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GIUSEPPE NIGLIACCIO

Quando la Sicilia diventa Italia.


Il Risorgimento nelle opere di Francesco Brancato
fra storia e filosofia

Prefazione di Manlio Corselli

HERBITA EDITRICE
ISBN 978-88-7794-151-8

In copertina elaborazione grafica (skyline di Ciminna) di Salvatore Nigliaccio.

© Copyright by Herbita editrice


Via Vincenzo Errante, 44 Palermo - Tel. 091.6167732 – Fax 091.616.6167716
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Stampato in Italia Printed in Italy


Indice

Prefazione (di Manlio Corselli)…………………………………..p.VII


Al lettore…………………………...……..……………………….p.XI

Capitolo I

Vico profeta del Risorgimento


1.1 L’ereredità vichiana nel processo di unificazione nazionale….….16
1.2 Le prospettive storiografiche sul Vico…………….……………..…..20
1.3 Vincenzo Cuoco e la diffusione del vichismo………………………..22
1.4 Una prospettiva illuminista sulla filosofia di Vico:
Gian Domenico Romagnosi…………………………………..……………29
1.5 Carlo Cattaneo e la filosofia di Vico fra federalismo e spirito
europeo…………………………………………………....………………..…37
1.6 La ricezione di Vico in Piemonte. Balbo e Gioberti……...…………45

Capitolo II

Mezzogiorno, Unità e spirito nazionale. La prospettiva di Brancato


2.1 Quale sguardo sul Risorgimento? Le angolazioni del problema…...49
2.2 Le idee di patria e di libertà in Sicilia.
Popolo, nobiltà e nuova borghesia………………………………………..52
2.3 Tonache rivoluzionarie. Quando il clero sposa la rivolta
armata…………………………………………………………………………67
2.4 La Sicilia, il meridione e l’unificazione nazionale nella riflessione di
Carlo Cattaneo……..………………...…………………………………73
Capitolo III

Brancato e la rivolta del 1866


3.1La rivolta del “sette e mezzo” fra storiografia tradizionale e necessità
di un ripensamento. Lo sguardo di Brancato………….…………………….79
3.2 Prodromi di cambiamento culturale. Il sogno della giustizia sociale in
una terra di paradossi strutturali…...……………..........................……….86
3.3 Giovanni Corrao: la fine di uomo e della rivoluzione?.......................92
3.4 Il partito d’azione dopo Corrao: due linee divergenti…………………97
3.5 Settembre 1866: la fine di un’utopia?...............................................104
Appendice……………………..………………………………………117
Bibliografia…………..………………………………………………..119
Giuseppe Nigliaccio

Prefazione di Manlio Corselli1

Nell’anniversario del primo centenario della nascita, la figura di


Francesco Brancato suscita fra la cerchia degli studiosi un rinnovato
interesse che è precipuo segno della sua inalterata centralità nel
panorama della storiografia e della storia delle idee. E’ indubbio,
infatti, quanto il contributo dell’illustre figlio di Ciminna si configuri
ancora come un prezioso patrimonio di ricerca scientifica svolta con
vasto respiro e profondità di indagine, ricerca che rappresenta un
chiaro modello di impegno intellettuale poggiato da un lato sulla
libertà di pensiero e dall’altro scevro da presupposti dogmatici.
La sua opera storiografica, lontana dai pregiudizi ideologici, sta a
testimoniare le sue non comuni virtù di uomo consacrato al faticoso
lavorio degli studi le quali appaiono costantemente orientate sia ad
una rigorosa obbiettività sia ad un approccio di grande apertura e
generosa liberalità nei riguardi della ricostruzione del passato
umano, sempre, invero, messo a fuoco nei suoi variegati aspetti e nel
ritmo della palingenesi civile e sociale.
Egli fu pertanto un professionista animato da una intensa curiosità
verso la ricchezza spirituale del mondo umano, scrittore
fecondissimo ed impeccabile per la competenza mostrata nel trattare
i molti temi che vertevano sulla continuità della vita storica di un
popolo, da lui piuttosto interpretata come conservazione della
memoria e preparazione di tempi nuovi.
Sotto questa angolazione ed in considerazione che da appena due
anni è trascorsa la celebrazione dei centocinquanta anni della
proclamazione ufficiale della nascita dello stato unitario nazionale
italiano, Nigliaccio, giovane e promettente speranza della tradizione
storiografica di Ciminna, ha voluto rendere omaggio all’illustre

1 Manlio Corselli insegna, in qualità di Professore associato, Filosofia politica presso


l’Università degli studi di Palermo.

VII
Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento negli scritti di Francesco Brancato fra storia e
filosofia

Maestro mettendone in rilievo, in una cornice di senso organica,


l’interesse dedicato alla formazione etico-civile del Risorgimento e
alle problematiche strutturali che lo contraddistinsero.
Con mano ferma e sicura, l’Autore ha saputo ricondurre luoghi e
momenti della produzione di Brancato lungo un filo conduttore assai
originale poiché offre ai lettori la percezione della filigrana di un
progetto storiografico consapevolmente pensato dal Brancato, la cui
ideazione, però, non fu posta in essere secondo i canoni della tipica
sistematica monografia ma fu sminuzzata in un mosaico produttivo
i cui tasselli furono costituiti ora da saggi monografici su singole
questioni meridionali e nazionali ora da corposi articoli che, se
raccolti e riunificati insieme, sarebbero stati un ottimo ed unitario
volume sull’argomento intestato all’elaborazione di una ‘certa idea
dell’Italia’.
Adesso Nigliaccio pone rimedio ad una tale incongruenza
mettendo in un ordine di continuità di riflessione l’impegno volto da
Francesco Brancato a scrutare le radici culturali di una italianità, la
quale appare testimoniata da una linea di pensiero che vichianamente
la fa risalire alla culla della vetusta sapienza degli antichi popoli
italici. Emerge, quindi, che il mito della antiquissima Italorum
sapientia, secondo il filo conduttore della lettura dei testi del
Maestro compiuta dal nostro giovane Autore, può fungere da linfa
vivificatrice dell’unità spirituale e culturale degli Italiani del XIX
secolo, cioè da autentica premessa di un patriottismo atto ad attivare
energie di pensiero e di azione senza scivolare nelle esasperazioni
nazionalistiche o deformarsi nella ricerca genealogica di presunti
precursori.
In sintonia col Maestro, Nigliaccio ripercorre la tesi del Brancato
intorno alla ricezione vichiana nel Risorgimento italiano,
studiandone diligentemente l’impatto, la circolazione e le
suggestioni della lezione del filosofo meridionale tra le figure
intellettuali più eminenti del Risorgimento italiano per condividerne
la conclusione circa quanto essa sia stata fondamentale per forgiare

VIII
Giuseppe Nigliaccio

una visione del mondo storicista nel dibattito della cultura politica
italiana del tempo.
Se la figura e il pensiero di Vico si presentavano in quel tempo
quale punto di riferimento idealmente unitario per consolidare una
sorta di coesione spirituale della nazione colta italiana, più
travagliato appariva il percorso di unificazione sociale e politica dei
popoli della penisola. Questa storia, osserva Nigliaccio sulle orme
del suo famoso concittadino, sfida la complessità di armonizzare e
pacificare il passaggio dalle piccole patrie alla più grande patria
unificata, passaggio assai difficile, scandito da incomprensioni e
sofferenze. Brancato, aggiunge l’Autore, non negò le contraddizioni
che punteggiarono il Risorgimento, scrisse limpide pagine sulle
fratture fra l’antico regime e il nuovo assetto liberal-nazionale, sulla
transizione della dittatura garibaldina, sulla rabbia della rivolta
popolare del ‘Sette e mezzo’, sul malessere sociale di un’isola e
dell’intero meridione che parimenti anelavano ad una profonda
riforma della proprietà terriera.
Nigliaccio nota infatti che «emerge dall’analisi condotta da
Francesco Brancato la consapevolezza che i moti risorgimentali non
possono essere letti in una prospettiva univoca. Esiste una pluralità
di piani di fattori, che intersecandosi hanno dato forma all’Italia, ma
che non sono riconducibili a un principio comune. Non vi è stato,
soprattutto nel meridione, una reale comunione d’intenti fra la varie
fasce della popolazione». Brancato, dunque, delinea una storia
fortemente problematica dell’incontro fra gli Italiani del sud e gli
Italiani del nord senza mai allontanarsi dalla visione patriottica del
raggiungimento di un bene politico lungamente sognato e per il quale
giovani eroi versarono il loro sangue. Tuttavia egli nulla concede alla
retorica nazionalistica ma guarda al riscatto della povera gente,
attingendo agli archivi statali documentatissime pagine dedicate ai
fenomeni dei fasci dei lavoratori e dell’emigrazione siciliana, così
come esplora con scrupolosa attenzione la diffusione del primo
socialismo nell’isola.

IX
Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento negli scritti di Francesco Brancato fra storia e
filosofia

Il lavoro compiuto da Nigliaccio va pertanto oltre il semplice


omaggio nei confronti del Maestro. La sua in realtà è una fatica
intelligente per portare alla luce una sorta di ipertesto che sta
permanentemente presente nell’ordito di tutta la produzione di
Francesco Brancato, un testo legato alla meditazione sul senso, il
significato e il fine del Risorgimento italiano. Far emergere questa
opera per così dire nascosta, riscriverla in maniera palese in un testo
efficace e persuasivo, è motivo di apprezzamento per l’acume di un
giovane studioso verso il quale va la gratitudine di coloro che ebbero
la fortuna e l’onore di essere formati dal magistero di Francesco
Brancato.

Manlio Corselli

X
Giuseppe Nigliaccio

Al lettore

La persona che avendo preso questo libro in mano si accinge a


leggerlo sta compiendo un atto di fiducia. Fiducia che il tempo
dedicato alla lettura di queste pagine non sia sprecato. E visto che il
tempo è il bene più prezioso di cui disponiamo (e l’unico fra l’altro
che non ci può essere rimborsato) non posso che ringraziare per la
fiducia accordatami. Essendo l’autore di questo lavoro, il mio
giudizio sul suo valore non può essere oggettivo (non credo esista un
mercante che non elogi la propria mercanzia).
L’atto di onestà che posso compiere per ripagare la fiducia del
lettore è semplicemente quello di provare a dire in tutta franchezza
perché, in che modo e con quali finalità ho scritto questo libro.
Iniziamo dal perché: questo libro è frutto della curiosità. Si, semplice
e genuina curiosità. Curiosità di conoscere, attraverso le sue opere,
chi fosse Francesco Brancato. In un momento storico in cui gli studi
umanistici non godono probabilmente della dovuta considerazione,
sapere che un mio “compaesano” abbia dedicato la propria esistenza
alla ricerca storica ha prodotto in me la spinta a conoscere la sua
produzione accademica. Non posso rispondere al come ho scritto
queste pagine senza parlare della finalità che ne ha guidato la stesura.
Questo lavoro non mira a presentare una nuova visione dei fatti
del Risorgimento, e non mira neanche a presentare Francesco
Brancato come detentore di una verità altrimenti travisata dagli altri
storici. Il mio scritto vuole essere un omaggio a Brancato, tentando
di rimettere in circolo la sua produzione storiografica tenendo conto
che, benché Brancato sia stato uno scrittore molto prolifico, la sua
produzione presenta una problematicità per chiunque ne voglia
approcciare lo studio: infatti, a fronte di un numero relativamente
ridotto di monografie su specifici argomenti, Francesco Brancato ha
scritto un numero enorme di preziosi saggi (che, lungi dall’essere
disorganici hanno, fra loro, una intima e originale organicità), che
non rendono però immediato l’approccio alle sue opere. Ho posto il

XI
Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento negli scritti di Francesco Brancato fra storia e
filosofia

focus del mio lavoro nel tentativo di analisi di come Francesco


Brancato abbia descritto il processo di creazione dello Stato italiano,
avendo come baricentro (ma non come vincolo) l’Italia del sud e la
Sicilia in particolare. Per quanto riguarda le fonti primarie, ovvero le
opere di Brancato, ho concentrato l’attenzione su quelle monografie
che più hanno raccolto il frutto dell’attività di ricerca dello storico
ciminnese, cercando di non trascurare mai l’apporto fornito dalla
produzioni saggistica quando particolarmente significativa e
originale. Anche quando non direttamente citati, articoli e saggi di
Brancato fanno da cornice alle opere con le quali mi sono più
analiticamente confrontato. Per quanto riguarda le fonti secondarie,
che in questa sede sono rappresentate dal copioso numero di
documenti d’archivio e dalla letteratura specialistica citati da
Brancato, ho scelto di inserire in nota (e non in bibliografia) le stesse
indicazioni bibliografiche forniteci da Francesco Brancato. A questo
punto è legittimo che il lettore domandi: se questo libro è un omaggio
a Brancato e soprattutto un omaggio che non ha la pretesa di portare
alla luce verità nascoste, non c’è il rischio che queste pagine non
siano altro che una sterile liturgia di desuete prospettive
storiografiche? La mia risposta non può che essere no, e adesso
tenterò di motivarne la ragione. La storia come disciplina ha delle
specificità che ne permeano la struttura epistemologica, cioè la
rendono una materia alla quale non ci si può approcciare
dimenticandosi di come effettivamente si “faccia” la storia. Quando
si compie il passaggio dalla storia evenemenziale all’interpretazione
storiografica emerge, in modo più o meno esplicito, il
prospettivisimo che fisiologicamente condiziona ogni storico. Ora,
non si vuole banalmente affermare che la storia sia una disciplina
consacrata al più becero relativismo: anzi è tutto l’opposto.
Immaginando che la distanza temporale che separa uno storico
dagli eventi che racconta sia una distanza fisica, geografica, appare
immediato il significato del prospettivismo cui alludevo prima.
Paragoniamo il compito dello storico a quello di un geografo che
deve descrivere e interpretare le caratteristiche di un territorio che

XII
Giuseppe Nigliaccio

può osservare e studiare dalla propria particolare e parziale


posizione. Entrambi, sia lo storico che il geografo sono condizionati,
nel loro compito, dalla costitutiva finitezza della loro possibilità di
osservazione, ma fra le due figure intercorre una significativa
differenza. Immaginiamo adesso che, decenni dopo che un geografo
e uno storico abbiamo effettuato le loro osservazioni e scritto le loro
riflessioni su ciò che hanno visto, alcuni studiosi attratti dalla lettura
di quelle pagine decidano di analizzare nuovamente quegli oggetti
(il paesaggio o l’evento storico) dalla stessa prospettiva da cui la
descrissero i loro predecessori. Per quanto riguarda i geografi – a
meno di cataclismatici eventi in grado di alterare sostanzialmente le
caratteristiche topografiche di un’area – il compito non presenta
particolari difficoltà. Per gli storici, invece, il compito assume delle
connotazioni vicine all’impossibilità. Pur ammettendo che i novelli
storici abbiano recuperato le medesime fonti su cui il loro
predecessore ha basato i propri studi, essi non potranno mai guardare
agli stessi fatti dalla medesima prospettiva. L’esser nel tempo
dell’essere umano vincola l’esistenza di ogni uomo ad una posizione
di assoluta unicità nel corso della storia. Scrivere di storia significa
guardare il mondo da una finestra che lo scorrere degli anni chiuderà
inesorabilmente. Un uomo di ottant’anni che vuole guardare alla
propria storia personale, ad esempio la propria fanciullezza, lo può
fare solo attraverso gli anni che lo separano da quella fase della sua
vita. Non potrà mai guardare alla propria fanciullezza con lo stesso
sguardo con cui l’avrebbe potuta guardare a trent’anni. Anche
parlando della storia di una nazione vale la stessa legge. Noi
possiamo guardare alla storia dell’Italia solamente dalla nostra
prospettiva e non da quella degli italiani di qualche decennio fa.
L’unico modo per guardare alla nostra storia dalla prospettiva con
cui l’osservava chi ci ha preceduto (avendo quindi una comprensione
più profonda del nostro essere nazione) è quella di leggere le loro
testimonianze. In tal senso diventa importante leggere di nuovo le
opere di Francesco Brancato, nonostante esse possano giustamente

XIII
Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento negli scritti di Francesco Brancato fra storia e
filosofia

essere considerate dalla storiografia contemporanea come pagine


desuete e superate. Convinto di ciò ho scritto le seguenti pagine.

Ps. Questo libro non avrebbe potuto vedere il proprio compimento


senza la presenza di diverse persone che mi hanno sostenuto e mi sono
state accanto. Giusy e la mia famiglia innanzitutto. Poi voglio
ringraziare il Professore Manlio Corselli per aver voluto scrivere la
prefazione della mia opera, dandomi motivo d’orgoglio. Hanno letto
queste pagine fornendomi utili consigli la Dott.ssa Giusy Lo Verde e
il Dott. Antonino Rubino; non posso non ringraziare l’amico Vito
Fellino, il quale si è speso con benevolenza affinché il mio studio si
concretizzasse in questo volume. Quanto di mediocre ed erroneo è
presente in queste pagine è da addebitare esclusivamente alla mia
manchevolezza.

G.N.

XIV
Giuseppe Nigliaccio

L'Italia senza la Sicilia, non lascia nello


spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si
trova la chiave di tutto [...] La purezza dei
contorni, la morbidezza di ogni cosa, la
cedevole scambievolezza delle tinte, l'unità
armonica del cielo col mare e del mare con
la terra... chi li ha visti una sola volta, li
possederà per tutta la vita.

J.W. Goethe

La tradizione non è una statua immobile,


ma vive e rampolla come un fiume
impetuoso che tanto più s’ingrossa quanto
più s’allontana dalla sua origine.

G.W.F. Hegel

XV
Capitolo I

Vico profeta del Risorgimento

1.1 L’eredità vichiana nel processo di unificazione nazionale

Giambattista Vico (1668-1744) fu uno degli autori cui Francesco


Brancato dedicò particolare attenzione ritenendo fondamentale il
contributo, per quanto indiretto, fornito dal filosofo napoletano a
quell’insieme di movimenti culturali e politici che hanno contribuito
alla formazione dello spirito nazionale italiano. Bisogna precisare,
in merito al carattere generalizzante dell’espressione spirito
nazionale, come nel contesto storico del XIX secolo essa non abbia
avuto un’accezione univoca. Dietro al vessillo di una nazione1
italiana da creare (o da restaurare, in base alle prospettive) si trovano
infatti pensatori e uomini politici, apportatori di eredità culturali e
politiche decisamente eterogenee.
Cosa accomuna uomini come Vincenzo Cuoco, Gian Domenico
Romagnosi, Cataldo Jannelli con, ad esempio, Carlo Cattaneo,
Cesare Balbo e Vincenzo Gioberti?
1 Nonostante oggi Stato e Nazione vengano utilizzati nel linguaggio comune quasi come

sinonimi, in realtà essi designano due concetti distinti, anche se ricchi di varie accezioni
che rendono molto problematico formularne una definizione univoca e di cui, in questa
sede, è impossibile dare conto. Ci si limita, al fine di chiarire il passo in questione, e con
tutti i rischi delle generalizzazioni, a indicare come il concetto di Stato indichi l’apparato
burocratico e giuridico in grado di governare coercitivamente un determinato popolo
all’interno di determinati confini territoriali. Il concetto di Nazione, invece, rimanda (in
teoria) alla comune radice culturale, religiosa e politica di un popolo, radice che ne ha nei
secoli irrorato la vita, condizionandone la progressiva presa di coscienza della comune
identità.

- 16 -
Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Secondo Francesco Brancato è possibile rintracciare, nelle opere e


nelle vite di molti protagonisti del periodo risorgimentale,2 la
convinzione che riuscire ad unificare l’Italia non avrebbe significato
edificare un soggetto politico ex novo, ma che la creazione dello
Stato Italiano avrebbe trovato la propria legittimità nell’esistenza
plurisecolare di una nazione italiana.
In tal ottica i sostenitori dell’esistenza della nazione italiana non
poterono non confrontarsi con l’eredità filosofica, culturale e
spirituale di Giambattista Vico, il quale nel De antiquissima
Italorum sapientia3 (1710) sostenne l’idea di una civiltà e di una
sapienza propria delle popolazioni italiche, che essendo antecedente
anche alla stessa civiltà greca, attribuisse all’Italia una sorta di
primato morale nella storia dell’incivilimento del mondo. L’aver
posto l’Italia in un piano di primalità nei confronti delle altre genti
ha reso il Vico, secondo buona parte della storiografia
risorgimentale, una sorta di profeta ante litteram dell’unità e dello
spirito nazionale italiano, e in tal senso che Brancato afferma:

tra le componenti che maggiormente contribuirono a formare la


spiritualità romantica in Italia, da cui doveva poi scaturire quel
moto di pensiero e d’azione che condusse all’unificazione
politica nazionale, un posto di rilievo occupano certamente le
dottrine del Vico che, proprio nella prima metà dell’Ottocento,
ebbero, nella nostra penisola, la loro maggiore fortuna e che,
comunque intese, valsero ad alimentare le discussioni e le
polemiche che accompagnarono il movimento unitario e lo
spirito risorgimentale. 4

2Si fa qui riferimento alla categoria storiografica del Risorgimento nella consapevolezza
della natura convenzionale di molte periodizzazioni, e quindi non ci si atterrà all’anno 1815
(Congresso di Vienna) come terminus post quem poter parlare di movimento
risorgimentale.
3Cfr. Giambattista Vico, Opere filosofiche, a cura di P. Cristofolini, Firenze, Sansoni, 1971.
4 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, Flaccovio, Palermo, 1969, p. I. (corsivo originale).

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Giuseppe Nigliaccio

Ora, prima di cercare di rintracciare, con l’aiuto del Brancato, le


espressioni della cultura risorgimentale di ascendenza vichiana è
opportuno portare avanti una breve precisazione sulla figura del
Vico, seguendo lo spunto che in tal direzione fornisce lo stesso
studioso ciminnese.
Secondo Francesco Brancato deve essere confutata, o meglio
ridimensionata, l’immagine del filosofo napoletano che, avulso da
qualsiasi contatto con la cultura del proprio tempo, conduceva le
proprie ricerche nell’isolamento del castello di Vatolla. Sostiene a
proposito il Brancato che

a creare l’immagine di un Vico isolato ed estraneo ai suoi tempi


ha dato l’avvio egli stesso, avendo nella sua Autobiografia
affermato di aver fatto il maggior corso dei suoi studi «senza
niun affanno di setta e non nella città, nella quale, come moda di
vesti, si cangiava ogni due o tre anni di lettere», ma nel castello
di Vatolla, lontano da ogni contatto col mondo, per cui vivendo
non solo da «straniero», ma anche «sconosciuto», quando
ritornò dopo nove anni in città «si ricevè in Napoli come
forestiero nella sua patria» (G.Vico, L’autobiografia, con
introduzione e note di M. F. Sciacca, Napoli, Perrella, 1938, pp.
40-43).5

Nonostante quanto appena detto paia avallare l’immagine quasi


ascetica ed apolide del Vico, non si può non considerare che

egli, al contrario fu a contatto vivo con la cultura del suo tempo,


la quale agì sul suo spirito provocando per molta parte una
profonda reazione da cui appunto nacque la sua nuova
concezione filosofica, che altrimenti non sarebbe neppure
spiegabile. Giusta è perciò la considerazione che egli abbia avuto
a suoi Maestri non solo i «quattro auttori (sic)» da lui
5 F. Brancato, Filosofia della storia e storiografia nell’età dell’Illuminismo, Edizioni

Célèbes, Trapani, 1967, p.19.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

specificatamente ricordati: Platone, Tacito, Bacone e Grozio, ma


anche altri scrittori e filosofi allora in voga, da cui pare deve aver
tratto stimolo alla sua speculazione e fra i quali ritengo vada
posto anche il Bodin che egli esplicitamente confuta nella
Scienza Nuova, dedicandogli addirittura un capitolo.6

Bisogna infatti ricordare che Napoli, a cavallo fra il XVII e il


XVIII secolo, era uno dei centri culturali più vivaci dell’intera
penisola, e non a caso annota Brancato come nonostante «la crisi
profonda determinata dalla particolarità politica e religiosa del paese
e dalla Controriforma, culminante, nel campo scientifico e
filosofico, nella condanna del copernicanesimo e nella conseguente
chiusura (1667) dell’Accademia del Cimento a Firenze[…]»7 la città
campana fosse un fertile terreno di incontri e discussioni sul piano
filosofico e politico e infatti «non v’era corrente di pensiero che
aveva avuto grande risonanza in Europa che non fosse rappresentata
nella città partenopea, dall’epicureismo al cartesianesimo, al
neoplatonismo, alle dottrine del Bacone e del Bruno».8
Scrostare dalle spalle del Vico la polverosa immagine di
intellettuale del tutto insensibile agli avvenimenti politici e scevro da
qualsiasi contatto con la cultura del proprio tempo significa restituire
un pensatore arguto ed originale al corso della storia e, nel momento
in cui si indicano le radici del suo pensiero, si legittima l’esigenza di
ricercare ciò che di vichiano si è innestato nella storia della cultura
dando, come si è già accennato, frutti particolarmente significativi
nel periodo risorgimentale.

6 Ibidem.
7 Ivi, p.20.
8Ibidem.

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Giuseppe Nigliaccio

1.2 Le prospettive storiografiche sul Vico

Vico fu un filosofo e uno studioso dal pensiero poliedrico e quindi


difficilmente definibile secondo le categorie della storiografia e
dall’abbondante produzione letteraria: ciò ha reso possibile nei
secoli interpretare il pensiero del filosofo napoletano alla luce delle
necessità che le contingenze storiche man mano presentavano.
Consapevole di quanto detto, e riprendendo una teoria di
Benedetto Croce,9 Francesco Brancato sostiene che il pensiero di
Vico nel Risorgimento fu ripreso e rielaborato tanto da esponenti del
“neo-guelfismo” (Gioberti e Balbo, ad esempio) quanto da
personaggi appartenenti all’ambiente “radicale” (Cattaneo e Ferrari)
e continua affermando che

occorre rilevare che proprio a tali trasfigurazioni e a tali


fraintendimenti, se così possono dirsi, si deve anche la fortuna del
Vico, alla cui diffusione giovò appunto la stessa indeterminatezza, per
molti aspetti, del suo pensiero, per cui poterono trovarvi elementi di
appoggio tutte le correnti filosofiche, dal positivismo allo
spiritualismo, all’idealismo, nonché tutte le correnti politiche, da quelle
conservatrici, a quelle moderate, a quelle radicali. 10

È interessante notare come a favorire la fortuna del Vico abbia


contribuito, secondo Brancato, la cicatrice lasciata nel cuore
dell’Europa dalla deriva sanguinaria della rivoluzione francese11 e di
altri accadimenti ad essa collegati come la rivoluzione napoletana
del 1799. Tali burrascosi eventi, infatti, rischiarono di tranciare di
netto ogni legame con la storia e l’identità dei popoli che li subivano,
cosicché da essi conseguì «un più profondo interesse per il passato e
9 Cfr. B. Croce, La fortuna del Vico, in La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza,

1933.
10 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., pp.19-20.
11 Cfr. P. Gueniffey, La Politique de la Terreur. Essai sur la violence révolutionnaire

1789-1794. Fayard, Paris,2003.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

le tradizioni»12 finendo per far emergere la convinzione e la necessità


di

evitare sovvertimenti troppo spinti che possano compromettere


la stessa continuità storica di certe forme di vita. Ciò spiega
perché l’esaltazione di Vico nel Risorgimento raggiunge il
culmine proprio con chi, in nome della tradizione e di ciò che vi
era stato di più peculiare nella storia dell’Italia, la religione
cattolica e il Papato, auspica una ripresa spirituale e politica che,
sulla base di quella istituzione, possa restaurare il primato
morale e civile deli italiani.13

Bisogna sottolineare infine come vi fu un acceso ritorno di


interesse per il filosofo campano in piena epoca fascista14 «quando
si amò andare in cerca di “precursori” e l’esaltazione nazionalistica
si manifestò pure abbondantemente negli studi e nella cultura con
toni solennemente oratori»,15 tentando di leggerne le opere
«richiamando isolatamente questo o quel punto[…] senza neppure
sforzarsi di coglierne quell’intima connessione che valesse almeno
come tentativo di un’organica interpretazione del pensiero del
Vico».16
Si cercò, più o meno velatamente, di fare dunque del pensatore
partenopeo un precursore e un apologeta dell’acceso nazionalismo
fascista «esaltandone il presunto spirito militarista».17 Ora, per non
rischiare di perdere di vista l’oggetto di questa trattazione, ovvero
l’eredità vichiana nel Risorgimento, è opportuno dare spazio
all’analisi, compiuta da Brancato, del pensiero dei “protagonisti” del
processo di unificazione nazionale, nella consapevolezza che
12 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.22.
13 Ibidem.
14 Cfr. E. Rota, La passione eroica nel Vico e il problema filosofico della risurrezione

d’Italia in Le origini del Risorgimento, Milano, F. Vallardi, 1938.


15 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.18.
16Ibidem.
17Ibidem.

- 21 -
Giuseppe Nigliaccio

«soltanto se “vichianamente” riportate nel clima delle passioni


risorgimentali potranno essere colte nel loro significato oltre che
speculativo anche umano e adeguatamente valutate le diverse e, a
volte, contrastanti interpretazioni fatte allora della dottrina del
Vico».18

1.3 Vincenzo Cuoco e la diffusione del vichismo

Nonostante il fatto che Giambattista Vico abbia legato quasi


interamente la propria esistenza a Napoli, sua città natale, bisogna
considerare che «ai primi dell’Ottocento il maggior centro del
vichismo in Italia non è Napoli,[…] ma Milano dove, dopo la
rivoluzione partenopea del 1799, erano andati […] a rifugiarsi
Vincenzo Cuoco, Francesco Lomonaco e Francesco Saverio
Salfi»19che contribuirono in maniera decisiva alla diffusione del
pensiero di Vico. Particolar attenzione ha suscitato, agli occhi di
Brancato, la figura del Cuoco che è stata particolare oggetto di studio
da parte dello storico ciminnese.
Esule a Parigi prima e a Milano poi in seguito all’infelice esito
dell’esperimento repubblicano a Napoli, le sue opere principali sono
il Saggio storico sulla Rivoluzione napoletana del 1799, pubblicato
nella città lombarda nel 1801, che secondo Brancato può essere
considerata «la prima interpretazione storiografica improntata
all’insegnamento del Vico»20, e il Platone in Italia, edito sempre nel
capoluogo meneghino in tre volumi fra il 1804-1806. Emblema della
stima del Cuoco «che del vichismo a Milano fu il più appassionato
rappresentante, il primo vero divulgatore»21 nei confronti del
18Ivi, p.27.
19Ivi, p.31.
20Ibidem.
21Ivi, p.32.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

filosofo partenopeo è, come ci mostra Brancato, il seguento pezzo,


estratto da un articolo del Giornale Italiano:

Vico è il primo in Europa il quale dalle parole di un popolo abbia


saputo scoprire le sue idee e dalla sua lingua abbia scoperta la sua
filosofia; Vico dalle parole ha conosciuto i costumi, i governi, le
vicende, la cronologia; Vico è il primo autore di questa scienza
nuova.22

La capacità di saper leggere le tradizioni, le istituzioni e le forme


di governo di un determinato popolo come concretizzazioni delle
categorie mentali del suddetto non può non portare, secondo il
Cuoco, a volgere lo sguardo alla storia per trovare in essa le ragioni
del presente e le premesse del futuro. Quali conseguenze ha quanto
detto nella lettura che, dei fatti politici a lui contemporanei, porta
avanti il Cuoco? Secondo Brancato vi è una chiara radice vichiana
nella lettura che lo scrittore molisano compie della travagliata e
breve vita della repubblica napoletana, e ciò non può che giustificare

l’atteggiamento di assoluta condanna preso dal Cuoco nel Saggio


Storico nei confronti dei rivoluzionari napoletani del 1799 in quanto,
avendo essi tentato di trapiantare in terreno non proprio principi sorti
in altre contrade diversamente formate storicamente, avrebbe finito per
arrecare il massimo male al paese.23

E ciò è dovuto al fatto che

il Cuoco avrebbe invece voluto che fossero stati tenuti in massimo


conto nella loro azione dai rivoluzionari di Napoli lo stato delle condi-
zioni locali, le tradizioni e le tendenze del popolo storicamente
determinatesi, elevando così a canone universale il principio astratto
che le rivoluzioni possibili sarebbero quelle che nei loro fini si
riattaccano al passato, mentre sortirebbero male quelle che, come la

22 V. Cuoco, da «Giornale Italiano» del 24/02/1804 in Scritti Vari, Bari, Laterza, 1924, p.

80., cit. in F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.32.


23 F. Brancato, Vico nel Risorgimento,cit., p.35.

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Giuseppe Nigliaccio

rivoluzione partenopea del 1799, pretendessero di far trionfare principi


che avrebbero avuto origine in ambiente diverso da quello in cui si
vorrebbero applicare. 24

Può essere utile qualche precisazione in merito al significato che


la storia e il passato potevano ricoprire per gli intellettuali che, come
il Cuoco, si sono trovati a confrontarsi con il clima politico e
culturale successivo alla rivoluzione francese.
Lungi dall’esser considerata una sterile ripetizione del già
accaduto, la storia venne letta, agli inizi del XIX secolo, in un’ottica
quasi antropologicamente normativa.
La rivoluzione francese, è bene ricordare, non fu solamente un
tentativo di sovvertimento della gestione politica del paese alterando
i rapporti di potere fra le classi, ma mirò a strutturare la nuova so-
cietà, in ogni suo aspetto, su valori e presupposti ideologici molto
diversi, se non diametralmente opposti a quelli su cui, nel bene o nel
male, la Francia aveva costruito la propria storia.
Anche il cattolicesimo venne spesso considerato come retaggio
dell’Ancien Régime, e come tale osteggiato. Si cercò, in sostanza, di
modificare il modo in cui l’uomo percepiva il proprio essere nel
mondo, e si tentò di realizzare tale obiettivo cambiando il fulcro
simbolico dell’insieme delle relazioni che legava l’uomo alla
società, alla nazione, alla storia. Si possono leggere in quest’ottica
alcuni eventi significativi che scandiscono l’evoluzione del processo
rivoluzionario.
Ci si riferisce specificamente all’adozione del calendario
rivoluzionario25 (1793-1806) che, oltre a soppiantare il calendario
gregoriano, finì per alterare in toto la vita della popolazione, ad
esempio sul piano lavorativo alterando il rapporto fra giorni feriali e
festivi (i mesi del calendario rivoluzionario erano suddivisi in decadi
non in settimane, ed era previsto un giorno di riposo ogni nove
lavorativi). Sul piano religioso, si tentò di sradicare ogni legame fra
24 Ibidem.
25 Cfr. Charles Tilly, La Vandea, Rosemberg e Sellior, Torino 1976.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

la temporalità dell’anno legale e quella dell’anno liturgico, il che


significava, soprattutto per le classi meno colte, togliere nella
quotidianità qualsiasi richiamo alla sfera del sacro.
Sulla stessa falsariga può, per certi versi, essere considerato
anche l'editto di Saint Cloud, emanato il 12 giugno 1804 da
Napoleone che, in nome dell’esasperato egualitarismo giacobino,
regolamentava non solo la costruzione dei cimiteri, ma poneva ferree
restrizioni allo stesso culto dei defunti. Se l’adozione del calendario
rivoluzionario è l’emblema della concezione storica illuminista che
proiettava l’umanità nella via di una perfettibilità infinita ed
indefinita26, l'editto di Saint Cloud fu quasi percepito come un
attacco frontale alla pietas popolare e a quell’insieme di valori sui
quali l’Europa cristiana aveva basato la propria identità. Ciò è
perfettamente visibile, come è risaputo, nel famoso Carme I Sepolcri
di Foscolo; ma quale pertinenza ha tutto questo nell’ottica della
nostra trattazione?
Questa parentesi, oltre che a delineare brevemente e per sommi
capi il clima culturale che allora anche in Italia si respirava, è
funzionale a inserire (rimarcandone il reale influsso) Vincenzo
Cuoco nel circuito culturale a lui contemporaneo, infatti ci mostra il
Brancato che in Lombardia

oltre che rapporti di cultura nel nuovo ambiente gli esuli


napoletani crearono anche rapporti di intima ed umana
solidarietà con quanti com’essi sentivano interesse per i
problemi più urgenti del paese. A Milano essi strinsero amicizia,
fra gli altri, con il Foscolo ed il Manzoni, influendo anche sul
loro orientamento culturale e spirituale. Quel tanto di vichiano
che c’è nel Foscolo (si ricordino per esempio le umane belve che
pietose di se stesse e d’altrui danno principio al culto delle
tombe e la famosa esortazione: «O italiani, io vi esorto alle
26 Cfr.Claudio De Boni, Condorcet: l'esprit général nella rivoluzione francese, Bulzoni,

Roma, 1989.

- 25 -
Giuseppe Nigliaccio

storie!») […] si deve certamente in massima parte ai contatti


avuti con i patrioti napoletani, e massimamente con il Cuoco.27

Ora, per ritornare alla critica che il pensatore molisano portò


avanti nei confronti dei rivoluzionari partenopei è possibile leggere
l’argomentazione del Cuoco con le categorie, proprie della filosofia
aristotelica, di atto e potenza. È utile chiarire la questione, infatti
secondo il Cuoco «tutt’i popoli hanno un periodo di vita certo, quasi
fatale il quale incomincia dall’estrema barbarie, cioè dall’estrema
ignoranza ed oppressione, e finisce nell’estrema licenza di ordini, di
costumi, d’idee».28
La vita delle nazioni, quindi, non può essere stravolta da
accadimenti come la rivoluzione partenopea del ’99 che non hanno
le proprie radici nella storia delle stesse.
Una rivoluzione politica non può far altro, nell’ottica
dell’intellettuale molisano, che mettere in atto le potenzialità che una
determinata nazione o un preciso popolo possiede e che la storia
custodisce come preziosi germogli sempre pronti ad attecchire non
appena liberati dalle degradanti derive che la storia ciclicamente
intraprende.
Risulta particolarmente chiaro allora il fatto che Brancato scriva

è naturale che il tentativo giacobino del ’99 non solo apparisse al Cuoco
antistorico e contrario ai veri interessi del paese, perché fondato su
principi non aventi radici nel terreno stesso in cui si sarebbero voluti
applicare, ma anche nocivo e delittuoso perché avrebbe spezzato
l’unità dello sviluppo storico di quel popolo.29

Rientrato a Napoli sotto Giuseppe Bonaparte (1806), e avendo


ricoperto importanti incarichi durante il regno di Gioacchino Murat,
27 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., pp. 31-32.
28 V. Cuoco, Il pensiero educativo e politico. Introduzione e note di N. Cortese, Perugia-
Venezia, La Nuova Italia, 1929, pp. 69-70., cit. in F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit.,
p.36.
29 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.36.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

il Cuoco dedicò molto impegno all’elaborazione di un sistema


pedagogico nazionale, cioè di un sistema scolastico che portasse in
sé l’eredità culturale e spirituale del popolo in questione; ciò è, come
riporta Brancato, la conseguenza della convinzione secondo cui «i
popoli più civili sono infatti quelli nei quali è più viva la coscienza
del proprio passato […] perché solo una tale coscienza può formare
in essi veramente un’unità spirituale e quindi di cultura e di
civiltà».30 Il Cuoco elaborò un piano di riforma dell’istruzione
pubblica del nuovo regno di Napoli e lo rese pubblico nel Rapporto
al Re G. Murat sul progetto di decreto per l’ordinamento della
Pubblica Istruzione del regno di Napoli.31
È funzionale citare quest’opera nel nostro contesto per cercare di
delineare un ulteriore versante dell’eredità vichiana nell’opera del
Cuoco; infatti si deve notare, con Brancato, che avendo posto
l’istruzione quale «fondamento essenziale per un perfetto
ordinamento statale e, quindi, per il raggiungimento dei più alti fini
politici, egli (Vincenzo Cuoco) pone come principio che essa deve
essere universale, pubblica ed uniforme».32 Continua lo studioso
ciminnese asserendo che

è notevole che il Cuoco, in questa sua concezione laica e totalitaria


dell’istruzione pubblica, faccia ancora appello al Vico, particolarmente
a proposito di un nuovo insegnamento da lui proposto, quello della
filologia su cui l’autore della Scienza nuova, […] sarebbe stato il primo
a dare norme sicure, avendo dimostrato la legge colla quale si forma il
linguaggio, non dell’individuo, il che era stato detto da molti, ma delle
nazioni, il che non era stato detto da niuno.33

30 Ivi, p.37.
31 Cfr. V. Cuoco, Rapporto al Re G. Murat sul progetto di decreto per l’ordinamento della
Pubblica Istruzione del regno di Napoli, a cura di E. Cipriani, L’Aquila, Vecchioni, 1925,
cit. in F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit.,p.38.
32F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit.,p.38.
33Ibidem.

- 27 -
Giuseppe Nigliaccio

La filologia diviene quindi la chiave di volta per poter ideare, o


ordinare, l’istruzione pubblica in perfetta sintonia con la storia di un
determinato popolo, le cui nuove generazioni saranno educate in
continuità con le passate: in tal modo il progresso non sarà il
generico e indefinito progresso illuminista, ma sarà sempre il
progresso, l’evoluzione di un determinato popolo, le cui idee,
inclinazioni e virtù rimarranno alla storia attraverso il linguaggio.
Non deve stupire quindi il fatto che

l’educazione pertanto non è concepita dal Cuoco come acquisizione di


capacità ad agire con libertà, intesa per se stessa, avente cioè una sua
intrinseca validità, ma come formazione meglio atta a vivere in seno al
gruppo sociale di cui si fa parte. Perciò attribuisce la prerogativa di
educare alla classe che detiene il potere, cioè agli uomini colti che
costituiscono anche platonicamente il ceto dirigente, che però nei
confronti del popolo, istintivo e passionale, deve avere l’abilità di
cattivarsene la benevolenza ponendo un freno alle sue passioni e ai suoi
istinti, appunto educandolo secondo le esigenze che, volta a volta si
presentano, se non vuole perderne l’appoggio.34

Ora, concludendosi la parte di questo lavoro dedicata a Vincenzo


Cuoco, al fine di rimarcarne l’importanza, ci si rivolge nuovamente
alle parole del Brancato, il quale afferma:

pertanto al Cuoco, più che ad influenze inglesi, si riattacca il


liberalismo risorgimentale italiano […], al Cuoco, filtrato attraverso il
Vico il quale, nei termini in cui lo scrittore molisano lo interpretò e lo
espose, ben si prestava ad essere inteso come il massimo teorizzatore
ed assertore del moderatismo.35

34 Ivi, p.37.
35Ivi,p.43.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

1.4 Una prospettiva illuminista sulla filosofia di Vico: Gian


Domenico Romagnosi

Dopo aver cercato di scorgere il legame che unisce Vico a


Vincenzo Cuoco, adesso si andrà ad analizzare come venne recepito
il pensiero del filosofo partenopeo da un intellettuale, quale Gian
Domenico Romagnosi (1761-1835), di chiara formazione
illuminista. Benché la sua fama sia dovuta principalmente alla sua
fortunata opera, Genesi del diritto penale (1791), è qui opportuno
privilegiare la sua elaborazione di una filosofia della storia.
Di particolare interesse, ai fini della nostra trattazione è infatti la
convinzione di fondo sottesa al pensiero di Romagnosi, che la civiltà
non sia qualcosa di nativo, ma di dativo, che abbia dunque un proprio
inizio e un proprio compimento che solo attraverso lo svolgimento
della storia può essere raggiunto. Bisogna però precisare che
Romagnosi rinnega allo stesso modo ogni visione contrattualistica
della società, ritenendo la società come conseguenza della natura
dell’uomo. La civiltà dunque se è dativa in quanto ha un inizio, è allo
stesso tempo naturale in quanto è proprio della natura umana lo
strutturarsi in forma sociale.36 In tal senso, come si vede in Istituzioni
di civile filosofia (1839) e in Cosa è l’incivilimento (1832), è dunque
compito della filosofia civile studiare le leggi che regolano
l’incivilimento dell’uomo.
Ora, il fatto che anche Romagnosi, come Vico, guardi alla storia
come terreno privilegiato per le proprie indagini “antropologiche”,
pare mettere i due pensatori quasi in una linea di continuità, ma sarà
merito di Francesco Brancato mettere in evidenza le differenze e le
analogie che legano Romagnosi a Vico.
Lo stesso Romagnosi riferisce di aver letto la Scienza Nuova per
la prima volta nel 1781 all’età di vent’anni, ma la prima opera in cui
36Come vedremo in seguito, nelle sue opere più mature Romagnosi sfumò le sue tesi sulla

natura dativa della civiltà accostandosi alla tesi, più vicina alla posizione di Vico, della
natura spontanea dell’incivilimento umano.

- 29 -
Giuseppe Nigliaccio

egli si confrontò apertamente con il pensiero vichiano, Le


osservazioni sulla Scienza nuova, fu edita nel 1821. Il riacceso
interesse per il filosofo napoletano, dopo quaranta anni di apparente
noncuranza, è dovuto, secondo Brancato, al «molto parlare che già
di quello si faceva negli ambienti culturali settentrionali e ormai
anche nel meridione».37 Il limite maggiore della prospettiva di Vico
sulla storia è, secondo l’illuminista Romagnosi, l’aver tentato di
scandagliare il retroterra mitologico della tradizione occidentale,
ebraica ed egizia alla ricerca di quelle leggi dell’incivilimento
umano che non trovarono nessun reale chiarimento nella Scienza
Nuova, opera che egli definisce solamente come «un presentimento
fantastico della scienza da lui proposta».38 È possibile affermare con
Brancato che Romagnosi rimproveri

insomma al Vico di non essersi saputo elevare, nella sua opera alla
formula suprema della meccanica, dirò così, intellettuale, morale e
politica della nazione, mentre al contrario, mancando di questa
primitiva teoria, egli prende la tradizione egiziana dell’età o del regno
degli Dei, degli eroi e degli uomini e su questa tradizione avrebbe
fabbricato diverse fantasie. Ciò trova logico in un uomo che non aveva
dedotto le cose da origini naturali, e nel quale la tradizione stessa
rimane uno sterile fondamento.39

Nell’ottica di un intellettuale come Romagnosi, che aveva


recepito, anche attraverso l’eco del periodo emiliano di Condillac
(1758-1767), la necessità di dover liberare l’umanità dalla zavorra di
un certo tipo di tradizione che ne ostacolava il cammino verso il
progresso, il lavoro di Vico, tutto intento a scovare fra le pieghe della
storia le tracce di un’antica quanto lontana civiltà italica, non poteva
che apparire come uno strenuo quanto futile e deleterio attaccamento
al passato. Nonostante quanto detto finora lasci presupporre che
37 Ivi, p.48.
38 Ibidem.
39 Ibidem. Qui in corsivo le espressioni di Romagnosi riportate da Brancato.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Vico non abbia lasciato alcuna traccia “positiva” in Romagnosi,


scrive Francesco Brancato:

non si sarebbe dunque potuta immaginare una critica più aspra nei
confronti del Vico di quella mossa dal Romagnosi nelle Osservazioni
su la Scienza nuova, specie considerando la rinomanza che quello
ormai godeva anche negli ambienti di cultura del Settentrione d’Italia
per la propaganda che ne avevano fatto i giovani patrioti napoletani.
Eppure in quegli anni fra i “settentrionali” nessuno forse più del
Romagnosi aveva ereditato maggior insegnamento dal Vico. Se ne
colgono i segni in tutti i suoi scritti, in minor quantità in quelli della
sua giovinezza, […] in maggiore quantità in quelli degli ultimi anni
della sua vita caratterizzati da una sua più spiccata inclinazione
speculativa.40

Secondo Brancato in tal senso acquisisce particolare importanza, fra


gli scritti di Romagnosi, il Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento
(1829-1832) che «è l’opera in cui maggiormente si riflettono le
influenze della concezione storica del Vico, della quale vuole essere
in definitiva un tentativo di superamento».41
Il vichismo del pensatore emiliano è rintracciabile, secondo
Brancato, nel

grande interesse che il Romagnosi rivolge, in tutti i suoi studi, al mondo


umano, del quale egli pure si sforza di spiegare le origini e i caratteri
fondamentali, solo che tali caratteri intende fondare su basi positive e
concrete e non su ipotesi astratte quali gli sembrano le concezioni
contrattualistiche di Hobbes e di Rousseau, o utilitaristiche del tipo di
quelle di Bentham[…].42

Da quale prospettiva bisogna dunque guardare alla storia? Tutto


il pensiero di Romagnosi è permeato dalla concezione, quasi
positivistica, che sia l’utilizzabilità di una conoscenza il criterio
ultimo della sua validità, e nella misura in cui concepisce la storia
40 Ivi, pp.53-54.
41 Ivi, p.54.
42 Ivi, p.56.

- 31 -
Giuseppe Nigliaccio

come effetto dell’agire dell’uomo egli indica la politica come


scienza per eccellenza, perché mira al raggiungimento della felicità
degli uomini. La politica, nella visione di Romagnosi, deve essere
basata sui risultati delle singole scienze e, ponendo un legame diretto
fra progresso scientifico ed incivilimento umano, egli ha potuto
leggere la storia come «la celebrazione massima dell’uomo nelle sue
sempre nuove conquiste di sapere e di civiltà».43 Il pensatore
emiliano cercò dunque di elaborare una visione «organica delle
scienze secondo il loro intrinseco rapporto»44, sulla quale poter
edificare le basi della nuova politica. È interessante, in tal senso,
constatare le analogie fra il pensiero di Romagnosi e quello di
Auguste Comte.
Bisogna quindi affermare che indagare le cause e le leggi che
strutturano il progresso umano sia quindi per Romagnosi un modo
per poter delineare, ancor più dettagliatamente, le linee guida della
propria scienza politica. Alla base della riflessione politico-sociale
di Romagnosi sta dunque un’antropologia che legittima la socialità
umana come derivazione e allo stesso tempo condizione dell’essere
dell’uomo, infatti come annota Brancato

l’uomo originariamente isolato, e quindi libero alla maniera descritta


da Rousseau, non sarebbe concepibile, sarebbe un’astrazione.
L’individuo è tale in quanto implica altri individui e nel rapporto
sociale egli si forma e cresce, cioè progredisce e avanza nel cammino
dell’incivilimento.45

43 Ivi, p.57.
44 Ibidem.
45 Ivi, p.58. Bisogna specificare secondo Brancato l’accezione in cui Romagnosi utilizza il

termine incivilimento che il pensatore emiliano definisce quel modo di essere della vita di
uno Stato pel quale egli va effettuando le condizioni di una colta e soddisfacente
convivenza, mentre il francese Civilisation indica lo stato di cultura di un popolo. Cfr. Carlo
Curcio, Il genio politico di G.D. Romagnosi, cit. in F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit.,
p.58.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Analogamente a Vico anche Romagnosi avverte il bisogno di


scandire il processo dell’incivilimento che in fondo altro non è che
la storia, il cui corso viene delineato in quattro epoche principali.
All’interno della polarità costituita dall’estrema barbarie da un
lato e dalla possibilità del progresso dall’altro, la storia inizia con
l’età dei Tesmofori e passando per quelle dei Maggiorenti e delle
Città giunge infine all’età delle Nazioni. In particolare ci ricollega a
quanto già accennato in precedenza, circa il carattere dativo della
società, l’analisi che Romagnosi compie in merito all’età dei
Tesmofori in cui ha inizio la vita organizzata secondo leggi e che
«egli distingue nettamente dagli altri in quanto non concepisce al
contrario del Vico, un’origine naturale e spontanea dello sviluppo
civile».46 Nella prospettiva del pensatore di Salsomaggiore l’età dei
Tesmofori indica il momento storicamente determinato in cui
prendono vita (o meglio la ricevono) le singole società, infatti egli
afferma:

la storia non ci fornisce verun esempio di incivilimento nativo, cioè


originario e proprio, ma ricorda soltanto il dativo, cioè comunicato ed
iniziato per mezzo di colonie e conquiste o di tesmofori[…]. Tutta la
fondamentale energia, tutto il centro reale dei movimenti sociali sta in
questo principio [storico]. Esso costituisce la vis vitae degli umani
consorzi. 47

Il fatto che Romagnosi faccia riferimento, attraverso la categoria


metastorica dei Tesmofori, al momento storicamente determinato
dell’inizio di una nuova società è un’ingenuità, dazio che egli paga
alla propria forma mentis empirica: infatti indicare che una
determinata società sia nata per opera di un determinato ecista può
appagare, nella prospettiva illuminista o pre-positivista di
Romagnosi, il bisogno di ottenere un dato certo, ma, sul piano
46Ivi,p.59.
47 G.D. Romagnosi, Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento, con esempio del suo
Risorgimento in Italia, cit. in F.Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.59.

- 33 -
Giuseppe Nigliaccio

concettuale ed antropologico, non dice nulla in merito alla natura


necessaria della società.
Una tal prospettiva non fa altro che innescare un affannoso e sterile
tentativo di risalita storica alla ricerca dell’origine della società più
antica, ma non dice nulla circa l’essenza dell’uomo come essere
sociale. In questa sede è però più interessante sottolineare come per
Romagnosi la storia non faccia altro che seguire, quasi per inerzia, il
moto originario scaturito dalla forza dei Tesmofori, e tale
considerazione è funzionale a Francesco Brancato per mettere in
evidenza un’ulteriore distanza che separa Romagnosi dal filosofo
campano, infatti

il Vico, come operatrice nel processo storico aveva posto la


Provvidenza: questa, operando per così dire dal di dentro secondo lo
sviluppo dei singoli popoli, nulla conculcando alla loro natura, aveva
dato all’uomo la forza di sollevarsi dallo stato ferino e di creare la
storia, nonché la possibilità di arricchirla con la sua operosità e con
l’ordine da lui stesso fondato. Il Romagnosi, al contrario, fin dal
momento iniziale in cui ha messo i tesmofori (apportatori di civiltà e
legislatori) pone, come abbiamo visto la natura la quale, nella funzione
di regolatrice del processo storico, agisce pure come una Provvidenza
perché tendente, come quella vichiana, ad un fine ben definito, il
sempre maggiore incivilimento.48

Il fatto che al posto della Provvidenza, che richiama ovviamente


alla sfera del divino, Romagnosi abbia posto la più laica e illuminista
Natura a guida della storia, non è l’unica differenza rilevante fra la
sua filosofia della storia e quella del Vico. La storia dell’autore della
Scienza nuova non era mai esente dalla possibilità di un percorso a
ritroso nella strada verso lo sviluppo, la Natura è invece per
Romagnosi, la più fedele garante del percorso, compiuto
dall’umanità, dalla primitiva barbarie fino al più completo
incivilimento. L’apice del lungo cammino di incivilimento è
48Ivi, p.60.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

costituito per Romagnosi, come già accennato, dall’età delle Nazioni


e, consapevole di ciò, scrive Francesco Brancato che

Con il Romagnosi si approfondisce perciò anche il concetto di nazione


che, sviluppato in certo modo nel saggio Dell’indole e dei fattori
dell’incivilimento, aveva formato particolare oggetto di analisi e di
studio nel trattato Della costituzione di una monarchia nazionale
rappresentativa, composto negli anni fra il 1813 e il 1815, negli anni
cioè in cui il problema dell’unità e dell’indipendenza italiana si era
venuto facendo più diffuso e sentito […]. Considerata l’umanità in un
continuo sviluppo, diviso come abbiamo visto, in quattro grandi tappe
[…] il Romagnosi solo sulla base di un ordinamento giuridico vede la
possibilità di realizzazione della nazione come soggetto indipendente
ed autonomo, avente quindi vita a sé, sviluppando quindi quei caratteri
fisici e psichici che la tradizione e le condizioni geografiche ed
ambientali in essa esprimono.49

Il concetto di nazione, già profondamente al centro dell’attività


speculativa del Vico, trova nel pensiero di Romagnosi una più solida
elaborazione dal punto di vista giuridico, anche nell’ottica di un
diritto internazionale, dato che il filosofo emiliano, allargando la
prospettiva oltre gli accadimenti della penisola italiana non poteva
non constatare come «l’Europa, politicamente molto travagliata in
conseguenza delle conquiste napoleoniche»50 avrebbe potuto trovare
un equilibrio solamente se ogni singola nazione europea avesse
ottenuto la propria indipendenza a prescindere dalla forma di
governo che tale nazione avesse in seguito assunto. È da rilevare,
inoltre, che Romagnosi, fondando su base giuridica il proprio
concetto di nazione finisca per fornire «il substrato su cui
successivamente, in tutto il Risorgimento da Cattaneo a Gioberti, a
Mancini e allo stesso Mazzini ergono, con modi e soluzioni diversi,
le loro concezioni politiche».51 Volendo scorgere un ulteriore
versante del pensiero di Romagnosi in cui è riscontrabile una chiara
49Ivi, p.61.
50Ivi, p.62.
51Ivi, p.63.

- 35 -
Giuseppe Nigliaccio

influenza da parte di Giambattista Vico, Francesco Brancato afferma


che

Romagnosi parla di Risorgimento della civiltà italiana in quanto, come


nella sua giovinezza il Vico e sulla sua scia il Cuoco, anche egli è
convinto dell’esistenza nella nostra penisola di un’antichissima scuola
italica[…].52

Ma come leggere la storia della penisola italiana secondo


Romagnosi, alla luce di quanto affermato?
Muovendo i passi dalla consapevolezza dell’antichissima esistenza
della civiltà italica egli afferma che la “nazione italiana” abbia
percorso tutte le tappe necessarie per giungere all’incivilimento
proprio dell’età delle Nazioni.
Precisamente egli ritiene che la civiltà etrusca sia stato il
momento in cui i Tesmofori diedero inizio al moto dell’incivilimento
in Italia, passando attraverso l’età degli ottimati, rappresentata dalla
Roma patrizia, e quella delle città, visibile nel fiorire dei comuni
medievali, per giungere infine a quel governo nazionale che da lì a
poco avrebbe in effetti realmente visto la luce. Ora, volendo tirare le
somme e quindi concludere, pur non avendo esaurito l’analisi del
legame che unisce Romagnosi e Vico, è possibile affermare con
Brancato che:

del Vico aveva dunque particolarmente ereditato ciò che in politica, per
lui la scienza sovrana, aveva maggiore valore: il principio che della
storia sono gli uomini gli unici fattori, ai quali compete pertanto
portarla sempre più innanzi, verso un sempre più alto incivilimento. 53

52Ivi, p.64.
53Ivi, p.71.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

1.5 Carlo Cattaneo e la filosofia di Vico fra federalismo e spirito


europeo

Nel pensiero politico di Carlo Cattaneo (1801-1869) è senza


dubbio presente quella radice vichiana che, passando solo
apparentemente per la mediazione dell’insegnamento di Romagnosi,
rende particolarmente arguta e profonda l’attività speculativa
dell’intellettuale milanese. In un momento storico, il nostro, in cui la
figura di Cattaneo pare essere avvolta da verdastre tinte
padaneggianti, è doveroso, con Francesco Brancato, scrostare dalla
memoria del filosofo lombardo la piccolezza morale ed intellettuale
di chi vuol falsamente trovare in lui un precursore delle proprie
demagogiche pseudo-battaglie politiche.
Tenendo presente che la linea guida dell’analisi che Brancato
compie del pensiero di Cattaneo è finalizzata a mettere in risalto la
relazione intercorrente fra alcuni elementi del suo pensiero con la
filosofia del Vico, bisogna partire dalla costatazione che «tra gli
studiosi del Vico nell’età del Risorgimento, il Cattaneo è certamente
uno di quelli che apprezzarono moltissimo il Vico e che
maggiormente si discostarono dall’interpretazione tipicamente
illuminista che ne aveva fornito il Romagnosi».54
La particolare rilevanza dell’interpretazione, che del Vico offre
Carlo Cattaneo, è da porre nella prospettiva con cui il pensatore
meneghino guardò alla produzione vichiana; infatti Francesco
Brancato rimarca come

il Cattaneo fu certamente il primo che si sforzò di cogliere l’importanza


e la funzione del pensiero vichiano nel generale sviluppo della
filosofia. Egli infatti non si fermò a considerare la concezione storica
del Vico isolatamente per se stessa, come avevano fatto ad esempio il

54 Ivi, p.116

- 37 -
Giuseppe Nigliaccio

Cuoco ed il Jannelli […], ma assertore com’era della storia come


progresso indefinito […], nel considerare il pensiero e le scoperte del
Vico si studiò di vedere in che cosa con quello aveva fatto un reale
progresso il pensiero universale. 55

Cattaneo dunque non cerca nella filosofia di Vico il definitivo


paradigma interpretativo del mondo e della storia, ma ponendosi in
una prospettiva meta-storica tenta di cogliere, quasi hegelianamente,
l’importanza della filosofia vichiana all’interno di quel processo di
incivilimento che altro non è che il progresso umano. Benché fosse
illuministicamente orgoglioso delle conquiste scientifiche e tecniche
che la società occidentale man mano otteneva, Carlo Cattaneo mosse
aspre critiche alla filosofia a lui contemporanea rea, ai suoi occhi, di
aver, da Kant in poi, relegato la veridicità della realtà sul piano
trascendentale, finendo per rendere in maniera definitiva il pensiero
filosofico totalmente succube di una vana astrattezza e insensibile
quindi a qualsiasi accadimento storico. Prescindendo dalla validità
speculativa e storiografica intrinseca a questa tesi di Cattaneo,
colpevole a prima vista di non confrontarsi con la filosofia hegeliana,
in questa sede è necessario sottolineare come per il filosofo milanese
sia Giambattista Vico l’unico pensatore in grado di sapersi
confrontare con la modernità senza per questo rinnegare la propria
vocazione per la riflessione storica. Lingua, diritto, religione sono i
veicoli prioritari per poter studiare l’identità di quei popoli che,
ignorati per secoli dalla cultura occidentale erano entrati a pien
diritto nella storia universale dopo che «Polo e Colombo dilatando
con le loro scoperte i confini della terra, allargarono anche quelli
dell’umanità, ponendo i pensatori in presenza tanto dei popoli che
erano rimasti immobilmente selvaggi quanto dei popoli che per
primi erano pervenuti alla civiltà».56
55 Ibidem.
56Ibidem. In corsivo i passi ripresi da Brancato da: Lettera del Dicembre 1861, in
Epistolario di C. Cattaneo, a cura di R. Caddeo, Firenze, Barbera, 1949-56.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

La filosofia kantiana mirante a descrivere le leggi della


conoscenza, era per Cattaneo, affetta da un solipsismo che le
imponeva come unico campo d’indagine lo studio dei meccanismi
cognitivi del singolo soggetto (altra critica per certi versi
strumentale). I nuovi confini geo-politici, ma anche antropologici,
che hanno modellato lo spirito e la mente dell’uomo moderno,
necessitano di un allargamento di prospettiva che porta all’analisi
non più solamente della genesi delle idee del singolo individuo, ma
all’analisi delle idee dei popoli e in tale ottica

soltanto con la Scienza nuova del Vico, la filosofia, dopo le scoperte


geografiche, sarebbe passata dallo studio delle idee dell’individuo a
quello delle idee dei popoli; soltanto dopo lo studio delle lingue delle
origini e dei monumenti avrebbe assunto forma severa e precisa,
fondando la linguistica, l’etnografia, e l’archeologia e ponendo quindi
in luce i diversi sistemi ideali che si sono svolti presso le nazioni o
nell’isolamento primitivo o nel successivo commercio.57

Ciò che Cattaneo vuole mettere in evidenza è che bisogna


indagare sul modo in cui i singoli popoli hanno contribuito ad
accrescere il patrimonio comune di idee e in tal senso

Vico avrebbe avuto il merito di fondare una nuova scienza, l’ideologia


sociale che, rispetto alla filosofia tradizionale, chiusa in sistemi e
limitata all’individuo, avrebbe aperto nuovi campi d’indagine prima
ignoti, o affatto trascurati.58

La conseguenza speculativamente più interessante di quanto


detto è dovuta alla constatazione che

tendendo i popoli ad operare come pensano, ossia nelle azioni seguono


le loro idee, chi ben considera il modo con il quale si succedono le loro

57 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p. 117, in corsivo passi ripresi da Brancato da:
C. Cattaneo, Ideologia in Scritti filosofici, a cura di N. Bobbio, vol III, Firenze Le Monnier,
pp.215-216.
58 Ibidem.

- 39 -
Giuseppe Nigliaccio

idee viene anche a comprendere il modo con cui si succedono le loro


azioni.59

Lungi da basare la propria Psicologia delle menti associate60 sulla


fisica sociale di Comte, Cattaneo rintraccia le basi della sua
concezione del rapporto fra idea ed azione, sul piano sovra-
individuale, nella Scienza nuova di Vico e in quella particolare
accezione del sapere filologico che istituiva un legame diretto fra
piano teoretico e piano etico. Sarebbe però errato credere di poter
trovare negli scritti del filosofo lombardo un’analisi sistematica
dell’opera di Vico, poiché «tutte queste considerazioni che il
Cattaneo venne facendo sul pensiero del Vico, sempre presente nelle
sue meditazioni storiche e filosofiche, non si fusero mai in una
sistemazione unitaria ed organica».61
Volendo però enucleare un tema che permetta di focalizzare le
differenze metodologiche fra Vico e Cattaneo bisogna chiedersi
«come avvenga che in certe tribù tuttora selvagge la mente dorma
l’invincibil sonno; come al contrario certi popoli appena usciti dalle
selve aborigene, seminudi ancora, improvvisino già tutte le
meraviglie delle arti, e dal culto delli (sic) Dei penati accanto i
barbari focolari trasvolino in pochi anni al Dio di Socrate e di
Cicerone».62
Quali processi regolano l’incivilimento umano, e perché esso
non è omogeneo? Francesco Brancato mette in risalto come per
Cattaneo la risposta alla questione fornita dall’idealismo tedesco,
soprattutto da Hegel, in cui la storia del progresso dell’uomo altro
non è che il cammino della Ragione verso il proprio compimento,
non è esaustiva poiché da quest’analisi resterebbero per lo più
escluse «tutte quelle nazioni che pure avrebbero preceduto l’Europa
59 Ibidem. In corsivo passi ripresi da Brancato da: C. Cattaneo,Ideologia in Scritti filosofici,
a cura di N. Bobbio, vol III, Firenze, Le Monnier, pp.215-216.
60 Cfr. C. Cattaneo, Psicologia delle menti associate, Roma, Editori Riuniti UP, 2000.
61F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.118.
62 C. Cattaneo, Frammenti di sette Prefazioni, in Scritti filosofici, cit., I, p.251, cit. in F.

Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.120.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

nel cammino della civiltà e che non avrebbero conservato memoria


delle loro origini».63 In realtà anche nel pensiero di Hegel, come si
vede nelle Lezioni sulla storia della filosofia,64 è presente un’analisi
filosofica del mondo orientale, ma come sottolinea Brancato, agli
occhi di Cattaneo il limite dell’indagine hegeliana consiste nel fatto
che il filosofo tedesco guardi alle culture orientali solo come un
momento di quel processo storico che avrebbe trovato nella civiltà
euro-germanica il proprio compimento. Un’analoga critica viene
mossa da Cattaneo nei confronti di Giambattista Vico il quale

nutrendosi di libere induzioni e di esperienze istoriche, per forza


d’ingegno avrebbe avuto mirabili intuizioni e avrebbe gettato tanta luce
sulle leggi che regolano il cammino dell’umanità, e in particolare sulle
origini della civiltà. Egli, nel proposito di dare ordine a tutto il
materiale storico da lui raccolto con tanto studio, avrebbe finito per
accostare elementi diversi cogliendone le simiglianze, per cui certi
avvenimenti poterono sembrare a lui si ripetessero in qualunque
diversità di popoli e di tempi, e ritenendole pertanto generalità costanti
atte a fornire una stabile scienza delle cose umane.65

Il filosofo napoletano ha quindi falsato la propria concezione


storica sotto un duplice piano. Da un lato infatti la sua prospettiva
era falsata dall’avere ristretto il proprio campo d’indagine solamente
alla storia del popolo israelitico e alla civiltà greca-romana, mentre
dall’altro l’utilizzo errato, per certi versi ingenuo, del metodo
induttivo lo ha portato a universalizzare alcuni accadimenti di questi
popoli, rivestendoli così di un’aura di universalità che è stata
impietosamente sconfessata dall’esser venuti in contatto con quei
popoli, la cui vita ha seguito un corso totalmente diverso dalla storia
europea.
63F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.120.
64Cfr. G.W.F, Hegel, Lezioni sulla storia della filosofia (1825-1826), Roma-Bari, Laterza,
2009.

65 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.121.

- 41 -
Giuseppe Nigliaccio

A parziale discolpa di Vico, Cattaneo adduce, come mostra


Brancato, il fatto che le conoscenze linguistiche di Vico non gli
permettevano di cogliere la «consonanza del latino col zendo e col
sanscrito»66 e che quindi l’orizzonte del pensatore partenopeo non
potesse contemplare una serie di relazioni storico-culturali che
hanno poi mostrato i limiti della sua impostazione. È curioso notare
come a differenza di Schelling che poneva nella cultura indiana la
sorgente da cui sarebbero in seguito derivate le altre culture
indoeuropee, Cattaneo affermi che la sapienza indiana «non era
nativa ma dativa in quanto sarebbe stata colà derivata da una patria
commune (sic!) dei Bramini, dei Magi, dei Druiti in un tempo del
quale per ora non è concesso determinare l’antichità».67 Nel fatto che
Cattaneo definisca la civiltà indiana come dativa è chiaramente
presente l’influenza di Romagnosi e tale eredità sarà presente anche
nella

Psicologia delle menti associate, che vuol essere lo studio dell’uomo


nelle sue relazioni con gli altri esseri. Finora il metodo usato sarebbe
stato quello di scrutare le umane facoltà nel senso intimo, nella
coscienza, nell’io; ora egli intendeva invece studiarle nelle
modificazioni che avrebbero subito nel rapporto sociale per cui
l’umanità si migliora e progredisce. Anche le sensazioni più connesse
all’appetito animale si vanno variando e moltiplicando colla civiltà.
Pertanto soltanto nel rapporto con gli altri, nella società l’individuo
potenzia le sue capacità intellettuali. 68

Lungi dal ritenere la natura umana definitivamente compiuta e


quindi passibile di essere schematizzata una volta e per tutte con quel
grado di universalità che richiede l’indagine filosofica tradizionale,
Carlo Cattaneo intuisce la natura plastica e dinamica delle categorie,
66 C. Cattaneo, Dell’evo antico in Scritti filosofici, cit., I, pp.126-127, cit. in F. Brancato,
Vico nel Risorgimento, cit., p.121.
67 C. Cattaneo, Ideologia in Scritti filosofici, cit., III, p.186. cit. in F. Brancato, Vico nel

Risorgimento, cit., p.121.


68 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.122, in corsivo citazioni da C. Cattaneo,

Psicologia delle menti associate, cit. p.444.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

anticipando alcune tematiche legate alla cosiddetta psicologia


evoluzionistica; si pensi ad esempio alla famosa ipotesi Sapir-
Whorf, secondo la quale vi è una dinamica interrelazione fra le
strutture logico-grammaticali e le categorie concettuali di chi, in
quella determinata lingua, pensa e comunica. Questa perenne
dialettica fra essere dell’uomo e società, in grado di plasmare le
categorie non solo del singolo individuo ma anche di un intero
popolo, conferisce al pensiero di Cattaneo la consapevolezza che la
realtà sociale dell’uomo non può essere indagata attraverso
paradigmi interpretativi elaborati in maniera definitiva, poiché essi
non riuscirebbero a decifrare la società, dal momento che per sua
stessa natura essa è in continuo progresso. Tale tendenza
all’apertura, si vedrà, permea tutta la riflessione dell’intellettuale
lombardo, sia in campo sociale sia in campo storico. Lontano da
qualsiasi concezione statica e deterministica della società e

sulla scorta del Vico egli si fa invece assertore di uno storicismo


sociologico in cui il divenire dell’umanità è visto come la
determinazione della libertà e dell’intelligenza dell’uomo in rapporto
alle sue condizioni sociali ed ambientali storicamente determinate e,
quindi, come successivo superamento e affermazione di sempre nuove
forme di vita. 69

Le società storicamente determinatesi per non incancrenirsi e


rimanere sopraffatte dal corso della storia devono avere la capacità
di sapersi configurare come società aperte ed è in tal senso che
Francesco Brancato afferma che

Cattaneo è pertanto avverso anche alle teorie del clima e della razza
[Herder] e assertore di quelle forme di reggimento […] essendo
assertore che la società progredisca soltanto nell’esercizio della libertà
o come, soleva dire, in sistemi aperti, tali che consentano un ricambio
continuo di rapporti ed idee.70

69 Ivi, p. 123.
70 Ibidem.

- 43 -
Giuseppe Nigliaccio

Queste argomentazioni che immediatamente paiono essere


un’arguta anticipazione della fortunata opera di Karl Popper, La
Società aperta e i suoi nemici,71 portano a comprendere come nella
costruzione teorica di Cattaneo il compito della storia sia quello di
«spiegare il progressivo sviluppo dell’umanità nelle sue varie forme
di civiltà».72
Questa fiducia nell’apertura e nella capacità di evolversi delle
società e delle nazioni non venne meno neanche nel 1848 in seguito
al fallimento dei vari tentativi rivoluzionari, non a caso egli, come ci
riporta Brancato, scrive:

la storia universale non si chiude con l’anno di Cristo 1849. Per me non
vedo che i primi preludi della lega delle nazioni. Il divide et impera è
tramontato con Metternich; ed il far da sé sotterrato col cadavere di
Carlo Alberto. E se i popoli cessano un giorno di guardarsi in cagnesco,
la lega dei principi a fronte della lega dei popoli, che inezia non
diventa!73

Sul piano politico Cattaneo si mostra particolarmente avveduto e


lungimirante, perché se per un verso ha intravisto e prospettato una
lega europea dei popoli, che egli non esiterà a definire
avveniristicamente Stati uniti d’Europa, dall’altro egli era
perfettamente consapevole di come la creazione della lega dei popoli
non potesse passare su un uniforme appiattimento delle varie realtà
in una forma di governo che non ne rispettasse le identità sul piano
culturale e politico. Non a caso il suo federalismo repubblicano che
da un lato si opponeva ai sostenitori, come Vincenzo Cuoco ad

71Cfr. K.Popper, La società aperta ed i suoi nemici, Armando Editore, Roma,

2004.
72 F. Brancato, Il pensiero storico di Carlo Cattaneo, cit. in Vico nel Risorgimento, cit.,

p. 123.
73 C. Cattaneo, Lettera del 7 nov. 1849 al Rastelli, in F. Brancato, Vico nel Risorgimento,

cit., p. 126.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

esempio, di una monarchia popolare sul modello della Francia di


Napoleone, dall’altro era anche decisamente contrario alla posizione
di Mazzini che prefigurava uno stato sì repubblicano, ma fortemente
centralizzato sul piano amministrativo e quindi poco incline a
rispettare le peculiarità sociali e culturali dei vari popoli italiani.
Il pensiero di Vico, si è visto, ha permeato l’intera vita culturale
di Cattaneo anche quando il filosofo campano è stato oggetto di aspre
critiche, ed è prettamente vichiana la convinzione della
fondamentale unità storica dei popoli europei. Tale unità storica
diviene per Carlo Cattaneo, il cui animo era profondamente incline
allo slancio verso un futuro di progresso, la base su cui poter
progettare gli Stati uniti d’Europa. Senza voler conferire al filosofo
milanese un’inappropriata aura di profeta è allo stesso tempo
indiscutibile come l’attuale momento storico, in cui sono in crisi gli
oramai tradizionali meccanismi di convivenza degli stati europei, ci
spingono a tornare alle parole, o meglio spirito europeista di
Cattaneo, per poter volgere più consciamente lo sguardo al futuro.

1.6 La ricezione di Vico in Piemonte. Balbo e Gioberti

Volendo concludere la parte di questo lavoro dedicata all’analisi


compiuta da Francesco Brancato sull’influsso esercitato da Vico
sulla cultura risorgimentale, non si può omettere come anche gli
ambienti culturali vicini alla corte sabauda siano stati un fertile
terreno di ricezione e discussione della filosofia di Vico.
Particolarmente rilevanza assumono in tal contesto, anche per gli
incarichi politici ricoperti, le figure di Cesare Balbo (1789-1853) e
di Vincenzo Gioberti (1801-1852).
Accomunati dall’aver raggiunto, anche se per poco tempo, ruoli di
ragguardevole prestigio 74 nel Regno di Sardegna, entrambi
74Vincenzo Gioberti fu presidente della Camera dei deputati del Regno di Sardegna dal

dicembre del 1848 al febbraio 1849, mentre Cesare Balbo fu presidente del Consiglio dal
marzo al luglio del ’48.

- 45 -
Giuseppe Nigliaccio

elaborarono le proprie dottrine politiche confrontandosi con il


pensiero di Giambattista Vico.
La convinzione vichiana che la religione abbia rappresentato un
fattore determinante nella storia dell’incivilimento dell’umanità,
convinzione in aperto contrasto con la visione illuminista della
storia, ha portato Cesare Balbo, nelle sue Meditazioni Storiche,75 a
sottolineare l’importanza del cristianesimo nella costruzione
dell’unità culturale dell’Europa.
Non a caso il Medio Evo emblema, nella cultura illuminista,
dell’oscurantismo che impediva il progresso dei popoli, diveniva
nella visione di Balbo, il momento fondante dell’unità spirituale dei
popoli europei. Benché Balbo recepisca da Vico l’idea che la storia
sia guidata dalla Provvidenza, egli rimprovera al filosofo campano il
fatto che nella sua Scienza nuova egli non abbia adeguatamente
analizzato il cambiamento, impresso nella storia dal cristianesimo e
secondo Francesco Brancato

con il Vico per il Balbo non solo si sarebbe avuta una visione limitata
della storia umana in quanto ricavata solamente dall’esame del mondo
antico, ma addirittura si sarebbe andati indietro rispetto al concetto che
del divenire dell’umanità come indefinita perfettibilità avevano avuto
gli illuministi.76

Il limite maggiore della filosofia della storia di Vico, per Cesare


Balbo come già visto per certi versi con Cattaneo, consiste nell’aver
limitato il proprio campo di riflessione quasi esclusivamente al
mondo greco-romano, ed aver inoltre innestato nel moto della storia,
già linearmente proiettata al suo compimento dalla predicazione di
Cristo, la possibilità del regresso.
La medesima attenzione nei confronti della funzione di
incivilimento svolta dalla religione è presente nelle opere di
Vincenzo Gioberti
75 Cfr. F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.196.
76 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p.197.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

con il quale, anche per la grande risonanza che ebbero in tutto il paese
le sue idee, il vichismo raggiunge, durante il Risorgimento, il momento
culminante proprio in coincidenza con la rivoluzione del ’48 che segna
pure una svolta decisiva nel processo della formazione politica unitaria
italiana. 77

Ricollegandosi al Vico del De antiquissima italorum sapientia,


ma rielaborandone il pensiero in una prospettiva maggiormente atta
a valorizzarne l’afflato religioso, Gioberti pone il motivo del primato
culturale, ma soprattutto spirituale, dell’Italia nel fatto che la
penisola abbia rappresentato la culla della civiltà europea
profondamente intrisa di cristianesimo. Ne Il primato morale e civile
degli Italiani78, come risaputo, Gioberti indica nella Chiesa l’asse sul
quale edificare la futura federazione italiana, ma nell’ottica
europeista del suo pensiero la cattolicità assurge a ruolo di motore
per la ri-costruzione dell’Europa: «tocca a Roma civile e al Piemonte
il creare l’Italia, affinché l’Italia possa concorrere a ricomporre
l’Europa».79 Ma su quale equilibrio sarà basato il futuro rapporto fra
gli stati europei? Risponde Brancato:

nella nuova armonia che si sarebbe creata nel vecchio continente, ogni
nazione, in rapporto al proprio genio avrebbe avuto un particolare
primato da svolgere: un primato scientifico la Germania, politico la
Francia e industrioso l’Inghilterra. Ma tutto ciò avrebbe presupposto il
primato dell’Italia, centro irradiatore del Cristianesimo.80

Vico, per Gioberti, non ha avuto solamente il considerevole


merito di aver valorizzato il ruolo civilizzatore della religione, né
solamente quello di aver sottolineato il primato dell’Italia, ma, in una
prospettiva storico-filosofica, il pensatore piemontese, come mostra
Brancato, sottolinea che
77 Ivi, p.99.
78 Cfr. V. Gioberti, Il primate morale e civile degli italiani, Torino, Utet, 1920.
79 V.Gioberti, Il Rinnovamento civile dʽItalia, Bologna, Zanichelli, 1943, vol. III, p.199.
80 F. Brancato, Vico nel Risorgimento, cit., p. 207.

- 47 -
Giuseppe Nigliaccio

Vico aveva contrapposto al razionalismo cartesiano, che poneva il


criterio della verità nell’evidenza, un nuovo principio di conoscenza:
la conversione del vero col fatto.[…] Il Vico aveva infine avuto il
merito di risvegliare con la Scienza nuova, nei tempi più oscuri della
storia d’Italia la vena speculativa nel nostro paese, impedendo così che
vi allignassero definitivamente le dottrine di Cartesio, che sono il
protestantesimo applicato alla filosofia.81

In conclusione è quindi possibile affermare che per Gioberti la


filosofia di Vico rappresenta un’altra strada verso la modernità, una
via che prescindendo dal razionalismo cartesiano che reputa estraneo
all’interesse filosofico ogni accadimento storico e che è, fra l’altro,
totalmente eterogeneo all’antica e autentica cultura italiana, possa
consentire, in un futuro prossimo, lo sbocco della millenaria storia
“italiana” in un’unità finalmente anche politica.

81Ivi, p.204. In corsivo le citazioni tratte da V. Gioberti, Il Primato morale e civile degli

italiani, cit. vol. II, p.196.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Capitolo II

Mezzogiorno, Unità e spirito nazionale. La prospettiva di


Brancato

2.1 Quale sguardo sul Risorgimento? Le angolazioni del


problema

Sulla storia del Risorgimento il giudizio dell’opinione pubblica


italiana non è uniforme. Qualora si volesse, con un esperimento
mentale, immaginare i risultati di un’indagine statistica sulla visione
che dell’epopea risorgimentale ha elaborato il popolo italiano, ci si
ritroverebbe, presumibilmente, dinanzi a tre prospettive che
albergano nell’immaginario collettivo. La prima, che chiameremo
retorico-sentimentale, descrive il Risorgimento come un processo
lineare, frutto dell’impegno e dell’ardore comune dell’intera
nazione. In tale visione il Regno che nasce il 17 marzo del 1861 è la
diretta conseguenza della volontà di tutte le parti in causa. Tale
prospettiva è erede di quella propaganda nazionalista che ha
raggiunto il proprio apogeo nell’Italia del Giubileo che nel 1911 ha
festeggiato il cinquantenario della propria unificazione. Il problema
di fondo era allora quello di dover elaborare una visione del
Risorgimento in grado di appiattire le differenze, in realtà
sostanziali, che sono intercorse fra i suoi protagonisti. La
propaganda nazionalista messa in moto su più livelli, rispecchiava
esattamente il meccanismo descritto da Ernest Renan nella celebre
conferenza dal titolo Che cos’è una Nazione?.82
82 Cfr. E. Renan, Che cos’è una Nazione?, Donzelli, Roma, 1993; si rimanda altresì a S.

Lupo, L’Unificazione Italiana, Donzelli, Roma, 2011, pp.154-155.

- 49 -
Giuseppe Nigliaccio

Si trattava cioè di costruire un presente comune attraverso l’oblio


condiviso di quelle passate differenze, potenzialmente in grado di
ostacolare la creazione di un sentimento unitario; nel caso italiano
ciò si tradusse nella necessità di assottigliare quanto più possibile le
enormi distanze intercorrenti, ad esempio, fra Mazzini e Cavour o
Garibaldi e Vittorio Emanuele. Infatti

l’aspetto più appariscente di questa assimilazione fu il culto comune


che venne tributato ai maggiori protagonisti del Risorgimento,
rappresentati come artefici di un unico progetto che si era realizzato
con la conquista dell’indipendenza, dell’unità e della libertà sotto
l’egida della monarchia sabauda.83

Come emblema di questo forzoso accostamento possono essere


addotti, secondo Emilio Gentile, due discorsi.
Il primo, pronunciato da Crispi (il quale aveva ben conosciuto le
reali differenze d’intenzione fra Garibaldi, Mazzini e i Savoia) a
Palermo il 27 maggio 1892, illustra perfettamente come la neonata
Italia sentisse il bisogno di cercare e trovare nel proprio passato,
anche recente, la base su cui tentare di costruire il proprio futuro,
nelle vesti di risorta potenza, nello scacchiere politico
internazionale:

volere la potenza e la grandezza dell’Italia era stato un peccato


originale per noi, che solo i reazionari non ci potranno perdonare; è il
peccato di quanti, Mazzini alla testa, lavorarono per la costituzione di
tutto il bel paese in unità di Stato.[….] Un’ Italia rannicchiata entro le
sue frontiere, che abbandoni al naviglio straniero i mari che la
circondano, che non parli al consesso dei governi civili per paura che
questi diffidino di lei, che chiuda gli occhi per paura della luce, non
può essere l’Italia alla quale hanno aspirato Mazzini, Garibaldi e
Vittorio Emanuele.84

83 E. Gentile, La Grande Italia, Laterza, Bari, 2006, p.15.


84 F.Crispi, Ultimi scritti e discorsi extraparlamentari (1891-1901), a cura di Tommaso
Palamenghi-Crispi, Roma, s.d., p.64, citato in E. Gentile, op. cit., pp.52-53.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Una medesima prospettiva sottende all’altro discorso riportato da


Gentile, cioè l’orazione tenuta in Campidoglio dal sindaco di Roma
Ernesto Nathan il 10 marzo 1911 in occasione dell’anniversario della
morte di Mazzini, nella quale egli, forse sentendo ancora
riecheggiare la filosofia di Vico, celebrò il

miracolo nell’associazione delle forze separate [….] nelle sembianze


dei quattro fattori massimi assieme riuniti nella grande aula consiliare.
L’Apostolo, il Guerriero, il Re, Lo Statista, là vegliano, numi tutelari
della patria risorta.85

Questi due discorsi, benché pronunciati da personaggi politici


dalla diversa caratura, sono emblematici di quella prospettiva,
precedentemente definita retorico-sentimentale che, decisamente
venata di un nazionalismo più o meno cosciente, è tuttora viva. Le
altre due prospettive, benché apparentemente antitetiche possono
essere in realtà pensate come due facce della medesima medaglia, in
quanto si basano sulla convinzione che a fronte di un Sud
volenteroso, ma nei fatti incapace di dare l’incipit ai moti
risorgimentali, si erge un Nord potente al quale deve essere
riconosciuto il merito di aver unificato l’Italia.
La differenza sta nell’ottica con cui si guarda all’operato di casa
Savoia, e se quindi bisogna considerare la monarchia sabauda come
liberatrice del Sud Italia, oppure, in una prospettiva
rivendicazionista, come una forza politica che, lungi dal favorire un
autentico progresso sociale e culturale del meridione, ha
semplicemente sostituito, al dispotico e retrogrado dominio
borbonico, il proprio.86
Ora, l’analisi della nascita della visione genericamente definibile
nordista o sudista del Risorgimento è un argomento degno di ampia
85E.Nathan, Nell’Anniversario della morte di Mazzini, in “La Ragione”, 11 marzo 1911,

citato in E. Gentile, op.cit., p.15.


86 Per una critica della genesi di tali prospettive si rimanda nuovamente a S. Lupo, op.cit.,

inoltre si guardi anche G.B. Guerri, Sangue del Sud, Mondadori, Milano, 2010.

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Giuseppe Nigliaccio

trattazione anche per i risvolti politici che continua ad alimentare,


ma onde evitare di allargare a dismisura il campo d’indagine, è
opportuno in questa sede proporre la visione che di quei grandiosi
fatti elaborò Francesco Brancato il quale, avendo come proprio
criterio e fine di lavoro la ricerca della più genuina attinenza ai fatti,
ha saputo descrivere alcune importanti tappe dell’unificazione
nazionale in modo originale e scevro da qualsiasi volontario
dogmatismo interpretativo.

2.2 Le idee di patria e di libertà in Sicilia. Popolo, nobiltà e


nuova borghesia.

Leggere la storia di un popolo come un continuo percorso, in cui


esso aumenta la consapevolezza e la coscienza di sé è,
probabilmente, un retaggio dell’ormai desueta storiografia di
impronta hegeliana che è riscontrabile anche nella produzione
storica di Francesco Brancato.
Ciò nonostante è innegabile come le burrascose vicende che hanno
spesso visto, nel corso del XIX secolo, la Sicilia come teatro di
violenti sommovimenti sociali abbiano contribuito, se non alla
creazione di un vero e proprio spirito nazionale, quantomeno ad
allentare sensibilmente il giogo con cui l’aristocrazia terriera sapeva
aizzare e sedare a proprio piacimento il malcontento del “popolo
minuto” siciliano. Per ben comprendere i termini della questione
bisogna considerare innanzitutto le caratteristiche socio-economiche
che presentava l’isola a cavallo fra XVIII e XIX secolo:

la Sicilia, per le sue particolari vicende storiche, ancora per tutta la


prima metà del secolo XIX ed oltre, conserva una sua spiccata

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

fisionomia economica e sociale che ben la distingue dalle altre regioni


della penisola. 87

L’insularità geografica che ha plasmato la cultura siciliana nel


corso dei secoli si è tradotta, fra la fine del XVIII e l’inizio XIX
secolo, in una sorta di filtro culturale e politico, che ha attenuato,
anche se non zittito, l’eco degli accadimenti francesi.
Elemento emblematico della particolare configurazione della
società siciliana è la presenza del sistema agrario latifondistico, che
ha gravato fortemente sull’economia e sulla struttura socio-culturale
e ha contribuito a mantenere la Sicilia in un’ovattata aura di
borbonico immobilismo. Non si deve infatti credere che la
costituzione del 181288 che ufficialmente abolì la feudalità abbia
sostanzialmente cambiato la situazione, infatti bisogna affermare
che:
la proprietà terriera ch’era poi, se non l’unica, certo la maggiore
ricchezza dell’isola, continuò a conservarsi accentrata con la
conseguente persistenza di sistemi feudali (latifondistici) sia nella
conduzione delle terre, sia nei mezzi più in uso di coltivazione, sia
ancora nei rapporti di lavoro e di produzione, sia infine nel prestigio
che il “feudatario” (così continuo a chiamarsi il grosso proprietario
terriero anche dopo l’abolizione della feudalità) sapeva far valere nella
vita del paese. 89

Benché l’opera del viceré Caracciolo e del ministro de’ Medici


abbiano mirato a intaccare i privilegi di cui godeva l’aristocrazia,
cercando di conferire all’isola delle istituzioni dall’impronta liberale,
87 F. Brancato, La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia, estratto da Il

Risorgimento in Sicilia, A. IV, n.4, p. 3.


88 Scrive a tal proposito Francesco Brancato (in F. Brancato, La partecipazione popolare al

Risorgimento in Sicilia, cit., p.4): con la costituzione del 1812 fu fatta peraltro qualche
concessione anche ai comuni e agli abitanti delle antiche circoscrizioni feudali, come quella
di «erigere ed usare de’molini de trappeti, forni, fondachi taverne ed altri», ma fu allo stesso
tempo disposto che rimanessero «illesi e conservati a ciascun Barone i diritti» che loro
spettavano «per ragione di pertinenza di suolo, di dominio territoriale, di proprietà di fiume,
di salti d’acqua e simili, giusta le rispettive concessioni» (Art. 1-6,7, 9).
89 F. Brancato, La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia, cit., ibidem.

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Giuseppe Nigliaccio

la realtà storica, come raccontano i resoconti dei viaggiatori


europei,90 continuava a suggellare la presenza ingombrante della
nobiltà che «con i suoi 123 principi, 90 duchi, 157 marchesi, 51
conti, 29 visconti, oltre un’innumerevole quantità di baroni e
cavalieri, dava all’ambiente siciliano una spiccata nota di colore
ormai rara in Europa».91 Tale era il contesto storico-sociale in cui
bisogna collocare l’origine della «partecipazione popolare in Sicilia
al movimento per l’indipendenza e l’unità d’Italia». 92 In realtà, l’idea
di patria per la quale ha lottato il popolo siciliano è mutata nel corso
degli anni, e sarebbe anacronistico ritenere che sin dall’origine fosse
una comune patria pan-italiana l’oggetto delle mire dei patrioti
siciliani.93 Fu la corte borbonica di Napoli il nemico iniziale contro
cui mossero le proprie forze i siciliani (soprattutto gli abitanti della
parte occidentale dell’isola) che non digerirono mai il fatto che
Palermo fosse stata privata dello status di capitale, e ciò legittimò da
parte dell’aristocrazia

la sua accanita lotta contro il governo di Napoli nel tentativo di ridare


all’isola quell’indipendenza che per breve tempo le aveva assicurato
quella costituzione (1812).94

Benché l’aristocrazia mirasse a rappresentare la propria presa di


posizione nei confronti del Regno borbonico come un’iniziativa
nell’interesse di tutte le classi, non vi è dubbio che la salvaguardia
dei propri privilegi (considerati violati dal governo borbonico che
aveva spostato a Napoli il baricentro del potere nel meridione)
90 Cfr. H. Tuzet, Voyageurs français en sicilie au temps du romantisme (1802-1848),

Parigi, 1945, cit. in F. Brancato, La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia, cit.,


p.5.
91 Ivi, pp.4-5.
92 Ibidem.
93 Non bisogna mai scordare come almeno nelle fase iniziali del periodo storico che qui

trattiamo con la categoria di patriottismo siciliano ci si riferisca quasi esclusivamente agli


ambienti di quella nobiltà isolana che iniziarono a maturare, in maniera né lineare né
univoca, l’idea di una Sicilia indipendente dal dominio straniero.
94 Ibidem.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

fosse il suo reale obiettivo. Ciò nondimeno, la lotta fra la nobiltà


siciliana e la corte napoletana può essere inquadrata «sul piano
della generale lotta in Europa contro l’ordinamento
interessatamente imposto dalla grandi potenze con il congresso di
Vienna».95
Esiste una copiosissima letteratura96 sul singolare rapporto che
si era venuto a configurare, nella Sicilia ottocentesca, fra
un’anacronistica classe nobiliare incapace di saper guardare al
proprio futuro al di fuori degli schemi sociali del passato che si
stavano oramai incrinando, e la nascente borghesia desiderosa di
imparentarsi con l’antica nobiltà per dare un blasone alla propria
famiglia, sfuggendo così all’inglorioso giudizio di essere dei
semplici “arricchiti”. Una celebre scena della trasposizione
cinematografica dell’opera di Tomasi di Lampedusa mostra il
principe di Salina e la sua famiglia che, giunti a Donnafugata per
il matrimonio di Tancredi, scendendo dalla carrozza ricoperti da
una coltre di polvere, apparentemente dovuta al viaggio, vengono
accolti da Don Calogero Sedara che non riesce a celare la propria
grossolanità.
Ora, la polvere che ricopre le spalle dei nobili, più che la precaria
condizione delle strade e delle trazzere, simboleggia il fatto che il
tempo dell’Italia unita non era più il loro tempo, ma quello dei
Sedara, di quella classe borghese, mai realmente emancipata dalla
propria grettezza morale, che puntava ad assumere un posto di
rilievo sotto il Regno dei Savoia.
Prescindendo dall’impossibilità di tracciare un netto confine fra
borghesia e nobiltà, non si può non osservare come entrambe
mirarono a

95Ibidem.
96Non azzardo una bibliografia sul tema, poiché risulterebbe immensa, ma nonostante paia

scontato, non si può non fare riferimento in ambito letterario al celebre Mastro Don
Gesualdo di Verga e al celeberrimo Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

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Giuseppe Nigliaccio

ripristinare la costituzione del 1812, prima nella sua forma originaria


come nel ’20 e nel ’37, e poi con opportune modificazioni
conformemente alle esigenze dei nuovi tempi. 97

È un luogo comune associare in modo spontaneo le rivoluzioni e


i moti indipendentisti all’opera delle classi sociali meno agiate. In
realtà nel caso della Sicilia della prima metà del XIX secolo vale
l’esatto contrario, infatti

tanto intraprendente ed attiva era la classe borghese, tutta protesa a


conservare e ad accrescere il suo patrimonio economico, quanto in
generale inerte e passiva era la classe proletaria, rappresentata quasi
esclusivamente dai villani che vivevano esclusivamente dell’incerto
lavoro quotidiano. […] Sembrava che essi non sentissero alcuno
stimolo a migliorare la loro condizione né con l’industria, né con
l’intelligenza. Ciò era evidentemente conseguenza della situazione
locale. 98

La persistenza del sistema del latifondo, nonostante formalmente


fosse stato cancellato, ha continuato a mantenere il popolo siciliano,
costituito soprattutto da braccianti, in una condizione di netta
dipendenza nei confronti dei grossi proprietari terrieri. È curioso
notare come a tale dicotomia, fra i molti che hanno poco e i pochi
che hanno molto, non sfuggiva neanche il clero che nonostante
avesse accumulato in Sicilia un patrimonio terriero stimabile in «230
mila ettari, pari a un decimo del terreno coltivabile nell’intera
isola»,99 opponeva a una limitata schiera di alti prelati facoltosi, un
abbondante novero di sacerdoti (sia nei paesi e nelle campagne, sia
nelle città) costretti a vivere alle soglie dell’indigenza.

97 F. Brancato, La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia, cit., p.5.


98 Ivi, p.6. In
corsivo le espressioni riportate da Brancato da Nota del s. prefetto di Corleone
del 3 gennaio1876, in Arch. St. di Palermo, Pref. Gab., b.3, fasc.12.
99 F. Brancato, La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia, cit., p. 6.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Ciò favorì la nascita, anche nel basso clero, di una notevole


simpatia, se non quando una vera e propria partecipazione, ai moti
risorgimentali, visti come il preludio di una società più giusta.
La società siciliana, così fortemente polarizzata fra alto e basso,
non era il terreno più fertile affinché sorgesse un ceto medio
autonomo sul piano lavorativo e sul piano politico. Ciò è evincibile
dall’analisi della composizione delle nascenti

vendite […] alle quali presero parte di solito pochi borghesi e artigiani,
qualche nobile e in numero più cospicuo preti e frati di provincia
rappresentativi allora del ceto intellettuale. Ma ebbero programmi
molto generici ispirati di solito ad un vago democraticismo. 100

Ma ciò che è fondamentale puntualizzare è come anche gli


ambienti isolani più sensibili a quelle tematiche, genericamente
definibili democratiche

legati com’erano direttamente oppure indirettamente all’aristocrazia


dominante, non aspirarono mai ad esprimere una direttiva politica
autonoma, quando non appoggiarono addirittura l’indirizzo separatista
di quella per l’instaurazione degli antichi strumenti di regno contro
l’accentramento napoletano.101

Le masse popolari, aizzate attraverso la strumentalizzazione delle


dottrine democratiche furono, per l’aristocrazia siciliana, un
formidabile strumento di pressione attraverso il quale fare emergere
la propria forza ed il proprio “peso” nei confronti dei Borbone.
Il popolo quindi, «mancando di coscienza di classe», ha espresso
una partecipazione «almeno fino alla rivoluzione del’48, di carattere
clientelistico e sottoposta quindi alla direzione e al controllo del ceto
100Ivi, p.10.All’interno dell’organizzazione gerarchica della Carboneria le vendite

costituivano i raggruppamenti di diverse baracche, che costituivano le cellule base


dell’organizzazione. A tal proposito Cfr.Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna.Vol.
1 Le origini del Risorgimento (1700-1815), Feltrinelli, 1994.
101 F. Brancato, La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia, cit., p.10.

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Giuseppe Nigliaccio

nobiliare e borghese»,102 che lo utilizzò solamente come «massa di


manovra nella sua costante opposizione contro l’accentramento
politico e amministrativo napoletano».103
È opportuno puntualizzare come in realtà sia semplicistico parlare
di una mera avversione della Sicilia alla corona borbonica, poiché
come suggerisce Brancato, il reale bersaglio degli strali della nobiltà
siciliana erano rivolti non alla casata dei Borbone, ma al

suo governo che, nell’opinione dei dirigenti politici isolani, togliendo


alla Sicilia le tradizionali guarentigie e privilegi l’avrebbe privata del
suo massimo bene e del fondamento primo della sua libertà. 104

Per comprendere il reale rapporto che venne configurandosi in


Sicilia fra popolo, nobiltà e monarchia bisogna constatare come a
differenza di Napoli, dove

nei momenti di crisi, trovò sempre negli strati più umili del popolo i suoi
maggiori alleati o per la riconquista del regno, come avvenne dopo la
rivoluzione del 1799 o per vincere l’opposizione della borghesia come
nel 1820, in Sicilia non ebbe mai simili appoggi: nell’isola l’alleanza si
realizzò sempre fra i ceti superiori e le classi popolari. 105

Ora, è importante capire come parallelamente a una progressiva


perdita di consenso della monarchia nell’isola, giunta al proprio
culmine «allorché il Parlamento nei due rami votò unanimemente la
famosa dichiarazione della sua decadenza dal Regno di Sicilia»,106
si andò delineando un crescente, anche se mai totale, affrancamento
del popolo dall’influenza esercitata, in ambito politico-ideologico
dalla borghesia e dall’aristocrazia terriera. Questa maggiore libertà
di pensiero e di azione del popolo emerge chiaramente raffrontando
le differenti dinamiche con cui si sollevarono i moti del 1820 prima
102 Ivi, p.11.
103 Ibidem.
104Ibidem.
105Ibidem.
106 Ibidem.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

e del’60 poi. La tesi di fondo esposta da Brancato è che gli eventi


del’20 non furono una protesta democratica-popolare nel senso
corrente del termine, dal momento che «la rivoluzione del’20 non
segna perciò in Sicilia un reale progresso nella maturazione della
coscienza del popolo». 107 Nella fattispecie bisogna cercare di
valutare il reale apporto delle maestranze in tale circostanza, per
comprendere come nonostante tutto fosse l’aristocrazia il reale
motore dei disordini:

le maestranze erano in Sicilia ancora una manifestazione


dell’antiquata struttura economica e sociale del paese, legate quindi
alla ristretta classe dominante che deteneva la maggiore ricchezza
dell’isola. Organizzate a tutela dell’arte e per assicurare la trasmissione
del mestiere ai figli degli iscritti, esse erano piuttosto espressione tipica
di uno stato stazionario dell’artigianato, privo quindi per il perdurare
dei tradizionali sistemi feudali, 108 di quello slancio che già si verificava
in altre regioni d’Italia.

Quasi un residuo delle corporazioni medievali, sulle quali si era


stratificata una secolare storia di connivenza con il potere nobiliare,
le maestranze possono in realtà essere considerate come un ostacolo
ad una presa spontanea di posizione da parte del popolo.
Non a caso Garibaldi, intuendo la tara che esse rappresentavano
per il progresso sociale dell’isola, le abolì con il decreto del 25
giugno 1860 (è ironico, ma significativo, constatare che oggi come
ieri si sollevi un gran polverone non appena si cerchi di modificare
gli statuti degli ordini/maestranze).
Tale situazione di stallo, in cui le fasce di popolazione più povere
non erano in grado di autodeterminarsi politicamente, venne
vacillando allorché, modificatosi l’insieme di rapporti che legavano
107Ivi, p.14.
108Per non creare ambiguità oggi la storiografia predilige, rispetto il termine feudo,
l’uso del termine latifondo. Allo stesso modo bisogna segnalare come feudo sia stato il
modo in cui in Sicilia, fino a tempi recenti, sono state chiamate le grosse proprietà terriere.

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Giuseppe Nigliaccio

popolo, aristocrazia e potere centrale, emerse con veemenza


l’importanza della questione agraria:

un profondo ed istintivo rancore era venuto soprattutto sviluppandosi


negli strati più umili della società contro i ceti privilegiati,
accompagnato nelle popolazioni della campagna, da un generale ed
irresistibile desiderio di partecipare al possesso della terra, il che non
poteva non dare un colore nuovo alla partecipazione popolare alla
rivoluzione, con grande turbamento della borghesia e della nobiltà per
il pericolo di vedere radicalmente modificato il tradizionale ordine
sociale.109

I moti del 1848 videro quindi le classi popolari meno inclini a


subire le strumentalizzazioni della borghesia/aristocrazia, anche se
tale indipendenza deve essere considerata come frutto
dell’insofferenza popolare per la persistenza della struttura del
latifondo, piuttosto che come reale manifestazione di una coscienza
politica autonoma, infatti annota Brancato:

nel’48 il contrasto tra le aspirazioni delle masse popolari e la resistenza


dei ceti superiori prese fin dall’inizio maggiori proporzioni appunto per
il maggior spirito d’insofferenza delle masse, contrasto ch’ebbe
naturalmente un riflesso nel Parlamento dove l’idea democratica ebbe
vivaci sostenitori nel piccolo ma fervente gruppo repubblicano
rappresentato soprattutto dal Calvi e dal Crispi. 110

Nella sua analisi, lo storico ciminnese si sofferma su come non si


possa desumere, dalla pressione esercitata dalle classi popolari nella
vita politica e sociale della Sicilia, una consapevole e unitaria linea
politica democratica, almeno nell’uso odierno del termine, e non a
caso

109Ivi, p.15.
110Ivi, p.16.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

il modo stesso in cui scoppia il 12 gennaio la rivoluzione, cogliendo alla


sprovvista sia l’aristocrazia che la borghesia, […] rivela ancora la
mancanza, nelle forze popolari, di una propria autonomia, per cui non
sanno e non possono fare a meno della direzione di quelle che erano le
classi che detenevano il potere politico ed economico dell’isola e quelle
quindi che avevano l’effettiva capacità anche di organizzare le forze per
la lotta contro il Borbone.111

Sotto un’altra prospettiva, il fatto che la rivolta popolare tenda a


porsi spontaneamente sotto l’egida della borgo-nobiltà non è un
controsenso, nella situazione siciliana della prima metà del XIX
secolo, poiché il suo intervento

fu auspicato dagli stessi agitatori democratici, i quali in verità non si


prospettarono una rivoluzione sociale, ma, secondo l’idea allora
prevalente, l’indipendenza della Sicilia nel quadro di una federazione
italiana. 112

Nella stessa cornice di senso deve poi essere interpretata


l’istituzione della Guardia Nazionale in Sicilia, la quale

avrebbe dovuto garantire il successo della rivoluzione anche sul piano


delle riforme nel campo sociale ed economico, fu costituita da elementi
nobiliari e borghesi con a capo il barone Riso che ne fece strumento di
difesa degli interessi dei ceti benestanti113

Il 1848 è stato un anno in cui rivolte e sommovimenti sociali hanno


scosso profondamente tutta l’Europa. La primavera dei popoli era
stata battezzata dallo spettro del Comunismo che si aggirava per il
vecchio continente e si è concretizzato nel Manifesto del Partito
Comunista (stampato a Londra nel febbraio del 1848). Il popolo
111Ivi, p.17.
112 Ibidem.
113Ivi, p.18. Brancato rimanda, al proposito, anche a A. Caldarella, I compiti della Guardia

Nazionale nella rivoluzione del 1848, in Atti del Congresso di studi storici sul ’48 siciliano
(12-15 gennaio 1948), Palermo,1950, pp. 279-309.

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Giuseppe Nigliaccio

siciliano, il primo a scendere in piazza (12 gennaio), ha agito con


logiche totalmente diverse rispetto ciò che avvenne negli altri paesi.
Per sottolineare come i moti siciliani non attentassero in realtà alle
fondamenta della borgo-nobiltà, Francesco Brancato riporta alcuni
passi del Diario di Giuseppe Lo Bianco,114 il quale non senza
sarcasmo registra:

il popolo siciliano ha tanto buon senso, ed è così rispettoso alle


posizioni acquistate che non saprebbe nemmeno concepire certe idee,
che altrove hanno avuto un fatale successo. In altre Nazioni, in questo
anno 1848, si è preteso, a ragione di esempio, che i ricchi comprando
forzatamente il lavoro di che non hanno bisogno, e in certi altri modi,
divisero le sostanze coi poveri, fatale errore che mette nella stessa
condizione l’uomo industrioso e l’infingardo, e invece di estinguerlo,
accresce il pauperismo […]. Il popolo siciliano nulla sa e nulla vuole di
tutto questo: dopo aver combattuto è ritornato alle sue capanne col
fucile sulle spalle senza guardare i palazzi de’ ricchi. Esso è forte e
generoso come il leone. I signori ricchi non hanno avuto nulla a
soffrire. 115

La rivoluzione siciliana non ebbe quindi un carattere


esplicitamente anti-nobiliare, tuttavia da essa nascerà quel Regno di
Sicilia, le cui finanze bisognavano di essere rimpinguate. Date le
miserabili condizioni di vita delle classi popolari, le manovre
finanziare necessarie non poterono che far leva sulle classi più
agiate. Prestiti forzosi, tasse sulle rendite del clero, incameramento
dei beni della Chiesa: tutti questi provvedimenti, inizialmente
sopportati, anche se a malincuore, contribuirono a creare un
malcontento delle classi agiate, le quali iniziarono a coltivare una
sempre maggiore diffidenza nei confronti dei vari cambiamenti
socio-politici, e a favorire un atteggiamento estremamente
accogliente e conciliante della nobiltà nei confronti della corona
114 G. Lo Bianco, Diario dall’anno 1848 al 1851, vol. III, in Bibl. Comun: di Palermo,
ms. Qq.- F.-170, b.
115 G. Lo Bianco, op.cit., citato in F. Brancato, La partecipazione popolare al

Risorgimento in Sicilia, cit., pp. 17-18.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

borbonica, nel momento in cui il Carlo Filangeri, principe di


Satriano, a comando delle truppe borboniche riconquistò l’isola. È
innegabile che il fallimento della rivoluzione del’48 smorzò gli
entusiasmi e le speranze di progresso che si erano creati, nell’isola,
sia negli ambienti democratici che liberali. La memoria collettiva del
popolo siciliano di quei grandiosi avvenimenti, e soprattutto delle
motivazioni che lo avevano spinto in piazza, non fu totalmente
cancellata - complice anche il governo napoletano che, con misure
quali la reintroduzione del dazio sul macinato, nulla fece per
migliorare la propria immagine agli occhi dei siciliani - e infatti un
forte risentimento antiborbonico continuò a covare non più nei
palazzi di una nobiltà che sentiva i propri privilegi usurpati dalla
corte di Napoli, ma nelle povere case di un popolo sempre più allo
stremo. Tenuto conto di quanto detto scrive Brancato:

tale fermento nell’isola spingeva i patrioti di tendenza democratica


ad affrettare la loro azione, sollecitati anche dalla preoccupazione che,
per le circostanze favorevoli createsi in Italia, dopo l’intervento del
Piemonte nella guerra di Crimea, nei confronti dei moderati orientati
in generale per la liberazione della Sicilia verso la casa dei Savoia,
potessero da quelli essere preceduti e perdere pertanto l’iniziativa. Da
qui il proposito di Rosolino Pilo di recarsi in Sicilia e le continue
sollecitazioni a Garibaldi perché assumesse la direzione di una
spedizione per la liberazione dell’isola.116

La Sicilia è però un’isola profondamente umorale, capace di


destarsi repentinamente da un lungo, anche se apparente, sonno e,
con la stessa esplosività dell’Etna, scombussolare d’un sol colpo i
piani e i progetti politici che su di essa si erano venuti delineando.
Tale può essere considerato il moto della Gancia del 4 aprile
1860, il cui epilogo non fu certo la fucilazione (14 aprile) di tredici
fra i protagonisti di tale sommossa, poiché

116 F. Brancato, La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia, cit., p.21.

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Giuseppe Nigliaccio

nelle provincie orientali dove giunse pure subito l’eco del moto della
Gancia, non si verificarono insurrezioni, ma si ebbero altre
manifestazioni che rivelano la forte tensione in cui ormai si viveva. 117

A proposito della partecipazione del popolo siciliano ai moti


risorgimentali, la storiografia ha spesso focalizzato l’attenzione
sull’«apporto dato dalle squadre di picciotti accorse a ingrassare le
fila dei Mille»,118 ma secondo Brancato frequentemente gli storici

hanno trascurato di considerare il contributo dato dalle masse cittadine


e rurali che, con il loro deciso contegno, nel periodo di insurrezione
vera e propria che precedette lo sbarco garibaldino a Marsala, a volte
condizionarono la condotta stessa dei dirigenti politici. 119

In tal senso è necessario segnalare che nonostante dietro le squadre


di volontari, fosse spesso presente la regia di quella «parte della
borghesia e della nobiltà di idee avanzate che, in continuo contatto
con gli esuli, s’erano venute orientando verso l’unità d’Italia sotto lo
scettro di Casa Savoia»,120come riporta Brancato

il peso maggiore della resistenza fu sostenuto dal popolo nel quale va


compreso il basso clero, particolarmente quello di provincia, che con il
popolo condivideva bisogni e aspirazioni verso una maggiore giustizia
così come era voluta dal Vangelo (si ricordi a proposito la figura di frate
Carmelo descritta dall’Abba),121e che, diversamente da ciò che avvenne
nelle altre regioni d’ Italia salutò pure con entusiasmo la rivoluzione
colorendola quasi di un motivo religioso.122

Al fine di rafforzare quanto appena detto, Brancato riporta un


avvenimento molto significativo: quando a Lercara giunsero notizie
117Ivi, pp.21-22.
118Ivi, p.22.
119Ibidem.
120Ivi, p.23.
121 Cfr. G.C. Abba, Da Quarto al Volturno, Ed. Pontegobbo, Bobbio, 2011.
122 F. Brancato, La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia, cit., p.23.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

riguardo all’insurrezione della Gancia, fu intonato, a modo di


ringraziamento, un te Deum.123
Continuava però a persistere, nonostante la sempre maggiore
adesione dei siciliani ai moti risorgimentali, una profonda dicotomia,
fra l’ardore delle masse che -mosse all’azione dall’esasperazione
dovuta alla miserevoli condizioni di vita- non riuscivano a
comprendere la reale portata degli avvenimenti ai quali pure stavano
dando un contributo decisivo, e i pochi (perlopiù borgo-nobili di
tendenza liberale) in grado di leggere i mutamenti storici in tutta la
loro ampiezza. In una nota del presidente del comitato rivoluzionario
di Ragusa, riportata da Brancato, a proposito del reale scopo delle
classi dirigenti, si legge:

per essi la rivoluzione significava governo costituzionale, governo


rappresentativo, uguaglianza giuridica nel più largo senso della parola,
innalzamento di ogni singolo uomo alla dignità di cittadino e di
Nazionale, per essi la rivoluzione importava giustizia e quindi
rappresentanza municipale in ragion di popolazione. 124

Ora, gli obiettivi menzionati nella nota non sono certo


deprecabili, ma considerando che il popolo siciliano, dedito per la
maggior parte all’agricoltura, aveva come obiettivo principale ed
immediato una riforma agraria che non comportasse solamente la
redistribuzione delle terre demaniali, ma anche la sostanziale
scomparsa del sistema latifondistico, capiamo la reale distanza che
separa, anche negli stessi ambienti rivoluzionari, il popolo dalla
borgo-nobiltà. Nella dialettica estremizzata fra contadini da un lato,
nobili e borghesi dall’altro, si possono leggere molte vicende, anche
dolorose come i fatti di Bronte, della storia della Sicilia in epoca
risorgimentale. Questo dislivello di obiettivi fra la borgo-nobiltà e le
classi popolari ha legittimato anche una sorta di diffidenza della
123Cfr. Ibidem.
124 Nota del 19 luglio 1860, in Arch. St. di Palermo, Segr. Di St. presso la Luog., Polizia,
b. 1517., cit. in F. Brancato, La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia, cit.,
p.24.

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Giuseppe Nigliaccio

prima nei confronti dello stesso Garibaldi. Avvolto da un’aura


mazziniana, l’eroe dei due mondi poté non a torto suscitare, in prima
istanza, la paura che le classi più abbienti fossero, in nome
dell’uguaglianza, private dei loro beni, e che l’ordine sociale finesse
per essere sovvertito. Tale situazione di diffidenza si risolse non
appena

Garibaldi, nel momento stesso dello sbarco, diede al movimento


siciliano anche un programma ben preciso: Italia e Vittorio Emanuele.
Ciò contribuì particolarmente a togliere il ceto borghese da quello stato
d’ambiguità in cui si era fin allora mantenuto. […]Il nome di Vittorio
Emanuele, aggiunto al programma annunziato da Garibaldi
nell’assumere la Dittatura a Salemi, costituiva una garanzia. […]
L’attuazione di tale programma non avrebbe determinato scosse troppo
forti all’ordinamento sociale siciliano e avrebbe, nello stesso tempo,
consentito all’isola nuove e più alte forme di vita sociale e alla
borghesia, con l’attuazione del sistema liberale, di fare nuove e
maggiori conquiste nel campo delle attività economiche. 125

Emerge dall’analisi condotta da Francesco Brancato la


consapevolezza che i moti risorgimentali non possono essere letti in
una prospettiva univoca. Esiste una pluralità di piani e di fattori, che
intersecandosi hanno dato forma all’Italia, ma che non sono
riconducibili a un principio comune. Non vi è stato, soprattutto nel
meridione, una reale comunione d’intenti fra le varie fasce della
popolazione.
Nonostante possa apparire che il popolo siciliano risulti essere
stato alla fine una marionetta nelle mani della borgo-nobiltà che
“gattopardianamente” muoveva le fila di un cambiamento che
lasciava in realtà immutati i rapporti di forza sul piano sociale, non
si può non ammettere che

Il 1860 segna la definitiva rottura tra i ceti privilegiati e le masse


popolari che d’ora innanzi per l’influenza di nuove idee e della stessa

125 F. Brancato, La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia, cit., p.28.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

unità politica nazionale che allarga l’orizzonte della loro concezione di


vita, faranno sempre più sentire il peso della loro presenza negli
avvenimenti. 126

2.3 Tonache rivoluzionarie. Quando il clero sposa la rivolta armata

L’immagine di un sacerdote che esorta la popolazione a ribellarsi


contro un regime politico oppressivo e corrotto, se non quando
pronto egli stesso a imbracciare le armi, può portare la mente alle
azioni dei sacerdoti ispirati dalla Teologia della Liberazione che, nel
Sud-America degli anni settanta, hanno partecipato direttamente alle
lotte delle popolazioni locali contro i regimi allora in vita.
In realtà un fenomeno analogo era avvenuto, circa un secolo
prima, in Sicilia. Allo studio dell’apporto dato dal clero al
Risorgimento in Sicilia dedicò molte energie Francesco Brancato.
Per non fraintendere l’importanza degli studi portati avanti dallo
storico ciminnese, bisogna precisare che diversi studi su tali
argomenti erano già stati effettuati da autorevoli studiosi,127 ma in
tal senso è utile rivolgerci alle stesse parole del nostro che scrive:

per me il problema non è vedere quanti furono i preti e i frati che


parteciparono alla rivoluzione e in quali episodi si distinsero. A questo
hanno in genere mirato quanti si sono occupati finora del clero nella

126 Ivi, p.32.


127 Vengono qui citati gli studi, e le relative indicazioni bibliografiche, così come
espressamente menzionati da Brancato: A. Maurici, Il clero siciliano nella rivoluzione del
1860, Palermo, 1910; A. Di Giovanni, Sacerdoti e francescani nell’epopea garibaldina
del’60, in La Sicilia nel Risorgimento Italiano, anno II, num. I, pp. 47-77; G. Oddo, I Mille
di Marsala, Milano, 1863. Brancato menziona anche una comunicazione dal titolo: Incontri
di cattolici nell’epopea garibaldina, tenuta Alfredo Barilà, al Congresso dell’Istituto per la
Storia del Risorgimento (Messina, 1954).

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Giuseppe Nigliaccio

rivoluzione del 1860. Episodi di patriottismo nel clero durante il


Risorgimento, e ancora nel 1860, non mancarono del resto nelle altre
regioni d’Italia. 128

Per Francesco Brancato il fulcro del problema consiste nel

vedere la funzione e il significato della presenza del clero nella


rivoluzione del ’60, perché, mentre nella penisola il clero, com’è noto,
avversò, nella sua grande maggioranza, il movimento liberale unitario, in
Sicilia la partecipazione a quel movimento fu quasi totale, del clero
particolarmente di provincia, che impresse alla rivoluzione, nel modo
almeno in cui fu vissuta e sentita dalle masse popolari, un colore quasi
religioso.129

L’Italia unita, nata dal Risorgimento, è presentata molto spesso,


e non sempre a torto come una nazione dal profondo spirito laico,
quando non propriamente anticlericale. Libera Chiesa in libero Stato
è l’abusata espressione che viene portata a emblema di tale visione
dell’epopea risorgimentale. In Sicilia invece il popolo era corso alle
armi, sospinto dalla retorica e dall’enfasi di preti e frati, convinto che
la ribellione e la rivolta nei confronti dei Borbone, avesse una
connotazione quasi sacra. Francesco Brancato diffida da chi tende a
polarizzare la distanza fra il laicismo piemontese e il vivo sentimento
religioso dei patrioti siciliani, in modo netto e inequivocabile, ma
non si può esimere dal constatare che

nessuna rivoluzione in Sicilia era stata vissuta dal popolo con spirito
così intimamente religioso come quella del 1860, che vide tra i più
zelanti sostenitori, specialmente nei comuni di provincia, preti e frati
che appunto con la loro presenza impressero ad essa una fisionomia
particolare.130

128 F. Brancato, La partecipazione del clero alla rivoluzione siciliana del 1860, Manfredi
Editore, Palermo, 1960, p.6.
129Ibidem.
130Ivi, p.7.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

La strenuo appoggio, morale e materiale, di molti religiosi alla


causa dei Mille, gettò nel panico molti alti prelati, logorati dal
«timore che il movimento, con la vittoria della rivoluzione, potesse
sboccare in una lotta aperta contro la Chiesa ufficiale».131
In Sicilia infatti storicamente si era creato un solido asse fra
potere politico e spirituale, dovuto al fatto che

l’alto clero, quello delle curie vescovili, era stato il maggior alleato del
governo che di esso si era avvalso, nelle varie contingenze, per cercare
di reprimere lo spirito rivoltoso delle popolazioni. 132

Basta infatti focalizzare l’attenzione sulla storia dei rapporti fra


potere politico e Chiesa, nel corso dell’ottocento in Sicilia, per
accorgersi che

dopo i moti del 1820, il governo, più che sulla forza delle armi, aveva
poggiato la sua azione restauratrice principalmente sull’influenza che
avrebbe potuto esercitare il clero sui ceti soprattutto dei comuni rurali
che erano ad esso particolarmente devoti e affezionati.133

Questo atteggiamento spiega ad esempio una circolare del


luogotenente generale del re in Sicilia, datata 30 gennaio 1821 e
riportata da Brancato, diretta alle sedi episcopali dell’isola in cui egli
esortava il clero, a tutti i livelli, a spronare le popolazioni a

venerare i misteri della Sagrosanta nostra Religione, e rispettare del pari


l’Augusta persona del Sovrano, viva immagine quaggiù della Suprema
Divinità.134

Il profondo legame fra potere regio e potere spirituale, in Sicilia


aveva per certi versi conservato una connotazione
anacronisticamente “medievale”. Per delineare i contorni della
131Ibidem.
132 Ibidem.
133Ibidem.
134 Ivi, pp.7-8.

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Giuseppe Nigliaccio

dialettica esistente fra Chiesa e Corona in Sicilia, secondo Brancato


risultano particolarmente illuminanti le risposte dei vescovi alla
suddetta circolare.
In particolare colpisce come l’alto clero, ogniqualvolta sia stato
chiamato in appoggio da parte del governo, abbia colto l’occasione
per rivendicare e tentare di accrescere i propri privilegi e le proprie
prerogative. Così scrive il vescovo di Caltagirone: «il male sarà
inevitabile sino a quando queste punizioni non si daranno dai
Parrochi (sic)».135 La linea ideologica, con cui le alte sfere
ecclesiastiche isolane volevano rappresentare sé stesse, e quindi
confrontarsi con l’autorità regia, si muoveva su due versanti: il primo
consistente nel reclamare maggiori poteri, anche nel campo
giudiziario, e le parole del vescovo di Caltagirone risuonano di una
lugubre nostalgia in una terra che ha conosciuto la mano pesante del
tribunale inquisitorio. Il secondo, invece, atto a dimostrare la
coerenza e la lealtà mantenuta dalla chiesa isolana nei confronti della
monarchia borbonica, ritenuta l’unica legittima depositaria del
potere. La lealtà nei confronti dei Borboni non poteva quindi non
passare per il misconoscimento dell’autorità del Parlamento isolano.
Monsignor Domenico Lo Jacono, vescovo di Agrigento, dichiarò
espressamente di non riconoscere la legittimità del Parlamento
siciliano, così scrive infatti l’alto prelato:

imperciocchè in Sicilia in 16 mesi non vi fu mai tranquillità, era tutto


in disordine e tumulto; né si poteva stampar un jota in controsenso alla
rivoluzione, niuno stampatore ne accettava l’incarico per sola
paura.[…] Quando si dovevano decidere le cose più gravi, che si
volevano, prima ne’club si decidevano, e poi si andava nel cosiddetto
Parlamento col corredo di moltissima gente, anche armata, che riempiva
le ringhiere per forzare l’adesione. 136

135Si riportano le informazioni bibliografiche fornite da Brancato: cfr. Risposte dei

vescovi alla Ministeriale del 30 gennaio 1822, n.1622, in Arch. St. di Palermo, Segretario
di Stato presso la Luog. Gen. Del re, Ecclesiastico, filza 14., citato in, F. Brancato, La
partecipazione del clero alla rivoluzione siciliana del 1860, cit., p.8.
136 Ibidem.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Privo di una qualsiasi legittimità, il Parlamento viene dipinto


come l’emblema del potere dei membri di quelle oligarchie che,
presentandosi al popolo come gli autentici esecutori della volontà
collettiva, non fanno altro che infangare, con la loro tracotanza, le
funzioni che, illegittimamente, essi esercitano. Non a caso il vescovo
agrigentino sottolinea di aver partecipato alle sedute del Parlamento
solamente sotto la pressione delle armi. A proposito della
dichiarazione della decadenza della monarchia borbonica il
commento del Lo Jacono è particolarmente caustico:
L’atto ridicolo della decadenza è notissimo, come fu fatto; talché se
non fosse stato nullo, e illegale per tutt’altro, era nullo per le minacce
spaventevoli, da cui furono i Pari costretti, e moltissimi eziandio
Deputati. 137

Comunque, per non fraintendere le peculiari congiunture storiche


che, susseguendosi e innervandosi nel corso dei secoli nella società
siciliana, hanno finito per segnarne la struttura rendendo la Sicilia
uno scrigno di annose contraddizioni, non si può non notare, con
Francesco Brancato, come

la Sicilia, per la sua posizione geografica, non era stata affatto toccata
dal movimento della Riforma, che, partito dalle regioni germaniche,
aveva tenuto invece per molto tempo in travaglio la parte centrale e
settentrionale dell’Europa. Estranea inoltre ad una diretta influenza
della rivoluzione francese e all’azione napoleonica, aveva conservato
più a lungo gli effetti della Controriforma, favoriti per di più secolare
dominazione spagnola e da quella borbonica che, come la prima, aveva
dato grande impulso nell’isola allo sviluppo degli ordini religiosi e della
pratica ascetica. Numerosissime erano perciò le chiese in ogni comune
e frequentatissime dovunque, essendo fortissimo il sentimento religioso
delle masse che, non di rado, per la mancanza di un maggiore
approfondimento, scivolava nella superstizione.
Numerosissime erano anche le corporazioni d’arte che, malgrado la
loro abolizione decretata da Ferdinando I il 23 ottobre 1821,

137Ibidem.

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Giuseppe Nigliaccio

continuarono a sopravvivere nella consuetudine come associazioni


religiose, distinte secondo il mestiere, con sede generalmente presso la
chiesa intitolata al santo protettore.138

Un’ancora invisibile, fatta di consuetudini e di clientelismi, di


leggi non scritte e anacronistici privilegi, pesava sulla volontà e sulla
effettiva possibilità di portare avanti compiutamente un progetto
riformatore in Sicilia.
A quest’ancora si è aggrappato, quasi per farsene trascinare nel
solco dei secoli, l’alto clero siciliano che, adagiato sulle sue
eccessive e tracotanti prerogative, tendeva a prodigarsi con tutti i
mezzi in proprio possesso affinché rimanesse inalterato lo status quo
in ambito socio-politico.
Una profonda distanza separava quindi le sfere più alte della
Chiesa dal clero più direttamente a contatto col popolo e, proprio per
questo, più sensibile e vicino alle sue esigenze, il quale non si limitò
solamente a guardare con favore ai moti rivoluzionari, ma vi prese
parte attiva. Come il popolo e buona parte del clero siciliano abbiano
partecipato ai moti risorgimentali con uno spirito che trascendendo
la mera rivolta politica, giungeva per certi versi a lambire un
misticheggiante desiderio di un cambiamento epocale (e proprio per
questo acre fu la delusione di molti patrioti siciliani) è perfettamente
esemplificato dall’argomento con cui, nel famosissimo dialogo tra
frate Carmelo e l’Abba, il religioso prende le distanze dal
garibaldino, ponendo la rivolta siciliana su un piano “altro” rispetto
alle motivazioni che spingevano i mille alla loro impresa: il popolo
siciliano desiderava

una guerra non contro i Borboni, ma degli oppressi contro gli


oppressori, grandi e piccoli, che non sono solo a Corte, ma in ogni città,
in ogni villa...allora verrei [con voi]. Se io fossi Garibaldi, non mi
troverei a quest'ora quasi ancora con voi soli.139

138 Ivi, p.9.


139 G.C. Abba, op. cit., p.220.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

2.4 La Sicilia, il meridione e l’unificazione nazionale nella


riflessione di Carlo Cattaneo.

Cavour fu abile nel presentare la monarchia sabauda e il Piemonte


come il baricentro e il motore dell’Unificazione italiana. Da una
posizione opposta a quella del politico torinese prendeva spunto,
nelle sue riflessioni, una delle intelligenze più originali e vivaci del
Risorgimento: Carlo Cattaneo, a proposito del quale scrive
Francesco Brancato:

in una iniziativa meridionale che si contrapponesse alla politica di


Cavour non sperò soltanto il Mazzini tenace assertore del principio
unitario repubblicano, ma anche Carlo Cattaneo, sostenitore di un
federalismo repubblicano che, rispettoso dei bisogni, delle tradizioni e
delle libertà locali, avrebbe assicurato una pacifica convivenza tra le
popolazioni degli antichi Stati e un generale prospero avvenire […]. 140

Contrariamente all’immagine mistificata ad opera di alcuni


soggetti politici che oggi tendono a rappresentare Carlo Cattaneo
come un antesignano propugnatore dell’istanze padane, per lo
scrittore lombardo un ruolo fondamentale nel processo di
unificazione nazionale sarebbe spettato alla

Sicilia che, per il suo passato di regno indipendente e per la decisa


volontà manifestata ancora nella rivoluzione del ’48 di ripristinare le
tradizionali forme autonome, sarebbe stata la regione d’Italia meglio
preparata a far trionfare il principio federalista. 141

In una lettera indirizzata a Saverio Friscia, riportata da Brancato,


con un afflato quasi mistico afferma Cattaneo che al centro dei suoi
sogni politici vi sia

140 F. Brancato, La questione meridionale nel pensiero di Carlo Cattaneo, in Annuario

dell’Istituto Magistrale Pascasino, Marsala 1962, p. 3.


141 Ibidem.

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Giuseppe Nigliaccio

una famiglia unita con la lingua, con la fratellanza, con gl’interessi e


soprattutto con l’amicizia, con un’amicizia né arrogante né avara, molto
meno con le stringhe e le catene, con gli odi come furono Sicilia e
Napoli, Sardegna e Piemonte. L’iniziativa di questa vera e libera unione
appartiene alla Sicilia; il tempo e la costanza e la necessità la
condurranno a compimento.142

Che il Meridione, e la Sicilia in particolare, rappresentassero per


Cattaneo il propulsore più idoneo e l’unico realmente legittimo per
l’unificazione italiana non è una convinzione che ha trovato spazio
solamente nelle pagine delle opere e delle lettere del pensatore
lombardo, all’opposto essa ha permeato la vita di Cattaneo
segnandone decisamente le decisioni sul piano politico.
Anche in questa direzione si muove l’analisi di Brancato, che non
può non partire, in tal direzione, dal rifiuto di Cattaneo di recarsi a
Torino per partecipare ai lavori del parlamento una volta che,
annesse la Toscana e la Romagna, venne eletto deputato al Quinto
collegio di Milano. Dovendo spiegare la propria distanza dal
liberismo monarchico piemontese scrive Cattaneo:

voi avete una dottrina falsa e volete giungere alla libertà per la via che
conduce alla dittatura e all’impero il quale è la dittatura continuata; è
la rivoluzione sociale senza la libertà. La libertà è repubblica, e
repubblica è pluralità, ossia federazione. 143

Un ulteriore invito, che il Cattaneo non ebbe remore a declinare,


fu quello fattogli pervenire da Crispi di recarsi in Sicilia a servire la
causa rivoluzionaria «con maggiore vantaggio che nel
continente».144
Una certa storiografia recepì il rifiuto di Cattaneo a prender parte
attiva a quegli eventi come conseguenza dell’indole dello scrittore
142C. Cattaneo, Lettera del 7 Luglio 1860, In Epistolario di C. Cattaneo, a cura di R.

Caddeo, Firenze, La Barbera, III, 1954, pp.368-369., cit. in F. Brancato, La questione


meridionale nel pensiero di Carlo Cattaneo, cit.,p. 3-4.
143 Ibidem.
144 Ivi, p.4.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

lombardo, maggiormente incline a ordire le trame dietro le quinte


degli eventi, che a recitare un ruolo da protagonista. Secondo
Francesco Brancato invece Cattaneo rifiutò di prendere parte ai
lavori del Parlamento poiché

vide ormai chiaramente che, per la piega che erano venuti prendendo gli
avvenimenti, non v’era assolutamente possibilità d’attuazione dei
principi federalistici. Uomo tutto d’un pezzo non era per niente proclive
a transazioni […].145

Facendo particolar riferimento al rifiuto di Cattaneo di


raggiungere Garibaldi in Sicilia, lo scrittore lombardo, stando a
quanto riferisce Brancato, «non tralasciò di dare i suoi consigli. Fu
così ben lieto di abboccarsi con il Mordini,146 a lui indirizzato dal
Bertani147»148 al fine di contrastare l’influenza che Cavour stava
esercitando sull’isola, attraverso la figura di La Farina.
Tale intento è esplicitamente dichiarato nella lettera che il Bertani
inviò a Cattaneo il 4 giugno 1860 e nella quale dichiara come sia,
quello di Mordini, «un bellissimo proposito, quello cioè di recarsi in
Sicilia a contrapporre una benefica influenza alla tristissima che vi
tenta riprendere La Farina quale mandatario di Cavour».149
Allo stesso modo Cattaneo tentò di far attorniare Garibaldi da
persone che, essendo di ideali filo-repubblicani, controbilanciassero
o mitigassero, la pressione esercitata dalla linea filomonarchica di
145 Ibidem.
146 Antonio Mordini (1829-1902) patriota italiano. Deputato del regno sub-alpino fu in
seguito Prodittatore della Sicilia. La sua attività politica (soprattutto durante il periodo
siciliano) fu permeata da una costante azione di mediazione fra gli autonomisti e gli
annessionisti.
147 Agostino Bertani (1812-1886). Amico di Mazzini e di Cattaneo partecipò attivamente

alle cinque giornate di Milano. Benché il suo ideale fosse repubblicano, nel 1859 dichiarò
pubblicamente di appoggiare la casa dei Savoia. Al seguito di Garibaldi in Sicilia, ricoprì
anch’egli la carica di Prodittatore, venendo eletto deputato del regno d’Italia nel 1861.
148 Ibidem.
149 Lettera del 4 giugno di Bertani a Cattaneo, cit. in F. Brancato, La questione

meridionale nel pensiero di Carlo Cattaneo, cit., p.5.

- 75 -
Giuseppe Nigliaccio

La Farina. Analogamente a quanto fatto con Mordini, Cattaneo


esortò anche i coniugi Jessie e Alberto Mario150 a recarsi in Sicilia
come poi effettivamente fecero. Non a caso l’allontanamento di La
Farina dalla Sicilia (7 luglio)

potè far sperare per un momento anche a Cattaneo e agli altri democratici
in un nuovo avviamento degli eventi, e quindi in un arresto della corrente
filopiemontese sulle nuove determinazioni del governo dittatoriale.151

Il clima mutato convinse Cattaneo ad accogliere l’invito di


Garibaldi di recarsi a Napoli e, dopo esservi giunto il 21 settembre

prese dimora nel Palazzo d’Angrì, nel quale aveva il suo ufficio il
Bertani, nominato dal Dittatore segretario generale, e dove Garibaldi
teneva pure il suo quartiere generale.152

Nel nostro contesto è importante sottolineare questo evento per


capire in che modo Carlo Cattaneo cercò di ostacolare l’enorme
potere di Cavour. È opportuno precisare la questione: Cavour aveva
sempre nutrito una profonda diffidenza nei confronti di Garibaldi
essendo convinto, e non totalmente a torto, che lo sbocco naturale
dell’azione garibaldina fosse stata la proclamazione della
Repubblica, contrariamente ai suoi progetti filo-monarchici e
filopiemontesi. La difficile convivenza fra i due divenne un aperto
scontro quando Garibaldi, l’11 settembre 1860, inviò due lettere a
Vittorio Emanuele. In queste lettere Garibaldi manifestava la volontà
di marciare su Roma e, dopo aver “liberato” anche la città eterna,
150 Jessie Jane Meriton White (Portsmouth, 9 maggio 1832 – Firenze, 5 marzo 1906),
figlia di ricchi armatori inglesi, studiò filosofia a Parigi, entrando in contatto con gli
ambienti mazziniani. Insieme al fidanzato, poi marito, Alberto Mario svolse un ruolo non
secondario nel Risorgimento italiano, ora adoperandosi per la raccolta di fondi fra
l’Inghilterra e gli Stati Uniti, ora scendendo direttamente in campo come in Sicilia al seguito
di Garibaldi. In tale occasione il marito ebbe importanti responsabilità di governo, mentre
lei prestò servizio come volontaria in qualità di infermiera.
151Ivi, p.7.
152 Ibidem.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

avrebbe rimesso la propria dittatura nelle mani del monarca (questa


lettera, benché si muova solamente sul piano delle intenzioni, pare
smentire la diffidenza di Cavour). Il programma di Garibaldi andò a
incontrare la ferma opposizione di Cavour, poiché una marcia su
Roma avrebbe implicato una frattura nei rapporti con la Francia,
autoproclamatasi paladina dello stato pontificio, con conseguenze
che in questa sede non è opportuno delineare. Ovviamente Vittorio
Emanuele trovò inopportuna la richiesta di Garibaldi di
allontanamento di Cavour, difatti

quando il 21 settembre giunse il Cattaneo a Napoli era da poco arrivata


a Garibaldi la risposta del re il quale aveva dichiarato senz’altro
“impossibile” e “non opportuno” il progetto di rimpasto del ministero
con il conseguente allontanamento di Cavour e lo aveva esortato per di
più a non marciare sulla città di Roma. Nella riunione tenuta a Palazzo
d’Angrì fra il Cattaneo, il Bertani e Garibaldi la sera stessa di quel
giorno l’argomento della discussione fu pertanto la risposta del re per il
quale il Dittatore aveva già preparato una bozza di lettera con cui, vista
l’impossibilità che si attuassero i suoi propositi, si dichiarava senz’altro
disposto ad obbedire ai suoi voleri, limitandosi a raccomandare alla sua
benevolenza i volontari garibaldini. 153

Francesco Brancato pone però l’attenzione sul fatto che

proprio in seguito al disgusto per quel progetto di risposta manifestato


dal Cattaneo, Garibaldi si sia deciso, in quella stessa sera, a inviare una
nuova istanza al re, di cui sarebbe stato dato allo stesso Cattaneo
l’incarico della redazione e con cui tornava a chiedere nuovamente
l’allontanamento del Cavour dal ministero di Torino.154

Fu il marchese Pallavicino il messo di fiducia incaricato di


portare la missiva al re. Inutile precisare che essa non ebbe alcuna
fortuna.
153 Ibidem.
154Ibidem.

- 77 -
Giuseppe Nigliaccio

Ora, volendo concludere questo paragrafo dedicato


all’importanza che ebbe, nell’economia di pensiero di Cattaneo, la
questione meridionale non si può non fare riferimento a quel nucleo
concettuale che costituisce l’eredità filosofica, ma anche spirituale
di Cattaneo: la centralità del federalismo. In un momento storico in
cui stava per sorgere lo Stato italiano, Cattaneo ammoniva i propri
contemporanei dal pericolo di un’unificazione che fosse solamente
un’omologazione e un asservimento delle regioni dell’Italia agli
interessi piemontesi, e in tal senso scriveva il grande pensatore
lombardo:

i patriarchi della politica italiana non sanno persuadersi che patto


federale è un modo d’unità, e l’unico forse, perché l’unico, durevol modo
di concordia e di libertà.155

I centocinquant’anni di storia italiana che ci separano dalle parole


di Cattaneo non possono che confermare la bontà delle sue
intuizioni. Se ancora oggi persistono delle faglie, nella struttura
sociale del paese, che rendono impossibile parlare di un’unità
nazionale che implichi fattualmente eguaglianza di opportunità e
diritti per i cittadini, le cause vanno probabilmente ricercate, sul
piano politico, nella scelta anti-federalista dell’allora neonato stato
italiano che, lungi dal garantire uno sviluppo omogeneo ed
armonioso delle proprie membra, ha pagato col prezzo del
rachitismo socio-economico del sud-Italia la fiorente vitalità del
settentrione.

155 Ivi, p.9.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Capitolo III
Brancato e la rivolta del 1866

3.1La rivolta del “sette e mezzo” fra storiografia tradizionale e


necessità di un ripensamento. Lo sguardo di Brancato

Il 16 settembre 1866 una sommossa popolare, scoppiata nel ventre


caldo di Palermo, si presentò, agli occhi dell’opinione pubblica
italiana -e anche di una certa storiografia che in seguito, mistificando
la realtà, tenderà a rappresentare come lineare ed univoco il processo
di unificazione e consolidamento dello Stato italiano- come un
momento critico e quasi un nonsenso rispetto alla storia recente del
paese. Nell’impostazione generale di questo lavoro, cercheremo
adesso di analizzare il modo in cui Brancato ha ricostruito quegli
eventi e le conseguenze tratte sul piano storiografico.
Per non fraintendere lo scopo di questo lavoro è opportuno
precisare un concetto che, sebbene implicitamente sottenda l’intero
spirito di queste pagine, può trarre giovamento da un’ulteriore
esplicazione. Sui grandiosi eventi che storiograficamente
costituiscono il Risorgimento italiano sono state scritte innumerevoli
pagine e sono state formulate diverse tesi interpretative da studiosi
vissuti prima e dopo Francesco Brancato. Chi scrive ha deciso di non
assecondare la pur legittima fascinazione di rintracciare le radici,
accademicamente parlando, delle categorie interpretative di
Brancato. Sarebbe stato per certi versi doveroso compiere un’opera
quasi genealogica, rintracciando quali studiosi hanno influenzato,
attraverso le proprie opere il modo di intendere la storia di Brancato.
Allo stesso modo sarebbe stato certamente degno di lode cercare
di scovare l’eredità accademica e umana di Brancato nelle opere
degli storici che più hanno risentito nella loro formazione
- 79 -
Giuseppe Nigliaccio

dell’influenza dello studioso ciminnese. Una tale impostazione


avrebbe però, ingigantendo la mole di lavoro e spostando il
baricentro dalla centralità degli scritti di Brancato, tradito la
vocazione di questo libro: esso non è altro che un omaggio alla
memoria di Brancato, compiuto grazie a un cammino attraverso le
sue opere, nella convinzione che guardare alla storia del
Risorgimento dalla sua prospettiva (fisiologicamente distante e
diversa dalla nostra) costituisca un prezioso stimolo intellettuale.
Tornando, nello specifico, alla rivolta del 1866, Brancato,
all’inizio del suo lavoro Sette giorni di repubblica a Palermo156
constata che

nel processo di assestamento del nuovo Stato italiano sorto dai plebisciti,
la rivolta palermitana del settembre 1866 che, con riferimento al bel noto
giuoco delle carte, la voce popolare battezzò subito come la rivolta del
sette e mezzo e, precisamente dalla notte del 16 alle ore 12 del 22
settembre, segna una profonda crisi nell’amministrazione e nella vita
sociale della Sicilia post-unitaria con riflessi anche politici. 157

L’arco temporale all’interno del quale è possibile interpretare tale


avvenimento in un contesto di senso adeguatamente profondo
congiunge, secondo Brancato, il 1866 alla fine del XIX secolo, dato
che

gli elementi più rappresentativi della rivolta erano provenienti dalle


squadre corse al seguito dei “Mille” subito dopo il loro sbarco a Marsala
e che passarono successivamente all’internazionale socialista, che iniziò
così la sua comparsa e la sua diffusione anche in Sicilia. 158

156 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, Sicania, Messina, 1993.


157Ivi, p.5.
158Ivi, pp.5-6.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

E da ciò è possibile istituire un «nesso che lega, in una linea di


continuità, la rivoluzione del ’60 ai moti dei Fasci dei Lavoratori
della fine del secolo».159
Sarebbe, però, decisamente fuorviante leggere quegli eventi
credendo che essi fossero una questione solamente interna al neonato
o nascente Stato italiano. Come spesso è accaduto nella storia della
Sicilia gli eventi che la riguardano trovano la propria reale
spiegazione solamente se li si osserva con la consapevolezza del
delicato ruolo che ha ricoperto l’isola negli equilibri mediterranei ed
europei. La potenza europea che ha più direttamente influenzato le
vicende siciliane fra XVIII e il XIX secolo è stata senza dubbio
l’Inghilterra, la cui presenza non ha mancato di fare sentire il proprio
“peso” anche negli eventi che sono oggetto di questo capitolo.
Prendendo spunto da un saggio di Bianchini160 nel quale «il noto
economista napoletano […] attribuisce proprio all’Inghilterra di aver
fomentato il movimento separatista in Sicilia dopo l’abolizione della
costituzione del 1812»,161 il nostro storico afferma che:

in effetti l’Inghilterra, ancora dopo l’unità non perdette mai di mira di


fare dell’isola una sua base per meglio proteggere i suoi interessi nel
Mediterraneo. E proprio agli inizi degli anni Settanta, informata dello
spirito ribellistico dell’isola per effetto anche della penetrazione
dell’Internazionale socialistica (sono di quegli anni la nuova inchiesta
parlamentare e i relativi provvedimenti “straordinari” di Pubblica
Sicurezza in Sicilia) ebbe anche cura di accrescere il numero dei suoi
viceconsolati nell’isola per essere tutto predisposto per una eventuale
occupazione.162

159 Ibidem.
160 L. Bianchini, Un periodo della storia del Reame delle Due Sicilie dal 1830 al 1859,
in Biblioteca Nazionale di Napoli, ms.II, G., 5-7, libro I. Cap.VI, cit. in F. Brancato, Sette
giorni di repubblica a Palermo, cit., p.7. Sull’opera di Bianchini cfr. Francesco Brancato
(a cura di), Storia economico civile della Sicilia, di Ludovico Bianchini, Napoli, Edizioni
scientifiche italiane, 1971.
161 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.7.
162Ivi.

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Giuseppe Nigliaccio

Nello specifico, il motivo che rendeva di fondamentale


importanza, per l’Inghilterra, poter disporre di solide “basi” nel
mediterraneo era rappresentato dal Canale di Suez, infatti

giova ricordare che proprio nel 1875, con l’acquisto di 176 azioni,
l’Inghilterra iniziava la sua grande ingerenza nel canale di Suez,
suscitando naturalmente la gelosia della Francia che evidentemente
temeva che quella potenza profittasse appunto anche del malcontento
dei Siciliani contro il governo unitario per mettere piede nell’isola.163

La Sicilia finiva così per diventare il fulcro e il precario baricentro


di una serie di giochi politici, diplomatici ed economici che,
sovrapponendo il piano della politica internazionale a quello
nazionale, rendevano l’isola il palcoscenico di avvenimenti
potenzialmente gravidi di decisivi avvenimenti per il futuro
dell’Italia ed

era perciò sempre Palermo, capitale morale e amministrativa dell’isola,


la città in cui si riflettevano con maggiore accentuazione gli umori dei
Siciliani, la città che, anche nelle nuove contingenze, mise
massimamente in preoccupazione il governo che adottò pertanto severe
misure di sicurezza, culminanti nei drastici provvedimenti della fine del
secolo contro i moti dei Fasci dei Lavoratori.164

Ora, spostandosi sul piano storiografico, Francesco Brancato


inizia la propria indagine constatando il dato di fatto che «da parte
della stampa liberal moderata la rivolta palermitana del 1866 non ha
goduto tradizionalmente di una buona reputazione, fino ad essere
definita addirittura un episodio di collettiva delinquenza».165
Eppure, il fatto che dietro gli accadimenti del 1866 siano
riconoscibili molti degli stessi volti e delle stesse braccia che si erano
schierati a fianco di Garibaldi dopo lo sbarco di Marsala, e che
163Ivi.
164Ivi.
165Ivi,
p.9. La parte in corsivo è una citazione che Brancato riprende da A. Monti, il
Risorgimento, Milano, 1943, p.21.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

avevano seguito l’eroe dei due mondi nella marcia di liberazione,


fino anche allo sfortunato epilogo dell’Aspromonte, ci porta dinanzi
all’evidenza che

urge, pertanto, la necessità di una revisione storiografica e di una


qualificazione storica di quel moto anche per una più profonda e più
sicura intelligenza della storia più recente dell’isola che, per molti
aspetti, ripropone tanti aspetti che caratterizzarono il periodo post-
unitario. Non è, infatti, possibile valutare in una certa maniera o porre
in una certa prospettiva storica la rivolta del ’66 senza che la medesima
valutazione e la medesima prospettiva non si estendano a tutto il
movimento risorgimentale nell’isola.166

Bisogna, secondo Brancato, uscire dalla retorica patriottica e


avere il coraggio di chiedersi:

che senso ha la partecipazione popolare ai fatti del Risorgimento in


Sicilia? Quale il contributo recato pure al processo di unificazione
politica italiana? Quali le ragioni della grave crisi del 1866 in Sicilia per
cui quella medesima gente che aveva accolto trionfalmente Garibaldi
come liberatore ed aveva salutato con entusiasmo il sorgere del nuovo
Stato italiano, ad un certo momento si solleva contro coloro che ne
tenevano il potere, fino a fare temere per la sua stessa stabilità? 167

Benché Brancato inserisca gli avvenimenti del 1866 in una cornice


di senso in grado di coprire quasi l’intero XIX secolo siciliano, egli
non manca di notare «la maggior indipendenza dei rivoltosi dalle
classi più elevate che pure avevano conservato la tradizionale
preminenza nella vita sociale ed economica dell’isola». 168
Nell’Italia continentale la rivolta del 1866 venne dunque
percepita come una manifestazione diretta dell’indole, poco nobile,
del popolo siciliano. A tal proposito Brancato riporta una lettera di
Sebastiano Scaramuzza ad Alberto Cavalletto, nella quale emerge un
166 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.10.
167Ibidem.
168Ibidem.

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Giuseppe Nigliaccio

ritratto poco lusinghiero dei siciliani. Scrive il letterato veneto al


futuro senatore:

i fatti di Palermo non mi sorprendono, ma mi addolorano a morte: sono


tre giorni che mi pajono tre millenni. Si assicuri, amico mio
veneratissimo, che l’è un triste paese… Tristo per tanto frantume, tristo
per tanta ipocrisia e ferocia, tristo per tanta viltà…viltà dell’assassinio,
della renitenza, della ipocrisia. Oh l’ipocrisia è la gran nota del
Siciliano! Vi sorridono, vi complimentano, vi adulano perfettamente e
subito dopo vi cacciano il pugnale nel cuore […] Ciò non vuol dire che
ci siano colà persone, e molte, di gran cuore buono e di mente
bellissima. Ci sono e io ne fui testimonio e ne provai gli effetti benefici
io stesso, e ne posso dire mirabilia. Ma la massa del paese è scellerata.
La gloria in capo dei siciliani, il Vespro, non è essa una viltà di sicari?
Chi è questo Giovanni da Procida se non un grande sicario per vendetta?
Ed è gloria il massacro a tradimento delle famiglie innocenti per punire,
sia pure, i colpevoli? Anime focose, ma di un fuoco siccome quello
dell’Etna, devastatore, non del fuoco che alimenta, che purifica, che dà
vita. Io porterò sempre in cuore la bontà e l’affetto per me di non pochi
siciliani di Catania, Palermo, di Messina, ma non potrò dimenticare
giammai che le masse più perfide di popolazione le ho trovate colà.
Creda, la libertà di azione per quelle popolazioni è licenza di rubare, di
assassinare, di sansculoter, la libertà di stampa è il permesso di
mangiarsi vivi l’un l’altro. Della nostra libertà non sanno che farsi. 169

L’abbondante documentazione storica presente sulla rivolta del


1866 ha una matrice quasi esclusivamente governativa (rapporti
d’ufficio, relazioni ufficiali) e non rende conto «se si fa eccezione di
qualche proclama a stampa che si conserva presso l’archivio
comunale di Palermo»170 delle ragioni e delle prospettive di coloro
che in quei giorni di settembre scesero in piazza. Nonostante quanto
detto non mancò chi, però, già allora seppe leggere quegli eventi non
come un qualcosa di estemporaneo, ma come un anello di una lunga
169 Lettera del 22 settembre 1866, in L. Briguglio (a cura di), Le condizioni della Sicilia
nel pensiero degli emigrati veneti (1860-1866), Padova, 1963, pp. 88-89, cit. in F. Brancato,
Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.11.
170Ivi, p.12.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

serie di fatti. Anche in questo caso fa luce una lettera riportata da


Brancato. Lo scrivente, Gaspare Bivona, rivolgendosi a Francesco
Crispi afferma:

io ho il convincimento, che l’ultimo movimento si riattacca al Badia- e


quindi debbono riunirsi i procedimenti, ma si deve cercare il come - ho
il convincimento che il Badia si riattacca a Corrao - Corrao si riattacca
ad Aspromonte - ci voglio anche i pugnalatori- insomma il movimento
si origina da nimistà politica- ci entra la Massoneria.[…] Tutto il resto,
sarebbe stato un semplice mezzo di cui si sarebbero serviti gli
organizzatori del moto, non la vera forza motrice.171

Guardando da una prospettiva favorevole agli insorti, tende


invece a marcare la natura popolare dei moti Edoardo Pantano il
quale, descrivendo le vicende palermitane del settembre 1866,

nel capitolo delle sue Memorie dedicato ai fatti di Palermo, attribuendo


all’insurrezione un’origine sociale più che politica, egli ne mette in
rilievo la popolarità, la coscienza in quei popolani di lottare per la
realizzazione di un mondo migliore e, soprattutto il contegno corretto
dell’immensa maggioranza degli insorti, padroni assoluti della città e
anelanti solo alla ricerca di chi li guidasse autorevolmente alla
realizzazione dei loro sogni di giustizia e libertà.172

Fin adesso sono state raccontate per ampie linee le prospettive


dalle quali è stata osservata e “metabolizzata” la rivolta del ’66. Ora,
è opportuno soffermarsi sul ritratto che di quei giorni ci regala la
penna di Francesco Brancato.

171Lettera del 10 ottobre 1866 in R. Giuffrida, Aspetti e problemi della rivolta

palermitana del settembre 1866 (con documenti inediti), in Archivio Storico Siciliani,
1955, 190, cit in F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.13.
172 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.13. In corsivo le citazioni

tratte da E. Pantano, Memorie dai rintocchi della Gancia a quelli di S. Giusto, vol. I
(1860-1870), Bologna, 1933, p. 360.

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Giuseppe Nigliaccio

3.2 Prodromi di cambiamento culturale. Il sogno della giustizia


sociale in una terra di paradossi strutturali

Contrariamente alle posizioni riconducibili alla “tesi


Scaramuzza” secondo la quale il moto del ’66 è da intendersi come
conseguenza della malsana indole del popolo siciliano, Brancato
tende a privilegiare la dimensione “popolare” o filo-democratica che
ha animato quei giorni. Nonostante l’idea che il polo siciliano non
fosse ancora pronto per poter godere e usufruire appieno della libertà
che la corona (lascio al lettore ogni considerazione in merito)
sabauda gli aveva permesso di ottenere173 fosse ampiamente in
circolazione già mentre tali fatti accadevano, il nostro, facendo
riferimento al contesto socio-culturale della Sicilia post-unitaria,
afferma che:

un nuovo spirito comincia a manifestarsi nelle classi popolari, come


del resto in tutte le categorie sociali, dopo l’Unità. Prima di tutto non
poco agì su di esse la stessa esperienza dittatoriale e prodittatoriale, che,
per le molte riforme in senso democratico introdotte in ogni campo,
anche per opportunità politica, fece molto sperare e molto desiderare.174

173Brancato cita (Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.28), per sottolineare tale

tendenza nel rappresentare il popolo siciliano, alcuni documenti estremamente significativi.


Il primo è rapporto del Consigliere per la pubblica sicurezza (rapporto del 30 Aprile 1861,
in Archivio di Stato di Palermo, Polizia, b.1862, fasc. aprile 1861) in merito a una rivolta
scoppiata a Tusa, nel quale si legge che il basso popolo, irrompendo contro i civili si era
lordato le mani del sangue di non meno di otto vittime a cause delle usurpazioni da quelli
fatte di alcuni terreni appartenenti al comune dando così luogo ad una discordia di caste.
Un ulteriore documento che si intona con il primo e ne completa il senso è una lettera
(Lettera del 25 aprile1861, in Archivio di Stato di Palermo, Polizia, b.1862, fasc. aprile
1861) del governatore di Messina Domenico Piraino al Luogotenente Della Rovere, nella
quale il governatore, invocando leggi speciali che potessero sopprimere il dissenso delle
masse sostiene che durissime misure sono altamente da più tempo reclamate dalla gran
maggioranza dei Siciliani, i quali sono ormai stanchi d’essere bersaglio d’una empia setta,
che altra bandiera non ha se non quella dell’anarchia, della rapina, del sangue; e
sventuratamente duolmi il dirlo, la Sicilia che esce dagli artigli di un governo brutale, non
è abbastanza civile e morale per non abusare della libertà che ci offre il governo del re
Vittorio Emanuele (in corsivo le citazioni direttamente riprese nel suo testo da Brancato).
174 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.27

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Benché l’esperienza garibaldina si rivelò essere gravida di molte


illusioni, è innegabile che essa comportò una presa di coscienza di
sé da parte delle classi popolari e meno agiate con la conseguenza
che cominciò «allora, anche per l’evidente effetto di un più libero
pensiero, quel processo di emancipazione delle classi meno abbienti
dai ceti privilegiati, che avrà le sue manifestazioni maggiori verso la
fine del secolo con il Moto dei Fasci dei Lavoratori». 175
Il pungolo che stimolò più alacremente quel sentimento di
insoddisfazione nelle masse polari fu la costatazione che
l’unificazione d’Italia, come storicamente si concretizzò,

assicurò alla borghesia e alla nobiltà liberale siciliane la tradizionale


posizione di preminenza nella vita economica e sociale dell’isola
(l’annessione incondizionata da esse sostenuta contro l’elemento
garibaldino ed autonomista che l’avrebbe voluta invece tramite
un’Assemblea, aveva tolto il pericolo di profonde trasformazioni sociali
ed economiche minacciate dal governo dittatoriale).176

L’assetto politico assunto dal nuovo Stato e, ancor di più,


l’insieme dei rapporti di potere che concretamente regolavano la vita
dell’isola crearono una situazione che

non soddisfece per nulla le aspirazioni delle classi più umili e di coloro
che, desiderosi di trovare in un cambiamento politico un ristoro ai
propri mali e migliori condizioni di vita, s’erano impegnati in tutti i
modi nella lotta per abbattere l’antico regime. 177

La frustrazione derivante dal vedere andare progressivamente in


frantumi la possibilità di ottenere fattualmente quelle conquiste per
le quali il popolo si era fortemente battuto non poteva non far
sedimentare il rancore nei confronti delle classi sociali più elevate,
175Ibidem.
176 Ibidem.
177 Ibidem.

- 87 -
Giuseppe Nigliaccio

ree allo sguardo dei ceti più umili, di aver venduto la possibilità di
un futuro più equo e giusto, per continuare a mantenere i loro
esclusivi privilegi.
Proporzionalmente all’asprezza dei provvedimenti del Governo
in seguito ai disordini, cresceva l’esasperazione e la rabbia di quella
fascia di popolazione, (comprendente perlopiù contadini, operai, ma
anche artigiani e piccoli commercianti) che maggiormente avevano
contribuito a ingrossare le fila della spedizione garibaldina, nei
confronti del potere centrale, divenuto ai loro occhi l’emblema di
una rivoluzione tradita. A quanto detto si aggiunga che in nessun
campo

il Governo, specialmente nel periodo di trapasso dall’autonomia alla


completa assimilazione dell’isola all’Italia, in cui la Sicilia fu retta da
un governo luogotenenziale, prese provvedimenti a carattere popolare,
che avvicinassero le masse alla vita del nuovo Stato, essendo stato teso
soprattutto a reagire a quanto era stato operato dal governo
prodittatoriale, specie al tempo del Mordini che aveva introdotto
nell’isola molte riforme intese ad eliminare gli ultimi residui di carattere
feudale e a togliere da ogni soggezione i lavoratori della terra.178

Il famoso decreto garibaldino del 2 giugno, con il quale si


preannunciava «la ripartizione delle terre dei demani comunali,
aveva saputo suscitare grande entusiasmo fra i contadini»179 e aveva
creato nella popolazione siciliana la convinzione che l’annessione al
nascente Stato italiano significasse realmente un prossimo futuro più
equo socialmente. La storia ci racconta mestamente come tali
speranze si rivelarono fatue e mal riposte; l’unico provvedimento
che infatti incise significativamente (se non drasticamente) nella
quotidianità del popolo fu il decreto che estese, anche in Sicilia, il
reclutamento militare obbligatorio. Tale obbligo venne percepito
dalla popolazione come un gravoso fardello destinato a condizionare
negativamente soltanto la vita dei poveri, giacché la legge prevedeva
178 Ivi, p.29.
179 Ivi, p.30.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

l’esonero dal servizio per chi fosse in grado di versare alla tesoreria
provinciale la somma fissata come indennità. In un’economia
sostanzialmente agricola quale si presentava quella siciliana,
soprattutto nell’entroterra, la coscrizione obbligatoria significava
privare i campi, e le famiglie che dai loro raccolti traevano
sostentamento, delle braccia dei giovani che avrebbero dovuto
dedicare le loro energie al servizio di una Patria che ancora non
sentivano loro e che ancora nulla aveva loro donato. La fisiologica
risposta che seguì all’ingiunzione della coscrizione non poté che
essere la renitenza, a proposito della quale Brancato cita dati assai
significativi.180
Secondo il nostro storico a quanto precedentemente detto si
ricollegano

le prime scaturigini della rivolta del ’66, e al sempre maggiore distacco


che si era venuto operando nelle masse popolari dalla vita del nuovo
Stato e, conseguentemente, dalle classi nobiliari e borghese che di
quello, nella forma in cui era stato costituito, rappresentavano il
maggiore sostegno.181

Per certi versi è possibile affermare che in Sicilia il popolo seppe


elaborare una visione di sé come entità sociale e politica solamente
in contrapposizione alla nobiltà e alla nascente borghesia (i contorni
fra le due realtà non erano allora sempre nettamente distinguibili)
che esso identificava come emblemi dello Stato, che veniva sempre
più percepito come un’entità distante se non dichiaratamente ostile.
180 Così si esprime Francesco Brancato (in Sette giorni di repubblica a Palermo, cit.,
p.31, citando il Prospetto statitisco dei renitenta di leva dei nati nel 1840,1841, 1842, 1843,
in Archivio di Stato di Palermo, Pref. Gab.,b.105, fasc. Statistiche diverse): così migliaia
di renitenti andarono a popolare la campagna: nella sola provincia di Girgenti su 1.952
iscritti alla classe 1840, si ebbero 428 renitenti, e su 3.070 iscritti della classe 1842, 559. In
qualche comune l’astensione nel primo reclutamento fu quasi totale, come, per esempio, a
Monte S. Giuliano (oggi Erice), in provincia di Trapani, dove su 151 si presentarono solo
in 11. Stando alle cifre riportate dal De Sivo, in tutta l’isola nel solo anno 1861 si ebbero
4.397 renitenti […]. È facile perciò immaginare come la campagna, con tanti sbandati che
vi scorrazzavano e costretti a vivere di espedienti, fosse divenuta sempre meno sicura.
181 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.32.

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Giuseppe Nigliaccio

Non a caso è possibile citare degli avvenimenti che è possibile


leggere, a posteriori, come anticipazioni di quanto sarebbe accaduto
a Palermo nel settembre 1866. Brancato ricorda a proposito che

manifestazioni contro il governo e contro coloro che in Sicilia lo


coadiuvavano si ebbero ad Aidone, a S. Cataldo, a Terranova (oggi
Gela) e, in modo particolarmente grave, a Caltanissetta con un
assembramento di circa 5.000 persone. A Castellammare del Golfo,
preceduta da bandiera rossa “al suono della buccina” un’orda di armati
calò improvvisamente nel paese provenendo dal monte per la strada
cosiddetta dei Franginesi. I quali tutti - fu esposto poi dalla parte civile
del processo - giunti alla sommità del paese, cominciavano a vibrare
qua e là fucilate, schiamazzando: fuori la leva, fuori Vittorio Emanuele,
viva la repubblica, morte ai cutrara (così erano detti i liberali moderati,
forse perché forniti di cutra, cioè coltre, perché benestanti, contro i
quali si appuntavano in modo particolare le ire dei rivoltosi). 182

La rivolta di Castellammare, per salvarsi dalla quale i cutrara


dovettero fuggire abbandonando le proprie abitazioni, rende
perfettamente l’idea di come il clima politico, già nel periodo
immediatamente successivo all’unificazione, fosse tutt’altro che
pacificato. Sulla stessa falsariga assume compiutezza di senso,
secondo Brancato, anche la convinta partecipazione dei volontari
siciliani alla spedizione dell’Aspromonte, la quale

non segna soltanto un momento dell’attività del partito d’azione, intesa


a dare compimento all’unità nazionale con una soluzione rapida e
indipendente dalle vie diplomatiche […], ma anche la prima forte
esplosione dell’insofferenza che si era determinata nella popolazione
siciliana, e del profondo risentimento che covava contro il governo e
contro i nuovi amministratori, per non essere state appagate le speranze
lungamente nutrite di vedere migliorate le condizioni dell’isola. 183

182Ivi,pp.32-33. In corsivo le citazioni che Brancato riprende direttamente dal resoconto


del processo contro i 146 imputati per la rivolta del I gennaio 1862 a Castellammare del
Golfo, in Diritto e Dovere, supplemento dal n.23 del 20 giugno al n.30 dell’agosto 1864.
183 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.33.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Ora, nella misura in cui i ceti benestanti percepivano


concretamente il rischio che il Risorgimento assumesse in Sicilia
delle connotazioni fortemente rivoluzionarie, a tal punto da
minacciare gli stessi rapporti di forza sul piano economico e sociale,
essi accolsero con relativa soddisfazione i provvedimenti eccezionali
cui fu sottoposta l’isola. Si acuì così a dismisura la distanza, anche
politica, fra il popolo e le classi dirigenti dalle quali i primi non si
sentivano più rappresentati.
La conseguenza, e paradossalmente per certi versi anche la causa
di questa distanza, fu

il partito repubblicano, formato da antichi e nuovi seguaci del Mazzini,


i quali, per essere evidentemente stati esclusi dal partecipare al governo
luogotenenziale prima, e poi anche dalle varie amministrazioni
pubbliche comunali e provinciali, avevano rivolto tutta la loro attività a
preparare le forze con le quali speravano di poter, un giorno o l’altro,
far trionfare la causa nella quale credevano.184

La richiesta di una maggiore giustizia sociale era la principale


istanza che il popolo portava avanti, anche attraverso la fondazione
della prima società operaia nel 1864. Tale società, nata attraverso gli
sforzi di diversi uomini vicini al partito repubblicano, fra i quali ebbe
la sua parte anche Giuseppe Badia, aveva come scopo di raccogliere

in una sola famiglia tutte le categorie di lavoratori, per promuovere


l’associazione e l’istruzione e il mutuo soccorso, affinché l’un giorno o
l’altro si potesse dire che la Sicilia, che aveva compiuto la rivoluzione
materiale, andava ora a compire quella morale.185

Nel precedente capitolo era emerso, in modo singolare, il


rapporto che in Sicilia si ebbe fra il clero e la partecipazione popolare
al Risorgimento. I moti per l’unità d’Italia ebbero nell’isola una
184 Ivi, p.35.
185 Ibidem. In
corsivo le citazioni dirette tratte da Statuto della società operaia formulato
dalla Commissione scelta dall’Assemblea Generale, Palermo 1864.

- 91 -
Giuseppe Nigliaccio

valenza mistica, religiosa, quasi che la nascita del nuovo Stato


sarebbe coincisa con una nuova era non solo nella politica, ma nella
stessa vita spirituale, o morale, degli uomini. Di tale legame è
perfetta espressione un discorso tenuto, presso la Cattedrale di
Palermo, dal Ciantro Calcara, in rappresentanza dell’Arcivescovo,
nel quale egli affermava:
Amatevi fratelli, soccorretevi, ma tenetevi lontani da perniciose
dottrine. Nell’umanità gli uomini si distinguono in due classi:
proprietari e non proprietari. L’intento ultimo deve essere quello di
equilibrare e diffondere tra gli uni e gli altri i beni che Iddio ci ha dato.
In una colta nazione si era pensato di provvedere con una falsa teoria,
il comunismo, teoria che, attentando al sacro diritto di proprietà,
metterebbe in scompiglio il genere umano. Ma al di sopra del
comunismo de’ novatori, ivi è il comunismo evangelico, che Gesù
Cristo ci ha insegnato, che è compendiato in queste parole: quod
superest date pauperibus. Si, fratelli, è questo il mezzo di assicurare il
vostro benessere presente, di premunirvi contro la sventura, e di
rendervi meritevoli in faccia a Dio.186

Contro il rischio che le lotte per l’equità sociale fossero percepite


come appannaggio solo degli ambienti rivoluzionari, di matrice
socialista e comunista, la Chiesa ha rivendicato, e non solo a parole,
il carico di equità e giustizia sociale insita nel messaggio evangelico,
prendendo le parti degli strati più deboli del popolo.

3.3 Giovanni Corrao: la fine di uomo e della rivoluzione?

La Sicilia era, nel delicato intreccio di equilibri che regolavano la


vita dello strutturando Stato italiano, la polveriera che in caso di
esplosione avrebbe potuto innescare una serie di reazioni tali da
riguardare anche alcuni aspetti della politica europea, e in questa
prospettiva si può leggere quello che ha scritto Brancato:
186La campana della Gancia, Palermo 5 marzo 1861, cit. in F. Brancato, Sette giorni di

repubblica a Palermo, cit., p.36.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

il governo, per i pericoli che presentava la situazione determinatasi


nell’isola, non solo nei confronti della stabilità del nuovo regno, ma
soprattutto per le ripercussioni che poteva avere in campo
internazionale (in un’Europa monarchica e conservatrice e di fronte alle
minacce di Napoleone III per la questione di Roma che il partito
d’azione avrebbe voluto risolvere subito occupando quella città, non era
possibile tollerare una Sicilia “ribelle” e, per di più, con un forte nucleo
repubblicano), non trovava di meglio che frenare ogni velleità
rivoluzionaria, sottoponendo le provincie siciliane ad un regime di
rigore.187

L’escalation della rigidità con cui il Governo trattò la Sicilia non


fece che rendere sempre più inviso il neonato Stato al popolo
siciliano.188 La figura che più di ogni altra può essere considerata un
emblema dell’ardore, dei sogni, ma anche dell’ingenuità che animò
in quel periodo il cuore del popolo siciliano è senza dubbio Giovanni
Corrao189 il quale «era stato uno dei principali organizzatori in Sicilia

187 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.41.


188 A tal proposito si possono leggere le pagine di Vincenzo Macaluso nella quali egli
afferma che era impossibile accettare un Governo che ti aveva dato il triste spettacolo di
calpestare lo Statuto e ogni legge umana e divina potesse pretendere che un paese, dopo
d’avere acquistato I suoi diritti per proprio valore dovesse adottare l’abnegazione, la più
cieca, la più vigliacca, e la più codarda, di farsi impunemente assassinare ed infamare,
senza neanche il sollievo della Storia. Citazione tratta da V. Macaluso, Rivelazioni politiche
sulla Sicilia e gravi pericoli che la minacciano, Torino, 1861, p.8., cit. in F. Brancato, Sette
giorni di repubblica a Palermo, cit., p.4.
189 Giovanni Corrao (Palermo, 1822-1863). Calafato presso il porto di Palermo, si

distinse per ardore e coraggio durante i moti del 1948, contribuendo personalmente alla
presa del Castello a Mare, ultimo presidio allora in mano ai borboni. Partecipò anche alla
rivolta di Messina, guadagnandosi il grado di capitano di artiglieria in seguito a delibera
della Camera dei comuni. Mostrò le sue indiscusse qualità militari anche fronteggiando con
valore, ma inutilmente, le truppe del generale Filangeri. Ristabilita l’autorità regia fu
confinato a Ustica, e in seguito a un tentativo di evasione fu imprigionato nella cittadella
fortificata di Messina, dove condivise il periodo di prigionia con R. Villari, il quale ci lascia
un ritratto originale di un Corrao poliedrico, personaggio sanguinario ma dotato di una forte
sensibilità mistica. Ottenuta la libertà a condizione che egli abbandonasse il Regno delle
due Sicilie, fu esule a Marsiglia, Genova, Malta, Alessandria d’Egitto (1858). Fu in Francia
come sicario di un attentato, con il placet, di Mazzini, nei confronti di Napoleone III.
L’attentato non avvenne per motivi mai chiariti. Tornato in Italia si persuase che la strada

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Giuseppe Nigliaccio

dell’impresa d’Aspromonte, alla quale aveva pure preso parte al


comando d’una colonna».190Giovanni Corrao, nonostante lo
sfortunato epilogo dell’impresa d’Aspromonte, che sembrava poter
aver inferto un duro colpo a ogni aspirazione repubblicana, non
smise mai il proprio lavoro, continuando a ordire le trame dei suoi
complotti al fine di vedere l’Italia totalmente unificata e soprattutto
retta da una repubblica. L’obiettivo di Corrao, fallita l’esperienza
dell’Aspromonte, era organizzare lo scoppio di una rivolta che,
originandosi a Palermo, avrebbe propagato i propri effetti in tutto il
territorio nazionale, conducendo irreversibilmente alla nascita della
repubblica. Il fronte degli oppositori alla monarchia Sabauda era
ampio ed eterogeneo ed il Corrao, dato l’enorme carisma che poteva
esercitare sulle masse, si ritrovò a far convergere, sulla propria
persona, le attenzioni e le aspettative dei vari oppositori del nuovo
Governo. Giovanni Corrao, considerato unanimemente come
l’individuo più idoneo per organizzare e capeggiare una rivolta
contro il nuovo Stato finì per interloquire anche con quei moderati
che, considerando monca l’unificazione italiana giacché Roma ne
era ancora esclusa, non accettavano lo status quo. Nell’entroterra
siciliano erano presenti cospicui gruppi filoborbonici, i quali,
parallelamente a parte degli ambienti liberali napoletani, ancora
credevano di poter riportare Francesco II sul proprio trono,191 e

per l’Unità d’Italia dovesse avere il proprio incipit in Sicilia, dove fece ritorno
clandestinamente con R. Pilo (10 aprile 1860), con il fine di prepare la strada a una
imminente spedizione garibaldina. In seguito allo sbarco dei Mille, Corrao guadagnò la
stima di Garibaldi, il quale lo nominò colonnello dell’esercito meridionale, e con questa
carica partecipò alla battaglia di Milazzo (20 luglio). Buona parte delle truppe a seguito di
Garibaldi nella spedizione dell’Aspromonte erano costituite da volontari reclutati dallo
stesso Corrao il quale, anche dopo che fu proclamata l’amnistia per i fatti dell’Aspromonte
continuò a tessere le fila della rivoluzione, avendo sempre in mente il sogno di un’Italia
repubblicana. Il 3 agosto 1863, poco prima dello scoppio dell’ennesima rivolta orchestrata
da Corrao, prevista per il 29 dello stesso mese, data dell’anniversario dell’Aspromonte, egli
venne ucciso a Palermo da sicari mai identificati. Sulla vita del Corrao cfr. Gaetano Falzone,
Giovanni Corrao e la sua brigata nella campagna del 1860, Roma, 1942.
190 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p. 42.
191 Ivi,p.43.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

anche con essi non mancò di dialogare il cospiratore palermitano,


infatti

era intento del Corrao […] riunire in un fascio tutte le forze avverse al
governo, per un tentativo estremo. Ciò lo portò necessariamente ad
entrare in rapporti, oltre che con gli autonomisti e i separatisti, anche
con i borbonici, con i quali aveva in comune l’odio contro la
“consorteria dominante per il modo severo con cui era stata trattata la
Sicilia dopo l’Aspromonte.192

Uno dei maggiori limiti della figura di Corrao era quello di agire
senza avere alle proprie spalle un programma politico ben
consolidato. Il suo ardore lo portava a lottare alacremente contro lo
Stato italiano così come si era configurato, ma dietro il suo disegno
sovversivo e le sue aspirazioni democratiche mancava quella
scaltrezza politica necessaria per comprendere che «così agendo
faceva in definitiva il giuoco dei partiti conservatori e, in modo
particolare, di quello borbonico del quale divenne pertanto lo
strumento più efficace».193
Nella primavera del 1863

già molto del lavoro di preparazione s’era fatto. Lo stesso Corrao era
corso per molti comuni promuovendo arruolamenti e organizzando
squadre. Come s’era fatto nelle rivoluzioni precedenti, era stata fissata
anche la data in cui si doveva insorgere: il 29 agosto anniversario
d’Aspromonte; stabilita la sede del comitato direttivo a Monreale e
designato il luogo di riunione dei principali soci a Gibilmanna vicino
Cefalù. Erano stati fatti approcci con i comitati che erano venuti
costituendosi nelle principali città dell’isola: Caltanissetta si sarebbe
offerta “spontanea”; a Catania si poteva contare su una cinquantina fra
i più “ardenti della guardia nazionale; Messina, per le antiche gelosie
con Palermo, si sarebbe rifiutata; in compenso vi sarebbe stata però una
quasi totale adesione della città della Conca d’Oro con tutti i dintorni,
dove esistevano almeno 500 associazioni principali. 194

192 Ivi,p.44.
193 Ivi, p.45.
194Ibidem.

- 95 -
Giuseppe Nigliaccio

Lo stato di frenesia che accompagna i preparativi di una rivolta,


come è facile immaginare, non sfuggì a tutti coloro che da questa
avrebbero rischiato di essere travolti, ovvero il governo su scala
nazionale e i moderati (nobiltà e alta borghesia) su scala regionale.
La fibrillazione che spaventava i gattopardi siciliani che, in
cambio del loro assenso al Plebiscito avevano ottenuto la certezza
che i loro privilegi pur nell’apparente cambiamento generale
sarebbero rimasti intatti, ebbe come risposta dalle alte sfere «quelle
operazioni militari che, affidate al generale Giuseppe Govone 195,
comandante la IX divisione di Palermo, per cinque mesi, dal 25
giugno al 5 novembre, tennero di nuovo l’isola quasi in uno stato di
guerra».196 Tali operazioni, finalizzate ufficialmente a rintracciare i
renitenti e a combattere i malviventi che scorrazzavano per le
campagne, ebbero in realtà un uso politico, dal momento che con
l’accusa di brigantaggio o renitenza vennero arrestati molti fra i
sospetti nemici del governo.
Come sottolinea Brancato, in merito all’asprezza dei
provvedimenti presi in Sicilia dal generale Govone,

il Ministero per ragioni di prudenza politica, non diede disposizioni


dettagliate sul modo come si sarebbero dovute condurre le operazioni,
non volendo ancor di più suscitare malumori contro il governo nel caso
avesse disposto di agire con severità, e per non essere accusato di
debolezza nel caso avesse disposto di usare mitezza. 197

195Scrive Francesco Brancato a proposito del Govone (Sette giorni di repubblica a

Palermo, cit., p. 46): la scelta del Govone non fu fatta a caso. Egli aveva preso parte alla
seduta, tenuta di recente a Torino, della Commissione Parlamentare del Brigantaggio, e poi
da Palermo aveva diretto al generale Sirtori, presidente di quella anche una Memoria sulle
cause del braigantaggio nel Napoletano, nella quale aveva dimostrato tanto acume nel
diagnosticare quel triste fenomeno del Mezzogiorno d’Italia.
196Ivi, pp. 45-46.
197Ivi, p.47.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Le campagne e le città siciliane vennero scrupolosamente battute


da truppe disposte in cerchio, in vero e proprio assetto di guerra,
iniziando dalle provincie di Caltanissetta e Agrigento, «arrestando
tutti quanti s’incontravano per la campagna all’età apparente del
renitente o col viso dell’assassino, circondando i paesi e facendo
perquisizioni di massa».198
Questi mesi, duranti i quali «furono percorsi e circondati 154
comuni (quasi la metà di tutta l’isola) raccolti 4.000 renitenti e
disertori, accertata con minuziosa ricerca la posizione di altri 8.000
individui che risultavano indebitamente iscritti nelle liste di leva e
arrestati 1.200 malviventi» infersero un grave colpo al morale della
popolazione, soprattutto negli ambienti rivoluzionari. In questo
clima di violenze e prevaricazioni, la sera del 3 agosto, poco prima
della data fissata (giorno 29) per lo scoppio della rivolta, Giovanni
Corrao, alle porte di Palermo, trovò la morte per mano di ignoti
sicari. Il suo omicidio, rimasto insoluto, rappresenta per molti storici
l’origine di quel lato oscuro della storia nazionale in cui si
intersecano gli interessi dello Stato, della nascente mafia e di vari
gruppi politici.

3.4 Il partito d’azione dopo Corrao: due linee divergenti

Si è fin qui visto come l’unificazione nazionale non sia stata il


frutto di un processo lineare e condiviso, nelle modalità di
realizzazione e nell’esito finale, da tutte le parti attive.
Soprattutto in Sicilia, anche dopo il 1861, sono continuate a
persistere profonde differenze fra le posizioni dei protagonisti dei
fatti risorgimentali. All’interno del Partito d’Azione siciliano, e negli
ambienti a esso comunque riconducibili, si venne a creare una
profonda spaccatura fra le due correnti principali. La prima,
composta dagli uomini che gravitavano anche ideologicamente
attorno alla figura di Francesco Crispi, era composta da chi, pur
198 Ibidem.

- 97 -
Giuseppe Nigliaccio

avendo preso precedentemente parte alla rivolta anti-borbonica, in


quel frangente, messe da parte le velleità repubblicane, considerava
lo Stato retto dalla monarchia sabauda la migliore condizione,
realisticamente ottenibile, affinché si perseguisse attraverso il lavoro
parlamentare il miglioramento delle condizioni sociali ed
economiche della Sicilia. La seconda posizione, rappresentata da
Giovanni Corrao e dagli uomini che tentarono di raccoglierne
l’eredità dopo la morte, considerava la nuova monarchia come
antitetica a ogni sostanziale tentativo di sviluppo sociale e
democratico dell’isola, indicando nella Repubblica l’unica strada da
percorrere e come l’obiettivo per il quale combattere ad oltranza.
Scendendo nello specifico della rivolta del settembre 1866 è
possibile, secondo Brancato, leggere la progressiva scissione,
all’interno degli ambienti repubblicani, in un’ala moderata e in una
rivoluzionaria considerando come questione cruciale il «disegno di
legge del ministro Vacca, presentato alla Camera dei deputati nella
tornata dell’11 aprile 1864, con il quale si proponeva lo scioglimento
dei corpi religiosi e l’incameramento dei relativi beni da parte dello
Stato».199
L’idea che lo Stato incamerasse gli ingenti beni degli ordini
ecclesiastici spaccò profondamente la società italiana, acuendo
quelle fratture di per sé stesse già esistenti. A fronte della
soddisfazione con cui tale proposta venne accolta dagli ambienti
liberal-moderati e degli ex repubblicani dell’area vicina a Crispi,
essa trovò una folta schiera di oppositori. Ci si riferisce innanzitutto
a coloro che, desiderosi di completare in senso repubblicano
l’unificazione nazionale, avevano trovato in Giuseppe Badia la loro
guida dopo la scomparsa di Corrao: essi erano favorevoli allo
scioglimento degli ordini religiosi, ma sostenevano che i loro beni
dovessero essere divisi a vantaggio del popolo, e non direttamente
incamerati dallo Stato. Il fronte degli oppositori alla proposta di
legge del ministro Vacca era ingrassato allo stesso tempo da quella
199 Ivi, p.63.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

parte di nobiltà filoborbonica, che ancora deteneva un certo potere


di fatto nell’entroterra siciliano la quale, per lo storico intreccio di
comuni interessi che la legava con l’alto clero, non poteva che
opporsi a una tale mira dello Stato. In Sicilia, in aree geografiche
trasversali, erano contrari alla suddetta proposta legislativa anche
tutti i contadini e i vari operai che traevano il loro sostentamento dal
lavoro prestato nelle terre di proprietà degli enti religiosi.
Nell’imminenza della ripresa dei lavori parlamentari fu fatta
circolare, dagli ambienti contrari al disegno di legge una
Dichiarazione dei diritti del popolo rapporto ai beni di manomorta,
opera di Filippo Lo Presti, ma uscita anonima, nella quale si
sosteneva che la legge del ministro Vacca fosse

un atto di fine diplomazia da parte del governo, perché mentre mostrava


di andare incontro al progresso, promettendo l’assoluta scomparsa delle
manimorte, finiva invece per impadronirsi dei beni delle corporazioni,
spogliandone il popolo. Premesso perciò che vi è un’arte che è l’apice
della perfezione diplomatica, la quale insegna a stringere in un
dilemma che porta da un lato il male sotto la formola del bene e
dall’altro il bene sotto la formola del male, quale era il caso delle
manimorte, per cui erano gli animi concitati e gli uomini della
democrazia divisi e quasi in aperto antagonismo tra loro. Sotto la
formola dello scioglimento delle corporazioni religiose -si rileva-
formola dettata dalla civiltà e dal progresso, sta l’incameramento dei
beni di manomorta che significa fiscalità ed espoliazione. Sotto la
formola retriva dell’ipocrisia e della superstizione, sta la
conservazione temporanea dei beni, che una civiltà non lontana
potrebbe destinare a vantaggio del popolo.200

Il giudizio di Brancato sulla Dichiarazione si può racchiudere


nella consapevolezza che, nell’intenzione dell’autore, essa

in sostanza voleva essere un appello al popolo, perché riflettesse sui


suoi veri interessi che una politica, non comprensiva dei bisogni

200Ivi,p.64. In corsivo le citazione che Brancato trae dalla Dichiarazione dei diritti del

popolo rapporto ai beni di manomorta.

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Giuseppe Nigliaccio

dell’isola, minacciava di compromettere; voleva essere, nello stesso


tempo, una presa di posizione nei confronti del gran comizio che dagli
avversari si stava organizzando a sostegno di quella legge e, quindi,
dello scioglimento delle corporazioni religiose.201

I moderati erano infatti in procinto di organizzare un gran


comizio, da tenere secondo le indicazioni del senatore duca della
Verdura, presso l’atrio dell’Università di Palermo, per convincere la
popolazione che il progetto di legge Vacca non fosse un modo per
estorcere loro un a fonte di benessere, ma che fossi anzi una
condizione indispensabile per lo sviluppo socio-economico
dell’isola. Il comizio si tenne effettivamente il 22 gennaio del 1865.
Dopo che terminò il proprio discorso il duca della Verdura, e poco
dopo che Francesco Perroni Paladini prese la parola irruppero un
gruppo di contestatori che impedirono il normale proseguimento del
comizio, e per disperdere i quali fu necessario l’intervento della
Guardia Nazionale.
Furono i seguaci di Badia ad essere accusati di aver provocato il
disordine e, soprattutto, di mettere continuamente a rischio la pace
sociale. Ma chi erano in realtà gli uomini che fecero veemente
irruzione nell’atrio dell’Università? Tentare di rispondere a questa
domanda ci consente, seguendo la linea interpretativa di Francesco
Brancato, di comprendere alcuni fasi della dialettica sociale che
stava plasmando il popolo siciliano nella seconda metà del XIX
secolo. Nei precedenti paragrafi si era visto come tutti coloro che
per vari motivi (idee politiche ritenute eversive, renitenza alla leva)
erano considerati dal governo dei fuori legge, avevano trovato
riparo, come latitanti, nelle campagne. Costretti a vivere di
espedienti, costoro si ritrovarono a dover condurre un’esistenza da
fuorilegge spesso loro malgrado. Il fatto che le campagne fossero
realmente insicure, divenute dei territori alla completa mercé dei
fuorilegge diede motivo al governo, come si è visto in precedenza in
merito alle “campagne militari” del generale Govone, per condurre
201 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.65.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

delle azioni che col pretesto di estirpare la piaga del brigantaggio


consentissero l’eliminazione anche degli avversari politici. In
seguito ai disordini accaduti all’Università e le relative

misure adottate per reprimere ogni manifestazione ostile al governo, le


autorità intesero combattere anche un fenomeno sociale, la mafia che,
nei fatti del 22 gennaio, aveva fatto per la prima volta la sua comparsa
nella vita politica con grande preoccupazione degli organi responsabili,
per la straordinaria capacità che già aveva mostrato di organizzazione e
di sviluppo, avendo radici quasi in ogni parte dell’isola. 202

Ora, Francesco Brancato è molto lucido nel constatare come già


alla sua origine la mafia non possa essere considerato un fenomeno
sociale dalle caratteristiche univoche. All’interno di quella galassia
che si andava presentando, o veniva percepita, come mafia erano
presenti diverse categorie di persone.
Si faceva poco prima riferimento a chi, pur avendo tenuto una
condotta di vita ineccepibile sul piano penale, si era trovato costretto
a vivere da latitante o perché renitente o perché dichiaratamente
ostile alla politica del governo.
Costoro si davano sovente alla latitanza dopo esser divenuti
soggetti a provvedimenti di domicilio coatto o di ammonizione,
misure repressive in merito alle quali lo storico ciminnese non può
non porre l’attenzione sulla notevole

influenza che i galantuomini, divenuti tutti filogovernativi, esercitavano


sulle autorità preposte all’ordine pubblico cui incombeva proporre per
l’ammonizione o per il domicilio coatto e che, estranee all’ambiente, a
quelli si rivolgevano per le necessarie informazioni: è facile
comprendere con quanto arbitrio venissero comminate quelle gravi
sanzioni che, specie prima della riforma del codice civile, fatta nel

202Ivi, p.69. In
merito alla mafia cfr. F. Brancato, La mafia nell’opinione pubblica e nelle
inchieste dall’Unità d’Italia al fascismo. Studio storico elaborato per incarico della
commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, Pellegrini
Editore, Cosenza, 1986.

- 101 -
Giuseppe Nigliaccio

1865, pesavano addirittura come marchio d’infamia, destinato a pesare


per tutta la vita, con gravi conseguenze sociali ed economiche.
Dato poi l’indirizzo eminentemente politico impresso
all’amministrazione in Sicilia, è facile del pari comprendere come in
particolare l’ammonizione, che era usata in più larga scala (alla vigilia
della rivolta del ’66 nella sola provincia di Palermo gli ammoniti
ascendevano a quasi 5.000), dovesse servire, nell’intenzione delle
autorità, a porre un freno a chi avesse manifestato delle velleità
antigovernative, sicché le persone più colpite erano naturalmente
quelle che s’azzardavano a non mostrarsi contente di quanto vedevano
farsi dal governo.203

È fisiologico che tutte queste persone finissero per unirsi in


organizzazioni più o meno grandi, al fine di garantirsi reciproca
protezione e supporto. Tali organizzazioni vennero percepite come
organizzazioni mafiose, con la conseguenza che chiunque volesse
rapportarsi con loro, come fece il Badia nelle varie fasi
propedeutiche allo scoppio della rivolta, fosse tacciato di essere un
volgare delinquente.
Il fatto che tali organizzazioni spadroneggiassero nelle campagne
dell’entroterra in cui presente era ancora il potere del partito
borbonico, con il quale di fatto erano realmente in contatto, aumentò
la pericolosità con cui esse erano percepite dalle autorità.
Questa mafia che Brancato definisce «rurale e artigiana»,204
paradossalmente e in apparente contrasto con quanto finora detto,
creava un problema più ai grossi proprietari terrieri, preoccupati di
non subire le incursioni delle bande armate, che all’autorità
giudiziaria più attenta a colpire il dissenso politico che quello che
poteva essere percepito come vile brigantaggio.
I Gattopardi siciliani, per tutelare i propri beni, finirono per
assoldare alcune di quelle bande, offrendo, in cambio della loro
protezione, l’immunità garantita dalla loro influenza oltre che un
lauto compenso. Fu così che
203 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., pp. 70-71.
204Ivi, p.72.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

nacque un’altra “mafia”, la vera “mafia”, che si distingueva dalla prima


per il suo carattere eminentemente reazionario e conservatore. Favorita
e protetta dalla classe più ricca e potente, presto penetrò nei gangli più
vitali dell’economia dell’isola, e il feudo divenne anche per essa il
centro dei suoi interessi e delle sue maggiori operazioni. Formò così
una vasta rete che si diramava per quasi tutta l’isola, e una gerarchia
che dai «caporioni» i quali, avendo funzioni direttive, non si
mostravano mai apertamente, scendeva giù per gradi fino all’esecutore
materiale.205

Dopo questa parentesi sulla genesi della mafia è doveroso


ritornare al nostro punto di partenza, cioè ai disordini accaduti
durante il comizio del 22 gennaio 1865 a favore del disegno di legge
del ministro Vacca. Lungi dall’essere un episodio classificabile
come un atto di delinquenza, l’irruzione al comizio, come ci fa notare
Brancato, sancisce l’acclarata entrata della mafia nella scena politica
siciliana, con la presa di coscienza, da parte del potere centrale, della
necessità di una risposta. Il nuovo prefetto di Palermo, Filippo
Gualterio, il generale Medici comandate la divisione militare di
Palermo e il questore Felice Pinna, concordarono una serie di
operazioni militari che secondo le loro intenzioni avrebbero dovuto

rafforzare lo spirito pubblico “così gravemente conturbato”, assicurare


all’isola una maggiore tranquillità e al governo, distruggendo la mafia,
una maggiore fiducia della popolazione, ma che di fatto finirono per
creare una maggiore tensione nello spirito pubblico, proprio quella che,
al momento più propizio, quando la Sicilia era meno guarnita di forze
militari per essere state concentrate nel Veneto per la guerra contro
l’Austria, sarebbe sboccata nell’insurrezione di settembre. 206

205Ivi, p.72.
206Ivi, p.73. Cfr. inoltre Lettera del Comandante la XIX Div. delle truppe mobilitate in
Sicilia del 26 nvembre 1866 al gen. Cadorna, in Archivio di Stato di Palermo, Pref.Gab.,
b.8, cat. 2; Rapporto del Prefetto di Palermo del 25 aprile 1865 al Ministero dell’Interno e
manifesto a stampa, ivi, b. 7, cat. 23-35, cit. in F. Brancato, Sette giorni di repubblica a
Palermo, cit., pp. 72-74.

- 103 -
Giuseppe Nigliaccio

Dopo solamente circa due anni dalle operazioni del generale


Govone, la Sicilia, soprattutto le provincie di Palermo, Trapani e
Agrigento si ritrovarono a subire un ulteriore semestre di vero e
proprio assedio militare, al termine dei quali, nella solita provincia
palermitana, erano stati effettuati 2298 arresti. Da quanto emerso in
questo paragrafo è perfettamente intuibile come in un momento
storico che vedeva l’Italia prepararsi a quella che la storiografia
chiamerà terza guerra d’indipendenza, la Sicilia si configurava
come un polveriera, carica di frustrazione e di risentimento nei
confronti del governo, una polveriera in attesa di essere innescata.

3.5 Settembre 1866: la fine di un’utopia?

La Sicilia a metà degli anni sessanta del XIX secolo era teatro di
una forte escalation di rabbia e malcontento sociale, che la ponevano
in uno stato di perenne fibrillazione politica e popolare, al quale
contribuivano da una parte la

gran massa di operai licenziati (oltre cinquemila nella sola provincia di


Palermo), perché “tutti” gli appaltatori, per l’entrata in vigore della
legge sul corso forzoso dei biglietti di banca, dichiaratisi impossibilitati
a continuare nelle loro imprese, avevano sospeso i lavori; dall’altra, uno
straordinario fermento contro la legge di soppressione delle
corporazioni religiose, che nella sola Palermo minacciava di mettere sul
lastrico non meno di 1.500 individui.207

Sul piano della politica estera, inoltre, l’Italia si apprestava a


intraprendere le operazioni militari nei confronti dell’Austria, con la
conseguenza che le

207Ivi, p.87.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

voci di prossima guerra, ravvalorate dal ritiro dall’isola di numerosi


contingenti di truppe, che furono trasferiti nel Veneto, rallentando il
vincolo di soggezione alla forza pubblica, avevano reso ancora più
audaci i banditi e i numerosi latitanti che scorrazzavano per la
campagna […].208

Era questa la situazione che aveva trovato, al suo secondo insediamento


come prefetto, il conte Luigi Torelli, il quale ha da subito considerato
quello della pubblica sicurezza come il più urgente fra i problemi da
affrontare. In questa direzione si muove la circolare che egli inviò, ai
sindaci dei comuni dipendenti, in cui è possibile leggere:

la guerra diviene sempre più inevitabile e non conviene illudersi: non


sarà guerra piccola, ma grossa e combattuta con un nemico potente;
essa richiederà molti sacrifici, e, perché si possa assicurare l’esito,
conviene che tutti prestiamo aiuto, ciascuno nella propria sfera.[…] la
questione che si decide sui campi di battaglia, è troppo vitale per la
Nazione intera, perché la truppa sia impegnata altrimenti che col
nemico esterno.209

Il prefetto era perfettamente conscio del delicato ruolo che si


ritrovava a ricoprire così, se da un verso metteva a conoscenza i
sindaci del fatto che era compito loro -attraverso una migliore
organizzazione della guardia nazionale- garantire la pubblica
sicurezza, dall’altro tentava di ottenere ulteriori rinforzi dal governo
centrale, il quale fisiologicamente concentrava le proprie maggiori
risorse sul fronte austriaco. Il prefetto con fine intuito politico, aveva
indicato nelle carceri eccessivamente affollate la polveriera in
procinto di esplodere, dato l’altissimo numero di reclusi (oltre 2.000
nel giugno 1866) che «diveniva sempre maggiore per gli arresti che
non si cessava di fare per mantenere, per quanto era possibile,
l’ordine pubblico».210 Come è facile immaginare, le richieste del
208Ibidem.
209 Circolare del 28 agosto 1866 in Archivio di Stato di Palermo, Pref. Gab., b. 8 fasc.

1, cat. 2 bis., cit. in F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.88.
210 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., p.88.

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Giuseppe Nigliaccio

prefetto Torelli, di avere maggiori rinforzi, caddero nel vuoto e la


risposta del ministero fu che l’unico mezzo con il quale

allo stato delle cose, il governo poteva contribuire a mantenere l’ordine


pubblico era quello di assegnare un domicilio coatto a quanti si fossero
manifestati avversi all’unità nazionale, o in una sfera più abietta,
avessero attentato alla proprietà altrui secondo quanto disponeva la
legge del 17 maggio, con la quale, nell’imminenza delle guerra, erano
stati accordati ad esso provvedimenti eccezionali per la tutela dello
Stato. 211

Il governo centrale non sospettava che allora in Sicilia si potesse


assistere a un fenomeno che, trascendendo il piano del disorganico
brigantaggio, potesse configurarsi come una dinamica politico-
sociale in grado di mettere a repentaglio la stessa unità nazionale e
necessaria quindi di uno spostamento di truppe che la congiuntura
storica rendeva assai inopportuno. Ma le previsioni del governo si
rivelarono infelici, e a riguardo possiamo leggere nelle pagine di
Brancato che

i fatti invece, si svolsero diversamente. Nella notte fra il 15 e il 16


settembre numerose bande armate, calate improvvisamente dai monti
circostanti Palermo, prima a gruppi, poi a ondate sempre più folte
invasero la città che fu subito messa in stato di ribellione. Tutto avvenne
secondo un piano prestabilito e con straordinaria simultaneità d
movimenti, sicché le autorità civili e militari, colte di sorpresa, non
furono in grado nemmeno i organizzare una resistenza. Né ebbe alcuna
efficacia la sortita dal Palazzo di città di un drappello di circa trenta
guardie nazionali con alla testa lo stesso giovane sindaco marchese di
Rudinì, ed altri ragguardevoli patrioti della borghesia e del patriziato, a
cui poi si aggiunse anche il prefetto Torelli, i quali tutti, armati di un
fucile, girando per le vie cittadine e impegnando anche qualche scontro
con gli insorti, speravano, con il loro ardito esempio, di suscitare una
controrivoluzione.212

211Ivi, p. 92; in corsivo le citazioni dalla Nota del 22 settembre 1866, in Archivio Storico

del Comune di Palermo, Segreteria centrale, ai segni 29-1-133.


212 Ibidem.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

La Sicilia, e Palermo in primis, non erano nuove a rivolte e


sommosse che nel corso del XIX secolo si erano più volte verificate
con alterne fortune, ma la rivolta del settembre 1866 segna, per la
presenza di diversi fattori mai concomitanti in precedenza, un punto
di svolta nella storia del Risorgimento siciliano. Gli uomini che
entrarono a Palermo, e nei paesi successivamente coinvolti dalla
rivolta, al grido di Viva la repubblica erano straordinariamente
organizzati e disciplinati, e di ciò è conferma il fatto che quasi
nessuna proprietà privata venne violata. Ora, è però opportuno
riprendere la nostra analisi dai fatti che poco sopra ha raccontato
Brancato, facendo particolare riferimento alla condotta del sindaco
marchese di Rudinì.213 La scelta del giovane sindaco di uscire in armi
alla testa di un esiguo numero di guardie nazionali e di pochi nobili,
anch’essi armati, non solo incrementò negli insorti la convinzione
che il potere costituito fosse nemico del popolo (fomentando a
dismisura così quella che possibilmente sarebbe stata solo una
eclatante manifestazione di malcontento), ma segnò inoltre una
profonda frattura nei rapporti che storicamente erano intercorsi fra il
popolo palermitano e il proprio sindaco.

Non era mai avvenuto a Palermo, città delle iniziative insurrezionali


durante il Risorgimento, che il sindaco o meglio il pretore, com’era

213 Sono interessanti le annotazioni che Brancato (Sette giorni di repubblica a Palermo,
cit., pp.93-94) ci propone in merito al background culturale e familiare del marchese di
Rudinì; per meglio comprendere le ragioni di quell comportamento, giova rilevare che il
Di Rudinì non aveva avuto nella sua famiglia tradizioni rivoluzionarie che gli potessero
meglio far meglio considerare i fatti ai quali venne quasi improvvisamente a trovarsi di
fronte, ma piuttosto reazionarie e conservatrici. Quell Don Antonio Statella, principe di
Cassaro nominato da Francesco II presidente del Consiglio e che tenne il potere dal 15
marzo al 25 giugno 1860 era suo nonno materno. Due suoi zii, generali, fratelli del nonno,
avevano partecipato alla repressione, a Napoli, dell’insurrezione del 15 maggio 1848, ed
era pure stato un suo zio, fratello della madre che, quale pretore di Palermo, s’era cooperato
nel 1849, per affrettare la consegna della città al Borbone[…]. Se nel 1863, giovanissimo,
era stato eletto sindaco della maggiore città della Sicilia e antica capitale del regno, ciò era
stato dovuto più a un riguardo verso la nobile e ricca famiglia cui apparteneva, che a qualità
politiche e amministrative di cui avesse dato prova.

- 107 -
Giuseppe Nigliaccio

allora chiamato il capo dell’amministrazione comunale, assumesse un


atteggiamento politico quando il popolo, infuriato, s’era sollevato
contro il potere costituito.
Conservando un atteggiamento neutrale nei momenti di crisi s’era,
infatti, sempre adoperato per una pacificazione degli animi e qualche
volta aveva anche fatto da tramite, come nella rivoluzione del ’20 per
una conciliazione fra le parti. Il di Rudinì, invece, si pose decisamente
contro il popolo a favore del governo, il che gli costò caro: egli perdette
la possibilità di intesa con il suo stesso popolo. Il suo gesto, insomma,
segnò una rottura che meglio definì il carattere di quella rivolta. 214

I fatti di Palermo si andarono ad inserire in una congiuntura storica


già di per sé travagliata, infatti la guerra non volgeva in quel periodo
a favore dell’Italia: la popolarità e l’autorevolezza del governo erano
fortemente minate da una serie di insuccessi nei quali buona parte
dell’opinione pubblica ascriveva anche l’armistizio di Cormons «per
il quale si era accettato non solo che venissero arrestate le operazioni
di guerra, ma che fossero anche ritirati i volontari dal territorio che
essi, sotto la guida di Garibaldi, avevano liberato nel Trentino».215
In un tale clima sociale e politico i fatti di Palermo furono
percepiti a livello centrale, da una classe dirigente dotata di scarsa
familiarità con le dinamiche sociali dell’isola, come una sorta di
tradimento dell’Unità nazionale. Lo stesso monarca si dimostrò
quasi personalmente risentito del moto palermitano, come ci ricorda
Brancato infatti

ne fu massimamente sorpreso e indignato il re Vittorio Emanuele che


mentre tanti problemi tenevano tesi gli animi per la stessa stabilità del
regno dopo una guerra con esito peraltro non favorevole, proprio dalla
Sicilia non s’aspettava dovesse partire una così terribile minaccia
all’integrità nazionale in difesa della quale s’era pure entrati in guerra.
“Il me semble nécessaire - telegrafò pertanto subito al Ricasoli- une
sévère leçon à ces malfaiteurs qui viennent de troubler l’ordre et la
tranquillité publique dans un moment où l’Italie plus que jamais besoin
de calme et de jugement pour se constituer une notion forte et grande

214 Ivi, p.93.


215 Ivi, p.94-95.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

come elle doit être. J’espère donc que vous n’aurez aucune pitié de
certe canaille et que vous la traitez comme elle mèrite, car, je vous le
répète, une leçon ne fera pas de mal”.216

L’incomprensione di fondo della realtà sociale e politica


dell’isola fu probabilmente la causa del superficiale, e allo stesso
tempo, assai severo giudizio con il quale venne accolto al di fuori
dell’isola, e soprattutto nei centri di potere, il moto palermitano,
come è possibile leggere nelle parole di Scaramuzza riportate sopra,
all’inizio di questo capitolo.
Secondo Brancato anche il modo con cui il governo reagì alla
rivolta tradisce la totale distanza del governo liberale dalla vita delle
masse. Lungi dal cogliere l’esasperazione sociale dei siciliani
derivante dall’attività legislativa totalmente estranea alle reali
necessità dell’isola e dall’asprezza delle operazioni militari condotte
per reprimere ogni minima manifestazione di dissenso, la questione
non venne trattata da una prospettiva politica, ma da una mera
angolatura poliziesca e militare. Si è in precedenza detto che la
rivolta scoppiata a Palermo presuppose, per la coordinazione con cui
si sviluppò, una ferrea organizzazione. Ciò è senza dubbio vero per
il suo aspetto pratico, logistico si potrebbe quasi dire. Dal punto di
vista politico, invece, non vi fu una linearità nella gestione della
stessa rivolta, e la massa del popolo in armi tentò a più riprese di
trovare il proprio capo. Nella fattispecie si venne a incrinare,
soprattutto nella prima fase della rivolta, il secolare legame di
soggezione e dipendenza che legava il popolo ai nobili e all’alta
borghesia.
216Ivi, p.95. In corsivo la citazione diretta che Brancato trae da Telegramma del 21

settembre 1866 in E. Morelli, Ottavio Lanza e il moto del 1866, in Miscellanea di studi in
onore del prof. Eugenio di Carlo, Trapani 1959, p. 307. Si allega la traduzione: «mi pare
necessario dare una dura lezione a questi malfattori che hanno turbato l’ordine e la
tranquillità pubblica in un momento in cui l’Italia, più che in alter occasioni, ha bisogno di
calma e assennatezza per erigersi a Nazione grande e forte come essa deve essere. Io mi
auguro che voi non abbiate alcuna pietà di queste canaglie, e che voi le trattiate come si
meritano perchè, ve lo assicuro, una dura lezione non farà nessun male».

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Giuseppe Nigliaccio

Nonostante fosse stato costituito prima dello scoppio della rivolta


un comitato dirigente,217 non c’era una linea politica di fondo che,
oltre ai generici proclami inneggianti alla Repubblica, potesse
fungere da guida all’azione dei rivoltosi, e da quanto detto
conseguiva che

una delle maggiori preoccupazioni del comitato era stata quella di dare
un capo alla rivolta, che godesse di una certa popolarità, sia per
conferire maggiore ascendente al comitato stesso e procurare così più
larghe adesioni all’insurrezione, sia per tenere meglio unite le forze
popolari. In attesa perciò che venisse liberato dal carcere il Badia, era
stato anche deciso che, appena scoppiata la rivolta, la presidenza
venisse affidata al principe di Linguaglossa, come poi fu fatto, potendo
questi, con il pretesto che gli derivava dal casato e dalla sua veneranda
età, bene adempiere la funzione che si richiedeva dal capo di un moto.
Tutto questo spiega anche perché le forze rivoluzionarie dirigessero i
loro maggiori attacchi alle carceri, attorno alle quali avvennero i più
accaniti combattimenti […] La liberazione del Badia avrebbe dato al
moto, per così dire, il suo capo legittimo. 218

È possibile distinguere due fasi nella gestione del comitato


direttivo, ovvero prima e dopo l’entrata in gioco della nobiltà e
dell’alta borghesia all’interno della dinamiche del comitato, la cui
presenza può essere considerata direttamente proporzionale alla
crescente paura che il moto assumesse proporzioni non gestibili e
non riconducibili entro i consueti rapporti di potere, come segnala
Brancato

217 Si riporta una nota dello stesso Brancato (Sette giorni di repubblica a Palermo, cit.

p. 100): fecero parte del comitato organizzatore, sotto la presidenza di Lorenzo Minneci, i
seguenti individui: Stefano Carracino, Andrea di Marzo, Rosario Miceli, un patrocinatore
chiamato don Salvatore, Giovanni Ciaccio, Giovanni Ruffino, Salvatore Nobile, Francesco
Parinello, un tal Viola, P. Placido Spadaro, e il benedettino Salvatore Palazzolo (rapporto
del reggente la questura di Palermo, Biundi del 27 settembre 1866 al prefetto , in Archivio
di Stato di Palermo, Pref. Gab., b.8, cat. 2 bis, fasc. 7).
218 F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., pp. 100-101.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

fu dunque allora, quando la rivolta prese una piega sempre più


pericolosa, che l’alta borghesia cittadina cominciò a muoversi e a
prendere parte attiva agli avvenimenti. Primo pensiero fu naturalmente
quello di entrare a far parte del comitato per prenderne la direzione, o
quanto meno, far sentire la propria influenza. Così attorno al
Linguaglossa venne costituendosi un nuovo comitato formato tutto di
“rispettabili cittadini”, fra i quali figurano il barone Giovanni Riso, il
barone Sutera, il barone di S. Vincenzo, il principe Rammacca, il
marchese di S. Giacinto e pare anche il marchese di Torrearsa, i quali
tutti, fatti arrestare poi dal generale Cadorna ai primi di novembre e
rimessi in libertà ai primi di dicembre, dichiararono di aver fatto parte
di quel comitato non volontariamente, ma “costretti” dai rivoltosi, come
“costretti” dichiararono pure d’esser stati tutti quei rispettabili cittadini
ai quali vennero affidate delle cariche durante la rivolta.219

Se un atteggiamento può essere considerato come il tratto


distintivo della classe dirigente isolana durante tutto il periodo
risorgimentale è, probabilmente, la camaleontica capacità di sapersi
incuneare, nella dialettica fra popolo e potere politico, in uno spazio
grigio fatto di compressi, taciti accordi e indefinite clientele che le
permettevano di dialogare con entrambi i poli di tale dialettica,
prendendo alla fine le parti di chi avrebbe prevalso. Ciò giustifica
l’osservazione dello storico ciminnese secondo la quale

riesce davvero assai difficile il pensare che un Torrearsa, il quale, morto


Ruggero Settimo, rappresentava la più alta personalità politica in
Sicilia, s’inserisca nel detto comitato costretto dai rivoltosi e,
conseguentemente, costretto s interessi poi presso il console di Francia
a Palermo per una mediazione con il governo italiano. 220

Nel corso di questo lavoro è emersa la opportunistica capacità


della classe dirigente siciliana di non schierarsi mai definitivamente
da una delle parti presenti nelle varie contese, in modo tale da non
precludersi la possibilità di saltare, una volta acclaratesi la situazione
in una direzione univoca, sul carro del vincitore. Ad esempio nella
219Ivi, pp. 104-105.
220 Ibidem.

- 111 -
Giuseppe Nigliaccio

fase immediatamente precedente allo sbarco di Garibaldi in Sicilia,


Brancato rileva come la nobiltà non si sia sbilanciata apertamente
fino a quando non apparve come inevitabile il successo dell’impresa
garibaldina. Allo stesso modo il nostro storico riporta ulteriori
esempi storici dell’interessata ambiguità che ha caratterizzato la
nobiltà e l’alta borghesia isolana in tutto il XIX secolo:

i nobili palermitani componenti la commissione che, durante la


rivoluzione del ’20, furono inviati per trattare con il governo a Napoli,
dichiararono d’essere stati forzati dal popolo a far parte dalla Giunta
formatasi la fuga, a furore di popolo, del luogotenente generale
dell’isola, allo scopo evidente di ingraziarsi all’animo dei napoletani.
Caduta la rivoluzione del ’48, su 91 Pari ben 66 sottoscrissero la
dichiarazione con la quale smentirono l’atto del Parlamento con il quale
era stata dichiarata decaduta la dinastia borbonica in Sicilia, affermando
che erano stati costretti a votarlo dal popolo armato che ne aveva
minacciato la vita. Cosa ancora più rimarchevole, dopo l’Unità, per
salvare l’onore e il patriottismo di quanti avevano sottoscritto tale
ritrattazione, fu detto che era stata una bugia estorta con le violenze e
le minacce del Borbone a coloro che erano stati Pari e deputati.221

Il ridestarsi dei gattopardi isolani dal torpore in cui erano


apparentemente caduti non segnò però la definitiva scomparsa
dell’elemento repubblicano come ci testimonia il fatto che il
segretario del Linguaglossa fosse Francesco Bonafede222 che, per il
221Ivi, p.106. In corsivo citazioni tratte da Elenco dei pari che sottoscrissero la

dichiarazione, in Archivio di Stato di Palermo, Polizia, filza 585, doc. 4581.


222 Francesco Bonafede (Gratteri, provincia di Palermo, 17 novembre 1819). Animato

da ideali repubblicani prese parte ai moti del ’48, e con i gradi di tenente, alla spedizione
calabro-sicula. Prigioniero, con i suoi compagni, dei Borboni per 17 mesi fra il Castello S.
Elmo e Nisida, fu liberato a condizione che non si allontanasse dal proprio paese natio,
essendo così costretto a interrompere gli studi a Palermo. Nel 1856 prese parte al moto del
Bentivegna, divenendo capo provvisorio del governo del suo paese. Il governo borbonico
mise una taglia sulla sua testa e per indurlo alla costituzione ne arrestò la famiglia (1857),
ed egli effettivamente si costituì al fine di liberare i propri parenti. L’iniziale condanna a
morte gli venne commutata in una pena di 18 anni da scontare ai ferri nell’isola di
Favignana. Nel 1865 prese parte alle trame rivoluzionarie del Badia e fu uno dei maggiori
protagonisti della rivolta del settembre 1866, in seguito alla quale fu costretto a trovare

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

suo passato rivoluzionario, «era appunto quello che godeva del


maggiore prestigio in seno al comitato e che con gli infuocati
proclami da lui compilati e sottofirmati dal Linguaglossa manteneva
la fiamma rivoluzionaria in senso repubblicano».223
Bisogna dire, però, che nonostante l’impegno che i repubblicani,
con il Bonafede in prima linea, misero nel tenere alto il morale delle
masse e nell’elaborazione di un programma politico plausibile, le
dinamiche dei fatti si andavano evolvendo in una prospettiva non
favorevole per gli insorti, probabilmente anche a causa
dell’influenza nel comitato direttivo del Torrearsa.
I continui sbarchi di rinforzi fecero la differenza e l’arrivo di
20.000 uomini al comando del generale Diego Angioletti fece
definitivamente propendere la situazione a favore del governo. Presa
coscienza dell’inevitabile fallimento della rivolta, il comitato nella
notte fra il 20 e il 21, al fine di evitare un sicuro massacro, decise il
ritiro da Palermo della maggior parte delle squadre, lasciando in città
circa 6.000 uomini per proteggere la ritirata e soprattutto «per dare
una fine onorifica all’insurrezione».224 Contemporaneamente

furono iniziate con il prefetto Torelli, tramite il console di Francia De


Sènevier, le trattative per la resa. Portavoci per la parte degli insorti
furono il marchese di Torrearsa e il principe Monteleone. Gli insorti
chiesero prima una tregua che fu sdegnosamente negata. Di questa era
stato iniziatore lo stesso marchese di Torrearsa che fin dal giorno 19
con il Monteleone e con il Minneci s’era recato dal console francese De
Sènevier per averne l’appoggio.

riparo in Austria sotto il falso nome di Francesco Ingadolce. Attirò l’attenzione della polizia
per aver ricevuto presso la sua dimora triestina un proclama mazziniano incitante all’
Alleanza Repubblicana, e in seguito alla perquisizione del proprio domicilio gli vennero
sequestrate diverse corrispondenze e un manoscritto dal titolo Sette giorni di repubblica a
Palermo. In seguito al processo per alto tradimento fu condannato a cinque anni di carcere
duro. Ritornato in Sicilia fra il 1870 e il 1871, usufruendo dell’amnistia e si stabilì a Gratteri,
suo paese natale nel quale morì nel 1905. In merito agli studi di Brancato sulla figura di
Bonafede cfr. Il marchese di Rudinì, Francesco Bonafede e la rivolta del 1866, in Nuovi
Quaderni del Meridione , IV, 1966, n.16, pp. 460-491.
223F. Brancato, Sette giorni di repubblica a Palermo, cit., pp. 107-108.
224Ivi, p.109.

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Giuseppe Nigliaccio

Offrirono poi de dèposer immèdiatement les armes, pourvu qu’on les


laisse se retirer avevc l’espoir de la clèmence du Gouvernement.225

Tali condizioni vennero accettate, e alle ore 12 del 22 non si udì


più nessuno sparo. Sempre nello stesso pomeriggio fece ingresso in
città il generale Cadorna che era stato da qualche giorno nominato
«Comandante le forze militari dell’Isola e Commissario
straordinario del Re nella città e provincia di Palermo».226
Ora, bisogna dire che Francesco Brancato ha dedicato parecchia
energia nel studiare l’opera del generale Cadorna dopo la sua entrata
a Palermo, anticipando in una certa misura alcuni motivi della
storiografia odierna, ma si vuole concludere questo paragrafo
facendo riferimento ad alcuni temi che hanno permeato questo
lavoro e soprattutto l’intera produzione di Brancato. Ci si riferisce
alla consapevolezza, esplicitamente percettibile all’inizio di questo
capitolo, del fatto che, a dispetto della natura insulare della Sicilia,
le vicende che la riguardano trovano spesso una più ampia
spiegazione ampliando la nostra prospettiva alle reciproche
influenze che condizionano su scala europea le vicende di diversi
stati. Si è fatto, nello specifico, riferimento al ruolo dell’Inghilterra
che, avendo notevoli interessi in gioco in relazione all’apertura del
canale di Suez, guardava alla Sicilia come una regione fondamentale
per consolidare la propria presenza nel cuore del mediterraneo.
Leggiamo nelle pagine di Brancato, al proposito delle possibili
ingerenze di fattori esterni nella rivolta del settembre 1866, che non
può

essere scartata l’ipotesi di qualche manovra sotto mano da parte


dell’Inghilterra, quando si pensi ai grossi capitali che i suoi sudditi
avevano impiegato in Sicilia in beni mobili e fondiari, ancora nel 1876

225Ivi, p.110. In corsivo la citazione tratta da Dispaccio del conole di Francia a Palermo,

De Sènevier, del 22 settembre 1866 al suo governo, in Archives du Ministère des AA. E.E.,
Parigi, Corrispondence politique, Italie,t. 5, Palerme, 234-236.
226 Giornale di Sicilia, Palermo, 24 settembre 1866, cit in F. Brancato, Sette giorni di

repubblica a Palermo, cit., p.110.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

valutati attorno a 500 milioni di franchi, cifra enorme e che esercitava


un peso considerevole nell’economia dell’isola. Al grido, infatti, di
Viva la Repubblica durante la rivolta spesso risuonò anche quello di
Viva gli Inglesi, elevato evidentemente dagli autonomisti, se non
addirittura dai separatisti, ai quali non sarebbe dispiaciuta una Sicilia
sous le patronage de l’Angleterre, come ai separatisti del secondo
dopoguerra non sarebbe dispiaciuta una Sicilia formante una delle stelle
degli Stati Uniti d’America.227

Un ulteriore aspetto del Risorgimento siciliano cui Francesco


Brancato ha dedicato particolare attenzione è stato, come si è visto
nei precedenti capitoli, costituito dal contributo fornito dal clero
isolano alla causa risorgimentale.
Tale apporto del clero siciliano all’unificazione nazionale è stato
letto, da Francesco Brancato, all’interno della singolare dialettica fra
Chiesa e politica che ha assunto in Sicilia una veste abbastanza
originale, e anche la rivolta del settembre del 1866 fornisce motivi
di riflessione e di ricerca in tale direzione. Si è copiosamente
osservato come la proposta di legge sulla soppressione delle
corporazioni religiose abbia contribuito a fomentare il malcontento
della popolazione, con la conseguenza di aver più o meno
direttamente concorso allo scoppio della rivolta del Sette e mezzo.
Si diffuse l’idea che il clero, potendo contare sull’appoggio degli
ambienti filoborbonici ancora presenti nell’isola fosse il vero
responsabile dello scoppio della rivolta, ancor più che gli stessi
repubblicani. Un opuscolo, dato alle stampe in forma anonima a
Catania nel 1867 fornisce una lettura dei fatti del 1866 in una chiave
di lettura davvero suggestiva. L’idea di fondo che sottende a tale
opuscolo, dal titolo La reazione di Settembre 1866 e il bisogno di
una Chiesa nazionale è rintracciabile nella convinzione che la vita
dello Stato italiano fosse minacciata da due fattori, il primo pericolo
è costituito dal

227Ivi, pp. 135-136.

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Giuseppe Nigliaccio

fermarsi a mezza via, contentandosi della semplice riforma del clero


regolare, senza passar oltre alla riforma del clero secolare; pericolo
secondo: la dannosa applicazione del principio libera Chiesa in libero
Stato, cui sembrava orientato il governo fin dal tempo di Cavour. Ciò si
sarebbe potuto realizzare con l’istituzione di una chiesa nazionale come
in Inghilterra e in Francia, dove il clero godeva della massima
indipendenza dalla Chiesa romana. Soltanto con una tale istituzione si
sarebbe potuto sottrarre la plebe alla diretta influenza del clero ed
evitare che, come nel moto di Palermo, esso divenisse padrone del
campo, con il rischio del sovvertimento dell’ordine esistente. Se la
Sicilia quindi, con la rivolta di Palermo aveva pure fornito un caso
tristissimo di disordine nei rapporti fra Chiesa e Stato essa, in grazia
della Legazia Apostolica, aveva dato anche il primo esempio di una
Chiesa Nazionale in Occidente, che ora l’Italia unita avrebbe potuto
seguire con suo grande vantaggio, assicurando una maggiore disciplina
nel clero e togliendo a esso ogni influenza sul popolo. 228

Così come i processi di unificazione nazionale di altri paesi


avevano visto il sorgere di chiese nazionali, allo stesso modo,
secondo l’anonimo dell’opuscolo catanese, la medesima strada
andava imboccata in Italia.
Alla fine di questo lavoro si vuole sottolineare come lo storico
ciminnese sia consapevole che la storia della Sicilia non possa essere
letta prescindendo da una serie di relazioni, di respiro europeo, le
quali rendono l’isola il risultato di processi che, pur non essendo
sempre immediatamente percettibili, non ci esimono dal ricercarne i
segni che ancora ne condizionano la vita.

228Ivi, p.113.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Appendice

Cenni sulla biografia di Francesco Brancato.

Francesco Brancato nacque a Ciminna (Palermo) il 21 luglio 1913.


Ebbe un’infanzia poco felice data la prematura morte della madre e
la lontananza del padre, emigrato negli U.S.A. Si prese cura di lui la
sorella maggiore. Durante l’adolescenza studiò pianoforte e
fisarmonica presso il conservatorio di Palermo, iscrivendosi dopo il
diploma alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di
Palermo, mostrando una eccezionale predisposizione nello studio
delle materie storiche. Ha conseguito la laurea sotto la guida di
Alberto Maria Ghisalberti, con una tesi sul riformismo del Vicerè
Caracciolo. Tale tesi, oltre a fargli guadagnare la laurea con il
massimo dei voti e la lode, gli valse anche una segnalazione al
Ministero dell’Educazione Nazionale, essendo stata giudicata un
contributo originale allo studio della storia moderna. Appena dopo
la laurea partecipa alla guerra mondiale con il grado di ufficiale di
complemento. Terminato il conflitto insegnò lettere e storia nei Licei
e negli Istituti Magistrali di Grosseto, Trapani e Palermo. Sin dal
1956 consegue la libera docenza in Storia del Risorgimento, e
dall’anno accademico 1957-1958 inizia a tenere, sempre presso
l’Università di Palermo, un corso libero di Storia del Risorgimento.
Dal 1960 gli viene conferito l’ulteriore insegnamento di filosofia
della storia, insegnamento che ricoprirà, anche nelle vesti di docente
stabilizzato, fino al 1978. Dal 1978 al 1983 venne incaricato della
cattedra di Storia del Risorgimento. Il rigore e l’onestà intellettuale
che contraddistinsero Francesco Brancato sono testimoniati anche
dai prestigiosi incarichi che egli ricoprì: dal 1958 fu direttore dei
Quaderni del Meridione della fondazione Mormino del Banco di
Sicilia e dal 1991 delle Nuove Prospettive Meridionali della
fondazione Chiazzese della Sicilcassa. Merita particolare menzione
l’incarico con il quale la Commissione parlamentare antimafia
commissionò a Brancato la stesura di uno studio storico sulle origini
- 117 -
Giuseppe Nigliaccio

della mafia, il cui frutto è il volume La mafia nell’opinione pubblica


e nell’inchieste dall’Unità al Fascismo, studio storico elaborato per
la Commissione parlamentare d’inchiesta. Francesco Brancato
muore a Palermo il 3 maggio 2012, e trova sepoltura nella natia
Ciminna, ove gli viene intitolata la biblioteca civica che raccoglie,
in eredità, il fondo costituito dalle donazioni del professore,
comprendenti anche la copiosa corrispondenza che ha legato lo
storico ciminnese agli intellettuali di tutta Europa. Volendo qui
fornire un elenco delle opere di Brancato non direttamente citate nel
presente lavoro non si può non far riferimento a: L’assemblea
siciliana del 1848-49, Sansoni, Firenze, 1946; Tra le quinte della
storia: uno scroccone impenitente, Antonio Vento Editore, Trapani,
1955; La Sicilia nel primo ventennio del Regno d’Italia, Zuffi,
Bologna, 1956 (Premio Nuova Antologia 1954); Storia della Sicilia
Post-unificazione, Zuffi, Bologna, 1956; Mafia e Brigantaggio, in
Quaderni del Meridione, anno I, n.3; L’amministrazione garibaldina
e il plebiscito in Sicilia, in Atti del XXXIX Congresso di Storia del
Risorgimento Italiano, Istituto per la storia del Risorgimento
Italiano, Palermo-Napoli, 1960; Garibaldi e le popolazioni del Sud,
Il Veltro, Roma, 1960; Storia e storiografia. Lezioni di filosofia della
storia, Celup, Palermo, 1963; Il primo progetto per la costruzione
delle ferrovie, in Nuovi Quaderni del Meridione, n. 11, Palermo,
1965; La questione di Tunisi nei suoi riflessi in Sicilia, Flaccovio,
Palermo, 1965. Vanno menzionate inoltre le seguenti opere:
Filosofia della Storia e Storiografia. Dall’Antichità classica
all’epoca dell’Illuminismo, Célèbes, Trapani, 1966; Il parlamento
siciliano del 1848 nella sua attività costituente, Priulla, Palermo,
1968; L’ultimo Mazzini e l’opposizione meridionale, Fondazione
Mormino del Banco di Sicilia, Palermo, 1975; L’industria in Sicilia
dal Settecento al fascismo, in Nuovi Quaderni del Meridione,
Palermo, luglio-dicembre 1965; Riflessi del marxismo in Sicilia
dopo l’unificazione, Palumbo, Palermo, 1982; Cinque immagini
della Sicilia, Pellegrini, Cosenza, 1990.

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Quando la Sicilia diventa Italia. Il Risorgimento nelle opere di Franscesco Brancato fra storia e
filosofia.

Bibliografia

Opere di Francesco Brancato (di seguito verranno riportate


solamente le opere di Brancato citate direttamente).

Brancato F., La partecipazione del clero alla rivoluzione siciliana del


1860, Manfredi Editore, Palermo, 1960.
Brancato F., La questione meridionale nel pensiero di Carlo Cattaneo, in
Annuario dell’Istituto Magistrale Pascasino, Marsala 1962.
Brancato F., Filosofia della storia e storiografia nell’età dell’Illuminismo,
Edizioni Célèbes, Trapani, 1967.
Brancato F., Vico nel Risorgimento, Flaccovio, Palermo, 1969.
Brancato F., La partecipazione popolare al Risorgimento in Sicilia,
estratto da Il Risorgimento in Sicilia, A. IV, n.4.
Brancato F., La mafia nell’opinione pubblica e nelle inchieste dall’Unità
d’Italia al fascismo. Studio storico elaborato per incarico della
commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia,
Pellegrini Editore, Cosenza, 1986.
Brancato F., Sette giorni di repubblica a Palermo, Sicania, Messina, 1993.

- 119 -
Giuseppe Nigliaccio

Altre opere consultate:

ABBA G.C., Da Quarto al Volturno, Bobbio, Ed. Pontegobbo, 2011.


ARMETTA F., Dizionario Enciclopedico dei pensatori e dei teologi di
Sicilia, Caltanissetta, Sciascia Editore, 2010.
CALDARELLA A., I compiti della Guardia Nazionale nella rivoluzione del
1848, in Atti del Congresso di studi storici sul ’48 siciliano (12-15 gennaio
1948), Palermo,1950.
CANDELORO G., Storia dell'Italia moderna.Vol. 1 Le origini del
Risorgimento (1700-1815), Feltrinelli, Milano, 1994.
CATTANEO C., Psicologia delle menti associate, Roma, Editori Riuniti UP,
2000.
CROCE B., La fortuna del Vico, in La filosofia di Giambattista Vico, Bari,
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révolutionnaire 1789-1794. Fayard, Paris, 2003.
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