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PIERO

RATTALINO
MITO E REALTA' NEGLI STUDI DI CHOPIN


La didattica del pianoforte ha i suoi miti, miti radicati che vengono visti come verità
incontrovertibili. Non si diventa filosofi se non si conosce a menadito il tedesco, si diceva
all'inizio del Novecento. E tutti i futuri filosofi frequentavano assiduamente il Goethe-Institut.
Non si è degni del nome di pianista se non si sono lavorati uno per uno, e con gli esercizi
preparatori, tutti gli Studi di Chopin (cioè i dodici dell'op:10 e i dodici dell'op. 25, perché i Tre
Nuovi Studi erano gettati in pasto ai non-pianisti dalla tecnica balbuziente). E tutti i futuri
pianisti ponzavano sugli Studi, partendo dai ferrigni esercizi preparatori di Cortot o di
Brugnoli. Un mito è un mito e davanti a esso bisogna scappellarsi con rispetto. A me sembra
però che non sia scandaloso andare a guardarci rispettosamente dentro, al mito, per
verificarne la solidità. Ed è quello che farò. Ma non lo farò con l'intento perverso di
demitizzare il mito. Anzi, come vedrà chi avrà la pazienza di seguirmi, dalla mia indagine il
mito uscirà rafforzato,... sebbene con un contenuto molto diverso.
Il termine "studio" entra nella musica fin dall'epoca barocca ma acquista uno status molto
importante a partire all'incirca dalla fine del Settecento. Nascono allora come funghi gli studi
(detti anche esercizi o capricci) per ogni specie di strumento, e in particolare per il violino e
per il pianoforte. I termini studio ed esercizio vengono per un po' di anni usati come sinonimi
ma sono concettualmente diversi. Entrambi si basano su una figurazione sonora che presenta
una qualche difficoltà meccanica di assuefazione per l'esecutore. Ma nell'esercizio la
figurazione viene ripetuta identica a se stessa, o nella stessa posizione o con spostamenti
diatonici o cromatici sullo strumento, mentre nello studio la figurazione diventa il tema di una
composizione a moto perpetuo sviluppata secondo principi artistici, non, come nell'esercizio,
geometrici. Uguale il fine, diverso l'esito. L'esercizio vuole esser utile ed è meccanico, lo studio
vuole essere utile ed è dilettevole. Il termine capriccio, che indicava in genere uno studio
tecnicamente molto difficile, venne abbandonato dopo pochi decenni e fu sostituito dallo
studio da concerto o dallo studio di bravura o dallo studio trascendentale.
Non si può fare a meno di chiedersi perché lo studio esplodesse come un vulcano all'inizio
dell'Ottocento. Io ritengo che la sua impetuosa fioritura sia una conseguenza dell'influenza
che sulla musica strumentale ebbe il ballet d'action, balletto d'azione. Fino all'inizio del
Settecento il balletto era un seguito di pezzi di musica, danzati, che facevano parte di una festa
comprendente anche musica vocale e recitazione. Ogni danza aveva i suoi "passi", i movimenti
fissi che tracciavano disegni sul terreno e che per il corpo dei danzatori erano un esercizio
ginnico da svolgere con eleganza. All'inizio del Settecento venne però teorizzato e creato a
Londra il balletto d'azione, che intendeva raccontare una storia e che cercò perciò una
mesalliance fra la danza e il teatro pantomimico, il teatro che sviluppava un racconto
mediante, diremmo oggi, il linguaggio del corpo e l'espressione del viso, senza parole. Il
balletto d'azione acquisì i momenti pantomimici e li alternò con i momenti ginnici, diventando
spettacolo teatrale e creando una classe di ballerini-mimi che svilupparono la loro tecnica,
specie quella del salto, fino al livello della acrobazia. Si cita spesso il detto di Gaetano Vestris,
grande ballerino che del suo figlio e allievo Auguste diceva orgogliosmente: "Resterebbe
sempre in aria se non avesse pietà dei suoi compagni". Oggi a volare è qualche cestista. Allora
volavano i ballerini.
La definitiva affermazione del balletto d'azione avvenne, dopo una lunga incubazione, nella
seconda metà del Settecento, e grazie ad alcune fortissime personalità di artisti. E' d'obbligo
citare per lo meno il francese Noverre, l'italiano Angiolini e, più tardi, l'italiano Salvatore
Viganò. E Viganò ebbe tra i suoi collaboratori persino Beethoven, così come Angiolini aveva
impegnato in cinque balletti Gluck. Il balletto d'azione riuscì abbastanza rapidamente a far
diventare pantomimico anche il momento ginnico, creando così una coerente drammaturgia.
Noverre e Angiolini definirono spesso le loro creazioni come balletto-pantomima o balletto-
tragico, e Viganò come coreodramma, e il momento ginnico puro passò nel cosiddetto
divertissement come festa inserita nel racconto ma da questo indipendente.
Fra il balletto come componente di una festa e il balletto come teatro corre una differenza
sostanziale. La festa deve soddisfare l'occhio di chi vi assiste, e anche l'orecchio, perchè si
danza sulla musica. Il teatro si serve dell'occhio e dell'orecchio per arrivare alla coscienza
dello spettatore. Il balletto d'azione, dicevo prima, era riuscito a narrare una storia senza aver
bisogno di parole. La musica strumentale - si veda la teoria barocca degli "affetti" - aspirava
anch'essa ad avere una drammaturgia - Mendelssohn avrebbe poi trovato la più felice
definizione di questo desiderio inventando il termine romanza senza parole - e quindi non
poteva che guardare con invidia al balletto d'azione, divenuto popolarissimo. Nella seconda
metà del Settecento la produzione strumentale adottò anch'essa la distinzione di momento
ginnico e di momento pantomimico, e la adottò pressoché costantemente nei concerti e in
misura più limitata nelle sonate (ma si veda come nel primo movimento della Sonata "per
principianti" K 545 il didatta Mozart alterni regolarmente pantomima e ginnastica).
Guardiamo com'è strutturato il Concerto per clavicembalo in re minore di Bach. E', per così
dire, un concerto paesisstico: la musica scorre come un treno festaiolo sui binari del "basso
continuo" e attraversa un panorama vario, ma senza scosse emotive. E fa pensare al quadro di
Rembrandt La Ronda di notte, in cui i diversi personaggi sono effigiati in modo differenziato
ma con un evidente scopo di lavoro in comune, e quindi senza tensioni. Il Concerto in re
minore di Mozart fa pensare invece a un altro quadro, La resa di Breda di Velázquez, con il
forte contrasto drammatico fra i vinti e i vincitori. E nei concerti di Mozart, come in quelli di
Beethoven, i momenti ginnici sono molto frequenti, specialmente negli sviluppi.
Ora, lo studio classico per pianoforte, inaugurato da Antonin Reicha nel 1801 e da Johann
Baptist Cramer nel 1804, deriva quasi sempre dai momenti ginnici dei concerti. Ma mentre
l'esercizio fissa astrattamente e lavora meccanicamente gli elementi diversi della tecnica (le
cinque note, le scale, gli arpeggi, gli accordi arpeggiati, le doppie note, le ottave), lo studio
riprende dalla letteratura un particolare di non agevole esecuzione e, come già detto, lo fa
diventare il tema di un pezzo di musica a moto perpetuo. Dopo Cramer lo studio classico trova
i suoi maggiori esponenti in Clementi e in Czerny, e prosegue con gli stessi caratteri anche
dopo la nascita dello studio da concerto (per limitarci all'Italia, vi troviamo decine e decine di
raccolte di studi ginnici che si prolungano fino al Novecento con Ettore Pozzoli, le cui
numerose produzioni ebbero vasta diffusione).
Un diverso indirizzo, che si manifesta negli anni venti dell'Ottocento, è spiegato a posteriori
da Kalkbrenner nel suo Metodo (1831): Kalkbrenner consiglia di eseguire sul pianoforte passi
di altri strumenti, in modo da dover inventare diteggiature ad hoc, eterodosse. Già negli Studi
op. 20 di Kessler (1827) e negli Studi op. 70 di Moscheles (1826-27) noi troviamo figurazioni
che non sono tratte dalla letteratura del pianoforte. E questa tendenza si accentua fortemente
negli Studi op. 10 di Chopin (1829-1832). Lo Studio n. 1 rappresenta il trasferimento non
letterale sul pianoforte del balzato violinistico sulle quattro corde (si pensi al Capriccio n. 1 di
Paganini o agli episodi in arpeggio della Ciaccona di Bach). Trasferimento, dicevo, non
letterale perché il modulo violinistico ascesa-discesa viene sviluppato in salita e discesa su
quattro ottave invece di esaurirsi in una sola posizione. Si può vedere, all'opposto, come Liszt
trasferisca sul pianoforte il Capriccio n. 1 nel suo quarto Studio da Paganini. Ne abbiamo tre
versioni: la prima molto difficile ma non impossibile, la seconda talmente faticosa e rischiosa
da risultare in realtà impraticabile, la terza, e definitiva, pressoché identica all'originale
violinistico con divisione del tessuto fra le due mani. Chopin è invece geniale nel trasformare
in pianistica una figurazione che pianistica non è.
Lo Studio op. 10 n. 2 rappresenta probabilmente il trasferimento della scala cromatica con
pizzicati della mano sinistra. Nel n. 3, che sembra ispirato a una scrittura per quintetto d'archi,
c'è un passo in doppie note alla destra e alla sinistra contemporaneamente, indicato con
bravura, che è squisitamente violinistico e trasferito alla lettera. Violoncellistica è la parte
della mano sinistra nello Studio n. 9. E così via. Le figurazioni, salvo qualche eccezione, non
sono dunque tratte da una letteratura pianistica già esistente ma sperimentano novità che
potrebbero dare il via a una letteratura non ancora nata. Ciò come ragionevole ipotesi. Ma in
concreto le figurazioni degli Studi op. 10 o non si trovano nella successiva letteratura
chopiniana o, quando vi si trovano, risultano molto semplificate. Ad esempio, la figurazione
dello Studio n. 1 viene ripresa in un breve passo dello Scherzo op. 31, ma su due ottave invece
che su quattro, per la sola salita invece che per salita e discesa e con tre note al posto di
quattro. La figurazione dello Studio op. 25 n. 12 ricompare nella Ballata n. 4, ma anche qui
semplificata.
In realtà gli Studi di Chopin non preparano e non aiutano a risolvere, per così dire
preventivamente, difficoltà che si incontrano nella letteratura. Sono dunque inutili? Se ne può
fare a meno? Domanda "scandalosa" che richiede una risposta articolata. Gli Studi op. 10 (e
analogamente gli Studi op. 25) sono utili in realtà non per le figurazioni che presentano e sulle
quali allenano sportivamente il pianista ma per la tecnica che è necessaria per risolverle sul
piano della esecuzione, tecnica che non solo non è quella classica, ma che dalla tecnica classica
si stacca completamente.
La tecnica classica è la tecnica delle dita. Il braccio e la mano sostengono le dita e le
trasportano qua e là sulla tastiera ma non intervengono nello sbilanciamento del tasto. Il
tasto, che è una leva di prima specie, viene sbilanciato dal dito alla sua estremità esterna, e
quella estremità scende dunque mentre la estremità opposta si alza e, alzandosi, lancia il
martelletto a percuotere la corda per produrre il suono. "Sua maestà il dito", come dicevano
gli antichi didatti.... Avambraccio e retrobraccio si atteggiano quasi costantemente in flessione
a novanta gradi, le ginocchia stanno sotto la tastiera, i gomiti restano aderenti al busto, la
giuntura del polso rimane immobile, i muscoli estensori delle dita (quelli che le sollevano)
agiscono più dei muscoli flessori (quelli che le abbassano) e le dita attaccano il tasto
verticalmente.
Chopin rivoluziona questa venerabile tecnica, e sua maestà il dito diventa più
modestamente il terminale di un sistema, busto-braccio-mano, che quando del caso - cioè
molto, molto e molto spesso - dà il suo attivo contributo allo sbilanciamento del tasto. E' un
po' come se il monarca assoluto diventasse costituzionale, e del resto questa tecnica nasce
quando la piccola rivoluzione del 1830 scaccia dal trono francese un re per grazia di Dio e
incorona un re per volontà della nazione.... Chopin siede più indietro e più in alto di prima, di
modo che l'angolo fra retrobraccio e avambraccio diventa di circa centoventi gradi, e le
ginocchia stanno al limite della tastiera, non sotto. Le dita sono meno arcuate, il lavoro dei
muscoli flessori prevale su quello dei muscoli estensori, la giuntura del polso si muove in su e
in giù e a destra e a sinistra, l'avambraccio ruota sia verso l'esterno (supinazione) che verso
l'interno (pronazione) e si stacca anche di molto dal busto, e tutto il sistema, con il polso non
bloccato, può sfruttare elasticamente la forza di risospinta, la forza eguale e contraria che
"sale" dal tasto quando questi ha percorso tutto lo spazio disponibile per la discesa. Il legato
classico con le dita sospese diventa il legatissimo con le dita che poggiano sul tasto abbassato
e che non rilasciano la presa ma vengono trascinate via dal movimento della mano. Il ruolo
attivo del braccio porta a scoprire l'attacco longitudinale del tasto. E' una rivoluzione
copernicana, portata sbalorditivamente a termine da un giovanotto di vent'anni.
Queste conclusioni le traiamo analizzando la scrittura degli Studi e le troviamo, sia pure in
modo parziale e non senza qualche approssimazione, negli appunti per un Metodo che Chopin
scrisse parecchi anni dopo e che non ultimò mai. Chopin non ne parla, ma sembrebbe anche
che nello Studio op. 10 n. 2 egli avesse individuato per primo un tipo di tecnica di agilità che
nella Grande Fantasia di bravura sulla Campanella sarebbe poi stato indicato da Liszt con
"gettando mollemente la mano". Credo che Chopin riuscisse a rivoluzionare la tecnica sia
perché era un genio del pianoforte, oltre che della musica, sia perché il pianoforte lo aveva
studiato con un modesto violinista che conosceva la tecnica pianistica in modo rudimentale,
non certo nel modo sofisticato di un Clementi o di un Cramer. Perciò Chopin non fu
condizionato, nelle sue ricerche, da un sapere consolidato e paralizzante, e poté andare dove
lo portava il suo istinto.
Un critico illustre, Ludwig Rellstab, che recensì gli Studi op. 10 senza capire che la loro
esecuzione comportava la scoperta di una tecnica radicalmente diversa da quella classica, fece
dello spirito dicendo che per suonarli era bene tenersi vicini due famosi traumatologhi di cui
spiattellò nome e cognome. Dal suo punto di vista, sbagliato, Rellstab aveva però ragione.
Pensiamo a Schumann e alle sue disgrazie. Lo Studio op. 10 n. 1 ha una figurazione
sull'estensione di dieci tasti, mentre la mano normale si stende comodamente sullo spazio di
otto tasti (la larghezza del tasto è di circa due centimetri). Chi, valendosi della tecnica classica,
si sforza di portare le dita sulla posizione di decima, a mano ferma, deve fare molta fatica con
poco costrutto, mentre chi impiega la rotazione dell'avambraccio e l'oscillazione laterale del
polso potrà prendere delle note sbagliate ma senza stancarsi. Dicevo di Schumann, il quale,
non essendo un pianista di istinto e volendo "conquistare" la posizione di decima a mano
ferma, si allenò con una apparecchiatura con viti coniche, la Zigarrenmaschine, che forzava la
estensione laterale delle dita e che gli procurò un trauma irreversibile.
L'ammirazione che si prova per il ventenne Chopin è dunque senza fine. Il punto cruciale
che emerge con forza è però del tutto inatteso, ed è sorprendente: la tecnica scoperta da
Chopin con gli Studi op. 10, e confermata negli Studi op. 25, può essere appresa anche al di
fuori degli Studi stessi. Per apprenderla vanno ad esempio a meraviglia gli Studi di Cramer,
che risultano così utilissimi per eseguire sul pianoforte moderno la letteratura classica. E si
può cominciare a lavorarla fin dalle Sonatine di Clementi. Quindi, per dare la seconda risposta
alla domanda di prima si può dire che gli Studi di Chopin sono, in senso strettamente tecnico-
didattico, inutili. E se le cose stanno così, che cosa resta, dei mitici Studi di Chopin? Beh!, resta
la musica, che è una delle meraviglie del genere umano.
Chopin compose gli Studi avendo ancora di mira lo studio ginnico. Ma la sua genialità di
creatore era tale da... costringerlo a introdurre surrettiziamente nella ginnastica la
pantomima. I suoi Studi anticipano per questo aspetto l'età che ebbe inizio alla metà degli
anni trenta con gli Studi op. 2 di Henselt e con gli Studi op. 95 di Moscheles, tutti con titoli
caratteristici, e che si sviluppò con Liszt, i cui Studi trascedentali sono grandiosi studi di
pantomima (con titoli). Del resto, su questo aspetto si fissò l'attenzione del pubblico
dell'Ottocento, tanto che diversi Studi di Chopin ebbero titoli apocrifi. Oggi che l'esibizione
della tecnica lascia indifferente la grande maggioranza del pubblico gli Studi potrebbero
dunque essere affrontati come si affrontano i Notturni, cioè come pezzi lirici.
Prendiamo come esempio lo Studio op. 10 n. 1, detto tradizionalmente La Cascata. La
figurazione ricorda effettivamente una grande massa d'acqua in movimento, ma nella cascata
l'acqua... casca soltanto, mentre la figurazione di Chopin sale e scende. Mi sembrerebbe allora
più appropriato il titolo La Grande Onda di Hokusai, che è contemporanea dello Studio perché
fu dipinta verso il 1830. Hokusai raffigura l'onda nel momento in cui, avendo raggiunto la sua
massima altezza, comincia a ricadere. Cade, ma un'altra onda l'ha preceduta e un'altra le sta
sorgendo dietro, e cadrà a sua volta, e un'altra e un'altra succederanno. Quello che Hokusai
fissa pittoricamente nell'attimo, Chopin lo rappesenta col suono nel suo esistere:
cinematografia acustica, come dice Lawrence Kramer. Com'è noto, Debussy scelse la Grande
Onda come frontespizio della sua La Mer, ma volle che ne fossero cancellate le barche dei
pescatori che con coraggio temerario transitano attraverso la enorme massa d'acqua.
Prendiamo allora lo Studio op. 25 n. 12, detto L'Oceano. La figurazione richiama di nuovo un
susseguirsi di grandi onde, ma il corale che vi è inserito... rimette le barche al loro posto.
Lo Studio op. 10 n. 2 fa pensare al ronzio del telaio a mano, il n. 3 è il famosissimo Tristezza
(la sua melodia parafrasa all'inizio il "Plaisir d'amour ne dure qu'un monent" dello pseudo
Martini, prediletto dalla regina Maria Antonietta e popolare ancor oggi), il n. 4 richiama il
fuoco divoratore (fa pensare all'Incendio della Camera dei Lord di Turner), nel n. 5 l'acqua
illuminata da un sole accecante (con passaggi di nuvole) zampilla impetuosa in un fontana
barocca, nel n. 6 l'acqua scorre invece lenta trascinando con sé, come nel quadro di Millais, il
corpo senza vita di Ofelia, nel n. 7 un biroccio avanza traballando su una strada sassosa, nel n.
8 un bambino vestito da generale (tema di marcia nella mano sinistra) osserva il volo di un
aquilone, ecc. ecc (1).
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(1) - I titoli apocrifi tradizionali sono abbastanza noti. Per curiosità riporterò la titolazione
completa di Horace Clark-Steiniger, che risale alla fine dell'Ottocento (la trovo in Pianos and
Pianism di Robert Andres, Lanham e Londra 2001):
op. 10: Preludio, Pioggia di primavera, Notte d'estate, Tempesta di passioni, Danza di fate,
Notte, Farfalle, Eroica, Demonio, In volo, Melodia d'arpa, Rivoluzione,
op. 25: Arpa eolia, Bisbiglio d'uccelli, Fossette danzanti, Impazienza, Inferno e cielo, Notte
veneziana, Meditazione, Gaiezza, Coquette, Combattimento e beatitudine, Vento d'inverno,
Oceano.
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Tutti i pianisti hanno sempre affrontato come pezzi lirici gli Studi in movimento lento (op.
10 nn. 3 e 6, op. 25 n. 7), qualcuno si era già addentrato in passato, anche per altri, sulla via
della liricizzazione, che comporta il ripensamento sia del fraseggio che dell'affetto che del
tempo, qualcun'altro vi si sta addentrando. Il problema più grosso, che è anche quello che
suscita le maggiori riserve, riguarda il tempo. Gi studi sono studi, si dice, e bisogna farli come
studi, veloci e gagliardi. Se ci si permette di osservare che esistono in pittura gli studi per gli
affreschi si viene guardati in cagnesco. Eppure.... Perché è da sempre permesso di ignorare i
tempi di metronomo degli Studi in movimento lento? Perché si riduce senza problemi la
velocità dello Studio op. 25 n. 11, che al 69 alla metà indicato da Chopin risuta ineseguibile?
Perché si rallentano i passi in trentaduesimi dello Studio op. 25 n. 3, ineseguibili al 120 al
quarto indicato da Chopin? Di strappetti nel rigore se ne fanno e se ne sono sempre fatti. Ma il
punto è che, a voler essere coerenti, o si rispettano tutti i tempi di metronomo e si
accantonano tutti quanti. E vediamo il perché.
Ho detto che lo Studio op. 10 n. 1 potrebbe essere intitolato La Grande Onad di Hokusai.
Chiedo scusa al lettore se mi permetto di fare un pochino di autobiografia, ma devo dirgli
come ci sono arrivato. Nel gennaio del 2018 ci fu a Roma una mostra di Hokusai, e il manifesto
riproduceva, ovviamente, la celebre Grande Onda. Io mi trovavo nella metropolitana.
Scendevo nelle viscere della terra su una lunga scala mobile e sulla parete alla mia destra
c'erano dieci o dodici riproduzioni del manifesto, una in fila all'altra. Le guardavo
distrattamente, ma all'improvviso sentii nel mio orecchio interiore lo Studio di Chopin. La
velocità non era però quella alla quale ero abituato: era assai più lenta. Per la prima volta in
vita mia non sentii una corsa turbinosa di suoni ornamentali ma un meraviglioso seguito di
armonie. Il tempo di metronomo è di 176 al quarto. Chi vuole farlo provi a eseguire a 176 il
Preludio in do maggiore del Clavicembalo ben temperato, primo libro, che concettualmente è
simile allo Studio, e constaterà che le concatenazioni armoniche, così geniali, perdono di
significato: l'effetto è più o meno quello di un alveare.
Siccome mi aveva molto colpito il fatto di essere caduto sulla strada di Damasco mentre una
scala mobile mi scarrozzava dall'alto in basso, mi proposi di verificare se qualcuno avesse
messo in forse i tempi di metronomo originali degli Studi di Chopin. Non mi ci volle molto
tempo per trovare la revisione di Arthur Friedheim, pubblicata da Schirmer nel 1916. E la
prefazione del revisore mi fece molto riflettere. Friedheim era stato allievo di Liszt e negli
anni ottanta anche suo segretario, ed era lisztiano a tal punto che la sua autobiografia fu
pubblicata, dopo la sua morte, con il titolo Life and Liszt.
Nella prefazione il Friedheim dice: "Gli Studi op. 10 sono dedicati a Liszt e, come Liszt ripeté
frequentemente, i due amici ne discussero ogni particolare prima di consegnare il manoscritto
allo stampatore". Proseguendo egli afferma, e non c'è ragione per non credergli, di aver
"ascoltato la maggioranza di questi Studi eseguiti più volte da Liszt ", di averli ascoltati inoltre
"in centinaia di lezioni" e di aver "in altre occasioni" sentito "praticamente tutto quello che
Liszt aveva da dire a loro proposito". Friedheim dice ciò, dopo aver polemizzato con l'edizione
di Mikuli, per polemizzare ulteriormente con due edizioni degli Studi provenienti "dal circolo
Liszt, una delle quali era cattiva e l'altra non buona". Egli rivendica dunque la sua qualità di
testimone affidabile, di custode della tradizione lisztiana in ordine alla diteggiatura, al pedale
e ai "segni di interpretazione".
Sui tempi di metronomo così di esprime: "I segni di metronomo sono da intendere come
meri aiuti, per evitare seri fraintendimenti". Ma proprio qui il discorso si fa per me più
interessante, perché Friedheim indica i suoi tempi, che raramente coincidono con quelli di
Chopin, da lui taciuti e quindi completamente ignoti al lettore E i suoi tempi dovrebbero
essere, verosimilmente, quelli del vecchio Liszt. Riporto in una tabella i tempi di Friedheim e
quelli di Chopin (per quelli di Chopin ci sono piccole differenze fra l'autografo e le prime
edizioni originali: riporto quelli della prima edizione tedesca):
Friedheim Chopin
op. 10 n. 1 144 176
op. 10 n. 2 126 144
op. 10 n. 3 69 100
op. 10 n. 4 80 88
op. 10 n. 5 116 116
op. 10 n. 6 116 (all'ottavo) 68 (al quarto puntato)
op. 10 n. 7 80 84
op. 10 n. 8 88 88
op. 10 n. 9 76 96
op. 10 n. 10 92 (72?) 80
op. 10 n. 11 72 76
op. 10 n. 12 144 (al quarto) 76 (alla metà)
op. 25 n. 1 84 104
op. 25 n. 2 112 112
op. 25 n. 3 120 120
op. 25 n. 4 160 160
op. 25 n. 5 152 184 (104 e 168 al Più lento)
op. 25 n. 6 69 69
op. 25 n. 7 56 66
op. 25 n. 8 80 (60?) 69
op. 25 n. 9 112 112
op. 25 n. 10 60 72 (66 al quarto e 42 alla
metà col punto al Lento)
op. 25 n. 11 58 69
op. 25 n. 12 76 80.
Come si vede, i tempi di Friedheim sono quasi sempre più lenti e in non pochi casi molto
più lenti (nei due casi in cui il tempo di Friedheim è più veloce sembra a me che si tratti di
errori di stampa). L.i ho riportati più che altro per curiosità, ma anche per dimostrare ccme un
devotissimo allievo di Liszt non tenesse conto delle indicazioni originali. Che è poi quello che
io consiglio oggi a tutti. Resta da vedere se veramente Chopin e Liszt controllassero insieme il
manoscritto dell'op. 10 prima di consegnarlo allo stampatore. Diversi biografi dicono che,
quando vennero pubblicati gli Studi op. 10, Liszt si chiuse in casa, li lavorò e poi li fece
ascoltare all'Autore, sbalordendolo. Ma le cose stanno un po' diversamente. Lo sbalordimento
di Chopin è documentato. In una lettera a più mani indirizzata a Hiller, Chopin dice: "Non so
che cosa la mia penna stia farfugliando perché Liszt sta eseguendo i miei Studi e mi porta
lontano dai miei onesti pensieri Vorrei rubargli il suo modo di eseguire i miei propri Studi". La
lettera è datata 20 giugno 1833: gli Studi uscirono a stampa in agosto. Liszt lavorò dunque gli
Studi sul manoscritto ed è possibile che qualche suo parere venisse accettato da Chopin. In
ordine ai tempi di metronomo? Forse sì.
In verità, tutti i tempi di metronomo che Chopin indica dall'op. 1 all'op. 27 (poi non li indica
più) stabiliscono velocità assai più alte di quelle che sono documentate già dai dischi e dai
rulli di pianoforte riproduttore di interpreti della generazione 1830-1860. Negli anni trenta i
grandi virtuosi, che stavano cercando di attrarre verso la musica strumentale il pubblico
borghese che impazziva per il melodramma, cercavano di impressionare gli ascoltatori anche
attraverso le velocità parossistiche. E Liszt, nel 1833, stava ingegnandosi per trasferire sul
pianoforte il virtuosismo vertiginoso di Paganini.
E' possibie che anche Chopin venisse coinvolto in questa tendenza a fare svelto. Ma questa
è secondo me una ragione di più per accantonare non solo i tempi di metronomo dei Notturni
e delle Mazurche e degli Studi pantomimici, ma di accantonarli tutti, recuperando i valori
dell'armonia e della melodia che vanno in parte dispersi con le esecuzioni ginniche. Faccio un
piccolo esempio. Lo Studio op. 25 n. 2 eseguito a 112 di metronomo risponde benissimo al
titolo, Le Api, che gli fu dato da Planté. Se la velocità è più moderata la linea a moto perpetuo
diventa una melodia rapida in cui si percepiscono, fin dalla prima battuta, intervalli dissonanti
come la terza diminuita e la quarta eccedente: una melodia che negli anni trenta già guarda
profeticamente al futuro. E quando Liszt suonò per l'ultima volta per un pubblico, nel castello
di Kolpach in Lussemburgo poche settimane prima della morte, eseguì questo Studio
dapprima com'è scritto, e poi in ottave. L'esecuzione in ottave non poté presumibilmente
superare la velocitò di 66-69.
Per carità, il Novecento ci ha lasciato esecuzioni da ginnastica artistica di altissimo valore:
basti pensare a Backhaus e ad Ashkenazy. Ma ci ha anche lasciato esecuzioni meccaniche che
sacrificano la musica. Come scrisse Stanislav Bunin nel booklet di un suo concerto del 1999,
gli Studi di Chopin sono le pagine pianistiche che nella seconda metà del Novecento hanno
subito le maggiori violenze. Quello che ci darà l'avvenire non possiamo saperlo. Forse la
buona vecchia maniera rimarrà e sarà affiancata da una nuova maniera. Forse no. Non
possiamo saperlo, dicevo. Ma sappiamo che nel loro essere profondo gli Studi di Chopin
trascendono la tecnica non meno degli Studi di Liszt. Abbiamo avuto altissimi saggi di
ginnastica artistica. Possiamo avere altissimi saggi di danza, di artistica danza acustica?
Possiamo aspettarci che dopo le Comaneci e i Chechi arrivino le Taglioni e i Nijinski?
Chi rimane fedele alla poetica del Novecento si chiederà a questo punto se sia legittimo
adottare dei titoli apocrifi e far ricorso a immagini non supportate da alcun documento.
Secondo me non si tratta di legittimità o di illegittimità ma di lettura del testo nei suoi aspetti
che precorrono il simbolismo. Tutti vedono in Chopin il suono cosiddetto preimpressionistico.
Altrettanto evidente è però, se ci si pensa su un momento, il presimbolismo, inteso al modo
dei Preludi di Debussy. Lo stesso Chopin, del resto, volendo spiegare in una lettera a un amico
il carattere del secondo movimento del Concerto op. 11, si era, per una volta tanto... lasciato
andare: "Una meditazione nel bel tempo primaverile ma al chiaro di luna" (3 ottobre 1830).
La pantomima, secondo me, in Chopin ci sta tutta. Anche negli Studi. E anche negli Studi
Chopin è un Tondichter, un poeta del suono.
Per onestà intellettuale mi corre l'obbligo di dire che ciò che ho cercato di spiegare è oggi
oggetto di ricerche e di riflessioni in fieri da parte dell'estetica cognitiva alla quale mi sono
riferito, alla estetica che tiene conto anche delle reazioni dell'ascoltatore e della sinestesia e
della sensorialità dell'arte. I risultati che sono stati raggiunti possono non essere condivisi
perché manca ancora la dimostrazione scientifica di cui si stanno occupando i neurologi e i
biologi. Ma io ho inteso informare per lo meno il lettore su ciò che sta accadendo. E per
fortuna che sta accadendo, perché altrimenti l'interpretazione della musica sarebbe arrivata
al traguardo e potrebbe soltanto più essere autoreferenziale.

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