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MARCO MERLINI
1 Con i suoi 389 kmq, l’enclave teocratica maschile è paragonabile alle più
minuscole province italiane (Prato si sviluppa su kmq 365, Trieste solo su 212)
o a una media cittadina (Matera ha una grandezza di 388 kmq, Arezzo di 386).
2 Vi si arriva solo in barca, approdando nel porticciolo di Dafni. Ogni mo-
1 Keller, 1994-2002: 1.
2 Merlini, 2014.
3 Lavra 15 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou
(a cura di), 1970: 140. Falkenhausen, 1993: 91. Ead., 2005: 105. Merlini, 2013.
4 Nastase, 1983: 290-291.
5 Vedi le cosiddette Vita A e Vita B di Atanasio l’Athonita, redatte a Costanti-
16 APOTHIKON-AMALFION TRA I CENOBI PIONIERI DELLA SANTA MONTAGNA
nopoli prima del 1025, qualche decennio dopo la fondazione della Grande Lavra:
Noret (a cura di), 1982; Vita A, cap. 158: 74, Vita B, cap. 43: 176. Merlini, 2016.
6 Ronchey, 2012.
7 Angold, 2008: 15.
8 Dionysopoulos, 2002: 207-218. Merlini, 2014. Secondo la tradizione atho-
nita, Vatopedi fu ri-fondato nel 972 in obbedienza a una precisa richiesta di Ata-
nasio l’Athonita. Il monastero non è però menzionato nella lista stilata nel Tipi-
kòn emesso in quella stessa data dall’imperatore Giovanni I Zimisce. La prima fir-
ma di un responsabile per Vatopedi è del 985, data probabilmente di poco suc-
cessiva alla sua erezione per opera del monaco Nicola di Adrianopoli che ne fu
anche il primo igùmeno. Non per nulla Nicola è l’ultimo a firmare dopo tutti gli
altri delegati monastici al Protaton, rappresentando una piccola struttura appar-
sa da poco (Iviron 7 in Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssanthou,
Metreveli (a cura di), 1985: righe 5, 63). Le pie tradizioni relative alla fondazio-
ne dei vari monasteri sul Sacro Monte, intrise della volontà metastorica di essere
nati per primi, costituiscono un genere a parte della letteratura che fiorì nella re-
pubblica monastica dal XVI secolo in poi. Stando a loro, coevi ad Apothikon
sarebbero i cenobi di Sikelou, Paphlagonos e Chaldou. Zographou sarebbe stato
APOTHIKON-AMALFION TRA I CENOBI PIONIERI DELLA SANTA MONTAGNA 17
istituito prima del 980 dal pittore bizantino e iconografo Giorgio. Xiropotamou
sarebbe stato eretto da San Paolo di Xiropotamou prima del 956 (consacrato a
San Niceforo), il quale fondò anche il monastero di San Paolo qualche tempo
prima del 980. Xenophontos, Esphigmenou e Chilandari sarebbero apparsi pri-
ma della fine del X secolo. Senza contare la gran quantità di monasteri che pre-
tendono di essere stati fondati direttamente dall’imperatore Costantino o da
membri della sua dinastia.
19 Martin-Hisard, 1991: 109 sgg. Bonsall, 1969: 262-267. Merlini, 2014.
10 L’Arcidiocesi di Benevento seguiva un rito latino molto grecizzato, per via
dio ad Atene: Archeion Gennadiou / Archeion St. Dragoumi, f. 32.1, Athos - Mo-
nes Agiou Orous, 1-26. Vedi Gerd, 2010: 42-43.
20 APOTHIKON-AMALFION TRA I CENOBI PIONIERI DELLA SANTA MONTAGNA
23
Rapporto del 5 agosto 1889. Gerd, 2014: 86. Il rapporto è stato curato se-
guendo una copia nell’Archivio del Ministero degli Affari Esteri greco. Vedi Pa-
paggelos, 1985-86: 67-125.
24 Rapporto del 24 agosto 1887. Gerd, 2014: 86. Il rapporto è stato edito se-
guendo una copia nell’Archivio del Ministero degli Affari Esteri greco. Vedi Pa-
paggelos, 1985-86: 67-125.
25 Frary, Kozelsky, 2014: 201.
26 Merlini, 2015.
Un circuito transnazionale
di relazioni
I l Monte Athos è stato uno dei luoghi dell’anima per le antiche re-
ligioni greca e tracia. Come osserva Strabone, una lunga penisola
con sulla punta un’alta montagna che erompe direttamente dal ma-
re per 2033 metri non poteva non essere considerata da sempre un
centro spirituale. Tanto più se assume una forma a un tempo (falli-
camente) piramidale e al tempo stesso cuspidale con la silhouette di
un seno1. Nel manoscritto n. 198 del XVI secolo, conservato nel
monastero di Dochiariou, si legge: «Il Monte Athos era pieno di
idoli... Tutti i greci antichi lo consideravano grande e venerabile».
Secondo le epiche eroiche di Omero, l’alto picco al termine del-
la penisola era una sorta di stazione di sosta per le divinità in volo
dall’Olimpo alle montagne trace e viceversa. La cultura orale dei
monaci ricorda ancora la presenza, verso la cima della montagna,
del basamento del tempio dedicato a Zeus, con tanto di altari sacri-
ficali e statua colossale. E conserva memoria delle fondamenta di
una città-tempio-scuola consacrata ad Artemide Agrotera (“cacciatri-
ce”). Era abitata solo da vergini in formazione per diventare alte sa-
cerdotesse al servizio e al governo dei templi in tutta la Grecia. Gli
eremiti che risiedono dalle parti di Kerasia, verso la punta della pe-
nisola, mormorano di una grotta speciale dove queste vergini avreb-
bero mantenuto una fiamma perennemente ardente, come le Vesta-
li romane. Il già citato manoscritto di Dochiariou informa sulla
presenza (forse dalle parti dell’attuale porto) di un santuario oraco-
lare dedicato ad Apollo.
Soltanto scavi archeologici sistematici potrebbero gettare luce
sull’antica topografia religiosa. Ma, i monaci vi si oppongono perché
1 Strabone, 1992.
22 UN CIRCUITO TRANSNAZIONALE DI RELAZIONI
2Merlini, 2012.
3Spyridon Lavraeotis (Kambanaos) Monaco, 1930: 19-20.
4 Merlini, 2012.
5 Daniélou, 2004.
6 Falkenhausen, in corso di pubblicazione. Secondo Pertusi (1963: 222), la
eresse la Grande Lavra tra il 961 e il 965. Cfr. Petit, 1906: 23, n. 2; 33 n. 1.
Rouillard, Collomp (a cura di), 1937: XXIX.
12 Morris, 1996: 37-46.
13 Vedi la crisobolla di Niceforo Foca in Actes du Prôtaton, Papachryssanthou
(a cura di), 1975: 81-83. Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papa-
chryssanthou (a cura di), 1970: 37-38. Frammenti del Tipikòn del 971–972, che
prescriveva l’organizzazione del monastero, sono stati pubblicati da Meyer, 1894:
106, 31 sgg. Vedi anche Prôtaton 8 in Actes du Prôtaton, Papachryssanthou (a cu-
ra di), 1975: 202-215, con il testo: 209-215. Schlumberger, 1923: 315-320.
Bréhier, 1947: 195. Id., 1948: 547. Merlini, 2012.
UN CIRCUITO TRANSNAZIONALE DI RELAZIONI 25
ventura del Monte Athos partì quindi come manovra a tenaglia del-
l’imperatore e del suo padre spirituale contro il vertice ecclesiastico
e monastico bizantino. Si doveva porre rimedio alla colpevole dila-
pidazione di risorse dovuta ai vasti possedimenti conventuali esenti
da obblighi fiscali e lasciati incolti. In secondo luogo, si intendeva
reagire al rifiuto del patriarca di considerare martiri i soldati caduti
combattendo contro i musulmani. Infine, il voto di povertà profes-
sato dai monaci era incompatibile con una vita passata in sontuose
dimore piene di affreschi mozzafiato e circondate da vigneti e cam-
pi coltivati dai servi della gleba. Da quel momento in poi i religiosi
avrebbero popolato monasteri semplici e collocati in aree remote da
colonizzare e rendere produttive con ingegno e fatica14.
Il Monte Athos iniziò così a generare venerazione e soggezione,
sia nell’Europa orientale che in quella occidentale, quale microco-
smo terreno dell’ordine celeste15. Iniziarono a circolare leggende,
volte a legittimare l’occupazione monastica della penisola. La più
amata dai monaci racconta che il Monte Athos sarebbe stato un la-
scito di Gesù Cristo alla Madre, affinché lo destinasse a maschi con-
sacrati. Quando i monaci dei cenobi presero possesso del “Giardino
di Maria”, le popolazioni native allora residenti – greci e traci – si
mobilitarono e fecero ricorso, respinto però da una disposizione im-
periale e, più sostanzialmente, dall’esercito.
La penisola rocciosa sacra agli antichi anacoreti diventò allora la
meta preferita di monaci provenienti da tutto il mondo cristiano,
convinti che risiedere in un luogo impregnato di santità avrebbe rin-
vigorito la loro fede16. La cosiddetta Vita A di Atanasio l’Athonita,
redatta a Costantinopoli dopo la fondazione della Grande Lavra e
prima del 1025, elenca l’afflusso sul Monte Athos di romani, italia-
ni, calabresi, amalfitani, georgiani, armeni, russi, serbi, albanesi e
bulgari17. Ben presto, i grandi cenobi fortificati prevalsero sulle
grotte eremitiche18. Dopo l’anno 1000, erano registrati quarantuno
monasteri di cui diversi esistono tuttora.
14 Brownworth, 2009.
15 Falkenhausen, 2005: 103.
16 Ware, 1996: 3-16.
17 Noret (a cura di), 1982; Vita A, cap. 158: 74, Vita B, cap. 43: 176.
18 Ware, 1996: 3-16.
26 UN CIRCUITO TRANSNAZIONALE DI RELAZIONI
veli (a cura di), 1985: 137-151. Bonsall, 1969: 262-267. Keller, 1994-2002: 5,
18; Успенский, 2007: 114-115. Falkenhausen, 2005: 105.
La devozione dell’eremita Gabriele
e il recupero miracoloso
dell’icona athonita più venerata
5Una variante più istituzionale della leggenda mantiene Gabriele come pro-
tagonista del miracoloso recupero dell’immagine dall’acqua. Però ne fa un mo-
naco di Iviron e non un eremita; fa impartire le istruzioni celesti per le operazio-
ni di recupero direttamente all’abate; non menziona alcuna grotta e fa accadere
l’andare-venire dell’icona all’interno del monastero (fra l’altare e l’architrave del
portone d’ingresso). Infine, fa avere a Gabriele una mistica visione della Madre
di Dio che gli precisa di aver scelto l’entrata di Iviron non per essere protetta dai
monaci, quanto per proteggerli.
L’amicizia con il grande organizzatore
del “Giardino di Maria”
16
Noret, Vita A, c. 178: 84, Vita B, c. 47: 183. Pertusi, 1963: 221. Keller,
1994-2002: 5. Bonsall, 1969: 262-267.
17 “τίνες τῶν τοῦ Ὄρους Ἀμαλφηνῶν γερόντων”.
18 Carannante, Giardino, Savarese, 2011: 77.
19 Pertusi, Ortalli, Paccagnella, 1984: 8.
10 Petit, 1906: 56. Lemerle, 1963. Pertusi, 1963: 221. Bonsall, 1969: 262-267.
L’AMICIZIA CON IL GRANDE ORGANIZZATORE DEL “GIARDINO DI MARIA” 39
20 Merlini, 2012.
Leone il Grande, il fondatore
beneventano di nobili natali
tusi, 1953: 10. Id., 1963: 224. Bonsall, 1969: 266. Lavra 6 in Actes de Lavra, I,
Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970.
44 LEONE IL GRANDE, IL FONDATORE
tore Ottone III che l’aveva elevato al soglio ducale di Spoleto. Un’al-
leanza felice per il beneventano perché con la morte di papa Gio-
vanni e la cattura di Berengario, avvenute entrambe nel 964, nel
972 la causa di Ottone trionfò definitivamente. Capodiferro riuscì
così a riunificare tutti i territori dell’antica Langobardia Minor. Do-
po poche pagine, però, Keller sposa la tesi maggioritaria che indivi-
dua Pandolfo II nel potente fratello del monaco Leone4.
Secondo un altro fil rouge decisamente minoritario, che però tro-
va spazio sui mass media, nel Beneventani ducis si dovrebbe identi-
ficare Landolfo IV di Benevento e Capua, predecessore di Pandolfo
II e coreggente con Pandolfo I Capodiferro. Schierato al fianco del-
l’Imperatore franco Ottone II, Landolfo IV venne ucciso, nel luglio
del 982, durante la battaglia di Capo Colonna contro i saraceni
(probabilmente aiutati carsicamente dai bizantini anche se Ottone
II era marito di Teofano, principessa di Costantinopoli). Il giorno
successivo alla carneficina, un gruppo di monaci benedettini, tra i
quali Leone, fratello del principe longobardo, si sarebbe trasferito al
Monte Athos5.
Chiunque fosse il fratello influente del benedettino che ha edifi-
cato Apothikon (per noi Pandolfo II di Benevento, divenuto succes-
sivamente anche Pandolfo III di Capua), è degno di nota che un
longobardo di alto rango come Leone da Benevento abbia scelto
una vita umile e ascetica nell’ecumene bizantino e abbia avuto suc-
cesso nel suo perseguimento. Purtroppo, non vi è alcuna traccia di
lui negli archivi italiani.
Ben di più sappiamo del potente fratello. E queste informazioni
ci permettono di intravvedere alcune ragioni geopolitiche a monte
della decisione di fondare un monastero benedettino nella più po-
tente enclave di cenobi orientali. Pandolfo II ebbe una vita più che
travagliata e con una partenza da spodestato. Nel 968, lo zio Pan-
dolfo I Capodiferro (principe regnante di Capua e di Benevento) ne
disconobbe la legittimità a ereditare dal padre Landolfo III (princi-
pe di Capua e Benevento dal 959 al 968), preferendogli i propri fi-
6 I lasciti di Ottone III avvennero durante il suo passaggio per Benevento do-
po il pellegrinaggio al santuario micaelico di Monte Sant’Angelo sul Monte Gar-
gano.
7 Galdi, 2008: 73.
8 Per esempio, qualche anno prima il principe beneventano Sicone aveva car-
pito da Napoli le reliquie di San Gennaro e le aveva traslate a Benevento cum ma-
gno tripudio (Galdi, 2008: 71).
46 LEONE IL GRANDE, IL FONDATORE
19Secondo gli Annales Beneventani (Pertz, 1839), “Otto rex cum magno exercitu
obsedit Benevento”. Cronaca monastica e regionale di Benevento redatta in latino,
gli Annales Beneventani sono editi in tre redazioni: A.1, scritta fra il 1113 e il 1118
e archiviante dal 787 al 1113; A.2, scritta nel 1119 e archiviante fino al 1128; A.3,
scritta fra il 1107 e il 1118 e archiviante dal 1096 al 1130. Gay, 1917: 373-374.
10 Vedi gli Annales Beneventani (Pertz, 1839).
11 Futuro cardinale Ostiense, detto anche Leone Ostiense o Leone di Monte-
cassino.
12 Questa tradizione beneventana troverebbe conferma dall’avvenuta trasla-
zione dalle reliquie di San Paolino da Roma a Nola, nel 1908, per volere di papa
Pio IX.
13 Vedi gli Annales Beneventani (Pertz, 1839).
Il passaggio da Costantinopoli
al Monte Athos
1016 quando Gérasime, igùmeno di tou Rôs, sottoscrisse un atto della Grande La-
vra. Lavra 19 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou
(a cura di), 1970: 37. Soloviev, 1933: 230. Mošin, 1947-1948: 62 sgg.
3 Koutloumousiou venne eretto da un monaco che era stato un principe del-
la dinastia Seljuk. Lemerle (a cura di), 1946: 4-5. Moravcsik, 1958: 171. Brand
1989: 6. Nastase, 1985: 260 sgg.
48 IL PASSAGGIO DA COSTANTINOPOLI AL MONTE ATHOS
4
Skylitzès, 1973: 268.
5
Giorgio l’Aghiorita secondo Pertusi, 1953: 10. Id., 1963: 225. Id., 1972:
497-8. Keller, 1994-2002: 8.
6 Nello stesso Keller, 1994-2002: 8.
7 Peeters, 1917-1919. Pertusi, 1953: 10. Id., 1963: 225. Id., 1972: 497-498.
IL PASSAGGIO DA COSTANTINOPOLI AL MONTE ATHOS 49
sanzio.
14 “Romani qui in urbe regia aliisque civitatibus erant”, in Martin-Hisard, 1991.
IL PASSAGGIO DA COSTANTINOPOLI AL MONTE ATHOS 51
16Morris, 2008.
17Pertusi, 1953: 10. Id., 1963: 224.
18 Balard, 1976: 91. Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 12, 35-36, nota 42.
19 Kalligas, 1895: 93. Cfr. Pertusi, 1953: 3, nota 4. L’idea che il monastero lati-
no sia stato fondato da «monaci ortodossi» fu presunto anche da Riley (1887: 152).
20 Smyrnakis, 1903: 419.
21 Balard, 1976: 91. Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 12, 35-36 e n. 42.
Merlini, 2014.
IL PASSAGGIO DA COSTANTINOPOLI AL MONTE ATHOS 53
dei manoscritti della Grande Lavra, che il codice 104 A, da lui cu-
stodito, doveva provenire da una regione latina della penisola italia-
na o in cui il latino era ben conosciuto. Lo attestavano le scritte col-
legate alla raffigurazione di San Giovanni e il peculiare stile paleo-
grafico. Indicativa è la ragione addotta dal religioso per spiegare la
presenza nel suo archivio di questo manoscritto “anomalo”: «Il mo-
vimento di riconciliazione fra le Chiese di Roma e di Costantino-
poli, avvenuto nel XII secolo, si sostanziò nella fondazione di un
monastero sul Monte Athos da parte di mercanti greci (corsivo no-
stro) collegati con Amalfi e perciò chiamato Amalfion. Dopo un pe-
riodo di prosperità, cadde in rovina. La sua biblioteca e le sue pro-
prietà sono state rilevate dalla Meghìsti Lavra»14. A parte il cortocir-
cuito storico dovuto all’apparentamento del latino Amalfi con mer-
canti greci, padre Crisostomo si sforza d’inserire la nascita del mo-
nastero benedettino come tassello di una volontà di reciproca ricon-
ciliazione fra le Chiese.
Studiosi come Manouel Ioannes Gedeon sostengono la terza cro-
nologia tarda, proponendo di fissare la costruzione del cenobio be-
nedettino nel 1046. Esso sarebbe quindi coevo con Dochiariou15.
In realtà, in quella data il suo scriptorium lavorava a pieno ritmo già
da tempo nella traduzione in latino di testi agiografici greci16.
Tiriamo le somme sulle tre correnti che propongono una data
posticipata circa la nascita del monastero, focalizzando sull’emble-
maticità dei periodi storici scelti dal punto di vista del rapporto Oc-
cidente-Oriente. Chi la stabilisce verso la metà del secolo XI la col-
loca qualche anno prima del momento più acuto dello scontro Oc-
me 104 A nel catalogo della Grande Lavra e da lui ricodificato come Codex Evang.
1071 nei Prolegomena al testo di Tischendorf, 1884. Vedi anche Lake, 2006: 132
sgg. Considerazioni paleografiche inducono a considerare il manoscritto in que-
stione come originario del Sud d’Italia, probabilmente dalla scuola di Nardo (Ne-
ritum), nei pressi di Rossano. Ha dunque buona possibilità di provenire dallo
scriptorium di Amalfion, come sostenuto da padre Crisostomo, importato da un
centro nei pressi di Rossano o da Amalfi. Purtroppo, finora nessuno studioso è ri-
uscito a ottenere dalla Grande Lavra il permesso di fotografare il manoscritto.
15 Gedeon, 1885: 92.
16 Letteralmente: “scrittura di cose sante”.
60 LA VEXATA QUAESTIO DELLA DATA DI COSTRUZIONE
1 Nella Chiesa orientale non esistono ordini religiosi. Ogni monastero è to-
talmente autonomo e segue una propria Regola (Tipikòn). Si tratta del documen-
to che regola l’organizzazione di un monastero e disciplina la vita dei religiosi se-
condo i dettami del suo fondatore (che poteva anche essere un laico). Esisteva-
no inoltre monasteri patriarcali, metropolitani e provinciali, la cui fondazione e
dettato della Regola (Tipikòn) spettavano, rispettivamente, al patriarca, al metro-
polita e al vescovo locale.
2 L’atto è chiamato Tràgos, caprone, per il materiale su cui è vergato. Viene
al 965 secondo Uspenski e altri studiosi. Vedi Actes de Lavra, I, Lemerle, Guil-
lou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 282. Actes du Prôtaton, Pa-
pachryssanthou (a cura di), 1975: 84, n. 217. Nastase, 1985: 254, 255, 310.
62 GIOVANNI E ARSENIO
(1983: 293), questa data può essere assunta quale terminus post quem per il tra-
sferimento verso est di Leone il Grande.
17 Pertusi, 1963: 221. È da rigettare come infondata la supposizione degli
editori del primo volume degli Atti della Lavra, secondo cui le due firme latine
bastino ad attestare l’esistenza del monastero fondato da Leone già nel dicembre
984. Vedi Lavra 6 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachrys-
santhou (a cura di), 1970: 60 e note.
18 Meyer, 1894: 157, righe 22-27.
19 Rouillard, Collomp (a cura di), 1937: n. 21, 1018-1019.
10 Berdzenishvili, 2007: 185, 266.
GIOVANNI E ARSENIO 63
20Merlini, 2014.
21Lavra 9 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssant-
hou (a cura di), 1970: 118 sgg., in particolare 122. Pertusi, 1953: 10. Id., 1963:
224. Keller, 1994-2002: 8. Plested, 2010: 102. La sua sottoscrizione è stata ec-
cezionalmente inserita nella parte libera a destra di quella di Doroteo.
22 «Io, monaco Giovanni sono un testimone» e «Io Arsenio... monaco inde-
veli (a cura di), 1985: 146, 151. Errando, Leo Bonsall 1969 elenca un solo docu-
mento sottoscritto dai monaci latini. Ma negli Atti di Iviron i documenti sono
66 GIOVANNI E ARSENIO
due, uno del 984 e l’altro del 985. L’equivoco è dovuto all’esistenza del secondo
documento in due versioni originali denominate A e B dai curatori degli Atti. La
prima è senza le firme dei monaci latini; nella seconda esse sono aggiunte nell’in-
terlinea. Cfr. la tavola di raffronto delle firme in Actes d’Iviron, Lefort, Oikono-
mides, Papachryssanthou, Metreveli (a cura di), 1985: 146.
29 Iviron 7 in Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssanthou, Metre-
veli (a cura di), 1985: 137 sgg. e 147 sgg. Pertusi, 1963, tav. III. Falkenhausen,
1993: 91 sgg. Ead., 2005a: 104 sgg.
30 Iviron 7 in Actes d’Iviron, Lefort, Oikonomides, Papachryssanthou, Metre-
§ 27, e 60. Martin-Hisard, 1991: 109 sgg. Pertusi, 1963: 222. Falkenhausen, in
corso di pubblicazione. Riguardo all’incertezza della data, vedi Noret (a cura di),
1982: CX-CXI, n. 25.
35 Pertusi, 1963: 221. Keller, 1994-2002: 5.
36 Per la tradizione levriota, vedi Smyrnakis, 1903: 419. Per la tradizione ivri-
ta, vedi Nastase, 1983: 293. Id., 1985: 253. Merlini, 2014.
37 Merlini, 2014. Id., 2016.
68 GIOVANNI E ARSENIO
durante la visita ad Agion Oros : il portàris (il portiere), l’archondaris (l’addetto al-
la foresteria e all’accoglienza degli ospiti), l’ekklisiastikòs (il sacrestano), il trape-
zàris (il gestore del refettorio), il maghiras (il cuoco), il kodonokrustis o kamba-
nàris (il campanaro), il dochiàris (il magazziniere e cantiniere), l’anaghnòstis (il
lettore), il vivliofylax (il bibliotecario), lo skevofylax (il conservatore del tesoro),
l’arsanàris (l’addetto al porticciolo). È possibile ancora imbattersi nel vadonàris
(l’addetto ai trasporti con i muli e alle loro stalle), senza contare gli agricoltori,
gli orticultori e i boscaioli.
18 Sotto Atanasio, la Grande Lavra implementò un sistema di irrigazione e
3
Nastase, 1985: 309-310. Vedi anche Vranoussi, 1978: 740-741. Merlini,
2014.
Keller, 1994-2002: 8.
4 Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 37.
Keller, 1994-2002: 8.
5 Id., 1994-2002: 8.
6 Lake, 1909: 12.
7 Fajfer, 2010a.
I RAPPORTI CON LA GRANDE LAVRA 75
rio liturgico.
6 De Leo (a cura di), 2004: 42.
7 Noret (a cura di), 1982: Vita A, cap. 160, Vita B, cap. 43. Cfr. Follieri,
1993: 86 sgg.
ALTRI EREMITI E MONACI ITALIANI AD AGION OROS 81
11
È il rappresentante generale della comunità monastica del Monte Athos,
una sorta di primo ministro; letteralmente, “il primo uomo”.
12 Toa Sikeloà. Lavra 57, in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Pa-
Papachryssanthou (a cura di), 1970: 68, 69. Dölger, 1948: 278. 26-27. Pertusi,
1963: 241. Zaccagni, 1996.
ALTRI EREMITI E MONACI ITALIANI AD AGION OROS 83
15 Pertusi, 1963: 240. Zaccagni, 1996: 26. In quel periodo, si era verificata
una rilassata decadenza all’interno dei monasteri athoniti, dovuta secondo Cha-
landon e altri all’arrivo dei pastori (e delle pastorelle) valacchi (Chalandon, 1900:
288). Preoccupato, Alessio I Comneno appoggiò e favorì un incisivo processo di
riforme della vita monastica.
16 Pertusi, 1963: 240. Zaccagni, 1996: 222.
17 Minisci, 1958: 220. Scaduto, 1982: 187-189. Lucá, 1993: 16. Loud, 2008:
508.
18 Lucá, 1993: 16.
84 ALTRI EREMITI E MONACI ITALIANI AD AGION OROS
2002: 6.
4 Gobry, 1999: 256. Falkenhausen, 2005: 101-118. Per una ricostruzione cri-
6
Hoffmann (a cura di), 1980: 206 sgg. Gobry, 1999: 256. Schwartz, Hof-
meister (a cura di), 1934: 1127 sgg. Merlini 2016.
7 Beolchini, 2007. Centro studi avellaniti (a cura di), 2003: 121.
8 “Consobrinus Pandulfi principis ”. Cfr. Muratori, 1723-1751 vol. 4: 348.
d’Achery, 1733-1738: 637. Rousseau, 1929: 536 sgg. Centro studi avellaniti (a
cura di), 2003: 121.
GIOVANNI, IL BENEDETTINO CHE DIVENNE ABATE DI MONTECASSINO 93
1846: 636-637. Hoffmann (a cura di), 1980: 190. Vedi anche Tosti, 1888: 104-
105; Keller, 1994-2002: 6; Centro studi avellaniti (a cura di), 2003: 121.
11 Migne (a cura di), 1854: pl. 173, 597B-598: 190. Hoffman (a cura di),
16 Migne (a cura di), 1854: pl. 173, 607C-608B. Wattenbach (a cura di),
1846: 642. Hoffman (a cura di), 1980: 206.
17 A onore del vero, Mansone durante l’incarico aveva accresciuto in modo
25 Alcune ricostruzioni storiche, confuse dai troppi abati cassinesi col nome
1 Abbate, 1997: 118. Con impeto costruttivo, l’abate si dedicò anche a raffor-
zare le difese della cittadella facendo consolidare la cinta muraria.
2 Inguanez, 1915-1941: 63-68.
100 LUCI E OMBRE DEL PERIODO FORMATIVO DI UN MONACO ITALIANO
Nel 1007, Giovanni III inviò a San Liberatore alla Maiella il con-
fratello Teobaldo, con cui aveva probabilmente condiviso l’esperien-
za e la formazione athonita. Il fidato compagno, con l’aiuto dei po-
chi religiosi rimasti, iniziò la ricostruzione della chiesa. L’altro co-
pellegrino al Monte Athos, Liuzio/Lucio, fondò il centro spirituale
e lo scriptorium di Santa Maria di Albaneta, terminando la vita in
santità. Sia Teobaldo che Liuzio/Lucio sono conferme viventi che la
conversatio monastica vissuta in comunità al Monte Athos è stata
una formidabile palestra di crescita spirituale e umana, intellettuale
e manageriale.
Sull’equilibrio athonita fra questi aspetti, il cronista e futuro car-
dinale Leone Marsicano manifesta però più di una perplessità. De-
scrivendo la vita di rigida umiltà, astinenza e austerità condotta da
Liuzio/Lucio, al punto da mostrarsi felice di eccellere in tutte le
mansioni umilianti e mortificanti, si chiede come potesse conciliar-
si con l’onore e la responsabilità della carica assunta. E si interroga,
alquanto spiazzato: l’umiltà e la disponibilità a svolgere compiti ser-
vili da parte di un abate sono un riflesso delle idee monastiche as-
sorbite in Oriente?
Tale contraddizione esploderà con Giovanni III, la cui spiritua-
lità aveva preso forma in Occidente ma si era forgiata in Oriente.
Giovanni era anziano, venerabile, austero e con forte ascendente sui
confratelli che trattava però con implacabile intransigenza e asprez-
za. Contraddicendo l’insegnamento di San Benedetto, si faceva te-
mere piuttosto che amare. La sua inflessibilità entrò ben presto in
conflitto con la condotta indolente radicatasi nella fratellanza du-
rante il decennio di Mansone, compresi il lassismo verso le criticità
pratico-organizzative e le scorciatoie nelle devozioni e nella liturgia.
Giovanni III aveva sufficiente polso per rimettere ordine nell’ab-
bazia, ma non abbastanza autorità e influenza per salvaguardarla da-
gli appetiti delle piccole, ambiziose signorie locali, specialmente i
turbolenti conti d’Aquino. Con la tragica morte di Mansone e l’ele-
zione dell’anziano e malato Giovanni II si erano rapidamente dissol-
te le più recenti acquisizioni territoriali di Montecassino, troppo di-
pendenti dal potere personale del primo e dalla sua consanguineità
con la dinastia capuana. Giovanni III dovette recarsi a Capua per
chiedere soccorso al principe regnante, dato che la dinastia conti-
nuava a mantenere la “tutela” sul monastero. Come in un gioco del
LUCI E OMBRE DEL PERIODO FORMATIVO DI UN MONACO ITALIANO 101
gio 969, papa Giovanni XIII (965-972) elevò Benevento a sede ar-
civescovile, mettendola a capo di tre diocesi suffraganee stanziate
nel Catepanato bizantino. Giovanni XIV (983-984) vi aggiunse al-
tre tre diocesi, localizzate sempre nel territorio amministrato da Bi-
sanzio. Giovanni XV (985-996, al soglio di Pietro fra l’agosto 985
e il marzo 996) concesse a Salerno la giurisdizione su quattro dio-
cesi nelle bizantine Lucania e Calabria. Con determinata progres-
sione, il papato rafforzò dunque l’autorità di Pandolfo I Capodifer-
ro su dieci vescovati situati nella provincia bizantina, nel tentativo
di “sfrattare” l’Impero d’Oriente con il grimaldello della giurisdi-
zione ecclesiastica.
Nell’estate del 969, lo scontro divenne militare. Pandolfo I Ca-
podiferro guidò, per conto dell’imperatore sassone, la milizia di Ca-
pua-Benevento all’assedio della città-fortezza di Bovino (nella Pu-
glia settentrionale, dunque nel Catepanato bizantino). Catturato
dai difensori, fu spedito a Costantinopoli in catene. È il momento
tragico in cui abbiamo già incontrato la moglie Aloara impegnata a
regnare in sua vece sui principati di Capua e Benevento, difenden-
doli dalle incursioni ordinate dal basileus. Capodiferro, in una pri-
gione di Costantinopoli, scommise sulla fine del regno di Niceforo
Foca. Ebbe ragione. O fu ben informato. Nel dicembre 969, l’im-
peratore fu assassinato da un parente, Giovanni Zimisce, poi inco-
ronato suo successore. Il nuovo basileus voleva impostare una poli-
tica estera meno aggressiva nei confronti di Ottone I di Sassonia.
Diede quindi al principe di Benevento e Capua l’opportunità di tor-
nare in Italia, come suo rappresentante, per negoziare la pace. Il
nuovo rango e il compito diplomatico non impedirono ai bizantini
di mantenere Pandolfo I Capodiferro in ostaggio a Bari fino a quan-
do Ottone il Grande accettò di negoziare una pace meno effimera e
di far sposare suo figlio Ottone II con Teofano, nipote di Zimisce9.
La seppur fragile pace fra il Sacro Romano Impero e l’Impero
d’Oriente diede a Pandolfo un’opportunità eccezionale: mentre
confermava la sua devozione verso l’imperatore occidentale e il ri-
10 Wickham, 1997.
11 Gay, 1917: 326 sgg. Il giovane imperatore tentò di nuovo di marciare sul
Sud d’Italia nel 983, ma dovette ripiegare su Roma dove morì alla fine dell’anno.
12 Gay, 1917: 331-332.
13 Id., 1917: 271.
108 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA
realtà era molto più variegata di una semplicistica divisione tra aree
latine e aree greche18.
Accumulate le informazioni e gli indizi necessari, possiamo ora
tirare le somme circa la pianificazione longobarda volta a erigere,
con il consenso bizantino, un cenobio latino proprio nel luogo do-
ve stava avvenendo il revival politico-spirituale del monachesimo
greco-orientale.
Come abbiamo visto, per tutta la fine del X e l’inizio dell’XI se-
colo i potentati longobardi di Benevento e Capua erano fondamen-
talmente indipendenti da Bisanzio, ad eccezione di alcuni periodi.
Il governo imperiale del basileus, dal canto suo, era impegnato a ri-
stabilire il controllo amministrativo e militare su vaste aree meridio-
nali della penisola italiana e a riorganizzare di conseguenza le strut-
ture amministrative e religiose. Ma aveva una spina nel fianco: la
continua minaccia e l’oscillazione d’obbedienza dei principi longo-
bardi che sfidavano l’autorità bizantina non appena si trovavano
nelle condizioni di poterlo fare. Sfide in genere fallimentari, ma da
cui non si esentavano.
La fondazione di un cenobio longobardo al Monte Athos fu, al
di là dei risvolti religiosi e anzi sfruttandoli, un atto politico teso a
stabilizzare queste oscillazioni nel rapporto fra quei principati del
Centro-Mezzogiorno italiano e il governo imperiale di Costantino-
poli. Nella situazione creatasi alla fine del X secolo, i primi avevano
assolutamente bisogno di un intermediario con il governo imperia-
le bizantino. Tale negoziatore non doveva essere connotato politica-
mente, anche se era necessario che fosse in grado di giocare su di-
versi tavoli politici. Non doveva essere né sottoposto a Bisanzio, né
esserne indipendente. Meglio far nascere un’istituzione non com-
merciale e con nessuna connotazione militare, ma inserita nella sfe-
ra religiosa. Doveva avere una localizzazione geo-politica strategica
per svolgere al meglio il ruolo di avamposto nell’impero bizantino.
Se fosse stato situato nel centro del potere (Costantinopoli), avreb-
be rischiato di fallire per la sovraesposizione. Meglio dunque eriger-
lo in un luogo geograficamente periferico, ma comunque centrale
rispetto ai meccanismi del potere (il Monte Athos).
25Toubert, 1973: 695-698. Id., 1976. Loud 1994: 57-58. Wickham, 1997.
Hubert, 2013.
26 Bloch, 1946.
114 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA
31 Trinchera (a cura di), 1865: 11, 12, 14, 17. Dölger, 1924: 911. Cfr. Falken-
hausen, 1992: 74 e n. 23, 75.
32 Falkenhausen, 1992: 87-107.
33 Tsougarakis, 2008: 111.
34 Leccisotti, 1987: 48-50, e 53. Dell’Omo, 1999: 35, 45. Reynolds, 2012: 78.
35 La Chiesa del monastero di Costantinopoli fu consacrata a Deiparae seu
nale, già Viennese 15, e a Roma, presso la Biblioteca Vallicelliana, ms. Tomo I.
118 LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA
Per la redazione dell’Obitus Nicolai vedi Johannes Monachus, Huber (a cura di),
1913: XVII e Hofmeister, 1924: 135 sgg. Per un’analisi dell’Obitus s. Nicolai al-
l’interno di un confronto fra le varie testimonianze agiografiche nicolaiane, vedi
Vuolo, 2012: 255-281.
LA RATIO DI EDIFICARE UNA CASA BENEDETTINA ATHONITA 119
Giovanni Amalfinos era successo a Leone «verso il 991» (1963: 223-224). L’atto
del novembre 991 può essere assunto solo come terminus ante quem della morte
del fondatore.
3 Rouillard, Collomp (a cura di), 1937: n. 10. Lavra 9 in Actes de Lavra, I, Le-
gli atti ufficiali in latino, con due sole eccezioni dovute al copista (ci
sono pervenute solo in copia). Le firme sono in genere vergate in
scrittura beneventana, una grafia minuscola sviluppata nello scrip-
torium di Montecassino e degli altri monasteri benedettini della pe-
nisola italica. Non è strano trovarla al Monte Athos perché era la
scrittura più diffusa nel Centro-Sud della penisola italica. È detta
beneventana, perché la sua definitiva consacrazione ebbe luogo nel
territorio di Benevento sotto Landolfo I, arcivescovo dal 956 al 983,
al tempo del concepimento di Apothikon4.
Stando a Lemerle5 e Pertusi6, il Giovanni che autografò nel no-
vembre del 991 si chiamava Giovanni l’Amalfitano, era di Amalfi ed
era a capo del monastero amalfitano7. Secondo questi autori, l’atto
non è semplicemente la più antica attestazione di una casa benedet-
tina radicatasi sul Monte Athos, ma il primo documento compro-
vante che essa si chiamasse Amalfion.
Tale interpretazione è stata data per scontata e ripresa da quasi
tutti gli studiosi. Purtroppo però non è supportata da alcuna prova
d’archivio. Né nella firma né altrove viene indicato che Giovanni
(Iohannes) fosse originario o provenisse da Amalfi. L’errore è dovu-
to a un travisamento. Nella trascrizione della prima edizione (Rouil-
lard, Collomp, 1937) degli Actes de Lavra, alcune lettere illeggibili
seguono le parole «Ioh(annes) monachus» e precedono «fit ». Gli edi-
tori hanno pensato bene di completare la firma con le lettere anus.
L’insieme diventa quindi «Joh(annes) monachus [ ]fit(anus) manu
me[a scripsi] »8. Per conferire certezza che il Giovanni in questione
fosse di Amalfi, nel 1953 Lemerle riprese la firma a chiare lettere e
senza parentesi tonde o quadrate che siano: «Johannes monachus
Amalfitanus manu mea scripsi »9. Pertusi si rifece a Lemerle e agli At-
ti della Lavra di Rouillard, Collomp dove però gli editori stessi ave-
vano ammesso esservi vuoti conoscitivi sulla tradizione del testo,
1963: 223. «Giovanni (Amalfitano), abate di Santa Maria degli Amalfitani», in su-
pra, 1963: 251. Parlando di “Santa Maria degli Amalfitani”, Pertusi anticipa al
991 una consacrazione del monastero che troviamo nei documenti athoniti solo
dal 1169 (Merlini, 2014).
15 Del documento originale esistono copie antiche, dove però è saltata la fir-
thou (a cura di), 1970: 155.32. Pertusi, 1963: 227, nota 32.
19 Questa sottoscrizione è in greco. Lavra 21 in Actes de Lavra, I, Lemerle,
26 Nicol, 1962.
27 Fajfer, 2010a: 37.
28 Oikonomides, 2005: 127.
Un pedone latino
nella scacchiera del Grande Gioco
tra Occidente e Oriente
funzioni di proestòs (priore) alla sfera spirituale (righe 6-14). Alla fine dell’anno,
Simeone rimetterà nelle mani di Nicola l’intera direzione del monastero, sia tem-
porale che spirituale, ritirandosi nel suo kellion con un servitore (righe 14-17).
Sottoscrivendo il provvedimento, Nicola contrae l’obbligo vita natural durante di
prendersi cura di Simeone. Qualora morisse per primo, avrà diritto di designare
il successore che erediterà lo stesso obbligo. Qualora accadesse che lui o il suo sub-
entrante non siano in grado di provvedere a Simeone così come questi desidera,
dovranno versare annualmente a questi e al suo servo 30 modioi di grano, 50 mi-
sure di vino, 6 modioi di legumi secchi, 6 nomismata per gli abiti e altri nutri-
menti (righe 18-23).
4 Lavra 21 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou
1970: 137.
130 UN PEDONE LATINO NEL GIOCO TRA OCCIDENTE E ORIENTE
13 Actes du Prôtaton, Papachryssanthou (a cura di), 1975: 83, 86. Keller, 1994-
2002.
14 Lavra 9 in Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou
(a cura di), 1970: 122. Vedi una serrata critica in Nastase, 1983: 287-293.
15 Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di),
1970: 155.54.
16 Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di),
1970: 36.
UN PEDONE LATINO NEL GIOCO TRA OCCIDENTE E ORIENTE 133
14 Berschin, 2001.
15 Ciggaar, 1996: 278.
16 Falkenhausen, 2007: 108.
17 Matthiae, 1971. Frazer, 1973: 145-162. Belting, 1974. D’Antuono, 2000:
42. Braca, 2003: 63 sgg. Skinner, 2006: 65-78. Iacobini (a cura di), 2009.
18 Contadini, Camber, Northover, 2002: 73. Merlini 2015.
19 Janin, 1964: 245-253.
10 Pertusi, 1953: 3. Id., 1963: 218-220.
AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA 137
12 Gargano, 2014: 9.
13 Id., 2006: 475.
14 Berza, 1938: 355. Goitein, 1967: 212 sgg. Cahen, 1977: 272. Citarella,
1977: 33 sgg. Abulafia, 1997: 184. Citarella, 1999: 60. Cariello, 2002: 85. Garga-
no, 2006: 475. Laiou, Morrisson, 2007: 84. Jacoby, 2008: 85. Gargano, 2014: 23.
15 Goitein, 1967: 81. Ashtor, 1980: 416. Citarella, 1993: 252. Pinna, Zedda,
2007: 34.
AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA 139
16 Gargano, 2005.
17 Gargano, 2014: 19, 20.
18 Bouras, 1991: 19.
140 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA
19 Berza, 1938: 354-355. Schipa, 1968: 93. Balard, 1976: 85-86. Gargano,
2006: 472. Gargano, 2014: 17.
20 Berza, 1938: 355. Gargano, 2001: 11.
AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA 141
28 Hofmeister, 1932.
29 Balard, 1976: 85-96.
30 Oikonomides, 2005: 127.
31 Ciggaar, 1974: 262.
32 Heyd, 1885-1886: 99, 101-103. Belin, 1894: 18 sgg. Gay, 1917: 50 sgg.,
232 sgg., 544 sgg. Hofmeister, 1920: 94-127. Id., 1923: 328-339. Id., 1932: 225
sgg., 493 sgg., e 831 sgg. Berza, 1938: 349-444. Michel, 1939. Coniglio, 1944-
1945: 28-29, 100-114. Bréhier, 1950: 208 sgg. Balard, 1976: 85-95.
33 Gargano, 1994: 113.
34 Belin, 1894: 18. Gariador, 1912: 93-96. Leib, 1924: 100-101. Janin, 1953:
35 Janin, 1953: 583. Galasso, 1959: 81-103. Ciggaar, 1976: 262. Figliuolo,
1986: 591 sgg. Renouard, 1995: 39 sgg.
36 Abulafia, 1997: 176.
37 Tsougarakis, 2008: 11, 112.
38 Belin, 1894: 18 nota 3. Kalligas, 1895: 3, nota 4.
39 Balard, 1976: 86. Gothóni, Speake (a cura di), 2008: 12, 35-36.
144 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA
40 Cahen, 1953-54: 61-66. Stern, 1956: 533-534. Ashtor, 1982: 200. Figliuo-
lo, 1986: 583. Valérian, 2010: 203-205.
41 Skinner, 2013: 219, 233.
42 Chronicon Salernitanum, testo longobardo del X secolo pubblicato nel vo-
45 Michel, 1939: 35-47, 53. Dondaine, 1951: 323. Schwarz, 1978: 53-58. De
Rosa, Perani (a cura di), 2005: 39. Gargano, 2008: 86. Stroll, 2011: 47, nota 59.
46 Michel, 1939. Falkenhausen, 1993: 391.
47 Jenkins, Westerink, 1973: 458 sgg.
48 Michel, 1939: 35-47; Dondaine, 1951: 323. Schwarz, 1978: 53-58.
49 Si tratta di uno scritto apocrifo paleocristiano volto a celebrarne la predica-
50 Mesarites, 1907: 28-29. Pirri, 1941: 29. Imperato, 1987: 240, nota 8.
51 D’Antuono, 2008: 19.
52 Matthiae, 1971. Frazer, 1973: 145-162. Belting, 1974. D’Antuono, 2000:
42. Braca, 2003: 63 sgg. Skinner, 2006: 65-78. Iacobini (a cura di), 2009.
53 Gargano, 2008.
54 Porpora, 2008.
148 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA
Id., 1994: 242 sgg. Chiesa, Dolbeau, 1989: 919-925. Falkenhausen, 1993: 100-
103. Chiesa, 1995; Id. 2000: 652-654; Id., 2004: 508-510.
150 AMALFION NEL CONTESTO DELL’ESPANSIONE AMALFITANA
61 Vedi Scorialensis graecus ᴪ. II. 7., f. Vv. edito in Andres, III, 1965: 30-31.
Cfr. anche Perria, 1993: 116.1-7.
62 Perria, 1993: 116.
E la nave va...
1 Lemerle, 1953. Pertusi, 1963: 218-9, 228, 236-7. Actes de Lavra, I, Lemer-
le, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970. Prôtaton 8, in Actes
du Prôtaton, Papachryssanthou (a cura di), 1975: 99-101, 228. L’indicazione de-
gli abati dei monasteri athoniti: 1.37-38. Balard, 1976: 91. Magdalino, 1996: 75-
76, 97-98. Thomas, Hero (a cura di), 2000: 287.
2 Actes du Prôtaton, 8. Papachryssanthou (a cura di), 1975. L’indicazione de-
le a 8,733 litri.
4 Si tratta della conferma del limite già stabilito dall’imperatore Basilio II Bul-
garoctono.
152 E LA NAVE VA...
e a est fino a Enos (allora piccola località della Tracia orientale, og-
gi la moderna Enez, in Turchia). Esse potevano solo trasportare, a
fine di vendita in terraferma, le eccedenze prodotte al Monte Athos
e ritornare con le merci necessarie alla sussistenza dei monaci. Al
tempo stesso, l’atto imperiale privilegiò cinque cenobi concedendo
loro il godimento di natanti di grande stazza da impiegarsi su lun-
ghe rotte: la Grande Lavra, Iviron, Amalfion, Vatopedi e Chilanda-
ri (citati in ordine decrescente per anzianità di fondazione)5.
È interessante osservare il criterio secondo cui ad alcune fonda-
zioni monastiche non venne applicata la restrizione alla capacità di
carico delle imbarcazioni. Anzitutto, furono esentate quelle che ne
avevano già acquisito il diritto da crisobolle precedenti: una nave da
6.000 modioi era stata garantita alla Grande Lavra dall’imperatore
Basilio II Bulgaroctono e un simile permesso era stato concesso po-
co dopo a Iviron e Chilandari. Vatopedi fu autorizzata in quanto il
suo natante stava già operando con il consenso scritto del protos e di
tutti gli igùmeni e probabilmente anche per le ragguardevoli dimen-
sioni raggiunte dalla sua fratellanza. Per il convento degli amalfita-
ni venne applicata una speciale deroga per “particolari necessità”,
ovvero l’ottenimento di forniture provenienti dai compatrioti resi-
denti a Costantinopoli6.
Va rilevato che la misura imperiale, apparentemente di tipo con-
cessivo nei confronti delle attività mercantili dei monaci del Monte
Athos in generale e di Amalfion in particolare, fu in realtà di tipo
restrittivo, essendo questi già da tempo impegnati in liberi e lucro-
si traffici sulla lunga distanza. La crescita di opportunità commer-
ciali era connessa sia all’espansione urbana manifestatasi a partire
dal X secolo, sia ai loro investimenti in miglioramenti agricoli, al lo-
ro divenire proprietari terrieri di peso e alla conseguente produzio-
ne di surplus. È però difficile determinare l’estensione totale del-
l’import-export dei monasteri athoniti, essendo i documenti in no-
stro possesso per la maggior parte di tipo prescrittivo, in quanto ri-
7 Angold, 1985: 1-37. Bryer, Cunningham, 1996: 94. Harvey, 2003: 198-243.
8 Bryer, Cunningham, 1996: 94.
9 Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di),
1970, note 55, 67, 68. Kaplan, 1992: 304-6. Bryer, Cunningham, 1996: 95.
Harvey, 2003: 198-243.
154 E LA NAVE VA...
ron, non è attestata prima del 1080, suggellata da un atto del pro-
tos. Amalfion poté fregiarsi del titolo regale nel pieno delle temperie
religiose e politiche fra Occidente e Oriente, quando monasteri e
chiese latine venivano chiusi a raffica.
Se la crisobolla imperiale sancì ampie agevolazioni fiscali alla
comunità benedettina sui proventi derivati dai contadini insediati
sulle sue terre, sempre nel 1081 essa rischiò di perdere quelli dei
villaggi nella regione del fiume Struma, nella Macedonia orienta-
le. Il rischio di default fu dovuto alle continue vessazioni da parte
dalle armate bizantine in trasferimento verso ovest per combattere
i normanni che si stavano pericolosamente dirigendo verso Co-
stantinopoli. I soprusi bizantini riguardarono soprattutto estorsio-
ni in natura di alimenti e animali. Gli abitanti e contribuenti fug-
girono o vennero allontanati verso altri villaggi. Ne risultò l’impos-
sibilità per Amalfion di rivendicare gli oneri fiscali garantiti dai
suoi privilegi. Un editto imperiale sostenne i suoi diritti sulle terre
abbandonate4.
La soluzione avrebbe rappresentato un onere aggiuntivo per un
piccolo monastero, senza la possibilità d’acquisire le risorse aggiun-
tive necessarie per mettere a coltura i campi. Fu invece un’impor-
tante opportunità per un’organizzazione potente come Amalfion, in
grado di beneficiare dell’ulteriore disponibilità di terre5.
Analizzando il Typikòn del 1045, abbiamo rilevato che l’imbar-
cazione impegnata a fare la spola con lo scalo marittimo amalfitano
di Costantinopoli fu vitale per il sostentamento del monastero e la
sopravvivenza dei monaci. La quasi totale dipendenza dal mecena-
tismo dei Philochristoi era però un forte elemento di vulnerabilità.
Una volta che Amalfi fu conquistata dai normanni e i mercanti-na-
vigatori di Costantinopoli iniziavano a declinare in potere, prestigio
e ricchezza, la necessità di provvedere una relativa autosufficienza si
caricò di urgenza. Vennero quindi acquistate grandi estensioni di
terre in Macedonia e in Tracia. Volente o nolente, Amalfion entrò
dunque a pieno titolo nel meccanismo allora in atto di concentra-
zione della proprietà terriera in poche mani, poiché solo grandi la-
tifondisti con molte risorse potevano sfruttare la situazione metten-
do terre abbandonate di nuovo a coltura.
Nel giugno dello stesso anno, fu siglato un atto d’acquisto con il
cenobio di Kosmidion. La firma di Benedetto (Benediktos) quale
abate del monastero imperiale degli amalfitani (Amalphenon) sancì
l’acquisto di una grande tenuta fondiaria. Si trattava di Platanos (nel
distretto fiscale di Prinarion), a est del fiume Struma su cui si stava-
no concentrando gli investimenti terrieri dei benedettini. Kosmi-
dion venne rappresentato dall’igùmeno Eugenio. Il prezzo: 24 lib-
bre d’oro. Possiamo notare che il provvedimento confermò ad
Amalfion il privilegio del titolo imperiale. Inoltre, apprendiamo che
il quarto abate conosciuto dal materiale d’archivio si chiamava Be-
nedetto6. Nel frattempo, possono naturalmente essersi avvicendati
altri, i cui nomi però sono ignoti. Il documento è conservato negli
archivi della Grande Lavra7.
Nel 1081, Amalfion possedeva dunque abbastanza mezzi per in-
vestire una cospicua somma nell’acquisto di un’estesa proprietà fon-
diaria presso Chrysoupolis sullo Struma, applicando lo schema con-
solidato secondo cui i monasteri tendevano ad ampliare la loro ric-
chezza agraria attraverso l’acquisizione di terreni da altri monasteri o
inglobando altre fondazioni monastiche e i loro campi8. La già rile-
vata assenza di benefattori nelle vicinanze della penisola di Agion
Oros obbligò il cenobio benedettino a procurarsi terreni ben lontani,
nella Macedonia orientale, rompendo con l’efficiente sistema abitua-
le di acquisizione di tenute da parte degli istituti monastici athoniti:
1958: 187. Id., 1959: 555. Guillou, 1959: 555. Pertusi, 1963: 228, nota 37. La-
vra 42 in Actes de Lavra, I. Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cu-
ra di), 1970: 233 240. Merlini, 2013.
8 Harvey, 1996: 128.
160 L’AMBITO RICONOSCIMENTO DELLO STATUS DI “MONASTERO IMPERIALE”
12 Falkenhausen, 2005: 115. Per una critica a tale interpretazione, vedi Mer-
raeca non leguntur, “Il greco non si legge”. Questo detto, am-
G piamente diffuso nel Medioevo latino, chiarisce che nell’Euro-
pa occidentale ben pochi erano in grado di leggere e comprendere
in lingua originale un testo greco di un certo spessore. La maggio-
ranza era convinta che la sua ignoranza linguistica fosse giustificata
dall’inutilità del sapere greco e bizantino. Non era il risultato di una
estraneità, ma di una inimicizia. Una volta percepiti Roma e la Gre-
cia come nemici, la romanità veniva contrapposta alla grecitudine
come l’ortodossia all’eresia1. Così la maggior parte dei teologi cono-
sceva solo a grandi linee il credo e la ritualità greca, come i giuristi
tendevano in buona misura a ignorare la legge greca e gli statuti bi-
zantini2. Presso i contemporanei, il vescovo Liutprando di Cremo-
na godeva grande fama di esperto su Bisanzio, dal momento che
masticava un po’ di greco3.
Tuttavia, si è soliti sottovalutare la quantità di traduzioni dal gre-
co prodotte durante il Medioevo, la pervasività, grazie ad esse, degli
autori greci antichi e bizantini nella vita intellettuale occidentale e
le istituzioni che hanno fatto da ponte fra Est e Ovest4. Costantino-
poli ospitò per tutto il XII secolo (quello successivo al Grande Sci-
sma) un gruppo molto attivo di traduttori latini e di promotori del-
la cultura greca, fino a configurare un intero panorama letterario.
Mosè di Bergamo fu un celebrato interprete, traduttore e collettore
di manoscritti. Giacomo da Venezia rivelò all’Occidente la “logica
dall’arcangelo Michele è conosciuta attraverso tre versioni greche, una latina e al-
tre in lingue orientali. Per l’organizzazione delle edizioni, vedi Monteleone (2007:
143, nota 21). La versione latina di Leone, monaco amalfitano del Monte Athos,
ANELLO NELLA TRASMISSIONE IN OCCIDENTE DI OPERE AGIOGRAFICHE 167
14 Id., 1917-1919: 36-38. Vedi su questo passaggio Pertusi, 1963: 220, nota
9; Bonsall, 1969.
15 Sarebbe da approfondire, in questa luce, l’acquisizione da parte di un mer-
il 6 settembre.
170 ANELLO NELLA TRASMISSIONE IN OCCIDENTE DI OPERE AGIOGRAFICHE
calce alla sua traduzione del Liber de miraculis (cfr. Hofmeister, 1932: 227 sgg. e
237 sgg.).
172 LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI
delle sue opere sono la testimonianza più rilevante (se non unica)
del milieu culturale, della formazione spirituale e dell’attività lette-
raria degli occidentali a Bisanzio nell’XI secolo, in particolare del-
l’ambiente commerciale amalfitano.
Tipica è la molla che portò alla traduzione dal greco della Vita
di Santa Irene (Vita vel passio S. Herinis virginis et martiris) 6. La
commessa venne, intorno al 10807, dal nobile Lupino, esponente
della potente famiglia-clan dei Comite Maurone e parente alla lon-
tana di Pantaleone8. Disporre di una versione latina della Bios della
santa che subì il supplizio a Salonicco era reputato più che mai ne-
cessario, poiché le era stata dedicata la chiesa greca nella parte più
antica del quartiere amalfitano9. Tutte le domeniche se ne celebrava
la memoria cantandone salmi e magnificandone la gloria, ma in
realtà nessuno ne conosceva vita, miracoli e martirio. Così la chiesa
della comunità amalfitana godeva della protezione di una martire
quasi ignota, visto che nessuno aveva mai pensato di colmare la la-
cuna. Nella seconda metà dell’XI secolo, il piccolo Ducato di Amal-
fi era in difficoltà. I suoi mercanti iniziavano a preoccuparsi che
Santa Irene, contrariata da tanta noncuranza, potesse prima o poi
negare loro i favori così come nel passato aveva invece aiutato a ren-
derli prosperi. Giovanni accettò l’incombenza, anche perché i ma-
noscritti erano conservati presso il monastero greco dove risiedeva,
quello consacrato alla Santissima Vergine (Panagiotum)10. Invalida-
messa gli era pervenuta quando, insieme ad altri illustri amalfitani, era andato in
visita al nobile Lupino mentre giaceva ammalato. «Si stava chiacchierando del più
e del meno, di qualunque cosa di cui si parla abitualmente per dare conforto a un
malato, quando la conversazione si indirizzò sulla Vergine Santa e su Irene, beata
martire di Cristo”. E fu in quel momento di verità che tutti ammisero di non co-
noscerne la storia portentosa. Il prologo è edito da Hofmeister, 1924: 138 sgg. e
da Johannes Monachus, Huber (a cura di), 1913: XVIII.
19 Falkenhausen, 1993: 391. Skinner, 2013: 217.
10 Vedi il prologo della Passio Herinis in Johannes Monachus, Huber (a cura
sto verso i primi del VII secolo15. Dedicò il volume al suo mecena-
te, Pantaleone. Ciggaar ne fissa la redazione intorno al 117016. Tut-
tavia, nella dedica al mercante-nobile amalfitano, Giovanni d’Amal-
fi ne cita il titolo aulico bizantino di disipato. Poiché Pantaleone vi
entrò in possesso nel 1087, questa data costituisce il terminus post
quem per l’edizione del Liber de miraculis. Il terminus è confermato
dall’assenza nel prologo di alcun riferimento all’amico Lupino, de-
funto proprio nel 108717.
Le traduzioni di Giovanni d’Amalfi sono condotte secondo cri-
teri fortemente innovativi rispetto a quelli normalmente impiegati
dai predecessori altomedievali. Singolare è anzitutto la scelta dei te-
sti, rispondente a interessi genuinamente narrativi: pur rimanendo
senza eccezioni nell’ambito della letteratura agiografica, i temi pre-
diletti sono le trame romanzesche, le apparizioni, le rivelazioni e le
leggende in cui fenomeni naturali trovano spiegazione in interventi
soprannaturali. Minore spazio trovano i contenuti di stretta attinen-
za religiosa. Essendo il testo finalizzato soprattutto alla pastorale lai-
ca, alcune storie hanno per protagonisti marinai e commercianti e
sviluppano temi caratteristici della devozione e dell’ideologia mer-
cantile medioevale al passaggio del primo millennio18.
Inoltre, Giovanni d’Amalfi abbandona la tradizionale traduzione
verbum de verbo, perseguita quasi senza eccezione dai traduttori tar-
do antichi e altomedievali, ponendo l’attenzione sulla narrazione e
non sul dettato testuale. Sviluppa così il file rouge avviato dai tradut-
tori napoletani dei secoli IX-X19 e già visto all’opera in Leone di
Amalfion sino ad approdare a una vera e propria letteratura della
traduzione che più tardi divenne un genere molto popolare. Tutta-
via, le versioni latine di Giovanni d’Amalfi sono di livello letterario
15 Sono venti gli episodi tradotti dal Pratum spirituale. Gli altri si riferiscono
a detti e fatti dei Padri del deserto. Entrambe le matrici narrative erano probabil-
mente riunite in una redazione ampliata del Pratum (ora andata perduta) che for-
se era nella disponibilità di Giovanni.
16 Ciggaar, 1995: 137.
17 Georgiou, 2015: 17.
18 Si veda quella imperniata su Cristo, la più lunga fra quelle comprese nel Li-
211-267; Chiesa, 1987: 879-903; Chiesa, Dolbeau, 1989: 909-951; Chiesa, 1995.
24 Vedi la sconfitta di Mesita in Johannes Monachus, Huber (a cura di), 1913.
176 LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI
25 Merlini, 2013.
26 Per l’Obitus s. Nicolai vedi nota 41 a p. 115.
27 È custodito a Napoli, nel codice della Biblioteca Nazionale, già Viennese 15.
28 È conservato a Napoli, nel codice della Biblioteca Nazionale, già Vienne-
se 15. Hofmeister, 1924: 141 sgg. Il santo era anche protettore di una delle due
foresterie maschili amalfitane di Gerusalemme (Keller, 1994-2002: 13, nota 1).
La vita di Giovanni l’Elemosiniere tradotta da Giovanni d’Amalfi potrebbe rap-
presentare, secondo Edoardo D’Angelo (2009: 357-396), un possibile legame
fra la produzione agiografica amalfitana promossa dai Comite Maurone e l’ospe-
dale di San Giovanni a Gerusalemme con l’annesso xenodochium per i pellegrini,
fondato dalla stessa famiglia. Essi nascerebbero pertanto entro un humus amal-
fitano-cassinese.
29 Conservato a Napoli, nel codice della Biblioteca Nazionale, già Viennese
dici esaminati, 216-232 per la datazione e il rapporto fra originale greco e tradu-
zione, 245-263 per il testo. Secondo Ciggaar, la guida di pellegrinaggio turistico
sarebbe stata redatta da un visitatore inglese.
34 Haskins, 1920: 604, nota 3.
35 Chiesa, 1995: 23. Id., 2004.
178 LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI
2013.
LA TRADUZIONE DI TESTI EDIFICANTI BIZANTINI 179
43 Chiesa, 2004.
44 Beeson, 1925. Vedi anche Passty, 1988: 149.
45 Zonaras, vol. 18, 1868: 7.9. Actes de Lavra, I, Lemerle, Guillou, Svoronos,
ta. Ronchey, 2012. Cardini, 2013. Secondo alcuni studiosi, sarebbe anche esistita
una versione manichea prodotta in Asia Centrale fra il III e il VI secolo, probabil-
mente secondo un adattamento persiano o turco (Lang, 1957; Lach, 2010: 103).
6 Ronchey, 2012.
UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA 183
sia il lavoro di traduzione dal georgiano al greco che l’ampia lucidatura e abbelli-
mento del testo.
184 UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA
10 Volk spiega bene come il termine “antico” sia stato utilizzato generosamen-
te nel testo. Leone è convinto di portare all’amico un manoscritto molto antico,
ma in effetti esso avrebbe potuto avere tutt’al più una settantina di anni (Volk,
2009: 287, nota 36).
11 La prima traduzione latina datata è nel ms. VIII B 10, Biblioteca Naziona-
le di Napoli.
UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA 185
(2004) nega ogni indizio che Giovanni d’Amalfi possa essere direttamente rela-
zionato con la versione latina del romanzo di Barlaam e Josaphat, che appare im-
prontata a criteri compositivi piuttosto dissimili.
20 Volk, 2009: 46. Lach, 2010: 103. Cordoni, 2010: 68. Per ipotesi alternati-
23 Dölger, Weigand, Deindl 1943: 50. Bonsall, 1969. Volk, 2009: 47. Merli-
ni, 2015.
24 Merlini, 2015.
25 Un caso eclatante è quello del principe Giovanni, nipote dell’imperatore
Dusan, che ha portato all’estinzione la dinastia serba dei Nemanjić per aver scel-
to la vita monastica, nel 1381, ispirato dall’esempio di San Joasaf. Si fece tonsu-
rare proprio con il nome di Joasaf.
26 Voordeckers, 1967: 288-294. Djuri , 1987: 89-94. Guran, 2001: 73-121.
co. Era basata sul testo drammaturgico Barlaam e Giosafat di Bernardo Pulci (con
sotto testo encomiastico nei confronti dei Medici). Vedi il testo in Pulci, 1516.
30 Sonet, 1949-1952.
188 UN ROMANZO SUL BUDDHA IN VESTE CRISTIANA
1 I bestiari medioevali raccontano che, per essere sicuro che gli aquilotti siano
davvero figli suoi, il padre li porta sempre più in alto, vicino al sole, e li obbliga
a guardarlo fisso. Riconosce come suoi discendenti quelli che riescono a soppor-
tare la prova senza battere le palpebre. Gli altri vengono rinnegati e uccisi. Come
riflesso dell’ideologia delle crociate, per molti teologi del XII e XIII secolo l’aqui-
la maschio impegnato a riconoscere i pulcini legittimi è Dio che considera figli
suoi soltanto quelli che credono in lui (Pastoureau, 2012: 168, 172).
190 L’ENIGMA DELL’AQUILA ARALDICA
del suo comando (34-37 d.C.), il rapace è raffigurato con stile na-
turalistico. È eretto in posizione facciale, le ali sono dischiuse, il col-
lo è gonfio di adrenalina, lo sguardo fissa lo spettatore come il rapa-
ce di Amalfion ma è torvo e il becco è aperto come se fosse pronto
a colpire. È colto nell’atto di afferrare con forza un globo tra le zam-
pe sistemate a tenaglia3.
La medesima tipologia di aquila imperiale appare sul retro di un
Denarius di Vespasiano (69-79 d.C.), coniato dalla zecca di Roma,
e su una moneta di Nerva (96-98 d.C.). Nel primo caso, il rapace è
impresso ritto su un cippo ornato, forse funerario. La raffigurazio-
ne corrisponde molto a quella di Amalfion, a parte lo stile forte-
mente naturalistico e la sapidità più di oca che di sovrano degli uc-
celli. L’aquila di Nerva ha una postura simile, ma è più imperiale, ha
collo tozzo e le zampe aperte su un fulmine. È ancora più simile al-
l’aquila di Amalfion.
In quanto animale rappresentativo di Giove, nell’impero roma-
no l’aquila era reputata il tramite ideale fra cielo e terra. Dunque
fungeva da volatile psicopompo ed esprimeva la divinità e l’immor-
talità del sovrano. Giocava così un ruolo da protagonista nella ceri-
monia di apoteosi (il latino usa il termine consecratio, ossia consacra-
zione) che, da Augusto in poi, concludeva il funerale degli impera-
tori. Nell’acme del rito di consecratio /apothéosis, mentre l’immagine
di cera dell’imperatore svaniva tra le fiamme della pira funeraria, ve-
niva rilasciata un’aquila con l’incombenza di accompagnare l’anima
del sovrano nell’ascesa in cielo tra le altre divinità. In parallelo, ve-
nivano coniate medaglie commemorative con spesso sopra impressi
un altare con il fuoco sacro e un’aquila che prendeva il volo con il
fulmine. Monete siffatte sono numerose. Attraverso di loro, possia-
mo rintracciare i nomi di sessanta personalità che hanno ricevuto gli
onori dell’assunzione fra gli dei nel periodo che va da Giulio Cesa-
re a Costantino il Grande.
Sul retro di un Antoninianus di Caracalla (211-217 d.C.), la no-
stra aquila con testa rivolta verso sinistra e ritta su un globo è acco-
munata alla scritta CONSECRATIO. L’antoniniano aveva il valore di
2 denari (è infatti noto anche come doppio denario).
zione, sia come scelte stilistiche di arte alla maniera antica. Essa pro-
clama la sua sovranità svettando solenne dalla sommità della torre
del monastero. Ma di quale autorità medioevale era l’emblema?
Dopo la caduta della Città Eterna e del suo impero, l’aquila (sin-
gola o bicefala) venne impiegata da tutti i sovrani che aspiravano a
ripercorrere le gesta degli antichi imperatori e a ripristinare la gran-
dezza dell’impero romano. Venendo al periodo di fioritura di Amal-
fion, viene spontaneo ritenere che la sua insegna, medioevale di tra-
dizione romano-imperiale, possa aver rinverdito il potere dell’Impe-
ro d’Occidente e la fedeltà ad esso, dato che il monastero benedet-
tino athonita era parte integrante di quell’ecumene. Nel Medioevo
centro-europeo, l’aquila possedeva molto raramente un’accezione
psicopompa e apotropaica contro le forze del male (il secondo aspet-
to che abbiamo riscontrato nella simbologia romana). Veniva so-
prattutto associata all’idea di forza, sovranità e dominio. Nei bestia-
ri medioevali questo uccello è reputato invincibile, al punto da con-
tendere al leone il titolo di re degli animali6. In questa veste, coro-
nava obbligatoriamente gli scettri regali sulla falsariga dello scipio di
cui erano dotati i consoli e che veniva assegnato ai generali romani
durante il trionfo7. Anche nel Medioevo, lo scettro sovrapposto con
l’aquila va ad annoverarsi fra le insegne di vittoria degli imperatori,
garante dell’immancabile trionfo e dell’eternità del loro regno8.
Alla ricerca di un potere imperiale medioevale della penisola ita-
lica con vigorose aspirazioni neo-romane, non possiamo che dirige-
re l’indagine su Federico II di Svevia. In effetti troviamo alcune cor-
rispondenze fra l’emblema di Amalfion e l’aquila riprodotta sull’Au-
gustale d’oro coniato dalle zecche di Messina e Brindisi a partire dal
1231-1232, il periodo di massimo splendore per il monastero bene-
dettino athonita.
Questa moneta è tra le più affascinati, eleganti, note e studiate
dell’intero Medioevo europeo. L’aquila romana monocefala e rivol-
ta appare circondata dalla scritta: + FRIDERICUS. Come ha osser-
1 Dindorf (a cura di), Chronicon Paschale, 1832: 590 e 693. Constantinus Por-
phyrogenitus, 1829: 414, 438, 498, 500, 506. Bekker, 1838: 432. Hase, 1828:
158. Tsangadas, 1980.
198 ELOQUENTE TESTIMONE DELLA BENEVOLENZA IMPERIALE
nici operati nel corso dei secoli2. Per molto tempo questa aquila im-
periale bizantina si è contraddistinta per la solitaria grandeur ormai
impiegata solo nell’osservare con distacco ieratico il frenetico pas-
saggio del traffico. Essa è ancora descritta nelle guide turistiche3, i
visitatori non smettono di darne la caccia4, ma fu smurata e rubata
in una notte del marzo 2009. Oppure prese il volo.
Sempre a Istanbul, possiamo ammirare l’aquila dinastica dei
Comneni (ma con il capo che guarda a destra) a Bedesten, nucleo
fondante del Gran Bazar. Essa è situata sopra l’architrave esterno del-
la porta orientale, quella degli Orefici (Kuyumcular Kapisi). Nella ca-
pitale ottomana, i bassorilievi bizantini con l’aquila di commando
comnena sono stati dunque recuperati e incorporati, con funzioni
simboliche di controllo, su accessi a luoghi chiave della città5.
Siamo abituati ad associare l’impero bizantino all’aquila bicefala,
possibilmente nera in campo oro6. Ma è un’innovazione araldica
che si stabilizzò successivamente. Una volta al potere a Costantino-
poli, i Comneni utilizzarono la gloriosa aquila romana a testa singo-
la per legittimarsi quali successori degli imperatori della Città Eter-
na. Al tempo stesso, il fondatore della casa regnante, Isacco I Com-
neno, iniziò a introdurre la versione bicefala quale insegna imperia-
le volta a simboleggiare l’unione fra la Roma dell’Est e la Roma del-
l’Ovest7. Nel tempo, riservò all’aquila monocefala il ruolo di emble-
2 Dalbon, 2014: 8.
3 DK Eyewitness Travel Guide, 2016: 117.
4 “Yedikule gate in the land walls – where is the eagle?”, https://www.tripad-
visor.com/ShowTopic-g293974-i368-k6926532-Yedikule_gate_in_the_land_
walls_where_is_the_eagle-Istanbul.html.
5 Freely, 2000: 172. Freely, Sumner-Boyd, 2010. Per Müller-Wiener (1977:
rappresentazione del suo potere e della protezione che avrebbe accordato alla po-
polazione. A sua volta, queste leggende locali potrebbero aver trovato ispirazione
nelle “rappresentazioni in pietra” dell’aquila a due teste presenti nelle sculture it-
tite della regione (Zapheiriou, 1947: 21-22. Köse, 2012: 174).
18 Cardini, 1987: 38-43. De Champeaux, 1981: 391-392.
19 Magdalino, 1993: 181.
10 Ousterhout, 2009: 159. Isacco ne scrisse anche il Tipikòn (Petit, 1908: 17-
21 La casula era la veste più esterna indossata dal sacerdote impegnato in una
funzione sacra. Casula in latino significa capannina, casupola.
22 Manara, 1981: 107-108. Panascìa, 1993. Muthesius, 1992: 102.
23 Il paramento sacro è anche detto “Casula di Sant’Alboino” (primo vescovo
fattura bizantina con aquile monocefale dalle ali dischiuse e capo rivolto a destra
fin qui presentati, possiamo aggiungere il cosiddetto “Manto di Enrico”, già con-
servato nel tesoro della cattedrale di Basilea. Nel 1534, gli abitanti della città lo
vendettero e se ne è persa ogni traccia. A testimonianza dell’abito liturgico è rima-
sta una miniatura del 1446, inserita nel registro dei feudi della diocesi di Basilea,
raffigurante un vescovo che lo indossa (Andergassen, 2004. Flury-Lemberg, 2006).
ELOQUENTE TESTIMONE DELLA BENEVOLENZA IMPERIALE 203
D alla fine dell’XI secolo, sappiamo ben poco del monastero be-
nedettino. Abbiamo soltanto la firma degli abati su documen-
ti ufficiali promulgati dalla comunità del Monte Athos. Da questi
sappiamo ad esempio che nel luglio 1089, l’abate Demetrio funse
da testimonio sulla decisione di procedere alla ricostruzione del ce-
nobio di Xenophontos1.
Nell’agosto 1087, Vito o Vitone sottoscrisse un atto utilizzando
lettere latine per esprimersi in lingua greca (Biton monachos ke ka-
thegoumenos tis monis ton Amalfinon ikia chiri ypegrapsa) 2. Era quin-
di un occidentale, amalfitano o meno, cresciuto probabilmente a
Costantinopoli e parzialmente bilingue: forse conosceva il greco
parlato, ma non quello scritto3.
L’abate Vito o Vitone è attestato nei documenti per un lungo pe-
riodo: tra il 1087 e il 1108, quando ricomparve su un atto athoni-
ta nel settembre di quell’anno. La Grande Lavra possedeva a Karyes
la piccola kellion di Prophourni, giudicata troppo angusta per acco-
gliere i monaci in visita. Chiese quindi una proprietà vicina, da
adattare allo stesso scopo. Trentaquattro igùmeni, fra cui quello be-
nedettino, accolsero la richiesta con un provvedimento ad hoc4.
Rouillard, Collomp (a cura di), 1937: nota 52. Lemerle, 1953: 553. Lavra 57 in
206 PER TRE SECOLI NEL CUORE DELL’ORTODOSSIA
illuminare in permanenza uno dei luoghi più sacri della chiesa cen-
trale: la tomba del venerato fondatore, Sant’Atanasio. Svolgono
quindi un ruolo fondamentale nella drammaturgia della luce insce-
nata all’interno della cappella funeraria, un aspetto rilevante e par-
ticolarmente curato della liturgia bizantina.
I due candelabri mostrano la perfezione tecnica raggiunta nel
controllo della lavorazione dei metalli8. Anzitutto, sono dispositivi
compositi, fusi in unità multiple che compongono la base, il fusto
e il piatto. La base a forma di cupola è sostenuta da un telaio qua-
drato supportato da quattro zoccoli animali stilizzati. Il fusto è co-
stituito da anelli sferici sfaccettati biconicamente o a pilastrino. La
parte superiore si allarga a campana per sostenere un ampio disco
traforato con dodici portacandele9. Nei laboratori di alto artigiana-
to bizantino, stampi a pezzi poi ricongiunti erano il metodo più co-
mune per realizzare forme assai complesse. In buona sostanza, i
“candelabri degli Amalfitani” sono impianti compositi di illumina-
zione progettati per fornire luce in abbondanza e per generare gio-
chi ad effetto di luci/ombre.
I nostri candelabri rivelano una rara tecnica di intarsio di niello
sul bronzo10. Vantano forme geometriche pure, slancio verticale, ra-
ra eleganza delle proporzioni e virtuosismo senza pari nella decora-
zione astratta. Il ricco ornamento è reso tramite palmette orientaliz-
zanti. Due fregi sottili inquadrano una banda formata da scanalatu-
re classicheggianti e lettere cufiche a formare una vera iscrizione.
Con buona probabilità, i religiosi della Meghìsti Lavra non hanno
idea di aver collocato in uno dei punti più sacri della loro chiesa cen-
trale un’iscrizione che inneggia alla grandezza del Dio islamico11.
Le caratteristiche dell’ornamento, la tipologia dell’iscrizione cu-
fica atta a ricordare la potenza e l’onnipotenza di Dio e lo stile cal-
ligrafico con gli alifs (la prima lettera dell’alfabeto arabo costituita
da un semplice tratto verticale) curvi iscrive questi due capolavori
nell’arte Fatimide della fine del secolo XI o degli inizi del XII.
Sono inoltre da prendere in considerazione anche due monumen-
tali candelabri in bronzo (alti 120 cm) utilizzati sempre nel katholi-
kon della Grande Lavra. Ognuno è stato forgiato in cinque sezioni
fuse individualmente per poi essere ricomposte: la base ornata da tre
leoni, le tre parti del corpo (composto da un elemento centrale ret-
tangolare con decorazione traforata a separare i due fusti) e, infine, il
disco con il candeliere. Le influenze islamiche sono evidenti in par-
ticolare nel ricco ornamento traforato e nello stile degli alti leoni che
sorreggono la base. Entrambi sono caratteristici dei bronzi selgiuchi-
di dei secoli XI e XII. Dopo aver studiato i candelabri, Paschalis An-
droudis li data al XII-XIII secolo12. Sulla base di confronti stilistici,
personalmente propendo per una datazione leggermente precedente.
Le opere d’arte che abbiamo presentato appartengono al periodo
di massimo splendore di Amalfion. La presenza di modelli orienta-
li nella decorazione delle due coppie di candelabri attesta che gli
amalfitani athoniti erano parte della rete commerciale attivata dalla
comunità benestante di commercianti conterranei di Costantino-
poli. Questa era in ottimi rapporti sia con il califfo fatimide, regnan-
te su una vasta area del Nord Africa e successivamente del Medio
Oriente nel periodo 909-1171, sia con selgiuchidi, la dinastia turca
musulmana che nell’XI secolo riunì la Persia, la Mesopotamia, par-
te dell’Asia Minore e la Siria (per altro in conflitto armato con l’Im-
pero d’Oriente). I mercanti amalfitani di stanza a Costantinopoli
erano anche ottimi mediatori nei rapporti commerciali fra questi
Stati islamici e il potere bizantino, vista la loro capacità d’importa-
re e introdurre a corte e nelle dimore nobiliari lavorazioni di alto ar-
tigianato fatimide e selgiuchide che godevano di grande prestigio
ma non erano di facile reperibilità. I candelieri ancora in uso alla
Grande Lavra sono testimoni di una rete che aveva come terminali
il Nord Africa e il Medio Oriente, si instradava a Costantinopoli per
poi irradiarsi nella penisola italica, il Centro Europa e la Spagna ara-
ba passando in parte per Amalfion. E viceversa.
1 Lemerle, 1953: 553 sgg. Pertusi, 1963: 228-29. Dölger, 1924, I, 2, nota
1329. Lamerle, 1953: 553-554, Pertusi, 1963: 229. Falkehausen, 1993: 95-96.
2 Actes de Saint Pantéléèmôn in Lemerle, Dagron, Ćircović (a cura di), 1982:
83. Soloviev, 1933: 213-38. Charanis, 1971. Nastase, 1985: 290-292, 294. La
consacrazione alla Madre di Dio è presente anche nel racconto georgiano sul mo-
nastero benedettino. Vedi Martin-Hisard, 1991: 109 sgg.
3 Actes de Saint Pantéléèmôn in Lemerle, Dagron, Ćircović (a cura di), 1982: 14.
4 I monaci russi ricostruirono e ripopolarono la casa neo acquisita, «al fine di
Actes de Saint Pantéléèmôn in Lemerle, Dagron, Ćircović (a cura di), 1982: 14-18.
Attualmente, il cenobio è conosciuto con il nome del suo patrono, San Pantelei-
mon, o semplicemente “Rossiko”, dai rapporti speciali che intrattiene con il mo-
nachesimo russo (Vlasto, 1970: 302. Merlini, 2016).
5 Il nome dell’abate è quindi impossibile a leggersi. Soloviev, 1933: 220. Po-
82. Lemerle 1953: 554. Pertusi, 1953: 14. Id., 1963: 229.
7 Merlini, 2014. Id., 2016.
8 Acta praesertim graeca Rossici, 1873, n. 7: 76. Soloviev, 1933: 219 sgg. Ko-
rolevskij, 2009: col. 67. Lemerle, 1953: 554. Actes de Saint Pantéléèmôn in Lemer-
le, Dagron, Ćircović (a cura di), 1982: 82, nota 8. Pertusi, 1953: 12. Id., 1963:
229, nota 42.
9 Hilandar 3, Živojinović, Kravari, Ghiros (a cura di), 1998: I.10, 102-110,
13 Pertusi 1963: 230, nota 43. Petit, Korablev, 1910: n 3. Lavra 42 in Actes de
Lavra, I. Lemerle, Guillou, Svoronos, Papachryssanthou (a cura di), 1970: 233-
235.
L’ineluttabile declino