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Ponzio Il Neutro e La Scrittura Ante Litteram PDF
Ponzio Il Neutro e La Scrittura Ante Litteram PDF
Augusto Ponzio
1. Alcune allusioni
Comincerò accostandomi al Neutro nel senso di Barthes a partire
da scritture di autori diversi. Alludendo ad esse si potrebbe
dire che: Il Neutro è in Kiekegaard il “semplice” come desiderio
del semplice, come tendenza al limite. Giungere alla cosa
semplice è giungere al singolo, dove “singolo” è opposto al
“pubblico”: impresa difficile se non disperata una volta che
“diventi manifesta e lampante la contraddizione fra l’enormità
dei mezzi di comunicazione e l’essere un uomo singolo”
(Kierkegaard, “Il punto di vista nella mia attività di
scrittore”, in Kierkegaard 1995, vol. I, pp. 9-11, 49-50).
Il Neutro è l’“I prefer not to” del copista di Melville. Nel
linguaggio verbale delle frasi, e degli atti linguistici, delle
funzioni comunicative la formula di Bartleby, il copista di
Melville che cessa di copiare, di trascrivere, di usare la
scrittura come riproduzione di un senso che le preesiste, non
può trovare alcuna possibilità di sistemazione. Questa formula
di Bartleby, “uomo senza referenze, senza possessi, senza
proprietà, senza qualità, senza particolarità, troppo liscio
perché una qualsiasi proprietà possa trovarvi appiglio” (Deleuze
1993, p. 18), mette in scacco la lingua comunicativa, disattiva
gli atti linguistici, delude le aspettative comunicazionali, fa
saltare la logica dei ruoli, dà luogo a una zona di
indeterminazione che nessuna immagine può esorcizzare e con cui
nessun cliché può combaciare.
Il Neutro è il marginale, l’irrilevante, il futile – Barthes
direbbe “il dettaglio esorbitante e inutile”– nel V i a g g i o
sentimentale di Sterne (dico il titolo in italiano perché alludo
anche alla traduzione di Foscolo e al suo tradursi in Didimo
Chierico), in cui si mostra che non solo la scrittura (come nel
Tristram Shandy) è digressione ma la vita stessa. Un’estensione
del genere, dalla scrittura alla vita, avviene per il Neutro di
Barthes, Neutro già da sempre presente nella sua opera.
Il Neutro è la Sovranità nel senso di Bataille. Potersi
permettere il lusso di non tenere in nessun conto l'economia
1
Relazione al Convegno “Roland Barthes: leçons (1977-80)”, Urbino,
luglio 2005.
1
narrativa, di dissociarsi dalle soluzioni mitico-narrative cui
la politica deve fare ricorso per farsi intendere (v. Barthes,
L'obvie et l'obtus, p. 57): ecco così l'affermarsi di una
sovranità che è tutt'altro dall'esercizio del potere funzionale
all'affermazione del soggetto, alla produzione della produzione
della sua storia, ai compiti che essa impone.
Il Netro è la passione per l’indifferente già in
L’indifferente di Proust e poi nella Recherche.
Il Netro è il tacere in Shakespeare nel King Lear (il non
dire niente di Cordelia) e nel Merchant of Venise (il piombo,
Antonio) come pure nel Diario del seduttore di Kierkegaard
(anche qui una Cordelia che tace: “io pendo dalle tua labbra e
tu non dici niente”).
Il Neutro è la “lingua pura” nel saggio sulla traduzione di
Benjamin (“Il compito del traduttore”), e la scrittura ante
litteram in Il dramma barocco tedesco.
Il Neutro è l’arve in L’arve e l’aume di Artaud.
Tutto questo in senso implicito. Esplicitamente del Neutro
si occupano Blanchot (a cui Barthes si riferisce spesso) e
Lévinas (a cui Barthes non si riferisce mai).
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inscindibile dalla riflessione sul rapporto di alterità proprio
nei termini in cui è avviata da Lévinas: totalità e infinito; al
di là del Medesimo, della totalità, della storia,
dell'esperienza oggettiva, dell'utilità, dell'economia, della
politica, del potere del linguaggio. Relazione con un sovrappiù
esterno alla totalità, trascendente, non inglobabile, altro.
Eccedenza, infinizione (infinition).
Eppure non va trascurata la distanza, una distanza
dialogica, fra Blanchot e Lévinas. Che proprio la riflessione
sul Neutro soprattutto manifesta. Parlarne è accostarsi al
“Neutro” in Barthes a partire da questa distanza.
Blanchot chiama neutro il rapporto con l'Altro, cioè un
rapporto di reciproca estraneità, di dissimmetria, un rapporto
irriducibile ad un insieme, ad una unità.
Lévinas avverte nel termine "neutro" la presenza
dell'ontologia heideggeriana, nei confronti della quale l’intera
opera levinasiana è la presa di posizione critica. C'è un passo
in Totalité et Infini di Lévinas in cui si fa diretto
riferimento a Blanchot a proposito della "filosofia del Neutro":
“Nous avons ainsi la convinction d'avoir rompu avec la
philosophie du Neutre: evec l' être de l'étant heideggerien dont
l'œuvre critique de Blanchot a tant contribué à faire ressortir
la neutralité impersonnelle ...)" (ivi: 274). Scrive ancora
Lévinas: "L'exaltation du Neutre peut se présenter comme
l'antériorité du Nous per rapport à Moi, de la situation par
rapport aux êtres en situation" (ivi: 275. V. anche Blanchot
1973, pp. 101-108; Blanchot 1969, pp. 70-83; Blanchot 1980.pp.
36-47; Lévinas 1975).
Solo in parte si tratta di una pregiudiziale di ordine
terminologico. Certamente, il rapporto che Blanchot chiama
Neutro – rapporto che il linguaggio fa intuire, soprattutto
attraverso quell'esperienza del linguaggio che è la scrittura –
è un rapporto in cui l'altro è presente nella sua infinita
distanza e nella sua incolmabile assenza, come assolutamente
altro, radicalmente estraneo, come ciò che sfugge a ogni forma
di identificazione, di assimilazione, sia quella di una
riduzione al Medesimo, sia quella di un’unità impersonale o di
una fusione mistica. Un rapporto dunque che, come in Lévinas,
può essere indicato in termini di trascendenza, eccedenza,
inadeguazione, oltrepassamento: termini che dicono di
un'esperienza che non si conclude, come invece avviene per le
avventure di Odisseo, con il ritorno presso di sé (v. Lévinas
1972). Desiderio dell'"altrove", dell'"altrimenti", dell'"estra-
neo", del "fuori", desiderio "metafisico" che tende verso
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qualcosa di totalmente altro, verso l'assolutamente altro.
Tuttavia il rapporto neutro, che il linguaggio fa intuire nel
suo ambiguo rapporto con la morte, è per Blanchot anche un
rapporto che rompe in qualche modo con tutto ciò che ha a che
fare con "le nostre garanzie", "le nostre esigenze", "le nostre
responsabilità". Con ciò si fuoriesce del tutto dalla dimensione
etica, anche da quella specifica del discorso di Lévinas, e si
allude ad un rapporto impossibile per il linguaggio che nomina,
determina, stabilisce ruoli, significa, individua referenti, ma
anche per il linguaggio che fa valere il suo potere attraverso
le categorie della responsabilità, della colpa, del rispetto,
dell'obbligo, della verità.
Le perplessità di Blanchot nei confronti dell'impostazione
etica in Lévinas del problema dell'altro sono esplicitamente
espresse in L'entretien infini, ma con le riserve, la distanza,
la non diretta responsabilità consentite dal ricorso a un'altra
voce in un testo dialogato quale è quello in cui a Totalité et
Infini si fa riferimento in questo libro di Blanchot.
La dimensione etica riaffiora nel Neutro di Barthes, ma,
come in Blanchot, il problema dell’alterità è affrontato in
Barthes a partire dalla scrittura.
Il problema del linguaggio è quello del rapporto
identità/alterità, medesimo/estraneo; e l'ambiguità del
linguaggio – la sua doppiezza, la sua contraddizione – è
strettamente collegata con tale rapporto. Ebbene proprio la
scrittura ci fa intuire, nel linguaggio, un rapporto di alterità
assoluta, radicale. Il punto di vista di Blanchot è quello della
scrittura, e quindi anche il rapporto con l'Altro riguarda il
linguaggio in quella sua particolare esperienza che è la
scrittura.
Lévinas, invece, come nota Blanchot, riferendosi a Totalité
et Infini, si richiama spesso alla concezione socratica secondo
cui il discorso orale viene contrapposto alla scrittura e
considerato come la comunicazione in cui pienamente si realizza
il rapporto con l'altro. Non è senza conseguenze sulla sua
concezione del rapporto di alterità l'abbandono, in Blanchot,
del privilegiamento del linguaggio orale. Tale privilegiamento è
al tempo stesso quello della categoria di responsabilità intesa
come possibilità di rispondere in prima persona, come controllo
e vigilanza che i soggetti esercitano. Assumere dunque il punto
di vista della scrittura significa rinunciare al presupposto di
un soggetto sempre pronto a rispondere, sempre pronto a
giustificare e a chiarire. Non solo: il riferimento alla
scrittura come scrittura letteraria comporta ulteriori
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conseguenze nei confronti del diritto di proprietà sulla parola
e nei confronti della categoria di "responsabilità" e della
stessa categoria di "soggetto". La scrittura letteraria appare
come una sorta di scompaginamento, di scomposizione del
soggetto, dell’identificazione. La scrittura letteraria come de-
ruolizzazione. La scrittura letterararia realizza lo
"scollamento" dal discorso. Essa costituisce uno spazio della
disubbidienza alla Linguaggio, il quale impone l'adesione di
colui che parla all'io del discorso, in un sistema di ruoli, di
tratti distintivi reciprocamente opposti. Al contrario,
l'alterità della scrittura è spiazzamento; rispetto ai ruoli, ai
luoghi comuni del linguaggio, essa si dà come atopia, come
assenza. La scrittura dice l'indicibile, dice tacendo
l'indicibile. L'alterità della scrittura richiede l'ascolto, non
chiede udienza, dato che essa non si propone d'informare, di
persuadere, di educare, di sensibilizzare. Essa si dà nel
tacere, nel silenzio della lettura, ed essa non ha niente da
disvelare; tuttavia dice, ed è inquietante e attraente alla
maniera di un volto che tace.
E anche quando la letteratura cerca di far dimenticare la
propria gratuità, impegnandosi in una azione politica o sociale,
" Cet engagement ", dice Blanchot, " s'accomplit tout de même
sur le mode du dégangement. Et c'est l'action qui devient
littéraire” (Blanchot 1981, p. 92). Il Neutro si intuisce
dunque, nel linguaggio, attraverso l'esperienza della scrittura.
Tuttavia l'esigenza di discontinuità, di alterità, il
desiderio del Neutro, come dice Barthes, è avvertita anche in
altri luoghi del linguaggio, benché anche questa possibilità sia
pur sempre esperita a partire dalla scrittura. La dissimmetria
del rapporto neutro è rinvenibile nella parola
dell'insegnamento, nel rapporto indiretto e irreversibile fra
discepolo e maestro, a cui anche Barthes nel corso du Neutro fa
riferimento: un rapporto di distanza infinita, un rapporto di
parola in cui si articola l'ignoto, che non è né soggetto né
oggetto, un rapporto in cui si fa esperienza dell'interruzione
dei rapporti (Blanchot 1969: 1-9).
Ma questo rapporto può anche scadere in un rapporto
lineare e diretto di domande e di risposte. Vi si presenta
ancora una volta l'ambivalenza del linguaggio. Ciò che risulta è
pur sempre la sua doppia possibilità: di linguaggio lineare,
confermativo, rassicurante, univoco; e di linguaggio in cui ciò
che è messo in gioco è il linguaggio stesso. Da una parte, la
parola che insegna come parola che ricompone, che fa parte di un
rapporto appagato di una tranquilla continuità discorsiva;
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dall'altra il rapporto discepolo/maestro come rapporto
esorbitante e privo di misura comune, che, invece di tendere al
livellamento, esaspera continuamente la separazione e la
dissimmetria fondamentale. Il rapporto discepolo-maestro è tale
quando non è rapporto di risposta ma di interrogazione, di
ricerca, scaturita da un'esigenza di discontinuità. Si realizza
allora ciò che Blanchot chiama la parola plurale, una parola che
non è fondata né su un rapporto di eguaglianza, né di
diseguaglianza, né sul predominio e la subordinazione, né su una
fusione mistica o una mutualità reciproca, né sull'opposizione,
ma sulla dissimmetria, sulla distanza, l'incommensurabilità; un
rapporto che mette in discussione l'essere come continuità, come
unità, e che è tanto fuori dall'ontologia, quanto dalla
dialettica.
Ritroviamo qui un'ulteriore conferma della presenza, in
Blanchot, del pensiero di Lévinas sull’"altezza" dell'Altro come
Maestro, e sulla relazione d'alterità come relazione al di là
dell'Essere. Ma forse ciò che più accomuna Blanchot e Lévinas è
l'individuazione dell'Altro all'interno stesso del Medesimo.
È appunto ciò che caratterizza la concezione del linguaggio
di Blanchot. Così il rapporto altro del Neutro viene da Blanchot
individuato anche in uno dei luoghi più soggetti al potere del
Linguaggio, vale a dire nell'opinione pubblica. Vedremo che
questo è un punto in cui si discosta da quella di Blanchot la
concezione del Neutro di Barthes che, al contrario, colloca il
Neutro in contrapposizione all’opinione pubblica, alla doxa,
quale tendenza di ciò che egli chiama “ideosfera”. L'opinione
pubblica è considerata da Blanchot espressione del Neutro perché
ha qualcosa che l'accomuna con la parola di cui nessuno
risponde, nessuno è responsabile, nessuno è proprietario: essa
non appartiene né alla potenza personale del Soggetto, né al
potere impersonale della Verità. Processo neutro, gioco
illusorio, “mouvement panique, le quel dissipe toujours à
nouveau en une nullité ou indétermination inaliénable ce pouvoir
en quoi tout s'aliène" (ivi, p. 26), l'opinione, malgrado la sua
alienazione e la sua tranquilla acriticità, è accumunabile al
gioco della domanda che sfugge al riferimento all'Uno, al gioco
della "domanda più profonda", la domanda dell'Altro – dell'Altro
come domanda –, quella che rientra nel "rapporto neutro". Ma
anche se in certi luoghi del linguaggio, come appunto
nell'opinione pubblica, il rapporto Neutro è particolarmente
evidente, possiamo dire che esso è messo in gioco ogni volta che
parliamo (v. ivi, p 580).
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Ma chi è questo Altro con il quale si instaura il "rapporto
neutro", questo rapporto di reciproca estraneità, di
dissimmetria e irriducibile distanza?
Per Blanchot l'Altro del "rapporto neutro" non è l'altro
uomo che mi sta di fronte, ma l'uomo nella sua estraneità, nella
sua irriducibilità allo Stesso e all'Unico, nella sua
refrattarietà all'Essere dell'uomo quale è detto nella
nominazione del linguaggio. Ogni parola sta ad attestare questa
alterità, cioè che l'uomo non si arrende allo Stesso e all'Unico
(ivi. p. 105). E ogni parola contiene nella propria totalità
un’infinita distanza, un'incolmabile assenza.
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senza apporto alla Storia (ivi, p. 60). La Letteratura è
“ricondotta apertamente ad una problematica di linguaggio”: Il
linguaggio funzionale, produttivo, “necessario e necessariamente
orientato”, “crea per lo scrittore una condizione
tormentata”(ivi, p. 61). La frase che chiude Il grado zero della
scrittura è: “La Letteratura diventa l’Utopia del linguaggio”(p.
64).
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scrittura come involucro secondario per fissare il vocalismo, la
scrittura come invenzione di cui Theuth vantava i pregi e che il
re Thamus criticava evidenziandone l’effetto d’impoverimento nei
confronti delle esperienze e dei rapporti (Platone, Fedro).
Il ricordare, invece, è già scrittura prima della lettera,
è t r a c c i a e d i f f e r i m e n t o , scrittura che non serve alla
comunicazione e non trascrive la phoné, ma che, al contrario, se
vaga alla ricerca di parole per dirsi, non sempre le trova.
Questa scrittura non dipende dal soggetto, è al contrario
il soggetto a subirne la provocazione fino ad essere, in certi
casi, costretto a riscriversi o a rivedersi, per lo meno in
parte, attraverso di essa. La scrittura del ricordare è, in
questo senso, uno scrivere intransitivo nel senso di Barthes. E
quando si presenta nella pratica scrittoria, affrancandola dal
suo servilismo nei confronti della memoria e dalla sua funzione
di trascrizione, le conferisce i caratteri del differimento,
dello slittamento, della digressione, dello spreco,
dell’eccedenza, dell’infunzionalità propri della scrittura
letteraria. Il ricordare condivide con la scrittura letteraria
l’originarsi non dalla posizione di io ma di altro (Bachtin). Il
ricordare proviene da quello stesso “fuori del mondo” che
Blanchot individua come “spazio letterario”, appartiene, come la
scrittura letteraria, all’“altra notte”, quella che non serve
alla “produttività del giorno”.
Il tempo della memoria è il tempo del soggetto solo, il
tempo come “distensione dell’anima”, come “forma a-priori della
soggettività trascendentale”, come “durata”, come “ritenzione e
protensione della coscienza intenzionante”, come “tempo
autentico dell’esistente che ha ritrovato il proprio senso”. Il
tempo della memoria è il tempo della presenza, il tempo situato
nella sincronia della coscienza, il tempo della sua
contemporaneità totalizzante.
Il tempo del ricordare, invece, è il tempo che fuoriesce
dalla presenza, dal potere del soggetto, è il tempo che si
costituisce nell’esperienza dell’assenza d’altri, della s u a
assenza già in presenza, che è la sua materiale alterità
(Lévinas). Esso è il tempo dell’inquietudine, della veglia, del
risveglio dal sonno dogmatico provocata dal rapporto con altri,
un rapporto senza possibilità di co-presenza, di simmetria, di
com-posizione nel mondo, di accomunamento nell’essere, e che è
tuttavia coinvolgimento e non-indifferenza. Questo stato di
inquietudine che perfora la sincronia del tempo soggettivo della
memoria senza che l’oblio possa porre ripari, che attraversa
l’identità sorprendendo il soggetto indifeso malgrado i suoi
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alibi, è il tempo materiale, oggettivo, il tempo altro, la
diacronia effettiva, la temporalità non più come f l u i r e
continuo, ma come discontinuità. E il tempo che viene da altri.
Di memoria può essere capace anche la macchina, il
computer, e di più è meglio dell’uomo. Il ricordare, invece, è
una prerogativa esclusivamente umana.
Nella sfera della produzione umana, degli artefatti, la
memoria sta dalla parte del prodotto, di ciò che ha un valore
d’uso o un valore di scambio, di ciò che resta confinato nella
sfera del soggetto. Invece il ricordare sta dalla parte di ciò
che lo stesso linguaggio comune distingue come opera, di ciò che
ha valore indipendentemente dal valore d’uso e dal valore di
scambio e che fuorisce dal lavoro funzionale e “produttivo”. Il
ricordare favorisce il movimento a senso unico verso l’alterità,
senza ritorno, senza guadagno, dell’opera (Lévinas). Benché sia
soprattutto ritrovabile nell’opera artistica, ciò che con
Lévinas possiamo indicare come “opera” non è proprio soltanto di
essa. È opera ciò che è capace di sopravvivere al soggetto che
l’ha prodotto, al proprio contesto e al proprio scopo, il cui
valore non si riduce al valore d’uso né al valore di scambio.
L’opera è caratterizzata dall’eccedenza rispetto all’utilità,
alla funzione. In essa si manifesta il propriamente umano, la
sua irriducibilità alla sfera della necessità e del bisogno.
In questo senso il ricordare, come eccedenza rispetto
all’utilità della memoria e come resistenza alla funzionalità
dell’oblio, è specificamente umano. Il segno umano manifesta
l’ampiezza della significanza oltre la significazione. Rispetto
alla significazione, la significanza del ricordare è
un’eccedenza, qualcosa di troppo, di supplementare, che fuorisce
dalla definizione del senso, che non si lascia assorbire in
essa.
Ciò che ha senso per la memoria, invece, ha senso come
significazione, come senso che si offre, si svela, viene
incontro. È il senso che, per questo suo darsi, per questo suo
farsi incontro, Barthes nel saggio “Il terzo senso” del 1971
(ora in Barthes 1982) indica come il senso ovvio. La
significanza del ricordare, invece, non ha la sfrontatezza della
significazione, la sua provocazione, la sua oscenità; ha un che
di riservato, di discreto. Questo senso che è di troppo, che è
superfluo, che è al tempo stesso ostinato e sfuggente, piano ed
evasivo, tenue e inquietante, viene indicato da Barthes come il
senso ottuso. Da una parte l’ovvietà della memoria, dall’altra
l’ottusità del ricordare.
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Il senso ottuso sembra portarsi fuori dalla cultura, dal sapere,
dall’informazione; analiticamente, esso ha qualcosa di derisorio;
poiché apre all’infinito del linguaggio, può sembrare limitato
(ottuso) nei riguardi della ragione analitica; esso è della razza dei
giochi di parole, delle buffonerie, delle spese inutili, indifferente
alle categorie morali ed estetiche (il triviale, il futile, il
posticcio, il pasticcio) esso è dalla parte del carnevale (Barthes
1982, pp. 45-46).
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dell’immagine, dissolvimento dell propria immagine
(sfiguramento), sospensione della violenza (v. ivi, p. 38).
Anche qui, a proposito del neutro come desiderio, un altro
paradosso. Come desiderio, il neutro, dice Barthes, è violenza.
E Barthes parla anche di violenza della scrittura. Vi è una
violenza del Neutro, ma essa è inesprimibile. Se il neutro è
scrittura (indipendentemente dal segno scritto), il desiderio
del Neutro è violento perché sovversivo, la “sovversione non
sospetta” di cui parla Jabès. Passione del neutro e per il
neutro, passione per l’indifferente, nel senso proustiano (nel
racconto L’Indifferente di Proust, ma anche come motivo di tutta
la Recherche).
Un altro paradosso del neutro come desiderio: il desiderio
è sempre vendibile. Non facciamo che vendere, comprare e
scambiare desideri (ivi, p. 39). La società odierna, con la sua
doxa, si mette nella posizione della madre del soggetto
anoressico: non impedisce i desideri, al contrario gli impone,
obbliga alla loro soddisfazione. Il paradosso del desiderio del
Neutro, la sua singolarità assoluta, è che esso è invendibile,
non comprabile e, come desiderio del Neutro, fuorisce dalla
logica di mercato, dalla logica consumistica, che impone i
desideri, ma non nella forma del rifiuto anoressico, del
desiderio di niente, ma appunto come desiderio del Neutro.
6. Il Neutro e l’altro
Il Neutro fuoriesce dalla logica dell’identità,
dell’affermazione, della produttività, e si presenta come
movimento verso l’alterità, senza scambio, senza ritorno, senza
guadagno, dépense incondizionata, quel movimento a senso unico
che Lévinas chiama “opera”, scrittura avant la lettre. Il Neutro
si presenta come desiderio dell’altro nella c o r t e s i a . La
cortesia come pensiero dell’altro, come considerazione
dell’alterità. Altrove Barthes aveva parlato del rispetto della
sintassi come agape, come amore per l’altro. Nel corso sul
Neutro, Barthes si sofferma sulla figura della Benevolenza come
voler bene, e considera l’espressione italiana “ti voglio bene”
(v. p. 40), ma anche l’enunciazione “stammi bene” (dativo
etico), come espressione del tenere all’altro, dell’essere in
pensiero per l’altro, come pensiero rivolto all’altro. Potremmo
aggiungere che nel Neutro il pensiero dell’altro trasforma
“dell’altro” da genitivo soggettivo o da genitivo oggettivo
(l’unico paradigma che l’analisi logica riconosce nel senso
pensiero dell’altro) in una sorta di genitivo etico, come
pensiero all’altro, desiderio dell’altro, non-indifferenza,
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essere nei suoi confronti in una posizione di ascolto. Non si
tratta qui del sentire, della posizione del sentire,
dell’ascolto come “atto intenzionale di audizione”, dice Barthes
(nella voce “Ascolto” dell’Enciclopedia Einaudi, vol. I), come
“ascolto applicato”, del voler sentire, dell’interrogare,
caratteristico atteggiamento di tutti i luoghi del potere, ma
dell’ascoltare, dove, dice Barthes, “ti ascolto” significa anche
“ascoltami”.
Il Neutro è tutt’altro che passività, rinuncia,
rassegnazione. È attività, desiderio, violenza desiderante,
passione, spostamento (déplassemement), leggerezza, flotter, non
fissarsi. Il desiderio del Neutro è voler-vivere, un voler
vivere che non significa prendere, afferrare, imporsi,
impossessarsi. L’attività del Neutro comporta la domanda: che
cosa il Neutro ha a suo attivo? Con Pasolini Barthes risponde:
una vitalità disperata (p. 116). Voler vivere è qui trascendenza
del voler avere, del voler afferrare, del voler prendere, è,
dice Barthes, la deriva che allontana dall’arroganza.
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Il Neutro è rivendicazione del diritto di tacere, il
diritto di non dover rispondere malgrado l’essere costretti a
dire. E a costringere a dire è la lingua stessa, come Barthes
dice in Leçon. La scrittura è modalità del tacere, come anche
nota Bacthin, che definisce lo scrittore come colui che usa la
lingua standone fuori, che indossa “la veste del tacere”.
Bachtin considera forme del tacere l’ironia, la parodia, la
metafora, l’allegoria. La scrittura è tacere in quanto parlare
indiretto e dunque un modo, dice Barthes, di sventare, di
evitare la parola diretta, oggettiva. Al posto della presa di
parola si tratta di var valere il tacere che è la condizione
dell’ascolto e della “comprensione rispondente”(Bachtin); non
l’ascolto finto, l’ascolto del voler sentire, l ’ a s c o l t o
a p p l i c a t o , ma l’ascolto come desiderio del Neutro, come
desiderio dell’altro, fuori dal paradigma. Il tacere: per
cogliere il rapporto tra tacere e Neutro in Barthes, possiamo
ricordare l’accenno fatto all’inizio al tacere di Cordelia nel
Diario del seduttore di Kierkegaard, al tacere di Cordelia nel
Re Lear, al mutismo dello scrigno di piombo nel Mercante di
Venezia rispetto all’eloquenza dell’oro e alle assicurazioni
dell’argento.
Il silenzio è ambivalente, nota Barthes.
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senso cibernetico, una cacofonia. Ma di nuovo sempre la stessa
aporia quando si tratta del Neutro: “pour dire cette cacophonie,
j’ai besoin d’un cours” (ivi, p. 58).
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10. Substituer la métaphore au concept: écrire
C’è una parte particolarmente interessante nel corso sul Neutro
(pp. 199-201), in cui Barthes, sempre ricadendo inevitabilmente
nell’antitesi, contrappone il concetto e la metafora. Sia il
concetto sia la metafora si costruiscono per associazione sulla
base della somiglianza. Vediamo di spiegare la differenza
uscendo dal testo di Barthes: per leggere un testo ce ne vuole
un altro.
La scelta giusta tra gli scrigni nel Mercante di Venezia è
quella che si basa sul riconoscimento del rapporto tra lo
scrigno di piombo e l’amore, sul riconoscimento della
somiglianza tra la scelta di questo scrigno e quella della donna
amata. Questa somiglianza però non è dello stesso tipo di quella
che permette di assegnare determinati individui a una stessa
classe, ad un insieme, che sta alla base della classificazione
di un individuo in un genere, non si tratta di una somiglianza
che potremmo chiamare assemblativa. La somiglianza che sta alla
base della strategia che risolve l’enigma degli scrigni è
piuttosto quella che permette la metafora. Essa si avvale di una
somiglianza elettiva, attrattiva, per affinità. La somiglianza
in questo caso non riguarda ciò che si presenta come lo stesso,
come appartenente a una stessa categoria, come identico, ma
invece ciò che è differente, refrattario alla forma
assemblativa, ciò che si dà come altro. La procedura secondo
questo tipo di somiglianza si trova nel Mercante di Venezia non
soltanto nel ragionamento che risolve il puzzle degli scrigni,
cioè quello che trova la scelta dello scrigno di piombo simile
alla scelta della donna amata: scegliere l’uno è trovare
l’altra. Essa caratterizza anche alcuni decisivi ragionamenti di
Porzia. A questo tipo di somiglianza, che stiamo chiamando “per
affinità elettiva” e che lascia reciprocamente altri i termini
che associa, si appella Porzia per tentare di indurre Shylock
alla clemenza: poiché il perdono (mercy) è un attributo di Dio
stesso, il potere terreno appare più simile a quello divino
quando il perdono addolcisce la giustizia, e dunque se Antonio
riconosce the bond, Shylock deve essere merciful. Ma anche la
decisione di Porzia di aiutare Antonio si basa su questo stesso
tipo di somiglianza: il fatto che Antonio sia legato da profonda
amicizia con Bassanio, “makes me think that this Antonio [...]
must needs be like my lord”. Anzi se Antonio, che Bassanio ama,
somiglia a Bassanio, allora somiglia a Porzia, che ama Bassanio:
in Antonio Porzia dice di riconoscere “the semblance of my
soul”.
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Questo tipo di somiglianza comporta un movimento verso
l’altro in quanto altro, analogo a quello del donare, del
perdonare, del dare in pura perdita. La logica di questo
movimento attrattivo è la stessa di quella del rischio
incondizionato per l’altro, del movimento a senso unico, senza
ritorno, senza guadagno, verso l’altro, dell’essere l’uno per
l’altro, della “sostituzione” (Lévinas). Si tratta di una
somiglianza i cui termini non sono indifferenti, in cui le
differenze non sono cancellate, come nell’indifferenza della
somiglianza assemblativa, che identifica, omologa, pareggia,
eguaglia, ma permane con l’altro un rapporto di differenza non-
indifferente: una somiglianza per alterità in contrapposizione
alla somiglianza per identità, quella presente nello scambio
avaro, nella giustizia (“a rigor di giustizia nessuno di noi
potrebbe vedere la propria salvezza”). Shylock non conosce che
questo tipo di somiglianza. Sia quando afferma la sua identità
etnica, religiosa, sia quando si lamenta di essere stato tradito
da sua figlia, che in quanto tale gli appartiene, è “carne e
sangue suo”, sia quando chiede che gli venga dato quanto è stato
stabilito per contratto. Anche nel ragionamento in cui argomenta
di essere eguale, simile, benché ebreo, a tutti gli altri
uomini, Shylock si basa sulla logica della somiglianza coesiva,
per identità, dello scambio giusto, sulla logica
dell’indifferenza, della giustizia e della vendetta: “Sono un
ebreo. Ma non ha occhi un ebreo. Non ha un ebreo mani, membra,
sensi, affetti, passioni? Non si nutre dello stesso cibo, non è
ferito dalle stesse armi, non va soggetto alle stesse malattie,
non si cura con gli stessi rimedi, non ha freddo per lo stesso
inverno e caldo per la stessa estate del cristiano. Se ci
pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo?
Se ci avvelenate, non moriamo? E se ci offendete non dobbiamo
vendicarci? Se siamo simili a voi in tutto, anche in questo
vogliamo somigliarvi”.
Possiamo dunque dire che Barthes occupandosi del rapporto
tra concetto e metafora individua due logiche, quella
assemblativa del concetto, che procede per generi e specie, per
paradigmi, riconoscendo soltanto individui appartenenti a generi
e non singolarità, assimilando l’inassimilabile, e la logica (la
“logica poetica” di Vico – Vico figura nella bibliografia data
da Barthes sotto il titolo di Intertexte il primo giorno del
corso, il 18 febbraio 1978 – attrattiva, che vige nella metafora
(la quale, potremmo dire con Peirce, espressione della
“iconicità” e della “primità”, si basa sulla relazione
“agapastica”). In quest’altra logica per affinità elettiva, per
17
agapasmo (Peirce), la somiglianza lascia i termini del rapporto
nella loro alterità, nella loro irriducibile singolarità.
Riferendoci a quanto Barthes dice La chambre claire, possiamo
notare che questa logica è quella che rende plausibile la
domanda “bizzarra“, come la qualifica Barthes in quest’opera:
perché mai non potrebbe esserci, in un certo senso, una nuova
scienza per ogni soggetto? Una Mathesis singularis (e non più
universalis)? (v. Barthes 1980, trad. it.: 10);
“Ogni concetto”, dice Barthes L (e Neutre, p. 201) nasce
dall’identificazione del non identico”. Il concetto: “forza
riduttrice del diverso”. Perciò “se si vuole rifiutare la
riduzione, bisogna dire no al concetto, non servirsene”. Ma
allora come parlare? La risposta di Barthes è: “Per metafore.
Sostituire la metafora al concetto: scrivere”:
La scrittura è precisamente quella pratica che sventa,
evita, schiva l’arroganza del discorso (p. 206). La sola azione
dialettica contro l’arroganza della stessa natura assertiva del
discorso è il passaggio dal discorso alla scrittura, la pratica
della scrittura: il Neutro della scrittura, il desiderio della
scrittura(v. p. 206). Qui ritornano le considerazioni di Barthes
sulla violenza del Neutro, nel caso specifico, del Neutro come
scrittura. Non si tratta della violenza del dire, della violenza
del pensiero, della violenza di una forza esterna, ma della
violenza dell’enunciazione in quanto enunciazione, violenza
senza arroganza; arroganza che invece si impone nella pretesa
del “naturale”, dell’”ovvio”, dell’“avere ragione” (v. p. 202).
La scrittura è movimento di fuoriuscita dalla ideosfera, perché
non è affermazione di una convinzione, di un’idea, di un
pensiero, ma dello scrivere stesso, della scrittura come ri-
scrittura, come ciò che lo scrittore chiama “lavorare”, ma nel
senso non produttivo, perverso, nel suo senso intransitivo.
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che è fisica – acustica nel caso linguaggio verbale – per ciò
che concerne la forma dell’espressione, ma è anche la “massa del
pensiero” amorfa, per ciò che concerne la forma del contenuto.
Sicché, per il lavoro linguistico depositato nelle diverse
lingue, come la stessa sabbia si può mettere in stampi diversi,
e la stessa nuvola può assumere sempre nuove forme, così la
stessa materia risulta formata o ristrutturata diversamente in
lingue diverse (cfr. Hjelmslev 1968: 56-57). Malgrado la sua
alterità rispetto a una configurazione, malgrado le sue
possibilità altre, la materia si dà sempre come significata,
essa o b b e d i s c e a una forma e si presenta come sostanza.
“Obbedire”, un verbo centrale in L’arve e l’aume.
L’irrigidirsi, l’ossificarsi delle parole, che codificano,
bloccano e paralizzano il pensiero, non è che un aspetto della
sclerotizzazione generale dei segni umani a cui bisogna
restituire le risorse dimenticate del linguaggio come processo
di modellazione infinita, di scrittura. La conseguenza di questo
indurimento, di questa pietrificazione, dice Artaud in Il teatro
e il suo doppio, è che la cultura nel suo insieme prevarica
sulla vita, detta legge alla vita anziché essere mezzo per
comprendere ed esercitare la vita. “Quando pronunciamo la parola
‘vita’“, precisa Artaud, “dobbiamo renderci conto che non si
tratta della vita quale la conosciamo attraverso l’aspetto
esteriore dei fatti, ma del suo nucleo fragile e irrequieto,
inafferrabile dalle forme” (Artaud 1961:133). Da una parte la
vita così intesa, l’arve; la “materia matrice” (Pasi in Carroll
1993: 78), larva, embrione, uovo; dall’altra “le forme
suscettibili di pietrificazione”, l’aume, l’essere che la vita
umana è diventata.
L’essere è ripetizione, la vittoria della reiterazione
della sclerosi dell’identico sul vivere, sull’alterità del
corpo. L’essere è la vita che ostinandosi ad essere, a
ripetersi, anche nelle parole, a riconfermarsi, si sottrae alla
vita; conatus essendi, che si economicizza, che non si espone,
che non vuole rischi, che si preserva. L’essere è il presente
che riservandosi, tenendosi in serbo, per l’identità perde se
stesso. Una morte per ostinazione della presenza, una morte come
ripetizione.
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del gesto vivo che non ha luogo che una volta” (Derrida, Prefazione a
Artaud, Il teatro e il suo doppio, in Artaud 1961: xxx-xxxi)
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