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Prefazione

G li sguardi e i passi del pellegrino intento a percorrere i sentie-


ri del Monte Athos (il cuore monastico della Chiesa Ortodos-
sa) vengono calamitati da una torre alta, merlata e quadrangolare
che emerge improvvisamente dal fitto grigio-verde della macchia
mediterranea.
Questi maestosi ruderi sono tutto quanto rimane di una grande
avventura intrapresa, a cavallo del primo millennio, dall’Ordine di
San Benedetto: insediare un monastero proprio nella roccaforte del
monachesimo bizantino.
Schiacciato da interessi politici, religiosi ed economici contrap-
posti, il cenobio Apothikon poi reinventatosi come Amalfion è or-
mai un fantasma della storia. Se sul terreno è ridotto a un torrione
in rovina che sembra ancora risuonare di preghiere, negli archivi e
nella memoria orale monastica ha lasciato tracce labili e di ardua
verifica.
Ma la storia del monastero “anomalo” è troppo avvincente per
continuare a lasciarla nell’oblio. Dal 985 circa al 1287, questo
avamposto di confratelli della penisola italiana ha fornito una testi-
monianza eloquente e viva della regola di ascesi e preghiera di San
Benedetto da Norcia e della tradizione liturgica romana nel nucleo
vitale delle tradizioni monastiche greco-bizantine.
Il cenobio benedettino ha resistito impavidamente durante i se-
coli avvelenati del Grande Scisma tra la Chiesa di Costantinopoli e
quella di Roma (1054), il sacco di Costantinopoli (1204), l’avven-
to dell’Impero Latino d’Oriente (1204-1261), la sua evaporazione
e il ripristino della sovranità bizantina (1261). Ma non è stata un’e-
roica sopravvivenza. Con la greco-bizantina Grande Lavra, il geor-
giano Iviron e Vatopedi, Apothikon-Amalfion fece parte del quar-
tetto di cenobi che installò la vita monastica sul Santo Monte e ne
forgiò la spiritualità durante il periodo pre-Comneno. Successiva-
6 PREFAZIONE

mente è prosperato, a dispetto delle lacerazioni politico-religiose


Est-Ovest, fino a essere riconosciuto dall’imperatore, dal patriarca-
to e dal monachesimo bizantino tra le istituzioni leader del Monte
Athos. Il suo abate fu sempre uno dei primi firmatari degli atti uf-
ficiali del Santo Monte. Nel 1081 ottenne addirittura l’ambito sta-
tus di “monastero imperiale”, con un accesso diretto al trono.
Un enigma che andrà sciolto è capire che cosa ci facesse un chio-
stro di latini sulla Santa Montagna che gli ortodossi considerano
tuttora il guardiano non negoziabile di sacre tradizioni incompati-
bili con la teologia e il rito romano. E perché le firme degli abati
latini appaiono sui documenti originali, mentre sono scomparse
nelle copie dei secoli successivi? Una disattenzione dei copisti o la
volontà di cancellare il ricordo di un monastero che non avrebbe
dovuto esistere? Un altro rebus andrà poi decifrato: come mai un
cenobio fondato da benedettini beneventani pro-Impero tedesco è
passato alla storia per essere stato eretto da confratelli amalfitani
pro-Papato? Una “svista” accidentale o voluta?
A caccia di risposte, seguiremo per tre secoli Apothikon-Amal-
fion quale pedina periferica, ma molto efficace, sullo scacchiere del
Grande Gioco per la supremazia tra Oriente e Occidente. Compre-
so il possesso di una capiente nave per commerci dalle lunghe rot-
te e la nascita della figura del monaco-guerriero.
Soprattutto, Apothikon-Amalfion svolse il ruolo di avamposto
transculturale fra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli,
promuovendo la conoscenza reciproca e la mediazione attiva fra
questi due mondi per altro in collisione. Nei confronti dell’ecume-
ne bizantina, la comunità religiosa benedettina favorì la diffusione
della conoscenza sulla liturgia latina e l’assetto monastico occiden-
tale. Rispetto all’Occidente, fu un gateway nella trasmissione delle
vite e dei miracoli di santi greco-orientali resi in versione latina.
Contribuì così in modo sostanziale al processo attraverso cui la
Chiesa Romana integrò le opere e le vite dei Padri greci e orientali
nella sua teologia.
Dell’interscambio di idee veicolato da Apothikon-Amalfion be-
neficiarono sia il monachesimo e la Chiesa Greco-Bizantina che il
monachesimo e la Chiesa Romana, anche dopo la rottura di ogni
rapporto fra queste potenze. Rappresenta così un eccezionale esem-
pio di cooperazione monastica fra Oriente e Occidente in grado di
PREFAZIONE 7

trascendere per lungo tempo la crescente divaricazione delle rispet-


tive Chiese. Questo volume, reso possibile dall’incrocio di fonti
monastiche occidentali e orientali, ne è l’ideale prosecuzione.

***

Un ringraziamento molto speciale va a Dom Mauro Meacci,


abate ordinario dell’Abbazia Territoriale di Subiaco, per il suo soli-
do appoggio.
Questo volume deve molto alla spinta degli amici dell’associa-
zione Insieme per l’Athos, convinti che fosse giunto il momento di
mettere un punto fermo sulla storia del monastero “italiano”. So-
no in particolare riconoscente al presidente Giuseppe Balsamà per
la sagacia, il calore umano e l’amicizia. Ringrazio anche Aviana,
Alessandro, Antonio e gli altri amici/amiche dell’associazione per la
lettura e i commenti. Se il mio lavoro è stato emendato da molti
difetti è perché il dattiloscritto ha subito i raggi x di Armando San-
tarelli (autore del più affascinante resoconto italiano di pellegrinag-
gio al Monte Athos) e Luca Carboni (Archivio Segreto Vaticano).
Ringrazio la prof.ssa Christina Petropoulou per il contributo alla
lettura dei documenti d’archivio. Un ricordo particolare va alle
proficue discussioni con gli amici del Centro di Cultura e Storia
Amalfitana.
Una sincera riconoscenza va ai tanti monaci e pellegrini del
Monte Athos con cui negli anni ho scambiato informazioni e im-
pressioni sul cenobio benedettino e quanto ne resta. L’apparato il-
lustrativo di questo libro non ha una funzione decorativa, ma sup-
porta la narrazione ed è parte integrante delle spiegazioni. L’apprez-
zabile risultato è dovuto alla perizia fotografica di Fabrizio Batta-
glia e a quella grafica di Beatrice Picca Piccon.
La prima parte della ricerca che qui presento è stata pubblicata
in una versione russa fortemente voluta da Kyrill Vakh, ammini-
stratore delegato della casa editrice Indrik di Mosca. Prezioso è sta-
to il contributo del curatore editoriale, l’amico Michail Talalay. Ho
anticipato in un saggio apparso negli Usa la sezione del presente
volume sull’affresco che fissa il momento del passaggio di poteri sul
Monte Athos dalla dea Artemide alla Vergine Maria. Ringrazio The
Institute of Archaeomythology per i diritti. Alcune parti del capitolo
8 PREFAZIONE

sulla traduzione del Barlaam e Ioasaf (la leggenda di Buddha in ve-


ste cristiana) sono apparse in ucraino e la loro riproduzione è auto-
rizzata dall’Istituto Ucraino di Studi Athoniti.

***

In cerca d’ispirazione per l’ultima rilettura, la correzione delle


bozze e la redazione della prefazione, mi sono chiuso per quattro
giorni in una piccola cella senza finestre del monastero di San Pao-
lo, sul Monte Athos. Il lettore giudicherà se non sia stato un sacri-
ficio inutile.
Ora devo chiudere in tutta fretta questa prefazione. Devo conse-
gnare le chiavi della cella e precipitarmi al porticciolo del monastero.
Il traghetto che dal Santo Monte riconduce al mondo non aspetta.

MARCO MERLINI

Monte Athos, Monastero di San Paolo


29 marzo 2017
Una torre
sulla Montagna dell’anima

L a torre è alta, merlata, massiccia e quadrangolare. Si erge solita-


ria su una collina di una settantina di metri e controlla il mar
Egeo. Da lontano, questo capolavoro architettonico post-bizantino
sembra sbocciare dal grigio-verde della fitta macchia mediterranea.
Sotto, si apre un’incantevole baia a falce di luna compresa tra i
promontori di Kosari e Kophos. Nove secoli fa, vi attraccavano na-
vi di grande stazza provenienti da tutto il Levante e soprattutto da
Costantinopoli. Oggi è sfregiata acusticamente da una segheria no-
stop. Lungo la costa, a corona del fantasmatico porticciolo, sono
disseminate alcune abitazioni pericolanti di eremiti. Siamo sulla co-
sta orientale del Monte Athos (Agion Oros), a metà strada fra i mo-
nasteri della Grande Lavra e di Karakallou.
Il mitico Monte Athos è il più antico e anche l’ultimo Stato mo-
nastico di fede cristiano-ortodossa nel mondo1. Se la Montagna in-
cantata è racchiusa entro un’impervia penisola nel nord-est della
Grecia non per questo è greca, ma appartiene a un altrove radicato
in un diverso spazio e in un diverso tempo. Agion Oros è un mondo
a sé dal punto di vista geografico-territoriale, politico-istituzionale
ed economico. A partire dall’astoricità di rimanere riservato ai soli
maschi e dal paradosso di essere una terra inaccessibile via terra2.

1 Con i suoi 389 kmq, l’enclave teocratica maschile è paragonabile alle più
minuscole province italiane (Prato si sviluppa su kmq 365, Trieste solo su 212)
o a una media cittadina (Matera ha una grandezza di 388 kmq, Arezzo di 386).
2 Vi si arriva solo in barca, approdando nel porticciolo di Dafni. Ogni mo-

nastero ha comunque un piccolo approdo, con una torre fortificata a protegge-


re magazzini ed edifici a uso della marina. L’isolamento dovuto alla conforma-
zione naturale della penisola e l’attraversamento di un tratto spesso tempestoso
del Mar Egeo concorrono a trasformare il tragitto in un viaggio iniziatico, un
colpo di forbici alla realtà “cosmopolita” e profana per approdare in una terra sa-
12 UNA TORRE SULLA MONTAGNA DELL’ANIMA

Dal punto di vista geografico-territoriale, la penisola del Monte


Athos si presenta come uno zoccolo lungo e sottile di rocce, con la
forma di un dito storpiato. Culmina nella sua propaggine meridio-
nale con un’imponente montagna piramidale di 2033 metri che si
proietta direttamente da un mare profondo e burrascoso verso le
vertigini celesti. Questo territorio scosceso è fisicamente separato
dal resto del pianeta da uno stretto istmo, mura e recinzioni inva-
licabili, un’impenetrabile macchia mediterranea fino a pochi anni
orsono incontaminata e torrenti che segnano gole profonde.
Agion Oros gode nel suo insieme di una perfetta autonomia e so-
vranità territoriale. L’enclave monastica ortodossa è una terra indi-
pendente anche per le leggi internazionali, pur in assenza di un eser-
cito per rimarcarlo. Ci pensa la Grecia a garantirne l’inviolabilità,
fornendo soldati alle frontiere e mezzi navali a sorveglianza delle co-
ste. In coerenza con un’extra-territorialità sui generis, il controllo del
Monte Athos è deputato al Ministro degli Esteri e i residenti (solo
monaci) non rispondono alla Chiesa greca, ma direttamente al Pa-
triarcato ecumenico di Istanbul, per loro ancora Costantinopoli. At-
tualmente vi dimorano circa 2.100-2.200 religiosi.
Vengono giornalmente ammessi 110 pellegrini ortodossi e 10
non ortodossi. Il visitatore non può mettere piede nella repubblica
teocratica maschile se non munito di apposito lasciapassare (il dhia-
monitirion). Deve superare occhiuti controlli doganali. E non si può
fermare più di tre notti. In questa terra irrorata di preghiere, il trat-
tato di Schengen non vale. Così come la normale scansione del tem-
po. Gli orologi abbracciano ancora l’orario bizantino secondo il
quale il nuovo giorno e il conto delle ore iniziano dal tramonto,
considerato il momento nobile della giornata. Il giorno comprende
così l’intervallo di tempo fra un tramonto e l’altro, in una sequenza
di 24 ore. La sera precede la mattina, ad Agion Oros.
I monasteri principali sono venti, tutti sorti per decreto imperia-
le e patriarcale3. Essi si suddividono l’intero territorio, sono dotati

cra e “diversa”. La sensazione è ancora più netta d’inverno, quando la montagna


è offuscata da una corona nebbiosa grigio-chiara che ne lascia intravedere solo la
nerastra, fantasmatica silhouette triangolare.
3 Robinson, 1916: 11.
UNA TORRE SULLA MONTAGNA DELL’ANIMA 13

di autonomia e autogoverno e sono in fiero antagonismo fra di lo-


ro. Restano comunque soggetti a norme di carattere generale e alla
Sacra Comunità del Santo Monte, composta dai venti rappresen-
tanti dei monasteri, che si riunisce periodicamente nella piccola ca-
pitale al centro della penisola, Karyes4.
I monasteri athoniti sono più simili a villaggi medioevali fortifi-
cati, con massicce e turrite mura di cinta, che ad abbazie. Molte del-
le pietre di fortificazione, come quelle dell’alta torre quadrangolare
dalla cui visione abbiamo preso le mosse, sono state innalzate oltre
mille anni orsono. Sin dall’inizio, non ebbero soltanto un compito
protettivo contro eserciti stranieri e incursioni di pirati, ma anche
una funzione comunicativa. Servivano a rispecchiare e ricordare l’in-
tima natura di istituzioni che sono state e continuano a essere sovra-
ne, auto-sufficienti e totalizzanti nei confronti sia degli abitanti per-
manenti (i monaci) che degli ospiti occasionali (i pellegrini)5. Molti
monasteri sono scenograficamente costruiti a picco sulla scogliera,
altri sulle prime pendici del monte. Tutti sono circondati da una bo-
scaglia compatta e da rocce invalicabili; sono separati da diverse ore
di cammino l’uno dall’altro anche se spesso sono a contatto visivo.
Al Monte Athos, particolare attenzione viene posta al culto del-
le reliquie, caro alla religiosità cristiana antica e poi bizantina. La pe-
nisola dei monaci è uno scrigno di sacri resti. I più favoleggiati so-
no innumerevoli frammenti dell’instrumentum mortis a cui è stato
inchiodato Gesù, la cintura di cammello che la leggenda certifica sia
stata auto-prodotta e indossata dalla Vergine Maria che poi la rega-
lò a un incredulo Tommaso, i tre nobili doni dei Re Magi (oro, in-
censo e mirra), numerose porzioni di San Giovanni Battista, la ma-
no incorrotta, calda e profumata di Maria Maddalena, la gamba di
Sant’Anna e il cranio di San Basilio Magno. Il solo monastero di Va-
topedi conta circa un migliaio di reliquie estratte da circa 150 santi
certificati. Senza contare le decine e decine di frammenti scheletrici
di monaci athoniti defunti in odore di santità.

4 Id., 1916: 11-21. Dawkins, 1936: 153. Gothóni, 1993: 18-19.


5 Sarris, 2000: 29.
Apothikon-Amalfion tra i cenobi
pionieri della Santa Montagna

A rrivato sotto al torrione di cui dicevamo, un visitatore dall’oc


chio attento riesce a scorgere, in alto, un’estesa formella araldi-
ca in marmo con un’aquila monocefala. Inglobati nella rigogliosa
vegetazione, intravede i resti del cimitero, avanzi del muro perime-
trale di sud-ovest e parti dell’ardita e scivolosa mulattiera che un
tempo scendeva al porticciolo1.
Fino a qualche decennio fa, l’area intorno alla torre era tenuta li-
bera e pulita dai pastori che sfruttavano queste splendide rovine me-
dioevali come ovile. Oggi, esse sono rifugio solo di serpenti e uccel-
li notturni nel folto di una selva che si è riappropriata di ogni spa-
zio. È tutto quanto rimane del monastero-fortezza fondato dai be-
nedettini verso il 985-990. Edificato da monaci del principato lon-
gobardo di Benevento, il suo nome è a tutt’oggi ignoto. Le fonti
d’archivio athonite lo ricordano solo con il toponimo: Apothikon
(τῶν ’Ἀποθηκῶν, dei magazzini). In letteratura, è noto come Amal-
fion (Αμαλφιόν), per essere stato gestito, a partire dagli inizi del XI
secolo2, da altri benedettini del piccolo ducato di Amalfi, a quel
tempo dinamica città marinara3. In coerenza con il codice del tem-
po con cui venivano denominati i monasteri non greci, la fondazio-
ne latina era probabilmente conosciuta come il “cenobio del bene-
ventano / dei beneventani”4 oppure, più verosimilmente, “il ceno-
bio del romano /dei romani”5. Per aderenza ai documenti athoniti,

1 Keller, 1994-2002: 1.
2 Merlini, 2014.
3 Lavra 15 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou

(a cura di), 1970: 140. Falkenhausen, 1993: 91. Ead., 2005: 105. Merlini, 2013.
4 Nastase, 1983: 290-291.
5 Vedi le cosiddette Vita A e Vita B di Atanasio l’Athonita, redatte a Costanti-
16 APOTHIKON-AMALFION TRA I CENOBI PIONIERI DELLA SANTA MONTAGNA

in questo saggio lo chiameremo Apothikon nel momento fondativo


e nel periodo iniziale (con la consapevolezza che si trattava non del
suo nome ma del luogo su cui sorgeva) e Amalfion nel suo fiorire,
declinare e infine estinguersi.
Un enigma che dovremo sciogliere è capire che cosa ci facesse un
chiostro di monaci latini sulla Santa Montagna che gli ortodossi
considerano tuttora il guardiano non negoziabile di sacre tradizioni
incompatibili con la teologia e il rito romano. Andrà poi compreso
come mai un monastero fondato da benedettini beneventani sia
passato alla storia per essere stato eretto da confratelli amalfitani.
Una “svista” accidentale o voluta?
Apothikon, o meglio “il cenobio del romano / dei romani”, ap-
partenne alla prima generazione di monasteri edificati dopo la rivo-
luzione organizzativo-spirituale impressa al Monte Athos da Sant’A-
tanasio, fondatore della prima lavra e imprenditore monastico del-
l’intera penisola6. I benedettini italiani furono tra i primi monaci
stranieri a stabilirsi ad Agion Oros 7. Apothikon fu eretto subito dopo
la greco-bizantina Grande Lavra (Meghìsti Lavra. Μεγίστη Λαύρα) e
il monastero georgiano di Iviron e quasi in contemporanea con quel-
lo di Vatopedi8. Il quartetto di cenobi iniziò la stabile e strutturata

nopoli prima del 1025, qualche decennio dopo la fondazione della Grande Lavra:
Noret (a cura di), 1982; Vita A, cap. 158: 74, Vita B, cap. 43: 176. Merlini, 2016.
6 Ronchey, 2012.
7 Angold, 2008: 15.
8 Dionysopoulos, 2002: 207-218. Merlini, 2014. Secondo la tradizione atho-

nita, Vatopedi fu ri-fondato nel 972 in obbedienza a una precisa richiesta di Ata-
nasio l’Athonita. Il monastero non è però menzionato nella lista stilata nel Tipi-
kòn emesso in quella stessa data dall’imperatore Giovanni I Zimisce. La prima fir-
ma di un responsabile per Vatopedi è del 985, data probabilmente di poco suc-
cessiva alla sua erezione per opera del monaco Nicola di Adrianopoli che ne fu
anche il primo igùmeno. Non per nulla Nicola è l’ultimo a firmare dopo tutti gli
altri delegati monastici al Protaton, rappresentando una piccola struttura appar-
sa da poco (Iviron 7 in Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssanthou,
Metreveli (a cura di), 1985: righe 5, 63). Le pie tradizioni relative alla fondazio-
ne dei vari monasteri sul Sacro Monte, intrise della volontà metastorica di essere
nati per primi, costituiscono un genere a parte della letteratura che fiorì nella re-
pubblica monastica dal XVI secolo in poi. Stando a loro, coevi ad Apothikon
sarebbero i cenobi di Sikelou, Paphlagonos e Chaldou. Zographou sarebbe stato
APOTHIKON-AMALFION TRA I CENOBI PIONIERI DELLA SANTA MONTAGNA 17

vita monastica sul Sacro Monte e ne forgiò la spiritualità durante il


periodo pre-Comneno.
Per tre secoli, dal 985-990 al 1287, l’avamposto di confratelli di
matrice romana nella roccaforte delle tradizioni monastiche greco-
bizantine ha verosimilmente utilizzato il rito latino e seguito la re-
gola di ascesi e preghiera fondata da San Benedetto da Norcia9. Ha
fornito una testimonianza eloquente e viva della tradizione mona-
stica e liturgica romana10 nel cuore della Chiesa Ortodossa, resisten-
do impavidamente durante i secoli avvelenati dal Grande Scisma tra
la Chiesa di Costantinopoli e quella di Roma (1054), dal sacco di
Costantinopoli (1204), dall’avvento dell’Impero Latino d’Oriente
(1204-1261), dalla sua evaporazione e dal ripristino della sovranità
bizantina (1261). Ma non è stata un’eroica sopravvivenza. Il ceno-
bio benedettino è addirittura prosperato, a dispetto delle lacerazio-
ni politico-religiose Est-Ovest, fino a essere riconosciuto dal basi-
leus, dal patriarcato e dal monachesimo bizantino tra le istituzioni
leader del Monte Athos11.
Dopo la scomparsa del monastero, il suo nome venne corrotto,
divenendo nel tempo (A)Molfinou, Molphinou, Omorphono e infi-
ne il “vecchio cenobio” di Molphin 12. Ora restano i ruderi di Mor-
foni (Morfonou / Morphonou, o Molfinou / Molphinou, oppure Mor-
fano). I locali chiamano ancora la maestosa torre ‘pyrgos ton Amal-
fiton’. La baia su cui vigila è detta Morfonou. L’incertezza sulla de-
nominazione di questo presidio monastico occidentale e la perdita
crescente del legame fonetico con la città di Amalfi e più in gene-

istituito prima del 980 dal pittore bizantino e iconografo Giorgio. Xiropotamou
sarebbe stato eretto da San Paolo di Xiropotamou prima del 956 (consacrato a
San Niceforo), il quale fondò anche il monastero di San Paolo qualche tempo
prima del 980. Xenophontos, Esphigmenou e Chilandari sarebbero apparsi pri-
ma della fine del X secolo. Senza contare la gran quantità di monasteri che pre-
tendono di essere stati fondati direttamente dall’imperatore Costantino o da
membri della sua dinastia.
19 Martin-Hisard, 1991: 109 sgg. Bonsall, 1969: 262-267. Merlini, 2014.
10 L’Arcidiocesi di Benevento seguiva un rito latino molto grecizzato, per via

dei contatti con la cultura bizantina.


11 Merlini, 2012. Id., 2013.
12 Keller, 1994-2002: 14-15.
18 APOTHIKON-AMALFION TRA I CENOBI PIONIERI DELLA SANTA MONTAGNA

rale con la penisola italiana testimoniano chiaramente il silenzio in


cui è caduto13.
Su questo luogo della memoria e dell’oblio è stato scritto molto
più di quanto ci si aspetterebbe, tale è stata la forza attrattiva del
suo mito. Nessuno però si è mai cimentato nel ricostruirne la sto-
ria. Eppure essa è intrigante, forse soprattutto perché si sottrae a
ogni spiegazione a senso unico e a ogni decifrazione definitiva. Il
compito è certo arduo, dato che le tracce documentarie sono rare-
fatte, di datazione incerta e di fattura non sempre immacolata14. La
maggioranza delle informazioni è veicolata dalla tradizione orale
dei monaci athoniti; una memoria millenaria che non ha conosciu-
to significative interruzioni ma che è permeata di esortazioni spiri-
tuali e di giustificazionismo storico. La presenza del monachesimo
latino athonita ricorda loro inequivocabilmente che Occidente e
Oriente si sono incrociati sulla Santa Montagna ora impregnata di
un’Ortodossia irriducibile e che entrambi sono stati arricchiti da
quell’incontro15. L’esistenza stessa di un chiostro di tradizione ro-
mana è un evento che molti religiosi athoniti preferirebbero dimen-
ticare. Altri monaci mostrano sorpresa mista a incredulità16. Diver-
si di loro, per non farsi destabilizzare da sgradite verità, danno cre-
dito all’errata quanto fortunata supposizione che Apothikon sia sta-
to fondato su istigazione di Papa Innocenzo III (1161-1216, re-
gnante 1198-1216), per forzare la latinizzazione del Monte Athos17.
Alcuni eremiti della baia, me ne hanno parlato come il luogo in cui
i confratelli ortodossi di secoli orsono presero a bastonate i religio-
si che non portavano la barba.
Il disorientamento per l’esistenza apparentemente incongrua di
una struttura religiosa latina nel Monte Athos ha contagiato anche
diversi bizantinisti. Per esempio, la firma latina dell’abate Giovanni
su un atto ufficiale athonita del 1012 è stata equivocata da Theodo-
ret per un autografo georgiano, mentre Serge e Matthieu l’hanno

13 Lake, 2006: 134.


14 Bonsall, 1969: 262-267. Merlini, 2013. Id., 2014. Id., 2016.
15 Plested, 2010: 98. Fajfer, 2010a: 34-43. Id., 2010b: 31-35.
16 Plested, 2010: 97.
17 De Vogue, 1878.
APOTHIKON-AMALFION TRA I CENOBI PIONIERI DELLA SANTA MONTAGNA 19

scambiata per una sottoscrizione in slavo18. Alcuni autori, come


Dom Rousseau, hanno espresso la speranza che le scarse informazio-
ni a disposizione possano essere arricchite e messe a sistema da ulte-
riori documenti giacenti da qualche parte negli archivi della Gran-
de Lavra. Pertusi, da parte sua, ha assicurato che gli atti pubblicati
da lui, da Lemerle e da Guillou sono tutto ciò che è attualmente
posseduto dal cenobio di Atanasio19. Non è detto.
Un documento sulla fondazione del monastero latino dovrebbe
essere conservato nell’archivio della Meghìsti Lavra20. L’informazio-
ne viene dal console greco a Salonicco G. Dokos che ha visitato il
Monte Athos nel 1887 e redatto, il 5 agosto 1889, una relazione per
il ministro greco degli affari esteri21 sulle misure da adottare per raf-
forzare l’ellenismo sul Monte Santo contro “l’invadenza” russa. La
materia era altamente sensibile dato che il console non escludeva, in
chiave anti-zarista, la richiesta di un supporto diretto alla Chiesa
Cattolica e agli Stati che ad essa si riferivano. Lupus in fabula, aveva
notato l’interesse manifestato dal console austriaco a Salonicco su
«Morfanou, il chiostro degli amalfitani» e la determinazione con cui
si era messo a caccia di documenti in proposito. Dokos espresse
dubbi circa l’autenticità delle informazioni d’archivio lavriote ri-
guardanti l’edificazione di un monastero non ortodosso. Perciò con-
sigliava l’antiprosopes della Grande Lavra di non mostrare l’atto fino
a quando se ne fosse rinvenuto un altro, più affidabile. Due copie
del rapporto Dokos sono tuttora conservate nell’archivio del Mini-
stro degli Esteri greco del tempo, Stefanos Dragoumis22. In buona

18 Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di),


1970: 145.
19 Pertusi, 1963.
20 Merlini, 2016.
21 Il Monte Athos, come rilevato in precedenza, ha sempre goduto di una

condizione giuridica autonoma, confermata perfino dopo l’ingresso formale (nel


1913) dei suoi territori nello Stato greco. Cfr. Talalay (2008: 253). In coerenza
con questa extra-territorialità sui generis, la supervisione dello Stato greco sul
Monte Athos avviene tramite un governatore nominato dal Presidente della Re-
pubblica su input del Ministro degli Esteri che ne opera il controllo.
22 Una copia del rapporto è conservato nell’archivio della Biblioteca Genna-

dio ad Atene: Archeion Gennadiou / Archeion St. Dragoumi, f. 32.1, Athos - Mo-
nes Agiou Orous, 1-26. Vedi Gerd, 2010: 42-43.
20 APOTHIKON-AMALFION TRA I CENOBI PIONIERI DELLA SANTA MONTAGNA

sostanza, Dokos riteneva dubbia la passata presenza di un monaste-


ro cattolico al Monte Athos. Tuttavia, valutava che il sostegno di
una grande potenza come l’impero austro-ungarico avrebbe potuto
essere di grande utilità contro i monaci russi23, «inquadrati secondo
una disciplina militare e al servizio dei centri politici stranieri» (za-
risti)24. La preoccupazione dei greci era tale da arrivare a pensare che
i russi intendessero trasformare Agion Oros in una loro base politica
se non militare25.
Con il presente studio ci ripromettiamo di redigere un resocon-
to completo e coerente della nascita e dei primi successi della casa
benedettina, compatibilmente con la scarsità e contraddittorietà
delle fonti. Descriveremo come l’avventura spirituale e organizzati-
va di Apothikon, poi Amalfion, compartecipò a uno straordinario
romanzo storico i cui protagonisti non furono solo i monaci italia-
ni in trasferta all’est e i confratelli greco-bizantini che li accolsero. Il
cenobio athonita di rito latino fu fondato nella roccaforte del mo-
nachesimo orientale come pedina del Grande Gioco politico, eco-
nomico, culturale e religioso che, tra i secoli XI e XIII, ebbe per
sfondo il sottile equilibrio tra conflitto e cooperazione fra Bisanzio,
il Sacro Romano Impero, il papato, il patriarcato di Costantinopo-
li, il Monte Athos, l’Ordine Benedettino e Montecassino, il regno
longobardo e in particolare i principati-ducati di Benevento e di Ca-
pua. In un secondo tempo, si inserirono la città di Amalfi e le po-
tenze di Gerusalemme. Dello sviluppo e della crescente influenza
della pedina latino-benedettina inserita nel cuore religioso bizanti-
no beneficeranno i diversi attori26. Ma essa verrà travolta quando
“salterà il banco”.

23
Rapporto del 5 agosto 1889. Gerd, 2014: 86. Il rapporto è stato curato se-
guendo una copia nell’Archivio del Ministero degli Affari Esteri greco. Vedi Pa-
paggelos, 1985-86: 67-125.
24 Rapporto del 24 agosto 1887. Gerd, 2014: 86. Il rapporto è stato edito se-

guendo una copia nell’Archivio del Ministero degli Affari Esteri greco. Vedi Pa-
paggelos, 1985-86: 67-125.
25 Frary, Kozelsky, 2014: 201.
26 Merlini, 2015.
Un circuito transnazionale
di relazioni

I l Monte Athos è stato uno dei luoghi dell’anima per le antiche re-
ligioni greca e tracia. Come osserva Strabone, una lunga penisola
con sulla punta un’alta montagna che erompe direttamente dal ma-
re per 2033 metri non poteva non essere considerata da sempre un
centro spirituale. Tanto più se assume una forma a un tempo (falli-
camente) piramidale e al tempo stesso cuspidale con la silhouette di
un seno1. Nel manoscritto n. 198 del XVI secolo, conservato nel
monastero di Dochiariou, si legge: «Il Monte Athos era pieno di
idoli... Tutti i greci antichi lo consideravano grande e venerabile».
Secondo le epiche eroiche di Omero, l’alto picco al termine del-
la penisola era una sorta di stazione di sosta per le divinità in volo
dall’Olimpo alle montagne trace e viceversa. La cultura orale dei
monaci ricorda ancora la presenza, verso la cima della montagna,
del basamento del tempio dedicato a Zeus, con tanto di altari sacri-
ficali e statua colossale. E conserva memoria delle fondamenta di
una città-tempio-scuola consacrata ad Artemide Agrotera (“cacciatri-
ce”). Era abitata solo da vergini in formazione per diventare alte sa-
cerdotesse al servizio e al governo dei templi in tutta la Grecia. Gli
eremiti che risiedono dalle parti di Kerasia, verso la punta della pe-
nisola, mormorano di una grotta speciale dove queste vergini avreb-
bero mantenuto una fiamma perennemente ardente, come le Vesta-
li romane. Il già citato manoscritto di Dochiariou informa sulla
presenza (forse dalle parti dell’attuale porto) di un santuario oraco-
lare dedicato ad Apollo.
Soltanto scavi archeologici sistematici potrebbero gettare luce
sull’antica topografia religiosa. Ma, i monaci vi si oppongono perché

1 Strabone, 1992.
22 UN CIRCUITO TRANSNAZIONALE DI RELAZIONI

ritengono la rivisitazione del passato pre-cristiano, per quanto scien-


tifica, una sfida al loro monopolio sulla Montagna incantata. Al me-
glio, non hanno mai promosso studi sistematici. Al peggio, hanno
distrutto o svenduto nel tempo l’antico patrimonio archeologico.
Il rapporto con le antiche popolazioni autoctone è così irrisolto
che tutti i miti fondativi di Agion Oros ne sottolineano la “sponta-
nea” conversione. Il più importante fa riferimento all’arrivo della
Vergine Maria sulle coste della penisola. La statua di Zeus, colloca-
ta sulla cima della Montagna incantata, sarebbe andata in frantumi
con rumore di tuono, così come le altre effigi delle divinità pagane;
la vetta, gli alberi e le case si sarebbero piegati in avanti per onorare
la nuova autorità divina. Maria si sarebbe messa a predicare il Van-
gelo come un apostolo e la popolazione pagana si sarebbe converti-
ta in massa. Il terremoto l’aveva sicuramente resa arrendevole alla re-
ligione della nuova venuta.
Esiste un affresco che fotografa il momento della presa di posses-
so della penisola da parte della Madre di Dio. È stato dipinto sulla
facciata del refettorio della Grande Lavra, dal 1535 al 1541, dall’au-
stero pittore cretese Theophanes Strelitzas Bathas (e figli). Si tratta
di una Annunciazione sui generis, perché la dea Artemide è raffigu-
rata quale unico testimone del concepimento verginale di Gesù. Af-
finché non sussistano equivoci, il suo nome e il suo orecchio cam-
peggiano sulla rappresentazione dell’incontro fatidico fra l’arcange-
lo e Maria. Sulla sinistra della composizione, Gabriele stende una
mano verso la Vergine, mentre con l’altra tiene un lungo bastone
con una croce alla sommità. Sulla destra, una giovane Madre di Dio
gli rivolge lo sguardo mentre una altrettanto giovanile Artemide è
colta nell’atto di andarsene.
Chiaramente, il messaggero celeste è sopraggiunto a sorpresa sul
finire di una conversazione fra le due donne. Non sfugge al monaco-
pittore l’assonanza fra Artemide, personificazione del contrasto ver-
ginità-maternità, e Maria vergine-madre del figlio di Dio. Sono dif-
ferenti volti dello stesso principio femminile che presiede alla vita.
Come non gli sfugge il parallelo fra le caste sacerdotesse consacrate
alla prima e i monaci astinenti dediti alla seconda.
Ma è un altro il messaggio chiave che gli preme: fissare il momen-
to drammatico, ma non violento, in cui Maria rimpiazza Artemide
nel governo di Agion Oros. La dea esce di scena con testa e sguardo
UN CIRCUITO TRANSNAZIONALE DI RELAZIONI 23

girati verso la Beata Vergine che, al contrario, inizia a concentrare


l’attenzione sull’arcangelo. La dea pagana ha in mano la conocchia
per formare il filo e farne matasse. La sottintesa attività di filare mar-
cano, secondo Theophanes, la comune identità fra Maria e Artemi-
de e documenta il passaggio delle consegne. Come i Vangeli Apocri-
fi colgono Maria Annunciata col fuso in mano e pronta a iniziare un
nuovo filo di vita, così l’affresco associa questa attività ad Artemide
mentre si sta ritirando in buon ordine. Con automatismo compe-
tente, sta estraendo con pollice e indice un po’ di fibra ben cardata,
ne fa uscire un filo regolare e lo raccoglie sul rocchetto. Ma, simbo-
licamente, la conocchia è quasi piena. È quasi ora di scaricarla2. Ar-
temide “la buona filatrice” lascia simbolicamente la dignità regale a
Maria, come dichiarasse: «Non ho più filo e non ho più posto or-
mai, poiché è infine arrivata la Signora e Protettrice a cui è stato af-
fidato il Monte Athos»3. D’altra parte, la Vergine Maria riconosce in
quella dea pagana la sua precorritrice. In conclusione, l’affresco, gio-
cato fra tre protagonisti, coniuga due racconti: da una parte, l’An-
nunciazione-Incarnazione di Cristo; dall’altra, una delle più impor-
tanti tradizioni fondative dell’Athos, quella in cui protagonista asso-
luta è una Madre di Dio missionaria4.
L’insediamento sul Monte Athos dei primi religiosi cristiani, per
la maggior parte eremiti, è attestato solamente verso la fine dell’VIII
secolo. L’isolamento dovuto alla natura selvaggia e impervia della
penisola costituiva l’ambiente ideale per chi intendesse dedicarsi a
una vita rigorosamente ascetica. Si ritiene che i primi eremiti abbia-
no conservato tracce di una remota tradizione ascetica occupando le
stesse celle scavate nella roccia dagli anacoreti pagani5, dopo averne
buttato a mare gli “idoli”.
Scavallata la metà del X secolo, iniziò l’epoca eroica di Agion Oros,
sotto la spinta di Atanasio l’Athonita (925/930 – 10006/ 10047), ori-

2Merlini, 2012.
3Spyridon Lavraeotis (Kambanaos) Monaco, 1930: 19-20.
4 Merlini, 2012.
5 Daniélou, 2004.
6 Falkenhausen, in corso di pubblicazione. Secondo Pertusi (1963: 222), la

morte di Atanasio fu tra il 997 e il 1011.


7 Sarris, 2000: 38.
24 UN CIRCUITO TRANSNAZIONALE DI RELAZIONI

ginario di Trebisonda e docente a Costantinopoli. Il Monte Athos era


già un centro spirituale riconosciuto e apprezzato prima del suo arri-
vo, intorno al 958. Per esempio, l’eremita Pietro l’Athonita, ex sol-
dato dell’esercito bizantino e prima figura storica della “Santa Mon-
tagna”, recatosi a Roma in pellegrinaggio sulla tomba di Pietro ven-
ne accolto e tonsurato monaco dallo stesso pontefice;8 una consacra-
zione riservata a pochissimi eletti a dimostrare il sostegno del clero
romano agli asceti orientali. Il primo record scritto sui padri athoni-
ti, opera dello storico Giuseppe Genesio del X secolo, ricorda la loro
solenne partecipazione al Concilio di Nicea, nel 787, e poi a Costan-
tinopoli, nell’843, al Settimo Concilio Ecumenico e alle celebrazio-
ni per la sconfitta della proposta iconoclasta9.
Istituendo la Grande Lavra10, verso il 962/96311, Atanasio tutta-
via modificò radicalmente la struttura del monachesimo peninsula-
re. Anzitutto, la montagna sacra degli eremiti, autosegregati in riti-
ri isolati e quasi inaccessibili12, divenne la terra spirituale designata
da Dio per religiosi residenti in monasteri estesi, ben organizzati e
gerarchicamente strutturati. In secondo luogo, Agion Oros venne in-
cernierato nel potere imperiale grazie al sostegno e alla protezione di
due imperatori: Niceforo II Foca (ca. 912-969), generale vittorioso
e figlio spirituale di Atanasio, e Giovanni I Zimisce, suo assassino e
successore (ca. 925-976, regnante dal 969 al 976)13. Ciò significa
che la Grande Lavra rispondeva direttamente al trono e godeva di
un primato sulle altre case monastiche che permane tutt’ora. L’av-

18Lake, 1909: 12.


19Genesius, 1834: 82. Father Symeon, 2008: 91-96.
10 Falkenhausen, in corso di pubblicazione.
11 Secondo Pertusi (1963: 222), Atanasio arrivò al Monte Athos nel 958 ed

eresse la Grande Lavra tra il 961 e il 965. Cfr. Petit, 1906: 23, n. 2; 33 n. 1.
Rouillard, Collomp (a cura di), 1937: XXIX.
12 Morris, 1996: 37-46.
13 Vedi la crisobolla di Niceforo Foca in Actes du Prôtaton, Papachryssanthou

(a cura di), 1975: 81-83. Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papa-
chryssanthou (a cura di), 1970: 37-38. Frammenti del Tipikòn del 971–972, che
prescriveva l’organizzazione del monastero, sono stati pubblicati da Meyer, 1894:
106, 31 sgg. Vedi anche Prôtaton 8 in Actes du Prôtaton, Papachryssanthou (a cu-
ra di), 1975: 202-215, con il testo: 209-215. Schlumberger, 1923: 315-320.
Bréhier, 1947: 195. Id., 1948: 547. Merlini, 2012.
UN CIRCUITO TRANSNAZIONALE DI RELAZIONI 25

ventura del Monte Athos partì quindi come manovra a tenaglia del-
l’imperatore e del suo padre spirituale contro il vertice ecclesiastico
e monastico bizantino. Si doveva porre rimedio alla colpevole dila-
pidazione di risorse dovuta ai vasti possedimenti conventuali esenti
da obblighi fiscali e lasciati incolti. In secondo luogo, si intendeva
reagire al rifiuto del patriarca di considerare martiri i soldati caduti
combattendo contro i musulmani. Infine, il voto di povertà profes-
sato dai monaci era incompatibile con una vita passata in sontuose
dimore piene di affreschi mozzafiato e circondate da vigneti e cam-
pi coltivati dai servi della gleba. Da quel momento in poi i religiosi
avrebbero popolato monasteri semplici e collocati in aree remote da
colonizzare e rendere produttive con ingegno e fatica14.
Il Monte Athos iniziò così a generare venerazione e soggezione,
sia nell’Europa orientale che in quella occidentale, quale microco-
smo terreno dell’ordine celeste15. Iniziarono a circolare leggende,
volte a legittimare l’occupazione monastica della penisola. La più
amata dai monaci racconta che il Monte Athos sarebbe stato un la-
scito di Gesù Cristo alla Madre, affinché lo destinasse a maschi con-
sacrati. Quando i monaci dei cenobi presero possesso del “Giardino
di Maria”, le popolazioni native allora residenti – greci e traci – si
mobilitarono e fecero ricorso, respinto però da una disposizione im-
periale e, più sostanzialmente, dall’esercito.
La penisola rocciosa sacra agli antichi anacoreti diventò allora la
meta preferita di monaci provenienti da tutto il mondo cristiano,
convinti che risiedere in un luogo impregnato di santità avrebbe rin-
vigorito la loro fede16. La cosiddetta Vita A di Atanasio l’Athonita,
redatta a Costantinopoli dopo la fondazione della Grande Lavra e
prima del 1025, elenca l’afflusso sul Monte Athos di romani, italia-
ni, calabresi, amalfitani, georgiani, armeni, russi, serbi, albanesi e
bulgari17. Ben presto, i grandi cenobi fortificati prevalsero sulle
grotte eremitiche18. Dopo l’anno 1000, erano registrati quarantuno
monasteri di cui diversi esistono tuttora.

14 Brownworth, 2009.
15 Falkenhausen, 2005: 103.
16 Ware, 1996: 3-16.
17 Noret (a cura di), 1982; Vita A, cap. 158: 74, Vita B, cap. 43: 176.
18 Ware, 1996: 3-16.
26 UN CIRCUITO TRANSNAZIONALE DI RELAZIONI

Secondo la tradizione athonita, gli amalfitani avrebbero fondato


un loro monastero benedettino non molto distante dalla Meghìsti
Lavra di Atanasio. Eppure né la documentazione archivistica, né le
cronache della città tirrenica vi fanno alcun accenno19. Gli storici
benedettini dell’XI secolo menzionano solo di sfuggita una loro
struttura athonita20. In proposito, per lungo tempo è stato dato cre-
dito ad alcune congetture di Smirnakis (1903), a sua volta basate su
supposizioni di Kalligas (1865), che a sua volta riprendeva fonti più
antiche, compresi gli errori reiterati nel tempo da tradizioni storio-
grafiche basate solo sulla cultura orale dei monaci. Solo nel 1953
Agostino Pertusi iniziò a ricostruire in modo convincente date e vi-
cende circa la nascita e la morte del monastero benedettino, non ri-
uscendo però a delineare altrettanto brillantemente protagonisti e
ragioni della sua fondazione21.

19Falkenhausen, 2005: 103


20Bonsall, 1969: 262-7.
21 Pertusi, 1953. Per la storia del monastero degli amalfitani, si veda innan-

zi tutto il saggio magistrale di Pertusi, 1963: 217-251.


L’istituzione del monastero
nelle fonti greco-bizantine

S e la presenza strutturata ad Agion Oros di benedettini italiani è


lacunosa nelle fonti occidentali, viene invece esplicitamente at-
testata in ambito letterario greco-bizantino, in particolare nelle
biografie dei grandi fondatori monastici athoniti della prima epo-
ca eroica: Atanasio l’Athonita; Giovanni l’Iberico ed Eutimio crea-
tori di Iviron (cioè Iberon, la lavra degli iberici, antico nome dei
georgiani).
Merita citare quattro fonti athonite sull’arrivo al Sacro Monte di
religiosi di San Benedetto e sul loro insediamento.
Il primo resoconto è fornito da un akolouthia1 greco del Monte
Athos che scandisce la disposizione dei Servizi divini2. Secondo que-
sta fonte, il monaco Beneventus, fratello di un principe italiano, ar-
rivò ad Agion Oros prima della fondazione di Iviron. Era accompa-
gnato da sei discepoli. Trovarono rifugio presso la Grande Lavra.
Successivamente, l’italiano divenne amico intimo del monaco geor-
giano Giovanni, al secolo il nobile Abulherit, e di suo figlio Euti-
mio, anche loro ospiti di Atanasio l’Athonita. Dopo aver speso qual-
che anno in preghiera e obbedienza nei confronti del fondatore del
Monte Athos, i tre maturarono la decisione di lasciare la Meghìsti
Lavra per fondare propri cenobi, uno georgiano e uno romano.
I latini tornarono in patria per collettare le risorse necessarie. Al
ritorno, verso il 979-980, trovarono il monastero di Iviron in fase

1 In greco, ἀκολουθία (“un seguito”); in slavo, posledovanie. La radice di que-


sto termine allude forse al fatto che le parti sono strettamente connesse e seguo-
no un preciso ordine.
2 Ore canoniche o Ufficio divino e, in senso ristretto, la porzione dell’Uffi-

cio divino che non cambia di giorno in giorno.


28 L’ISTITUZIONE DEL MONASTERO NELLE FONTI GRECO-BIZANTINE

avanzata di erezione e la relativa comunità governata da Eutimio3.


Beneventus comprò un pezzo di terra e prese a costruire il proprio
insediamento cenobitico. La raccolta dei fondi in patria non era sta-
ta però sufficiente. La fondazione italiana dovette contare sul gene-
roso aiuto economico dei confratelli ivriti.
Come mai i monaci georgiani avevano tanta disponibilità finan-
ziaria? E perché decisero di aiutare i padri latini?
Eutimio e il padre Giovanni vantavano origini aristocratiche.
Giovanni aveva lasciato il nucleo familiare per farsi monaco. Era pe-
rò dovuto tornare nel mondo per riscattare il figlio, preso in ostag-
gio alla Corte di Costantinopoli. Secondo alcuni, finirono entram-
bi ospiti non volontari dell’imperatore4. Le fonti ricordano che Gio-
vanni, accumulato rapidamente il riscatto, tornò alla vita monasti-
ca. Questa volta, però, per prudenza portò seco il figlio. Arrivarono
alla Grande Lavra in una data antecedente il 969.
Dopo poco tempo, furono raggiunti da diversi dignitari della
corte georgiana, inclusi alcuni parenti come il valoroso generale bi-
zantino in pensione Giovanni Tornicio, o Tornikios, detto l’Ibero
(?-985). Tuttavia nemmeno questo secondo Giovanni poté quieta-
mente dedicarsi alla vita contemplativa. Fu infatti chiamato urgen-
temente a corte dall’imperatrice madre, la vedova Teofano, per gui-
dare l’esercito contro l’illegittimo pretendente al trono Bardas Scle-
ros, esponente della nobiltà militare di origine caucasica. La radio-
samente bella Teofano non aveva alcuna intenzione di essere ricac-
ciata nello sprofondo del Peloponneso, nella famiglia di locandieri
in cui era nata. D’altra parte, era appena riuscita ad evadere da una
stretta clausura monastica in Armenia, a cui l’aveva obbligata l’im-
peratore ed ex amante Giovanni I Zimisce5.
Teofano chiese aiuto all’aspirante monaco Giovanni Tornicio

3 Iviron 6 in Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssanthou, Metre-


veli (a cura di), 1985: 86-88. Lemerle, 1953: 548. Pertusi, 1963: 220-224. Bon-
sall, 1969: 262-267. Falkenhausen, 1993: 89-91.
4 Ronchey, 2012: 5-20.
5 Teofano e Giovanni erano stati amanti e avevano in precedenza soppresso

il marito di lei e lo zio di lui, l’imperatore Niceforo II Foca, il principale soste-


nitore di Atanasio l’Athonita. Ma mentre lei aveva pagato l’efferato gesto con la
segregazione monastica, a lui era valsa l’incoronazione a imperatore.
L’ISTITUZIONE DEL MONASTERO NELLE FONTI GRECO-BIZANTINE 29

perché le sembrava l’unico militare privo di ambizioni imperiali. Gli


chiese di sostenere con i suoi cavalieri georgiani il comandante in ca-
po dell’esercito, il brillante nipote Bardas Foca il Giovane, che era
stato frettolosamente perdonato di una precedente ribellione e pre-
levato da una reclusione settennale in un monastero. Nel 979, il ge-
nerale con la vocazione al monachesimo sbaragliò, alla testa di
12mila cavalieri, l’illegittimo pretendente nei pressi di Cesarea e fe-
ce incoronare il giovanissimo figlio di Teofano, Basilio II (976-
1025), il futuro “mangiatore di bulgari”. Quindi se ne tornò – ricol-
mo di gloria, regali, privilegi ed esenzioni fiscali – alla serena mono-
tonia del Monte Athos. Chiamò a raccolta i parenti Giovanni ed
Eutimio e, col sostegno imperiale, la benedizione patriarcale e 544
chili d’oro ottenuti a ricompensa dei servigi militari, nel 979-980
fece erigere Iviron. Insediò il cognato Giovanni quale abate, sosti-
tuito dopo un ventennio dal figlio, mentre per sé tenne il ruolo di
“fondatore”. Questa catena di circostanze spiega perché, quando i
benedettini tornarono al Monte Athos dopo un’impegnativa e poco
fruttuosa raccolta fondi, trovarono la comunità georgiana in piena
attività. Riallacciati i rapporti di amicizia e di alleanza sul fronte non
ellenofono, per la loro fondazione furono autorizzati ad attingere al-
l’enorme lascito di Giovanni Tornicio6.
L’akolouthia conclude spiegando che, ben presto, il monastero la-
tino poté contare su un significativo afflusso di monaci, la maggior
parte provenienti da Amalfi. Prese così il nome di monastero degli
amalfitani. La chiesa principale fu consacrata alla Santissima Madre
di Dio7.
Un secondo e più accreditato rimando ai seguaci di San Benedet-
to al Monte Athos si deve a un monaco di Iviron, Giorgio l’Aghio-
rita, che li menziona nella biografia ufficiale, in georgiano, dei san-
ti Giovanni l’Iberico ed Eutimio l’Athonita. Redige il testo intorno
al 1044, un quarantennio dopo la morte di Giovanni (c. 1006) e un
ventennio dopo quella di Eutimio (c. 1028)8. La sua versione sull’e-

6 Morris, 1995: 190.


7 Martin Hisard, 1991: 109 sgg. Bonsall, 1969: 262-267.
8 Il bollandista Paul Peeters ha pubblicato nel 1922 una traduzione latina de-

finitiva di questo lavoro.


30 L’ISTITUZIONE DEL MONASTERO NELLE FONTI GRECO-BIZANTINE

dificazione della casa benedettina sottolinea la calda accoglienza go-


duta dai monaci latini a Iviron e come quest’ultimo li abbia aiutati
a erigere il loro chiostro9.
Secondo l’agiografo, Giovanni ed Eutimio, padre e figlio, erano
arrivati dopo varie peripezie ad Agion Oros provenendo, come ulti-
ma tappa, dagli eremi del monte Olimpo, in Bitinia. Dopo qualche
tempo, mentre Giovanni era ancora in vita, sarebbe sopraggiunto un
“personaggio illustre”. Si sarebbe trattato del monaco eremita Leo-
ne, dunque non il Beneventus della prima fonte. Proveniva dalla ter-
ra dei “romani”, quindi non era propriamente un amalfitano. Leone
era un religioso famoso per la sua virtù, come testimoniavano non
solo i suoi compatrioti, ma – sottolinea il testo – anche i greci. L’am-
mirazione di Giorgio l’Aghiorita lo spinge a chiamarlo “Leone il
Grande”. In linea con la versione precedente, si sottolinea la sua di-
scendenza da una famiglia tra le più nobili di Benevento, specifican-
do che era fratello del principe. In questa variante, Benevento non è
quindi il nome del religioso ma ne designa il luogo d’origine. Poco
male. È frequente che i due appellativi coincidano.
Leone arrivò sulla Santa Montagna con sei discepoli, in cerca di
un luogo appropriato per pregare. I padri fondatori di Iviron, “no-
tato il monaco romano risaltare per i doni della grazia divina” (cor-
sivo nostro), lo ricevettero come amico, anzi come uno di loro. Lo
invitarono addirittura a risiedere presso di loro e insieme a loro. Si
trattava di un atto di solidarietà tra confratelli stranieri. Al tempo
stesso, però, la sua presenza rafforzava il monastero georgiano di Ivi-
ron, in un contesto gerarco dominato dagli ellenofoni. Non per nul-
la, il loro argomento principe a sostegno della praticata ospitalità e
della prospettata convivenza con Leone il Grande fu: «Su questo
Monte Santo, sia la tua condizione che la nostra è simile a quella dei
pellegrini». Studiosi georgiani come Korneli Kekelidze ritengono
che l’episodio confermi la presenza nel X-XI secolo di un atteggia-
mento molto più aperto del loro popolo verso la Chiesa di Roma ri-
spetto alla Chiesa di Costantinopoli10. Secondo Elene Metreveli, la
simpatia manifestata dai georgiani verso i monaci latini al Monte

19 Abuladze, 1966: 66.


10 Kekelidze, 1957: 139.
L’ISTITUZIONE DEL MONASTERO NELLE FONTI GRECO-BIZANTINE 31

Athos è in buona parte responsabile della più generale convinzione


secondo cui questa popolazione caucasica sarebbe stata attratta dal
cattolicesimo11. In ogni caso, quando nella nostra investigazione da-
remo conto dell’atteggiamento di Atanasio l’Athonita verso Leone,
scopriremo nel monaco greco-bizantino una disponibilità e un af-
fetto non minori, seppure entro la cornice dell’obbedienza a lui do-
vuta in quanto responsabile ultimo del “Giardino di Maria”.
Ritornando al nostro antico testo di riferimento, i georgiani con-
vinsero alla convivenza il nobile confratello latino con difficoltà e so-
lo temporaneamente, perché lui desiderava vivere in un proprio mo-
nastero. Quando il numero dei suoi discepoli pervenne a una massa
critica, Leone si impegnò nella costruzione di un «monastero grade-
vole, bello» (monasterium amoenum) in cui raccolse molti fratelli. Gli
ivriti si arresero al suo desiderio e lo aiutarono nell’impresa12.
La descrizione nella Vita dei santi Giovanni l’Iberico ed Eutimio
l’Athonita del profondo rapporto di amicizia fra le due comunità
monastiche non greche e l’avvenuta fondazione di una lavra da par-
te dei latini sono confermate dal riscontro delle prime sottoscrizio-
ni latine in calce a documenti athoniti, datate dicembre 984 e 985,
su pergamene provenienti dall’archivio del monastero d’Iviron. Es-
se ci permettono anche di fare conoscenza con due dei sei confratel-
li associati a Leone il Grande, Giovanni e Arsenio, che ci aiuteran-
no a fissare la data di consacrazione del loro cenobio13.

11 Metreveli, 1998: 98.


12 Keller, 1994-2002: 5. Pertusi, 1953: 4-6. Id., 1963: 220. Martin-Hisard,
1991: 109 sgg. Bonsall, 1969: 262-267.
13 Iviron 6 in Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssanthou, Metre-

veli (a cura di), 1985: 137-151. Bonsall, 1969: 262-267. Keller, 1994-2002: 5,
18; Успенский, 2007: 114-115. Falkenhausen, 2005: 105.
La devozione dell’eremita Gabriele
e il recupero miracoloso
dell’icona athonita più venerata

P roseguendo nello scavo delle fonti athonite, recuperiamo notizie


sul monaco Leone poco dopo la fondazione della sua comunità
religiosa. Le troviamo nell’agiografia dell’eremita georgiano Gabrie-
le. Coinvolgente è la narrazione volta ad avvalorare la reputazione
spirituale del confratello latino, presentato quale fondatore e diri-
gente di monasteri ma con una vocazione profonda per la frugale e
contemplativa vita anacoretica. Viene riferito che il “grande” eremi-
ta “Leone il Romano” usasse insediarsi in una cella di roccia accan-
to a quella di Gabriele ogni volta che si recava in visita ai confratel-
li di Iviron e lì trascorresse la giornata in preghiera. Benché non in-
tendessero l’uno la lingua dell’altro, i due pregavano insieme e si
scambiavano “propositi divini”. Il giovane ma già venerabile Gabrie-
le sviluppò un profondo amore spirituale per il «vecchio santo»1.
La devozione del giovane eremita georgiano è un tratto da sot-
tolineare, perché il venerabile Gabriele è un personaggio epico del
Monte Athos. È stato un produttore di miracoli a ripetizione e, so-
prattutto la sua vita si è indissolubilmente intrecciata al sopranna-
turale arrivo sulla Santa Montagna della potente ‘guardiana’ dell’en-
clave monastica. Si tratta dell’icona della Panagia Portaitissa (“La
Tuttasanta Custode della porta”), la più riverita raffigurazione ma-
riana di Agion Oros e tra le più venerate dell’intero cristianesimo or-
todosso. Coperta con una foglia protettiva di oro, argento e pietre
preziose, raffigura Maria con il Bambino. Contornata da numerosi

1 Peeters, 1917-1919: 36-38, cap. 27-28. La “Vita”, § 28 in Martin-Hisard,

1991. Bonsall, 1969: 262-267.


34 LA DEVOZIONE DELL’EREMITA GABRIELE

ex-voto, è custodita a Iviron. La tradizione monastica, espressa in


un’orazione di lode, situa intorno all’anno 52 lo sbarco avventuro-
so della Madre di Dio con l’apostolo Giovanni proprio nei pressi
del monastero2.
Secondo le stesse fonti orali, la Panagia Portaitissa sarebbe una
delle immagini dipinte dall’evangelista Luca sulla base della cono-
scenza diretta della Vergine Maria. Intorno agli anni 830-840, l’i-
cona sarebbe stata proprietà di una pia vedova di Nicea (in Asia
Minore) che la custodiva in casa. A quel tempo, il potere era salda-
mente in mano agli iconoclasti dell’imperatore Teofilo che, invece
di procedere senza indugio alla distruzione del dipinto, pensarono
di ricattare la facoltosa proprietaria. Una vedova abbiente e sorpre-
sa in flagranza di reato sembrava la vittima perfetta, perché facil-
mente arrendevole. Nel tempo concessole per rastrellare il denaro
richiesto, la donna buttò a mare l’immagine sacra. Per salvarla. E
per salvarsi: senza l’oggetto del reato veniva meno lo strumento del
ricatto. L’icona prese a navigare, ritta sull’acqua come un soldato,
verso ovest.
Le leggende si nutrono spesso di circolarità storica. Così il nostro
racconto ci informa che la devota e scaltra vedova risiedesse proprio
nella città dove si era svolto il Concilio di Nicea II (787) nel quale
erano stati condannati, per la prima volta, i distruttori delle imma-
gini sacre. E poiché le leggende devono auto-attestare la loro credi-
bilità, la nostra ci spiega che, dopo la morte della vedova, suo figlio
si recò al Monte Athos per prendere i voti – per altro quasi un seco-
lo e mezzo prima che Atanasio realizzasse la sua enclave monastica
d’eccellenza. Le macroscopiche incongruenze cronologiche non so-
no importanti in una narrazione ben finalizzata: la figura del figlio-
monaco athonita serve a giustificare come mai i racconti sull’icona
prodigiosa siano entrati nel ricco tessuto miracolistico tramandato
da una generazione di monaci all’altra.
Ma non è finita. Due secoli dopo, l’icona navigatrice era data
dai più per affondata o perduta chissà dove. Eppure, nei giorni po-
steriori a una Pasqua celebrata verso la metà del secolo XI, i mo-
naci di Iviron (allora chiamato Clement) videro con sorpresa una

2 Holy Apostles Convent, 1989: 436.


LA DEVOZIONE DELL’EREMITA GABRIELE 35

colonna di fuoco avanzare eretta sul mare fino a lambire il cielo.


Avvolto in questo pilastro di fiamma e scortato da due piccoli lu-
mi, il dipinto mariano stava veleggiando sulle acque antistanti il
monastero. I religiosi saltarono sulle barche e cercarono di avvici-
narsi, ma invano. A ogni tentativo, l’immagine si ritirava verso il
mare aperto. Su diretto suggerimento della Madre di Dio, fu il de-
voto e puro di cuore eremita Gabriele a raccogliere l’icona «cam-
minando sulle acque come fossero terra asciutta». La collocò sopra
l’ingresso della sua grotta e dispose i due lumini ai lati del quadro
devozionale. Nel luogo sgorgò una sorgente d’acqua benedetta e
guaritrice3.
Non appena saputo dell’evento straordinario, l’igùmeno4 di Ivi-
ron chiese e ottenne che l’immagine fosse trasportata nella chiesa del
monastero e deposta sull’altare. Trovandosi decisamente più a suo
agio in compagnia dell’eremita, il giorno dopo essa si riposizionò
dove l’aveva destinata Gabriele. Dopo ripetuti fallimenti, il superio-
re dovette accettare la predilezione eremitica della Vergine Maria.
Non era trascorso molto tempo che l’icona miracolosa decise però
di spostarsi sopra il portone principale del cenobio. I monaci corse-

3 Gli storici greci, Vocotopoulos (1996) e Chryssochoidis (2005) in primis,


hanno recentemente postdatato l’icona Portaitissa alla fine del X secolo o agli ini-
zi dell’XI, cioè ai decenni seguenti la fondazione di Iviron. La tradizione mano-
scritta in greco riferibile a questo quadro devozionale non è anteriore al XVI se-
colo; quindi è di quattro secoli posteriore rispetto a quanto ritenuto da prece-
denti ricostruzioni storiche. Anche il canone, attribuito nel passato direttamen-
te al santo monaco-eremita Gabriele, in realtà è stato composto verso la metà del
XVI secolo. In quel periodo tragico, il Monte Athos era impegnato a riscrivere
la propria storia, fonti comprese, per reagire al declino indotto dall’occupazione
ottomana. Prese così a esibire una lunga e gloriosa tradizione mistica e di posses-
so territoriale sulla penisola retroproiettati addirittura al primo periodo aposto-
lico, ostentò celebri e aristocratici fondatori per i monasteri e sfoggiò icone mi-
racolose della Madre di Dio e protettrice dei monaci. Inesattezze storiche, pale-
si incongruenze logiche e contraddizioni cronologiche erano del tutto seconda-
rie rispetto all’urgente necessità di ribadire un passato splendore e ritrovare il
prestigio perduto all’interno del cristianesimo orientale.
4 È il monaco-sacerdote leader sia religioso che temporale della comunità

monastica. Tra i monaci greci, è la carica corrispondente a quella di abate pres-


so i latini.
36 LA DEVOZIONE DELL’EREMITA GABRIELE

ro allora alla grotta di Gabriele. L’anacoreta era morto e i due pic-


coli lumi erano spariti. L’eremita che da giovane era rimasto affasci-
nato dalla spiritualità dell’anziano Leone era diventato santo5.

5Una variante più istituzionale della leggenda mantiene Gabriele come pro-
tagonista del miracoloso recupero dell’immagine dall’acqua. Però ne fa un mo-
naco di Iviron e non un eremita; fa impartire le istruzioni celesti per le operazio-
ni di recupero direttamente all’abate; non menziona alcuna grotta e fa accadere
l’andare-venire dell’icona all’interno del monastero (fra l’altare e l’architrave del
portone d’ingresso). Infine, fa avere a Gabriele una mistica visione della Madre
di Dio che gli precisa di aver scelto l’entrata di Iviron non per essere protetta dai
monaci, quanto per proteggerli.
L’amicizia con il grande organizzatore
del “Giardino di Maria”

U n altro intimo amico di Leone il Grande ed estimatore del suo


impegno spirituale fu Atanasio l’Athonita, lo straordinario
motore di Agion Oros 1.
Le sue Vita A e Vita B sono la nostra quarta fonte2. I testi si
compiacciono per l’arrivo del padre benedettino e di altri religiosi
dalla penisola italica, attratti dal carisma spirituale dell’infaticabile
promotore del Monte Athos, per lo slancio ascetico del monaco la-
tino e, infine, per la sua fondazione di una lavra nei pressi di quel-
la di Atanasio l’Athonita prima della morte di questi (avvenuta in-
torno al 1001/1004). I due monasteri erano separati solo da un
paio d’ore di cammino3.
Prima di fondare il loro cenobio, i benedettini erano stati diret-
tamente protetti da Atanasio, al punto che li aveva ospitati quali
membri della sua casa monastica. Difatti, firme di confratelli latini
appaiono su documenti della Grande Lavra in anni antecedenti la
costruzione del loro monastero4.
L’interessamento era reciproco. Va infatti rammentata l’estrema
attenzione di Atanasio per la Regula Monachorum di San Benedetto
(480-547), redatta a Montecassino forse intorno al 530 e vigente
nel cenobio latino athonita5. Gli affabili rapporti fra Atanasio e Leo-
ne e fra i lavrioti e i benedettini sono confermati da un episodio ri-
preso nelle Vitae duae antiquae sancti Athanasii Athonitae. È il suc-

1 Pertusi, 1953: 6. Bonsall, 1969: 262-267.


2 Pomjalovskij, 1895: 14 sgg. e 76. Petit, 1906: 6, 19 sgg.
3 Per Pertusi (1963: 221), si tratta di due ore e mezza di cammino. Secondo

Keller (1994-2002): 5, solo un’ora e mezzo. Personalmente, ci ho messo quasi


tre ore. Ma non faccio testo.
4 Keller, 1994-2002: 5.
5 Martin-Hisard, 1991: 109 sgg. Per una disamina, vedi Merlini, 2015.
38 L’AMICIZIA CON IL GRANDE ORGANIZZATORE DEL “GIARDINO DI MARIA”

coso episodio sul garum, il caviale dell’epoca6. Poco dopo l’edifica-


zione del suo monastero, Leone da Benevento – come viene qui de-
nominato – fece visita ad Atanasio, ormai anziano, con sei venera-
bili monaci amalfitani7. Italiani veraci, arrivarono splendidamente
abbigliati e con canestri ricolmi di prelibatezze alimentari. Sopra
ogni cosa, fecero gustare ai confratelli il garum. Ne portarono un’in-
tera giara. Basato su interiora di pesce fermentate, il garum era un
cibo ricercato e costosissimo, al pari dei profumi più raffinati. Nel-
la Naturalis Historia, Plinio lo aveva lodato come liquoris exquisiti
genus. Seneca, invece, in una delle lettere a Lucilio l’aveva inserito
fra i cibi all’indice, convinto che la sua acida putredine provocasse
indigeribilità e bruciore di viscere.
Secondo Alfredo Carannante, Claudio Giardino e Umberto Sa-
varese, è probabile che il “prezioso” garum offerto dalla comunità
religiosa latina a quella lavriota sia stato prodotto a Cetara, picco-
lo paese della costiera amalfitana8. Allora, questo borgo di pescato-
ri della Repubblica Marinara di Amalfi era alle dipendenze del mo-
nastero abbaziale benedettino di Santa Maria di Erchie di Maiori9
e svolgeva una funzione strategica, in quanto segnava il confine con
il Principato Longobardo di Salerno. La pesca e la salatura delle ac-
ciughe vi rappresentavano attività economiche centrali, ampiamen-
te attestate dalle fonti medioevali. A Cetara sopravvive tuttora la
tradizione di una salsa ottenuta dalla fermentazione delle acciughe
in salamoia, erede diretta dell’antica sapienza.
La fonte athonita precisa che l’inflessibile santo della Meghìsti La-
vra non mangiò la salsa, ritenendola cibo troppo ghiotto. Comun-
que, accettò il dono per non offendere i «buoni confratelli latini»10.
La fine che Atanasio fece fare alla pregiata fluidità è un’informazio-
ne dipendente dalle diverse varianti della storia, infarcite di memo-
ria orale finalizzata all’apologo morale. Secondo una prima versione,
il suo monastero possedeva già uno stock di garum, ma il santo or-

16
Noret, Vita A, c. 178: 84, Vita B, c. 47: 183. Pertusi, 1963: 221. Keller,
1994-2002: 5. Bonsall, 1969: 262-267.
17 “τίνες τῶν τοῦ Ὄρους Ἀμαλφηνῶν γερόντων”.
18 Carannante, Giardino, Savarese, 2011: 77.
19 Pertusi, Ortalli, Paccagnella, 1984: 8.
10 Petit, 1906: 56. Lemerle, 1963. Pertusi, 1963: 221. Bonsall, 1969: 262-267.
L’AMICIZIA CON IL GRANDE ORGANIZZATORE DEL “GIARDINO DI MARIA” 39

dinò d’apparecchiare la cena con quello dei latini per sottolineare la


“preziosità” dell’omaggio11. Secondo un’altra variante, lo consegnò
al padre dispensiere, perché lo conservasse come risorsa pregiata nei
casi di estrema necessità12. A tale proposito, va ricordato che San Be-
nedetto aveva fissato l’alimentazione vegetariana come l’ideale per la
vita ascetica, prescrivendo un menù giornaliero a base di pane, due
piatti cucinati tipo zuppa, pappa o porridge, verdura fresca e frutta.
La carne rossa era vietata, con l’eccezione di anziani e infermi. In
considerazione del carico di lavoro svolto da ogni monaco, la regola
benedettina ammette pesce, altri animali acquatici e volatili. Le ri-
sorse marine svolgono quindi un ruolo dietetico fondamentale13.
Di fatto, si racconta che il cuciniere della Grande Lavra presen-
tò la succulenta portata in tavola. Fra i monaci greci il successo fu
così travolgente che vollero imparare dai confratelli latini tutti i se-
greti della preparazione. A questo punto, il cuoco-dispensiere prese
a pavoneggiarsi del piatto. Con grandi capacità culinarie castrate
dall’ascetico Atanasio e roso dall’invidia, rivelò di aver allestito il de-
sco con un caviale da lui precedentemente preparato all’insaputa di
tutti e di averlo spacciato per “latino”. Ma la salsa di pesce era tan-
to saporita che l’intero monastero non gli credette. La liquida deli-
zia ittica fu esaltata come regalo d’addio dei colleghi italiani. Chi
prestò fede alla vanteria del cuoco-dispensiere fu Atanasio, la cui se-
vera reazione non si fece attendere. Per punirne il vizio d’orgoglio,
gli fece gettare a terra tutto il garum che si gloriava di aver prepara-
to. E facendo propria l’indignazione di Seneca, che aveva censurato
la prelibatezza come metafora sulla dissolutezza dei gaudenti epicu-
rei, mise tutti a pane e zuppa14.
Questo episodio «gentile a sfondo morale»15 viene narrato nella
biografia di Atanasio in modo leggero per illuminare i cordiali rap-
porti di amicizia che si erano stretti fra i protagonisti. L’atto di de-

11 Bond, 2001: 72. Omicciolo Valentini, 2005: 31-33.


12 Pertusi, 1953: 6.
13 Foucher, 1971: 18. Hunt, Murray, 1999: 16.
14 L’episodio è stato utilizzato dagli storici bizantini come certificazione del-

la probabile produzione del garum in ambito benedettino ancora nel X secolo.


Vedi Bond, 2001: 72. Omicciolo Valentini, 2005: 31-33.
15 Pertusi, 1953: 6.
40 L’AMICIZIA CON IL GRANDE ORGANIZZATORE DEL “GIARDINO DI MARIA”

ferenza dei latini e la sottolineatura dell’irreprensibilità spirituale


dell’igùmeno a capo della Grande Lavra ne rimarcano il ruolo or-
ganizzativo e religioso di preminenza. Il dono del caviale ha lo stes-
so sapore di italianità del «monasterium amoenum» con cui è appel-
lato il cenobio benedettino nelle Bios dei santi ivriti16.
Tirando le somme, le fonti athonite a nostra disposizione concor-
dano sull’alto profilo spirituale dei confratelli latini, sul loro profon-
do legame di amicizia sia con gli ivriti che con i lavrioti, sull’obbe-
dienza al responsabile ultimo della penisola monastica e sulla crono-
logia e i tempi dell’edificazione della loro casa madre17. Generale è la
convergenza nel descrivere le strette relazioni di buon vicinato fra la
Grande Lavra, Iviron e il monastero latino, fino a paragonarli a tre
piselli in un baccello. In effetti, essi agirono sinergicamente nel
“Giardino di Maria” per promuovere lo stile di vita cenobitico con-
tro la resistenza eremitica e per imporlo come punto di riferimento
per l’intero monachesimo cristiano, sia in Oriente che in Occidente.
Le fonti differiscono però per importanti sottolineature. La Bios di
Sant’Atanasio si sofferma sui benedettini «romani» per rimarcare l’in-
ternazionalità pancristiana della Grande Lavra fin dalla sua edificazio-
ne. La Vitae duae antiquae sancti Athanasii Athonitae infatti li elenca
fra i religiosi delle molteplici etnie che accorrevano da tutto il mon-
do attratti dal magnetismo di Atanasio. I «romani» si distinsero per
essere i secondi monaci stranieri a insediare una loro casa sul Monte
Athos18. La Bios di Giovanni ed Eutimio, igùmeni di Iviron, sottoli-
nea invece il patto di mutuo sostegno fra monaci non ellenofoni in
un mondo strettamente greco-bizantino, per lo più accogliente ma in
parte anche respingente, Grande Lavra di Atanasio compresa.
Dalle narrazioni convergenti su Leone, Giovanni, Eutimio e al-
tri santi confratelli fondatori dei primi cenobi19, emerge l’identità

16Peeters, 1917-1919: 18-23, 26-30, 36-38. Martin-Hisard, 1991: 109 sgg.


Pertusi, 1963: 220-221, 224. Keller, 1994-2002: 5.
17 Pertusi, 1963: 221.
18 Nastase, 1985: 309-310. Vranoussi, 1978: 740–741.
19 Fra gli altri, possiamo menzionare San Paolo di Xiropotamou, il rivale di-

retto di Atanasio l’Athonita, e Antonio, Atanasio e Nicola, i tre fratelli nobili di


Adrianopoli che secondo una tradizione metastorica quanto di successo ri-fon-
darono Vatopedi.
L’AMICIZIA CON IL GRANDE ORGANIZZATORE DEL “GIARDINO DI MARIA” 41

del Monte Athos quale club di aristocratici catturati dalla spiritua-


lità monastica. A prima vista, l’unico che sembra non appartenere
a tale schema è proprio l’attivatore dell’enclave di cenobi, Atanasio
l’Athonita, semplice insegnante a Costantinopoli. Dobbiamo però
tener presente che aveva come principale patrocinatore l’allievo Ni-
ceforo Foca, propenso a essere tonsurato nella nuova istituzione
athonita ma forzato ad abbandonare l’aspirazione ascetica una vol-
ta incoronato imperatore il 16 agosto del 963. In questa veste, of-
frì ad Atanasio i mezzi per realizzare il suo sogno e da allora Atana-
sio incarnerà di fatto il potere imperiale ad Agion Oros 20.
In conclusione, se l’erigendo “Giardino di Maria” attrasse mona-
ci da ogni strato della società, la fondazione delle comunità religio-
se e l’edificazione delle relative costruzioni fu appannaggio del ceto
nobile, dotato di alto status sociale, adeguate risorse e i necessari
contatti. Secondo lo stesso modulo, sorsero così in successione, do-
po le strutture del periodo eroico, Dochiariou, Chilandari, Diony-
siou... Molti dei fondatori verranno acclamati santi. È un tratto del-
la genesi del Monte Athos che dobbiamo tenere ben presente se vo-
gliamo cogliere l’identità del promotore della casa latina: Leone il
Grande, detto anche Leone il Romano, detto anche Leone da Bene-
vento. Mai chiamato Leone l’Amalfitano.

20 Merlini, 2012.
Leone il Grande, il fondatore
beneventano di nobili natali

M a chi era il pio Leone, il fondatore del cenobio Apothikon che


poi diventerà il mitico Amalfion? Di lui sappiamo poco più
del nome. I documenti athoniti che abbiamo citato sono stati redat-
ti intorno al 1044, dunque solo qualche decennio dopo la sua mor-
te. Essi ci informano anzitutto che era di origini longobarde e arci-
diacono della Chiesa di Benevento, dunque una rilevante figura del-
l’amministrazione diocesana1.
Le fonti convergono poi nel considerarlo di “genere nobilissimus”,
essendo uno dei fratelli del principe di Benevento (“frater Beneven-
tani ducis...”)2. La maggioranza degli studiosi ha individuato il po-
tente nobile di riferimento in Pandolfo II di Benevento, detto il
Vecchio (c. 955-1014 e regnante fra il 981 e il 1014)3. Nipote di
Pandolfo I Capodiferro, divenne principe di Benevento dal 981 co-
me Pandolfo II e principe associato di Capua con il titolo di Pan-
dolfo III dal 1008.
Per segnalare le difficoltà nel tracciare un identikit del creatore
del cenobio latino, riportiamo anche due versioni minoritarie soste-
nute, con insufficienti appoggi testuali, da altri studiosi. Confidan-
do su azzardate inferenze cronologiche, Aidan Keller propone che il
potente «romano» fratello del monaco Leone fosse Pandolfo I Ca-
podiferro (c. 930-981), principe di Benevento e Capua dal 943 (o
944) fino alla sua morte. Capodiferro fu stretto alleato dell’impera-

1 Falkenhausen, 2005. Ead., in corso di pubblicazione.


2 Peeters, 1917-1919: 36. Martin-Hisard, 1991: 109. Kokkas, 2005.
3 di Meo, 1785: 303. Peeters, 1917-1919: 37, n. 2. Rousseau, 1929: 539. Per-

tusi, 1953: 10. Id., 1963: 224. Bonsall, 1969: 266. Lavra 6 in Actes de Lavra, I,
Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970.
44 LEONE IL GRANDE, IL FONDATORE

tore Ottone III che l’aveva elevato al soglio ducale di Spoleto. Un’al-
leanza felice per il beneventano perché con la morte di papa Gio-
vanni e la cattura di Berengario, avvenute entrambe nel 964, nel
972 la causa di Ottone trionfò definitivamente. Capodiferro riuscì
così a riunificare tutti i territori dell’antica Langobardia Minor. Do-
po poche pagine, però, Keller sposa la tesi maggioritaria che indivi-
dua Pandolfo II nel potente fratello del monaco Leone4.
Secondo un altro fil rouge decisamente minoritario, che però tro-
va spazio sui mass media, nel Beneventani ducis si dovrebbe identi-
ficare Landolfo IV di Benevento e Capua, predecessore di Pandolfo
II e coreggente con Pandolfo I Capodiferro. Schierato al fianco del-
l’Imperatore franco Ottone II, Landolfo IV venne ucciso, nel luglio
del 982, durante la battaglia di Capo Colonna contro i saraceni
(probabilmente aiutati carsicamente dai bizantini anche se Ottone
II era marito di Teofano, principessa di Costantinopoli). Il giorno
successivo alla carneficina, un gruppo di monaci benedettini, tra i
quali Leone, fratello del principe longobardo, si sarebbe trasferito al
Monte Athos5.
Chiunque fosse il fratello influente del benedettino che ha edifi-
cato Apothikon (per noi Pandolfo II di Benevento, divenuto succes-
sivamente anche Pandolfo III di Capua), è degno di nota che un
longobardo di alto rango come Leone da Benevento abbia scelto
una vita umile e ascetica nell’ecumene bizantino e abbia avuto suc-
cesso nel suo perseguimento. Purtroppo, non vi è alcuna traccia di
lui negli archivi italiani.
Ben di più sappiamo del potente fratello. E queste informazioni
ci permettono di intravvedere alcune ragioni geopolitiche a monte
della decisione di fondare un monastero benedettino nella più po-
tente enclave di cenobi orientali. Pandolfo II ebbe una vita più che
travagliata e con una partenza da spodestato. Nel 968, lo zio Pan-
dolfo I Capodiferro (principe regnante di Capua e di Benevento) ne
disconobbe la legittimità a ereditare dal padre Landolfo III (princi-
pe di Capua e Benevento dal 959 al 968), preferendogli i propri fi-

4Keller, 1994-2002: 6, nota 1, mentre a pagina 18 sostiene che Leone fosse


fratello del duca di Benevento Pandolfo II.
5 Zolli, 2013.
LEONE IL GRANDE, IL FONDATORE 45

gli, Landolfo e Pandolfo. Alla morte dello zio, la protezione di Ot-


tone II e una ribellione fomentata dai bizantini permisero al nostro,
nell’ottobre 981, di conquistare il trono di Benevento, a scapito del
cugino Landolfo (IV), figlio primogenito di Capodiferro. Conservò
questo titolo fino alla morte. Nel maggio del 987, associò il figlio
Landolfo V al trono di Benevento, secondo la tradizione della dina-
stia Capuana iniziata da Atenolfo I. Gli ottimi rapporti con Ottone
III (983 -1002), figlio e successore di Ottone II, sono testimoniati
dai privilegi sottoscritti dall’imperatore, nel 999, a favore del mona-
stero di Santa Sofia, fondazione familiare della linea genealogica di
Pandolfo e probabilmente mausoleo di famiglia6.
Pandolfo II però scivolò sul cadavere di San Bartolomeo di Cana.
L’apostolo fu scuoiato vivo ad Albanopoli (Armenia). Nell’838, pel-
le e ossa pervennero a Benevento, via l’isola di Lipari, grazie al sup-
porto di navi amalfitane. Essendo divenuto Bartolomeo il patrono
della città, esse furono custodite con tutti gli onori nella cattedrale.
Si trattava di un tassello decisivo del culto delle reliquie patronali di
Benevento che era già in possesso di San Mercurio, San Donato, San
Felice, Santa Felicita e progenie, San Marciano di Frigento, San Deo-
dato di Nola, San Gennaro e Santa Trofimena. La venerazione dei sa-
cri resti era finalizzata a legittimare la dinastia regnante longobarda e
a celebrarne la tradizione guerriera venerando e chiedendo una pro-
tezione privilegiata soprattutto a martiri soldati7. Le cronache del
tempo descrivono i principi beneventani distinguersi per foga e siste-
maticità nella rapina di reliquie per acquisirne magico patrocinio8.
Quando l’imperatore Ottone III eresse a Roma la basilica dedi-
cata a San Bartolomeo, sull’Isola Tiberina, reclamò da Pandolfo II
le reliquie conservate a Benevento. Il conflitto sul possesso dei vene-
rabili resti fu inevitabile. L’augusto imperatore decise di andare a
prenderli con la forza. Assediò Benevento per diverse settimane nel

6 I lasciti di Ottone III avvennero durante il suo passaggio per Benevento do-
po il pellegrinaggio al santuario micaelico di Monte Sant’Angelo sul Monte Gar-
gano.
7 Galdi, 2008: 73.
8 Per esempio, qualche anno prima il principe beneventano Sicone aveva car-

pito da Napoli le reliquie di San Gennaro e le aveva traslate a Benevento cum ma-
gno tripudio (Galdi, 2008: 71).
46 LEONE IL GRANDE, IL FONDATORE

fatidico anno 10009, ma non riuscì a espugnarla10. Alla fine, le reli-


quie dell’apostolo vennero trasferite a Roma. O almeno così credet-
te Ottone III. La tradizione beneventana, sostenuta dalla chiesa lo-
cale e corroborata dalla Chronica Monasterii Casinensis di Leone
Marsicano (1046-1115)11, redatta un secolo dopo l’avvenimento,
afferma che Pandolfo II conservò i resti originali, consegnando al-
l’imperatore quelli meno pregiati di San Paolino vescovo di Nola12.
In conclusione, un corpo di San Bartolomeo viene venerato nella
Basilica di Benevento, in un elegante reliquiario; un altro viene cu-
stodito a Roma, sotto l’altare maggiore della chiesa di San Bartolo-
meo Apostolo13.
Dal 1008, alla scomparsa del fratello Landolfo di Capua, Pan-
dolfo si affiancò al trono del principato, ereditato dal giovane Pan-
dolfo II di Capua, figlio di Landolfo e suo nipote. Divenne così an-
che Pandolfo III di Capua.
Abbiamo accennato alle traversie della potente famiglia del mo-
naco Leone sia per metterne in luce l’ascendenza aristocratica, sia
per illustrare la complessa navigazione intrapresa dalla dinastia ca-
puana e beneventana fra l’impero occidentale e quello orientale: es-
sa apparteneva decisamente al Sud longobardo ma, nel contempo,
era protesa a intrecciare complessi rapporti di conflitto-cooperazio-
ne con Bisanzio. Si inizia inoltre a chiarire come l’elemento religio-
so fosse all’epoca un fattore immediatamente politico. Inseriremo al
loro posto tutti questi tasselli quando monteremo il puzzle sul per-
ché della nascita di Apothikon.

19Secondo gli Annales Beneventani (Pertz, 1839), “Otto rex cum magno exercitu
obsedit Benevento”. Cronaca monastica e regionale di Benevento redatta in latino,
gli Annales Beneventani sono editi in tre redazioni: A.1, scritta fra il 1113 e il 1118
e archiviante dal 787 al 1113; A.2, scritta nel 1119 e archiviante fino al 1128; A.3,
scritta fra il 1107 e il 1118 e archiviante dal 1096 al 1130. Gay, 1917: 373-374.
10 Vedi gli Annales Beneventani (Pertz, 1839).
11 Futuro cardinale Ostiense, detto anche Leone Ostiense o Leone di Monte-

cassino.
12 Questa tradizione beneventana troverebbe conferma dall’avvenuta trasla-

zione dalle reliquie di San Paolino da Roma a Nola, nel 1908, per volere di papa
Pio IX.
13 Vedi gli Annales Beneventani (Pertz, 1839).
Il passaggio da Costantinopoli
al Monte Athos

A bbiamo appurato che il monaco Leone era famoso per le sue


virtù e non di meno per essere fratello del potente principe di
Benevento e futuro principe di Capua. L’erezione della casa latina
da parte di un personaggio di nobile casata è nel solco della tradi-
zione secondo cui – all’interno della già menzionata cornice che ve-
de il Monte Athos come club di aristocratici con la vocazione al mo-
nachesimo – i primi monasteri non greci furono fondati o presi in
consegna da monaci che, durante la precedente vita secolare, erano
stati membri di famiglie regnanti (il georgiano Iviron, il bulgaro e
precedentemente greco Zographou1, il russo tou Rôs 2 e il “turco”
Koutloumousiou 3) o addirittura insigniti del trono (il monastero ser-
bo di Chilandari, le cui rovine furono concesse nel 1198 al mona-
co-re serbo Simeone Nemanja e a suo figlio San Sava affinché lo ri-
costruissero). Questi monaci aristocratici erano guidati da pietà cri-
stiana, alta reputazione spirituale e approccio politico strategico. Il
loro arrivo e insediamento sul Monte Athos si verificò in momenti
topici nel rapporto tra i loro paesi e l’impero bizantino.
All’origine dei tanti parallelismi e dell’attrazione reciproca che af-
fiatarono i costruttori georgiani di Iviron e quelli beneventani di

1 Stando a Dujčev (1963: 501), avvenne dopo la conquista della Bulgaria,


completata nel 1018. Molto più probabilmente, Zographou divenne il centro del
monachesimo bulgaro al Monte Athos verso i primi del XIII secolo.
2 La più antica menzione del monastero russo al Monte Athos è del febbraio

1016 quando Gérasime, igùmeno di tou Rôs, sottoscrisse un atto della Grande La-
vra. Lavra 19 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou
(a cura di), 1970: 37. Soloviev, 1933: 230. Mošin, 1947-1948: 62 sgg.
3 Koutloumousiou venne eretto da un monaco che era stato un principe del-

la dinastia Seljuk. Lemerle (a cura di), 1946: 4-5. Moravcsik, 1958: 171. Brand
1989: 6. Nastase, 1985: 260 sgg.
48 IL PASSAGGIO DA COSTANTINOPOLI AL MONTE ATHOS

Apothikon giocò anche il convergere quasi contemporaneo e sim-


metrico dei fondatori dalle estremità opposte dell’impero (rispettiva-
mente la Georgia e la penisola italica) verso il centro politico (Co-
stantinopoli), per poi trasformarsi in una coabitazione nel centro
spirituale (Agion Oros). Leone apparteneva alla dinastia beneventa-
na; Giovanni ed Eutimio erano membri di una delle grandi famiglie
feudali radicate in territori che Bisanzio cercava fortemente d’inte-
grare nel sistema statale e di trasformare in roccaforti avanzate a pro-
tezione delle frontiere più lontane e minacciate. Quando il basileus
Niceforo II Foca intraprese la grande campagna orientale, il suo eser-
cito includeva quote significative di caucasici e armeni. Dovendosi
successivamente trasferire in Cappadocia, portò con sé l’imperatrice
e i due bambini, Basilio e Costantino. Niceforo sentì quindi la ne-
cessità di doversi garantire la fedeltà degli ausiliari georgiani4. Si fe-
ce forte della presa in ostaggio, nel 964, di Eutimio e di altri giova-
ni nobili georgiani presso la corte imperiale di Costantinopoli.
E Leone il Grande? Nato a Benevento da una nobile casata, do-
ve si era formato e da dove era partito per fondare il suo monastero
al Monte Athos?
Keller e altri sostengono che lui e i suoi benedettini abbiano pro-
babilmente preso i voti all’abbazia di Montecassino5; ipotesi plausi-
bile anche se non sussistono prove documentali in proposito. L’uni-
co appiglio è la descrizione di Leone come «proveniente dalle terre
romane»6. Per certo sappiamo che in questa abbazia fu tonsurato
Giovanni il Beneventano, personaggio che incontreremo ben presto
perché testimone diretto del primissimo periodo di vita del mona-
stero benedettino al Monte Athos7.
Per comprendere la ratio della fondazione di Apothikon all’inter-
no del Grande Gioco fra le potenze latine e quelle bizantine al pas-
saggio del primo millennio, non meno significativa è la verifica se
essa fosse l’esito di un’iniziativa politico-religiosa della patria longo-

4
Skylitzès, 1973: 268.
5
Giorgio l’Aghiorita secondo Pertusi, 1953: 10. Id., 1963: 225. Id., 1972:
497-8. Keller, 1994-2002: 8.
6 Nello stesso Keller, 1994-2002: 8.
7 Peeters, 1917-1919. Pertusi, 1953: 10. Id., 1963: 225. Id., 1972: 497-498.
IL PASSAGGIO DA COSTANTINOPOLI AL MONTE ATHOS 49

barda di Leone (Benevento) e/o da quella elettiva (l’abbazia di Mon-


tecassino) oppure della comunità mercantile italica di Costantino-
poli, anzitutto quella amalfitana. Un importante indizio potrebbe
essere ricavato qualora si riuscisse a stabilire se Leone sbarcò con sei
discepoli al Monte Athos direttamente dalla penisola italiana o
transitando per la capitale bizantina.
Stando alla testimonianza del 1044 di Giorgio l’Aghiorita, Leo-
ne arrivò dalla «terra romana». Il monaco georgiano era un perso-
naggio di spicco e ben informato al Monte Athos, perché discepo-
lo di Sant’Eutimio, redattore della sua Bios ufficiale, suo successo-
re come igùmeno di Iviron e autore, insieme ai suoi allievi, della
Bibbia Georgiana8. Secondo l’interpretazione tendenziosa di Ago-
stino Pertusi, con l’espressione «terra romana» Giorgio l’Aghiorita
avrebbe voluto intendere «direttamente da Montecassino». Secon-
do Vera von Falkenhausen, la frase va genericamente intesa “dalla
penisola italica”9.
Evitando una connotazione troppo stretta e una troppo larga,
probabilmente Leone e i suoi confratelli sono stati individuati da
Giorgio l’Aghiorita come “romani”, per indicarne l’origine e la for-
mazione in una regione intorno a Roma e/o sotto l’obbedienza ec-
clesiastica del papato. La Vita di Atanasio menziona monaci accorsi
al Monte Athos da «Roma, Italia, Amalfi e Calabria». In questo con-
testo e secondo la terminologia impiegata nel secolo XI, «Roma»
specificava il territorio al centro della penisola italiana che era di lin-
gua latina e sottostava all’obbedienza papale. «Italia» denominava il
Catepanato (o Catapanato) d’Italia, vale a dire il governatorato del-
l’impero bizantino con Bari come capitale e che comprese, fino al
1071, l’Italia continentale a sud di una linea tracciata dal promon-
torio garganico fino al Golfo di Salerno10. «Amalfi» era la cittadina
tirrenica che, benché a nord di tale linea, restò fedele al papa ma an-
che a Costantinopoli attraverso il Catepanato. «Calabria» designava
l’area che, fin dalla metà del secolo VII, appartenne alla giurisdizio-
ne ecclesiastica del patriarcato di Costantinopoli. Seguiva usanze,

18 Bagration Murateli, 2008: 221.


19 Falkenhausen, 2005: 107. Merlini, 2014.
10 Essa includeva l’Apulia e parte della Basilicata.
50 IL PASSAGGIO DA COSTANTINOPOLI AL MONTE ATHOS

cultura e lingua greche, aveva Bisanzio quale esclusivo punto di ri-


ferimento e non era mai stata conquistata dai Longobardi.
Per diversi bizantinisti italiani, così come per Michel Balard, Ro-
semary Morris, Rene Gothoni, Graham Speake e molti altri tra cui
chi scrive, il fondatore del cenobio benedettino non poté che sbarca-
re sulla costa athonita transitando per la capitale imperiale, come pro-
babilmente fecero i monaci greco-bizantini del Mezzogiorno italico
che successivamente costruirono i cenobi dei “siciliani” e dei “calabre-
si”. Non tiene però l’estensione di questa interpretazione secondo cui
essi sarebbero stati chiamati «romani» in quanto provenienti dalla
“Nuova Roma”, capitale dell’impero11. A sostegno di tale inferenza, è
d’uso ricordare che a quel tempo gli abitanti greci di Costantinopoli
continuavano a descriversi quali romaioi, cioè romani, percependosi
come cittadini dell’impero romano anche molto tempo dopo che la
Città Eterna aveva ceduto ai barbari12. Per loro, l’identità romana oc-
cupava una posizione speciale tra le gentes, le ethne, esprimendo l’ap-
partenenza a un impero non solo terreno ma anche celeste. Esso era
a un tempo un pilastro di civiltà e un’àncora di salvezza eterna13.
È un suggerimento suggestivo quanto implausibile. Se infatti po-
stuliamo che i benedettini furono detti «romani» perché erano
transitati da Costantinopoli, allora praticamente tutti i monaci del
Monte Athos avrebbero dovuto essere indicati come «romani», visto
che erano originari o avevano passato un periodo – spesso quello
formativo – nella capitale dell’impero bizantino.
La matassa è di difficile dipanazione, poiché l’aggettivo “romano”
si presta a molteplici interpretazioni. Infatti, anche i “romani” che ar-
rivarono ad Agion Oros successivamente all’edificazione di Apothi-
kon, per mettersi sotto la guida spirituale di Leone il Grande, giun-
sero da Costantinopoli14. Tra di loro c’erano diversi amalfitani che ri-
siedevano nella capitale o che vi erano transitati.

11Balard, 1976: 91. Martin-Hisard, 1991: 36. Keller, 1994-2002: 5. Gothó-


ni, Speake (a cura di), 2008: 12, 35-36. Merlini, 2014. Id., 2015.
12 Hammer, 1944. Persino la lingua greca da loro parlata era denominata “ro-

mana” (Koder, 1990: 103-111).


13 Pohl, 1998: 14-24. Rum, cioè Roma, sarà il termine usato dai turchi per Bi-

sanzio.
14 “Romani qui in urbe regia aliisque civitatibus erant”, in Martin-Hisard, 1991.
IL PASSAGGIO DA COSTANTINOPOLI AL MONTE ATHOS 51

Infatti, Giorgio l’Aghiorita ci informa che Leone e la sua fratel-


lanza, una volta decisa la costruzione della loro casa athonita, torna-
rono nella penisola italica per raccogliere le risorse economiche ne-
cessarie a un investimento così impegnativo15. Possiamo fissare la da-
ta al 981, quando il fratello divenne il principe di Benevento Pandol-
fo II. È molto probabile che Leone, nato nella longobarda Beneven-
to e presi i voti in un monastero benedettino in un’area sotto l’in-
fluenza di Montecassino (forse nell’abbazia stessa), vale a dire in un
territorio prossimo alla capitale della cristianità occidentale e/o sot-
toposto ecclesiasticamente al pontificato, sbarcò al Monte Athos da
Costantinopoli. La missione di Leone poteva avere origine, ricevere il
mandato politico e conseguire le necessarie risorse di base solo da Mon-
tecassino o da un potente monastero benedettino collegato, ma po-
teva partire, ottenere le necessarie autorizzazioni e procurarsi le risorse
aggiuntive solo dalla capitale della cristianità imperiale orientale.
Anche Atanasio proveniva da Costantinopoli quando, a metà del
X secolo, iniziò a concepire la revisione del monachesimo attraver-
so il rinvigorimento della tradizione cenobitica. I documenti d’ar-
chivio testimoniano che il volume d’affari tra il Monte Athos e la
capitale imperiale aumentò in verticale dopo la fondazione della
Meghìsti Lavra e l’incorporazione del cuore del monachesimo greco-
bizantino nella sfera del diretto interesse imperiale. Dalla fine del X
secolo, i contatti fra l’insieme delle fondazioni monastiche athonite,
compreso il latino Apothikon, e la “Regina delle città” furono sta-
bili e frequenti. Atanasio stesso si premurò di visitare la megalopoli
e i suoi “poteri forti” prima e subito dopo aver costruito il suo mo-
nastero. Probabilmente soggiornava nell’imponente e influente mo-
nastero Studita. Gli straordinari accadimenti al Monte Athos inizia-
rono a essere fra gli argomenti principali di discussione nei circoli di
corte e fra gli alti chierici. Viceversa, gli affari e le strategie degli or-
gani dell’impero erano tema di dibattito fra i leader di Agion Oros.
Questo quadro conferma la ragionevolezza della deduzione se-
condo cui anche Leone e i suoi compagni siano giunti nella peniso-

15 Martin-Hisard, 1991, capitoli 16-17: 94-96. Actes d’Iviron, Introduzione I,


Lefort., Oikonomides, Papachryssanthou, Metreveli (a cura di), 1985: 35-6. Mor-
ris, 1995: 190.
52 IL PASSAGGIO DA COSTANTINOPOLI AL MONTE ATHOS

la athonita passando per la capitale imperiale16. Purtroppo non si sa


dove Leone, sicuramente beneventano e probabilmente monaco
cassinese, dimorasse a Costantinopoli. Peraltro, non esiste alcuna
evidenza circostanziale del suo passaggio per il Corno d’Oro. Alcu-
ni studiosi, persistendo nell’errata convinzione che abbia fondato
un monastero amalfitano chiamato Amalfion, congetturano che ab-
bia soggiornato nel quartiere dei mercanti della città tirrenica17. È
però molto più probabile che sia stato ospite del monastero bene-
dettino situato sulla riva del Bosforo. Fra l’altro, il monastero bene-
dettino costantinopolitano ebbe un omologo in quello athonita. Si
trattava di un luogo appropriato dove Leone potrebbe aver sentito
parlare della santità di Atanasio e della sua lavra18.
Facendo riferimento ai tempi in cui la Chiesa era indivisa all’in-
terno dei territori dell’ex Impero Romano e apprezzando l’integrità
spirituale di Leone, l’eventualità che sia sbarcato da Costantinopoli
è stata sostenuta anche da studiosi di parte ortodossa quali Sophro-
nios Kalligas e Gerasimos Smirnakis. Secondo loro, il monastero ad
Agion Oros fu fondato da «padri ortodossi italiani» che «possedeva-
no un metochion (una filiale) a Costantinopoli da cui hanno traspor-
tato tutto quanto serviva per costruire la casa athonita»19. Secondo
una non meglio definita «tradizione athonita» riportata da Smirna-
kis, pur se è appurato che il nome del fondatore del monastero lati-
no fosse «Beneventos », la maggioranza dei religiosi da lui raccolti era
amalfitana20. Questa storia ha un inevitabile sapore salomonico, ma
è piuttosto realistica. L’insediamento sul Monte Athos, intorno al-
l’ultimo quarto del X secolo, di monaci longobardi tonsurati nella
penisola italica all’interno dell’orbita di Montecassino o nella stessa
abbazia cassinate e che successivamente avevano dimorato nella me-
tropoli dell’impero bizantino ha un importante corollario21. Condi-

16Morris, 2008.
17Pertusi, 1953: 10. Id., 1963: 224.
18 Balard, 1976: 91. Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 12, 35-36, nota 42.
19 Kalligas, 1895: 93. Cfr. Pertusi, 1953: 3, nota 4. L’idea che il monastero lati-

no sia stato fondato da «monaci ortodossi» fu presunto anche da Riley (1887: 152).
20 Smyrnakis, 1903: 419.
21 Balard, 1976: 91. Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 12, 35-36 e n. 42.

Merlini, 2014.
IL PASSAGGIO DA COSTANTINOPOLI AL MONTE ATHOS 53

videndo il destino di altri gruppi periferici di religiosi, essi non ven-


nero attratti da un presunto ampliamento della radianza geografica
del magnetismo religioso di Atanasio come ci vuol far credere la bio-
grafia di questi. Infatti, non arrivarono alla Santa Montagna né dai
loro luoghi di origine né da quelli di formazione spirituale. Molti
dei nuovi venuti transitarono attraverso regioni in cui il monachesi-
mo rivisto da Atanasio l’Athonita era già noto e apprezzato. Per i
georgiani il trampolino più importante fu il Monte Olimpo di Bi-
tinia, dove si erano stabilite da tempo loro comunità monastiche ed
eremitiche. Come abbiamo già osservato, anche i fondatori di Ivi-
ron venivano da lì, così come la maggioranza dei confratelli che par-
teciparono all’avvenimento della sua edificazione. Per gli italici, il
punto chiave di passaggio e di “rimbalzo” fu Costantinopoli.
La vexata quaestio
della data di costruzione

P er lungo tempo, la data di costruzione del monastero di Leone


il Grande è rimasta una discussione aperta.
Gli studiosi si sono frazionati secondo sei diverse cronologie, di
cui tre sono tarde, due sono anticipate e una è corretta. Le elenchia-
mo in estrema sintesi. Per chi segue un ordine temporale posticipa-
to, il monastero benedettino sarebbe sorto, su impulso papale, agli
inizi del XIII secolo (nei primi anni dell’Impero Latino d’Oriente),
oppure alla fine del XII secolo (all’interno del tentativo di riconci-
liazione fra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente guidato dalla
prima), oppure ancora intorno alla metà del XI secolo. Una crono-
logia precoce fissa invece la fondazione prima del 984, preferibil-
mente tra il 980 e il 984, ma c’è anche chi l’antecede addirittura al
970. La convincente ricostruzione di Pertusi stabilisce invece il pro-
cesso di edificazione entro la finestra temporale del 985-9901.
La gamma di opzioni riguardanti il momento fondativo dell’ano-
mala comunità monastica è così vasta per mancanza di informazio-
ni precise sia nelle fonti documentarie italiane, sia nelle cronache del
Monte Athos. Nella Chronica Monasterii Casinensis si fa solo un ac-
cenno indiretto. Su questo periodo storico, l’antico Chronicon
Amalfitanum pubblicato da Muratori è mutilo. Sul versante athoni-
ta, l’archivio di Amalfion non esiste più. Dal punto di vista architet-
tonico, si tenga conto che costruzioni così antiche da essere databili
alla fine del X secolo, come la base della torre di Apothikon-Amal-
fion, sono molto rare ad Agion Oros. Nei pressi delle rovine benedet-
tine, esiste unicamente la torre del piccolo chiostro di Mylopotamos,
attribuita all’impeto edificatore di Atanasio l’Athonita2.

1 Per una analisi, vedi Merlini, 2016.


2 Voyadjis, 1996: 201.
56 LA VEXATA QUAESTIO DELLA DATA DI COSTRUZIONE

Le uniche tracce che possiamo raccogliere su tempi e motivazio-


ne della fondazione del cenobio latino provengono dai testi agiogra-
fici già richiamati e da quanto sopravvive nella documentazione ar-
chivistica athonita. Sono fonti disperse e non sempre affidabili. Per
esempio, nella narrazione su Iviron non si fa menzione del rappor-
to fra gli italici e la Grande Lavra di Atanasio, mentre vengono de-
scritte in dettaglio le strette relazioni degli ivriti sia con i lavrioti, sia
con i benedettini, presentando Iviron come la casa sorella di questi
ultimi. La tradizione lavriota, al contrario, menziona Leone e la sua
fratellanza quasi esclusivamente in relazione a Sant’Atanasio e alla
sua intrapresa monastica. L’organizzatore del Monte Athos viene
presentato come loro mentore e protettore e il suo monastero come
la loro casa madre3.
Con tutte le dovute cautele, veniamo ora alle diverse cronologie
sulla data di erezione di Apothikon. È interessante approfondire le
date errate, perché non sono mai neutre. Il retropensiero alla base
della loro scelta individua sempre dei momenti topici nel difficile
rapporto fra il Monte Athos e l’Occidente “papista”. Provvederemo
quindi anche gli elementi atti a valutarle e recupereremo alcuni per-
sonaggi e fatti cui abbiamo già accennato.
Ancora oggi una tradizione storica occidentale e una vecchia me-
moria orale athonita condividono l’obsoleta affermazione di Eugè-
ne-Melchior De Vogüé, Alexandre Stanislas Neyrat, Francesco Peril-
la e Eugène Mercier secondo cui il «convento cattolico Omorphono»
(corsivo nostro) sarebbe stato fondato da monaci inviati da Amalfi
su «istigazione» di papa Innocenzo III che aspirava a latinizzare il
principale centro monastico dell’ortodossia4. De Vogüé specifica
che il «convento» fu innalzato dagli amalfitani in quanto «pionieri
instancabili, sempre in prima linea in tutte le intraprese occidentali
in Oriente»5.

3Smyrnakis, 1903: 419.


4Vogüé, 1878: 292. Neyrat, 1880: 46. Perilla, 1927: 35. Comunque, a pg.
41 nota 183, Perilla riporta criticamente l’asserzione di Vogüé, poiché Muravieff
aveva esaminato l’autografo dell’igùmeno amalfitano su un provvedimento del
1169. Vedi anche Riley, 1887: 152. È un atto conservato nell’archivio del mo-
nastero di San Panteleimon. Mercier, 1933: 417.
5 Vogüé, 1878: 263.
LA VEXATA QUAESTIO DELLA DATA DI COSTRUZIONE 57

Questi storici sincronizzano la loro tarda cronologia con l’emana-


zione pontificia di due bolle (nel 1209 e nel 1213) che misero Agion
Oros direttamente sotto la protezione della Santa Sede, dopo aver or-
dinato la fine immediata delle razzie sistematiche dei monasteri
athoniti effettuate dall’esercito latino di stanza in Macedonia. Nel
periodo intercorso fra i due atti ufficiali, nel 1210, il papa approvò
verbalmente la regola di Francesco ispirata alla “povertà apostolica”.
Innocenzo III, che si era inizialmente opposto all’attacco e sac-
cheggio di Costantinopoli del 1204, nel primo documento espresse
rispetto nei confronti di Agion Oros 6. Riconobbe che, «adornato di
300 monasteri», era un «luogo santo», la «Casa di Dio» e una «Por-
ta del Cielo». Deplorò anche i crimini commessi agli ordini del so-
vrintendente latino del Monte Athos, che sollevò dalla posizione di
comando. Purtroppo, però, i sistematici saccheggi avevano prodot-
to una drastica diminuzione dei monasteri e dei monaci athoniti7.
Dalle lettere papali, risulta evidente che l’attitudine pratica di Inno-
cenzo III differenziava i monasteri presenti nell’Impero Latino d’O-
riente in cinque categorie: imperiale, reale, patriarcale, episcopale e,
infine, del Monte Athos8. Conferì dunque a questi ultimi uno sta-
tus a sé stante.
Quattro anni dopo, papa Innocenzo III incontrò i delegati del
Monte Athos, giunti a Roma per presentagli un ricorso contro il
protrarsi delle attività vessatorie. Con il rilascio della relativa bolla,
ancora una volta elogiò la Santa Montagna in termini magniloquen-
ti, confermò la sua protezione personale e ratificò diritti e privilegi
elargiti in passato dagli imperatori bizantini. Non si ha registrazio-
ne della reazione ufficiale athonita rispetto a questo trattamento di
favore9. Di fatto, la versione latina sottolinea che il “Giardino di
Maria” riconobbe la giurisdizione papale10. Proverbiale è l’apertura
mentale del monaco athonita Domiziano (Domentijan, 1210 - do-

16 Łuczko, 1993: 30.


17 De custodia monasteriorum Montis Sancti, PL 216 0229. Innocenzo III,
Lotario de Conti, 1890: PL 216, 229. Hofman, 1925: 148-150. Richard, 1989:
45-62. Łuczko, 1993: 30.
18 Hendrickx, 2005: 223-232.
19 La bolla è stata pubblicata da Hofman, 1925: 148-150. Plested, 2010: 106.
10 Obolensky, 1988: 145.
58 LA VEXATA QUAESTIO DELLA DATA DI COSTRUZIONE

po il 1264), che riuscì a trovare le parole per esprimere venerazione


nei confronti della Santa Sede di Roma malgrado stesse scrivendo in
un ambiente che aveva sofferto molto per l’intolleranza e la brutali-
tà latina. Lo storico Dimitri Obolensky volle vedervi un segno che,
nonostante le dispute dottrinali e la rivalità giurisdizionale, nella
metà del XIII secolo la fede nella Cristianità unita era ancora viva
anche ad Agion Oros 11. Domiziano a quel tempo era uno dei leader
della fraternità athonita. Discepolo di San Sava – primo arcivesco-
vo ortodosso serbo, fondatore del monastero athonita di Chilanda-
ri e venerato come santo dalla Chiesa ortodossa serba – ne fu il pri-
mo biografo nel 1243-1254.
Il rapporto fra Santa Sede e Monte Athos comunque non pote-
va funzionare. In una famosa lettera del 12 aprile 1223, diretta al
priore dei Crociferi di Negroponte, papa Onorio III (regnante fra il
1216 e il 1227) inveì contro i monaci del Monte Athos, disobbe-
dienti e ribelli12. Ancora una volta, Amalfion non viene citato.
La congettura che la casa latina athonita fu eretta su “istigazio-
ne” di Innocenzo III nei primi anni del XIII secolo confligge con la
totale assenza di un qualsiasi accenno nei citati documenti papali.
Non possiamo quindi sapere se Amalfion svolse un ruolo di cernie-
ra fra il papa e la comunità monastica athonita. Non sappiamo
nemmeno se un suo rappresentante abbia fatto parte della delega-
zione in visita alla Santa Sede nel 1213. Inoltre, anche volendo, In-
nocenzo III non poteva imporre il suo patronato sul Monte Athos
fino a promuovere l’edificazione di un monastero lealista. Era infat-
ti operante una stretta gerarchia vescovile all’interno dell’Impero La-
tino d’Oriente che comprendeva, fra gli altri, gli arcivescovi di Ate-
ne, Salonicco, Patrasso e Corinto, senza contare altre decine di ve-
scovi, tra cui sei nel Peloponneso13.
Per illustrare la seconda opinione dei “ritardatari”, che fissa la
fondazione di Apothikon-Amalfion verso la fine del XII secolo, è
paradigmatica una testimonianza monastica. Nell’estate del 1899,
storici e paleografi fecero rilevare a padre Crisostomo, responsabile

11 Id., 1988: 146.


12 «Montis Sancti inobedientes Sedi Apostolicae ac rebelles».
13 Sibilio, 2009: 56 -103.
LA VEXATA QUAESTIO DELLA DATA DI COSTRUZIONE 59

dei manoscritti della Grande Lavra, che il codice 104 A, da lui cu-
stodito, doveva provenire da una regione latina della penisola italia-
na o in cui il latino era ben conosciuto. Lo attestavano le scritte col-
legate alla raffigurazione di San Giovanni e il peculiare stile paleo-
grafico. Indicativa è la ragione addotta dal religioso per spiegare la
presenza nel suo archivio di questo manoscritto “anomalo”: «Il mo-
vimento di riconciliazione fra le Chiese di Roma e di Costantino-
poli, avvenuto nel XII secolo, si sostanziò nella fondazione di un
monastero sul Monte Athos da parte di mercanti greci (corsivo no-
stro) collegati con Amalfi e perciò chiamato Amalfion. Dopo un pe-
riodo di prosperità, cadde in rovina. La sua biblioteca e le sue pro-
prietà sono state rilevate dalla Meghìsti Lavra»14. A parte il cortocir-
cuito storico dovuto all’apparentamento del latino Amalfi con mer-
canti greci, padre Crisostomo si sforza d’inserire la nascita del mo-
nastero benedettino come tassello di una volontà di reciproca ricon-
ciliazione fra le Chiese.
Studiosi come Manouel Ioannes Gedeon sostengono la terza cro-
nologia tarda, proponendo di fissare la costruzione del cenobio be-
nedettino nel 1046. Esso sarebbe quindi coevo con Dochiariou15.
In realtà, in quella data il suo scriptorium lavorava a pieno ritmo già
da tempo nella traduzione in latino di testi agiografici greci16.
Tiriamo le somme sulle tre correnti che propongono una data
posticipata circa la nascita del monastero, focalizzando sull’emble-
maticità dei periodi storici scelti dal punto di vista del rapporto Oc-
cidente-Oriente. Chi la stabilisce verso la metà del secolo XI la col-
loca qualche anno prima del momento più acuto dello scontro Oc-

14 Vedi Casparus Renatus Gregory, commentando il manoscritto registrato co-

me 104 A nel catalogo della Grande Lavra e da lui ricodificato come Codex Evang.
1071 nei Prolegomena al testo di Tischendorf, 1884. Vedi anche Lake, 2006: 132
sgg. Considerazioni paleografiche inducono a considerare il manoscritto in que-
stione come originario del Sud d’Italia, probabilmente dalla scuola di Nardo (Ne-
ritum), nei pressi di Rossano. Ha dunque buona possibilità di provenire dallo
scriptorium di Amalfion, come sostenuto da padre Crisostomo, importato da un
centro nei pressi di Rossano o da Amalfi. Purtroppo, finora nessuno studioso è ri-
uscito a ottenere dalla Grande Lavra il permesso di fotografare il manoscritto.
15 Gedeon, 1885: 92.
16 Letteralmente: “scrittura di cose sante”.
60 LA VEXATA QUAESTIO DELLA DATA DI COSTRUZIONE

cidente-Oriente (le scomuniche reciproche del Grande Scisma sono


del 1054). Chi, come padre Crisostomo, la situa intorno alla fine del
XII secolo, la inquadra entro un contesto di negoziazione e riconci-
liazione fra Occidente e Oriente includendola però entro la sfera
greco-bizantina, sottacendone la fondazione tutta latina e glissando
sull’origine benedettina. Chi la fissa dopo qualche decennio, la in-
terpreta come una “provocazione” papale in terra greco-bizantina.
All’opposto troviamo quanti sposano una cronologia precoce.
Secondo tale approccio, l’indagine storica e la tradizione athonita
confonderebbero la comunità monastica di Leone il Grande, fratel-
lo di Pandolfo II di Benevento, con una casa amalfitana sorta in pre-
cedenza, ma della cui data e motivazioni fondative non si sa molto.
Per evitare la presunta sovrapposizione, Thomas Brown e altri stu-
diosi hanno proposto una data di costruzione tra il 980 e il 98417.
Stando a Plested, la creazione di una casa latina deve essere avvenu-
ta prima del 98418. Secondo Fajfer, il basileus Niceforo Foca auto-
rizzò l’erezione del monastero latino in ringraziamento per il soste-
gno degli amalfitani nella campagna contro i musulmani19. Peccato
che l’imperatore sia stato assassinato nel 969, mentre il chiostro be-
nedettino vide la luce solo un trentennio dopo. La supposizione di
Belin e altri secondo cui l’iniziatore di Amalfion sarebbe stato diret-
tamente Atanasio di Trebisonda (cioè Atanasio l’Athonita) nel 970
è un nonsenso storico.

17 Brown, 1993: 11. Skinner, 2013: 216, nota 24.


18 Plested, 2010: 100, 101.
19 Fajfer, 2010a: 37.
Giovanni e Arsenio ci aiutano
a fissare l’anno della consacrazione

A rriviamo così alla ricostruzione sia di Pertusi che alla nostra.


Proveremo a sequenziare le poche tracce documentarie sulla
fondazione del cenobio di rito occidentale grazie all’aiuto dei mo-
naci che vi condussero una vita ascetica. Intorno al 972, il Tipikòn1
emanato dall’imperatore Giovanni I Zimisce rivelò l’esistenza di al-
meno quarantasei case monastiche al Monte Athos. Tutti gli abati
firmarono l’atto in greco e, apparentemente, erano tutti greci2. A
quel tempo, non esistevano monasteri stranieri e tanto meno latini.
Il carattere pancristiano della santa comunità, garantito dalla pre-
senza di cenobi eretti e/o acquisiti da fratellanze non greche, iniziò
a costituirsi non prima di un decennio.
Vediamo di riassumere la linea cronologica da noi seguita fin qui.
I georgiani Giovanni ed Eutimio, leader del primo gruppo di mo-
naci stranieri registrati dalle fonti, raggiunsero il cuore del mona-
chesimo greco-bizantino intorno al 9703, ponendosi sotto l’autori-

1 Nella Chiesa orientale non esistono ordini religiosi. Ogni monastero è to-

talmente autonomo e segue una propria Regola (Tipikòn). Si tratta del documen-
to che regola l’organizzazione di un monastero e disciplina la vita dei religiosi se-
condo i dettami del suo fondatore (che poteva anche essere un laico). Esisteva-
no inoltre monasteri patriarcali, metropolitani e provinciali, la cui fondazione e
dettato della Regola (Tipikòn) spettavano, rispettivamente, al patriarca, al metro-
polita e al vescovo locale.
2 L’atto è chiamato Tràgos, caprone, per il materiale su cui è vergato. Viene

conservato nel Protàton di Karyes. Vedi Prôtaton 7 in Actes du Prôtaton, Papa-


chryssanthou (a cura di), 1975. Firme in n. 1: 163-175.
3 Bonsall, 1969: 262-267. L’arrivo dei monaci georgiani è da porsi intorno

al 965 secondo Uspenski e altri studiosi. Vedi Actes de Lavra, I, Lemerle, Guil-
lou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 282. Actes du Prôtaton, Pa-
pachryssanthou (a cura di), 1975: 84, n. 217. Nastase, 1985: 254, 255, 310.
62 GIOVANNI E ARSENIO

tà (υποταγή) di Atanasio l’Athonita4. Cominciarono a innalzare Ivi-


ron verso il 979-980, sfruttando il patrimonio dell’illustre parente
Giovanni Tornicio, alto ufficiale di successo dell’esercito bizantino5.
Iviron divenne ben presto il più importante centro spirituale e cul-
turale della Georgia.
Leone il Grande approdò alla Santa Montagna con sei discepoli
quando la comunità georgiana era già costituita e il monastero di ri-
ferimento era in fase avanzata di costruzione o era appena stato edi-
ficato6. Dal 980 al 985, i religiosi latini soggiornarono presso la
Grande Lavra, che agiva da loro casa madre7, oppure presso Iviron, il
monastero confratello. La seconda ipotesi è supportata dall’evidenza
che, se Leone fu attratto ad Agion Oros dalla fama carismatica di Ata-
nasio, fu però aiutato concretamente dagli iberici. Poiché le pergame-
ne con le firme latine sui due atti già menzionati del 984 e del 985
provengono dall’archivio d’Iviron, si può inferire che, a dispetto del-
la compiaciuta tradizione agiografica dei lavrioti, i benedettini abbia-
no dimorato presso i georgiani. È questa l’ipotesi avanzata da Mey-
er8, Rouillard e Collomb nella redazione della prima edizione degli
Atti della Grande Lavra9 e da diversi storici georgiani. Questi ultimi
citano dalla loro il ricordo di un monaco del monastero di Molphin
sul pasto funerario numero 151: «Abbiamo preparato un banchetto
funebre per il nostro fratello Ianik»10. Secondo Jacques Lefour, Elene

14Lavra 29 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou


(a cura di), 1970: 19.
15 Actes du Prôtaton, Papachryssanthou (a cura di), 1975: 84, n. 225; 88; 40,

n. 192. Martin-Hisard, 1991: 109-110. Grdzelidze, 2009. Adontz, 1965: 305,


309, 310.
16 Pandolfo II diventò principe di Benevento nel 981. Secondo Nastase

(1983: 293), questa data può essere assunta quale terminus post quem per il tra-
sferimento verso est di Leone il Grande.
17 Pertusi, 1963: 221. È da rigettare come infondata la supposizione degli

editori del primo volume degli Atti della Lavra, secondo cui le due firme latine
bastino ad attestare l’esistenza del monastero fondato da Leone già nel dicembre
984. Vedi Lavra 6 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachrys-
santhou (a cura di), 1970: 60 e note.
18 Meyer, 1894: 157, righe 22-27.
19 Rouillard, Collomp (a cura di), 1937: n. 21, 1018-1019.
10 Berdzenishvili, 2007: 185, 266.
GIOVANNI E ARSENIO 63

Metreveli e altri storici georgiani, Ianik era un membro della fratel-


lanza benedettina athonita che, in attesa di veder edificato il proprio
chiostro, prese a lavorare e a risiedere nel cenobio georgiano11.
Indipendentemente se Leone abbia domiciliato alla Meghìsti La-
vra o a Iviron, quando il numero dei suoi discepoli aumentò fino ad
arrivare a una massa critica, grazie a nuovi arrivi da Costantinopoli
e da città della penisola italiana, il benedettino decise di costruire il
proprio cenobio12. La casa benedettina fu edificata quando erano
ancora vivi sia Atanasio l’Athonita che Giovanni l’Iberico13. Dun-
que, l’evento ha avuto luogo nel periodo compreso tra il 980 e il
1000-1005.
Dom Rousseau14 e Pertusi15 hanno ulteriormente affinato il ran-
ge cronologico di fondazione restringendolo al decennio 980-990
sulla base del resoconto delle peripezie di un altro benedettino be-
neventano, Giovanni. La narrazione è contenuta nella Chronica
Monasterii Casinensis di Leone Marsicano, la cui prima stesura risa-
le agli anni immediatamente successivi al 109916. Essa era stata an-
ticipata nei Dialoghi dei miracoli di San Benedetto del futuro papa
Vittore III (abate di Montecassino fra il 1058 e il 1087), redatti tra
la fine del 1076 e l’estate del 107917. Il monaco Giovanni il Bene-
ventano ha diversi punti in comune con Leone il Grande: discende-
va da una famiglia nobile di Benevento e nei circoli monastici go-
deva di una salda reputazione per la pietà cristiana. Il lettore viene
informato che Giovanni fu tonsurato a Montecassino e risiedette al
Monte Athos «per aliquot temporis spatia», sotto la protezione dei
confratelli italiani18, negli anni compresi fra il 993-994 e il 99619. È
ragionevole dedurre che, a quel tempo, il cenobio benedettino atho-
nita fosse già funzionante, dato che diede rifugio al confratello con-

11 Metreveli, 1998: 97.


12 Martin-Hisard, 1991: 109 sgg. Nikolaou, 1984: 314.
13 Georgian Writing, 1984: 105.
14 Rousseau, 1929: 536 sgg.
15 Pertusi, 1953: 8-10. Id., 1963: 222-223.
16 La narrazione si svolge nel libro II, capitoli 12 e 22.
17 Vedi anche Schmitz, 1942: 246.
18 Pertusi, 1953: 8-10. Id., 1963: 222-223.
19 Rousseau, 1929: 538. Pertusi, 1953: 9. Id., 1963: 223. Plested, 2010: 102.
64 GIOVANNI E ARSENIO

terraneo. Dedicheremo alcuni paragrafi alla storia straordinaria e


istruttiva di questo monaco, agganciandola ai primi anni di “rodag-
gio” della casa benedettina sul Monte Santo20.
Un ulteriore elemento va ponderato per quanto riguarda la cro-
nologia di fondazione di Apothikon. La prima firma su documen-
ti del Monte Athos da parte di un abate latino è del 991. Non era
Leone il Grande, ma un certo Giovanni che si firma, in caratteri la-
tini, in qualità di abate (higuminus )21. Pertanto, il 991 è il termi-
nus ante quem.
Sulla scorta di Pertusi, possiamo restringere ulteriormente la fine-
stra temporale al 985-990 sulla base dei due già citati atti in perga-
mena utilizzati come terminus post quem. Il primo documento è da-
tato dicembre 984. È stato trascritto dagli editori dall’originale cu-
stodito nell’archivio d’Iviron. Concerne una donazione da parte del-
la lavra di Atanasio l’Athonita a favore di Giovanni l’Iberico, igùme-
no di Iviron. È il primo documento conosciuto che fu sottoscritto in
latino da monaci latini: Giovanni e Arsenio. Il primo si firma «Ego
Ioh[annes] monachus testis su[m]»; il secondo: «Ego Arsenios[;]...(uro[;]
indignus monachus testis sum». Il loro autografo appare, fra sette te-
stimoni non lavrioti, a conferma dell’elargizione22.
Secondo Plested, la qualifica dei due monaci solo e semplice-
mente come testimoni e non anche come «membri della Grande
Lavra» è generalmente trascurata nelle fonti secondarie23. A suo di-

20Merlini, 2014.
21Lavra 9 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssant-
hou (a cura di), 1970: 118 sgg., in particolare 122. Pertusi, 1953: 10. Id., 1963:
224. Keller, 1994-2002: 8. Plested, 2010: 102. La sua sottoscrizione è stata ec-
cezionalmente inserita nella parte libera a destra di quella di Doroteo.
22 «Io, monaco Giovanni sono un testimone» e «Io Arsenio... monaco inde-

gno, sono un testimone», Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssan-


thou, Metreveli (a cura di), 1985: n. 6 sgg., 140 n. 60. Dölger, 1948: 292-295,
n. 108.61. Pertusi, 1963: 221. Nastase 1983. Ǡ Arsenius ... uro indignus mo-
nachus testis sum †», stando a Keller, 1994-2002: 8. Gli editori degli Actes d’I-
viron hanno completato la seconda firma come: Ǡ Ego Arsenios filio d(o)m(in)o
Lupo indignus monachus testis sum †». Falkenhausen l’ha resa nel seguente forma-
to piano: Arsenios filio domino Lupo indignus monachus (2005: 104. Ead., in cor-
so di pubblicazione).
23 Plested, 2010: 100, nota 8.
GIOVANNI E ARSENIO 65

re, il fatto corrobora l’eventualità che essi fossero al momento ospi-


tati non nel cenobio di Atanasio ma a Iviron. Tuttavia è anche pos-
sibile che fosse stato loro chiesto di firmare tra i non lavrioti sempli-
cemente perché, pur soggiornando presso di questi, appartenevano
a un’altra fratellanza impegnata a costruire la propria casa. Peraltro,
se non si sono definiti lavrioti, non si sono neppure identificati qua-
li ivriti. In ogni caso, ci preme evidenziare la certezza che, nel 984,
l’erezione del cenobio latino non era ancora avvenuta e che i mona-
ci italici erano ancora ospitati in altri monasteri24. I benedettini era-
no con tutta evidenza impegnati nella fase di transizione verso il lo-
ro monastero25.
È invece da rigettare come infondata la supposizione degli edito-
ri della seconda edizione degli Actes de Lavra del 1970, secondo cui
le due firme latine bastino ad attestare, già nel dicembre 984, l’esi-
stenza del monastero fondato da Leone e che verrà «successivamen-
te denominato degli Amalfitani»26. Essi basano la loro ipotesi sem-
plicemente sull’assunto che, a parte un economo di veneranda età,
tutti gli altri sei testimoni dovevano possedere per forza la qualifica
di igùmeno o almeno il potere di rappresentare il proprio monaste-
ro. In realtà, in diversi atti athoniti riscontriamo la testimonianza di
religiosi privi di responsabilità su una casa monastica. Giovanni e
Arsenio appartenevano a una comunità monastica, ma non ancora a
una casa monastica27.
La situazione si presenta ben diversamente l’anno successivo
(985), come dimostra il secondo documento dell’archivio di Ivi-
ron. I due confratelli autografarono ancora nel ruolo di testimoni,
ma il primo sottoscrive: «Ego Ioh[annes] monachos ton Apothikon te-
stis su[m] »28.

24 Pertusi, 1963: 221. Lavra 6 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoro-


nos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 60 e note.
25 Merlini, 2016.
26 Lavra 6 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssan-

thou (a cura di), 1970: 36, 60 e note.


27 Merlini, 2016.
28 Iviron 7 in Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssanthou, Metre-

veli (a cura di), 1985: 146, 151. Errando, Leo Bonsall 1969 elenca un solo docu-
mento sottoscritto dai monaci latini. Ma negli Atti di Iviron i documenti sono
66 GIOVANNI E ARSENIO

Il toponimo Apothikon (dei Magazzini), dove fu costruito il mo-


nastero latino, designa il promontorio della baia di Morphonou
identificabile con il Capo Kosàri. Siamo in un’area contigua al limi-
te settentrionale del territorio lavriota come definito nel Tipikòn re-
datto da Atanasio per organizzare il suo monastero29. Presupponen-
do che il cenobio benedettino fosse stato eretto fin da subito con il
nome di Amalfion, gli editori che hanno pubblicato il documento
hanno considerato ton Apothikon semplicemente come la denomi-
nazione del luogo su cui si ergeva Amalfion fin dal 98430. A dire il
vero, non appare verosimile che Giovanni abbia firmato un docu-
mento ufficiale decidendo di fare riferimento all’indirizzo e non al
nome del proprio cenobio, se ne avesse già avuto uno.
D’altra parte, la denominazione “dei Magazzini” è inusuale per un
monastero fondato da un “beneventano”, cioè “un romano”. Risolve-
remo più avanti il rebus. Merita qui mettere un punto fermo: il prov-
vedimento del 985 è la prima prova documentaria dell’esistenza non
di un monastero denominato Apothikon, quanto di una fratellanza
latina che stava erigendo la sua casa su un promontorio chiamato
Apothikon. Giovanni si dichiara affiliato ai “Magazzini”, perché il
suo monastero non era ancora stato ultimato e consacrato, quindi de-
nominato con tutti i crismi il “cenobio del beneventano / dei bene-
ventani” oppure, meglio, “il cenobio del romano / dei romani”. Cer-
tamente, non il “cenobio dell’amalfitano / degli amalfitani”.
Nel documento del 985, riscontriamo un altro cambiamento si-
gnificativo: il secondo monaco non si firma più Arsenios, in lingua
greca, ma Arsenio, in lingua latina31. Giovanni e Arsenio erano ve-

due, uno del 984 e l’altro del 985. L’equivoco è dovuto all’esistenza del secondo
documento in due versioni originali denominate A e B dai curatori degli Atti. La
prima è senza le firme dei monaci latini; nella seconda esse sono aggiunte nell’in-
terlinea. Cfr. la tavola di raffronto delle firme in Actes d’Iviron, Lefort, Oikono-
mides, Papachryssanthou, Metreveli (a cura di), 1985: 146.
29 Iviron 7 in Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssanthou, Metre-

veli (a cura di), 1985: 137 sgg. e 147 sgg. Pertusi, 1963, tav. III. Falkenhausen,
1993: 91 sgg. Ead., 2005a: 104 sgg.
30 Iviron 7 in Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssanthou, Metre-

veli (a cura di), 1985: 138.


31 Plested, 2010: 100.
GIOVANNI E ARSENIO 67

rosimilmente tra i compagni arrivati al Monte Athos con Leone da


Benevento e hanno con lui co-fondato il monastero su un capo de-
nominato Apothikon32. La parte inferiore della torre, tuttora esi-
stente, appartiene a questa prima fase33.
Queste sono le uniche e striminzite informazioni disponibili sul-
la nascita dell’unico monastero di rito latino al Monte Athos.
Tirando le somme, gli indizi accumulati confermano che il ceno-
bio benedettino fu costruito quando sia Atanasio l’Athonita che
Giovanni l’Iberico erano ancora vivi (cioè prima del 1000-1004)34
e poco dopo la costruzione di Iviron (circa 979-980), casa-sorella di
Apothikon35. La data più plausibile per la consacrazione è intorno
al 985-990. Secondo la tradizione lavriota, tra il 980 circa e il 985
circa, Leone e i confratelli sono stati graditi ospiti di Atanasio, men-
tre la tradizione degli ivriti li vuole al riparo nel loro monastero ap-
pena edificato36. È ragionevole pensare che, in un primo tempo, la
fratellanza benedettina fu accolta nella casa del carismatico organiz-
zatore del Monte Athos e che, una volta divenuto agibile Iviron, si
sia poi spostata dai confratelli non greci e non ellenofoni, con cui
aveva profonde assonanze e che la stavano aiutando anche material-
mente nella realizzazione del sogno di erigere un proprio edificio.
In conclusione, un’importante confraternita athonita prese cor-
po con eloquente reputazione per la sua pietà e integrità modellate
sulla regola e gli insegnamenti di San Benedetto. L’avvenimento ac-
cadde circa due decenni dopo la costruzione della Grande Lavra da
cui Leone il Grande dedusse il modello organizzativo di riferimento
e un quinquennio dopo la fondazione di Iviron che il monastero be-
nedettino assunse quale partner di riferimento37.

32 Iviron 6 in Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssanthou, Metre-


veli (a cura di), 1985: 140. Bonsall, 1969: 262-267. Plested, 2010: 101.
33 Voyadjis, 1996: 201.
34 Meyer, 1894: 25. Petit, 1906: 77. Peeters, 1917-1919: 23 sgg., 32, 36-37

§ 27, e 60. Martin-Hisard, 1991: 109 sgg. Pertusi, 1963: 222. Falkenhausen, in
corso di pubblicazione. Riguardo all’incertezza della data, vedi Noret (a cura di),
1982: CX-CXI, n. 25.
35 Pertusi, 1963: 221. Keller, 1994-2002: 5.
36 Per la tradizione levriota, vedi Smyrnakis, 1903: 419. Per la tradizione ivri-

ta, vedi Nastase, 1983: 293. Id., 1985: 253. Merlini, 2014.
37 Merlini, 2014. Id., 2016.
68 GIOVANNI E ARSENIO

La cronologia proposta rende obsolete le ipotesi contrastanti ri-


ferite in precedenza circa la data di fondazione del cenobio latino.
La casa “del romano / dei romani” non fu costruita a posteriori ri-
spetto a una presenza amalfitana sul Monte Santo, né durante le dis-
pute e le fallite riconciliazioni che prepararono il Grande Scisma e
neppure all’acme e come conseguenza del conflitto latino-ortodos-
so. Fu fondata nel momento e quale co-protagonista del debutto
della comunità ecumenica athonita.
I benedettini, co-protagonisti
nell’esordio della comunità
ecumenica athonita

C ome si presentava il “Giardino di Maria” al momento dell’arri-


vo e dell’insediamento degli italiani?
Abbiamo già osservato che, quando verso il 963 Atanasio consa-
crò la Meghìsti Lavra, la penisola era popolata soprattutto da eremi-
ti solitari o in comunità. Il santo si basò, con leggere modifiche, sul-
l’esperienza austera, organizzata nel dettaglio e ben disciplinata del
monastero Studion a Costantinopoli, concepita da San Teodoro lo
Studita (759-826) per far convivere un migliaio di religiosi in un
contesto urbano. San Teodoro lo Studita e Sant’Atanasio l’Athonita
si ispirarono direttamente alla regola di San Basilio. Una fonte se-
condaria fu la Regola di San Benedetto. Atanasio era un religioso de-
cisamente ambizioso e conscio delle proprie potenzialità1.
Lo schema organizzativo atanasiano è detto cenobitico (dal gre-
co koinobion e dal latino coenobium, vita in comune)2, perché i con-
fratelli risiedono in comune secondo uno stile di vita che intende ri-
percorrere le orme della prima comunità cristiana, quella di Geru-
salemme3. Tutta la proprietà è collettiva, come stabilisce ufficial-
mente la carta costituzionale del Monte Athos. Un monaco non
possiede neppure gli abiti indossati, anche se l’astinenza dalla pro-
prietà privata da parte dei singoli non inficia per il monastero la

1 È fuori registro la salomonicità di Leroy, che descrive l’intrapresa di Atana-


sio come un memorabile atto conscio di sintesi pan-monastica tendente a ricon-
giungere Teodoro lo Studita e San Benedetto, il bizantino e il romano, l’orienta-
le e l’occidentale (Leroy, 1963). Merlini, 2015.
2 Sarris, 2000: 39.
3 Atti degli Apostoli 4, 32-37.
70 I BENEDETTINI

possibilità di possederne. La vita, sia economica che spirituale, è or-


ganizzata in comunità: alloggio, mensa, ritualità e lavoro. I classici
voti di stabilità, povertà, castità e obbedienza sono disciplinati da
un’organizzazione gerarchica con a capo l’igùmeno e regolati da
norme inflessibili che definiscono nel dettaglio la vita del singolo re-
ligioso. Mentre l’eremitismo si contraddistingue per un afflato di
ascesi vissuto secondo scelte personali, la vita monastica della Gran-
de Lavra afferma come via di santità il primato dell’obbedienza e la
vita di relazione con i confratelli.
Secondo una logica economica che vede nel monastero un’istitu-
zione tendenzialmente autosufficiente, ogni religioso è tenuto a
contribuire al benessere della comunità con il suo lavoro. Nel quo-
tidiano, il sistema cenobitico instaurato da Atanasio sopprime la vo-
lontà individuale per aspetti cruciali come la preghiera, l’abbiglia-
mento, la dieta e il sonno4. Concepita come un tutto unificato la
cui forza va ben oltre la somma dei singoli religiosi, la struttura ce-
nobitica spinge il singolo all’ascesi e al tempo stesso lo difende dal-
le forze negative. I padri athoniti pensano che l’obiettivo primario
del diavolo sia separare il singolo monaco dal “nido” (il monastero)
e dalla “famiglia” (la fratellanza). Quando vi riesce, la sua missione
di grande traviatore diventa facile. Il primo Tipikòn, fortemente vo-
luto da Atanasio l’Athonita, recita un vero e proprio atto di fede in
una Gestalt verticistica: «Stabiliamo che tutti gli altri vivano nell’ob-
bedienza e siano guidati da un solo pastore che si prenda cura di lo-
ro... Dopo... aver trovato grazie all’esperienza ciò che è retto e utile,
abbiamo ritenuto... che tutti formassero un solo corpo composto di
molte membra... e si mostri al priore un’obbedienza vera, perfetta, pri-
va di ipocrisie (corsivo nostro)».
Anche grazie alla debolezza dell’autorità patriarcale su questa pe-
nisola decentrata e solidamente rocciosa5, a partire dall’erezione del-
la Meghìsti Lavra fiorì la stagione dei grandi cenobi e s’impose fra lo-
ro una ferrea gerarchia. Primeggiava fra tutte la comunità fondata
da Atanasio, con 700 monaci6. La posizione dei benedettini tende-

4 Choukas, 1934: 79, citato da Sarris, 2000: 51.


5 Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 12.
6 Hasluck, 1924: 26.
I BENEDETTINI 71

va a situarsi intorno al quarto posto, tra le decine di monasteri. Apo-


thikon-Amalfion veniva subito dopo il georgiano Iviron e il greco
aristocratico Vatopedi.
Giorgio Fedalto documenta una vera e propria colonizzazione
monastica del “Giardino di Maria”. Il regime para-militare cenobi-
tico in chiave athonita era funzionale alla trasformazione di un mo-
nastero in un’ampia impresa agricola ed economica. Ogni monaco
coniugava la preghiera al lavoro che veniva espletato anche attraver-
so figure professionali specializzate7. Congiuntamente al sistema ce-
nobitico, si diffuse ben presto l’architettura monumentale, si avviò
lo sfruttamento intensivo dell’agricoltura8, si introdusse l’utilizzo su
larga scala degli animali da lavoro e si ammisero tra le mura dei mo-
nasteri operai esterni quali fabbri, muratori, carpentieri e artigiani
vari9. La comunità benedettina fu tra le prime a condividere la rivo-
luzione organizzativa promossa da Atanasio10.
Questa risoluta trasformazione esasperò la millenaria tensione
esistente nella storia della Chiesa fra la vita comunitaria sottoposta
all’obbedienza di un padre spirituale (formulata nel IV secolo da
San Pacomio e San Basilio) e l’esistenza individuale, elementare e
vaga in eremi inaccessibili (preferita da Sant’Antonio abate). Ad
Agion Oros, lo scontro fu inevitabile, personalizzato dal duello orga-
nizzativo-spirituale fra Atanasio della Grande Lavra e Paolo di Xiro-
potamou, tenace assertore della validità dell’eremitismo. Essendoci

17 Molte di queste figure professionali sono tuttora incrociate dal pellegrino

durante la visita ad Agion Oros : il portàris (il portiere), l’archondaris (l’addetto al-
la foresteria e all’accoglienza degli ospiti), l’ekklisiastikòs (il sacrestano), il trape-
zàris (il gestore del refettorio), il maghiras (il cuoco), il kodonokrustis o kamba-
nàris (il campanaro), il dochiàris (il magazziniere e cantiniere), l’anaghnòstis (il
lettore), il vivliofylax (il bibliotecario), lo skevofylax (il conservatore del tesoro),
l’arsanàris (l’addetto al porticciolo). È possibile ancora imbattersi nel vadonàris
(l’addetto ai trasporti con i muli e alle loro stalle), senza contare gli agricoltori,
gli orticultori e i boscaioli.
18 Sotto Atanasio, la Grande Lavra implementò un sistema di irrigazione e

riorganizzò le risorse umane contadine. Lo Stato incoraggiò tali attività rinun-


ciando in parte a tassare l’accresciuto valore del terreno che ne derivava. Vedi Ka-
plan, 1992: 330. Lefort, 2007: 298. Harvey, 2003: 160-161.
19 Santarelli, 2009: 21.
10 Merlini, 2012. Id., 2014.
72 I BENEDETTINI

di mezzo Atanasio, il potere imperiale venne pesantemente coinvol-


to. Alla morte del suo grande discepolo e amico, il basileus Nicefo-
ro Foca II, il successore Giovanni I Zimisce inviò al Monte Athos lo
studita Eutimio nel ruolo di visitatore e vigilatore imperiale. E su
consiglio di questi emanò, nel 972, il primo Tipikòn con il quale af-
fermò l’importanza del cenobitismo, senza peraltro sconfessare la vi-
ta ascetica e contemplativa in località isolate. Si trattò della parzia-
le, ma definitiva, vittoria del cenobitismo sull’eremitismo. Imme-
diatamente fiorì la costruzione dei grandi cenobi guidati dagli igù-
meni (oggi quelli attivi sono 20). Da allora, ogni eremitaggio deve
avere un monastero quale punto di riferimento. Degli eremiti resi-
denti sul Monte Athos prima di Atanasio si è persa ogni traccia.
I rapporti con la Grande Lavra,
centro motore
del mondo religioso bizantino

S in dalla nascita, il Monte Athos di Atanasio acquisì un carattere


spiccatamente panortodosso (con la presenza di georgiani, alba-
nesi, russi, armeni, serbi, bulgari, romeni e altri) e pancristiano (con
i benedettini di Apothikon-Amalfion). Le inevitabili frizioni etni-
che fra confratelli greci e non greci venivano in buona misura assor-
bite dalla comune tensione verso uno scopo condiviso. Come osser-
va Oikonomides, noi tendiamo a giudicare con il metro contempo-
raneo la Grande Lavra e Agion Oros quali centri internazionali, ma
così facendo utilizziamo un concetto alieno dal modo di pensare
medioevale, dominato dall’ideale imperiale1. Di conseguenza, se la
propensione all’apertura sopranazionale era stata una caratteristica
dell’intero Monte Athos anche prima della vittoria cenobitica, un
salto di qualità fu impresso dal ruolo acquisito dal monastero di
Atanasio quale centro motore dell’universo religioso bizantino. Es-
so rifletteva la politica ecumenica dell’impero ed era protetto diret-
tamente dal trono.
L’impianto dell’agiografia athonita è deterministico: Atanasio,
come del resto anche Giovanni l’Iberico ed Eutimio l’Athonita, so-
no presentati come eroi il cui magnetismo, dovuto all’implacabile
successo spirituale, richiamò da ogni dove confratelli che intende-
vano condividerne l’esperienza spirituale2. Nelle loro biografie, il
cammeo narrativo sulla fondazione della struttura benedettina
confermava che non solo i religiosi greco-bizantini dell’Italia meri-
dionale, ma perfino quelli latini amministrati dal papato ammira-

1 Oikonomides, 1988: 167.


2 Noret (a cura di), Vita A, 158.74, Vita B, 43.176. Keller, 1994-2002: 4.
74 I RAPPORTI CON LA GRANDE LAVRA

vano profondamente la vita monastica condotta sulla Santa Mon-


tagna ed erano desiderosi di condividerla. L’instaurazione di una
casa occidentale mirava dunque a suggellare il momento magico in
cui la volontà degli imperatori bizantini e la spinta spiritual-orga-
nizzativa di Atanasio fecero evolvere la comunità athonita in tem-
pi relativamente brevi in un vibrante simbolo dell’impero ecume-
nico cristiano, o meglio, in un vero e proprio microcosmo di ecu-
menicità imperiale cristiana3.
Tuttavia, come hanno giustamente osservato René Gothóni e
Graham Speake, è rischioso enfatizzare e focalizzare l’attenzione so-
lo sul momento in cui un gran numero di monaci sarebbero stati at-
tratti dalle regioni più lontane dell’impero come diretta conseguen-
za della fama di Sant’Atanasio e dell’ardore ascetico da lui suscitato.
Vi sono prove evidenti che, per molti di loro, la Santa Montagna
non fu né la prima né l’ultima destinazione spirituale4. In ambito
bizantino, e più in generale in quello orientale, la formazione mo-
nastica era permanente e in itinere.
In contraddizione con la supposta attrazione a senso unico del
monachesimo occidentale verso quello greco-bizantino athonita,
vanno inoltre rilevati sia la presenza di centri latini in altre regioni
orientali, sia il trasferimento di monaci greci in regioni sotto la giu-
risdizione papale5. Su questo secondo versante, fra l’897 e il 1000
numerosi monaci greci e mediorientali si stabilirono nei territori di
Capua/Benevento, Montecassino, Amalfi, Salerno e Gaeta, per sfug-
gire alle incursioni saracene. La storia che abbiamo raccontato di Pie-
tro l’Athonita, eremita del Monte Athos tonsurato monaco a Roma
dal papa intorno alla metà del IX secolo6, è un primo esempio straor-
dinario di contatti bilaterali fra monachesimo orientale e occidenta-
le7. Nel 902, giunse ad Amalfi Sant’Elia il giovane (ca. 829-904),

3
Nastase, 1985: 309-310. Vedi anche Vranoussi, 1978: 740-741. Merlini,
2014.
Keller, 1994-2002: 8.
4 Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 37.

Keller, 1994-2002: 8.
5 Id., 1994-2002: 8.
6 Lake, 1909: 12.
7 Fajfer, 2010a.
I RAPPORTI CON LA GRANDE LAVRA 75

proveniente da Taormina. Morirà a Salonicco, alle porte del Monte


Athos. Verso il 980, San Nilo di Rossano Calabro pervenne nell’a-
rea di Montecassino. Aveva lasciato la sua terra attorno al 970, pre-
vedendo la ripresa delle incursioni arabe, e aveva deciso di ritirarsi
in aree di lingua latina sperando di rimanere nell’ombra8. Fu tanto
venerato ad Agion Oros che una sua breve biografia venne redatta dal
monaco athonita Macario per essere aggiunta al Sinassario, il libro
delle Vite dei santi in uso nella Chiesa Ortodossa.
Poco tempo dopo, un altro monaco di origine siciliana, San Sa-
ba di Collegano, si rifugiò ad Amalfi per sottrarsi alle incursioni dei
saraceni. Visse in una grotta eremitica e successivamente divenne
igùmeno nel Mercurion, il solitario territorio incuneato tra i confi-
ni di Calabria e Langobardia – quindi tra l’impero bizantino e il
principato di Salerno – in cui fiorì per molti secoli il monachesimo
greco-orientale. Il connubio spirituale fra il Mercurion e il Monte
Athos è stato ampiamente documentato. Il primo veniva addirittu-
ra chiamato “il Monte Athos di Calabria”, per l’affinità spirituale e
per l’alone di sacralità leggendaria che sembrava porre entrambi al
di là del tempo e dello spazio9. Sul confine Salerno-Amalfi, il rito
greco era presente in almeno una chiesa, San Nicola a Gallucanta10.
L’importazione di religiosi e di spiritualità greco-bizantina nell’area
latina della penisola italiana ebbe sicuramente una forte influenza
sui benedettini che per primi si diressero verso Oriente e specifica-
tamente verso la Santa Montagna.
Dobbiamo inoltre considerare i religiosi in pellegrinaggio dal-
l’impero bizantino alla volta di Roma, generalmente passando per il
Mezzogiorno della penisola italiana. Il prototipo fu il pio e devoto
San Nicola il Pellegrino (1075-1094), con una straordinaria vita
narrata da un ricco corpus documentario. Armato di una croce, for-
te di un’interpretazione mistica e radicale del Vangelo e al grido in-
cessante del Kyrie eleison, partì dalla Beozia, attraversò miracolosa-
mente l’Adriatico dopo essere scivolato o essere stato gettato in ma-
re dalla nave e attraversò la Puglia puntando su Roma, che però non

18 Migne, 1856-1866: 120, c. 124.


19 De Rosa, 1998: 199.
10 Skinner, 2013: 217.
76 I RAPPORTI CON LA GRANDE LAVRA

raggiunse. Morì a Trani, di cui divenne patrono11. Il pazzo per Cri-


sto aveva 19 anni. A distanza di una manciata di chilometri, i bare-
si erano da poco riusciti nell’impresa di trasportare nella loro città le
reliquie di San Nicola di Mira (Turchia).
Abbiamo già accennato alla spiccata piramidalità del sistema
athonita non solo all’interno dei monasteri, ma anche nei loro rap-
porti reciproci. Il cenobio imperiale della Meghìsti Lavra era natu-
ralmente il fulcro di Agion Oros. Atanasio riscuoteva l’obbedienza da
parte di tutte le comunità monastiche straniere, benedettina com-
presa12, essendone il loro «comune custode e protettore»13. Persino
la prima confraternita straniera registrata dalle fonti, quella georgia-
na, rimase per lungo tempo dipendente dalla Grande Lavra e il suo
leader, Giovanni l’Iberico, continuò a riconoscere l’autorità di Ata-
nasio anche dopo esser divenuto igùmeno del monastero “autono-
mo” da lui fondato14.
La sottomissione delle comunità straniere sostanziava il voto di
obbedienza monastica (υπακοή). Ma il ruolo di Atanasio quale mo-
naco alfa non si arrestava alla sfera spirituale, anzi si spingeva a com-
prendere gli ambiti organizzativi e secolari. Rappresentava non que-
sto o quell’imperatore, bensì il potere sovrano stesso, a prescindere da
quale basileus fosse in quel momento insediato sul trono. Questo
ruolo produsse un salto di qualità nella strategia politica bizantina
della “sfera di influenza”. Come già osservato, spesso i fondatori stra-
nieri dei monasteri collegati ad Atanasio l’Athonita erano membri di
famiglie che dominavano su regioni periferiche e a ridosso di quei li-
miti estremi dell’impero che i bizantini cercavano di forzare con
guerre di espansione15. L’obbedienza ad Atanasio esprimeva pertan-
to anche fedeltà politica e assimilazione culturale-religiosa da parte
dei leader locali all’imperatore di Costantinopoli oppure, in casi co-

11Oldfield, 2008. Cioffari, 2014.


12Noret, (a cura di), 1982. Vita A: 74.158.
13 Id., (a cura di), 1982. Vita B: 176.43.1-2.
14 Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura

di), 1970: 43, 44.


15 «Roma», «Italia», Amalfi e Calabria verso ovest; Iberia e Armenia verso est;

Bulgaria (conquistata completamente nel 1018), e lo Stato Kievano (Ucraina)


entrato nell’ecumene cristiano orientale intorno al 955.
I RAPPORTI CON LA GRANDE LAVRA 77

me la Calabria, manifestava il controllo diretto esercitato dal basileus


sui loro territori16. Il dispositivo di fidelizzazione subalterna dei mo-
naci stranieri di ascendenza nobile, precondizione al permesso di
fondare o di acquisire un monastero al Monte Athos, correva in
parallelo e in modo coerente agli sforzi dei parenti in patria per ot-
tenere titoli onorifici bizantini (ypathos, anthypatos, vestes etc.) e alte
posizioni nella gerarchia civile e militare (governatore o generale).
Il voto di obbedienza ad Atanasio da parte dei confratelli stranie-
ri si coniugava con un elemento profondamente innovativo, perché
universalistico, della sua concezione monastica: il trattamento sen-
titamente egualitario riservato ai monaci non tonsurati presso la
Grande Lavra ma in precedenza. Nessuno doveva sentirsi straniero
nella sua comunità, latini compresi. Al contrario, tradizionalmente
i monaci che entravano in una nuova fratellanza dopo aver preso i
voti altrove erano relegati in una posizione di inferiorità. Rimaneva-
no sempre confratelli “alieni”, sintetizza Turner17.

16 Nastase, 1985: 310.


17 Turner, 1990: 45. Plested, 2010: 100.
Altri eremiti e monaci italiani
ad Agion Oros al tempo di Apothikon

A bbiamo in precedenza segnalato l’influenza che l’afflusso di re-


ligiosi greco-bizantini dal Sud della penisola italica ebbe sui be-
nedettini fondatori del cenobio athonita. Pertusi la enfatizza al pun-
to da collegare intrinsecamente la nascita di Apothikon (per lui
Amalfion) con la presenza attiva, alla fine del X secolo, di monaci e
santi greci in Campania; mette dunque in stretta relazione l’espor-
tazione di un centro religioso latino nella koinè greco-bizantina con
l’importazione in area amalfitana di religiosi greco-bizantini1. Le co-
se non stanno proprio così.
Anzitutto, ben prima dell’erezione di Apothikon, non solo mo-
naci ma anche eremiti delle regioni bizantine della penisola italiana
furono attratti dal Monte Athos come da una calamita. Nella secon-
da metà del X secolo, fece rumore l’arrivo dalla Calabria del mona-
co Penton e dell’allievo Niceforo l’Ignudo (Niceforo il Nudo), il cui
soprannome era dovuto alla scelta di praticare la nudità integrale
quale contrassegno di povertà assoluta2. Niceforo aveva abbracciato
questa rinuncia già in Calabria, con molta probabilità nell’entroter-
ra di Scalea. Seguiva le orme del conterraneo, compagno e maestro
Fantino il Giovane (c. 900 - c. 1000) che, in seguito a una visione
della temuta e sperata apocalisse, aveva imposto a se stesso e ai suoi
discepoli l’esercizio ascetico della nudità integrale in segno di totale
rinuncia del mondo. In particolare, aveva correlato la rivelazione
avuta sul Giudizio Finale alla scelta della nudità mediante un’esor-
tazione costante rivolta ai seguaci: «Fratelli e padri miei, se deside-
rate sapere ciò che ho appreso, vi dirò che sono cose assolutamente

1 Pertusi, 1963: 225. Skinner, 2013: 217.


2 Keller, 1994-2002: 4.
80 ALTRI EREMITI E MONACI ITALIANI AD AGION OROS

indescrivibili; comunque, se volete dare davvero ascolto al mio con-


siglio, rinunciate a tutto ciò che avete e andate via di qua nudi»3.
Fantino si trasferì verso la fine della vita nella regione confinante
con il Monte Athos. A Salonicco, s’imbatté nei due leader-rivali del-
la Santa Montagna: Atanasio della Grande Lavra e Paolo di Xiropo-
tamou, in viaggio alla volta di Atene. Non fu un incontro partico-
larmente fortunato. Racconta la sua biografia che, incrociati i due
igùmeni, Fantino cadde prono ai loro piedi chiedendo di essere be-
nedetto. Essi passarono oltre, senza neppure degnarlo di uno sguar-
do. Un suo discepolo li accusò di superbia, ma il santo lo rintuzzò:
«Smetti di giudicare: uno è Atanasio, l’altro è Paolo»4. Comunque,
la Vita A di Sant’Atanasio rivaluterà a posteriori Fantino, ricono-
scendone la “beata memoria”. Il monaco calabrese fu accolto nel Si-
nassario di Constantinopoli5.
Niceforo, dopo aver seguito alla lettera la lezione di Fantino il
Giovane in Calabria e in Macedonia, una volta giunto al Monte
Athos moderò il proprio rigore, tramutatosi al tempo stesso da ere-
mita “svincolato e sciolto” a eremita dedito all’obbedienza ad Ata-
nasio e al regime cenobitico della Grande Lavra6. Gli fu quindi con-
sentito d’indossare come unico indumento un tessuto lacero porta-
to a foggia di lenzuolo e di continuare a condurre la vita solitaria a
cui aspirava, ma nei pressi del cenobio, sotto il rigido controllo del
suo superiore e dipendendovi per la vita liturgica. Della sua ascesi
verso la santità diede testimonianza postuma, stando alla tradizione
athonita, con il prodigioso trasudamento di unguento profumato
dalle sue reliquie7.
Penton e Niceforo l’Ignudo emblematizzano l’esistenza di una
peculiare identità greco-calabra anche in materia di ascesi spiritua-
le. Tale modello privilegiava una rigida anacoresi in coesistenza con

3 Follieri, 1993: 430 sgg. Burgarella, 2002: 63 sgg.


4 Monaco, 2005: 185/198. Yannopoulos, 1995: 480-481. Di Branco, 2005:
81-82.
5 È una raccolta di brevi notizie agiografiche sui santi celebrati nel calenda-

rio liturgico.
6 De Leo (a cura di), 2004: 42.
7 Noret (a cura di), 1982: Vita A, cap. 160, Vita B, cap. 43. Cfr. Follieri,

1993: 86 sgg.
ALTRI EREMITI E MONACI ITALIANI AD AGION OROS 81

forme meno drastiche di vita monastica. La trasformazione com-


portamentale dell’asceta Niceforo l’Ignudo, una volta trasferitosi al
cenobitico Monte Athos, ci attesta che, se l’identità greco-bizantina
di Calabria presentava accenti locali e tratti rudi, partecipava però al
comune modello di tradizione monastica. Sicché un religioso greco-
calabro poteva confluire in altri ambiti dell’ecumene bizantina non
rinnegando la propria identità, ma adeguandola al nuovo ambiente.
Fu così che, se ad Agion Oros Niceforo dovette stemperare il radica-
le insegnamento di Fantino il Giovane, il suo esempio introdusse
negli ambienti athoniti il percorso ascetico che includeva anche la
mortificazione raggiunta con una nudità (quasi) integrale, cui non
mancarono i cultori. D’altra parte, la nudità era già ampiamente
prevista dalla tradizione patristica, ecclesiastica e monastica non so-
lo come esercizio penitenziale, ma anche come segnale di recupero
della santità originaria dell’uomo, riottenuta con il battesimo8.
Niceforo l’Ignudo è una figura particolarmente venerata nella
memoria collettiva del Monte Athos, perché incarna un tratto riba-
dito ed enfatizzato della sua eroica fase di decollo. Nella Vita A di
Sant’Atanasio9, è preso a testimonial privilegiato del magnetismo
del fondatore di Agion Oros, capace di attrarre non solo «igùmeni e
prelati» (dunque, il vertice ecclesiastico), ma anche i tendenzialmen-
te renitenti asceti senza fissa dimora, dai piedi nudi e mai lavati, sof-
ferenti per i pesanti cilici e gravati da collari di ferro. Sotto la salda
guida di Atanasio, persino Niceforo – assunto a emblema degli ere-
miti duri e puri – passò gradualmente dall’eccellenza dell’eremitag-
gio alla virtù del cenobio10.
Alla svolta del millennio, la presenza di monaci provenienti da
regioni bizantine della penisola italica fu così massiccio da aver in-
dotto la fondazione di diversi monasteri, ora scomparsi, quali Kla-

18 La nudità ebbe un fortissimo valore simbolico anche in ambiente latino.


Un lontano e certamente ignaro seguace di San Fantino il Giovane e di Nicefo-
ro l’Ignudo fu San Francesco d’Assisi, svestitosi totalmente al cospetto del suo
vescovo nell’atto di rinunzia dell’eredità paterna e ancora volutamente nudo in-
tegrale sulla nuda terra dopo il trapasso. Cfr. De Leo (a cura di), 2004: 43.
19 Anche la Vita B ricorda Niceforo, ma più succintamente. Vedi Noret (a cu-

ra di), 1982: cap. 43, 177.


10 Noret (a cura di), 1982: Vita A, cap. 160, vedi anche 77. Follieri, 1997: 380.
82 ALTRI EREMITI E MONACI ITALIANI AD AGION OROS

vros, Chiliados e altri. Un documento athonita del 985 conserva la


firma di Phantinos, scritturale del protos 11 Tommaso e igùmeno del
cenobio chiamato ‘dei siciliani’, Sikelou o Toa Sikeloà. Nel 996, il su-
periore era Niceforo. La casa dei siciliani è dunque coeva ad Apothi-
kon12. È anche possibile che sia più antica, se si segue la pia tradi-
zione che la vuole fondata dal monaco Luca, originario della Sicilia.
In effetti, Phantinos si dichiara monaco e igùmeno del monastero
di Luca di Sicilia13. Il cenobio italo-greco di rito bizantino dedicato
a San Basilio era denominato “dei calabresi” o Toa Kalabroà e fiorì
nel XII secolo14.
Il cenobio “dei calabresi” non nacque con questa denominazio-
ne, ma lo diventò in onore del calabrese San Bartolomeo da Simeri
(1050-1130). Secondo la versione ortodossa, Bartolomeo decise di
partire per Costantinopoli poco tempo dopo la formalizzazione del-
le divisioni Occidente/Oriente, convinto di recuperare le sorgenti
religiose e culturali che ne avrebbero conservato l’integrità spiritua-
le. Stando alla versione cattolica, si recò a Costantinopoli alla caccia
di testi agiografici per incrementare la biblioteca da lui istituita pres-
so la comunità monastica e/o per completare l’arredo della chiesa
con immagini, vasi sacri e paramenti. Le due narrazioni convergo-
no nel descrivere Bartolomeo ricevuto con tutti gli onori dall’impe-
ratore d’Oriente Alessio I Comneno (1048-1118) e dall’imperatri-
ce Irene, dalla cui munificenza ricavò doni superiori a ogni aspetta-
tiva. Il santo ebbe, fra l’altro, una copia della venerata e preziosa ico-
na di Santa Maria Odigitria, che collocò nella chiesa di Santa Ma-
ria del Pàtire (Patiron) di Rossano.
Durante la permanenza nella capitale imperiale, Bartolomeo si
legò all’eunuco Basilio Calimeris, alto funzionario di corte con cui

11
È il rappresentante generale della comunità monastica del Monte Athos,
una sorta di primo ministro; letteralmente, “il primo uomo”.
12 Toa Sikeloà. Lavra 57, in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Pa-

pachryssanthou (a cura di), 1970: 68, 69. Actes du Prôtaton, Papachryssanthou (a


cura di), 1975: 90. Pertusi, 1963: 242-3.
13 Smyrnakis, 1903: 30.
14 Toa Kalabroà. Lavra 57, in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos,

Papachryssanthou (a cura di), 1970: 68, 69. Dölger, 1948: 278. 26-27. Pertusi,
1963: 241. Zaccagni, 1996.
ALTRI EREMITI E MONACI ITALIANI AD AGION OROS 83

probabilmente condivideva l’origine greco-calabrese. Questi gli affi-


dò l’incarico di mettere ordine e ripristinare la disciplina nel ceno-
bio di San Basilio, sul Monte Athos, allora in piena decadenza mo-
rale15. Il monastero era stato fondato dal dignitario Basilio, che ne
era anche il proprietario, e quindi denominato negli archivi athoni-
ti, fin dal 1080, «del Calabrese». Il santo ne divenne igùmeno e svol-
se la missione in modo così soddisfacente per l’impero e il patriarca-
to che quel monastero, una volta riformato, venne ricordato, a mag-
gior ragione, «del Calabrese» oppure «San Basilio del Calabrese»16.
D’altra parte, dal contatto con l’enclave dei cenobi orientali Bar-
tolomeo ricavò importanti spunti organizzativi e spirituali che im-
plementò una volta ritornato in Calabria, compresa l’ideazione di
una federazione di monasteri ellenofoni sotto la supervisione di un
archimandrita sulla scorta della confederazione bizantina del Mon-
te Athos17. Tanto successo ebbe però un contraltare: l’accusa di ere-
sia da parte di due monaci benedettini dell’abbazia della Trinità di
Mileto. Una volta dispiegatasi la giurisdizione patriarcale romana
anche su Bartolomeo, la denuncia si spiegava con la volontà di col-
pirne la lealtà politica verso l’Impero d’Oriente emersa durante i
viaggi compiuti nella capitale imperiale e l’interesse per l’approccio
di fede bizantino espresso nei contatti ad Agion Oros 18. Il lento de-
clino del monachesimo italo-greco non venne comunque fermato
dal tentativo d’introdurre un forte sistema cenobitico d’ispirazione
athonita. L’esperimento non funzionò e si concluse drasticamente
con l’invasione normanna.
Bartolomeo di Simeri era uno dei monaci o chierici calabro-gre-
ci che si muovevano a quel tempo fra Costantinopoli e l’antica pro-
vincia italiana con incarichi diplomatici su materie politico-ecclesia-

15 Pertusi, 1963: 240. Zaccagni, 1996: 26. In quel periodo, si era verificata
una rilassata decadenza all’interno dei monasteri athoniti, dovuta secondo Cha-
landon e altri all’arrivo dei pastori (e delle pastorelle) valacchi (Chalandon, 1900:
288). Preoccupato, Alessio I Comneno appoggiò e favorì un incisivo processo di
riforme della vita monastica.
16 Pertusi, 1963: 240. Zaccagni, 1996: 222.
17 Minisci, 1958: 220. Scaduto, 1982: 187-189. Lucá, 1993: 16. Loud, 2008:

508.
18 Lucá, 1993: 16.
84 ALTRI EREMITI E MONACI ITALIANI AD AGION OROS

stiche di notevole spessore e delicatezza o talvolta addirittura al di-


retto servizio del basileus 19. Ha quindi incarnato le grandi potenzia-
lità che si potevano esprimere quando le influenze orientali e occi-
dentali erano capaci di fondersi ai massimi livelli. Non uscì però mai
dall’orizzonte dalla koinè bizantina, pur avendo necessità di media-
re con i Normanni. Bartolomeo è stato l’ultimo errante italo-greco
tra le due zone dell’impero di cui possediamo una narrazione. Il cre-
scente antagonismo politico e militare mise sotto pressione la fragi-
le interazione. Lo “sfratto” dei Bizantini dal Sud italiano da parte dei
Normanni e l’invasione dell’Impero d’Oriente, nel 1080, da parte
di Roberto il Guiscardo cristallizzarono la rottura20.
Le comunità monastiche italo-greche che fondarono o acquisiro-
no cenobi o eremi sul Monte Athos probabilmente transitarono per
Costantinopoli (Bartolomeo di Simeri ne è il prototipo), al pari di
quella benedettina guidata da Leone da Benevento. Tuttavia, le dif-
ferenze tra loro e la fratellanza che fonderà il monastero ad Apothi-
kon sono sostanziali. Gli eremiti e i monaci approdati ad Agion Oros
dal Meridione della penisola italica si caratterizzavano per l’apparte-
nenza all’impero bizantino, l’uso della lingua greca e la dipendenza
dal patriarca di Costantinopoli e non dal papato di Roma21. Anche
soggettivamente, si percepivano come parte integrante dell’ecume-
ne bizantino. Nel corso dell’XI secolo, cavalieri normanni e france-
si si stabilirono nei territori bizantini italici, prima come mercenari
imperiali e poi man mano come conquistatori (la distinzione tra i
due ruoli non è sempre agevole da definire). Per stabilire un turning
point storico, i manuali fissano all’anno 1071 la fine del dominio bi-
zantino nelle aree meridionali italiane. La data coincide con l’ab-
bandono di Bari da parte del potere imperiale. Fino a quel momen-
to, gli abitanti del Mezzogiorno possono essere considerati sudditi a
tutto tondo dell’Impero Romano d’Oriente22.
Una volta formati al Monte Athos, i confratelli di cultura greca
ma di etnia non greca (italiani, balcanici, armeni, etc.) assumevano

19 Burgarella, 2003: 132.


20 Oldfield, 2014: 111.
21 Falkenhausen, 2007: 96. Keller, 1994-2002: 4.
22 Falkenhausen, 2007: 96.
ALTRI EREMITI E MONACI ITALIANI AD AGION OROS 85

il compito cruciale di trasmettere la versione bizantina del cristiane-


simo nei loro territori di origine, trapiantandovi lo stile di vita atho-
nita, o di propagandarlo presso le popolazioni confinanti che si af-
facciavano sull’impero. Questa missione politico-religiosa fondata
su una formazione mirata spiega l’attuale esistenza nei Balcani, e più
in generale nei paesi europei orientali, di un elevato numero di ce-
nobi che seguono la tradizione athonita, anche se non sono di lin-
gua greca.
Apothikon fu invece edificato da un gruppo di monaci apparte-
nenti a tutt’altra filiera. Anzitutto, arrivarono al Monte Santo, via
Costantinopoli, da aree centro-meridionali della penisola italica
(Benevento, Capua e in subordine Amalfi, Gaeta e Napoli) che pos-
sedevano una relativa autonomia rispetto all’Impero Romano d’O-
riente23 e non dovevano gestire un impegnativo popolamento greco
anche se intrattenevano – soprattutto Amalfi – proficui rapporti
commerciali con Bisanzio. In secondo luogo, Leone e confratelli
non erano religiosi che la Chiesa Cattolica denomina impropria-
mente come “basiliani”, cioè di matrice orientale, ma benedettini.
Erano dunque indipendenti dal patriarcato di Costantinopoli e an-
zi appartenenti alla giurisdizione ecclesiastica del papato. Infine, la
fratellanza di Apothikon era tutta di lingua latina.
Dietro alla costruzione di questo monastero, iniziamo a intrave-
dere la potenza dell’abbazia di Montecassino e l’Ordine di San Be-
nedetto che erano in contatto, e lo mantennero almeno fino all’ini-
zio del XII secolo, con le autorità bizantine delle aree meridionali
della penisola italica e con gli imperatori orientali (soprattutto con
Costantino IX, Michele VII e Alessio I). Anche durante i conflitti
antecedenti e posteriori al Grande Scisma Oriente-Occidente e nel
pieno della dominazione normanna, gli abati cassinesi furono coin-
volti in attività diplomatiche di primo piano nel collegamento fra
Roma e Costantinopoli24. D’altra parte, la grande abbazia-madre
aveva basi anche in luoghi ben più lontani e rischiosi, come per
esempio Gerusalemme25.

23 Abulafia, 1995: 1-20.


24 Falkenhausen, 2007: 105.
25 Abulafia, 2011: 269.
86 ALTRI EREMITI E MONACI ITALIANI AD AGION OROS

Per questa serie di ragioni, la reputazione e il potere dei mona-


steri athoniti italo-bizantini dei siciliani e dei calabresi furono sem-
pre minori rispetto a quelli della casa benedettina. Prima del Gran-
de Scisma, il centro del monachesimo greco-bizantino era uno spa-
zio più che aperto e accogliente per i confratelli di rito latino. La vo-
lontà di cooperare, l’offerta di aiuto materiale e il sostegno spiritua-
le sono resi palpabili dall’enfasi intenzionale e dai vividi dettagli
contenuti nelle Bios di Atanasio. Oltre alla sapida simpatia e all’ap-
prezzamento spirituale, viene sottolineato il trattamento fra eguali26
nei confronti di Leone il Grande, il monaco latino della nobiltà be-
neventana che volle costruire un cenobio di osservanza papale non
lontano dalla più importante lavra imperiale greco-bizantina.
In sostanza, la fondazione del monastero benedettino ad Agion
Oros non va collegata, come proposto da Pertusi, alla presenza atti-
va di santi monaci greci rifugiatisi in Campania dalla Calabria e dal-
la Sicilia, verso la fine del X secolo, per sfuggire alle incursioni e in-
vasioni arabe27. Appare più ragionevole interpretarla quale prodot-
to di un gruppo di religiosi latini provenienti da aree centro-meri-
dionali della penisola italica sottoposti all’autorità di Roma e all’ob-
bedienza all’Ordine di San Benedetto e a Montecassino, ma attrat-
ti dallo stile monastico bizantino-orientale28.

26 Meyer, 1894: 111, righe 31-32.


27 Pertusi, 1963: 225 sgg.
28 Abulafia, 1995: 1-20.
Il monasterium amoenum

C ome abbiamo già rilevato, la denominazione “dei Magazzini” è


inusuale per un monastero fondato da un beneventano, perché
una frequente norma del Monte Athos prevedeva di indicare le ca-
se costruite da confratelli stranieri tramite la loro nazionalità o il
paese d’origine1. È quanto successe con i cenobi dei georgiani, sici-
liani, calabresi, serbi, e così via. Apothikon è invece un umile topo-
nimo derivato da edifici in cui erano conservati manufatti o mate-
rie prime.
Nastase dedusse da queste informazioni che il cenobio di Leone
il Grande e Amalfion fossero due case diverse. Il primo sarebbe sta-
to probabilmente noto a quel tempo come “l’abbazia del Beneven-
tano” e avrebbe avuto un lasso di tempo molto breve di esistenza,
una storia inesplorata e una fine sconosciuta2. Il secondo sarebbe
stato costruito da un amalfitano e non da un beneventano, come
suggerito dal nome “Amalfion”, in tempi e secondo modalità scono-
sciute per perdurare con successo fino alla fine del Duecento3. Na-
stase recuperò quindi il suggerimento di Brown4, secondo cui la
maggioranza degli studiosi sovrappongono erroneamente il mona-
stero fondato da Leone da Benevento e la casa amalfitana, pur in-
vertendone la timeline. Secondo lui, i beneventani eressero la loro
casa prima degli amalfitani.
L’opinione di Nastase è priva di sostegno documentale e appigli
fattuali. Se non altro perché nessuno tra i numerosi documenti

1 A un monastero può anche essere attribuito un nome derivante dal santo


protettore, dal fondatore o dal ri-fondatore, dal possessore del suolo sul quale l’e-
dificio viene eretto, dalla regione, provincia o città in cui è collocato.
2 Nastase, 1983: 290- 291.
3 Id., 1985: 268.
4 Brown, 1993: 11.
88 IL MONASTERIUM AMOENUM

athoniti della prima metà dell’XI secolo menziona un altro mona-


stero latino oltre a quello degli amalfitani5. Se la presenza di un ce-
nobio di osservanza romana è atipica; quella di due è implausibile.
In secondo luogo, il monastero sotto la direzione dell’igùmeno Gio-
vanni era a ton Apothikon, toponimo che designa il luogo conosciu-
to qualche decennio dopo per ospitare la struttura a guida amalfita-
na. Infine, la tesi di Nastase è difficilmente giustificabile dal punto
di vista della concatenazione degli eventi storici.
Una storia ben diversa trova riscontro nelle fonti del tempo6.
La fondazione del monastero di osservanza occidentale su un
promontorio chiamato Apothikon va attribuita sicuramente a un
beneventano7. Siamo in grado di connetterlo a Leone il Grande e al
«monasterium amoenum» descritto, intorno al 1044, dal monaco
ivirite Giorgio l’Aghiorita mentre esponeva la vita dei santi Giovan-
ni e Eutimio8. La biografia dei beati georgiani non informa in nes-
sun punto che il «monasterium amoenum » eretto da Leone da Bene-
vento fosse Amalfion, né che avesse qualche relazione con uno o più
monaci amalfitani e neppure, più in generale, con la città di Amal-
fi. Possiamo inoltre intercettare alcune informazioni su questo mo-
nastero in un racconto agiografico dedicato a Johannes Beneventanus
de illustri prosapia. Le esporremo nel prossimo paragrafo. Ci preme
qui anticipare che, stando alle fonti, questo benedettino non trovò
rifugio ad Amalfion, come affermato dalla maggioranza degli stu-
diosi, ma nel «monasterium amoenum » del connazionale Leone da
Benevento9. In conclusione, il suggerimento che un cenobio chia-
mato Amalfion sia stato fondato dal nostro Leone non trova alcun
supporto documentale. E neppure l’ipotesi di Nastase che scinde il
cenobio di Leone da quello che diventerà Amalfion
Semplicemente, a quel tempo una casa amalfitana non esisteva
ancora. Solo diversi anni dopo la svolta del millennio, gli amalfitani

5Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di),


1970: 137.
6 Merlini, 2016.
7 Falkenhausen, 2005.
8 Peeters, 1917-1919: 18-23, 26-30, 36-38. Martin-Hisard, 1991: 109 sgg.

Pertusi, 1963: 220-221, 224. Keller, 1994-2002: 5.


9 Nastase, 1983: 290, 291, 293. Id., 1985: 253, 257.
IL MONASTERIUM AMOENUM 89

acquisirono il «monasterium amoenum » costruito da Leone. Il ceno-


bio beneventano fu sempre piccolo, scarso di mezzi e poco potente.
Gli archivi athoniti confermano che la sua costruzione fu possibile
solo grazie al coinvolgimento dei georgiani, perché la raccolta fondi
svolta da Leone e compagni nella madrepatria (dal fratello Pandolfo
II e da Montecassino in primis) aveva conseguito un successo solo
parziale. Gli stessi documenti provano anche che la confraternita la-
tina sottostava alla Grande Lavra. Spremendo il già menzionato
elenco delle regioni della penisola italiana, il nostro monastero è pro-
babilmente quello segnalato come «il cenobio dei romani».
Giovanni, il benedettino
del Monte Athos che divenne
abate di Montecassino

L eone il Grande fu abate del monastero da lui fondato per alcu-


ni anni, non oltre il novembre 9911. Gli archivi benedettini del
X e XI secolo non menzionano il proprio cenobio sul Monte Athos.
Tuttavia essi ci offrono precise, pur se indirette, informazioni sul pe-
riodo iniziale e preziosi indizi sul complesso rapporto che intercor-
se fra Benevento e Montecassino attraverso Apothikon. In partico-
lare, veniamo informati che il trentesimo abate dell’abbazia laziale
era stato in precedenza uno dei primi monaci di Apothikon, dove
arrivò a causa di uno scandalo.
Sappiamo infatti dalla Chronica monasterii Casinensis che, men-
tre il monastero benedettino athonita era governato dall’abate Gio-
vanni, un altro Giovanni – Giovanni il Beneventano (Joannes Bene-
ventanus) – vi trovò rifugio. La sua permanenza si protrasse dal 993-
994 al 9962. Giovanni il Beneventano era fuggito da Montecassino,
in una data fra il 14 novembre 985 e l’8 maggio 986, non appena
Mansone fu nominato ventottesimo abate con un atto di nepoti-
smo3. Per alcuni storici, probabilmente Giovanni il Beneventano
era addirittura uno dei sei compagni di Leone il Grande4 o almeno
uno dei suoi primi discepoli5. Non esiste però alcuna prova in tal

1 Pertusi, 1953: 10.


2 Rousseau, 1929. Keller, 1994-2002: 6, dove avanza la possibilità implausi-
bile di un’estensione del soggiorno athonita fino al 997.
3 Pertusi, 1953: 8-10. Id., 1963: 222-223. Beolchini, 2007. Keller, 1994-

2002: 6.
4 Gobry, 1999: 256. Falkenhausen, 2005: 101-118. Per una ricostruzione cri-

tica di questa posizione, vedi Merlini, 2016.


5 Falkenhausen, 2005: 101-118. Ead., in corso di pubblicazione.
92 GIOVANNI, IL BENEDETTINO CHE DIVENNE ABATE DI MONTECASSINO

senso. Anzi, mentre Leone approdò al Monte Athos da Costantino-


poli, il transfuga vi sbarcò dal Monte Sinai. Per dirla tutta, i due non
si incontrarono neppure al Monte Athos, perché Giovanni trovò ri-
paro nella comunità benedettina athonita quando l’abate non era
più Leone il Fondatore, ma Iohannes monachus et higoumenos di cui
abbiamo già ricordato la firma sull’atto athonita del 991.
Nella Cronaca cassinese, il fuggitivo viene nominato Iohannes de
illustri prosapia (Giovanni dall’illustre lignaggio), perché si tratta per
certo del monaco che, tornato nel 997 in Italia, fu eletto abate di
Montecassino6.
È una storia che merita di essere raccontata, perché estremamen-
te significativa delle reti internazionali di connessione che portaro-
no alla fondazione di un monastero benedettino sul Monte Athos.
Inoltre, ci introduce allo stile di vita e ai meccanismi organizzativi-
formativi dei monaci agli albori della Santa Montagna.
Nel 985-986 i padri cassinesi stavano discutendo e deliberando
l’elezione di nuovo abate, il ventottesimo. Ma ci si mise di mezzo
Aloara, energica vedova di Pandolfo I Capodiferro (principe di Ca-
pua e di Benevento). A partire dal 969, quando il marito languiva
imprigionato presso la corte di Costantinopoli, Aloara aveva ammi-
nistrato la signoria (con il giovane figlio Landolfo e l’arcivescovo
Landolfo di Benevento) e l’aveva fermamente difesa dalle incursio-
ni bizantine. Alla morte del consorte, fu investita da Ottone II del-
la carica di tutrice regnante del principato (dal 982 al 992) con il fi-
glio prediletto Landenulfo II di Capua. Forte di tanta autorità,
Aloara brigò per far scegliere Mansone quale nuovo abate di Mon-
tecassino. Il pupillo era già preposto, senza alcun particolare merito,
al monastero di San Benedetto di Capua e al monastero di San Ma-
gno di Fondi7. Soprattutto, era cugino in linea materna del defun-
to marito di Aloara8.

6
Hoffmann (a cura di), 1980: 206 sgg. Gobry, 1999: 256. Schwartz, Hof-
meister (a cura di), 1934: 1127 sgg. Merlini 2016.
7 Beolchini, 2007. Centro studi avellaniti (a cura di), 2003: 121.
8 “Consobrinus Pandulfi principis ”. Cfr. Muratori, 1723-1751 vol. 4: 348.

d’Achery, 1733-1738: 637. Rousseau, 1929: 536 sgg. Centro studi avellaniti (a
cura di), 2003: 121.
GIOVANNI, IL BENEDETTINO CHE DIVENNE ABATE DI MONTECASSINO 93

La tentata imposizione invelenì i cassinesi, perché vedevano lesa


la loro autonomia con il perpetuarsi di una sorta di legame feudale
fra l’abbazia e la casa capuana. Inoltre Mansone, giovane monaco,
non sembrava possedere sufficiente esperienza per reggere il gover-
no del centro motore dell’Ordine Benedettino.
Un brusco dictat di Aloara9 spaccò il fronte dei monaci e ne sca-
turì una frattura. Mentre Mansone veniva eletto, un drappello com-
posto da alcuni resistenti scelse l’esilio. Ne facevano parte, fra gli al-
tri, il nostro Giovanni il Beneventano, Teobaldo (che divenne suc-
cessivamente abate a San Liberatore alla Maiella) e Liuzio/Lucio (il
futuro San Lucido di Aquara): due futuri abati e un prossimo san-
to. Poiché le cronache del tempo prendono le parti dei ribelli, devo-
no giustificare un atto grave quale la rottura del sacro voto all’obbe-
dienza. Riportano quindi non meglio precisati atti violenti di Man-
sone che li costrinsero ad andarsene. I tre solidali si recarono con al-
tri confratelli in pellegrinaggio a Gerusalemme. Altri scelsero la
«Lombardia» (probabilmente l’attuale Calabria), ospitati da Ugo di
Tuscia, il rappresentante in Italia di Ottone III, imperatore del Sa-
cro Romano Impero10.
Nella Chronica Monasterii Casinensis, Leone Marsicano, descrive
l’elezione di Mansone, nel 986, con parole sferzanti: «Divenne aba-
te per l’influenza dei principi della sua famiglia e non attraverso il
voto dei monaci». Il cronista di Montecassino ci informa anche che,
assunta Mansone la carica, alcuni tra i monaci cassinesi più pii de-
cisero di non poter vivere sotto la sua obbedienza e lasciarono il mo-
nastero. Fra loro ci sarebbe stato un Joannes Beneventanus che si re-
cò in Oriente. Fu pellegrino a Gerusalemme, soggiornò sul Sinai
(probabilmente presso il monastero di Santa Caterina) e infine si re-
cò sul Monte Athos, ove rimase per un certo periodo11.

19 Macharashvili, errando, imputa a Pandolfo I Capodiferro l’elezione di Man-


sone (2013).
10 Migne (a cura di), 1854: pl. 173, 597B-598A. Wattenbach (a cura di),

1846: 636-637. Hoffmann (a cura di), 1980: 190. Vedi anche Tosti, 1888: 104-
105; Keller, 1994-2002: 6; Centro studi avellaniti (a cura di), 2003: 121.
11 Migne (a cura di), 1854: pl. 173, 597B-598: 190. Hoffman (a cura di),

1980: 206. Schwartz, Hofmeister (a cura di), 1934: 1127 sgg.


94 GIOVANNI, IL BENEDETTINO CHE DIVENNE ABATE DI MONTECASSINO

Qualche anno prima, gli stessi avvenimenti erano stati sintetiz-


zati con parole quasi analoghe nei Dialoghi dei miracoli di San Be-
nedetto di papa Vittore III, secondo cui il monaco ribelle fuggì a Ge-
rusalemme. Successivamente, trascorse sei anni sul Monte Sinai al
servizio di Dio. Infine, rimase per qualche tempo «in Grecia in
Monte qui Agyon Oros dicitur » (sulla montagna denominata Monte
Santo) per la sua formazione spirituale12. Leone Marsicano specifi-
ca che qui Giovanni il Beneventano conduceva un’esistenza da ere-
mita tra i «suoi compatrioti benedettini»13; uno stile di vita ben lon-
tano da quello del reggente di monastero, come sarebbe divenuto in
seguito. Possiamo assumere con Pertusi che il pio transfuga fosse ac-
compagnato nel soggiorno ad Apothikon dai suoi fedeli compagni
di pellegrinaggio e di esilio, Teobaldo e Liuzio14. Abbiamo già ac-
cennato alla raccolta fondi effettuata in «terra romana» da Leone da
Benevento, nei primissimi anni ottanta, per costruire il suo cenobio.
Visitò verosimilmente l’abbazia di Montecassino qualche anno pri-
ma dell’elezione di Mansone, ai tempi del lungo abbaziato di Ali-
gerno e del suo riordino del patrimonio abbaziale. Qui probabil-
mente incrociò Giovanni il Beneventano. Fu un incontro a specchio
fra due benedettini, di nobile casata e conterranei15, anche se Gio-
vanni era ancora solamente un giovane promettente, mentre Leone
era già un padre spirituale sperimentato. Successivamente, Giovan-
ni si rifugiò nel monastero athonita fondato da una personalità del-
la dinastia che l’aveva estromesso da Montecassino e che probabil-
mente ne aveva sconfitto anche la casata. Segno della forza della co-
operazione monastica al di là delle singole appartenenze familiari.
La Cronaca prosegue informando che, dopo alcuni anni di asce-
si nel “Giardino di Maria”, San Benedetto in persona sarebbe appar-
so a Giovanni in una visione notturna, affidandogli il pastorale che
teneva in mano e ordinandogli di tornare il più rapidamente possi-
bile a Montecassino. Alle prime luci dell’alba, il pio e spaventato

12 Id. (a cura di), 1934: 1127 sgg.


13 Migne (a cura di), 1854: pl. 173, 607C-608B. Hoffman (a cura di), 1980:
206.
14 Pertusi, 1953: 10.
15 Id., 1953: 9. Merlini, 2014.
GIOVANNI, IL BENEDETTINO CHE DIVENNE ABATE DI MONTECASSINO 95

monaco raccontò il sogno al padre spirituale che era anche l’abate


di Apothikon presso cui prestava obbedienza, verosimilmente il già
menzionato Giovanni in carica nel novembre 991. L’igùmeno, es-
sendo persona di prescienza e saggezza, vi scorse la volontà di Dio.
Scrutò il confratello e lo esortò: «Giovanni, ritorna in tutta fretta al-
l’abbazia in Italia, per non apparire disobbediente al grande padre
che ti è apparso. Dio onnipotente ha evidentemente deciso di col-
locarti a capo del suo gregge. Ti ha scelto, nella sua misericordia, per
vegliare le sue pecore». «In obbedienza a questa visione e ordine, e
con Cristo come guida – racconta la Chronica Monasterii Casinen-
sis – Giovanni il Beneventano oltrepassò il mare e ritornò al mona-
stero d’origine. Fu nominato priore da parte del santissimo Giovan-
ni II». L’abate in carica, componente anch’esso della filiera beneven-
tana, non era più in grado di sopportare la responsabilità spiritual-
manageriale a causa dell’età e della salute malferma16.
Giovanni II era succeduto, nella primavera del 996, a Mansone.
Il vituperato abate era stato accecato e poi fatto uscire definitiva-
mente di scena. La damnatio memoriae fu immediata e totale, a di-
spetto dei suoi successi politici e territoriali17. Contro Mansone, il
futuro Sant’Adalberto di Praga redasse un rapporto indignato sulla
situazione in cui versava l’abbazia di Montecassino quando, agli ini-
zi del 990, vi fece una sosta durante il pellegrinaggio dalla sua dio-
cesi a Gerusalemme18. Il cronista di Montecassino non si lasciò
sfuggire una tirata contro la vita dissoluta dell’abate, amante della
vita di corte e del lusso principesco. Negativo senza appelli fu il giu-
dizio su Mansone espresso nella Vita di San Nilo di Rossano19, l’a-

16 Migne (a cura di), 1854: pl. 173, 607C-608B. Wattenbach (a cura di),
1846: 642. Hoffman (a cura di), 1980: 206.
17 A onore del vero, Mansone durante l’incarico aveva accresciuto in modo

sostanziale il patrimonio e il dominio temporale di Montecassino a discapito dei


territori limitrofi di Aquino, Arpino, Atina e Sora. Aveva difatti saputo sfruttare
al meglio il legame di parentela con la dinastia capuana, le convergenze politiche
con Ottone III, le proprie indiscutibili qualità organizzative, una condotta spre-
giudicata, l’assenza di doti spirituali e il disinteresse per la vita monastica (Borsa-
ri, 1961).
18 Beolchini, 2007.
19 Loud, 2008: 10.
96 GIOVANNI, IL BENEDETTINO CHE DIVENNE ABATE DI MONTECASSINO

sceta che ha maggiormente promosso il monachesimo greco nella


penisola italiana. La sua visita all’abbazia di Montecassino, intorno
al 980, era stata uno dei più commoventi momenti d’incontro fra
cristiani latini e greci20. Quindi, nel 99421 o 99522, Nilo decise di
rifare una visita di cortesia, dato che era ospitato con i suoi confra-
telli presso una dipendenza del monastero cassinese, la cella di San-
t’Angelo in Valleluce. Ma questa volta abate era Mansone... Erano
gli stessi anni in cui Giovanni il Beneventano trovava rifugio al
Monte Athos. Appurato che Mansone stava soggiornando nel ceno-
bio di San Germano, ai piedi dell’altura su cui sorge Montecassino,
Nilo vi si recò. Lo informarono che l’abate non poteva riceverlo,
perché impegnato in un banchetto. Decise allora di attenderlo pa-
zientemente in chiesa ma, mentre pregava, udì ondate di allegra
musica secolare giungere dal refettorio. Il biografo conclude l’episo-
dio riportando che Nilo, rimasto agghiacciato dalla scellerata con-
dotta di Mansone, abbandonò la cella in Valleluce trascinando via
la sua comunità prima che ne restasse contagiata23.
Uno o due anni dopo, Mansone, fu accecato da alcuni suoi mo-
naci cui erano state promesse 100 libbre pavesi da parte di Alberi-
co, vescovo dei Marsi, che intendeva prenderne il posto. I fedifraghi
non riuscirono però a incassare il saldo della somma pattuita per il
tradimento, dal momento che Alberico spirò prima di aver ricevu-
to in consegna, come da accordi, gli occhi del nemico. Mansone si
spense l’8 marzo del 996.
In un vortice di eventi che si susseguirono in una manciata di
mesi, l’anziano e malandato Giovanni II fu eletto abate e dopo po-
chi mesi nominò priore Giovanni il Beneventano, appena tornato
da Apothikon. Nell’ottobre del 997, su consiglio dello stesso padre
venerabile che rinunciò all’ufficio e per scelta dei confratelli, Gio-
vanni il Beneventano fu nominato trentesimo abate con il nome di
Giovanni III24.

20 Ci soffermeremo più avanti sull’importanza dell’evento.


21 Centro studi avellaniti (a cura di), 2003: 124.
22 Beolchini, 2007.
23 Giovanelli, 1966.
24 Tosti, 1888: 101.
GIOVANNI, IL BENEDETTINO CHE DIVENNE ABATE DI MONTECASSINO 97

Per tirare le somme, Giovanni il Beneventano fu monaco trans-


fuga da Montecassino ad Apothikon, dove risiedette tra il 993-994
e il 996. Quindi, rientrò al monastero d’origine per assumere l’ab-
baziato e risollevare le sorti dell’Ordine Benedettino con il nome di
Giovanni III. Esercitò la carica dall’ottobre 997 al 18 marzo 1010.
Anche grazie al training athonita, un impetuoso monaco ribelle si
era trasformato in un ascetico manager spirituale25.

25 Alcune ricostruzioni storiche, confuse dai troppi abati cassinesi col nome

di Giovanni succeduti e sovrapposti in un brevissimo periodo, dimenticano nel-


l’elenco il venerabile Giovanni II. Fissano così l’elezione di Giovanni il Beneven-
tano direttamente alla morte di Mansone. Questo errore le obbliga a postdatare
la morte di Mansone al 997 e a registrare Giovanni III non come trentesimo aba-
te ma come ventinovesimo. Non si tratta di un abbaglio solo formale nella reda-
zione di una lista, ma sostanziale per la descrizione e l’esame delle forze e degli
eventi che portarono all’edificazione del cenobio benedettino ad Agion Oros. Tali
ricostruzioni non tengono infatti conto del complesso tessuto di relazioni che
portò all’esilio, al ritorno e all’elezione di Giovanni il Beneventano, ma successi-
vamente anche alla sua defenestrazione e reintegrazione. Vedi Pertusi, 1953: 8.
Id., 1963: 223. Bonsall, 1969: 262-267. Keller, 1994-2002: 7. Nastase, 1983:
287-293. Loud posticipa l’elezione del monaco athonita al 998 (2008: 56). Al-
l’opposto, Falkenhausen anticipa l’abbaziato al 996 (2005).
Luci e ombre del periodo formativo
in Oriente di un monaco italiano

L a travagliata storia del benedettino ribelle di Montecassino, rifu-


giatosi nel convento latino athonita e infine eletto abate del mo-
nastero d’origine, mi è stata ricordata da più di un monaco del
Monte Athos. L’intento è sempre quello di evidenziare come, alla fi-
ne del X secolo, un integerrimo e ascetico confratello latino sia do-
vuto scappare dall’Occidente per cercare aiuto e protezione nella
Terra Santa del monachesimo ortodosso. Possiamo convenire che la
sua avventura dimostri a quale livello d’intrigo politico fosse giunta
l’élite di Montecassino e come la raffinazione della sua formazione
religiosa, avvenuta nel monachesimo orientale in generale e in quel-
lo athonita in particolare, ne fece una guida spirituale e gli conferì
un’alta reputazione nell’ambiente occidentale a cui ritornò. Va però
ricordato che l’abate da cui ebbe preziosi consigli spirituali era quel-
lo latino di Apothikon.
L’avventura di Giovanni il Beneventano non finisce con la felice
elezione ad abate. Sotto la sua carismatica leadership, nel primo de-
cennio dell’XI secolo l’abbazia intraprese un’intensa produzione li-
braria, la stessa attività che caratterizzò il cenobio benedettino sul
Monte Athos. Per questo Giovanni III amò essere ricordato nelle
cronache locali come «codices quoque ecclesiasticos renovavit magnos
et pulchros » (colui che ha «anche rinnovato i codici ecclesiastici,
grandi e belli»)1. Eppure, la massiccia traduzione latina delle vite di
santi orientali e soprattutto delle regole monastiche di Basilio e Pa-
comio diede lo spunto per accuse di eccesso di zelo nella trasmissio-
ne di idee e della letteratura greca nella Chiesa Occidentale2.

1 Abbate, 1997: 118. Con impeto costruttivo, l’abate si dedicò anche a raffor-
zare le difese della cittadella facendo consolidare la cinta muraria.
2 Inguanez, 1915-1941: 63-68.
100 LUCI E OMBRE DEL PERIODO FORMATIVO DI UN MONACO ITALIANO

Nel 1007, Giovanni III inviò a San Liberatore alla Maiella il con-
fratello Teobaldo, con cui aveva probabilmente condiviso l’esperien-
za e la formazione athonita. Il fidato compagno, con l’aiuto dei po-
chi religiosi rimasti, iniziò la ricostruzione della chiesa. L’altro co-
pellegrino al Monte Athos, Liuzio/Lucio, fondò il centro spirituale
e lo scriptorium di Santa Maria di Albaneta, terminando la vita in
santità. Sia Teobaldo che Liuzio/Lucio sono conferme viventi che la
conversatio monastica vissuta in comunità al Monte Athos è stata
una formidabile palestra di crescita spirituale e umana, intellettuale
e manageriale.
Sull’equilibrio athonita fra questi aspetti, il cronista e futuro car-
dinale Leone Marsicano manifesta però più di una perplessità. De-
scrivendo la vita di rigida umiltà, astinenza e austerità condotta da
Liuzio/Lucio, al punto da mostrarsi felice di eccellere in tutte le
mansioni umilianti e mortificanti, si chiede come potesse conciliar-
si con l’onore e la responsabilità della carica assunta. E si interroga,
alquanto spiazzato: l’umiltà e la disponibilità a svolgere compiti ser-
vili da parte di un abate sono un riflesso delle idee monastiche as-
sorbite in Oriente?
Tale contraddizione esploderà con Giovanni III, la cui spiritua-
lità aveva preso forma in Occidente ma si era forgiata in Oriente.
Giovanni era anziano, venerabile, austero e con forte ascendente sui
confratelli che trattava però con implacabile intransigenza e asprez-
za. Contraddicendo l’insegnamento di San Benedetto, si faceva te-
mere piuttosto che amare. La sua inflessibilità entrò ben presto in
conflitto con la condotta indolente radicatasi nella fratellanza du-
rante il decennio di Mansone, compresi il lassismo verso le criticità
pratico-organizzative e le scorciatoie nelle devozioni e nella liturgia.
Giovanni III aveva sufficiente polso per rimettere ordine nell’ab-
bazia, ma non abbastanza autorità e influenza per salvaguardarla da-
gli appetiti delle piccole, ambiziose signorie locali, specialmente i
turbolenti conti d’Aquino. Con la tragica morte di Mansone e l’ele-
zione dell’anziano e malato Giovanni II si erano rapidamente dissol-
te le più recenti acquisizioni territoriali di Montecassino, troppo di-
pendenti dal potere personale del primo e dalla sua consanguineità
con la dinastia capuana. Giovanni III dovette recarsi a Capua per
chiedere soccorso al principe regnante, dato che la dinastia conti-
nuava a mantenere la “tutela” sul monastero. Come in un gioco del
LUCI E OMBRE DEL PERIODO FORMATIVO DI UN MONACO ITALIANO 101

15 in cui le caselle trovano il loro posto attraverso spostamenti ap-


parentemente caotici, si trattava proprio di Pandolfo III di Capua
già Pandolfo II di Benevento, il probabile fratello del fondatore di
Apothikon. Non deve essere stato facile chiedere protezione, con re-
lativo atto di sottomissione, proprio alla famiglia contro il cui stra-
potere si era ribellato un decennio prima e che, con tutta evidenza,
era entrata in rotta di collisione con la sua casata. Si avvalse sicura-
mente dell’antica amicizia reverente nei confronti di Leone il Gran-
de e dell’obbedienza esercitata nel monastero da lui fondato sulla
Santa Montagna. Fu certamente consapevole di accettare le regole
di un gioco politico non proprio adamantino. E pensare che era ri-
entrato in patria per «superne ispirazioni», come sintetizza Tosti3.
Durante l’assenza di Giovanni III, l’intera comunità monastica
prese coraggio e si ammutinò. Fu eletto in tutta fretta un altro aba-
te. I confratelli scelsero Giovanni Docibile di Gaeta (in carica fra il
1010 e il 1011 con il nome di Giovanni IV). Ritenuto di mente
semplice e di carattere poco incline alla penitenza, erano sicuri che
li avrebbe affrancati dai rigori ascetici cui li aveva costretti Giovan-
ni III il Beneventano.
Docibile entrò immediatamente nel ruolo, ponendosi in viaggio
per controllare il patrimonio del monastero ed esigere espressioni
concrete di sudditanza da parte dei vassalli. Carico di doni, visitò
buona parte dell’Abruzzo fino a quando, nella città di Penne, alcu-
ni malviventi in un agguato lo spogliarono di tutto4. Ritornato av-
vilito all’abbazia dopo appena sette mesi dall’elezione, vi trovò l’ex
abate Giovanni III rientrato prontamente da Capua. Fu immedia-
tamente cacciato dal seggio e dal monastero. I monaci che lo aveva-
no eletto non lo difesero e il povero Docibile, dopo pochi mesi di
gloria, tornò nell’anonimato da cui era temporaneamente evaso.
Ma anche per Giovanni III il tempo era scaduto. Le cronache co-
eve lo dipingono preda del nepotismo che aveva così duramente e
pubblicamente avversato. Nominò come successore il nipote Ro-
tondolo, canonico diacono della chiesa di Benevento e poi tonsura-

3 Tosti, 1888: 118-119.


4 I violenti figli di Benzene, ci informa il cronista a imperitura memoria del-
l’efferatezza.
102 LUCI E OMBRE DEL PERIODO FORMATIVO DI UN MONACO ITALIANO

to monaco a Montecassino. La pratica era abbondantemente eserci-


tata nei monasteri occidentali e l’abbazia cassinate, come abbiamo
visto, non ne era stata esente. Tuttavia fu la scusa per contrastare
Giovanni stigmatizzandone i favoritismi quale retaggio della sua
permanenza nel monachesimo greco5. La maggioranza dei confra-
telli si ribellò e chiese al principe Pandolfo III di esautorare Roton-
dolo, sostituendolo con suo figlio Atenolfo. Nel 1011, Rotondolo
finì abate del chiostro di San Modesto a Benevento, lo stesso da cui
proveniva Atenolfo6.
In conclusione, le fonti del tempo raccontano la vita avventuro-
sa del monaco benedettino athonita Giovanni il Beneventano, dive-
nuto poi abate di Montecassino come Giovanni III, mettendo in lu-
ce tre fattori di stridente contrasto fra il monachesimo greco e quel-
lo latino: i riferimenti spirituali e organizzativi (i santi da emulare e
le regole da seguire), la rigida austerità e le norme di avvicendamen-
to nelle posizioni di potere. Ritroveremo questi elementi, ripren-
dendo ora la narrazione su Apothikon.

5 Hoffmann, 1980: II. 28-29, 217-220.


6 Tosti, 1842: 172, Id., 1888: 118-119.
La ratio di edificare
una casa benedettina athonita
da un milieu beneventano e capuano

A lcuni importanti indizi circa i presupposti alla base della fon-


dazione di un chiostro benedettino athonita da parte di am-
bienti beneventani e capuani emergono dagli aneddoti appena ri-
cordati su Giovanni il Beneventano e anche dal reticolo famigliare
di vite travagliate che governava la regione. Il monastero latino
athonita si situò infatti all’incrocio dei rapporti e nel pieno del gio-
co di interessi fra alcune delle maggiori potenze internazionali allo
scadere del primo millennio: i principati longobardi di Benevento
e Capua, l’Impero d’Oriente e la sua Chiesa, il Sacro Romano Im-
pero, il Papato, Agion Oros, l’Ordine Benedettino e l’Abbazia di
Montecassino.

Un intermediario con il basileus per i signori


della Langobardia Minor
Giovanni il Beneventano non poteva aspirare alla nomina di aba-
te di Montecassino senza essersi prima riconciliato con la dinastia di
Capua e Benevento, egemone sul territorio dell’abbazia e dichiara-
tamente in conflitto con la sua casata. Il monaco poteva conseguire
il suo obiettivo solo contribuendo all’alleanza tra i bizantini e i suoi
nemici, convertendo i secondi in amici e facendosi al tempo stesso
proteggere dai primi. Il luogo più adatto per una simile acrobazia
diplomatica era il cenobio dell’Ordine Benedettino appena installa-
tosi sul Monte Athos. Questa comunità monastica, controllata dal-
la dinastia feudale longobarda di Capua e Benevento, aveva infatti
stretti legami sia con l’imperatore bizantino, sia con il patriarca di
Costantinopoli. Le vicende di Giovanni confermano il pieno coin-
volgimento degli abati di Montecassino in attività diplomatiche di
104 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA

collegamento, a volte rischioso, tra Roma e Costantinopoli1. I be-


nedettini di Agion Oros supportarono l’abbazia-madre italiana svol-
gendo al meglio il ruolo di avamposto strategico inserito nelle ma-
glie del potere imperiale bizantino2.
Mettendo in circolo gli indizi finora accumulati, possiamo ora
meglio spiegare alcune cause politico-religiose che portarono all’ere-
zione del cenobio latino athonita da parte di Leone il Grande, mo-
naco beneventano della dinastia regnante.
I principati longobardi autonomi di Benevento e Capua domi-
navano il settentrione e parte del territorio interno dell’attuale
Campania, il Molise e la fascia nord della Puglia. Essi erano conti-
gui al thema bizantino, significativamente chiamato di “Longobar-
dia”, corrispondente all’incirca alla Puglia centro-settentrionale e al-
la Basilicata nord-orientale3. I loro rapporti con i vicini dell’Impero
d’Oriente erano contemporaneamente intensi e conflittuali, caratte-
rizzati da un’alternanza di scontri e riconciliazioni secondo uno
schema che si ripeté ciclicamente fino alla scomparsa definitiva del
dominio longobardo.
Il meccanismo che portò alla nascita di Apothikon si mise in mo-
to con Pandolfo I Capodiferro, principe di Capua e Benevento,
quando fu arruolato come nuovo vassallo strategico da Ottone I di
Sassonia (912-973). Questi, incoronato a Roma da papa Giovanni
XII (955-964) il 2 febbraio 962, aveva proclamato il Regnum Itali-
cum che, secondo la tradizione carolingia, coincideva con l’intera
penisola italiana. Per trasformare questa dichiarazione d’intenti in
realtà, nel 967 affidò a Pandolfo I Capodiferro anche il Ducato di
Spoleto-Camerino. In parallelo, papa Giovanni XII ricompensò
Pandolfo I per i servizi resi alla comune causa imperiale-papale con-
ferendo a Capua lo status di Arcivescovato.
Per ottenere tali riconoscimenti, Capodiferro aveva operato una
giravolta politica a 180 gradi perché, fino a poco prima, Capua e

1 Falkenhausen, 2007: 105.


2 Merlini, 2014.
3 Le altre due circoscrizioni militari e amministrative su cui l’Impero d’Orien-

te aveva restaurato, dall’inizio del secolo X, la propria autorità erano la Lucania e


la Calabria. Insieme a quella pugliese “di Longobardia”, erano riunite in un uni-
co governatorato con sede a Bari.
LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA 105

Benevento avevano riconosciuto l’autorità di Bisanzio. Non per nul-


la, nella primavera del 968, l’imperatore Niceforo Foca si lamentò
aspramente con il vescovo Liutprando di Cremona (920? - 972),
ambasciatore di Ottone il Grande presso la sua corte: l’imperatore
sassone non avrebbe dovuto permettersi di chiedere il giuramento
di vassallaggio al traditore e ribelle Pandolfo I, da lui considerato an-
cora soggetto alla propria autorità. Di conseguenza, il basileus chie-
se a Liutprando il ritorno immediato di Pandolfo sotto il controllo
bizantino quale condizione per imbastire un rapporto di amicizia
con l’imperatore d’Occidente4. I disegni sull’Italia centro-meridio-
nale di entrambi gli imperi vedevano dunque nei longobardi di Ca-
pua e Benevento l’ago della bilancia; un ago per loro purtroppo
molto mobile e dagli scarti difficilmente controllabili5.
L’autorità bizantina su questi potentati longobardi dalla fedeltà
sdrucciolevole si fondava ampiamente sulla tenuta di ostaggi eccel-
lenti. Membri delle famiglie egemoni vivevano, per diversi anni, al-
la corte di Costantinopoli come ospiti forzati e, in seguito, veniva-
no avviati a carriere di successo nel servizio imperiale. Così avvenne
per la famiglia di Capodiferro. Il fratello Landolfo II di Benevento
(??-961), secondo figlio di Landolfo I (910-943), fu educato a pa-
lazzo reale6. Di Romualdo, un altro fratello di Pandolfo I, i contem-
poranei dicevano che inter Graecos puericia fuerat (stava fra i greci
fin dall’infanzia). Nel 968, incontrò Liutprando alla corte di Nice-
foro II Foca e7, poco dopo, combatté in Italia nei ranghi dell’eserci-
to bizantino8.
Il braccio di ferro per stabilire quale impero detenesse l’autorità
sui regnanti longobardi di Benevento e Capua (tradizionalmente
quello d’Oriente, poi scalzato da quello d’Occidente) e governasse
in parallelo sui territori centro-meridionali della penisola italiana
(di norma bizantini, ma ora nel mirino del Sacro Romano Impero)
travalicò i limiti di guardia per una serie di mosse papali. Nel mag-

4 Liutprando da Cremona, 1998b: 354; cfr. 352-353. Gay, 1917: 308-309.


5 Merlini, 2013. Id., 2016.
6 Letter 82 in Jenkins, Westerink, 1973: 340.
7 Chiesa (a cura di), 1998: 203.
8 Cronaca salernitana 172, in Westerbergh, 1956: 176.
106 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA

gio 969, papa Giovanni XIII (965-972) elevò Benevento a sede ar-
civescovile, mettendola a capo di tre diocesi suffraganee stanziate
nel Catepanato bizantino. Giovanni XIV (983-984) vi aggiunse al-
tre tre diocesi, localizzate sempre nel territorio amministrato da Bi-
sanzio. Giovanni XV (985-996, al soglio di Pietro fra l’agosto 985
e il marzo 996) concesse a Salerno la giurisdizione su quattro dio-
cesi nelle bizantine Lucania e Calabria. Con determinata progres-
sione, il papato rafforzò dunque l’autorità di Pandolfo I Capodifer-
ro su dieci vescovati situati nella provincia bizantina, nel tentativo
di “sfrattare” l’Impero d’Oriente con il grimaldello della giurisdi-
zione ecclesiastica.
Nell’estate del 969, lo scontro divenne militare. Pandolfo I Ca-
podiferro guidò, per conto dell’imperatore sassone, la milizia di Ca-
pua-Benevento all’assedio della città-fortezza di Bovino (nella Pu-
glia settentrionale, dunque nel Catepanato bizantino). Catturato
dai difensori, fu spedito a Costantinopoli in catene. È il momento
tragico in cui abbiamo già incontrato la moglie Aloara impegnata a
regnare in sua vece sui principati di Capua e Benevento, difenden-
doli dalle incursioni ordinate dal basileus. Capodiferro, in una pri-
gione di Costantinopoli, scommise sulla fine del regno di Niceforo
Foca. Ebbe ragione. O fu ben informato. Nel dicembre 969, l’im-
peratore fu assassinato da un parente, Giovanni Zimisce, poi inco-
ronato suo successore. Il nuovo basileus voleva impostare una poli-
tica estera meno aggressiva nei confronti di Ottone I di Sassonia.
Diede quindi al principe di Benevento e Capua l’opportunità di tor-
nare in Italia, come suo rappresentante, per negoziare la pace. Il
nuovo rango e il compito diplomatico non impedirono ai bizantini
di mantenere Pandolfo I Capodiferro in ostaggio a Bari fino a quan-
do Ottone il Grande accettò di negoziare una pace meno effimera e
di far sposare suo figlio Ottone II con Teofano, nipote di Zimisce9.
La seppur fragile pace fra il Sacro Romano Impero e l’Impero
d’Oriente diede a Pandolfo un’opportunità eccezionale: mentre
confermava la sua devozione verso l’imperatore occidentale e il ri-

9 Gay, 1917: 317-318. Abbiamo già accennato a Ottone II e Teofano quan-


do abbiamo menzionato la disfatta di Capo Colonna del 982, dovuta anche al
tradimento bizantino.
LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA 107

spetto verso quello orientale, di fatto otteneva una libertà di movi-


mento a cavallo tra i due imperi. Il risultato fu l’inedita unione sot-
to un’unica autorità, la sua, dei potentati longobardi di Benevento,
Capua, Salerno e Spoleto-Camerino; un territorio vasto che, però,
Capodiferro stentava a controllare10.
Il prepotente emergere nel cuore della penisola italiana di uno
Stato longobardo esteso da Ancona ai confini della Calabria e di
stretta osservanza tedesca causò gravi inquietudini tra i regni vicini.
Esse deflagrarono nel marzo 981, alla prematura morte di Capodi-
ferro e mentre l’imperatore Ottone II tentava invano di invadere le
regioni bizantine di Puglia e Calabria11. Il territorio assemblato da
Pandolfo I con tanta maestria e fatica si frantumò. Insurrezioni gui-
date espulsero i figli Landolfo IV e Pandolfo II da Benevento e da
Salerno, dove avevano iniziato a governare alla morte del padre. Be-
nevento ridiventò uno Stato a sé stante, sotto il dominio di Pandol-
fo II, nipote reietto di Pandolfo I Capodiferro e fratello di Leone il
fondatore di Apothikon12. Salerno cadde sotto l’autorità del patri-
zio Mansone I di Amalfi (regnante fra il 957 e il 1004), uno stretto
vassallo di Bisanzio13.
L’intreccio di eventi che abbiamo sintetizzato cambiò la configu-
razione politica dell’Italia meridionale negli ultimi decenni del pri-
mo millennio, conferendo vantaggi instabili a volte all’Impero
d’Occidente e a volte all’Impero d’Oriente. Le potenze locali del
Centro-Sud svolgevano un ruolo talvolta di cerniera e di cuscinetto
e talaltra di destabilizzazione. Mentre Leone progettava il proprio
cenobio athonita, Bisanzio era in vantaggio. Diverse città meridio-
nali (Capua, Napoli, Benevento, Gaeta) erano formalmente auto-
nome, ma di fatto sotto il protettorato bizantino. È interessante no-
tare che gli abati dei monasteri di Montecassino e di San Vincenzo
al Volturno, distrutti dai saraceni, si erano preoccupati di far rico-
noscere i propri possedimenti dal basileus.

10 Wickham, 1997.
11 Gay, 1917: 326 sgg. Il giovane imperatore tentò di nuovo di marciare sul
Sud d’Italia nel 983, ma dovette ripiegare su Roma dove morì alla fine dell’anno.
12 Gay, 1917: 331-332.
13 Id., 1917: 271.
108 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA

Questo quadro politico ha profondamente segnato le regole e le


condizioni con cui Leone e compagni hanno giocato le loro carte
sul Monte Athos.
L’assenza di confini territoriali netti e condivisi era la maggiore
causa dell’instabilità fra i due imperi. La stragrande maggioranza de-
gli abitanti di lingua latina era formata da longobardi di ascenden-
za germanica, concentrati prevalentemente in Campania, Abruzzo,
Puglia settentrionale, Principato di Salerno, Principato di Capua e
Principato di Benevento. I Ducati di Amalfi e di Napoli erano rima-
sti liberi dal controllo politico e legislativo longobardo, ma non era-
no scollegati dai longobardi; molti amalfitani di Atrani, per esem-
pio, si stabilirono nel Principato di Salerno. Anche la maggioranza
della popolazione del thema bizantino di Longobardia era di ceppo
longobardo, parlava latino e professava la religione cattolico-roma-
na. Etnicamente, culturalmente, linguisticamente e religiosamente
era dunque più simile alla popolazione dei potentati longobardi del
Centro-Sud Italia che agli alti funzionari greci inviati da Costanti-
nopoli a governarla. I reggitori bizantini, inoltre, rimanevano estra-
nei al milieu socio-culturale locale anche per la brevità dei periodi
di corvè14. Taranto, Brindisi e altre città della Puglia erano abitate
sia da greci che da longobardi ed entrambe le comunità erano, pur
se amministrate dall’impero bizantino, sotto la giurisdizione eccle-
siastica di un vescovo di rito latino15. Anche in ambito liturgico,
dunque, la linea di demarcazione tra i longobardi latini di Capua-
Benevento e i bizantini del Catepanato non era nettamente defini-
ta. Calendari e rituali di Benevento e di Napoli contenevano spesso
elementi sia greci che latini e persino inni bilingui16. Diversi mano-
scritti utilizzati durante importanti feste liturgiche beneventane ri-
portavano testi greci del culto bizantino traslitterati in caratteri lati-
ni17. La politica del pendolo dei potentati di Capua/Benevento si
comprende quindi anche alla luce del make-up etnico-culturale del
Centro-Sud Italia alla vigilia della conquista normanna, in cui la

14 Falkenhausen, 2007: 96.


15 Morton, 2011: 19.
16 Vitolo, 1990: 91.
17 Gamber, 1964. Kelly, 1989: 203-218. Id., 2011.
LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA 109

realtà era molto più variegata di una semplicistica divisione tra aree
latine e aree greche18.
Accumulate le informazioni e gli indizi necessari, possiamo ora
tirare le somme circa la pianificazione longobarda volta a erigere,
con il consenso bizantino, un cenobio latino proprio nel luogo do-
ve stava avvenendo il revival politico-spirituale del monachesimo
greco-orientale.
Come abbiamo visto, per tutta la fine del X e l’inizio dell’XI se-
colo i potentati longobardi di Benevento e Capua erano fondamen-
talmente indipendenti da Bisanzio, ad eccezione di alcuni periodi.
Il governo imperiale del basileus, dal canto suo, era impegnato a ri-
stabilire il controllo amministrativo e militare su vaste aree meridio-
nali della penisola italiana e a riorganizzare di conseguenza le strut-
ture amministrative e religiose. Ma aveva una spina nel fianco: la
continua minaccia e l’oscillazione d’obbedienza dei principi longo-
bardi che sfidavano l’autorità bizantina non appena si trovavano
nelle condizioni di poterlo fare. Sfide in genere fallimentari, ma da
cui non si esentavano.
La fondazione di un cenobio longobardo al Monte Athos fu, al
di là dei risvolti religiosi e anzi sfruttandoli, un atto politico teso a
stabilizzare queste oscillazioni nel rapporto fra quei principati del
Centro-Mezzogiorno italiano e il governo imperiale di Costantino-
poli. Nella situazione creatasi alla fine del X secolo, i primi avevano
assolutamente bisogno di un intermediario con il governo imperia-
le bizantino. Tale negoziatore non doveva essere connotato politica-
mente, anche se era necessario che fosse in grado di giocare su di-
versi tavoli politici. Non doveva essere né sottoposto a Bisanzio, né
esserne indipendente. Meglio far nascere un’istituzione non com-
merciale e con nessuna connotazione militare, ma inserita nella sfe-
ra religiosa. Doveva avere una localizzazione geo-politica strategica
per svolgere al meglio il ruolo di avamposto nell’impero bizantino.
Se fosse stato situato nel centro del potere (Costantinopoli), avreb-
be rischiato di fallire per la sovraesposizione. Meglio dunque eriger-
lo in un luogo geograficamente periferico, ma comunque centrale
rispetto ai meccanismi del potere (il Monte Athos).

18 Morton, 2011: 24.


110 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA

La soluzione fu dare sostanza al sogno di un venerabile quanto


ambizioso monaco beneventano della dinastia regnante e con colle-
gamenti solidi nella “Regina delle città”, soprattutto con il basileus
e il suo entourage, grazie a legami di parentela. Si trattava di edifi-
care un cenobio benedettino soggetto all’obbedienza ecclesiastica
con Roma, ma sottoposto all’autorità statuale e amministrativa di
Bisanzio, a metà strada tra l’Italia meridionale e la capitale bizanti-
na e nel cuore pulsante del monachesimo greco-bizantino che era in
pieno rilancio religioso e politico.
Tale scenario rende plausibile che un nipote del potente ex dete-
nuto Pandolfo I e di ostaggi eccellenti e uomini di corte, Landolfo
II e Romualdo, una volta fattosi monaco a Montecassino o in un
monastero collegato, viaggiasse alla volta di Costantinopoli nella cui
reggia vantava saldi contatti ai massimi livelli. Volendo erigere un
monastero del proprio ordine in Oriente, non esisteva luogo più ap-
propriato del Monte Athos, dal momento che l’imperatore Nicefo-
ro Foca II era il sostenitore cardine della lavra di Atanasio e della ri-
voluzione cenobitica che stava lì avvenendo.
Nello stesso periodo Eutimio, figlio del futuro fondatore di Ivi-
ron e prossimo igùmeno di quel monastero, stava trascorrendo gran
parte dell’infanzia e la prima giovinezza come ostaggio alla corte
imperiale di Costantinopoli insieme ad altri giovani nobili georgia-
ni. I paralleli storico-biografici e la reciproca ammirazione cultural-
religiosa cementeranno i rapporti fra le élites di Apothikon-Amal-
fion e Iviron. Un episodio spesso dimenticato dagli storici testimo-
nia drammaticamente la mutua attrazione cultural-religiosa: la ten-
tata fuga in Occidente di Giovanni l’Iberico, primo igùmeno di Ivi-
ron e padre di Eutimio. Quando Tornikios morì, nel 983, Giovan-
ni perse l’amico, il parente e il protettore. Si sentì in difficoltà e ina-
deguato nei rapporti con il potere imperiale. Provò quindi a fuggi-
re addirittura in Spagna, con il figlio e i discepoli più fedeli. Fu pe-
rò scoperto e intercettato dall’intelligence del basileus Basilio II e
condotto a Costantinopoli. Venne indotto a ritornare al Monte
Athos dalle guardie e da una lettera imperiale in cui veniva implo-
rato di rimanere a governo del monastero appena eretto, «per accre-
scere la devozione e la fede» fra i monaci appena insediati. Il tenta-
tivo di fuga venne interpretato come dovuto al desiderio politico e
religioso di spostarsi nell’area occidentale europea e nella Chiesa ro-
LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA 111

mana19 e come manifestazione plateale di sintonia con la koinè dei


benedettini di Leone che, a poca distanza, stavano progettando il
loro chiostro.
In conclusione, Leone il Grande era un aristocratico longobardo
di una regione al confine con Bisanzio stremata da una lunga se-
quenza di guerre. Essa era stata considerata dai bizantini di loro per-
tinenza e i principi regnanti come loro vassalli. Tradizionalmente lo
erano stati, ma Pandolfo I e i suoi successori (in primis Pandolfo II,
fratello del monaco Leone) si erano ritagliati un autonomo spazio
di manovra. Ora si trattava di stabilizzarlo. La fondazione del mo-
nastero benedettino sul promontorio chiamato Apothikon poteva
fare al caso.

L’incorporazione del chiostro nella diretta sfera d’interesse


imperiale d’Oriente
Il competitore chiave nel Grande Gioco per la supremazia fra
Oriente e Oriente era il governo imperiale di Costantinopoli, be-
neficiante verso la fine del X secolo di un potere nuovamente in
ascesa. Non solo esso accettò la presenza del cenobio latino nel cuo-
re vibrante del proprio monachesimo, ma fin dalla sua fondazione
lo incorporò nella diretta sfera d’interesse del trono. Lo valutò in-
fatti un tassello essenziale della ristrutturazione che stava promuo-
vendo nel Monte Athos come microcosmo terreno santificato, in
cui l’ecumenicità imperiale cristiana a dominanza bizantina riflet-
teva la volontà divina e l’organizzazione celeste. Apothikon poté
sorgere nella finestra temporale apertasi quando Bisanzio era impe-
gnata a riaffermare il suo potere nel Sud Italia, a riacquisire i con-
tigui potentati longobardi nella sua orbita diplomatica e a influire
sulla politica dell’abbazia di Montecassino. Quest’ultima praticava
l’obbedienza papale, seguiva il rito latino e vantava l’imperatore te-
desco come suo protettore. Ma il basileus aveva ritenuto maturo il
momento di provare a bypassare quegli obblighi, quelle prerogati-
ve e quelle alleanze20.

19 Butler, Burns, 1995: 86. Grdzelidze, 2009: 58.


20 Bloch, 1946: 168.
112 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA

La somma di queste complesse manovre fece sì che le vicende del


cenobio athonita di rito occidentale, ormai divenuto Amalfion, fos-
sero motivo d’interesse e discussione alla corte bizantina. Esso fu tra
i primi monasteri del Santo Monte a vedersi riconosciuto l’alto pa-
trocinio imperiale. La sua abilità nel procurarsi la protezione del tro-
no non venne per nulla intaccata dai contraccolpi del Grande Sci-
sma del 1054. E neppure dalla perdita dei possedimenti bizantini
nella penisola italiana avvenuta nel 1071.
L’interesse strategico per Amalfion fu ribadito, un secolo dopo la
sua fondazione e in una cornice internazionale profondamente mu-
tata, anche dalla dinastia dei Comneni (1081-1185). Lo si riteneva,
infatti, un elemento strategico degli sforzi diplomatici, religiosi e
culturali volti a innescare e a supportare la rinascita dell’impero. Co-
sì nel 1081 una crisobolla21 di Alessio I Comneno elevò Amalfion
al rango di «monastero imperiale» (basilikè monè, βασιλικὴ μονή). In
quanto istituzione della corona, fu inserito all’interno della sua giu-
risdizione e godette di un accesso speciale e diretto al palazzo. Di
conseguenza, venne protetto da ingerenze da parte delle autorità ci-
vili ed ecclesiastiche (del vescovo come addirittura del patriarca) e
ottenne una sostanziale autonomia, a quanto sembra, anche dal pro-
tos del Monte Athos22. Infine, i suoi abati svolgevano importanti
compiti nell’ambito dell’ordinamento pubblico per conto del sovra-
no. Non per nulla lo stesso atto imperiale procurò al cenobio una
sostanziosa donazione di terre23.
Diverse crisobolle confermarono lo status di «monastero impe-
riale», corroborato con l’elargizione di nuovi privilegi e territori24. E
gli imperatori Comneni si distinsero per prodigalità.

21 La Crisobolla o Bolla d’Oro era il documento ufficiale in uso presso la can-


celleria imperiale di Costantinopoli che sanciva i più importanti atti imperiali
quali gli editti.
22 Živojinović, Kravari, Ghiros (a cura di), 1998: 102 110; Živojinović, 2005:

122 sgg. Merlini, 2013. Id., 2015.


23 Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di),

n. 43, 1970: 239 sgg. Bonsall, 1969: 266.


24 Pertusi, 1963: 228-29. Bonsall, 1969: 266. Actes de Lavra, I, Lemerle, Guil-

lou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), n. 43, 1970: 239 sgg.


LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA 113

Dopo la parentesi dell’Impero Latino d’Oriente, la politica di at-


tenzione verso il cenobio cattolico-romano venne confermata dagli
imperatori d’Oriente rientrati in gioco, dopo il 1261, grazie a ini-
ziative diplomatiche e militari.
Questa ostinata stabilità indica chiaramente che la casa latina
continuò a possedere nel tempo un elevato valore per gli imperato-
ri dell’Impero d’Oriente. Addirittura, dopo il trauma del 1071 la
sua stessa esistenza prese a supportare le loro pretese di legittimità
sui territori italiani, pur non essendone più in possesso.

La Terra Sancti Benedicti d’oltremare


Un altro interprete di primo piano del Grande Gioco che ha porta-
to alla nascita del monastero sul promontorio di Apothikon come
sua pedina avanzata fu l’influente abbazia di Montecassino, situata
nell’area settentrionale del Principato di Capua e Benevento. Cuore
dell’Ordine Benedettino, essa aveva una spiccata inclinazione all’e-
spansione internazionale, ma al tempo stesso era saldamente anco-
rata al territorio del principato di riferimento. Verso la metà del X
secolo, quando la comunità monastica dei superstiti si era mobilita-
ta per riedificare l’abbazia e ristabilire le sue proprietà (dopo la di-
struzione della struttura da parte dei saraceni nel 883, le spoliazio-
ni da parte dei principi longobardi presso cui i confratelli avevano
cercato rifugio e un trasferimento a Capua), la casata capuana ne
aveva confermato i diritti. Le aveva inoltre permesso di costruire ca-
stelli e villaggi fortificati esercitandovi in pieno la propria autorità.
Era infine intervenuta per bloccare l’opposizione di gastaldi e conti
contrari al potere locale che il monastero andava assumendo25.
Fondata da San Benedetto nel 529 circa, Montecassino aveva in-
staurato un rapporto speciale con la cultura e spiritualità bizantina
che contribuì a irradiare nella penisola italica26. La già menzionata
visita del calabro-ellenofono San Nilo di Rossano, intorno al 980,
giusto un quinquennio prima dell’erezione di Apothikon, è un fa-

25Toubert, 1973: 695-698. Id., 1976. Loud 1994: 57-58. Wickham, 1997.
Hubert, 2013.
26 Bloch, 1946.
114 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA

moso caso di studio di un incontro archetipico fra religiosi latini e


greci27. Nilo fu invitato nella chiesa abbaziale a celebrare i vespri e
a cantare inni nella sua lingua, tra cui uno di sua composizione de-
dicato a San Benedetto. Vegliò tutta la notte e rispose alle domande
dei confratelli benedettini «sul lavoro del monaco e come potesse
meritare la misericordia divina». Gli fu richiesto di soffermarsi sulle
norme, le pratiche e l’aspetto (la barba e l’abbigliamento) che divi-
devano o univano i monaci greci e latini. La sua conclusione fu che,
a dispetto delle differenze, la Regola di San Benedetto e le usanze del
suo monachesimo erano ugualmente valide28. Questo noto episodio
ci ricorda che nel Principato di Capua e Benevento la professione
religiosa non era esclusivamente latina. In quella permeabile frontie-
ra culturale e religiosa, non esisteva ostilità tra il clero bizantino e
quello romano. Tutti si consideravano parte di una stessa Chiesa, si
stimavano ed erano propensi a cooperare nel rispetto delle recipro-
che differenze29. Quando Aloara, l’energica vedova di Capodiferro,
pregò Nilo di prescriverle una penitenza per i suoi peccati, lui rispo-
se rispettosamente che avrebbe dovuto chiederla al vescovo locale
(latino). Non riuscì però a esimersi dal rilevare, maliziosamente, che
in tal caso la pena comminata sarebbe stata troppo leggera. La bio-
grafia del santo ci informa che, nonostante i severi rimproveri, la
principessa continuò a intrattenere ottime relazioni con lui. Eremi-
ti di chiara fama come Nilo, di matrice greco-bizantina ma residen-
ti in territori longobardi, non erano isolati dal mondo e tanto me-
no dai potenti del tempo.
Montecassino fu in contatto costante, almeno fino all’inizio del
XII secolo, con le autorità bizantine dell’Italia meridionale e diret-
tamente con gli imperatori (da Leone VI ad Alessio I) di cui godet-
te la sollecitudine30. Le relazioni diplomatiche vennero quasi inter-
rotte sotto il regno dell’imperatore Niceforo Foca II, caratterizzato
da una politica aggressiva nel Sud Italia e in Sicilia e dal tentativo di
forzare l’influenza della Chiesa greca in Puglia e Lucania attraverso

27 Kolbaba, 2008: 225-228.


28 Rousseau, 1972-1973. Morton, 2011: 56, 61.
29 Loud, 2008: 11.
30 Falkenhausen, 2007: 105.
LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA 115

la creazione del vescovado d’Otranto. L’approccio più conciliante


adottato dal successore Giovanni I Zimisce favorì la nascita del mo-
nastero benedettino sul Monte Athos. Le relazioni diplomatiche ri-
presero a pieno regime dall’inizio del secolo XI, con la propensione
filo-bizantina dell’abate Atenolfo e del principe di Capua Pandolfo
IV, figlio di Pandolfo II e nipote di Leone il Grande. Anche nei pe-
riodi meno felici, le ampie proprietà cassinate in Puglia furono sem-
pre regolarmente ratificate dai reggitori del Catepanato d’Italia31.
Con il beneplacito del papato, i benedettini ebbero contatti nu-
merosi, regolari e reciprocamente vantaggiosi con il patriarcato di
Costantinopoli, al di là e a dispetto della semplificazione binaria in
atto tra la Chiesa d’Occidente e la Chiesa d’Oriente32. Apothikon
fu il primo dei molti monasteri benedettini che verranno costruiti
nella Grecia bizantina, quasi un laboratorio per mettere a punto un
modello organizzativo di inserimento e intervento attivo nel conte-
sto politico-religioso e diplomatico orientale33.
Montecassino imbastiva anche stretti legami d’interesse con il
Monte Athos34. La chiesa della loro comunità athonita era dedicata
alla Madre di Dio, come gli altri due monasteri gestiti in Oriente:
Costantinopoli e Gerusalemme35. Il centro di potere benedettino si
aspettava perciò che i suoi religiosi athoniti le fornissero supporto
quali agenti in entrambi i centri. E non venne delusa36.
La “militarizzazione” di Montecassino, oltre a puntare al control-
lo sul territorio italico, si espresse tramite alcuni monasteri-fortezze
in punti chiave d’oltremare. Apothikon fu il primo. Quando nel
1099 i crociati entrarono a Gerusalemme, trovarono strutture bene-
dettine amalfitane già funzionanti da una settantina d’anni, mante-
nute con fondi caritatevoli raccolti nella madrepatria e operanti in

31 Trinchera (a cura di), 1865: 11, 12, 14, 17. Dölger, 1924: 911. Cfr. Falken-
hausen, 1992: 74 e n. 23, 75.
32 Falkenhausen, 1992: 87-107.
33 Tsougarakis, 2008: 111.
34 Leccisotti, 1987: 48-50, e 53. Dell’Omo, 1999: 35, 45. Reynolds, 2012: 78.
35 La Chiesa del monastero di Costantinopoli fu consacrata a Deiparae seu

Mariae Amalphitarum de Latina. La Chiesa del monastero di Gerusalemme fu de-


dicata a Sancta Maria de Latina. Vedi Merlini, 2015.
36 Abulafia, 2011: 269.
116 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA

collaborazione con la dinastia sciita ismailita dei fatimidi37. Merita


ricordare il monastero-ospedale in Terrasanta perché la sua organiz-
zazione e destino ebbero svariati punti di contatto con quelli del ce-
nobio sul Monte Athos. Il primo era infatti gestito da monaci-cava-
lieri che avevano tratto insegnamenti logistici e difensivi bellici dal
secondo. Dal laboratorio benedettino athonita aveva mutuato l’alta
e massiccia torre di difesa, la realizzazione di magazzini e strutture
portuali e la dotazione di navi capaci di lunghe traversate38. Proba-
bilmente aveva anche ricalcato l’idea del “monaco-guerriero” che, per
estrema difesa, poteva far uso di armi39. Tale possibilità fu definitiva-
mente ufficializzata dal riconoscimento di papa Pasquale II, il 15 feb-
braio 1113, del primo ordine monastico-cavalleresco della storia, an-
cora oggi esistente e noto come Sovrano Militare Ordine di Malta.
Si instaurò così per l’Abbatia Territorialis Montis Cassini un perio-
do di prosperità, a cui si accompagnarono chiarezza programmatica,
rilievo politico e fulgore artistico. Tale rigoglio raggiunse il culmine
con l’abate Desiderio (1058-85), poi con papa Vittore III. Fu quella
l’epoca d’oro anche per il cenobio collocato nel “Giardino di Maria”.

L’espansione papale nei territori di frontiera


Dietro la potente abbazia-madre di Apothikon si stagliava il pa-
pato. Ai tempi della fondazione del monastero benedettino athoni-
ta, era papa Giovanni XV, di cui abbiamo già sottolineato l’aperto
atteggiamento filo-imperiale tedesco. Nei confronti di Montecassi-
no, elargì privilegi ai tempi del famigerato abate Mansone40. Quan-
to ai rapporti con Bisanzio, non si trattava semplicemente di con-
flitti dogmatici o di politica ecclesiastica, ma anche di questioni ter-
ritoriali. Basti pensare che il revival bizantino, a partire dalla secon-
da metà del secolo, portò l’Impero d’Oriente a controllare salda-
mente porti chiave come Napoli e Amalfi ed estendeva i domini in

37 Berlière, 1888: 504, 546. Hofmeister, 1932: 239 sgg. Mattei-Cerasoli,


1935: 46-54. Kleinhenz, 2004: 25.
38 Mattei-Cerasoli, 1935: 46-54. Pertusi, 1953. D’Amato, 1974. Gargano,

2001: 18. Id., 2006: 476.


39 Merlini, 2015.
40 Tosti, vol. III, 1842: 233.
LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA 117

Italia meridionale al punto da minacciare Roma stessa. I sovrani oc-


cidentali, dal canto loro, non perdevano occasione per tentare d’in-
corporare aree dell’Italia meridionale in sintonia con l’ampliamento
della sfera d’influenza pontificia. A un simile contesto di inferenze
in conflitto appartengono anche le menzionate nuove fondazioni di
arcivescovati latini in territorio bizantino.
Giovanni XV cercò di quadrare il cerchio instaurando stretti rap-
porti con l’imperatrice Teofano, tra le donne più potenti del Me-
dioevo. Figlia dell’imperatore bizantino Romano II e moglie del-
l’imperatore del Sacro Romano Impero Ottone II, Teofano ottenne
definitivamente la reggenza per conto del figlio minorenne Ottone
III mentre a Bisanzio erano al potere i suoi fratelli e proprio nell’an-
no di erezione di Apothikon. Nel momento in cui veniva decisa la
costruzione di un ponte fra Occidente e Oriente, quale fu il ceno-
bio benedettino athonita, entrambi gli imperi erano governati dalla
medesima dinastia.
La realizzazione di un monastero al Monte Athos rappresentava
un’occasione unica per la Chiesa Romana di espandere la cristianità
latina nei cosiddetti “territori di frontiera”. Lo sfruttamento della ba-
se athonita per acquisire informazioni e influenza sul centro emer-
gente del monachesimo greco-bizantino era un tassello degli sforzi
più generali volti a sostenere la superiorità della civiltà latina su quel-
la bizantina. In particolare, il papato tentò di servirsi di Apothikon
come testa di ponte verso l’Impero d’Oriente e la Chiesa di Costan-
tinopoli all’interno di una politica di riconciliazione con Roma gui-
data da Roma.
Con Teofano, si diffusero nel Sacro Romano Impero elementi
bizantini nelle arti e nella sfera religiosa, per esempio l’introduzione
del culto di San Nicola di Mira, le cui reliquie furono traslate a Ba-
ri nel 1087. Il monaco Giovanni l’Amalfitano, di stanza a Costan-
tinopoli e plausibilmente legato alla comunità benedettina athoni-
ta, firmò la trasposizione dal greco al latino di un testo sul decesso
e su tre miracoli postumi del santo. Fu una narrazione agiografica
con ampia eco in Occidente, diffondendo l’approccio liturgico, pa-
tristico e canonistico bizantino41.

41 L’Obitus s. Nicolai è conservato a Napoli, nel codice della Biblioteca nazio-

nale, già Viennese 15, e a Roma, presso la Biblioteca Vallicelliana, ms. Tomo I.
118 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA

La strategia papale non mancava di coerenza. Tuttavia, è diffici-


le sfuggire all’impressione che le autorità secolari longobarde, soste-
nendo gli sforzi per la creazione di Apothikon, fossero molto più in-
teressate a ottenere benefici geopolitici dall’impero bizantino che a
ricondurre i greci all’obbedienza papale.

Il risultato di attente e convergenti pianificazioni


La nascita di un chiostro “anomalo” nella roccaforte monastica
dell’Impero d’Oriente era coerente con il teatro internazionale sin-
tetizzato poco sopra e con il copione recitato dai diversi attori. Apo-
thikon fu deciso e costruito per essere uno degli agenti del Grande
Gioco. Si guardava bene dall’esibire connotazioni politiche evidenti,
ma era politicamente cosciente, capace e operativo. Rispondeva al-
l’autorità ecclesiastica pontificia, ma era soggetto al governo territo-
riale bizantino. Era situato nel cuore dell’Impero d’Oriente, ma era
al tempo stesso a metà strada tra la penisola italica e Costantinopo-
li. Era inserito e incorporato nel centro nevralgico della spiritualità
greco-bizantina, ma obbediva al rito latino. Stazionava sulla Santa
Montagna del monachesimo orientale, sfruttandone la diretta giuri-
sdizione imperiale e l’autonomia dall’autorità patriarcale. Era im-
piantato sulla frontiera della cristianità cattolico-romana, ma com-
partecipava attivamente e responsabilmente nel governo del centro
politico-religioso dei confratelli orientali. Fin dalla nascita, Apothi-
kon fu investito di sufficiente potere per intervenire su larga scala
negli affari politici internazionali longobardi con Costantinopoli, ri-
conoscendo la centralità dell’impero. Ebbe sufficiente stabilità, pro-
sperità e longevità da concorrere alla formazione dell’agenda politi-
ca di raccordo fra i principati italiani longobardi del Meridione e
l’Impero Romano d’Oriente. Corrispose alla necessità dei primi di
impostare una nuova alleanza con Bisanzio e, in particolare, diretta-
mente con l’imperatore e il suo entourage. Anche grazie agli uffici di

Per la redazione dell’Obitus Nicolai vedi Johannes Monachus, Huber (a cura di),
1913: XVII e Hofmeister, 1924: 135 sgg. Per un’analisi dell’Obitus s. Nicolai al-
l’interno di un confronto fra le varie testimonianze agiografiche nicolaiane, vedi
Vuolo, 2012: 255-281.
LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA 119

Apothikon, le potenze della Langobardia Minor riuscirono a guada-


gnare una certa autonomia, accettata dall’impero perché periferica e
sorvegliata.
La fondazione di Apothikon non fu però soltanto il risultato di
una strategia geopolitica. Fu anche l’effetto di una irresistibile attra-
zione culturale. Se le tendenze espansionistiche dei regnanti su Be-
nevento e Capua avevano istigato le rivolte pugliesi per erodere ter-
ritori a Bisanzio, tuttavia la civiltà di quest’ultima affascinava enor-
memente la nobiltà germanico-longobarda.
La nascita di Apothikon contribuì inoltre a plasmare nuovi rap-
porti fra il papato, l’Impero d’Occidente e l’alleato longobardo, da
una parte, e Bisanzio dall’altra. Fu scelta una fondazione benedetti-
na, perché questo ordine monastico stava svolgendo un prezioso
ruolo di intermediazione tra le collidenti potenze latine e greche e
perciò vantava finezza diplomatica, fertili connessioni intercultura-
li, organizzazione centralizzata e, non da ultimo, l’esercizio di una
zelante obbedienza.
In conclusione, la fondazione di Apothikon non fu un atto spon-
taneo e istintivo di un santo monaco quanto piuttosto l’effetto di at-
tente e convergenti pianificazioni. Esso fu però solo un pedone sul-
la grande scacchiera geopolitica sulla quale si stava svolgendo, allo
svoltare del millennio, il Grande Gioco per la supremazia fra Occi-
dente e Oriente.
L’igùmeno Giovanni
e la reinvenzione di Apothikon
in Amalfion, dalla gestione
beneventana a quella amalfitana

L a prima evidenza documentaria della casa benedettina è del


9911. Se Leone il Grande consacrò Apothikon intorno al 985-
990, nel novembre 991 l’igùmeno era un certo Giovanni2. Il presu-
mibilmente secondo abate fu con molta probabilità uno dei sei di-
scepoli originari. È plausibile ma non certo che si trattasse dello stes-
so Giovanni che firmò, nel già menzionato documento del 985, co-
me Johannes monachos ton Apothikon. Fu comunque lo stesso abate
che instradò il ritorno di Giovanni il Beneventano a Montecassino.
In calce all’asphaleia del 991, in cui il protos Giovanni assegnavava
un’abitazione al monaco Atanasio corroborato dalla sottoscrizione
di 17 firmatari, l’autografo del superiore dei benedettini recita, in
latino: «Ioh(annes) monachus (et) higoumenos inter... test(es) manu
mea scripsi »3.
L’insediamento monastico benedettino sul Monte Athos aveva
probabilmente il Tipikòn in latino, perché organizzava monaci di
usi occidentali e aderenti al rito romano. Gli abati sottoscrivevano

1 Lavra 9 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou


(a cura di), 1970: 1.54. Falkenhausen, 1993: 91-93. Pertusi, 1953: 11.
2 Pertusi ci informa, sfortunatamente senza alcuna prova documentaria, che

Giovanni Amalfinos era successo a Leone «verso il 991» (1963: 223-224). L’atto
del novembre 991 può essere assunto solo come terminus ante quem della morte
del fondatore.
3 Rouillard, Collomp (a cura di), 1937: n. 10. Lavra 9 in Actes de Lavra, I, Le-

merle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 122.54. Lemerle,


1953: 551 n. 1. Pertusi, 1963: 224. Keller, 1994-2002: 8.
122 L’IGÙMENO GIOVANNI

gli atti ufficiali in latino, con due sole eccezioni dovute al copista (ci
sono pervenute solo in copia). Le firme sono in genere vergate in
scrittura beneventana, una grafia minuscola sviluppata nello scrip-
torium di Montecassino e degli altri monasteri benedettini della pe-
nisola italica. Non è strano trovarla al Monte Athos perché era la
scrittura più diffusa nel Centro-Sud della penisola italica. È detta
beneventana, perché la sua definitiva consacrazione ebbe luogo nel
territorio di Benevento sotto Landolfo I, arcivescovo dal 956 al 983,
al tempo del concepimento di Apothikon4.
Stando a Lemerle5 e Pertusi6, il Giovanni che autografò nel no-
vembre del 991 si chiamava Giovanni l’Amalfitano, era di Amalfi ed
era a capo del monastero amalfitano7. Secondo questi autori, l’atto
non è semplicemente la più antica attestazione di una casa benedet-
tina radicatasi sul Monte Athos, ma il primo documento compro-
vante che essa si chiamasse Amalfion.
Tale interpretazione è stata data per scontata e ripresa da quasi
tutti gli studiosi. Purtroppo però non è supportata da alcuna prova
d’archivio. Né nella firma né altrove viene indicato che Giovanni
(Iohannes) fosse originario o provenisse da Amalfi. L’errore è dovu-
to a un travisamento. Nella trascrizione della prima edizione (Rouil-
lard, Collomp, 1937) degli Actes de Lavra, alcune lettere illeggibili
seguono le parole «Ioh(annes) monachus» e precedono «fit ». Gli edi-
tori hanno pensato bene di completare la firma con le lettere anus.
L’insieme diventa quindi «Joh(annes) monachus [ ]fit(anus) manu
me[a scripsi] »8. Per conferire certezza che il Giovanni in questione
fosse di Amalfi, nel 1953 Lemerle riprese la firma a chiare lettere e
senza parentesi tonde o quadrate che siano: «Johannes monachus
Amalfitanus manu mea scripsi »9. Pertusi si rifece a Lemerle e agli At-
ti della Lavra di Rouillard, Collomp dove però gli editori stessi ave-
vano ammesso esservi vuoti conoscitivi sulla tradizione del testo,

4 Lowe, 1914. Cencetti, 1957-1977. Cavallo, 1970. Falkenhausen, 1993: 92 sgg.


5 «Jean l’Amalfitain» in Lemerle, 1953: 551 e «Jean d’Amalfi» in Id., 1953: 548.
6 «Giovanni di Amalfi» in Pertusi, 1953: 409-411. «Giovanni (Amalfitano)» in
Pertusi, 1963: 227, 251.
7 Lemerle, 1953: 548. Pertusi, 1963: 223-224.
8 Rouillard, Collomp (a cura di), 1937: 10. 29, 30.45. Pertusi, 1953: 10.
9 Lemerle, 1953: 551 e nota 1.
L’IGÙMENO GIOVANNI 123

cioè il passaggio e le varie versioni tra originale e copie, scambiando


magari l’una con l’altra o pubblicando una copia più recente rispet-
to a una più antica e quindi più fedele10.
Gli editori della seconda edizione degli Actes de Lavra del 1970 –
tra i quali lo stesso Lemerle – diedero una lettura diversa della stes-
sa firma: fecero scomparire ogni associazione con Amalfi, ma non
emendarono esplicitamente l’errore della prima edizione. L’autogra-
fo fu dunque reso correttamente come: «Ioh(annes) monachus [et]
higuminos inter... test (es) manu mea scripsi »11. Però, anche se Lemer-
le si accorse che nell’autografo non appare la parola “amalfitanus ”,
nel commento ad esso evitò di sconfessare la prima interpretazione.
Anzi, sostenne che in ogni caso, pur se il confratello non aveva au-
tografato nel modo accettabile per chi avrebbe pubblicato il mano-
scritto un millennio dopo, si trattava della sottoscrizione dell’igù-
meno Giovanni del convento degli amalfitani, lo stesso Giovanni
che sarebbe apparso anche nel 101212. Pertusi conosceva l’ultima e
accurata lettura13. Tuttavia, continuò a nominare il monaco latino
come “Giovanni (Amalfitano)”14. In conclusione, i due studiosi ri-
portarono la lettura di edizioni superate e reiterarono l’errore anche
quando la fonte venne da loro stessi corretta15.

10 Rouillard, Collomp (a cura di), 1937: 119.


11 Lavra 9 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou
(a cura di), 1970: 122.54. «La lecture que nous donnons est certaine », essi dichia-
rano a pg. 118.
12 Lavra 17 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssan-

thou (a cura di), 1970: 148.51.


13 Pertusi, 1963: 224 e nota 22.
14 «Quel Giovanni (Amalfitano), che firma il documento del 991» in Pertusi,

1963: 223. «Giovanni (Amalfitano), abate di Santa Maria degli Amalfitani», in su-
pra, 1963: 251. Parlando di “Santa Maria degli Amalfitani”, Pertusi anticipa al
991 una consacrazione del monastero che troviamo nei documenti athoniti solo
dal 1169 (Merlini, 2014).
15 Del documento originale esistono copie antiche, dove però è saltata la fir-

ma latina. Vedi Lavra 9 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papach-


ryssanthou (a cura di), 1970: 119. Il prosieguo della ricerca dovrà appurare se le
copie siano successive alla fine del XIII secolo, dopo la “morte” di Amalfion e in
un Monte Athos oramai pienamente ortodosso e incompatibile con Roma, e se
gli autografi latini siano state elisi appositamente per cancellare tracce della pre-
senza latina sulla Santa Montagna dell’Ortodossia.
124 L’IGÙMENO GIOVANNI

Lemerle e Pertusi, seguiti dalla grande maggioranza degli studiosi,


presunsero che l’abate firmatario nel 991 fosse probabilmente lo stes-
so Giovanni16 di altri documenti redatti nel 101217, 101618, 101719
e 101820. In conclusione, il cenobio latino avrebbe avuto abati bene-
dettini amalfitani dal 991. Così come erano monaci amalfitani colo-
ro che avevano in precedenza reso testimonianza nel 984 e nel 98521.
Equivoco attrae equivoco. Nelle sue note, Monsignor Cesario D’A-
mato scrive: «Si potrebbe pensare che questo Giovanni che firma sia
lo stesso Giovanni di Benevento (futuro abate di Montecassino), ma
il Giovanni dell’atto si firma “Amalfitanus” e non “Beneventanus”»22.
Soprattutto gli storici stranieri, trovandosi in difficoltà a decodi-
ficare il complesso scenario geopolitico italiano dei secoli X e XI, ap-
plicano volentieri la scorciatoia proposta da Lemerle e Pertusi, attri-
buendo la nascita di Apothikon direttamente agli amalfitani, e spes-
so vi aggiungono di loro una cronologia “creativa”. Ecco alcuni
esempi illuminanti. «Il monastero di monaci benedettini era chia-
mato Amalfitano, perché i suoi fondatori provenivano dalla città ita-
liana di Amalfi»23. «Amalfitani... i legami con la corte imperiale era-
no tali che fondarono un monastero benedettino sul Monte Athos
nel 983»24. «Il primo monastero benedettino costruito in Grecia fu
fondato sul Monte Athos, secoli prima della quarta crociata, da una
compagnia di monaci amalfitani»25. «Anche il Monte Athos, che al-

16 Pertusi, 1963: 227, 251.


17 Lavra 17 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssan-
thou (a cura di), 1970: 148.51. Pertusi, 1963: 227, nota 31.
18 Lavra 19 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssan-

thou (a cura di), 1970: 155.32. Pertusi, 1963: 227, nota 32.
19 Questa sottoscrizione è in greco. Lavra 21 in Actes de Lavra, I, Lemerle,

Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 164. Rouillard, Collomp


(a cura di), 1937, n. 35. Lemerle, 1953: 552. Pertusi, 1963: 227, nota 33.
20 Vatopédi 4 in Actes de Vatopédi, Bompaire, Lefort, Kravari, Giros (a cura

di), 2001: 80.


21 «Sont des latins (Amalfitains)», in Lemerle, 1953: 549.
22 Ringrazio il Centro di Cultura e Storia Amalfitana per avermi fornito una

copia delle interessanti note inedite del monaco benedettino amalfitano.


23 Bonsall, 1969: 262.
24 Lock, 2013: 388.
25 Tsougarakis, 2008: 111.
L’IGÙMENO GIOVANNI 125

la fine del X secolo poteva vantare circa tremila monaci, ha avuto il


suo monastero latino o occidentale fondato da Amalfi. Chiaramen-
te non esisteva una situazione scismatica»26. «Il monastero fu fonda-
to nel 985 da monaci provenienti da una città italiana conosciuta
oggi come Amalfi. I cittadini di questo ricco centro avevano stretto
relazioni commerciali e politiche con l’imperatore bizantino Nicefo-
ro Foca e lo aiutarono in guerra contro i musulmani. Grazie a que-
sti rapporti, l’imperatore e i suoi consiglieri accordarono il permes-
so alla costruzione di un monastero occidentale sul Santo Athos»27.
«Gli Amalfitani partecipano anche alla vita spirituale dell’Impero
creandosi un monastero sul monte Athos prima dello scisma tra le
due Chiese»28.

26 Nicol, 1962.
27 Fajfer, 2010a: 37.
28 Oikonomides, 2005: 127.
Un pedone latino
nella scacchiera del Grande Gioco
tra Occidente e Oriente

I pochi indizi che abbiamo a disposizione narrano un’avventura


storica molto meno lineare.
Anzitutto, non possediamo alcun supporto documentale per le
affermazioni sopracitate sull’attribuzione agli amalfitani della fon-
dazione del cenobio benedettino. Non torniamo sulle sottoscrizio-
ni, già investigate, di metà degli anni ottanta e del 991. La firma del
1012 va interpretata, stando alla nuova edizione degli Actes de La-
vra, come: «Joh(annes) monachus » (Giovanni, monaco) 1. Dunque
non è presente alcun richiamo ad Amalfi.
La sottoscrizione latina del 1016 va decifrata: «Joh(annes) mona-
chus (et) abba(s)» (Giovanni, monaco e abate) 2. Non è presente al-
cun riferimento ad Amalfi. Giovanni decide di qualificare la respon-
sabilità sulla propria comunità monastica come “abate”, attribuzio-
ne cattolico-romana in latino ecclesiastico, invece di traslitterare in
latino quella greca di “igùmeno”. Controfirma, fra 20 responsabili
dei monasteri, il provvedimento emanato dal protos Niceforo a re-
golamentazione nel dettaglio dei rapporti fra Nicola, igùmeno di
Sant’Elia, e Simeone, igùmeno di Prodromos (l. 1-6)3.

1 Lavra 17 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou


(a cura di), 1970: 148.51.
2 Lavra 19 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou

(a cura di), 1970: 155.32.


3 In ragione dell’affetto spirituale che unisce i due monaci, Nicola dichiara di

voler diventare figlio spirituale di Simeone e di stabilirsi nel cenobio diretto da


questi. Egli amministrerà senza vincoli tutti gli affari temporali della struttura e
ne curerà gli aspetti economici. Simeone conserverà per la durata di un anno il
rango di padre spirituale senza intervenire negli affari di Nicola e limitando le
128 UN PEDONE LATINO NEL GIOCO TRA OCCIDENTE E ORIENTE

L’originale dell’atto athonita del maggio 1017 è andato perduto.


Ne possediamo solo una copia redatta nel XIII secolo. La firma del-
l’abate, posta in calce alla copia duecentesca, è inaspettatamente ver-
gata in greco come Ἰωάννης μοναχὸς Ἀμαλφιτανός (Giovanni monaco
amalfitano)4. Verosimilmente, si tratta di una traduzione greca ad
opera del copista di una firma latina a garanzia di una testimonian-
za5. Secondo Nastase, la «trasposizione in greco» invaliderebbe au-
tomaticamente la qualifica di Giovanni come monaco amalfitano.
In effetti, l’intervento del copista può alterare le firme in modo an-
che radicale. Nel suo saggio sui livelli di alfabetismo al Monte
Athos, Oikonomides esclude dall’analisi gli atti non in originale6. Al
contrario, Lemerle e Pertusi, coerenti con il loro atto di fede sul fat-
to che la casa benedettina fosse stata eretta dagli amalfitani un tren-
tennio prima e avesse espresso solo abati amalfitani, accettano cie-
camente la versione del copista7. L’enigma non risolto consiste nel
comprendere se la qualifica di “amalfitano” fosse già presente nella
firma in originale, a chiusura della sottoscrizione in latino del mo-
naco Giovanni, o se il copista l’abbia inserita perché nel XIII seco-
lo, al tempo in cui vergava la copia, il monastero benedettino era or-
mai conosciuto al Monte Athos come Amalfion.

funzioni di proestòs (priore) alla sfera spirituale (righe 6-14). Alla fine dell’anno,
Simeone rimetterà nelle mani di Nicola l’intera direzione del monastero, sia tem-
porale che spirituale, ritirandosi nel suo kellion con un servitore (righe 14-17).
Sottoscrivendo il provvedimento, Nicola contrae l’obbligo vita natural durante di
prendersi cura di Simeone. Qualora morisse per primo, avrà diritto di designare
il successore che erediterà lo stesso obbligo. Qualora accadesse che lui o il suo sub-
entrante non siano in grado di provvedere a Simeone così come questi desidera,
dovranno versare annualmente a questi e al suo servo 30 modioi di grano, 50 mi-
sure di vino, 6 modioi di legumi secchi, 6 nomismata per gli abiti e altri nutri-
menti (righe 18-23).
4 Lavra 21 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou

(a cura di), 1970: 165.


5 Lavra 21 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou

(a cura di), 1970: 165. Falkenhausen, in corso di pubblicazione.


6 Oikonomides, 1988: 169.
7 Nastase 1983: 290. Vedi Lavra 29 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou,

Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 186.21. Lavra 21 in Actes de La-


vra, I. Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 165.
UN PEDONE LATINO NEL GIOCO TRA OCCIDENTE E ORIENTE 129

Se ci emancipiamo dal circuito infernale delle firme, la denomi-


nazione “(monastero) dell’amalfitano” appare per la prima volta in
un atto del 10108. Si tratta di un memorandum giuntoci in una co-
pia probabilmente del XIII, vergata in inchiostro rosso e tutt’ora
conservata nell’archivio della Grande Lavra. Gli editori dell’atto ri-
trovano la stessa mano della prima copia del già citato documento
del 991, dovuta agli scrivani Sergio e Matteo9. Il provvedimento del
1010 riguarda la determinazione dei confini territoriali fra tre mona-
steri: Grande Lavra, Bouleutèria (dei “Parlamenti”) e Xeropotamos.
La tensione doveva essere palpabile, perché il protos Niceforo e gli
igùmeni si erano recati di persona nella zona contesa e ne avevano
fissato i confini. Nel descrivere le decisioni prese collegialmente si fa
riferimento a una montagna che funge da limite tra il (monastero)
dell’amalfitano e gli altri: «... ciò che divide i diritti dell’amalfitano...»
Il memorandum venne redatto dall’abate di Xenophontos e sotto-
scritto da dodici monaci. Tra questi non appare la firma dell’abate del
cenobio benedettino che, d’altronde, non è tra le parti in causa ma
vede ufficialmente riconosciuti i suoi diritti territoriali verso Ovest.
Da queste scarne informazioni possiamo inferire che nel 1010 il
monastero latino era una entità ben strutturata. Inoltre, per la pri-
ma volta appare la denominazione Amalfion. Possediamo però il
provvedimento solo in copia, vergata in greco due secoli dopo,
quando la fondazione degli amalfitani non solo esisteva ma stava
giocando un ruolo leader nel governo della Santa Montagna. In
questo caso non abbiamo le incertezze dovute alla trascrizione di
una firma latina. Non possiamo però sapere se il trascrittore si fos-
se riferito ai diritti del monastero di Amalfion già presente nel 1010,
oppure «del convento successivamente denominato degli Amalfita-
ni», per dirla con gli editori della seconda edizione degli Actes de La-
vra del 197010.

18 Questo documento è in greco. Lavra 15 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guil-


lou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 139-141. Ringraziamo la
prof. Christina Petropoulou per il contributo alla sua lettura.
19 Lavra 15 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssan-

thou (a cura di), 1970: 139.


10 Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di),

1970: 137.
130 UN PEDONE LATINO NEL GIOCO TRA OCCIDENTE E ORIENTE

I conteziosi tra i monasteri sul possesso di porzioni di terreno nel


“Giardino di Maria” sono sempre stati particolarmente accesi.
Amalfion è citato come parte lesa in un documento del 1018, steso
dal protos Niceforo per determinare un chiarimento dei suoi confi-
ni con Karakallou e la Grande Lavra11. Pregati di intervenire, il pro-
tos e diversi igùmeni si erano recati sul posto e avevano constato che
il territorio della casa degli amalfitani era stato invaso dalle altre due.
Nel provvedimento avevano dunque proceduto alla delimitazione
dell’area e a fissare, con dettaglio minuzioso, i confini dei rispettivi
domini (righe 1-6). Una clausola specifica concerne la gestione del-
le acque, il cui usufrutto torna agli amalfitani (righe 6-21). Formu-
le di garanzia e clausole penali per chi trasgredisse i patti prevedono
l’allontanamento (letteralmente, la cacciata via) per opera di tribu-
nali ecclesiastici e civili, nonché il pagamento di una somma di de-
naro (60 [ξ’] υπέπυρα, monete bizantine d’oro) a titolo di risarci-
mento. La posta in gioco era tale che non sono state applicate solo
condizioni tassative. Esse sono state rinforzate da un potente anate-
ma nei confronti del potenziale contravventore: «Che Dio miseri-
cordioso lo punisca, che Maria Vergine e i santi padri lo maledica-
no!». Forte di tali minacce celesti, il provvedimento si dichiara “cer-
to che ogni parte rimarrà entro i propri (confini)” (righe 21-24).
L’atto è indirizzato al cenobio degli amalfitani a favore del quale vie-
ne formulato (righe 25-26) ed è sottoscritto dal protos Niceforo e
da 12 igùmeni (righe 27-31). Per potenziare la deliberazione con il
crisma dell’ufficialità, i sottoscrittori l’hanno consegnata personal-
mente e formalmente all’abate di Amalfion. Ovviamente, essendo la
parte lesa, il monastero latino non è tra i sottoscrittori, ma viene so-
lo citato nel testo per ricordarne e sancirne i diritti.
Le frontiere settentrionali e meridionali del cenobio benedettino
sono state sempre piuttosto labili, anche perché possedeva diverse
skiti (piccoli villaggi monastici) e kellias (piccoli insediamenti asce-
tici) nell’area a sud di Karakallou e in quella a nord della Grande La-

11 Lavra 23 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssan-


thou (a cura di), 1970: 168-170. Lemerle, 1953: 551. Pertusi, 1963: 227. Vato-
pédi 4 in Actes de Vatopédi, Bompaire, Lefort, Kravari, Giros (a cura di), 2001: 80.
Ringraziamo la prof. Christina Petropoulou per il contributo alla sua lettura.
UN PEDONE LATINO NEL GIOCO TRA OCCIDENTE E ORIENTE 131

vra. Conosciamo la Skiti Provatas, la cappella consacrata a San Gior-


gio, Lakkoskiti e la sorgente d’acqua fatta miracolosamente scaturi-
re da Sant’Atanasio. Nella Skiti Provatas, probabilmente i novizi tra-
scorrevano il loro lungo e impegnativo periodo di “prova”. La cap-
pella di San Giorgio è all’incirca a metà strada fra Amalfion e la Ski-
ti Provatas. Attualmente è sotto l’obbedienza della Grande Lavra.
Lakkoskiti, sul fiume Morfonou, sta accogliendo un’ampia comuni-
tà rumena sotto il cenobio di San Paolo.
Il provvedimento del 1018, garantendo la prevalenza di Amal-
fion sul territorio circostante e sanzionando gli sconfinamenti da
parte della Grande Lavra e di Karakalou, rappresenta un forte segno
di floridezza per estensione di terre e potere. È interessante notare
che, esistendo una rivalità territoriale fra i tre monasteri, viene espli-
citamente affermato che Amalfion aveva subìto una ingiustizia in
quanto poteva vantare una serie di diritti derivati da uno status pri-
vilegiato rispetto agli altri circa quei terreni.
Per il più antico atto athonita che possediamo in originale e che
è stato sottoscritto, fra gli altri, da «J(o)h(annes) hum(ilis) mo(na)-
chus Amalfitanus » (Giovanni, umile monaco Amalfitano) dobbiamo
aspettare l’aprile del 103512. In quell’anno, a Pasqua, le firme auto-
grafe (una per mano dello scrivano) del protos Theoktistos e di 24
rappresentanti dei monasteri (righe 19-32) sancirono il passaggio di
poteri al cenobio di San Nicola di Rudaba, dopo il decesso dell’igù-
meno Nicola Larditzi (righe 1-6). Con fine diplomazia, il consesso
designò all’unanimità il monaco e prete Basileo (o Basilio) alla dire-
zione, assistito però dal monaco Gherasimos, nipote del defunto
Nicola Larditzi. Gherasimos viene autorizzato a subentrare come
igùmeno, se meritevole; in caso contrario, a Basileo (o Basilio) vie-
ne assegnata la prerogativa di designare un altro successore. Basileo
(o Basilio) è tuttavia esortato a comportarsi «paternamente e carita-
tevolmente con Gherasimos» (righe 6-16).
Concludendo, fino al 1035 nei documenti d’archivio esaminati le
firme latine dell’abate non riportano mai l’associazione con Amalfi,

12 Il provvedimento è stato vergato in inchiostro rosso. Lavra 29 in Actes de


Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970:
186.21. Nastase 1983: 290.
132 UN PEDONE LATINO NEL GIOCO TRA OCCIDENTE E ORIENTE

ma semplicemente Johannes monachus, che autografa anche come Jo-


hannes monachus et abba(s). Se si vuole dare credito ai copisti greci
posteriori di due secoli, la prima attestazione d’archivio dell’esistenza
di un monastero denominato Amalfion è del 1010. Se si concorda
con le cautele di Nastase, dobbiamo aspettare il 1035. In ogni caso,
il monastero latino sorto ad Apothikon non nasce come Amalfion,
ma viene reinventato come tale nei primi decenni dell’XI secolo.
Purtroppo, la convinzione che sul Monte Athos sia stato edifica-
to un monastero benedettino denominato Amalfion, fortemente
voluto dalla potenza marinara tirrenica, popolato e gestito fin dalla
sua nascita da monaci di quella città, è un equivoco tuttora larga-
mente accettato dagli storici13. Perfino gli editori della seconda edi-
zione degli Actes de Lavra, nonostante abbiano assicurato essere
«certa» la loro nuova lettura della firma del 991 dell’abate del mo-
nastero latino, che la priva di ogni riferimento ad Amalfi, hanno
continuato a sostenere che essa apparterrebbe a «Jean, higoumène du
couvent des Amalfitains »14. Nella nuova edizione degli Actes de La-
vra, si precisa che i documenti degli anni 1012, 1016 e 1017 porta-
no semplicemente l’autografo di Johannes monachus, che sottoscris-
se anche come Johannes monachus et abba(s). Ciò nonostante, essi
sono annotati come «Celle du représentant du Couvent des Amalfi-
tains», dando per implicito si tratti dell’abate di Amalfion anche se
non si qualifica mai come tale15. Quando poi gli editori della secon-
da edizione degli Actes de Lavra del 1970 riportano il passaggio del-
la Vita scritta verso il 1044 da Giorgio l’Aghiorita, secondo cui il
monastero «ameno» prosperava ancora ai suoi tempi ed era l’unico
cenobio «romano» sul Monte Athos, dopo poche righe essi si di-
menticano di quel «romano» per identificarlo con il monastero de-
gli amalfitani16. Il mito di una casa benedettina athonita a fondazio-

13 Actes du Prôtaton, Papachryssanthou (a cura di), 1975: 83, 86. Keller, 1994-

2002.
14 Lavra 9 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou
(a cura di), 1970: 122. Vedi una serrata critica in Nastase, 1983: 287-293.
15 Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di),

1970: 155.54.
16 Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di),

1970: 36.
UN PEDONE LATINO NEL GIOCO TRA OCCIDENTE E ORIENTE 133

ne amalfitana è troppo potente per essere scalfito dall’assenza di pro-


ve documentarie.
Al di là di incongruenze ed equivoci sulle firme, esistono insor-
montabili difficoltà di sostanza. Come abbiamo già osservato, Leo-
ne il Grande, fratello del principe di Benevento, non era propria-
mente un amalfitano. Le incertezze che abbiamo incontrato nel ri-
spondere all’interrogativo sul luogo di partenza per sbarcare ad
Agion Oros sono collegate alle difficoltà di capire come mai la me-
moria collettiva athonita e buona parte degli storici attuali associno
al ducato pro-papale di Amalfi una fondazione monastica che ha in-
vece avuto origine da piani politico-religiosi del principato longo-
bardo pro-imperiale di Benevento. Non è solo un problema di scam-
bio di paternità, quanto di affiliazione politica. Benevento era so-
stanzialmente sottomesso all’autorità imperiale centrale occidentale
e spesso in aperto scontro diplomatico e militare con Amalfi, città
marinara libera da ogni potestà politica e legale longobarda e stret-
tamente legata al papato. Benevento e Amalfi non erano solo due
Stati diversi. I loro rapporti erano tutto meno che cordiali, almeno
prima dell’incoronazione del probabile fratello di Leone il Grande,
al punto che la prima città saccheggiò la seconda nell’83917.
Naturalmente, questo scenario non esclude la possibilità che di-
versi discepoli, o anche la maggioranza, venuti da Costantinopoli
con Leone e che costruirono il cenobio sotto la sua obbedienza fos-
sero amalfitani. Inoltre, l’esistenza di monaci amalfitani sul Monte
Athos è attestata dalla Bios di Sant’Atanasio sin dal momento dell’e-
rezione della sua lavra18. Qualche decennio dopo la fondazione di
Apothikon, i monaci nativi dalla città marinara potrebbero essere
divenuti maggioranza all’interno della comunità. È anche credibile
che membri della colonia amalfitana a Costantinopoli siano divenu-
ti i principali sostenitori del cenobio latino19. In questo contesto,
possiamo recuperare il suggerimento di Sangermano secondo cui gli
amalfitani fossero i più numerosi tra i pellegrini in visita al chiostro
di rito occidentale20.

17 Gay, 1917: 322, 331-332.


18 Noret (a cura di), 1982. Vita A: 178; Vita B: 47.
19 Falkenhausen, in corso di pubblicazione.
20 Sangermano, 1996: 80.
134 UN PEDONE LATINO NEL GIOCO TRA OCCIDENTE E ORIENTE

Il cambiamento “etnico” dei religiosi dominanti nel cenobio la-


tino athonita è comprovato dalla modifica di nome. Inizialmente,
come abbiamo già detto, la denominazione con cui era conosciuto
durante le fasi di costruzione, Apothikon, era anonima e secolariz-
zata: Magazzini (τῶν Ἀποθηκῶν). Derivava semplicemente dal topo-
nimo del luogo d’insediamento, ubicato presso il capo/promonto-
rio Kosari a sud della baia di Morfonou. Una volta consacrata, la
struttura ebbe un nome a noi sconosciuto, probabilmente “mona-
stero dei romani”. Essa era collocata esattamente all’estremità orien-
tale del confine settentrionale della Grande Lavra come era stato
configurato, verso il 975, dal Tipikòn di cui si era avvalso Atana-
sio21. Il cenobio latino era dunque contiguo ai possedimenti setten-
trionali della casa madre, senza possibilità di sbocchi verso sud, a
parte i territori ceduti da questa. Si comprende anche perché il ce-
nobio benedettino ebbe sempre problemi di confini con Karakal-
lou, poco più a nord.
Anche se la casa dei benedettini è nota come “Amalfi”, “Amal-
fion”, o “dell’Amafiltano” nei testi accademici bizantinisti22, fu solo
dal 1010 o dal 1035, a seconda delle interpretazioni, che possiamo
asserire con sicurezza la definizione “etnica” di τῶν Ἀμαλφινῶν
(Amalfinon, degli amalfitani). Dalla fondazione, però, erano passa-
ti alcuni decenni. Il pedone latino nel Grande Gioco per la supre-
mazia fra Occidente e Oriente aveva avuto la forza di reinventarsi.

21 Meyer, 1894: 121, l.5-11. Lavra 23 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou,


Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: l-7-11, 146. Falkenhausen, 1993:
91 sgg. Falkenhausen, 2005: 104 sgg. Per la carta topografica, vedi Actes de La-
vra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 67. Il to-
ponimo si ritrova (citato in greco) nell’atto del 1012. Vedi Lavra 17 in Actes de
Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: l. 28.
22 Bonsall, 1969: 262. Metreveli, 1998: 97.
Amalfion nel contesto
dell’espansione amalfitana

La strategia internazionale di una città


sulle frontiere del Mediterraneo

Le formidabili fortune economiche e le sottigliezze diplomatiche


del ducato amalfitano presero dunque in carico il monastero bene-
dettino per impiegarlo quale loro pedone del Grande Gioco. La cit-
tà tirrenica fu tra le prime potenze a stabilire intense vie d’affari e
colonie stabili in Oriente in aperta concorrenza con gli altri centri
marinari della penisola italica e, dal XI secolo, soprattutto con Ve-
nezia. Prima che la futura Serenissima iniziasse a espandere il pro-
prio controllo nel Mediterraneo orientale, Amalfi fu l’emporio d’O-
riente in Occidente.
Gli investimenti transculturali, compresi quelli religiosi, in cui
erano impegnati gli amalfitani di Costantinopoli ricalcavano i col-
legamenti e la rete delle loro attività commerciali e politiche all’in-
terno dell’impero bizantino. Essi erano effettuati da privati, in gene-
re mercanti, che vivevano a Bisanzio o in territori sotto il suo con-
trollo. Spesso erano stati loro conferiti titoli onorifici imperiali1.
Nella “Regina delle città”, il quartiere amalfitano, le chiese e i mo-
nasteri furono in pieno sviluppo anche dopo il 1054, a dispetto del
Grande Scisma Oriente-Occidente2. Secondo Hofmeister, il picco
delle attività fu toccato negli ultimi decenni dell’XI secolo 3. Le rela-
zioni commerciali fra la città marinara e l’impero bizantino conti-
nuarono anche dopo la capitolazione ai normanni del 1073 e la
conquista definitiva del 1131, seppur a ritmo meno sostenuto.

1 Martin, 2010: 546 sgg. Falkenhausen, 1998: 28-30. Id., 2007.


2 Skinner, 2013: 217.
3 Hofmeister, 1932.
136 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA

Fu soprattutto la famiglia-clan dei Comite Maurone a promuo-


vere i rapporti spiritual-culturali con l’ecumene bizantina4. Pare sia-
no stati loro a mediare l’introduzione in Italia del tema iconografi-
co della Dormizione della Santa Madre di Dio, rappresentato anche
a Montecassino5. Il rappresentante di spicco della famiglia, Panta-
leone, instaurò una relazione politica, economica e culturale inten-
sa e di lungo corso con i vertici dell’impero6. A questo ricco clan si
deve l’esempio più conosciuto di capolavori greci importati nella
penisola italiana. Si tratta delle preziose porte di bronzo che furono
fatte forgiare a Costantinopoli per donarle al duomo di Amalfi (c.
1063), all’abbazia di Montecassino (intorno al 1066), a San Paolo
fuori le mura a Roma (1070), al santuario di San Michele Arcange-
lo a Monte Sant’Angelo (1076) e ad Atrani, attualmente all’ingres-
so della chiesa del San Salvatore (1087)7. Per inciso, l’import di por-
te da Costantinopoli nell’area campana suggerisce che, durante la
seconda metà del secolo XI - prima metà del XII, non esisteva (o
non esisteva più) una tradizione indigena di alto livello nella tecni-
ca di lavorazione del bronzo8.
Qual era la convenienza dei mercanti amalfitani di Costantino-
poli a sostenere l’oneroso investimento di mantenere in vita un mo-
nastero sul Monte Athos?
Pertusi e altri bizantinisti osservano che, verso la fine del X seco-
lo, la colonia amalfitana di Costantinopoli era così ben insediata e
di successo9 da far ritenere non sorprendente l’esistenza di un’istitu-
zione monastica a lei riconducibile sul Sacro Monte della spirituali-
tà greco-bizantina10.
Si tratta, però, di affermazioni tautologiche che, scambiando una
possibilità per un dato fattuale, aiutano poco nella sfida d’identifica-
re i fattori che hanno determinato l’assunzione da parte degli amalfi-

14 Berschin, 2001.
15 Ciggaar, 1996: 278.
16 Falkenhausen, 2007: 108.
17 Matthiae, 1971. Frazer, 1973: 145-162. Belting, 1974. D’Antuono, 2000:

42. Braca, 2003: 63 sgg. Skinner, 2006: 65-78. Iacobini (a cura di), 2009.
18 Contadini, Camber, Northover, 2002: 73. Merlini 2015.
19 Janin, 1964: 245-253.
10 Pertusi, 1953: 3. Id., 1963: 218-220.
AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA 137

tani della responsabilità di governo su questo monastero anomalo


qualche decennio dopo la sua fondazione. Del resto, la costruzione
degli altri monasteri italiani al Monte Athos, sia da parte dei siciliani
che dei calabresi, è avvenuta in assenza di ricche relazioni economiche
internazionali e una stabile presenza mercantile a Costantinopoli.
E inoltre, se Amalfi fu la prima città marinara italiana a instau-
rare intense relazioni commerciali con Bisanzio e a possedere un’en-
clave nella capitale, non fu l’unica. Un po’ più tardi, i suoi concor-
renti (Venezia, Pisa, Genova e Ancona) ne seguirono il modello e, a
volte, anche con maggiore successo11. Tuttavia, i commercianti ve-
neziani, genovesi, pisani e anconetani non rincorsero la strategia
amalfitana di sostenere l’acquisizione e il governo di un monastero
ad Agion Oros.
Dobbiamo quindi sforzarci di enucleare i co-fattori che concor-
rono a spiegare: a) la raggiunta supremazia amalfitana sul monaste-
ro benedettino athonita e la sua reinvenzione come Amalfion; b) il
successo della denominazione “etnica” del chiostro, qualificato come
“degli amalfitani” dalla memoria collettiva athonita e dagli storici,
anche se fu costruito da beneventani e probabilmente da cassinati.
La prima concausa a monte dei due interrogativi corrisponde al-
la posizione geografica di Amalfi (tutta protesa verso il mare) in
connessione al ruolo attivo svolto nei confronti delle altre potenze
del centro-sud italiano e alla vocazione internazionale che si sostan-
ziò, fra l’altro, nel fungere da ponte tra potenze mediterranee reci-
procamente ostili.
La scarsità di terreno per espandersi oltre le mura e la difficoltà a
percorrere e avvalersi delle vie terrestri condannava Amalfi all’isola-
mento geografico. Al tempo stesso però l’arroccamento su rocce
quasi a picco sul mare le garantiva protezione. La via di accesso e di
comunicazione preferenziale non poteva che essere il mare, una di-
rezione tanto più sicura da quando nella pianura campana iniziaro-
no a stanziarsi aggressive popolazioni germaniche non propriamen-
te esperte nella navigazione. Sull’onda della “necessità aguzza l’inge-
gno”, gli amalfitani si trasformarono da miles castrenses in abili mer-
canti-navigatori, fabbricando navi di elevato tonnellaggio sugli are-

11 Janin, 1964: 249, 250.


138 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA

nili costieri e instaurando traffici redditizi che li portarono a veleg-


giare gradualmente verso il Meridione della penisola italica e poi
verso l’Oriente12. Amalfi non poteva affermarsi e arricchirsi se non
come centro cosmopolita aperto a ventaglio sulle diverse frontiere
del Mediterraneo.
La città tirrenica divenne un giocatore di peso nella mercatura
marittima con l’Oriente a partire dalla seconda metà del X secolo,
dunque in tempi di poco precedenti la nascita di Apothikon. Amal-
fi non apparteneva direttamente all’amministrazione bizantina, ma
impiantò alcune delle rotte commerciali più precoci e delle colonie
più stabili nei territori dell’impero (in particolare a Costantinopoli),
associandole a ottimi rapporti con gli arabi. Apothikon maturò in
embrione proprio quando Amalfi era divenuto l’unico centro mer-
cantile in grado di intessere un network commerciale capace di ge-
stire contemporaneamente relazioni con tutte le principali piazze e
porti dei due bacini del Mediterraneo: da una parte, con l’impero di
Bisanzio e gli arabi del Medio Oriente e d’Africa; dall’altra, con il
Sacro Romano Impero, il papato, le diverse potenze italiche e gli
arabi della Spagna13. Il segreto delle fortune risiedette nell’opportu-
na (spesso opportunistica) sinergia fra due tendenze che, nella stra-
grande maggioranza delle potenze del tempo, tendevano a conflig-
gere e ad autoescludersi: un (robusto) filo-ellenismo e un (più debo-
le) filo-arabismo14.
Attraverso il sistema internazionale di scambio amalfitano, le im-
poste incassate dall’Impero d’Oriente sulle merci mediorientali
eguagliavano quelle riscosse dagli arabi sui beni importati dall’ecu-
mene bizantina. Non era un dato puramente contabile ma un pun-
to di equilibrio negli assetti di politica internazionale, perché entro
un simile network commerciale gli amalfitani potevano dispiegare il
ruolo chiave di potenza globale di mediazione15. Non per nulla era

12 Gargano, 2014: 9.
13 Id., 2006: 475.
14 Berza, 1938: 355. Goitein, 1967: 212 sgg. Cahen, 1977: 272. Citarella,

1977: 33 sgg. Abulafia, 1997: 184. Citarella, 1999: 60. Cariello, 2002: 85. Garga-
no, 2006: 475. Laiou, Morrisson, 2007: 84. Jacoby, 2008: 85. Gargano, 2014: 23.
15 Goitein, 1967: 81. Ashtor, 1980: 416. Citarella, 1993: 252. Pinna, Zedda,

2007: 34.
AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA 139

il ceto aristocratico la principale entità organizzatrice e detentrice


della mercatura amalfitana, da cui traeva le principali risorse econo-
miche e la forza politica16.
Veniamo dunque a un aspetto chiave della politica estera amal-
fitana che ha gestito l’acquisizione di Apothikon e ha segnato le
fortune di Amalfion: essendo fortemente imperniata sulle attività
marittime e mercantili, non poté che contraddistinguersi per una
spiccata impronta diplomatica. Furono infatti gli intensi scambi
commerciali per l’intero Mediterraneo a fungere da tramite per
l’avvio di relazioni socio-culturali fra civiltà diverse e profonda-
mente ostili. I mercanti-navigatori amalfitani mediavano la fatico-
sa riduzione della distanza fra queste collidenti koinè; la città di
Amalfi era un centro cosmopolita d’incontro, scambio e confronto
fra cultura bizantina, romanico-germanica e araba17. Ne è testimo-
nianza il peculiare stile artistico dei capolavori ammirabili ancor
oggi, duomo in primis.
Giocatori di partite globali, i mercanti-navigatori amalfitani re-
sidenti stabilmente a Costantinopoli erano tra i protagonisti nel-
l’organizzazione e gestione del commercio marittimo nel Mediter-
raneo orientale, con l’ecumene bizantina come ambito privilegiato.
Acquisire un monastero sul Monte Athos significava installare una
stazione sia a metà strada fra la madrepatria e la capitale imperiale
che in posizione avanzata verso il Medio Oriente; una collocazione
ideale per l’ardua manovra di ottenere un ritorno economico dal-
l’avvicinamento culturale e politico fra le varie civiltà in incontro-
scontro. Non si pensi solo alla riduzione della distanza fra l’impe-
ro bizantino e quello romanico-germanico, ma anche a quella fra i
due imperi cristiani e il mosaico arabo-musulmano. Emblematica
è la presenza nel catholikon della Grande Lavra, tutt’oggi, di impo-
nenti candelabri chiamati dai monaci “i candelabri degli Amalfita-
ni”. Di fattura fatimide e con inscrizioni cufiche18, provengono da
Amalfion.

16 Gargano, 2005.
17 Gargano, 2014: 19, 20.
18 Bouras, 1991: 19.
140 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA

Una prosperità innescata da rapporti privilegiati


con l’universo bizantino

Il secondo co-fattore che spiega l’istituzione della presenza amal-


fitana ad Agion Oros, il suo governo sulla fratellanza di Apothikon e
la riconversione di questo monastero come Amalfion è legato alla
prosperità economica e all’influenza politica dei mercanti, nobili,
diplomatici, soldati e religiosi amalfitani nell’impero bizantino e in
particolare ai rapporti intensi e privilegiati da loro intrecciati nella
capitale, che per molti divenne una seconda patria.
Il territorio di Amalfi era contiguo ai possedimenti bizantini nel
Mezzogiorno della penisola italiana. Se esso non appartenne mai uf-
ficialmente all’impero bizantino, la sua fortuna fu però a questo col-
legata a filo doppio. Riconoscendo formalmente l’autorità di Co-
stantinopoli, la città marinara ottenne di fatto l’autodeterminazione
per difendersi contro vicini bellicosi come i ducati di Capua, Bene-
vento e Napoli. Bisanzio accettò l’autonomia periferica di Amalfi,
perché essa aveva combattuto coraggiosamente contro i longobardi
di Benevento e Salerno, soggiaceva all’autorità papale e inviava al
basileus segni appropriati di alleanza deferente19. D’altra parte, se
nel contesto della lotta tra longobardi e bizantini Amalfi fu sempre
schierata con i secondi, si avvalse di questa appartenenza per eserci-
tare ampi margini autonomi di manovra talvolta in collaborazione
con i primi20.
La posizione geopolitica di Amalfi nel Mediterraneo e gli interes-
si commerciali nel bacino orientale, che abbiamo enucleato per so-
stanziare il primo co-fattore, indussero la città a coltivare rapporti
con l’impero bizantino con più intensità e attaccamento di tutti gli
altri Stati semi-dipendenti o semi-indipendenti del centro-sud ita-
liano, al punto di divenirne il referente principale. Le relazioni po-
litiche, commerciali e culturali fra Amalfi e l’impero bizantino era-
no pratica quotidiana prima dell’invasione normanna dell’Italia me-
ridionale, con un momento topico nel supporto conferito all’impe-

19 Berza, 1938: 354-355. Schipa, 1968: 93. Balard, 1976: 85-86. Gargano,
2006: 472. Gargano, 2014: 17.
20 Berza, 1938: 355. Gargano, 2001: 11.
AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA 141

ratore Niceforo II Foca durante la guerra contro i musulmani21. Le


relazioni si rafforzarono ulteriormente quando Pandolfo I Capodi-
ferro era detenuto prigioniero a Costantinopoli e le truppe bizanti-
ne ne devastarono i territori arrivando persino ad assediare Capua22.
Ne derivarono ampi profitti, privilegi commerciali e apprezzati
riconoscimenti. I profondi legami con Bisanzio furono confermati
quando Amalfi divenne, nel 915, l’unico ducato centro-meridiona-
le della penisola italiana il cui capo potesse fregiarsi di un titolo ono-
rario greco23. Ambiti titoli imperiali furono poi concessi a diversi
duchi amalfitani per aver contribuito a riscattare i cristiani caduti
nelle mani degli arabi e resi schiavi24. Un business umanitario quel-
lo del riscatto che fu monopolio amalfitano fino all’epoca delle Cro-
ciate25 ma che non ostacolava, anzi favoriva, la tratta. Infatti, gli
amalfitani praticavano attivamente anche il commercio di schiavi e
la compra-vendita di prigionieri catturati dai pirati26.
In questo scenario, la gestione di un monastero ad Agion Oros in-
torno alla svolta del primo millennio esplicitava – più incisivamente
e scenograficamente di altre iniziative – le strette relazioni politiche,
economiche e culturali con l’impero bizantino. Da una parte, palesa-
va l’imprescindibile necessità per Amalfi di avvalersi del sostegno del-
l’autorità imperiale; dall’altra, rivelava l’efficacia dei segnali inviati di-
rettamente al basileus di accettazione di una tutela formale e genera-
va aspettative sul rendimento politico dell’operazione di presa in ca-
rico monastica. Da questo punto di vista, il controllo di un avampo-
sto nella piazzaforte della tradizione monastica greco-bizantina si ca-
ricò di significati volti a sigillare la vicinanza-dipendenza di Amalfi
non solo rispetto all’universo bizantino o al governo imperiale in ge-
nerale, ma direttamente con l’imperatore e il suo stretto entourage27.

21 Relatio, in Liutprando da Cremona, 1998b: 357. Chiesa, 2005: 301.Gar-


gano, 2005: 47.
22 Gay, 1917: 321.
23 Id., 1917: 331-332. Hofmeister, 1920: 114-5. Falkenhausen, 1998: 28-30.

Ead., 2007. Martin, 2010: 546 sgg.


24 Martin, 2010: 546 sgg.
25 Ashtor, 1980: 408.
26 Id., 1980: 408.
27 Nastase, 1985: 270.
142 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA

Non è un caso che l’arrivo dei primi monaci amalfitani al Mon-


te Athos, in parte come discepoli del beneventano Leone il Grande
e in parte sopraggiunti motu proprio, corrispose all’apogeo della sto-
ria marinara a scambi di Amalfi, sotto il governo di Mansone I, e al
fervore di attività con l’impero bizantino28.

La propensione a investire in intraprese religiose


il capitale economico accumulato
La presenza amalfitana a Costantinopoli è attestata fin dal 94429
e poteva vantare una posizione ormai consolidata nell’ultimo quar-
to del X secolo, ai tempi dell’edificazione di Apothikon. I copiosi
guadagni commerciali venivano reinvestiti in buona parte nella me-
galopoli ospite. La comunità amalfitana risiedeva in un proprio
quartiere che si estendeva sul Corno d’Oro30. Fiorì rapidamente e
gestì uno scalo privato, situato nei pressi del monastero di Sant’An-
tonio, sulla riva orientale del Bosforo31. Era l’hub da cui gli amalfi-
tani smistavano le loro navi sulle rotte verso le coste siro-palestinesi,
nord-africane e della penisola italiana. La colonia sviluppò anche
propri magazzini, empori e ospedali32. Amministrata da magistrati,
consoli, vicari e giudici, applicava le leggi e i costumi della madrepa-
tria33. Ospitava una comunità religiosa di rito occidentale con chie-
se latine e monasteri benedettini34. Questi centri religiosi, fondati
sotto il governo bizantino e con il consenso patriarcale, si assicura-
rono per secoli protezioni e privilegi direttamente dal trono, a di-
spetto delle dispute politico-dogmatiche tra la Chiesa greca e quella

28 Hofmeister, 1932.
29 Balard, 1976: 85-96.
30 Oikonomides, 2005: 127.
31 Ciggaar, 1974: 262.
32 Heyd, 1885-1886: 99, 101-103. Belin, 1894: 18 sgg. Gay, 1917: 50 sgg.,

232 sgg., 544 sgg. Hofmeister, 1920: 94-127. Id., 1923: 328-339. Id., 1932: 225
sgg., 493 sgg., e 831 sgg. Berza, 1938: 349-444. Michel, 1939. Coniglio, 1944-
1945: 28-29, 100-114. Bréhier, 1950: 208 sgg. Balard, 1976: 85-95.
33 Gargano, 1994: 113.
34 Belin, 1894: 18. Gariador, 1912: 93-96. Leib, 1924: 100-101. Janin, 1953:

582. Keller, 1994-2002: 2.


AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA 143

romana35. Gli amalfitani di Costantinopoli si caratterizzavano per


un forte senso cittadino comunitario e identitario che a quel tempo
trovava espressione non tanto culturale, quanto legale e religiosa36.
Verso la fine del X secolo – inizi del successivo, la relativamente
autonoma enclave amalfitana di Costantinopoli aveva accumulato
sufficiente ricchezza, stabilità, interesse strategico e visione geopoli-
tica da decidere l’investimento volto a fornire finanziamenti, forni-
ture, rifornimenti e, non meno importante, personale al chiostro dei
benedettini stanziato a metà strada con la madrepatria. Il cenobio
chiaramente necessitava di un considerevole supporto materiale
esterno per eseguire con continuità la mansione di collegamento
dell’Occidente con il potere imperiale bizantino e la sua Chiesa. Lo
stretto rapporto fra il monastero benedettino al Monte Athos con
quello omologo di Costantinopoli venne sottolineato dalla comune
dedica a Santa Maria Amalfitanorum.
Analizzando Costantinopoli durante la seconda metà del XIII se-
colo, Tsougarakis azzarda che il monastero del Santo Salvatore op-
pure quello di Santa Maria Latina potrebbero essere stati figliati da
quello consacrato a Santa Maria sul Monte Athos37. Belin e Kalligas
arrivano a sostenere che il sostentamento e le fortune della comuni-
tà benedettina nella capitale dipendessero da quella athonita. E non
viceversa38. L’evidenza documentaria dimostra invece che Amalfion
era sostenuto dal circuito benedettino e, soprattutto, dai mercanti-
nobili amalfitani costantinopolitani39.
La confraternita amalfitana installatasi sulla Santa Montagna po-
té distinguersi e primeggiare sugli altri monaci italiani di Apothikon
solo quando poté giovarsi del contributo sostanziale dei commer-
cianti conterranei stanziati nella capitale imperiale. La rete commer-
cial-politica amalfitana concepì il cenobio latino come agente geo-
strategico fra Oriente e Occidente. L’assenza di un qualsiasi accen-
no a questo monastero negli archivi o nelle cronache amalfitane del

35 Janin, 1953: 583. Galasso, 1959: 81-103. Ciggaar, 1976: 262. Figliuolo,
1986: 591 sgg. Renouard, 1995: 39 sgg.
36 Abulafia, 1997: 176.
37 Tsougarakis, 2008: 11, 112.
38 Belin, 1894: 18 nota 3. Kalligas, 1895: 3, nota 4.
39 Balard, 1976: 86. Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 12, 35-36.
144 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA

tempo conferma che, se i legami fra Amalfion e la metropoli sul Bo-


sforo erano molto stretti, quelli con la città-madre italiana erano
ben più deboli. E si indebolirono ulteriormente nel tempo. Che co-
sa era successo?
Ogni mercante latino di origine italiana meridionale che opera-
va nell’impero bizantino veniva etichettato di default come ‘amalfi-
tano’40. La definizione stava a indicarne la favolosa ricchezza, la mo-
bilità, il trans-culturalismo, il cosmopolitismo e l’eccezionale suc-
cesso, come ha notato Patricia Skinner41. Parte del mito sulle quasi
illimitate risorse in mano ai commercianti amalfitani si fondava sul-
la capacità di quelli stanziati a Costantinopoli di sostenere perfino
un monastero latino in un luogo remoto e disagevole, ma politica-
mente e culturalmente centrale, quale era la Santa Montagna di
Sant’Atanasio l’Athonita. Questo si mormorava con ammirazione
nei fondaci d’Oltremare.
Secondo una tradizione fortemente sponsorizzata dagli amalfita-
ni nel periodo che stiamo illustrando, un cordone ombelicale avreb-
be collegato i loro natali con Bisanzio. Sarebbe cioè esistito un lega-
me speciale fra la grande madre, la capitale costruita dall’imperato-
re Costantino sul Bosforo, e la piccola figlia incastonata tra il mare
Tirreno e le montagne. Amalfi sarebbe infatti sorta da patrizi roma-
ni che naufragarono sulla costa dalmata durante la navigazione ver-
so est per popolare la appena eretta “Nuova Roma”. Il loro vagabon-
dare iniziò verso il 330 e si concluse solo nel VI secolo con la fon-
dazione di un villaggio costiero fortificato: Amalfi42.
Un’altra tradizione, molto tarda e recuperata dallo storico Hen-
rici Brencmanni nel XVIII secolo, ci informa che la cittadina tirre-
nica fu invece fondata come castrum, prima del 591, da soldati bi-

40 Cahen, 1953-54: 61-66. Stern, 1956: 533-534. Ashtor, 1982: 200. Figliuo-
lo, 1986: 583. Valérian, 2010: 203-205.
41 Skinner, 2013: 219, 233.
42 Chronicon Salernitanum, testo longobardo del X secolo pubblicato nel vo-

lume XI del Rerum Italie di Muratori (1723-1751b). Chronicon Salernitanum,


Westerbergh, 1956: 88 sgg. Chronicon Amalfitanum, testo della seconda metà del
XII secolo riportato nel volume I delle Antìquitates Italicae Medii Aevi del Mura-
tori (1723-1751a). Chronicon Amalfitanum, Schwarz, 1978: 195 sgg. Berza,
1938: 349 sgg. Berza, 1939: 29-44. D’Amato, 1975.
AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA 145

zantini unitisi alla preesistente popolazione romanica autoctona.


L’edificazione avvenne nel contesto dello sviluppo di stazioni costie-
re volte a consolidare i territori riconquistati con la guerra greco-go-
tica e a creare linee avanzate di difesa contro l’invasione longobarda
della penisola italica43.
Fondazione bizantina di retaggio nobiliare o avamposto militare
bizantino, si tratta di ricostruzioni basate su fonti orali e scarsamen-
te verificabili che godevano però di ampia circolazione ai tempi del-
l’erezione di Apothikon. Erano infatti tradizioni che nobilitavano la
città marinara, giustificavano storicamente gli stretti legami con Co-
stantinopoli e radicavano etnicamente la sua propensione politica
pro-bizantina. L’insediamento nella megalopoli imperiale, che ave-
va trovato legittimazione ed enfasi nella promozione della tradizio-
ne orale circa le origini della cittadina tirrenica, ora godeva di nuo-
vo slancio dalla mitica fondazione di un cenobio latino proprio nel-
la roccaforte monastica greco-bizantina.

Pacificatore attivo fra Chiesa Orientale e Chiesa Occidentale,


anche grazie alla protezione condivisa dell’apostolo Andrea
Le prime comunità monastiche di Agion Oros, compresa quella
benedettina, nacquero e si svilupparono nel momento in cui la
Chiesa era ancora unita. Il terzo co-fattore inquadra l’assunzione di
responsabilità di Amalfi sul monastero latino entro la cornice poli-
tico-religiosa. Essa si collega al ruolo di mediazione fra la Chiesa di
Roma e la Chiesa di Costantinopoli, nel pieno dei disordini politi-
co-dogmatici, svolto sia da alcuni leader amalfitani residenti sul
Corno d’Oro che da alti ecclesiastici della Chiesa amalfitana in visi-
ta diplomatica44.
Il loro principale interlocutore fu il trono. Mentre il patriarca as-
sociava la fedeltà all’impero alla conformità liturgica e religiosa, il
basileus era ben disposto a rispettare le tradizioni religiose di suddi-
ti e alleati italiani, essendo principalmente interessato a stipulare un
patto contro gli incombenti Normanni. I mercanti e nobili amalfi-

43 Brencmanni, 1738. Gargano, 2009: 35 sgg. Gargano, 2014: 7.


44 Schwarz, 1978: 53-58. Michel, 1939: 35-47. Dondaine, 1951: 323.
146 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA

tani, da parte loro, non consideravano la loro identità religiosa ro-


mana un ostacolo alla fedeltà dovuta all’impero bizantino45.
L’arcivescovo Pietro di Amalfi svolse un rilevante ruolo nell’am-
bito della delegazione inviata da Papa Leone IX a Costantinopoli
per negoziare con il Patriarca Michele I Cerulario46. Un ponte fon-
damentale, perché continuo, fra la città campana e la Chiesa bizan-
tina furono le relazioni tra il patriarca di Costantinopoli e il prefet-
to di Amalfi nel corso della già richiamata attività volta a riscattare
i cristiani dalle mani dei saraceni47.
Il monastero benedettino di Agion Oros giocò sicuramente un
ruolo di primo piano nel tentativo di mediazione, sfruttando la tri-
pla appartenenza: amalfitana, cassinense e athonita48. Tracce di que-
sto tentativo di composizione sono contenute in una lettera scritta
da Laycus, il maestro dei chierici della cattedrale della città tirreni-
ca, verso il 1070. Il destinatario era Sergio, abate del monastero be-
nedettino amalfitano di Costantinopoli, ma la missiva aveva il sapo-
re di una circolare volta a dare le direttive a tutte le comunità reli-
giose amalfitane dell’impero bizantino, Amalfion inclusa. Essa esor-
tava all’obbedienza incondizionata alla Chiesa di Roma, definita «lo
specchio di tutte le altre Chiese». Al contempo, però, descriveva i
monaci orientali quali «padri molto religiosi, molto saggi e molto
eruditi». Non abbiamo la risposta dell’abate Sergio. E non sappia-
mo neppure se rispose.
Il rapporto speciale che legava la Chiesa bizantina e la Chiesa
amalfitana era sancito dalla condivisione della protezione di San-
t’Andrea, l’apostolo che visitò ed evangelizzò l’antica Bisanzio fon-
dando la Chiesa Orientale, stando agli Acta Andreae (Atti di An-
drea) 49. Il suo culto arrivò nella cittadina tirrenica da Costantinopo-
li, dove riposavano i sacri resti. Il vescovado di Amalfi fu messo sot-
to la protezione ufficiale di Andrea dal 968. Il cardinale amalfitano

45 Michel, 1939: 35-47, 53. Dondaine, 1951: 323. Schwarz, 1978: 53-58. De

Rosa, Perani (a cura di), 2005: 39. Gargano, 2008: 86. Stroll, 2011: 47, nota 59.
46 Michel, 1939. Falkenhausen, 1993: 391.
47 Jenkins, Westerink, 1973: 458 sgg.
48 Michel, 1939: 35-47; Dondaine, 1951: 323. Schwarz, 1978: 53-58.
49 Si tratta di uno scritto apocrifo paleocristiano volto a celebrarne la predica-

zione e i miracoli (Roig Lanzillotta, 2007. Id., 2010: 247-259).


AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA 147

Pietro Capuano, legato di Papa Innocenzo III a Costantinopoli, ri-


uscì a entrare in possesso delle reliquie in occasione del sacco della
quarta crociata e le donò alla sua città l’8 maggio 120850. Questo
“furto santo” guidato politicamente fornì alla Chiesa amalfitana
nuovo prestigio e la conseguente unzione apostolica. La cattedrale
iniziò a essere indicata nei documenti con il titolo di ecclesia beati
Andree Apostoli (chiesa del beato Apostolo Andrea)51.
La stretta interconnessione fra equidistanza teologico-dogmati-
ca amalfitana, ruolo di mediazione politico-religiosa e adozione del
santo protettore della capitale bizantina è chiaramente illustrata sul
portone di bronzo che, nel 1070, il già menzionato ricco e nobile
mercante, nonché console, Pantaleone de Comite Maurone com-
missionò a laboratori di Costantinopoli e donò alla cattedrale del-
la sua città52. La doppia porta mostra le figure appaiate, simmetri-
che e di pari grado degli apostoli Andrea e Pietro: il Protocletos (Pri-
mo chiamato) secondo la tradizione bizantina, l’iniziatore della Chie-
sa Costantinopolitana e il protettore di Amalfi; il prescelto a fon-
damento dell’edificio ecclesiale, il fondatore della Chiesa Romana
e il clavigero del regno celeste. La Vergine Maria siede a fianco di
Cristo. Ha le mani alzate da orante per intercedere fra suo Figlio e
i due apostoli53.
Il programma iconografico rivela platealmente l’imparzialità di
Pantaleone, e con lui dell’élite amalfitana, circa i pilastri politico-re-
ligiosi a fondamento delle due potenze in collisione54. Forse il me-
cenate volle anche sfruttare il simbolismo religioso dell’iconografia
equidistante bivalve per dare rilievo al profondo rapporto di inter-
scambio che collegava la sua madrepatria e Costantinopoli, al di là
dello scontro in atto. Tale interconnessione è riflessa anche dal suo
risiedere alternativamente ad Amalfi e nella capitale bizantina.
Va sottolineata la particolare devozione rivolta dal Monte Athos
nei confronti del “Primo chiamato”, al punto che qui si è insediato

50 Mesarites, 1907: 28-29. Pirri, 1941: 29. Imperato, 1987: 240, nota 8.
51 D’Antuono, 2008: 19.
52 Matthiae, 1971. Frazer, 1973: 145-162. Belting, 1974. D’Antuono, 2000:

42. Braca, 2003: 63 sgg. Skinner, 2006: 65-78. Iacobini (a cura di), 2009.
53 Gargano, 2008.
54 Porpora, 2008.
148 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA

il suo principale centro di culto, la skiti di Sant’Andrea55. Monaste-


ri della Santa Montagna conservano anche due reliquie particolar-
mente venerate dell’apostolo: parte del capo (a Sant’Andrea) e il pie-
de (a San Panteleimon). Ad essi vanno aggiunti alcuni frammenti
ossei posizionati, insieme a quelli di vari apostoli e santi, a corona
del lignum Domini conservato in una stauroteca (alla Grande La-
vra). Si venne così a creare una triangolazione fra Amalfi, Agion Oros
e Costantinopoli focalizzata sull’eredità spirituale e sui resti terreni
di Sant’Andrea. Questo triangolo ideale aveva come suo perno il
monastero benedettino athonita.
Parte del mito sull’opulenza dei mercanti amalfitani di Costanti-
nopoli derivò dalla reputazione di devoti credenti impegnati a for-
nire cospicui finanziamenti per intraprese religiose, come attesta il
sostegno a una chiesa e a due monasteri nella “Regina delle città” fin
dai primi del X secolo. Questa propensione al mecenatismo religio-
so56 fu un fattore decisivo per l’attivazione dell’interesse amalfitano
per il monastero benedettino athonita. In seguito, esamineremo un
Tipikòn del 1045 di Costantino IX Monomaco (regnante fra il
1042 e il 1055) che permise ai maggiorenti amalfitani «che amano
Cristo» (come viene specificato) di rifornire da Costantinopoli il
monastero conterraneo tramite un grande naviglio di proprietà57.
La nomea circa la buona disposizione dei commercianti aristo-
cratici amalfitani a concedere enormi donazioni alla Chiesa era tale
da promuovere il mito secondo cui furono loro ad aver eretto il ce-
nobio benedettino al Monte Athos58, anche se in realtà esso fu co-
struito da antagonisti longobardi. Erano anche loro di ceto nobilia-
re, ma possedevano mezzi più limitati e avevano una visione strate-
gica meno globale senza l’intero Mediterraneo come orizzonte.
Non si trattava solo di filantropia. L’assistenza al monastero atho-
nita rientra nel più vasto fenomeno delle plurime fondazioni religio-

55 Talalay, 2008: 253.


56 Berschin, 1994: 242 sgg. Id., 1989: 164-166. Chiesa, Dolbeau, 1989: 919-
925. Falkenhausen, 1993: 100-103. Chiesa, 2000: 652-654. Berschin, 2001.
Chiesa, 2004: 508-510. Gothóni, Speake, 2008: 36. Iacobini (a cura di), 2009.
Merlini, 2014.
57 Merlini, 2015: 43 sgg.
58 Cfr. Skinner, 2013: 233.
AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA 149

se supportate dai ricchi e nobili mercanti amalfitani in remissione


dei peccati commessi. Un po’ come l’avaro di Bosch che con una
mano conta le monete per deporle nel forziere e con l’altra sgrana il
rosario59. Pro remedio animae, i mercanti amalfitani commissiona-
vano opere d’arte da trasferirsi in chiese e santuari della madrepatria
e traduzioni latine di testi religioso-edificanti60.
La già accennata serie di porte in bronzo-argento intarsiato im-
portate nella penisola italiana da Costantinopoli, tra il 1060 e il
1087, dalla famiglia de Comite Maurone ci può offrire un’idea del-
la spinta pro animae redemptione che può aver indotto i mercanti-
navigatori amalfitani a farsi carico della casa benedettina di Agion
Oros. Non si trattava solo di munifiche elargizioni. Erano soprattut-
to tentativi interessati di acquistare la salvezza dell’anima minaccia-
ta dai peccati perpetrati durante l’attività commerciale (imbrogli,
contrabbando, vessazioni...) e non solo.
Significativamente, una formella della porta donata da Pantaleo-
ne nel 1070 alla basilica romana di San Paolo fuori le mura associa
la figura del mecenate, in ginocchio davanti a Cristo, alla dicitura
«Pantaleo stratus/veniam mihi posco reatus » («Io Pantaleone prostra-
to/chiedo perdono per il reato»). Un solenne e pubblico atto di con-
trizione, soprattutto per essersi arricchito con il commercio di schia-
vi musulmani e cristiani. La lunga serie di porte offerte fa pensare a
una altrettanto lunga sequenza di peccati reiterati nel tempo e da
condonare.
Una raccolta della prima metà del X secolo delle opere di San Ba-
silio Magno ci può ben illustrare il funzionamento del patrocinio
pro animae redemptione mettendo in collegamento Amalfion e Pan-
taleone. Una nota nel codice Scorialensis graecus riporta che il volu-
me fu valutato otto nomismi scifati e che qualsiasi comunità mona-
stica l’avesse avuto in dono avrebbe dovuto recitare in cambio due-
centottanta liturgie per la remissione dei peccati e la commemora-

59 Il dipinto La Morte di un avaro di Hieronymus Bosch è conservato nella


National Gallery of Art di Washington.
60 Hofmeister, 1932: 225-284, 493-508, 831-3. Berschin, 1989: 164-166;

Id., 1994: 242 sgg. Chiesa, Dolbeau, 1989: 919-925. Falkenhausen, 1993: 100-
103. Chiesa, 1995; Id. 2000: 652-654; Id., 2004: 508-510.
150 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA

zione di Pantaleone di Amalfi61. Stando alla curatrice Lidia Perria,


il monastero che ricevette il dono e l’incombenza di pagarlo a suon
di preghiere dovrebbe essere stato quello benedettino athonita62.
Per la serie di ragioni che abbiamo investigato, mercanti, nobili,
chierici e soldati amalfitani residenti a Costantinopoli sostennero i
monaci compatrioti nell’acquisizione e gestione del «monasterium
amoenum» fondato da Leone da Benevento. Si affermarono facil-
mente sui confratelli longobardi che godevano di minori risorse
economiche, erano politicamente meno influenti, non possedevano
le sottigliezze diplomatiche degli amalfitani e avevano una visione
meno lucida del contesto bizantino e di quello più vasto mediterra-
neo. Da quel momento Amalfion, come fu denominato, fu struttu-
rato quale avamposto cross-culturale amalfitano fra Roma e Co-
stantinopoli
La reinvenzione di Apothikon come Amalfion non mise fuori
gioco Montecassino. Anzi. Alla morte di Ottone II, Pandolfo IV po-
té riconquistare il Principato di Capua e insediare Basilio (regnante
1036-1038), italo-greco d’origine calabrese, quale abate cassinate. I
buoni rapporti intrattenuti da questi con Bisanzio ottennero, nel
1032, la conferma del possesso delle proprietà dell’abbazia site in
territorio bizantino. In terre d’oltremare, essi favorirono il prospera-
re di Amalfion che conobbe uno dei periodi più floridi. Non per
nulla Basilio, perso l’abbaziato di Montecassino ma acquisito quel-
lo di Salerno, nel 1053 fece parte di una missione a Costantinopo-
li tesa a trovare una soluzione alle controversie politico-dogmatiche
che stavano dividendo la Chiesa Orientale e quella Occidentale.

61 Vedi Scorialensis graecus ᴪ. II. 7., f. Vv. edito in Andres, III, 1965: 30-31.
Cfr. anche Perria, 1993: 116.1-7.
62 Perria, 1993: 116.
E la nave va...

U na volta reinventatosi come Amalfion, il cenobio benedettino


prosperò per tre secoli nel cuore del monachesimo ortodosso,
in un periodo in cui ogni rapporto ufficiale tra Roma e Costantino-
poli venne praticamente a spezzarsi. Mentre l’impero bizantino e la
Chiesa orientale cessavano ogni rapporto con l’Occidente, Amal-
fion non solo continuò ad avere parte attiva nel governo del Monte
Athos, ma ne costituiva uno dei monasteri più autorevoli.
Verso la metà dell’XI secolo, il concentrato di sforzi di pressione
nella capitale bizantina da parte del cenobio, oramai sicuramente
Amalfion, produsse consistenti privilegi imperiali, il più vistoso dei
quali fu il permesso di possedere un’imbarcazione a vela di grande
tonnellaggio da impiegarsi soprattutto per fare la spola tra il suo
porto e Costantinopoli, al fine di ricevere rifornimenti dalla comu-
nità amalfitana laggiù residente1.
Il Tipikòn emanato nel 1045 da Costantino IX Monomaco2 au-
torizzò tutti i monasteri athoniti a possedere piccole barche (non ol-
tre i 300 modioi )3 per il loro approvvigionamento, restringendone
al tempo stesso il permesso di navigazione a ovest fino a Salonicco4

1 Lemerle, 1953. Pertusi, 1963: 218-9, 228, 236-7. Actes de Lavra, I, Lemer-
le, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970. Prôtaton 8, in Actes
du Prôtaton, Papachryssanthou (a cura di), 1975: 99-101, 228. L’indicazione de-
gli abati dei monasteri athoniti: 1.37-38. Balard, 1976: 91. Magdalino, 1996: 75-
76, 97-98. Thomas, Hero (a cura di), 2000: 287.
2 Actes du Prôtaton, 8. Papachryssanthou (a cura di), 1975. L’indicazione de-

gli abati dei monasteri Athoniti: 1. 37-38.


3 Il modio è una antica unità di misura romana di capacità per aridi. Equiva-

le a 8,733 litri.
4 Si tratta della conferma del limite già stabilito dall’imperatore Basilio II Bul-

garoctono.
152 E LA NAVE VA...

e a est fino a Enos (allora piccola località della Tracia orientale, og-
gi la moderna Enez, in Turchia). Esse potevano solo trasportare, a
fine di vendita in terraferma, le eccedenze prodotte al Monte Athos
e ritornare con le merci necessarie alla sussistenza dei monaci. Al
tempo stesso, l’atto imperiale privilegiò cinque cenobi concedendo
loro il godimento di natanti di grande stazza da impiegarsi su lun-
ghe rotte: la Grande Lavra, Iviron, Amalfion, Vatopedi e Chilanda-
ri (citati in ordine decrescente per anzianità di fondazione)5.
È interessante osservare il criterio secondo cui ad alcune fonda-
zioni monastiche non venne applicata la restrizione alla capacità di
carico delle imbarcazioni. Anzitutto, furono esentate quelle che ne
avevano già acquisito il diritto da crisobolle precedenti: una nave da
6.000 modioi era stata garantita alla Grande Lavra dall’imperatore
Basilio II Bulgaroctono e un simile permesso era stato concesso po-
co dopo a Iviron e Chilandari. Vatopedi fu autorizzata in quanto il
suo natante stava già operando con il consenso scritto del protos e di
tutti gli igùmeni e probabilmente anche per le ragguardevoli dimen-
sioni raggiunte dalla sua fratellanza. Per il convento degli amalfita-
ni venne applicata una speciale deroga per “particolari necessità”,
ovvero l’ottenimento di forniture provenienti dai compatrioti resi-
denti a Costantinopoli6.
Va rilevato che la misura imperiale, apparentemente di tipo con-
cessivo nei confronti delle attività mercantili dei monaci del Monte
Athos in generale e di Amalfion in particolare, fu in realtà di tipo
restrittivo, essendo questi già da tempo impegnati in liberi e lucro-
si traffici sulla lunga distanza. La crescita di opportunità commer-
ciali era connessa sia all’espansione urbana manifestatasi a partire
dal X secolo, sia ai loro investimenti in miglioramenti agricoli, al lo-
ro divenire proprietari terrieri di peso e alla conseguente produzio-
ne di surplus. È però difficile determinare l’estensione totale del-
l’import-export dei monasteri athoniti, essendo i documenti in no-
stro possesso per la maggior parte di tipo prescrittivo, in quanto ri-

5 Il permesso fu esteso anche ai monasteri di San Giovanni il Teologo a Pat-


mos e di Kosmosôteira ad Ainos (Antoniadis-Bibicou, 1966: 132-133).
6 Actes du Prôtaton, Papachryssanthou, 1975, nota 8 righe 65-77, 99-101,

105. Lemerle, 1978: 552. Vedi anche Harvey, 2003: 239.


E LA NAVE VA... 153

sultato di insistenti tentativi imperiali di restringerlo a porti specifi-


ci o di limitare i privilegi marittimi su cui esso si basava. Mary Cun-
ningham traccia un quadro condivisibile, anche se carente di solide
prove documentali, secondo cui è probabile che i monasteri facesse-
ro incetta di merci nei porti più piccoli e periferici per spedirle e ri-
venderle, con ampio ricarico, nei mercati delle città più grandi, Co-
stantinopoli in primis 7.
Tipico è il caso dell’export di vino. Un surplus stabile nella pro-
duzione vinicola si verificò già a partire dal 972, pochi anni dopo la
fondazione della Grande Lavra. In risposta, l’imperatore Giovanni I
Zimisce stabilì che i monaci athoniti potessero vendere vino ai laici
solo in cambio delle vettovaglie di cui avessero necessità. Ben presto
però essi presero a rivendere vino e altri prodotti agricoli di pregio
nelle città principali quali Costantinopoli, Salonicco e altre8. Perciò,
come rilevato in un documento ormai perduto, anche il successore
Basilio II legiferò contro il commercio di vino athonita verso «Co-
stantinopoli e altri luoghi». I suoi ordini ebbero però ben scarsi ef-
fetti. Significativamente, nel 1102 la Grande Lavra ottenne da una
crisobolla dell’imperatore Alessio I il diritto di operare con quattro
barche per una capacità totale di 6.000 modioi e l’esenzione dalla de-
kateia, una tassa sulle merci trasportate. Alla fine del XII secolo,
l’amministrazione imperiale tentò di aggirare i privilegi elargiti da
Alessio e di imporre una tassa sul vino che il monastero trasportava
e smerciava a Costantinopoli, il prodotto di punta della penetrazio-
ne della Grande Lavra sul mercato della capitale9.
I costanti sforzi imperiali per arginare il commercio vinicolo di
Agion Oros sono una chiara indicazione della sua regolarità e lucro-
sità. Il tentativo di Costantino IX Monomaco di limitare la stazza
delle barche athonite e il loro raggio di azione per la vendita di sur-
plus si situa proprio in questo contesto conflittuale. Fu, come per
molte altre questioni concernenti il Monte Athos, il frutto di un

7 Angold, 1985: 1-37. Bryer, Cunningham, 1996: 94. Harvey, 2003: 198-243.
8 Bryer, Cunningham, 1996: 94.
9 Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di),

1970, note 55, 67, 68. Kaplan, 1992: 304-6. Bryer, Cunningham, 1996: 95.
Harvey, 2003: 198-243.
154 E LA NAVE VA...

compromesso tra il potere imperiale e il costante sforzo di autode-


terminazione dei monasteri.
Per quanto riguarda il convento di Santa Maria degli amalfitani,
il servizio civile imperiale e i poteri forti di Costantinopoli erano co-
sì preoccupati del rischio che il monastero si trasformasse in un fon-
daco e la sua attività principale diventasse il business da approvare
la decisione del Gran Consiglio di Agion Oros che gli concedeva il
possesso di un’imbarcazione per il trasporto di merci solo sub con-
dicione che essa non fosse sfruttata a fini commerciali mirati al pro-
fitto. I monaci latini erano autorizzati ad usufruirne limitatamente
alle loro necessità di approvvigionamento: raccogliere le donazioni
provenienti dalla comunità benestante di commercianti amalfitani
insediati nella capitale dell’impero e comunicare con i conterranei
nella penisola italiana.
È intrigante osservare come la formula di compromesso con cui
il Tipikòn di Costantino IX Monomaco concedeva il possesso di un
natante di grandi dimensioni ai monaci amalfitani si radicasse nei
loro legami con i compatrioti della capitale imperiale: l’autorizzazio-
ne era esplicitamente accordata non perché Amalfion potesse indul-
gere nel commercio a fini di lucro, ma per comunicare con la ma-
drepatria italiana e soprattutto con la nuova madrepatria, la “Regi-
na delle Città”, importando qualsiasi merce avesse bisogno o essere
rifornito dai Philochristoi (da coloro cioè “che amano Cristo”), ter-
mine comunemente usato per descrivere i pii laici che offrono do-
nazioni in denaro o in natura ai monasteri10. Altrimenti i monaci
latini «non potrebbero sopravvivere», si sottolinea11. Ne inferiamo
che, mentre i monasteri greci potevano annoverare possedimenti
terrieri e benefattori nei dintorni del Monte Athos, quello degli
amalfitani non era in grado di sopravvivere se non dipendendo dal-
la generosità dei connazionali residenti nella capitale dell’impero12.
Ne deduciamo anche che nel tempo i collegamenti fra i monaci
amalfitani del cenobio latino athonita e i loro ricchi e devoti com-

10 Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 36.


11 Actes du Prôtaton 8. Papachryssanthou (a cura di), 1975: 228. Thomas, He-
ro (a cura di), 2000: cap. 5, 287.
12 Falkenhausen, in corso di pubblicazione.
E LA NAVE VA... 155

patrioti laici di stanza a Costantinopoli si erano ulteriormente raf-


forzati fino a divenire privilegiati rispetto a quelli con la madrepa-
tria italiana13.
Se è certo che la nave fu essenziale per il mantenimento del mo-
nastero benedettino e la sopravvivenza dei suoi religiosi, nessuno è
in grado di sapere in che misura Amalfion abbia ottemperato alle
clausole commerciali restrittive del Tipikòn14. La maggior parte del-
le crisobolle sui privilegi marittimi dei monasteri non è sopravvissu-
ta e le informazioni arrivate fino a noi sono molto limitate.
Se la grande nave da carico era come le imbarcazioni mercantili
e da trasporto amalfitane dell’età ducale (957-1131), essa possedeva
una forma più tozza e una stiva più capiente rispetto alle navi da
guerra. Si spostava a vela e a remi. Ospitava scialuppe di salvataggio
e per lo sbarco delle merci15. Attraccava al largo del piccolo scalo di
Morphonou, a pochi passi dal monastero. Un piccolo fondaco stoc-
cava i beni da importare e quelli da esportare16. Amalfion fungeva
probabilmente da scalo nella rotta attraverso cui i mercanti amalfi-
tani esportavano calici, croci bizantine, reliquie, candelabri e tessu-
ti a Roma e oltre. Dal punto di vista dell’occhio mercantile amalfi-
tano, il valore di questo privilegio imperiale non riguardava sempli-
cemente la capacità di carico della nave, ma anche l’esenzione (ex-
kousseia) fiscale del suo carico.

13 Lemerle, 1953. Pertusi, 1963: 228. Antoniadis-Bibicou, 1966: 132-133.


Balard, 1976: 91. Lemerle, 1978: 552. Thomas, Hero (a cura di), 2000: 287.
Harvey, 2003: 239. Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 36. Falkenhausen, in cor-
so di pubblicazione.
14 Actes du Prôtaton 7. Papachryssanthou (a cura di) 1975: 95-100. Actes du

Prôtaton 8 Papachryssanthou (a cura di) 1975: 54-77, 99-101.


15 Gargano, 2001: 27.
16 Cerenza, 1986: 181.
L’ambito riconoscimento
dello status di “monastero imperiale”

N el luglio 1081, la già citata crisobolla dell’imperatore Alessio I


Comneno confermò le disposizioni dei precedenti Isacco
Comneno e Niceforo III Botaniate a favore del cenobio degli amal-
fitani. Si trattava dell’esenzione fiscale alle proprietà situate all’inter-
no della penisola monastica. Venivano inoltre concessi ampi sgravi
di tasse e il diritto su tutti i ricavi dalle proprietà e dalle imposte do-
vute dai contadini dipendenti o affittuari di una serie di terre extra-
athonite descritte con dovizia di particolari1. Evidentemente, privi-
legi e sostanziosa donazione di terre dovevano essere stati oggetto di
atti ufficiali emanati dai predecessori di Alessio I Comneno, ma es-
si non ci sono pervenuti.
La crisobolla del 1081 è la prima attestazione ufficiale in nostro
possesso in cui Amalfion fu denominato «monastero imperiale». Lo
stesso titolo regale venne confermato in un atto con Kosmidion del-
lo stesso anno2. Finalmente, i benedettini athoniti ottennero lo stes-
so agognato riconoscimento degli influenti e antichi insediamenti
monastici con cui avevano condiviso la nascita di Agion Oros: la
Grande Lavra, Iviron e Vatopedi. Il provvedimento del basileus di-
mostra che il chiostro latino intratteneva buone relazioni con il po-
tere bizantino alla vigilia dell’offensiva normanna contro Costanti-
nopoli3. Per fare un confronto, la qualifica imperiale del cenobio
con cui Amalfion intratteneva relazioni privilegiate e paritarie, Ivi-

1 Lavra 43 in Actes de Lavra, I. Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou


(a cura di), 1970: 239 sgg. Bonsall, 1969: 266. Falkenhausen, 1993: 94-95; Mor-
ris, 1995: 187.
2 Pertusi, 1963: 228, nota 37. Rouillard, Collomp, 1937, nota 19. Lemerle,

1953: 551. Guillou, 1959: 555. Merlini, 2013.


3 Benoit-Meggenis, 2010.
158 L’AMBITO RICONOSCIMENTO DELLO STATUS DI “MONASTERO IMPERIALE”

ron, non è attestata prima del 1080, suggellata da un atto del pro-
tos. Amalfion poté fregiarsi del titolo regale nel pieno delle temperie
religiose e politiche fra Occidente e Oriente, quando monasteri e
chiese latine venivano chiusi a raffica.
Se la crisobolla imperiale sancì ampie agevolazioni fiscali alla
comunità benedettina sui proventi derivati dai contadini insediati
sulle sue terre, sempre nel 1081 essa rischiò di perdere quelli dei
villaggi nella regione del fiume Struma, nella Macedonia orienta-
le. Il rischio di default fu dovuto alle continue vessazioni da parte
dalle armate bizantine in trasferimento verso ovest per combattere
i normanni che si stavano pericolosamente dirigendo verso Co-
stantinopoli. I soprusi bizantini riguardarono soprattutto estorsio-
ni in natura di alimenti e animali. Gli abitanti e contribuenti fug-
girono o vennero allontanati verso altri villaggi. Ne risultò l’impos-
sibilità per Amalfion di rivendicare gli oneri fiscali garantiti dai
suoi privilegi. Un editto imperiale sostenne i suoi diritti sulle terre
abbandonate4.
La soluzione avrebbe rappresentato un onere aggiuntivo per un
piccolo monastero, senza la possibilità d’acquisire le risorse aggiun-
tive necessarie per mettere a coltura i campi. Fu invece un’impor-
tante opportunità per un’organizzazione potente come Amalfion, in
grado di beneficiare dell’ulteriore disponibilità di terre5.
Analizzando il Typikòn del 1045, abbiamo rilevato che l’imbar-
cazione impegnata a fare la spola con lo scalo marittimo amalfitano
di Costantinopoli fu vitale per il sostentamento del monastero e la
sopravvivenza dei monaci. La quasi totale dipendenza dal mecena-
tismo dei Philochristoi era però un forte elemento di vulnerabilità.
Una volta che Amalfi fu conquistata dai normanni e i mercanti-na-
vigatori di Costantinopoli iniziavano a declinare in potere, prestigio
e ricchezza, la necessità di provvedere una relativa autosufficienza si
caricò di urgenza. Vennero quindi acquistate grandi estensioni di
terre in Macedonia e in Tracia. Volente o nolente, Amalfion entrò
dunque a pieno titolo nel meccanismo allora in atto di concentra-

4 Harvey, 2003: 60.


5 Lavra 43 in Actes de Lavra, I. Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou
(a cura di), 1970. Morris, 1995: 205.
L’AMBITO RICONOSCIMENTO DELLO STATUS DI “MONASTERO IMPERIALE” 159

zione della proprietà terriera in poche mani, poiché solo grandi la-
tifondisti con molte risorse potevano sfruttare la situazione metten-
do terre abbandonate di nuovo a coltura.
Nel giugno dello stesso anno, fu siglato un atto d’acquisto con il
cenobio di Kosmidion. La firma di Benedetto (Benediktos) quale
abate del monastero imperiale degli amalfitani (Amalphenon) sancì
l’acquisto di una grande tenuta fondiaria. Si trattava di Platanos (nel
distretto fiscale di Prinarion), a est del fiume Struma su cui si stava-
no concentrando gli investimenti terrieri dei benedettini. Kosmi-
dion venne rappresentato dall’igùmeno Eugenio. Il prezzo: 24 lib-
bre d’oro. Possiamo notare che il provvedimento confermò ad
Amalfion il privilegio del titolo imperiale. Inoltre, apprendiamo che
il quarto abate conosciuto dal materiale d’archivio si chiamava Be-
nedetto6. Nel frattempo, possono naturalmente essersi avvicendati
altri, i cui nomi però sono ignoti. Il documento è conservato negli
archivi della Grande Lavra7.
Nel 1081, Amalfion possedeva dunque abbastanza mezzi per in-
vestire una cospicua somma nell’acquisto di un’estesa proprietà fon-
diaria presso Chrysoupolis sullo Struma, applicando lo schema con-
solidato secondo cui i monasteri tendevano ad ampliare la loro ric-
chezza agraria attraverso l’acquisizione di terreni da altri monasteri o
inglobando altre fondazioni monastiche e i loro campi8. La già rile-
vata assenza di benefattori nelle vicinanze della penisola di Agion
Oros obbligò il cenobio benedettino a procurarsi terreni ben lontani,
nella Macedonia orientale, rompendo con l’efficiente sistema abitua-
le di acquisizione di tenute da parte degli istituti monastici athoniti:

6 Lavra 42 in Actes de Lavra, I. Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou


(a cura di), 1970: 233-235. Morton, 2011. Il trasferimento della proprietà fu
confermato da un documento redatto e autenticato da Giovanni, clerico imperia-
le e notaio di Blacherne. L’atto fu sottoscritto a Costantinopoli, perché Kosmi-
dion era situato nei pressi della città. Testimoni furono altri tre monaci di Kosmi-
dion (David, Hilarion e Ioannes) e tre chierici con collegamenti alle Blacherne.
7 Rouillard, Collomp, 1937, nota 19. Lemerle, 1953: 551-552. Guillou,

1958: 187. Id., 1959: 555. Guillou, 1959: 555. Pertusi, 1963: 228, nota 37. La-
vra 42 in Actes de Lavra, I. Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cu-
ra di), 1970: 233 240. Merlini, 2013.
8 Harvey, 1996: 128.
160 L’AMBITO RICONOSCIMENTO DELLO STATUS DI “MONASTERO IMPERIALE”

su piccola scala e in aree confinanti con il territorio di proprietà9. Un


elemento di debolezza che nel tempo diventerà dirimente.
Più in generale, gli atti del 1081 sono molto interessanti perché
documentano come i monasteri del Monte Athos fossero tra i più
ricchi latifondisti del tempo, con proprietà sparse per tutta la Calci-
dica e la Macedonia. Proprietà che in buona parte conservano tut-
tora, in conflitto perenne con gli enti locali.

9 Id., 1996: 92.


Traghettatore nell’ecumene bizantina
della conoscenza sulla liturgia latina
e l’assetto benedettino

Q ual è il segreto della stupefacente persistenza di Amalfion mal-


grado e contro ogni ragionevole calcolo delle probabilità?
Si tratta di comprenderne il ruolo giocato fra mondo latino e
greco e il bilanciamento operato fra le diverse forze in campo, visto
che sembra essere rimasto in comunione sia con la comunità mona-
stica athonita e il patriarcato di Costantinopoli, sia con il papato di
Roma anche dopo la rottura di ogni rapporto tra di loro.
Col tempo mi sono convinto che il fiorire e perdurare del mona-
stero benedettino di Santa Maria degli amalfitani persino al culmi-
ne degli attriti secolari tra Roma e Costantinopoli rappresenti un ec-
cezionale esempio di cooperazione monastica in grado di trascende-
re per lungo tempo la crescente divaricazione tra Oriente e Occi-
dente1. Tale cooperazione si dispiegava soprattutto nella conoscen-
za reciproca e mediazione attiva fra le due culture. In particolare,
Amalfion favorì la diffusione nell’ecumene bizantina della cono-
scenza della liturgia latina e dell’assetto monastico occidentale2, ma
fu soprattutto un gateway nella trasmissione in Occidente di opere
agiografiche greco-orientali rese in versione latina.
Abbiamo già menzionato l’intenso interesse di Atanasio l’Atho-
nita per la Regula Monachorum di San Benedetto, redatta a Monte-
cassino forse intorno al 530 e operante nel cenobio latino athonita3.
Probabilmente, tali disposizioni o estratti di esse stavano già circo-
lando ad Agion Oros in traduzione greca, portate da qualche eremi-

1 Bonsall, 1969: 267. Merlini, 2013.


2 Martin-Hisard, 1991: 414.
3 Id., 1991: 109 sgg. Per una disamina, vedi Merlini, 2015.
162 TRAGHETTATORE NELL’ECUMENE BIZANTINA

ta o monaco proveniente dal Sud della penisola italiana4. Una reda-


zione in greco di alcuni passi dei capitoli 18 e 43 di tale Regula mo-
nachorum venne scoperta da Silvio Giuseppe Mercati nel codice
athonita 3071, Koutloumousiou 2 del XI secolo5. Anch’esso provie-
ne dalle aree bizantine meridionali della penisola italiana6.
Il leader del Monte Athos venne addirittura criticato da diversi
anacoreti per essersi in parte ispirato alla Regola di San Benedetto,
cioè al modello di disposizioni monastiche più seguito dalla Chiesa
Occidentale, per organizzare la sua Grande Lavra. Non si prendeva
atto (o non si conosceva) che nel capitolo finale della Regola, il 73, il
santo di Norcia presenta le sue fonti di ispirazione: anzitutto il Vec-
chio e il Nuovo Testamento, ma anche le opere dei «Santi Cattolici
Padri». Tra queste, l’unica esplicitamente citata è la Regola di San Ba-
silio Magno (330-379): «Regula sancti patris nostri Basilii» («La Rego-
la del Santo Padre nostro Basilio»). Possiamo inoltre enucleare: la Re-
gola (Κανών) di San Pacomio (292-348), il Testamentum (Διαθήκη) di
Orsiesi, discepolo di Pacomio, e le Vite dei Padri di San Giovanni
Cassiano (c. 360-435). Si tratta quindi di testi di rilievo stesi in mag-
gioranza da grandi maestri del monachesimo di tradizione egiziana e
dell’Asia Minore. Inoltre, nel corpo della Regola, San Benedetto ope-
ra svariati riferimenti ai Padri orientali del Deserto, rammentandone
l’eroismo e la santità e proponendoli alla sua comunità religiosa come
esempi di perfezione spirituale e di unione con Dio. L’influsso orien-
tale fu così rilevante sul santo di Norcia che ne sono rilevabili tracce
persino nella lingua da lui impiegata. Il testo della Regola impiega in-
fatti molti termini greci latinizzati su aspetti chiave. Si va da alcuni
aspetti della spiritualità e dottrina monastica alla preghiera, dalle con-
dizioni di vita del monaco all’assemblea liturgica della comunità7.

4 Nin, 2009. Falkenhausen, in corso di pubblicazione.


5 Mercati, 1947: 191-196. Ioannidis, 2003: 87-98. Falkenhausen, in corso di
pubblicazione.
6 Ioannidis, 2003: 87-98.
7 Id., 2003. Segno della comune esperienza spirituale sarebbero i termini gre-

ci da lui adottati in forma latinizzata: monachus = μοναχός, coenobita = κοινοβίτης,


anachorita = αναχωρητής, heremita = ερημίτης, heremus = έρημος, monasterium =
μοναστήριον, cella = κελλίον, chorus = χορός, psalmodia = ψαλμωδία, antiphona =
αντίφωνα, analogium = αναλόγιον o αναλογείον.
TRAGHETTATORE NELL’ECUMENE BIZANTINA 163

Da parte del monachesimo ortodosso, il santo cassinese è sempre


stato riconosciuto quale espressione dello spirito ecumenico della
Chiesa indivisa e della comune esperienza spirituale monastica8. E
ne celebra la memoria il 14 Marzo. Però viene spesso minimizzato
l’influsso della sua Regola su Atanasio l’Athonita e più in generale
sui Tipikòn che organizzano i cenobi del Monte Athos. Tale misco-
noscimento è funzionale a una visione più generale secondo cui la
reciproca influenza dell’Oriente su San Benedetto e di San Benedet-
to sull’Oriente sarebbe stata di tipo asimmetrico. Da una parte, si
osserva che la Regula benedettina si è ampiamente ispirata ai testi ca-
posaldo del monachesimo orientale e dall’altra si riconosce l’ampia
diffusione nell’Oriente cristiano sia di essa che della Vita (Βίος) del
santo nella versione narrata dai Dialoghi scritti da Papa Gregorio
Magno. D’altra parte, tuttavia, l’ordinamento benedettino non
avrebbe esercitato quasi nessun ascendente sulle successive opere
monastiche bizantine e orientali e nemmeno sui regolamenti, l’or-
ganizzazione e l’amministrazione delle istituzioni monastiche9.
Riguardo al monachesimo del Monte Athos, la versione greca
dalla Vita è presente in due codici del XI secolo: il Codice B 68 del-
la Grande Lavra e il Codice 3 di Vatopedi. Significativa e coerente
con l’interesse suscitato da San Benedetto fin dal momento del de-
collo del Monte Santo è la necessità che fu sentita da Eutimio l’A-
thonita, igùmeno di Iviron e amico fraterno dei più anziani Atana-
sio l’Athonita e Leone il Grande, di tradurre il Libro dei Dialoghi dal
greco in georgiano10. Ne parleremo più avanti. Qui basti ricordare
che Eutimio intraprese la trasposizione esplicitando che è un atto
celebrativo nei confronti del santo di Norcia.
San Benedetto gode tuttora di ampia venerazione al Monte
Athos. La sua icona adorna tutte le chiese e non sono infrequenti re-
ligiosi con il suo nome. I monaci si salutano con l’invocazione Evlo-
geite! ho kurios (“Benedetto il Signore”), tratta da un benvenuto be-
nedettino pressoché identico11. E spesso presentano San Benedetto

18 Id., 2003: 87-98.


19 Id., 2003: 87-98.
10 Peeters, 1917-1919: 36.3. Ioannidis, 2003: 87-98.
11 Plested, 2010: 97. Merlini, 2015.
164 TRAGHETTATORE NELL’ECUMENE BIZANTINA

come un martire o un pontefice. È sicuramente un segno di stima,


anche se non proprio di accuratezza storica.
Diversi studiosi come Vera von Falkenhausen sottolineano l’e-
ventualità che la fonte di Atanasio sulla Regola di Benedetto siano
stati i monaci «romani», data l’amicizia che li legava, piuttosto che
una preesistente traduzione greca. L’ipotesi richiede però di antici-
pare l’arrivo dei benedettini beneventani e amalfitani alla Santa
Montagna agli inizi degli anni sessanta del X secolo, quando Atana-
sio mise a punto il Tipikòn per il suo cenobio. Un evento dalla plau-
sibilità tutta da verificare stando alla documentazione disponibile,
peraltro scarsa e lacunosa12.
Possiamo comunque ragionevolmente concludere che, se l’atten-
zione di Atanasio per la Regola di San Benedetto ne facilitò l’affiata-
mento con Leone il Grande e con gli altri religiosi latini, la familia-
rità con essi lo spinse ad approfondire l’ordinamento benedettino. È
infatti logico immaginare che i monaci fondatori di Apothikon ab-
biano contribuito alla diffusione dei loro precetti fra i confratelli
athoniti di lingua greca.

12 Falkenhausen, 2005: 115. Per una critica a tale interpretazione, vedi Mer-

lini, 2015 e 2016.


Anello nella trasmissione in Occidente
di opere agiografiche greco-orientali

raeca non leguntur, “Il greco non si legge”. Questo detto, am-
G piamente diffuso nel Medioevo latino, chiarisce che nell’Euro-
pa occidentale ben pochi erano in grado di leggere e comprendere
in lingua originale un testo greco di un certo spessore. La maggio-
ranza era convinta che la sua ignoranza linguistica fosse giustificata
dall’inutilità del sapere greco e bizantino. Non era il risultato di una
estraneità, ma di una inimicizia. Una volta percepiti Roma e la Gre-
cia come nemici, la romanità veniva contrapposta alla grecitudine
come l’ortodossia all’eresia1. Così la maggior parte dei teologi cono-
sceva solo a grandi linee il credo e la ritualità greca, come i giuristi
tendevano in buona misura a ignorare la legge greca e gli statuti bi-
zantini2. Presso i contemporanei, il vescovo Liutprando di Cremo-
na godeva grande fama di esperto su Bisanzio, dal momento che
masticava un po’ di greco3.
Tuttavia, si è soliti sottovalutare la quantità di traduzioni dal gre-
co prodotte durante il Medioevo, la pervasività, grazie ad esse, degli
autori greci antichi e bizantini nella vita intellettuale occidentale e
le istituzioni che hanno fatto da ponte fra Est e Ovest4. Costantino-
poli ospitò per tutto il XII secolo (quello successivo al Grande Sci-
sma) un gruppo molto attivo di traduttori latini e di promotori del-
la cultura greca, fino a configurare un intero panorama letterario.
Mosè di Bergamo fu un celebrato interprete, traduttore e collettore
di manoscritti. Giacomo da Venezia rivelò all’Occidente la “logica

1 Hattenhauer, 1992: 259.


2 Koschaker, 1947: 106. Caenegem, 2002: 86.
3 Chiesa, 2005: 298-303.
4 Berschin, 1994: 1023.
166 ANELLO NELLA TRASMISSIONE IN OCCIDENTE DI OPERE AGIOGRAFICHE

nova” di Aristotele riversando dal greco al latino e commentando di-


verse sue opere (1128 circa)5.
Per quanto concerne la capacità diffusiva in Occidente della let-
teratura bizantina su vite e aneddoti di santi (martirio, miracoli in
vita e prodigi post-mortem) da parte di Amalfion, possiamo attual-
mente contare su un solo caso solidamente documentato: la famo-
sa Narratio de Miraculo a Michaele Archangelo Chonis patratum tra-
dotta dal greco in latino, intorno alla metà del secolo XI, dal mona-
co Leone (BHL 5947)6. Il testo riporta la leggenda di fondazione
del santuario di Chonae, l’antica Colossi (nella Frigia), al tempo in
cui gli apostoli Giovanni e Filippo predicavano il Vangelo e opera-
vano prodigi in Asia Minore. Il luogo di culto, il più antico di tut-
ta la cristianità dedicato a San Michele, è stato, sin dal IV secolo,
un’importante meta di pellegrinaggio7.
L’opera riporta la fortuna di un piccolo oratorio micaelico ubica-
to a Chonae, l’invidia di alcuni pagani, il deragliamento del corso di
un fiume da loro operato per travolgere la chiesetta con l’impeto
della corrente, l’apparizione dell’Arcistratega celeste che devia le ac-
que imbrigliandole in una sorgente miracolosa e, infine, la trasfor-
mazione di un santuario periferico in uno dei luoghi di culto cen-
trali della cristianità. Il popolare miracolo di Michele è spesso cele-
brato sulle icone. Esse amano illustrare il simil-terremoto scatenato
dall’arcangelo quando colpisce la roccia e devia l’acqua attraverso
una fessura da lui creata8.
Il testo è stato attribuito a Sisinnio, Patriarca di Costantinopoli
(426-427). La versione latina è stata pubblicata a Parigi nel 18909.
Leone si descrive come «ex fratribus congregationis latini coenobii Atho-
nos montis» («monaco della congregazione di confratelli del monaste-

5 Dod, 1982: 45-79.


6 Siegmund, 1949: 270 sgg. 45. Pertusi, 1953: 400-429. Rintelen, 1968: 45.
Merlini, 2013. Id. 2015.
7 Siegmund, 1949: 270 sgg. 45. Rintelen, 1968: 45. Merlini 2013.
8 Peers, 1986.
9 La leggenda agiografica basata sul racconto del miracolo compiuto a Chonae

dall’arcangelo Michele è conosciuta attraverso tre versioni greche, una latina e al-
tre in lingue orientali. Per l’organizzazione delle edizioni, vedi Monteleone (2007:
143, nota 21). La versione latina di Leone, monaco amalfitano del Monte Athos,
ANELLO NELLA TRASMISSIONE IN OCCIDENTE DI OPERE AGIOGRAFICHE 167

ro latino sul Monte Athos»). Ottenne dall’imperatore di Costantino-


poli la licentiam di risiedere a Bisanzio. Che questa autorizzazione sia
stata concessa per aver partecipato alla spedizione-crociata del 1204 e
affinché fondasse il suddetto monastero, come avanzato da alcuni au-
tori10, è puramente speculativo e contrasta con la cronologia sia del-
l’edificazione di Amalfion, sia della traduzione latina del miracolo
micaelico. Il pio traduttore non poteva neppure essere Leone il fon-
datore di Apothikon, come affacciato da altri studiosi11. Sappiamo
infatti che il monaco era scomparso da circa mezzo secolo.
La redazione della Narratio de Miraculo a Michaele Archangelo è
piuttosto da porre in relazione con gli sforzi di relazione compiuti
dal cenobio latino athonita nei confronti del trono e della corte ver-
so la metà dell’XI secolo. Tale impegno gli fece conseguire, come ab-
biamo già visto, consistenti privilegi imperiali quali autorizzazioni
marittime e commerciali. L’opera di Leone e la mediazione cultura-
le Oriente-Occidente operata dalla comunità benedettina rientrava
infatti in un quadro complesso e coerente di trasformazioni. Come
abbiamo già osservato, a cavallo del passaggio del primo millennio
e nei decenni successivi, la stagione delle grandi istituzioni monasti-

(Apparitio Michaelis Archangeli, BHL, Bibliotheca Hagiographica Latina, 5947) è


stata pubblicata da Max Bonnet nel 1889 (317-322); il prologo del traduttore è
alle pp. 202-203. Errando, Richard F. Johnson sostiene che della versione latina
sia stato pubblicato unicamente il prologo (2005: 32, nota 7). Anche Nau (1907)
fornisce la traduzione latina redatta da Leone rinvenuta in un manoscritto del XIII
secolo conservato nella Biblioteca Nazionale Francese (Parigi): lat. 11753, fols
221v-226v (Bibliotheca hagiographica Latina, Brussels, 1898-1901, n. 5946),
Miraculum Sancti Michaelis Archangeli in Conas. A tale proposito, vedi anche Ar-
nold, 2000. Venendo alle versioni greche, la più antica (BGH 1282), anonima ma
detta di Archippo (discepolo di San Paolo nato a Colossae e/o eremita stabilitosi
in prossimità del santuario e diventatone il primo custode), è edita in Bonnet
(1889: 289-328). La seconda versione greca (BHG 1283), detta di Sisinnio, è edi-
ta in Acta Sanctorum, Septembris, VIII, 1762: 38-49. Essa è stata pubblicata dai
gesuiti belgi bollandisti sulla base di un manoscritto del X secolo rinvenuto a Co-
stantinopoli. La terza versione greca (BHG 1284), detta di Simeone Metafraste,
dallo stile sofisticato ma comprensibile dalla gente comune, è riprodotta nella già
citata edizione di Bonnet (1889: 308-316).
10 Monteleone, 2007: 143, nota 21.
11 Fajfer, 2010a. Mikla, Gau, Hürner, 2016: 56, nota 133.
168 ANELLO NELLA TRASMISSIONE IN OCCIDENTE DI OPERE AGIOGRAFICHE

che athonite si impose come una vera e propria colonizzazione del-


la penisola, decentrata e solidamente rocciosa. Amalfion fu tra i mo-
nasteri che condivisero questa rivoluzione organizzativa imposta da
Sant’Anastasio.
Nel contempo, vennero a stringersi i rapporti diretti fra il Mon-
te Athos e l’imperatore bizantino, vicario per gli affari terreni diret-
tamente nominato da Dio. Scegliendo di traslare diverse reliquie
paradigmatiche – anzitutto la “Vera Croce” e altre vestigia della Pas-
sione del Salvatore, ma anche frammenti dei corpi degli apostoli e
di martiri – nei monasteri dell’emergente Agion Oros si riconosceva
in questo concentrato di spiritualità uno dei maggiori punti di rife-
rimento religiosi per l’intero impero. E per riconoscenza e rispetto
vennero loro elargiti terreni, proprietà ed esenzioni fiscali. La peni-
sola dei monaci diventava così componente propulsiva dell’ideolo-
gia bizantina secondo cui l’impero possedeva una posizione privile-
giata tra le nazioni dell’ecumene cristiana, era protetto direttamen-
te da Dio e il suo l’imperatore era celestialmente nominato. Dive-
nendo il secondo centro di culto dell’impero – dopo Costantinopo-
li – Agion Oros poteva validamente sostenere il sovrano nel tentati-
vo di sovvertire la topografia cristiana che continuava a prevedere,
malgrado tutto, l’incontestata centralità di Gerusalemme – capitale
della Terrasanta e quindi anche del regno celeste – perché sacraliz-
zata dal passaggio di Cristo.
Il carisma religioso e il riconoscimento da parte della corte e del
clero costantinopolitano di un legame diretto con il soprannaturale
furono le risorse primarie attraverso cui le fondazioni monastiche
athonite, Amalfion fra quelle leader, acquisirono un rapporto diret-
to con il potere imperiale. Non per nulla il Tipikòn di Costantino
IX Monomaco che accordava privilegi al monastero fu contempo-
raneo all’esternazione di grande stima con cui il monaco georgiano
Giorgio l’Aghiorita tratteggiava la vita dei «confratelli romani»12, in-
tenti in «una vita di solitudine e di buona reputazione seguendo la
regola e gli insegnamenti di San Benedetto, la cui vita e miracoli so-
no descritti nel Libro dei Dialoghi » (di San Gregorio Magno)13.

12 Martin-Hisard, 1991: 109-110. Grdzelidze, 2009.


13 Peeters, 1917-1919: 36.
ANELLO NELLA TRASMISSIONE IN OCCIDENTE DI OPERE AGIOGRAFICHE 169

Questo monaco di Iviron, biografo dei santi georgiani fondatori del


suo cenobio (Giovanni ed Eutimio), ammirava Amalfion come un
monastero «attraente... in cui molti fratelli si sono riuniti insieme»
e seguono una «vita retta, saggia ed edificante». Si tratta di un par-
ticolare apprezzamento espresso nei confronti del rito latino14.
La veicolazione di contenuti religiosi in Occidente era parte in-
tegrante dell’alto profilo spirituale di Amalfion. Fu quindi compo-
nente vitale del mito del suo successo, atout del profondo e proficuo
legame diretto con l’imperatore15, garanzia di autonomia e al tem-
po stesso suggello di alleanza col patriarca e col vertice della Chiesa
Orientale. Gli erano attribuiti privilegi nella stessa misura in cui
conseguiva riconoscimento sociale circa l’efficacia, in termini di ot-
tenimento dell’ascolto divino, delle sue massicce dosi di ascesi e del-
le sue traduzioni di “cose sante” eseguite “per l’amor di Dio”. Signi-
ficative sono a questo proposito alcune considerazioni contenute nel
prologo del monaco-traduttore Leone alla sua Narratio. Anzitutto,
veniamo a conoscere le motivazioni del suo impegno. Leone osser-
va che, benché possa sembrare sorprendente, il clamoroso miracolo
compiuto in Asia Minore da San Michele non era ancora noto nel
mondo latino. Evidentemente, non erano sufficienti le pubblicazio-
ni in greco e la viva presenza dei monumenti che erano stati testi-
moni dell’operato dell’arcangelo. Per colmare questa lacuna, tutti i
confratelli della congregazione latina del Monte Athos gli avevano
chiesto la redazione di una versione nella loro lingua. Leone sostie-
ne di aver eseguito il compito come atto di obbedienza nei confron-
ti della richiesta fatta da questi servitori di Dio e, soprattutto, per
contribuire alla glorificazione di San Michele16.
Scorrendo la traduzione, è facile verificare che a volte essa è let-
terale, parola per parola, mentre in diversi punti si accontenta di da-
re il senso dell’accaduto, quasi vi fosse la preoccupazione di non an-

14 Id., 1917-1919: 36-38. Vedi su questo passaggio Pertusi, 1963: 220, nota
9; Bonsall, 1969.
15 Sarebbe da approfondire, in questa luce, l’acquisizione da parte di un mer-

cante di Amalfi di una preziosa stauroteca, poi trasportata all’abbazia di Monte-


cassino, durante la caotica deposizione dell’imperatore Michele VII del 1078.
16 Il calendario della Chiesa Orientale celebra la festa del miracolo di Chonae

il 6 settembre.
170 ANELLO NELLA TRASMISSIONE IN OCCIDENTE DI OPERE AGIOGRAFICHE

noiare i lettori. I confratelli non erano interessanti a una narrazio-


ne elegante, chiarisce Leone, ma piena di prodigi divini raccontati
in una forma semplice. Chi intende criticare il suo narrare rustico
ed elementare, quasi illetterato, è semplicemente invitato a non leg-
gere il testo. Malgrado l’elementarità stilistica, o forse proprio gra-
zie all’accessibilità del testo che ne deriva, la versione di Leone di-
venne ben presto assai nota sia nella Chiesa Romana che in quella
Ortodossa.
Dobbiamo quindi leggere l’attività di traduzione di Amalfion
non in termini “scientifici”, come equivoca Nau17, ma quale archi-
trave della sua politica religiosa tra le gerarchie imperiali, ecclesiasti-
che e monastiche. La Narratio è l’unico testo che sappiamo per cer-
to essere stato tradotto in latino ad Agion Oros. Tuttavia, nel futuro,
un’accurata ricerca storica potrebbe individuare nuovi elementi di
connessione fra il monaco-traduttore Leone di stanza a Costantino-
poli e Amalfion sul Monte Athos, nonché individuare altri mano-
scritti provenienti dalla stessa fonte. Keller si arrischia a proporre
che Leone di Amalfion possa anche aver tradotto una delle due ver-
sioni latine pervenute fino a noi degli atti in memoria dei martiri e
confessori Guria e Samona, uniti nel martirio a Edessa (nell’antica
Siria) e di Abibo, diacono e martire nella stessa città18.

17 Nau, 1907: 545.


18 Keller, 1994-2002: 13.
La traduzione di testi edificanti
bizantini a beneficio
della comunità mercantile amalfitana
di Costantinopoli

S ignificativa è la personalità di Giovanni d’Amalfi, monaco-tra-


duttore che a Costantinopoli firmava Johannes Monachus. Il reli-
gioso è stato posto da Pertusi in relazione con il monastero amalfi-
tano del Monte Athos e le sue connessioni transculturali, proponen-
done l’identificazione con l’abate Giovanni documentato nel 10351.
Keller si spinge addirittura a ipotizzare che possa trattarsi anche del-
l’abate che ha firmato atti coinvolgenti Amalfion nel 1017, quando
era il secondo cenobio di Agion Oros in ordine gerarchico2.
Monaco e presbitero, Giovanni nacque presumibilmente ad
Amalfi3 e conseguì sicuramente la formazione monastica in ambien-
te amalfitano4. Risedette verso la fine della vita nella capitale del-
l’impero5 dove, verso la metà dell’XI secolo, eseguì la traduzione la-
tina di alcuni testi agiografici e novellistici greci su invito e a bene-
ficio spirituale dell’enclave mercantile dei conterranei. I prologhi

1 Pertusi, 1963: 236-238.


2 Keller, 1994-2002: 13.
3 Per Chiesa (2004), invece, «Nonostante gli stretti legami di G. con la colo-

nia mercantile amalfitana di Costantinopoli, non può dirsi definitivamente accer-


tato che egli fosse amalfitano d’origine, come invece viene dato per scontato da
buona parte della letteratura critica... Non si può dubitare comunque che la pa-
tria di G. sia da porsi nell’Italia meridionale».
4 Vedi il prologo della Passio Herinis in Johannes Monachus, Huber (a cura di),

1913: XIX. Goullet, 2009.


5 «In urbe Vizantium», ci informa il monaco-traduttore Giovanni d’Amalfi in

calce alla sua traduzione del Liber de miraculis (cfr. Hofmeister, 1932: 227 sgg. e
237 sgg.).
172 LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI

delle sue opere sono la testimonianza più rilevante (se non unica)
del milieu culturale, della formazione spirituale e dell’attività lette-
raria degli occidentali a Bisanzio nell’XI secolo, in particolare del-
l’ambiente commerciale amalfitano.
Tipica è la molla che portò alla traduzione dal greco della Vita
di Santa Irene (Vita vel passio S. Herinis virginis et martiris) 6. La
commessa venne, intorno al 10807, dal nobile Lupino, esponente
della potente famiglia-clan dei Comite Maurone e parente alla lon-
tana di Pantaleone8. Disporre di una versione latina della Bios della
santa che subì il supplizio a Salonicco era reputato più che mai ne-
cessario, poiché le era stata dedicata la chiesa greca nella parte più
antica del quartiere amalfitano9. Tutte le domeniche se ne celebrava
la memoria cantandone salmi e magnificandone la gloria, ma in
realtà nessuno ne conosceva vita, miracoli e martirio. Così la chiesa
della comunità amalfitana godeva della protezione di una martire
quasi ignota, visto che nessuno aveva mai pensato di colmare la la-
cuna. Nella seconda metà dell’XI secolo, il piccolo Ducato di Amal-
fi era in difficoltà. I suoi mercanti iniziavano a preoccuparsi che
Santa Irene, contrariata da tanta noncuranza, potesse prima o poi
negare loro i favori così come nel passato aveva invece aiutato a ren-
derli prosperi. Giovanni accettò l’incombenza, anche perché i ma-
noscritti erano conservati presso il monastero greco dove risiedeva,
quello consacrato alla Santissima Vergine (Panagiotum)10. Invalida-

16 La Passio Herinis è a tutt’oggi inedita a eccezione del prologo. È conserva-

ta unicamente nel codice della Biblioteca Nazionale di Napoli, già Viennese 15


(ms. Napoli, BN, Vindob. lat. 15, ff. 203v e 179r-184r).
17 Schwarz, 1978: 69, nota 4.
18 Il monaco-traduttore spiega nel prologo alla Bios di Santa Irene che la com-

messa gli era pervenuta quando, insieme ad altri illustri amalfitani, era andato in
visita al nobile Lupino mentre giaceva ammalato. «Si stava chiacchierando del più
e del meno, di qualunque cosa di cui si parla abitualmente per dare conforto a un
malato, quando la conversazione si indirizzò sulla Vergine Santa e su Irene, beata
martire di Cristo”. E fu in quel momento di verità che tutti ammisero di non co-
noscerne la storia portentosa. Il prologo è edito da Hofmeister, 1924: 138 sgg. e
da Johannes Monachus, Huber (a cura di), 1913: XVIII.
19 Falkenhausen, 1993: 391. Skinner, 2013: 217.
10 Vedi il prologo della Passio Herinis in Johannes Monachus, Huber (a cura

di), 1913: XXII.


LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI 173

to dall’età avanzata11 e rendendosi conto che la lunghezza della nar-


razione e le corpose dissertazioni teologiche spezzavano il ritmo dei
colpi di scena narrativi, rendendo la Passio poco adatta a una au-
dience di sbrigativi e pratici mercanti, si limitò a redigerne un am-
pio riassunto in latino che dedicò a Lupino12.
Spiritualità benedettina, attività politico-diplomatica e potenzia-
lità economiche a fini benefici fecero incontrare diverse altre volte
Giovanni d’Amalfi e il patronato in campo letterario dei mercanti
amalfitani. Il letterato fu esortato spesso dal cosmopolita e favolosa-
mente ricco amalfitano Pantaleone a tradurre «in latino... qualcosa
che si trovasse nei libri o nei racconti greci». Abbiamo già incrocia-
to il nobile Pantaleone inginocchiarsi in contrizione sulla porta di
San Paolo fuori le mura13. Era figlio di Mauro de Comite Maurone
e lontano cugino di Lupino. Il monaco esaudì il pio desiderio con la
sua opera più importante: il Liber de miraculis 14. Si tratta di una rac-
colta di quarantadue racconti ascetici greci imbottiti di episodi mi-
racolosi e prodigi attribuiti specialmente a reliquie. Le vicende sono
tratte soprattutto dal Pratum spirituale di Giovanni Mosco, compo-

11 Chiesa, 1995: 19.


12 Hofmeister, 1932. Berschin, 1989. Id., 2001.
13 Pantaleone fu attivo a Costantinopoli fin dai primi anni Sessanta, quando

commissionò le porte bronzee per Amalfi (Skinner, 2013: 218).


14 Bernhard Pez (1729: 78 sgg.) rinvenne il testo nel ms. Monacense Clm

4625, ma ne pubblicò solo il prologo. Hoferer (1884: 88 sgg.) pubblicò il primo


racconto. Come osserva Berschin (2001), Hoferer nutriva dubbi circa la prove-
nienza del testo che aveva editato e commise un errore toto caelo circa la sua da-
tazione. Solo le osservazioni che ha svolto circa la traduzione in latino sono anco-
ra condivisibili. Il suo lavoro è stato sostituito dall’edizione curata dal benedetti-
no boemo Huber (vedi Johannes Monachus, 1913), con 42 episodi basati sui sei
manoscritti allora noti. Le conclusioni di Huber sono state ulteriormente affina-
te in senso storico e genealogico da Hofmeister (1932). Lo studioso situa però il
Liber de miracoli in una data decisamente tarda (1080-1100), dato l’ormai avvia-
to declino amalfitano sia in madrepatria che nella metropoli bizantina (Hofmei-
ster 1932: 241). Neuhauser 1(997: 37-48) e Chiesa (1994: 162-163) hanno in
seguito segnalato altri codici. Attualmente, i manoscritti in questione sono undi-
ci e ricoprono un arco temporale compreso fra il XII e il XV secolo (Micolani,
2008). Redazioni parziali del Liber de miraculis esistono in alcuni manoscritti del
fondo principale della Biblioteca Nazionale di Napoli: VIII.B.10 (XIV secolo,
contenente anche una versione del Barlaam e Joasaph), VII.B.27, già Viennese 15.
174 LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI

sto verso i primi del VII secolo15. Dedicò il volume al suo mecena-
te, Pantaleone. Ciggaar ne fissa la redazione intorno al 117016. Tut-
tavia, nella dedica al mercante-nobile amalfitano, Giovanni d’Amal-
fi ne cita il titolo aulico bizantino di disipato. Poiché Pantaleone vi
entrò in possesso nel 1087, questa data costituisce il terminus post
quem per l’edizione del Liber de miraculis. Il terminus è confermato
dall’assenza nel prologo di alcun riferimento all’amico Lupino, de-
funto proprio nel 108717.
Le traduzioni di Giovanni d’Amalfi sono condotte secondo cri-
teri fortemente innovativi rispetto a quelli normalmente impiegati
dai predecessori altomedievali. Singolare è anzitutto la scelta dei te-
sti, rispondente a interessi genuinamente narrativi: pur rimanendo
senza eccezioni nell’ambito della letteratura agiografica, i temi pre-
diletti sono le trame romanzesche, le apparizioni, le rivelazioni e le
leggende in cui fenomeni naturali trovano spiegazione in interventi
soprannaturali. Minore spazio trovano i contenuti di stretta attinen-
za religiosa. Essendo il testo finalizzato soprattutto alla pastorale lai-
ca, alcune storie hanno per protagonisti marinai e commercianti e
sviluppano temi caratteristici della devozione e dell’ideologia mer-
cantile medioevale al passaggio del primo millennio18.
Inoltre, Giovanni d’Amalfi abbandona la tradizionale traduzione
verbum de verbo, perseguita quasi senza eccezione dai traduttori tar-
do antichi e altomedievali, ponendo l’attenzione sulla narrazione e
non sul dettato testuale. Sviluppa così il file rouge avviato dai tradut-
tori napoletani dei secoli IX-X19 e già visto all’opera in Leone di
Amalfion sino ad approdare a una vera e propria letteratura della
traduzione che più tardi divenne un genere molto popolare. Tutta-
via, le versioni latine di Giovanni d’Amalfi sono di livello letterario

15 Sono venti gli episodi tradotti dal Pratum spirituale. Gli altri si riferiscono
a detti e fatti dei Padri del deserto. Entrambe le matrici narrative erano probabil-
mente riunite in una redazione ampliata del Pratum (ora andata perduta) che for-
se era nella disponibilità di Giovanni.
16 Ciggaar, 1995: 137.
17 Georgiou, 2015: 17.
18 Si veda quella imperniata su Cristo, la più lunga fra quelle comprese nel Li-

ber de miraculis. Vedi Johannes Monachus, Huber (a cura di), 1913.


19 McKitterick, Reuter, 1999: 192.
LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI 175

mediocre rispetto a quelle dei predecessori napoletani perché il suo


stile più che derivare da una cosciente evoluzione stilistica è indot-
to da costrizioni dovute all’età, alla fretta e alle esigenze espresse dal
nuovo pubblico20. Forse è anche per queste ragioni che l’opera, pur
appartenendo a un genere letterario molto amato nel Medioevo, eb-
be circolazione non rispondente alle aspettative21.
Nel prologo alla sua opera più importante per dimensione e qua-
lità letteraria, il Liber de miraculis, Giovanni d’Amalfi mette le ma-
ni avanti scusandosi per aver redatto «un piccolo lavoro». Anche
scrivendo una semplice lettera se ne stilano bozze che vengono poi
riviste per arrivare alla versione definitiva. Lui non ha avuto questa
opportunità a causa dell’età avanzata, di occhi sempre più appanna-
ti e di reni doloranti. Se avesse avuto l’occasione di operare una re-
visione stilistica, sarebbe certamente stato in grado di trovare paro-
le armoniose e di impiegare uno stile piacevole nella scansione del-
le parole. Con un parallelo che contraddice l’esibita modestia, con-
clude manifestando tutta la sua invidia per il profeta Geremia che
dettava i testi a un notaio, li revisionava e faceva poi redigere i ma-
noscritti agli scribi. «Io non ho avuto questa possibilità, perché do-
ve vivo non solo non c’è alcun notaio o scriba, ma nemmeno una
persona che capisca anche solo una parola latina», si compiange22.
A proposito dello stile sollecitato dall’audience, va detto che Gio-
vanni d’Amalfi si relazionava a una comunità di commercianti laici
interessata non tanto a testi devozionali e di meditazione religiosa
quanto a scritti incardinati sugli sviluppi narrativi e sulla descrizio-
ne di prodigi23. Così, per venire incontro al palato del pubblico, an-
che quando racconta il manifestarsi del divino nel mondo fa atten-
zione a sviluppare temi almeno in parte di carattere commerciale e
a riprendere il gergo mercantile, comprese alcune parole greche la-
tinizzate24. Impiegò il latino non solo perché dominava la cultura
clericale ed era la lingua veicolare nella Chiesa Romana, ma perché

20 Merlini, 2013. Id. 2015.


21 Neuhauser, 1997: 37-48.
22 Johannes Monachus, Huber (a cura di), 1913: 1 sgg.
23 I testi di Giovanni d’Amalfi sono stati editi in: Huber, 1913; Ciggaar, 1976:

211-267; Chiesa, 1987: 879-903; Chiesa, Dolbeau, 1989: 909-951; Chiesa, 1995.
24 Vedi la sconfitta di Mesita in Johannes Monachus, Huber (a cura di), 1913.
176 LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI

l’audience di riferimento era costituita dall’élite multiculturale laica


degli occidentali in affari con l’impero bizantino.
I lettori di riferimento di Giovanni d’Amalfi erano molto diver-
si dai destinatari della traduzione di Leone, la leadership della comu-
nità dei fedeli appartenenti alla Chiesa latina. Entrambi i pubblici
esprimevano però una comune esigenza di alta comprensibilità e at-
trattività sostanziati da trama coinvolgente, esibizione del meravi-
glioso edificante, stile piano, semplificazione del testo ed elementa-
rietà dogmatico-teologica, pur senza indulgere nella sciatteria stili-
stica, reputata sconveniente per testi santificati25.
Giovanni d’Amalfi firmò come traduttore anche un testo sul de-
cesso e tre miracoli post-mortem di San Nicola26. La commissione
letteraria agiografica dei Comite Maurone sarebbe sottesa anche al-
la sua redazione in latino, seppur in forma anonima, delle vite di
una serie di santi chiave nella liturgia bizantina che si intendeva far
conoscere in Occidente: San Giorgio uccisore di draghi27, San Gio-
vanni l’Elemosiniere28 e San Giovanni Calibita29. Riscontrando af-
finità linguistiche, stilistiche e di contenuto, Chiesa e Dolbeau han-
no proposto di ascrivere a Giovanni d’Amalfi pure le versioni latine
delle Vitae di Epifanio di Salamina e di Anfilochio di Iconio30.
Sulla base di solidi raffronti, Berschin ha indicato in Giovanni
d’Amalfi, o quanto meno nell’ambiente letterario amalfitano di Co-
stantinopoli, l’autore della descrizione della megalopoli bizantina in

25 Merlini, 2013.
26 Per l’Obitus s. Nicolai vedi nota 41 a p. 115.
27 È custodito a Napoli, nel codice della Biblioteca Nazionale, già Viennese 15.
28 È conservato a Napoli, nel codice della Biblioteca Nazionale, già Vienne-

se 15. Hofmeister, 1924: 141 sgg. Il santo era anche protettore di una delle due
foresterie maschili amalfitane di Gerusalemme (Keller, 1994-2002: 13, nota 1).
La vita di Giovanni l’Elemosiniere tradotta da Giovanni d’Amalfi potrebbe rap-
presentare, secondo Edoardo D’Angelo (2009: 357-396), un possibile legame
fra la produzione agiografica amalfitana promossa dai Comite Maurone e l’ospe-
dale di San Giovanni a Gerusalemme con l’annesso xenodochium per i pellegrini,
fondato dalla stessa famiglia. Essi nascerebbero pertanto entro un humus amal-
fitano-cassinese.
29 Conservato a Napoli, nel codice della Biblioteca Nazionale, già Viennese

15. Hofmeister, 1924: 133 sgg.


30 Chiesa, Dolbeau, 1989.
LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI 177

lingua latina conosciuta come Anonymus Mercati. Si tratta della tra-


duzione o rielaborazione di un originale greco scritto dopo il 106331
e non più reperibile32. Il testo, vera e propria guida per il turismo de-
vozionale, illustra i santuari e le chiese ricchi di reliquie e icone che
affollavano la capitale imperiale intorno alla metà dell’XI secolo33.
Le descrizioni delle meraviglie architettoniche e delle liturgie sfarzo-
se si mescolano con quelle delle leggende edificanti e dei miracoli.
Haskins inserisce Giovanni d’Amalfi fra i monaci occidentali che
resero in latino scampoli di leggende e assiomi di teologia greca ap-
presi in viaggio34. Dato il contenuto strettamente collegato a Co-
stantinopoli, la loro finalità originaria era probabilmente ristretta al-
l’ambiente dei connazionali della capitale35, ma poi ebbero un cer-
to successo in tutto l’Occidente latino.
Secondo Pertusi, la venuta a Costantinopoli dell’ex abate di
Amalfion, Giovanni d’Amalfi, sarebbe da porre in relazione con la
necessità del monastero benedettino di garantirsi una base nella ca-
pitale anche in funzione di ottenere privilegi più consistenti; una
pressione che abbiamo già sottolineato menzionando la presenza
quasi contemporanea del monaco-traduttore Leone. Il suo prende-
re residenza nel centro dell’impero bizantino potrebbe anche essere
legato alla presenza dell’arcivescovo Pietro di Amalfi nella delegazio-
ne incaricata dei negoziati teologici e giurisdizionali con il patriarca
Michele I Cerulario. L’ultima eventualità apre scenari interessanti
circa il ruolo che potrebbe essere stato giocato dai benedettini atho-
niti all’interno delle laceranti controversie che portarono alla spac-
catura Est-Ovest. A quel tempo, i benedettini di Costantinopoli
non stavano solo questionando con i greco-bizantini per l’uso del
pane azzimo nell’Eucaristia o la validità della formula del filioque e

31 Ciggaar, 1976: 211-267. Id., 1996: 148.


32 Berschin, 1994: 241- 242. L’ipotesi è ripresa da altri autori quali ad esem-
pio Weigel, 1997: 200, 210, 212.
33 Mercati, 1936: 133-156. Ciggaar, 1976: 211-215 per la descrizione dei co-

dici esaminati, 216-232 per la datazione e il rapporto fra originale greco e tradu-
zione, 245-263 per il testo. Secondo Ciggaar, la guida di pellegrinaggio turistico
sarebbe stata redatta da un visitatore inglese.
34 Haskins, 1920: 604, nota 3.
35 Chiesa, 1995: 23. Id., 2004.
178 LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI

reso i loro monasteri delle roccaforti teologiche nei confronti della


Chiesa d’Oriente. Hanno al contempo tradotto testi agiografici gre-
ci in latino, contribuendo in modo sostanziale al processo attraver-
so cui la Chiesa Romana stava integrando le opere dei Padri greci
nella sua teologia36. Nell’enclave amalfitana di Costantinopoli sor-
gevano i monasteri del Santo Salvatore e di Santa Maria Latina, la
cui chiesa era denominata “Chiesa latina di Maria Deipara (cioè
“Madre di Dio”) degli amalfitani”, per distinguerla dalle chiese gre-
che ugualmente dedicate alla Madre di Dio37. Gli imperatori bizan-
tini furono prodighi di protezioni e privilegi per entrambi i luoghi
votati alla liturgia latina38.
Se diversi indizi spingono a considerare probabile che il monaco-
traduttore Giovanni intrattenesse rapporti con il monastero benedet-
tino sul Monte Athos39, la sua identificazione con Giovanni abate di
Amalfion richiederebbe una più salda documentazione. Pertusi la àn-
cora soprattutto all’omonimia40, alla comune opera di traduzione di
testi chiave della letteratura religiosa bizantina a fini transculturali e
al risiedere in un monastero costantinopolitano greco strettamente
collegato alla Grande Lavra e a Iviron41. Troppo poco42.
A una più attenta considerazione, l’identificazione appare poco
probabile per l’eccessivo lasso di tempo intercorso fra il presunto ab-
baziato (1035) e l’epoca supposta delle traduzioni (1070). Inoltre, si

36 Stephenson, 2010: 123. Merlini, 2013.


37 Janin, 1969: 583. Keller, 1994-2002: 2. Abbiamo già accennato all’identi-
tà di dedica fra le tre chiese-monastero che triangolavano l’inserimento dei bene-
dettini nel Cristianesimo orientale: “Deiparae seu Mariae Amalphitarum de Lati-
na” a Costantinopoli, “S. Maria de Latina ” a Gerusalemme e “S. Maria Amalfi-
tanorum” al Monte Athos (Merlini, 2015).
38 Belin, 1894: 18. Gariador, 1912: 93-96. Leib, 1924: 100-101. Janin, 1953:

582-583. Keller, 1994-2002: 2.


39 Falkenhausen, 2005: 115.
40 Giovanni d’Amalfi si qualifica come: «Johannes omnium monachorum sacer-

dotumque ultimus »; Giovanni abate di Amalfi si firma: «J(o)h(annes) hum(ilis)


mo(na)chus Amalfitanus». La segnatura di Leone, il traduttore della Narratio è in-
vece: «Indignus omniunque ultimus monachorium». Vedi Merlini, 2013.
41 Pertusi, 1963: 236-238.
42 Per una critica circostanziata all’identificazione di Pertusi, vedi Merlini,

2013.
LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI 179

dovrebbe concludere che Giovanni avesse nel frattempo perduto il


titolo di abate, fatto di cui però non si ha documentazione43. La già
menzionata ipotesi di Keller che Giovanni d’Amalfi possa essere l’a-
bate di Amalfion in carica nel 1017 e che a fine vita abbia lasciato
il Monte Athos per trasferirsi a Costantinopoli è al di fuori d’ogni
cronologia accertata. Beeson azzarda che il monaco-traduttore sia
vissuto fra il 950 e il 1050, ma in tal caso saltano diverse traduzio-
ni da lui autografate44.
Se non si sono ancora diradati gli interrogativi su singoli mona-
ci-traduttori quali Leone di Amalfion e Giovanni d’Amalfi, va ri-
marcato che le traduzioni uscite dallo scriptorium del monastero la-
tino sul Monte Athos avevano acquisito una fama così salda da in-
durre l’imperatore bizantino Isacco I Comneno a emanare, intorno
al 1058 (pochi anni dopo il Grande Scisma), una crisobolla in suo
favore, garantendogli proprietà ed esenzioni fiscali. L’imperatore
aveva scarsa dimestichezza con le lettere, ma prediligeva quanti se ne
nutrivano. In particolare, ammirava le versioni in latino di testi
agiografici greci redatte dai benedettini athoniti, sfruttava la legitti-
mazione ideologico-teologica al sentire religioso bizantino che ne
derivava ed era attento all’eco comunicativo che potevano suscitare
in Occidente45.

43 Chiesa, 2004.
44 Beeson, 1925. Vedi anche Passty, 1988: 149.
45 Zonaras, vol. 18, 1868: 7.9. Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos,

Papachryssanthou (a cura di), 1970: 239.31.


Un romanzo sul Buddha in veste
cristiana per l’audience occidentale

N ell’intreccio delle disparate lingue e culture in circolazione nel-


l’universo bizantino, anche altri monasteri del Monte Athos
erano impegnati nella reciproca conoscenza fra Oriente e Occiden-
te al di là delle dispute dottrinarie e di politica ecclesiastica. Il ceno-
bio di Iviron era molto rinomato per erudizione. Le opere a noi per-
venute dei monaci latini athoniti, come la suddetta Narratio, mo-
strano paragonabile levatura intellettuale e dignità morale. D’altra
parte, in quanto cenobio benedettino, Amalfion fu certamente un
centro propulsivo di cultura e religiosità come del resto molti altri
dello stesso ordine monastico1.
Questo tratto comune potrebbe in parte spiegare la perdurante e
intensa amicizia fra i due monasteri2, il georgiano e il latino, non-
ché alcuni parallelismi nelle loro storie. Secondo le fonti, le tradu-
zioni dal greco al georgiano attribuite a Eutimio, igùmeno di Iviron,
sono ben centosettanta. Si tratta di testi chiave della filosofia, teolo-
gia e letteratura greca resi nella lingua del suo paese d’origine per ar-
ricchirne la cultura e la spiritualità. Come abbiamo già osservato, la
spinta a tradurre in georgiano i Dialogi de vita et miraculis patrum
Italicorum di San Gregorio Magno fu forse dovuta ai vicini latini.
Giorgio l’Aghiorita lo testimonia nella Vita di Eutimio e al tempo
stesso ne spiega le ragioni. «La regola e gli insegnamenti di San Be-
nedetto, la cui vita e miracoli sono descritti nel Libro dei Dialoghi»
argomenta, siano il punto di riferimento della tanto apprezzata vita
ascetica dei «confratelli romani»3.

1 Pertusi, 1953: 11.


2 Martin-Hisard, 1991: 109-110.
3 Peeters, 1917-1919: 36.3. Volk, 2009: 88, nota 456.
182 UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA

Solo due sono le trasposizioni conosciute dal georgiano al greco.


Una di esse è il Balahvari, ossia il Barlaam e Ioasaf, la leggenda di
Buddha in veste cristiana4. Il romanzo venne redatto nell’universo
culturale caucasico, probabilmente a partire da una versione arabo-
musulmana di stampo sciita-ismailita del 775-7855. Questa, a sua
volta, riprendeva una parabola di origine forse giainista stilata in
sanscrito. Dal Caucaso, il testo fu portato in ambito bizantino, con
ogni probabilità direttamente al Monte Athos, dal padre di Euti-
mio, Giovanni l’Iberico, o dal generale-monaco Giovanni Tornicio,
suo illustre parente6. La Storia di Barlaam e Ioasaf racconta di un re
pagano indiano che rinchiude il figlio in un palazzo dove dolore,
vecchiaia e morte vengono censurati ed epurati. Intende protegger-
lo dai mali del mondo, sconfiggere la predizione secondo cui il ra-
gazzo si sarebbe convertito al cristianesimo e farne un grande sovra-
no. Il vivere in mezzo alle comodità, al lusso e ai piaceri non impe-
disce al principe Iosaf di prendere coscienza delle sofferenze della vi-
ta umana. Turbato, comprende allora che gli agi e le ricchezze tra
cui stava vivendo erano solo un’illusione effimera. Il giovane viene
quindi convertito al cristianesimo dal santo anacoreta Barlaam, fug-
ge dalla prigione dorata e si avvia a un percorso mistico in cerca del-
l’illuminazione capace di liberare l’uomo dalla sofferenza. Divenuto
eremita egli stesso, converte al cristianesimo il padre e i sudditi.

4 La traduzione in greco dell’edificante leggenda di Barlaam e Ioasaph è stata


tradizionalmente attribuita a Giovanni Damasceno (ca. 676-749) o al monaco Gio-
vanni del monastero di Mar Saba, in Palestina. La critica contemporanea converge
a conferirla ad Eutimio l’Athonita (Conybeare, 2007: 132-133). Alcuni manoscrit-
ti greci (per esempio ms. 137 della Bibliotheca Naniana, del XI secolo) attestano fin
dal titolo che la storia, portata nella città santa dal monaco Giovanni, era stata tra-
dotta dal georgiano in greco da Eutimio, «un iberico onorevole e pio». La sua ver-
sione è tuttora conservata sotto il titolo Historia Psychopheles (Lang 1966: 11-12).
L’attribuzione a Eutimio stata definitivamente documentata nell’edizione critica di
Robert Volk (2009). Va osservato di sfuggita che Volk argomenta anche, in modo
convincente, che Eutimio fu il vero autore in greco della Vita di Teodoro di Edessa.
5 Volk, 2009: 46. È l’unica versione ancora esistente della leggenda cristianizza-

ta. Ronchey, 2012. Cardini, 2013. Secondo alcuni studiosi, sarebbe anche esistita
una versione manichea prodotta in Asia Centrale fra il III e il VI secolo, probabil-
mente secondo un adattamento persiano o turco (Lang, 1957; Lach, 2010: 103).
6 Ronchey, 2012.
UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA 183

L’abate di Iviron editò il testo in greco verso il volgere del millen-


nio. Non operò una traduzione nel senso conferito attualmente al
termine. La storia in suo possesso era scarna e asciutta. Per renderla
accettabile al gusto dell’audience bizantina, Eutimio creò una strut-
tura narrativa. Inoltre, descrisse la vita del Buddha come un vero
passaggio fra culture, arricchendo il racconto con temi tratti dalla
psiche collettiva bizantina. Questi contemplavano esortazioni dot-
trinarie tratte da Giovanni Damasceno o ispirate ai Padri della Cap-
padocia, allusioni alla tragedia iconoclasta, richiami edificanti alle
esperienze monastiche ed eremitiche, excursus spirituali e morali
volti a commuovere il lettore e, infine, elementi di suspense per man-
tenerne vivo l’interesse. Il suggello del Monte Athos sulla leggenda
di origine orientale è contenuto in un’icona di fine XV secolo – pri-
mi del XVI secolo proveniente dalla Cattedrale di Santa Sofia a
Novgorod (Russia). Essa raffigura Sant’Atanasio l’Athonita fra Bar-
laam e Joasaf. Il leader di Agion Oros è tutto proteso a catechizzare
il figlio dell’imperatore dell’India, mentre il monaco eremita appro-
va con la sua benedizione.
Osserva Silvia Ronchey che può sembrare strano riscontrare tan-
ta perizia e famigliarità con la lingua greca da parte del “barbaro” cir-
casso Eutimio. In realtà, gli ostaggi delle aristocrazie a governo degli
Stati satelliti dell’impero bizantino erano tradizionalmente coltissi-
mi. Secondo la Vita di Giovanni ed Eutimio, il figlio ereditò il geor-
giano e il greco forbiti dal padre. Stando alle testimonianze degli ar-
chivi di Iviron, l’inizio della sua attività di traduttore e mediatore
culturale è nel 975, 4-5 anni prima della fondazione del monastero
da parte del padre e dello zio. Infatti sul Monte Athos esisteva già
una piccola comunità religiosa georgiana, una succursale della Lavra
di Atanasio situata a un miglio di distanza7. La traduzione di Euti-
mio risale al 1008 circa. Il più antico manoscritto greco è di poco
posteriore, essendo datato al 10278. Un manoscritto del XII-XIII se-
colo è tuttora conservato nell’archivio di Iviron (cod. 463)9.

7 Actes du Prôtaton. Papachryssanthou (a cura di), 1975: 84. Ronchey, 2012.


8 Kiev Biblioteca dell’Academia delle Scienze. Ucraina. V 3692
9 È comunque arduo determinare se Eutimio abbia effettuato personalmente

sia il lavoro di traduzione dal georgiano al greco che l’ampia lucidatura e abbelli-
mento del testo.
184 UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA

È ragionevole immaginare che Amalfion, in parallelo alla strate-


gia transculturale del cenobio partner (Iviron), abbia tradotto dal la-
tino al greco alcune opere reputate di particolare utilità per l’anima.
Nessuna però ci è pervenuta. È altrettanto logico ritenere che la di-
retta, interessata pressione imperiale e le esigenze dei mercanti amal-
fitani abbiano spinto il suo scriptorium a concentrarsi sulle edizioni
dal greco al latino.
La volutamente arcaizzante traduzione greca di Barlaam e Ioasaf
compilata da Eutimio ci può fornire qualche indizio supplementa-
re sui ponti costruiti dai benedettini athoniti fra la cristianità bizan-
tina e quella romana. Infatti, fu probabilmente proprio la sua ver-
sione a operare da riferimento per la cosiddetta Vulgata latina del
romanzo di Barlaam e Ioasaf redatta qualche decennio dopo a Co-
stantinopoli. Essa fu edita nel 1048-1049, nel sesto anno di regno
del basileus Costantino IX Monomaco e in contemporanea alla tra-
duzione della Narratio de Miraculo a Michaele Archangelo da parte
del monaco di Amalfion Leone.
La Vulgata latina fu a cura di un anonimo latino intento a «trar-
re qualcosa di memorabile dai libri greci», come «un’ape tra i fiori
variegati degli Achèi». Un amico fraterno e autorevole di nome Leo-
ne gli aveva posto in mano un antico10 libro di agiografia georgiana
scritto in greco chiedendogli di tradurlo in un latino semplice e pia-
no «come offerta a Dio e in memoria del santo Barlaam». Lo aveva
solleticato spiegandogli che si trattava «di un’opera sconosciuta, ri-
salente ai tempi dei tempi, mai tradotta e fino ad allora rimasta se-
polta nell’oblio». E che le vicende fiabesche di Buddha-Josaf risuo-
navano di mondi esoticamente remoti come «la Terra degli Etiopi,
detta anche degli Indiani». Peraltro, Buddha-Joasaf era già assurto
agli altari della santità nella Chiesa Georgiana11.
Come ha osservato Martínez Gázquez, il traduttore si mise
all’opera spinto anzitutto dall’intento di onorare lo stile di vita mo-

10 Volk spiega bene come il termine “antico” sia stato utilizzato generosamen-
te nel testo. Leone è convinto di portare all’amico un manoscritto molto antico,
ma in effetti esso avrebbe potuto avere tutt’al più una settantina di anni (Volk,
2009: 287, nota 36).
11 La prima traduzione latina datata è nel ms. VIII B 10, Biblioteca Naziona-

le di Napoli.
UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA 185

nastico12. Inoltre, impreziosì il testo con citazioni latine ed espressio-


ni poetiche ispirate per esempio a Virgilio13. Più di uno studioso ri-
tiene che Leone “il suggeritore” possa essere un benedettino di Amal-
fion14, forse lo stesso che aveva curato o stava redigendo la versione
latina della Narratio15. Come accennato in precedenza, nel 1047 la
presenza di benedettini amalfitani athoniti è attestata alla corte di
Costantino IX Monomaco16. In tal caso, Leone potrebbe aver porta-
to nella capitale quell’esemplare greco del romanzo con il nucleo es-
senziale della leggenda di Buddha dal suo monastero ad Agion Oros,
situato nei pressi di quello georgiano e di cui era confratello17.
Quanto all’anonimo traduttore, è ragionevole inferire che fosse
un latino di Costantinopoli18. Probabilmente faceva parte del mi-
lieu culturale amalfitano nella capitale19 o era addirittura un mona-
co di Santa Maria degli amalfitani del Monte Athos20. Alcuni stu-
diosi sostengono che il monaco Leone del cenobio benedettino sul
Monte Athos potrebbe non aver consegnato la versione greca del ro-
manzo sul Barlaam e Joasaf a un traduttore anonimo ma, essendo
un testo così importante e delicato, si sia accinto a tradurlo lui stes-
so21. Totalmente antistorico è invece il tentativo di identificare que-
sto Leone con il fondatore di Apothikon22.
Al di là dell’identità del traduttore di Barlaam e Buddha-Joasaf,
la sinergia fra Iviron e Amalfion nella trasmissione in Occidente del-

12 Martínez Gázquez, 1997: XVIII.


13 Id., 1997: XXIV–XXVI.
14 Volk, 2009: 88. Forster, 2012: 184, nota 35. Merlini, 2013.
15 Berschin, 2001.
16 Martínez Gázquez, 1997: XV.
17 Ronchey, 2012.
18 Martínez Gázquez, 1997: XV.
19 Id., 1997: XVII. McKitterick, Reuter, 1999: 192. Giustamente, Chiesa

(2004) nega ogni indizio che Giovanni d’Amalfi possa essere direttamente rela-
zionato con la versione latina del romanzo di Barlaam e Josaphat, che appare im-
prontata a criteri compositivi piuttosto dissimili.
20 Volk, 2009: 46. Lach, 2010: 103. Cordoni, 2010: 68. Per ipotesi alternati-

ve concernenti la paternità della traduzione vedi Peeters, 1931: 280; Siegmund,


1949: 257 sgg.; Dölger, 1953: 24, nota 1; Peri Pflaum, 1959: 179-180.
21 Fajfer, 2010a.
22 Id., 2010a.
186 UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA

la leggenda dimostra ulteriormente lo stretto collegamento e la si-


militudine di DNA culturale. Prova anche uno sforzo comune vol-
to a creare nell’universo cristiano una koinè culturale-religiosa con-
divisa. Fra l’XI e il XIII secolo, esso si tradusse in una profonda in-
fluenza letteraria e cultural-religiosa del monachesimo athonita non
solo sull’Europa bizantina ma anche su quella latina23.
L’entrata del fondatore del buddismo a pieno diritto fra i santi cri-
stiani attraverso una intricata e avventurosa catena testuale (India –
Georgia – Iviron e Amalfion sul Monte Athos – Costantinopoli – Oc-
cidente) dimostra l’apertura dell’universo cristiano greco-orientale al
buddismo e all’islamismo. Al tempo stesso, evidenzia la forza plasma-
trice dello stampo bizantino, collettore e riciclatore di religioni per
undici secoli nelle loro infinite varianti. Niente di strano, perché l’in-
segnamento del Buddha è stato interpretato come una filosofia, uno
stile di vita propedeutico e adattabile al cristianesimo non meno di al-
cuni insegnamenti dell’ebraismo o dell’antica filosofia pagana. Nella
vita di un giovane erede al trono di un remoto regno indoetiope, inu-
tilmente protetto dal padre e che arriva a misurarsi con la miseria
umana attraverso una svolta ascetico-spirituale, i musulmani prima e
successivamente i cristiani hanno rinvenuto e apprezzato alcuni signi-
ficati essenziali condivisi da sempre da individui consacrati a Dio e
quindi inseribili senza contraccolpi nei reciproci sistemi dottrinali24.
In ambito bizantino, diversi prìncipi medioevali si sono ispirati
all’esempio di Ioasaf, lasciando l’eredità di un trono per un eremitag-
gio25. Una miniatura del 1375 circa, contenuta in un manoscritto di
un’opera dell’imperatore Giovanni VI Cantacuzeno (1292- 1383),
mostra fino a che punto Buddha sia stato venerato sotto le vesti del-
l’anacoreta cristiano Ioasaf 26. La miniatura contiene, all’interno del-

23 Dölger, Weigand, Deindl 1943: 50. Bonsall, 1969. Volk, 2009: 47. Merli-
ni, 2015.
24 Merlini, 2015.
25 Un caso eclatante è quello del principe Giovanni, nipote dell’imperatore

Dusan, che ha portato all’estinzione la dinastia serba dei Nemanjić per aver scel-
to la vita monastica, nel 1381, ispirato dall’esempio di San Joasaf. Si fece tonsu-
rare proprio con il nome di Joasaf.
26 Voordeckers, 1967: 288-294. Djuri , 1987: 89-94. Guran, 2001: 73-121.

Drpic, 2008: 217-247.


UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA 187

la stessa cornice, un doppio ritratto di Giovanni Cantacuzeno. A si-


nistra, si fa raffigurare in vesti imperiali come il basileus; a destra, si
fa ritrarre con il modesto abito nero dell’eremita Ioasaf 27. Cantacu-
zeno fu il principale sostenitore dell’esicasmo durante la sanguinosa
controversia dottrinaria del XIV secolo e visitò il Monte Athos, nel-
l’anno in cui venne illustrato il manoscritto parigino, per celebrarne
la vittoria28. Per la nostra mentalità contemporanea, è quasi impos-
sibile comprendere la profondità dell’influenza esercitata da un pre-
stito dalla letteratura buddhista sugli uomini che hanno scandito la
storia cristiana di quel tempo, quali monarchi, leader ecclesiastici, fi-
losofi, scrittori, pittori e compositori di canti popolari e racconti.
In Occidente, l’affascinante Barlaam e Ioasaf è il testo matrice di
innumerevoli saghe cristianizzate sulla vita, la conversione e l’ascesi
di Buddha. A partire dalla traduzione latina dell’XI secolo, vennero
edite più di un centinaio di versioni essendo stato tradotto pratica-
mente in tutte le lingue nazionali europee. La storia venne inclusa
da Varagine nella Legenda Aurea. Ballate e sacre rappresentazioni
pubbliche fecero evadere il principe indoetiope da scriptoria e bi-
blioteche per inondare le piazze. E anche le corti principesche. Sul-
l’onda del trasporto per tutto quanto sapeva di bizantino e di orien-
tale, che aveva pervaso la corte medicea dopo il Concilio fiorentino
del 1439 per la tentata unione delle Chiese, furono addirittura Lo-
renzo il Magnifico e suo padre Piero de’ Medici ad interpretare i
ruoli di Ioasaf e del re Abenner, nel 1474, durante una sacra rappre-
sentazione mascherata29.
Così Barlaam e Ioasaf ottenne in Occidente non meno pubblico
che in Oriente30. Durante tutto il Medioevo, fu per diffusione il se-
condo romanzo fra quelli veicolati dalla koinè greco-bizantina a
quella latina e da qui alle lingue volgari. Il primo illustrava le mira-

27 Il doppio ritratto di Giovanni VI Cantacuzeno è contenuto nel Parisinus


Graecus 1242 della sua Disputatio cum Paulo Patriarcha Latino. Il manoscritto è
conservato presso la Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi, foglio 5V.
28 Strezova, 2014: 213.
29 Cicali, 2006: 57-70. La sacra rappresentazione andò in scena in San Mar-

co. Era basata sul testo drammaturgico Barlaam e Giosafat di Bernardo Pulci (con
sotto testo encomiastico nei confronti dei Medici). Vedi il testo in Pulci, 1516.
30 Sonet, 1949-1952.
188 UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA

bolanti avventure di Alessandro Magno nella costruzione del suo


impero asiatico e la campagna d’India, tradotte dall’arciprete Leone
più o meno nello stesso periodo31.
«Certo che se fosse stato cristiano sarebbe stato un grande santo di
Nostro Signore Gesù Cristo», si rammaricherà a fine Trecento Mar-
co Polo nel Milione, dopo aver narrato con trasporto la storia del
Buddha. Ignorava che, in realtà, questo “inglobamento” era già avve-
nuto tre secoli prima grazie a Iviron e probabilmente anche ad Amal-
fion. Da secoli, il fondatore del buddismo era venerato sia dalla Chie-
sa Ortodossa che dalla Chiesa Cattolica. Ma bisognerà aspettare il
1859 e un articolo, allora considerato scandaloso, di Edouard Labou-
laye per riconoscere che la popolare leggenda medievale sui santi cri-
stiani Barlaam e Ioasaf non era altro che la vita di Siddhartha32.
In virtù di due monasteri athoniti geograficamente periferici ma
culturalmente centrali, Buddha-Joasaf emerse dalla misteriosa e re-
mota India, favoleggiata come immensa e ricca al punto da scintil-
lare d’oro, per irrompere nella psiche collettiva occidentale fra i sog-
getti orientali fondativi della cultura latina, accanto alla guerra di
Troia e alla nascita di Roma a partire dalle vicissitudini di Enea. Nel-
la Cronaca universale (Σύνοψις ἱστορική) di Costantino Manasse (c.
1115/ 1130 - c. 1187), che comincia con la creazione del mondo e
finisce nel 1081, con la morte dell’imperatore Niceforo III Botonia-
te e l’avvento della dinastia Comnena, si racconta che gli indiani
«con la faccia nera» parteciparono alla guerra di Troia guidati dal-
l’imperatore Tantana. Così il cerchio Oriente-Occidente si chiuse33.
Invece, il cerchio Oriente-Occidente-Oriente entrò in cortocir-
cuito quando, alla fine del ‘500, i navigatori e i missionari portoghe-
si cercarono di esportare in India, da cui era partita, la vita del Bud-
dha cristiano. E, quando constatarono che gli indigeni sembravano
già conoscerlo, lo interpretarono per ispirazione divina. I gesuiti cer-
carono invece di evangelizzare i buddisti cinesi e giapponesi per
mezzo di una versione ridotta di del Barlaam e Buddha-Ioasaf.

31 Il titolo originario doveva essere probabilmente Nativitas et victoria Alexan-


dri Magni, come si evince dal manoscritto più antico (il codice Historicus, 3 del-
la Staatsbibliothek di Bamberga), vedi Pfister, 1941. Berschin, 2001.
32 Laboulaye, 1859.
33 Bekker, 1837.
L’enigma dell’aquila araldica
che svetta sulla cima del torrione

L’ elemento di maggior impatto visivo per chi visita la torre soli-


taria di Amalfion è il pannello araldico in marmo bianco posi-
zionato verso la sommità con un’aquila monocefala. L’impostazione
è a un tempo maestosa e ieratica. Raffigura il re degli uccelli in po-
sizione frontale e con ali dischiuse a volo abbassato (le penne delle
ali sono rivolte verso il basso), a indicare che ha appena toccato ter-
ra o sta per spiccare il volo. Il capo è rivolto (con lo sguardo verso la
sua sinistra; alla destra, cioè, di chi guarda) e il becco è chiuso. Le
zampe sono robuste e tenute serrate. Gli artigli poggiano su di un
basamento rettangolare ornato. L’aquila è rigida e impettita. Solo la
testa ruota, come fosse uno strigide. Fissa chi la sta guardando con
lo sguardo magnetico di un animale dotato della capacità di guar-
dare il sole in faccia1. Chi è aduso ai bestiari medioevali sa che que-
sta occhiata significa che l’aquila vede tutto, anche nel cuore degli
uomini, e per questo è capace di predire il futuro. Lo stile è forte-
mente ornamentale; basti osservare i dettagli stilizzati nel piumag-
gio e nelle penne caudali a forma di ventaglio. Sembra indossare una
veste cerimoniale con strascico.
Trattandosi di un monastero, viene subito da considerare che nel
cristianesimo medioevale l’aquila era immagine di ascesa e resurre-
zione. Impersonava la forza, la sovranità e la giustizia di Dio onni-

1 I bestiari medioevali raccontano che, per essere sicuro che gli aquilotti siano
davvero figli suoi, il padre li porta sempre più in alto, vicino al sole, e li obbliga
a guardarlo fisso. Riconosce come suoi discendenti quelli che riescono a soppor-
tare la prova senza battere le palpebre. Gli altri vengono rinnegati e uccisi. Come
riflesso dell’ideologia delle crociate, per molti teologi del XII e XIII secolo l’aqui-
la maschio impegnato a riconoscere i pulcini legittimi è Dio che considera figli
suoi soltanto quelli che credono in lui (Pastoureau, 2012: 168, 172).
190 L’ENIGMA DELL’AQUILA ARALDICA

potente. Inoltre, alludeva alla resurrezione di Cristo e dei suoi figli.


Era anche personificazione di Giovanni Evangelista. Ma per stile il
rapace di Amalfion non sembra una incarnazione dogmatica. Così
maestoso, imponente e severo, è piuttosto una figura araldica. L’or-
ganizzazione della formella entro cui è inserito ricorda molto quel-
la di uno scudo araldico.
A ben vedere però l’aquila del monastero athonita è una figura-
zione araldica molto singolare, perché non rispecchia la convenzio-
ne che la vuole ad ali aperte e spesso a volo spiegato, testa voltata
verso destra (dunque alla sinistra di chi guarda), zampe divaricate e
coda distesa verso la punta dello scudo2. Non ha poi nulla a che ve-
dere con l’aquila bi-teste tipica dell’impero bizantino che si propo-
ne continuamente alla vista del pellegrino sul Monte Athos. Il no-
stro volatile è quindi l’emblema di una ben specifica dinastia reale,
oppure di un sovrano, di una casata nobile, di uno Stato, di una cit-
tà. Scoprirlo ci può aiutare a penetrare nell’appassionante avventu-
ra di Apothikon-Amalfion.
Essendo il rapace di Amalfion sicuramente un’aquila di comando
medioevale, la caccia all’individuazione del potere al quale essa face-
va riferimento deve inevitabilmente iniziare scavando nell’antica Ro-
ma imperiale, dove incarnava anzitutto i due concetti di potenza e
immortalità. In quanto re degli uccelli, messaggero del sovrano degli
dei (Giove) e ministro dei suoi fulmini, l’aquila ha incarnato la supre-
mazia della città di Roma e del suo impero, come il potere militare
delle legioni e quello religioso del Pontifex Maximus. Dunque, è am-
piamente rintracciabile in monete, gioielli, stendardi militari e steli
funerarie. Troveremo qui le radici araldiche dell’aquila di Amalfion?
Il nostro rapace monocefalo, con assetto frontale, il capo di pro-
filo rivolto verso sinistra, ali sporgenti e decorate, penne abbassate,
zampe strette e becco chiuso imperversa sulle monete romane im-
periali. Per illustrarne la pregnante valenza simbolica e per com-
prendere se esista qualche parallelo con l’araldica svettante sul tor-
rione di Amalfion, scegliamo qualche esempio dal mare magnum
dei molti possibili. Partiamo dall’associazione aquila/potere. Sul re-
tro di un Asse di Tiberio, battuto dalla zecca di Roma verso la fine

2 Manno, 1907: 536-539. Guelfi Camajani, 1921: 575-577.


L’ENIGMA DELL’AQUILA ARALDICA 191

del suo comando (34-37 d.C.), il rapace è raffigurato con stile na-
turalistico. È eretto in posizione facciale, le ali sono dischiuse, il col-
lo è gonfio di adrenalina, lo sguardo fissa lo spettatore come il rapa-
ce di Amalfion ma è torvo e il becco è aperto come se fosse pronto
a colpire. È colto nell’atto di afferrare con forza un globo tra le zam-
pe sistemate a tenaglia3.
La medesima tipologia di aquila imperiale appare sul retro di un
Denarius di Vespasiano (69-79 d.C.), coniato dalla zecca di Roma,
e su una moneta di Nerva (96-98 d.C.). Nel primo caso, il rapace è
impresso ritto su un cippo ornato, forse funerario. La raffigurazio-
ne corrisponde molto a quella di Amalfion, a parte lo stile forte-
mente naturalistico e la sapidità più di oca che di sovrano degli uc-
celli. L’aquila di Nerva ha una postura simile, ma è più imperiale, ha
collo tozzo e le zampe aperte su un fulmine. È ancora più simile al-
l’aquila di Amalfion.
In quanto animale rappresentativo di Giove, nell’impero roma-
no l’aquila era reputata il tramite ideale fra cielo e terra. Dunque
fungeva da volatile psicopompo ed esprimeva la divinità e l’immor-
talità del sovrano. Giocava così un ruolo da protagonista nella ceri-
monia di apoteosi (il latino usa il termine consecratio, ossia consacra-
zione) che, da Augusto in poi, concludeva il funerale degli impera-
tori. Nell’acme del rito di consecratio /apothéosis, mentre l’immagine
di cera dell’imperatore svaniva tra le fiamme della pira funeraria, ve-
niva rilasciata un’aquila con l’incombenza di accompagnare l’anima
del sovrano nell’ascesa in cielo tra le altre divinità. In parallelo, ve-
nivano coniate medaglie commemorative con spesso sopra impressi
un altare con il fuoco sacro e un’aquila che prendeva il volo con il
fulmine. Monete siffatte sono numerose. Attraverso di loro, possia-
mo rintracciare i nomi di sessanta personalità che hanno ricevuto gli
onori dell’assunzione fra gli dei nel periodo che va da Giulio Cesa-
re a Costantino il Grande.
Sul retro di un Antoninianus di Caracalla (211-217 d.C.), la no-
stra aquila con testa rivolta verso sinistra e ritta su un globo è acco-
munata alla scritta CONSECRATIO. L’antoniniano aveva il valore di
2 denari (è infatti noto anche come doppio denario).

3 Ai lati del corpo, sono impresse le lettere S – C.


192 L’ENIGMA DELL’AQUILA ARALDICA

Un’aquila simile a quella di Amalfion è eretta a zampe aperte su


uno scettro e associata alla scritta CONSECRATIO su un Denarius
Sabina, dedicato alla moglie dell’imperatore Adriano. La moneta fu
coniata, nel 137 d.C., per la sua cerimonia di consecratio /apothéosis.
Diverse imperatrici o altre donne che avevano allacciato una stretta
relazione con un imperatore hanno ricevuto l’onore di un rito e un
decreto di consacrazione all’immortalità.
Rimaniamo in tema di apoteosi presentando uno spettacolare
cammeo del I secolo d.C. Qui l’imperatore Claudio ascende al cie-
lo cavalcando un’aquila che condivide diversi tratti con quella a
guardia del cenobio benedettino athonita. Il sovrano indossa la co-
razza di Giove e un mantello imperiale. Nella mano sinistra tiene la
cornucopia dell’abbondanza. La Vittoria alata lo sta incoronando
con l’alloro. Attraverso il volo a cavalcioni sul re degli uccelli, la re-
ligione romana dava forma tangibile all’impalpabile convinzione
che il sovrano fosse divenuto immortale4.
La maestosa aquila monocefala con le ali dischiuse a volo abbas-
sato e lo sguardo a sinistra è un simbolo romano imperiale che non
affolla solo la numismatica o la glittica. Tipico è l’ornamento in oro
con un’aquila (I-II secolo d.C.) conservato, ma non esposto, nel
Cleveland Museum of Art. È stato trasportato dall’Italia durante la
Seconda Guerra Mondiale. Un volatile che ricorda molto quello di
Amalfion campeggia sulla cosiddetta “Stele dell’aquila”: una colon-
na cultuale, del 200 d.C. circa, proveniente da Palmira (Siria). Il ra-
pace legittima un’iscrizione poggiandovisi sopra. Questa recita:
«Eretta da Zabd’ateh, figlio di Zebîdà Baidà»5.
Per tirare le somme, la particolare aquila di Amalfion con ali dis-
chiuse a volo abbassato e capo orientato verso la sua sinistra si ritro-
va nella simbologia romana che la voleva emblema della supremazia
imperiale e allegoria d’immortalità. Non è romana, ma rappresenta
un potere che affonda gli artigli nella romanità sia come legittima-

4 La gemma è conservata presso il Dipartimento delle Monete, Medaglie e


Antichità di Babelon. Quando fu acquisita da Luigi XIV, il soggetto fu erronea-
mente identificato come l’apoteosi del principe imperiale Germanico.
5 La stele è conservata presso il Dipartimento delle Antichità Orientali del

museo del Louvre di Parigi.


L’ENIGMA DELL’AQUILA ARALDICA 193

zione, sia come scelte stilistiche di arte alla maniera antica. Essa pro-
clama la sua sovranità svettando solenne dalla sommità della torre
del monastero. Ma di quale autorità medioevale era l’emblema?
Dopo la caduta della Città Eterna e del suo impero, l’aquila (sin-
gola o bicefala) venne impiegata da tutti i sovrani che aspiravano a
ripercorrere le gesta degli antichi imperatori e a ripristinare la gran-
dezza dell’impero romano. Venendo al periodo di fioritura di Amal-
fion, viene spontaneo ritenere che la sua insegna, medioevale di tra-
dizione romano-imperiale, possa aver rinverdito il potere dell’Impe-
ro d’Occidente e la fedeltà ad esso, dato che il monastero benedet-
tino athonita era parte integrante di quell’ecumene. Nel Medioevo
centro-europeo, l’aquila possedeva molto raramente un’accezione
psicopompa e apotropaica contro le forze del male (il secondo aspet-
to che abbiamo riscontrato nella simbologia romana). Veniva so-
prattutto associata all’idea di forza, sovranità e dominio. Nei bestia-
ri medioevali questo uccello è reputato invincibile, al punto da con-
tendere al leone il titolo di re degli animali6. In questa veste, coro-
nava obbligatoriamente gli scettri regali sulla falsariga dello scipio di
cui erano dotati i consoli e che veniva assegnato ai generali romani
durante il trionfo7. Anche nel Medioevo, lo scettro sovrapposto con
l’aquila va ad annoverarsi fra le insegne di vittoria degli imperatori,
garante dell’immancabile trionfo e dell’eternità del loro regno8.
Alla ricerca di un potere imperiale medioevale della penisola ita-
lica con vigorose aspirazioni neo-romane, non possiamo che dirige-
re l’indagine su Federico II di Svevia. In effetti troviamo alcune cor-
rispondenze fra l’emblema di Amalfion e l’aquila riprodotta sull’Au-
gustale d’oro coniato dalle zecche di Messina e Brindisi a partire dal
1231-1232, il periodo di massimo splendore per il monastero bene-
dettino athonita.
Questa moneta è tra le più affascinati, eleganti, note e studiate
dell’intero Medioevo europeo. L’aquila romana monocefala e rivol-
ta appare circondata dalla scritta: + FRIDERICUS. Come ha osser-

6 Pastoureau, 2012: 172.


7 Horstmann, 1966: 18-21. Lucchesi-Palli, 1991: 191-196. Schiavone, 2001:
20.
8 Maccormick, 1986 (rist. 1990): 129-130.
194 L’ENIGMA DELL’AQUILA ARALDICA

vato Lucia Travaini, la stretta associazione fra il rapace e il nome


proprio che la recinge ci rivela che non solo il logo degli Hohenstau-
fen era imperniato sull’aquila, ma Federico stesso si considerava l’a-
quila, come Giove9. Sul dritto, il sovrano viene raffigurato (con ri-
tratto giovanile) a foggia di busto imperiale romano antico (non
medioevale), con corazza, mantello cesareo e corona d’alloro. La
scritta non può essere più eloquente: IMP(erator) ROM(anorum)
CAESAR AUG(ustus), vale a dire il titolo del sovrano e non il suo
nome proprio10. L’Augustale rappresentò un punto di svolta nella
monetazione medievale occidentale. La tecnica grafica, l’approccio
stilistico, il procedimento di lavorazione, l’ispirazione all’ideale clas-
sico e la scelta iconografica di sfruttare il portato simbolico dell’a-
quila del comando si conformavano alla monetazione classica del-
l’Impero Romano e, in particolare, intendevano far ricordare gli au-
rei imperiali. Questa moneta anticheggiante è stata infatti concepi-
ta per accreditare lo Stupor Mundi, dentro e fuori il Sacro Romano
Impero, quale legittimo successore di Cesare Augusto11. L’impatto
grafico e l’intento di rappresentanza si coniugavano alla scelta di
conferire un alto valore all’Augustale anche per il suo elevato conte-
nuto di metallo prezioso12.

19 Coerentemente, Manfredi, figlio di Federico II, si considerava filius aqui-


lae e si palesò come tale su un tarì d’oro del Regno di Sicilia, raffigurandosi come
un uomo nascente dal corpo augusto di un’aquila ad ali spiegate.
10 Garampi, 1766, Appendice I, nota 2. Sambon, 1913: 25- 33.
11 Gli studiosi non concordano sul sovrano del Sacro Romano Impero che so-

stituì definitivamente l’aquila monocefala tradizionale con l’aquila bicipite. Alcu-


ni suggeriscono Enrico VI di Svevia (imperatore dal 1191 al 1197) che sarebbe
anche il primo ad averne determinato con precisione il carattere araldico, stabi-
lendone il colore in nero in campo d’oro (Gerola, 1934). Altri storici sottolinea-
no come turning point lo stemma, con l’aquila bicefala e bicipite timbrata con la
corona imperiale, scelto dall’imperatore Federico II nel 1250 (Reiske, 1829. Mai-
re Vigueur, 1998: 38). Altri ancora rimarcano il gesto di Ottone IV che, dal mo-
mento della sua incoronazione (1433), sostituì definitivamente l’aquila monoce-
fala tradizionale con quella bicipite. Approfonditi studi di confronto tra l’aquila
monocefala e quella bicipite sono stati svolti da Gritzner (1902: 58), Korn
(1966), Id. (1969) e Hye (1973).
12 Travaini, 2003. L’operazione ebbe successo perché la moneta riportò ordine

nella circolazione monetaria nel regno di Federico II ed ebbe ampia diffusione in


L’ENIGMA DELL’AQUILA ARALDICA 195

Dal punto di vista stilistico, l’Augustale d’oro di Federico II di


Svevia è un gioiello d’arte che in Italia anticipa l’influenza artistica
del mondo greco-romano già nel XIII secolo, due secoli prima che
il Rinascimento si affermasse nel resto d’Europa13. L’uccello ripro-
dotto sulla moneta, però, si differenzia da quello di Amalfion per il
corpo posizionato tre quarti a sinistra, ali aperte e testa retrospicien-
te rivolta verso l’alto. Inoltre lo stile, per quanto ricalcante le manie-
re antiche, è totalmente diverso.
Rivolgendo l’indagine sull’araldica imperiale medioevale dal Sa-
cro Romano Impero, non riscontriamo alcuna similitudine signifi-
cativa fra l’emblema di Amalfion e le aquile impiegate nei suoi di-
versi periodi. Il rapace athonita sembra piuttosto trovare migliori
corrispondenze con quello innalzato su stendardi e gonfaloni dalla
più irriducibile alleanza contro quell’impero e il suo sovrano Fede-
rico I il Barbarossa: la Lega Lombarda. Appare in un sigillo del 1173
(ma è ad ali spiegate) ed è denominata “guelfa con il capo rivolto”.
La qualifica di “guelfa” le viene in contrapposizione a quella impe-
riale “sveva”, rivolta alla propria destra (e sempre ad ali spiegate)14.
Questo simbolo d’autorità è chiaramente derivato da quello roma-
no e, nel disfarsi del Sacro Romano Impero, continuò a giocare un
ruolo preminente nell’araldica di quelle regioni che una volta ne fa-
cevano parte, al punto da essere innalzata come insegna perfino
quando esse si contrapponevano militarmente al potere imperiale.
L’aquila guelfa della Lega Lombarda ha però punti di contatto trop-
po vaghi con quella di Amalfion e finora non è emerso alcun colle-
gamento documentale fra le alleanze militari costituite tra alcuni co-
muni dell’Italia Settentrionale e il cenobio latino athonita.
Per farla breve, l’aquila di Amalfion non è l’emblema di un po-
tere politico imperiale dell’Occidente medioevale. E neppure delle
forze che si sono ad esso opposte. Possiamo rispondere a Pertusi, il

Europa, al punto da divenire tra i principali mezzi di regolazione delle transazio-


ni internazionali. L’affermazione fu dovuta anche alla grande novità secondo cui
gli Augustali venivano spesi a numero senza la necessità di pesarli, come normal-
mente avveniva per i tarì che, non di rado, venivano tagliati in più parti.
13 Kowalski, 1976.
14 Bascapè, Del Piazzo, 1983: 78.
196 L’ENIGMA DELL’AQUILA ARALDICA

quale ritiene che «potrebbe essere interessante stabilire a quale fami-


glia gentilizia italiana appartenne tale stemma; ci direbbe qualche
cosa di più sulla storia del monastero»15, segnalando che non appar-
tiene a nessuna.
Il rapace che si erge sulla torre del cenobio benedettino athonita
può forse trovare saldi riscontri nell’araldica di qualche città o regio-
ne italiana con radici medioevali e ascendenza romana? A onore del
vero, l’aquila “guelfa” con ali dischiuse, a volo abbassato e capo ri-
volto è stata raramente impiegata come logo civico, dove è decisa-
mente più presente quella ad ali ben spiegate, zampe aperte e che sta
fissando verso destra. La nostra aquila compare sullo stemma della
città di Augusta, fondata da Federico II. Contrassegna l’emblema
araldico della Provincia Regionale di Caltanissetta ora Libero Con-
sorzio Comunale di Caltanissetta. Appare nel blasone del Comune
di Chiauci (in Provincia di Isernia), coronata e posizionata su due
chiavi collocate a croce di S. Andrea16. Ma le corrispondenze non
sono significative. Non esistono correlazioni neppure con Amalfi,
città di riferimento del cenobio in esame, e con le insegne dei diver-
si poteri che l’hanno caratterizzata in epoca medioevale. L’attribu-
zione dell’aquila alla città marinara è destituita di ogni fondamen-
to17. Così come non è lo stemma di Benevento, di cui mancano per
altro tracce per il periodo di Pandolfo II18.

15 Pertusi, 1963: 233, nota 54.


16 Il Molise conobbe le distruzioni bizantine-ostrogote poi, con la dominazio-
ne bisecolare dei Longobardi, fu annesso al Principato di Benevento; seguirono i
Normanni.
17 Pertusi, 1963: 233, nota 54. Keller, 1994-2002: 16, nota 1.
18 Pertusi aveva coltivato qualche speranza osservando che l’aquila ha la for-

ma dello scudo sannitico (1963: 233, nota 54).


Eloquente testimone
della benevolenza imperiale

S e i riscontri con l’araldica del Medioevo occidentale sono delu-


denti, dobbiamo provare a guardare ad est, verso la koinè impe-
riale bizantina. E troviamo che l’aquila di Amalfion si sposa perfet-
tamente con quella raffigurata sull’emblema dei Comneni, sia per
forma che per stile. Questa dinastia resse le sorti dell’impero bizan-
tino fra l’XI e il XII secolo, guidandolo a riacquistare vigore e po-
tenza, tanto che il periodo viene definito dagli storici come la “Ri-
nascita dell’Impero”. Successivamente i Comneni governarono sul-
l’Impero di Trebisonda per oltre due secoli e mezzo (1204-1461).
La perfetta corrispondenza fra l’aquila monocefala di Amalfion e
quella imperiale dei Comneni è verificabile sia a Istanbul, loro capi-
tale dal 1057 al 1185, che a Trebisonda, loro capitale quando gover-
narono uno degli Stati nati dalla frantumazione dell’impero bizan-
tino. A ben vedere, l’aquila comnena guarda a Oriente per chi la os-
serva ed è da essa scrutato. Esprime quindi anche direzionalmente
la potenza dell’impero bizantino e sui suoi domini.
A Istanbul, l’aquila comnena faceva mostra di sé su una formel-
la in marmo bianco murata nella parte interna della porta d’accesso
alla fortezza Yedikule (la fortezza delle sette torri). Era tra i lasciti di
un restauro del fortilizio in epoca Comnena. Proveniva probabil-
mente dall’imponente Porta Aurea che costituiva il passaggio trion-
fale riservato ai sovrani bizantini quando attraversavano in corteo le
mura teodosiane per accedere in città1. L’importanza simbolica di
questo ingresso è testimoniata dai continui abbellimenti architetto-

1 Dindorf (a cura di), Chronicon Paschale, 1832: 590 e 693. Constantinus Por-
phyrogenitus, 1829: 414, 438, 498, 500, 506. Bekker, 1838: 432. Hase, 1828:
158. Tsangadas, 1980.
198 ELOQUENTE TESTIMONE DELLA BENEVOLENZA IMPERIALE

nici operati nel corso dei secoli2. Per molto tempo questa aquila im-
periale bizantina si è contraddistinta per la solitaria grandeur ormai
impiegata solo nell’osservare con distacco ieratico il frenetico pas-
saggio del traffico. Essa è ancora descritta nelle guide turistiche3, i
visitatori non smettono di darne la caccia4, ma fu smurata e rubata
in una notte del marzo 2009. Oppure prese il volo.
Sempre a Istanbul, possiamo ammirare l’aquila dinastica dei
Comneni (ma con il capo che guarda a destra) a Bedesten, nucleo
fondante del Gran Bazar. Essa è situata sopra l’architrave esterno del-
la porta orientale, quella degli Orefici (Kuyumcular Kapisi). Nella ca-
pitale ottomana, i bassorilievi bizantini con l’aquila di commando
comnena sono stati dunque recuperati e incorporati, con funzioni
simboliche di controllo, su accessi a luoghi chiave della città5.
Siamo abituati ad associare l’impero bizantino all’aquila bicefala,
possibilmente nera in campo oro6. Ma è un’innovazione araldica
che si stabilizzò successivamente. Una volta al potere a Costantino-
poli, i Comneni utilizzarono la gloriosa aquila romana a testa singo-
la per legittimarsi quali successori degli imperatori della Città Eter-
na. Al tempo stesso, il fondatore della casa regnante, Isacco I Com-
neno, iniziò a introdurre la versione bicefala quale insegna imperia-
le volta a simboleggiare l’unione fra la Roma dell’Est e la Roma del-
l’Ovest7. Nel tempo, riservò all’aquila monocefala il ruolo di emble-

2 Dalbon, 2014: 8.
3 DK Eyewitness Travel Guide, 2016: 117.
4 “Yedikule gate in the land walls – where is the eagle?”, https://www.tripad-

visor.com/ShowTopic-g293974-i368-k6926532-Yedikule_gate_in_the_land_
walls_where_is_the_eagle-Istanbul.html.
5 Freely, 2000: 172. Freely, Sumner-Boyd, 2010. Per Müller-Wiener (1977:

345), la presenza dell’aquila comnena dimostrerebbe che il bazar coperto fu in


origine una struttura bizantina. Ma è anche possibile che gli ottomani, usi a sfrut-
tare resti bizantini per erigere nuove costruzioni, abbiano preso l’aquila da un’al-
tra struttura per impiegarla nell’edificazione del bazar.
6 Vespignani, 2006.
7 La ragione del cambiamento è racchiusa in un racconto popolare privo pe-

rò di sostegni documentali. Il basileus sarebbe stato influenzato dalle tradizioni lo-


cali della natia Paflagonia (un’antica regione costiera dell’Anatolia centro-setten-
trionale), circa una mitica bestia (il Haga): un’aquila gigante a due teste che tene-
va facilmente un toro tra gli artigli. Isacco Comneno assunse l’Haga come una
ELOQUENTE TESTIMONE DELLA BENEVOLENZA IMPERIALE 199

ma personale del sovrano e della sua dinastia. Troppo attraente era


il simbolismo che alludeva al potere monocratico “ricevuto dall’al-
to” e dunque esercitato per volontà divina8. Quando, verso il 1152,
il principe Isacco, il preferito dell’imperatore Alessio I Comneno,
ottenne la carica onorifica di Sebastokrator 9, decise di far raffigura-
re un’aquila monocefala nella chiesa del monastero consacrato alla
Theotokos Kosmosoteira di Pherrai (Evros, nella Grecia settentrio-
nale), spazio sacro e sacrario famigliare10.
Sarà solo la casa regnante dei Paleologi ad adottare con linearità
l’aquila bicefala d’oro quale tema-simbolo dell’imperatore e dei
membri di alto rango della sua dinastia. Essa contraddistinse questa
famiglia a partire da Michele VIII (basileus dal 1259 al 1282) e ne
decorò il trono. Fu introdotta nell’apparato numismatico bizantino
soltanto da Andronico II (basileus dei romei dal 1282 al 1328),
dunque con oltre un secolo di ritardo rispetto agli esempi centro-
europei11. Eppure, l’aquila monotesta non scomparve neppure con
i Paleologi. Proprio Michele VIII non mancò di farsi raffigurare con
un souppedion (un cuscino sotto i piedi imperiali), dove è rappresen-
tato siffatto rapace12.
Persa Costantinopoli, i Comneni portarono con loro l’aquila
araldica monocefala ad ali sporgenti nell’Impero di Trebisonda. Es-
sa svetta ancor oggi sulla basilica di Santa Sofia, ora adibita a mu-
seo. Alta sopra la facciata meridionale, essa si erge sulla chiave di
volta dell’arco che corona il portale centrale13. L’aquila guarda ver-
so est. È dunque emblema dell’autorità statale imperiale, ma anche

rappresentazione del suo potere e della protezione che avrebbe accordato alla po-
polazione. A sua volta, queste leggende locali potrebbero aver trovato ispirazione
nelle “rappresentazioni in pietra” dell’aquila a due teste presenti nelle sculture it-
tite della regione (Zapheiriou, 1947: 21-22. Köse, 2012: 174).
18 Cardini, 1987: 38-43. De Champeaux, 1981: 391-392.
19 Magdalino, 1993: 181.
10 Ousterhout, 2009: 159. Isacco ne scrisse anche il Tipikòn (Petit, 1908: 17-

75. Shevchenko, 2000: 782-858) e decise l’assetto tombale (Shevchenko, 1984:


135-139).
11 Gerasimov, 1949: 25 sgg., figs. 2 e 3. Bertelè, 1951: 73 e 110, nota 180.

Vespignani, 2006: 95-127.


12 Stričević, 1979: 39-40. Ousterhout, 2009: 160.
13 Eastmond, 1999: 226. Fallmerayer, 2002: 97. Köse, 2012: 177.
200 ELOQUENTE TESTIMONE DELLA BENEVOLENZA IMPERIALE

simbolo dello Spirito Santo; una promessa sia di protezione sulla


Terra che di salvezza eterna. Non per nulla, dalla posizione premi-
nente, domina un concentrato di ecclettismo simbolico. Si tratta di
scene bibliche in rilievo della Genesi (focalizzate sugli accadimenti
che hanno condotto alla cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden), asso-
ciate a una stella e alla luna crescente (emblema del regno di Ponto
e simbolo cultuale mitraico rimasto vivo per migliaia di anni nella
koinè del Mar Nero)14, arabeschi tipici dello stile Seljuk, grappoli
d’uva forieri di abbondanza e fertilità e creature apocalittiche (cen-
tauri e grifoni dalla testa umana) tese a sottolineare, con un imma-
ginario mitologico attinto dalla tradizione greca pagana, la debolez-
za della natura umana e la necessità della redenzione15. L’effige del
re degli uccelli è riproposta sulla parte alta del muro esterno dell’ab-
side meridionale centrale.
La basilica consacrata alla Divina Sapienza fu costruita fra il
1250 e il 1260, da Manuele Comneno I, (regnante 1238-1263), su
quella che era stata la terrazza di un tempio romano dedicato ad
Apollo. I due secoli trascorsi e il contesto eclettico di forte stampo
orientale ci spiegano l’evoluzione stilistica subita dalla nostra aqui-
la. Essa è anche meno maestosa di quella comnena costantinopoli-
tana e, soprattutto, di quella bi-teste che siamo abituati a vedere nel-
la capitale imperiale bizantina e al Monte Athos. Ma il cipiglio è al-
trettanto fiero e consapevole di essere un agente del destino.
L’aquila comnena è un’iconografia ricorrente in codici miniati
di produzione costantinopolitana legati al trono e alla corte. Essa
appare anche su tessuti in seta che racchiudevano reliquie o veni-
vano utilizzati per abbigliare la famiglia regnante, ecclesiastici di al-
to rango e ufficiali dell’élite di corte. Queste sete erano fra i pro-
dotti di maggior lusso, al pari dell’oro o di gemme preziose. Nei
drappi serici realizzati a Costantinopoli a partire dal VII-VIII seco-
lo, l’aquila è il più diffuso fra gli animali simbolici della sovranità
e della sua origine divina. Per questo motivo, la sua raffigurazione
è sempre molto accurata e proposta secondo schemi solenni e sti-
lizzati. Proviamo a mettere a confronto l’aquila comnena di Amal-

14 Sevim, 1993: 88. Köse, 2012: 177.


15 Fallmerayer, 2002: 95.
ELOQUENTE TESTIMONE DELLA BENEVOLENZA IMPERIALE 201

fion con alcuni capolavori coevi o leggermente precedenti che han-


no raggiunto l’Occidente latino e che si sono conservati sino ai no-
stri giorni.
Il motivo dell’aquila di Amalfion-comnena appare in formato
moltiplicato, come teorie di rapaci, sul “Sudario di San Germano
d’Auxerre”, un drappo di seta bizantina fabbricato intorno all’anno
1000. Per qualità della stoffa, grandiosità d’impianto, sfarzo del de-
coro e risonanza aulica, questo sciamito in seta è tra i più incante-
voli fra quelli fabbricati negli atelier imperiali di Costantinopoli16.
Il tessuto su fondo purpureo è iridescente e i suoi toni contrastanti
e cangianti fanno giocare la vista a rimpiattino col design dorato di
grandi aquile accoppiate a rosette multi-petali. L’opalescenza della
seta viene attivata dalla combinazione luce-movimento. Il tessuto
diviene così metamorfico: vibrante di apparenze mutevoli in una vi-
vacità di colori e riflessi. L’iridescenza della seta cum rosas et aquilas
è figurativamente ribadita sia nel variegato (e un po’ opprimente)
ornamento delle piume, sia nella grande perla che ciondola dall’a-
nello d’oro tenuto dal becco17. Il panno è stato a lungo considera-
to il sudario offerto nel 448 dall’imperatrice Galla Placidia per le
spoglie di San Germano, uno dei primi vescovi franchi, morto a
Ravenna nel 448. Sarebbe invece servito per il trasferimento del
corpo nel XI secolo18. Per silhouette, rigida posizione frontale, sti-
le maestoso, ampiezza del decoro e ornamentalità spinta nei detta-
gli stilizzati del piumaggio e della coda a ventaglio, le aquile mono-
cefale del “Sudario di San Germano d’Auxerre” ricordano da vicino
quella di Amalfion19.
Il capitolo 46 del Libro delle cerimonie 20 specifica l’elaborato ve-
stiario indossato da grandi autorità ecclesiastiche e importanti per-
sonalità civili durante le cerimonie religiose, tra cui tuniche, man-

16 Serra, 1938: 288. Muthesius, 1993.


17 Bissera, 2010: 140.
18 Evans, 1997: 226.
19 Dopo la rivoluzione francese, lo sciamito in seta è stato conservato nella

chiesa di Saint-Eusèbe d’Auxerre. Attualmente, è conservato nel Musée-Abbaye


Saint-Germain di Auxerre.
20 Il Liber de Ceremoniis Aulae Byzantinae è il testo che stabilisce l’insieme mi-

nuzioso delle norme cerimoniali dell’Impero Romano d’Oriente.


202 ELOQUENTE TESTIMONE DELLA BENEVOLENZA IMPERIALE

telli e casule21 in porpora e intessuti di fili aurei spesso contrassegna-


ti dal motivo decorativo dell’aquila monocefala comnena22. La stof-
fa serica e gli immensi rapaci tessuti in oro del paramento sacro det-
to «Casula ad aquile di Bressanone»23, di manifattura bizantina im-
periale di fine X secolo-inizi dell’XI, sono quasi identici a quelli del
“Sudario di San Germano d’Auxerre”. I due sciamiti in seta si richia-
mano l’un l’altro per tipologia delle aquile, scelte di design, senso di
stilizzazione, finezza di esecuzione, luminosità, sfarzosità e scansio-
ne delle pause24. La sopravveste “di Bressanone” avvolgeva come
una campana di tessuto vellutato e purpureo il vescovo impegnato
in una funzione sacra e ne trasformava ogni movimento in un gesto
ieratico. La casula ad aquila era essa stessa un agente attivatore di
una liturgia che si voleva tangibile e scenografica per rivelare e in-
scenare i misteri della fede.
Le medesime aquile, raffinato design, maestoso impianto com-
positivo e tecnica di realizzazione caratterizzano la parte laterale di
casula oggi conservata nell’Abbazia benedettina di Nonantola (Mo-
dena) e certo prodotta da una manifattura imperiale bizantina. In
questo sciamito, il motivo dell’aquila è inscritto entro grandi “ro-
te”25. Scoperta fortuitamente nel 2002, tradizionalmente questa
‘stoffa rossa’, come veniva semplicemente denominata, era utilizza-
ta per avvolgere le venerate ossa di San Silvestro I26.

21 La casula era la veste più esterna indossata dal sacerdote impegnato in una
funzione sacra. Casula in latino significa capannina, casupola.
22 Manara, 1981: 107-108. Panascìa, 1993. Muthesius, 1992: 102.
23 Il paramento sacro è anche detto “Casula di Sant’Alboino” (primo vescovo

documentato di Bressanone, in carica dal 975 al 1006), oppure “Casula di San-


t’Ermanno” (arcivescovo di Brixen tra il 1140 e il 1164). La casula a campana è
conservata presso il Museo Diocesano di Bressanone.
24 Serra, 1938: 288. Muthesius, 1993. Muthesius, 1997: 184, cat. n. M62.
25 Peri azzarda una datazione al VIII-IX secolo (Peri, 2006: 239-259).
26 La casula è custodita nel Museo Diocesano di Nonantola. Agli sciamiti di

fattura bizantina con aquile monocefale dalle ali dischiuse e capo rivolto a destra
fin qui presentati, possiamo aggiungere il cosiddetto “Manto di Enrico”, già con-
servato nel tesoro della cattedrale di Basilea. Nel 1534, gli abitanti della città lo
vendettero e se ne è persa ogni traccia. A testimonianza dell’abito liturgico è rima-
sta una miniatura del 1446, inserita nel registro dei feudi della diocesi di Basilea,
raffigurante un vescovo che lo indossa (Andergassen, 2004. Flury-Lemberg, 2006).
ELOQUENTE TESTIMONE DELLA BENEVOLENZA IMPERIALE 203

Le caratteristiche formali dell’aquila di Amalfion a derivazione


comnena trovano pieni confronti nella coeva produzione italica di
manufatti artistici quali sculture, mosaici e pitture, tutti iscrivibili
entro l’XI secolo - inizi del XII. Basti citare l’aquila inserita entro
una formella in marmo proveniente dal duomo di Sorrento e con-
servata al Museo Correale. Essa riprende con tutta evidenza il design
di stoffe seriche bizantine, a conferma del ruolo svolto da queste
nella trasmissione di motivi iconografici da Bisanzio all’Occidente
medievale27. Un ruolo di traghettatore culturale nel quale Amalfion
era particolarmente versato.
Tirando le somme dell’investigazione sui referenti araldici dell’a-
quila che spicca sulla torre di Amalfion, l’emblema può essere data-
to fra la metà dell’XI secolo e l’ultimo quarto del XII. È il segno tan-
gibile che la benevolenza della dinastia Comnena si è concretizzata
nella concessione del rango di monastero imperiale. Abbiamo già
presentato, a questo proposito, la crisobolla del 1081 emanata da
Alessio I Comneno. È questa l’epoca d’oro del cenobio latino, testi-
moniata anche dall’alto grado gerarchico fra i monasteri athoniti, il
possedimento di grandi tenute agricole e la proprietà di una nave
mercantile di grande stazza. L’aquila araldica è un ulteriore indizio
che, se vogliamo andare alla ricerca delle relazioni geopolitiche pri-
vilegiate di Amalfion, dobbiamo indirizzarci non tanto verso la ma-
drepatria tirrenica, quanto piuttosto verso la capitale bizantina.
La torre di Amalfion è simile a quella sull’arsanas di Zographou,
datata 151728. Dunque non si tratta di quella costruita né dai bene-
dettini beneventani, né da quelli amalfitani. È il torrione post-bi-
zantino eretto dalla Grande Lavra circa due secoli e mezzo dopo l’as-
sorbimento del monastero latino. Erano gli anni 1534-1535. I lavo-
ri furono finanziati dal voivoda moldavo Petru Rareş29. La lastra
con l’aquila dei Comneni può essere stata trovata in situ e rimonta-
ta in cima alla torre. D’altra parte, nessuno ha mai eseguito l’anali-
si del materiale di cui è costituita.

27 Mihályi, 1994: 148.


28 Essa non risale al 1474-1475 come ritenuto da diversi studiosi. Cfr. An-
droudis, 2012: 496.
29 Plested, 2010: 101.
Per tre secoli
nel cuore dell’Ortodossia

D alla fine dell’XI secolo, sappiamo ben poco del monastero be-
nedettino. Abbiamo soltanto la firma degli abati su documen-
ti ufficiali promulgati dalla comunità del Monte Athos. Da questi
sappiamo ad esempio che nel luglio 1089, l’abate Demetrio funse
da testimonio sulla decisione di procedere alla ricostruzione del ce-
nobio di Xenophontos1.
Nell’agosto 1087, Vito o Vitone sottoscrisse un atto utilizzando
lettere latine per esprimersi in lingua greca (Biton monachos ke ka-
thegoumenos tis monis ton Amalfinon ikia chiri ypegrapsa) 2. Era quin-
di un occidentale, amalfitano o meno, cresciuto probabilmente a
Costantinopoli e parzialmente bilingue: forse conosceva il greco
parlato, ma non quello scritto3.
L’abate Vito o Vitone è attestato nei documenti per un lungo pe-
riodo: tra il 1087 e il 1108, quando ricomparve su un atto athoni-
ta nel settembre di quell’anno. La Grande Lavra possedeva a Karyes
la piccola kellion di Prophourni, giudicata troppo angusta per acco-
gliere i monaci in visita. Chiese quindi una proprietà vicina, da
adattare allo stesso scopo. Trentaquattro igùmeni, fra cui quello be-
nedettino, accolsero la richiesta con un provvedimento ad hoc4.

1 Actes de Xénophon, Papachryssanthou (a cura di), 1986: I.207 e 24-25. Cfr.


Pertusi, 1963: 228.
2 Actes de Philothée, Regel, Kurtz, Karablev (a cura di), 1913: nota 1: 1 7,

1.154-155, 4, 1.73,78. Lemerle 1953: 553. Lavra 57 in Actes de Lavra, I. Lemer-


le, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 299. Pertusi, 1963:
228, nota 39. Morton, 2011.
3 Morton, 2011.
4 Actes de Philothée, Regel, Kurtz, Karablev (a cura di), 1913: nota 1: 1 7.

Rouillard, Collomp (a cura di), 1937: nota 52. Lemerle, 1953: 553. Lavra 57 in
206 PER TRE SECOLI NEL CUORE DELL’ORTODOSSIA

Un sigillo in piombo del XI secolo, conservato in una collezione


privata statunitense, riporta in greco la titolarità di Michele igùme-
no τῶν Ἀμαλφινῶν (di Amalfinon). Potrebbe trattarsi dell’abate del
monastero amalfitano sul Monte Athos, anche se non possiamo
escludere l’eventualità che si tratti di quello costantinopolitano5.
A quel tempo, Amalfion aveva vasti possedimenti in tutta la Gre-
cia settentrionale, dalla Macedonia Orientale alla Tracia, di fronte
all’Isola di Thassos. Il diritto a detenere una grande nave da carico
gli consentiva un contatto regolare con i Philochristoi di Costanti-
nopoli e probabilmente anche di Gerusalemme. Inoltre, fungeva da
volano per gli interessi commerciali e politici amalfitani nel Vicino
Oriente6. Veleggiando di ritorno verso l’Europa occidentale, le im-
barcazioni amalfitane importavano a Roma e a Ostia, e fino a Ra-
venna, Milano e Pavia, beni acquistati nei mercati di Costantinopo-
li o delle città portuali della costa siro-palestinese e del Nord Africa.
Si trattava soprattutto di una mercatura al minuto per le corti prin-
cipesche e per l’élite ecclesiastica7. Venivano commerciati oggetti
arabi ad alto valore aggiunto (tessuti, spezie, zucchero, cuoio e ce-
ra), capolavori di oreficeria bizantina o siriana e pellicce delle step-
pe. Roma, in particolare, consumava a fini di culto un’enorme
quantità di beni di lusso prodotti nei paesi islamici. Risale a quel pe-
riodo la strutturazione del cenobio athonita come complesso forti-
ficato difeso da un’alta torre quadrata e la creazione di veri e propri
magazzini e strutture portuali.
Possiamo rintracciare qualche testimonianza della funzione di
scalo verosimilmente assunta dal monastero nella rotta attraverso
cui i mercanti amalfitani esportavano nell’Europa Occidentale cali-
ci, croci bizantine, reliquie, candelabri e tessuti. Si tratta di due mo-
numentali, identici candelabri (alti 141 cm) a cui abbiamo già ac-
cennato. Sono conservati nella Grande Lavra e sono detti dai mo-
naci “i candelabri degli Amalfitani”. Vengono tuttora impiegati per

Actes de Lavra, I. Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970:


299. Pertusi, 1963: 229, nota 40.
5 Falkenhausen, in corso di stampa.
6 Keller, 1994-2002: 10.
7 Abulafia, 1997: 184.
PER TRE SECOLI NEL CUORE DELL’ORTODOSSIA 207

illuminare in permanenza uno dei luoghi più sacri della chiesa cen-
trale: la tomba del venerato fondatore, Sant’Atanasio. Svolgono
quindi un ruolo fondamentale nella drammaturgia della luce insce-
nata all’interno della cappella funeraria, un aspetto rilevante e par-
ticolarmente curato della liturgia bizantina.
I due candelabri mostrano la perfezione tecnica raggiunta nel
controllo della lavorazione dei metalli8. Anzitutto, sono dispositivi
compositi, fusi in unità multiple che compongono la base, il fusto
e il piatto. La base a forma di cupola è sostenuta da un telaio qua-
drato supportato da quattro zoccoli animali stilizzati. Il fusto è co-
stituito da anelli sferici sfaccettati biconicamente o a pilastrino. La
parte superiore si allarga a campana per sostenere un ampio disco
traforato con dodici portacandele9. Nei laboratori di alto artigiana-
to bizantino, stampi a pezzi poi ricongiunti erano il metodo più co-
mune per realizzare forme assai complesse. In buona sostanza, i
“candelabri degli Amalfitani” sono impianti compositi di illumina-
zione progettati per fornire luce in abbondanza e per generare gio-
chi ad effetto di luci/ombre.
I nostri candelabri rivelano una rara tecnica di intarsio di niello
sul bronzo10. Vantano forme geometriche pure, slancio verticale, ra-
ra eleganza delle proporzioni e virtuosismo senza pari nella decora-
zione astratta. Il ricco ornamento è reso tramite palmette orientaliz-
zanti. Due fregi sottili inquadrano una banda formata da scanalatu-
re classicheggianti e lettere cufiche a formare una vera iscrizione.
Con buona probabilità, i religiosi della Meghìsti Lavra non hanno
idea di aver collocato in uno dei punti più sacri della loro chiesa cen-
trale un’iscrizione che inneggia alla grandezza del Dio islamico11.
Le caratteristiche dell’ornamento, la tipologia dell’iscrizione cu-
fica atta a ricordare la potenza e l’onnipotenza di Dio e lo stile cal-

18 Questi capolavori sono stati investigati da Laskarina Bouras (1991: 19-26).


19 Il disco appare un’aggiunta posteriore.
10 Questa rara tecnica può essere riscontrata in un battente di porta dell’XI se-

colo di ambiente spagnolo islamico, recentemente venduto all’asta da Christie’s.


11 Malgrado alcune discrepanze, Helen Philon del Museo Benaki di Atene

suggerisce la seguente lettura dell’iscrizione: “AL-MULK-LILLAH ”. Essa può es-


sere interpretata quale: “La Sovranità è di Dio”, “Il Regno è di Dio”, “Tutto il po-
tere ad Allah”.
208 PER TRE SECOLI NEL CUORE DELL’ORTODOSSIA

ligrafico con gli alifs (la prima lettera dell’alfabeto arabo costituita
da un semplice tratto verticale) curvi iscrive questi due capolavori
nell’arte Fatimide della fine del secolo XI o degli inizi del XII.
Sono inoltre da prendere in considerazione anche due monumen-
tali candelabri in bronzo (alti 120 cm) utilizzati sempre nel katholi-
kon della Grande Lavra. Ognuno è stato forgiato in cinque sezioni
fuse individualmente per poi essere ricomposte: la base ornata da tre
leoni, le tre parti del corpo (composto da un elemento centrale ret-
tangolare con decorazione traforata a separare i due fusti) e, infine, il
disco con il candeliere. Le influenze islamiche sono evidenti in par-
ticolare nel ricco ornamento traforato e nello stile degli alti leoni che
sorreggono la base. Entrambi sono caratteristici dei bronzi selgiuchi-
di dei secoli XI e XII. Dopo aver studiato i candelabri, Paschalis An-
droudis li data al XII-XIII secolo12. Sulla base di confronti stilistici,
personalmente propendo per una datazione leggermente precedente.
Le opere d’arte che abbiamo presentato appartengono al periodo
di massimo splendore di Amalfion. La presenza di modelli orienta-
li nella decorazione delle due coppie di candelabri attesta che gli
amalfitani athoniti erano parte della rete commerciale attivata dalla
comunità benestante di commercianti conterranei di Costantino-
poli. Questa era in ottimi rapporti sia con il califfo fatimide, regnan-
te su una vasta area del Nord Africa e successivamente del Medio
Oriente nel periodo 909-1171, sia con selgiuchidi, la dinastia turca
musulmana che nell’XI secolo riunì la Persia, la Mesopotamia, par-
te dell’Asia Minore e la Siria (per altro in conflitto armato con l’Im-
pero d’Oriente). I mercanti amalfitani di stanza a Costantinopoli
erano anche ottimi mediatori nei rapporti commerciali fra questi
Stati islamici e il potere bizantino, vista la loro capacità d’importa-
re e introdurre a corte e nelle dimore nobiliari lavorazioni di alto ar-
tigianato fatimide e selgiuchide che godevano di grande prestigio
ma non erano di facile reperibilità. I candelieri ancora in uso alla
Grande Lavra sono testimoni di una rete che aveva come terminali
il Nord Africa e il Medio Oriente, si instradava a Costantinopoli per
poi irradiarsi nella penisola italica, il Centro Europa e la Spagna ara-
ba passando in parte per Amalfion. E viceversa.

12 Androudis, 2003: 177.


Il grande dimenticato dal papato?

N el periodo di fratture insanabili post Grande Scisma, i bene-


dettini athoniti non solo erano liberi di seguire la loro vita
ascetica sulla Santa Montagna ma, a costo di qualche screzio con il
papa di turno, erano in grado di partecipare a pieno titolo al suo go-
verno e di godere in pieno del patrocinio imperiale. Si ha notizia di
una ulteriore crisobolla, ormai scomparsa, rilasciata dall’imperatore
Giovanni II Comneno in un anno imprecisato fra il 1118 e il 1143.
Essa elargiva privilegi e nuovi territori al cenobio latino1.
La più antica prova documentale diretta del nome scelto per il
monastero dal gruppo benedettino subentrato ad Apothikon è la
consacrazione a Santa Maria degli Amalfitani. La dedica è riscontra-
bile in un atto riguardante il cenobio athonita di San Panteleimon2.
Nell’agosto 1169, il protos Giovanni e 27 igùmeni ufficialmente ri-
uniti in assemblea concessero il monastero abbandonato «dei Tessa-
lonicesi» a quello russo di Xylourgou, «vale a dire dei russi» (come si
legge). Il cenobio dei Tessalonicesi aveva conosciuto un passato glo-
rioso, divenendo “la casa principale tra quelle di secondo rango”. A
quel tempo, però, versava in completa rovina3. Il provvedimento
sancì la ricchezza e il potere della comunità russa sul Monte Athos
in quel momento4. Il nome dell’abate del monastero di Santa Maria

1 Lemerle, 1953: 553 sgg. Pertusi, 1963: 228-29. Dölger, 1924, I, 2, nota
1329. Lamerle, 1953: 553-554, Pertusi, 1963: 229. Falkehausen, 1993: 95-96.
2 Actes de Saint Pantéléèmôn in Lemerle, Dagron, Ćircović (a cura di), 1982:

83. Soloviev, 1933: 213-38. Charanis, 1971. Nastase, 1985: 290-292, 294. La
consacrazione alla Madre di Dio è presente anche nel racconto georgiano sul mo-
nastero benedettino. Vedi Martin-Hisard, 1991: 109 sgg.
3 Actes de Saint Pantéléèmôn in Lemerle, Dagron, Ćircović (a cura di), 1982: 14.
4 I monaci russi ricostruirono e ripopolarono la casa neo acquisita, «al fine di

servire Dio e soprattutto per pregare (“ύπερευχόμενους”) per l’imperatore». Vedi


210 IL GRANDE DIMENTICATO DAL PAPATO?

degli Amalfitani compare, in latino, tra i sottoscrittori del provvedi-


mento: “+ Ego M(?) p(res)b(yte)r et mo (nachus) et abb(as) S(an)cte
Mariae cenobii Amalfitanorum me subscripsi (sic) +”5. È stato posizio-
nato al quinto posto, dopo il protos e gli igùmeni della Grande La-
vra, di Iviron e di Vatopedi6. L’atto è conservato presso l’archivio di
San Panteleimon7. Ed è l’ultimo documento originale conosciuto
dove appare la firma di un abate di Amalfion8.
Tuttavia, verso la fine del XII secolo, un altro atto fa menzione
di Amalfion quale monastero di successo. Come abbiamo già accen-
nato, nel 1198 l’imperatore Alessio III Angelos assegnò ai monaci
reali Simeone e Sava il cenobio di Chilandari, per accogliere «quel-
li del popolo serbo che sceglievano la vita monastica». La posizione
gerarchica di Amalfion all’interno della fratellanza del Monte Athos
e presso il trono bizantino era talmente consolidata che i fondatori
serbi di Chilandari convinsero il protos e il concilio dei monasteri ad
appellarsi all’imperatore affinché concedesse anche alla loro comu-
nità lo status di cenobio autonomo, indipendente (anche dal protos
e dal vertice ecclesiastico) e imperiale sulla falsariga di quanto era già
stato concesso – oltre un secolo prima – agli altri cenobi non elle-
nofoni: il georgiano e l’amalfitano9.
L’entrata in campo di Chilandari rafforzò la “lobby” delle comu-
nità monastiche athonite non di lingua greca, volta a garantirne gli

Actes de Saint Pantéléèmôn in Lemerle, Dagron, Ćircović (a cura di), 1982: 14-18.
Attualmente, il cenobio è conosciuto con il nome del suo patrono, San Pantelei-
mon, o semplicemente “Rossiko”, dai rapporti speciali che intrattiene con il mo-
nachesimo russo (Vlasto, 1970: 302. Merlini, 2016).
5 Il nome dell’abate è quindi impossibile a leggersi. Soloviev, 1933: 220. Po-

trebbe essere M(anso?) o M(auro?). Blanz, Häger, Kaffanke azzardano un “Tho-


mas”. Vedi Blanz, Häger, Kaffanke (a cura di), 2011: 61.
6 Actes de Saint Pantéléèmôn in Lemerle, Dagron, Ćircović (a cura di), 1982:

82. Lemerle 1953: 554. Pertusi, 1953: 14. Id., 1963: 229.
7 Merlini, 2014. Id., 2016.
8 Acta praesertim graeca Rossici, 1873, n. 7: 76. Soloviev, 1933: 219 sgg. Ko-

rolevskij, 2009: col. 67. Lemerle, 1953: 554. Actes de Saint Pantéléèmôn in Lemer-
le, Dagron, Ćircović (a cura di), 1982: 82, nota 8. Pertusi, 1953: 12. Id., 1963:
229, nota 42.
9 Hilandar 3, Živojinović, Kravari, Ghiros (a cura di), 1998: I.10, 102-110,

in specie 108-109. Živojinović, 2005: 122 sgg. Morton, 2011.


IL GRANDE DIMENTICATO DAL PAPATO? 211

spazi nel “Giardino di Maria”. Esse si candidavano ad essere canali


preferenziali per l’accesso dei rispettivi popoli a Dio. Di contro, chie-
devano titoli imperiali di proprietà e la protezione diretta del trono
contro «la predazione dei funzionari fiscali», come si dolevano, che
di fatto si sostanziava in esenzioni fiscali. Inoltre, premevano affin-
ché la ratifica degli igùmeni non greci di nuova nomina spettasse al-
l’imperatore, piuttosto che al protos del Monte Athos. Si puntava
cioè a un rapporto diretto con la corona quale contrappeso al pote-
re del primo ministro athonita che, a giudizio dei monasteri, stava
esercitando una giurisdizione troppo stretta su Agion Oros 10.
La richiesta dei re-monaci serbi dimostra che, verso la fine del
XII secolo, il monastero degli amalfitani era fiorente. Tuttavia, da
quel momento in poi esso scompare dalla documentazione archivi-
stica athonita per riapparire solo nel 1287, al momento dell’exit. Il
vuoto documentario di un secolo ha indotto erroneamente alcuni
storici, come George Macharashvili, a darlo per estinto fin dalla fi-
ne del XII secolo11.
D’altra parte, non si hanno tracce del cenobio latino athonita
neppure negli archivi italiani e della Santa Sede. Su Amalfi non si
può contare visto che, malgrado sia stata nel Medioevo un centro
commerciale di primaria importanza, è addirittura priva di docu-
menti che attestino la presenza di mercanti. E, pur essendo stata la
prima repubblica marinara, non possiede informazioni d’archivio
sulla propria struttura/capacità portuale e sulla flotta12.
Venendo al versante ecclesiastico registriamo che, quando intor-
no al 1060 l’influente monaco, asceta, cardinale e dottore della
Chiesa San Pier Damiani (1007-1072) scrisse all’abate del monaste-
ro amalfitano benedettino del Santissimo Salvatore a Costantinopo-
li, lodandone i monaci perché rimasti fedeli alla Chiesa di Roma,
non fa alcun cenno ai confratelli athoniti. Inoltre, come abbiamo
già accennato, essi non compaiono né nelle due bolle di Papa Inno-
cenzo III sul Monte Athos (1209 e 1213), né nella lettera del 1223

10 Angold, 2008: 15.


11 Macharashvili, 2013 che a supporto cita erroneamente Keller, 1994-2002:
14-15.
12 Del Treppo, 1977: 82.
212 IL GRANDE DIMENTICATO DAL PAPATO?

in cui Papa Onorio III rimprovera i monaci del «Santo Monte», in


quanto «disobbedienti alla Sede Apostolica e ribelli». Non sappiamo
se il papa intendesse stigmatizzare la fratellanza di matrice greca o
l’intera comunità monastica athonita compresa la componente be-
nedettina amalfitana, oppure se avesse nel mirino specificatamente
quest’ultima. Dall’insieme di queste assenze, dobbiamo dedurre che
l’avamposto dalla Chiesa di Roma all’interno della Chiesa Ortodos-
sa fu il grande dimenticato dal papato stesso?
Di certo il cenobio latino non fu trascurato né nell’enclave atho-
nita, né in campo bizantino. Lo si evince dalla posizione preminen-
te della firma del suo abate rispetto a quelle della stragrande mag-
gioranza dei responsabili degli altri monasteri (indicatore gerarchi-
co imperfetto, ma utile). Nel maggio 1017 e nell’agosto 1087, il no-
me dell’abate benedettino appare al secondo posto (protos a parte)
nell’ordine di precedenza, subito dopo quella dell’igùmeno della
Grande Lavra. È posizionato come quarto nell’aprile 1035 e nel
1087, quinto nell’aprile del 1012, nel settembre del 1108 e nell’a-
gosto 1169. È sesto nel febbraio del 1016.
In conclusione, la posizione preminente della firma dell’abate di
Amalfion indica il prestigio goduto dal monastero per un lungo pe-
riodo, anche in pieno conflitto Oriente-Occidente. Dalle date ina-
nellate si può dedurre che l’apogeo di Amalfion vada collocato nel-
la seconda metà dell’XI secolo, ma che prosperità e autorevolezza si
siano protratte fin verso la metà del XIII secolo13.

13 Pertusi 1963: 230, nota 43. Petit, Korablev, 1910: n 3. Lavra 42 in Actes de
Lavra, I. Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 233-
235.
L’ineluttabile declino

N el corso del XIII secolo, vennero progressivamente meno i


punti di riferimento e i potentati che convogliavano risorse su
Amalfion.
Amalfi, il primo attore da prendere in considerazione, era in net-
to declino. Basti accennare ad alcuni eventi topici. Nei soli anni
trenta del XII secolo, essa fu conquistata una volta e saccheggiata
due. Nel 1131, Ruggero II di Sicilia la sottomise definitivamente.
Nel 1135 e nel 1137, la città fu devastata dai pisani approfittando
della sua debolezza politica e delle insufficienti difese. Gli abitanti
furono costretti a riparare in Puglia, Spagna e nelle terre del Levan-
te. Una volta integrata nello Stato normanno – antibizantino e an-
timusulmano – i legami commerciali di Amalfi con l’Oriente e il
Nord Africa divennero sempre più problematici ed entrò in crisi la
politica commerciale basata sulla creazione di fondaci nei principa-
li porti del Mediterraneo1. I cronisti del XII secolo continuarono a
decantare la prosperità e le interrelazioni commerciali amalfitane.
Skinner però si chiede, con qualche ragione, se nel frattempo que-
sti non si fossero trasformati in topoi letterari con sempre meno ri-
scontri fattuali2.
Nel 1210, durante l’invasione dell’imperatore guelfo Ottone IV
di Brunswick, Amalfi e l’intera costa vennero occupati dalle armate
tedesche. La ventennale Guerra del Vespro, combattuta tra Angioi-
ni e Aragonesi a partire dal 1282 per il dominio del Meridione, in-
flisse danni irreparabili all’economia mercantile amalfitana poiché,
svolgendosi per lo più fra Salerno e l’Alta Calabria, ne impediva la
navigazione a scopi commerciali. Tale conflitto sommato all’agguer-

1 Sirago, 2015: 106.


2 Skinner, 2015: 79.
214 L’INELUTTABILE DECLINO

rita concorrenza delle repubbliche tirreniche rivali (Genova e Pisa in


primis) determinarono l’interdizione marittima alle navi di Amalfi
nel Mediterraneo occidentale, favorirono l’inserimento delle flotte
catalane e causarono spopolamento, carestie e pestilenze. I danni del
blocco marittimo si cumularono alle rovine dovute alla feroce di-
struzione inflitta dai pisani nel secolo precedente e alla crisi irrever-
sibile dei potentati arabi dell’Africa settentrionale (principali fonti
del commercio amalfitano)3. Causa e risultato al tempo stesso del
declino di Amalfi, nei secoli XII e XIII la scala e il numero dei con-
tatti commerciali subirono una progressiva contrazione e la presen-
za nei mercati di lunga distanza era in via di esaurimento. Nella se-
conda metà del XIII secolo, le rotte arrivarono a restringersi alla par-
te occidentale del Mediterraneo, focalizzandosi in particolare sul
Meridione italiano. Le risorse (non solo economiche ma anche po-
litiche e militari) da destinare a un avamposto periferico e isolato,
per quanto geopoliticamente strategico, si erano inevitabilmente ri-
dotte. Il monastero sul Monte Athos era sempre più lontano.
Nello stesso periodo, le vicende di Amalfion rispecchiarono solo
in parte quelle molto più travagliate di Amalfi. Abbiamo visto che
il monastero benedettino aveva intessuto stretti rapporti soprattut-
to con l’enclave di Costantinopoli, le cui attività erano istituzional-
mente poco connesse con la città madre. Anche questa, però, dove-
va fronteggiare una serie di problematicità.
Anzitutto, a seguito della Guerra Adriatica (1080-1085) agli
amalfitani di Costantinopoli si aggiunsero i veneziani che si stabili-
rono in massa lungo il Corno d’Oro con chiese, case, magazzini e
banchine4. E in seguito finirono per soppiantare i concorrenti della
città tirrenica. Il passaggio del 1082 è emblematico nella sua dram-
maticità: con la crisobolla concessa a Venezia da Alessio I Comne-
no, la città adriatica superò quella tirrenica in prerogative presso il
governo bizantino e vide sancito l’inizio formale del suo dominio
nell’Egeo5. L’editto ricompensava Venezia per l’aiuto nella guerra
contro i Normanni che, peraltro, in quel momento detenevano la

3 Del Treppo, 1977: 170-171.


4 Stephenson, 2010: 123.
5 Lock, 2013: 388.
L’INELUTTABILE DECLINO 215

sovranità su Amalfi. I veneziani ottennero persino la concessione


della riscossione delle imposte dovute dalla città campana. Sicché gli
amalfitani divennero tributari dei loro più acerrimi concorrenti. E
non di rado si trovarono a dover cedere loro immobili e strutture6.
La comunità amalfitana di Costantinopoli subiva questo rove-
scio proprio mentre lo stesso imperatore assegnava o confermava ad
Amalfion il rango di monastero imperiale. La mancata condivisione
di destini dimostra che, almeno in quel periodo, il cenobio benedet-
tino era un attore ad elevata autonomia e capace di competere su
uno scacchiere globale. E in quanto monastero imperiale, i sovrani
si sentivano obbligati ad assumere un particolare atteggiamento di
favore anche in circostanze eccezionali come la difesa contro le in-
cursioni dei pirati.
Dal XII secolo, le emergenti città marinare di Genova e Pisa se-
guirono l’esempio di Amalfi e di Venezia, stabilendo nel cuore di
Costantinopoli un proprio quartiere residenziale. Ogni comunità
aveva una chiesa di rito latino, la cui erezione e funzionamento ve-
nivano garantiti dalle attività mercantili. Anche nella loro cerchia,
proliferava il patrocinio di fondazioni ecclesiastiche che marcavano
il territorio e lo ponevano sotto controllo7. Quando le altre Città-
Stato marinare tirreniche si insediarono a Costantinopoli, trovaro-
no nel quartiere amalfitano ampi spazi lasciati vuoti dalla crisi in at-
to del suo commercio in terra bizantina.
L’enclave amalfitana di Costantinopoli si sforzò di mantenere in-
tense relazioni politiche e commerciali con l’impero bizantino an-
che dopo l’invasione normanna del Sud Italia e l’annessione della
madrepatria al Regno Normanno di Sicilia. Esse continuarono, pur
se a ritmo rallentato, con continui incidenti di percorso e con una
progressiva perdita di ruolo nel gioco di mediazione fra Oriente e
Occidente. Secondo Skinner, il quartiere e la chiesa a Costantino-
poli vennero addirittura sviluppate8. Ma prendiamo l’esempio del
potente mercante Pantaleone. Michel Balard ha osservato che la sua
posizione politicamente equilibrata rimase compromessa quando

6 Dölger, I, 1924: 1081. Tafel, Thomas, 1856: 52 e 48-49.


7 Heyd, 1885. Móller, 1879.
8 Skinner, 2013: 217.
216 L’INELUTTABILE DECLINO

Roberto il Guiscardo conquistò per la prima volta Amalfi, nel 1073.


Pantaleone scelse di continuare a dimorare a Costantinopoli, anche
se tecnicamente era soggetto all’autorità di uno Stato ostile a Bisan-
zio. La decisione fu percepita con sospetto dal governo normanno e
si può dire che Pantaleone rimase a Costantinopoli in uno status
mai formalizzato di esiliato9. A onore del vero, fin dal 1062 il nobi-
le era impegnato nella formazione di un’alleanza anti normanna di
cui avrebbero dovuto far parte l’imperatore tedesco Enrico IV, l’im-
peratore bizantino Costantino X Ducas e l’antipapa Onorio II.
D’altra parte, lo stigma normanno intralciò non poco il ruolo di
Pantaleone e dell’intera famiglia dei Comite Maurone entro un si-
stema commerciale strutturato e continuativo.
Con drammatica sintonia, nel 1147 Ruggero II Altavilla attaccò
l’impero bizantino che insisteva nel contrastare le sue conquiste nel-
l’Italia meridionale e, nello stesso anno, tutti gli empori amalfitani
disseminati nelle terre bizantine vennero chiusi per ordine del tro-
no. A vantaggio soprattutto dei veneziani10. Le conseguenze del
massacro dei latini di Costantinopoli, perpetrato nel 1182 dal po-
polino cristiano ortodosso fomentato dagli oppositori della politica
filo-latina della dinastia Comnena, diminuirono enormemente la
possibilità dei mercanti-navigatori della diaspora amalfitana di sup-
portare il cenobio benedettino athonita. Anche se i più colpiti furo-
no i genovesi e i pisani, la presa degli amalfitani sui traffici maritti-
mi e il settore finanziario diminuì consistentemente.
La crisi irreversibile dei potentati arabi dell’Africa settentrionale
inaridì le principali fonti della mercatura amalfitana. Quanto alla
rete nel Levante, essa divenne ben presto minoritaria rispetto a quel-
le veneziana e genovese11. Figliuolo e Skinner contrastano l’idea che
nel Medioevo sia esistito un circuito mercantile amalfitano struttu-
rato, con scambi sulla lunga distanza, compiuto e continuativo. Se-
condo le loro ricerche, le attività d’Oltremare non raggiunsero mai
una tale dimensione politico-commerciale. Amalfi dovette piuttosto
vedersela con le altre Città-Stato marinare tirreniche e adriatiche

19 Balard, 1976: 87. Skinner, 2013: 218.


10 Lock, 2013: 388. Merlini, 2015.
11 Abulafia, 1991.
L’INELUTTABILE DECLINO 217

che perseguirono scientemente l’obiettivo di impiantare veri e pro-


pri imperi commerciali mediterranei12. Probabilmente si deve an-
che a questa asimmetria di determinazione e lungimiranza il pro-
gressivo scemare dell’importanza economica, politica e commercia-
le, per tutto il XIII secolo, dell’enclave di Costantinopoli così come
di tutte le colonie amalfitane del Mediterraneo orientale. Venezia,
Genova e Pisa ne presero sistematicamente il posto. In precedenza
abbiamo osservato che, nei secoli di floridezza, quando i mercanti
latini del Centro-Sud della penisola italica erano in viaggio nelle ter-
re orientali venivano appellati “amalfitani” di default, tale era la lo-
ro fama di ricchezza. Invece, a metà del XIII secolo, quando mem-
bri della famiglia Comite Maurone, residenti nell’isola greca di An-
dros, ricevettero terreni dal rettore veneto Angelo Sanudo non furo-
no nemmeno identificati come amalfitani13.
Nello stesso periodo, un altro attore chiave delle fortune di
Amalfion, Montecassino, subì le conseguenze dell’anarchia innesca-
tasi nel 1189 con il decesso di Guglielmo II d’Altavilla, re di Sicilia,
e le traversie per la successione.
Successivamente, l’abbazia passò sotto il controllo degli Svevi
con conseguenti gravi difficoltà a svolgere il ruolo di mediazione fra
Impero e Chiesa. Federico, Manfredi e Corradino la occuparono e
la privarono del patrimonio, dell’autonomia e dei diritti14. Nel
1246, l’abate Stefano fu un componente della delegazione, inviata a
Lione da Federico II presso Innocenzo IV, per individuare una so-
luzione alla sua scomunica15. Nel 1259, l’abate Riccardo venne sco-
municato e dichiarato decaduto da Papa Alessandro IV per aver par-
tecipato all’incoronazione di Manfredi. Tanto astio derivava dall’op-
posizione del re svevo all’impegno militare papale volto ad appro-
priarsi dell’intero Meridione italiano. Anche l’elezione dell’abate
successivo, Teodino, avvenuta sotto pressione di Manfredi sul Capi-
tolo cassinese, fu annullata dal papa francese Urbano IV. Il culmine
dell’impoverimento di Montecassino fu raggiunto negli ultimi anni

12 Figliuolo, 1986: 587. Skinner, 2015: 74.


13 Saint-Guillain, 2001: 579-620.
14 Caplet, 1890. Graziani, 2014.
15 Riccardo da S. Germano, 1938: 199.
218 L’INELUTTABILE DECLINO

della dominazione sveva, quando l’abbazia fu trasformata in un pre-


sidio militare, venne spogliata di tutte le risorse (monaci compresi)
e gli abitanti della Terra di San Benedetto furono costretti a lavori
militari. L’abate, privato della sua giurisdizione civile, fu addirittura
relegato nella città di San Germano16.
Il quadro dell’Italia meridionale cambiò rapidamente anche per
le interferenze di Urbano IV che, nel 1263, si accordò con il re fran-
cese Luigi IX perché la corona di Sicilia fosse concessa al fratello
Carlo d’Angiò. Contemporaneamente, il papa assicurò a Montecas-
sino un governo francese, affidandolo a Bernardo I Aiglerio, vigoro-
so e tenace monaco cistercense di Savigny e già abate di Lerins17. In-
somma, a partire dal 1266 la gestione dell’abbazia venne ricondot-
ta nell’ambito dell’accordo quadro fra Carlo d’Angiò e Papa Urba-
no IV18. L’insediamento degli angioini permise un processo di rior-
ganizzazione amministrativa della Terra Sancti Benedicti volto a ri-
popolare l’abbazia di monaci, ristabilirne le prerogative di natura
giudiziaria e riorganizzarne il patrimonio. Il più importante obietti-
vo perseguito fu il ripristino di un controllo centrale sul territorio e
l’inversione del processo di sfaldamento del potere feudale cassine-
se19. Ma per Amalfion era ormai troppo tardi.

16 Fabiani, 1968: 137.


17 Tosti, 1888: 7. Saba, 1931.
18 Fabiani, 1968: 138.
19 Caplet, 1890.

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