazione biologici e, soprattutto,
psicologici. È noto che tanto più complessa, mutevole e globalizzata è la società
in cui un soggetto cresce, tanto maggiore è il tempo di cui ha bisogno per
acquisire le competenze necessarie per inserirsi in modo maturo nel mondo degli
adulti. In questi casi, l’adolescenza non solo è più lunga, ma appare anche molto
più eterogenea nei percorsi, con uno stacco di abitudini, di modi di esprimersi e
relazionarsi più brevi, al massimo di qualche anno. Quanto appena accennato
spiega la difficoltà, anche dal punto di vista psicologico e psichiatrico, a
considerare i processi adolescenziali (sia fisiologici che psicopatologici)
meritevoli di una attenzione – ma prima ancora di una competenza – specifica.
Purtroppo l’adolescenza viene a volte considerata e studiata o come una sorta di
appendice dell’infanzia o, dall’altro versante, come una parziale anticipazione
della vita adulta, mentre possiede caratteristiche specifiche che necessitano di
essere riconosciute attraverso la messa a fuoco dei processi peculiari che la
connotano. Anzi, proprio la necessità che il soggetto vive “sulla sua pelle” di
integrare il bisogno di mantenere la sua identità, acquisita nell’infanzia, e di
rielaborarla affettivamente e cognitivamente in base alle profonde e spesso
improvvise trasformazioni in atto, rende fondamentale un approccio competente e
specialistico a quanti si occupano di questa fase della vita. I bisogni di continuità e
di cambiamento si intrecciano ed entrano in contraddizione come in nessun’altra
fase dell’esistenza e possono far emergere le fragilità del soggetto, che devono

101
essere risolte in modo che le sue risorse possano emergere e possano essere
riconosciute, espresse ed utilizzate, sia sul versante interno che su quello
relazionale.
Come ha osservato Franḉoise Dolto (1990, pp13-14), “la prima vita immaginaria,
che ha inizio verso i tre-quattro anni, è rivolta alle persone appartenenti al
gruppo più vicino al bambino, cioè al padre, alla madre, ai fratelli e alle sorelle,
e al gruppo familiare ristretto. Per il resto il bambino è in rapporto con il mondo
esterno attraverso i discorsi dei genitori, anziché direttamente, tranne nel caso di
grandi avvenimenti (…) Ma se tutto è andato bene, se non ci sono stati importanti
conflitti familiari, il bambino, nel suo secondo immaginario, è libero di non
scegliere più i suoi modelli nell’ambito familiare. Da quel momento i suoi modelli
saranno all’esterno. Egli continua a far riferimento alla sua famiglia come
valore-rifugio ma (…) si impegna ad avere successo nella società. Tutta la sua
energia viene rivolta verso il gruppo dei compagni di scuola, verso i gruppi
sportivi o altri, e verso la vita immaginaria che può derivare dalla televisione,
dalla lettura o dalle sue invenzioni nei giochi (…) Al sopraggiungere
dell’adolescenza quell’immaginario esterno lo costringerà ad affermare il
proprio desiderio di uscirne. Egli vuole, per così dire, misurare la distinzione
operata fra immaginario e realtà, entrando a far parte di quei gruppi a proposito
dei quali ha fantasticato molte irrealtà che pure esistono dal momento che se ne
parla (…) Entrerà in tal modo nella propria adolescenza uscendo dalla famiglia e
mescolandosi a gruppi costituiti che avranno in quel momento la funzione di un
supporto extrafamiliare (…) Non si tratta di sostituti, sono commutatori per
raggiungere l’autonomia come vero adolescente, e diventerà tale grazie alle
delusioni e alle gioie, alle difficoltà e ai successi che costituiranno gli
avvenimenti della sua vita”.
Con l’ingresso nell’adolescenza (il verbo latino “adoléscere” indica proprio il
crescere), grazie alla maturazione delle capacità logico-analitiche dell’emisfero
sinistro, il soggetto inizia a procedere in prima persona, come esploratore di un
senso che lui/lei stesso/a inizia a progettare e nel quale inserisce, finché è
possibile, ogni nuova esperienza vissuta. Questa possibilità è data dai processi che
regolano il mantenimento del senso interno di coerenza, integrando le emozioni di
base in schemi emozionali sempre più articolati e complessi. Si vengono così a
definire categorie mentali e repertori comportamentali e, in particolare, uno stile
relazionale e affettivo. Il bisogno di dare un senso alla vita, avvertito in maniera
particolarmente forte a partire dall’adolescenza, avvia quindi un riordinamento
etico-morale che, anche se non emerge a livello consapevole, accompagna tutta la
vita successiva. Già nella tarda infanzia si osserva una seconda fase di
proliferazione e di potatura dei neuroni, ma essa raggiunge la fase più critica nel
periodo adolescenziale (Giedd, 2008). Infatti, proprio durante l’adolescenza il
cervello va incontro alle trasformazioni più radicali della vita di ogni individuo.

102
Queste trasformazioni determinano una altrettanto profonda ristrutturazione del
senso di sé, dovuta a tre aspetti fondamentali: 1) la rilevante “potatura” neuronale
e sinaptica (“pruning”) a vantaggio dei sistemi e dei circuiti neuronali “utili”, con
un notevole salto nella qualità delle competenze soggettive: infatti, come hanno
dimostrato Gennatas et al. (2017), al decremento del volume della sostanza grigia
e dello spessore della corteccia cerebrale fa riscontro un incremento della densità
della sostanza grigia (specie nel sesso femminile, nonostante il suo volume di
sostanza grigia sia inferiore rispetto a quello maschile); 2) il completamento della
specializzazione e della lateralizzazione delle funzioni dei due emisferi cerebrali
collegati tramite il corpo calloso; 3) la rottura della simmetria dello spazio-tempo,
che sposta gli scenari psichici da una visione univoca della realtà (universo) ad
una più complessa e mutevole (multiverso). L’adolescente abbandona il senso
infantile del tempo (un presente potenzialmente reversibile) per una concezione
progressiva e unidirezionale tra passato, presente e futuro.
La maturazione adolescenziale
Durante la pubertà (fase di maturazione dei caratteri sessuali, che si verifica in
genere tra i 9 e i 13 anni) e l’adolescenza, la progressiva maturazione del pensiero
astratto consente di liberare gradualmente il pensiero dagli aspetti immediati e
contingenti dell’esperienza, cogliendo anche le contraddizioni dei possibili modi
di vedere se stessi e il mondo. Le trasformazioni che caratterizzano l’adolescenza,
sia di natura fisica (sviluppo corporeo, spesso disarmonico), sia di natura psichica
(sviluppo del pensiero astratto e relativizzazione dell’immagine di sé e del mondo,
con l’irrompere di nuovi coloriti affettivi), producono una radicale rielaborazione
della propria identità e un modo diverso di porsi e di sentirsi in relazione con gli
altri, come la ragazza del “Sabato del Villaggio” di Leopardi: “La donzelletta vien
dalla campagna, / in sul calar del sole, / col suo fascio dell'erba; e reca in mano /
un mazzolin di rose e di viole, onde, siccome suole, / ornare ella si appresta /
dimani, al dì di festa, il petto e il crine”.
La maturazione dei caratteri sessuali primari (che attivano la funzione
riproduttiva) e di quelli secondari (che portano alla diversificazione in senso
maschile o femminile) rende il corpo un elemento centrale di attenzione, spesso
fonte di insicurezze e di ansia. A questo proposito, l’immagine corporea non è
solo l’espressione dell’analisi di come si appare, ma rappresenta un’esperienza
fortemente soggettiva, centrata su quanto, come e perché uno/a si piace e si
accetta e quanto, come e perché pensa di piacere e di essere accettato/a dagli altri.
La costruzione di una immagine di sé e del mondo sufficientemente coerente e
stabile nel tempo, nonostante i cambiamenti sperimentati, costituisce il nucleo
della maturazione in questa fase cruciale ed è fondamentale per l’evoluzione di
tutta la successiva vita adulta. L’identità deriva da questo processo e consente al
soggetto di definire ciò che gli/le appartiene, fisicamente e psicologicamente, ciò
che si può aspettare o non aspettare da sé, e ciò che invece fa parte dell’ambiente

103
fisico ed umano che lo/a circonda, con il quale entra in relazione in modo più o
meno coinvolgente e significativo.
Piaget (1964) ha collocato queste trasformazioni nel periodo delle “operazioni
formali”, caratterizzate dalla facoltà di raggiungere una sufficiente autonomia dal
dato concreto e di ragionare su proposizioni svincolate dalla realtà percepita; il
soggetto può così pensare in forma ipotetica e riflettere su affermazioni reali o
solo possibili, presenti o future. L’emergere delle capacità logiche di astrazione
sgancia il pensiero dagli aspetti immediati e concreti dell’esperienza e porta a
creare un codice concettuale sovraordinato (ad es., da qualcosa che è percepita
come “buona” si arriva al concetto astratto di “bene”). Il pensiero astratto cambia
la qualità del rapporto tra conoscenza soggettiva e realtà e rende possibile la
formulazione di ipotesi e verifiche. Ciò che riassume l’essenza dei processi
psichici adolescenziali è quindi l’emergere della capacità di compiere una
riflessione metacognitiva su di sé, attraverso la maturazione della cosiddetta
“coscienza riflessiva”.
Lo sviluppo delle competenze astratte consente di elaborare in modo nuovo le
discrepanze emotive legate alle esperienze perturbanti; quando il soggetto è in
grado di gestirle in modo adattivo, attraverso queste crisi fisiologiche si avvia una
ristrutturazione affettiva con migliori capacità di integrazione, verso modalità
relazionali di tipo adulto. Come ha osservato Balbi (2017), “in adolescenza, le
strutture astratte generano l’emergenza subliminale di queste discrepanze,
producendo un cambiamento profondo dell’esperienza affettiva in corso, che, a
sua volta, innesca una riorganizzazione radicale del sistema personale. Questa
riorganizzazione implica la costruzione di un nuovo sistema di autoregolazione
dell’esperienza affettiva. Tale sistema deve risultare efficace per affrontare, con
sufficiente sensazione di autoregolazione emozionale da parte dell’adolescente, le
ripercussioni dell’esperienza di perdita generata dalle discrepanze affettive
emergenti; rendendo così possibile l’esperienza, più o meno continua, di un
“senso affettivo personale” ontologicamente viabile. La costruzione di questa
nuova istanza metacognitiva astratta comporta anche la strutturazione di uno
stile relazionale affettivo particolare, che sarà il modello per affrontare le
relazioni sentimentali nel resto del ciclo di vita”.
La costruzione della conoscenza inizia ad essere basata su criteri razionali di
causalità e di contraddizione, che assumono valore per verificare l’esperienza.
Gradualmente, sviluppando una capacità che emerge verso la fine dell’età
prescolare, il soggetto acquisisce una concezione degli altri come persone che
possono avere stati psichici e convinzioni diverse dalle proprie. Diviene così
possibile definire un modello di sé distinto da quello degli altri, nell’ambito di una
più ampia cornice storica e relazionale. La realtà comincia ad essere percepita solo
come uno scenario particolare e contingente rispetto agli infiniti eventi, situazioni
e punti di riferimento possibili.

104
L’ampliamento della visione del mondo che ne consegue e la sua relativizzazione
consentono di personalizzare il senso di sé e di darsi un assetto ed un programma
di vita. L’adolescente diventa competente nel passare da un criterio all’altro
(“shifting”), nell’assumere una prospettiva diversa cambiando il sistema di
riferimento (“perspective taking”), nell’attribuire stati mentali sia a sé che agli
altri (“mind theory”). Numerose idee e progetti adulti risalgono ad intuizioni e
persino a sogni adolescenziali. Nel corso dell’adolescenza inizia infatti a definirsi
anche un tema di fondo, cioè un significato cruciale che poi caratterizzerà tutta la
successiva esperienza. Il principale campo di esplorazione diviene non più quello
esterno ma il mondo psichico. La messa a fuoco prioritaria avviene sugli scenari
interni: il sé è il centro dell’attenzione e della riflessione personale, anche nei casi
in cui il soggetto lo svaluta o teme che corrisponda ad un “vuoto”, fatto di aspetti
insignificanti, banali, non meritevoli di attenzione o di piacere.
Con l’adolescenza compare, in maniera spesso critica, quello che Prigogine ha
definito un processo di “rottura della simmetria del tempo” (“symmetry breaking
process”, 1973). Infatti, con il dispiegarsi delle capacità astratte del pensiero,
inizia gradualmente a maturare a livello consapevole un senso del tempo lineare e
unidirezionale, che si svolge dal passato al futuro attraverso il presente. In effetti,
a partire dall’adolescenza, il soggetto acquisisce la consapevolezza della
irreversibilità della propria vita e della direzionalità progressiva e univoca
dell’esperienza. Da questa proiezione verso il futuro, che da una parte incuriosisce
e dall’altra spaventa, nonché dai nuovi contenuti della fantasia forniti dal pensiero
astratto, ha origine il bisogno di ricercare una propria progettualità, di orientarsi
verso un fine, di definire un proprio tema di vita. Ma, più in generale, la rottura di
simmetria coinvolge tutti gli ambiti e gli spazi, a partire dal mondo interno,
relativizzando ogni cosa e innescando una domanda di scelta e di senso circa la
propria vita. La progressiva maturazione del pensiero astratto sgancia
gradualmente il pensiero dagli aspetti immediati dell’esperienza, facendo cogliere
la complessità, la molteplicità, ma anche la parzialità e le contraddizioni dei
possibili modi di vedere se stessi e il mondo: il soggetto inizia a pensare in forma
ipotetica e la realtà comincia ad essere percepita solo come uno scenario
contingente rispetto agli innumerevoli eventi, situazioni e prospettive possibili. Si
passa dal mondo unico, limitato e statico conoscibile dell’infanzia alla realtà
dinamica, complessa e indefinita, la cui visione dipende dal punto di riferimento
da cui la si guarda. L’adolescente si trova così di fronte a un multiverso, spesso
cangiante, che contrasta con l’apparente unicità del mondo fenomenico (universo).
La relativizzazione della visione del mondo consente di cogliere le sfaccettature di
una stessa realtà e di personalizzare il senso di sé, producendo quindi una radicale
rielaborazione della propria identità. Questa difficile sintesi, che spesso porta ad
operare scelte drastiche, tipo tutto o nulla e bianco o nero, è una sfida che
affascina ma spaventa. Come osservava Eraclito, “ciò che è opposizione si

105
concilia e dalle cose differenti nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via
di contrasto”. Guidano (1987, 1991) ha sottolineato che esiste una stretta
relazione tra senso del tempo e maturazione del linguaggio. Infatti la comparsa del
linguaggio tematico, che consente di percepire la realtà in termini narrativi e di
organizzare le sequenze di eventi fissate attraverso la memoria episodica, dà
origine ad un ordinamento dell’esperienza mediante legami cronologici, che
stabilizzano il senso personale di continuità storica, proprio nel periodo in cui si
cambia di più. Pertanto, nell’esplorare i processi maturativi che connotano
l’adolescenza, i quali possono prendere percorsi più o meno adattivi sul versante
personale e sociale, è utile partire da un’idea di questa fase della vita intesa come
uno spazio molto fluido e dinamico, all’interno del quale l’individuo comincia ad
esprimere un modo di ripensare il senso del tempo in sé e il senso di sé nel tempo
(Nardi, 1991-2013). Del resto, l’intera vita di un individuo è un processo
dinamico e non un insieme seriale di strutture o categorie statiche. Questa
dimensione evolutiva è importante anche sotto il profilo epistemologico – di come
si organizza la conoscenza – dato che nel corso dell’adolescenza avviene la prima
vera riflessione sul tempo: che per l’adolescente è un tempo particolare, quello
longitudinale e tripartito (c’è un passato dell’infanzia ancora recente ma già
trascorso; c’è il presente dei turbamenti e delle crisi; e c’è il futuro dell’indefinito,
di un’età adulta vista spesso come lontana e non ben raggiungibile, a volte
desiderata, altre volte temuta o rifiutata). Comunque, il soggetto per la prima volta
dà un ordine cronologico alla propria esistenza. Per comprendere meglio quanto
detto, riconducendo il senso del tempo alla memoria individuale, è interessante
prendere in mano l’Odissea, come ci viene tramandata nel testo omerico.
Seguendo strettamente il succedersi cronologico degli eventi, Odisseo (Ulisse),
lasciata Troia in fiamme, giunge nella terra dei Lotofagi e qui deve affrontare e
superare una prima grande prova, che è quella di resistere alla tentazione di
mangiare i frutti dolci e saporiti dell’albero di loto, pena la perdita della memoria.
Perché è così grave questo rischio di perdere la memoria, dato che esso è collocato
all’inizio delle peregrinazioni di Odisseo (e non, come sarebbe stato
apparentemente più logico, al termine, subito prima del ritorno ad Itaca)?
Seguendo la metafora, perché è così importante il problema del tempo e della
memoria nell’adolescente, che è appena uscito dalle vicende dell’infanzia e si
affaccia verso il mare aperto della vita? Occorre a questo punto fare una
riflessione sulla memoria, che non è una fredda e impersonale registrazione di
dati, ma un processo strettamente connesso con la costruzione dell’identità
individuale. Sotto questo profilo, perdere la memoria significa perdere le
esperienze fatte, dimenticare quello che si è vissuto, sofferto, sperimentato. È
proprio la memoria il processo che lega la coscienza all’esperienza, la quale
scorre attimo dopo attimo nella sua immediatezza di sensazioni, percezioni,
immagini ed attivazioni emotive e che ha bisogno di essere raccolta e riordinata,

106
per potersi esprimere in termini coerenti di identità e, quindi, di storia personale.
Le modalità attraverso le quali formiamo i ricordi, li assembliamo, li
consolidiamo e li rievochiamo sono irriducibilmente anche soggettive e seguono
criteri di coerenza interna, legati alla necessità di mantenere costante il senso di
identità, nonostante i cambiamenti sperimentati nel ciclo di vita (Guidano, 1987,
1991). Questo è il rischio di una amnesia adolescenziale: perdere il filo della
continuità personale proprio in un periodo altamente instabile e caratterizzato da
trasformazioni psico-fisiche in cui tutto sembra cambiare e appare diverso, talora
estraneo (incluso il proprio corpo) e in cui le esperienze così contraddittorie che
l’adolescente fa giorno dopo giorno possono rimanere slegate e
decontestualizzate, facendo perdere i margini della propria identità. L’adolescente,
come Odisseo, ha dunque bisogno di un filo, di una trama, per ricollocare le sue
esperienze nel tempo. Vive, attimo dopo attimo, l’incompiutezza e la
provvisorietà del suo presente che, più che uno stato, è un continuo divenire.
Come Odisseo, ha bisogno di una rotta, di un fine, che consenta di dare un
orientamento alla propria vita. Attraverso la memoria cerca di capire “chi è”, “che
effetto gli/le fa essere se stesso/a”. In questo modo, dà seguito al filo mnesico
iniziato nei processi di attaccamento, quando cercava di ottenere l’accudimento
genitoriale modulando l’espressione delle proprie emozioni (a volte frenate ed
inibite, altre volte marcatamente espresse e manifestate). Ed è nello spazio della
memoria che cerca di dare continuità e spessore alla sua esperienza, nel momento
in cui comincia a veleggiare verso un futuro da adulto. È importante, per capire un
adolescente, mettere a fuoco come avviene questa ricerca di memoria e, tramite
essa, di identità. La necessità inderogabile di legare con la memoria il filo delle
esperienze, per dare una direzione alla propria vita, spinge l’adolescente a mettere
mano a quella che prima era una identità quasi presa a prestito dalla famiglia, per
poi riesprimerla, rielaborandola in maniera nuova e originale.
Un “multiverso” dinamico
La complessità dei cambiamenti adolescenziali sopra riportati e le difficoltà legate
alla maturazione e all’acquisizione di una sufficiente indipendenza personale e
sociale possono posticipare e rendere sfumato il passaggio all’età adulta. Si tratta
di una fase della vita caratterizzata da una condizione, per dirla con Giuseppe
Cesari (1994, 1995), di “non più e non ancora”. Sempre Cesari (1990) ricordava
che non possiamo “fotografare” l’adolescente, ma lo dobbiamo “filmare”, in
quanto nel momento in cui abbiamo scattato la fotografia stiamo già osservando
qualcosa d’altro. Estendendo questa osservazione, dovremmo filmare in parallelo
anche noi adulti, dato che anche noi siamo in trasformazione, anche noi
attraversiamo le nostre crisi, anche noi siamo in divenire, anche noi ci
confrontiamo con una ristrutturazione dell’identità, per cui spesso, quando un
adolescente ci mette in crisi, riattiva dentro di noi, che ci relazioniamo con lui/lei,
i nostri problemi. Dunque l’adolescente è “fisiologicamente instabile”, come lo

107
descriveva Cesari (1995, pp. 199-200), alla ricerca di nuove forme di costruire il
pensiero, orientandolo nella ricerca di senso: “l’adolescente può essere definito un
soggetto in trasformazione, fisiologicamente instabile, in rapporto interattivo con
l’ambiente. Un soggetto, dunque, quindi una persona che desidera essere
considerata nella sua identità e nella sua individualità e che desidera essere
artefice delle cose che fa e, in modo particolare, artefice di se stesso. Un soggetto
in trasformazione, perché se non fosse un soggetto in trasformazione non sarebbe
un adolescente. Non che l’adulto o anche l’anziano non sia in trasformazione, in
quanto il nostro corpo cambia continuamente e siamo sempre in trasformazione;
ma non c’è dubbio che la trasformazione che vive l’adolescente è una
trasformazione radicale, tumultuosa, che lascia alle spalle un soggetto
irriconoscibile e va verso un soggetto nuovo che ancora non si conosce; e quindi
questa trasformazione è davvero il dato centrale dell’adolescenza. Ma un altro
elemento della definizione non deve sfuggirci: che l’adolescente è, appunto,
fisiologicamente instabile. Quella instabilità che tanto ci preoccupa come
genitori, come educatori, come persone che si occupano del suo crescere, è per
l’adolescente una condizione vitale; egli è fisiologicamente instabile; per lui
essere instabile, essere incostante, non è una patologia, è il suo modo normale di
essere. Naturalmente, la instabilità non è che dobbiamo incoraggiarla, però
dobbiamo capirla, dobbiamo interpretarla, e dobbiamo, se possibile, aiutare
l’adolescente a comprenderla, a interpretarla lui stesso e a rendersi conto che la
sua instabilità è un processo di ricerca, è un processo di affinamento delle sue
personali conoscenze, per essere quello che potrà essere domani. E infine, in
modo particolare, l’adolescente è in rapporto interattivo con l’ambiente, in un
rapporto, cioè, che non è semplicemente passivo. L’adolescente non assorbe
dall’ambiente passivamente, ma incide lui stesso sull’ambiente, e chiunque abbia
un adolescente in casa si rende conto di quanto sia vero questo fatto”.
L’adolescente va quindi considerato come un soggetto a sé, sia pure incerto e
cangiante, che non è né un bambino grande né un adulto immaturo, ma che ha
competenze anatomo-funzionali proprie e peculiari di questa fase della vita, con
gli strumenti potenziali per adattarsi alla realtà che vive. Come ha sottolineato
Balbi (2017), “il sé non è un sistema che possa essere concepito come
deterministico, cioè, non è possibile anticipare il risultato finale del suo sviluppo
pur avendo conoscenza di tutte le variabili presenti all’inizio (…) Per questa
ragione, non risulta appropriato spiegare i processi affettivi dell’adolescenza e
dell’età adulta con categorie di attaccamento che sono state concepite per
descrivere e spiegare i pattern di attaccamento tipici delle prime fasi dello
sviluppo”. È importante considerare l’adolescenza come una fase di cambiamenti
fisiologici (e quindi anche di risoluzione di problemi), senza farla coincidere con
le derive psicopatologiche che emergono quando il soggetto non trova una
soluzione ai problemi comparsi in seguito alle nuove esperienze e che non riesce a

108
gestire con gli strumenti di cui dispone. Il senso di identità personale viene
avvertito come un bisogno, da un lato, di avere le conferme esterne alle proprie
incertezze ed alla propria instabilità e, dall’altro, di ricercare la propria unità ed
unicità, cioè una continuità di pensieri, di affetti e di comportamenti sia in
situazioni e contesti diversi (famiglia, scuola, gruppo dei pari, ecc.), sia nel corso
del tempo (coerenza tra un passato ormai trascorso, anche se da poco, ed un futuro
più o meno prevedibile, che spesso è fonte di timori e di incertezze). In questo
senso, l’identità comincia ad essere avvertita anche come progetto di vita, nel
momento in cui per la prima volta viene percepita con sufficiente consapevolezza
l’irreversibilità dello scorrere del tempo. Nasce da ciò il bisogno adolescenziale di
ricercare una propria progettualità, di orientarsi verso un fine. Anche le scelte di
vita cominciano ad essere viste nell’ottica della possibilità e si fa sempre più
importante il problema della scelta, con tutti i dubbi sulla maggiore o minore
“validità” di ciò che si sceglie, i confronti con gli altri, la maggiore o minore
sicurezza circa le proprie “capacità” di scelta. Avviene quindi un progressivo
passaggio da quanto c’è nel contenitore “realtà” – non più vista come unica, finita,
conoscibile, come avveniva nell’infanzia e nella fanciullezza – alla esperienza di
relatività e di possibilità, per cui la realtà comincia ad apparire multiforme,
complessa e indefinita, e la sua visione dipende dal punto di riferimento da cui la
si guarda; pertanto non appare più individuabile, come nell’infanzia, un’unica via
percorribile, uguale per tutti. L’ampliamento e la relativizzazione della visione del
mondo consente di cogliere anche differenti aspetti della stessa realtà, mentre
analogamente anche il senso del tempo, accanto a quello dello spazio, viene
sperimentato in termini più articolati e soggettivi. A partire dall’adolescenza il
pensiero astratto dà forma a nuovi contenuti della fantasia, che si svincola dalle
tematiche magiche infantili e si pone come ponte tra la propria immaginazione e
la società adulta (che non sempre piace e che può essere fonte di delusione),
cercando di realizzare un nuovo mondo a propria immagine.
Nel mio lavoro con gli adolescenti, alcune “istruzioni per l’uso” sono
particolarmente utili. Anzitutto, l’adolescente deve scoprire che vincoli e limiti
della vita sono punti di partenza per esprimere le proprie risorse. Deve anche
imparare non a misurare se stesso sugli altri, ma a misurare su di sé i progetti, le
scelte, le amicizie, le relazioni significative, come si fa con un vestito o con le
scarpe. Questi non sono in assoluto giusti o sbagliati, ma devono, in modo
relativo, essere adatti a chi li porta; quindi, il corpo o il piede non sono “sbagliati”
se non vanno bene per un vestito o una calzatura. Un altro concetto utile, è quello
di imparare a non prendere gli altri (con i loro atteggiamenti e le loro richieste)
come uno “specchio” che riflette la nostra immagine. Se si rompe
(metaforicamente) lo specchio, non vediamo più la nostra immagine riflessa nei
loro giudizi e nelle loro aspettative, ma ci appare l’altro che, anche quando parla
di noi, esprime il suo punto di vista, il suo pensiero, il suo modo di funzionare

109
(incluse le sue eventuali debolezze, contraddizioni e pretese). Ad esempio, una
critica o un atteggiamento esterno negativo ci serve a capire come funziona
l’altro/a e cosa ci possiamo aspettare da lui/lei e non, direttamente e
meccanicamente, a ricavare dalla critica o dal giudizio negativo chi siamo noi e
quanto valiamo. Analogamente, una cosa che va male è semplicemente
espressione del fatto che nella vita non tutto funziona e nessuno e perfetto, non la
prova “oggettiva” di una presunta negatività o, peggio, di un fallimento personale.
Usando una metafora, nasciamo già con una pelle fisica ben formata, mentre
quella “psicologica” ce la dobbiamo costruire, non confondendo il nostro mondo
interno da quello degli altri, specie quando essi sono importanti e significativi per
noi. Dato che, in quanto Sapiens, siano unici (e, quindi, non misurabili e
comparabili con un metro uguale per tutti), da questa nostra unicità deriva che
possiamo facilmente non condividere atteggiamenti, aspettative, punti di vista e
modi di vivere, a prescindere dalle parentele e dal fatto che vorremmo essere (ed
avere) sempre gli altri a nostra “immagine e somiglianza”.
L’esperienza di relatività e di cambiamento, che ciascun soggetto si riferisce,
consente di operare un distacco ideo-affettivo dalle figure genitoriali, non più
percepite come uniche depositarie di verità immutabili. Quando nei genitori sono
colti pregi e difetti, il soggetto può instaurare con essi un rapporto più dialettico e
maturo. Se invece le insicurezze prodotte da un attaccamento ansioso e insicuro
portano a continuare a idealizzare la loro figura, si ha l’illusione di poter ottenere
la relazione desiderata per poi sperimentare la delusione quando si scopre che
questo non è possibile, il che non consente di affrancarsi dalla dipendenza nei loro
confronti, con il rischio di uno scompenso clinico. Pertanto, il distacco può essere
adattivo e “percorribile” quando il soggetto può esprimersi in maniera progettuale.
Infatti, se ha una buona reciprocità affettiva con le proprie figure genitoriali, si
trova agevolato nella ricerca e nella costruzione adattiva di nuove relazioni con i
coetanei e dei primi rapporti di coppia. D’altra parte, questa percezione di un
proprio significato può essere vissuta sia come attiva scoperta e ricerca di valori,
sia anche come passiva e fatalistica accettazione di un ruolo imposto dall’esterno.
Fattori predittivi di una progettualità positiva di affermazione sono una alta
capacità di astrazione (rispetto alle modalità di pensiero concreto) e un basso
livello di stress. Viceversa, quando le aspirazioni e gli ideali appaiono troppo
elevati e lontani rispetto a come ci si percepisce, ci si può chiudere in se stessi,
con la tendenza ad interrompere attività, interessi e relazioni con gli altri. Di
fronte agli innumerevoli scenari possibili, nei confronti dei quali non si sente
spesso preparato, l’adolescente avverte il bisogno di cercare nuovi riferimenti, in
base ai quali orientarsi e verificarsi: ingresso nel gruppo dei pari, debutto affettivo
(per il quale gli amici giocano spesso un ruolo di “catalizzatori”), ricerca di valori,
priorità e obiettivi. In questo percorso, in cui si muove a volte sicuro e altre volte
incerto, l’adolescente riordina l’esperienza in accordo con l’assetto emozionale

110
che si è venuto definendo nell’ambito della sua Organizzazione di Personalità
(OP), la quale va incontro in questa fase a importanti rimodellamenti.
Nei soggetti con OP a reciprocità Fisica (OPF), la riorganizzazione
adolescenziale, caratterizzata dalla maturazione delle facoltà astratte e del
pensiero autoriflessivo, dà una nuova forma all’utilizzo dei segnali interni.
Quando è disponibile una buona capacità di mentalizzazione, il mantenimento dei
riferimenti affettivi familiari ed amicali così come la scoperta di nuove relazioni
significative possono divenire più adeguate, profonde e flessibili grazie
all’introspezione e all’utilizzo delle funzioni simboliche, che consentono una
lettura più specifica e selettiva degli stati interni. Vengono pertanto sviluppate
specifiche competenze adattive per gestire operativamente le situazioni e i
problemi che si devono affrontare per realizzarsi, basandosi su figure affidabili e
sulle competenze personali man mano acquisite.
Negli adolescenti con OPF Controllante, l’emergere delle capacità di astrazione
consente di interiorizzare l’esperienza immediata di sicurezza o di pericolo
avvertita in relazione ai cambiamenti critici della propria efficienza fisica o degli
scenari relazionali che si verificano in questa fase della vita. Le tonalità emotive
di base, in particolare la paura, vengono integrate e gestite mediante contenuti
cognitivi più complessi e articolati, in modo da consentire la ricerca di nuovi
progetti e di nuove attività (amicali, lavorative, sportive, musicali, ecc.).
Negli adolescenti con OPF Distaccata, la ricerca di superare lo stato di precarietà
e di isolamento, frequentemente percepito in questa fase di vita soprattutto in
relazione ai cambiamenti critici avvertiti, spinge a investire in prima persona sia
sul piano scolastico, in vista dei futuri sbocchi professionali e lavorativi, sia sul
piano affettivo. In questo campo, il controllo delle attivazioni di tristezza porta a
mettere alla prova e a verificare i propri investimenti, puntando sulla solidarietà
che si può condividere con l’altro, pur vivendo in un mondo in cui la realtà appare
comunque instabile e transitoria, nonché parzialmente accessibile all’empatia. In
questo modo, nei percorsi adattivi che si aprono a partire dall’adolescenza, è
possibile mettere a fuoco temi di vita nei quali, attraverso il proprio impegno e la
propria capacità operativa pratica, si possono individuare e costruire (nonostante
la consapevolezza dei limiti, della relatività e dei rischi dell’esistenza) progetti
originali e personalizzati, nei quali credere e per i quali valga la pena mettersi in
gioco. Attraverso le esperienze maturate, diviene così possibile utilizzare le
proprie capacità di responsabilizzazione e di autonomia come una risorsa utile,
non solo in situazioni in cui si deve agire da soli, ma anche quando si può
condividere qualcosa di importante con chi può ed è disposto ad entrare nella
propria rete sociale.
Nei soggetti con OP a reciprocità Semantica (OPS), la riorganizzazione
adolescenziale, caratterizzata dalla maturazione delle facoltà astratte e del
pensiero autoriflessivo, dà una nuova forma all’utilizzo di ciò che è fornito

111
dall’ambiente relazionale e socio-culturale, con un adeguamento in chiave
simbolica del proprio mondo psichico. Anche in questo caso, quando è disponibile
una buona capacità di mentalizzazione, il mantenimento dei riferimenti affettivi,
familiari ed amicali così come la scoperta di nuove relazioni significative possono
divenire più adeguati, profondi e flessibili, grazie all’introspezione e all’utilizzo
delle funzioni simboliche, che consentono una lettura più specifica e selettiva
degli stati interni. Maturano anche le competenze speculative sul senso di ciò che
si fa e di ciò che si è. La capacità di rispondere a stressor specifici semantici,
legati a giudizi situazionali o alla sollecitazione nel rispettare doveri e impegni
giusti, spinge a regolare l’omeostasi interna sulla base dei segnali ricavati
dall’esterno. La lettura delle proprie capacità di risposta ai compiti richiesti
dall’ambiente diviene quindi la base tacita per regolare le mete conseguibili e le
relazioni significative. Vengono pertanto sviluppate specifiche competenze
adattive per gestire le situazioni e i problemi che si devono affrontare per
realizzarsi, basandosi su atteggiamenti e linee guida esterne affidabili e
modulando e aggiustando le competenze personali man mano acquisite.
Negli adolescenti con OPS Contestualizzata, l’interiorizzazione delle conferme
ricevute consente di costruire un buon senso di sé e di investire negli ambiti in cui
ci si riconosce capaci e dotati. Inoltre, se i processi di attaccamento non sono stati
condizionati da modalità eccessivamente intrusive (in termini di anticipazione e
ridefinizione dei propri bisogni), è possibile demarcarsi in maniera soddisfacente
dagli altri, facendo emergere il mondo interno. In questo modo diventa possibile
inquadrare i traguardi futuri che si percepiscono come rispondenti ai propri mezzi,
nonché investire su figure che, a livello di esperienza immediata, appaiono
confermanti. Pertanto, negli itinerari di sviluppo fisiologici, la ricerca di conferme
diviene una modalità adattiva con la quale il soggetto individua e seleziona
attivamente i propri obiettivi sui quali investire e dai quali ricevere, a sua volta,
ulteriori conferme. In questi casi, le eventuali disconferme possono essere lette e
riferite a sé come eventi negativi che dispiacciono, ma che non compromettono se
non transitoriamente l’equilibrio interno; queste disconferme possono essere
superate attraverso la messa a punto di strategie e scelte più efficaci per
raggiungere le mete prefissate o mediante la ricerca di nuovi obiettivi, più
rispondenti al proprio modo di essere.
Negli adolescenti con OPS Normativa, mentre nell’infanzia l’adesione alle
richieste ed ai criteri necessari per essere approvati costituiva l’unica via
percorribile per accedere all’accudimento e alla affettività genitoriale (peraltro
sempre parca e contenuta), grazie alle capacità di astrazione, l’insieme di norme e
valori acquisiti viene interiorizzato sotto forma di strategie attive personali, che
stabilizza e dà certezza di fronte ai nuovi scenari che si aprono dinanzi. Queste
strategie consentono di individuare le soluzioni che risultano in accordo con i
propri principi e gli investimenti affettivi sui quali riversare il bisogno personale

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di positività e di certezza. D’altra parte, percepire il percorso dell’esperienza come
un cammino difficile – in cui conta l’impegno e durante il quale non sempre si
ottengono esiti positivi – consente di superare crisi, dubbi e insicurezze, puntando
a costruire, per quanto è possibile, una realizzazione professionale e affettiva
rispondente ai bisogni avvertiti. Questa strategia conoscitiva può pertanto trovare
una chiave di volta nello scoprirsi protagonisti attivi della propria esperienza e nel
progettare scopi e missioni ritenute importanti; viene così rinforzato il senso di
unitarietà e di attendibilità del sé, superando le crisi legate alla contraddittorietà e
agli irriducibili chiaroscuri percepiti nella realtà.
Crisi e disagio adolescenziale
L’esistenza attraversa periodi uniformi e stabili anche molto lunghi e altri periodi
in cui i cambiamenti sono rapidi e intensi, tanto che vengono indicati come
“critici”, coinvolgendo sia gli aspetti fisici, sia quelli psichici e sociali. Le crisi
(dal greco “κρίσις”, “krisis” = cambiamento, scelta, decisione, risoluzione)
caratterizzano ogni fase della vita. In alcuni periodi, infatti, la maturazione è
sostanzialmente continua, sia negli aspetti somatici che in quelli psichici; i
cambiamenti sono graduali e impercettibili, mentre le lente trasformazioni fisiche
appaiono più facilmente assimilabili anche sotto il profilo psico-comportamentale.
In altri periodi, viceversa, specie nelle prime fasi dello sviluppo e
nell’adolescenza, la crescita psico-fisica si manifesta più discontinua, ad onde se
non a picchi, con momenti più tranquilli alternati ad altri di rapida perturbazione.
Questi fenomeni maturativi transitori sono in genere fisiologici, sebbene
comportino disagio nel soggetto e in chi gli è vicino, portando ad un ulteriore
sviluppo delle risorse e delle capacità adattive. La continuità e la crisi sono quindi
le due facce fisiologiche del fare esperienza, che consentono di articolare il senso
di sé e del mondo e di mantenere l’identità nonostante i cambiamenti sperimentati
nel corso della vita. Per considerare la crisi come risorsa, vengono in aiuto le
parole di Juan de la Cruz (Giovanni della Croce): se si vuole raggiungere qualcosa
di nuovo che non si conosce, si deve prendere una strada nuova, che non si
conosce e che non si è mai fatta in precedenza: “Per giungere a ciò che non sai, /
devi passare per dove non sai. / Per giungere al possesso di ciò che non hai, /
devi passare per dove ora niente hai. / Per giungere a ciò che non sei, / devi
passare per dove ora non sei”. Come ha osservato Rezzonico (2017), “la nostra
specie è biologicamente predisposta per affrontare il cambiamento, sia
adattandosi alle differenti condizioni ambientali che incontra nel proprio
itinerario di vita – e quindi modificando se stessa – in processo continuo e
circolare che richiama i concetti di accomodamento e assimilazione di piagetiana
memoria, sia modificando l’ambiente in cui è inserita o comunque alcuni aspetti
dell’ambiente. È tuttavia necessario porre un accento particolare sugli aspetti
ambientali soprattutto in relazione all’attuale contesto in cui siamo inseriti e che
pone una serie di richieste sociali improntate alla massimizzazione della

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prestazione e all’erogazione di risposte rapide, spesso immediate – pensiamo a
tutto il mondo dell’on-line – quindi c’è una spinta sempre maggiore che chiede di
cavalcare il cambiamento”. Bertaccini (2017) ricorda che “i momenti di
passaggio spesso assumono la caratteristica di criticità, intendo come crisi quei
passaggi che contengono sia l’accezione di pericolo che di opportunità: pericolo
come destabilizzazione variabile nell’intensità e nel tempo, ma anche come
opportunità di attivare aggiustamenti e accomodazioni. In tal senso,
l’adolescenza rappresenta il prototipo della crisi, in essa di ha la possibilità di
costruire un modello di come si affronteranno altri cambiamenti in futuro,
accorpando sia grande fatica ma anche enormi opportunità in termini adattativi”.
Non sempre, tuttavia, l’assimilazione dell’esperienza appare al soggetto
compatibile con il senso di sé che si era costruito fino a quel momento. Del resto,
ogni trasformazione non è mai del tutto indolore: ogni volta che il sistema va
incontro ad una fase di instabilità, inevitabilmente deve affrontare anche un
riassetto del senso di sé e, quindi, della propria identità e del proprio significato
personale. L’adolescenza, specie nella sua fase puberale (per le profonde
trasformazioni somatiche e neuroendocrine, le attivazioni emozionali associate e
la comparsa del pensiero astratto) rappresenta il periodo critico della vita per
eccellenza. La crisi coinvolge il soggetto nella sua globalità psico-fisica.
L’emergere del pensiero astratto comporta una relativizzazione dell’immagine di
sé e del mondo e una rilettura in chiave personale di tutte le conoscenze fino ad
allora acquisite. Nel corso dell’adolescenza, infatti, le profonde trasformazioni
strutturali del cervello, se da un lato consentono di sviluppare nuove forme di
autonomia operativa, dall’altro lato espongono anche ai rischi propri delle fasi di
cambiamento: non è un caso se molti disturbi mentali, tra cui la schizofrenia e il
disturbo bipolare, esordiscono proprio in questa età. Inoltre, il fatto che il
rimodellamento neurale coinvolga solo per ultima la corteccia prefrontale (sede
delle funzioni esecutive e dei processi cognitivi decisionali) e la persistente
immaturità del nucleus accumbens (che regola la motivazione in vista di una
ricompensa) spiega perché, oltre ai nuovi scenari relazionali e al gap di
esperienza rispetto agli adulti, ci siano anche aspetti biologici alla base della
difficoltà di prendere decisioni mature e di valutare le conseguenze delle proprie
azioni e perché i rischi legati all’assunzione di sostanze siano maggiori (Giedd,
2008; Bjork et al., 2017; Steinberg, 2017). Per questo, specie tra terza infanzia e
prima adolescenza, i soggetti possono sentirsi spinti ad assumere notevoli rischi (a
volte, mettendo a repentaglio anche la vita) e non sono portati a riflettere prima di
agire: è come scendere in pista con un’auto eccessivamente potente senza avere la
necessaria abilità di guida. Numerose ricerche hanno evidenziato l’esistenza di un
rapporto tra complessità della società adulta e incremento della difficoltà nel
raggiungere una adeguata capacità di autonomia. Per dare una riposta olistica alle
problematiche degli adolescenti e delle loro famiglie abbiamo costituito nel 1988

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ad Ancona il primo “Centro di Adolescentologia” italiano ad hoc, dalla cui
esperienza è sorto il “Centro Adolescenti per la Promozione dell’Agio Giovanile”,
istituzionalizzato nel 1997 con delibera n. 1095 della regione Marche. Il Centro è
stato l’unico partner italiano del progetto “Health25” (1.02.2011-31.01.2014),
destinato ai giovani svantaggiati che non studiano e non lavorano (NEET: “Not in
Education, Employment or Training”). Sia nei “Core NEET” (con evidenti
problematiche sociali e comportamentali), sia nei “Floating NEET” (con carenza
di orientamento e motivazione), sia infine nei “Gap NEET” (con tendenza a
rinviare impegni e investimenti), le problematiche psicosociali sono correlate alla
percezione soggettiva che ciascun adolescente ha di sé e del suo disagio, la quale è
strettamente legata alle caratteristiche della sua OP (Health25 website).
Spesso negli adolescenti ricorrono instabilità, turbolenza e mutevolezza di
emozioni e di atteggiamenti (tanto radicali quanto contraddittori), con momenti di
confusione e di mancanza di confini, di estraneità rispetto all’ambiente (come se
si fosse in un’altra realtà), di smarrimento del senso di sé. A queste percezioni
disturbanti si cerca di dare parziali risposte attraverso atteggiamenti di
conformismo e ricerca di rassicurazione (ad es., assumendo un’identità esterna
come propria spesso in forma collettiva e aderendo ad un “gruppo di pari” età e
modi di fare in cui ci si riconosce). Altre volte, quando non si trova una risposta,
ci si chiude e ci si ripiega su di sé o, al contrario, si reagisce con atteggiamenti di
esibizionismo, di trasgressione, di opposizione e di contestazione, assumendo
un’identità opposta rispetto ad una figura presa come riferimento. Tutti gli
atteggiamenti sopra riferiti, sia di tipo conformistico (dipendenza attivamente
passiva, con adeguamento a modelli esterni) sia, al contrario, trasgressivi ed
oppositivi (dipendenza attivamente attiva), sono espressione di un processo
autoreferenziale, analogo al “no” della prima infanzia. Attraverso essi
l’adolescente, che si sente insicuro e di valore indefinito, cerca di verificarsi
attraverso gli altri, per vedere quanto vale, quanto fa colpo, quanto è apprezzato o,
almeno, quanto è disprezzato dagli altri, ma anche in grado di metterli in crisi.
Sembrerebbe quanto mai facile fare una equazione tra adolescenza e difficoltà del
vivere, come se di per sé crescere fosse un processo comunque psicopatologico.
Viceversa, nel continuum che intercorre tra loro, normalità e patologia (che non
sempre costituiscono entità nettamente distinte o distinguibili) molte volte
presentano varie o ripetute aree comuni, identificabili nelle diverse espressioni di
disagio. Legata a questa considerazione è l’altra per cui i periodi di stabilità e
quelli di crisi rappresentano due modalità che connotano irriducibilmente l’intera
vita di un individuo, alternandosi periodicamente in ogni sua fase e non soltanto
nel corso della preadolescenza e della adolescenza. Occorre distinguere quindi i
processi critici patologici (con le difficoltà che creano ai soggetti che li vivono e a
chi interagisce con loro e cerca di fornire loro gli strumenti per gestirle in modo
adattivo) dalle fisiologiche difficoltà della crescita. Come si è detto, nella vita,

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periodi di maturazione e di evoluzione lineari e continui si alternano comunque
con altri periodi di cambiamenti rapidi e critici. Entrambi costituiscono modalità
fondamentali e irriducibili dell’esperienza umana, analogamente a quello che
accade per altre variabili, come l’alternanza di fasi di veglia e di sonno, che
esprimono modalità diverse di funzionamento dei processi di coscienza.
Le crisi adolescenziali sono, di base, del tutto fisiologiche, almeno quando
vengono gestite con modalità autoreferenziali flessibili, integrate e
sufficientemente connotate sul piano del pensiero astratto. Un esempio
emblematico di quanto si è detto è fornito dalla depressione del tono dell’umore.
Essa è pressoché universalmente rintracciabile nel corso della adolescenza,
rappresentandone un elemento propulsivo verso l’acquisizione di un senso di
realtà più maturo. D’altra parte, in alcuni soggetti e in determinati periodi, per
intensità, durata, difficoltà di gestione delle emozioni e rigidità delle trame
narrative, essa esprime caratteristiche patologiche da identificare e trattare nella
maniera più tempestiva e adeguata possibile. Con l’adolescenza si pone il
problema della scelta di come si vuole essere, tenendo conto che il pensiero
astratto fa mettere a fuoco il fatto che i bisogni interni e le richieste esterne
possono non coincidere e a volte risultano in contrasto. Le insicurezze legate ai
cambiamenti psico-fisici e relazionali possono allora attivare sia processi di
isolamento e ripiegamento verso il mondo interno, sia atteggiamenti di sfida,
ricercando attraverso comportamenti provocatori (esibizionistici, trasgressivi ed
oppositivi) risposte esterne al proprio bisogno di sperimentarsi (come si è detto, lo
stesso bisogno che è stato alla base del “no” nella prima infanzia), per cercare di
capire quanto si vale. Di fronte ai rapidi mutamenti avviati con la pubertà,
l’instabilità adolescenziale porta inoltre a cercare nuove figure di riferimento. In
questi precari e transitori equilibri raggiunti sono i rischi di un periodo cruciale
della vita, in cui si cambia in maniera radicale e tumultuosa, nel quale si perdono
il rassicurante aspetto infantile e le certezze fornite dal pensiero concreto e si
evolve, spesso in modo disarmonico e non sincrono, verso qualcosa di cui, anche
sotto il profilo fisico, non si intravedono bene i contorni.
L’instabilità fisiologica degli adolescenti si esprime così nell’oscillare e nel
sovrapporsi di due bisogni opposti: quello di cercare una propria indipendenza e
una propria progettualità e quello, ugualmente pressante, di sentirsi accettati e
parte del proprio gruppo sociale. Quanto sia difficile e complesso lo sviluppo è
documentato dal disagio dell’adolescente, che tende a confrontarsi costantemente
con l’esterno: a volte distinguendosi dall’adulto per il fatto di andare nella
direzione opposta, facendo l’esibizionista, il provocatore o il contestatore, altre
volte appiattendosi passivamente sul modello da questi proposto in termini di
pensieri, progetti e scelte di vita, altre volte ancora chiudendosi in un suo mondo,
troncando i rapporti con gli altri (Cesari, 1990, 1994, 1995). Il soggetto si può
sentire in una condizione spazio-temporale “liquida”, che si modifica o cambia

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prima ancora che riesca a comprenderla e a padroneggiarla. Può quindi lui/lei
stesso/a assumere atteggiamenti fluidi, con la possibilità di passare dall’uno
all’altro, mentre vive dentro di sé il conflitto tra il bisogno di dire qualcosa di
nuovo, sperimentando nuove strade, e quello di appoggiarsi a qualcosa di
familiare, riferendosi a modi consolidati di fare. In conseguenza dell’uso sempre
maggiore dei mezzi di comunicazione digitale di cui dispone, scambia un eccesso
di informazioni senza avere il tempo per valutarne l’impatto e di riflettere
criticamente su di esse, fino a non valutare cosa fa o che effetto produce ciò che
assume (ad es., nel caso di una nuova sostanza che “decide di provare”); a volte
gli esiti di queste “prove”, sulla base di suggestioni esterne, può anche essere
drammatico, proprio perché non adeguatamente valutato sul piano critico.
L’adolescente, nelle sue dinamiche, si trova comunque in una posizione
asimmetrica rispetto agli adulti e questa sua non parità sul versante cognitivo ed
esperienziale va attentamene valutata, anche in rapporto ai mezzi di
comunicazione e ai loro rischi (adescamento, stalking). A volte l’adolescente
appare (o, per lo meno, vuole apparire) sicuro, adeguato, pronto ad ogni
esperienza, ma non sempre ha i mezzi per navigare nella società – complessa,
costantemente mutevole e policentrica se non senza un centro – quale è quella
odierna, almeno nel mondo occidentale. Per questo si sente non più bambino ma
anche non ancora adulto (Cesari 1990-1995). L’importanza dell’interfaccia tra
continuità e cambiamento nel mantenimento della coerenza interna può essere
colta facendo riferimento a vari disturbi (della condotta alimentare, correlati a
sostanze psicoattive, del controllo degli impulsi, psicosessuali). Ad esempio, negli
adolescenti con una coerenza interna centrata sul mantenimento di un senso
negativo di sé, le condotte autoaggressive o le abbuffate bulimiche sono
particolarmente frequenti, intense ed esprimono una risposta alla esigenza di
alleviare il dolore interno o il senso di sconfitta con cui percepiscono le esperienze
discrepanti; farsi del male rappresenta quindi una sorta di paradossale anestesia
per mitigare il dolore di vivere. Se non ci si sente adeguati, l’assunzione di
sostanze stupefacenti, oltre a consentire una illusoria identificazione attraverso
modalità alternative ai comuni schemi e alle regole sociali, dà un precario senso di
poter affrontare la vita con un’arma in più (“la roba, l’eroina, sono un grosso
anestetico, ti fanno chiudere gli occhi e ti fanno stare in pace, non ti fanno
provare né le cose belle né le cose brutte, ti appiattiscono”; “quando non reggi le
emozioni forti ti fai con la roba ed è come se tutto si addormentasse”; “la roba ti
evita di pensare alle difficoltà giornaliere, blocca i dolori, le incomprensioni; stai
fatto e stai tranquillo”; “associ il senso del dolore con il piacere che ti dà la
sostanza e ti accorgi che non ne puoi fare a meno”; “quando ti trovi in una
situazione difficile che non ti senti di affrontare tappi tutto con la roba”). I rischi
connessi con la tossicodipendenza rinforzano la ricerca di un proprio valore
nell’essere in grado di accettarli e questo dà una parziale e illusoria percezione

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positiva di sé a chi sente di avere uno scarso valore personale ed una scarsa
considerazione da parte degli altri (Nardi, 2007). La volontà autodistruttiva (a
volte anche eterodistruttiva), può spingere a comportamenti violenti e improvvisi,
ostentati con aggressività e spavalderia, da parte di chi si percepisce “uno che non
ha più niente da perdere” (Moltedo-Perfetti, 2005, Pannelli, 2005). Viceversa, nei
soggetti con una coerenza interna centrata sul mantenimento di un senso positivo
di sé, il ricorso ad una sostanza psicostimolante può esprimere il rischioso
tentativo di migliorare la gestione dell’ambiente ed il conseguimento dei risultati
cercati in campo lavorativo, sociale, sportivo, sessuale, gestendo l’ansia da
esposizione, aumentando la fiducia nelle proprie risorse e la capacità di
contrastare chi interpone degli ostacoli. In questi casi la sostanza consente di
raggiungere uno stato di euforia, un aumentato senso di energia psicofisica ed una
diminuzione del senso di affaticamento. In altri casi ci può essere una marcata
difficoltà a tollerare le frustrazioni, anche quando sono minime, riguardano aspetti
futili e voluttuari (come avere un po’ di soldi) o sono solo minacciate. Allora, di
fronte al timore di non riuscire ad emergere, a colpire gli altri (“a lasciare un
segno”, “a far vedere finalmente chi si è”), a realizzare ciò che sembra riesca a
tutti, il soggetto si può orientare attivamente verso modelli negativi che superino il
senso di vuoto e di inutilità che lo pervade, divenendo di caso in caso instabile,
impulsivo, disforico, ma anche esibizionista, trasgressivo, violento, fino a
strutturare condotte patologiche o antisociali più o meno stabili. Se c’è marcata
insicurezza il soggetto, anche quando attiva comportamenti violenti e
prevaricatori, tende a dipendere da un “capo” o a dimostrare qualcosa a qualcuno
che ritiene importante; d’altra parte, la paura di esporsi eccessivamente lo può
portare ad accontentarsi di recitare questo ruolo gregario di “vice”, alternando a
seconda del contesto spavalderia e paura (Moltedo-Perfetti, 2005, Pannelli, 2005).
Come si vede dagli esempi fatti, quando il senso di sé è precario, le possibilità di
cambiamento seguono percorsi rigidi e disadattavi, ancorati a mantenere costante
l’identità. La crisi – sia che comporti un ripiegamento depressivo, sia che esprima
una sfida attiva al mondo – può essere quindi gestita in rapporto alla possibilità di
consolidare il senso di sé, sulla base delle risorse disponibili e rese accessibili dal
soggetto. D’altra parte l’adulto, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, spesso
frutto di una infanzia e di una adolescenza personale tuttora dagli esiti non risolti,
si pone in modo ancora più “cognitivo” rispetto a quello dell’adolescente. Qui si
gioca la partita dell’adolescente per ottenere dalle figure di riferimento (spesso
ancora fortemente accudenti) le risposte che cerca, in termini di sicurezza e di
autonomia personale. Le difficoltà a superare questa fase sono espresse con la
permanenza di caratteristiche adolescenziali (“neotenia”, dal greco “νέος”, “neos”
= nuovo, giovane + “τείνω”, “teino” = tendere) anche in età adulta, in una sorta di
“adultescenza” irrisolta. L’adolescente ci pone di fronte ad un paradosso, che è
espressione dell’età della vita più esente da problemi e da malattie di ordine fisico

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(ovviamente, non dalle somatizzazioni), ma anche più vulnerabile sul piano
psicologico e nel corso della quale possono insorgere tutti i principali disturbi
mentali (Nardi e Vincenzi, 1995). Il fatto è che in questo periodo dinamico,
caratterizzato da profondi e a volte improvvisi cambiamenti, le crisi sono più
importanti delle continuità. Tutti questi cambiamenti sono ancora più problematici
in quanto comportano il confronto costante, e spesso conflittuale, con il punto di
vista dell’adulto, oltre che con quello dei coetanei (i cosiddetti “pari”), sia del
proprio che dell’altro sesso. A questo proposito, occorre considerare due aspetti. Il
primo è che non ci può essere significato personale se non c’è continuità, stabilità,
coerenza nella storia personale. Questa esigenza si può cogliere nel bisogno
dell’adolescente di riconoscersi: che è la ricerca di dare stabilità, di portare avanti
una coerenza, di mantenere una direzione e un senso in un momento in cui sembra
cambi tutto. La relativizzazione e la soggettività di ogni approccio conoscitivo,
che mette in crisi i precedenti punti fermi, è solo parzialmente consapevole;
tuttavia, proprio a livello di coscienza, l’adolescente ha bisogno di interrogarsi e
di cercare di capire chi è e verso quali direzioni muoversi (Nardi, 2016; Tittarelli,
2017). La ricerca di informazioni per avere un’idea di sé e del mondo, che sembra
così oggettiva, tanto che la cerca nel confronto con i suoi simili (i cosiddetti pari, i
coetanei: l’amico, l’amica del cuore) è in realtà qualcosa di fortemente soggettivo.
L’adolescente lo cerca nell’altro proprio perché ha bisogno di vedersi dall’esterno,
di confrontarsi mentre cambia con qualcuno che sperimenta qualcosa di simile, di
confermare il senso di sé acquisito con l’altro, perché ha bisogno di sicurezza in
un momento di trapasso e di incertezze. In questa ricerca l’adulto diviene spesso,
suo malgrado, la “controparte”, da cui gli scontri generazionali, i conflitti, perché
è come se esistesse realmente questa oggettività condivisa, in un momento in cui
il soggetto per la prima volta nel corso della vita scopre la soggettività, il suo
punto di vista, il relativo. È questo il grande problema dell’adolescenza con cui ci
dobbiamo confrontare, questa fatica di vivere che a volte porta l’adolescente a
chiudersi in sé, a volte a mostrare la sua rabbia, a volte a lasciare comunque il
segno, per dire “sono io, esisto, non sono trasparente”. L’adolescente tende ad
appropriarsi di ideologie dato che si sente carente di esperienze e di trame
narrative proprie, per cui cerca riferimenti attraverso i quali dare certezza al suo
bisogno di ancorarsi ad un contesto, di appartenere a se stesso ma anche ad un
gruppo sociale. L’incompleto processo di maturazione ideo-affettiva lo porta a
vivere intensamente più per marcati contrasti che per meditate sfumature, a
vedere in bianco-nero più che in chiaro-scuro, ad affermare un’idea più che ad
approfondirla, a commuoversi più che a far emergere la sua affettività, a vivere
intensamente più che ad investire in un progetto. Qui sta la difficoltà della
maturazione umana, tanto complessa quanto lo è la coscienza: non basta capire o
commuoversi, ma occorre la ricerca (da consolidare nella memoria) di un senso
compatibile con la coerenza interna, dato che solo partendo dalla propria trama

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soggettiva è possibile un incontro autentico anche con l’altro. È ciò che
l’adolescente cerca intensamente senza sapere se e quando riuscirà a trovarlo; ed è
ciò che spesso anche gli adulti continuano a cercare, forse un po’ meno
intensamente e a volte più disillusi o delusi, quando hanno ancora bisogno di
sciogliere il nodo esistenziale di riuscire a cogliere che l’incontro con se stesso e
con l’altro è la diversa sfaccettatura di un unico grande tema: il viaggio nella vita
attraverso il filo della memoria. Proprio il rimodellamento plastico cerebrale
durante l’adolescenza, unito al bisogno di sperimentarsi in nuove situazioni e in
nuovi ruoli sociali, rendono potenzialmente fragile e instabile un soggetto in
questa età, quando non la affronta con una solidità personale maturata durante
l’infanzia, grazie ad una buona immagine di sé basata sul riconoscimento di ciò
che caratterizza la propria unicità, valorizzando i propri “punti di forza” e
gestendo quelli “deboli”. La passione e l’intensità con cui si affrontano le nuove
situazioni possono motivare a realizzarsi quando si ha una affettività già stabile e
quando il senso di realtà può essere sostenuto attraverso validi punti di
riferimento. In caso contrario, la mancanza di esperienza può portare ad un
eccessivo affollamento di senso-percezioni, ricercando continuamente nuovi
obiettivi, senza avere il tempo di analizzarli e giudicarli adeguatamente rispetto ai
propri bisogni e alle proprie risorse, quindi senza avere la capacità di valutarne in
modo costruttivo per sé i pro e i contro. Una maturazione fisiologica personale e
relazionale, compatibile con la propria OP, consente di attraversare i cambiamenti
critici adolescenziali senza appiattirsi su modelli esterni, chiudendosi
depressivamente nel proprio mondo interno o lanciandosi in sfide al limite,
identificandosi per opposizione trasgredendo, andando “contro” qualcuno o
qualcosa, perdendosi in un esibizionismo di sola facciata, con incertezza o timore
di guardarsi dentro e di esplorare il proprio mondo interno (in questi casi
svalutato, creduto vuoto e inconsistente, inadeguato rispetto al mondo esterno).
Da un punto di vista affettivo, la maturazione adolescenziale consente di cercare
attivamente su chi si può investire, costruendo insieme, sulla condivisione e
sull’apertura reciproca, un progetto di vita. Lasciare alle spalle un’affettività
possessiva, per aprirsi ad una affettività dialettica, attenta ai bisogni propri e
dell’altro, permette di superare il senso di vuoto e di solitudine che costella tanti
momenti dell’adolescenza, ma anche di vincere il rischio di limitarsi a
rimpiangere o a sognare un amore che si pensa di non potere realizzare. È il mito
di tante coppie “impossibili” della letteratura, a partire da quella di Orfeo e
Euridice, così riletta da Paola Mastrocola (2016, p. 30): “l’amore è lontananza, si
nutre di distanze impercorribili. Non ho bisogno di vivere con te. In questo buio
dove non ti vedo e non ti ho, è perfetto amarti: l’amore fa parte della morte.
Come nella notte è contenuto il giorno, come lo stesso cielo abbraccia e luna e
sole (…) Sono diventata cielo. Fare a meno di te è l’amore”. Andare oltre il
volere tutto e subito, il non sentirsi irrimediabilmente lacerati quando non si

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ottiene o si perde qualcosa, il saper desiderare confrontando con l’altro ciò che si
desidera, il mettere in pausa e in silenzio il proprio mondo interno quando serve
ascoltare l’altro e sintonizzarsi con il suo mondo interno, è l’altro grande
cambiamento di cui necessita l’adolescente. Fare un salto di complessità nella
maturazione fornisce la capacità di andare oltre l’autosservazione (la serie di
“selfie” con cui il soggetto si osserva ed esamina in continuazione), per esplorare
in modo più consapevole e approfondito gli altri significativi e imparare a
relazionarsi selettivamente e – quando è possibile – empaticamente con loro.
Dalle riflessioni fatte emerge la necessità di un approccio all’adolescente centrato
su come assimila e si riferisce le esperienze che vive in presa diretta nel corso di
questa fase cruciale della vita. L’osservatore deve essere disponibile (ma anche
capace) di prestare attenzione al soggetto, senza confondere le sue esperienze e
modalità di funzionamento con le proprie, inclusi gli stereotipi e la tendenza a fare
confronti e sovrapposizioni con casi simili incontrati in precedenza. La messa a
fuoco delle modalità soggettive, uniche e irripetibili, mediante le quali ogni
soggetto percepisce e riferisce a sé quanto sta vivendo consente di considerare il
sintomo come il punto di partenza di un percorso esplorativo dell’adolescente,
che deve essere attento a: 1) cosa emerge; 2) quando quella cosa emerge (spesso
dopo molto tempo, quando la fiducia che si è instaurata e la maggiore
dimestichezza col mondo interno consentono all’adolescente di condividere con
noi segreti non rivelati o aspetti inesplorati di sé appena scoperti); 3) in che modo
emerge (occorre imparare il linguaggio – anche somatico – dell’adolescente, per
poter comunicare con lui/lei); 4) con chi emerge (non esiste un “osservatore
neutro”, che non entri nella relazione e non la modifichi o non sia a sua volta
modificato o influenzato da ciò che osserva), ed è questa la base per la costruzione
di una relazione empatica. Confrontarsi con il disagio adolescenziale pone di
fronte a tre aspetti: a) problemi nell’assimilare l’esperienza; se si considera una
difficoltà secondo una prospettiva semplicisticamente oggettiva, per cui la realtà
appare comunque condivisibile ed uguale per tutti, questi problemi possono essere
visti come modi errati e devianti di percepire l’esperienza e di comportarsi,
rispetto allo standard di normalità; viceversa, considerando gli aspetti soggettivi,
si può mettere a fuoco come le difficoltà derivino da attivazioni emozionali che
rimandano alle forme individuali di assimilare l’esperienza; b) modalità di
funzionamento individuale; ciascun soggetto, nell’assimilare attivamente
l’esperienza e nel trasformarla in conoscenza, sperimenta certi eventi come
discrepanti con il senso di sé e del mondo che si era fino ad allora costruito; questi
sono dunque avvertiti come qualcosa che altera l’equilibrio interno, minacciando
la coerenza interna. In alcuni casi, le esperienze possono produrre una tale
attivazione emozionale che il sistema individuale perde irreversibilmente la
preesistente condizione di equilibrio ed entra in una fase critica di instabilità, dalla
quale è possibile venire a capo solo raggiungendo un nuovo equilibrio; c) criteri

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di intervento; essi devono essere tempestivi, mirati e specifici, fornendo gli
strumenti più idonei per aiutare l’adolescente a raggiungere una nuova situazione
di equilibrio; questa deve essere più ampia, complessa e flessibile, in modo da
consentirgli di assimilare anche quelle categorie di esperienza che lo avevano
destabilizzato e messo in crisi. Per poter operare in questo modo occorre un
approccio non solo globale, ma anche individualizzato e flessibile nel tempo, che
consenta una gestione funzionale del sintomo e di come possa essere modificato
attraverso la terapia, ma anche (e soprattutto) una gestione del disagio sottostante,
attenta a come il soggetto – che è unico, così come unici e irripetibili sono i
cambiamenti che sta sperimentando – assimila l’esperienza e la integra nel senso
di sé che sta faticosamente ristrutturando, tra bisogno di continuità ed esigenze di
cambiamento.
L’ETÀ ADULTA
L’età adulta (adultità), sotto il profilo psico-comportamentale, non è un periodo
piatto ed omogeneo come si tende a credere, ma ha anch’essa un andamento
dinamico, complesso e variegato. Da un lato, il passaggio dalla fase
adolescenziale a quella adulta della vita può essere molto graduale e indistinto, se
non altro per il fatto di essere segnato da cambiamenti sul piano affettivo e
lavorativo. Dall’altro lato, il progressivo arricchimento di esperienze è alla base
del fatto che, se con il trascorrere degli anni si tende a perdere rapidità e
dinamismo, si acquisiscono tuttavia nuove capacità operative e innovative.
Quando il sistema psichico è in equilibrio, il soggetto può esprimere il suo stile
affettivo e i temi propri della sua OP con crescente competenza alla luce delle
esperienze acquisite, anche in età molto matura, continuando a sviluppare le
proprie capacità di risposta agli stressor specifici (di pericolo, solitudine, giudizio,
dovere) e insegnando agli altri (figli, nipoti, allievi, ecc.) come gestirle e
condividendo i propri strumenti con la rete relazionale con cui è in rapporto.
Quando si acquista la maturità affettiva e cognitiva e si dispone di una relativa
disponibilità economica, i soggetti possono riprendere in modo nuovo i sogni
infantili e i desideri adolescenziali per adattarli alla luce dell’esperienza fatta e per
realizzarli grazie alle competenze teoriche e pratiche acquisite, facendo leva sulla
propria disponibilità economica. Non è un caso che la maggiore creatività possa
essere espressa anche dopo i sessanta anni e che diversi soggetti, dopo una vita
routinaria, riescono ad affermarsi (anche in settori diversi da quelli abituali)
proprio nella tarda età adulta e persino in quella fase, sempre più indefinita e
spostata in avanti con l’aumentare della vita media, che viene chiamata
senescenza (dal latino “senex” = vecchio), come avviene nel cosiddetto
“invecchiamento di successo” (“succesfull aging”; Marchesi, Nardi et al., 1994).
Anche nell’adulto, molti cambiamenti tendono a sfuggire alla consapevolezza,
almeno fino a quando il soggetto non va incontro a periodi di riarrangiamento

122
critico dell’esperienza del tempo. Con il trascorrere degli anni, un soggetto può
avvertire una inversione della simmetria del tempo; il passato può sembrare la
dimensione più importante sotto il profilo degli investimenti affettivi e
motivazionali, il presente può diventare il campo prevalente della propria
esperienza, il futuro può apparire circoscritto nelle prospettive e ristretto nei
progetti all’esperienza contingente. Può prevalere l’attitudine, affettiva prima che
cognitiva, a far rivivere nel presente il passato sotto forma di nostalgia (dal greco
“νόστος”, “nostos” = ritorno al paese di origine + “ἄλγος”, “algos” = dolore,
sofferenza): l’anelito a un ritorno ad una pre-condizione, una sorta di mitica età
dell’oro dei propri anni migliori e il rimpianto per il fatto che quel passato non
torna più. Come scrisse Leopardi (Il Sabato del Villaggio), “Siede con le vicine /
su la scala a filar la vecchierella, / incontro là dove si perde il giorno; / e
novellando vien del suo buon tempo, / quando ai dì della festa ella si ornava, / ed
ancor sana e snella / solea danzar la sera intra di quei / ch'ebbe compagni
dell'età più bella”. Tuttavia, quando lo stato di salute è buono e la maturazione
psichica adeguata, la capacità di guardare indietro per utilizzare e rendere fruibile
la propria esperienza e quella di guardare avanti, per continuare a progettare per sé
e per gli altri sulla base del bagaglio di esperienze acquisite, consentono di
esprimere le proprie risorse in modo non solo costruttivo, ma anche creativo e
innovativo. In ogni caso, per ciascun soggetto e sulla base della sua OP, grazie
alle caratteristiche maturate durante l’infanzia e l’adolescenza, le risorse affettive
e cognitive sono espresse, sia pure dinamicamente, all’interno di un significato
unico attribuito alla propria esperienza. Questo significato stabilizza la coerenza
interna e fornisce gli strumenti adattivi taciti ed espliciti per riferirsi ciò che si
affronta nel corso della vita, continuando a cercare di dare senso e coerenza alle
esperienze quotidiane, alla luce delle risorse adattive fornite dalla propria OP.
Il processo di costruzione del significato personale è vitale negli anni se riesce a
superare rassegnazione e disincanto, a non identificare il negativo dell’esperienza
con una propria negatività. Per questo, resta sempre vivo e attuale il monito inciso
nel 1529 su un architrave in travertino in rua Lunga ad Ascoli Piceno, pena il fatto
che, altrimenti, “chi po non vo, chi vo non po, chi sa non fa, chi fa non sa, et così
el mundo mal va”. Ed in questo senso va riletto il detto tradizionale che “occorre
non aggiungere anni alla vita, ma vita agli anni”: una vita che sia costruzione di
senso e un senso che sia ricco di risonanze affettive, base per ogni
“corrispondenza d’amorosi sensi” (Foscolo, 1807) tra persone e generazioni
diverse. Se nella coscienza individuale la costruzione dell’esperienza del tempo è
adattivamente progettuale, nonostante i passaggi critici che affronta attraverso le
varie fasi della sua esistenza, il soggetto sa abbracciare in modo unitario la sua
vita, senza che il presente sia riempito interamente dal passato, senza che diventi
l’unica e totalizzante dimensione esistenziale, senza infine che sia svuotato in
funzione di un ipotetico futuro.

123
L’ESPERIENZA DI SÉ

ESPERIENZA E CONOSCENZA
La psiche si nutre di esperienza come il corpo di cibo. Immaginiamo di trovarci ad
un pranzo al quale partecipano numerosi convitati. Ciascuno può scegliere tra vari
piatti: antipasti, primi piatti, secondi piatti a base di carne, pesce, uova o formaggi,
contorni di verdure e ortaggi, frutta, dolci. Ovviamente, ogni convitato assume
attraverso i cibi una certa quantità di proteine, carboidrati, lipidi, sali minerali,
vitamine. Tutti attingono dalle stesse portate ma, terminata la digestione, quei cibi
entrano a far parte integrante e indistinguibile del corpo di ciascun commensale.
Pensiamo ora, non tanto ai cibi che introducono durante il pranzo, ma a quello che
i convitati dicono e fanno. Anche questa esperienza, condivisa da tutti
apparentemente allo stesso modo, è assimilata dai convitati e diventa parte
integrante di ciascun individuo. Ognuno infatti fa sua l’esperienza
interiorizzandone gli aspetti che recepisce come più importanti, trasformandoli e
integrandoli, questa volta non nel proprio fisico, ma nella propria personalità.
Come nel Simposio di Platone, l’esempio fatto ci aiuta a comprendere che la
psiche assume in modo soggettivo gli elementi della realtà, utilizzandoli per
costruire e mantenere il senso di identità personale, che è aggiornato di volta in
volta in base alle esperienze fatte: “subito un domestico mi venne incontro, e mi
condusse dove gli altri stavano sdraiati: li trovai già sul punto di cenare (…)
Socrate si distese e cenò, e così pure gli altri; fecero quindi le libagioni, e
intonato il canto in onore del dio e celebrati gli altri riti tradizionali, si volsero al
bere. Pausania allora, secondo il racconto, diede inizio ai discorsi (…) Poiché
dunque – disse Erissimaco – è stato concesso questo, che ciascuno beva quanto
vuole, e che non vi sia nessuna costrizione, propongo, dopo di ciò, di mandar via
la flautista che è entrata poco fa – potrà suonare da sola, o, se vuole, per le donne
di casa – e quanto a noi, di stare assieme oggi, intrattenendoci con discorsi”.
Nello studio della psiche e del modo in cui essa trasforma l’esperienza della realtà
in senso di sé nell’ambito della propria OP, è utile richiamare alcuni punti nodali
attraverso i quali si è formata l’idea della coscienza: il che richiede di riflettere su
come la psiche ha imparato a conoscere (e ad essere quindi consapevole di) se
stessa.
ORIGINE DEL CONCETTO DI COSCIENZA
Nelle prime culture umane che hanno lasciato testimonianze scritte la coscienza
era vista in termini marcatamente concreti, per cui coincideva sostanzialmente con
la conoscenza. Analogamente a quanto avviene in un individuo durante le fasi
infantili del suo sviluppo, la conoscenza (e, quindi, anche la coscienza) era
collegata a ciò che si percepiva, anzitutto attraverso la vista. Ad esempio gli

124
antichi Sumeri usavano la stessa parola, “se-u”, per indicare sia il vedere che il
conoscere. La radice di questa parola è sopravvissuta fino ai nostri giorni,
trovandosi nella formulazione inglese (to see) e tedesca (sehen) del verbo
“vedere”. Analogamente, il termine greco che indicava la mente intesa come
facoltà intellettiva di comprendere le cose (“νοῦς”, “nous”), deriva dall’antica
radice “snovos” (= fiutare, quindi anche intuire), così come anche la parola latina
“sapientia” (da “sàpere” = essere salato, avere sapore) aveva in origine un
significato senso-percettivo concreto.
Il concetto di coscienza come espressione della capacità umana di ragionare è
legato alla filosofia greca. Il “conosci te stesso” socratico implica la fiducia nella
ragione (“λόγος”, “logos”), che può conoscere il mondo e avvicinarsi alla verità
purché tenga presenti i suoi limiti: saggio è l’uomo che anzitutto sa di non sapere.
Inoltre, non è tanto la forma (“struttura”) del pensiero che conta, ma l’oggetto
(“contenuto”). Infatti, prestando attenzione al contenuto, si può esplorare come
esso si è prodotto e, quindi, come funziona la mente che lo ha generato. Platone,
come aveva fatto Socrate, ci ricorda che la razionalità guida questo processo
conoscitivo di amore per la sapienza (“filosofia”, da “φιλεῖν”, “filein” + “σοφία”,
“sofia”), anzi solo essa è in grado di gestire i diversi contenuti della coscienza,
specie quelli istintivi, emozionali e irrazionali, per lui assimilabili al mondo
animale. Affermava Socrate: “certamente sono più sapiente io di quest’uomo,
anche se poi, probabilmente, tutti e due non sappiamo proprio un bel niente;
soltanto che lui crede di sapere e non sa nulla, mentre io, se non so niente, ne
sono per lo meno convinto, perciò un tantino ne so più di costui, non fosse altro
per il fatto che ciò che non so nemmeno credo di saperlo” (Platone, Apologia di
Socrate, C. 6.). Aggiunge Platone (Repubblica, Libro IX): “bisogna agire e
parlare in modo tale che l’uomo interiore sia reso più forte possibile, così da
riuscire a dirigere la bestia dalle molte teste”.
Sempre nel pensiero greco la psiche (“ψυχή”) – intesa come soffio umido, fiato,
soffio vitale – era espressione della vita stessa, in contrapposizione allo scheletro
osseo (“σκελετός”, “skeleton” = secco), di per sé privo di vita. Il fatto che la
psiche, come soffio vitale, sia generatrice della consapevolezza della nostra
esperienza della vita e della sua continuità nel tempo attraverso la memoria è un
tema centrale della mitologia greca, come ha osservato Paola Mastrocola (2016, p.
307): “gli uomini, una generazione dietro l’altra, popolano la terra. È il loro
modo di non morire, far nascere da sé i figli. Un altro modo glielo suggerisce
Zeus, quando ama Mnemosine, la dea Memoria, e da lei genera le Muse. Sono
loro che ci mandano le storie, che sono il nostro inizio. Un soffio, un fiato senza
voce che ci aiuta a superare il tempo”. Per lo stesso motivo uno dei primi storici,
Tucidide, ci ricorda che la memoria storica è un prezioso “possesso perenne”
(“κτημα ες αιει”, “ktema es aiei”), dato che consente di superare e mantenere un
patrimonio che altrimenti andrebbe perduto con il perdersi della memoria

125
individuale. L’importanza del poter osservare, conoscere, classificare e ricordare
l’esperienza è stata evidenziata da Aristotele, per il quale la conoscenza consente
di cogliere l’universale attraverso i particolari forniti dalle sensazioni e fissati
dalla memoria; inoltre, chi possiede l’arte trae la sua saggezza non dal fatto che sa
fare una cosa, ma in quanto conosce le cause e la ragione di ciò che fa (Metafisica,
980b). Sia Platone che Aristotele ci ricordano che dalla ricerca del sapere e
dall’indipendenza da qualsiasi fine utilitaristico deriva la capacità di meravigliarsi:
la “meraviglia” è la molla che spinge a conoscere. Saggezza e sapienza hanno,
come si è detto, una radice comune con il sale, in quanto danno sapore alla vita e
aiutano ad affrontare l’esperienza.
Tuttavia, un’altra grande espressione del pensiero degli antichi Greci, la tragedia
(da Eschilo a Sofocle e, soprattutto, ad Euripide), ha mostrato che non basta
ridurre i contenuti della coscienza alla sola razionalità e alle sue capacità di
controllo. Solo le emozioni e, in particolare, la sperimentazione ed il superamento
del dolore possono produrre una conoscenza più matura della realtà, tale da
guidare i comportamenti con saggezza (“σωφροσύνη”, “sophrosine”).
Pertanto, è un atteggiamento arrogante (“ὕβϱις”, “hybris”) quello di pretendere di
conoscere, prevedere e giudicare la realtà in modo certo, definitivo e distaccato,
sopravalutando i limiti conoscitivi umani ed ignorando o svalutando i contenuti
emozionali e irrazionali della coscienza, come ci ricorda Euripide nelle Baccanti:
“saggio non è chi è troppo savio, e l’occhio / oltre agli umani limiti / volge. Breve
è la vita. Ora chi, seguendo le più ardue / cose, vorrà le facili / non sopportare?
Lesa, a quanto mi sembra, / chi così opera, ha la mente / dalla follia, né bene si
consiglia.” ... “Dioniso ... si rallegra / nel tripudio, e la pace ama, che agli uomini
/ vita felice e figli / elargisce; e in dono al misero / offre, non meno che al beato, il
gaudio / del vino, dove s’annega ogni dolore. / E odia quelli che spregiano / in
esultanza consumare i fulgidi / giorni e le notti amabili. / Ma saggia cosa è
l’intelletto e l’anima / tenere lontana dagli uomini / che presumono troppo. Io ciò
che i semplici / credono, e se ne giovano, / voglio porre ad esempio”.
Il pensiero greco è compreso, cronologicamente e dialetticamente, tra la “menis”
(“μῆνις”) con cui inizia l’Iliade – che indica l’ira, ma anche la passione, esclusive
della sfera divina, nel mantenere l’equilibrio cosmico e nel punire chi lo minaccia
– e la “hybris” (“ὕβϱις”) della tragedia, che esprime la presunzione umana di
volere prevaricare i propri limiti, determinando una lacerazione nel tessuto
armonico della realtà. In questo modo esso ha posto al centro dell’attenzione il
problema del rapporto tra conoscenza e coscienza, interrogandosi non solo
sull’accessibilità della realtà all’esperienza umana, ma anche sulla possibilità di
gestire razionalmente le emozioni.
Al pensiero giudaico-cristiano si deve un’altra grande conquista: l’indicazione a
non considerare la coscienza come un elemento separabile (anche nelle sue
componenti) dall’individuo nella sua irriducibile globalità e nella sua irripetibile

126
unicità. Razionalità e affettività – nella loro interazione dinamica – sono strumenti
da cui derivano la libertà e la responsabilità delle azioni umane. Pertanto, mentre
il pensiero greco ha tentato di sciogliere l’interrogativo su come avviene la
gestione razionale delle emozioni, il pensiero cristiano, soprattutto nelle riflessioni
di Agostino da Tagaste, ha indagato l’unicità e la complessità della persona.
Inoltre, se nella cultura classica greco-latina la volontà è riconducibile
essenzialmente all’intelletto, per Agostino l’affettività – e in particolare l’amore –
assume un valore conoscitivo e motivazionale essenziale, per cui si conosce
veramente solo ciò che si ama: “non cercare fuori di te (…) Rientra in te stesso: la
verità sta nell’interno dell’anima umana, e se troverai mutevole la tua natura,
trascendi anche te stesso”. “E dire che gli uomini vanno ad ammirare le vette
delle montagne, i grandi flutti del mare, il lungo corso dei fiumi, la distesa
dell’oceano, i giri degli astri; e si dimenticano di se stessi” (Confessioni).
“Ciascuno è ciò che egli ama”. “Ama e fai ciò che vuoi” (Commento alla I lettera
di S. Giovanni). Per Agostino, inoltre, l’individuo prende consapevolezza di sé
anche attraverso il dubbio e gli sbagli (“si fallor, sum”, se mi inganno esisto) ed è
stimolato alla ricerca della verità.
Concetti analoghi sono stati ripresi in varie epoche. Così, ne “L’Acerba”, Cecco
d’Ascoli (Francesco Stabili, 1269-1327) scriveva: “Iudicio procede da savere /
(…) non iudicar se tutto non vedi: / non sari iudicato se ciò credi”; “Del dubitar
querendo è gran virtude / (…) Fa che ‘l dubitar tuo sia possente, / se vuo’ che
dubitando ti contente”).
Un ulteriore approfondimento viene da una leggenda ampiamente diffusa in
Europa tra medioevo e rinascimento, raccolta da Andrea da Barberino, che tratta
del viaggio iniziatico di un cavaliere (Guerrino), figlio di re ma rapito da piccolo
e, quindi, ignaro delle sue radici (“Meschino”), il quale, andando alla ricerca delle
sue origini per terre e per mari, giunge infine alla grotta della Sibilla, posta sul
versante marchigiano dell’omonima vetta dei monti Sibillini a duemila metri di
quota, sotto la celebre corona di rocce. Alla domanda: “fata, dimmi chi sono”, la
Sibilla dà una risposta fortemente discrepante rispetto alle attese. Anzitutto gli
dice: “anche tu sei fatato, come lo sono io, entrambi siamo fatti di stelle”. Il
segreto per arrivare alla conoscenza (l’essere “fatati”) è il desiderio (la cui
etimologia latina rimanda alla ricerca di ciò che è lontano: “de” + “sidera” = che
riguarda le stelle). È il desiderio il motore della ricerca di senso; esso richiede un
cammino verso qualcosa che non è immediatamente raggiungibile e ci fa
confrontare con le nostre motivazioni e le nostre emozioni. Chi desidera va oltre
la conoscenza superficiale, legata alle spiegazioni ricche di autoinganno, per
arrivare a mettere a fuoco come assimiliamo l’esperienza in presa diretta e come,
attraverso essa, costruiamo la nostra conoscenza tacita. La Sibilla aggiunge: “se
vuoi conoscere le tue origini devi cercare dentro di te, e allora scoprirai chi sei”.
Parafrasando la filosofia socratica e il pensiero agostiniano, la ricerca va spostata

127
nel mondo interno, dove ogni esperienza esterna risuona emotivamente e si fa
significato personale. Il cavaliere, che era andato alla ricerca di se stesso in
un’infinità di contesti esterni vicini e lontani, scopre che la verità su chi è la può
conquistare solo attraverso la prossimità con se stesso.
Un’altra leggenda ancora viva sul versante marchigiano dei monti Sibillini
(ripresa da Shakespeare in Romeo e Giulietta con il medesimo significato; cfr.
Catà, 2016) ricorda che “non bisogna strecciare i crini dei cavalli”. Andando oltre
il significato letterale, la ricerca di senso inizia dal recupero delle proprie radici,
tramandate di generazione in generazione attraverso i miti di una comunità, che
hanno quindi una valenza identitaria. Ma c’è un significato più profondo, nascosto
dentro questo detto. La coscienza di sé si risveglia solo se si accede alla
immediatezza dei suoi coloriti soggettivi ed ai suoi contenuti taciti, attraverso le
rappresentazioni interne che si rendono così di nuovo disponibili. È questo il
modo per compiere ciò che l’antico detto dei Sibillini sembra porre come veto. I
nodi della coscienza, costituiti dalle esperienze perturbanti non assimilabili,
possono essere “sciolti” non con la razionalità – mediante un riordinamento
dall’esterno, per renderli conformi ad una realtà predefinita, preordinata e
“migliore” – ma solo attraverso un cambiamento interno profondo, inizialmente
non accessibile alla consapevolezza, che tocchi le emozioni e generi in questo
modo nuovi significati. Scoprire che si è più di ciò che si è appreso di sé dalla
propria storia consente di strecciare nodi altrimenti insolubili in una più ampia e
consapevole coscienza delle risorse legate alla propria unicità.
Venendo a spunti più recenti, nel Novecento Robert Musil, riprendendo le
precedenti riflessioni sul dubbio e facendo riferimento al deficit di critica che non
consente di mettere in discussione il proprio punto di vista, ha ricordato che “non
è il dubbio, è la certezza che fa diventare pazzi”. O, per integrare, è la presunzione
di certezza che esprime una mente rigida e, quindi, potenzialmente
psicopatologica. Del resto, la risorsa critica fornita dalla capacità di utilizzare
costruttivamente il dubbio, è la base del metodo scientifico, come ha messo in
evidenza Karl Popper (1902-1994): “giunsi così, sul finire del 1919, alla
conclusione che l'atteggiamento scientifico era l’atteggiamento critico, che non
andava in cerca di verifiche, bensì di controlli cruciali; controlli che avrebbero
potuto confutare la teoria messa alla prova, pur non potendola mai confermare
definitivamente” (La Ricerca Non ha Fine). Pertanto, “la base empirica delle
scienze oggettive non ha in sé nulla di assoluto” (Logica della Scoperta
Scientifica) e “dobbiamo distinguere chiaramente tra verità e certezza. Aspiriamo
alla verità, e spesso possiamo raggiungerla, anche se accade raramente, o mai,
che possiamo essere del tutto certi di averla raggiunta (…) La certezza non è un
obiettivo degno di essere perseguito dalla scienza”.
Partendo da queste brevi riflessioni si può pensare alla coscienza – e al suo modo
di fare esperienza – senza limitarla solo a ciò di cui siamo consapevoli. Per tentare

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di mettere ulteriormente a fuoco il campo della coscienza ci viene in aiuto il
concetto dantesco della necessità di essere dotati, non solo di conoscenza, ma
anche di virtù. Non si può fare una nuova esperienza che sia progettuale se non si
passa dal volere tutto e subito (che prima o poi non appaga più e annoia) alla
“virtù” del desiderio: come si è detto, desiderare è infatti tendere verso qualcosa
che non si possiede ma che attrae, anche se sfugge al possesso senso-percettivo e
motorio. D’altra parte, il desiderio ha la caratteristica di essere al tempo stesso
raggiungibile ed irraggiungibile: nel momento in cui si realizza si sposta in avanti
e spinge ad andare oltre. Esso richiede un movimento (anche solo immaginario,
tanto da attivare comunque le aree motorie supplementari) che è regolato, da un
lato, dalla paura di ciò che di negativo può conseguire da questa ricerca e,
dall’altro lato, dalla curiosità di rinunciare a qualcosa dello stato presente,
verificando quanto si tiene a quello verso cui si tende. In questo modo, il desiderio
esprime una capacità psichica “metacognitiva”, una conoscenza sulla conoscenza,
che consente di riflettere su ciò che si conosce e, quindi, su se stessi, così come
poeticamente ci ricorda l’Ulisse di Dante: “O frati, dissi, che per cento milia /
perigli siete giunti a l’occidente, / a questa tanto picciola vigilia / de’ nostri sensi
ch’è del rimanente, / non vogliate negar l’esperienza, / diretro al sol, del mondo
sanza gente. / Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti, /
ma per seguir virtute e canoscenza”. Attraverso il discorso che Ulisse fa ai suoi
compagni di viaggio per incitarli ad andare verso l’ignoto, ci si può addentrare nel
nuovo, oltrepassando le “colonne d’Ercole” che segnano i limiti delle attuali
conoscenze, se si possiedono due strumenti: quello affettivo-motivazionale
(“virtute”, virtù) e quello cognitivo (“canoscenza”, conoscenza). Infatti, la lettura
cognitiva non è completa se è privata delle componenti emozionali guidate da una
motivazione costruttiva, così come un’attivazione emozionale richiede la lettura
razionale dello stato cui è associata, in modo da essere integrata in una
consapevolezza coerente.
A questo proposito appare straordinariamente moderna l’intuizione di Nicolas de
Malebranche (1679, p. 914) e cioè che la coscienza – attraverso la quale
diveniamo conosciuti a noi stessi – inizia proprio come un “sentire di sapere”: “è
grazie alla luce e a una chiara idea che la mente vede l’essenza delle cose, i
numeri e le estensioni. È grazie a una vaga idea o al sentimento che la mente
giudica l’esistenza delle creature e che conosce la propria esistenza.” Damasio
(2000) ha osservato che questa intuizione dà un’idea attendibile di come il
cervello produce ciò che chiamiamo coscienza: “la coscienza si sente come un
sentimento (…) Senza dubbio, non si percepisce come un’immagine chiara in
nessuna delle modalità sensoriali rivolte all’esterno. Non è una configurazione
visiva o uditiva; non è una configurazione olfattiva o gustativa. La coscienza non
la vediamo né la ascoltiamo. La coscienza non ha odore né sapore. La coscienza
sembra una sorta di configurazione costruita con i segni non verbali degli stati

129
del corpo. Forse è per questa ragione che la fonte misteriosa della nostra
prospettiva mentale in prima persona – la coscienza nucleare e il suo semplice
senso di sé – si rivela all’organismo in una forma che è al tempo stesso potente ed
elusiva, inconfondibile e vaga”.
La coscienza si rende accessibile attraverso la conoscenza; ma quest’ultima
emerge da complessi processi di integrazione – parzialmente o affatto consapevoli
– strettamente correlati alle attivazioni emozionali (“che effetto mi fa essere me
stesso mentre faccio esperienza di qualcosa”). Come ha osservato Guidano, “il
senso di unicità e individualità personale è basato sull’unità organizzativa
dell’ambito emotivo del soggetto (…) L’ordinamento personale dell’insieme degli
schemi emozionali permette di riconoscere ed esperire un’ampia varietà di stati
interni come aspetti diversi di una dimensione di esperienza personale unica e
continua” (1988). Pertanto, “in assenza di emozioni non sembra possibile alcun
tipo di cambiamento. Mentre il pensare cambia di solito i pensieri, solo il sentire
può modificare le emozioni, aggiungendo nuove tonalità nella configurazione dei
temi affettivi di base, modificando la modulazione prodotta dall’esperienza
immediata, con riordinamento dei pattern di coerenza del significato personale”
(1992).
Pertanto, i processi affettivi forniscono una fondamentale modalità di conoscenza,
più profonda e immediata, ma anche paradossalmente più stabile, di quella
razionale: queste due forme di conoscenza tessono le trame della storia personale
e ne guidano le scelte; dalla loro modulazione reciproca emerge a livello
consapevole il senso di sé e dell’ambiente circostante e, nel complesso, quella
concezione della vita e del mondo che va sotto il termine tedesco
“weltanschauung” (da “welt” = mondo + “anschauung” = visione).
CERVELLO E ATTIVITÀ PSICHICA
Il fatto che la psiche – e, quindi, anche la coscienza – siano il prodotto dell’attività
del cervello è anch’essa una conquista del pensiero greco e, in particolare, della
scuola medica ippocratica. A Ippocrate risalgono queste osservazioni: “da
null’altro si formano i piaceri e la serenità e il riso e lo scherzo, se non dal
cervello, e così i dolori, le pene, la tristezza e il pianto. E soprattutto grazie ad
esso pensiamo e ragioniamo e vediamo e udiamo, e giudichiamo sul brutto e sul
bello, sul cattivo e sul buono, sul piacevole e sullo spiacevole (…) Ed è a causa
del cervello stesso se impazziamo, e deliriamo, e ci insorgono incubi e terrori, e
insonnia e smarrimenti strani, e apprensioni senza scopo, e incapacità di
comprendere cose consuete, e atti aberranti”.
Fin dagli albori della medicina scientifica era chiaro che non si poteva studiare la
psiche prescindendo dal cervello, così come non si poteva considerare il cervello
ignorando lo studio dell’attività psichica. Tuttavia, l’esplorazione scientifica della
psiche ha avuto uno sviluppo recente, legato agli strumenti di indagine che si sono

130
resi disponibili. I grandi progressi compiuti negli ultimi anni sono dovuti al fatto
che mai come ora le neuroscienze si possono avvalere di strumenti di indagine
potenti e sofisticati (neurochimici, di neuroimaging, clinico-diagnostici, ecc.). Si è
assistito, conseguentemente, ad un notevole approfondimento dei diversi approcci
(genetici, farmacologici, psicologici), ognuno dei quali ha sviluppato propri
modelli conoscitivi. Tuttavia, proprio questi progressi hanno di fatto frammentato
la psiche in una serie di prospettive diverse le quali, più ne approfondiscono i
dettagli, più rischiano di allontanarsi dal fornire una visione sufficientemente
globale e unitaria, tale da restituire una comprensione di ciò che è la coscienza nel
sentire personale. Pertanto, occorre coniugare l’evoluzione delle conoscenze
scientifiche con lo studio dei modi soggettivi di essere consapevoli di sé e del
mondo. Nello specifico, la complessità della psiche è espressione di una
innumerevole serie di funzioni proprie di specifici sistemi neuronali, collegati tra
loro a formare “sistemi operativo-funzionali” (Luria, 1980) e costantemente
aggiornati, nel cui ambito le nuove esperienze sono registrate, confrontate e
integrate con quelle precedenti. Ciò dà la possibilità di acquisire un senso globale
e unitario di sé senza percepirsi (entro un intervallo di normalità) come
insopportabilmente diversi, estranei, irriconoscibili (cosa che avviene quando un
individuo si scompensa: “non mi riconosco più”, “non sono più me stesso”, “non
so più chi sono”, “mi sento come se non fossi io”, “il mondo mi è estraneo”). In
questi processi complessi, alcune funzioni sono prevalentemente legate alle
attivazioni ed ai coloriti soggettivi (positivi, negativi o neutri), altre alla capacità
di utilizzare le esperienze per riconoscerle, discriminarle, valutarle. Sia le prime
che le seconde funzioni – rispettivamente, affettive e cognitive – utilizzano
capacità funzionali di base del cervello che sono le senso-percezioni,
l’apprendimento, la memoria, l’attenzione. Ovviamente l’ambiente incide sui
processi psichici in modo significativo, sia nel caso di fattori di natura fisica (ad
es., un cattivo acclimatamento produce ad alta quota un calo delle performance
cognitive che può mettere a rischio anche le capacità di sopravvivenza)(Nardi et
al., 2009), sia, e in modo particolare, nel caso di fattori sociali e relazionali.
Nello studio dei sistemi conoscitivi umani occorre ricordare che l’oggetto della
conoscenza e il soggetto che opera la conoscenza coincidono: è il cervello che,
funzionando, studia il suo stesso modo di funzionare. La conoscenza del cervello
può essere quindi studiata solo all’interno del funzionamento cerebrale. Già la
filosofia greca si era interrogata sui limiti della conoscenza umana. Ad esempio,
Senofane osservava che “il certo nessuno mai lo ha colto né alcuno ci sarà che lo
colga (…) Infatti, se anche uno si trovasse per caso a dire, come meglio non si
può, una cosa reale, tuttavia non la conoscerebbe per averla sperimentata
direttamente. Perché a tutti è dato solo l’opinare” e Protagora ribadiva che “molti
sono gli ostacoli che impediscono di sapere, sia l’oscurità dell’argomento sia la
brevità della vita umana”. Del resto, resta sempre valido l’interrogativo posto da

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Berzelius (1843) – se sia possibile per il cervello conoscere se stesso – e da altri,
prima e dopo di lui, come Maturana e Varela (1980, 1987) che si sono proposti di
riflettere su come e entro quali limiti sia possibile la conoscenza umana:
“conoscere la conoscenza si scontra chiaramente col nostro stesso essere.
Conoscere la conoscenza non significa seguire l’andamento di un albero, con un
saldo punto di partenza che cresce gradualmente fino a raggiungere tutto quello
che c’è da conoscere. Somiglia di più alla situazione del ragazzo ritratto in La
galleria di stampe di Escher. Il quadro che egli guarda, gradualmente e
impercettibilmente, si trasforma nella città in cui si trova la galleria! Non
sappiamo dove situare il punto di partenza: fuori o dentro? La città o la mente del
ragazzo? Il riconoscimento di questa circolarità conoscitiva non costituisce
tuttavia un problema per la comprensione del fenomeno della conoscenza, ma in
realtà fissa il punto di partenza che permette la sua spiegazione scientifica”.
Barrow (1999), riprendendo l’interrogativo di Berzelius e partendo dalla
considerazione che il cervello rappresenta la struttura più complessa nella quale si
sia finora imbattuto l’uomo, pone il problema di indagare scientificamente i limiti
della conoscenza, fino a farne una vera e propria disciplina scientifica. I limiti
della nostra conoscenza sono inevitabilmente legati a quelli del funzionamento del
cervello: “un mondo che fosse tanto semplice da poter essere compreso sarebbe
troppo semplice per contenere osservatori in grado di comprenderlo (…) Sia gli
scienziati che i filosofi sono molto interessati all’impossibile. Gli scienziati amano
mostrare che quanto è generalmente ritenuto impossibile in realtà non lo è
affatto; i filosofi, invece, sono più inclini a dimostrare che cose in larga misura
considerate perfettamente fattibili sono, a ben guardare, impossibili. E, d’altra
parte, paradossalmente, se la scienza è possibile, è solo perché alcune cose sono
impossibili (…) La dimostrazione incontrovertibile che la natura è governata da
‘leggi’ su cui si può fare affidamento ci consente di separare il possibile
dall’impossibile. Solo le culture nelle quali esisteva la convinzione di una
distinzione fra ciò che è possibile e ciò che non lo è hanno fornito un fertile
terreno naturale al progresso scientifico (…) In molti campi d’indagine è emerso
un modello in cui una teoria scientifica è coronata da un tal successo nella
quantità e nella qualità delle previsioni accurate che riesce a fornire da indurre i
suoi utenti a cominciare a chiedersi se non sia in vista la fine dell’indagine, se la
loro teoria non possa davvero spiegare tutto ciò che abbraccia. A quel punto,
però, succede qualcosa di strano. La teoria prevede la propria impossibilità di
prevedere. Non solo essa si rivela di portata limitata, ma autolimitante. Questo
modello ricorre in modo talmente evidente da suggerirci la possibilità di
riconoscere le teorie scientifiche mature proprio dalla loro natura autolimitante.
Tali limiti non sorgono semplicemente perché le teorie sono inadeguate,
inaccurate o inappropriate: esse ci svelano qualcosa di profondo sulla natura
della conoscenza e sulle implicazioni insite nel fatto di indagare l’universo

132
dall’interno (…) Indipendentemente dal fatto che si tratti del risultato di
un’elezione o del decidere fra le diverse opzioni in competizione nel nostro
cervello, scopriamo un’impossibilità profonda che probabilmente ha conseguenze
in tutto il dominio dei sistemi complessi … In questo strano mondo di limiti
fondamentali, ci rendiamo conto di come realtà abbastanza complesse da
consentire il manifestarsi di certe individualità presentino necessariamente
un’indeterminazione che le sottrae ai confini di un unico sistema logico. Universi
abbastanza complessi da permettere l’emergere della coscienza impongono limiti
a quanto si può conoscere su di essi studiandoli dal loro interno (…) Il suo ruolo
(dell’impossibile, N.d.R.) nella nostra comprensione delle cose è lungi dall’essere
negativo. Anzi, io credo che a poco a poco arriveremo a renderci conto che
l’impossibile – ossia quanto non può essere conosciuto, fatto o visto – definisce il
nostro universo in modo più chiaro, completo e penetrante del possibile”.
D’altra parte, come ricorda l’antica filosofia greca, da Platone in poi, il concetto
stesso di limite e di confine include ciò che va oltre. Senza questa apertura verso
ciò che il limite non include, non esisterebbe neanche ciò che è al suo interno,
aprendo in questo modo all’infinito. Il concetto di limite riguarda non solo la
ricerca ma anche la pratica clinica, in relazione alla capacità di esplorare,
comprendere e cambiare il funzionamento psichico, sia del terapeuta che esplora,
sia del soggetto che si fa esplorare. Non smarrire il senso del limite protegge da
pericolose oscillazioni tra vissuti fideistici e onnipotenti di poter far tutto e vissuti
rassegnati e sconfortati di fallimento e nichilismo senza rimedio.
In un noto saggio, Hofstadter (1985) pone ulteriori interrogativi: la coscienza è
una proprietà esclusiva del nostro cervello o di tutti i cervelli? Un pezzo di
cervello avrebbe coscienza? Qual è la porzione minima necessaria per avere
coscienza? Cosa ci fa pensare che gli altri esseri umani provino le stesse
sensazioni che proviamo noi? Per Nagel (1985) la proprietà di “cosa si prova ad
essere” non è mai del tutto trattabile con gli strumenti della scienza e rimarrà,
pertanto, in parte inaccessibile; ad esempio, non potremo mai “provare” cosa si
prova ad essere un pipistrello, anche se venisse fornita una enorme quantità di
informazioni sull’argomento: “do per scontato che tutti siamo convinti che i
pipistrelli abbiano esperienze soggettive: in fin dei conti sono mammiferi (…) Ma
il sonar del pipistrello, benché sia evidentemente una forma di percezione, non
assomiglia nel modo di funzionare a nessuno dei nostri sensi e non vi è alcun
motivo per supporre che esso sia soggettivamente simile a qualcosa che noi
possiamo sperimentare o immaginare … A quanto pare ci troviamo di fronte a
una difficoltà di carattere generale a proposito della riduzione psicofisica (…)
Sembra improbabile che si possa formulare una qualunque teoria fisica delle
mente finché non si sarà riflettuto più a fondo sul problema generale della
soggettività e dell’oggettività. Altrimenti non si potrà neppure porre il problema
mente-corpo senza con ciò stesso eluderlo”. Tuttavia, Hofstadter osserva che, se è

133
il linguaggio che ci pone il problema dell’irriducibilità e, in parte, della
inafferrabilità dell’esperienza soggettiva, d’altra parte lo stesso linguaggio ci
consente anche di condividerla, anche se non fino in fondo: “Il linguaggio (fra le
altre cose) è un ponte che ci consente di penetrare in un territorio che non è il
nostro. I pipistrelli non hanno alcuna idea di ‘che cosa si provi a essere un altro
pipistrello’ e nemmeno si pongono il problema. E la ragione è che i pipistrelli non
hanno una moneta universale per lo scambio delle idee, che a noi invece è fornita
dal linguaggio, dai film, dalla musica, dai gesti e via dicendo. Questi mezzi ci
aiutano nella nostra proiezione, ci aiutano ad assorbire punti di vista estranei
(…) La conoscenza è una curiosa mescolanza di oggettivo e soggettivo. La
conoscenza verbalizzabile può essere trasferita ad altri e condivisa nella misura
in cui le parole realmente ‘significano la stessa cosa’ per persone diverse (…)
Noi accettiamo e diamo per scontato che le sfumature nascoste e sotterranee del
significato non vengono condivise (…) Ogni parola è circondata, in ogni mente,
da un ricco e inimitabile alone di concetti e sappiamo che, per quanto ci
sforziamo di portarlo in superficie, ne perdiamo sempre una parte (…) E, tutto
sommato, a pensarci bene, non è neppure tanto chiaro che cosa si provi a essere
me in questo momento (…) È il linguaggio che ci caccia in questo problema
(permettendoci di vedere la questione) e che ci aiuta anche a uscirne (in quanto è
un mezzo universale di scambio di pensieri, che consente di rendere condivisibili
e più oggettive le esperienze). Tuttavia esso non può farci arrivare fino in fondo”.
D’altra parte, sulla possibilità di esprimere i coloriti soggettivi attraverso il
linguaggio si basa la letteratura (e, in particolare, la poesia), come è immediato
cogliere leggendo il Cantico composto da Francesco d’Assisi, una delle più
antiche testimonianze della lingua italiana (1224 circa): “Laudato sie, mi Signore,
cun tucte le tue creature, / spezialmente messer lo frate Sole, / lo quale è iorno, e
allumini noi per lui. / Et ello è bello e radiante cun grande splendore: / de te,
Altissimo, porta significazione. / Laudato si, mi Signore, per sora Luna e le Stelle:
/ in cielo l’hai formate clarite e preziose e belle. / Laudato si, mi Signore, per
frate Vento, / e per Aere e Nubilo e Sereno e onne tempo, / per lo quale a le tue
creature dai sustentamento. / laudato si, mi Signore, per sor Aqua, / la quale è
molto utile e umile e preziosa e casta. / Laudato si, mi Signore, per frate Foco, /
per lo quale enn’allumini la nocte: / ed ello è bello e iocondo e robustoso e forte. /
Laudato si, mi Signore, per sora nostra matre Terra, / la quale ne sostenta e
governa / e produce diversi fructi con coloriti fiori ed erba (…)”.
Nell’espressione dell’attività psichica, i geni – nelle loro varianti polimorfiche – e
l’ambiente interagiscono dinamicamente tutta la vita. L’epigenetica svela con
sempre maggiori evidenze che le esperienze emotivamente significative possono
“accendere” (attraverso processi di demetilazione e acetilazione) o “spegnere”
(metilando o deacetilando) il funzionamento di singoli geni e, se questo accade in
una donna incinta, questi cambiamenti funzionali avvengono anche nel feto

134
(Biggio, 2011). Anche da questi processi molecolari si può comprendere che le
potenzialità genetiche di un individuo possono essere espresse quando il soggetto
vive in un ambiente affettivamente favorevole.
Con metodiche di neuroimaging si è anche visto che le spine dendritiche e le
connessioni sinaptiche sono maggiori quando il soggetto cresce in un ambiente
accogliente e stimolante, mentre si impoveriscono in soggetti trascurati o, peggio,
maltrattati. Tra gli effetti del maltrattamento sullo sviluppo cerebrale sono stati
segnalati, oltre a una riduzione delle connessioni sinaptiche in varie parti del
cervello, un minore volume dell’ippocampo (con compromissione
dell’apprendimento e della memoria), del corpo calloso (le cui fibre connettono i
due emisferi), del cervelletto (con problemi nella coordinazione motoria e nelle
funzioni esecutive) e della corteccia prefrontale (fondamentale nella gestione del
comportamento, delle funzioni cognitive e nella regolazione emozionale)
(McCrory et al., 2010; Wilson et al., 2011; Shonkoff, 2012).
Quando un apprendimento diventa stabile, nel cervello si osservano modificazioni
anatomiche e funzionali. Non solo si formano nuove sinapsi (con nuovi circuiti
neuronali e nuove comunicazioni) ma, grazie alla attivazione genica ed alla
conseguente sintesi proteica, si modificano il funzionamento sinaptico e, quindi,
anche la coscienza ed il comportamento. Ad esempio, in una ricerca mediante
elettroencefalografia computerizzata (Nardi et al., 2005) abbiamo osservato che
chi ha studiato musica ed ha imparato a suonare uno strumento, quando ascolta un
brano musicale, attiva aree corticali differenti rispetto a chi non ha studiato
musica: “dal confronto tra i dati ottenuti nei non musicisti e nei musicisti, quando
si passa da una condizione di riposo ad una di ascolto attento di un brano
strumentale non noto, si verificano modalità di elaborazione centrale
dell’informazione sostanzialmente diversificate. Nei non musicisti è possibile una
elaborazione centrale degli stimoli musicali, sotto forma di rappresentazioni
mentali delle proprietà specifiche dei suoni sia semplici (tono, durata, timbro,
intensità), sia complesse (ritmo, armonia, melodia); tali rappresentazioni danno
luogo ad una sorta di film correlato alla colonna musicale percepita (‘musical
movie’), di tipo globale e non analitico. L’elaborazione semantica logico-
analitica dei suoni percepiti è possibile solo in chi è in possesso del linguaggio
musicale e può produrre un vero e proprio modo di pensare attraverso i suoni
(‘think in sound’). I dati del presente lavoro, e in particolare quelli relativi alle
modificazioni statisticamente significative della banda gamma, confermano
quindi l’ipotesi, formulata negli anni passati da vari Autori, quali Bigand,
McAdams e Bregman, secondo cui l’elaborazione centrale dei suoni è costituita
da processi complessi, comprendenti una serie di eventi successivi e integrati
(‘processi uditivi primitivi di gruppo’, ‘processi decisionali di gruppo’, ‘eventi,
rappresentazioni e descrittori mentali’, ‘elaborazione secondaria della struttura
dell’evento’) che consentono di costruire una ‘rappresentazione mentale

135
strutturata dei suoni percepiti’ e, nei musicisti, una rappresentazione interna di
una specifica “forma musicale”. In altri termini, i dati da noi ottenuti sono in
accordo con il fatto che i non musicisti sono in grado di elaborare solo ‘eventi,
rappresentazioni e descrittori mentali’ ma non ‘rappresentazioni strutturate e
forme musicali interne’, competenze che sono invece possedute dai musicisti, i
quali possono attivare, a livello delle aree logico-analitiche dell’emisfero sinistro,
quei processi complessi di elaborazione che consentono una codificazione
astratta delle relazioni tra le categorie musicali, fino a costruire, sulla base dei
precedenti contesti percettivi appresi, una rappresentazione analitica dei nuovi
input uditivi (…) La non costante concordanza nei dati presenti in letteratura (che
comunque documentano in netta prevalenza l’esistenza di differenze significative
tra non musicisti e musicisti) va posta in correlazione anche con i protocolli
utilizzati. Nel nostro caso, come si è detto, è stata prevista la somministrazione di
un brano esclusivamente monostrumentale e non noto, per ridurre il più possibile
le variabili (oggetto comunque di elaborazione centrale) ed è stata richiesta a
tutti i soggetti inseriti nel protocollo una attenzione conativa durante l’ascolto.
Inoltre, mentre alcuni lavori presenti in letteratura si riferiscono solo ad un
singolo o ad un campione piuttosto limitato di musicisti, nel nostro lavoro è stato
preso in esame un campione sufficientemente esteso di soggetti, scegliendoli
all’interno di un Istituto noto ed autorevole, che garantisse una adeguata
competenza nel linguaggio musicale per i musicisti inclusi nel protocollo su base
volontaria. D’altra parte, già Damasio e Damasio avevano messo in luce la
difficoltà di raccogliere dati precisi in relazione alla dominanza emisferica e di
formulare quindi una teoria coerente sull’elaborazione della musica, sia per il
fatto che quest’ultima costituisce un linguaggio complesso, non sovrapponibile a
quello verbale, sia per il fatto che l’affinamento musicale può portare ad una
cambiamento dei sistemi legati alla sua elaborazione centrale (tanto che alcune
competenze possono passare dall’emisfero destro a quello sinistro), sia infine per
la eterogeneità delle casistiche e delle procedure seguite nei protocolli di ricerca.
Infine, in accordo con quanto segnalato da Bregman e da Dowling et al., la
presenza di una variabilità dei pattern EEG osservata da soggetto a soggetto, sia
nei non musicisti che nei musicisti, mette in evidenza come, al di là di specifiche
competenze possedute o meno, un ruolo importante sia svolto dai fattori legati
alla acculturazione e al training in determinati ambiti musicali socio-culturali,
nonché dalle aspettative associate all’ascolto, che condizionano le modalità
conoscitive relative alla interpretazione delle informazioni sonore. È bene tenere
presente, soprattutto quando ci si confronta con un linguaggio complesso e
polidimensionale come la musica, che ciascun soggetto esprime modalità uniche e
peculiari di elaborare l’esperienza e di riferirla a sé, trasformandola in
conoscenza e integrandola nella propria organizzazione di significato personale.
Pertanto, tali modalità entrano a far parte del vissuto emozionale e delle trame

136
narrative individuali, che danno coerenza all’identità e che esprimono i loro
correlati biologici anche sotto forma di specifici pattern bioelettrici”.
Modificazioni anatomiche e funzionali si osservano anche in conseguenza di una
terapia psicofarmacologica o di una psicoterapia. In una revisione della letteratura
scientifica che si è occupata con neuroimaging funzionale dei cambiamenti del
cervello prima e dopo una terapia, De Rubeis et al. (2008) hanno osservato che,
nel trattamento della depressione, la psicoterapia cognitiva ha un’efficacia simile a
quella dei farmaci antidepressivi e riduce il rischio di recidiva anche a distanza di
tempo. In uno di questi studi, sempre più numerosi, Mac Nab et al. (2009) hanno
osservato che già 14 ore di terapia per cinque settimane sono sufficienti per
modificare i recettori D1 della dopamina, sia a livello prefrontale che parietale.
Tutti questi dati confermano che ad ogni cambiamento psichico sufficientemente
stabile corrisponde anche una modificazione anatomica e funzionale del cervello.
COMPLESSITÀ E ORGANIZZAZIONE DELLA COSCIENZA
In base alla teoria dei sistemi l’attività psichica – che costituisce l’aspetto più
evoluto del funzionamento cerebrale – può essere considerata come l’espressione
di un sistema complesso, la cui caratteristica fondamentale è quella di avere una
sua “organizzazione”: si tratta della proprietà in base alla quale il risultato del
funzionamento di tutto il sistema è molto superiore a quello della somma del
funzionamento dei singoli elementi che lo compongono. Infatti, l’attività di un
insieme di neuroni collegati tra loro per svolgere un determinato compito risulta
superiore e, talvolta, anche scarsamente prevedibile, rispetto alla somma delle
attività dei singoli neuroni; resta poi ampiamente da approfondire il ruolo di
modulazione dell’attività dei neuroni svolto dalle cellule gliari.
Reda (1986, p. 91) ricorda che “organizzarsi significa dare ordine alle
conoscenze che si stanno sviluppando in modo che, dalla loro interazione, risulti
un insieme che consenta la sopravvivenza e la crescita in un determinato
ecosistema. L’ecosistema contribuisce alla scelta dei vincoli con cui il singolo
individuo ordina il proprio disordine durante lo sviluppo. L’individuo, a sua
volta, contribuisce a stabilire i vincoli con cui l’ecosistema, di cui fa parte, si
organizza. Il tutto avviene in un equilibrio instabile che ha reso e rende possibili i
cambiamenti individuali, generazionali ed ecologici (…) Un primo scopo è quello
di considerare come particolari situazioni di reciprocità tra individuo ed
ambiente invitino a privilegiare alcune modalità organizzative piuttosto che
altre”.
Come hanno osservato Maturana e Varela (1980), durante la vita, il cervello è
capace di accrescere la sua complessità grazie a due funzioni, quella autopoietica
e quella autoreferenziale. “Autopoiesi” (= fare da sé, ma anche farsi da sé) indica
la capacità di costruire e mantenere stabile la propria organizzazione.
“Autoreferenzialità” (= riferire a sé) indica la capacità di utilizzare l’esperienza

137
per ricavare informazioni su di sé, dando a ciò che si vive un significato coerente
con il proprio funzionamento interno. Così ne parla De Michelis (1988, pp. 8-9):
“i sistemi autopoietici costituiscono una classe particolare di sistemi omeostatici,
sono cioè sistemi che si mantengono in uno stato di equilibrio relativamente
stabile, stazionario: un sistema autopoietico ha come variabile fondamentale che
mantiene costante la sua organizzazione, cioè la stessa rete di relazioni che lo
definisce. Da questa caratteristica emerge che i sistemi autopoietici entrano
continuamente in relazione con se stessi. Essi costituiscono quindi anche una
classe particolare di sistemi auto-referenziali. La loro auto-referenzialità si
spinge infatti fino al livello della auto-produzione della propria caratteristica
costitutiva: l’organizzazione (…) I sistemi autopoietici sono sistemi chiusi, in
quanto si autoproducono e non sono caratterizzabili in termini di relazione input-
output con l’ambiente, ma sono anche sistemi aperti in quanto il loro
comportamento è influenzato dalle perturbazioni dell’ambiente. È la cognizione,
intesa come capacità di adattamento autoregolato, di auto-trasformazione delle
proprie caratteristiche strutturali allo scopo di conservare la propria
organizzazione, il meccanismo attraverso cui i sistemi autopoietici (e cioè i
sistemi viventi per Maturana e Varela) gestiscono come sistemi chiusi la loro
apertura nell’ambiente (…) Oltre a ciò la teoria dei sistemi autopoietici è una
teoria in cui i sistemi sono caratterizzati in termini relazionali: la organizzazione
è infatti definita come ‘le relazioni che definiscono un sistema come una unità’, e
la stessa caratterizzazione di un sistema come una unità è il frutto di una
distinzione fatta da un osservatore, per cui la nozione di sistema è relazionale non
solo in se stessa, ma anche per il fatto che un sistema è una relazione tra una
entità e l’osservatore che la riconosce come una unità”. Grazie alla
autoreferenzialità, le modalità soggettive di ordinare l’esperienza consentono di
costruire attivamente l’identità personale, di percepirsi con coerenza e di
esprimere i bisogni, opposti ma coesistenti, di continuità e di cambiamento, che
caratterizzano tutte le esperienze umane. Pertanto, il cervello – come la
costruzione dell’identità che opera – non è semplicemente uno specchio passivo,
plasmato sulla base degli stimoli esterni con cui entra in contatto, né è da essi
interamente determinato. Esso è predisposto per costruire progressivamente la sua
complessità interna attraverso gli stimoli che recepisce e per riferire a sé le
esperienze che incontra, riordinandole in modo originale. Arriva così a definire un
senso – un significato d’insieme – nel quale il soggetto si identifica e mediante il
quale mantiene la sua coerenza interna e continuità storica.
Inoltre, come aveva già osservato Francisco Varela nel 1976 (“Il tutto è qualcosa
di più della somma delle sue parti, è la chiusura organizzativa delle sue parti”), il
concetto di organizzazione è strettamente legato a quello di complessità.
Bocchi e Ceruti (1990) osservano che “la complessità è davvero una sfida. È una
sfida ambivalente, con due facce, come Giano. Da una parte è l’irruzione

138
dell’incertezza irriducibile nelle nostre conoscenze, è lo sgretolarsi dei miti della
certezza, della completezza, dell’esaustività, dell’onniscienza che per secoli –
quali comete – hanno indicato e regolato il cammino e gli scopi della scienza
moderna. Ma d’altra parte non è soltanto l’indicazione di un ordine che viene
meno; è anche e soprattutto l’esigenza e l’ineluttabilità di un ‘approfondimento
dell’avventura della conoscenza’, di una ‘trasformazione dei giudizi di valore
che operano nella selezione delle questioni legittime e dei problemi che è
interessante porre, perfino di una nuova concezione del sapere’, di un
cambiamento estetico, di un ‘dialogo fra le nostre menti e ciò che esse hanno
prodotto sotto forma di idee e di sistemi di idee’. In questo senso il delinearsi di
un ‘universo incerto’ non è tanto il sintomo di una scienza in crisi, ma anche e
soprattutto l’indicazione della forza dei nuovi modelli elaborati dalle nostre
scienze nel tentativo di tenere conto del massimo di certezze e di incertezze per
affrontare ciò che è incerto”.
Per Morin (2015) “ciò che è interessante nell’esistenza, nella conservazione e
nell’evoluzione del nostro universo è il fatto che c’è una trilogia che le guida.
Chiamo questa trilogia ordine/disordine/organizzazione. L’ordine. Ci sono
principi di ordine che permettono appunto l’organizzazione degli atomi, delle
molecole, delle stelle e degli esseri viventi: gravitazione, elettromagnetismo,
interazioni deboli e forti per l’atomo. Il disordine. C’è un principio di disordine
nel cuore del secondo principio della termodinamica, principio di disintegrazione
o di disordine di ogni sistema e che alla fine dovrebbe produrre la morte
dell’universo per dispersione generalizzata. Il poeta Elliot ha formulato
un’espressione molto bella per parlare della fine dell’universo. ‘L’universo
morirà in un sussulto’ – a whisper, in inglese. L’organizzazione. Essa nasce
proprio dall’incontro, grazie al disordine, di particelle, di atomi, che si
organizzano in virtù di principi d’ordine. Si può dire che la nascita della vita
stessa è qualcosa che è avvenuto a partire da principi d’ordine, in condizioni di
disordine, di incontri fra molecole che hanno creato un vortice vivente, il quale si
è organizzato a partire da un ciclo DNA-proteina”. Inoltre, il concetto di
organizzazione è frutto di un modo di “pensare globale” che considera l’umanità
nella sua natura “trinitaria”, “perché comprende l’individuo, ma anche la società
umana e la specie biologica, o meglio la specie umana”.
Il concetto di organizzazione è stato ripreso, in ambito neurofisiologico, da Le
Doux (2002), che ha individuato nella grande plasticità delle connessioni la base
da cui emerge non solo la percezione dell’esperienza, ma anche il senso di
continuità necessario alla costruzione della personalità (“sé sinaptico”). Attraverso
il modello organizzativo è possibile superare una concezione meccanicistica e
riduzionista del funzionamento psichico ed iniziare ad integrare reciprocamente,
sul piano conoscitivo e clinico-terapeutico, l’approccio biologico e farmacologico
(che si occupa di singole variabili) e l’approccio psicoterapeutico, che è mirato a

139
quanto emerge dall’insieme dei processi psichici e comportamentali. Come ha
osservato Le Doux, siamo in costante dialogo con il nostro mondo interno e con
quello esterno per il fatto che i nostri neuroni dialogano tra loro a livello sinaptico.
Questo dialogo tra neuroni, che è indispensabile allo sviluppo cerebrale, ha una
matrice genetica; su di essa l’apprendimento inizia ad incidere fin dalle prime fasi
della vita. Pertanto, ciò che siamo non è frutto di una sorta di bipolarismo tra
patrimonio genetico e ambiente, tra innato ed acquisito, ma deriva dal fatto che
l’apprendimento rimodella, ristruttura e ridefinisce, in maniera sempre più
complessa, la trama neuronale che ha origine dalle informazioni genetiche. Come
ha scritto Guidano (1988, p. 32), “in una prospettiva evolutiva, la mente appare
come un sistema attivo e costruttivo capace di produrre non solo gli output ma
anche, in gran parte, gli input che riceve, incluse le qualità sensoriali che
costituiscono il fondamento stesso di qualsiasi attività mentale”.
Vedere la psiche nell’ottica della organizzazione di un sistema complesso
consente: a) di considerarla nella globalità delle sue modalità funzionali di
adattamento, volte al mantenimento della coerenza interna nonostante le
perturbazioni legate all’assimilazione di nuove esperienze; b) di studiare le
modalità individuali di vivere gli aspetti immediati dell’esperienza, trasformandoli
in conoscenza tacita, e di rielaborarli e riferirli a sé, tramite le spiegazioni
dell’esperienza, in forma di conoscenza esplicita; c) di esplorare come i
cambiamenti critici comportino riassetti nell’esperienza di sé costruita durante i
periodi di continuità dell’arco di vita di una persona. Riprendendo le intuizioni di
Guidano (1987, 1991), Canestri (2017) ha osservato che “negli esseri umani la
complessità si articola attraverso processi di adattamento e cambiamento; questa
complessa articolazione permette un livello di costanza e coerenza della propria
esperienza di sé in una sorta di equilibrio dinamico operante attraverso una
‘autorganizzazione che ricerca l’ordine attraverso le fluttuazioni’. Una
integrazione coerente nell’interfaccia emozioni/significati si traduce in sistemi
emozionali, di significato e di relazione maggiormente regolati e adattativi, che
consentono un migliore adattamento al mutare delle situazioni di vita con una
conseguente maggiore plasticità e un maggiore grado di adattabilità nella
organizzazione conoscitiva e relazionale”.
L’ESPERIENZA CICLICA E LINEARE DEL TEMPO
La psicologia cognitiva post-razionalista, riprendendo i modelli della fisica
quantistica di Schrodinger e Heisenberg e della relatività di Einstein, considera la
psiche come un sistema complesso evolutivo spazio-temporale. Pertanto, lo spazio
ed il tempo sono interconnessi e rappresentano concetti relativi, comprensibili
adeguatamente solo se sono riferiti all’individuo che li percepisce. Anche
l’esperienza del tempo è infatti irriducibilmente sia oggettiva che soggettiva.

140
Se i fenomeni in natura accadono indipendentemente dall’individuo che li
percepisce, la percezione ed i fenomeni coscienti legati ad essa dipendono invece
dalla sua soggettività. I sistemi dopaminergici nigro-striatali, coinvolti nella
percezione del piacere e della ricompensa, modificano anche la percezione del
tempo, che nelle esperienze gratificanti viene sottostimata, dando l’impressione
“che il tempo voli” (Patol et al., 2016).
Da questo processo soggettivo nasce infatti ogni riflessione sul sé ed ogni
immagine cosciente di sé. D’altra parte, il fluire dell’esperienza, riordinata
secondo queste modalità uniche e soggettive, a livello consapevole è riferito
all’esterno e vissuto come se si trattasse di un’esperienza “oggettiva”,
condivisibile e valida per tutti.
Il senso soggettivo del tempo, unidirezionale e irreversibile, pone al centro della
scena l’unicità di ogni esperienza, che assume un suo valore specifico solo
all’interno della coscienza individuale che la genera. Infatti, se esistono
genericamente “simboli” e significati “universali” (si pensi alla teoria junghiana
degli “archetipi” o a quella psicodinamica dei “complessi”), è riduttivo pensare
che essi siano validi e sovrapponibili nei vissuti di persone diverse. Se vogliamo
comprendere come un altro vive una certa esperienza, un sogno, un simbolo, non
possiamo dare per scontato che abbiano lo stesso valore che hanno per noi e non
possiamo quindi fare gli “interpreti” a priori. Dobbiamo invece procedere come
esploratori di un mondo nuovo che non conosciamo, cercando di cogliere come
esso si è sviluppato nel tempo della coscienza soggettiva, maturando un modo
specifico di organizzare i significati.
Come hanno osservato, tra gli altri, Ricoeur (1995) e Balbi (2004), l’esperienza
del tempo è legata alla capacità di darle una forma narrativa, attraverso la quale
viene ricavata una visione dinamica di sé. Questa visione dinamica è possibile per
la reciproca influenza dei processi della coscienza personale che mantengono la
continuità e di quelli che spingono invece al cambiamento (Guidano, 1987, 1991).
In questa trama narrativa della coscienza individuale il senso di sé emerge quindi
dall’interfaccia tra mondo interno (“cosa mi sento di essere”) e mondo esterno
(“cosa sento di essere per gli altri”).
Esistono due diversi modi attraverso cui viene percepita l’esperienza del tempo,
uno di tipo ciclico, l’altro di tipo lineare.
L’esperienza ciclica del tempo è espressione dei fenomeni periodici che ricorrono
in natura (ripetersi delle stagioni, alternanza di giorno e notte, ecc.), inclusi
numerosi ritmi biologici (negli umani, soprattutto quelli della maturità sessuale
nei soggetti di sesso femminile). Per quanto riguarda i cicli biologici, le attività
fisiologiche che hanno un determinato periodo e frequenza vengono definite
“ritmi biologici” e sono studiate nell’ambito della “cronobiologia” (dal greco
“χρόνος”, “chronos” = tempo + “βίος”, “bìos” = vita + “λόγος”, “logos” = parola,
discorso, argomento). In accordo con Halberg (1977), sulla base della frequenza

141
(numero di ripetizioni di un fenomeno periodico nell’unità di tempo considerata) e
del periodo (intervallo di tempo intercorrente tra due configurazioni successive
identiche di uno stesso fenomeno), si distinguono ritmi ultradiani, circadiani ed
infradiani (dal latino “ultra”, oltre; “circa”, intorno, “infra”, sotto e “dies”,
giorno). I ritmi ultradiani ricorrono con una elevata frequenza ed hanno quindi un
periodo inferiore alle 24 ore, come ad esempio l’attività cardiaca o la frequenza
respiratoria. I ritmi circadiani hanno un periodo di circa 24 ore; tra essi il
principale è il ritmo sonno-veglia nell’adulto. I ritmi infradiani ricorrono invece
con una bassa frequenza ed hanno un periodo superiore (spesso anche
notevolmente superiore) alle 24 ore. Si distinguono ritmi circamensili (ad es., i
cicli ovarici e uterini nella donna in età fertile), circastagionali e circannuali (ad
es., alcune variazioni ormonali, del pannicolo adiposo, del peso corporeo,
dell’accrescimento pilifero). I ritmi biologici sono legati a strutture, a loro volta
regolate dalla corteccia cerebrale, che presentano un caratteristico funzionamento
oscillante (“oscillatori” o “marcatempo”: in inglese “pacemaker”, in tedesco,
“zeitgeber”). Queste strutture sono quindi comunemente indicate come “orologi
biologici”: le principali sono il nucleo soprachiasmatico dell’ipotalamo, l’epifisi,
altri sistemi dell’ipotalamo laterale e ventro-mediale, delle formazioni limbiche e
della sostanza reticolare. Gli oscillatori sono costituiti sia da neuroni eccitatori sia
da neuroni inibitori, che si modulano reciprocamente sulla base delle afferenze
ambientali. Infatti, alcuni parametri ambientali hanno un ruolo sincronizzante,
fungendo da “agenti di trascinamento”, in quanto vengono raccolti dagli organi e
dalle vie di senso e sono utilizzati dalle strutture cerebrali che fungono da
“orologi biologici” come una sorta di “metronomo”: ad esempio, gli stimoli
provenienti dalla retina danno informazioni sulla luminosità ambientale e, quindi,
sul ciclo luce-buio. In assenza dei fattori sincronizzanti ambientali (ad es., in
condizioni di protratta luminosità od oscurità), i ritmi diventano autonomi (“free
running”), oscillando secondo periodi di poco superiori o inferiori rispetto a quelli
fisiologici. Quando invece i parametri esterni di trascinamento presentano uno
spostamento di fase, come avviene per i lavoratori che fanno i turni di notte (“shift
workers”) o per chi si sposta in aereo di vari fusi orari (sindrome da “jet lag”), i
ritmi biologici si desincronizzano. Mentre alcuni parametri fisiologici tendono ad
adattarsi rapidamente alle mutate condizioni ambientali (ad es., la frequenza
cardiaca), altri possono richiedere giorni per rientrare in fase con il nuovo ritmo.
L’attività psichica produce una concezione ciclica del tempo che è, almeno
inizialmente, espressione del pensiero concreto tipico dell’infanzia: si pensi ai
miti, frequenti presso i popoli antichi, noti come “eterno ritorno” (Eliade, 1949,
1976), che prevedono la possibilità di restaurare in un futuro più o meno lontano
una mitica età dell’oro, un tempo felice delle origini, un ritorno ad un giardino
dell’Eden di prosperità e di abbondanza. Il mito è quindi legato ad una
rappresentazione del tempo e della vita di tipo ciclico, della quale resta traccia

142
nelle feste calendariali che scandiscono, ripetendosi di anno in anno, le solennità
religiose o i cicli della natura. Si ha così una periodica interruzione del tempo
ordinario, che lascia il posto al tempo sacro della festa: si pensi alle ricorrenze del
calendario, che prevede il ripetersi, di anno in anno, di ricorrenze legate a
specifiche tradizioni, che si ricollegano, attraverso la loro riattualizzazione, ad
eventi e consuetudini spesso secolari o persino millenarie. Si pensi infine quante
volte vorremmo tornare, specie dopo una delusione o una malattia, ad essere
“quelli di prima”. Dunque, una concezione ciclica del tempo può essere
rintracciata non solo nei racconti sul mito delle origini di molti popoli antichi, ma
anche in tradizioni ancora oggi vive e popolari e nei vissuti soggettivi ((Niola,
2005; Nardi, 2008, 2013). L’ascoltatore arcaico di un mito non si distanziava da
quanto veniva narrato ma si immergeva nella trama e, proprio come fa un
bambino durante il racconto di una favola, si identificava realmente con i vari
personaggi. Così, la narrazione di un racconto da parte degli aedi, attraverso il
canto e la musica, creava un’atmosfera nella quale gli ascoltatori entravano in una
dimensione a-temporale, ricollegandosi all’età mitica delle origini e del sacro,
percependosi un tutt’uno con la trama narrata. L’ascolto diveniva un rito, in cui
tutti i partecipanti condividevano gli eventi narrati e attribuivano lo stesso senso
alle azioni dei protagonisti. La realtà era unica e condivisibile. Ne “La Coscienza
di Sé” (2013, p. 53) ho evidenziato che i popoli antichi avevano un concetto molto
concreto dello spazio e del tempo e che come ha osservato Semerano (2001), il
significato di “principio”, “inizio” (“ἀρχή”, “archè” per i primi filosofi greci),
deriva dall’accadico “arhu”, che indicava il primo giorno del mese, quello della
luna nuova. La numerazione naturale utilizzava le dita delle mani: il latino
“manus” deriva dall’accadico “manu”, contare; analogamente dall’accadico
“qatu”, mano, derivano i termini inglesi hand, mano e hundred, cento. Il concetto
di “infinito” dei primi filosofi greci (“ἄπειρον”, “àpeiron” di Anassimandro) è
connesso all’antico significato di “terra”, “polvere”, “fango” (accadico “eperu”,
semitico “apar”, biblico “afar”: proprio dal fango in Genesi Dio plasma l’uomo)
e, come osservava Edgar Allan Poe (1989), esso non esprime tanto un’idea quanto
lo sforzo per arrivarci.
Se numerose attività biologiche e certe modalità di pensiero di tipo ciclico
caratterizzano tutta la vita, l’esperienza lineare del tempo inizia ad essere vissuta
come fondamentale a partire dall’adolescenza. Essa è unidirezionale ed è
strettamente legata sia alla memoria, che consente di collocare nel passato le
esperienze accumulate nella vita trascorsa, sia alle attività cognitive più
complesse, che la riordinano a livello corticale. Dall’adolescenza in poi il tempo
inizia ad apparire un flusso dinamico in cui, come osservava Eraclito, “tutte le
cose scorrono” (“τα πάντα ῥεῖ”, “ta panta rei”) e “a chi discende nello stesso
fiume sopraggiungono acque sempre nuove”. Una riflessione simile sul tempo la
fece, secoli dopo, Leonardo: “il moto è causa d’ogni vita (3); col tempo ogni cosa

143
va variando (19); l’acqua che tocchi de’ fiumi è l’ultima di quella che andò e la
prima di quella che viene. Così il tempo presente (35).
Analogo è il concetto di tempo inteso come storia da Tucidide, già citato, che
considerava quest’ultima un possesso perenne che appartiene all’umanità.
Quest’ultimo è un concetto importante perché dimostra come, già per gli storici
greci, accanto alla memoria personale, che è fondamentale nel mantenimento
dell’identità, sia stata avvertita l’esigenza di individuare una memoria collettiva da
tramandare, in funzione del mantenimento dell’identità socio-culturale. Da un
lato, infatti, il ricordo delle proprie esperienze consente di unirle insieme in
maniera coerente ed il filo che le lega nella coscienza fa da trama al senso
d’identità. Dall’altro lato, accanto alla memoria individuale, si costruisce una
memoria sociale collettiva, cioè una memoria del gruppo etnico e culturale che si
riconosce in uno stesso contesto, in determinate abitudini e tradizioni, in una data
storia. La memoria individuale è quindi il luogo del continuo, in quanto lega le
diverse esperienze vissute nel tempo, dando una coerenza interna che viene meno,
ad esempio, nei processi psichici involutivi come le demenze o nelle
intossicazioni croniche come l’alcolismo, in cui si possono osservare
confabulazioni, cioè falsi ricordi, che integrano le lacune mnesiche, in quanto
l’identità soggettiva vacilla se ci sono carenze nella propria storia personale. La
memoria sociale è, invece, il luogo del discontinuo, per cui va ricostruita
attraverso indagini e procedure che spaziano dalla ricerca archivistica
(concernente i documenti e le fonti) a quella archeologica e documentaria, inclusa
la raccolta delle tradizioni orali. Come ha osservato Cardini (1989), il nostro
modo di ripensare il passato nel presente esprime la dinamica tra memoria e
storia: “la memoria è il luogo del continuo; il luogo nel quale, quando il continuo
si rompe, immediatamente la rottura viene isolata e rimossa; e si inventa subito
un tessuto, magari fittizio, che ci ricollega al passato. La memoria non accetta
falle; si dichiara lesa, pregiudicata, disorientata quando è costretta a prendere
atto delle sue lacune; si dichiara ammalata se riconosce le sue cadute. Molto
spesso le nega, o ricostruisce in un modo o nell’altro quello che manca. Alla
memoria vengono in soccorso, credo, appunto le capacità del fantasticare (che
non a caso oggi sono, e finalmente, oggetto di storia), dell’inventare menzogne, di
sognare. La memoria è il luogo del continuo, dell’illusione, della menzogna, ma è
anche il luogo dell’autoidentificazione, dell’identità. La storia è invece il luogo
del discontinuo, e quindi il luogo del disincanto, come diceva Max Weber. Ma è
proprio perché questo disincanto non serve a ricomporre le lacerazioni che la
memoria in qualche caso, per così dire istericamente, ha voluto negare, e proprio
perché il disincanto serve a prendere atto di quel che conosciamo, di quel che non
conosciamo ancora e di quel che potremo conoscere in seguito, che i nostri
strumenti epistemologici e filologici si dovranno affinare”.

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Con l’emergere del pensiero astratto sia la memoria individuale che quella sociale
cominciano ad essere sempre più riordinate con una concezione lineare ed
evolutiva del tempo, secondo una tripartizione tra passato, presente e futuro. La
coscienza unidirezionale del tempo è legata al vissuto che la vita procede da un
prima a un dopo, che non può in ogni caso essere preventivamente memorizzato.
Dobbiamo alle riflessioni di Agostino da Tagaste (Confessioni), mutuate dal
pensiero greco, la considerazione che il senso del tempo sia un’esperienza
prettamente psichica, le cui basi sono ancora una volta emozionali prima che
logiche: il tempo umano è sempre nel presente, tra memoria e anticipazione: il
presente è il punto di intersezione tra passato e futuro, tra le esperienze che non ci
sono più e quelle che devono ancora arrivare. D’altra parte, l’adesso del presente è
diverso nei singoli individui e nel succedersi delle diverse fasi della vita di
ciascuno; anzi, il presente non ha una propria estensione in quanto, nel momento
stesso in cui lo sperimentiamo, esso è già passato ed è sostituito da un altro
istante. Da questo punto di vista, come ha osservato Ratzinger (Il tempo e la
Storia, 2017, p. 22 e 24), “l’uomo non possiede mai la propria vita perfettamente
e interamente nell’istante: anche nel singolo la vita si dilata nel tempo, e in
definitiva l’uomo è soltanto la totalità di questa struttura temporale (…) Per
questo sono così diversi i presenti dei singoli uomini, perché il tratto che essi
considerano, ritenendolo il loro ‘ora’, è del tutto differente”. Il tempo appare
quindi come una rete di eventi, piuttosto caotica e disordinata ma vitale, in quanto
espressione di ciò che per noi è il tempo e, in definitiva, come ha scritto il fisico
Carlo Rovelli (2017), del fatto che “il tempo siamo noi. Siamo memoria. Siamo
nostalgia. Siamo anelito verso un futuro che non verrà”.
La coscienza del tempo è quindi la costruzione che fa la psiche unendo, mediante
il presente dell’esperienza immediata, il passato e il futuro in un tutto che si fa
storia spiegata. L’asimmetria della consapevolezza del passato e del futuro è
quindi anzitutto una asimmetria temporale. Il senso di continuità che chiamiamo
tempo emerge dalla capacità di unire tra loro due senso-percezioni consecutive,
per cui la sua stima dipende dalla successione di senso-percezioni diverse.
Il senso del tempo può essere alterato in diverse situazioni, come nel caso di
intossicazione da sostanze allucinogene (cannabis, ecc.), quando sembra che le
proprie senso-percezioni si succedano molto più rapidamente della norma. Ciò
significa che sono recepite più senso-percezioni in uno stesso intervallo di tempo,
con una distorsione percettiva di tipo allucinatorio, per cui un intervallo limitato
di tempo può sembrare ampliato fino a coprire un intervallo molto più lungo e un
minuto può sembrare un’ora.
Anche l’esperienza del tempo è infatti irriducibilmente sia oggettiva che
soggettiva. Se i fenomeni in natura accadono indipendentemente dall’individuo
che li percepisce, la percezione ed i fenomeni coscienti legati ad essa dipendono
invece dalla sua soggettività. Da questo processo soggettivo nasce infatti ogni

145
riflessione sul sé ed ogni immagine cosciente di sé. D’altra parte, il fluire
dell’esperienza, riordinata secondo queste modalità uniche e soggettive, a livello
consapevole è riferito all’esterno e vissuto come se si trattasse di un’esperienza
“oggettiva”, condivisibile e valida per tutti. Il senso soggettivo del tempo,
unidirezionale e irreversibile, pone al centro della scena l’unicità di ogni
esperienza, che assume un suo valore specifico solo all’interno della coscienza
individuale che la genera. Infatti, come si è detto, se esistono genericamente
“simboli” e significati “universali” (si pensi alla teoria junghiana degli “archetipi”
o a quella psicodinamica dei “complessi”), è riduttivo pensare che essi siano del
tutto validi e sovrapponibili nei vissuti di persone diverse.
ASPETTI OGGETTIVI E SOGGETTIVI DELL’ESPERIENZA
Il funzionamento psichico e il comportamento sono espressioni del soggetto che li
manifesta. Quindi, se appaiono come qualcosa di “oggettivo” e di simile in tutti i
casi in cui si osservano, essi hanno anche un rilevante valore conoscitivo sul
funzionamento interno, in quanto esprimono specifiche modalità psichiche, che
possono essere diverse da soggetto a soggetto, legate a come ciascun individuo ha
imparato a sperimentare e a riferirsi le esperienze fatte.
Pertanto, da un lato la psicologia e la psichiatria descrittive hanno il fine di
categorizzare i fenomeni, compresi quelli psicopatologici, cercando di definirli in
maniera sufficientemente oggettiva, chiara ed univoca. Questo inquadramento in
categorie definite di una funzione psichica o di un disturbo mentale ha il
vantaggio di fornire criteri condivisi, ma è carente nel dare strumenti di
comprensione del funzionamento mentale, normale o patologico che sia.
Dall’altro lato, l’approccio processuale attento alla soggettività, proprio del
cognitivismo post-razionalista, integra e arricchisce gli approcci descrittivi,
centrando l’attenzione sullo studio dei processi individuali di adattamento che
portano alla costruzione della vita psichica nella sua complessità. Esso è infatti
specificamente attento alla persona, sana o malata che sia (Nardi, 2007, 2013,
2016).
Inoltre, come ricordava Guidano (1988), l’approccio post-razionalista risponde
alla necessità, di ordine epistemologico, di studiare il rapporto tra conoscenza e
realtà avendo come riferimento lo sviluppo e l’organizzazione dei sistemi psichici.
Per capire come è nato questo approccio occorre risalire alla lettera (1904) che
Russell scrisse a Frege, famoso logico del tempo. In questo scritto veniva posto il
problema per cui nessuna osservazione può dirsi mai del tutto esatta ed oggettiva,
in quanto ogni conoscenza diretta può avere per oggetto solo i dati dei sensi e non
gli oggetti in sé: “caro collega, da un anno e mezzo sono venuto a conoscenza dei
suoi Grundgesetze der Arithmetik, ma solo ora mi è stato possibile trovare il
tempo per uno studio completo dell’opera come avevo intenzione di fare. Mi trovo
completamente d’accordo con lei su tutti i punti essenziali, in modo particolare

146
col suo rifiuto di ogni elemento psicologico nella logica e col fatto di attribuire un
grande valore all’ideografia per quel che riguarda i fondamenti della matematica
e della logica formale, che, per inciso, si distinguono difficilmente tra loro.
Riguardo a molti problemi particolari trovo nella sua opera discussioni,
distinzioni e definizioni che si cercano invano nelle opere di altri logici.
Specialmente per quel che riguarda le funzioni (cap. 9 del suo Begriffsschrift),
sono giunto per mio conto a concezioni identiche, perfino nei dettagli. C’è solo un
punto in cui ho trovato una difficoltà. Lei afferma (p. 17) che anche una funzione
può comportarsi come l’elemento indeterminato. Questo è ciò che io credevo
prima, ma ora tale opinione mi pare dubbia a causa della seguente
contraddizione. Sia w il predicato «essere un predicato che non può predicarsi di
se stesso». W può essere predicato di se stesso? Da ciascuna risposta segue
l’opposto. Quindi dobbiamo concludere che w non è un predicato. Analogamente
non esiste alcuna classe (concepita come totalità) formata da quelle classi che,
pensate ognuna come totalità, non appartengono a se stesse. Concludo da questo
che in certe situazioni una collezione definibile non costituisce una totalità”.
Le scienze di base del Novecento, come la fisica quantistica, hanno dimostrato
l’impossibilità di compiere osservazioni oggettive esatte, applicando quindi un
approccio probabilistico allo studio dei fenomeni naturali. Come ha osservato
Heisenberg, formulando nel 1942 il suo principio di indeterminazione,
“nell’ambito della realtà le cui condizioni sono formulate dalla teoria quantistica,
le leggi naturali non conducono quindi a una completa determinazione di ciò che
accade nello spazio e nel tempo”. In altri termini, la scienza non può pervenire ad
una conoscenza della realtà né completa né totale, per cui al concetto di
determinismo (espresso da Laplace nell’ambito della visione tradizionale della
fisica) va sostituito quello probabilistico e statistico.
Come ha osservato Guidano (2000, pp. 24-26), la realtà “oggettiva” è conoscibile
solo attraverso la “soggettività” dell’individuo che la percepisce: “nel
razionalismo del Novecento, verità corrisponde a razionalità. Non è in fondo
grande la differenza dal pensiero di Cartesio che sosteneva che ciò che è reale è
razionale e viceversa. Si tratta piuttosto di una ulteriore elaborazione di tale
impostazione. Questa prospettiva epistemologica, che viene dal Quattrocento e
dai tempi e dal pensiero di Leonardo e di Galileo, da quando cioè è nata la
scienza stessa, ha cominciato ad entrare in crisi agli inizi del nostro secolo. E c’è
una data precisa, il 1903, quando Bertrand Russel scrisse una famosa lettera al
più grande logico del tempo, Gottlob Frege. Bertrand Russel chiedeva come si
poteva risolvere in base alla logica uno dei paradossi più semplici, dato che non
c’è la possibilità di ottenere un’osservazione precisa, di essere un osservatore
privilegiato, imparziale, quasi dall’esterno, perché l’osservatore è sempre parte
di ciò che osserva. In altre parole, l’osservatore introduce con la sua
osservazione un ordine che prima non c’era, e in base a quell’ordine egli riesce a

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cogliere novità che sono significative soltanto per lui. Direi, quindi, che in questa
nuova prospettiva ogni dato è al tempo stesso oggettivo e soggettivo, così come
anche nel migliore e nel più puro dei dati oggettivi c’è sempre dentro il negativo,
l’immagine dell’osservatore che l’ha estrapolato. Da questa osservazione iniziale
derivano la rivoluzione empirista, la meccanica quantistica, la relatività. In
sintesi, la posizione della maggior parte delle scienze è la posizione, potremmo
dire in un termine (usando una parola introdotta da Umberto Maturana, uno
degli epistemologi più in vista di questa corrente), che è ‘multiversa’, per dire il
contrario di ‘universo’. Universo è la visione del mondo in un’ottica empirista,
secondo la quale esiste un unico ordine costituito, un unico ordine esterno. Il
termine universo esprime abbastanza bene questo concetto. Con ‘multiversa’,
Maturana vuol dire che la possibilità degli ordini possibili è infinita, e dipende
dal punto di vista degli osservatori. Cioè, ogni osservatore introduce un ordine
nella realtà: che è un fluire di stimoli, di dati, di informazioni. Ciò che per noi è
informazione, è ciò che noi abbiamo già scelto, già selezionato. Ci troviamo di
fronte al problema riflesso sotto altri punti di vista da tutta la filosofia
cognitivista ontologica del Novecento, per cui non possiamo mai percepire nessun
ordine indipendentemente da noi stessi. Ciò non significa – e questo è un
elemento basico rispetto a quello che poteva sembrare un ritorno alla prospettiva
idealista – che non esiste la realtà: esistono, direbbe Maturana, mille realtà, un
insieme infinito di ordini possibili immaginabili. Se noi abbiamo un ordine che
appartiene al nostro modo umano di esperire la realtà, in quanto umani abbiamo
nel mondo animale dei cugini stretti, che sono i primati. Ed è interessante vedere
come i primati ricostruiscono una percezione in base all’asse corporeo o come
ristrutturano un ambiente in base alle loro caratteristiche organismiche
biologiche ritmiche. In altre parole, quella che compare in un’ottica neoempirista
è la visione di un organismo che è autorganizzante. Cioè, mentre in precedenza si
ipotizzava che l’organismo fosse sostanzialmente passivo rispetto all’ordine
esterno, e che la sua conoscenza non fosse altro che la copia di tale ordine, in
questa nuova prospettiva il concetto di base è quello di ‘autorganizzazione’. Così,
qualsiasi organismo, semplice come l’ameba o complesso come l’uomo, dal
momento che ha una propria struttura, la usa attivamente per strutturare prima, e
mantenere poi, il suo ordine di insieme, e in ciò consiste la sua abilità evolutiva.
La prospettiva dell’autorganizzazione ha cambiato alcuni aspetti di fondo nella
concezione dell’adattamento. Infatti, nell’ottica empirista, in cui la conoscenza è
la copia di un ordine esterno, il concetto di adattamento è centrato sull’ambiente,
per cui l’organismo si adatta sintonizzandosi sostanzialmente sulle caratteristiche
dell’ambiente. Anzi, in questo identificarsi con l’ambiente è la sua capacità
ottimale di adattabilità. In un’ottica autorganizzativa, l’adattamento appare
esattamente il contrario. Infatti un organismo o, meglio, un sistema
autorganizzantesi si adatta nella misura in cui è capace di trasformare l’ambiente

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in un suo ordine interno irreversibile. Il punto essenziale, nel diverso modo di
concepire l’adattamento, è nel concepirlo come qualcosa di sostanzialmente
passivo o attivo. Nella concezione empirista l’organismo è una sorta di recettore,
che riflette un ordine preesistente; nella prospettiva autorganizzativa l’organismo
non solo è un creatore del suo ordine, ma è anche un trasformatore incessante,
che elabora tutti gli input ambientali per mantenere una sua coerenza interna. A
questo proposito vorrei ricordare che, in questa prospettiva, input è un termine
improprio, che non si dovrebbe usare, mentre si dovrebbe più correttamente
parlare di ‘perturbazioni’. Voglio dire, nel gergo dei calcolatori, ‘input’ è una
parola usata in senso razionalista, in quanto indica l’esistenza di una
informazione, che l’organismo (come un computer) deve solo leggere, in quanto il
dato è di per sé significativo a prescindere da lui. Viceversa, all’esterno
dell’individuo esistono non informazioni ma perturbazioni che, nella misura in
cui vengono percepite e assimilate all’interno, diventano informazioni. In
quest’ottica, si usa la parola ‘informazione’ alla lettera, nel senso cioè di ‘dar
forma’, che è l’attività stessa del sistema individuo, fattore e mantenitore del suo
ambiente”.
Una prospettiva di studio antropologicamente interessante del rapporto tra mondo
oggettivo e soggettività individuale è fornita dalla relazione tra favola e mito. Da
un punto di vista filogenetico e ontogenetico, sia la favola che il mito sono
espressione del linguaggio orale e tendono ad essere mantenuti immutabili,
intangibili: come vuole l’antico detto dei monti Sibillini già citato, “non bisogna
strecciare le criniere dei cavalli” pettinate dalle fate della regina Sibilla o dai
folletti (Pigorini Beri, 1889, Eustacchi Nardi, 1958; Catà, 2016). Un concetto
simile (riferito a Mab, ispiratrice dei sogni notturni) è messo da Shakespeare in
bocca a Mercuzio, che così si rivolge all’amico Romeo poco prima che questi
incontri Giulietta, dando avvio al dramma del loro amore “impossibile”: “Mab è
colei che nella notte intreccia i crini dei cavalli e con grassi impasti annoda i
capelli degli elfi che, una volta sciolti, annunciano grande sventura” (Romeo and
Juliet, I, IV; cfr. Catà, 201). La narrazione di tipo epico, mitologica e fiabesca, è
dominata dall’azione, che racchiude in sé tutti gli insegnamenti e le istruzioni utili
alla vita. Inoltre, in essa non vengono operate distinzioni nette tra mondo interno e
mondo esterno o tra passato, presente e futuro: sentimenti e pensiero sono espressi
mediante ciò che avviene nel “qui e ora”. Le civiltà arcaiche, basate sulle
tradizioni orali, tramandavano nei miti l’insieme di credenze, valori, pratiche e riti
sociali, pensati come dati all’uomo dalla divinità in un tempo originario, custoditi
da sciamani-cantori e trasmessi di generazione in generazione, attraverso
lunghissime composizioni imparate a memoria. Esempi di questa tradizione sono i
poemi omerici, raccolta completa di tutto ciò che un greco doveva sapere per
entrare nella vita adulta. Come ricorda Shakespeare con Romeo, solo l’intreccio
del mito e dei suoi sentimenti consente di attingere alla fantasia e al sogno e,

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tramite essi, alla bellezza, al cui fascino non ci si può sottrarre. D’altra parte,
come osservava Platone, ciò che viene percepito come bello nel mondo reale dei
sensi rimanda, proprio tramite la fantasia, alla invisibile essenza delle idee. Da
questo punto di vista, il mito – con la fantasia cui è strettamente connesso – non
rappresenta una evasione dalla vita reale né una sua innocente semplificazione,
ma consente di approfondirne il senso della realtà e di osservarla oltre la sua
apparenza contingente. Dato che conosciamo la realtà tramite il cervello, come ha
osservato il poeta e pittore William Blake, “solo le cose mentali sono reali” (A
Vision of the Last Judgement, 1808). E Lewis (2000), citando Tolkien, osservava
che “una storia diventa reale proprio quando arriva a soffermarsi nella nostra
mente”. Come ha evidenziato Emmanuel Lévinas (1961), a proposito delle
relazioni umane, la costruzione della soggettività operata dal cervello consente di
superare l’illusione di una totalità inglobante: non si può cancellare l’altro, né
assimilarlo a sé, né tanto meno appropriarsene come fosse un oggetto, così come
il volto dell’altro in qualche modo sfugge irrimediabilmente, in quanto va sempre
oltre l’immagine che ce ne possiamo fare (Ciglia, 2010).
Gli studi che hanno contribuito a definire l’approccio alla soggettività nel modello
post-razionalista, sia a livello epistemologico che a livello clinico-applicativo
(Maturana e Varela, Greenberg e Safran, Mahoney, Guidano, Reda, Rezzonico)
hanno quindi messo in rilievo che non è possibile avere un’idea totalmente
oggettiva e univoca della realtà. In altri termini, la realtà viene colta attraverso una
lettura che in modo significativo è anche soggettiva e in questa lettura sono
fondamentali, prima ancora delle componenti razionali, quelle di natura
emozionale; pertanto, la realtà è ricostruita con gli strumenti affettivi e cognitivi
di cui il soggetto dispone in un certo momento della sua vita. Se, come scrive
Monod (1971, 1973), la pietra angolare del metodo scientifico è il postulato
dell’oggettività della natura, l’approccio post-razionalista ha messo in luce che la
natura appare irriducibilmente sia oggettiva che soggettiva. Winograd e Flores
(1986) e Guidano (1992) ricordano infatti che la conoscenza non è in modo
univoco né “soggettiva” (esclusivamente interna all’individuo) né “oggettiva”
(totalmente indipendente dall’individuo) ma è, appunto, al tempo stesso
soggettiva ed oggettiva. Ovviamente, l’approccio alla soggettività del
cognitivismo post-razionalista non si pone su un piano filosofico idealistico che
nega l’esistenza di una realtà “oggettiva” o che la relativizza del tutto. Propone
invece un modello scientifico basato sul fatto che per conoscere il mondo interno
e il punto di vista di un individuo (che costituiscono una “realtà oggettiva”) è
indispensabile mettere a fuoco le sue modalità, uniche e peculiari, di riferirsi
l’esperienza (che esprimono la sua “realtà soggettiva”). Ad esempio, come ha
scritto in modo incisivo lo scalatore Walter Bonatti (2016, p. 8), “non esistono
proprie montagne, si sa, esistono però proprie esperienze. Sulle montagne
possono salirci molti altri, ma nessuno potrà mai invadere le esperienze che sono

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e rimangono nostre”. Infatti, da un lato, il mondo psichico è osservabile e
descrivibile in maniera sufficientemente univoca e condivisa, con la possibilità di
ricercare gli aspetti che sono indagabili con metodiche comuni in tutti gli
individui (ad es., organizzazione anatomica del cervello, funzionamento dei
neurotrasmettitori, misurazione dell’efficienza di una funzione psichica,
descrizione e quantificazione di un disturbo psicopatologico o della risposta a un
trattamento); dall’altro lato, la psiche riflette un modo unico di recepire
l’esperienza, elaborandola secondo dei parametri di base inconsapevoli,
trasformandola così in senso di identità personale. Se si tiene conto della necessità
di studiare gli aspetti soggettivi della coscienza, ne deriva che in psicoterapia il
terapeuta non si può porre semplicemente come un “esperto” che esplora –
attraverso conoscenze e “interpretazioni” valide per tutti – il mondo interno
dell’altro; al contrario, come un “esploratore”, deve ricavare il mondo interno
dell’altro – che è l’unico “esperto” di sé, in quanto è l’unico a contatto diretto con
esso – attraverso ciò che l’altro gli comunica.
La conoscenza, nei suoi aspetti personali inconsapevoli, risponde più al bisogno di
dare continuità alla costruzione soggettiva del senso di sé, che a quello di ottenere
una rappresentazione interna, univoca ed oggettiva, della realtà esterna. Essa
produce non tanto una “fotocopia” oggettiva della realtà esterna, quanto un modo
personale di recepirla, che fa da base all’identità, unica e tipica di ciascun
individuo. L’identità infatti viene costruita come rappresentazione psicofisica di
sé e dei propri rapporti con gli altri. Essa deriva dalla capacità di avere un proprio
orientamento nei confronti della realtà, che viene riordinata in termini senso-
percettivi, emozionali e cognitivi, ricavandone un senso di sé sufficientemente
omogeneo e stabile nel tempo. Questa organizzazione soggettiva dell’esperienza,
che si fa attimo dopo attimo e che viene resa stabile attraverso la memoria,
consente di riconoscersi, adattarsi, mantenere un senso di sé e aggiornarlo nel
tempo. L’identità ha quindi un andamento dinamico nel tempo, che permette il
mantenimento del senso di continuità e di stabilità di sé, ma anche l’apertura al
cambiamento, per progredire nella crescita attraverso le nuove esperienze. In
questa evoluzione dinamica la coscienza mette in campo tutte le sue risorse
adattive. Nella psiche dei Sapiens, l’esperienza si fa sé e il sé si fa esperienza.
Lo studio scientifico della soggettività evita il rischio di operare un riduzionismo
che considera sovrapponibili e identici gli stessi sintomi in tutti gli individui che li
producono, come se fossero espressione degli stessi processi interni, a prescindere
dalle diverse modalità con cui ciascun soggetto assimila e si riferisce l’esperienza.
Un osservatore (medico, psicologo o altro professionista) non può presumere di
conoscere “a priori”, cioè sulla base del proprio esclusivo sapere, quello che sta
effettivamente vivendo e provando un altro. Non solo, ma interagendo con lui,
l’osservatore produce stimoli che modificano ciò che osserva, così come l’altro
modifica gli stati interni dell’osservatore, senza che quest’ultimo ne sia a volte

151
consapevole. D’altra parte, proprio il vissuto soggettivo attiva risonanze e coloriti
anche in chi si pone in relazione empatica con l’individuo. La capacità di
comunicare agli altri ciò che si prova consente a chi sa ascoltare (senza mettersi al
posto dell’altro) una comprensione più profonda e autentica: come ricordano i
brani di Nagel e Hofstadter già citati, si può condividere un modo di sentire, con
la consapevolezza che questo sentire è anche in parte unico e irripetibile per
ciascun soggetto. Come è stato colto in alcune intuizioni della letteratura, ad
esempio nel celebre idillio “L’Infinito” di Leopardi (“Sempre caro mi fu
quest’ermo colle, / e questa siepe, che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il
guardo esclude. / Ma sedendo e mirando, interminati / spazi di là da quella, e
sovrumani / silenzi, e profondissima quiete / io nel pensier mi fingo; ove per poco
/ il cor non si spaura. E come il vento / odo stormir tra queste piante, io quello /
infinito silenzio a questa voce / vo comparando: e mi sovvien l’eterno, / e le morte
stagioni, e la presente / e viva, e il suon di lei. Così tra questa / immensità
s’annega il pensier mio:/ e il naufragar m’è dolce in questo mare”), la realtà
oggettiva attiva una lettura emozionale che produce nuove rappresentazioni;
questi nuovi scenari interni soggettivi, da un lato, sono in relazione con il mondo
esterno che li ha attivati ma, dall’altro lato, sono unici e irripetibili, in quanto si
sono generati all’interno di quella persona in uno specifico momento della sua
vita.
Lo studio della soggettività è stato approfondito in maniera trasversale in
numerose discipline, anche di tipo umanistico, portando a cogliere anche in questi
settori non solo gli aspetti descrittivi e relativi all’analisi della struttura, ma
soprattutto capaci di coglierne significati e coloriti profondi, come negli scritti
sull’arte di Gombrich del 1984: “contrariamente a qualsiasi teoria stimolo-
risposta, vorrei mettere in luce la necessità di considerare l’organismo un agente
attivo che si protende verso l’ambiente non ciecamente e a caso, ma guidato da
questo innato senso dell’ordine” e del 1999: “Non vediamo ciò che crediamo di
vedere – né dunque lo dipingiamo – ma quello che ci aspettiamo di vedere; è un
effetto di anticipazione del nostro occhio che, col passare dei secoli, diventa
sempre meno innocente. Io, per esempio, sospetto che gli uomini del nostro tempo
vedano la luna in maniera differente dal passato perché, a differenza delle
precedenti generazioni, sanno come è fatta, ci sono stati sopra (…) Vede, lei dirà
che quella lì fuori è un’automobile. Ma da qui ne vede solo una piccola porzione
di tetto, grande non più di questa penna. Eppure la sua mente le fa vedere ciò che
lei si aspetta di vedere. A un allievo che gli diceva: io dipingo quello che vedo,
Whistler una volta rispose: aspetta di vedere quello che hai dipinto”.
Dunque, la conoscenza passa attraverso la soggettività dell’osservatore, il quale
mette sempre un po’ di sé nella osservazione che fa. L’osservazione della realtà
non può essere un’operazione assolutamente neutra, oggettiva ed univoca, né può
essere considerata del tutto indipendente dal soggetto che percepisce la realtà e la

152
riordina: il nucleo di ogni esperienza umana è nelle modalità soggettive di
percepirla e di riferirla a sé. La razionalità non è separabile dallo stato di
coscienza e dal modo di funzionare dell’individuo che la esprime. Come ha
osservato la scrittrice Anaïs Nin, “non vediamo le cose come sono, le vediamo
come siamo” (Seduction of the Minotaur, 1961, p. 124). L’importanza della
soggettività non riguarda solo l’ambito della psicologia clinica e delle
neuroscienze, ma è stata estesa ai rapporti che queste discipline hanno con la
filosofia ed è stata applicata anche allo studio della metafisica, come ha fatto
Joseph Ratzinger (2002): “oggi sappiamo che nell’esperimento fisico entra
l’osservatore stesso, il quale solo così riesce ad acquisire esperienza fisica. Ne
consegue che la pura oggettività non esiste nemmeno in fisica, giacché anche qui
l’esito dell’esperimento, la risposta della natura, dipende dalla domanda che a
essa viene rivolta. Nella risposta, infatti, è sempre incluso anche un brandello
della domanda e dello stesso interrogante, sicché essa non rispecchia soltanto la
natura nel suo essere-in-sé, nella sua pura oggettività, ma riflette anche qualcosa
dell’uomo, del suo genio particolare, una parte del soggetto umano. Ora anche
questo trova corrispondenza nel nostro indagare sul problema di Dio.
L’osservatore puro non esiste, come non esiste la pura oggettività. Si potrebbe
persino affermare che, quanto più elevato un oggetto è dal punto di vista umano,
quanto più esso interessa il centro personale e impegna l’intimo dello spettatore,
tanto meno è possibile il freddo distacco della pura oggettività. Pertanto, ogni
qualvolta una risposta è data per spassionatamente oggettiva, come affermazione
che supera finalmente i preconcetti religiosi e informa in modo puramente
oggettivo e scientifico, bisogna dire che chi parla è caduto in un autoinganno.
Questo tipo di oggettività è interdetto all’uomo. Egli non può affatto esistere né
interrogare da semplice osservatore. Chi cerca di essere un puro osservatore non
apprende nulla. Anche la realtà ‘Dio’ può essere colta solo da colui che si
coinvolge di persona nell’esperimento con Dio: in quell’esperimento che noi
chiamiamo fede. Solo coinvolgendosi si apprende; solo prendendo direttamente
parte all’esperimento ci si interroga, e solo chi si interroga riceve risposta”.
D’altra parte, come ha osservato Claudio Magris (2012), il concetto di soggettività
richiede di non ignorare che, nello scenario della coscienza, esiste una dialettica
irriducibile tra il punto di vista soggettivo e la realtà oggettiva, tra la relatività, la
provvisorietà ed i limiti impliciti in ogni approccio conoscitivo (anche scientifico)
e la tendenza insopprimibile a ricercare verità e valori condivisi e universali: “il
relativismo, correttamente inteso, non è la negazione della verità e men che meno
del significato e della necessità della sua ricerca. Esso è un indispensabile sale,
non una pietanza; è un correttivo irrinunciabile nella ricerca della verità, che
impedisce di credersene possessori definitivi, pervenuti a una piena e indiscutibile
conoscenza della verità e autorizzati a imporla agli altri. Questo relativismo –
rivolto a tutti i dogmatismi, a tutte le parole d’ordine e a tutte le opinioni

153
dominanti del momento, soprattutto alle proprie convinzioni – è la base della
tolleranza e della libertà”.
Pertanto, fare esperienza – assimilare ciò che accade trasformandolo in
conoscenza dapprima tacita e poi esplicita di sé e del mondo, all’interno della
propria organizzazione – non solo risponde anche a criteri soggettivi, ma è
espressione diretta della unicità di ogni persona.
CORRELATI BIOLOGICI DELL’ESPERIENZA NELLE ORGANIZZAZIONI
Come si è detto, il cognitivismo post-razionalista considera l’individuo come un
sistema di conoscenza complesso (aspetto sistemico), in grado di riferire a sé la
propria esperienza e dotato di una potenzialità evolutiva che si dispiega
progressivamente nel corso del ciclo di vita (aspetto processuale). A questo
proposito, le cornici teoriche di riferimento sono l’epistemologia razionalista
critica di Popper e Eccles (1977), gli studi di Prigogine sull’entropia e sui
fenomeni irreversibili (1973, 1997, 2006), quelli della fisica quantistica sul ruolo
attivo svolto dall’osservatore di un dato fenomeno, quelli di Gould sul pluralismo
evolutivo (che prevede cambiamenti evolutivi non prevedibili o “a salti” o a
“equilibri puntuali”; 2002), quelli di Maturana e Varela (1980, 1987) sulle
capacità di autopoiesi e autoreferenzialità dei sistemi viventi.
I processi soggettivi di assimilazione e di autoriferimento dell’esperienza sono
legati a specifiche attivazioni affettive, mediante le quali un soggetto si rende
presente a se stesso. Nella costruzione del significato personale, i processi affettivi
orientano la percezione e l’elaborazione cognitiva delle esperienze significative, la
quale a sua volta modula, integra, elabora e regola questi coloriti soggettivi.
Studi sperimentali del nostro gruppo hanno dimostrato che ciascuna
Organizzazione di Personalità (OP) sviluppa in modo specifico la percezione e
l’autoriferimento delle esperienze significative, affinando competenze
specializzate di risposta agli stress.

154
Fig. 3. Attivazione nell’amigdala di destra, evidenziata dall’intersezione degli assi,
evocata dalla presentazione di facce con espressione di rabbia. Secondo la convenzione
radiologica, l’emisfero sinistro è raffigurato a destra. A: attivazione osservata in un
soggetto con OPF alla presentazione di facce standard (esperienza in terza persona). B:
attivazione evocata dallo stesso stimolo in un soggetto con OPS. C: attivazione evocata
nello stesso soggetto con OPF mostrato in A dalla presentazione della propria faccia
(esperienza in prima persona). D: attivazione evocata dallo stesso stimolo nel soggetto
con OPS mostrato in B. (Da: Nardi et al., Rivista di Psichiatria, 2008)

155
Ad esempio, mediante risonanza magnetica funzionale abbiamo osservato (Fig. 3)
che i soggetti con OP a reciprocità Fisica (OPF) rispondono alla paura con una
marcata attivazione dell’amigdala (specie di destra), mentre quelli con OP a
reciprocità Semantica (OPS) presentano un pattern meno focalizzato e univoco,
attivando meno l’amigdala e più la corteccia (Nardi et al., 2008ab).
In un’altra linea di ricerca abbiamo documentato che soggetti con OPS sottoposti
a un test di stress psicosociale (il “Trier Social Stress Test”) presentano valori di
cortisolo significativamente superiori rispetto a quelli con OPF (Nardi et al.,
2013). Risultati analoghi li abbiamo trovati in giovani donne con OPS che
presentano disturbi della condotta alimentare (Marini et al., 2016, 2017).
Inoltre, l’allele S e il genotipo SS – che codificano la variante corta del
trasportatore della serotonina a livello sinaptico (5-HTTLPR), apparentemente
“svantaggiosa” rispetto alla variante lunga – sono apparsi significativamente più
rappresentati nelle OPS sia in omozigosi che in eterozigosi; in queste OP, infatti,
la variante corta può rivestire un ruolo adattivo positivo di sensibilizzazione,
modificando le risposte del sistema serotoninergico ai segnali ambientali al
mutare delle richieste e delle condizioni relazionali in cui il soggetto si trova a
vivere (Marini, 2015; Nardi e Arimatea, 2015; Marini et al., 2016, 2017ab).
Ulteriori ricerche sono state avviate dal nostro gruppo per approfondire, alla luce
delle OP, specifiche patologie, sia quelle in cui la relazione con il contesto è ben
evidente, come i disturbi della condotta alimentare (Sabbatini et al., 2017) o i
disturbi psicosessuali (Moltedo-Perfetti et al., 2014ab), sia quelle in cui la
componente psicosomatica e biologica è particolarmente evidente, come il morbo
di Crohn (Micheletti et al., 2017).
Nel campo della riabilitazione psichiatrica, la possibilità di utilizzare l’approccio
post-razionalista in chiave di recovery e di cambiamento consente di utilizzare in
modo nuovo e più attento alla soggettività gli strumenti di valutazione della
qualità della vita, a partire dal periodo di degenza ospedaliera (Giordano et al.,
2017), ma anche di aprire nuove prospettive alle attività educative e di role
playing con gruppi di adolescenti (Bechrakis et al., 2017).
In quest’ultimo caso si è utilizzato il “Planning Alternative Tomorrows with
Hope” (PATH, pianificare un futuro alternativo con speranza; Pearpoint et al.,
2001; Anderson e Heyne, 2012; Heyne e Anderson, 2014), uno strumento di
pianificazione personale creativo, basato sul disegno, che permette di realizzare
un piano di azione individuale nelle circostanze in cui avviene un cambiamento
importante e che aiuta ad elaborare un percorso di accompagnamento. Una sua
declinazione in chiave post-razionalista consente non solo di mettere a fuoco
comportamenti disfunzionali, paure, obiettivi e sogni, ma anche di inserirli nel
modo di funzionare del soggetto, attraverso una co-esplorazione del mondo
interno (con il quale solo il soggetto è a contatto diretto, sia pure in modo
ampiamente inconsapevole).

156
Come ha osservato Pettinelli (2017), “la capacità di mantenere la coerenza
interna del proprio significato personale può in linea teorica essere migliorata
anche da interventi a livello molecolare sulle funzioni cognitive stesse, che
tendono ad affrontare ostacoli apparentemente di minor importanza ma che
possono però funzionare da punto di arresto nell’economia generale del sistema
(…) La proposta di inserire anche parametri derivati dalle organizzazioni
cognitive nel processo di definizione dei progetti, può essere determinante per
migliorare la personalizzazione e trasformare modalità operative tradizionali
dando una impronta più orientata alla recovery sul territorio”. Infatti, “la
riabilitazione deve tenere conto dei significati personali, in quanto la ricerca di
significato e la costruzione del senso unitario di sé rappresentano la premessa del
progetto individualizzato (se non sono io, che progetto faccio?) e la continuità di
sé è base della negoziazione (se non sono io con i miei interessi, quale obiettivo
negozio?) (…) Il significato corrisponde alla relazione d’insieme fra tutti i
processi mentali ‘superiori’ senza essere identificabile in modo specifico con
nessuno di essi”. È il tutto che è maggiore della somma delle parti”.
Partendo dal nostro modello di OP (Nardi, 2007-2016), si possono costruire
percorsi riabilitativi che fanno riferimento ai seguenti parametri (Pettinelli, 2017):
- stressor:
pericolo nelle OPF Controllanti;
solitudine nelle OPF Distaccate;
giudizio esterno nelle OPS Contestualizzate;
dovere nelle OPS Normative.
- Capacità adattive:
prevenire e gestire tempestivamente i pericoli, individuare nuove figure affidabili,
trovare modi pratici e mezzi utili di gestire le situazioni nelle OPF Controllanti;
affrontare da soli nuove esperienze, individuare modi per valorizzare la propria
autonomia, sviluppare l’operatività con determinazione nelle OPF Distaccate;
individuare e verificare gli obiettivi conseguibili, individuare da chi si può essere
apprezzati, valorizzare la propria capacità realizzativa e competitiva nelle OPS
Contestualizzate;
trovare le linee guida come bussola della propria condotta, individuare con chi è
possibile condividerle nelle OPS Normative.
- Abilità:
presenza di spirito, saper individuare su chi contare nelle OPF Controllanti;
autonomia di scelta, progettualità pratica nelle OPF Distaccate;
focalizzare le aspettative, attitudine al risultato nelle OPS Contestualizzate;
impegno centrato sui valori, solidarietà etica nelle OPS Normative.
- Motivazioni:
ricerca di: protezione / libertà nelle OPF Controllanti;
autonomia / responsabilità nelle OPF Distaccate;
conferma /approvazione nelle OPS Contestualizzate;
certezze / valori nelle OPS Normative.

157
benessere: gestione di novità / abitudini nelle OPF Controllanti;
indipendenza / interdipendenza nelle OPF Distaccate;
successi / insuccessi nelle OPS Contestualizzate;
compatibilità / incompatibilità etica nelle OPS Normative.
Vincolo / risorsa: legame nelle OPF Controllanti;
distacco nelle OPF Distaccate;
consenso nelle OPS Contestualizzate;
regole nelle OPS Normative.
assetto cognitivo: pratico e applicativo nelle OPF Controllanti;
sviluppo precoce di capacità logiche nelle OPF Distaccate;
attento al qui e ora nelle OPS Contestualizzate;
logico, analitico, attento ai dettagli nelle OPS Normative.
canali prevalenti: emozionale e somatico nelle OPF Controllanti;
controllo emozionale nelle OPF Distaccate;
emozionale e cognitivo nelle OPS Contestualizzate;
immagini interne nelle OPS Normative.

In sintesi, gli studi sperimentali condotti dal nostro gruppo confermano le


osservazioni cliniche relative al fatto che ogni OP sviluppa in modo particolare
alcune specifiche risorse senso-percettive, con corrispondenti correlati sul piano
affettivo e cognitivo.
Infatti, il modello epistemologico adattivo ed evolutivo centrato sulla soggettività,
la pratica clinica post-razionalista e i dati sperimentali sinora ottenuti appaiono
compatibili tra loro e coerenti con il modello delle OP.
Essi sostengono l’utilità di considerare l’individuo (nel continuum tra normalità e
patologia) a partire dalle risorse di cui dispone e delle sue attitudini adattive,
legate alle modalità organizzative sviluppate attraverso le relazioni di
attaccamento con tutte le figure significative con cui è entrato a contatto.
Queste modalità organizzative condizionano il modo in cui un individuo risulta
“permeabile”, “sensibile”, “orientato”, “attento” agli stressor specifici relativi al
fluire delle esperienze fatte e in relazione agli aspetti più significativi ed ai domini
prevalenti nel proprio ambiente, sia a livello tacito, sia a livello esplicito.
I dati sperimentali descritti in precedenza fanno luce sul fatto che ciascuna OP
consente di riconoscere e gestire l’esperienza con una specificità ad elevato valore
in termini di adattamento attivo, per cui permette di maturare peculiari
competenze emozionali, operative e valutative, come espressione di risorse
selettive e specializzate, che vengono affinate e rimodellate nel corso di tutta la
vita (Nardi, 2007-2016).
Pertanto, nel loro insieme, le OP si manifestano come l’espressione più complessa
delle capacità adattive del cervello dei Sapiens, dando origine a pattern altamente
specializzati a livello biologico, psicologico e socio-relazionale.

158
L’ESPERIENZA NORMALE E PSICOPATOLOGICA

DALLA TEORIA ALLA CLINICA


La psiche si confronta con due esigenze coesistenti ma contrapposte: quella di
stabilità, che dà continuità all’identità, e quella di cambiamento, che consente
all’identità di evolvere e maturare, affrontando compiti e problemi di crescente
complessità. Alla stabilità e al cambiamento corrispondono le caratteristiche di
chiusura e di apertura proprie di ogni Organizzazione di Personalità, OP (Nardi,
2001, 2007; Reda e Canestri, 2002; Rezzonico e Strepparava, 2002). Per chiarire i
rapporti tra stabilità e cambiamento, numerose ricerche condotte nell’ambito delle
neuroscienze hanno aperto nuove frontiere nella comprensione delle interazioni
tra patrimonio genetico e ambiente. Esse hanno consentito di focalizzare meglio
sia le peculiarità del cervello umano rispetto a quello dei primati, scimpanzé
incluso (con cui condivide circa il 99% dei geni), sia come esso maturi nel corso
dello sviluppo. In particolare, esiste una sorta di “istinto ad imparare”
geneticamente determinato, per apprendere e ricordare i risultati delle proprie
analisi (Marler 1991; Thompson et al., 2001; Posthuma et al., 2002; Marcus,
2004). Dal punto di vista genetico, il cervello presenta una configurazione di
proteine molto più elaborata rispetto ad altri organi del corpo; la componente
“ereditaria” va considerata in termini di percentuale di variazione di un carattere
attribuita ai geni, i quali possono agire da soli o in associazione tra loro, ma
sempre in rapporto con l’ambiente. Come ha sottolineato Marcus (2004), le basi
genetiche che consentono di acquisire informazioni, attraverso l’apprendimento,
fanno sì che il cervello non sia una struttura rigidamente programmata, fissa ed
immutabile ma, al contrario, flessibile e predisposta al cambiamento. A sua volta,
attraverso l’effetto “epigenetico”, l’ambiente modula e modifica nel corso di tutta
la vita l’attività dei geni. Ad esempio, sia gli interventi educativi sia la
psicoterapia possono modificare la densità recettoriale e, quindi, la
neurotrasmissione, con conseguente maggiore o minore vulnerabilità allo stress.
L’ambiente può dunque influenzare la plasticità neuronale attraverso la
regolazione dell’attività genica (McNab et al., 2009, Champagne, 2010). La
flessibilità comportamentale assicurata dal genoma umano fa emergere modalità
soggettive altamente complesse, uniche ed irripetibili per ciascun individuo. Le
basi genetiche che consentono di acquisire informazioni, attraverso
l’apprendimento, permettono quindi al cervello di essere una struttura flessibile e
predisposta al cambiamento: ne è la prova il sistema dell’attaccamento. Si è già
detto che, come è stato dimostrato anche nei primati (Parker et al., 2004;
Davidson e McEwen, 2012), il bambino impara a interagire in modo vantaggioso
con l’ambiente e a difendersi dai rischi che incontra se viene a contatto con
stressor proporzionali alle risorse di cui dispone e se la relazione di reciprocità

159
con il care-giver è regolata positivamente sul piano affettivo e cognitivo. Se
invece il bambino è protetto eccessivamente o se è abbandonato a stressor che
non può fronteggiare, non impara a regolare le sue risposte comportamentali di
adattamento e non riesce a controllare le emozioni negative che prova. Una buona
relazione di attaccamento consente quindi un sano confronto con le difficoltà della
vita, con una taratura adeguata della risposta ad uno stressor, dato che il bambino
è esposto ad esso in maniera compatibile con le risorse che ha maturato.
La qualità della risposta di stress è ovviamente specifica per ogni OP (ad es.,
reazione al timore del pericolo in quella Controllante, della solitudine in quella
Distaccata, del giudizio in quella Contestualizzata, di non fare il proprio dovere
in quella Normativa).
Quando nei momenti di crisi (già intesa da Ippocrate come un rapido e brusco
cambiamento di una condizione clinica) la soglia individuale di stabilità non viene
superata, la perturbazione può essere assimilata nel senso di sé senza grandi
problemi e sofferenze. Il riordinamento del proprio atteggiamento nei confronti
del mondo esterno avviene senza modificazioni significative nella percezione
della propria identità. Si tratta, in questi casi, di cambiamenti superficiali.
Viceversa, oscillazioni di intensità e qualità che superano la soglia di stabilità per
la discrepanza che rivestono rispetto all’immagine di sé innescano sempre
cambiamenti profondi, con modificazioni del senso di identità personale. In
questi casi la crisi comporta una esperienza soggettiva di discontinuità (non
sentirsi più se stessi, “quelli di prima”).
Questo cambiamento può essere avvertito come qualcosa di molto significativo o
meno, a seconda dell’evoluzione della propria OP. Quando si è andati incontro ad
una esperienza critica, la possibilità di spiegare ciò che è successo parlandone con
altri – “condivisione sociale” o “social sharing” – consente di ridurre lo stress e di
attenuare la ruminazione interna legata all’emergere di emozioni perturbanti. In
ogni caso, quando si verifica una rottura dell’equilibrio interno, si produce una
situazione di instabilità, la cui gravità e durata ed i cui esiti sono, in qualche
misura, imprevedibili.
Del resto, ogni trasformazione non è mai del tutto senza problemi o indolore. Si
determina un processo di attivazione emotiva più o meno intensa (proporzionale
alla discrepanza rispetto allo stato dei coloriti soggettivi antecedenti), per cui il
soggetto deve riuscire a codificare e a ristrutturare l’esperienza che coglie proprio
attraverso il cambiamento emotivo che sta sperimentando. Se da questo processo
deriva un’evoluzione in senso progressivo vuol dire che è stato in grado di
integrare l’esperienza nel senso di sé, ampliando i confini del proprio sistema ed
aumentando le competenze interne; in questo modo, potrà assimilare esperienze
simili senza grossi problemi. Se, viceversa, ne deriva una fase di instabilità e di
insicurezza, con compromissione delle sue capacità personali, operative e
relazionali, vuol dire che il soggetto non è riuscito ad integrare la nuova

160
esperienza, risultata eccessivamente perturbante sul piano emotivo rispetto alla
capacità di mantenere l’equilibrio interno della sua OP. Pertanto, la
trasformazione in atto non può approdare ad un livello di complessità superiore e
il soggetto rimane ad un livello di assimilazione dell’esperienza che equivale allo
stadio antecedente la crisi. Proprio partendo dal valore fisiologico e adattivo della
crisi se ne possono focalizzare meglio gli aspetti patologici e disadattivi, che
rendono un caso clinico difficile nell’inquadramento diagnostico e problematico
nell’approccio terapeutico.
L’approccio post-razionalista pone l’accento sul significato soggettivo e interno
dei sintomi, consentendo di cogliere che aspetti apparentemente simili,
classificabili in modo sovrapponibile secondo il metodo descrittivo, possono avere
valenze profondamente diverse da soggetto a soggetto, sulla base di come ciascun
individuo ha imparato a sperimentare e a riferirsi le esperienze vissute. Uno stato
d’ansia, una depressione del tono dell’umore o un delirio, così come qualsiasi
altro sintomo, sono apparentemente manifestazioni omogenee e condivise da tutti
i soggetti che ne sono affetti, mentre contengono anzitutto informazioni
importanti sullo specifico modo di funzionare del singolo individuo.
Il sintomo rappresenta comunque l’espressione di un tentativo di adattamento, il
migliore tra quelli disponibili, se non l’unico che il soggetto trova utilizzabile (a
livello tacito), anche se è disfunzionale, essendo caratterizzato da modalità più o
meno rigide e causa di problemi. In un’ottica esplicativa, quindi, i sintomi
costituiscono una chiave di accesso per comprendere le modalità soggettive con le
quali il soggetto riferisce a sé l’esperienza e la utilizza nella costruzione del
proprio significato personale. Il fine di un intervento terapeutico non è pertanto
semplicemente quello di contrastare e sopprimere i sintomi, quanto piuttosto
quello di partire da essi per individuare risorse personali e possibili percorsi
alternativi, migliori sotto il profilo adattivo, che consentano comunque al soggetto
di riconoscersi e di mantenere una sua coerenza interna.
Ovviamente, ogni individuo ha alcune specifiche vulnerabilità (sia costituzionali
che legate all’esperienza appresa), cioè degli aspetti critici nei processi di
assimilazione, di ordinamento dell’esperienza e di mantenimento della coerenza
interna. La possibilità di mettere in luce le specifiche modalità soggettive di
riferire a sé le esperienze perturbanti e di manifestare un disagio, conseguenti alla
rottura dell’equilibrio preesistente, consente di utilizzare le strategie di intervento
che appaiono più adeguate a migliorare le risorse individuali e di intraprendere
percorsi più adattivi, sul piano della gestione delle emozioni negative,
dell’incremento delle capacità astratte e dell’integrazione del sé. Occorre non
dimenticare che il soggetto ha comunque bisogno di continuare a percepirsi
stabilmente, nonostante le esperienze sperimentate che lo fanno soffrire.
Viviamo e condividiamo un mondo oggettivo senza renderci conto che lo
vediamo da un punto di vista irriducibilmente soggettivo. Dalla capacità di

161
ciascuno di articolare il senso di sé in livelli crescenti di complessità deriva il fatto
che le crisi fisiologiche incontrate nel corso del ciclo di vita abbiano sviluppi
costruttivi e progettualmente percorribili sul piano adattivo o, viceversa, attivino
instabilità dalle quali non si vedono vie di uscita ma solo nocivi, intrusivi e
disadattavi stati di disagio.
Come hanno osservato Maturana e Varela (1980, 1987), la capacità dei sistemi
conoscitivi complessi come quelli umani di uscire dalla crisi si gioca sulla
possibilità di scegliere percorsi “viabili”, quindi maggiormente adattivi.
Nell’interazione con una realtà multiforme e continuamente mutevole, la ricerca
di cambiamenti praticabili – percorribili per il soggetto, progettuali rispetto al suo
mondo interno, adatti alle sue caratteristiche individuali – è molto più importante
della loro generica “validità” oggettiva e di quanto siano condivisi dagli altri.
Il percorso adattivo di ogni individuo parte dalle potenzialità di cui dispone. Un
approccio adattivo alla personalità è quindi fondamentale, non solo in condizioni
fisiologiche, ma soprattutto in quelle patologiche, consentendo di far leva sulle
risorse individuali, residue o latenti che siano (Nardi, 2016).
Ciò che rende “difficile” una crisi è quindi il livello di intensità della
perturbazione della coerenza interna e dell’immagine di sé e del mondo rispetto
alle capacità di gestione di cui il soggetto dispone al momento.

NORMALITÀ, NEVROSI E PSICOSI


Ogni rottura dell’equilibrio interno produce nella psiche una situazione di
instabilità, i cui esiti e la cui gravità e durata sono, in qualche misura,
imprevedibili, nel continuum esistente tra normalità e patologia. La normalità o la
patologia di una crisi si collocano all’interno di questo continuum spesso senza
evidenti discontinuità tra una condizione e l’altra; vanno pertanto considerate
come differenti dimensioni nel livello di elaborazione e di integrazione
dell’esperienza.
Il cambiamento funge da stressor (positivo o negativo) che va a modificare
l’equilibrio omeostatico rappresentato dalla coerenza interna, funzionale alla
costruzione dell’identità.
Il soggetto, quando non riesce a gestire uno stressor (che supera quindi le sue
capacità di “resilienza”, cioè di adattarsi vantaggiosamente alla nuova situazione),
può prendere percorsi patologici, con un disagio che viene espresso attraverso i
sintomi tipici dei diversi disturbi mentali. In questi casi, il disagio si manifesta
attraverso vari quadri clinici, che possono comprendere sintomi affettivi, sintomi
cognitivi, sintomi somatici (della sfera neurovegetativa, muscolo-scheletrica,
endocrino-metabolica, gastroenterica, ecc.) e possono comportare modificazioni
comportamentali, con una disregolazione, una instabilità, fino ad una vera e
propria devianza. Le modificazioni comportamentali possono avvenire sia nel
senso di una attivazione, quindi con iperattività, sia nel senso di una inibizione,

162
quindi con blocco del comportamento di esplorazione e dell’iniziativa motoria.
Ma, a fronte di queste manifestazioni sintomatologiche, la psicopatologia fornisce
una chiave di lettura della OP e permette di esplorare i bisogni individuali e le
modalità soggettive di dare un senso alla propria esperienza.
I disturbi psicopatologici si caratterizzano per una compromissione
quantitativamente crescente di vari parametri: a) la capacità di flessibilità, che
permette di orientare in modo adattivo il comportamento rispetto alla situazione
ed al contesto in cui ci si trova; b) la capacità di generatività, che consente di
attivare nuovi comportamenti e strategie utili sul piano progettuale; c) la capacità
di astrazione, che permette un distacco adeguato dalle situazioni contingenti,
guardando oltre l’esperienza vissuta; d) la capacità di sequenzializzazione, che
consente di riordinare in una sequenza ordinata le esperienze vissute e di
integrarle nel senso di sé in modo coerente e continuo nel tempo; e) la capacità di
coordinamento intra e interpersonale, tra bisogno di demarcazione e di
appartenenza, che fa mettere a fuoco lo spazio intrapersonale e interpersonale e
permette di coordinarsi in modo equilibrato con gli altri; f) la capacità di
autointegrazione, che colloca le varie esperienze all’interno di una concezione di
sé e del mondo unitaria, coerente e definita.
Il passaggio da condizioni di normalità a condizioni di patologia avviene, come si
è detto, lungo un sostanziale continuum e può essere, anche se non sempre e
completamente, reversibile.
La stessa dinamica avviene tra le manifestazioni patologiche definite come
nevrotiche o psicotiche.
Nelle “nevrosi”, le cui espressioni più comuni sono i disturbi d’ansia, la
compromissione psichica non altera mai del tutto il contatto con la realtà, per cui
il soggetto è consapevole dei sintomi che provocano sofferenza (“egodistonia”).
In alcuni casi, specie nel corso dell’adolescenza e della prima età adulta, esiste la
possibilità che un soggetto, partendo da un disturbo “nevrotico”, passi ad uno
“psicotico”, perdendo il contatto con la realtà, la consapevolezza di malattia e la
capacità di mettere in discussione ciò che percepisce.
Nelle “psicosi”, gravi e invalidanti, il contatto con la realtà non è più univoco ma
frammentato e incoerente, non c’è consapevolezza dei sintomi né capacità di
valutarli e criticarli, per la presenza di gravi alterazioni del pensiero, delle senso-
percezioni, dell’affettività, della psicomotricità e delle interazioni sociali. In
generale, uno scompenso psicotico (di cui la schizofrenia e il disturbo bipolare
rappresentano due prototipi, ma non le uniche forme) fa percepire gli eventi
significativi contingenti – specie se particolarmente intensi e/o ripetuti nel tempo
– in modo così discrepante da produrre una marcata attivazione emozionale, a
connotazione negativa, che non può essere in alcun modo integrabile in una
rappresentazione unitaria e coerente di sé e del mondo. Pertanto, nel continuum
fra normalità e patologia, nei disturbi psicotici sono maggiormente evidenti

163
rigidità, concretezza del funzionamento psichico e perdita delle capacità
integrative personali.
Riprendendo alcuni spunti di Guidano (2000-2010), Cutolo et al. (2017) hanno
messo in evidenza nelle psicosi soprattutto la compromissione marcata della
capacità di contestualizzazione (intesa come coordinamento intra e
interpersonale) e di sequenzializzazione. Da un lato, c’è uno scollegamento con il
contesto relazionale, con l’ambiente sociale e con i significati condivisi
all’esterno; dall’altro, c’è una disconnessione anche con il proprio mondo interno,
con la propria esperienza (che non viene riordinata adeguatamente) e i con i propri
significati, per cui i livelli di autoinganno sono molto alti.
Nella genesi delle psicosi – che non a caso coincide con quei momenti critici del
neurosviluppo (infanzia, adolescenza) in cui il cervello va maggiormente incontro
ad un rimodellamenti della rete neurale – concorrono fragilità costituzionali e
fattori socio-relazionali, tali da rompere un equilibrio psichico non in grado di
gestirli.

DISTURBI MENTALI E DISTURBI DI PERSONALITÀ


La maggioranza degli individui durante la propria vita non va incontro a
scompensi psicopatologici. È quindi in grado di affrontare e superare le situazioni
negative ed il conseguente disagio attingendo alle risorse adattive di cui dispone.
La difficoltà tacita di riferirsi l’esperienza in modo adattivo può emergere in un
certo momento della vita, quando le risorse per mantenere la coerenza interna non
riescono a controbilanciare le perturbazioni interne o esterne, portando alla
comparsa di un’ampia gamma di espressioni di disagio, lungo il continuum che va
dalla “normalità” alle “nevrosi” e alle “psicosi”.
Come si è accennato, gli approcci descrittivi tradizionali alla psicopatologia
considerano i vari disturbi all’interno di categorie distinte le une dalle altre,
ciascuna delle quali viene individuata dalla presenza di un determinato numero di
sintomi, la cui presenza persiste per un certo arco temporale e la cui frequenza si
ripete (o meno) per un determinato numero di volte.
Inoltre, in questa ottica descrittiva, si tendono a distinguere i “disturbi mentali”
propriamente detti dai “disturbi di personalità”, sebbene, a volte, i primi possano
svilupparsi proprio a partire da una sottostante personalità disturbata.
I vari “disturbi mentali” (d’ansia, somatoformi, dell’umore, della condotta,
schizofrenici, ecc.), insorgono in un dato momento della vita del soggetto (talvolta
nell’infanzia, molto frequentemente tra adolescenza e prima età adulta, altre volte
in età matura) ed hanno un decorso che può recedere oppure può cronicizzarsi.
I “disturbi di personalità” sono invece l’espressione diretta di fragilità e rigidità
di quegli elementi – o “tratti” – che costituiscono la personalità di un individuo e
che caratterizzano quindi il suo modo di essere e di comportarsi abitualmente,
accompagnandolo, tra alti e bassi, tutta la vita.

164
Negli approcci tradizionali, la personalità, sia nei suoi tratti fisiologici che in
quelli psicopatologici, è studiata in genere come struttura. Essa infatti è descritta
come l’insieme delle caratteristiche, sostanzialmente stabili (definite, appunto,
“tratti di personalità” o “domìni di personalità”), che permettono a ciascun
individuo di riconoscersi e di dare stabilità alla propria identità: quindi, ai suoi
modi di pensare, di sentire e di agire sul versante comportamentale (Marchesi et
al., 1986; Nardi, 2001). Come la maschera del teatro classico, da cui deriva il
nome, la personalità fa cogliere le caratteristiche di chi la “indossa”: attraverso
essa risuona la voce degli stati interni (dal latino “per” + “sonare”) e se ne coglie
l’aspetto (dal greco “πρóσωπον”, “prosopon” = aspetto che sta davanti alla vista:
da “πρός”, “pros” = davanti + “ὀπτός”, “optos” = visibile). Pertanto comunemente
in essa vengono considerati sia gli aspetti più direttamente connessi con la
costituzione genetica (definiti “temperamentali”), sia quelli appresi
(“caratteriali”). Tutti questi aspetti sono inclusi all’interno di macro aree, che
individuano le funzioni istintive, la volontà, gli affetti (emozioni, sentimenti,
umore), le funzioni cognitive (di base e superiori).
Nell’approccio tradizionale i disturbi della personalità vengono inclusi in
categorie diagnostiche e distinti in tre gruppi o cluster:
1) cluster A (tipo eccentrico-strano), che comprende: il disturbo di personalità
paranoide (soggetti diffidenti, sospettosi, rancorosi, con tendenza a sentirsi
perseguitati o traditi); il disturbo di personalità schizoide (soggetti solitari, freddi,
indifferenti nei confronti degli altri); il disturbo di personalità schizotipico
(soggetti tendenti ad isolarsi, eccentrici, con convinzioni strane, idee di
riferimento e affettività inappropriata).
2) cluster B (tipo drammatico-imprevedibile) che comprende: il disturbo di
personalità antisociale (soggetti che non rispettano le regole sociali, violano i
diritti degli altri senza rimorso, impulsivi, irritabili, aggressivi, irresponsabili); il
disturbo di personalità borderline (soggetti instabili nell’umore, nel senso di sé e
nei rapporti con gli altri, impulsivi); il disturbo di personalità istrionico (soggetti
iperemotivi, teatrali, sopra le righe, con eccessiva ricerca di attenzione); il
disturbo di personalità narcisistico (soggetti con senso grandioso di sé,
iperbisognosi di sentirsi ammirati, non empatici).
3) cluster C (tipo ansioso-pauroso) che comprende: il disturbo di personalità
evitante (soggetti inibiti socialmente, ipersensibili ai giudizi negativi, con marcato
senso di inadeguatezza); il disturbo di personalità dipendente (soggetti
iperbisognosi di essere accuditi, consigliati, guidati, incapaci di scegliere e
prendere decisioni autonome, timorosi della separazione, sottomessi); il disturbo
di personalità ossessivo-compulsivo (soggetti eccessivamente preoccupati per
ordine, pulizia, perfezione e controllo, iperattenti ai dettagli e alle regole, poco
flessibili e aperti nei confronti degli altri).

165
In un’ottica processuale, il concetto di disturbi di personalità si svuota di valore,
se non nel senso di indicare modalità attitudinali e comportamentali rigide e
persistenti di esprimere il significato personale di una OP, che si sviluppano in
modo disadattivo procedendo nel continuum tra normalità e patologia. D’altra
parte, nella pratica clinica, la distinzione tra patologie “di stato” (aventi una
insorgenza acuta, subacuta o insidiosa, un decorso più o meno protratto,
ingravescente o remittente, con eventuali riacerbazioni) e patologie “di tratto”
(con accentuazione di alcuni aspetti che caratterizzano la personalità,
sostanzialmente persistenti) non sempre appare netta, non risponde ad aspetti
patogenetici sufficientemente differenziati e può essere ricondotta a variazioni dei
parametri di intensità e durata dei sintomi.
Per quanto concerne i disturbi mentali – che hanno un inizio ed un decorso di tipo
acuto, subacuto o cronico – essi possono comparire in un soggetto che, almeno
apparentemente, stava bene o possono insorgere come uno sviluppo di un
sottostante disturbo di personalità.
I disturbi d’ansia comprendono vari quadri clinici nei quali l’ansia, nelle sue
varie espressioni, rappresenta l’elemento centrale. Come avviene per il tono
muscolare (che consente di effettuare movimenti rapidi ma, quando è in eccesso,
ostacola e altera la motricità), l’ansia prepara ad affrontare una situazione di
stress; tuttavia, quando è troppa, si associa ad un aumento di tensione muscolare
(fino a produrre un congelamento – “freezing” – comportamentale), può
determinare una sofferenza corporea (dall’angoscia ad un vero e proprio disturbo
somatico), rende difficile l’addormentamento per la preoccupazione di ciò che
avverrà il giorno successivo (insonnia iniziale), disturba il riposo notturno e lo
interrompe con incubi (insonnia lacunare) o produce risveglio precoce (insonnia
terminale) per la paura di non riuscire ad affrontare la giornata. Quando l’ansia
patologica è legata a specifiche situazioni o contesti e si protrae nel tempo, il
timore di confrontarsi nuovamente con essi produce un’ansia anticipatoria, che
spinge spesso ad attivare condotte di evitamento. In questi casi nel suo film
interno il soggetto compie una sorta di viaggio mentale fino alla situazione che lo
spaventa, fatto che lo porta ad evitare ciò che pensava di fare (Wu et al., 2017).
Nel disturbo d’ansia generalizzata la caratteristica principale è un’ansia diffusa e
persistente (per mesi) durante tutto il corso della giornata; essa appare
“liberamente fluttuante”, cioè non insorge esclusivamente o prevalentemente in
relazione ad una specifica circostanza ambientale. I sintomi sono molto variabili,
ma sono comuni la continua sensazione di nervosismo, il tremore, la tensione
muscolare, la sudorazione, la sensazione di testa vuota, le palpitazioni, i capogiri
ed il malessere epigastrico. I disturbi fobici (dal greco “φόβος”, “phòbos” =
“paura”) si manifestano con una paura persistente e immotivata di specifici
aspetti: ambiente naturale, come altezze (acrofobie), fulmini (keraunofobie),
acqua (idrofobie); pericoli per la salute, come sporco (rupofobie), contaminazioni

166
(afefobie o aptofobie: paure di essere toccati), soffocamento, iniezioni, sangue
(emofobie) o ferite, medici e procedure sanitarie, specie se invasive (iatrofobie);
animali (zoofobie) come insetti, ragni (aracnofobie), serpenti (ofidiofobie), topi
(musofobie), cani; situazioni, come volare in aereo, prendere un ascensore, passare
su ponti o in gallerie, trovarsi in luoghi chiusi (claustrofobie). L’agorafobia (dal
greco “ἀγορά”, “agorà” = “piazza”: paura della piazza, cioè degli spazi aperti)
consiste nel timore provato dall’individuo di allontanarsi da casa, trovarsi in
luoghi pubblici o affollati, viaggiare da solo/a in treni, autobus e aerei. Una fobia
ancorata alla relazione con il proprio corpo ma, indirettamente, anche con il
mondo esterno e con le sue valutazioni è la dismorfofobia, caratterizzata dal
timore di essere brutti/e e di avere un aspetto corporeo deforme, che si pensa tutti
possano notare e stigmatizzare. Ancora maggiormente sul versante relazionale si
pongono le fobie sociali, caratterizzate dalla paura del giudizio di altre persone,
anche quando ci si trova in gruppi relativamente ristretti. Le fobie sociali possono
essere singole (ad es., limitate al mangiare in presenza di altri, al parlare in
pubblico o agli incontri con il sesso complementare) o diffuse, coinvolgendo
pressoché tutte le situazioni interpersonali al di fuori dell’ambito familiare. La
paura di arrossire in pubblico (ereutofobia) è una tipica fobia sociale, ed è in
genere associata ad una bassa stima di sé e al timore di essere criticati/e.
L’evitamento delle situazioni potenzialmente pericolose è spesso marcato e, nei
casi estremi, può condurre ad un isolamento sociale quasi completo. Nella genesi
delle fobie un ruolo fondamentale è dato dall’atteggiamento sintonico e regolativo
del genitore centrato sulla paura, per cui il bambino si costruisce un film
drammatico di pericolo ogni volta che si ripete una data situazione (Lambruschi e
Lionetti, 2016). Nel disturbo da attacchi di panico compaiono crisi di grave ansia
acuta (panico) in circostanze in cui non vi è obiettivo pericolo. L’attacco è
caratterizzato dall’improvvisa insorgenza di un senso di intenso timore ed è
accompagnato dalla sensazione di perdita totale di controllo, di stare impazzendo
o morendo, con numerosi sintomi somatici quali difficoltà a respirare (senso di
soffocamento, fame d’aria), tachicardia, dolore retrosternale, sudorazione, tremori,
paura di svenire, disturbi gastro-intestinali, alterazioni della percezione della realtà
(derealizzazione e depersonalizzazione). I singoli attacchi durano in genere solo
alcuni minuti. Il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato da pensieri
ossessivi e/o comportamenti compulsivi ricorrenti. I pensieri ossessivi (ossessioni)
sono idee, immagini o impulsi, ricorrenti e persistenti, che entrano ripetutamente
nella mente del soggetto in modo stereotipato e intrusivo. Le ossessioni (dal latino
“obsessio” = “occupazione”, da “obsidere” = “assediare”) comprendono temi di
contaminazione (relativi a sporcizia, germi, rifiuti, inquinamento, ecc.), di
aggressione e pericolo (paura di nuocere a sé e agli altri, di commettere errori, di
non controllare la propria aggressività e di essere violenti, ecc.), di indegnità
morale (timore di essere scurrili, volgari, osceni, di deludere o fare brutta figura,

167
di non potersi salvare), e, più in generale, di imperfezione e di colpa (di non
riuscire a fuggire il male e il peccato, ecc.). Come ha messo in evidenza Mannino
(2017), mentre nel caso di un dubbio “fisiologico” esso consegue a qualcosa di
univoco e reale che è successo (ma si nutre un’incertezza conoscitiva al riguardo,
in quanto non se ne conoscono con sicurezza i dettagli, che vanno quindi
ricostruiti, ricercandone anche le cause), nel dubbio “patologico” ossessivo il
soggetto esplora scenari immaginativi sempre diversi, potenzialmente infiniti, e
anche quelli più improbabili si teme che possano produrre danni. Nella
ricostruzione della colpa, tutti i mondi sono possibili. Inoltre il soggetto tende a
trattare le attivazioni affettive come se fossero informazioni cognitive, in termini
di possibili ricordi o previsioni. La conservazione della capacità di critica rispetto
alle idee che “assediano” la mente produce sofferenza (“egodistonia”); il soggetto
le riconosce, infatti, come un prodotto della propria mente e non come qualcosa di
reale o imposto dall’esterno (cosa che avviene nel delirio). Spesso è possibile
ricostruire come queste idee rappresentino l’elaborazione di attivazioni
emozionali che, essendo percepite come destabilizzanti, vengono trasformate in
immagini e pensieri che accedono al campo di coscienza ove possono essere
gestite parzialmente, scacciandole per breve tempo dalla mente o annullandole
“magicamente” attraverso un gesto (“compulsione”). I comportamenti compulsivi
(dal latino “compulsare” = spingere con violenza, costringere) sono azioni
ripetitive, stereotipate (rituali), in genere di controllo o di purificazione (in lingua
anglo-sassone questi soggetti sono definiti “checkers” e “washers” = che
controllano e lavano). I rituali risultano invariabilmente penosi e il soggetto tenta
senza successo di resistervi, finendo invece per ripeterli ostinatamente, fino a
compierli “bene”. Egli si sente, infatti, obbligato a metterli in atto
(“comportamento anancastico”), in risposta ad una ossessione, al fine di ridurre il
disagio legato all’ansia, per evitare eventi e situazioni le cui conseguenze sono
temute per sé o per gli altri. Le compulsioni possono comprendere sia
comportamenti veri e propri (ad es., lavarsi le mani, riordinare, controllare oggetti
o situazioni), sia azioni mentali (ad es., contare, ripetere mentalmente parole o
numeri, recitare preghiere, formule o scongiuri). Il disturbo, raro nella
popolazione generale, è ugualmente comune tra gli uomini e le donne; il decorso è
variabile, ma frequentemente tende ad essere cronico e fluttuante.
I disturbi somatoformi (o psicosomatici) si caratterizzano per una lunga serie di
lamentele fisiche e preoccupazioni somatiche (dal greco “σωμα”, “soma” = corpo)
– dolori di vario genere e diversa localizzazione, sintomi gastrointestinali,
disfunzioni sessuali, disturbi pseudoneurologici, ecc. – non riconducibili ad una
condizione medica generale o ad un altro disturbo psichico. Nella storia clinica di
questi disturbi il genitore appare iporegolato emotivamente di fronte ad una paura
del bambino, comunicando in modo non verbale che non è successo nulla;
pertanto il bambino non impara a riconoscere la sua attivazione (che altrimenti

168
minaccerebbe la relazione con il genitore) e la accantona come area emozionale
critica non riconosciuta, esprimendola attraverso una somatizzazione. Qualcosa di
simile avviene nel lutto non risolto, quando le emozioni di dolore e di tristezza,
correlate al lutto, che non possono essere condivise con il genitore superstite,
attivano un disagio somatico (Lambruschi e Lionetti, 2016). L’ipocondria (dal
greco “υπό”, “ipo” = sotto e “χονδρίον”, “khòndrion” = cartilagine del diaframma,
regione sottocostale che si riteneva sede della melancolia) indica un disturbo
caratterizzato da una persistente preoccupazione per la propria salute fisica e dal
timore di avere una malattia, nonostante le rassicurazioni ricevute dai sanitari e la
normalità degli esami clinici, laboratoristici e strumentali effettuati. La
caratteristica essenziale di questo disturbo è infatti una polarizzazione del soggetto
sulla possibilità di avere una o più malattie gravi o progressive, che si manifesta
con persistenti lamentele circa presunti disturbi somatici. I disturbi raramente si
presentano per la prima volta dopo i 50 anni di età ed il decorso sia dei sintomi
che della disabilità è di solito cronico e fluttuante. Molti di questi soggetti si fanno
seguire nell’ambito della medicina di base o di altre specialità mediche non
psichiatriche. Il ricorso allo psichiatra, quando proposto, viene spesso ritenuto
inopportuno o offensivo. Nel disturbo algico (dal greco “ἄλγος”, “algos” =
dolore) il dolore non è riconducibile a patologie generali o neurologiche né è
prodotto intenzionalmente o simulato e costituisce il principale elemento del
quadro clinico; esso si manifesta come persistente, intenso e penoso; pertanto,
causa malessere significativo e compromette il funzionamento personale, sociale e
lavorativo. Nel disturbo da conversione, un tempo definito isteria da conversione
(dal greco “ὑστέρα”, “hystèra” = utero), si verifica una perdita o una alterazione
dell’attività motoria e/o della sensibilità che molto spesso simula una malattia
neurologica (ad es., una paralisi di un arto, una cecità, una afonia, una zona di
grave ipoestesia, ecc.) in assenza di un danno neurologico. I sintomi somatici
possono essere svariati (deficit visivi, paralisi, mutismi, ecc.), sia a carico di
funzioni sensitivo-sensoriali che motorie, non prodotti intenzionalmente ma in
ogni caso connessi con fattori psicologici e non con patologie a carico del SNC o
periferico. Molto spesso sono secondari ad un grave evento stressante, che il
soggetto tende a minimizzare o negare.
I disturbi dell’umore sono solitamente distinti in forme monopolari (caratterizzate
esclusivamente dalla presenza nella storia clinica di episodi depressivi) e forme
bipolari (un tempo note come psicosi maniaco-depressive, per la presenza di
episodi sia depressivi sia ipomaniacali o maniacali). Le forme monopolari si
manifestano come episodi depressivi più o meno gravi, unici o ricorrenti (specie
d’autunno nelle forme ad andamento stagionale) o come depressione persistente
o distimia (dal greco “δυσ”, “dis”, prefisso di separazione, dispersione, inversione
e “θυμός”, “thymòs” = principio vitale, sentimento). Praticamente inesistenti sono
i disturbi monopolari caratterizzati esclusivamente da episodi di innalzamento

169
patologico dell’umore. Il disturbo bipolare tipo I è caratterizzato da un
andamento nel tempo di episodi con tono dell’umore orientato in senso
prevalentemente maniacale; il tipo II è caratterizzato da un andamento nel tempo
di episodi con tono dell’umore orientato in senso prevalentemente ipomaniacale.
La ciclotimia rappresenta una forma attenuata e meno grave di disturbo bipolare,
con ciclicità solitamente più rapida. Anche quando un disturbo bipolare esordisce
con un episodio ipomaniacale o maniacale è possibile rintracciare un episodio
subclinico – trascurato, sottovalutato o persino ignorato – di tipo depressivo. Gli
innalzamenti patologici dell’umore rappresentano dei tentativi, fallimentari, di
uscire da un senso di sé percepito attraverso tonalità emotive di fondo negative,
utilizzate come base per articolare le trame narrative relative alla propria identità
(nelle massime espressioni, da un senso di grande fallimento ad uno di grandiosa
onnipotenza). In relazione a ciò che il soggetto si aspetta da sé (“sé ideale”), ciò
che è “normale” appare spesso “banale” (noioso a livello di spiegazione
dell’esperienza, corrispondente ad un senso di “sé reale” che non si accetta). Il
disturbo esprime il bisogno tacito di costruire una propria “diversità” che
compatta la coerenza interna, proiettandola come un “destino” che finisce per
inglobare l’intera esistenza (“essere bipolari”). Le fluttuazioni del tono
dell’umore che caratterizzano il disturbo bipolare esprimono l’oscillazione tra
periodi (“fasi”) in cui il soggetto tenta di reagire al senso di pessimismo e di
fallimento che lo pervade attraverso un affaccendamento ed una iperattività di
pensiero e comportamento, tanto inconcludente e inutile quanto apparentemente
pirotecnico e onnipotente, e altri momenti in cui il senso di sé cede alla
rassegnazione ed alla disperazione. Talvolta uno stato depressivo può coesistere e
sovrapporsi nello stesso soggetto con uno stato maniacale, per cui i sintomi
depressivi e quelli eccitatori coesistono e si mescolano insieme (“stato misto”).
Ciò che rende paradigmatica la psicosi maniaco-depressiva è proprio l’aspetto
mutevole nel tempo delle espressioni psicopatologiche, che attraversano spesso
anche lunghi periodi “eutimici” di benessere, particolarmente utili sia per
consolidare un intervento iniziato durante lo scompenso, sia per avviare un
percorso strutturato.
I disturbi della condotta alimentare (DCA), un tempo noti anche come disturbi
alimentari psicogeni (DAP), non sono secondari ad alcuna causa organica che
possa produrre significative variazioni dell’assunzione di alimenti, con
conseguenti modificazioni ponderali, valutate mediante l’Indice di Massa
Corporea, calcolato dal rapporto tra peso in Kg e il quadrato dell’altezza in metri
(BMI: Body Mass Index: <18,5 Kg/m2 sottopeso; > 30 Kg/m2 sovrappeso). I DCA
comprendono: a) l’anoressia; b) la bulimia; c) il disturbo da alimentazione
incontrollata (“binge eating disorder”). L’anoressia (dal greco “ἀνορεξία”, “an”
privativo e “orexia” = appetito) è caratterizzata da una marcata paura di
aumentare di peso e di diventare grassi, anche quando si è notevolmente magri,

170
con rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o anche al minimo normale e
di ammettere di trovarsi in una condizione di sottopeso. La conseguenza è una
riduzione, spesso progressiva e ingravescente, della massa e del peso corporeo
rispetto ai valori propri dell’età, della statura e del sesso. Coesiste una alterazione
evidente dell’ideazione individuale nei confronti del peso e della forma del corpo,
che incide sull’autostima. L’eccessiva magrezza, spesso dissimulata sotto abiti
abbondanti, non riduce l’attività del soggetto che, almeno in fase iniziale, è in
genere iperattivo e non lascia trasparire preoccupazioni per il proprio
deperimento. Anzi, anche le attività quotidiane più semplici possono divenire
occasione per consumare calorie e spesso vengono ricercate le modalità più
intense per compierle. Nelle ragazze che avevano avuto il menarca è frequente la
comparsa di amenorrea secondaria, come risposta adattiva dell’organismo allo
stress sia psichico che fisico (quest’ultimo legato al dimagrimento e alla
iperattività): si riduce il livello ipotalamico di GnRH (fattore di rilascio
nell’ipofisi anteriore delle gonadotropine follicolostimolante FSH e luteinizzante
LH). Ne consegue che, mancando la stimolazione di FSH e LH sull’ovaio, non
viene indotta l’ovulazione e, quindi, scompare la mestruazione. La paura di
ingrassare persiste anche con il progredire del dimagrimento ed esprime, prima
che un disturbo della condotta alimentare, una profonda alterazione dell’identità
personale, manifestata sia nel rapporto con il proprio corpo e con la propria
sessualità, sia nelle relazioni con le figure significative. La bulimia (dal greco
“βοῦς”, “bus” = bue e “λιμός”, “limòs” = fame) è una condotta alimentare
episodica, caratterizzata dalla tendenza ricorrente ad ingerire oltre misura
qualsiasi cibo sotto forma di abbuffate, di solito in maniera improvvisa,
imprevedibile, indiscriminata e irrefrenabile. Durante questi eccessi alimentari il
soggetto ha la sensazione di perdere il controllo sulla condotta alimentare, con
conseguente incapacità di riuscire a smettere di mangiare o di controllare cosa e
quanto stia mangiando. Le abbuffate sono frequenti (almeno due alla settimana in
un arco di tre mesi) e si verificano anche al di fuori dell’anoressia nervosa. Esse
costituiscono un comportamento impulsivo simile ad un automatismo, come se
non si riuscisse a vincere il bisogno di ingurgitare cibo. Il soggetto si abbuffa in
genere quando è solo, lontano dai pasti abituali – durante i quali mangia spesso
pochissimo o solo cose rigorosamente “pesate” in termini di calorie – non
riuscendo a trovare soddisfazione e ad essere gratificato da altre forme di
riconoscimento esterno. Nella bulimia con condotte di eliminazione il soggetto
previene l’incremento ponderale con vomito autoindotto o uso eccessivo di
lassativi, diuretici ed enteroclismi; nella bulimia senza condotte di eliminazione
l’incremento ponderale, che conseguirebbe alle abbuffate, viene prevenuto
attraverso periodi di digiuno e mediante una aumentata attività fisica. La bulimia è
di gran lunga più frequente nel sesso femminile. Le crisi bulimiche, scatenate da
situazioni stressanti, sono caratterizzate da ansia, tristezza, rabbia, senso di

171
frustrazione; sotto il profilo biologico comportano l’attivazione dei sistemi
dopaminergici, che inducono i comportamenti alimentari e masticatori ed
endorfinergici, che stimolano l’ingestione di cibo, a spese di quelli
serotoninergici, che stimolano il senso di sazietà. Il disturbo da alimentazione
incontrollata è caratterizzato da abbuffate (“binge eating”) non seguite da
condotte compensatorie per tentare di smaltire l’eccessiva ingestione di cibo
(come avviene nella bulimia). Il soggetto, anche senza avvertire la sensazione di
fame, perde il controllo sull’atto del mangiare, per cui assume in maniera
compulsiva e rapida (generalmente nell’arco di una o due ore) smodate quantità di
cibo, non riuscendo a smettere di mangiare. Proprio per questo, va incontro ad un
incremento ponderale, talvolta marcato (obesità). Queste smodate assunzioni di
alimenti vengono effettuate per lo più quando l’individuo è solo e si protraggono,
in media, per un periodo non inferiore a sei mesi, almeno due giorni la settimana.
Di solito all’abbuffata segue un senso di sofferenza, di disagio, di vergogna e/o di
colpa; il disgusto o la rabbia verso se stessi si associano ad una depressione
dell’umore più o meno evidente.
I disturbi psicosessuali comprendono: a) disfunzioni sessuali, costituite da
disturbi del desiderio, dell’orgasmo, e da dolore sessuale; b) parafilie (dal greco
“παρά”, “parà” = presso e “φιλία”, “philìa” = amore), presenti quasi
esclusivamente nel sesso maschile, caratterizzate dal provare piacere per impulsi,
oggetti, situazioni, fantasie e pratiche sessuali insolite, come l’esibizionismo
(quando si esibiscono le parti intime a un estraneo), il travestitismo (quando si
indossano indumenti dell’altro sesso), il feticismo (quando l’interesse è rivolto a
una parte del corpo o a un oggetto), il frotteurismo (dal francese “frotter” =
strofinare, quando si cerca un contatto fisico con una persona non consenziente), il
voyeurismo (dal francese “voyer” = guardone, quando si spia di nascosto), il
sadismo e il masochismo (dagli scrittori François de Sade e Leopold von Sacher-
Masoch, quando l’eccitamento deriva, rispettivamente, dall’infliggere dolore e
umiliazioni o dal subirli), la pedofilia (quando l’erotismo è rivolto su minori); c)
disturbi dell’identità di genere, nei quali è presente un disagio nei confronti del
proprio sesso e del ruolo legato ad esso.
Nei disturbi correlati a sostanze psicoattive, queste vengono assunte a scopo
voluttuario e non terapeutico ed hanno la capacità di interferire con il
funzionamento del SNC, producendo alterazioni nella percezione della realtà
interna ed esterna, modificazioni dello stato di coscienza (effetto stupefacente) e,
quindi, interferendo pesantemente e più o meno a lungo sulle capacità psico-
fisiche del soggetto e sul suo funzionamento personale, relazionale ed
occupazionale. I disturbi da uso di sostanze sono la conseguenza di un uso
problematico di una sostanza, che può consistere in un abuso (modalità d’uso
patologica che determina incapacità a svolgere la propria attività, coinvolgimento
in situazioni rischiose e problemi legali) o in una dipendenza (“addiction”,

172
psichica e/o fisica, per cui il soggetto non può fare a meno di assumere una
sostanza). I disturbi indotti da sostanze sono quadri psicopatologici prodotti dagli
effetti di una sostanza sul SNC, come uno stato di intossicazione (da assunzione
eccessiva di una sostanza) o di astinenza (per cui, in conseguenza di una
dipendenza, il soggetto va in crisi con disagio psichico e/o sintomi somatici
specifici se sospende bruscamente l’assunzione di una sostanza). Ne può derivare
la comparsa acuta, subacuta o cronica, di un disturbo psichico indotto dalla
sostanza, con una attivazione o una inibizione dello stato di vigilanza e di
coscienza e con alterazioni delle funzioni psichiche nell’ambito di un disturbo
d’ansia, un disturbo dell’umore, una psicosi, un disturbo sessuale o del sonno, un
delirium, una sindrome amnesica. Le sostanze psicoattive forniscono un modello
di come fattori biologici e ambientali concorrano a produrre uno scompenso
nevrotico (come le sindromi amotivazionali con deficit affettivi, cognitivi e
sociali) ma spesso anche psicotico (“psicosi chimiche”; cfr. Seccafien e Nardi,
2017). Ad esempio il THC (tetraidrocannabinolo), presente nella cannabis, a
livello cerebrale blocca la modulazione inibitoria del GABA ed amplifica quella
attivante del glutammato, con iperattività e disregolazione dopaminergica, specie
nelle vie meso-limbico-corticali (producendo i sintomi psicotici) e nelle aree
prefrontali che sono essenziali nella percezione dell’altro e nella cooperazione
sociale (Elert, 2014).
Tra i disturbi che creano dipendenza, accanto a quelli correlati a sostanze, viene
considerato anche il disturbo da gioco d’azzardo (“gambling”), in quanto attiva
sistemi encefalici di ricompensa come avviene per le sostanze di abuso e produce
sintomi almeno in parte simili a quelli prodotti dall’uso di sostanze. Il gioco
d’azzardo patologico – che viene considerato anche nell’ambito dei disturbi del
controllo degli impulsi – consiste nella incapacità a fare a meno di giocare,
aumentando continuamente la posta, tendendo a rifarsi dopo una perdita,
commettendo illegalità per procurarsi il denaro, manifestando irritabilità qualora il
gioco venga interrotto; il soggetto è eccessivamente assorbito dal gioco, anche
rivivendo le esperienze passate e nel programmare quelle future, incluso il fatto di
pensare a come procurarsi il denaro per poter giocare; tende ad alzare la posta,
giocando somme crescenti per raggiungere l’eccitazione desiderata; i tentativi di
gestire, ridurre o interrompere il gioco d’azzardo falliscono, per il fatto di
produrre una insopportabile irrequietezza ed irritabilità.
I disturbi del controllo degli impulsi conseguono ad una difficoltà volitiva
nell’inibire e nel controllare un determinato comportamento disadattivo, che
diviene pertanto abituale; essi si esprimono a livello clinico attraverso diverse
forme, solitamente abituali e persistenti. Caratteristica comune di tutti questi
disturbi ed elemento di base per la diagnosi rispetto ad altri disturbi è il fatto che il
comportamento impulsivo viene attuato per rispondere ad una tensione crescente
che si accumula nel soggetto e che solo attraverso il compimento di un

173
determinato atto si risolve temporaneamente, dando un senso di sollievo e di
gratificazione. Come ha messo in evidenza Lambruschi, nei disturbi della
condotta il soggetto non mentalizza sugli altri e nemmeno sugli animali, per cui
essi, non corrispondendo nella rappresentazione interna ad emozioni e pensieri (se
non a false spiegazioni), attivano agiti comportamentali aggressivi e distruttivi.
Spesso, l’anticipazione di una propria incapacità o di un fallimento relazionale
innesca il comportamento violento; in questo modo il soggetto evita l’eccessiva
vicinanza affettiva all’altro (situazione in cui si sentirebbe perdente a livello
tacito) ed elude le potenziali attivazioni emotive negative attraverso la rabbia e
l’aggressività. Nel disturbo da opposizione l’atteggiamento genitoriale punitivo,
esplicativo, didascalico produce un rinforzo tacito del sintomo, che può essere
superato solo aiutando il care-giver a entrare gradualmente in modo empatico a
comprendere le fragilità emotive del bambino, senza vederlo più come “cattivo” e
aggressivo nei propri confronti. Nel disturbo da evitamento la paura di
separazione, che non può essere espressa in quanto minaccia la relazione, produce
una attivazione critica disregolata che genera ansia patologica (Lambruschi e
Lionetti, 2016).
Il disturbo esplosivo intermittente è caratterizzato da condotte violente
episodiche, sproporzionate rispetto all’episodio scatenante. Nella cleptomania c’è
una ricorrente incapacità di resistere all’impulso di rubare oggetti di cui non si ha
bisogno né per uso personale né per motivi economici. Nella piromania c’è una
incapacità a resistere all’impulso di appiccare incendi in maniera deliberata e in
diverse occasioni. La tricotillomania è la ricorrente abitudine di strapparsi capelli
e peli in situazioni di tensione, con transitorio sollievo quando lo si fa.
I disturbi fittizi (dal latino “ficticius” derivato da “fingere” = plasmare, inventare)
sono caratterizzati dalla ricerca compulsiva di assumere un ruolo di malato,
nonostante gli svantaggi che possono conseguirne. Questa ricerca non è del tutto
inconsapevole, come avviene nel disturbo da conversione (isteria da conversione);
tuttavia, il fatto che il soggetto si senta costretto a produrre determinati sintomi,
soffrendo, determinando sofferenza in chi lo circonda e proponendo anche al
medico la propria apparente ambivalenza (ricercandolo o allontanandosi da lui,
accettandolo o rifiutandolo, seguendone o ignorandone le prescrizioni
farmacologiche), differenzia il disturbo fittizio dalla simulazione, nella quale i
sintomi sono deliberatamente prodotti solo per trarre un vantaggio fraudolento.
Tra i disturbi fittizi con sintomi fisici si colloca la cosiddetta sindrome di
Münchausen (dal celebre personaggio narrato da Rudolph Erich Raspe nel 1785,
protagonista di vicende fantasiose e scarsamente credibili), nella quale il soggetto
tende periodicamente (o, in certi periodi della propria vita, continuamente) a
produrre una serie di disturbi che vengono riferiti in maniera drammatica,
circostanziata e coinvolgente, con una sorta di menzogna fantasiosa o pseudologia
fantastica, senza che i sintomi riferiti abbiano un correlato organico. L’attenzione

174
è polarizzata sui propri disturbi e il soggetto ricerca ostinatamente visite, esami,
ricoveri e persino interventi chirurgici, manifestando atteggiamenti volti a
manipolare gli altri o presentando rivendicazioni di vario tipo. Spesso è anche
presente una alexitimia (“α”, “a” privativa + “λέξις”, “lexis” = parola + “θύμος”,
“thymos” = sentimento: non avere le parole per esprimere i coloriti affettivi), per
cui il soggetto non è in grado di riconoscere, di esprimere e di verbalizzare i
propri coloriti soggettivi, in particolare sensazioni ed emozioni, nel quadro di una
generale coartazione della vita affettiva e di una modalità di pensiero fortemente
concreta e poco portata all’astrazione. La sindrome di Ganser, frequentemente
descritta in soggetti detenuti, è un tipico disturbo fittizio con sintomi psichici
prodotti in uno stato di restringimento della coscienza simile al sogno – stato
crepuscolare oniroide – nel quale il soggetto dà risposte incongrue alle domande,
pur dimostrando di averne compreso il significato (risposte di traverso o “a côté”),
si esprime in modo teatrale, appare abulico, stanco e impoverito sotto il profilo
cognitivo.
Per quanto riguarda i disturbi psicotici, si è già accennato alle psicosi chimiche
indotte dall’assunzione di sostanze psicoattive (come il THC), specie durante
l’adolescenza, quando il cervello appare particolarmente vulnerabile (Seccafien e
Nardi, 2017). In molti tipi di psicosi il concorso di disturbi del neurosviluppo e di
fattori ambientali (disregolazione affettiva nell’attaccamento, precarietà socio-
economica e culturale, assunzione di sostanze, ecc.) rende conto del fatto che
alcune forme (ad es., autismo) compaiono nell’infanzia, mentre altre (ad es.,
schizofrenia) esordiscono tra l’età adolescenziale e quella giovanile
(estensivamente, tra i 14 e i 25 anni).
Nelle forme di autismo infantile (dal greco “αὐτός”, “autòs” = sé) si riscontra un
disturbo del neurosviluppo ad insorgenza precoce (con una eccessiva produzione
di neuroni, al contrario di quanto si osserva nella schizofrenia, in cui si determina
una riduzione della densità neuronale e dello spessore corticale). Ne deriva un
funzionamento cerebrale diverso da quello normale, con alterazioni della
comunicazione verbale, carenza di empatia, presenza di interessi limitati e di
comportamenti ripetitivi stereotipati, predominanza delle capacità mnesiche e
cognitive di tipo procedurale (a volte notevolmente sviluppate).
Nei disturbi psicotici di tipo schizofrenico (termine coniato da Bleuler nel 1911
dal verbo greco “σχίζω”, “schizo” = dividere e “φρήν”, “fren” = mente; Kraepelin
nel 1896 aveva parlato di “dementia praecox”, per evidenziare la tendenza
precoce ad un impoverimento psichico), il pensiero ed il linguaggio appaiono
disorganizzati, incoerenti, frammentati, con tendenza a “deragliare” dalla logica
comune. In questi disturbi sono in vario modo presenti “sintomi positivi” e
“sintomi negativi”.
I sintomi positivi sono neoproduzioni psichiche mediante le quali il soggetto cerca
di mantenere un rapporto con il mondo, sia pure abnorme, non riconosciuto e non

175
criticato consapevolmente. Esprimono quindi un tentativo, attivamente attivo, di
adattamento, sia pure rigido e problematico. Sono sintomi positivi le
allucinazioni, i deliri e la catatonia.
A) Le allucinazioni sono percezioni false, in mancanza di un oggetto reale; in
questi casi la compromissione del controllo anticipatorio e retroattivo (a vari
livelli: aree sensoriali, aree associative temporo-parietali e prefrontali) porta a non
riconoscere come propria la percezione allucinatoria; pertanto, questa percezione
non viene più riferita alla propria attività psichica, ma assume una consistenza
“solida”, materializzandosi e venendo percepita come un aspetto della realtà che
esiste oggettivamente e che coinvolge il soggetto “dall’esterno” (Nardi, 2016).
B) I deliri (dal latino “de” + “lira” = uscire dal solco) sono disturbi del contenuto
del pensiero caratterizzati da idee false, non modificabili da prove e da
argomentazioni razionali esterne, che vengono rifiutate. I deliri esprimono il
tentativo, sia pure abnorme, di dare un senso alla propria esperienza utilizzando le
rappresentazioni interne; essi, per l’esigenza adattiva di rispondere a perturbazioni
critiche marcatamente discrepanti rispetto alla propria coerenza interna, integrano
in eccesso l’immagine di sé con nuove costruzioni immaginative e verbali, che
hanno le caratteristiche tipiche della narrazione epica pre-scritturale e analogica,
cambiando temi, strutture e contenuti, cosa che li rende difficilmente
comprensibili dall’esterno. Il bisogno di utilizzare spiegazioni, più o meno
incongrue, fantasiose e strane, ma che rendono meno angosciante il contatto con il
mondo, rimanda a modalità tacite di profonda inadeguatezza, che non consentono
un senso unitario e integrato di sé. In questo stato di coscienza i pensieri iniziano
a materializzarsi, assumendo la forma di voci o di altre espressioni allucinatorie
(Nardi, 2016).
C) La catatonia (dal greco “κατά”, “katà” = giù + “τόνος”, “tonos”: mancanza di
attività motoria) è caratterizzata da uno stato di arresto psicomotorio, con rigidità
muscolare generalizzata, persistente tensione interna e opposizione alle
sollecitazioni esterne.
I sintomi positivi, prodotti dal soggetto sul piano senso-percettivo (allucinazioni),
del contenuto del pensiero (deliri) e della psicomotricità (catatonia), si possono
presentare in un duplice aspetto: a) rappresentazioni interne paradossali, aventi o
il significato di dare senso e valore al soggetto, di fronte all’incomprensione
esterna; b) espressione della negatività e della colpa di cui il soggetto si sente
portatore, a volte estroflesse e riversate in modo aggressivo e impulsivo
sull’ambiente. La comparsa dei sintomi positivi si accompagna ad un
ingrandimento sempre più analitico di dettagli e particolari dell’esperienza, che
sono poi assemblati con criteri logici ma che non appaiono – dall’esterno –
verosimili, mentre il soggetto perde la capacità di cogliere le situazioni e gli
atteggiamenti esterni nel loro complesso (a causa dell’insostenibile discrepanza
con le proprie modalità di mantenimento della coerenza interna).

176
I sintomi negativi esprimono un atteggiamento, attivamente passivo, di demarcarsi
e isolarsi rispetto ad un ambiente vissuto come intollerabilmente destabilizzante a
livello affettivo e che compaiono molto precocemente, come espressione di un
disturbo del neurosviluppo che si associa ad una riduzione nel volume e nello
spessore corticale). Sono sintomi negativi: a) il ritiro sociale; b) l’appiattimento
affettivo; c) la mancanza di iniziativa; d) l’impoverimento del linguaggio e del
pensiero. I sintomi negativi, nel loro complesso, determinano una condizione di
autismo (diversa da quella dei disturbi autistici dell’età evolutiva), caratterizzata
da una chiusura ermetica e inaccessibile nel proprio mondo interno, con apparente
disinteresse per la comunicazione e l’integrazione sociale.
Nelle parafrenie, che vengono da vari autori distinte dalla schizofrenia, i deliri
appaiono ricchi di contenuti fiabeschi e immaginativi, altamente fantasiosi. I
soggetti, accanto a questi contenuti deliranti, confabulatori e ad atteggiamenti
infantili, presentano una personalità con parti non disgregate, che consentono una
discreta autonomia personale, occupazionale e relazionale.
Il disturbo delirante persistente (paranoia; dal greco “παράνοια”, “paranoia” =
follia, pazzia, delirio, insensatezza) è caratterizzato dallo sviluppo di uno o più
deliri tra loro connessi, che sono generalmente persistenti e talora durano tutta la
vita. Il delirio è lucido, con una rigorosa costruzione interna, anche se ovviamente
sono falsi i presupposti su cui si basa. Spesso il delirio può essere messo in
relazione con situazioni della vita del soggetto (ad es., delirio di persecuzione da
parte dei superiori in una persona che non riesce a migliorare la propria
condizione di lavoro). I temi sono tipicamente di tipo persecutorio e di veneficio.
Nei disturbi psicotici condivisi (da una o più persone, con uno stretto legame
affettivo), la mancanza di un senso stabile di confine personale è evidente ed i
temi deliranti diventano comuni e rafforzano la complicità e/o l’intimità tra i
soggetti. La forma più comune è la “follia a due”, spesso fratelli o sorelle. Le due
personalità sono diverse ma complementari che – in un gioco delle parti che
dall’isolamento sociale può sfociare anche nella criminalità – si sganciano
entrambi da una adeguata capacità critica, con conseguente distorsione dell’esame
di realtà. Di solito, il soggetto dominante, con maggiori capacità intellettive,
culturali e di intuito, sviluppa per primo un delirio e lo interpreta logicamente; il
soggetto “associato” appare suggestionabile e accetta passivamente il delirio
dell’altro, o subito (come nella “follia imposta”) o dopo un certo periodo di tempo
(come nella “follia comunicata”), adeguandosi poi acriticamente e in modo
persistente a tutto ciò che ne può conseguire. Nella “follia indotta” entrambi i
soggetti hanno disturbi psicotici, che si contaminano e si rafforzano
reciprocamente. Infine, nella più rara “follia simultanea” entrambi i soggetti
sviluppano una psicosi, senza che nessuno dei due appaia predominante sull’altro.
Nella psicosi passionale (o sindrome di de Clérambault) il soggetto, spesso di
sesso femminile, assume la convinzione delirante che una persona “importante”

177
conosciuta occasionalmente (ad es., un politico, un magistrato, un medico, un
prete, ecc.), sia innamorata perdutamente di sé. Nella cosiddetta malattia di Otello
il delirio si sviluppa attraverso continue ruminazioni ed è invece centrato su una
gelosia morbosa ed anche retrospettiva, estesa cioè al periodo della vita del
partner precedente al rapporto col soggetto delirante, che mostra un pervasivo
senso di inadeguatezza e di insicurezza.
Nei disturbi dissociativi si osserva una disgregazione tra le varie funzioni
psichiche e, in particolare, una perdita dell’integrazione di quelle funzioni (come
senso-percezioni, memoria, coscienza) che assicurano il senso di unicità personale
e di continuità storica, fondamentali per la costruzione ed il mantenimento
dell’identità. Ne consegue che i diversi processi psichici sono percepiti dal
soggetto come isolati, frammentati, circoscritti, con conseguente confusione tra
mondo interno e mondo esterno. In particolare, l’amnesia dissociativa è
caratterizzata da episodi di incapacità a ricordare fatti personali importanti,
conseguenti a situazioni vissute come traumatiche, perturbanti e fonte di stress
marcato. Le fughe dissociative si manifestano con allontanamenti da casa o dal
luogo di lavoro, che possono essere spesso inaspettati e protratti per ore,
raramente per giorni o per periodi più lunghi. In relazione a questi episodi, il
soggetto mostra una incapacità a ricordare ciò che ha fatto in passato e persino chi
era. I disturbi dissociativi dell’identità sono caratterizzati dalla espressione di
personalità multiple, per cui il soggetto manifesta due o più identità o stati di
personalità distinti, ciascuno con i suoi modi relativamente costanti di percepire,
di relazionarsi e di pensare nei confronti di sé e dell’ambiente. Tipico è il caso,
reso celebre dal romanzo di Robert Louis Stevenson “Lo strano caso del dottor
Jekyll e del signor Hyde” (1886). Come è noto, la trama si articola sul fatto che il
dottor Henry Jekyll, miscelando certe sostanze chimiche, prepara una pozione in
grado di separare la componente buona e quella malvagia dell’animo umano;
succede così che egli, dopo averla assunta, scinde la sua personalità in due metà
speculari che prendono possesso di lui alternativamente, trasformandone anche
l’aspetto fisico: il dottor Jekyll è educato, colto, raffinato, di sani principi morali;
il signor Hyde è, al contrario, malvagio, maleducato, trascurato, irrispettoso verso
gli altri e le regole del vivere civile. Le diverse identità o stati di personalità –
ciascuno con un sé ed una memoria autobiografica – non sono coesistenti, ma
assumono in maniera ricorrente il controllo del comportamento della persona,
spesso in contesti temporali (in certe ore o in certi periodi) e relazionali (affettivi e
lavorativi) diversificati. Nei disturbi di depersonalizzazione, il soggetto si sente
distaccato, quasi come se si fosse un osservatore esterno, rispetto al proprio corpo
e, come in un sogno, può iniziare a percepire il corpo diverso, strano, trasformato,
fino al punto di non potersi riconoscere. Nei disturbi di derealizzazione, il
soggetto vive il proprio mondo come estraneo e irreale, giungendo anche in
questo caso alla impossibilità di riconoscere ambienti e situazioni familiari.

178
PSICOPATOLOGIA E ORGANIZZAZIONI DI PERSONALITÀ (OP)
Quando si pensa ai vari disturbi psichici – ai quali si è fatto cenno in precedenza,
secondo la tradizionale ottica descrittiva “dall’esterno” – si tende a centrare
l’attenzione sull’insieme dei sintomi, sui problemi ad essi connessi e sulle
limitazioni del funzionamento sul piano personale, sociale e lavorativo.
Vengono invece messi in secondo piano quegli elementi soggettivi che risultano
decisivi per impostare una strategia efficace di intervento personalizzato.
Nell’approccio nosografico tradizionale la descrizione dei sintomi coincide
sostanzialmente con la spiegazione della patologia presentata da un soggetto. I
sintomi hanno un significato in sé, a prescindere dal soggetto che li manifesta.
Non solo, ma fanno pienamente parte del problema da affrontare e curare. Ad
esempio, di fronte ad un disturbo con attacchi di panico, si scelgono gli interventi
più efficaci per trattarlo efficacemente e, se possibile, prevenirlo, senza prendere
in considerazione se esso rimandi ad un disagio più nascosto e indiretto, legato
alle modalità di assimilare e di riferirsi l’esperienza dell’individuo che manifesta
quegli attacchi.
Il disturbo psicopatologico viene quindi trattato sulla base di protocolli
impersonali, mentre non ci si occupa, se non indirettamente, del problema
soggettivo a monte e, quindi, della persona che presenta il disturbo. Anche la
valutazione degli esiti della terapia viene fatta nel breve periodo e verte sulla
remissione o meno del quadro clinico manifestato.
I sintomi sono classificati all’interno di categorie standardizzate, universalmente
valide. Quello che conta è che osservatori esterni concordino il più possibile su
ciò che descrivono. Non appaiono primarie le informazioni che si possono
ricavare, partendo dai sintomi, sul soggetto che li esprime. Del resto, ciò appare
largamente ininfluente se lo scopo è quello di curare utilizzando solo i farmaci,
che agiscono su variabili biologiche di base (livello di ansietà, di attivazione
psicomotoria, variazioni del tono dell’umore, ecc.) o facendo ricorso ad una
psicoterapia “razionalista”, che è centrata sul controllo dei sintomi e sul
miglioramento del funzionamento in relazione a standard predefiniti esterni.
L’approccio esplicativo post-razionalista alla psicopatologia consente invece di
riferire i sintomi all’individuo che li manifesta e di collocarli all’interno della sua
costruzione dell’identità, nella continuità della sua storia vissuta e narrata. Essi
sono uno strumento conoscitivo, la “spia” di un disagio che non va disattivata e
basta, ma dalla quale si deve partire per comprendere quale possa essere, per
l’individuo che esprime i sintomi, il problema nell’assimilare l’esperienza e
nell’utilizzarla per mantenere il proprio senso di unicità personale e di continuità
storica in quel dato momento della sua vita.
La personalità, più che come una struttura composta da un insieme di tratti,
espressione a loro volta delle varie funzioni psico-comportamentali, viene

179
considerata come una organizzazione, espressione di un sistema complesso
processuale – cioè in evoluzione – il cui benessere deriva dalla capacità di
mantenere l’equilibrio interno sulla base delle risorse adattive di cui dispone il
soggetto per fronteggiare gli stressor ambientali.
Le variabili soggettive diventano quindi una fonte primaria di informazioni sul
modo attraverso il quale un individuo non riesce ad integrare nel senso di sé certe
esperienze, che risultano di conseguenza perturbanti. Nella costruzione interna
dell’esperienza in forma di conoscenza, le attivazioni emozionali tacite vengono
spiegate in modo da permettere al soggetto di riferirsi da protagonista l’esperienza
vissuta: “come uno/a si sente” diviene “perché uno/a si sente in quel modo”.
La psicopatologia ha origine quando non si riesce ad integrare un evento –
percepito come emotivamente perturbante – nella storia narrata. Si incontra una
difficoltà (parziale o totale) a gestire e a riconoscere come propria l’emozione
perturbante sperimentata, che innesca quindi una crisi di identità, con conseguente
cambiamento dell’immagine di sé.
La psicoterapia fa cogliere questa discrepanza, per cui il conseguente aumento di
consapevolezza – strategicamente guidato – produce nel soggetto una maggiore
flessibilità, nonché un aumento delle sue capacità di astrazione.
Se si attua una lettura esplicativa del disagio e della crisi, co-esplorandolo insieme
al soggetto che lo manifesta, si può notare che il sintomo nasce quando
l’assimilazione di una nuova esperienza diventa perturbante e non può essere
autoriferita in maniera costruttiva né inserita nel senso di sé senza provocare
un’alterazione della coerenza interna.
Nella costante dinamica tra l’esperienza immediata e le spiegazioni
dell’esperienza, l’individuo può utilizzare (anche in modo del tutto inconsapevole)
dei pattern di autoinganno che limitano la pericolosità delle esperienze
perturbanti, mantenendo stabile la coerenza personale, almeno finché è possibile
farlo. Un’esperienza facilmente assimilabile e in linea con il senso di sé non
richiede particolari spiegazioni. Sono viceversa le esperienze particolarmente
discrepanti e difficilmente integrabili che il soggetto ha bisogno di spiegare (a sé e
agli altri), anche ricorrendo all’autoinganno. Infatti, quanto meno un’esperienza è
assimilabile, tanto più il soggetto cerca di elaborarla, fino ad attuare senza
rendersene conto quei processi di autoinganno che consistono nella costruzione di
una realtà senso-percettiva ed ideativa manipolata e persino inesistente, come
avviene nel caso delle allucinazioni e dei deliri.
Il post-razionalismo, più che soffermarsi sui singoli sintomi, intesi come aspetti
nosologici a se stanti, sottolinea quindi l’unitarietà della Organizzazione di
Personalità (OP) che ogni soggetto costruisce e la sua continuità nella vita, sia
nelle fasi di compenso che durante eventuali scompensi. Permette quindi di tenere
presente l’andamento dinamico nel tempo del sistema individuale che è

180
sottostante ai sintomi presentati e che va messo a fuoco, possibilmente già dalla
prima seduta.
La psicoterapia, in questa ottica, mira a indurre un cambiamento che comporta
una riorganizzazione della vita personale.
Come aveva notato Guidano (1987), partendo dalla progressione in avanti
dell’evoluzione personale (“feed-forward”), il soggetto può comprendere le sue
modalità di funzionamento e le regole che ne sono alla base.
Di fronte ad una espressione di disagio è dunque necessario tenere presenti i
seguenti elementi (Nardi, 2007, 2016):
a) i sintomi costituiscono una chiave di accesso per comprendere le modalità
soggettive con le quali l’individuo riferisce a sé l’esperienza e la utilizza nella
costruzione della propria identità;
b) essi rappresentano l’espressione di un tentativo di adattamento, il migliore tra
quelli disponibili o forse anche l’unico che il soggetto trova utilizzabile a livello
tacito;
c) le risorse disponibili, mascherate dai sintomi, vanno messe a fuoco più dei
deficit, dato che esse sono strettamente connesse con l’OP e forniscono la base per
qualunque progetto di cura e di riabilitazione.
Quando un’esperienza risulta perturbante altera l’equilibrio psichico o, nelle
prime fasi dello sviluppo, non consente di raggiungerne uno adeguato ai propri
bisogni. In questi casi le modalità invarianti, proprie dell’OP del soggetto, non
possono esprimere le loro potenzialità adattive: ad esempio, come controllare una
situazione in accordo con il bisogno di avere uno spazio libero di azione o come
affrontare un problema imparando a non contare sugli altri in una Organizzazione
di Personalità a reciprocità Fisica (OPF); come raggiungere le conferme che si
desiderano o come costruire la vita in accordo con i propri valori in una
Organizzazione di Personalità a reciprocità Semantica (OPS).
Il confine tra mondo interno e mondo esterno appare labile, confuso, come se a
livello psicologico non esistesse una “pelle” che demarca.
Ad esempio, cogliere in una figura significativa paura, ansia o panico (per una
OPF Controllante), distacco, freddezza o rifiuto (per una OPF Distaccata),
atteggiamenti ambigui, confusi e intrusivi, che anticipano e ridefiniscono i propri
bisogni (per una OPS Contestualizzata), richieste ambivalenti e antitetiche, a
doppia facciata, che generano dubbi e difficoltà di scelta (per una OPS
Normativa) diventa lo specchio di ciò che si è e di quello che ci si può aspettare
dalla vita.
Il soggetto può così leggere il suo mondo interno in base al modo di funzionare di
un’altra persona, importante e centrale nella sua vita, prendendo quest’ultima
come strumento di misura “oggettivo” di ciò che lui/lei è.
Il disagio si esprime attraverso attivazioni emotive, pensieri e comportamenti più
o meno rigidi e ripetitivi, vincolando quindi l’adattamento, come se il benessere

181
potesse essere trovato solo risolvendo o gestendo “quel” problema e, quindi, come
se si fosse “sbagliati”, “difettosi”, “incompleti”.
In questi casi è fondamentale riscoprire le potenzialità adattive, latenti ma
presenti, della propria OP, per esprimere comportamenti più duttili e attenti sia al
proprio modo di funzionare che a quello degli altri, prendendoli e accettandoli per
quello che sono, senza ricercare da essi quello che non possono essere e che
quindi non possono neanche dare.
Fare psicoterapia significa rendere esplicito ciò che è tacito, esplorando le
possibilità umane di cambiamento, in modo che il soggetto possa raggiungere una
modalità di funzionamento più adattiva.
In quest’ottica, l’adattamento costituisce una modalità comportamentale attiva,
finalizzata ad agire sull’ambiente per rendere l’esperienza il più possibile
consistente con la coerenza interna e, quindi, assimilabile senza marcate
modificazioni in negativo dell’immagine di sé e del mondo (Nardi, 2007).
Si può così scoprire come gli stati interni si modificano in relazione a quello che
accade e al modo in cui il soggetto si riferisce l’esperienza, ricavandone e
stabilizzando un certo senso di sé.
La riformulazione clinica del materiale personale consiste nel mettere a fuoco che
lo stato di benessere o di malessere non è soltanto e direttamente dipendente da
ciò che accade, (che appare estraneo e casuale, e sul quale non si può a volte far
nulla), ma è anche e in larga parte dipendente da come, in modo tacito e
inconsapevole, il soggetto lo utilizza per sentirsi se stesso/a, attraverso modalità
costanti di autoriferimento, proprie della sua OP.
La scoperta che il disagio è legato ad un proprio modo di riferirsi l’esperienza
consente di viverlo in maniera diversa e di avviare un cambiamento stabile del
senso di sé, in quanto una modalità interna di riferirsi l’esperienza è molto meglio
gestibile di una situazione esterna o del comportamento di un altro.
Diviene possibile così trovare forme alternative e più adattive di vivere
un’esperienza, attingendo comunque al repertorio della propria OP.
Lo studio dei vari disturbi mentali consente di mettere ulteriormente a fuoco la
complessità dell’assimilazione dell’esperienza e le tante espressioni – in questo
caso psicopatologiche – in cui possono essere declinati i temi specifici di una OP.

Di seguito sono riportate per ciascuna OP le situazioni di disagio di rilevanza


clinica. Si ricorda comunque che, a partire dai sintomi, è fondamentale ricercare le
modalità di adattamento sulle quali si può fare leva per avviare un percorso di
cura.

182
SCOMPENSI CLINICI DELLE OPF CONTROLLANTI
I disturbi d’ansia si manifestano quando viene meno – o si teme che possa venire
meno – il controllo di aspetti importanti della propria vita, sia a livello fisico, sia a
livello relazionale e occupazionale. Le varie forme d’ansia sono percepite come
espressione di difficoltà di fronte a problemi reali ed oggettivi. Pertanto il
soggetto, per stare meglio, prova a evitare o ad allontanarsi da situazioni che vive
come pericolose ed ostili o, al contrario, ricerca contesti e riferimenti affidabili e
rassicuranti. Da ciò consegue la tendenza ad aumentare o ad accorciare il proprio
raggio d’azione e la propria distanza dagli altri. Parla di quello che gli/le succede
come se si trattasse di qualcosa di esterno (“attribuzione esterna del problema
interno”) e come se l’effetto, cioè la risonanza emotiva che prova, non dipendesse
minimamente dalla propria lettura e, quindi, da come utilizza ciò che accade per
sentirsi se stesso: “ci sono dei posti che mi fanno paura, non ci provo nemmeno ad
affrontarli. Ho paura che mi ricapiti come nel passato, quando mi ero preso
paura così tanto e non mi ero sentito mai male così. Per cui mi blocco, evito di
andarci e non riesco a fare anche le cose di cui ho bisogno”. Si instaura una
corrispondenza biunivoca tra paura percepita e pericolo esterno, come se questa
corrispondenza fosse “oggettiva”. Pertanto, il disturbo d’ansia tende ad essere
attribuito in maniera esclusiva non al proprio modo di riferirsi l’esperienza, ma ad
una patologia di natura organica, ricercata ostinatamente attraverso visite cliniche
ed accertamenti laboratoristici e strumentali approfonditi, nella convinzione che
tutto il problema sia lì. Ad esempio, ad una situazione vissuta a livello tacito come
costrittiva può corrispondere, a livello esplicito, la comparsa di sintomi fisici
corrispondenti (mancanza d’aria, senso di soffocamento, costrizione o dolore
toracico, cefalea), senza che il soggetto riesca a collegare la sua esperienza interna
ai sintomi che produce; inoltre, non si rende conto del fatto che, una volta che ha
ripreso il controllo della situazione o ha regolato di nuovo la distanza tra sé e gli
altri (evitando o allontanandosi dal contesto costrittivo), i sintomi scompaiono
proprio per il venire meno del disagio legato all’effetto di disturbo della novità
indesiderata e della sua gestione, che appare problematica o pesante. Viceversa,
quando il soggetto percepisce a livello tacito di trovarsi in situazione di eccessiva
solitudine e non protezione, può cercare – attraverso i sintomi fisici (questa volta
un senso di vuoto, di sbandamento o un malessere generale) – di non allontanarsi
da casa, di evitare quella situazione o, perlomeno, di avere accanto una figura
rassicurante e affidabile. Solitamente, la prima percezione d’ansia è quella di una
attivazione, di una ipereccitabilità rispetto a situazioni temute che riemergono dal
passato o che si prospettano nel futuro, compromettendo il presente. Spesso può
essere sufficiente che qualcosa vada in modo sfavorevole rispetto alle previsioni
per generare un senso di penosa impotenza. Questo accade soprattutto in soggetti
particolarmente attivi (come nel caso dei manager), abituati a gestire in prima

183
persona ogni settore della propria attività: “sono preoccupato e sfiduciato per il
futuro, non bastano più le risorse per controllare tutto”. Per questo motivo,
quando il soggetto prende coscienza della propria incapacità a gestire le cose
come aveva fatto fino a quel momento, all’ansia può seguire una depressione, che
persiste fino a quando il soggetto non ha individuato una via d’uscita. Tutto ciò
che costituisce una novità, che non è prevedibile e, quindi, che può sfuggire al
controllo genera ansia. In alcune situazioni il senso di sicurezza può essere
recuperato attraverso la scoperta che una persona significativa, in precedenza
sovrastimata o temuta, si rivela molto più vulnerabile o fragile di ciò che si
pensava. Pertanto, si può vedere per la prima volta una persona o un contesto
abituale da un punto di vista nuovo, mai neppure immaginato in precedenza. Il
cambiamento dell’immagine dell’altro in conseguenza di un fatto accaduto può
attivare un senso di fragilità personale quando il disagio riguarda la salute. Il
soggetto mette a fuoco la circostanza in cui il disagio è iniziato, ma gli/le sfugge il
fatto che esso è prodotto da un’esperienza che ha cambiato la percezione di sé,
divenuta più precaria e meno sicura. Quando si teme qualcosa di incontrollabile,
anche le figure protettive (come un familiare o un medico) possono non
rassicurare del tutto. In altri casi la destabilizzazione è attivata da qualcosa che
accade ad un altro, anche se non conosciuto direttamente. Le forme più frequenti
di scompenso ansioso sono costituite dai disturbi fobici, ad eccezione della fobia
sociale che è più frequente negli scompensi delle OPS Contestualizzate. I sintomi
– che possono essere claustrofobici (paura di trovarsi in ambienti chiusi e dai
quali appare difficile allontanarsi) o agorafobici (paura di trovarsi in spazi aperti e
luoghi lontani nei quali appare problematico essere aiutati se si è in pericolo o si
sta male, con frequente tendenza a somatizzare l’ansia) – sono l’espressione
esterna della perdita di controllo legata ad cambiamento tacito dell’equilibrio tra
bisogno di protezione e bisogno di libertà. In questi casi, la regolazione della
distanza può essere attuata proprio attraverso i sintomi, ad esempio riducendo la
propria autonomia e richiedendo la vicinanza e l’assistenza di una figura
rassicurante. I soggetti vanno in crisi quando non possono evitare né affrontare
concretamente le esperienze perturbanti, che danno un senso di precarietà,
vulnerabilità, insicurezza personale. L’ansia è presente soprattutto prima di
affrontare la situazione temuta (“ansia anticipatoria”), mentre il soggetto cerca di
ripassare mentalmente le strategie più opportune su come gestire possibili pericoli
ed eventuali inconvenienti. Questo avviene in modo particolare la sera, quando si
può solo pensare e ripensare a ciò che si dovrà affrontare il giorno seguente (ad
es., un viaggio di lavoro con allontanamento da casa o un esame), con
conseguente difficoltà di addormentamento (“insonnia iniziale”). Se il disturbo
persiste, il soggetto non riesce più a vivere bene il presente, essendo centrato sugli
eventi negativi che potrebbero accadere a se stesso/a, alle persone e alle cose alle
quali tiene. Gli spostamenti diventano problematici, deve sempre essere

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accompagnato/a da persone di fiducia, si attacca agli elementi che lo rassicurano:
può riuscire a prendere sonno solo sul suo letto (e, quindi, evita di dormire fuori
casa), mangia solo determinati cibi e in posti di cui si fida, limita il proprio raggio
d’azione. Non infrequentemente gli eventi perturbanti attivano un canale
somatico, in presenza di marcate modalità concrete di pensiero: in questi casi si
osserva angoscia, cioè ansia associata ad una componente somatica (ad es.,
sentirsi come se un masso fosse caduto sopra il proprio corpo senza riuscire a
toglierlo). D’altra parte le fobie – con i loro correlati somatici – esprimono il fatto
che l’esperienza è percepita come incontrollabile e minacciosa. Di solito, il tema
esplicito della fobia è indicativo dell’attivazione tacita di non controllo, sebbene il
soggetto non ne sia consapevole e riferisca comunque i propri sintomi ad una
causa organica. La stessa malattia, specie se non ha un’origine chiara e se non è
facilmente curabile, costituisce una fonte di non controllo e, quindi, di angoscia.
Una volta ripreso il controllo della situazione, il soggetto si sente già meglio. A
seconda che prevalgano aspetti di tipo costrittivo o di mancata protezione e tutela
da parte dell’ambiente relazionale, compaiono somatizzazioni che esprimono il
cambiamento della distanza dagli altri percepito come intollerabile: senso di
soffocamento, fame d’aria, precordialgie, cefalea gravativa in situazioni vissute
come costrittive; senso di vuoto, sbandamento, lipotimie, vertigini, tachicardia in
situazioni vissute come abbandoniche. Se l’esperienza di non controllo è
improvvisa e fortemente minacciosa, può insorgere un attacco di panico,
caratterizzato dall’improvvisa insorgenza di un senso di intensa paura,
accompagnata dalla sensazione di morte imminente e da numerosi sintomi
somatici quali, difficoltà a respirare (senso di soffocamento, fame d’aria),
tachicardia, dolore retrosternale, sudorazione, tremori, paura di svenire, disturbi
gastro-intestinali, alterazioni della percezione della realtà (derealizzazione e
depersonalizzazione). I singoli attacchi durano in genere solo alcuni minuti. Il
primo attacco di panico a volte viene ricordato con molta precisione, sia nel
contesto (tipo: “ero uscito con un amico, ero al mare, ero in una piccola
piazzetta, ero seduto in fondo alla chiesa, ero in palestra, stavo al ristorante”), sia
nella sequenza crescente dei sintomi di disagio (senso di stranezza, di malessere,
comparsa di tremori, forti giramenti di testa, senso di instabilità e di squilibrio,
difficoltà a respirare). Partendo dai sintomi e dalle corrispondenti rappresentazioni
interne e attivazioni emozionali è possibile mettere a fuoco come il senso di
instabilità rimandi al non controllo di situazioni affettive o lavorative. Questa
evidenza consente di sottolineare ancora una volta il limite degli interventi
finalizzati al semplice controllo della sintomatologia (che spesso si cronicizza o
recidiva) e, viceversa, l’importanza di lavorare sulle difficoltà tacite del soggetto
nel riferirsi le esperienze discrepanti con il mantenimento del senso di sé. Nelle
forme ricorrenti, si può determinare una compromissione delle capacità relazionali
e lavorative, alla quale si può associare una depressione del tono dell’umore. Nel

185
tempo, il soggetto tende a prevenire o a gestire l’attacco di panico, che fornisce
comunque a livello tacito una via di fuga da situazioni non rassicuranti o
francamente ostili: in genere lo fa selezionando ed evitando le esperienze ritenute
minacciose (“condotte di evitamento”) o facendosi accompagnare da persone
affidabili, che sono al corrente del disturbo e sono quindi in grado, in caso di
necessità, di riportarlo/a in un ambiente più protettivo e rassicurante. Il soggetto
non è consapevole di questi processi taciti, per cui tende ad attribuire i suoi
sintomi a processi patologici dei quali gli specialisti consultati “non hanno trovato
la causa” e a sottoporsi ripetutamente a controlli e visite specialistiche, al fine di
individuare e curare ciò che non funziona. D’altra parte, la paura degli effetti
collaterali porta a diffidare anche dei farmaci, a leggere con attenzione il foglio
illustrativo e a non assumere nuove molecole, ritenute pericolose e di cui ci si
proclama “allergici”. Manca la consapevolezza del rapporto tra il sentirsi a
proprio agio ed il controllo interno. È sufficiente una novità banale, specie se
riguarda la propria salute o quella di una base sicura, per far venire meno
benessere e sicurezze, destabilizzando il soggetto fino a quando non riesce a
trovare un punto di riequilibrio: “se ho un fastidio mi metto subito in allarme. Per
me è molto importante ricominciare a muovermi. Penso: se non mi passa, cosa
faccio? Mi innervosisce e mi getta nello sconforto il fatto che non mi ero accorta
di niente, che non c’è stata una causa precisa per il mio dolore – una storta, una
caduta – che giustifichi cosa mi è successo. Non mi ero nemmeno messa le scarpe
col tacco. Non vedere l’origine, non trovare le cause mi fa paura, mi sento senza
difese. Mi mette in difficoltà la mutevolezza delle cose, ho paura di non gestire i
cambiamenti, per cui vorrei che tutte le cose della mia vita fossero, se non
immutabili, almeno prevedibili. Mi sono sentita meglio dopo che avevo preso
l’appuntamento con l’ortopedico, mi sono detta che ne sarei venuta a capo”. I
sintomi – che possono essere claustrofobici o agorafobici, con frequente tendenza
a somatizzare l’ansia – sono l’espressione esterna della perdita di controllo legata
ad cambiamento tacito dell’equilibrio tra bisogno di protezione e bisogno di
libertà. In questi casi, la regolazione della distanza può essere attuata proprio
attraverso i sintomi, ad esempio riducendo la propria autonomia e richiedendo la
vicinanza e l’assistenza di una figura rassicurante. D’altra parte, i sintomi danno
anche il vantaggio di limitare, modificare o annullare gli impegni vissuti a livello
tacito come pericolosi senza produrre un’immagine negativa di sé: “da alcuni
mesi ho sempre paura. Sto male per la paura di stare male. Eppure, in questo
periodo va tutto bene. Ho un buon successo professionale, i soldi non mancano.
In ufficio sono il leader, l’ho fondato io e ho associato altri professionisti di cui
sono il punto di riferimento; credo di saper trovare le soluzioni giuste per ogni
problematica inerente il mio lavoro. Ho fatto un check-up cardiologico, andava
tutto bene, solo che il cardiologo mi ha segnato una pillola. L’effetto è stato
controproducente: non l’ho presa, ma ho cominciato a pensare che, se me l’aveva

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data, voleva dire che potevo stare male, anche se non avevo problemi di salute”.
In situazioni di non controllo, che causano nervosismo, il soggetto può reagire
spostando l’attenzione su qualcos’altro, che appare più facilmente gestibile:
“quando sono nervoso devo fare qualcosa; rimettere ogni cosa al posto giusto mi
dà sicurezza. L’ordine e la precisione mi danno un senso di tranquillità, che tutto
sta a posto, se no mi si scardina qualche meccanismo. Allora faccio piccoli riti:
risistemo il mio studio in un certo modo, preciso, faccio una dieta buona, sana,
passeggio in posti salubri”. Il bisogno tacito di avere vicino una base sicura può
essere legato al timore di non riuscire a controllare il proprio comportamento. Ad
esempio, la paura di “perdere la testa” per qualcuno, facendo incontri o avendo
avventure che potrebbero minare la stabilità della propria vita familiare, può
attivare svariati malesseri che portano il soggetto a restare in casa o a farsi
accompagnare dal partner o da un’altra persona di cui si fida, in modo da non
rischiare di perdere il controllo del proprio comportamento. Quando si può vedere
per la prima volta una persona o un contesto da un punto di vista nuovo, cambia il
vissuto di competenza personale: ci si sente cresciuti, più liberi e autonomi, non
più vincolati da scelte accettate e subite come inevitabili: “l’altra sera mio padre
faceva il tragico e il malinconico, mi diceva che il rapporto che ci unisce è unico,
che sono stata una cosa speciale per lui. Ma in quel momento è come se avessi
visto lucidamente dall’esterno tutto. Mi sono accorta che io non incido
minimamente nel rapporto tra i miei, che io non posso né aiutarli né aggravare la
situazione. L’ho visto per la prima volta nella mia vita. La cosa mi ha fatto quasi
sorridere. Mi sono sentita molto, molto libera, come se mi fossi tolta un macigno
dalle spalle. Da lì ho interrotto gli esami e ho rimesso in discussione tutte le
scelte che avevo fatto finora per assecondarlo”. Il cambiamento dell’immagine
dell’altro può attivare un senso di fragilità personale quando il disagio riguarda la
salute. Il soggetto mette a fuoco la circostanza in cui il disagio è iniziato, ma gli/le
sfugge il fatto che esso è prodotto da un’esperienza che ha cambiato la percezione
di sé, divenuta più precaria e meno sicura. Quando si teme qualcosa di
incontrollabile, anche le figure protettive (come un familiare o un medico) non
rassicurano mai del tutto. In altri casi la destabilizzazione è attivata da qualcosa
che accade ad un altro, anche se non conosciuto direttamente: a livello esplicito è
chi riferisce la notizia che fa star male, mentre manca la consapevolezza che
l’esperienza tacita di pericolo porta a riavvicinarsi ad una base sicura: “i miei mi
hanno fatto stare male. Parlavano di uno che era stato lasciato e che aveva
cominciato a fare stalking. All’inizio sembrava tutto normale. Poi la mia testa ha
cominciato a pensare: e se succedesse anche a me?”. Quando le emozioni non
gestibili – quindi non integrabili nel senso di sé – sono riferite ad una condizione
fisica, le espressioni facciali e l’atteggiamento esprimono lo stato interno meglio
delle parole. Infatti in questi casi i soggetti non riescono di solito a collegare un
problema (che conoscono) con le emozioni che esso produce (di abbandono, di

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costrizione, ecc.), per cui le scambiano per disturbi somatici (attacco di cuore,
cefalea, ecc.). Usano un linguaggio sensoriale che è molto più omogeneo e
sovrapponibile, nelle stesse situazioni, rispetto alle somatizzazioni che si
osservano nelle OPS Contestualizzate (ad es., confusione, sbandamento, testa
vuota o ovattata). Non riuscendo a collegare a livello esplicito le emozioni con le
attivazioni tacite che le hanno provocate, non le considerano fattori causali, capaci
di condizionare la propria vita. Essi non sono abili nel modulare le emozioni
(come nelle OPS Contestualizzate): o riescono ad escluderle o non possono che
esprimerle. Analogamente, hanno difficoltà a mettere a fuoco i bisogni e gli stati
psichici degli altri. Ad esempio, stanno male se non hanno una figura familiare a
fianco ed esprimono questo disagio somatizzando; si rasserenano quando questa
persona, che si era allontanata o stava per farlo, rinuncia al suo programma per
assisterli/e; non si turbano se si sentono dire che hanno stancato, che sono un
disastro, che non se ne può più di loro, in quanto il benessere è legato al
ristabilimento della distanza desiderata, non a ciò che la base sicura pensa di loro
(e questo può essere un rischio, dato che in questo modo i bisogni degli altri sono
sottovalutati, se non ignorati). Il tema del distacco è percepito come un parametro
esterno, per cui non è elaborato (come nelle OPS Contestualizzate) attraverso i
contenuti interni di giudizio. Separarsi da chi non appare affidabile non comporta
forti ripercussioni negative, a meno che non sia vissuto come incompetenza
personale a scegliere, aumentando il proprio senso di non controllo e quello di
inaffidabilità del mondo (“come mai non mi sono accorto/a che le cose non
andavano?”; “chissà quante volte mi ha fregato/a e non me ne sono reso/a
conto!”), oppure non sia in gioco una componente contestualizzata valutativa (OP
Combinate Controllanti-Contestualizzate). Il controllo su di sé è ricavato dalla
gestione dell’ambiente esterno ed equivale con lo star bene, con l’essere forti,
sebbene comporti il rischio di dipendere dagli altri (ma, vivendolo come un
aspetto gestito in prima persona, esso non appare limitante). Il vincolo è nella
regolazione della distanza dalle figure di riferimento, che viene verificata ogni
volta che qualcosa la può cambiare (o, semplicemente, minaccia di farla
cambiare). Quando si perdono le redini della situazione può scattare
l’aggressività. Questa, essendo attivata dal senso di perdita di controllo, può
essere molto evidente e in genere è agita direttamente, senza debolezze o
sentimentalismi. Nella sua attivazione prevalgono gli aspetti fisici concreti, il
pericolo corso, la mancanza di protezione o la costrizione. La percezione che
attiva la rabbia oscilla tra il senso di soffocamento e di limitazione, da un lato, e il
senso di abbandono e di non protezione, dall’altro. Al contrario di quanto avviene
nelle OPS Contestualizzate, il controllo è operato sull’ambiente e sulla
regolazione della distanza, non sugli stati interni e sui giudizi. Nelle liti, la rabbia
è attribuita ad una colpa dell’altro, ma di solito ci si lascia andare solo con persone
che non appaiono pericolose od ostili. Ci si attiva e si strilla quando si litiga con

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persone di cui ci si fida ma, se non si può gestire la lite, si manifesta una crisi
d’ansia (spesso con somatizzazioni o panico) senza riuscire a metterla in relazione
con la lite stessa. La rabbia rispetto alla fiducia non corrisposta è espressione del
fatto che l’altro/a è percepito/a come uno/a che non lo/a può soccorrere in caso di
pericolo, malattia, solitudine. Il disturbo ossessivo-compulsivo rappresenta un
disturbo d’ansia ad andamento cronico, innescato da una percezione tacita di non
controllo di aspetti essenziali della propria vita. Le ossessioni riguardano
frequentemente temi di contaminazione (relativi a sporcizia, germi, rifiuti,
inquinamento, ecc.), di aggressione e pericolo (paura di nuocere a sé e agli altri, di
commettere errori, di non controllare la propria aggressività e di essere violenti.
Spesso è possibile ricostruire come queste idee rappresentino l’elaborazione di
attivazioni emozionali che, proprio in quanto sono percepite come destabilizzanti,
vengono trasformate in immagini e pensieri che accedono al campo di coscienza
ove possono essere gestite parzialmente, scacciandole per breve tempo dalla
mente o annullandole “magicamente” attraverso la compulsione.
I disturbi somatoformi (al contrario di quanto avviene nelle OPS
Contestualizzate) sono solitamente monotematici; i sintomi ricorrono spesso in
maniera sovrapponibile, a carico di uno stesso organo o apparato somatico, sul
quale si polarizza a livello esplicito l’attenzione; quest’ultima è legata, sul piano
tacito, al senso di perdita di controllo dovuto alle perturbazioni critiche che hanno
determinato lo scompenso. Ogni disturbo fisico, specie se non è ben individuabile
e non è riconducibile a una causa chiara e debellabile, costituisce una fonte di non
controllo e, quindi, di preoccupazione e di angoscia. Una volta ripreso il controllo
della situazione, il soggetto si sente già meglio: “non capisco che cosa ho. Da un
anno ho questo problema che mi perseguita. Sto male all’improvviso, ad esempio
faccio un movimento, mi piego e patatrac, viene questo dolore forte, mi gira tutto
intorno, ho un senso di sbandamento. Non riesco più a fare progetti, sono sfinito,
non dormo la notte. Tutti i dottori che mi hanno visto dicono che non ho niente.
Anche la risonanza è negativa. Quando provano a rassicurarmi, non sto affatto
meglio”. In questi casi manca la consapevolezza del legame tra il sentirsi a proprio
agio ed il controllo interno. In situazioni percepite come costrittive, prevalgono le
precordialgie, i sintomi anginoidi, la dispnea con senso di soffocamento,
l’oppressione toracica o addominale, la cefalea muscolo-tensiva. Viceversa, in
situazioni percepite come abbandoniche, non protettive e, quindi, pericolose,
prevalgono i disturbi dell’equilibrio, l’annebbiamento del visus, un obnubilamento
del sensorio (con la percezione soggettiva di essere in uno stato confusionale), il
senso di svenimento (lipotimia). Spesso la comparsa di tremori o di una
sensazione di sbandamento esprime, sul piano dei sintomi, un disagio tacito da
non controllo della situazione contingente e delle sue potenziali conseguenze. I
sintomi determinano in genere un cambiamento dei programmi del soggetto, che
spesso coinvolge anche le figure significative, in modo da ripristinare una distanza

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migliore rispetto alla duplice ed antitetica esigenza di essere protetti senza sentirsi
costretti e di essere liberi senza perdere le sicurezze. L’attenzione per gli aspetti
somatici e la focalizzazione sulla regolazione della distanza nell’ambito della
relazione prevale rispetto all’attenzione per il mondo interno proprio e dell’altro:
il benessere viene ripristinato con la ripresa del controllo della distanza, anche
quando questo comporta un disappunto da parte della figura significativa di
riferimento (ad es., il soggetto manifesta un malore che costringe il coniuge a
rinviare la partenza; a questo punto il malore si attenua e scompare e il soggetto
appare sereno, nonostante il disagio e le lamentele del coniuge). In generale,
quindi, i disturbi somatoformi esprimono una gamma di modalità di scompenso
riconducibili al senso di perdita di controllo o al timore di non riuscire più a
gestire la propria vita o la propria salute. Essi ricorrono spesso proprio in
occasione dei periodi critici della vita (ad es., intorno ai trenta e ai quaranta anni o
nel passaggio della mezza età), quando si fa un bilancio della propria esistenza, si
sperimenta una modificazione del senso del tempo e si aggiorna l’immagine di sé,
tra ciò che ormai è passato e la ridefinizione del proprio futuro e delle aspettative
riguardo ad esso.
Il bisogno di mantenere stabili le modalità tacite di costruzione del senso di sé può
riattivare i sintomi di disagio dopo un periodo di benessere più o meno lungo. In
questi casi la ricomparsa immediata dei sintomi o il loro ripresentarsi a distanza di
tempo in un nuovo episodio (rispettivamente, una “ricaduta” o una “recidiva”
clinica) possono esprimere il tentativo di ripristinare i modi abituali di assimilare
l’esperienza, stabilizzando la coerenza interna. I sintomi interrompono infatti il
senso allarmante di instabilità, esprimendo il ritorno a forme più familiari di
controllo, inconsapevolmente più rassicuranti anche se disfunzionali. Lavorando
in terapia sul modo di funzionare che porta a vivere tutto ciò che non si controlla
come minaccioso – a prescindere dalla sua effettiva pericolosità esterna – si
possono mettere a fuoco le rappresentazioni interne (come le situazioni sono
vissute in rapporto alle proprie attivazioni), operando su di esse. Scoprire un
nuovo modo di confrontarsi con se stessi può inizialmente preoccupare, dato che
fa emergere aspetti di sé non conosciuti e, quindi, anche temuti. Si tratta,
ovviamente, di processi in larga parte non consapevoli, se non nella percezione di
instabilità che ne deriva, senza che questa instabilità possa essere collegata con la
ripresentazione dei sintomi. Infatti, la ricomparsa di un disturbo può essere
paradossalmente “rassicurante”, ripristinando in chiave adattiva, sia pure rigida e
causa di sofferenza e di limitazioni, gli abituali processi psicopatologici; questi
ultimi, oltre tutto, hanno un ulteriore risvolto rassicurante, per il fatto che limitano
gli allontanamenti dai luoghi abituali di vita: “sono riuscito a volare. Ho fatto il
viaggio in aereo che avevo programmato. All’andata è filato tutto abbastanza
liscio, tanto che mi sono meravigliato di me. Veramente un po’ di malessere c’è
stato, soprattutto all’aeroporto, anche perché abbiamo avuto un ritardo per

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motivi tecnici. Inutile dire che mi sono venuti in mente gli scenari più catastrofici,
ad esempio che c’era il rischio di un attentato. Sono anche andato più volte in
bagno. Poi però, ricordando il lavoro che stiamo facendo, sono riuscito a
ricollegare la mia paura al mio modo abituale di vivere gli allontanamenti da
casa quando non sono io a gestire in prima persona il viaggio. Il volo è andato
abbastanza bene, anche se l’aereo era più piccolo di quello che mi aspettavo e
non aveva i colori della compagnia di bandiera. Quando sono atterrato ero
soddisfatto. Nei giorni successivi ho avuto alcuni momenti di instabilità, non so
perché, apparentemente andava tutto bene. Il viaggio di ritorno è stato invece un
disastro. Strano, avrebbe dovuto essere il contrario. Mi sono venute tutte le mie
paure, ho dovuto alzarmi spesso per andare a bagno, stavo malissimo. Mi sono
ripreso solo una volta che siamo atterrati”.
Per quanto riguarda i disturbi dell’umore – episodio depressivo, singolo o
ricorrente; depressione persistente (distimia) – può essere sufficiente che qualcosa
vada storto rispetto alle previsioni per provare un senso di penosa impotenza, che
si estende a macchia d’olio a tutti gli ambiti dell’esperienza, con conseguente
depressione (“è tutto nero, non c’è futuro”); questo accade soprattutto in soggetti
abituati a gestire in prima persona ogni settore della propria attività. A volte il
passaggio da una percezione di efficienza fisica e di controllo ad una di inabilità e
di impossibilità a gestire è brusco, tipo top/down (“posso fare tutto/non posso più
fare niente”). Infatti, quando il soggetto percepisce di trovarsi in una situazione
nuova e sgradevole, tale da non controllare più le cose come aveva fatto fino a
quel momento, all’ansia subentra la depressione, che può avere una insorgenza
rapida, può presentarsi particolarmente intensa e tende a persistere fino a quando
il soggetto non recupera un qualche controllo sulla situazione temuta. In generale,
gli abbassamenti dell’umore nelle OPF Controllanti sono caratterizzati da
inibizione psicomotoria, astenia e, sul piano cognitivo, dall’impressione che tutto
sia perduto, con conseguente sconforto di fronte al fallimento di una aspettativa
sulla quale erano state investite risorse o alla impossibilità di gestire le situazioni
come si desiderava. I temi di negatività personale a volte si esprimono in forma
acuta con attacchi di panico associati a tematiche negative (crisi di pianto,
sconforto, ricerca immediata di figure rassicuranti). In altri casi entrano in quadri
clinici più sfumati e sono utilizzati – a livello tacito – per regolare in modo
diverso la distanza rispetto ai contesti percepiti come negativi (rinunciare a
investimenti costrittivi o pericolosi, uscire da situazioni lavorative non
controllabili, troncare una relazione non più desiderata, ecc.). I temi depressivi
esprimono contenuti connessi col senso di precarietà e di vulnerabilità personale
(estesa anche alle figure che rappresentano basi sicure o, comunque, punti di
riferimento); di solito si associano ad una marcata angoscia, che viene poi
somatizzata (vertigini, sbandamento, tachicardia, precordialgie, cefalea, ecc.). Le
perdite forniscono una “prova” della pericolosità e della inaffidabilità del mondo.

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Proprio per le caratteristiche piuttosto concrete del pensiero, i disturbi depressivi
sono spesso associati a somatizzazioni e, a volte, sono da esse mascherati. Il
venire meno, con l’avanzare degli anni, dei riferimenti e delle sicurezze infantili e
l’insorgenza delle prime forme di cedimento della propria efficienza fisica
possono causare crisi dolorose di riassetto della coerenza interna, specie quando si
avverte l’inversione della asimmetria del tempo (per cui il futuro appare meno
indefinito rispetto al passato, nonché potenziale portatore di eventi negativi).
Nei disturbi bipolari le fasi depressive e maniacali ruotano intorno a temi taciti di
perdita di controllo angosciante e totale, con oscillazioni che vanno dal senso di
rovina, di pericolo, di perdita di utilità ed efficienza personale (depressione) al
contrapposto illusorio e temporaneo senso di poter controllare e gestire tutto
attraverso la propria onnipotenza (mania).
I disturbi della condotta alimentare non rappresentano scompensi frequenti.
Tuttavia, specie durante la maturazione adolescenziale, le variazioni dell’appetito
possono esprimere un disagio legato alla perdita di controllo o al venire meno di
alcune sicurezze, richiamando in questo modo l’attenzione da parte della base
sicura e regolando attraverso la condotta alimentare la distanza da essa (ad es.,
“quando mi dà fastidio che mi controllano non mangio”). In genere, questi
soggetti tendono ad assumere sempre gli stessi cibi e con le stesse modalità,
mentre anche la perdita di peso e i rischi per la salute sono attentamente
monitorati. Specie nell’infanzia, le variazioni dell’appetito sono un indicatore
molto preciso del benessere o del disagio del bambino, che spesso non riesce ad
esprimerli e a comunicarli in altro modo. In questi casi, la riduzione o
l’accentuazione dell’appetito sono segnali direttamente emessi nei confronti di
figure accudenti e la loro risposta, più o meno sollecita e rispondente alle attese,
regola di conseguenza la natura stessa dei sintomi. Nel corso dell’età adulta,
variazioni dell’appetito su base psicogena accompagnano le fasi di scompenso in
cui si perde (o si rischia di perdere) il controllo della salute, dell’efficienza fisica,
delle situazioni lavorative o logistiche, ecc. Il controllo dell’assunzione del cibo
viene percepito nell’ambito della visione, più o meno rassicurante, che si ha del
mondo e dei suoi pericoli, nonché di quanto il mangiare possa fare bene o male e
finisce quindi per incidere sull’autonomia personale e sulle possibilità di
avvicinamento o allontanamento rispetto alla base sicura (“quando sto di fronte al
cibo mi dico: questo te lo puoi concedere, qui fermati”; “è come se me lo fossi
controllato, se avessi calcolato tutto; anche se ne vorrei di più, mi dico basta, non
posso andare oltre, se no mi rovino il resto della giornata”; “il cibo prima è
buono, ma se è troppo diventa veleno”; “dentro casa i cibi sono sempre gli stessi,
so anche le quantità che contengono i piatti; fuori le controllo peggio e allora o
sto attenta o se no non mangio niente, anche se gli amici mi criticano e se la
prendono”). Come ha messo in evidenza uno studio del nostro gruppo (Sabbatini
et al., 2017), è importante imparare a considerare con spirito critico i

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comportamenti che regolano l’assunzione del cibo e a superare le proprie ferree
sicurezze sulla salute, con conseguente visione stereotipata su orari e
composizione dei pasti. Si può così uscire dal controllo ossessivo degli alimenti
assunti e dal pensiero di dover controllare rigidamente il mangiare per evitare ogni
minaccia di perdere l’incolumità fisica.
I disturbi psicosessuali costituiscono l’espressione della perdita di controllo,
percepita a livello tacito nell’ambito di un rapporto vissuto come abbandonico e
non sufficientemente protettivo o, al contrario, come costrittivo, vincolante e
soffocante; ad esempio, possono insorgere quando il partner chiede di trasformare
un rapporto libero in un vincolo ufficiale, come il fidanzamento o il matrimonio.
Essi sono quindi sostenuti, come del resto tutte le manifestazioni psicosomatiche
presenti in queste OPF, dalle modalità concrete attraverso le quali il soggetto
regola la distanza tra sé e una persona significativa, rappresentata, in questo caso,
dal partner affettivo. Come ha osservato Moltedo (2005), dato che l’indipendenza
non viene quasi mai raggiunta completamente, la forma tipica di separazione
rispetto alle figure parentali consiste nell’aumento della distanza fisica. D’altra
parte, le situazioni che spingono verso l’indipendenza possono essere vissute
come minacciose, per cui sia i cambiamenti fisici che i rapporti sessuali appaiono
destabilizzanti. Dato che gli aspetti negativi che il soggetto percepisce in relazione
a sé sono attribuiti all’esterno o ad una propria malattia somatica, il controllo delle
emozioni negative porta a sviluppare uno stile affettivo marcatamente coercitivo e
controllante, alla Don Giovanni. In questi casi, come ha descritto Moltedo, anche
quando si ha una relazione stabile, si può continuare a flirtare e ad avere
“scappatelle” oppure, sempre per la paura di rimanere intrappolati, si interrompe
la relazione in corso passando ad un’altra: queste condotte conferiscono al
soggetto un senso di controllo e garantiscono il fatto che in ogni relazione non si
superi mai un livello di coinvolgimento troppo elevato. Negli scompensi
psicosessuali delle OPF Controllanti giocano quindi un ruolo chiave il timore e i
rischi connessi con l’esplorazione sessuale, con l’allontanamento dai vincoli
protettivi familiari, con la possibilità di contrarre malattie contagiose o di
vincolarsi in situazioni costrittive, dalle quali è difficile se non impossibile tirarsi
fuori. Vengono pertanto attivati processi taciti, dei quali il disturbo psicosessuale
è l’espressione comportamentale, finalizzati a recuperare la libertà in situazioni
costrittive (fino a indurre il partner a interrompere il rapporto, attraverso sintomi
aventi un significato di “rifiuto”) o, al contrario, quando il partner viene percepito
come una imprescindibile base sicura, se ne richiamano l’attenzione e le cure
mediante i sintomi, “testandone” in questo modo anche le caratteristiche di
affidabilità e di disponibilità.
Per quanto riguarda i disturbi correlati a sostanze psicoattive, l’abuso di sostanze
è piuttosto raro, per la diffidenza di fondo verso tutto ciò che può essere nocivo e
fonte di pericolo. A volte, tuttavia, esso rappresenta una modalità abnorme di

193
gestione del pericolo, con controllo sugli aspetti dell’assunzione (fornitori, tipo di
sostanza, modalità di assunzione, effetti). Pertanto le sostanze vengono scelte a
seconda che si ricerchi l’effetto “sedativo” e “anestetico” o “attivante” e
“disinibente” e vengono assunte, comunque, mantenendo evidenti modalità di
controllo sulle stesse. Pannelli (2005) ha osservato che l’assunzione di sostanze
può essere anche un modo per tenere sotto controllo e gestire le figure che devono
assolvere al ruolo di “base sicura” (genitori, partner); in questi casi, le remissioni e
le ricadute nell’assunzione appaiono facilmente riconducibili all’andamento del
rapporto e alla regolazione della distanza nei confronti della figura di riferimento.
I disturbi del controllo degli impulsi costituiscono modalità ripetitive per sfuggire
a situazioni percepite come intollerabilmente costrittive o abbandoniche da parte
di figure che dovrebbero essere “attente” alle esigenze “reali” e, quindi,
ineccepibili del soggetto. In ogni caso, gli aspetti esperienziali presi in
considerazione sono sempre fortemente concreti, operativi (presenza fisica,
disponibilità a fornire denaro, mezzi, prestazioni e sussistenza, concessione di
tempo libero, ecc.). Come ha osservato Moltedo (2005), anche le manifestazioni
autoaggressive sono utilizzate per regolare la distanza rispetto ai riferimenti
significativi; esse costituiscono infatti una forma concreta e ripetitiva di evitare
situazioni percepite come intollerabilmente costrittive o non protettive. D’altra
parte, rappresentano anche una modalità estrema di affrontare e gestire i pericoli.
Nei disturbi della condotta appare evidente il tentativo operato dal soggetto di
controllare, attraverso le sue condotte devianti, gli altri e la situazione che si sta
affrontando (persone di riferimento, affari, ecc.): ad esempio, controllo di traffici
illeciti, della droga, della prostituzione, ecc. L’affidabilità degli altri viene vagliata
secondo modalità concrete, tra cui i vincoli di parentela e di amicizia, in modo che
questi possano garantire il coesistente e conflittuale bisogno di protezione e di
libertà.
I disturbi fittizi sono piuttosto frequenti e si manifestano col predominio dei
sintomi fisici rispetto a quelli psichici. Essi esprimono la ricerca di accudimento e
protezione di fronte a qualcosa che appare non controllabile e minacciosa. La
paura di stare male e, al tempo stesso, il bisogno di tenere sotto controllo in prima
persona la propria salute rendono a volte instabile un equilibrio già precario tra
bisogno di protezione (rispetto alla realtà percepita come pericolosa) e bisogno di
indipendenza (rispetto a quella stessa realtà, in modo da non limitare la propria
autonomia oltre margini non tollerabili). La tendenza ad assumere il ruolo di
malato, della quale il soggetto, a livello esplicito, appare scarsamente
consapevole, emerge quindi in situazioni in cui si teme di non potere controllare
più il proprio stato di salute. In questi casi si cercano riferimenti protettivi e
rassicuranti, affidandosi a medici e a strutture sanitarie e assistenziali di cui ci si
fida “tendenzialmente”, ma che si tende poi a “usare” e a gestire a proprio modo,
ad esempio senza rispettare le prescrizioni terapeutiche date. Il soggetto ricorre

194
spesso a più consulti; la fiducia è parziale, nel senso che il controllo – e quindi la
scelta finale – la fa sempre lui/lei. Analogamente, la paura di stare male per cause
iatrogene lo porta a diffidare di ogni nuova molecola. In questi scompensi è
primario il bisogno di essere accudito, per cui a livello tacito i sintomi tendono ad
essere mantenuti o, al limite, trasformati; il rifiuto della terapia esprime anche
questo atteggiamento, di cui il soggetto è solo in parte consapevole.
La simulazione (nella quale invece i sintomi sono deliberatamente prodotti solo
per trarre un vantaggio fraudolento) viene attuata in soggetti che ricercano,
attraverso essa, di ottenere o riprendere il controllo di situazioni, di incarichi, di
beni desiderati e di fronte ai quali il rischio, correlato alla posta in palio, fornisce
un ulteriore elemento di controllo e, quindi, di rinforzo.
I disturbi dissociativi sono rari, si associano spesso a disturbi somatoformi e si
riscontrano solitamente in soggetti con una OP Combinata Controllante-
Contestualizzata. Essi esprimono il bisogno di escludere dalla consapevolezza
esperienze immediate, costrittive o abbandoniche, non tollerabili, sotto forma di
blocchi psicomotori, di perdita di energia, di vuoti di memoria, di senso di
estraneità a sé o all’ambiente o di dissociazione in personalità diverse, a ciascuna
delle quali si affidano competenze differenziate di controllare e gestire la propria
identità e i rapporti con il mondo esterno. Nel non riconoscersi c’è una
intollerabile discrepanza tra la percezione e l’idea di sé, che a volte si trascina nel
presente a partire dai ricordi del passato. Ne deriva un tema predominante di non
riuscire a (o non potere) fronteggiare una situazione, fino ad un senso assoluto di
non controllo della propria vita. Solo il distacco da sé e dalla realtà consente un
precario adattamento, attraverso una coscienza esplicita minimale, fortemente
limitata, coartata, crepuscolare.
I disturbi schizofrenici derivano da esperienze percepite come insostenibili per la
incontrollabilità di aspetti fondamentali della realtà esterna (ad es., inaffidabilità
delle persone sulle quali è stata investita la propria affettività e, quindi, il proprio
bisogno di avere una base inequivocabilmente sicura) o della propria salute (ad
es., paura o paradossale “certezza” di avere una malattia incurabile). In questi
casi, il soggetto mostra una concretezza quasi sensoriale, per cui si sente il
terminale delle sue emozioni e, dato che queste sono fortemente perturbanti, non
ne regge il peso e si sente pervaso, disgregato, minacciato, perduto. Ne deriva un
disancoraggio dell’identità personale nello spazio e nel tempo. Questo
disancoraggio riguarda anzitutto il mondo interno, che si può frammentare in sub-
identità contingenti (meglio controllabili, anche se spesso apparentemente
incongrue ed incoerenti, variabili a seconda del contesto e di cui una può più o
meno temporaneamente prevalere) o si può incistare in un mondo autistico
“protettivo”, reso impermeabile alle perturbazioni esterne. Inevitabilmente, il
disancoraggio e la frammentazione dell’identità coinvolgono il rapporto con il
mondo esterno, nell’insieme dei comuni significati e dei modi di vivere rispetto al

195
contesto sociale. La ricerca di un pur minimo e precario adattamento porta a
consolidare un’identità basata su una trama narrativa rigida e non flessibile,
scarsamente autointegrata, inaccessibile alla critica, in quanto non aperta ai
comuni feedback. Tuttavia, proprio all’interno della disgregazione o della
chiusura della psiche si può cogliere un tentativo di adattamento. Il soggetto si
costruisce infatti una sua realtà più “gestibile”, ermeticamente chiusa all’esterno
(nelle forme autistiche con prevalenza di sintomi negativi) o paradossalmente
aperta verso l’esterno (mediante sintomi produttivi quali allucinazioni e deliri),
quando le emozioni negative legate a esperienze marcatamente perturbanti di
perdita di controllo minacciano l’integrità personale. Nelle forme “negative”
prevalgono i sintomi di incongruenza, confusione, frammentazione, appiattimento
affettivo, ritiro sociale e ripiegamento autistico. Quando invece è possibile trovare
un controllo, sia pure attraverso la costruzione di un rapporto abnorme con la
realtà, prevalgono le forme “positive”. In questi casi, la negatività viene scissa da
sé come se si trattasse di una realtà completamente estranea e viene attribuita
all’ambiente esterno: ne derivano temi deliranti non criticabili, in quanto privi di
feedback. I deliri nelle OPF Controllanti sono comunque marcatamente concreti,
riferiti ad aspetti “tangibili”, quali il proprio corpo e la propria salute (deliri
ipocondriaci), alla inaffidabilità esterna (deliri di gelosia, di persecuzione o di
veneficio), o volti a fornire a livello esplicito una acritica e assoluta rassicurazione
(deliri di grandezza o di onnipotenza). Di solito, i deliri persecutori sono semplici,
poco elaborati, centrati sulla pericolosità degli altri o di specifiche situazioni; in
altri casi prevalgono deliri ipocondriaci maggiormente strutturati: ad esempio, la
convinzione non scalfibile di essere affetti da una malattia o di non avere più
determinati organi o funzioni si può fare progressivamente più radicata, spingendo
il soggetto a richiedere in modo acritico e incongruo esami clinici e strumentali,
facendone una ragione di vita.
Nell’ambito dei disturbi di personalità, con temi prevalenti di insicurezza,
costrizione o non protezione, sono frequenti disturbi del cluster III, con
caratteristiche miste (disturbi evitanti/dipendenti), a seconda che prevalgano i
bisogni di allontanamento o di avvicinamento. Per lo stesso motivo, nei disturbi
borderline, le modalità di scompenso clinico assumono espressioni e polarità
diverse a seconda che il soggetto percepisca la necessità di staccarsi
temporaneamente o di riavvicinarsi ad una figura significativa, senza peraltro
riuscire a trovare un equilibrio che stabilizzi il controllo della propria vita, sul
versante sia degli investimenti affettivi che di quelli lavorativi.

196
SCOMPENSI CLINICI DELLE OPF DISTACCATE
Nei disturbi d’ansia di soggetti con OPF Distaccata è spesso presente una
concomitante depressione del tono dell’umore, che spesso può anticiparne la
comparasa. In diversi casi, l’ansia è rintracciabile all’interno del lungo periodo
prodromico che può precedere la depressione, in forma di tensione o di allarme
crescente nel dover sopperire con sforzi enormi alla propria negatività o
all’andamento ineluttabilmente negativo che viene attribuito alla propria vita.
Coesistono in questi casi disturbi neurovegetativi, disturbi dell’appetito e
insonnia, sia lacunare che terminale (con precoce risveglio e incapacità a
riprendere nuovamente sonno). I disturbi d’ansia possono insorgere quando il
soggetto teme di non riuscire a gestire in modo autonomo le situazioni o quando
vive un investimento significativo (sul piano personale, affettivo, occupazionale)
con un marcato senso di precarietà e di pessimismo. Inoltre, per la presenza di
ansia anticipatoria, con conseguenti condotte di evitamento, il soggetto può
rifiutarsi di investire e limita il suo raggio d’azione o lo fa a piccoli passi, con
cautela e verifiche, in maniera apparentemente distaccata e disinteressata, facendo
leva sulle spiegazioni esplicite. Quando l’equilibrio risulta precario, ogni evento
negativo, anche minimo, può riaccendere l’ansia, che spesso si esprime con
angoscia, coinvolgendo nella sofferenza il fisico e con disforia, associandosi ad
irritabilità e ad umore depresso. In questi casi, come ha evidenziato Guidano
(1987, 1991), le attivazioni emotive tendono a estendersi, a partire dall’ambito
della specifica esperienza che le ha innescate, fino a coinvolgere gran parte o tutti
i settori dell’esperienza, come se venisse compromessa la stessa esistenza. D’altra
parte, gli aspetti anticipatori dell’ansia, finalizzati a “limitare i danni” del presente
e a prevenire tutto ciò che di negativo può venire dal futuro, porta ad una
inibizione psicomotoria, fino all’inerzia, all’allettamento ed alla immobilità
pressoché totale. La messa a fuoco in moviola di episodi significativi consente di
ricostruire la stretta relazione con il senso di perdita o di negatività personale che
in qualche modo viene ricavato dall’esperienza immediata – vissuta al momento o
anche semplicemente anticipata e quindi temuta – fino a vere forme di attacco di
panico. Più rari appaiono viceversa i disturbi fobici e ossessivo-compulsivi, che
sono talora osservabili negli scompensi di OP Combiante Distaccate-Normative.
I disturbi somatoformi esprimono attraverso il corpo il senso di negatività, di
indegnità e di colpa di cui il soggetto si sente portatore. Si associano spesso ad
altri disturbi e, in particolare, a quelli di tipo depressivo o, sul versante psicotico, a
quelli schizo-affettivi e schizofrenici. Frequenti sono le componenti somatiche
legate all’ansia e alla depressione, che si esprimono con una forte angoscia ed una
marcata sofferenza personale, con coinvolgimento soprattutto dell’apparato
respiratorio e di quello cardio-circolatorio. Particolarmente rilevante è
l’attivazione del sistema nocicettivo. A questo proposito, poter sperimentare un

197
dolore fisico rappresenta una sorta di sollievo, che consente al soggetto di
spostare, almeno transitoriamente, l’attenzione da una sofferenza esistenziale e
morale che appare troppo intensa da sopportare. Proprio per quanto si è appena
detto, all’angoscia e ad eventuali somatizzazioni (ad es, cefalea, dolore toracico,
dispnea) si possono associare disturbi di conversione e/o disturbi dissociativi.
Tra i disturbi dell’umore, nella depressione l’esperienza appare legata, a livello
esplicito, ad una propria condizione di solitudine e di distacco rispetto agli altri e
al mondo percepita come “oggettiva”, che si riattiva in ogni circostanza vissuta
come perdita di qualcosa che era presente in precedenza, anche se in modo
precario e instabile. La sensazione di isolamento personale e di bassa attitudine ad
accedere alle relazioni interpersonali significative (amicizie, rapporto di coppia)
rende cauti nell’intraprendere i rapporti con gli altri, verificando il rischio di
fallimenti e rifiuti. Ne deriva la tendenza ad investire parzialmente nei rapporti o a
evitarli. D’altra parte, l’investimento può essere un ancoraggio per tenersi
collegati con gli altri e con il mondo: “quando mi domando chi sono cerco la
familiarità dei volti e dei luoghi. Questo mi permette di non sentirmi estranea
rispetto a me stessa, di sapere che sono un po’ più nel posto, anche se resto sola.
Essere a contatto con situazioni problematiche e vedere la fatica di vivere degli
altri mi fa sentire che le mie fatiche non sono solo mie, che sono parte anch’io
dell’umanità, mi fa sentire più utile, mi dà la spinta per far crescere quel piccolo
pezzettino di mondo che è di mia competenza. Non solo: ma se do una possibilità
a me, mi sento per così dire più buona, perché allora la do anche agli altri”.
Ovviamente, le spiegazioni esplicite che il soggetto si dà non lo/a proteggono
dall’esperienza tacita di perdita, se questa poi si verifica, né tanto meno dalle
intense emozioni negative che ne conseguono. Da un lato, il vissuto di distacco
provoca sofferenza; dall’altro attiva il bisogno di prendersi cura delle persone
significative per non farle soffrire e attiva la curiosità verso la vita. Spesso la
depressione del tono dell’umore compare in conseguenza di esperienze tacite di
perdita, solitudine e rifiuto. A volte si tratta di esperienze precoci di separazioni o
minacce di separazione. Altre volte si riscontrano malattie gravi o lutti di persone
care, rivelazioni spiacevoli su qualcuno su cui si faceva affidamento, problemi
economici seri, sradicamento dal proprio ambiente, perdita del lavoro, ecc.
Altrettanto precoce appare l’esperienza della difficoltà di costruire relazioni
affettive stabili e sicure, nonostante gli sforzi compiuti a questo scopo. Il soggetto
può costruire un senso di sé come di una persona poco amabile, scarsamente
capace di suscitare interesse e di avere relazioni valide e durature. In generale, la
riformulazione clinica del materiale personale consente di mettere a fuoco che lo
stato di malessere è in larga parte dipendente da come, in modo tacito, l’individuo
attribuisce le situazioni di non protezione, non accudimento, distacco o freddezza
a proprie caratteristiche e non al funzionamento delle figure significative con cui
ha avuto a che fare, per cui ne ricava il senso di essere una persona poco amabile e

198
destinata a rimanere sola, a meno di un forte impegno di responsabilizzazione e di
disponibilità verso gli altri, senza poter chiedere molto in cambio. Il disagio è
percepito su un piano marcatamente affettivo, legato alla percezione di perdita e
non al giudizio esterno e all’immagine di sé che ne deriva: “nessuno mi riesce a
capire. Nessuno riesce a sentire quello che strilla dentro di me. Già, se qualcuno
lo sentisse. Hai voglia a dire che sto giù, anche quando provo a uscire con
un’amica sto sola lo stesso. La compagnia non mi distoglie da me, dal fatto che
sento tutto freddo, che vedo tutto grigio e squallido. Non c’è niente che mi
andrebbe di fare o di vedere, desidererei solo stordirmi. Finora non c’è stato
niente che è andato bene, non ho desiderio di niente, non riesco a immaginare
niente che mi faccia felice. Probabilmente se trovassi qualcosa che mi fa felice
avrei paura, mi viene da pensare che o la voglio e non ci arrivo o la prendo e la
perdo o non la riesco proprio a prendere e ci rimango malissimo”. Va tenuto
presente che anche nelle intense emozioni negative c’è una valenza adattiva:
infatti, nel caso di dolorose situazioni di solitudine e perdita (sia affettiva che
socio-lavorativa), le attivazioni opposte di disperazione e di rabbia possono
consentire, sia pure in modo critico e precario, una regolazione della distanza, in
quanto la rabbia, se fallisce nel tentativo di rivalsa, distacca, mentre la
disperazione fa toccare il fondo e spinge poi a riavvicinarsi agli altri. Anche negli
scompensi psicopatologici più gravi è quindi possibile individuare alcune risorse
che consentono al soggetto di funzionare, cercando di mantenere una sua coerenza
interna. Se ci si sente poco amabili, poco competenti sul versante relazionale e
affettivo, fino a convincersi di essere incapaci, impotenti, non amati/e o
impossibilitati/e ad amare, insensibili come un robot, scollegati/e dal mondo, può
nascere un disagio personale e relazionale che viene ricondotto esplicitamente al
fatto di vivere un destino preordinato, da accettare in quanto non modificabile,
mentre sfugge il fatto che questa visione della vita è espressione del modo
abituale con cui il soggetto ha imparato a riferirsi l’esperienza: “ho sempre paura
di perdere l’equilibrio. Quando mi succede mi pesa tutto, mi vedo negativa, non
riesco a essere coerente con le responsabilità che dovrei assumere. Mi paragono
col mondo, mi sento più lenta. Tutto è troppo freddo o troppo caldo. Credo di
essere sbagliata, come quando costruisci una struttura: se c’è un errore il palazzo
crolla. Mi viene in mente un ricordo nitidissimo, di me piccola in braccio ad una
zia che veniva ogni tanto a trovarci da lontano: ero triste, sentivo che lei presto
sarebbe andata via. Mi capita così: ogni ricordo che dovrebbe essere bello lo vivo
col dolore che lo perderò, come se io fossi inadatta, come se mi mancasse una
regola comportamentale che non conosco. Allora, se per me la perdita è normale,
sto indietro, cerco di non investire”. Il disagio nasce da situazioni esterne (cose
che accadono, ma anche atteggiamenti indotti dal soggetto) da cui si ricava di
essere destinati alla solitudine, di doversi accontentare di un po’ di affetto solo in
modo provvisorio, di essere impastati/e di una negatività che può contagiare e fare

199
del male agli altri, di essere per costituzione e per destino diversi/e rispetto al
mondo, come se tra quest’ultimo e loro ci fosse una barriera insuperabile. Gli
episodi di perdita sono ricollegati ad una responsabilità personale (e non, come
accade nelle OPF Controllanti, alla pericolosità del mondo). La solitudine che ne
deriva è vista come conferma della propria inaiutabilità: ci si sente diversi/e per
un destino di fondo (non per mancanza di conferme come nelle OPS
Contestualizzate o per una propria imperfezione come nelle OPS Normative):
“vivo in un profondo stato di tristezza e di vuoto. Faccio fatica ad alzarmi dal
letto; tutto è diventato complicato: orari, impegno, continuità. Mi sento apatico,
vivere è diventato un peso. Fino a qualche tempo fa andava meglio, ma la
solitudine l’ho sempre avuta dentro”. E ancora: “da un po’ di tempo i giorni di
buio sono più frequenti. Ho una grandissima angoscia interiore, quando mi viene
provo un senso di estraneità in tutto e da tutti. Quando sto bene mi piace stare
sola in casa, avere autonomia, ma se sto male ho il terrore di stare sola. Quando
sono disperata piango, mi dico che è colpa mia. Se provo rabbia fuggo, ho paura
di fare del male agli altri. Ho sempre avuto terrore di fare del male agli altri. Se
mi va male qualcosa, mi faccio schifo. Mi dico: ‘vedi, ti aggrappi a una realtà che
non esiste’. Intorno a me ci sono persone molto positive, se però succede
qualcosa che incrina questo equilibrio che a me fa bene, sento che sono io fuori
posto e che mi aggrappo a qualcosa che però poi crolla sempre. Poi è una
tragedia, il deserto. Mi dico che sono io quella messa male, che non mi dovrei
aspettare niente senza illudermi”. Nelle diverse forme cliniche di depressione, pur
con vari livelli di gravità e durata che caratterizzano i singoli sottotipi (depressone
episodica, limitata nel tempo, o depressione persistente – distimia – tipicamente
cronica), le attivazioni emozionali tacite di disperazione e di rabbia confluiscono,
a livello esplicito, in scenari molto variabili di inadeguatezza e di indegnità
personale, sia per intensità che per andamento nel tempo: ad esempio, “non
ritenersi degni di considerazione e di amore, sentirsi sporchi moralmente,
trovarsi in un tunnel o in un baratro senza intravedere una via di uscita se non
precaria e lontana, avere la sensazione di dovere toccare il fondo senza sapere se
sia possibile risalire, vedere crollare tutti i propri progetti e le proprie speranze
(che ormai appaiono solo illusioni) senza avere costruito nulla di significativo”.
Queste trame narrative depressive sono vissute a livello esplicito come realmente
oggettive e non come il modo soggettivo abituale di riordinare le esperienze, a
partire dalla relazione di attaccamento. Si può delineare quindi gradualmente una
percezione di sé centrata sul senso di dover contare solo su se stesso
(“autosufficienza compulsiva”) a causa della non controllabilità dell’andamento
delle esperienze relazionali, per mantenere comunque l’immagine di sé entro
livelli accettabili di autostima. L’impotenza e la grande fatica, richieste per
ottenere solo risultati modesti, parziali e precari, sono riferite a colpe proprie più
che alla mancanza di supporto o di sostegno esterno (come si osserva nelle

200
depressioni delle OPS Contestualizzate). La mancata risposta sul piano empatico
da parte degli altri è percepita come una ulteriore prova della propria negatività
personale, dapprima sospettata o temuta, quindi vissuta con un senso sempre più
marcato di rabbiosa o rassegnata certezza. Ogni evento negativo può riattivare il
vissuto personale di essere sostanzialmente soli al mondo e di non dover mai fare
troppo affidamento sugli altri, pena il rimanere tristemente delusi e feriti. Il
soggetto può proteggersi inconsapevolmente da nuove delusioni – cioè dallo
sperimentare nuovamente di essere soli e non amati, provando di conseguenza una
profonda tristezza ed una grande rabbia – evitando situazioni di coinvolgimento
affettivo. Il dolore, prodotto della propria condizione esistenziale “oggettiva” di
essere soli e non amati, può essere così intenso da desiderare di non esserci, fino a
sperimentare un senso di estraneità verso l’ambiente (“derealizzazione”) e verso il
proprio corpo (“depersonalizzazione”). In questi casi, le trame depressive portano
a non riconoscere il proprio corpo o il proprio ambiente abituale di vita o
comunque a provare per essi un senso di estraneità, come se li si osservasse dal di
fuori: il soggetto non sente più il mondo interno, “come se fosse svuotato, piatto,
come se lo sguardo fosse scollegato con il corpo”, mentre anche la realtà esterna,
non accettata, viene disconosciuta e negata. Verificare che il non essere stati
presenti ad una riunione o ad un evento non ha causato problemi agli altri è
motivo di sollievo (e non causa di sofferenza per non contare abbastanza per gli
altri, come avverrebbe in una OPS Contestualizzata): “in questo periodo provo
una grande fatica di vivere. Non sopporto che mia madre mi chieda di darle una
mano. Mi lacera e mi annienta scoprire che per lei c’è sempre stato qualcosa di
importante da fare e che, se glielo faccio notare, lei si mette a piangere, mi chiede
scusa, dicendomi che è debole e che il mio bene le sta a cuore più di tutto. Ho
voglia di non esserci, come se vedessi il mio corpo che si muove, fa, è estraneo
rispetto a me. Mi sono detta: allora è meglio che me ne sto a casa mia, senza
andare dai miei (anche se molte volte sono stata fondamentale negli equilibri di
casa). Ho saputo che loro sono stati bene e mi sono tranquillizzata: il fatto che
non devo essere sempre la salvatrice della patria mi ha lenito il dolore”. Le
esperienze, percepite come perdite reali o potenziali, producono l’attivazione di
tonalità emotive che oscillano tra la disperazione (fasi passive) e la rabbia (fasi
reattive). Il controllo inadeguato della rabbia, che caratterizza questi scompensi,
fa oscillare il soggetto tra autoimputazioni e autocommiserazione e lo può
spingere a mettere in atto comportamenti autolesivi (“acting-out”). Le idee
autolesive (a volte del tutto dissimulate o negate) possono apparire – se si
associano ad un angoscioso restringimento crepuscolare della coscienza – come
l’unica possibilità praticabile, ponendo fine ad una esistenza insopportabilmente
angosciante e dolorosa. Si può anche fare abuso di alcol o assumere droghe, usati
come “anestetico” o per provare sensazioni alternative rispetto a quelle legate alla
routine della propria vita. In casi di marcata depressione, l’aggressività si

201
manifesta con attacchi di disperazione rabbiosa. Sono gli altri (i genitori, i figli, il
partner, gli amici) che si devono riavvicinare, mentre il soggetto non fa un passo.
Se gli altri non lo fanno, l’apprendimento secondario di non aiutabilità e di non
amabilità complica ulteriormente le cose, specie quando il soggetto è in età
infantile ed ha già sperimentato esperienze di perdita. Alla percezione di scarsa
amabilità personale e di improbabile aiuto da parte degli altri si può associare un
senso di autoaccusa e di disprezzo (“self blaming”). Quando l’ancoraggio
relazionale fallisce, i temi depressivi possono estendersi “a macchia d’olio” al
contesto familiare, amicale e lavorativo, fino a comprendere il mondo intero (con
un sentimento pervasivo di catastrofe e di rovina, che spiega come si possa
giungere a forme di “omicidio-suicidio compassionevole”, per sottrarre sé ed i
propri cari ad un destino di sciagura percepito come oggettivamente inevitabile).
A volte basta poco per far cadere fragili e temporanee illusioni e il soggetto
ricorda a se stesso/a di essere solo/a, come se le esperienze fatte da bambino/a,
attraverso le quali ha ricavato questa sorta di destino unico e irreversibile,
coincidessero con il suo essere persona, come un marchio di fabbrica. Su questa
discrepanza di fondo, tra le potenzialità e le risorse personali (ignorate e
inespresse), da un lato, e il personaggio abituale isolato e negativo (che è l’unico
aspetto di sé riconosciuto e preso per vero a livello consapevole), dall’altro lato,
va impostato l’intervento terapeutico: “dopo quattro giorni in cui ero stata meglio
è crollato di nuovo tutto, ho buttato all’aria quello che di buono c’era stato. Mi
sono sentita abbandonata, non cercata. Avevo litigato con una persona che mi è
cara, senza accorgermi che quello che gli avevo scritto era eccessivo, che non lo
avrebbe condiviso. Mi sono messa in auto, anche se avevo paura di quello che
avrei potuto fare. A un certo punto mi sono messa a piangere, per 3-4 secondi ho
chiuso gli occhi, avrei voluto morire, smettere di faticare così tanto. Mi sentivo
una completamente fuori posto, estranea ed estraniata. Poi è successo qualcosa,
ho avuto paura di causare sofferenza agli altri, ho pensato alle persone che
tengono a me”. La riformulazione degli episodi significativi fornisce al soggetto
gli strumenti per mettere a fuoco come costruisce attivamente il senso di
negatività personale. Gradualmente prende dimestichezza che questo suo modo
abituale negativo di vivere l’esperienza non è l’unico – né il più funzionale – tra
quelli possibili. Può così scoprire di poter vivere situazioni analoghe in modo
diverso, con conseguenti migliori attivazioni emozionali: “prima cercavo le
complicazioni a tutti i costi, ora mi lascio più andare. Le cose che mi fanno
soffrire sono sempre meno importanti nella mia giornata. Ho anche la pazienza di
aspettare, mi guardo con ironia, mi dico ‘ecco, adesso ci riprovi’. Riesco ad
attraversare abbastanza indenne questo dolore interiore, prendo le distanze
dall’autopunizione, in questo mondo anch’io ho diritto di cittadinanza, anch’io
posso apprezzare le cose belle”.

202
Nei disturbi bipolari, le fasi depressive e maniacali ruotano intorno a temi taciti di
perdita completa di autonomia. Nelle fasi di depressione il soggetto, di fronte
all’incombente senso di fallimento personale, spegne ogni iniziativa che evidenzi
la propria irrimediabile solitudine e inefficienza percepita, con una inattivazione
psicomotoria che può arrivare fino ad una letargia funzionale; nelle fasi di mania,
viceversa, si attiva con un senso – che si rivelerà poi illusorio – di autonomia
totale e onnipotente, mentre il proprio continuo e incostante affaccendamento, che
passa rapidamente da un aspetto all’altro, distoglie l’attenzione e non consente di
riflettere su di sé.
I disturbi della condotta alimentare si osservano spesso in associazione con una
deflessione del tono dell’umore (specie se è presente una OP Combinata
Distaccata-Contestualizzata). Questi disturbi si possono manifestare sia sul
versante attivo (anoressia), sia su quello attivamente passivo (obesità da
abbuffate o “binge eating”), sia infine sul versante intermedio, con abbuffate e
condotte eliminatorie vicarianti (bulimia). Essi esprimono il disagio di accettare e
vivere il proprio corpo. Questo viene ridotto al minimo e sottratto, attraverso una
negazione simbolica e a volte rabbiosa, al rapporto con gli altri o è ampliato per
contenere il proprio dolore esistenziale, mentre nel vomito bulimico emergono più
chiaramente contenuti di colpa e punizione. Rispetto alle OPS Contestualizzate, le
attivazioni emozionali (soprattutto di rabbia e/o di disperazione) sono marcate e i
temi corporei sono secondari al senso di negatività personale, che appare primario
e che prescinde dalla accettazione esterna. Come ha messo in evidenza uno studio
del nostro gruppo (Sabbatini et al., 2017), è importante promuovere lo sviluppo
dell’autonomia del soggetto, responsabilizzandolo/a di fronte all’assunzione di
cibo, che va letta come un atto non solo necessario alla vita ma degno anche di
essere curato e valorizzato. Ci si può avvicinare, nutrendo se stessi/e e gli altri,
attraverso l’uso condiviso dei benefici che un pasto può racchiudere e andando
oltre gli aspetti meramente nutrizionali: è possibile accettare di condividere la
tavola, apparecchiarla insieme, preparare una pietanza per qualcuno che si ama.
I disturbi psicosessuali sono caratterizzati da un marcato senso di solitudine, per
cui ogni investimento affettivo significativo, correlandosi con un senso di sé
negativo e svalutato, è percepito come impossibile o, comunque, destinato al
fallimento. Come ha osservato Moltedo (2005), in questi casi durante
l’adolescenza l’emergere del pensiero astratto si accompagna ad una sensazione di
solitudine che, anziché stimolare positivamente la ricerca di nuove relazioni, porta
a vivere da soli/e, con conseguente isolamento e sviluppo compensatorio di
attività autonome. Anche la maturità precoce può essere fonte di segregazione e
incomprensione, producendo ulteriori esperienze di rifiuto e di perdita affettiva,
corrispondenti ad un’immagine personale poco amabile e incapace di generare
negli altri sentimenti positivi. Il senso di sé è polarizzato sulla separazione rispetto
al resto degli individui, che invece hanno quell’affetto e quel supporto emotivo

203
che il soggetto sente di non avere mai sperimentato. Anche quando vengono
intrapresi, i rapporti possono attivare un senso di inadeguatezza e di indegnità
personale, determinando di conseguenza un ritiro del proprio investimento –
spesso sottostimato a livello consapevole esplicito – e una inibizione della
funzione sessuale. Pertanto, i disturbi psicosessuali si manifestano soprattutto
sotto forma di sintomi disfunzionali o difettuali che esprimono il senso di
fallimento, di negatività personale, di abbandono, di incapacità di portare avanti il
rapporto, di rabbia, che spesso porta ad una interruzione del rapporto affettivo; ciò
avviene sia per abbandono diretto (spesso traumatico e violento), sia inducendo
indirettamente il partner ad abbandonare. In entrambi i casi non è infrequente
osservare una marcata reazione di perdita, con crisi di rabbia e di disperazione,
mentre prima della rottura lo stesso rapporto veniva denigrato, svalutato o perfino
negato dal soggetto.
I disturbi correlati a sostanze psicoattive, come l’abuso di sostanze stupefacenti
e/o di alcol, ricorrono frequentemente, in risposta alla esigenza di alleviare il
dolore interno e il senso di sconfitta con cui sono percepite le esperienze
discrepanti. Come ha osservato Pannelli (2005), l’uso di sostanze può avere un
duplice ruolo: sedare il dolore esistenziale legato al tema centrale di perdita e
solitudine o ricorrere a sostanze stimolanti per facilitare l’espressione di
attivazioni di rabbia, con finalità auto ed eterodistruttive. Pertanto, da un lato
viene ricercata una “anestesia” che lenisca il dolore di vivere; d’altra parte, in altri
soggetti o, nello stesso soggetto, nei momenti di reattività, si cercano sostanze
“attivanti” che diano la forza di vivere e di affrontare una realtà che viene
percepita come estremamente dura e precaria. Pertanto, nel corso dell’abuso,
viene accentuata la tendenza ad esprime nei rapporti interpersonali le tonalità
emotive di disperazione o di rabbia. I danni ed i rischi connessi con l’assunzione
di sostanze manifestano la marcata tendenza autodistruttiva – a volte, anche
eterodistruttiva – di questi soggetti. In questo senso va letta anche la mancanza di
precauzioni che espone al rischio di contrarre infezioni da virus HIV, sia
attraverso l’uso di materiali infetti (come siringhe), sia attraverso rapporti sessuali
“non protetti”.
I disturbi del controllo degli impulsi sono frequenti negli scompensi in cui le
oscillazioni tra fasi di disperazione e fasi di rabbia si caratterizzano per la notevole
intensità con cui queste emozioni si manifestano. Essi si associano spesso a
disturbi d’ansia e a disturbi depressivi, ma possono comunque accompagnare
qualsiasi scompenso di una OPF Distaccata. Come ha osservato Moltedo (2005),
le condotte autoaggressive sono particolarmente frequenti e intense ed esprimono
una risposta alla esigenza di alleviare il dolore interno o il senso di sconfitta con
cui si percepiscono le esperienze discrepanti; esse rappresentano quindi una sorta
di paradossale anestesia per mitigare il dolore di vivere. Specie nell’adolescenza,
di fronte ad un mondo percepito come incontrollabile e fonte di una immagine

204
negativa di sé, la rabbia e la condotta autolesiva che seguono al senso di inutilità
personale esprimono il tentativo di riprendere il controllo, circoscrivendolo agli
aspetti negativi di sé.
I disturbi della condotta esprimono, attraverso modalità diverse da caso a caso, la
difficoltà, la precarietà, l’incapacità a gestire la propria rabbia o la propria
disperazione. La volontà autodistruttiva, che a volte è anche eterodistruttiva, porta
non infrequentemente ad associare ad un disturbo della condotta una tossicofilia
(alcolismo, tossicodipendenza). I comportamenti disadattivi, anche nell’ambito di
un decorso cronico, possono dare luogo a comportamenti a rischio eclatanti,
violenti e improvvisi, a volte ostentati con aggressività e spavalderia, da parte di
chi si percepisce “uno/a che non ha più niente da perdere”.
I disturbi fittizi sono infrequenti e rientrano comunque all’interno di altre
manifestazioni cliniche (soprattutto, di tipo ansioso e/o depressivo). Infatti, il
senso di negatività personale e di solitudine che dominano i temi degli scompensi
di queste OPF non portano quasi mai a ricercare accudimento (elemento tipico dei
disturbi fittizi). Se mai, a volte, i disturbi fittizi si manifestano nell’ambito di una
serie pendolare di avvicinamenti parziali e di riallontanamenti: in questi casi, il
ricorrere alle cure esprime il bisogno di un accudimento sia pure minimale, che
contrasta tuttavia con il senso di negatività personale e di sfiducia, che spinge
quindi il soggetto ad allontanarsi, a rifiutare i trattamenti e a rinchiudersi di nuovo
nella propria solitudine, almeno fino a quando il dolore esistenziale spinge ad una
nuova richiesta di aiuto.
Per quanto riguarda la simulazione, si riscontra più frequentemente in soggetti
con disturbi antisociale o borderline di personalità, per i quali la insopportabilità
della vita e della propria negatività spinge a condividere ad altri mali e sofferenza,
ingannando, punendo o ferendo. La disperazione e la rabbia vengono quindi agite
contro l’ambiente da cui ci si sente irrimediabilmente esclusi, rifiutati o a cui in
ogni caso non si intende appartenere.
I disturbi dissociativi esprimono una sorta di “anestesia” cognitiva e si osservano
in situazioni nelle quali il dolore per una perdita o un evento intollerabilmente
negativo non consente, almeno nell’immediato, una presa in carico consapevole.
Spesso sono precedute da un acuto senso di tensione, angoscia o rabbia, che si
risolve con la comparsa dell’obnubilamento del sensorio. Il soggetto vive in una
sfera anaffettiva, di indifferenza e distacco rispetto al contesto, con il quale
sarebbe troppo doloroso rientrare in relazione (derealizzazione). Questi quadri si
osservano spesso in soggetti con OP Combinata Distaccata-Contestualizzata, con
senso di estraneità verso il proprio corpo, con tendenza a non percepirlo più e a
sentirsi di conseguenza evanescenti (depersonalizzazione). Nel non riconoscersi
c’è una intollerabile discrepanza tra la percezione e l’idea di sé, che a volte si
trascina nel presente a partire dai ricordi del passato. Ne deriva un tema
predominante di essere troppo fragili per raggiungere (o mantenere) in modo

205
autosufficiente un livello di autonomia compatibile con le necessità richieste da
una situazione e, più in generale, dalla vita. Solo il distacco da sé e dalla realtà
consente un precario adattamento, attraverso una coscienza esplicita minimale,
fortemente limitata, coartata, crepuscolare.
Nei disturbi schizofrenici le emozioni negative che non possono essere riferite a
sé sono proiettate all’esterno (ambiente da cui, comunque, il soggetto si sente del
tutto distanziato). Questo avviene attraverso trame narrative rigide e prive di
feedback: le attivazioni intollerabili di disperazione e di rabbia sono avvertite
come estranee e appartenenti ad un contesto “oggettivo”, finendo con l’apparire
acriticamente tanto ineluttabili quanto universalmente valide.
Quando è possibile mantenere un rapporto, sia pure abnorme, con la realtà
attraverso la costruzione di una rappresentazione acritica di sé e del mondo,
prevalgono i sintomi “positivi” e compaiono temi deliranti. In questi temi deliranti
la negatività soggettiva può essere vissuta come colpa e condanna definitiva
(deliri di colpa) o come predestinazione o certezza di avere una malattia fisica
grave e mortale (deliri ipocondriaci); in altri casi viene proiettata nel futuro ed
estesa alle persone con cui si hanno rapporti significativi, al proprio ambiente o al
mondo intero (deliri di rovina) o può portare alla negazione del proprio corpo, di
sé o della realtà esterna (deliri di negazione o nichilisti). In particolare, nel delirio
di negazione, noto come “sindrome di Cotard”, il soggetto nega l’esistenza dei
propri organi, del proprio corpo, dei parenti, del mondo – il corpo è percepito
“come se fosse un guscio vuoto, che può dilatarsi fino ad abbracciare i confini
dell’universo” – producendo idee di immortalità, per cui si sente condannato/a a
soffrire eternamente. In alcuni casi può avere la “convinzione di essere morto/a”,
per cui si rifiuta di alimentarsi e di curarsi.
Nell’ambito dei disturbi di personalità, con tratti prevalenti di isolamento,
solitudine e tendenza all’abbandono, si possono osservare modalità di scompenso
persistente sia nel cluster I (disturbi schizoidi e schizotipici, con marcate forme di
isolamento e deriva sociale), sia nel cluster II (nei disturbi borderline e
antisociali), nelle quali le attivazioni emotive di rabbia e disperazione possono
confluire in comportamenti marcatamente violenti), sia nel cluster III (disturbi
evitanti).

206
SCOMPENSI CLINICI DELLE OPS CONTESTUALIZZATE
I disturbi d’ansia insorgono quando l’assimilazione dell’esperienza diventa
problematica per il fatto che il soggetto non si sente all’altezza di una situazione,
delle aspettative (proprie e degli altri) o pensa di essere incapace di raggiungere
un risultato atteso. Queste condizioni possono produrre ansia anticipatoria, alla
quale possono seguire condotte di evitamento, per non incorrere nel fallimento
temuto. Lo stato interno dipende in larga parte da come, in modo tacito, il
soggetto ha imparato a utilizzare le situazioni di approvazione o disapprovazione,
di calore o di rifiuto non come atteggiamenti attribuibili alle figure significative
con cui ha avuto a che fare, ma come espressione diretta del proprio valore e di
cosa si può aspettare dagli altri. Pertanto, il giudizio di una figura significativa
(che può essere idealizzata e mitizzata) gioca un ruolo centrale nel mantenimento
della coerenza interna: se è negativo, il soggetto, che si mette inconsapevolmente
sotto esame, si può scoprire inadeguato o fallito, sperimentando attivazioni
emotive di insicurezza, di vergogna e di inferiorità: “a volte non mi piaccio
proprio. Mi sembra che mi ero aggrappata a una realtà che non esisteva. Intorno
a me ci sono persone molto positive, se però succede qualcosa che incrina questo
equilibrio che a me fa bene mi sento fuori posto e mi vedo una che si è illusa di
stare cogli altri ma che poi non ce l’ha fatta ed è crollata. Quando mi succede
questo è una tragedia, faccio il deserto intorno a me. Mi dico che sono io quella
che è messa male, che non mi devo aspettare nulla di bello da me e che se gli altri
mi cercano, è per compassione. Sento di non valere nulla, mi vedo banale,
perdente, non mi curo più, esagero in tutto, evito di frequentare gli altri e di fatto
li allontano”. Anzi, quando un messaggio è discrepante con l’ambiente interno (ad
es., non va bene quello che il soggetto prova, dice o fa), il disagio fisico che
compare, proporzionale all’intensità della disconferma ricavata, serve a
sopprimere e a non rilevare le esigenze e le motivazioni interne (che, quando sono
comunque percepite, vengono svalutate e prese per non attendibili). Se ci si
irrigidisce in questi stereotipi, si può cadere nella condizione di ricercare le
conferme desiderate solo dalle stesse persone, perdendo la capacità di verificare
quali situazioni e quali soggetti possono fornire queste conferme (e, prima ancora,
se le conferme pretese rispondono effettivamente al proprio bisogno di
realizzazione). Il soggetto teme il giudizio degli altri, ne soffre lo sguardo da cui si
sente giudicato e valutato e non ha la consapevolezza di essere lui/lei ad utilizzare
il giudizio delle figure esterne per confermarsi l’idea che ha di sé). Cerca pertanto
di evitare i posti dove si sente più esposto/a al confronto esterno; se coesiste una
componente controllante, chi lo/a giudica è percepito/a anche come cattivo/a,
ostile: “specie quando esco dal mio ambiente abituale e cammino per strada mi
sento osservata, indagata, analizzata, anche se non vado vestita per nulla in modo
provocante e non cerco in alcun modo di attirare l’attenzione degli altri. Non mi

207
va di incontrare lo sguardo della gente, mi dà un gran fastidio come se la gente
vedesse in me qualcosa che disapprova, come se fossi antipatica, brutta. Non
capisco cosa vogliono da me, mi indispongono”. A volte il sogno esprime
metaforicamente il desiderio di raggiungere un traguardo, come conquistare una
persona, ottenere un incarico di prestigio ed anche la paura di non riuscire, “come
se si dovesse intraprendere un viaggio importante senza fare in tempo ad arrivare
alla partenza”. Ad esempio: “devo prendere assolutamente un volo
intercontinentale. Per arrivare all’aeroporto devo prendere prima il treno poi il
taxi. Però non ho preparato nulla. Sento che non riuscirò ad arrivare in tempo al
check-in e che perderò questo volo che per me è importantissimo”. A livello
esplicito, il fatto di ricavare dal modo di fare di una figura significativa
informazioni su di sé (e non su di essa) può far emergere un senso di rabbia
quando non ci si sente accettati e capiti (a prescindere da quanto l’altro possa
effettivamente cambiare il proprio atteggiamento, che è condizionato dai suoi
processi taciti di mantenimento della coerenza interna). Ne può derivare un senso
di incertezza, come se non si sapesse più cosa provare o cosa fare: “non sono
sicura. Quando mi sento nel dubbio che non ho fatto bene una cosa, ho bisogno di
qualcuno che mi dà un consiglio, una conferma. Magari, mi sembrava di averla
fatta bene. Però poi se mi dicono ‘non va bene’, ci ripenso: penso troppo a quello
che potrebbero pensare gli altri di me, forse ho paura di restare fuori dal gruppo.
Così a volte mi sembra che non so quello che voglio veramente, divento lunatica,
mi succede che prima sto bene e poi, magari per una cavolata, divento strana e
mi arrabbio”. Quando i confini personali sono indefiniti e/o negativi, le conferme
sono cercate in modo poco progettuale, rigido, mentre le disconferme sono
amplificate e la ricerca (o il rimpianto) di un obiettivo non raggiunto, perso o non
conseguibile diventa il centro della propria attenzione, senza valutare
l’adeguatezza di questo obiettivo rispetto ai bisogni personali (che non sono
riconosciuti, se non in modo ambiguo, confuso e inadeguato). Si cerca di essere
sempre utili, di non dispiacere a nessuno, si pensa di valere “solo se si salva il
mondo”, mentre ogni riscontro negativo diventa una sconfitta personale, che
destabilizza e rende più incerti e insicuri: “è difficilissimo dire chi sono. Una
persona estremamente vitale, con una gran voglia di vivere, di sorridere, di star
bene, di avere rapporti cogli altri, di emozionarsi e di fare emozionare. Le
emozioni sono molto mie. Una che sa star bene cogli altri, che è incuriosita dagli
altri, che è sempre alla ricerca di migliorare, soprattutto nei rapporti. Mi piace
cogliere nel quotidiano quello che c’è nella vita. Le cose che accadono le guardo
con una mia sensibilità, per capire se si instaura un feeling, un contatto, se gli
altri stanno bene o no. Anche nella famiglia creo rapporti giocosi, però c’è
sempre una partecipazione da parte mia nei rapporti. Si parla sempre di come
stiamo, se c’è dolore, gioia, a partire da mia madre, con tutti quanti. Sono una
persona che assorbe troppo gli stati d’animo degli altri. Da un lato a me piace

208
sentire la vita in questo modo, però c’è l’aspetto negativo, controproducente:
entrano troppo le emozioni, entra il dolore, il disagio degli altri. Da un lato ho
paura di sentire il mio, dall’altro non riesco a star bene, nonostante la mia natura
“sana”, come se ce l’avessi come compito quello della crocerossina. L’ho fatto
sempre ed è come se facesse parte di me, anche se mi sto rendendo conto che non
ne posso più. C’è una parte sana che ha voglia di bene, ma non sono abituata a
questo senso di bene. In qualche modo, per vivere, è come se io dovessi trovare
delle situazioni di angoscia. Devo essere quella che riesce a prendere sulle spalle
e a risolvere tutte le situazioni”. L’ansia, quando diventa eccessiva, può essere
espressa con una sintomatologia polimorfa e variabile nel tempo, anche nello
stesso soggetto. Tuttavia, nonostante il variare dei quadri clinici, che spesso
esprimono in forma indiretta le immagini e le emozioni tacite perturbanti, la loro
insorgenza può essere ricondotta – sebbene ciò non sia sempre agevole, almeno
inizialmente – ad esperienze di disconferma che hanno alterato in maniera
significativa la coerenza interna del soggetto, innescando una fase di crisi, fino
agli attacchi di panico: “all’improvviso tremo tutto, provo emozioni negative
molto forti, mi sento male. Non accetto che lei non ci sia più. Mi sembra
impossibile avere un sentimento normale, anche se una parte di me ricerca le
emozioni che ho provato, confrontandomi con l’esterno. Ho il panico di non avere
più la capacità di espormi, di non trovare più chi mi capisce. Per questo non
lascio spazio alle componenti emotive della mia vita e cerco di razionalizzare
tutto, innalzando muri per difesa”. A volte, la disconferma è solo temuta e si
associa alla paura di non riuscire ad essere perfetti come si pensa di dover essere
per venire considerati, stimati e apprezzati dagli altri o è legata al timore di non
avere le capacità per “debuttare” nella vita sociale, con conseguente chiusura in
un isolamento dal quale, con l’andare del tempo, può essere sempre più difficile e
imbarazzante uscire. Non avere da una figura significativa i riscontri a ciò che si
cerca porta a sentirsi incompresi, non accettati, “come una persona che sbaglia,
che non riesce ad ottenere i risultati sperati, che non sa dare un senso o una
svolta alla propria vita”. Si ha il dubbio – o la certezza – di aver commesso errori
e fatto scelte sbagliate, come se il punto di vista dell’altro fosse l’unico
“oggettivo”, “vero”, “valido” e non solamente il punto di vista di un’altra persona,
per quanto significativo esso possa essere. La mancata conferma o la disconferma
inibisce la progettualità del soggetto, provoca uno stato di disagio e di confusione,
attiva un’ansia somatizzata fino all’angoscia, come se, secondo un meccanismo
tipo “tutto o nulla”, avesse sbagliato tutto. Al contrario di quanto avviene nelle
OPF Controllanti (nelle quali la regolazione della distanza è fisica ed operativa in
base alla percezione interna dei bisogni coesistenti di protezione/rassicurazione e
di libertà), nei soggetti con una OPS Contestualizzata la regolazione della distanza
è centrata sul pensiero, su quanto ci si sente accessibili all’approvazione o alla
disapprovazione delle persone importanti, specie se non se ne conoscono i criteri

209
di valutazione ed i gusti. C’è un bisogno unilaterale di “trasparenza”: da un lato,
si desidera conoscere il giudizio di una persona significativa; dall’altro lato, non si
esprime il proprio pensiero o il proprio bisogno in quanto aprirsi troppo fa sentire
in balìa dell’altro: “ieri sono uscita con un ragazzo che mi piace. Siamo andati in
un pub, abbiamo preso delle cose insieme, ma sono stata zitta quasi tutta la
serata. Non avevo cose interessanti da dire, mi sembrava che quello che mi
passava in testa erano tutte stupidaggini. Sono ancora triste perché lui non è stato
chiaro se davvero era interessato a me, non mi ha rincuorato, avrei voluto che
fosse stato lui ad aprirsi, ma non glielo potevo mica dire, gli avrei fatto vedere
che sono debole”. La fobia sociale è frequente (mentre gli altri disturbi fobici
ricorrono maggiormente nelle OPF Controllanti), ed è caratterizzata da una
marcata e persistente paura di situazioni e prestazioni in cui si è esposti a persone
non familiari e al loro giudizio, per cui l’individuo teme di agire o di mostrarsi in
maniera umiliante o imbarazzante. La paura di esporsi a giudizi negativi, specie in
situazioni non familiari, pubbliche e inedite, attiva un marcato stato d’ansia, con
tendenza ad evitare quello che appare un esame personale, soprattutto quando non
sono presenti figure confermanti: “da quando mi è andata male quella volta lì,
non ho più ingranato, mi ha tolto sicurezza, sono sempre fuggito; mi tengo a
distanza e sto chiuso in casa, non esco, evito di vedere gli altri, così non li
deludo”. Quando c’è il timore di avere alterazioni fisiche (dismorfofobie), il
disagio esprime l’insoddisfazione e la scarsa accettazione di sé, ben oltre la paura
esplicita di essere disprezzati, criticati, derisi per il difetto fisico su cui si centra
l’attenzione. Se non risolta, la preoccupazione per l’aspetto somatico diventa
l’elemento centrale della vita psichica e condiziona il comportamento e la
progettualità individuale, interferendo con il rendimento scolastico e la vita
relazionale e producendo abulia (scarsa motivazione a pensare e progettare),
chiusura e isolamento sociale, evitamento dell’esposizione rispetto al mondo dei
coetanei, vissuti irrealisticamente come migliori e senza difetti. Tutti questi aspetti
si possono pertanto associare ad una depressione dell’umore. I disturbi ossessivo-
compulsivi si osservano in soggetti con una marcata ricerca di perfezione formale,
spesso centrata su temi relativi al corpo e al cibo. Compaiono quando un soggetto
non riesce più a rispondere al bisogno di mostrarsi perfetto, in ordine e all’altezza
delle situazioni e delle aspettative. In queste occasioni si tende a polarizzare
l’attenzione su fastidiosi e invalidanti pensieri intrusivi, inadeguati rispetto alle
necessità (ossessioni), cui corrispondono, sul versante comportamentale, azioni
rituali stereotipate e ripetitive (compulsioni). Al contrario di quelli delle OPS
Normative (che conseguono a dubbi legati ad una imperfezione rispetto ai criteri
interni di dover fare ciò che è giusto), i rituali delle OPS Contestualizzate
consistono in azioni stereotipate di opposizione o di ricerca di approvazione. La
rabbia è tendenzialmente molto controllata, anche nelle sue espressioni più
eclatanti, in quanto regola e modula a livello tacito la relazione con l’altro: se

210
quest’ultimo cambia in senso confermante, l’emozione sfuma. La sua attivazione
appare fluttuante, vaga, non netta, per cui il rapporto tra rabbia e senso di sé non è
mai definito: “la rabbia è mia, c’è una connessione, ma non so quale”. Questi
soggetti appaiono come spettatori delle proprie emozioni, mentre operano una
messa a fuoco sul risultato: è come guardarsi dal di fuori e vedere come accade di
agire la rabbia, dato che l’effetto prodotto da un evento ha più importanza di
quanto esso interessi realmente. Tendono a manipolare il controllo della
situazione, modificando di conseguenza le emozioni sperimentate. Temi
frequentemente collegati alla rabbia sono quelli di sopraffazione, prevaricazione,
autorità, tutti connessi alla intrusività con la quale ci si sente interferiti nei propri
bisogni: la rabbia serve per difendersi da questa sopraffazione e da questa
intrusione. Il livello di abilità e di competenza personale è misurato in base al
risultato ottenuto e viene percepito frequentemente come un “tutto o nulla”
(“riuscire o fallire”). Anche saper esprimere o controllare l’aggressività è un tema
di abilità: si può essere capaci o meno, dato che questo parametro è sempre
mediato dal giudizio esterno. L’aggressività può essere vissuta “a freddo”, per
ridurre al minimo indispensabile l’esposizione, posticipandola al momento
opportuno, oppure può essere agita in maniera compulsiva “a caldo”, quando non
si riesce a farne a meno; a volte, il timore delle conseguenze può cambiare lo
scenario del confronto, consentendo un riallineamento sul punto di vista
dell’altro, attraverso una svalutazione del proprio punto di vista e della propria
posizione: “reazione bifasica”. Il sentirsi in colpa consente infatti di giustificare
l’altro, prendendo per buono il suo punto di vista per recuperare il contatto di cui
si ha bisogno: “è più esperto, più competente, si prende comunque cura di me, va
capito, in fondo ha ragione, me la sono presa troppo”. Solitamente, l’espressione
dell’aggressività consiste in una serie di lamentele e rivendicazioni piuttosto che
in rabbia vera e propria. Al contrario di quanto accade nelle OPF Controllanti, la
gestione è operata sugli stati interni (giudizio, emozioni), non sulla regolazione
della distanza. Il bisogno di controllo esprime quindi la dipendenza dagli altri: il
vincolo è il loro giudizio, cui si tiene e al quale non si può sfuggire; quando si
perdono le redini della situazione, scatta la rabbia. La difficoltà nel riconoscere gli
stati interni, specie quando si è alla continua ricerca di conferme esterne, può
d’altra parte rendere difficile la messa a fuoco del proprio disagio. Quando
l’immagine di sé viene ricavata da figure marcatamente intrusive, che anticipano
e ridefiniscono continuamente i propri bisogni, l’idea di sé appare confusa,
svalutata, alla costante ricerca di appigli esterni che diano sicurezza e valore. A
volte la propria competenza può essere ricavata da quanto si riesce a gestire un
aspetto specifico di sé (ad es., l’assunzione di cibo) che diventa centrale nel
sistema relazionale significativo.
I disturbi somatoformi sono molto più variegati, eterogenei e mutevoli di quelli
delle OPF Controllanti, traducendo attraverso il linguaggio corporeo cosa si ricava

211
dal giudizio esterno. A volte il disagio fisico stabilizza la vita del soggetto,
consentendo di non esporsi ed evitando, quindi, di avventurarsi in investimenti
lavorativi o affettivi dai quali si potrebbe uscire perdenti: “il malessere mi
stabilizza, senza è come se mi dissolvessi un po’, non saprei dove potrei andare a
parare, sicuramente male”. I sintomi esprimono infatti perturbazioni critiche della
coerenza interna di fronte a disconferme, reali, potenziali o immaginarie, per cui il
soggetto rivolge la propria attenzione sul corpo (evitando o riducendo, attraverso
il disagio fisico, il confronto con gli altri o con prove percepite come una verifica
del proprio valore o della propria adeguatezza: esami universitari, concorsi, gare
sportive, ecc.). Altre volte, sono espressione di una OP Combinata
Contestualizzata-Controllante: in questi casi le somatizzazioni si manifestano con
modalità tacite che esprimono un senso di costrizione o di non protezione in
situazioni nelle quali il soggetto si trova a disagio, sentendosi esposto ad un
giudizio esterno senza essere tutelato sufficientemente. Nei casi gravi, di fronte
all’impossibilità di mantenere l’immagine di sé che pretende di dare agli altri,
specie quando la distanza tra ciò che vorrebbe essere (“sé ideale”) e come si
percepisce (“sé reale”) è eccessiva, il soggetto può avvertire improvvisamente di
“essere cambiato”, entrando in una fase di scompenso clinico che lo fa sentire
impossibilitato a continuare la vita di relazione che aveva avuto fino a quel
momento. Può allora sperimentare un senso di profonda astenia (“mi è andata via
di colpo l’energia, non riesco più a fare le cose di prima, ad uscire, a studiare, a
praticare sport”), ma anche un senso di obnubilamento della vigilanza e della
coscienza (“ho un intontimento che non riesco a capire da dove viene”), riferito
solitamente ad una causa esterna: una dieta, uno sforzo eccessivo, una cura
farmacologica. In queste situazioni, la messa a fuoco dell’esordio psicopatologico
in termini di compromissione fisica consente di focalizzare come i sintomi –
facendo trovare un’uscita tacita al rischio di esporsi a disconferme – producano
una caduta marcata dell’angoscia avvertita fino a quel momento.
I disturbi da conversione sono piuttosto frequenti e sono legati alla difficoltà di
esercitare un controllo interno sulle percezioni, per cui il soggetto opera una
costante lettura sensoriale immediata dell’esperienza, senza la possibilità di
attivare un filtro razionale. Pertanto, alla totale dipendenza dal campo percettivo
(quindi, dagli altri) si deve il classico sintomo della “suggestionabilità”, mentre
gli atteggiamenti teatrali o l’indifferenza di fronte a situazioni coinvolgenti sono
l’espressione diretta dell’alterato feedback interno tra senso-percezioni e processi
cognitivi e immaginativi. In altri casi, viene duplicato un disturbo di cui è affetta
una figura significativa, dalla quale il soggetto si sente dipendente e nei cui
confronti sperimenta tonalità emotive ambivalenti (di amore e odio, di
abnegazione e insofferenza), sentendosi per tale motivo in colpa ogni volta che
non è stato conforme alle sue aspettative ed ai suoi bisogni. Se poi la figura
significativa (ad es., un genitore) si ammala o muore, i sensi di colpa – che sono

212
in realtà pseudo sensi di colpa, attraverso i quali il soggetto “scivola” dal proprio
punto di vista a quello dell’altro – possono portare non solo a riprodurre il
disturbo avuto in vita dalla figura significativa, ma anche a perdere ogni interesse,
con tendenza all’isolamento sociale, alla cronicizzazione dei sintomi, alla
depressione del tono dell’umore, senza che a livello esplicito venga colto dal
soggetto il nesso causale tra la malattia o la scomparsa della figura significativa e
l’inizio della sintomatologia clinica. Il sentirsi in colpa consente di giustificare
l’altro, prendendo per buono il suo punto di vista per recuperare il contatto di cui
si ha bisogno: “è più esperto, più competente, si prende comunque cura di me, va
capito, in fondo ha ragione”; “a volte tengo a fare di testa mia, anche se sbaglio,
perché io avevo programmato di fare così. Quando mi arrabbio dico tutto quello
che penso, anzi tiro fuori troppe cose. All’inizio sto meglio, poi però comincio a
pensare che ho sbagliato e sto peggio, mi pento. Non so nemmeno io perché
faccio così”.
Tra i disturbi dell’umore, gli episodi depressivi sono caratterizzati da forme con
evitamento totale dell’esporsi (ritiro prima di un esame, mancato debutto
affettivo, ecc.) e forme in cui ci si sottrae al rischio di disconferma, prima che
quello che si è intrapreso possa portare ad una sconfitta (ad es., non presentarsi ad
un appuntamento già preso, rinunciare a proseguire un rapporto o indurre l’altro a
mollare, non completare un’opera iniziata). Solitamente, queste forme ricorrono in
soggetti con confini personali incerti e indefiniti, con tendenza ad evitare ogni
confronto emotivamente significativo che possa suonare come una bocciatura
personale, fortemente temuta come conseguenza di un “reale” scarso valore
personale, frutto di ripetute e significative disconferme precedenti: si tratta,
quindi, di una depressione a lettura esterna. Quando l’immagine di sé viene
ricavata da figure marcatamente intrusive, che anticipano e ridefiniscono
continuamente i propri bisogni, l’idea di sé appare confusa, svalutata, alla costante
ricerca di appigli esterni che diano sicurezza e valore: “non lo so perché sono qui.
Ho sempre pensato di essere una persona diversa dalle altre. Faccio una vita
finta”; “non so perché mi veniva da piangere. Tornavo a casa, stavo pensando a
tutto quello che avrei dovuto fare… beh, sì, effettivamente, quando mi hanno
trattato in quel modo mi sono sentita una fallita, una che non era stata in grado di
far fronte alla situazione… no, non mi piacevo neanche un po”. Per quanto
riguarda gli eventi perturbanti, correlati con abbassamenti clinicamente rilevanti
del tono dell’umore, essi consistono in categorie di esperienza vissute
soggettivamente come disconferme, sia avvenute realmente, sia anche solo temute
o percepite come inevitabili nell’ambito della famiglia di origine, del gruppo dei
pari, del rapporto affettivo, del curriculum scolastico o lavorativo. Il senso di
disconferma si associa ad un’immagine di sé centrata su modelli formali o ideali,
conforme ad aspettative irrealizzabili di perfezione, mentre appare precaria la
capacità di mettere a fuoco il mondo interno e le proprie esigenze, quando esse si

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presentano disgiunte o in contrasto con le richieste o le aspettative esterne. Da un
lato, si vorrebbe essere perfetti per essere apprezzati sempre e comunque;
dall’altro lato, si sperimenta l’incapacità di essere come si vorrebbe, all’altezza di
ogni situazione; pertanto, ci si percepisce impotenti, inutili, falliti. Si cerca di
“dare tutto finché non ce se la fa più”, per cui si abbandona la sfida con il senso di
colpa di non essere riusciti a dare il meglio di sé: “il fatto che lui non fosse come
mi aspettavo mi ha fatto sentire inutile, fallita; ho pianto tanto, ho pensato che
non avrei potuto avere ricordi belli di questo periodo, come invece accade agli
altri”. Questa esperienza di delusione fa percepire al soggetto di essere “fuori
dalla norma” e, con un meccanismo tipo “tutto o nulla”, di non riuscire a fare più
niente di buono e di giusto, per cui avere sbagliato qualcosa porta ad un senso
generalizzato di fallimento personale. Il rifiuto o l’abbandono fanno sentire soli:
“se non sei calcolato neanche dalle figure più significative non ti senti una
persona, sei un oggetto che, se non è utile, non serve più”. Agli eventi perturbanti
possono corrispondere quadri clinici diversificati, a volte anche nello stesso
soggetto, sebbene i vari sintomi esprimano tutti un senso di sé confuso, precario e
instabile, oscillante tra la delusione vissuta e la speranza di un cambiamento delle
cose, spesso spostata in un futuro lontano e utopistico. In queste forme di
depressione, per quanto riguarda i rapporti tra emozioni perturbanti, temi di
negatività personale ed alterazioni della coerenza interna, si osserva che
all’atteggiamento di base passivo a controllo esterno (evitamento di situazioni
significative per timore di esporsi a fallimenti, pur avendo bisogno di essere
confermati) corrisponde, sul piano emozionale, la prevalenza di tonalità centrate
sulla vergogna e sul senso di inferiorità, con intolleranza alla disconferma da
parte di figure significative, con le quali ci si confronta costantemente sul piano
dei risultati.
Nei disturbi bipolari, le fasi depressive e maniacali sono attivate quando il
soggetto non riesce a ricavare conferme da un mondo percepito come ambiguo,
sfuggente, indecifrabile, estraneo e ostile. Eppure, anche in questi casi, l’unica
modalità per realizzarsi appare quella di essere perfetti/e e apprezzati/e da tutti,
pena un senso di fallimento, vissuto come totale e irrimediabile. Le fasi cliniche
ruotano quindi intorno a temi (in parte taciti, in parte espliciti) di essere incapaci,
falliti/e, disprezzati/e e presi/e in giro da tutti (depressione) o di essere i/le
migliori e oggetto di ammirazione e apprezzamento universale (mania). Nel
periodo preclinico, il dover raggiungere aspettative irrealistiche di “essere il
numero uno” è un tema pressoché costantemente presente. Nelle trame narrative,
specie negli scompensi di soggetti con una OP Combinata Contestualizzata-
Distaccata, la distanza tra sé ideale (che si pretende) e sé reale (che si disprezza)
appare incolmabile, così come ciò che è “normale” appare spesso “banale”
(noioso a livello di spiegazione dell’esperienza, fallimentare a livello di tema di
adeguatezza personale). La patologia compatta il senso di sé ed è percepita come

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un modo di essere, esterno e oggettivo (“stato ontologico”), che può assumere le
sembianze di un destino ineluttabile se il sistema individuale è rigido e
marcatamente concreto. In questi casi ci si sente tipicamente diversi rispetto agli
altri, con i quali non si condivide nulla o quasi. Il senso tacito di fallimento viene
elaborato a livello esplicito come l’essere “portatori di un male oscuro che
risucchia le proprie energie”. Il sentirsi strutturalmente diverso/a può far sentire il
soggetto impermeabile e inaccessibile al dialogo e all’aiuto esterno, con il rischio
di passare all’atto (anche autolesivo); questo rischio è presente anche nelle fasi
apparentemente eutimiche. Il disturbo bipolare esprime dunque un modo rigido di
costruire la diversità, che rinsalda la coerenza interna e l’identità e che assume
l’aspetto di un “mostro che ingloba l’intera propria esistenza”.
Tra i disturbi della condotta alimentare, l’anoressia costituisce una modalità di
scompenso piuttosto tipica, nella quale il senso di demarcazione dagli altri è
particolarmente precario e centrato sull’aspetto fisico e sull’immagine di sé,
percepiti come interfaccia del rapporto con gli altri. Di fronte al senso di vaghezza
e di insicurezza sperimentate, con la percezione di non conoscere e di non
controllare gli stati interni, la possibilità di dominare la fame e di resistere alla
pressione genitoriale di mangiare, che si fa man mano sempre più insistente, fa
sperimentare al soggetto una inattesa e inizialmente piacevole sensazione di forza
e di padronanza di sé: “finalmente riesce a controllare qualcosa; almeno in questo
settore si sente vincente, non insignificante”. Nell’idea di successo anoressico, il
minimo che ci si aspetta da sé equivale sempre al massimo, come in una ossessiva
ricerca di “record”. Il comportamento è funzionale a colpire i lati “deboli” delle
figure significative che appaiono, per il resto, “superiori”, “senza problemi” e,
quindi, “vincenti”. Questo vissuto, se da un lato polarizza sempre più l’attenzione
sul controllo del peso corporeo e sull’assunzione di cibo, usata come metro di
sfida con se stesso/a e con gli/le altri/e, d’altro lato fa vivere qualsiasi incremento
ponderale, anche minimo, come un ingrassare e, quindi, un fallire. Del resto, sul
versante attivo, si può sfidare gli/le altri/e non solo tramite le condotte anoressiche
(cosa che avviene quando l’ambiente è attento alla dieta e alla nutrizione), ma
anche con forme di disimpegno scolastico o lavorativo (quando l’attenzione
ambientale è centrata su questi aspetti: ad es., genitori insegnanti), con ricorso
all’assunzione di sostanze proibite o non rispettando le regole sociali (rubando,
guidando senza patente, ecc.; ad es., quando un genitore è rigidamente centrato sul
rispetto delle norme, fa il poliziotto o il giudice, ecc.). Nella bulimia, l’assunzione
parossistica di cibo (contrastata poi da condotte di eliminazione, da periodi di
digiuno o da attività fisica intensa, per cui di solito si resta magri) è attivata dal
senso di fallimento personale avvertito in situazioni disconfermanti o di non
supporto esterno (ad es., quando il soggetto si ritrova da solo/a) e avviene
nell’ambito di una percezione vaga di sé, incapace di definire anche stati interni
primari come la fame e la sazietà: “in quei momenti ci sono solo le mani e la

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bocca, metto giù tutto quello che di più dolce posso trovare e mi fermo solo
quando sto male; allora torno a sentirmi in me, mentre fino ad un istante prima
non mi sentivo proprio”. La notevole impulsività di questi soggetti è espressione
di una scarsa demarcazione personale che si manifesta con atteggiamenti di sfida
attraverso i quali si cerca di diversificare il senso di sé dalle figure significative,
rifiutandone le sollecitazioni e i modelli proposti, in quanto intrusivi e svalutanti.
D’altra parte, l’incapacità a sostenere a oltranza un atteggiamento alternativo,
scelto come modello esterno in base al quale identificarsi, sfocia in fallimenti
transitori, di cui le abbuffate sono l’aspetto più vistoso. Il soggetto ingurgita cibo
senza pensare alle sue conseguenze, come in una sfida persa in partenza, non
considera se quello che mangia gli/le piace o meno e smette di assumere cibo non
quando è sazio/a (anzi, spesso riferisce di non sentire se è pieno/a o no), ma
quando inizia a stare male per ciò che sta facendo. Da un lato, infatti, prova il
piacere di trasgredire, di fare una volta tanto ciò che vuole, specie se non si sente
apprezzato/a dalle figure significative, mentre in tutte le altre attività si sente
confinato/a in un conformismo imposto. Dall’altro lato, il piacere è solo
transitorio e subito sostituito da un senso di colpa. Avviene allora una sorta di
“scivolamento bifasico”, dal proprio punto di vista a quello dell’altro, con
riallineamento sul punto di vista esterno (cui deve aderire, dato che vi continua a
cercare conferme e certezze): il soggetto si sente in colpa per avere trasgredito,
per avere tradito la fiducia di chi gli/le vuole bene, prova delusione, amarezza e
senso di sconfitta per aver dimostrato ancora una volta di non essere in grado di
resistere ai suoi impulsi e, quindi, di essere una persona destinata al fallimento:
“sono un casino, non ce l’ho fatta in tutto. Io devo dare il meglio di me in tutte le
situazioni, se no mi sento fallita, anche gli altri ci rimangono male e questo per
me è brutto, ma sento di non farcela. Mi sento differente dagli altri per il peso,
studio tantissimo, anche se ultimamente ho deluso i professori, faccio sport ed è
difficile che salti un impegno, ma diventa sempre più pesante gestire la mia vita.
Sono sempre vissuta col problema del peso, fin da piccola sono stata alta e grossa
rispetto all’età, tanto che il pediatra era preoccupato. Anzi, per questo motivo
sono stata anche ricoverata in ospedale; all’inizio è stata una tortura, ma ho
sopportato tutto benissimo, pure le diete troppo drastiche. Però il peso è andato
sempre ad organetto. La bulimia mi fa toccare con mano il fallimento che sono io.
Sono brutta perché sono una che mangia. Soffro più degli altri, perché la mia è
una cosa lunga, è un problema grosso; mamma mi dice che non è vero, che una
soluzione ci deve essere, ma io dico di no”. Nelle abbuffate bulimiche
l’impulsività fa venir meno i propositi anoressici; anche in questo caso, il soggetto
coglie non tanto lo stimolo biologico alimentare (fame, sazietà), quanto piuttosto i
correlati sociali di questo, che regola i rapporti con le figure significative; ad
esempio, smette di mangiare non quando è sazio/a ma quando si sente fallito/a:
“quando sto sola e nessuno mi chiama, so già che non mi controllerò. È uno

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sforzo troppo grande per me, non ci riesco. Apro il frigorifero. Appena mi metto a
mangiare è come se avessi già fallito in tutto. Cerco di non pensare. È un po’
come staccare la spina da tutte le altre cose, mi scarico di tutti gli impegni che
devo portare avanti, è come se non dovessi rispondere al prof., all’allenatrice, a
tutti gli altri che mi chiedono le cose. In fondo, mi costa meno rispondere a
mamma. E un po’ mi piace trasgredire a quello che mi ero proposta. Tanto non
sono riuscita mai a resistere a lungo. Non so se mi piace mangiare o no, non so se
sono piena. Smetto solo quando arriva il senso di fallimento. Allora mi sento
impotente, sconfitta e smetto”. L’obesità che si osserva nelle forme di
alimentazione incontrollata (“binge eating”), con abbuffate senza condotte
eliminatorie (vomito) o di compenso (attività fisica), esprime un atteggiamento di
chiusura e di sconfitta, con tendenza a nascondersi dietro una maschera – ma
anche una barriera – di grasso e a circoscrivere così la propria negatività
all’apparenza estetica: “gli altri rifiutano non me, ma il mio peso”. In questi
soggetti obesi è facile riscontrare tratti di insicurezza e di non accettazione
personale, con paura di esporsi e di confrontarsi con gli altri. L’assunzione di cibo
rappresenta quindi un rifugio compensatorio o una sorta di energia esterna che
sembra dare la forza che si pensa di non avere: il non riuscire a essere vincenti
nelle sfide quotidiane porta a cercare forme diverse di appagamento, al di fuori del
rischio di esporsi a nuove disconferme, chiudendosi in un proprio mondo
immaginario. A volte l’obesità viene usata come “vendetta”, mentre la carica di
aggressività è rivolta su di sé, punendo e colpevolizzando indirettamente le figure
significative da cui il soggetto si sente svalutato/a. Si tratta comunque di
atteggiamenti attivamente passivi e rinunciatari, corrispondenti a situazioni di
confronto nelle quali ci si sente esposti/e a insuccessi e a giudizi negativi. In altri
casi il mantenimento della coerenza interna, operato a livello tacito cercando una
demarcazione rispetto all’altro/a, porta a forme di isolamento relazionale e sociale
alle quali si associano depressione dell’umore, rabbia e disforia: non ci si fa
trovare, si vive chiusi/e nella propria stanza, si comunica col mondo solo via
computer, si esce la notte per mangiare senza essere visti/e, si aumenta sempre più
il solco rispetto agli/alle altri/e e al mondo in generale. Come ha messo in
evidenza uno studio del nostro gruppo (Sabbatini et al., 2017), è importante trarre
forza dalle relazioni sociali, sfuocando i modelli esterni troppo rigorosi a favore di
una migliore gestione dello stress da giudizio esterno, che sarà limitato alle
occasioni sociali che lo richiedono (esami, lavoro, relazioni interpersonali), e
registrando adeguatamente una diminuzione dello stress nelle circostanze nelle
quali il soggetto lo percepisce pur non essendo francamente presente.
I disturbi correlati a sostanze psicoattive possono conseguire alla paura di non
reggere il confronto (con gli altri, con la vita) e quando ci si sente, da un lato,
emarginati/e e, dall’altro, capiti/e solo in circoli alternativi e trasgressivi. Il
soggetto rischia di cadere nell’abuso di sostanze e/o di alcol, fino ad entrare in

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una condizione di dipendenza. In particolare, l’alcol può essere vissuto come una
sorta di “anestetico” contro il disagio, specie in scompensi di tipo abbandonico.
Bere fa sentire più sciolti/e, meno inibiti/e, più sicuri/e; per questo, specie durante
l’adolescenza e la prima età adulta, anche se dopo l’abuso si ha malessere
(“hangover”), non si riesce a fare a meno di assumere alcol prima di affrontare un
contesto sociale o una prestazione in cui ci si espone al giudizio degli altri. La
ricerca compulsiva (“craving”) e l’assunzione di sostanze stupefacenti
corrisponde spesso a una identificazione per opposizione, con la quale ci si
riconosce per il fatto di esprimere modalità alternative, opposte ai comuni schemi
e regole sociali; inoltre, le modificazioni operate dalle sostanze sul funzionamento
psichico danno un illusorio senso di poter affrontare la vita con un’arma in più: si
ricorre a quelle sostanze il cui effetto (ad es., di attivare e di non far sentire la
stanchezza) dura finché se ne ha bisogno, magari poi contrastandolo con altre che
consentono di rilassarsi, di dormire o di dimenticare. Per fare qualche esempio:
“vorrei non bere ma non ce la faccio, se no in compagnia sto male”; “la roba,
l’eroina, sono un grosso anestetico, ti fanno chiudere gli occhi e ti fanno stare in
pace, non ti fanno provare né le cose belle né le cose brutte, ti appiattiscono”;
“quando non reggi le emozioni forti ti fai con la roba ed è come se tutto si
addormentasse”; “la roba ti evita di pensare alle difficoltà giornaliere, blocca i
dolori, le incomprensioni; stai fatto e stai tranquillo; associ il senso del dolore
con il piacere che ti dà la sostanza e ti accorgi che non ne puoi fare a meno”;
“quando ti trovi in una situazione difficile che non ti senti di affrontare tappi tutto
con la roba”; “vado in piazza, facciamo l’happy hour con qualche birra. Mi piace
sentirmi fatto, mi fa scherzare cogli amici. Poi per la discoteca tiriamo la coca.
Mi sento bene, però solo di testa, per il fisico mi devo fare una pasticca, se no non
ce la faccio a ballare bene tutta la notte. Quando è ora di finirla e di tornare a
casa mi faccio uno spinello, così poi dormo; i miei sanno che sono stanco, non mi
rompono e mi lasciano in pace”. L’assunzione di sostanze psicoattive ad azione
depressogena del sistema nervoso centrale (oppiacei come la morfina e l’eroina,
derivati della ketamina, ecc.) o l’abuso di alcol ricorrono frequentemente negli
scompensi delle OPS Contestualizzate in risposta alla difficoltà soggettiva di
integrarsi in un mondo da cui non ci si sente accettati e di rispondere alle sfide
esistenziali. Infine, i rischi connessi con la tossicodipendenza rinforzano la ricerca
di un proprio valore nell’essere in grado di accettarli e questo dà almeno una
parziale percezione positiva di sé a chi sente di avere uno scarso valore personale
ed una scarsa considerazione da parte degli altri. Nel caso dell’assunzione di
sostanze psicostimolanti, che inducono euforia, aumentato senso di energia
psicofisica e diminuzione della fatica (cocaina e amfetaminosimili come l’ecstasy,
la metilenediossimetanfetamina), il soggetto cerca nella droga l’energia, la forza,
la potenza, il coraggio, le capacità che ritiene di non avere. Pertanto, le assume
quando deve fornire prestazioni lavorative, sociali, sportive, sessuali o quando

218
deve comunque compiere una “impresa” rispondente al bisogno di confermare un
senso di sé costantemente precario, instabile e “non all’altezza” della situazione.
In definitiva, come ha osservato Pannelli (2005), in questi scompensi il ricorso
alla sostanza può rappresentare un modo per adeguarsi all’ambiente, gestendo
l’ansia da esposizione e il senso di non accettazione, migliorando la fiducia nelle
proprie capacità rispetto a prestazioni in cui si sente inadeguato ed opponendosi a
figure percepite come intrusive e disconfermanti.
Nel disturbo da gioco d’azzardo la sfida per dimostrare di valere finisce per
polarizzare l’attenzione e l’intera vita relazionale, divenendo un rifugio rispetto ad
un senso svalutato di sé; inoltre il gioco, sottraendo il soggetto al confronto con la
vita reale e con i suoi problemi, rinforza la condotta di azzardo, avviando un
circolo vizioso da cui può essere difficile uscire. Come ha osservato Moltedo
(2005), i comportamenti autoaggressivi dei soggetti con OPS Contestualizzate
rappresentano una attività di distrazione, che permette di mantenere coerente e
continuo il senso di sé, nonostante le disconferme percepite; essi consentono
infatti di convogliare e indirizzare le esperienze emotive discrepanti e il senso di
vuoto e di incapacità personale, evitando al tempo stesso la consapevolezza di
un’immagine negativa di sé. In situazioni di indefinitezza dei confini personali,
specie durante l’adolescenza, ferirsi consente di percepirsi vivi, allenta il disagio,
stabilizza una certa immagine di sé: “soffro, sento, quindi sono una persona viva”.
Anzi, spesso esiste una relazione tra il bisogno di percepirsi e l’intensità con cui il
soggetto si ferisce (ad es., pungendosi semplicemente con uno spillo o
producendosi tagli mediante un coltello o le forbici).
Nei disturbi del controllo degli impulsi, con modalità estremamente variabili, i
comportamenti “patologici” che si ripetono nel tempo sono legati spesso a
situazioni vissute nell’età evolutiva, che tendono poi ad essere ripetute. Il soggetto
manifesta i comportamenti impulsivi ogni volta in cui si ripresentano condizioni
di esperienza immediata che, a livello tacito, attivano pattern emozionali percepiti
come una disconferma intollerabile del senso di sé. In particolare, numerose forme
esprimono, da un lato, il bisogno di cercare costantemente nuove sfide per
demarcarsi e sostenere una percezione precaria di sé e, dall’altro lato,
l’intolleranza nei confronti di ogni nuova, sia pur minima, disconferma. Proprio
per questo, il disturbo comportamentale si associa in genere ad uno stato d’ansia
e/o ad una depressione del tono dell’umore.
I disturbi della condotta possono esprimersi, soprattutto durante l’adolescenza,
attraverso manifestazioni psico-comportamentali, a volte di tipo subclinico, nelle
quali l’evitamento dell’esposizione si traduce in atteggiamenti di rinuncia (ad es.,
blocchi e abbandoni scolastici) o in sfida attiva nei confronti delle figure di
riferimento (anzitutto i genitori) o della società in generale: ad esempio,
comportamenti provocatori fino a forme manifeste di disadattamento sociale e di
atti perseguibili legalmente, furti ed altri comportamenti rischiosi per sé e per gli

219
altri. Questi comportamenti di sfida si osservano spesso in figli che si sentono
discriminati rispetto ad un fratello o ad una sorella “bravi” e “perfetti” (non
potendo essere “la pecora bianca”, cercano un riconoscimento trasgressivo al
contrario, facendo “la pecora nera”); le espressioni di “bullismo” nascono proprio
da questa necessità di non essere “evanescenti” (“meglio cattivi che
insignificanti”), in soggetti fragili che cercano amici, seguaci e vittime ancora più
fragili. Tutte queste forme patologiche esprimono il bisogno, non altrimenti
canalizzato, di dimostrare di essere almeno in grado di provocare, di rischiare o,
comunque, di lasciare un “segno” che attesti la significatività della propria
presenza nel mondo; quest’ultima infatti viene per lo più percepita con un
pervasivo senso di incapacità, vaghezza, nullità, non accettazione o rifiuto da
parte degli altri. Nei disturbi della condotta, sia indipendenti che associati a
disturbi correlati a sostanze, la sintomatologia è spesso polimorfa e variabile da
caso a caso ed è soggetta a notevoli cambiamenti nel tempo anche nello stesso
individuo. In generale, a prescindere dal tipo di disturbo manifestato, tende ad
emergere una storia personale percepita dal soggetto, fin dall’infanzia, come una
difficoltosa e precaria ricerca di conferme. Il senso di sé, dai contorni più o meno
sfumati e indefiniti, varia marcatamente col mutare del contesto da cui appare
dipendente ed è comunque sempre precario e instabile. È caratteristica una
marcata difficoltà a tollerare le disconferme anche quando sono minime,
riguardano aspetti futili e voluttuari (come avere un po’ di soldi) o sono solo
minacciate. Spesso, di fronte alla “certezza” soggettiva di non riuscire ad
emergere, a colpire gli altri (“a lasciare un segno”, “a far vedere finalmente chi
sia”), a realizzare ciò che sembra riesca a tutti, il soggetto si orienta verso modelli
“negativi” che superino il senso di vuoto e di inutilità che lo pervade, divenendo
di caso in caso instabile, impulsivo, disforico, ma anche esibizionista,
trasgressivo, a volte violento, fino a strutturare condotte patologiche e antisociali
più o meno stabili. A volte la marcata insicurezza spinge il soggetto, anche
quando attiva comportamenti violenti e prevaricatori, a dipendere da un “capo” o
a dimostrare qualcosa a qualcuno; d’altra parte, la paura di esporsi eccessivamente
lo può portare ad accontentarsi di recitare un ruolo gregario di “vice”, alternando a
seconda del contesto spavalderia e paura. Pertanto, nei casi di condotte antisociali
delle OPS Contestualizzate, è opportuno considerare che una lettura marcatamente
esterna porta a confermare l’identità confrontandosi e “sfidando” il mondo
esterno, quando non ci si sente riconosciuti/e e apprezzati/e per quello che si
ritiene di valere, senza disporre di un sufficiente patrimonio di regole
comportamentali interiorizzate. Si tratta di soggetti con un repertorio emozionale
in cui prevalgono attivazioni autoriflessive di inferiorità e di vergogna, mentre
manca il senso di colpa (se non nel suo aspetto di “pseudo colpa”, quando si pensa
di aver deluso qualcuno e si cerca di riallinearsi con il giudizio di questi). La
carenza di riferimenti interni è espressa dalla costante ricerca di un consenso di

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tipo conformistico e dalla notevole intolleranza ad ogni esperienza percepita come
disconferma personale, mentre manca invece una lettura etica e normativa. In
questi casi la storia di sviluppo mette in evidenza l’immaturità emozionale,
centrata più su un generico confronto in rapporto all’adeguamento alle aspettative
e alle richieste delle figure prese come riferimento e sulla ricerca di conferme
piuttosto che sulla ricerca di esprimere un’affettività dialettica e progettuale.
Anche nel caso in cui vengono commessi reati gravi e violenti, può mancare la
colpa, in quanto il soggetto, che si sentiva “non considerato”, “svalutato”,
“disprezzato” dalla vittima e dalla società, arriva a percepirsi come uno che “è
riuscito a fare qualcosa di importante”, per cui “ora non si potrà più dire che non
valgo niente o che non sono nessuno”.
I disturbi psicosessuali si riscontrano nell’ambito di rapporti vissuti come
continui esami personali e nei quali si teme di non essere all’altezza delle richieste
e delle aspettative. Questi disturbi tendono pertanto ad essere più evidenti
soprattutto nelle prime fasi di quelle relazioni nelle quali non si è certi di essere
accettati/e o ci si confronta con precedenti esperienze del partner. Se si mettono
“in moviola” le sequenze significative del rapporto, emergono facilmente
esperienze tacite che, partendo dal dubbio sul proprio valore, sulla propria
seduttività e sulla propria potenza (ad es., “mi accetta? Mi desidera? Riuscirò a
soddisfarlo/la?”), possono finire per essere vissute come una ennesima prova
della propria inadeguatezza. In questi casi, l’atteggiamento dell’altro/a viene colto
come se esprimesse una “bocciatura” oggettiva e indiscutibile, anche se solo
potenziale. Spesso sono proprio alcune espressioni fredde e distaccate o certe frasi
del partner ad attivare il disturbo psicosessuale (tipo “lasciami stare”, “fai come
vuoi, tanto...”, “non ti sei accorto che hai un problema?”), quando il soggetto non
riesce a percepirle come informazioni sul mondo interno del partner, ma si
specchia in esse, le riferisce a sé e finisce per viverle come una “prova”
incontrovertibile della propria inadeguatezza fisica e prestazionale. Come ha
osservato Moltedo (2005), il timore delle critiche e la paura di deludere le figure
significative può rendere difficile se non impossibile recuperare un’immagine
consapevole di sé positiva attraverso gli investimenti affettivi. Anzi, soprattutto
nei giovani con aspettative esagerate e massimaliste nei diversi settori della
propria vita, qualsiasi fallimento, anche minimo, attiva marcate e destabilizzanti
fluttuazioni negative, autoriferite in termini di inadeguatezza, di vuoto interiore
(che può essere scambiato anche per fame), di bruttezza fisica, di bassa
seduttività, di impresentabilità personale. Emerge evidente nelle sequenze
significative una modalità di riferirsi l’esperienza caratterizzata dal timore di
confrontarsi con la propria sessualità e di costruire rapporti di coppia di fronte ai
quali ci si sente inadeguati/e, impreparati/e, non all’altezza, immaturi/e,
“diversi/e”. Il soggetto percepisce come “oggettiva” – e non come la modalità
abituale di riferirsi e di costruirsi l’esperienza – la propria difficoltà o incapacità

221
ad esporsi nell’ambito di un normale rapporto di coppia. Questa difficoltà o
incapacità, delineatasi nel corso della storia di sviluppo a partire dalla relazione di
attaccamento, rende quindi problematico, se non impossibile, accettarsi e
riconoscersi nei ruoli che la propria sessualità comporta, per cui si ricercano
modalità indirette, parziali o mascherate, di vivere la sessualità. Si può perdere il
desiderio quando la seduzione riesce, sia perché si è raggiunto l’obiettivo
prefissato, sia per il timore che una vera relazione metta a rischio di intrusione
l’identità personale, come avviene nei cosiddetti “don Giovanni” e nelle donne
“cacciatrici” o “mangiatrici di uomini”. Si può evitare qualsiasi investimento
affettivo, magari limitandosi a pratiche autoerotiche di masturbazione. Ci si può
limitare a costruire solo relazioni transitorie e superficiali, evitando così di esporsi
troppo e di svelare i propri presunti aspetti negativi. Si può andare alla ricerca di
partner multipli, per verificare la propria seduttività senza esporsi in un unico
rapporto pienamente coinvolgente. Si possono costruire storie parallele, che
consentono di demarcarsi in qualche modo per contrappeso, senza sentirsi
totalmente dipendenti da un unico partner e ricavando conferme dalla propria
capacità di gestire queste situazioni “complicate”. Ci si può ritagliare un ruolo
defilato, superficiale e periferico, spesso associato a disfunzioni sessuali e ad
impotenza. In altri casi, l’orientamento sessuale viene circoscritto più o meno
precocemente nell’ambito della stesso sesso, come avviene in alcune espressioni
omosessuali. In altri casi ancora non si riesce a conseguire un’identità di genere,
con conseguente incapacità di esprimere i ruoli ad essa correlati. Infine, in alcune
forme associate ad un profondo disagio e ad una grave difficoltà adattiva, si può
esprimere solo parziali e incongrui aspetti della sessualità, come avviene nelle
parafilie. In altre espressioni di disagio in soggetti con orientamento omosessuale,
mentre la figura paterna è solitamente periferica o assente, ricorre
significativamente la presenza di una figura materna iperpresente, coinvolgente (a
volte anche seduttiva), mitizzata, che spesso sceglie ruoli e amicizie del figlio
(come se l’unica donna al mondo possa essere, di fatto e nei chiaro-scuri, lei); a
volte il mondo viene presentato in qualche modo come troppo complesso, difficile
e ostile perché il figlio lo possa affrontare da solo; in altri casi, la madre è stata
oggetto di violenza e si propone agli occhi del figlio in questo aspetto di vittima,
coinvolgendolo in una relazione invischiante. Indipendentemente dall’età del
“debutto”, sono frequenti scompensi legati a tentativi mal riusciti di proporsi
attraenti e proponibili (anche se, esplicitamente, l’altro sesso “non interessa”). A
volte si avverte il “dovere” di essere eterosessuali (per non deludere, fino a
sposare una donna e a procreare dei figli, mascherando la propria omosessualità),
mentre si avverte l’angoscia di “non riuscire ad essere pienamente eterosessuali”.
Ci si sente “diversi”, si perde terreno, ci si pone come “ostaggio” dell’altro, si
coglie una maggiore “visibilità” della sessualità del proprio sesso (il
comportamento di chi è come noi è “più comprensibile”, per cui l’esito dell’esame

222
costituito da un rapporto è meno incerto). Inoltre, il non essere accettati o rifiutati
a causa della propria condizione dalla “gente normale” può consentire di
demarcarsi per opposizione, attraverso la sfida e l’ostentazione aggressiva della
propria “diversità”.
I disturbi fittizi sono una espressione di scompenso piuttosto frequente. In questi
casi, i disturbi sono più vaghi, polimorfi e mutevoli rispetto agli scompensi delle
OPF Controllanti. Sono attivati da situazioni percepite come disconfermanti,
coperte e “giustificate” a livello esplicito attraverso i sintomi prodotti, che portano
alla ricerca di conferme e rassicurazioni da parte di figure e strutture sanitarie. Si
osservano forme con prevalenza sia di sintomi fisici che psichici; in particolare,
nella sindrome di Ganser, le risposte di traverso sono in rapporto al livello di
esposizione che il soggetto è in grado di reggere senza attivarsi emotivamente in
maniera negativa.
A volte il bisogno di nascondere aspetti di sé che non corrispondono alle
aspettative esterne attiva comportamenti di sfida e spinge alla simulazione,
innescando una spirale dalla quale può essere difficile, se non impossibile, uscire.
Ad esempio, il timore di prendere un brutto voto o, semplicemente, il non volersi
impegnare in qualcosa di faticoso può portare a fingere di dare un esame o un
concorso e a falsificare per i genitori il libretto universitario; oppure si può
conquistare una persona raccontandole di svolgere una professione di successo o
di occupare una posizione sociale che non si ha, sfidando la propria condizione e
ricavando conferme dalla propria capacità di ingannare gli altri. Soprattutto
nell’adolescenza e nella prima età adulta – nell’ambito di famiglie rigide e
marcatamente centrate sui ruoli, rifiutanti e svalutanti il/la figlio/a imperfetto/a
che non risponde alle aspettative riposte in lui/lei – l’impossibilità di continuare a
fingere può attivare insostenibili livelli d’ansia, vergogna e rabbia. In questi casi,
l’incapacità di integrare nel senso di sé la scoperta da parte di una figura
significativa (genitori, partner) della “verità” e della propria effettiva condizione
può dare origine, attraverso l’esperienza del “fallimento”, a patologie di ordine sia
nevrotico che psicotico, portando a fuggire lontano dal proprio ambiente, a tentare
il suicidio o a cercare di sopprimere chi ha svalutato o rifiutato il soggetto, a
dissociarsi perdendo le capacità integrative del sé.
Nei disturbi dissociativi l’anamnesi consente spesso di evidenziare come il senso
di non riconoscimento consegua a situazioni vissute come disconfermanti da parte
di una figura significativa; a questa delusione segue solitamente un percepirsi
fragili e in balia di quella persona, fino a non riconoscersi più e a pensare che
quella persona non sia più la stessa o sia un suo sosia. Nel non riconoscersi c’è
una intollerabile discrepanza tra la percezione e l’idea di sé, che a volte si trascina
nel presente a partire dai ricordi del passato. Ne deriva un tema predominante di
inadeguatezza a lettura esterna: l’idea di ciò che si dovrebbe essere viene
“appesantita” dal confronto con quello che si sente di essere, con conseguenti

223
sensi di colpa per aver “sprecato” o “buttato via” una parte importante della
propria vita: “è come se fossi stata assente dalla mia vita fino adesso, come se mi
fosse stato strappato via qualcosa di importante e questo mi fa sentire bloccata e
in colpa”. Solo il distacco da sé e dalla realtà consente un precario adattamento,
attraverso una coscienza esplicita minimale, fortemente limitata, coartata,
crepuscolare. A volte, il soggetto cerca di lottare con rabbia contro questa sorta di
annullamento per mancata conferma e cerca di punire l’altro/a dal/dalla quale si è
sentito/a svalutato/a, per percepirsi ancora “forte”, mentre poi, spesso, si sente in
colpa e, di fronte alla difficoltà nel vedersi dall’esterno, torna ad emergere un
quadro di ansia acuta con depersonalizzazione e derealizzazione. La presenza
contemporanea di un bisogno di essere “perfetti/e” e di primeggiare, con un forte
bisogno di attenzioni e cure, e di un sé vago e indefinito, che utilizza i segnali
esterni come fonte pressoché unica per ricavare la propria adeguatezza, porta alla
alexitimia, con incapacità di riconoscere e descrivere verbalmente le proprie
emozioni e i propri sentimenti distinguendoli dalle percezioni avvertite. Quando il
soggetto, a seguito di esperienze disconfermanti, si sente in uno stato
marcatamente precario, instabile ed incerto, in situazioni in cui si trova esposto/a a
nuove disconferme, può sperimentare un senso di perdita di energia, di confusione
o di vuoto, fino ad una incapacità a riconoscersi come individuo demarcato
rispetto all’esterno, oppure a non identificare più l’ambiente familiare nel quale
non gli/le è possibile esprimere un’immagine accettabile di sé (stati confusionali;
amnesie parziali o totali; depersonalizzazione; derealizzazione). Queste forme
esprimono una sorta di “autoprotezione” rispetto ad un contatto più brusco e
diretto con l’ambiente – temuto in quanto il soggetto non si sente in grado di
essere “quello/a di prima” – e vengono percepite come condizioni cliniche
oggettive, senza coglierne il nesso con esperienze tacite percepite come
potenzialmente disconfermanti. Ad esempio: “devo vedere se questo intontimento
mi permette di fare bene, come tutti si aspettano; è strano, penso di essere un
caso unico al mondo, i dottori non ci hanno capito nulla; se non riesco a tornare
quello di prima, non ci posso convivere, mi toglie sicurezza, ne devo
assolutamente venire fuori”. A volte, in situazioni acute di ansia imbarazzante,
che minaccia l’integrità della sua coerenza interna, al soggetto non resta altra via
d’uscita dello svenimento (lipotimie) o del cambiamento d’ambiente (fughe). Altre
volte può invece esprimere una diversa personalità a seconda del contesto in cui si
trova (personalità multiple). Nei casi di personalità multipla, indagini
neurobiologiche riportate da Damasio (1999) hanno evidenziato la presenza di due
o più “sé autobiografici”, a loro volta espressione di diversi sistemi di controllo
della memoria autobiografica, situati a livello della corteccia fronto-temporale,
mentre nel passaggio da una personalità all’altra interviene la regolazione di
circuiti cortico-talamo-corticali. Negli scompensi dissociativi delle OPS
Contestualizzate, specie quando si associano ad una depressione del tono

224
dell’umore (OP Combinate Contestualizzate-Distaccate), ripetuti eventi vissuti
come disconfermanti e svalutanti portano a vivere con un crescente disagio il
proprio corpo, che appare un territorio conflittuale di confine tra sé e gli sguardi –
ed i giudizi – degli altri. Il disagio che ne deriva porta a percepire il corpo con un
senso di estraneità e a non riconoscersi più: progressivamente (ma a volte,
improvvisamente) si desidera di essere evanescenti (ad es., di non mostrare e
nascondere i caratteri sessuali secondari come, nel sesso femminile, il seno), si
cambia scrittura o aspetto per essere come un altro; ci si percepisce
“sgradevolmente diversi, non accettabili, non presentabili”; si ha paura di “non
essere più in sé, di impazzire, di sparire, di dissolversi, di restare un corpo senza
vita al centro, come se anche il tempo si fermasse”; si ha “difficoltà a stare dentro
di sé, ci si osserva come se lo sguardo fosse scollegato dal corpo, che appare
vuoto, non integro, senza interiorità”; si ha l’impressione di “non potere esistere
da soli”, per cui si avverte il bisogno compulsivo di ricercarsi e trovarsi
all’esterno, toccando oggetti familiari o chiamando persone conosciute o
ricorrendo all’abuso di sostanze; si fugge fisicamente o ci si dimentica di momenti
perturbanti della propria vita e della stessa propria identità. Scompensi psicotici di
tipo dissociativo tipicamente contestualizzati sono anche i quadri noti come
“sindromi di possessione”, nei quali il soggetto – che prima dell’esordio si
percepiva come marcatamente debole, insicuro/a, svalutato/a, imperfetto/a,
emarginato/a dagli altri – inizia a credere di essere posseduto dal diavolo, da uno
spirito, da una divinità esotica o da un animale, come avviene nella licantropia.
Acquista in questo modo un ruolo ed una forza, anche se negativa, che non era
stato in grado di attribuirsi in precedenza, sentendosi rifiutato/a o non
considerato/a. Durante i momenti di possessione, che avvengono in certi ambiti
culturali di tipo tradizionale, significativamente sempre in presenza di altre
persone, il soggetto manifesta – anche se in maniera paradossale e incongrua – il
proprio valore attraverso sintomi che colpiscono e richiamano l’attenzione; in
queste situazioni può presentare crisi di agitazione psicomotoria e “glossolalia”,
emettendo un linguaggio apparentemente sconosciuto, fatto di frammenti verbali
che riaffiorano alla memoria in uno stato crepuscolare di coscienza, noto come
stato di “trance”. Solo in questo modo paradossale, dietro lo schermo di una
possessione, il soggetto può superare i suoi timori taciti di esporsi e di comunicare
con gli altri senza sentirsi ancora una volta rifiutato/a.
Nei disturbi schizofrenici saltano i criteri di autoriferimento e, in modo
particolarmente evidente, di integrazione e coordinamento con il contesto sia intra
che interpersonale: “nella mia fantasia la realtà assume forme diverse e
interagisco a seconda della fantasia di realtà che ho”. Il soggetto può avere la
percezione che nessuna esperienza interna sia di per sé reale e autonoma, ma che
sia confusa, condizionata, letta o imposta da fuori, per cui si definisce totalmente
sull’esterno, come se fosse in uno “stato gassoso” e “senza pelle” o confine

225
personale (ad es., produce un delirio di influenzamento per cui l’altro/a gli/le può
leggere dentro e lo/la può condizionare in tutto e per tutto). I sintomi esprimono
un tentativo adattivo di proteggersi dall’angoscia e dalla depressione derivanti da
questo vissuto invasivo. Un delirio di grandezza, specie quando è associato ad un
tema di persecuzione, può nascondere un vissuto tacito di emarginazione non
tollerabile, specie quando preesisteva un senso non realistico e grandioso di sé,
reale o potenziale: se è possibile aiutare il soggetto a far emergere un senso di sé
più demarcato e positivo, i sintomi produttivi possono smorzarsi e perdere vigore.
In queste situazioni, una integrazione tra psicofarmaci (specie quelli meno inibenti
e a minor rischio di effetti collaterali) e psicoterapia può essere realmente efficace.
In situazioni di parziale scompenso, o quando esso non si manifesta in modo
acuto, si può osservare tutta una serie di immagini e di attivazioni emozionali che
il soggetto è ancora incerto/a se considerare un prodotto della sua mente oppure
corrispondenti a situazioni oggettive, esprimendo quindi una capacità di critica
parzialmente conservata: “mi sento perseguitato, tradito, l’idea che qualcuno
complotta contro di me diventa una ossessione che mi lacera; mi chiedo:
corrisponde alla realtà oppure no?”. In questi casi, come si è detto a proposito
delle psicosi in generale, la compromissione delle capacità di integrazione si
accompagna ad un ingrandimento sempre più analitico di dettagli e particolari
dell’esperienza, che sono poi assemblati con criteri logici ma che non appaiono –
dall’esterno – verosimili, mentre il soggetto perde la capacità di cogliere
situazioni e atteggiamenti esterni nel loro complesso. Il bisogno di utilizzare
spiegazioni, più o meno incongrue, fantasiose e strane, ma che rendono meno
angosciante il contatto con il mondo, rimanda a modalità tacite di profonda
inadeguatezza, che non consentono un senso unitario e integrato di sé. In questo
stato di coscienza i pensieri iniziano a materializzarsi, assumendo la forma di
voci. Esse possono esprimere la ricerca di sentirsi positivi, rassicurati e
considerati, oppure il senso di inadeguatezza e negatività personale, o entrambi.
“Voci cattive” (“morirai”, “sarai perduto”, “andrai all’inferno”) e “voci buone”
(“Cristo mi dice che sarò salvato, che posso fumare tanto non mi fa male”,
“sentivo i miei amici che dicevano che io valgo”) si alternano, dialogano, si
scontrano tra loro (“prima avvertivo pensieri che spingevano, poi sono
improvvisamente scoppiate le voci: erano amici che parlavano male di me e
criticavano quello che avevo fatto, mentre altre voci dicevano che avevo fatto
bene, che avevo detto cose belle”). Quando prevalgono i sintomi “positivi”,
l’attivazione emotiva non contenibile, connessa alle esperienze perturbanti,
deborda da un canale obbligato e stretto che non ammette percorsi alternativi più
“viabili”, dando luogo alla costruzione di un significato personale disgregato e
paradossale di sé e del mondo. Da questo abnorme contatto con l’ambiente
derivano sia i temi di influenzamento e di condizionamento ad opera di altri e
persino della televisione o del computer (legati al vissuto di non riuscire a

226
fronteggiare e di essere invasi dal giudizio esterno: “l’annunciatrice della TV mi
guarda e ride, cosa vuole da me?”), sia i temi produttivi di grandezza e
importanza, come quelli di onnipotenza, di innamoramento e di persecuzione
(dovuti al bisogno di sentirsi importanti e superiori agli altri e non più svalutati/e e
angosciosamente insignificanti): il soggetto si attribuisce la capacità di modificare
il mondo in cui vive, di cambiarne le sorti, di fare innamorare gli altri di sé, di
essere ingiustamente invidiato/a o perseguitato/a, proteggendosi dalla paura di
essere in balìa di giudizi e piani ostili esterni. In molte situazioni allucinazioni e
deliri si associano per fornire uno sbocco adattivo alle angosce: ad esempio, la
comparsa di voci “positive”, gradevoli e rassicuranti, può dare al soggetto una
conferma interna a ciò che cerca, specie se pensa di aver finalmente intrapreso un
cammino di redenzione e di missione dopo profonde sofferenze e varie
svalutazioni. Anche le idee di autoriferimento (per cui il soggetto riferisce a sé
quello che vede e sente) sono espressione di una profonda insicurezza
sperimentata nel corso della maturazione, con bisogno di “studiare” gli altri per
cercare di capire se stessi/e ed il proprio valore. A volte basta un gesto diverso dal
solito da parte di qualcuno per far crollare tutte le rassicurazioni precariamente
costruite. I sintomi “positivi” esprimono quindi un senso estremamente
angosciante, pervasivo e generalizzato di non demarcazione personale, di essere
inermi o in balìa degli altri, cui si tende a reagire sottraendosi rigidamente a
confronti percepiti come minacciosi e costruendo contenuti “produttivi”, abnormi
sul piano logico, ma comunque in grado di mantenere un’immagine positiva di sé,
nonostante le delusioni e le disconferme sperimentate. Nei temi psicotici di non
demarcazione/invischiamento il delirio produce un effetto stabilizzante, in quanto
costruisce una realtà che consente di sentirsi al centro del mondo. In questo modo,
si associa il presunto atteggiamento persecutorio esterno al fatto di essere
importanti: “c’è confusione: quando vivo una situazione; è come se ci fossero
tanti attori che mi vogliono far capire tante o certe cose, io non distinguo il limite
tra me e l’altro e ne esco come il calimero, il dannato. Guidavo e mi sono fermato
all’autogrill. Un camionista straniero mi si è avvicinato chiedendo indicazioni
stradali. Io ho cercato di spiegargli la strada. Sono risalito in macchina e ho
pensato: ‘lui ha fatto apposta a chiedermi quella cosa lì, come se da una parte
volesse prendermi in giro, da un’altra cercasse di scovare chi sono io’. Sono
comparse voci di amici. Una diceva: ‘bravo, hai fatto bene!’ Un’altra: ‘non ti
vogliamo con noi, i tuoi giudizi non ci interessano’. Un’altra: ‘questo è un
eunuco’. Un’altra: ‘lui è tornato per dirti che andrai all’inferno’. Le voci si
alternavano, ognuna per sé, ora l’una ora l’altra. Prevalevano le voci cattive.
Quando saprò come stanno veramente le cose? Non capisco più niente della
realtà: dove andare, con chi andare. A volte mi sento un grande personaggio, a
volte un calimero, altre volte un dannato e non riesco mai a capire chi sono
veramente io. Passo la giornata a cogliere questi segnali esterni e quando non ce

227
la faccio più crollo sfinito”. Quando l’unica demarcazione appare la chiusura
autistica nel proprio mondo prevalgono invece i sintomi negativi (ritiro sociale,
appiattimento affettivo, perdita di iniziativa, impoverimento del linguaggio e del
pensiero).
L’attenzione al giudizio esterno, specie quello delle figure più significative, e la
mancanza di confini personali giustificano il fatto che le psicosi condivise (come
la “follia a due”) siano più frequenti negli scompensi di soggetti con OPS
Contestualizzata rispetto a quelli osservati in soggetti con altre OP.
Nell’ambito dei disturbi di personalità, con temi prevalenti di inadeguatezza e di
intolleranza alle disconferme, si osservano contorni personali sfumati e, quindi,
persistentemente instabili nell’arco di vita; ciò può portare ad evitare il contatto
con gli altri, ad essere solitari/ie, guardinghi/e, diffidenti, eccentrici/che o
distaccati/e, come nei disturbi del cluster I (disturbi schizoidi e schizotipici), a
ricercare costantemente parziali conferme senza raggiungere mai una sufficiente
autonomia (disturbi dipendenti), a inibirsi stabilmente rispetto ai contesti sociali
per evitare disconferme (disturbi evitanti), a cercare in maniera compulsiva
conferme in modo seduttivo e provocante (disturbi istrionici), a mascherare il
timore dei giudizi sotto un senso grandioso persistente di sé (disturbi narcisistici).
La presenza di un senso di sé ideale, al tempo stesso rigido e grandioso
(“narcisismo”), che il soggetto deve essere in grado di raggiungere e di mostrare
al mondo, da un lato fornisce la coesione necessaria a mantenere un senso unitario
e integrato di sé, dall’altro propone un esame personale che prima o poi acquista il
sapore della sfida impossibile (con conseguente senso di fallimento e
depressione). Il rischio che affiori l’angoscia di scoprirsi inadeguati/e può essere
costantemente dietro l’angolo, a meno che non si riesca a progredire, attraverso
una valida alleanza terapeutica (cosa per niente semplice), verso una lettura di sé
non centrata sul valore personale (da dimostrare a sé e agli altri) ma sulla messa a
fuoco e sulla valorizzazione delle proprie risorse. Quando ciò è possibile, si apre
la strada per una maggiore consapevolezza e condivisione delle fragilità personali,
che ciascun individuo (incluse le figure significative) ha, anche se non le fa
trapelare, finendo per apparire falsamente monolitico e inattaccabile.

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SCOMPENSI CLINICI DELLE OPS NORMATIVE
I disturbi d’ansia possono insorgere quando l’esperienza legata a come ci si
comporta rispetto a regole, valori, principi giusti, diventa difficile da gestire; il
soggetto inizia a sentirsi “non a posto” con la sua coscienza (e, quindi, in colpa) e
può manifestare insicurezza, indecisione, incapacità a scegliere tra aspetti
divergenti. In queste condizioni si sente di non avere gli strumenti per
comprendere e gestire una situazione, per decidere cosa si deve fare o cosa si deve
scegliere. Ne deriva una eccessiva focalizzazione attentiva su ciò che è conforme
ai criteri interni su cui si basano certezze e sicurezze. Lo stato di malessere è in
larga parte dipendente dalla difficoltà tacita a decodificare ambivalenze,
contraddizioni e difficoltà della vita. L’adesione a criteri giusti e validi prevale
sulla ricerca di conferme, per cui ogni esperienza significativa, che compromette
la ricerca di perfezione e di certezza (vissuta come una propria esigenza oggettiva
e inderogabile), avvia una fase di instabilità. Il prevalente utilizzo degli strumenti
logici ed analitici rende importanti i dettagli e, a volte, basta che una sola cosa
non vada come doveva andare per far sembrare che, con una sorta di effetto a
cascata, tutto vada storto: “quando sono andato all’estero per perfezionare le
lingue sono stato malissimo. Dovevo imparare tutto a memoria e per me era
difficilissimo. Avevo paura di non farcela. Sono andato in crisi e mi sono accorto,
riflettendo, che avevo paura di perdere il rapporto con mia madre, di essere come
mio padre. Mio padre se ne era andato di casa ed io ho sempre avuto paura di
assomigliargli, di essere debole, di non essere forte come dovevo”. Pertanto,
manifestazioni di ansia generalizzata ricorrono quando esperienze percepite come
discrepanti compromettono la ricerca di certezze, di perfezione e di controllo
interno, facendo vacillare l’edificio analitico teorico costruito fino ad allora: la
causa di scompenso può essere fornita da comportamenti di figure significative
che divergono in modo insopportabile dalle proprie aspettative, da eventi
incompatibili con la propria visione di sé e del mondo, da situazioni che attivano
sensi di colpa rispetto a parametri interni etici rigidi e inflessibili (ad es.,
domandandosi angosciosamente perché non ci si riesce a comportare o a voler
bene “nella maniera giusta”). Tanto maggiore è la discrepanza tanto più l’ansia è
intensa, potendo manifestarsi in maniera acuta ed improvvisa con una agitazione
psicomotoria e con una partecipazione somatica (angoscia) che esprimono la
perdita di controllo che l’individuo avverte a livello soggettivo. Anche gli attacchi
di panico possono nascere dal disagio legato ad un bisogno “ideale” di perfezione
che non si riesce (come sembrerebbe ovvio dall’esterno) a raggiungere. La messa
a fuoco delle esperienze discrepanti consente di cogliere la comparsa di una
ambivalenza emozionale che si nasconde dietro le razionalizzazioni e le
dettagliate spiegazioni che il soggetto cerca di darsi: ad esempio, da un lato, l’aver
provato un’emozione, non accettabile a livello tacito, è letto a livello esplicito
come una forma di debolezza e provoca un marcato senso di colpa; dall’altro lato,

229
l’associazione con una serie di pensieri negativi, che scatta quasi in maniera
automatica, innesca una intensa paura che si realizzino le situazioni e gli eventi
negativi temuti. In questi casi il soggetto attiva pensieri e rituali compensatori per
ridurre l’ansia, superare l’imbarazzo prodotto dalla difficoltà a gestire le
attivazioni emotive disturbanti ed evitare che accadano gli eventi temuti (disturbo
ossessivo-compulsivo). La ricerca di certezze ed il bisogno di perfezione (nei
settori in cui si sente il “dovere” di raggiungerle) spingono ad una attenzione per i
dettagli che, se procede oltre, diventa sfinente e paralizzante. Affiora allora una
lettura ambivalente dell’esperienza che, non riuscendo più a “sciogliere” gli
aspetti contrastanti della vita (come avviene fisiologicamente in queste OPS),
rende impossibile scegliere, decidere e, quindi, gestire una data situazione.
Compaiono così rappresentazioni interne in forma di immagini intrusive. Pertanto,
le emozioni negative, quando a livello tacito sono associate al senso di non
corrispondere alle norme che ci si è dati, essendo destabilizzanti, sono trasformate
in pensieri “ossessivi” che producono minore sofferenza e attivano comportamenti
stereotipati di compenso (rituali “compulsivi”). Il senso del dovere (il dover essere
e, quindi, anche il conseguente dover fare) è sempre evidente e risponde non a un
giudizio esterno che comporta disapprovazione ma al non potersi discostare dalle
norme fatte proprie e interiorizzate: “sto studiando e non riesco a farlo che per
poco tempo, ho tante cose da leggere per individuare i punti più importanti della
tesi, il rischio è lasciare indietro qualche dettaglio; se lo facessi sarei una
persona che ha avuto una grossa opportunità che sta sprecando, non valorizzerei
il lavoro lungo e impegnativo di chi ha dedicato tutta la sua vita a questo. Vorrei
scappare via, riposare, fare cose più concrete, ma alla fine mi impongo di
continuare e vado avanti con uno sforzo di volontà. Le emozioni non le controllo,
non riesco a trovare la misura, sono pericolose; mi sento indegna, colpevole.
Prima che gli altri brontolino, i brontolii me li faccio da sola. Avverto un senso di
noia, perché non trovo interessante quello che sto leggendo, mi sembra di perdere
tempo e questo è uno spreco, un’ingiustizia; però mi dico che lo spreco sta nel
non leggere attentamente tutto il materiale che mi è stato dato; a questo punto mi
ritrovo a dover scegliere, faccio fatica e mi vengono dei pensieri brutti che mi
spaventano, non sono giustificabili, li scaccio facendo un gesto con la mano”. Nei
percorsi rigidi e disfunzionali il soggetto si può impaludare nella ricerca di
certezza, senza verificare la possibilità di ottenerla o di intraprendere altre vie. Le
modalità di riordinamento dell’esperienza fanno cogliere il proprio pensiero come
se fosse tendenzialmente “onnipotente”, mentre la ricerca di rassicurazione passa
attraverso la “convinzione” che “gli eventi esterni siano in qualche modo collegati
a cosa e a come pensa”. La rottura dell’equilibrio interno provoca un naufragio
nell’insicurezza, che appare caotica e ingestibile, attivando un malumore di fondo
fatto di ruminazioni, di sensi di colpa e rabbia. A volte il soggetto, di fronte ad un
bisogno troppo “alto” e “irraggiungibile” di perfezione, prova a ridimensionare le

230
sue aspettative: questo tentativo funziona parzialmente e temporaneamente.
Infatti, se non si mettono a fuoco i processi taciti, per cui fin dall’infanzia
l’esigenza di perfezione è stata il parametro principale per riferirsi l’esperienza, i
rimedi attuati falliscono in quanto sono prodotti all’interno di quella stessa
modalità disfunzionale che ha provocato il disagio. Provare a cambiare il
funzionamento interno sul piano razionale, senza toccare le emozioni perturbanti,
può portare solo a un maggior controllo del disagio, quindi a un benessere
temporaneo e parziale, con successiva ricomparsa degli stessi sintomi o di altri:
“prima ero delusa e mi arrabbiavo, adesso ho un concetto un po’ meno alto di
me. Mi dà più serenità ma contemporaneamente c’è un senso che non so definire,
c’è qualcosa che non va, è una pace troppo strana: non è normale che io stia così
bene. Siccome questa pace non me la sono procurata io, c’è qualcosa che non
torna”. L’importanza dei criteri interni è evidenziata dal fatto che, quando non si
riesce a gestire una situazione come si sente di “dover fare” (a prescindere da
quanto sia possibile farlo e se il soggetto abbia gli strumenti per farlo), si
producono malessere (anche fisico), disappunto, frustrazione, malumore, rabbia
che sono spesso attribuiti ad una “colpa” degli altri o della vita, di cui però si è in
qualche modo responsabili. Ad esempio, un litigio o un contrasto dà il senso che
si è rotta un’armonia, che va ricomposta rimettendo insieme tutti i pezzi e i
dettagli di quello scenario, per poter riprendere il controllo della situazione. Se
non ci si riesce, si può “spostare” ciò che non va su un aspetto della propria vita
(affettiva o professionale) e comunque resta il disagio, non superabile attraverso
visioni illusorie della realtà e una colpevolizzazione di sé e degli altri: “l’idea del
litigio, l’idea dello scontro di due persone alle quali voglio bene mi mette in crisi.
È l’unica situazione che mi crea veramente difficoltà. I miei genitori mi hanno
fatto a pezzi la serenità, l’armonia che per me era fondamentale; era come se non
avessi più una casa, un posto dove stare bene. Per anni ho sperato nella loro
riconciliazione e mi sono sentito in colpa perché non riuscivo a fare in modo che
si realizzasse. A volte mi dicevo che le cose andavano bene, ma la cosa poi non
funzionava”. La reciprocità è costruita sul piano astratto (avere la stessa morale,
condividere interessi, certezze, valori). La rabbia è elaborata a lungo, nella
convinzione di essere nel giusto, di aver subito un torto, di dover trasmettere una
verità; essa si associa a temi etici di giustizia, relativi a quanto ci si è impegnati e
si è stati pazienti per capire gli altri: “quando mia madre si arrabbia alza la voce,
mantiene il rancore a lungo. Se sta male si lamenta senza finirla più e somatizza a
tutto spiano. Ad esempio, qualche tempo fa si è arrabbiata perché mia sorella non
trovava le chiavi della macchina e noi due avevamo pensato che le avesse perse
lei. Proprio questo l’aveva fatta arrabbiare, che noi avessimo pensato che fosse
stata colpa sua. L’ha tirata per le lunghe”. L’attenzione è centrata sul dovere, su
ciò che è giusto e, quindi, giustificato. La lettura interna delle emozioni
destabilizzanti (e delle immagini ad essa collegate) avviene attraverso

231
razionalizzazioni, spiegazioni, giustificazioni. Il processo di decodifica procede
oscillando tra polarità opposte (l’ambivalenza psicopatologica è per uguali e
contrari, per antitesi, mentre l’ambiguità psicopatologica degli scompensi delle
OPS Contestualizzate è sfumata e cambia con il variare del contesto percettivo).
Le emozioni disturbanti sono escluse dalla consapevolezza (quando ciò non riesce
sono vissute come espressione di debolezza), mentre a livello esplicito emergono
solo le spiegazioni di quanto è accaduto (più o meno congrue, spesso rigide e
ripetitive, ma comunque logiche). Al contrario di quanto accade nelle OPS
Contestualizzate, non è il ruolo ricoperto o il risultato ottenuto che interessa, ma
l’impegno messo nel perseguirlo; la conferma di sé viene ricavata dal fare le cose
che appaiono giuste e utili. L’aggressività è solitamente attivata e produce rabbia
quando, in un rapporto significativo, sono deluse le aspettative interne che
toccano il proprio bisogno di certezza e giustizia. Ci si arrabbia – con se stessi o
con qualcuno – quando si cerca invano di ottenere il rispetto di un parametro o
l’adesione a un’idea importante, con conseguente destabilizzazione interna e
malumore, che può persistere a lungo. Quando la rabbia deriva da una fiducia non
corrisposta, l’altro/a può essere percepito/a come incapace, malato/a o in
malafede. In questi casi, è importante partire dalla decodifica delle emozioni: la
rabbia, se non viene decodificata, rinforza il proprio senso di responsabilità ma,
come si osserva in questi scompensi clinici, può sfociare in immagini intrusive
(difficili da mettere a fuoco e da gestire, anche se meno delle emozioni, essendo
essenzialmente analogiche e non razionali). D’altra parte, imparare a riconoscere
le proprie emozioni aiuta a gestirle, impedendo che divengano immagini intrusive,
le quali attivano a loro volta ruminazioni e rituali. La rabbia, spesso, più che
essere espressa direttamente, emerge attraverso una serie di spiegazioni
colpevolizzanti; essa è quindi più immaginata che reale, dato che è il proprio
pensiero lo scenario primario per il soggetto; in genere, essa è minimizzata,
dissimulata, giustificata: si può assillare gli altri mentre ci si sente vittime. La
rabbia attiva anche un senso di solitudine, che esprime bisogno di cautela e di
pazienza (al contrario degli scompensi delle OPF Distaccate, in cui la solitudine è
percepita come prova di una condizione di non aiutabilità). Far emergere la rabbia
(anche in maniera strategica, da parte del terapeuta) aiuta quindi a mettere a fuoco
che le emozioni esistono, che possono essere espresse senza necessariamente
elaborarle in sopportazione, che è impossibile vivere senza di esse e che, d’altra
parte, non si può sfinire se stessi e gli altri all’infinito: “se non preparo bene
quello che devo dire, mi blocco. So che per fare bene qualcosa mi devo preparare
a lungo, lo devo rifare almeno tre volte. Quando non lo faccio, prima di parlare
non ci penso, almeno apparentemente sto benissimo, poi quando arriva il
momento mi blocco e balbetto. Era un convegno importante, che io dovevo
chiudere con la mia relazione. Nel preparala avevo due soluzioni, una più
generale, l’altra più specifica, anche se sapevo che non sarebbe stata condivisa

232
da tutti e io avevo scelto la prima. Quando ha iniziato a parlare il penultimo
relatore mi sono accorto che avevo sbagliato a scegliere, che andava bene la
seconda soluzione. Ho iniziato a parlare e mi sono inceppato. Ero arrabbiato. Ho
capito che mi punisco se non sono preciso e perfetto come devo, anche se so che è
impossibile esserlo. Devo scontare il fatto che ho sbagliato. In queste occasioni
divento cattivo, punisco gli altri. O meglio, o lascio perdere o li tratto malissimo.
Mi ha sollevato molto capire che mi punisco per una perfezione immaginaria, che
non è raggiungibile. Ora che ci penso, mia madre mi chiedeva di essere perfetto,
di essere migliore di mio padre, mentre lui mi ha sempre trattato come uno che
non sarebbe mai diventato meglio di lui: una situazione senza via d’uscita”. Le
difficoltà esterne sono percepite come proprie ed utilizzate per verificare la
propria capacità. Tuttavia, mentre nei disturbi d’ansia delle OPS Contestualizzate
il non ottenere l’approvazione è vissuto come prova del fallimento e della
inadeguatezza personale, in quelli delle OPS Normative l’impossibilità di trovare
una formula per superare i conflitti scalfisce il bisogno di certezze, attiva dubbi,
non consente al soggetto di esprimersi serenamente, lo fa sentire in colpa: “ancora
oggi quando torno a casa mi sento imbarazzato e divento aggressivo. Ad esempio,
l’altro giorno sono andato con mia madre in libreria. Avevo scelto un libro, ma
mia madre aveva detto alla commessa che non andava bene, che dovevo
sceglierne un altro. La commessa tentennava, non voleva battere alla cassa
l’acquisto. Ho alzato la voce e le ho detto: ‘Prendo questo e basta!’ Lei c’è
rimasta male, ma mi aveva fatto proprio arrabbiare”. L’equilibrio è ricavato dalla
capacità di gestire adeguatamente tutti gli aspetti della realtà che appaiono
fondamentali. Può accadere che il soggetto, se si sente “colpevole” di non aver
risolto questi nodi esterni, si può impedire di far bene le cose alle quali tiene, così
come un soggetto con una OPS Contestualizzata può non investire nuovamente, in
campo affettivo o professionale se non ha superato un’esperienza critica vissuta
come un fallimento personale. Infatti, se in una OPS Contestualizzata il blocco
comportamentale deriva dal rischio di ricavare un fallimento personale da un
giudizio esterno fatto proprio, in uno scompenso ansioso di una OPS Normativa
l’inibizione comportamentale scatta quando il soggetto si attribuisce l’incapacità
di raggiungere un obiettivo giusto e doveroso, con conseguente senso di
incompletezza e indegnità personale: “io chiamo sempre mia madre. Le ho
accennato della difficoltà che avevo su cosa fare, si trattava di scegliere quale
atteggiamento avere nei confronti di un collega, se dirgli le cose come stavano
oppure no. Lei ha iniziato a contestare ogni mia frase, ad esempio ‘tu sbagli a
pensare che lui’, oppure ‘non puoi pretendere che lui si renda conto’. Mi sono
sentito sotto attacco. Ho avvertito subito questo attacco dal tono di voce ed ho
provato un senso di abbandono. Ho pensato: non è giusto che una madre si
comporti così. Sono arrivato alla conclusione che lei non mi ha a cuore. Ho avuto
la tentazione di mettere giù il telefono, però poi ho pensato che non era giusto.

233
Avevo voglia di rispondere all’attacco con un contrattacco nucleare. Mi sono
detto: non ci tiro fuori un ragno dal buco, allora mi arrabbio anch’io. La
frustrazione nasce dal fatto che le voglio bene, ci litigo, ma non posso
interrompere la telefonata, se no lei poi si colpevolizza. Sono costretto a
continuare questo dialogo snervante, terribile. Ero spossato, provavo nausea,
amarezza, voglia di far niente. Poi l’ho richiamata altre due volte. Non riesco a
venire fuori da questa normatività contraddittoria. Ho provato una grande
tristezza, un senso di prostrazione che non è ancora passato. L’amarezza era per
l’inutilità: non c’è niente da fare, devo ricorrere ad obiettivi di altro tipo. Ho
ripensato alle tre telefonate con mia madre. Quello che ho provato è una tristezza
profonda, che poi è il tema della mia vita: cioè, evitare l’abbandono. Pur sapendo
che non sarà così, devo tornare alla carica. Ho realizzato che con lei ci può
essere una convergenza settoriale, al 75%, non totale e mi devo accontentare.
Questo pensiero per un po’ mi ha risollevato, sono stato meglio. La sua disistima
è per me mancanza di affetto. Purtroppo sono consapevole che tra me e mia
madre c’è una specularità di affermazione in rapporto ai punti in questione.
Anche lei cerca il 100% di riconoscimento e affetto. Mi sono reso conto che in
mia madre cerco un appiglio quando non so che pesci prendere, quando non ho
la certezza di sapere qual è la decisione giusta”. Quando la decodifica delle
emozioni non è possibile, subentrano il dubbio, le esitazioni (se agire o no, se
arrabbiarsi o meno, come farlo, ecc.), le ruminazioni. I pensieri ossessivi sono
percepiti non come un proprio modo di elaborare l’esperienza, ma come qualcosa
di oggettivo che appare estraneo a sé e di fronte al quale non si può fare nulla (“è
più forte di me”). Questi pensieri si manifestano con modalità invasive, come una
forza oggettiva che, in alcune circostanze (o apparentemente senza motivo)
possono diffondersi e colonizzare la mente, producendo ansia, angoscia, rabbia,
disperazione, agitazione. Il soggetto ha la sensazione di non poterli eliminare e di
non essere più libero/a di svolgere le sue attività, se non con sforzi enormi per
frenarli, mediante associazioni mentali dal valore simbolico rassicurante, che
diventano sempre più automatiche e ripetitive, o ricorrendo a rituali compensatori
di tipo compulsivo. Le ossessioni causano a loro volta uno stato marcato di ansia e
di disagio e non appaiono semplici preoccupazioni conseguenti ad un problema
reale, ma esprimono una ricerca tacita di tutto ciò che può preoccupare, avviando
un circolo vizioso da cui non se ne esce. Paradossalmente il soggetto, mentre
continua a produrre mentalmente preoccupazioni, tenta in ogni modo di
neutralizzarle attraverso altri pensieri o azioni. Le compulsioni esprimono proprio
il tentativo di eliminare questi dubbi continuamente generati (ma percepiti come
esterni, estranei e insopportabili) relativi a ciò che potrebbe accadere se non
venissero fatti i rituali (“e se poi succede davvero?”). I rituali rappresentano
quindi una procedura, tipo “tutto o nulla”, finalizzata a ripristinare
compulsivamente il controllo su di sé e sull’ambiente, annullando anche la propria

234
negatività e le conseguenze che da essa possono derivare. Se il rituale è fatto in
maniera imperfetta, il soggetto si sente costretto a ripeterlo finché non riesce bene,
impegnando tutte le sue energie ed isolandosi dal contesto relazionale in cui si
trova, fino allo stremo delle forze. Da questo punto di vista, la ricerca compulsiva
di controllo rappresenta un diversivo rispetto alla consapevolezza di ciò che è
emotivamente perturbante, ma proprio questo rinforza, in una sorta di circolo
vizioso, la “ossessività” e la ricerca di perfezionismo attraverso i rituali, che
invadono sempre più la propria vita. Di fronte alla paura di non gestire una
situazione percepita come riprova della propria impotenza (“non posso far nulla
per impedire che accada”), non esistendo un “rituale definitivo”, non si può fare
altro che ripetere quei gesti che, come una sorta di autoanestesia, leniscono la
propria incapacità di controllo. È evidente in questi casi il bisogno di punirsi per
la propria imperfezione. Pertanto, nelle forme più marcate di scompenso, le
ossessioni e le compulsioni non solo sono fonte di marcato disagio, ma assorbono
gran parte del tempo, interferendo pesantemente o rendendo impossibili le
normali attività occupazionali e i rapporti con gli altri. La possibilità di rendersi
conto che il pensiero sia intrusivo e fonte di sofferenza consente di distinguere
una ossessione da un delirio, nel quale mancano la capacità di critica e la
consapevolezza di malattia. Spesso si ricorre a canoni morali o a regole
precostituite, cui ci si adegua per evitare un comportamento inadeguato e la
conseguente svalutazione di sé: “mi vedo debole, come una canna al vento; non
può esistere mai un rituale definitivo che mi liberi dall’angoscia di non poter
evitare le cose negative della vita. Devo accontentarmi di reiterare i soliti rituali
all’infinito, così mi narcotizzo e lenisco il dolore, se no mi sento proprio
impotente. Io non posso far nulla per impedire che accada qualcosa di temuto,
vorrei tanto salvaguardare le persone che amo da tutti i mali e invece mi vedo
nuda, indifesa, quando la vita me lo sbatte in faccia. Io sono così, non ce la farò
mai, non riesco a venirne fuori. I solchi del disco sono sempre più profondi, devo
accettare di vivere così. Non è giusto mollare, ma mi sento depressa e stanca,
sfinita. Quando mi sveglio non posso fare a meno di dirmi che anche mettere i
piedi a terra deve essere sottoposto a un rituale. Inizia una giornata che è vuota e
squallida, senza senso, perché ci sono i rituali e la sofferenza. Devo cominciare a
far passare anche la minima cosa attraverso i rituali, se no mi sento sola,
irrealizzata. Anche quando sono mezza addormentata devo fare i rituali; può
accadere che vedo una cosa che non devo vedere e allora faccio il rituale, non
devo lasciare nessuna azione al caso, per cui agisco come se fossi perennemente
impedita, sempre frenata nel movimento. Vado sempre con i piedi di piombo, ogni
gesto non lo affronto direttamente, ho paura di un gesto nuovo, perché non so
cosa potrà significare. Se facessi un gesto normale ne potrei godere e non posso
non pormi i problemi. Gli altri a volte se ne accorgono e allora mi devo
giustificare (ad es., perché metto la testa sotto la scrivania o la batto contro il

235
muro). Lasciare una cosa al caso significa non controllarla e chissà che
conseguenze potrebbero venirne. E poi devo controllare ogni minimo dettaglio,
piccolo o grande, dallo spostare lo spazzolino da denti al chiudere la porta. Mi
viene da piangere perché non ce la faccio più, non riesco ad arrivare a tutto e poi
alla fine un ‘ahio’ viene fuori, soffro proprio. Vorrei non soffrire più, ma so che
non ci riuscirò mai e allora mi dico ‘brava stupida!, se dici così vedrai come
andrai avanti’ È che la sofferenza ha poca presa su di me, ce l’ha solo quando
non ce la faccio più, ma è un momento, poi riprendo il mio fardello e ricomincio
da capo. È come un’onda che mi passa sopra la testa quando c’è il mare grosso,
non mi accorgo che arriva e mi butta sotto, bevo. Mi colpevolizzo, penso che con
tutte le cose che devo fare sto lì a poltrire, mi dico ‘vergognati!’ Non tollero di
essere inadeguata, mi fa sentire in colpa, non posso dire che me ne frego, devo
controllare tutto. Prima mi colpevolizzavo sempre. Ora ho il dubbio: sarà vero
che mi devo giustificare se non faccio i rituali? Nel dubbio, mi castigo un po’”.
Nei disturbi somatoformi i quadri di somatizzazione e/o di ipocondria si
associano spesso a deflessioni del tono dell’umore. Questi quadri clinici
presentano spesso caratteri ricorrenti e monotematici, connessi con un significato
di “impurità”, “indegnità”, “colpevolezza”, “contaminazione” di cui il soggetto
appare pervaso/a. La somatizzazione può consentire di convogliare l’angoscia
legata a immagini ed attivazioni emozionali disturbanti, che destabilizzano il
bisogno di certezze e di perfezione sul canale somatico. Le preoccupazioni
dedicate alla salute rappresentano un rifugio inconsapevole per non occuparsi
dell’esperienza disturbante, ma possono anche esprimere simbolicamente i sensi
di colpa che solo attraverso una punizione fisica autoinflitta possono attenuarsi,
almeno transitoriamente. A volte si può osservare una sorta di bilanciamento tra
fasi in cui prevalgono i rituali ossessivo-compulsivi (vedi disturbi d’ansia),
quando il soggetto compensa dubbi e incertezze attraverso queste forme, e fasi di
somatizzazione, quando la sofferenza fisica consente di focalizzare l’attenzione
sul proprio corpo e fornisce una tregua alla costante ricerca di certezza e
perfezione, il cui mancato conseguimento attiva i rituali. I sintomi fisici
esprimono, con una simbologia incarnata, il disagio per non essere come si pensa
di dover essere. A questo proposito, l’apparato gastroenterico rappresenta un
frequente canale psicosomatico, rispetto ad esperienze non “digerite” e che fanno
sentire “sporchi/e, indegni/e e incapaci”. A volte può persino capitare che il
soggetto si produca, in maniera apparentemente accidentale, disturbi somatici,
attraverso modalità incongrue alimentari, posture non fisiologiche, traumi
ortopedici avvenuti durante l’espletamento di ripetuti rituali compulsivi (ad es.,
salire e scendere dal marciapiede).
I disturbi dell’umore frequentemente si manifestano con una depressione
monopolare. Prevalgono le forme ad andamento cronico, con eventuali
espressioni acute. L’abbassamento del tono dell’umore consegue al vissuto di

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incapacità personale nell’essere perfetti come si dovrebbe o al non adeguamento,
da parte degli altri, alle proprie ragioni, da cui deriva un senso di incertezza, di
dubbio, per cui si rimette in discussione tutto. Il soggetto avverte la ricerca di
certezze e di perfezione come un dovere: il non conseguirle può attivare un
vissuto di incontrollabilità che, al contrario di quanto avviene negli scompensi
delle OPF Distaccate, non riguarda la relazione con gli altri, ma compromette il
senso di sé, per cui si associa alla perdita delle certezze fino ad allora acquisite.
L’impossibilità di raggiungere un’identità certa e un controllo adeguato della
propria vita fa emergere un penoso senso di incertezza e di dubbio, associato alla
consapevolezza, scarsamente tollerata, dei propri limiti e difetti. Questa
esperienza non si esprime solo come semplice crisi esistenziale; infatti, quando è
particolarmente intensa e duratura, dà luogo a scompensi depressivi del tono
dell’umore, clinicamente rilevanti, che tendono a cronicizzare, sotto forma di
depressione persistente o distimia. In casi particolarmente intensi compaiono
forme di episodi depressivi gravi, con profondo abbassamento dell’umore,
marcata inibizione dell’iniziativa e della motivazione e presenza di idee (a volte
deliranti) di rovina, di sciagura, di colpa. Gli scompensi depressivi hanno come
caratteristica di fondo un senso antitetico di negatività personale, legato alla
incapacità di rispondere ad una perfezione interna tanto cercata quanto
irraggiungibile, anche nella decodifica e nella gestione degli aspetti contrastanti
della vita (forme depressive ambivalenti). Le modalità di esordio clinico
esprimono un senso di sconfitta personale, per cui da un evento limitato,
riguardante uno specifico settore dell’esperienza e percepito come incontrollabile,
si attiva un massiccio lavoro logico-analitico, con messa in atto di rituali
ossessivo-compulsivi o di blocchi psicomotori. A volte il senso di insopportabilità
della vita può produrre una ideazione suicidaria come unica via di uscita
dall’angoscia. Per quanto riguarda i temi di negatività personale, le corrispondenti
emozioni perturbanti e le conseguenti alterazioni della coerenza interna,
all’atteggiamento passivo di imperfezione e di negatività fa riscontro una marcata
tendenza ad escludere le emozioni dalla consapevolezza, riducendole ad
argomentazioni logiche. Inoltre la coesistenza di atteggiamenti ambivalenti di
affetto/ostilità, di rivendicazione/colpa esprime una alterazione della coerenza
interna legata alla intolleranza alla perdita di controllo e al senso di imperfezione
personale che ne consegue, fino alla attivazione di rituali compensatori.
Nei disturbi bipolari, le fasi depressive e maniacali ruotano intorno a temi taciti e
ambivalenti di imperfezione indegna e colpevole (depressione) o di perfezione e
di competenza globale e onnipotente (mania). A seconda della fase
psicopatologica, il soggetto attiva o inibisce la propria psicomotricità: passa da un
affaccendamento condito da fluttuanti ricerche di senso centrate sul proprio ruolo
fondamentale e sulla propria missione da compiere, al peso di sconfitta e

237
rassegnazione correlato al senso di colpa, per il fallimento di ciò che si proponeva
di dover fare.
I disturbi della condotta alimentare sono caratterizzati soprattutto da anoressia.
Sono connotati dalla ricerca ambivalente di perfezione, centrata sul fisico, con il
bisogno di controllare l’assunzione di cibo sulla base di una serie di regole
concernenti la condotta di vita e la salute. Spesso all’aumento dell’attività fisica e
alla dieta restrittiva si associano ragionamenti e deduzioni logico-analitiche
mediante le quali il soggetto giustifica il dimagrimento, come fonte certa di
benessere e come la migliore condotta alimentare e salutista possibile.
L’ambivalenza si esprime attraverso il fatto che l’attenzione e la cura del proprio
corpo si associa ad un atteggiamento rigido, punitivo e restrittivo, di cui la ridotta
assunzione di cibo è solo un aspetto. Inoltre, attraverso il controllo
dell’alimentazione viene anche regolato, in maniera ugualmente ambivalente, il
rapporto con i familiari, inseriti nel proprio schema rigido di gestione delle
abitudini di vita, con modalità relazionali che vengono sempre spiegate e
giustificate, isolandole totalmente dal repertorio emozionale e da ogni attenzione
empatica per i bisogni esterni. Nella bulimia prevale il senso di colpa con il quale
il soggetto si punisce per la propria imperfezione, eliminandola simbolicamente
attraverso il cibo; queste forme rappresentano modalità di espiazione e si
associano a vissuti di indegnità morale più o meno evidenti. L’autopunizione,
strumento ambivalente di punizione di figure significative attraverso se stessi,
alimenta le abbuffate patologiche (binge eating), con conseguente obesità. Come
ha messo in evidenza uno studio del nostro gruppo (Sabbatini et al., 2017), è
importante puntare all’alleggerimento del rapporto con il cibo: non più inteso
come dovere, il soggetto può riformulare il concetto di “giusto”, ponendo
l’accento sul valore del benessere individuale.
I disturbi psicosessuali possono esprimersi attraverso vari quadri clinici con un
ampio spettro di modalità di disagio, derivanti da un rapporto percepito come non
rispondente al proprio bisogno tacito di perfezione, di rigore e di controllo. Come
ha osservato Moltedo (2005), in questi casi la costruzione del senso di sé si basa
in maniera pressoché esclusiva sulle cognizioni, evitando attivamente le emozioni
perturbanti, per cui si esercita un controllo rigido e ossessivo dei propri contesti
relazionali. L’individuo si sente sicuro/a solo quando riesce a gestire il suo
comportamento e le situazioni esterne attraverso regole e criteri certi. L’avvio
delle relazioni può essere difficoltoso e lungo, può venire percepito come una
responsabilità eccessivamente pesante da portare avanti, può infine attivare
verifiche analitiche con snervanti attese di risposte adeguate, ma anche
ruminazioni e immagini intrusive (in genere, a contenuto sessuale, quasi mai
riferito a sé). D’altra parte, il fatto che la sessualità non risponda ai propri ideali
può attivare un intollerabile senso di colpa, di vergogna, di indegnità morale. In
questi casi, infatti, l’emergere del desiderio sessuale, la tendenza alla

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masturbazione o la ricerca di relazioni possono spingere il soggetto a percepirsi
come fonte di impulsi sessuali inammissibili. A livello tacito, la difficoltà a
regolare le emozioni negative rende difficile l’integrazione degli aspetti antitetici
dell’esperienza e genera il disagio, che può diventare psicopatologico.
Dall’indagine clinica emerge l’antiteticità – dedizione mista a insofferenza e
aggressività – con cui viene vissuto il rapporto, sebbene l’unico aspetto emergente
sia il sintomo rappresentato dal disturbo psicosessuale. La messa a fuoco dei
processi taciti alla base della sintomatologia clinica consente di evidenziare
l’atteggiamento ambivalente che finisce per produrre sofferenza sia nel soggetto
che nel partner, con carenza di empatia e prevalenza di comportamenti di
colpevolizzazione e di indegnità, i cui aspetti espliciti si esprimono attraverso
circostanziate e sterili ricerche di spiegazioni di ciò che non va. Non
infrequentemente emergono aspetti oscillanti di tipo sadico e/o masochistico,
come se solo attraverso il far soffrire e/o il soffrire fosse possibile ricavare un
transitorio piacere, spesso nell’ambito di una rigida ritualizzazione del rapporto o
di un’associazione ad esso di rituali compensatori (ad es., “purificazione” prima
e/o dopo il rapporto, centrando inoltre l’attenzione sulla “giustificazione”
razionale del rapporto stesso).
I disturbi correlati a sostanze psicoattive non sono frequenti e si associano in
genere a tematiche depressive. Il soggetto può ricorrere alle sostanze in momenti
perturbanti dell’evoluzione dell’arco della vita quando teme di perdere il controllo
sugli aspetti importanti della propria esistenza. Spesso le modalità di assunzione
vengono spiegate razionalmente come se riuscisse a controllare la dipendenza
dalla sostanza conoscendone perfettamente i meccanismi neurochimici da essa
prodotti e come se ne potesse “scegliere” le azioni farmacodinamiche che ritiene
utili (aumento di vigilanza e di efficienza o disinibizione nel caso di sostanze
amfetaminosimili, tabacco, superalcolici). Pannelli (2005) ha sottolineato la
frequente associazione, negli scompensi delle OPS Normative, tra assunzione di
sostanze e depressione del tono dell’umore, con una marcata tendenza a
controllare analiticamente dosi ed effetti della sostanza.
I disturbi del controllo degli impulsi rappresentano modalità tendenzialmente
croniche e ricorrenti, legate a situazioni in cui si produce una notevole attivazione
ansiosa, che rende insopportabile il non controllo di una data situazione o del
comportamento di una figura significativa. Si associano spesso a marcati sensi di
colpa e di indegnità morale, che tuttavia non impediscono ulteriori episodi,
qualora tornino a verificarsi le situazioni prima descritte. Come ha osservato
Moltedo (2005), le manifestazioni autoaggressive si presentano come condotte
abituali e ripetitive, legate a situazioni dalle quali deriva una forte attivazione
emotiva, percepita come incontrollabile e, quindi, intollerabile (ad es., essere
riprovati nonostante si tenti di tenere un comportamento corretto). In questi casi, il
controllo non viene esercitato direttamente sulle emozioni (che il soggetto cerca di

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non far emergere a livello consapevole, visto che producono un marcato senso di
destabilizzazione). Esse si associano inoltre ad un atteggiamento ambivalente, che
produce sofferenza sia nel soggetto che negli altri. Si associano a forti sensi di
colpa e indegnità, mentre ci si percepisce, a livello esplicito, come “cattivi/e e
scorretti/e”. In altri casi, l’autoaggressività rappresenta una forma di espiazione
per la mancanza di continuità tra l’immagine di onnipotenza personale e la
percezione svalutata di sé, che deve essere quindi punita. In altri casi ancora,
rientrano nell’ambito di aspetti oscillanti sadico/masochistici.
Nei disturbi della condotta la radicalizzazione del senso di onnipotenza del
pensiero può portare a forme di rigida ricerca di perseguire finalità devianti. La
deviazione dalla norma può pertanto divenire oggetto di perfezionamento e scopo
di vita, fino a fare del soggetto un vero criminale: dal giustiziere, che combatte
senza tregua il male inteso come peccato, al serial killer.
I disturbi fittizi esprimono il bisogno di ricercare certezze e punti fermi nel fare
riferimento a figure sanitarie percepite come autorevoli mentre, al tempo stesso, i
dubbi e le ruminazioni portano a non fidarsi mai del tutto, a non seguire le
prescrizioni e a ripetere continuamente i quesiti sulla propria salute o a “sentire
altre campane”. Verso chi si prende cura di lui/lei, il soggetto manifesta un
atteggiamento ambivalente di dipendenza e ostilità, espressione di una
aggressività in parte introflessa e in parte estroflessa. La richiesta esplicita di farsi
curare può emergere da esperienze tacite legate al bisogno di gestire l’altro/a
attraverso la propria richiesta di accudimento, sulla base di attivazioni antitetiche
emozionali di dedizione e ostilità. In altri casi è la paura di stare male o di avere
qualcosa di incurabile ad attivare dubbi e ruminazioni, che vengono convogliati
nella elaborazione di modelli scientifici più o meno verosimili sulla propria salute
e nel confronto minuzioso e analitico dei vari referti e delle singole prescrizioni
per cui, più si cercano pareri, più risulta difficile se non impossibile rendere
conciliabili eventuali, anche minime, discordanze diagnostiche e terapeutiche.
La simulazione esprime l’esigenza di nascondere il proprio mondo interiore e le
proprie intenzioni, soprattutto quando prevalgono tratti rigidi e sospettosi, che
talvolta possono preludere a scompensi psicotici di tipo paranoide. Essa viene
spiegata e, quindi, giustificata, sulla base di tutta una serie di ragioni, per cui il
soggetto si sente, di fatto, “autorizzato/a” e “legittimato/a”, persino per motivi
etici, a comportarsi in un determinato modo.
Nei disturbi schizofrenici prevalgono le forme con sintomi “positivi” rispetto a
quelle con sintomi “negativi”, che rappresentano per lo più involuzioni croniche
associate a una sorta di rassegnato e progressivo svuotamento e frammentazione
dei contenuti ideo-affettivi. La abnorme realtà autoprodotta – che a volte emerge
all’improvviso (“intuizioni deliranti”), altre volte compare gradualmente in base a
“prove” percepite come certe ed inconfutabili – diviene la base su cui si costruisce
l’identità mediante una trama narrativa rigida, carente di feedback e quindi

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inaccessibile alla critica. La messa a fuoco dall’esterno, basata su schemi generali
interiorizzati, si distacca dall’insieme delle regole e dei significati comuni,
condivisi dal gruppo sociale. Le attivazioni emozionali non gestibili debordano in
maniera acritica, con una trama narrativa spesso incoerente e confusa
(schizofrenia paranoide), altre volte lucida e organizzata (disturbo delirante o
paranoia), producendo temi deliranti più o meno organizzati. Attraverso il delirio,
sostenuto o meno da alterazioni percettive di tipo allucinatorio e da percezioni
deliranti riferite a sé (“idee di autoriferimento”), il soggetto cerca di ricomporre il
disgregato mosaico relativo al controllo del mondo interno ed esterno che,
nell’arco dell’esperienza prepsicotica, non era stato in grado di realizzare. La
negatività personale, percepita spesso come colpa o come destino angosciante di
condanna, è rivolta all’esterno e attribuita agli altri: così, per assimilare ed
autoriferirsi l’esperienza, il soggetto la razionalizza a livello esplicito come
espressione della “incomprensione, indisponibilità, invidia e malvagità degli
altri”. Nella paranoia – in cui le esperienze perturbanti sono limitate ad un settore
dell’esperienza (ad es., affettivo o lavorativo) e non coinvolgono altri ambiti della
personalità – il disturbo psicotico si esprime con la produzione lucida di un tema
prevalente abnorme, spiccatamente logico e coerente, inaccessibile alle
sollecitazioni, alle critiche e alle revisioni esterne. I temi deliranti degli scompensi
psicotici delle OPS Normative sono in genere di giustizia, grandezza e di
onnipotenza (fisica, sessuale, professionale, morale), spesso associati a quelli di
persecuzione (causata da non riconoscimento, da parte degli altri, della propria
onestà, capacità e imparzialità). Il senso psicopatologico ambivalente di sé, che
non consente un controllo sul mondo interno ed esterno per l’impossibilità di
raggiungere la perfezione desiderata, porta a cercarla attraverso la visione
delirante dell’esperienza; questa visione delirante (meno lucida e strutturata nelle
forme di schizofrenia paranoide, abnormemente strutturata logica e razionale nei
disturbi deliranti paranoici) è espressa nell’ambito di una visione marcatamente
rigida di sé e del mondo, basata su un granitico rigore logico e morale.
Nei disturbi dissociativi appare evidente l’atteggiamento antitetico tra bisogni
opposti e inconciliabili, ma anche tra percezioni positive e negative di sé, che il
soggetto non è in grado di integrare in modo unitario. Questi disturbi sono spesso
preceduti e si associano a ruminazioni ossessive e a rituali compulsivi. Di fronte
ad una crescente ansia di perdere totalmente il controllo su di sé, mentre immagini
ed emozioni tendono ad emergere intrusivamente nel campo di coscienza, il
soggetto può attivare sia amnesie parziali o totali, sia uno sdoppiamento di
personalità (disturbi dissociativi di personalità), attribuendo a ciascuna di esse
gli aspetti antitetici avvertiti come inconciliabili. Nel non riconoscersi c’è una
intollerabile discrepanza tra la percezione e l’idea di sé, che a volte si trascina nel
presente a partire dai ricordi del passato. Ne deriva un tema predominante di aver
mancato ai propri doveri, con conseguenze insopportabili per il presente e il

241
futuro. Solo il distacco da sé e dalla realtà consente un precario adattamento,
attraverso una coscienza esplicita minimale, fortemente limitata, coartata,
crepuscolare. In particolare, nelle psicosi condivise, come nella “follia a due”,
prevalgono le forme in cui il soggetto dominante (in questo caso, con una OPS
Normativa) tende a comunicare e ad imporre i propri temi deliranti al soggetto più
debole, convincendolo/a quindi a fare tutto ciò che desidera (incluse azioni illegali
e criminali) e ad accettarne le conseguenze.
Nell’ambito dei disturbi di personalità, con temi prevalenti di dubbio e
imperfezione, nel cluster I prevalgono i disturbi paranoidi. In essi le modalità,
marcatamente logiche ma rigide del pensiero, che assumono connotati di
onnipotenza, portano a interpretare gli atteggiamenti non conformi degli altri con
diffidenza e sospettosità o in senso persecutorio e vessatorio. Il soggetto tende
quindi a mantenere rancore, riprovazione o disprezzo verso chi non lo asseconda e
non ne condivide idee e finalità. All’interno del cluster III, sono frequenti i
disturbi ossessivo-compulsivi.

242
IL LAVORO SULL’ESPERIENZA SOGGETTIVA IN PSICOTERAPIA

INTRODUZIONE
Nella pratica clinica, sia per fare diagnosi che per operare un intervento
psicoterapeutico mirato, è fondamentale mettere a fuoco come un soggetto fa
esperienza costruendo il suo significato personale, percependosi dapprima a
livello tacito poi a livello esplicito come attivamente attivo o passivo, coraggioso
o pauroso, caldo o freddo, introverso o estroverso. Indagando con attenzione ed
empatia il fluire degli stimoli senso-percettivi legati alle diverse situazioni della
sua vita, vanno ricostruite le modalità adattive con le quali cerca di mantenere
costanti i suoi aspetti organizzativi di fondo, che sono prevalentemente taciti,
ricchi di correlati emozionali e spesso nascosti dai contenuti di coscienza più
consapevoli ed espliciti (Reda, 1986; Guidano, 1987, 1991, 2007; Nardi, 2001-
2016).
Nell’approccio nosografico tradizionale la descrizione del quadro clinico coincide
sostanzialmente con la spiegazione di ciò che si osserva. I sintomi sono
individuati e classificati all’interno di categorie standardizzate, universalmente
valide; quello che conta è che osservatori esterni concordino su ciò che
descrivono. Non sono prese in primaria considerazione le informazioni che si
possono ricavare partendo dai sintomi e dal soggetto che li esprime; del resto, ciò
appare secondario se lo scopo è quello di curare utilizzando esclusivamente dei
farmaci, i quali agiscono su variabili biologiche di base (livello di ansietà,
attivazione psicomotoria, variazioni del tono dell’umore, ecc.) e non direttamente
sulle modalità individuali di percepire e di assimilare l’esperienza, in accordo con
i processi omeostatici di mantenimento della coerenza interna.
L’approccio esplicativo alla psicopatologia noto sotto il termine di Cognitivismo
Costruttivista Post-Razionalista consente invece di riferire il sintomo
all’individuo che lo manifesta e di collocarlo all’interno della sua costruzione
dell’identità, nella continuità della storia narrata: le variabili soggettive diventano
una fonte primaria di informazioni sul modo attraverso il quale l’individuo non
riesce ad integrare nel senso di sé certe esperienze, che risultano
conseguentemente perturbanti. Come scriveva Quinto Orazio Flacco (“nam tua
res agitur”, si tratta infatti delle tue cose), il terapeuta si interessa delle cose che
sono importanti per chi ha di fronte, nel modo in cui lui/lei le vive.
In ogni narrazione esiste una costante dialettica tra esperienza immediata (unica e
irripetibile, globale, scarsamente consapevole o “tacita”, implicita, fatta di
immagini e di attivazioni emozionali: “film nel cervello” o “movie in the brain”
come lo ha definito Damasio, 1999) e le spiegazioni che, subito dopo, si danno di

243
questa esperienza a livello esplicito (logico-razionale ed analitico). Attraverso
questa dialettica ciascun soggetto mantiene la sua coerenza interna e costruisce,
come ha osservato Guidano (1987, 1991), un suo unico e peculiare significato
personale, cioè un senso di unicità e di continuità storica, nonostante i
cambiamenti sperimentati nel corso della vita. In altri termini, il livello
emozionale viene spiegato in modo da sentirsi protagonista dell’esperienza
vissuta: “come uno/a si sente” diviene “perché uno/a si sente in quel modo”.
Come le spie sul cruscotto di un’auto, il sintomo (angoscia, rabbia, colpa,
tristezza, ecc.) è la risorsa che segnala che qualcosa non va nell’assimilazione
dell’esperienza e che non si spegne o si riaccende se questa non cambia in modo
diverso e più adattivo, quando il soggetto impara a riferirsi ciò che accade con
modalità più sintoniche, sfruttando meglio gli strumenti forniti dalla sua OP
(Nardi, 2016).
L’approccio esplicativo consente di evidenziare che la psicopatologia ha origine
quando non si riesce ad integrare un evento – percepito come emotivamente
perturbante – nella storia narrata. Si incontra una difficoltà (più o meno marcata,
parziale o totale) a gestire e a riconoscere come propria l’emozione perturbante
sperimentata, che innesca quindi una crisi di identità, con conseguente
cambiamento dell’immagine di sé.
La psicoterapia consente di cogliere questa discrepanza, per cui il conseguente
aumento di consapevolezza produce nel soggetto una maggiore flessibilità,
nonché un aumento delle sue capacità di astrazione. Il post-razionalismo, più che
soffermarsi sui singoli sintomi, intesi come aspetti nosologici a se stanti,
sottolinea l’unitarietà del significato personale mediante il quale ogni soggetto si
costruisce la sua continuità, sia nelle fasi di compenso che durante eventuali
scompensi; la psicoterapia deve quindi tenere presente l’andamento dinamico nel
tempo della OP che è sottostante ai sintomi presentati e che va messa a fuoco, a
partire dal primo colloquio.
Come ha osservato Balbi (2017), “i fenomeni psicopatologici hanno la loro
origine negli squilibri affettivi generatori di discrepanze che, essendo
difficilmente integrabili per il sistema personale, provocano emozioni, sentimenti,
sensazioni, immagini e comportamenti che sono vissuti dalla persona come
incontrollabili ed estranei a sé, quello che noi specialisti designiamo come segni e
sintomi”.
Pertanto, come ha sottolineato Moltedo (2017), “il post-razionalismo, invece di
mettere a fuoco singoli sintomi specifici come aspetti nosologici, evidenzia
l’unicità del significato personale che ciascun soggetto costruisce e la sua
continuità nel ciclo di vita, centrandosi su di esso fin dalla prima seduta, aiutando
il soggetto a comprendere le sue modalità di funzionamento e le regole che ne
sono alla base”.

244
In questa ottica, la psicoterapia mira ad indurre un cambiamento che sia
riorganizzazione della vita personale, centrata su una ristrutturazione emozionale
più adattiva.
Avendo il corso della vita una direzionalità progressiva in avanti (“feed-
forward”), occorre che il soggetto arrivi a comprendere le sue modalità di
funzionamento e le regole che ne sono alla base. Reda (2017) ha sottolineato che
“nel modello postrazionalista che segue il metodo della complessità e considera i
sistemi dinamici, i sintomi o i disagi del paziente sono considerati l’espressione di
emozioni di cui non si riesce a cogliere il senso e il significato. Il tentativo di
integrazione è socialmente disadattivo e viene pertanto etichettato come malattia.
In questo senso si parla di rigidità strutturale, per cui di fronte alle sensazioni
derivanti da una perturbazione che provoca instabilità il sistema, anziché
riequilibrarsi acquisendo ulteriori nuove conoscenze, si blocca fornendo alle
sensazioni una lettura esterna o egodistonica in termini di sintomi
psicopatologici”.
Il terapeuta non si deve tanto preoccupare del fatto che il soggetto possa provare
emozioni negative, quanto piuttosto di fargli/le notare che proprio queste tonalità
emotive sono utili sotto il profilo informativo, dato che il controllo di queste
emozioni si ottiene mediante la conoscenza e che gli unici cambiamenti utili e
stabili sono quelli che avvengono nel campo della consapevolezza. Le emozioni
sono dunque essenziali per ricercare il modo di riorganizzarle. In accordo con
Guidano (1987, 1991) e procedendo in questa direzione, il terapeuta rinuncia al
primato della oggettività; non si pone come il garante di un ordine esterno che è in
grado di ipotizzare, ma come un esploratore che può comprendere un
comportamento proprio in quanto lo riferisce alla OP del soggetto. La
comunicazione non è istruttiva o direttiva, ma deriva dall’accoppiamento
strutturale tra le OP del terapeuta e del soggetto (“co-esplorazione”).
La psicoterapia costituisce pertanto una situazione altamente soggettiva
finalizzata al cambiamento, cioè ad una riorganizzazione personale più adattiva in
termini interni ed emozionali. Ciò che conta non è convincere il soggetto di
qualcosa, ma far sì che acquisti consapevolezza dei processi emotivi che sono alla
base del suo modo attuale, discrepante e disadattivo, di vivere una data situazione:
occorre che arrivi a comprendere le modalità di base del suo funzionamento
psichico. Proprio partendo dalle esperienze negative sperimentate, il soggetto può
scoprire che esse sono le più utili sotto il profilo informativo, dato che il controllo
delle emozioni che si attivano in queste circostanze si ottiene mediante la
conoscenza: non c’è cambiamento stabile all’infuori dell’ambito della
consapevolezza.
Va tenuto presente, a questo proposito, che ogni individuo ha,
contemporaneamente, due punti vista: a) quello soggettivo, legato al suo modo di
funzionare; b) quello oggettivo, legato alla capacità di vedersi “dal di fuori”.

245
Nell’esperienza umana, entrambi i punti di vista sono irriducibili, in quanto, come
hanno osservato tra gli altri Nagel e Hofstadter (1981), il modo in cui si avverte
una percezione o un’emozione e il modo in cui le si spiega in termini razionali e
oggettivi sono entrambi costantemente presenti nella psiche.
Partendo da questi presupposti, la conoscenza che persegue il terapeuta è quella di
comprendere e far comprendere un dato comportamento, collocandolo all’interno
delle modalità e delle regole proprie della OP del soggetto stesso.
Il terapeuta non è un depositario esterno di verità assolute, ma un professionista
consapevole di essere coinvolto nella relazione terapeutica e di co-evolvere
insieme con l’individuo che ha in cura. Non è un tutore o un istruttore che guida
alla conoscenza di un sistema più logico e razionale o meno errato di gestire il
proprio comportamento, ma è, come lo ha definito Guidano (1988, p. 251), un
“perturbatore strategicamente orientato”, che cerca di cogliere come il soggetto
ha dato forma all’esperienza immediata nelle situazioni perturbanti e come si
riferisce e si spiega quello che gli/le accade. In questo modo può aiutarlo/a a
costruirsi una modalità di conoscenza emozionale di sé più ampia, articolata, tale
da consentirgli/le di superare le difficoltà incontrate nell’assimilare l’esperienza:
“allo stato attuale delle conoscenze sembra sempre più evidente che le
perturbazioni emotive derivanti dalla perturbazione terapeutica (specialmente nel
caso di un coinvolgimento ‘positivo’ da parte del paziente) hanno un ruolo
assolutamente primario nel facilitare quelle modificazioni del livello di
consapevolezza che consentono al paziente di elaborare una descrizione
‘alternativa’ di se stesso (Safran e Greenberg, 1988). D’altra parte, visto che
siamo tuttora ben lontani dal possedere una teoria esaustiva della mente che
spieghi l’interdipendenza tra cognizioni ed emozioni e in particolare in che modo
l’affettività faciliti l’assimilazione di esperienza, l’abilità di un terapeuta
nell’usare le dinamiche relazionali per promuovere un cambiamento è destinata a
rimanere (almeno per ora) prevalentemente un’arte piuttosto che una scienza.
L’immagine del terapeuta che emerge da questa prospettiva è comunque quella di
colui che, mentre è ‘tecnicamente’ proteso a modificare i modelli di
consapevolezza del paziente, è estremamente attento a utilizzare le oscillazioni
emotive che osserva nel paziente per facilitare la comprensione di quanto si va
man mano ricostruendo. È tuttavia chiaro che per arrivare a formulare in modo
sempre più esauriente il ruolo del terapeuta come perturbatore strategicamente
orientato occorrerà che la ricerca psicoterapeutica sia sempre più diretta
all’elaborazione di modelli che evidenzino in che modo l’oscillazione emotiva che
si verifica nel corso della comprensione di dati critici possa facilitare
l’acquisizione di dati nuovi e/o il riordinamento di dati già esistenti”.
È importante considerare non tanto il fatto che il soggetto possa provare emozioni
negative, quanto piuttosto notare che proprio queste tonalità emotive sono utili
sotto il profilo informativo. Come scriveva Publio Virgilio Marone nell’Eneide,

246
“sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt”, sono le lacrime delle cose – le
cose tristi della vita – che toccano la mente degli uomini (mortali). Le emozioni
sono dunque importanti per ricercare il modo più adattivo di riorganizzarle.
Infatti, fare psicoterapia è operare una ricerca sul cambiamento umano, in modo
che un soggetto possa raggiungere una modalità di funzionamento più adattiva,
intendendo l’adattamento come una modalità comportamentale attiva, finalizzata
ad agire sull’ambiente per rendere l’esperienza il più possibile consistente con la
propria coerenza interna e, quindi, assimilabile senza marcate modificazioni in
negativo dell’immagine di sé e del mondo.
Nel corso della vita ogni individuo, che costituisce un sistema complesso con
capacità di autorganizzazione, è sottoposto a vari tipi di stress, cui risponde
generando dei flussi interni, in modo da mantenere il più possibile stabile e
stazionaria la propria organizzazione interna. Per ogni sistema sono possibili
diversi stati di equilibrio. Se, a causa delle pressioni esterne, un sistema si sposta
dalla sua posizione di equilibrio, tenderà a tornarci, a meno che la perturbazione
cui è sottoposto non supera un valore critico soglia, al di sopra del quale il sistema
entra in una fase metastabile, che può cessare solo raggiungendo un nuovo
equilibrio, più ampio e complesso rispetto al precedente.

L’INTERVENTO SUL DISAGIO PSICOPATOLOGICO


Nell’approccio post-razionalista, il lavoro psicoterapico richiede non solo
competenza tecnica ma anche sensibilità nell’arte di esplorare il mondo interno
dell’altro, in modo da rendere esplicito ciò che è tacito, coinvolgendo la persona
sul piano emotivo e consentendole di riferirsi le emozioni che prova, per far
emergere le risorse di cui dispone (Nardi, 2007-2016).
Il motore per un cambiamento significativo verso un benessere maggiore e stabile
sta nell’opportunità di percepire le proprie esperienze da una prospettiva diversa
rispetto a quella abituale. La possibilità di riferirsi una esperienza critica e
destabilizzante in modo alternativo a quello abituale apre scenari inesplorati e
genera nuove attivazioni emotive rispetto a quelle sperimentate – e quindi attese –
liberando competenze e risorse inespresse. Portare il soggetto a confrontarsi in
modo nuovo con la propria storia consente di rompere il processo attraverso il
quale il soggetto si identifica in ciò che gli/le è successo, in come si è sentito/a
etichettato/a e trattato/a, per cui può scoprire aspetti ignorati di sé (Nardi, 2013,
2016). Questo processo di cambiamento richiede di partire dalle esperienze
vissute dal soggetto in episodi significativi messi a fuoco in moviola e di
rileggerle alla luce della sua OP. La messa a fuoco dei percorsi e dei blocchi prodotti
dai processi di costruzione dell’identità (sia emozionali e taciti che razionali ed espliciti)
permette di focalizzare l’attenzione sui limiti del funzionamento personale che non
consentono di accedere alle risorse adattive – almeno potenziali – fornite dalla sua OP. In
questo sta il valore dell’essere co-esploratori dell’unicità personale e, quindi, dell’essere

247
capaci di declinare la psicoterapia in termini di “perturbazione strategicamente orientata”
(Guidano, 1987).
Partendo dalle premesse appena fatte, l’ambito clinico che può avvalersi
vantaggiosamente di un intervento psicoterapico va esteso dalle espressioni di
disagio sub-clinico o pre-clinico e dalle forme “nevrotiche” (nelle quali si
mantiene un senso di sé sostanzialmente coerente e integrato) anche a quelle
“psicotiche” (nelle quali si assiste ad una compromissione dell’integrità e della
consistenza del sé). Ovviamente, il limite sta nella possibilità di costruire quella
“alleanza terapeutica” che consente insieme – terapeuta che fornisce strumenti di
indagine e di lettura e soggetto che sperimenta il problema di cui soffre – di co-
esplorare il vissuto psichico che produce il quadro clinico oggetto dell’intervento.
La finalità di un intervento terapeutico non è pertanto semplicemente quella di
contrastare i sintomi e di sopprimerli, quanto piuttosto quella di individuare
risorse e percorsi alternativi, migliori sotto il profilo adattivo, che consentano
comunque al soggetto di riconoscersi e di mantenere una sua coerenza interna.
Come si è visto nel Capitolo 6, i vari quadri psicopatologici si possono osservare
negli scompensi di tutti i tipi di OP, ma presentano in ciascun soggetto modalità
peculiari. La presenza delle stesse espressioni di disagio psichico in OP diverse
richiede quindi una valutazione esplicativa, per mettere a fuoco come un
individuo, in un determinato momento della sua vita, è andato incontro a quello
specifico scompenso. La possibilità di mettere in luce le specifiche modalità
soggettive di riferire a sé le esperienze perturbanti e di manifestare un disagio
conseguente alla rottura dell’equilibrio preesistente permette di utilizzare le
strategie di intervento più adeguate per migliorare le risorse individuali, per
individuare i percorsi più adattivi e per incrementare le capacità di integrazione
del sé. Infatti, di fronte ad uno scompenso, si parte dai sintomi per ricostruire, non
solo il modo di funzionare di un soggetto, ma anche il suo tentativo di
adattamento, che può essere al momento l’unico disponibile nell’ambito del suo
repertorio comportamentale per gestire le emozioni negative attivate dalle
esperienze perturbanti.

SETTING E ASSESSMENT
La psicoterapia cognitiva post-razionalista, le cui fondamenta teoriche e pratiche
sono state messe a punto dall’innovativa opera di Guidano (1983-2010), consiste
nella costruzione del setting, nella raccolta e valutazione dei dati clinici
(assessment), nella definizione del problema e nel riordinamento dell’esperienza,
definendo in questo modo il contratto terapeutico, gli obiettivi e i parametri di
lavoro.
La costruzione del “setting” riguarda il contesto psico-comportamentale che
media la relazione terapeutica e la rende clinicamente efficace (ambiente fisico,
atteggiamenti reciproci, regole organizzative sul lavoro da fare insieme). È

248
fondamentale favorire una “alleanza terapeutica”, che è la chiave del successo di
un trattamento terapeutico e fornisce la cornice generale entro la quale anche le
rotture di negoziazione e le resistenze (vedi oltre) possono essere trasformate in
cambiamenti terapeutici (Safran e Greenberg, 1988; Salkovskis, 1999). Occorre
quindi stabilire una relazione empatica e collaborativa, nella quale il terapeuta
non si limita solo a dare, ma diviene parte attiva della diade terapeuta-soggetto,
che si modifica reciprocamente.
Il nucleo di un approccio psicoterapeutico risiede nella capacità di fornire una
comprensione del soggetto e del problema che presenta.
A questo proposito va tenuto presente il ruolo primario svolto dalle attivazioni
emozionali – il cosiddetto “primato delle emozioni” – cercando di comprendere
come soggetti diversi possano percepire in maniera diversificata una medesima
esperienza, in base alle modalità soggettive con cui assimilano e organizzano
l’esperienza vissuta. Nella costruzione del setting è necessaria quella empatia –
intesa come disponibilità a comprendere il modo di fare esperienza e le
motivazioni dell’altro – tale da consentire una valida alleanza terapeutica, intesa
come cooperazione esplorativa. Il terapeuta fornisce al soggetto gli strumenti per
esplorare il mondo interno – con il quale il soggetto è l’unico a contatto diretto,
ma che solo in parte conosce – filtrandolo e interpretandolo con le spiegazioni,
che a volte sono vere e proprie forme di autoinganno, essendo esse finalizzate
prioritariamente a mantenere la coerenza interna e non a dare una forma
attendibile di conoscenza. In questo senso, è importante usare lo stesso linguaggio
e rimandare al soggetto gli stessi termini che usa. Reda (2017) ricorda che “solo
una buona relazione terapeutica può consentire di superare la rigidità del sistema
e “smuoverlo” in modo che possa ritrovare un proprio equilibrio dopo
l’instabilità, parlando a se stesso (“rumination”) al terapeuta e ad altri
significativi (social sharing) dei propri vissuti, delle situazioni esterne che li
hanno attivati e dei propri pensieri (“sequenzializzazione”). Il terapeuta che
entra in una relazione di sintonia col paziente, non interpreta né restituisce un
ricordo ma attraverso la condivisione dà al paziente la possibilità di parlare di
qualcosa che il paziente stesso aveva sempre saputo consentendogli di provare,
riconoscere e regolare, attraverso i propri pensieri o significati personali, le
emozioni che non gli era consentito di provare. In questo modo è possibile
riprendere il cammino della conoscenza”.
In età pediatrica, come hanno evidenziato Lambruschi e Lionetti (2016), molto
spesso i bambini sono portati in terapia non quando avvertono disagio, ma
quando, stando male, turbano lo stato mentale dei genitori. Nel setting è
fondamentale operare con essi, iniziando a farli mentalizzare in terza persona e a
mettere a fuoco quale può essere lo stato interno del bambino, per poi procedere
anche in prima persona (cosa provano loro quando il bambino fa qualcosa).

249
La raccolta e la valutazione del materiale clinico portato dal soggetto
(“assessment”) può essere operata mediante: a) testistica psicodiagnostica; b)
colloquio clinico.
Nell’ambito della testistica psicodiagnostica, il nostro gruppo ha messo a punto
due strumenti qualitativamente diversi, MQOP e PRPR.
Il Mini Questionario sulle Organizzazioni Personali (MQOP) esplora l’OP del
soggetto attraverso la risposta a 20 item, che fanno riferimento a 4 scale, una per
ogni OP (Scala Controllante, Distaccata, Contestualizzata, Normativa). Ciascuna
domanda prevede che la risposta venga data all’interno di una scala Likert che va
da “completamente falso per me” a “completamente vero per me” (Tab. 9;
Arimatea et al., 2009; Nardi et al., 2012). Per rendere il questionario “self-report”
(autosomministrato) il più chiaro possibile, in accordo con i criteri standard, la
maggior parte degli item è stata orientata su caratteristiche specifiche della OP
investigata e ciascuna risposta è stata utilizzata per misurare solo una OP, anche
nel caso di item in cui vengono indagati aspetti differenti che fanno riferimento
allo stesso asse di reciprocità. Dalle validazioni effettuate, il test è risultato di
facile applicazione clinica e di notevole affidabilità diagnostica e fornisce, inoltre,
informazioni importanti su come il soggetto si vede e si racconta, in relazione alla
motivazione, alla desiderabilità sociale, alle abilità introspettive ed ai processi di
autosservazione di cui dispone.
Il Post-Rationalist Projective Reactive (PRPR) è un reattivo di 20 tavole,
raffiguranti personaggi e situazioni, che indaga, attraverso le storie e le attivazioni
che il soggetto ricava da esse, anche il livello tacito con cui si riferisce
l’esperienza (Fig. 4; Arimatea, 2015; Arimatea et al., 2016). Il PRPR (che richiede
un addestramento specifico per poterlo somministrare), consente di discriminare
entrambi livelli conoscitivi, quello tacito e quello esplicito, pur essendo essi quasi
simultanei e compenetrati l’un l’altro. Il primo concerne senso-percezioni, stati
d’animo, tonalità emotive, immagini; il secondo la spiegazione che il soggetto si
dà (tipo: mi sono arrabbiato, ho avuto una reazione esagerata, ecc.). Il PRPR,
rispetto ad altri test, si caratterizza proprio per l’attenzione che pone al livello
dell’immediatezza dell’esperienza e, quindi, delle emozioni. Infatti, viene
presentato come test sulle emozioni e sui vissuti soggettivi e nelle istruzioni si
chiede al soggetto di costruire una breve storia per ciascuna tavola, in base a ciò
che immagina per quella situazione e, tenendo conto della specifica scena
osservata, di immaginare anche un prima e un dopo rispetto a quella situazione.
Come accade nella realizzazione di un film, si invita il soggetto ad assumere sia il
ruolo del regista (non del critico o di un valutatore), sia di calarsi, da
protagonista, nel “qui e ora” della storia che deve costruire, a partire dalla
immagine stimolo che osserva.

250
Tab. 9. Il Mini Questionario sulle Organizzazioni Personali (MQOP)
1. Per sentirmi adeguato/a è molto importante per me non deludere le aspettative degli altri
2. Quando non mi posso muovere liberamente mi manca l’aria
3. Mi fa star meglio l’impegno che metto nel fare una cosa, piuttosto che la considerazione da
parte degli altri
4. Per me la solitudine è la condizione di base della vita
5. Per me è importante capire se gli altri mi approvano o meno
6. Mi fa sentire libero/a e non costretto/a avere il controllo di una situazione
7. Per sentirmi equo/a ed imparziale, mi capita abitualmente di tenere più in considerazione le mie
norme interne, piuttosto che il parere di chi mi circonda
8. È una mia tendenza costante pensare di essere solo/a e che tra me e gli altri ci sia un distacco
notevole
9. Per me è importante che il mio punto di vista venga condiviso dalle persone alle quali tengo
10. Abitualmente, se vengo controllato/a, più che sentirmi svalutato/a dagli altri, mi sento
costretto/a e non libero/a
11. Non tendo a cambiare le mie convinzioni quando vengo criticato/a dagli altri
12. Visto che non posso contare su nessuno, quando devo affrontare qualcosa cerco di mettercela
tutta, tanto dipende solo da me
13. Quando gli altri mi criticano o mi disapprovano mi fanno sentire a disagio e inadeguato/a
14. Per me è fondamentale poter entrare e uscire da una situazione liberamente
15. Nelle situazioni di dubbio le idee degli altri pesano meno rispetto alle mie
16. Per riuscire nella vita uno/a si deve impegnare a fondo confrontandosi con il proprio destino di
solitudine
17. Essere apprezzato/a e ricercato/a dagli altri mi fa sentire importante
18. Sto bene con persone affidabili che non mi opprimono con le loro richieste
19. Quando ho una incertezza tendo ad ignorare le aspettative degli altri
20. Nella mia vita, ho sempre dovuto cavarmela da solo/a non potendo contare sull’aiuto degli altri

Fig. 4. Il “Post-Rationalist Projective Reactive” (PRPR)

251
Per quanto riguarda il colloquio clinico, dopo aver costruito il setting terapeutico
e aver raccolto i dati clinico-anamnestici essenziali mediante l’assessment, la
terapia inizia e si sviluppa attraverso il riordinamento dell’esperienza disturbante
e la riformulazione del problema clinico presentato. D’altra parte, la raccolta e la
ricostruzione dei dati sono già terapia: si procede facendo fare al soggetto un
processo inverso a come ricostruisce abitualmente un evento e a come tende a
giungere ad una conclusione. Gli/le si dà, infatti, uno strumento di
autosservazione su come costruisce il senso di sé da dentro, insegnandogli/le a
distinguere tra il livello delle spiegazioni (con cui è solito procedere) e quello
dell’esperienza immediata (che gli/le è più o meno ignoto, ma che è
fondamentale, in quanto è unico e precede le spiegazioni).
Il problema principale, riguardo al piano teorico dell’individuazione dei principi
generali sul modo di ricostruire i dati clinici, è quello di definire il metodo che si
intende seguire. A questo proposito, occorre considerare i seguenti due aspetti: 1)
relazione tra i dati indiretti (costituiti dai resoconti del soggetto) e i dati derivanti
dall’osservazione diretta (come la modulazione mimica del soggetto durante il
racconto e le modalità semantiche che usa nell’esporre i propri dati, sia recenti che
remoti); 2) distinzione tra livello di esperienza, come percezione immediata della
realtà, e livello delle spiegazioni che si danno dell’esperienza immediata percepita
e che ne consentono l’assimilazione.
È utile partire dal problema attuale, ricostruendo la situazione in cui esso è
emerso (quali sono le sue caratteristiche, come si è strutturato, qual è il bilancio
affettivo, quali sono gli addentellati sociali, ecc.). Ad esempio, un appiattimento
affettivo può essere indice o di discrepanze troppo intense, tali da non essere (o
non essere state) alla portata del soggetto, o di una loro pressoché totale assenza,
frutto di uno sviluppo cognitivo sostanzialmente piatto, all’interno di un ambiente
“ovattato” emotivamente.
Il riordinamento dell’esperienza – vissuta come disturbante e fonte di disagio –
procede attraverso l’individuazione, la focalizzazione ed il ricollocamento degli
eventi significativi che il soggetto porta di volta in volta nel corso della terapia.
Il soggetto viene coinvolto dal terapeuta in una “cooperazione esplorativa”, che
consente di focalizzare l’attenzione fin dalle prime sedute sulle modalità
soggettive attraverso cui l’esperienza immediata viene riordinata in termini di
spiegazioni e, quindi, di convinzioni personali.
Il terapeuta può fare ricorso anche a metafore, purché siano in sintonia con il
linguaggio del soggetto. Non va trascurata alcuna definizione che fornisce di sé,
chiedendogli/le ulteriori dettagli: come è fatto un evento percepito e in cosa
consiste: ad esempio, se dice di avere l’ansia, occorre considerare che non
sappiamo nulla di quell’esperienza che il soggetto sperimenta e che chiama
“ansia”; non la si deve dare per scontata, come se fosse uguale per tutti; occorre
quindi chiedergli/le da cosa si accorge di averla, a quali immagini e a quali

252
attivazioni corrisponde, come cambia il senso di sé tra il “prima”, il “durante” e il
“dopo”. Una regola di base è proprio quella di non dare mai per scontate le
emozioni di fondo: i dati più importanti si ricavano analizzando le cose
apparentemente più ovvie. Occorre evitare di fare lunghe conversazioni sulle
reciproche opinioni (diventerebbe uno scambio di idee da salotto). Vanno invece
presi in esame gli eventi accaduti, analizzandoli al rallentatore, ricercando e
distinguendo i livelli di esperienza immediata e di esperienza spiegata.
Quando il soggetto comincia ad essere in grado di modificare il proprio livello di
consapevolezza, può iniziare a spiegarsi un maggior numero di dati; grazie alla
coerenza interna più ampia ed articolata acquisita, può riformularsi questi dati in
maniera nuova e più adattiva, raggiungendo un modo diverso di guardare a se
stesso e di trovare spiegazioni.
Occorre seguire un filo strategico-organizzativo, ricostruendo l’OP che si ha di
fronte e formulando ipotesi che poi vanno, ovviamente, verificate. Va invece
evitata la tendenza ad instaurare un dialogo di opinioni (ad es., se il soggetto dice
che esprime male la propria aggressività, è bene non chiedere il perché di tale
comportamento). Se l’elemento guida è il tipo di OP, si deve essere sempre pronti
a cambiare le ipotesi iniziali di fronte all’emergere di nuovi dati (ad es., un tema
di giudizio o un tema di perdita di certezze), valutando come il soggetto si sente
definito dagli altri, qual’è l’andamento dell’autostima nell’excursus presentato,
come emerge una attivazione emotiva da ciò che accade e come essa modifica,
una volta percepita, la definizione di sé.
Va considerato che è difficile che una persona colga spontaneamente o parli
direttamente della sua esperienza immediata, così come l’ha provata. È quindi
fondamentale fornire al soggetto le spiegazioni tecniche e gli strumenti per
decodificare adeguatamente quello che ha provato, per discriminare il livello
dell’esperienza immediata (cosa e come ha provato qualcosa) dal livello di
spiegazione (perché ha provato quella cosa). Deve quindi imparare a mettere a
fuoco come era fatta quella data esperienza e a riprodurla: che tipo di sensazioni
ha sperimentato, a quali immagini corrispondevano. Va distinto il livello analitico
del pensiero (ciò che è logico, giusto, sbagliato, coerente o meno) dal livello
analogico delle emozioni (come è fatto un certo colorito soggettivo che si
sperimenta).
Occorre ovviamente creare il contesto in cui il soggetto possa riprodurre ciò che
ha provato, mettendo a fuoco gli aspetti utili per la ricostruzione da operare,
concentrandosi su un episodio, facendo meno domande generiche possibili.
Va ricostruita, accanto al comportamento tenuto, anche la concezione di sé e del
mondo che il soggetto ha e quanto tale concezione è in grado di spiegare ciò che
prova. Occorre quindi valutare: 1) quello che il soggetto pensa su di sé in questo
settore (spiegazioni); 2) come esprime ed articola le proprie emozioni in rapporto
al settore considerato (ad es., l’aggressività). Il soggetto deve imparare a

253
considerare che pensare non coincide con ciò che sente. Deve acquisire un
metodo di decodifica alternativo rispetto a quello che normalmente usa, tenendo
presente che abitualmente le spiegazioni hanno un ruolo prioritario, per cui
contano soprattutto fatti ed opinioni. Per fare una analogia, colore e lunghezza
d’onda non sono la stessa cosa: il colore è un fatto esperienziale, la lunghezza
d’onda è un modello teorico.
Occorre tenere presente che nei Sapiens, come del resto in tutti i primati, le
emozioni modificano sia l’equilibrio affettivo individuale, sia il valore
dell’immagine di sé in un certo ambito o rapporto. Esse sono quindi alla base di
atteggiamenti di gestione e controllo delle relazioni significative e dei feedback
che se ne ricava, modulando in definitiva la reciprocità. Sostanzialmente, le
tonalità emotive sono sempre le stesse, qualunque aspetto si indaghi (teorie, cosa
si pensa rispetto a qualcosa, come è fatto ciò che si prova). D’altra parte, la qualità
di una emozione sfugge se la si valuta e giustifica (cioè, se la si spiega), in quanto
l’emozione è fine a se stessa e serve sostanzialmente a mantenere la percezione di
sé. È per questo che, nella raccolta dei dati, occorre ottenere informazioni anche
sul tema di fondo individuale e sulle modalità di attaccamento (ad es., quanto
un’emozione è canalizzata, che tipo di decodifica viene fatta rispetto a ciò che si
prova, come si riesce a modificare l’equilibrio a proprio favore).
È anche importante distinguere come un repertorio emozionale viene espresso nei
confronti delle persone significative (genitori, partner, figli, ecc.) o di altre figure
(colleghi, conoscenti, clienti, estranei). Tutti i dati raccolti vanno valutati in modo
che ciascuno di essi possa fornire una parte della concezione di sé e del mondo
che ha il soggetto (qual’è la sua teoria del mondo, che immagine ha di sé, da cosa
e da chi ricava un certo significato). Ogni indizio serve per ricostruire la mappa, il
profilo di fondo che si cerca di intravedere, relativo alla OP del soggetto.
MESSA A FUOCO DELL’ESPERIENZA “IN MOVIOLA”
Nella raccolta dei dati clinici, occorre ricostruire i fatti come sono avvenuti,
selezionando alcuni episodi tra i più significativi, relativi alla attivazione
emozionale presa in considerazione e che è stata alla base del problema clinico
presentato.
Seguendo un’intuizione di Guidano (1987-2010), una volta scelto un episodio, si
utilizza una metodica di autosservazione, selezionando gli episodi critici
significativi e procedendo ad una loro ricostruzione come in un montaggio
cinematografico, mediante il metodo della “moviola” (“slow motion”).
Si indaga il prima (situazioni e atteggiamenti che hanno fatto scattare l’attivazione
emotiva perturbante) il durante (sempre nei due livelli: a) cos’è che provava e che
effetto gli faceva il provare determinate cose; b) come se le spiegava) e il dopo
(come l’emozione è stata agita, all’interno del soggetto e all’esterno; quali sono le
regole che ne hanno permesso o meno l’espressione; che effetti sono derivati da

254
quanto è accaduto, in relazione alla immagine di sé e del mondo, sia a breve che a
lungo termine).
A differenza della introspezione – che è intuizionista, basandosi su come si pensa
– nell’ottica post-razionalista si lavora in moviola ricostruendo con
l’autosservazione specifici episodi, in modo da mettere a fuoco anzitutto
l’esperienza immediata, che il soggetto tende a ignorare (soffermandosi invece
sulle spiegazioni): cosa provava, come era fatto quello che provava, da cosa si è
accorto/a di provare quella cosa, come è cambiato/a prima e durante e dopo ciò
che è successo, come si sono modificati nel tempo i suoi stati interni, dove si è
piaciuto/a di più o di meno, quando si è sentito/a peggio o meglio nell’arco del
“trailer cinematografico” preso in esame.
Attraverso l’autosservazione, si inizia quindi a lavorare sul rapporto che il
soggetto ha con se stesso/a, traducendo quello che accade in una sequenza di
fotogrammi da analizzare.
L’episodio viene ricostruito come in una panoramica (“panning”), inquadrando il
soggetto rispetto allo sfondo e seguendolo attraverso ciò che accade. Grazie a
questa procedura, si possono mettere a fuoco, nell’episodio e nella sequenza
temporale presi in esame, gli elementi caratterizzanti corrispondenti a: a) cosa
accade prima, durante e dopo la situazione considerata; b) l’atteggiamento del
soggetto e quello degli altri protagonisti dell’episodio; c) gli scenari immaginativi
connessi con ciò che accade; d) le attivazioni emotive emerse cronologicamente in
sequenza; e) le spiegazioni utilizzate dal soggetto per riferirsi quanto è accaduto.
Come ho avuto modo di osservare nella mia esperienza clinica, quando si
ricostruisce in moviola un evento significativo, quello che prova il soggetto è la
differenza tra ciò che è accaduto realmente (il “secondo tempo” del film in
questione) e ciò che si aspettava da quando aveva iniziato a pensare a quello che
poi si è verificato (il “primo tempo” di quel film). Tanto maggiore è la discrepanza
tra le aspettative (il primo tempo immaginario) e la realtà (il secondo tempo
realmente accaduto), tanto maggiore era stato l’investimento fatto dal soggetto
(nel primo tempo), quanto più evidenti sono, di conseguenza, i cambiamenti del
senso di sé (nel secondo tempo), espressi dalle corrispondenti attivazioni
emozionali emerse nella sequenza considerata (ad es., (“mi sono sentito male,
perso, tradito”, “mi si è gelato il sangue”; “mi sono sentito venir meno”, “ho
sentito come una coltellata”, “avrei voluto scomparire”).
In fase di “montaggio”, si lavora poi sulla sequenza, riordinando
cronologicamente i fotogrammi che compongono l’episodio.
Il soggetto viene invitato a rivedere i singoli fotogrammi centrando l’attenzione
sia su quello che ha provato (“zooming in”), compreso quando si è piaciuto di più
o di meno nella sequenza analizzata, sia su quello che può essere stato invece il
punto di vista degli altri protagonisti (“zooming out”).

255
L’intera sequenza presa in esame viene ripercorsa al rallentatore, avanti e indietro,
in modo da riordinarla cogliendo tutti i dettagli importanti, mettendo in evidenza
aspetti fino ad allora sfuggiti o messi poco a fuoco e arrivando infine a costruire
una conoscenza di sé più consapevole e integrata (“riformulazione” o
“reframing”). Ad esempio, all’inizio il soggetto può semplicemente riferire di
“essersi arrabbiato”, in conseguenza di qualcosa, senza avere la consapevolezza
che, tra ciò che è accaduto e la comparsa della rabbia (a finalità “rivendicatrice”)
mancavano i fotogrammi intermedi (di più problematica messa a fuoco) nei quali
il soggetto ha ricavato un’immagine svalutata di sé, cosa che poi ha innescato la
rabbia. Per mettere a fuoco questi fotogrammi mancanti si può chiedere al
soggetto se, immediatamente dopo che è successo il fatto che poi ha attivato la sua
rabbia, si sia sentito a suo agio (ad es., “ma lei, quando quella persona le ha detto
o fatto quella cosa, si è piaciuto/a?”). In questo modo, oltre tutto, si sposta
l’attenzione dall’ambiente esterno (fatti, atteggiamento di un altro/a) a come il
soggetto li ha usati per riregolare il suo stato interno e la sua immagine di sé.
Il “reframing” degli episodi significativi consente di evidenziare sia i meccanismi
“taciti” attraverso i quali viene colta l’esperienza immediata, sia le spiegazioni di
tale esperienza, operate tramite processi logico-analitici che portano a riferirsi
l’esperienza vissuta. È così possibile spostare la percezione di un problema critico
da aspetti di sé vissuti come oggettivi ed immutabili, a modalità soggettive di
ordinare l’esperienza, in rapporto al significato di essere esposti ad un pericolo
per l’impossibilità di gestire in sicurezza una situazione (OPF Controllanti), di
non poter esprimere la propria autonomia in una condizione di solitudine (OPF
Distaccate), di non riuscire a gestire adeguatamente una situazione, con
conseguente risultato e giudizio negativo (come avviene nelle OPS
Contestualizzate), di sentirsi in colpa per non aver fatto il proprio dovere (OPS
Normative).
Occorre spiegare bene al soggetto le regole con cui si procede, esplicitando tutte
le definizioni date e procedendo nella ricostruzione di ciò che è accaduto,
mettendolo a fuoco al rallentatore, fermandosi sui fotogrammi più “incriminati” e
ricostruendo poi i relativi contesti. Dalle scene messe a fuoco in moviola si ricava
così l’esperienza immediata, che diventa accessibile ed esplorabile per il soggetto.
Ad esempio, una ragazza di 17 anni, all’esordio anoressico in coincidenza con la
parte più impegnativa del programma scolastico, inizia a dimagrire notevolmente
e rifiuta di andare a scuola. Si tratta, ovviamente, di un problema di giudizio. Ma
occorre passare attraverso la riformulazione, in quanto lei non sa proprio cosa sia
questo problema di giudizio, mentre può pensare di avere unicamente un
problema di rapporto con il cibo o, al limite, di tipo medico internistico,
endocrinologico, ginecologico o altro. Occorre riformulare il tema critico del
confronto con le figure significative senza anticipare i contenuti. Si inizia
prendendo atto dell’esistenza di questo problema e si procede: “vediamo insieme

256
come è fatta questa difficoltà”. Si può dare, a questo punto, anche il compito di
ricordare o di scrivere quando è maggiore questa difficoltà, nei vari momenti della
giornata scolastica, cercando di mettere a fuoco che differenza ci può essere tra i
momenti in cui l’ansia è maggiore e quelli in cui è minore. Potrebbe darsi, ad
esempio, che sia il rapporto con i compagni a disturbare di più. Ma è la ragazza
che deve arrivare a scoprire l’importanza che attribuisce al tema del giudizio nel
suo film interno, altrimenti il lavoro resta sul piano dell’esperienza spiegata e lei o
dà ragione al terapeuta o diventa competitiva sul piano dialettico, senza approdare
ad alcun cambiamento profondo. Deve arrivare alla consapevolezza che in certi
momenti si sente meno protetta, più esposta, senza scudo. Occorre quindi portarla
a percepirsi da un altro punto di vista, attraverso la messa a fuoco in moviola di
come cambiano i suoi stati interni in relazione ai giudizi ricevuti. Le si può dire
che vogliamo occuparci di questa sua difficoltà scolastica, facendo attenzione a
non disconfermarla, facendo vedere che ci si fida di lei. È importante ricordarle
che si lavora sempre e solo su come lei si sperimenta, agisce e riferisce a sé quella
certa esperienza, dicendole che non ci interessano le opinioni e che lei, se vuole,
ne può discutere. Occorre quindi spingerla a soffermarsi sul rapporto con se
stessa, lavorando in moviola sugli episodi in cui questa sua difficoltà è
maggiormente evidente, centrando l’attenzione sull’esperienza immediata, per non
scadere in una inutile disputa di opinioni.
Come ha messo in evidenza Guidano (1987, 1991), in un sistema complesso come
quello conoscitivo umano, il modo con cui viene spiegata un’emozione che
irrompe nella coscienza è infatti un processo finalizzato a rendere consona
quell’esperienza con il senso di sé che viene colto in quel momento
(“autoderivazione”), al fine di dargli coerenza e stabilità. Le emozioni più
attivanti sono quelle che si osservano quando un soggetto scopre di avere avuto un
modo di funzionare diverso da quello che credeva. Pertanto il terapeuta deve
mettere l’individuo nella condizione di doversi riferire le discrepanze sperimentate
nei propri confronti, cogliendo così aspetti di sé fino allora non percepiti. La
psicoterapia utilizza infatti in maniera privilegiata le reazioni emotive in corso,
emerse dalle perturbazioni strategicamente orientate messe a fuoco in moviola, in
modo da giungere a riformulazioni che evidenzino al soggetto il proprio modo di
funzionare. Come si è detto, è essenziale portare il soggetto a percepire il
problema presentato non più come qualcosa di “oggettivo” e di esterno a sé ma
come il suo modo soggettivo di percepire e di riferirsi l’esperienza, in accordo con
la lettura abituale di sé (ad es., essere sicuri che nella giornata che inizia andrà
tutto storto, che si reagirà male; non intravedere una soluzione; sperare solamente
che il tempo passi in fretta). La patologia infatti, viene subita e vissuta come una
frattura che lacera e che appare insanabile, come descrivono gli straordinari versi
scritti da Alda Merini durante un ricovero in ospedale psichiatrico (Superba è la
Notte, 1996-1999): “Piange la follia nel mio letto / assurda memoria di altri

257
momenti. / In me tutti amano la follia / e io la venero, / straordinario balcone di
canto / ma nessuno ama la donna / che si brucia allo specchio. / Nessuno sa che
cosa sia il piacere / di reggere il lume della pazienza / attraverso strade infeconde
/ liberando momenti di solitudine. / Paiono orrende torture / ma intanto mangi e
bevi e vai avanti / dopo aver conosciuto l’embrione / che ti ha dimenticato”.
Attraverso la messa a fuoco in moviola delle modalità soggettive di vivere
l’esperienza è quindi possibile per il soggetto imparare progressivamente a
distinguere tra l’esperienza immediata e le spiegazioni razionali che è solito darsi,
tra la conoscenza tacita e quella esplicita che deriva da questa articolazione
bilivellare, tra il sé protagonista che agisce in presa diretta e il sé narratore che si
racconta quello che è successo in accordo con il suo canovaccio di base.
Parallelamente, può iniziare a distinguere il suo mondo interno da quello degli
altri, come prospettive diverse legate alle storie soggettive di ciascuno e non come
aspetti oggettivi uguali e validi per tutti.
Attraverso questa messa a fuoco, partendo dagli aspetti emozionali, è possibile
conseguire gradualmente una conoscenza di sé (come si percepisce e si racconta)
e del mondo esterno (come si percepiscono e si raccontano gli altri) più
consapevole e integrata. D’altra parte, nel mondo occidentale i disturbi
psicopatologici – che esprimono una strutturazione stabile dei temi organizzativi
(ad es., quello di non confronto nei soggetti con OPS Contestualizzata) –
appaiono sempre più complessi sotto il profilo semeiologico e configurano sempre
più delle crisi di identità. Sfumando nell’esistenziale, le problematiche individuali
possono essere non strutturate, mentre, rispetto alle generazioni precedenti, il
soggetto appare meno consapevole di chi è e di cosa vuole dalla vita.
La messa a fuoco del problema (“reframing”), utilizzando sequenze recenti di vita
nelle quali esso si è verificato, consente di cogliere gradualmente la differenza tra
l’esperire e lo spiegare, cioè tra il fluire continuo dell’esperienza immediata e le
spiegazioni che il soggetto si dà mentre riordina l’esperienza vissuta, per
mantenere coerente, per quanto gli è possibile, il modo con cui si vede e si
racconta nella sua trama narrativa. Al tempo stesso, alle rappresentazioni o
immagini mentali che costituiscono il “film interno” dell’episodio vengono
associate le tonalità emotive corrispondenti, le quali sono strettamente connesse
con l’organizzazione di significato personale. Ad esempio, in una OPS
Contestualizzata, nella quale il giudizio delle figure ritenute significative gioca un
ruolo centrale nel mantenimento della coerenza interna e del senso di sé, ogni
esperienza che viene percepita a livello immediato come disconfermante attiva
tonalità emotive di insicurezza, vergogna e di inferiorità. A livello esplicito,
queste emozioni non vengono solitamente colte, mentre può emergere un senso
reattivo di rabbia nei confronti della figura disconfermante (dalla quale non ci si
sente accettati e capiti) od un generico senso di confusione, come se non si
sapesse più cosa provare o cosa fare. Per fare un altro esempio, in una OPS

258
Normativa, nella quale l’adesione a princìpi giusti e validi prevale sulla ricerca di
conferme, ogni esperienza significativa che compromette la ricerca di perfezione e
di certezza (percepita dal soggetto come un proprio dovere oggettivo e
inderogabile) avvia una fase di instabilità nella quale le emozioni vengono escluse
dalla consapevolezza (e quando ciò non riesce esse vengono vissute come
espressione di un momento di debolezza), mentre a livello esplicito emergono
solo le spiegazioni più o meno congrue (spesso rigide e ripetitive, ma comunque
logiche ed analitiche), di quanto è accaduto.
Pertanto, la messa a fuoco in moviola di un episodio significativo – quando
occorre, andando avanti e indietro sulle sequenze più importanti – consente al
soggetto di scoprire aspetti di sé che non conosceva e di mettere a fuoco le
categorie di esperienza alle quali è più sensibile, in rapporto alle attivazioni
emozionali legate alla sua OP. Il problema da esterno diviene così interno. Il
soggetto non è più uno spettatore inerte e rassegnato di ciò che avviene (“non ci
riesco”, “non ci posso fare nulla”), ma scopre di essere un attivo costruttore di
come percepisce e si riferisce quella data esperienza disturbante (“cosa il
problema mi dice di me”): ad esempio, il tendere a controllare ogni cosa in un
mondo che appare minaccioso, salvaguardando il bisogno di libertà e quello di
protezione (OPF Controllanti), a vedere ogni cosa come destinata comunque al
fallimento (OPF Distaccate), a percepire ciò che accade o il comportamento di un
altro come un esame su di sé (OPS Contestualizzate), a dovere essere certo o
perfetto ad ogni costo e in ogni situazione (OPS Normative). Anzi, le modalità
abituali di ricostruire e di attribuirsi l’esperienza cominciano ad essere percepite
come una delle innumerevoli modalità possibili e non come l’unico modo di
inquadrarla (quasi fosse una verità assoluta, riconosciuta come tale da tutti).
In ogni caso, di seduta in seduta, è fondamentale tenere presente che il materiale
viene portato dal soggetto e non deve essere “scelto” o “incoraggiato” dal
terapeuta: ad es., dopo una seduta su un argomento “caldo”, il terapeuta può
aspettarsi che il soggetto, nella seduta successiva, torni sull’argomento, mentre
invece può portare esperienze totalmente diverse. È evidente che occorre lavorare
su queste ultime senza interromperle, per riprendere qualcosa che risponde ad una
curiosità del terapeuta e non ad un bisogno del soggetto. Il lasciare sempre la
scelta del materiale a quest’ultimo, facilita non solo la costruzione di un setting
corretto e di una positiva alleanza terapeutica, ma permette di focalizzare
l’andamento e l’evoluzione dei processi soggettivi, attraverso i quali avviene la
costruzione del significato personale.
In questo modo è possibile cogliere nel problema clinico la processualità e la
dinamicità delle modalità di costruzione personale delle trame narrative
soggettive, individuando un nucleo più o meno strutturato di schemi emozionali e
di costruzioni cognitive ad essi correlate. Il cambiamento terapeutico deriva da
questo processo di riordinamento dell’interfaccia tra conoscenza tacita ed

259
esplicita, da un lato, e tra invarianza legata alla propria chiusura organizzativa
tacita e variabilità processuale consentita dalle aperture strutturali esplicite,
dall’altro lato. Questo processo consente una maggiore consapevolezza e,
conseguentemente, una gestione più adattiva delle proprie attivazioni emozionali.
Attraverso il lavoro di messa a fuoco in moviola delle sequenze significative è
possibile migliorare la “generatività”, cioè la ricerca di percorsi alternativi a quelli
abituali (inizialmente vissuti come obbligati ed unici), che risultano più “viabili”
sotto il profilo adattativo.
Riferendosi quanto è accaduto e prendendo progressivamente consapevolezza dei
processi taciti con i quali l’esperienza viene assimilata e spiegata, il soggetto
inizia a riconoscere cosa accade quando vive una attivazione emozionale critica.
La presa di coscienza di questi aspetti soggettivi, fino ad allora sconosciuti, può
inizialmente turbare, rimandando ad una immagine negativa o fragile di sé;
tuttavia, nel corso del lavoro terapeutico di “perturbazione strategicamente
orientata” può essere in genere rapidamente superata. In questo modo, la presa di
coscienza non solo produce direttamente una riduzione dell’attivazione emotiva
nei momenti critici, nei quali le esperienze discrepanti si ripropongono, ma avvia
anche la consapevolezza di poter iniziare a gestire processi e situazioni in
precedenza non conosciuti: questi avvengono infatti comunque nel dominio della
propria esperienza – non in uno spazio esterno, sul quale sarebbe impossibile
operare – e dipendono in maniera determinante dalla modalità di lettura soggettiva
con cui li si vive. Grazie alla messa a fuoco in moviola si delinea come si
articolano esperienza immediata e spiegazioni nel tempo: ad esempio, si
ricostruisce come era fatta la sensazione di riconoscersi (o meno) nel modo in cui
si è apparsi nella sequenza considerata, che effetto ha prodotto il rendersi conto di
questo, a cosa e come è stata riferita la novità su di sé di cui si è venuti a
conoscenza, quali operazioni (in termine di modificazioni comportamentali) sono
state fatte per assimilare la novità.
Occorre considerare che ogni novità equivale, inizialmente, ad un non
riconoscimento; perché essa venga assimilata deve prima essere riconosciuta in
qualche modo. Per questo è importante porre domande del tipo: cosa sta
succedendo nel mondo interno, quale contenuto informa che dentro sta
succedendo qualcosa, in modo che i diversi stati psichici vengano montati in una
corretta sequenza cronologica. Promuovere i segnali interni come criteri di
riconoscimento (cosa che capita raramente nella vita familiare e sociale abituale)
consente di sperimentare e consolidare un altro punto di vista su se stessi. In
questo senso, come osservava Guidano (1987, 1991), il terapeuta è un
“perturbatore strategicamente orientato”, perché cambia il modo di vedere del
soggetto operando in moviola e lavorando solo sul suo materiale personale. Invece
di avallare la versione dei fatti che è solito darsi e senza entrare in dispute
dialettiche, viene messo in sintonia con la possibilità di percepirsi in un altro

260
modo. Il cambiamento del punto di vista non è dunque la conseguenza di una
persuasione o una discussione, ma deriva da una situazione emotiva in cui il
soggetto percepisce una situazione in un altro modo, facendo leva solo sul
materiale che è presente all’interno dell’episodio o del fatto raccontato. Nei
soggetti con disturbi psicotici – avendo essi modalità di pensiero molto rigide e ad
alto livello di concretezza, con bassa capacità di integrazione, di coordinamento
intra- e interpersonale e di sequenzializzazione temporale – occorre essere molto
diretti anche nella moviola, attivando un lavoro di controllo esteso all’intero arco
della giornata. Essi mostrano una concretezza quasi sensoriale, per cui si
percepiscono come l’unico terminale delle proprie emozioni e, dato che queste
risultano estremamente perturbanti, non le reggono e si sentono pervasi,
disgregati, minacciati, perduti. In questi casi, è fondamentale gestire anche il
setting interpersonale, lavorando sulla famiglia, mettendo a fuoco le situazioni
perturbanti e le discrepanze emozionali, e riformulandole in termini
operativamente più adattivi.
IL CAMBIAMENTO EMOZIONALE
L’obiettivo della terapia nell’ottica post-razionalista non è quello di fare in modo
che il soggetto sia più “adeguato”, ma che la sua trama narrativa diventi più ampia
e che possa essere autoriferita meglio all’esperienza vissuta. Luis Oneto (2017) ha
sintetizzato che in questo modo di procedere si produce un “cambiamento senza
cambiare, in quanto il sistema mantiene la sua identità e la sua unicità”.
“Pertanto, le continue ristrutturazioni effettuate nel corso delle sedute portano il
paziente a riferirsi la sua esperienza immediata in una nuova maniera, generando
la percezione di nuove tonalità emotive e altri punti di vista. Questa nuova
maniera di sentirsi e di spiegarsi le sue esperienze è quello che chiamiamo
cambiamento”. Balbi (2017) ricorda che “la psicoterapia post-razionalista è un
metodo attraverso il quale il terapeuta conduce il paziente nella ricostruzione
della sua maniera specifica di sperimentare e gestire la propria discrepanza
affettiva che sta alla base del cambiamento nel senso di sé che il soggetto subisce.
La ricostruzione ha come obiettivo quello di promuovere, attraverso la
distinzione, condivisione ed integrazione di tutta la gamma di emozioni,
sentimenti e stati intenzionali legati alla discrepanza affettiva in questione, una
riorganizzazione progressiva del sistema personale in un nuovo e più articolato
livello di coscienza, capace di accogliere la nuova maniera di sentirsi”.
Come ha sottolineato Guidano (1987, 1991), non esiste alcun isomorfismo tra
linguaggio parlato (inteso come insieme di parole, teorie, spiegazioni) e opinione
(“belief”), per cui il linguaggio non può costituire in prima istanza e di per sé la
realtà terapeutica. Le emozioni disturbanti non sono infatti indicatori di
convinzioni sbagliate, ma vanno direttamente indagate e ricostruite. In un’ottica
post-razionalista, i pensieri possono cambiare i pensieri, mentre solo le emozioni

261
possono cambiare le emozioni. Per cambiare un’emozione disturbante occorre
modificare il range gestionale di una persona, ampliandolo attraverso la scoperta
di altre modalità emotive. Occorre tenere presente che, nel corso della vita, i
cambiamenti di pensiero avvengono con un ritmo più rapido e con modalità più
duttili ed articolate di quanto avviene per i cambiamenti emozionali. Si può
cambiare anche radicalmente, diametralmente e rapidamente opinione su
qualcosa, mentre è più difficile e traumatico mutare i propri stati affettivi. Dato
che questi ultimi sono più stabili e meno influenzabili dei cambiamenti logico-
razionali, le esperienze che perturbano l’assetto emotivo possono determinare una
riorganizzazione della coerenza interna, più e prima ancora dei ragionamenti. Per
produrre emozioni che cambino altre emozioni non si può contrapporre opinioni
ad altre opinioni, altrimenti il soggetto può cambiare i propri pensieri, ma non il
suo modo di percepire se stesso e il mondo in cui vive. D’altra parte, a volte è
difficile se non impossibile anche cambiare pensiero, quando esso è strettamente
connesso con il mantenimento del senso di sé (si pensi alle ideologie, alla
passione sportiva o alle teorie che vengono mantenute caparbiamente, anche
quando appaiono ormai superate). Come ha osservato Lambruschi (in Lambruschi
e Lionetti, 2016), la chiave per produrre un cambiamento sta nel portare il
soggetto a riconoscere e accettare le sue attivazioni e i suoi schemi come modalità
specifiche e abituali di rappresentazione della realtà, da cui può distanziarsi
attraverso il lavoro terapeutico.
All’interno del setting terapeutico, le maggiori attivazioni emotive, che possono
essere sfruttate ai fini del cambiamento, riguardano essenzialmente due aspetti: 1)
la graduale scoperta delle regole del proprio funzionamento; 2) le emozioni che
fornisce il terapeuta.
1. Per quanto riguarda la graduale scoperta del proprio funzionamento, che
avviene nel corso della psicoterapia, essa può essere fatta a patto che il terapeuta
non si limiti a raccogliere i dati, ma riformuli anche il punto di vista iniziale
mediante il quale essi vengono presentati. Il terapeuta agisce quindi come un
perturbatore orientato strategicamente a far sì che la riformulazione dei dati
metta in discussione il punto di vista sinora usato dal soggetto: si può così cogliere
l’evento narrato in psicoterapia sotto un altro punto di vista.
Affrontare il disagio con gli strumenti nuovi forniti dal terapeuta ne cambia la
percezione e lo rende più gestibile. Ciò consente al soggetto di non identificarsi
più totalmente e acriticamente con quello che prova, fa e dice, e di acquisire una
maggiore flessibilità, tale da potersi distanziare dalla situazione contingente e di
scoprire nuovi modi di sperimentare l’esperienza e di riferirla a sé, cambiando
quindi anche le aspettative sul proprio futuro.
Ad esempio, in una OPF Controllante con la paura di uscire di casa, questo
timore può essere inserito in un contesto emozionale più vasto, come quello del
distacco emotivo dal partner: si passa, in questo modo, da una percezione iniziale

262
di malattia (una “fobia”) ad una nuova percezione di come ci si sente in
coincidenza con allontanamenti o avvicinamenti affettivi; questa possibilità di
cogliere un punto di vista alternativo consente di aumentare il controllo interno,
perché un conto è vivere la paura come qualcosa che uno/a non sa spiegare, un
altro è percepire questa emozione all’interno di un range personale più ampio di
contatti e avvicinamenti, di allontanamenti e separazioni, dei quali si è
consapevoli. Attraverso la riformulazione, conseguente al montaggio in moviola
degli episodi significativi relativi al mondo interno (“zooming in”) e al rapporto
con gli altri (“zooming out”), il soggetto può focalizzare in maniera sempre più
netta la differenza tra ciò che percepisce (immagini, emozioni, fantasie,
espressioni del suo modo di funzionare) e l’atteggiamento dell’altro (espressione
del mondo interno di quest’ultimo). La possibilità di demarcarsi gradualmente
dall’altro, senza confondersi (o fondersi) con quello, comporta un riassetto delle
modalità organizzative di riferirsi l’esperienza e di trasformarla in significato
personale.
In questo modo, gli strumenti utilizzati a livello inconsapevole – ricerca di
protezione e libertà (in una OPF Controllante), di autonomia e
autodeterminazione (in una OPF Distaccata), di conferme e riconoscimenti (in
una OPS Contestualizzata), di certezze e giustizia (in una OPS Normativa) –
appaiono modalità per conseguire i propri bisogni in maniera adattivamente
finalizzata e non più rigide “prove” del proprio valore e delle proprie capacità,
perseguite (quando si cerca con ostinazione di conquistare un obiettivo percepito
come l’unico in grado di farlo sentire realizzato) o evitate, quando l’obiettivo
appare irraggiungibile). Si aprono dunque nuove letture alla incapacità di
distaccarsi da qualcuno sentendosi troppo fragile (in uno scompenso di una OPF
Controllante), di investire affettivamente per non sperimentare il dolore di un
abbandono pressoché certo (in uno scompenso di una OPF Distaccata), di esporsi
a probabili disconferme (in uno scompenso di una OPS Contestualizzata), di
prendere una decisione per non essere assalito dai dubbi e dai sensi di colpa (in
uno scompenso di una OPS Normativa).
La consapevolezza non è tanto una rappresentazione oggettiva e logico-verbale di
sé, ma è una metacognizione (cioè, una cognizione sulla propria conoscenza)
globale e irriducibilmente soggettiva, sulla quale intervengono in modo
interdipendente esperienza immediata e spiegazioni dell’esperienza. In termini
ontologici (cioè, di conoscenza del punto di vista della persona), la
consapevolezza è, in primo luogo, chiedersi che effetto fa essere se stessi
(esperienza immediata) e, in secondo luogo, chiedersi come si cerca di rendere
consistente l’esperienza immediata di essere se stessi con il senso di sé in corso
(spiegazioni). Questo effetto dipende, ovviamente, dalla OP. Spiegare la
consapevolezza, cioè renderla consistente con il senso di sé, significa riuscire a
integrarla nella propria immagine, ricavata dall’esperienza immediata. In questo

263
senso, la consapevolezza è un’attività autoreferenziale per eccellenza, in quanto
serve a mantenere la continuità dell’identità e dell’unicità personale, per attutire le
contraddizioni, per marginalizzarle e per attribuire a fattori contingenti esterni le
discrepanze percepite. La consapevolezza può dunque richiedere dei pattern di
autoinganno, che consentono di “rifarsi il trucco”, di smussare, di aggiustare ciò
che è discrepante, per renderlo compatibile con il senso di sé e del mondo in
corso: si tratta di un sistema estremamente plastico e duttile sul piano potenziale
evolutivo, legato alla capacità di sopravvivenza. Il suo obiettivo non è la ricerca
della verità per la verità; anzi, nei Sapiens, l’aumento di complessità della
conoscenza e la lunga durata della vita possono incrementare le possibilità di
autoinganno (cioè, come si è detto, di adattare l’esperienza immediata al fine di
confermare la propria immagine). Ad ogni livello di consapevolezza corrisponde
un livello di autoinganno ed un livello di ignoranza, per cui, passando da un
livello meno complesso ad un nuovo livello più complesso, si pongono nuovi
problemi; ne deriva che non esiste una conoscenza definitiva ed ultimativa di se
stessi e del mondo esterno. Come ha osservato Guidano (1987, 1991, 2007), nel
corso della psicoterapia, la possibilità di modificare le regole con cui un soggetto
si attribuisce l’esperienza immediata produce inevitabilmente un cambiamento
della percezione di sé; ciò determina una forte attivazione emotiva, in qualche
modo proporzionale all’importanza della regola scoperta.
2. Per quanto riguarda le attivazioni emotive, legate alle emozioni che fornisce il
terapeuta, esse derivano dal setting, che consente al soggetto di cambiare il
proprio punto di vista riguardo ai materiali attivanti “caldi”. Il terapeuta è, come si
è detto, un perturbatore (d’altra parte, anch’egli va incontro ad un coinvolgimento
emotivo per quello che dice e che fa); deve comunque mettere il soggetto nella
condizione di non poter evitare di usare il nuovo punto di vista discrepante
rispetto a quello abituale. A questo punto, le spiegazioni funzionano non perché
abbiano un contenuto migliore ma per il loro grado di discrepanza. Quindi,
affinché il soggetto si possa vedere da un altro punto di vista, occorre un
coinvolgimento emotivo nel setting, che costringe a non evitare questo nuovo
punto di vista. La psicoterapia (anzi, in generale, tutte le psicoterapie) sono
efficaci se producono l’effetto di incidere su quel nucleo, costituito dal rapporto
terapeuta-soggetto, all’interno di un setting definito, determinando circostanze
controllate di inevitabilità di una crisi esistenziale, con conseguente necessità di
riorganizzare l’immagine di sé: fatto questo, gli individui si riorganizzano da soli.
Occorre tuttavia tenere presente che la consapevolezza non coincide – e non va
quindi identificata – con la razionalità; essa è una funzione autoreferenziale che
serve ad inserire i dati esperienziali nella coerenza interna e non a perseguire una
verità.
D’altra parte, nella nostra psiche ogni aumento di consapevolezza è sempre
connesso all’emergere di emozioni potenzialmente perturbanti. Come ha scritto

264
Pirandello (Il fu Mattia Pascal), “noi non siamo come l’albero che vive e non si
sente, a cui la terra, il sole, l’aria, la pioggia, il vento non sembra che sieno cose
amiche o nocive. A noi uomini, invece, nascendo, è toccato un triste privilegio:
quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne risulta: di prendere cioè
come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della vita, mutabile
e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna”.
Dato che ogni incremento di consapevolezza diminuisce le capacità di
immediatezza, in psicoterapia occorre procedere con cautela, innescando il
cambiamento con la minima soglia di consapevolezza necessaria. Marcati e
bruschi cambiamenti sono pericolosi, anche quando è il soggetto stesso a voler
conoscere aspetti di sé che poi, emotivamente, potrebbe non reggere. Come
osservava Fedor Dostoevskij (1864), “la coscienza è per l’uomo la più grande
disgrazia, so però che l’uomo l’ha cara e non le scambierebbe colle maggiori
soddisfazioni”. In questo sta la difficoltà del terapeuta di procedere come un
esploratore che perturba “in modo strategicamente orientato”, sapendo che deve
operare con prudenza, utilizzando con sensibilità, tatto ed empatia il materiale che
emerge in seduta.

I dati clinici possono essere raccolti e valutati in base a tre prospettive o livelli
crescenti di complessità: a) ricostruzione del repertorio emozionale (ad es.,
dell’aggressività); b) ricostruzione dello stile affettivo; c) ricostruzione della storia
di sviluppo (e, quindi, dell’intera OP).

RICOSTRUZIONE DEL REPERTORIO EMOZIONALE


Come si è già detto, nel corso dei processi di attaccamento, per potersi adattare in
maniera vantaggiosa, il bambino dever imparare a riconoscere e a gestire
specifiche condizioni di stress. Pertanto, l’immagine di sé deve essere costruita
nella direzione specularmente opposta alla polarità negativa dello stressor
specifico in riferimento al quale si organizza (in una OPF Controllante il senso di
pericolo, in una OPF Distaccata quello di solitudine, in una OPS
Contestualizzata quello di giudizio, in una OPS Normativa quello di dovere). Ad
esempio, un soggetto con una OPF Controllante deve apprendere a individuare
una situazione pericolosa di non controllo per poterla gestire o, almeno (se è
possibile), per poterla evitare.
Come si è ampiamente discusso, l’imprescindibilità della natura sociale delle
relazioni umane pone al centro dello sviluppo i processi di attaccamento, i quali
determinano i parametri in base a cui ciascun soggetto apprende a riconoscere e ad
attribuirsi le emozioni che prova, le quali sono anch’esse funzionali alla coesione
sociale.

265
Solitamente, tra le emozioni che emergono nel corso della terapia, l’aggressività
riveste un ruolo primario, in quanto essa è solitamente presente nelle trame
narrative, è facilmente riconoscibile, fornisce una utile chiave di accesso per
esplorare il funzionamento interno e si presta, quindi, particolarmente bene per
arrivare a riformulare il problema clinico presentato dal soggetto.
In generale, la ricerca dell’adattamento porta a non riferire a sé le emozioni
antitetiche, per cui, per non doversene fare carico, l’aggressività (come l’invidia o
l’atteggiamento competitivo) tende ad essere associata alla svalutazione dell’altro.
Tra le altre emozioni negative, possono essere riferite a sé senza grandi difficoltà
quelle attivazioni (come il dolore e il lutto) che salvaguardano e aumentano la
coesione di gruppo. Tra l’altro, nei primati, il pianto costituisce un potente
inibitore dell’aggressività altrui (sotto il profilo etologico, non è pertanto un
comportamento “debole”), mentre la rabbia rappresenta o una modalità di sfogo o
un tentativo di modulare la relazione con l’altro. In chiave adattiva, la precarietà
affettiva (e, in primo luogo, emozionale) è comunque associata ad un rischio
psicopatologico.
Le attivazioni affettive positive (un’emozione primaria, come la gioia; un
sentimento, come l’amore; atteggiamenti complessi, come la comprensione,
l’onestà, l’altruismo) sono solitamente riferibili a sé senza particolari problemi.
Come si è detto, in tutte le OP, le emozioni possono essere espresse all’interno di
un continuum tra una polarità abbandonica ed una competitiva ed esprimono
atteggiamenti attivamente passivi o attivi di costruire e mantenere i rapporti
all’interno del gruppo sociale di appartenenza. Le relazioni significative –
soprattutto quelle di attaccamento – hanno un ruolo fondamentale nel regolare le
emozioni di base e, di conseguenza, nel determinare il livello individuale di
tolleranza di un soggetto allo stress; esse consentono di innalzare o di abbassare
l’intensità delle risposte, ponendosi, a seconda dei casi, come fattori protettivi o di
rischio. Se la conoscenza è una costruzione con margini di soggettività, che sono
tanto maggiori quanto più la rappresentazione interna del mondo è legata a
contenuti emozionali, il sentimento con associata l’idea di sé e il sentimento con
associata l’idea dell’altro sono le due facce di un unico processo, attraverso il
quale vengono definiti i contorni dell’identità. Si tratta di una costruzione attiva,
che a volte può essere molto distante dall’oggettività esterna: come si è visto a
proposito dei disturbi mentali, dall’esperienza della delusione al delirio
erotomanico, esistono situazioni nelle quali l’idea dell’altro non coincide affatto
con ciò che l’altro è oggettivamente, mentre riveste il ruolo di sostenere il
sentimento e l’idea di sé che il soggetto ha e che tende a mantenere costante
finché è possibile. Esiste quindi una stretta relazione tra senso di sé e relazioni di
reciprocità con le figure significative. Quando l’identità è costruita su un registro
di tonalità emozionali negative, la sofferenza può essere percepita come una
esperienza “normale” della propria vita, persino cercata a livello tacito quando è

266
assente da “troppo tempo”. Ci sono situazioni in cui di non amore si vive, si soffre
a lungo e si può anche morire e, proprio per questo, come ha scritto Fedor
Dostoevskij (1864), “a volte l’uomo è straordinariamente, appassionatamente
innamorato della sofferenza”. Nei colloqui clinici, all’interno degli episodi
significativi presi in esame –mettendo a fuoco in moviola cosa accade e come
cambiano gli scenari interni, le attivazioni emotive ed il senso di sé in relazione a
cosa accade – è importante ricomporre i vari pezzi e ricostruire l’economia e il
ruolo che essi hanno nei cambiamenti sperimentati dal soggetto.
Parlare di emozioni significa parlare delle loro rappresentazioni che, come si è
detto, danno luogo ad una sorta di film interno. Anche se un soggetto non ne è
consapevole, non esiste emozione senza immagine: anche per l’aggressività vanno
quindi ricostruiti gli scenari corrispondenti. Il soggetto va aiutato a “vedersi”, dato
che dalle sole sensazioni si ricava poco, né si può cadere nell’equivoco che esista
una coincidenza “oggettiva” tra ciò che intende o prova il terapeuta e ciò che ha
sperimentato il soggetto che ha di fronte.
Ovviamente, l’episodio va ricostruito dall’inizio, da prima che inizi l’attivazione
emotiva (ad es., l’aggressività). Vanno, in particolare, messi a fuoco gli aspetti di
seguito riportati.
1) Cosa è per un soggetto l’aggressività, che definizione ne dà, come la vive, se e
da cosa si considera aggressivo, quanto percepisce normale o meno la propria
aggressività, come, quando e con chi la agisce, in base a quali parametri (interni,
esterni) la definisce, quanto è strutturata, quanto raggiunge lo scopo.
2) Quali sono gli episodi nei quali gli/le è successo di essere o sentirsi
aggressivo/a con una figura significativa o con una figura non significativa. Come
è stata vissuta e agita l’aggressività, con quali immagini e scenari, cosa ha
provato, come era fatto lo stare male, dove e quando il soggetto si è piaciuto di più
e di meno nel corso dell’episodio riferito.
3) Cosa comporta essere aggressivi con qualcuno, come ci si sente, che senso di
sé se ne ricava, cosa può succedere nel caso faccia o non faccia qualcosa, come
passa dall’immaginario all’azione (o come si inibisce), come fa a controllare
un’emozione o un conseguente comportamento, in che senso qualcosa che gli/le
viene detto lo/la fa stare male, in cosa consiste (in termini di immagini e
attivazioni emotive) quello che prova mentre accade qualcosa di significativo,
come sono fatti gli scenari delle emozioni che sperimenta, che tonalità hanno,
quale è l’aspetto che più ferisce il soggetto, se e come risponde, che effetto
produce la sua risposta (all’esterno e all’interno), come finisce l’episodio.
4) Quali sono le differenze nel percepire e nell’agire l’aggressività con figure
significative o non significative per il soggetto.
5) Che senso di sé ha il soggetto, che tipo di personaggio si vede nel corso
dell’episodio (uno/a cattivo/a, buono/a, paziente, forte e vincente, debole e
vittima, povero/a, ecc.).

267
6) Come il soggetto si vede e si sente prima, durante e dopo l’episodio messo a
fuoco in moviola, per ricostruire i cambiamenti del senso di sé durante ciò che
accade e per arrivare a individuare gli aspetti invarianti del suo funzionamento,
legato alla sua OP.
Negli scompensi dei soggetti con OPF Controllante, in generale, le emozioni non
gestibili – e quindi non integrabili nel senso di sé – tendono ad essere riferite a
malattie o comunque ad alterazioni fisiche. Il soggetto in questi casi non riesce a
collegare un problema (che conosce) con le emozioni che esso produce (di
abbandono, di costrizione, ecc.), per cui le scambia per disturbi somatici (attacco
di cuore, cefalea, ecc.). Usa un linguaggio somatico (ad es., senso di confusione,
sbandamento, testa vuota o ovattata) tutte le volte che sperimenta attivazioni
sensoriali prodotte da qualcosa che non riesce a capire. L’aggressività, attivata da
un senso di perdita di controllo, può essere molto evidente e in genere viene agita
direttamente, senza debolezze o sentimentalismi. Prevalgono nei temi di
attivazione gli aspetti fisici concreti, il pericolo corso, la mancanza di protezione o
la costrizione. La percezione che attiva la rabbia oscilla tra il senso di
soffocamento e di limitazione, da un lato, e il senso di abbandono e di non
protezione, dall’altro. Al contrario di quanto avviene nei disturbi delle OPS
Contestualizzate, in questi casi il controllo è sull’ambiente esterno, sulla
regolazione della distanza, non sugli stati interni e sui giudizi. Nelle OPF
Controllanti, i soggetti con disagio clinico in genere non percepiscono bene le
emozioni a livello esplicito e non le considerano quindi fattori causali, capaci di
smuovere la propria vita. Essi non regolano le emozioni (come avviene nelle OPS
Contestualizzate): o riescono ad escluderle o non possono che esprimerle. Il tema
del distacco viene percepito come un parametro esterno, per cui non viene
articolato attraverso i contenuti interni di giudizio (come nelle OPS
Contestualizzate). Separarsi da qualcuno percepito come non affidabile non
comporta forti ripercussioni negative, a meno che non sia in gioco una
componente contestualizzata valutativa (OP Combinate Controllanti-
Contestualizzate). Il controllo su di sé è ricavato dalla gestione dell’esterno (che
non è quindi funzionale all’immagine di sé come nelle OPS Contestualizzate) ed
equivale con il poter stare bene, con l’essere forti. Il bisogno di controllo esprime
anche la dipendenza dagli altri; il vincolo è nella regolazione della distanza dalle
figure di riferimento, che viene verificata ogni volta che qualcosa la può cambiare
(o, semplicemente, minaccia di farla cambiare). Quando si perdono le redini della
situazione, scatta l’aggressività. Nelle liti, l’attribuzione della rabbia viene rivolta
sull’altro, ma di solito ci si lascia andare solo con persone che non appaiono
pericolose od ostili; alzano il tono della voce e si agitano quando litigano con le
persone di cui si fidano. Quando non possono gestire la lite, manifestano una crisi
d’ansia (spesso con somatizzazioni o panico), senza riuscire a metterla in
relazione con la lite stessa. La rabbia rispetto alla fiducia non corrisposta è

268
espressione del fatto che l’altro/a è percepito/a come uno/a che non lo/a può
soccorrere in caso di pericolo, malattia, solitudine.
Negli scompensi dei soggetti con OPF Distaccata, quando c’è una componente
depressiva, la disperazione prevale sulla rabbia. Al contrario di quanto avviene
negli scompensi delle OPS Contestualizzate, i problemi affettivi appaiono sempre
rilevanti e sono correlati alla percezione di perdita, mentre manca la componente
autovalutativa o di immagine personale in relazione agli altri. Anzi, dato che la
percezione di perdita si accompagna sempre all’attivazione di rabbia, che è
difficilmente controllabile, esiste una notevole tendenza ad agire l’aggressività,
con conseguenti acting-out. L’aggressività si può estendere a macchia d’olio,
invadendo tutti i settori della propria vita, personale e di relazione, e spesso si
manifesta con attacchi di disperazione rabbiosa. In questi casi, sono gli altri (la
madre, gli amici, il partner) che si devono riavvicinare, mentre il soggetto tende a
non fare un passo. Se gli altri non lo fanno, l’apprendimento secondario di non
aiutabilità e di non amabilità complica ulteriormente le cose, specie quando il
soggetto è in età infantile e adolescenziale ed ha già sperimentato esperienze di
perdita. In questi casi, i soggetti con OPF Distaccata che manifestano disagio
possono apparire musoni, permalosi e sfogano precocemente la rabbia anche con
condotte a rischio. La solitudine viene percepita come vera, concreta, ineludibile,
parzialmente alleviata dagli sforzi intrapresi. In ogni relazione significativa c’è
sempre un alto livello di coinvolgimento emotivo, anche se negato a livello
consapevole. La svalutazione dell’altro diventa sempre svalutazione di sé
(“scoprire di stare con uno stupido significa essere ancora più stupidi”). Al
contrario delle OPS Normative, nelle OPF Distaccate si ha la sensazione di essersi
arrabbiati più di quanto si faccia in realtà. La rabbia rispetto alla fiducia non
corrisposta è espressione del fatto che l’altro/a è percepito/a come uno/a che non
lo/a può capire e aiutare.
Negli scompensi dei soggetti con OPS Contestualizzata le emozioni vengono
scambiate con i propri giudizi negativi su di sé, così come il non essere accettati e
corrisposti come si avrebbe voluto è attribuito ad un proprio limite (“mi sentivo
disordinata, frustrata, in colpa, inadeguata”; “il fatto di non essere riuscita a
ricavare nulla dalla mia amica mi ha fatto capire di avere problemi da risolvere,
di non essere ancora adeguata alla vita, mi dà la sensazione che non potrò mai
avere quello che voglio”). L’aggressività è tendenzialmente molto controllata,
anche nelle sue espressioni più eclatanti, in quanto “serve” a regolare e a
rimodulare la relazione con l’altro (se quest’ultimo cambia in senso confermante,
l’emozione sfuma). L’attribuzione della rabbia oscilla, è vaga e non netta, il
collegamento tra rabbia e senso di sé non è mai definito (“la rabbia è mia, c’è una
connessione, ma non so quale”). Essi appaiono come spettatori delle proprie
emozioni, mentre operano una messa a fuoco sul risultato (è come guardarsi dal di
fuori e vedere come accade di agire la rabbia). L’effetto che fa una certa cosa è

269
prioritario rispetto a quanto essa realmente interessa. I soggetti tendono pertanto a
manipolare il controllo, modificando le emozioni sperimentate. Temi comuni di
rabbia sono quelli di sopraffazione, prevaricazione, autorità (connessi alla
intrusività, che consiste nella anticipazione e nella ridefinizione operata dall’altro
su ciò che si prova). L’aggressività e la rabbia servono per difendersi da questa
sopraffazione. Il livello di abilità e di competenza personale è misurato sulla
riuscita e viene percepito frequentemente come un tutto o nulla (riuscire o non
riuscire), in termini di abilità, competenza, efficienza. Anche esprimere (o
controllare) l’aggressività è un tema di abilità, ci si può riuscire o meno, per cui
questo aspetto è sempre mediato dal giudizio esterno. L’aggressività può essere
vissuta “a freddo”, per ridurre al minimo indispensabile l’esposizione,
posticipandola al momento opportuno, oppure può essere agita in maniera
compulsiva “a caldo”, quando non si riesce a farne a meno. In questo caso, la
paura delle conseguenze cambia lo scenario della situazione di confronto,
consentendo un riallineamento, con svalutazione di sé e dell’obiettivo raggiunto
(reazione bifasica). Solitamente, l’esplosione consiste in una serie di lamentele e
rivendicazioni piuttosto che in rabbia vera e propria. Il sentirsi in colpa consente
di giustificare l’altro, riallineandosi sul suo punto di vista per recuperare il
contatto di cui si ha bisogno (“è più esperto, più competente, si prende comunque
cura di me, va capito”). Al contrario dei soggetti con OPF Controllante, la
gestione è operata sulla regolazione degli stati interni (relativi a emozioni e
giudizi), non sulla regolazione della distanza esterna (dalle figure e dalle
situazioni significative). Il bisogno di controllo esprime la dipendenza dagli altri;
il vincolo è il loro giudizio, cui si tiene e al quale non si può sfuggire; quando si
perdono le redini della situazione, scatta la rabbia (“gli altri mi infastidiscono e mi
confondono quando non comprendono il valore di quello che sto dicendo o ne
distorcono il significato”). Nel rapporto genitori-figli, il riconoscimento reciproco
avviene all’interno di una asimmetria cognitiva (disparità di maturazione e di
competenze), ma con una reciproca elevata intensità emozionale. Il gioco
relazionale concerne il potere, riconosciuto reciprocamente, di cui entrambe le
parti sono “complici”, utilizzando il contenzioso per definirsi all’interno della
relazione. Quando è eterodiretta, l’aggressività appare strumentale: è una risposta
all’altro, per modificarlo in maniera più favorevole a sé. Quando è autodiretta,
essa appare come uno sfogo, un’attività consumatoria che consente di riallinearsi
sul punto di vista esterno. L’attenzione è posta sulla considerazione e, quindi,
sulla propria centralità (non sentirsi considerato/a dalla figura percepita come
significativa): dall’atteggiamento dell’altro viene ricavata una informazione su di
sé, con un rimbalzo immediato (quanto uno/a è amabile, adeguato/a, importante,
efficiente, autonomo/a, ecc.). Nel sesso femminile gli scenari riguardano
soprattutto l’aspetto fisico, la considerazione, l’amicizia, mentre in quello
maschile prevale di solito la prestazione. L’aggressività esprime lo sforzo per

270
avere il riconoscimento dell’altro e la reazione al fatto di non riuscire ad ottenerlo,
nonostante i tentativi e gli sforzi attuati. Tutto il sistema cognitivo è calibrato al
minimo, in modo che l’aggressività sia sotto controllo sul versante della
esposizione. Solo sfiorare la percezione di rabbia può far sentire abbastanza
aggressivi. Non va superata la soglia oltre la quale si percepisce un rischio troppo
marcato di conseguenze non tollerabili (di rifiuto, critica, ecc.), per cui questa
emozione viene disattivata appena si supera la soglia, prima che sia troppo tardi.
Una modalità può essere quella di cronicizzare il conflitto, diluendolo in verifiche
successive a bassa esposizione, con atteggiamento aggressivo rispetto a un tema
di contenzioso, con frecciatine, allusioni o anche scenate “a freddo”, con un
ripetitivo, vischioso processo all’altro (alla ricerca di conferme comunque
ottenibili con il minimo rischio di disconferma). La rabbia conseguente alla
fiducia non corrisposta è espressione del fatto che l’altro/a è percepito/a come
intrusivo/a e invadente. In qualche caso “si esplode”, con agitazione psicomotoria,
quando questo è l’unico modo per evitare un confronto su temi emotivamente non
tollerati. Nei soggetti con OPS Contestualizzata, ricostruire attraverso
l’autosservazione in moviola i disagi quotidiani – cioè qualsiasi attivazione
disconfermante percepita nel rapporto con gli altri – consente di mettere a fuoco
come era fatta l’attivazione, quale era la scena entro la quale essa si è prodotta e
cosa ha provato il soggetto prima, durante e dopo l’attivazione, in modo da
rendere decodificabili l’emozione. Tenendo presente la differenza tra esperienza
immediata e spiegazioni dell’esperienza, non va chiesta la versione (cioè la
spiegazione) dei fatti, ma è importante ricostruirli, facendo raccontare l’esperienza
immediata e lavorando su di essa. Si parte dal fatto accaduto, quindi si mette in
rapporto l’attivazione perturbante con l’atteggiamento dell’altro. Si ricostruisce la
sequenza degli stati emozionali per cogliere la co-varianza rispetto agli altri, in
modo da consentire al soggetto di focalizzare come trasformi in senso di sé
l’atteggiamento dell’altro. Dove il bisogno di perfezione porta alla comparsa di
rituali, questi ultimi (al contrario di quanto avviene nelle OPS Normative) sono
azioni di opposizione o di ricerca di approvazione rispetto ad una persona
significativa. Negli scompensi più marcati (psicosi) vengono a mancare i criteri di
autoriferimento, per cui nessuna esperienza interna è considerata reale e il
soggetto si definisce totalmente sull’esterno, come se fosse in uno stato “gassoso”
(ad es., produce un delirio di influenzamento per cui l’altro gli/le può leggere gli
stati interni e lo/la può condizionare in tutto e per tutto). In condizioni di non
demarcazione/invischiamento (“sono su una nuvola e mi aggrappo ad altre
nuvole”), il delirio può produrre un effetto stabilizzante, in quanto struttura una
realtà che consente di percepirsi al centro del mondo e in rapporto con l’esterno
(ad es., per il fatto di essere importanti e, proprio per questo, anche perseguitati).
Negli scompensi dei soggetti con OPS Normativa si osserva spesso che si perde il
controllo dell’aggressività senza avere la consapevolezza di essere aggressivi. In

271
genere, più che agìta, la rabbia emerge come una spiegazione colpevolizzante;
essa è quindi più immaginata che reale, essendo il proprio pensiero lo scenario
primario del soggetto. La rabbia attiva un senso di solitudine, che esprime il
bisogno di cautela e di pazienza (al contrario degli scompensi delle OPF
Distaccate, in cui la solitudine è percepita come prova della propria condizione di
non aiutabilità). In generale, essa viene minimizzata, dissimulata, spiegata,
giustificata: si può essere “torturatori” e percepirsi come “vittime”. La reciprocità
presa in considerazione è sul livello astratto (avere lo stesso codice morale,
condividere interessi, certezze). La rabbia è a lunga gittata, nella convinzione di
essere nel giusto, di aver subito un torto, di trasmettere la verità. Si associa a temi
di giustizia e di morale (quanto ci si è sforzati, impegnati, si è stati pazienti per
capire gli altri). L’attenzione è sul dovere, su ciò che è giusto e, quindi,
giustificato. La decodifica interna dell’emozione (e delle immagini ad essa
collegate, percepite come destabilizzanti) avviene attraverso razionalizzazioni,
spiegazioni, giustificazioni. Il processo di decodifica procede oscillando tra
opposti diversi (l’ambivalenza degli scompensi normativi è per uguali e contrari,
per antitesi, mentre l’ambiguità degli scompensi contestualizzati è sfumata e
mutevole con il variare del contesto percettivo). Quando la decodifica non è
possibile, per cui la scelta comportamentale è bloccata, subentrano il dubbio, le
esitazioni (se agire o no, se arrabbiarsi o meno, come farlo, ecc.), le ruminazioni.
Spesso si ricorre a canoni etici o a regole precostituite, cui ci si adegua per evitare
un comportamento inadeguato ed una svalutazione di sé. Al contrario dei soggetti
con OPS Contestualizzata, non è il ruolo o il risultato che interessa, ma l’impegno
messo nel perseguirlo. La conferma di sé viene perseguita attraverso il fare cose
giuste, utili. L’aggressività è solitamente attivata quando, nell’ambito di un
rapporto significativo, sono andate deluse le aspettative sui canoni interni che
riguardano il proprio bisogno di certezze. La rabbia rispetto alla fiducia non
corrisposta è espressione del fatto che l’altro/a è percepito/a come incapace,
malato/a o in malafede. In terapia, è importante partire dalla decodifica delle
emozioni: la rabbia, se non può essere decodificata, o emerge come rinforzo del
proprio senso di responsabilità o, come si osserva in fase di scompenso clinico,
sfocia in immagini intrusive. È pertanto importante mettere a fuoco che le
immagini intrusive non sono pensieri (i soggetti con OPS Normativa quando sono
in crisi fanno fatica a mettere a fuoco le immagini, avendo difficoltà a gestire tutto
ciò che è analogico). Riconoscere le proprie emozioni aiuta a regolarle,
impedendo che divengano immagini intrusive e prevenendo ruminazioni e rituali.
Far emergere la rabbia nel colloquio clinico (anche in maniera strategica, da parte
del terapeuta) aiuta a mettere a fuoco il fatto che le emozioni esistono e vanno
sfogate (senza necessariamente elaborarle in sopportazione), che è impossibile
vivere senza emozioni e che, d’altra parte, non si può sfinire se stessi e gli altri
all’infinito.

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RICOSTRUZIONE DELLO STILE AFFETTIVO
Analogamente a quanto si è detto per le emozioni, anche il rapporto affettivo, che
spesso viene considerato “dall’esterno” come se si trattasse di qualcosa
“oggettivamente” valutabile, gestibile e modificabile, rappresenta un’esperienza
fortemente soggettiva, nel corso della quale ciascun soggetto elabora e spiega
l’esperienza che sta vivendo, riferendola a sé in accordo con la propria storia e con
il concetto che ha di se stesso. A questo proposito va considerato che, in una
relazione significativa, l’affettività svolge un ruolo chiave sulla risonanza
determinata dalle perturbazioni della coerenza interna, la quale definisce, attimo
dopo attimo, il modo di sentirsi. D’altro lato, anche la consapevolezza, legata ai
processi cognitivi, regola a sua volta le perturbazioni emotive connesse con
situazioni o con eventi percepiti come significativi. L’intensità delle attivazioni
emotive oscilla lungo un continuum compreso tra due polarità estreme, negativa e
positiva, mentre la qualità delle attivazioni è legata alla modulazione delle senso-
percezioni, delle immagini e dei ricordi che corrispondono ad esse. Per
l’importanza e l’interdipendenza reciproca tra emozioni (tonalità soggettive,
reattive a stimoli ambientali) e sentimenti (espressione di coloriti soggettivi più
stabili e di fondo), nel corso delle sedute ci si trova spesso a mettere in moviola
aspetti che consentono di iniziare a ricostruire lo stile affettivo individuale.
Pertanto, se didatticamente la ricostruzione dello stile affettivo viene considerata
come una seconda fase della psicoterapia, successiva alla messa a fuoco del
repertorio emotivo attuale, di fatto queste due fasi vengono ad intrecciarsi e a
combinarsi, a seconda del materiale portato in seduta che – è bene ricordarlo –
deve essere quello scelto dal soggetto e non va richiesto dal terapeuta. Oltre alla
intensità ed alla qualità, le tonalità emotive sono caratterizzate dal fatto che
possono essere percepite non solo in rapporto al mondo interno (al proprio ruolo,
al proprio modo di essere e di fare) ma, altre volte, come del tutto esterne (legate
alla valutazione e alle conferme dell’altro) o comunque estranee alla propria
mente (ad es., legate al proprio corpo e non alle proprie modalità di vivere il
rapporto).
Nel ricostruire lo stile affettivo, si può partire da cos’è l’affettività per il soggetto,
a quali temi e a quali attivazioni corrisponde; quindi, si può passare ad analizzare i
seguenti aspetti: l’andamento nel tempo dei rapporti che il soggetto percepisce
come significativi; gli elementi costitutivi sui quali si basano i rapporti costruiti
dal soggetto; le regole tacite che ne consentono il funzionamento.
Va indagato, anzitutto, l’avvenuto debutto affettivo o come mai esso non è stato
effettuato. In secondo luogo, va verificato l’andamento dei rapporti in termini di
modalità di costruzione, mantenimento ed eventuale rottura, in relazione al corso
della vita del soggetto. Inizialmente il debutto affettivo può limitarsi a fantasie,
curiosità o ad approcci episodici e superficiali; altre volte si formano
precocemente relazioni sufficientemente stabili e duraturi. In ogni caso,

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l’affettività adolescenziale va presa in considerazione molto seriamente, sia per i
marcati coloriti emotivi con cui viene vissuta, sia per il ruolo strutturante che essa
ha nei confronti del futuro stile affettivo e relazionale individuale. Un rapporto
può essere più o meno simmetrico (cioè alla pari, equilibrato) o asimmetrico (in
cui uno dei due ha un ruolo attivo, dominante, trainante, protettivo o di sfida e
l’altro un ruolo passivo, subalterno, dipendente, di ricerca di protezione o
abbandonico). Sono sbilanciati quei rapporti in cui un partner esprime una
ipervalutazione delle proprie capacità e si costruisce una visione a sua immagine
dell’altro, che pretende di “cambiare” o di “salvare” attraverso la propria
abnegazione e il proprio sacrificio: ad esempio, mettersi con una persona insicura,
debole, immatura, malata, disadattata, emarginata, tossicodipendente, di fronte
alla quale sentirsi “utile” e “importante”, può fornire una precaria e pericolosa
illusione di dare un senso alla propria esistenza, vissuta a livello tacito come
insignificante e insufficientemente considerata dalle persone dell’ambiente di
appartenenza, mentre comporta un forte rischio di condividere insieme i problemi
e il vissuto di fallimento, senza un concreto vantaggio per chi era già debole,
insicuro e problematico e con una esplicita svalutazione per chi pensava di potersi
finalmente realizzare in qualcosa.
In un rapporto affettivo, il livello di intimità che si percepisce nei confronti della
figura di attaccamento è strettamente legato all’intensità dell’interdipendenza
emotiva sperimentata nella relazione, così come la qualità dell’investimento
dipende dal riconoscimento reciproco che si è instaurato. Nel tempo, l’andamento
positivo o meno di un rapporto è fortemente condizionato da come vengono
percepite, sulla base del proprio stile affettivo, le risposte che il partner fornisce in
relazione alla ricerca di un riconoscimento e di un rafforzamento dell’immagine di
sé. Nel medio e lungo termine, il funzionamento del rapporto (o la sua eventuale
rottura) sono quindi strettamente legati ai riconoscimenti o al sostegno
dell’immagine di sé che i partner si scambiano, nonché alla flessibilità ed alla
disponibilità reciproca con cui viene riordinata l’esperienza condivisa. Esistono
alcuni elementi che rappresentano le basi di qualunque rapporto e, anche se chi
vive il rapporto ne è scarsamente o affatto consapevole, ne condizionano
comunque l’andamento. Gli elementi da mettere a fuoco sono i seguenti:
1) amabilità: esprime quanto ci si sente proponibili, interessanti, importanti,
affidabili, ricercati attraverso il rapporto; rappresenta un’evoluzione della
immagine di sé che si è andata formando, a partire dalla relazione di attaccamento,
attraverso le relazioni con i familiari, gli amici, gli insegnanti e le altre figure
eventualmente significative;
2) autostima: esprime quanto ci si piace e ci si accetta; è strettamente connessa
con l’amabilità ed è fortemente condizionata da come ci si vede attraverso gli
atteggiamenti delle figure significative, in quanto dai rapporti con gli altri il

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soggetto ricava un sostegno o una messa in discussione dell’immagine di sé, del
proprio ruolo e della propria visione di sé e del mondo;
3) intimità: esprime la qualità del dare e del ricevere attivamente nell’ambito di un
rapporto significativo, in termini di profondità e rispetto, aprendosi e
condividendo con l’altro il proprio mondo interno;
4) investimento: esprime quanto si investe in un rapporto, che importanza si dà ad
esso nella propria vita, quanto si punta sull’altro;
5) reciprocità: esprime l’insieme degli atteggiamenti che consentono di instaurare
un codice esclusivo di comunicazione, emozionale prima ancora che verbale, per
cui, nell’ambito di una coppia, gran parte del patrimonio comune viene
tacitamente condiviso e non richiede discorsi esplicativi (Nardi, 2007).
I rapporti interpersonali presentano rituali di corteggiamento analogamente a
quanto avviene in varie specie animali, sebbene appaiano meno caratterizzati e
ripetitivi e siano fortemente influenzati dagli aspetti culturali e dalle mode. Essi
sono comunque finalizzati a conquistare i favori e l’innamoramento dell’altro,
caratterizzano soprattutto la fase di formazione di un rapporto affettivo e sono
cruciali per il suo successivo andamento. Attraverso i reciproci approcci si
fondano infatti le premesse per fare la conoscenza dell’altro e si stabilisce un
canale comunicativo che, a seconda dei casi, tende a privilegiare alcuni aspetti
della personalità e del comportamento di ciascuno. Un aspetto fondamentale di un
rapporto che va indagato nella ricostruzione dello stile affettivo è costituito dalle
modalità di messa alla prova. Si tratta di comportamenti attraverso i quali si
saggia e si verifica l’affidabilità dell’altro e l’influenza del rapporto sul senso di
sé, sulla propria immagine, sui temi di vita: quanto ci si sente amati, desiderati,
compresi, accettati, coccolati, protetti, condivisi, tollerati, rispettati, stimati; quali
spazi si pensa di poter occupare; quali progetti si ritiene di poter realizzare senza
compromettere il rapporto. In secondo luogo, dato che nei rapporti interumani
contano non tanto le strutture, quanto la qualità delle relazioni nel loro divenire
temporale, va valutata la maturazione dei processi affettivi individuali. A questo
proposito, la maturazione evolve da una condizione di bisogno e di dipendenza ad
un atteggiamento possessivo, per arrivare (e non sempre questo avviene in
maniera adeguata) ad una affettività dialettica basata sulla reciprocità e sul
dialogo. Si può quindi giungere ad una lettura dell’amore in termini di alterità:
esiste un continuum tra l’altro/a percepito/a solo come oggetto – quando lo/a si
usa, quando si pretende di cambiarlo/a, quando se ne ignorano stati interni,
bisogni e tendenze – e l’altro/a percepito/a come soggetto, quando si è in grado di
entrare in dialogo empatico con una persona con la quale co-evolvere nel
reciproco rispetto.
Gli stili affettivi costituiscono un insieme di pattern attitudinali, emotivo-affettivi
e cognitivi con cui un soggetto struttura situazioni di rapporto, in modo da
produrre attivazioni consistenti e consone con il senso di sé che ha in corso.

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Analizzare lo stile affettivo significa pertanto mettere a fuoco come tale stile viene
utilizzato da un individuo nel costruire e mantenere la propria coerenza interna.
Tenendo presenti gli elementi sopra riportati, in accordo con Guidano (1987,
1991, 2007), l’approfondimento clinico dello stile affettivo può prendere le mosse
da una sorta di “slogan”, cioè dalla definizione che il soggetto dà della affettività
(come la definisce, cosa significa per lui/lei, come arriva a percepire quello che
prova), per mettere a fuoco in base a quali criteri distingue i rapporti significativi
da quelli non significativi. Quindi si può procedere analizzando in moviola i
rapporti che percepisce come significativi, dal primo all’ultimo, ricostruendo le
varie fasi in cui si articolano: come iniziano; chi si avvicina per primo; che effetto
fa; come si arriva a mettersi insieme; da cosa ci si accorge di volere bene
all’altro/a e da cosa ci si accorge che l’altro/a gli/le vuole bene; come va avanti il
rapporto; quali sono i pattern di litigio; come eventualmente finisce un rapporto;
chi si stacca per primo/a; cosa si sperimenta al termine del rapporto.
Nelle storie affettive di soggetti con OPF Controllante, la costruzione di rapporti
significativi (amicali, di coppia) è gestita dalla ricerca di riferimenti affidabili. È
in genere presente un controllo spaziale sui rapporti significativi. Per questo sono
precocemente attuate messe alla prova tacite, verificando se l’altro/a risponde o
meno ai propri bisogni, coesistenti e antitetici, di protezione e libertà. I parametri
presi tacitamente in considerazione sono pratici, concreti (ad es., non fidarsi di chi
dà la mano in modo viscido, scivoloso, retratto o di chi non ti guarda negli occhi e
non ha un comportamento lineare). Dell’altro/a piacciono l’indipendenza, la
sicurezza operativa, la disponibilità, la discrezione, la pazienza che lo/a rendono
sintonico/a con i bisogni interni che il soggetto avverte; l’altro/a deve reggere la
messa alla prova sulla distanza (aspettare che il soggetto recuperi i suoi spazi di
libertà, in modo da verificare come si sente da solo/a e quanto ha bisogno di avere
l’altro/a accanto a sé). A livello tacito si dà per scontata una “transitività” del bene
(“l’altro, se mi ama, sta bene con le cose che fanno star bene a me”), con una
sorta di “reset mnesico” per cui, anche se l’altro/a in passato è stato attento/a alle
esigenze del soggetto, se non lo è più, viene percepito/a distante, poco disponibile
e, quindi, più estraneo/a, come se fosse stato/a sempre così: se non si ha lo stesso
sangue, ci vuole molto per conquistare la fiducia, ma basta poco per metterla in
discussione (“lui c’è. Non è come gli altri, mi fa stare bene. Se c’è bisogno, so che
posso contare su di lui. Non è il primo ragazzo che ho avuto, non è neanche il più
bello, però anche quando per un periodo ci siamo lasciati perché volevo vivere la
mia vita, lui ha saputo aspettarmi, mi sono accorta che di lui mi posso fidare. Mi
sento capita, rispettata, protetta”). Dato che il timore di deludere o di essere
giudicati male non è un elemento prioritario, molte messe alla prova sono fatte
manifestando una condizione di debolezza (come il sentirsi male). La
disponibilità, l’amicizia e l’affetto degli altri sono letti sul piano pratico,
operativo, fisico. Minore attenzione è data agli stati mentali, che “non si vedono”

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e che pertanto sono fatti coincidere con i propri bisogni: la regola tacita è che chi
ci vuole bene vuole di conseguenza ciò che è bene per noi. Se fosse il contrario
non ci vorrebbe bene. In questi casi possono emergere dispiacere o rabbia, ma
anche dubbi sulle possibilità di individuare persone affidabili (“com’è che non ho
capito prima che lui/lei era così? Di cosa non mi sono accorto/a?”). La prova di
essere amati la si ricava dalla disponibilità concreta dell’altro/a nei confronti dei
propri bisogni; questa disponibilità viene testata rispetto alla famiglia di origine,
che è affidabile per definizione (“ti accorgi che uno ti ama quando sei la prima
cosa che guarda quando entra nella stanza, sei il suo primo pensiero, si chiede se
ti può piacere quello che fa: sei al centro di tutte le sue azioni, ti dà altrettanto di
quello – enorme – che ti dà la tua famiglia”). L’affidabilità può essere ricavata da
come l’altro/a si comporta nelle situazioni in cui il soggetto si sente fragile e
bisognoso/a di un supporto, in quanto teme che, non riuscendo a gestire qualcosa,
non possa controllare anche altre cose più importanti. In occasioni come queste si
ricava un film della possibile vita futura con l’altro/a, su quanto si può contare o
meno su di lui/lei, elementi fondamentali per stabilizzare o meno un rapporto in
formazione. Una base sicura si comporta in linea con quello che è vissuto come il
proprio bene, non uno/a che fa di testa sua e non aiuta e asseconda il soggetto
quando ne ha bisogno: “l’altro giorno mi sono arrabbiata col mio ragazzo. Stavo
cucinando e mi sono accorta che mi si era scotto il riso. Glie l’ho fatto
assaggiare, chiedendogli com’era. ‘Buono!’ mi ha risposto. Mi sono arrabbiata,
mi sono sentita non capita; in quel momento non avevo più certezza. Certezza è
sicurezza. Avevo bisogno di rassicurazione, mi sentivo una poco pratica. In quelle
occasioni divento debole, ho paura di non riuscire a realizzare i miei sogni, che
sono quelli di avere un lavoro creativo che posso portare avanti io e di avere una
famiglia unita. Io ho sicurezza dell’amore, però in certi momenti metto in
discussione tutto. Mi chiedo: ma se non è capace di fare questo, come potrà
essermi vicino tutta la vita? Non ha le qualità che mi rendono proprio sicura, non
mi dà tranquillità. Avrei bisogno in quei momenti di una persona più determinata,
che mi sappia tirare fuori da quel problema ma non oltre, non sopporterei uno
che si impone, mi sentirei impedita di essere me stessa, una debole, sottomessa,
quasi una vittima e a me non è che fare la vittima vada tanto a genio”. Il soggetto
tende ad esercitare, come si è detto, un controllo spaziale dei rapporti significativi
(che devono essere disponibili quando servono e devono lasciare libertà quando
non sono “utili”). Di fronte a rotture di equilibrio non volute, può tentare di
recuperare il rapporto attraverso una somatizzazione. Essendo poco abituato/a a
mettere a fuoco gli stati interni, propri ed altrui, quando rompe un rapporto
percepito come poco affidabile o eccessivamente vincolante non prova sensi di
colpa e, anzi, vive con sollievo la condizione di riequilibrio interno. La decodifica
delle emozioni perturbanti, nascoste dal sintomo, è consentita dalla messa a fuoco
dei temi di distacco/prossimità fisica, che producono la paura di perdere il

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controllo su di sé (e, quindi, sulle proprie emozioni). Mentre nei contestualizzati
prevalgono i temi di capacità (sul controllo dei giudizi esterni), nei controllanti la
gestione è operata prevalentemente sulla stabilità fisica (distanza dagli altri,
salute). Nella formazione di un rapporto significativo la condivisione della propria
intimità – con limitazione della propria sfera personale e, quindi, della propria
libertà – è possibile se il soggetto vive l’altro/a come affidabile e disponibile
(meglio se conosciuto/a e “certificato/a”). A volte, l’idea del distacco dalla
famiglia d’origine può spingere a rimandare un progetto di autonomia che è
vissuto come la fine irreversibile di una lunga fase della vita, come se si cercasse
di restare aggrappati alla propria infanzia, bloccando il fluire del tempo: “l’altra
sera eravamo in salotto a guardare la televisione, mamma, papà ed io. Loro si
sono addormentati e a me mi è venuto da piangere. Ho pensato che tutto questo
sarebbe finito, che prima o poi sarei dovuta andare a vivere da sola, che non
avrei più potuto vivere queste serate così”. C’è da sottolineare, a proposito della
trama precedente, che la protagonista aveva fatto ristrutturare una parte dell’ampio
appartamento dei suoi, per cui la separazione effettiva era solo un muro in
cartongesso. È la rottura dell’equilibrio preesistente, a prescindere dalla variazione
effettiva della distanza, che attiva le emozioni negative, generate dalla perdita di
ciò che si aveva (la propria giovinezza e ciò che di “spensierato” e di
“disimpegno” essa assicurava). In numerose altre situazioni, questo controllo
“magico” sul tempo è operato costruendo rapporti con partner più giovani,
sostituiti una volta che “invecchiano”, fino a quando non cambia il bisogno
interno, per cui ci si “stabilizza finalmente”, magari reinvestendo il proprio
bisogno di giovinezza e di progettualità sui figli. Quando il soggetto ha bisogno di
affiancare una nuova figura a quelle familiari che invecchiano e dalle quali finora
ha ricevuto un affetto recepito come “gratuito” e “disinteressato”, deve avere
comunque l’impressione di controllare e gestire gli aspetti della relazione affettiva
che percepisce critici, delegando il resto al partner. Metaforicamente, “ci si può
anche mettere in gabbia”, anzi a volte è persino vantaggioso, ma “si deve
comunque avere la chiave”: “ho conosciuto mia moglie in quanto faceva la
segretaria da un mio collega, il quale mi dava un passaggio in macchina ogni
giorno per tornare a casa. Mi stava simpatica, mi è piaciuta piano piano. Era una
ragazza semplice, senza tanti grilli per la testa, seria, ho pensato che avrebbe
potuto essere la madre dei nostri figli. Forse questa sua grande affidabilità è stata
la caratteristica saliente che mi ha colpito, che poi si è rivelata la verità, lei è il
riferimento della casa. Ho deciso io di sposarmi, mi stava bene”. Anche l’aspetto
estetico è vissuto, a livello tacito, non tanto in rapporto all’apprezzamento esterno
ma come espressione di benessere o malessere, efficienza o decadimento fisico,
forza o debolezza nel gestire le relazioni con gli altri. Anzi, proprio la ricerca di
persone affidabili guida i processi di innamoramento: la messa alla prova è fatta
non nascondendo le proprie fragilità (come accade a quanti hanno paura di

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deludere) ma, al contrario, utilizzandole per verificare quanto la persona con cui si
esce è disponibile e motivata, garantendo una affidabilità anche per il futuro: “da
ragazza ero un po’ in carne, ma non mi sentivo male. Dopo le superiori ho
cambiato compagnia, ho iniziato a ballare. Lì è venuto lui, era la notte di
capodanno e il giorno dopo mi ha richiamato, siamo usciti insieme. Ero
innamorata, facevo cose tipo prendere la macchina a qualunque ora per andare
da lui. Però dopo tre mesi ho visto che lui era stanco, che era troppo legato ai
suoi amici, tutti ragazzi non fidanzati. Per un po’ abbiamo continuato a vederci,
sentivo da come mi guardava che stava bene con me, ma ero incavolata che non
era pronto. Poi d’estate mi sono accorta che un ragazzo mi mostrava attenzioni.
Ero dimagrita, questo mi dava sicurezza, sentivo di piacere di più. Il primo
ragazzo l’ha saputo, è tornato indietro e da allora stiamo insieme. Con lui sto
bene, sono riuscita a fargli capire qualcosa, mi ha sempre dimostrato attenzioni.
Quando ho avuto attacchi di panico mi è sempre stato vicino, non si è stancato se
non andavamo a ballare o al cinema. Quest’estate siamo andati in vacanza
insieme. Prima di partire ero molto spaventata, mi dicevo: mamma mia se
succede un incidente, se ci viene addosso una macchina? Quando siamo partiti e
ci siamo fermati per mangiare, siamo entrati in un ristorante, era pieno di gente,
ho subito sentito tachicardia. Lui però mi ha rassicurata, mi ha dato un bicchiere
d’acqua, mi ha portata fuori, mi ha detto: adesso stai meglio, se vuoi rientriamo.
Mi sono tranquillizzata e poi è andato tutto bene”. Nella vita di coppia la
gravidanza e la nascita di un figlio rappresentano novità importanti che possono
ridefinire gli equilibri interni di protezione/libertà. In un uomo, ad esempio, una
gravidanza non voluta può far percepire la partner come distante ed estranea, una
che si occuperà più del figlio che del soggetto. Allo stesso modo, anche il
nascituro può essere visto come un estraneo che si frappone tra l’individuo e la
sua compagna, interponendo una barriera fisica rispetto al bisogno del soggetto di
avere per sé dedizione e cura. La riduzione dello spazio disponibile, prodotta da
una compagna poco accondiscendente o dalla presenza di un bambino che impone
la propria fisicità, può quindi provocare la comparsa di sintomi di costrizione, con
gli inevitabili correlati fisici: “mi è sfuggita di mano la situazione. Adesso il senso
di responsabilità mi tocca da vicino e non ho nessuna possibilità di avere una
scappatoia. Sento che ho passato una linea di tollerabilità, sto cadendo nel
panico più totale, non c’è nessuno che mi possa alleggerire un fine giornata, un
fine settimana. Scatta un crollo, sono io che ho bisogno. La macchina non la
posso prendere, inizio a stare male, devo essere sempre accompagnato. Ho
costantemente nausea e vomito, sono terrorizzato dal ritorno a casa del bimbo
con la madre, mi tremano le gambe e le mani, c’è uno stato di soffocamento, non
so dove posso andare. L’altra notte mi è venuto da vomitare nel sogno, mi sono
svegliato, sono andato a bagno, ho cercato di limitare i danni. Odio casa mia,
non è il punto di rifugio, è la trincea, come se andassi a torso nudo su delle lance.

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Ho paura di tornare a casa, come aumenta l’avvicinamento aumenta il mio
malore”. In una donna una gravidanza non cercata può attivare una serie di paure
sui pericoli che si possono correre, sulla salute del nascituro, sul vedersi lungo un
binario obbligato da cui non ci si può più tirare indietro e che deve transitare
necessariamente attraverso l’esperienza del parto. In questi casi compaiono
sintomi fobici, insonnia e somatizzazioni, come l’espressione clinica dei vissuti
taciti costrittivi. Ovviamente anche l’uomo che aspetta un figlio, oltre alla
limitazione della libertà personale e di coppia che la presenza di un neonato
comporta, può temere eventi imprevedibili e incontrollabili che si possono
verificare durante o dopo il parto. Si cerca quindi di scegliere, quando è possibile,
medici ed ostetriche che diano il massimo di affidamento: “ricordo che quando
aspettavo fuori perché stava nascendo mio figlio, forse ero in travaglio più di mia
moglie: ero nervosissimo, avevo paura che qualcosa non andasse bene. Per il
resto, ho una famiglia meravigliosa, i miei figli sono sani, si sono anche sistemati
e mi hanno dato tre nipoti”. Il soggetto, di fronte al rischio o alla effettiva rottura
di un equilibrio non voluto, può tentare tacitamente di recuperare il rapporto
attraverso una somatizzazione. In ogni caso, il funzionamento del rapporto è
condizionato dal bisogno coesistente ed antitetico di protezione e libertà, che il
soggetto fatica a conciliare, chiedendo al partner di garantirlo. La decodifica
delle emozioni perturbanti, nascoste dal sintomo, è consentita dalla messa a fuoco
dei temi di distacco e di prossimità fisica, che producono la paura di perdere il
controllo su di sé (e, quindi, sulle proprie emozioni), tentando di recuperare la
gestione della relazione attraverso parametri fisici (distanza dalle figure
significative, salute).
Nei disturbi affettivi di soggetti con una OP Combinata Controllante e
Contestualizzata la consapevolezza è spesso scarsa e viene richiesto un lavoro
terapeutico più protratto; gli allontanamenti e gli avvicinamenti eccessivi (vissuti
come pericolosi, anche in termini di giudizio) possono produrre situazioni di crisi
e rottura, con iperattività motoria (analoga a quella contestualizzata anoressica),
della quale tuttavia il soggetto spesso non è consapevole. Molte volte i temi di
regolazione della distanza e di adeguatezza rispetto al giudizio sono costruiti in
modo che il tema secondario si innesta su quello principale nel mantenimento
della coerenza interna. Ad esempio, a livello esplicito, i rimproveri genitoriali e le
arrabbiature dei figli, tipici di alcuni pattern contestualizzati di litigio, nascondono
il bisogno tacito controllante di congelare il rapporto in un’infanzia protratta
finché è possibile. In questo modo, attraverso il giudizio, il vincolo di prossimità è
mantenuto evitando allontanamenti non tollerati emotivamente. Anche le scelte di
vita sono spiegate come casi fortuiti esterni e non come la conseguenza di
comportamenti finalizzati a equilibrare, con le critiche, la distanza tra riferimenti
affidabili e spazi di libertà disponibili: “ho tirato il più a lungo possibile e tuttora
cerco di tirare più avanti possibile la condizione di figlia. I miei coetanei si sono

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assunti, come si dice, le loro responsabilità. Io avevo fretta a vent’anni, poi
sempre meno. Questa è una cosa che sento di aver fatto coscientemente. Sono
stata una Peter Pan a prolungare a tutti i costi all’estremo il periodo della
giovinezza. Poi mi sono messa con una persona che non voleva sposarsi ma
convivere e questo mi ha ulteriormente bloccata. Continuo a rinfacciare a mia
madre il fatto che mi critica sempre, come se non fossi mai uscita da questo
ruolo”. In generale, la praticità nel gestire le situazioni e la tendenza a investire in
modo affidabile quando ne sentono l’esigenza rende questi soggetti dei riferimenti
sicuri e graditi, specie da chi si affida a loro per avere sicurezza e protezione
(come può accadere ai soggetti con OPS Contestualizzata). Un equilibrio,
reciprocamente solidale, può nascere anche in un rapporto tra due soggetti
controllanti, purché la gestione pratica sia chiaramente individuata e
reciprocamente accettata (anche nei rispettivi allontanamenti per sentirsi liberi in
ambiti di vita che sono conosciuti e tollerati dal partner). Le turbolenze, legate ai
cambiamenti di vita, sono superate quando si possono mettere a fuoco i bisogni
dell’altro senza ricavarci aspetti negativi di sé (ad es., dopo il pensionamento, il
rientro in casa può ridisegnare il territorio ed i compiti reciproci di due soggetti
controllanti, oppure può far vivere al partner contestualizzato le ingerenze
dell’altro come disconoscimento della propria adeguatezza e non come
espressione del bisogno del controllante di gestire i nuovi ambiti in cui si trova).
Nelle storie affettive di soggetti con OPF Distaccata il senso di solitudine viene
sperimentato attraverso il partner, che deve essere disposto a condividerlo
all’interno di un rapporto esclusivo in cui, in contrasto con l’esperienza personale,
l’altro/a non lo/a lascerà solo/a. L’atteggiamento del partner è filtrato attraverso le
attivazioni interne. Dato che non è prioritaria l’attenzione per i giudizi esterni, ciò
che si prova, anche quando attiva comportamenti eclatanti, può apparire
“normale”, essendo coerente con il vissuto soggettivo; da qui la meraviglia se
l’altro/a fa notare al soggetto quanto sia stata intensa la sua reazione emotiva.
Vivere una richiesta di condivisione come eccessiva non è legata alla paura di non
farcela (come in una OPS Contestualizzata) ma alla coerenza tacita di sentirsi
diversi/e, separati/e dagli altri da una sorta di muro invisibile. Deve essere l’altro/a
a reggere le messe alla prova, a rassicurare che non mollerà, che intende varcare il
muro, contraddicendo l’esperienza di non essere ricercati/e se non in modo
parziale e transitorio, proteggendosi dal rischio di sperimentare nuovamente la
solitudine: “ero veramente il brutto anatroccolo. Ho sempre sentito che chi mi
vedeva carina lo dicesse per consolarmi. Poi è arrivato lui. Ha retto la mia
tristezza, mi sta vicino, mi consola quando il pianto viene e non si ferma. Ogni
tanto succede che mi chiede qualcosa che per me è troppo, allora sto veramente
male, come se fossi comunque sola. Non mi accorgo di fare una scenata, me lo
dice lui, anzi mi meraviglio di arrivare a tanto. Lui però continua ad esserci e
questo mi rassicura, anzi mi succede sempre meno di avere questi momenti di

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blackout”. Quando la percezione “di essere soli al mondo” e la non tollerabilità
dell’eventuale perdita sono marcate, ci si difende evitando di innamorarsi,
negando l’eventuale investimento o mettendolo alla prova e cercando di bloccarlo.
Da un lato si avverte un grande bisogno di calore e affetto, dall’altro si è
spaventati e si fugge da questo bisogno, come qualcosa “che non è per me”. Anzi,
come si è accennato, può capitare di dire ad una persona che si mostra interessata
o che appare innamorata: “ma chi te lo fa fare di stare con uno/a come me? Meriti
di più, trovati qualcuno/a meglio di me, che ti possa voler bene”, oppure di
meravigliarsi se una persona significativa dice di ammirarli/e e riconosce in loro
qualità che, da un lato sanno di avere, ma che, dall’altro lato, svalutano
inserendole nella solitudine e nella disillusione di fondo. Di qui un atteggiamento
che, visto da fuori, può apparire altalenante e contraddittorio, mentre ha la sua
coerenza interna a livello tacito nel vissuto di un attaccamento distaccato e freddo,
oppure caldo ma creduto finito per sempre: “da un lato sento il rifiuto, dall’altro
il bisogno disperato di figure di riferimento. Non sono presente a me stessa in
certi momenti: sono stanca di avere paura, di dovere di nuovo cercare riferimenti
forti assoluti, anche se la libertà interiore è un traguardo per me affascinante. Ho
segnati su un calendario i giorni in cui ho goduto di me. Ieri stavo malissimo,
provavo angoscia, non trovavo pace. Mi sentivo morta dentro, stretta nel mio
proprio corpo, questo dover stare a contatto con me che non sopportavo. Sentivo
bisogno di vicinanza di una mia amica, parecchio più grande di me, che non
tollera questi miei bisogni. Questo rifiuto scatena in me l’esasperazione che ho
sempre vissuto, nei confronti delle figure di riferimento della mia vita, che sono
sempre state tutte più adulte di me. Quando scelgo una persona di riferimento su
di lei proietto tutti i desideri. Ma basta un elemento esterno e crollano”. Il fatto di
sentirsi responsabili del comportamento dell’altro/a può spingere a vivere il
legame in termini di inutilità, ineluttabilità, perdita. Il soggetto mostra un senso di
individualità che altri non hanno (in queste situazioni, al limite, si sentono
abbandonati, emarginati, non considerati). La solitudine è vissuta, prima ancora
che immaginata; diverse storie finiscono male, con una conseguente marcata
reazione di lutto, per poi ricominciare, ma si ha sempre una notevole paura ad
affezionarsi a qualcuno. Ciò che è “bello” e “buono” sta accanto, ma il soggetto si
sente separato da esso, come se fosse irraggiungibile o come se, una volta
raggiunto, non fosse che un’illusione dolorosamente transitoria, destinata a finire,
lasciando un marcato senso di vuoto; in questi casi, meglio accontentarsi di un po’
di calore, di prendere solo il minimo, di cercare situazioni transitorie,
sottovalutando, tuttavia, che a livello tacito l’investimento affettivo è spesso molto
maggiore di quanto il soggetto sia esplicitamente consapevole: “l’affettività mi ha
sempre spaventato, bene o male mi sono realizzato come volevo, anche se ho fatto
delle rinunce quando mi sono accorto che l’ambiente di lavoro non era come me
lo immaginavo. Alcuni mi hanno detto che ho sbagliato a rinunciare, ma tutto

282
sommato non mi pento. Ora sono più accondiscendente verso me stesso, quello
che faccio penso di averlo scelto. Mi sono sempre sentito molto libero e
responsabile. O meglio, gli altri vedono in me questa parte esterna affidabile. Ho
sempre creato una vita parallela rispetto a mio padre e a mia madre, cercavo
altro e ci riuscivo, ma in campo affettivo non sono mai riuscito ad avere
interlocutori per condividere un rapporto, semplicemente lo sentivo non
raggiungibile. La droga non l’ho mai presa anche se mi attraeva il desiderio di
alienazione. Penso che mi ha salvato la fede. In ogni caso, ho sempre trovato
persone che mi hanno fatto intravedere che vale la pena vivere”. Anche le
esperienze traumatiche, come un abuso sessuale, sono inserite nella costruzione
del proprio essere soli, come se ciò che fanno gli altri fosse non tanto legato alle
loro problematiche, ma al “riconoscimento” di questo “stato” personale, di una
sorta di “destino”, per cui relazioni equilibrate non sono alla propria portata e, se
vengono, possono solo ritorcersi contro: “pensare alla sessualità mi fa star male,
mi dà fastidio, vorrei scomparire, scappare. La sento come una cosa sporca. A
quattro anni, ero la più piccola, i miei fratelli erano tutti a scuola. Questa
persona mi si avvicinava mentre io coloravo, lui mi carezzava, vedevo che era
una cosa strana, lui era eccitato, non voleva giocare con me. Mi diceva di fare il
gioco del lecca lecca. Un po’ di colpa ce l’ho anch’io, l’idea che a me non
dispiaceva questa cosa, perché non riuscivo a scappare, mi fa star male”. Quando
è possibile costruire rapporti di amicizia, il vissuto di solitudine porta, da un lato,
a mantenere le distanze (proteggendosi dall’abbandono), dall’altro a proteggere
anche le persone amiche (per non far loro del male). In ogni relazione
significativa c’è sempre un alto livello di coinvolgimento emotivo, anche se
negato a livello consapevole. Per questo il soggetto può apparire spigoloso,
scostante, permaloso e può a volte sfogare la rabbia in modo incontrollato, fino ad
attivare condotte a rischio. La svalutazione dell’altro si associa sempre ad una
svalutazione di sé, che finisce col prevalere: “scoprire di stare con uno stupido
significa essere ancora più stupidi”: “una prima storia importante l’ho avuta a 22
anni ed è durata 7 mesi. È stata ‘platonica e telefonica’, con uno studente
conosciuto all’università. Avevo fatto io i primi passi, anche se questo mi aveva
procurato disagio, comunque gli scrissi che mi piaceva. Quando ho scoperto che
lui era fidanzato, ho fatto finta di niente, poi però se me ne sono andata per
sempre. Mi sentivo distrutta, ma pensavo che tanto era normale che finisse così,
che io non valevo niente, che l’amore non era per me. Ho provato un senso di
abbandono come quando morì mia nonna. Mi è tornato in mente che nonna mi
aveva detto ‘vado in ospedale e poi torno’, invece era morta ed io mi sono sentita
tradita. In seguito ho avuto due brevi storie con due ragazzi stranieri più giovani
di me. Mia madre mi diceva ‘non ti mettere mai con ragazzi più giovani di te!’ ma
me li sono trovati tra capo e collo, se no li avrei evitati accuratamente. Io cercavo
solo l’amicizia, mentre loro interpretavano questo come disponibilità a fare sesso.

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In tutti e due i casi li ho lasciati prima che finisse, quando ero ancora
innamorata, perché non volevo essere abbandonata. Quando tornavano a
cercarmi ho sofferto, provavo male dentro, ma avevo deciso di lasciarli per
sempre. Quando lascio, io taglio tutti i ponti, cambio frequentazioni, telefono,
amicizie. Ho paura di essere veramente amata, per non soffrire se la storia
finisce. Ho quindi avuto una storia di qualche mese che ho chiuso perché lui non
faceva altro che parlare di sesso, era interessato a materiale pornografico, sono
fuggita sconvolta. Un’altra storia l’ho avuta con un uomo che a me sembrava
infantile; quando l’ho lasciato, lui mi ha ricercata e si è anche messo a piangere
chiedendomi di rimetterci insieme e questa cosa mi ha veramente spiazzata, ero
stupita, non mi era mai successo. Poi però mi sono detta che era solo un
capriccio, anche perché una volta lui mi aveva detto: ‘te sicuramente finirai sotto
un ponte’. Quando questo rapporto è finito ho provato molta rabbia, che ho
sfogato frequentando una serie di ragazzi a livello di conoscenza e poi
evitandoli”. Al contrario di quanto accade in una OPS Normativa, si può avere la
sensazione di essersi arrabbiati/e più di quanto lo sia stati/e realmente. La rabbia,
che consegue alla dolorosa constatazione di avere investito affettivamente senza
poi essere stati/e corrisposti/e, è espressione del fatto che l’altro/a è percepito/a
come uno/a che non lo/a può capire e aiutare: “quando mi succede questo, non mi
curo minimamente di me, esagero tantissimo cogli altri, esaspero i loro difetti,
che magari vedo solo io e li allontano. Ora gli eventi creano meno disastri. È
come se quasi per la prima volta prendessi le distanze da me stesso e quindi
riesco ad essere altro nei momenti verità. Mi è capitato di stordirmi per qualche
minuto solo, per poi dirmi ‘muoviti, trova una distrazione’. Prima non mi
accadeva, mi disperavo e basta. Ad esempio, sentivo che un amico non mi stava a
sentire, che non gli importava nulla di me e andavo fuori di testa, senza
accorgermi magari che mi era stato a sentire per tutta la sera. Mi sembra una
cosa inaudita, mi spaventa che non me ne sono accorto. Prendo il peso, ma non
rischio le situazioni; ho imparato a non arrabbiarmi, mi dico che faccio quello
che posso, che devo dare retta anche alle mie esigenze”. Tuttavia, proprio
partendo dalla disillusione, dal disincanto dei sogni svaniti, può nascere il dovere
di assumersi le responsabilità e di prendersi cura degli altri. Dal sentirsi “fuori
posto”, per cui agire comporta inevitabilmente rompere, se non distruggere, i
rapporti di amicizia, dall’essere “fieri della propria diversità”, premessa per
sentirsi i “soliti sfigati, soli, non ammessi alla corte del mondo”, tristi, prosciugati,
angosciati fino all’attacco di panico, estraniati per non reggere la realtà così
com’è, si può recuperare ciò che di positivo (relativo) è in sé come ponte per il
positivo (relativo anch’esso) che ci può essere nel mondo: “il gioco vale la
candela”; “c’è chi si dà da fare, è corretto e fa del bene, per cui occorre essere
solidali, queste persone vanno anche protette”. Il non voler fare del male alle
persone care o che meritano stima può essere la molla per responsabilizzarsi e

284
impegnarsi nei rapporti interpersonali, sia facendo cose socialmente utili, sia
mantenendo le relazioni instaurate in precedenza, sia infine costruendo un proprio
rapporto affettivo (se l’altro ha comunque dato prove tacite di “reggere e di voler
stare con una persona così”). Pertanto, in molti scompensi affettivi delle OPF
Distaccate, il senso di solitudine e di non poter essere aiutati da nessuno viene
sperimentato attraverso il partner, al quale si chiede di condividere un rapporto
esclusivo in cui si è “soli al mondo”. Quando la percezione della solitudine e la
non tollerabilità dell’eventuale perdita sono marcate, il soggetto si difende
evitando di investire, negando l’eventuale investimento o mettendolo alla prova e
cercando di bloccarlo (anche esplicitamente: “non ti mettere con uno/a come me,
trovane uno/a migliore”). Il fatto di sentirsi responsabili del comportamento
dell’altro/a può spingere a vivere il legame in termini di inutilità, di ineluttabilità
e di perdita. Per l’esasperato senso di individualità è facile che, partendo anche da
episodi apparentemente banali, il soggetto ricavi di essere abbandonato/a o
emarginato7a. La solitudine è vissuta più che immaginata, anche attraverso
somatizzazioni, con reazioni di lutto alla fine di storie sempre molto laceranti e
traumatiche.
Nelle storie affettive delle OPS Contestualizzate la reciprocità è costruita
attivando tonalità emotive e comportamenti di tipo inibito, compiacente,
accudente, fragile, indifeso, reattivo, punitivo, seduttivo, assertivo, di sfida, a
seconda del contesto. In ogni caso, lo stile affettivo ricerca l’amabilità attraverso
le conferme ricevute, modulando l’esposizione in base a ciò che ci si aspetta
dall’altro/a, in termini di condivisione o rifiuto. Quando investire in un rapporto
non rappresenta una sfida attiva di conquista (interrotta solo una volta raggiunto
l’obiettivo), il soggetto può giocare di rimessa, in modo attivamente passivo e
lasciando all’altro/a la prima mossa, pur mandando segnali indiretti sulle sue
intenzioni e aspettative: “mi sentivo imbranato, pensavo cosa potevo dire per
poterle piacere, ma poi sul momento non mi venivano le parole e la evitavo.
Credevo che nemmeno si fosse accorta di me, che uno come me non le sarebbe
mai potuto interessare. Invece poi lei mi ha sorriso, mi ha detto che le piacevo e
che dietro la mia timidezza, che mi ha sempre creato complessi, lei vedeva una
persona gentile. Mi ha fatto sentire la persona più felice della terra. Avrei voluto
gridarlo al mondo ma mi vergognavo e, all’inizio, avevo paura che lei si
stancasse. Ma lei è veramente carina con me e a poco a poco sono diventato più
sicuro, anche a scuola e con gli amici, perché sento che lei crede in me”. La
ricerca di conferme e l’evitamento delle disconferme animano i rituali di
corteggiamento sia sul versante attivo (esprimendo la propria seduttività e
capacità di conquista), sia su quello passivo (non esposizione o minima
esposizione, sia nella formazione che nell’eventuale rottura, ad esempio facendo
in modo di essere lasciati dall’altro): “quando io avevo diciotto anni e lei 16
abbiamo iniziato a stare insieme. Le decisioni le prendeva lei, decideva lei con

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chi andare. Mi ha incoraggiato lei ed è stata lei che ha iniziato il rapporto.
Siccome era una bella ragazza, mi sono sentito al settimo cielo. Non mi pareva
vero avere un legame affettivo con una ragazza di quel tipo: era bella, piacevole,
aperta, ambita dagli altri ragazzi. Siamo stati insieme alcuni mesi, poi lei mi ha
lasciato in maniera brusca e questo mi ha causato parecchi problemi,
considerando che ero un ragazzo chiuso, introverso: mi vedevo grosso, brutto. Il
disagio veniva dal fatto che continuavo a vederla e lei non si faceva scrupoli a
farsi vedere in giro in atteggiamenti affettuosi con gli amici. Mi sentivo
sprofondare, sono caduto in una depressione nera, mi sono chiuso in me, ho
attraversato momenti di disperazione e mi sono dato anche all’alcol”. La ricerca
di conferme, se non si ha una “pelle psicologica”, può diventare l’unico parametro
per investire affettivamente. L’equazione tacita tra valore personale e riuscita del
rapporto porta a ricondurre alle proprie attitudini se la relazione funziona o meno
(“se l’altro si comporta male o mi lascia, cosa c’è in me che non va? Dove ho
sbagliato?”) e a non mettere a fuoco che il modo di fare del partner è espressione
di motivazioni, bisogni, problemi, valori di quella persona (legati ai suoi processi
di sviluppo e di mantenimento della coerenza interna). Anzi, quando non si può
fare a meno di accorgersi che l’altro/a non è come lo/a si era immaginato/a nelle
proprie trame narrative, alla crisi del rapporto si associa sempre una crisi del
proprio equilibrio interno: “pensavo che tutto il mondo fosse rosa. Quando ho
conosciuto lui pensavo di riuscire ad aiutarlo, invece mi sono ritrovata che questa
persona era diversa da quella che immaginavo, alzava le mani, aveva problemi
personali, era instabile, andava a dormire in un modo e si alzava diverso,
cambiava umore in modo spaventoso, mi sono ritrovata ad affrontare una
situazione molto più grande di quello che ero io e non ero matura per affrontarla,
perché dovevo ancora crescere io. Subito dopo che ci siamo sposati ho capito che
qualcosa non andava, è stata una cosa molto breve, da film: appena siamo usciti
dalla chiesa lui è sparito, è andato verso un gruppetto di ragazze, dopo ho
scoperto che una di queste era una mia ex compagna di scuola, con la quale ha
poi avuto una storia, ci si è sposato e si è separato”. A volte, la valutazione del
partner è usata come parametro per attivare un comportamento competitivo di
sfida, cercando di vincere per raggiungere il traguardo desiderato (“attitudine e
struttura da atleta”; Guidano, 1988). Qualche volte la sfida è operata, tacitamente,
“a basso rischio”, con investimenti parziali (ad es., con un soggetto sposato/a: se
va bene, si vince, se va male, si perde comunque meno, visto che l’altro/a era già
impegnato/a). Esiste una grande variabilità nei modi in cui si raggiunge una
stabilità di rapporto, che si ottiene a livello tacito quando l’immagine interna della
figura di cui ci si innamora assicura un senso di sé sufficientemente consistente e
stabile, anche a costo di riallinearsi frequentemente sul punto degli altri, preso per
buono per mantenere un’immagine accettabile di sé: “sul versante affettivo sono
sempre stata rinunciataria, ho sempre avuto paura di non piacere, fin dalle prime

286
scemenze delle elementari. A 12 anni, al mare, aggregandomi a due amiche, che
erano le ragazze più carine del campeggio e che conoscevano tutti, sono stata
“agganciata” da un ragazzo di 15 anni: era abbastanza spedito, mi faceva i
complimenti. Lui mi piaceva, era carino, suonava la chitarra, ma poi non è che mi
andava molto, era montato, portava la roba firmata, aveva i soldi, per cui la
storia è finita lì. L’anno dopo, sempre al mare, ho avuto una nuova storia estiva
con un ragazzo più grande di un anno, timido, introverso: si capiva che mi veniva
dietro, mi schizzava l’acqua, andava dove c’ero io, però non mi diceva niente.
Allora un’amica ci ha fatto da intermediaria. Passata l’estate, lui è tornato
qualche volta a trovarmi in treno, ma non me la sentivo di avere un ragazzo, mi
ero stufata, mi pesava incontrarmi con lui, avevo la scuola, lo sport, era troppo.
L’estate successiva ci siamo per un po’ rimessi insieme ma gli volevo bene come
un fratello. La storia è finita così, anche perché lo vedevo piccolo, limitato, era
diverso da me, gli piaceva la musica afro, il motorino. Una terza storia è iniziata
quando uno della mia età mi ha avvicinata nel gruppo di amici che
frequentavamo e mi ha chiesto di uscire insieme. Cinque mesi dopo mi ha detto
che aveva un’altra e io ci sono rimasta malissimo. Per un po’ mi sono sentita
triste, fallita, scartata, una che non vale niente, anche se speravo di potermi
rimettere con lui e allora ero contenta, mi dicevo che sotto sotto lui aveva ancora
voglia di chiamarmi, di cercarmi. Quando lo incontravo con gli amici e lui mi
rivolgeva la parola dentro mi scioglievo tutta, ma cercavo di fare l’indifferente:
avere un’altra chance era come avere l’ultima cosa alla quale potermi
aggrappare. Poi tutto è finito, lui è restato con l’altra ed io ho imparato a non
pormi il problema di un nuovo rapporto, mi dicevo ‘non mi interessa più’. Dopo
qualche mese però l’ho rivisto di nuovo, lui era stato appena ‘mollato’, mi ha
detto di essere a terra, mi ha confessato di avere paura di ricadere a farsi le
canne. Io mi sono sentita in colpa, non mi ero accorta di niente, eppure gli dicevo
sempre tutto, era il mio principale riferimento, come ho fatto a non capire che
aveva un problema? Ci siamo incontrati di tanto in tanto, abbiamo parlato. Però
non sapevo come aiutarlo. Questa estate ho conosciuto un altro ragazzo, che mi
ha invitata ad una cena dove non conoscevo nessuno e sentivo che tutti mi
guardavano, per cui mi vergognavo. Mi aveva dato un appuntamento in spiaggia
per il giorno dopo. Quella notte non sono riuscita a dormire: avevo paura di non
piacere in costume da mare, di non sapere di cosa parlare. Poi però mi sono fatta
coraggio, ne ho parlato con un’amica, mi sono detta che in fin dei conti mi aveva
invitata lui. L’incontro è stata una nuova delusione. Non mi piaceva nulla di lui:
come parlava, la mentalità, il modo di fare. Meglio lasciar perdere”. Quando ha
bisogno di essere amato/a da qualcuno che è visto fuori della propria portata, il
soggetto può arrivare a fantasticare questo amore impossibile, investendo solo sul
piano immaginario, senza rischiare alcuna disconferma reale. Da un lato, si può
mettere con un partner svalutato, inferiore alle sue aspettative ma che si è reso

287
comunque disponibile; dall’altro, può continuare a sognare l’amore immaginario;
anzi, il fatto che il partner sia geloso dà il senso di essere seduttivi e all’altezza di
un rapporto migliore, senza rischiare di verificarlo direttamente: “mi vergogno a
raccontare questa cosa, non so perché mi è successa. Mi capita di sognare di
avere rapporti con un uomo di cui sono sempre stata innamorata. Una volta ho
detto a mio marito che eravamo stati insieme, ma non era vero! Lui ci ha creduto,
si è arrabbiato moltissimo, ha anche alzato le mani”. Sia la formazione che la
rottura dei legami significativi risponde all’esigenza tacita di mantenere la
coerenza interna e rimane pertanto al di fuori del campo esplicito di
consapevolezza. La priorità del mantenimento della coerenza interna (anche
rispetto allo star bene) è evidente nei casi in cui il soggetto si è formato una
precoce immagine negativa di sé e comincia a utilizzarla tacitamente come base
della propria identità. Ad esempio, il fatto di essere stato maltrattato in passato
non è vissuto come qualcosa di brutto che purtroppo è accaduta (tra le tante cose
che possono succedere ad un individuo, che non può scegliere dove come e da chi
nascere e non può nemmeno prevedere e gestire molti eventi esterni), ma come
una sorta di destino ineludibile, legato alla propria natura; anzi, il senso di sé è
fatto coincidere con ciò che è successo, per cui eventi o atteggiamenti negativi
esterni diventano una prova della propria incapacità e inadeguatezza; le risorse
personali restano in larga parte sconosciute e ci si identifica solo con l’immagine
di sé ricavata dalle figure significative. Il soggetto non si rende conto di
continuare a costruire attivamente questo “personaggio” negativo, anzi mostra
vere e proprie resistenze in psicoterapia ad abbandonarlo. Cerca di rivendicare un
suo valore ed una sua autonomia per scoprire che i suoi progetti finiscono sempre
male. Ad esempio si può legare “di nascosto” con una persona “poco
raccomandabile” per scoprire poi “con delusione e stupore” che questa si
comporta male. Ancora una volta, sono i processi taciti che, mantenendo la
coerenza interna sul denominatore della scarsa amabilità e adeguatezza personale,
guidano la scelta di persone svalutanti e maltrattanti, attivando a livello esplicito
spiegazioni che consentono di operare questo investimento negativo come se il
soggetto lo subisse per caso: “un’estate, quando avevo 14 anni, mio padre è
venuto in vacanza con noi e mi ha chiesto: ‘hai baciato mai un ragazzo?’ Gli ho
riposto di no. Lui mi ha detto: ‘vieni qui che ti faccio vedere come si fa!’. Mi ha
baciato. Mi ha fatto schifo, mi sono irritata. Lui mi ha detto: ‘Ma dai, ti volevo
solo far vedere…’, come se non si rendesse conto, come se fosse normale... Dopo
un po’ il compagno di mamma mi ha dato fastidio. Io non l’ho detto a nessuno, ho
sempre cercato di non dare dispiaceri ai nonni, di non far dispiacere a mamma.
Questa cosa l’ho vissuta distaccata, l’importante era che non succedesse niente,
ero preoccupata per i nonni. Eravamo in sala a luci spente, mamma prendeva il
fresco nella sala. Eravamo sullo stesso divano. C’era un silenzio assoluto, la
televisione era spenta. Mi ha preso una mano e l’ha poggiata su di lui. Mi sono

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sentita sporca. Lui è vero che mi teneva, però io non lo so, non ce l’ho chiara
quest’immagine, ho cercato di rimuoverla. Un’altra volta era d’estate, mamma ci
ha mandato a riposare tutti e due nel letto suo. Io ci sono andata perché mamma
era lì vicino, finiva di pulire la cucina. Mi ha messo lui le mani addosso, lì.... Io
sono rimasta paralizzata, come sempre. È durato poco, lui poi è andato in bagno
a lavarsi, penso che si era eccitato e io sono scappata via. Mi sono fidanzata a 18
anni con un uomo che poi è diventato mio marito. Mi ha dato l’impressione di
essere una persona matura, responsabile. Mi sono innamorata di lui. A me non
me ne fregava niente del marito di mamma, lui invece quando glie l’ho detto, se
l’è presa. Io mi sentivo inferiore rispetto alle cognate, che erano perfettine; io
non mi voglio confrontare con persone migliori di me, perché mi devo sforzare ad
essere quella che non sono?”. Quando la coerenza interna che fa da base
all’identità inizia a stabilizzare un senso negativo di sé, il soggetto continua a
ricercare, a livello tacito, situazioni che confermano ai suoi occhi e a quelli degli
altri la sua inadeguatezza, come a dire “hai visto che è proprio vero che io sono
così?”. Anche situazioni apparentemente create per ricercare una conferma
finiscono, in modo solo apparentemente paradossale, per essere lette come
disconfermanti: “ho vissuto delle cose troppo brutte e mi sono convinta che siamo
una famiglia fatta male. A mio marito non gliele posso raccontare, ho paura che
mi lasci… Mi sembra che non ho uno scopo nella vita mia. Mio marito mi faceva
delle cattiverie, mi rompeva le cose di casa, qualche volta alzava le mani, mi
diceva che lo facevano tutti, che io ce lo portavo. Un giorno non ne potevo più.
Ho fatto la faccia tranquilla, nascondevo tutto. Ero più forte. Ho cercato un
ragazzo con cui ero stata prima, sentivo che dovevo rivederlo e ci sono stata due
o tre volte. Pensavo che mio marito se lo meritasse. Poi basta, abbiamo deciso
che era meglio interrompere (anche lui era impegnato). Prima ero orgogliosa,
pensavo che il mio matrimonio fosse l’unica cosa bella e pulita della mia vita ma
ho sporcato pure quella”. Quando il soggetto si sente in balìa di una figura
significativa (ad es., un genitore o un partner che ne fa le veci), può cercare un
contrappeso affettivo in modo da ricavare, attraverso questi due legami
contrapposti, un senso di demarcazione e di autonomia. In altri casi, può cercare
in figure diverse ciò che tacitamente sente di non poter ricavare da un’unica figura
di investimento: vengono pertanto avviate due o più storie affettive parallele, nelle
quali ciascun partner dà al soggetto qualcosa (rappresentando quello/a che
gestisce, il genitore dei suoi figli, l’amante complice, la persona dipendente che
non chiede nulla, l’innamorato/a platonico/a intellettuale, ecc.). Infatti, anche nelle
espressioni affettive di disagio, il soggetto misura attraverso il rapporto il suo
valore personale (amabilità, sex appeal, ecc.). Se ricava un suo valore negativo di
fondo, tende a proiettarlo nel futuro e a legittimarlo negli investimenti che
tacitamente tende a fare: mantenere stabile il senso di sé – anche se negativo – è
prioritario rispetto a star bene e a trovare un partner affidabile e sintonico con i

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suoi bisogni. Più il disagio è marcato, più confusa è la demarcazione tra mondo
interno e le figure dalle quali ricerca (o pretende) l’approvazione, per cui anche la
capacità di riconoscere i suoi stati interni appare incerta se non impossibile
(mancanza di una “pelle psicologica”).
La possibilità di riformulare i problemi derivanti dalle difficoltà o dalla fine di un
rapporto consente di rileggere quella che era vista come una sconfitta personale
come espressione del modo abituale di riferirsi l’esperienza e di mantenere
l’identità. In questa presa di coscienza del proprio funzionamento, le richieste
esterne iniziano ad esser viste, non come oggettivamente determinate e valide, ma
come espressione degli atteggiamenti, dei bisogni e, quindi, del mondo interno
degli altri. Si può così iniziare a evitare la ricerca compulsiva di conferme legate
solo alla dimostrazione di valore (come se il partner prescelto fosse l’unico a poter
dare al soggetto una sorta di diploma di maturità affettiva), riconoscendo i propri
bisogni come legittimi e ricercando le conferme affettive da chi è disponibile e
compatibile per corrisponderle: un conto è affrontare un rapporto come un esame
in cui si rischia una bocciatura, un altro è cercare in chi interessa se e cosa può
dare e condividere. Pertanto, negli scompensi affettivi delle OPS Contestualizzate,
lo stile relazionale appare marcatamente vulnerabile alle disconferme (anche
minime ed episodiche) ricavate dalle figure significative. Nella costruzione di un
legame, quando è possibile arrivarci, i rituali di corteggiamento sono costellati da
tacite richieste di approvazione e conferma, sia con comportamenti attivi
(proponendosi in modo provocante o di sfida), sia con comportamenti attivamente
passivi (non esposizione o minima esposizione, lasciando fare le prime mosse
all’altro, sia nella formazione che nella rottura del rapporto). La valutazione delle
figure affettivamente significative può divenire un termine di paragone in
rapporto al quale il soggetto agisce, con una conseguente notevole variabilità di
stati d’animo e di comportamenti, in conseguenza dei cambiamenti degli
atteggiamenti esterni, nell’ambito di una ambiguità e una scarsa demarcazione di
fondo, cui corrisponde un senso inconsistente di sé.
Nelle storie affettive delle OPS Normative gli investimenti significativi riflettono
il bisogno tacito di certezze. Lo stile affettivo è centrato sulla ricerca di armonia e
perfezione che si ricava da come ci si sente nel rapporto con l’altro. In questo
senso, la ricerca del partner è spesso lenta e graduale, con prevalente ricorso al
canale cognitivo rispetto a quello emozionale. Fare una scelta importante non è
mai vissuto come qualcosa di banale o da sottovalutare, tanto meno affidandosi a
giudizi e ad opinioni esterne contingenti. Ci si innamora anche della personalità,
della mente dell’altro, sia nei rapporti alla pari, nei quali si è intrigati dalla
complicità intellettuale che è possibile costruire, sia in quelli asimmetrici nei quali
colpisce la disponibilità dell’altro ad aprirsi ai propri valori (“l’intelligenza attrae,
è sexy”). Le messe alla prova coinvolgono non solo l’altro, ma anche se stessi,
nella propria capacità di essere affidabili per l’altro. I colpi di fulmine non fanno

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parte del repertorio affettivo normativo; le storie transitorie lo diventano solo
quando il soggetto si accorge che non ci sono le basi per un rapporto
sufficientemente profondo e duraturo. Proprio la verifica di queste basi può
comportare il desiderio che l’altro possieda i requisiti per stare insieme, senza
tuttavia fare nulla se non sperare che questo/a dimostri di averli, raggiungendo
così il soggetto sulla sponda dei valori condivisi e rassicurandolo/a sulla
possibilità di costruire insieme un rapporto “vero”: “lei era interessante,
disponibile, curiosa. Mi piaceva quel suo modo intelligente di fare, la vedevo
diversa dalle altre, profonda. La sera ripensavo a tutto quello che era successo, i
progetti su cui avevamo discusso, immaginavo la mia vita con lei, mi interrogavo:
‘sei convinto che è la ragazza giusta, quella con cui costruire tutta la vita?’ Ho
cominciato a scoprire che pensavo a lei tutto il giorno, che avevo sempre voglia
di rivederla, di approfondire il rapporto. A volte succedeva che, all’improvviso,
qualcosa non andava ed io mi rabbuiavo, desideravo che lei capisse cosa c’era
che non andava, mi ritrovavo sull’altra sponda sperando che lei attraversasse il
guado. Poi pian piano le cose si aggiustavano, lei mi faceva sentire che ci teneva
a me e tutto tornava sereno”. A volte la costruzione del rapporto è vissuta come
una sorta di esperimento scientifico, dove tutte le componenti vanno analizzate e
verificate (un dettaglio fuori posto può mettere in crisi, almeno transitoriamente,
l’intero progetto). Di conseguenza, le emozioni sono dosate con cautela e
all’inizio, soprattutto se emergono spontaneamente, provocano sorpresa, stupore,
curiosità ma anche inquietudine per cui, per poterle gestire, sono vagliate
razionalmente con cura: “lui si era invaghito di me e questo mi ha molto stupita.
Da una parte mi incuriosiva sperimentarmi in rapporto al sesso con un uomo,
visto che non mi era mai capitato e che questo in passato mi aveva reso molto
incerta sulla mia identità sessuale; dall’altro volevo vedere se questa persona era
giusta per me, anche se mi sentivo contrastata e un po’ in colpa perché lo stavo
usando per le mie verifiche”. D’altra parte, una volta fatto l’investimento,
l’amicizia e l’amore sono vissuti come un cammino da percorrere insieme e in
questo caso il soggetto può esprimere la sua affettività in modo profondo e
partecipe, risultando non solo stabile e poco incline ai “colpi di testa”, ma anche
premurosamente caldo e complice. Il senso di amabilità che si ricava dal rapporto
è sempre connesso con una valenza etica: quanto è giusto amare ed essere amati:
“io cerco sempre due cose: 1) che l’altro si prende a cuore chi sono e 2) che sia
compatibile con me. Per sentirmi amato ho bisogno di uno che la pensi come me,
specie quando non vedo le cose in modo distaccato e chiaro. Se no divento
impaziente (vorrei risolvere tutto subito), sbrigativo, non rispettoso, severo. Mi
viene in mente che mia madre ha giustificato sempre gli altri, mentre non lo ha
fatto con noi figli. Con noi è sempre stata l’educatrice, la pedagoga. Io invece
voglio che gli altri si comportino in modo migliore di lei”. In situazioni relazionali
di litigio o che, comunque, scompaginano le certezze acquisite il soggetto può

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esprimere una rabbia non rapidamente estinguibile, “a lunga gittata”, rinfocolata
anche a freddo quando se ne presenta l’opportunità; dato che essa deriva dalla
rottura dell’equilibrio interno basato sulle certezze, con conseguente comparsa di
dubbi e insicurezze, può apparire sproporzionata rispetto alla situazione. D’altra
parte, quando il bisogno di perfezione e di certezze è rigido e carico di dubbi,
l’insicurezza può impedire la scelta, per cui il soggetto non investe affatto: “ho
sempre vissuto la masturbazione con forti sensi di colpa. Ricordo che a 12-13
anni mia madre, aprendo la porta della mia camera, mi aveva sorpresa a
toccarmi e mi è sembrata contrita. Da allora ho vissuto la mia adolescenza e la
giovinezza con un continuo e persistente senso di colpa, alimentato dai confessori
che mi dicevano: ‘Mi raccomando, non dica mai queste cose al suo ragazzo!’
D’altra parte, non ho mai visto la possibilità di un vero dialogo con l’altro sesso.
Alle superiori consideravo i compagni tutti stupidi e cretini, me ne stavo per conto
mio, l’avevo imparato dentro casa, il rapporto era uno scontro continuo, un gesto
di tenerezza chissà cos’era. Non ho mai guardato al rapporto di coppia come
scopo, mi sono sempre detta ‘non si sa come può andare a finire’. All’università
ho avuto un ragazzo che mi andava dietro, ma ho iniziato ad avere con lui
problemi crescenti. Mi sono accorta che non lo amavo e comunque quello che
succedeva tra noi, che poi era quasi nulla, per me non era giustificato, per cui mi
portavo dentro sensi di colpa”. In altri casi, il soggetto può fare un investimento
ma poi non riesce a portarlo avanti per l’impossibilità di costruire un rapporto
“giusto”, in linea con i suoi riferimenti interni, così come aveva creduto fosse
possibile fare: “ho avuto una fidanzata, siamo stati insieme diverso tempo. Però
mi sono accorto che difficilmente avremmo costruito un rapporto veramente
bello. Cercavo la perfezione, avevo bisogno di realizzare qualcosa da ricordare.
Ho preferito lasciar perdere. Del resto, da uno con la mia adolescenza, quando
l’età dell’oro infantile si era ormai persa, cosa ci si poteva aspettare?”. Dopo la
rottura si può attivare un senso di malumore e di rabbia (rivolto sia verso di sé che
verso l’altro) difficile da placare e del quale, a livello esplicito, il soggetto può
non accorgersi, pensando di aver fatto “la cosa giusta”. La riformulazione clinica
fa prendere consapevolezza di come il vissuto di un rapporto è legato al proprio
modo di riferirsi l’esperienza, così da rendere possibili forme alternative di
gestione, più utili sotto il profilo adattivo e comunque coerenti con la chiusura
organizzativa normativa. La maggiore flessibilità migliora le risorse adattive
anche per quanto riguarda la capacità di esprimere le proprie emozioni senza
doverle sempre filtrare e giustificare sul piano cognitivo, per quanto riguarda sia il
proprio mondo interno, sia quello dell’altro. Di conseguenza, si possono verificare
le reciproche compatibilità in termini più duttili, individualizzati e, quindi, anche
più adattivi. Pertanto negli scompensi affettivi delle OFS Normative lo stile
relazionale è centrato sulla verifica, spesso marcatamente analitica, rigida e con
espressioni e dubbi antitetici, della armonia e della perfezione del rapporto con

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l’altro. In questo senso, la ricerca del partner può diventare lunga e farraginosa,
con eccessiva prevalenza cognitiva sugli aspetti affettivi. Il senso di amabilità che
si ricava dalla relazione viene in questi casi connesso con una valenza etica, che è
il riflesso di quanto il soggetto ritiene “giusto” amare ed essere amato, senza
essere capace di aprirsi al punto di vista dell’altro.
RICOSTRUZIONE DELLA STORIA DI SVILUPPO
Nel corso della terapia, quando le esperienze discrepanti vissute nel quotidiano
cominciano ad essere gestite con modalità sufficientemente adattive, si può
avviare anche la ricostruzione della storia di sviluppo, dalla prima infanzia in poi.
Viene così rielaborato, grazie alle competenze che il soggetto è andato acquisendo
nel corso della terapia, l’iter maturativo attraverso il quale si è definita la sua OP
ed ha avuto origine la situazione di disagio o lo scompenso clinico che lo ha
portato ad intraprendere la psicoterapia.
Normalmente, in un percorso psicoterapeutico, a meno di una specifica richiesta
di approfondire gli aspetti più lontani della propria esperienza una volta
stabilizzati quelli recenti, la ricostruzione della storia di sviluppo non costituisce
una fase specifica a se stante, che segue la gestione del repertorio emozionale
attuale e l’approfondimento dello stile affettivo. Essa viene avviata mettendo in
moviola come il soggetto vive nell’attualità certi ricordi e può essere intrapresa
lavorando di volta in volta sugli spunti portati in terapia. Infatti, nel corso delle
sedute, dalle strutture immaginative messe a fuoco in moviola emergono eventi
importanti risalenti all’infanzia, alla fanciullezza, all’adolescenza; in tutti questi
casi, come si è detto, si lavora sulla ricostruzione del modo attuale di riordinare gli
episodi del passato. Una vera rivisitazione della storia personale e dei propri
rapporti con le figure significative può essere condotta sistematicamente solo
quando si è stabilizzato sufficientemente il repertorio emozionale attuale. Come
ha osservato Guidano (1987, 1991), questa rivisitazione attiva infatti tonalità
emotive particolarmente intense, che possono avere un effetto fortemente
destabilizzante se il soggetto non ha ancora acquisito gli strumenti per poterli
gestire, in modo da riordinarli in senso adattivo. Dato che le emozioni più attivanti
sono quelle che si osservano quando un soggetto scopre di aver avuto un modo di
funzionare diverso da quello che credeva di avere, il coinvolgimento con il
terapeuta, che si muove con la dovuta cautela come un perturbatore
strategicamente orientato, mette il soggetto nella condizione di non poter evitare
di autoriferirsi le discrepanze emerse, ma avendo questa volta a disposizione gli
strumenti rielaborativi per poterle gestire.
Pertanto, utilizzando le reazioni emotive percepite negli episodi significativi
messi a fuoco, attraverso la loro riformulazione e il loro riordinamento, non solo
nel presente ma anche come li si è vissuti fin dalle prime fasi della storia
personale, è possibile avviare una più ampia e adattiva riorganizzazione della

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coerenza interna. A questo proposito, Rezzonico (2004, 2012) ha osservato come
possa essere il soggetto stesso ad iniziare a riferire autonomamente, nel corso
della terapia, esperienze che appartengono alla direttrice relativa al “qui e ora”
della propria vita attuale, oppure alla direttrice relativa alla sua storia affettiva o
alla sua storia di sviluppo.
Dal lavoro terapeutico deriva quindi un itinerario narrativo complesso – una
trama descrittiva di eventi, di stati emozionali, di progetti privati o pubblici – che
nel suo insieme e nel suo divenire temporale definisce una vera e propria
“autobiografia”, ossia uno spazio privilegiato ed unitario per l’espressione di sé.
Il significato di questa autobiografia nell’economia del processo terapeutico e,
quindi, l’utilizzo che se ne può fare nel riordinamento dell’esperienza dipendono
dalla condivisione di senso costruita nella relazione tra terapeuta e soggetto.
Inoltre, come ha osservato Reda (1986, 2002, 2004), imparando a riconoscere il
rapporto tra i segnali emotivi e i significati più o meno rigidi a cui i primi hanno
dato o danno abitualmente luogo, nel percorso terapeutico si può cogliere il senso
della propria trama narrativa emozionale, “presentando il problema in termini
reali”. In altre parole, il soggetto diviene capace di raccontarsi secondo questa
trama e prende consapevolezza della “rigidità organizzativa” presente negli
schemi narrativi che sono alla base dei suoi scompensi clinici; in questo modo,
può gradualmente uscire da un eccessivo egocentrismo, allargando il campo della
sua autoconsapevolezza. In ogni caso, come l’attaccamento cosiddetto “sicuro”
non esprime né l’unica né (in certi casi) la migliore modalità adattiva
nell’interazione tra il bambino e le figure che lo accudiscono, così una lettura in
chiave evolutiva di un disturbo clinico evidenzia l’importanza, per conseguire un
equilibrio psico-comportamentale flessibile ed adattivo, non di una condizione
aprioristicamente “serena” e “senza problemi” (tanto superficiale quanto
illusoria), ma di una capacità di valutare la realtà nei suoi chiaro-scuri e di
scegliere, di volta in volta, i significati e le strade che appaiono più “percorribili”
sul piano soggettivo, specie quando nuove esperienze perturbanti si affacciano
sul cammino della crescita individuale. Si può così mettere a fuoco che, nel corso
dello sviluppo, il continuo fluire dell’esperienza (che viene riferito a sé in
maniera autoreferenziale, integrando progressivamente la costruzione
autopoietica, sempre più complessa e articolata, di una propria identità), è
percepito come qualcosa di oggettivamente univoco e definito e non come una
delle molteplici possibilità di raccontarsi la propria storia.
Nella storia di una persona, spesso i ricordi emergono da qualcosa di occasionale
che accade e, attraverso uno stimolo senso-percettivo che riaccende la memoria
emozionale, rende esplicita la consapevolezza tacita, aprendo alla graduale
scoperta del significato delle esperienze vissute. Ne è un esempio il famoso brano
letterario di Proust su “le petite madeleins” (Dalla Parte di Swann, pp. 37-40):
“un giorno d’inverno, rientrando a casa, mia madre, vedendomi infreddolito, mi

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propose di prendere, contrariamente alla mia abitudine, una tazza di tè.
Dapprima rifiutai, poi, non so perché, cambiai idea. Mandò a prendere uno di
quei dolci corti e paffuti, chiamati petites madeleines, che sembrano modellati
nella valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E subito,
meccanicamente, oppresso dalla giornata uggiosa e dalla prospettiva di un triste
domani, mi portai alle labbra un cucchiaino di tè dove avevo lasciato
ammorbidire un pezzetto di madeleine. Ma, nello stesso istante in cui quel sorso
frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa
di straordinario che accadeva dentro di me. Un piacere delizioso mi aveva
invaso, isolato, senza nozione della sua causa. Di colpo, m’aveva reso
indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua
brevità, allo stesso modo in cui agisce l’amore, colmandomi di un’essenza
preziosa: o meglio, questa essenza non era in me, era me stesso (…) Donde mi
era potuta venire questa gioia potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e
del dolce, ma lo sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della
stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla? Bevo un
secondo sorso, in cui non trovo nulla di più che nel primo, un terzo che mi dà un
po’ meno del secondo. È tempo che mi fermi, la virtù della bevanda sembra
diminuire. È chiaro, la verità che cerco non è in essa, ma in me. Il tè l’ha
risvegliata, ma non la conosce (…) Depongo la tazza e mi rivolgo al mio spirito.
È compito suo trovare la verità (…) Chiedo al mio spirito uno sforzo ulteriore, di
richiamare ancora una volta la sensazione che sfugge (…) gli faccio il vuoto
attorno, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quel primo sorso, e sento
dentro di me trasalire qualcosa che si sposta, che vorrebbe emergere, qualcosa
che si direbbe disancorata, a una grande profondità; non so cosa sia, ma sale
lentamente; avverto la resistenza, e sento il rumore delle distanze traversate (…)
E, all’improvviso, il ricordo mi è apparso. Quel sapore era lo stesso del pezzetto
di madeleine che, la domenica mattina, a Combray (perché quel giorno non
uscivo prima dell’ora della messa), quando andavo a darle il buongiorno nella
sua camera, la zia Leonie mi offriva, dopo averlo immerso nel suo infuso di tè o
di tiglio (…) E appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di madeleine,
inzuppato nel tiglio, che mi dava la zia (…) subito la vecchia casa grigia sulla
strada, dove era la sua camera, si adattò, come uno scenario di teatro, al piccolo
padiglione che dava sul giardino (…) e con la casa, la città, da mattina a sera, e
con qualsiasi tempo, la piazza dove mi mandavano prima di pranzo, le vie dove
andavo a far delle compere, i sentieri in cui ci si inoltrava se il tempo era bello”.
In una trama narrativa individuale è possibile cogliere che le spiegazioni
dell’esperienza possono contenere pattern di autoinganno, attraverso i quali ciò
che accade viene reso coerente con il senso di sé in corso, per essere quindi
integrato a livello consapevole. Pertanto, le spiegazioni non coincidono mai del
tutto con l’esperienza vissuta. Proprio alle modalità abituali di riferirsi

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l’esperienza, che si selezionano gradualmente a partire dalla relazione di
attaccamento, si deve la tendenza a mantenere costante un comportamento
patologico, nonostante il fatto che in questo modo si rinforzi una immagine
svalutata di sé.
Ricostruire la storia di sviluppo comporta la necessità di mettere mano al
riordinamento ed alla riformulazione del passato, con un conseguente
cambiamento dell’attribuzione e del significato fino a quel momento dato ad esso;
il soggetto scopre una chiave di lettura diversa attraverso cui leggere le proprie
vicende. Attraverso questo lavoro è possibile individuare che le possibili
evoluzioni, positive o negative, di un disturbo sono legate alle modalità, più o
meno adattive, con le quali le esperienze immediate disturbanti sono state
autoriferite e integrate nel senso di sé, dando luogo ad ulteriori modelli
previsionali di sé e del mondo. Nella ricostruzione della storia di sviluppo, il
soggetto può mettere a fuoco che il fatto di percepirsi portatore di un problema
personale (sentirsi non accettato, incapace di fare bene con gli altri, impotente,
non amato o impossibilitato ad amare, in colpa per avere deluso fortemente
qualcuno, insensibile come un robot o deafferentato, debole, in preda al panico,
ecc.) e che ha comportato un disagio personale e relazionale progressivamente
crescente, sia emerso e sia stato riferito a sé unicamente come una realtà
“oggettiva” evidente. Pertanto, questa realtà – che inizialmente era percepita
esclusivamente come “esterna”, per cui non ci si poteva fare nulla – può
cominciare ad essere rivista come fortemente condizionata dalla modalità abituale
con cui il soggetto ha imparato a vedersi. In questo modo diviene possibile un
cambiamento – con conseguente riassetto emozionale – che consente di evolvere
verso una visione più integrata ed adattiva di sé e del mondo. Occorre ricordare
che il senso di sé emerge da episodi o “isole di esperienza” (assimilabili al
concetto di “scene nucleari”; Tomkins, 1978), relative a situazioni che si ripetono
e dalle quali il soggetto inizia a leggere chi è e cosa si può aspettare, in quella
situazione, dal suo ambiente significativo. Gradualmente, attraverso i ricordi
significativi, questo senso concreto e contingente di sé, ricavato dai vari contesti,
converge e si integra in un racconto unitario ed integrato. Questo processo copre
tutta l’infanzia e va incontro ad un radicale riarrangiamento adolescenziale con
l’emergere del pensiero astratto.
Pertanto, all’interno di ogni organizzazione che inizia a stabilizzarsi e, quindi, a
“chiudersi”, si possono individuare dei temi di fondo sui quali poggia la
costruzione del significato personale: ad es., di sicurezza o pericolo e di
affidabilità o inaffidabilità nelle OPF Controllanti; di aiutabilità o inaiutabilità e
di autodeterminazione o fallimento nelle OPF Distaccate; di adeguatezza o
inadeguatezza e di capacità o incapacità nelle OPS Contestualizzate; di perfezione
o imperfezione e di dignità o indegnità nelle OPS Normative.

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Come ha osservato Guidano (1987, 2007), i dati del passato remoto mostrano una
elevata tonalità e consistenza emozionale, con una dimensione simbolica e
sintattica diversa rispetto a quella delle esperienze recenti. Infatti, non solo è
difficile mettere a fuoco l’esperienza immediata degli eventi lontani, ma essi stessi
presentano meno elementi e possono confondersi e sovrapporsi, per cui spesso di
un evento rimane un unico dettaglio. A volte, proprio da esso occorre muovere per
ricostruire un tema organizzativo problematico (ad es., di controllo, di distacco, di
ambiguità, di ambivalenza). Visto che, come si è detto, ogni soggetto tende a
mantenere costanti le modalità di base con le quali si riferisce l’esperienza, per
dare unicità e continuità al senso di sé, si può osservare una resistenza più o meno
forte a rileggere in maniera diversa il passato remoto.
Mettendo in montaggio un ricordo, cambiandone la lettura, si possono attivare
marcate tonalità emotive, anche ad insorgenza acuta, mentre in alcuni casi si può
produrre un effetto di confusione e di stato crepuscolare della coscienza.
Procedendo in moviola, è importante cogliere gli aspetti discrepanti degli eventi
narrati (ad es., situazioni delle quali non si riesce tuttora a dare una spiegazione
soddisfacente; evidenti discrepanze tra ciò che viene raccontato e come viene
spiegato; presenza, durante un racconto, di attivazioni emotive apprezzabili,
positive o negative).
Questo materiale non stabile, non ancora ben collocato, può consentire una
rimessa a fuoco proprio in quanto ancora “caldo” emotivamente (ad es., un blocco
dell’esplorazione da parte dei genitori in uno scompenso controllante; una
responsabilità dell’accudente nel senso di perdita in uno scompenso distaccato).
Viceversa, i ricordi più stabili e definiti sono quelli più difficilmente utilizzabili,
in quanto su di essi il soggetto tende a poggiare la visione di sé e del mondo che si
è costruita.
La ricostruzione prende l’avvio dai primi ricordi: si tratta spesso non di eventi, ma
di semplici immagini, molto sfocate, sia nei contorni che riguardo alla circostanza
ed ai personaggi presenti, collocabili tra i 2 e i 5 anni. Mettendoli in montaggio, si
chiede di descrivere il contesto (specie quello familiare) e le tonalità emotive
sperimentate allora (memoria episodica). Si può quindi provare ad allargare il
campo: cosa facevano in quel tempo i genitori, quali erano i racconti abitualmente
fatti dentro casa, chi teneva le redini della conduzione della vita familiare, chi
erano (se c’erano) le figure rassicuranti, quali personaggi abitavano in casa o
erano frequentati abitualmente e come essi si relazionavano tra loro e con il
soggetto. Occorre distinguere questi primi episodi dagli pseudo ricordi, inseriti a
posteriori mediante i racconti delle figure accudenti o attraverso la visione ripetuta
di video e fotografie. Solitamente, in relazione ad uno scompenso clinico, i
soggetti con OPF Controllante ricordano poco, dando molte cose per scontate,
ma possono conservare quelle scene che consentono loro di mantenere un senso
stabile di gestione delle situazioni prototipiche di sicurezza o pericolo. I soggetti

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con OPF Distaccata mostrano frequentemente ricordi poco precisi ma carichi
emotivamente, spesso nell’ambito di un passato rimpianto e che appare ormai
definitivamente perduto. I soggetti con OPS Contestualizzata hanno ricordi molto
variabili ma, specie quando non hanno una grande stima di sé e non si
percepiscono attendibili, queste prime scene appaiono estremamente limitate e
tardive. I soggetti con OPS Normativa possono frequentemente riferire ricordi
molto analitici e centrati su alcuni dettagli; anzi, spesso usano un dettaglio per
costruire inferenze su ciò che è accaduto, con una bassa partecipazione affettiva.
Si può poi passare a ricordi più strutturati, relativi alla seconda e terza infanzia,
ad es., in occasione di una passeggiata, di una gita, di una festa o di un altro
evento significativo. Cosa accadeva quando il soggetto faceva un capriccio è un
modo piuttosto diretto per esplorare l’evoluzione delle relazioni di attaccamento
in questa fascia di età. Partendo dalle immagini rievocate, si cerca di ricostruire la
tonalità emotiva sperimentata in quel momento, corrispondente alla registrazione
percettiva dell’evento. Quindi, si può mettere a fuoco che effetto fa al momento
attuale ricostruire quella data attivazione. Ad esempio, spesso nelle OPF
Controllanti questi ricordi esprimono temi di protezione (sicurezza, paura,
vicinanza, allontanamento); nelle OPF Distaccate l’individuo è spesso solo, in
compagnia di oggetti e non di persone; nelle OPS Contestualizzate si fa spesso
fatica a ricostruire il proprio punto di vista, staccandolo da quello delle figure di
riferimento, se non attraverso i contrasti percepiti nel contesto familiare e/o
scolastico; nelle OPS Normative il ricordo emerge dalle spiegazioni che si danno
di esso e dalla congruenza del proprio comportamento rispetto a cosa era giusto
fare.
Anche la favola o il racconto privilegiato è particolarmente interessante, specie
quando il bambino vuole che venga riferito sempre allo stesso modo, anche se lo
sa a memoria. Esso esprime una prima visione “filosofica” di sé e del mondo,
attraverso la morfologia della trama (gestione del pericolo, abbandono e
solitudine, amabilità premiata, senso del dovere), le caratteristiche dei personaggi
(attivi o passivi, intraprendenti o abbandonici, coraggiosi o paurosi) e le loro
interazioni reciproche (lotta tra buoni e cattivi, onesti e imbroglioni, coraggiosi e
vigliacchi).
Emblematico può essere il primo giorno di scuola, che consente di mettere bene
in luce le modalità di allontanamento dalla base accudente e di esplorazione di
nuovi spazi relazionali, in quanto rappresenta una sorta di debutto nella vita
extrafamiliare (il controllo dei genitori diviene più indiretto, si aggiungono altre
figure adulte, si instaura un rapporto continuativo con i coetanei): è importante
mettere a fuoco se il soggetto ha pianto o no, come è avvenuto il distacco da casa,
come ha reagito, come ha interagito con insegnanti e coetanei.
Nelle trame narrative di soggetti con OPF Controllante questo evento viene
spesso vissuto con paura, sia da parte del bambino che della figura accudente; se

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non è stata effettuata una preventiva acclimatazione (scegliendo la scuola e
l’insegnante, facendo delle visite esplorative, ecc.), il distacco può essere
drammatico, con crisi di pianto e ricerca disperata del genitore. Nei soggetti con
OPF Distaccata non emergono particolari problemi di separazione, soprattutto in
corso di depressione, quando ci si è abituati a questa categoria di esperienza,
apparendo quasi indifferenti ad essa; anzi, nei ricordi emerge spesso che il
soggetto si meravigliava per il fatto che altri bambini avessero questo tipo di
problema. I soggetti con OPS Contestualizzata mostrano una grande varietà di
comportamenti, legati all’atteggiamento delle figure principali di riferimento: si
sforzano di fare bella figura e di non piangere, oppure cedono all’emozione se si
sentono inadeguati. Nelle OPS Normative, andare all’asilo nido è l’equivalente di
un gioco, la scuola (a partire da quella materna) comporta invece un’assunzione di
responsabilità, un impegno da prendere sul serio; basandosi sulla logica, appaiono
fin da subito più “adulti” e “maturi” dei coetanei.
In relazione alla scuola diversi elementi appaiono importanti: come si sta in
classe; che rapporto si instaura con i coetanei (ruoli, amabilità) e con gli
insegnanti (spesso percepiti come replica del rapporto con i genitori); che
significato viene attribuito allo studio e che rendimento si ha; come si vivono le
prove scritte e le interrogazioni; come si studia a casa.
Si esplorano quindi le competenze personali, sociali e scolastiche attraverso
queste prime tracce di strutturazione dei rapporti sociali. Nelle storie con disagio
clinicamente rilevante delle OPF Controllanti prevale la tendenza a subordinare
la scelta delle relazioni e il comportamento sociale alla percezione dei pericoli e
alla identificazione di nuove basi affidabili (gli altri “servono” in quanto possono
essere “protettivi”). Nel disagio delle OPF Distaccate la bassa amabilità e il
timore di rifiuti porta spesso a isolarsi, a volte sfogando a scuola la rabbia
accumulata in casa. Nel disagio delle OPS Contestualizzate si modula la ricerca
di conferme con la paura di deludere e di venire, quindi, disconfermati; ad
esempio, si avviano, quando possibile, le sfide sui risultati conseguiti. Nel disagio
delle OPS Normative si tende a stare isolati, privilegiando i ragionamenti e i
giochi “istruttivi” e impegnandosi piuttosto che confrontandosi con gli altri.
In tutte le OP, un ulteriore elemento di indagine può essere indotto dalle vacanze,
la cui messa a fuoco consente di rimettere nuovamente in montaggio l’andamento
delle relazioni di attaccamento, in rapporto al marcato cambiamento dei contesti
familiari che si può verificare proprio in coincidenza con la vacanza.
Con la pubertà e l’adolescenza, le trasformazioni fisiche, legate alla maturazione
dei caratteri sessuali primari e secondari, i cambiamenti psichici, con l’utilizzo
sempre maggiore delle competenze astratte del pensiero, ed i conseguenti
cambiamenti relazionali comportano un riassetto marcato dei temi connessi con
l’OP, mentre emerge in modo evidente lo stile affettivo individuale.

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A questo proposito, è importante ricostruire come sia il soggetto che le figure
significative con cui è in relazione vivono queste trasformazioni, nonché come
avviene l’identificazione con i nuovi riferimenti (in particolare, con i coetanei).
Durante la ricostruzione della storia di sviluppo, in chiave psicopatologica,
all’interno dei vari contesti sopra descritti, si può osservare come i temi di
negatività presenti negli episodi significativi non differiscano da quelli del
repertorio emozionale recente: temi di costrizione/non protezione negli scompensi
delle OPF Controllanti; di solitudine e abbandono negli scompensi delle OPF
Distaccate; di inadeguatezza e disconferma negli scompensi delle OPS
Contestualizzate; di dubbio, imperfezione e indegnità negli scompensi delle OPS
Normative.
Consideriamo a questo punto alcuni aspetti specifici che possono emergere nella
ricostruzione del percorso maturativo in riferimento alle diverse OP.
Nelle storie di sviluppo di soggetti con OPF Controllante, un aspetto ricorrente è
la coscienza della pericolosità del mondo, contrapposta alla affidabilità delle basi
sicure. Questa percezione, derivata da atteggiamenti, racconti e interpretazioni
degli eventi da parte delle figure accudenti, si rinforza quando accade un evento
negativo, quando una persona cui si è legati si allontana, si ammala o muore. In
generale, i legami di sangue sono quelli in assoluto percepiti più affidabili, a meno
che non vengano fornite prove o dimostrazioni contrarie da parte di un’altra figura
primaria di attaccamento. L’affidabilità dei riferimenti extrafamiliari viene invece
individuata in base a indicazioni familiari, a conoscenze o parentele indirette, a
prove sul rispetto dei bisogni interni (essere presenti in maniera costruttiva
quando il soggetto ha bisogno, lasciare spazi di libertà quando invece il soggetto
vuole essere indipendente). Il potersi fidare delle figure di riferimento affettivo
non viene meno quando sono loro ad avere bisogno del bambino, invertendo la
relazione di attaccamento, né quando richiedono un aiuto interferendo con gli
impegni scolastici. L’affetto costituisce infatti un vincolo indiretto, per cui la
limitazione della propria autonomia non è recepita come perdita di libertà
(attivando così il bisogno di evasione), ma come manifestazione del bene solidale
che è l’unica vera arma contro la pericolosità e l’estraneità del mondo: “quando è
nato mio fratello io avevo nove anni e mia madre mi ha ritirato dalla quinta
elementare per stargli dietro. Ho provato un grande spavento quando perse il
cordone ombelicale, c’era sangue, non sapevo cosa fare. Pensai: basta, non ce la
faccio più. Cinque anni dopo morì la nonna. Facevo la terza media e anche allora
mia madre, che era insegnante, mi ritirò da scuola per due mesi per stare con lei.
Poi riuscii a recuperare l’anno. Almeno era un isolamento più tranquillo, nonna
non gridava, non si agitava, stava buona”. L’inizio del percorso scolastico
obbligatorio è segnato da come il bambino percepisce il distacco da casa e, solo
secondariamente, da come interagisce con insegnanti e coetanei. Questo evento è
spesso vissuto con paura, sia da parte del bambino che da parte della figura

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accudente. Se non è stata effettuata una preventiva acclimatazione (scegliendo la
scuola e l’insegnante, facendo delle visite esplorative, ecc.), il distacco può essere
negativo (fino ad apparire insostenibile, con crisi di pianto e ricerca a oltranza del
genitore). In generale, tutto ciò che non è familiare appare estraneo e
potenzialmente minaccioso e può essere affrontato bene solo se il soggetto si sente
capace di gestire la situazione. L’ingresso nel mondo scolastico in questi casi è un
buon rivelatore di questo vissuto tacito: di entrare in un ambito che può comunque
diventare familiare e gestibile, oppure di essere abbandonati in un territorio
straniero e minaccioso: “ricordi del primo giorno di scuola non ne ho. Ricordo
però sicuramente che alle elementari, forse in terza, se mangiavo alla mensa, mi
faceva schifo tutto. Non riuscivo a mangiare quello che mangiavano gli altri; mi
sembrava di mangiare qualcosa di velenoso, comunque diverso da quello che
mangiavo a casa, ad esempio la margarina”; “sono la primogenita, mia madre mi
ha fatta a 18 anni, ho una sorella. Il primo giorno d’asilo ho pianto, penso sia
naturale e che capiti a tutti i bambini abbandonati dalla mamma, però per fortuna
c’erano due bambini che conoscevo fin da piccola e allora mi sono messa a
giocare con loro. Mamma è ansiosa al massimo, ha paura di tutto. Siccome
lavorava, sono cresciuta insieme a mia sorella più piccola con i nonni materni,
che abitavano con noi. Con mio padre mi ci ritrovo. È il tipo ideale di uomo,
attaccato alla famiglia, attento; ha lavorato sempre, mai un vizio; è un
pantofolaio che gli piace la casa. Ricordo che quando uscivo la notte aspettava in
piedi finché sentiva la chiave girare. Non sono mai stata una grande studiosa, ma
assimilavo le cose che mi venivano dette. Ero tranquilla, ben vista, riuscivo a
saperci fare, a cavarmela bene. Alle superiori non mi piacevano l’ambiente e la
classe, molto omogenea. Erano di un altro mondo, conoscevano i prof, per me
erano degli estranei. Quindi ho cambiato. Ho fatto anche un anno di università,
fino alla malattia e alla morte di nonna. Avevo perso un po’ di lezioni,
pretendevano la frequenza, ho cominciato a guardarmi intorno e ho trovato
subito lavoro. Ho visto che potevo togliermi gli sfizi da sola, e questo era molto
gratificante”. L’adolescenza rappresenta sempre una fase critica di cambiamento
critico nella quale si verifica la rottura della simmetria del tempo tipica
dell’infanzia. Se da un lato affascina il poter progettare in maniera autonoma la
propria vita, dall’altro lato spaventano le nuove incognite derivanti dalla
consapevolezza che la vita presenta insidie e imprevisti, che ci si può ammalare ed
anche morire. Questa consapevolezza può emergere all’improvviso, in
conseguenza di qualcosa che accade in ambito familiare, scolastico, sportivo,
amicale e può far vacillare tutte le precedenti certezze, mentre l’infanzia appare
come un’età mitica e conclusa, illusoria come i sogni. Da questa fase di instabilità
il soggetto può uscire acquisendo un senso più pragmatico ed operativo
dell’esperienza e, sul piano meta-cognitivo, inserendo la propria vita in un
progetto che fornisca nuove basi e nuovi approdi rassicuranti: “mi domando a che

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serve la vita se finisce; sento su me stesso la conoscenza, ma era meglio non
capire, è brutto rendermi conto della realtà, è meglio se mi distacco, anche dalle
cose belle. Ho cambiato vita tante volte, come un film, e questo in passato
significava darmi ogni volta un’altra possibilità, come un bambino che vive
ancora nel mondo dei sogni. Quando mi tornano i pensieri non sono più al centro
del mondo. Non mi sento più bambino, né un adulto che accetta il non senso. Mi
sento un adolescente che non riesce a darsi un senso. Riesco ad accettare la vita
solo se la posso staccare da questo non senso globale, facendo finta di vivere nel
mondo delle favole che è eterno. Ma mi sento anche poco protetto, devo trovare io
il senso della vita. Non mi posso appoggiare intellettualmente agli altri”. A volte
un’esistenza serena, tranquilla (“tutto è sotto controllo”) può essere sconvolta da
una disgrazia, una malattia, un incidente. Ogni aspetto appare di colpo non più
controllabile e gestibile, ogni esperienza può divenire prova della pericolosità
della vita. Il passato resta un mondo mitico purtroppo concluso, in cui il soggetto
si sentiva amato, tutelato, protetto, sicuro e, quindi, felice. L’autonomia personale
(a volte anche quella familiare) si riduce drammaticamente e questo vissuto
condiziona il modo di riferirsi tutte le esperienze successive: “quando avevo nove
anni e mezzo mio padre è morto di cuore, da tempo soffriva di artrite. Io ero il
primogenito e mia madre è andata a servizio per fare studiare me e mio fratello.
Mio padre posso dire che non lo ricordo. Mia madre era una donna semplice, si è
disperata per la morte di mio padre, ha portato il lutto per 7-8 anni. Dopo la
morte di mio padre siamo tornati a casa della madre della mamma, c’era anche
una zia ed erano tutti molto paurosi: se c’era un temporale sembrava la fine del
mondo. Ricordo che anche quando facevo le superiori, se c’era tempo cattivo
avevo paura. Ricordo che sono svenuto quando mi hanno detto che per il militare,
che io peraltro non avrei fatto, essendo orfano di padre, facevano la puntura per
la rabbia sulla pancia”. La percezione tacita di gestire prossimità e
allontanamenti può quindi cambiare anche bruscamente nel corso della vita,
essendo basata su parametri interni. Ad esempio, fino al momento critico dei
“quaranta anni” si può girare il mondo da soli e si possono evitare rapporti stabili,
ritenuti troppo impegnativi (percepiti come un peso ed un vincolo inutili), mentre
poi si può sentire il bisogno di “darsi una calmata” e di “mettere su famiglia”,
specie quando le basi sicure rappresentate dai genitori invecchiano e perdono
efficienza. Oppure si può manifestare un malore improvviso, bloccando
l’allontanamento da casa o facendovi subito ritorno. Una volta che la distanza
torna ad essere quella “giusta” i sintomi scompaiono, senza che il soggetto
colleghi minimamente il proprio stato di salute con il ripristino della distanza e,
quindi, del senso di controllo. Gli eventi perturbanti alterano a cascata tutti gli
equilibri raggiunti nella regolazione della distanza rispetto alle figure
significative, specie se portano a vedere la figura sulla quale si fa affidamento
come potenzialmente vulnerabile. Eppure, di queste trame narrative, il soggetto a

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livello esplicito può avvertire solo la comparsa dei sintomi fisici che consentono
di ridefinire i rapporti (ad es., un dolore neuritico ricorrente e migrante, che dopo
una serie di accertamenti a tappeto negativi porta il soggetto a bussare anche alla
porta di chi si occupa di aspetti psichici): “la prima cosa che ho fatto, quando è
morto mio suocero, è chiamare babbo. Gli ho detto: ‘non mi fare questo scherzo!’
Ho anche pensato che adesso era un problema, perché mia suocera era rimasta
sola e mio marito è figlio unico. Non mi sono sentita più padrona della mia vita”.
Dato che unicamente le figure familiari (a volte una sola) sono vissute come del
tutto affidabili (pur con i loro limiti), la loro scomparsa, anche quando si è adulti,
può produrre un incolmabile senso di vuoto, difficile da superare nel tempo e non
lenibile da nuove figure di riferimento, mentre emerge – minaccioso – il pensiero
del proprio decadimento fisico: “c’è un dato di fatto inoppugnabile: dalla
scomparsa di mamma, il mio filone di parentela si sta lentamente ma
inevitabilmente esaurendo. Come stirpe siamo rimasti solo io e mio fratello, ma
siamo due persone che non hanno intensificato il loro rapporto dopo la
scomparsa di mamma. Lui obiettivamente ogni volta si scherma dietro nuove
cose, per cui me la devo vedere sempre da solo. I contatti sono rimasti quelli ed io
in certi momenti sono veramente disperato. Ho la sensazione di vivere da solo su
un’isola, l’unica differenza è che c’è più movimento a livello sonoro e figurativo,
ma non c’è nessun tipo di aiuto. Con la mia compagna sono stanco, sento che è
una battaglia persa. Lei non vede le stesse cose che vedo io, per lei va tutto bene,
non vedo cosa fare con questa persona”. In questi casi, la differenza rispetto a
quanto si osserva in una OPF Distaccata sta nel fatto che la depressione dipende
dal non avere più a disposizione i riferimenti affidabili (comunque ricercati o
rimpianti) e non dal vissuto di essere esclusi dall’avere un calore affettivo che, se
c’è, appare parziale, precario e illusorio.
Nelle storie di sviluppo di soggetti con OPF Distaccata il sentirsi “diversi”,
separati da una sorta di vetro dagli altri, per cui tutto appare faticoso, da
conquistare con sacrificio e con la sensazione che sia effimero, fugace, destinato a
sfuggire di mano, accompagna le trame narrative lungo tutto il percorso dello
sviluppo. A questo senso di fatica di vivere si accompagna, parallelamente, il
bisogno di essere di sostegno agli altri, di non “inquinare” con la propria
solitudine la vita degli altri, di non far pesare anche a loro questo proprio
“destino”: che non è mai, a livello di consapevolezza, percepito come il proprio
modo abituale di riferirsi l’esperienza, il denominatore comune sul quale si
costruisce l’identità. Proprio sulla discrepanza tra questo autoriferimento (vissuto
come l’unico possibile) e le proprie potenzialità (che rendono possibili modi
alternativi di riferirsi ciò che accade) si lavora in terapia per riformulare il
materiale personale portato in seduta: “sono una persona ‘particolare’ da che io
mi ricordi: se penso intensamente ai miei primi ricordi ho in mente solo la
malinconia che mi coglieva nei giorni felici in cui, piccolissima, mi isolavo e

303
piangevo pensando che quel momento sarebbe svanito di lì a poco; poi ricordo
me alle elementari, in cui mi sentivo così distante dagli altri bambini della mia
classe e così combattevo dentro di me tra il desiderio di far parte del gruppo e la
sensazione di non essere simile a nessuno di loro; ricordo i miei 10/11 anni in cui
ingoiai un braccialetto convinta che mi avrebbe ucciso, semplicemente perché ero
stanca, stanca dei miei pensieri, delle relazioni, della vita e pensarci oggi mi
atterrisce perché ero solo una bambina. Ricordo le giornate in cui ero contenta,
di nulla in particolare, che non riuscivo a tenere per me e che in famiglia era
vissuta come qualcosa di carino, come la mia abilità saltuaria di far ridere tutti.
Questi momenti si alternavano a momenti di totale buio in cui il tempo scorreva e
mi trovavo tra il natale e l’estate con enormi vuoti. Poi c’erano i momenti di
incontrollata tristezza e la strana consapevolezza che nulla di ciò che vivevo,
gioia, dolore, desiderio di dire basta, ansia, nulla fosse ‘normale’. Tutto questo e
molto altro costituiva solo il mio mondo interiore, perché al mondo esterno,
perfino a quello intimo familiare, lasciavo vedere solo pochi normali silenzi, la
scuola che procedeva egregiamente, lo sport e nulla più, fino alle superiori, dove
le tristezze cominciavano ad essere più profonde e credevo di attenuarle facendo
tanto volontariato perché mi sentivo colpevole di non apprezzare la vita con tutto
ciò che avevo avuto”. Molte storie di sviluppo distaccate evidenziano una
inversione della relazione accudente-accudito, con il minore che si sente
responsabile di prendersi cura delle figure genitoriali. Questo ruolo viene svolto
attribuendosi ogni esperienza negativa, ogni rimprovero o fallimento come riprova
della propria negatività, legata quindi a caratteristiche interne, finendo per
costruirsi modelli espliciti di sé e del mondo negativi. Fin dall’infanzia, la
solitudine è percepita come vera, concreta, ineludibile, parzialmente alleviata
dagli sforzi intrapresi: “i miei genitori non ci sono mai stati. Mi ritrovo ad
elemosinare un’attenzione, una parola, con una lucidità paurosa. La mancanza di
affetto risale al mio primo ricordo, che torna in modo ossessivo. Rivedo me
bambino di tre anni, nella camera di mia madre – che ovviamente non c’era –
mentre abbraccio la sua vestaglia”. La propria diversità è sentita come qualcosa
di biologico, intrinseco. Non ci si misura con gli altri, se si fa un confronto è solo
per rinforzare il vissuto di essere portatori di una solitudine che richiede
comunque di cavarsela da soli: in questa capacità di assumere precocemente le
proprie responsabilità si può finalmente scoprire il lato positivo della propria vita:
“a casa sono stata sempre messa da parte. Mia sorella, maggiore di un anno, è
sempre stata vivace, allegra, simpatica; lei si metteva in competizione con me, ma
io mi mettevo in disparte. Mi nascondevo sotto la scrivania e piangevo, mi sentivo
esclusa. Crescendo, sono stata anch’io a mettermi sempre da parte, prima veniva
lei e poi venivo io, a me andava bene così, in fin dei conti potevo rinunciare a
tutto. Quando toccava il turno mio per comprare qualcosa, io rinunciavo. Stavo lì
come per sbaglio, era meglio aiutare lei che era brava. Ho capito presto che sono

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io che mi devo prendere cura di me ed è una cosa che finora non ho ancora
risolto del tutto. Ora sto meglio, anche se mi domando come faccio a fare tutta
questa fatica. Faccio fatica a crescere, ma mi dico che è un dovere verso me
stessa, che me lo merito”. A volte, c’è una sorta di età dell’oro, di infanzia felice,
che finisce all’improvviso per qualcosa che accade, lasciando impotenza e
disillusione: “ero la più grande e sono vissuta al piano sopra a quello dei miei
genitori, con mia nonna materna, che mi ha cresciuta fino all’età di otto anni,
quando lei è morta. Con la sua morte se ne è andata la mia parte più bella, se c’è
mai stata, la parte migliore. Fin da piccola mi sono sentita non voluta da mia
madre. Diverse volte mi ha detto ‘maledetta te quando sei nata’. Lei aveva perso
il padre in guerra quando era piccola e nonna l’ha dovuta mettere in collegio.
Mamma litigava spesso con la nonna ed io la odiavo per questo. Lei era fredda e
nervosa, verbalmente violenta, a volte mi picchiava anche, non ricordo da parte
sua mai un bacio, un abbraccio. Anzi, era gelosa delle coccole che mi faceva mio
padre, si arrabbiava se io lo cercavo e ci parlavo, cominciava a dire ‘te e tuo
padre…’, per cui io andavo a parlarci di nascosto. Lui ha sempre lavorato, è
sempre stato attaccato alla famiglia, perché se no avrebbe lasciato da un pezzo
mia madre; è dolce, calmo, abbozza, mentre mia madre aggredisce. Ho spesso
provato sensi di colpa per il fatto che i genitori litigassero per causa mia. Io ho
paura di essere molto affezionata a lui e, quando me ne accorgo, cerco di
distruggere l’immagine positiva che ho di lui, per non soffrire quando muore.
Quando è morta mia nonna ho fatto la forte, poi però ho subito il trauma. Ho
perso l’unico rapporto bello, che non ho trovato più”. Anche quando è reale, per
attivare un senso di solitudine e distacco, la perdita deve essere inserita in un
modo di riferirsi l’esperienza in cui il proprio destino appare orientato e quasi
segnato in quella direzione. Di fronte ad una reciprocità precaria, l’unico percorso
possibile per poterne in qualche modo fruire, anche se con sofferenza, è quello di
invertire l’accudimento, prendendosi cura fin da bambini dei propri familiari: “ho
avuto un’infanzia monotona e infelice, ero una persona sbiadita. Mia madre era
casalinga ma stava sempre male e mi chiedeva aiuto. Era spesso all’ospedale con
la febbre. Mi impaurivo ogni volta che lei diceva che moriva, avevo il terrore di
essere lasciata sola. Ricordo tanta malinconia. Non c’erano sorrisi, forse perché
era morto mio fratello. Della sua morte non ricordo nulla, è sparito. È stata una
morte anche per me. Ho avuto un’infanzia svuotata, brutta. Sono dovuta stare
sempre dietro a mia madre. Ricordo che a 8 anni le ho detto: ‘non fate un altro
figlio, che io non ve lo guardo!’ Nella mia infanzia c’è stata una immensa
solitudine. Sempre. Sono vissuta relegata in casa. Ad esempio non mi mandavano
alle gite scolastiche. Non avevo amiche in particolare. Nessuna andava bene,
però forse ero io. Avrei voluto essere come le mie coetanee, vivevano in un altro
ambiente, c’era serenità. Se mi divertivo mi sembrava una cosa strana”. In altri
casi, l’esperienza di solitudine è precocemente ricondotta ad un atteggiamento

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accudente recepito come freddo e rifiutante: “io dovevo essere buttata via per
davvero. Sono l’ultima di quattro figli. Mamma mi ha raccontato che babbo la
voleva fare abortire e così tutti i parenti e il medico. Mi ha raccontato che babbo
la spingeva giù dalle scale, per cui io dovevo ringraziare lei che mi ha tenuto”.
Sebbene i vissuti di solitudine, di perdita, di abbandono o di rifiuto siano spesso
legati ad esperienze precoci, essi possono riaffiorare all’improvviso anche dopo
molti anni, in situazioni analoghe che ricorrono durante la vita adulta: “mio padre
mi dava tante bastonate. Mi ha anche insegnato molte cose, mi ha dato la
curiosità che ora ho, ma per lui io ero una che ha dato sempre fastidio. Ricordo
che mio padre usava una frusta per farmi smettere di piangere. In quel periodo
lui ha fatto una sciocchezza, ha contratto un debito altissimo, in un attimo la
situazione familiare ha avuto una rivoluzione. Sono stata affidata a mia nonna
paterna, vivevo in una casa piccolissima insieme con mio fratello e i cugini, ma io
non ero degna di considerazione. Non so se soffrivo di sonnambulismo o come è
successo che non l’ho fatto veramente, ma mi svegliavo di notte e aprivo le
finestre, col desiderio di buttarmi di sotto. Un terrore che ho sempre avuto è
quello di uccidere i miei genitori. Anche ora, quando sto con loro, mi capita di
chiudermi in camera. Un giorno ho fatto la grande domanda a mia madre: ‘ma te
che facevi quando mio padre mi riempiva di botte?’ Lei mi ha risposto che
provava a farlo smettere, ma che non ci riusciva”. A volte, il ricordo del proprio
abbandono o delle proprie sofferenze spinge a sentirsi solidali con quanti soffrono
e, più in generale, con gli altri “mortali”, attivando in questo modo comportamenti
di riavvicinamento relazionale: “alle 5 di mattina mi sono svegliato che stavo
malissimo, avevo una grande angoscia e sofferenza, un senso di estraneità totale.
Ero come in anestesia. Ho visto davanti a me tutta la giornata pesante che avevo
davanti, i mostri della mia mente che avrei dovuto combattere, perdendo e
andando ad elemosinare attenzione, cosa che aborrisco. Mi è tornata alla mente
vivissima l’immagine di me a tre anni, portato al pronto soccorso, con il medico
che con delle pinze mi sfilava i sassi che avevo spinto in alto nel naso perché
nessuno si accorgeva di me. Mi ricordavo tutto, mi chiedevo dove erano gli altri.
Ho avuto un conato di vomito, sentivo le gambe pesanti, immobili, bloccate.
Provavo il rifiuto di alzarmi. Poi c’è stata una sterzata interiore, ho sentito che
valeva la pena, mi sono detto: ‘ora ti alzi, ti lavi e affronti la giornata’. Ho
ripetuto ad alta voce i nomi di chi nel mondo reagisce e combatte, di chi si prende
la responsabilità di combattere per gli altri. Ho cominciato la giornata, ho
aiutato la barista ad aprire il bar dove ho fatto colazione, ho lavorato tutta la
giornata, come non mi veniva da tanto tempo. Ho ripensato ad un bambino che è
morto malato, penso di averlo capito solo io. Lui non aveva intorno persone in
grado di capire la sua sofferenza; io vedevo tutta l’incapacità di chi aveva
intorno e tutta la sua sofferenza, e questo mi dilaniava. Anche io mi sentivo uno
completamente fuori posto”. I soggetti con OPF Distaccata non mostrano

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particolari problemi di separazione da casa quando iniziano il loro percorso
scolastico: sono abituati all’esperienza della separazione, appaiono quasi
indifferenti al cambiamento d’ambiente. Imparano presto a cavarsela da soli, per
questo si responsabilizzano e sembrano più grandi e più seri dei loro coetanei:
“non ricordo il primo giorno di scuola, del passato ricordo pochissime cose, anzi
spesso ha pregato ‘Signore, fammi dimenticare tutto il passato’. Anche ora mi
devo segnare le cose da ricordare su un taccuino. Sono sempre stata una bambina
un po’ asociale, avevo le mie idee, difficilmente mi sono adeguata, sono sempre
stata poco tollerante. Mi sentivo diversa, isolata. Avevo una maestra che amava
l’ordine in maniera quasi maniacale e anche io sono diventata ordinata. L’ordine
mi fa stare bene, mi rassicura, se no mi sento un caos, una cosa da buttare via,
una discarica. Da piccola avevo pochi giocattoli, li mettevo in soffitta ancora
nelle scatole, non li aprivo perché mia madre mi diceva che dovevo ‘dare
l’esempio’, non potevo mai giocare con la Barbie o con l’orsetto. L’avrei
desiderato tanto, ma mia madre mi diceva: ‘Sei grande, che ci fai?’, e allora
portavo i giochi in soffitta. Alle elementari sono andata bene, alle medie andavo
bene solo se mi piacevano gli insegnanti. Però non ho voluto mia madre, cosa che
a lei è dispiaciuto, perché era una brava insegnante”. O ancora: “finora il mio
modo di vivere mio padre, mia madre, mio fratello, con i loro problemi insolubili
che dovevo essere io a risolvere mi ha condizionato molto. Sono sempre stato
quello che non chiedeva niente, che rinunciava, che ‘faceva il bravo”. Tuttavia,
anche quando si staccano da casa, il senso di solitudine non li abbandona, per cui
si proteggono dal “godersi troppo” le cose che hanno, per la paura di perderle. Da
un lato, si ha bisogno di avere dei riferimenti, dei punti fermi, anche fisici (casa,
oggetti, mappe); dall’altro, vivendo tutto come provvisorio, ci si tutela
dall’attaccarsi troppo non solo alle persone, ma anche ai luoghi ed agli oggetti
personali: “quando finalmente me ne sono andato di casa avevo paura del buio,
mi sentivo estraneo a casa mia, ai miei oggetti, non riuscivo ad avere il minimo
senso di benessere. Nulla mi rimandava al mio vissuto ed avevo l’ossessione di
tenere accese le luci, per vincere la paura del buio. Se c’era un libro che mi
interessava, non lo leggevo, mi infilavo direttamente a letto. Ho una casa bella,
luminosa ma non l’ho abbellita, aggiungere oggetti è una fatica, è come se volessi
tutto bianco, spoglio e anestetizzato. Ho paura di appesantire. Mi piacciono le
mappe, ma non le attacco alle pareti. È come se lo spazio vuoto rendesse tutto più
leggero”. Il bisogno di mantenere comunque e per quanto possibile un rapporto
con figure accudenti recepite come inadeguate o rifiutanti porta ad un parziale
riavvicinamento, il massimo possibile, mantenendo la distanza: ci si sente
comunque soli e diversi, anche rispetto ai familiari: “con mio fratello ho un
rapporto abbastanza buono, ma a distanza, un po’ freddo. Con mia sorella ho un
rapporto di amore e odio, lei tende a dominare il fidanzato e io non riesco né a
capire né ad accettare questo atteggiamento, è come se lei gli togliesse la

307
personalità, però lo fa in maniera furba, a lui sta bene. Un’altra sorella è come
me, diciamo quello che pensiamo, ma questo mi dispiace, perché la fa soffrire.
Però ha molte amicizie, con alti e bassi più di me, io sono più lineare”. D’altra
parte, i margini di autonomia possono essere ricavati partendo dal bisogno di
allontanarsi da situazioni troppo dolorose e, quindi, non ulteriormente tollerabili:
“quando tornavo a casa dei miei e riutilizzavo la mia camera da bambino,
dormivo abbastanza tranquillo. Solo quando mio padre ha iniziato a stare male
veramente mi sono staccato. Tutto in quella casa era diventato irrespirabile,
cercavo il silenzio. Morto mio padre, al contrario delle mie aspettative, non ho
più avuto incubi e sogni spaventosi”. Essendo abituato alla solitudine ed alla
perdita ed avendo un forte senso di responsabilità, nelle situazioni di difficoltà il
soggetto può ritrovarsi da solo “in prima linea”, scoprendo tuttavia, proprio
attraverso questa condizione, che non ha bisogno di aiuti esterni, in quanto
possiede risorse che altri non hanno: “mio padre è morto lo scorso anno e c’ero
solo io. Ero andata a pranzo dai miei. Mio fratello mi dice con aria arrabbiata
“babbo è di là”, lui diceva sempre che il padre faceva apposta a star male. Vado
in camera e vedo mio padre che sta malissimo. Litigo con mio fratello, che mi
dice che non è niente, che lui fa le bizze. Chiamo il 118. Finalmente arriva anche
mamma, lei era al lavoro, per lei contava solo quello. Mi sconvolge il fatto che lei
sia rimasta lì. Mi aspetto che una moglie col marito che sta male non resti a casa
continuando a mangiare! Io vado col 118 al pronto soccorso e lì dopo un po’ mio
padre muore. Io lì ero sola, e questo mi ha riportato indietro di anni: io ero la più
piccola, quella che non ha mai creato problemi, ma sempre con pesi più grandi di
quelli che poteva portare”. Il fatto di negarsi a livello consapevole l’affetto che si
prova (verso un genitore o comunque una persona significativa) sembra in
apparenza proteggere dal dolore quando lo si perde. Solo una volta che questa
persona non c’è più si rende evidente l’investimento affettivo che l’autoinganno
aveva negato a livello esplicito. E solo allora emerge ciò che, a livello tacito, c’era
sempre stato: “mia madre è morta anziana. Eppure per me è stato un effetto
brutto, brutto, brutto, ho provato molto dolore. È strano, per tanti anni mi ero
detta che quando sarebbe successo non avrei versato una lacrima. Invece mi è
mancata tanto, mi è mancato il suo affetto. Quando è morta è riuscita a dirmi
‘tesoro mio, non ci vedremo più’. Tutto il bene era nascosto, potevo manifestarlo
e invece no. Però mi ero stancata di aiutarla. Ho pianto tanto, per anni, avrei
voluto rivederla, riavere il suo affetto che non avevo apprezzato. Ogni tanto ci
parlo ancora”. Con la riformulazione in moviola, la sofferenza che caratterizza gli
episodi di disagio può trovare nuove strade adattive. Rendere esplicito il tacito
non significa infatti solo aumentare il controllo dell’esperienza – accrescendo la
possibilità di avvicinamento agli altri e tollerando meglio distacchi e separazioni –
ma consente di inserire ciò che si prova nel modo abituale di riferirsi l’esperienza,
come una persona che, pur non aspettandosi particolare calore e aiuto dagli altri,

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può trovare nuove forme di impegno e può condividere progetti con chi la sa
apprezzare e accettare come è.
Nelle storie di sviluppo di soggetti con OPS Contestualizzata il bisogno di sentirsi
importanti, amati, considerati porta ad articolare il senso di sé tra le due polarità,
positiva/negativa, a seconda degli atteggiamenti delle figure prese come
riferimento. Ad esempio, il fatto di non riuscire ad essere considerati dai genitori,
dagli insegnanti o dai compagni di classe è percepito non come l’espressione
dell’atteggiamento soggettivo di questi, ma come la prova oggettiva di valere
poco, di essere inferiori, di meritare di essere discriminati, derisi, emarginati: in
questi casi l’atteggiamento esterno è identificato (e confuso) con l’attivazione
interna da esso prodotta: “da bambina mamma mi portava dal dottore per la dieta
e ogni volta avevo paura di non essere stata brava. Però sentivo fin da piccola
che ero più matura, più responsabile rispetto alle compagne, e me lo dicevano
pure le maestre. Siccome pesavo troppo, mia madre mi prendeva sempre i gelati
alla frutta, mentre a mio padre in fin dei conti non gliene importava niente ed io
ero arrabbiata con mia madre. Ricordo che una volta una zia si era meravigliata
del fatto che avevo rifiutato dei cioccolatini perché non li potevo mangiare. La
vera rottura con mamma c’è stata a 12 anni quando, dopo l’ennesimo fallimento,
mia madre mi ha detto arrabbiata e con tono colpevolizzante: ‘se tu una cosa la
vuoi ci riesci’. In quel momento mi sono sentita fallita, mi sono detta: ‘non ce l’ho
fatta un’altra volta!’, ma ho anche iniziato a provare rancore verso mia madre
che mi giudicava e che, al contrario di me, riusciva a mangiare normale. Da
allora non mi sono più saputa controllare: stabilivo cosa dovevo mangiare
sapendo già che non ce l’avrei fatta. Mi sentivo in colpa e mi punivo perché la
dovevo scontare; provavo a vomitare ma non ci riuscivo, mi faceva troppo schifo;
digiunavo finché ci riuscivo”. All’ingresso nel mondo della scuola, i soggetti
possono mostrare una grande varietà di comportamenti, legati all’atteggiamento
delle figure principali di riferimento: si sforzano di comportarsi bene, di fare bella
figura e di non piangere, si fanno sopraffare dalle emozioni se si sentono
inadeguati o trovano una via tacita di uscita attraverso un disturbo somatico.
Specie in situazioni critiche, anche uno stimolo banale e contingente può far
mutare atteggiamento, in conseguenza di un cambiamento tacito del senso di sé:
“ieri mi è successa una cosa strana. Avevo comprato un paio di jeans e me li sono
messi per la prima volta. Per strada ho incontrato un’amica e ci siamo fermate a
chiacchierare. Lei si è accorta che avevo i jeans nuovi e mi ha detto che mi
stavano bene. Ci sono rimasta male: mi è venuto in mente che se la mia amica
aveva detto così voleva dire che fino a ieri mi ero vestita in maniera ridicola”. Le
emozioni, specie quelle negative, hanno sempre un contenuto di giudizio. Così la
tristezza consegue a situazioni esterne di svalutazione o rifiuto: essa innesca una
reazione di rabbia, utilizzata a livello tacito in maniera strumentale per cambiare il
punto di vista dell’altro, per svalutarlo e sminuirlo o per avere un indennizzo. Nel

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rapporto genitori-figli, il riconoscimento reciproco avviene all’interno di una
asimmetria cognitiva (disparità di maturazione e di competenze) ma con una
reciproca elevata intensità emozionale: “papà era molto assente, per cui io da
piccola pensavo che non gli piacessero i bambini. Lui arrivava a casa tardi, era
stanco, non ci si poteva parlare. Alle recite alla scuola materna e alle elementari
lui non è mai venuto. A volte, ma era molto raro, mi portava a spasso sopra le
spalle. Alle medie sono cresciuta, sapevo di più come comportarmi e mio padre
mi portava a vedere le partite di pallavolo. Invece mi fa senso vedere le foto dove
stavo appiccicata a mamma, perché mi sono fatta l’idea di lei come di un
giudice”. Il gioco relazionale genitore-figlio (specie se dello stesso sesso) è sul
potere – riconosciuto reciprocamente e di cui entrambe le parti sono complici – di
utilizzare il contenzioso per definirsi attraverso la relazione, dato che ciascun
soggetto tacitamente ricava dall’altro quanto vale. I litigi diventano quindi una
specie di “telenovela” e seguono una sceneggiatura che si ripete con le stesse
modalità (chi comincia, su cosa si litiga, come procede il litigio, chi pone fine alla
puntata prima che le cose degenerino; segue una pausa fino alla lite successiva,
con un silenzio tipo “chi parla per primo perde”). Quando è diretta verso
l’esterno, l’aggressività è strumentale: è una risposta data all’altro, per modificarlo
in maniera più favorevole a sé. Quando è diretta su di sé, rappresenta uno sfogo
che, una volta terminato, permette di riallinearsi sul punto di vista dell’altro.
L’attenzione è posta su quanto ci si sente considerati: dall’atteggiamento dell’altro
si ricavano le informazioni su di sé, con i conseguenti effetti (quanto uno/a è
amabile, adeguato/a, importante, efficiente, autonomo/a, ecc.). Nel sesso
femminile gli scenari riguardano soprattutto l’aspetto fisico, l’amicizia, l’intimità,
mentre in quello maschile prevale l’attenzione per le prestazioni e le cose che si
fanno insieme. L’aggressività esprime lo sforzo per avere il riconoscimento
dell’altro e la reazione al fatto di non riuscire ad ottenerlo, nonostante i tentativi
attuati: “sono cresciuta coi nonni, i miei genitori erano divorziati. La sorella di
mia nonna veniva isolata, ho sempre creduto di essere come lei … Una volta
nonna mi parlava di lei: ‘pensa quanto era stupida tua zia! Diceva che non le
andava di stare cogli altri perché non sapeva cosa dire!’. Era proprio quello che
provavo io. Mi imbarazzano le persone più colte di me, mi sento inferiore. Non lo
so chi sono. Mi sono sempre sentita una che non è capace di reagire, faccio un
casino per delle stupidaggini, queste cose qui mi paralizzano, mi bloccano. Mio
padre si è separato da mamma quando avevo 5 anni perché l’ha trovata con
un’altra donna. Questa cosa me l’ha detta in maniera violenta in un momento di
rabbia. È successo questo. A 11 anni ho fatto un viaggio per passare un po’ di
tempo con mio padre. Volevo un cappotto e lui mi ha detto: ‘Tua madre ti ha
montato la testa, ti faccio vedere io chi è tua madre!’ Ho visto la cattiveria, mi ha
detto che era lesbica, che l’aveva sorpresa con un’altra donna. Io non ci volevo
credere, l’unico pensiero fisso era di non far capire niente a mamma. Dopo lei si

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è risposata, ma non mi ha dimostrato tanta delicatezza; mi ha detto: ‘Io ho un
uomo’ e in quel momento ho capito che io non c’ero per lei”. Nel rapporto
genitori-figli il sistema cognitivo è calibrato al minimo, in modo che l’aggressività
sia sotto controllo sul versante dell’esposizione. Solo sfiorare la percezione di
rabbia può far sentire abbastanza aggressivi. Non va superata la soglia oltre la
quale c’è un rischio troppo elevato di andare incontro a conseguenze (di rifiuto,
critica, ecc.) non tollerabili, per cui questa emozione viene disattivata (ci si può
sentire arrabbiati solo per il fatto che non si guarda in faccia l’altro, non gli si
parla o si risponde alla domanda “cosa hai?” con un “niente”, sottintendendo che
l’altro è stupido se non arriva a capire che si sta male per colpa sua). Un’altra
modalità può essere quella di cronicizzare il conflitto, diluendolo in verifiche
successive a bassa esposizione, con frecciatine, allusioni o scenate “a freddo” e
ripetuti e invischianti processi all’altro. Spesso dunque la rabbia, che è
un’emozione regolativa sociale attraverso la quale si reclama attenzione e
considerazione da una figura significativa da cui ci si sente invece svalutati e
trascurati, è espressa al minimo, non guardando in faccia, non parlando,
piangendo, protestando sommessamente: “a 12 anni ho iniziato a giocare a
pallavolo, cominciando a mangiare pochissimo, tanto che a metà della seconda
media mi sono andate via le mestruazioni. Comunque mi sentivo diversa dalle
compagne, continuavo a non resistere di fronte al mangiare, mi vergognavo di
parlare con loro della mia bulimia, tanto quando iniziavo una dieta poi falliva”.
Quando l’identità è costruita ricercando conferme attraverso la propria capacità di
tener testa ad una figura (o istituzione) significativa, il soggetto ricorre a condotte
di opposizione e trasgressione per demarcarsi dagli altri, rinforzando tacitamente
il senso di essere se stesso/a con il suo comportamento alternativo: “mi sento io
quando faccio in modo diverso dagli altri”. “Quando facevo il militare ho avuto
diversi problemi, non sopportavo l’autorità degli altri; ho racimolato parecchie
punizioni perché non facevo quello che mi ordinavano di fare ma facevo il
contrario, ero uno spirito ribelle ma introverso. Mi sentivo meglio se non facevo
quello che mi ordinavano, altrimenti mi sarei sentito un debole”. Sul versante del
comportamento attivo di sfida, la rabbia esplode per misurare la propria forza o
per evitare che l’altro continui a insistere su un punto in cui ci si sente fragili e
vulnerabili. Quando non si reggono le emozioni negative e l’aggressività diventa
l’unica via per evitare un confronto su temi non tollerati si può arrivare a crisi di
agitazione psicomotoria. I passaggi maturativi puberali sono anch’essi percepiti
attraverso le attivazioni emozionali legate all’immagine di sé ricavata dalle figure
significative: “ho avuto la prima mestruazione a 10 anni; l’ho vissuto abbastanza
bene, anche se mi sentivo imbarazzata. Ne avevo sentito parlare indirettamente,
in una conversazione tra mia cugina, che era piuttosto spigliata e mia zia. Penso
che mia madre se l’aspettava perché mi ha detto: ‘sai che significa?’ ‘Che posso
fare un bambino?’ ‘Sì’. Più che sentirmi donna, avrei voluto essere ancora

311
bambina: parlandone con le amiche che ancora non la avevano avuta non è che
mi piacesse molto, avrei voluto restare come loro. È iniziato allora un periodo di
instabilità, il peso oscillava, le mestruazioni andavano e venivano, ho fatto un
sacco di visite mediche che andavano tutte male: il medico sportivo si arrabbiava
perché non riuscivo a gestire la dieta, il ginecologo mi diceva che ero ancora in
una ‘condizione prepuberale’; l’endocrinologo scherzava con me, dicendomi
‘finché tu non saprai quello che vuoi fare da grande, non avrai più le
mestruazioni’; un’altra volta mi ha detto: ‘a 14 anni dovresti cantare sempre’, al
che ho replicato arrabbiata: ‘e se una non ha voglia di cantare?’”. Il bisogno di
controllo e di perfezione, in modo che tutto sia a posto per essere all’altezza delle
aspettative proprie e degli altri, e, al tempo stesso, il timore di non riuscirci
portano a ripetere sequenze comportamentali, correlate con situazioni
emotivamente significative, che il soggetto vive come prova di quanto vale. In
questi casi, la disconferma è solo temuta e si associa alla paura di non riuscire ad
essere perfetto/a. Il soggetto non riesce a rispondere più al bisogno di perfezione
richiesto da un’immagine ideale di sé rigidamente pretenziosa e irraggiungibile A
volte il disagio compare gradualmente: “ho paura di non riuscire a fare le cose
come mi sono prefissato. Questo mi fa essere deluso, non mi ritengo all’altezza di
fare quella cosa. Da bambino ho vissuto anni d’oro: andava tutto bene, nelle
relazioni sociali, nello studio. I problemi sono iniziati tra la fine delle elementari
e le medie. È venuto fuori che mi accorgevo sempre di più che c’era qualcosa
dentro di me che mi impediva di riuscire a fare quello che facevo. Ad esempio,
studiando, volevo starci molto di più, però c’era un ostacolo, come se una voce mi
dicesse ‘fermati qui, dopo ti stanchi’. Ho avuto un calo di rendimento in tutte le
materie, tanto che sono stato promosso all’esame di terza media con buono”.
Altre volte il disagio esplode all’improvviso: “da bambino ero perfetto. Ricordo le
immagini in cui ero adorato dai miei genitori quando guardavano un filmino di
quando ero piccolo. Era una cosa straordinaria. La musica è stupefacente ed è
anche triste. Rievoca il ricordo, è coinvolgente. Guardando il film mi veniva da
lacrimare: ero nel box, baciavo mia madre e avevo un anno; finisce la scena e in
contemporanea finisce la musica. Era bellissimo. Poi però crescendo mia madre
si è distaccata da me, non mi dava affetto. È sempre stata più fredda di mio
padre, ci teneva a me ma non lo faceva trapelare. Sicuramente si vergognava. Si è
distaccata un po’. Nella mia famiglia, molti parenti hanno fatto grandi carriere,
volevo diventare come loro. A 18 anni mi è andata via all’improvviso l’energia e
non mi è più tornata. Ricordo che allora ero sempre al centro dell’attenzione,
tutti mi ammiravano. Io camminavo ed ero attento a mostrare i muscoli, vedevo
con la coda dell’occhio che tutte le ragazze mi ammiravano, ero il re. I miei amici
mi dicevano: ‘Dai, tutte ti vogliono, chissà con quale ragazza ti metti... Poi però
vedevano che non succedeva niente ed hanno avuto il dubbio che ci fosse
qualcosa. Sono rimasto scioccato quando mi sono sentito vulnerabile. Sogno

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ancora il passato, allora non correvo sui pattini, volavo, volavo. Sogno le ragazze
che mi facevano le foto da lontano, avevo le fan. Non so perché mi è successo
tutto questo, purtroppo mi è andata via all’improvviso l’energia, c’è stato un
blackout”. Il soggetto non è consapevole del fatto che non gli/le è più possibile
mantenere a livello tacito la coerenza interna tra il bisogno di continuare ad essere
perfetto/a per piacere agli altri (in particolare alla figura di riferimento più
significativa) e il timore (crescente con l’età e man mano che inizia a confrontarsi
con la vita adulta) di non riuscirci. Questo disagio, a livello esplicito, viene
spiegato come se il soggetto lo subisse, in conseguenza di una causa
imprecisabile, e non come l’espressione del proprio modo di riordinare e di
riferirsi l’esperienza. Quando il disagio si cronicizza il soggetto fatica a gestire il
bisogno di perfezione, indotto dalle richieste genitoriali: può andare incontro ad
una fase di iperattività, che può esaurirsi all’improvviso, con una dinamica tipo
“tutto o niente”: “nella realtà ho paura di vivere, come ho paura di morire, di
perdere tutto. Io vivo nei sogni. Sento che non ho né arte né parte. Stando male
non ho avuto occasione di praticare sport come avrei voluto, ho dovuto mollare,
non è stata colpa mia. A 18 anni avevo un’energia fuori di testa, facevo mille
cose, tutte le ragazze mi guardavano ma non ci combinavo niente. Bastava che mi
guardassero. I miei mi hanno pompato troppo, pretendevano troppo da me, io
dovevo essere perfetto (...) Recentemente ho sognato che ero in spiaggia come
quando avevo 18 anni, ma mi rendevo conto che era adesso, con meno forza.
Sono al centro dell’attenzione. Mi tirano la palla, faccio 5-6 tiri perfetti, alla
Maradona. Ho visto dei filmini su Maradona, lui era il Messia del calcio, meglio
di Pelé, non ci sono paragoni. Lui era troppo, faceva cose impossibili, i suoi
compagni di squadra dicevano: ‘noi sbagliavamo perché non capivamo, lui era
troppo avanti’. Io mi immedesimo con Maradona nel sogno. A un certo punto ci
sono delle modelle che sfilano in passerella, io mi metto subito in mostra. Mi
voglio far vedere. Vedo una donna col fisico da culturista. Mi siedo su una
panchina in legno del lungomare. C’è seduta la ragazza. Io tiro su la panchina
colla ragazza. Sono contento e mi dico: vedi che ce la fai, anche se non vai in
palestra?”. La crescita, attraversando momenti di crisi profonda (sia di buio, sia di
eccesso di luce, così frequenti in adolescenza), può consentire di conquistare una
nuova consapevolezza di sé. Dal confronto con le proprie fragilità emerge una più
ampia coscienza di sé, che riscopre il mondo interno e si sente pronta al dialogo
con gli altri: “la mia stanza di giorno o di notte è sempre la mia stanza. Ho capito
che io sono sempre io. Dovevo solo imparare a conoscermi. Dovevo conoscere la
mia stanza anche nel buio. E per farlo ho dovuto inciampare più e più volte. Alla
luce sembra tutto così chiaro, finché non ti poni il problema sei convinto di
conoscerla perfettamente la tua stanza. Poi arriva qualcuno che ti chiede di
disegnarla. E ti accorgi che il posto in cui hai passato la maggior parte del tempo
della tua vita non riesci a renderlo bene. Ti mancano dei dettagli e delle cose

313
assolutamente fondamentali. Allora ti fiondi a casa e la guardi con altri occhi la
tua stanza. "Oh, cavolo, ma si era così, quello stava esattamente lì quell'altro
stava là, che stupida che sono!". E pensi che sia fatta finché non arriva la notte.
Nel buio, quella camera che ora sei sicura di avere in mente, in realtà è piena di
ostacoli. Devi imparare ad orientarti, a non cadere, a non avere paura, a
ricordare dove hai spostato il mobile l’ultima volta (perché tutto cambia). Così,
partendo da se stessi e imparando ad orientarsi anche al buio nel luogo che
dovrebbe essere il più conosciuto (se stessi), si può cominciare a fare i conti con
il mondo esterno, in modo consapevole. E comincia la vita”.
Nelle storie di sviluppo di soggetti con OPS Normativa ci si trova di fronte a
soggetti responsabili, abituati a riflettere, molto controllati e poco inclini a
lasciarsi andare a giochi spontanei, specie se richiedono una notevole attività
motoria. Anzi, tutto ciò che è immaginazione, fantasticheria, da un lato affascina,
dall’altro è visto come un fenomeno esterno, strano e curioso, che va studiato e
indagato: “da piccola avevo una grande fantasia, tanto che una volta la maestra
l’aveva detto a mia madre. Non ricordo se avevo detto che in casa c’era un
animale strano. Del resto, avevo numerose paure: di andare al buio, specie in
cantina, che uscisse una mano da sotto il letto e mi afferrasse un piede (paura che
incomprensibilmente di tanto in tanto riaffiora tuttora: che stupida!), dei
fantasmi, di Belfagor (che, da un lato, mi affascinava e, dall’altro, mi incuteva
timore), della solitudine (non c’era nessuno che mi poteva parlare o difendere se
veniva il mostro”. Questi bambini hanno la tendenza a restare isolati,
privilegiando i ragionamenti e i giochi “istruttivi” e impegnandosi in cose utili o,
comunque, aventi un fine, piuttosto che misurandosi con gli altri: la competizione
e il confronto con i coetanei non li interessa particolarmente. I primi ricordi non
sono in genere precoci e sono associati ai dettagli con cui si ricostruisce il
contesto. L’accesso alle emozioni, specie quelle che esprimono una perturbazione
interna, è possibile solo attraverso le spiegazioni: “il primo ricordo che ho è
quello di me bambina, a 4 anni, vicino alla scuola col vestitino di pizzo bianco e
con una catenina sottile; mi sentivo una bambina carina, biondina ma non
ricordo altro, solo che stavo lì, camminavo, molto consapevole del fatto che ero
vestita bene, senza nessun sentimento collegato a questo pensiero. Sempre intorno
ai 4 anni ricordo che i miei genitori dovevano uscire ed io ero terrorizzata,
piantandomi piena di lacrime davanti alla porta. Piangevo proprio di brutto,
chissà perché? Forse avevo proprio paura che succedesse qualcosa, che mi
abbandonassero”. Già nell’infanzia il soggetto impara a distinguere i settori in cui
si deve impegnare da quelli che può invece trascurare. Ad esempio, fino ad alcuni
anni fa, quando non faceva ancora parte del curriculum scolastico, frequentare la
scuola materna (un tempo si diceva “andare all’asilo”) poteva essere preso come
l’equivalente di un gioco, mentre fin dal primo giorno di scuola elementare
iniziava una vera e propria assunzione di responsabilità, un impegno da prendere

314
sul serio; basandosi sulla logica e sul senso etico di “fare il proprio dovere”, i
normativi appaiono fin dall’inizio della vita curricolare “adulti” e “maturi” più di
quanto si osserva negli atteggiamenti della media dei coetanei: “mia madre non mi
ha mai esposta come una bambolina, ma mi ha insegnato a impegnarmi, mi ha
dato i valori. Alle elementari avevo una maestra che, come osservava lei stessa,
era fissata per l’ordine, era di una pignoleria unica: ad esempio, nella scrittura
tutte le aste delle lettere dovevano essere perfette. Io ero una di quelle che
avevano la scrittura migliore, tanto che la maestra mi metteva a scrivere i
manoscritti di classe ed io riportavo in calce, a proposito dei miei elaborati,
‘questo tema è mio’”. Se il genitore è rigido ed eccessivamente esigente, facendo
richieste contraddittorie e impossibili da soddisfare (in quanto pretese ma, di fatto,
irraggiungibili), il bambino vive una condizione angosciante di incertezza e di
dubbio, che mette in crisi il suo bisogno di trovare il modo “giusto” di
comportarsi: “ricordo che un giorno ero tornata a casa tutta contenta perché la
maestra mi aveva dato un bel dieci e lode, ma mio padre mi disse impassibile: ‘Sì,
va bene, ma non conta se prendi questi voti, tanto non sei ancora come dico io’.
Ricordo che è stato brutto, era come se lui avesse vanificato tutto il
comportamento di una bambina che si impegnava al massimo per andare bene,
che aveva voglia di studiare e non capivo cosa dovevo fare”. In questi casi il
bambino può scompensarsi (ad es., limitando la perfezione in attività ripetitive
che possono poi strutturarsi in rituali compulsivi o sviluppando un rancore che
tuttavia non produce sollievo), mentre in altri casi può riuscire ad individuare
riferimenti alternativi che gli consentono di ricomporre i pezzi, trovando un modo
“giusto” di vivere: “ricordo la prima pagella in seconda elementare, avevo preso
dei 7 e mio padre mi disse che faceva schifo. Lui però si vantava di essere stato
un somaro a scuola e, pur valendo, non si era laureato. Mi sentivo abbandonato
da mio padre e criticato anche da mia madre. Ho sempre fatto non le cose che mi
piacevano, ma quelle che dovevo fare. Mi sentivo respinto con disprezzo. Lui mi
dava queste umiliazioni, mentre mia madre mi ha sempre rimproverato, ma non
mi ha mai umiliato. Però quando mio padre mi umiliava, lei stava zitta. Io mi
sono detto: devo diventare bravo più di mio padre. Poi, col tempo, volevo sì esser
bravo, ma un passo indietro. Non volevo primeggiare, per non infierire, non
sarebbe stato giusto, mentre invece sentivo che era mio dovere impegnarmi”.
L’attenzione per i dettagli porta a fare deduzioni generali sulla vita, a partire da
essi. Il soggetto cerca di prevenire gli eventi negativi, specie se drammatici,
controllando tutti gli aspetti ai quali dà importanza, per cui la gestione ordinaria
delle cose può essere difficile e c’è il rischio di perdere di vista l’insieme, come
nel detto “non mi sono accorto del bosco perché ero troppo impegnato ad
osservare gli alberi”: “quando eravamo piccole, con noi viveva la nonna materna,
che era una donna silenziosa. Era rimasta vedova nel periodo di guerra, quando
il marito era morto per una tragica fatalità. Egli aveva messo su dal niente un

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negozio e stava pensando di estendere la sua attività. Un giorno era andato a
prendere dei rifornimenti; aveva ceduto il suo posto ad un altro e si era seduto
dietro; un camion sbandando ha provocato un incidente nel quale egli è rimasto
schiacciato. Da allora sono sempre stata terrorizzata dal caso. Anche perché
quando avevo 21 anni anche il nostro cane è morto sotto una macchina”. L’ansia,
legata a situazioni angoscianti, è gestita precocemente attraverso il canale
cognitivo: per poterlo fare, tuttavia, le attivazioni emotive perturbanti sono
trasformate in immagini o sono abbinate a dettagli “neutri”, sui quali il soggetto
riversa il suo bisogno di controllo e rassicurazione: “fin da piccolina ho iniziato a
fare i rituali, inizialmente senza angoscia, quasi si trattasse di un gioco. Ad
esempio, alle scuole medie non dovevo passare per strada su certe righe. Quando
mia madre si operò, dovevo fissare per tre volte gli spigoli bianchi della scuola o
l’angolo bianco del soffitto per sentirmi rassicurata che tutto sarebbe andato
bene (il bianco è il colore del bene, della vita, al contrario del nero). Più in là,
intorno ai 15 anni, ricordo che mi fermavo a guardare fuori della finestra fino a
quando non vedevo passare tre auto bianche”. Nel corso dello sviluppo,
l’abbassamento del tono dell’umore, che attiva emozioni di tristezza, di colpa e/o
di rabbia, può esprimere vissuti di svalutazione o di rifiuto attribuiti a mancanze
dell’altro o a propri difetti, ad esempio perché il soggetto ha trascurato i suoi
doveri, non ha rispettato regole importanti, non è stato onesto con gli altri: “mio
padre e mia madre facevano tremende cagnare per delle banalità, magari perché
il pesce era cotto male o mancava il sale o mia madre aveva cucinato troppa
roba. Allora mio padre tirava giù tutto e mia madre prendeva e se ne andava
sotto a piangere; lui le andava dietro, sentivo urlare, avevo paura che si
lasciassero. A otto anni pregavo il Signore perché i miei non si separassero e che
non mi facesse sposare. Avevo una paura costante che le cose non andassero bene
come voleva mio padre, per questo mi ero precocemente responsabilizzata. Avevo
paura di fare tutto, avrei voluto parlare con mio padre, ma lui voleva che a tavola
stessi zitta. Se facevo cadere dell’acqua o una forchetta a tavola, se sbattevo forte
la porta era una tragedia, mio padre non la finiva più e coinvolgeva mia madre e
i suoi avi, colpevolizzandola, creando una catena di colpe: l’educazione me la
dava mia madre, per cui era colpa sua. Per questo ero sempre molto controllata e
cercavo di evitare di fare uno sbaglio, per non sentirmi colpevole di far soffrire
mia madre, facendoli litigare. Un giorno, ero già universitaria, ce l’avevo con
mio padre ed è successo che in quel frangente lui è svenuto in bagno ed io ho
sempre pensato che fosse stata colpa mia. Credevo che fosse morto, dunque la
morte esisteva, era entrata nella mia vita. Ricordo di essere corsa in farmacia con
una angoscia tremenda. In seguito, dopo il primo anno all’università, è iniziato
un progressivo accumularsi di rituali, fino a quando mi sono trovata impelagata
tutta; dare gli esami era divenuto tremendo: ogni nome, ogni data poteva
nascondere un’insidia, da neutralizzare attraverso rituali. Di conseguenza il

316
corso degli studi è andato a rilento. Ho preso trenta in un esame molto difficile
che mi piaceva moltissimo e ricordo che il professore aveva anche scherzato con
me durante l’esame, tutti ne erano rimasti colpiti, ma ho vissuto la mancanza
della lode nel voto come una mia imperfezione. In seguito, quando mi hanno detto
che una docente aveva parlato bene di me, avevo iniziato a frequentare il suo
Istituto. Ho fatto una tesi di 518 pagine, tutte battute da me, su un argomento su
cui non c’era quasi nulla da dire, supportandolo con argomentazioni serissime
che sono state anche citate. In seguito tuttavia mi sono accorta che questa
docente non mi voleva come collaboratrice. Da allora non ho più tanti stimoli, mi
sono sentita in difetto, una che ha fallito la propria vita. Mi dà fastidio pensare
che persone che valevano meno di me hanno fatto carriera, è un’ingiustizia”.
Nelle trame narrative si può osservare una dinamica tutto o nulla, per cui basta un
minimo cambiamento, qualcosa che va fuori posto o che non è ricomponibile e
l’intero equilibrio si rompe. Non è infrequente, in queste situazioni, che il periodo
precedente la rottura dell’equilibrio sia vissuto come una mitica età dell’oro, in
cui tutto era bello e felice. Infatti, la tendenza ad analizzare per contrapposizioni e
opposti porta a vivere anche le esperienze della vita nell’alternanza di chiaro-
scuri: “la mia infanzia è stata bellissima. Da piccolo ho trascorso lunghi periodi
da mio nonno. Lui era un mito, era esperto nel suo campo, quando stavo con lui
tutti mi rispettavano. Mia nonna era maestra elementare. Non l’ho mai vista
sorridere. Non era depressa, era sempre seria. Ha messo mia madre in collegio
dalle suore, che a volte la punivano anche quando non era colpa sua e questa
cosa non giusta la accettava. Ma anche mio nonno era severo. Ad esempio una
volta mia madre non voleva mangiare il riso e l’ha lasciata senza mangiare: ‘Non
mangi? Stai senza cena’. Poi però l’ha chiamata e l’ha costretta a mangiare il
riso davanti a lui. Mia madre ha sempre canonizzato i suoi genitori, li ha sempre
descritti come perfetti. Dunque, sono emerse immagini del passato, che
riguardavano anche il grande assente della mia vita, mio padre. Finora non
avevo parlato mai di mio padre. Primo ricordo. Avevo tra i 6 e i 10 anni. Correvo
male, ero impacciato e mio padre mi ha ripreso con la telecamera per far vedere
agli altri che correvo male. Lui faceva queste correzioni sadiche. Secondo
ricordo. Sono caduto nel laghetto dei giardini pubblici. Anche questa volta mio
padre mi ha fotografato e lo ha fatto vedere agli altri. Terzo ricordo. Mi ha tirato
un bicchiere in testa perché avevo combinato qualcosa, da qualche parte devo
avere ancora il bernoccolo. Quarto ricordo. Avevo tenuto male una sbarra,
producendo una ammaccatura sulla sua macchina e lui mi ha dato le botte. Erano
esplosioni di una persona che non c’era quasi mai, collegate in genere al
rapporto che aveva con mia madre. Mio padre mi ha proprio deluso”. In alcune
storie normative l’educazione, intesa come volere il bene del figlio, è associata in
maniera ambivalente alla punizione: una sorta di fare il male per fare il bene, per
cui il bambino ha difficoltà a inquadrare la figura accudente nella categoria

317
“buona” o “cattiva” e vive questa contraddizione come un problema insolubile,
che condiziona di conseguenza tutta la sua vita: “mia nonna, la madre di mio
padre, era veramente negativa. Anche se stravedeva per me, non mi è mai
piaciuta. Era un’insegnante un po’ sadica, picchiava gli alunni con gli anelli, gli
faceva male”. Attribuire la colpa all’altro può essere usato come uno strumento
pedagogico, senza la consapevolezza dei problemi che si creano, specie quando
l’obiettivo che deve essere raggiunto è, di fatto, irraggiungibile. Il bambino ha
l’impressione di non riuscire a quadrare il cerchio, per cui si colpevolizza per
questo fallimento, vissuto come prova della sua imperfezione, punendosi in ciò a
cui tiene di più: “mia madre mi diceva spesso ‘sei come tuo padre’. Quando se ne
è andato, io volevo chiudere il rapporto, perché mi sentivo respinto, invece lui
continua a venire. Anzi, mi ha pure chiesto scusa, mi ha detto, cosa che non ho
mai capito perché è incomprensibile per me, ‘io non sono un buon padre, ma un
padre buono’. Veramente ricordo che mi hanno messo in mezzo. Mia madre mi ha
detto che lui aveva un’altra e allora io gli ho detto che se ne doveva andare via di
casa. Sono stato messo in mezzo, ma ancora mi sento colpevole, come se fosse
stata colpa mia. Lui vuole che lo chiami tutte le mattine, mi ha dato l’ora, le 9.20.
Se non chiamo, chiama mia madre per chiedere come mai non ho chiamato. Ho
sempre avuto un grandissimo desiderio di riconoscimento da parte di mio padre,
che non ho mai avuto, tanto più che mia madre mi diceva che ero come lui. Certe
volte era allegro, sembrava che potessi averlo per me, che tutto andasse bene, poi
all’improvviso, tornava la collera, andava tutto male”. Le competenze relazionali
sono viste in rapporto alla propria capacità di impegnarsi e di rispettare le norme.
Questi bambini si meravigliano e appaiono spiazzati quando gli altri non si
comportano secondo le regole che gli sono state insegnate come giuste: non
“capiscono” perché gli altri si comportano diversamente. I coetanei che fanno i
capricci o approfittano di una situazione a proprio vantaggio sono visti con un
misto di curiosità (come se si studiasse un “animale strano”) e di
disapprovazione, così come non si comprende l’importanza data ai confronti con i
risultati ottenuti dagli altri: “a scuola cercavo di parlare con i compagni
facendogli vedere quello che sapevo, ma mi prendevano in giro e mi
emarginavano. Allora mi sono detto che avrei dovuto fare una scoperta originale,
che sarebbe rimasta nel tempo. Mi sono impegnato negli studi. All’università ho
provato a studiare fisica, ma c’era troppa matematica, non ero portato. Allora ho
scelto filosofia, cercando di arrivare ad una concezione originale. Ho fatto una
scelta tardiva, ma sono convinto che è stata una scelta giusta”.
In definitiva, attraverso la storia di sviluppo, è possibile ricostruire come
emergono e come evolvono i temi fondamentali intorno ai quali prende
consistenza la coerenza interna e come avviene la stabilizzazione (e, quindi, la
“chiusura”) degli aspetti invarianti di una OP: nei vari episodi significativi portati

318
nelle sedute e ricostruiti in moviola si può ricercare la ricorrenza delle scene dalle
quali viene attivamente costruito il significato personale.
Nelle OP a reciprocità Fisica, le attivazioni emotive negli episodi ricostruiti
appaiono generalmente vivaci e intense, con un valore regolativo rispetto ai
corrispondenti schemi cognitivi: la paura o la tristezza sono la chiave di lettura
della situazione esterna corrispondente (ad es., di non protezione e di pericolo
nelle OPF Controllanti o di solitudine e di negatività personale nelle OPF
Distaccate); esse appaino pertanto meno gestibili da parte del soggetto mediante il
filtro cognitivo e solo un comportamento adeguato (di avvicinamento o
allontanamento, di recupero del rapporto o di adattamento ad un percorso
indipendente) può estinguerle. Il senso di sé non appare legato ai cambiamenti
esterni, che vengono invece percepiti e riferiti a sé come “ovvia” conseguenza di
come ci si vede (amati o rifiutati, forti o fragili, autonomi o bisognosi di sostegno
e protezione).
Nelle OP a reciprocità Semantica, il bisogno di sentirsi importanti, amati,
considerati consente di articolare il senso di sé lungo un dipolo, positivo/negativo,
a seconda degli atteggiamenti delle figure prese come riferimento (il fatto che i
genitori, gli insegnanti o i compagni di classe non li/le considerino viene percepito
non come l’espressione dell’atteggiamento soggettivo di questi ultimi, ma come
una prova “oggettiva” del fatto che il soggetto vale poco, che merita di essere
discriminato/a, deriso/a, emarginato/a: l’esterno viene identificato con
l’attivazione interna da esso prodotta). In diversi passaggi maturativi, sempre nelle
OPS Contestualizzate, può essere ricostruito come uno stimolo anche banale e
contingente venga a volte utilizzato, non solo per mutare atteggiamento, ma anche
per cambiare il senso di sé: “un’amica mi ha detto che i jeans che mi ero messa
per la prima volta mi stavano bene; ci sono stata male, ho pensato che fino a ieri
mi sono vestita in maniera ridicola”. Le emozioni, specie quelle negative, nelle
OPS hanno sempre un contenuto di giudizio (legato alla disconferma nei
contestualizzati o ad errori da imperfezione nelle OPS Normative). Così
l’abbassamento del tono dell’umore percepito come tristezza è legato al confronto
con situazioni esterne di svalutazione o rifiuto; essa innesca una reazione di
rabbia, utilizzata a livello tacito in maniera strumentale per cambiare il punto di
vista dell’altro, per svalutarlo e sminuirlo (come accade nelle OPS
Contestualizzate, mentre nelle OPS Normative appare in rapporto a mancanze
dell’altro o a propri difetti, quando non si è aderito bene ad un modello ideale, non
sono state rispettate delle regole fondamentali, non si è fatto il proprio dovere.
RIFORMULAZIONE DELL’ESPERIENZA E CAMBIAMENTO
La riformulazione del problema clinico presentato – da quello iniziale, che è stato
all’origine della richiesta di aiuto, a quelli successivi, portati di volta in volta –
costituisce il nucleo dell’intervento psicoterapeutico. Nel corso del colloquio

319
clinico, l’ascolto e la condivisione di un’esperienza disturbante devono essere
sempre seguiti dalla sua riformulazione nell’ambito della stessa seduta. In caso
contrario, resta un vuoto e il soggetto ricaverebbe da quanto ha esposto solo una
ulteriore conferma di ciò che sapeva o pensava di sé in termini di spiegazioni
esplicite. L’intervento psicoterapeutico, proprio attraverso la riformulazione del
problema clinico presentato, consente infatti di lavorare sulle modalità interne di
ordinare l’esperienza. Il cambiamento di prospettiva, di regole e, quindi, di
consapevolezza, passa necessariamente attraverso il setting.
La riformulazione deve pertanto partire dall’inquadramento diagnostico del
problema presentato, dalla sua messa a fuoco in moviola attraverso episodi
significativi in cui si è verificato, per poi rileggerlo e riordinarlo nell’ambito del
modo di funzionare del soggetto e, quindi, della sua OP. In questo modo il
problema, solitamente vissuto e presentato con i caratteri della esternalità, viene
riportato alla internalità. Per esternalità si intende il fatto che, in genere, il
soggetto vive una esperienza problematica come determinata e condizionata
esclusivamente dagli eventi esterni o dagli stati interni e parla delle cose che gli/le
succedono come se accadessero indipendentemente dal suo modo di percepire e di
riferirsi le vicende che vive, nonché dal suo modo di reagire e di comportarsi di
conseguenza: ad esempio, “sentire di non avere mai un attimo di serenità, quasi
come se si trattasse di una situazione metereologica avversa”. Intorno alla
spiegazione data – che il soggetto pensa che sia l’unica verosimile e condivisibile,
operando una lettura “oggettiva” e, quindi, “esterna” del suo problema – tende
pertanto a costruire il contenuto di una seduta.
Il lavoro terapeutico, viceversa, consiste nel riproporre e restituire al soggetto
l’esperienza, che è stata interpretata in quel modo, come qualcosa legata al suo
funzionamento, che vale la pena provare a scoprire insieme. Spesso, trattandosi di
episodi disturbanti, la spiegazione esplicita si riferisce ad una delusione, di cui si
percepisce solitamente la rabbia “giustificata” (cioè la spiegazione
dell’attivazione emotiva conseguente), mentre sfugge quasi completamente
l’esperienza immediata di negatività (ad es., di inadeguatezza, svalutazione,
vergogna, colpa) che la precede: “con lei/lui non ci si può più parlare”; “ancora
una volta mi hanno chiuso definitivamente una porta”; “con lui/lei/loro non c’è la
possibilità di costruire qualcosa”; “mi sento dire delle cose che mi fanno capire
che non mi accettano”. Come si vede, l’attribuzione esterna porta a riferire un
problema quasi esclusivamente a situazioni ambientali che – se non si possono
modificare – rendono al soggetto la vita difficile o impossibile. Viceversa,
attraverso la riformulazione, mettendo a fuoco l’esperienza immediata che ha
preceduto la spiegazione, è possibile cogliere le percezioni, le immagini e le
corrispondenti emozioni negative con cui il soggetto ha riferito a sé
quell’esperienza (in termini di non controllo e pericolo in una OPF Controllante,

320
di solitudine e abbandono in una OPF Distaccata, di disconferma e fallimento in
una OPS Contestualizzata, di imperfezione e indegnità in una OPS Normativa).
Pertanto, se l’evento esterno, di per sé, non può essere modificato, si può in ogni
caso rileggere in chiave più adattiva l’attribuzione abitualmente scelta, senza
ricavarne più, necessariamente, una equazione del tipo “evento negativo =
negatività personale”.
Riformulare questi scenari in termini di internalità significa ricondurli al
funzionamento della propria mente e, quindi, al senso di sé, come un aspetto non
ancora ben chiarito del proprio modo di assimilare e di riordinare l’esperienza.
Pertanto, oggetto diretto della terapia non è quello di verificare la veridicità, la
validità o l’oggettività dei temi presentati, mentre è invece di primaria importanza
mettere a fuoco che senso ha per il soggetto riferirsi l’esperienza in un dato modo,
in rapporto alla sua storia personale ed alle sue modalità soggettive di riordinare
l’esperienza. In psicoterapia, le diverse espressioni di disagio psicopatologico
vanno co-esplorate insieme con il soggetto, tenendo presente la sua OP (a
reciprocità fisica o semantica, on-line o off-line), così da centrare l’attenzione sul
modo in cui il soggetto si attribuisce l’esperienza che lo fa soffrire, entrando
attivamente nella costruzione e nell’espressione dei sintomi. Alda Merini, che ha a
lungo avuto disturbi psichici, riflette nei suoi versi la difficile ricerca di un
adattamento che sublimi il dolore delle esperienze vissute: “La mia poesia è
alacre come il fuoco / trascorre tra le mie dita come un rosario. / Non prego
perché sono un poeta della sventura / che tace, a volte, le doglie di un parto
dentro le ore, / sono il poeta che grida e che gioca con le sue grida, / sono il
poeta che canta e non trova parole, / sono la paglia arida sopra cui batte il
suono, / sono la ninnananna / che fa piangere i figli, / sono la vanagloria che si
lascia cadere, / il manto di metallo di una lunga preghiera / del passato cordoglio
che non vede la luce” (La Volpe e il Sipario, 1997).
Un intervento centrato sulla soggettività può quindi aprire nuovi modi di riferirsi
quanto accade, favorendo una migliore demarcazione rispetto agli stressor esterni
e generando nuove forme di appartenenza al contesto, riducendo i pregiudizi e
l’emarginazione – lo stigma sociale che determina handicap – e migliorando, di
conseguenza, anche la prognosi.
Questo approccio entra in prima linea anche in interventi più ampi di tipo
integrato. Infatti, le terapie “sintomatiche” e “bottom-up” (dal livello molecolare
ai processi psichici), attuate mediante un uso scientificamente corretto e mirato
dei farmaci (preferendo quelli più efficaci, con minori effetti collaterali e meglio
tollerati), sono potenziate e centrate sulla persona dalla psicoterapia che, con una
dinamica “top-down” (dalla relazione interpersonale al livello biologico), può
produrre un cambiamento profondo e stabile delle emozioni, dei sentimenti e del
tono dell’umore (Nardi, 2007, 2010, 2016; Bellantuono, Nardi et al., 2009).

321
La possibilità di mettere a fuoco la negatività attraverso la quale ci si identifica è
quindi fondamentale per avviare il cambiamento del senso di sé. Per produrre
questo cambiamento, occorre che il proprio modo di funzionare cominci ad essere
tenuto presente nella mente del soggetto.
All’interno di un rapporto empatico e di fiducia, occorre attivare la sua curiosità
verso le proprie emozioni, dato che egli/ella è l’unico/a – anche se inconsapevole
– esperto/a di sé. È necessario che prenda coscienza del suo modo di funzionare,
imparando a mettere a fuoco le attivazioni interne e scoprendo l’importanza delle
relazioni intersoggettive significative nella selezione e nella gestione delle proprie
emozioni a partire dalla prima infanzia. Il soggetto può così iniziare a percepirsi
da un altro punto di vista, essendo protagonista, oltre che regista e sceneggiatore,
del modo in cui si rende presente a sé stesso e al mondo.
Le emozioni espresse dal sintomo diventano maggiormente regolabili e
integrabili in una espressione affettiva diversa che cambia il senso di sé: la nuova
regolazione interna cambia l’atteggiamento esterno. Questa possibilità di operare
una lettura delle attivazioni emozionali, che possono essere regolate e messe in
sequenza nella lettura interna, consente al soggetto di distanziarsi dal sintomo sul
quale concentrava tutta la propria attenzione. Pertanto, la scoperta di come le
emozioni non più regolabili hanno portato alla comparsa della propria
psicopatologia permette una nuova messa a fuoco che smuove il livello tacito, lo
rende esplicito e attiva un cambiamento ben più radicale di quello prodotto solo
operando sul controllo (farmacologico e/o psicologico) del sintomo.
Un intervento che pone al centro la soggettività consente di guardare, oltre la
storia clinica, alle risorse soggettive fornite dalla OP e a come mobilitarle, senza
chiedere ciò che al momento non è possibile esprimere, ma migliorando le
capacità adattive e aprendo alla scoperta di quanto inespresso si possiede per
poterlo liberare.
In questo cambiamento di prospettiva, il sintomo diventa una risorsa, in quanto
indica un problema di funzionamento che va ricercato attraverso l’esplorazione
clinica. Si può così rileggere la storia personale e superare il senso immanente di
debolezza, di fragilità, di sconfitta, di rassegnazione presenti all’inizio
dell’intervento. L’approccio alla soggettività insegna quindi non a cercare
guarigioni tanto illusorie quanto transitorie, ma a produrre un cambiamento che,
eventualmente associato alla correzione sintomatica prodotta farmacologicamente,
migliori le risorse individuali e consenta di rileggere le esperienze disturbanti e
destabilizzanti da una prospettiva diversa e più adattiva, che proprio per questo
genera nuovi coloriti soggettivi nelle proprie esperienze di vita.
Il cambiamento conseguibile attraverso le riformulazioni cliniche va oltre quello
che è il concetto medico di “guarigione” (dalla radice “var”, cfr. germanico
“varian” = guardare, difendere, proteggere, impedire), intesa come semplice
remissione e scomparsa dei sintomi (“restitutio ad integrum”), evitando che si

322
ripresentino subito dopo (“ricadute”) o a distanza di tempo (“recidive”). Ha a che
fare con il recupero e la riemersione dai sintomi, cioè con un processo attivo,
dinamico e marcatamente individuale che consente al soggetto di assumere un
ruolo da protagonista nella sua vita e nella gestione dei suoi problemi (“recovery”;
Antony, 1993; Jacobson et al., 2000, 2001; Davidson et al., 2005, 2009; Fisher,
2005; Sharfstein, 2005; Ramon et al., 2007).
Il concetto di recovery (dall’antico anglo-francese “recover” = riprendere
coscienza) ha una maggiore ampiezza di significato rispetto a quello di
“guarigione” (è riprendersi e recuperare forza e salute, ma è anche capacità di
ampliare la propria coscienza di sé, riutilizzando le proprie risorse e progredendo
verso un modo più adattivo di vivere l’esperienza); esso richiede quindi di
valutare i fenomeni clinici non tanto in funzione dell’esito, quanto in rapporto ai
processi che li producono (come si è detto, il sostantivo latino “processus”,
derivato dal verbo “procedere”, indica proprio l’azione di avanzare).
Pasculli (2017) ha osservato che “il termine recovery ha due accezioni. Una
clinica che è la remissione, misurabile, dei sintomi e della disabilità. La seconda
personale. Un processo per ripristinare un recupero della propria esistenza nelle
sue potenzialità e aspettative. Nel versante più ottimale significa che muove alla
crescita in modo che la persona coinvolta accetti la propria malattia ma non
l’identità (e lo stigma) di paziente psichiatrico, ridefinendosi e accettando la
situazione come una sfida della vita”. Dunque, recovery è scoprire che la
variabilità e persino la fragilità degli stati interni può dare (o fare riscoprire) senso
alla propria vita.
In definitiva, come ho già evidenziato (Nardi, 2017), in una psicoterapia post-
razionalista “il cambiamento clinico è molto più che una remissione
sintomatologica; non è semplicemente una guarigione, intesa come restitutio ad
integrum; non è nemmeno un recupero da una condizione di difficoltà, disabilità e
svantaggio, sia pure verso una di migliore funzionamento e di maggior benessere.
È un processo di crescita che coinvolge l’individuo come persona, nella sua
globalità affettiva, cognitiva e relazionale. Questo processo di crescita può
avvenire solo all’interno di una co-evoluzione ed una co-esplorazione del mondo
interno in cui terapeuta e soggetto si coinvolgono consapevolmente, costruendo
un’alleanza empatica che possa mettere a fuoco il mondo interno nelle sue
modalità – tacite ed esplicite – di riferirsi l’esperienza e, operando in questo
modo, possa farlo evolvere adattivamente nel profondo”.
Un cambiamento reale coincide anzitutto con il raggiungere un modo diverso di
prendersi cura di sé. È un far nascere qualcosa di nuovo nel rapporto con sé e il
mondo. I nuovi strumenti con cui si può esplorare e riferire gli stati interni rende
sopportabili e gestibili (“un peso che si è allenati a reggere”) quelle categorie di
esperienze critiche che prima non lo erano. La maggiore demarcazione tra mondo
interno e mondo esterno (= mondo interno degli altri, anch’esso espressione di

323
soggettività uniche) consente di non attribuire automaticamente a sé gli
atteggiamenti ed i comportamenti delle figure significative, così come permette di
non leggere gli stati psichici di queste figure in diretta connessione con i propri
stati e con i propri bisogni o aspettative. Come si è già evidenziato, il
cambiamento non coincide con il semplice aumento di consapevolezza: anzi,
quest’aumento, di per sé, può anche acuire il problema, se il soggetto non dispone
degli strumenti idonei a gestire il disagio che è all’origine del suo scompenso
clinico. Infatti, la consapevolezza a livello esplicito di un sintomo da sola non
basta per intraprendere un percorso adattivo: come ha detto una signora depressa,
che aveva un alto livello di consapevolezza (e di sofferenza), “il fatto è che a me
non funziona il ‘filtro’ con cui vedo la realtà e gli altri non possono capire come
ci si sente”). In realtà questa condizione, che sembra un “dato di fatto” ineludibile,
in terapia può cominciare ad apparire il punto di arrivo di un percorso abituale di
autoriferimento dell’esperienza, che può essere cambiato proprio perché non è
l’unico possibile, mentre invece è solo l’unico che quella persona ha imparato a
percorrere e a sentire come parte integrante del suo modo di essere al mondo.
Il soggetto può iniziare a non confondere più le modalità abituali di espressione
del sé – che si sono stabilizzate in stretta connessione con i fatti accaduti nella
storia personale e con i modi abituali di riferirseli – e le sue risorse personali,
incluse quelle potenziali, ignorate e, quindi, inespresse. In questo modo, il
repertorio di attivazioni e gli strumenti forniti dalla propria OP non sono più visti
come un problema ma come una risorsa utile. Ad esempio, in uno scompenso
psicopatologico, la capacità delle OPF di cogliere su chi si può contare o su come
si può gestire la propria autonomia può essere ridotta a dipendenza fisica dagli
altri o a un desolato senso di solitudine e di vuoto, così come nelle OPS la risorsa
di leggere giudizi e regole esterne (anche nelle loro eventuali ambiguità e
ambivalenze) può essere coartata e ridotta in dipendenza dal giudizio esterno o
incertezze e ruminazioni per non trovare cosa sia opportuno fare. Le
considerazioni fatte sul piano teorico vanno ovviamente declinate alla luce della
storia clinica, che in ciascun individuo assume caratteristiche uniche e peculiari.
Attraverso la messa a fuoco degli episodi significativi come in una moviola
cinematografica (Guidano, 1987, 1991, 2007) può emergere non solo
l’attribuzione esterna dei problemi personali, ma anche come questi sono declinati
nelle modalità abituali di riferirsi l’esperienza immediata, dalle quali derivano le
attivazioni emozionali significative e le trame narrative connesse con il senso di
sé. La ricostruzione della maniera specifica di sperimentare e di gestire la
discrepanza affettiva significativa, che sta alla base del disagio sperimentato,
consente di avviare un cambiamento adattivo progressivo liberando le risorse
della propria OP. Si può conseguire un nuovo e più articolato livello di coscienza
capace di accettare come proprio il nuovo modo di sentirsi, abbandonando
progressivamente gli stati emotivi, le rappresentazioni e i correlati cognitivi alla

324
base del modo discrepante di riferirsi l’esperienza. Ad esempio, i temi del timore e
della dipendenza dal giudizio esterno o dell’intrusività di una figura genitoriale,
propri di una OPS Contestualizzata, possono trovare una regolazione
dell’esposizione e della distanza con gli altri attraverso i comportamenti di ritiro e
chiusura tipici delle fasi depressive o di esternazione appagante propri delle fasi
ipomaniacali e maniacali. Nel corso delle sedute il soggetto può iniziare a leggere
i sintomi ricollegandoli alle dinamiche della relazione con le figure più
significative, rispetto alle quali ha creduto di emanciparsi e di affrancarsi
attivamente solo attraverso i momenti di libertà onnipotente delle fasi maniacali,
per poi ripiegare sconfitto in un reparto psichiatrico ospedaliero (SPDC, Servizio
Psichiatrico di Diagnosi e Cura) o rifugiandosi a lungo nel proprio letto sotto le
coperte.
In diverse storie cliniche, la distanza siderale tra sé ideale (quello delle
aspettative) e sé reale (quello che si sente e crede di essere) attiva gli scompensi
psicopatologici e fa da pietra di inciampo alla terapia. L’unica alternativa alla
condizione frustrante di dover aspirare ad essere il numero uno per poi ritrovarsi
comunque perdente può essere messa a fuoco frequentemente nel caso di un
disturbo bipolare, con le sue fasi di illusione euforica (di potersi finalmente
affermare come sarebbe piaciuto, senza avere il tempo per riflettere su di sé) e di
disillusa depressione che svuota di tutte le forze, confinando il soggetto in una
autosegregazione e disattivazione in cui almeno può non fare ciò che gli viene
richiesto senza sentirsi del tutto sconfitto. Non è casuale il fatto che il disturbo
bipolare (anche nelle forme “Tipo I” caratterizzate da un esordio maniacale) sia
praticamente sempre preceduto da momenti di depressione del tono dell’umore,
più o meno transitori, subclinici e spesso ignorati o trascurati. A volte, specie nelle
fasce più giovani di popolazione, il disagio esistenziale viene “automedicato”
attraverso l’assunzione di sostanze psicoattive, che producono il debutto clinico
(cosiddette “psicosi chimiche”). In questi casi, soprattutto quando la droga assunta
è una sostanza sintetica, si ricerca mediante essa un transitorio benessere e una
spinta per avere esperienze (di vita e sessuali) in cui sentirsi realizzati, in una sorta
di “non luogo” alternativo al proprio mondo. Ma, tentando di vivere lontano dai
problemi o di immergersi in esperienze parafisiologiche e rifugiandosi in una
dimensione alternativa per “farsi valere”, si finisce per sperimentare nuovamente
un senso di impotenza e di fallimento personale (percepiti come un dato
“oggettivo” non discutibile), rialimentando il dolore esistenziale di sconfitta in cui
ci si riconosce sempre più, fino a farne il proprio colorito soggettivo di fondo in
ambito relazionale, affettivo e lavorativo. Ne derivano fallimenti, non attesi
esplicitamente, ma attivamente prodotti a livello tacito. Persino i trattamenti
sanitari obbligatori (TSO), con una contenzione non sempre “necessaria” ma in
alcuni casi cercata e subita di buon grado dal soggetto, possono produrre un senso
di sollievo e di deresponsabilizzante tregua esistenziale.

325
Avere la possibilità di scoprire, attraverso la terapia, una diversa modalità di
leggere la propria storia clinica e di iniziare a sperimentare nuove attivazioni
emozionali avvia itinerari inesplorati, più personali e adattivi, lungo cui è
possibile avviarsi. Ci si può progressivamente distanziare, sia pure attraverso
transitori arretramenti e ricadute, dal precedente modello preso come unico
riferimento per la propria vita, che era dicotomicamente ambivalente e, quindi,
perdente: dover essere migliori ma sentire di non poterlo essere veramente mai,
per l’impossibilità di essere riconosciuti e di riconoscersi adatti a ciò che si cerca
(e che continua a lungo ad essere chiesto dall’ambiente significativo) o accorgersi,
troppo tardi, che la strada su cui si è investito nella vita non era adatta alle proprie
risorse individuali.
Mediante le “perturbazioni strategicamente orientate” (Guidano, 1987) prodotte
durante la psicoterapia, il soggetto può iniziare a vedersi come una persona che
può essere “normale” (nel senso fisiologico del termine) senza per questo sentirsi
perdente e fallito (a meno di esaltarsi temporaneamente nel corso delle fasi
maniacali). Il percorso bipolare della sua vita – finora l’unico utilizzato nella
costruzione e nel mantenimento della sua identità – può così iniziare a cambiare
pelle. Gradualmente, il focus sulla propria psicopatologia si sposta dalle
oscillazioni dell’umore al disagio ed alle difficoltà sperimentate nell’assimilare e
nel riferirsi l’esperienza, che hanno spinto il soggetto di volta in volta a “fare
presa sull’esterno”, a “essere un conquistatore e un perfezionista” o, viceversa, a
sentirsi “asociale, incapace, codardo, perdente” (tutti giudizi su di sé e non
proprie qualità “a priori”).
Il mondo interno inizia a diventare la prima variabile da monitorare,
sostituendolo alle oscillazioni dell’umore, in precedenza registrate come una sorta
di variabile esterna, indipendente da sé. Parallelamente a questo processo inizia
ad essere percepito il bisogno di sentirsi più autentico/a e attento/a alle proprie
esigenze, meno incline a rinunciarvi a priori pur di compiacere, di essere
apprezzato/a, condiviso/a o protetto/a, di non essere abbandonato/a dagli altri.
Ovviamente, nei periodi di eutimia in cui sta bene, il soggetto può lavorare meglio
su di sé, alzando quegli argini che gli/le consentiranno di reggere meglio le ondate
di “piena” delle successive fluttuazioni dell’umore.
Pertanto, anche nel caso dei disturbi bipolari (e delle psicosi in generale), il lavoro
terapeutico può consentire un graduale cambiamento del modo di vivere la propria
psicopatologia, da una condizione oggettiva, esterna e indipendente da sé ad una
propria modalità disturbata di assimilare e riferirsi le esperienze significative, a
causa di un precario funzionamento personale. In questi casi il lavoro terapeutico
è faticoso, impegnativo e lungo; procede inevitabilmente tra alti e bassi, con
evidenti resistenze al cambiamento; va sviluppato, non in contrapposizione agli
interventi psicofarmacologici, ma in parallelo, promuovendo le risorse del sistema
psichico individuale. Non è possibile prevedere un punto di arrivo, mentre si può

326
cogliere anche precocemente che, spostando il problema clinico nell’ambito del
proprio modo di funzionare, si possono evitare le ricadute eclatanti che sono alla
base dei ricoveri in fase acuta di scompenso ed è inoltre possibile creare un clima
di collaborazione con i familiari (non “colpevolizzati” oggettivamente e sollevati
dall’idea del fatto che si può superare il disagio, lasciando allo specialista il
compito di lavorare sul mondo psichico del soggetto).
La lettura interna della psicopatologia – che viene considerata come espressione
del disagio personale (“sintomo”) – la trasforma in “effetto” e non in “causa” della
difficoltà interna di riferirsi l’esperienza, per cui proprio il cambiamento del modo
soggettivo di riferirsi l’esperienza diventa l’obiettivo primario della terapia e,
quindi, il punto di snodo per arrivare ad un miglioramento adattivo.
Le perturbazioni strategicamente orientate fornite dal terapeuta consentono di
iniziare a guardare a sé e alla propria storia clinica da un diverso punto di
riferimento, generando nuove attivazioni emotive. Il lavoro terapeutico, che attiva
inizialmente una reazione di sorpresa collegata alla “anormalità” di cogliere per la
prima volta la patologia non come prova di un destino già segnato e come causa
del disagio personale e relazionale, può produrre miglioramenti evidenti già dalle
prime sedute, per poi avviare una fase più o meno lunga di fluttuazioni fatte di
miglioramenti e ricadute (dovute alle “resistenze” per il bisogno tacito di
mantenere la coerenza interna, quindi per la difficoltà a riconoscersi in un nuovo
stato, che attiva emozioni inusuali, percepite quindi come estranee al sé).
Dopo la riformulazione iniziale, inizia ad avviarsi un processo in cui la diagnosi
iniziale – data come assodata e, quindi, immodificabile – comincia a manifestare
delle “crepe”, attraverso le quali, oltre al miglioramento clinico, si apre uno
spiraglio di luce al disagio personale. Quando questo disagio comincia ad essere
visto in stretta connessione con le modalità interne di costruire e mantenere il
senso di sé, si trasforma in qualcosa su cui si può lavorare e diviene, quindi,
modificabile. La consapevolezza che il proprio approccio alla vita condiziona lo
stato psichico è la base per il cambiamento. D’altra parte, quest’ultimo,
migliorando l’andamento clinico, può consentire parallelamente di aggiustare la
terapia psicofarmacologica, che può essere rimodulata (ad es., grazie alla
remissione delle idee interpretative di autoriferimento e ad una minore ampiezza
delle fluttuazioni del tono dell’umore), riducendo gli effetti collaterali iatrogeni
(sedativi, psicomotori, metabolici, ecc.), anch’essi fonte di disagio e di handicap.
La progressiva messa a fuoco dei chiaroscuri presenti nelle relazioni significative
consente una migliore demarcazione ed una presa di consapevolezza dei propri
bisogni, che possono essere espressi in modo diverso rispetto all’illusorio valore
ricavato dalle crisi (ad es., maniacali, prima o poi inesorabilmente destinate ad
essere spente in chiusure depressive).
La scoperta che siamo attivi costruttori del senso di noi consente di attingere alle
risorse interne in modo migliore e diverso da quello abitualmente utilizzato. Si

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avvia in questo modo un decorso a pendolo, di miglioramenti e relativi
peggioramenti, in cui il disagio personale, da esclusivamente “organico” e
strutturale, appare sempre più espressione del funzionamento interno, scoprendo
le risorse – e non i limiti – della propria OP. Ciò consente una diversa messa a
fuoco del mondo psichico, con cui il soggetto inizia a prendere confidenza,
approfondendone l’ascolto ed esprimendolo, non più conformemente a schemi e a
richieste predeterminate, ma facendo attenzione ai bisogni connessi con l’unicità
delle proprie risorse. In questo senso la psicoterapia diventa effettivamente la
strada che non si conosce per arrivare a scoprire aspetti di sé, ricchi di risorse e
potenzialità, che non si conoscono, grazie al clima di empatia che consente di
smantellare le resistenze tacite al trattamento.
In sintesi, l’assimilazione e la rielaborazione dell’esperienza, operate sulla base
delle competenze adattive individuali, consente di mettere a fuoco le risorse
fisiologiche fornite dalla OP di quel soggetto. Ogni OP consente infatti di
sviluppare in modo particolare alcune specifiche suscettibilità senso-percettive,
che derivano dal fatto che essa appare più “permeabile” e “attenta” agli aspetti più
significativi ed ai domini prevalenti nel suo ambiente. In questo modo ogni OP
matura delle peculiari competenze valutative ed operative, ottenendo delle risorse
adattive selettive e specializzate, che vengono affinate e perfezionate nel corso
della vita. Queste risorse adattive fisiologiche continuano ad essere in qualche
modo presenti (e vanno pertanto messe a fuoco) nelle diverse forme di disagio
clinicamente significative. In condizioni patologiche, infatti, queste risorse
appaiono mascherate dai disturbi psichici e comportamentali, che finiscono per
costituire rigide gabbie, le quali limitano il soggetto e ne compromettono la
ricerca di un migliore adattamento, impedendogli di utilizzare le potenzialità di
cui comunque dispone. Sotto questo aspetto, la psicopatologia esprime una
restrizione più o meno rigida delle modalità di riferire a sé l’esperienza, che il
soggetto vive come oggettive, esterne e che quindi subisce, con una conseguente
compromissione delle risorse personali di adattamento.
Il processo psicoterapico, attraverso la riformulazione dell’esperienza, può
consentire di mettere a fuoco e gestire queste modalità di riferire a sé l’esperienza,
cambiando di conseguenza le corrispondenti attivazioni emotive, in modo da
esprimere le proprie risorse in modo più flessibile e adeguato sul piano adattivo.
Come in generale avviene in ogni apprendimento (e al contrario di quanto si
verifica in seguito all’assunzione cronica di farmaci neurolettici di prima
generazione), il cambiamento psicoterapico modifica la plasticità cerebrale,
incrementando tra l’altro le spine dendritiche e modificando il funzionamento
sinaptico (ad es., tra le tante pubblicazioni, cfr. Gabbard, 2000; Paquette et al.,
2003; Siegle et al., 2006; Straube et al., 2006; Felmingham et al., 2007; Frewen et
al., 2008; Apostolova et al., 2010; Karlsson et al., 2010; Karlsson, 2011).
La possibilità di tener conto delle risorse, tacite ed esplicite, proprie della OP,

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individualizza il percorso terapeutico e mette il soggetto al centro del percorso, di
cui egli fornisce il materiale interno, così che può iniziare ad esplorarlo con gli
strumenti che il terapeuta gli/le mette a disposizione. Nella riformulazione
dell’esperienza risulta pertanto fondamentale valutare le modalità soggettive di
assimilare l’esperienza che si sono consolidate per definire il senso di sé.
Il fatto di scoprire le proprie modalità di assimilare e riferirsi l’esperienza –
attraverso la riformulazione di episodi di vita vissuta messi a fuoco in moviola –
appare determinante per individuare nuovi modi di funzionare, più adattivi e
flessibili, compatibili con la propria OP. Diventa possibile, in questo modo, una
migliore demarcazione tra il proprio mondo interno e quello degli altri e cambiare
le attivazioni emozionali conseguenti a quella stessa esperienza, prima assimilata
nell’unico modo che appariva possibile, quasi come fosse il solo veramente
oggettivo. Riformulare l’esperienza mette quindi a disposizione nuovi strumenti
per riferirsi ciò che è accaduto, producendo una diversa attivazione emozionale
che il soggetto – consapevole di essere protagonista del suo mondo interno – può
vivere come propria, scoprendosi capace di valorizzare la sua unicità, anche
quando deve affrontare esperienze negative, senza più ricavarne necessariamente
una negatività e inadeguatezza personale. Le modalità della propria OP, vissute in
precedenza come ciò che portava a subire passivamente gli eventi, iniziano ad
essere guidate dal proprio mondo interno, senza più creare una identificazione tra
la storia (le esperienze vissute) e il valore personale (in termini di capacità e di
amabilità).
La messa a fuoco in moviola del proprio modo di funzionare interrompe la rigida
equazione tra i fatti accaduti e il valore personale che si ricavava da essi,
permettendo di scoprire nuove possibilità di esprimere la propria unica e
irripetibile identità, della quale il soggetto si accorge di essere attivo costruttore,
non subendo più passivamente l’esperienza. Quella negatività che fino a quel
momento era vissuta come un dato di fatto, inizia infatti ad apparire come una
costruzione operata attivamente, nata dal modo abituale di riferirsi le cose, per cui,
a partire da una situazione negativa, si ricavava automaticamente anche una
negatività personale.
La scoperta di nuovi modi di riferirsi l’esperienza apre dunque nuovi orizzonti
alla sperimentazione delle proprie capacità di funzionare e di essere al mondo,
estendendo e cambiando anche la tavolozza dei coloriti soggettivi forniti dalle
attivazioni emozionali. Certamente queste ultime sono diverse se la medesima
esperienza viene vissuta non più come una ulteriore prova della presunta
negatività personale ma, semplicemente, come una delle tante cose che nella vita
di ciascun soggetto possono andare male (e che peraltro, a livello tacito, possono
essere attivamente prodotte per sperimentare proprio quell’unica modalità di
attivarsi in cui il soggetto ha imparato a riconoscersi). Diventano così disponibili
gli strumenti adattivi offerti dalla propria OP, che inizia a rivelarsi come una

329
risorsa positiva che consente di mettere a fuoco e di gestire aspetti specifici della
realtà interna ed esterna, individuando i comportamenti e le scelte più utili alla
propria realizzazione nella fase di vita che il soggetto attraversa.
Nelle OPF Controllanti la riformulazione dell’esperienza, a partire dagli episodi
significativi portati dal soggetto e messi a fuoco in moviola, consente di attingere
alle risorse della propria OP fino a quel momento ignorate e non utilizzate, ad
esempio cogliendo la propria attitudine ad individuare riferimenti affidabili e
spazi liberi di cui poter usufruire in accordo con i propri bisogni; consente anche
di attingere al proprio senso pratico per individuare e gestire nel modo più sicuro
rischi e pericoli, scegliere ciò che vale la pena controllare, scremandolo da ciò che
non è necessario gestire e controllare. Grazie alla riformulazione degli episodi
messi a fuoco in moviola, che consente di rendere esplicito il tacito, non solo si
può aumentare il controllo dell’esperienza – accrescendo la capacità di trovare
basi sicure e spazi di libertà quando se ne sente bisogno – ma si può anche inserire
la ricerca di basi sicure e di spazi di libertà nel modo abituale di riferirsi
l’esperienza, riconoscendo come il controllo della distanza è utilizzato nel
mantenimento del senso di sé. È così possibile trovare nuovi modi di gestire
l’equilibrio tra i bisogni interni di protezione e libertà e costruire relazioni più
duttili con chi è compatibile con essi. Ciò che inizialmente è percepito come
fragilità personale può essere riletto come espressione del modo finora utilizzato
per regolare il rapporto con le figure significative (riavvicinandosi/le o
impedendosi/le di allontanarsi attraverso i sintomi), aprendo nuovi sbocchi alla
reciprocità.
Nelle OPF Distaccate la riformulazione dell’esperienza consente di scoprire la
propria attitudine all’autonomia e alla gestione delle situazioni come una risorsa
utile non solo quando mancano riferimenti disponibili, ma anche come base per
condividere con gli altri le proprie capacità. Essere consapevoli di saper operare
da soli e portare avanti i progetti di vita intrapresi apre anche alla possibilità di
condividere responsabilmente e costruttivamente lo stare insieme con gli altri e di
avviare, se si verifica l’opportunità, un rapporto affettivo stabile. La possibilità di
riconoscere e riferire a sé aspetti taciti prima del tutto (o in parte) ignorati
consente un graduale cambiamento del vissuto di solitudine; in questo modo si
può passare da una visione di sé percepita come oggettivamente negativa e
irreversibilmente compromessa (per costituzione o per destino), alla messa a
fuoco delle proprie modalità soggettive (abituali ma non uniche o irreversibili) di
riordinare la propria esperienza, sulle quali si può lavorare per iniziare a stare
meglio. La riformulazione degli episodi significativi fornisce al soggetto gli
strumenti per mettere a fuoco come costruisce attivamente il senso di negatività
personale. Gradualmente prende dimestichezza che questo suo modo abituale
negativo di vivere l’esperienza non è l’unico – né il più funzionale – tra quelli

330
possibili. Può così scoprire di poter vivere situazioni analoghe in modo diverso,
con conseguenti migliori attivazioni emozionali.
Nelle OPS Contestualizzate la riformulazione dell’esperienza consente di
acquisire la consapevolezza di avere una elevata sensibilità nella messa a fuoco
degli atteggiamenti e degli stati interni degli altri, il che permette di utilizzare
giudizi esterni e risultati acquisiti come bussola per migliorare le proprie risorse e
focalizzare costruttivamente gli obiettivi alla propria portata (inclusa la capacità di
prendere “per il verso giusto” gli altri senza specchiarsi in loro e, quindi, senza
ricavare dal loro atteggiamento informazioni sulla propria adeguatezza, sulla
propria amabilità o sul proprio valore). Al tempo stesso la possibilità di esprimere
meglio le proprie risorse consente di realizzare legami amicali, nei quali sia
possibile condividere aspetti significativi del proprio mondo con quanti possono
apprezzarli e condividere le affinità, ed un rapporto di coppia, su un piano di
adeguata reciprocità, intimità ed esclusività. Questo non permette solo di
aumentare il controllo dell’esperienza e la possibilità di avere conferme,
tollerando meglio le disconferme, ma di inserire la ricerca di conferme e
l’evitamento delle disconferme nel modo abituale di riferirsi l’esperienza. Il
soggetto si può così demarcare meglio, collegando ciò che accade all’espressione
di un bisogno interno ed esplorando in quali contesti e da quali persone può
ottenere conferme senza legarle necessariamente al suo valore e a quello degli
altri.
Nelle OPS Normative la riformulazione dell’esperienza consente di attingere alle
risorse della propria OP fino a quel momento ignorate e non utilizzate; ad
esempio, la ricerca di valori e di condotte coerenti con essi, che funge da guida nel
confronto con l’esperienza, permette di superare le asperità e le contraddizioni
della vita e di scegliere compagni di viaggio con cui è possibile condividere ciò in
cui si crede. Ciò vale – su un piano di maggiore impegno, responsabilizzazione e
condivisione – nei rapporti più significativi, specie quelli affettivi, tenendo conto
che per i soggetti con OPS Normativa (al contrario di quanto accade ad esempio
in quelli con una OPF Controllante) più che le affinità genetiche (“legami di
sangue”) contano quelle etiche e culturali (“legami ideali”). In questo modo non
si aumenta solo il controllo dell’esperienza – favorendo la ricerca di certezze e
migliorando la tolleranza dei dubbi – ma si può inquadrare il senso del dovere e il
confronto con l’esperienza del dubbio nel modo abituale di riferirsi l’esperienza,
così da verificare con maggiore flessibilità i criteri interni, esplorando se e come è
possibile condividerli con altri, rispettando sia il proprio punto di vista che il loro.
Il cambiamento fa cogliere sia la continuità che la discontinuità del significato
personale: è la capacità di vedere la propria vita come un processo unitario in cui
l’assimilazione dell’esperienza può cambiare, divenendo più adattiva se si
acquisiscono nuove modalità di riferirsela che siano più flessibili, duttili e
integrate. Le difficoltà e le sofferenze sperimentate non sono più viste come

331
esterne e accettate quindi passivamente, in quanto esclusivamente legate a ciò che
è accaduto; esse appaiono invece come la conseguenza del non aver potuto
usufruire in precedenza degli strumenti acquisiti mediante la terapia: “mi sono
resa conto che non mi sono del tutto raggiunta nell’amare me stessa, voglio di
più. Dal passato che ero, da ciò che ho fatto o non ho fatto, ho ricavato che è
stato come se avessi vissuto una vita non mia, senza prendere veramente in
considerazione i miei bisogni, anche se ho sempre lottato per le cose che sentivo
profondamente giuste. Il lavoro fatto mi ha dato come un’energia che mi ha
svegliata”. In questo modo diventa possibile esprimere meglio le proprie risorse,
sentendosi protagonisti attivi di ciò che si produce e di ciò che si sceglie a livello
personale e relazionale.
DIFFICOLTÀ TERAPEUTICHE E RESISTENZE AL CAMBIAMENTO
Nell’impostare un colloquio clinico in una psicoterapia post-razionalista ci si
trova anzitutto di fronte a tre ordini di difficoltà: 1) il problema dell’oggettività; 2)
la tendenza al razionalismo; 3) il “mito” della trasparenza.
In relazione alla oggettività, il terapeuta deve tenere presente che il contesto
esterno va messo a fuoco come punto di partenza per poi esplorare la dimensione
soggettiva interna del soggetto: quello che importa è ricostruire non ciò che è
realmente accaduto, quanto la sequenza degli stati psichici con cui il soggetto ha
vissuto ciò che è successo, nonché le sue conseguenze.
Considerare solo una prospettiva “oggettiva” presuppone l’ipotesi che le cose
accadano in sé, indipendentemente dal nostro essere sulla terra e dal nostro modo
di provare emozioni, come se si potesse vedere tutto dall’alto e dal di fuori. La
tendenza al razionalismo si esprime nella tentazione, durante il colloquio, a
convincere, persuadere, rilevare e correggere le contraddizioni del soggetto,
anziché utilizzarle come fonte di conoscenza per metterne a fuoco le regole di
base del suo funzionamento. Il rischio del “mito” della trasparenza sta nel non
cedere alla tentazione di rivedere e correggere l’interpretazione che il soggetto dà
di un evento che ha vissuto. Ciò che egli dice non corrisponde a ciò che sente.
Non c’è isomorfismo tra parole e stati mentali, tra convinzioni, immagine di sé ed
emozioni sottostanti (se mai, è vero l’opposto). Occorre indagare invece come una
persona, che ha un suo modo di vedere, cerca di mascherare le emozioni
sottostanti, al fine di renderle assimilabili all’immagine di sé che ha in corso.
In un’ottica soggettivista, il terapeuta – non essendo un “possessore di verità” –
non solo ha la consapevolezza di non essere al di sopra della relazione terapeutica
e di non essere il depositario dell’unica prospettiva possibile, ma è a conoscenza
del fatto che, essendo immerso nella relazione, è modificato a sua volta da ciò che
accade: il rapporto duale coinvolge e modifica entrambi, soggetto e terapeuta, ed
entrambi co-evolvono.

332
Come ha osservato Guidano (1987, 1991, 2007), il terapeuta deve essere
consapevole che ciò lo espone al rischio costante di attivarsi emotivamente e di
essere perturbato dalle ansie e dalla sofferenza dell’altro, per cui dovrebbe avere,
metaforicamente, un “dosimetro” per tenere presente se si espone al rischio di
avere “assorbito” troppa ansia, tale da superare il livello di guardia oltre il quale
diviene pericoloso procedere, per sé e per il soggetto. Per questo motivo è
fondamentale fare un adeguato percorso di formazione personale, in modo da non
confondere le proprie attivazioni con quelle del soggetto che si ha in cura.
Occorrerebbero, sempre per dirla con Guidano, dei dosimetri che misurino i “bit”
di consapevolezza. Un altro rischio del terapeuta è legato all’aumento eccessivo
della sua consapevolezza del mondo, a causa dell’esperienza del mondo (e,
quindi, di sé) di tipo “vicario”. A volte può sentirsi isolato, staccato dalla realtà;
lavora per ore chiuso in una stanza. La maggiore quantità di esperienza sul mondo
affettivo che ha avviene attraverso gli altri. Ciò è potenzialmente pericoloso, in
quanto aumenta il tasso di ambiguità di cui deve tenere conto. D’altra parte,
occorre avere grande cautela anche nei confronti dei soggetti che si segue; ogni
perturbazione operata in terapia può letteralmente cambiare loro la vita, non
sempre in maniera tollerabile e positiva. Va tenuto presente che non esiste una
soluzione definitiva per tutte le cose e che è sempre arbitrario dire “questo è
meglio e questo è peggio”.
Per quanto concerne le difficoltà “tecniche” che si incontrano in psicoterapia,
vanno considerati quegli ostacoli al lavoro terapeutico che sono comunemente
raggruppati con il termine di “resistenze”.
Esistono due espressioni fondamentali di resistenza al trattamento.
Le resistenze generiche sono legate ad una difficoltà, da parte del soggetto e del
terapeuta, di costruire una alleanza terapeutica adeguata sul piano empatico e del
progetto terapeutico che si propongono di costruire. Questa difficoltà è espressa
dalla messa in atto di giochi relazionali, che modulano il contesto di reciprocità
emotiva (atteggiamenti assertivi, agonistici, di avvicinamento o allontanamento,
ecc.), i quali possono interferire con il lavoro terapeutico, condizionandolo molte
volte negativamente.
Le resistenze specifiche sono l’espressione delle difficoltà emotive che un
soggetto ha a modificare il proprio punto di vista; si tratta, quindi, di un processo
autoreferenziale, attraverso il quale si tende a conservare invariata la coerenza
interna, per cui vengono attivamente escluse le esperienze perturbanti che
risultano discrepanti con il senso di sé. Spesso il soggetto verbalizza in maniera
esplicita il suo timore che il terapeuta lo/a possa “cambiare” o “trasformare in un
altro/a”, facendogli/le perdere quelle caratteristiche personali nelle quali ha
imparato a riconoscersi. Pertanto, conservare un certo ordinamento della propria
esperienza appare un processo primario di conservazione del senso di sé, in
termini di unicità e di continuità nel tempo.

333
Le resistenze specifiche sono tanto più forti, quanto più: a) le emozioni critiche
sviluppate a partire dalla relazione di attaccamento hanno pesato nella vita del
soggetto; b) i processi di mantenimento della coerenza interna (la coesione dei
processi affettivi e cognitivi che consente un senso unitario e integrato di sé) sono
rigidi o fragili; c) i confini tra mondo il proprio mondo interno e quello esterno, tra
bisogno di appartenenza e quello di demarcazione rispetto all’ambiente
significativo, sono labili, confusi, instabili, ambigui o ambivalenti; d) la distanza
tra sé ideale e sé reale è grande, per cui non si tollerano e non si superano
insicurezze, incertezze, imperfezioni e discontrolli (anche minimi) nelle
prestazioni personali e nelle relazioni sociali.
Dato che la coscienza è strettamente legata al mantenimento della coerenza
interna, essa è condizionata dalle modalità di chiusura e di apertura mediante le
quali viene organizzato il significato personale. Partendo dai sintomi e dalle trame
narrative, si può ricostruire il modo di funzionare di un soggetto: se non si
modifica questo modo, agendo sulle attivazioni emozionali, non è possibile
nessun cambiamento stabile di rilievo, ma solo una remissione temporanea dei
sintomi o una diversa espressione del disagio, attraverso nuovi sintomi. Ad
esempio, una persona depressa che si è organizzata una coerenza interna centrata
sul senso negativo di sé, tenderà a costruirsi e a riferirsi le esperienze successive
in continuità con questo senso negativo. Trattandosi di processi taciti, il soggetto
non è consapevole che molte scelte di vita e molti eventi possono essere prodotti
da lui/lei (ad es., “scegliendo” situazioni fallimentari, costruendo attivamente
“fallimenti” o, semplicemente, dando rilievo solo a ciò che è negativo e
spiegandoselo non come una delle tante cose della vita che possono non
funzionare e andare male, ma come una “prova” oggettiva e definitiva della
propria negatività). Se non si mette a fuoco che questa “visione negativa” non è
semplicemente una “convinzione sbagliata”, ma è invece l’espressione dell’unico
modo di cui dispone il soggetto per mantenere la sua coerenza interna e, quindi, il
senso di continuità di sé, non si può fare un intervento realmente efficace (Nardi,
2007, 2016).
Il successo della terapia si gioca, infatti, sulla delicata interfaccia tra il bisogno
soggettivo di “continuare a sentirsi se stesso/a”, mantenendo costante la propria
identità, e quello di poter cambiare in senso migliorativo, trovando un modo più
adattivo di sentirsi se stesso che non includa necessariamente l’essere
“negativo/a”. Solo così diviene possibile operare una distinzione consapevole tra
eventi negativi che accadono e negatività personale: “quello che mi è successo è la
mia storia, ma non quello che sono”. Se non si può operare questa riformulazione,
facendo un altro esempio, può accadere che una donna, con esperienze infantili di
ripetuti abusi subiti, continui a sentirsi “sporca” (e non “sporcata”) e a fare, di
conseguenza, investimenti affettivi svalutanti. In questo modo, il rafforzamento
dell’immagine negativa di sé continua a interferire con la sua vita affettiva e la

334
può portare tacitamente, ad esempio, a scegliere un partner con problemi di abuso
cronico di alcol, che spesso la picchia in conseguenza di un delirio di gelosia; in
maniera solo apparentemente paradossale, lei tuttavia lo giustifica, spiegandosi
che, in fondo, lui tiene a lei, come se le percosse fossero l’unica manifestazione di
attenzione e “coccole” che si può aspettare dalla vita (Nardi, 2007, 2016).
Pertanto, le “resistenze” che il terapeuta incontra nel corso di una psicoterapia
sono riconducibili alle difficoltà emotive che un soggetto ha a modificare il suo
punto di vista. Si tratta, quindi, di un processo autoreferenziale attraverso il quale
si tende a conservare invariata la coerenza interna, per cui vengono attivamente
escluse le esperienze perturbanti che non sono compatibili con il mantenimento
del senso di sé. Anzi, può succedere che il soggetto esprima esplicitamente al
terapeuta la sua paura di venire “cambiato/a”, di “diventare un altro/a”, temendo
di perdere quelle caratteristiche personali attraverso le quali ha imparato a
riconoscersi. Pertanto, cerca tacitamente di mantenere l’ordinamento abituale
delle esperienze che vive anche nei casi in cui questo ordinamento lo può far
soffrire e continua a produrre un senso negativo di sé.
In questi casi, è fondamentale che il terapeuta spieghi che il cambiamento può
avvenire facendo emergere in modo diverso le risorse di cui il soggetto dispone,
arricchendolo e non trasformandolo “da fuori” in un’altra persona. Questo
processo evolutivo è possibile in quanto, come hanno osservato Lenzi e Bercelli
(2010, PP. 201, 203), la psicoterapia è un modo speciale e specifico di conversare
che, nell’alternanza dei turni di parola, consente non solo di parlare dei propri
problemi, ma di sentirsi riconosciuti e capiti, avviando un’alleanza che produce il
cambiamento: “iniziamo a prendere in considerazione l’aspetto di base, ovvero il
‘parlare con un’altra persona dei propri problemi’. La dimensione qui in gioco è
anzitutto quella dei contenuti. Il condividere i propri problemi e l’acquisizione di
una più funzionale e più estesa conoscenza di sé risultano l’obiettivo terapeutico
per eccellenza. Intorno a questa dimensione si dispiegano diverse modalità
terapeutiche e relativi fattori specifici e aspecifici di cambiamento. Il parlare dei
problemi in condizioni tali da consentire la focalizzazione riflessiva facilita un
adeguamento delle modalità di fronteggiamento da un lato e dall’altro un
incremento della conoscenza di sé. Ovviamente non sempre le modalità interattive
e discorsive del paziente sono tali da consentire tali acquisizioni. Ecco allora che
occorre puntare l’attenzione sulle due ulteriori dimensioni che vanno a
caratterizzare le modalità di conversazione. Con l’espressione ‘parlare
sentendosi capiti’ intendiamo l’insieme delle modalità conversazionali relative
alla costruzione di una comprensione condivisa del problema e soprattutto a
quella sintonizzazione nelle modalità interattive tale da far sì che la persona si
senta riconosciuta e capita dal terapeuta, ingredienti questi riconosciuti come
essenziali in ogni valido rapporto terapeutico… Ci sembra in effetti che la terapia
cognitiva possa trovare una sua sostanziale definizione e individuazione proprio

335
nella dimensione dell’elaborazione ovvero nella costruzione di un atteggiamento
di auto-osservazione intesa come modalità idonea a favorire una maggiore
competenza autobiografica, utilizzando la descrizione di eventi come espediente
per il recupero e il riordinamento di elementi conoscitivi non integrati”.

CONCLUSIONI
Seguendo un approccio psicoterapeutico post-razionalista, attraverso la
molteplicità delle trame narrative emerge l’unicità di ciascuna vicenda personale,
sia che si dispieghi in maniera sostanzialmente lineare nella vita, sia che passi
attraverso fluttuazioni a volte turbinose e improvvise o altre volte lente e graduali,
sia ancora che viri bruscamente rispetto ai precedenti trascorsi. L’irripetibile
irreversibilità delle modalità soggettive di assimilare l’esperienza e di riferirla a
sé, per mantenere la stabilità della coerenza interna, esprime la dinamica psichica
tra la chiusura organizzativa tacita e l’apertura strutturale esplicita, che è propria
di ogni Organizzazione di Personalità (OP).
In quanto espressione della OP, la complessità della coscienza emerge da un
processo dinamico, che si basa su modalità bilivellari di assimilare e di
autoriferirsi l’esperienza, nella continua dialettica tra esperienza immediata (con i
suoi contenuti senso-percettivi, emozionali e immaginativi) ed esperienza spiegata
(logico-razionale, analitica, verbale). Muovendo dalla ricostruzione “in moviola”
di sequenze significative di vita è possibile mettere a fuoco le modalità,
ampiamente inconsapevoli e “tacite”, attraverso cui un individuo è solito riferirsi
l’esperienza. Le attivazioni emozionali sono fondamentali nei processi che
portano a definire l’OP, sebbene il soggetto ne sia scarsamente consapevole: la
qualità della risonanza affettiva determina l’ordinamento esplicito razionale,
scelto tra gli innumerevoli possibili, sebbene questo ordinamento esplicito venga
percepito, a livello consapevole, non come la modalità utilizzata abitualmente, ma
come l’unica logica possibile. Ricostruire gli aspetti taciti del riordinamento
esplicito consente di recuperare il mondo interno ad una dimensione consapevole
progettuale e di liberare le potenzialità per gli investimenti futuri, attraverso una
presa di coscienza della memoria emozionale che definisce l’identità come ricerca
di significato personale.
A livello sia di ricerca che clinico, l’approccio costruttivista post-razionalista –
superando concetti tradizionali, eccessivamente riduzionisti e semplicistici, come
quelli di “verità” e “falsità” oggettiva nell’osservazione di un sistema conoscitivo
individuale – consente di porre come obiettivo quello di mettere a fuoco le risorse
adattive individuali. È così possibile ricostruire gradualmente, in termini più
complessi e adattivi, la coerenza interna che, come ha osservato Guidano (1987),
traspare oltre l’apparente illogicità delle emozioni disturbanti. In questo percorso
esplorativo, sia l’osservatore che il soggetto investigato co-evolvono, mentre le
“perturbazioni strategicamente orientate” del terapeuta consentono all’individuo

336
di guardare a sé da livelli di coscienza nuovi e più adattivi, come ad una persona
che si realizza attivamente e non come a un soggetto che vive passivamente i
cambiamenti interni ed esterni, con la consapevolezza di avere a disposizione
strumenti adeguati per poterli fronteggiare. Si realizza quindi una co-esplorazione
che è orientata strategicamente ad un cambiamento sul piano della flessibilità
adattiva, prima ancora che su quello della conoscenza esplicita.
I processi maturativi della psiche si attivano in uno spazio fluido e dinamico, nel
quale l’individuo comincia a prendere coscienza del suo modo unico di costruire il
senso di sé, del mondo e del tempo. Inizia a leggere la sua vita in modo unitario e
coerente e non come un insieme seriale di esperienze e di caratteristiche statiche e
isolate, derivate da situazioni e da eventi accaduti in determinati momenti della
sua esistenza. Questa dimensione evolutiva è importante sotto il profilo
epistemologico – relativo a come si organizza la conoscenza – dato che apre ad
una riflessione sul proprio tempo, longitudinale e tripartito: c’è il passato della
memoria; c’è il presente dell’equilibrio o della crisi e dei turbamenti; e c’è il
futuro dell’immaginazione e delle aspettative. Quando una visione pietrificata del
passato imbriglia gli sforzi adattivi e si cristallizza in una serie di spiegazioni
ripetitive delle attivazioni disturbanti sperimentate, lavorando “in moviola” su di
esse si possono sbloccare nuovi modi di riferirsi l’esperienza, più vantaggiosi e
produttivi, compatibili con l’espressione delle risorse personali.
Nella difficile e complessa esplorazione del mondo interno dell’altro (parallelo ma
mai sovrapponibile a quello del terapeuta), non serve cercare di comprendere con
distacco o commuoversi confusivamente, ma, partendo dall’esperienza portata dal
soggetto, occorre co-esplorare con empatia come si può attingere in modo più
adattivo alle modalità personali, uniche e irripetibili, di darsi una coerenza interna.
Solo dentro questa trama irriducibilmente soggettiva ma condivisa è possibile un
incontro autentico con l’altro. È quello che il soggetto cerca – senza sapere se
riuscirà a trovarlo – anche quando si difende attraverso le “resistenze” alla terapia,
per mantenere il suo modo abituale di conoscersi e riconoscersi; ed è quello che
anche il terapeuta continua a cercare, regolando distanza e calore emotivo in base
alla sua capacità di cogliere e monitorare sia i coloriti soggettivi di chi ha di fronte
che i propri.
Una psicoterapia strategicamente orientata in senso adattivo consente di far
emergere le potenzialità nascoste dentro l’esperienza soggettiva, nei suoi livelli
immediati, taciti e scarsamente consapevoli. Si può sperimentare allora, nel
percorso evolutivo in atto, che l’incontro con noi stessi e l’incontro con l’altro non
è che la diversa sfaccettatura di un unico grande tema: il viaggio della vita
attraverso il filo della memoria individuale, in una trama narrativa che può essere
arricchita, cambiata e resa aperta ad esiti più percorribili quando si riesce ad
attingere alle risorse adattive presenti anche dietro le patologie più profonde.
Attraverso la messa a fuoco per contrasto, operata confrontando il flusso senso-

337
percettivo con gli schemi ideo-affettivi utilizzati per mantenere la coerenza
interna, iniziano a delinearsi le modalità con cui ciascun soggetto articola il suo
senso di sé in maniera unitaria e globale, ma anche specifica e irripetibile.
La riformulazione dell’esperienza consente quindi di accedere a nuovi modi,
compatibili con la propria OP, di sperimentarla, cambiando conseguentemente
anche le corrispondenti espressioni comportamentali e cogliendo le risorse interne
che fanno di un individuo una persona assolutamente unica
Attraverso la riformulazione delle modalità patologiche di riferirsi l’esperienza,
possono così essere individuate e utilizzate le competenze adattive – inibite a
livello tacito e ignorate a livello esplicito – legate alla OP del soggetto.
Si può cogliere che, da un lato, esiste un senso di unicità personale legato alla
coerenza dei processi di sviluppo conseguenti ad una specifica modalità
organizzativa di base (di tipo prevalentemente Controllante, Distaccato,
Contestualizzato o Normativo); dall’altro lato, si possono osservare le molteplici
dinamiche evolutive che sono espressione delle risorse individuali.
Nel viaggio del lavoro clinico e della vita, oltre la soddisfazione di quando si
riesce ad aiutare qualcuno e il rammarico di quando non ci si riesce, resta il
fascino dell’esperienza della conoscenza. Un cammino in cui ogni passo in avanti
emoziona e aiuta ad approfondire la straordinaria complessità della psiche,
aprendo a nuovi percorsi e, quindi, anche a nuovi interrogativi e a nuove mete.

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Nardi B., Arimatea E. (Eds.): Ricostruire l'Esperienza. Atti del XVI Convegno di Psicologia e Psicopatologia Post-Razionalista. Accademia dei Cognitivi della
Marca, Ancona, 2015.

Nardi B.: Esperienza Soggettiva e Organizzazioni di Personalità (I Edizione). Accademia dei Cognitivi della Marca e Lopez Eventi & Congressi, Ancona, 2016.

Nardi B., Del Papa M., Colocci R. (Eds.): Promuovere il Cambiamento. Atti del XVIII Convegno di Psicologia e Psicopatologia Post-Razionalista. Accademia dei
Cognitivi della Marca, Ancona, 2017.
Bernardo Nardi

ORGANIZZAZIONI DI PERSONALITÀ: NORMALITÀ E PATOLOGIA PSICHICA


Organizzazioni di Personalità: Normalità e Patologia Psichica Bernardo Nardi
Il libro propone un viaggio nelle neuroscienze e nella psicologia post-razionalista alla
ricerca di come ciascun soggetto sviluppa e mantiene, nel corso della sua vita, il proprio
significato personale, attraverso l’esperienza unica e irripetibile di sé e del mondo.

ORGANIZZAZIONI DI
Mediante la propria Organizzazione di Personalità, matura infatti competenze adattive
altamente specializzate – tacite e inconsapevoli, ma anche esplicite e consapevoli –
per focalizzare e gestire aspetti specifici dell’esperienza, acquisendo un suo modo di

PERSONALITÀ:
sentirsi e di esprimersi sul piano personale, affettivo e sociale. Esplorare come la psiche
fa esperienza e costruisce la coscienza di sé e del mondo è l’aspetto più affascinante e
complesso della conoscenza del funzionamento umano, che può essere indagato sia in
condizioni fisiologiche sia quando si verificano scompensi psicopatologici più o meno

NORMALITÀ E PATOLOGIA
gravi e persistenti.

PSICHICA

Bernardo Nardi, psichiatra, neurologo, dottore di ricerca, si è formato psicoterapeuta con


Vittorio F. Guidano. Nel suo curriculum figurano: ricercatore e docente di Psichiatria e
Psicologia Clinica dell’Università Politecnica delle Marche (Scuole di Specializzazione in
Psichiatria, Neurologia, Medicina Interna, ecc.; lauree Magistrali in Medicina e in Professioni
Sanitarie; lauree triennali in Dietologia e Ostetricia), Presidente del Corso di Laurea in
Educazione Professionale, direttore della Clinica Psichiatrica dell’Azienda Ospedaliero
Universitaria “Ospedali Riuniti” di Ancona, direttore del Centro Adolescenti per la Promozione
dell’Agio Giovanile di Ancona, presidente dell’Accademia dei Cognitivi della Marca, didatta
in Scuole di Psicoterapia Cognitiva riconosciute dal MIUR (tra cui la Scuola Bolognese di
Psicoterapia Cognitiva), membro dell’editorial board di riviste scientifiche internazionali. Dal
1999 ha organizzato con Mario A. Reda convegni annuali di Psicologia e Psicopatologia Post-
Razionalista. Ha pubblicato con la Franco Angeli di Milano “Processi Psichici e Psicopatologia
nell’Approccio Cognitivo” (2001), “CostruirSi. Sviluppo e Adattamento del Sé nella Normalità
e nella Patologia” (2007), “La Coscienza di Sé. Origine del Significato Personale” (2013), con
le Ediciones Universitarias de Valparaiso, “Reconstruir la Experiencia en las Organizaciones
Inward y Outward” a cura di Andrés Moltedo-Perfetti (2016), con L’Accademia dei Cognitivi
della Marca “Esperienza Soggettiva e Organizzazioni di Personalità” (2016) e “Organizzazioni
Bernardo Nardi

di Personalità: Normalità e Patologia Psichica” (2017).

Accademia dei Cognitivi della Marca ACCADEMIA DEI COGNITIVI DELLA MARCA
CODICE ISBN
€ 20,00 978-88-907421-8-7

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