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MECCANICA QUANTISTICA

Esposizione divulgativa
Andrea Lascala
4 luglio 2023

Sommario
Il seguente articolo è volto ad offrire uno sguardo d’insieme sugli aspetti
fondanti della meccanica quantistica, le sue interpretazioni e le equazioni che la
descrivono. Verranno trattati alcuni aspetti fisici e matematici della meccanica
quantistica, dalle sue origini alle formulazioni più recenti.

1 L’esperimento della doppia fenditura


L’esperimento di Young, conosciuto come esperimento della doppia fenditura, venne
realizzato per dimostrare la natura ondulatoria della luce: una sorgente di luce mono-
cromatica e coerente (quindi con stessa lunghezza d’onda λ e con onde tutte in fase)
viene posta davanti ad una parete con due fenditure.
Tenendo aperte una per volta le fenditure F1 e F2 , osserviamo che l’intensità luminosa
sullo schermo rivelatore è più forte in corrispondenza delle fenditure, come ci aspette-
remo logicamente. Definiamo l’intensità della luce attraverso le due fenditure con due
funzioni I1 (x), I2 (x) in funzione della posizione x sullo schermo.
Se però teniamo aperte entrambe le fenditure, otteniamo quella che viene detta ”figura
di interferenza”; in questo caso, l’intensità della luce
I(x) ̸= I1 (x) + I2 (x)

Figura 1: Figura di interferenza

1
2 L’ipotesi del fotone di Einstein
La luce si compone di particelle prive di massa, chiamate ”fotoni”, o anche ”quanti”
di luce.
Essendo i fotoni delle particelle, potrebbe essere complicato descrivere la natura ondu-
latoria della luce.
Possiamo infatti pensare che i fotoni interagiscano tra loro, dando origine a fenomeni
di interferenza costruttiva e distruttiva che generano la figura di interferenza. Tutta-
via, possiamo verificare sperimentalmente che, diminuendo l’intensità luminosa della
sorgente di luce monocromatica in modo tale che statisticamente arrivi alla doppia
fenditura solo un fotone per volta, per annullare la possibilità di interazione con altri
fotoni, il risultato è ancora la figura di interferenza; non è pertanto legata a fenomeni
di interazione tra fotoni ma ad un comportamento intrinseco delle particelle.

Possiamo chiederci a posteriori in quale fenditura sia passato un fotone: possiamo


infatti posizionare dei rivelatori nei pressi delle due fenditure che segnalano il loro pas-
saggio.
Il problema è che i rivelatori assorbono i fotoni, per poterli localizzare, pertanto sullo
schermo non comparirà più la figura di interferenza.
Concludiamo quindi che quando effettuiamo una misura di un sistema microscopico, ne
alteriamo irrimediabilmente le sue caratteristiche (mentre in meccanica classica possia-
mo supporre che un qualsiasi processo di misura provochi una perturbazione che può
essere trascurata o ridotta al minimo).

Siamo dunque costretti ad abbandonare il concetto classico di traiettoria: non ha


senso sapere se il fotone sia passato da una fenditura piuttosto che dall’altra, né sapere
con precisione dove il fotone si troverà sullo schermo; ha più senso invece parlare di
probabilità che un fotone si trovi in un certo punto dello schermo.
Questa probabilità P dipende direttamente dall’intensità della luce in quel punto

P (x0 ) ∝ I(x0 ) (1)

Dalle equazioni dell’elettrodinamica classica, sappiamo che l’intensità luminosa in un


punto è data dal modulo del campo elettrico in quel punto

⃗ 0 )|
I(x0 ) = |E(x

quindi ricaviamo un primo risultato interessante: la probabilità di trovare un fotone in


x0 è proporzionale al modulo del campo elettrico in x0

⃗ 0 )|
P (x0 ) ∝ |E(x (2)

3 Principio di dualità onda-corpuscolo


Diamo ora alcuni principi sul comportamento della luce che saranno le nostre prime
linee guida della meccanica quantistica.

1. La luce si comporta simultaneamente come onda e come flusso di particelle;

2
2. Le predizioni riguardanti il comportamento di un fotone sono di carattere esclu-
sivamente probabilistico;

3. Il campo elettrico E ⃗ è un’ampiezza di probabilità di misurare il fotone; la proba-


bilità è data dal suo modulo quadro |E|⃗ 2.

Questi principi derivano dalle conseguenze dell’ipotesi del fotone sull’esperimento della
doppia fenditura.
Questo però non significa che questi principi siano applicabili soltanto alle particelle
prive di massa; vedremo infatti che un fenomeno analogo viene osservato anche con
particelle aventi massa, come ad esempio gli elettroni.

4 Interpretazioni della meccanica quantistica


Apriamo ora una piccola parentesi ”filosofica”: parliamo infatti del problema sulle in-
terpretazioni della meccanica quantistica.
Il dilemma su quale sia l’interpretazione più giusta da dare alla meccanica quantistica
nasce dal fatto che dal punto di vista sperimentale e fisico, tutte le interpretazioni por-
tano agli stessi risultati; le uniche differenze tra le varie posizioni sono esclusivamente
di carattere filosofico.
Attualmente, l’interpretazione più ”gettonata” è quella di Copenaghen: si tratta di
un’interpretazione comoda, che funziona dal punto di vista sperimentale e che fin’ora
ci permette di spiegare determinati fenomeni.
Ciò però non implica che altre interpretazioni siano meno corrette: se infatti saremo in
grado di dimostrare sperimentalmente una maggior correttezza di un’interpretazione
rispetto ad altre, o ancora di escluderne con certezza alcune, ci si potrebbe avvicinare
ad una vera e propria teoria quantistica completa.

Ritornando all’esperimento sulla doppia fenditura, abbiamo detto che dobbiamo ab-
bandonare l’idea di definire una traiettoria in senso classico. A riguardo ci sono due
diverse posizioni:

1. La posizione realista, sostenuta da Albert Einstein, secondo la quale il fotone


avrebbe una traiettoria e quindi una posizione ben determinata, ma avendo la
teoria sulla meccanica quantistica delle limitazioni, noi non possiamo determi-
narla;

2. La posizione ortodossa, sulla quale si fonda l’interpretazione di Copenaghen,


secondo la quale il fotone, prima di essere misurato, non occupava nessuna posizio-
ne ben definita; sarebbe l’operazione di misura che forzerebbe il fotone a trovarsi
in un punto piuttosto che in un altro. Prima della misura però, la posizione di
questa particella sarebbe descritta da un’ampiezza di probabilità.

Ad oggi, la posizione realista risulta essere un po’ problematica per alcuni aspetti, ed è
anche per questo che prevale quella ortodossa, quindi l’interpretazione di Copenaghen.
Un esperimento non spiegabile con la posizione realista è l’interferometro di Mach-
Zehnder.

3
5 Interferometro di Mach-Zehnder

Figura 2: Schema dell’interferometro di Mach-Zehnder

L’interferometro di Mach-Zehnder si compone nel seguente modo: una sorgente di luce


monocromatica, due specchi completamente riflettenti M, due specchi semi-riflettenti
BS1, BS2 e due rivelatori D1, D2.
Vediamo cosa può accadere nell’esperimento. La luce, proveniente dalla sorgente, ar-
riva allo specchio semi-riflettente BS1; questo specchio ha la capacità di assorbire il
50% della radiazione e rifletterne il restante 50%. La luce assorbita e quella riflessa
dallo specchio BS1 vengono interamente riflesse dai due specchi M, che convergono nel
secondo specchio semi-riflettente BS2. Questo secondo specchio semi-riflettente può
assorbire o riflettere la radiazione proveniente dalle due direzioni differenti e farla con-
vergere o nel rivelatore D1 o nel rivelatore D2 con eguale probabilità.

L’intensità di luce che arriva su D1 e D2 dipende da due fattori di fase costanti φ1 , φ2


indotti dalla differenza di cammino ottico, provocata dall’inserimento di materiali die-
lettrici particolari lungo i percorsi.
Pertanto, l’intensità misurata dai rivelatori è funzione delle due costanti di fase

ID1 = f (φ1 , φ2 )
(3)
ID2 = f (φ1 , φ2 )

Possiamo opportunamente agire su φ1 , φ2 in modo tale che la radiazione non arrivi sul
rivelatore D1
ID1 = f (φ1 , φ2 ) = 0
e questo si conserva anche quando diminuiamo l’intensità della sorgente di luce in modo
tale da far percorrere l’interferometro da un solo fotone per volta.
Interpretando ”classicamente” il comportamento di un fotone, ci si potrebbe chiede-
re perché la radiazione non dovrebbe arrivare a D1, seguendo, per esempio, questo
percorso

4
Figura 3: Risultato teorico dell’esperimento: il fotone arriva a D1

Il motivo per il quale non viene rilevato da D1 è che il singolo fotone percorre entrambi
i percorsi contemporaneamente e interferisce con sé stesso a livello dello specchio BS2,
e per questo motivo finirà sempre per essere rilevato da D2.

Ora invece consideriamo lo stesso esperimento, ma mettiamo un ostacolo sul cammino


tra BS1 e M come in figura

Figura 4: Ostacolo sul cammino della luce

Il fotone, non potendo superare l’ostacolo, non può percorrere contemporaneamente


entrambi i percorsi e quindi abbiamo annullato la possibilità di interferenza con sé
stesso. E malgrado avessimo fatto in modo che ID1 = f (φ1 , φ2 ) = 0, cominciamo a
registrare anche qualche fotone su D1.

5
6 Lunghezza d’onda di De Broglie

Figura 5: Spettro continuo e spettro di emissione e assorbimento dell’idrogeno

L’osservazione dello spettro di emissione e di assorbimento degli atomi ha portato a


delle evidenze sperimentali all’epoca inspiegabili: gli spettri corrispondenti ai livelli
energetici degli atomi non sono continui, ma sono discreti; ciò significa che un elettrone
può occupare solo determinati livelli energetici e un atomo può assorbire o emettere
fotoni solo con determinate energie.
L’unica spiegazione possibile a questo fenomeno è che i livelli energetici all’interno di
un atomo siano quantizzati.

Stando alla teoria di Einstein e Planck, se un fotone possiede una frequenza ν, allora
questo ha un’energia data da
E = hν (4)
dove h = 6.63 · 10−34 J·s è la costante di Planck.
Quando un atomo assorbe un fotone, l’energia posseduta da quest’ultimo viene ceduta
agli elettroni che fanno un ”salto energetico” da un valore iniziale Ei ad uno finale Ef .
La conservazione dell’energia impone che
Ef − Ei = hν (5)

Bohr ipotizzò che gli elettroni percorressero delle orbite privilegiate tali per cui la dif-
ferenza di energia corrispondesse all’energia di un fotone assorbito o emesso.
Ed è su questa base empirica che è stato costruito un modello dell’atomo di idrogeno.
Tuttavia non risultava ancora chiaro il motivo di queste orbite preferenziali.

Fu solo con De Broglie che si capı̀ il motivo profondo che provoca questi effetti.
Stando all’ipotesi di De Broglie, anche i corpi dotati di massa hanno proprietà ondu-
latorie, quindi anch’essi rispettano il dualismo onda-particella.
Questa ipotesi venne poi confermata dall’esperimento della doppia fenditura eseguito
con gli elettroni.

De Broglie associò alle particelle con massa m ed energia E, una quantità di moto
p⃗, un’onda di pulsazione ω = 2πν e un vettore d’onda, definito come

⃗k = 2π ux
λ

6
dove ux è il versore che indica la direzione di propagazione dell’onda.
Dalla relazione E = hν, vale che
ω
E=h

e definendo il vettore quantità di moto come
h⃗
p⃗ = k

possiamo stabilire una relazione tra energia e frequenza valida sia per i fotoni, sia per
le particelle.
Ricordiamo però che

energia di un fotone: E = cp
1 p2
energia di una particella con massa m: E = mv 2 =
2 2m
Dalla definizione di vettore d’onda, possiamo ricavare che

λ=
|⃗k|

e sostituendo |⃗k| otteniamo


h h
λ= = (6)
p mv
Questa quantità viene definita ”lunghezza d’onda di De Broglie”.

7 Formulazione della teoria quantistica


Abbiamo a questo punto gli strumenti necessari per iniziare a parlare di principi
fondamentali della meccanica quantistica.
1. Al concetto classico di traiettoria, si sostituisce il concetto di ”stato quantistico”.
Questo stato viene descritto da una funzione d’onda Ψ(⃗r, t), dove ⃗r è un vettore
posizione dello spazio tridimensionale.
Questa funzione però non ci dà informazioni sulla posizione assunta dalla par-
ticella, ma assume un valore caratteristico in ogni punto dello spazio e in ogni
istante di tempo.
In generale, la funzione d’onda appartiene allo spazio delle funzioni complesse.
2. La funzione d’onda Ψ(⃗r, t) è un’ampiezza di probabilità, mentre la probabilità di
trovare una particella è data dal modulo quadro della funzione |Ψ(⃗r, t)|2 (questo
perché essendo la funzione d’onda complessa, il modulo al quadrato ci assicura
che il valore di probabilità sia reale e positivo).

In particolare, se ci troviamo nella posizione ⃗r, la probabilità infinitesima di


trovare la particella all’interno di un volume infinitesimo d3 r è data da

|Ψ(⃗r, t)|2
dP (⃗r, t) = R +∞ d3 r (7)
|Ψ(⃗r , t)|2 d3 r
−∞

7
Di conseguenza, essendo P (⃗r, t) una probabilità, abbiamo che deve essere verifi-
cata la condizione di normalizzazione
Z +∞
dP (⃗r, t) d3 r = 1 (8)
−∞

Per far sı̀ che questa condizione sia verificata, bisogna che
Z +∞
|Ψ(⃗r, t)|2 d3 r < ∞ (9)
−∞

ovvero che l’integrale improprio converga.


Se la funzione Ψ(⃗r, t) verifica la condizione di convergenza dell’integrale impro-
prio, allora diciamo che la funzione d’onda è una ”funzione a quadrato somma-
bile”.
3. Dato uno stato Ψ(⃗r, t), se vogliamo misurare una certa quantità fisica associata a
questo sistema, la nostra grandezza fisica, che indichiamo con A, viene descritta
matematicamente da un operatore che viene associato alla funzione di stato.
L’azione di A sulla funzione d’onda fa sı̀ che lo stato Ψ(⃗r, t) sia proiettato in uno
stato diverso, chiamato Ψa (⃗r, t)
A
Ψ(⃗r, t) −→ Ψa (⃗r, t) (10)
dove a è un autovalore dell’operatore A.

In questo caso, a è il risultato della nostra misura mentre Ψa (⃗r, t) è la nuova


funzione d’onda risultata dal processo di misura.
Concretamente, un elettrone in moto, prima di essere rilevato, è descritto da una
funzione Ψ(⃗r, t); quando poi viene localizzato su uno schermo, ovvero misuriamo
la sua posizione, allora la sua funzione d’onda diventa proprio Ψa (⃗r, t) e a è il
risultato.

In generale, una funzione d’onda Ψ(⃗r, t) può essere scritta come combinazione
lineare di tutte le Ψa (⃗r, t), come segue
X
Ψ(⃗r, t) = ca (t)Ψa (⃗r) (11)
a

Nel caso appena descritto, la funzione d’onda Ψa non contiene più la dipendenza
temporale, ma è inserita nel fattore moltiplicativo ca .
Analogamente a prima, possiamo definire una probabilità ”discreta” di trovare a
come risultato della misura come
|ca (t)|2
Pa (t) = P 2
(12)
a |ca (t)|

e, considerando un volume infinitesimo d3 r, possiamo passare dal caso discreto a


quello continuo considerando l’integrale

|ca (t)|2
Pa (t) = R +∞ (13)
−∞
|ca (t)|2 d3 r

8
Tirando le somme, la funzione Ψ(⃗r, t) può essere descritta come combinazione
lineare di tutti gli autostati associati all’operatore A.

4. L’evoluzione temporale della funzione d’onda è descritta dall’equazione d’onda


di Schroedinger, un’equazione differenziale complessa alle derivate parziali, di cui
diamo qui di seguito l’espressione

∂ ℏ2 2
iℏ Ψ(⃗r, t) = − ∇ Ψ(⃗r, t) + V (⃗r, t)Ψ(⃗r, t) (14)
∂t 2m

dove
h
ℏ=

e ∇2 è l’operatore di derivata parziale laplaciano, definito come

∂2 ∂2 ∂2
∇2 = + +
∂x2 ∂y 2 ∂z 2

che, associato ad una funzione, restituisce un numero definito come somma delle
derivate seconde rispetto alle variabili spaziali, mentre il termine V (⃗r, t) si riferisce
al contributo di un potenziale esterno di qualsiasi tipo (elettrico, magnetico,
gravitazionale, etc.) che interagisce con la particella.
Qualora considerassimo una particella in moto non influenzata da forze esterne,
dunque con un potenziale V (⃗r, t) nullo, allora l’equazione assumerebbe la forma

∂ ℏ2 2
iℏ Ψ(⃗r, t) = − ∇ Ψ(⃗r, t) (15)
∂t 2m

e in questo caso, si parla di ”equazione di Schroedinger libera”.

Facciamo un paio di considerazioni sull’equazione.


Innanzitutto, è bene notare che l’equazione è lineare in Ψ(⃗r, t), ovvero la funzione
compare sempre di primo grado.
Questo ha una conseguenza importante: vale il principio di sovrapposizione; se
abbiamo che Ψ1 e Ψ2 sono entrambe soluzioni dell’equazione d’onda, allora an-
che una qualsiasi combinazione lineare di queste due Ψ̃ = αΨ1 + βΨ2 è ancora
soluzione. Questo aspetto matematico spiega anche il paradosso del gatto di
Schroedinger: poiché gli stati ”gatto vivo” e ”gatto morto” sono entrambi solu-
zioni dell’equazione, allora anche ”gatto vivo e morto”, contemporaneamente, è
una soluzione possibile, anche se logicamente è paradossale.
Un’altra importante proprietà è che l’equazione è del primo ordine nel tempo,
ovvero che la derivata temporale è una derivata prima.
Ciò significa che se noi conosciamo la funzione d’onda in un certo istante di tempo
t0 , allora possiamo conoscere la funzione d’onda in qualsiasi istante futuro.
Quindi l’equazione d’onda è assolutamente deterministica, in quanto descrive tut-
ta l’evoluzione futura della funzione d’onda, regolata dallo stato presente.
Il problema si pone nel momento in cui vogliamo misurare una grandezza asso-
ciata ad uno stato quantistico; in questo caso emerge il il comportamento proba-
bilistico, intrinseco al mondo quantistico stesso.

9
Facciamo un riassunto del senso dell’equazione: il nostro sistema fisico è descritto
probabilisticamente dalla funzione Ψ(⃗r, t) che contiene tutte le informazioni ad
esso correlate (come ad esempio energia o quantità di moto) e le relative proba-
bilità di misurarle.
Abbiamo pertanto che se un sistema è descritto da una funzione d’onda, appli-
cando l’equazione d’onda possiamo determinare l’evoluzione spazio-temporale del
sistema, insieme alle probabilità di misurare determinate grandezze fisiche.

8 Normalizzazione dell’equazione d’onda


Consideriamo un sistema quantistico descritto dalla funzione d’onda Ψ(x, t) (una di-
mensione spaziale e una temporale): questo per semplificare i conti che andremo a fare.
In modo abbastanza semplice è possibile poi estendere i risultati che otterremo anche
al caso tridimensionale.
Ricordiamo che, se la funzione d’onda è a quadrato sommabile, allora
Z +∞
|Ψ(x, t)|2 dx converge
−∞

Non tutte le soluzioni dell’equazione di Schroedinger sono a quadrato sommabile: sono


dunque soluzioni che non rappresentano realmente uno stato fisico, poiché non è veri-
ficata la condizione di normalizzazione, ma che sono comunque molto interessanti da
analizzare da un punto di vista matematico (lo faremo tra poco) e per rappresentare
soluzioni fisiche.

Poiché alla norma quadrata di Ψ(x, t) corrisponde una probabilità, potrebbe essere
problematico essere in una situazione in cui la probabilità varia al variare del tempo.
In altre parole, se la probabilità totale di trovare una particella nello spazio ad un
tempo t0 è 1, come da condizione di normalizzazione, allora vogliamo che sia 1 anche
per tutti gli altri istanti di tempo, ovvero che
Z +∞
|Ψ(x, t)|2
R +∞ dx = 1 (16)
|Ψ(x, t)| 2 dx
−∞ −∞

Dobbiamo a questo punto verificare come si comporta la norma quadrata della funzione
nel tempo.
Scriviamo innanzitutto che
d +∞
Z Z +∞
2 ∂
|Ψ(x, t)| dx = |Ψ(x, t)|2 dx (17)
dt −∞ −∞ ∂t

e poiché Ψ(x, t) è una funzione complessa, possiamo scrivere il suo modulo quadro come
il prodotto di se stessa con il suo complesso coniugato

|Ψ(x, t)|2 = Ψ(x, t)Ψ∗ (x, t)


Pertanto abbiamo che, applicando la regola di differenziazione del prodotto,
∂ ∂ ∂ Ψ(x, t) ∂ Ψ∗ (x, t)
|Ψ(x, t)|2 = [Ψ(x, t)Ψ∗ (x, t)] = Ψ∗ (x, t) + Ψ(x, t)
∂t ∂t ∂t ∂t

10
Applichiamo ora l’equazione di Schroedinger alla Ψ, moltiplicando ambo i membri per
un termine −i/ℏ, ottenendo che

ℏ2
  2
∂ i ∂ Ψ(x, t) i
Ψ(x, t) = − − 2
− V (x, t)Ψ(x, t)
∂t ℏ 2m ∂x ℏ
2
(18)
iℏ ∂ Ψ(x, t) i
= 2
− V (x, t)Ψ(x, t)
2m ∂x ℏ
Poiché, per proprietà, l’uguaglianza si conserva anche prendendo Ψ∗ , scriviamo che

∂ ∗ iℏ ∂ 2 Ψ∗ (x, t) i
Ψ (x, t) = − + V (x, t)Ψ∗ (x, t) (19)
∂t 2m ∂x2 ℏ
Pertanto, ricordando come abbiamo definito |Ψ(x, t)|2 , scriviamo che

∂ Ψ∗ (x, t)
  
∂ 2 ∂ iℏ ∗ ∂ Ψ(x, t)
|Ψ(x, t)| = Ψ (x, t) − Ψ(x, t) (20)
∂t ∂x 2m ∂x ∂x

A questo punto possiamo ritornare all’equazione (17): abbiamo tutti gli ingredienti per
scrivere che
Z +∞  +∞
∂ Ψ∗ (x, t)

∂ 2 iℏ ∗ ∂ Ψ(x, t)
|Ψ(x, t)| dx = Ψ (x, t) − Ψ(x, t) =0
−∞ ∂t 2m ∂x ∂x −∞

Il perché del fatto che questa quantità debba essere uguale a zero è perché le due
funzioni Ψ e Ψ∗ devono tendere a zero agli estremi di integrazione, altrimenti non
sarebbe verificata la condizione di normalizzazione.
Osservando l’uguaglianza (17), possiamo concludere che
Z +∞
d
|Ψ(x, t)|2 dx = 0 (21)
dt −∞

dunque la probabilità complessiva si conserva nel tempo, poiché la sua variazione è


zero.

9 Onde piane
Ritorniamo ora al caso generale di una funzione d’onda Ψ(⃗r, t), con V (⃗r, t) = 0, dunque
l’equazione libera (15).
L’equazione libera ammette una classe importante di soluzioni dette ”onde piane”,
della forma

Ψ(⃗r, t) = C ei(k·⃗r−ωt) (22)

dove C è una costante e ⃗k · ⃗r è il prodotto scalare tra il vettore d’onda e il vettore


spostamento.
Verifichiamo per quali condizioni su ω queste funzioni sono soluzioni dell’equazione di
Schroedinger.
Abbiamo che
∂ h i(⃗k·⃗r−ωt) i
iℏ Ce = ωℏΨ(⃗r, t) (23)
∂t

11
mentre
ℏ2 2 h i(⃗k·⃗r−ωt) i ℏ2 ⃗ 2
− ∇ Ce = |k| Ψ(⃗r, t) (24)
2m 2m
e poiché deve valere l’equazione, si ha che

ℏ2 ⃗ 2
ωℏ = |k|
2m
ottenendo la condizione sulla pulsazione ω dell’onda piana
ℏ ⃗2
ω= |k| (25)
2m
che rende Ψ(⃗r, t) soluzione dell’equazione di Schroedinger.

10 Operatori dell’equazione di Schroedinger


Diamo ora un’interpretazione dal punto di vista fisico dell’equazione di Schroedinger,
per capire il significato profondo dei suoi termini.
Avevamo definito nel paragrafo 6 le seguenti quantità:
h h⃗
E= ω = ωℏ p⃗ = k = ℏ⃗k
2π 2π
Possiamo notare dalle equazioni (23) e (24) che


iℏ = ωℏ − ∇2 = |⃗k|2
∂t
con qualche passaggio algebrico, possiamo ottenere la seguente corrispondenza:

Energia: E = iℏ
∂t (26)
Quantità di moto: P = −iℏ∇

Qual è il senso e il significato fisico di ciò che abbiamo appena scritto?


Non ho usato la classica notazione E e p⃗ per indicare l’energia e la quantità di moto,
perché in effetti E e P non sono nulla, o almeno, da soli non hanno nessun senso fisico.
Infatti il primo contiene una derivata parziale rispetto al tempo, l’altro un operatore
di derivata parziale rispetto alle componenti spaziali, ma non hanno nessun argomento
da derivare.
Solo nel momento in qui a queste due quantità viene associata una funzione, allora
assumono un importante significato fisico; infatti, data una funzione d’onda Ψ(⃗r, t) che
descrive un sistema quantistico, se associamo E alla funzione otteniamo l’energia dello
stato, mentre se associamo P otteniamo la sua quantità di moto.
Chiamiamo E e P ”operatori”, rispettivamente di energia e quantità di moto.

Se osserviamo con attenzione l’equazione d’onda, riconosciamo subito che al primo


membro troviamo l’operatore E:

iℏ Ψ(⃗r, t) = EΨ(⃗r, t) (27)
∂t

12
Ci ricordiamo poi che vale la relazione

p2
E=
2m
e a partire da P = −iℏ∇, ricaviamo che

P2 = −ℏ2 ∇2

Possiamo quindi scrivere l’equazione di Schroedinger libera (15) in questo modo

1 2
EΨ(⃗r, t) = P Ψ(⃗r, t) (28)
2m

e sappiamo da sopra che la quantità P2 /2m è anch’essa un’energia, dunque l’ugua-


glianza è verificata.
Tirando le somme, l’equazione di Schroedinger è una sorta di equazione di conserva-
zione dell’energia; nel caso libero (ovvero V (⃗r, t) = 0) l’energia dello stato che descrive
la particella non viene alterato da potenziali esterni, mentre nel caso completo, in
presenza di campi di forze, questo contributo va aggiunto.

11 Soluzioni normalizzabili dell’equazione d’onda e


principio di indeterminazione
L’esempio delle onde piane, malgrado sia di interesse matematico, non fornisce un utile
esempio dal punto di vista fisico: infatti le onde piane sono funzioni non normalizzabili,
e che dunque non rappresentano dei sistemi fisici.
Tuttavia possiamo costruire delle funzioni che sono normalizzabili come combinazione
lineare di onde piane e che continuano ad essere soluzioni dell’equazione d’onda per
principio di sovrapposizione, e che quindi sono rappresentative di vere particelle (in
questo caso, particelle libere, non soggetti a potenziali).
Queste soluzioni normalizzabili sono dette ”pacchetti d’onda”.

Tramite la seguente operazione


Z +∞
1 ⃗ ⃗
Ψ(⃗r, t) = √ g(⃗k) · ei[k·⃗r−ω(k)t] d3 k (29)
2π 2π −∞

otteniamo una funzione normalizzata.

Quello che abbiamo fatto per ottenere questa soluzione è applicare la teoria delle tra-
sformate di Fourier (sulla quale non ci dilungheremo); nel nostro caso, la funzione g(⃗k),
che è una funzione nello spazio dei vettori d’onda, è la trasformata di Fourier della fun-
zione d’onda Ψ(⃗r, t).
Tramite quel calcolo possiamo dunque passare da una soluzione priva di valore fisico
ad una che lo ha.

Resta ora il problema di interpretare questa nuova soluzione.


Infatti, al nuova funzione Ψ(⃗r, t) non è più caratterizzata da un valore preciso di ⃗k e di

13
conseguenza non ha più un valore ben preciso di energia o quantità di moto.
Limitandoci al caso unidimensionale, cerchiamo di dare un’interpretazione almeno qua-
litativa del rapporto tra g(⃗k) e Ψ(x, t).

Supponiamo che la funzione g(⃗k) sia gaussiana, ovvero della forma


a 2 2
g(⃗k) = C e− 4 (k−k0 ) (30)

centrata in k0 e con ampiezza ∆k = 1/a

Allora anche il grafico di Ψ(x, t) è gaussiano e si dimostra che la campana ha ampiezza


∆x = a/2.

Moltiplicando le due ampiezze, otteniamo che


1
∆x∆k =
2
che risulta essere indipendente dal parametro a e tale che le due ampiezze siano legate
da proporzionalità inversa
1
∆x ∝
∆k
Ciò implica che più è stretta la gaussiana nelle x, più è larga nelle k e viceversa.
Posso moltiplicare l’equazione ad entrambi i membri per ℏ e ottengo che


∆x∆kℏ =
2
ma poiché ∆kℏ = ∆p, concludo che


∆x∆p = (31)
2
Questa è la versione ”incompleta” del principio di indeterminazione di Heisenberg.
Il principio nella formulazione corretta


∆x∆p ≥ (32)
2

14
deriva dalla disuguaglianza di Cauchy-Schwarz applicata a due osservabili fisiche (che
non dimostreremo qui).

Il significato profondo di questo principio è l’impossibilità di determinare con preci-


sione due grandezze contemporaneamente, se queste sono indissolubilmente legate da
una proporzionalità inversa.
Ecco quindi che ritorniamo in qualche modo agli inizi di questa esposizione divulgativa
sulla meccanica quantistica: l’atto di misurare una grandezza non può considerarsi
trascurabile; esso infatti altera irrimediabilmente lo stato di una particella e impedisce
di misurare altre quantità con precisione.
La minima imprecisione, al di sotto della quale non è possibile arrivare, è data proprio
dal termine ℏ/2 della disequazione: malgrado sia un numero molto piccolo (dell’ordine
di 10−34 ), risulta essere ugualmente un limite invalicabile della nostra conoscenza del
mondo quantistico.

12 Limiti dell’equazione di Schroedinger


Consideriamo l’equazione di Schroedinger nella sua forma più generale possibile:

∂ ℏ2 2
iℏ Ψ(⃗r, t) = − ∇ Ψ(⃗r, t) + V (⃗r, t)Ψ(⃗r, t)
∂t 2m

Abbiamo detto che questa equazione descrive l’evoluzione temporale della funzione
d’onda associata ad una particella, eventualmente influenzata da potenziali esterni.
Infatti l’equazione nasce nel tentativo di localizzare un’onda o una particella (per il
dualismo onda-corpuscolo), ovvero di fornire la probabilità che una particella non visi-
bile si trovi in una determinata regione finita dello spazio.
Il modo per farlo è calcolare l’energia cinetica della particella (il secondo termine del-
l’equazione) ed uguagliarlo all’energia del sistema (il primo termine dell’equazione).
Cosa implica questa considerazione? Il fatto che l’energia cinetica del sistema è inte-
ramente dovuta al moto della particella/onda, ovvero che il sistema di riferimento è
fermo.
Ovviamente, in un sistema di riferimento relativistico, questa equazione smette di fun-
zionare.

Possiamo fare un’ulteriore considerazione.


Esistono numerose particelle, molto differenti tra loro, che potenzialmente possono es-
sere studiate con questa equazione.
Possiamo dunque chiederci: questa equazione si adatta bene a tutte le particelle?
La risposta è no, e il perché è facilmente intuibile guardando l’equazione stessa.
Se ci facciamo caso, compare a secondo termine un fattore ℏ2 /2m. Questo termine ci
fornisce una sorta di condizione di esistenza dell’equazione: per valori di m = 0 assume
valore infinito, pertanto l’equazione risulta non valida.
Esistono particelle che hanno massa nulla, ovvero i fotoni: pertanto per i fotoni questa
equazione risulta non valida.

Tirando le somme, l’equazione di Schroedinger non è valida nei sistemi di riferimento


relativistici e per determinate particelle.

15
13 L’equazione di Klein-Gordon
Un primo tentativo di rendere relativistica l’equazione di Schroedinger fu l’equazione
di Klein-Gordon, formulata nel 1926.

La formulazione di questa equazione si fonda sulla ben nota relazione relativistica


di Einstein tra energia e quantità di moto:

E 2 = p 2 c2 + m 2 c4 (33)

Se vogliamo utilizzare gli operatori definiti a (26), questa relazione diventa

E2 Ψ = (cP2 + m2 c4 )Ψ (34)

dove in questo caso E e P sono degli operatori, dunque hanno bisogno di una funzione
Ψ per ”funzionare”.
E’ sufficiente a questo punto esplicitare i due operatori nel seguente modo e portare
tutto a primo membro
2
 
2 ∂ 2 2 2 2 4
−ℏ +c ℏ ∇ −m c Ψ=0
∂t2

Come ulteriore passaggio, possiamo moltiplicare tutto per −1 e dividere per c2 ℏ2 ,


ottenendo la seguente equazione

1 ∂2 m2 c2
 
2
− ∇ + Ψ=0 (35)
c2 ∂t2 ℏ2

che è la formulazione più conosciuta dell’equazione di Klein-Gordon.

A questo punto possiamo notare che nell’equazione non compare più il termine del-
la massa a denominatore, dunque questa equazione è sia relativistica, sia valida per i
fotoni.
In particolare, per i fotoni abbiamo che

2 1 ∂2
∇ Ψ= 2 2Ψ
c ∂t

che è proprio l’equazione di un’onda elettromagnetica espressa tramite la funzione


d’onda Ψ.
In questa equazione, riconosciamo subito l’operatore di d’Alembert (il d’alembertiano)
adoperato nella definizione classica dei fenomeni ondulatori, definito come

1 ∂2 ∂2 ∂2 ∂2 1 ∂2
□= − − − = − ∇2
c2 ∂t2 ∂x2 ∂y 2 ∂z 2 c2 ∂t2

che ci permette di descrivere l’equazione di Klein-Gordon come

m2 c2
 
□+ 2 Ψ=0 (36)

16
Usando le unità naturali1 l’equazione assume una forma ancora più compatta:

(□ + m2 )Ψ = 0 (37)

14 Limiti dell’equazione di Klein-Gordon


Il vantaggio dell’equazione di Klein-Gordon già lo sappiamo; volendo usare un altro
linguaggio, possiamo dire che l’equazione risulta relativisticamente invariante.
Ci sono tuttavia dei problemi nell’interpretazione di questa funzione.

Se torniamo indietro di qualche passaggio, ci ricordiamo che il modulo al quadrato


della funzione d’onda rappresenta la densità di probabilità di trovare una particella

|Ψ(⃗r, t)|2 = ρ(⃗r, t)

e inoltre abbiamo ricavato questi altri due importanti risultati


Z +∞ Z +∞
3 d
ρ(⃗r, t) d r = 1 ρ(⃗r, t) d3 r = 0
−∞ dt −∞

Possiamo determinare la funzione densità di probabilità anche della funzione di Klein-


Gordon, che vale

∂Ψ∗ (⃗r, t)
 
iℏ ∗ ∂Ψ(⃗r, t)
ρKG (⃗r, t) = Ψ (⃗r, t) − Ψ(⃗r, t) (38)
2mc2 ∂t ∂t

Tuttavia questa funzione ρKG (⃗r, t) non è sempre definita positiva, ma può anche avere
valori negativi o nulli.
Pertanto questa non può essere considerata una funzione densità di probabilità, ma
piuttosto una funzione densità di carica associata alla particella.
Un altro limite è quello di non prendere in considerazione lo spin delle particelle, una
caratteristica fondamentale di queste.

15 L’equazione di Dirac
L’equazione di Dirac rappresenta il primo vero passo per la formulazione di una teoria
quantistica relativistica.
Si tratta anch’essa di un’equazione che descrive in modo relativisticamente invariante
il moto di una particella, tenendo però in considerazione anche il suo spin.
La formulazione di Dirac permette inoltre di risolvere il problema che aveva lasciato
aperto l’equazione di Klein-Gordon, che dava difficoltà di interpretazione della funzione
d’onda.

Per parlare dell’equazione di Dirac, dobbiamo introdurre un formalismo diverso, quello


1
Le unità naturali sono unità di misura definite in termini di costanti fisiche, tali per cui alcune
costanti particolari assumano valore 1 quando vengono espresse in termini di un particolare insieme
di unità; nel nostro caso, le unità naturali fanno sı̀ che c = ℏ = 1

17
della relatività.
Questo sarà l’aspetto leggermente più complicato, che richiederà una conoscenza più
approfondita della matematica.
In primo luogo, definiremo le coordinate spazio-temporali in questo modo

(t, x, y, z) = (x0 , x1 , x2 , x3 ) = xµ

dove gli indici µ non sono degli esponenti


Di conseguenza, anche le notazioni degli operatori saranno differenti: per esempio,
l’operatore di derivata rispetto alle coordinate si indica in questo modo:


= ∂µ
∂xµ

e il d’alembertiano si indica come

□ = −∂02 + ∂12 + ∂22 + ∂32 = η νµ ∂ν ∂µ = ∂ µ ∂µ

dove η νµ è la matrice tensore metrico dello spazio tempo di Minkowski, definita come
 
−1 0 0 0
 0 1 0 0
η νµ = 
0 0 1

0
0 0 0 1

che ha segnatura (3,1).


Giusto per un ”ripasso”, riscriviamo l’equazione di Klein-Gordon con il nuovo forma-
lismo che abbiamo appena imparato

(∂ µ ∂µ + m2 )Ψ = 0 (39)

L’equazione di Dirac ha questa forma (non la ricaviamo):

(iγ µ ∂µ − m)Ψ = 0 (40)

(adottando sempre le unità naturali) e rappresenta una sorta di ”radice quadrata”


dell’equazione di Klein-Gordon, in quanto l’operatore di derivata ∂µ compare una volta
sola (dunque non è un d’alembertiano) e la massa non è elevata al quadrato.
Resta però ancora un termine nell’equazione a noi sconosciuto: il termine γ µ .
Questa notazione rappresenta le cosiddette ”matrici gamma di Dirac”, ovvero quattro
matrici che derivano dalla riscrittura della relazione di Einstein tra energia e quantità
di moto descritta in termini di operatori matriciali.
Scriviamo qui di seguito le quattro matrici, senza farci troppe domande su come sono
state ricavate.
   
1 0 0 0 0 0 0 1
0 1 0 0 0 0 1 0
γ0 = 
0 0 −1 0 
 γ1 = 
 0 −1 0 0

0 0 0 −1 −1 0 0 0

18
   
0 0 0 −i 0 0 1 0
 0 0 i 0  0 0 0 −1
γ2 = 
0
 γ3 = 
−1

i 0 0 0 0 0
−i 0 0 0 0 1 0 0

Ora, le matrici gamma di Dirac possono essere scritte in un formato decisamente più
compatto, forse anche più utile per dove vogliamo arrivare.
Chiamata I la matrice identità 2 × 2, possiamo scrivere queste matrici come
       
0 I 0 1 0 σx 2 0 σy 3 0 σz
γ = γ = γ = γ =
0 −I −σx 0 −σy 0 −σz 0

Perché scrivere le matrici in questo modo ci aiuta? Perché notiamo che le matrici di
Dirac possono essere scritte in termini delle matrici σ e della matrice identità; in par-
ticolare, le matrici σ sono dette ”matrici di Pauli”, che rappresentano gli operatori di
spin di una particella.
Ecco dunque perché l’equazione di Dirac ci permette di includere anche le informazioni
sullo spin.

Quindi, se volessimo scrivere l’equazione di Dirac nel modo più completo possibile
allora ciò che dovremmo fare è separare tutte le quattro matrici:
   
I 0 ∂
i −m Ψ=0
0 −I ∂t

   
0 σx ∂
i −m Ψ=0
−σx 0 ∂x
(41)
   
0 σy ∂
i −m Ψ=0
−σy 0 ∂y

   
0 σz ∂
i −m Ψ=0
−σz 0 ∂z

arrivando quindi alla conclusione che l’equazione di Dirac risulta essere un sistema di
quattro equazioni.

Il merito dell’equazione di Dirac è quello di aver risolto il problema del segno della
densità di probabilità: infatti

4
X
ρ(⃗r, t) = |Ψi (⃗r, t)| ≥ 0 (42)
i=1

Tuttavia, l’aspetto più interessante è un altro: le equazioni di Dirac ammettono valori


negativi di energia, fenomeno inspiegabile all’epoca di Dirac; ad oggi, dopo la formu-
lazione della teoria quantistica dei campi, possiamo associare questi valori negativi di
energia alle antiparticelle. Dirac dunque è stato il primo teorizzatore dell’antimateria.

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