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Aldo Pardi

Il lavoro della rovina.


Carlo Michelstaedter e la letteratura apatride
Que l’art, dans son expression
supérieure, ne puisse pas être
national, il s’ensuit que chaque
artiste naît véritablement en pays
étranger ! Il n’a nulle part de patrie,
hormis en lui-même, et les œuvres
qui expriment le langage de ce pays
sont les plus vraies.

R. M. Rilke, Journal florentin


Capitolo I
Altre patrie. Il viaggio e l’opera.

1.1 Patrie aberranti

Oggi, la frontiera taglia Gorizia, facendone una città vicina e straniera a se stessa,
divisa, straniera e prossima, da quella parte adiacente e separata del suo tessuto chiamata
Nova Goriça. Questa linea di separazione è una cicatrice che ricorda a tutti i visitatori la
storia di questo posto. Tale ferita, ora solo un segno burocratico ed anodino, rappresenta le
vicissitudini più recenti dei conflitti di confine che hanno opposto le pretese territoriali
italiane e jugoslave. Città dall’identità scissa, combattuta nel suo corpo tra domini statuali
lontani, contrari pure, Gorizia conserva nella sua disposizione urbana la frattura che separa
rivendicazioni di possesso, giurisdizioni di competenza, tradizioni. I termini “appartenenza” e
“sovranità”, in questa terra che da sempre è un luogo di circolazione di popoli e culture, e di
appropriazione di territorio, non hanno significato chiaro ed evidente. Non sono stati vissuti,
già dall’antichità, come espressioni territoriali e politiche di un insieme dalle qualità
omogenee, portatore legittimo di un diritto naturale sulla sua costituzione storica. A Gorizia,
dalla fondazione romana fino al 1509, anno dell’annessione asburgica, dopo la sudditanza
veneziana1, “identità” e “Nazione” sono state categorie poste di fronte al paradosso
dell’essere apatride.
Dalla sua costituzione, la società goriziana interroga problematicamente la questione
delle minorità. Secondo la definizione datane da Deleuze e Guattari 2, esse sono componenti
giuridicamente assimilate, quindi interne ad uno Stato, che affermano tuttavia una dismisura
in rapporto alla generalità – e legittimità – della norma giuridico-amministrativa stabilita.
Una minorità rappresenta un’eccezione di contro ai termini istituzionalizzati di condotta, la
cui imperatività senza residui e limitazioni non tollera l’estraneità. La parola “cittadino” a
Gorizia appare due volte ambigua: essa indica l’inscrizione in una comunità di diritto
irreperibile, perché ogni raggruppamento minore ne definisce i termini in relazione ai suoi
indirizzi di Nazione nucleare; ma segna anche una frontiera mobile tra inclusione ed
esclusione scavata dagli indirizzi politici di ogni componente. Le molteplici parti sub-nazionali
ridefiniscono costantemente, per rapporti di forza, i limiti di partecipazione, i termini
d’accesso ai diritti, gli ambiti amministrativi: ciò che appartiene ai membri acquisiti di uno
Stato e ciò che concerne gli altri. Le minorità sono il fondamento della rappresentazione
sociopolitica di una comunità, ed il suo parassita patogeno.
I gruppi che formano la morfologia culturale e politica di Gorizia fanno riferimento a
costituzioni nazionali che, alla distanza dei modi, aggiungono una storia ed istituti
completamente asimmetrici: italiani, veneti (popolazione indoeuropea esistente già prima
dei Romani), altri giuliani arrivati in città dalla Dalmazia, Sloveni, Tedeschi. Questi gruppi si
1
Cfr. Dario Mulitisch de Palmenberg, Chi siamo, da dove veniamo. Preistoria e protostoria del Friuli–Venezia
Giulia dalla comparsa dell’uomo alla fondazione di Aquileia, Mariano del Friuli, Edizioni della Laguna 2002; B.
Marušič S. Tavano, Il vicino come amico. Realtà o utopia? La convivenza lungo il confine italo–sloveno, Gorizia,
Mohorojeva družba, 2007; R. Finzi C. Magris G. Miccoli, Il Friuli–Venezia Giulia, in, Storia d’Italia, Le regioni
dall’unità a oggi, vol. I, Torino, Einaudi 2002; C. Magris A. Ara, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi
1982; Marina Cattaruzza, L’italia e il confine orientale, Bologna, Il Mulino 2007.
2
G. Deleuze F. Guattari, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie 2, Paris, Les Éditions de minuit 1980, pp.
284–380; Kafka. Pour une littérature mineure, Paris, Les Éditions de minuit, 1975, pp. 29–50.
distinguono anche per religione: cattolici, protestanti, ortodossi, ebrei. Le gerarchie sociali e
le differenze di potere si distribuiscono lungo i margini comunitari, ed a volte li incrociano
come altri margini, portando in un reticolo già così complesso gli incroci scissi dei conflitti
sociopolitici. Tutte queste distinzioni dividono la città in contesti apparentemente
inconciliabili, incastrandone le parti sui loro strappi. Gorizia è una città di estraneità e di
distinte comunanze, di allontanamenti e di vicinanze separate. Il suo tessuto cede sotto la
tensione degli scarti che, annodati, ne ridisegnano la trama civile. Coloro che nascono in
questa città conoscono molto bene l’inquietante sensazione di essere stranieri nella propria
terra natale, mentre gli stranieri si rivelano essere i fratelli prossimi ed i garanti stessi di
un’identità condivisa. Le differenziazioni fratturano la città in tutti i suoi luoghi. Ne
percorrono il territorio intero, più della legge, oltre la legge. Le segmentazioni entrano nella
quotidianità delle faccende, nel lavoro, negli scambi personali. Queste divisioni esistono
anche nelle famiglie. S’immischiano alle loro scelte, ai loro comportamenti, nella loro
cultura, depositandovi le durezze e le tensioni provocate dall’adesione o dal rifiuto.
La famiglia di Michelstaedter fa parte della comunità italiana di Gorizia, maggioritaria
in città. Se le autorità politiche sono austriache (Gorizia era dominio personale della famiglia
imperiale), i commerci, le professioni più prestigiose e remunerate, i posti più influenti erano
occupati dai membri della comunità italiana. La lingua praticata un po’ ovunque è l’italiano
locale, in famiglia ed al lavoro. A scuola si dà una formazione culturale italiana.
L’immaginario e i costumi di Michelstaedter, che frequenta lo Staatsgymnasium imperiale,
non presentano alcuna impronta germanica, neanche nella lingua, malgrado la sua
conoscenza corrente del tedesco. La famiglia di Michelstaedter appartiene ad un ceto agiato
che, benché lontano dal livello di ricchezza della borghesia di Trieste, godeva di riflesso degli
effetti commerciali benefici del porto franco. Questo ambiente di alta collocazione traeva
buon partito dalla posizione strategica della città, posta tra l’Adriatico, la valle dell’Isonzo e
quella del Vipacco. La maggior parte dei traffici tra i domini occidentali ed orientali
dell’impero passavano da Gorizia. A questo si aggiungevano le attività agricole, l’industria
meccanica e di trasformazione, ed una discreta rete commerciale. Gorizia non era Trieste.
Tuttavia, le attività dei suoi settori più prosperi le davano l’effervescente andamento di una
provincia non piegata sui bordi periferici, ma proiettata verso il cuore dell’impero.
I circoli dominanti la città, eccezion fatta per gli Austriaci, sono italiani e cattolici, con
una minoranza ebraica. Gli slavi, presenti fin dall’antichità, occupano le posizioni inferiori
della scala sociale. Contadini o operai, non hanno alcun ruolo nella gestione economica e
politica. Sono assenti, evanescenti figure la cui presenza è nota, ma mai percepita. Come
Campailla scrive nella sua biografia di Michelstaedter 3, i Michelstaedter sono ebrei. Vengono
dal “ghetto”, il quartiere che, un tempo residenza obbligata per i sudditi di religione ebraica,
era stato chiuso dalle autorità austriache nel 1812 4. Perduta ormai la sua caratterizzazione
religiosa, questo angolo della città non era più che un luogo di povertà e degrado urbano.
Dopo il loro matrimonio, nel 1876 il padre e la madre di Michelstaedter avevano lasciato il
quartiere ebraico per trasferirsi al 4 di Piazza Grande (oggi Piazza della Vittoria 8). Seguendo
il destino del loro vecchio quartiere, i Michelstaedter avevano completamente abbandonato
il loro culto. Divenuti laici, avevano la mentalità e le maniere della borghesia di provincia del
tardo impero: un certo empirismo prosaico mascherato da etica del lavoro, un moralismo
severo e conformista fatto per sollecitare riconoscimento sociale, un individualismo tenace
3
S. Campailla, A ferri corti con la vita, Gorizia, Edizioni Comune di Gorizia 1974, pp. 11-26. Cfr. anche il saggio di
L. Furlan, Carlo Michelstaedter. L’essere straniato di un intellettuale moderno, dove, al paragrafo I.2.I, l’autore
disegna un ritratto della famiglia Michelstaedter, pp. 80–89.
4
L. Furlan, cit., p. 72.
che si spandeva al di sotto di ogni attitudine manifesta. I Michelstaedter praticavano i rituali
sociali del loro ambiente, come tutti. Le inflessioni cultuali gli erano delle attitudini di colore,
che facevano parte dei comportamenti pubblici d’opportunità dove l’interesse individuale è
mediato nelle relazioni sociali larghe. La famiglia non si organizzava intorno alla religione,
ma, come Svevo prima e Jahier poi hanno ben rappresentato nei loro romanzi 5,
sull’integrazione ad una frazione dominante della società, le cui condotte, ruoli, e mentalità,
avevano valore di norma generale. Della religione ebraica non restava che qualche traccia
nel gergo familiare. A volte si accendeva uno slancio d’interesse, curiosità scaturenti da
antichi ricordi6, o suscitate da posture di cui non si era conservata che la forma stereotipata.
Queste reminiscenze avevano una funzione privata, priva di ogni significato confessionale.
Abbiamo una traccia dello spirito laico della famiglia in una lettera di Michelstaedter del
1906. In essa, informa il padre di una festa organizzata a Firenze per il Purim, dichiarando
contento di non aver dovuto subire la noia di assistere alla benché minima tirata religiosa:
“Ieri c’è stato un ballo per Purim…non volevo andarci per non trovarmi in un ambiente
sionistico…c’era della gente discretamente brutta e nessun tipo burlabile, grande deficienza
per una festa così. Però in pieno erano persone simpatiche…non ci fu quindi niente di ciò che
temevo e si può dire che assolutamente niente ricordava Purim, non ho inteso una solo
parola ebraica”7. La religione ebraica non ha alcun posto nella famiglia Michelstaedter. Ma
questo non vale per qualsiasi professione di fede. L’”italianità” è l’unico vero credo della
casa, in particolare del padre. E, tuttavia, i Michelstaedter non sono irredentisti. Carlo stesso
ne porta testimonianza in una lettera in cui conferma il suo accordo alle posizioni politiche
della famiglia. Contraddizione solo apparente, se non si tiene presente una specifica,
particolare interpretazione della nazionalità italiana: una essenza storica, trascendente ed
ecumenica insieme, rappresentante l’unità implicita e coerente del genere nazionale
esistente, al di là delle sue ripartizioni politiche.
È il padre che sposa una fede così fervida e solenne. È lui che detta le posizioni
pubbliche dei Michelstaedter. Nella sua corrispondenza da Firenze, Michelstaedter figlio si
rivolge al padre per le questioni di denaro, di moralità e di condotta sociale. Gli riconosce
quindi il ruolo di capo di casa. Il padre è il perno del rapporto tra mondo esterno e mondo
interno, della filiera produttiva simbolica che va dal pubblico fuori, fino all’interno della
famiglia, come sistema di azioni e fini obbligatori, per allargarsi quindi dal nucleo familiare al
contesto, come una delle sue declinazioni particolari. Il padre gestisce l’economia della
famiglia, ne definisce i bisogni. Lui è anche il garante del suo statuto civico e del regime di
significati che ne fondano l’identità. Campailla ha disegnato un breve profilo di quest’uomo.
Alberto Michelstaedter dirigeva l’agenzia di Gorizia delle Assicurazioni Generali. Il suo
percorso scolastico non era stato brillante. Aveva interrotto gli studi dopo essere stato
bocciato al primo anno di ginnasio. Gli insuccessi a scuola non gli avevano impedito di
manifestare un’inclinazione per la cultura e l’arte, soprattutto teatro e letteratura.
Collaborava in qualità di critico teatrale al «Corriere Friulano». Era stato nominato
presidente aggiunto del «Teatro di società», ma il suo ruolo più importante era la direzione,
come presidente, del gabinetto di lettura della città. Organizzatore culturale di prima
importanza, faceva anche parte del consiglio di amministrazione (ancora una volta come
vicepresidente) della Società filologica friulana e del Comitato ascoliano, sezione goriziana
5
I. Svevo, Una vita, Milano, Mondadori 1956; P. Jahier, Resultanze in merito alla vita e al carattere di Gino
Bianchi, in, Opere, 2, Firenze, Vallecchi 1966.
6
In una lettera Michelstaedter chiede il significato di “Hanukà”, C. Michelstaedter, Epistolario, in, Tutte le
Opere, Milano, Adelphi 1983, p. 295.
7
Ivi, p. 111.
della Società “Dante Alighieri”. La sua formazione carducciana lo condusse a prendere
contatto con gli ambienti più vicini al poeta delle Odi barbare. Grazie ai suoi titoli pubblici, ed
alla sua fede culturale, Alberto Michelstaedter fa la conoscenza di Guido Mazzoni. È a costui
che indirizzerà il figlio al momento dell’iscrizione al Regio Istituto di Studi Superiori di
Firenze, istituzione culturale estremamente prestigiosa, centro della cultura umanistica e
positiva creato nel 1859 dai protagonisti intellettuali del Risorgimento – in particolare
Cosimo Ridolfi e Lambruschini -, e culla della classe dirigente dell’Italia unita 8. Alberto
Michelstaedter è uno dei promotori ed organizzatori culturali che “militano” nei ranghi di
Carducci, sorta di partito informale dalle posizioni liberali nazionaliste. Lo si potrebbe
definire un quadro locale dell’apparato d’intervento ideologico-politico di Carducci, grazie al
quale era presente nel dibattito culturale ed ideologico del tempo, ma attraverso il quale
anche lo organizzava e controllava. Umberto Carpi 9, nel suo saggio sulla figura politica di
Carducci, come pure Asor Rosa 10, hanno ben mostrato i nessi tra strategia estetica ed
organizzazione politica presenti nell’opera e nell’azione di Carducci, che non era affatto un
semplice redattore di versi, ma puntava a fare della poesia un mezzo d’intervento politico
essendo la poesia esplicitamente un momento della politica11. La centralità del militantismo
è uno tratti di spicco della vita di Carducci. Ciò risalta sin dalla sua giovinezza, tra 1856 e
1860, ancora studente universitario a Firenze, quando con Giuseppe Torquato Gargani,
Giuseppe Chiarini ed Ottaviano Targioni Tozzetti 12 (ma il gruppo aveva dei membri anche a
Pisa, come un po’ ovunque in Toscana) organizza l’Accademia dei pedanti, circolo classicista,
nazionalista ed antispiritualista opposto ai cattolici moderati alla testa dei “patrioti”
fiorentini. Le posizioni di Carducci cambieranno di forma, già subito dopo tale esordio, ma
non di sostanza. Il suo progetto, i cui contenuti sono stati ben esposti da Walter Binni 13, è di
offrire alla borghesia italiana emergente, protagonista delle lotte per l’indipendenza, gli
elementi ideologici che le permettessero di dare dignità culturale alle sue pretese dirigenti.
La cultura come prassi storica e le sue applicazioni, il sapere storico positivo, erano
componenti essenziali di una nuova visione che si voleva governasse un mondo secolarizzato
condotto da una classe di produttori. Questo orizzonte cognitivo e di valori, pratico e
passionale allo stesso tempo, doveva sostituire l’ideologia nobiliare che attingeva nel
cattolicesimo tradizionale e nello spiritualismo i suoi argomenti fondamentali. Il monopolio
aristocratico del linguaggio, del governo e della sovranità andava a concludersi. Occorreva
mettere in evidenza, mediante forme adeguate, l’importanza essenziale della svolta di cui la
borghesia era protagonista. La rivoluzione romantica, con le sue innovazioni ritmiche ed
estetiche di cui Hugo e gli inglesi avevano definito i canoni, si univano al ritorno al classico,
rappresentato dalla ripresa di metri e strutture dell’antichità greca e romana. Un classicismo
modernista, sottolinea Asor Rosa, che dava valore epico alle vicissitudini dei popoli. La
Nazione italiana, grazie ai suoi capi-poeti, andava a rivelarsi nelle icone che ne mostravano
gli attributi ed i destini. Queste forme si modellavano sul popolo che ne era il veicolo
concreto, avanzando con lui verso una tappa superiore della storia, insieme più produttiva e
8
Per una storia dell’Istituto di Studi Superiori pratici e di perfezionamento, cfr. Giorgio Luti, Firenze e la
Toscana, in, Letteratura Italiana, a cura di A. Asor Rosa, III, L’étà contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, pp.
466–8.
9
U. Carpi, Carducci politica e poesia, Pisa, Ed. della Normale 2010.
10
A. Asor Rosa, La grandeur quando è poesia: Giosué Carducci, in, La cultura (Dall’Unità all’età Giolittiana),
Storia d’Italia, XI, Torino, Einaudi 1995, pp. 940–954.
11
Cfr. su questo R. M. Monastra, La «scuola» carducciana, in, a cura di C. Muscetta, La letteratura italiana.
Storia e testi. 8, II, Roma-Bari, Laterza 1975, pp. 154-181.
12
Cfr. G Luti, Firenze e la Toscana, cit., pp. 463–6.
13
W. Binni, Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi 1960.
più larga. La lingua, le idee e l’arte della borghesia in procinto di prendere il potere e
restituire la “patria” alla Nazione, facendosi Stato, declamavano il mito progressista di tale
modernità in corso di affermazione.
Da un altro lato, questi elementi di riconoscimento simbolico, di figurazione,
d’interpretazione, di comprensione e comunicazione della “Storia”, dovevano unire
ideologicamente la fazione protagonista di simile cambiamento radicale. Carducci, sottolinea
Binni, forgia una lingua, una poetica e dei contenuti che potevano essere condivisi da tutte le
componenti, spesso divise se non avversarie, della borghesia italiana. L’erudizione classica,
assunto primario delle classi elevate dell’epoca, è ancora rispettata nel suo troneggiare.
Tuttavia, essa è assorbita in dispositivi poetici di tutt’altro segno. Le figure, i contesti e le
risonanze classiche, persino negli eccessi dell’idillio arcadico, sono formulati secondo gli
stilemi propri alla tradizione latina. Ma essi si muovono e respirano al ritmo dei sentimenti,
delle passioni di una storia popolare che avanza effetto dell’attività quotidiana delle genti
laboriose. La lingua non perde niente della sua altezza, ma accetta, benché purificata in
forme raffinate e colte, dei prestiti dal linguaggio corrente. Alle fonti del Clitunno è un vero e
proprio manifesto ideologico ed estetico, in questo senso.
Questa poesia mette a valore la continuità che lega l’opera di Carducci a Manzoni. Chiunque
avesse un minimo livello di istruzione culturale poteva comprendere e riconoscersi, secondo
il suo livello di educazione, nei paesaggi in cui risuonavano i pronunciamenti della
personalità ideale sovrana che si manifestava attraverso la parola di Carducci. Ascoltando
questi componimenti, che parlavano a loro tutti, e nella loro lingua, persino fatta così nobile,
popolo e dirigenti potevano sentirsi come un solo organismo ed un solo spirito. La bellezza di
queste forme, in cui il vissuto manifestava la sua dignità di emergenza simbolica, parlava alla
società intera. Tutti gli strati sociali coglievano in questa poesia semplice e raffinata i principi
fondamentali della loro azione e le motivazioni che ne fondavano la morale. L’immaginario
classico prendeva i portamenti pragmatici dell’impegno mercantile. Le attitudini quotidiane
diventavano oggetto d’arte, e l’artista si faceva interprete della profondità, del valore, della
vita quotidiana. Il poeta ne esprimeva così il senso e la destinazione. La poesia, come uno
sguardo universale, posato da tutti, rifletteva ogni membro nell’epifania della comunità
nazionale. La poesia realizzava la venuta degli individui svolgendo la parusia della sostanza a
cui essi appartenevano. Il verso riversava il corso del fondamento primario, la natura che
costituiva la loro presenza attuale, e, svolgendo i suoi modi, effondeva la missione primaria, i
doveri ed i fini che ne dettavano la forma attuale di organismo collettivo coerente, insieme
unitario caratterizzato da strutture e compiti propri: “popolo” agente la sua volontà
incondizionata tramite le istituzioni che si era date. L’intellettuale-poeta era il profeta ed il
capo di tale Italia moderna che si metteva alla testa della storia, compiendosi in Stato
unitario. Cantandola con la rivelazione definitiva della verità di un popolo, ne confermava la
necessità. La celebrazione, sotto forma di parola poetica, pronunciata attraverso il primo e
sommo dei suoi germogli, il classico latino, era l’omaggio che la Nazione rendeva
all’eminenza dei suoi attributi.
È così che le frazioni più importanti della borghesia ritrovavano in questa estetica le stesse
procedure e forme che ne determinavano l’azione. Asor Rosa 14 sottolinea l’embricazione in
Carducci di modernismo idealista e liberalismo nazionale italiano. Il classicismo nazionale
carducciano è ben più di un progetto letterario: è un vero e proprio programma di politica
culturale. E questa linea, convergente con quella del blocco patriota, gli permette di proporsi
come “vate” della politica nazionale di larghi settori della società italiana, di cui la borghesia
14
Cfr. Il saggio di Asor Rosa citato alla nota 10, pp. 948-955.
– del Nord e del Sud, per quanto con gradi dissimili di potenza – aveva la direzione e
l’egemonia. Il carattere politico dell’opera di Carducci è rivelato dalle sue modalità di
composizione. La scrittura non è sufficiente a se stessa. Essa nasce all’interno di un
complesso sociale di direzione culturale, un insieme di figure di riferimento che articolano
azioni generali di regolazione, e guidano i processi semantici della comunità. La poesia
addiviene e si diffonde a misura dei posizionamenti di tale struttura concepita per il governo
unificato della cultura. Il verso è ciò che ne qualifica le tenute pubbliche di governo
istituzionale. E la stessa autorità concerne chi ne veicola le direttive. Carducci – ufficio,
piuttosto che uomo – opera sempre con le connotazioni di elemento di coordinazione di una
struttura nazionale d’intervento politico nella cultura. Questa rete d’elaborazione semantica
normante, e di regolamentazione linguistica legislatrice, si fa carico fin dai suoi esordi della
conduzione organica degli indirizzi culturali della nazione novellamente formata. Prima
interna ad organi politici già costituiti, essa diviene progressivamente autonoma, andando a
ricoprire le funzioni di formazione, gestione e controllo dell’articolazione dei valori, dei
significati e degli apparati d’elaborazione culturale, come anche artistica. Nel loro dominio
proprio, gli intellettuali partecipano direttamente, comunque politicamente coinvolti, alla
guida del nuovo Stato. Divengono una frazione della classe dirigente istituzionale, le cui
funzioni specifiche, ben più ampie del passato, associano il carattere di mediazione e
legittimazione culturale a quello dell’amministrazione delle istituzioni di formazione e di
governo sociale dei significati pubblici e del sapere. L’organizzazione di tale tessitura di
agenzie governamentali coincide, appunto, con la nascita degli apparati di produzione e di
gerenza della cultura. A partire dal 1840, ma in particolare durante gli anni ’80 del XIX secolo,
s’inaugurano, fatta salva qualche eccezione, tutte le principali strutture culturali dell’Italia
unificata, dove figurano anche le imprese editoriali ed i mezzi di circolazione del prodotto
“cultura”: giornali, riviste e periodici15.
Alberto Michelstaedter fu uno di questi personaggi, apparentemente minori, ma in
realtà cardinali, che sono stati gli operatori territoriali dell’organizzazione che conduceva le
azioni politico-culturali della nuova formazione statuale. Era una delle figure amministrative
che assicuravano l’applicazione delle prescrizioni emanate in materia di cultura da questo
Stato Nazionale che stava occupando, come insieme istituzionale unificato, il terreno delle
pratiche del segno. Fiero dell’importanza del suo ruolo, di cui aveva piena consapevolezza,
Alberto Michelstaedter partecipava alla gestione degli affari culturali di Gorizia, fedele agli
orientamenti previsti dal suo ufficio. D’altronde, le linee di politica culturale, e la loro
valenza, erano quelle del partito nazionale di cui era un quadro, le stesse che aveva definito
e dettato il suo primo rappresentante e dirigente: Carducci. Da ciò che sappiamo, il suo
lavoro di funzionario locale dell’amministrazione culturale 16, seguiva le concezioni
nazionaliste e laiche consacrate alla cultura di Stato dalle istituzioni, ossia dal
raggruppamento che ne rappresentava gli organismi. Ispirato da Mazzini, Alberto
Michelstaedter ne moderava il radicalismo repubblicano con un civismo moralizzatore molto
rigido, che prendeva l’aspetto di etica legalitaria, nei suoi due momenti: il valore primario del

15
Cfr. G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, VI, Milano, Feltrinelli 1970, pp. 273–289.
16
Una vera storia della famiglia Michelstaedter, in particolare di Alberto Michelstaedter, non è stata neanche
concepita dalla critica, sempre preoccupata di proporre ossessivamente, e tendenziosamente, un’immagine
tanto idilliaca quanto fasulla dell’ambiente di provenienza di Carlo Michelstaedter. Lavoro di ricostruzione
tecnicamente non difficile, essendoci sicuramente ampia traccia dell’opera di Alberto Michelstaedter negli
archivi amministrativi austriaci ed italiani. Ma opera d’inquadramento e contestualizzazione essenziale, che qui
noi solo abbozziamo, per riportare Carlo Michelstaedter alla realtà in cui è intervenuta la sua scrittura, e quindi
alle sue effettive posizioni.
rispetto dell’ordine e l’onorabilità di fronte alle istituzioni come imperativo pubblico. Questa
visione conservatrice ed autoritaria della visione liberale gli aveva permesso di associare
progressismo produttivista mazziniano e monarchismo convenzionale, alla maniera delle
frazioni di destra del liberalismo “patriota” italiano. Una prospettiva legata ad un’assiologia
protestante, più che all’inflessibile morale comunitaria ebraica. La prova di questo si trova in
una lettera di Carlo Michelstaedter del 1908. Essa è la risposta ad una accusa del padre,
presente in una missiva precedente che non possediamo, che lo tacciava di essere stato
corrotto da modi intellettuali anarchici ed immorali: “Così v’ostinate a dire che io sono
guastato moralmente dai principi moderni. E ciò perché dico che la coscienza è individuale.
Scusa papà. Che t’importa che io abbia una o l’altra concezione filosofica della vita, quando
nel medesimo tempo ti dico: la mia vita è così, la mia coscienza è così come tu vuoi che essa
sia, come tu me l’hai formata”17. Carducci, soprattutto a partire dalla fine del secolo XIX,
aveva tenuto le stesse posizioni di cui ora Alberto Michelstaedter si faceva diligente
guardiano.

1.2 Profittabilità paterna, disciplina materna.

I riferimenti culturali di Alberto Michelstaedter fondono elementi tradizionali


carducciani, come il culto del ‘300 e del Rinascimento, ed importazioni più trasgressive e
disturbanti, anche in termini politici. Parliamo di D’Annunzio, da lui molto ammirato –
sicuramente a causa dell’attitudine di epigono, benché “degenerato”, di Carducci – di cui
farà la conoscenza nel 1902, durante un corto soggiorno dell’”immaginifico” a Gorizia 18. Il
lavoro di organizzatore culturale di Alberto Michelstaedter era ancora più rimarcabile se si
tiene conto delle condizioni in cui era compiuto, vale a dire in territorio straniero, all’interno
di quell’impero austro-ungarico che era l’avversario per eccellenza dell’Italia unita, l’ostacolo
storico alle pretese nazionali italiane. Lo spirito carducciano – illuminato ma conservatore –
di Alberto Michelstaedter, sterilizzato dalle tentazioni radicali mazziniane, appariva anche
nelle sue idee sociali. Le lettere inviate, in particolare tra il 1905 ed il 1907, da Carlo
Michelstaedter da Firenze sono, nel momento in cui si indirizzano al padre, un inventario di
doveri da eseguire ed eseguiti. Il giro dei capolavori artistici ottemperava la regola culturale
prescrivente ciò che era obbligatorio vedere per una corretta formazione culturale e morale
patriottica. L’omaggio da offrigli soddisfaceva l’ingiunzione morale a sottomettersi
all’eminenza delle figure rappresentate, e degli alti valori stabiliti da esse indicati.
Eseguire appropriatamente gli obblighi della cultura si accompagna al compimento adeguato
dei doveri economici. Il figlio si preoccupa di dimostrare l’efficacia e la redditività delle spese
che suo padre ha investito per lui. La formazione che paga deve portare un guadagno per la
famiglia. Il denaro, così come il suo “buon” impiego, è un segno della probità morale,
dell’utilizzo costumatamente finalizzato, accordato convenientemente con il ritorno atteso
dalla circolazione di questo elemento monetario, rappresentante, in forma astratta, la
dirittura della persona nell’economia produttiva dell’atto. Tale rotazione deve fruttare in
termini di crescita sociale ciò che l’azione ha distrutto in consumo di risorse, pena
l’inosservanza del precetto di utilità, con la conseguente caduta morale. Il valore del
comportamento comanda la natura redditizia dell’investimento, il suo ritorno sotto forma di
cumulo e di margine di profitto. Le lettere in cui Carlo Michelstaedter dialoga con suo padre
sono dei bilanci assiologico-economici. Essi mostrano una bizzarra, paradossale simmetria

17
C. Michelstaedter, Epistolario, cit., p. 236.
18
Cfr. Campailla, Ai ferri corti con la vita, cit., p. 12.
tra spirito e soldi, rendiconti contabili degli atti che registrano le perdite ed i profitti dei
costumi a favore del registro contabile del padre. Questo far di conto non risparmia nulla
della vita del figlio, neanche i piaceri più innocenti, quelli della nutrizione per esempio, che
devono dimostrare la loro liceità in relazione alla resa. È il caso del latte, che unisce l’apporto
energico al risparmio di denaro. Questo liquido è nutriente e non caro: il gusto riconosce nel
sapore stesso la superiorità morale di questo acquisto parsimonioso e profittevole.
L’ottenimento del guadagno fisico e monetario cancella il disgusto, e le voglie golose,
attraverso questo alimento acquoso in cui scorre la soddisfazione di aver scelto
oculatamente il bene. La buona gestione economica delle risorse ha condotto a risultati
massimali. Alimentato da questo ristoro così austero, effetto della buona applicazione
dell’imperativo di temperanza, il lavoro favorisce la circolazione più efficace delle allocazioni
d’energia intellettuale. A questa economia del profitto corrisponde la perfetta gestione del
tempo, vale a dire la più efficace e produttiva. La lettera del 12 dicembre 1905 riporta: “Io mi
sento proprio bene; e niente debole. Il latte mi piace specialmente quando è freddo dopo
aver bollito, appena levata la panna. Lo desidero, lo bevo con appetito. Son capace di
mandarne giù un litro in una volta. E dire che non potevo soffrirlo. Ora prendo due litri e
mezzo. È un gran nutrimento. Non produce ingombro né peso. Dopo averne bevuto tanto
da saziarsi come con un pranzo lautissimo, non si sente quella pienezza, quel sonno, quella
poca agilità e poltroneria. Io credo che l’umanità finirà per cibarsi solo di latte. Pensate a
quanto tempo risparmiato. Ogni giorno almeno 4 ore di meno gettate via. Ora ho tempo per
tutto e posso fare tutto con calma. Si dice tante volte: si deve pur trovare il modo di nutrirsi
con pillole ecc. Il modo è presto trovato: si beve latte. Beverne (sic) due litri non costa più di
10 minuti e…di 70 centesimi. Economia di tempo e di borsa. (…) Ho cominciato a fare un
lavoro d’obbligo per Mazzoni. Ci disse che voleva che ognuno facesse un parallelo fra due
fenomeni in due diverse letterature. Io ho preso Lessing e Baretti…”19.
La concezione del padre è un calco pedissequo dell’idea mazziniana di utilità sociale del
lavoro. Come Mazzini illustra in molteplici interventi di Apostolato Popolare20, le differenti
categorie di lavoratori partecipano al benessere generale a livelli differenti, godendo di
conseguenza di ruolo politico proporzionale alla parte di prodotto sociale corrispondente alla
loro capacità di contribuzione produttiva. La qualità delle loro prestazioni dipende dalla
redditività della loro azione, così che il guadagno primeggia sulla ricchezza cumulata, come
anche sul suo valore sociale. Più il lavoro procura profitto, più il suo impatto sulla società
porterà utilità, ossia effetti di progresso. Le attività produttive vanno oltre la circolazione
economica ed investono la politica. Le componenti sociali le cui azioni sono massimamente
vantaggiose toccano il vertice d’importanza nell’organizzazione della società. Esse godono di
un differenziale attivo di sovranità rispetto alle altre. Ciò che esse fanno è la base ed il vertice
del lavoro generale, e ne costituisce quindi l’ordinamento, attivando e gestendo i loro
investimenti l’insieme della vita civile. La funzione produttiva definisce il ruolo politico
dirigente di tali produttori massivi: i loro procedimenti industriosi, che decidono delle
disposizioni e dei compiti degli altri ceti, elevano la profittabilità allo statuto di fattore
primario d’organizzazione sociale. Le personalità economiche più efficaci sono anche
elementi costitutivi dello Stato. Esse conducono allora il governo della società dei produttori
19
C. Michelstaedter, Epistolario, cit., p. 66–67.
20
Tra gli altri, citiamo, G. Mazzini, Necessità dell’ordinamento speciale degli operai italiani. Risposta ad una
obbiezione, in, Apostolato popolare, 1842, ora in, Scritti politici, Torino, UTET 1987, pp. 545–553; Agli italiani, e
specialmente agli operai italiani, ivi, pp. 521–533. Si veda anche, Organizzazione della democrazia, in, Italia del
popolo, 1850, ora in, Scritti politici, cit., pp. 667–671. Riguardo Mazzini e la letteratura, cfr. G. Pirodda, Mazzini
e gli scrittori democratici, Roma-Bari, Laterza 1981.
e ne salvaguardano l’unità politica, riunendoli in un solo popolo. Secondo Mazzini, è la
borghesia imprenditrice ad essere investita di questo ruolo.
Alberto Michelstaedter condivide questa posizione corporativa e produttivista. Le sue visioni
politiche mostrano un conservatorismo liberale che il pragmatismo lavorista arriva appena a
sfumare. Il rispetto della posizione acquisita nella concorrenza, comunque realizzazione di
personalità dotate di un superiore differenziale di qualità, la prudenza che conduce al
profitto e quindi alle posizioni di testa, sono i prerequisiti di una condotta giusta, in cui
personale, etico e politico si identificano in figure destinate al ruolo di vertice dirigente.
Manifestandosi nella devozione al lavoro, la vita di Alberto Michelstaedter gira intorno alla
fedeltà agli imperativi morali del civismo borghese 21. I rituali apparentemente inoperosi della
cultura non fanno che accompagnare, come segni di alacrità virtuosa, e non come
divertissement spirituale, questo sistema così rigido e regolato. Essi vi esprimono le forme di
validazione reciproca per cui una società di produttori proprietari ritrova anche nei segni il
suo regime di condotte valide.
Possiamo verificare tutto questo nella corrispondenza. Carlo Michelstaedter è sempre
preoccupato di fare una buona figura di fronte al padre. Prende estrema cura di provargli la
sua produttività, attestazione evidente della sua moralità. Con tono obbediente, lo aggiorna
sui suoi progressi nell’universo della cultura. Le opere che legge ed i quadri che vede sono
marche di rispetto e lealtà all’ordine dell’utilità, che devono rassicurare il padre, ma anche il
figlio, con l’acquisizione di un ben fatto, ottemperanza obbediente alle prescrizioni cui
sottomettersi. Seguiamo qui la lettura di Luperini 22, che la carente e superficiale biografia di
Campailla non smentisce. La pressione del controllo familiare è percepibile nelle missive
indirizzate da Carlo Michelstaedter a casa, e proprio perché il vero destinatario ne è il padre.
Invece, l’andamento ed il tono delle lettere cambiano completamente quando Carlo
Michelstaedter scrive alle sorelle, o alla madre. Vi si sente una più grande piacevolezza,
un’emozione più effusa, un’intimità profonda. Tuttavia, dalle loro parole, in apparenza più
libere, viene una sensazione di paura. Esse ritornano sui timori dei genitori, sui dubbi che
circolano in famiglia, sulle posizioni assunte da ogni componente della casa. I Michelstaedter
sono fattori di un nucleo sociale nucleare che lavora, organicamente, per la sua riuscita
pubblica. La famiglia è costruita come un’impresa economica, ogni elemento porta la
responsabilità della buona esecuzione del lavoro che garantisce la ricchezza, come il merito,
della società domestica. Il buon funzionamento dell’industria familiare determina la
permanenza nella comunità, e, in relazione alla buona ed efficace esecuzione dei compiti, la
dignità in essa assunta. È attraverso il conformarsi al dovere familiare, ed attraverso il
rispetto dalla moralità pubblica, che si misura, in termini pragmatici, il valore di ogni membro
e la sua dirittura morale. L’organizzazione esterna e le dinamiche interne alla casa sono
comparabili a quanto detta i comportamenti conformi di un’unità produttiva: il regime di
regolazione che conduce le procedure di profitto come un canone normativo. Ogni membro
è il terminale di un’operazione, lucrativa in quanto adeguata, di cui è lo snodo ed il
controllore, sotto la supervisione di un dirigente garante di ultima istanza: il padre. La madre
è la prima sezione familiare ad essere interna a questo sistema.
“Questa mattina ho ricevuto la tua cartolina, mamma, dopo tre giorni di silenzio. Ma perché
mi lasciate isolato a questo modo. Non potete credere quanto fa soffrire non ricever lettere
da casa. E da più d’una settimana non ricevo una lettera da voi. Ora la nostalgia mi si è fatta
21
Si veda la lettera del 21 ottobre 1905, in S. Campailla, Lettere a Carlo, in, Dialoghi intorno a Michelstaedter,
Gorizia, Biblioteca statale isontina 1987, pp. 10-13.
22
Cfr. R. Luperini, La coscienza di Michelstaedter, in, Letteratura e ideologia nel primo Novecento italiano. Saggi
e note sulla «Voce» e sui vociani, Pisa, Pacini 1973, pp. 149–159.
molto più acuta e tre quarti della giornata penso a quando ritornerò a Gorizia. Mi pare un
sogno, una cosa meravigliosamente bella” 23. Il padre è l’autorità che lega ed amministra,
tanto quanto vi vigila, i comportamenti della famiglia. Esercita gli uffici gestionali e di
giustizia, sorvegliando insieme sulla produttività economica ed etica dei membri. Egli
assicura che gli atti siano sempre ed in ogni caso finalizzati, senza distrazioni od intromissioni
sconvenienti. È il caso del legame di Carlo Michelstaedter con Iolanda de Blasi. La lettera che
il figlio indirizza direttamente al padre il 27 maggio 1907 testimonia, malgrado il dolore di
dover rinunciare ad un sentimento sincero, della sottomissione del giovane Michelstaedter
alla legge della casa. Così, questa missiva mostra la perseveranza obbediente richiesta dal
regime familiare: “Quanto tu mi parli, papà, del tuo scoraggiamento a mio riguardo, mentre
mi dà dolore sapere che tu soffri ora a questo pensiero, d’altra parte ho l’intima gioia di
sentire che non è giusto, di sentire che potrò dimostrartelo. Mai ho perduto di vista quanto
era mio dovere di pensare e di volgere a riguardo alla mia carriera, e, se non sarò come tu
desideravi tecnico d’assicurazione, fra tre anni sarò professore a Gorizia o a Trieste. D’altra
parte mai come ora sono pervenuto a render produttivo nella realtà tutto il complesso
d’idee che prima mi stavano in testa confuse e campate in aria” 24. Il padre è gerente e
giudice. Ma è la madre che interviene sul contenuto morale dei compiti. Figura al margine
tra decisione e sanzione, la madre è l’incarnazione della norma fino al limite in cui essa
diviene giudizio, ed allo stesso tempo la personificazione dei profili giusti che correggono
l’azione colpevole, esempio redentore perché capace di cambiare, con la forza del suo
valore, le determinazioni di un gesto. È la madre che fa la mediazione tra legge ed atto,
insieme schema vivente delle modalità ammesse e mezzo di comparazione in rapporto al
quale valutare le deliberazioni. Il figlio gli offre le gioie e le sofferenze della sua esperienza di
emigrante in patria, tanto più che i Michelstaedter sono italiani d’Austria. Per due anni Carlo
Michelstaedter racconta alla madre le sue giornate fiorentine. A volte il tono è canzonatorio,
a volte persino disinvolto: “stronzetti” è un epiteto che ritorna spesso, i primi tempi.
Bizzarramente, la madre non risponde. Non appare mai in persona. Esiste senza presenza di
fatto. In verità, nessuna lettera è indirizzata direttamente a lei. Carlo Michelstaedter gli parla
attraverso la famiglia intera, nel momento in cui affronta temi personali od affettivi. D’altra
parte, le offre racconti del suo soggiorno a Firenze per il tramite delle lettere inviate ad altri
membri della famiglia, ed in definitiva al padre, che ne è il sollecitatore primo e figura
sempre in qualche modo implicata. Il figlio la identifica quindi con l’intimità della casa, figura
inaggirabile, mai presente ma partecipante in ogni momento alla situazione ed al discorso.
La madre è un nome, un oggetto d’affezione, una figura proiettiva. Essa non si mostra in
segni evidenti, in quanto personalità agente. Tuttavia, nessun atto ha il diritto di sottrarsi alla
presa della madre. Benché assente, essa è in permanenza aleggiante, ed all’ascolto. Nessun
critico ha notato questo carattere ossessionante della madre. Anche nella biografia di
Campailla, la sola che faccia mostra di, cialtronesche, pretese di approfondimento
psicanalitico, il problema rappresentato dal rapporto con la madre è subito rimosso con
spiegazioni banali, generiche, alla fine retoriche25.
Michelstaedter narra alla madre il suo quotidiano. Non si tratta di una semplice lista di fatti o
avvenimenti. Riporta le situazioni più moralmente qualificanti. Lo stile, la scelta degli episodi,
il punto di vista preso dalla narrazione, non sono neutri o anodini. Vi riconosciamo una
costruzione, una selezione, un’elaborazione delle frasi, sotto la noncuranza apparente della

23
C. Michelstaedter, Epistolario, p. 69.
24
Ivi, pp. 220–221.
25
S. Campailla, Ai ferri corti con la vita, cit., pp. 68.
forma. L’oggetto di questi resoconti offerti alla madre è la bontà delle azioni, il loro candore.
L’autore, quanto a lui, non manifesta alcuna complessità psicologica. Non osa prendere
atteggiamenti negativi, per esempio. Non conosce movimenti d’intolleranza, o di rabbia. Non
si lascia andare alle chiusure dell’introversione, né a turbamenti incattiviti. Le affezioni che
mostra sembrano uscire dall’immaginario sentimentale del libro Cuore: gioia del lavoro,
fierezza per il lavoro compiuto, tolleranza serena della fatica, rispetto, umiltà, e, soprattutto,
sottomissione filiale. Il poco di sconvenienze morali – come il disagio causato dalla visita ai
familiari venuti a vivere a Firenze o provocate dall’invadenza del cugino americano – sono
confessati con timore e rimorso. Michelstaedter rimarca con la madre la bontà dei suoi atti.
In altri termini, si preoccupa del rispetto del modello familiare. Svolge il suo discorso, solo in
apparenza quotidiano ed aneddotico, attraverso tutta una retorica della fedeltà alle forme
ideali e dell’agire corretto. Mette avanti la concentrazione virtuosa della sua volontà, ed il
carattere temperante dei suoi desideri. È responsabile, si porta, atto dopo atto, secondo la
norma: tanto più che ha osato sfidare le sirene della trasgressione in agguato nella
metropoli, per mettersi alla prova. In ogni lettera, Michelstaedter ripete la validità delle sue
scelte in relazione al quadro di procedimenti esemplari di cui la madre è il perimetro e la
sintesi. Egli ha saputo rispettare, appunto a misura del decalogo, la sua maturazione
intellettuale e la sua formazione etica.
Queste reiterate dichiarazioni di onestà, di gioiosa probità, vorrebbero rivestire, come un
velame di effusioni deferenti, una contrarietà di fondo. Essa traspare dall’andamento
fortemente energico e carico d’angoscia a grana rabbiosa di queste linee. La colpa che
Michelstaedter confessa, immediatamente coperta dalle dichiarazioni di probità, quella di
cui sente lo strazio interiore, è di essere partito, di aver lasciato la casa. Non si tratta della
perdita di serenità offerta dalla protezione dei genitori. Il vero argomento è implicito, tanto
implicito quanto la riprovazione che lo motiva. Solo l’analisi stilistica della corrispondenza
restituisce questo contrasto. Il figlio ha turbato la tranquillità dei genitori esponendosi al
pericolo della perdita d’innocenza. Il delitto che ha compiuto, è di aver rifiutato il controllo,
obbligante ma necessario, del sistema della famiglia. E le sue dichiarazioni a discarico vanno
rese all’autorità domestica che verifica l’atto e contesta l’infrazione, la madre. Se Carlo
Michelstaedter indirizza alla madre le prove che dovrebbero attestarne la lealtà, anche a
distanza, ai comportamenti richiesti dall’integrità parentale, è perché la madre è il metro che
deve dirigere, e confermare, la condotta dei membri. La madre è la tavola dei valori che
decreta la corrispondenza alla moralità pubblica. Essa è coscienza e condotta: funzioni
entrambe riunite nel ruolo di direzione e controllo che le appartiene. Se il padre agisce la
logica obbligante del giudizio, la madre è lo sguardo penetrante della polizia. Il suo compito
primo è garantire l’ordine, che si tratti di azioni o dei ruoli da ricoprire.
Lo stupefacente silenzio della madre, che la cartolina non interrompe, è il segno della sua
distanza, del suo restare lontano: ossia della separazione radicale di un modello legislatore.
L’impegno che Carlo Michelstaedter mette a dimostrare la sua rettitudine rivela la presenza
costante dello sguardo della madre. Lei è lì, in assenza ed impalpabile, ma sempre parte di
tutte le situazioni come la bilancia del bene e del male che pesa la vita del figlio. Quando
questo si lascia trascinare dalla rabbia o dall’avversione, la comunicazione materna si
interrompe con un rimprovero, per ricominciare solo dopo la contrizione: “Mamma mia,
mamma mia per piccina che tu sia, tu mi sembri una badia, mamma mia, mamma mia!
Finalmente! Avevo proprio bisogno di leggere qualche tua parola. Vorrei che il rimorso di
non avermi scritto ti facesse sempre saltar giù dal letto dal rimorso. Sono le 11 e mezza. È
stato qui fin adesso Bienenfeld e mi ha tirato a parlare di cose che non capisce e mi ha
risposto con tante sciocchezze che a momenti lo bastonavo dalla rabbia, e questa irritazione
l’ho ancora indosso perciò non ho voglia di scrivere e ti bacio mille volte” 26. Le manifestazioni
d’amore che Carlo Michelstaedter indirizza a sua madre non sono solo il riflesso di una
dipendenza, o il sintomo di un bisogno di protezione. Esse rappresentano, pure mascherate
da esuberanza di giovane studente o da espressioni liriche, il sollievo di vedere intatta la
propria posizione morale: “Ho ricevuto questa [mattina] le vostre lettere tanto graziose e
civettuole che m’hanno dato il Leitmotiv allegro per tutta la giornata. Credo che sia difficile
trovare dei genitori tanto cocoli come voi, impossibile anzi. Ho capito tutte le profondissime
e russanti frasi del papa. Che bel vedere la mamma fantasticare sulla poltrona senza che
nessuno venga a seccarla. (…) – Continuate così sul cammino della virtù e trascinate con voi
anche la Elda che tace da parecchio tempo e ricevete la benedizione da me che vado in letto
a sorbirmi la «Frusta letteraria»” 27. La “virtù” pretende che alla famiglia notizie vengano date
più spesso. Tra gennaio e febbraio 1906, a due riprese, Michelstaedter si lamenta di non aver
ricevuto da molto tempo lettere da casa. Quando le missive arrivano, le sue rimostranze si
placano: a casa è ancora tutto uguale, ed a posto. La sua rabbia, così come la sua ritrovata
felicità, non trovano esplicazione nella coppia affettiva: “abbandono-sicurezza”. Ciò che lo
calma è sapere che, durante il tempo di questo silenzio, la famiglia abbia mantenuto il suo
profilo abituale e le sue usuali maniere. A questo punto Michelstaedter invoca la madre. Essa
è il referente che conferma e sancisce la buona disposizione della famiglia, il suo aver agito
per il bene, il suo essere stata obbediente e rispettosa, ottemperante alle misure ideali
incarnate nell’autorità materna. Lo vediamo nei due momenti in cui il funzionamento
unitario dei meccanismi familiari è messo in crisi da quanto commesso da Carlo
Michelstaedter. Innanzitutto, quando s’innamora di Iolanda de Blasi. La madre gli rimprovera
che questo amore, sorto poco tempo dopo il suicidio di Nadia Baraden – la donna di origine
russa con la quale Michelstaedter aveva avuto un rapporto complesso ed ambivalente, in cui
si mescolavano amore e semplice amicizia -, riflette la sua indifferenza nei confronti della
compagna morta. La vera motivazione di questo biasimo è il legame con Iolanda – nonstante
il figlio ne avesse immediatamente informato i genitori e così avesse giustificato della sua
perfetta innocenza. Michelstaedter dichiara di voler condurre questa relazione fino al
matrimonio. La reazione della famiglia è veemente. Il rifiuto non concerne la relazione in sé.
L’interdetto prende di mira le sue conseguenze. Michelstaedter è responsabile della volontà
di sottrarsi, attraverso questa unione, alle costumanze familiari: quindi è colpevole. Una
lettera del 27 maggio 1907 ci informa del conflitto. La prima parte della missiva è dominata
dalla figura del padre, che aveva sentenziato una condanna conseguente alla sua
trasgressione. Il padre lo accusa si trascurare i suoi doveri, il suo lavoro ed i suoi obiettivi, e
gli comunica il suo verdetto. Nella seconda parte, dove il soggetto interlocutore è la madre –
è Carlo Michelstaedter stesso a fare un resoconto della discussione in corso – il rimprovero
cambia d’oggetto. Al centro, non ci sono più le sue mancanze. C’è la sua condotta a fronte di
disposizioni esemplari dal valore di legge.
Lo spostamento d’oggetto provoca l’intervento di un altro, differente, soggetto
dell’ammonizione. Esso non è più qualificato in modo personale. Non ha nome: è un
qualcuno collettivo. Carlo Michelstaedter comincia la frase impiegando il pronome “vi”:
“voi”. Si tratta di un’entità astratta e muta che, con il suo silenzio torvo, enuncia una
dichiarazione di non conformità. Immediatamente dopo, Michelstaedter riviene al “tu”,
unendo alle apologie delle sue scelte momenti di confidenza ed intimità. Questo

26
C. Michelstaedetr, Epistolario, cit., p. 115.
27
Ivi, pp. 104–5.
comportamento è speculare a quello tenuto dalla madre. È in relazione a tale entità
impersonale e vicina, ancestrale e concreta, che la sua infrazione si definisce. Questa è
condannata come attitudine inintelligente e primitiva, “forza bruta”. Il suo contrario è
anch’esso un’azione di forza, sebbene dal carattere opposto: razionale e consapevole,
prudente e protettrice. Un agente di unità, di ordine, e quindi di serenità, che promuove la
vita grazie alla sua coincidenza con le figure fondanti le giuste posture da tenere per
un’esistenza onesta. La giustezza dei moventi garantisce la salvaguardia degli attori:
“Quando vi dicevo nelle mie ultime lettere che sto bene e sono contento, ti giuro che non lo
dicevo per modo di dire, né per un’ebrezza momentanea, per essermi lasciato andare
inconsciamente, ma al contrario pel trionfo del pensiero sulle mie tante forze brute, per
esser arrivato a imporre il mio pugno a tutte le mie diverse facoltà che mi straziavano da una
parte e dall’altra. E t’assicuro che mi sento forte e sano e sento di dominare le idee e le cose.
Non so se potrò sempre dire così, non so se allargandosi il campo dello studio,
infiammandosi le passioni, cominciando a farsi sentire il bisogno, non so se questa forza
unificatrice, nella quale ho messo tutta la mia gioia e la mia vittoria e la condizione unica
della mia felicita, sarà sempre cresciuta in proporzione; così da darmi la continua serenità e
la possibilità d’amare e di volere. –
Non so…e se non lo sarà un vinto. – Però ora mi sento per la prima volta in vita mia vittorioso
e mi sento tutta la forza e la fede di combattere di vincere in futuro” 28. La conformità è la
determinazione prima della condotta sociale, il fondamento di uno spirito che ha
preoccupazione di agire in modo conveniente. Questa coscienza superiore, dominata dalla
prudenza, non ammette che due inflessioni: compiere atti aventi per contenuto le regole;
piegare la propria volontà al desiderio di seguire la norma, sacrificando le proprie
predilezioni effimere. Un’idea autoritaria dell’imperativo morale, speculare all’etica
obbligante del padre, risuona all’interno di tale caratterizzazione normativa del modello. Le
determinazioni della volontà devono sottomettersi ai comandi imposti da un’autorità
trascendente, rispondente a sua volta alle determinazioni intrinseche alla forma a priori del
soggetto. Questa concezione assiologica, la cui matrice è in ultima istanza protestante, è
stata la fonte del sistema della ragion pratica di Kant. Ed a diverse riprese, in La Persuasione
e la Rettorica così come nei quaderni di lavoro, Michelstaedter lavora su concetti della ragion
pratica kantiana29.
Foucault30 definisce la norma come un insieme di esercizi pragmatici organizzante e
controllante un contesto di pratiche socializzate. La regola domina e dirige, determina
obiettivi, modalità ed occasioni. In questo senso, oltre al ruolo di valutazione del livello di
fedeltà ad un quadro di valori, di cui la scala della punizione è la conseguenza, la prescrizione
morale è uno schema immanente che gestisce i comportamenti, ossia l’insieme delle
movenze e delle effettuazioni realizzate, codificandone e regolamentandone la declinazione
secondo un prospetto stabilito d’impulsioni dell’intenzione. L’ordinamento del vissuto,
secondo il regime della legge definito secondo scelta, responsabilità ed imputabilità
individuale, implica in primo luogo la sistemazione ordinata dello spirito. La realtà si

28
Ivi, pp. 222.
29
E. Garin lo sottolinea, cfr. La riflessione di Michelstaedter, in, a cura di G. Grana, ‘900, Milano, Marzorati 1987,
pp. 478–486.
30
”La norme c’est l’instrument par lequel les individus sont liés à ces appareils de productions”, M. Foucault, La
société punitive. Cours au collège de France. 1972–1973, Paris, Gallimard 2013, p. 242. Si veda anche, Cours du
14 janvier 1976, in, Dits et écrits II, Paris, Gallimard 1994, pp. 179–180, e, Surveiller et punir, Paris, Gallimard
1975.
distende grazie e mediante la regola, tanto che sembra quasi esserne la scaturigine. Il dovere
si pone come la matrice e l’origine della vita, ne diviene la sorgente genitrice, almeno in
termini di possibilità astratta. La norma afferma le condizioni ontologiche dell’essere. La
relazione con l’esistenza determina un rapporto profondo tra norma e capacità di generare.
La condotta adeguata prende le forme della maternità: la scelta giusta è portatrice d’essere,
quindi feconda. Un gesto rispettoso dei modi conformi al dettato alla base della vita, e dei
suoi contenuti primari, mette sempre al mondo dell’esistenza: estensione della forma
genitrice, dà alla luce profili viventi. L’uniformità ai principi assicura l’accesso, e la
permanenza vitale, all’esistere, ed ugualmente inscrive gli atti in una nascita diffusa relativa
alle strutture essenziali del mondo. La regola seleziona le pratiche secondo la loro qualità
ontologica: le buone persone hanno la capacità di produrre e riprodurre la vita; le cattive
non portano che realtà abortite. Di conseguenza, la norma genera l’individuo, designandone
i caratteri determinanti. Il dovere lo concepisce, e ne definisce anche l’identità di persona
prolifica, agente. E gli assegna il nome che conferisce lo statuto di esistente. Tale battesimo
metafisico istituisce il sistema di riconoscimento sociale che gestisce l’universo dei viventi.
Fin dalla sua nascita, la persona è sottomessa alle ingiunzioni della “normalità”. È
assoggettata alla sua disciplina generale, e, declinazione della regolamentazione immanente,
assume la connotazione di “soggetto”, parte di un ambito pubblico abitato da coscienze
morali. L’imperativo soggettivo genera modi di stare al mondo, e nutre. La legge dona ed
accoglie, ma la protezione che essa dà si concretizza nella richiesta implicitamente rivolta, e
quindi totalmente obbligante per il suo silenzio di presenza evanescente perché pervasiva, di
aderenza e subordinazione obbediente. La funzione materna della regola, nei suoi significati
– pragmatici e simbolici – investigati da Melanie Klein, fa riferimento al momento direttivo,
cioè aggressivo e normalizzante, della relazione di dipendenza ordinatrice. Il dovere è
fondamento vitale, ma diviene il primo procreante costringendo la sua filiazione alla bontà.
La mantiene in vita tenendola fissata all’imperativo da cui ne deriva la sussistenza.
La norma porta con sé la devianza. La mancanza è uno spettro sempre minacciante il
rapporto di filiazione. Il momento in cui Carlo Michelstaedter manifesta la propria intenzione
di sottrarsi al suo legame alla regola, rappresentata dal corpo concreto della madre, la
risposta è netta: è un’infrazione inaccettabile. Non ci si può allontanare dal controllo. Non si
possono intraprendere scelte che eccedano le condizioni moralmente ammesse. Non può
decidere come più gli sembra giusto: la sola opzione accettabile è la dipendenza parentale
tramite la quale si afferma il mondo scaturito dalla legge. Qualunque scelta alternativa ha il
significato di eversione morbosa, contraria alla vita, e pericolosa per la famiglia che ne è
come l’emanazione. Quando Michelstaedter si afferma come individualità autonoma, il
rapporto con la madre si spezza per divenire aperto conflitto. Essa non gli permette di
sottrarsi al controllo delle azioni, né di contravvenire alla prudenza delle volizioni. La
disciplina e l’organizzazione del comportamento non ammettono deroghe. Sottrarsi a questi
precetti significa infrangere la norma, recare offesa al principio materno che partorisce
l’esistenza ed il suo senso. Quest’attitudine è irricevibile, corrotta, fatalmente nemica alla
natura morale della vita e alla costituzione legalitaria della società. La legge non prende in
conto l’assenza di piacere provocata dall’obbligo, la sofferenza delle privazioni. La sua sola
cura è che le prescrizioni siano compiute. Così, la madre di Michelstaedter non vede il lavoro
del figlio. L’indipendenza tramite cui costruiva una vita a se stesso, produttrice di un piacere
senza punizione, era fuori criterio: inconcepibile.
Un conflitto accanito esplode, senza esclusione di colpi, in cui il padre interviene con decreti
perentori, come per rivendicare di contro al figlio la propria autorità di tribunale supremo.
Nell’ultima lettera scritta alla madre appare questo confronto e la sua posta. Vi si legge il
dissidio che oppone il lavoro dell’esistenza svincolata dalle costrizioni normative e le tattiche
d’interdizione, e recupero capzioso, della norma: “Ora vi sono ancora oggetto di peso, vi
sono ancora oggetto di dolore – e il terreno mi scotta sotto le piante finch’io non abbia del
tutto finito. Mi sento ingiusto in questa sosta forzata, mi è amaro ogni boccone che mangio,
e pesante l’aria che respiro – mi pare che dovrei davvero trattenere il fiato finché non sia
giunto in fine. – Ma in ogni modo, mamma, la fine è vicina, ed è vicina l’alba della mia vita;
presto, come da una serie d’incubi io esco al sole a operare seriamente. – Tu guardi gli altri
giovani che sono al caffé con le loro famiglie e pensi a me con tristezza. No – non pensare a
me con tristezza: essi hanno vuota la vita, e l’avranno sempre vuota – e la riempiono delle
preoccupazioni per la carriera data dagli altri, la riempiono di vani piaceri che lasciano loro la
bocca amara; stirano la loro noia attraverso tutti gli anni e tutti i giorni della loro vita
attraverso i loro lavori oscuri e insensati, i loro piaceri insipidi, le loro relazioni familiari, o
d’amicizia, o di patria, ottuse e vuote”31.
Dietro l’apparente banalità piccolo-borghese di queste parole, si possono scorgere i caratteri
di una virtù dalla forma, appunto, protestante. Questo rendimento morale si sposa
perfettamente con la redditività comandata dal codice economico paterno. La lettera, che
risponde punto a punto a dei rimproveri dalla madre, illustra i modi morali a cui la famiglia
doveva conformarsi. Nessun elemento fa riferimento ad un’offesa all’identità ebraica. La
divergenza non è di natura religiosa, o confessionale, ma morale, e concerne i termini di
validità delle prescrizioni del civismo borghese. Carlo Michelstaedter domanda a sua madre
di accettare la sua maniera di vivere, la sua scelta estrinseca rispetto alla norma. Essa rifiuta
anche solo di ammettere la possibilità che questo avvenga, e rafforza le sue ingiunzioni.
Emma Michelstaedter minaccia la perdizione dell’esistenza e la perdita dei valori vitali che
seguiranno le infrazioni del figlio. La sua violazione, che la madre disegna con le proprie
posture sentenziose, come a segnare una linea di tribunalizio orrore, è una doppia
perversione: un delitto di contro alla regola, una caduta proporzionale alle sue mancanze; e
una privazione di capacità sociale seguente al difetto di adeguazione. Egli sarà non
solamente privato di relazioni benefiche e frequentazioni utili, ma sarà anche battuto dalla
sofferenza di avere mancato nei confronti del buon vivere civile. Sarà fuori e contro la
società: un emarginato ed un criminale. Michelstaedter prorompe in un contro rifiuto
appassionato di questo destino di esclusione e colpevolezza che lo colpisce: “Non è più
tempo ch’io chieda agli altri cose buone cose dolci, l’approvazione, la lode, i premi – non è
più tempo che tu ti preoccupi per me come se ancora io dovessi crescere e prepararmi, né
che guardi ansiosa negli occhi degli altri il giudizio e la stima che fanno di me come quando
mi mettevi un vestito nuovo, e la gente diceva «che bel ragazzo», «come vien su forte» e tu
godevi perché pensavi a quanto ancora sarei cresciuto. – Ora è tempo ch’io agisca, ora è
tempo che tu riceva e che io dia (…)” 32. Rigetta l’impossibilità di essere sociale, la negazione
di ogni vita socialmente produttiva che la madre attribuisce ai suoi atti. Al disaccordo della
madre, oppone la decisione di praticare un’altra modalità di esistenza con gli altri, una
maniera differente d’intervenire nell’esistenza e di interagire con i legami comunitari. Lo
afferma nella stessa lettera. Rivendica la necessità di agire in autonomia. Di essere
socialmente produttivo e prevedere un proprio percorso di vita indipendente. Gli apparati
normativi rinchiudono i rapporti in agiti impersonali – atti morti di una socializzazione
inesistente -, il cui solo attore è il dispositivo che afferma l’ordine. Essi cancellano le

31
C. Michelstaedter, Epistolario, cit., p. 450.
32
Ivi, p. 449.
espressioni non vincolate degli organismi viventi, che non esistono che embricate in
circolazioni vitali collettive33. Atti realmente sociali, tramite i quali l’interazione dei viventi
lavora relazioni effettivamente effuse, unendo e condividendo le risorse di ciascuno in un
circuito fatto di comunanza e completamente comune. Occorre conoscersi e sperimentare se
stessi attraverso gli altri. Per vivere sino in fondo un’esistenza completamente sociale,
l’azione non può avere altro che la forma socializzata di un agire socialmente produttivo. È lì
che l’autonomia si manifesta come una forma superiore d’esistenza, più attiva e quindi più
reale, rispetto al dovere. L’interdetto posto alla norma di appropriarsi delle energie
personali, destinate a produrre socialità, il governo indipendente dei comportamenti e delle
decisioni, tale riaffermazione di possesso del proprio se stesso di contro a tutt’ordine – la
proprietà liberata dalla legge, l’”unico”, è una categoria di Stirner molto amata da
Michelstaedter – derivano dal lavoro della relazione. Esso concentra tutto il vissuto in solo
spazio, in distensione, di possibilità di associazione socializzante.
La persona che gode in autonomia delle sue forze, esiste. Essa non è più una semplice
astrazione generica o statistica, che sia in termini economici o morali. Vive la singolarità delle
sue direzioni in un mondo di direzioni singolari, mai imperative e mai totali. A partire da tale
individuazione infinita, diffusa ed impersonale, i viventi possono riconoscere in sè la
presenza reale degli altri, e viversi necessariamente legati ad essi in una applicazione
comune di produzione di vita, attivi insieme in quanto parti di un complesso mobilizzato
dalle sue inserzioni interne. In questa condizione si produce un’azione, un’effettuazione in sé
e per sé produttiva: non la riconduzione passiva di un profilo univoco, ma un’opera plurale
generante effetti. Tale attivazione generale ininterrotta non risponde che a suoi processi di
associazione. Rimettendosi in circolazione, gli atti di ogni componente connessa si rilanciano
estendendo le dimensioni dei loro prodotti sociali. Uscendo dal loro reciproco impulso, la
loro fattura allarga allo stesso tempo le dimensioni di socialità di cui dispongono. Si agisce
come fattore di un lavoro collettivo, come elemento del processo di convergenza attiva che
genera possibilità di esistenza sempre nuove, un corso libero di forme mobili che estrae da
ciascuno dei suoi momenti un mondo proliferante di associazioni produttive.

1.3 Ci si rivolta insieme. Gli amici.

La lotta di Michelstaedter è portata contro l’ordine obbligante del rendimento


economico privato e dei decreti di una società di privati possessori. Gli umani sono posti a
distanza dalle norme del profitto e dalla regola civica del benfare borghese. Le loro
connessioni sono interrotte, deviate, ridotte dalle obbligazioni che ne distribuiscono i ruoli e
le funzioni impedendo loro di investire nella relazione. Al contrario, l’esperienza effettuale è
una costruzione relata non conforme, una pratica della condivisione che proviene da
investimenti in convergenza al di fuori della norma. La trasgressione della legge stacca gli
agiti dagli apparecchi della regola e li conduce verso una comune rigenerazione. È un genere
di morte che apre un passaggio: una vita invivibile – “ἄβιος βὶος” dirà più tardi
Michelstaedter – si schiude ad una vita nuova. In essa ogni applicazione singolare, avente
33
“Perché io so come si può avere qualche cosa nella vita, come si può esser uomini; so che non si può attender
questo dagli altri né chiederlo in nessuna delle situazioni preparate – ma che sta in me, nella rettitudine della
vita, nel fare tutto – nell’avere la forza di vivere la propria vita: la condizione unica per avere qualcosa, e per
essere qualcuno. E non si può dar niente a nessuno, non si può esser niente per nessuno, se non s’ha, se non si
è per sé stessi. – Io so cosa devo fare per poter esser qualche cosa per te, per voi, per gli amici, per tutti gli
altri”, ivi, p. 451.
forma sociale dalla sua origine, si qualifica come nata per la comunanza. Nella
corrispondenza di Michelstaedter, troviamo spesso il tema: “nascita-rinascita”. Esso designa
la salute dell’individuo, non la sua salvezza religiosamente intesa, ma l’affermazione di una
socialità più larga, più ricca, più soddisfacente, conseguente ad un processo di
trasformazione. La traccia di questo risale al 1905, ed è presente in una delle prime lettere
inviate alla famiglia da Firenze: “Come in un sogno mi passano davanti tutte le cose che ho
visto in questa settimana, e a stento posso rilevarne una; mi pare d’esser un altro ad ogni
istante, devo aver perduto il senso della continuità del mio «io». – Qui c’è molto bella gente.
E come parlano, dio che musica. Mi fa l’effetto che ognuno abbia un tesoro in bocca e
non lo sappia”34. Immagini dello stesso tipo sono presenti ovunque 35 nella corrispondenza
fiorentina. D’altra parte, la partenza da Gorizia è un cambiamento decisivo, la rottura che,
separando Michelstaedter dalla sua famiglia, gli permette di sperimentarsi, e quindi di
affrontare da solo, in autonomia, un orizzonte più vasto e complesso, di scoprirvi desideri,
volizioni, scopi, assolutamente suoi, dalle deviazioni provocate dalle relazioni inedite che gli
sono offerte dalle intersezioni dei flussi della metropoli. Firenze è il luogo dove poteva agire
come riteneva a lui più confacente, essere indipendente ed esente dalle prescrizioni di
comportamento della società borghese. Sotto le impulsioni di sperimentazioni ed
apprendimenti provenienti da tale spostamento capitale, attraversa altre piste, altre
modalità di conduzione esistenziale. È lungo le sue peregrinazioni urbane, causate anche da
un’irresistibile pulsione a cambiare casa, che incontra Oberdorfer, Arangio Ruiz, Chiavacci, gli
amici con cui dividerà i tragitti fiorentini. L’amicizia e gli amici sono gli indici che segnalano
l’intensità di questo lavoro sul vissuto. L’amicizia rivela la direzione degli investimenti, il
senso della presa di responsabilità che rimette all’azione dell’incontro la forma del se stesso.
Nessuno studio ha analizzato le relazioni di amicizia legate a Firenze da Michelstaedter.
Anche se Campailla le affronta, le liquida in poche battute come elementi occasionali,
secondari. Invece, la corrispondenza mostra la centralità dei rapporti di amicizia nel percorso
di Michelstaedter, ed il loro significato ben più complesso e determinante di una semplice
frequentazione conviviale. Le lettere agli amici hanno una forma ed un contenuto
completamente differenti, anche opposti, di quelle inviate alla famiglia. È importante
sottolineare che esse sono scritte dopo la deriva di sofferenza, benché portatrice di sviluppi
vitali, che l’aveva sempre di più allontanato dal controllo della famiglia. Gli amici si sono
incontrati in seguito al loro distacco da casa. L’amicizia è un effetto della secessione che
aveva portato a Michelstaedter un cambiamento di quadro di vissuto: il legame fraterno è
risultato e scaturigine dell’autonomia. È nelle variazioni provocate dalla separazione che
Michelstaedter trova altri esseri in ricerca come lui. Gli amici sono un altro mondo, vengono
da una zona generata dall’incrocio vitale d’individualità attive, fuoriuscite da ogni
dipendenza e da qualunque dovere altro che la necessità della condivisione. Sono stati riuniti
da tale confluenza producente, dall’infrazione degli interdetti, esperienze sociali nuove. In
seguito a questo incontro, essi mutano comportamento. Insieme giungono a costituire un
sistema di organizzazione della vita differente, attori di un vissuto i cui la partecipazione
comune è strutturata e fattiva. Michelstaedter trasforma progressivamente i suoi
comportamenti e le sue idee. Durante le situazioni ingaggiate con gli amici, il lavoro della
relazione continua ad innescare cambiamenti sotto la spinta dei contatti. La loro connessione
produce nuovi incontri, sperimentazioni rinnovate che sfociano su altre occasioni di azione
34
Ivi, cit., p. 31.
35
Ci limitiamo al 1905: lettera del 29 ottobre 1905, p. 35; giovedì 2 novembre 1905, p. 52; giovedì 9 novembre,
p. 56; stessa lettera, pp. 59–60; 27 novembre 1905, p. 65; rispetto alla guarigione dalla malattia, 8 dicembre
1905, p. 73.
comune. Passaggio dopo passaggio, costruiscono per il tramite della socialità un modo di vita
inedito, la loro associazione estrae da ciascuno d’essi orizzonti di vita sconosciuti. L’amicizia
mostra loro ciò che possono affermare, evocando possibilità ulteriori non ancora messe in
atto. I margini delle attitudini, scompaginati dalla frantumazione dei perimetri di rapporto
dati, sono rotti dal sovraccarico di azione sprigionato dagli scambi. L’amicizia si accresce
vincendo sulla norma, fabbrica forme di esistenza comunitaria incomparabile ed
incompatibile con gli imperativi.
La cerchia degli amici acquisisce un valore esistenziale determinante, in rapporto alla qualità
delle relazioni, ma anche delle prospettive di pensiero aperte. L’amicizia va ben al di là della
semplice frequentazione affettiva o del piacevole intrattenimento. È un taglio che trancia
l’esperienza, schiudendo sul corpo di Firenze l’oltre il consueto. Rannicchiati su una
modernità senza moderno, lungo la città passano i modi di vita filistei e pretenziosi dell’Italia
giolittiana. I tracciati degli amici incidono vie e situazioni differenti. Essi non compiono
spostamenti occasionali al di fuori dei percorsi riconosciuti. Non incidono le striature urbane
dell’esuberanza giovanile in fuga, o le piste sentimentali delle pulsioni che si esauriscono
nello schema dell’evoluzione interna ad un circuito che resta nuclearmente familiare – come
vuole una rappresentazione riduttiva dell’adolescenza data da una psicologia banale, che
peraltro troviamo in Papini, Magris e Campailla -. Queste deviazioni trapassano il quotidiano
arando il perimetro di un altro ordine di vita, riorganizzazione radicale delle coordinate dello
spazio in cui azione e mondo si innestano l’uno nell’altro. Riorientazione delle disposizioni
del vissuto, tali percorsi si determinano in relazione all’amicizia. Il rapporto amicale è in se
stesso un organismo vivente, esso seleziona e gestisce i suoi elementi al fine di articolarsi in
investimenti concreti di un altro tipo. Questo apparecchio sociale vive, e nei movimenti del
suo corpo effettua la sua biologia propria. La sua organizzazione trofica si fonda
sull’evoluzione trasformatrice: questo essere collettivo brucia ed elabora comportamenti
totalmente distinti, ossia irriducibili. La sua attività, completamente sociale, si genera
attraverso la disgregazione dei rapporti quotidiani, per trovare in questa combustione
l’energia necessaria a produrre moti vitali mai ancora provati. Le obbligazioni contrattuali, e
la decenza egoista che esse prescrivono, dovrebbero costituire la meccanica naturale, per
condizione storica, di questo aggregato vivente. Invece, esso ne dissocia l’architettura,
mettendo in azione, grazie a tale disarticolazione, un apparecchio di un genere disparato. La
famiglia, sistema contiguo, che quindi pesa su tutte le componenti del corpo d’amicizia e le
concerne, è un momento della struttura che organizza le tenute acquisite. L’amicizia ed i suoi
percorsi intersecano le relazioni di parentela, e ne ridisegnano lo schema in funzione di
nuove regole. Nel corso delle parole della corrispondenza, vediamo dispiegarsi tutto un gioco
tattico di alleanze ed opposizioni in seno alla famiglia, gioco in cui il segreto prende una
funzione centrale. Il non-detto è il solco che divide la famiglia in zone occupate da parti
antagonistiche. Le relazioni di consanguineità non hanno alcuna rilevanza per questo nuovo
quadro di rapporti. Lo stesso i ruoli giuridici. La famiglia è sottomessa alle fratture provocate
dall’opposizione tra legami di amicizia e legami di sangue. L’affetto dei compagni si riversa
sulle cose, le azioni, le emozioni, le idee. Parti della famiglia si staccano sull’impatto di
questo organismo battente, e confluiscono nella scia aperta da esso svariando altrove. La
sorella di Michelstaedter, Paula, è un pezzo d’istituzione familiare che, sulla pressione delle
esperienze del fratello, esce e prende traiettorie eccentriche. Paula Michelstaedter è presa
dalla distanza etica dalla normalità casalinga che era divenuta, per il fratello, un’occasione di
esplorazione esistenziale. Lo scambio con il fratello perde la sua connotazione parentale,
giunge al livello della congiunzione amicale. Paula non è più solamente un membro della
famiglia, legata a Michelstaedter a causa delle imposizioni biografiche e della forzata
quotidianità di casa indotta da esse. Essa diviene qualcosa di diverso. Paula accompagna il
fratello nelle sue deviazioni fiorentine, essa è soggetta allo stesso sistema di comportamenti,
percezioni, affetti del fratello. Lo scarto spaziale che li separa non conta. Le due situazioni
esistenziali s’innestano l’una sull’altra grazie alla congruenza del vissuto che li unisce. Paula è
con Carlo, le loro silhouettes si sovrappongono formando un altro complesso, con gli amici,
costituito dal loro intrecciarsi. Nelle loro rispettive posizioni proprie, essi non sono che uno,
scorrendo per irradiazioni percettive, come un caleidoscopio di sensazioni in cui vibrano gli
affetti di una vita senza uguali. Le impressioni, la presenza al mondo, la scossa che fratello e
sorella sentono di fronte alla natura, dove crepitano anche quelle degli amici come un moto
profondo, ben lungi dall’essere delle esibizioni di “panismo” estatico, esprimono la pratica di
vita di un corpo doppio. Michelstaedter e sua sorella agiscono secondo le loro conduzioni
mondane in quanto duplice organismo, ciascuno sentendo e provando come proprie, le
aperture emozionali prodotte insieme all’altro (persino quando si tratta del sogno di un giro
in bicicletta durante una giornata di pioggia 36). Il pensiero, la religione, le mediazioni
culturali, i codici sociali abituali, non hanno alcuna influenza su tale confluenza agente, che si
afferma in un proprio ordine interno. Le parole stesse, come “Medioevo”, cambiano e si
trasformano, quando sono impiegate da questo insieme “fratello-sorella”. Gli atti, come la
pratica dell’arte, prendono il loro senso in funzione dei fini di tale sintesi organica. La
formazione, non gli individui, dà un significato (“suggestione” dice Michelstaedter) difforme
ad ogni cosa: “Si salì per un viale d’abeti con l’immagine del cimitero davanti e da una parte
il giardino delle rose con questa luna che dava a tutto un’aria misteriosa. Io mi sentivo una
certa commozione romantica stranissima, mi pareva di vivere in altri tempi. Sai che quando
vedo qualcosa di veramente bello mi viene sempre in testa per una strana analogia la parola
Medio-evo [sic] senza che forse di sotto vi sia una vera ragione ideologica. Su dal piazzale si
ha un’impressione così forte che non è possibile darne un’idea nemmeno lontana. Io mi
sentivo scorrere attraverso il corpo come un’onda di bellezza e mi pareva di immedesimarmi
con la natura. Niente in un momento simile riesce d’impaccio come il pensiero. Quando si
vede un bel paesaggio pare che ogni minima linea, in ogni ombra ci sia già la sintesi di tutto e
ciò per l’armonia perfetta del paesaggio naturale (e in parte per suggestione) e osservavo
che il Davide [sic] (…) continua e completa quest’armonia, ne fa parte principale” 37.
Paula è un elemento del quadro di vita che si aggancia per compimenti esterni alle figure del
mondo familiare. Sentire insieme, sperimentare essendo uniti, esplorare le dimensioni
prodotte dall’incontro: queste sono le coordinate socializzate di una pratica della secessione
comune, l’impalcatura dell’azione collettiva che trapassa l’ordinario per scavarvi l’inatteso.
La condotta associata spezza la norma mentre la scavalca in un regime di relazioni originale.
L’amicizia si salda e conduce alla contestazione della regola. La crisi trasformatrice tiene
unito questo corpo. I fatti e le idee si agganciano in un dispositivo allogeno, un meccanismo a
scissione embricato da una diversione comune: “Caro Rico,
(…) Mentre io ti dovevo sembrare un porco rientrato nel suo covile, che più non si ricorda di
ciò che era fuori, e tu m’hai teso la destra. – E quando reagivo per il sole e per l’aria
assimilata, contro ogni cosa nella vita di Firenze, in fondo era come se parlassi con te; e
parlando con gli altri ἐλάνθανόν σοι διαλεγόμενος.
Ti ricordi quando scendemmo da Carnizza fuori dall’ἀδιαφορὶα dell’altipiano coperto
di neve e oppresso dalla nebbia, che ogni differenza giù «fra gli uomini» ci colpì come una

36
Lettera a Paula Michelstaedter del 17/5/1906, ivi, p. 120.
37
Lettera a Paula Michelstaedter del 10/2/1906, ivi. p. 102.
cosa nuova del tutto; così ora tutte le infinite miserie distinzioni dotte, scientifiche, storiche,
«filosofiche» αἲ θὰλλουσι qui sensibilmente, e nei giornali, e nei discorsi d’ognuno è saturo
di dottrina scientifica, «filosofica», giornalistica – mi parvero nuove e comiche” 38. Paula,
differentemente dall’altra sorella, è integrata in questa giunzione critica. Vi produce degli
slanci, dei movimenti di sgancio seguenti le forze affettive sprigionate insieme al fratello.
Quando è Paula a far muovere la loro congiunzione, l’assemblaggio pende verso bisogni
intimi dell’animo, tensioni più sentimentali. Le relazioni amorose sono il campo di esperienza
verso il quale la dissidenza vitale di Paula si rivela aleatoria: si tratta solamente della
costruzione di vani fantasmi. Tuttavia, l’amore resta per Paula la forza determinante per
produrre unioni liberatrici. Esso avvicina gli esseri e apre così fratture sulle disposizioni sociali
ferme, incapaci di attivare le risonanze esistenziali necessarie ad una vera fioritura di spinte
generatrici. Il sentimento strappa i viventi ad organismi esangui, generando esperienza viva.
In seguito al fallimento della sua storia d’amore ed al fidanzamento con un giovane della
borghesia ebraica agiata di Gorizia, Paula acquisisce la piena percezione di cosa sia in gioco
nel rapporto con suo fratello: lei e lui sono un corpo che muove verso lo stesso fare. Lui è il
suo solo confidente. Essa coglie attraverso il suo dolore, il valore dell’amore nel mondo in cui
vive. Grazie a questa crisi essa vede la propria unione con il fratello, prima implicita ed
incosciente. È catturata con suo fratello in un viaggio che deve condurli, insieme, verso
territori di vita in cui l’esistenza cambia le sue forme e si stravolge – in produzione perpetua
di amicizia, quella “persuasione” di cui Carlo Michelstaedter parlerà ben più tardi. La
religione, il buon senso, il ménage prosaico legato alle procedure del guadagno e del
conformismo, accompagnati sempre dall’imperativo della condotta controllata: seguendo
altri valori, dettati dalle energie affettive da cui nascono modi di vita carichi di sentimento
d’amore, Paula rompe tutto questo e ridefinisce i termini del possibile come quelli del giusto.
Dopo la perdita del suo amoroso, suo fratello Carlo gli ricorda la loro situazione: la direzione
che hanno preso, ciò che vogliono abbandonare, insieme, e quale mondo differente essi
vogliano costruire. Hanno cominciato una traversata al di là delle frontiere di ciò che è
permesso, al fine di giungere ad una terra senza coercizioni. La famiglia borghese, la sua
cosa, il mondo che gli è stato imposto, è un paese al di fuori del quale la loro azione li sta
facendo uscire, per il rifiuto che essa oppone a ciò che ne fonda lo statuto e l’autorità.
La religione ebraica, in particolare, è uno dei motivi di questo movimento di separazione. In
uno dei loro scambi, Carlo Michelstaedter ricorda alla sorella le ragioni della loro avversione
ai modi della borghesia di Gorizia, l’ambiente del fidanzato di Paula. Michelstaedter mostra il
rapporto intrinseco tra la religione ebraica ed il potere. L’ebraismo è un apparato di
controllo dei comportamenti, sotto forma di ontologia morale. La religione ebraica diviene
qui il tipo massimo di qualsiasi sistema religioso, in quanto organizzazione disciplinante il
regime di riconoscimento ed obbligazione del fariseismo borghese: “Rileggo ora la tua lettera
e mi colpiscono dolorosamente quelle parole: «e mi faccio ancora delle illusioni». Sarà
crudeltà la mia ma non posso lasciare che tu le accarezzi. È tanto veleno per te. È questo
combattimento, questa incertezza che rinnova ogni giorno il dolore. Purtroppo non si può
farsi illusioni contro un’ideale così forte così vivo come la fede, che ha in lui le radici più
profonde congenite (perché egli non è un’eccezione. Ma in quell’ambiente ho conosciuto 5
sei giovani, tutti gli ebrei che vengono all’istituto cioè meno uno o due che hanno le stesse
idee, lo stesso fervore, che studiano tutti al collegio rabbinico): niente può lottare ed è già
molto se un altro sentimento per qualche tempo ha sostenuto questa lotta. Mi fa
l’impressione di una aberrazione generale. Sono gente che non vivono nel nostro mondo,
38
Lettera a Enrico Mreule del 14 aprile 1909, ivi, p. 359.
che non possono partecipare che materialmente alla nostras vita. E quest’unione materiale
lui l’avrà come è naturale sposandosi. Ma l’unione morale non può, non deve averla, perché
è una cosa contraria a tutto il suo essere. E del resto, Paula, parlando chiaro, credi che
sarebbe stata una felicità per te, ammettendo un matrimonio tra te e lui, assistere a questa
graduata inevitabile vittoria dell’ideale che lo domina sul sentimento che lo legava a te,
vedere i suoi sforzi, la sua sofferenza per staccarsi sempre più dal tuo pensiero, vederlo
combattere e vincere ogni punto di contatto intellettuale, vedersi ridotta a non essere più
per lui che ciò che gli sarà una qualunque moglie, che si prenderà necessariamente ?”39. La
lettera non è mai stata citata da nessuno. D’altra parte, non è la sola. Questa è la
testimonianza di una lettura che la maggior parte delle volte si fonda sulla sovrapposizione
dell’ideologia del critico all’oggetto, rivolgendosi all’opera solo per cercarvi conferma dei
propri assunti. È il caso di tutte le esplicazioni religiose del percorso michelstaedteriano. Tale
passaggio dimostra inequivocabilmente l’inconsistenza delle analisi a fondamento religioso,
che si tratti di credenze ebraiche o cristiane. L’indifferenza di Michelstaedter – e di sua
sorella - di fronte a qualsiasi dottrina religiosa, l’ebraica come ogni altra legata a qualsivoglia
messaggio trascendente o culto, vi è affermata a chiare lettere. L’estraneità all’ambiente
ebraico, così come ai suoi costumi, è patente. Questa lettera impedisce e proibisce la
riduzione della produzione michelstaedteriana a problematica religiosa. Nell’opera, se non
nelle altre azioni, intervengono figure religiose, di cui va ben definito il senso, considerando
anche la posizione secolarizzata del contesto familiare in cui si inseriscono.
Il significato di queste frasi non tocca la questione della fede. Parla della sterilità di esistenze
catturate da rituali vuoti, opponendo loro un progetto di vita alternativa, avversa ai modi
della società di mercato, ai suoi ruoli ed alle sue istituzioni. Queste parole sono indirizzate a
partire da una strategia comune di dissidenza. Quest’uomo che l’aveva lasciata non era
evidentemente portatore di secessioni produttive. Non poteva unirsi a lei per rompere un
passaggio al di fuori delle condotte borghesi. Il fratello riconduce Paula alla questione
centrale: l’amore, per lei, è uno strumento per distruggere un mondo e ricostruirne un altro.
Non si tratta di stipulare un “qualunque matrimonio”40, una scelta di obbedienza all’istituto
familiare. Essa non è più assoggettata agli obblighi della riproduzione sociale, sta agendo su
una cesura dello spazio convenzionale per andare verso esperienze inedite. Paula deve
continuare ad affermare amore, dice il fratello, perché la passione erotica è il contributo che
essa dà al movimento condiviso che lavora verso l’emancipazione. L’unione dei sessi è
l’impulso che essa dà al loro sforzo combinato, quest’opera bicefala che, fondendo i loro
investimenti, li conduce a superare la soglia dell’ordine. L’intensità del sentimento allarga
l’estensione di tale deriva esterna alla socialità del contratto. Paula non deve farsi indietro.
Occorre sbriciolare la cinta di interdetti ed obbligazioni che, nella famiglia, la predispongono
a subire un ruolo di figura servile, sottomessa, di donna alacre che compie il lavoro
domestico dovuto. Michelstaedter riporta la sorella al loro progetto: amare, è la perdita
gioiosa di sé che la porta via dalla famiglia, dal controllo che vi si esercita. La realizzazione
de: “il suo progetto, del suo piacere (…)”, mira ad un’esistenza liberata dai portamenti
stabiliti. Paula segue questo solco delle linee di aggancio dissidente, i suoi atti dispongono,
con quelli del fratello, le legature che distendono una vita polimorfa refrattaria al comando.
L’amore è la forza che stabilisce i suoi fini di donna ed i suoi compiti di sorella-amica. Le sue
capacità di essere effettivamente vivente si decidono in relazione al campo sociale al quale
essa va a partecipare: quello della produzione di esperienze o quello dell’inerzia sterile. La

39
Lettera a Paula Michelstaedter della fine di gennaio 1906, ivi, pp. 91–92.
40
Ivi, p. 92.
liberazione della quale la sua sentimentalità è un fattore primario le conduce possibilità di
sentire e di agire per investirsi realmente in un vivere agente: una coscienza. Ne La
Persuasione e la Rettorica, sua ultima opera, il fratello definirà con il termine “coscienza” la
tensione pragmatica di un complesso attivo. La coscienza è la scaturigine di
un’organizzazione socializzata, il tessuto di modalità di presa poste da un’affezione collettiva.
Più che una serie di processi percettivi a carattere egotico, è un orizzonte di ricettività
efficiente, un processo ad operatori multipli che insediano un dominio di esperienza. La
coscienza non è un nucleo ideativo, è una filiera di contatti ed operazioni, un complesso
sensibile le cui inflessioni dipendono da applicazioni convergenti. Agire in questo insieme
esprime una potenza, anche quando una delle sue contrazioni operatorie si presenta sotto
forma di perdita: “1°. Ma la volontà è in ogni punto volontà di cose determinate.
E come in ogni punto il tempo le toglie di consistere, le toglie in ogni punto la persuasione,
non v’è possesso di alcuna cosa – ma solo mutarsi in riguardo a una cosa, entrare in
relazione con una cosa. Ogni cosa ha in quanto è avuta.
2°. Determinazione è attribuzione di valore: coscienza.
Ogni cosa in ogni punto non possiede ma è volontà di possesso determinato: cioè una
determinata attribuzione di valore: una determinata coscienza. Nel punto che nel presente
essa entra in relazione con la data cosa, essa si crede nell’atto del possesso e non è che una
determinata Potenza: finita potestas denique cuique (Lucr. I, 70)”41.
Il caleidoscopio di sensazioni, gioiose e terrorizzanti, causate da una vera
trasfigurazione – come possono essere sentite frequentando luoghi inabituali, al limite non
umani, come la montagna o l’acqua – sono gli affetti che marcano un corpo laminare
durante il suo estrarre vita. Ci si espone al rischio di un’esistenza da scoprire. Il legame di
amicizia si salda andando oltre le frontiere dell’ordine. L’autonomia si dà sul limite che
separa due luoghi di un passaggio. Lì dove è inciso il margine tra esecuzione e cambiamento.
L’impulsione condivisa permette di valicare lo scarto al limite che separa due ambiti di
esistenza eterogenei: uno regolamentato dalla norma; l’altro sempre inclassificabile,
generato da intersezioni indipendenti dall’ordine. Quando Michelstaedter sente sulla pelle la
montagna, o rende le sue membra acqua a contatto con il mare, non vuole affermare lo
statuto divino della sua persona, né esaltarsi in una cosmica transustanziazione con il tutto.
Non sta vivendo l’onnipotenza del suo spirito, il dispiegarsi infinito di un fondo spirituale di
cui sarebbe la personificazione, forma immanente di un Soggetto sovranamente creatore e
quindi presente in ogni essere. Non c’è alcuna suggestione dannunziana nelle sue condotte,
che non rappresentano un’entità suprema che si afferma per la sua volontà incondizionata e
legislatrice. Piero Pieri42 e Maria Adelaide Raschini43 non hanno capito nulla. Il rapporto di
Michelstaedter con la natura non ha i caratteri di una teofania, secondo cui il gesto che,
d’autorità, evoca l’esistenza, va ad essere allegorizzato nell’ambiente. L’atto non si eleva
dalla materia in emanazione eterea per transustanziarsi ancora in terra, principio mascolino
fecondatore di cui il mondo, principio femminile sottomesso, sarebbe la cova. La differenza è
evidente. Si legga questo passo di Forse che sì, forse che no, dove Paolo Tarsis pilota il suo
aereo sul mare con la presa imperiosa di una superna maestà: “Egli guardava di tratto in
tratto le sue mani alla manovra, le sue mani nude come quelle che sporgevano dallo
scafandro; e gli pareva che vivessero con una straordinaria potenza. Erano là, infaticabili
come due pale dell’elica, senza tremare senza lentare senza fallire. Il tono della raggiera
41
C. Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, ed. a cura di S. Campailla, in, Opere, Milano, Adelphi, 1995,
p. 12.
42
P. Pieri, La scienza del tragico: saggio su Carlo Michelstaedter, Bologna, Cappelli 1989.
43
A. Raschini, Carlo Michelstadter, Milano, Marzorati 1965.
ignita era pieno e gagliardo. Il sole dietro di lui salendo per l’erta feriva le ali ma non creava
l’ombra. La grande Àrdea di metallo di legno e di canape era immune dall’ombra, come
sparente, come inesistente, come cosa della riva di là, come segno spettrale. Ma in quelle
due mani le ossa i muscoli i tendini i nervi erano tesi a un’opera disperata di vita, erano
furenti di vita come quelle che brandiscono l’arme alla suprema difesa, come quelle che
s’aggrappano al bordo del battello o alla scheggia dello scoglio del naufrago.
E il core gli tremò d’un tremito novo, d’un tremito che per la prima volta moveva l’essere
umano”44. Le escursioni di cui Michelstaedter parla non rappresentano mai l’imposizione
della mano imperiosa di un principio, soggettivo o oggettivo, che fonda il mondo, perché
signore della realtà. Il vissuto di Michelstaedter non è quello dell’”artifex”, causa suprema e
detentore del governo dell’essere. Michelstaedter tocca la montagna o il mare, non la
Natura, entità metafisica totale partorita da un’istanza ugualmente trascendente, le cui
forme sono impresse, solidificate, in essa. Affetta ciò che lo circonda tanto quanto è affetto
da esso. Interallacciandosi, essi realizzano insieme una formazione nuova, incontro
dell’umano e del non umano. Producono configurazioni non conosciute d’esistenza, né
antropologiche né inanimate, coagulazioni ibride la cui logica è il passaggio del limite. Il
silenzio che cade al momento in cui questo ammasso palpitante, sostenuto da una chimica
snaturata di funzioni di transito, comincia a vivere, è il suono disorientante della messa in
crisi di una regolazione degli esseri e dei loro modi di vita: “- Una sera tardi mentre la bora
rendeva selvaggio il mare e ci fischiava agli orecchi stetti con lei per un’ora solo sulla terrazza
del nostro albergo senza dir parola – solo di quando in quando io accennavo a lei o lei a me
un chiarore indistinto all’orizzonte, una vela che fuggiva l’uragano, un cocal45 bianco che
rasentava il mare illuminandosi nel raggio di luce delle nostre finestre, o una fosforescenza
del mare, o le linee di spuma che s’inseguivano presso alla punta. Le altre sere si passeggiava
lungo il mare, al lume delle stelle, senza parlar mai di noi, anzi parlando il meno possibile – e
vivendo il più possibile della vita della natura aspirando i vasti soffi del mare che era proprio
πολὺφλοισβος. Io non le ho mai detto una parola un po‘ personale, non solo, ma nemmeno
una cosa comune detta con intenzione, non le ho mai parlato più intimamente di me stesso
– né cercato che lei lo facesse di sé. - ”46. Il tragitto di uno stato verso un altro avviene nella
connessione tra uomini e cose. È ancora una produzione di vita nascente da un legame di
amicizia. Associando frammenti di esistenza in un movimento combinato, l’incontro si porta
verso spostamenti di forme che realizzano esistenza.
Questa crisi pragmatica e trasformatrice riunisce materiali ordinandoli per sequenze di
lavoro associato, mai nell’equilibrio di momenti speculari. L’amicizia non è un porto in cui ci
si arena, al riparo dalle onde. È un maroso che si rigetta al largo nel momento stesso in cui i
suoi flutti hanno strappato pezzi di terra alla costa. Carlo Michelstaedter non è il primo dei
Michelstaedter ad aver affrontato i frangenti di un cammino errante. Prima di lui, l’edificio
della famiglia era già stato lacerato da un’altra partenza. Il primo figlio, il fratello maggiore di
Carlo Michelstaedter, lascia la casa per andare a New York. È francamente stupefacente che
nella letteratura critica nessuno abbia notato questa casella vuota trapassante una cosa
apparentemente così solida come la famiglia. Anche la biografia di Michelstaedter, se la si
vuole chiamare così, redatta da Campailla, nient’altro che un commento superficiale e
cialtronesco della corrispondenza inframezzato da aneddoti effimeri, non fa pressoché
alcuna menzione del fratello. Gino Michelstaedter è una presenza oscura che rivela l’ombra

44
G. D’Annunzio, Forse che sì forse che no, Milano, Mondadori 1952, p. 378.
45
Un gabbiano, nel dialetto di Gorizia.
46
Lettera a Gaetano Chiavacci del 4 agosto 1908, in Epistolario, cit., p. 335.
cupa distesa dalla luce apparente di un contesto familiare sereno ed irreprensibile. Di lui,
non si sa nulla. Non abbiamo altro che le parole che gli sono dedicate dal fratello minore in
una lettera ad Enrico (“Rico”) Mreule: “Quanto a me, io sono sempre lì, come sai,
ἴν᾽οὐκέτὀκνεῖν καιρὸς ἀλλ᾽ἔργων ἀκμή e sempre immobile. Come quando uno deve levarsi e
sogna continuamente d’essersi levato e d’uscire e via via s’accorge d’esser sempre ancora a
letto – e né si leva né cessa di sognar di levarsi, ma permane a soffrire dell’immagine viva che
gli turba la pace del sonno e dell’immobilità che gli rende vana l’azione che sogna. – M’ero
illuso d’essere sfuggito a questo cerchio in quest’ultime 2 settimane quando, per portare a
compimento la tomba di mio fratello (della quale consegnai i piani una delle ultime sere che
tu hai passato con me) per l’anniversario della sua morte, ho dovuto lavorare giorno e notte,
e per sorvegliare i lavori che mal fatti prima si son dovuti in massima parte rifare, e per fare
disegni minuziosi dei dettagli, e per far con le mie mani quello che gli altri dicevano di non
saper fare. Per tre giorni lavorai da un fabbro per scolpire due maniglie di ferro, che fuse in
ghisa sarebbero state deboli. E allora mentre il lavoro procedeva bene, e mi gettavo stanco
alla sera sul mio letto, mi pareva essere ricco di non so che ricchezza, mi pareva di fare
qualcosa, di lavorare per mio fratello come se dovessi vincer la morte” 47. Gino
Michelstaedter muore, è partito, senza possibilità di ritorno. Ed eppure è lì, legato ai suoi
fratelli dalla sua stessa partenza, presa di distanza equivalente a quella che essi hanno
praticato, e che lo innesta in profondità in una medesima azione di secessione compiuta da
lui stesso come da loro. Il lavoro sulla pietra tombale del fratello maggiore ne incide sulla
materia l’immagine. Questa figura di marmo fa vibrare i nervi, anche nella mancanza di
contatto. Il lavoro che modella la cosa e la persona solidifica l’immateriale, l’indisponibile.
Tale opera concentra le sollecitazioni provocate da una figura attraverso la presa che essa
stringe in presenza ed in assenza. La cesura inflitta da Gino Michelstaedter è ancora
produttiva. Essa continua ad aprire il suo taglio all’interno dell’organismo fraterno,
continuata ed estesa dal procedimento di costruzione attivato dalle condotte divergenti dei
fratelli. Gino è un amico, un altro fratello-amico incontrato sulle deviazioni incongrue di un
viaggio all’avventura. Questa tomba, che ha causato così tanta pena e fatica a Carlo
Michelstaedter, non è una sepoltura che conserva membra inerti. Forgiata dall’immagine
fremente del fratello morto, quest’opera segna il marchio a carne viva di un’appartenenza.
Carlo Michelstaedter conserva nelle sue azioni l’impulso dell’impegno attivo,
dell’applicazione fattiva di Gino. Ne segue quindi la direzione, ed i percorsi. Gino
Michelstaedter ha lavorato la sua vita, modellandola fino ad uno spostamento estremo. Si è
aperto la via del mare. L’oceano, questo passaggio infinito che sembra così naturale
attraversare una volta raggiunto un orizzonte straniero, è la superfice senza limiti in cui le
scie del lavoro di Gino e Carlo Michelstaedter si fiancheggiano, si sovrappongono e si
superano segnando la coreografia, preziosamente raffinata, forte e leggera al contempo, di
un avvicinamento illimitato. Gino si allontana senza sparire: agisce come una forza motrice
che si prolunga nell’asse del fratello, tracciando l’uno e l’altro il solco di un'unica azione
trasformatrice. Spigionarsi unitario di energia produttiva, la partenza del fratello continua in
quella di Carlo Michelstaedter. I due movimenti si portano sullo stesso cammino,
incrociandosi in un unico percorso di allontanamento. Carlo Michelstaedter va a Firenze, in
Italia, quasi ad un mondo di distanza dal Friuli austriaco.
La scelta di Firenze dipende forse dal desiderio di coltivare le radici italiane della
famiglia. O, al contrario, la volontà di Carlo Michelstaedter è di condurne fino in fondo la
perdita di patria, l’espatriare permanente che segna la casa, italiana in terra straniera e
47
Lettera ad Enrico Mreule del 16 febbraio 1910, ivi, pp. 431 –432.
quindi straniera due volte, dal lato austriaco e dal lato italiano, allogena per cittadinanza e
cultura. Percepiva forse Firenze come il punto più distante dalle pose affettate e compassate
del padre e della madre, una città-frontiera dove ci si poteva lanciare sempre al di là, in
direzione di universi di esperienza senza comune misura con il punto di partenza.
Michelstaedter lascia Gorizia e si avventura in un paese sconosciuto. Percorre terre immense
e meravigliose che lo conducono ad una città brillante dell’argento degli olivi, verde e rosa
dei suoi marmi, e scura come la pietra dei suoi palazzi rocciosi. Leggendo le lettere che
Michelstaedter invia alla famiglia, durante la traversata verso Firenze, si sente la paura e
l’eccitazione dell’uomo di mare che solca acque nuove, il corpo contratto dal coraggio
tremante che lo spinge sulla via verso l’altro mondo. Il viaggio si compie: finalmente è lo
splendore incantato di un pianeta alieno che rapisce lo sguardo, ma che fa bruciare anche
l’azione. Firenze è la terra inaudita che apre dimensioni vergini all’esploratore. Essa si piega
sulla spinta del suo avanzare, colpendolo allo stesso tempo con il suo ambiente, le sue
presenze animate. Il lavoro travagliato dell’esplorazione cambia l’aspetto e le percezioni di
colui che si avventura. La scoperta e la sperimentazione fanno evolvere il vissuto, lo
trasformano sotto l’impatto delle situazioni, degli scambi, sospinto da strade aperte da
emozioni suscitate o colto da decisioni in contraccolpo. Michelstaedter viaggia la terra,
andando con la forza motrice del fratello per i percorsi sempre in deviazione. La partenza
alle Americhe inizia e si svolge sotto l’impulso del gesto di Gino che, trascinandolo, lo prende
nella sua parabola. L’imbarco del fratello ed il suo sono una sola azione che trapassa lo
spazio della famiglia al fine di rovesciare movimento all’esterno. Quali erano stati i motivi
che avevano portato Gino Michelstaedter a partire? I Michelstaedter erano agiati, avevano i
mezzi per permettergli di continuare gli studi. Gino Michelstaedter non avrebbe avuto alcun
problema, vista la posizione del padre, a trovare lavoro a Gorizia o a Trieste. Perché lasciare
la casa per andarsene così lontano. Certo, stiamo facendo congetture, cercando di ovviare
con la logica alla mancanza di informazioni. Non sappiamo pressoché nulla delle vicissitudini
di Gino Michelstaedter. Di fatto, il silenzio su di lui è totale. Ma questa emigrazione a New
York, inesplicabile, grida comunque la sua verità. L’addio di Gino Michelstaedter non
risponde a nessuno dei motivi – economici, sociali, culturali – che in quel momento
obbligavano centinaia e centinaia di migliaia di persone a partire. Carlo Michelstaedter non
parla mai della decisione del fratello. Non troviamo nessun accenno né nella corrispondenza
né nei quaderni di lavoro. Non parla mai di questo fratello con le sorelle ed i genitori. Infatti,
veniamo a sapere dell’esistenza di questo membro della famiglia solo dopo la sua morte.
Carlo Michelstaedter affronta il soggetto del fratello, morto all’estero, in una lettera
indirizzata ad un amico. Strana coincidenza: si tratta dello stesso che, poco dopo, lascerà
ugualmente Gorizia per andarsene in Argentina, Enrico Mreule. Ma la partenza di Mreule,
come quella del fratello, non ha cause economiche. Michelstaedter lo conferma in una
missiva mai inviata – perché non a conoscenza dell’indirizzo di Mreule in Argentina – in cui
commenta la decisione dell’amico ricordandogli le ragioni della loro amicizia, le condizioni
che ne facevano un’azione comune, e non un semplice rapporto d’affetto: “Già lo hai
esperimentato in queste ultime settimane – già noi, che senza saperlo siamo stati attratti
invincibilmente a te nella vita grigia della nostra adolescenza, fra la volgarità dei più,
abbiamo conosciuto che cosa sia una coscienza sicura e dignitosa, e nella decisione che hai
preso e nel modo che l’hai messa in atto, e nel modo come gli uomini e le cose del mondo si
sono determinate a tuo riguardo appena tu hai compiuto il primo atto nella vita. Gli uomini,
che giudicano gli altri secondo la misura comune e attribuiscono loro le stesse proprie
passioni e s’aspettano da loro azioni conforme a queste – (…) -, un loro simile che reagisca di
fronte alle stesse cose in modo diverso dal loro, se appare come un pazzo in cose
indifferenti, appare come uno che abbia una forza superiore in sé, come un santo, quando le
cose sono portate alla crisi di vita o di morte e quello, stretto dalle nuove necessita, resta
tranquillo e sicuro in sé. (…)
Io dico queste cose che a te forse giungeranno inopportune, e parlo di «noi» perché, se
sempre lo ho sentite, e più ora le ho pensate mentre tu ti disponevi a partire, mai mi sono
apparse in tutto il loro valore come ora parlando col Nino reduce appena da Trieste, e scosso
ancora dal distacco. Poiché ora abbiamo parlato per la prima volta insieme da che tu sei
partito, colla immagine di te solo in alto mare sul piroscafo che porta «gli espulsi» lontani
dalla loro terra, verso la terra ignota e gl’ignoti destini. E ci si figurava i possibili casi del
viaggio e il comportamento della massa e il tuo; e l’impressione che avranno del tuo diverso
agire così i tuoi compagni come l’equipaggio: e nella vita d’ogni giorno, e in un tempo
minaccioso, e sotto il tormento dei tropici, e quando le razioni fossero diminuite, e nel
progressivo abbrutimento di quegli uomini esacerbati da una sofferenza inerte che
perderanno quei riguardi tacitamente convenuti di cui tu ci parlavi. –” 48. Mreule è una figura
fuori posizione rispetto alla massa di contadini poveri, artigiani in miseria, donne e bambini
desiderosi di ritrovare la protezione dei loro uomini e padri emigrati da anni. Un panorama
umano abituale nei carichi bestiali – perché di questo si trattava – della compagnia LLoyd di
Trieste. Mreule non fa parte di questo popolo nomade in sofferenza. Lui è lì per marcare una
decisione di altra natura. Viaggia solo, il suo percorso non è affine, benché sia nello stesso
luogo e con lo stesso mezzo di trasporto, alla direzione degli altri. Ciò che lo conduce a
partire non è il bisogno, ma un gesto radicale di rottura. Il suo abbandono è una presa di
posizione politica ed etica, politica perché etica. È un atto di avversione contro un modo di
vita: le sue istituzioni, i suoi comportamenti, la sua cultura – la sua stessa lingua -. Mreule se
ne va per “portare alla crisi”, per passare al di là della norma imposta da una società intera.
Lascia un regime di esistenza ed i suoi obblighi al fine di produrre un altro ordine di
esperienza attraverso la messa in gioco, vale a dire la messa in crisi, della sua esistenza
stessa.
Mreule non rappresenta un’eccezione. Diverse generazioni di anarchici avevano intrapreso
viaggi simili. Il più delle volte, sospinti dalla repressione poliziesca. Qualsiasi ne fosse il
motivo, essi realizzavano uno spostamento assoluto: non una semplice fuga, o un
cambiamento di luogo, ma la pratica di cambiamento radicale. La diaspora degli anarchici è
un fenomeno storico che attende ancora di essere studiato con la dovuta attenzione,
nonostante l’opera meritoria, ma estremamente ridotta, di pochi ricercatori 49. La strana
emigrazione degli anarchici è coperta da un inquietante silenzio, come tutti gli svolgimenti di
questo ambiente politico, nelle sue numerose articolazioni, da sempre grande rimosso della
storiografia ufficiale italiana50, malgrado che, all’epoca, fosse la prima forza della sinistra
rivoluzionaria.

48
Lettera ad Enrico Mreule del 28 novembre 1908, ivi, pp. 420–422.
49
Cfr. F. Bertolucci, Anarchismo e lotte sociali a Pisa, Pisa, BFS 1988; M. Antonioli G. Berti S. Fedele P. Iuso,
Dizionario biografico degli anarchici italiani, II, Pisa, BFS, 2003 et 2004; M. Antonioli, Piero Gori, il cavaliere
errante dell’anarchia, Pisa, BFS 1995; O. Greco K. Massara, Rivoluzionari e migranti, Pisa, BFS 2010; M.
Antonioli, Il sindacalismo italiano. Dalle origini al fascismo, Pisa, BFS 1997. Si veda anche L. Fabbri, Epistolario ai
corrispondenti italiani ed esteri (1900 –1935), Pisa, BFS 2005.
50
I pochi testi esistenti non fanno che confermare questa rimozione, giustificandola e legittimandola con
argomentazioni ideologiche pretestuose. Cfr sur cela, G. Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo
XX, Roma, Editori Riuniti 1970; E. Saltarelli, Il socialismo anarchico in Italia, Milano, Feltrinelli 1959.
Mreule segue gli anarchici che vanno in Argentina. L’allontanamento dalla patria esprime
una presa di posizione politica. Espatriare, afferma l’avversione alla società italiana, e
l’antagonismo alla società capitalistica borghese: è una manovra di ritirata richiesta dalla
congiuntura della guerra contro un sistema politico, una diversione dettata da una fase del
combattimento condotto il potere su cui si erigeva, e gli istituti che ne dettavano la
dominanza. D’altra parte, è ben nota la frase di Nitti, definente l’emigrazione di massa come
una vera e propria forma della lotta di classe in Italia, in particolare contadina 51. Certamente,
questa affermazione di Nitti risuona dell’enfasi delle dichiarazioni massimalistiche, così care
al socialismo storico. La maggioranza degli emigranti non voleva altro che un fazzoletto di
terra per spaccarsi la schiena e ricavare pane per i figli. Se lotta di classe era, era un conflitto
tutto interno alle gerarchie della società borghese. Ed in questo senso, la storia di fame e
sofferenza dell’emigrazione italiana era certamente un momento delle guerre sociali italiane.
Le partenze in massa non avvenivano a caso, le loro cause non erano aleatorie. Erano la
reazione al regime di distribuzione della ricchezza, soprattutto fondiaria, così come alla
struttura del comando che costitutiva gli apparati politici. L’emigrazione era il
comportamento politico adottato da una parte della società italiana, gerarchicamente
inferiore nell’assetto dei valori capitalistici nazionali, all’interno del conflitto che l’opponeva
alle fazioni nemiche, quelle che ne governavano lo stato di minorità, l’assoggettamento,
economicamente e mediante gli organismi di Stato. Questo agire sanciva la superiorità degli
aggregati proprietari e nazionali: i gruppi subordinati – molto stratificati nella loro
composizione, seppure in genere l’estrazione fosse contadina -, socialmente inferiori e non
integrati alla nazione, non potevano fare altro che lasciare il campo. L’espatrio ha avuto
effettivamente i caratteri del ritiro tattico, della manovra di sgancio realizzata da una fazione
in guerra per sfuggire alla sconfitta totale, cioè all’esaurimento per fame ed al servaggio
bestiale, grazie ad un cambiamento di terreno. Una volta fuori, ricostituiti i ranghi, si
sarebbero potute avere le opportunità per prendere slancio e conquistare posizioni,
socialmente e politicamente.
Agli occhi di tutta una generazione di militanti anarchici e di contadini in rivolta, protagonisti
di mobilitazioni radicali durate più di trent’anni – dalle lotte de “la boje”, i fasci siciliani, i
moti dell’’89, lo sciopero generale del 1904, le rivolte avvenute tra 1906 e 1910 52 -, il fatto di
partire verso una terra smisuratamente lontana significava una cesura netta, che tagliava
ogni rapporto con un regime. La migrazione era nei fatti, non solo indirettamente, un
posizionamento politico. Era una manifestazione d’eversione irrecuperabile. L’emigrazione
era per questi elementi irriducibili la rottura di un ordine, un atto d’inimicizia assoluta, che
tracciava uno scarto irrecuperabile tra loro e la comunità istituita. Non c’èra più
riconoscimento reciproco possibile, perché non esisteva la partecipazione condivisa ad un
diritto di sovranità generale. Nessuno spazio pubblico univa le forze preminenti e le schiere
in secessione. Né la presenza nello stesso territorio né il legame di nazionalità federavano
segmenti sociali il cui unico rapporto possibile era l’antagonismo. Tra potere e
insubordinazione, non c’era che la distanza oceanica della guerra.
L’emigrazione politica era più e peggio di un atto bellicoso: era la negazione radicale rivolta
l’una nei confronti dell’altra di due entità che non si concedevano il diritto di far parte della
stessa comunità. Era un fronte dalla violenza ancora più profonda di quello della guerra di
Stati, secondo la definizione che ne ha dato Clausewitz. È la rivalità inconciliabile, non

51
F. S. Nitti, L’emigrazione italiana e i suoi avversari, Torino, Roux 1888; Saggi sulla storia del Mezzogiorno.
Emigrazione e lavoro, in, Scritti sulla questione meridionale, Edizione nazionale delle opere, Bari, Laterza 1958.
52
Cfr. Procacci, La lotta di classe in Italia, cit., pp. 3 – 76.
mediabile e totale la cui posta è l’essere delle parti in lotta. Come per questi combattenti
contro il potere, Enrico Mreule parte sulla necessità di una posizione al fronte: la rivolta
contro una formazione sociale al comando. È la contestazione di un regime, rivolta ad
ognuna delle sue articolazioni, che pone la sua fuoriuscita. Enrico Mreule se ne va al fine di
scavare una faglia che lo divida, senza che sia possibile richiuderla, dalla modernità,
borghese, ormai predominante nell’impero austro-ungarico così come nell’Italia
“progressista” giolittiana, con i suoi oligopoli corporativi, le sue corporazioni sindacali ed i
suoi privilegi di ceto o d’élite. L’ordine dell’individualismo commerciale, l’organizzazione
totalitaria della società per procedure d’accumulazione, i centri di potere che le comandano,
le loro istituzioni di Stato, sono gli avversari a cui Mreule si sottrae. Occorre andare via,
portare altrove non solo i territori della propria vita, ma la propria esistenza intera.
Partire è una tattica di combattimento, una dislocazione di guerra che si realizza per
distacco, senza corpo a corpo di truppe. E questa stessa manovra mette in atto Gino
Michelstaedter. Era partito per affermare attraverso la posizione di un margine di lontananza
la sua esteriorità ad un’organizzazione di cui non riconosceva l’autorità. La corrispondenza
tra Carlo Michelstaedter ed i suoi amici mostra che essi avevano coscienza di condividere la
stessa risoluzione, rivelando così gli scopi dell’azione di Gino: agire la separazione per negare
e mettere in crisi un ordine. Vi si ribadisce, come viene ripetuto a più riprese, un comune
schieramento dal lato della scissione, e quindi dell’antagonismo. La parola distende, come la
curva di uno stesso gesto di rifiuto e sganciamento, il posizionamento avversativo al governo
borghese: “Ora non sono più in Fuoco e non mi sento più per quanto mi tasti. Noi viviamo
oscuri, mal delineati, confusi, doppiamente infelici; gli altri vivono una vita luminosa anche
nel dolore, e non hanno mai il senso ch’essi personalmente sono nel mondo così
sportivamente, o lo hanno soltanto quando anche tutto il mondo è ormai per loro una cosa
sportiva. Mah! intanto [sic] oggi è S. Pietro e Paulo, e la signora Bastianelli berrà
sciampagna”53. La rabbia taglia il fronte che separa i combattenti. Questa stessa rabbia grida
il rigetto delle forme culturali che istituiscono nel dominio dei segni il governo
dell’appropriazione: “Di più sono infastidito dall’inevitabile contatto con le cose
dell’attualità, inevitabile come quello con gli odori cattivi nell’aria bassa, che n’è pregna. Il
contatto con queste cose è arrivato a un punto, non so se più comico o tragico, il giorno che
mi lascia illudere dalle grida universali d’un «capolavoro della drammatica 54», che
costituirebbe « la rinascita del teatro italiano » ecc. …e andai a sentirlo: era un lavoro colla
mentalità d’una pochade francese camuffato da dramma shakespeariano – io ne fui tanto
nauseato che quando la ciarlataneria al terz’atto giunse all’insolenza, e l’atto si chiuse tra
applausi entusiastici, non seppi resistere e mi misi a fischiare come una locomotiva…Il
pubblico ebbe un ondeggiamento tra di sorpresa e d’indignazione, poi ritentò l’applauso e le
chiamate con furore 5 o 6 volte, ma io continuavo e far da locomotiva senza scompormi –
allora tutta la violenza, il bisogno d’affermazione si rivoltò contro di me: grida, apostrofi,
minacce, pugni Chiusi e bastoni levati, facce congestionate e bocche spalancate…Che riso
allora, ἑταῖρε! quel [sic] bestione fatto di mille persone, turbato nella sua dolce illusione,
nella sua sufficienza, mi voltava incontro la sua faccia stupida e feroce; - mi pareva di rider in
faccia all’universo, e colla gioia d’uno sfogo trattenuto a lungo ridevo irresistibilmente.
All’uscita e per via, fin quasi a casa, uno stuolo di indemoniati seguì me ed il piccolo e calmo
53
Lettera a Gaetano Chiavacci del 29 giugno 1909, in C. Michelstaedter, Epistolario, cit., pp. 400-401. La
«signora Bastianelli» citata è la madre di Ferruccio Bastianelli, membro del gruppo de «La Voce» e
collaboratore della rivista, di cui era uno dei critici musicali. Bastianelli fu anche fondatore di «Dissonanza»,
rivista di critica e cultura musicale legata a «La Voce».
54
Si tratta di La cena delle beffe di Sam Benelli, messa in scena per la prima volta nel 1909.
gruppo dei compagni che vollero dividere la mia sorte” 55. Portandosi nella zona di un
dissenso irrecuperabile, gli amici compongono un solo organismo di lotta. Malgrado le
differenze delle loro traiettorie, agganciano la meccanica dell’apparecchio politico che li fa
produrre insieme un ordine dissidente dell’esistenza. Enrico “Rico” Mreule è l”ἑταῖρε”, il
compagno, colui che ha prolungato la spinta produttiva dell’amicizia per lanciarsi verso
regioni dell’esperienza, a rigore, impossibili: il territorio in cui l’azione lavora a nuovi modi di
vita, inassimilabili ai procedimenti della proprietà privata ed alla disciplina che essi
ingiungono.
Carlo Michelstaedter non evoca questo episodio ai genitori. È un altro segnale del carattere
eccentrico dei suoi percorsi in rapporto al cerchio familiare. Vediamo uno stato di malessere
comparire nelle lettere destinate alla sorella a partire dal marzo 1908 56. Si confida agli amici.
Resta silenzioso con sua madre e suo padre. Così, non li fa parte della sua decisione
antagonistica all’ordine ed alle sue gerarchie. Allo stesso modo, non manifesta loro il suo
odio contro l’ambiente universitario dell’Istituto di studi superiori”, che è, come stabilimento
di formazione della classe dirigente, uno dei bersagli della sua avversione. Tace loro quasi
tutto ciò che concerne le sue frequentazioni. E questo vuoto sordo si infossa nel silenzio
riguardo a suo fratello. È una linea politica che emerge da tale non dire, il sintomo di una
concordanza di posizioni. Sodali di un progetto che servono ciascuno a sua maniera, i fratelli
si rifiutano alle prescrizioni della famiglia. Essi ricusano il sistema sociale di produzione che
ne determina le manifestazioni morali. La sorella pratica l’amore come affermazione
eversiva. Il fratello maggiore fugge l’autorità, le esigenze ed i compiti che organizzano
l’economia relazionale di casa Michelstaedter. Carlo Michelstaedter si unisce a Mreule e a
suo fratello nell’uscita verso l’altro mondo. Non c’è niente di romantico, di tenero,
d’intellettualmente etereo o mondano in questo spostamento attraverso il niente verso
l’incognito. Si tratta di un’esperienza-limite, che espone la personalità, tanto quanto il fisico,
ad una prova radicale. Da questo viaggio non si ritornava, anche rinunciando. Avrebbe
sempre marcato il corpo di colui che ne intraprendeva la fatica. Gli emigranti lo sapevano.
Bastava guardare gli occhi di coloro che partivano, sporchi, sfiancati, i cartoni in terra, i
bambini seri in braccio. Non c’era alcun entusiasmo. C’era l’impresa angosciante, l’azione
rischiata al limite e pericolosa, tra la vita e la morte. L’atto che li avrebbe trasformati per
sempre.

1.4 Più che il suicidio. Il lavoro dell’opera.

Questi combattenti nomadi avevano coscienza dello spessore tragico della scelta che
stavano facendo. I commentatori, Claudio Magris per esempio 57, hanno rappresentato
Michelstaedter come un eroe della giovinezza meditante – sofferta, ma così simpatica e
carinamente bohémienne! Hanno cancellato la lotta condotta da Michelstaedter, le ferite
55
Lettera ad Enrico Mreule del 13 giugno 1909, ivi, pp. 393– 394.
56
“- Io mi sento rigenerato, e mi domando – la solito – perché non vivo sempre fuori, perché vengo qui a
intristirmi fra i libri e queste mezze creature incartapecorite che mi sembrano tanti aberrati - a correr il pericolo
di impoverirmi come loro. Invece il sole e l’aria, e tutto quel verde fa tanto bene. E anche la gente; io saluto
tutti, parlo con tutti, mi sento veramente à mon aise fra la gente di campagna; (…).
In un paese i bambini giocavano all’altalena con un palo lungo messo di traverso su una catasta, io
andai a giuocar con loro e a loro parve la cosa più naturale del mondo. Tutti avevano un’aria tanto allegra oggi,
già è la prima giornata di primavera; Vedi a me la primavera mi piglia alla gola – e se non mi agito, se non mi
espando, se non vivo – soffoco - è come un’ebbrezza [sic] per me. È un guaio la primavera, io la temo e la
desidero: forse più la temo…”, Lettera a Paula Michelstaedter del 22 marzo 1908, ivi, pp. 302– 303.
57
C. Magris, Un altro mare, Milano, Garzanti 1991.
sanguinanti di guerra che ne tagliano la vita e l’opera. Non leggiamo che dei commenti
compassionevoli, che gli “danno del tu”, lo chiamano “Carlo”, con un tono, francamente
stucchevole, di falsa melanconia e di tenerezza affettata. Disconoscere e rimuovere la
scissione rappresentata da Michelstaedter significa combatterlo, schierarsi dall’altro lato del
fronte su cui si è svolta la sua vicenda. Come diceva Nietzsche, così amato da
Michelstaedter: provare pietà per qualcuno è sempre la luce nera di una nube pesante di
risentimento58. Quando si sfida il potere dominante, la possibilità di soccombere è sempre
presente. I contadini uccisi a centinaia in quegli anni dall’esercito o dalla polizia, in Italia
come altrove, conoscevano questa verità. Decine di anarchici e socialisti lo sapevano, nel
momento in cui morivano con loro, o perdendosi alla deriva in qualche angolo dell’altro
emisfero, scacciati dal nemico. Gino Michelstaedter perde la sua battaglia. Si suicida a New
York. Il potenziale di distruzione che impegna ritorna su di lui, distruttore. La forza impiegata
non riesce a generare un’altra vita. Resta in preda all’avversario, si ritorce in apoteosi della
sua potenza. La capacità di dominanza che regola e governa la società dell’accumulazione
privatistica, con la sua volontà imperativa e totalitaria, piomba su questo processo
refrattario e dissidente, e lo spegne. Il corpo di Gino Michelstaedter è vinto e schiacciato.
L’ordine fa sua la battaglia. Conserva la sua presa stretta sul mondo, spazzando via con la sua
meccanica imponente il gesto eversivo. I suoi apparati bloccano la condotta ribelle di Gino
Michelstaedter. Senza spazio di autonomia possibile, il suo corpo è sospinto
nell’assoggettamento agli ingranaggi di accumulazione fino ad esserne annientato. Non c’è
che una sola forma di vita, il funzionamento morboso e sterile della società di mercato. Il
suicidio è il gesto supremo, la vetta, anche culturale, dell’efficienza di un sistema che si
mantiene grazie alla sua capacità di dominare. L’uccisione di sé afferma l’obbligo alla
soggezione del governo del capitale ed alla dipendenza dal suo organismo. Questo gesto,
all’apparenza pensato, esegue rigorosamente e puntualmente la norma imposta dalla
produzione. Le attitudini permesse delimitano i domini sottomessi ad un’ingiunzione
suprema: vivere come elemento obbediente del sistema.
Uccidersi è la destinazione mancata che un’escursione liberatrice non vorrebbe mai
raggiungere. Gino Michelstaedter sbarca sulla banchina vuota dove arriva colui che non ha
più destinazione avanti. Muore circondato dal rumore sordo degli impieghi redditizi. Gino
Michelstaedter ha affrontato la sua lotta erratica ed ha perso. In ogni caso, è per condurre
un conflitto che ha lasciato il suo ambiente ed i suoi obblighi. Esattamente come Enrico
Mreule, che se ne va a sparire nella Pampa. Sono entrambi i combattenti di uno scontro il cui
fronte, disteso in direzione diagonale, si ritrova ripiegato su stesso, di sbieco.
Gino Michelstaedter, come Enrico Mreule, è un compagno che muove con il fratello
Carlo una campagna di guerra contro il dispositivo sociale borghese. Gino Michelstaedter è
un amico, incontrato nel momento della battaglia e vivo fianco a fianco nell’affrontarla,
stretto poi nell’abbraccio nel pieno dell’urto. È il compagno con cui si compie un dovere
comune, un “nuovo dovere”, direbbe Vittorini, che porta degli stranieri, poco importa che
siano parenti o familiari gli uni agli altri, oppure no, a essere parte dello stesso campo. I due
fratelli legano la loro esistenza perché non sono altro che una stessa formazione alle prese
con i suoi compiti. L’impegno militante li unisce in una relazione più profonda che il legame
di sangue. Essi si stringono fraterni per l’appartenenza ad un ordine di vita senza dominio. È
58
“Dei compassionevoli.
Ahimè, dove al mondo sono state commesse più stoltezze che presso i compassionevoli? E che cosa al mondo
ha causato più dolore delle stoltezze dei compassionevoli? (…) Dunque siete avvertiti contro la compassione: da
essa viene sugli uomini ancora una nube pesante!”, F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, ed. it. a cura di G-
Pasqualotto, trad. di S. Giametta, Milano, Rizzoli 1985, p. 109.
un nuovo corpo che costruiscono insieme, un aggregato distante dalla gerarchia e dalla
sottomissione che agisce nell’alleanza delle sue componenti. È un altro dispositivo che si
attiva e che attiva, una formazione di amicizia che fabbrica autonomia attraverso
l’associazione cooperativa.
Ma, dolorosamente, questo aggregato in comunanza non è stato baciato dall’emozione
vigorosa della vittoria. Si pietrifica sullo scalo freddo della perdita di sé, dove, come nei
passaggi più cupi de Il dialogo della salute, non c’è nessun’altra presenza vivente se non
quella dominante. Gli amici si perdono, in preda al nulla, incapaci anche di scambiare un
pezzo di pane: “Povero Nino mio. Lo so bene che tu lo riconosci giusto e vorresti anche
esserne persuaso: è tutto inutile; chi ha fame ha bisogno del pane – e nient’altro può
saziarlo: io se lo avessi te l’avrei già dato – ma chi non l’ha non può darlo al suo compagno.
Che se ci fosse il pane per la nostras fame, un solo pane sazierebbe tutta l’umanità – e non
credo che si parlerebbe molto. Noi invece parliamo per fame, cerchiamo affannosamente
con le nostre parole, fuori, l’appoggio che dentro ci manca. – E gridiamo nel deserto! Ma
male incolpiamo gli altri d’esser per noi come un deserto, male accusiamo l’impotenza dei
mezzi coi quali comunichiamo. In verità dobbiamo accusar noi stessi che siam deserti, che
non possiamo dare ragione di noi…. poiché viventi non l’abbiamo; ma ognuno vive e vuole
ed è certo della sua vita ma non sa a che viva né perché si voglia quello che vuole. Se anche
tu non trovi che cosa trovar ingiusto in quanto io prima ho detto, né, credo, lo cerchi – come
però potresti adattarti a sentirlo giusto per te, ed esser soddisfatto s’io predicando la salute,
niente di sano ho detto e niente di vitale, se non ho potuto dir la parola che ti rigeneri, ma
solo ho tagliato, ho distrutto?”59.
L’impegno reciproco dei figli Michelstaedter si svolge attraverso la sua stessa
frammentazione. Il corpo assemblato che formano si dibatte soccombente alla forza
dell’avversario. L’angoscia e l’abbattimento legano Carlo Michelstaedter al fratello. Il suicidio
di Gino è una ferita insanguinata che mostra la situazione in cui l’amicizia ingrana le sue
operazioni. Loro agiscono congiuntamente nella paura, la disperazione, l’odio, il dolore, la
rabbia di contro ad una potenza che ha spezzato ogni difesa, e calpesta ciò che le si para di
fronte. Gino Michelstaedter è la mezzanotte della compagneria liberatrice, tanto quanto
Enrico Mreule ne è il meriggio. Non impieghiamo questi termini di Nietzsche per il loro
carattere evocativo. Essi hanno un valore teorico ed espressivo centrale in un testo – semi-
filosofico e semi-letterario allo stesso modo de La Persuasione e la Rettorica – che
Michelstaedter aveva ben presente, tanto da farvi riferimento a molteplici riprese. Si tratta
di un’opera di Nietzsche nella quale l’amicizia, l’allaccio in cui i corpi si uniscono in un
organismo dalla biologia collettiva, prendono posizione centrale: Così parlò Zarathustra. In
questo deviante saggio romanzesco l’amicizia taglia sul terreno della società la stria del
conflitto. L’avversione misura la capacità degli esseri di embricarsi in apparati di liberazione,
che hanno lo sprigionarsi dell’azione comune come motore. Le impulsioni associate
moltiplicano le proiezioni intensive, dando loro il potere d’infrangere la formazione
totalitaria che le comanda. Un’aggregazione di gesti fuori norma stacca questi organismi in
secessione collettiva. Componendo operazioni d’eversione, questo impiego diffuso conduce
alla separazione di frazioni società indisciplinata e produce la loro autonomia. Aggregati ora
attivi, essi effettuano una nuova capacità di agire innescata dalla loro composizione e si
portano al di là dell’azione seriale di un complesso stabilito di impieghi, di cui ogni membro

59
C. Michelstaedter, Il Dialogo della salute, in, Il dialogo della salute e altri dialoghi, Milano, Adelphi 1988, pp.
92–93.
era la protuberanza passiva, elementi di un apparecchio sociale modellante individui
possidenti.
La portata generatrice e conflittuale, ossia la potenza produttrice di vita degli esseri
mobilizzata nell’emancipazione eversiva, sostiene l’apparecchiatura espressiva, tanto quanto
concettuale, dell’opera di Michelstaedter. Dei fronti in lotta: lo scontro è la logica che
conduce il lavoro di Michelstaedter, “lavoro della rovina” per definizione, che si realizza in
una pratica della scrittura partorita dal conflitto per rivolgersi alla lotta. Linee antagonistiche
di tensione dividono gli ambiti d’intervento letterario di Michelstaedter. Il “nemico” è la
problematica che detta il piano dell’opera. Il campo di battaglia dei segni è il terreno nel
quale manovra. Michelstaedter pratica letteratura, e teoria, come procedimento
d’eversione, una costruzione di formazioni espressive e concettuali che puntano
all’affrontamento con un ordine avverso. Le sue operazioni si svolgono secondo due vettori
di organizzazione, due filiere di composizione che assemblano il testo e ne mettono in moto i
processi espressivi. Si tratta di due linee antagonistiche di fabbricazione testuale: da un lato
l’implosione nociva sotto il peso della dominazione, l’essere risucchiati, svuotati
dall’estrazione forzosa degli organi interni, che riduce i segni a generalità univoche;
dall’altro, l’affermazione di autonomia – affrancamento di complessi dissidenti per manovre
di scissione. Il primo processo interno all’opera si aggancia sui momenti
dell’assoggettamento e della dipendenza; il secondo concatena figure dissidenti
d’indipendenza.
Michelstaedter lavora i segni come entità dal valore politico, riconducendoli alla loro
sostanza storica. La sua azione letteraria, e teorica, si articola per fazioni, affermanti
rispettivamente regimi di potere o di contro-potere. La scrittura diviene una ricognizione
vigile dei campi di significanza relativi alla pratica politica del testo. L’opera di composizione
è in sé un intervento, analitico ed organizzativo, interno a questo scenario sociale di scontro.
Essa appartiene ad un fronte, ed il posizionamento che assume ne decide il segno. In ogni
caso, esso è rivolto alla rovina di uno schieramento opposto. E la rovina a cui è alle prese la
scrittura michelstaedteriana, la “persuasione”, è un’operazione di scissione e di costruzione
d’alternativa. È lo spiegamento di tattiche antagoniste che attaccano, nei segni, le gerarchie
dell’appropriazione e le sue forme d’individualità. Al contempo, esse sono il procedimento di
una formazione che si struttura sull’asse della produttività associativa del comune, della
“ratio” collettiva, vale a dire intrinsecamente e completamente sociale, che congiunge una
molteplicità di azioni emancipate in un complesso semantico che produce figure mobili e
parziali, in lavorazione continua e condivisa, di espressività orizzontale, diffusione senza
preminenza, associazione egualitaria e trasformazione plurivoca ed inconclusa. La linea di
conflitto tra “egoismo” e “ragione” detta lo statuto politico, “morale” per usare i termini di
Michelstaedter, della letteratura, e la rende azione interna alla condizione immanente del
segno. Questo non è un’ideazione aerea: è una pratica vivente di operazioni politiche: “Ogni
qualvolta un individuo sogna una perfezione morale o intuisce un’armonia artistica egli dà
forma – per quanto vale la sua potenzialità individuale – all’aspirazione che c’è in fondo a
ogni uomo verso la verità: il suo interesse è un interesse universale: l’atto che nella vita gli
risulta da quest’interesse è un atto di svolgimento – di perfezionamento, è un atto di
riduzione della causa sotto il dominio della ragione (o di trasformazione della ratio in causa):
è un atto buono. –
Ma si può contrapporre: analizzando la visione morale di quest’uomo troveremo che
essa ha la forma che è resa necessaria ed è definita dal posto che quest’uomo occupa nella
vita: essa è la risultante dei suoi interessi particolari più o meno egoistici: dei suoi affetti e
del suo temperamento. La sua contemplazione non trascende gli elementi della sua vita
sicché l’interesse è l’interesse di coordinare utilitariamente i vari elementi della sua natura –
è un interesse che non esce dai limiti della sua individualità: l’atto che ne risulta è un atto
egoistico.
Certo la contemplazione non trascende gli elementi della sua ma non li contempla
perciò con riguardo alla vita presente. L’uomo in quanto contempla ha l’interesse teorico. Il
criterio della contemplazione non è più il valore degli elementi per la vita ma la loro ragione
intrinseca. L’uomo più basso può considerare i valori morali ch’egli attribuisce alle cose,
considerarli nei lor vicendevoli rapporti ecc. e giungere a una visione morale ben più alta, di
quella che egli stesso – considerato sub specie aeterni [sic]– presenta. –
Ma quest’uomo basso dovrà allora ipso facto diventar un uomo elevato, - o bisogna
dire che per traduzione in atto della perfezione morale conseguita sia necessario l’intervento
d’un nuovo elemento?
Io credo che nel momento che l’uomo con piena persuasione enuncia il suo pensiero
egli sia dal punto di vista dell’onestà dell’intenzione – assolutamente buono, e d’altra parte
rispetto a un criterio di giudizio assoluto egli abbia tanto più valore quanto più la [ ] sua
concezione è vasta e universale. - Questo lo è se agisce o se non agisce indifferentemente.
Ma quando la sua concez.[ione] si oscura e si disgrega da quel punto luminoso di perfetta
coscienza e persuasione che aveva ottenuto egli ricade nella meschinità dei suoi interessi
particolari: è un disonesto. Ora se un uomo ha sì forte l’interesse teorico da vivere gran parte
della vita in quella persuasione luminosa, quest’uomo – qualunque sia stata – per strana
contingenza di casi la sua bassezza morale – quest’uomo non potrà non uniformare tutta la
sua vita a quella persuasione”60.
Queste note sono scritte nel 1909. In questo momento Michelstaedter comincia la
redazione de La Persuasione e la Rettorica. Il suo progetto ha già raggiunto una relativa
maturità. Presenta una configurazione più elaborata e completa. Vi si coglie la coerenza di
un’opera che si realizza secondo una problematica non solo individuata, cosa che già era, ma
definita e compiuta. Tale piano di intervento, ed il suo lavoro, era già posto al darsi della
deviazione che aveva portato Michelstaedter a Firenze. “Rottura” e “trasformazione” sono
termini di composizione attivi fin dal 1905, tanto che li troviamo nelle note di viaggio. Queste
figure portanti ritornano regolarmente, vera e propria armatura di un piano di scrittura, nei
taccuini che comincia a riempire dal suo arrivo a Firenze. Vi appaiono con continuità fino alle
ultime pagine, redatte a Gorizia alla fine dell’estate 1910. Il passaggio riprodotto qui di
seguito, scritto nel 1905, si concentra sull’opera di Ada Negri, oggetto, apparentemente, di
uno studio vero e proprio da parte di Michelstaedter: “Idilli fam. [iliari] La donna dà tutta la
sua vita per creare una giovane e sana esistenza pronta alla lotta della vita ⎜Maternità
(«madre operaia»)
Alcunché triviale e prosastica.
Sente tutte le voci della mat[ernità] nascente e ne esprime tutte le gioie. Canta le lotte
umane nate dal germe materno e le studia (riproduce) attraverso il loro riflesso nel cuore
della madre. - ”61. Il riferimento ad Ada Negri è un indizio importante. Nata a Lodi nel 1870,
la Negri comincia ben presto il suo lavoro di scrittura, dapprima di poesie (Fatalità, raccolta
pubblicata nel 1892; quindi, Tempeste, del 1895, dove i temi di denuncia sociale divengono
predominanti), poi, in prosa, sulla linea dei romanzi di genere afferenti al naturalismo
populista. Ada Negri diviene, a cavallo dei due secoli, uno degli autori più noti in Italia,

60
C. Michelstaedter, Sfugge la vita. Taccuini e appunti, Torino, Aragno 2004, pp. 99–101.
61
Ivi, pp. 10–11.
soprattutto grazie all’intensità sentimentale dei suoi quadri, tutti improntati alle forme e
figure del dramma popolare, che avevano incontrato sia il gusto, sia le passioni, della cultura
ma anche del consumo letterario dell’epoca. Maternità, citato da Michelstaedter in questa
nota del 1905, è una delle sue raccolte di liriche più lette. Le poesie di Ada Negri appaiono in
una rivista lombarda, il «Fanfulla», di Lodi. L’intitolazione di questa rivista letteraria ricorda il
più celebre ed importante «Fanfulla» di Firenze, il cui primo numero apparve il 16 giugno
1870 sotto la direzione di Baldassarre Avanzini. Al momento, era l’organo culturale
dell’intellettualità impegnata, sebbene senza partito. L’organo fiorentino raccoglieva i
contributi di intellettuali sparsi nei territori della nuova Italia unitaria, il cui governo – retto ai
suoi inizi dalla destra storica, erede della destra cavouriana, la cui politica liberal-elitaria,
peraltro non così radicale rispetto a quella messa in atto dalla sinistra storica, raggiunse il
suo culmine con Lanza e Minghetti – continuava la politica di edificazione di un sistema
nazionale organico. I campioni della cultura della nazione italiana, ormai esistente,
pubblicano i loro scritti nel supplemento domenicale del «Fanfulla», «Il Fanfulla della
domenica»: Carducci, Scarfoglio, Matilde Serao, Verga, Capuana (che ne prese anche la
direzione tra 1882 e 1883), entrambi aventi già abbandonato le loro scelte scapigliate, De
Roberto e D’Annunzio. Il titolo della rivista era considerato mettere in evidenza i fini
educativi degli interventi. Gli scrittori e gli artisti che animano le pagine del «Fanfulla» erano
patrioti impegnati sul fronte della cultura. Fioritura di due generazioni di combattenti,
militanti dell’indipendenza e poi della costruzione dell’Italia nazionale, gli autori del giornale
fiorentino intervengono attivamente nella definizione della cultura di questo popolo
dall’esistenza così antica, nella loro idea, ma così recentemente partorito a nuova nascita
nella storia. Essi operano per codificare i tratti rappresentativi ed identitari, gli elementi
figurativi, i contenuti ideali ed i fini ideologi del regime di segni ed idee inerente alla mente
di tale nazione in fasce destinata ad essere già adulta per necessità di tradizione. La sua
anima culturale, il suo orizzonte di statuto e visione, doveva contenere, all’interno dei propri
modelli iconografici, le qualità morali e le caratteristiche storiche, comprese quelle lessicali,
del “tipo” nazionale italiano. Manzoni era il modello, l’idealtipo possiamo dire, di questi
intellettuali che interpretavano le loro elaborazioni come promulgazioni d’autorità di un
ufficio istituzionale amministrante i segni.
Nel 1868 il ministro Broglio assegna a Manzoni il compito di definire gli organismi culturali ed
educativi del nuovo Stato: contenuti, mezzi, apparati, e, in primo luogo, la lingua. Il problema
dell’italiano esplode, manifestandosi nella sua natura di governo centralizzato ed unificato
della coscienza nazionale. Uscito dalle discussioni accademiche delle cerchie di intellettuali,
le implicazioni politiche, e la posta, del problema linguistico – quale lingua assegnare a
questo popolo vivo nelle radici della sua storia, ma ancora embrione – assumono la forma di
dibattito pubblico generalizzato. La discussione si estende alle questioni sociali concernenti il
regime della parola. Il confronto polemico, a distanza, tra Ascoli e Manzoni ci offre uno
spaccato dell’opposizione tra visioni estremamente differenti del sistema culturale e delle
sue istituzioni. Tali orientamenti, così distanti, manifestano la disparità di prospettive di
politica culturale ed educativa non ancora integrate in un apparato coeso e solido. Le
divisioni separanti strati sociali dalla composizione profondamente eterogenea – ognuno con
propria lingua, cultura, usi, esigenze educative, ed istituti culturali di riferimento –
risuonavano nel contrasto tra programmi di gestione nazionale, alternativi se non
antagonisti. Lo scambio, duro, tra Manzoni e Graziadio Ascoli, anch’esso originario di Gorizia
(Michelstaedter lo cita in occasione della sua morte 62), è una rappresentazione più che
62
Lettera alla famiglia del 2 febbraio 1907, C. Michelstaedter, Epistolario, cit., p. 180.
evidente del conflitto per il controllo della cultura che oppose gli intellettuali nazionali. Ma
esso ha anche un carattere ulteriore, ugualmente importante: è un sintomo della specifica
funzione di agenti nazionali di potere di Stato degli intellettuali nel quadro italiano.
Il titolo «Fanfulla» risuonava delle suggestioni legate alla responsabilità civile, ed
istituzionale, della cultura, e del suo personale. In fogli dello stesso genere, nati un po’
ovunque all’epoca in Italia, a Nord come a Sud, si raggruppavano le cerchie che animavano le
differenti tendenze. Gli interventi artistici si caricavano di valore politico, svolgendo
l’impegno estetico con il vigore, a volte con le forme pure, delle prese di posizione
programmatiche63. Le frazioni della sinistra storica, dei mazziniani così come dei radicali o dei
socialisti, parteciparono alla discussione in loro organi artistici e politici. La Lombardia era la
regione in cui maggiore era la presenza di queste correnti. In tali riviste di “sinistra”, per
impiegare un’accezione generica, si era manifestato il primo vero fenomeno d’avanguardia
artistica italiana: la Scapigliatura. Ricordiamo i principali giornali del movimento scapigliato,
praticamente tutti legati all’”estrema”, il raggruppamento repubblicano e socialista radicale:
«L’Uomo di Pietra», fondato nel 1856 da Cletto Arrighi, dove scrivevano Nievo, Guerzoni,
Fusinato, Babaravalle, Fortis – organizzatore poi del gruppo scapigliato di Padova -, Cicconi;
«Il Pungolo», creato nel 1857 da Fortis stesso; «La Cronaca Grigia», del 1860; «La Strenna
Italiana» di Boito; «Il Lombardo» di Ghislanzoni, del 1861; «La Rivista Minima»,
pubblicazione che si apre a giovani poeti come Tarchetti e Praga; «Il Gazzettino Rosa» di
Bizzoni, uscito dal 1867; «La Farfalla», di Sommaruga, del 1876. In questo stesso ambiente
milanese, impegnato e “bohèmien”, troviamo anche «Cuore e Critica» di Ghisleri (1887),
rinominato più tardi «Critica Sociale», dove scrive Filippo Turati, al momento membro del
Partito Operaio di Milano promosso da Costantino Lazzari. Nel 1892 Turati diventerà il primo
segretario del Partito Socialista Italiano. Turati, come Ghisleri, era un protagonista 64 della
“Scapigliatura democratica”. I comportamenti trasgressivi e antiborghesi di queste cerchie
non si limitavano alla critica dei costumi, o all’espressione sentimentale in forma lirica. Si
producevano esplicitamente come interventi politici. Grazie all’impatto di tali azioni, critiche
perché schierate, creative perché partigiane, si costituisce in Italia un polo culturale
antagonista. Il «Fanfulla» di Lodi era una di queste riviste politiche e culturali che circolavano
nelle diverse fazioni della Scapigliatura lombarda. Era uno degli strumenti di impegno, e di
lavoro artistico, della “bohème” in rivolta. Rivista di proposta culturale, ma, appunto, anche
organo politico e di intervento civile in cui convergevano posizioni articolate. Una sola linea
comunque univa i molteplici approcci ed esperienze che occupavano gli spazi del foglio
lodigiano: l’estraneità al regime dell’Italia liberale. Negli scapigliati, questo significava
l’opposizione più radicale alla “forma italiana” elitaria, nazionale ed istituzionale, dei suoi
apparati culturali.
Il «Fanfulla» era vicino al socialismo lombardo, condotto dalla centrale organizzativa di
Milano. Era un giornale di lotta, di propaganda e di formazione rivolto ai quadri tanto quanto
al variegato popolo di ceti inferiori e personalità d’opposizione – almeno nelle intenzioni. La
letteratura pubblicata nelle sue pagine, secondo gli orientamenti tipici della Scapigliatura
democratica e socialista, possedeva l’impronta sociale che voleva essere il tratto distintivo
del giornale. La produzione scapigliata che appariva nel «Fanfulla» era fortemente debitrice
dei moduli espressivi veristi e naturalisti, eccezion fatta per qualche scivolamento verso
inflessioni maggiormente “decadenti”.

63
Su questo cfr.E. Paccagnini, Il giornalismo dal 1860 al 1960, in, AAVV, Storia del giornalismo italiano. Dalle
origini ai giorni nostri, Torino, Utet 1997, pp. 163–219.
64
Cfr. La Scapigliatura democratica. Carteggi di Arcangelo Ghisleri 1875–1890, Milano, Feltrinelli 1961.
Nei suoi romanzi, Valera ricerca il potenziale letterariamente dissidente del significante
“popolo”. Associati in questa ricerca, lui come altri scapigliati testavano le risonanze
estetiche della rappresentazione del vissuto sociale di massa, in dialogo continuo, ed in
polemica pure, con gli autori francesi. Zola, ma anche i Goncourt, erano letti come artisti-
ricercatori che seguivano le stesse piste espressive. Suscitava interesse anche il realismo
inquietante di Eugène Sue65. Il tropo “popolo” e le sue figure, grazie alle possibilità di
figurazione affettiva e d’azione che offrivano, potevano condurre la scrittura secondo
movenze comparabili a quelle delle dinamiche sociali. La mettevano dunque in connessione
diretta e reale con le situazioni concrete e le loro stratificazioni agenti: sociologiche,
programmatiche, politiche, ed anche lessicali.
La Scapigliatura ha dato molti apporti, che ancora attendono di essere realmente studiati.
Tra gli altri, è stata una vera incubazione d’impieghi letterari dell’immagine “popolo” al di
fuori della poetica nazionale italiana – manzoniana, nello specifico. Tuttavia, questa piega
della sperimentazione scapigliata arriva in un secondo momento. Prima, Praga, Tarchetti e
Dossi avevano lavorato una problematica differente, seppur vicina per termini e finalità.
Erano intervenuti nella scrittura producendo testo per linee di disaggregazione, puntando a
disarticolare, più che superare, i dispositivi dell’estetica romantica che costituivano il codice
figurativo nazionale. Allo stesso tempo, praticavano moduli linguistici che smembravano la
forma italiana sancita.
Verga e Capuana sono i protagonisti del percorso di ricerca più estremo avente come
contenuto la poetica del “popolo”. La questione dello “stile”, appunto relativa alla capacità
espressiva del significante “popolo”, provocò il conflitto tra il gruppo verista siciliano-
milanese e il “cercle de Médan”. In diverse lettere, Capuana 66 insiste sul fatto che la
questione essenziale non sia dare una rappresentazione esatta di effetti di leggi naturali. Il
compito della scrittura è produrre forme che agiscano alla stessa maniera, in termini di
efficacia di compimenti storici, delle figure agenti in scena. La scrittura è essa stessa un polo
di azione sociale, un complesso attivo, secondo modi propri, prettamente linguistici, al pari
del gesto teatrale sul palco. Essa quindi risponde, come fatto storico, nei suoi caratteri
specifici, alle condizioni della storia in atto. Essa si produce nella società in relazione allo
stato che tutti gli ambiti sociali, fattori storici, assumono in una configurazione data, ed alle
sue dinamiche. Ed è a quella, ed a tali processi socio-storici, che risponde, condotta da essi
nell’ambito della sua particolare costituzione di pratica del segno.
Il significante “popolo”, come categoria espressiva, dà al testo la sua densità. Questa figura,
personaggio ed insieme processo di produzione narrativa, effettua e svolge una pratica della
scrittura che si manifesta interna ed in continuità con un campo di fatti storici, immanente
ad esso come qualsiasi altra azione, solido della concretezza dei procedimenti compresi ed
embricati nell’articolazione stratificata di una formazione attiva. Il “popolo” non simbolizzava
un’entità transtorica. Non era l’allegoria della “patria”, modulo linguistico esprimente sotto
forma di testo l’epifania di un genere: l’”Italia”, essenza di un’entità collettiva esistente e
65
Cfr. il capitolo, La Scapigliatura e il Decadentismo. Sperimentalismo degli scapigliati. Poetiche del
Decadentismo dalla Francia all’Italia, di E. Paccagnini, Dal Romanticismo al Decadentismo. La Scapigliatura, in,
Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, VIII, Roma, Salerno Editrice 1999, pp. 328–332. Tutto il
saggio è capitale per la comprensione del fenomeno “Scapigliatura”.
66
Lettera del 13 luglio 1881, in Carteggio Verga–Capuana, , Roma, Edizioni dell’ateneo 1884, pp. 126–127.
Lettera 18 maggio 1882 e 22 maggio 1882, in, ivi, pp. 158–160. Cfr. anche la corrispondenza tra Zola e Verga,
lettere del 10 aprile 1884, 22 maggio 1884, 10 giugno 1884, in, G. Verga, Lettere sparse, Milano, Bulzoni 1979,
pp. 162–164. Per la corrispondenza tra Capuana e Zola, cfr. la lettera del 30 novembre 1894, in, Lettere a
Capuana, Milano, Bompiani 1993, pp. 58–60.
fondamento dei suoi organismi istituzionali. Non disegnava, mai, gli attributi di una
comunità, organica per la sua filiazione gemellare. “Popolo” era una costellazione di effetti di
scrittura prodotti da una specifica disposizione del testo: l’organizzazione fatta funzionare
dal contrasto tra subordinazione e dominanza. La faglia tracciata dal potere e dai soggetti
interveniva nella scrittura con le sembianze dei dominati, i “vinti”. I sottomessi, i sottostanti,
i miseri, davano senso a tale dialettica scritturale della predominanza. Ugualmente agli altri
ambiti storici, il romanzo si componeva come un dispositivo di posizionamenti politici dalle
modalità e dalle forme proprie. Il “popolino” era, appunto nella sua determinazione di tropo,
ossia di tensore espressivo, il centro di assemblaggio che permetteva lo spostamento della
scrittura dal regime del simbolo a quello delle pratiche politiche del segno. L’apparato dei
significanti al potere era posto e sostenuto da blocchi di figure di assoggettamento, a loro
volta governate, plasmate, ed indirizzate da quello: attraverso la figura-montaggio “popolo”,
il campo del testo effettuava la sua costituzione di relazione sociale organizzata, il cui assetto
era posto da funzioni di governo. Non c’era nessuna “rappresentazione” di “leggi
immanenti”, se non “metafisiche”. Piuttosto, un segmento di dinamiche storico-politiche
intrinseco e contiguo alle altre presenti nell’immanenza del presente in atto.
Il “popolo” dei dominati permetteva di praticare la scrittura come settore specifico e
particolare delle pratiche sociali, come esse segmento di processi reali di dominio e di
disposizioni di sovranità. Tale figura agente riconduceva il testo all’immanenza delle
condotte concrete: forma, fattore ed evento della letteratura come spazio politico di
conflitto.
La letteratura scapigliata presenta una spessa tessitura di legami con la letteratura europea
dell’epoca - relazioni non certo di “epigonismo”, di soggezione, come vuole la tradizionale
lettura della critica italiana, impregnata dell’ideologia storicistica del “ritardo”: basta dare
un’occhiata rigorosa, cioè scientifica e non accecata dal pregiudizio, a date e corrispondenza,
per verificarlo -. Le lettere tra Mallarmé e Pica 67 ne sono un segno evidente. Le formazioni
eversive di Leopardi vi giocano, parallelamente, un ruolo cardinale. Gli scapigliati le
introducono senza aggiungervi variazioni erudite o liriche, conservandone il senso, ed il
relativo piano di scrittura: scrivere, è declinare in letteratura la costituzione negativa della
storia, e delle effettuazioni che ne svolgono le configurazioni. Gli scapigliati continuano il
gesto leopardiano, che distende il testo alla maniera di terreno di operazioni di
combattimento. La pagina di Leopardi si compone per lacerazioni, perché, come gli altri
distretti dell’attualità, la scrittura marca coordinate di affrontamento tra ranghi avversi. È
l’opposizione che ne detta le condizioni e le forme. Il testo è un fronte: gli innesti che lo
producono, agganci opposizionali la cui posta è la presa di potere all’interno di una zona
d’espressione, lo qualificano come un dispositivo di rapporti sociali e ne decretano la natura
politica. La scrittura si struttura come un ordine scisso: dislocazione di condotte di governo
che si disputano la supremazia. Essa effettua così quadri sociali che, possedendo lo stesso
carattere degli altri contesti relazionali, costituiscono con essi un solo e medesimo dominio
politico. Embricate alle altre regioni del sociale storico, poste a loro volta da rapporti di forza,
le forme del testo si aggregano come formazioni immanenti alla specifica congiuntura
politica del contemporaneo, ed alle linee di evoluzione che in essa sfociano, e che essa va a
produrre68. La letteratura è un contesto di pratiche sociali, essa non fa eccezione. Gli
scapigliati fanno proprio tale movimento di Leopardi, scabroso rispetto alla tradizione, al fine

67
S. Mallarmé, Correspondance de Mallarmé, Paris, Gallimard 1969, t. III, p. 83.
68
Cfr. E. Paccagnini, Dal Romanticismo al Decadentismo. La Scapigliatura, in, Storia della letteratura italiana, a
cura di E. Malato, cit., p. 271.
di modulare le immagini per zone di conflitto. La scrittura esiste attraverso i posizionamenti
antagonistici dei significanti, uno sviluppo di fronti scavati da schiere avverse. Il testo è una
geografia di guerra, un’area di postazioni al negativo assegnate dall’opposizione tra
complessi sociali nemici. Le sue evoluzioni non sono frutto dei peripli dell’immaginario. Esso
effettua, nei luoghi contrari di un faccia a faccia bellicoso, procedimenti di organizzazione
politica, condizioni di intervento, prese, atti, investimenti pragmatici che si danno in
situazioni reali. Malgrado la loro natura effimera, le figure, gli stili, le soluzioni espressive,
sono pratiche che distendono un contesto in atto, modi di effettuazione relazionale, ossia
applicazioni, avversative, di un sistema, rotto dal conflitto, di regolazione di rapporti sociali. Il
testo è un intrigo di articolazioni politiche, è un settore di procedimento sociali componenti
un ambiente storicamente dato, e quindi è “concreto” come qualsiasi altro elemento che ne
realizza la presenza. La scrittura è certo un dominio autonomo, vale a dire diverso ed
indipendente dagli altri, a causa dalla sua costituzione e delle sue connotazioni determinate.
Tuttavia, nella sua differenza effettua, secondo uno svolgimento proprio, le divisioni che
istituiscono un ordine. Il testo delimita una geografia politica, la congiuntura portato dello
scontro che conduce all’insediamento di un regime del segno. La pagina è il risultato diffratto
di un incontro opposizionale tra antagonisti, un territorio spaccato prodotto dalle strette
violente di organismi in lotta, che si sfidano per il primato. Scrivere, è agire politicamente, è
un complesso di manovre nel conflitto per cui chi vince, comanda, ed i perdenti subiscono.
Ugualmente agli usi, al diritto, all’economia, il testo è uno spazio sociale generato da istanze
sociale rivali, dai comportamenti guerreschi. È una costellazione di condotte in relazione
raggruppate, le une contro le altre, a causa della duplice distanza segnata dalle loro
articolazioni: dai loro schemi stranieri si dispiegano ordini alternativi di dominanza.
La pagina è un innesto disgiunto di force contrarie, che producono, nell’azione politica del
conflitto, disposizioni politiche. Negli scapigliati, il “popolo”, immagine-azione, sempre in
agitazione e violenta, che ringhia in dialetto, assetata di sangue dei padroni, è il paradigma
figurativo che spinge la scrittura, con la sua lingua unta di sudore e lercia, verso una poetica
antinazionale, composta da figure d’avversione.
Il programma di Zola era completamente all’opposto. Lo si può vedere dalle scene di massa
de L’assommoir, in cui la figura del “popolo” esprime in immagine le azioni dialettiche di un
genere nazionale che s’instaura in manifestazione storica compiuta. Si comprende allora la
distanza del percorso del francese da quello, non solo dei “siciliani”, ma della Scapigliatura in
generale.
All’interno di questa letteratura immanente e pragmatica della disputa, Ada Negri
occupa un posto importante, che le porterà nel 1894 – mentre si spegnevano le ultime lotte
dei fasci siciliani -, il titolo di “poetessa del quarto stato”. In realtà, la scrittura di Ada Negri
rappresenta il grado inferiore della scrittura concreta scapigliata. Nelle sue opere, immagini
pregne di paternalismo sentimentale disinnescano l’aggressività degli antagonismi. La Negri
scrive pagine intrise di calore compatente, di emozioni pie, di personalità edificanti che
espongono il valore profondamente umano delle figure della “privazione”, della “caduta”,
del “male morale”, preparando così la scena all’ingresso solenne delle immagini di salvezza.
Questo genere letterario, versante cattolico missionario idealista della produzione
“bohémienne”, che ebbe grande successo commerciale, neutralizzava gli attacchi scapigliati,
pacificandone le figure, anche grazie alla funzione di recupero, in termini lirico
cristianeggianti, del rivestimento socialistico di superfice. In Ada Negri, domina la potenza
conciliatrice delle immagini di dovere e devozione. Tutto un immaginario cattolico, legato ai
temi della pace sociale e dell’obbedienza, è all’opera nei suoi romanzi. A tali elementi, si
aggiungevano contenuti, coperti dai teneri slanci accorati dell’autobiografismo idealizzato,
provenienti dal nazionalismo populista: “Quel dì la terra avrà, sotto i divini/cieli adoranti, un
rispuntar gioioso/di fronde, e un mite aulir di biancospini.//Ogni soglia quel dì sarà
fiorita/d’ulivo, a custodir la dolce casa/ove l’amor benedirà la vita.//Ed ogni madre allatterà
suo figlio/con letizia e con pace, in lui versando/la potenza del suo sangue vermiglio;//o pur,
china sul forte giovinetto/da lei cresciuto, d’incorrotti sensi/gli tesserà salda corazza al
petto,//con le parole che le labbra oranti/ripeteran ne’ giorni in cui si muore,/pensando il
casto viso e gli occhi santi.//Più non dovrà, più non dovrà nessuna/donna, per legge di servil
fatica, /lasciar la casa e abbandonar la cuna.//Libera Dea di tempio immacolato,/verso la
luce condurrà l’Eroe/da la sua carne e dal suo spirto nato.//E tutti allor saran fratelli in
questa/religion del doloroso grembo/che li creò pel sole e la tempesta://nel sogno, nel
lavoro e ne la messe/fratelli:—in nome di Colei che in tutti/gl’idiomi del mondo e con le
stesse//infinite carezze in fondo al pio/sguardo e le stesse lacrime nel cuore, /perdonando
sussurra: O figlio mio!...-“ 69
Michelstaedter lo sottolinea, impiegando gli stessi argomenti di Pirandello. Ada Negri
rappresentava una fazione tradizionalista e reazionaria del campo letterario italiano. Più
tardi il fascismo sfrutterà a fondo i valori politici gerarchici di questa corrente – come prova
la biografia stessa della Negri. Il commento di Michelstaedter alla Negri, prima presentato, è
netto: “Alcunché triviale e prosastica”70. Ma leggiamo con maggiore attenzione la notazione
presentata più sopra: “Annot.[azioni]
I Poesia popolare esprime il grido del popolo sofferente (Fatalità, Tempeste) contro le classi
dominanti (Aurelio Costanzo)

II Amore universale fra gli uomini nati tutti da un seno di madre squarciato
Amore sogg.[ettivo] al bimbo
IDILLI fam.[iliari] La donna dà tutta la sua vita per creare una giovane e sana esistenza
pronta alla lotta della vita ⎜Maternità (« madre operaia »)
Alcunché triviale e prosastica
Sente tutte le voci della mat.[ernità] nascente e ne esprime tutte le gioie. Canta le
lotte umane nate dal germe materno e le studia (riproduce) attraverso il loro riflesso sul
cuore della madre”71. Ciò che interessa Michelstaedter sono i conflitti che la Negri
rappresenta mettendo in scena i moti emotivi della madre. Non si occupa delle contrizioni
oblative dello spirito materno, così come ignora la costruzione “naturalistica” degli ambienti,
dei caratteri dei personaggi, o le campate liriche. Michelstaedter rileva solamente il
segmento legato al conflitto ed al confronto. Legge il testo della Negri seguendo le linee di
opposizione emergenti dal testo: la frattura tra dominanti e dominati. La ricerca di
Michelstaedter è già cominciata, in questo momento, 1905, nuova lacerazione che
raddoppia lo strappo che la sua diversione lontano dalla famiglia e da Gorizia aveva
realizzato. Dal suo inizio, questo percorso avviene sul margine aperto dall’antagonismo, nella
vita come nella scrittura. Michelstaedter lavora il segno all’interno della spaccatura che ne
divide il dominio in due campi rivali: forme dell’assoggettamento e forme dell’autonomia.
Queste prime note di lavoro72 costituiscono l’esordio dell’intervento di Michelstaedter, che
69
A. Negri, Quel giorno, in, Maternità, Milano, Treves 1904. Sulla figura di Ada Negri cfr. D. Mattalia, Ada Negri,
in, ‘900, I, Milano, Marzorati 1987, pp. 457–474.
70
C. Michelstaedter, Sfugge la vita, cit., p. 11.
71
Ivi, pp. 10–11.
72
Questi scritti, offerti all’attenzione della critica da A. De Michelis, sono stati completamente ignorati dai
commentatori.
poi proseguirà fino alla sua morte. I quaderni di note mostrano in modo patente la
continuità di un’opera in lavorazione. Ci danno il senso di un impegno letterario, esistenziale
pure, ma non nello stesso ambito, perché non del medesimo dominio, iniziato con la sua
incursione alla volta di Firenze, in Italia, in una terra a distanza incommensurabile, lontana
da casa sua e straniera come una patria originaria non conosciuta.
L’investigazione delle guerre civili ossessiona Michelstaedter. Eppure, gli affrontamenti
interni in quanto tali, come manifestazioni politiche generiche, non ne motivano l’azione. Ciò
che conduce, come un’impulsione imperiosa, i suoi atti, è la necessità politica di intervenire
nel quadro italiano, ossia nei conflitti tra potere ed emancipazione che lo costituiscono.
Mosso dall’atto di insubordinazione che gli apre la via di Firenze, questo impegno verso le
lotte italiane, che continua fino al 1910, lo indirizza all’esplorazione della dissidenza. Tale
presa di posizione ne marca le azioni, imponendogli di seguire le vie dell’eversione, e così
continuare, fedele ad una scelta di campo, a ricercare e scrivere: a restare in viaggio, a
distanza, sfidando la paura ed il dolore.
Michelstaedter non è a Firenze a fare studi regolari, come non ha scritto una tesi di laura. Il
suo obiettivo non era ottenere un diploma. Fosse stato diversamente, avrebbe intrapreso da
bravo figlio e scolaro la strada voluta dai genitori: studi di matematica a Vienna, ritorno a
Gorizia, un buon lavoro, famiglia, figli. La solita vita di un colto giovane benestante di
provincia. Michelstaedter va a Firenze contro tutto questo. Firenze rappresenta la sua
ribellione radicale: come si può pensare che un gesto di rifiuto così violento ed assoluto
possa avere avuto a che fare, o addirittura concludersi, con un atto di conformismo gregario,
con la redazione di una tesi di laurea 73? L’eversione di Michelstaedter non si compie con La
Persuasione e la Rettorica. La sua dissociazione si concretizza nell’istante stesso in cui mette
il piede nel predellino del treno. Sa già cosa va a fare. Aveva già definito il suo progetto. Fin
dalle prime tappe del suo viaggio, raccoglie i materiali necessari a dargli sostanza. L’orizzonte
che ne pone le condizioni è chiaro – gli appunti e gli studi presenti nei taccuini non lasciano
dubbi -: l’antagonismo tra servitù ed affrancamento.
Nessuno ha mai ricostruito il progetto di Michelstaedter, la sua problematica, la sua
articolazione ed il suo sviluppo. Muzzioli è stato forse l’unico ad aver colto la maggior parte
degli elementi della scrittura michelstaedteriana. Ma i motivi alla base dell’opera, come i
suoi elementi reggenti, restano incogniti. È per questo che occorre restituire a
Michelstaedter la sua posizione specifica nel territorio della letteratura italiana. Una lettura
puntuale domanda la definizione rigorosa della sua problematica espressiva: delle sue
strutture, dei suoi procedimenti metodologici, delle sue componenti, dei suoi effetti, e del
loro posizionamento rispetto all’ambiente culturale ed alle sue conformazioni determinate.
Gli scritti che dovrebbero analizzarne l’opera non parlano mai di essa. Di fatto, i suoi testi
non sono mai presenti: non esistono come oggetto di lettura. Tutto è stato trasfigurato in
storia appassionata di un giovane, tenero, “bohémien”. Il suicidio è il solo fatto ricorrente. La
morte di Michelstaedter ha deciso allora della sua vita e del suo lavoro. Gli interpreti non
hanno fatto altro che celebrare la morte rimuovendo la vita e l’opera. Hanno fatto tacere a
morte Michelstaedter, condannandolo ad un’inerzia silente ben peggiore della quiete
mortale del suicidio. Che importanza può avere un tale episodio, ammesso e non concesso
che sia avvenuto come è stato detto 74, che non concerne in ogni caso che una frazione, e
73
C. Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, cit., p. 4.
74
È stata mai fatta una verifica sugli atti giudiziari relativi al suicidio di Carlo Michelstaedter? Eppure, essendo il
suicidio un reato per il codice austro-ungarico, avrebbe dovuto esserci l’apertura di un’inchiesta formale, con i
relativi documenti. Se questo non fosse, come si può parlare di certezza del suicidio? Solo affidandosi alle
dichiarazioni della famiglia? O addirittura a quelle di conoscenti che già avevano preso strade diverse e
secondaria, di un percorso di vita? Si è ricostruito il lavoro di Michelstaedter a partire da
questo evento, ridefinendone retrospettivamente le traiettorie, letterarie ma anche
esistenziali, sotto forma di un destino. L’attenzione che la critica ha rivolto al suicidio è la
miserabile curiosità riservata ad un caso umano, commovente perché perfettamente
conforme ai cliché del patetico. Non abbiamo che abbozzi di lettura, qualche raro esercizio
più rispettose dell’opera e della vita. Ma in una palude di pregiudiziale sentimentalismo,
strumentale, morboso ed affettato. Michelstaedter non è ancora stato letto. È morto, come
milioni, miliardi, di altri uomini. Che significato può avere un avvenimento così comune, così
ordinario, così insignificante, in rapporto a quanto un’applicazione produttrice ha realizzato,
di cui non è che la privazione fisiologica? Si può parlare della morte a partire dal decorso di
una presenza al mondo, così come si verifica il mutamento di una formazione biologica
attraverso i suoi stadi organici. Letti a partire dalla fine, le traiettorie di uomo, di uno
scrittore, si concludono sempre nel cerchio chiuso dello stesso schema astratto: le
proporzioni sempre mancanti della durata di un’entità contingente, rispetto allo scorrere
infinito del tempo. Significa non vedere, di una realtà, che la sua finitudine di fronte
all’assoluto metafisico, lo sbarramento che gli impone la sofferenza del terminare. Significa
non considerare che la fuga dell’essere che abbandona la vita nello sgranarsi degli istanti
passati, svuotati da quelli futuri. L’’opera e gli atti sono cancellati, momenti inessenziali, o
semplicemente accessori, della morte.
La litania della finitudine75 satura gli esercizi lamentosi della critica italiana. Ma
Michelstaedter ha prodotto una scrittura esattamente contro tale ideologia mortifera. La
risposta alla sua eversione, che lo condanna a morire perennemente, è stata piena di rabbia,
ancora più cieca e sfrenata per il fatto di colpire, in assenza, un’opera così priva d’impatto da
essere una presenza già sepolta. Ed è proprio questo scatenamento ottenebrato d’ira, a fare
morire una azione trapassata da vivente, ne mostra la natura avversaria ed irriducibile. A
partire dal primo articolo di Papini, tutti i commentatori si sono accostati a Michelstaedter
per farne una salma, per farne la lettura un salmo funebre, per renderne il testo, coperto
dalle ceneri del cadavere, il resto polveroso di un epitaffio. La critica ha combattuto con
l’arma della morte l’opera viva di Michelstaedter. La morte, data con gesti pietosi ma non
meno omicidi, è stata l’arma che ha sotterrato l’opera di Michelstaedter. Poi, l’ideologia dei
critici si è appropriata delle sue vestigia. La finitudine ed il patimento esistenziale dovevano
farne soccombere l’azione, sopraffatta dalla verità – religiosa, in ultima istanza – del
rapporto tra “uomo” e “mortalità”, destinata a governare il pensiero, che sia in termini
storicistici, come “alienazione”, o teologici. Michelstaedter è stato condannato ad essere la
rappresentazione mummificata dei dogmi della lettura edotta, l’esempio immolato sul
patibolo dell’interpretazione. Attraverso il cadavere di Michelstaedter, è la voce imperiosa e
totalitaria della critica che parla. Perché ricostruire la formazione della sua frase, il suo stile,
l’evoluzione delle forme e la gestazione dei temi, se questa scrittura non è la bara che
rinchiude una macabra vittima della finitudine? Il piccolo saggio di Papini 76, uno dei maestri
di simile metodo imperialistico applicato all’analisi letteraria, è un esempio patente di come
l’opera di Michelstaedter sia stata ricoperta di ideologia.
La posizione che sancisce la fine metafisicamente esaltata di un morente segnato, e
l’esumazione dell’esistenza esangue di una morte destinata: questo è l’articolo di Papini.
lontane? La morte di Michelstaedter attende ancora un chiarimento definitivo. Per non parlarne più oltre.
75
Tale prospettiva a molti rapporti impliciti con l’approccio del “rispecchiamento realistico”. Su questo, F.
Bertoni, Scene della vita privata, in, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Torino, Einaudi 2007, pp. 155–
163.
76
G. Papini, Carlo Michelstaedter, in, 24 Cervelli, Firenze, Vallecchi 1924, pp. 171–178.
Esso apparve il 5 novembre 1910 ne «Il Resto del Carlino». Quale motivazione avrebbe
potuto spingere Papini ad occuparsi di un ragazzo che nessun appartenente alla cerchia
dell’”intellighenzia” fiorentina conosceva, a parte Bastianelli, uno studente come tanti,
neanche italiano, un giovane anonimo, senza nessuna notorietà? Papini non conosceva
Michelstaedter. Lo confessa lui stesso. Non l’aveva mai incontrato. Non ha alcuna notizia di
quello che faceva, della sua attività di scrittura, delle sue posizioni. Il decesso di
Michelstaedter avviene a Gorizia. La notizia della morte è data dalla stampa locale, nelle
pagine della cronaca. Nessun accenno ne viene fatto nell’informazione nazionale. È
altamente improbabile - è un eufemismo ironico - che Papini leggesse abitualmente giornali
friulani. Ed è altamente improbabile che abbia potuto leggerli, anche volendo. Non esisteva
distribuzione nazionale di giornali locali, meno ancora di quelli di uno Stato straniero – e
quasi nemico -. D’altra parte, anche volendo ammettere – ma è un’apagogia – che i
quotidiani di Gorizia e Trieste fossero arrivati a Firenze, nel 1910 la diffusione della stampa
non era rapida come ai giorni nostri. In più, Gorizia era una città dell’Impero Austro-
Ungarico, uno statuto che rendeva ancora più difficoltoso farne circolare i giornali, pubblicati
oltre frontiera. I quotidiani che riportavano la morte di Michelstaedter avrebbero potuto
raggiungere Firenze ben più tardi della data dell’articolo di Papini, al limite, proprio dando
spazio all’ipotesi di una straordinaria velocità logistica, avrebbero potuto arrivare giusto
intorno al 5 novembre. «Il Resto del Carlino» era, come è, un quotidiano di Bologna: come
avrebbe potuto Papini, ammettendo una sua fulminea presa d’interesse per un adolescente
goriziano sconosciuto morto come tanti altri, leggere la notizia, ed il giorno stesso, anzi
quello precedente, contattare la redazione, redigere il pezzo, inviarlo a Bologna via posta,
ricevere la bozza, eseguire le eventuali correzioni, comunicarle, e dare il “si stampi”? A
maggior ragione se fosse stata la redazione, folgorata dalla notizia ed illuminata
subitaneamente dalla luce di una scoperta, a dare l’incarico a Papini – visto pure che, al
tempo, le abitazioni non erano dotate abitualmente di telefono. Come avrebbe potuto uscire
un articolo sulla morte di Michelstaedter a così breve distanza dal fatto, nelle condizioni
dell’epoca? I critici, di cui Campailla e Pieri 77 sono i campioni, non sono stati neanche capaci
di commisurare le loro affermazioni con la realtà della situazione. E così dimostrano il loro
profondo, stolido, pregiudizio.
Quindi, chi ha potuto parlare di Michelstaedter a Papini? Nell’articolo, non fa menzione
esplicita della sua fonte, riportando un vago fantomatico “qualcuno” non identificato. È
facile dire che sia tratti di Bastianelli, conoscente di Michelstaedter e membro de «La Voce».
Come che sia, Papini non lo dice. Evidentemente, non gli importa. Non gli importa dare alcun
riferimento reale: di conoscenza reale. E nessuna conoscenza reale possiede di quest’uomo
morto in una piccola città di provincia dall’altra parte del confine. La sua tirata
magniloquente è rivolta ad una proiezione scaturita dalle sue visioni. È una rappresentazione
fantasiosa ed astratta animata dai suoi preconcetti. E dall’articolo di Papini fino alla raccolta
di saggi celebranti il centenario della morte 78, ed ancora oltre, fino ai saggi critici dell’oggi,
chi ha scritto su Michelstaedter ha steso la narrazione effimera di un personaggio
immaginario modellato per essere ucciso.
Il corpo dell’opera di Michelstaedter ha subito la medesima offesa. L’edizione Adelphi delle
opere complete, mai completata e non a caso, è illeggibile. E, abbattuto dall’ideologia della
critica, il testo di Michelstaedter, e lui stesso, sono fatti perire soli, oggi come allora, colpiti
77
S. Campailla, Pensiero e poesia di Carlo Michelstaedter, Bologna, Patron 1973; S. Campailla, Ai ferri corti con
la vita, cit.; S. Campailla, Un autore postumo, in, La Persuasione e la Rettorica, cit.; P. Pieri, La scienza del
tragico. Saggio su Carlo Michelstaedter, Bologna, Cappelli 1989.
78
L'inquietudine e l'ideale. Studi su Michelstaedter, a cura di Fabrizio Meroi, Pisa, ETS 2010.
dalla mano degli imperativi totalitari contro cui hanno portato il loro lavoro del conflitto e
dell’amicizia. L’opera e la vicenda esistenziali sono stati attinti fino a schiantare senza vita
dalle aggressioni subite dai loro avversari naturali. Ma anche dalle defezioni di coloro che
facevano parte dei loro ranghi. Gli amici degli anni fiorentini sono stati i primi ad
abbandonarlo. Chiavacci79 ed Arangio Ruiz fanno circolare un’antologia degli scritti di
Michelstaedter composta secondo i criteri ideologici della metafisica esistenziale-
spiritualistica d’impronta gentiliana. L’alterazione che inquina e falsifica la pagina, e la vita, di
Michelstaedter si afferma. Essi non contraddicono le opinioni di Papini. Al contrario, il loro
trattamento segue lo schema dell’articolo de «Il Resto del Carlino», che essi
approfondiscono e sviluppano. Michelstaedter diviene un idealista proto-fascista 80. Più tardi
sarà presentato come la carcassa grottesca di un’esistenzialista ante litteram, reperto
antecedente una posa stereotipata a venire, ancora più macilento per la nevrosi che lo ha
eroso. Gli amici, con Papini, hanno esibito il morto e chiuso la cassa, dove hanno calcato
sprezzanti il piede i critici fino ai giorni nostri.
Tutti questi sono stati gli esecutori spietati di un atto assassino. Gesto guerresco, in senso
strettamente militare, con cui lo spazio d’azione e di scrittura di Michelstaedter sono stati
aggrediti ed uccisi. E quindi lasciati al marcire dei privati di storia.

1.5 Di fronte alla morte, il silenzio. La critica e la ricezione dell’opera.

I critici contemporanei di Michelstaedter hanno seguito il solco della lettura suicidaria. Li


si può suddividere in tre raggruppamenti, corrispondenti alle tre principali correnti
ideologiche della critica letteraria italiana. Tali tre orientamenti sono stati identificati da
Luperini nel suo saggio – notevole – sulle ideologie di riferimento degli studi di italianistica,
con cui si conclude la sua opera Il Novecento81. Analizzando l’evoluzione della critica italiana
dal dopoguerra, Luperini scrive: “La critica letteraria nel suo complesso diviene una
specializzazione interna alla divisione sociale del lavoro e alla produzione della cultura
capitalistica. Cessa d’essere un genere letterario in senso umanistico e si trasferisce in
laboratorio. Come ha detto Contini (…) non è più un equivalente letterario del mondo
poetico analizzato (né, tanto meno, aggiungeremo noi, lo passa a contrappelo da un punto di
vista politico – teorico alternativo, come avrebbe voluto Benjamin), ma tende a una
«esecuzione» del testo. A partire soprattutto dagli inizi degli anni sessanta essa aspira a un
sempre maggiore rigore metodologico e scientifico che la dislochi all’interno del sapere
borghese e che di fatto tende a trasformarla in attività descrittiva e catalogante, cosicché la
diffusione di una prassi di tipo sempre più sperimentale (con una caduta delle visioni

79
Chiavacci dedica diversi saggi a Michelstaedter. Tra gli altri, Michelstaedter e il problema della persuasione,
in, «Leonardo», XVI (1947), pp. 129–146; L’individuo, in, «La Fiera letteraria», VII (1952), 28, p. 4; Il pensiero di
Carlo Michelstaedter, in, «Giornale critico della filosofia italiana», V (1924), 1, pp. 36–48, 2, pp. 155–168.
Su questo, cfr. A. Russo, Gaetano Chiavacci interprete di Michelstaedter, in, La via della persuasione. Carlo
Michelstaedter un secolo dopo, Padova, Marsilio 2012, pp. 111-131. L’articolo in questione è un perfetto
prodotto dell’ideologia spiritualistica reazionaria applicata a Michelstaedter ed alla vicenda dei suoi prossimi.
Lavoro perciò inutile, se non fosse che mostra il completo campionario delle deformazioni ideologiche sotto cui
è seppellito Michelstaedter morto.
80
V. Arangio–Ruiz, Introduzione all’attualismo, cap. II, L’attualismo di Carlo Michelstaedter, in, AAVV, Giovanni
Gentile. La vita e il pensiero, Firenze, Sansoni 1954, pp. 18–31.
81
R. Luperini, Tendenze attuali della critica e ipotesi sul presente, in, Il Novecento, II, Firenze, Loescher 1981, pp.
874–898. Sulle posizioni ideologiche concernenti la storia della critica in generale, cfr. R. Wellek, Une histoire
de la critique moderne. La critique française, italienne et espagnole (1900–1950), tr. fr. E. Sturm, Paris, José
Corti 1996; F. Marcoin e F. Thumerel, Manière de critiquer, Arras, Presses de l’Université d’Artois 2001.
ideologiche totalizzanti tipiche dell’idealismo e dello storicismo, anche marxista), che di per
sé potrebbe costituire un fenomeno positivo, sia accompagna in realtà al venir meno di una
tensione dialettica e a un uso sempre più parcellizzato e tecnicistico (e non importa se
interdisciplinare) di strumenti d’approccio di tipo apparentemente «neutrale» o avalutativo,
che unificano le varie branche della disciplina e vanificano la tradizionale distinzione fra
critica accademica e critica militante”82.
Va detto, seppure in termini di accenno, che la questione del rapporto tra sviluppi
metodologici e ricadute politiche della critica letteraria italiana ha termini molto più
articolati e complessi. Luperini, pur volendo sottolineare la costituzione storica della critica,
pone, come cause e referenti di correnti peraltro estremamente diversificate, due grandi
gruppi socialmente connotati. Definisce in sostanza la dotazione gnoseologica degli
orientamenti critici in relazione alla posizione sociale – che per Luperini corrisponde
meccanicamente al posizionamento politico se non alla politica in se stessa -, che esse hanno
introiettato sotto forma di categorie estetiche. La “borghesia” e la “classe” divengono, nello
schema di Luperini, principi universali a priori, istanze formali e sostanziali che fondano la
corrispondenza tra produzione artistica, oggetto reale e campo storico. Queste strutture
trascendenti distribuiscono, secondo questo approccio, la realtà in due poli costituenti in
opposizione dialettica, disputantesi l’organizzazione dell’essere. Tali principi si dispongono
l’uno di contro all’altro, rivaleggiando per la gestione dell’esistente attraverso gli organismi,
sorti dalle loro proiezioni sociali, dello Stato. Lo Stato è l’insieme organizzato tramite cui i
predicati ontologici si traspongono in ordine storico. Formazione spirituale tanto quanto
reale, esso riconduce le proprietà delle due essenze nei procedimenti regolamentati che ne
embricano le manifestazioni reali. Lo Stato è la struttura che riunisce i due principi in uno
spazio di presentificazione unificato, espressione immediata del loro attributo primario: la
sovranità su ogni emergenza storica, in quanto manifestazione derivata. La forma specifica
presa dallo Stato, configurazione modulata dalle evoluzioni della dialettica, afferma la
preminenza del costituente vittorioso. È l’impianto dello storicismo di Gramsci, che Luperini
modernizza in termini classisti, se non, surrettiziamente, operaistici. Almeno ad una prima
lettura. Ma ad uno scavo più profondo emergono ulteriori elementi, più determinanti
proprio perché più occulti.
Questa visione schematica e riduttiva della storia, così come l’ontologia semplificata che la
fonda, impedisce una valutazione realmente efficace della critica. È infatti impossibile,
dall’impianto categoriale di Luperini, spiegare il fatto della critica in relazione alla sua natura
di processo teorico e di applicazione culturale, cioè di pratica interna al dominio del
significante ed alle sue formazioni, dalla composizione specifica e dalle dinamiche proprie. La
prospettiva di Luperini, così come qualsiasi generalizzazione metafisica, è incapace di
spiegare le differenze tra approccio ed orizzonte, di coglierne le problematiche generatrici, e
di comprenderne le variazioni. La storia della critica diviene l’epifenomeno piatto
dell’interazione di due formazioni ideali speculari, l’una uguale e contraria all’altra, cioè un
momento della scaturigine secolare che deriva da un’evoluzione speculativa necessaria. Si
tratta di un modello – formalista -, che diviene metodo, di chiara impronta crociana: la storia
della critica, così come quella della letteratura, non sono che una parusia di forme-concetti
sostanziali, nel loro decorso storico. Luperini commette lo stesso errore che rimprovera ai
critici italiani.
82
Ivi, p. 875. Luperini continua: “Le differenze di cultura, di metodo e di oggetto dell’analisi non passano più,
infatti, attraverso questa distinzione, né esiste oggi nel nostro paese una critica militante con funzioni
d’avanguardia o di rottura (come succede invece in Francia) nei confronti della critica accademica”. Una delle
finalità della presente tesi è di proporre elementi capaci di colmare questo vuoto.
Il conflitto tra fattori di storicizzazione eminenti veicola le modulazioni della dialettica
trascendente, dalle apparenze di processo sociopolitico. Il confronto negativo determina la
posizione di ogni elemento, ne decide il ruolo e l’efficacia: ossia il genere di effettuazione
reale che rappresenta. Applicato ai modelli critici, il contrasto dialettico diviene una
categoria epistemologica esplicativa.
Comunque, la centralità epistemica dello scontro, seppur tra nuclei storici superiori,
permette a Luperini di analizzare produttivamente le frazioni della critica letteraria italiana.
E, per quanto in relazione al ruolo conoscitivo della dialettica storicistica, la classificazione di
Luperini ci è utile per distinguere le modalità di lettura dell’opera di Michelstaedter. Luperini
riscontra nella critica italiana tre correnti ideologiche:

1) Una corrente formalista, nel senso del formalismo semiologico o del formalismo
psicanalitico83;
2) una corrente strutturalista, in cui agisce uno schema di relazioni funzionali interne ad
una combinatoria di categorie rigide. Luperini vi comprende la neoavanguardia del
gruppo ’63 e la teoria delle “poetiche” di Anceschi, di ispirazione fenomenologico-
saussuriana84. Vi aggiunge anche le estetiche sorte dal marxismo “operaista”, il cui
maggior esponente è Asor Rosa. A partire dagli anni ’90, fino ai giorni odierni, questo
approccio si sparpaglia nelle ramificazioni della critica postmodernista;
3) una corrente cattolica, dove sussistono due tendenze: una neotomista; l’altra
agostiniana.
I travisamenti della critica non possono che condurre ad un esito negativo, opposto alle
intenzioni manifeste, conseguente invece ai presupposti ideologici: coprire il testo, ossia,
renderne impossibile la lettura. La posizione di Luperini è netta, ma non di meno giusta.
Potremmo applicarla a tutte le tipologie da lui presentate, non solamente a quella in cui
rientra il sottogruppo marxista: “Le tendenze in esso oggi prevalenti rischiano di perpetuare
una dicotomia tra valutazione dell’arte come forma e valore estetico e dunque come
fenomeno da analizzarsi soprattutto nell’emittente e un’altra che la considera
eminentemente dal punto di vista del destinatario o del codice: nel primo caso si vede
prevalentemente il momento individuale e si rischia di restaurare, elevandolo a valore, un
soggetto (e con esso l’unità e la coerenza della forma) che in realtà tende a venir meno e a
sussistere solo nei modi della divisione sociale e della scissione psicologica; nel secondo si
rischia di riflettere soltanto un processo sociale, la reificazione, la caduta del valore e
l’avvenuta sostituzione del valore d’uso col valore di scambio, che riduce il fatto estetico a
merce e l’attività artistica a lavoro alienato. Vale la pena d’osservare che la tendenza
attualmente prevalente è la seconda, che viene oggettivamente a coincidere con la riduzione
«scientifica» e tecnicisticamente neutralizzante dell’opera d’arte messa in atto dalla
semiocritica: la «morte dell’arte» viene non solo accettata, ma promossa e accelerata. È la
spinta alla «americanizzazione», presente anche nella critica marxista” 85.
La ripartizione di Luperini è uno strumento efficace per individuare le interpretazioni
dell’opera di Michelstaedter. Esse si articolano tutte a partire dell’idea-base dell’articolo di
Papini: il suicidio metafisico. Le differenze non specificano infatti che un’unica visione
83
Tali metodiche sono state classificate da Raimondi, con maggiore precisione, in: tendenza “metaforico-
ontologica”, “tematico–psicanalitica” e “mitico-rituale”, E. Raimondi, La critica simbolica, in, AA VV, I metodi
attuali della critica in Italia, Torino, Einaudi 1970.
84
L. Anceschi, Le poetiche del Novecento in Italia. Studio di fenomenologia e storia delle poetiche, Padova,
Marsilio 1990, pp. 3–18.
85
R. Luperini, Tendenze attuali della critica e ipotesi sul presente, in, Il Novecento, cit., pp. 897– 898.
dominante, di cui i pochi passaggi citati – sempre gli stessi, sintomo che da solo vale una
conferma – sono considerati essere la verifica.
Un primo gruppo di commenti riconosce in Michelstaedter i segni dell’apostolato laico.
L’opera è letta come una glossa, certo sofferta e internamente lacerata, dell’etica cristiana. I
temi che vi si riscontrano attingono al bagaglio figurativo e culturale della creaturalità: la
decadenza, la deiezione, la perdizione, la finitudine. I testi michelstaedteriani sono la
testimonianza di una coscienza religiosa implacabile, che vive fino in fondo, radicalmente, il
destino mortale dell’uomo. Esso è un essere creato. La sua contingenza, la sua morte, è il
simbolo per eccellenza della sua origine: il suo essere mortale proveniente dall’atto
volontario di Dio che lo chiama alla vita come entità inferiore e fugace. La fine è l’epifania del
fondamento trascendente. Morire attesta l’onnipotenza del Signore. Di conseguenza, la
scrittura diviene il prolungamento del vissuto caduco che, con un gesto riflessivo del
pensiero, raggiunge la conoscenza della sua condizione. L’essere superiore si manifesta in
immagine terrena nell’uomo. Il volto umano riproduce le fattezze dello Spirito nel suo farsi
carne mortale, donandosi. Le espressioni dell’intelligenza terrena, quale è l’arte, emanano
allora dalla spiritualità che modella gli esistenti, e di cui essi restituiscono, nella sua purezza
di ideale fondatore, la presa della volontà eminente, che ne concepisce la matrice. Gli slanci
dell’anima compiono lo stesso “fiat” dell’essere superiore. Le loro creazioni ne sono la
riproduzione seconda, un rituale che ne mostra la primarietà e, allo stesso tempo, ne
esprime la gloria. Così l’arte adora e ringrazia il creatore, riportando di fronte alla vista delle
creature la loro condizione di generati. L’opera è la celebrazione di un sacramento, la pratica
del dovere di obbedienza al dettato divino, che conduce gli esseri di fronte alla maestà del
Signore.
Declinando in forma materiale la sua essenza eminente, l’azione creatrice di Dio
genera un mondo fedele alla sua perfezione, ossia all’integrità che appartiene alla sua
sostanza. Scrivere, egualmente a tutte le scintille di trascendenza erompenti dal profondo
dell’uomo, significa declamare la buona parola che assegna le destinazioni della grazia che
investe le creature. Le parole sono esseri intermediari, semi-mondani e semi-spirituali –
“angeli”, per usare una figura cara a Cacciari –, che portano ovunque la parusia della
coscienza suprema. La scrittura è il l’eco di questo “Verbum” eminente e primordiale, che
modula i viventi come le armonie spirituali fanno risuonare la carne mistica di Dio.
Lo scrittore è il messaggero del sapere che riverbera le cifre della realtà in accordi sonori di
parole, così come esse fioriscono nell’intellezione del Padre. È il “sacerdos”, lo scelto che,
con la sua mano, la sua bocca e le sue idee, compie il servizio sacro a Dio. La creazione
letteraria, scaturigine dello spirito, risuona a partire dalla più alta ragione divina e si diffonde
nell’immanenza attraverso le anime elette. Con l’arte esse proferiscono le sinfonie di essenze
in cui vibrano le donazioni esemplari dove si svolge il legame filiale tra divinità e creature,
vivificazione continua degli esseri capace di rendere la morte un’inflessione dell’essere
creato. È tale musica santa, dottrina celeste, destinata da Dio agli uomini come patto e legge,
che s’incarna nella creazione testuale. Questa prospettiva vede in Michelstaedter un
maestro ed un attore pastorale, un diacono evangelizzatore portatore della buona novella.
Le sue opere percorrono il decalogo delle sofferenze che opprimono la vita dei mortali per
imprimere in essi la sinfonia gioiosa e magnifica del divino creatore. Solo un atto di
conoscenza divide l’uomo dall’eternità: la letteratura è il richiamo sublime che attraversa le
afflizioni del mondo generato per la fine, così da sollevarlo alla gloria celeste. Trasfigurando
con tale parola sacra, modulante la melodia dell’essere, la morte in vita eterna, la letteratura
sancisce la relazione parentale tra origine e creatura. Essa è il mezzo per superare le
contraddizioni del reale e toccare un livello più essenziale, più vero, in cui la vita non
conosce, nel suo venir meno, la permanenza infinita dell’essenza.
Tale lettura di Michelstaedter è quella predominante. Essa è anche quella che riprende in
maniera più esplicita la concezione di Papini, che è appunto il primo a definirne i termini. E,
infatti, essa è la prima, quella che marca l’inizio della discussione intorno all’opera,
delimitandone quindi il campo di ricezione e la sua organizzazione interna. Con essa quindi il
testo viene, con un gesto primo ed ultimo pari ad un atto rituale, cannibalizzato nella
transustanziazione falsificatrice che lo fa sparire, rendendolo altro da sé. Questa lettura ha
posto le principali omissioni che hanno permesso la composizione di un’immagine fittizia,
sostituto effimero che ha dato corpo all’ingestione del testo. Tra i critici che ne sono stati gli
esecutori, possiamo indicare: Amendola86, Magris, Arata87, Carchia88, Cerruti89, Moretti
Costanzi90, Raschini91, Micheletti92 - particolarmente notevole nel fervore che gli fa vedere un
Michelstaedter platonico agostiniano della sorta di un Bonaventura redivivo -.
Il secondo tipo di lettura risponde al canone che Luperini definisce “strutturalista”.
L’opposizione tra “persuasione“ e “rettorica” è interpretata come coesistenza antagonistica
tra un substrato trascendentale, una forma-Soggetto sorgente d’infinite possibilità di
attivazione, e la sua sostanza sociale. Essa risponde ai meccanismi ed alle modalità della
riproduzione sociale, secondo i termini di regolazione determinati dalle facoltà dell’essenza
noetica. L’essere sociale, avente natura più materiale che umana, è il momento inferiore di
tale coscienza primaria. Esso ne rappresenta il grado di esistenza più basso,
l’esteriorizzazione inerte perché meramente oggettiva, mancante quindi dei caratteri
affermativi della mobilizzazione volontaria. Sfociando in profili collettivi empirici, la vita del
Soggetto agente si spegne in un’inazione pietrosa. Le posture sociali sono stazioni irrigidite
nelle quali la coscienza si cristallizza, spargendosi in un ammasso immobile di spezzoni
induriti. Gli atti del Soggetto, perduta la loro infinita capacità di agire, si rinchiudono nel loro
isolamento, individuati perché passivi, implosi in se stessi come cose inanimate. La
“persuasione” è la categoria della soggettività attiva. Il Soggetto “persuaso” è una forma
d’espressione trascendentale che corrisponde perfettamente all’inesauribile effusione
dell’intenzionalità sovrana. La sua esistenza coincide con l’animazione assoluta, nella quale
essa attua la capacità di trascendere ogni atto con una nuova effettuazione.
Viceversa, la “rettorica” è una meccanica obbligante in cui il Soggetto si aliena da se stesso.
Una volta solidificato in avvento sociale, nel gesto non si dà più la valenza esponenziale del
86
G. Amendola, Carlo Michelstaedter, in, Etica e biografia, Milano, Ricciardi 1953 (nuova edizione), pp. 161–70.
87
C. Arata, Il rapporto esistenza–trascendenza e la non assurdità della «speranza»: appunti per un dialogo con
Carlo Michelstaedter, in, La filosofia della Mitteleuropa, Atti del IX Convegno culturale mitteleuropeo, Gorizia,
Istituto per gli incontri Culturali Mitteleuropei 1981, pp. 263–270.
88
G. Carchia, Linguaggio e mistica in C. Michelstaedter, in, «Rivista di Estetica», 9, 1981, pp. 126–132.
89
M. Cerruti, Carlo Michelstaedter, Milano, Mursia 1967.
90
T. Moretti Costanzi, Un esistenzialista ante litteram: Carlo Michelstaedter, in, AA VV, L’esistenzialismo, a cura
di L. Pelloux, Roma, Studium 1943, pp. 159–172. Cfr. anche, Significato di una metafisica, in, «La Fiera
letteraria», VII (1952), 28, pp. 4–8; apparso in seguito con il titolo, Il personalismo di Michelstaedter, in,
Meditazioni inattuali sull’essere e il senso della vita, Roma, Arte e Storia 1953, pp. 135–139.
91
M. A. Raschini, Carlo Michelstaedter, Milano, Marzorati 1965; Note su Carlo Michelstaedter, in, «Giornale di
metafisica», XIV (1959), 5, pp. 658–676; Rilettura di Michelstaedter, in, Dialoghi intorno a Michelstaedter, a
cura di S. Campailla, Biblioteca Statale Isontina, Gorizia 1987, pp. 89–96. Nello stesso volume sono presenti
diversi saggi di tendenza religiosa, tra gli altri ci limitiamo a citare quello di P. Bernardini, Dell’attimo come
kairos. Aspetti del problema del tempo nell’Epistolario di Michelstaedter, in, Dialoghi intorno a Michelstaedter,
a cura di S. Campailla, cit. pp. 97–119.
92
D. Micheletti, postfazione a, C. Michelstaedter, L’anima ignuda nell’isola dei beati: scritti su Platone, Reggio
Emilia, Diabasis 2005, pp. 147–206.
principio. Resta prigioniero della materia stolida, travolto dalle spinte cieche che fanno
cadere gli esseri, cristallizzati, gli uni sugli altri. L’azione diviene una sequela ineluttabile, un
risultato di contraccolpi irriflessi che fanno muovere esistenze inerti. Il mondo della
“rettorica” si svolge come un sistema fisico, in cui il Soggetto, ridotto a presenza inanimata,
perché involontaria e ottusa, di un oggetto, perde le sue proprietà generatrici.
Lette come i termini liminari di un’ontologia fenomenologica, la “persuasione” e la
“rettorica” divengono le categorie cardinali di un’analitica generale della soggettività
trascendentale – ciò che, appunto, Luperini definisce, impropriamente, “strutturalismo” - .
Esse assumono i tratti e gli andamenti delle forme categoriali, modi della coscienza
costituente che ne definiscono le due condizioni polari. Ma tale investigazione a priori sulle
strutture del Soggetto prevede, per necessità logica, una chiarificazione preliminare della
sostanza che ne fonda la realtà. La cognizione delle configurazioni trascendentali impone
un’azione teorica preparatrice, di eguale matrice soggettiva, che porti sull’essenza cardinale.
La ricerca intorno alla soggettività raddoppia allora la sua importanza: il Soggetto è
l’obiettivo cui mira l’interrogativo ontologico, ma è anche la porta d’accesso tramite cui è
possibile esplorare, senza perdersi, il labirinto dell’”Ego”. L’”Io” formale è lo sguardo e lo
specchio. Esso capta i riflessi sprigionati dalla coscienza prima e ne riflette le propagazioni.
Allo stesso tempo, si presenta come la vista profonda ed allargata che ritorna sui suoi organi
per coglierne l’architettura. Il Soggetto è il testimone intimo, la percezione privata tramite
cui l’”Ego” in persona si rappresenta il suo apparato. Questo sguardo introspettivo che l’”Io”
porta su se stesso diviene il marchio speculativo che ne conferma le attribuzioni. La
riflessione che la coscienza conduce, senza uscire dalla sua interiorità, ne attesta la natura di
principio eminente. L’essere è decisione volontaria, e la deliberazione posizionale è la
verifica continua del carattere originario ed inaugurale della soggettività. L’”Ego” è l’entità
concreta ed ideale che esplica l’esistenza e le connotazioni trascendentali delle sue
manifestazioni. Il pensiero che doppia l’ideazione del Soggetto sfocia finalmente in un
decorso metafisico che assume l’aspetto di ricognizione degli assi fondamentali dell’essere.
Da un lato viene seguita, a ritroso verso l’interno, l’estroflessione del principio; dall’altro, si
accompagna in senso inverso, procedendo verso l’esterno, il ritorno sapiente dell’istanza
suprema nella sua intimità, per rifletterne, attraverso uno sguardo intellettuale, allo stesso
modo soggettivo, le sezioni. L’intellezione sovrana si rappresenta nelle prese pensanti della
“teoresi”. Conseguente con il suo andamento mimetico, il metodo speculativo dirige tale
analitica dell’essenza: l’equivalenza essere=pensiero ne è il presupposto e la chiave di volta.
A causa di tale associazione tra ontologia e conoscenza ultima, la maggior parte delle volte
agita senza alcuna consapevolezza, molti interpreti hanno letto la “persuasione” e la
“rettorica” come figure-orizzonte di una metafisica trascendentale 93. La “persuasione” e la
“rettorica” sono così state considerate termini categoriali della soggettività eminente. Gli
svolgimenti pensanti di ogni “Io” riflettente, che ne effettua le irradiazioni, si dividono tra
forma tetica attiva ed intenzionalità alienata in cosa. L’elaborazione concettuale, compresa
quella della critica, riproduce nelle sue attitudini tali modi costituenti l’essere, distribuendosi
tra irresoluzione deietta e profusione volitiva. Solo il Soggetto “persuaso” esiste veramente,
perché in lui la coscienza si sprigiona con la stessa plenitudine della sostanza.
Tale corrente d’interpretazione ha anche una variante. Secondo quest’ultima, il rapporto
antagonistico tra “persuasione” e “rettorica” non illustrerebbe una morfologia esistenziale.
In esso appare la scissione che separa la soggettività dalle sue flessioni immanenti. Il

93
Esemplare in questo senso, AAVV, L’aerostato di Platone. Carlo Michelstaedter e il Novecento filosofico
italiano, a cura di D. Calabrò e R. Faraone, Firenze, Le Lettere 2013.
passaggio terreno dell’”Ego” si divide tra non-vita e fuga estatica. Se il Soggetto è in sé
slancio creatore d’esistenza, esso è d’altra parte oppresso dal peso senza vita della sua
deriva materiale. La caduta dell’intenzione nella sensibilità condanna l’”Ego” alla sussistenza
impotente di un solido, movente per scatti reattivi, dalla spinta al trascinamento che ne
consegue. L’esistenza del Soggetto si lacera nello strappo che attinge la profondità della sua
essenza: l’inesausto scaturire e l’arenarsi degradante. Tuttavia, anche se l’”Ego” non può
mettere al mondo nient’altro che il dolore di una sussistenza rotta, in quanto essenza
conserva la sua perfezione. Grazie al suo potere sovrano, esso è in condizione di ricondurre i
suoi investimenti orfani, esausti, alla solidarietà sostanziale della sua sostanza. La frattura tra
pensiero e fatto è ricucita dall’azione stessa che, giunta al suo stadio più alto, ritorna alla sua
unità dopo la deiezione mondana. Questo recupero provvidenziale non avviene nella storia.
Esso si realizza solamente nell’oltremondo in cui la coscienza prima risiede nella sua pura
forma.
L’”Io” finito non ha la possibilità di saldare nell’immanenza della sua vita terrena,
manchevole e caduca, queste due parti di sé, nonostante che ne costituiscano l’esistenza.
L’”Io” è un’entità mortale, non può vivere che la scissione. Catturato nella schizofrenia di una
sussistenza perduta, il solo indirizzo che possa dargli una prospettiva di senso è dirigere i suoi
atti verso il termine finale. Le azioni dell’uomo devono puntare al ritorno alla volontà
superiore che ne conserva l’assolutezza di fondo totalmente agente, facendo della vita un
sepolcro santo, in cui le sue spoglie si disfino così da lasciar schiudere la sua forma spirituale.
Questo cammino di salvezza non dipende dalle sue scelte d’individuo alle prese con la realtà
di fatto. È il principio stesso che informa la sua propria decisione riconciliatrice, attivandosi
all’interno della coscienza immanente. Esprimendo le sue possibilità più alte in deliberazioni
mondane dalla qualità superiore, insieme spirituali e speculative, l’”Ego” supremo cancella la
cesura che divide l’esistenza tra livelli ontologici inconciliabili. Il Soggetto si fa carico dello
scarto infinito tra materia e spirito, riportandolo all’unità di un nucleo trascendentale liscio
tanto quanto fecondo. Tale perenne nostalgia, tale inesaurito desiderio di sé, della propria
superiore organicità generatrice, lo spinge a perdersi nella perfezione della propria essenza.
Il dolore del Soggetto, costretto dalla finitudine all’anelito verso se stesso, determina il
carattere tragico della sua condizione. Ed il “tragico” è la cifra che definisce questa lettura.
“Persuasione” e “rettorica” vi appaiono sempre come categorie filosofiche speculative,
rinvianti ad una dimensione metafisica essenziale. Ma esse non specificano le specie di una
sostanza, piuttosto la scissione tra alienazione ed infinito che l’attraversa. La nozione di
“tragico”, per questi commentatori, illustra completamente l’opera di Michelstaedter. I testi
spariscono, con la loro composizione interna, la loro lingua, le loro strategie linguistiche, e
con essi è rimosso l’attacco frontale alla categoria di “Soggetto” che essi contengono. Il
lavoro di Michelstaedter sparisce. Non resta che la metafisica sposata dal critico e le sue
procedure dimostrative. Le figure, il loro significato, le architetture stilistiche in cui operano, i
loro elementi, gli effetti che da essi agiscono nella scena dell’opera, sono ridotti a contesto di
una concezione estrinseca, a cui forniscono le scenografie, i tocchi estetizzanti, le
idiosincrasie formali, coloriture estemporanee della logica sapienziale di un testo
provvidenziale.
L’interpretazione, abusiva, della frase michelstaedteriana si svolge allora secondo tale
schema della struttura d’essenza. D’altra parte, una volta ammessa la costituzione
evenemenziale e scissa dell’essere supremo, le forme della soggettività di cui l’opera è la
mimesi non potranno che essere caratterizzate di conseguenza. Il Soggetto si suddivide tra
libertà e deriva cronica nell’ontico. In questi testi, estremamente ridotti e generici, sempre
superficiali e sciatti, dove le citazioni sono le poche impiegate ordinariamente – le stesse
identiche cui accennavamo a proposito del gruppo precedente -, si riscontra il debito verso
un immaginario metafisico esistenzialista. La categoria ontologico-trascendentale di
“tragico” si declina allora attraverso le immagini standardizzate della “perdita di sé”,
dell’”alienazione”, della “malafede”, della “serialità”, della “sterilità”. “Persuasione” e
“rettorica” vanno ad esprimere modi d’inadeguatezza. Esse rappresentano, in qualità
d’ideazioni speculative, vale a dire di categorizzazioni ontologiche e forme essenziali,
l’opposizione che rende il Soggetto estraneo alla sua sostanza trascendentale. L’”Ego” vive
nei suoi atti, può sentirli come espressioni del suo spirito fertile, della sua costituzione
donatrice, ma allo stesso tempo essi sono risucchiati, a causa della loro contemporanea
appartenenza all’ordine delle cose, di cui il corpo è la manifestazione, dalla gravità spenta
delle condotte sociali. Seguendo tale prospettiva, alcuni interpreti, come Morandini 94, hanno
sottolineato in Michelstaedter la presenza della categoria di “disagio della civiltà”. Il “me
stesso” delineato per tramite degli investimenti relazionali, sensibile perché espressione di
contatti tra corpi, resta effetto dell’inettitudine del contingente. Il “me stesso” sarebbe
questo “altro” mortifero che rimane sempre con noi, tormentandoci ossessivamente, ma
mantenendosi sempre a distanza in quanto responsabile anonimo ed impersonale, fatto
generico causato da fatti, della nostra degenerescenza. Il fisico e lo spirito appartengono a
mondi embricati ma incomunicanti. Nella società, l’uomo non si dà mai in qualità di persona.
La sua libertà si arena sulla resistenza dell’oggetto, in altri termini della vita, esclusivamente
esteriore, improduttiva, delle individualità soggette al regime causale dei processi fisici. Solo
un momento estatico, la “persuasione”, mai giustificato pragmaticamente, può iniettare
esistenza in tale alter-“Ego” cieco, proiettandolo verso la chiarezza fattrice dell’essenza.
Allora la realtà si trasfigura in simbolo vivente della capacità superiore.
La “rettorica” è questo mondo silenzioso in cui l’”Ego” individuale e le sue forme socializzate
non giungono mai ad una conformazione attiva, cioè trascendentale, all’altezza del Soggetto
sovrano. La stessa relazione tra parola e mondo crolla in seguito alla rovina del senso
prodotta dall’indifferenza tra “Io” e “me stesso”. Tiziana Salari scrive in un saggio che
potremmo considerare uno dei massimi esercizi dell’interpretazione “tragica”, cioè
metafisico-strutturalista: “È questa la vita, questo intreccio tra le pulsioni soggettive e la vita
della natura, anzi questa intima fusione di erbe, terra, insetti, uccelli, sole e vento e io? E
intorno a questo «io» s’insinua il dubbio, l’incertezza, si direbbe, sulla sua consistenza
empirica e sensoriale, rispetto a un «io» (trascendentale? Ideale? Altro?), altrettanto
inafferrabile, non posseduto. Il soggetto corpo/io, tratto verso l’alto dal volo dei falchi, ma
prostrato al suolo dalla forza di gravita, vive una desolazione tra quel languore dei sensi al
quale si è abbandonato e lo slancio ideale, mistico, verso un mondo superiore, di pura libertà
e bellezza intellegibile. Ma è uno slancio spezzato, un’attesa di vita di un soggetto spogliato
della sua consistenza di soggetto e sospeso nell’attesa di un evento che non avviene, come
se fosse stato approntato uno scenario per un dramma e la scena rimanesse desolatamente
vuota”95. Questo passaggio fa referenza ad una poesia del 1910, Risveglio96, da cui riprende
le immagini di ordine naturale. La lettura di Salari contiene tutte le connotazioni secolari
negative della “rettorica”, così come ne conservano il formalismo trascendentale. Al
contrario, rispetto alla “persuasione”, la visione è quella di un Soggetto che esiste nella sua
totalità assoluta quando le sue declinazioni tetiche si elevano dal mondo del dato. Queste

94
Citeremo più avanti il saggio di Morandini cui facciamo qui accenno.
95
T. Salari, Sotto il vulcano. Studi su Leopardi e altro, Soveria Mannelli, Rubettino 2005, p. 244.
96
C. Michelstaedter, Risveglio, in, Poesie, Milano, Adelphi 1987, p. 69–70.
agglomerazioni intorpidite che sono gli uomini transustanziano nella parabola speculativa
che va verso l’alto, rilanciata da transfert interni che depurano l’azione sino a ritornare al
nucleo realmente vivente, l’istanza ideale in cui esistenza e volontà non sono che uno. L’atto
che si sottrae all’immanenza, grazie al suo contenuto trascendentale, arriva alla fine a
ricostituire l’equivalenza tra essenza e finitudine. Il corpo, il “me stesso”, diviene uno
strumento dello spirito, indispensabile alla persona per costituire il suo “Umwelt” superiore,
il suo mondo-ambiente ideale.
La “rettorica” esprime questa distanza irreparabile tra “Io” e “me stesso”. Nel suo spazio, i
gesti non conservano nulla del senso dell’atto. Non vi resta che la nebulosa opaca
d’individualità rigide che si trasferiscono da una posa all’altra per impulsione ottusa.
Incapace di fluire in una proiezione incondizionata, gli esseri giranno a vuoto nella materia,
condannati al solipsismo del bisogno ed alle sue gioie effimere.
Dall’altro lato, la “persuasione” è una condizione di soggettivazione infinita. È un salto
mortale effettuato da una libertà senza barriere, che dà accesso ad una dimensione
soprannaturale, autentica in quanto ideale. Il Soggetto realizza atti della stessa verità
dell’essenza, che affermano la perfetta coesione di essere ed avvento, concentrati in una
volontà ampia tanto quanto la realtà sublime estratta dalla sua stessa mente. “Me stesso” e
“ragione d’esistenza” si sovrappongono in un’azione insieme concreta ed astratta. Lì, il
Soggetto si ama di un amore senza fini, unione perfetta di fondamento ed epifania. L’”Eros”
strabordante da questo “Io” infinitamente operatore crea l’universo celeste in cui si spande
ad ogni istante, imponendo alla vita di nascere allo stesso momento in cui la sua volontà ne
genera le apparizioni. Questo “Io” incarna allora la completa manifestazione del principio
nelle sue individuazioni attive.
Ciò che esiste mostra l’aderenza di idea e determinazione. Tuttavia, questo stato eccellente
non avviene all’esterno, aprendo lo spazio estrinseco di un contesto vissuto. Non sussiste
altra scena se non l’interiorità del Soggetto, luogo in cui se ne esprime la costituzione
trascendentale. Il Soggetto conserva la realtà nel suo cuore, sede sacra della funzione
espansiva superiore. L’”anima” riunisce le donazioni dell’”Io” come la tessitura di tutte le
circostanze generate da tale entità spirituale, che si offre in un solo contenuto articolato
indefinitamente. Le ekstasis soggettive acquisiscono lo statuto di “icone”, nel senso di
Pierce97. La “persuasione” è la “mise an abyme” dell’”Ego” che, sottratto alla finitudine,
riempie della sua filiazione immensa l’assoluto che esiste nel suo spazio intimo. Questo
ritorno alla sua radice profonda è il “dover-essere” che riconduce l’azione alla sua verità, alla
costellazione che gli appartiene ed alla vera forma dei suoi investimenti. La “persuasione”
assume il carattere di un’etica dell’identità, come dice Recalcati.
La “sovranità” del Soggetto emancipato dall’esistenza bruta, la “legalità” delle sue
declinazioni, l’”universalità” delle sue devoluzioni, sono nozioni morali. Ma esse non si
motivano in relazione alla storia o ad una pragmatica razionale. Si tratta di strutture
categoriali di una dialettica ontologica: “strutturale”. La metodologia di lettura risulta da tale
“semantica trascendente, il cui contenuto è determinato da due termini esplicativi: “nulla” e
“salvezza”.
L’alternativa tra “niente” e “riscatto” guida l’interpretazione tragica. L’esistenza è il dominio
del silenzio della vita, un universo in cui l’attività umana non si produce mai in effettuazione
agente. Raggiunta la condizione di puro spirito, il Soggetto è salvo. In Michelstaedter, allora, i
simboli del “tragico” svolgerebbero una metafisica laica della redenzione. Salari tratteggia
nel suo testo una genealogia della categoria di “tragico” nell’opera dell’autore goriziano. Gli
97
C.S. Pierce, Elements of logic, in, Collected Papers, Harvard, Harvard University Press 1960.
elementi di essa sono corretti, è il contenuto che viene loro assegnato ad essere del tutto
aleatorio, rispetto ai testi. Michelstaedter avrebbe trovato in Leopardi, ad esempio, i termini
di una visione dell’umanità alienata, che avrebbe poi sostanzialmente solo sviluppato. Fatto
salvo l’indubbio debito con Leopardi, delle cui dimensioni parleremo a lungo nel nostro
studio, rimane il fatto che in nessun modo l’umanità nei testi di Leopardi appare “alienata”.
Questa categoria semplicemente non si dà, nell’impianto di Leopardi. Così come non c’è
traccia, perché non può esserci, in Michelstaedter di un riferimento al “tragico”. Non se ne
danno, in quanto esterne alla sua problematica letteraria ed al suo dispositivo di scrittura, né
il lemma, né i significati ontologico-trascendentali. Raschini è accompagnata da molti altri
ricercatori, su questa pista di lettura: Borgese98, Tilgher99, De Ruggiero100, e, più focalizzati sul
momento “artistico”, Sapegno101, Magris102, Debenedetti103, Maier104 e Luti105. Questi ultimi
cercano addirittura di estrarre da una presunta assiologia soggettivamente speculativa gli
elementi di stile michelstaedteriani. I filosofi - Gentile 106, Capitini107, Luporini108, De
Monticelli109, Perniola110, Rovatti111, Carchia112, Curi113 et Cacciari114 - hanno cercato, con

98
G. A. Borgese, La vita nella morte, in, Studi di letterature moderne, Milano, Treves 1915, pp. 88–95.
99
A. Tilgher, Carlo Michelstaedter, in, Ricognizioni. Profili di scrittori e movimenti spirituali contemporanei
italiani, Libreria di scienze e Lettere, Roma, 1924 pp. 92–102.
100
S. M. De Ruggiero, Michelstaedter tra ontologia e nichilismo, in, Accademia di scienza morali e politiche. Atti,
Napoli, XCI 1981, pp. 407–428.
101
N. Sapegno, Compendio di storia della letteratura italiana, Vol. III, parte 2, Firenze, La Nuova Italia 1967, pp.
419–424.
102
C. Magris, Il poeta–filosofo malato d’assoluto, in, Eredità di Carlo Michelstaedter, a cura di Silvio Cumpeta e
Angela Michelis, Udine, Forum 2002, pp. 39–43; La letteratura del disagio, in, «Nuova Antologia», 124, vol. 561,
fasc. 2170, aprile giugno 1989, pp. 236–248; Un altro mare, Milan, Garzanti 1991 (saggio-racconto
estemporaneo ed effimero sul viaggio di Enrico Mreule, l’amico di Michelstaedter, in Argentina).
103
G. Debenedetti, Michelstaedter, in, «Primo tempo», I (1922), 6, pp. 106, apparso, rivisto, in, Saggi critici,
Firenze, Edizioni di Solaria 1929, pp. 33–46.
104
B. Maier, L’impegno morale di Carlo Michelstaedter, in, AA.VV., La letteratura triestina del Novecento,
Trieste, Edizioni Lint 1969, pp. 32–42; Saggi sulla letteratura triestina del Novecento, Milano, Mursia 1972.
105
G. Luti, Carlo Michelstaedter, in, Poeti italiani del Novecento. La vita, le opere, la critica, Firenze, La Nuova
Italia 1985, pp. 138–140; Michelstaedter e Firenze, in, Eredità di Carlo Michelstaedter, a cura di Silvio Cumpeta
e Angela Michelis, cit., pp. 43–56.
106
G. Gentile, Recensione a C. M., La Persuasione e la Rettorica, in, «La critica», XX, 1922, 4, pp. 332–336.
107
A. Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa, Bari, Laterza 1937; seguito da, Inediti di Michelstaedter, in,
«Letteratura», 1946, n. 1.
108
C. Luporini, Situazione e libertà nell’esistenza umana, Firenze, Le Monnier 1942.
109
R. De Monticelli, Il delirio di autenticità, in, L’ascesi filosofica, Milano, Feltrinelli, 1995, pp. 169–184; Il
richiamo della persuasione. Lettere a Carlo Michelstaedter, Genova, Marietti 1988.
110
M. Perniola, La «Persuasione» tra marginalità e centralità, in, Eredità di Carlo Michelstaedter, a cura di Silvio
Cumpeta e Angela Michelis, cit., pp. 202–208; Il forte sentire di Carlo Michelstaedter, in, «Alfabeta», 9 (1987), n.
102, pp. 24–25.
111
P. A. Rovatti, La parola del persuaso, in, Eredità di Carlo Michelstaedter, a cura di Silvio Cumpeta e Angela
Michelis, cit., pp. 209-210.
112
Carchia porta su Michelstaedter uno sguardo insieme religioso e formalista-strutturale. Citiamo qui solo i
saggi afferenti alla seconda tendenza: G. Carchia, Beneficio e persuasione in Carlo Michelstaedter, in, Eredità di
Carlo Michelstaedter, a cura di Silvio Cumpeta e Angela Michelis, cit., pp. 107–112; Linguaggio e mistica in
Carlo Michelstaedter, in, «Rivista di estetica», XXI (1981), n. 9, pp. 126–132; Retorica del sublime, Bari, Laterza
1990, pp. 20–28.
113
F. Curi, «Persuasione», «rettorica» e falsa coscienza, in, Eredità di Carlo Michelstaedter, a cura di Silvio
Cumpeta e Angela Michelis, cit., pp. 213-216.
114
M. Cacciari, Interpretazione di Michelstaedter, in, «Rivista di estetica», XXVVI (dicembre 1986), n. 22, pp. 21–
36; La lotta «su» Platone. Michelstaedter et Nietzsche, in, Eredità di Carlo Michelstaedter, a cura di Silvio
Cumpeta e Angela Michelis, cit., pp. 93–106.
accanimento, le radici platoniche della metafisica di Michelstaedter. Accanto a questi autori
più famosi, si trova un florilegio di ricercatori che hanno visto in Michelstaedter una
fenomenologia ontologica dell’alienazione. La “lezione” – riprendiamo questa parola da
Bernardi115 - michelstaedteriana consisterebbe nella ricognizione veggente dell’esistenza
snaturata dell’individuo umano in situazione. Presentiamo in nota i saggi più emblematici di
tale orientamento116.
Sempre seguendo la tripartizione proposta da Luperini, il formalismo psicanalitico
caratterizza la successiva corrente d’interpretazione. Il suo presupposto teorico è la
semantica introspettiva considerata esplicare l’opera attraverso l’analisi dell’”anima”

115
G. Bernardi, La lezione di Michelstaedter, in, «Annali dell’Istituto di discipline filosofiche dell’Università di
Bologna», 1987–1988, pp. 159–163.
116
P. Piovani, Michelstaedter: filosofia e persuasione, in, «Giornale critico della filosofia italiana», fasc. II, 1975,
pp. 315; A. Berardinelli, Tra il libro e la vita. Situazioni della letteratura contemporanea, Torino, Boringhieri
1990, pp. 177–179 e 185–189; C. Benussi, Negazione e integrazione nella dialettica di Carlo Michelstaedter,
Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1981, M. Bernardi Guardi, Carlo Michelstaedter. La persuasione, la retorica,
l’azzardo, in, Austria infelix. Itinerari nella coscienza mitteleuropea, Chieti, Solfanelli 1990, pp. 20–31; A.
Abruzzese, Svevo, Slataper e Michelstaedter: lo stile e il viaggio, Padova, Marsilio 1979; P. Amato, Il silenzio
della parola. Nietzsche e Michelstaedter, in, «Studi Goriziani», LXXXVI, luglio–dicembre 1997, pp. 129–142; id.,
L’attimo persuaso: filosofia e letteratura in Carlo Michelstaedter, in, «Studi Goriziani», LXXXIX –XC, 199, pp.
141–228; G. De Schiller, Persuasione e trascendenza nel pensiero di Carlo Michelstaedter, tesi di laure
presentata presso L’Università Cattolica del Sacro cuore di Milano, A. A. 1962–3, relatore il prof. Emanuele
Severino; F. Fratta, Il senso di comunicare, in, «Kamen. Rivista semesrale di poesia e filosofia», 1 (1992), n. 1,
pp. 99–101; M. Fortunato, Michelstaedter tra filosofia e poesia: la nostalgia del fondamento, in, «Testo», n. 20,
1990; id., Aporie della decisione. Separatezza del soggetto e saggismo filosofico da Weininger et Michelstaedter
ad Adorno, Milano, Guerini Scientifica 1996; G. A. Franchi, Carlo Michelstaedter o della razionalità del dolore,
intr. a, C. Michelstaedter, Il dialogo della salute e Il prediletto punto di appoggio della dialettica socratica ,
Bologna, Agalev Soc. Coop., 1988; C. Gentili, La nozione di «sapere» nel pensiero di Carlo Michelstaedter, in, AA.
VV., Studi in onore di Luciano Anceschi, Modena, 1982, pp. 175–186; F. Lattes, Solitudine di Michelstaedter, in,
«Allegoria», 28 aprile 1936, pp. 6-10; C. La Rocca, Nichilismo e retorica. Il pensiero di Carlo Michelstaedter, Pisa,
ETS 1984; A. Marroni, Filosofie dell’intensità. Quattro maestri occulti del pensiero italiano contemporaneo,
Milano, Mimesis 1997; G. Martinolli, Il ritorno dell’uomo persuaso, in, «Il Punto», 15 giugno 1982, p. 64; G.
Lonardi, Mito e accecamento di Michelstaedter, in, « Lettere Italiane », XIX, luglio–settembre 1967, n. 3, pp.
291–317; A. Michelis, Carlo Michelstaedter il coraggio dell’impossibile, Roma, Città Nuova 1997; A. Peri, Eros e
inerzia: la poetica dell’inquietudine in Michelstaedter, in, « Italianistica », 1988, pp. 235–248; M. Piermarini, Il
dialogo della salute di Carlo Michelstaedter, in, « Filosofia Oggi », 14 (1991), n. 2, pp. 283–285; A. Piromalli,
Carlo Michelstaedter, Firenze, La Nuova Italia 1974; G. Morandini, Lo specchio e il principe. Mito e disagio della
civiltà in C. Michelstaedter, in, «Mitteleuropa», 1987, nn. 4–5, p. 43; C. Pellizzi, L’eroe di un errore, in, Spiriti
della vigilia, Vallecchi, Firenze, 1924, pp. 11–85; L. Semeraro, Lo svuotamento del futuro. Note su
Michelstaedter, Lecce, Milella 1986; M. Recalcati, Etica dell’essere e etica del «dover essere» in Carlo
Michelstaedter, in, «Nuova Corrente», XXXV, 1988, pp. 21–36; M. A. Raschini, Michelstaedter. La disperata
devozione, Bologna, Cappelli 1988; id., Carlo Michelstaedter, Venezia, Marsilio, 2000; R. Tordi, La volontà come
rischio. La poesia della logica di Michelstaedter, in, «Galleria», 1985, n. 5–6, pp. 227–242; P. Valesio, Ascoltare
il silenzio. La retorica come teoria, Bologna, Il Mulino 1986; P. Bernardini, Dell’attimo come καιρός. Aspetti del
problema del tempo nell’Epistolario di Michelstaedter, in, AAVV, Dialoghi intorno a Michelstedter, cit., pp. 97–
119.
Presentiamo qui una selezione di articoli apparsi in vari quotidiani e settimanali italiani. Anche questi rientrano
in quella che abbiamo chiamato: interpretazione «metafisico – strutturalista»: M. Vozza, Michelstaedter spiega
la salute, in, «Il Piccolo», 2 dicembre 1988, p. 2; G. Ziani, Una civiltà di vuote parole, intervista con G.
Pressburger, in, «Il Piccolo», 15 aprile 1992, p. 5; F. Portinari, Michelstaedter: deserto con poesia, in, «La
Stampa», 3 ottobre 1997; E. Severino, Il caso Michelstaedter tra pensiero e poesia, in, «Il Corriere della sera»,
16 maggio 1982; P. Milano, L’abisso dell’insufficienza, in, «L’Espresso», 21 settembre 1958, p. 17; id, La morte
come salute, in, «L’Espresso», 17 luglio 1983, p. 73; E. Paccagnini, Malinconia per passione della realtà, in, «Il
Sole–24 Ore», 29 settembre 1991; G. Mascheroa, Matite appuntite d caricature per sfuggire alla retorica, in,
«Avvenire », 2 giugno 1992 ; C. Magris, Il caso Michelstaedter fra pensiero e poesia, in, «Il Corriere della sera»,
dell’autore, della sua “mente”, il nucleo interiore in cui si uniscono espressioni psicologiche e
morali. L’articolo di Papini è anche iniziatore di questo raggruppamento. Papini riconduce la
morte di Michelstaedter ad un gesto compulsivo, provocato dalla debolezza, o meglio
l’assenza, di principi morali. La decadenza causa l’impotenza, posizione contraria alle
attitudini positive dello spirito che ne mina le facoltà di discernimento. Privato della
padronanza di se stesso, l’individuo cade nei gorghi dell’abbattimento e della disperazione.
Conducendo la vita nel suo lato mortifero, esso perverte gli esiti buoni, ed il buon senso,
delle sue capacità. Preso da pulsioni morbose, la sua mente si perde in un franare di moventi
folli che ne sconvolgono i motivi vitali ed i fini fecondi. La persona resta preda dei suoi
fantasmi distruttivi. Nella desolazione di una vita senza comprensione né benevolenza, non
restano che l’incoerenza, la confusione, l’insufficienza, di atti diretti sempre verso il male. In
questo regime di destabilizzazione, la coscienza si rannicchia su se stessa, chiusa al mondo,
presa d’angoscia, sbandata sotto le scosse d’istinti primitivi di furia senza oggetto, affamati
solamente della volontà selvaggia che li obbliga ad infliggere morte. L’intelletto si esaurisce,
sregolato, espressione cieca che sconvolge l’esistenza investendola con il suo desiderio di
nuocere. La morte di Michelstaedter, egualmente a molte altre apparentemente
incomprensibili ed assurde, è la conseguenza logica e necessaria della condizione
“déracinée”, incompleta, e psicologicamente deviata, di un’epoca dello spirito umano che,
riducendo la vita ai soli momenti di riproduzione materiale, rinuncia a ricercare i suoi veri
fini. D’altra parte, dagli anni ’90 del XIX secolo 117, i romanzi di Dostoevskij conoscono un
nuovo “exploit”, successivo a quello della metà del secolo, momento in cui le prime
traduzioni apparvero in Italia. I testi di Nietzsche erano sempre più conosciuti, certo grazie
all’opera di ricezione degli Scapigliati cominciata nella seconda metà dell’Ottocento, ma
anche di studiosi e pubblicisti come Giuseppe Renzi. Una generazione intera di artisti e
16 maggio 1982 ; U. La Rocca, Se il pensiero è senza rete, in, «Il Messaggero», 6 ottobre 1987; S. Givone, La vita
bruciata del giovane Michelstaedter, in, «La Repubblica», 20 luglio 1995; A. Gallarotti, Una scelta vitale, in, «Il
Piccolo», 6 dicembre 1995; P. Giannantonio, Un moderno Ulisse in fuga dal mondo artificioso della retorica, in,
«L’Osservatore Romano», 27–28 giugno 1994; F. Fölkel, Latte, frutta, e poi che voglia di morire, in, «Il Piccolo»,
1° marzo 1983; D. Da Milano, Arte, verità, sublime. Cercando l’irraggiungibile, in, «Il Corriere di Civitavecchia» –
Roma Nord, 13 giugno 1992; G. Ceronetti, Il manto dell’Ecclesiaste (dialogo con l’ombra di Michelstaedter), in,
«La Stampa», 22 agosto 1984; E. Cecchi, La vita nella morte, in, «La Tribuna»,12 settembre 1912 ; id., Un
precursore dell’esistenzialismo, in, «Il Corriere della Sera», 8 agosto 1958; G. Cassier, La vita è senza salute, in,
«Tutto Libri–La Stampa», 21 gennaio 1989; A. Asor Rosa, Elogio del Nulla, in, «La Repubblica», 29 settembre
1987; N. Abbagnano, Il filosofo e l’esilio, in, «Il Giornale», 2 giugno 1987 ; AA. VV. Testimonianza a Carlo
Michelstaedter, in, «La Fiera Letteraria», VII, 13 luglio 1952; M. Bernardi Guardi, La solitaria inquietante rivolta
di Carlo Michelstaedter, in, «Il Secolo d’Italia», 27 ottobre 1990. Questo articolo è particolarmente interessante.
Fa parte di una serie di interventi tesi a recuperare Michelstaedter a posizioni di estrema destra. Questo
approccio trova la sua origine nei saggi dedicati a Michelstaedter, a partire dagli anni ’20, dal filosofo nazi-
fascista Julius Evola: Saggi sull’idealismo magico, Todi–Roma, Ed. Atanor 1925; Carlo Michelstaedter nel
giudizio di O. Ewalt, in, «Augustea», II, 1926, n. 3, p. 4; Teoria dell’individuo assoluto, Turin, F.lli Bocca, 1927;
Fenomenologia dell’individuo assoluto, Torino, F.lli Bocca 1930; Il cammino del cinabro, Milano, Scheiweller
1972. Qualche giorno prima di quello di Bernardi Guardi, il 17 ottobre 1990, appare in, «Il Secolo d’Italia»,
quotidiano del Movimento Sociale Italiano (MSI), partito della destra fascista, un articolo di F. Figliuzzi, Filosofo
antiborghese, con contenuti molto simili. D’altra parte, essi ripetono le orientazioni di M. Renzaglia, presentate
in un articolo del 13 novembre 1987, La poesia seme di grazia, pubblicato pure in «Il Secolo d’Italia». Sulla
stessa linea di destra, seguente le orme di Evola, citiamo anche il saggio di R. Melchionda, Weininger o
dell’evento dell’Io. Michelstaedter o dell’affermazione incondizionata, in, Il volto di Dioniso: filosofia e arte in
Julius Evola, Roma, I Libri del Graal–Basaia 1984.
117
Cfr. S. Adamo, Dostoevskij in Italia. Il dibattito sulle riviste 1869–1945, Pasian di Prato, Campanotto 1998. Le
traduzioni dei romanzi di Dostoevskij in Italia sono pressoché contemporanee delle versioni francesi, da cui
esse peraltro sono state tratte. Le prime edizioni tradotte direttamente dal russo sono state realizzate nel 1927
da Alfredo Polledro, con l’aiuto della moglie Rachele Gutman, di origine polacca.
pensatori italiani – egualmente a schiere di altri in Europa – metteva al centro del suo lavoro
il problema del rapporto tra ragione e senso ultimo. Questa corrente critica provocò ed
accelerò la crisi del positivismo. Si possono citare, tra le figure intellettuali che nella scena
italiana erano al centro della discussione culturale in tale passaggio, Bergson e Croce,
Romain Rolland e Pirandello - Il fu Mattia Pascal fu pubblicato nel 1904 -, Léon Bloy e
Fogazzaro, Weininger ed Amendola, Lucini e D’Annunzio. Autori estremamente differenti, e
lontani, che però condividevano problemi comuni. Papini ne recupera i temi di fondo: il
sensualismo edonistico che si appropria degli spiriti; la società moderna borghese, fondata
sul bisogno ed il consumo, che afferma il primato delle necessità materiali; l’esistenza che si
riduce alla produzione ed al godimento, essendo i comportamenti improntati tutti
all’ottenimento della ricchezza e dei beni. I commerci pubblici erano, nell’età
contemporanea, ben distanti dal permettere uno sguardo puramente introspettivo che
riconducesse le persone alle fonti della loro comune umanità. Questa condizione sviata ed
insana allontanava l’uomo dalla sua natura e gli interdiceva l’impiego delle sue qualità più
alte, non tanto e non solo intellettuali, ma soprattutto morali.
L’immergersi dell’individuo nelle profondità della sua anima può ricondurlo alla sua vera
identità di essere morale alla ricerca della verità. La riflessione sulla sua sostanza mentale più
profonda lo mette in condizione di conoscere il suo destino di finitudine ed errore, e, quindi,
grazie a questa cognizione determinante, suscitargli il desiderio di salute e d’assoluto
connaturato alla sua costituzione spirituale. Il discorso di Papini si allarga, dunque,
divenendo più complesso. Non si tratta di prendere atto, passivamente, di tale svolgimento
della storia, come fosse inevitabile, e di indicarne le conseguenze. La mutazione della
situazione spirituale dell’uomo, prodotta dal macchinismo, è testimonianza di un duplice
ordine di deiezione psicologica, che chiama in causa l’essenza stessa dell’umanità. La
modernità stravolge il rapporto tra uomo e tempo. Lo scorrere degli istanti non marca più il
percorso dell’individuo verso il suo compimento. Il tempo non misura la logica delle azioni,
ordinandole in funzione del dispiegamento delle possibilità ultime dell’umano. Il corso
dell’ora è ormai la marcia istintiva di esistenze brute. Il tempo non è più comprensibile: ha
perso i suoi caratteri di forma che segna l’avvento dell’ideale.
D’altra parte, il modo moderno di vita ha definitivamente messo fine all’identità tra uomo e
conoscenza. Prima il sapere costituiva una delle facoltà che rientravano nella definizione
stessa di “uomo”. Non era concepibile un’attività umana che non dipendesse da un
intervento del pensiero. Adesso, invece, la materia impone la sua preminenza sullo spirito.
La realtà della condizione umana odierna è un regime di condotta le cui motivazioni si
riducono all’appagamento fisico ed all’applicazione strumentale. Una vita sottratta alle
funzioni benefiche dell’intelletto rimuove la capacità di distinguere razionalmente i valori
dirigenti l’azione, così come la qualità dei suoi modi. Paradossalmente, all’epoca in cui la
scienza si afferma come potenza storica preminente, la ragione è soggiogata dalle spinte
primitive ed irriflesse di agiti automatici, dove si avviluppano le tensioni animali dello
scambio mercantile, della produzione e del consumo.
Togliendo all’uomo il suo tempo ed il suo sapere, tale abbassamento circoscrive un solo
orizzonte di degradazione etica. I concetti capaci di dare direzione alle intenzioni si disfano.
Un portamento moralmente avveduto eccede le possibilità del presente. Nebulose confuse
di percezioni si embricano secondo i moti casuali delle correnti di sensazione, senza sfociare
in forme composte. L’adesione cosciente, assicurata dall’elaborazione cognitiva, si disperde
in una girandola di colori, di visi, di espressioni, di emozioni, di desideri indomati ed aleatori.
È il nulla, la nuova forma dell’umano dettata dalla modernità. Il vuoto di verità prende il
posto del bene e del buono, che erano stati i principi motivanti le figure dell’antropologia
storica.
La negazione ingiunge le sue regole folli ad un mondo disumanizzato. L’insensato diviene
criterio di valutazione e norma dell’azione. Un’altra morale, un’assurda moralità della
disperazione si eleva a determinazione del giudizio, sistema generale di atti viventi che mira
esclusivamente all’insignificanza. La fine dell’ideale, effetto oscuro della civiltà, chiama in
causa le coscienze più avvedute. Le loro qualità non si definiscono in rapporto agli imperativi
positivi: il rispetto, l’ordine, l’amore, la benevolenza, la generosità, la coerenza, la devozione,
la prudenza. Queste anime sofferenti vivono sotto il segno del negativo. La morte si afferma
in massima, riempiendo le determinazioni dei loro gesti. La modernità dell’uomo non è
“progresso”: è l’impero della vita senza umanità. Le sue personificazioni esemplari agiscono
per svanire nell’inconsistenza, votate a perdersi. Queste ombre dal viso umano, esploratrici
della condizione di degenerescenza, sono gli eroi di questa epoca. Sono figure sensuali e
malate, artisti, agenti di costumi che non rispondono all’ipocrisia superficiale del gusto.
Abbastanza sensibili per captare, ai limiti della loro coscienza, la caduta dell’umano, essi
elevano il loro vissuto a simbolo dell’epoca. Sono i “santi” – Papini riprende il termine da
Fogazzaro -: emblemi, maestri e martiri del non senso. Michelstaedter è una di queste
esistenze superbe e dannate. Dandosi la morte, ha voluto testimoniare il male della
trasformazione ontologica provocata dal macchinismo. Con il suo suicidio è divenuto il
simbolo della decadenza del secolo, la prova esistente, ferma come un fatto compiuto, ed
irrevocabile come una sentenza, del primato del nulla. Ha scelto di morire per fedeltà eroica
alla natura tarata di questo universo alienato. È questa scelta, questo atto deliberato, che fa
della sua morte l’”exemplum”. La “persuasione” è il cammino sacro che conduce a tale
decisione sacrificale suprema, in cui un’anima fa dono di sé al nulla che permea le condizioni
dell’esistenza. È il gesto che celebra il male riconoscendone, proprio per la rinuncia alla vita,
lo statuto di signore del reale. Ma l’immolarsi ha un significato che va al di là dell’olocausto.
Il suicidio definisce ed inaugura un paradigma pratico. È un atto istituente un dominio
morale il cui solo valore è la chiaroveggenza. La coscienza implacabile fa dell’uomo l’“eroe”,
Papini formula tale idea in modo netto: “Ma il mistero del male, l’enigma del dolore e i
presentimenti della nullità della vita vista sub specie aeternitatis e la disgustosa certezza
della bestialità presente tornano ad assediare le anime anche dopo i conforti dei razionalisti.
Carlo Michelstaedter, a quel che ho potuto capire, era una di queste anime. Per lui il
problema della vita era il primo e il più tragico, se non l’unico.
Egli partiva dall’osservazione non nuova, ma vera, che quasi tutta la nostras vita
consiste nel desiderio e nell’aspettazione del futuro, cioè che non possediamo mai
veramente e completamente né la vita né noi stessi.
E appunto perché non ci possediamo mai non possiamo dir nulla. Eppur un momento
solo di reale e piena possessione della vita varrebbe e conterrebbe più di tutta una lunga vita
quale abitualmente noi viviamo. Ma questo momento, per essere possibile, non dovrebbe
poter aver futuro – dovrebbe essere, suppongo io, la vigilia della morte. Ma non della morte
naturale, la quale ha qualcosa di meccanico ed è sempre involontaria e quasi sempre
impreveduta. La vita come un peso che sempre e sempre cade giù finché non trova un
ostacolo e anche quando s’arresta è sempre pronto a ricadere in eterno, appena l’ostacolo
sia rimosso: per questo, dice Michelstaedter, si può affermare che il peso non può essere
persuaso. Ma l’uomo può essere e dev’essere persuaso. L’uomo può rinunziare, l’uomo può
rifiutare di cadere e vivere sempre. E l’uomo può comprendere, per la divina legge de’
contrari, che il tutto è nulla, il sì nel no, e la vita nella morte. E può rinunziare
volontariamente alla vita e in quel momento eterno che precede la fine egli possiede, per la
prima e l’ultima volta, la vita, la vera vita, e vive davvero appunto perché sta per morire –
perché tante cose sono già morte in lui” 118 .
Questa lettura mette sopra tutto in evidenza l’atto del suicidio. Percorrendo la bibliografia
della critica fedele a questo approccio 119, notiamo come l’opera di Michelstaedter sia
spiegata come una sequenza, rovesciata, di rimandi epifanici tramite cui l’esistenza esprime
il senso, mentre il testo appare una glossa rifinita in cui i contenuti di tale termine essenziale,
ultimo ed a priori, sono recitati con l’andamento di una manifestazione sacrale. L’opera è la
rivelazione scritturale di una verità cha da sempre, e per sempre, risiede nelle cose.
Riconosciamo i procedimenti e la concezione tipica dell’ermeneutica, visione che, ancora una
volta, sovrappone alla pagina, ed alle cose, uno schema astratto, completamente estrinseco,
dando ad esse un carattere simbolico ed al contempo analitico, che esprime in esse la
presenza e la rappresentazione dell’essenza ultima, la quale è anche verità primaria. L’opera
di Michelstaedter è percorsa come una trascrizione soteriologica invertita, contenente
immagini profetiche ed asserti ammonitori. La “chiaroveggenza” è la prima e la più
importante di tali determinazioni sapienziali, che diviene anche il principale motivo, “an-
etico”, dell’azione in cui la realtà del reale si svela. Il saggio di Laura Furlan offre altre figure
della morale pervertita di cui Michelstaedter sarebbe il profeta e l’officiante:
“All’indifferenza del tempo della Rettorica, storicamente compromesso, il giovane
contrappone il tempo della Persuasione, l’idea del tempo istantaneo, in cui l’uomo riacquista
il possesso di se stesso. All’interno del sé Michelstaedter guarda, negli anni che lo vedono
impegnato nella stesura della tesi, per perseguire la permanenza. Nel corso dello
spostamento di prospettiva dall’esterno all’interno del sé, il rapporto di complementarità
degli ordini temporali s’incrina (…). Vittima di queste lacerazioni, il giovane goriziano le vive
compitamente: egli oppone la sua arte e la sua filosofia autentiche al mondo retorico, vuoto
e corrotto, di cui però egli stesso fa parte. La somma permanenza consiste per lui nell’esser
fuori della contingenza e dalle sue relazioni temporali, di cui è intessuto il sistema della
Rettorica. La possibilità di uscita dalla contingenza, nella negazione delle consuete categorie
spazio – temporali, viene intravista da Michelstaedter al di là della suggestione della morte,
nell’attimo in cui vita e morte coesistono e coincidono” 120 . L’autore propone quattro
connotazioni etiche ulteriori, espressione della posizione eroica. Nel momento in cui la
“persuasione” è raggiunta, l’individuo dirige il suo comportamento in conformità ai principi
del disincanto. La scelta cosciente, epifania dell’Io” attivo, fa corpo con la contingenza
aleatoria del mondo. Una volta che la postura etica fondamentale diviene azione effettiva, la
personalità, finalmente compiuta nel suo essere, mostra quattro posture cardinali: l’”unità”,
la concordanza totale tra Soggetto e “me stesso”; la “fermezza”, costanza infaticabile di
attenersi alla verità; l’”autenticità”, l’adeguazione completa e senza deroghe alle forme
destinali dell’esistenza; finalmente, l’ultima, in cui tutte le altre sono riunite in una sintesi
118
G. Papini, Un suicidio metafisico, cit.
119
Diamo alcuni riferimenti di tale corrente della critica: D. Bini, Michelstaedter and the Failure of language,
Gainesville, University Press of Florida 1992; M. Cacciari, Metafisica di una gioventù, in, G. Lukàks, Diario
Minimo, Milano, Adelphi 1983, pp. 69–134; G. Brianese, Essere per il nulla. Note su Michelstaedter e Heidegger,
in «Studi Goriziani», vol. 59, 1984, pp. 7–44; G. Brianese, L’arco e il destino. Interpretazione di Michelstaedter,
Abano Terme, Francisci Editore 1985; G. A. Camerino, L’impossibile cura della vita e della società. Affinità di
Michelstaedter con Svevo e la cultura asburgica, in, AAVV, Dialoghi intorno a Michelstaedter, cit., pp. 59–73; G.
A. Franchi, Carlo Michelstaedter o la razionalità del dolore, introd. a, C. Michelstaedter, Il dialogo della salute,
Bologna, Agales 1988, pp. 7 - 43.
120
L. Furlan, Carlo Michelstaedter. L’essere straniero di un intellettuale moderno, Trieste, Lint 2008, pp. 107–
108.
apodittica globale, è la “giustizia”. Questa parola non è presa nel suo significato giuridico.
“Giustizia”, secondo l’interpretazione psicologico-morale dell’opera di Michelstaedter, indica
lo statuto normativo di una deliberazione. Il nulla è la forma che definisce la vita, che ne
determina le possibilità dirigendone le evoluzioni. Vivere “nel” e “per” il nulla significa
conformarsi alla regola primordiale e destinale, oggettiva ed obbligante, che esso sancisce
fondando le configurazioni dell’essere. L’”Io” vive in piena disponibilità la sua persona storica
seguendo le prescrizioni di questa legge suprema, che gestisce l’esistente dal suo interno, in
quanto principio e forma delle sue manifestazioni. Come termine decretante ogni avvento, la
norma del nulla rappresenta il compimento della scena, il suo limite e la sua esecuzione.
La posizione eroica del “persuaso” resta un atto d’obbedienza alla costituzione negativa
dell’essere. La volontà del “niente” mostra l’ingerenza imperativa dell’essenza sull’umano.
L’individuo diviene “giusto” sottomettendosi al decreto del fondamento. È così che tocca lo
stato di specificazione, la più conseguente, delle sue risoluzioni. Certo in tale interpretazione
risuona la “giustizia” presente ne La Persuasione e la Rettorica: “Iperbolica è la via della
persuasione che a quelle conduce. Poiché anche infinitamente l’iperbole s’avvicina
all’asintoto, così infinitamente l’uomo che vivendo voglia la sua vita s’avvicina alla linea retta
della giustizia” 121. Ma è il valore dato a tale termine nell’interpretazione che forza, o meglio
manca, la portata e la funzione effettivamente assegnategli nell’opera. E appunto perché ciò
che in ultima istanza non è presente, è proprio il rapporto con l’opera stessa. Il “persuaso” è
presentato da Michelstaedter come “saggio”, “coscienza dolorosa ma vigile”, “coraggioso”.
Tali attitudini non sono caratterizzazioni morali. Sono declinazioni di una pragmatica
dell’avversione. Ad esse è stato imposto il contenuto di modalità prime di un’etica
passionale, ossia di un’assiologia estetizzante. Il percorso della “persuasione” non dovrebbe
consistere, nell’ottica di tale prospettiva, che di giudizi assiologici, i cui termini sono relativi
alla qualità legale della relazione tra essenza e Soggetto. La “persuasione” dovrebbe allora
essere la codificazione di tale procedura valoriale che conduce l’atto a sottomettersi al
significato legislatore, una raccolta di esecuzioni conformi obbedienti alla norma superiore,
che l’opera espliciterebbe in modo dottrinario, come un “digesto” teorico, solo rifinito
esteticamente.
Tale inquadramento disciplinare in forma di libro è già “atto”. Esso rende il rapporto con
l’essenza non una semplice elaborazione intellettuale, ma una pratica reale. Conoscere ed
applicare le determinazioni prescritte è, in sé, vivere all’insegna del nulla. La morte,
momento in cui deliberazione ed azione si fondono in un’apoteosi negatrice, è l’atto morale
per eccellenza, la sola e sommamente vera realizzazione dell’essere umano. La morte è
l’unica scelta degna del “saggio-eroe”. Marco Cerruti scrive: “Insomma, traendo ai margini
dell’opera maggiore le conseguenze estreme della nozione di «persuasione», Michelstaedter
finiva per riconoscere, per vie diverse, come all’individualità persuasa, o meglio che tale si
vorrebbe, la culmine della propria esperienza di autoliberazione dalla catena delle « cose che
vivono », non resti se non la consapevolezza del carattere illusorio della sua stessa volizione
di un altro dalla contingenza, in quanto essa partecipe, per il fatto di essere volontà, di
quest’ultima, e insieme una più sicura coscienza del non – essere di contro al quale la
persuasione avrebbe inteso assurdamente attuarsi. (…) Di qui in ogni caso il sentimento
deluso o, come scrive sottilmente Michelstaedter, il senso di « insoddisfazione » che
dovrebbe inerire all’esperienza di «persuasione» nel suo momento estremo, in cui il rovello
di un essere che non si può raggiungere sembrerebbe dover cedere – quasi per una sorta di
destino biologico, secondo la massima ossessione di Michelstaedter – a una mortale
121
C. Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, cit., p. 40.
indifferenza, a un oscurarsi progressivo della coscienza e illanguidire della volontà, sino alla
estinzione e pace definitiva della morte. (…) E «folle speranza» definiva, ribadendo la propria
visione di un mondo chiuso in una disperata immanenza – in una pagina ch’è fra le sue più
alte, per quell’ansia di assoluto così intensa e insieme così risoluta nel negarsi -, l’attesa di un
dio che niente più autorizza ad attendere” 122.
Certo, questa lettura, che affronta Michelstaedter a partire da uno degli elementi centrali del
suo impianto concettuale e figurativo, è più rispettosa delle componenti dell’opera e della
loro specifica disposizione. La configurazione pragmatica dell’individuo che vi si legge
definisce correttamente l’azione in termini di effettuazione attuale, come investimento
efficiente in un contesto di affezioni situate. Questo conduce l’autore ad introdurre nozioni
vicine ad un pragmatismo trascendentale piuttosto che ad un’ontologia personalistica. Fa
anche capolino il sospetto che in Michelstaedter sia presente una ridefinizione originale della
problematica della storia, ma senza che si giunga a porne i termini, identificandone i luoghi
ed i modi.
Il Soggetto è una sorgente d’azione, in Michelstaedter. È l’attore fondamentale e, insieme,
un epifenomeno della storia che genera dalle sue devoluzioni. L’atto occupa il centro
dell’opera. A ragione quindi tale interpretazione lo sottolinea. Ma tale pista critica, a volte
feconda, ha nei suoi punti di forza la causa dei suoi limiti. In Michelstaedter l’”atto”
mantiene sempre una connotazione figurale, di scrittura, mai mimetica o realistica. È
un’immagine le cui connotazioni sono dettate dalle funzioni che esercita all’interno della
macchina del testo. La pagina di Michelstaedter non si eleva su un’impalcatura speculativa,
divenendo una trasposizione concettuale linguisticamente mediata di un ordine categoriale
ontologicamente reggente. In Michelstaedter esiste certo un lavoro teorico, ma esso sta
all’interno della composizione di forme, di inflessioni stilistiche, di produzione di contenuti,
che costituiscono il regime letterario dell’opera. Concedere supremazia alla morale, significa
caricare la figura del Soggetto di attributi teorici sostanziali che non ha, e non può avere,
nella scena del testo michelstaedteriano. L’”io” è un elemento espressivo inserito in un
contesto espressivo, dove va a ricoprire anche delle figurazioni di stampo concettuale.
Tuttavia, il suo ruolo, ed i suoi significati, dipendono da una dinamica rappresentativa, che è,
e deve essere, il vero e proprio oggetto di un’indagine critica aderente. Al contrario, ben
miserabile ed infantile filosofia avrebbe partorito il lavoro di Michelstaedter, non solo
incapace di articolare un discorso teoretico compiuto, ma anche estensore di idee alla fine
banali, ed immature. Ma, allora, dove ne starebbe il valore? Nel suicidio? Sarebbe dunque il
fatto di suicidarsi a dare peso ad un elaborato? A questi paradossi, mai percepiti e dunque
mai discussi, giunge la critica michelstaedteriana.
L’identificazione della problematica di Michelstaedter con la ragione morale pone numerosi
problemi, segno di un’essenziale mancanza di relazione al testo. Potremmo notare la
maniera trans-soggettiva e costruttivistica in cui il testo presenta la figura del Soggetto,
effetto, non sostanza, ed espressione, di connessioni e rapporti produttivi non egotici. Come
spiegare la presenza di una morale senza la personalità singolare, il substrato trascendentale
che si determina nell’attributo della responsabilità, intelletto tetico origine della norma così
come dell’imputabilità? Come è possibile rendere conto della negazione della volontà e del
libero arbitrio che fa Michelstaedter? Ma, soprattutto, come è possibile riportare alle
categorie dell’assiologia scritti in cui la morale, privata e pubblica, positiva e negativa, è
esplicitamente attaccata?

122
M. Cerruti, Carlo Michelstaedter, cit., p. 70.
La costituzione di un sistema morale si afferma grazie ad un “discorso vero”, la lezione di
Celso resta indiscutibile. La posizione di verità motiva la definizione del valore, all’interno di
una affermazione teorica dalle valenze ontologiche. Gli asserti di cui essa è il veicolo si
manifestano sotto forma di periodi definitori, di dimostrazioni rigorose, o di visioni
sapienziali. Ma, appunto, se si leggono gli scritti di Michelstaedter a partire dall’evidenza
dichiarativa o dalla profondità fanica, tutta l’organizzazione della tessitura che fa funzionare
la pagina viene rimossa. Sono occultate le direttrici di composizione, i loro esiti, tutto ciò che
fa della scrittura di Michelstaedter una produzione reale ed efficiente di testo, un intervento
effettivo nel dominio delle pratiche della significazione scritta, e che ne detta la posizione ed
il valore. È solo un approccio che rispetti l’opera, analizzandola nella sua singolarità di
oggetto concreto, d’investimento figurale esistente, che può essere in grado di determinarne
l’architettura, e l’apporto. Sicuramente, questi non afferiscono in nessun caso alla
speculazione pura: le troppe effrazioni logiche, e la sua natura espressiva, ne vietano la
classificazione nell’ambito degli esercizi teoretici. In realtà, si tratta di un intervento
letterario autonomo, cioè produttivo di una produttività efficiente e non derivata o ridotta, i
cui caratteri propri gli conferiscono una collocazione, non nel “Pantheon” dei filosofi idealisti,
o dei giovani romantici pensierosi, ma nella letteratura italiana.
L’analisi approfondita e puntuale delle sue costruzioni testuali, dei suoi procedimenti di
scrittura, dei processi narrativi, può restituire l’opera di Michelstaedter alla sua qualità di
momento decisivo della storia della produzione letteraria nel campo italiano, di cui
rappresenta un momento determinato di una congiuntura determinata. Occorre riconoscere
la problematica interna all’opera, la struttura immanente che ne decide il piano di
montaggio, i funzionamenti e gli effetti. Cosa assolutamente impossibile se si esegue
un’interpretazione, ossia se si utilizzino come mezzi della sua esplicazione l’analitica
trascendentale, la metafisica o la logica monolitica della dialettica ontologica. Non si tratta di
“interpretare” l’opera. Si tratta di rendere rigorosamente quello che è, nella sua oggettività
di fatto di scrittura.

1.6 Da dove viene la scrittura? E per andare dove? La problematica dell’opera.

Asor Rosa sottolinea la necessità di leggere Michelstaedter in relazione alla sua


dignità letteraria, riportandolo alla storia dei problemi e delle forme della letteratura
italiana. Ma, ecco, subito si smentisce, peccando di ideologismo sviluppista esterofilo, con
l’affermazione che una letteratura italiana staccata dalle correnti artistiche europee è un
oggetto di analisi critica irricevibile. Asor Rosa scrive, all’inizio del suo saggio dedicato a La
Persuasione e la rettorica123: “La Persuasione e la rettorica è senza ombra di dubbio la più
123
Anche Asor Rosa è vittima delle suggestioni del tema della «giustizia», di cui recupera gli argomenti per
quanto ne sottolinei le connotazioni storiche: “Ciò di cui Carlo ragiona in queste pagine altissime non è – in
astratto – il problema dell’essere: è il concreto e vitalissimo problema della giustizia umana. L’ingiustizia è
inevitabile, quando ognuno, dovendo vivere per sé, è costretto a trascurare o ignorare o mortificare la vita
altrui: «Se [l’uomo ] è figlio delle tali cause, dei tali bisogni, non ha in sé la ragione ; e l’affermazione della sua
qualunque persona è sempre, come irrazionale, violenta»; «[…] ed egli in ciò che afferma come giusto quello
che è giusto per lui, nega ciò che è giusto per gli altri, ed è ingiusto verso tutti gli altri; avvenga o non avvenga
ch’ei commetta ingiuria».
L’esercizio della giustizia, perciò, è per «il persuaso» qualcosa che esorbita dalle normali pratiche del
rapporto degli uomini, tutte condizionate, anche quelle derivanti dall’applicazione più formale del «giure», ad
uno spirito di particolarità che è foriero solo di violenza. (…) Non c’è limite alcuno alla giustizia per «il persuaso»
- dunque: tutta la violenza del mondo si è caricata sulle sue spalle – per liberarsene occorre farsi soggetti di una
anomala ovvero la più eccezionale nel canone delle grandi opere della letteratura italiana. Se
i Ricordi di Guicciardini erano stati destinati dall’autore a una cerchia di lettori estremamente
ristretta e selezionata – quella dei familiari e degli intendenti, dei savi e dei prudenti – sicché
il riconoscimento postumo, e assai tardivamente postumo, costituisce per così dire un
involontario travalicamento delle primitive intenzioni dell’autore, nel caso della Persuasione
a far da velo alla fortuna dell’opera sarebbero intervenute sia la presumibile sua
destinazione pratica – si tratta infatti di una «tesi di laurea», «genere» costituzionalmente
del tutto minore e appartato – sia, ancor di più, il reciso gesto di rifiuto con cui il suo autore,
nel troncare il filo della propria vita, negava la tempo stesso valore ad ogni tentativo di
comunicare qualsiasi pensiero. Su questo punto non è consentito nutrire dubbi. La
Persuasione e la rettorica non ha alcun carattere di messaggio: tanto meno essa può essere
considerata un testamento che il suo autore, dipartendosene, abbia voluto intenzionalmente
affidare ai posteri. Essa è l’espressione di un’interiore insopprimibile «coazione» a dire, che
per l’essenziale non contempla alcuna finalità pratica: è frutto di una necessita, non di
volontaria programmatica eloquenza. Anzi: il fatto che essa sia stata «stesa» e «prodotta»
costituisce già di per sé una concessione. (…)”124.
Qualche pagina più avanti Asor Rosa esplicita il nucleo essenziale della sua interpretazione:
“Se il «persuaso» si fondasse tutto su di un’operazione meramente intellettuale, si
presenterebbe come una figura della metafisica. Il suo contenuto invece è, nel pensiero di
Carlo, essenzialmente etico: è un assoluto per, non un assoluto in. Questa sfera è così
importante perché è quella che entra in frizione col mondo: il persuaso non trae dal
«possesso presente di sé» l’indicazione a chiudersi in se stesso, ma si pone se mai in
atteggiamento agonistico contro il mondo, ben sapendo fin dall’inizio che il conflitto sarà
vano e tuttavia non allontanando da sé con gesto disdegnoso l’acre sapore dell’inevitabile
sconfitta” 125.
Asor Rosa identifica la problematica che guida la produzione letteraria di Michelstaedter: il
conflitto. Il lavoro di scrittura di Michelstaedter presenta una configurazione contrastiva.
L’opera si congiunge per funzioni d’opposizione. Michelstaedter associa immagini e
contenuti avversativi innestandoli per linee di scontro. Strutturante la pagina con i suoi
procedimenti ed i suoi effetti, questa modalità di composizione, retta dalla lotta, vero e
proprio telaio dell’opera, segue il solco delle esperienze letterarie che hanno, anch’esse,
utilizzato la contesa come impalcatura figurale. Michelstaedter effettua un gesto di scrittura
già appartenuto ad Alfieri e continuato, attraverso Foscolo, in Leopardi. La Scapigliatura
svilupperà i modi leopardiani, dando geometrie nuove alla “forma-conflitto”. Il Naturalismo
ed i crepuscolari continueranno a lavorare letteratura della discordia. Noi approfondiremo,
parallelamente all’opera di Michelstaedter, gli autori, di cui riprende impianto ed elementi,
che hanno praticato tale poetica della lotta. Michelstaedter li ha conosciuti e studiati. Essi
sono attivi nella sua scrittura e nei suoi svolgimenti. I taccuini michelstaedteriani contengono
gli elementi che permettono la ricostruzione di tale genealogia dell’avversione letteraria che,
ponendo gli assetti essenziali dello spazio di produzione in cui l’opera di Michelstaedter si
attiva, ne è il presupposto implicito. Il conflitto e l’opposizione guidano le strutture
espressive michelstaedteriane. Esse ne decidono le referenze ed i debiti. Il conflitto definisce
la collocazione di Michelstaedter all’interno delle correnti, o meglio dei ranghi, letterari
mutazione radicale (talmente radicale da apparire inverosimile) dei comportamenti umani”, A. Asor Rosa,
Michelstaedter. La persuasione e la rettorica, in, Letteratura Italiana, Le opere, IV Il Novecento, I. L’età della
crisi, Torino, Einaudi 1995, p. 304.
124
A. Asor Rosa, Michelstaedter. La persuasione e la rettorica, cit., p. 265.
125
Ivi, p. 303.
italiani. La lotta conduce il suo rapporto con il problema che incalza la letteratura italiana a
partire dal ‘700 – congiuntura culturale dominata dal romanzo di Verri, il teatro di Goldoni e
la poesia civile di Parini -: il significato e le forme dell’”unità” nel dominio dell’espressione
artistica. Il momento dominato da tale formazione espressiva – l’”Italia una” -, non si
configura come un decorso coerente in cui si svolgono, a misura delle sue progressioni
regolari, le possibilità generatrici di un paradigma culturale completo, compatto, organico,
chiuso nei suoi termini. Il campo culturale definito dai modi dell’”unità” si configura
piuttosto come la geografia straziata di un terreno di guerra, in cui si affrontano opzioni
nazionali ed antinazionali, differenziate ed articolate a loro volta. Le esperienze letterarie
appartenenti alla poetica del conflitto costituiscono uno dei fronti che conducono le guerre
civili della parola nazionale. Michelstaedter, assemblando la sua opera mediante le
operazioni di una scrittura dell’antagonismo, prende parte a questa fazione. La letteratura in
lotta, l’immagine combattente, dettano il posizionamento di Michelstaedter di contro
all’opera degli autori nazionali: Manzoni, l’iniziatore, colui che ha effettivamente concepito
ed eretto tale entità culturale chiamata “Italia”, l’intellettuale che ha dato i suoi moduli, i
suoi compiti, il suo inquadramento generale al dominio espressivo unitario “italiano”; e,
quindi, Carducci, il poeta “vate”, organizzatore culturale e promotore dell’Italia “romana”,
soglio della “nuova latinità” universale che il Risorgimento aveva restituito al popolo italiano
quirita, finalmente di nuovo unificato.
Il conflitto ritorna costantemente nell’opera di Michelstaedter. Non si tratta di una
personificazione o di un personaggio in cui il corso dell’opera sarebbe sintetizzato,
concentrato, essendone insieme l’armatura. Il dissidio non è una metafora, tanto quanto
non è un concetto. In Michelstaedter non si trovano silhouette dal valore allegorico. Il
conflitto è un’organizzazione produttiva immanente che guida, struttura e motiva la
composizione del testo. Lo scontro ordina ed attiva la meccanica dell’opera. È in funzione di
tale condizione delle inserzioni espressive che occorre analizzare le modalità di costruzione
della scrittura.
Abbiamo già sottolineato come nella letteratura critica il conflitto sia stato totalmente
rimosso. Se una lettura che sia tale si realizza tramite un metodo adeguato, occorre
affermare che la maggior parte, la quasi totalità, dei critici non sia neanche arrivata a
sbagliare, nella loro interpretazione: semplicemente non si sono posti nella condizione di
leggere l’opera, parlando quindi di qualcosa che non ha nessun rapporto con essa. Questo è
stato sottolineato a chiare lettere da Francesco Muzzioli, uno dei pochi ricercatori che abbia
rispettato il lavoro di Michelstaedter, accostandosi al testo per seguirlo nella sua realtà e
nelle sue modalità effettive. Muzzioli denuncia appunto la cancellazione dell’opera a causa
della iper-valutazione del fatto del suicidio: “È significativo che il discorso sulla morte
preceda il discorso sull’opera. È di Papini la recensione scritta «a caldo», che inaugura la
bibliografia critica michelstaedteriana; scritta ancora all’oscuro dell’opera, a quel momento
inedita. Papini poteva parlarne soltanto «per sentito dire», tirando – come egli stesso si
esprime – «un po’ a indovinare». Ma l’importante, nella prospettiva papiniana, era
rivendicare all’area culturale italiana (non senza qualche forzatura, perché Michelstaedter
«era di razza ebraica e cittadino austriaco, ma – obiettava Papini – aveva trovato in Italia le
anime più fraterne, aveva pensato e scritto nella nostra lingua») finalmente un intellettuale
dal pessimismo così conseguente da condurlo all’estremo. Insomma, l’Italia voleva il suo
Weininger e lo trovava grazie alle sorprendenti coincidenze con l’autore di Sesso e carattere.
(….) Non per caso il confronto con Weininger sarà luogo veramente comune negli esordi
della critica su Michelstaedter, ma non andrà mai molto al di là di queste superficiali
rassomiglianze” 126. Dopo aver analizzato la critica michelstaedteriana – secondo criteri che
noi abbiamo ripreso ampiamente e di cui gli siamo estremamente debitori – Muzzioli scrive,
terminando il suo excursus sulle posizioni critiche: “L’impressione che si riceve è che il
dibattito finisca per focalizzarsi, come già in molti altri periodi della critica, sul punto di vista
filosofico, esaurendosi nel confronto con le teorie in voga nell’attualità. Il discorso così
rischia di fermarsi alla forma compiuta (finale) del pensiero: sottovalutando, sia la
complessità dell’itinerario e del substrato culturale, sia la ragione e la pratica effettiva di una
pluralità di forme espressive, troppo spesso appiattite, per comodità, sui contorni, perentori
et ormai acquisiti, della tesi di laurea. Non pare che l’aumento numerico degli interventi
vada ad integrare le caselle che restano a tutt’oggi più scoperte nella scacchiera della critica
michelstaedteriana: quelle dell’analisi linguistico – ideologica; della ricerca sul nesso tra
teoria e pratica della scrittura; della riflessione sulla problematicità, in Michelstaedter, della
scrittura stessa, e sulla sottile conflittualità interna dei diversi stili e modi fatti confluire
dall’autore nel magmatico coacervo dell’opera”127 .
Nella maggior parte delle interpretazioni l’esplicazione filosofica schiaccia l’originalità
letteraria, quindi figurativa, stilistica e linguistica, dell’opera. Uno degli effetti di tale
atteggiamento è la relazione abusiva con altri scrittori e pensatori con cui Michelstaedter
non avuto alcun rapporto, a nessun livello, né culturale né di ambiente. Questa pessima, non
si sa quanto ingenua o ideologicamente tendenziosa, modalità avvicina autori rispetto ad
una presunta condivisione di temi generici, quasi sempre semplicisticamente esistenziali o
qualunquisticamente “culturali”. Si riscontrano allora legami d’affinità sulla base di una
continuità ideale o di ispirazione – che magicamente diventa anche stilistica – garantita dalla
presenza di elementi afferenti a contenuti comuni, quando non siano solo vaghe aspirazioni
condivise. In realtà, la prossimità che si pensa di trovare esiste solo nel pregiudizio del
critico, anche quando lo definisce “intertestualità”. Questa posizione, che non è possibile
neanche definire “critica”, raggiunge le sue manifestazioni più sfrenate in Piero Pieri. Si
mette Michelstaedter accanto a Kirkegaard, a Trakl, ad Hofmannsthal, a Svevo, a Kraus, a
Saba, autori il cui stile e le cui problematiche espressive sono del tutto distanti e diverse da
quelle del goriziano. Il caso di Hofmannstal è particolarmente evidente. Una mera vicinanza
temporale è trasformata in identità tematica ed estetica, motivata da un aleatorio
“nichilismo” che avrebbe unito i due autori. Riportiamo qui un esempio di tale
atteggiamento: “Come Hofmannsthal, anche Michelstaedter innesta sul tema del linguaggio i
pensieri che egli elabora circa la situazione di vuoto morale e culturale che si trova ad
affrontare. Le pagine della Lettera e molti passaggi della Persuasione si prestano pertanto a
venire letti come aperta denuncia della condizione novecentesca, che mette a nudo uno
sfacelo senza rimedio, in cui le parole, prive di significato, seguono automaticamente il flusso
generale che coinvolge ormai ogni cosa e la conduce al suo definitivo annientamento.
L’esperienza del personaggio di Hofmannsthal è in fondo quella che il giovane Törless di
Musil descrive nel suo romanzo del 1906, dove si parla «della seconda vita delle cose,
segreta e sfuggente (…) di una vita che non si esprime con le parole e che pure è la mia vita,
di quella vita che Michelstaedter addita nella «furia» del mare e identifica con la
Persuasione, ossia con il suo ideale di autenticità”128.
Non vi è alcun elemento che autorizzi tale apparentamento. Le operazioni espressive sorte
dal dispositivo “a conflitto” non seguono le linee delle visioni di Hofmannsthal, la cui

126
F. Muzzioli, Michelstaedter, Lecce, Milella 1997, pp. 75–6.
127
Ivi, pp. 178 – 9.
128
L. Furlan, Carlo Michelstaedter, cit. p. 142.
problematica fondante è la sparizione del referente ottenuta per moltiplicazione
incontrollata del significante. Se tutti parlano, rivendicando il diritto alla parola, il senso della
significazione si disperde in mille frammenti. Il “vero” linguaggio, il solo, unico strumento
spirituale capace di cogliere la verità delle cose, nella prospettiva di Hofmannsthal,
sprofonda nell’insignificanza. La verità annega nell’interminabile chiacchiericcio senza idee di
milioni di parlanti a vuoto. Ma cosa mai avrebbe a che fare tale piano di scrittura con il
campo di antagonismi lavorati da Michelstaedter? Che è esplicito a questo proposito, nelle
opere come nelle Appendici critiche, ossia i materiali teorici che accompagnano La
Persuasione e la Rettorica. Questi testi sono stati presi in conto molto sbrigativamente, e
molto maldestramente, dalla critica. Il dominio del significante letterario vi è rappresentato
come un ambito concreto attraversato e prodotto dalla lotta. L’”eristico” realizza manovre di
guerra contro il “dialettico” (il “persuaso”): figure concrete delle vicissitudini concrete di
pratiche storiche dell’enunciazione: “Ma nella mala fede (sic) inconscia dell’attribuir valore
assoluto ai concetti che fanno comodo, come fanno comodo, - in quella συμπίπτουσιν tutti
quanti tirano conseguenze da concetti arbitrariamente limitati, ἀπὄρφνης καλλωπισμάτων,
sia secondo previa classificazione, sia secondo il caso, in ogni modo parlando per autorità
inadeguata : ricercatori e proclamatori ed espositori della «verità»; in quella sono tutti
fratelli: tutti eristici (i. e. retorici).
Infatti sia che difendano il diritto d’esistenza di ciò che danno per vero e finito solo
perché essi vi si son fermati, se anche s’affermino distruggendo la verità altrui, in ogni caso
vivono dell’altrui morte : τὸ νεῖκος!
Mentre il vero dialettico non si ferma sulla sua via a tirar le linee e a trarre i
concetti, quasi conoscenza finita; non si sfrutta la propria vita a foggiarsi una persona,
né la difende come finita e assoluta, pretendendo che gli altri la riconoscano come
tale. (…)
L’eristico «vuol mantenere ragione» in ciò che altri non gli possa rispondere; - il
dialettico vuol persuadere.
L’eristico vuole che l’altro non possa dimostrar che si possa agire diversamente da quanto
egli dice; - il dialettico vuole che l’altro agisca sempre in conformità a quanto egli dice” 129 . La
distanza tra Michelstaedter e Hofmannsthal è evidente. Non c’è alcuna contiguità tematica,
né affinità estetica. Questo smentisce al contempo la tesi di Magris 130, che considera l’opera
di Michelstaedter una declinazione della “temperie asburgica”. Già potremmo avere dei
dubbi ragionevoli sull’esistenza effettiva di quest’entità semi-storica e semi-trascendente
denominata: “Mitteleuropa” – e basterebbe rivolgere attenzione minimale alla secolare lotta
delle culture dominate e discriminate all’interno dell’impero Austro-Ungarico, o ai conflitti
tra parte austriaca e parte ungherese -. Magris la disegna con i contorni di una terra ideale
benedetta da una specifica epifania culturale. Tale “Nazione dell’idea”, esistente – datazione
pure quantomeno azzardata, se non abusiva – dal 1815 al 1918, in un territorio coincidente
all’incirca (Magris lascia le coordinate nel vago, in modo da sceglierei gli esempi più
congeniali al suo schema astratto) con uno degli imperi più autoritari ed accentratori, anche
in termini culturali, dell’Europa moderna, che in Magris diventa magicamente la culla della
solidarietà culturale e della tolleranza, rappresenterebbe l’avvento storico di un’anima dalla
superiore qualità spirituale. A sua volta, questo fondo trascendente, in cui si raccoglie
l’”umanità” dell’”umano”, fatta stranamente a forma dell’individuo “liberal” americano,

129
C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica. Appendici critiche, IV, Adelphi, Milano, 1995, p. 280.
130
C. Magris, Il mito asburgico. Umanità e stile del mondo austroungarico nella letteratura austriaca moderna,
Torino, Einaudi 1963.
manifesterebbe la parusia dello Spirito Storico in una delle sue presentificazioni più
compiute. La tesi di Magris ha esercitato una vera e propria dittatura sulla critica italiana dei
recenti anni, imponendosi, anche per il ruolo istituzionale dell’autore e la sua rete editoriale
e pubblicistica, come referenza principale, a cui si sono unite per intima connessione le
asserzioni di Papini, della critica michelstaedteriana, svolgendo quindi un’azione essenziale
nell’impedirne la lettura adeguata.
Gli elementi di analisi apportati da Magris mostrano apertamente le loro referenze
ideologiche, dal carattere apparentemente oggettivo. La letteratura, in esse, resta ancella, un
fatto accessorio, corollario immaginifico del pensiero. Le astrazioni di Magris uniscono un
confuso eclettismo umanista con contenuti evangelici cristiani, a cui vengono aggiunti, alla
rinfusa, elementi stereotipati di escatologia giudaica. Il rigorismo prussiano, poi, v’interviene
implicitamente come collante morale - ma applicato all’empirismo utilitaristico liberale più
totalitario. La metafisica prende il posto dell’analisi dell’opera, della sua architettura e delle
sue modalità di lavorazione. Il modello ideologico diviene metodo d’indagine e chiave
d’interpretazione. Esso si applica in blocco, in modo organico. Espressione di uno sguardo
estatico, l’opera sarebbe un riflesso in cui fiammeggia l’immagine del fondamento. Essa
veicola un messaggio sacrale: la parola prima e definitiva che si maschera sotto le mille facce
delle “culture”, di cui la letteratura e l’arte sono l’abbellimento estrinseco. La critica deve
solamente estrarre tale contenuto primario. La lettura cosciente si esaurisce in questo scavo
della figura che apre la via verso il fondamento. D’altra parte, il linguaggio diviene
un’epidermide paradossale, epitelio spirituale della sostanza prima, dalla consistenza eterea
degli oggetti oltremondani131.
L’interpretazione coglie i suoi veri oggetti epurando l’opera dai suoi strati di superfice. I
mezzi da essa impiegati sono strumenti di mondatura, rivolti a trovare una verità nascosta
all’interno. Gli elementi propriamente letterari sono secondari, per questo, sono la buccia
esteriore decorativa ma inutile, coloriture, abbellimenti, al limite delle efflorescenze
simboliche, di tale nucleo metafisico. Le forme, la lingua, il loro funzionamento nel testo,
sono il tessuto cromatico di una carne più profonda che forma la sostanza della pagina. Gli
organi che producono l’opera sarebbero così una superfetazione inessenziale della materia
eminente depositata al disotto delle apparenze della parola.
Lo stile nasce da tale ricasco cromatico effimero, sempre al servizio della verità
oltremondana che riposa negli abissi della scrittura. Secondo Magris, Michelstaedter, in
quanto autore “mitteleuropeo”, deve esprimere un pensiero dell’essenza, e quindi una
concezione della contingenza. La sua opera deve essere un discorso estatico che inonda la
cultura con la parola sacra annunciante il fondo supremo e la finitudine degli esseri da esso
generati. E quindi deve rivestire il verbo profetico con un “pastiche” d’idiosincrasie
estetizzanti.
Alcuni interpreti riconoscono in Michelstaedter un progetto espressivo autonomo –
Lonardi per esempio132 -. Ma la maggioranza degli studi tratta l’opera di Michelstaedter
come un assortimento di toni e posture filosofici, riuniti da un bisogno metafisico che
costituisce la vera origine ed il vero senso del testo. All’opposto, la letteratura di
131
Sulla costituzione paradossale del linguaggio nella metafisica, cfr. J. Derrida, L’écriture et la différence, Paris,
Seuil 1967.
132
“A questo punto, non tanto interessa segnare la circolazione assidua di simili temi e metafore tra prosa e
poesia, tra prosa e prosa, né le osservazioni che spuntano, eroicamente controllate nel « classico » comportarsi
del periodo, quanto servircene per risalire, se non è presunzione eccessiva, a una zona centrale, al cuore stesso
della coerente imagerie di Michelstaedter, al sostegno strutturale su cui poggiano quei temi e quelle
metafore”, G. Lonardi, Mito e accecamento in Michelstaedter, in, «Lettere italiane», IXI, n. 3, 1967, p. 300.
Michelstaedter pensa attraverso le strutture figurali che costituiscono l’impalcatura del suo
dispositivo di produzione del testo. La scrittura di Michelstaedter non è un imballaggio che
decora, o rende icastica, una filosofia. Essa non è la vibrazione sentimentale che suona per il
richiamo di una verità fondamentale. I suoi testi rispondono ad un sistema specifico di
costruzione di figura. Michelstaedter è un elemento interno ai processi operanti delle
officine letterarie italiane. La sua opera interviene, così come ne è l’effetto, nella letteratura,
realizzando produzioni letterarie, in una filiera di testo indipendente, costituita da elementi
lavorati da macchine letterarie esterne che, assemblandola, vi sono attive, nella elaborazione
di un aggregato figurale distinto ed inedito. L’opera di Michelstaedter è letteraria, ed
appartiene ad una storia e ad una congiuntura letterarie, che ne determinano le condizioni e
ne definiscono le possibilità. L’assemblaggio dell’opera si realizza in un ambito culturale già
organizzato. La scrittura lavora in moduli esistenti di costruzione letteraria, così come,
partecipando in modo positivo o negativo alla sua struttura, la lavorano. L’opera di
Michelstaedter, come ogni esperienza letteraria, non è partorita da un’intuizione mistica o
da un atto di “creazione” 133. La scrittura di Michelstaedter è una pratica, una catena di
produzione di figure, che unisce in modo determinato in un complesso determinato fattori di
espressione figurale, a loro volta relativi ad un insieme di compagini ed elementi parte di una
congiuntura letteraria in atto. È in relazione alla produzione di una formazione letteraria,
alle sue componenti, alla loro organizzazione ed ai suoi procedimenti, che si può
comprenderne gli effetti espressivi. È in rapporto al suo ambito di intervento, al suo
posizionamento nello spazio letterario, nelle sue condizioni esistenti, che se ne possono
cogliere le condizioni differenziali d’effettuazione. Pierre Macherey ha formulato i concetti
essenziali di una teoria della produzione letteraria. Esplicando la specificità dell’azione di
scrittura figurale rispetto agli altri domini di produzione significante, in particolare della
filosofia, scrive: “(…) On dirait que la philosophie n’est que littérature: comme si elle devait
trouver finalement dans la littérature sa vérité. Vérité silencieuse, rejetée dans les marges de
son texte; c’est la thèse soutenue par Derrida : «La métaphysique a effacé en elle-même la
scène fabuleuse qui l’a produite et qui reste néanmoins active, remuante, inscrite à l’encre
blanche, dessin invisible et recouvert dans le palimpseste». On dirait encore que le
philosophique de la philosophie, c’est–à–dire la réflexion critique de son propre discours,
revient en dernière instance à la littérature, qui dessine en quelque sorte ses limites, vers
lesquelles elle retourne comme une secrète origine, où s’abiment les prétentions
spéculatives d’une pensée pure et absolue.
Faire de la littérature le refoulé de la philosophie, c’est renverser la position traditionnelle de
l’herméneutique, qui présente la littérature comme le lieu d’une révélation essentielle, et
pose donc la philosophie comme l’impensé, ou le non encore pensé, de la littérature. Ce qui
133
Tutta questa parte, ma più complessivamente il nostro metodo di lavoro critico è fortemente debitore delle
tesi di Pierre Macherey. Rispetto alla ”creazione”, Macherey scrive: ”Dire que l’écrivain, ou l’artiste, est un
créateur, c’est se placer dans la dépendance d’une idéologie humaniste. Délivré de son appartenance à un
ordre extérieur, l’homme est rendu par cette idéologie à ses prétendus pouvoirs: n’étant plus soumis qu’à cette
seule puissance, il devient l’inventeur de ses lois, de son ordre. Il crée. Que crée–t- il? L’homme. La pensée
humaniste (tout par l’homme, tout pour l’homme) est circulaire, tautologique, tout entière adonnée la
répétition d’une image. «L’homme fait l’homme» : par un approfondissement continu, sans rupture, il libère en
lui une œuvre déjà donnée; la création est une délivrance. De la théologie à l’anthropologie s’opère en
apparence une mutation radicale: l’homme ne peut créer que dans la continuité, actualiser une puissance; lui
échappe, par nature, l’effectuation du nouveau. Mais cette mutation est une adaptation.
L’anthropologie n’est ainsi qu’une théologie appauvrie, renversée: à la place du Dieu–homme, est
installé l’Homme, dieu de lui–même, ressassant son éternité et son destin, qu’il porte déjà en lui”, P. Macherey,
Pour une théorie de la production littéraire, Paris, Maspero 1966, p. 83.
revient à exorciser, en le renvoyant à sa nature affabulatoire, le mythe d’une littérature
pleine d’un sens contenu, et ne demandant qu’à être ressaisi, dévoilé, pour s ‘épanouir
comme au clair matin de sa vérité première. (…) Les conditions dans lesquelles a été tracé ce
schéma séparateur le montre: le face à face de la littérature et de la philosophie, qui les
constituent comme des essences autonomes, renfermées dans le champ qui définit l’une et
l’autre, et leur fixe leurs limites, est une production historique“ 134. I rapporti tra letteratura e
filosofia non sono stabiliti a priori. È una congiuntura determinata che organizza lo spazio del
segno, quello in cui letteratura e filosofia si incrociano, che pone le condizioni dei loro
rapporti. Ma questo non implica un’assimilazione che cancelli uno dei termini dell’incontro,
o lo riduca per necessità a semplice accessorio.
Michelstaedter non ha scritto saggi filosofici. Ha fatto interventi di letteratura. Questo
andremo a dimostrare e verificare nel nostro studio. Non esiste critica letteraria, afferma
Macherey, senza genealogia dei dispositivi di produzione letteraria. Non c’è discorso sulla
letteratura al di fuori dell’analisi delle pratiche che lavorano effetti espressivi nel testo, e
delle condizioni esterne al testo che ne definiscono la costituzione e gli organismi, e nel
decorso di queste. Occorre allora determinare come e per quali direttrici di composizione
Michelstaedter intervenga in un campo che, comunque, è quello della letteratura, non della
filosofia. Al fine di restituire lo spazio di produzione suo proprio all’opera, è necessario
smontarne gli elementi espressivi, identificarne la meccanica figurale, e, quindi, delineare i
procedimenti che la compongono e la attivano. Ciò che è richiesto, per giungere a rendere la
portata del lavoro letterario dell’opera, è una vera e propria analisi concreta dei processi di
produzione del testo, un’operazione di conoscenza che esplichi la scrittura in relazione
all’organizzazione efficiente, alla problematica, che ne fa muovere la fabbrica espressiva.
Lo spazio produttivo di un’opera impone innesti specifici di mezzi linguistici, forme di
organizzazione figurale, silhouette agenti. Ugualmente, la problematica espressiva di
un’operazione di scrittura letteraria, cioè il suo impianto ed i suoi movimenti, seleziona, al di
là di ogni decisione “cosciente”, referenze dirette o indirette: perché l’opera si compone e
lavora in un contesto dato, che ne definisce le condizioni, all’interno del quale, per i processi
intrinseci ad esso, si compone, e rispetto al quale innesca i suoi propri. La referenza non è
altro che la genealogia del testo, la compagine di fattori situati che, preliminare necessario,
intervengono come componenti interne, in funzione di una confluenza che, essa stessa, è
causata dalle dinamiche della congiuntura a cui gli elementi di base partecipano. La
“referenza” è la manovra ulteriore di un posizionamento attivo in un campo diffuso di
produzione espressiva, sempre determinato in collocazioni, modi e raggruppamenti, cioè in
congiuntura specifica. La ricognizione delle componenti e delle soluzioni presenti nella
scrittura permetterà di cogliere in quale frazione del dominio culturale, ed in che modo,
Michelstaedter è intervenuto, indicandone lo schieramento suo proprio in quello specifico
settore della storia culturale che è la letteratura italiana.
Quale azione di forme e di effetti attiva la fabbrica letteraria di Michelstaedter? La
determinazione del genere dell’opera ci offre degli elementi per rispondere. La critica
riconduce la scrittura di Michelstaedter alla prosa espressiva di un’effusione sentimentale
adolescenziale e scolastica. Oppure, alla riproduzione altrettanto “minore” e didascalica di
modelli discorsivi classici, come il “dialogo”. La natura secondaria degli elementi di stile e di
struttura è giustificata appunto con la motivazione della spontaneità lirica, o dell’afflato
culturale accademico, o della cognizione straziata, magari solo mitigata dal raziocinio
dialogico. Ma alla natura speculativa del contenuto non risponderebbe che il procedere
134
P. Macherey, À quoi pense la littérature, Paris, P.u.f. 1990, pp. 7–10.
logico della scrittura deduttiva sapienziale. Invece, un’analisi efficace deve proprio partire da
tale organizzatore strutturale, scheletro dell’opera, che è il “genere”.
Michelstaedter applica diversi modelli architettonici. La prosa filosofica vi prende posto,
certo, ma in modo interstiziale, insieme secondario e ridotto. Le costruzioni letterarie
prevalgono: fraseggi drammaturgici, inserti romanzati, la narrazione sintetica dell’aforisma,
tratteggi al limite del poetico. Questi moduli non sono introdotti per spinta sentimentale, o
esigenza erudita, o suggestione estemporanea. L’opera integra forme di scrittura calibrate
sugli effetti da trarre da ogni intervento espressivo. Aggancia e fa muovere gli ordini del
discorso figurale in funzione del processo di rappresentazione innescato. Rispetto a questo, è
sempre il conflitto che determina, come ordinamento cardinale, i caratteri e gli impieghi
degli schemi di genere introdotti. Il conflitto, svolto all’interno di quadri letterari, dà alla
pagina di Michelstaedter gli andamenti gestuali di una scena teatrale. Le modulazioni
poetiche stesse si colorano della carnalità attiva dei gesti sul palco, così come la lingua è
piegata e contorta dalle variazioni che rendono i segmenti di genere movenze corporee
drammatiche. Così, un’”altra” lingua è messa in produzione negli scritti, ossia forme
linguistiche diverse ed indipendenti, dotate di complessità ed estensione significante
proprie.
Michelstaedter pratica metodicamente questa assunzione dei costrutti di genere, nelle sue
varietà, in relazione ad effetti espressivi di natura teatrale. Questa linea di costruzione della
pagina, la cui disposizione basica è a sua volta il conflitto, erige l’opera. Muzzioli ha reso nel
modo più efficace questo assetto strategico della scrittura michelstaedteriana: “Nella sua
struttura, infatti il testo michelstaedteriano è fortemente discontinuo, non solo perché la
presenza di lingue diverse e di complessi apporti culturali – pluralità giustificata dalla
provenienza dell’autore, che giunge a Firenze, come studente, dalla allora asburgica Gorizia
– ma anche per gli sbalzi del rapporto tra il soggetto dell’enunciato e il suo interlocutore
pubblico, e inoltre per il variare del genere letterario che passa dall’allocuzione all’apologo,
al paragone scientifico o quotidiano, al racconto vero e proprio (ad esempio la
degenerazione della filosofia greca da Socrate ad Aristotele è delineata attraverso una
bizzarra avventura aerostatica, sulla scia di Jean Paul e di Poe). La scrittura di Michelstaedter
si muove con continui tagli e asprezze, e in alcuni passaggi (quelli dove la trama consueta si
lacera nelle scomposizioni paurose dell’incubo), deforma i tratti del discorso nelle accensioni
di una sarabanda ghignante. Del resto è proprio l’attacco alla «Rettorica» che obbliga a
spostare e traslare – se non a stravolgere – continuamente il linguaggio in posizioni insolite
per evitare il solidificarsi della corrispondenza biunivoca dei segni convenuti e dei termini
tecnici; bisogna – dice Michelstaedter – portare «con le parole guerra alle parole»” 135. Il
passaggio citato da Muzzioli, preso dalle Appendici Critiche136, dà i termini d’intelligibilità
dell’opera. La “guerra alle parole con le parole” non è un proponimento enfatico, che porta
nell’opera l’energia aggressiva di un giovane idealista. È il disegno reggente di un dispositivo
di scrittura e del suo piano di funzionamento, un intervento specifico sul terreno
dell’espressione che si realizza con mezzi ed apparecchiature figurative determinate. La

135
F. Muzzioli, Carlo Michelstaedter, in, M. Carlino, F. Muzzioli, La letteratura italiana del primo ‘900, Firenze, La
Nuova Italia 1989, pp. 202–203.
136
Si tratta dell’incipit che apre il testo e precede l’inizio della prima Appendice. Esso è, forse, come cercheremo
di dimostrare, la vera e propria fondazione di un nuovo genere: la letteratura meta-critica. Eccolo riprodotto
integralmente: “Con le parole guerra alle parole/siccome aure nebbiose l’aria viva/disperde perché pur il sol
risplenda-/la qual per suo valor non s’avvantaggia”, C. Michelstaedter, Appendici critiche, in, Opere, ed.
Campailla, cit., p. 134.
figura137 del conflitto sostiene e dirige l’impianto della pagina. La guerra ordina la
disposizione dell’apparecchio di produzione espressiva che essa è. La logica delle
componenti figurali non rimanda a serie simboliche. Le costruzioni michelstaedteriane si
embricano realizzando effetti di rottura, scissioni che minano l’ordine costituito del testo,
interdicendo ogni ragione di appartenenza. La scrittura agisce per cesure di schemi formali,
così come l’associazione antagonistica dei segmenti figurali interdice la corrispondenza con
modelli fissi. La scrittura di Michelstaedter opera infrangendo la postura normativa che
Pierre Macherey descrive in modo ineccepibile: “L’illusion normative voudrait que l’œuvre
soit autre qu’elle n’est: ceci suppose que l’œuvre n’a de réalité et de consistance que par
son rapport à un modèle auquel elle peut sans cesse être confrontée, et qui fut la condition
de son élaboration. L’œuvre suppose un modèle: ainsi elle peut être corrigée; elle peut être
effectivement modifiée, ou faire l’objet d’un procès. L’œuvre ne dépend donc du jugement
que dans la mesure où elle renvoie à un modèle indépendant, qui à la limite pourrait être
connu directement, sans que soit besoin de détour par la mise en œuvre“138.
Il testo non si offre come un recipiente di protocolli di scrittura preesistenti. La frase cessa di
essere specchio o allegoria. Essa taglia i modelli che sono reputati evocare l’oggetto nella sua
emergenza. La capacità referenziale del testo è completamente rimessa agli effetti espressivi
prodotti dai suoi operatori interni. Le applicazioni denotative, così come le specificazioni
deittiche, si rompono sotto la pressione di forme che cozzano producendo figure
d’avversione.
Le fratture del corpo della pagina sono fattori di blocco delle procedure allegoriche in cui la
pagina ed il reale vengono assimilati. Allo stesso momento, i tagli conflittuali compiono
azioni di costruzione. Le collocazioni opposizionali tracciano i margini che delimitano il
territorio di una specifica organizzazione espressiva. Queste frontiere, poste da un atto che è
fattivo quanto politico, marcano i limiti del testo, la bordura al di qua della quale, insediato
dai suoi movimenti, s’istalla un apparato di produzione figurale. Al di là, non ci sono che le
terre nemiche di un discorso straniero. Il perimetro di questo luogo della parola, coincidente
con la macchina che la profila, possiede la forma paradossale di una parallasse, seguente la
direzione divergente ed embricata dei due processi che la costituiscono: la negazione, che
divide un insieme figurale già esistente al fine di assumerne ed impiegarne, mutati di
funzione, degli elementi; l’assemblaggio, che associa fattori figurali in un complesso inedito.
137
Questo concetto-categoria si trova al centro del dibattito teorico che ha avuto come protagonisti principali
M. Blanchot, J. Derrida, G. Deleuze e J. - J. Lyotard. Malgrado le loro differenti posizioni, crediamo che esista tra
loro un accordo di fondo che porta su due punti, dove risuona fortemente la presenza del parallelismo
spinoziano: 1) la figura non si riferisce ad alcuna dinamica psicologica, che sia funzionale o intenzionale; 2) la
figura è un polo di significazione autonomo. L’identità tra funzione generativa e funzione referenziale rende la
figura un “significante”, piuttosto che un semplice “segno”. La figura è sempre, per tale carattere produttivo ed
analitico, l’effetto di una produzione che non ha altri impulsi di movimento che l’insediamento di modi di
“figurare”, di delineare silhouette agenti costituite di modulazioni significanti. Blanchot presenta la produzione
della figura dal “figurale”, che chiama “opera”, in un testo che riassume bene, a nostro avviso, i punti in
comune ai quattro autori: “L’œuvre dit ce mot, commencement, et ce qu’elle prétend donner à l’histoire, c’est
l’initiative, la possibilité d’un point de départ. Mais elle-même ne commence pas. Elle est toujours antérieure à
tout commencement, elle est toujours déjà finie. Dès que la vérité qu’on croit tirer d’elle s’est fait jour, est
devenue la vie et le travail du jour, l’œuvre se referme en elle – même comme étrangère à cette vérité et
comme sans signification, car ce n’est pas seulement par rapport aux vérité déjà sues et sûres qu’elle paraît
étrangère, le scandale du monstrueux et du non– vrai, mais toujours elle réfute le vrai: quoi qu’il soit, même s’il
est tiré d’elle, elle le renverse, elle le reprend en elle pour l’enfouir et le dissimuler. Et cependant, elle dit le
mot commencement et elle importe puissamment au jour“, M. Blanchot, L’espace littéraire, Paris, Gallimard
1955, p. 239.
138
P. Macherey, Pour une théorie de la production littéraire, cit., p. 27–28.
L’opera di Michelstaedter si compone spezzando figure per rimontarle in nuove filiere. Sulla
spinta delle operazioni di disarticolazione, la pagina si monta come coesione efficiente di
molteplici processi di fabbricazione figurale, raggruppati, nel senso dell’avversione, per
funzioni espressive. Questa costituzione del testo-fabbrica è illustrata da Macherey, nella sua
analisi della figura “Parigi” in Balzac: “Ainsi, pour prendre un exemple élémentaire, le Paris
de La Comédie Humaine n’est un objet littéraire que dans la mesure où il est le produit du
travail d’un écrivain: il ne le précède pas. Mais, en cet objet, les éléments qui le constituent
et la relation qui les réunis pour leur donner une cohésion particulière, se déterminent
réciproquement. Ils tirent leur «vérité» l’un de l’autre, et de rien d’autre. Le Paris de Balzac
n’est pas une expression de Paris réel: une généralité concrète (alors que le concept serait
une généralité abstraite). Il est le résultat d’une activité de fabrication, conforme aux
exigences non de la réalité mais de l’œuvre: il ne reflète ni une réalité ni une expérience,
mais un artifice. Cet artifice tient tout entier dans l’institution d’un système complexe de
rapports, qui fait qu’un élément particulier (une image) ne tire pas son sens de sa conformité
à un ordre différent, mais de la place qu’il occupe dans l’ordre du livre“ 139. Lo specifico
procedimento di fabbricazione letteraria di Michelstaedter è retto da un assetto che ne
organizza i momenti interni ed i rapporti con l’esterno: il conflitto. Lo scontro, condotto da
significanti in produzione contro altri significanti in produzione, articola l’assemblaggio di
mezzi ed esiti dell’opera. Vera e propria giunzione cardinale che avvita i fattori espressivi, la
discordia decide la selezione degli elementi di scrittura, delle configurazioni stilistiche, e dei
loro contenuti.
La scrittura di guerra produce il testo per linee produttive di figurazione, schemi
efficienti di composizione, che uniscono modi iconografici e tematici per estrarne altri.
Assemblando scene di antagonismo, tali organi espressivi hanno come ambito ed obiettivo il
contesto letterario italiano. Michelstaedter stesso, o meglio, l’opera, tematizza la zona
d’intervento in cui essa si edifica ed interviene. La produzione di scrittura, realizzando una
definizione critica “in corso d’opera”, sorta di ripiegamento riflessivo effettuato nell’azione
testuale, rappresenta tale configurazione analitica delle sue condizioni e dei suoi fini.
Potremmo definire tale gesto, in tutto e per tutto espressivo, “figurazione meta-critica”. È
una delle operazioni sperimentali di Michelstaedter, essa stessa prodotto di conflitto e tesa
ad effetti conflittuali. Se Michelstaedter ha diritto ad un posto nelle avanguardie di inizio
secolo, è anche, ma non solo, per questa rivoluzione che trasforma la natura e le funzioni
dell’analisi critica. Da svolgimento esplicativo, essa diviene una componente figurativa
innestata su altre serie figurali, all’interno di un impianto letterario. Le raffigurazioni teoriche
divengono un segmento di rappresentazione, dalla forma riflettente, che partecipa
all’insieme del testo, di cui rende espressivamente gli effetti di ricognizione interna mediante
immagini di aspetto concettuale. È l’azione della struttura della pagina in se stessa che, sotto
forma di personaggi e vicende tramite cui avviene l’esplorazione della scrittura in atto, è
unita e lavora la scena, insieme a tutte le altre componenti. La figura-pensiero interviene,
insieme alle altre presenze testuali, senza privilegi di conoscenza o di eminenza, a
complicare, ma anche ad ampliare, la portata dell’opera. È evidente il duplice effetto
conflittuale che questo procedimento implica, e tanto più in un momento dominato
dall’idealismo speculativo, negli ordini del teorico: sia rispetto alla superiorità del pensiero,
sia rispetto alla sua valenza ontologica.
Michelstaedter mette in scena, per drammatizzazione, la genealogia del testo. Esso vi appare
osservare la propria produzione in un quadro recitante, dove agiscono le ragioni della sua
139
P. Macherey, ivi, cit. p. 72.
esistenza. L’architettura dell’opera si rappresenta in teatro, incarnandosi in silhouette
figurali. Ma, così facendo, la pagina lavora, continua a lavorare, la sua situazione e le sue
referenze, le sue alleanze ed i suoi antagonismi. Le immagini dal ruolo critico ne
interpretano, in termini di figure d’indagine definitoria, presenti nello stesso palcoscenico
delle altre, allo stesso livello e con gli stessi compiti, il posizionamento strategico all’interno
dell’ambito letterario italiano. Questo procedere segnala, con ancora maggiore forza, dove si
collochi l’intervento di Michelstaedter, e come: esso si allestisce e lavora nelle geografie
espressive d’Italia, rispetto ai loro ordini ed alle loro gerarchie. Queste figure “critiche” ne
presentano con ancora superiore evidenza il segno e le direzioni. Benché l’opera si
componga nel contesto italico, e i suoi termini si diano in questo, essa è un posizionamento
manifestamente avverso alle forme ed i valori che vi sono dominanti. Nel suo operare di
dispositivo di produzione espressiva, la scrittura di Michelstaedter pone un’azione di
avversione in cui è agito il rifiuto del regime figurale unitario ed i suoi istituti. Troviamo
anche nella corrispondenza, parte anch’essa dell’opera, per come ne sono il funzionamento
e le forme, la presenza di tale posizionamento. Michelstaedter scava un fronte di contro alla
rappresentazione “nazionale”. La sua “italianità” è una contestazione radicale, raddoppiata
criticamente, non solo del nazionalismo risorgimentale, ma anche del sistema di poteri
governante, attraverso l’apparato di istituzioni culturali al comando, le pratiche
dell’espressione, e dell’espressione letteraria, nel campo italiano. L’opera avversa attacca la
Nazione, ne aggredisce le icone e le forme d’irreggimentazione organica. Essa scava solchi
nello spazio italico che lacerano i contorni stabiliti come “patridi”. Smonta e ricompone
figure nazionali al di là ed al di fuori delle rappresentazioni di Stato, in cui dovrebbero
manifestarsi in immagine lo spirito del “popolo italiano”. L’opera disarticola le immagini
eminenti che dovrebbero contenere, esplicitandola, l’anima di una comunità d’essenza:
quelle di cui la lingua, la cultura e l’ideologia “unitarie” veicolano la parusia. L’”Italia” di
Michelstaedter è un fronte di conflitto, un terreno di lotta in cui la Nazione è parte coinvolta,
non un’istanza superiore che vigila sui figli in battaglia, esente dal confronto. L’Italia di
popolo è una Nazione introvabile, un’antinomia storica ed un controsenso culturale: un
luogo senza nome, una terra di nessuno, dove le schiere della patria Italia, ed i loro
organismo, si disputano la supremazia con altre fazioni in conflitto. “Patria” non è che
l’apparato in cui si realizza un ordine di dominanza.
L’Italia è la Nazione inesistente di un popolo impossibile. Michelstaedter circoscrive,
nell’opera, uno spazio italiano esterno a quello prodotto dall’apparato patriota: un territorio
senza attribuzione né appartenenza che è un campo di antagonismi tra forze nemiche.
L’”Italia” non rappresenta nessuna Nazione. Essa non è che il dispositivo di governo al
comando in uno scenario di guerra civile permanente. L’Italia che agisce nell’opera, tanto
quanto l’opera muove in essa, è un terreno travagliato da divisioni e scontri, in cui la parola
stessa, del pari della figura, prende le attitudini delle operazioni militari.
Le figure di Michelstaedter attivano un fronte, e tale linea di affrontamento, con le sue
manovre, è la condizione ed il campo della scrittura. In essa, l’opera effettua azioni dalla
logica conflittuale, che potremmo denominare “tattiche”. Leopardi, Gozzano, a cui si
aggiungono Nietzsche, Ibsen ed altri, rappresentano bel altro che citazioni o richiami eruditi,
tanto meno dei maestri di stile. Esso sono modi di organizzazione antagonistica sul fronte
italico, disposizioni combattenti che il testo inserisce nei suoi quadri operativi, per impiegarle
nelle sue incursioni contro le forze di Stato dell’Italia nemica.
In uno dei suoi quaderni, Michelstaedter offre una visione della “patria” a cui appartiene la
sua opera: una comunità senza Nazione, fuori dalla Nazione, e del suo organico regime di
comando istituzionale: “Ma quando la patria intensificandosi diventasse oltre che questione
di confini e di lingua, religione, morale, classe; essa sarebbe matura a rompere i confini, e io
sarei organo dell’organismo come l’organismo stesso sarebbe organo dell’umanità” 140. In
tale territorio amico si aggregano i senza patria che non si riconoscono nel dominio della
Nazione italiana. Qui, in questo luogo fatto di formazioni di scrittura italiche a-nazionali,
Michelstaedter incontra le sue schiere, quei dispositivi di scrittura che allestiscono gli
ingranaggi della sua officina figurale. Tra esse c’è, appunto, “Leopardi”, il sistema di testo
che, primo, aveva rotto l’organismo d’ingiunzione e controllo fondato sulle icone imperative:
“Popolo-Nazione-lingua”, esercitando la pratica della figura come fazione di una guerra civile
contro il potere patriota: “Se noi l’osserviamo (una persona generica) ad esempio nel punto
ch’egli ha la via patriottica: egli è nell’illusione : che il suo io sia non più l’io contingente che
mangia o beve o desidera quello che fa progredire il suo corpo e lo allontana dalla morte, ma
sia la patria: quello che fa progredire la patria è il piacere per lui, quello che è dannoso alla
patria è il suo male, la libertà della patria è la sua libertà, la patria ha il valore universale è il
bene assoluto costante : alla patria conviene sacrificare tutto: i valori della vita particolare,
parentela, amicizia, posizione economica: vita: bisogna farlo ma è gioia il farlo ; a lui non
deve portar alcun sacrificio, perché i valori della vita particolare non sono più valori per lui,
ed egli vive la vita della patria (il suo egoismo è la morale patriottica).
Ma come prima la sua vita inferiore lo faceva soffrire così ora egli soffre perché egli vede
presto che il valore dei concetti patriottici è determinato dalla contingenza di quel complesso
di persone, che vivono su quel punto della terra, di quelle tradizioni, di quei bisogni, che non
hanno in sé una ragion d’essere, ma che sono inerenti al bisogno di vivere della patria, - che
la patria vive per vivere senza alcuna finalità assoluta; - che la libertà è limitata alla
contingenza di questi concetti e così la Costanza. – Ancora una volta quello ch’egli vuole gli
sfugge appena ottenuto – gli si risolve in niente – ancora una volta nella «cosa desiderata»
egli non trova che il suo «desio» <Leopardi>; egli s’accorge ancora una volta ch’egli ha
battuto l’illusione di prima con una nuova illusione” 141. Il Risorgimento di Leopardi, copiato,
segue a questo passaggio. Esso fa parte di una lunga nota, numerata 5, intitolata Περί σοφία
και ευδαμονίας. Questo testo data 1909, vale a dire lo stesso momento in cui
Michelstaedter comincia la redazione de La Persuasione e la Rettorica e del Dialogo della
salute. Questa nota è una delle prime vere rappresentazioni della problematica letteraria di
Michelstaedter, essa stessa composta in termini letterari. Il dialogo allo specchio, dai tratti
del diario, svolge una visione del lavoro di produzione della forma, una ricognizione dai
caratteri della figurazione, mediante l’introduzione di un personaggio anonimo dalle posture
meditative. Questo, dopo essersi interrogato sulla natura ed i fini della percezione, della
conoscenza sensibile e del piacere, investiga l’azione artistica. L’espressione estetica segue le
traiettorie di una “volontà”. Questa parola assume un significato specifico: definisce il
fronteggiarsi che oppone un agente dal suo antagonista. La “volontà” è l’espressione di una
discordia che separa e mette di contro un polo attivo ed un termine avverso. L’arte è quindi
un campo di discordanza, disposto ed organizzato dalla scissione. I periodi stessi qui si
intersecano come lame, tagliando immagini in lembi separati.
La connotazione soggettiva, psicologica o morale, del gesto artistico è eliminata dalla natura
catartica del complesso espressivo. “Catarsi”, per come è impiegato da Michelstaedter, è la
frattura di un regime di legittimità semantica provocata da una compagine espressiva

140
C. Michelstaedter, Περὶ κοινωνὶας κακῶν και ἱστωριας, in, Sfugge la vita. Taccuini e appunti, Torino, Aragno
2004, p. 150.
141
Ivi, pp. 123–124.
dissidente. È la mobilitazione di un aggregato di significanti i cui comportamenti non sono
determinati da manifestazioni intenzionali o intellettuali, ma da funzioni di manovra
conflittuali, da cui un’organizzazione dominante è posta sotto attacco. Così, il linguaggio
letterario non si qualifica per la sua valenza referenziale. La lingua espressiva è una
diversione che produce diffrazione semantica, la quale effettua, nell’ambito del segno, la
dissociazione compiuta dall’opera, e la frattura da cui l’opera stessa si produce.
Lo scontro tra fazioni opposte costituisce l’assetto reggente dell’arte di Michelstaedter.
Tuttavia, questa presa di partito estetica prende il valore di definizione generale del dominio
letterario. La letteratura è la pratica crudele che distribuisce i significanti per costellazioni
scisse ed antagoniste. L’estensione e le modalità del conflitto – l’impatto maggiore o minore,
la sua maggiore o minore dimensione – ne generano le disposizioni e ne decidono gli esiti. La
figura al lavoro della rovina produce le morfologie dello spazio letterario: “Ogni volontà per
realizzarsi urta contro la necessaria ostilità della materia. (spazio – tempo, relatività). Ma se
si sofferma, se si ripiega, se s’adatta e teme per la propria continuazione: per la propria
materia, e accetta le leggi della materia, attende, spera, gira gli ostacoli, transige in riguardo
a questo e quello el se tira avanti (meglio in tedesco: er rollt sich weiter) l’urto è evitato in
nome della κοινωνὶα κακῶν142. Ma la volontà eroica non cede e rende manifesta nel suo
contatto tragico coll’ostilità esterne l’ILLUSORIETÀ della sua ragione d’essere, manifesta
tutto il contenuto della propria illusione vitale, perché essa cessa di esistere per la rovina di
questo <essa era tutta assorbita in questo> e nessuna parte si continua oscura, inesplicata,
NON TRASPARENTE, istintiva. – Questo render manifesta e trasparente l’azione (=dare il
νοῦς della ὁρμή è la purificazione dell’azione, la κάθαρσις.
La catarsi ha un significato solo in riguardo all’azione: secondo il principio dell’uguale azione
e reazione. Dove non c’è azione non c’è bisogno di catarsi ma dove c’è l’azione è necessaria
la catarsi perché si ristabilisca l’equilibrio: Nell’ (sic) opposizione alle altre forze la volontà
dell’eroe si svolge e si dissolve, e le altre forze rappresentanti della necessita sempre
esistente manifestano la loro sufficienza a impedire ogni trascendere. La catarsi dà così il
valore generale d’ogni volontà particolare. Un’azione veramente vissuta deve dar questo
concretamente: con l’azione pura. Ma ciò equivale a vivere concretamente la necessita
d’assoluto, id est la negazione d’ogni vita” 143.
In questo passaggio risuona la contrapposizione alle posizioni nazionalistico-mazziniane del
Carducci “satanico”, ma anche a D’Annnunzio, in particolare quello epico de La figlia di Iorio
e de La Nave.
La patria sognata è un campo di guerra. L’”Italia” è un romanzo i cui personaggi sono
protagonisti di una storia sacra del tutto irreale, priva di qualsiasi sussistenza di fatto. Il
racconto comunitario che si sviluppa attraverso le sue scene sprofonda ad ogni riga. Il senso
identitario e destinale che pretende riprodurre è trapassato dalle lotte che ne smembrano le
immagini e la lingua. Le sue figure sono un pezzo, al di là di quello che vogliano mostrare,
della rovina della Storia Nazionale. E, nei contrasti di cui anche la narrazione patriota
“unitaria” è una fazione ed un effetto, anche i segni sono un fronte ed un’arma. Parte di una
scena di conflitto, il romanzo della Nazione è riportato ad una geografia eccentrica di scontro
tra storie eterogenee e nemiche. L’”Italia” non indica alcun genere sommo, così come non
ne offre il cammino sublime. È un toponimo vuoto che designa un paesaggio straniero, in cui
gruppi opposti, fronti del senso, si scontrano. Questo teatro strategico detta le operazioni di

142
La “comunità dei malvagi”.
143
Ivi, cit., pp. 102–3.
composizione di Michelstaedter. Allestendo l’opera come un dispositivo di contrasti, la
guerra civile ne comanda gli ordini e ne determina gli effetti.
La scrittura non è un gesto di riconciliazione. Essa non è la mimesi di alcuna personalità
massiva di genere: non indica alcuna fraternità ideale, né in essa parla un’essenziale
comunanza d’idioma. Essa non è la dichiarazione unanime di un collettivo, unito da una
stessa origine e da fini condivisi, che racconta se stesso in un’enunciazione riflessiva dove la
coscienza di sé declama la sua coesione organica e le sue deliberazioni generali. L’opera non
esplicita la conciliazione solidale portato di uno stesso sangue e di una stessa mente.
Piuttosto, essa è l’intersezione strategica di settori di guerra. Prodotto e fattore di conflitto,
l’opera non è che la regione instabile che muove e muta secondo le congiunture degli
scontri. Testo che si disloca lungo le evoluzioni dell’antagonismo, l’opera esiste in e per la
rovina che la provoca. Le sue attestazioni dipendono dalle collocazioni tattiche in cui schiere
ostili svariano le une contro le altre.
L’opera di Michelstaedter si determina in relazione all’offensiva portata contro l’ideale di
una comunità organica. L’aggressione alla lingua nazionale, segmento del conflitto nel
linguaggio, ne è un momento necessario. Michelstaedter aggancia i suoi periodi per far
esplodere l’italiano “unitario”. Applica, nella sua più estrema virulenza, la strategia
linguistica avversativa di Leopardi. L’italiano è la parte nemica di un conflitto la cui posta è
l’indipendenza della parola. Ecco il gesto leopardiano di Michelstaedter, ulteriore, decisivo
debito che si unisce a tutti gli altri da lui assunti con Leopardi: esso determina la pratica della
lingua che organizza le strutture linguistiche dell’opera. La messa in movimento di organismi
linguistici dalla natura disgiunta e contrastiva disarticola i materiali lisci della lingua
nazionale, come ne secolarizza l’idea. In essi è spezzata l’universalità delle forme nazionali,
compartimentate in una regione scissa del dire in cui il loro codice non è che una formazione
in manovra contro altre.
“Lingua”, “Nazione”, “Popolo”: attaccate ed occupate dal dispositivo di scrittura di
Michelstaedter, tali configurazioni espressive molari cambiano di significato. Da referenti
simbolici trascendenti, esse assumono i caratteri politici relativi alle loro azioni di conquista e
governo della significazione. Non sono più forme eminenti, enunciazione congruente di
entità altrettanto superiori: sono formazioni dominanti all’interno di uno scacchiere di
guerra. Questi significanti impongono, dal conflitto, e dirigono, nel conflitto, un regime
d’enunciazione che porta su un intero spazio semantico. “Italia”, il discorso imperativo su cui
elevano il loro imperio, è un ordine dell’espressione, un sistema di dominio che ingiunge ad
una comunità significante, da esso conquistata e sottomessa, ciò che può e ciò che non può
dire, e come dirlo.
“Lingua” “Nazione” “Popolo” sono icone che sanciscono la giurisdizione di un potere sui
segni e sui significati. Il loro apparato, e le sue applicazioni – l’”Italia” – ne definiscono gli
istituti autoritari, la norma imposta che definisce, imponendole, le condizioni legali della
significanza. Un regime espressivo al comando è l’esito di un affrontamento. I suoi modi si
costituiscono a misura delle esigenze di gestione che una conquista ha consegnato. Così,
all’interno dell’ordine da esso inferto, una congiuntura letteraria esprime la dominanza che
insedia il testo delle componenti vincenti. Elevando le sue istanze sovrane, perché vincitrici,
al ruolo d’istituzioni letterarie universali, modello e fondamento della legittimità culturale, il
potere della parola si esercita in qualità di governo della pagina artistica. La conformazione
di un assetto della produzione letteraria esprime un’articolazione, e specificamente quella
che riguarda la produzione di figure, del sistema gerarchico di governo dell’enunciazione. La
letteratura è determinata, così come ogni altra pratica della parola, dalle condizioni politiche
proprie del dominio del significare. Essa viene dalla guerra, ed è parte in guerra, tanto
quanto è il diritto di guerra che ne regola le relazioni interne. Lo scontro decide delle
conformazioni dello spazio letterario. Esso ne afferma la continuità. Ma ne porta anche il
rovesciamento, nel momento in cui la supremazia strappata nella lotta da un aggregato
letterario induce la caduta di un ordinamento del segno, ed afferma un’altra organizzazione.
Questa è, nel fronte in cui “Lingua” “Nazione” “Popolo”, ed il loro Stato – “Italia” – sono
messi sotto attacco, la rottura antagonista della “persuasione”.
La natura della pratica letteraria, la costituzione della scrittura, non è spirituale, o
kerigmatica. Scrivere è un atto politico all’interno di uno scenario totalmente politico, dove
aggregati figurali opposti cozzano per la supremazia. Allo stesso modo, è un frangente della
guerra della letteratura lo scontro tra forze dissidenti e formazioni al comando. L’avversione
ad un’organizzazione istituzionale pubblica delle forme letterarie è un quadro delle scissioni
campali che producono le disposizioni dell’enunciazione artistica. Questo dà ruolo storico ad
ognuna delle componenti storiche di una situazione letteraria. Ovverosia, ne definisce il
carattere storico reale: un posizionamento al fronte. Quindi, la letteratura italiana è essa
stessa un contesto politico, non la rivelazione scritturale di una filiazione trascendente. Ed è
la storia delle guerre letterarie italiane, le congiunture sorte da esse, che ne manifesta i
caratteri propri. E, tra essi, quello più qualificante: nel fronte italiano, la lotta tra fazioni non
si arresta. Malgrado la costituzione di un primato, i modi del senso non si pacificano in
istituzioni stabilite e salde. L’Italia della scrittura è il quadro picaresco in cui ritorna una sola
scena: la guerra civile permanente 144. Gli affrontamenti attraversano il campo italiano e lo
straziano. La letteratura italiana non proferisce la parola suprema di una Nazione, è la
situazione posta dall’aggrovigliarsi feroce di parti nemiche, protagoniste di una tragedia
interminata del senso. Le configurazioni del dominio espressivo italiano sono le figure cupe
di un canovaccio bellico che, sempre in corso, presiede alla storia della parola italica d’arte,
in quanto parte del teatro crudele delle guerre italiane del senso.
Il corpo della Nazione letteraria, scossa dagli stessi colpi che attingono quella sociale, è
aperto dalle ferite inferte da fazioni avverse. Per questo, seppur dominante, esso è
inconcluso, mantenendo permanentemente il suo assetto militare belligerante. Così,
l’”anima italiana”, che non esiste se non come sistema di dominanza, è l’apparato guerriero
che fronteggia le forze interne ed esterne che ne minacciano la supremazia. I lavori di Tullio
de Mauro145 hanno portato elementi decisivi a questa ricognizione del contesto italiano, che
agisce nel lavoro letterario di Michelstaedter. De Mauro illustra i momenti topici del conflitto
culturale che ha insediato l’”Italia” e l’”Italiano” come ordini di regime, e di cui la letteratura
non è che un organo.
Il conflitto attiva e governa, dunque, la produzione di Michelstaedter. I suoi assemblaggi
letterari si organizzano per risoluzione strategica avversativa, sia rispetto alle strutture
nazionali istituite, sia rispetto alla loro genealogia. Insieme, però, essi si innestano anche sui
processi di secessione indotti, nel conflitto, da movimenti di rottura e trasformazione: la
“persuasione”. Allora, è la guerra civile italiana per la rivoluzione la problematica generale
che dirige i procedimenti michelstaedteriani.
Nell’opera l’”italiano”, lingua nazionale di popolo, è l’antagonista che occupa l’altro
lato del fronte della parola, di cui è parte quella letteraria. L’italiano è una sezione,
strategica, dell’aggregazione dominante contro la quale il testo muove le sue componenti

144
Secondo la definizione di “guerra civile” data da Gabriele Ranzato, Evidenza e invisibilità delle guerre civili, in,
AA.VV., Delle guerre civili, Roma, Manifestolibri 1993, p. 24.
145
T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza 1963.
linguistiche. Le soluzioni di Michelstaedter sono dirette a minare l’apparato manzoniano.
Manzoni recupera la visione universalista ed identitaria di un italiano eloquio connaturato ad
un genere storico. Elevando, ne I Promessi Sposi, il fiorentino modernizzato a lingua
nazionale, le guerre linguistiche italiane dovevano avere fine, grazie alla definitiva
affermazione di un regime del dire. Manzoni scrive il romanzo scritturale di una personalità
identitaria per far tacere, grazie alla sua supremazia in quanto parola prima e finale, le lotte
culturali italiche. Il testo, verbo rivelato di un Soggetto supremo, è concepito come
l’insediamento di un ordine terminale, preminenza di un’entità superiore vittoriosa che,
sbaragliate le parti avverse, instaura la pace italiana sul campo di battaglia della parola. Per
questo, esso ne esegue anche le operazioni di polizia del linguaggio. La scrittura di
Michelstaedter, nella sua pratica della lingua, riporta il complesso manzoniano al conflitto,
mostrando, con il conflitto stesso di cui essa è il portato, che la guerra continua. Come
dicevamo, è questo uno dei gesti leopardiani che ritrovano capacità operativa nella pagina di
Michelstaedter. Leopardi è stato il primo a combattere l’italiano laminare normativo dei
Promessi Sposi. La lingua leopardiana rompe gli ordini della parola nazionale 146 manzoniana,
mediante procedimenti avanzanti per disgregazione espressiva. Walter Binni sottolinea,
analizzando La ginestra, le inserzioni di toni ed accenti, le costruzioni controverse e distorte,
i rapporti d’opposizione tra lingua veicolare, invenzione lessicale e registri elevati, attraverso
cui si realizza l’eversione di Leopardi al sistema della legalità manzoniana: “La forma
eccezionalmente nuova di questa sterminata poesia svolta in lunghe strofe (quasi più lasse
che strofe) come tentacolari, avvolgenti e che poi a un certo punto, al loro termine, captano
e fanno esplodere, deflagrare le verità che Leopardi vuole esprimere e imprimere nei
lettori”147.
Manzoni lavora per arrestare per sempre le discordie linguistiche italiane. Istituendo un
idioma-Nazione, lingua del genere italico, che il mondo italico doveva assumere, Manzoni
stabilisce uno Stato dell’espressione la cui competenza ha la stessa valenza giuridica, e la
stessa estensione governamentale, delle istituzioni politiche. Questo idioletto strutturato e
formalizzato afferma la sua preminenza schiacciando le altre lingue. Grazie alle sue forme
generiche ma ordinate, distribuite come istituti ed organismi giuridici, alla sua armatura
comprensiva, benché serrata, ai suoi registri lisci e perentori, il fiorentino di Manzoni ha
potuto raggiungere l’ampiezza di un complesso generale di Stato, e l’autorità di un
ordinamento sovrano: edificio di regolazione ed amministrazione abbastanza vasto e
capillare per qualificarsi come regime generale della parola italiana. Questo dispositivo, che
cumula la forza politica di una compagine dominatrice e la capacità di gestione di
un’organizzazione totale, aggredisce i dialetti e li schiaccia 148. Suoi nemici nella campagna di
conquista del territorio linguistico d’Italia, li spazza via militarmente, privandoli, come lingue
straniere di genti straniere, della legittimità ad esistere. L’italiano si appropria con la guerra
del suo potere sul linguaggio. È la conquista a permettergli di dominare il territorio
146
Questa tesi è esposta con rigore nello scritto di M. Minarda, “Popolo”; “moltitudine”; “coro”. Lemmi politici e
letterari in Leopardi (e Manzoni), pubblicazione on-line del Centro Sudi Pietro Camporesi 2021.
Il primo ad averne posto i termini è, ovviamente, Bruno Biral, in, La posizione storica di Giacomo Leopardi,
Torino, Einaudi 1974.
147
W. Binni, Lezioni leopardiane, Firenze, La Nuova Italia 1994, p. 566.
148
Cfr. A. Manzoni, Sulla lingua italiana, Lettera a Giacinto Carena, in, Tutte le opere, V, tomo II, pp. 569–570;
Sulla lingua italiana, ivi, pp. 57-602; Per un vocabolario dell’uso fiorentino, ivi, pp. 497-568; Dell’unità della
lingua e dei mezzi per diffonderla, ivi, pp. 603–652; Lettera intorno al libro De vulgari eloquentia di Dante, ivi,
pp. 653–672; Lettera intorno al Vocabolario, ivi, pp. 673–700. Su questo, cfr. P. Trifone, Una lingua per l’Italia
unita, in, Storia della letteratura italiana, a cura di E. Malato, VIII, Roma, Salerno Editrice 1998, pp. 221–262. Si
veda anche, T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, cit., pp. 46–50.
linguistico italico e d’imporvi il suo comando di linguaggio istituzionale, eloquio sovrano di
una civiltà unita nello Stato della lingua come in quello della politica sociale. Invece, il fronte
della parola non era per nulla stabilizzato. Il conflitto agisce Leopardi, nella sua scrittura. E
conflitto agisce Michelstaedter. A fronte dell’italiano forgiato da una rielaborazione di segno
imperialistico a partire dal volgare fiorentino delle “tre corone”, il Dante dell’Inferno in
particolare, con le sue figure semplificate e zelanti; a fronte del regime di comando sul dire
che afferma, si compattano di nuovo fazioni antagoniste, aggregazioni prodotte da una storia
di guerra mai conclusa. Esse si rifiutano all’ordine dell’italiano, e lo combattono. Leopardi,
appunto. Poi gli scapigliati.
Certo, Manzoni inaugura una fase nuova delle guerre civili della parola nel suolo italico.
L’azione conquistatrice di cui lui è una frazione, ed il nome, raggiunge un apice di profondità,
potenza e pervasività mai toccato prima. Infatti, essa investe non tanto e non solo l’ambito
letterario, ma soprattutto quello della parola diffusa. Ed è nel quadro della parola d’impiego,
quella ordinaria, che si erge egualmente una fazione dissidente all’ordine italiano. Il
“brigantaggio”, seguito alla conquista garibaldina del Sud, fu, oltre che una rivolta contro
una vera e propria occupazione coloniale, una guerra civile dei dialetti contro l’italiano al
potere. Le prescrizioni del governo manzoniano dell’enunciazione, presentate in tutta la loro
violenza nei suoi scritti teorici, sono applicate pedissequamente dalla legge “Pica” del 1863.
In pratica, in essa, si ordinava la fucilazione per chi venisse trovato a parlare in dialetto,
lingua dei “briganti” oppositori dello Stato. La scuola nazionale impiantata sulle stesse
prescrizioni proseguirà, ben prima del fascismo, gli stessi massacri linguistici – con altri
mezzi, non meno dispotici, seppur meno cruenti -.
Per Michelstaedter l’italiano è la lingua al potere. Occorre abbatterla per riconquistare
l’autonomia della parola. L’italiano “fiorentino” di Manzoni è l’antagonista delle operazioni
linguistiche conflittuali dell’opera. Le sue forme, le sue ingiunzioni, la sua autorità, sono lo
schieramento avverso contro cui muove la lingua di Michelstaedter, l’organismo disciplinare
d’occupazione che essa intende destituire con il suo lavoro dell’enunciazione. L’ordine
dell’italiano, imposto dai suoi apparati istituzionali – scuole, istituti culturali, intellettuali,
mezzi d’informazione – deve essere infranto al fine di strappare lo spazio necessario ad
un’altra lingua, la lingua “persuasa”, linguaggio autonomo di un discorso esterno al
comando. L’opera lavora nel linguaggio per contrastare il dominio dell’italiano, per
penetrarne le schiere e, violandone l’autorità, spezzarne la supremazia, aprendo una via
verso un’altra, estrinseca, organizzazione del segno.
L’italiano, sogno epico di un sistema armato, è la presenza nel linguaggio della guerra civile
che travaglia tutto il campo italico. In Michelstaedter le lotte italiane della lingua
distribuiscono le evoluzioni della scena della parola interna all’opera. In essa, la dissidenza
che lacera la cultura italiana recupera la sua posizione di condizione preliminare e di
contesto d’azione, luogo in cui si determinano i termini, e gli effetti, delle pratiche del
linguaggio. In questo scacchiere, tutto ciò che è da dire nel dominio italico si costituisce e
prende posto al fronte della guerra.
La lingua di Michelstaedter scavalca l’italiano superandolo in altezza, o, infilandosi nei suoi
interstizi minori, passa al di sotto dei suoi registri. Michelstaedter impiega contro l’italiano
manzoniano le formazioni che pensava aver cancellato. La lingua semplice dei bambini o
quella popolana del folklore, le inserzioni maccheroniche, le variazioni affilate che tagliano
nette la grammatica e la sintassi, scompaginando gli enunciati regolati in una pluralità di
serie linguistiche divergenti. Esattamente nella linea dei posizionamenti eversivi di Leopardi.
Nelle analisi linguistiche così lungamente sviluppate nello Zibaldone, Leopardi disarticola e
spezza l’italiano ideale normativo. Ne abbatte le direttrici sincroniche e diacroniche. Là dove
si dovrebbe trovare solidarietà procedurale, identità formale e universalità di strutture,
Leopardi fa intervenire raggruppamenti alieni, forme antagonistiche, costruzioni diffratte.
Mina alla sua base la simmetria, fondante l’esistenza della lingua come attributo di una
personalità nazionale, tra spirito del genere italiano e canone enunciativo. Manzoni
seleziona ed inquadra la lingua per mantenerne il nucleo capace di autorità, la forma più
dotata di capacità ingiuntiva e carattere legislatore. Leopardi contrasta tale operazione di
presa di comando, e l’irreggimentazione che impone, investendola con le forze dissidenti di
una lingua insubordinata, che riattiva il conflitto, solo apparentemente spento, interno al
dominio nazionale. Ammutinamenti ripetuti di forme refrattarie di parola assalgono
l’ecumenismo totalitario, esecuzione di un apparato dominante, della norma linguistica,
contrapponendosi alla sua autorità. La realtà degli idioletti blocca il drenaggio forzoso, e la
riduzione imposta, che dovrebbero domare e sottomettere le escrescenze irregolari dal
corpo della lingua per lasciare solo la sovranità del verbo universale sul campo. Formazioni
dissidenti ed aberranti riconducono il linguaggio nell’immanenza della lotta, perché il loro
stesso agire, di contro all’italiano ora, riporta lo spazio italiano della lingua alla sua realtà di
scenario diviso dalla scissione tra “assuefazioni” e “contrasti”, che ne è allo stesso modo la
storia, così come ne detta le vicende guerresche nella letteratura 149: “Quante cose si
potrebbero dire circa l’infinita varietà delle opinioni e del senso degli uomini, rispetto
all’armonia delle parole. Lascio i diversissimi e contrarissimi giudizi all’orecchio sulla bellezza
esterna delle parole, secondo le diversissime lingue, climi, nazioni, assuefazioni; ed intorno
alla dolcezza, alla grazia, sì delle parole, che delle lettere e delle pronunzie, ec. In un luogo
parrà graziosa una pronuncia forestiera, in un altro sgraziata quella, e graziosa un’altra pur
forestiera; secondo i differenti contrasti colle abitudini di ciascun paese o tempo, contrasti
che ora producono il senso della Grazia, ora l’opposto ec. ec. (…) Lascio le differentissime
armonie de’ periodi della prosa parlata o scritta, secondo non solamente le diverse lingue e
nazioni e climi, ma anche i diversi tempi, i diversi scrittori o parlatori d’una stessa lingua e
nazione, e d’un medesimo tempo. (….)
Se esistesse un’assoluta armonia, cioè a dire un’assoluta convenienza e relazione fra i
suoni articolati, e se i versi italiani (che è pur la lingua e la poesia stimata la più armonica del
mondo) fossero assolutamente armoniosi, lo sentirebbe tanto il forestiero e il fanciullo
ignorante della lingua, quanto l’italiano adulto né più né meno. E se quest’assoluta armonia,
e questi versi assolutamente armonici fossero assoluta e natural cagione di diletto per se
stessi, lo sarebbero universalmente, e non più all’italiano che allo straniero e al fanciullo” 150.

149
Leopardi scrive, a proposito della prosa “italiana”, discutendo la formazione del suo canone: “Ora una lingua
senza prosa, come può dirsi formata? La prosa è la parte piú naturale, usuale, e quindi principale di una lingua,
e la perfezione di una lingua consiste essenzialmente nella prosa. Ma il Boccaccio primo ed unico che applicasse
nel 300 la prosa italiana alla letteratura, senza la quale applicazione la lingua non si forma, non può servir di
modello alla prosa. E notate ancora che dunque il Boccaccio ch’era pure sí grande ingegno, scrivendo dopo i 2
grandi maestri sopraddetti, e dopo tanti altri prosatorelli italiani, s’ingannò di grosso intorno alla stessa indole
della lingua italiana, intorno alla forma che le conveniva applicandola alla letteratura, vale a dire insomma alla
sua forma conveniente, o le ne diede una ch’ella ha poi del tutto abbandonata, e che le divenne subito affatto
sconveniente. Dunque la lingua italiana, almeno quanto alla prosa, ch’è il principale, non era ancora formata; il
Boccaccio non valse a formarla, anzi errò di gran lunga. Come dunque la lingua italiana fu formata dai detti tre?
come fu formata nel 300. se il principale prosatore italiano di quel secolo, e l’unico che appartenga alla
letteratura, non conobbe la sua forma conveniente, e se non può servire di modello a veruna prosa?”, G.
Leopardi, Zibaldone, ed. a cura di F. Cacciapuoti, Roma, Donzelli 2000, Teorica delle arti, lettere ec. Parte
pratica, storica, ec., 1385-1386, pp. 170–171.
150
G. Leopardi, Zibaldone, IV, Teorica delle arti, lettere, ec. Parte speculativa, cit., pp. 33–34.
Carducci sutura le cesure riaperte da Leopardi. Il suo studio dell’opera leopardiana occupa
cinque piccoli saggi, riuniti nel 1937 in un volume pubblicato per i tipi di Zanichelli 151. Si tratta
di note descrittive e superficiali, che mostrano una diffidenza profonda verso questa
produzione così straniera, ed esorbitante, rispetto ai portamenti prescritti ad una
manifestazione sublime della coscienza nazionale, quale appunto deve essere la letteratura.
Tanto più che essa, presentandosi in gran parte in forma lirica, è demandata ad accoglierne
le tenute somme. I tre scritti su Manzoni, posti accanto a quelli leopardiani, dividono
materialmente il libro in fronti nemici, concretizzando nella sua organizzazione stessa la
distanza tra parti avverse: il campo manzoniano, contro quello di Leopardi 152. Il principale
allievo di Carducci, Pascoli, cercherà egualmente di disinnescare il portato eversivo
dell’opera di Leopardi153. Ne legge la scrittura come una mediazione tra latinismo raffinato e
lingua modernista. Poi, a cavallo delle due guerre, De Robertis rilancerà la figura di Leopardi
classico “italico”, vedendone la lingua come un’evoluzione della sublime estetica nazionale
latina di Petrarca. L’italiano, questa è la concezione di fondo di De Robertis, è uno ed unico.
La sua costituzione in lingua istituzionale, che ne sancisce la qualità di apparato semantico di
Stato, ne attesta la dominanza. Questa parola superiore e primaria deve compire il suo
destino storico. Essa è chiamata, in relazione all’essenza di cui è la predicazione, a superare il
registro veicolare. L’italiano è in sé espressione eminente, lingua sacra nella forma e nei
contenuti, “poesia”, nel significato spiritualista della parola: l’epifania in simboli di un tipo
trascendente, che ne mostra la costituzione eccelsa. Leopardi ne è, perché, da autore, non
può che esserne, uno degli officianti accreditati.
L’Italia ha avuto la sua lingua: l’idioma divino la cui raffinata bellezza corrisponde alla sua
maestà di Nazione ideale. Ma questa natura superiore italiana corrisponde al suo lignaggio
ed ai diritti che esso conduce. Fedele alla sua eredità risalente a Roma, impero e luce delle
genti, gloriosa imperitura potenza civilizzatrice, l’Italia ha occupato ed occupa, epoca dopo
epoca, il posto storico che le è riservato da sempre. Questa è la visione di Manzoni, come è
la visione di Gioberti, Rosmini, Tommaseo, D’Azeglio, Mazzini, Carducci, Pascoli, ed
innumerevoli altri fedeli alla schiera manzoniana, fino ai vociani, ai Futuristi, a De Robertis,
ed oltre. Una missione mondana è data all’Italia nello stesso sangue celeste che la vivifica, un
decorso destinale radicato nella sua stessa sostanza. L’Italia è il faro dei popoli perché essa,
eterna e nuova Roma, è la terra materna che li genera e li raccoglie tutti, patria universale
dalla quale essi si dipartono, e verso cui essi si dirigono sospinti dal corso necessario di una
storia che era, ed è, italiana. Il carattere spirituale e fatale dell’Italia se ne trasferisce anche
alla lingua. L’italiano è il verbo celeste che è alla testa degli idioletti barbari dei popoli
stranieri, e li guida verso l’apoteosi dello Spirito storico che nell’anima italiana trova la sua
manifestazione secolare. Ben più sublime del latino dell’epoca romana, nell’italiano si
diffonde la parola della Roma “triumphans”, che insedia un’età classica perenne. Le sue
declinazioni stentoree rappresentano la preminenza, l’universalità, l’eccellenza, l’altezza
morale della Nazione epica per definizione. Le parole di Carducci sono esemplari: “Vi sono
diverse età della poesia e diversi tempi per i poeti o pe’ rimatori. V’è una prima età nella
quale tutto il popolo fa la sua poesia, tutto il popolo la canta: l’epopea è l’aureola della
nazione, è come lo splendore che cinge il castello de’ gloriosi nel limbo di Dante,
Un foco
151
G. Carducci, Leopardi e Manzoni, Bologna, Zanichelli 1937.
152
I lavori in prosa di Carducci (G. Carducci, Prose, Milano, Garzanti 1999) possono essere ugualmente visti
come un terreno di guerra diviso in fronti: da una parte gli alleati, (Dante, Petrarca, Boccaccio, Tommaseo, i
romantici spiritualisti), dall’altra gli avversari (Tasso, Parini, la bohème francese e gli scapigliati).
153
G. Pascoli, Saggi e lezioni leopardiane, Milano, Agorà 1999.
Ch’emisferio di tenebre vincia:
meglio ancora, è la fiamma e la luce che esce dalla conflagrazione e dalla incandescenza dei
vari elementi del popolo che si fondono in nazione. Quella è l’età barbara, l’età eroica, l’età
divina: allora la critica non c’è, o c’è sotto la forma di Tersite, e si bastonna. Altra età corre,
quando un popolo uscendo da uno stato di barbarie non eroica ma prodotta e provenuta
dallo scadimento e dalla corruttela vuol rinnovarsi e restituirsi: allora la poesia è una forza e
un fattore insieme di civiltà; e il poeta è anche critico, e pone egli stesso le ragioni e la
teorica dell’arte sua” 154 .
Le posizioni manzoniane si fondano sulla categoria, ideale e secolare, di “unità”.
Michelstaedter le rifiuta ogni privilegio. L’imperativo unitario è una categoria del giudizio
politico, non ontologica. L’”unità” è un sistema di governo, così come un regime di comando
del segno. Di conseguenza, rispetto alla lingua, la norma “unitaria” è l’insieme di decreti che
traducono le deliberazioni di un blocco dirigente in obblighi d’esecuzione enunciativa.
L’”unità” è l’organizzazione, la tecnica di gestione e l’articolazione amministrativa di un
apparato al potere, che esercita la sua predominanza in ingiunzioni giuridiche. La distinzione
di valore tra lessico istituzionale e degenerazioni gergali, e quindi i decreti di conformità e
difformità conseguenti, ne costituiscono la formalizzazione giuridica. Questa statuizione è
segno dell’istituirsi in regime di un’affermazione forzosa, non l’espressione di un’attribuzione
connaturata. L’”unità” è l’apparato e la procedura, l’azione ed il dispositivo: la formazione
che struttura un sistema di conformità obbligatoria e vigila affinché nulla lo minacci. Gli
organi di gestione e controllo “unitari” si muovono contro le azioni linguisticamente devianti,
applicando la capacità costrittiva dello Stato di cui sono parti. Manzoni scrive a Bonghi:
“Perché, la questione non cade su quella, dove maggiore, dove minore, ma sempre gran
parte di locuzioni che tutti gl'idiomi toscani hanno comune, e col fiorentino e tra di loro;
quella, dico, per cui tutti gl'Italiani si sono accordati nel dare a quegl'idiomi il nome collettivo
di lingua toscana, trascurando le differenze, come una parte di gran lunga minore.
Certo, prendendo il vocabolo in questo senso, sarebbe un'assurdità, più ancora che
un'impertinenza, il dire che i Toscani non conoscano il toscano. Ma è per l'appunto sulle
differenze che la questione è posta. E sono forse io, che, all'usanza de' cavillatori e de' sofisti,
m'attacchi all'eccezione, per far perder di vista il principale? No davvero. Sono loro che
pongono la questione su queste differenze, e su queste sole; giacché sulla parte dei loro
idiomi identica col fiorentino, e che si trova già nel vocabolario che ho fatto far da questi,
cosa avrebbero a reclamare? Di quell'altro toscano ho voluto dire, e credo d'aver potuto
dire, che non lo conoscono. Qual ragione c'è infatti per supporre che gli abitanti di
ciascheduna città di Toscana conoscano le locuzioni speciali dell'altre città? Ora, essendo di
prima e assoluta necessità il conoscere la materia sulla quale s'ha a lavorare, dovranno i miei
secondi convocati ricorrere al solo espediente possibile (chi n'avesse un altro, faccia il
piacere d'indicarlo), quello di metter fuori ognuno le locuzioni speciali del proprio idioma, e
averne così una raccolta in comune” 155.
La parola di Michelstaedter manovra contro l’italiano. Essa agisce l’autonomia del segno
contro l’unità. Michelstaedter scrive costruendo processi di produzione semantica in
secessione. La dislocazione del linguaggio nell’immanenza delle opposizioni linguistiche, la
sua diversificazione avversativa, attaccano il progetto di Manzoni nei suoi basamenti. Così
come ne colpiscono gli epigoni. Croce è uno di questi. Manzoni aveva dato alla lingua un
ordine totalitario. Croce effettua un’operazione più sottile, ma persino più estrema:

154
G. Carducci, Da «Critica e arte», in, Prose, cit., pp. 383–384.
155
A. Manzoni, Lettera intorno al vocabolario, cit., p. 680.
spoliticizza il campo della parola, e, così, cancella persino l’esistenza della guerra civile,
negandogli radicalmente ogni attributo di realtà. La lingua è forma, espressione della
perfetta identificazione tra conoscenza e realtà che, garantita dal concetto assoluto che ne è
il predicato, connota la struttura dello Spirito: “La forma, nella quale l’ordine del discorso ci
ha portato a stabilire i caratteri del concetto, e che è quella dell’enumerazione onde l’un
carattere vien connesso con l’altro per mezzo di un «anche», è logicamente forma assai
rozza, che aspetta di essere affinata e corretta. E già nello stesso parlare, in plurale, di
caratteri del concetto, ci siamo conformati al modo comune di esprimersi, perché veramente
il concetto non può avere caratteri, ma carattere, quel solo carattere che gli è proprio. E
questo carattere è il suo essere universale – concreto: due parole che designano una cosa
sola e possono anche grammaticalmente diventare una parola sola, quella di
«trascendentale», o altra che si scelga delle già coniate o che piaccia coniare a nuovo. Le
altre determinazioni non sono caratteri del concetto, ma affermano le relazioni di esso con
l’attività spirituale in genere, di cui il concetto è forma speciale, e con le altre forme speciali
di questa attività. Nella prima relazione, il concetto è spirituale; in relazione all’attività
estetica, è conoscitivo ed espressivo, e rientra nella generale forma teoretico–espressiva; in
relazione con l’attività pratica, non è, in quanto concetto, né utile né morale, ma, in quanto
atto concreto dello spirito, deve altresì dirsi utile e morale. L’esposizione dei caratteri del
concetto, pensata correttamente, si risolverebbe in un’esposizione, sia pure compendiosa, di
tutta la filosofia dello spirito, nella quale il concetto prende il suo posto col suo unico
carattere, ossia con sé (sic) stesso” 156 .
Michelstaedter compone la sua opera per raccogliere una forza abbastanza penetrante da
rispondere al gesto imperiale della linea manzoniana. Ma, prima di tutto, la lingua va
riportata alla storia concreta, ossia nel territorio di conflitti che è il contesto italiano. In Italia
la lingua è un terreno di guerra. L’ineguaglianza delle lingue, la loro parcellizzazione locale, la
mutazione delle forme, sono cause ed effetti delle relazioni antagonistiche che si disputano il
fronte del linguaggio, in un paese rivendicato dal fronte al comando, in realtà non
appartenente a nessuno. Non si tratta di difendere, o legittimare, “minoranze linguistiche”,
cosa che i dialetti non sono e Michelstaedter lo sapeva perfettamente. “Minorità” in Italia è
la connotazione politica di fazioni antagonistiche in lotta, opposte ad un apparato politico di
governo del linguaggio.
Il lavoro di Michelstaedter si realizza quindi anche rispetto alla seconda questione,
problematica generativa intrinsecamente connessa alla precedente, da noi più in alto
definita, della dissidenza semantica nel quadro italiano. Per questo, nel senso di Marx,
considera l’ambito delle pratiche della lingua come un settore delle pratiche politiche
costituenti una formazione sociale determinata. In questi termini, il linguaggio è un
momento della decisione politica, un investimento strategico nella congiuntura determinata
dall’affrontamento tra forze antagoniste157.
156
B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari, Laterza 1983, p. 31. Questo è uno dei motivi
dell’avversione di Croce verso Leopardi, di cui peraltro aveva ben compreso l’immanentismo così come il
portato antagonistico. Biral definisce di fatto tendenziosa e grossolana la lettura di Leopardi fatta da Croce, cfr.
B. Biral, Il significato di «natura» nel pensiero di Leopardi, in, «Il Ponte», Anno XV, 10, Ottobre 1959, pp. 1276-
1277.
157
Citiamo, per illustrare la ricaduta nell’analisi storica della costituzione avversativa della società, questo
passaggio de Il Capitale: ”È un fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica in quanto non sia soltanto
processo lavorativo ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l’operaio ad adoprare la
condizione del lavoro ma, viceversa, la condizione del lavoro ad adoprare l’operaio; ma questo capovolgimento
viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnicamente evidente. Mediante la sua trasformazione in
macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all’operaio durante lo stesso processo lavorativo quale
Il conflitto determina le configurazioni dell’espressione. Esse si generano, nella loro
conformazione scissa, dal e nel conflitto. Allo stesso modo, la letteratura è un pezzo del
fronte della significazione. La parola ferma ed imponente de I Promessi Sposi, il suo lessico
“vero” per eccellenza, sono destinati a sottomettere ed irreggimentare tutto lo spazio del
dire. Quello italiano, certamente, ma, per la superiore qualità della lingua italiana,
elocuzione imperiale romana, il potere dell’espressione italico si estende a tutto l’universo
della parola. La funzione totalitaria dell’apparato manzoniano è un sintomo della natura
eminentemente politica della letteratura italiana. Perché altrimenti cominciare con un
romanzo l’avvento augusto di una Nazione finalmente capace di far risuonare la sua voce
maestosa, schiacciando i suoi nemici? L’opera di Manzoni è il segno manifesto che la
letteratura italiana non produce la sua storia secondo le onde dell’immaginario. All’inverso,
l’immaginario letterario italiano è una variazione tattica della politica del significante e dei
fronti che in esso si combattono. La politicizzazione totale del dominio letterario italiano è
l’asse cardinale del lavoro di Michelstaedter. Ed il posizionamento avversativo e l’assetto
strategico che ne sono la condizione preliminare e la situazione in atto, determinandone i
processi, ne costituiscono i termini ed i temi. L’opera forma il suo telaio produttivo nello
scenario dominato dal regime manzoniano. “Lingua” “Nazione” “Popolo”: il triangolo della
semantica istituzionale afferma lo Stato italiano dell’espressione. Pensate come componenti
di un Soggetto storico esistente, di cui sono l’articolazione significante, queste tre icone
costituiscono gli elementi portanti di un insieme narrativo organizzato. Esse sono – ciascuna
di esse e le tre associate in sistema – modi diegetici, “dramatis personae” protagoniste di un
racconto performativo ed obbligante: la cronaca affabulatoria delle azioni significanti di
Stato, che dominano un fronte politico del senso e lo organizzano politicamente. Eseguendo
le procedure istituzionali della semantica istituzionale, i tre cardini del romando nazionale
mettono in scena la storia dell’unità organica della comunità destinale italiana. Nel dominio
italico, il potere del referente universale, questo diritto sovrano che afferma un canone
culturale dominante, svolge l’epopea di una comunità d’elezione ed eletta. La parola della
Nazione celebra la maestà di “Roma eterna”, regno spirituale che guida la storia al suo
compimento ultimo, e proclama il primato universale della razza che è destinata, popolo
originario e finale, a riunire tutta l’umanità in un solo impero sublime. Questo programma
politico-letterario, che è parte di un orizzonte strategico di politica culturale come politico
tout court, risuona in questi versi di Carducci: “Salutate nel golfo Giustinopoli,/gemma de
l’Istria, e il verde porto e il leon di Muggia;//salutate il divin riso de l’Adria/fin dove Pola i
templi ostenta a Roma e a Cesare!//Poi presso l’urna, ove ancor tra due
popoli,/Winckelmann guarda, araldo de l’arti e de la gloria,//in faccia a lo stranier, che

capitale, quale lavoro morto che domina e succhia fino all’ultima goccia la forza-lavoro vivente. La scissione tra
potenze mentali del processo di produzione e il lavoro manuale, la trasformazione di quelle in poteri del
capitale sul lavoro, si compie (…) nella grande industria edificata sulla base delle macchine. L’abilità parziale
dell’operaio meccanico individuale svuotato, scompare come un infimo accessorio dinanzi alla scienza, alle
immani forze naturali ed al lavoro sociale di massa, che sono incarnati nel sistema delle macchine e che con
esso costituiscono il potere del «padrone». (…) La subordinazione tecnica dell’operaio all’andamento uniforme
del mezzo di lavoro e la peculiare composizione del corpo lavorativo (…) creano una disciplina da caserma che si
perfeziona e diviene un regime di fabbrica completo e porta al suo pieno sviluppo il lavoro di sorveglianza (…)”,
K. Marx, Il Capitale, I, IV, 13, Macchine e grande industria, ed. it. a cura di D. Cantimori, Roma, Editori Riuniti
1964, pp. 467-468.
Sulla determinazione antagonistica della società in Marx cfr. E. Balibar, Sur les concepts fondamentaux du
matérialisme historique, in, L. Althusser, E. Balibar, R. Establet, P. Macherey, J. Rancière, Lire le capital, Paris,
Maspero 1965, pp. 419–568.
armato accampasi/su ‘l nostro suol, cantate: Italia, Italia, Italia!” 158. Il romanzo italiano è una
teologia politica nazionalitaria sotto forma di racconto. Le sue scene devono diffondere tra le
genti d’Italia l’editto ecumenico del potere della Nazione. Contro questo “epos” nazionale
Michelstaedter erige un'altra scena, un teatro di guerra dove il racconto prende le forme
dell’azione in conflitto. La sua narrazione si forma come presenza in atto, agita, delle lotte
interne al regime nazional-popolare. Il lavoro dell’opera michelstaedteriana è un movimento
dello scontro che divide il campo della cultura italiana, e, in esso, della letteratura. Il dramma
che allestisce manovra contro il campo del sistema istituzionale identitario: Il dialogo della
salute, La Persuasione e la Rettorica effettuano in atto l’opposizione radicale a Roma Italiana
ed alla sua dominanza. La ragione che sostiene le escursioni concrete della pagina è la
dissidenza, che lavora autonomia e figure d’autonomia contro l’unificazione totalitaria: “È
vero che lavoro per una rovina”159. La problematica partire dalla quale le opere oggetto del
nostro studio si compongono ed attivano, come dimostreremo, è la rovina della cultura
molare italiana e della sua espressione letteraria. L’opera di Michelstaedter, travaglio della
guerra civile, mira alla destituzione del sistema culturale nazionale.
Così, la nostra indagine sulle opere principali di Michelstaedter seguirà le direzioni di
scrittura in cui il testo, un testo scisso e dissidente, produce senso contro l’incorporazione
forzata delle singolarità culturali. Ciò che mostreremo, attiva nei due scritti, è la trama
agente del νεῖκος: “Il νεῖκος avrà preso l’apparenza della φιλὶα quando ognuno, socialmente
ammaestrato; volendo per sé vorrà per la società, ché la sua negazione degli altri sarà
affermazione della vita sociale. – Così ogni atto dell’uomo sarà la retorica in azione, che
oscuro per lui stesso gli darà quanto gli serva” 160. Come vedremo nello specifico, il momento
organizzatore della scrittura di Michelstaedter, conseguente alla sua problematica, è la
scissione del campo referenziale unitario. Rispetto ai termini ed agli esiti della produzione
michelstaedteriana, questo ci sembra poter dare risposta al programma di ricerca formulato
da Angerlo Muzzioli.
La rottura espressiva, scavata dalla disgiunzione ed usata produttivamente
dall’eversione, è il telaio sul quale Michelstaedter intreccia le sue figure. Ma essa è anche il
palco su cui le fa muovere. Infatti, nell’opera ogni procedimento espressivo diviene gesto. La
pagina non è semplicemente narrata, essa si anima nelle forme di una drammatizzazione
letteraria. Il testo produttivo teatralizzato si oppone al romanzo mimetico-simbolico. La
scrittura-copione effettua le sue posture da antagonista della prosa affabulatrice. In
Michelstaedter non c’è alcun romanzo filosofico, tanto meno filosofia, come vedremo: c’è un
teatro della cultura in cui la scrittura opera da azione produttiva e situata.
All’epoca in cui Michelstaedter era ancora uno studente di liceo, un romanzo aveva
sconvolto gli stilemi consolidati della narrazione tematica o speculativa, codificati da Voltaire
nel Candide. Nel 1904 è pubblicato Il fu Mattia Pascal di Pirandello, che godette di notevole
successo. È in questo romanzo che si andava a costituire un nuovo paradigma di rapporto tra
letteratura e filosofia. Ebbene, nei testi di Michelstaedter non sono presenti nessuna delle
soluzioni, tecniche e formali, che in Pirandello si concatenano in narrazione concettuale,
neppure come vaga rassomiglianza. Nonostante questo, la teoria entra nella scena
158
G. Carducci, Saluto italico, in, Odi barbare, cit., p. 89. Sanguinetti afferma, a ragione, che la poesia di Carducci
non ha altro oggetto che il mito nazionale italiano di “Roma trionfante”, cfr. E. Sanguineti, Ideologia e
linguaggio, Milano, Feltrinelli 1970.
159
C. Michelstaedter, Epistolario, in, Opere, cit., p .355.
160
C. Michelstaedter, La Persuasione e la Rettorica, in, Opere, cit., p. 118. Giorgio Brianese sposa la stessa
posizione rispetto alla funzione della figura del “νεῖκος”, cfr. G. Brianese, L’uomo ammaestrato. Il sogno
dell’esistenza secondo Michelstaedter, in, L’inquietudine e l’ideale. Studi su Michelstaedter, cit. p. 15–28.
michelstaedteriana: come azione scena nel teatro del testo. La scrittura drammaturgica di
Michelstaedter comprende, in maniera assolutamente non narrativa, il concetto. La
categoria teorica vi entra come agito, gesto drammatico portatore di azioni teoriche,
processi pragmatici che hanno come contesto ed oggetto l’opera stessa. Questa importante
innovazione di Michelstaedter, la rappresentazione “meta-critica”, sfocia in un’ulteriore
cesura espressiva: il lavoro della scissione che spezza lo spazio liscio del pensiero istituito,
praticando secessioni concettuali. La guerra civile squassa l’orizzonte nazionale del senso.
L’opera rompe le istituzioni culturali italiane e ne aggredisce la forma-Stato. L’espressione
dissidente mobilizza il teatro dell’autonomia, lavora lo scisma in cui le comiche “briganti” di
una pagina in secessione si embricano al pensiero sedizioso, portando la frattura tra
“πραγματεὶα” e “λέγεται πολλαχῶς”, come scrive Michelstaedter: tra “pratica” e
“correlatività significata” 161.

161
“Correlazione significata”. Michelstaedter impiega questa formula in relazione alle tesi di Aristotele sulla
significazione, sistematizzazione speculativa della “rettorica”pubblica di cui mette in scena la critica radicale: “Il
lavoro del λογισμός diventa l’istituzione del συλλογισμός; il πολλαχῆ μὲν ἔστιν πολλαχῆ δ᾽οὐκ ἔστιν, il dogma
τὸ ὂν λέγεται πολλαχῶς; i modi della correlatività significata, fra i quali fatica il Parmenide, diventano
l’istituzione degli σχήματα κατεγορρίασ”, C. Michelstaedter, Appendici Critiche, in, Opere, ed. Campailla, cit., p.
199.

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