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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE

DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI

CORSO DI LAUREA IN STUDI STORICI. DALL’ANTICO AL CONTEMPORANEO

Tesi di Laurea

Il Comitato Civico dell’Arcidiocesi di Gorizia e il confine orientale

Relatore
Prof. Sergio Zilli Laureando
Elisa Battistella
Correlatore
Prof.ssa Liliana Ferrari

Anno Accademico 2022/2023


Sessione Straordinaria

1
INTRODUZIONE

«Io penso che le frontiere vadano superate, ma anche mantenute assieme alla
propria identità. Un modo corretto di viverle è sentirsi anche dall'altra parte»1.
Vivere in una zona di confine, all’incrocio fra realtà politiche, sociali, culturali e
religiose diverse, talvolta in conflitto fra loro, rappresenta un’esperienza peculiare,
difficilmente comprensibile a chi abita in luogo differente. Capire in che modo questi
aspetti abbiano avuto effetti sulla vita di un territorio come quello dell’Arcidiocesi di
Gorizia che, secondo Lucio Fabi, «nel Novecento può considerarsi un compendio
tragico delle vicende del mondo contemporaneo»2, è stata la motivazione principale per
l’avvio di questa ricerca. Inoltre, la disponibilità di un fondo come quello del Comitato
Civico diocesano, recentemente inventariato dall’archivista e paleografo, dott. Luca
Olivo, e interamente digitalizzato, ha offerto nuove piste di lavoro, per indagare una
realtà ancora parzialmente sconosciuta come quella dei Comitati Civici, sorti per
iniziativa di Luigi Gedda3 nell’imminenza delle elezioni politiche del 1948.
Nell’analisi dettagliata del materiale, l’obiettivo era capire in che modo le
vicende del confine orientale italiano abbiano influito nelle scelte elettorali, ma anche
ideologiche e socio-culturali dei cattolici dell’Arcidiocesi di Gorizia nel periodo
compreso fra il 1948 e il 1966, quando di fatto cessò l’attività del Comitato Civico
diocesano e delle sue diramazioni parrocchiali. Infatti, nonostante l’egemonia politica
della Democrazia Cristiana in tutta la regione Friuli Venezia Giulia, con Gorizia a

1
Claudio Magris, intervistato da Francesco Battistini, Corriere della sera, 26 novembre 2008.
2
LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, qudulibri, Gorizia, 2023, p. 5. Il volume è una riedizione del
testo dello stesso autore, dal titolo Storia di Gorizia, Il Poligrafo, Padova, 1991.
3
Nato ad Alessandria nel 1910, Carretto conseguì la laurea presso la facoltà di filosofia e pedagogia
dell’Università di Torino, per poi dedicarsi all’insegnamento. Entrato nell’Azione Cattolica su invito di
Luigi Gedda, si dedicò ben presto a incarichi direttivi all’interno della GIAC. Divenuto direttore didattico
nel 1940, a causa di contrasti con il Partito Fascista venne inviato al confino, anche se in seguito poté
tornare a Torino. Alla fine della guerra fu chiamato a Roma da Gedda e gli venne affidata la presidenza
nazionale della GIAC. Nel 1952 entrò in contrasto con la presidenza nazionale a causa di una divergenza
di visioni sull’apostolato di AC, uscì dall’associazione, per entrare nella congregazione religiosa dei
«Piccoli fratelli di Gesù», ispirata al carisma di Charles de Foucauld, partendo per l’Algeria nel 1954 e
dedicandosi all’eremitaggio nel deserto del Sahara. Rientrato in Italia nel 1965, fondò la comunità di
Spello, dedicandosi anche a un’intensa attività pubblicistica. Carlo Carretto morì nel 1988.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://www.isacem.it/it/fondi-archivistici/carlo-carretto-1907-2008,
ultima consultazione 19/12/2023.

2
rappresentarne una delle roccaforti4, in realtà la contrapposizione elettorale era accesa,
tanto da assumere i toni da «crociata»5. Certamente la logica della contrapposizione fra
blocchi, che caratterizzava il dibattito politico a livello nazionale, insieme alla questione
di Trieste, rimasta irrisolta fino al 1954, ebbero importanti ripercussioni su un territorio
come quello dell’Arcidiocesi di Gorizia, che nel 1948 era appena tornato all’Italia dopo
i traumi del conflitto mondiale e degli anni immediati del dopoguerra. L’occupazione
nazista prima e quella jugoslava poi, insieme al periodo di Governo Militare Alleato,
carico di incertezze sul futuro del capoluogo isontino e del suo territorio, non potevano
non produrre «ripercussioni e convincimenti capaci di determinare e condizionare il
clima politico successivo»6. Queste istanze emergono in documenti di natura diversa,
dai manifesti ai volantini, senza contare le varie richieste di contributo e le numerose
relazioni inviate dal Comitato Civico diocesano ai vertici nazionali, dipingendo una
realtà difficile, in cui le ferite del conflitto e della successiva ricostruzione mantenevano
aspri i toni della competizione elettorale, vissute in una sorta di sindrome da
accerchiamento, i cui effetti si sarebbero sentiti ben oltre il 1954. Inoltre, non va
sottovalutato il clima ecclesiale in cui si trovavano a operare i Comitati Civici in tutta
Italia: formalmente indipendenti tanto dalla Democrazia Cristiana quanto dall’Azione
Cattolica, in realtà ne erano una diretta emanazione. In questo senso, riflettevano le
istanze della Chiesa di Pio XII, ancora arroccate su posizioni di difesa dalla sempre più
diffusa scristianizzazione della società. Questo elemento, associato alle dinamiche
confinarie, avrebbe inasprito i toni della competizione elettorale nell’Arcidiocesi di
Gorizia, trasformando ogni votazione in uno scontro fra bene (cattolico) e male
(comunista).
Per approcciare la questione, procederemo con un progressivo avvicinamento,
come una macchina da presa che passa dal campo lungo al primo piano, partendo dalle
problematiche generali del confine orientale italiano dalla fine della terza guerra
d’indipendenza italiana al ritorno di Trieste all’Italia con il Memorandum di Londra, per
4
SERGIO ZILLI, Geografia elettorale del Friuli-Venezia Giulia: consenso, territorio e società, 1919-1996,
Udine, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, 2000, pp. 193-207.
5
O, più precisamente, da «battaglia», termine questo impiegato svariate volte nei diversi documenti,
prodotti sia dal Comitato Civico nazionale che da quello diocesano, come vedremo nel III Capitolo di
questo lavoro.
6
LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, cit., p. 211.

3
arrivare alle vicende del Comitato Civico diocesano, passando per la storia
dell’Arcidiocesi nello stesso periodo.
Per questo, nel I Capitolo di questo lavoro, cercheremo di seguire l’evoluzione
del concetto di confine orientale italiano, percorrendone le varie tappe storiche, dal 1866
al 1954. Nell’arco di quasi un secolo, questa frontiera «mobile»7 ha assunto varie
configurazioni, a seconda degli esiti dei conflitti in cui è stato coinvolto il territorio
della Venezia Giulia, una regione letteralmente «inventata»8. Infatti, possiamo dire che
la definizione stessa di «Venezia Giulia» è stata oggetto di aspre contese, spesso di
carattere storico-ideologico più che geografico, che periodicamente si riaccendono,
mettendo a confronto opposti nazionalismi. Come notano Mila Orlić e Marco Bresciani,
tutto ciò coinvolge un ambito «più mentale che materiale, riguardante […] le traiettorie
delle memorie pubbliche e delle identità collettive»9.
Dovremo, innanzitutto, chiarire il concetto stesso di confine che – come
vedremo – assume caratteri diversi a seconda della prospettiva dalla quale lo si osserva;
non si tratta, quindi, di un’idea prestabilita e condivisa, ma di una nozione che può
essere continuamente rinegoziata, sulla base degli interessi degli attori coinvolti.
Dopodiché, si passerà all’analisi del concetto di «Venezia Giulia» che, fin dalla prima
formulazione ad opera di Graziadio Isaia Ascoli, ha sempre avuto una natura ambigua e
facilmente plasmabile secondo le esigenze politiche del momento. Seguirà una breve
trattazione storica, in cui si metteranno in evidenza i vari momenti in cui il confine
orientale italiano ha assunto una rilevanza tanto nazionale quanto internazionale. Infatti,
come vedremo, la fine della terza guerra d’indipendenza italiana aveva lasciato in
sospeso la questione degli italiani che vivevano in Trentino e nella Venezia Giulia, le
cosiddette «terre irredente», dando vita a un vero e proprio movimento per la loro
liberazione. Se inizialmente l’irredentismo aveva un seguito piuttosto limitato, sia nel
Regno d’Italia che nei territori oggetto di contesa, anche in virtù dell’alleanza stipulata

7
AAVV, Il confine mobile. Atlante storico dell’Alto Adriatico 1866-1992. Austria-Croazia-Italia-
Slovenia, Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia –
Edizioni della Laguna, Mariano del Friuli (GO), 1995.
8
Cfr. a questo proposito, ROBERTA MICHIELI, GIULIANO ZELCO (A CURA DI), Venezia Giulia. La regione
inventata, Udine, Kappavu, 2008.
9
MILA ORLIĆ, MARCO BRESCIANI, Il confine orientale e i conflitti dell’Alto Adriatico, Milano,
UNICOPLI, 2011, p. 7.

4
fra la monarchia sabauda e l’impero austroungarico, all’approssimarsi della Grande
Guerra, un nazionalismo aggressivo caratterizzò in maniera molto più pervasiva
l’opinione pubblica italiana, portando a un notevole incremento d’interesse per il tema
della “liberazione” di quei territori, ancora sotto il dominio asburgico. Per questo,
quindi, il confine orientale italiano venne messo al centro delle trattative per l’ingresso
nel conflitto da parte dell’Italia, che si schierò al fianco dell’Intesa formata da Gran
Bretagna, Francia e Impero Russo, in cambio di generose concessioni proprio in queste
zone. Ciononostante, al termine del conflitto emersero nuove istanze, che non erano
state prese in considerazione nel 1914. Infatti, l’impero austroungarico si dissolse e, al
suo posto, sorsero una serie di Stati nazionali, fra cui il Regno di Jugoslavia, un’entità
con la quale la monarchia sabauda non era preparata a confrontarsi. Se, quindi, questa
era la situazione dal punto di vista esterno, il Regno d’Italia dovette affrontare – per la
prima volta nella sua storia – il problema di una rilevante minoranza etnica all’interno
dei suoi confini, un’eventualità per la quale non vi era preparazione da parte delle
autorità, prima militari e poi civili, che si trovarono ad amministrare i nuovi territori
acquisiti con il Trattato di Rapallo. Con l’avvento del fascismo la politica nei confronti
degli «allogeni» si fece decisamente aggressiva, portando a un’opera di
snazionalizzazione della popolazione slovena presente nella Venezia Giulia in generale
e all’interno dell’Arcidiocesi di Gorizia in particolare, interrompendo così una
plurisecolare tradizione di convivenza fra etnie e culture diverse che aveva
precedentemente caratterizzato queste zone. Le persecuzioni nei confronti della
minoranza slovena avrebbero assunto toni sempre più violenti, rinsaldandone il
nazionalismo e l’odio verso tutto ciò che era italiano, che veniva identificato tout court
come fascista. Le conseguenze negative di questo vero e proprio tentativo di «bonifica
etnica» si sarebbero viste alla fine della Seconda Guerra Mondiale e nell’immediato
dopoguerra, quando il nuovo potere titino avrebbe perseguitato – in maniera più o meno
diretta – tutto ciò che era in odore di italianità e, perciò, di fascismo, inducendo migliaia
di persone a lasciare l’Istria e la Dalmazia in quello che è stato definito, con un termine
biblico, un vero e proprio «esodo», che nel giro di pochi anni avrebbe drasticamente
ridotto, fino quasi ad annullarla, la presenza italiana in quei territori. Il secondo conflitto

5
mondiale avrebbe portato ulteriori divisioni e contrapposizioni, prima con l’invasione
della Jugoslavia da parte della Germania nazista e dei suoi alleati, per poi passare alla
resistenza (dal punto di vista italiano) o lotta di liberazione nazionale (da quello
jugoslavo), con gli opposti nazionalismi che si confrontarono in uno scontro sempre più
acceso per il predominio sulla Venezia Giulia. Se, dunque, i partigiani italiani lottavano
per sconfiggere il nemico nazifascista e riportare il paese alla democrazia, le truppe
titine stavano al tempo stesso costruendo una nuova entità statale con metodi
rivoluzionari. È in questo contesto che va inquadrata l’epurazione, fino all’eliminazione
fisica, di tutto ciò che poteva costituire un ostacolo alla rivoluzione comunista. Inoltre,
gli opposti nazionalismi rivendicavano la legittimità del dominio su queste terre,
rendendo la soluzione della questione confinaria molto complessa, in particolar modo
nel caso di Trieste, sottoposta per nove anni all’amministrazione del Governo Militare
Alleato (GMA), prima che ne venisse sancito il passaggio allo Stato italiano con il
Memorandum di Londra. Fra il 1945 e il 1954, dunque, il capoluogo giuliano avrebbe
rappresentato un «baluardo di italianità»10 nella guerra fredda al confine orientale
italiano.
Nel II Capitolo affronteremo la storia dell’Arcidiocesi di Gorizia, da un punto di
vista sia ecclesiastico che politico, partendo dalla fine del XIX secolo, per arrivare al
Trattato di Pace del 1947. In questo modo, ci renderemo conto dei vari cambiamenti
attraversati da questa realtà di confine, passata nell’arco di pochi anni dal rapporto
tradizionale con Vienna e la Mitteleuropa a quello con Roma e lo Stato italiano. Inoltre,
constateremo in che modo i cattolici si impegnarono nell’amministrazione di questi
territori, in particolar modo durante la Belle Époque, quando leader come Luigi Faidutti
e Giuseppe Bugatto erano impegnati nella realizzazione dell’ideale cristiano-sociale. La
Grande Guerra e il successivo passaggio dell’Arcidiocesi allo Stato italiano
determinarono una crisi di questo movimento, privato dei suoi capi carismatici, accusati
di essere «austriacanti». Inoltre, anche all’interno del territorio diocesano venne attuata
una persecuzione dell’elemento «allogeno», a partire dallo stesso arcivescovo,
Francesco Borgia Sedej, che fu indotto alle dimissioni forzate nel 1931. La successiva
10
RAUL PUPO, Il confine scomparso. Saggio sulla storia dell'Adriatico orientale nel Novecento, Trieste,
IRSML, 2008, p. 32.

6
scelta dell’amministratore apostolico Giovanni Sirotti e, poi, del vescovo Carlo Margotti
sono indicative della volontà di «italianizzare» quella che veniva percepita come una
«diocesi anomala», anche se non mancarono le criticità in questa operazione. Come
vedremo, questa spinta all’omologazione rispetto alla realtà dell’episcopato italiano non
poteva rimanere senza conseguenze, non solo per la popolazione slovena
dell’Arcidiocesi, sottoposta come quella di tutta la Venezia Giulia a un’opera di
«snazionalizzazione», ma anche per la stessa parte italofona, che si sentì a lungo
estranea alle scelte di Margotti, determinando una crisi complessiva del mondo cattolico
diocesano. La Seconda Guerra Mondiale costituì una svolta, in quanto – come nel resto
della Venezia Giulia – la popolazione slovena si impegnò nella lotta di liberazione
nazionale, mentre il laicato italiano cercò di riconquistare il ruolo politico, perduto con
il passaggio dell’Arcidiocesi all’Italia, soprattutto con l’affermazione della dittatura
fascista. Infatti, anche se in ambito diocesano non vi furono esperienze come quella
della brigata «Osoppo», certamente anche in questi territori non mancarono i cattolici
impegnati a combattere il nazifascismo, in vista della costruzione della democrazia nel
dopoguerra. La fine del conflitto e il Trattato di Parigi del 1947 avrebbero riconsegnato
all’Italia un’Arcidiocesi drasticamente ridotta, tanto dal punto di vista del territorio,
quanto da quello degli abitanti. Si apriva così una nuova fase nella vita di questa diocesi
di confine, attraversata da tutte le tensioni che caratterizzarono l’Europa nella prima
parte del XX secolo.
Dopo aver individuato alcuni spunti inerenti alla questione del confine orientale
e averli calati nella storia politica ed ecclesiastica dell’Arcidiocesi di Gorizia, nel III
Capitolo di questo lavoro prenderemo in considerazione l’attività del Comitato Civico
diocesano, attivo dal 1948 al 1966. Nati su impulso di Luigi Gedda in occasione delle
elezioni politiche del 1948, i Comitati Civici rappresentavano una diretta emanazione
dell’Azione Cattolica Italiana, anche se ne erano formalmente separati, con lo scopo di
promuovere quell’«apostolato sociale» che prevedeva la costruzione di una società
democratica, basata sui valori morali cristiani. Per questo, quindi, il laicato doveva
difendere tali valori “con la lancia in resta”, minacciati dall’incombente “pericolo”
comunista. Come vedremo, tale istanza era particolarmente avvertita nel territorio

7
dell’Arcidiocesi di Gorizia, che fino al 1954 rimase l’«estremo limite orientale
dell’Italia, in cui più che altrove appaiono indissolubili i sacri ideali di fede e di
patria»11. In quella che non si esitava a definire una vera e propria «battaglia», lo spirito
da crociata era preponderante, insieme a un’organizzazione di stampo militare, voluta
dallo stesso Gedda, con istruzioni curate nei minimi dettagli per raggiungere il maggior
numero possibile di votanti, grazie anche a una precisa mappatura dei collegi elettorali.
Come vedremo, tale struttura organizzativa era riprodotta fedelmente a tutti i livelli
gerarchici, con un intenso scambio di comunicazioni fra i vertici nazionali e la base
diocesana, che a sua volta intratteneva una fitta rete di relazioni con le realtà locali delle
singole parrocchie. Un uso accorto della propaganda (volantini, manifesti, ma anche
pubbliche conferenze) permettevano al Comitato Civico diocesano di svolgere un’opera
capillare per far sviluppare una «coscienza civica» 12 negli elettori cattolici, secondo il
mandato di papa Pio XII. Dopo aver descritto il contenuto della documentazione del
Comitato Civico dell’Arcidiocesi di Gorizia, inserito nel più ampio patrimonio
dell’Archivio dell’Azione Cattolica diocesana e reso interamente disponibile alla
consultazione in formato digitale, si passeranno brevemente in rassegna le vicende
storiche del territorio diocesano nel periodo di attività di questo organismo, per poi
tracciare alcune tappe della storia dell’AC diocesana. Seguirà, quindi, la disamina del
patrimonio archivistico del Comitato Civico, analizzato attraverso la lente della
questione confinaria. Avremo, così, modo di renderci conto che il problema della
frontiera orientale subì un’evoluzione anche all’interno di questo organismo,
corrispondente all’evoluzione della questione nella politica nazionale. Infatti, fino al
ritorno di Trieste all’Italia con il Memorandum di Londra, tale questione agitava
fortemente l’opinione pubblica, in particolare in occasione degli appuntamenti elettorali.
La Democrazia Cristiana si era eretta a massima espressione dell’amore di patria, in
contrapposizione con il fronte delle sinistre, internazionalista e «asservito a una potenza

11
Lettera del 12 gennaio 1953, indirizzata all’«Illustre signor commendatore», del quale non viene
specificata l’identità e conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale =
Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1953.
12
Cfr. a questo proposito, Discorso di Sua Santità Pio XII ad un gruppo di appartenenti ai Comitati
Civici (14 aprile 1953), reperibile in
https://www.vatican.va/content/pius-xii/it/speeches/1953/documents/hf_p-xii_spe_19530414_comitati-
civici.html, ultima consultazione 24/12/2023.

8
straniera». Per questo, anche il Comitato Civico diocesano insisteva sul nazionalismo di
questi territori, sottolineando come la posizione geografica particolare influenzasse la
situazione della diocesi anche dal punto di vista economico-sociale. Per questo, le
testimonianze più consistenti si ritrovano proprio nelle prime due buste dell’Archivio,
corrispondenti al periodo che va dal 1948 al 1954. Dopodiché, possiamo individuare
altre due fasi nell’attività del Comitato Civico diocesano, ovvero il periodo dal 1955 al
1961 e quello fra il 1962 e il 1966. Se possiamo cogliere diversi aspetti di continuità
rispetto al passato nella seconda metà degli anni ’50 in merito alla questione della
frontiera, ancora avvertita come un problema, nel decennio successivo troviamo un
deciso cambio di passo, probabilmente determinato da un’evoluzione della strategia
politica della DC, sia a livello nazionale che locale. Infatti, l’apertura della fase del
centrosinistra fecero cadere quelle barriere che impedivano una collaborazione –
perlomeno economica – con la vicina Jugoslavia, dunque anche all’interno del Comitato
Civico iniziò a farsi strada una diversa percezione del confine e delle problematiche a
esso collegate. Non vi fu più, dunque, una contrapposizione, ma una – seppur timida –
volontà di conoscenza e approfondimento delle relazioni, anche con la parte slovena
dell’Arcidiocesi, a lungo avvertita come estranea e, perfino, ostile. Come vedremo,
questi cambiamenti si inquadrano, a livello ecclesiale, con le trasformazioni che avrebbe
portato il Concilio Vaticano II nella vita diocesana, investendo anche l’Azione Cattolica
e, di conseguenza, i Comitati Civici. In questa svolta «religiosa» dell’associazione, si
rendeva necessario un ripensamento delle modalità di impegno politico-sociale, in un
atteggiamento che passava dalla crociata al dialogo, dalla contrapposizione inflessibile
all’apertura, in un confronto talvolta difficile, ma aperto, con il mondo contemporaneo.
Per questo, possiamo affermare che i Comitati Civici in generale, e quello
dell’Arcidiocesi di Gorizia in particolare, avevano esaurito la loro funzione, cedendo a
nuove forme di attivismo all’interno delle associazioni cattoliche. L’evoluzione di
questo organismo, dunque, riflette i cambiamenti avvenuti nell’ambito locale, in
relazione a problematiche di interesse nazionale e internazionale come, appunto, la
frontiera orientale italiana.

9
Pertanto, possiamo dire che se è vero che «il “confine orientale” diventa così un
osservatorio privilegiato del “secolo breve” e non solo»13, anche una realtà locale come
il Comitato Civico zonale può offrire interessanti spunti una problematica così
complessa.

13
MILA ORLIĆ, MARCO BRESCIANI, Il confine orientale e i conflitti dell’Alto Adriatico, cit., p. 9.

10
CAPITOLO I: LA SITUAZIONE DEL CONFINE ORIENTALE,
DALL’IRREDENTISMO AL MEMORANDUM DI LONDRA

In questo I Capitolo si tenterà di delineare una sintesi delle problematiche legate


al confine orientale d’Italia, che nell’arco di poco meno un secolo, dal 1866 al 1954, fu
al centro di dispute internazionali e di scontri fra opposti nazionalismi. Infatti,
soprattutto a partire dalla fine della Prima Guerra Mondiale, tale frontiera fu piuttosto
“mobile” e, data la genericità del nome coniato dal glottologo Graziadio Isaia Ascoli 14
per indicare il suo territorio, ovvero «Venezia Giulia», poteva essere piegato agli utilizzi
più vari in senso ideologico15.
Per questo motivo, sarà innanzitutto necessario capire in quanti modi e secondo
quali logiche può essere inteso un confine, secondo una molteplicità di punti di vista che
spesso si intrecciano e determinano le azioni degli attori decisionali, tanto a livello
politico, quanto sociale. Dopodiché, vedremo come la denominazione «Venezia Giulia»
sia stata utilizzata per giustificare le pretese espansionistiche del Regno d’Italia.
Seguirà, quindi, un breve excursus storico, dal termine della terza guerra d’indipendenza
italiana al ritorno di Trieste all’Italia nel 1954, per comprendere le trasformazioni di un
tracciato rimaneggiato varie volte dopo la Grande Guerra, con intenti mutevoli. In
questo percorso, ci si renderà conto di come si siano generati conflitti in un territorio
tradizionalmente multietnico e plurilingue, del quale era proprio la convivenza fra i
diversi popoli a costituire uno dei tratti peculiari. Tali contrasti avrebbero avuto effetti a
lungo termine nelle relazioni interne ed esterne fra gli abitanti di quella che, nel secondo

14
Nato a Gorizia nel 1829 in una famiglia di origine ebraica, Ascoli studiò la linguistica da autodidatta,
pubblicando il suo primo trattato a soli 17 anni. Nel 1861 si trasferì a Milano per dedicarsi
all’insegnamento presso l’Accademia scientifico-letteraria, fondando anche la rivista L’Archivio
glottologico italiano e dedicandosi allo studio dei dialetti, oltre che delle lingue romanze e orientali, per
poi divenire senatore del Regno d’Italia e membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione.
Ascoli morì a Milano nel 1907.
Per approfondimenti, cfr. LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, qudulibri, Gorizia, 2023, p. 261 e
https://treccani.it/enciclopedia/graziadio-isaia-ascoli_%28Enciclopedia dell%27Italiano%29/, ultima
consultazione 26/11/2023.
15
Per una panoramica sulla polivalenza nell’uso strumentale del termine «Venezia Giulia», cfr. P IERO
PURINI, Il termine Venezia Giulia in funzione espansionistica e contro le minoranze dalle origini del
fascismo, in ROBERTA MICHIELI, GIULIANO ZELCO (A CURA DI), Venezia Giulia. La regione inventata,
Udine, Kappavu, 2008, pp. 55-63.

11
dopoguerra, è stata definita «la frontiera più aperta d’Europa»16.

1. I numerosi volti di un confine


Secondo lo storico Charles Maier, la contemporaneità è fondata sulla logica
della territorialità, in quanto a metà del XIX secolo emersero i nazionalismi.
L’esistenza della nazione, infatti, implicava la necessità della sua trasformazione in
uno Stato, le cui frontiere però spesso erano tutt’altro che semplici da tracciare. In
questo senso, secondo Raul Pupo, il confine orientale italiano ha rappresentato a
lungo un vero e proprio «laboratorio della contemporaneità»17:

contrasti nazionali intrecciati a conflitti sociali, effetti devastanti della


dissoluzione degli imperi plurinazionali che per secoli avevano occupato
l’area centro-europea, regimi autoritari impegnati ad imporre le loro pretese
totalitarie su di una società locale profondamente divisa, scatenamento delle
persecuzioni razziali e creazione dell’«universo concentrazionario» nazista,
trasferimenti forzati di popolazione capaci di modificare irreversibilmente la
configurazione etnica di un territorio, conflittualità Est Ovest lungo una
delle frontiere della guerra fredda18.

Vediamo ora, in quanti modi il confine orientale italiano è stato interpretato nel
corso del tempo, a seconda del momento storico e della prospettiva ideologica di chi lo
ha utilizzato come strumento politico.
Anzitutto, il confine orientale italiano ha rappresentato a lungo una «frontiera
della tensione»19. Dopo la terza guerra d’indipendenza italiana, il tema delle «terre
irredente» divenne il fondamento dei movimenti nazionalisti, che vedevano nelle città
simbolo di Trento e Trieste i luoghi da liberare per completare l’unificazione della
Penisola; per questo, possiamo dire che – a cavallo fra il XIX e il XX secolo – il confine

16
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 38.
17
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 12.
18
Ibidem.
19
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 14.

12
orientale ha costituito «un’esperienza nazionalizzatrice senza precedenti» 20. Tuttavia, se
è vero che il movimento irredentista mise al centro del suo programma la “liberazione”
di questi territori, ovvero la loro annessione al Regno sabaudo, lo è altrettanto che la
politica estera di quest’ultimo assunse una linea più prudente, soprattutto con la stipula
della Triplice Alleanza del 1882. In questo contesto, l’Italia avrebbe potuto ottenere
eventuali compensazioni territoriali, in caso di un’espansione dell’impero
austroungarico nei Balcani, anche se la cosiddetta «nota Andrassy» 21 tendeva a
escludere questa possibilità, per evitare tendenze disgregatrici all’interno della
compagine imperiale. Dopo il primo conflitto mondiale il confine orientale sarebbe
diventato un elemento di tensione con il neonato Regno di Jugoslavia, con l’Italia
impegnata a sostenere nel successivo conflitto il movimento eversivo ustascia in chiave
disgregatrice dello Stato confinante.
Il confine orientale ha funzionato a lungo anche come «frontiera di
mobilitazione»22, prestandosi a un uso propagandistico col richiamo alla «vittoria
mutilata»23 al termine della Prima Guerra Mondiale, oppure con la questione del ritorno
di Trieste all’Italia dopo la seconda. In questo modo, lo stato fascista prima e la
Repubblica italiana poi hanno potuto unire l’opinione pubblica in una causa comune,
dirigendo sul confine orientale l’attenzione dell’intera nazione. Tra l’altro, la
mobilitazione funzionò anche dall’altra parte della frontiera, convogliando il consenso
verso il regime di Tito, attraverso un sapiente uso della propaganda nazionalista.
Il confine orientale è stato a lungo anche oggetto di una «politica di potenza» 24,
in modalità differenti. Infatti, all’indomani della terza guerra d’indipendenza il Regno
d’Italia voleva accreditarsi fra le grandi potenze europee, dunque un’estensione del
proprio territorio a oriente avrebbe significato accrescere il proprio prestigio all’interno
dei grandi stati nazionali del vecchio continente. A propria volta il fascismo guardò ad
est per raggiungere i propri obiettivi di regime «imperiale»25.

20
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 13.
21
Dal nome dell’imperial-regio ministro degli esteri Gyula Andrassy, che la fece pervenire al suo
omologo italiano il 24 maggio 1874.
22
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., pp. 17-18.
23
Termine utilizzato da Gabriele D’Annunzio nella Preghiera di Sernaglia, pubblicata il 24 ottobre 1918
sul Corriere della Sera.
24
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., pp. 17-18.
25
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 28.

13
Spesso e volentieri si parla di «frontiera naturale» 26 per indicare i confini di uno
stato. Tuttavia, questo concetto è tutt’altro che univoco, in quanto dipende dai parametri
utilizzati per stabilirlo. Infatti, nel caso della Venezia Giulia, di volta in volta è stato
invocato il criterio geomorfologico, che fissa i confini sul corso dei fiumi o sul crinale
delle catene montuose, oppure quello della «frontiera strategica» 27, favorevole da un
punto di vista militare all’Italia al termine della Prima Guerra Mondiale, mentre dopo il
successivo conflitto si attuò un rovesciamento a favore della Jugoslavia, facendo sorgere
nel nostro paese il timore di un’invasione da est.
Quanto alla nozione di confine «etnico», o «linguistico», questa - oltre a
rivelarsi di difficile applicazione in aree plurilingui multietniche come la Venezia Giulia
- in presenza di un regime totalitario quale era il fascismo produsse la negazione del
diritto di cittadinanza alle minoranze e la politica dell’assimilazione forzata. L’opera
snazionalizzatrice fallì per mancanza di tempo e risorse, oltre che per la
sottovalutazione del profondo radicamento dell’identità slovena in questi territori. Allo
stesso tempo, anche nella Jugoslavia di Tito venne applicata una logica simile, che
risultò molto più efficace nel «rimodellare globalmente la società locale come quella del
Paese di cui i territori di frontiera dovevano far parte»28.
Nel tempo, il confine orientale italiano ha assunto anche la valenza di «frontiera
ideologica»29. Infatti, se già ai tempi dell’occupazione nazista del Litorale Adriatico la
proposta politica dei partigiani jugoslavi riuscì a conquistare anche quelli italiani, a
maggior ragione nel contesto della guerra fredda la questione confinaria divenne il
luogo di scontro fra i due blocchi contrapposti, con la Jugoslavia che avrebbe voluto
estendere il proprio territorio ben oltre la «linea Morgan», mentre Trieste assurse al
simbolo di «baluardo d’italianità»30 in funzione anticomunista. In tal senso, la «nota
tripartita» di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia del 1948 per restituire Trieste all’Italia
aveva lo scopo di rinforzare l’adesione del nostro paese al blocco occidentale alle
elezioni politiche, evitando una vittoria delle sinistre che avrebbe rischiato di far
rientrare la Penisola nell’ambito di influenza dell’Unione Sovietica.
26
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., pp. 19-21.
27
Ibidem.
28
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 26.
29
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 29.
30
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 32.

14
Tuttavia, con l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform, tale barriera
ideologica venne gradualmente a cadere, rendendo la questione confinaria più che altro
una «pietra d’inciampo»31. Il Memorandum di Londra del 1954 sancì, di fatto, quella
che era stata considerata una soluzione provvisoria, restituendo la Zona A del mai
decollato Territorio Libero di Trieste all’Italia e lasciando la Zona B alla Repubblica
Federale di Jugoslavia. Dato il periodo di crisi economica vissuto da entrambe le parti,
sebbene con effetti più deleteri nell’ex Zona B, anche la concezione del confine mutò,
diventando una «risorsa di posizione»32 per una collaborazione fra stati vicini, anche se
ideologicamente distanti. Tale modus vivendi venne ratificato dal Trattato di Osimo nel
1975, che sancì definitivamente la situazione della «frontiera più aperta d’Europa» 33. Da
allora, il confine orientale italiano è divenuto sempre più un modello di convivenza fra
popoli differenti, ma accomunati da una storia che, seppur a volte dolorosa, è stata
fondamentale per la loro identità, anche in un’ottica europea.
Chiarite, dunque, le diverse connotazioni che può assumere la nozione di
confine, in particolar modo applicate a quello orientale italiano, vediamo in che modo
esse sono entrate in gioco nella storia recente della Venezia Giulia, non prima di aver
chiarito la natura polisemantica del termine stesso indicato da questa denominazione
geografica.

2. Venezia Giulia, una regione «inventata» e contesa


Nel loro volume, Roberta Michieli e Giuliano Zelco ci mostrano come, cartina
alla mano, la stessa area geografica identificata con il nome «Venezia Giulia» si sia
piegata agli usi più diversi nel corso del tempo, a partire dal 1815, fino al 1954 34. Infatti,
in virtù della natura “inventata” e artificiosa di questa denominazione, che i due autori
ci ricordano non essere legata né a un contesto storico, né geografico, ben definito,
questo termine è stato facilmente piegato alle necessità ideologiche del momento,
solitamente in chiave espansionistica, ai danni delle minoranze linguistiche ivi presenti.
31
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 33.
32
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 36.
33
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., pp. 37-38.
34
ROBERTA MICHIELI, GIULIANO ZELCO (A CURA DI), Venezia Giulia. La regione inventata, cit., pp. 23-54.

15
Dall’irredentismo al regime fascista, senza dimenticare il mito dannunziano della
«vittoria mutilata» nel primo dopoguerra e la problematica dell’assegnazione di Trieste
nel secondo, il termine ha assunto connotazioni differenti, a seconda degli interessi
politici delle parti in causa.
Quel che è certo è che si tratta di un

neologismo artificiale relativamente recente, creato ex novo dal glottologo


ebreo goriziano Graziadio Isaia Ascoli, il quale, nella necessità di
schematizzare e semplificare anche culturalmente le pretese irredentistiche
italiane, inventò questa nuova definizione per i territori “irredenti” 35.

Nel suo saggio del 1863 per la rivista Museo di famiglia, lo studioso goriziano
riusciva così a mettere insieme due elementi identitari profondamente legati al
Risorgimento, ovvero l’eredità romana e quella veneziana, con la consapevolezza che i
nomi possono funzionare come vere e proprie «bandiere». Allo stesso tempo,
l’ambiguità e la genericità della definizione permettevano di indicare alcuni obiettivi
simbolici come la conquista di Gorizia e Trieste, lasciando volutamente nel vago
l’identificazione della sua estensione geografica. Non a caso, l’amministrazione
imperiale austriaca parlava di «Litorale», suddiviso secondo le tre grandi unità
territoriali di Trieste, Gorizia e Gradisca e Istria, ciascuna con la propria Dieta
provinciale. Inoltre, negli stessi ambienti dell’irredentismo italiano inizialmente il
termine faticò a imporsi, venendo preferito ad altri quali «regione Giulia», «Litorale
Veneto Istriano o delle Alpi Giulie», etc. L’impiego di questa denominazione riprese
forza alla fine del XIX secolo, al punto che l’autorità imperiale asburgica ne vietò l’uso
nel 1907. In ogni caso, però, era il binomio «Trento e Trieste» ad accendere il
nazionalismo italiano, associato al termine ancor più generico di «terre irredente»; si
aggiunse, tuttavia, un aspetto che avrebbe costituito il vero e proprio vulnus
dell’annessione di questi territori al Regno d’Italia, ovvero l’incorporazione di una
consistente minoranza etnica. L’aperta connotazione anti-slava dell’irredentismo
35
PIERO PURINI, Il termine Venezia Giulia in funzione espansionistica e contro le minoranze dalle origini del
fascismo, cit., in ROBERTA MICHIELI, GIULIANO ZELCO (A CURA DI), Venezia Giulia. La regione inventata, p.
55.

16
italiano, infatti, avrebbe portato alle derive snazionalizzatrici del fascismo. Dall’altra
parte, invece, il termine «Venezia Giulia» veniva decisamente rifiutato da parte degli
sloveni e croati presenti nel territorio, preferendo la denominazione «Primorska»
(ovvero, «Litorale» in sloveno), oppure quella di «Julijska Krajina» (che significa
«Marca Giuliana»), che aveva il vantaggio di eliminare qualunque riferimento a
Venezia, andando a identificare una regione dal carattere transfrontaliero e, per sua
stessa natura, mistilingue e multietnica.
In ogni caso, fu a partire dall’occupazione militare da parte del generale Carlo
Petitti di Roreto36 e, soprattutto, con le trattative di pace nel primo dopoguerra, che il
termine «Venezia Giulia» venne impiegato in modo più massiccio, fino a trovare la sua
cristallizzazione con il Trattato di Rapallo nel 1920. Fu da questo momento e,
soprattutto, con l’avvento del regime fascista, che questa denominazione venne usata
con una sottolineatura decisamente etnica, in modo da indebolire, se non eliminare, le
minoranze linguistiche presenti nei territori appena acquisiti dallo Stato italiano.
Esemplare, in questo senso, risultò lo smembramento della Provincia di Gorizia nel
1923, suddivisa fra quelle di Udine e Trieste allo scopo di ridimensionare una presenza
come quella degli sloveni, che aveva un certo peso dal punto di vista politico-sociale,
come vedremo meglio nel prossimo Capitolo. Per questo, quindi, Purini afferma che
«qualsiasi decisione in merito alla gestione del territorio venne presa a Roma, seguendo
il centralismo tipico dello stato fascista, senza dare alcun peso alle richieste degli
abitanti della zona e sulla base esclusiva degli interessi nazionali dello stato» 37.
Esemplari, in questo senso, risultarono anche le operazioni di censimento effettuate in

36
Nato a Torino il 18 dicembre 1862, Petitti fu allievo della Scuola Militare di Milano dal 1980. La sua
carriera si svolse fra i Granatieri e la Fanteria, arrivando al grado di colonnello nel 1912, per poi passare a
quello di maggiore nel 1915. Divenuto generale nel 1919, nello stesso anno fu nominato anche senatore
del Regno. Dopo essersi ritirato dal servizio nel 1930, Carlo Petitti di Roreto si spense il 27 gennaio del
1932.
Per approfondimenti, cfr. https://www.carabinieri.it/chi-siamo/ieri/storia/i-comandanti-generali/i-cti-
generali/ten-gen-petitti-di-roreto, ultima consultazione 21/11/2023.
37
PIERO PURINI, Il termine Venezia Giulia in funzione espansionistica e contro le minoranze dalle origini del
fascismo, cit., in ROBERTA MICHIELI, GIULIANO ZELCO (A CURA DI), Venezia Giulia. La regione inventata, p.
61.

17
questi territori a cavallo fra le due guerre mondiali, tentando di manipolare i dati per
dimostrarne la presunta «italianità»38.
Divenne, inoltre, invalso l’uso del termine «giuliano» per indicare gli abitanti di
queste zone, intendendo però solamente la componente italiana, ignorando volutamente
le altre minoranze etniche. Nel secondo dopoguerra, questa definizione trovò un
impiego più marcatamente ideologico, andando a indicare tanto gli abitanti delle
province di Gorizia e Trieste, quanto gli abitanti di lingua italiana di Istria e Dalmazia,
ovvero gli esuli, costretti a emigrare dalle loro zone natie in seguito ai cambiamenti
confinari, determinati prima dal Trattato di Parigi del 1947 e poi dal Memorandum di
Londra del 1954. Per questo, quindi, ancora oggi il termine «Venezia Giulia» si presta a
molteplici interpretazioni, a dimostrazione della voluta ambiguità che lo ha connotato
fin dalle origini, sempre aperta a derive ideologico-propagandistiche di carattere
nazionalistico.

3. Dalla stagione irredentista alla Grande Guerra


Al termine della terza guerra d’indipendenza il confine orientale italiano venne
fissato sul corso del fiume Judrio 39; il Regno sabaudo aveva acquisito il Veneto e il
Friuli, lasciando aperto il problema del Trentino e della Venezia Giulia, anche se
quest’ultima non sembrava attirare l’attenzione nazionale, in quanto le terre del Litorale
Adriatico apparivano difficili da conquistare sia per motivi strategici che etnici, data la
compresenza di più gruppi nazionali all’interno del loro territorio.
Nell’ambito della normalizzazione delle relazioni con il vicino austriaco,
culminate con la stipula della Triplice Alleanza (1882), lo Stato italiano aveva buoni
motivi per non sostenere – per lo meno apertamente – una politica estera irredentista, in
quanto l’impero asburgico aveva fatto del mantenimento dello status quo uno dei

38
Ciononostante, nelle rilevazioni del 1936 risultò che la presenza slovena e croata nel territorio della
Venezia Giulia fosse complessivamente rimasta uguale al 1921, nonostante la politica snazionalizzatrice
attuata dal fascismo. Fu anche per questo che i dati vennero elaborati solamente nel 1939, rimanendo
segreti. Per approfondimenti, cfr. PIERO PURINI, Censimenti e composizione etnica, in ROBERTA MICHIELI,
GIULIANO ZELCO (A CURA DI), Venezia Giulia. La regione inventata, cit., p. 94.
39
Tale fiume separava il Lombardo-Veneto dalla principesca Contea di Gorizia e Gradisca, la quale
rimase sotto il dominio asburgico.

18
cardini della sua azione, tanto interna quanto esterna. Infatti, come ben sottolineato dalla
cosiddetta «nota Andrassy», era da escludere qualunque cessione territoriale all’Italia
per vie pacifiche, in quanto avrebbe innescato una pericolosa reazione a catena di
rivendicazioni da parte degli altri popoli presenti nell’impero, portando alla sua
inevitabile disgregazione.
In risposta a questa linea incentrata sulla realpolitik, che tradiva gli ideali
risorgimentali, si organizzarono i movimenti irredentisti, con l’obiettivo di realizzare
«una rigenerazione morale della nazione»40, che si sarebbe inverata solo con il
completamento del Risorgimento e dell’unità della Penisola italiana. Per questo,
vennero costituite varie società, fra cui spicca l’Associazione in pro dell’Italia irredenta,
che nel proprio statuto metteva in connessione la liberazione del Trentino e della
Venezia Giulia, operando tramite comitati segreti che avevano contatti con i loro
omologhi nelle «terre irredente», attraverso le logge massoniche, di cui a Trieste erano
referenti figure come Teodoro Mayer41 e Felice Venezian42. In questi anni, emerse fra

40
MARINA CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 33.
41
Nato a Trieste nel 1860, Mayer proveniva da una famiglia ebraica attiva nel commercio. Costretto ad
abbandonare gli studi a causa del tracollo economico delle attività familiari, dimostrò un precoce interesse
per l’editoria, fondando il quotidiano Il Piccolo nel 1881. Grazie all’amicizia con Felice Venezian, entrò
nel gruppo dirigente del partito nazional-liberale triestino, aderendo anche alla massoneria. Grazie alle
sue conoscenze nel Regno d’Italia, riuscì anche ad acquistare la metà del pacchetto azionario dell’agenzia
di stampa “Stefani” nel 1902. Accanto all’attività editoriale, si impegnò anche nella vita pubblica,
venendo eletto nel consiglio comunale della sua città negli anni fra il 1906 e il 1913. Dopo il
trasferimento a Roma, sostenne un’intensa opera di propaganda interventista per l’ingresso in guerra
dell’Italia allo scoppio del primo conflitto mondiale. Al termine della guerra, nel 1920 rifondò Il Piccolo e
divenne senatore del Regno, assumendo anche importanti incarichi, come la nomina a presidente
dell’Istituto Mobiliare Italiano (IMI) nel 1931. Con l’emanazione delle leggi razziali nel 1938 fu costretto
ad abbandonare tutti gli incarichi, compresa la direzione del Piccolo, affidata a Rino Alessi. Teodoro
Mayer morì a Roma nel 1942.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/teodoro-mayer_(Dizionario-Biografico)/,
ultima consultazione 20/11/2023.
42
Nato a Trieste nel 1851, fin da giovane Venezian aderì all’irredentismo, anche grazie allo zio Giacomo,
che aveva partecipato alla difesa della Repubblica Romana nel 1849. Iscritto fin da giovane alla
massoneria, nel 1872 si laureò in giurisprudenza all’università di Innsbruck. Nel 1882 venne eletto al
consiglio comunale di Trieste, guidando per 25 anni il partito nazional-liberale, che si caratterizzava per
una significativa componente massonica e un orientamento decisamente anti slavo. Fondatore
dell’associazione Pro Patria nel 1885, continuò instancabilmente a tessere relazioni con il Regno d’Italia,
grazie all’amicizia con Ernesto Nathan, fondando anche la loggia massonica «Alpi Giulie». Dopo la
sconfitta liberale alle elezioni del 1907, le prime a suffragio universale, Venezian si spense nel 1908.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/felice-venezian_(Dizionario-Biografico)/,
ultima consultazione 14/01/2024.

19
tutti gli irredentisti triestini Guglielmo Oberdan 43, condannato a morte nel 1882 per aver
progettato un attentato all’imperatore Francesco Giuseppe, in occasione del 500°
centenario della dedicazione della città di Trieste alla casa d’Austria. Tuttavia, in quel
contesto l’azione di Oberdan fu un caso isolato e lo stesso movimento irredentista era
minoritario da entrambe le parti del confine, con un’esigua adesione e un peso politico
ininfluente. Infatti, nel Litorale Adriatico in generale e nella principesca Contea di
Gorizia e Gradisca in particolare, prevaleva il lealismo nei confronti dell’impero
asburgico, in virtù del fatto che – grazie alla legge del 21 dicembre 1867 – tutti i popoli
presenti nella multietnica compagine statale avevano la possibilità di tutelare i propri
diritti. Perciò, il confronto tra le diverse nazioni presenti a Gorizia avveniva «all’interno
dello schema politico asburgico, che consentiva e ovviamente interveniva a seconda
delle circostanze nelle dispute nazionali, adottando disposizioni e correttivi che
percorrevano i binari della sovranazionale politica interna dell’Impero»44. Inoltre,
l’autorità imperiale garantiva l’autonomia amministrativa, perciò le istanze nazionali si
potevano conciliare con la fedeltà all’impero. Come vedremo nel II Capitolo, nel
periodo antecedente la Prima Guerra Mondiale la fedeltà all’impero costituiva una delle
peculiarità di questi territori, in particolare della classe dirigente cattolica, che lo
avrebbe pagato a caro prezzo dopo il passaggio al Regno d’Italia.
La situazione iniziò a mutare alla fine del XIX secolo, con l’emergere nel
Litorale Adriatico di una realtà associativa che diede alla presenza italiana una notevole
visibilità, per il suo dinamismo (vi aderivano numerosi studenti), se non per le

43
Nato a Trieste nel 1858, Oberdan era figlio illegittimo di un panettiere originario di Noventa di Piave e
di una cuoca slovena e, in realtà, si chiamava Wilhelm Oberdank. Conseguita la maturità tecnica nel
1877, grazie a una borsa di studio si iscrisse alla facoltà di ingegneria al Politecnico di Vienna, dove
rafforzò le sue convinzioni irredentiste. Nel 1878 venne arruolato nell’esercito asburgico, ma ben presto
disertò, per scappare in Italia, dove venne a contatto con l’associazione Pro Italia irredenta di Matteo
Renato Imbriani e Giuseppe Avezzana. Dopo la morte di Giuseppe Garibaldi, maturò la convinzione che
fosse necessaria un’azione eclatante per attirare l’attenzione sulla causa irredentista. A questo scopo, il 3
agosto di quell’anno piazzò una bomba all’altezza di via S. Spiridione a Trieste, in occasione del 500°
anniversario della dedicazione della città alla casa d’Asburgo, causando la morte di due giovani e il
ferimento di una quindicina di persone. Rientrato da Roma a metà di settembre, al fine di effettuare un
altro attentato, Oberdan venne arrestato a Ronchi e, riconosciuto colpevole, venne giustiziato il 20
dicembre tramite impiccagione.
Per approfondimenti, cfr. https://www.regionestoriafvg.eu/tematiche/tema/335/Il-caso-Oberdan, ultima
consultazione 18/01/2024 e https://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-oberdan_(Dizionario-
Biografico)/?search=OBERDAN%2C%20Guglielmo, ultima consultazione 21/11/2023.
44
LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, cit., p. 50.

20
dimensioni. Associazioni come la Pro Patria o la Dante Alighieri avevano come
obiettivo la promozione della lingua e della cultura italiana, assumendo nella Venezia
Giulia un deciso carattere xenofobo nei confronti degli altri gruppi etnici presenti,
sloveni e croati in primis. Iniziò quel processo di negazione della loro peculiarità
nazionale, che sarebbe poi sfociato nella politica snazionalizzatrice fascista. Infatti, i
liberali italofoni ritenevano che le popolazioni slave fossero barbare e disperse, dunque
l’unica possibilità di riscatto che avevano era rappresentata dall’assimilazione alla
superiore cultura italiana. Questo dimostra che la diffidenza, quando non l’aperta
ostilità, nei confronti degli sloveni faceva parte da tempo della mentalità dell’élite
politico-culturale del Litorale e, in questo senso, nemmeno Gorizia faceva eccezione, in
quanto alla fine del XIX secolo crebbe la visibilità del ceto dirigente sloveno, che stava
definendo la propria identità in senso nazionale. Perciò, possiamo individuare proprio in
questo periodo un acuirsi delle tensioni fra le diverse etnie presenti all’interno del
Litorale Adriatico. Per favorire un allargamento della base di questo movimento
nazionale, venne creata anche una vera e propria «religione civile» 45, dotata dei propri
simboli per veicolare l’ideologia patriottica.
Tuttavia, bisogna ricordare che i movimenti irredentisti trovavano adesioni
soprattutto nella media e alta borghesia, mentre la maggior parte dei cittadini del
Litorale Adriatico era sostanzialmente fedele allo Stato asburgico, come dimostrarono le
elezioni politiche del 1907, le prime a suffragio universale maschile.
A ridosso della Prima Guerra Mondiale nel Regno d’Italia i tempi erano maturi
per una decisa ripresa del movimento irredentista, in chiave nazionalista. L’annessione
della Bosnia-Erzegovina all’impero austroungarico, insieme a una politica coloniale
sempre più attiva con la guerra di Libia (1912) e, soprattutto, i reportages di giornalisti

45
Cfr. MARINA CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 56.

21
celebri come Luigi Barzini46 per il Corriere della Sera e Virginio Gayda47 sulla Stampa
dedicati alle condizioni della popolazione italiana insidiata dalla presenza slovena e
croata nelle zone al confine orientale, riaccesero l’interesse per le «terre irredente».
Anche nel mondo politico questi elementi risultarono funzionali all’allargamento
territoriale del Regno d’Italia, messa da parte dalle esigenze della politica delle alleanze
nei decenni precedenti.
La Grande Guerra costituì un punto di svolta nella questione del confine
orientale italiano, riuscendo a compattare l’opinione pubblica intorno a un obiettivo
comune. Anche se inizialmente l’Italia aveva mantenuto un atteggiamento neutrale, di
fatto la società era pervasa da uno spirito nazionalista e bellicista che percepiva il
conflitto come una forma di «rigenerazione della comunità nazionale» 48. Il sentimento
anti austriaco era sempre più diffuso, anche a causa delle mancate concessioni
territoriali dopo l’annessione della Bosnia all’impero asburgico nel 1908 e la politica
anti italiana dei decreti «Hohenlohe» del 1913, che prevedevano l’espulsione dei
cosiddetti «regnicoli» dall’amministrazione comunale e dalle aziende municipalizzate di
Trieste. Inoltre, grazie anche agli interventi dei nazionalisti triestini Ruggero Timeus 49 e

46
Nato a Orvieto nel 1874, ben presto Barzini fece il suo ingresso nel mondo del giornalismo, entrando
nella redazione del Corriere della Sera nel 1899. Nel 1901 divenne celebre per la copertura della rivolta
dei Boxers in Cina, grazie a una scrittura chiara e brillante, che lo rese uno dei corrispondenti dall’estero
più celebri del periodo. Al termine della Grande Guerra entrò in conflitto con il direttore Albertini per la
sua posizione fortemente nazionalista, quindi nel 1923 si trasferì a New York, dove fondò il Corriere
d’America, quotidiano di propaganda fascista. Al suo rientro in Italia nel 1931, gli venne affidata la
direzione del Mattino di Napoli, mentre nel 1934 divenne senatore del Regno. Al termine del secondo
conflitto mondiale, nel 1947 si spense a Milano.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/luigi-barzini_(Dizionario-Biografico)/,
ultima consultazione 21/11/2023.
47
Nato a Roma nel 1885, nel 1908 venne assunto dalla Stampa di Torino, diventando ben presto
corrispondente dall’estero, per trasferirsi a Vienna nel 1911, dove rimase fino allo scoppio della Prima
Guerra Mondiale. Venne poi inviato in Russia, dove rimase fino al 1918, coprendo gli avvenimenti legati
alla Rivoluzione d’Ottobre per il suo giornale e svolgendo anche degli incarichi per il ministero degli
esteri. Al suo rientro in patria, si occupò della pagina di politica estera del Messaggero di Roma,
divenendone successivamente il direttore. Grazie alle sue posizioni filofasciste, entrò nell’entourage del
duce, che lo nominò direttore del Giornale d’Italia, lavorando attivamente nella propaganda di regime.
Gayda morì a Roma nel 1944.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/virginio-gayda_(Dizionario-Biografico)/,
ultima consultazione 23/11/2023.
48
MARINA CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 72.
49
Nato a Trieste nel 1892, Timeus si recò a Roma per studiare lettere, venendo a contatto con gli ambienti
nazionalisti, di cui divenne un fervente sostenitore, segnalandosi per le sue posizioni anti austriache e anti
slave. Autore di vari scritti dedicati alla questione del confine orientale, innescò un’aspra polemica tanto
con il socialismo triestino, quanto con un patriota italiano come Scipio Slataper. Arruolatosi come

22
Attilio Tamaro50, veniva giustificato l’espansionismo a est del Regno d’Italia in chiave
imperialista, in modo da porre contestualmente un freno alla penetrazione economica e
all’occupazione dell’amministrazione pubblica da parte degli sloveni presenti nel
Litorale Adriatico. Presentando Trieste come una possibile «porta aperta verso Est», «gli
obiettivi territoriali dell’irredentismo venivano così posti al servizio di una futura
politica di potenza»51.
Inoltre, allo scoppio del conflitto assunse dimensioni considerevoli il fenomeno
del fuoriuscitismo degli italiani del Litorale Adriatico, che non volevano combattere
nelle file dell’esercito asburgico, contribuendo così a rinforzare il fronte interventista,
anche attraverso la fondazione di associazioni, come la Pro Dalmazia italiana, la Pro
Fiume e Quarnaro e, sul versante del Tirolo italiano, la società Alto Adige. Fra questi, vi
era anche un numero, seppur limitato, di volontari giuliano-dalmati, che combatterono
e, in molti casi, diedero la vita per la patria, fra cui ricordiamo lo stesso Timeus, Scipio

volontario nell’esercito italiano nel 1915, morì il 14 settembre dello stesso anno sul fronte carnico.
Per approfondimenti, cfr. https://www.atlantegrandeguerra.it/portfolio/ruggero-timeus/, ultima
consultazione 21/11/2023.
50
Nato a Trieste nel 1884, Tamaro si laureò in lettere all’università di Graz nel 1906. Al suo rientro a
Trieste lavorò come giornalista per L’Indipendente e Il Piccolo, diventando un fervente irredentista,
antiaustriaco e anti slavo. Allo scoppio della Grande Guerra si arruolò come volontario nell’esercito
italiano, svolgendo anche degli incarichi per il ministero degli esteri. Dopo la sua adesione al Partito
Fascista, ricoprì varie mansioni nell’ambito della diplomazia, ma alla vigilia della caduta del regime i suoi
rapporti con il partito si erano notevolmente raffreddati. Per questa ragione, non si compromise con la
Repubblica di Salò e, dopo la Seconda Guerra Mondiale, riprese la sua attività di pubblicista, per poi
scomparire a Roma nel 1956.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/attilio-tamaro_(Dizionario-Biografico)/,
ultima consultazione 21/11/2023.
51
MARINA CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 76.

23
Slataper52 e Carlo Stuparich53, mentre Nazario Sauro54 venne fatto prigioniero dagli
austriaci e giustiziato per alto tradimento.
Le associazioni interventiste facevano rivendicazioni massimaliste,
comprendenti buona parte della costa dell’Adriatico orientale, sostenuti in questo senso
anche dalle martellanti campagne mediatiche di giornali come Il Corriere della Sera e
La Stampa. Erano su posizioni più moderate, invece, gli interventisti democratici, ad
esempio Teodoro Mayer, che nel suo memoriale I confini naturali d’Italia difendeva
l’idea di una frontiera che andasse dal Monte Nevoso a quello Maggiore, in modo da
avere una più efficace difesa da aggressioni straniere, prospettando però al contempo un
confine “etnico”, basato sull’idea dell’autodeterminazione dei popoli.
Anche l’atteggiamento della politica italiana era destinato gradualmente a
mutare. Inizialmente il governo Salandra, succeduto a quello del dimissionario Giolitti,
mantenne una posizione neutralista, con la speranza che gli iniziali successi dell’esercito
asburgico in Serbia portassero a una compensazione territoriale per l’Italia, arrivando
come minimo allo stabilimento dei confini “etnici”, comprendenti Trieste e l’Istria. Di
fronte al secco rifiuto dell’Austria a qualsiasi cessione, presero l’avvio le trattative con

52
Nato a Trieste nel 1888, Slataper ottenne la maturità classica nel 1908, per poi iscriversi all’università a
Firenze, dove si laureò nel 1912. Insieme all’amico Giani Stuparich entrò in contatto con Angelo Vivante
e il Circolo di studi sociali, coniugando socialismo, mazzinianesimo e patriottismo. Autore di vari scritti,
fra i quali ricordiamo la sua opera più famosa, ovvero Il mio Carso, fu a lungo collaboratore della rivista
La Voce di Giuseppe Prezzolini, lavorando anche come traduttore. Nel 1915 Slataper si arruolò come
volontario nei Granatieri di Sardegna e venne colpito a morte durante un’azione sul monte Podgora.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/scipio-slataper_(Dizionario-Biografico)/,
ultima consultazione 22/11/2023.
53
Nato a Trieste nel 1884, nel 1913 Stuparich si iscrisse all’Istituto di Studi Superiori di Firenze,
frequentando l’ambiente della Voce di Prezzolini. Fervente nazionalista, credeva tuttavia nella convivenza
delle diverse etnie, come avveniva nella sua terra natale. Allo scoppio della guerra rimase a Trieste e,
quando l’Italia entrò nel conflitto, si arruolò come volontario, insieme a Scipio Slataper e al fratello Giani.
La vita di trincea deluse parzialmente Stuparich, che si rese conto che la guerra non corrispondeva al suo
ideale. Partito per l’altipiano di Asiago nel maggio del 1916, il 30 si trovò isolato sul Cengio fra le linee
nemiche e, pur di non essere fatto prigioniero, si sparò un colpo di rivoltella.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-stuparich_(Dizionario-Biografico)/,
ultima consultazione 22/11/2023.
54
Nato a Capodistria nel 1880, Sauro lavorò per varie società di navigazione, fra cui il Llyod Austriaco,
per passare nel 1910 alla Società cittadina di navigazione a vapore della sua città. Fervente irredentista,
allo scoppio della Grande Guerra lasciò Capodistria per recarsi nel Regno d’Italia, dove si arruolò in
marina come tenente di vascello. Partecipò con coraggio a numerose spedizioni, fino a quando si incagliò
con il suo sommergibile, nel tentativo di penetrare nel porto di Fiume. Fatto prigioniero dagli austriaci,
venne processato come disertore e condannato a morte per impiccagione.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/nazario-sauro/, ultima consultazione
22/11/2023.

24
le potenze della Triplice Intesa, che avrebbero portato il nostro paese a siglare il Patto di
Londra del 26 aprile 1915. Le condizioni proposte erano quelle massimaliste,
comprendendo il Sud Tirolo fino al Brennero, Trieste, la Contea di Gorizia e Gradisca,
l’Istria fino al Quarnaro e gran parte della Dalmazia. In particolare le richieste italiane
in Dalmazia si scontravano con le equivalenti rivendicazioni della Serbia, supportate
dall’impero russo. Questo avrebbe posto le basi per una situazione potenzialmente
esplosiva al confine orientale nel primo dopoguerra, come vedremo più
approfonditamente nel prossimo paragrafo. Contemporaneamente a queste trattative, il
ministro degli esteri Sonnino conduceva delle interlocuzioni parallele con gli imperi
centrali, basati sulla medesima «logica del parecchio» 55, irricevibile per la monarchia
asburgica, pena la polverizzazione del suo impero multinazionale.
Si arrivò, così, il 24 maggio 1915, alla dichiarazione di guerra dell’Italia
all’Austria, con un enorme dispiegamento di forze proprio sul confine orientale, che
divenne teatro di una sanguinosa guerra di posizione. Essa portò – l’8 agosto 1916 – alla
conquista di Gorizia, a costo di un enorme sacrificio di vite umane, in cambio di una
scarsa utilità dal punto di vista strategico-militare 56. I lunghi anni del conflitto furono
anche l’occasione per i soldati di venire a contatto con la popolazione locale, che non
corrispondeva affatto alle aspettative dei “liberatori”. Infatti, molti civili erano sudditi
fedeli all’impero e mal sopportavano le truppe italiane 57, mentre i patrioti e gli
irredentisti erano quasi tutti fuggiti nel Regno sabaudo o erano stati internati dalle
autorità imperiali. Si venne così a creare un contrasto fra gli abitanti del posto e gli
occupanti, che avrebbe avuto importanti conseguenze nel dopoguerra, come vedremo
più approfonditamente nel prossimo Capitolo. Dopo quattro anni di guerra e 600.000
morti, il 3 novembre 1918 venne siglato l’armistizio di Villa Giusti, che pose fine alle
ostilità fra il Regno d’Italia e l’impero austroungarico. Sarebbe iniziato, così, un lungo
periodo di trattative per la definizione dei confini orientali d’Italia, destinati a incidere
profondamente nella storia di questi territori a cavallo fra le due guerre mondiali.

55
MARINA CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 90.
56
Cfr. LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, cit., p. 95.
57
Lucio Fabi li definisce una «popolazione formalmente nemica». Cfr. LUCIO FABI, Gorizia: storia di
una città, cit., p. 96.

25
4. Il primo dopoguerra e il «fascismo di confine»
La fine del primo conflitto mondiale presentò una situazione decisamente mutata
rispetto allo scoppio delle ostilità dal punto di vista geopolitico. Infatti, la dissoluzione
degli imperi centrali, ma anche di quello russo, cambiarono gli attori presenti al tavolo
della pace. Inoltre, nell’ultimo anno di guerra si era imposta una nuova potenza, che
avrebbe di fatto assunto una posizione egemone durante le trattative, ovvero gli Stati
Uniti. In questo contesto, dunque, l’Italia si trovava a confrontarsi non più con un
nemico sconfitto e screditato quale l’Austria-Ungheria, sul quale pesava la
responsabilità di aver causato il conflitto, ma con il nascente Regno «dei serbi, dei
croati e degli sloveni», uno Stato vincitore, che aveva mire sugli stessi territori
dell’Adriatico rivendicati dagli italiani. Perciò, non stupisce che il presidente
statunitense Thomas Woodrow Wilson proponesse la soluzione del confine “etnico”, già
sostenuta dagli interventisti democratici alla vigilia dell’ingresso italiano nel conflitto,
in nome della dottrina dell’«autodeterminazione dei popoli». Non sfuggiva, infatti, al
politico americano che l’espansionismo italiano nell’Adriatico poteva causare
l’esplodere di un conflitto con il vicino jugoslavo. Stretti fra l’intransigenza di Wilson e
il montante malcontento dell’opinione pubblica nazionale, presso la quale già qualche
giorno prima della fine delle ostilità iniziava a circolare il mito della dannunziana
«vittoria mutilata», i ministri Vittorio Emanuele Orlando e Sydney Sonnino
abbandonarono le trattative il 24 aprile 1919, dichiarando decaduto il Patto di Londra il
7 maggio dello stesso anno. Dopo la stipula del Trattato di Versailles (28 giugno 1919)
con la Germania, Wilson rientrò negli Stati Uniti, rendendo il contesto più favorevole
alle richieste italiane, sostenute dal nuovo ministro degli esteri Tommaso Tittoni 58;
tuttavia, il problema confinario sarebbe stato definitivamente risolto solo con il Trattato
di Rapallo, siglato l’anno successivo.

58
Nato a Roma nel 1855, fin da giovane Tittoni si dedicò a un’intensa attività politica, partecipando prima
alle elezioni municipali, mentre fu eletto alla camera dei deputati per la prima volta nel 1886. Dopo alcuni
anni come prefetto di Perugia e Napoli, nel 1902 venne nominato senatore da Giovanni Giolitti. Ministro
degli esteri nel 1919, lasciò la carica per diventare presidente del senato nello stesso anno. Anche durante
il regime fascista continuò la sua attività politica, morendo a Roma nel 1931.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/tommaso-tittoni_%28Dizionario-
Biografico%29/, ultima consultazione 26/11/2023.

26
Nel frattempo, l’esercito italiano aveva iniziato l’occupazione della Venezia
Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, andando al di là di quanto concordato nel Patto di
Londra, causando così forti tensioni con l’esercito serbo, in particolare a Fiume. Queste
prime avvisaglie della questione confinaria si trasformarono in vere e proprie azioni di
reciproco ostruzionismo, come nel caso del blocco navale imposto dall’Italia al Regno
Jugoslavo, oppure in quello dei sabotaggi della ferrovia meridionale o Südbahn da parte
degli sloveni a danno degli italiani. In questo frangente, l’amministrazione militare del
generale Carlo Petitti di Roreto prima, e quella civile di Augusto Ciuffelli 59 e Antonio
Mosconi60 poi, tentarono di svolgere una «funzione pacificatrice e mediatrice rispetto
alle aspre contrapposizioni politiche e nazionali delle terre occupate» 61. Infatti, stavano
emergendo quelle tendenze nazionaliste fortemente anti slovene e croate, che sarebbero
sfociate in una logica di accesa contrapposizione, fino a giungere alla violenza, che
avrebbe caratterizzato l’ascesa del fascismo al confine orientale. Infatti, già nell’aprile
del 1919 era stato costituito il primo fascio triestino, formato da un variegato gruppo di
reduci irredentisti, repubblicani e liberal-nazionali radicalizzati, tenuti insieme da un
nazionalismo intransigente e da una xenofobia violenta nei confronti della popolazione.
Pur rappresentando una formazione minoritaria, riuscirono a imporsi nel panorama
politico locale, anche grazie ad azioni violente, come l’incendio dell’hotel Balkan di
Trieste, importante centro dell’associazionismo sloveno nella città giuliana, avvenuto il
13 luglio 1920. In questo contesto, le contrapposizioni etniche assumevano anche
carattere politico, in quanto molti sloveni avevano aderito al partito socialista 62, che in
quegli anni viveva una fase di vera e propria lotta armata con il movimento fascista in
59
Nato nel 1856, Ciuffelli entrò ben presto nel mondo della politica, diventando segretario particolare di
Giuseppe Zanardelli. Eletto alla camera dei deputati nel 1904, divenne un membro di punta del Partito
democratico costituzionale, amministrando vari dicasteri, per poi essere inviato ad amministrare la
Venezia Giulia al termine della Grande Guerra. Nel 1921 si spense a causa di una grave malattia.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/augusto-ciuffelli_(Dizionario-Biografico)/,
ultima consultazione 21/11/2023.
60
Nato nel 1866, Mosconi nel 1890 entrò nel gabinetto del Ministero dell’Interno. Grazie alla stima di
Giolitti, divenne vice capo di gabinetto, per poi essere nominato prefetto e segretario capo della
Presidenza del Consiglio. Dopo aver svolto l’incarico di commissario per la Venezia Giulia, al suo rientro
a Roma svolse vari incarichi, per essere nominato ministro delle Finanze nel 1928, trovandosi a
fronteggiare gli effetti della crisi del ’29. Svolse vari incarichi fino alla caduta del regime, per poi ritirarsi
a vita privata; Antonio Mosconi morì a Roma nel 1955.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-mosconi_(Dizionario-Biografico)/,
ultima consultazione 21/11/2023.
61
MARINA CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 132.

27
tutto il territorio italiano, fino ad arrivare all’eliminazione fisica degli avversari.
Cominciavano così a delinearsi i caratteri peculiari di quello che è stato definito
«fascismo di confine»63, il quale univa una radicalizzazione dei contenuti xenofobi
dell’ideologia ai metodi violenti di contrapposizione politica.
Fu in questo contesto che D’Annunzio guidò l’impresa di Fiume, abbandonata
dall’esercito italiano dopo uno scontro con le truppe francesi il 6 luglio 1919.
Raccogliendo un gruppo formato da ufficiali, truppe ribelli e volontari, il 12 settembre
dello stesso anno il «Vate» partì alla volta della città, che divenne ben presto il simbolo
delle rivendicazioni italiane nell’Adriatico orientale. Non avendo trovato resistenze,
D’Annunzio poté instaurare una sorta di governo dittatoriale, basato sul proprio
carisma, dando vita a «una specie di laboratorio per la nuova cultura politica basata sul
mito, sulla mobilitazione delle masse, sulla liturgia della nazione e dell’azione» 64, da cui
avrebbe attinto a piene mani il fascismo. Questo esperimento istituzionale, che andò
avanti per oltre un anno, dotandosi anche di una costituzione 65, fu la testimonianza di
una complessità di fermenti politico-culturali, destinata a terminare con il Trattato di
Rapallo e il successivo «Natale di sangue», che avrebbe costituito le basi per l’ascesa
del regime fascista.
La questione del confine orientale continuava ad agitare le diplomazie europee,
che premevano per una soluzione di compromesso fra i due contendenti. Alla fine, si

62
Di conseguenza, secondo Glenda Sluga, se ne deduceva «non solo che gli italiani erano “indigeni” nella
regione di confine, ma che il dissenso della classe lavoratrice e l’agitazione socialista potevano essere
definiti come anti-italiani».
Per approfondimenti, cfr. GLENDA SLUGA, Identità nazionale italiana e fascismo: alieni, allogeni e
assimilazione sul confine nord-orientale italiano, in MARINA CATTARUZZA (A CURA DI), Nazionalismi di
frontiera. Identità contrapposte sull’Adriatico nord-orientale 1850-1950, Soveria Mannelli (Catanzaro),
Rubbettino, 2003, p. 176.
63
Per approfondire la questione, cfr. i seguenti volumi:
- ANNA MARIA VINCI, Sentinelle della patria: il fascismo al confine orientale 1918-1941, Laterza,
Bari, 2011.
- MARCO PUPPINI, MARTA VERGINELLA, ARIELLA VERROCCHIO, Dal processo Zaniboni al
processo Tomazic. Il tribunale di Mussolini e il confine orientale (1927-1941), Gaspari Editore,
Udine, 2003.
- MARTA VERGINELLA, Il confine degli altri. La questione giuliana e la storia slovena, Donzelli,
Roma, 2008.
- TEODORO SALA, Il fascismo italiano e gli Slavi del sud, IRSML FVG, Quaderni 22, Trieste,
2008.
64
MARINA CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, cit., p. 150.
65
La cosiddetta Carta del Quarnaro, pubblicata l’8 settembre 1920.

28
arrivò a un’intesa, con l’Italia che accettò di dare attuazione all’accordo stipulato con il
Patto di Londra, che prevedeva il confine al monte Nevoso, secondo un tracciato
comprendente l’Istria, le isole di Cherso, Lussino, Pelagosa e Lagosta, insieme alla
sovranità su Zara. D’altro canto, il Regno sabaudo rinunciava alle pretese su Fiume, che
venne dichiarata città libera, e a ulteriori allargamenti territoriali in Dalmazia,
riconoscendo allo stesso tempo l’Albania come stato sovrano. Tale risoluzione venne
ufficializzata con il Trattato di Rapallo, stipulato il 12 novembre 1920 e
successivamente ratificato dal governo italiano e jugoslavo 66. L’accordo sembrava
chiudere le dispute confinarie fra i due Stati vicini, ma finì solamente per rinsaldare gli
opposti nazionalismi lungo la linea di frontiera appena stabilita nell’Adriatico orientale.
Con il definitivo passaggio della Venezia Giulia all’Italia, sancito a Rapallo, il governo
si trovò per la prima volta a fare i conti con significative minoranze nazionali all’interno
del proprio territorio. Con la quasi contestuale ascesa del fascismo, nel 1922, ebbe
inizio quell’opera di snazionalizzazione che avrebbe caratterizzato la politica nei
confronti di sloveni e croati nelle terre finalmente «redente» dell’Adriatico orientale,
realizzando quello che Sandi Volk ha definito un «processo di semplificazione della
carta etnica»67. L’obiettivo era quello di omogeneizzare i nuovi territori al resto dello
Stato italiano, mettendo in campo un universo simbolico, legato alla romanità e alla
venezianità, che escludeva qualunque elemento estraneo. A partire dal nome «Venezia
Giulia», coniato da Ascoli per inserire le terre al confine orientale in una precisa
tradizione culturale, il fascismo mise in atto un’opera di assimilazione forzata, che
qualcuno non ha esitato a definire un «etnocidio» 68 o quanto meno, un genocidio
culturale. Certamente, vennero scientemente ignorati i secoli di convivenza
relativamente pacifica delle diverse etnie al confine orientale d’Italia, negando perfino
l’esistenza di una vera e propria identità nazionale slovena e croata, come fecero il

66
Rispettivamente il 2 novembre 1920 dal Regno di Jugoslavia e il 2 febbraio 1921 da quello italiano.
67
SANDI VOLK, Esuli a Trieste. Bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale,
Udine, Kappavu, 2004, p. 7.
68
Cfr. a questo proposito ROLF WÖRSDÖRFER, Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955,
Bologna, Il Mulino, 2009, p. 111.

29
fascista istriano Giuseppe Cobolli Gigli 69 o il triestino Livio Ragusin Righi 70, secondo i
quali era sufficiente la penetrazione della cultura italiana nella Venezia Giulia per
trasformare gli «alloglotti» in fedeli cittadini italiani dal punto di vista etnico 71. Tuttavia,
fino al 1930 non era stata definita una chiara politica snazionalizzatrice e, in ogni caso,
fino all’emanazione delle leggi razziali, nel 1938, il regime alternò l’impiego della
repressione e del terrore, con quello dell’assimilazione e della ricerca del consenso 72.
Infatti, si riteneva che la capacità assimilatrice fosse la dimostrazione della forza di una
razza, pertanto si procedette a una «simultaneità di energiche operazioni di
assimilazione nella regione di confine e di un’articolazione teorica delle basi spirituali
eclettiche dell’identità nazionale italiana»73.
A essere colpiti furono tanto i singoli cittadini, quanto le istituzioni che
rappresentavano, con provvedimenti che andavano dall’allontanamento di pubblici
dipendenti (impiegati, insegnanti, etc) dai loro uffici, per sostituirli con funzionari
provenienti da altre parti d’Italia, l’espropriazione delle terre dei contadini sloveni e
croati per concederle a coloni italiani74, passando per il divieto d’insegnamento
scolastico in lingua slovena75 e la chiusura di oltre 500 associazioni, fino

69
Nato a Trieste nel 1892, Cobolli Gigli combatté come volontario nell’esercito italiano durante la Prima
Guerra Mondiale, entrando nel Partito Fascista nel 1922. Divenuto federale e poi vice podestà nella sua
città natale, nel 1934 entrò in parlamento, diventando Ministro ai Lavori Pubblici l’anno successivo. Nel
1943 aderì alla Repubblica di Salò, venendo processato per crimini di guerra; inizialmente fu condannato
a 19 anni di prigione, ma la sentenza venne annullata in appello. Giuseppe Cobolli Gigli morì a Malnate
(Varese) nel 1987.
Per approfondimenti, cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Cobolli_Gigli, ultima consultazione
26/11/2023.
70
Cfr. GIUSEPPE COBOLLI GIGLI, Il fascismo e gli allogeni, in «Gerarchia-Rivista politica» (Nove anni
dopo l’armistizio. La Venezia Giulia), V, settembre 1927, pp. 803-806 e LIVIO RAGUSIN RIGHI, Politica di
confine, Trieste, Società Editrice Mutilati e Combattenti, 1929, pp. 88-89.
71
Cfr. ROLF WÖRSDÖRFER, Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, cit., pp. 123-124.
72
Cfr. a questo proposito, MARINA CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 168-188 e ANNA
MARIA VINCI, Il fascismo e la società locale, in AAVV, Friuli e Venezia Giulia: storia del '900, Gorizia,
Libreria Editrice Goriziana, 1997, p. 244-248.
73
GLENDA SLUGA, Identità nazionale italiana e fascismo, in MARINA CATTARUZZA (A CURA DI),
Nazionalismi di frontiera, cit., p. 189.
74
Questi due provvedimenti causarono un movimento migratorio verso il Regno di Jugoslavia, che ebbe
come conseguenza la decimazione della popolazione slovena di Trieste e Gorizia, disperdendo tanto
l’intellighenzia quanto la popolazione rurale, oltre a stravolgere la componente etnica delle due città e, più
in generale di altre aree della Venezia Giulia.
75
Effetto della cosiddetta «Riforma Gentile» del 1923.

30
all’italianizzazione di toponimi76, dei cognomi e perfino dei nomi di battesimo77. In
particolare gli ultimi due provvedimenti dovevano «provocare nella minoranza un
cambiamento della visione dell’altro e di sé: per la massa degli abitanti italiani della
regione, che spesso parlavano solo la propria lingua, gli slavi dovevano diventare
“italiani”»78. Al fine di favorire l’assimilazione, si tentò anche di attirare gli «alloglotti»
– con particolare attenzione ai più giovani – all’interno dell’Opera Nazionale
Dopolavoro (OND), l’unica forma di associazionismo, insieme a quello legato alla
Chiesa cattolica, permessa dal regime. Tuttavia, nonostante la sua diffusione capillare, i
risultati non furono all’altezza delle aspettative, a dimostrazione della resistenza da
parte di sloveni e croati all’italianizzazione forzata o, come la definì Francesco
Caccese79, la «bonifica fascista del confine»80.
Una considerazione a parte merita il grande lavoro del fascismo sulla memoria
della Grande Guerra e sul suo universo simbolico. In questo ambito furono i monumenti
a svolgere un ruolo preminente, come si può notare nel caso di quello ai caduti davanti
alla cattedrale di S. Giusto a Trieste, ma soprattutto in quello del Sacrario Militare di
Redipuglia, trasformato in un vero e proprio «Altare della Patria», meta di
pellegrinaggio secolare, oltre che baluardo di difesa del confine orientale 81. Accanto ai
monumenti, venne realizzata una mitizzazione degli eroi dell’irredentismo, come

76
Con risultati talvolta grotteschi, come nel caso del Monte Forno, traduzione letterale del vocabolo
sloveno Peč, che però può significare anche «pietra» o «sasso». Significativo è il fatto che la vetta, che
segna il confine fra Austria, Slovenia e Italia, dal 1978 sia stato chiamato sia in tedesco che sloveno
«Cima dei tre confini» (rispettivamente Dreiländereck e Tromeja), mentre in italiano la denominazione di
epoca fascista rimane tuttora invariata.
Per approfondimenti, cfr. SERGIO ZILLI, Il confine del Novecento. Ascesa e declino della frontiera
orientale italiana tra Prima Guerra Mondiale e allargamento dell’Unione Europea, in ORIETTA SELVA,
DRAGAN UMEK, Confini nel tempo. Un viaggio nella storia dell’Alto Adriatico attraverso le carte
geografiche (secc. XVI-XXI), Trieste, EUT, 2013, p. 34.
77
Per effetto della legge n. 383 dell’8 marzo 1928, che aveva lo scopo di disciplinare l’imposizione dei
nomi di battesimo, per evitare che venissero scelti nomi «ridicoli o amorali».
78
ROLF WÖRSDÖRFER, Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, cit., p. 133.
79
Nato a Montecalvo Irpino (AV) nel 1895, durante la Prima Guerra Mondiale divenne maggiore dei
Bersaglieri. Membro del direttivo del Partito Fascista di Udine dal 1923 al 1925, fu nominato federale di
Gorizia dal 1927 al 1929, per poi rappresentare il capoluogo isontino come deputato nel decennio
successivo. Dal 1937 al 1943 fu vicepresidente del Consiglio provinciale dell’Economia di Gorizia.
Francesco Caccese morì nel 1969.
Per approfondimenti, cfr. LUCIO FABI, Gorizia. Storia di una città, cit., p. 264.
80
FRANCESCO CACCESE, Due anni di Fascismo nella Provincia di Gorizia 1927-1929, Gorizia, 1929.
81
Per approfondimenti sul valore simbolico di questo monumento, cfr. ROLF WÖRSDÖRFER, Il confine
orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, cit., pp. 44-45.

31
Guglielmo Oberdan e Nazario Sauro, fatti oggetto di quello che Wörsdörfer ha definito
un «culto sincretistico nazionale»82. Ma il luogo di esaltazione maggiore della memoria
della Grande Guerra legata al confine orientale fu certamente la Mostra della
Rivoluzione Fascista, che fu allestita a Roma nel 1932. In questo caso, l’obiettivo del
regime era un’opera di sacralizzazione della politica, in modo da svolgere una funzione
identitaria a livello interno, che risultasse al tempo stesso un’operazione efficace di
propaganda all’estero. Si realizzava, così, la «musealizzazione del Litorale Adriatico»83,
utilizzando la memoria del conflitto al confine orientale come elemento di
rafforzamento dell’identità nazionale.
Se il «fascismo di confine» tentò di attuare un’inclusione e assimilazione di tipo
“pacifico”, non significa che fosse assente una componente fortemente violenta
nell’opera di snazionalizzazione degli «alloglotti». Infatti, da quando iniziò a
organizzarsi una vera e propria resistenza armata, che confluì in società segrete come la
TIGR (acronimo di Trst-Istra-Gorica-Reka), che fra il 1926 e il 1930 organizzò ben 99
azioni terroristiche, l’atteggiamento del regime iniziò a inasprirsi, tanto che delle 42
condanne a morte comminate dal tribunale speciale fascista, ben 33 riguardavano
sloveni o croati, creando dei veri e propri «martiri della resistenza anti italiana» 84.
Inoltre, dopo la guerra d’Etiopia, il concetto stesso di «italianità» assunse sempre di più
un carattere etnico, a scapito di quello culturale, tanto è vero che il gerarca Francesco
Giunta85 arrivò a prospettare una vera e propria «soluzione finale» per il problema degli
82
ROLF WÖRSDÖRFER, Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, cit., p. 49.
83
ROLF WÖRSDÖRFER, Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, cit., p. 294.
84
Uno su tutti fu Vladimir Gortan (1904-1929), condannato alla fucilazione per aver sparato contro un
gruppo di contadini di Pisino, che si stavano recando a votare durante le elezioni plebiscitarie del 1929,
ferendo a morte uno di loro, Giovanni Tuctan.
85
Nato a S. Piero a Sieve (Firenze) nel 1887, Giunta si laureò in giurisprudenza e fu un fervente
interventista, arruolandosi nella Grande Guerra con il grado di capitano di fanteria, per entrare poi nel
reparto mitraglieri. Nel 1919 fu tra i fondatori della sezione fiorentina dell’Associazione Nazionale
Combattenti (ANC), entrando poi in contatto con Benito Mussolini e il neonato movimento fascista. Già
nel 1920 venne inviato a Trieste a occuparsi del fascio locale, di cui divenne ben presto il leader
indiscusso. Protagonista di un tentativo di colpo di mano a Fiume nel 1922, in occasione della Marcia su
Roma occupò Trieste con le locali squadre fasciste. Per la sua fedeltà al Duce, entrò nel Gran Consiglio
del Fascismo, di cui fu segretario fino al 1929. Ricoprì vari incarichi istituzionali, considerando sempre
Trieste il proprio “feudo” e continuando a guidare la politica cittadina. Fervente sostenitore di un
avvicinamento alla Germania in politica estera, Giunta aderì anche alla Repubblica di Salò, per poi essere
catturato dagli alleati. Dopo essere stato assolto da un processo legato al delitto Matteotti, istruito
dall’Alto Commissariato per le sanzioni contro i reati fascisti, Francesco Giunta si ritirò a vita privata,
morendo a Roma nel 1971.

32
slavi presenti nella Venezia Giulia. Colpiti con particolare virulenza furono anche i
sacerdoti sloveni, visti come «austriacanti» e sobillatori, indipendentemente dal loro
impegno politico. Come vedremo meglio nel prossimo Capitolo, il regime tentò in tutti i
modi di sottoporre il clero a un rigido controllo, arrivando anche a spingere alle
dimissioni il vescovo di Gorizia, Francesco Borgia Sedej, nel 1931 e quello di Trieste,
Luigi Fogar, nel 1936, per aver difeso i propri sacerdoti di lingua slovena e il loro diritto
a impartire l’insegnamento religioso nella lingua materna, sancito dal Concordato del
1929.
Vediamo, infine, l’evoluzione dei rapporti tra il Regno d’Italia e quello di
Jugoslavia fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Dopo il Trattato di
Rapallo, nel 1924 i due paesi siglarono il Patto di Roma, che prevedeva la ripartizione
dello Stato Libero di Fiume, oltre a una reciproca collaborazione in caso di minacce
esterne, regolando anche i traffici commerciali e gli spostamenti transfrontalieri.
Tuttavia, la politica estera fascista nei confronti della Jugoslavia continuò a essere
ambigua, con reciproche provocazioni ai confini. In particolare, fra il 1931 e il 1936, su
influenza del sottosegretario agli esteri, il triestino Fulvio Suvich 86, il regime appoggiò il
separatismo croato degli ustascia, capitanato da Ante Pavelić, probabilmente dando un
contributo attivo a un sanguinoso attentato a Marsiglia del 1934, in cui persero la vita il
re Alessandro Karađorđević e il ministro degli esteri francese Louis Barthou. Con
l’avvicinamento alla Germania nazista, che nel 1938 realizzò l’Anschluss dell’Austria,
crebbero i timori per le mire pangermaniste su Trieste e la Venezia Giulia da parte
dell’ingombrante alleato. Per questo motivo, oltre che per il dirottamento delle mire
imperialistiche italiane verso l’Africa, rese manifeste dalla guerra d’Etiopia, si decise un
alleggerimento della pressione italiana al confine orientale, sancito dal cosiddetto «Patto
Ciano-Stojadinović» del 25 luglio 1937. Tuttavia, le relazioni fra i due paesi

Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-giunta_(Dizionario-Biografico)/,


ultima consultazione 22/11/2023.
86
Nato a Trieste nel 1887, dopo la laurea in giurisprudenza presso l’università di Graz, allo scoppio della
Prima Guerra Mondiale Suvich si arruolò come volontario nell’esercito italiano. Nel 1921 entrò alla
camera dei deputati nelle file del blocco nazionalista e nel 1926 venne nominato sottosegretario alle
Finanze. Dal 1932 divenne sottosegretario agli Esteri, con la guida del dicastero nelle mani di Mussolini,
mentre quando il Ministero venne assunto da Galeazzo Ciano venne nominato ambasciatore negli Stati
Uniti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si ritirò a vita privata, scomparendo a Trieste nel 1980.
Per approfondimenti, cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Fulvio_Suvich, ultima consultazione 22/11/2023.

33
mantennero un’ambiguità di fondo e due anni dopo la Jugoslavia rifiutò di firmare un
patto di non aggressione, per mantenere un’assoluta neutralità, scelta che risultò fatale
nel 1941, quando venne attaccata e smembrata dalle potenze dell’Asse.

5. La Seconda Guerra Mondiale e i movimenti di liberazione


Con l’invasione della Polonia, avvenuta il 1° settembre 1939, la Germania
nazista diede l’avvio alla Seconda Guerra Mondiale. L’Italia, pur essendo legata al
Terzo Reich dal «Patto d’Acciaio», rimase inizialmente neutrale ma, vedendo i rapidi
successi dell’alleato, Mussolini decise di entrare in guerra il 10 giugno 1940. Fin dal
tentativo di quell’anno di aggredire la Grecia, fu chiaro che l’esercito italiano era debole
e male equipaggiato, con il risultato che il nostro paese si trovò sempre in una posizione
subalterna rispetto alla Germania hitleriana. Fu in questo contesto che il 6 aprile 1941
avvenne l’invasione del Regno di Jugoslavia, attuata dal Reich nazista, insieme a Italia,
Ungheria e Bulgaria. Come nota Raul Pupo, «l’azione germanica riuscì a coinvolgere
nell’aggressione tutti i tradizionali avversari della Jugoslavia offrendo loro lauti
compensi, ma allo stesso tempo espropriandoli di ogni autonoma iniziativa politica»87.
Come vedremo fra poco, il nostro paese non ricavò grandi vantaggi da queste nuove
acquisizioni nell’Adriatico orientale, con il doppio risultato di rafforzare il movimento
partigiano nella Venezia Giulia e di perdere gran parte dei territori annessi al Regno
d’Italia in seguito alla Prima Guerra Mondiale, con il Trattato di Parigi del 1947 88. Nella
spartizione del Regno di Jugoslavia, all’Italia toccarono la Slovenia meridionale, la
costa della Dalmazia, il Montenegro e il Kosovo; inoltre, per quanto indipendente,
anche lo Stato croato ustascia rientrava nell’orbita italiana. Apparentemente, erano state
soddisfatte le massime rivendicazioni fatte ai tempi del primo conflitto mondiale,
87
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 50.
88
In merito a questi temi, cfr. i seguenti volumi:
- CARLO SPARTACO CAPOGRECO, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista
(1940-1943), Einaudi, Torino, 2004.
- ELIO APIH, Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia, 1918-1943, Laterza, Bari, 1966.
- ENZO COLLOTTI, Il Litorale Adriatico nel nuovo ordine europeo 1943-45, Vangelista editore,
Milano, 1974.
- FRANCESCO CACCAMO, LUCIANO MONZALI (A CURA DI), L’occupazione italiana della
Jugoslavia, 1941-1943, Le Lettere, Firenze, 2008.

34
raggiungendo l’obiettivo imperialista di estendere il dominio italiano all’Adriatico
orientale. Ciononostante, fu evidente fin da subito

lo scarto pauroso esistente tra l’imperialismo velleitario e provinciale di tanti


ambienti italiani, capaci al massimo di riproporre il mito veneziano in un
contesto mediterraneo e balcanico radicalmente diverso da quello dei tempi
della Serenissima, e il ben più efficace progetto imperiale tedesco 89.

I regimi di occupazione delle diverse aree balcaniche rispondevano a esigenze


differenti della politica estera fascista, ma risultarono tutte ugualmente perdenti.
In Slovenia venne istituita la provincia di Lubiana, amministrata da Emilio
Grazioli90, ex federale di Trieste, oltre che legionario fiumano, che poté contare su un
ampio fronte collaborazionista, che comprendeva il Partito Popolare, ma anche gruppi
nazionalisti e filofascisti91, a dimostrazione delle spinte autonomiste presenti in Slovenia
anche durante il precedente Regno di Jugoslavia. Fu subito evidente la dipendenza
economica di Lubiana dalla Germania nazista, dunque il Regno sabaudo non ebbe
grandi vantaggi sotto questo profilo dalla sua annessione. Inoltre, si dimostrò altrettanto
chiaramente il fallimento della strategia di pacifica penetrazione del fascismo nella
Slovenia meridionale. Non potendo asserire lo stereotipo dello slavo incolto e inferiore,
il regime tentò di mettere in atto un’occupazione dal carattere inizialmente “moderato”,
differente sia da quella realizzata nella Venezia Giulia fra gli anni ’20 e ’30 che da
quella nazista, senza ottenere i risultati sperati. Per di più, l’ostilità della popolazione
iniziò a crescere, soprattutto con l’invasione nazista dell’URSS nel giugno del 1941. Per
questo, in tutti i territori occupati dall’Italia si inasprirono le misure repressive e il
generale Mario Robotti92 ebbe la mano pesante nei confronti di partigiani e ribelli,
89
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 56.
90
Nato a Zibido San Giacomo (Milano) nel 1899, Grazioli aderì presto al fascismo, diventando federale di
Trieste. Nel 1941 venne nominato alto commissario della provincia di Lubiana, dove rimase fino al
giugno del 1943, quando venne nominato prefetto di Catania. Dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia
riparò al nord e aderì alla Repubblica Sociale Italiana, assumendo vari incarichi governativi. Nel
dopoguerra si ritirò a vita privata e morì a Milano nel 1969.
Per approfondimenti, cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Emilio_Grazioli, ultima consultazione 24/11/2023.
91
Cfr. a questo proposito MARINA CATTARUZZA, L’Italia e il confine orientale, cit., pp. 218-219.
92
Nato ad Alessandria nel 1882, Robotti entrò giovanissimo nell’esercito, per poi partecipare alla Grande
Guerra, dove ottenne la nomina a tenente colonnello e due medaglie di bronzo al valore militare. Al

35
dimostrando l’inadeguatezza dell’amministrazione sia civile che militare nel gestire in
modo coerente il Litorale Adriatico. Nel frattempo, cresceva l’adesione all’Osvobodilna
fronta (Of), ovvero il fronte di liberazione sloveno che, grazie a un programma che
univa sapientemente rivendicazioni sociali e nazionali, riuscì a mobilitare ampi strati
della popolazione contro gli occupanti.
Molto differente risultava la situazione della Dalmazia, dove fu nominato un
vero e proprio governatore, ovvero Giuseppe Bastianini93, che riuniva nelle sue mani il
potere esecutivo, quello legislativo e giudiziario. Fu chiaro fin da subito che l’influenza
italiana in Dalmazia era fragile, anche perché in quei territori la presenza italiana era
minoritaria rispetto alla Venezia Giulia, nonostante la propaganda nazionalista avesse
sempre tentato di dimostrare che erano stati gli austriaci a “inquinare” la Dalmazia con
la presenza slava, in funzione antitaliana. L’Italia si trovò, quindi, a combattere una
guerra coloniale sul suolo europeo, stretta fra le contraddizioni operative e politiche con
i tedeschi e i contrasti fra Bastianini e i vertici dell’esercito. Questo avrebbe portato a
una gestione schizofrenica sia della politica assimilatrice che della lotta ai partigiani,
alternando violente rappresaglie a gesti di pietà, come nel caso di ben 4.000 ebrei,
portati nel campo di concentramento di Arbe per farli sfuggire a una morte certa. Anche
in questi territori si tentò di avviare un’epurazione dell’apparato amministrativo ma,
rendendosi conto che non era possibile privarsi di tutti i funzionari pubblici, pena il
termine del conflitto proseguì la sua carriera militare, fino alla nomina a generale dell’XI corpo d’armata
nel 1941, partecipando all’invasione del Regno di Jugoslavia. Insieme a Emilio Grazioli, gli venne
affidata la gestione della provincia di Lubiana, dove si segnalò per la fermezza nei confronti della
popolazione locale, fino ad arrivare alla vera e propria ferocia (era suo il celebre commento «Si ammazza
troppo poco!»). Alla fine del conflitto si ritirò a vita privata con la famiglia a Rapallo, dove morì nel
1955.
Per approfondimenti, cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Robotti, ultima consultazione 24/11/2023.
93
Nato a Perugia nel 1899, Bastianini si arruolò giovanissimo negli arditi per partecipare alla Prima
Guerra Mondiale. Al rientro nella sua città natale, contribuì alla fondazione del fascio locale nel 1920,
partecipando attivamente alle violenze squadriste contro i socialisti durante il «biennio rosso». Eletto in
parlamento nel 1924, svolse un’importante attività propagandistica per il regime, consolidandone la
popolarità presso gli italiani all’estero. Lavorò a lungo nell’ambito della diplomazia, diventando anche
sottosegretario al Ministero degli Esteri nel 1936. Divenuto governatore della Dalmazia nel 1941, al suo
rientro in patria nel 1943 visse la caduta del regime, rifugiandosi in Toscana e poi in Svizzera per essersi
rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò. Alla fine della guerra venne assolto dalla Corte d’Assise di
Roma e dalla Commissione per le sanzioni contro il fascismo, mentre non venne accolta una richiesta di
processarlo come «criminale di guerra» da parte della Repubblica Jugoslava. Giuseppe Bastianini morì a
Milano nel 1961.
Per approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/giuseppe-bastianini_(Dizionario-
Biografico)/, ultima consultazione 23/11/2023.

36
blocco della macchina burocratica, il governatore fu costretto a mantenere ai propri
posti impiegati di dubbia fedeltà al regime. Inoltre, si rivelò di difficile soluzione la
questione della cittadinanza italiana, usando il principio di «pertinenza», ovvero
l’acquisizione per nascita, matrimonio o la residenza in loco per almeno 10 anni, tutti
criteri sfavorevoli agli italiani. Perciò, anche tale questione venne congelata,

a testimonianza dell’incapacità delle autorità italiane di risolvere una


questione fondamentale per la gestione dei territori annessi, la cui realtà si
rivelò subito assai diversa dall’immagine che ne aveva costruito la mitologia
del regime fascista94.

Allo stesso tempo, anche a causa dell’andamento del conflitto, non fu possibile
far rientrare i dalmati italiani che si erano trasferiti nella Penisola allo scoppio della
Prima Guerra Mondiale, fallendo nell’intento di colonizzare i territori occupati. Inoltre,
man mano che cresceva il movimento partigiano, la repressione divenne sempre più
violenta, portando gran parte della popolazione a simpatizzare per la resistenza, oppure
a un’adesione diretta alla lotta armata. Come nel caso della Slovenia, si palesava così il
completo fallimento della «fascistizzazione» dei territori rivendicati a gran voce fin dai
tempi della «vittoria mutilata».
Gli effetti delle difficoltà nei territori di occupazione non tardarono a farsi
sentire anche in Venezia Giulia, rafforzando il fronte irredentista sloveno e favorendo la
penetrazione dei partigiani che, come vedremo, egemonizzarono la lotta di liberazione
dal nazifascismo anche nelle nostre zone.
L’armistizio dell’8 settembre 1943 fece precipitare la situazione per l’esercito
italiano, causando lo sbandamento delle truppe sia nel nostro paese che nei territori
occupati. Di fronte alle sollevazioni popolari, i soldati italiani si arresero pacificamente,
come avvenne ad Albona e Pisino in Croazia, mentre in località come Fiume, Pola o
Trieste subentrarono senza colpo ferire le truppe tedesche.
Fu proprio l’ex alleato nazista a occupare il Friuli e la Venezia Giulia, la
provincia di Lubiana, oltre a Gorizia, Fiume e le isole del Quarnaro, inserendoli
94
RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., pp. 77-78.

37
nell’amministrazione dell’Adriatisches Küstenland, sottratto alla Repubblica di Salò.
Questi territori erano, quindi, direttamente controllati dal Terzo Reich, che attuò una
politica nettamente diversa rispetto a quella fascista, favorendo le autonomie locali,
nella logica del divide et impera, evocando i fasti perduti della convivenza fra popoli
che aveva caratterizzato la dominazione asburgica. In particolare, l’occupante nazista
ripristinò i diritti della popolazione slovena, a partire dall’uso della lingua materna, in
modo da garantirsi un certo grado di collaborazione da parte della popolazione.
Tuttavia, non mancarono azioni di dura repressione, soprattutto dopo azioni partigiane,
mentre la Risiera di S. Sabba funzionò a pieno regime sia come prigione che vero e
proprio campo di sterminio.
Affrontiamo ora uno degli aspetti più complessi della Seconda Guerra Mondiale
al confine orientale, ovvero la lotta partigiana al nazifascismo. Il fenomeno assunse
connotati differenti a seconda della prospettiva da cui veniva osservato; infatti, se da
parte italiana si parla tuttora di «resistenza», in prospettiva jugoslava prima, slovena e
croata poi, si preferisce fare riferimento alla «liberazione nazionale». Inoltre, anche lo
stesso termine «partigiano» non era ugualmente condiviso da tutti i combattenti; non a
caso, i membri della brigata «Osoppo» preferivano definirsi «patrioti», marcando così
una differenza anche ideologica rispetto alle altre forze in campo. Perciò, possiamo dire
che – da entrambe le parti – si verificò una nazionalizzazione della lotta al nazifascismo
nella Venezia Giulia, provocando fratture e polarizzazioni, i cui effetti maggiori si
sarebbero avuti in maniera ancora più evidente nel dopoguerra, come avremo modo di
vedere sia nel prossimo paragrafo, che nel prossimo Capitolo. Inoltre, soprattutto nel
caso jugoslavo, i partigiani si proposero come veri e propri agenti di nazionalizzazione.
Infatti, come nota Wörsdörfer,

la forte frammentazione etnico-nazionale della regione costiera e la struttura


sociale irregolare, la grave sconfitta del movimento operaio negli anni 1921-
22 e la politica di snazionalizzazione fascista contribuirono a far sì che nella
regione ai confini orientali d’Italia gli slogan nazionali raccogliessero
maggiori adesioni di quelli sociali, anche perché erano facilmente abbinabili
ad essi. Allo stesso tempo si vede chiaramente come in alcune località gli

38
esordi «spontanei» della Resistenza avessero un risvolto decisamente
multietnico, italo-slavo, e dunque si basassero proprio sul rifiuto di quel
contrasto «naturale» che avrebbe dovuto costringere i combattenti a
schierarsi sotto bandiere diverse e con uniformi diverse95.

Man mano, quindi, che l’esercito di liberazione jugoslavo procedeva


nell’emancipazione dei territori del Litorale controllati dai tedeschi, si rendeva sempre
più evidente che le annessioni compiute avevano un valore non solo simbolico, ma si
stava configurando la futura struttura statale della Jugoslavia, di cui avrebbe dovuto far
parte anche la Venezia Giulia nelle intenzioni di Tito. Inoltre, in Istria come in
Dalmazia, si iniziò a considerare la popolazione italiana come una minoranza, un vero e
proprio corpo estraneo rispetto ad altri gruppi etnici 96, che andava in ogni caso gestito
all’interno di una nuova compagine filo jugoslava. Allo stesso tempo, non mancavano le
adesioni convinte di parte della popolazione italiana di questi territori all’annessione
alla Jugoslavia, in particolare fra le file dei partigiani comunisti, ma anche in aree come
quella di Monfalcone, in cui tanto gli operai italiani quanto quelli sloveni vedevano
nella Russia sovietica il modello della società del futuro. Per questo, molte formazioni
partigiane marxiste italiane passarono alle dipendenze dirette del IX Korpus, come nel
caso della «Garibaldi-Natisone», accettando così l’egemonia della resistenza jugoslava
nella lotta di liberazione. Questo dimostra come la Venezia Giulia si stesse trasformando
in “terra di conquista”, preparando anche il terreno per uno scontro fra Italia e
Jugoslavia che si sarebbe inserito nella contrapposizione fra blocchi negli anni del
dopoguerra. In questa logica di nation building si può inquadrare anche il problema
delle foibe97, in quanto la guerra di liberazione jugoslava stava assumendo i caratteri di
95
ROLF WÖRSDÖRFER, Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, cit., p. 185.
96
Tanto è vero che il triestino Lavo Čermelj preferiva parlare di «furlanità» nel suo volume Sloveni e
croati tra le due guerre, Trieste, Editoriale Stampa Triestina, 1974 (tr. it. di Life-and-death. Struggle of a
national minority: the Jugoslavs in Italy, pubblicato nel 1936), in modo da ridimensionare l’identità
italiana nella Venezia Giulia e, più in generale, in tutto il Litorale Adriatico.
97
Per approfondire questa tematica, si rimanda ai seguenti testi:
- AAVV, Foibe: revisionismo di Stato e amnesie della Repubblica, Kappa Vu, Udine, 2008.
- CRISTINA COLUMNI, LILIANA FERRARI, GIANNA NASSISI, GERMANO TRANI, Storia di un esodo.
Istria 1945-1956, IRSML FVG, Trieste, 1980.
- GIAMPAOLO VALDEVIT (A CURA DI), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945,
IRSML FVG, Marsilio, Venezia, 1997.

39
una vera e propria rivoluzione, con il correlato tributo di sangue. Tuttavia, non bisogna
pensare a una strategia di pulizia etnica, in quanto ciò che contava era rimuovere
qualunque ostacolo alla costruzione del nuovo regime, nell’ambito della lotta
partigiana98. L’eliminazione degli avversari politici attraverso l’uso delle foibe ebbe
luogo in due fasi ben precise, coincidenti con il crollo prima del fascismo nel 1943 e poi
della Wehrmacht e il conseguente abbandono del Litorale Adriatico da parte dei tedeschi
alla fine del conflitto. La logica era quella del regolamento dei conti in entrambi i casi,
ma certamente vennero affrontati in modo diverso. Infatti, nel 1943 le foibe furono un
fenomeno prettamente istriano, volto a decapitare qualunque presenza fascista nel
territorio. Sebbene a essere colpiti fossero soprattutto uomini, non mancarono i casi di
eliminazione di donne, ad esempio Norma Cossetto, uccisa perché appartenente a una
famiglia dichiaratamente fascista. Nel 1945, invece, la violenza delle foibe, che riguardò
soprattutto l’area di Trieste e di Gorizia, venne gestita a livello centralizzato
dall’esercito di liberazione jugoslavo, con l’obiettivo di eliminare tanto i «criminali di
guerra» quanto i «nemici del popolo». Per individuarli, si fece ricorso all’OZNA99, la
potente polizia segreta, che rappresentò la prima forma di intelligence jugoslava,
ponendo le basi per il funzionamento del futuro Stato totalitario e, soprattutto, dando
vita «al “popolo” - ivi comprese le “minoranze” riconosciute - imprigionando e in
alcuni casi eliminando chi non doveva farne parte»100. Gli arresti avvenivano in base alle
indicazioni dell’OZNA o di delazioni, andando a colpire intere categorie di persone,
spesso in modo arbitrario e solo sulla base di sospetti. Lo scopo era eliminare qualunque
elemento di dissenso, oltre a creare una sensazione di continua insicurezza e paralisi di
qualunque nemico, sia del passato che del presente, ma anche del futuro, per edificare la
nascente società jugoslava socialista. Il risultato fu, però, l’esacerbarsi delle
contrapposizioni nazionali, raggiungendo così «il triste culmine della totale

- RAUL PUPO, ROBERTO SPAZZALI, Foibe, Bruno Mondadori, Milano, 2003.


- RAUL PUPO, Il lungo esodo. Istria. Le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano, 2005.
- JOZE PIRJEVEC (A CURA DI), Foibe. Una storia d’Italia, Einaudi, Torino, 2009.
98
Anche se bisogna ricordare che l’infoibamento non sembra essere un’esclusiva dei partigiani titini, in
quanto probabilmente pure gli ustascia ne avevano fatto uso, mentre tedeschi e fascisti avevano spesso
condotto le loro esecuzioni all’interno di grotte carsiche. Tuttavia, non si era mai verificato un ricorso così
sistematico alle foibe prima del 1943.
99
Acronimo per Odeljenje za Zaštitu Naroda, ovvero Dipartimento per la Protezione del Popolo.
100
ROLF WÖRSDÖRFER, Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, cit., p. 226.

40
disgregazione di una società multietnica»101 e dimostrando che la «fratellanza dei
popoli» mal si conciliava con le esigenze del nation building di carattere rivoluzionario.
Di certo, il tema risulta ancora divisivo, sia a livello internazionale, con contrasti fra
studiosi italiani e sloveni e croati inerenti alla consistenza e gravità del fenomeno, che
all’interno del dibattito pubblico italiano, con il tentativo da parte della destra di
rompere l’egemonia partigiana della memoria resistenziale.
Non tutti i partecipanti alla lotta resistenziale erano concordi nell’accettare
passivamente la gestione titoista della lotta di liberazione. Infatti, la brigata «Osoppo»,
che raccoglieva nelle sue file futuri democristiani, membri del Partito d’Azione e preti
come don Aldo Moretti, non potevano trovare un punto d’incontro con altri combattenti
orientati in un senso ideologico totalmente antitetico rispetto al loro. Tuttavia, non
mancarono collaborazioni con i partigiani comunisti, ad esempio nella Repubblica
libera della Carnia nel 1944, vero e proprio esperimento di democrazia e libertà, durato
solo tre mesi. Tuttavia, gli osovani avevano intuito le mire egemoniche dei partigiani
jugoslavi e si rifiutarono sempre di agire secondo le loro direttive, proponendosi come
«patrioti», ovvero difensori della coscienza nazionale italiana al confine orientale,
realizzando quasi un secondo Risorgimento. Furono probabilmente questi i presupposti
per l’eccidio di Porzûs, dove una brigata comunista italiana, guidata dal gappista Mario
Toffanin sterminò i membri della «Osoppo», con l’accusa (infondata) di tradimento. In
ogni caso, questo episodio dimostra come le vicende resistenziali nel territorio regionale
siano state complesse e, talvolta, contraddittorie, con il confronto/scontro di opposti
nazionalismi, destinati a infiammare anche il dopoguerra.

6. Il secondo dopoguerra, dal Trattato di Pace al Memorandum di Londra


Il 1° maggio 1945 i partigiani jugoslavi liberarono Trieste dagli occupatori
tedeschi, precedendo di 24 ore gli alleati angloamericani, che arrivarono in città solo il 2
maggio. Questa mossa, che fino al 9 giugno dello stesso anno si sarebbe tradotta in una
vera e propria occupazione militare, aveva lo scopo di mettere gli alleati di fronte al

101
ROLF WÖRSDÖRFER, Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, cit., p. 252.

41
«fatto compiuto», ovvero l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia. Tuttavia, gli
angloamericani non volevano lasciare né all’Italia, né alla Repubblica Federale del
generale Tito la risoluzione della questione confinaria che si veniva delineando, quindi
stabilirono una linea di demarcazione, la cosiddetta «linea Morgan», suddividendo il
territorio in due zone, l’una controllata dal Governo Militare Alleato (GMA) e l’altra
dall’esercito jugoslavo. In particolare Churchill aveva capito che Tito sarebbe finito
nella sfera d’influenza sovietica e, dunque, lasciargli la mano libera a Trieste e Gorizia
avrebbe significato consegnare l’intera Venezia Giulia alla neonata Repubblica Federale
di Jugoslavia. Gli alleati sarebbero rimasti nella Zona A fino al Trattato di Parigi del
1947, mentre di fatto la Zona B venne annessa alla Jugoslavia, sia dal punto di vista
politico che economico. Il clima politico nella Zona A era caratterizzato da una forte
tensione, con un’ossessiva ricerca del consenso, all’interno di quella che Giampaolo
Valdevit ha definito una «guerra fredda interna» 102, riecheggiando a livello locale le
tensioni internazionali del periodo. In questa chiave possiamo leggere, ad esempio, le
opposte manifestazioni nella Venezia Giulia, in Istria e Dalmazia, quando la
commissione interalleata visitò questi territori nel marzo 1946 per definire la questione
dei confini, sulla base della rilevanza delle varie etnie. Se a Pola e Capodistria il fronte
nazionale sloveno-croato dimostrò una notevole capacità di mobilitazione, altrettanto si
può dire di quello italiano a Trieste e Gorizia. Perciò, possiamo concludere che «le
speranze che fosse possibile leggere o scrivere sul terreno pietroso del Carso la risposta
alla domanda circa il confine più «giusto» possibile erano in effetti molto deboli, come
avrebbe dimostrato l’accordo di pace dell’anno successivo»103.
Il Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) fu particolarmente punitivo per l’Italia
che, nonostante avesse combattuto per gli ultimi anni di guerra con gli alleati, veniva
considerata responsabile – insieme alla Germania nazista – del conflitto. Era chiaro,
dunque che «l’equivalenza fra interessi italiani in materia di confini ed interessi politici
alleati non era dunque un fatto per nulla automatico e scontato»104. Per questo, solo
102
Cfr. GIAMPAOLO VALDEVIT, Un dopoguerra e un lungo dopoguerra, in AAVV, Friuli e Venezia
Giulia: storia del '900, cit., p. 423.
103
ROLF WÖRSDÖRFER, Il confine orientale: Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, cit., p. 261.
104
RAUL PUPO, Il contesto internazionale delle vicende giuliane, in AAVV, I cattolici isontini nel XX
secolo. Il Goriziano fra guerra, resistenza e ripresa democratica (1940-1947), Gorizia, Tipografia
sociale, 1987, p. 52.

42
Gorizia e un territorio provinciale decisamente mutilato rientrarono nei territori della
neonata Repubblica, mentre la questione di Trieste venne volutamente lasciata in
sospeso, ipotizzando l’istituzione di un Territorio Libero, amministrato congiuntamente
da Italia e Jugoslavia, mai effettivamente realizzato. Sarebbe iniziata così una lunga ed
estenuante trattativa sulle sorti della città giuliana, che sarebbe stata risolta solo nel
1954, con il Memorandum di Londra105. In ogni caso, agli alleati angloamericani fu ben
presto chiaro che Trieste poteva diventare strategica nella politica di containment
dell’Unione Sovietica, divenendo una sorta di «baluardo dell’occidente» al confine
orientale. Per questo motivo, fino al 1954, la questione confinaria venne utilizzata a
scopi propagandistici, in modo da far rientrare in maniera inequivocabile l’Italia
all’interno del blocco occidentale. Una chiara mossa in questa direzione fu la «nota
tripartita» del 1948, in occasione delle elezioni politiche italiane, in cui gli alleati
ventilavano un possibile ritorno dell’intero Territorio Libero all’Italia. La strategia pagò
in termini elettorali, determinando la vittoria della Democrazia Cristiana, ma non si
dimostrò affatto risolutiva per la questione frontaliera. Allo stesso tempo, il GMA attuò
un’integrazione economica all’Italia della Zona A, erogando gli aiuti del Piano Marshall
e organizzando le elezioni amministrative nel 1949.
Allo stesso tempo, si generò quello che Valdevit ha definito un «deficit di
sicurezza»106, che avrebbe caratterizzato la contrapposizione politica in tutta la regione
ben oltre il 1954. Infatti, il confronto politico sembrava compendiare le contrapposizioni
internazionali, con la percezione di un potente nemico tanto esterno quanto interno.
Questa “sindrome da accerchiamento” avrebbe pervaso la politica a tutti i livelli, come
vedremo più approfonditamente nel III Capitolo. Lo scontro ideologico fra
democristiani e comunisti sarebbe stato particolarmente acceso, contrapponendo due
concezioni antitetiche (ovvero italianità e slavismo, libertà e oppressione, civiltà e
barbarie), con la Chiesa cattolica a giocare un ruolo attivo nella direzione delle
coscienze.

105
Per approfondire tutte le fasi della questione di Trieste, con un occhio di riguardo alla prospettiva
jugoslava, cfr. FEDERICO TENCA MONTINI, La Jugoslavia e la questione di Trieste, 1945-1954, Bologna,
Il Mulino, 2020.
106
Cfr. GIAMPAOLO VALDEVIT, Un dopoguerra e un lungo dopoguerra, in , in AAVV, Friuli e Venezia
Giulia: storia del '900, cit., p. 418.

43
All’inizio degli anni ’50 i tempi erano finalmente maturi per la soluzione del
dilemma legato a Trieste. Gli Stati Uniti non intendevano prolungare ulteriormente
l’incertezza sulla questione, con la speranza di far rientrare la Jugoslavia nella propria
sfera d’influenza, dopo l’espulsione dal Cominform, avvenuta nel 1948. Dopo
estenuanti trattative, il 5 ottobre 1954 venne sottoscritto il Memorandum di Londra, che
assegnava all’Italia la Zona A del Territorio Libero di Trieste 107, mentre la Zona B
veniva confermata sotto il controllo jugoslavo. Si concludeva così una disputa durata 9
anni, che aveva visto scontrarsi opposti nazionalismi, nonché ideologie antitetiche, con
una notevole mobilitazione di associazioni, gruppi paramilitari e perfino dell’esercito
italiano, chiamato a difendere l’italianità di confine, minacciata da un (più percepito che
reale) “pericolo comunista”.
In conclusione, vediamo brevemente la questione dell’«esodo» degli italiani dall’Istria e
dalla Dalmazia. Nell’arco di circa 12 anni, dal 1944 al 1956, la presenza italiana in
questi territori venne drammaticamente ridimensionata, spopolando aree dove tale etnia
si era insediata fin dai tempi dei romani. I picchi del fenomeno si ebbero in occasione
del Trattato di Pace del 1947 e del ritorno di Trieste all’Italia con il Memorandum di
Londra del 1954, diventando una sorta di «plebiscito con i piedi» 108, dovuto a svariati
fattori, come il ribaltamento delle gerarchie tradizionali, la scomparsa di punti di
riferimento delle comunità come i funzionari amministrativi, gli insegnanti e i sacerdoti,
ma anche i nuovi valori e criteri di comportamento, tutti riconducibili al nuovo regime
totalitario che aveva preso il potere in quelle terre. Per questo, la maggior parte degli
italofoni di Istria e Dalmazia preferirono esercitare il diritto di «opzione», ovvero la
possibilità di trasferirsi in Italia, in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Parigi.
Nella sua prima fase, l’esodo riguardò soprattutto l’Istria, mentre nella seconda toccò in
particolare la Zona B del mai nato Territorio Libero, determinando anche uno
stravolgimento etnico dei territori in cui vennero sistemati i profughi. Infatti, per tutti gli
anni ‘50 Trieste e il suo territorio divennero un luogo di raccolta di un nutrito gruppo di
assistiti e profughi, che ne ridisegnarono la composizione etnica, a danno della
107
Sebbene non siano mai stati modificati i tracciati confinari del Memorandum, l’Italia considerò tale
risoluzione temporanea fino al Trattato di Osimo del 1975, che sancì ufficialmente quella che era una
situazione de facto ormai da più di vent’anni.
108
Cfr. a questo proposito RAUL PUPO, Il confine scomparso, cit., p. 120.

44
popolazione slovena ivi residente, come avvenne – ad esempio – nella zona di
collegamento fra Monfalcone e Trieste109, al doppio scopo di evitare future
rivendicazioni jugoslave su quei territori e, allo stesso tempo, rafforzarne l’italianità,
anche in funzione anticomunista, rendendo così la Democrazia Cristiana il partito
egemone in questi territori. Anche nella provincia di Gorizia arrivarono circa 12.000
esuli, di cui 4.000 solo nel capoluogo giuliano, che costituirono uno degli elementi
decisivi nella politica, sia a livello cittadino che provinciale, come vedremo più
approfonditamente nei prossimi capitoli. Infatti, come sottolinea Lucio Fabi, «la
presenza degli esuli […] costituiva indubbiamente un elemento di primo piano
all’interno dei temi nazionali della politica goriziana» 110, risultando determinante nel
successo elettorale della Democrazia Cristiana, ma anche nel clima di aspra
contrapposizione fra i partiti dei primi anni del dopoguerra 111. Ospitati in un primo
momento in strutture come ex campi di prigionia o caserme, gli esuli vennero poi
sistemati in zone residenziali create ad hoc, che avevano anche lo scopo di preservare le
peculiarità. Ancora una volta, dunque, le identità etniche si trovavano a confliggere
nella Venezia Giulia, con una più o meno consapevole operazione di
snazionalizzazione. Quello che è certo, in ogni caso, è che ciò che non era riuscito a
Benito Mussolini a cavallo fra le due guerre mondiali era stato raggiunto –
probabilmente ben oltre le sue intenzioni – dal maresciallo Tito, ovvero la completa
«bonifica» dell’Istria e della Dalmazia dalla presenza italiana.
Dopo la firma del Memorandum di Londra, Trieste e il confine orientale
sparirono letteralmente dai radar della coscienza politica nazionale, finendo di assolvere
alla funzione di «mobilitazione» della coscienza identitaria italiana. Nel tempo, anche le
relazioni con il vicino jugoslavo si normalizzarono, prima dal punto di vista economico,
poi da quello politico, con il Trattato di Osimo (1975) a mettere nero su bianco quello
che era già un dato di fatto acquisito.

109
Esemplare risulta, in merito, lo stravolgimento etnico operato a Duino Aurisina.
110
LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, cit., p. 210.
111
Basti pensare, a titolo di esempio, che alle elezioni politiche del 1953 le forze conservatrici
(democristiani, missini e monarchici) raggiunsero l’80% dei consensi. Cfr. in questo senso SERGIO ZILLI,
Geografia elettorale del Friuli-Venezia Giulia, cit., p. 196.

45
Nel prossimo Capitolo, vedremo come la storia dell’Arcidiocesi di Gorizia si
intrecci con quella più ampia del confine orientale, cogliendone anche le implicazioni
sociali ed ecclesiali.

46
CAPITOLO II: L’ARCIDIOCESI DI GORIZIA E I SUOI CAMBIAMENTI,
DALLA FINE DEL XIX SECOLO AL SECONDO DOPOGUERRA

In questo Capitolo proveremo a delineare una storia dell’Arcidiocesi di Gorizia


dalla fine dell’Ottocento alla metà del secolo successivo, per comprendere i modi in cui
la dimensione ecclesiale ha influito sulle dinamiche della politica all’interno di una
realtà geografica così peculiare. Infatti, il territorio diocesano si è sempre
contraddistinto per la pluralità etnica dei suoi abitanti, alla cui pacifica convivenza ha
contribuito anche il fatto di trovarsi da secoli all’interno del comune nesso asburgico.
Un lealismo, quello che italiani e sloveni goriziani condividevano, che non escludeva,
anche in epoche lontane, se non rivendicazioni di tipo autonomistico, quanto meno (si
pensi a Carlo Morelli) critiche nei confronti di un centralismo che mortificava le
peculiarità dell’antica Contea. Di questo si deve tenere conto per valutare gli effetti del
primo conflitto mondiale, doppiamente distruttivi, in quanto accanto alle macerie
materiali di un conflitto combattuto proprio in questo territorio, avvenne la distruzione
di un sistema amministrativo, ma anche economico e sociale vivace ed efficiente.
Tuttavia, l’annessione al Regno d’Italia fu uno shock soprattutto nell’ambito della
convivenza fra le diverse nazionalità del territorio, che furono costrette a confrontarsi
con uno Stato molto differente rispetto a quello austroungarico. Infatti, fin
dall’occupazione militare guidata dal generale Petitti di Roreto, fu chiaro che
l’autonomia del territorio goriziano sarebbe stata compromessa, come anche la tutela
delle diverse etnie.
A maggior ragione con l’avvento del fascismo, l’opera di omogeneizzazione
linguistica e culturale si accompagnò a una gestione del potere verticistica e
centralistica, incurante del patrimonio storico-culturale delle «terre redente».
Significativa, in questo senso, fu la vera e propria persecuzione a cui fu sottoposto
l’arcivescovo Francesco Borgia Sedej (1906-1931), costretto alle dimissioni nel 1931,
ma anche l’intensa opera di snazionalizzazione dell’elemento «alloglotto», che risultava

47
leggermente dominante nella diocesi112. Dopodiché, l’amministrazione apostolica
dell’istriano Giovanni Sirotti (1931-1934) e, soprattutto, l’episcopato di Carlo Margotti
(1934-1951) impressero una svolta nell’opera di «normalizzazione» e, soprattutto,
«romanizzazione» nella diocesi isontina, che costituiva un unicum nel panorama
ecclesiale italiano.
Nuovi sconvolgimenti dovevano arrivare con la Seconda Guerra Mondiale, un
conflitto poco sentito dalla popolazione italiana dell’Arcidiocesi, ma vero e proprio
momento di lotta di liberazione per gli sloveni e i croati, i quali avevano mantenuto –
pur con tutte le difficoltà del caso – una profonda identità nazionale, anche grazie al
clero, che aveva lottato strenuamente in difesa della lingua e della cultura della propria
nazione. A seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943 l’intero territorio diocesano
passò sotto l’amministrazione nazista, all’interno dell’Adriatisches Künstenland,
rimanendo sotto l’occupazione tedesca fino al termine del conflitto. Come vedremo,
questo ebbe profonde conseguenze nella lotta di liberazione e nella partecipazione ai
movimenti partigiani, tanto nella parte italiana, quanto in quella slovena
dell’Arcidiocesi.
Al termine del conflitto, l’Arcidiocesi di Gorizia visse un anno e mezzo
d’incertezza, in attesa di sapere se sarebbe tornata all’Italia, oppure se sarebbe entrata
nell’orbita della Federazione Jugoslava. Il Trattato di Pace, firmato a Parigi il 10
febbraio 1947, risolse la questione, ma la diocesi si ritrovò con un territorio ridotto di
oltre la metà rispetto all’anteguerra e un’inedita quasi-omogeneità etnico-linguistica,
ponendo fine al secolare pluralismo che aveva caratterizzato queste zone. Nuove sfide
attendevano il vescovo Margotti e i suoi fedeli, nel contesto della ricostruzione
nazionale della neonata Repubblica italiana, ma anche di una guerra fredda che
incombeva al confine orientale.
Vediamo, dunque, di seguito, le tappe di questa storia tormentata.

112
Infatti, a fronte di 110.000 italiani residenti nella diocesi, nel primo dopoguerra erano presenti 130.000
sloveni nell’Arcidiocesi di Gorizia.

48
1. Le identità nazionali dell’Arcidiocesi e la nascita del movimento cristiano-
sociale

Fra i Laender dell’Impero austriaco […] non c’era uno che avesse una storia
tanto tormentata quanto la Contea principesca di Gorizia e Gradisca, e ciò
sia a cagione della sua marginalità al punto d’incontro e scontro di tre
civiltà, sia a cagione della sua eterogeneità etnica e linguistica, economica e
sociale, dovuta anche ai notevoli contrasti d’ordine geografico e
climatologico113.

Così Camillo Medeot delinea il profilo dell’Arcidiocesi alla fine del XIX secolo, un
territorio che, nonostante la modesta estensione 114, rappresentava un crogiolo di culture
e di nazionalità, che talvolta si scontrarono, ma che seppero anche convivere all’interno
di una compagine plurilingue come l’impero asburgico.
In una simile realtà, i vescovi che in questo periodo governarono l’Arcidiocesi
avevano ben chiaro che era fondamentale coniugare due principi: valorizzare tutte le
realtà nazionali presenti sul territorio diocesano, ma allo stesso tempo arginare la
secolarizzazione. Per questo, tanto Jacob Missia115, arcivescovo di Gorizia a cavallo fra
il vecchio e il nuovo secolo, quanto i suoi successori – in particolare Francesco Borgia
Sedej116, del quale ci occuperemo fra poco – cercarono di prendere le distanze dagli
113
CAMILLO MEDEOT, Ordinamento della Contea, in AAVV, I cattolici isontini nel XX secolo. Dalla fine
dell’800 al 1918, Gorizia, Casse Rurali ed Artigiane della Contea di Gorizia, 1981, p. 7.
114
Ciononostante, il territorio della Contea principesca di Gorizia e Gradisca aveva una grandezza sei
volte maggiore del territorio provinciale di Gorizia nel secondo dopoguerra.
115
Nato il 30 giugno 1838 a Mota presso Ljutomer (nella Stiria slovena), Missia compì gli studi teologici
a Graz e poi al «Germanicum» di Roma, venendo ordinato sacerdote nel 1863. Dal 1884 divenne vescovo
di Lubiana, mentre nel 1898 fu designato arcivescovo di Gorizia, grazie alla stima di cui godeva sia
presso la S. Sede che alla corte imperiale, tanto che nel 1899 venne anche fatto cardinale. Dopo un
promettente inizio di episcopato, Jacob Missia venne stroncato da un infarto il 24 marzo 1902.
Per approfondimenti, cfr. https://www.diocesigorizia.it/Arcidiocesi/storia-dellArcidiocesi/giacomo-
missia-1898-1902/, ultima consultazione 15/11/2023.
116
Nato a Cerkno-Circhina (oggi Slovenia, allora Principesca Contea di Gorizia e Gradisca) il 10 ottobre
1854, compì gli studi a Gorizia, dove venne ordinato sacerdote nel 1877. Effettuò il suo perfezionamento
presso l’«Augustineum» di Vienna, dove tornò nel 1889 come direttore, dopo aver insegnato al seminario
teologico centrale di Gorizia. Richiamato da Jacob Missia a tornare nell’Arcidiocesi isontina nel 1898,
Sedej ne assunse la guida per ben 25 anni, dopo il breve episcopato di Andrea Jordan (1902-1905). Fino
alla Prima Guerra Mondiale la vita diocesana ebbe un grande sviluppo, anche grazie al suo impulso,
mentre durante e, soprattutto, dopo il conflitto, Francesco Borgia Sedej seppe affrontare le difficili sfide
del presente con autorevolezza ed equilibrio. Costretto a rinunciare all’episcopato dopo quasi un decennio

49
opposti nazionalismi, per governare in maniera efficace una diocesi così complessa.
Missia definì qualunque forma di nazionalismo una sorta di «paganesimo» 117, tanto da
meritarsi l’accusa di essere filoitaliano dal sacerdote e poeta sloveno Simon Gregorčič,
a dimostrazione di come «l’imporsi nell’opinione pubblica di una mentalità nazionale
che ormai costituiva rottura della secolare prassi di convivenza» 118. Anche Francesco
Borgia Sedej cercò sempre di governare l’Arcidiocesi con equilibrio, senza privilegiare
nessuna etnia, con un atteggiamento lealista nei confronti del potere civile, mantenuto
anche dopo l’annessione di Gorizia al Regno d’Italia 119, cui si accompagnò peraltro la
convinta difesa dei diritti linguistici della popolazione slovena, conculcati dalla
snazionalizzazione fascista.
L’avvento del regime di Mussolini stroncò il vivace movimento cristiano-sociale
che era nato alla fine del secolo precedente in entrambe le realtà linguistiche della
diocesi, coniugando l’azione politica con l’impegno religioso, nel clima di apertura alla
società moderna e ai suoi problemi inaugurato dall’enciclica Rerum novarum di papa
Leone XIII. Ispirandosi a figure come il politico austriaco Karl Lüger e a Friedrich
Wilhelm Raiffensein, ideatore e fondatore della prima associazione di casse di prestiti, il
movimento cristiano-sociale goriziano intendeva integrare la doppia fedeltà al papa e
all’imperatore, con la propria forte coscienza nazionale, sebbene inserita in una cornice
di collaborazione con le altre etnie, nell’ambito di un profondo bisogno di giustizia

di pressioni da parte delle autorità fasciste il 23 ottobre 1931, morì il 28 novembre dello stesso anno.
Per approfondimenti, cfr. https://www.diocesigorizia.it/Arcidiocesi/storia-dellArcidiocesi/francesco-
borgia-sedej-1906-1931/, ultima consultazione 15/11/2023.
117
Cfr. a questo proposito, LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, Edizioni della Laguna,
Mariano del Friuli (GO) 2004, p. 155.
118
Ibidem.
119
Come vedremo, ciò non sarebbe bastato a evitargli una vera e propria persecuzione, che sfociò nelle
dimissioni del 1931.

50
sociale. Uomini come Luigi Faidutti 120, Giuseppe Bugatto121 e Pio Meyer122 iniziarono
un’intensa opera di rinnovamento civile, che si inseriva in maniera coerente nell’etica
cattolica, con «la presa di coscienza della responsabilità che l’esperienza cristiana in
atto nella Chiesa doveva assumere nel vivo delle nuove aspirazioni sociali» 123. Luogo
decisivo per quest’opera di mobilitazione del laicato furono le parrocchie, con un
grande protagonismo dei preti, Faidutti in primis, ma anche Adamo Zanetti124. Grazie
alle loro grandi capacità organizzative, Faidutti e Zanetti riuscirono a mobilitare il
120
Nato a S. Leonardo (UD) l’11 aprile 1861, nel 1880 Faidutti ottenne la cittadinanza austriaca per poter
studiare al seminario teologico di Gorizia, venne ordinato sacerdote nel 1884, completando poi la sua
formazione teologica presso il «Frintaneum» di Vienna nel 1888. Rientrato a Gorizia l’anno successivo,
divenne docente presso il seminario teologico, dove insegnò fino al 1905. Deputato nella Dieta
provinciale di Gorizia fin dal 1902, nel 1907 venne eletto deputato nel Parlamento di Vienna e nel 1913 fu
nominato capitano provinciale della contea di Gorizia. Al termine della Grande Guerra sia lui che
Giuseppe Bugatto vennero accusati di «austriacantismo», con il conseguente impedimento di far rientro
nel capoluogo isontino. Dopo un periodo passato a Roma, nel 1924 venne inviato in Lituania come
nunzio apostolico, morendo in ospedale a Könisberg (oggi Kaliningrad) nel 1931.
Per approfondimenti, cfr. CAMILLO MEDEOT, Profili di protagonisti, in AAVV, I cattolici isontini nel XX
secolo. Dalla fine dell’800 al 1918, cit., pp. 61-62, LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, cit., p. 267 e
https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/faidutti-luigi/, ultima consultazione 15/11/2023.
121
Nato a Zara l’11 settembre 1873, Giuseppe Bugatto si trasferì ben presto a Gradisca d’Isonzo,
formandosi nello Staatsgymnasium di Gorizia, per poi conseguire la laurea in giurisprudenza a Graz nel
1895. Dopo aver lavorato come funzionario a Zara e a Vienna, nel 1907 divenne deputato al Parlamento
di Vienna per il collegio elettorale di Monfalcone-Cervignano, mentre nel 1913 venne eletto anche nella
Dieta provinciale goriziana. Fedele all’imperatore, ma convinto sostenitore della lingua e cultura italiana,
Bugatto si impegnò in varie battaglie politiche, come l’istituzione dell’università a Trieste, ma soprattutto
per la riforma agraria in ambito provinciale, che nel 1914 diede come risultato la legge sul colonato, che
non vide mai applicazione a causa dello scoppio della Prima Guerra Mondiale. Al termine del conflitto,
come a Faidutti, gli venne impedito dallo Stato italiano di far ritorno a Gorizia, perciò nel 1922 si trasferì
a Roma per lavorare come impiegato del Vaticano, mentre nel 1939 si recò a Zara, per rimanervi fino al
1944, quando riparò a Grado, dove rimase fino alla sua scomparsa, il 24 febbraio 1948.
Per approfondimenti, cfr. CAMILLO MEDEOT, Profili di protagonisti, in AAVV, I cattolici isontini nel XX
secolo. Dalla fine dell’800 al 1918, cit., pp. 64-65 e
https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/bugatto-giuseppe/, ultima consultazione 15/11/2023.
122
Nato a Lucerna (Svizzera) nel 1873, studiò scienze economiche a Friburgo, Ratisbona e Vienna,
venendo a contatto con le prime cooperative sociali nel Trentino. Chiamato a Gorizia da Faidutti, svolse
un ruolo fondamentale nello sviluppo delle casse rurali nel territorio diocesano. A differenza di Faidutti e
Bugatto, al termine del conflitto poté tornare a Gorizia, ma a causa di vari problemi e incomprensioni, fu
costretto a tornare in Svizzera, spegnendosi a Lucerna nel 1952.
Per approfondimenti, cfr. CAMILLO MEDEOT, Profili di protagonisti, in AAVV, I cattolici isontini nel XX
secolo. Dalla fine dell’800 al 1918, cit., p. 63 e https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/bugatto-
giuseppe/, ultima consultazione 15/11/2023.
123
LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, cit., p. 167.
124
Nato a Mariano del Friuli (GO) il 14 ottobre 1859, nel 1881 conseguì la maturità presso il Ginnasio di
Trieste, entrando nello stesso anno nel seminario di Gorizia. Nominato parroco di Brazzano nel 1890, nel
1893 divenne decano di Fiumicello, impegnandosi in un’intensa opera in campo sociale, aderendo al
movimento cristiano-sociale. Eletto al parlamento di Vienna nel 1897, alle consultazioni del 1901 venne
sconfitto e decise di trasferirsi a Pola, rimanendovi fino al 1909, quando fu costretto a emigrare in
Argentina a causa dei debiti contratti. Rientrato in Italia nel 1923, tornò a Fiumicello come parroco

51
mondo rurale, difendendone le istanze sia in ambito provinciale che, soprattutto, in
quello del parlamento viennese.
Infatti, nel mondo agricolo goriziano di fine ‘800 era ancora dominante la grande
affittanza, che si caratterizzava per la scarsità di investimenti, lo sfruttamento
indiscriminato dei terreni e la brevità dei contratti dei coloni, spesso costretti a
indebitarsi, per adempiere alle condizioni contrattuali, che erano sganciate dagli esiti del
raccolto. Faidutti comprese, quindi, che era necessario difendere i piccoli proprietari e i
coloni, a cui venne

attribuito un duplice compito, cioè da un lato opporsi energicamente al


fenomeno della proletarizzazione in atto soprattutto in alcune zone della
Bassa friulana dove il sistema capitalistico stava affermandosi; dall’altro
assicurare il consenso proprio a quelle forze che più di altre si battevano per
l’espansione della piccola proprietà, che poteva essere realizzata attraverso
un alleggerimento degli oneri fiscali e per mezzo di agevolazioni
finanziarie125.

Frutto di questa intensa attività fu la creazione della prima cassa rurale del Friuli
austriaco nel 1896 a Capriva, riunendo poi nel 1899 tutte le casse rurali in una vera e
propria federazione, divenuta dal 1907 un consorzio; grazie all’apporto di Pio Meyer,
che aveva già avuto modo di lavorare in quest’ambito in Trentino, il cooperativismo
nella Contea di Gorizia crebbe fino a raggiungere 99 associazioni e 9241 soci nel 1913.
Il più grande successo del movimento cristiano-sociale in ambito provinciale fu
certamente la legge del 24 maggio 1914, conosciuta come legge «Bugatto», con la quale
venne finalmente regolamentato il colonato, in prospettiva del miglioramento delle
condizioni di vita dei mezzadri. Lo scoppio della Grande Guerra impedì l’applicazione
di tale provvedimento, estremamente avanzato per i tempi. Se si può cogliere un limite

decano e, dopo un periodo a Gradisca d’Isonzo e Borgnano, si ritirò a vita privata a Farra d’Isonzo, dove
si spense il 9 dicembre 1946. Per approfondimenti, cfr. CAMILLO MEDEOT, Profili di protagonisti, in
AAVV, I cattolici isontini nel XX secolo. Dalla fine dell’800 al 1918, cit., pp. 60-61 e
https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/zanetti-adamo/, ultima consultazione 15/11/2023.
125
ALESSANDRO STEBEL, L’economia agricola, il movimento cattolico e l’associazionismo cooperativo
nella Contea di Gorizia e Gradisca, in AAVV, Friuli e Venezia Giulia: storia del '900, cit., pp. 83-84.

52
nel movimento cristiano-sociale, è quello di aver investito molte energie nel mondo
rurale, trascurando quello operaio, che stava crescendo, soprattutto nell’area del
Monfalconese, grazie alla presenza dei cantieri navali e alla fondazione della Società
Anonima «Officine Elettriche dell’Isonzo» nel 1906. Questa scelta sarebbe stata pagata
nel primo dopoguerra, quando si verificò una netta adesione degli operai monfalconesi
al socialismo, contestualmente a una crisi del movimento cristiano-sociale, di cui
parleremo più ampiamente nel terzo paragrafo. In ogni caso, risulta innegabile l’impulso
dato da questo movimento allo sviluppo civile, economico e culturale della Contea, con
l’idea di plasmare la società secondo i valori cristiani.
Se questa era la situazione dei cattolici italofoni nel periodo della Belle Époque,
altrettanto vivace risultava quella degli omologhi sloveni, impegnati nella difesa della
propria identità all’interno della Contea. Forti della legge del 21 dicembre 1867, con la
quale si sanciva per tutti i popoli dell’impero asburgico «l’indelebile diritto di tutelare e
sviluppare la propria nazionalità»126, essi si impegnarono nell’ambito politico e sociale
in maniera dinamica e non priva di contrapposizioni, anche all’interno dello stesso
fronte cattolico. Infatti, nonostante nel 1876 fosse stato fondato il partito unico «Sloga»,
che riuniva tutti gli sloveni della Contea goriziana, si formarono quasi immediatamente
due correnti, una più progressista guidata da Anton Gregorčič 127 e Andrej Gabršček128,
entrambi eletti al parlamento di Vienna, contrapposta a quella decisamente più

126
AVGUST SFILIGOJ, Questioni politiche e nazionali dell’Ottocento, in AAVV, I cattolici isontini nel XX
secolo. Dalla fine dell’800 al 1918, cit., p. 71.
127
Nato a Vrsno il 2 gennaio 1852, Gregorčič compì i suoi studi nel seminario di Gorizia, diventando
sacerdote nel 1875 e conseguendo il dottorato presso il «Frintaneum» di Vienna nel 1879. Docente di
teologia fondamentale e dogmatica presso il seminario goriziano, fu un attivo pubblicista e, soprattutto,
un uomo politico esperto, capace di dialogare con le diverse realtà presenti nella Contea. Eletto al
Parlamento di Vienna per la prima volta nel 1891, mantenne il proprio seggio di deputato fino al 1918.
Durante la Grande Guerra fu molto impegnato nell’assistenza ai profughi goriziani, firmando anche la
Dichiarazione di maggio del 1917 per la creazione di un’unione degli sloveni, croati e serbi all’interno
dell’impero asburgico. Dopo la fine del conflitto tornò a Gorizia, continuando a battersi per i diritti del
suo popolo all’interno del regno d’Italia. Anton Gregorčič si spense nel 1925.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, cit., pp. 268-269.
128
Nato a Caporetto il 26 novembre 1864, Gabršček divenne maestro elementare nel 1883, mentre nel
1889 assunse la direzione del giornale «Soča», sotto l’egida di Anton Gregorčič. Eletto deputato a Vienna,
nel 1900 si staccò dalla «Sloga», per fondare il proprio partito insieme a Henrik Tuma. Confinato nei
territori interni dell’Austria durante la Prima Guerra Mondiale, alla fine del conflitto si trasferì a Lubiana,
dove morì nel 1938.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/gabrscek-andrej/, ultima
consultazione 14/01/2024.

53
conservatrice capitanata da Anton Mahnič 129. Alla fine, a causa dell’inconciliabilità fra
cattolici e liberali, Gabršček uscì dalla «Sloga», per fondare insieme a Henrik Tuma 130 il
Partito nazionale progressista, con l’intento di realizzare lo sviluppo spirituale ed
economico degli sloveni, all’interno di un rapporto paritario con tutte le nazioni presenti
nella Contea e in assenza di interferenze nelle questioni religiose ed ecclesiastiche.
Grazie alle battaglie di questi uomini politici, gli sloveni goriziani ebbero lo stesso
numero di rappresentanti al parlamento di Vienna nel 1911 e una sostanziale parità
anche all’interno della dieta provinciale dal 1913 presieduta da Faidutti 131, costituendo
allo stesso tempo le proprie casse rurali e ottenendo anche l’insegnamento in lingua
slovena all’interno delle scuole.
Questa, dunque, era la situazione all’interno dell’Arcidiocesi di Gorizia alla
vigilia della Prima Guerra Mondiale, caratterizzata da una notevole vivacità del mondo
cattolico, che seppe affrontare da protagonista le notevoli sfide della modernità, secondo
il dettato della Rerum novarum di Leone XIII, nel contesto di una convivenza
sostanzialmente positiva fra nazionalità diverse. Come vedremo, il conflitto avrebbe
spazzato via questo assetto consolidato, creando macerie tanto materiali quanto sociali.

129
Nato a Kobdilj il 14 settembre 1850, Mahnič studiò nel seminario di Gorizia, ricevendo l’ordinazione
nel 1874, per poi perfezionare i suoi studi teologici a Vienna. Rientrato a Gorizia, divenne docente di
Esegesi del Nuovo Testamento nel seminario goriziano, mentre nel 1896 venne nominato vescovo di
Veglia. Nonostante l’impegno pastorale, continuò un’intensa attività politico-sociale, opponendosi a ogni
forma di liberalismo. Dopo l’occupazione italiana della sua diocesi, Mahnič venne mandato al confino per
un anno a Frascati, per poi tornare a Zagabria, dove morì nel 1920.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://www.travel-slovenia.si/anton-mahnic/, ultima consultazione
14/01/2024.
130
Nato a Lubiana il 9 luglio 1858, Tuma compì gli studi magistrali nella propria città, per poi laurearsi in
giurisprudenza a Vienna nel 1888. Divenuto giudice a Tolmino e poi a Gorizia, nel 1895 venne eletto
nella dieta provinciale. Insieme ad Andrej Gabršček fondò il Partito nazionale progressista ma,
insoddisfatto da questa esperienza, se ne staccò per aderire al partito socialdemocratico, sostenendo con
grande energia la linea internazionalista, contro ogni forma di nazionalismo. Dopo la Grande Guerra entrò
nel partito socialista italiano, ma ben presto si ritirò dalla politica attiva. Non avendo ottenuto la
cittadinanza italiana, nel 1924 si trasferì a Lubiana, continuando la sua professione di avvocato, per poi
morire il 10 aprile 1935.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Henrik_Tuma, ultima consultazione
14/01/2024.
131
Non a caso, i cattolici sloveni e italiani si erano alleati, ottenendo così la maggioranza all’interno
dell’assise provinciale.

54
2. Gli sconvolgimenti della Grande Guerra
Prima dello scoppio del conflitto, l’Arcidiocesi di Gorizia rappresentava un
«modello di eterogeneità, fiorente di prestigio culturale e di ruoli socialmente
riconosciuti»132; la guerra avrebbe letteralmente spazzato via il patrimonio materiale e
morale di questo territorio, con la distruzione di oltre il 40% degli edifici, la perdita
dell’apparato industriale e artigianale, oltre che del patrimonio storico-artistico. Inoltre,
con la «profuganza» di una buona parte della popolazione e l’invio al confino di molti
esponenti del clero locale, le macerie da ricostruire non si limitavano a quelle prodotte
dalle bombe, ma andarono a colpire il cuore delle comunità di questi territori.
Gli abitanti di lingua italiana dell’Arcidiocesi vissero come un vero e proprio
tradimento l’ingresso in guerra del Regno sabaudo, in quanto ritenevano che la propria
identità nazionale fosse adeguatamente tutelata all’interno della «patria dei popoli»
costituita dall’impero austroungarico; inoltre, soprattutto i cattolici erano diffidenti
verso uno Stato apertamente laicista e in conflitto con il Vaticano quale era allora il
Regno sabaudo. Ancora più problematica risultava la situazione della popolazione
slovena della Contea, che guardava con apprensione alle mire espansionistiche dello
Stato italiano, sentendolo «assolutamente estraneo al proprio sentimento nazionale ed ai
propri interessi»133.
Tali timori si dimostrarono fondati, in quanto durante il conflitto l’esercito
italiano colpì duramente tanto il clero quanto le strutture organizzative cristiano-sociali,
operando con un doppio pregiudizio, che portava a percepire il cattolicesimo isontino
come «austriacante», ma anche sotto l’influenza dei liberali e irredentisti locali, che
arrivarono a compilare delle vere e proprie liste di proscrizione di ecclesiastici ed
esponenti delle amministrazioni locali da internare 134. Tale provvedimento, utilizzato – a
onor del vero – da entrambi i contendenti, «era una misura ampiamente discrezionale,
attuata a prescindere dalla formalizzazione delle accuse e, non essendo in genere seguita

132
LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, cit., p. 177.
133
LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, cit., p. 178.
134
Cfr. PAOLO MALNI, Profughi e internati della Grande Guerra, in AAVV, Friuli e Venezia Giulia:
storia del '900, cit., p. 128.

55
da un regolare procedimento penale, non offriva a chi era colpito alcuno strumento
giuridico di difesa»135.
Nonostante fossero dispersi fra Italia e Austria, lontani dai propri fedeli, i
sacerdoti dell’Arcidiocesi – Faidutti in primis – si impegnarono nelle opere di assistenza
tanto alla popolazione quanto ai soldati impegnati al fronte. La guerra era vista come un
male grave, ovvero la dimostrazione dell’infedeltà a Dio e della necessità di una
conversione.
In prima linea c’era lo stesso vescovo Francesco Borgia Sedej, che dal
monastero di Stična, nella Carniola interna a nord-est di Lubiana, dove era riparato
alcuni mesi dopo lo scoppio delle ostilità, continuava a gestire le attività diocesane, in
particolare la vita del seminario teologico, ma anche le attività di assistenza e carità nei
confronti dei molti profughi goriziani136, oltre che dei soldati, richiamati a essere fedeli
al proprio credo, anche in un frangente così drammatico come quello bellico. Il presule
mantenne sempre una condotta lealista nei confronti dell’Austria, leggendo l’ingresso in
guerra dell’Italia come un tradimento, in linea con il sentimento di gran parte dei suoi
fedeli. Tuttavia, dimostrò un grande equilibrio, rifiutandosi di firmare la Dichiarazione
di maggio del 1917, con la quale sloveni, croati e serbi dell’impero chiedevano la
creazione di uno Stato jugoslavo all’interno dell’impero asburgico, per mantenere un
atteggiamento super partes nei confronti della popolazione italiana della diocesi, anche
a causa della sua diffidenza verso per le tendenze egemoniche serbe, che avrebbero
portato a una preminenza della Chiesa ortodossa all’interno della nuova compagine
statale. Ciò non valse a evitargli una vera e propria persecuzione da parte del governo
italiano, fattasi particolarmente virulenta durante il periodo fascista, che l’avrebbe
portato alle dimissioni, come vedremo in maniera più approfondita nel prossimo
paragrafo.
D’altro canto, anche gli italiani della diocesi, Faidutti e Bugatto in primis,
avrebbero preferito rimanere all’interno di una federazione di popoli sotto l’egida
austriaca, percependo come sarebbe stata meglio garantita l’autonomia del territorio
135
Ibidem.
136
Paolo Malni riporta che, all’ingresso dell’esercito italiano a Gorizia, nel 1916, solo 3.000 persone
erano rimaste in città, a fronte dei 30.000 residenti prima del conflitto. Cfr. PAOLO MALNI, Profughi e
internati della Grande Guerra, in AAVV, Friuli e Venezia Giulia: storia del '900, cit., pp. 120-121.

56
goriziano, rispetto alle tendenze accentratrici del Regno d’Italia. Come vedremo fra
poco, questo atteggiamento lealista valse loro l’ostracismo delle nuove autorità alla fine
del conflitto, oltre a essere abbandonati dal neonato Partito Popolare sturziano, che
iniziò a muovere i primi passi anche nell’ambito diocesano all’inizio degli anni ’20.

3. Il primo dopoguerra e il confronto con il fascismo in una diocesi «anomala»


Fin dall’occupazione militare del Litorale Adriatico nel 1918, sotto la guida del
generale Carlo Petitti di Roreto, fu chiaro che l’Arcidiocesi di Gorizia sarebbe passata al
Regno d’Italia, come venne certificato dal Trattato di Rapallo, acquisendo ulteriori
territori rispetto al periodo prebellico. La peculiarità diocesana erano il consolidato
lealismo nei confronti dello Stato asburgico e del Vaticano, la funzione anche civile dei
parroci e l’attiva presenza cattolica nella vita politica, amministrativa e socioculturale,
in un quadro di riconosciuta autonomia. Tuttavia,

quello che avrebbe potuto essere un inserimento pacifico, seppur difficoltoso, divenne
invece spesso un dramma di coscienza per le persone ed un sentimento di estraneità per
le masse: a causa di una serie di disattenzioni, di pregiudizi e di scelte impopolari del
nuovo potere statale137.

Infatti, lo Stato italiano si pose in maniera diametralmente opposta nei confronti


delle «terre redente» rispetto all’impero asburgico, attraverso un’amministrazione a
carattere rigidamente centralista, che marginalizzava tutte le nazionalità al di fuori di
quella italiana, risultando allo stesso tempo piuttosto debole dal punto di vista
amministrativo. La mancata comprensione delle peculiarità di questo territorio, che
Luigi Tavano definisce una «diocesi anomala»138 rispetto alle altre presenti nel Regno
d’Italia, in quanto l’etnia sloveno-croata era leggermente predominante rispetto a quella
italiana139, causò la fine di una convivenza plurisecolare che aveva caratterizzato queste

137
LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, cit., p. 191.
138
Cfr. LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, cit., p. 189 e segg.
139
Il Trattato di Rapallo, infatti, aveva determinato un allargamento dei confini dell’Arcidiocesi di
Gorizia, aggiungendo i decanati di Idria, Postumia, Tarvisio e Vipacco; questo determinò la presenza di

57
zone, esacerbando gli opposti nazionalismi. Non a caso, Lucio Fabi definisce la Gorizia
del periodob «un’isola italiana circondata dalla campagna slovena»140, creando così i
presupposti per una contrapposizione che sarebbe continuata anche nel secondo
dopoguerra, determinando una sostanziale estraneità, quando non un’aperta ostilità, nei
rapporti fra le due etnie, con effetti anche sulle scelte elettorali dei cattolici
dell’Arcidiocesi, come vedremo meglio nel prossimo Capitolo.
Inoltre, le condizioni materiali e sociali risultavano drammatiche, con ben 34
parrocchie vacanti su 86; il problema del rientro del clero confinato durante il primo
conflitto mondiale fu una delle questioni più complesse con cui fu costretto a
confrontarsi il vescovo Sedej al suo rientro a Gorizia. Tuttavia, non fu questa la
maggiore delle criticità che dovette affrontare il presule, malvisto dalle autorità italiane
a causa della sua nazionalità e del noto lealismo nei confronti della casa d’Asburgo.
Sebbene avesse rifiutato di firmare la Dichiarazione di maggio nel 1917, Sedej era
tacciato – come, del resto, gran parte del clero, Luigi Faidutti in testa – come
«austriacante» e, per questo, guardato con estremo sospetto. Con l’avvento del
fascismo, la persecuzione nei confronti dell’Arcivescovo divenne più palese, anche a
causa del memoriale redatto nel 1922 da Ettore Del Fabro, Giovanni Tarlao e Francesco
Castelliz, inviato alla S. Sede. Insieme alle rilevazioni del prefetto Francesco Crispo-
Moncada141 di Trieste e a quelle del direttorio del fascio locale, la questione di tale
memoriale arrivò fino al ministero degli interni, portando alla richiesta di una soluzione
da parte del Vaticano. Anche a fronte della solidarietà dimostrata nel 1924 dal clero e
dai fedeli dell’Arcidiocesi al vescovo, la S. Sede rifiutò di intervenire, lasciando Sedej
al suo posto. Tuttavia, questa fu solo una tregua, in quanto Tarlao, Castelliz e Del Fabro

130.000 fedeli slavi, a fronte di 110.000 italiani, rendendo così la componente «alloglotta» leggermente
predominante rispetto a quella italiana.
140
LUCIO FABI, Gorizia. Storia di una città, cit., p. 119.
141
Nato a Palermo nel 1867, Crispo-Moncada fu avviato alla carriera nella magistratura nel 1891, per poi
essere assegnato a Ferrara nel 1913, mentre fu chiamato in servizio al comando supremo nel 1915, con
l’entrata dell’Italia nella Grande Guerra. Al termine del conflitto collaborò con il Commissariato generale
civile per la Venezia Giulia, mentre nel 1922 divenne prefetto di Trieste. Chiamato alla direzione della
Pubblica Sicurezza dallo stesso Mussolini nel 1924, in seguito a due attentati contro il duce nel 1926,
venne nominato consigliere di Stato e messo a riposo anche da questa carica nel 1937. Ritiratosi a vita
privata, Crispo-Moncada morì a Roma nel 1952.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://treccani.it/enciclopedia/francesco-crispo-moncada_
%28Dizionario-Biografico%29/, ultima consultazione 21/01/2024.

58
tornarono alla carica, chiedendo almeno di avere un coadiutore italiano per il presule, in
modo che ne potesse diventare il successore. Dal 1926, quindi, il regime fascista, si
trovò di fronte a

due preoccupazioni - e due linee di azione: dar sfogo alle urgenze nazionaliste
locali, perseguendo ufficialmente una linea dura (coincidente con la stretta
politica nei confronti delle realtà “allogene” in atto dal 1925); e,
contemporaneamente, trattare con la S. Sede per una soluzione concordata 142.

Vennero fatte varie proposte dal ministero degli esteri alla S. Sede, che riuscì
sempre a prendere tempo, permettendo così al presule sloveno di resistere agli attacchi
fascisti, oltre alle esplicite richieste di dimissioni da parte del ministro Rocco. Lo scopo
di tale resistenza era probabilmente quello di prendere tempo per scegliere un adeguato
successore, in grado di tutelare le istanze di tutti i fedeli dell’Arcidiocesi (in particolare
di quelli sloveni), dimostrando allo stesso tempo la fedeltà personale del presule al
proprio ministero143. Con il Concordato del 1929, la situazione iniziò a mutare e la
posizione di Sedej risultò meno salda che in passato. Dopo aver celebrato il 25°
anniversario della sua nomina ad arcivescovo di Gorizia, Francesco Borgia Sedej
rassegnò le sue dimissioni il 23 ottobre 1931, per poi scomparire il 28 novembre dello
stesso anno.
A seguito delle dimissioni e della morte di Sedej si aprì il triennio di
amministrazione apostolica dell’istriano Giovanni Sirotti144, in un clima di
«normalizzazione», frutto del Concordato, che significava anzitutto «romanizzazione»

142
LUIGI TAVANO, La Chiesa goriziana fra autonomia e inserimento (1929-1934), in AAVV, I cattolici
isontini nel XX secolo. Dal 1918 al 1934, Gorizia, Istituto di storia sociale e religiosa, 1982, p. 201.
143
Per approfondimenti, cfr. LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, cit., p. 212 e LUIGI
TAVANO, La Chiesa goriziana fra autonomia e inserimento (1929-1934), in AAVV, I cattolici isontini nel
XX secolo. Dal 1918 al 1934, cit., p. 205.
144
Nato a Valle d’Istria il 23 ottobre 1883, Sirotti divenne sacerdote nel 1906. Dal 1908 fu prima docente
e, dal 1920, direttore del convitto diocesano parentino-polese di Capodistria, trasformato in seminario
interdiocesano nel 1927. Oltre all’amministrazione apostolica di Gorizia, dal 1935 al 1938 gli fu affidata
quella della diocesi di Savino (Campobasso), per poi diventare canonico del capitolo e prodecano di
Capodistria. Rifugiatosi a Trieste nel 1945, scomparve nel capoluogo giuliano il 4 aprile 1955.
Per approfondimenti, cfr. LUIGI TAVANO, La Chiesa goriziana fra autonomia e inserimento (1929-1934),
in AAVV, I cattolici isontini nel XX secolo. Dal 1918 al 1934, cit., p. 206.

59
della diocesi, in linea con l’obiettivo di «italianizzazione» perseguito dallo Stato
fascista. La scelta di Sirotti era pienamente in linea con questi obiettivi, a cui egli diede
attuazione con un’intensa presenza pubblica, ma anche scegliendo collaboratori di
fiducia e, soprattutto, di sicura italianità, sia dal punto di vista etnico che ideologico.
Questo portò a una progressiva sfiducia nei suoi confronti da parte del clero locale, che
sentiva sminuite le proprie tradizioni nel caso della parte italofona, mentre in quella
slovena l’opera normalizzatrice di Sirotti era avvertita come una vera e propria minaccia
alla propria nazionalità, già messa a dura prova dai provvedimenti fascisti. Diffidando
dei suoi presbiteri, monsignor Sirotti cercò anche di valorizzare l’Azione Cattolica
diocesana, in modo da formare un laicato responsabile da contrapporre a un clero
percepito come ostile. Inoltre, l’amministratore apostolico rivolse la sua attenzione al
seminario teologico, per epurarlo dalle presenze troppo filo-slovene o addirittura
antifasciste, al punto da «snaturare la fisionomia di un’istituzione, punto di forza
dell’autonoma tradizione ecclesiastica»145. Questo comportò notevoli problemi
pedagogici e pratici, mentre si verificava una contestuale mancanza di aggiornamento
dal punto di vista teologico-pastorale dei docenti, col risultato di rendere ancora più
aspre le contrapposizioni nazionali.
L’inadeguatezza di Sirotti nel comprendere le dinamiche ecclesiali del Goriziano
e l’eccessivo appiattimento sulle posizioni del governo resero necessaria la scelta di un
altro vescovo alla guida dell’Arcidiocesi. Dopo lunghe ricerche, nel 1934 la scelta
ricadde su Carlo Margotti146, esperto diplomatico, oltre che uomo di comprovata fedeltà
allo Stato italiano e al regime fascista. Questa scelta si può leggere certamente
nell’ottica di pacificare e, soprattutto, «romanizzare» una diocesi che aveva sempre

145
LUIGI TAVANO, La Chiesa goriziana fra autonomia e inserimento (1929-1934), in AAVV, I cattolici
isontini nel XX secolo. Dal 1918 al 1934, cit., p. 212.
146
Nato ad Alfonsine di Romagna il 22 aprile 1891, Margotti conseguì tre lauree, acquisendo un ampio
bagaglio linguistico. Grazie alle sue competenze, entrò nella Congregazione romana per la Chiesa
orientale, per poi essere nominato delegato apostolico in Turchia nel 1930 e l’anno successivo ad Atene.
Nel 1934 venne nominato arcivescovo di Gorizia, che resse fino al 1951. Espulso da Gorizia dalle truppe
jugoslave nel 1945, fece rientro nel capoluogo isontino il 13 luglio dello stesso anno, per guidare la
diocesi nella difficile ricostruzione del secondo dopoguerra, con un territorio ridotto di oltre la metà
rispetto al periodo prebellico. Carlo Margotti si spense il 31 luglio 1951 dopo una lunga malattia.
Per approfondimenti, cfr. LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, cit., pp. 269-270 e
https://www.diocesigorizia.it/Arcidiocesi/storia-dellArcidiocesi/carlo-margotti-1934-1951/, ultima
consultazione 14/01/2024.

60
avuto dei connotati difficili a causa della resistenza che una parte del suo clero
opponeva al “nuovo corso”. Perciò, la sua linea pastorale fu da subito improntata alla

identificazione dello spirito cattolico con l’uniformità centralizzatrice romana,


per cui ogni particolarità linguistica, liturgica, disciplinare, di tradizione
culturale e pastorale veniva percepita con diffidenza, quasi pericolosa per
l’unità della Chiesa147.

Per Margotti, quindi, era fondamentale mantenere l’unità della diocesi,


all’interno di una precisa uniformità ecclesiastica, inserita in una cornice di pacifica
convivenza fra le etnie. In questo senso, vanno viste le azioni intraprese
dall’arcivescovo, che avevano lo scopo di eliminare tensioni inutili e dannose «in nome
di un ideale superiore, poiché la fedeltà alla romanità si identificava con la fedeltà alla
Chiesa»148. Anche la sua adesione al fascismo, dunque, va inserita in un atteggiamento
di lealismo nei confronti dello Stato, in quanto egli vedeva il regime come lo strumento
di un più alto ideale patriottico, piuttosto che come partito politico connotato
ideologicamente. Ciò che contava per Margotti erano la fede e la morale del suo popolo,
alle quali il fascismo sembrava fornire la cornice adeguata a garantire il rispetto di tali
valori.
È in questo quadro che vanno letti provvedimenti come il fallito tentativo di
vietare l’uso della lingua materna nelle funzioni, come anche quello di far chiudere le
associazioni mariane slovene, per far aderire i fedeli all’Azione Cattolica. Allo stesso
tempo, però, il vescovo si dimostrò attento ai suoi fedeli sloveni utilizzandone la lingua
e proteggendone il clero vessato dalle autorità fasciste. In ogni caso, tali provvedimenti
sono sintomatici dell’incapacità di comprendere la cultura e le tradizioni locali da parte
di un presule con uno spiccato orientamento romanocentrico.
Per quanto riguarda i rapporti dell’arcivescovo con i presbiteri, sebbene non vi
fossero più le tensioni che avevano caratterizzato l’amministrazione apostolica di

147
LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, cit., p. 218.
148
LUIGI TAVANO, L’arcivescovo C. Margotti e la Chiesa goriziana di fronte alla guerra ed ai movimenti
di liberazione (1940-1945), in AAVV, I cattolici isontini nel XX secolo. Il Goriziano fra guerra,
resistenza e ripresa democratica (1940-1947), Gorizia, Tipografia sociale, 1987, p. 115.

61
Sirotti, certamente non erano dei più idilliaci. Infatti, da un lato i sacerdoti sloveni
venivano avvertiti da Margotti come eccessivamente nazionalisti, mentre quelli italiani
erano da lui ritenuti eccessivamente conservatori e, perciò, anch’egli si avvalse di
collaboratori provenienti da altre realtà ecclesiali, con il risultato di provocare un
sentimento di distacco e di estraneità ancora più accentuato nel clero nei suoi confronti.
Se questa era la situazione dell’Arcidiocesi dal punto di vista pastorale, vediamo
ora quali erano le condizioni politiche e socioculturali con cui si dovettero confrontare
tanto il clero quanto il laicato cattolico dal primo dopoguerra alla fine degli anni ’30.
Come abbiamo visto nel precedente paragrafo, molti furono i sacerdoti internati o
confinati durante il conflitto, che spesso solo con difficoltà riuscirono a fare ritorno alle
proprie comunità. Inoltre, l’ostracismo nei confronti di due leader del movimento
cristiano-sociale come Faidutti e Bugatto causò un notevole spaesamento da parte tra i
cattolici italiani, che non seppero esprimere in modo efficace la loro presenza sul
territorio come nel periodo prebellico. Infatti,

il movimento cattolico isontino del primo dopoguerra, decapitato dei suoi


leaders migliori, stentò molto a rinascere e riorganizzarsi, ma non tornò mai
quel vigoroso e fecondo organismo dell’anteguerra, prima per la virulenta
concorrenza dei socialisti e poi per la inevitabile repressione fascista 149.

Anche nelle «terre redente» si organizzò una sezione locale del Partito Popolare
di don Sturzo, che prevedeva nel suo programma un certo grado di autonomia per il
territorio goriziano, scatenando la reazione dei liberali, in particolare gli
ultranazionalisti150. Altrettanto controverso fu il problema se battersi o meno per il
reintegro di Faidutti e Bugatto, a causa dell’innesco di nuove polemiche sia con i
liberali che con i fascisti, facendo desistere la leadership popolare goriziana da

149
ITALO SANTEUSANIO, Il Partito Popolare italiano nell’Isontino, in AAVV, I cattolici isontini nel XX
secolo. Dal 1918 al 1934, cit., pp. 260-261.
150
Santeusanio riporta l’esempio di una polemica sollevata dal poeta Biagio Marin contro monsignor
Fogar, che accusava di fomentare sentimenti anti-italiani nella popolazione, a dimostrazione della forte
diffidenza verso un clero e un laicato cattolico ancora avvertiti come «austriacanti» dai patrioti italiani.
Per approfondimenti, cfr. ITALO SANTEUSANIO, Il Partito Popolare italiano nell’Isontino, in AAVV, I
cattolici isontini nel XX secolo. Dal 1918 al 1934, cit., pp. 261-262.

62
qualunque tentativo in questo senso. Questi problemi, uniti all’incertezza se schierarsi o
meno con il cosiddetto «blocco nazionale» alle elezioni del 1921, per contrastare sia gli
sloveni che i socialisti del territorio, portarono a un vero e proprio crollo dei consensi,
passando dal 43% dei gradimenti nel 1911 al 12%. Tali elezioni, infatti, videro
l’affermazione degli sloveni, che si unirono nella «Concentrazione Slava», riuscendo a
mandare in parlamento ben quattro deputati, mentre il quinto seggio disponibile venne
assegnato al comunista Giuseppe Tuntar151. Anche per spezzare la coesione degli
«allogeni», iniziando così la sua opera snazionalizzatrice, nel 1923 il regime fascista
decretò lo smembramento del territorio provinciale goriziano, diviso fra la provincia del
Friuli e quella di Trieste. Insieme alla perdita di contatti con il mondo del lavoro, in
particolare di quello operaio del Monfalconese, venne così a determinarsi la totale
esclusione dei cattolici italiani dalla vita politica, evidenziando la scarsa incisività del
movimento cristiano-sociale nel suo complesso. Inoltre, anche in ambito rurale il
cooperativismo aveva perso la sua carica propulsiva, anche in virtù del fatto che il
regime abrogò la legge «Bugatto» del 1914, mai veramente applicata, causando un lento
declino anche della Federazione dei consorzi, ufficialmente liquidata nel 1937.
Dall’avvento del fascismo, quindi, i cattolici italofoni della diocesi furono
costretti a limitare la loro azione all’ambito puramente religioso ed ecclesiale, nel quale
il vero tessuto connettivo erano le parrocchie. Era al loro interno, infatti, che svolgevano
le loro attività le 148 associazioni presenti nella diocesi, a dimostrazione di una
notevole vivacità della vita di fede. Grande attenzione veniva riservata all’educazione
dei più giovani, con l’Azione Cattolica – prima femminile dal 1920 e, poi, dal 1932,
anche quella maschile – a lavorare per la formazione di una «coscienza culturalmente
critica secondo l’identità cattolica»152, fornendo una sorta di formazione “prepolitica” a
tanti giovani che avrebbero contribuito alla ricostruzione nel secondo dopoguerra.
A ogni modo, il contributo del laicato veniva visto come ancillare all’azione
pastorale del clero che perse punti di riferimento importanti come Faidutti, ma anche

151
Per approfondimenti, cfr. SERGIO ZILLI, Geografia elettorale del Friuli-Venezia Giulia, pp. 34-35.
152
LUIGI TAVANO, La Chiesa goriziana fra autonomia e inserimento (1929-1934), cit., in AAVV, I
cattolici isontini nel XX secolo. Dal 1918 al 1934, cit., p. 195.

63
monsignor Luigi Fogar153, che aveva guidato il Partito Popolare isontino, oltre ad aver
favorito l’associazionismo cattolico dell’Arcidiocesi, che lasciò la diocesi per diventare
vescovo di Trieste. Questo creò una sensazione d’isolamento fra i presbiteri, che
sentivano di aver perso quell’incisività, anche civile, che aveva caratterizzato il periodo
prebellico. In un quadro sempre più disarticolato all’interno della diocesi, in cui la
secolarizzazione della società sembrava imporre un’opera di nuova evangelizzazione, la
cura d’anime, la promozione della devozione, dei valori morali e dell’associazionismo
divennero il fulcro delle attività dei parroci italofoni che, grazie a un connaturato
lealismo, cercarono di incorporare alcuni dei valori del fascismo che rispondevano
meglio alla logica della loro pastorale.
Una trattazione a parte merita la situazione del clero e del laicato sloveno che,
come abbiamo visto, costituivano la parte leggermente preponderante della popolazione
nell’Arcidiocesi di Gorizia. Fin dalla fine del conflitto, le autorità militari italiane
avevano messo in atto una politica snazionalizzatrice, ma con l’avvento del fascismo
venne dato pieno compimento alla «bonifica del confine» 154. Come abbiamo visto nel I
Capitolo, questo si tradusse in una serie di provvedimenti, che andarono dal
cambiamento nella toponomastica alla chiusura delle scuole dove l’insegnamento era
impartito in lingua slovena, passando per l’allontanamento di docenti e funzionari statali
non italofoni, fino ad arrivare all’italianizzazione dei cognomi e al divieto di imporre
nomi stranieri ai figli. Inoltre, l’Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie espropriò
i contadini sloveni delle loro terre, per concederle a coloni italiani, spesso provenienti
da altre zone della Penisola. Quest’opera, definita da Anna Maria Vinci allo stesso

153
Nato a Gorizia il 27 gennaio 1882, monsignor Fogar studiò prima nel locale Staatsgymnasium e poi
presso i benedettini dell’abbazia di Monte S. Maria a Malles (Val Venosta). Studiò, poi, presso la facoltà
teologica dell’università di Innsbruck, per diventare sacerdote nel 1907. Richiamato a Gorizia dal
vescovo Sedej nel 1909, insegnò presso il seminario e, durante la Grande Guerra, fu molto attivo
nell’assistenza dei profughi goriziani. Dal 1918 divenne uno dei leader riconosciuti in ambito politico,
oltre che ecclesiale, dell’Arcidiocesi, guidando la locale sezione del PPI di don Sturzo. Nel 1923 venne
consacrato vescovo di Trieste e Capodistria, ma entrò subito in urto con il prefetto Tiengo. Accusato di
essere «filo slavo e anti-italiano» per la ferma difesa dei fedeli sloveni della sua diocesi, monsignor Fogar
venne “promosso” vescovo di Patrasso e assegnato come canonico alla basilica di S. Giovanni in
Laterano. Luigi Fogar morì a Roma nel 1971.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/fogar-luigi/, ultima
consultazione 14/01/2024.
154
Cfr. a questo proposito, AVGUST SFILIGOJ, Dalla Prima Guerra al fascismo, in AAVV, I cattolici
isontini nel XX secolo. Dal 1918 al 1934, cit., p. 292.

64
tempo «fiacca e brutale»155 era condotta in maniera poco organica e talvolta
contraddittoria, ma non per questo si rivelò meno violenta nei suoi esiti 156. Per reagire a
questi atti persecutori, gli sloveni iniziarono a organizzare varie forme di resistenza, di
tipo propagandistico, costituendo anche società segrete allo scopo di tutelare l’identità
nazionale, come la TIGR. Un breve accenno merita anche una forma di opposizione
culturale, attuata dal pittore Tone Kralj, che fece un lavoro di «demarcazione ideologica
del territorio»157, disseminando di simboli della lotta nazionale slovena le chiese del
Litorale Adriatico.
Anche in ambito ecclesiale non mancarono le tensioni, soprattutto nel periodo
dell’amministrazione apostolica di Sirotti, quando vennero presi provvedimenti verso il
rettore del seminario teologico Giacomo Brumat e dei suoi collaboratori, oltre
all’espulsione di cinque chierici, con l’accusa di essere «filo slavi e antifascisti»,
creando un vero e proprio caso a livello internazionale 158. In questo caso, il clero
sloveno si dimostrò molto più coeso di quello italofono, difendendo la possibilità di
insegnare il catechismo e celebrare le funzioni in lingua materna. Per questo, anche
molti sacerdoti sloveni subirono una vera e propria persecuzione da parte del regime,
che li considerava in qualche caso degli “agenti sobillatori”. Per questo, possiamo dire
che il clero costituì una parte importante della resistenza slovena in questo territorio,
impegnandosi in modo compatto nella difesa dell’identità del proprio popolo,
minacciata dal fascismo. Tuttavia, l’opera di progressivo smantellamento della struttura
organizzativa e culturale slovena, che era stata precedentemente gestita in prevalenza
dai cattolici, significò anche un progressivo allontanamento dalla Chiesa, percepita
come distante, in particolare ai vertici, sia nella diocesi che nella S. Sede. Questo ebbe
come conseguenza, una lacerazione dello stesso laicato e, in qualche caso, una

155
Cfr. ANNA MARIA VINCI, Il fascismo e la società locale, in AAVV, Friuli e Venezia Giulia: storia del
'900, cit., p. 248.
156
Basti pensare al caso del compositore Lojze Bratuž, che nel 1936 venne costretto a ingerire dell’olio di
macchina, con l’unica colpa di aver fatto eseguire a un gruppo di bambini un canto in lingua slovena
durante la Messa di Natale. Dopo settimane di atroce agonia, Bratuž morì.
Per approfondimenti, cfr. LUCIO FABI, Gorizia. Storia di una città, cit., p. 132.
157
Per approfondimenti, cfr. EGON PELIKAN, Tone Kralj e il territorio di confine, Trieste, Istituto
Regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea Friuli Venezia Giulia, 2021.
158
Cfr. a questo proposito LUCIO FABI, Gorizia. Storia di una città, cit., p. 133.

65
disaffezione verso il cattolicesimo e l’adesione al marxismo, in particolare tra coloro
che durante la Seconda Guerra Mondiale entrarono nelle formazioni della resistenza.
In conclusione, possiamo dire che alla fine degli anni ‘30 l’Arcidiocesi di
Gorizia si era pienamente integrata all’interno dello Stato italiano, con il regime fascista
che aveva egemonizzato tanto la vita politica quanto quella culturale. Il governo vedeva
con sospetto le tendenze autonomiste presenti nell’Arcidiocesi, retaggio del precedente
periodo asburgico, perciò attuò un’opera snazionalizzatrice e accentratrice, in modo da
rendere più “governabili” le «terre redente» dopo la Prima Guerra Mondiale159. Per i
cattolici «l’adesione personale alla tradizione cattolica si pose come adesione ad una
concezione e ad una prassi di vita, ben più decisive di quelle fasciste: decisive per
giudizi, scelte, ambiti, riguardanti sia la vita personale e famigliare che quella
sociale»160. Tuttavia,

le popolazioni isontine, pur conservando in buona parte una tradizione


religiosa, uscirono disarticolate culturalmente ed impoverite sul piano etico
dal complesso fascio di tensioni e di processi culturali in atto, da loro vissuti
fra il dissolversi di un’autonomia scalzata dalle sue radici e l’inevitabilità di
un inserimento, le cui caratteristiche erano tali da modificare profondamente il
tessuto connettivo della loro vita161.

4. La Seconda Guerra Mondiale e la resistenza


Lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale venne salutato positivamente solo
dal vescovo Margotti, che nei suoi interventi sostenne la linea del regime, esaltandone la
retorica patriottica ufficiale, secondo la quale l’Italia avrebbe conseguito una rapida
vittoria. Molto diverso risultava, invece, l’atteggiamento del clero, ma anche dei fedeli,
entrambi estranei – quando non apertamente ostili, come nel caso della popolazione
slovena – a un conflitto che riportava alla memoria i tragici eventi della Grande Guerra.

159
Cfr. LUCIO FABI, Gorizia. Storia di una città, cit., p. 134.
160
LUIGI TAVANO, La Chiesa goriziana fra autonomia e inserimento (1929-1934), in AAVV, I cattolici
isontini nel XX secolo. Dal 1918 al 1934, cit., p. 216. Il corsivo è dell’autore.
161
Ibidem. Anche in questo caso, il corsivo è dell’autore.

66
Per questo, Margotti si dimostrò molto preoccupato, sollecitando i suoi sacerdoti a
rinsaldare nei fedeli la devozione nei confronti della patria. A lungo il presule sostenne
la linea ufficiale del regime, dimostrando una mancanza di comprensione del contesto,
tanto internazionale, quanto locale, oltre a non aver recepito l’orientamento della S.
Sede, che affermava la necessità di un nuovo ordine mondiale basato sulla cooperazione
fra Stati162. Allo stesso tempo, tuttavia, Margotti fu impegnato nell’assistenza morale e
materiale dei suoi fedeli e si spese in prima persona per evitare l’internamento della
popolazione slovena, rivolgendosi sia al Vaticano che direttamente a Mussolini, a cui
scrisse una lettera insieme a monsignor Santin, vescovo di Trieste. Anche in questo
caso, dunque, si evidenziarono le ambiguità di un uomo capace di grandi slanci di
generosità, soprattutto nei confronti dei fedeli, a fronte di un puntiglio formale spesso
intransigente e, soprattutto, incapace di comprendere il contesto socioculturale nel quale
si trovava a operare.
Nel corso del conflitto, il vescovo Margotti iniziò a rivedere le sue posizioni,
anche se mantenne sempre fermamente la sua opposizione a qualunque movimento
insurrezionale. Tuttavia, pur sapendo che molti sacerdoti sloveni appoggiavano più o
meno scopertamente la lotta di liberazione nazionale, decise di attuare un atteggiamento
di riserbo, in modo da non comprometterli con le autorità fasciste.
Dopo la caduta di Mussolini, il 25 luglio 1943, Margotti insistette sulla fedeltà al
re, oltre che sulla necessità di pregare e fare penitenza. Ciò che contava, secondo il
vescovo, era che il clero facesse conoscere la dottrina sociale della Chiesa, in modo da
proporre delle soluzioni alle lacerazioni portate dal conflitto. In particolare nel contesto
dell’occupazione tedesca, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Margotti tentò di
assumere una funzione equilibratrice tra gli occupanti, la popolazione e il clero, con
richiami al perdono, alla fratellanza e ai diritti naturali di ogni persona umana, in linea

162
Cfr. a questo proposito, il Radiomessaggio di Sua Santità Pio XII alla Vigilia del S. Natale (24
dicembre 1942), quando afferma: «Rapporti internazionali e ordine interno sono intimamente connessi,
essendo l'equilibrio e l'armonia tra le Nazioni dipendenti dall'interno equilibrio e dalla interna maturità dei
singoli Stati nel campo materiale, sociale e intellettuale. […] Solo, quindi, l'aspirazione verso una pace
integrale nei due campi varrà a liberare i popoli dal crudele incubo della guerra, a diminuire o superare
gradatamente le cause materiali e psicologiche di nuovi squilibri e sconvolgimenti». Testo reperibile in
https://www.vatican.va/content/pius-xii/it/speeches/1942/documents/hf_p-
xii_spe_19421224_radiomessage-christmas.html, ultima consultazione 04/11/2023.

67
con le posizioni di tutti i vescovi del Litorale Adriatico, oltre che della Conferenza
Episcopale del Triveneto.
Verso la fine della guerra, nell’aprile del 1945, molti presbiteri consigliarono al
vescovo di lasciare Gorizia, per evitare le rappresaglie dei partigiani titini, che sarebbero
ben presto entrati in città. Nonostante il pericolo, Margotti decise di rimanere al suo
posto, sia per un senso di responsabilità nei confronti dei fedeli, che per la coscienza di
non aver apertamente ostacolato il fronte di liberazione sloveno. Questa scelta comportò
che, il 2 maggio del 1945, i partigiani dell’Osvobodilna fronta (Of) lo arrestarono, per
poi espellerlo il 9 a Udine.
Se l’arcivescovo aveva dato il suo pieno appoggio all’impegno bellico, salvo poi
assumere una linea più prudente dopo l’armistizio del 1943, il clero diocesano si sentiva
decisamente estraneo alla retorica del regime, dando la preferenza a iniziative di
sostegno alla popolazione e ai soldati, oltre che alla preghiera e all’organizzazione di
pellegrinaggi, insistendo nella predicazione sulla necessità di giungere presto alla pace.
Fu in questo contesto che si aprì, il 27 marzo 1941, il sinodo diocesano, indetto da
Margotti per confermare la sua «romanizzazione» della diocesi. L’assise, che precedette
di un solo giorno la decisione da parte dell’asse di invadere la Jugoslavia, divenne in
realtà l’occasione per un vero e proprio atto di contestazione della linea pastorale
dell’arcivescovo, sia da parte del clero sloveno che, almeno in parte, di quello
italofono163. Infatti, i sacerdoti di entrambe le etnie rilevarono la scarsa aderenza delle
disposizioni episcopali alle peculiarità dell’Arcidiocesi, in nome di una romanizzazione
percepita come imposta dall’alto, senza verificarne l’aderenza alla cultura locale.
Il vero banco di prova per il cattolicesimo goriziano fu certamente la resistenza,
in particolare dopo l’occupazione tedesca dell’Adriatisches Künstenland, avvenuta a
partire dal 10 settembre 1943. Se, infatti, il clero sloveno aderì senza riserve alla lotta di
liberazione nazionale, appoggiando apertamente la lotta armata, anche di matrice
comunista164, quello italiano si dimostrò più tiepido, rimanendo sostanzialmente fuori
dalla lotta resistenziale. Tale condotta rientrava nel più generale atteggiamento dei laici
163
In particolare, quello monfalconese.
164
Ad esempio, da don Ivo Juvančič, che nella sua Lettera dalla Galilea giudicava legittima la lotta
armata degli sloveni per la propria libertà e l’appoggio incondizionato del clero sloveno a tale ribellione
contro l’oppressore nazifascista.

68
italiani di fronte alla lotta armata, verso la quale rimasero a lungo estranei per varie
ragioni. Anzitutto, fin dagli anni ’20 la presenza cattolica in ambito politico-sociale si
era eclissata, mancando una leadership in grado di coagulare il laicato in un impegno
attivo, concentrando la propria azione nell’ambito pastorale ed ecclesiale. Mancava,
dunque, una linea di azione comune tanto nel metodo, quanto nei contenuti, di fronte
alle sfide della guerra. Inoltre, vi era il fondato timore verso i partigiani, sia per la loro
matrice ideologica di stampo marxista che per le malcelate mire espansionistiche nella
Venezia Giulia in generale, e nell’Arcidiocesi di Gorizia in particolare, da parte delle
truppe titine, in questo appoggiate dalle formazioni italiane comuniste. Bisogna anche
aggiungere che gli stessi partigiani locali decisero di escludere qualunque presenza nelle
loro file che non fosse allineata con l’Of, quindi appariva quasi controproducente
partecipare a una lotta che rischiava di mettere in discussione la stessa identità nazionale
del proprio territorio. La stessa brigata «Osoppo» non compì mai azioni nell’Isontino,
pur avendo alcuni goriziani al suo interno; tuttavia, non mancarono denunce della
formazione osovana dei soprusi perpetrate dai partigiani jugoslavi, insieme a quelli
comunisti, loro alleati. Infine, non si deve dimenticare che i centri propulsori della
resistenza locale erano lontani da Gorizia, concentrandosi soprattutto a Monfalcone,
Grado e Cervignano, mentre nel capoluogo isontino i combattenti erano
prevalentemente sloveni, che lottavano per rivendicare i loro diritti nazionali. Per
questo,

la «resistenza» della popolazione ebbe caratteri non militari, antieroici: indotti


dall’avversione verso chi aveva voluto la guerra e avvelenato la convivenza,
ma attenti anche all’incombente minaccia di una oscura rivoluzione. Si
confrontarono e scontrarono allora anche nel Goriziano due concezioni e due
prassi di «antifascismo»: quella rivoluzionaria e filojugoslava, e quella
pluralista e filoitaliana165.

Infine, il tradizionale lealismo che aveva caratterizzato la parte italofona


dell’Arcidiocesi fin dai tempi dell’impero asburgico era ancora parte integrante del
165
LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, cit., p. 234.

69
modus vivendi di molti cattolici goriziani. A causa del timore verso i partigiani titini e
delle storie sulle violenze nei confronti degli italiani, venne accolto quasi con sollievo
l’arrivo delle truppe naziste il 12 settembre 1943 166; per questo, l’occupazione tedesca
non venne vissuta in maniera eccessivamente traumatica, soprattutto quando
rappresentata da personale austriaco, che richiamava alla mente una familiarità tutto
sommato recente. Inoltre, l’autorità civile e militare preferì valorizzare le autonomie
locali – a dire il vero, anche in ambito sloveno, come dimostra il caso delle milizie
collaborazioniste, ovvero i domobranci – causando meno ostilità rispetto ad altri
territori del nord Italia, dove era diffuso un forte sentimento antigermanico.
In ogni caso, bisogna evitare di fare considerazioni troppo nette sul presunto
distacco dei cattolici nei confronti della lotta di liberazione. Se è vero, infatti, che i
sacerdoti evitarono un diretto coinvolgimento, spesso la motivazione non stava solo
nella diffidenza verso l’ideologia dei partigiani, ma anche per avere maggiore libertà
nell’offrire assistenza alla popolazione e perfino ai partigiani, senza tuttavia
compromettersi troppo con le autorità civili. Per quanto riguarda il laicato, invece, la
situazione era più complessa, in quanto il comitato di liberazione nazionale a Gorizia
era composto di forze eterogenee, sottoposte alla doppia pressione delle truppe
nazifasciste e delle brigate dell’Of, che avrebbero voluto assorbirlo all’interno del IX
Korpus167, in vista di una possibile annessione del Goriziano alla Jugoslavia. Vi erano,
inoltre, difficoltà operative per la parte riformista del CLN, in quanto la lotta armata era
condotta quasi esclusivamente dalla sua componente comunista, legata ai cantieri del
Monfalconese, più che al territorio di Gorizia. Presenze al suo interno come quella di
Angelo Culot168, tra i fondatori della sezione provinciale della Democrazia Cristiana,

166
Per approfondimenti, cfr. LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, cit., pp. 170-171.
167
Esemplare, questo senso, risultò la marcia della brigata «Garibaldi-Natisone», che dal dicembre 1944
fu spostata a combattere nella riva sinistra dell’Isonzo, per poi spingersi fino a Lubiana nell’aprile del
1945. Stremati e ridotti a 500 uomini dei 2.000 che erano partiti alla fine dell’anno precedente, i superstiti
riuscirono a rientrare a Gorizia solo il 20 maggio 1945. Questa scelta rientrava in una precisa strategia che
voleva escludere i combattenti italiani dalla liberazione delle città di Gorizia e Trieste, legittimando
l’annessione della Venezia Giulia alla nascente Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia.
168
Nato a Gorizia il 31 maggio 1885, Culot si laureò in giurisprudenza all’università di Graz nel 1919,
per poi esercitare la professione di avvocato. Impegnato nell’amministrazione comunale nelle fila del
Partito Popolare, nel 1943 venne designato quale rappresentante della DC all’interno del CLN goriziano.
Dopo la liberazione della città dai nazifascisti venne imprigionato dai titini e, al termine del conflitto, si
batté strenuamente per l’italianità di Gorizia, tanto che De Gasperi lo invitò a partecipare alla conferenza

70
non garantirono una partecipazione organica del cattolicesimo isontino al movimento
resistenziale, anche se divenne chiaro che bisognava rimettere in moto quell’«apostolato
sociale», necessario alla ricostruzione del dopoguerra, riattivando la presenza di un
laicato qualificato e responsabile all’interno del territorio diocesano.
Un ultimo cenno merita la parte slovena dell’Arcidiocesi. Se, come abbiamo
detto, il clero aveva strenuamente difeso la sua identità durante il Ventennio fascista,
minacciata dall’azione snazionalizzatrice del regime, durante il conflitto convivevano
più posizioni, da quella cattolico-nazionale, che esprimeva critiche anche alla S. Sede –
oltre, naturalmente, al vescovo Margotti e alla sua pastorale romanizzante – mettendo al
di sopra di ogni altra cosa l’interesse nazionale, a costo di venire a patti con l’Of, a
quella cattolico-integrale, che voleva smarcarsi dal comunismo, mantenendo unito il
fronte dei cattolici. Il risultato di questa dialettica fu un’ambivalenza nel rapporto con i
partigiani sloveni, improntato sia al dialogo che al controllo, oltre che alla diffidenza per
evidenti motivi ideologici. Anche da parte dei fedeli vi erano varie posizioni, sebbene
prevalesse la collaborazione con i combattenti, per evitare di essere dichiarati «nemici
del popolo». In ogni caso, tanto nei laici quanto nei sacerdoti agivano sentimenti
contrastanti, perché se da un lato la lotta di liberazione nazionale era messa al primo
posto, indipendentemente dalle opposte ideologie, dall’altro molti avvertivano il
concreto pericolo di una svolta totalitaria all’interno del fronte di liberazione nazionale.
Come si vede, la situazione dell’Arcidiocesi di Gorizia alla fine della Seconda
Guerra Mondiale era complessa e multiforme, con opposte spinte ideologiche e
nazionali. Nel prossimo paragrafo, cercheremo di delineare i problemi che si trovarono
ad affrontare tanto il vescovo Margotti quanto i laici impegnati del territorio isontino nel
difficile dopoguerra, quando le stesse sorti di Gorizia e dell’Arcidiocesi furono a lungo
incerte e, alla fine, subirono profonde modificazioni, sia rispetto al periodo a cavallo fra
i due conflitti mondiali, che rispetto al precedente e plurisecolare assetto.

di pace a Parigi. Dopo essere Stato per un breve tempo segretario provinciale della DC goriziana, negli
anni ’50 venne eletto presidente del consiglio e della giunta provinciale, mantenendo tale incarico fino
alla morte, il 22 febbraio 1961.
Per approfondimenti, cfr. MARIA SERENA NOVELLI (A CURA DI), Il volto maschile dell’Azione Cattolica
nella Diocesi di Gorizia nei suoi primi cento anni, Gorizia, Tipografia Budin, 2021, pp. 107-109 e
https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/culot-angelo/, ultima consultazione 20/01/2024.

71
5. La diocesi «dimezzata»
Con l’ingresso a Gorizia delle truppe titine, il 2 maggio 1945, si aprì una
stagione di profonda incertezza per il destino dell’Arcidiocesi. I partigiani sloveni
avrebbero voluto un’annessione di fatto di tutta la Venezia Giulia alla Jugoslavia, ma
furono costretti a ritirarsi oltre la «linea Morgan», mentre anche la parte riformista del
CLN poté riprendere la sua attività, rivendicando la permanenza dell’Arcidiocesi di
Gorizia all’interno del territorio italiano, contro le tendenze annessioniste della parte
comunista169. Accanto a queste due opzioni, emerse una terza linea di carattere
autonomista e indipendentista che, secondo alcuni, avrebbe garantito meglio tanto dello
Stato italiano centralista, quanto della Jugoslavia comunista, la «necessaria convivenza
di popoli nell’unità dello storico Litorale»170.
Dopo la fine dell’occupazione jugoslava, Gorizia venne sottoposta
all’amministrazione del Governo Militare Alleato (GMA), che cercò di mantenere un
atteggiamento equidistante nei confronti di tutte le nazionalità presenti, in modo da
tutelare la minoranza slovena presente sul territorio. Lo scontro fra le due etnie era
piuttosto aspro, inserito nella logica dei blocchi contrapposti della guerra fredda, con il
fronte sloveno sostenuto dalla Jugoslavia, mentre quello italiano aveva l’appoggio degli
Stati Uniti in funzione anticomunista171.
La tensione si estrinsecò anche attraverso le manifestazioni di piazza, come
quelle organizzate in occasione della visita della commissione interalleata a marzo-
aprile 1946, che avevano lo scopo di «accreditare quasi «fisicamente» presso gli alleati
le rispettive posizioni»172, che all’interno della stessa popolazione italiana. Accanto a
queste iniziative, vi fu anche la nascita di formazioni nazionaliste come l’Associazione
Giovanile Italiana (AGI), che – insieme alla Lega Nazionale e all’Unione Ginnastica
Goriziana – intendeva «formare un fronte unico che comprendesse tutti i goriziani in

169
Linea confermata anche da parte di Palmiro Togliatti, che avrebbe proposto a Tito il Goriziano in
cambio del ritorno di Trieste all’Italia.
170
LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, cit., p. 242.
171
Per ulteriori approfondimenti, cfr. LUCIO FABI, Gorizia. Storia di una città, cit., p. 199.
172
PAOLO ZILLER, Profilo storico-istituzionale della provincia di Gorizia tra il 1940 e il 1947, in AAVV,
I cattolici isontini nel XX secolo. Il Goriziano fra guerra, resistenza e ripresa democratica (1940-1947),
cit., p. 95.

72
difesa dell’italianità»173, prescindendo dal colore politico. Si arrivò, così, a vere e
proprie esplosioni di violenza, come quella del 9-11 agosto 1946, quando una
manifestazione indetta per il 30° anniversario dell’ingresso delle truppe italiane a
Gorizia venne interrotta dal lancio di due bombe, che causarono un morto e centinaia di
feriti. La responsabilità dell’attentato venne attribuita a due militanti comunisti e causò
un’ondata di violenza anti-slovena, con la distruzione di negozi e altri edifici, oltre a
numerosi feriti174. Accanto a organizzazioni come l’AGI, operavano anche strutture
paramilitari come la «Divisione volontari Gorizia», frutto dell’iniziativa di ex partigiani
della brigata «Osoppo», con lo scopo di supportare l’esercito italiano sul confine
orientale, ma effettuare attività di raccolta d’informazioni, controspionaggio, fino ad
arrivare all’intimidazione degli avversari175.
Pure dal punto di vista ecclesiale non mancarono le criticità, a partire dal fatto
che gran parte della diocesi si trovava nella Zona B, controllata dall’esercito jugoslavo,
rendendo di fatto impossibile al vescovo Margotti lo svolgimento della sua attività
pastorale. Inoltre, per i cattolici italofoni l’«impegno politico si identificò con la
passione nazionale per l’Italia contro Tito e con l’affermazione della «civiltà
cristiana»176. Ciò risultò particolarmente evidente nella sezione provinciale della
Democrazia Cristiana, che con la guida di Angelo Culot «ereditò la vocazione
patriottica del movimento liberale-nazionale e la vocazione sociale del movimento
cattolico-popolare»177. Ciò si tradusse in un rinnovato protagonismo dei cattolici nella
173
ANNA DI GIANANTONIO, Soluzioni mancate e promesse disattese. Brevi appunti sulla lunga storia del
nazionalismo a Gorizia. 1945-1954, in ANNA MARIA VINCI (A CURA DI), Quando si depongono le armi:
spunti di ricerca nell’area al confine orientale 1945-1954, Trieste, Istituto Regionale per la Storia della
Resistenza e dell’Età Contemporanea Friuli Venezia Giulia, 2021, p. 178.
174
Per approfondimenti, cfr. LUCIO FABI, Gorizia. Storia di una città, cit., p. 202. Fra l’altro, Fabi ricorda
anche come nel passaggio di poteri fra il GMA e lo Stato italiano, dopo la firma del Trattato di Parigi, fu
caratterizzato da un vero e proprio pogrom anti-sloveno.
175
Dal 1956, dopo il ritorno di Trieste all’Italia per effetto del Memorandum di Londra, l’organizzazione
assunse il carattere di una vera e propria rete stay behind, in funzione anti-jugoslava.
Per maggiori informazioni in merito, cfr. LUCIO FABI, Gorizia. Storia di una città, cit., p. 202 e RAUL
PUPO, Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza, Bari, Laterza, 2021, pp. 304-307. Inoltre, per
comprendere il ruolo di tali associazioni paramilitari all’interno dell’intera Venezia Giulia, cfr. NICOLA
TONIETTO, Organizzazioni nazionaliste e neofasciste al confine orientale nella transizione del
dopoguerra (1945-1949), in GLORIA NEMEC, ANNA MARIA VINCI (A CURA DI), Transizioni: società e
istituzioni tra guerra e dopoguerra, Trieste, EUT, 2019, pp. 162-177.
176
LUIGI TAVANO, La Diocesi di Gorizia 1750-1947, cit., p. 246.
177
ITALO SANTEUSANIO, Origini e ruolo della Democrazia Cristiana nel Goriziano, in AAVV, I cattolici
isontini nel XX secolo. Il Goriziano fra guerra, resistenza e ripresa democratica (1940-1947), cit., p. 292.

73
politica locale, diventando i corifei dell’identità italiana, minacciata da quello che era
avvertito come il “pericolo slavo-comunista”.
Anche i fedeli sloveni vissero la situazione con profonde lacerazioni, divisi fra
l’ostilità dei partigiani jugoslavi e quella dei cattolici italiani. Ciò causò altresì una
notevole emigrazione, causando un’emorragia non solamente demografica, ma anche
culturale.
A partire da queste premesse, nel prossimo Capitolo vedremo come le alterne
vicende dell’Arcidiocesi di Gorizia e del confine orientale italiano abbiano influenzato
profondamente l’attività del Comitato Civico zonale, mettendola in relazione con
l’associazione all’interno della quale è nato, ovvero l’Azione Cattolica diocesana.

74
CAPITOLO III: IL COMITATO CIVICO DELL’ARCIDIOCESI DI
GORIZIA E IL CONFINE ORIENTALE

In questo Capitolo ci dedicheremo in maniera più approfondita al tema scelto per


questo lavoro, ovvero indagare la relazione fra l’attività del Comitato Civico diocesano
di Gorizia e la questione del confine orientale d’Italia. Per effettuare questa analisi è
stato utilizzato l’archivio dell’Azione Cattolica diocesana, conservato in via del
seminario n. 4 a Gorizia, che documenta l’attività dell’associazione, dalle sue origini
negli anni ’20 al presente. Come vedremo nel primo paragrafo, la consultazione è stata
resa più agevole grazie alla completa digitalizzazione di tali documenti, permettendo
anche vari percorsi di ricerca. Dopodiché, si delineeranno le vicende dell’Arcidiocesi di
Gorizia dal Trattato di Pace del 1947 al Concilio Vaticano II, per poi descrivere
brevemente l’attività dell’Azione Cattolica diocesana, dalle sue origini negli anni ’20
alla «svolta religiosa» del 1969. Si passerà, quindi, alla nascita del Comitato Civico
zonale, inserendolo nel contesto delle elezioni politiche del 1948. I Comitati civici, nati
nell’imminenza delle elezioni politiche del 1948 per permettere ai cattolici di esercitare
una cittadinanza attiva nel neonato contesto repubblicano e democratico erano infatti
frutto dell’iniziativa dell’allora presidente generale dell’Azione cattolica italiana Luigi
Gedda. Nei paragrafi successivi, si passerà a una disamina più dettagliata delle singole
buste, per constatare in che modo il problema del confine orientale è stato affrontato dal
Comitato Civico, cogliendo anche l’evoluzione che, nel tempo, ha avuto tale questione
anche all’interno di questo organismo.

75
1. Contenuti e metodo di conservazione relativi all’Archivio del Comitato
Civico dell’Arcidiocesi di Gorizia178
La serie archivistica dedicata al Comitato Civico Zonale e alle sue diramazioni
locali, curata da Luca Olivo, si compone di cinque buste, corrispondenti a quattro
periodi dell’azione del suddetto Comitato Civico, ovvero quello che va dalle elezioni
del 1948 al 1952, gli anni 1953-1954, la seconda metà degli anni ’50, fino alle elezioni
amministrative del 1961 e l’ultimo periodo, che va dal 1962 al 1966. Un’ulteriore busta
raccoglie una serie di documenti inventariati come «Atti vari», appartenenti a tutti i
periodi sopra indicati. Ogni faldone presenta materiali di varia tipologia, come le
circolari e la corrispondenza con il Comitato Civico Nazionale e l’Ispettorato Regionale
delle Tre Venezia, ed una fitta corrispondenza con i Comitati Civici Locali
dell’Arcidiocesi, oltre a richieste di finanziamento, fatture, manifesti elettorali,
fotografie e fogli sparsi con varie annotazioni. In questo modo, è possibile ricostruire in
maniera completa la vita di questa organizzazione nell’arco di quasi un ventennio di
attività, constatando i cambiamenti avvenuti al suo interno in questo lasso di tempo, che
coincidono con quelli del contesto sociopolitico italiano in generale e dell’Arcidiocesi
di Gorizia in particolare.
Tutti i documenti sono stati digitalizzati, seguendo l’ordine di presentazione
nelle singole buste, permettendone così la consultazione online, oltre a una loro
capillare diffusione. Per effettuare tale digitalizzazione, sono state seguite le linee guida
del Piano Nazionale di Digitalizzazione (PND) del patrimonio culturale, attribuendo un
«Codice Istituto», ovvero AZCATGO (acronimo corrispondente ad Azione Cattolica
Gorizia), per poi creare un «Codice Oggetto», formato da una stringa alfanumerica, che
permette di individuare i cinque grandi contenitori dell’archivio e i singoli fascicoli
contenuti all’interno di ciascun contenitore179.

178
Per le informazioni principali relative al lavoro di inventariazione e digitalizzazione dell’archivio del
Comitato Civico diocesano, cfr. https://comitatocivico.azionecattolicagorizia.it/site/index.php?
area=1&subarea=1, ultima consultazione 11/12/2023.
179
Per approfondimenti sul sistema di inventariazione digitale, cfr.
https://comitatocivico.azionecattolicagorizia.it/site/index.php?
area=5&subarea=1&formato=scheda&id=2&titolo_pagina=La-digitalizzazione-della-serie-archivistica-
dell%27archivio-storico-dell%27Azione-Cattolica-di-Gorizia-dedicata-al-Comitato-civico-zonale-e-
locale, ultima consultazione 11/12/2023.

76
Sono possibili due modalità di consultazione principali; la prima è quella più
tradizionale, che prevede lo spoglio sistematico delle singole buste fascicolo per
fascicolo. La seconda, più dinamica, presenta dei veri e propri «Percorsi di ricerca», per
periodo o per soggetto, attraverso l’impiego di tag o etichette che forniscono un ausilio
alla ricerca dei documenti. In base alle sue esigenze, dunque, l’utente può passare dalla
prima alla seconda modalità di ricerca, accedendo all’archivio digitale nella sua
interezza.

2. La situazione nell’Arcidiocesi di Gorizia dal Trattato di Parigi agli anni ‘60


Sebbene con il Trattato di Parigi la questione del confine nel Goriziano poteva
dirsi risolta, erano numerose le sfide che i cattolici isontini si trovarono ad affrontare
nell’immediato dopoguerra. Accanto alla ricostruzione materiale e sociale
dell’Arcidiocesi, era fondamentale arrestare il «pericolo comunista», sia a livello
esterno che interno. Perciò, tanto il clero quanto il laicato si impegnarono in una
mobilitazione dell’elettorato cattolico – anche femminile, tanto più che dalle elezioni
del 1946 per l’Assemblea Costituente le donne vennero chiamate per la prima volta alle
urne – che metteva insieme patriottismo e dottrina sociale della Chiesa. Fondamentale
in questo senso si rivelò l’attività dei Comitati Civici 180, di cui parleremo più
approfonditamente fra poco, che diedero un importante contributo “dal basso”
all’affermazione della Democrazia Cristiana nel Goriziano.
Fu in questo clima che ebbe luogo l’epilogo dell’episcopato di Carlo Margotti.
Rientrato a Gorizia il 13 luglio 1945 in forma privata, visse i suoi ultimi anni come
arcivescovo di Gorizia. Anche se avrebbe preferito rassegnare le dimissioni,
proponendosi per un incarico diplomatico nelle Filippine, Margotti rimase al suo posto
fino alla fine e, dopo l’aggressione subita da parte degli occupanti jugoslavi, riuscì
180
Per approfondire la nascita e il ruolo dei Comitati Civici, cfr. i seguenti testi:
- LUCA LEONI, La falange di Cristo. Per una storia dei Comitati Civici, Odradek, Roma, 2017.
- GIANFRANCO MAGGI, voce Comitati Civici, in Dizionario storico del movimento cattolico in
Italia 1860-1980, vol. I/2, I fatti e le idee, Marietti, Casale Monferrato (Alessandria) 1981, pp.
207-209.
- MARIO CASELLA, 18 aprile 1948. La mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Congedo,
Galatina (Lecce), 1992.

77
finalmente a compattare a sé la maggior parte del clero e dei fedeli. Pur non avendo
lasciato scritti riguardo alla divisione dell’Arcidiocesi di Gorizia, secondo Marco
Plesnicar Margotti divenne «l’ipostasi vivente del martirio subito dalla città mutilata»181.
Il presule lavorò instancabilmente per ristabilire una vera pacificazione nel territorio
diocesano, cercando di comporre gli opposti nazionalismi all’interno di un quadro
sociale compattamente cristiano. In linea con la conferenza episcopale del Triveneto,
oltre che con le indicazioni della S. Sede, Margotti contribuì alla mobilitazione politica
del laicato, favorendo tanto l’Azione Cattolica e i suoi Comitati Civici, quanto le ACLI
e il sindacalismo “bianco”, in funzione anticomunista, oltre che per dar vita a una vera e
propria opera di «ri-cristianizzazione» della società, con un atteggiamento piuttosto
intransigente verso la modernità. Inoltre, il vescovo fu impegnato in un’intensa attività
pastorale fino alla fine dei suoi giorni, nonostante l’aggravarsi della malattia che lo
portò alla morte il 31 luglio 1951.
Con la scomparsa di Carlo Margotti si chiuse un periodo molto complesso per
l’Arcidiocesi di Gorizia, segnato da luci e ombre, come abbiamo visto nel precedente
Capitolo. Vissuto in un periodo oggettivamente difficile, probabilmente Margotti non
era la persona più adatta a gestire una realtà articolata e multiculturale come quella del
Goriziano, anche se negli anni del dopoguerra fu in grado di mitigare alcune delle
rigidità che avevano caratterizzato la sua pastorale nei primi anni di episcopato,
cercando di entrare in sintonia con le esigenze del clero e del laicato.
La scelta del successore di Margotti ricadde, nel 1951, su Giacinto Giovanni
Ambrosi182, un frate cappuccino, già vescovo di Chioggia, dalla personalità
completamente diversa da quella del presule romagnolo. Infatti Ambrosi aveva il pregio
di conoscere la realtà locale, oltre che di essere stato impegnato in prima persona nel
181
MARCO PLESNICAR, Gli ultimi anni dell’episcopato di mons. Carlo Margotti, in IVAN PORTELLI (A
CURA DI), I cattolici isontini nel XX secolo. Il secondo dopoguerra (1947-1962), Gorizia, Istituto di storia
sociale e religiosa, 2020, p. 82.
182
Nato a Trieste il 29 gennaio 1887, Giacinto Ambrosi entrò nei frati cappuccini, per essere ordinato
sacerdote nel 1909. Dopo aver svolto vari incarichi, nel 1938 venne consacrato vescovo di Chioggia.
Durante la Seconda Guerra Mondiale fu impegnato nella difesa dei perseguitati politici, fra cui i
partigiani. Nel 1951 venne assegnato all’arcidiocesi di Gorizia, che resse fino al 1962. Dopo la rinuncia
all’episcopato goriziano, si ritirò nel convento cappuccino di Thiene e partecipò ai lavori del Concilio
Vaticano II, per spegnersi il 26 settembre 1965.
Per maggiori informazioni, cfr. https://www.diocesigorizia.it/arcidiocesi/storia-dellarcidiocesi/giovanni-
giacinto-ambrosi-1951-1962/, ultima consultazione 05/01/2024.

78
movimento resistenziale nella sua precedente diocesi, avendo protetto molti perseguitati
politici durante la guerra, inclusi dei partigiani. Allo stesso tempo, coerentemente con il
suo predecessore, oltre che con la linea ufficiale della S. Sede, il nuovo arcivescovo
riteneva fondamentale ri-cristianizzare la società, un obiettivo che in larga misura
coincideva con quello di arginare quella che veniva percepita come la «minaccia
comunista», in un contesto in cui politica e fede che dovevano andare di pari passo 183.
Anche per queste ragioni, Ambrosi non ammise mai alcun tipo di apertura della DC
verso ipotesi di centrosinistra, nemmeno quando, sia a livello locale che nazionale, i
tempi erano ormai maturi per una svolta in tal senso. Allo stesso tempo, il vescovo
intuiva i pericoli di una manipolazione della fede da parte della politica, con il concreto
rischio che venisse usata come puro instrumentum regni; per questo motivo, sostenne
sempre l’autonomia della Chiesa da qualunque ingerenza, in particolar modo in un
contesto come quello del Goriziano nei primi anni ’50, quando erano ancora forti le
tensioni per effetto di un «duplice confine: geografico, ovvero tra l’Italia e la
Jugoslavia, e ideologico, tra mondo cattolico e utopia comunista»184. Come si può
intuire, dunque, il suo episcopato fu caratterizzato da un profondo legame fra la
dimensione politica e quella pastorale, che trovava espressione anche in grandi
manifestazioni pubbliche, come le celebrazioni per il bicentenario dell’erezione
dell’Arcidiocesi.
Allo stesso tempo, Ambrosi comprese che «appariva necessario un dialogo con
la società, capace di comprendere le nuove esigenze e di offrire risposte, oltre che di
arginare il dilagare del pericolo marxista (e anticristiano)»185. Ciò si tradusse in una
pastorale del lavoro, come nel caso dell’istituzione della cappellania per le opere sociali
della Bassa Friulana, ma anche un intervento all’interno di associazioni come l’Azione
Cattolica, sollecitando il laicato a partecipare attivamente alla scena politica, attraverso i
Comitati Civici. Inoltre, si impegnò molto nell’educazione, lavorando per la rinascita

183
Tanto è vero che l’iscrizione al PCI comportava la scomunica, per effetto del decreto n. 1 del S. Uffizio
(1° luglio 1949).
184
DAVID CUSIMANO, L’attività di monsignor Oliviero Foschian a Monfalcone negli anni della
ricostruzione, in IVAN PORTELLI (A CURA DI), I cattolici isontini nel XX secolo. Il secondo dopoguerra
(1947-1962), cit., p. 213.
185
IVAN PORTELLI, L’episcopato di Giacinto Giovanni Ambrosi (1951-1952), in IVAN PORTELLI (A CURA
DI), I cattolici isontini nel XX secolo. Il secondo dopoguerra (1947-1962), cit., p. 104.

79
del seminario, promosse la stampa cattolica e favorì l’erezione di nuove parrocchie, per
una presenza sempre più capillare sul territorio.
Preoccupato per gli opposti nazionalismi presenti nella diocesi, Ambrosi cercò di
sostenere anche i fedeli e il clero sloveni in Jugoslavia, stretti fra gli abusi del regime
titino e le numerose difficoltà economiche del dopoguerra. Inoltre, mise in rilievo i
pericoli di eccessi nazionalistici, in particolare nei confronti della minoranza slovena
dell’Arcidiocesi. In sostanza, con Ivan Portelli, possiamo concludere che

restò, quella goriziana, una Chiesa locale che risentiva del proprio essere al confine, che
risentiva della frammentazione in atto, che faceva fatica a risolvere i problemi che il
nuovo contesto politico (internazionale e interno) poneva186.

Nel contesto della ricostruzione, i cattolici seppero ritrovare una riconoscibilità e


un ruolo pubblico degni di rilievo, dopo le difficoltà vissute nel periodo fascista e nel
corso della Seconda Guerra Mondiale. Con l’apporto di Angelo Culot e dell’avvocato
Silvano Baresi, eletto alla Camera dei Deputati nelle consultazioni del 1948, venne
portata all’attenzione dei lavori parlamentari la zona franca, per garantire la ripresa
economica della città di Gorizia, il cui territorio era stato fortemente depauperato dalla
divisione confinaria del Trattato di Parigi, che aveva privato la provincia delle valli
dell’Isonzo e del Vipacco. Questo si tradusse anche in una forte disoccupazione,
aggravata dall’immigrazione di migliaia di profughi italiani provenienti dalle zone
cedute alla Jugoslavia. Sempre a livello nazionale, nel 1953 venne sollecitato un
intervento organico a sostegno di queste zone, che si configuravano sempre di più come
un’area depressa. Oltre che nell’ambito economico, la DC locale era impegnata in
un’opera di rinnovamento sociale e cristiano della società, appoggiandosi al laicato
impegnato dell’Arcidiocesi, in testa l’Azione Cattolica e i suoi Comitati Civici, tanto
che si può parlare di una profonda compenetrazione fra queste due realtà187.
186
IVAN PORTELLI, L’episcopato di Giacinto Giovanni Ambrosi (1951-1952), cit., p. 112.
187
Non a caso, come riporta Cristiano Meneghel, i membri dei Comitati Civici si attivarono per far votare
tutti gli aventi diritto, aiutando coloro che avevano difficoltà di deambulazione a raggiungere i seggi
durante le elezioni comunali del 1952. Per approfondimenti, cfr. CRISTIANO MENEGHEL, L’Azione
Cattolica goriziana nel dopoguerra (dal 1945 al Concilio), in IVAN PORTELLI (A CURA DI), I cattolici
isontini nel XX secolo. Il secondo dopoguerra (1947-1962), cit., p. 204.

80
Nel corso degli anni ’50 i vari segretari che, dopo Culot, si alternarono alla guida
della DC goriziana si ritrovarono a dover comporre le varie anime del partito,
lamentando allo stesso tempo una certa tiepidezza da parte di Roma nei confronti delle
istanze del Goriziano, che si sentiva un vero e proprio baluardo anticomunista al confine
con la Jugoslavia di Tito. Anche il passaggio verso il centrosinistra fu vissuto con non
poche tensioni, sia perché il vescovo Ambrosi lo rifiutava decisamente, in linea con
l’orientamento del segretario di Stato di papa Pacelli, cardinale Ottaviani, che per una
diffusa ostilità con tutto ciò che potesse essere sospetto di marxismo. Tuttavia, all’inizio
del decennio successivo, i dirigenti democristiani si resero conto che questa svolta era
necessaria, per coinvolgere maggiormente il mondo del lavoro e per isolare i comunisti;
tale svolta si concretizzò con le elezioni comunali del 1965, quando venne eletto
sindaco di Gorizia Michele Martina. Tale appuntamento elettorale segnò anche un
cambio di passo nella questione del confine, nell’ottica di una maggiore collaborazione
con Nova Gorica, passando da frontiera a porta verso l’Europa orientale. Tale approccio
risultava coerente anche dal punto di vista religioso, in linea con la nuova apertura della
Chiesa cattolica al mondo contemporaneo, espressa dal Concilio Vaticano II188.
Oltre all’ambito politico, l’associazionismo cattolico diede prova di grande
vivacità nel dopoguerra, in vari ambiti, da quello culturale a quello sportivo e ricreativo,
senza dimenticare, ovviamente, quello religioso. L’obiettivo era formare un solido
tessuto sociale improntato ai valori del cattolicesimo, che potesse lavorare alla
costruzione della società civile, investendo molto sulla formazione dei più giovani. In
questo senso, si voleva realizzare un vero e proprio «apostolato laico», sia in seno
all’Azione Cattolica diocesana, che all’interno delle diverse realtà parrocchiali,
favorendo così una cittadinanza attiva di tutti i partecipanti.
Vediamo infine brevemente la situazione dei cattolici sloveni, sia all’interno
della nuova Arcidiocesi goriziana, che nel territorio assegnato alla Jugoslavia. Fino al
Trattato di Osimo (10 novembre 1975), quando venne formalmente istituita la diocesi di

188
Non bisogna nemmeno sottovalutare il fatto che, durante il Vaticano II, era vescovo di Gorizia Andrea
Pangrazio, uno dei padri conciliari, a cui si deve il concetto di «gerarchia delle verità», ovvero il rapporto
dei dogmi di fede in relazione al kerygma, ovvero il contenuto fondamentale del cristianesimo.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://www.diocesigorizia.it/arcidiocesi/storia-dellarcidiocesi/andrea-
pangrazio-1962-1967/, ultima consultazione 17/01/2024.

81
Koper-Capodistria, quest’area venne assegnata a una serie di amministratori apostolici,
che ebbero difficoltà sempre maggiori a esercitare il loro ministero nel nuovo assetto
statale jugoslavo. Infatti, essendo la Chiesa cattolica una delle poche realtà indipendenti
all’interno della Repubblica Federale, veniva generalmente considerata la «spina dorsale
della reazione» e per questo fatta oggetto di violenze, persecuzioni e limitazioni, con
processi spesso montati ad arte189 e la proibizione di insegnare la dottrina cattolica, tanto
nelle scuole, quanto nelle stesse parrocchie. Inoltre, per timore che la S. Sede
appoggiasse le rivendicazioni italiane sul confine, lo stesso rapporto fra il Vaticano e lo
Stato jugoslavo fu caratterizzato da tensioni, arrivando persino nel 1952 all’interruzione
dei rapporti diplomatici, ripresi e regolamentati solo nel 1966.
D’altra parte, la situazione nella ridimensionata Arcidiocesi di Gorizia richiese
un grande sforzo organizzativo da parte della popolazione slovena, che, in questo
territorio, si ritrovò notevolmente ridotta dal punto di vista numerico rispetto al periodo
prebellico. Lo scopo dell’azione dei cattolici sloveni era duplice:

organizzare efficacemente la comunità slovena come minoranza nazionale


all’interno della nascente Repubblica italiana per rivendicare l’applicazione
dei diritti di tutela delle minoranze, sancito dalla nuova costituzione italiana
e dare vita ad un movimento democratico sloveno di stampo occidentale,
capace di differenziarsi dalle posizioni degli eredi della Osvobodilna
fronta190.

Con le parole d’ordine «identità nazionale, cristianesimo e democrazia» i


cattolici sloveni del Goriziano cercarono di riconquistare quello spazio pubblico che li
aveva visti protagonisti fino all’avvento del fascismo, presentandosi come un compatto
189
Celebre, in questo senso, è rimasto il processo di Tolmino del 28 giugno 1949, pensato come una vera
e propria rappresentazione teatrale, in cui anche il sacerdote Jožko Kragelj venne condannato a morte.
Nel complesso, vennero emesse 429 condanne contro preti in tutta la Repubblica Federale di Jugoslavia,
di cui 33 contro presbiteri della Primorska. Cfr. a questo proposito, RENATO PODBERSIC, La Chiesa
cattolica in Jugoslavia nell’immediato dopoguerra e JERNEJ VIDMAR, Gli amministratori apostolici della
parte slovena dell’Arcidiocesi e la repressione contro la Chiesa cattolica dopo il 15 settembre 1947,
entrambi in IVAN PORTELLI (A CURA DI), I cattolici isontini nel XX secolo. Il secondo dopoguerra (1947-
1962), cit., p. 68.
190
PETER CERNIC, La riorganizzazione dei cattolici sloveni a Gorizia dopo il 1947, in IVAN PORTELLI (A
CURA DI), I cattolici isontini nel XX secolo. Il secondo dopoguerra (1947-1962), cit., p. 174.

82
fronte anticomunista, con l’appoggio del clero diocesano. In ambito politico, furono
sostenitori dell’autonomia regionale del Friuli Venezia Giulia fin dal 1947, e si
batterono per la tutela delle scuole slovene all’interno del sistema scolastico italiano,
ottenuta nel 1961. Allo stesso tempo, dovettero penare per ottenere il diritto alla
cittadinanza italiana, in quanto la condizione posta per ottenerla era la lingua d’uso.
Inoltre, furono attivi anche a livello locale, partecipando fin dal 1948 alle elezioni
comunali a Gorizia, e dal 1951 in altri Comuni come Savogna d’Isonzo o Doberdò del
Lago. Accanto al laicato, anche il clero continuò con la consueta energia a svolgere il
suo ministero, puntando sulla devozione e la cura pastorale dei fedeli.
Dopo aver analizzato la situazione storica e politica dell’Arcidiocesi di Gorizia,
all’indomani del Trattato di Parigi, passiamo ora alla storia dell’Azione Cattolica di
Gorizia, dalla sua fondazione alla fine degli anni ’60.

3. L’Azione Cattolica di Gorizia, dalla sua nascita agli anni ’60


Prima di parlare del Comitato Civico diocesano, è importante ripercorrere
brevemente la storia dell’Azione Cattolica goriziana, dalle origini alla fine degli anni
’60, per capire i cambiamenti che ha affrontato quest’associazione nel tempo. Come
abbiamo potuto vedere nel Capitolo precedente, fino al 1918 i cattolici dell’Arcidiocesi
di Gorizia rappresentavano una presenza significativa sia dal punto di vista sociale che
istituzionale, grazie a un cospicuo numero di attività (dai circoli alle casse rurali, senza
contare i giornali), che al tempo venivano tutte rubricate sotto il termine-ombrello
«Azione Cattolica».
Dopo la Grande Guerra, avvenne un cambiamento nella struttura stessa
dell’Azione Cattolica a livello nazionale, che ebbe riflessi anche sulla diocesi di
Gorizia, appena inserita nel nuovo contesto statuale italiano. Infatti, con l’elezione al
soglio pontificio di Pio XI nel 1922, venne data all’associazione una struttura moderna e
di «massa», con un’identità peculiare nettamente separata tanto dal neonato Partito
Popolare di don Luigi Sturzo, quanto dall’ambito dei sindacati. L’idea era quella di
«ricristianizzare» una società che, con l’affermazione anche in Italia del socialismo, si

83
stava velocemente secolarizzando. Assumendo una struttura gerarchica, che rifletteva
quella dello stesso clero, l’Azione Cattolica Italiana doveva rappresentare il modello di
vita cristiana compiuta, in collaborazione con la gerarchia ecclesiastica 191.
Nella diocesi di Gorizia sorsero le prime associazioni femminili di AC già nel
1920, per iniziativa di un gruppo di undici maestre goriziane, fra cui spiccava la giovane
Carmela Resen192, che parteciparono alla prima settimana sociale dell’Unione
Femminile Cattolica Italiana (UFCI) nella Venezia Giulia, che si svolse a Trieste. Grazie
all’iniziativa della Resen, che era in contatto con Armida Barelli 193, fondatrice della
Gioventù Femminile a livello nazionale, già il 31 ottobre 1920 vennero create l’Unione
Donne e la Gioventù Femminile, quest’ultima suddivisa nei vari gruppi d’età 194. Molto
più tardi, addirittura nel 1932, si formò l’Unione Uomini, mentre già nel 1922 sorse il
Circolo Giovanile Maschile «Per crucem ad lucem» per opera di Luigi Fogar, futuro
vescovo di Trieste, e nel 1923 monsignor Giuseppe Velci195 istituì la Federazione
191
Per approfondimenti sull’evoluzione dell’Azione Cattolica italiana in questo periodo, cfr. LILIANA
FERRARI, L’Azione Cattolica in Italia. Dalle origini al pontificato di Paolo VI, Brescia, Editrice
Queriniana, 1982, pp. 33-35.
192
Nata a Gorizia nel 1885, già da giovane la Resen entrò nella Pia Unione delle Figlie di Maria. Divenuta
maestra elementare nel 1905, dedicandosi all’insegnamento nelle scuole statali fino al 1951.
Contemporaneamente, coltivò un’intensa vita di fede, contribuendo alla fondazione del ramo femminile
dell’Azione Cattolica di Gorizia. Nel 1948 ricevette anche l’onorificenza pontifica «Pro Ecclesia et
Pontifice». Carmela Resen morì nel 1979.
Per approfondire la sua biografia, cfr. https://acgcento.azionecattolicagorizia.it/site/index.php?
area=5&subarea=1&formato=scheda&id=21, ultima consultazione 18/12/2023.
193
Nata a Milano nel 1882 in una famiglia liberale dell’alta borghesia, la Barelli entrò a 12 anni nel
collegio di Menzingen. A 31 anni divenne una consacrata laica al Sacro Cuore di Gesù, mentre nel 1919
fondò la Gioventù Femminile dell’Azione Cattolica, che si diffuse rapidamente in tutta la Penisola. Nel
1921 diede vita all’Università Cattolica del Sacro Cuore, insieme a padre Agostino Gemelli, Francesco
Olgiati e Ludovico Necchi, divenendo la cassiera dell’ateneo. Negli anni, continuò il suo apostolato, sia
all’interno dell’Azione Cattolica che recandosi in varie missioni, anche in Cina. Armida Barelli
scomparve nel 1952. Nel 2022 è stata beatificata da papa Francesco.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://www.armidabarelli.net/vita-10tappe-poster/, ultima
consultazione 18/12/2023.
194
Ovvero gli «Angioletti» (0-4 anni), le «Piccolissime» (4-6 anni), le «Beniamine» e le «Aspiranti» (dai
6 ai 16 anni).
195
Nato a Cherso (oggi Croazia) nel 1893, nel 1908 Giuseppe Velci (nato Velcich) si trasferì a Gorizia,
dove frequentò lo Staatsgymnasium con monsignor Luigi Fogar come docente. Nel 1913 entrò in
seminario presso i padri gesuiti di Innsbruck, mentre nel 1917 ricevette l’ordinazione presbiterale dal
vescovo di Salisburgo, mons. Sigismondo Waitz. Rientrato nella diocesi di Gorizia nel 1918, venne presto
nominato vicario cooperatore e corale della chiesa metropolitana di Gorizia. Si impegnò, inoltre,
all’interno dell’Azione Cattolica diocesana entrando nel Circolo Giovanile Maschile fondato da mons.
Fogar, dando vita anche alla FUCI e divenendo assistente diocesano della GIAC e dell’Unione Donne di
AC. Dal 1941 al 1945 fu anche redattore del periodico diocesano «L’idea del popolo». Dal 1945 al 1973
fu parroco della Cattedrale di Gorizia e fu promotore di numerose iniziative diocesane, oltre a diventare
decano del Capitolo Metropolitano nel 1961. Dopo essersi ritirato dall’attività pastorale per l’età

84
Universitari Cattolici Italiani (FUCI). In breve tempo, l’associazione e le sue diverse
diramazioni si diffusero in maniera capillare in tutto il territorio diocesano 196.
L’organizzazione era estremamente efficiente, con la vita associativa regolata
dall’Assemblea diocesana e dalla Giunta, con i suoi diversi segretariati (es. quello per la
scuola, per la stampa, per la moralità, etc), garantendo un continuo collegamento fra il
centro e la periferia.
L’avvento del fascismo e il Concordato fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica
nel 1929 determinarono notevoli cambiamenti anche per l’Azione Cattolica, sia a livello
nazionale che diocesano. In virtù del Concordato, l’AC rimase l’unica forma associativa
permessa al di fuori di quelle fasciste, anche se non mancarono gli attriti con il regime.
Infatti, nel 1931 partì una violenta campagna stampa contro l’Azione Cattolica, che
veniva accusata di voler ridare vita al Partito Popolare sturziano. In qualche caso si
arrivò fino alle minacce e alle aggressioni fisiche, perpetrate anche nel territorio
dell’Arcidiocesi di Gorizia197, oltre allo scioglimento di tutte le associazioni giovanili,
che erano viste come concorrenti rispetto a quelle del regime. Per questo, Pio XI
pubblicò l’enciclica Non abbiamo bisogno, denunciando gli abusi del fascismo nei
confronti dell’associazione e, soprattutto, ribadendo che

l’Azione Cattolica, sia per la sua stessa natura ed essenza (partecipazione e


collaborazione del laicato all’apostolato gerarchico) che per le Nostre precise e
categoriche direttive e disposizioni, è al di fuori e al di sopra di ogni politica di
partito198.

avanzata, monsignor Velci si spense nel 1982.


Per ulteriori approfondimenti, cfr. MARIA SERENA NOVELLI (A CURA DI), Il volto ecclesiale dell’Azione
Cattolica nella Diocesi di Gorizia nei suoi primi cento anni, Gorizia, Tipografia Budin, 2022, pp. 223-
228.
196
Gli atti costitutivi di diverse associazioni parrocchiali sono reperibili all’interno dell’Archivio
dell’Azione Cattolica diocesana, oltre a essere stati digitalizzati e resi disponibili al seguente indirizzo:
https://acgcento.azionecattolicagorizia.it/site/index.php?
area=3&subarea=1&formato=scheda&zoom=1&pnl=3&#pos_pnl, ultima consultazione 18/12/2023.
197
Cfr. a questo riguardo alcune testimonianze, raccolte nella mostra Ac.Cento, dedicate al primo
centenario delle attività dell’AC diocesana; in particolare, v.
https://acgcento.azionecattolicagorizia.it/site/index.php?
area=3&subarea=1&formato=scheda&zoom=1&pnl=5&#pos_pnl, ultima consultazione 18/12/2023.
198
Lettera enciclica Non abbiamo bisogno del sommo pontefice Pio XI sull’Azione Cattolica (29 giugno
1931), paragrafo II, reperibile in https://www.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-
xi_enc_19310629_non-abbiamo-bisogno.html, ultima consultazione 18/12/2023.

85
Alla fine, dunque, ribadendo il loro fine educativo e religioso e rinunciando ad
alcune attività, le diverse diramazioni dell’AC poterono tornare operative. La Gioventù
cattolica italiana (GCI) cambiò nome diventando Gioventù Italiana di Azione Cattolica
(GIAC).
A livello diocesano, come già detto, fu nel 1932, durante l’amministrazione di
Sirotti, che venne fondata l’Unione Uomini di AC, il cui primo presidente fu Camillo
Medeot199.
Il definitivo allontanamento della Chiesa cattolica dal regime fascista avvenne
nel 1938, quando l’Italia si alleò con la Germania nazista, per poi siglare nel 1939 il
cosiddetto «Patto d’acciaio». Per proteggere le proprie associazioni laicali e, in
particolare, l’Azione Cattolica, venne decisa la sua «clericalizzazione», che si tradusse
nell’emanazione dei nuovi statuti, che prevedevano una stretta dipendenza dalla
gerarchia ecclesiastica, affidando la presidenza delle giunte diocesane ai sacerdoti,
mentre i laici avevano solamente una funzione consultiva 200. Questa misura, che aveva
carattere temporaneo, serviva a tutelare l’associazione da sgradite ingerenze del regime.
Anche nell’Arcidiocesi di Gorizia l’attività dell’Azione Cattolica assunse un
carattere esclusivamente religioso, concentrandosi soprattutto sulle opere caritatevoli e
sulla spiritualità degli aderenti, con un carattere fortemente cristocentrico. Vennero

199
Nato a S. Lorenzo Isontino (GO) nel 1900, Medeot frequentò l’istituto magistrale di Gradisca fino allo
scoppio della Grande Guerra, per poi andare a Pottendorf-Landegg (Austria) come profugo, continuando i
suoi studi per diventare maestro elementare. Dopo il conflitto, iniziò a lavorare come docente, prima in
Istria e poi a Gorizia. Entrato nel Circolo Giovanile Maschile dell’Azione Cattolica diocesana nel 1924,
nel 1932 divenne presidente della neonata Unione Uomini. Per la sua intensa attività di apostolato, nel
1942 venne nominato cavaliere di S. Silvestro. Dopo la Seconda Guerra Mondiale fu presidente della
Giunta diocesana di AC e, negli anni ’50, anche del Comitato Civico diocesano. Per il suo impegno
nell’associazione, nel 1965 venne anche insignito della Commenda dell’Ordine Equestre di S. Silvestro
da papa Paolo VI. Fu, inoltre, presidente della sezione isontina dell’associazione magistrale «Niccolò
Tommaseo» e promotore del Sindacato magistrale provinciale. Dopo la pensione, si dedicò agli studi
storici, contribuendo alla nascita dell’Istituto di Storia Sociale e Religiosa di Gorizia nel 1982. Camillo
Medeot si spense nel 1983.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. MARIA SERENA NOVELLI (A CURA DI), Il volto maschile dell’Azione
Cattolica nella Diocesi di Gorizia nei suoi primi cento anni, Gorizia, Tipografia Budin, 2021, pp. 149-
154.
200
Per approfondimenti, cfr. LILIANA FERRARI, L’Azione Cattolica in Italia. Dalle origini al pontificato di
Paolo VI, cit., pp. 44-45.

86
organizzate anche imponenti manifestazioni, come ad esempio pellegrinaggi, che
dovevano fare da contraltare a quelle fasciste. In questo modo, secondo Pietro Biasiol,

anche dinanzi ad una maggiore aggressività ideologica del regime, i


cattolici, stringendo con tanta forza le file intorno alla famiglia e alla
moralità personale, cercano di rendere indisponibile […], separato,
impermeabile il loro «mondo vitale» alla penetrazione della società di massa
fascista201.

L’obiettivo era quello di edificare la comunità cristiana, a partire dalla realtà


parrocchiale, per fare una sintesi fra preghiera, sacrificio e azione.
Dopo la caduta del fascismo e l’armistizio dell’8 settembre 1943, l’esercizio
delle azioni caritatevoli divenne più complicato, anche a causa dell’interruzione delle
attività della consulta diocesana. In quel momento, divenne chiaro che l’Azione
Cattolica doveva rilanciare la propria presenza sia a livello sociale che ecclesiale, in
vista della nuova società che sarebbe nata dopo la guerra, come aveva già sottolineato
l’anno prima papa Pio XII nel suo radiomessaggio in occasione del Natale 1942. Inoltre,
l’associazione aveva il progetto di inserirsi in maniera più efficace nel mondo del
lavoro, in modo da mitigare l’influenza dell’ideologia marxista, per realizzare quello
che possiamo definire «apostolato d’ambiente».
Dopo l’armistizio, diversi soci dell’Azione Cattolica diocesana si impegnarono
attivamente nella resistenza al nazifascismo. Oltre ad Angelo Culot, di cui abbiamo già
avuto modo di parlare nel Capitolo precedente, ricordiamo Rolando Cian 202, partigiano

201
PIETRO BIASIOL, L’Azione Cattolica Goriziana (1940-1945), in AAVV, I cattolici isontini nel XX
secolo. Il Goriziano fra guerra, resistenza e ripresa democratica (1940-1947), cit., p. 313.
202
Nato a Milano nel 1918, crebbe a Ruda (UD), entrando in giovane età nell’Azione Cattolica. Dopo un
periodo passato in seminario, entrò all’università per studiare giurisprudenza, ottenendo la laurea con il
massimo dei voti nel 1942. Fu attivamente impegnato nella resistenza e, nel dopoguerra, rinunciò al posto
di Pretore a Cormons, per dedicarsi all’attività politica e sociale. Nel 1946 fu tra i fondatori della DC
goriziana, mentre fu attivo anche nelle ACLI e nel sindacato della CISL, di cui divenne segretario
generale per la provincia di Gorizia. Nel 1954 svolse la sua attività prima a Salerno e poi a Napoli, per poi
rientrare a Gorizia nel 1964, lavorando come dirigente della DC goriziana e come tecnico in ambito
regionale. Fu anche molto impegnato in ambito transfrontaliero, fondando il circolo «Frontiera aperta.
Rolando Cian morì in un incidente stradale nel 1977.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. MARIA SERENA NOVELLI (A CURA DI), Il volto maschile dell’Azione
Cattolica nella Diocesi di Gorizia nei suoi primi cento anni, cit., pp. 83-87.

87
nella brigata «Osoppo», Antonio Carletto203, che si unì come commissario politico alla
brigata «Isonzo» della divisione «Garibaldi-Natisone», Michele Martina204, che
partecipò alle attività della «Osoppo» e del CLN, e Leda Bevilacqua 205, sospettata di
dare sostegno ai combattenti e, perciò, deportata prima ad Auschwitz e poi a
Ravensbrück.
Alla fine della guerra, vennero emanati i nuovi statuti dell’Azione Cattolica
Italiana, restituendo al laicato i ruoli direttivi all’interno dell’associazione, mantenendo
al contempo l’impostazione fortemente centralizzata del periodo precedente, come pure
la stretta dipendenza dal clero. Fin da subito, papa Pacelli spinse perché l’AC facesse
un’opera di apostolato attivo, in cui la militanza civica diventava una «dimensione
naturale della vita di fede»206, in un intreccio inestricabile fra l’ambito religioso e quello
politico. Fin dalle elezioni per l’assemblea costituente, infatti, ogni appuntamento
elettorale venne vissuto come una vera e propria «battaglia per la fede» 207, portando
203
Nato a S. Bonifacio (VR) nel 1921, nel 1938 Antonio Carletto si trasferì con la famiglia a Gradisca
d’Isonzo. Dopo aver lavorato come insegnante elementare a Tolmino e Circhina, si arruolò volontario
nell’esercito e fu inviato in Albania. Dopo l’armistizio del 1943, partecipò attivamente alla resistenza,
rischiando più volte l’arresto. Nel dopoguerra si impegnò molto in ambito sindacale al fianco di Rolando
Cian. Carletto morì a Padova nel 1977.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://acgcento.azionecattolicagorizia.it/site/index.php?
area=5&subarea=1&formato=scheda&id=48, ultima consultazione 19/12/2023.
204
Nato a S. Pietro-Šempeter (allora frazione di Gorizia, oggi in Slovenia) nel 1926, Martina entrò presto
nella GIAC, diventando anche presidente diocesano dei giovani di Azione Cattolica, in un ambiente che
metteva al centro la responsabilità del laicato in ogni ambito della vita, religiosa e non solo. Nel 1944 non
rispose alla chiamata di leva, venendo poi in contatto con i maggiori esponenti del CLN e della brigata
«Osoppo». Nel dopoguerra iniziò il suo impegno politico, che nel 1954 lo portò a diventare vice
segretario provinciale della DC, mentre nel 1958 venne eletto alla Camera dei Deputati. Successivamente
fu sindaco di Gorizia per due mandati (dal 1965 al 1972), con il chiaro obiettivo di sviluppare la
collaborazione transfrontaliera e la pace; grazie al suo impegno in questo ambito, venne chiamato a tenere
un intervento nella Kongresshalle di Berlino dall’allora vice cancelliere Willy Brandt. Fu anche molto
impegnato nel campo culturale, promuovendo il Centro di studi politici, economici e sociali «Sen.
Antonio Rizzati», fondando l’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei e l’Istituto di Sociologia
Internazionale. Michele Martina morì a Gorizia nel 2014.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. MARIA SERENA NOVELLI (A CURA DI), Il volto maschile dell’Azione
Cattolica nella Diocesi di Gorizia nei suoi primi cento anni, cit., pp. 144-148.
205
Nata a Ronchi dei Legionari (GO) nel 1922, Leda Bevilacqua entrò giovanissima nell’Azione
Cattolica, mettendosi a disposizione dell’ufficio di segreteria della Gioventù Femminile. Impiegata presso
i Cantieri Riuniti dell’Adriatico (CRDA) di Monfalcone, collaborò con il parroco pre’ Tita Falzari
all’assistenza dei soldati italiani in rotta dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Nel 1944 venne arrestata
con l’accusa di collaborazionismo con i sovversivi, per poi essere trasferita ad Auschwitz e,
successivamente, a Ravensbrück, dove trovò la morte nel 1945.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. MARIA SERENA NOVELLI (A CURA DI), Il volto femminile dell’Azione
Cattolica nella Diocesi di Gorizia nei suoi primi cento anni, Gorizia, Tipografia Budin, 2021, pp. 24-27.
206
LILIANA FERRARI, L’Azione Cattolica in Italia. Dalle origini al pontificato di Paolo VI, cit., p. 49.
207
LILIANA FERRARI, L’Azione Cattolica in Italia. Dalle origini al pontificato di Paolo VI, cit., p. 50.

88
anche alla creazione dei Comitati Civici, formalmente separati dall’Azione Cattolica,
sebbene in realtà ne fossero una diretta emanazione. Grazie a questa organizzazione, di
cui parleremo in maniera più approfondita in relazione all’Arcidiocesi di Gorizia nei
prossimi paragrafi, la contesa politica assunse toni di vera e propria crociata, in una lotta
fra il bene (cattolico) e il male (comunista), all’interno di quello che Liliana Ferrari ha
definito un «apostolato di conquista», con tanto di strategie dai caratteri militari 208,
secondo la volontà di Luigi Gedda, prima presidente dell’Unione Uomini e poi
dell’intera Azione Cattolica Nazionale.
Nel dopoguerra anche nell’Arcidiocesi di Gorizia ebbe luogo la riorganizzazione
dell’Azione Cattolica diocesana, dopo i difficili anni del conflitto, in cui l’associazione
era stata tagliata fuori dai rapporti tanto con l’AC nazionale, quanto con l’ambito del
Triveneto. Nel periodo fra il 1945 e il trattato di pace del 1947 il territorio diocesano
visse nell’incertezza della definizione dei confini. L’associazione caldeggiò l’italianità
dell’Arcidiocesi, legando la promozione della moralità e dell’unità della famiglia a un
più ampio orizzonte patriottico; in questo modo, essa esprimeva il desiderio di un
«ricongiungimento alla famiglia nazionale italiana»209. Inoltre, l’AC diocesana si
impegnò anche in numerose attività assistenziali, come quelle per gli esuli dalla Zona B.
Con la definizione del confine orientale italiano, sancita dal Trattato di Parigi,
l’Arcidiocesi di Gorizia ritornò nel territorio dello Stato italiano, anche se con un
territorio fortemente ridotto, per quanto molto più omogeneo dal punto di vista
linguistico. Come nel resto del paese, l’AC diocesana assunse i toni battaglieri in ambito
elettorale, con la fondazione del Comitato Civico zonale e le sue diramazioni locali, di
cui parleremo più approfonditamente nei prossimi paragrafi, in particolare in merito al
tema del confine. Accanto all’impegno in ambito politico, venne seguita la linea di
Gedda anche nell’ambito più strettamente associativo, cercando di effettuare una
penetrazione capillare in tutte le parrocchie della diocesi. Venne fatto anche un tentativo
di raggiungere il mondo sindacale, in particolare attraverso la GIAC, oltre che le ACLI,
ma non ebbe molto successo. Inoltre, erano numerose le attività organizzate in favore
208
Cfr. in questo senso le istruzioni inviate alle Unioni Uomini nel 1948, contenute in LILIANA FERRARI,
L’Azione Cattolica in Italia. Dalle origini al pontificato di Paolo VI, cit., pp. 134-135.
209
CRISTIANO MENEGHEL, L’Azione Cattolica Goriziana nel dopoguerra (dal 1945 al Concilio), in IVAN
PORTELLI (A CURA DI), I cattolici isontini nel XX secolo. Il secondo dopoguerra (1947-1962), cit., p. 195.

89
dei giovani, come le manifestazioni sportive nell’ambito del CSI (Centro Sportivo
Italiano), le rappresentazioni teatrali e vari altri momenti formativi. In diocesi non
venne avvertita, tuttavia, la contrapposizione fra la presidenza generale e la GIAC a
livello nazionale che nei primi anni ’50 coinvolse settori importanti del mondo
giovanile dell’Azione Cattolica nazionale, che alla linea militante di Gedda avrebbe
preferito un confronto più aperto con le istanze del mondo contemporaneo, secondo il
pensiero di studiosi e teologi come Jacques Maritain, Emmanuel Mounier e Henri De
Lubac. Questo doveva portare, secondo il presidente della GIAC, Carlo Carretto 210, a un
maggiore sviluppo della spiritualità dei soci e ad una maggiore capacità di penetrare gli
ambienti e diventarne il “lievito”. Queste istanze avrebbero continuato ad animare l’AC
a livello nazionale, fino ai nuovi statuti del 1969, che segnarono la svolta «religiosa»
dell’associazione211.
Gli anni ’60 costituirono uno spartiacque tanto nella storia del cattolicesimo
quanto in quello dell’Azione Cattolica. Infatti, il Concilio Vaticano II modificò
profondamente il rapporto fra la Chiesa e la società contemporanea, avvertita non più
come un nemico a cui contrapporsi, ma come un partner con cui confrontarsi. Anche in
seno all’AC si avvertì l’esigenza di un approccio differente, improntato alla spiritualità,
per dare una «testimonianza della propria fede libera da ogni legame con l’esercizio del
potere»212. Queste istanze si tradussero nei nuovi statuti, che introdussero l’elettività dei
dirigenti, una forte base diocesana e la fine della divisione fra uomini e donne,
preferendo quella per fasce d’età213. Anche nella diocesi di Gorizia questo significò una

210
Nato ad Alessandria nel 1910, Carretto conseguì la laurea presso la facoltà di filosofia e pedagogia
dell’Università di Torino, per poi dedicarsi all’insegnamento. Entrato nell’Azione Cattolica su invito di
Luigi Gedda, si dedicò ben presto a incarichi direttivi all’interno della GIAC. Divenuto direttore didattico
nel 1940, a causa di contrasti con il Partito Fascista venne inviato al confino, anche se in seguito poté
tornare a Torino. Alla fine della guerra fu chiamato a Roma da Gedda e gli venne affidata la presidenza
nazionale della GIAC. Nel 1952 entrò in contrasto con la presidenza nazionale a causa di una divergenza
di visioni sull’apostolato di AC, uscì dall’associazione, per entrare nella congregazione religiosa dei
«Piccoli fratelli di Gesù», ispirata al carisma di Charles de Foucauld, partendo per l’Algeria nel 1954 e
dedicandosi all’eremitaggio nel deserto del Sahara. Rientrato in Italia nel 1965, fondò la comunità di
Spello, dedicandosi anche a un’intensa attività pubblicistica. Carlo Carretto morì nel 1988.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://www.isacem.it/it/fondi-archivistici/carlo-carretto-1907-2008,
ultima consultazione 19/12/2023.
211
Per approfondire tale cambiamento all’interno dell’Azione Cattolica, cfr. LILIANA FERRARI, L’Azione
Cattolica in Italia. Dalle origini al pontificato di Paolo VI, cit., pp. 55-58.
212
Ibidem, p. 56.

90
radicale trasformazione dell’associazione, portando a un rinnovamento più coerente con
lo spirito del Concilio.

4. Nascita e sviluppo del Comitato Civico diocesano di Gorizia


La nascita dei Comitati Civici avvenne nel 1948, per volontà di Luigi Gedda,
allora presidente dell’Unione Uomini dell’Azione Cattolica italiana, in concomitanza
con le elezioni politiche del 1948. L’appuntamento era avvertito come un evento
cruciale per il futuro della democrazia nel nostro paese, perciò la mobilitazione
dell’associazionismo cattolico fu notevole. Gedda venne immediatamente appoggiato da
Pio XII nella sua nuova impresa, in quanto il pontefice riteneva che quella cattolica
fosse «la sola proposta adeguata per la realizzazione di una civiltà umana»214. Per
questo, era necessario coinvolgere i laici impegnati, affinché sensibilizzassero le masse
cattoliche a votare per la Democrazia Cristiana, il partito politico che meglio poteva
rispondere a queste esigenze della gerarchia ecclesiastica. Allo stesso tempo, era
fondamentale che l’operato dei Comitati Civici risultasse totalmente indipendente sia
dall’Azione Cattolica che dalla stessa DC. A partire dall’8 febbraio del 1948 partì
ufficialmente l’attività di questi organismi in tutta Italia, frutto di un’organizzazione
perfettamente strutturata e di un continuo interscambio fra i vari livelli gerarchici 215.
Anche nell’Arcidiocesi di Gorizia si costituì un Comitato Civico zonale,
presieduto da monsignor Giusto Soranzo216, con don Angelo Persig come segretario. Fra

213
In particolare, ancora oggi abbiamo l’Azione Cattolica Ragazzi (ACR), con i gruppi 6-8 anni, 9-11 e
12-14, i giovani (con le suddivisioni in giovanissimi dai 15 ai 18 anni, i giovani veri e propri dai 19 ai 25
anni e i giovani-adulti dai 26 ai 30 anni) e gli adulti (ovvero, gli over 30).
214
GIOVANNI VIAN, Pio XII e la Chiesa italiana nel secondo dopoguerra, in IVAN PORTELLI (A CURA DI),
I cattolici isontini nel XX secolo. Il secondo dopoguerra (1947-1962), cit., p. 15.
215
Molto interessante, per comprendere l’organizzazione gerarchica dei Comitati Civici, risulta il
documento protocollato n. 97/18, dal titolo Comitato Civico nazionale, in Archivio Storico Azione
Cattolica Gorizia (d’ora in poi, ASACG), serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale
1948-1952, fascicolo Comitato Civico Zonale 1948.
216
Nato a Monfalcone (GO) nel 1909, monsignor Soranzo frequentò gli studi teologici presso il
Seminario Teologico Centrale di Gorizia, ricevendo l’ordinazione presbiterale nel 1934. Dopo aver
conseguito la laurea in Diritto Canonico, nel 1942 divenne vice direttore del seminario. In seguito, venne
nominato delegato e vicario generale dell’arcivescovo Margotti, carica che mantenne anche con il suo
successore, Giacinto Ambrosi. Svolse anche numerosi incarichi all’interno dell’Azione Cattolica, fra cui
quello di delegato arcivescovile nella giunta diocesana. Dopo essersi ritirato a riposo negli anni ‘90, si
spense nella comunità sacerdotale di Gorizia nel 2000.

91
i laici, vennero designati come collaboratori Enrico D’Osvaldo, Carlo Sartori e Franco
Gallaroti, che a partire dal 19 novembre del 1948 sarebbe diventato presidente del
Comitato Civico diocesano; altri membri vennero individuati fra i rappresentanti delle
Opere Cattoliche. Immediatamente vennero organizzati anche i Comitati Civici locali
all’interno delle parrocchie della diocesi, la cui struttura ricalcava quella del Comitato
diocesano217. Il collegamento con le diramazioni parrocchiali era continuo, in modo da
garantire un perfetto coordinamento nelle varie azioni propagandistiche; analogamente,
erano intense le relazioni con i livelli superiori, tanto a livello nazionale, quanto
regionale. In questo modo, era messa in funzione un’oliata «macchina propagandistica»,
che aveva l’obiettivo di effettuare una «sensibilizzazione diretta delle coscienze» 218. A
questo scopo, venivano impiegati tutti i più aggiornati strumenti di propaganda, dai
manifesti alle conferenze, senza contare il cinema, a supporto del proprio lavoro 219.
Inoltre, vennero da subito coinvolti numerosi attivisti e militanti, fondamentali sia nella
fase pre-elettorale che durante le operazioni di voto, fino a portare fisicamente alle urne
coloro che non potevano raggiungerle, come nel caso dei degenti negli ospedali. Si nota
anche, tra le righe, un notevole afflato pedagogico, spesso fornendo informazioni
dettagliate sulle operazioni di voto e sui documenti da portare con sé 220. Tra l’altro,
estremamente curata risultava anche la preparazione dei giovani attivisti di entrambi i

Per ulteriori approfondimenti, cfr. cfr. MARIA SERENA NOVELLI (A CURA DI), Il volto ecclesiale
dell’Azione Cattolica nella Diocesi di Gorizia nei suoi primi cento anni, cit., pp. 203-206.
217
Cfr., a titolo di esempio, gli elenchi dei presidenti dei Comitati Civici locali nel 1948, conservati in
ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1948-1952, fascicolo Comitato
Civico Zonale 1948, ma anche la comunicazione, datata 26/02/1948, del parroco di Romans, che forniva
il nominativo del presidente del locale Comitato Civico e delle persone che si rendevano disponibili a
collaborare come attivisti. Analogamente, risultano interessanti le segnalazioni degli attivisti
particolarmente meritevoli, effettuate dopo le elezioni del 18 aprile, dai parroci di Sagrado e Gradisca
d’Isonzo. Tutti questi documenti sono conservati nella busta dell’archivio sopra citata.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. anche LUCA OLIVO, Il Comitato Civico diocesano di Gorizia nel 1948,
in Borc San Roc n. 33, Gorizia, 2021, pp. 74-75.
218
LUCA OLIVO, Il Comitato Civico diocesano di Gorizia nel 1948, cit., p. 78.
219
Molto interessante risulta, in questo senso, il «Foglio disposizioni n. 4», conservato in ASACG, serie
Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1948-1952, fascicolo Comitato Civico Zonale
1948. Dalla lettura del documento, possiamo osservare come venisse minuziosamente organizzata la
propaganda che dovevano effettuare i Comitati Civici, con disposizioni riguardanti l’affissione dei
manifesti, la proposta di preparare dei «carri allegorici» e perfino dei suggerimenti su film da proiettare
per trasmettere più efficacemente il messaggio. Accanto alla propaganda, grande attenzione veniva data al
concreto svolgimento delle operazioni di voto, con particolare attenzione alla documentazione da portare
con sé e al supporto da dare agli elettori che si trovavano in ospedale.
220
Ibidem.

92
sessi, inviati a frequentare corsi di aggiornamento e approfondimento socio-politico,
rendendoli così protagonisti attivi della loro società. Tutto questo, dunque, doveva
concorrere a «far votare con consapevolezza cristiana»221, intrecciando così fede e
politica, in una visione integrata dell’essere umano, nella quale non ci sono confini netti
fra i vari ambiti di vita.
Come si vede, dunque, si trattava di una struttura organizzativa curata nei
minimi dettagli, capace di una penetrazione capillare, comprendendo anche una
minuziosa raccolta di dati relativi ai seggi, alle preferenze accordate tanto ai partiti
quanto ai candidati, in grado di andare a cercare gli elettori quasi “porta a porta”.
Questo spiega, quindi, l’affermazione della Democrazia Cristiana in tutto il paese, ma
soprattutto nel territorio diocesano, che nel 1948 affrontava la prima prova elettorale
dalla fine della guerra, non avendo potuto partecipare alle elezioni per l’assemblea
costituente e al referendum per la scelta fra monarchia e repubblica, in quanto al tempo
si trovava ancora sotto il controllo del Governo Militare Alleato (GMA).
Ciò che emerge nei toni utilizzati nei diversi documenti, tanto a livello nazionale
quanto diocesano, è sicuramente il tono militante, che interpreta il confronto politico
come una «battaglia»222. La contrapposizione al blocco delle sinistre era totale, in
quanto era in gioco «il destino del Popolo Italiano» 223. Particolarmente sentito risultava
questo sentimento nell’Arcidiocesi di Gorizia, da poco tornata all’Italia, dopo un anno e
mezzo passato sotto il controllo del GMA: la peculiare posizione geografica della
diocesi, situata sul confine orientale italiano, la poneva in una situazione considerata
particolarmente critica, come vedremo più approfonditamente nel prossimo paragrafo.
Inoltre, risultava fondamentale il rapporto personale con i singoli elettori, che
andavano contattati singolarmente, invitando anche a votare gli indecisi. Parimenti, era
considerato fondamentale il contributo dei parroci che, pur non facendo ufficialmente
221
Ibidem.
222
Cfr., a titolo d’esempio, il comunicato dell’Organizzazione V, dall’oggetto «Certificati elettorali e
segretezza del voto», protocollato n. 110/18 e datato 05/04/1948, conservato in ASACG, serie Comitato
Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1948-1952, fascicolo Comitato Civico Zonale 1948. In
tale documento, come in svariati altri esempi, la competizione elettorale viene, infatti, definita in questi
termini.
223
Comunicato dell’Organizzazione V, dall’oggetto «Anti-fronte ad ogni costo», protocollato n. 21/18 e
datato 06/04/1948, conservato in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale
1948-1952, fascicolo Comitato Civico Zonale 1948.

93
parte dei Comitati Civici locali, venivano coinvolti nella causa, ad esempio con la
predicazione, che avrebbe dovuto seguire le dettagliate indicazioni da parte del
Comitato Civico zonale224. Questo rispondeva alle disposizioni dello stesso arcivescovo,
che in una lettera del 7 luglio 1948 si rivolgeva al Comitato Civico diocesano dando
precise istruzioni sulle operazioni di voto, in vista delle imminenti elezioni
amministrative, sottolineando la necessità di eleggere candidati che dessero «serie
garanzie di rispetto e di difesa dei principi cristiani nella loro amministrazione» 225.
Infatti, i risultati elettorali rivestivano, secondo il presule, un’importanza decisiva «per
la vita morale e religiosa delle nostre popolazioni oltre che per i loro interessi materiali
ed economici»226.
Infine, il Comitato Civico aveva come obiettivo la formazione di un elettorato
cattolico animato da un «civismo cristiano, […] impegnato a seguire i principi morali
insegnati dalla Chiesa e difendere i valori fondamentali che ne derivano» 227. Per questo,
il Comitato Civico diocesano non poteva limitare le proprie attività agli appuntamenti
elettorali, ma doveva svolgere una permanente opera di educazione civica nei confronti
dei cattolici, indirizzandoli nella «giusta» scelta al momento del voto.
In sintesi, possiamo dire che clero e laici erano uniti in una comune «lotta» per il
trionfo dell’ideale cristiano, a difesa della patria e della libertà dal comunismo. Tali
sentimenti, comuni a tutto l’elettorato democristiano, erano particolarmente accentuati
nel territorio dell’Arcidiocesi di Gorizia, come potremo vedere in maniera più
approfondita nel prossimo paragrafo, in quanto la questione di Trieste e del confine
orientale italiano costituivano uno “spettro” che agitava la coscienza dei militanti
cattolici all’interno dei Comitati Civici, sia a livello diocesano che parrocchiale.

224
Cfr. il comunicato indirizzato «Ai sacerdoti in cura d’anime» del 7 aprile 1948, conservato in ASACG,
serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1948-1952, fascicolo Comitato Civico
Zonale 1948. Oltre all’ambito della predicazione, il documento suggerisce ai parroci di organizzare
preghiere e raccolte di fondi per sostenere la causa della DC.
225
Lettera dell’Arcivescovo Margotti al Comitato Civico diocesano, datata 7 luglio 1948 e protocollata n.
22/172, conservato in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1948-
1952, fascicolo Comitato Civico Zonale 1948.
226
Ibidem.
227
Relazione indirizzata all’arcivescovo e conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato
Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale 1960-61.

94
Fig. 1: Manifesto “Vivere in pace”,
realizzato in occasione delle elezioni politiche del 1948
Fonte: Archivio Azione Cattolica Presidenza Diocesana Gorizia

5. Dalle elezioni del 1948 al ritorno di Trieste all’Italia nel 1954


Come abbiamo visto nel I Capitolo, nell’immediato dopoguerra la questione
confinaria generò in tutta la Venezia Giulia quello che Giampaolo Valdevit ha definito
un «deficit di sicurezza»228, con la percezione di un ingombrante nemico, tanto esterno,
ovvero la Jugoslavia con le sue pretese territoriali, quanto interno, con i comunisti locali
e la minoranza slovena a fungere da «quinta colonna» titina. Per questo, si crearono i
presupposti, secondo Valdevit, per una vera e propria «guerra fredda interna» 229 in questi
territori, esasperando i toni della contrapposizione politica.

228
Cfr. GIAMPAOLO VALDEVIT, Un dopoguerra e un lungo dopoguerra, in AAVV, Friuli e Venezia
Giulia: storia del '900, cit., p. 418.
229
Cfr. GIAMPAOLO VALDEVIT, Un dopoguerra e un lungo dopoguerra, in AAVV, Friuli e Venezia
Giulia: storia del '900, cit., p. 423.

95
Ciò risulta particolarmente vero nel periodo che prendiamo in considerazione in
questo paragrafo, dedicato all’operato del Comitato Civico diocesano fra le elezioni
politiche del 1948 e il 1954, quando finalmente venne risolta la vertenza su Trieste, che
il 26 ottobre 1954 tornò ufficialmente a far parte dello Stato italiano. Infatti, in
un’Arcidiocesi fortemente ridotta rispetto al periodo prebellico, si nota come torni
spesso il tema frontaliero, declinato in varie maniere, costituendo uno spauracchio tanto
ideologico quanto economico, giustificando l’impegno dei Comitati Civici, sia a livello
diocesano che locale.
Che il “pericolo marxista” fosse avvertito in maniera particolarmente sensibile
risulta fin dai primi giorni della costituzione del Comitato Civico zonale. In una
richiesta inviata al Comitato Civico nazionale, troviamo le lamentele del segretario, don
Angelo Persig, sul cappellano militare in servizio nella caserma di Cormons, a suo dire
inadatto a sostenere l’impegno richiesto dalle elezioni politiche. Tale inadeguatezza
risultava ulteriormente aggravata dalla «delicatezza della nostra Zona di confine» 230 e
dalla «propaganda spietata degli emissari di Tito» 231. Si avverte in queste parole una
sorta di sindrome da accerchiamento, per un territorio come quello di Gorizia, da poco
rientrato sotto il governo dello Stato italiano, ma che sembrava ancora alle prese con le
ferite di un anno e mezzo di incertezze prima del Trattato di pace del 10 febbraio 1947.
Il pericolo di un’invasione jugoslava, favorita dalla vittoria del fronte delle sinistre alle
elezioni, giustificava l’inasprirsi dei toni nell’«angolino estremo della nostra bella
patria»232. Gorizia, dunque, assurgeva a baluardo estremo dell’italianità, minacciata
dall’incombente pericolo comunista e il Comitato Civico diocesano con le sue
ramificazioni parrocchiali funzionava da bastione per arginarla. Fondamentale risultava,
però, mantenere l’unità del mondo cattolico, che doveva essere in grado di andare oltre i

230
Comunicazione riservata per il Comitato Civico nazionale del 2 marzo 1948, protocollata 42/18 e
conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1948-1952,
fascicolo Comitato Civico Zonale 1948.
231
Ibidem.
232
Comunicazione per il Comitato Civico nazionale del 1° marzo 1948, protocollata 18/39 e conservata in
ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1948-1952, fascicolo Comitato
Civico Zonale 1948.

96
singoli appuntamenti elettorali, per affrontare un futuro che presentava numerose e
ardue sfide, guardando anche «più in là dell’Isonzo»233.
Superata brillantemente la prova delle elezioni politiche del 1948, l’attività del
Comitato Civico diocesano continuò con la stessa intensità anche nei mesi e negli anni
successivi. Come si vede in una relazione inviata al Comitato Civico nazionale, il
corrispondente organismo diocesano di Gorizia dimostrava una certa capacità d’analisi
della situazione provinciale, che subiva «le conseguenze della guerra e dell’infelice
soluzione della delimitazione delle frontiere»234. Esse si manifestavano in particolare
nella disoccupazione, che raggiungeva una delle percentuali più alte della Penisola, un
problema ulteriormente aggravato dall’interruzione delle attività produttive
transfrontaliere e l’arrivo dei profughi dall’Istria e dalla Dalmazia, in conseguenza del
Trattato di Parigi. Per questo, dunque, la Provincia di Gorizia assumeva la fisionomia di
una «zona depressa», che necessitava di tutti i tipi di sussidi e aiuti per risollevarsi, per
una situazione che – secondo l’autore della relazione, il presidente Enrico D’Osvaldo –
era così delicata da non trovare riscontro in altre zone d’Italia. A conclusione del
documento, D’Osvaldo chiedeva di «venire incontro alla necessità della nostra
provincia di confine sapendo di fare cosa moralmente e patriotticamente meritoria» 235.
Come vedremo, questo intreccio fra le necessità economiche del territorio e la sua
posizione all’«estremo lembo orientale della Patria»236 avrebbe costituito un vero e
proprio leitmotiv all’interno dei carteggi del periodo, ovvero la connessione fra la crisi
economica del territorio provinciale e il suo ruolo patriottico, quasi di “sentinella” del
mondo libero e cristiano di fronte al “pericolo” di un’invasione straniera, per di più di
matrice sovietica, anche se all’epoca la Jugoslavia aveva rotto i rapporti con Mosca, in
seguito all’espulsione dal Cominform. Questo si evince in una richiesta di
233
Tali considerazioni sono rintracciabili all’interno di un testo senza titolo, probabilmente un articolo per
il settimanale «Vita Nuova», in cui si annuncia una serie di conferenze, proposte da monsignor Guglielmo
Biasutti nell’Arcidiocesi di Gorizia. Per approfondire, cfr. il documento conservato in ASACG, serie
Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1948-1952, fascicolo Comitato Civico Zonale
1952.
234
Relazione per la campagna «Aiutiamoci» protocollata 42/18 e conservata in ASACG, serie Comitato
Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1948-1952, fascicolo Comitato Civico Zonale 1949.
235
Ibidem.
236
Lettera del 24 maggio 1954, indirizzata a Maria Vittoria Rossetti del Movimento Laureati di Azione
Cattolica, conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1953-
1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1954.

97
finanziamento alla Camera di Commercio, Agricoltura e Industria, in cui i Comitati
Civici vennero definiti «una solida barriera contro la minaccia delle correnti
antinazionali portando un notevole contributo al risanamento morale e civile delle
popolazioni di questa nostra provincia confinaria»237, ma anche in quella per ottenere
dei buoni di benzina, necessari per il rifornimento delle vetture di cui disponeva il
Comitato Civico per gli spostamenti dei suoi militanti238.
Accanto alla situazione economica, in diversi documenti troviamo anche
un’interessante disamina dei rapporti fra le varie realtà presenti all’interno della diocesi,
compresa la minoranza slovena. In un «Promemoria» del 20 gennaio 1953 si rilevava la
presenza di 69 Comitati Civici locali, mentre nelle diciassette parrocchie slovene 239 non
era possibile alcun tipo di azione, anche in ragione del loro forte nazionalismo 240. Se nei
confronti della minoranza slovena è percepibile una certa ostilità, i toni si facevano
ancora più accesi quando si parlava della situazione della città di Gorizia, in cui alle
soglie delle elezioni politiche del 1953 era ancora avvertibile un forte sentimento

237
Richiesta di contributo alla Camera di Commercio, Agricoltura e Industria, datata 10 settembre 1952,
conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1948-1952,
fascicolo Comitato Civico Zonale 1952.
238
Cfr., a titolo di esempio, un’altra richiesta di contributo indirizzata alla Camera di Commercio,
Agricoltura e Industria, datata 4 marzo 1953, conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta
Comitato Civico Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1954.
239
Nel computo venivano comprese anche cinque parrocchie dell’Arcidiocesi goriziana, situate nel
Territorio Libero di Trieste. Come vedremo nel prossimo paragrafo, dopo il ritorno di Trieste all’Italia e il
definitivo assetto del confine, determinato dal Memorandum di Londra, le parrocchie slovene sarebbero
scese a dodici.
Attualmente, le parrocchie di lingua slovena dell’Arcidiocesi sono le seguenti:
 a Doberdò del Lago/Doberdob, S. Martino vescovo;
 a Jamiano/Jamlie, S. Antonio di Padova;
 a Savogna d’Isonzo/Sovodnje, S. Martino vescovo, S. Nicola vescovo (frazione di
Gabria/Gabrje) e S. Marco evangelista (frazione di Rupa);
 a Gorizia S. Andrea apostolo (frazione di S. Andrea/Štandrež), S. Giorgio martire (frazione di
Piedimonte), Centro pastorale per i fedeli di lingua slovena (centro città), S. Mauro e Silvestro
(frazione di Piuma);
 a S. Floriano del Collio S. Floriano e S. Maria Ausiliatrice.
Per ulteriori informazioni, cfr. https://www.diocesigorizia.it/unita-pastorali/la-composizione-territoriale/,
ultima consultazione 10/01/2024.
240
Cfr. «Promemoria» datato 20 gennaio 1953, conservato in ASACG, serie Comitato Civico, busta
Comitato Civico Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1953. Le stesse
considerazioni erano state fatte anche un anno prima, in una relazione datata 10 luglio 1952, in cui si
descrivevano le condizioni dell’Arcidiocesi e le difficoltà a operare nelle diciassette parrocchie slovene
presenti, pur non escludendo a priori una possibilità d’intervento, essendo la popolazione
«prevalentemente allogena». Per approfondimenti, il documento è reperibile in ASACG, serie Comitato
Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1954.

98
patriottico e fieramente anticomunista, in quanto «il partito di Togliatti […] era pronto a
cedere la nostra città alla Jugoslavia in cambio di Trieste» 241. Il ricordo dei 45 giorni di
occupazione titina e la conseguente sensazione di accerchiamento risultavano ancora
molto vivi nel sentiment della popolazione, a dimostrazione che la questione del confine
era fortemente sentita nel territorio diocesano. Inoltre, non mancavano annotazioni
riguardanti la crisi economica del territorio, esacerbata dall’afflusso di profughi
dall’Istria e dalla Dalmazia e dall’«assurda divisione confinaria» 242. Nonostante tutto,
però, l’autore del testo, il presidente del Comitato Civico, Camillo Medeot, si dichiarava
fiducioso nei confronti dei suoi concittadini, che si erano sempre distinti per la loro
fedeltà alla patria e ai valori cristiani. D’altronde, anche in una lettera del 12 gennaio
1953, l’infaticabile Medeot definiva la diocesi di Gorizia l’«estremo limite orientale
dell’Italia, in cui più che altrove appaiono indissolubili i sacri ideali di fede e di
patria»243, legando così in maniera indissolubile religione e nazionalismo.
Anche i manifesti svolgevano un’importante funzione nella strategia di
“persuasione” degli elettori, come dimostrano le minuziose istruzioni inviate dal
Comitato Civico Nazionale e trasmesse da quello diocesano alle proprie diramazioni
locali. In questo senso, si può avvertire un uso consapevole dei moderni metodi
propagandistici, in particolare delle immagini, che servivano a rafforzare i contenuti
della campagna elettorale. In merito alla questione confinaria, particolarmente
interessante risulta il giornale murale «Il Cittadino», pubblicato con cadenza
quindicinale dal Comitato Civico Nazionale. Nel numero del 15-30 marzo 1953, in un
articolo intitolato Ciò che dobbiamo a Stalin244, fra le malefatte del dittatore georgiano
venne ricordata anche la mancata restituzione di Trieste. Con l’imminenza delle elezioni
politiche, la contesa sulla città giuliana tornava a infiammare l’opinione pubblica,
quindi anche i Comitati Civici, a tutti i livelli gerarchici, coglievano l’occasione per
utilizzarla a favore della Democrazia Cristiana, l’unico partito che – a loro modo di

241
Ibidem.
242
Ibidem.
243
Lettera del 20 gennaio 1953, indirizzata all’«Illustre signor commendatore», del quale non viene
specificata l’identità e conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale =
Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1953.
244
Cfr. «Il Cittadino» n. 4 (15-30 marzo 1953), conservato in ASACG, serie Comitato Civico, busta
Comitato Civico Zonale = Locale 1962-1966, fascicolo Comitato Civico Zonale 1965.

99
vedere – poteva garantire una soluzione soddisfacente della vexata quaestio, sulla quale
il PCI si era sempre dimostrato ambiguo. In un territorio come quello dell’Arcidiocesi
di Gorizia, che fino al Trattato di Parigi non aveva avuto la certezza della propria
appartenenza nazionale, tale propaganda trovava un terreno particolarmente fertile.

Fig. 2: «Il Cittadino» n. 4 (15-30 marzo 1953)


Fonte: Archivio Azione Cattolica Presidenza Diocesana Gorizia

Per capire l’influenza che la questione del confine aveva sulla politica locale,
dobbiamo prendere in considerazione anche le attività culturali organizzate dal
Comitato Civico diocesano. Infatti, se le disposizioni organizzative, gli elenchi dei seggi
e degli addetti, come anche tutti i dettagliati risultati elettorali, sono fondamentali per
capire la capacità di penetrazione del Comitato Civico e delle sue diramazioni
parrocchiali, altrettanto utile risulta l’esame di conferenze e altri convegni di carattere
sociopolitico, mostrando come vi fosse un’attenzione particolare alla formazione della
coscienza degli elettori. Sintomatica, in questo senso, risulta l’allocuzione tenuta il 4

100
maggio 1953 da monsignor Edoardo Marzari245 presso l’Istituto «Stella Matutina», dal
titolo Vincoli della coscienza religiosa di fronte alle prossime elezioni. A poco più di un
mese dalle elezioni politiche del 7 giugno, veniva invitato a Gorizia un sacerdote come
Marzari, definito «figlio dell’Istria nobilissima»246, intento a svolgere «il suo mirabile
apostolato sociale nella città di S. Giusto, a Trieste, che da troppo tempo ormai attende
il fatale compimento del suo destino»247. L’auspicio finale del resoconto della
conferenza era che «il giorno del grande ritorno venga presto» 248; allora «i cattolici di
Trieste, di Gorizia e di Udine marceranno concordi, fianco a fianco, contro i comuni
avversari, PRO ARIS ET FOCIS, per l’avvento di un mondo migliore» 249. Tuttavia,
nonostante questi toni trionfalistici, in una comunicazione di qualche giorno precedente,
si invitava don Marzari a non fare alcun riferimento alla situazione dell’Istria e della
Zona B, in modo da evitare eventuali polemiche con gli avversari politici250.
Un’altra interessante iniziativa è rappresentata dal ciclo di conferenze, intitolato
La vita oltre cortina, che si svolse nel maggio del 1954 in tutto il territorio diocesano.
L’iniziativa era stata ideata dal Movimento «Laureati di Azione Cattolica», con
l’obiettivo di far conoscere la situazione dei cattolici nei paesi del patto di Varsavia.
Secondo Marina Vittoria Rossetti, una degli organizzatori, gli incontri «non hanno una
impostazione politica; ma sono, indirettamente, una delle forme più efficaci per
illuminare l’opinione pubblica anche sul piano politico» 251. In questo senso, possiamo
comprendere che il passaggio dal piano religioso a quello politico fosse naturale:
sensibilizzare le persone sulla difficile situazione dei paesi del blocco sovietico era uno

245
Come apprendiamo dal curriculum vitae, elaborato per la pubblicazione sul Giornale di Trieste, Il
Gazzettino e Il Messaggero Veneto, era nato a Capodistria nel 1905 e aveva presieduto il Comitato di
Liberazione Nazionale di Trieste, per poi fondare la Camera del Lavoro e le ACLI.
Per approfondimenti, il testo è reperibile in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico
Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1953.
246
Cfr. Conferenza Mons. Marzari, conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico
Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1953.
247
Ibidem.
248
Ibidem.
249
Ibidem.
250
Cfr. a questo proposito la comunicazione inviata dall’assistente ecclesiastico, don Giuseppe Trevisan,
allo stesso Marzari in data 28 aprile 1953 e conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato
Civico Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1953.
251
Lettera di Marina Vittoria Rossetti (Movimento «Laureati di Azione Cattolica»), datata 21 aprile 1954
e conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1953-1954,
fascicolo Comitato Civico Zonale 1954.

101
dei modi di fare apostolato. Inoltre, lo scopo di queste conferenze era anche quello di
smentire una certa propaganda comunista, che presentava il marxismo «come il
difensore dei più autentici valori religiosi e spirituali, soffocati dal «politicantismo»
della Chiesa Cattolica»252. Un’iniziativa collegata a questi incontri era il «Martirologio
della Chiesa del Silenzio», con cui si intendevano ricordare le persecuzioni subite dalla
Chiesa cattolica nei paesi comunisti. Come si può vedere nel manifesto conservato
nell’archivio del Comitato Civico diocesano, anche nella vicina Jugoslavia erano
presenti dei martiri, come il cardinale Stepinac e il vescovo di Mostar, condannato ai
lavori forzati253.

252
Questa affermazione è contenuta nel Progetto per il proseguimento delle conferenze sui problemi
d’oltre cortina, datato 14 maggio 1954 e conservato in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato
Civico Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1954.
253
Cfr. il manifesto conservato in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale
1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1954.

102
Fig. 3: Manifesto del «Martirologio della Chiesa del Silenzio»
Fonte: Archivio Azione Cattolica Presidenza Diocesana Gorizia

Nella diocesi di Gorizia vennero chiamati a parlare un sacerdote polacco, padre


Stanislaw Suwala, e un giornalista albanese, il dottor Viktor Koliqi; data la delicatezza
della loro situazione di dissidenti, il Movimento «Laureati di A.C.» raccomandava di
non diffondere le biografie, né tantomeno le fotografie, degli oratori, in modo che le
loro famiglie non subissero ritorsioni da parte dei regimi comunisti dei loro paesi 254. Nel
corso degli incontri i due oratori trattarono vari argomenti, come la condizione sociale e
religiosa in Europa orientale, ma anche la situazione dei giovani, delle donne e della
famiglia, senza contare il problema dell’educazione. Come sottolineato da Medeot nella
lettera di ringraziamento alla Rossetti, questi incontri vennero molto apprezzati nella
diocesi di Gorizia, in particolare quelli con padre Suwala, in quanto trattavano di
problemi concreti e vicini a quelli degli ascoltatori 255. Inoltre, come apprendiamo in un
altro scritto, a commento di una delle conferenze tenute da Suwala a Gorizia, Medeot
scriveva: «le sue parole cadranno in un terreno quanto mai propizio ad accoglierle
perché questa città ha già conosciuto, sia pure per soli quaranta giorni, le delizie di un
regime sovietico»256. Pur non trattando direttamente della situazione confinaria, le
problematiche esposte dai due oratori facevano leva sulla sensibilità dei goriziani, anche
che ben ricordavano la deportazione di ben 320 persone, di cui si erano perse le tracce
nel 1945. Perciò, l’autore poteva affermare in modo solenne che «il mondo libero
finisce, checché se ne dica, a Gorizia» 257, definendola la «sentinella avanzata del mondo
libero»258. In conclusione, pur avendo un obiettivo di matrice religiosa, questi cicli di

254
Cfr. a questo proposito, una comunicazione inviata dal Movimento a Medeot in data 4 maggio 1954,
conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1953-1954,
fascicolo Comitato Civico Zonale 1954.
255
Cfr. la lettera indirizzata a Marina Vittoria Rossetti del 24 maggio 1954 e conservata in ASACG, serie
Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale
1954.
256
Documento dal titolo «Conferenza di padre Stanislao Suwala», datata 12 maggio 1954 e conservata in
ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato
Civico Zonale 1954.
257
Ibidem.
258
Ibidem.

103
incontri presentavano un carattere ideologico molto forte, facendo pendant con l’attività
più prettamente politica del Comitato Civico.

Fig. 4: Manifesti dei cicli di conferenze «La vita oltre cortina» (maggio 1954)
Fonte: Archivio Azione Cattolica Presidenza Diocesana Gorizia

6. L’attività del Comitato Civico diocesano nella seconda metà degli anni ’50
Passiamo ora ad analizzare il rapporto del Comitato Civico zonale con la
questione confinaria nella seconda metà degli anni ’50, dopo il ritorno di Trieste
all’Italia, avvenuto nel 1954, in seguito al Memorandum di Londra.
Analizzando l’archivio del Comitato Civico, si nota come le allusioni e le
riflessioni sulla situazione frontaliera risultino in numero decisamente meno rilevante
rispetto al periodo precedente, dando la sensazione di un raffreddamento nei confronti
della questione confinaria. Ciò che rimase invariato era un forte anticomunismo, nonché

104
l’assoluta opposizione a qualunque apertura nei confronti delle sinistre, come si può
notare particolarmente nei documenti relativi agli anni 1960-1961, quando la questione
del centrosinistra agitava l’elettorato cattolico, oltre che i vertici della Democrazia
Cristiana. Questa linea «ortodossa», ribadita anche dalla lettera pastorale
dell’arcivescovo Ambrosi del 22 maggio 1960, dal titolo «Impegni dei cattolici nell’ora
presente»259, era contraria a qualunque tipo di compromissione con partiti come quello
socialista, la cui base ideologica era ritenuta totalmente incompatibile con i valori
cristiani. Come possiamo vedere in vari scritti del presidente del Comitato Civico,
Ranieri Gironcoli, subentrato a Camillo Medeot nel 1960, risultava fondamentale
preservare l’unità dell’elettorato cattolico, «basata sulla comune fede religiosa e su di
un’organica concezione della vita sociale e politica» 260. Per questa ragione, «contingenti
considerazioni d’opportunità non debbono portare ad alleanze spurie, condannate dalla
Chiesa, e alla trascuranza dei principi morali che sono alla base della concezione
cristiana della vita»261.
Tuttavia, sebbene i riferimenti alla situazione confinaria siano oggettivamente
inferiori rispetto al periodo precedente, non mancano esempi d’interesse, come la lettera
inviata da Camillo Medeot al dottor Enrico Reginato, che aveva passato nove anni in
Russia come prigioniero di guerra, per invitarlo a tenere una conferenza nel territorio
diocesano. Infatti, come affermava l’autore, i goriziani sarebbero stati profondamente
interessati alla sua vicenda, in quanto era «ben noto il [suo] profondo e fervido
sentimento nazionale»262, ma soprattutto era «sempre vivo e dolorante il ricordo dei
quaranta giorni passati nel 1945 sotto il terrore slavo-comunista»263. Come vediamo,
dunque, il recente passato aveva lasciato ferite che non si erano ancora rimarginate e

259
Per approfondimenti, cfr. Folium Ecclesiasticum Archidioecesis Goritiensis, nn. 3-5, anno LXXXI
(marzo-maggio 1960), reperibile in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale =
Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale 1960-1961.
260
Relazione del 30 agosto 1961, inviata al presidente del Comitato Civico Nazionale, Luigi Gedda e
conservato in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1955-1961,
fascicolo Comitato Civico Zonale 1960-1961.
261
Ibidem.
262
Lettera a Enrico Reginato, datata 23 gennaio 1955 e conservata in ASACG, serie Comitato Civico,
busta Comitato Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale 1955.
263
Ibidem.

105
permaneva una forte ostilità nei confronti della vicina Jugoslavia e di tutto ciò che
poteva afferire all’universo sovietico e alla sua ideologia.
Un altro, interessante, documento relativo alla situazione confinaria è
rappresentato dalla relazione inviata dal presidente Medeot al Comitato Civico
Nazionale, in prossimità delle elezioni amministrative del 1956. Analizzando la
situazione diocesana e la capacità di penetrazione dei Comitati Civici all’interno delle
parrocchie, Medeot scriveva che nelle dodici comunità slovene la loro azione era
piuttosto limitata, ed i rapporti fra cattolici di lingua italiana e slovena erano scarsi e
difficili. Tale incomunicabilità era ancora più accentuata dal punto di vista politico, in
quanto, pur essendo divisi fra «slavi bianchi (cattolici e liberali) e slavi rossi (comunisti
di varie tendenze)»264, erano sempre pronti a coalizzarsi per difendere i «loro legittimi o
presunti diritti»265. Come si vede, emerge una nota polemica nei confronti della
minoranza slovena, a dimostrazione delle frizioni ancora forti con una comunità che, da
parte di quella italofona, era percepita ancora come estranea e, perfino, nemica, con il
timore di una penetrazione jugoslava in questi territori. Sebbene ormai la questione dei
confini fosse stata sostanzialmente risolta, permaneva ancora la sensazione di
accerchiamento, specialmente in un elettorato, come quello cattolico, che negli anni
precedenti aveva fatto della battaglia per la difesa dei confini e della patria uno degli
elementi più forti della propria ideologia. Per questo, risultava particolarmente difficile
abbandonare determinati paradigmi di pensiero e atteggiamenti nei confronti dell’altro,
in un clima di acceso anticomunismo266. Un’ultima annotazione merita il rapporto con la
Democrazia Cristiana, che risultavano caratterizzati da freddezza e diffidenza verso
l’ala giovanile del partito, che spingeva per l’apertura a sinistra. Il Comitato Civico
diocesano era fautore della linea conservatrice, proposta dalla CEI e dal vescovo
Ambrosi, ma anche dal presidente della provincia, Angelo Culot, come si era visto nel

264
«Relazione al Comitato Civico Nazionale», datata 10 ottobre 1956 e conservata in ASACG, serie
Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale
1956.
265
Ibidem.
266
Anche se, come sappiamo, la Jugoslavia si era da tempo sganciata dal Cominform e dall’influenza
sovietica, mentre dalla Conferenza di Bandung (Indonesia) del 1955 stava prendendo forma il
«Movimento dei paesi non allineati», del quale proprio la Repubblica Federale di Tito era uno dei
promotori.

106
corso di un convegno, tenuto il 23 settembre dello stesso anno, dedicato al rapporto fra
religione e politica.
Analogamente, nella relazione sull’andamento delle elezioni, inviata a Ugo
Sciascia, direttore generale del Comitato Civico Nazionale, Medeot sottolineava come il
successo democristiano alle elezioni amministrative di quell’anno fosse da attribuirsi
principalmente all’impressione suscitata dall’invasione dell’Ungheria da parte
dell’Unione Sovietica e dal lavoro dei Comitati Civici. In merito alla prima, l’autore
commentava che l’impressione era stata particolarmente forte, in quanto erano ancora
vividi «i ricordi che gli slavo-comunisti hanno lasciato a Gorizia nel tragico maggio del
1945»267. Data l’esperienza vissuta durante l’occupazione jugoslava, il territorio
provinciale risultava particolarmente sensibile nei confronti di avvenimenti simili, a
dimostrazione del fatto che il «deficit di sicurezza» percepito era ancora particolarmente
forte alla metà degli anni ’50. Per quanto riguarda il secondo, invece, il presidente
Medeot descriveva il contributo dato alla vittoria elettorale dal Comitato Civico
diocesano e dalle sue espressioni locali, nonostante l’ostilità dell’ala giovanile della DC.
Ritorna, qui, il tema dell’apertura a sinistra del partito democristiano, che anche negli
anni successivi avrebbe costituito una delle preoccupazioni del Comitato Civico zonale,
che esprimeva, invece, una visione più tradizionale della politica, meno incline a
compromessi con gli avversari di un tempo.
Tale preoccupazione nei confronti di un’alleanza della DC con il Partito
Socialista era condivisa anche dal successore di Medeot, Ranieri Gironcoli, che in una
sua relazione all’arcivescovo Ambrosi riteneva esprimeva una valutazione negativa del
PSI, ritenendolo una formazione politica «di dubbia democrazia, come il Partito
Socialista, uno degli eredi dell’UAIS d’infame memoria» 268. Si nota qui, ancora una
volta, l’insistenza sull’esperienza dell’occupazione jugoslava della Venezia Giulia e
delle conseguenti tensioni confinarie, perduranti dopo il Trattato di pace del 1947.
Inoltre, in caso di un’apertura nei confronti delle sinistre risultava impossibile per il

267
Relazione a Ugo Sciascia, datata 28 dicembre 1956 e conservata in ASACG, serie Comitato Civico,
busta Comitato Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale 1957.
268
Relazione all’arcivescovo Ambrosi, priva di data e conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta
Comitato Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale 1960-1961.

107
Comitato Civico «fare appello alla coscienza dell’elettore cattolico» 269, data anche la
chiarezza della posizione della Chiesa al riguardo 270. Infatti, come ribadiva Gironcoli,
oggetto peculiare dell’azione del Comitato Civico era sviluppare il «civismo
cristiano»271, che prevedeva di seguire i principi morali della Chiesa cattolica e
difendere i valori che ne conseguivano, in vista del bene comune. Per questo,
un’alleanza con partiti che esprimevano una visione della società totalmente antitetica
rispetto a tali valori, risultava inaccettabile nella prospettiva di Gironcoli e
dell’organizzazione di cui faceva parte.
Tuttavia, come si può intuire, all’apertura del nuovo decennio le questioni
inerenti alla frontiera orientale risultavano sempre più legate al passato e alla sua
memoria. Pur continuando a influenzare – seppur parzialmente – il dibattito pubblico, si
ha l’impressione che non suscitassero più il senso di urgenza del periodo precedente.
Ciò è spiegabile anche con il periodo di sviluppo economico che stava vivendo il
territorio provinciale, come il resto d’Italia; ormai la società stava cambiando e, con
essa, anche le priorità dell’elettorato. Infatti, la stessa politica locale era desiderosa di
superare le precedenti contrapposizioni, in particolare con la vicina Jugoslavia, per
aprirsi a una maggiore collaborazione, in particolare dal punto di vista economico.
Questo viene illustrato in modo approfondito nell’opuscolo distribuito dalla DC in
occasione delle elezioni amministrative del 1961, dal titolo «Per il progresso della
nostra città»272. In particolare, nel programma proposto dalla Democrazia Cristiana
venne data grande attenzione alla questione del confine, letta però in una prospettiva
completamente diversa rispetto al passato e, soprattutto, rispetto all’approccio che
abbiamo sempre visto operante all’interno del Comitato Civico diocesano. Infatti, il
partito proponeva di creare una commissione di studio, per sensibilizzare il governo di
Roma in merito alla situazione di Gorizia e del suo territorio. Si voleva fare tesoro

269
Ibidem.
270
Cfr. a questo proposito anche l’articolo Perché no all’apertura a sinistra, apparso nel settimanale
«Voce diocesana» (8 maggio 1960), n. 19, conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato
Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale 1960-1961.
271
Relazione all’arcivescovo Ambrosi, priva di data e conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta
Comitato Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale 1960-1961.
272
Cfr. l’opuscolo «Per il progresso della nostra città», conservato in ASACG, serie Comitato Civico,
busta Comitato Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale 1960-1961.

108
dell’esperienza acquisita negli ultimi 15 anni, in modo da «superare i condizionamenti
imposti dal confine»273, tenendo conto delle nuove prospettive offerte dalla Comunità
Economica Europea (CEE). Ciò che la Democrazia Cristiana provinciale intendeva
raggiungere era quello sviluppo economico e sociale, che avrebbe trasformato la
frontiera da problema a risorsa, lasciando cadere le contrapposizioni – anche
ideologiche – con l’ingombrante vicino jugoslavo. In conclusione, dunque, la politica
stava prendendo decisamente un’altra direzione rispetto all’impostazione e alla forma
mentis del Comitato Civico diocesano e, per questo, non stupisce che vi fossero frizioni
e tensioni. Anche se la questione del confine orientale non era più al centro delle
«battaglie» dell’organizzazione presieduta prima da Medeot e poi da Gironcoli, appare
chiaro che si stava verificando uno scarto fra il Comitato Civico e la DC provinciale, sia
in merito ai contenuti ideologici che alle modalità di azione, tanto durante le campagne
elettorali che nei periodi di “normale amministrazione”.

273
«Per il progresso della nostra città», p. 12.

109
Fig. 5: Opuscolo «Per il progresso della nostra città» (1961)
Fonte: Archivio Azione Cattolica Presidenza Diocesana Gorizia
7. L’ultima fase delle attività del Comitato Civico diocesano (1962-1966)
La documentazione relativa all’ultimo periodo di attività del Comitato Civico
diocesano si apre con le elezioni politiche del 1963, che videro la formazione del primo
governo di centrosinistra, formato dalla Democrazia Cristiana, il Partito Socialista
Italiano, il Partito Socialista Democratico Italiano (PSDI) e il Partito Repubblicano
Italiano (PRI).
Anche il Comitato Civico dell’Arcidiocesi di Gorizia assistette ad alcuni
cambiamenti, primo fra tutti quello del presidente; infatti, al prof. Gironcoli subentrò
Arnolfo De Vittor274. Quello che non mutò fu l’impegno profuso dal Comitato Civico
274
Nato a Gorizia nel 1924, De Vittor crebbe nella GIAC, diventandone il presidente diocesano negli anni
’50, per poi assumere la presidenza dell’Unione Uomini e quella della giunta diocesana. Amico di Vittorio
Bachelet, il presidente nazionale di AC a cui si deve la svolta «religiosa» dell’associazione, apportò i

110
nella sua azione, basata su tre pilastri: la difesa dei valori morali del cristianesimo, la
partecipazione responsabile di tutti i cittadini alla vita pubblica del paese e l’unità dei
cattolici275. Per questo, De Vittor poteva concludere che «nessuno può imputare al
Comitato Civico di non essersi mantenuto fedelmente nella linea delle sue competenze
giovando così notevolmente alla comunità isontina»276. In questo senso, sembra di
avvertire una nota lievemente polemica nei confronti della DC provinciale, con cui il
Comitato Civico era già entrato in urto nel recente passato, come abbiamo potuto
constatare nel paragrafo precedente. Infatti, lo spostamento su posizioni di centrosinistra
da parte del partito non era bene accetto dal Comitato Civico, che continuava a
considerare inaccettabile un accordo con i socialisti, a causa dell’eccessiva distanza
valoriale e ideologica delle due formazioni politiche. Tuttavia, il senso di lealtà e la
necessità di mantenere l’unità dell’elettorato cattolico dovevano avere la prevalenza sui
personalismi, come sottolineato in numerose occasioni, anche da parte del Comitato
Civico nazionale.
Accanto alle elezioni politiche, troviamo alcune considerazioni in merito alle
prime consultazioni regionali, tenutesi il 10 maggio 1964. Il presidente De Vittor notava
che la mentalità regionalista non era diffusa nell’Arcidiocesi di Gorizia, ma il Comitato
Civico si impegnò comunque per «far comprendere la necessità di questo organismo
intermedio che nulla toglieva all’unità nazionale ma che poteva rafforzarla qualora
venisse ben inteso e impostato»277. Perciò, l’istituzione regionale poteva essere
considerata «una conquista dei cattolici»278, oltre che un’opportunità di sviluppo per il
territorio diocesano, quindi andava sostenuta senza esitazioni. Fortunatamente, notava
De Vittor, la risposta degli elettori isontini era buona, premiando la DC e la

cambiamenti apportati dai nuovi statuti del 1969 all’interno dell’Azione Cattolica di Gorizia. Oltre al
lavoro come docente, De Vittor svolse un’intensa attività giornalistica, sia all’interno del settimanale
diocesano «Voce Isontina» che come corrispondente dell’«Osservatore Romano». Arnolfo De Vittor
scomparve improvvisamente nel 2005.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. MARIA SERENA NOVELLI (A CURA DI), Il volto maschile dell’Azione
Cattolica nella Diocesi di Gorizia nei suoi primi cento anni, cit., pp. 115-119.
275
Cfr. a questo proposito, «Relazione attività svolta dal Comitato Civico dal 23 febbraio 1963 al 10
marzo 1964», conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale
1962-1966, fascicolo Comitato Civico Zonale Elezioni Politiche 1963.
276
Ibidem.
277
Ibidem.
278
Ibidem.

111
rappresentanza goriziana all’interno del nuovo organismo. Perciò, il presidente poteva
concludere che il Comitato Civico «ha operato sulla linea espressa nelle premesse con
l’intento di educare al senso civico, di orientare a scelte precise secondo coscienza
cristiana e di assistere l’elettore cattolico nei momenti più difficili» 279.
Per quanto riguarda il nostro tema d’interesse, ovvero il rapporto fra il Comitato
Civico diocesano e la questione del confine orientale italiano, non risultano presenti
molte attestazioni nel periodo preso in considerazione in questo paragrafo. Tuttavia, le
poche testimonianze ci raccontano un cambiamento importante avvenuto all’interno del
Comitato Civico in ordine a questa problematica. A un decennio dalla restituzione di
Trieste al territorio italiano, in una situazione completamente diversa anche dal punto di
vista socioeconomico, la vexata quaestio sembrava aver assunto un carattere molto
diverso, probabilmente anche per l’influenza della stessa DC provinciale, come
possiamo vedere nell’intervista a Michele Martina, apparsa sul numero del 3 febbraio
1963 del settimanale «Voce Diocesana», in cui affermava che la nuova istituzione
avrebbe potuto giovare allo sviluppo della Provincia di Gorizia, fortemente colpita dalle
conseguenze territoriali, etniche ed economiche del secondo conflitto mondiale, con
ricadute positive anche a livello internazionale, in un clima «di confronto civile e di
collaborazione reciproca»280. Inoltre, l’autore dell’intervista sottolineava come grazie
alla nuova realtà regionale, il confine avrebbe potuto diventare un «potenziale confronto
civile di popoli più che contesa intessuta di reticolati e di risentimenti» 281. Come si vede,
sono toni decisamente antitetici rispetto a quelli che venivano utilizzati fino al 1954 e,
in parte, anche negli anni immediatamente successivi. Tale linea venne ribadita anche in
occasione delle elezioni provinciali del 1965. In un opuscolo dal titolo «La Democrazia
Cristiana per lo sviluppo unitario della comunità isontina» si faceva riferimento
all’occupazione del territorio goriziano da parte delle truppe titine nel 1945 e
all’incertezza dei confini fino al Trattato di Parigi del 1947 282, che avevano pesato nei

279
Ibidem.
280
«Voce Diocesana» n. 5, anno VI (3 febbraio 1963), conservata in ASACG, serie Comitato Civico,
busta Comitato Civico Zonale = Locale 1962-1966, fascicolo Comitato Civico Zonale 1966.
281
Ibidem.
282
Cfr. l’opuscolo «La Democrazia Cristiana per lo sviluppo unitario della comunità isontina», conservato
in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1962-1966, fascicolo
Comitato Civico Zonale Elezioni Politiche 1963.

112
rapporti fra i partiti politici all’interno del territorio provinciale. In un contesto ormai
mutato, anche il confine non rappresentava più un problema, ma un’opportunità «per un
più proficuo contatto con la vicina Jugoslavia»283. Richiamandosi alla vocazione
plurisecolare di Gorizia come luogo d’incontro di «civiltà, cultura e bisogni
differenti»284, la DC riteneva necessario che il capoluogo provinciale tornasse a essere
un ponte, per affrontare insieme alle amministrazioni jugoslave le problematiche
d’interesse comune, dal rafforzamento delle infrastrutture alle telecomunicazioni, senza
dimenticare gli scambi culturali. In questo modo, sarebbe stato possibile superare le
problematiche legate a sistemi politici ed economici completamente antitetici.

Fig. 6: Rivista «Noi uomini», anno LXII, n. 17 (28 aprile 1964)


Fonte Archivio Azione Cattolica Presidenza Diocesana Gorizia

D’altra parte, come si può vedere in un volantino distribuito in occasione delle


elezioni regionali del 1964, solo un’amministrazione della Democrazia Cristiana poteva
283
Ibidem.
284
Ibidem.

113
diventare «uno strumento di progresso per tutta la popolazione del confine orientale
d’Italia»285. Per questo, la DC si contrapponeva a tutto ciò che poteva impedire questo
sviluppo, compresi i «nazionalismi esasperati» 286. Paradossalmente, rispetto al decennio
precedente, quando il partito democristiano e – di conseguenza – il Comitato Civico
diocesano si erano proposti come i paladini della patria, il baluardo dell’italianità al
confine orientale del paese, in occasione delle prime elezioni regionali la prospettiva
risultava completamente rovesciata, a dimostrazione dei mutati «segni dei tempi» 287.
Venute meno le tensioni legate alla definizione dei confini e di Trieste, anche il
patriottismo doveva assumere caratteri diversi, meno ideologici e più realistici. Perciò,
non stupisce troppo questo cambiamento nei toni, anche se rimase inalterata la
contrapposizione con il Partito Comunista, anche in ambito regionale, a causa della loro
politica ambivalente proprio nell’ambito del confine orientale. Infatti, come leggiamo
nel volantino, i comunisti «dopo aver sostenuto le tesi di annessione alla Jugoslavia e
dopo aver avversato le autonomie regionali, hanno fatto come sempre, il voltafaccia,
sostenendo le regioni per opportunismo politico» 288. Quest’ultima affermazione risulta
particolarmente interessante se la leggiamo in parallelo a un articolo pubblicato su «Noi
uomini», periodico dell’Unione Uomini di Azione Cattolica, sul numero del 28 aprile
1964. Nell’imminenza delle elezioni regionali, il giornale pubblicava un articolo dal
titolo eloquente, ovvero Smascherateli!289, dove proponeva una breve cronistoria
dell’atteggiamento comunista sul problema del confine orientale italiano, per
denunciarne l’incoerenza, passando dall’annessionismo alla Jugoslavia al voltafaccia
nei confronti di Tito dopo la sua espulsione dal Cominform, per ritornare su posizioni
più concilianti dopo la morte di Stalin e il conseguente riavvicinamento di URSS e
Jugoslavia290.
285
Volantino conservato in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1962-
1966, fascicolo Comitato Civico Zonale Elezioni Politiche 1963.
286
Ibidem.
287
Cfr. Costituzione conciliare Gaudium et spes (7 dicembre 1965), n. 4. Il testo è reperibile in
https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-
ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html, ultima consultazione 15/12/2023.
288
Ibidem.
289
Cfr. «Noi uomini», anno LXII, n. 17 (28 aprile 1964), conservato in ASACG, serie Comitato Civico,
busta Comitato Civico Zonale = Locale 1962-1966, fascicolo Comitato Civico Zonale 1965.
290
Tra l’altro, il tema delle «menzogne» di Togliatti riguardo alla contesa su Trieste era già stata affrontata
nel 1959, in cui era stata proposta un’analoga cronistoria di tutte le «giravolte» del leader comunista

114
Fig. 7: Volantino del Comitato Civico,
realizzato in occasione delle elezioni politiche del 1963
Fonte: Archivio Azione Cattolica Presidenza Diocesana Gorizia

Un’altra problematica affrontata in questo periodo riguardava le minoranze


linguistiche. Se ancora nel decennio precedente il Comitato Civico poteva lamentare la
chiusura delle comunità slovene e l’impossibilità di penetrazione al loro interno nelle
proprie relazioni inviate al presidente nazionale Gedda, a partire dagli anni ’60 e
dall’istituzione della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia il problema delle
minoranze assunse una connotazione diversa. Infatti, in un articolo pubblicato su
«Nuova Iniziativa Isontina», periodico legato al Centro Studi «A. Rizzati», la questione

rispetto a questo tema. A conclusione, nel n. 10 di «Attualità» si affermava: «Per molti italiani Trieste
rimane sempre una parola magica e senza badare a scrupoli egli [Togliatti] non esita a pronunciarla per
farsene bello, come se proprio lui, patriota dell’armata rossa, l’avesse difesa dalle mire di Stalin […]
Bisogna esser pronti di contropiede se non si vuole soccombere di fronte alla girandola di spregiudicate e
grossolane menzogne». Per approfondire, cfr. «Attualità», Rapporto n. 10 dell’Ufficio Psicologico
dell’UNAC (25 novembre 1959), conservato in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico
Zonale = Locale Atti Vari, Comitato Civico Zonale Atti Vari.

115
andava risolta innanzitutto dal punto di vista giuridico, dando piena attuazione
all’articolo 6 della Costituzione italiana. In questo modo, si sarebbe posta fine a un certo
«vittimismo»291 da parte della minoranza slovena che, pur non trovando riscontro nella
normale vita democratica, certamente trovava il suo fondamento nell’indeterminatezza
normativa. Un atteggiamento di maggiore apertura si riscontra in un articolo dal titolo
Spirito cattolico e le minoranze, pubblicato sul settimanale «Voce Isontina» nel 1964 292.
Il testo dimostra uno spirito improntato al dialogo con gli sloveni presenti
nell’Arcidiocesi, in particolare – ovviamente – quelli di fede cattolica. Pur ammettendo
che il passato avesse legittimato un atteggiamento di autodifesa, il pezzo afferma la
necessità di superare «posizioni che la storia ha condannato, […] per cui dovrebbe
venire il momento del dialogo su un terreno sgombro da pregiudizi e da sospetti» 293. In
chiusura, l’autore sottolinea «il più fermo rispetto per le esigenze legittimamente e
naturalmente proprie della minoranza etnica operante nel seno di una comunità che vuol
essere contraddistinta soprattutto dal sigillo dell’amore e della carità evangelica» 294. È,
evidentemente, un atteggiamento nuovo da parte dei cattolici isontini di lingua italiana,
dopo le ostilità reciproche causate dal fascismo e dal difficile secondo dopoguerra.
Questa volontà di incontro e dialogo è riscontrabile anche all’interno del Comitato
Civico, che il 10 ottobre 1965 organizzò una conferenza dal titolo «Minoranze etniche
nella visione cristiana della Pacem in terris», tenuta da padre Mario Castelli, storico
direttore della rivista «Aggiornamenti sociali» 295. Purtroppo non è presente un resoconto
dell’incontro, tuttavia risulta di sicuro interesse la presenza un incontro di questo tipo, a
dimostrazione di un cambio di passo nelle relazioni con la comunità slovena. Inoltre,
l’evento risulta significativo per capire l’evoluzione interna alla stessa Chiesa cattolica,
più attenta al dialogo con la società contemporanea rispetto al passato, dopo il Concilio
Vaticano II.
291
Cfr. «Nuova Iniziativa Isontina» n. 12, anno V (giugno 1963), conservato in ASACG, serie Comitato
Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1962-1966, fascicolo Comitato Civico Zonale Elezioni
Politiche 1963.
292
Per il testo completo, cfr. «Voce Isontina» del 12 aprile 1964, conservato in ASACG, serie Comitato
Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1962-1966, fascicolo Comitato Civico Zonale 1966.
293
Ibidem.
294
Ibidem.
295
Invito del 4 ottobre 1965, conservato in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale
= Locale 1962-1966, fascicolo Comitato Civico Zonale 1966.

116
117
CONCLUSIONI

Al termine di questo lavoro, possiamo trarre un breve bilancio dell’esperienza


quasi ventennale del Comitato Civico diocesano, in relazione alle problematiche
inerenti al confine orientale italiano.
Come abbiamo potuto vedere nel I Capitolo di questo lavoro, il concetto stesso
di confine è stato piegato ai più svariati usi in senso ideologico nel periodo che va dal
1866 al 1954. Insieme alle vicende, spesso drammatiche, che hanno attraversato l’intera
Venezia Giulia e, in particolare, l’Arcidiocesi di Gorizia, la problematica della frontiera
orientale d’Italia ha costituito a lungo uno dei temi più controversi della politica estera
delle entità statali che si sono succedute in questo arco di tempo, oltre ad aver più volte
mutato i suoi contorni, determinando il destino delle diverse componenti etniche che si
sono trovate, alternativamente, a vivere in questi territori. Infatti, a partire dalla fine
della terza guerra d’indipendenza italiana il problema della «Venezia Giulia» costituì
uno dei temi di maggior interesse per gli irredentisti italiani, un gruppo che, è bene
ricordarlo, era minoritario, sia nel Regno d’Italia che nell’impero asburgico. Le
contrapposizioni nazionali divennero più aspre alla vigilia della Grande Guerra, mentre
al termine del conflitto lo Stato italiano si confrontò, per la prima volta, con una
rilevante minoranza etnica sul suo territorio, procedendo a una politica di assimilazione
e snazionalizzazione, in particolare con l’avvento del regime fascista. La Seconda
Guerra Mondiale avrebbe portato a un acuirsi dello scontro, prima con l’invasione della
Jugoslavia da parte dell’Asse nazifascista e poi con la lotta per la liberazione di questi
territori, combattuta dai partigiani jugoslavi e da quelli italiani, con motivazioni spesso
contrastanti fra loro. Al termine del conflitto, la vertenza sul confine orientale italiano,
con la questione di Trieste rimasta per ben nove anni in sospeso, avrebbe determinato un
clima caratterizzato dal sospetto, quando non proprio dall’ostilità, nei confronti di tutto
ciò che proveniva dalla Jugoslavia. Per questo, quindi, in questo arco di tempo doveva
costituire uno dei temi più controversi della politica estera sia dell’Italia che della vicina
Repubblica Federale, guidata dal generale Tito.

118
Nel II Capitolo, abbiamo ripercorso brevemente la storia dell’Arcidiocesi
goriziana, sia dal punto di vista politico che religioso, per comprendere come la
problematica confinaria abbia influito sulla vita dei cattolici nel periodo preso in
considerazione, in un intreccio spesso inestricabile fra la vita politica e quella religiosa.
Infatti, pur configurandosi come una «diocesi anomala» all’indomani della Prima
Guerra Mondiale, quella di Gorizia rappresentò – a tutti gli effetti – un terreno di
incontro, ma anche di scontro, fra le diverse etnie presenti nel suo territorio, vivendo
sulla propria pelle i repentini cambi di regime che si susseguirono nel periodo preso in
considerazione. Infatti, nell’arco di tempo da noi considerato, l’Arcidiocesi goriziana
passò dalla plurisecolare appartenenza all’impero asburgico allo Stato italiano,
confrontandosi con un’entità statale molto differente e, soprattutto, non disposta a
concedere quell’autonomia amministrativa che aveva caratterizzato la compagine
precedente. Con la presa del potere da parte del Partito Nazionale Fascista tali contrasti
dovevano acuirsi, a causa dell’opera di snazionalizzazione della popolazione slovena,
che di fatto costrinse il vescovo Sedej alle dimissioni. Inoltre, il partito cattolico, che
erano stato uno dei protagonisti della politica locale nei primi anni del XX secolo grazie
a figure carismatiche come Luigi Faidutti e Giuseppe Bugatto, venne messo in secondo
piano, fino a costringere il laicato a operare solo in ambito religioso. La Seconda Guerra
Mondiale portò il suo carico di dolore anche nella diocesi di Gorizia, che visse
l’occupazione nazista e poi quella jugoslava, mentre al termine del conflitto fu
sottoposta per un anno e mezzo al Governo Militare Alleato, in attesa di sapere quale
sarebbe stato il destino del capoluogo isontino.
Compresi, quindi, i presupposti che portarono al Trattato di Parigi e al ritorno
dell’Arcidiocesi di Gorizia nel 1947, pur con un territorio fortemente ridimensionato,
abbiamo potuto ricostruire i presupposti storici che fecero da sfondo all’attività del
Comitato Civico diocesano in un periodo di attività quasi ventennale.
Sorti in tutta Italia nel 1948 per iniziativa di Luigi Gedda, con l’approvazione di
papa Pio XII, i Comitati Civici furono un formidabile strumento di supporto per la
Democrazia Cristiana, un esempio di militanza politica, ma anche religiosa, realizzando
l’«apostolato laico» auspicato dalla Chiesa. Infatti, nonostante fosse stato sottolineato

119
che questi organismi dovevano essere indipendenti tanto dal partito quanto dall’Azione
Cattolica296, di fatto le relazioni con entrambi erano strettissime, in quanto gli stessi
presidenti dei Comitati Civici spesso avevano ruoli apicali all’interno dell’associazione,
sia a livello nazionale che locale 297. I toni utilizzati erano aspri, perché si aveva la
sensazione che stesse avvenendo uno scontro fra “bene” e “male”, in quanto nelle
elezioni politiche di quell’anno, le prime in regime repubblicano, rappresentavano una
tappa decisiva, il cui esito avrebbe avuto un effetto a catena sugli equilibri fra i due
blocchi in cui era divisa l’Europa del periodo. Per questo, quindi, vi fu una
mobilitazione di carattere quasi militare degli attivisti, con una ferrea organizzazione
delle strutture. Come abbiamo potuto vedere, infatti, le comunicazioni fra i vertici
nazionali e le varie organizzazioni diocesane e locali erano molto fitte, con dettagliate
istruzioni rilasciate da Gedda e trasmesse a tutti i Comitati Civici parrocchiali 298. Nulla
era lasciato al caso, con un’attenta cura dei dettagli della propaganda 299 e una mappatura
precisa dei singoli seggi e dell’elettorato, compresa l’assistenza al voto dei malati e i
degenti negli ospedali.
Particolarmente aspro era lo scontro ideologico nell’Arcidiocesi di Gorizia, da
poco rientrata sotto l’amministrazione dello Stato italiano, seppur con un territorio
notevolmente ridimensionato rispetto al periodo prebellico. La sensazione di un «deficit
di sicurezza» e la questione ancora aperta di Trieste rendevano queste zone
particolarmente sensibili in ambito politico, dunque l’attività del Comitato Civico
diocesano e delle sue diramazioni parrocchiali trovò un terreno particolarmente fertile,
in particolar modo nella prima fase, dal 1948 al 1954, ovvero fino a quando il
capoluogo giuliano e tutta la Zona A tornarono sotto l’amministrazione italiana. La
possibilità di un’invasione da parte della Jugoslavia era seriamente presa in

296
Cfr. a questo proposito il «Piano organizzativo» del Comitato Civico Nazionale, conservato in
ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato
Civico Zonale 1960-61.
297
Ciò risulta vero a livello nazionale, con Luigi Gedda alla guida sia dell’AC nazionale che del
corrispondente Comitato Civico, ma anche nell’Arcidiocesi di Gorizia, ad esempio nel caso di Camillo
Medeot, che negli anni ’50 fu al contempo presidente del Comitato Civico zonale e della giunta diocesana
di AC, la stessa situazione in cui si trovò Arnolfo De Vittor nel decennio successivo.
298
Cfr. i «Fogli disposizioni», conservati in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico
Zonale = Locale 1948-1952, fascicolo Comitato Civico Zonale 1948.
299
Con l’utilizzo di manifesti e volantini creati ad hoc.

120
considerazione, soprattutto prima dell’espulsione di Tito dal Cominform, avvenuta
proprio nel 1948. Inoltre, il trauma dei 45 giorni di occupazione della Venezia Giulia da
parte dell’esercito partigiano jugoslavo, l’esperienza delle foibe e dell’esodo dall’Istria e
dalla Dalmazia avevano ulteriormente esacerbato gli animi, accendendo il nazionalismo
e l’anticomunismo dell’elettorato cattolico. Per questo, dunque, il Comitato Civico
insisteva particolarmente sul ruolo di Gorizia e del suo territorio come «sentinella
avanzata del mondo libero»300, argine contro un nemico che era tanto esterno quanto
interno. Accanto alle motivazioni politiche per tale impegno, vi era la necessità di
risollevare anche dal punto di vista economico il territorio diocesano, privato del
proprio entroterra e, perciò, degli scambi commerciali transfrontalieri che avevano
luogo prima del conflitto. Solo la Democrazia Cristiana forniva le garanzie per lo
sviluppo di quest’area, dunque era importante garantirle una solida maggioranza sia
nelle elezioni politiche che in quelle amministrative, in modo da poter realizzare quelle
riforme di cui aveva tanto bisogno un’«area depressa» come quella di Gorizia. Accanto
all’impegno politico-sociale, assumeva un ruolo fondamentale anche il lavoro educativo
del Comitato Civico, che voleva sviluppare una «coscienza civica» nell’elettorato
cattolico. Infatti, dopo il ventennio fascista e il conseguente allontanamento del laicato
dall’impegno politico, era fondamentale che i cattolici facessero sentire la propria voce,
allo scopo di costruire secondo i valori cristiani la neonata Repubblica italiana. A questo
scopo, il Comitato Civico zonale fornì una ricca offerta di appuntamenti formativi,
alcuni dei quali dedicati alla questione del confine orientale, fra cui spiccarono
l’incontro con don Marzari del 4 maggio 1953 a Gorizia, dal titolo Vincoli della
coscienza religiosa di fronte alle prossime elezioni, ma anche il ciclo di conferenze La
vita oltre cortina, organizzato nel maggio del 1954, in collaborazione con il Movimento
«Laureati di Azione Cattolica», in tutto il territorio diocesano. Il confronto con la
difficile situazione della Chiesa nei paesi comunisti doveva compattare l’elettorato
cattolico, spingendolo a votare unitariamente per l’unico partito garante della
democrazia e della libertà religiosa, tenendo conto che proprio alle porte di Gorizia era

300
Lettera indirizzata a Marina Vittoria Rossetti del 24 maggio 1954 e conservata in ASACG, serie
Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale
1954.

121
presente un’entità statale che non aveva avuto esitazioni a perseguitare il clero e il
laicato cattolico presenti nel proprio territorio.
Con il ritorno di Trieste allo Stato italiano, anche nell’Arcidiocesi di Gorizia la
problematica del confine sembrò finire in secondo piano, riflettendo un raffreddamento
delle tensioni anche a livello nazionale. Tuttavia, era ancora presente un forte
sentimento patriottico, che rendeva particolarmente complicate le relazioni con la
minoranza slovena presente nell’Arcidiocesi, come si può apprendere in una relazione
del 1956 del presidente, Camillo Medeot301, in cui si possono cogliere toni ancora
piuttosto aspri nei confronti delle comunità slovene. Inoltre, era ancora forte la memoria
dell’occupazione titina nel maggio-giugno del 1945, con strascichi che
compromettevano i rapporti fra le due comunità nazionali presenti nella diocesi, da qui
la diffidenza verso un’apertura all’alleanza con partiti politici di sinistra, ancora visti
come emissari del comunismo internazionale. Per questo, il Comitato Civico diocesano
– in linea con l’impostazione impressa da Luigi Gedda – esprimeva una posizione
conservatrice in ambito politico, riscontrando il pericolo di una compromissione con
forze politiche anticristiane, che avrebbero potuto mettere in discussione perfino
l’appartenenza dell’area diocesana allo Stato italiano, rievocando il pericolo di
un’annessione alla Jugoslavia, che era sempre latente. In questo senso, dunque, per tutti
gli anni ’50 possiamo riscontrare una certa «sindrome da accerchiamento»
nell’orientamento del Comitato Civico nei confronti della problematica del confine,
sintomatica di un più generalizzato «deficit di sicurezza», avvertito in tutto il territorio
regionale.
Un deciso cambiamento in ordine al tema del confine orientale italiano si può
riscontrare all’inizio del nuovo decennio. In una società attraversata da profondi
cambiamenti, nel pieno del boom economico, nasceva l’esigenza di una nuova relazione
con la Repubblica Federale di Jugoslavia. Per questo, la politica provinciale e, con
l’istituzione della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, anche regionale, segnò un
cambio di passo, che avrebbe avuto effetti anche nell’azione del Comitato Civico

301
Relazione al Comitato Civico Nazionale, datata 10 ottobre 1956 e conservata in ASACG, serie
Comitato Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale
1956.

122
diocesano. Allora la frontiera cominciò ad essere avvertita non più come un limite, ma
come un’opportunità, per sviluppare accordi riguardanti temi di comune interesse, dalle
infrastrutture agli scambi commerciali, in un’ottica che assumeva sempre caratteri
sempre più transfrontalieri e integrati. In questo senso, anche all’interno del Comitato
Civico diocesano iniziò a cambiare l’atteggiamento in merito alla vexata quaestio.
Anzitutto, possiamo notare come la preoccupazione per la frontiera fosse finita
decisamente in secondo piano rispetto al decennio precedente, ma allo stesso tempo si
riscontrano anche toni decisamente meno aspri, con alcuni primi, timidi, tentativi di
dialogare con quella minoranza slovena con la quale, ancora negli anni ’50, si riteneva
impossibile qualunque forma di comunicazione. Invece, come dimostra la stampa
diocesana, ma anche l’organizzazione di una conferenza dedicata alle minoranze
linguistiche, si ha l’impressione che i membri del Comitato Civico stessero cambiando
atteggiamento verso i cattolici sloveni dell’Arcidiocesi. Si apriva, quindi, uno spazio
inedito di collaborazione, dopo le incomprensioni e i contrasti dei decenni passati.
Inoltre, i tempi erano decisamente cambiati, anche per effetto del Concilio
Vaticano II. La Chiesa cattolica non aveva più la sensazione di essere una roccaforte
assediata, che dovesse difendere le proprie posizioni di fronte a un mondo ostile, ma
intendeva «scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo» 302, in modo
da «rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura
e sulle loro relazioni reciproche» 303. Ciò implicava anche un profondo ripensamento del
ruolo del laicato cattolico e, in modo particolare, dell’impegno dell’Azione Cattolica in
ambito politico-sociale. Per questo, si determinò la «svolta religiosa» promossa da
Vittorio Bachelet304, che guidò l’AC nazionale dal 1964 al 1973. Anche nell’Arcidiocesi

302
Costituzione pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (7 dicembre 1965),
reperibile in https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-
ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html, ultima consultazione 26/12/2023.
303
Ibidem.
304
Nato a Roma nel 1926, Bachelet si laureò in giurisprudenza nel 1947. Iniziò presto una brillante
carriera accademica, che lo portò a essere docente di diritto amministrativo presso l’Università di Trieste
e, poi, presso la «Sapienza» di Roma. Molto attivo fin da ragazzo nell’Azione Cattolica, fu protagonista
della svolta nell’associazione determinata dal Concilio Vaticano II. Nel 1976 venne eletto consigliere
comunale a Roma e vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Vittorio Bachelet morì a
seguito di un attentato delle Brigate Rosse nel 1980.
Per ulteriori approfondimenti, cfr. https://www.treccani.it/enciclopedia/vittorio-bachelet_%28Dizionario-
Biografico%29/, ultima consultazione 21/01/2024.

123
di Gorizia, dal 1969 l’Azione Cattolica diocesana attuò questo cambiamento nella
propria linea, su impulso di Arnolfo De Vittor che, fra l’altro, era molto amico proprio
di Bachelet. In una società profondamente mutata rispetto al 1948, c’era spazio per
un’apertura anche nei confronti dell’ingombrante vicino frontaliero, oltre che verso la
minoranza interna presente nel territorio diocesano. Fra l’altro, la presidenza di De
Vittor coincise con i due mandati come sindaco di Gorizia di Michele Martina, che si
impegnò in prima persona nel dialogo transfrontaliero, in particolare con il suo omologo
di Nova Gorica. Anche se si trattava di piccoli passi, in un lungo percorso di
rielaborazione delle reciproche memorie, certamente alla chiusura del decennio i tempi
erano maturi per porre fine ai toni «da battaglia» e, dunque, anche all’esperienza stessa
dei Comitati Civici, che avevano così esaurito la loro funzione.
Le vicende del Comitato Civico dell’Arcidiocesi di Gorizia rappresentano,
dunque, un interessante esempio di come la storia locale si può intrecciare con le
problematiche nazionali e internazionali, in un legame molto stretto fra macro- e micro-
cosmo, in particolare in merito alla problematica del confine orientale d’Italia. Infatti, il
percorso di questo organismo permette di toccare con mano l’evoluzione della storia
politica e sociale del territorio diocesano, cogliendo alcuni elementi che ne hanno
determinato l’identità nel secondo dopoguerra. Certamente agirono problematiche di
natura complessa nell’attività di questo organismo, che si intrecciarono profondamente,
anche se non sembra sempre in maniera consapevole. Infatti, è evidente che vent’anni di
feroce campagna anti slovena da parte del regime fascista avevano agito anche
inconsciamente nella mentalità dell’elettorato cattolico, portando a una naturale
diffidenza per qualunque elemento «allogeno». Insieme alle recenti tragedie legate alle
foibe e all’occupazione della Venezia Giulia da parte dei partigiani titini, oltre
all’incertezza sul destino di Gorizia e del suo territorio fra la fine del secondo conflitto
mondiale e il Trattato di Parigi, si vennero a creare le condizioni per la percezione di
una sindrome da accerchiamento che amplificava le problematiche legate al confine
orientale italiano. Infatti, la sensazione che si avvertiva nell’immediato dopoguerra era
anche quella di una lacerazione all’interno dell’Arcidiocesi, che aveva perso gran parte
dei suoi territori in seguito al Trattato di pace, mentre restava in sospeso per altri sette

124
anni la questione del Territorio Libero di Trieste. Questo giustificava i toni militanti,
come possiamo osservare nel resoconto di una conferenza tenuta nel 1953 a Gorizia da
don Marzari305, in cui emergono le rivendicazioni sulla suddivisione confinaria,
avvertita come ingiusta. Inoltre, dai documenti analizzati si ha la netta sensazione che il
“nemico” fosse tanto interno quanto esterno, identificando nei comunisti i traditori della
patria, pronti a cedere Gorizia e, in qualche caso, l’intera Venezia Giulia a Tito 306.
Altrettanta diffidenza emerge nei confronti della popolazione slovena presente nel
territorio diocesano che, pur essendo molto ridotta rispetto al periodo prebellico,
risultava ancora un corpo estraneo, nel quale l’azione del Comitato Civico diocesano e
delle sue diramazioni locali non era sufficientemente efficace 307. La mancanza di
comunicazione e la diffidenza maturata nel corso del Ventennio fascista e acuita con la
fase finale della Seconda Guerra Mondiale e l’occupazione jugoslava della Venezia
Giulia ebbero importanti conseguenze nei rapporti fra gli abitanti italofoni e quelli
sloveni del territorio diocesano, determinando chiusure e incomprensioni.
D’altra parte, lo spirito da «battaglia» del Comitato Civico diocesano era
coerente con l’idea di Chiesa di papa Pio XII, condivisa e propugnata anche da Luigi
Gedda, che vedeva nella fede cristiana il fondamento della società. Per questo, era
fondamentale che i credenti avessero una forte e visibile presenza in ambito civile, in
modo da realizzare concretamente quella societas christiana che era identificata come
l’unica possibile. Perciò, qualunque forma di dissenso rispetto a questo quadro
ideologico risultava inaccettabile e, come tale, andava combattuta 308. Nel nostro
territorio la contrapposizione con il marxismo assumeva toni fortemente patriottici a
causa della questione confinaria, dunque votare per la Democrazia Cristiana significava
anche difendere gli interessi del Paese, percepito continuamente a rischio di
un’invasione da est. Tale atteggiamento veniva appoggiato anche dai vescovi Margotti e
305
Cfr. Conferenza Mons. Marzari, conservata in ASACG, serie Comitato Civico, busta Comitato Civico
Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1953.
306
Come si evince nel «Promemoria» datato 20 gennaio 1953, conservato in ASACG, serie Comitato
Civico, busta Comitato Civico Zonale = Locale 1953-1954, fascicolo Comitato Civico Zonale 1953.
307
Anche questo si evince nel «Promemoria» precedentemente citato, ma anche in una «Relazione al
Comitato Civico Nazionale», datata 10 ottobre 1956 e conservata in ASACG, serie Comitato Civico,
busta Comitato Civico Zonale = Locale 1955-1961, fascicolo Comitato Civico Zonale 1956.
308
Fino ad arrivare alla scomunica, in caso di iscrizione al Partito Comunista, per effetto del decreto n. 1
del S. Uffizio (1° luglio 1949).

125
Ambrosi, che si contrapposero fino alla fine degli anni ’50 a qualunque apertura nei
confronti delle sinistre, esprimendo una visione conservatrice dell’impegno cristiano nel
sociale.
L’atteggiamento ecclesiale iniziò a mutare con papa Giovanni XXIII, che indisse
il Concilio Vaticano II per portare la Chiesa cattolica a un confronto più aperto con il
mondo contemporaneo. Perciò, la contrapposizione serrata con le ideologie politiche
antagoniste al cristianesimo lasciò il posto a un atteggiamento di maggior
comprensione; allo stesso tempo, all’interno dell’Azione Cattolica iniziò a maturare una
«svolta religiosa» che avrebbe portato alla fine dell’esperienza dei Comitati Civici. In
maniera coerente, quindi, anche il Comitato Civico diocesano si adeguò al nuovo stile
comunicativo, ricercando un dialogo maggiore con la società, anche grazie alla
presidenza di Arnolfo De Vittor, maggiormente sensibile a una «cultura dell’incontro»,
più che dello scontro. Questo ebbe dei riflessi anche nell’ambito delle problematiche
confinarie, favorendo una maggiore apertura anche nei confronti della comunità slovena
presente nel territorio diocesano.
In conclusione, quindi, possiamo dire che l’attività del Comitato Civico
diocesano riflette in maniera coerente le problematiche del confine orientale d’Italia
negli anni del secondo dopoguerra, fino alla fine degli anni ’60. Come si è potuto vedere
nella disamina della documentazione conservata in questo fondo archivistico, in tale
periodo non sono mancate le frizioni e le ambiguità, in un contesto in cui gli opposti
nazionalismi rischiavano ancora di confliggere in maniera pericolosa. Con questa
consapevolezza, sarà possibile superare i pregiudizi più o meno latenti in merito alla
questione del confine orientale italiano309, per aprirsi a una vera collaborazione
transfrontaliera, secondo «una logica di integrazione, sperando un giorno di abbattere
anche la frontiera culturale»310, in particolar modo in vista di GO! 2025, quando Nova
Gorica e Gorizia saranno insieme la Capitale europea della cultura.

309
Tanto è vero che nel secondo dopoguerra, come ricorda Sergio Zilli, «un goriziano su due non ha mai
oltrepassato un valico confinario e dei restanti circa la metà lo ha fatto soltanto per acquistare benzina o
carne»; per approfondire, cfr. SERGIO ZILLI, Il confine del Novecento. Ascesa e declino della frontiera
orientale italiana tra Prima Guerra Mondiale e allargamento dell’Unione Europea, cit., p. 38.
310
LUCIO FABI, Gorizia: storia di una città, cit., p. 241.

126
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https://comitatocivico.azionecattolicagorizia.it/site/index.php?area=1&subarea=1
https://www.atlantegrandeguerra.it/
https://www.diocesigorizia.it/arcidiocesi/storia-dellarcidiocesi/
https://www.dizionariobiograficodeifriulani.it/
https://www.treccani.it/biografico/

131
INDICE
INTRODUZIONE p. 2

CAPITOLO I: LA SITUAZIONE DEL CONFINE ORIENTALE, DALL’IRREDENTISMO AL

MEMORANDUM DI LONDRA p. 11
1. I numerosi volti di un confine p. 12
2. Venezia Giulia, una regione «inventata» e contesa p. 15
3. Dalla stagione irredentista alla Grande Guerra p. 18
4. Il primo dopoguerra e il «fascismo di confine» p. 26
5. La seconda guerra mondiale e i movimenti di liberazione p. 34
6. Il secondo dopoguerra, dal Trattato di Pace al Memorandum di Londra p. 42

CAPITOLO II: L’ARCIDIOCESI DI GORIZIA E I SUOI CAMBIAMENTI, DALLA FINE

DEL XIX SECOLO AL SECONDO DOPOGUERRA


p. 4
1. Le identità nazionali dell’Arcidiocesi e la nascita del movimento cristiano-
sociale
p. 48
2. Gli sconvolgimenti della Grande Guerra p. 55
3. Il primo dopoguerra e il confronto con il fascismo in una diocesi «anomala»
p. 57
4. La seconda guerra mondiale e la resistenza p. 66
5. La diocesi «dimezzata» p. 72

CAPITOLO III: IL COMITATO CIVICO DELL’ARCIDIOCESI DI GORIZIA E IL CONFINE

ORIENTALE

p. 75

1. Contenuti e metodo di conservazione relativi all’Archivio del Comitato Civico


dell’Arcidiocesi di Gorizia p. 76

132
2. La situazione dell’Arcidiocesi di Gorizia dal Trattato di Parigi agli anni ‘60
p. 77
3. Storia dell’Azione Cattolica di Gorizia, dalla sua nascita agli anni ’60 p. 83
4. Nascita e sviluppo del comitato civico diocesano di Gorizia p. 91
5. Dalle elezioni del 1948 al ritorno di Trieste all’Italia nel 1954 p. 95
6. L’attività del comitato civico diocesano nella seconda metà degli anni ’50
p. 105
7. L’ultima fase delle attività del comitato civico diocesano (1962-1966) p. 111

CONCLUSIONI p. 118

BIBLIOGRAFIA p. 127
Fonti archivistiche p. 127
Fonti a stampa p. 127
Siti p. 131

133

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