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A proposito di Robert Cogan

(…)
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Compositore ed teorico americano (Dallas, 1930) Cogan da alcuni decenni, almeno da quando la
tecnologia lo ha permesso, studia gli aspetti sonoriali e performativi dei piú svariati brani musicali (quanto a
stile ed epoca, compresa la musica elettroacustica) servendosi non della tradizionale partitura, ma di
immagini spettrografiche, piú precisamente di sonogrammi. Tale approccio gli permette di “vedere” cose che
la notazione convenzionale è incapace di mostrare. Detto così non vi sarebbe nulla di sorprendente:
chiunque oggi, data la grande diffusione dei supporti informatici, è in grado di processare con i piú comuni
software musicali un file audio, ottenendo grafici o tabelle di varia natura. Ma Cogan fa molto di piú ed è
quanto cercherò di spiegare.

1. Un mondo di onde

A fondamento della ricerca di Cogan è la centralità che, nel ‘900, assume la dimensione sonoriale non
solo nella musica, ma nella riflessione teorica sulla musica. Di pari passo con una rifondazione dei punti di
vista con i quali la nuova fisica interroga il mondo (l’infinitamente grande e l’inifinitamente piccolo), il suono
cessa di essere letto come macrofenomeno per assumere una connotazione multidimensionale. L’occhio
dello scienziato si fa veicolo di uno stupore primordiale davanti alla complessità delle cose: “viviamo in un
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mare di vibrazioni, noi stessi siamo essere vibranti” .
Sollevato dunque il coperchio che ci intrattiene al di qua dell’universo fenomenologico scopriamo il
mondo caotico dell’energia e della vibrazione, quello delle onde sonore. Ma lo stupore non si arresta alla
contemplazione di tale vibrare infinito; esso si rinnova nel constatare l’incessante movimento che ne
consegue. Il suono è qualcosa di estremamente transeunte e volubile: passa e va. Come è possibile cogliere
la morfologia di questo fluire?
Se poi vogliamo approfondire il senso con cui questa nuova visione del suono si è riflessa nella musica
possiamo constatare l’emergente necessità di una lettura multidimensionale non solo delle qualità sonoriali
in senso stretto, ma anche dei piú rigidi e convenzionali paramentri musicali. Si pensi alle altezze: un tempo
gradi ritagliati col coltello lungo una scala immaginaria, nella musica del ‘900 li ritroviamo con gli spigoli
smussati, con le differenze appiattite. Le numerose forme di produzione del suono, le varie ‘gestualità’
strumentali ne hanno impoverito gli aspetti diastematico-quantitativi ingigantitendo le qualità esterne alla
notazione. In altri casi, si pensi a certa musica di Stockhausen, la singola nota risulta inghiottita da un turbine
di eventi anonimi, senza una specificità autonoma e il cui senso emerge solo all’interno di un piú globale
ordine statistico.
Altrettanto può dirsi della dimensione ritmico-temporale che nel ‘900 non si dispiega piú lungo ordinati
percorsi lineari che implicano un divenire, ma diventa anch’essa fenomeno complesso e moltepice. Jonathan
Kramer passa in rassegna alcune tipologie temporali della musica novecentesca: il tempo multidirezionale in
cui il flusso si dirige verso mete parallele e differenti; quello della Momentform in cui il tempo si curva in un
precipitato di energia fra due discontinuità irrelate; quello del tempo verticale, in cui presente ed eterno
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vengono a coincidere in un continuum immobile .
Ne consegue che gli aspetti energetici del fenomeno sonoro (la sua vibratilità, il suo fluire) non sono piú
pure eccedenze che rivestono dall’esterno le note. Al contrario in essi si scorge l’autentica dimensione
ontologica del suono a cui i piú rigidi e grammaticalizzati parametri (altezze e ritmo-tempo) hanno finito col
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riflettersi . Studiare il suono significa allora studiare della musica il livello più prossimo al nostro ‘sentirla’,
certamente più di quanto non possa fare un’analisi condotta sul piano dei motivi, delle armonie, delle forme.
Una nozione allargata di suono, così intesa, comprende tutte le categorie del musicale. E dunque una teoria
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del ‘colore del suono’ è una teoria della struttura musicale nel suo complesso.

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La rivista Analisi si è occupata in varie occasioni di R. Cogan: a) nei numeri 1 e 2 (1990) con un articolo di C. Guaita, Lo spazio
musicale nella riflessione analitica di Robert Cogan, b) nel numero 9 (1992, p. 46-54) con una recensione di Enrico Reggiani al
Convegno SidAM dal tema “L’Analisi musicale tra didattica e creatività” (Gubbio, 20-24 luglio 1992) in cui vi è un’ampia parte dedicata
all’intervento di Cogan, c) nel numero 17, (1995, p. 5-17) con un articolo dello stesso Cogan, Due brevi saggi cronotopici su J. S. Bach,
nella traduzione di S. Pallante (Orig. in SONUS vol. 15, 1, Fall 1994), e d) nel numero n. 18 (1995, p. 35-36) con una recensione di
Marino Mora sull' incontro avvenuto con l' Autore a Milano il 23 maggio 1995, presso la Scuola Civica di Musica, organizzato dalla
SidAM.
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R. Cogan, 1984, pag. 3
3
J. Kramer è l’autore di uno degli studi piú importanti sul tempo musicale, The Time of Music, Schirmer, 1988. La rivista Analisi ha
pubblicato recentemente un lungo articolo di Kramer, dal titolo “Concetti postmoderni del tempo musicale”: si veda, Analisi, Ricordi, 35,
maggio 2001, pag. 5 – 21.
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Per tutti queste problematiche si rimanda al cap. 5 del volume di M. De Natale, Strutture e forme della musica come processi
simbolici, Morano, 1978.
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L’inadeguatezza terminologica è un segnale non solo di quanto sia stata trascurata, in sede teorica, la complessa fenomenologia
del suono. Essa è anche il riflesso di quanto sia oggettivamente difficile nominare (se non in senso generico) una grandezza
multidimensionale. Il termine timbro ha ormai assunto una connotazione troppo rigida e restrittiva per poter stare al passo con
D’altra parte la centralità del suono in quanto tale, come esperienza percettiva unificante, si esprime
anche in una sorta di associazione intuitiva che noi assegnamo tra suoni e stili. Come nota Cogan, intere
epoche possono essere identificate con un particolare ‘ sound’: ad esempio il clavicembalo o il continuo per il
Barocco, il pianoforte per il Romanticismo, flauti ed arpe per l’impressionismo, certe percussioni per la
musica del ‘ 900. Alcune culture poi sono evocate dal suono di uno strumento, come il gong per alcune
regioni dell’Asia, i tamburi per alcuni territori dell’Africa, e così via (Cogan, 1984, 1). Sotto questo aspetto
un’opera musicale diventa la realizzazione di una specifica e concreta forma sonora, ossia un disegno che
riflette, a sua volta, un certo modo di pensare la musica. Ogni epoca, ogni compositore ha perseguito lo
sforzo di foggiare una certa ‘ forma’ sonora. Indagare le strutture di queste forme, è lo scopo della ricerca di
Cogan.

2. I sonogrammi

Le note che affollano le partiture della nostra tradizione musicale sono le semplici tracce di una
fenomeno piú complesso lasciato alla sfera dell’interprete. Gli anni di studio del musicista, a volte un’intera
vita, sono spesi per costruire quel grado di competence necessaria per sopperire a ciò che nella notazione
non c’è: un colpo particolare dell’archetto, un tasto abbassato in un certo modo, una particolare emissione
della voce, un modo di pronunciare una sillaba, e così via. In tutti questi casi, la nota è solo un riferimento,
ciò che conta è tutto un intorno di microeventi e di microfattori che conferiscono a quel suono la sua
pregnanza percettiva. In senso fisico questo intorno è dato non solo da microstonature, ma anche
dall’immissione di intere bande di frequenze spurie, soprattutto nella fase di attacco, che nulla hanno a che
vedere con il sogno di una ordinata serie armonica con cui da sempre ci è stato rappresentato il suono. A tal
proposito Cogan non manca di far notare che per secoli, e ancora nel ‘ 900, la teoria musicale ha ignorato
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l’apporto determinante di tali spettri inarmonici .
E’ pur vero, tuttavia, che solo ai nostri tempi la tecnologia ci permette di effettuare con facilità una serie
di analisi del fenomeno sonoro con le quali vedere, per usare una metafora, la struttura molecolare del suo
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divenire . Piú in particolare, delle varie rappresentazioni bi – o tridimensionali del suono, Cogan utilizza i
sonogrammi che egli spesso chiama, fotografie spettrali. Si tratta, infatti, di vere e proprie fotografie che ci
offrono, nel dominio del tempo (asse orizzontale), il comportamento e l’evoluzione delle varie frequenze
(asse verticale) entro un ambito prescelto. E’ possibile dunque vedere una forma sonora complessa in
divenire con tutti i possibili livelli di maggiore o minore focalizzazione: dai dettagli piú minuti all’intero
dispiegarsi del brano.
Il seguente esempio mostra un sonogramma relativo ad un estratto dalla 2a. scena del 3° Atto del
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Wozzeck di Berg .

l’allargamento di prospettiva con cui il problema è stato affrontato in letteratura. In ambito americano si trova il termine Tone Color, o
Sound Color - con un evidente aggancio alla dimensione coloristica del fenomeno – oltre che il piú semplice e generico Sound, usato
anche nella musica extracolta - che ha un significato per noi intraducibile anche se ormai ampiamente condiviso. In ambito italiano oltre
a ricordare la nozione di Sonor elaborata da De Natale (op. cit. ) vorrei segnalare le osservazioni di Giovanni Piana sull’espressione
tedesca Klangfarbe (G. Piana, Filosofia della musica, Guerini, 1991, pag. 114).
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Cogan, 1999, pag. 130. E aggiunge, nota 5 pag. 145, che Hindemith in The Craft of Musical Composition (1942, vol. 1) dedica
circa 50 pagina alle armoniche superiori senza accorgersi delle bande inarmoniche che, tra l’altro, avrebbero compromesso la sua
teoria.
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Tutta l’attrezzatura della Teoria musicale richiede che si possa ‘ vedere’ la musica, con ciò spostando paradossalmente sul piano
spaziale ciò che è puramente uditivo. Ciò spiega non solo l’utilità dei grafici in analisi, ma i tanti modelli ‘ spaziali’ della teoria musicale (si
pensi alle Regioni tonali di Schoenberg). Peraltro Howard Gardner cita affermazioni “secondo cui i compositori dipenderebbero da forti
abilità spaziali le quali sarebbero richieste per fissare, valutare e rivedere la complessa architettura di una composizione” (Formae
mentis, 1987 (1983), pag. 143). Nella teoria e nell’analisi delle tecniche compositive si tratterebbe dunque di ripercorrere a-posteriori tali
architetture (ossia forme spaziali piú assimilabili all’ordine visivo che non uditivo). In termini spaziali si esprime anche il versante
cognitivistico della teoria musicale che parla di ‘ spazio timbrico’ o di spazio definito dal valore di chroma, ecc. Infine, che il termine
Teoria implichi di per sé un ‘ vedere’ affonda nella tradizione occidentale. Teoria viene infatti dal greco théa (la vista, il guardare) e oráo
(vedo). Si leggano le illuminanti pagine di U. Galimberti, in Psiche e techne, Feltrinelli, 1999, pag. 279 e 315.
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Cogan, 1984, pag. 92-96
Sulla sinistra, in verticale, i numeri da 3 a 7 indicano le fasce di frequenza normalizzate secondo i
registri di ottava. In sostanza viene data una rappresentazione il piú possibile vicina a come pensa le altezze
un musicista e cioè: a) secondo una scala logaritmica (ciò rende conto della equispazialità dei singoli
numeri) e, b) secondo le tipiche ottave del pianoforte (per convenzione da Do al Do successivo: qui da Do3 a
Do7) e non in termini di frequenze assolute (in Hz). In senso orizzontale si ha invece il decorso temporale. Si
evidenziano zone spettrali omogenee, qui indicate con le lettere a, b e c.
Nell’esempio si può osservare facilmente il passaggio da una zona a caratterizzata da linee sottili che si
avvicinano sempre piú, procedendo verso l’acuto, e una zona c in cui le linee hanno ceduto il posto ad una
macchia concentrata ed omogenea. Con l’occhio un po’ esercitato si può capire che la zona a rappresenta lo
spettro di un suono singolo (di cui si può cogliere finalmente la natura multidimensionale). Le linee singole
sono le armoniche che, procedendo verso l’acuto, tendono ad avvicinarsi. La zona c è invece una massa
satura di frequenze, la risultante ‘ rumoristica’ di un cluster orchestrale (con l’intervento del tamburo basso).
L’assenza di linee discrete a vantaggio di aree piene lascia intendere la presenza di elementi non selezionati
secondo regolarità armoniche, ma tali da creare bande continue.
Questi non sono che due possibilità, fortemente contrastanti, fra le innumerevoli forme sonoriali che le
fotografie di Cogan ci mostrano.

3. I mezzi tecnici

Il primo importante lavoro di Cogan, scritto in collaborazione con Pozzi Escot, è Sonic Design: The
Nature of Sound and Music, (Cambridge, P.C. I. 1976). Si tratta di un’opera pionieristica risalente a tempi in
cui solo importanti centri di ricerca possedevano la tecnologia adeguata per rappresentazioni spettrali. E
queste erano ben altra cosa da quella cui oggi siamo abituati. Gli autori infatti mettono insieme, con
ammirevole zelo, i risultati tratti dalla letteratura scientifica del momento che studiava brevi campioni
strumentali realizzati in laboratorio. Da quelli inferiscono tutto un quadro teorico che solo una decina di anni
sarà possibile collaudare pienamente sulla musica ‘ vera’. Sono gli anni di New Images of Musical Sound
(1984) che nasce, anche tecnicamente, al New England Conservatory di Boston con l’implementazione di un
progetto di ricerca della IBM. Alla fine degli anni ’90 ormai un qualsiasi personal computer, dotato di software
adeguato, è in grado di effettuare le piú sottili analisi spettrali. Il software usato da Cogan per The Sound of
Song è Hypersignal Plus (Dallas), ma altri programmi, per varie piattaforme, sono utilizzabili.
(…)
Preciso infine che, oltre alle due dimensioni citate – tempo/frequenza –, è possibile avere facilmente,
tramite il colore, una terza dimensione che rappresenta – in senso intuitivo - il ‘ peso’ delle singole frequenze
nel contesto in esame. Tuttavia Cogan, tranne alcuni esempi puramente dimostrativi, anche nel volume piú
recente effettua le sue analisi solo su sonogrammi in bianco e nero, cioè puramente bi-dimensionali. La
scelta, che non è motivata, è da interpretarsi a mio avviso in quel quadro oppositivo (ossia nei termini binari
di c’è/non c’è) di cui si parlerà piú avanti.

4. Aldilà del sonogramma: la prospettiva linguistica

La facilità con cui oggi si possono ottenere sonogrammi di buon livello sembrerebbe relegare ormai in
secondo piano l’importanza o, quantomeno, l’originalità del percorso analitico di Cogan. Qualcuno, piú
ingenuo, potrebbe addirittura pensare che “fa tutto il computer” fornendoci, insieme alle immagini spettrali,
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delle risposte già pronte alle nostre domande sul pezzo musicale . Purtroppo non è così. A partire da quelle
immagini è necessario maturare una notevole esperienza di “lettura” che dovrà appoggiarsi ben più che a
facili e sbrigative nozioni di acustica, per coinvolgere l’intera cultura musicale (e non solo musicale)
dell’analista.
Un sussidio che Cogan utilizza per l’interpretazione dei sonogrammi proviene da un altro ambito di
competenze, la fonologia. Ciò risulta largamente tematizzato nel volume del 1984 (erano quelli gli anni in cui
la linguistica godeva di una forte attenzione a livello internazionale), mentre in The Sound of Song si colloca
piú in secondo piano. Va precisato che, già a partire dagli anni ’70, la teoria musicale ha cominciato ad
avvicinarsi alle ricerche della linguistica ed in particolare della fonologia. Occorre distinguere, peraltro,
questo termine dalla fonetica che ha per oggetto la descrizione e lo studio acustico-fisiologico di tutti i suoni
emessi dagli organi fonatori umani. Studiando fenomeni naturali, la fonetica utilizza il metodo delle scienze
naturali. La fonologia, invece, non attiene alle scienze fisiche, ma è una disciplina essenzialmente linguistica.

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Simili forme di ingenuità, che oggi fanno sorridere, furono condivise da molto ricercatori quando, negli anni ’50, si cominciò ad
usare il supporto informatico in linguistica. Lo storico F. Newmeyer ha scritto che, in quegli anni, per molti linguisti “tutto ciò che si
doveva fare (in linea di principio) era di introdurre i dati nel computer, da cui sarebbe allora venuta fuori la grammatica”. Citato in H.
Gardner, La nuova scienza della mente, Feltrinelli, 1999 (1985), pag. 234.
A partire dall' insieme dei suoni di una determinata lingua dotati di valore distintivo (chiamatifonemi) essa
studia il modo in cui tale valore viene ad esistere tramite i termini di una opposizione e i rapporti strutturali
che ne derivano. Un importante aspetto di questa disciplina è la determinazione delle funzioni assunte dai
fenomeni fonici di una lingua. Il modello elaborato dalla fonologia, spiega Cogan, “mostra come noi
riconosciamo una parola non dall’attenzione ad ogni dettaglio fonetico del suono quanto piuttosto da certe
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funzioni e relazioni costanti di opposizioni che distinguono un significato dall’altro” .
Lo studio delle relazioni funzionali che intercorrono fra i suoni del linguaggio è la premessa teorica per
lo studio intrapreso da Cogan. Ogni brano analizzato lascia emergere una serie di opposizioni sonoriali che
demarcano l’inizio, la fine, e i punti principali di cui si compone. In fonologia le opposizioni giocano un ruolo
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cruciale come è stato ben messo in luce da Jakobson . Le unità linguistiche elementari dotate di significato
(morfemi) sono costituite da componenti piú piccoli, veri e propri atomi linguistici, chiamati tratti distintivi.
Scrive Jakobson: “Ogni tratto distintivo implica una scelta fra i due termini di un’opposizione che presenta
una proprietà differenziativa specifica, diversa dalle proprietà di tutte le altre opposizioni. Così ‘ grave’ e
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‘ acuto’ si oppongono, nella percezione di chi ascolta, per l’altezza musicale del suono” . A partire da una
serie di opposizione elaborate da Jakobson, Cogan mette a punto una sua tabella di 13 opposizioni
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riformulata, per così dire, appositamente per la musica .
Inquadrate così, tramite queste etichette oppositive, le varie aree di una immagine spettrale acquistano
uno spessore funzionale assai utile analiticamente e capace anche di fornire un senso a molte scelte
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compositive .

5. Implicazioni con la teoria dell’analisi

Il volume dell’84, New Images of Musicale Sound, è attraversato ampiamente da tale prospettiva
linguistica. Ciò offre a Cogan non solo l’appoggio di una disciplina forte e ben collaudata (a fronte della piú
giovane analisi musicale) oltre che capace di offrire, in quegli anni, una smisurata letteratura. Ma in piú, ed è
un aspetto significativo sul piano teorico, la teoria delle opposizione offre la possibilità - assai ghiotta per la
formazione culturale di un analista - di poter effettuare delle valutazione di ordine quantitativo sui risultati
spettrografici. L’aspetto per così dire piú debole, almeno in apparenza, è proprio la fase interpretativa dei
sonogrammi. Proprio quella nicchia della ricerca analitica che ha sposato in pieno l’uso della tecnologia si
ritrovava, paradossalmente, a dover interpretare nella maniera piú ‘ soggettiva’ e scoperta i dati forniti dalla
macchina. Non dimentichiamo che le (allora) nuove scienze cognitive, di cui la linguistica è stata senz’altro
una delle aree pilota, hanno rappresentato proprio uno spostamento epocale da parte di discipline nate in
ambito, per così dire, umanistico verso l’impianto metodologico scientifico. Basti pensare alla psicologia e,
nel nostro caso, alla musica (citiamo solo la Music Theory americana). La conseguenza di ciò è stato un
generalizzato aumento di favore verso le determinazioni quantitative del proprio oggetto di studio e una
diffidenza verso quegli aspetti qualitativi piú impermeabili a tale investimento metodologico.
Per capire come, nell’84, Cogan affronta il problema, ricordiamo che il valore delle opposizioni va colto
in una prospettiva funzionale e non assoluta. Esse, infatti, non tanto identificano grandezze fisico-acustiche
quanto differenze, colte all’interno di un contesto, capaci di permettere un riconoscimento della forma
spettrografica. Si potrebbe dire che esse facilitano e rendono piú economico il processo di riconoscimento: il
nostro sistema cognitivo invece di effettuare una onerosa analisi spettrale per identificare in modo ‘ assoluto’
l’evento sonoro può limitarsi a rilevare in modo ‘ relativo’ la presenza/assenza di una serie limitata di tratti.
E’ proprio questa presenza o assenza (+, -) che permette agli autori di predisporre una specie di
quantificatore, riassunto in una tavola delle opposizioni, che calcola lo stato (+, -) di una coppia oppositiva
per ciascuna delle aree preselezionate dell’immagine spettrale. Facendo opportuni calcoli sul peso o
gradiente dei fattori risultanti, emerge un grafico che riassume l’intero set di caratteristiche sonoriali intese
nella loro evoluzione dinamica.

(…)

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Cogan (1984), pag. 145
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In tale prospettiva un ruolo significativo è dato dalla cosiddetta percezione categoriale in base alla quale non si dà un continuum
nella variazione di stato tra un tratto distintivo e l’altro, ma un vero e proprio salto. Ciò significa che aldiqua o aldilà di un certo
particolare valore noi percepiamo una cosa oppure un’altra e non una graduale trasformazione.
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R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, 1994. La teoria è assai potente se si pensa che, in linea di principio, può
essere applicata a tutte le lingue del mondo.
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Esse sono: Grave/Acuto, Centrato/Estremo, Stretto/Ampio, Compatto/Diffuso, Non spaziato/Spaziato, Sparso/Ricco,
Piano/Forte, Orizzontale/Obliquo, Stabile/Ondeggiante, Senza attacco/Con attacco, Non tagliato/Tagliato, Senza battimenti/Con
battimenti, Battimenti lenti/Battimenti rapidi.
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E’ proprio il carattere funzionale della teoria delle opposizione - e il conseguente quadro teorico elaborato in linguistica - che
salva l’approccio di Cogan dal pericolo di cadere in una semplice cornice tassonomica.
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Il grafico rende conto intanto di un senso di direzionalità della trasformazione sonoriale , intesa come
processo di cambiamento. Non solo, ma è possibile calcolare anche la velocità di cambiamento (la
pendenza del grafico) e la sua ampiezza (la distanza fra gli apici). Ciò è indicato dal rapporto di
cambiamento (Ratio of Change, indicato in figura). Quest’ultimo - calcolato comparando l’esatta morfologia
di ogni zona sonoriale (in termini di ogni proprietà) con la morfologia di ciascuna zona precedente - può
assumere diversi aspetti. Vi è un cambiamento locale: costanza (o contrasto) per ciascuna delle
caratteristiche nelle sonorità adiacenti. E vi è un cambiamento globale: costanza (o contrasto) per ciascuna
delle caratteristiche in tutte le precedenti sonorità, sia adiacenti che distanti. Quest’ultimo potrebbe essere
considerato come un indice di ‘ rinnovamento’ (freshness) in ogni dato contesto. Mantenere, ad esempio, un
rapporto incrementale monotònico di cambiamento in un contesto che evolve, ossia innalzando
progressivamente l’indice di rinnovamento sonoriale, è un’operazione compositiva nè comune né banale che
tale analisi può facilmente mettere in luce.

6. Recupero dell’interpretazione e versante performativo

Come ho già accennato, in The Sound of Song Cogan abbandona questa eccessiva apertura verso gli
aspetti computazionali dell’analisi. Pur continuando a fare riferimento alle coppie oppositive elimina del tutto
le tavole e i calcoli sul ‘ rapporto di cambiamento’ a tutto vantaggio di un ritorno – che, a mio avviso, è una
crescita – verso l’arte semplice, ma affascinante dell’interpretazione dei sonogrammi. E non è un caso che
ciò coincida con una scelta di campo: il libro si occupa unicamente della voce (nell’84 la musica vocale
rappresentava solo una sezione del libro), come per gettare un ponte verso le istanze piú genuinamente
materiche o, meglio ancora, corporee del suono. In effetti la voce di cui si occupa Cogan è anche il luogo –
virtuale e reale ad un tempo - su cui si costruisce la complessa relazione tra musica e linguaggio fatta di
incontrollabili stratificazioni culturali. I suoni e i significati diventano un tutt’uno con le gestualità della musica
intrecciandosi anche con i profili espressivi posti in essere dagli interpreti. Illuminante, a tal proposito, è
l’esame dello Sprechgesang schoenberghiano, dal Pierrot Lunaire (1999, pag. 98–105).
Quello della performance è infatti l’altro (anche se non nuovo per Cogan) e assolutamente decisivo
oggetto del libro. Fin tanto che l’analisi viene svolta sul tradizionale testo, non può che situarsi al di qua della
posta in essere del brano ad opera di un esecutore (strumentista o cantante). Ma lo studio dei sonogrammi
si colloca in una fase successiva, quando il brano non è più in uno stato limbico di possibilità, ma si è
attualizzato in una performance. Dalla lettura dell’immagine spettrale emergono nuovi percorsi d’indagine
come l’intelligenza di una esecuzione o la coerenza in termini filologico-stilistici. L’unione degli aspetti
performativi con la complessa tematica musica/linguaggio dà luogo ad una sorta di architettura
dell’espressione, come la chiama Cogan (1999, pag. 12), che si fonda proprio su fattori sia interni ai suoni
(linguistici e musicali) che esterni, veicolati appunto dalle forme di gestualità vocalistiche.
Per citare un esempio, penso all’Analisi del Lied “Ich Hab’ in Traum geweinet” dal Dichterliebe di
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Schumann in cui Cogan mette a confronto 4 esecuzioni di celebri cantanti. I relativi sonogrammi lasciano
vedere la qualità di suono posta in essere da ciascun cantante e come questa sia piú o meno compatibile
con lo scenario estremamente interiorizzato cui allude il testo e al quale la scrittura di Schumann sembra
adeguarsi sorprendentemente.
Per ragioni di spazio non è possibile dilungarsi sulle analisi presenti nel volume che spazia dal repertorio
piú antico a quello piú recente (Boulez e lo stesso Cogan) attraversando, con grande acume, esempi di
vocalità non classica dall’America, alla Cina alla Mongolia.

7. Aspetti critici

La lettura dei sonogrammi, come si è detto, è un’operazione difficile, ma non da un punto di vista tecnico
quanto piuttosto perché richiede una lunga esperienza e una capacità di affinamento dell’occhio a sapersi
muovere all’interno di una ‘ notazione’ nuova. Anche in questo caso il metodo piú sicuro per imparare è
quello di studiare pazientemente le analisi dello stesso Cogan confrontando quanto egli scrive con le relative
immagini spettrali.

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La tendenza a leggere le qualità motorie nel dispiegamento di un brano permette a Cogan di cogliere, pur con esplicita
moderazione, un senso di continuità nei confronti dall’analisi schenkeriana e della sua impostazione di veduta globale del movimento.
Cfr. Cogan, 1984, pag. 17. Tuttavia il sonogramma individua - del moto - solo la processualità e non, almeno in linea di principio, il
dirigersi verso una meta. Infatti – e ciò è determinante – lo studio del movimento, in Schenker, è strumentale ad un percorso che deve
approdare comunque ad un’ipostasi, l’unità dell’Ursatz laddove Cogan intende invece cogliere sempre e solo un’idea di molteplicità,
alimentata da continui processi oppositivi. L’idea di questo continuo fluire è tipicamente radicato nella cultura della modernità, ma è
anche una delle prime figure della sapienza antica: in tal senso nei suoi scritti, come nei suoi interventi, Cogan si richiama spesso ad
Eraclito.
16
Cogan, 1999, cap. 1, pag. 14-24
(…)

Nel momento in cui diciamo al nostro software di effettuare l’analisi spettrale si pone il problema di
stabilirne il grado di dettaglio. Come si è detto, infatti, è possibile effettuare un sonogramma sull’intero pezzo
o su ampie porzioni di esso - avendo un’importante visione d’insieme ma, nel contempo, perdendo in
precisione - oppure su brevi sezioni o addirittura su eventi locali, come l’attacco di un clarinetto e la
successiva risposta dell’orchestra. In tal caso, a fronte dei numerosi dettagli che ne derivano andrà perduta
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la visione del contesto piú generale. Certamente questo non è un problema nuovo a chi si occupa di analisi
al punto che, ad esempio, nella tecnica schenkeriana esso entra a far parte strutturalmente del metodo
analitico configurando a priori l’ipotesi di piú livelli strutturali di osservazione (Schichten) organicamente relati
fra loro. Tuttavia Cogan si ferma molto prima di Schenker – che pure non aveva formalizzato in modo
rigoroso i criteri con cui doveva avvenire questo progressivo allargamento di visione, ma aveva pur sempre
indicato alcuni dati procedurali: un Vordergrund e un Hinterground agli estremi, dei livelli intermedi, la
prescrizione di mettere in corrispondenza uno sotto l’altro i livelli per consentire la lettura delle reciproche
derivazioni e così via – e lascia tutto all’intuito dell’analista.
Un secondo problema è forse ancora piú delicato, e anche questo non nuovo alla disciplina analitica.
Una volta ottenuto il sonogramma occorre infatti procedere ad una sua segmentazione individuando aree
qualitativamente omogenee. Sono queste aree che, nella loro successione, formeranno quella catana di fasi
oppositive attraverso cui si articola l’intero disegno sonoriale del brano. Ora, in alcuni casi la segmentazione
si mostra con evidenza (come nella Fig. 1 le aree a, b, e c), ma il piú delle volte non è così. Lo studente
inesperto, ad esempio, tenderà a segmentare in maniera eccessiva l’immagine creando con ciò una
dannosa dispersione di particolari che, proprio per questo e non perché lo siano in sè, diventeranno
significativi. L’autore non fornisce indicazioni in merito rimandando, implicitamente, ad un “saper fare”.
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Eppure si tratta di un’operazione che condiziona fortemente la successiva interpretazione analitica .
L’analisi diventa così un’arma a doppio taglio: può creare aree di significatività o nasconderne altre in
maniera incontrollata sicchè si insinua il sospetto che sia l’atto della segmentazione in sé ad essere la vera e
genuina operazione analitica. Ma essa, purtroppo, si pone tutta aldiqua degli strumenti metodologici messi a
punto da Cogan (che presuppongono già avvenuta tale segmentazione). Ne deriva un approccio che non
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possiede gli strumenti che autoregolano e controllano le sue procedure .
In ogni caso, è bene sottolinearlo, Cogan non si pone affatto come il paladino di un’analisi tutta spostata
sul versante tecnico-scientifico. Mentre dunque il rilievo precedente può far cadere l’impalcatura
metodologica di quanti, come Allen Forte nella sua Set-Theory, si sono posti l’obbiettivo di oggettivizzare il
metodo, nel caso di Cogan non vi è affatto questa pretesa. Al contrario, quello “spirito unificante” che egli
vede alla base di tutte le opere d’arte - l’unione, cioè, di sensibilità artistica da un lato, e di status scientifico,
dall’altro - sembrerebbe doversi estendere anche all’approccio analitico. Che è come dire che il problema
della segmentazione può essere affrontato in termini euristici e con quella dose di pragmatismo tipico della
ricerca americana.

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Nel suo Guidelines for style Analysis, (Norton, 1970), Jan La Rue tematizza questo problema parlando di esplorazioni a piccole,
medie e larghe dimensioni (pag. 6 e seg.). Rimando, a tal proposito, al mio articolo “Forme e analisi di attività in contesti musicali” su
Analisi, 36, sett. 2001, pag. 25-37. Cogan non solo non nasconde, ma esplicita che le foto spettrali – così come le vediamo - sono il
risultato di “scelte umane” (1984, pag. 14).
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Come ho detto si tratta di un problema congenito all’analisi e in cui ci si imbatte ogni qualvolta, per dirlo in termini astratti,
vengono inseriti degli indici entro il flusso musicale che creano curvature di senso cariche di conseguenze. La musica tonale presenta
proprietà armonico/ritmiche per le quali è possibile tracciare divisioni di tipo gerarchico come incisi (motivi), frasi, periodi, sezioni, ecc. Si
tratta, tuttavia, già di scelte cariche di responsabilità analitiche. Un problema di segmentazione è ad esempio, nella tecnica
schenkeriana, individuare l’area di influenza di un prolungamento. Nell’analisi insiemistica, poi, la segmentazione iniziale è
scopertamente l’anello piú debole: in essa, scrive Nicholas Cook senza mezzi termini, “si decide prima la segmentazione (…) e poi si
deducono laboriosamente i risultati in maniera meccanica” (cfr. N. Cook, Guida all’Analisi musicale, pag. 275).
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La questione è delicata e occorre una breve parentesi. Non è Cogan ad essere incorso in un problema metodologico: quello
della segmentazione è il problema dell’analisi. Anzi, per J. J. Nattiez il ragionamento va rovesciato: se non è possibile segmentare non
si può nemmeno fare un’analisi (“Il concetto di opera musicale”, in Musicologia generale e semiologia, EDT, 1989, pag. 63.). Il problema
è dare un fondamento rigoroso alle modalità con cui eseguire questo compito. In molti casi, infatti, il problema viene risolto in termini
puramente euristici. Tra i contributi piú importanti ricordiamo, in area semiologica, quelli Nicolas Ruwet, (“Metodi d’Analisi in
musicologia” (1966) in Linguaggio, musica, poesia, Einaudi, 1983) e di J. J. Nattiez con l’analisi di Density 21.5 (Cfr. I. Bent, Analisi,
1990, pag. 82). Su altro versante Lerdahl e Jackendoff tentano di formalizzare le procedure di segmentazione del flusso musicale e
dell’impianto metrico nel loro A Generative Theory of Tonal Music (MIT, 1983) e sviluppi successivi (come F. Lerdahl, “Timbral
Hierarchies”, Contemporary Music Review, 1987, 2, 135-160), appoggiandosi alla struttura dei nostri processi cognitivi. In tempi piú
recenti i tentativi in tal senso sembrano privilegiare di piú i processi di ascolto, affluendo nella piú generale problematica psicologica del
‘ raggruppamento’: come I. Deliège in “Grouping conditions in Listening to Music (…)”, Music Perception, 1987, 4, 325-360, o S.
McAdams in “Musica: una scienza della mente”, in Musica e scienza. Il margine sottile, Ismez, 1991 (in particolare la nozione di
immagini uditive e i processi di fusione e fissione), soprattutto nelle analisi di musica elettroacustica (si veda l’impianto teorico di Denis
Smalley, La spettromorfologia: una spiegazione delle forme del suono, Musica/Realtà 50/51, 1996 e L. Camilleri, “Metodologie e
concetti analitici nello studio di musiche elettroacustiche”, Rivista Italiana di Musicologia, 28(1), 1993). Come si vede, la questione va
ben al di là dell’impianto di Robert Cogan.
Può sorgere una domanda: come si pone il sonogramma - che, di fatto, sostituisce il testo o addirittura
lo crea (nel caso di analisi di musica elettroacustica) – come supporto? Ci permette di indagare meglio il
versante compositivo? o quello percettivo? oppure è una sorta di livello neutro? Tali domande sono
pertinenti soprattutto perché la letteratura piú recente basata su un approccio spettromorfologico al suono è
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sbilanciata a favore del livello percettivo . In prima istanza diciamo che è il Cogan compositore ad
emergere: la rilevanza percettiva dei sonogrammi – richiamata dalla teoria delle opposizioni – poggerebbe
su una sorta di isomorfismo tra il linguaggio musicale (con le sue tecniche compositive) e le leggi che
presiedono i nostri meccanismi non tanto di basso livello (percezione) quanto di alto (cognizione). In
secondo luogo la risposta ci viene, in parte, dallo stesso Cogan che, in The Sound of Song, esplicita la
necessità di un approccio globale che superi prospettive parziali, come pure le tradizionali nicchie di ricerca:

tecnica performativa e stile per i cantanti; profilo compositivo per teorici e compositori; varianti culturali per etnomusicologi; analisi
spettrografiche per ricercatori. E’ invece proprio l’interazione di questi domini apparentemente divisi che è oggi cruciale”21.

Tuttavia, aldilà delle dichiarazioni di principio favorevoli ad un approccio complesso alla musica,
l’adesione incondizionata di Cogan al quadro teorico delle opposizioni può giocare, in senso contrario, per
una riduzione della complessità a favore di un universo binario, e dunque semplificato. Il punto critico si ha
quando dal particolare, o dal livello ‘ medio’, si va al generale. Prendiamo il caso dell’analisi di Nuances di
Debussy (1984, 85-92): i sonogrammi sono in grado di mostrare con chiarezza le varie aree di sound color,
ma il problema si pone quando si chiede di render conto dell’organizzazione su larga scala del brano, ossia
di come interagiscono quelle aree, aldilà dei loro caratteri oppositivi. Può essere che il continuo ‘ aprirsi’ e
‘ chiudersi’ delle energie spettrali sia il solo modello progettuale a fondamento di un’opera come Nuages?
Sempre su larga scala, quella che ci mostra Cogan è una struttura reversibile: in essa il tempo è irrilevante.
Potremmo anche leggere all’incontrario il sonogramma: “funzionerebbe” ugualmente. Come si connettono,
allora, le varie aree? Vi è un principio coerente? E’ vero che Cogan rifiuta l’idea (mistica o scientifica che sia)
dell’Unità al fondo di ogni cosa – come l’Ursatz di Schenker o la serie schoenberghiana – ma in tal modo le
sue analisi rischiano di arrestarsi ad un livello ‘ medio’ di osservazione, con un brano che si presenta piú
come una giustapposizione di stati che non come un progetto fisionomicamente orientato.
Una struttura cara a Cogan che vorrebbe riempire tale vuoto teorico è quella frattale. In molte analisi vi è
questo richiamo: in particolare ricordo l’analisi di un’Antifona di Hildegard von Bingen (1999, 32-41). Il
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concetto di frattale, inaugurato da Mandelbrot , si basa sulla ricorsività della medesima forma a differenti
livelli dimensionali. La forma viene così a richiudersi in se stessa, in una autoreferenzialità strutturale.
L’ipotesi è interessante, ma – poiché si rimane ad un livello di superficie e di pura suggestione - qui, come in
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altri casi analoghi , si espone al richio di cadere in una sorta di mistica scientifica, alla fine ingombrante e
poco produttiva.

8. Considerazioni finali e risultati didattici

E’ indubbio che la fede in una metodologia trasversale, che tenga conto dell’interazione dei vari ambiti
disciplinari, si paga in termini di rigore scientifico. Se però alcuni dei precedenti rilievi critici possono
intaccano gli aspetti formali del percorso analitico di Cogan devo dire che, anche a seguito dell’esperienza
didattica che ho maturato, si tratta pur sempre di una esperienza di grande interesse e di sorprendente
ricaduta formativa. L’idea di un’Analisi assistita dall’elaboratore non deve lasciar credere che sia un
demandare compiti e responsabilità ad impianti puramente formali. L’analisi, come operazione intellettuale,
deve coinvolge tutto il ‘ sapere’ dell’analista, laddove ‘ sapere’ sia inteso in un’accezione complessa che
includa anche quelle forme di intelligenza euristica (e non solo di tipo logico) che, oltretutto, attengono
geneticamente alla ricerca scientifica.
Sono i differenti interrogativi che noi rivolgiamo alla musica a fornire i presupposti per un particolare
risultato analitico. Per converso, è proprio la polivalenza di senso che è insita nella struttura simbolica della
musica a farne non un oggetto di natura, sottoposto al metodo scientifico tout cour, ma un prodotto culturale

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W. Slawson, (Sound Color, 1991, p. 12–13) commentando Sonic Design (1976) di Cogan e Pozzi Escott, dove si parla di spettri
ricchi o brillanti, o dove tali spettri sono detti salire o scendere o essere attivati, scrive che il linguaggio è quello tipico della misurazione
acustica e non della percezione uditiva. Mancherebbe una base teorica su come gli ascoltatori categorizzano le relazioni fra le varie
aree. Slawson conclude che è stato il Cogan compositore ad aver impresso un tale approccio. Nel volume del ’84, che mantiene il
medesimo linguaggio, Cogan si appoggia alla teoria delle opposizioni per sopperire a tale carenza, ma l’impianto non migra su altro
versante di indagine. Soprattutto, su vasta scala, non si va aldilà di criteri descrittivi.
21
Cogan, 1999, pag, 12
22
B. Mandelbrot, The fractal Geometry of Nature, Freeman, 1983.
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Si pensi alla copiosa letteratura sul quadrato magico, sulla sezione aurea, sulla serie di Fibonacci, ecc. Non è un segreto,
peraltro, che l’approccio musicale di Stockhausen, spesso suggestionato da tali ordini nascosti nella natura, sia stato di tipo mistico. La
teoria della complessità, al contrario, è piú interessata al disordine, al caos, all’irreversibilità che all’ordine della natura o, quantomeno,
aspira a nuove strutture d’ordine. Si veda I. Prigogine – I. Stengers, La nuova Alleanza, Einaudi 1981.
a piú dimensioni. Per tali motivi ritengo utile dare ampio spazio ad una prospettiva interpretativa e
argomentativa dell’analisi pur partendo, come in questo caso, dai preziosi dati offertici dal computer.
Insomma alcuni limiti di cui prima ho parlato possono addirittura rovesciarsi in situazioni di favore.
Permettono infatti di non cadere in facili tentazioni di automatismo analitico, di mantenere viva la
sollecitazione intellettuale, di assumersi delle responsabilità nelle fasi pre-analitiche che andranno poi
verificate o comunque motivate.
(…)

agosto 2002

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