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Le Due Citta Paganesimo e Cristianesimo in Agostino
Le Due Citta Paganesimo e Cristianesimo in Agostino
Le due città
Paganesimo e cristianesimo
in Agostino
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Indice
2 La reazione pagana 43
Glossario 96
6
Il cristianesimo è una religione? La risposta è talmente ovvia che il fatto stesso di porre la
domanda appare come una provocazione. Eppure, per almeno due secoli, il movimento
cristiano si è pensato secondo categorie non religiose: ciò che si tende a considerare come
originario è in realtà un dato secondario, frutto cioè di un processo evolutivo né breve né
semplice. Se infatti alla base della fede cristiana c’è l’idea del Dio che si fa uomo, alla ba-
se del movimento cristiano ci sono tre matrici identitarie che non si possono trascurare
in quanto ne costituiscono, per così dire, il codice genetico: la matrice ebraica, quella el-
lenistica e quella romana. È quindi necessario svolgere una rapida presentazione del
processo storico che ha consentito al cristianesimo di strutturarsi come ‘sistema religio-
so’.
smo dottrinale in cui, in assenza di una gerarchia normalizzatrice, hanno libero corso po-
sizioni diverse (si pensi soltanto alle varie scuole gnostiche) che danno vita a dibattiti e
discussioni.
A questa fase espansiva ne segue una di ripiegamento: per effetto di un curioso slittamen-
to semantico, la haíresis, intesa come opzione dottrinaria, viene ridotta al rango di ‘eresi-
a’. Al pluralismo dottrinale succede il monolitismo. Comincia a farsi strada la divarica-
zione tra una ortodossia sempre più vincente e una eterodossia sempre più minoritaria,
anche se per assistere al trionfo della prima sulla seconda bisognerà aspettare la stagione
dei concili, dal IV secolo in poi (vd. pp. 18 e ss.).
Ripensatosi, dunque, in termini di filosofia, il movimento cristiano si presenta come unica
e sola filosofia. La fede finisce per coincidere con la filosofia.
L ’intera opera di Luca (Vangelo e Atti gli apostoli) deve essere compresa alla luce del concetto
di ‘cammino’: il messaggio cristiano, prefigurato dai profeti (l’ultimo dei quali è Giovanni il bat-
tezzatore), varca i confini della Palestina per diffondersi nell’ecumene pagana. L’incontro-
scontro avviene, significativamente, ad Atene, in un contesto caratterizzato da una forte ricerca del
divino, e ha come protagonista assoluto l’apostolo Paolo. Egli, giunto ad Atene nel corso del suo
secondo viaggio missionario, tiene il famoso discorso dell’Areòpago, in cui annuncia ai sapienti a-
teniesi che il “Dio ignoto” è il Dio creatore e giudice della rivelazione biblica. L’episodio è significati-
vo in quanto testimonia il processo di penetrazione del cristianesimo all’interno della cultura el-
lenistica.
L’esordio della predicazione di Paolo nel mondo ellenistico si risolve in una sconfitta: gli ateniesi,
cortesemente ma con fermezza, gli fanno capire che i suoi discorsi non hanno futuro, privi come
sono della raffinata eloquenza che avrebbe dovuto attestarne l’efficacia argomentativa. Eppure
questo è, secondo il racconto degli Atti degli apostoli, l'unico caso in cui Paolo non esita a servirsi
della sapienza profana per combattere il paganesimo. Del resto, nella capitale della cultura elleni-
stica non avrebbe potuto fare diversamente. Proprio in un contesto segnato da un evidente plurali-
smo cultural-religioso e al cospetto dell’élite intellettuale ateniese, Paolo ritiene di dover illustrare la
profonda distanza tra il monoteismo ebraico-cristiano e il politeismo pagano: la proliferazione
delle più disparate divinità, con le rispettive rappresentazioni, si scontra con un Dio che, in quanto
libero dalla necessità di un culto esteriore, a sua volta libera gli esseri umani dalla necessità di ado-
rarlo. C’è qui l’essenza della predicazione paolina, tutta centrata sul tema della libertà del cristia-
no.
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L’‘eccentrica normalità’ dei cristiani In uno dei testi più antichi del
cristianesimo primitivo, la Lettera a Diogneto (un breve trattato apologetico scritta in
greco verso la metà IIdel II sec.), si possono leggere queste considerazioni: «I cristiani né
per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti,
non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di
vita speciale. […] Vivono nella loro patria, ma come forestieri, partecipano a tutto come
cittadini e da tutto sono staccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni
patria è straniera» (V 1-5; trad. A. Quacquarelli). ‘Eccentrica normalità’ si potrebbe defi-
nire questo quadro.
Ma qui è possibile, sia pure con molta cautela, individuare anche una sorta di rappresen-
tazione sociologica del primo cristianesimo, tenendo presente che il cristianesimo preco-
stantiniano, pur partendo da un nucleo centrale di fede condivisa, è piuttosto variegato
sia a livello dottrinale sia a livello strutturale. Sarebbe quindi più corretto parlare di
cristianesimi.
tenevano agli strati più bassi della società e la presenza di schiavi era molto limitata. Dal
punto di vista sociologico, e per almeno i primi tre secoli, il cristianesimo si presentò sul-
la scena come fenomeno prevalente urbano, con scarsa penetrazione in ambiente rurale.
Il nucleo sociale più consistente delle comunità vede la presenza di quello che si potrebbe
definire ‘ceto medio’: persone libere, dotate di qualche proprietà, lavoratori salariati e ar-
tigiani. Solo a partire dal III secolo si assiste a una maggiore articolazione sociale delle
comunità cristiane con la presenza di esponenti delle classi medio-alte.
Certo, esistevano eccezioni. Alcune fonti cristiane (Ireneo, Tertulliano, Dionigi di Ales-
sandria) parlano dell’adesione al messaggio cristiano da parte di schiavi, liberti imperiali,
esponenti politici di alto rango, senatori, addirittura di persone appartenenti all’entourage
dell’imperatore. Si tratta però di testimonianze spesso controverse o tendenziose. Rimane
il fatto che, almeno sino alla svolta operata dall’imperatore Costantino (313), non si può
parlare di un cristianesimo di massa né di societas Christiana.
comunitaria, nella quale il riferimento alla vita, alla morte e alla risurrezione di Cristo era
centrale.
Analogie tra mitraismo e cristianesimo. Fu proprio una di queste religioni misteriche, il mitrai-
smo, a diventare il più serio concorrente del cristianesimo. Le analogie tra Mitra e Gesù Cristo non
mancano di sorprendere: la nascita virginale, i dodici seguaci, i miracoli, il fatto di essere nato il 25
dicembre, la morte e la risurrezione, i miracoli. Anche il luogo di culto (chiamato mitreo) e la ceri-
monia iniziatica presentano elementi analoghi alla liturgia cristiana: il pranzo rituale, con i commen-
sali rivolti in direzione della statua di Mitra, l’uccisione rituale di un toro, la presenza di un altare, la
consacrazione del pane e dell’acqua, il fatto che prima del pranzo si svolgeva una sorta di cateche-
si iniziatica, mentre in alcuni casi ci poteva essere anche un seppellimento rituale, simbolo della
morte e della rinascita. Non è un caso quindi che due delle basiliche più note di Roma (San Cle-
mente e Santa Prisca) siano sorte sopra un mitreo ancora oggi perfettamente conservato.
Significativamente lo storico francese Ernest Renan (1823-1892) ha affermato: «Se il cristianesimo
fosse stato bloccato nel suo sviluppo da una qualche malattia, il mondo sarebbe diventato mitrai-
co».
Per approfondire
Sulla nascita e l’evoluzione del cristianesimo si segnala in modo particolare lo studio di M. Sachot, La
predicazione di Cristo. Genesi di una religione, Einaudi, Torino 1999 (ma il titolo originale è: L’invention du
Christ), che ha il merito di presentare una prospettiva non tradizionale sulle origini cristiane. Importante
anche il quadro storico tracciato da G. Filoramo – E. Lupieri – S. Prioco, Storia del cristianesimo.
L’antichità, Laterza, Roma–Bari 1997. Sul cristianesimo delle origini, con particolare riferimento alla
fede, al culto e all’ethos, si veda il recente studio di G. Theissen, La religione dei primi cristiani, Claudiana,
Torino 2004.
Il testo della Lettera a Diogneto si trova in: I Padri apostolici, a cura di A. Quacquarelli, Città Nuova, Roma
9
1998 , pp. 353-363.
Sul rapporto tra cristianesimo e società romana, si veda il saggio di R. M. Grant, Cristianesimo primitivo
e società, Paideia, Brescia 1987 e G. Filoramo – S. Roda, Cristianesimo e società antica, Laterza,
Roma–Bari 1992 che presenta un’interessante antologia di testi pagani e cristiani.
N.B. Tutti i passi biblici sono citati secondo la Versione Nuova Riveduta (Società Biblica di Ginevra 1994).
15
2. Paganesimo e cristianesimo
tra III e IV secolo
‘Gli ottant’anni che sconvolsero il mondo!’. Così si potrebbe definire l’arco di tempo che
va dal 303 (ultima grande persecuzione contro i cristiani a opera di Diocleziano) al 380
(editto di Teodosio, con cui il cristianesimo è proclamato unica religione dell’impero) e
che segna il trionfo del cristianesimo su un paganesimo destinato a sfaldarsi come un ca-
stello di sabbia travolto dall’onda cristiana. Questa immagine, tuttavia, è stata dipinta con
pennelli e con colori cristiani: le testimonianze cristiane, infatti, più che una storia, trac-
ciano una teologia della storia, tesa a mostrare come il conflitto paganesimo-
cristianesimo fosse una battaglia celeste (cioè cosmico-spirituale) prima ancora che uma-
na (cioè socio-politica). Il dato storico è questo: a partire dal IV secolo, il cristianesimo si
dota di una solida politica ecclesiastica, culturale e sociale. Dapprima denigrata social-
mente e culturalmente, la nuova religione assume su di sé la dimensione universale che il
paganesimo non era più in grado di svolgere.
Fu vera persecuzione?
Celso : contro una religione irrazionale e antisociale Celso, autore dell’Alethès lógos
(«Discorso veritiero»), sarebbe probabilmente rimasto sconosciuto se l’apologista greco
Origene (185-253 ca.) non avesse scritto un Contra Celsum grazie al quale è possibile ri-
costruire l’essenza delle accuse mosse al cristianesimo da questo filosofo vissuto nella se-
conda metà del II secolo.
Celso è importante perché, lasciando da parte la polemica spicciola e un po’ pettegola,
cerca di smontare il messaggio cristiano dall’interno, con argomentazioni solide. Il punto
di partenza del suo ragionamento è che solo una tradizione secolare costituisce il fon-
damento e la veridicità (in greco alétheia, da cui l’aggettivo alethés) di ogni discorso
(lógos) filosofico e teologico. Se solo ciò che antico è dotato di valore, che antichità può
esibire il cristianesimo? Su quale tradizione si fonda? I suoi dogmi altro non sono altro
che invenzioni recenti (quindi irrazionali), buoni solo per le «vecchiette» e gli incolti. Es-
sendo irrazionale in quanto privo di tradizione, il cristianesimo, nova religio, non può
pretendere di sostituirsi alla religione dei padri. Anche la mitologia cristiana, se rapporta-
ta a quella pagana, appare assurda e priva di significato. Come è possibile, per esempio,
credere alla nascita verginale di Gesù? A proposito di questa Celso scrive:
Contra Celsum, I Di essere nato da una vergine, te lo sei inventato tu. Tu sei nato in un villaggio della
28, trad. di G. La- Giudea da una donna del posto, una povera filatrice a giornata. Questa fu scacciata
nata
dal marito, di professione carpentiere, per comprovato adulterio. Ripudiata dal mari-
to e ridotta a un ignominioso vagabondaggio, clandestinamente ti partorì da un sol-
dato di nome Pantera.
Ma, oltre ad essere irrazionali e immodici (privi cioè di quella moderazione che era virtù
tipica del filosofo), i cristiani sono giudicati asociali. Cosa c’è infatti di più antisociale
del rifiuto di compiere sacrifici alle divinità cittadine e di prestare giuramento sull’effige
dell’imperatore? La religione civile romana non poteva tollerare atti del genere senza
scorgere in essi un attentato alla coesione sociale. E Celso coglie molto bene il carattere
anarchico e sovversivo del cristianesimo. Qui non è più questione di comportamenti più
o meno riprovevoli come l’adorazione della testa di asino. C’è qualcosa di più grave: op-
ponendosi alla filosofia e alla tradizione, il cristianesimo rischia di sconvolgere quel seco-
lare e condiviso sistema di valori che costituiva il cemento della società romana. Da qui la
necessità di contrastarlo sul piano filosofico prima ancora che nelle aule dei tribunali.
Porfirio: il contrasto tra fede e ragione Nel 448 gli imperatori cristiani
Valentiniano III e Teodosio II emano un editto nel quale ordinano, tra l’altro, di bruciare
«tutte le opere di Porfirio» (Codex Iustinianus I 1,3). Questa decisione è significativa di
come il cristianesimo posteriore abbia colto la pericolosità del Contra christianos di Por-
firio, tanto che l’opera venne confutata dai migliori pensatori cristiani del IV secolo (Eu-
sebio di Cesarea, Girolamo e Agostino, per non citare che i più noti).
Effettivamente, questo allievo di Plotino, vissuto nella seconda metà del III secolo, in una
temperie caratterizzata da una profonda crisi che investe tanto le realtà materiali quanto
quelle immateriali, si assume un compito ambizioso: abbattere il cristianesimo dalle fon-
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Il vescovo e l’imperatore
Quando il 27 febbraio del 380 l’imperatore Teodosio emana a Tessalonica il Cunctos populos
(Codex Theodosianus XVI 1 ,2), editto con il quale il cristianesimo viene dichiarato religione uffi-
ciale dell’impero, Ambrogio è vescovo di Milano da soli sette anni, ma già si appresta a diventare
l’interlocutore privilegiato e scomodo dell’imperatore. Se Costantino aveva avuto in Eusebio
di Cesarea la sua sponda ecclesiastica, Teodosio avrà in Ambrogio il mastino che si ribella al
guinzaglio.
Due gli episodi salienti. Nel 388 a Callinico in Siria, alcuni cristiani incendiarono la locale sinago-
ga; a seguito del fatto, Teodosio intimò al vescovo della città di far ricostruire l’edificio a sue spese.
Qualche mese più tardi, Ambrogio scrisse una lettera di fuoco all’imperatore nella quale, in so-
stanza, accusava Teodosio di aver assunto un provvedimento teso a favorire una religione falsa
(l’ebraismo). A ciò aggiunse una sorta di principio di reciprocità: se alcuni ebrei, soprattutto duran-
te l’impero di Giuliano, avevano incendiato delle chiese cristiane senza doverne pagare i danni,
per quale motivo si chiedeva di farlo ai cristiani? Si domanda infatti Ambrogio: Ecclesia non vindi-
cata est, vindicabitur sinagoga? (Lettera XIV15).
Il secondo episodio si verificò due anni più tardi. A seguito di disordini scoppiati a Tessalonica, al-
cuni cittadini avevano ucciso il comandante delle truppe dell’Illirico, colpevole, a loro dire, di aver
condannato a morte un auriga loro beniamino. L’imperatore decise di usare il pugno di ferro e or-
dinò alle truppe dei goti di intervenire, provocando così una strage della cittadinanza. Venutone a
conoscenza, Ambrogio non esitò a minacciare la scomunica dell’imperatore, ammettendolo ai sa-
cramenti solo dopo una pubblica richiesta di perdono.
Come giudicare questi episodi nei quali un vescovo fa valere la propria autorità nei confronti
dell’imperatore? Più che espressione di un potere teocratico, gli interventi di Ambrogio mirano alla
distinzione dei ruoli: l’imperatore non può intervenire nelle faccende della chiesa, come la chiesa
non deve interferire nelle faccende politiche. Tuttavia, dal momento che Imperator intra eccle-
siam, non supra ecclesiam est (Ambrogio, Sermo contra Auxentium, 36) , egli deve, da un lato,
conformare la propria azione ai principi morali del cristianesimo, e, dall’altro, tutelare la libertà di
apostolato. In questo senso, Ambrogio attribuisce al vescovo una funzione di guida morale, an-
che nei confronti della massima autorità politica. Posizione chiara sul piano teorico, ma desti-
nata a generare frizioni sul piano pratico.
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un cristiano abituato a sentir proclamare il principio dell’«Io sono la via, la verità, la vita»
(Giovanni 14, 6), tutto ciò non poteva che apparire inaccettabile.
Per approfondire
Il tema del rapporto tra cristianesimo e cultura ellenistico-romana propone una bibliografia sterminata.
Oltre ai classici E.R. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, La Nuova Italia, Firenze 1998 (ed. or.
inglese 1965) e A. Momigliano (a cura), Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Einaudi,
Torino 1968, si segnalano: R. Lane Fox, Pagani e cristiani nel mondo mediterraneo dal II secolo a
Costantino, Laterza, Roma–Bari 1991; G. Filoramo – S. Roda, Cristianesimo e società antica, Laterza,
4
Roma–Bari 1992; P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, Laterza, Roma–Bari 2000 (1 ed.
1983).
I testi degli autori pagani sul cristianesimo sono raccolti in G. Rinaldi, La Bibbia dei pagani. I: Quadro
storico, II: Testi e Documenti, EDB, Bologna 1998 e in F. Ruggiero, La follia dei cristiani: la reazione pagana
al cristianesimo nei secoli I-V, Città Nuova, Roma 2002. Per il testo di Celso, cfr. G. Lanata (a cura), Celso, Il
discorso vero, Adelphi, Milano 1987; per quello di Porfirio, cfr. C. Mutti (a cura), Porfirio, Discorsi contro i
cristiani, Edizioni AR, Padova 1977. In merito al rapporto tra cristianesimo e impero romano, nei suoi
aspetti sociali, culturali e dottrinali, si vedano tra gli altri: P. Brown, Il sacro e l’autorità. La cristianizzazione
del mondo romano antico, Donzelli, Roma 1996; A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma
cristiana, Laterza, Roma–Bari 1999; E. Dal Covolo – R. Uglione (a cura), Chiesa e impero. Da Augusto a
Giustiniano, LAS, Roma 2001.
Sulla figura di Costantino e la sua politica religiosa è utile la lettura di A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita
e morte di Costantino, Laterza, Roma-Bari 2002 e di L. De Giovanni, L’imperatore Costantino e il mondo
pagano, D’Auria, Napoli 2004.
Per approfondire l’argomento sulle persecuzioni si vedano i seguenti studi: M. Sordi, I cristiani e l’impero
romano, Jaka Book, Milano 1991; G. Jossa, I cristiani e l’impero romano da Tiberio a Marco Aurelio,
Carocci, Roma 2001 (ed. or. 1991).
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Si è conclusa nel 2004 la pubblicazione dell’opera omnia di Agostino, con testo latino e traduzione
italiana: essa consta di 37 volumi, divisi in 62 tomi, ed è pubblicata da Città Nuova, Roma. La sigla
identificativa è NBA (Nuova Biblioteca Agostiniana)
Per approfondire
Ci si può fare un’idea del cristianesimo africano al tempo di Agostino leggendo A. Hamman, La
vita quotidiana nell’Africa di s. Agostino, Jaka Book, Milano 1989, da integrare con M. Marin – C.
Moreschini (edd.), Africa cristiana. Storia, religione, letteratura, Morcelliana, Brescia 2002. Sul pen-
siero di Agostino, cfr. K. Flash, Agostino di Ippona. Introduzione all’opera filosofica, Il Mulino, Bo-
logna 1983; L. Alici, L’altro nell’io. In dialogo con Agostino, Città Nuova, Roma 1999. In merito
all’incontro tra Agostino e Ambrogio, si segnala AA.VV., 387 d.c. Ambrogio e Agostino: le sorgenti
dell’Europa, Edizioni Olivares, Milano 2003, che presenta in ricco apparato iconografico sul conte-
sto politico e religioso.
Sul rapporto tra cristianesimo e paganesimo in Agostino cfr. L. Storoni Mazzolani, Sant’Agostino
e i pagani, Sellerio, Palermo 1987, un testo di piacevole lettura e ricco di dati; in appendice un inte-
ressante repertorio (latino e italiano) dei provvedimenti antipagani degli imperatori.
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Per approfondire
Oltre alla Vita di Possidio (testo critico in A.A.R. Bastiaensen, Fondazione Lorenzo Valla–Mondadori, Milano
2
1981 , pp. 127-241), le più importanti biografie moderne si devono a P. Brown, Agostino d’Ippona, Einaudi,
2
Torino 1974 ; H. Chadwick, Agostino, Einaudi, Torino1989; A. Pincherle, Vita di Sant'Agostino, Laterza,
3
Roma–Bari 1988 ; A. Trapé, Agostino: l’uomo, il pastore, il mistico, Città Nuova, Roma 2001 (ed. or. 1976).
27
La struttura e i temi. Nel 397 Agostino pone mano all’opera destinata a diventare uno dei capisaldi
della letteratura e della spiritualità occidentale. Non essendo possibile addentrarsi qui nei molteplici
aspetti che caratterizzano le Confessiones, ci si limiterà a tratteggiare gli elementi di novità
dell’opera.
Il primo elemento che colpisce il lettore è l’eterogeneità dei temi trattati: autobiografia, esegesi
biblica, speculazione filosofica e riflessione teologica sono i nuclei fondamentali dell’opera. Ciò tut-
tavia non impedisce di cogliere la struttura di fondo del testo, che può agevolmente essere diviso in
due parti: la prima (composta tra il 397 e il 398) comprende i libri I-IX, la seconda (scritta tra il 399
e il 400) i libri X-XIII. La complessità della materia, al limite del disordine espositivo, deriva dal fatto
che Agostino sembra procedere per accumulo, quasi che l’ansia di dire debordi dai limiti del testo.
Del resto, chi entra in una cattedrale gotica non prova forse una sensazione di stordimento tanti
sono gli elementi architettonici e iconografici che la caratterizzano?
Il titolo. Il carattere di originalità dell’opera è evidente già nel titolo. Il termine confessio è
l’equivalente latino del greco homología che, nel linguaggio del Nuovo Testamento, oltre che la
confessio peccatorum e la confessio laudis, indica la confessio fidei. Il titolo, già di per sé un uni-
cum, sottolinea dunque come Agostino non miri tanto alla rivelazione pubblica e alla denuncia delle
proprie colpe e dei propri traviamenti, quanto piuttosto al riconoscimento della misericordia divi-
na. Per sviluppare questo tema, avrebbe potuto stendere un corposo trattato teologico; e invece dà
spazio ad una testimonianza di vita vissuta, che non tralascia neppure gli aspetti più contradditto-
ri e, appunto, inconfessabili della propria coscienza. Il tutto non per vanagloria, ma per far risaltare
la misericordia, la verità e l’amore di Dio (sono questi i tre assi portanti dell’opera). Agostino non
parla di sé in modo autoreferenziale: parlare di sé equivale a parlare di Dio. In questo senso, la
confessio coincide con la lode, tanto che J. J. O’Donnell (Augustine, Twayne Publishers, Boston
1985, p. 83) ha potuto affermare che «Agostino prega con la penna in mano».
13, 21 Quid enim miserius misero non miserante se ipsum et flente Didonis
mortem, quae fiebat amando Aenean, non flente autem mortem suam,
quae fiebat non amando te, Deus, lumen cordis mei et panis oris intus
animae meae et virtus maritans mentem meam et sinum cogitationis
meae? Non te amabam et fornicabar abs te et fornicanti sonabat un-
dique: “Euge, euge”. Amicitia enim mundi huius fornicatio est abs te et
29
“Euge, euge” dicitur, ut pudeat, si non ita homo sit. Et haec non fle-
bam sed flebam Didonem exstinctam ferroque extrema secutam, se-
quens ipse extrema condita tua relicto te et terră iens in terram; et si
prohiberer ea legere, dolerem, quia non legerem quod dolerem. Tali
dementiā honestiores et uberiores litterae putantur quam illae, quibus
legere et scribere didici.
13, 22 Sed nunc in anima mea clamet Deus meus, et veritas tua dicat mihi:
non est ita, non est ita; melior est prorsus doctrina illa prior. Nam ecce
paratior sum oblivisci errores Aeneae atque omnia eius modi quam
scribere et legere. At enim vela pendent liminibus grammaticarum
scholarum, sed non illa magis honorem secreti quam tegumentum erro-
ris significant. […]
13, 21 Quid… meae: «Cosa c’è infatti di più miserabile di un essere miserabile che non commisera se stesso e
che piange la morte di Didone, avvenuta per amore di Enea, ma che non piange la propria morte, avvenuta per
non amore di te, Dio, luce del mio cuore, pane della bocca interiore della mia anima, potenza che rende fecon-
da la mia intelligenza e grembo del mio pensiero?».
– Quid: il periodo, mirabilmente costruito, è un tipico esempio del procedimento narrativo usato da Agostino
nelle Confessiones: la riflessione a posteriori sulla giovanile immedesimazione con la vicenda di Didone (per
la quale cfr. il libro IV dell’Eneide) porta Agostino a rovesciare l’exemplum (vd. La figura di Didone tra Vir-
gilio e Agostino p. 29). Non a caso, la struttura sintattica e il lessico utilizzati sono percorsi da una dinamica
di identificazione e, al tempo stesso, di contrapposizione: la miser Didone corrisponde al miser Agostino (en-
trambi sono assetati d’amore); la morte (reale) della prima corrisponde alla morte (spirituale) del secondo;
come Didone, anche Agostino è protagonista di un amore mal indirizzato. Dall’altro canto, l’amore per Enea
(amando Aenean) è contrapposto al non amore per Dio (non amando te); le tenebre in cui sprofonda Didone
sono contrapposte alla luce (lumen) divina; l’amentia di Didone cede il posto alla cogitatio di Agostino. – mi-
serius: miser e furor sono le parole chiave che Virgilio utilizza per descrivere l’affettività totalizzante e di-
sperata di Didone. Più che un mero sfoggio retorico, l’insistenza di Agostino sul campo semantico del miser
(si noti il raffinato poliptoto: meserius… misero… miserante) intende ricollegarsi proprio alla demolizione
della figura di Didone operata dallo stesso Virgilio. – miserante…flente: participi presenti, in ablativo in
quanto concordati con misero (secondo termine di paragone). Alla fine dell’ultimo incontro tra Enea e Didone
nell’Ade, Virgilio scrive: nec minus Aeneas casu percussus iniquo // prosequitur lacrimis longe et miseratur
euntem (Eneide VI, 475-476). – Aenean: accusativo con desinenza in –n, tipico dei termini greci. – amando:
gerundio ablativo con valore causale. – lumen… panis… virtus… sinum: l’enumerazione per polisindeto
dei quattro attributi divini, seguiti ciascuno da un complemento di specificazione (tranne virtus, seguito da un
participio congiunto), sembra dare corpo alla transcodificazione del lessico amoroso che esprime la differenza
tra l’amore per Enea e l’amore per Dio. Non per niente tutti e quattro hanno un preciso riferimento biblico e i
primi due, nel lessico cristiano, indicano la seconda persona della Trinità. In particolare, lumen si rifà a Gio-
vanni 1, 9; 3, 19-21; ma la locuzione lumen cordis mei è assai ricorrente nelle Confessiones (per es. in III 4, 8
e XII 10, 10). – panis: anche qui il riferimento è a Giovanni 6,35.48.59. – animae: già a partire da Tertulliano
(fine II secolo), il termine, che in latino significa “soffio vitale” (mentre animus indica piuttosto la razionali-
tà), ha subìto una risemantizzazione in senso cristiano. – virtus: termine con cui la Vulgata (la traduzione in
latino della Bibbia operata da Girolamo) traduce l’espressione paolina per indicare «Cristo potenza (in greco
dýmanis) di Dio e sapienza (in greco sophía) di Dio». (I lettera ai Corinzi 1, 24). – maritans: il verbo può
suggerire nuovamente la contrapposizione rispetto a Didone: il suo amore per Enea è destinato a rimanere in-
fecondo (si ricordi la struggente considerazione di Didone: «Se un figlio, se almeno un figlio da te avessi avu-
to prima della tua fuga»: Eneide IV, 327-328); mentre l’amore per Dio non può che produrre frutti spirituali.
– sinum: anche questa immagine biblica (presente in molti Salmi) viene spesso usata nelle Confessiones: IX
2, 3 (sinum cogitationis), X 8, 13 (memoriae recessus), 8, 14 (ipso ingenti sinu animi mei). – cogitationis
meae: cor, anima, mens, cogitatio: ecco i frutti dell’amore divino che, nella concezione di Agostino, possiede
una dimensione antropologicamente integrale: cuore e cervello vi sono implicati. Le conseguenze dell’amore
di Didone sono invece furor e amentia.
Non… sit: «Non ti amavo e ti ero infedele e, mentre ti ero infedele, da ogni parte mi risuonava (il grido): Bravo,
bravo! Infatti, l’amore per questo mondo significa lontananza da te, e si dice: Bravo, bravo! perché uno si vergo-
gni se non è così».
30
– fornicabar: citazione dal Salmo 73 ,27; anche questa è un’immagine frequente nelle Confessiones. La sto-
ria del termine è significativa del processo di risemantizzazione operato dai cristiani. In latino fornicatio indi-
ca una costruzione a volta e deriva da fornix, propriamente una camera con il soffitto a botte, spesso luogo di
ritrovo delle prostitute; per metonimia, fornix indica pertanto il postribolo. Tertulliano, spinto dalla termino-
logia biblica, in cui «prostituzione» (in ebraico zôneh) corrisponde a «idolatria», è il primo autore ad utilizza-
re il termine in senso cristiano per esprimere non soltanto, come si pensa di solito, la trasgressione sessuale,
ma principalmente l’idolatria e quindi l’infedeltà a Dio. Da qui la traduzione proposta che, contenendo un’eco
della relazione amorosa, risulta più perspicua rispetto a «fornicazione». – Euge: prestito greco (dall’avverbio:
eúge), indica un complimento ironico. Trattasi di formula spesso usata dai Salmi (cfr. per esempio 35, 21; 40,
16), qui citati indirettamente da Agostino. – Amicitia: è sinonimo di amor, inteso come inclinazione della vo-
lontà per le realtà terrene; tema ricorrente nella trattatistica cristiana. – homo: forma tipica del parlato, assume
qui un valore impersonale (nella traduzione «uno»). Da notare il fatto che la proposizione dopo pudeat non è
espressa da quod o da accusativo e infinito, ma da una ipotetica.
Il mito. Come noto, la figura di Elissa/Didone, fuggita da Tiro, dopo che il fratello Pigmalione le ha
ucciso il marito, è strettamente legata alla fondazione di Cartagine. Il mito racconta che la donna,
dopo essere approdata sulle coste africane, fece ricorso ad una celebre astuzia: avendo ottenuto
dal re indigeno Iarba un terreno tanto grande quanto poteva essere coperto da una pelle di bue, ta-
gliò la pelle in strisce sottilissime, circondando la collina dove poi sarebbe sorta l’acropoli di Carta-
gine (chiamata Byrsa, che in greco significa ‘pelle di bue’). Oltre che astuta, Didone – che, secondo
un’antica etimologia, significherebbe ‘donna virile’ – è anche una donna fedele alla memoria del
marito, come dimostra la sua decisione di suicidarsi per non cedere alle insistite proposte di matri-
monio avanzate da Iarba.
La rilettura virgiliana e agostiniana. Fin qui il mito, sulla cui base Virgilio opera una profonda rilet-
tura, trasformando la virile pudicizia di Didone (trasferita invece sul pius Enea) in una affettività di-
sperata e totalizzante che la porta all’autodistruzione. Lo dimostra il lessico virgiliano della passio-
ne che ruota attorno ai campi semantici del fuoco bruciante (uritur / incensa) e del furor (bacchatur /
furens). La rilettura ‘ideologica’ consegna così Didone all’immortalità della poesia facendone uno
dei personaggi più indimenticabili della letteratura latina.
Dopo Virgilio, anche Agostino sottopone il mito di Didone ad un processo di rilettura; mentre però la
rilettura del primo è in chiave filoaugustea (la casta Elissa/Didone, cartaginese, tenta inutilmente di
sviare il pius Aeneas, prototipo della romanità), quella del secondo è in chiave esistenziale e spi-
rituale. Per Virgilio, Didone muore perché così vuole il fato e, con lei, muore anche il proprio senti-
mento per Enea (lo si vede benissimo in occasione dell’incontro nell’Ade). Agostino invece prende
coscienza che la morte giovanile, causata dal non amore per Dio viene riscattata dall’amore per Dio
stesso.
Nel brano delle Confessiones proposto, Agostino traccia una sorta di parallelismo oppositivo tra
l’atteggiamento di Enea e il suo. Come è noto infatti, l’eroe troiano, quasi sentendosi colpevole del-
la morte di Didone (funeris heu tibi causa fui?: Eneide, v. 458), si affretta a giurare (per siderea iuro,
v. 458) la sua estraneità (invitus, regina, tuo de litore cessi, v. 460) e a ribadire di aver agito in no-
me degli iussa deum (v. 461); tutto ciò lo porta a voler trattenere Didone (Siste gradum, v. 465); di
fronte però alla impassibilità della regina (illa solo fixos oculos aversa tenebat, v. 469), egli prose-
quitur lacrimis longe et miseratur euntem (v. 476). Ebbene, come Enea, anche Agostino si sta vol-
tando indietro a ripercorrere le tracce di un amore giovanile; a differenza di Enea, però, egli non
piange per la perdita di Didone, ma per il tempo perso a correr dietro (sequens) alle «realtà ultime»
(extrema condita) della creazione divina che lo hanno distolto dal vero oggetto d’amore. Enea rim-
piange Didone; Agostino piange sul se stesso fanciullo che piangeva per Didone.
Et … dolorem: «Per questo non piangevo ma piangevo per Didone morta cercando col ferro il giorno estremo,
mentre io cercavo le realtà ultime della tua creazione dopo averti abbandonato e mentre andavo io, polvere,
verso la polvere; e se mi avessero proibito di leggere quelle cose, mi sarei addolorato perché non avrei letto ciò
che mi addolorava».
– haec … Didonem: il chiasmo (haec non flebam et flebam Didonem) intende sottolineare la contraddizione
tra il piangere per Didone e il non piangere per se stesso; la costruzione chiastica viene iterata subito dopo:
Didonem… extrema secutam, sequens ipse extrema condita tua. – exstinctam… secutam: citazione diretta
delle prime parole che Enea pronuncia al cospetto di Didone nell’Ade: Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo //
venerat exstinctam ferroque extrema secutam? (Eneide VI, 456-457). – extrema condita tua: letteralmente:
«le cose che hai creato per ultime», cioè le realtà peggiori della creazione. – relicto te: ablativo assoluto con
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valore temporale. Espressione simile in Conf. II 2, 4: sequens impetum fluxus mei relicto te («seguendo
l’impeto della mia corrente dopo averti abbandonato»). È questo un altro paragone con Didone: mentre ella
viene abbandonata da Enea, Agostino ha abbandonato Dio il quale però non ha abbandonato lui. – terra iens
in terram: cfr. «mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto;
perché sei polvere e in polvere ritornerai» (Genesi 3, 19); la locuzione «polvere che va verso la polvere» si-
gnifica andare incontro alla morte. Il primo terra ha funzione predicativa del soggetto. – si prohiberer: pro-
tasi di un periodo ipotetico dell’irrealtà, la cui apodosi è espressa da dolerem; come iubeor e cogor, il verbo
prohibeor ha una costruzione personale: la persona cui si proibisce svolge la funzione di soggetto. – quod do-
lerem: proposizione relativa con attrazione modale del congiuntivo. Il fatto di addolorarsi per non poter leg-
gere ciò che era causa di dolore è segno di dementia, come si dice subito dopo.
Tali… didici: «Per effetto di una simile follia quegli studi letterari vengono ritenuti più dignitosi e più arricchenti di
quelli grazie ai quali ho imparato a leggere e a scrivere.»
– Tali: nella maggior parte dei manoscritti è attestata la forma talis, altri, invece, riportano la lezione tali fa-
cendo di dementia un ablativo. Sembra preferibile quest’ultima lezione (riportata nell’edizione di J.J.
O’Donnell): la prima infatti non ha costrutti paralleli in latino (e neppure in Agostino) e costringerebbe a un
improbabile cambiamento di numero (il singolare del nominativo dementia contro il plurale del verbo); inol-
tre, il verbo putor indica un attività mentale che l’ablativo dementia specificherebbe molto bene. In questo
modo, la tali dementia di cui parla qui Agostino non è riferita a litterae, bensì al fatto che egli si sarebbe di-
spiaciuto se non avesse potuto leggere ciò che gli procurava dolore. – dementia: il termine segnala, ancora
una volta, il parallelismo con Didone: il suo amore – dice Virgilio – scorre all’insegna del furor (= dementia,
amentia) e conduce all’autodistruzione; identificandosi con la vicenda di Didone, il giovane Agostino finisce
per apprezzare proprio ciò che lo fa soffrire in quanto lo allontana da Dio. – honestiores: l’aggettivo honestus
deriva da honor, termine che indica il centro stesso della concezione antropologica della romanità. – quam:
introduce il secondo termine di paragone. – legere et scribere: si ricordi che Agostino parlava il cartaginese e
che il latino lo ha appreso grazie ad uno studio precoce, come ricorda lui stesso: «Infatti, quand’ero piccolo,
non conoscevo nulla di latino, e tuttavia, applicandomi, l’ho appreso senza paura né castighi anche tra le ca-
rezze delle nutrici, gli scherzi di coloro che ridevano e la letizia dei giochi» (Conf. I 14, 23).
13, 22 Sed… legere: «Ma ora nella mia anima gridi il mio Dio e mi dica la tua verità: non è così, non è così. È
assolutamente migliore quel primo insegnamento. Infatti ecco che sono più disposto a dimenticare le peregrina-
zioni di Enea e ogni racconto del genere piuttosto che il leggere e lo scrivere.»
– Sed: posta all’inizio del periodo, l’avversativa segna una netta contrapposizione (rafforzata dal successivo
non est ita) tra le convinzioni giovanili e quelle della vita adulta. – doctrina… prior: doctrina è termine co-
mune in Agostino, in senso sia religioso sia profano. In questo caso indica gli insegnamenti elementari (litte-
rae), il leggere e lo scrivere. Prior possiede tanto una valenza temporale (l’insegnamento primario) quanto
una valenza assiologica (è più importante leggere e scrivere). Poco prima di questo brano, Agostino aveva af-
fermato: «Erano migliori, perché più sicuri, quei primi studi (primae illae litterae) mediante i quali si forma-
va in me – poi si è formata e ora la possiedo –la capacità di leggere tutto quello che trovo scritto, e di scrivere
io stesso, se lo voglio» (Conf. I 13, 20). – errores: il sostantivo è dotato di un’intrinseca ambivalenza seman-
tica, presente del resto anche in italiano (‘errare’ – ‘errore’). In effetti, qualche riga sopra (13.20) Agostino
aveva stigmatizzato il fatto di essere stato costretto dai suoi maestri ad imparare a memoria gli Aeneae erro-
res (nel senso di peregrinazioni) e a dimenticarsi invece dei propri errores (nel senso di sbagli). Si tenga pre-
sente che sia Enea sia Agostino sono stati protagonisti di un viaggio: l’errare del primo lo conduce alla fonda-
zione di Roma, mentre l’errare del secondo lo conduce alla scoperta della grazia divina. – legere: a dimostra-
re la superiorità del leggere e dello scrivere rispetto alla lettura dei testi poetici, a chiusura del brano qui ripor-
tato Agostino afferma: «se chiedessi quale di queste due conoscenze sarebbe per la vita più dannoso dimenti-
care, se la lettura e la scrittura oppure le fantasie (figmenta) dei poeti, chi non saprebbe cosa rispoderebbe co-
lui che non abbia perduto completamente il senno?» (Conf. I 13, 22).
At … significant: «Si potrà obiettare che sulle soglie delle scuole di grammatica pendono delle tende, ma esse
simboleggiano non tanto la dignità del segreto quanto la cortina dell’errore.»
– At enim: seguita da enim, l’avversativa at serve ad anticipare, per smentirla (si veda il successivo sed),
l’obiezione di un ipotetico interlocutore (da qui la traduzione). Tale forma è spesso usata da Agostino, so-
prattutto nel De civitate Dei. – vela: da non confondere con l’omografo velum, «vela di nave». Dal momento
che spesso le lezioni si svolgevano in locali aperti o sotto dei portici, era necessario stendere delle tende o dei
tappeti, al fine di creare il giusto clima, meteorologico e didattico. – grammaticarum: è il secondo livello di
istruzione, quello in cui si studiavano le opere letterarie greche e latine (si veda il brano successivo, p. 000). –
honorem secreti … tegumentum erroris: questa affermazione così lapidaria esprime la definitiva condanna
nei confronti della cultura pagana: i pagani – dice Agostino –, depositari di un sapere secolare ed elitario (se-
cretum ha, infatti, a che fare con un processo iniziatico riservato a pochi eletti), si illudono che da questo sa-
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pere dipenda l’honor romano, ma non si accorgono che esso si basa su finzioni mitologico-letterarie (tegu-
mentum corrisponde alla finzione letteraria) che propagano ogni sorta di errore. L’‘errare’ di Enea, da cui di-
pende la grandezza di Roma, si trasforma in un tragico ‘errore’. E allora il velo, lungi dall’essere il simbolo
della grandezza della tradizione culturale romana, finisce per svelarne l’errore; non resta che… stendere un
pietoso velo.
La forma al servizio del contenuto. Avviato ad una brillante carriera di maestro di retorica, Ago-
stino, dopo la conversione, intrattenne con l’antica disciplina di insegnamento un rapporto conflit-
tuale: da un lato, infatti, come molti altri scrittori cristiani, egli condanna la retorica in quanto retag-
gio culturale del paganesimo ed espressione della sua forma mentis; dall’altro, non può resistere al
fascino della produzione letteraria latina quale serbatoio di risorse retorico-stilistiche che la lettera-
tura cristiana non poteva certo ignorare.
La conflittualità trova una sua sintesi feconda nel De doctrina Christiana (scritto tra il 417 e il 427),
in cui Agostino concepisce la retorica, espressione della sapientia pagana, come strumento e-
spressivo indispensabile per la diffusione della sapientia cristiana. La retorica classica, ormai ridotta
al rango di esercitazione fine a se stessa (la forma a scapito del contenuto), diventa così una risor-
sa flessibile, volta alla comprensione, da parte dei colti e dei meno colti, del messaggio cristiano (la
forma a servizio del contenuto). Come Girolamo, con la Vulgata, ha dato all’Europa la ‘sua’ Bibbia,
così Agostino ha dato al cristianesimo occidentale il ‘suo’ lessico teologico e pastorale.
La subordinazione della forma al contenuto fa sì che si possa parlare di plurilinguismo agosti-
niano: la varietà dei generi letterari (omelie, trattati, epistole, esegesi biblica) è strettamente as-
sociata alla molteplicità dei registri linguistico-espressivi, pur all’interno del filo conduttore rap-
presentato dalla costante presenza degli stilemi di matrice biblica.
La varietà stilistica delle Confessiones e del de civitate Dei. Di tale varietà stilistica le Confes-
siones e il De civitate Dei sono la testimonianza più evidente. Nelle Confessiones, lingua e stile si
fondono mirabilmente con la dinamica della confessione filtrata dal ricordo: il ritmo della scrittura
ha lo stesso andamento discontinuo del ritmo del ricordo. Ecco allora un periodare disordinato e
armonico al tempo stesso, ricco di figure fonetiche (allitterazioni, poliptoti, assonanze, omoteleuti),
sintattiche (parallelismi, chiasmi, antitesi) e semantiche (metafore, metonimie, similitudini), ma an-
che di registri espressivi che sono il frutto di un mirabile impasto fra la tradizione letteraria latina e
lo stile biblico: ad immagini tratte, per esempio, dai Salmi, si susseguono echi ciceroniani, sallustia-
ni e virgiliani.
Diverso invece il clima che si respira nel De civitate Dei. Opera di carattere apologetico, vera e pro-
pria sintesi di una riflessione durata decenni, essa è caratterizzata da un periodare più solenne,
più ampio, più lucido. Ciò non toglie che anche qui si possa riscontare una evidente pluralità di ri-
sorse stilistico-retoriche che sono il segno della stretta unione tra pensiero e scrittura. Alle remini-
scenze classiche si uniscono echi biblici, la pacatezza espositiva lascia spesso il posto all’irruenza
del registro satirico, l’amabilità del pastore si accompagna alla spietatezza del fustigatore dei co-
stumi, alla precisione argomentativa si alternano divagazioni erudite. Il tutto però all’interno di un
quadro in cui le risorse della retorica sono sempre al servizio della verità, «nella convinzione che il
linguaggio non è un dominio autonomo e incontrastato di significati, né un esercizio sfrenato di vir-
tuosismo verbale, bensì un complesso di segni che testimoniano, in maniera sempre inadeguata,
una realtà infinitamente più ricca e più complessa e che perciò nel momento stesso in cui riescono
ad avvicinarla a noi, restano da essa infinitamente lontani.» (L. Alici, Introduzione a La città di Dio,
pp. 41-42).
La scoperta dell’Hortensius
Confessiones III 4, 7-8
nante. Dopo aver studiato litterae a Tagaste e grammatica a Madaura, nel 371,
a diciassette anni, si trasferisce a Cartagine per studiare rhetorica. Il program-
ma del terzo anno di corso prevedeva la lettura dell’Hortensius, la perduta ope-
ra protrettica di Cicerone. Fu una folgorazione.
Il dialogo ciceroniano conteneva infatti una vibrante esortazione allo studio
della filosofia. Cicerone, partendo dal presupposto che «tutti vogliamo essere
beati», sostiene che sbagliano coloro i quali affermano che «sono beati tutti co-
loro che vivono a loro piacere », perché «desiderare ciò che non è conveniente
è somma infelicità. E non è tanto fonte di infelicità il non conseguire ciò che si
desidera, quanto il desiderare ciò che non conviene» (Hortensius, fragm. 39).
«Affermazione stupenda e perfettamente vera», commenta a distanza di tempo
Agostino (De Trinitate XIII 5, 8), il quale coglie efficacemente il nesso tra ri-
cerca della verità e il suo alto contenuto morale.
In questa fase della sua esistenza il giovane Agostino, pur distratto dalle attrat-
tive del bel mondo cartaginese, è alle prese con la necessità di definire quella
dimensione spirituale che l’educazione cristiana non aveva cancellato, ma che
aveva indirizzato piuttosto verso sentieri tortuosi. La lettura di Cicerone lo esal-
ta e lo deprime al tempo stesso: da un lato, lo affascina l’elevato contenuto mo-
rale dell’opera, il pressante invito a perseguire un ideale filosofico disinteressa-
to, lo schiudersi di una verità esistenziale prima ancora che razionale; dall’altro,
invece, lo delude la constatazione che l’anelito alla verità non si accorda con gli
insegnamenti cristiani ricevuti nell’infanzia che, sia pure messi in discussione,
non vengono rifiutati.
Agostino si rende conto che Cicerone non può essere una premessa a Cristo. In
sostanza, l’incontro con l’Hortensius lo costringe a porsi il problema del rap-
porto fede–ragione, binomio da lui ancora concepito in termini di opposizio-
ne, non di collaborazione: l’ovvia assenza del nome di Cristo nell’opera cicero-
niana gli appare la prova del fatto che la sola ragione non conduce alla verità.
Nel tentativo di ricomporre la frattura, ecco che Agostino, in una sorta di frene-
tica ansia, si dedicherà alla lettura della Bibbia, esperienza ancor più deludente
(sed visa est mihi indigna: Conf. III 5, 9), prima di abbracciare, con
l’entusiasmo del neofita, la dottrina manichea.
4, 7 Inter hos ego imbecilla tunc aetate discebam libros eloquentiae, in qua
eminēre cupiebam fine damnabili et ventoso per gaudia vanitatis hu-
manae, et usitato iam discendi ordine perveneram in librum cuiusdam
Ciceronis, cuius linguam fere omnes mirantur, pectus non ita. Sed liber
ille ipsius exhortationem continet ad philosophiam et vocatur Horten-
sius. Ille vero liber mutavit affectum meum et ad te ipsum, Domine,
mutavit preces meas et vota ac desideria mea fecit alia. Viluit mihi re-
pente omnis vana spes et immortalitatem sapientiae concupiscebam
aestu cordis incredibili et surgere coeperam, ut ad te redirem. Non
enim ad acuendam linguam, quod videbar emĕre maternis mercedibus,
cum agerem annum aetatis undevicesimum iam defuncto patre ante bi-
ennium, non ergo ad acuendam linguam referebam illum librum neque
mihi locutionem, sed quod loquebatur persuaserat.
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4, 8 […] hoc tamen solo delectabar in illa exhortatione, quod non illam aut
illam sectam, sed ipsam quaecumque esset sapientiam ut diligerem et
quaererem et assequerer et tenerem atque amplexarer fortiter, excitabar
sermone illo et accendebar et ardebam, et hoc solum me in tanta fla-
grantia refrangebat, quod nomen Christi non erat ibi […]
4, 7 Inter… Hortensius: «Fra costoro, nel corso di un’età ancora immatura, io studiavo i testi di eloquenza, [di-
sciplina] nella quale bramavo di distinguermi con una finalità deplorevole e fatua attraverso le gioie dell’umana
vanità, e secondo il consueto piano di studi ero giunto al libro di un certo Cicerone, la cui eloquenza quasi tutti
ammirano, non così invece l’animo. Ebbene quel suo famoso libro contiene un’esortazione alla filosofia e si inti-
tola Ortensio».
– Inter hos: si tratta degli eversores di cui si parla nel capitolo precedente (3, 6), bande di studenti che, ani-
mati da spirito goliardico, commettevano insolenze nei confronti degli alunni più deboli. – imbecilla:
l’aggettivo deriva probabilmente da im-baculum (da in- con valore privativo + baculum, «bastone»), e signi-
fica letteralmente «senza bastone di appoggio»; esso sottolinea l’idea della debolezza e della pusillanimità,
propria dell’età giovanile. – cupiebam: il verbo indica il desiderio ardente per qualcosa di riprovevole, cioè i
gaudia vanitatis humanae. – ventoso: l’aggettivo esprime il carattere inconcludente, e quindi vano, delle fi-
nalità perseguite da Agostino; il concetto della vanitas contiene un probabile riferimento al libro biblico del
Qoelet (o Ecclesiaste), laddove si dice «Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un
correre dietro al vento» (1, 14). – usitato discendi ordine: letteralmente: «secondo l’usato ordine di appren-
dimento»; usitato è participio passato di usitor, frequentativo di utor. Come si è detto, Agostino ha seguito il
normale cursus studiorum, che prevedeva tre tappe fondamentali: lo studio delle litterae, il livello di base in
cui si imparava a leggere, scrivere e far di conto, la grammatica, dedicata allo studio della letteratura greca e
latina, della storia e della geografia, e infine la rhetorica, gli studi superiori, al cui interno Omero, Virgilio e
Cicerone occupavano un posto centrale. – cuiusdam Ciceronis: può sembrare strano che Agostino parli di
Cicerone come se fosse uno sconosciuto, specialmente se si considera che proprio Cicerone, insieme a Virgi-
lio e a Varrone, è l’autore latino più citato nelle sue opere. Forse qui Agostino pensa ai destinatari della sua
opera che potevano anche non conoscere Cicerone. È tuttavia possibile scorgere in questa genericità una certa
polemica antipagana: Cicerone è qualificato come quidam in quanto espressione dei gaudia vanitatis huma-
nae. – pectus non ita: il pectus è l’organo da cui sgorgano i pensieri e i sentimenti che poi assumono forma
di parole grazie alla lingua; pectus e lingua indicano, per metonimia, la profondità d’animo e l’eloquenza. –
exhortationem: scritto sul modello del Protrettico (dal greco protrépo, «esorto») di Aristotele, il dialogo di
Cicerone intende confutare le affermazioni del celebre oratore Quinto Ortensio Ortalo circa l’inutilità della
speculazione filosofica. Nella sua arringa, Cicerone sostiene che la filosofia possiede anche una finalità prati-
ca, in quanto consente di raggiungere la felicità attraverso la pratica della virtus. Come noto, l’opera cicero-
niano ci è giunta assai frammentaria, ma le numerose citazioni che proprio Agostino ha riportato nel suo De
Trinitate ci consentono di farci un’idea del contenuto.
Ille… redirem: «In verità quel libro cambiò il mio modo di sentire e cambiò persino le mie preghiere rivolte a te,
Signore, e fece diventare diverse le mie aspirazioni. All’improvviso per me ogni vana speranza cominciò a per-
dere consistenza e desideravo l’immortalità della sapienza con incredibile ardore di cuore e cominciavo a rial-
zarmi per tornare a te».
– mutavit: l’iterazione del verbo, accompagnata dalla perifrasi fecit alia (trattasi di una variatio), intende e-
videnziare il carattere decisivo della scoperta di Cicerone, un cambiamento che riguarda il modo di sentire
(affectum). Già in un’opera scritta nel ritiro di Cassiciaco (De beata vita 1, 4), Agostino, non ancora battezza-
to, sottolinea l’importanza dell’incontro con Cicerone. A distanza di vent’anni, in questo passo delle Confes-
siones, la percezione che la lettura dell’Hortensius ha segnato una svolta nel suo percorso interiore non si è
affievolita. – meum… meas… mea: il poliptòto intende evidenziare il cambiamento interiore avvenuto nel
giovane Agostino. – Viluit… surgere coeperam: il verbo incoativo viluit (da vilesco, «cominciare a perdere
valore») sottolinea il carattere incipiente e dinamico della scoperta, l’avverbio repente ne esprime
l’imprevedibilità, mentre il periodo sintattico, formato da tre principali unite tramite polisindeto, ne illustra le
conseguenze. – surgere: nel brano seguente (vd. p. 36) in cui Agostino racconta l’epidosio decisivo della sua
conversione questo verbo ricorre per ben quattro volte. – ut ad te redirem: chiaro riferimento alla nota para-
bola del figlio prodigo: «Mi alzerò e andrò da mio padre…» (Luca 15, 18-20).
Non… persuaseram: «Ebbene, non per affinare la mia eloquenza, cosa che sembravo pagare con i contributi di
mia madre (avevo infatti diciannove anni e mio padre era morto da due anni): non quindi per affinare la mia elo-
quenza riprendevo quel libro e non mi aveva convinto l’esposizione, ma ciò che veniva esposto».
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– ad acuendam linguam: costrutto del gerundivo con valore finale; come sopra, linguam è metonimia per
indicare l’abilità retorica, scopo precipuo dei corsi che Agostino seguiva a Cartagine. – videbar: costruzione
personale di videor. – maternis mercedibus: in Conf. II 3, 5 Agostino fa intendere che suo padre spendeva
per l’educazione del figlio più di quanto si potesse permettere; il fatto che agli studi del figlio contribuisse la
madre Monica significa che, dopo la morte del marito, ella poteva gestire il patrimonio di famiglia. Sappiamo
però (cfr. Contra Academicos II 2, 3) che un facoltoso amico, Romaniano, mise a disposizione di Agostino
una somma di denaro con la quale egli fu in grado di pagarsi gli studi a Cartagine. – cum agerem annum…
undevicesimum: il diciannovesimo anno di età di Agostino va dal novembre 372 al novembre 373. Il cum
narrativo ha valore causale. – defuncto patre: ablativo assoluto; pagano di nascita, a differenza della moglie
Monica, Patrizio ricevette il battesimo poco tempo prima dalla morte (Conf. IX 9, 22), avvenuta nel 370, al-
lorché Agostino si trovava a Cartagine per il quadriennale corso di retorica. – neque… locutionem, sed quod
loquebatur: l’opposizione tra forma (locutionem) e contenuto (quod loquebatur) è indice della serietà della
ricerca interiore di Agostino: l’opera di Cicerone lo conquista non per l’eleganza formale, ma per le nuove
prospettive spirituali e psicologiche che gli apre, concetto questo più volte ribadito dallo stesso Agostino:
«Avevo già imparato da te [Dio] che un argomento non deve sembrare vero perché viene esposto con elo-
quenza, né falso perché le parole della bocca risuonano confusamente; ma neppure vero perché espresso roz-
zamente, né falso perché il discorso è forbito» (Conf. V 6, 10).
4, 8 […] hoc tamen … ibi […]: «[…] tuttavia in quella esortazione soltanto una cosa mi attirava, il fatto cioè che
quelle parole mi stimolavano, mi accendevano, mi infiammavano ad amare, ricercare, perseguire, possedere e
abbracciare con forza non questa o quella scuola [filosofica], ma la sapienza in sé qualunque fosse, e, in tanto
incendio, solo questo mi tratteneva, che lì non ci fosse il nome di Cristo […]».
– tamen: nelle righe precedenti, qui non riportate, Agostino cita un passo della lettera di Paolo ai Colossesi 2,
8-9, per dimostrare come la filosofia possa diventare pericolosa nel momento in cui viene usata come arma di
seduzione: «sunt qui seducant per philosophiam». In questa fase della sua ricerca interiore, Agostino avverti-
va l’esigenza di una filosofia che non si limitasse ad una dimensione umana, ma che fosse in grado di schiu-
dere orizzonti spirituali e ascetici. – quod: ha valore dichiarativo, come il successivo quod…erat tibi e va
collegato a excitabar. – diligerem… amplexarer: i cinque verbi al congiuntivo sono retti da ut con funzione
di completiva finale, dipendente da excitabar; essi sono disposti in klimax ascendente e sono legati da omeo-
teleuto, oltre che possedere una struttura chiastica: diligerem, amplexarer e tenerem vs quaererem e asseque-
rer. – excitabar… et accendebar… et ardebam: l’uso del trikólon polisindetico è tipico dello stile agosti-
niano; qui si può notare, oltre all’allitterazione, anche l’omeoteleuto e, come nella precedente serie di verbi,
l’efficacissimo klimax ascendente. La presenza di un numero così elevato di verbi sinonimici e la loro raffina-
ta disposizione all’interno del periodo denotano la consapevolezza di Agostino maturo quanto al fatto che
l’incontro con Cicerone avrebbe avuto conseguenze decisive per il suo percorso interiore. Non si può, co-
munque, non notare come ad Agostino piaccia scrivere bene e farsi apprezzare per questo; forse non si era
‘convertito’ del tutto. – flagrantia: la metafora dell’‘ardere’, presente nei verbi precedenti, ricorre spesso nel
libro III delle Confessioni, che si apre con una vivida descrizione delle infinite attrattive che una città come
Cartagine offriva al giovane studente, facendolo bruciare di passione per le belle donne (è proprio in questi
anni che Agostino intrecciava la relazione con una donna da cui nascerà il figlio Adeodato) e la bella vita.
Tuttavia, il fuoco delle passioni terrene non lo distoglie dalla ricerca di un’esistenza all’insegna della morali-
tà. – refrangebat: la forma è controversa: la maggioranza dei manoscritti riporta questa lezione interpretan-
dola come refringebat (da refringo «rompo, spezzo»); in altri manoscritti compare la variante refrigebat (da
refrigo, «mi raffreddo»). In questo caso, ci sarebbe un’opposizione tra il campo semantico del ‘bruciare’ e
quello del ‘raffreddarsi’. – nomen Christi: ci si potrebbe legittimamente chiedere come sia possibile che in
un’opera di Cicerone Agostino si aspetti la menzione di Cristo. È chiaro che la delusione appartiene, per così
dire, non all’Agostino agens, ma all’Agostino auctor: sembra quasi che, ritornando sull’episodio a distanza di
anni, egli si rammarichi non tanto con il se stesso giovane quanto con Cicerone, il quale, pur presentando un
messaggio così moralmente elevato, non può fare riferimento a Cristo, via, verità e vita. L’assenza del nome
di Cristo nell’Hortensius spingerà Agostino verso la Bibbia, la cui povertà stilistico-retorica sarà fonte di i-
nappagamento e premessa per l’adesione al manicheismo.
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SUI TESTI
SUI TEMI
12, 28 Ubi vero a fundo arcano alta consideratio traxit et congessit totam
miseriam meam in conspectu cordis mei, oborta est procella ingens
ferens ingentem imbrem lacrimarum. Et ut totum effunderem cum
vocibus suis, surrexi ab Alypio – solitudo mihi ad negotium flendi
aptior suggerebatur – et secessi remotius, quam ut posset mihi onero-
sa esse etiam eius praesentia. Sic tunc eram, et ille sensit; nescio quid
enim, puto, dixeram, in quo apparebat sonus vocis meae iam fletu
38
Et ut… eius praesentia: la frase è tutta giocata sulla contrapposizione tra assenza (remotius) e presenza
(praesentia), silenzio (solitudo) e frastuono (vocibus). – Alypio: originario di Tagaste e amico di Agostino fin
dalla prima infanzia, viene raggiunto a Roma dallo stesso Agostino per poi partire insieme a lui alla volta di
Milano. È la persona che segue più da vicino il travaglio interiore di Agostino, diventandone una sorta di al-
ter ego. Non a caso, seguirà l’amico nel ritiro di Cassiciaco, collaborando con lui alla stesura dei Dialoghi di
Cassiciaco. – ad negotium flendi: il termine (opposto di otium) vuole sottolineare il travaglio interiore cui
Agostino deve far fronte; flendi è gerundio genitivo del verbo fleo. – secessi remotius quam ut: letteralmente
«mi ritirai più lontano che la sua presenza non potesse essermi di peso»; ut regge un congiuntivo consecutivo;
l’avverbio remote viene usato solo al comparativo o al superlativo. – solitudo: sebbene accompagnato nella
sua ricerca interiore da Alipio, nel momento della massima decisione, Agostino sperimenta la solitudine del
credente: è quasi un anticipo della scelta di una vita ascetica, dedicata al silenzio e alla meditazione, di cui il
ritiro a Cassiciaco, immediatamente successivo, è la testimonianza.
Sic… tuum: «Così ero allora e lui se ne accorse: infatti avevo detto, credo, non so cosa da cui appariva il suono
della mia voce già gravido di pianto e così mi ero alzato. Lui quindi rimase dove eravamo seduti sopraffatto dal-
lo stupore. Io, non so come, mi sdraiai sotto un albero di fico e sciolsi le briglie del pianto e strariparono i fiumi
dei miei occhi, sacrificio a te gradito».
– sensit: data la lunga consuetudine con Agostino, Alipio non ha bisogno di molte parole per capire il suo
travaglio interiore e il suo bisogno di solitudine. Anche il parallelismo sintattico (sic eram et ille sensit) sem-
bra sottolineare questa corrispondenza di sentimenti. – surrexeram: il verbo (da surrigo) possiede anche una
valenza metaforica: il mettersi in piedi implica una pronta risposta e l’impegno a percorrere una strada diver-
sa. – Mansit: al movimento di Agostino si contrappone la rispettosa immobilità di Alipio. – nimie stupens:
particpio con funzione predicativa; lett. «supendosi moltissimo». – sub… fici arbore: vista la rilevanza
dell’episodio, non è impossibile che, a distanza di tempo, Agostino ricordi con questa precisione il tipo di
pianta sotto il quale si era sdraiato. Tuttavia, è certo che la scena sia frutto di una rielaborazione posteriore
condotta sulla base di precise reminiscenze bibliche, in cui confluiscono tre episodi: quello delle coperture
con foglie di fico intrecciate da Adamo e Eva (Genesi 3, 7), quello del fico sterile (Matteo 21, 18-22), e quel-
lo di Natanaele (Giovanni 1, 47-48). Nei passi in questione il fico - come Agostino avrà modo di commentare
nei suoi scritti esegetici - esprime l’idea del peccato originale, della concupiscenza della carne e delle parole
che non producono frutto. – dimisi habenas: l’icastica perifrasi ricorre anche in Confessiones II 3, 8 (Relaxa-
bantur etiam mihi ad ludendum habenae, «mi venivano anche sciolte le briglie per il divertimento») allorché
Agostino parla della propria giovinezza inquieta. Analoga espressione si trova in Eneide XII 499 (irarumque
omnes effundit habenas, «lascia andare tutte le redini dell’ira»). – acceptabile sacrificium tuum: vi è qui un
riferimento al Salmo 50, 17-21.
Et… meae: «E non proprio con queste parole, ma certo con questo significato ti parlai a lungo: “E tu, Signore,
fino a quando? Fino a quando, Signore, durerà la tua ira? Non ricordare le nostre antiche iniquità”. Avvertivo in-
fatti di esserne ancora legato. Proferivo parole piene di angoscia: “Quanto ancora? Quanto? Domani e poi an-
cora domani? Perché non ora? Perché non in questo momento finisce la mia vergogna”?».
– his verbis: questa espressione che introduce citazioni bibliche ricorre spesso nei libri VII-IX delle Confes-
sioni dedicati al racconto della conversione. Il costante riferimento al testo biblico, in particolare ai Salmi,
consente all’Agostino auctor di far uscire l’Agostino agens dai limiti del soggettivismo, collocando il proprio
travaglio interiore in un percorso che è scandito dal continuo confronto con la parola di Dio; la scoperta della
Bibbia, in particolare delle Lettere di Paolo, è stata, infatti, decisiva per la conversione di Agostino. – “Et tu,
Domine, usquequo?… nostrarum antiquarum”: vengono qui fusi due passi dei Salmi 6, 4 e 78, 5.8. Com-
mentando il primo, Agostino afferma: «Non bisogna considerare crudele il Dio a cui sono rivolte le parole: E
tu Signore fino a quando?, ma bisogna piuttosto considerarlo come un buon maestro che fa capire all'anima il
male che si è procurata da se stessa.» (Enarrationes in Psalmos VI 4). – iactabam voces: espressione simile
in Eneide II 768 (ausus quin etiam voces iactare per umbram, «io osai anche lanciare grida nell’ombra»). –
cras: l’iterazione di cras, come pure il successivo hac hora, sembra suggellare l’irrevocabilità del momento.
L’invito a non differire a domani quello che si potrebbe fare oggi è motivo ricorrente della poesia satirica; si
veda in particolare Persio, Satira V 66-68.
12, 29 Dicebam… uspiam: «Dicevo questo e piangevo nella penosissima afflizione del mio cuore. Quand’ecco
che sento una voce (proveniente) dalla casa vicina con una cantilena, se di un bambino o di una bambina non
lo so, che diceva e ripeteva continuamente: “Prendi, leggi; prendi, leggi”. Subito, cambiata l’espressione del vol-
to, cominciai a pensare intensamente se per caso i bambini durante qualche loro gioco fossero soliti canterella-
re qualcosa del genere. Ma non mi veniva in mente di averla mai sentita da nessuna parte».
– contritione: da contero («trito», «distruggo»), è termine usatissimo dagli scrittori cristiani per indicare
l’umiliazione interiore (cfr. Salmo 50, 19: «Il mio sacrificio, o Dio, è uno spirito contrito, un cuore contrito e
umiliato tu non disprezzi, o Dio»). È interessante notare come il verbo ebraico (šbr) sia stato reso, nella tra-
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duzione greca della Bibbia, con syntríibo (lett. «essere a pezzi») da cui il sostantivo latino contritio. – vicina
domo: mentre la stragrande maggioranza dei manoscritti delle Confessiones riporta questa lezione, il più anti-
co (il Sessoriano) reca la forma divina domo, che viene però esclusa dalla maggior parte degli studiosi. – can-
tu: considerando l’avverbio crebro che accompagna il participio repetentis (genitivo perché concordato con
pueri an puellae) e più avanti l’uso del frequentativo cantitare, il canto si presenta come una specie di nenia
ripetuta ossessivamente, sottolineata anche dalla allitterazione cum cantu … crebro. – quasi pueri an puella-
e, nescio: interrogativa indiretta disgiuntiva; il significato letterale è: «come se fosse un bambino (ma non lo
so), come se fosse una bambina (ma non lo so)». Di chi è dunque questa voce? C’è chi ha parlato di una voce
angelica. Anche in questo caso, si potrebbero proporre molte ipotesi. Ma resta il fatto che Agostino, lungi dal
voler inserire il tutto in un’atmosfera esoterica, intende invitare il lettore ad entrare insieme a lui nella dimen-
sione del mistero (vd. Il racconto della conversione tra memoria e finzione letteraria, p. 40). – Tolle, lege:
nel tardo latino tollere tende a sostituire sumere, capere nel significato di «prendere». Il nesso tolle lege in-
tende sottolineare la peculiarità della conversione di Agostino, giunta al termine di un ‘viaggio intorno ai li-
bri’: da Virgilio a Cicerone ai libri dei manichei e a quelli dei neoplatonici egli approda alla scoperta della
Bibbia, libro che gli consente di rileggere con un nuovo sentire le sue precedenti letture. È qui che la sapienza
pagana viene illuminata dalla sapienza cristiana. – mutato vultu: ablativo assoluto; anche il participio passato
mutato, come il surrexeram di cui sopra, ha un significato metaforico: si allude al cambiamento di mentalità,
cioè alla metánoia, termine neotestamentario che indica la conversione. – coepi cogitare: perifrasi per espri-
mere l’aspetto ingrevviso dell’azione verbale (coepi + infinito). Il verbo esprime efficacemente l’istintivo
processo di razionalizzazione cui Agostino sottopone il suono della voce fanciullesca; solo in seguito, la ra-
gione cederà il posto alla contemplazione: dal cogitare si passa al interpretans divinitus. – utrumnam: forma
rafforzata dell’avverbio interrogativo; introduce l’interrogativa diretta e dipende da cogitare. – cantitare: fre-
quentativo di cano (letteralmente: «cantare in continuazione»). – aliquo genere ludendi: lett. «in qualche ge-
nere del giocare».
Repressoque… conversum: «Dopo aver trattenuto la foga delle lacrime, mi alzai, leggendo (in quell’episodio)
nient’altro che un ordine divino ad aprire il libro e leggere il primo capitolo che vi avessi trovato. Infatti avevo
sentito parlare di Antonio, di come era stato ammonito da un passo evangelico nel quale si era imbattuto, come
se fosse rivolto proprio a lui ciò che vi si leggeva: “Vai, vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e avrai un teso-
ro nei cieli; poi vieni e seguimi”; e subito in base a quel detto egli si convertì a te».
– impetu lacrimarum: la locuzione si ricollega all’iniziale imbrem lacrimarum. – divinitus iuberi: letteral-
mente: «che mi si comandava per volontà divina». – ut aperirem: il verbo iubeo esige la costruzione con ut +
congiuntivo solo in presenza di deliberazioni ufficiali del senato o di qualche magistrato; evidentemente, A-
gostino vule sottolineare la solennità dell’ordine ricevuto. – invenissem: attrazione modale del congiuntivo. –
Audieram: allusione a quanto detto in Confessiones VIII 6, 14 a proposito della visita di Ponticiano, il quale
racconta ad Agostino e ad Alipio «la storia di Antonio, il monaco egiziano che godeva di grande fama presso
i tuoi fedeli ma che noi fino a quel momento ancora non conoscevamo». – Antonio: grazie alla biografia
scritta da Atanasio nel IV secolo, Antonio (250-356) diventerà una delle figure più rappresentative del mona-
chesimo anacoretico. È proprio il racconto della storia a spingere Agostino ed Alipio ad abbracciare, sia pure
momentaneamente, la vita contemplativa nel ritiro di Cassiciaco. – quod… admonitus fuerit: congiunzione
dichiarativa con valore epesegetico. – lectione: termine tecnico per indicare brevi pericopi evangeliche usate
nella liturgia e raccolte nei lezionari. – supervenerat: lett. «sul quale si era gettato». – tamquam sibi dicere-
tur: proposizione comparativa ipotetica seguita da una relativa propria (quod legebatur); lett. «come se fosse
detto per lui» (sibi è dativo di vantaggio). – “Vade… sequere me”: citazione da Matteo 19, 21. La cosiddetta
pericope del giovane ricco era diventata il testo di riferimento per coloro che decidevano di abbracciare la
scelta monastica. – tali oraculo… esse conversum: l’infinto (esse conversum) dipende da audieram.
All’inizio del IV libro delle Confesioni Agostino condanna la sua giovanile adesione alle pratiche divinatorie
così diffuse nel mondo antico; in questo passo invece la terminologia utilizzata (interpretans divinitus; quod
primum caput invenissem; forte supervenerat; oraculo) sembra presupporre una lettura della Bibbia affidata
al caso. In realtà, interpellare le Sacre Scritture per ricavarne un significato per la propria vita era pratica dif-
fusa nel cristianesimo dell’epoca, in parte presente ancora oggi, specialmente in alcuni filoni del protestante-
simo e nei gruppi neocatecumenali.
Itaque… diffugerunt: «Così tornai in tutta fretta nel luogo dove sedeva Alipio: lì infatti avevo appoggiato il libro
dell’apostolo quando mi ero alzato. Lo afferrai, lo aprii e lessi in silenzio il primo capitolo sul quale si erano diretti
i miei occhi: non nelle gozzoviglie e nelle orge, non nelle lussurie e nelle impudicizie, non nella discordia e
nell’invidia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non indulgete alla carne, seguendo i suoi impulsi sfrenati.
Non volli leggere oltre né ce n’era bisogno. Perché subito, alla fine di quel versetto, come per effetto di una luce
di certezza che si era riversata sul mio cuore, tutte le tenebre del dubbio si dissolsero».
– concitus: aggettivo con funzione predicativa del soggetto. – redii: si sarà notato come tutta la sequenza del-
la conversione sia percorsa da verbi di movimento (surrexi – secessi – redii – diffugerunt) alternati a verbi di
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quiete (mansit – sedebamus – stravi). Il dinamismo, anche fisico, della conversione è tratto distintivo di tutto
il libro VIII: la battaglia della volontà (ego eram, qui volebam, ego, qui nolebam; ego, ego eram. Nec plene
volebam nec plene nolebam, 10, 22), il desiderio di non rimandare (Dicebam enim apud me intus: “Ecce mo-
do fiat, modo fiat”, 11, 25), lo sconvolgimento dei sensi (Si vulsi capillum, si percussi frontem, si consertis
digitis amplexatus sum genu, quia volui, feci, 8, 20) segnalano il dramma in cui si sta dibattendo Agostino. –
posueram: in contrasto con surrexeram (che ricorre qui per la quarta volta nei due paragrafi in esame: surrexi
… surrexeram … surrexi … surrexeram), il verbo indica non soltanto l’atto fisico di posare il libro, ma anche
il deporre il travaglio spirituale e il giungere finalmente a quella pace interiore di cui testimonia il celeberrimo
incipit delle Confessiones: fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te» (I 1,1), pe-
raltro strettamente collegato all’excipit dell’opera: tu … semper quietus es quoniam tua quies tu ipse es» (XIII
38,53). – codicem apostoli: si tratta del libro contenente le lettere di Paolo che Agostino teneva in casa sul
tavolo da gioco (mensam lusoriam: VII 6,14) e che si era portato appresso nel giardino. – Arripui, aperui, et
legi: il trikólon esprime efficacemente la smania di rispondere all’invito della voce fanciullesca che gli aveva
detto: tolle lege. Come si è detto, la scoperta della Bibbia da parte di Agostino avviene, come capiterà secoli
dopo a Lutero, proprio grazie alla lettura dell’apostolo Paolo; lo dice lui stesso: «Afferrai con grande avidità
(avidissime arripui) i venerabili scritti da te ispirati e, prima di tutto, su quelli dell’apostolo Paolo» (Conf. VII
21, 27). – in silentio: come noto, la lettura silenziosa era pressoché sconosciuta ai romani. Non a caso, quan-
do Agostino vede Ambrogio leggere in silenzio («gli occhi scorrevano le pagine e il cuore ne penetrava il
senso, mentre la voce e la lingua tacevano») ne rimane colpito, e così commenta: «la preoccupazione di ri-
sparmiare la voce, che diventava rauca facilmente, poteva essere un motivo più che valido per leggere in si-
lenzio» (Conf. VI 3, 3). – “non… concupiscentiis”: qui Agostino cita solo la parte finale del passo di Paolo
tratto dalla Lettera ai Romani 13, 12-14. Ci si chiede per quale motivo gli occhi di Agostino cadano proprio
su questo passo. Sebbene egli affermi che si sia trattato di una scelta casuale, è evidente che, nella ricostru-
zione a posteriori, il brano paolino assume un valore paradigmatico: collocato nella sezione parenetica della
Lettera ai Romani, esso è infatti contrassegnato dal contrasto tra opere delle tenebre e armi della luce, lo stes-
so contrasto in cui si è a lungo dibattuto Agostino prima di giungere alla conversione. In effetti, è stata pro-
prio la concupiscenza, cioè l’amore per i piaceri terreni, a impedirgli un approdo più celere alla verità. – du-
bitationis tenebrae diffugerunt: oltre al riferimento paolino (la luce della grazia che annulla le tenebre del
peccato) l’espressione, richiamando per allitterazione fine e infusa, suggella il dissolvimento della procella
ingens con cui si era aperto il capitolo 12, 28. Il contrasto tra lux securitatis e dubitationis tenebrae è racchiu-
so in un efficacissimo chiasmo.
Anche quando diventa oggetto di racconto e di riflessione a posteriori, una conversione rimane pur
sempre un evento misterioso: le componenti psicologiche e spirituali sono infatti così complesse e
intrecciate tra loro che è necessario ricorrere a modalità espressive di tipo simbolico. Alla regola
non sfugge neppure il racconto della conversione di Agostino.
La scena del giardino viene così ricostruita da Agostino: «Vicino alla nostra abitazione c’era un
piccolo giardino (hortulus) che usavamo come il resto della casa, dal momento che il nostro ospite,
padrone della casa, non ci abitava (…) Mi ritirai dunque in giardino e Alipio mi seguì, passo passo.
A dire il vero mi sentivo ancora solo, nonostante la sua presenza, e poi come avrebbe potuto ab-
bandonarmi in quelle condizioni? Sedemmo il più lontano possibile dalla casa. Non era violato il
mio segreto, anche se lui era presente, e del resto come avrebbe potuto abbandonarmi in uno stato
simile? Ci mettemmo a sedere nel posto più lontano possibile dalla casa» (VIII 8,19). Segue la de-
scrizione del tormento interiore di Agostino, con Alipio che «immobile al mio fianco, attendeva in si-
lenzio l’esito della mia insolita agitazione» (11, 27).
Nella sequenza centrale della conversione (sulla quale gli studiosi si sono divisi in molteplici tentati-
vi di interpretazione) Agostino è seduto nel giardino immerso nei suoi pensieri, quando sente una
voce infantile; l’istinto lo porta a chiedersi chi e per quale motivo (forse un gioco da bambini) può
aver pronunciato quelle parole (piano materiale); solo in seguito interpreta la voce come un co-
mando divino (piano spirituale). È proprio il passaggio dalla realtà materiale a quella spirituale a
tracciare il confine tra il vecchio e il nuovo Agostino.
Sarebbe stucchevole interrogarsi sulla veridicità dell’episodio, che comunque ha tutta l’aria di esse-
re frutto di una rilettura dell’Agostino auctor, al quale probabilmente interessava porre l’accento sul
carattere uditivo più che visivo dell’esperienza. Un interessante parallelo con la vicenda qui de-
scritta è quanto Agostino dice in un sermone (pronunciato pochi anni prima la stesura delle Con-
fessioni) a proposito delle modalità con cui Dio parla all’essere umano: «Sono molti i modi con cui
Dio ci parla. A volte tramite qualche documento, come attraverso il libro delle sacre Scritture. Parla
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attraverso qualche elemento del mondo […] Parla attraverso la sorte […] Parla attraverso l’essere
umano, come attraverso il profeta. Parla tramite l’angelo, come sappiamo che ha parlato ad alcuni
dei patriarchi, dei profeti e degli Apostoli. Parla attraverso una qualche creatura fatta di voce e di
suono, come leggiamo e crediamo siano scese delle voci dal cielo, anche se non si vede nessuno
con gli occhi. Infine Dio parla all'uomo stesso, non esternamente tramite le sue orecchie o gli occhi,
ma interiormente, nell’anima, in varie maniere» (Sermones 12, 4).
Agostino e il neoplatonismo. Fra la primavera e l’estate del 386, mentre si trovava a Milano, A-
gostino entrò in contatto con personalità cristiane che gli offrirono l’opportunità di conoscere e stu-
diare i testi neoplatonici. Pur avendo letto soltanto una parte delle Enneadi di Plotino, nella tradu-
zione latina di Mario Vittorino, Agostino fu come illuminato dai punti di contatto fra neoplatonismo
e cristianesimo: la natura assolutamente spirituale di Dio, la generazione del Verbo, l’anima
umana illuminata da una luce divina. Restava però ancora da superare lo scoglio rappresentato
dall’incarnazione del Verbo e dalla sua morte in croce per la redenzione dell’essere umano, che è
poi il nucleo fondamentale della teologia di Giovanni e di Paolo. Sarà proprio la lettura di Paolo a
far capire ad Agostino che il Verbo si fa carne proprio per liberare l’uomo dalla schiavitù della carne
(cfr. Conf. VII 21, 27).
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Sul testo
Sui temi
Per le lettere XVI e XVII cfr. NBA XXI/1: introd. M. Pellegrino; traduz. T. Alimonti - L. Carrozzi; note
2
L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1992 .
Per approfondire
Sulla reazione pagana della seconda metà del IV secolo, si segnalano, oltre alle trattazioni pre-
senti nelle varie storie del cristianesimo già citate, gli studi di J.J. O’Donnell, The demise of paga-
nism, in «Traditio» 35 (1979), pp. 45-88 e di A. Quacquarelli, Reazione pagana e trasformazione
della cultura (fine IV secolo d. C.), Edipuglia, Bari 1986.
In particolare, su Pretestato vedi il saggio di K. Maijastina, Vettius Agorius Praetextatus. A Senato-
rial Life in Between (Acta Instituti Romani Finlandiae 26), Roma 2002.
46
V ettio Agorio Pretestato (nato intorno al 310 e morto nel 384) fu una delle figure di spicco
dell’ultimo paganesimo, tanto che, mezzo secolo dopo la sua morte, Macrobio ne fece il prota-
gonista dei suoi Saturnalia, evidentemente vedendo in lui il sicuro punto di riferimento della
resistenza pagana, sebbene sia assai difficile stabilire l’esatta portata della sua attività. Già consi-
gliere per il culto occidentale con Giuliano, che lo nominò proconsole dell’Acaia (362-364), venne
eletto prefetto della città di Roma da Valentiniano I nel 367-368. È interessante scoprire come, in
qualità di prefetto, Pretestato sia dovuto intervenire per sedare i disordini tra i sostenitori di Ursino e
quelli di Damaso, scoppiati in città in seguito all’elezione al papato del secondo; fu proprio lui a di-
chiarare valida l’elezione di Damaso – si ricordi che la sua candidatura era caldeggiata
dall’aristocrazia romana che vedeva in lui un interlocutore più favorevole – e a bandire dalla città
Ursino. Al tempo stesso, però, Pretestato prese provvedimenti a sostegno del culto pagano: de-
cretò la demolizione di case private costruite a ridosso dei templi pagani e per il restauro di un tem-
pio dedicato alle dodici maggiori divinità maschili e femminili del pantheon romano (gli Dei Consen-
tes), il cui portico è ancora oggi visibile nel foro romano. Dopo essersi ritirato a vita privata, nel 384
venne nominato all’alta carica di prefetto del pretorio per l’Italia e designato console per l’anno suc-
cessivo. Fu lui, negli ultimi mesi di vita, a istituire una commissione di inchiesta per indagare su al-
cuni cristiani che avevano demolito dei templi pagani.
L’ara di Vettio Agorio Pretestato e di sua moglie Aconia Fabia Paolina è oggi conservata ai Musei
Capitolini di Roma. Si tratta di un parallelepipedo di marmo alto 125 cm., con le quattro facciate oc-
cupate da una lunga iscrizione (CIL VI.1779 = ILS 1259-61). La parte centrale così recita:
D(is) M(anibus) / Vettius Agorius Praetextatus / Agli Dei Mani. Vettio Agorio Pretestato, augu-
augur p[o]ntifex Vestae / pontifex Sol[is] quin- re, sacerdote di Vesta, sacerdote del Sole,
decemvir / curialis Herc[u]lis sacratus / Libero et quindicemviro, curiale di Ercole, iniziato a Li-
Eleusi[ni]s hierophanta / neocorus tauroboliatus bero e ai (misteri) Eleusini, ierofante, neocoro
/ pater patrum in [r]e publica ver[o] / quaestor [= custode dei templi], tauroboliato, padre dei
candidatus / pr(a)etor urbanus / corrector Tu- padri. Nell’ufficio pubblico questore candida-
sciae et Umbriae / consularis Lusitaniae / pro- to, pretore urbano, governatore della Tuscia e
consule Achaiae / praefectus urbi / legatus a dell’ Umbria, governatore della Lusitania, pro-
senatu missus V / praefectus praetorio II Italiae console dell’Acaia, prefetto di Roma, legato
/ et Illyrici consul ordinarius / designatus / et senatorio per cinque volte, prefetto del preto-
Aconia Fabia Paulina c(larissima) f(emina) / sa- rio in Italia e in Illiria per due volte, console
crata Cereri et Eleusiniis / sacrata apud Eginam ordinario designato, e Aconia Fabia Paolina,
Hecatae / tauroboliata hierophantria / hi co- donna famosissima, iniziata a Cerere e ai
niuncti simul vixerunt ann(os) XL // (misteri) Eleusini, iniziata a Ecate presso Egi-
na, tauroboliata, ierofante. Vissero insieme
per quaranta anni.
I lati destro e sinistro contengono un elogio alla moglie, mentre il lato posteriore riporta un lungo e-
pitaffio dei due coniugi.
Al di là delle stlilizzazioni dell’epigrafia funeraria, l’iscrizione offre un interessante spaccato sul tardo
paganesimo. In una sorta di ansia tesa a rimarcare la propria appartenenza religiosa, Pretesta-
to non esita a menzionare una lunga serie di iniziazioni religiose, condivise peraltro dalla fedele
moglie. Sembra che Pretestato non sia lasciato sfuggire nessuno dei più diffusi culti misterici
dell’epoca: il Sol Invctus, i culti eleusini (lo ierofante era il sacerdote che durante i misteri eleusini
celebrava il rito e mostrava i sacri segni agli iniziati), il culto di Mitra (tauroboliato è colui che si è
sottoposto al taurobolium, un rito in onore di Mitra in cui l'adepto scendeva in una fossa sopra la
quale veniva sgozzato un toro, in modo che il sangue di questo cospargesse il neofita), quello di
Serapide e della Grande Madre.
Stando così le cose non stupisce che Girolamo, in una sua lettera alla nobildonna romana Marcella
scritta nel 384, la assicuri che Pretestato, morto da poco, «è ora nel Tartaro» (Epistula XXIII 2). Lo
stesso Girolamo racconta che, nel corso della controversia che portò all’elezione di Damaso, Pre-
testato avesse chiesto al nuovo papa: «Fammi vescovo di Roma e io diventerò cristiano» (Contra
Johannem Hierosolymitanum 8). Calunnie maliziose? Probabilmente sì, ma assai indicative del cli-
ma che si respirava.
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1 Il desiderio di essere spesso rallegrato dalle tue lettere e dalla ispirazione delle tue
parole, con cui di recente mi hai così amabilmente criticato senza che venisse me-
no l’affetto reciproco, ha fatto sì che io non rinunciassi a contraccambiare, per evita-
re che tu considerassi il mio silenzio una forma di risentimento. Ma se tu riterrai le
mie parole deboli come le mie membra senili, allora ti chiedo di accoglierle con
1
l’indulgenza tipica di un orecchio benevolo . Ora, che il monte Olimpo sia la dimora
degli dèi ne favoleggia la Grecia, pur senza prove certe; che però la piazza della
nostra città sia invasa da una moltitudine di divinità propizie lo vediamo da noi e ne
2
abbiamo le prove . Indubbiamente, che ci sia un unico sommo Dio, senza inizio,
senza discendenza di natura, una sorta di padre grande e straordinario, chi sareb-
3
be tanto pazzo e imbecille da negarlo come cosa più che certa? Le manifestazioni
della sua potenza diffuse nel creato noi le definiamo con nomi diversi, perché è evi-
dente che tutti noi ignoriamo il suo vero nome: Dio è infatti il nome che tutte le e-
spressioni religiose hanno in comune. E capita così, che, mentre sembra che ne
salutiamo le membra, per così dire, sparse con invocazioni diverse, senza dubbio lo
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veneriamo tutto intero .
2 Tuttavia, non posso dissimulare la mia insofferenza verso un così grave errore. Chi
infatti può tollerare il fatto che a Giove, scagliatore di fulmini, si anteponga un Mi-
gdone? O che a Giunone, a Minerva, a Venere e a Vesta si anteponga una Sanae,
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e – ah orrore! – l’arcimartire Namfamone a tutti gli dèi immortali? Tra costoro ven-
gono accolte con non minore culto anche Lucita e altre innumerevoli divinità (nomi
odiosi agli dèi e agli uomini) le quali, consapevoli dei loro crimini nefandi, sotto
l’apparenza di una morte gloriosa, accumulando misfatti su misfatti, hanno trovato
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coperti d’infamia una fine degna della loro condotta e delle loro azioni . I loro busti,
ammesso che sia degno ricordarlo, li frequentano gli stolti, dopo aver abbandonato
i templi e trascurato i Mani dei loro antenati, cosicché si avvera il presagio di quel
poeta che si sdegnava per tutto questo: e nei templi degli dèi Roma giurerà per le
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ombre . Ebbene, a me sembra quasi che di questi tempi sia scoppiata una nuova
guerra di Azio, nel corso della quale i mostri dell’Egitto osano scagliare i loro strali,
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8
del tutto effimeri, contro le divinità romane .
3 Ma adesso, o uomo sapientissimo, ti chiedo che, rimosso e messo da parte il vigore
dell’eloquenza per la quale sei universalmente noto, tralasciate anche le argomen-
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tazioni di Crisippo con le quali eri solito combattere, messa per un attimo in secon-
do piano la dialettica che si adopera con tutte le sue forze per non lasciare a nes-
suno alcuna certezza, ti chiedo di dimostrarmi concretamente chi sia codesto Dio
che voi cristiani rivendicate come vostro esclusivo possesso e che vi inventate di
vedere presente in luoghi remoti. Noi i nostri dèi li adoriamo con devote preghiere
alla luce del giorno davanti agli occhi e alle orecchie di tutti i mortali, ce li rendiamo
propizi con sacrifici a loro graditi e ci adoperiamo affinché questi atti siano visti e
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approvati da tutti .
4 Ma, anziano e debole come sono, non intendo proseguire oltre questa disputa e vo-
lentieri faccio mia la massima del retore mantovano: ciascuno segua ciò che gli
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piace . Dopodiché, io non dubito, o illustre signore che ti sei allontanato dalla mia
religione, che questa lettera verrà sottratta furtivamente da qualcuno, sarà data alle
fiamme o comunque in qualche modo distrutta. Se ciò avverrà, il danno riguarderà il
foglio, non certo le mie parole, delle quali conserverò una copia sempre a disposi-
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zione di tutti coloro che sono religiosi . Ti proteggano quegli dèi nei quali noi tutti
mortali che la terra nutre veneriamo e adoriamo in mille modi, concordemente pur
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nella varietà, il padre comune di loro e di tutti i mortali .
1
Le parole di Massimo mostrano come questa non fosse la prima lettera che i due si erano scam-
biati, visto che tra loro esisteva un’amichevole frequentazione epistolare, di cui però ci sono rima-
ste solo questa lettera e la conseguente risposta di Agostino. Si noti anche il tono dimesso con cui
l’anziano retore si rivolge al suo interlocutore, anche se la deferenza appare più che altro una for-
ma non troppo dissimulata di captatio benevolentiae.
2
Dopo la premessa, si entra subito in argomento: in quanto pagano illuminato e un po’ scettico,
Massimo non crede molto al fatto che la dimora degli dèi sia sul monte Olimpo, liquidandola come
favola greca (in lat. Graecia fabulatur); tuttavia, accetta come dato di fatto la protezione che le di-
vinità pubbliche garantiscono alla città di Madaura.
3
Non è che qui Massimo stia rinnegando il politeismo. Semplicemente espone quello che era un
modo di sentire molto diffuso presso i circoli intellettuali dell’epoca, impregnati di neoplatonismo,
secondo i quali, come si dice subito dopo, la pluralità degli dèi altro non è che la molteplice mani-
festazione di un Dio unico, padre e signore. L’idea verrà ripresa e ampliata dai Saturnalia di Ma-
crobio.
4
Il ragionamento di Massimo appare del tutto coerente con l’ideale sincretistico dei romani: di-
fendendo il monoteismo politeista della religione tradizionale, implicitamente si chiede – e chiede
ad Agostino – per quale motivo i cristiani pretendano di avere l’esclusiva del Dio unico.
5
Massimo non riesce a capire per quale motivo i cristiani rifiutino il culto delle divinità pagane e
venerino invece persone che sono state messe a morte a causa della loro fede. I nomi qui citati, de-
precabili in quanto barbari, sono quelli di martiri locali. In particolare, Namfamone è uno dei primi
martiri cristiani di origine cartaginese, messo a morte con alcuni suoi compagni proprio a Madaura
verso il 180. Non a caso viene definito «arcimartire».
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Come noto, l’Africa cristiana è stata per molti terra di martirio e per un pagano come Massimo è
veramente difficile capire come una persona possa accettare di morire in nome di un ideale che la
mentalità romana considerava sintomo di follia. Logico quindi che, secondo il gramamticus, quella
dei martiri sia una morte falsamente gloriosa, esaltata ad arte per nascondere un’esistenza tutt’altro
che limpida.
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È citazone da Lucano, Pharsalia VII 459: «Inque deum templis iurabit Roma per umbras».
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Agli occhi del pagano Massimo il culto dei martiri appare una minaccia sociale, un segno della
corruzione dei tempi, un decadimento dei costumi. Il riferimento alla battaglia di Azio non poteva
essere più azzeccato, visto che da lì ha avuto inizio la potenza imperiale, cioè la struttura socio-
politica alla cui integrità i cristiani – secondo Massimo – hanno attentato.
9
Con Zenone (332 – 261 a.C.), Crisippo (277 – 204 a.C.) è il fondatore dello stoicismo.
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Esclusivismo cristiano contro sincretismo pagano: così si potrebbe riassumere l’obiezione di
Massimo. Emerge qui una delle accuse più radicate nei confronti del culto cristiano, visto dai pa-
gani come antisociale in quanto svincolato da quella dimensione pubblica, e quindi politica, che
era garanzia di vera religiosità. I Romani infatti si consideravano religiosissimi e tacciavano i cri-
stiani di ateismo: alla pietas pagana si contrappone l’impietas cristiana. Come si vede, non si è
molto distanti dalle critiche mosse da Celso e da Porfirio (vd. pp. 16-17), segno che per Massimo
questo era, al di là della pacatezza dei toni, il punto decisivo.
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Citazione da Virgilio, Bucoliche II 65: «trahit sua quemque voluptas». Questa citazione, con la
quale Massimo sembra esaltare la tolleranza dei pagani e implicitamente tagliare corto con la di-
sputa, susciterà la reazione risentita di Agostino.
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Pur ammantata di retorica, la frase conferma quanto detto sopra: per Massimo è del tutto evi-
dente che solo i pagani sono autenticamente religiosi. Dietro queste parole di Massimo si cela una
critica e un timore. La critica riguarda la tendenza dei cristiani a voler imporre il proprio credo a
tutti i costi, contrariamente all’atteggiamento ‘tollerante’ dei pagani (si pensi alle figure di Simma-
co e di Pretestato). L’accenno alla possibilità che la sua lettera venga bruciata esprime il timore
che anche i suoi scritti facciano la fine di quelli di altri pagani (su tutti Celso e Porfirio), vittime di
veri e propri autodafè da parte di cristiani troppo zelanti (ma non si dimentichi che anche gli scritti
di Origene vennero condannati al rogo!).
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L’excipit della lettera ribadisce l’essenza del discorso: il politeismo pagano è, per così dire, il
tentativo di penetrare la multiformità del divino, una sorta di concordia discors, come dice molto
bene il testo latino: mille modis concordi discordia veneramur et colimus.
1 Seriumne aliquid inter nos agimus an iocari libet? Nam sicut tua
epistola loquitur, utrum causae ipsius infirmitate, an morum tuorum
comitate sit factum, ut malles esse facetior quam paratior, incertum
habeo. Primo enim Olympi montis et fori vestri comparatio facta est:
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Seriumne … habeo: «Trattiamo qualcosa di serio oppure ci piace scherzare? Perché da come parla la tua lette-
ra, io non ho ben capito se il fatto che tu preferisca essere più faceto che impegnato dipenda dalla futilità in sé
dell’argomento oppure dall’affabilità del tuo carattere.»
– Seriumne: al fioretto di Massimo risponde la spada di Agostino, il quale, lasciati da parte i convenevoli e-
pistolari, con questo esordio ex abrupto risponde alle critiche del primo senza concedere nulla alla falsa corte-
sia e invitando il suo interlocutore a rinunciare al suo tono ironico e supponente. La cosa è tanto più sorpren-
dente se è vero, come pensano alcuni, che Massimo è stato il grammaticus presso il quale aveva studiato il
giovanetto Agostino a Madaura. – ut… paratior: ut introduce una proposizione sostantiva dopo verbo di ac-
cadimento (sit factum). Paratior è il grado comparativo dell’aggettivo paratus, letteralmente «pronto», «di-
sposto» ad affrontare la discussione. – incertum habeo: la locuzione regge l’interrogativa indiretta disgiunti-
va (utrum… an… sit factum). La costruzione dell’intero perido è: incertum habeo utrum causae ipsius infir-
mitate, an morum tuorum comitate sit factum ut malles esse facetior quam paratior
Primo … maluisses: «Anzitutto, è stato fatto un confronto tra il monte Olimpo e la vostra piazza, cosa che non
capisco bene cosa c’entri, se non per farmi ricordare che su quel monte Giove ha posto il suo accampamento
allorché muoveva guerra a suo padre, come insegna quella storia che i vostri definiscono pure sacra, e per
rammentarmi che in codesta piazza vi sono due statue di Marte, uno raffigurato nudo e l’altro armato, il cui pote-
re demoniaco, così funesto per i cittadini, viene scongiurato da una statua umana con tre dita protese collocata
di fronte ad esse E quindi, visto che hai menzionato quella piazza, potrei mai credere che tu abbia voluto ri-
chiamare alla mia memoria tali divinità se tu non avessi preferito scherzare invece che trattare la cosa seria-
mente?»
– quae… comprimeret: alla principale, introdotta dal nesso relativo, segue una interrogativa indiretta (quo
pertinuerit; lett. «non capisco a cosa sia diretta») che regge una finale (ut commonefaceret) dalla quale dipen-
de l’infinitva (Iovem… posuisse) che a sua volta introduce la temporale (cum gereret). La medesima costru-
zione si ritrova nella seconda parte del periodo: [ut] recordarer (sinonimo di commonefaceret) seguito da
un’infinitiva (esse) e da una relativa (quorum… comprimeret). – commonefaceret: il verbo causativo (o fatti-
tivo) indica un’azione provocata dal soggetto. – adversus patrem: secondo la mitologia romana, Giove-
Juppiter era figlio di Saturno e fratello di Nettuno e Giunone (di cui era anche marito). Venerato come Juppi-
ter Optimus Maximus (JOM), egli era il padre dell’Olimpio e divinità ‘politica’ per eccellenza, tanto che il
suo tempio sul Capitolino era il più importante luogo di culto a Roma. Il riferimento all’uccisione del padre
da parte di Giove consente ad Agostino di tracciare un implicito confronto con Gesù Cristo che non uccide il
Padre, ma muore per l’umanità: Giove rivela la sua potenza sul monte Olimpo, Cristo afferma la propria rega-
lità sul Calvario. – vestri etiam sacram vocant: chiara la polemica contro la mitologia pagana, che spaccia
per sacre delle storie caratterizzate dalla violenza e dalla sopraffazione. – in isto foro: si tratta della piazza di
Madaura. – statua humana: si sottolinea il carattere superstizioso e demoniaco della religione romana: ac-
canto alle due statue di Marte presenti sulla piazza di Madaura, c’è un simulacro con chiara funzione apotro-
paica. – crediderim: congiuntivo perfetto con valore potenziale. – nisi iocari… serio agere: vi è qui una ri-
presa dello stesso motivo che si ritrova all’inizio del paragrafo, che si è aperto con un’interrogativa circa la
poca serietà di Massimo. Visto che Massimo aveva messo in ridicolo certe pratiche cristiane (il culto dei mar-
tiri, la segretezza del culto, il monoteismo assoluto; vd. pp. 46-48), Agostino pensa bene di ripagarlo con la
stessa moneta.
Sed … existimer: «Ma proprio in riferimento a quel passo in cui hai detto che siffatti dèi sono delle membra
sparse di un unico Dio grande, ti consiglio, visto che me lo consenti, di lasciar proprio perdere facezie sacrile-
ghe di tal genere. Se davvero parli di quel Dio unico sul quale, come è stato detto dagli antichi, concordano sia i
dotti sia gli ignoranti, tu dici che sono sue membra [quelle divinità] di cui l’immagine di un uomo morto tiene a
freno la crudeltà o, se preferisci, la potenza? Potrei aggiungere più argomenti; data infatti la tua competenza,
vedi quanto codesto passo [della tua lettera] sia abbondantemente esposto alla critica. Ma mi tengo a freno da
solo affinché tu non pensi che io discuta [servendomi] della retorica più che della verità.»
– quaedam … membra: Massimo aveva infatti dato per scontato che esiste in solo Dio il quale si manifesta
in modi diversi (quasi quaedam membra: Epist. XVI 1; vd. p. 47). – illum Deum… consentiunt: citazione
indiretta del passo del De re publica di Cicerone in cui Scipione afferma che unum omnium deorum et homi-
num regem esse omnes docti indoctique consentiunt: «tutti i dotti e gli indotti sono d’accordo nell’affermare
che ci sia un solo re di tutti gli dèi e di tutti gli uomini» (I 56). – huiusne… compescit?: riprendendo
l’immagine della statua presente nel foro di Madaura, Agostino si chiede come sia possibile che i pagani, mo-
noteisti in linea di principio, ma politeisti di fatto, possano accettare la commistione tra figure umane e divini-
tà, con quest’ultime che vengono placate dalle prime. – possem: congiuntivo imperfetto con valore irreale. –
pro tua prudentia: è difficile non scorgere in questa osservazione, solo appartenente adulatoria, una frecciata
velenosa nei confronti di Massimo, i cui argomenti mal si conciliano con la sua stessa competenza teologica.
– rhetorice… veridice: non si dimentichi che Massimo era un grammaticus, quindi esperto nell’uso della pa-
rola. Agostino, anch’egli ex maestro di retorica e quindi in grado di sostenere il confronto dialettico con Mas-
simo, mentre afferma di voler ribattere alle sue accuse con parole di verità, in realtà, nel corso della lettera,
non si esime dall’utilizzare un vario e ben studiato repertorio retorico, fatto di domande incalzanti, osserva-
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zioni ironiche, argomentazioni ben ponderate. D’altra parte, sull’esempio di Cicerone e di Plinio il Giovane,
l’epistolario di Agostino era concepito per avere una diffusione pubblica.
2. Nam … Abbadires: «Infatti, io non so se debba smentire o passare sotto silenzio il fatto che hai enumerato
alcuni nomi punici di defunti, per i quali hai ritenuto di dover scagliare delle offese, a tuo giudizio, divertenti nei
confronti della nostra religione. Se infatti alla tua serietà queste cose appaiono tanto leggere quanto effettiva-
mente sono, io non ho molto tempo da perdere a scherzare. Se invece ti sembrano serie, mi meraviglio del fatto
che, colpito dalla stranezza dei nomi, non ti sia venuto in mente che anche voi avete tra i sacerdoti certi Eucad-
diri e tra le divinità certi Abadirri.
– Nam… praeterire: altro periodo piuttosto complesso la cui costruzione è: nescio utrum refellere debeam
an silentio praeterire (interrogatica indiretta disgiuntiva) quod nomina… collegisti quibus… putares (relativa
con il congiuntivo per attrazione modale). – religionem: come si è visto nel capitolo 2 (vd. pp. 9-10, 18-19),
il termine è ormai entrato stabilmente nel lessico per indicare il cristianesimo, in precedenza definito dai Ro-
mani superstitio. – ut tibi visum est: lett. «come ti è parso opportuno». – contumelias iacendas: perifrastica
passiva, all’accusativo in quanto dipendente da putares (esse è sottinteso). – nescio utrum repellere… an si-
lentio praeterire: la preterizione serve ad Agostino per far trasparire il proprio sdegno e per rilanciare il di-
scorso teso a confutare Massimo. – vacat: il tono di Agostino si fa sempre più perentorio: non ho tempo da
perdere con chi si perde in sciocchezze! – graves: in contrapposizione con leves della frase precedente, inten-
de sottolineare il contrasto tra la serietà intellettuale di Massimo e il modo denigratorio con cui egli affronta
argomenti che dimostra di non conoscere. Si noti l’efficacia argomentativa delle due proposizioni ipotetiche
dell’oggettività ottenuta grazie al parallelismo oppositivo: Si enim res istae videntur leves / Si autem graves
tibi videntur. – quod… non venerit: proposizione sostantiva introdotta da miror (appartenente ai verba affec-
tuum). – Eucaddires… Abaddires: a Massimo che aveva ridicolizzato certi nomi africani annoverati tra i
martiri cristiani, Agostino chiede se trova forse più armoniosi gli Eucaddiri che figurano tra i sacerdoti pagani
e gli Abaddiri che si trovano tra le divinità. I due termini sono di origine fenicia, rispettivamente khanûk ’ad-
dîr, che significa «iniziato alla divinità», e ’āb-’addîr, «padre magnifico».
Non puto … consecuta sit: «Non penso che, mentre le scrivevi, codeste cose ti siano sfuggite; piuttosto, per via
del tuo carattere affabile e arguto, hai voluto che noi, per divertirci un po’, richiamassimo alla mente quanto vi
sia di ridicolo nella vostra superstizione. Infatti, non avresti potuto dimenticarti di te stesso, in quanto uomo afri-
cano che scrive agli africani, visto che entrambi viviamo in Africa, a tal punto da ritener giusto biasimare certi
nomi punici. Perché, se interpretiamo quei termini, cos’altro significa Namfamone se non ‘uomo dal piede propi-
zio’, cioè uno il cui arrivo è portatore di felicità, come siamo soliti dire che è entrato ‘con piede propizio’ colui dal
cui ingresso è scaturita una certa prosperità?»
– in animo non fuisse: lett. «non ti fossero state nella mente». – more humanitatis et leporis: lett. «a causa
del carattere di affabilità e arguzia». – quanta… ridenda sint: lett. «quante cose ci siano da deridere nella
vostra superstizione». L’interrogativa indiretta, costruita come perifrastica passiva, dipende da nos commone-
facere. Agostino, continuando a muoversi sul filo dell’ironia, arriva a smascherare Massimo il quale, deri-
dendo le usanze cristiane, fa risaltare la poca serietà di quelle pagane. – superstitione: come detto sopra, il
processo di cristianizzazione della romanità ha determinato uno spostamento lessicale di superstitio che fini-
sce per indicare la religione romana contrapposta al cristianesimo. – homo Afer… Punica nomina exagi-
tanda: nel richiamare a Massimo le comuni origini puniche, Agostino intende smontare la supponenza di un
intellettuale che sembra vergognarsi delle sue origini provinciali in nome di quella urbanitas («eleganza»,
«raffinatezza») che faceva percepire come inferiore tutto ciò che non si riferiva alla civiltà romana. – Nam-
phamo: effettivamente il nome del protomartire Namfamone citato da Massino sembra derivare
dall’espressione fenicia na‘am pa‘amw, che significa proprio «colui il cui piede è bello». – felicitatis: geniti-
vo partitivo («qualcosa di felicità»). – secundo pede: la locuzione latina propitio pede o secundo pede (con il
suo contrario sinistro pede «piede infausto») identificava una persona che era di buon auspicio incontrare.
Massimo, argomenta Agostino, non dovrebbe ridere del nome strano di questo martire dal momento che il
suo nome punico contiene il riferimento ad una superstizione che è tipicamente pagana.
Quae lingua … despicis: «E se questa lingua è da te riprovata, nega che nei libri punici, come tramandano uo-
mini dottissimi, siano state tramandate molte cose sagge. Certo dovresti rammaricarti di essere nato in una ter-
ra dove è ancora calda la culla di questa lingua. Se invece non è ragionevole che ci dispiaccia il suono [di que-
sta lingua] e se riconosci che ho bene interpretato quel vocabolo, allora hai di che prendertela con il tuo Virgilio
che così invita il vostro Ercole ai sacrifici celebrati per lui da Evandro: Avvicìnati a noi e alle tue sacre cerimonie
ben disposto con piede propizio. Egli desidera che venga con piede propizio. Desidera quindi che venga Ercole
Namfamone, a proposito del quale tu ritieni opportuno insultarci molto. E comunque, se ti piace ridere, presso di
voi hai grande abbondanza di stupidaggini: il dio Stercuzio, la dea Cloacina, la Venere calva, il dio Timore, il dio
Pallore, la dea Febbre, e altre divinità di tal sorta a cui gli antichi Romani, adoratori di statue, eressero templi e
considerarono degni di venerazione: se trascuri questi, trascuri gli dèi romani; da ciò puoi capire che tu non sei
iniziato ai sacri riti romani e tuttavia disprezzi e denigri i nomi punici come se tu fossi dedito al culto delle divinità
romane.»
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– Poeniteat: congiuntivo esortativo. – lingua: si tratta ovviamente della lingua punica. – cunabula: cfr. quan-
to dice lo stesso Agostino in Conf. I 14, 23. – quod succenseas: relativa impropria con valor consecutivo. –
Virgilio tuo: per l’atteggiamento di Agostino nei confronti di Virgilio si veda il brano delle Confessioni su
Didone (vd. pp. 27 e ss.). – Evandro: mitico re che dall’Arcadia, giunse in Italia dove fondò la città di Pallan-
teo. – Et nos… sacra secundo: citazione di Eneide VIII 302. È evidente che l’autorità di Virgilio serve a A-
gostino per smontare le accuse di Massimo. – Verumtamen… apud vos magnam materiam facetiarum:
Massimo, dice Agostino, non dovrebbe fare troppo lo spiritoso nel criticare la bizzarria dei nomi punici visto
che anche nel pantheon romano, quanto a stranezze, non mancano esempi eloquenti. – Stercutium… Fe-
brem: Stercuzio (Stercutus o Sterquilinus) era una divinità romana minore che presiedeva alla concimazione
dei campi (da stercus, letame); spesso veniva identificato con Picumno, inventore della concimazione dei
campi e patrono dei matrimoni e dei neonati di cui proteggeva la crescita. La dea Cloacina (da cloaca, «fo-
gna») sovrintendeva al sistema fognario di Roma. Il culto di Venere Calva risale ad un episodio leggendario
avvenuto durante l’assedio dei Galli a Roma nel 390 a.C., quando le donne romane corsero in massa a tagliar-
si i capelli per farne delle corde per gli archi e per altre necessità belliche; a ricordo del fatto, venne eretto un
tempio a Venere Calva. La dea Febbre proteggeva dalla febbre; in suo onore nell’antica Roma esistevano tre
templi, uno dei quali si trovava tra il Palatino e il Velabro. Il dio Pallore e il dio Timore sono divinità legate
alla guerra; la loro presenza gettava paura e scompiglio tra i nemici. – quae si negligis, Romanos deos negli-
gis: Agostino sollecita Massimo ad essere coerente: non può infatti prendere il meglio dell’espressione reli-
giosa romana senza considerare anche gli aspetti meno presentabili. – Punica nomina… despicis: non è pos-
sibile sapere se Massimo fosse iniziato, come per esempio Pretestato, ad alcuni culti misterici; Agostino, pe-
rò, stigmatizza il fatto che egli disprezzi le rozze divinità puniche pur conoscendole bene.
3. Sed … molitur: «Mi sembra però che tu, forse ancor più di noi, non tenga in gran conto quei riti, ma che da
essi ricavi non so quale diletto per trascorre questa vita, dal momento che non hai neppure esitato a rifugiarti in
Marone, come scrivi, e a difenderti dietro il suo verso, che dice: ciascuno segua ciò che gli piace. Se infatti ac-
cetti l’autorità di Marone, come mostri di accettarla, di sicuro accetterai anche quel [passo]: Per primo Saturno
venne dall'etereo Olimpo // fuggendo le armi di Giove e profugo dopo esser stato privato del suo regno e gli altri
versi nei quali egli intende far capire che quel dio e gli altri vostri dèi di questo genere sono stati uomini. Infatti
egli aveva letto molta storia rafforzata da una veneranda autorità, [storia] che aveva letto anche Tullio, il quale
nei suoi dialoghi menziona questa medesima convinzione più di quanto noi oseremmo pretendere e si sforza di
farlo sapere agli uomini, nella misura in cui quei tempi lo consentivano.»
– illa sacra nihili pendere…voluptatem: di sicuro Massimo, da buon intellettuale, non dava dato molto cre-
dito alla venerazione di queste divinità riducendola al rango di passatempo e di vacua superstizione; se il po-
polino pagano – obietta Agostino – si lascia andare a culti superstiziosi, questo non significa che anche il cul-
to cristiano sia frutto di superstizione. – ad huius vitae transitum: complemento di fine; lett. «per il passag-
gio di questa vita». – quippe qui… non dubitaveris: proposizione relativa impropria (c’è la presenza del
congiuntivo) con valore causale accompagnata da quippe. – Primus… ademptis: citazione da Eneide VIII
319-320 con la quale Agostino replica alla citazione virgialiana («ciascuno segua ciò che gli piace») di Mas-
simo. Nel discorso di Evandro infatti vi è l’esaltazione dell’età dell’oro (aurea saecula) portata da Saturno;
Agostino intende mostrare come ciò che viene spacciato per dono divino sia in realtà una conquista umana
che, in quanto tale, è destinata ad avere vita breve. – Tullius: Agostino si riferisce qui a due passi del De na-
tura deorum (I 42; I 119) in cui Cicerone riporta la dottrina di Evemero di Messina (340-260 a.C.), secondo il
quale gli dèi altro non sono che uomini morti divinizzati. – perducere in hominum notitiam… molitur:
l’evemerismo si era diffuso a Roma soprattutto presso il circolo degli Scipioni, diventando poi una credenza
comune, di cui si servirono anche i Padri della Chiesa per dimostrare la falsità della religione pagana.
4. Quod autem … sani estis: «Quanto poi alla tua affermazione secondo cui i vostri riti sono superiori ai nostri
per il fatto che voi adorate gli dei pubblicamente, mentre noi ci serviamo di conventicole piuttosto misteriose, per
prima cosa ti chiedo come tu abbia potuto dimenticarti di quel Libero che voi ritenete debba essere sottoposto
alla vista di pochi iniziati. Poi tu stesso ammetti di non aver avuto altro fine, allorché ricordi la celebrazione pub-
blica dei vostri riti, se non che noi avessimo davanti ai nostri occhi, come uno spettacolo, i decurioni e i maggio-
renti della città che impazziscono e folleggiano nelle piazze della vostra città: se nel corso di questa cerimonia
siete posseduti da un dio, vedete bene che razza di dio sia quello che toglie il senno. Se invece è tutta una fin-
zione, cosa sono questi vostri segreti messi anche in pubblico o a che tende una così turpe menzogna? E poi,
perché non presagite nulla sul futuro se siete indovini? O ancora, perché spogliate quelli che vi circondano se
siete sani di mente?»
– quod autem dicis: letteralmente: «il fatto poi che tu dica». – praeponi: infinito presente passivo; lett. «che
i vostri riti siano anteposti ai nostri». – eo…quod: formula correlativa con la quale si introduce la proposizio-
ne causale dell’oggettività (colitis). – secretioribus conventiculis: secretioribus è comparativo assoluto. La
notazione si riferisce ad una delle accuse più frequenti mosse al culto cristiano, ritenuto sovversivo e immora-
le in quanto segreto (ne avevano già parlato Minucio Felice e Tertulliano). – Liberum… paucorum sacrato-
rum: Agostino ha buon gioco nel replicare che culti segreti erano diffusissimi anche presso i pagani, come
dimostra l’esempio del dio Bacco che a Madaura veniva adorato con il nome di Liber o Lenaeus Pater da un
certo numero di adepti. Un’iscrizione trovata a Mdaourouch - il nome moderno di Madaura - reca il nome di
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un certo Tito Clodio Lovella «edile, duumviro, questore, flamine e sacerdote di Liber Pater». – agere voluis-
se: lett. «di non aver voltuto fare nient’altro». – decuriones: alti magistrati, in genre senatori delle colonie e
dei municipia. – celebritate: allusione ai Baccanali, feste orgiastiche in onore di Bacco-Dioniso, introdotte a
Roma verso il 200 a.C. e celebrate il 16 e 17 marzo. Il loro carattere licenzioso e antistatale spiega per quale
motivo venissero guardati con sospetto dalle autorità cittadine, tanto che vennero ufficialmente proibiti con il
famoso senatoconsulto del 186 a.C. (ne parla diffusamente Livio, Ab urbe condita XXXIX,9-19). Al tempo di
Agostino le feste in onore di Bacco avevano perso i loro tratti più sfrenati, ma sopravvivevano come allegre
carnevalate. – Si…estis: il paragrafo si chiude con una serie di interrogative inframezzate da frasi ipotetiche
(si… quae sunt? cur… si? cur… si?) che conferiscono all’argomentazione una sicura efficacia grazie al pro-
cedimento serrato.
5. Cum igitur … dicas: «Dunque, visto che grazie alla tua lettera ci hai fatto ricordare queste cose e altre che
ora ritengo sia meglio non affrontare, perché noi non dovremmo deridere i vostri dèi, i quali chiunque conosce la
tua intelligenza e legge le tue lettere capisce benissimo che vengono da te stesso sottilmente derisi? Pertanto,
se vuoi che su questi temi parliamo tra noi di qualcosa che sia adeguato alla tua età e alla tua saggezza e che
da ultimo, in sintonia con il nostro proposito, possa essere preteso a buon diritto dai nostri più cari amici, cerca
qualcosa che sia degno della nostra discussione e, a favore delle vostre divinità, vedi di usare argomenti per cui
non ti consideriamo un finto difensore della causa, come uno che voglia insegnarci ciò che si può dire contro di
esse piuttosto che dire qualcosa in loro difesa.»
– feceris recordari: la perifrasi sostitutiva del verbo causativo (moneo, commonefacio) è rara nella prosa
classica. – derideamus: congiuntivo dubitativo. – nemo non: il pronome nemo seguito dalla negazione non
assume il significato di «ognuno, tutti» (non meno: «qualcuno»). – vis agamus: il verbo volo, come gli altri
verba voluntatis, si costruiscono con il congiuntivo (spesso senza ut) quando i soggetti sono diversi. – pro ve-
stris numinibus… non te causae praevaricatorem: con queste parole Agostino vuole smascherare
l’evidente ambiguità di Massimo il quale tende ad associare sotto il comune denominatore della superstizione
e del fanatismo popolare tanto il culto pagano quanto quello cristiano, senza rendersi conto che, in questo
modo, finisce per difendere ciò che in realtà ridicolizza. Come può infatti sostenere la superiorità del culto
pagano se lui stesso ne denuncia i limiti? – in quibus: introduce una relativa impropria con valore consecuti-
vo. – quo… commoneas: introduce una proposizione finale in quanto si trova davanti ad un comparativo
(magis).
Ad summam … cognovero: «In conclusione, affinché ciò non ti sfugga e non ti trascini imprudentemente in sa-
crileghe calunnie, sappi che i cristiani cattolici, di cui esiste una comunità ecclesiale anche nella vostra città, non
tributano alcun culto ai morti e che, da ultimo, non adorano come divinità niente che sia stato fatto e creato da
Dio, ma l’unico Dio che ha fatto e creato tutto. Discuteremo più diffusamente di questi argomenti, con l’aiuto
dell’unico e vero Dio, quando avrò constatato che vorrai affrontarli seriamente.»
– scias: cong. esortativo; introduce l’infinitva costruita al passivo (a Christianis… coli). – catholicis: è questo
l’aggettivo con cui si definivano i cristiani che non avevano abbracciato l’arianesimo o le altre eresie diffuse
all’epoca (donatismo e pelagianesimo in primis). – ecclesia: termine tecnico (dal greco ekklesia) con cui si
indicava la comunità cristiana. – nullum coli mortuorum… condidit omnia: a Massimo che criticava
l’adorazione di uomini morti (cioè i martiri), Agostino fa notare che i cristiani non divinizzano i martiri (che
rimangono creature), ma rendono onori divini a un solo Dio, il Creatore di tutte le cose. La risposta, a dire il
vero, è ad usum paganorum, perché, in realtà, più che adorare il Dio creatore (cosa che facevano anche i pa-
gani), i cristiani adorano il Dio di Gesù Cristo, il martire per eccellenza. – quod sit: relativa impropria con
valore consecutivo. – factum… condidit: il passaggio dalla diatesi passiva a quella attiva esprime in modo
molto icastico la differenza tra l’adorazione riservata alla creatura (quod factum et conditum) e quella riserva-
ta al creatore (qui fecit et condidit). Nel corso della lettera infatti Agostino ha sottolieato più volte come la
differenza fondamentale tra culto pagano e culto cristiano consista in questo: nel primo si rende onore a dèi
che in realtà sono uomini, mentre nel secondo si rende onore al Dio che si è fatto uomo. – graviter agere: se-
condo i più consueti canoni retorici, la lettera si chiude con la ripresa del motivo con cui si era aperta, cioè
l’invito a Massimo a parlare con ponderatezza. Sembra quasi che Agostino voglia sollecitarlo a prendere sul
serio la sua religiosità come premessa indispensabile per prendere sul serio quella altrui.
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Sul testo
Sui temi
Una teologia della storia: il De civitate Dei Il 24 agosto 410, dopo due anni
di assedio, i visigoti guidati da Alarico invasero Roma e la saccheggiarono per tre giorni
consecutivi prima di spostarsi verso sud. Era da ottocento anni, dal sacco gallico del 390
a.c., che la città non conosceva uno simile sfregio, destinato ad entrare nell’immaginario
collettivo dell’epoca come una catastrofe: per quanto ormai svuotata del suo ruolo politi-
co, Roma rappresentava ancora la continuità di una tradizione più che millenaria e custo-
diva le vestigia di un passato che sembrava intangibile. E se persino un ‘ciceroniano pen-
tito’ come Girolano affermava che «la fiaccola del mondo s’è spenta e nella rovina di una
sola città tutto il genere umano perisce» (In Ezechielem, praefatio I), si può facilmente
immaginare il clima di sconcerto che si era diffuso, anche presso molti cristiani (non si
dimentichi che a Roma c’erano le reliquie di Pietro e di Paolo), mentre agli occhi
dell’élite pagana il fatto doveva apparire come la prova più evidente del fallimento politi-
co-sociale del monoteismo cristiano e della sua morale. È in questo clima che prende
forma il De civitate Dei contra paganos, opera in 22 libri scritta da Agostino tra il 412/3
e il 426/7. Nata dall’urgenza dei tempi e dalla necessità di dare una risposta alle accuse
dei pagani e di contrastare lo sconcerto dei cristiani, l’opera, più che mera apologia del
cristianesimo, finisce per tracciare le linee di una vera e propria teologia della storia, le
cui parole d’ordine sono verità, giustizia, amore.
Il contenuto dell’opera: un messaggio per pagani e cristiani Al cospetto del suo magnum
opus et arduum (De civ.: prefazione) è lo stesso Agostino, nelle Retractationes (2.43), a
fornire indicazioni circa il contenuto del De civitate. L’opera si può dividere in due parti
fondamentali: nella prima (I-X), si confuta la pretesa della religione pagana di essere ga-
rante di prosperità e fortuna in questa vita (I-V: insufficienza sociale) e di salvezza ultra-
terrena (VI-X: insufficienza spirituale); nella seconda (XI-XXII), si delineano i tratti
contrapposti della civitas terrena e della civitas caelestis: l’origine (XI-XIV), lo sviluppo
e il progresso nel tempo (XV-XVIII) e l’esito escatologico (XIX-XXII). Come le due par-
ti sono tra loro strettamente intrecciate, tanto che la prima è la premessa alla seconda, così
i destinatari risultano essere sia i pagani sia i cristiani.
Civitas terrena e civitas caelestis: un’antitesi mistica e… Nel chiudere la rassegna storica
delle due città, Agostino fa questa considerazione (De civ. Dei XVIII 54, 2):
trad. D. Ma concludiamo ormai questo libro, dopo aver esposto fin qui e, per quanto sembrava op-
Gentili portuno, dimostrato quale sia l’evoluzione storica delle due città, la celeste e la terrena,
commischiate dall’inizio fino alla fine. La terrena ha creato per sé, da ogni provenienza o
anche dagli uomini, i falsi dèi che ha voluto, per sottomettersi a loro mediante l’offerta di
vittime. Invece quella celeste, che è esule sulla terra, non crea falsi dèi, ma essa è stata cre-
ata dal vero Dio ed essa stessa è la sua vera immolazione. Tutte e due però usano ugual-
mente i beni temporali e sono colpite dai mali con diversa fede, diversa speranza, diverso
amore, fino a che siano separate dal giudizio finale e raggiunga ognuna il proprio fine che
non ha fine. Del fine di entrambe si parlerà in seguito.
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Queste parole consentono di cogliere l’essenza della concezione agostiniana delle due cit-
tà, da intendersi non tanto in senso socio-politico, quanto piuttosto in senso mistico. La
differenza tra la civitas terrena e quella caelestis non è di carattere storico, perché en-
trambe, essendo tra loro permixtae, sono radicate nella provvisorietà della storia, il che
esclude, inoltre, che la civitas caelestis sia il regno dei buoni e dei perfetti. La differenza
è invece di status: la città celeste è peregrina sulla terra, cioè possiede la consapevolezza
che esiste una dimensione ulteriore, che la sua esistenza (terrena) è anticipo della vera
esistenza (celeste), mentre la città terrena è priva di un’apertura metastorica (ecco perché,
per i pagani, la fine di Roma coincide con la fine del mondo!).
Ma tra le due vi è anche una contrapposizione socio-religiosa: la civitas caelestis è pre-
ceduta da Dio (ed è pellegrina in attesa di essere celeste), la civitas terrena, invece, pre-
cede le sue divinità. Come è noto, infatti, la civitas romana si autolegittimava nel culto
pubblico celebrando la propria antichità e ponendosi sotto la protezione degli dei, per cui
ogni città aveva le sue divinità e il civis romanus coincideva con l’essere religiosus.
È spesso destino delle grandi opere di avere pessimi lettori. A questa regola non si è sottratta nep-
pure il De civitate Dei, forse il testo di Agostino che ha avuto maggior fortuna dal Medioevo - 376
manoscritti rispetto ai 258 delle Confessiones - ai giorni nostri. A partire dal Medioevo, l’equivoco
principale cui è andata soggetta la riflessione agostiniana è consistito nell’identificare la città ter-
rena con il potere politico (impero) e la città celeste con il potere spirituale (chiesa). È quello
che H.-X. Arquillière ha definito agostinismo politico (L' augustinisme politique: essai sur la for-
2
mation des théories politiques du Moyen-Age, J. Vrin, Paris 1972 ), inteso come «la tendenza ad
assorbire il diritto naturale nella giustizia soprannaturale, il diritto dello Stato in quello della Chiesa».
Mentre infatti Agostino non aveva identificato la città celeste con la chiesa e la città terrena con lo
stato, i sostenitori della teocrazia papale affermano la supremazia della chiesa istituzionale come
città di Dio sulla terra, con il conseguente primato dell’auctoritas dei papi sulla potestas dei ca-
pi politici; da qui, con la riforma di Gregorio VII (1073-1085), la pretesta papale di esercitare il
dominio universale sul mondo cristiano, sia sul piano spirituale sia su quello temporale. Saranno
papi come Innocenzo III (1198-1216), Innocenzo IV (1243-1254) e Bonifacio VIII (1294-1303) a
portare alle estreme conseguenze l’agostinismo politico al servizio della teocrazia papale: una volta
dichiaratosi vicarius Christi (e non più solo vicarius Petri), il papa assume su di sé il potere tem-
porale e quello spirituale, delegando il primo ai principi che gli sono sottomessi. Il potere pontifica-
le, potenza spirituale diventata potere ecclesiastico, è assoluto (plenitudo potestatis): chiunque gli
resiste, resiste all’ordine stabilito da Dio.
Assumendo il diritto naturale dello stato nella giustizia soprannaturale e nel diritto ecclesiastico, i
teorici della teocrazia papale, a partire da una lettura superficiale di un passo della Città di Dio (XIX
21), sostengono che, non potendo esistere stato senza giustizia e non potendo esistere vera giusti-
zia se non in Cristo (e nel suo vicario), è necessario che lo stato sia sottomesso al papa. In questo
senso, la chiesa è la città di Dio nel mondo terreno e il suo compito è quello di far trionfare la
pace e la giustizia.
Come si vede, si è lontani dal pensiero autentico di Agostino, il quale riteneva che la città celeste
non fosse realizzabile in questa terra e che il diritto naturale dello stato fosse pienamente legittimo.
59
Il testo latino qui riprodotto è quello dell’edizione Maurina del 1685 (in: Patrologia Latina 41), così
2
come riportato dalla NBA V/1 (1990 ), V/2 (1988) e V/3 (1991), a cura di A. Trapé, R. Russel, S.
Cotta, D. Gentili. Questa edizione opera dei confronti con l’edizione critica del Corpus Christiano-
rum vol. 47 (Brepols, Turnhout 1955) che, a sua volta, riprende l’edizione critica di B. Dombart – A.
Kalb, Bibliotheca Teubneriana, Leipzig 1928-29.
Oltre alla traduzione italiana della NBA V/1-3, si segnalano quelle di L. Alici, Rusconi (I classici del
2
pensiero), Milano 1990 (I ed. 1984); Bompiani (Il pensiero occidentale), Milano 2001, e di C. Care-
na, Einaudi (Biblioteca della Pleiade), Torino 1992.
Per approfondire
Come si può immaginare, la bibliografia sul De civitate Dei è sterminata. Oltre alle introduzioni al-
le edizioni citate sopra, si possono consultare i seguenti studi: G. Lettieri, Il senso della storia in
Agostino di Ippona. Il “saeculum” e la gloria nel De civitate Dei, Borla, Roma 1988; E. Cavalcanti
(cur.), De civitate Dei. L’opera, le interpretazioni, l’influsso, Herder, Roma 1996; AA.VV., Homo via-
tor. La Città di Dio nel tempo, Città Nuova, Roma 1997.
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L’ intento che muove i primi dieci libri del De civitate Dei è quello di mo-
strare l’insufficienza morale e civile del politeismo pagano, il quale
non è (più) in grado di fornire risposte plausibili in ordine al raggiungi-
mento della felicità terrena e trascendente. Più in particolare, il libro II si sof-
ferma sulla decadenza morale della società romana provocata dall’intrinseca
immoralità di una religione i cui dèi, in certo senso, legittimano ogni sorta di
depravazione. Ad essi, e non al cristianesimo, deve essere imputato il crollo di
Roma sotto le orde barbariche.
Nel capitolo qui riportato, Agostino traccia il quadro a tinte fosche di una so-
cietà ripiegata sul proprio passato, consumistica, edonistica, priva di punti di
riferimento che ne possano rilanciare l’azione civilizzatrice. La sete di potere
dei politici, la decadenza della giustizia, il diritto del più forte, l’impunità deri-
vante dal denaro, le sperequazioni economiche, la corsa all’accumulo, la stessa
acquiescenza degli oppressi: sono tutti segnali evidenti di una crisi tutt’altro
che contingente.
Le parole di Agostino grondano di una sferzante ironia, di fronte alla quale non
si deve commettere l’errore di trasformare lo scrittore in un rancoroso fustiga-
tore di costumi. È indubbio che la rappresentazione risenta di un pathos retori-
co che conduce l’autore verso un moralismo di stampo quasi sallustiano, ma è
pur vero che, dietro le sue parole, si avverte l’eco della grande tradizione profe-
tica, quella, per esempio, che fa dire a un Geremia, su ordine divino: «Esercita-
te il diritto e la giustizia; liberate dalla mano dell’oppressore colui al quale è
tolto il suo; non fate torto né violenza allo straniero, all’orfano e alla vedova;
non spargete sangue innocente» (Geremia 22, 3).
Non si dimentichi, infatti, che Agostino è figlio della società che critica; e pro-
prio in quanto figlio si sente legittimato non solo ad uccidere, metaforicamente,
il padre che l’ha generato, ma anche, profeticamente, ad indicargli un nuovo
sentiero.
bus advertatur. Nullus ducatur ad iudices, nisi qui alienae rei domui sa-
luti vel cuiquam invito fuerit importunus aut noxius; ceterum de suis
vel cum suis vel cum quibusque volentibus faciat quisque quod libet.
Abundent publica scorta vel propter omnes, quibus frui placuerit, vel
propter eos maxime, qui habere privata non possunt. Exstruantur am-
plissimae atque ornatissimae domus, opipara convivia frequententur,
ubi cuique libuerit et potuerit, die noctuque ludatur bibatur, vomatur
diffluatur. Saltationes undique concrepent, theatra inhonestae laetitiae
vocibus atque omni genere sive crudelissimae sive turpissimae volupta-
tis exaestuent. Ille sit publicus inimicus cui haec felicitas displicet;
quisquis eam mutare vel auferre temptaverit, eum libera multitudo
avertat ab auribus, evertat a sedibus, auferat a viventibus. Illi habeantur
dii veri, qui hanc adipiscendam populis procuraverint adeptamque ser-
vaverint. Colantur ut voluerint, ludos exposcant quales voluerint, quos
cum suis vel de suis possint habere cultoribus: tantum efficiant, ut tali
felicitati nihil ab hoste, nihil a peste, nihil ab ulla clade timeatur». Quis
hanc rem publicam sanus, non dicam Romano imperio, sed domui Sar-
danapali comparaverit? qui quondam rex ita fuit voluptatibus deditus,
ut in sepulcro suo scribi fecerit ea sola se habere mortuum, quae libido
eius, etiam cum viveret, hauriendo consumpserat. Quem regem si isti
haberent sibi in talibus indulgentem nec in eis cuiquam ullā severitate
adversantem, huic libentius quam Romani veteres Romulo templum et
flaminem consecrarent.
20. Verum … potentior: «In verità, simili adoratori e amanti di codesti dèi, dei cui malvagi misfatti si dilettano di
essere anche imitatori, non si preoccupano affatto che lo Stato versi in una condizione di assoluta depravazio-
ne. “Basta soltanto che stia in piedi”, dicono, “basta soltanto che prosperi rimpinzato di ricchezze, glorioso di vit-
torie oppure, cosa che sarebbe più gradita, sicuro nella pace. E che ce ne importa? Anzi a noi interessa piutto-
sto che ognuno incrementi sempre più le ricchezze che sopperiscano agli sperperi quotidiani, per mezzo dei
quali chi è più potente può sottomettere a se stesso anche chi è più debole.»
– sceleribus et flagitiis: la coppia di sostantivi si può intendere come un’endiadi, come pure la successiva
coppia di aggettivi superlativi pessimam ac flagitiosissimam. – stet: congiuntivo concessivo, come il succes-
sivo floreat. – inquiunt: il verbo, il cui soggetto sottinteso è cultores deorum, introduce un lungo discorso di-
retto, una sorta di locutio ficta, nel quale Agostino, per bocca di un ipotetico interlocutore, mette in scena le
caratteristiche della civitas terrena; ne deriva una spietata critica della società romana, la cui morale risulta
improntata a criteri edonistici e utilitaristici. – “tantum floreat… secura sit: l’ironia di Agostino non potreb-
be essere più evidente: ciò che ha fatto grande Roma, qui espresso con un efficacissimo trikólon (copiis re-
ferta, victoriis gloriosa … pace secura), è ormai destinato a venir meno, a motivo di un’erosione interna. –
referta: part. passato di refercio (da farcio), indica ‘l’essere ripieno’. – gloriosa: dato il contesto,
nell’aggettivo è possibile cogliere una sfumatura negativa: è chiaro che le vittorie romane, peraltro sempre
meno numerose, producono una gloria ormai vuota in quanto residuo del passato. – si… augeat: il costrutto
con si, sostituendo la proposizione sostantiva introdotta da quod (come si aspetterebbe visto la presenza di id
che il quod + indicativo andrebbe a determinare), conferisce alla frase un valore ipotetico. – quae: introduce
una relativa impropria con valore consecutivo. – potentior: la contrapposizione con infirmiores suggerisce
l’idea che, ormai, a dominare il quadro è la legge del più forte.
Obsequantur … impura: «I poveri assecondino i ricchi per potersi saziare e per poter godere del loro patrocinio
in una inoperosa indolenza, i ricchi sfruttino i poveri per le clientele e in funzione della propria alterigia. I popoli
applaudano non chi si preoccupa dei loro interessi, ma chi elargisce piaceri. Non si prescrivano gesti impegnati-
vi, non si proibiscano azioni immorali.»
– obsequantur: tutta la sequenza è contrassegnata dall’impiego di congiuntivi esortativi che servono ad Ago-
stino per elencare le storture della società romana. L’ampio discorso tocca i principali aspetti della corruzio-
ne, a cominciare dai rapporti sociali, basati sul potere della ricchezza e sulla sua disuguale distribuzione: è no-
to infatti come non ci possa essere pace senza giustizia sociale. – saturitatis: complemento di causa finale
62
(lett. «al fine della sazietà»). – quieta inertia: la critica agostiniana non risparmia i poveri, i quali vengono
accusati di avvallare, con la propria accondiscendenza, lo status quo. – divites pauperibus: i due termini in
relazione con i precedenti divitibus pauperes individuano il primo dei numerosi chiasmi presenti nel brano
(divitibus pauperes… divites pauperibus). Esso sembra quasi visualizzare l’ambiguo e malsano rapporto che
vede coinvolti tanto i ricchi quanto i poveri: entrambi, sia pure per opposte ragioni, mirano al mantenimento
delle rispettive condizioni sociali. È noto infatti come la società romana fosse largamente basata sul reciproco
rapporto tra il cliens e il patronus: il primo, in cambio di obblighi politici ed economici, si rimetteva alla pro-
tezione del secondo, che lo difendeva in tribunale e lo sosteneva in caso di bisogno. – utilitatum… volupta-
tum: la contrapposizione tra utilitas e voluptas e il verbo plaudo tracciano una efficace sintesi
dell’interazione che spesso, nel corso dell’impero, si venne a instaurare tra plebe e imperatore, con la prima
che chiedeva panem et circensens e il secondo che era ben lieto di elargirglieli. – Non dura… impura: carat-
terizzata dalla struttura chiastica (dura iubeantur, non prohibeantur impura) e dall’omoteleuto, questa sen-
tenza, secca e senza appello, tipica dell’andamento gnomico, cade come un colpo di scure sulla corruzione del
mos maiorum. Certo, non sarebbe stonata in bocca a Sallustio o a Tacito.
Reges … timeant: «I governanti non si preoccupino tanto di regnare su persone oneste, quanto piuttosto di re-
gnare su persone sottomesse. Le province obbediscano ai governanti non come a guide dei comportamenti, ma
come a padroni delle loro ricchezze e dispensatori dei loro piaceri e non li onorino sinceramente, ma li temano
malvagiamente e servilmente.»
– Reges… regnent: dai rapporti sociali si passa all’etica politica, in cui a farla da padrone sono il desiderio di
arricchimento, la volontà di sottomissione e la deresponsabilizzazione dei sottomessi. Si noti il bellissimo
chiasmo (curent quam bonis… quam subditis regnent) che sembra quasi suggerire il circolo vizioso del pote-
re. – non curent quam bonis, sed quam subditis: ellissi del correlativo tam; anche il verbo curo presenta
l’ellissi di ut. Il senso della frase è che gli uomini di potere nei sudditi preferiscono la sottomissione
all’onestà. – rectoribus morum: come altri pensatori cristiani del tempo, Agostino condivide, e non potrebbe
essere altrimenti, l’idea che i governanti debbano svolgere un’azione etica ispirata ai princìpi dalla morale cri-
stiana. Del resto, dacché gli imperatori abbracciarono il cristianesimo (e valga per tutti l’esempio di Teodo-
sio), la loro azione di governo fu volta alla difesa del cristianesimo e del suo sistema di valori. Non è quindi
un caso che Agostino, nel brano riportato più avanti (De civ. Dei V 24; vd. p. 68), delinei i tratti del principe
ideale pensando proprio a Teodosio. – rerum: si intende res nel senso di «ricchezze», «averi». – dominato-
ribus: altro chiasmo: rectoribus morum … rerum dominatoribus. – timeant: con il periodo che va da reges a
timeant, scandito da un fitto intreccio di antitesi (bonis/subditis, regnet/serviant, sinceriter/serviliter, hono-
rent/timeant), Agostino esprime una netta critica al potere inteso, da parte dei governanti, come ricerca del
consenso all’insegna dell’oderint dum metuant, e, da parte dei sottoposti, come adesione acritica e servile,
con la sottomissione per dovere che lascia il posto alla sottomissione per timore.
Quid … libet: «Le leggi puniscano chi procura qualche danno alla vigna altrui piuttosto che qualche danno alla
propria esistenza. Venga condotto davanti ai giudici soltanto chi ha danneggiato la ricchezza altrui, la casa, la
salute oppure ha importunato qualcuno contro la sua volontà; per il resto, delle proprie ricchezze ognuno faccia
quello che vuole, con i suoi amici e con tutti coloro che sono d’accordo.»
– Quid… legibus advertatur: altro ambito caratterizzato dalla corruzione è la giustizia, che si limita a san-
zionare i reati a danno di terzi a scapito della correzione delle storture morali. Come in precedenza, anche qui
Agostino si muove sempre nella prospettiva dello stato etico. La costruzione del periodo è: quisque noceat
quid alienae vineae… (lett. «nuocere in qualcosa alla vigna altrui») legibus advertatur («sia punito dalle leg-
gi»). – vitae: l’edizione Maurina riporta la lezione viti («vigna»); in questo caso, il senso della frase sarebbe:
«le leggi puniscano chi procura danno alla vigna altrui piuttosto che alla propria». Ci sembra però più perspi-
cua la variante vitae presente in altri manoscritti, visto che Agostino intende stigmatizzare la preoccupazione
per i beni materiali (la ricchezza, la casa, la salute) più che per quelli spirituali. – noceat: congiuntivo con va-
lore eventuale; lett. «nuocere in qualcosa alla vigna altrui». – rei domui saluti: si noti l’efficace trikólon a-
sindetico. Tutto il periodo, come il precedente, è giocato sulla contrapposizione tra alienae (alienae vineae;
alienae rei domui saluti) e suis (suae vitae; de suis; cum suis): è sufficiente non danneggiare i beni altrui per
essere considerati dei cittadini esemplari; poco importa invece se si sperperano i propri averi in una prospetti-
va egoisticamente utilitaristica (faciat quisque quod libet).
Abundent … viventibus: «Abbondino le pubbliche prostitute vuoi a motivo di tutti coloro cui piace servirsene,
vuoi, soprattutto, a motivo di coloro che non possono averne di private. Si costruiscano residenze spaziosissime
e piene di decori, si tengano con frequenza sontuosi banchetti, nei quali, a seconda del piacere e della possibili-
tà di ciascuno, notte e giorno si giochi, si beva, si vomiti, ci si lasci andare. Dovunque strepitino le danze, i teatri
ribollano di voci di ripugnante gioia e di ogni genere di piacere, disumano o depravato che sia. Sia considerato
nemico pubblico chi non ama questa felicità; chi tenti di cambiarla o di eliminarla la moltitudine libera non lo fac-
cia parlare, lo cacci di casa, lo elimini dai viventi.»
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– publica scorta: la requisitoria di Agostino prosegue prendendo in considerazione alcuni ambiti della vita
associata: la sessualità, le residenze, i banchetti, gli spettacoli teatrali. Inutile sottolineare come, anche al tem-
po di Agostino, la prostituzione fosse pratica assai diffusa. Le due categorie di prostitute qui menzionate si ri-
feriscono al diverso status sociale delle donne che praticavano tale attività. – vel… vel: a differenza di aut, la
congiunzione disgiuntiva vel indica che la distinzione è irrilevante o indifferente per chi parla (in questo caso,
il servirsi di due tipologie di prostitute). – frui: infinitiva soggettiva. – placuerit: congiuntivo caratterizzante.
– opipara: aggettivo composto da ops, opis («fasto») e da paro («preparo»). – ludatur bibatur, vomatur
diffluatur: con questi quattro verbi, uniti per asindeto e per omoteleuto con i quali Agostino delinea
l’abbrutimento dei partecipanti ai banchetti: si noti come la gradazione (o klimax) esprima alla perfezione la
degradazione fisica e morale dei commensali. In particolare, diffluo indica il progressivo venir meno delle fa-
coltà mentali sommerse dal vino. – Saltationes… theatra: la critica nei confronti degli spettacoli teatrali e
circensi ha una lunga tradizione nel pensiero patristico, sia latino (si veda su tutti il De spectaculis di Tertul-
liano) sia greco (per esempio, Giovanni Crisostomo). – exaestuent: il verbo chiude mirabilmente un periodo,
apertosi con concrepent, caratterizzato da un impasto fonetico (fatto di allitterazioni e omoteleuti) di straordi-
naria efficacia espressiva che mira a riprodurre il frastuono delle danze e delle urla degli spettatori. – publi-
cus inimicus: da intendersi come nemico della cosa pubblica, cioè dello stato e del suo sistema di valori. –
avertat ab auribus: lett. «lo allontani dalle orecchie», cioè dalla possibilità di essere ascoltato. – avertat…
evertat… auferat: il trikólon asindetico sottolinea l’emarginazione sociale cui sono condannati coloro che
non condividono lo stile di vita dei pagani.
Illi … timeatur: «Siano ritenuti dèi autentici quelli che garantiscano ai popoli il conseguimento [di questa felicità]
e che una volta conseguita la preservino. Siano adorati come vogliano, chiedano i giochi che vogliano, che pos-
sono avere con oppure dai propri adoratori: facciano soltanto in modo che per [ottenere] tale felicità non si tema
niente dal nemico, niente dalla malattia, niente da qualche calamità.»
– dii veri… servaverint: l’ultimo ambito preso in considerazione è quello religioso: Agostino sottolinea il
carattere utilitaristico del paganesimo, con le divinità che sono al servizio della prosperità individuale e col-
lettiva. – procuraverint… servaverint: altri due congiuntivi caratterizzanti. – adipiscendam: l’uso del ge-
rundivo (da adipiscor, concordato con felicitas) dipende dal valore causativo del verbo procuro; lett. «hanno
procurato ai popoli di ottenere questa [felicità]». –– voluerint: congiuntivo eventuale, come il successivo vo-
luerint. ludos: allusione alle feste in onore delle divinità pagane. – de suis: l’ablativo di provenienza esprime
l’idea che i giochi vengano organizzati a spese degli stessi adoratori. – efficiant, ut: nesso causativo seguito
dal congiuntivo. – felicitati: dativo di fine. – nihil ab hoste… timeatur”: viene qui sottolineato il carattere
civile della religio romana: come il compito degli dèi è proteggere la comunità sociale dai rovesci della sorte,
così il compito dei loro adoratori è ingraziarsene il favore.
Quis … consecrarent: «Chi, sano di mente, potrebbe paragonare questo stato, non dirò all’impero romano, ma
alla dimora di Sardanapalo? Egli, un tempo, fu un re tanto dedito ai piaceri da far scrivere sul suo sepolcro di
possedere, da morto, soltanto le ricchezze che la sua sfrenatezza, quando era ancora vivo, aveva, divorandole,
dissipato. E se costoro avessero un re come questo che accondiscende a tali piaceri e che non si oppone a
nessuno con severità, gli consacrerebbero un tempio e un flamine più volentieri di quanto abbiano fatto per
Romolo gli antichi romani.»
– Quis: al termine del lungo atto di accusa contro la società pagana posto in bocca ad un ipotetico interlocuto-
re, Agostino chiude la sua riflessione con una domanda retorica che ne certifica, attraverso l’eloquente exem-
plum di Sardanapalo, la validità. – Sardanapali: reso immortale dai famosi versi di Dante («non v’era giunto
ancor Sardanapalo / a mostrar ciò che ‘n camera si puote»: Paradiso XV 107-108), Sardanapalo, da identifi-
care probabilmente con il re assiro Assurbanipal (668-626 a.C.), venne assunto dall’antichità come esempio
per antonomasia di lussuria e di ricchezza sfrenata. – comparaverit: congiuntivo potenziale. – Qui: nesso re-
lativo, come il successivo quem. – in sepulcro suo scribi: l’iscrizione cui allude Agostino è menzionata da
Cicerone: Sardanapalli, opulentissimi Syriae regis, error adgnoscitur, qui incidi iussit in busto: “Haec habe-
o, quae edi, quaeque exsaturata libido / Hausit; at illa iacent multa et praeclara relicta.” (Tusculanae dispu-
tationes, V 35,101). «È noto l’errore di Sardanapalo, il ricchissimo re della Siria, il quale ordinò che sul busto
fosse inciso: “Possiedo le cose che ho mangiato e le cose che il piacere appagato / ha assaporato; ma esse
giacciono come numerosi e famosissimi relitti”». – isti: sono i romani del tempo di Agostino, cui si contrap-
pongono i Romani veteres. – si… haberent… consecrarent: periodo ipotetico dell’irrealtà. – flaminem: i
flamini, divisi in maiores (eletti tra i patrizi in numero di tre) e in minores (eletti tra i plebei in numero di 12),
erano sacerdoti addetti al culto di una specifica divinità. Il più alto in grado fra loro era il flamen Dialis (dedi-
to al culto di Giove), cui spettava il diritto della sella curulis (lo scranno riservato ai magistrati più importan-
ti) e l’onore di sedere in senato. Secondo Tito Livio (Ab urbe condita I 20, 2), i tre flamini maggiori (Dialis,
Martialis [di Marte], Quirinalis [di Quirino]) vennero creati da Numa Pompilio.
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Sui testi
Sui temi
D opo la sferzante ironia del brano precedente, Agostino, nella sezione fina-
le del II libro, scrive una pagina di rara intensità, nella quale, recuperando
le modalità stilistico-retoriche del discorso protrettico, si rivolge alla parte
migliore (indoles… laudabilis) della romanità affinché accetti di rinnovare, alla lu-
ce del cristianesimo, il proprio patrimonio etico.
Il presupposto che sta alla base dell’argomentazione è chiaro: il cristianesimo non
si oppone, ma riassume in modo autentico e definitivo quanto c’è sempre stato
di buono nella morale pagana, la quale, dal canto suo, non ha mancato di offrire
esempi illustri di morale civile. I Romani non sono ancora riusciti ad accettare la
civitas caelestis perché non hanno ancora avuto il coraggio di staccarsi dal culto
degli dèi e dalla sua morale violenta. La libertà, la pace, la giustizia, i grandi valori
etico-civili della romanità, non possono essere autentici finché non saranno purifi-
cati dal rinnovamento morale auspicato da Agostino: la vera libertà è libertà
dall’errore e la vera pace è fondata sulla giustizia sociale.
Agostino, da buon figlio di Roma, non intende di fatto abbattere l’edificio della
romanità, ma, per così dire, restaurarlo e portare alla luce le sue potenzialità a lun-
go nascoste sotto il velo dell’errore. Come afferma infatti Luigi Alici (La città di
Dio, p. 168, nota 1) «più che accentuare una dicotomia radicale tra la societas pa-
gana e quella cristiana, Agostino sembra qui maggiormente sensibile alla necessità
di reperire una mediazione storica, sia pure ristretta ad alcuni casi eccezionali, tra
quelle due realtà, e che idealmente sembra configurarsi nell'idea di iustitia propria
della definizione ciceroniana. Tale ideale, ora finalmente libero dai condizionamen-
ti di culti superstiziosi e dalle degenerazioni dell’egoismo, trova nel cristianesimo
un contesto umano, ricomposto e risanato dalla vera pietas, in cui si possa filtrare e
portare alla compiutezza ciò che di laudabile naturaliter in quella società si è mani-
festato».
Il cambiamento di cittadinanza, cioè il passaggio dalla daemonum societatem alla
beatam civitatem, è la condizione indispensabile per il rinnovamento della società.
Solo così Roma potrà recuperare la sua antica grandezza.
tiă. Haec tibi numquam nec pro terrena patria placuerunt. Nunc iam caele-
stem arripe, pro qua minimum laborabis, et in ea veraciter semperque regna-
bis. Illic enim tibi non Vestalis focus, non lapis Capitolinus, sed Deus unus
et verus nec metas rerum nec tempora ponit, Imperium sine fine dabit.
29, 2 Noli deos falsos fallacesque requirere; abice potius atque contemne in veram
emicans libertatem. Non sunt dii, maligni sunt spiritus, quibus aeternă tua fe-
licitas poenă est. Non tam Iuno Troianis, a quibus carnalem originem ducis,
arces videtur invidisse Romanas, quam isti daemones, quos adhuc deos pu-
tas, omni generi hominum sedes invident sempiternas. Et tu ipsa non parvā
ex parte de talibus spiritibus iudicasti, quando ludis eos placasti, et per quos
homines eosdem ludos fecisti, infames esse voluisti. Patĕre assĕri libertatem
tuam adversus immundos spiritus, qui tuis cervicibus imposuerant sacran-
dam sibi et celebrandam ignominiam suam. Actores criminum divinorum
removisti ab honoribus tuis: supplica Deo vero, ut a te removeat illos deos,
qui delectantur criminibus suis, seu veris, quod ignominiosissimum est, seu
falsis, quod malitiosissimum <est>. Bene, quod tua sponte histrionibus et
scaenicis societatem civitatis patēre noluisti; evigila plenius! Nullo modo his
artibus placatur divina maiestas, quibus humana dignitas inquinatur. Quo igi-
tur pacto deos, qui talibus delectantur obsequiis, haberi putas in numero san-
ctarum caelestium potestatum, cum homines, per quos eădem aguntur obse-
quia, non putasti habendos in numero qualiumcumque civium Romanorum?
Incomparabiliter superna est civitas clarior, ubi victoriă veritas, ubi dignitas
sanctitas, ubi pax felicitas, ubi vită aeternitas. Multo minus habet in sua so-
cietate tales deos, si tu in tua tales homines habere erubuisti. Proinde si ad
beatam pervenire desideras civitatem, devita daemonum societatem. Indigne
ab honestis coluntur, qui per turpes placantur. Sic isti a tua pietate removean-
tur purgatione Christiana, quo modo illi a tua dignitate remoti sunt notatione
censoria. […]
29, 1 Haec … lauderis: «Aspira piuttosto a queste realtà, o pregevole tempra romana, o discendenza dei Rego-
li, degli Scevola, degli Scipioni, dei Fabrizi; aspira piuttosto a queste realtà, distinguile da quella vergognosissi-
ma inconsistenza e ingannevolissima malvagità dei demoni. Se in te risplende per natura qualcosa di pregevo-
le, esso non viene purificato e reso perfetto se non dalla vera pietà, mentre dall’empietà viene disperso e punito.
Ora è tempo di scegliere cosa seguire, affinché non in te, ma nel Dio vero senza alcun errore tu possa essere
apprezzata.»
– concupisce, o indoles Romana: tutto il brano è una lunga apostrofe, i cui elementi fondamentali sono il
vocativo e i verbi all’imperativo. – laudabilis: l’aggettivo, per nulla ironico, esprime la convinzione di Ago-
stino che Roma abbia avuto indubbi meriti nel processo di civilizzazione dell’umanità. Del resto qui Agostino
si rivolge alla parte migliore della romanità. – Regulorum… Fabriciorum: i personaggi qui citati sono al-
trettante incarnazioni del passato eroico di Roma, esempi di virtù civiche (Attilio Regolo), di eroismo (Muzio
Scevola), di gloria militare (Scipioni) e di austerità (Gaio Fabrizio). – haec: il pronome dimostrativo si riferi-
sce a quanto detto da Agostino alla fine del § 28, cioè gli insegnamenti, i miracoli, i doni e la bontà del vero
Dio. – ab illa… discerne: sulla base dell’antitesi tra haec e illa, i Romani sono invitati a a distinguere,
all’interno dei propri valori ciò che risulta ormai superato (turpissima vanitate), vale a dire il culto politeistico
(qui indicato con la locuzione daemonum malignitate), da ciò che è in sintonia con i valori cristiani. – Si…
laudabile naturaliter eminet… punitur: con la ripresa dell’aggettivo laudabilis, Agostino ribadisce (con pe-
riodo ipotetico della oggettività) che la morale romana, in quanto morale naturale, non deve essere considera-
ta esaurita, ma deve passare attraverso un processo di purificazione (purgatur) e di perfezionamento (perfici-
tur) tramite il passaggio dalla impietas (politeismo) alla vera pietas (monoteismo). – impieate: siamo qui al
termine di quel lungo processo in base al quale coloro che venivano tacciati di essere impii (i cristiani) rove-
sciano sugli antichi accusatori la medesima accusa. Il quartetto di verbi (purgatur atque perficitur; disperditur
et punitur), caratterizzati dall’omoteleuto, esprimono alla perfezione questa idea. – elige: la scansione degli
imperativi dall’inizio del brano (concupisce, discerne, elige) sembra suggerire la progressione del cammino di
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perfezionamento. – errore: si noti l’antitesi con vero Deo. Come si può vedere, l’aggettivo verus ricorre insi-
stentemente in tutto il brano a ribadire la verità del cristianesimo contrapposta all’errore del paganesimo. –
lauderis: a chiusura della prima parte del discorso il verbo riprende l’aggettivo laudabilis con cui si era aper-
to.
Tunc … peccatorum: «In passato infatti hai avuto la gloria tra i popoli, ma per un nascosto disegno della divina
provvidenza ti è mancata la vera religione da scegliere. Svègliati, è giorno, come ti sei svegliata in alcuni della
cui virtù perfetta e delle cui sofferenze a difesa della vera fede noi ci gloriamo, persone che, combattendo in o-
gni luogo contro le potenze più avverse e vincendole con forza sino alla morte, con il loro sangue per noi hanno
generato questa patria. A questa patria ti invitiamo e ti sproniamo affinché tu sia aggiunta al numero dei suoi cit-
tadini, il cui rifugio è in certo qual modo la vera remissione dei peccati.»
– adfuit… defuit: il contrasto tra gloria popularis e vera religio viene sottolineata anche dall’antitesi adfuit-
defuit. Nella visione storico-teologica di Agostino – peraltro comune ad altri autori del primo cristianesimo
(cfr. in particolare Lattanzio e Eusebio) –, Roma non ha avuto accesso alla vera religione (il cristianesimo)
per volontà di Dio; tuttavia, sempre per un disegno provvidenziale, il cristianesimo è nato e si è inculturato
proprio nell’impero romano il quale, da Costantino in poi, non può non dirsi cristiano. – quam eligeres: rela-
tiva impropria con valore consecutivo. – Expergiscere: imperativo di expergiscor (il successivo experrecta
es è indicativo perfetto dello stesso verbo). L’espressione è ricalcata su Paolo: «è ora ormai che vi svegliate
dal sonno; perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo. La notte è avanzata, il giorno è vi-
cino» (Lettera ai Romani 13, 11-12). – quibusdam: sono i martiri che hanno combattuto per la vera fede. Si
vede bene come la loro gloria (eterna) sia opposta alla gloria (terrena) dei Romani e, al tempo stesso,
un’anticipazione della civitas caelestis, a cui Agostino invita i Romani (ad quam patriam te invitamus et e-
xhortamur). – sanguine: citazione da Eneide XI 24-25, in cui, dopo aver ucciso Mesenzio (il re di Caere alle-
ato di Turno), Enea rivolge ai suoi compagni morti un saluto funebre. È evidente la contrapposizione fra la
patria di cui parla Enea e quella di cui parla Agostino. – asylum: così era chiamata la piccola vallata che divi-
deva le due sommità del Campidoglio, una specie di zona franca voluta, secondo la leggenda, da Romolo e
destinata a raccogliere fuggiaschi e profughi politici, futuri cittadini della nuova città. Nella prospettiva della
civitas caelestis, Agostino suggerisce l’idea che il vero asylum sia la remissione dei peccati, come afferma
anche nel libro V: «la remissione dei peccati, che raccoglie i cittadini verso la patria eterna, ha, per una certa
analogia, qualcosa di simile all’asilo di Romolo, perché l’impunità dei vari delitti radunava lì la moltitudine
con cui fondare la città.» (17, 2). Ma si veda anche De civ. I 34.
Non … dabit: «Non prestare ascolto ai tuoi [cittadini] degeneri che screditano Cristo e i cristiani e che incolpano
i tempi come se fossero malvagi, mentre invece ricercano tempi in cui l’esistenza non sia tranquilla, ma in cui,
anzi, la malvagità sia preservata. Questi tempi neppure per la patria terrena ti sono mai piaciuti. Ora è tempo di
afferrare quella celeste, per la quale faticherai pochissimo e in essa autenticamente e per sempre regnerai. Lì
infatti non il fuoco di Vesta, non la pietra del Campidoglio, ma il Dio unico e vero per te non pone i limiti delle
cose né i tempi, ma ti darà un potere senza fine.»
– Christo… detrahentes: come si è detto, uno dei motivi che spinse Agostino a comporre il De civitate Dei
fu il rinfocolarsi delle accuse contro i cristiani a seguito del sacco di Roma del 410. – tempora mala: oltre al-
le accuse contro i cristiani, viene menzionata la tendenza a incolpare non se stessi, ma le circostanze storiche,
secondo un vuoto moralismo che, mentre spinge verso una presunta tranquillità (quieta vita), conduce invece
alla perpetuazione delle storture morali (secura nequitia). Il rinnovamento interiore a cui Agostino invita i
Romani è possibile solo all’interno dei valori condivisi del cristianesimo. – cum quaerant: si propende per il
valore avversativo di cum. – quibus: introduce una relativa impropria con valore consecutivo. – arripe: il
verbo sembra suggerire l’ineludibilità della scelta a favore della patria caelestis (contrapposta alla terrena),
raggiunta la quale ci si può assicurare un regno eterno (semper regnabis) in quanto non di natura politica. –
Vestalis focus: il fuoco di Vesta, divinità del focolare domestico, era custodito nel templum Vestae (il tempio
rotondo della dea) dal collegio delle Vestali, sei vergini scelte dal Pontifex Maximus. Come ci informa Tito
Livio (Ab urbe condita VIII 15; XXI 57) e lo stesso Agostino (De civ. Dei III 5), la Vestale che non rispettava
la propria verginità veniva sepolta viva. – lapis Capitolinus: è la statua di Giove conservata nel Capitolium,
il tempio in onore di Giove costruito per la prima volta dai Tarquini e più volte restaurato. – nec metas… da-
bit: citazione dall’Eneide I 278-279, ma con una variazione nella persona e nel tempo dei verbi (c’è ponit an-
ziché pono e dabit anziché dedi).
29, 2 Noli … suam: «Non ricercare dèi falsi e ingannatori; anzi, respingili e disprezzali lanciandoti verso
un’autentica libertà. Non sono dèi, sono spiriti malvagi, per i quali la tua felicità eterna è un tormento. Sembra
che Giunone non abbia negato ai Troiani, da cui tu trai la tua origine terrena, le rocche romane tanto quanto co-
desti demoni, che tu consideri ancora dèi, negano ad ogni stirpe umana le sedi eterne. E tu stessa in non picco-
la parte hai giudicato tali spiriti, allorché li hai placati con giochi e hai voluto che fossero infami gli uomini attra-
verso i quali hai organizzato i medesimi giochi. Lascia che si rivendichi la tua libertà contro gli spiriti immondi
che sul tuo capo avevano imposto la sacra celebrazione della propria ignominia.»
– Noli… requirere: imperativo negativo (noli + infinito). – falsos fallacesque: l’abbandono delle divinità
fallaci per abbracciare la libertà che deriva dal culto del vero Dio è tema tipicamente biblico (libro dell’Esodo
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in particolare). Secoli dopo, Dante userà una perifrasi simile per indicare la romanità: «nel tempo de li dèi fal-
si e bugiardi» (Inferno I 72). – abice: imperativo di abicio, composto di ab- iacio, «scaglio via». – emicans: il
verbo (part. pres. di emico, «sgorgo», «zampillo») indica propriamente l’improvvisa e prorompente fuoriusci-
ta di un liquido a lungo compresso. – Non tam Iuno… invident sempiternas: chiaro riferimento all’ira Iu-
nonis (Eneide I 4) – vero e proprio leitmotiv del poema virgiliano – che tenta di impedire (invidisse) la rifon-
dazione di Troia sui colli laziali. Come in origine Giunone si oppose a che i Troiani approdassero alla loro
nuova patria (terrena), così – dice Agostino – gli dèi fallaci continuano a precludere ai discendenti di quei
Troiani la patria celeste (sedes sempiternas). – tam… quam: proposizione comparativa. – ludis: che gran-
dezza possono avere delle divinità che è possibile placare semplicemente con dei ludi? – infames: è nota la
scarsa considerazione sociale in cui erano tenuti nel mondo romano coloro che organizzavano giochi e spetta-
coli teatrali in occasione di festività religiose. – patere: imperativo presente di patior. – asseri: infinito pre-
sente passivo da assero, «rivendico»; considerando il valore proprio del verbo (dichiarare uno libero tramite
l’imposizione delle mani sul capo), si può facilmente capire come Agostino inviti i Romani a passare dal cul-
to schiavizzante degli dèi (immundos spiritus) al culto liberante del vero Dio. – sacrandam… celebrandam:
i due gerundivi possono essere interpretati come endiadi; lett. «si dovesse consacrare loro e celebrare la loro
ignominia».
Actores … Romanorum?: «Gli interpreti dei crimini divini li hai rimossi dalle tue cariche: rivolgi suppliche al Dio
vero, affinché tenga lontani da te quegli dèi che si dilettano dei propri crimini, veri – cosa oltremodo vergognosa
– o falsi che siano – cosa oltremodo subdola. Bene hai fatto a non volere di tua iniziativa che agli istrioni e agli
attori fosse accessibile la partecipazione al consorzio cittadino; stai in guardia ancora di più! In nessun modo si
placa la maestà divina con azioni che inquinano la dignità umana. In base dunque a quale principio gli dèi che si
dilettano di tali ossequi tu ritieni che possano essere annoverati tra le sante potenze celesti, quando poi gli uo-
mini per mezzo dei quali si presentano gli stessi ossequi non hai ritenuto di doverli annoverare tra i cittadini ro-
mani qualunque?»
– seu veris… seu falsis: che siano rappresentate sulla scena o che siano ritenute autentiche, resta il fatto che
le turpi azioni degli dèi sono incompatibili con il rinnovamento morale che Agostino auspica. – Bene, quod:
quod introduce una proposizione sostantiva dipendente dall’avverbio bene con ellissi del verbo fecisti. – hi-
strionibus et scaenicis:: i due termini indicano gli attori di tragedie e di commedie. Come si è detto sopra, a
Roma gli attori, considerati homines infames, non godevano di grande reputazione ed erano esposti a frequen-
ti abusi giuridici (vedi sotto la notatio censoria); essendo spesso degli schiavi, non erano considerati apparte-
nenti a pieno titolo alla societas civitatis. – evigila plenius!: viene qui confermata l’idea per cui, secondo A-
gostino, i romani, per effetto della loro grande tradizione morale, non sono poi così lontani dalla mèta rappre-
sentata dalla patria celeste; basta solo un ultimo sforzo, quello decisivo. – nullo modo… dignitas inquina-
tur: con questa sentenza Agostino afferma chiaramente come il culto degli dèi non sia autentico nel momento
in cui va a discapito della dignità umana. – Quo igitur pacto… Romanorum?: il periodo, piuttosto comples-
so, è mirabile per equilibrio compositivo: si apre con un nesso interrogativo (quo pacto), i due accusativi deos
e homines sono seguiti da una relativa (qui… per quos), vi è contrapposizione tra haberi putas e non putasti
habendos. La costruzione è : quo pacto putas deos… haberi in numero… (lett. «in che modo pensi di conside-
rare gli dei … nel numero delle sante potenze celesti»); così pure per l’oggettiva seguente la costruzione è:
non putasti homines… habendos (esse) in numero…?. Viene qui smascherata quella che ad Agostino appare
un’evidente contraddizione: se, infatti, gli attori che in scena rappresentano le ‘gesta’ immorali degli dèi non
godono di grande considerazione sociale, non si capisce perché debbano ancora essere annoverati tra le po-
tenze celesti gli dèi che di questi misfatti sono all’origine. – cum homines… non putasti: la proposizione
temporale ha qui una sfumatura avversativa.
Incomparabiliter … censoria: «Incomparabilmente più splendente è la città celeste, dove la vittoria è verità, dove
la dignità è santità, dove la pace è felicità, dove la vita è eternità. Se ti sei vergognata di avere nel tuo ordine
sociale tali uomini, molto meno essa ha nel suo tali dèi. Per cui, se desideri giungere alla città beata, evita la
compagnia dei demoni. Sono venerati indegnamente dagli onesti coloro che sono placati per mezzo dei malva-
gi. Questi ultimi vengano rimossi dalla tua venerazione grazie alla purificazione cristiana allo stesso modo in cui
quelli sono stati rimossi dalla tua considerazione grazie alla nota censoria.»
– superna est civitas: a dimostrazione di come la lettura ‘ecclesiastica’ della civitas caelestis sia stata duratu-
ra, si può citare la Pentecoste di A. Manzoni, in cui al v. 2 la Chiesa viene definita come «immagine della cit-
tà superna». – victoria… aeternitas: chiudendo il suo invito alla progenie romana affinché accetti la civitas
superna, Agostino, con efficacissima progressione, distingue i valori terreni (victoria, dignitas, pax, vita) da
quelli spirituali (veritas, sanctitas, felicitas, aeternitas), facendo notare come i primi siano resi autentici dai
secondi. Nella civitas caelestis si realizzerà una suprema sintesi tra questi valori. – Multo minus habet…
habere erubuisti: si tratta dell’ennesima contrapposizione tra le due città: in sua societate/in tua [societate];
tales deos/tales homines. – societatem: condizione imprescindibile per essere considerati cittadini della città
celeste (beatam societatem) è il netto rifiuto del politeismo (daemonun societatem), il cui culto è basato sulla
necessità di placare gli dèi con azioni immorali (per turpes placantur); solo così si può essere considerati per-
sone irreprensibili. – notatione censoria: si tratta di una condanna inflitta dai censori per crimini contro la
moralità pubblica; una categoria particolarmente esposta alla notatio censoria era proprio quella degli attori.
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Il principe ideale
De civitate Dei V 24
24 Neque enim nos Christianos quosdam imperatores ideo felices dicimus, quia
vel diutius imperarunt vel imperantes filios morte placidā reliquerunt, vel
hostes rei publicae domuerunt vel inimicos cives adversus se insurgentes et
cavēre et opprimere potuerunt. Haec et alia vitae huius aerumnosae vel mu-
nera vel solacia quidam etiam cultores daemonum accipere meruerunt, qui
non pertinent ad regnum Dei, quo pertinent isti; et hoc ipsius misericordiā
factum est, ne ab illo ista qui in eum crederent velut summa bona desidera-
rent. Sed felices eos dicimus, si iuste imperant, si inter linguas sublimiter
honorantium et obsequia nimis humiliter salutantium non extolluntur, et se
homines esse meminerunt; si suam potestatem ad Dei cultum maxime dila-
tandum maiestati eius famulam faciunt; si Deum timent, diligunt, colunt; si
plus amant illud regnum, ubi non timent habere consortes; si tardius vindi-
cant, facile ignoscunt; si eandem vindictam pro necessitate regendae tuenda-
eque rei publicae, non pro saturandis inimicitiarum odiis exserunt; si eandem
veniam non ad impunitatem iniquitatis, sed ad spem correctionis indulgent;
si, quod aspere coguntur plerumque decernere, misericordiae lenitate et be-
neficiorum largitate compensant; si luxuriă tanto eis est castigatior, quanto
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24 Neque … desiderarent: «Certi imperatori cristiani noi li definiamo ‘felici’ non per il fatto che hanno regnato più
a lungo oppure perché hanno lasciato il potere ai figli dopo una morte serena, perché hanno domato i nemici
dello Stato oppure perché sono stati in grado di guardarsi dai nemici che insorgevano contro di loro e di schiac-
ciarli. Questi e altri onori o consolazioni di questa esistenza travagliata hanno meritato di riceverli anche certi
adoratori dei demoni, i quali non tendono al regno di Dio, a cui tendono invece questi [imperatori]; e ciò è avve-
nuto grazie alla Sua misericordia affinché coloro che credono in Lui non desiderino da Lui questi riconoscimenti
come sommi beni.»
– quosdam: in latino l’aggettivo quidam viene usato per indicare senza però specificare; è sottinteso che, se-
condo Agostino, la qualifica di ‘felici’ di cui si parla dopo non può essere applicata ispo facto a tutti gli impe-
ratori cristiani. – ideo: avverbio prolettico in correlazione con quia che introduce una serie di proposizioni
causali dell’oggettività (i verbi sono infatti all’indicativo). – felices: il cognomen di Felix (lett. «fortunato»),
con il quale si sottolineava il favore divino, venne assunto per la prima volta da Lucio Cornelio Silla (81 a.C.)
e poi ripreso come titolo ufficiale da altri imperatori (per esempio Commodo e Caracalla). Come risulta dalle
iscrizioni ufficiali, l’attributo di Felix venne assegnato a numerosi imperatori cristiani, tra cui Costantino, Co-
stanzo II, Valentiniano II, Valente, Graziano, Teodosio, Arcadio, Onorio. – vel: a differenza di aut, la con-
giunzione disgiuntiva vel esprime una distinzione irrilevante per chi parla: in questo caso, ad Agostino non in-
teressa specificare i meriti, tutti politici, che hanno consentito ad alcuni imperatori pagani di fregiarsi del tito-
lo di Felix. – imperarunt: forma sincopata di imperaverunt. – imperantes: participio predicativo
dell’oggetto; lett. «hanno lasciato i figli governanti». – morte placida: si intende una morte avvenuta non in
seguito a congiure di palazzo. È quella che ebbe Costantino, del quale Agostino dice grandaevus aegritudine
et senectute defunctus est, filios imperantes reliquit «morì anziano di malattia e di vecchiaia, lasciò l’impero
ai figli» (De civ. Dei V 25). – cavere: costruito con l’accusativo della persona, il verbo caveo assume il signi-
ficato di «guardarsi da». – cultores daemonum: la locuzione indica gli imperatori pagani (per i cristiani in-
fatti il culto riservato all’imperatore era un culto demoniaco). Sempre di Costantino si afferma non supplican-
tem daemonibus, sed ipsum verum Deum colentem «non supplicava i demoni ma adorava lo stesso Dio vero»
(ibid.). – quo: pronome relativo con valore avverbiale, esprime ilo modo a luogo. – isti: si tratta non dei cul-
tores daemonum, ma degli imperatori cristiani. – qui… crederent: attrazione modale del congiuntivo. –
summa bona: a differenza degli imperatori pagani, quelli cristiani si attendono una ricompensa non terrena,
ma celeste; i summa bona a cui aspirano non appartengono all’ambito puramente politico.
Sed … consortes: «Al contrario, li definiamo ‘felici’ se governano secondo giustizia, se tra le parole di coloro che
esageratamente li onorano e gli ossequi di coloro che troppo riguardosamente li salutano non si esaltano e si ri-
cordano di essere uomini; se, per diffondere il più possibile il culto di Dio, pongono il proprio potere a servizio
della Sua maestà; se temono, amano, adorano Dio; se amano più quel regno nel quale non temono di avere
colleghi;»
– Sed: l’avversativa introduce una netta contrapposizione tra le due tipologie di imperatori. Comincia qui un
lungo periodo sintattico (principale avversativa seguita da una serie di ipotetiche della oggettività che arriva-
no fin quasi al termine del brano) nel quale Agostino elenca le virtù del principe ideale. – iuste imperant:
l’avverbio non deve far pensare che Agostino contesti la legittimità del potere imperiale; egli piuttosto sotto-
linea la necessità di un governo ispirato a criteri di equità sociale. – si inter linguas… non extolluntur: la
vera gloria non è quella che deriva dall’ossequio dei sudditi, ma quella che deriva dalla sottomissione alla
legge divina. Si noti il parallelismo sintattico: sublimiter honorantium… humiliter salutantium. – homines: è
chiara la polemica contro la divinizzazione dell’imperatore: non è l’imperatore a dover essere oggetto di culto
(cosa che i primi cristiani non hanno mai accettato, anche a prezzo della vita), ma è lui, come si dice in segui-
to, a favorire la diffusione del culto divino (ad Dei cultum maxime dilatandum) e quindi del cristianesimo. –
ad… cultum… dilatandum: gerundivo con funzione finale. – faciunt famulam: famulam è predicativo
dell’oggetto suam potestatem; letteralmente «rendono il proprio potere servo [della sua maestà]». – Deum
timent diligunt colunt: efficacissimo trikólon asindetico con il quale si riassumono le predisposizioni
d’animo dell’imperatore cristiano nei confronti di Dio. – illud regnum: si tratta ovviamente del regno dei cie-
li. – consortes: è noto che, dopo la riforma politica di Diocleziano (285-305), il potere imperiale è stato sud-
diviso tra due augusti e due cesari.
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si tardius … compensant: «se puniscono più lentamente, perdonano facilmente; se esercitano la medesima pu-
nizione per la necessità di governare e difendere lo Stato, non per soddisfare gli odi delle inimicizie; se accor-
dano il medesimo perdono non per lasciare impunita l’ingiustizia, ma nella speranza di un ravvedimento; se le
decisioni sgradevoli che spesso sono costretti a prendere le compensano con la mitezza della misericordia e
con la generosità dei benefici;»
– vindicant… ignoscunt: la dialettica tra il punire tardius e il perdonare facile costituisce la discriminante tra
un potere personale e un potere che ha di mira il benessere collettivo. I due periodi che seguono, costruiti se-
condo un evidente parallelismo sintattico (oggetto, due complementi di fine in contrapposizione tra loro, pre-
dicato verbale), esplicitano le corrette modalità di esercizio rispettivamente della punizione e del perdono. –
vindictam… exserunt: il potere coercitivo dell’imperatore non deve essere esercitato per risolvere contro-
versie private, ma per salvaguardare l’integrità dello Stato. – veniam… indulgent: parallelamente, il perdono
non deve essere scambiato per debolezza o, peggio ancora, per accondiscendenza verso l’ingiustizia, ma deve
assumere una valenza, per così dire, pedagogica. – indulgent: il verbo presenta qui una costruzione transitiva.
– quod aspere… decernere: letteralmente: «ciò che spesso sono costretti a decidere sgradevolmente».
si luxuria … neglegunt: «se la dissolutezza è in loro tanto più moderata quanto più potrebbe essere sfrenata; se
preferiscono governare sulle passioni malvagie piuttosto che su qualunque popolo e se fanno tutto ciò non per
desiderio di una gloria vana, ma per amore della felicità eterna; se per i propri peccati non tralasciano di offrire
al loro vero Dio un sacrificio di umiltà, di misericordia e di preghiera.»
– luxuria: nella storia dell’impero romano non mancano certo esempi di dissolutezza; il principe ideale, dice
Agostino, è colui che non diventa legge a se stesso, cioè che non fa come la Semiramide dantesca la quale
«libito fé licito in sua legge» (Inferno V 56). – quanto posset esse liberior: proposizione comparativa intro-
dotta da quanto in correlazione con tanto della proposizione sovraordinata; l’uso degli avverbi correlativi tan-
to… quanto (ablativo di misura) è dovuto alla presenza dei due aggettivi comparativi (castigatior e liberior).
– quibuslibet: aggettivo indefinito con valore assoluto. – imperare: nella prospettiva di Agostino, il dominio
su di sé e sulle proprie passioni (cupiditatibus) è ben più importante del dominio sui popoli (gentibus). – feli-
citatis aeternae: ecco il motivo per cui solo il principe cristiano può fregiarsi del titolo di Felix: egli infatti
non è mosso dal desiderio di conseguire una gloria destinata a svanire (inanis gloriae), ma, come si vedrà nel-
la conclusione, da quello di perseguire la felicità eterna; la prima è oggetto di ardor (desiderio intenso, ma
passeggero), mentre la seconda è oggetto di caritas (amore duraturo in quanto fondato su Cristo). – humilita-
tis et miserationis et orationis: la triade costituita dall’umiltà, dalla misericordia e dalla preghiera (da colle-
gare semanticamente con il trikólon visto sopra: Deum timent diligunt colunt) rappresenta il culmine
dell’etica imperiale proposta da Agostino; in quanto capo politico, il principe deve essere anche limpido e-
sempio di virtù cristiane. – sacrificium Deo suo vero: mentre all’imperatore pagano spettava un sacrificio
pubblico (di natura materiale), l’imperatore cristiano deve rivolgere il proprio sacrificio (di natura spirituale:
humilitatis et miserationis et orationis sacrificium) soltanto a Dio.
Tales … advenerit: «Sono questi gli imperatori cristiani che noi definiamo ‘felici’ intanto nella speranza, poi lo
saranno realmente quando ciò che aspettiamo giungerà.»
– Tales…. felices: secondo i canoni della ‘composizione ad anello’ l’excipit del brano riprende, a contrario,
l’incipit: in sede di esordio Agostino aveva affermato che Neque… nos Christianos… imperatores… felices
dicimus; in sede di conclusione, quasi a tirare le somme, sostiene invece che Tales Christianos imperatores
dicimus esse felices. – interim… advenerit: a dimostrazione del fatto che l’attributo Felix non ha valore pu-
ramente elogiativo, ma indica una ben precisa vocazione morale e spirituale, la conclusione supera l’ambito
politico-storico per assumere i tratti dell’attesa (exspectamus) escatologica: l’interim (la provvisorietà della
storia) preannuncia il postea (la pienezza del tempo), mentre la spes (la speranza dell’annuncio) è anticipa-
zione della res ipsa (la realizzazione del vero regno, quello divino).
Le due città
De civitate Dei XIV 28
levato. Ciò che distingue infatti le due città non è una diversa organizzazione politi-
ca ed economica, ma un diverso sistema di valori: le due città sono differenti tra
loro in ordine alla concezione della gloria, all’esercizio del potere, al significato
della sapienza. Questo breve brano, posto a suggello della prima sezione (libri XI–
XIV) della seconda parte (XI–XXII) del De civitate Dei, può essere considerato
come la sintesi suprema della concezione agostiniana delle due città. Il discrimine è
rappresentato dal contrasto tra la vita nella carne e la vita nello spirito, o, per ri-
prendere le parole di Agostino, tra l’amor sui, l’amore egoistico di chi è ripiegato
su di sé e non vede altra soluzione ai conflitti che la violenza, e l’amor Dei, la ri-
sposta ad un amore che precede l’uomo e gli indica la mèta finale; nella città terre-
na il criterio ultimo si trova in se stessa, in quella celeste si trova in Dio. Tutto ciò
si trasforma in un accorato appello etico al rinnovamento delle strutture di potere
e dei rapporti sociali.
28 Fecerunt itaque civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui u-
sque ad contemptum Dei, caelestem vero amor Dei usque ad contemptum
sui. Denique illă in se ipsa, haec in Domino gloriatur. Illa enim quaerit ab
hominibus gloriam; huic autem Deus conscientiae testis maxima est gloria.
Illa in gloria sua exaltat caput suum; haec dicit Deo suo: Gloria mea et e-
xaltans caput meum. Illi in principibus eius vel in eis quas subiugat natio-
nibus dominandi libido dominatur; in hac serviunt invicem in caritate et
praepositi consulendo et subditi obtemperando. Illa in suis potentibus dili-
git virtutem suam; haec dicit Deo suo: Diligam te, Domine, virtus mea. I-
deoque in illa sapientes eius secundum hominem viventes aut corporis aut
animi sui bona aut utriusque sectati sunt, aut qui potuerunt cognoscere
Deum, non ut Deum honoraverunt aut gratias egerunt, sed evanuerunt in
cogitationibus suis, et obscuratum est insipiens cor eorum; dicentes se esse
sapientes, id est dominante sibi superbia in sua sapientia sese extollentes,
stulti facti sunt et immutaverunt gloriam incorruptibilis Dei in similitudi-
nem imaginis corruptibilis hominis et volucrum et quadrupedum et serpen-
tium: ad huiuscemodi enim simulacra adoranda vel duces populorum vel
sectatores fuerunt: et coluerunt atque servierunt creaturae potius quam
Creatori, qui est benedictus in saecula. In hac autem nulla est hominis sa-
pientia nisi pietas, qua recte colitur verus Deus, id exspectans praemium in
societate sanctorum non solum hominum, verum etiam angelorum, ut sit
Deus omnia in omnibus.
28. Fecerunt … meum: «Due amori hanno quindi creato due città: quella terrena l’amore di sé [spinto] fino al di-
sprezzo di Dio, mentre quella celeste l’amore di Dio [spinto] fino al disprezzo di sé. In sostanza, la prima cerca
la gloria in se stessa, la seconda nel Signore. La prima infatti pretende la gloria dagli uomini; per la seconda in-
vece Dio, testimone della coscienza, è la gloria più grande. La prima innalza il proprio capo nella propria gloria;
la seconda dice al proprio Dio: [Sei ] la mia gloria e colui che innalza il mio capo».
– Fecerunt… duo: la costruzione sintattica (scandita da verbo, complemento oggetto e soggetto) pone in ri-
salto l’azione verbale: secondo Agostino infatti le due città sono presenti fin dall’inizio della creazione, come
si vede in De cathechizandis rudibus 19, 31: «Due città si estendono dall’inizio del genere umano sino alla fi-
ne del tempo, ora mescolate materialmente ma disgiunte moralmente, destinate a separarsi anche material-
mente nel giorno del Giudizio». – civitates duas amores duo: non solo questo periodo, ma tutto il brano è
costruito secondo un ben preciso parallelismo antitetico che oppone tra loro la città terrena e quella celeste
(haec – illa): due città nate da due amori diversi, due tipi di gloria, due modi diversi di intendere il potere,
due concezioni della sapienza. Come si può vedere, la sintassi della prima parte del brano (fino a virus mea) è
caratterizzata da brevi sintagmi paratattici, dall’uso dell’ellissi, del parallelismo e della variatio. La particola-
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re insistenza su alcuni termini è tipica delle omelie e conferisce un andamento armonico e musicale al testo. –
duas… duo: il poliptòto, mentre ne sottolinea i due diversi principi generativi, esprime la relazione oppositi-
va fra le due città. – amor sui… contemptum sui: si noti la fitta trama dei genitivi oggettivi (sui… Dei…
Dei… sui) che qualifica i sostantivi amor e contemptus, disposti chiasticamente secondo un rapporto di oppo-
sizione reciproca: l’amor sui porta al contemptus Dei, mentre l’amor Dei conduce al contemptus sui. – usque
ad contemptum: moto a luogo figurato. Nel linguaggio cristiano il contemptus mundi non esprime tanto una
svalutazione delle realtà terrene, quanto piuttosto il rifiuto di considerare il mondo come realtà fine a se stes-
sa. – in se ipsa… gloriatur: il moto a luogo figurato cede il posto allo stato in luogo figurato, ma si riprendo-
no, variandoli, gli stessi concetti: amor sui = in se ipsa [gloriatur, con ellissi del verbo], amor Dei = in Domi-
no gloriatur. Il tema è già paolino: «Chi si vanta, si vanti nel Signore» (I lettera ai Corinzi 1, 31). – Illa…
quaerit… huic est gloria lla: in tutto il brano l’opposizione tra le due città è scandita dai dimostrativi haec–
illa, qui sottolineata dalla variatio illa (nominativo) e huic (dativo di interesse). – gloriam… gloria… in glo-
ria… Gloria: l’insistito poliptòto ribadisce le due diverse tipologie di gloria, secondo il consueto procedimen-
to oppositivo: ab hominibus gloriam/Deus… est gloria vs in gloria sua/Gloria [Dei]. – Gloria… meum: cita-
zione del Salmo 3, 4: «tu autem Domine susceptor meus es gloria mea et exaltans caput meum». Nel brano,
tutte le affermazioni di Agostino sono suggellate da passi scritturistici, a dimostrazione di come il discorso
sulle due città assuma una prospettiva più ampia rispetto ad una mera contrapposizione politica.
Illi … mea: «Per la prima sui suoi capi o sulle popolazioni che sottomette domina la sete di dominio; nella se-
conda si pongono al reciproco servizio nell’amore sia i capi con le loro decisioni sia i sudditi con la loro obbe-
dienza. La prima nei propri uomini di potere apprezza la propria forza; la seconda dice al proprio Dio: Ti amerò,
Signore, mia forza».
– Illi… in hac: altra variatio: illi (dativo di interesse) e in hac (stato in luogo). – dominandi libido: il tema
della libido dominandi è spesso presente nella storiografia latina, soprattutto in Sallustio (in particolare De
Catilinae coniuratione II). Qui però l’ottica è diversa: mentre Sallustio, sottolineando lo sfaldamento del mos
maiorum, stigmatizza la corruzione politica e la perduta integrità morale del popolo romano, Agostino auspi-
ca la rinuncia alla logica della forza e del dominio nei rapporti tra gli esseri umani; ciò si evince anche dalla
contrapposizione semantica tra, da un lato, dominandi… dominatur e, dall’altro, serviunt invicem. Non si de-
ve dimenticare che, secondo Agostino, la libido dominandi è un dato originario della civitas terrena, visto che
l’atto fondativo di Roma è sancito dal fratricidio compiuto da Romolo, conseguenza diretta del delitto di Cai-
no (cfr. De civ. Dei XV 5). – caritate: nel lessico cristiano il termine, corrispondente al greco agápe, indica
l’amore fraterno. – et praepositi consulendo et subditi obtemperando: si ha qui un altro esempio di paralle-
lismo antitetico: praepositi/subditi, consulendo/obtemperando. Consulendo è gerundio con valore modale,
come il successivo obtemperando.– in suis… suam: l’insistita ricorrenza del possessivo di terza persona in-
dica l’autoreferenzialità della città terrena, la quale è incapace di aprirsi ad una prospettiva trascendente: è
come se essa, specchiandosi nel proprio passato glorioso e potente (in suis potentibus), si illudesse di salva-
guardare la propria grandezza. – mea: citazione del Salmo 17,2, che non a caso è un salmo ‘regale’ in cui il re
Davide esalta le opere di Dio.
Ideoque … omnibus: «E perciò nella prima i suoi sapienti, che vivono secondo l’uomo, hanno ricercato i beni del
proprio corpo o del proprio animo o di entrambi, oppure coloro che hanno potuto conoscere Dio non come Dio
lo hanno onorato né l’hanno ringraziato, ma si sono persi in vani ragionamenti e il loro cuore stolto si è ottene-
brato; pur affermando di essere sapienti (cioè esaltandosi nella propria sapienza sotto il dominio della superbia),
sono diventati stolti e hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile a somiglianza dell’immagine di un uomo cor-
ruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di serpenti (infatti nell’adorare idoli di tal genere sono stati guide di popoli o
seguaci): hanno adorato e servito la creatura piuttosto che il Creatore, che è benedetto nei secoli. Nella secon-
da invece non esiste altra forma di sapienza per l’uomo se non la devozione grazie alla quale si venera retta-
mente il vero Dio, in attesa di quella ricompensa nella comunità dei santi, non solo degli uomini ma anche degli
angeli, affinché Dio sia tutto in tutti.»
– sapientes: dopo aver descritto il diverso modo di intendere la gloria e il potere, è la volta della sapienza. A
differenza della prima parte, ci si trova di fronte ad un periodo più articolato in cui il pensiero di Agostino si
intreccia con un’ampia citazione tratta dalla Lettera ai Romani di Paolo (1, 21-23. 25). – aut corporis aut a-
nimi sui bona… sectati sunt: la filosofia pagana, dice Agostino, non è certo priva di meriti né di spiritualità
(basti pensare al neoplatonismo di cui egli era stato seguace); ciò che le manca è il riconoscimento di un Dio
che si interessa dell’umanità al tal punto da offrire il proprio figlio per la salvezza di questa. – non ut
Deum… in saecula: al fine di cogliere meglio la riflessione agostiniana, è opportuno tener presente che la
prima parte della Lettera ai Romani (1, 8 – 4, 25) ha come tema di fondo il fatto che il ‘vangelo’ (da intendere
nel significato originario di «buona notizia») è la manifestazione della giustizia di Dio «per la salvezza di
chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco» (1, 16); nella sezione qui citata da Agostino, Paolo svolge
una panoramica sui ‘peccati’ dei pagani, all’insegna dell’antitesi tra sapienza e stoltezza. – in hac: è l’ultima
contrapposizione, espressiva e concettuale del brano: in illa/in hac. – hominis: genitivo soggettivo. – societa-
te: l’antitesi ultima tra la societas romana e la societas sanctorum risiede nella dimensione escatologica di
quest’ultima, intesa non tanto come fuga dal mondo, ma come sforzo per il suo miglioramento, visto che,
nell’ottica cristiana, le realtà terrene sono un anticipo delle realtà ultime. – ut sit…. omnibus: citazione della I
lettera ai Corinzi 15, 28.
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Sui testi
• Si quid in te laudabile naturaliter eminet, non nisi vera pietate purgatur atque perfici-
tur, impietate autem disperditur et punitur (II 29, 1). Analizza il periodo dal punto di vi-
sta sintattico. Inoltre, i quattro verbi purgatur, perficitur, disperditur e punitur sono le-
gati tra loro da………………
• Expergiscere ed experrecta es (II 29, 1) derivano dal verbo …………………………e
sono rispettivamente……………………. e ……………………………
• Nella proposizione cum quaerant tempora (II 29, 1) il cum ha valore
……………………………….
• Noli requirere (II 29, 2) è ………………………………. In latino, ci sono altri modi per
esprimerlo? Se sì, quali?…………………………………………………………
• Analizza dal punto di vista sintattico il periodo Quo igitur pacto deos, qui talibus delec-
tantur obsequiis, haberi putas in numero sanctarum caelestium potestatum, cum homi-
nes, per quos eadem aguntur obsequia, non putasti habendos in numero qualiumcum-
que civium Romanorum? (II 29, 2)
• Traduci l’espressione cultores daemonum (V 24); essa si riferisce a
………………………………….
• Deum timent diligunt colunt (V 24) dal punto di vista stilistico è un
……………………………
• Analizza dal punto di vista sintattico il primo periodo del brano XIV 28 (Fecerunt…
contemptum sui).
• Rintraccia nel brano XIV 28 tutti i dimostrativi haec e illa e analizzane, poi, la funzione
logica e il valore espressivo.
• Nel brano XIV 28 compare spesso il poliptòto: dopo averne individuato alcuni esempi,
spiegane la funzione espressiva.
Sui temi
• Cosa significava per i romani il termine pietas? Cosa significa invece per Agostino?
• Qual è l’etimologia dell’aggettivo felix (V 24)? Per quale motivo veniva spesso attribui-
to agli imperatori romani?
• Cosa rappresentano il fuoco di Vesta e la pietra del Campidoglio (II 29,1)?
• A chi pensa, in particolare, Agostino quando delinea i tratti del principe ideale (V 24)?
75
• Che importanza hanno avuto Costantino e Teodosio per la storia del cristianesimo?
• Che concezione socio-politica esprimeva per i Romani il termine civitas?
• Quali sono gli aspetti della società romana che Agostino ritiene validi? Quali invece
quelli che devono essere corretti?
• Nullo modo his artibus placatur divina maiestas, quibus humana dignitas inquinatur (II
29, 2). Spiega il senso di questa affermazione. Qual è il motivo di fondo per cui, secon-
do Agostino, i Romani dovrebbero abbandonare il politeismo?
• Sulla base di II 29 e di V 24, qual è la concezione della storia espressa da Agostino?
• Si può affermare che Agostino esprima una visione teocratica del potere (potere eserci-
tato da un’autorità che si ritiene investita da Dio)? Per quale motivo?
• In che cosa la civitas caelestis è superiore alla civitas terrena?
• In II 29 vi sono alcune citazioni dell’Eneide. Qual è il motivo della loro occorrenza?
Perché si può affermare che il De civitate Dei sia una sorta di anti-Eneide?
• Dopo aver letto il cap. XV del Principe di Machiavelli, confronta la visione di Agostino
con quella del segretario fiorentino circa le qualità che un principe deve avere.
• In un’apposita tabella raccogli le espressioni del brano XIV 28 che si riferiscono alla ci-
vitas terrena e quelle che si riferiscono alla civitas caelestis. Rifletti poi sulle differenze
tra le due città: qual è l’elemento discriminante tra le due?
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Capisaldi del sistema culturale compreso tra tarda antichità e medioevo sono la Bibbia e
il pensiero patristico; con quest’ultima espressione si indica l’elaborazione dottrinaria
degli scrittori dei primi secoli del cristianesimo (II-VII) chiamati ‘Padri della chiesa’. In
merito ai rapporti tra cristianesimo e paganesimo, la riflessione patristica può essere rias-
sunta in termini di superamento e di continuità: una nuova e più elevata forma di spiritua-
lità sovrasta e svuota dall’interno la cultura pagana, la quale viene però valorizzata nella
sua funzione preparatoria del messaggio cristiano. Si verifica, insomma, un superamento
dei contenuti nella continuità delle forme. Scopo del presente percorso è di mostrare
come la sintesi tra cultura pagana e tradizione ebraico-cristiana sviluppata dalla cultura
medievale le derivi direttamente, quale suprema eredità, dal pensiero patristico,
all’interno del quale l’opera di mediazione svolta da Agostino risulta centrale.
Ugo di san Vitto- Questo mondo sensibile, infatti, è quasi un libro scritto dal dito di Dio, cioè creato dal-
re, De tribus die- la virtù divina, e le singole creature sono come figure, non inventate dall’arbitrio
bus, 4, trad. S.
Vanni Rovighi (in dell’uomo, ma istituite dalla volontà divina per manifestare la sapienza invisibile di
Grande Antolo- Dio. Ma come un analfabeta, quando vede un libro aperto, scorge i segni, ma non capi-
gia Filosofica sce il senso, così lo stolto e l’uomo animale, che non capisce le cose divine, in queste
Marzorati, Mar- creature visibili vede l’aspetto esteriore, ma non ne capisce l’interiore significato. Co-
zorati, Milano
1973). lui che è spirituale, invece, ed è capace di valutare tutte le cose, mentre considera di
fuori la bellezza dell’opera, vi legge dentro quanto mirabile sia la sapienza del Creato-
re. Pure, non vi è nessuno a cui le opere di Dio non appaiano mirabili, anche se
l’insipiente mira in esse soltanto l’aspetto esteriore, mentre il sapiente da ciò che vede
fuori scorge il pensiero della divina sapienza, così come se di una ed identica scrittura
uno lodasse il valore o la forma dei segni, l’altro il senso e il significato.
Brani come questo illustrano alla perfezione la differenza tra il sapere di età moderna e
quello di età medievale: il primo, procedendo per analisi, giunge al significato attraverso
78
Agostino, De Riguardo ai cosiddetti filosofi, massimamente ai platonici, nell’ipotesi che abbiano detto
doctrina Chri- cose vere e consone con la nostra fede, non soltanto non le si deve temere ma le si deve lo-
stiana, II 40, 60,
trad. V. Tarulli ro sottrarre come da possessori abusivi e adibirle all’uso nostro. […] Lo stesso si deve dire
di tutte le scienze dei pagani. Esse racchiudono invenzioni simulate e superstiziose come
pure gravi pesi che costringono a un lavoro superfluo, cose tutte che ciascuno di noi, u-
scendo dal mondo pagano al seguito di Cristo, deve detestare ed evitare. Contengono però
insieme a questo anche arti liberali, più consone con il servizio della verità, e alcuni utilis-
simi precetti morali; presso di loro si trovano anche alcune verità sul culto dell’unico Dio.
Tutto questo è come il loro oro e argento, che essi non inventarono ma estrassero da certe –
chiamiamole così – miniere della divina Provvidenza, che si espande dovunque. È vero che
essi nella loro perversione e iniquità ne abusano per rendere culto ai loro dèi; non per que-
sto però il cristiano, pur separandosi con lo spirito dalla loro miserabile società, deve buttar
via tali ritrovati, qualora servano alla giusta missione di predicare il Vangelo. Sarà anche
lecito prendere ed adibire ad uso cristiano anche la loro veste, cioè le istituzioni, opera di
uomini, che siano aderenti alla convivenza umana, alla quale in questa vita non possiamo
sottrarci.
Il testo è importante in quanto traccia la linea di pensiero che caratterizza tutto il Medioe-
vo: dal momento che esiste una sola Verità (quella del Verbo), le opere pagane che con-
tengono concetti veritieri non possono che essere ispirate da Dio. In quanto tali, non sono
da rigettare, ma da recuperare per il loro valore ‘estetico’, dal momento che sono dotate di
preziose («oro e argento» dice Agostino) risorse stilistiche e retoriche, oltre alle «arti libe-
rali» e « alcuni utilissimi precetti morali».
Su questa scia si inserisce anche la riflessione di Severino Boezio (480 ca.-526) e di Au-
relio Cassiodoro (490 ca.-583 ca.). Entrambi alti funzionari alla corte del re Teodorico, i
due conferiscono un’impronta duratura all’atteggiamento medievale: tra fede cristiana e
paganesimo deve sussistere quella che si potrebbe definire una ‘convivenza asimmetrica’,
per effetto della quale l’indiscussa egemonia del pensiero cristiano, se non delegittima il
valore della cultura classica, la confina però ad ruolo strumentale e subalterno in quanto
ne fornisce gli strumenti espressivi più idonei.
Alla base di tutto regna sovrana l’idea agostiniana che il mondo naturale non può essere
concepito in se stesso, ma in quanto traccia del Creatore. La riflessione di Agostino (e-
sposta in particolare nel De doctrina christiana) si può così sintetizzare. Anzitutto, vi è la
convinzione che la Bibbia sia il libro per antonomasia, in quanto ha in sé la vera sapien-
za e indica la via della vera salvezza; pertanto, essa rende obsoleti tutti gli altri libri del
paganesimo poiché già li contiene per anticipazione. In secondo luogo, per effetto del
peccato originale e in attesa della rivelazione ultima, l’essere umano può penetrare il testo
biblico solo attraverso la limitatezza del linguaggio umano, un sistema di segni che cer-
cano di s-velare una verità ri-velata: non si dà conoscenza del testo biblico se non per via
allegorica. Da ultimo, proprio perché passa attraverso il linguaggio umano, la compren-
sione della Parola divina è possibile grazie a un sacro furto: i cristiani si impadroniscono
della sapienza pagana (cfr. il passo del De doctrina Christiana sopra citato). Agostino
pone dunque il sapere enciclopedico come l’unico strumento per la comprensione del
testo biblico: l’esegeta deve conoscere le tre lingue della Bibbia (ebraico, greco, latino),
le scienze naturali, l’astronomia, la dialettica, l’eloquenza, la storia, il diritto, le arti mec-
caniche. Senza questo patrimonio di sapere, che l’antichità pagana mette al servizio del
cristianesimo, il testo biblico appare muto.
Ecco allora che, sulla scorta di Agostino, Cassiodoro, con le Institutiones Divinarum et
Saecularium Litterarum (560), intende offrire ai monaci del monastero di Vivarium una
sorta di manuale scolastico, in cui le arti liberali (quelle del trivio, cioè grammatica, dia-
lettica e retorica, e quelle del quadrivio, vale a dire aritmetica, geometria, musica e astro-
nomia) siano propedeutiche allo studio della teologia. Successivamente, il vescovo Isi-
doro di Siviglia (560 ca.-636), nelle Etymologiae rerum sive origines libri XX (636), ten-
ta di riunire l’insieme delle conoscenze religiose e profane del tempo secondo una chiave
di lettura fondata sull’idea che si può conoscere meglio la natura di una cosa solo dopo
che si sia conosciuta la natura del suo nome. Infine, con il De rerum naturis o De univer-
so (842) di Rabano Mauro, teologo tedesco e vescovo di Magonza (784 ca.-856), co-
mincia a prendere forma l’universo simbolico medievale nel quale le creature appaiono
come segni che rinviano al Creatore.
Per approfondire
Conoscenze • Per i Padri della Chiesa la lettura e l’interpretazione della Bibbia occupava un ruolo centra-
le.
– Qual era il metodo esegetico messo in atto da Clemente Alessandrino e da Origene?
– Come si potrebbe definire l’atteggiamento dei Padri della chiesa nei confronti della cultura
ellenistico-romana?
– Che rapporto c’è tra esegesi biblica e simbolismo medievale?
Competenze • Il brano del De doctrina Christiana di Agostino citato nel percorso, oltre ad illustrare in
modo molto efficace la funzione dei classici, conferisce un’impronta duratiura
all’atteggiamento medievale nei confronti della cultura secolare.
– In cosa consiste la ‘verità’ dei classici?
– Perché per Agostino sono così importanti le arti liberali?
– Quali sono i caratteri del simbolismo medievale?
– La cultura medievale ha un’impronta essenzialmente enciclopedica. Come si puà spiegare
questo fatto?
Capacità • Questo brano è tratto dalla Epistula XXII che Girolamo scrisse ad Eustochio, figlia di Pa-
ola, una matrona romana di cui egli era il padre spirituale. Girolamo parla del rapporto
conflittuale con i classici latini, la cui lettura mal si conciliava con una scelta di vita mo-
nastica. L’episodio centrale è una sorta di visio mystica in cui Girolamo viene rimprove-
rato di essere più ciceroniano che cristiano.
Girolamo,
Quando, molti anni fa, mi amputai, per il regno dei cieli, casa, genitori, sorella, parenti e –cosa
Epistula XXII più difficile– l'abitudine a pranzi piuttosto lauti, dirigendomi alla volta di Gerusalemme a militare
30 (trad. R. per Cristo, non potevo restar privo della biblioteca che a Roma mi ero messa insieme con molta
Palla in: Gero- cura e fatica. E così io, sciagurato, digiunavo per poi leggere Cicerone. Dopo frequenti veglie
lamo, Lettere,
Rizzoli, Milano
notturne, dopo le lacrime che mi faceva uscire dal profondo delle viscere il ricordo dei vecchi pec-
1989) cati, prendevo in mano Plauto. E se talvolta, ritornato in me, iniziavo a leggere i profeti, mi faceva
orrore quel linguaggio rozzo, non vedendo la luce a causa della cecità degli occhi, non pensavo
che fosse colpa degli occhi, ma del sole. Mentre l'antico serpente [= il diavolo] si faceva beffe di
me in questo modo, verso la metà della Quaresima la febbre mi penetrò fin nelle midolla e si im-
padronì del mio corpo esausto, e senza un attimo di tregua –anche a dirlo è incredibile– mi consu-
mò le membra infelici al punto che a stento restavo attaccato alle mie ossa. Intanto si preparava il
funerale; tutto il corpo era già freddo ed il calore vitale dell’animo palpitava solo nel povero pet-
to, appena tiepido, quando improvvisamente, rapito nello spirito, vengo tratto davanti al tribunale
del Giudice [= Cristo], dove c’erano tanta luce e tanto fulgore irradiato dai presenti che io,
gettatomi a terra, non avevo il coraggio di alzare lo sguardo. Interrogato su chi fossi, risposi di es-
sere cristiano. E colui che sedeva disse: «Menti, tu sei ciceroniano, non cristiano; dove c'è il
tuo tesoro, c'è anche il tuo cuore [Matteo 6,12]».
– Quali differenze ritrova Girolamo fra la lettura di Plauto e la lettura dei profeti?
– Spiega a che cosa allude Girolamo quando accenna alla sua «cecità degli occhi». Sempre
nella stessa logica, che cosa è il «sole»?
– Perché, secondo le parole del Giudice, non si può essere contemporaneamente «cicero-
niano» e «cristiano»?
– Confronta l’atteggiamento di Agostino e quello di Girolamo nei confronti dei classici.
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a proposito della legge, d’altra parte, Lutero opera una distinzione: esiste infatti la legge
divina, assoluta, al cospetto della quale l’essere umano prende coscienza del proprio pec-
cato, e la legge umana, relativa, cui spetta il compito di governare tramite l’imposizione.
La legge divina, basata sull’amore, indica la via del bene, la legge umana, invece, basata
sulla coercizione, impedisce il male e mira al mantenimento dell’ordine. Nel rivendicare
la supremazia della libertà sulla norma, la posizione di Lutero reca in sé il rischio di una
svalutazione dell’istituzione ecclesiastica e del potere politico, il quale assume un ca-
rattere di necessità e non di valore in sé.
In effetti, più preoccupato di difendere gli aspetti dottrinari contro l’offensiva papista, Lu-
tero finì per trascurare l’assetto organizzativo della chiesa, aprendo una sorta di vacanza
istituzionale che venne subito colmata dai principi tedeschi, i quali si assunsero il compito
di difendere l’opera riformatrice.
Sul versante opposto, gli anabattisti (esponenti di una riforma più radicale e per questo
duramente contrastati da Lutero) operarono addirittura uno svuotamento dell’ordine so-
cio-politico come conseguenza diretta della loro posizione spiritualista: vivendo infatti
sotto il dominio dello Spirito e della Grazia, il credente non è più sottoposto alle leggi di
una città che, in quanto realtà terrena, è destinata a venir meno.
Confutazione dei Dunque il medesimo patto che un tempo Dio stabilì con il popolo di Israele, negli ul-
cavilli degli ana- timi tempi lo ha stabilito con noi, affinché fossimo con loro [cioè con il popolo ebrai-
battisti, cit., p.
275. co] un solo popolo, una sola chiesa, ed avessimo anche un solo patto.
G. Calvino, Isti- La sostanza e la verità dell’alleanza stipulata con i padri antichi è talmente simile alla
tuzione della re- nostra da poter essere considerata una stessa cosa. Differisce soltanto nella forma della
ligione cristiana,
cit., p. 552 dispensazione.
È evidente come nella categoria del patto confluiscano gli assi portanti della riflessione
protestante: la libertà di coscienza, la vocazione individuale, la responsabilità, la desacra-
lizzazione. È in particolare quella forma di calvinismo che assume il nome di puritanesi-
mo e che si è sviluppata in Inghilterra nella seconda metà del XVI secolo in opposizione
all’anglicanesimo a elaborare una vera e propria «teologia del patto» (Covenant theology)
che agisce sia a livello ecclesiale sia a livello politico.
mani le redini del governo della chiesa per disporre e fare ciò che gli sembrerà opportu-
no»; le chiese «si governano e procedono alla determinazione dei propri problemi da sole:
il potere risiede nell’assemblea e nelle persone alle quali sono state affidate particolari
mansioni» (La piattaforma del regime presbiteriano, in AA.VV., I Puritani, cit., p. 67-
68). È evidente da queste parole la polemica contro il sistema episcopaliano della chiesa
d’Inghilterra nel quale l’arcivescovo (nominato dal re) svolgeva un ruolo primaziale sugli
altri vescovi. Nel modello presbiteriano, invece, la legittimazione dell’autorità è di tipo
assembleare (gerarchia di assemblee) e si esercita il principio di sussidiarietà (il singo-
lo non deve essere suddito, ma libero e autonomo). Tutto ciò ha delle delle ricadute sul
piano socio-politco.
successo nel III-IV secolo dell’era cristiana, e poi in occasione dei movimenti ereticali del
Medioevo, con la Riforma torna a riaffacciarsi il difficile rapporto tra eresia e ortodos-
sia. È qui che i nodi vengono al pettine. In effetti, alle prese con il caso Müntzer
(1490ca-1525, il profeta apocalittico, leader della guerra dei contadini del 1525), Lutero,
pur avendo affermato che il rogo per gli eretici è contrario al volere dello Spirito Santo,
non vede altra soluzione che affidarlo, in quanto ‘eretico’, alla spada secolare per la giu-
sta punizione che si merita. Calvino, dal canto suo, mentre critica aspramente la politica
antiprotestante della chiesa romana, non esita, Bibbia alla mano, a ratificare la condanna a
morte dell’’eretico’ Michele Serveto (1511-1553), colpevole di sostenere posizioni etero-
dosse riguardo alla Trinità. La libertà del cristiano, così cara ai Riformatori, sembra in-
somma mostrare la corda nel momento in cui si tratta di delimitare i confini dell’eresia,
tanto all’esterno quanto all’interno, e questo per il semplice fatto che la Riforma (e non
può essere diversamente) continua ad operare e a diffondersi in un regime di societas
christiana, di cui il principio del cuis regio eius religio è la rappresentazione più chiara.
Del resto, dal 380 al 1789 (e in alcuni casi, in Italia per esempio, anche ben oltre),
l’appartenenza confessionale ritenuta ‘giusta’ era cosa del tutto ovvia e scontata.
Castellione sostiene che la verità risiede nel «libero esame», ma riconosce anche il diritto
all’errore, da lui definito «la coscienza errante».
Il secondo, filosofo razionalista francese e precursore dell’illuminismo, nel denunciare i
guasti dell’intolleranza religiosa, insiste sui diritti della coscienza in nome
dell’incapacità dell’essere umano di raggiungere la verità religiosa con una certezza
razionale (Dizionario storico e critico, 1697). Il conetto di tolleranza deriva quindi dal
fatto che nessuna morale e nessuna religione è in grado di offrire una verità certa. Osser-
vando poi la dicotomia esistente tra i principi predicati dai cristiani e il loro comporta-
mento, ne conclude che la fede non influisce sulla morale e che la morale non dipende
dalla religione. Pur rimanendo calvinista e credente sino alla fine, Bayle è l’iniziatore, e
con largo anticipo, di quella che si potrebbe definire una morale laica.
Per approfondire
Per il passaggio dal Medioevo alla modernità si veda il saggio di M. Gauchet, Il disincanto del
mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992 (ed. or. francese 1985) che sottoli-
nea in modo molto efficace il processo di desacralizzazione come discontinuità tra Dio e il mondo.
Circa il rapporto tra protestantesimo e modernità si segnalano E. Bein Ricco, La modernità e il
protestantesimo, in AA.VV., Modernità, politica e protestantesimo, Claudiana, Torino 1994, pp. 205-
254, e G. Cotta, La nascita dell’individualismo politico. Lutero e la politica della modernità, Il Mulino,
Bologna 2002.
Sulla figura di Giovanni Calvino si veda A.E. McGrath, Giovanni Calvino. Il Riformatore e la sua in-
fluenza sulla cultura occidentale, Claudiana, Torino 1991; G. Tourn, Calvino politico, in Modernità,
politica e protestantesimo, cit., pp. 15-79.
Il concetto di patto quale categoria biblica fondante il contrattualismo politico è stato studiato in
modo particolare da M. Walzer, La rivoluzione dei santi. Il puritanesimo alle origini del radicalismo
politico, Claudiana, Torino 1996 (ed. or. inglese 1965), e Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano
1986. Da tenere presente anche il volume collettaneo curato da U. Bonanate, I Puritani. I soldati
della Bibbia, Einaudi, Torino 1975.
Sul tema della tolleranza si veda M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa nell’Età moderna
dalla Riforma protestante a Locke, Loescher, Torino 1978; R. Cortese (a cura), La «Lettera sulla
tolleranza» di Locke e il problema della tolleranza nella filosofia del Seicento, Paravia, Torino 1990.
Per quanto concerne la riflessione di Castellione e Bayle si segnalano i seguenti studi: C. Gilly, Se-
bastiano Castellione, l'idea di tolleranza e l'opposizione alla politica di Filippo II, in «Rivista storica
italiana», CX (1998), pp. 144-166; C. Senofonte, Pierre Bayle: dal calvinismo all’Illuminismo, Edi-
zione Scientifiche Italiane, Napoli 1978; G. Mori, Introduzione a Bayle, Laterza, Roma–Bari 1996.
I testi citati si trovano in: U. Zwingli, Confutazione dei cavilli degli anabattisti, in: Scritti teologici e
politici, a cura di E. Genre e E. Campi, Claudiana, Torino 1985, p. 275; G. Calvino, Istituzione della
religione cristiana, a cura di G. Tourn, UTET, Torino 1971, vol. I, p. 552; J. Locke, Scritti sulla tolle-
ranza, a cura di D. Marconi, UTET, Torino 1977, pp. 134-138 e 170-172; S. Castellion, La persecu-
zione degli eretici, a cura di S. Visentin, La Rosa editrice, Torino 1997.
87
Competenze Oggi, tralasciando il comportamento e la santità di vita, gli uomini sono soliti giu-
S. Castellio- dicare in base alla dottrina e uccidere quelli che dissentono da loro in qualche cosa,
ne, Contra anche se per altro verso siano di buoni costumi, il che non deve invece avvenire. In-
libellum Cal-
vini, in quo fatti, si dovrebbe perdonare a chi ha commesso una colpa se gli altri aspetti della
ostendere sua vita siano puri. […] Pertanto, poiché gli uomini vogliono che si uccida e si giu-
conatur hae- dichi sulla base non del comportamento ma della dottrina e poiché non è ancora sta-
reticos iure to stabilito quale setta sia la migliore (né si potrà farlo prima della venuta del giudi-
gladii coer- ce), nel frattempo ci si domanda come bisogna comportarsi nei confronti degli osti-
cendos esse,
in M. Firpo, Il
nati. A questo punto, se si è dell’opinione che debbano essere uccisi, i fautori di
problema della ogni setta verranno uccisi da parte di coloro a una setta diversa. […]
tolleranza reli- Occorre ben guardare chi siano quelli che oggi sono considerati eretici. Si ritengono
giosa, cit., pp. eretici i papisti, i valdesi, i luterani, gli zwingliani, gli anabattisti e altre sette di
120-121 questo genere. Io affermo invece che nessuna di queste deve essere di per sé chia-
mata empia, quand’anche tutte errassero. Tutte credono infatti nel medesimo Dio e
nel medesimo Cristo signore e salvatore.
«Dio è morto, Marx è morto ... e anch'io oggi non mi sento molto bene!». Questa
fulminante battuta di Woody Allen ha il merito di sintetizzare il crollo delle visioni
universalistiche, fra le cui macerie è possibile scorgere l’imponente edificio del cri-
stianesimo, concepito da Friedrich Nietzsche come «negazione istituzionalizzata del-
la volontà di vivere» (T. W. Adorno), in quanto esso «ha preso le parti di tutto quanto
è debole, abietto, malriuscito; della contraddizione contro gli istinti di conservazione
della vita forte ha fatto un ideale; ha guastato persino la ragione delle nature intellet-
tualmente più forti, insegnando a sentire i supremi valori dell’intellettualità come
peccaminosi, come fonti di traviamento, come tentazioni» (L’Anticristo, 1888). E se
Agostino aveva invitato ad un rinnovamento dell’esistenza individuale, e quindi
dell’intera società, in nome di un nuovo umanesimo cristiano, Nietzsche proclama
che «in Dio è dichiarata l’inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere!»
La ‘morte di Dio’ è l’esito della modernità e la secolarizzazione è la sua espressione
più propria. Il termine, nato nell’ambito della teologia protestante e poi passato nella
filosofia e nella sociologia della religione, indica la progressiva perdita di rilevanza
del fattore religioso, la rimozione dell’autorità ecclesiastica dall’ambito mondano, la
demitizzazione della fede, la scristianizzazione della società e, last but non least,
l’appropriazione di temi tipicamente cristiani da parte della cultura secolare (si veda-
no, per esempio, valori come la libertà e l’uguaglianza).
E tuttavia, a ben guardare, la secolarizzazione è fenomeno tipicamente europeo (basta
consultare le percentuali della frequenza religiosa); al contrario, appena si esce dai
confini continentali, ci si rende conto che la situazione mondiale è ben diversa. Dio e
il sacro, lungi dall’essere morti ed eclissati, sono tornati ad occupare saldamente il
centro della scena.
R. Debray, Dio, «Alle biblioteche senza lettori, da cui ci si allontana per navigare in Internet, corrispondono
un itinerario. Per delle religioni senza dogmi e dei preti senza sottane. Dalla rete di domani ci si può aspetta-
una storia
dell’Eterno in re un e-God just in time, commutabile grazie ad un telecomando e senza copyright. Un van-
Occidente, p. taggio per uno svantaggio. Ogni nuova macchina moderna produce una nuova forma di
337 servitù nel mentre ci libera da un’altra. L’alfabeto del deserto ci ha liberato dalle divinità
materne e ha affidato, a un popolo unico nel suo genere, la possibilità di essere
l’intermediario tra il Signore e le nazioni. Il codice manoscritto ha liberato questo Dio scrit-
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to dalla chiusura nella Terra santa rendendolo universale e condivisibile, non in linea di
principio ma di fatto. La stampa manuale ha spezzato la chiusura ecclesiastica per aprirla al
libro multilingue a disposizione di tutti. Ha liberato il Dio unico dalla Chiesa unica e il cre-
dente dal latino dei chierici. Da cosa ci stanno attualmente liberando la riproduzione digita-
le e le telepresenze? Dalla nozione di integrità. Dall’idea di totalità integrata. Ne scaturisce
un divino in scatola di montaggio, modulabile, atomizzato, opzionale, suscettibile di brico-
lage, collage e deviazioni. Le religioni senza Dio sono quelle meglio de-totalizzate, decon-
fessionalizzate, deregolamentate, e sono quindi le più competitive. Lo spirituale non tra-
smette più su un solo canale, o, piuttosto, ogni confessione ha il proprio, uno tra i tanti, sta
a noi fare lo zapping. Dal papa al Dalai Lama passando per sua Beatitudine e il Patriarca
autocefalo. Un assortimento di grandi stregoni in libera concorrenza».
È sempre stato così: da duemila anni in qua, il cristianesimo ha veicolato i propri con-
tenuti di fede all’interno di un concreto ambito comunicativo e culturale. In epoca po-
stmoderna, il cristianesimo (o postcristianesimo) appare sempre più delocalizzato,
deregolamentato, disarticolato.
lute, distributori di senso. Oggi la loro azione si svolge in un quadro in cui le identità
sono mobili, le scelte molteplici e continuamente rinegoziabili, i principi morali sem-
pre più soggettivizzati e precari. Ciò ha determinato la deistituzionalizzazione delle
chiese cristiane storiche (cattolica e protestante), per effetto della quale, da un lato,
ci si stacca dalla chiesa in quanto istituzione (così come anche da altre istituzioni), e,
dall’altro, si privilegia il momento della esperienza (‘con-vivere’) rispetto a quello
della credenza condivisa (‘con-credere’).
Questi tre fenomeni sommariamente elencati (ma altri se ne potrebbero aggiungere)
aprono nuovi scenari non solo sul piano individuale, ma anche nel quadro più genera-
le del rapporto tra esperienza religiosa e appartenenza socio-culturale.
ne Europea in cui si afferma che «l'Unione rispetta e non pregiudica lo status previsto
nelle legislazioni nazionali per le chiese e associazioni o comunità religiose degli stati
membri» e che si impegna a mantenere «un dialogo aperto, trasparente e regolare con
tali chiese», solleva qualche perplessità. Il problema non è tanto il dialogo, ma la sua
modalità attuativa: l’aggettivo «regolare» potrebbe infatti lasciar aperta la strada ad
una sorta di subalternità dell’ambito politico rispetto alle comunità religiose. E, vista
la storia europea, il rischio di un connubio tra trono e altare è sempre in agguato.
Gli Stati Uniti: un esempio di libertà religiosa Mentre nell’ Europa del
Seicento ci si uccideva in maniera brutale per questioni religiose, i padri fondatori de-
gli Stati Uniti cercarono al di là dell’oceano quella libertà religiosa che nella madre-
patria sembrava impossibile (vd. p. 82). Questo spiega perché fin da subito si sia sta-
bilito che lo stato mai avrebbe dovuto e potuto limitare la libertà religiosa dei
singoli. In sostanza, negli Stati Uniti la separazione tra Stato e chiesa protegge le reli-
gioni dallo stato, non lo stato dalle religioni. E questo spiega anche la grande fioritura
e la rilevanza sociale che l’espressione religiosa gode negli USA. In un paese multi-
culturale e multireligioso come questo, la libertà di professare la propria confessione
religiosa è sacra. La comunità nazionale si guarda bene dall’imporre il suo progetto di
Stato sulla religione, ma al contrario autorizza qualsiasi espressione religiosa, salvo
quando metta in discussione la libertà degli altri.
Per approfondire
Il saggio di R. Debray (Dio, un itinerario. Per una storia dell’Eterno in Occidente, Cortina Editore,
Milano 2002) ha il grande merito di tracciare una panoramica assai suggestiva dei processi di in-
culturazione del cristianesimo in Occidente dalle sue origini ebraiche ai giorni nostri. Sulla se-
colarizzazione e la ‘rivincita’ di Dio, si vedano R. Rémond, La secolarizzazione. Religione e so-
cietà nell’Europa contemporanea, Laterza, Bari-Roma 2003 (ed. or. francese 1998); F.-X. Kau-
fmann, Quale futuro per il cristianesimo?, Queriniana, Brescia 2002; R. Stark – M. Introvigne, Dio è
tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003, da af-
fiancare a AA.VV., La religione post-moderna, Glossa, Milano 2003. Sull’evoluzione socio-politica
del cristianesimo nel nuovo secolo è caldamente consigliata la lettura di P. Jenkins, La terza chie-
sa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi Editore, Roma 2004, ricco di dati e di proiezioni statistiche.
Sul tema delle radici spirituali dell’Europa, si veda G. Reale, Radici culturali e spirituali
dell’Europa. Per una rinascita dell’”uomo europeo”, Cortina Editore, Milano 2003. Per una panora-
mica sulla situazione religiosa negli Stati Uniti, cfr. lo studio di P. Naso, God Bless America. Le
religioni degli americani, Editori Riuniti, Roma 2002.
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Conoscenze • Alle soglie del terzo millennio, il cristianesimo si trova nella necessità di ridefinire se
stesso alla luce di un panorama socio-culturale sempre più complesso e variegato.
– Quali sono, a tuo parere, i cambiamenti più rilevanti che il cristianesimo sta subendo?
– Illustra con parole tue il concetto di ‘secolarizzazione’
– Cosa si intende con l’espressione ‘credere senza appartenere’?
– Quali sono le sfide che una società multietnica e multireligiosa pone al cristianesi-
mo?
Competenze • Il rapporto tra visione religiosa e visione laica del mondo è spesso stato fonte di con-
flitti e di incomprensioni.
– Pensi ci sia incompatibilità tra laicità e cristianesimo?
– Perché, in una situazione di sempre più marcato pluralismo, un’impostazione laica
potrebbe risultare vincente?
• Un altro fenomeno nuovo con cui il cristianesimo si deve confrontare è il rapporto tra
identità individuale e scelte religiose.
– Che impotanza ha secondo te, oggi, l’appartenza religiosa in ordine alla definizione
dell’identità individuale?
– A tuo parere, i progressi della scienza e della tecnica possono scalzare il cristianei-
smo in ordine al tema del senso dell’esistenza?
Capacità • I due articoli della Costituzione Italiana che regolano il rapporto tra lo stato italiano,
la chiesa cattolica e le altre confessioni religiose sono il n. 7 e il n. 8.
Costituzione Art. 7: Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I
della Repub- loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due
blica italiana parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Art. 8: Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni re-
ligiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non
contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per leg-
ge sulla base di intese con le relative rappresentanze.
DOCUMENTI 1. Noi adoriamo un solo Dio, che tutti voi conoscete naturalmente, di fronte ai cui
Tertulliano, Ad lampi e tuoni voi tremate, di fronte ai cui benefici vi rallegrate. Voi ritenete che e-
Scapulam 2, 1-2
(ed. critica E. Dek- sistano anche altri dèi che noi riconosciamo come demoni. Tuttavia, appartiene alla
kers, in CCSL 2, legge umana e al diritto naturale che ognuno adori quello che crede; e la religione
Brepols, Turnhout dell’uno non danneggia né favorisce un altro. Ma non appartiene alla religione im-
1954).
porre una religione, che deve essere accolta volontariamente, non per costrizione
dal momento che anche le vittime sacrificali sono richieste ad un’anima che le ac-
cetta volentieri.
Simmaco, Relatio 2. Ognuno ha i suoi costumi, ognuno ha i suoi riti; la mente divina ha distribuito i
tertia 8-10 (cit. in
G. Garbarino, Let- diversi culti alle città come loro custodi; come a chi nasce viene assegnata
teratura latina. III. un’anima, così ai popoli sono assegnati genii che presiedono ai loro destini. Si ag-
L’età imperiale, Pa- giunga l’utilità, che soprattutto lega gli dèi agli uomini. Infatti, dal momento che
ravia, Torino 1992,
pg. 584) non si può portare alcuna dimostrazione razionale, di dove viene la conoscenza
delle divinità meglio che dal ricordo del passato e dalle prove dei favori ricevuti?
Se la lunga durata dà autorevolezza alle religioni, dobbiamo conservare una fede
che dura da tanti secoli e dobbiamo seguire i nostri padri, i quali hanno seguito i
94
loro con risultati così felici. […] Dunque noi chiediamo la pace per gli dèi della pa-
tria, per gli dèi della nostra terra. È giusto ritenere che sia un’unica entità quella
che tutti gli uomini onorano. Guardiano gli stessi astri, il cielo è comune a tutti, lo
stesso universo ci racchiude: che importa con quale sistema ciascuno ricerca la ve-
rità? Non si può arrivare attraverso un’unica strada a un mistero così grande.
E. R. Dodds, Cri- 4. Diciamo qualche cosa sulle opinioni che i pagani avevano del cristianesimo e i
stiani e pagani in cristiani del paganesimo, come risultano dalle testimonianze letterarie del tempo.
un’epoca di ango-
scia, La Nuova Ita- [...] Bisognerà cominciare col mettere in chiaro due punti. In primo luogo la di-
lia, Firenze 1998, scussione era condotta a parecchi livelli intellettuali e sociali fra loro diversi [...]
p. 101 La nostra conoscenza del dialogo a questo livello è, purtroppo, assai limitata, ma
quel che possiamo sapere o congetturare a questo riguardo dovrebbe essere tenu-
to distinto dal dialogo più sofisticato delle persone colte. In secondo luogo, la di-
scussione non era statica. Tanto il cristianesimo quanto la filosofia pagana duran-
te tutto questo periodo furono implicati in un continuo processo di mutamento e
di sviluppo, e i loro rapporti mutavano in proporzione.
Proposte operative
Glossario
Allitterazione: ripetizione Endiadi: figura sintattica che per indicare la profondità d’animo
degli stessi fonemi sia esprime un unico concetto at- (Conf. III 4, 7).
all’inizio di due o più parole traverso due termini tra loro
consecutive sia all’interno di coordinati da congiunzione co- Paralleismo: presenza in un pe-
esse. Spesso l’allitterazione pulativa. - Es.: in sceleribus et riodo di kóla disposti simmetri-
possiede anche una valenza flagitiis (De Civ. Dei II 20). camente (è il contrario del chia-
onomatopeica. - Es. conside- smo). - Es. tardius vindicant, faci-
ratio contraxit et congessit… Gradazione: vedi klimax. le ignoscunt (De civ. Dei V 24).
conspectum (Conf. VIII 12,
28). Klimax: figura simile Poliptòto: figura sintattica per
all’enumerazione, in cui i ter- effetto della quale una stessa pa-
Antitesi: accostamento di mini sono disposti in succes- rola viene impiegata a breve di-
due parole o frasi di senso sione logica o emotiva crescen- stanza con funzioni grammaticali
opposto. - Es. bonis… subdi- te o discendente (in questo se- diverse. - Es.: miserius misero
tis, regnet… serviant, sinceri- condo caso si parla di antikli- non miserante (Conf. I 13, 21).
ter… serviliter, honorent… max). - Es.: diligerem et quae-
timeant (De civ. Dei II 20). rerem et assequerer et tenerem Polisindeto: enumerazione di
atque amplexarer (Conf. III 4, termini uniti dalla congiunzione
Apostrofe: figura retorica 8). coordinativa, generalmente copu-
tramite la quale ci si rivolge, lativa. - Es.: lumen cordis mei et
in modo vivace o concitato, a Kólon: membro del periodo panis oris intus animae meae et
un singolo, a una collettività dotato di una propria autono- virtus maritans mentem meam et
oppure a cosa personificata. - mia sintattica o ritmica; i kóla sinum cogitationis meae (Conf. I
Es.: o indoles Romana lauda- possono essere disposti simme- 13, 21).
bilis, o progenies Regulorum tricamente (parallelismo) o in
Scaevolarum, Scipionum Fa- modo anitetico (chiasmo). Preterizione: figura di signifi-
briciorum (De Civ. Dei II 29, cato con la quale si finge di voler
1). Omeoteleuto: figura fonetica tacere ciò che in realtà si dice. Es.
consistente nella ripetizione di nescio utrum repellere… an silen-
Asindeto: figura sintattica suoni uguali posti alla fine di tio praeterire (Epistula XVII 2).
che consiste due o più parole. - Es.: ingens
nell’eliminazione delle con- ferens ingentem imbrem (Conf. Trikólon: forma di parallelismo
giunzioni coordinanti tra una VIII 12, 28). sintattico consistente
serie di termine. - Es. ludatur nell’enumerazione di tre membri
bibatur vomatur diffluatur Metafora: trasferimento di si- (kóla) coordinati per polisindeto o
(De civ. Dei II 20). gnificato di una parola o di una per asindeto. - Es.: excitabar ser-
espressione dal senso proprio mone illo et accendebar et arde-
Chiasmo: figura sintattica al senso figurato. Si tratta in bam (Conf. III 4, 8), per il trikó-
consistente nella disposizione sostanza di una similitudine lon polisindetico; si Deum timent
incrociata degli elementi di abbreviata (senza cioè elementi diligunt colunt (De Civ. Dei V
due sintagmi o di due propo- che introducono il paragone). - 24), per il trikólon asindetico.
sizioni secondo lo schema Es. flagrantia, «incendio» per
ABBA (è il contrario del pa- indicare lo stato d’animo Variatio: figura retorica consi-
rallelismo). - Es.: Reges non (Conf. III 4, 8). stente nella variazione della co-
curent quam bonis, sed quam struzione sintattica, finalizzata a
subditis regnent (De Civ. Dei Metonimia: tipo di metafora rendere più vivace il periodo. -
II 20). con cui si sostituisce un termi- Es.: Illa enim quaerit ab homini-
ne con un altro che abbia con il bus gloriam; huic autem Deus
Ellissi: omissione di un ele- primo un rapporto di contiguità conscientiae testis maxima est
mento della frase facilmente (per. es. l’effetto per la causa, gloria (De Civ. Dei XIV 28).
intuibile. - Es. illa in se ipsa, il contenente per il contenuto,
haec in Domino gloriatur (De l’autore per l’opera, l’astratto
civ. Dei XIV 28). per il concreto). - Es. pectus
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