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Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo ­ Marco Revelli.

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INDICE

1 ) Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo – Marco Revelli
1.1 Introduzione
1.2 Fordismo: ovvero la cultura della crescita illimitata
1.2.1 Illimitatezza del mercato e centralità della fabbrica
1.2.2 Standardizzazione ed economia di scala
1.2.3 Una fabbrica duale e antagonistica
1.2.4 Territorializzazione del lavoro e del capitale
1.3 IL postfordismo: ovvero la cultura del limite
1.3.1 Mercati globali “limitati”
1.3.2 Un caso esemplare: il mercato dell’auto (excursus)
1.3.3 Il crepuscolo dei “produttori” e il dispotismo del mercato: verso una razionalità
limitata
1.3.4 La “lean production”: ovvero l’imperativo di “snellire”
1.3.5 Toyotismo e taylorismo. Radicalizzazione e superamento.
1.3.6 Fabbrica monistica ed egemonica
1.3.7 Verso un nuovo organicismo industriale
1.3.8 Tra integrazione e liberazione
1.3.9 Contraddizioni del modello postfordista
2) Il disagio della civiltà e le filosofie antipositiviste
2.1 Il disagio della civiltà
2.2 Filosofie antipositiviste
2.2.1 Schopenhauer
2.2.2 Nietzsche
2.2.3 Bergson
2.2.4 Dilthey
2.2.5 Durkheim e Weber
2.2.6 Freud e la psicoanalisi
2.2.7 Jung
3) Cenni sulle avanguardie
3.1 Caratteristiche principali
3.2 L’esaltazione della macchina: l’avanguardia futurista
3.3 Le altre avanguardie
3.3.1 Dadaismo
3.3.2 Surrealismo
3.3.3 Crepuscolari
3.3.4 Vociani
4) Bibliografia
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1) Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo

AUTORE: Marco Revelli

1.1 INTRODUZIONE

La situazione politica e i movimenti sociali odierni non hanno solamente una radice
soggettiva identificabile con le trasformazioni culturali che hanno coinvolto l’Europa. Essi
sono principalmente conseguenza del passaggio dal vecchio modello produttivo fordista al
nuovo modello toyotista. Il modello toyotista è noto anche come modello post­fordista.

1.2 FORDISMO: OVVERO LA CULTURA DELLA CRESCITA ILLIMITATA

Possiamo dire che il modello fordista (o taylorista) era un modello basato sulla crescita.
Esso associava lo sviluppo con l’aumento della produttività e con l’espansione idealmente
illimitata dell’industria sul territorio. Parallelamente alla crescita del capitale cresce anche il
lavoro e quindi il numero di operai (anche se l’occupazione cresceva più lentamente del
capitale). Dall’ossessione per la crescita derivano quattro principi fondamentali del modello
fordista: la superiorità della fabbrica e della sua razionalità su ogni altro aspetto della vita
sociale nell’ottica di un mercato potenzialmente illimitato; il ricorso sistematico
all’economia di scala (i costi per la produzione di un pezzo tendono a zero se il numero di
pezzi prodotti tende all’infinito) come risorsa strategica; visione dualistica, ovvero
conflittuale fra l’imprenditore e i lavoratori; destinazione territoriale del capitale verso un
contesto prevalentemente nazionale.
1.2.1 Illimitatezza del mercato e centralità della fabbrica
L’automobile, il bene simbolo del modello fordista, forniva prospettive di vendita
potenzialmente illimitate dal momento che era un bene di lunga durata che non si era ancora
diffuso nella società. La convinzione di Henry Ford di poter disporre di un mercato
potenzialmente infinito, ovvero di poter vendere tutto ciò che veniva prodotto, rese evidente
che l’unico limite di profitto dell’industria era la propria capacità di produrre. È stata
proprio questa convinzione a promuovere l’estrema espansione dell’industria nel territorio,
con l’obiettivo di aumentare la produttività. Nell’ipotesi di un mercato infinito, si può dire
che “la produzione produceva il mercato”. La fabbrica produceva la società. In questo
modello, la produzione industriale e il numero delle vendite crescevano di pari passo. Il
fordismo affermava quindi il primato della fabbrica sul mercato. La fabbrica era in grado di
pianificare e razionalizzare la produzione, e la sua struttura era in grado di modificare
l’organizzazione della società. Gramsci, nel testo “Americanismo e fordismo”, afferma che
per ridurre l’anarchia nella società andrebbe organizzata quest’ultima come se fosse una
grande fabbrica”.
Lo sviluppo del modello taylorista era minacciato dall’esigua domanda. I salari, infatti,
crescevano molto più lentamente rispetto alla produttività. La scarsa domanda poteva
tuttavia essere compensata mediante interventi politici o tramite interventi di natura tecnica

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(diminuzione dei prezzi, possibile con l’aumento delle vendite). In questo modo sembrava
possibile poter ovviare al “difetto” del sistema.
1.2.1 Standardizzazione ed economia di scala
Dal principio di illimitatezza dei mercati deriva una seconda caratteristica del modello
taylorista, ovvero l’idea di poter risolvere qualsiasi problema, anche quelli legati ai costi,
nell’ottica di un’economia di scala. In un sistema fondato sull’ideale illimitatezza dei
mercati, ogni investimento poteva essere riassorbito dividendo i costi iniziali per un numero
tendente all’infinito di unità di prodotto. La logica che reggeva la produzione di massa era
infatti la seguente: “la neutralizzazione del problema dei costi di produzione attraverso la
dilatazione dei volumi produttivi”. Per incrementare la produzione era necessario aumentare
di continuo le dimensioni della fabbrica, nonché centralizzare il processo produttivo. Il
modello fordista prevedeva un’attenta organizzazione dei tempi di progettazione e
produzione e dei lavoratori. Il 20­30% della forza­lavoro a disposizione della fabbrica non
risultava direttamente produttivo, ma veniva impiegato per mantenere i grandi magazzini,
per funzioni di collaudo, controllo o comando. I cicli di produzione potevano durare anche
alcuni anni (venivano prodotti lotti dell’ordine di milioni di esemplari), pertanto il prodotto
finale era caratterizzato da un elevato grado di standardizzazione. Ogni fabbrica era in grado
di produrre solo un modello di automobile. Modificare la struttura dell’industria nel medio e
lungo periodo risultava impossibile, quindi l’azienda doveva dimostrarsi “indifferente”
all’ambiente esterno. Robert B. Reich trova le burocrazie delle aziende americane (prese
come modello fordista) simili alle burocrazie militari, per la capacità di programmare a
priori i compiti e le responsabilità di ognuno.
Il modello fordista, in cui le decisioni strategiche vengono prese dalle persone ai vertici di
una scala gerarchica, viene definito top­down. I superiori comunicano le proprie decisioni ai
gradi inferiori per metterle in atto. Alla Fiat si contavano ben quattordici livelli gerarchici.
Ogni livello non poteva prendere alcuna decisione senza aver prima interpellato quello a lui
superiore. In un modello top­down trascorre molto tempo fra l’ideazione e l’attuazione.
1.2.3 Una fabbrica duale e antagonistica
La terza caratteristica del modello fordista riguarda il rapporto fra capitale e forza­lavoro e
soprattutto fra i datori di lavoro, che cercano di sfruttare al massimo le potenzialità
lavorative degli operai e questi ultimi, che come dice Taylor “sono assai pigri per natura”.
Secondo W. Taylor il fine principale della scienza dell’organizzazione era quello di rivelare
le vere potenzialità dell’operaio al lavoro, da esso volontariamente occultate, per
massimizzarne l’uso durante la giornata lavorativa. Egli credeva che gli operai si
adoperavano per riuscire a rallentare il ritmo di lavoro dando pur sempre l’impressione di
lavorare ad un ritmo soddisfacente. L’atto produttivo era il risultato del conflitto fra gli
interessi dell’imprenditore e quelli del lavoratore (carattere dispotico).
1.2.4 Territorializzazione del lavoro e del capitale
I prodotti dell’industria fordista erano destinati ad una certa realtà territoriale
(principalmente nazionale), con le sue caratteristiche morfologiche, con le sue risorse
umane e con i suoi programmi politici ed economici. La realtà della fabbrica taylorista era
quindi legata al territorio. Si può dire che l’industria fordista aveva un’identità nazionale. Il

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mercato era quasi totalmente nazionale (rivolto solo allo stato di appartenenza) o al
massimo multi­nazionale. Questo perché gli stati attuarono politiche parzialmente
protezionistiche. Tali interventi trasformarono la competizione capitalistica mondiale tra
imprese in un competizione tra stati. Oltre a gestire i mercati interni, le industrie più forti
cercavano poi di insediare i mercati altrui. Ogni nazione possedeva le proprie industrie
leader capaci di competere a livello internazionale. In quel periodo vigeva la teoria del
nazionalismo economico, secondo la quale i rapporti economici fra le nazioni sono a somma
zero (al guadagno economico di una corrisponde inevitabilmente la perdita di un altro). In
questo contesto il presidente della General Motors Charles Erwin Wilson poteva affermare
che: “ciò che è un bene per la General Motors lo è anche per gli Stati Uniti”. Considerando
la staticità e la territorializzazione del capitale è possibile affermare che nel modello
fordista­taylorista lo spazio dell’economia e lo spazio della politica (ovvero lo spazio dello
Stato nazionale) tendenzialmente coincidono. L’economia, infatti, influenzò molto
l’organizzazione politica nazionale.

1.3 IL POSTFORDISMO: OVVERO LA CULTURA DEL LIMITE

Il postfordismo (=toyotismo) travolge tutti e quattro le caratteristiche principali del


fordismo, anzi, esso si sviluppa seguendo principi totalmente opposti a quelli tayloristi. Alla
filosofia della crescita si oppone la consapevolezza del limite. Ci si accorge che i mercati
non possono più essere considerati illimitati, poiché si iniziarono a saturare e perché crebbe
la concorrenza a livello internazionale in un mondo ormai divenuto globale. Vi è una netta
separazione fra sviluppo e crescita. Le industrie devono imparare a svilupparsi e ad ampliare
la loro produzione senza dover ingrandire le infrastrutture e soprattutto senza dover
assumere nuovi operai. L’economia mondiale, che negli anni ’50 (epoca del fordismo
maturo) cresceva del 5% annuo, rallentò gradatamente i suoi indici di crescita. All’inizio
degli anni ’90 si fermava al +0,9% annuo. Ciò avvenne nonostante la produttività del lavoro
abbia continuato a crescere con tassi medi pari al 4% annui. Da questi dati è possibile
dedurre che durante il periodo postfordista innumerevoli impiegati persero il proprio posto
di lavoro. Il Ventesimo secolo, che si aprì con la concezione fordista dell’illimitato, si
chiuse con la consapevolezza postfordista di un “mondo finito” in cui l’umanità deve
prendere atto dell’esauribilità di spazi e risorse.
Dall’ambiente naturale arrivarono i primi segni di esaurimento. Le materie prime iniziarono
a scarseggiare, così come le fonti energetiche. Considerando il periodo fra il 1970 e il 1990,
la disponibilità di acqua procapite è diminuita del 30%. La concentrazione atmosferica di
anidride carbonica rispetto a inizio Novecento è salita del 30% (provocando l’innalzamento
di temperatura pari a 1°C). Si calcola che negli Stati Uniti l’inquinamento causi 30000
decessi all’anno. I costi per lo smaltimento rifiuti e per far fronte ai danni ecologici e alla
salute prodotti dalle emissioni inquinanti crescono continuamente. Se nei Paesi
industrializzati la produzione dovette rallentare a causa dei mercati ormai in via di
saturazione, per far fronte all’evidente insostenibilità ambientale dello sviluppo taylorista
non fu possibile allargare i mercati al “resto del mondo”. Il modello fordista non poteva
essere universalizzato (esteso a tutto il mondo).
1.3.1 Mercati globali “limitati”

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La prima sostanziale innovazione del postfordismo rispetto al taylorismo è la limitatezza dei


mercati. I mercati sono ormai diventati globali e la concorrenza a livello internazionale si è
fatta talmente forte da rendere i mercati irrimediabilmente finiti. In un mondo globale i
mercati si saturano molto più velocemente rispetto ai vecchi mercati locali. Mentre nel
periodo fordista il mercato era geograficamente limitato (es una Nazione) ma
commercialmente illimitato, durante il postfordismo il mercato diviene geograficamente
illimitato (tutto il mondo o quasi) ma diventa commercialmente saturabile in tempi medio­
brevi. Quello nuovo è un mercato che non cresce e risulta nella migliore delle ipotesi
stabile, poiché la ricchezza non è distribuita globalmente.
1.3.2 Un caso esemplare: il mercato dell’auto (excursus)
Il fordismo fu “inventato” per produrre auto. L’auto era al centro di tutti i cicli produttivi
(della gomma, plastica, lavorazione dei metalli, cemento per le infrastrutture…). Il mercato
delle auto si evolveva in tempi rapidissimi, con incrementi annui pari anche al 10%, dando
l’illusione della sua illimitatezza. Negli anni ’40 circolavano circa 20 milioni di automobili.
Dopo la Guerra ce n’erano 53 milioni. Negli anni Ottanta si contavano 400 milioni di
esemplari, ma tutti dislocati nel “primo mondo”. Non si era previsto che nei paesi del terzo
mondo non si sarebbero vendute automobili, e tutte le vetture costruite negli anni novanta
erano destinate a sostituire quelle già esistenti in un mercato ormai saturo. Il sogno fordista
di fare di ogni essere umano un possibile acquirente era irrealizzabile: negli anni ’90 solo
l’8% della popolazione mondiale poteva permettersi un auto. Il restante 92% della
popolazione, a causa della disomogenea distribuzione della ricchezza, non poteva assumere
il ruolo di compratore. Non poteva cioè trasformarsi in “mercato”. A limitare i mercati
c’erano anche dei motivi tecnici legati all’eccessivo inquinamento che una grande
diffusione delle auto avrebbe comportato.
1.3.3 Il crepuscolo dei “produttori” e il dispotismo del mercato: verso una razionalità
limitata
Con il postfordismo si ribalta la filosofia del mercato. Mentre nel periodo fordisista la
produttività della fabbrica determinava il consumo, durante il toyotismo la variabile
indipendente diventa il mercato. Sono i consumatori ad influire sul processo produttivo. Il
sistema produzione­consumo viene cioè regolato dal lato consumo e non più dal versante
produzione. La fabbrica si deve adeguare al mercato e non viceversa. La società prende il
sopravvento sulla fabbrica. Se prima la fabbrica poteva programmare il processo produttivo
sul lungo termine, adesso l’instabilità della domanda impone alla fabbrica maggiore
mobilità qualitativa e quantitativa (ovvero la capacità di regolare velocemente i volumi
produttivi). L’industria si ritrova costretta a “navigare a vista”, ovvero a lavorare con tempi
di produzione brevi (ciclo produttivo di poche settimane). La programmazione è a breve
termine, e sono necessari continui aggiustamenti e modifiche per adattarsi al mercato (forte
contrasto con la razionalità del modello fordista). Il produttore toyotista deve saper praticare
una razionalità opportunistica per saper rispondere istantaneamente alle esigenze del
mercato. Non deve saper prevedere le mosse del mercato, ma deve sapersi “arrangiare” nel
momento del bisogno. In un mercato di questo tipo, ogni industria deve preoccuparsi di
controllare la concorrenza ancor prima di guardare ai propri profitti. Deve riuscire ad
ottenere una posizione di vantaggio sulle dirette concorrenti. Alle “vecchie 7 S”(Structure,

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strategy, system, style, skills, staff, superordinate goals regole strategiche fondamentali
proposte da Mc Kirsey) si sostituiscono le “nuove 7 S”:
1. Superior Stokeholder Satisfation = (capacità di soddisfare i clienti);
2. Strategic Soothsaying = capacità di andare al di là delle convenzioni tradizionali;
3. Spped = velocità di manovra;
4. Surprise = un posizionamento in grado di far fronte alle sorprese del mercato;
5. Shifting the rules of competition = saper cambiare costantemente le carte in tavola;
6. Signaling Strategic Intent = segnalare gli obiettivi in modo adeguato;
7. Simultaneus and sequential strategic Thrusts = combinazione strategica di eventi
sequenziali e di eventi simultanei;
Con queste nuove regole D’Aveni dice un paradosso:”Un modo di operare logico deve
essere imprevedibile e irrazionale. Troppa coerenza e logicità rendono prevedibili. Si deve,
almeno all’apparenza, sembrare irrazionali”.
1.3.4 La “lean production”: ovvero l’imperativo di “snellire”
In un mercato limitato non era più possibile ridurre i costi tramite la dilatazione della
produzione. I toyotisti, per ridurre i costi in un periodo in cui i volumi produttivi erano
addirittura decrescenti, dovettero ridurre al minimo gli sprechi. Per far questo si
adoperarono per eliminare i tempi morti di magazzinaggio, le sfasature fra commissione,
produzione e consegna. I tempi di riparazione dei macchinari difettosi dovevano essere
abbattuti. Ogni uomo adibito alla preparazione di una macchina a produzione ferma
influisce direttamente sui costi finali. In sostanza, tutti i settori della fabbrica dovevano
lavorare con una perfetta sincronizzazione per velocizzare al massimo la produzione.
L’industria doveva essere “snellita” del superfluo per ottimizzare la produzione.
Quest’ultima veniva strutturata in piccoli lotti (non più milioni, ma poche migliaia di
esemplari a ciclo). Per ottimizzare i costi, il prodotto doveva essere in continuo movimento
(mantenere i magazzini richiedeva delle spese inutili). I tempi delle scorte, in alcuni
stabilimenti della Toyota, si ridussero a sole 2 ore. Nacque così la filosofia del “just in
time”: far giungere i pezzi esattamente nel luogo e nel momento in cui devono essere
impiegati, azzerando tempi, spazi e manodopera non direttamente produttivi. Come disse
Taijachi Ohno, il padre del “Toyota production system”, il problema di ogni industria
postfordista è quello di riuscire a sopravvivere in un’epoca di crescita lenta.
1.3.5 Toyotismo e taylorismo. Radicalizzazione e superamento.
Il fordismo poneva molta attenzione nello studio delle potenzialità dell'operaio, per poterlo
sfruttare al massimo durante la giornata lavorativa. Ohno pensò di spostare questa
attenzione dal singolo operaio all’intero corpo complessivo dell’impresa. Era necessaria la
valutazione tecnica delle potenzialità globali della fabbrica come sistema. In questo modo
sarebbero potute emergere le inefficienze, le disfunzionalità e gli sprechi, che secondo Ohno
erano sempre causati da un eccesso di manodopera. Una volta individuati questi sprechi,
alcuni addetti avrebbero potuto eliminarli (principalmente licenziando operai), “snellendo”
la fabbrica. È la fabbrica stessa a rivelare la produttività degli operai, mentre nel fordismo
c’erano degli addetti che li cronometravano mentre svolgevano le loro mansioni. La
fabbrica diviene al tempo stesso mezzo di produzione e strumento di controllo (fabbrica
integrata). La fabbrica taylorista divideva nettamente le funzioni di comando e di controllo

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da quelle di produzione. L’utilizzo della forza lavoro veniva quindi razionalizzato a priori,
dall’esterno. La fabbrica integrata, invece, si razionalizza da sola mediante il lavoro. Più i
processi produttivi vengono sincronizzati e più la fabbrica viene ripulita della manodopera
divenuta improduttiva. Mentre con il modello taylorista il numero di operai cresceva con
l’ampliarsi della fabbrica, con il toyotismo la razionalizzazione dell’industria sottolinea gli
sprechi e porta al licenziamento di alcuni dipendenti, creando disoccupazione. Un esempio è
dato dalla campagna della “qualità totale” lanciata nel 1989 a Marentino dal delegato della
Fiat Cesare Romiti. Questo atto portò al licenziamento di 4800 operai. Alla fine del 1993 la
Fiat espulse altri 12000 dipendenti (il 20% del totale). Dal punto di vista qualitativo i
risultati furono scarsi, ma tutto il sistema della forza­lavoro ne uscì rivoluzionato
(magazzini ridimensionati, catena di produzione accorciata). In altre parole, il postfordismo
può essere definito come la radicalizzazione del fordismo, come un fordismo potenziato. La
grande svolta che dettò il passaggio dal taylorismo al toyotismo fu la capacità da parte di
Ohno di rovesciare il punto di osservazione. Prima la produzione veniva vista come un
flusso che da “monte” (cioè dai vari pezzi) va a “valle” (ovvero al prodotto finito). Adesso il
processo produttivo viene visto come un operazione di prelievo, che partendo da “valle” va
a “monte” per prendere solo i pezzi strettamente necessari in quel momento (teoria del “just
in time e kanban”). Viene in pratica sconvolta la filosofia comunicativa. Il ciclo lavorativo
non viene più gestito dall’ufficio di programmazione, ma dalle vendite. Di questo ne è
l’emblema il kanban, ovvero il cartellino con il quale la squadra di produzione a valle
richiede al reparto a monte il numero di pezzi che gli servono. La squadra che riceverà il
kanban manderà a sua volta un cartellino ai suoi fornitori, creando così un vero e proprio
“ordine di poduzione”. In definitiva, nel toyotismo il processo produttivo è organizzato
dall’interno, sono cioè le varie squadre di lavoro che richiedono la produzione di un
determinato numero di pezzi in base alle loro necessità reali. Quello toyotista può essere
definito come un modello bottom­up, in cui le decisioni vengono prese sulla base di ciò che
succede nel mercato. Ciò comporta una continua attività di correzione durante il ciclo
produttivo. Non c’è più una figura centrale che prende le decisioni, ma ogni settore è
chiamato ad operare delle microdecisioni in base alle proprie immediate necessità. Questo
perché i tempi decisionali, in un mercato che obbligava a “navigare a vista”, dovevano
tendere a zero.
1.3.6 Fabbrica monistica ed egemonica
Se la fabbrica fordista era dispotica e dualistica, quella postfordista è egemonica e
monistica. Il taylorismo considerava il conflitto fra imprenditore e lavoratore come una cosa
normale. Il toyotismo voleva eliminare questi conflitti per creare una fabbrica
completamente integrata, in cui il processo di produzione potesse svolgersi in modo
armonico. Questo non solo perché tende a dissolvere l’intero apparato di comando e di
controllo den processo produttivo, ma anche perché cambia il ruolo in esso giocato dalla
soggettività. Se l’iniziativa autonoma dell’operaio arrecava disturbo al modello fordista, con
il postfordismo l’intraprendenza del lavoratore veniva considerata una risorsa. Non a caso,
uno dei principi chiave sul quale si regge il sistema Toyota è proprio “l’auto­attivazione”.
Cambia rapporto fra operaio e macchina. Mentre il fordismo prevedeva il dogma della
continuità assoluta del ciclo lavorativo, all’operaio toyotista viene permesso di intervenire
autonomamente sul processo produttivo. L’operaio poteva, anzi doveva arrestare un

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macchinario qualora lo ritenesse opportuno (es se si accorge che i pezzi prodotti hanno dei
difetti). In questo modo si poteva ridurre al minimo il numero di pezzi difettosi prodotti da
una matrice mal funzionante, al contrario di come avveniva precedentemente (durante il
fordismo i controlli di qualità sui pezzi venivano fatti “a valle” quindi un eventuale
macchinario difettoso creava molti pezzi difettosi prima che venisse accomodato). La
qualità del prodotto veniva così controllata direttamente dagli operai, i quali erano
incoraggiati a proporre le loro idee per velocizzare la produzione. Si può dire che la fabbrica
integrata pone le sue basi esistenziali nella rivalutazione della soggettività operaia. In una
fabbrica che necessita di molta flessibilità perché muta con il mercato, l’auto­
organizzazione diviene indispensabile. Le vecchie squadre vennero rimpiazzate dalle
cosiddette Ute (Unità Tecnologiche Elementari), unità operative composte da pochi operai.
Le Ute si ridistribuiscono spesso fra le macchine disponibili in base alle esigenze
dell’azienda (linee a “U”). La personalizzazione del prodotto viene fatta direttamente sulla
catena di montaggio. a dominare è l’informalità, e ciò prevede un alto grado di integrazione
spontanea dell’impiegato nella fabbrica come comunità. Prevale la “loyalty”, il principio di
fedeltà. I rapporti interpersonali non sono formalizzabili.

1.3.7 Verso un nuovo organicismo industriale


Quello fordista era un modello meccanico: ognuno ha il proprio ruolo, che deve svolgere
limitatamente al suo reparto lavorativo (ripetizione meccanica del solito gesto). L’operaio
toyotista può invece godere di una relativa autonomia perché la utilizzerà per il bene della
fabbrica. Questo può succedere solo se l’operaio è perfettamente integrato nella fabbrica e
se non esiste alcun dualismo di interessi (gli interessi dell’operaio devono coincidere con
quelli della fabbrica). L’operaio postfordista deve sentire la fabbrica come parte della
propria identità. Solo con questi presupposti può essere auto­attivo e partecipe. Il passaggio
fra il fordismo e il postfordismo è stato agevolato dalla sconfitta del movimento operaio. Il
lavoratore rinuncia al suo ruolo di “antagonista” e perde la sua autonomia. La caduta del
sindacato è conseguenza della rivalorizzazione del fattore umano all’interno del processo di
lavoro. La fabbrica chiede ai lavoratori maggiore partecipazione e cooperazione.
1.3.8 Tra integrazione e liberazione
In “Lavoro e libertà nell’Italia che cambia”, Bruno Trentin spiega che, alla luce del nuovo
ruolo assunto dall’operaio nella fabbrica, al centro dell’attenzione sindacale non doveva più
comparire la lotta per salari più alti. I sindacati dovevano piuttosto occuparsi delle
condizioni di lavoro, della sicurezza e della salute dell’operaio e della sua libertà di
realizzarsi anche nel mondo del lavoro. Anche se la fabbrica postfordista voleva
rivalorizzare l’operaio in quanto persona con una certa soggettività, la persona che lavora in
fabbrica non godeva di piena libertà e indipendenza (come rivendicano i movimenti operai);
era piuttosto una persona “amputata” nel proprio orizzonte e ridotto al piano di fabbrica. La
soggettività di cui gode il lavoratore postfordista è comunque limitata all’interno
dell’impresa. L’operaio resta sempre una “merce” impiegata nella produzione di merci.
L’operaio fordista, scrive Gramsci in “Americanismo e fordismo”, doveva ripetere
meccanicamente dei gesti durante tutto l’orario lavorativo. La sua visione di “industria”
finiva nel suo reparto. Gramsci annota che gli industriali americani sapevano benissimo

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“che l’operaio ’purtroppo’ rimane uomo e persino che egli, durante il lavoro, pensa”. I
postfordisti, contrariamente, ritengono una fortuna che l’operaio rimanga innanzi tutto un
uomo, poiché diventa possibile sfruttare, oltre al loro corpo (forza­lavoro), anche la loro
capacità di pensare. Ogni aspetto fisico e mentale dell’operaio è da destinarsi alle necessità
dell’impresa.
Proprio perché è egemonica e non dispotica, monistica e non dualistica, organica e non
meccanica, l’industria postfordista non mantiene dei rapporti negoziali con la propria forza
lavoro (non vi entra in contrasto a causa di interessi contrapposti per poi scendere a
compromessi). Con l’indebolimento dei sindacati la speranza di un’effettiva democrazia nei
luoghi di lavoro venne meno. Secondo Coriat, alla base del nuovo modello produttivo c’è un
intreccio fra democrazia e ostracismo. La democrazia consiste nel fatto che la direzione
della produzione è ampliamente internalizzata e cogestita da industriali e operai.
L’ostracismo come tecnica di controllo sociale è possibile proprio perché la struttura è
democratica e perché i compiti di controllo sono affidati agli stessi gruppi di lavoro. La
struttura può permettersi di essere democratica perché le squadre hanno interiorizzato i
principi dell’industria al punto tale da praticare l’ostracismo nei confronti degli individui
devianti (che si ribellano all’azienda).
1.3.9 Contraddizioni del modello postfordista
Anche il nuovo modello produttivo presenta delle contraddizioni e delle vulnerabilità.
1.3.9.1 Prima contraddizione
Una fabbrica integrata, sfruttando anche la soggettività dei lavoratori, si ritrova costretta a
dipendere da questi ultimi. Se la fiducia e la motivazione dei lavoratori diminuiscono, la
fabbrica ne risente negativamente. Il giudicare la produttività di un operaio diventa difficile
(mentre prima si misurava cronometrandolo durante lo svolgimento delle sue mansioni). A
livello manageriale la gestione della forza­lavoro si complica. Lavorando secondo la logica
del “just in time” non né possibile standardizzare la produzione giornaliera. Inoltre,
lavorando con margini di magazzino molto ridotti (autosufficienza di poche ore), un
qualsiasi problema sia interno alla fabbrica (es. si guasta un macchinario o va via la
corrente) che esterno (es. ritardo di un mezzo di trasporto) può mettere in crisi l’intera rete
produttiva. Per lo stesso principio, potevano essere creati grandi danni al processo
produttivo da parte di un qualunque gruppo di lavoro, qualora questo smettesse
volontariamente di produrre. Gli scioperi attribuivano pertanto un elevato potere di
interdizione agli operai, così come avveniva nel fordismo maturo (fine anni ’60). Mentre
durante il fordismo i movimenti operai creavano disagio solo all’interno di un’industria,
entro la quale si svolgeva tutto il processo produttivo, nel periodo toyotista il ciclo
produttivo era diviso in molti stabilimenti dispersi nel territorio e aventi proprietari diversi.
La probabilità di una rivolta operaia era indubbiamente maggiore. La crisi di anche un solo
sub­fornitore bloccava il lavoro di tutti gli altri, in particolare di quelli a “valle”. L’industria
“cliente” si vide costretta ad esigere garanzie sempre maggiori sull’affidabilità della forza­
lavoro dei propri sub­fornitori. I ritardi dei sub­fornitori venivano puniti con clausole di
penalizzazione sempre più pesanti dai grandi gruppi industriali.
1.3.9.2 Seconda contraddizione
I valori dell’iniziativa industriale,dell’auto­attivazione e della mobilizzazione produttiva
introdotti dal toyotismo ( valori che il fordismo reprimeva), all’atto pratico vennero

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applicati solo in parte. Per quanto venne pubblicizzata l’orizzontalità della comunicazione
(tutti erano sullo stesso piano), l’organizzazione del lavoro continuava a funzionare secondo
criteri strettamente gerarchici. L’operaio continuava ad avere margini di intervento limitati
sulla progettazione del prodotto e sulle scelte tattiche (programmazione di medio e lungo
periodo) e strategiche dell’azienda. La rotazione del lavoro (come nelle linee a “U”) si
rivelò pertanto futile. Il principio dell’auto­attivazione predicato da Ohno fece solo
incrementare i controlli sulle mansioni lavorative. All’operaio rimaneva in sostanza il suo
storico ruolo unicamente esecutivo.
La struttura ramificata del processo produttivo fa perdere l’identificazione territoriale
dell’industria ai lavoratori. I settori organizzativi, nell’ottica del mercato globale, potevano
distare anche di molti chilometri dai settori operativi. Il sistema toyotista, che si era preposto
di ridurre al minimo le distanze fra imprenditore e operaio, portando entrambi sullo stesso
piano e rivalorizzando l’aspetto umano e soggettivo del lavoratore salariato, all’atto pratico
aveva esponenzialmente aumentato la loro distinzione, dislocando settore operativo e settore
organizzativo non più nello stesso stabilimento (come avveniva nelle industrie fordiste) ma
in sedi diverse e spesso lontane tra loro.
1.3.9.3 Terza contraddizione
La terza contraddizione riguarda il rapporto tra fabbrica integrata e mercato del lavoro.
Mentre con il modello fordista era l’incremento della produzione, legato alla crescita
occupazionale, ad abbassare i costi, nella fabbrica postfordista per ridurre i prezzi veniva
ridotto al minimo indispensabile il numero dei dipendenti. L’industria toyotista cresce in
termini di produzione riducendosi in termini di occupazione. Non a caso, il numero dei
disoccupati in Europa fra il ’70 e il ’90 è passato da 6 a 19 milioni, benché il PIL sia
cresciuto in media del 2% annuo. La riduzione così drastica del numero di operai nelle
fabbriche è dovuta principalmente all’adozione sempre più massiccia dell’automazione
ricorsiva, ovvero al largo impiego di macchinari nella produzione di altri macchinari (es.
utilizzo di robot nella produzione di altri robot). Tali macchinari rendono possibili
incrementi di produttività che si aggirano intorno al 30% annuo. Anche alcuni aspetti del
lavoro nel settore della Pubblica Amministrazione stanno subendo un processo di
automazione.
Queste tre contraddizioni, tendenzialmente dirompenti, rimangono tuttavia allo stato
potenziale perché non esiste nessuno al giorno d’oggi (cioè quando è stato scritto il saggio)
in grado di attivarle. I movimenti operai non appaiono capaci di reintrodurre la logica del
conflitto fra imprenditore e operaio tipica del fordismo mediante forme di resistenza
organizzata a causa del periodo di crisi organizzativa che stanno attraversando. Le
conseguenze di una trasformazione produttiva sul piano politico sarebbero importanti. Si
romperebbe il rapporto di negoziazione che vige fra partito di massa, sindacato generale e
stato sociale. Si ridurre il pluralismo politico. Lo stato si trasformerebbe da strumento di
mediazione sociale quale era, in un apparato di gestione finanziaria.

2 DISAGIO DELLA CIVILTÀ E LE FILOSOFIE ANTIPOSITIVISTE

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2.1 IL DISAGIO DELLA CIVILTÀ


La seconda rivoluzione industriale si sviluppa in Occidente fra il 1895 e il 1913. Anche
l’Italia entra in una fase di decollo industriale particolarmente intensa fra il 1895 e il 1913.
Nacque così la società di massa.
Lo sviluppo della società di massa viene chiamato da Freud “disagio sociale”, poiché ad
ogni miglioria tecnica o sociale corrisponde un disagio fra le classi sociali ed un’angoscia
individuale. Il Novecento è quindi il secolo dell’ansia e dell’angoscia. L’angoscia provoca
depressione. Einstein elaborò la teoria della relatività generale, secondo la quale spazio e
tempo sono una struttura unica e sono in stretta relazione con le masse in essa presenti. Ciò
portò da una concezione oggettiva dello spazio e del tempo ad una concezione soggettiva.
Spazio e tempo sono cioè relative al soggetto. Vengono introdotti i temi del sogno, del
conflitto padre­figlio (il figlio si sente oppresso dall’autorità del padre). Il tema della
ribellione del figlio al padre ha come significato anche quello di desiderio di cambiamento,
che può avvenire anche cruentamente (con trasformazioni politiche o guerra). Con la
Grande Guerra, che aveva carattere globale, l’eroismo del singolo soggetto perse di
significato. Ogni soldato si univa agli altri per formare una massa anonima e
spersonalizzata. Il letteratura i protagonisti diventano quindi persone comuni (impiegati),
tutti uguali tra loro che vivono un’esistenza anonima. I valori personali vengono quindi
nascosti dalle leggi del mercato e dalla società di massa. L’arte stessa diventa merce.
L’uomo vive in permanente estraneità rispetto alle cose (si distacca dal mondo).

2.2 FILOSOFIE ANTI­POSITIVISTE


Alla fine dell’Ottocento si creano delle correnti di pensiero che criticano la cultura
positivista. Alla razionalità e alla scienza viene opposta la forza della spiritualità e
dell’intuizione. Si passa da una concezione oggettiva e scientifica della verità ad una
concezione soggettiva propria di ogni soggetto e quindi non dimostrabile.
Pragmatismo: nell’analisi di un oggetto non conta solo l’apparenza ma anche gli effetti che
l’oggetto può produrre nel presente e che influenzeranno il futuro. Viene quindi introdotto il
problema del rapporto conoscenza scientifica e la sua utilità per la società. Nietzsche,
Bergson, William James e John Deway sono pragmatisti anglosassoni.
2.2.1 Schopenhauer
È un antipositivista:
1) critica alla ragione
2) rifiuto del progresso e della vita sociale a favore di un ascesa personale (l’affermazione di
poche persone elettesoggettivismo e individualismo)
3) esaltazione dell’arte, poiché trasmetteva volontà di vivere all’uomo.
2.2.2 Nietzsche
È un “maestro del sospetto”, voleva cioè distruggere tutte le basi su cui si fondavano le scienze e la
religione, nei quali ricercava un secondo significato psicologico, sociale o istintivo. Mentre il
positivismo utilizzava gli studi effettuati sui fatti accaduti come fondamento di verità, Nietzsche
riteneva che degli avvenimenti era importante l’interpretazione (soggettiva). Nella sua opera:
“Nascita della tragedia”, afferma il primato dello spirito sionistico (dal Dio Dioniso, espressione

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della vita istintuale) sullo spirito apollineo (da Apollo, Dio dell’armonia e della perfezione della
forma).
Riteneva inutile lo studio della storia, poiché il passato era non era altro che un insieme di episodi
distinti tra loro e senza un nesso che li colleghi. L’unica legge esistente è quella dell’eterno ritorno,
ovvero quella della ciclicità della vita (il ripetersi delle stagioni, della vita e della morte…). L’uomo
deve quindi imparare a vivere la pienezza dell’attimo.
Il frazionamento del tempo comporta anche un distacco dalla religione. Quest’ultima infatti tiene
conto del comportamento della persona nell’arco di tutta la vita. Abbandonata la morale cattolica ed
ebraica, Nietzsche ipotizza la morte di Dio. In seguito a questo evento sulla terra regnerà il
Superuomo, un uomo superiore al normale di provenienza aristocratica. Il Superuomo saprà vivere
l’attimo e ricercherà la potenza, la vita infinita. Il Superuomo, basandosi su istinti animaleschi,
disprezza il popolo, che deve essere sottomesso. Si sente una rarità superiore.
2.2.3 Bergson
Secondo Bergson è attraverso l’intuizione che si apprende (centralità della intuizione nel campo
della conoscenza). Attraverso l’intuizione si oltrepassano i limiti della scienza e si giunge alla
realtà.
Bergson critica il modo in cui la scienza giudica il passare del tempo. Secondo lui, infatti, il tempo
non si può misurare con unità di misura che lo spezzetterebbero (es secondo, giorno, anno…), ma
va visto come un continuum, ovvero come un susseguirsi di avvenimenti inseparabili tra loro. La
memoria assume un valore di durata interiore e serve a conservare il passato. L’agire secondo
l’istinto prevale sulla razionalità.
2.2.4 Dilthey
Era tedesco. Sosteneva che le scienze della natura (tendono alla determinazioni di leggi generali) e
le scienze dello spirito (presuppongono un processo di comprensione influenzato dall’esperienza
culturale e storica di chi compie l’indagine soggettiva) fossero distinte. Il mondo della natura
serve a spiegare, quello dello spirito a comprendere. La scienza dello spirito sono la ricerca alla
comprensione della vita.
2.2.5 Durkheim e Weber
La sociologia è nata con il positivismo. Secondo Durkheim la società può diventare una scienza
solo se perde la sua vaghezza, ovvero se si rivolge al fatto sociale specifico, e non genericamente
alla società.
Weber era uno studioso del capitalismo, ed aveva idee contrastanti a quelle di Karl Marx. Nel libro
“L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” Weber illustra come i protestanti abbiano molta
dedizione al lavoro per motivi religiosi. La disponibilità a lavorare, unita al disincanto del mondo
(ovvero abbandono della religiosità), viene vista da Weber come la forza alla base del capitalismo
moderno.
2.2.6 Freud e la psicoanalisi
Nel 1900 (anno dal valore simbolico, in quanto inizio di un secolo), il medico austriaco Freud
pubblica il libro “L’interpretazione dei sogni”.
Il termine “psicoanalisi”, inventato da Freud, indica un nuovo metodo di interpretare l’attività
psichica dell’uomo attraverso la ricerca ed il metodo terapeutico (utilizzando metodi il più possibile
scientifici).
Nei suoi studi della psiche, Freud utilizza il metodo catartico. Quest’ultimo consiste nel partire dallo
studio dall’effetto (dal sintomo), per poter risalire all’episodio che lo ha generato ed aiutare così il
paziente a guarire dal suo disturbo mentale. I sintomi di un problema, così come il contenuto
manifesto dei sogni (cioè quello che il paziente si ricorda una volta svegliato), vanno considerati
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come una forma di difesa che consentono di trovarne la causa e quindi di guarire  sono una via
d’accesso all’inconscio.
Nell’opera “io e l’Es”, Freud dice che all’interno di una persona convivono tre personalità (Io, Es e
Super Io), che sono in relazione tra loro:
1. Io: è la realtà della coscienza, ovvero la ricerca di equilibrio della personalità
2. Es: la realtà dell’inconscio, ovvero gli impulsi irrazionali e istintivi
3. Super­Io: insieme di regole (consapevoli e inconsapevoli) che l’individuo ha
acquisito dall’autorità dei genitori e dalle proprie radici
L’Io deve armonizzare e gestire gli impulsi e le forze che l’Es esercita rispettando divieti e le norme
sociali del Super­Io. L’Io segue un continuo processo di maturazione e di padronanza di se stesso.
La parte inconscia rappresenta il luogo dei desideri, dell’egoismo e della volontà di potenza e
godimento.
2.2.7 Jung
Lo svizzero Jung era un allievo di Freud che si distaccò da quest’ultimo fondando una nuova
corrente di pensiero. I motivi della rottura vanno ricercati nella tendenza di Jung a sottovalutare gli
aspetti sessuali e ad attribuire importanza a quelli sociali, culturali e simbolici. Questi ultimi,
secondo Jung, influenzano l’inconscio. Jung elabora la teoria degli “archetipi dell’inconscio
collettivo”, secondo la quale l’uomo ha delle caratteristiche che provengono dal passato.

3) LE AVANGUARDIE

3.1 CARATTERISTICHE PRINCIPALI

• L’arte diventa l’espressione dell’inconscio (opposizione al Naturalismo e al


Decadentismo)
• L’arte non è più un’esclusiva degli intellettuali
• Con il termine arte si intendono pittura, letteratura, musica, teatro ecc.
• L’arte diventa internazionale
Il primo movimento del Novecento è l’Espressionismo, che si diffuse in modo diverso nei
Paesi europei. In arte, l’espressionismo (i singoli particolari sono autonomi e quindi
interpretabili soggettivamente) si contrappone all’impressionismo (alcuni particolari non
possono essere interpretati, sono cioè oggettivi). L’Espressionismo trova le sue basi
culturali in Nietzsche e in Bergson. In letteratura, i temi predominanti sono quelli della città
mostruosa e delle macchine industriali che provocano angoscia. Un’esponente
espressionista è Pirandello. Il poeta non è più un elite ma diventa un piccolo borghese. Il
lessico si semplifica e proviene da ogni livello sociale.

3.2 IL FUTURISMO: L’ESALTAZIONE DELLA MACCHINA

Il Futurismo si diffuse sotto la forma del Manifesto. Fu l’unica vera avanguardia italiana.
Raccoglieva la classe piccolo­borghese. Come le altre avanguardie europee aveva un aspetto
antiborghese, ma in misura meno accentuata. In alcuni casi i Futuristi si comportarono come

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le avanguardie borghesi. I futuristi esaltavano la macchina, la tecnica, l’industria,


l’aggressività, la velocità e il nuovo in generale. C’è quindi un’esaltazione del presente
legata all’abbandono del passato e alla distruzione di tutto ciò che avrebbe potuto
richiamarlo (come musei, accademie, biblioteche ecc). Il valore dell’uomo di cultura non sta
più nel rispetto dei valori passati, ma nell’anticipazione del futuro. L’esaltazione dell’azione
porta alla glorificazione della guerra  richiamo a Nietzsche (amore per la guerra; azione
violenta; celebrazione degli istinti). Il primo Manifesto futurista venne prodotto da Marinetti
il 20 febbraio 1909. Prima fase (1909­1912): In questo periodo l’influenza del simbolismo è
ancora forte. Viene adottato il verso libero. Rifiuto della poesia romantica e decadente.
Seconda fase (1912­1915): si apre con il manifesto tecnico (racchiudeva una parte
costruttiva (esaltazione del potere dell’intuizione) e una distruttiva (distruzione della
sintassi)). Viene proposto un nuovo tipo di uomo completamente meccanizzato. Il verso
libero viene sostituito con la tecnica delle parole in libertà (niente
punteggiaturadistruzione della sintassi). Terza fase (1915­1920): Si schierano con gli
interventisti (vedono nella guerra uno strumento per promuovere l’invenzione di nuove
macchine e di selezione dei popoli più forti). Si organizzarono in un partito politico. Nel
1920 ci fu una rottura fra Marinetti e Mussolini, ma molti futuristi seguirono quest’ultimo. I
futuristi esaltano la mercificazione dell’arte, e la vorrebbero rendere accessibile a tutti (es.
cinema gratuito).

3.3 LE ALTRE AVANGUARDIE

3.3.1 Il Dadaismo
Il Dadaismo si sviluppò fra il 1916 e il 1922. Il termine “dada” significa giocattolo, e venne
scelto aprendo a caso un dizionario. Si sviluppò a Zurigo, dove nacque il Cabaret Voltaire
(=centro di intrattenimento artistico). Nel 1918 Tzara scrisse il Primo Manifesto dadaista. I
caratteri principali del’avanguardia dadaista sono:
• Rifiuto dell’umanesimo
• l’arte non ha un potere conoscitivo, bensì si identifica con la menzogna
• rifiuto del culto della novità tipico del Futurismo
• rifiuto dell’estetismo (la bellezza non era più apprezzabile poiché ormai era diffusa
dappertutto. L’estetizzazione diffusa aveva ucciso l’arte)
• rifiuto del simbolismo nel linguaggio. Il linguaggio viene usato in modo
anticonformistico e scherzoso
3.3.2 Il surrealismo
Il Surrealismo nacque da una rottura all’interno del movimento dadaista. Breton (il
fondatore) scrisse il Primo Manifesto del Surrealismo nel 1924. Il termine Surrealismo
significa realtà superiore, e viene quindi identificato con l’inconscio. L’inconscio viene
visto come il punto di incontro fra razionalità e irrazionalità, senza alcuna contraddizione
interna. I temi del piacere, del desiderio e del “pensiero selvaggio” sono ricorrenti. Venne
proposta la scrittura automatica, che consisteva nello scrivere o nel fare arte durante uno
stato si semi­ipnosi, così da poter esprimere gli automatismi del proprio inconscio senza

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influenzarli con la razionalità. Vengono analizzate le opere dei malati mentali e dei bambini.
L’inconscio esprimeva una verità immediata e priva di contraddizioni.

3.3.3 I Crepuscolari (tra cui Govoni e Palazzeschi), benché non costituissero


un’avanguardia, avevano degli elementi tipici di quest’ultima:
• il poeta perde la sua superiorità e la sua figura viene criticata. Viene equiparato ad un
piccolo­borghese. Essere poeta diventa quasi una vergogna.
• rifiuto dell’estetismo e dell’arte come modello superiore
• uso dell’ironia nella poesia e repulsa del pathos lirico
• rottura con il passato
la metrica tradizionale viene ironizzata, e viene introdotto il verso libero. Il lessico è
popolare. Paesaggi e personaggi sono anch’essi di ambito popolare.
3.3.4 I Vociani criticavano l’estetismo decadentista. Fanno appello alla propria morale
(=moralisti). Si rifacevano agli espressionisti. Volontà di unire letteratura e cultura, politica
e vita vissuta. Volevano che l’arte trasmettesse delle sensazioni e delle informazioni in
maniera immediata. Per questo motivo abbandonarono le forme del romanzo, della novella e
della poesia, per utilizzare il frammento (fusione fra poesia e prosa poème en prose). Il
frammento espressionistico mirava alla sintetizzazione dei concetti e ricercava parole sature
di significato. La frammentazione serviva ad arrivare subito al succo del discorso. Il lessico
andava dal dialetto locale al linguaggio specialistico (mescolamento di termini). Le parole
venivano usate in coppia per rafforzarne il significato (es. gonfio­ricolmo). Erano
autobiografici (l’unica realtà rappresentabile è quella che appare al soggetto).

4 BIBLIOGRAFIA
1 Saggio “Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo” – Marco
Revelli, tratto dalla raccolta di saggi: “Appunti di fine secolo” di Pietro Ingrao e Rossana
Rossanda.
Del saggio “Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e toyotismo” sono stati
trattati i capitoli: “Fordismo, ovvero la cultura della crescita illimitata” e “Il postfordismo:
ovvero la cultura del limite”
2 Manuale: “La scrittura e l’interpretazione” volume 3 tomo primo parte dodicesima capitoli
1 e 2.

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