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PROTOGEOMETRICO ARTE GRECA Storia dell'arte greca 1194 – 1050 a.C.

Per circa 150 anni, dopo la caduta di Troia (1194-1193), si assiste ad una serie di rivolgimenti in Grecia.

1100  Ritorna un Periodo di quiete, dopo il crollo dei palazzi micenei.


Le popolazioni si disperdono in tutti i territori (migrazioni).
• Calo del tono culturale ridotto alle espressioni essenziali (oggetti d’uso elementare, rame, bronzo, poco
ferro, argilla, pietra, legno, lana, cuoio, pelli, vimini, osso)
• Diminuzione delle forme dei vasi (dai 68 del periodo miceneo ad una decina).

1050 – 900 a.c. ETA’ PROTOGEOMETRICA


Si dice che la cultura protogeometrica abbia avuto inizia in Tessaglia o ad Atene: ad Atene trova la
manifestazione più caratteristiche e da lì si diffonde.
Ceramica(ritrovata in tutta la Grecia, Atene e Attica, ed esportata a Cipro, Cilicia, Siria, Palestina):
• Le forme dei vasi risalgono a 17, su imitazione di quelli tardo micenei, ma il processo per rendere
autonome le forme e le decorazioni e molto rapido.
La ceramica presenta una sostanziale uniformità sia nella decorazione sia nella forma, al di là del luogo di
produzione.
• Vasi lavorati al tornio, ricoperti di vernice che in cottura diviene nera o bruna. Oppure di colori chiari, in
terracotta.
La vernice usata consiste in una soluzione di minuti granelli della medesima argilla del corpo del vaso.
Bruciando essi assumono il colore nero a causa delle reazioni chimiche degli ossidi di ferro contenuti
nell’argilla. Il corpo del vaso, più granuloso, riceve l’ossigeno nella fase finale della cottura. Il ferro si
trasforma in ossido di ferro rosso – arancio, ma i granelli più sottili della vernice formano uno strato sigillato
nel quale l’aria non riesce a penetrare; l’ossido ferroso rimane di colore nero creato nel precedente stadio
di cottura.

STILE PROTOGEOMETRICO RIASSUNTO


Le ceramiche sono caratterizzate da vasi lavorati al tornio, ricoperti da una vernice che in cottura diventa
nera o bruna, rinvenuti in tombe a inumazione o a cremazione come corredo.

• Forme: caratteriste di una società dai bisogni elementari.


1. Vasi per contenere liquidi: anfore;

2. Vasi per raccogliere liquidi: hydrie;


3. Vasi per mescolare acqua e vino: crateri;

6. Vasi per bere: Kantharoi;

4. Vasi per versare acqua o vino: oinochoai;

5. Vasi per versare olio: lekythoi;

7. Vasi per conservare oggetti solidi e preziosi: pissidi.


8. Il vaso protogeometrico ha pareti solide, ventre capace, orlo spesso, piede espanso.
Ripartizione in 3 parti: collo, spalla, ventre. Statica piena e robusta.
• Decorazione: riduzione a schemi geometrici del motivo naturalistico, che diviene simbolo di
un’originaria forma naturalistica, ma rimane sempre, nella fantasia dell’artigiano, forma vivente e naturale
(anche se rappresentata in modo astratto).
Eseguita mediante un calcolo accurato: misurazione della superficie pittorica e calcolo di quali elementi
potevano essere contenuti in essa. I cerchi eventualmente presenti sulla superficie sono tracciati con il
compasso.
I periodi dell'arte greca: riassunto

FUNZIONE VASI PROTOGEOMETRICI


• I vasi non si diversificavano mai secondo una scala di valori, il valore era dato dalla grandezza e dalla
maggiore o minore decorazione: coincide con il tempo necessario alla produzione.
Anfora ateniese da Atene (Atene, Museo del ceramico). Pag.24
Skyphos ateniese da Atene (atene, museo del ceramico). Pag. 24

TERRECOTTE:
• Ex-voto offerti nei santuari (piccole statuette di terracotta): rappresentano figure umane,
essenzialmente femminili, ma soprattutto animali (tori, cavalli, cervi) o figure mitiche (centauri).
Centauro in argilla di Lefkandi (Eretria, Museo). Pag. 24
Sepolture:
• Gli oggetti di corredo rinvenuti documentano una sostanziale omogeneità nel modo di vivere.
• Spesso non sono segnalate sul terreno, testimonianza che non esisteva il desiderio di distinguere i
defunti. Si tratta di una civiltà di massa e un’organizzazione politica ed economica semplice e livellata
dall’isolamento e dal bisogno.
• Consuetudine di cremare i morti, forse diffusasi da Atene.

ARCHITETTURA:
• La dispersione della popolazione in nuclei di poche migliaia di abitanti facilitò la nascita di formule
urbanistiche e tipi architettonici diversi.

• Avanzi di città sono evidenti nella CRETA CENTRO-ORIENTALE:

 KARPHI, fondata intorno al 1100 a.C., circondata da montagne.


Formata da case di pianta quadrangolare di un solo
ambiente, disposte su terrazze. Si concentravano
intorno all’edificio più potente della città, con più
ambienti, accanto al quale si trovavano magazzini-
deposito di prodotti agricoli per tutta la comunità.
• Edifici: case formate da un solo ambiente, dalla
pianta ovale, dalle misure varie, destinate ad una
famiglia. Coperte da un tetto di legno e paglia, con
zoccoli di pietra e mura di mattoni crudi.
• Edifici di culto: scarsissimi.

 HEROON rinvenuto a LEFKANDI (EUBEA) databile intorno al 1000 a.C.

L'Heroon rinvenuto a Lefkandi, in Eubea, è


di fondamentale importanza per la
ricostruzione dell'evoluzione delle forme
dell'edificio di culto. L'edificio è datato alla
prima metà del X secolo a. C., ha una
pianta rettangolare (~45/50m) absidata
accessibile dal lato corto tramite
un'anticamera.

L'insediamento si trova su un promontorio che domina l'Euripos, con piccole baie che formano porti
naturali ed est e ad ovest del sito. I cimiteri si trovano sulle alture a nord-ovest e sono stati chiamati
Cimitero Est, Skoubris, Palia Perivolia, Toumba, oltre a piccoli gruppi di sepolture. Il sito si trova tra le due
principali antiche città dell'isola, Calcideed Eretria. Gli scavi in loco sono eseguiti sotto la direzione della
British School ad Atene, e proseguono dal 2007 (con precedenti campagne nel 1964-68, 1981-84).

L'occupazione di Lefkandi può essere fatta risalire all'inizio dell'età del bronzo, essa proseguì per tutta l'età
del ferro per terminare all'inizio del periodo arcaico (inizio del VII secolo a.C.).
I cimiteri conosciuti coprono solo parte dei periodi in cui il luogo fu abitato, a partire dal submiceneo e per
tutto il protogeometrico (ca. 1050-800 a.C.). L'abbandono di Lefkandi coincise con la nascita della vicina
Eretria, ed è stato ipotizzato che si trattasse, a tutti gli effetti, della vecchia Eretria.

Contributo di Lefkandi all'archeologia


L'importanza del sito è dovuta ad una quantità di fattori. Per prima cosa, lo strato di occupazione del
periodo Tardo Ellenico del complesso IIIC (ca. 1200-1100/1075 a.C.) scavato negli anni Sessanta ha
permesso di recuperare una serie di ceramiche di quel periodo, fino a quel momento insufficientemente
conosciuto. L'insediamento IIIC è anche in contrasto con altri siti della Grecia, quali il Peloponneso, dove
molti siti furono abbandonati alla fine del LHIIIB (ovvero alla fine del periodo palaziale miceneo), condizione
che pone Lefkandi tra i siti della Grecia centrale che vantarono un'importante occupazione post-palaziale,
quali Mitrou (l'insediamento), Kalapodi (il santuario) e Elatea (il cimitero).
Heroon

Il significato archeologico del sito si è rivelato nel 1980 quando fu scoperto un grande tumulo che
conteneva i resti di un uomo e di una donna all'interno di una grande struttura chiamata da alcuni heroön,
o "tomba dell'eroe". L'applicabilità del termine all'edificio è discussa, trattandosi della sepoltura della
coppia che aveva precedentemente occupato la struttura abitativa e che doveva aver rivestito una
particolare importanza sociale. La costruzione di questo monumento in legno e argilla cruda, sorto attorno
al 950 a.C., lungo 50 metri e largo 13,8, con il suo portico in legno, prefigura l'architettura canonica del
tempio come apparve circa due secoli dopo.
Le sue dimensioni sono superiori alla media delle coeve strutture abitative trattandosi probabilmente della
dimora di un basileus locale; è costituita da una sequenza longitudinale di ambienti: portico, vestibolo,
megaron di rappresentanza, area domestica e tre ambienti più piccoli destinati alla conservazione delle
derrate alimentari o degli oggetti di maggior valore, che coinvolgono l'area absidata. Nell'ampia area
domestica è stata predisposta in un secondo momento la sepoltura della coppia proprietaria dell'edificio,
che venne abbattuto e trasformato in un grande tumulo funerario e attorno al quale si sviluppò
successivamente una necropoli.

Uno dei corpi ritrovati nella tomba era stato cremato, e le sue ceneri erano poste in un telo di lino
frangiato a sua volta inserito in un'anfora in bronzo proveniente da Cipro. L'anfora era incisa con scene di
caccia e posta in una boccia di bronzo ancora più grande. Una spada ed altri oggetti si trovavano nelle
vicinanze. Si crede che le ceneri fossero quelle di un uomo.

Il corpo della donna non era cremato. Si trovava lungo un muro ed era ornato con gioielli, tra cui un anello
di elettro, un bracciale in bronzo ed una gorgiera che si crede provenire da Babilonia, già vecchia di mille
anni quando fu sepolta. Un coltello di ferro con un manico d'avorio fu trovato vicino alla sua spalla. Non si
sa se la donna fu sepolta contemporaneamente con l'uomo, o più tardi. Gli studiosi hanno ipotizzato che la
donna sia stata uccisa per poter essere sepolta con l'uomo, forse suo marito, con una pratica tipica del
costume indiano del sati. Alcune donne studiose hanno fatto notare la mancanza di prove che
dimostrerebbero l'effettivo uso del sati, ed ipotizzano invece che la donna sia stata un'importante persona
nella comunità, e che fu sepolta con le ceneri dell'uomo dopo la sua morte.

Sembra che quattro cavalli siano stati sacrificati e siano stati inseriti nella tomba. Alcuni di loro indossavano
morsi di ferro in bocca.

Xeropolis

Le ricerche archeologiche hanno portato alla luce un insediamento in cui si può dimostrare un'ininterrotta
occupazione dal miceneo agli Anni Bui.[4] È stato ipotizzato che il sito sia identificabile con la vecchia
Eretria, e che sia stata obbligata a trasferirsi a Calcide in seguito alla guerra lelantina.
IL PERIODO GEOMETRICO
è convenzionalmente quello più antico in cui si trovano le prime forme di reperti e di arte. Viene chiamato
geometrico per le sue caratteristiche forme rigide e stilizzate, che mostrano una capacità tecnica ancora in
evoluzione e alle prime armi, che si concentra più sulla funzione che sulla bellezza, anche se capace di
stupire per la loro complessità.

Questo periodo viene convenzionalmente diviso in 4 sottoperiodi non tanto per una necessità cronologica
ma più per una necessità di catalogazione e di individuazione di un criterio evolutivo interno. Questi
periodi sono:

1. stile protogeometrico (1050-900 a.C.);


2. stile geometrico antico (900-850 a.C.);
3. stile geometrico medio (850-760/750 a.C.);
4. stile geometrico tardo (760-750/700 a.C.).
La scultura: bronzetti olimpici

Generalmente la scultura greca tradizionale iniziava nel VIII secolo a.C., ma ora dopo molte ricerche e
grazie alle nuove tecnologie si può risalire fino all’ultimo quarto del X secolo a.C.

Molto prodotti e commerciati erano piccole statue di bronzo, argilla o avorio, raffiguranti esseri
appartenenti alla mitologia come il Centauro di Lefkandi, risalente al periodo compreso tra il
protogeometrico ed il geometrico antico. Il mercato più florido era però quello degli oggetti votivi destinati
ai santuari e successivamente, nell’ VIII secolo a.C., con la nascita delle Olimpiadi, la vendita dei tripodi
bronzei con le loro relative decorazioni.

Tra questa molto diversificata produzione negli anni prendiamo ad esempio il bronzetto raffigurante un
conducente di carro e parte del carro custodito nel Museo dei Giochi Olimpici di Olimpia. Con questo
bronzetto vediamo proprio la caratteristica produzione scultorea del periodo geometrico: di piccole
dimensioni, con forme e linee molto marcate e squadrate e che rappresentavano generalmente aurighi,
atleti, opliti o suonatori.

Architettura: Heraion di Samo

Fin dal principio è la costruzione degli edifici sacri a cui i Greci dedicheranno le migliori risorse al contrario
di abitazioni molto modeste che rispondevano esclusivamente ad un bisogno pratico. In questo periodo,
infatti, si nota l’evoluzione di due differenti concezioni di edificio sacro: il megaron miceneo e l’oikos ionico.

Il megaron era un edificio rettangolare di forma allungata che terminava in un’abside divisa al suo interno
da due/tre navate; era la casa del signore e molto spesso ne diventava anche una tomba celebrativa.
L’oikos invece era un modesto edificio quadrangolare che qualche volta aveva un’abside, trovato in
funzione di abitazione comune oppure di edificio sacro.

Vogliamo però prestare particolare attenzione all’Heraion di Samo, edifico sacro di forma rettangolare con
l’entrata situata in un lato corto aperto in cui si trovavano anche tre colonne tra le ante.
L’edificio era costruito in mattoni di argilla su una base di pietre squadrate con pilastri lignei che
sostenevano il tetto e la statua molto probabilmente lignea della dea Era, da cui il nome , era situata su un
piedistallo, leggermente fuori asse affinché la fila di pali centrali non ne oscurasse la vista, al lato opposto
dell’entrata.

Da qui si intravede l’esigenza greca di ricerca di un canone architettonico che doveva servire al
contenimento del culto della divinità e alla sua esaltazione che poi porterà alla nascita del meraviglioso
tempio greco che tutti noi

VASO DEL DYPILON

Il vaso del Dípylon o anfora del Dípylon è un'anfora funeraria greca, prototipo dello stile tardo geometrico,
ritrovata nella necropoli ateniese del Dipylon e datata al 750 a.C. circa. È considerato il capolavoro del
Maestro del Dipylon ed è conservato nel Museo archeologico nazionale di Atene.

L'anfora era destinata ad essere usata come séma (plur. sémata), ovvero come "segnale" per la sepoltura di
una nobile donna ateniese, appartenente ad una famiglia importante che poté permettersi di
commissionare il primo vaso funerario dotato di simili dimensioni monumentali 155cm. Il vaso, che poteva
ricevere le libagioni versate dalle persone in lutto, aveva funzione essenzialmente commemorativa e
funeraria: era ad un tempo il segno della tomba della nobildonna e un monumento alla sua memoria. Il tipo
di vaso era determinato dalla tradizione: nel secolo precedente, quando gli ateniesi usavano cremare i loro
morti, per le ceneri delle donne si usavano le anfore, per quelle degli uomini i crateri.[1]

Descrizione e stile[modifica | modifica wikitesto]


L'anfora è completamente ricoperta di disegni ornamentali astratti e motivi tradizionali ripetuti. La formula
più semplice e frequente è costituita da una fascia di due o tre sottili linee orizzontali che può presentarsi
combinata con altri moduli per formare formule più complesse. La complessità aumenta nei pressi delle
anse, nella fascia più importante, e poi di nuovo diminuisce. Sono presenti tre fasce a meandro semplice,
due a meandro doppio e solamente una a meandro triplo. Questi meandri alternano motivi alla greca,
decorazioni a zig zag, denti di lupo, losanghe e ovuli.

Anche le figure di animali sono trattate come formule: i cervi che pascolano e le capre che si inginocchiano
sul collo del vaso sono i primi due fregi continui con animali e saranno seguiti da migliaia di fregi simili; sono
moduli e funzionano come le fasce ornamentali, le capre ad esempio voltano la testa indietro e sopra se
stesse quasi ad imitare il movimento del meandro che torna su di sé.
La decorazione che si trova nella parte centrale dell'anfora si chiama prothesis, o lamento funebre. Il
Maestro del Dipylon ha ridotto al minimo la differenza tra la parte pittorica e la parte astratta trasformando
la figura umana in motivo geometrico e la rappresentazione in uno schema. Nel modo in cui ha realizzato le
39 figure umane che abitano la zona dei manici (otto in un pannello sul retro, 6 sotto ciascun manico, 19
nella próthesis sul fronte) è possibile evidenziare alcune variazioni: nella próthesis il cadavere, esattamente
al centro dell'intero vaso, e le due donne inginocchiate sotto di lei apparentemente indossano abiti, due
figure all'estrema sinistra portano spade e quindi sono uomini, tra le figure è presente un bambino
rappresentato come un adulto in miniatura. Le distinzioni sono minime, la maggior parte delle figure del
Maestro del Dipylon sono essenzialmente la stessa figura suddivisa in forme astratte e, come la stessa
anfora, sottoposta all'ordine di un canone proporzionale. La testa è un piccolo cerchio con una
protuberanza all'altezza del mento, l'altezza di testa e collo è metà dell'altezza del tronco, il busto
(mostrato frontalmente) è un triangolo con bastoncini al posto delle braccia. Il corpo è quasi tagliato in vita
e alle ginocchia: le distanze tra vita e ginocchio e tra ginocchia e piedi sono praticamente identiche. La
silhouette del Dipylon con le sue articolazioni è la somma di parti distinte e matematicamente correlate.[2]

Nella rappresentazione della scena viene evitata la sovrapposizione delle figure. La coperta a scacchi che
dovrebbe ricoprire il cadavere della nobildonna è mostrata come una tenda tesa al di sopra del suo corpo
con il bordo inferiore che ne segue la linea in modo da non confondersi con esso. Tutte le figure sono poste
sullo stesso piano; i dolenti che si trovano a fianco del letto funebre in realtà lo circondavano in un pianto
rituale. Allo stesso modo, le figure sotto il feretro si trovavano di fronte ad esso. Attraverso l'appiattimento
dello spazio quasi niente risulta nascosto o implicito.[3]

Tecnica[modifica | modifica wikitesto]


Il vaso a causa delle dimensioni è stato costruito in sezioni riunite in un secondo momento; l'angolo acuto,
formato dall'incontro tra la forma ovoidale del corpo e la forma cilindrica del collo, è stato lasciato in
evidenza. Il ceramista infine ha aggiunto due maniglie doppie. La struttura sembra rispondere ad un preciso
schema proporzionale: l'altezza è doppia della larghezza, il collo è la metà dell'altezza del corpo. La parte
pittorica è stata eseguita con una soluzione di argilla e acqua, che sarebbe diventata scura dopo la cottura
del vaso.[1]
Rich lady

Il geometrico medio, diviso in due fasi, si distingue per una crescita generale della ricchezza, dovuta a un
maggiore controllo della produzione agricola e all’intensificarsi di contatti con il vicino oriente. Una
testimonianza di questo sviluppo sono le tombe con ricche deposizioni. Una delle più antiche, databili di
queste due fasi,é la cosiddetta” Rich Lady”,rinvenuta alle pendici dell’Areopago ad Atene. La donna era
stata cremata e deposta in un anfora decorata con cerchi concentrici e meandri entro spazi metopali e con
un motivo sul collo.Accanto al cinerario, il corredo comprendeva 34 vasi di stile geometrico tra i quali un
modellino di granaio, vasellame decorato a incisione, tre spilloni in bronzo e un in ferro, fibule, anelli
bronzo e in oro; tra gli ornamenti spiccano una coppia di orecchini in oro decorati a filigrana e granulazione,
di importazione orientale, e una collana in dischi e pendente centrale di vetro, di notevole rilievo è la
presenza di tre sigilli. Anfore analoghe a quella della“rich lady” sono state rinvenute nella necropoli del
ceramico di Atene

La Dama di Auxerre
è una scultura greca in calcare conchiglifero del VII secolo a.C. conservata nel Museo del Louvre di Parigi.

La sua provenienza originaria è sconosciuta: fu acquistata nel 1895 da un impresario teatrale di Auxerre,
che la cedette in seguito al locale museo. Venne ritrovata nei depositi del museo nel 1907 da Maxime
Collignon, curatore del Museo del Louvre, al quale venne ceduta nel 1909[1].

Fu in seguito attribuita alla scuola dedalica cretese e datata tra il 650 e il 625 a.C.

La scultura rappresenta una figura femminile nella posizione dell'offerente (kore, dal greco, significa
"ragazza" in italiano), è raffigurata in piedi, con i piedi uniti e con la mano destra al petto in un gesto di
preghiera e la sinistra distesa lungo il fianco. Indossa il peplo, stretto in vita da un'alta cintura e con le spalle
coperte da una mantellina. La veste era in origine decorata in policromia (tracce di colore rosso sono
ancora presenti sul busto), sulla base di un disegno reso con sottili incisioni sulla superficie della pietra.

Secondo lo stile della scultura (scultura dedalica), segue uno schema rigidamente frontale e la struttura
corporea scompare nascosta dalla pesante veste. Il volto si presenta di forma triangolare, incorniciato dai
due simmetrici triangoli della capigliatura, con grandi occhi spalancati. Conserva la vita sottile delle sculture
minoiche, mentre la forma della capigliatura rivela influssi della scultura egizia.
Negli anni novanta alcuni frammenti analoghi scoperti negli scavi di Eleutherna (necropoli di Orthi Petra)
hanno contribuito a definirne l'originario luogo di provenienza[2].

Il Periodo Orientalizzante (VIII – VII secolo a.C.) segue il Periodo Geometrico


ed è così denominato per le grandissime e importanti influenze, non solo
nell’arte ma nella cultura greca in generale, provenienti dall’Oriente. Assistiamo
infatti all’intensificarsi di scambi commerciali con Cipro, la Fenicia, la Siria e
la Cilicia ed anche alla migrazione di popolazioni dovuta alla forte pressione
assira attestata tra il IX e il VII secolo a.C. La conseguenza più importante
è l’influenzache la cultura orientale ha su quella greca: l’introduzione
della mitologia orientale più macabra e piena di mostri come grifoni, centauri e
chimere provoca una risposta dalla cultura greca che a tutto questo caos
contrappone l’ordine rappresentato dal pantheon delle sue divinità.
La ceramica: l’aryballos di Bellerofonte
In questo periodo la capitale indiscussa della ceramica fu Corinto. Mentre infatti
ad Atene si andava ancora ripetendo senza innovazione lo stile geometrico, a
Corinto, forte anche della sua posizione geografica al centro degli scambi
commerciali con l’oriente, si assiste all’evoluzione della ceramica con
l’introduzione di decorazioni sempre più dinamiche e complesse.

L’aryballos di forma allungata da Tebe, conservata al Museum of Fine Arts di


Boston, racconta un mito molto caro a Corinto, Bellerofonte che affronta
la Chimera, ma lo fa riempiendo la scena di decorazioni che nulla hanno a che
fare con l’azione: due sfingi ai lati, una caccia alla lepre in basso e nello
sfondo varie decorazioni. Notiamo come il tutto però non perde di significato
senza diventare troppo carico, ma mantiene una sua fluidità che non
appesantisce affatto l’occhio.
Aryballos da Tebe – Museum of Fine Arts (Boston) ©

É di questo periodo lo sviluppo della scultura monumentale e l’affermazione


del cosiddetto stile dedalico. Dedalo, che deriva dal verbo che
significa lavorare ad arte, è stato negli ultimi anni definitivamente riconosciuto
come una figura mitica dopo molte incertezze dovute principalmente alla
miriade di informazioni che abbiamo sulla sua vita.

Per parlare della scultura del Periodo Orientalizzante prenderemo ad esempio


la Dama di Auxerre, conservata al Musée du Louvre di Parigi, per spiegare le
caratteristiche di questo stile. Innanzitutto notiamo che questa statua, composta
di pietra calcarea, è un tutto tondo che rappresenta una giovane donna vestita
con un peplo, probabilmente policromatico, e con una acconciatura di tipo
orientale in una posizione che sembra essere votiva.

La frontalità della figura con le parti del corpo giustapposte ad un asse


centrale è la principale caratteristica dello stile insieme alla faccia triangolare, la
bocca che accenna ad un sorriso e le mani e piedi sproporzionate contrastate
dalla rotondità plastica del seno e delle braccia. Una notevole evoluzione dallo
stile geometrico precedente ma di cui si possono ancora intravedere le influenze
rimaste.

Architettura: Heraion di Olimpia


Con l’avvento del Periodo Orientalizzante assistiamo alla più grande ed
importante evoluzione dell’architettura greca con la sostituzione del legno con
la pietra e la definitiva affermazione della peristasi, specialmente nell’area
dorica, della trabeazione e delle tegole.

Massimo esempio di questo nuovo stile è l’Heraion di Olimpia eretto tra il 650
a.C e i primi anni del VI secolo a.C. Costruito in pietra e circondato da
una peristasi, anch’essa composta da colonne in pietra, è importantissimo per
la composizione che si affermerà negli anni come quella canonica da rispettare.
E’ composto da un distilo in antis (ovvero con le colonne fra le ante), due
colonne poste all’entrata e alla parte posteriore del tempio, e dalla composizione
di pronao, la parte anteriore, della cella, la parte centrale del tempio che
custodiva la statua della divinità, e l’opistodomo, la parte posteriore citata prima
che conteneva le offerte votive.

Si può notare come questa nuova forma fosse molto simmetrica e piacevole
non solo agli occhi ma anche per i fedeli che ora potevano usufruire di posti
al riparo dalle intemperie per offrire tributi e pregare le divinità.
Periodo arcaico

Il periodo arcaico greco inizia verso il VII secolo avanti Cristo, in corrispondenza alla formazione della polis.
La città greca infatti assume la sua struttura in corrispondenza all'assetto sociale e politico che caratterizza
questa fase storica. La fioritura culturale dell'età arcaica si manifesta in pieno nella produzione artistica.
Una vera svolta è rappresentata dall'architettura: si definisce la forma del tempio, le tipologie dei principali
edifici pubblici e gli ordini architettonici. Nella scultura si diffondono le statue a grandi dimensioni, i rilievi
propongono importanti cicli narrativi e nelle diverse regioni si elaborano stili originali come il dorico,
l'attico, lo ionico e il corinzio.
Si creano i modelli ideali delle varie costruzioni pubbliche in base alle specifiche funzioni, come gli stoai, i
propilei, i palazzi governativi, gli empori, le palestre, gli stadi ecc. Vengono elaborati i tre diversi ordini
architettonici: dorico, ionico e corinzio, che rappresentano sistemi di regole geometrico-proporzionali
finalizzate alla realizzazione di edifici armoniosi e completi.

Il tempio dopo le sperimentazioni precedenti raggiunge la sua forma definitiva e armonica, si definisce in
tutte le sue parti ed è completamente in pietra, declinandosi nelle varianti dei tre ordini architettonici.

Scultura
In stretto collegamento allo sviluppo dell'architettura greca, nel periodo arcaico si evolve anche la scultura.
Vengono realizzate statue a tutto tondo e l'ornamentazione plastica dei templi e degli edifici più importanti
(cornici, fregi, metope, capitelli, frontoni, acroteri....)
Verso la fine del VI secolo, con la tecnica della della fusione a cera perduta, si diffonde anche l'uso del
bronzo per oggetti anche di grandi dimensioni.

Ceramica

Un altro importante fenomeno culturale è rappresentato dalla ceramica attica e corinzia, in cui viene
elaborata la tecnica a figure nere e che offre un repertorio ricchissimo sui miti e le leggende omeriche e
sulla religione dell'antica Grecia.

Secondo il mito fu l’ateniese Dedalo, leggendario architetto del labirinto di Cnosso a Creta (vedi p. 54), a
inventare la scultura ritraendo la figura umana. Nell’arte greca del VII secolo dalle piccole sculture in
terracotta, bronzo o avorio si passa a statue in marmo a grandezza naturale, o persino più grandi.

KOUROI E KORAI.
Nella cultura occidentale l’arte greca ha sempre goduto di una collocazione e di una considerazione
particolari, costituendo per lunghi periodi un modello assoluto e quasi sovratemporale, divenendo punto di
riferimento ideale per l’attività degli artisti. La grande produzione scultorea greca trovò la sua più celebrata
espressione in due principali filoni che si svilupparono parallelamente e insieme in stretta connessione tra
di loro: la grande statuaria e la scultura frontonale.
Al centro della plastica arcaica ci sono senza dubbio i tipi di kouros e delle kore, di cui oggi contano
rispettivamente 500 e 350 esemplari interi e frammentari.

I KOUROI: CARATTERISTICHE. I kouroi sono giovani nel fiore dell’età, nudi, con i capelli lunghi e senza alcun
attributo, in una posa identica in tutto il mondo greco: il capo eretto, le braccia abbandonate lungo i fianchi,
i pugni chiusi, la gamba sinistra leggermente avanzata a significare che procedono lentamente verso lo
spettatore, ma con entrambi i piedi saldamente piantati a terra. La posa viene dall’Egitto, dove da quasi due
millenni era utilizzata per la rappresentazione di figure maschile di alto rango. Dall’inizio del VI secolo a.C.
essa appare universalmente diffusa, con un’unica importante variante rispetto ai modelli egizi:
l’eliminazione del corto perizoma attorno ai fianchi, perché la completa nudità richiama, secondo una
consuetudine greca, la bellezza virile pura e assoluta, propria non degli uomini ma degli dei e degli atleti
vittoriosi.
KORA: COSA SONO. Le korai sono invece fanciulle vestite con ricercatezza in atteggiamento di offerenti,
solitamente con la mano sinistra che regge la veste all’altezza dell’anca e la destra che presenta il dono alla
divinità.
Entrambe le tipologie servivano come doni votivi nei santuari e come insegna funebre nei cimiteri, dove
indicavano la presenza di una tomba. Nel primo caso potevano rappresentare indifferentemente il
donatore, la divinità o fanciulli e fanciulle senza nome posti al suo servizio; nel secondo rappresentavano
sempre il defunto in forma idealizzata, indipendentemente dalla sua età e dalla sua condizione. Per i greci
del VI secolo a. C non contava tanto il soggetto della statua quanto le sue dimensioni, il materiale, la finezza
dell’esecuzione e il costo.
KOUROS DEL SOUNION. Nel kouros del Sounion la figura maschile, con i suoi tre metri e mezzo di altezza,
illustra chiaramente la passione per la monumentalità che caratterizza la plastica greca nella seconda metà
del VII secolo. In questo kouros, monumentali non sono solo le dimensioni, ma anche la concezione
dell’impianto: l’imponenza è resa dalle enormi membra, e in particolare dalle spalle e dalla potenza delle
gambe, realizzate a blocchi compatti interrotti dalle nodose giunture delle ginocchia. Anche il viso,
incorniciato dalla massa della capigliatura a elementi globulari, appare monumentale nella sua
impostazione: gli enormi occhi sporgenti, quasi disegnati, contrastano con la morbidezza plastica delle

guance.
KORE DI NIKANDRE. La fanciulla, corrispettivo femminile del kouros, vede la propria primitiva redazione
nella Kore di Nikandre, realizzata a Naxos in un momento di particolare potenza politica. La statua, che
raggiunge con la base i due metri, rappresenta il più antico documento di scultura monumentale greca, e la
prima kore pervenuta quasi interamente. Mancano parte del braccio sinistro e gli oggetti di metallo che ne
costituivano l’ornamento. Nikandre è la fanciulla che dedica l’immagine ad Artemide, come recita la dedica
incisa sul lato della figura: la statua, molto corrosa, rappresenta probabilmente un ex – voto nel santuario
della dea a Delos, antico centro di culto apollineo e luogo d’incontro dei mondi greco e orientale.
Kleobis e Biton (Delfi)
Kleobi e Bitone sono una coppia di sculture in marmo pario (h 216 cm, con la base h 235 cm) risalenti al 585
a.C. circa e conservate nel Museo archeologico di Delfi. Si tratta di uno degli esempi più antichi di statuaria
arcaica greca, alle origini dell'iconografia del Kouros.

I kouroi gemelli sono tipicamente nudi tranne per le scarpe che indossano[4], riprendendo probabilmente
l'usanza degli atleti greci di gareggiare nudi.

Le due statue rappresentano uno dei migliori esempi di kouros "dorico": sono nude, statiche, col volto
squadrato e schiacciato, la testa sovradimensionata, le braccia lungo il corpo, i pugni chiusi, le rispettive
gambe sinistre avanzate e le trecce ricadenti davanti alle spalle. In più presentano una muscolatura
abbastanza tozza, in particolare i polpacci, le braccia leggermente flesse, gli occhi a mandorla (segno
evidente degli influssi egizi), una fronte bassa e arcate sopraccigliari evidenti. Le due statue sono state
scolpite rendendo la parte frontale predominante sulle altre (quelle laterali e posteriore); osservandola
dagli altri lati ci si accorge di come infatti esse perdano di vigore.

Particolarità, ma non unicità, dei due kouroi sono le corrispondenze simmetriche tra diverse parti del corpo;
è proprio in questo periodo, infatti, che gli artisti greci iniziano a collegare la bellezza alla simmetria, fatto
noto col termine di analoghia. Se, idealmente, poniamo un asse di simmetria passante per le due ascelle (e
quindi parallelo al terreno), troviamo corrispondenza tra le linee delle clavicole e quelle dei pettorali.
Oppure tra le linee campaniformi del torace e quelle formate dall'inguine e dall'attaccatura delle gambe col
busto. Oppure ancora tra le linee delle piegature delle braccia e quelle che formano la parte superiore delle
rotule. in questa statua sono presenti anche delle trecce perlinate e i tratti anatomici sono incisi.

La forma del viso e non solo tradisce discendenze dedaliche e la transizione tra la parte anteriore e la parte
laterale della testa è molto brusca. Una fila decorativa di dischi forma una linea di riccioli sulla fronte, la
parte restante dei capelli è raccolta posteriormente e lateralmente nella consueta suddivisione a trecce. Le
grandi orecchie sono molto arretrate rispetto al viso e il lobo è risolto come un disco piatto. I modi dedalici
vengono interpretati in senso maggiormente plastico e nel complesso strutturale massiccio e unitario si
notano alcuni elementi anatomici evidenziati in modo puramente decorativo tramite incisioni e
affossamenti come la linea dell'addome e quelle del pube. La nitidezza e l'incisività delle forme sono
caratteristiche dello stile argivo, non è possibile quindi stabilire se l'accentuazione muscolare nei kouroi
gemelli sia da mettere in relazione con il soggetto. Le membra del Kleobis hanno una straordinaria
robustezza, con un'anatomia possente che ricorda blocchi di pietra accostati.

Scrive Jean Charbonneaux: «Sotto la fronte eretta non c'è pensiero; la luce è nei grandi occhi aperti che
fissano la meta. Lo scultore ha presentato i due gemelli come atleti che stanno per iniziare una corsa. [...] il
primo esempio dell'equilibrio dell'azione sospesa, motivo che sarà risolto classicamente da Policleto, gloria
della scuola d'Argo».

Si tratta di due umani, non di un monarca divinizzato come nelle precedenti culture mediterranee; proprio
la figura umana aveva quindi già assunto il valore nodale dell'arte greca, quale la "misura di tutte le cose",
dotata di razionalità e al centro dell'universo. I due eroi sono raffigurati eretti e completamente nudi.
Queste figure furono oggetto di innumerevoli repliche e, un po' come era successo nell'architettura, si fissò
un tema che divenne un'iconografia fondamentale, utilizzato spesso dagli artisti, ma comunque dotato di
un certo raggio di scelta indipendente nella resa finale.
L'Hera di Samo
è una scultura in marmo (h. 192 cm), databile al secondo quarto del VI secolo a.C. e conservata nel Museo
del Louvre a Parigi. Si tratta di una delle sculture greche più antiche, dedicata alla dea Hera nel santuario di
Samo, da un membro dell'aristocrazia ionica di nome Cheramyes, come indicato dall'iscrizione incisa lungo
il bordo del velo (epiblema). Dal 1881 è conservata al Museo del Louvre dove è registrata con il numero di
inventario Ma 686.

È una statua acefala, cioè senza testa.

La statua riassume in sé tutte le caratteristiche della scultura ionica: la forma quasi cilindrica della figura
viene enfatizzata dalle pieghe verticali e dritte del chitone ionico, mentre il mantello obliquo è animato dal
movimento del braccio che viene portato al petto, attributo della dea. Forse anticamente la mano sollevata
teneva un melograno. Nonostante la forma cilindrica, simile a una colonna, i volumi suggeriti dalle vesti
eliminano l'idea di immobilità, conferendo alla figura un'aria di ieratica maestà[1]. la struttura compatta è
ingentilita dalla sinuosità della linea di contorno.

La mano sinistra, scomparsa, probabilmente teneva un dono votivo, in questo caso si pensa un melograno.

La κόρη (kòre), che rappresenta la dea Era o una giovane sacerdotessa che reca offerte al tempio della dea,
è formata da una base cilindrica sulla quale si posa il busto nascosto da un himation dal quale esce solo un
braccio (è pervenuta acefala e senza il braccio sinistro). Le scanalature sul chitone e quelle sull'himation, da
cui nasce l'idea della colonna scanalata del tempio greco, mostrano come la luce si identifichi con la materia
nel momento del contatto con questa
Moscoforo
Il cosiddetto Moscoforo (in greco antico: μοσχοφόρος, moschophóros, da μόσχος, "vitello", e φέρω,
"portare": "portatore di vitello") è una scultura greca in marmo dell'Imetto di età arcaica (570-560 a.C.
circa), alta 162 cm e conservata nel Museo dell'Acropoli ad Atene.

La statua fu rinvenuta sull'Acropoli di Atene nel 1863[1] negli scavi a sud-est dell'Acropoli nella cosiddetta
colmata persiana, ovvero il terrapieno in cui erano stati sepolti tutti i resti dei monumenti distrutti dai
Persiani nel 480 a.C.

Descrizione e stile[modifica | modifica wikitesto]


L'occasione della dedica fatta ad Atena è incerta: potrebbe trattarsi del vincitore di una gara che aveva
come premio un vitello o di un sacrificio in onore della dea.[2]

La figura originariamente era policroma, con occhi di pasta vitrea, avorio e osso. Il viso dell'uomo presenta il
cosiddetto "sorriso arcaico" (utile per l'arrotondamento degli occhi e della bocca) e lo sguardo dritto,
opposto allo sguardo abbassato del vitello. I muscoli sono ben torniti ed hanno una superficie fluida e
levigata, collegata alle cadenze lineari del sottilissimo mantello che ricade con due lembi decorativi sul
davanti. Da notare la disposizione chiastica delle braccia del giovane e delle zampe del vitello sulle sue
spalle, che contribuisce a serrare il rapporto tra le due figure, le partiture orizzontali dell'addome e le forme
corporee (specie delle spalle) ben definite, il mantello che addolcisce le linee e crea una continuità tra il
gomito e il bacino in una morbida linea di contorno. Come osserva H. Payne, qui, la struttura
prevalentemente cubica del kouros greco sembra per la prima volta smorzarsi in una maggiore volontà di
lavorazione a tutto tondo.

Ceramica a figure nere

Le figure nere furono introdotte a Corinto all'inizio del VII secolo a.C. Ad Atene la nuova tecnica venne
adottata senza riserve solo intorno alla metà del VII a.C., si sviluppò pienamente nell'ultimo quarto (dal 625
a.C.) e raggiunse il suo apogeo nel secolo successivo. A partire dal 530 a.C., fu gradualmente sostituita dalla
tecnica detta a figure rosse.

Il Pittore di Nesso, insieme al Pittore della Gorgone, è anche uno degli ultimi esponenti della ceramica
monumentale, la cui produzione termina in questi anni probabilmente in seguito alle riforme di Solone.
All'inizio del VI secolo a.C. Atene affrontò una profonda crisi sociale ed economica di cui è specchio la
decadenza della ceramica del periodo, evidente nella mancanza di opere di primo piano. In questo
panorama il Pittore della Gorgone emerge con il suo capolavoro, il dinos del Louvre; benché la forma del
vaso si prestasse alla decorazione a zone vi dominano le sfilate di animali e i fregi ornamentali; le figure si
trovano solo nella fascia superiore dove i due temi rappresentati si susseguono senza soluzione di
continuità. Dopo il 580 a.C. la maggior parte dei vasi di pregio ateniesi prenderà la via dei mari occidentali e
anche il dinos del Pittore della Gorgone, come tutta la migliore produzione attica di questo periodo, è stato
trovato in Etruria.
Pittore di nesso
Pittore di Nesso (... – ...; fl. 620 a.C. / 600 a.C.) è il nome convenzionale assegnato ad un ceramografo attico
del primo periodo della ceramica a figure nere. Prende il nome da una grande anfora funeraria, detta
Anfora di Nesso (Atene, Museo archeologico nazionale 1002), sulla quale è raffigurata la lotta tra Eracle e il
centauro Nesso. Per il periodo interessato è la prima personalità di ceramografo che giunge a noi
chiaramente definita, e che sia stato la prima grande personalità della nuova ceramica attica è attestato
dalla presenza di un suo vaso in Italia, il primo vaso attico trovato in un territorio che era stato fino a questo
momento monopolio commerciale corinzio;[1] il frammento che ci è giunto è ora conservato a Lipsia,[2] ed
è stato trovato a Caere, in Etruria.[3]

Il Pittore di Nesso dipinse grandi vasi con una particolare predilezione per figure di animali sia reali sia
fantastici; rappresentò scene mitiche, alcune delle quali piuttosto complesse, con un gusto particolare per
la sintesi narrativa attraverso accenni e simboli.[1] La sua fonte d'ispirazione fu la ceramica corinzia;

L'anfora di Nesso
È il capolavoro delle prime figure nere attiche; sul corpo sono raffigurate le Gorgoni alate in fuga,
nell'atteggiamento della "corsa in ginocchio" (detta anche Knielauf o piegarsi su un solo ginocchio) che
diverrà tipico e convenzionale e che si forma in questi anni (lo si trova nella figura di Perseo sulle metope di
Thermo); sotto vi è un fregio di delfini che simboleggiano il mare al di sopra del quale avviene
l'inseguimento (come racconta Esiodo) e che nuotano nella direzione opposta rispetto a quella delle
Gorgoni aumentando il senso del movimento. La figura di Perseo non viene rappresentata. La spalla
dell'anfora è decorata con un motivo floreale in stile orientalizzante che deriva dai vasi protocorinzi. Sul
collo sono rappresentati Eracle e Nesso, ed entrambi i personaggi sono identificati attraverso iscrizioni:
Eracle ha afferrato il centauro per i capelli e sta per affondare la spada nel suo corpo; Nesso implora di
essere risparmiato, allungando le braccia verso Eracle, fino a sfiorargli la barba, ulteriore convenzione
iconografica che continuerà ad avere grande fortuna in seguito. Sulle maniglie non forate si trovano cigni e
la civetta ateniese, sull'orlo dell'imboccatura una fila di oche. La spirale a uncino protoattica e la rosetta
punteggiata corinzia convivono nell'ornamento di riempimento. Ci sono tracce di rosso e di bianco oltre ad
un primo esempio di schizzo inciso, utilizzato sporadicamente nelle figure nere e regolarmente nelle figure
rosse, per tracciare le linee principali della composizione.
Pittore della gorgone

Pittore della Gorgone (... – ...; fl. 600 a.C. / 580 a.C.) è il nome convenzionale attribuito ad un ceramografo
attico attivo ad Atene; il suo vaso eponimo è il Dinos del Pittore della Gorgone.

Continuatore della tradizione ateniese del Pittore di Nesso, il Pittore della Gorgone fu uno dei primi
ceramografi attici a figure nere; i dati raccolti presso l'Archivio Beazley evidenziano un elevato numero di
pezzi attribuiti. il Pittore della Gorgone mostra una particolare tendenza verso le composizioni semplici e
simmetriche che preludono ai capolavori successivi di un autore come Kleitias.[2] Le sue figure di animali
ricordano da vicino lo stile animalistico corinzio.

Dinos del pittore della gorgone

Datato 580 a.c. La forma del vaso è quella di un dinos, contenitore da banchetto di grande capacità nel
quale si mescolava l'acqua con il vino. Ha un'altezza complessiva di 93 cm (altezza del cratere 44 cm,
diametro massimo 30 cm, altezza del supporto 59 cm) ed è costituito da un recipiente e da un piedistallo
modanato, un'accoppiata non frequente e che si ispira a modelli in bronzo.

L'argilla ha un colore giallastro ed è decorata a figure nere con dettagli color porpora di cui restano poche
tracce. La piatta imboccatura presenta un fregio con palmette e fiori di loto intrecciati, lo stesso motivo che
si trova negli altri fregi fitomorfi del vaso. Il corpo del dinos è diviso in sei fasce sovrapposte delle quali
cinque sono a carattere decorativo, con fregi fitomorfi o animali nella tradizione della ceramica corinzia. La
larga zona con fregio di fiori di loto e palmette intrecciati divide le quattro fasce animali sottostanti dal
registro superiore, all'altezza della spalla, che è il primo esempio conosciuto di fregio interamente figurato
e di carattere narrativo.[3]

Vi sono rappresentate due scene differenti ma non separate. Da un lato, quello principale, Perseo che fugge
dalle Gorgoni dopo aver ucciso la loro sorella Medusa la quale decapitata cade a terra; alla scena assistono
Ermes con il petaso e la dea Atena. Dall'altro lato due opliti combattono tra due carri a quattro cavalli
guidati ciascuno da un auriga che si volta ad osservare il combattimento.

Il fondo del vaso è decorato con un ornamento costituito da sei mezzelune.

Sul piedistallo, con abbondanti modanature, sono presenti file di diversi animali (leoni, vacche, cervidi),
mescolati a creature fantastiche come sirene e sfingi.

L'artista che dipinse quest'opera fu probabilmente allievo del Pittore di Nesso, dal quale ha ripreso il tema
delle Gorgoni.

Il fregio, interamente narrativo e privo di elementi puramente decorativi, si colloca all'inizio della
produzione attica, che progressivamente si svincola dalla tradizione corinzia durante il secondo quarto del
VI secolo a.C.[3]

EXEKIAS

Exekias ( 550 / 530 a.C.) fu un ceramografo attivo ad Atene. Le sue opere furono largamente esportate in
varie parti del mondo, compresa l'Etruria.

Come ceramografo la sua attività appare confinata a un periodo ancor più breve, durante il quale operò
nella realizzazione di ceramica a figure nere, in un'epoca che conobbe la massima fioritura di quella tecnica
pittorica della quale è considerato da molti il maggior esponente, oltre che una delle principali figure
dell'intera storia dell'arte.
I lavori di Exekias si distinguono per la grandiosità della composizione, la padronanza del disegno e la fine
caratterizzazione, in grado di trascendere le severe limitazioni espressive imposte dalla tecnica a figure
nere.
Sia come ceramografo sia come ceramista Exekias fu un innovatore, in grado di immaginare nuovi temi, di
sperimentare nuove forme vascolari, fra le quali, probabilmente, il cratere a calice, inoltre, seppe concepire
innovazioni tecniche insolite, come la mano di fondo rosso corallo per esaltare la resa cromatica.
La firma di Exekias come ceramista: ΕΧΣΕΚΙΑΣ ΕΠΟΙΕΣΕ (“[mi] fece Exekias”), circa 550–540 a.C., Louvre F53
Di lui sono sopravvissute quattordicip opere firmate[4], mentre circa altre 25 gliene sono attribuite,tra vasi
e pinakes. Una delle sue opere celebri è un'anfora campaniforme autografa, ora ai Musei vaticani, che
ritrae Aiace Telamo lanio e Achille assisi e intenti in un gioco da tavolo (forse dadi o astragali). Vi si leggono,
in forma metrica, le seguenti parole: "Eksekias egraphse m'kapoiesen" ("Exekias mi fece e mi dipinse").

Anche altre opere ritraggono scene tratte dalla guerra di Troia, come l'uccisione di Pentesilea da parte di
Achille o i preparativi del suicidio che Aiace si infligge per non aver ricevuto le armi di Achille.

Non ci è noto alcun dettaglio della sua vita, probabilmente un riflesso di una scarsa rilevanza sociale. Si è
congetturato che provenisse da Salamina, vista la sua predilezione per il tema di Aiace Telamonio.
Nella breve stagione della sua fioritura pittorica, Exekias fu più interessato alle grandi raffigurazioni della
vita, della morte e della religione, piuttosto che ai dettagli della mitologia.

La sua pittura si sofferma a ritrarre attimi sapientemente estratti dal corso degli eventi, mirabilmente
composti, che ci mostrano close-up dei personaggi colti in un particolare momento simbolico, precedente o
successivo all'azione, ponendo un'enfasi particolare, anch'essa innovativa, sull'introspezione psicologica dei
soggetti rappresentati. La concentrata attenzione che Exekias focalizza sui protagonisti risolve la narrazione
epica in raffigurazioni essenziali, di intenso e profondo spessore; l'aura austera e drammatica che aleggia
nelle sue sorvegliate composizioni raggiunge livelli espressivi che possono ben dirsi degni di un poeta.

Achille e aiace
L'anfora di tipo A con Achille e Aiace conservata al Museo Gregoriano Etrusco (n. inv. 344) reca la doppia
firma "fatto e dipinto" sul labbro, e la firma di Exekias come vasaio è ripetuta sul corpo. I due eroi nel mezzo
di una battaglia sono rappresentati assorti in un gioco da tavolo, qualcosa di simile a dama, scacchi,
backgammon o, secondo altri, dadi o astragali. È un soggetto inedito dell'iconografia omerica, un'originale
creazione dell'artista che non trova riscontro in alcun testo letterario. Il tema, con qualche variazione,
diventerà popolare nella ceramica dell'inizio del quinto secolo e sarà riprodotto anche in un gruppo
scultoreo dell'acropoli di Atene.[8] I due eroi sono in parte armati, Achille indossa l'elmo corinzio che forma
l'apice di un modulo sostanzialmente triangolare, quello di Aiace è appoggiato allo scudo. Sullo scudo di
Achille l'emblema è una testa di satiro in alto rilievo, tra un serpente e una pantera, lo scudo di Aiace ha un
gorgoneion tra due serpenti. Aiace ha la barba più lunga rispetto al più giovane Achille. Il virtuosismo
incisorio profuso da Exekias in questa scena rappresenta, per John Beazley, il vertice ineguagliabile
raggiunto dalla ceramografia a figure nere[9].

Sull'altra faccia dell'anfora un giovane Castore è rappresentato con uno dei suoi cavalli, Kyllaros; l'altro
dioscuro, Polluce, è rappresentato nudo mentre gioca con il cane che salta verso di lui. Un ragazzino si
dirige verso Polluce portando una sedia sulla testa, con un indumento ripiegato su di essa; un ariballo è
legato intorno al suo avambraccio. Vicino a Castore troviamo le figure dei genitori Leda e Tindaro.

Quest'anfora appartiene al periodo maturo di Exekias, ormai lontano dal Gruppo E. Le rigidità ancora
presenti nel vaso di Londra B 210 sono ormai tradotte nella calma serena delle predilette scene
domestiche. L'aspetto degli uomini e delle donne di Exechias è in linea con i kouroi e le korai della scultura
arcaica del VI secolo a.C. e con le figure a basso rilievo delle stele sepolcrali.

Il suicidio di Aiace
L'anfora con la scena del suicidio di Aiace (Boulogne-sur-mer, Chateau-musée), non firmata, raffigura un
topos non così raro nella vita di un guerriero. Aiace ha perso, in favore di Odisseo, la contesa per le armi di
Achille e ha gettato su di sé un'ombra d'infamia, sterminando, colto da un raptus, un gregge di pecore da lui
scambiate per i condottieri greci. Non potendo sopportare il peso della sua azione, si ucciderà scagliandosi
sulla sua spada.

Il tema, conosciuto attraverso le tragedie di Sofocle, è comune nell'arte arcaica dal protocorinzio in avanti,
ma Exekias è l'unico a mostrare la lenta preparazione dell'atto finale in luogo di quest'ultimo. Tutta la
vicenda mortale dell'eroe è riassunta da Exekias in un solo momento. Aiace si arrende al proprio destino,
impotente di fronte a un disegno più grande di lui. In muto raccoglimento, con il volto solcato dal dolore -
notazione rara nelle figure nere - prepara metodicamente il suicidio. Lo scudo decorato con il gorgoneion
apotropaico è poggiato di lato e Aiace è ora vulnerabile. Lo vediamo rannicchiato e solitario, mentre infigge
la sua spada distruttiva nel suolo, volgendo le spalle all'albero della vita. Di lì a poco si avventerà sulla lama.
Composizione
Exekias cerca di dilatare la raffigurazione grafica sulla più ampia superficie possibile. E tuttavia ogni scena è
accuratamente delimitata, quasi a riflettere un principio di ordine cosmico.

Oltre al campo pittorico principale egli non trascura quelli secondari. Dove non vi sono spazi, utilizza file di
rosette, spighe, spirali o semplici nastri. Talvolta circonda il campo visuale con vernice nera così che
l'immagine, si può dire, sembra emergere d'improvviso dall'oscurità.

Vaso Francois

Vaso François è il nome convenzionale attribuito, dal nome dell'archeologo che lo scoprì nel 1844-45 a
Chiusi. Si tratta di un cratere a volute a figure nere di produzione attica, capolavoro della ceramografia
arcaica, datato intorno al 570/565 a.C. Si tratta del più antico cratere a volute attico conosciuto (ma
esistono precedenti vicini ad esso). Le sue dimensioni si sviluppano su un'altezza di 66 cm e un diametro
massimo di 57 cm.
Attribuzione
Un'iscrizione dipinta sullo stesso vaso ne riporta gli autori: il ceramista Ergotimos e il ceramografo Clizia
(Kleitías). L'iscrizione è riportata due volte: una prima con due frasi verticali inserite nella scena delle nozze
di Peleo e Teti, e una seconda, non interamente conservata, sopra la nave di Teseo raffigurata sull'orlo.

Descrizione
La forma del vaso è nota come cratere a volute, cioè un cratere con anse a volute.
La decorazione comprende la raffigurazione di scene mitologiche o decorative, i cui temi sono incentrati sul
ciclo narrativo del personaggio di Achille (e di suo padre Peleo). Le scene si dispiegano su sette registri
sovrapposti. Sono presenti 270 figure e 131 iscrizioni esplicative.
Collo
Teseo fa da collegamento tra la scena con la danza degli ateniesi a Creta, nella fascia superiore, e la
Centauromachia sotto di essa.
Registro superiore:
Sul lato posteriore troviamo i 14 giovani ateniesi che erano stati inviati a Creta come sacrificio per il
Minotauro, i quali danzano al cospetto di Teseo che li ha salvati e che conduce la danza suonando la lira; di
fronte a Teseo si trova Arianna. A sinistra la scena narra l'arrivo della nave che li riporterà in patria. Si tratta
di un soggetto molto raro, gli unici altri esempi giunti sino a noi appartengono a Kleitias stesso.

Sul lato anteriore (quello che corrisponde alla sottostante processione degli dei verso la casa di Peleo e
Teti) troviamo l'episodio della caccia al cinghiale calidonio, alla quale partecipano Meleagro e Peleo.
Registro inferiore:
Su un lato vi è la corsa dei carri, evento principale ai giochi funebri tenuti da Achille in onore di Patroclo,
descritti nel XXIII libro dell'Iliade. In linea con una vecchia convenzione i premi, tripodi e lebeti di bronzo,
vengono utilizzati nella composizione per riempire i vuoti sotto i cavalli. I cinque concorrenti indossano la
lunga veste prescritta dal regolamento e tengono, oltre alle redini, il pungolo. In questo caso Kleitias si
discosta molto dal racconto omerico, inoltre c'è poca varietà nella rappresentazione, come se fosse poco
interessato alla narrazione e descrizione e maggiormente rivolto alla resa del movimento, in contrasto con
la lenta processione della zona sottostante.
Sul lato opposto la scena della Centauromachia è una delle prime in cui il protagonista non è Eracle, ma
sono i lapiti che combattono i centauri in Tessaglia. L'immagine di Kleitias è composta da sette gruppi (ora
frammentari) con molte sovrapposizioni. Teseo, pur non essendo un lapita, partecipa alla battaglia come
amico di Peirithoös, uno dei grandi guerrieri lapiti.[3]

Spalla
La processione degli dei alle nozze di Peleo e Teti.
Sulla spalla del vaso, nel suo punto di massima espansione, si trova la fascia decorativa principale, con la
processione degli dei alle nozze di Peleo e Teti, che scorre lungo l'intera circonferenza del vaso. Teti si
affaccia da una porta semiaperta; Peleo è in piedi di fronte all'edificio mentre accoglie gli dei invitati alle
nozze. In funzione di una migliore leggibilità della scena Kleitias pone frontalmente la casa di Teti e Peleo: è
uno dei tre edifici rappresentati sul vaso, importanti per la storia dell'architettura greca. La lunga
processione è guidata da Chirone (che stringe la mano a Peleo) e Iride. Seguono tre figure femminili
affiancate che sono seguite a loro volta da Dioniso. In nessun altro luogo Dioniso è rappresentato in questo
modo: ha il passo allungato e un'anfora piena di vino sulla spalla, il viso è rappresentato frontalmente e nel
periodo arcaico il volto frontale non è mai usato a caso. Gli altri volti frontali di questo fregio sono riservati
a Calliope, una delle nove Muse figlie di Zeus, che suona il flauto di Pan, e a Efesto che come nel precedente
di Sofilo chiude la processione. Efesto giunge dietro i carri (il carro di Atena e Artemide accompagnate dalle
Moire, il carro di Apollo, di Afrodite, di Poseidone e Anfitrite) in sella a un asino,
Ventre
Registro superiore:
Sul lato principale, sotto il matrimonio, sono rappresentati l'agguato di Achille a Troilo sotto le mura di
Troia, l'ira di Apollo per l'uccisione di Troilo presso il santuario a lui dedicato, Priamo spaventato per ciò che
accade. I fratelli di Troilo, Ettore e Polites, escono dalle porte della città; sugli spalti, nelle feritoie, ci sono
cumuli di pietre da scagliare contro gli aggressori.
Sull'altro lato vi è il ritorno del dio Efesto sull'Olimpo, dal quale era stato scacciato dalla madre Era e al
quale viene ricondotto da Dioniso e dal suo tiaso. Nella metà sinistra della scena Era è seduta con Zeus e
Afrodite) alla presenza di altri dei; sulla destra Dioniso conduce il mulo su cui si trova Efesto accompagnato
da satiri e ninfe. Quella di Dioniso sul Vaso François è una rappresentazione precoce, non ce ne sono prima
del VI secolo a.C.; anche i satiri compaiono solo nella prima parte del VI secolo a.C. e quelli di Kleitias sono i
più inusuali; non solo perché hanno gambe equine, oltre a coda e orecchie come i satiri sui vasi
contemporanei, ma il loro intero aspetto è magro ed equino e, diversamente dalla maggior parte dei satiri a
Figure nere, per nulla suino. Le teste di satiri di Kleitias, con i loro nasi aquilini e i capelli sulla fronte, sono
molto simili alle teste dei suoi centauri, pur con qualcosa di più selvaggio e spaventoso.
Registro inferiore:
Vi si trova un fregio decorativo animalistico, con gruppi di animali e piante. Nell'arte arcaica gli animali sono
simboli di terrore e potenza; qui presentano una nuova eleganza, e vi compaiono alcune novità, come i
grifoni, che sono i primi rappresentati sui vasi attici, e la pantera che dimostra nell'atto di sferrare la
zampata felina in modo tutt'altro che convenzionale l'attenta osservazione dal vero da parte di Kleitias.[3]
Segue una fascia decorata a raggi.
Anse
I soggetti sono gli stessi su entrambe, con minime variazioni. Sulla superficie si trovano all'esterno due
riquadri sovrapposti: in quello superiore Artemide alata come signora degli animali e in quello inferiore
Aiace che porta il corpo di Achille ucciso;
Piede
Sul piede del vaso, tra due fasce decorative è raffigurata la scena comica della vivace lotta tra pigmei e gru
(o "geranomachia"), prima raffigurazione di questo tema iconografico ripreso da una citazione nell'Iliade.[7]
Tecnica
Le parti bianche e le sovradipinture brune sono in gran parte scomparse. Il Vaso François si pone all'inizio
del periodo maturo delle Figure Nere attiche, ma allo stesso tempo ha in sé qualcosa del periodo
precedente: l'uso del porpora per i volti degli uomini e la stesura del bianco direttamente sull'argilla
(quest'ultima causa della perdita del pigmento) ne sono alcuni aspetti.
Olpe chigi
Rinvenuta in una tomba etrusca a Veio (Etruria), l’olpe, una brocca a bocca rotonda utilizzata nei simposi
per versare il vino nelle coppe dei commensali, risale al 640 a.C. circa e riflette il passaggio dal Protocorinzio
Medio al Protocorinzio Tardo. Ha un’altezza di 26 cm e si tratta probabilmente di un dono o di un acquisto
di un principe etrusco. Oggi questa meraviglia si può ammirare al Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia a
Roma.
La straordinarietà dell’Olpe Chigi sta nella presenza di fregi figurati complessi che fanno uso della tecnica a
figure nere integrata abbondantemente con la policromia. Le scene raffigurate occupano gli spazi principali
della brocca, ovvero la spalla nella parte superiore, la pancia in posizione centrale, e la parte sottostante.

Partendo dal basso verso l’alto si possono notare delle scene che, lette in sequenza, raccontano una storia:
il programma iconografico rappresenta la successione di attività che un giovane aristocratico doveva
sviluppare nel corso della sua vita per diventare un cittadino corinzio a pieno titolo e figurare tra coloro che
combattevano in prima linea a difesa della città.
Era consuetudine che i rampolli della classe aristocratica delle poleis greche, nel programma di formazione
che erano tenuti a seguire, venissero avviati al combattimento fin dalla tenera età: la caccia alla lepre e alla
volpe, animali incruenti, rappresentava una buona palestra per esercitare i riflessi. Superata questa fase, i
giovani potevano mostrare il loro coraggio affrontando prove più rischiose, come la caccia al leone.
Non tutti riuscivano a sopravvivere, ma scampare alla morte significava poter ambire ad un matrimonio
eccellente: è per tale motivo che nel punto di massima espansione del vaso, collocato tra una serie di efebi
con doppia cavalcatura, campeggia l’unico episodio tratto dal repertorio mitico, ovvero il giudizio di Paride,
da cui avrà luogo l’unione con Elena, la donna più bella del mondo antico.

La scena dello scontro tra opliti potrebbe alludere alla guerra di Troia, sorta proprio a seguito dell’unione
tra il giovane troiano e la moglie di Menelao; e l’intento è senz’altro moraleggiante, con una nota di
avvertimento in conseguenza di nozze giudicate sbagliate, cioè di un premio ottenuto ingiustamente. Elena
era stata, infatti, offerta come contropartita a Paride dalla dea Afrodite per ottenere la vittoria nella contesa
tra lei e altre due divinità, Atena ed Era, per stabilire chi fosse la più bella dell’Olimpo.
Questo complesso programma iconografico destinato ai corinzi viene reso con grande perizia dal pittore,
che mostra di saper padroneggiare tutte le nuove tecniche della scuola protocorinzia, per rendere in pochi
centimetri una serie di particolari molto dettagliati.

La ceramica a figure rosse fu una tecnica per la decorazione di vasi in terracotta introdotta
ad Atene nel 530 a.C. dove sostituì gradualmente la più antica tecnica della ceramica a figure nere. I
nuovi ceramografi a figure rosse che si erano formati nello stile a figure nere continuarono ad utilizzare
per circa trent'anni la vecchia tecnica, spesso adoperandole entrambe su uno stesso vaso (ceramica
bilingue) o utilizzando le incisioni per alcuni dettagli delle figure rosse, come i capelli, dei quali si
incideva il contorno sullo sfondo nero. La persistenza delle figure nere nel primo periodo a figure rosse
indica che la ricerca di un nuovo modo di dipingere fu prevalentemente una scelta degli stessi
ceramografi e non un adattamento a richieste di mercato.[1]
La nuova tecnica di ceramica favorì un alto grado di specializzazione tra gli artisti. Nel periodo delle
figure rosse questi si differenziarono in pittori di vasi e pittori di coppe; le firme lasciate inoltre
testimoniano numerosi spostamenti di autori tra le varie officine, all'interno delle quali il lavoro assunse
così delle caratteristiche più industriali.[2]
Nei primi trenta anni del V secolo a.C. la tecnica raggiunse la sua massima espressione in Attica e da
questo momento iniziò una fase di declino che la condusse già alla metà del secolo ad uno stile ormai
accademico e manieristico, l'esito della seconda guerra del Peloponneso nel 404 a.C. privò Atene del
florido mercato in occidente e la ceramica attica a figure rosse terminò la propria parabola discendente
intorno al 300 a.C.
Le figure rosse attiche furono popolari in tutto il mondo greco, imitate e mai eguagliate; fu solo a ovest
tuttavia, nel sud Italia, che diedero luogo a produzioni indipendenti (quella apula è la scuola
maggiormente degna di nota) nel terzo quarto del V secolo a.C. ad opera di artisti inizialmente formati
nella tradizione attica.[3]

I vasi del Pittore di Andocide diedero una prima impronta allo stile, ma furono Eufronio e Eutimide (le
figure più importanti all'interno del cosiddetto Gruppo dei pionieri) a trarne le conseguenze fondamentali
in termini di disegno e composizione con l'accentuazione dello studio anatomico per una maggiore
unità strutturale dei corpi e un movimento maggiormente realistico pur mantenendo l'aderenza alla
superficie piana del vaso. Anche la rappresentazione degli abiti divenne in questo periodo motivo di
interesse e di studio e le scene di vita quotidiana, in particolare le palestre e i festini serali, affiancarono
più frequentemente quelle a tema mitologico.[3]

Dopo le grandi innovazioni nella resa anatomica e nel movimento messe in atto nel periodo
precedente, i primi due decenni del V secolo a.C. condussero al miglioramento di elementi di dettaglio
e alla stabilizzazione della tecnica. Diversamente da quanto avveniva nella scultura contemporanea,
che si avviava verso lo stile severo, lo schematismo arcaico non fu totalmente abbandonato dalla
pittura vascolare, un'arte sostanzialmente decorativa, e fu in questo momento che le arti iniziarono a
divergere.[6]
Si approfondì la divisione tra pittori di grandi vasi e pittori di coppe. Il ventennio fu dominato da sei
artigiani di qualità superiore, una generazione nata dall'esperienza dei Pionieri: due anonimi decoratori
di vasi di grandi dimensioni, il Pittore di Kleophrades e il Pittore di Berlino, e quattro personalità che si
distinsero prevalentemente nella decorazione delle coppe, Duride, Macrone, Onesimos e il Pittore di
Brygos.[7]

Periodo severo

Lo stile severo è una fase della scultura greca databile tra il 480 e il 450 a.C., ovvero il periodo di transizione
tra l'arcaico maturo e il pieno classicismo[1].
Il periodo entro il quale si sviluppa lo "stile severo" è nel mondo greco particolarmente vivace sotto ogni
aspetto. Le riforme di Clistene segnarono un deciso avanzamento, in politica, fino a un regime democratico.
Acquisirono importanza nuove istituzioni rette da gruppi sociali diversi dagli aristocratici che avevano
sponsorizzato la raffinata arte arcaica[2].

Grandi avanzamenti si verificarono nel campo delle scienze, degli ordinamenti sociali, nel pensiero filosofico
e nelle arti legate alla parola, poesia e teatro: una rivoluzione dello spirito che l'arte recepì e a cui
partecipò. L'antropocentrismo greco giunse a maturazione: i raggiungimenti nello studio dell'anatomia e
della chirurgia portarono a cambiamenti nell'arte a livello formale e un nuovo modo di pensare, quale si
manifestò ad esempio nella tragedia, comportò una nuova rappresentazione dell'umanità, più concentrata
e meditativa.

Con le vittorie militari sui Persiani andò maturando nella coscienza greca un'affermazione di superiorità
della loro cultura e civiltà. Le rovine dopo gli avvenimenti bellici inoltre diedero nuovo impulso alla
produzione scultorea, reintegrando opere distrutte in guerra[2].

Elementi caratterizzanti[modifica | modifica wikitesto]


Già Cicerone e Quintiliano, parlando dell'arte di questi anni, giudicarono le sculture "rigide e dure",
seguendo un'interpretazione evoluzionistica della storia dell'arte, con la fase "severa" quale preparazione
all'arte classica[2].

Se lo stile arcaico si era formato nella definizione della linea di contorno che racchiudeva la figura[3], nello
stile severo sono gli elementi anatomici ad assorbire l'attenzione degli artisti soprattutto per quanto
riguarda la loro funzione all'interno della struttura corporea; non sono i lineamenti esterni che interessano,
i particolari o le manifestazioni contingenti, ma i meccanismi interni che determinano l'equilibrio delle
forme esterne, con una concentrazione che conduce, per conseguenza, all'eliminazione di ogni accenno
decorativo.

Parallelamente alla ricerca di un maggiore realismo anatomico nelle singole figure, si sperimenta una
minore rigidità nella disposizione delle stesse nello spazio e nei rapporti spaziali tra una figura e l'altra.
Malgrado gli effettivi documenti sui quali è possibile oggi studiare e riconoscere ciò che chiamiamo "stile
severo" la vera guida del cambiamento in arte sembra essere stata la pittura, un ruolo di cui restano
testimoni le fonti letterarie e la pittura vascolare della fine del VI secolo, nel momento in cui avvenne il
passaggio dallo stile a figure nere allo stile a figure rosse. È infatti nella grande pittura murale che sembrano
essere state sperimentate quelle innovazioni che è possibile leggere nella decorazione scultorea del Tempio
di Zeus ad Olimpia: la particolarità nella scelta del momento della rappresentazione, le soluzioni
prospettiche, la tipizzazione della figura umana.

Tra gli scultori il materiale prediletto era il bronzo: le statue bronzee ottenute con la tecnica della fusione a
cera persa riproducono esattamente i modelli in terracotta o argilla e questo materiale rendeva possibile
una sperimentazione compositiva e formale altrimenti impensabile[2].

L'esito di particolare equilibrio, di "misura", tra reale e ideale a cui giunse l'arte greca nel periodo "severo"
dovette arrestarsi di fronte ad una nuova manifestazione artistica, quale si diede a partire dalla metà del V
secolo a.C., detta classico maturo; l'attenzione agli aspetti psicologici, agli atteggiamenti e ai "tipi" umani
tornerà nel periodo ellenistico, ma dotata ormai di valenze culturali differenti[4].
I Bronzi di Riace sono due statue di bronzo di provenienza greca databili al V secolo a.C. pervenute in
eccezionale stato di conservazione.[1][2]
Le due statue – rinvenute il 16 agosto 1972 nei pressi di Riace Marina, in provincia di Reggio
Calabria – sono considerate tra i capolavori scultorei più significativi dell'arte greca, e tra le
testimonianze dirette dei grandi maestri scultori dell'età classica. Le ipotesi sulla provenienza e sugli
autori delle statue sono diverse, ma non esistono ancora elementi che permettano di attribuire con
certezza le opere ad uno specifico scultore.[3][4]

I due bronzi sono quasi certamente opere originali dell'arte greca del V secolo a.C., e dal momento del
ritrovamento hanno stimolato gli studiosi alla ricerca dell'identità dei personaggi e degli scultori. Ancora
oggi non è stata raggiunta unanimità per quanto riguarda la datazione, la provenienza e tanto meno gli
artefici delle due sculture.

Tra chi sostiene che si tratti di opere realizzate in tempi diversi qualcuno afferma che la parte superiore
della statua A appare alquanto statica, ricordando alcuni modi dello Stile severo della prima metà del V
secolo a.C., mentre la statua B, con la sua esatta e naturale presenza nello spazio, sarebbe dimostrazione di
quel superamento di rigidezza nella figura, che la scultura greca incominciò a presentare solo nel corso
della seconda parte del V secolo a.C.; ciò ha portato a ipotizzare che la statua A potesse essere opera di
Fidia o della sua cerchia, realizzata intorno al 460 a.C. e che la statua B fosse da collegare a Policleto, nella
torsione del busto e nella posizione di riposo della gamba sinistra, realizzata perciò alcuni decenni dopo,
verso il 430 a.C. Nella ricerca degli scultori, sono stati fatti anche i nomi d'altri famosi bronzisti
dell'antichità, fra i quali Pitagora di Reggio, attivo dal 490 al 440 a.C., scultore di molte statue ricordate in
Grecia e Magna Grecia, che fu capace per primo di rappresentare minutamente sia i capelli che altri
particolari anatomici, come ad esempio le vene.

Insieme alle congetture sui possibili scultori, si sono formulate ipotesi che riguardano da una parte l'identità
dei due personaggi raffigurati, dall'altra le località del mondo di cultura greca che aveva ospitato le opere.
Per quanto concerne l'identità dei soggetti, certamente ci troviamo di fronte a raffigurazioni di divinità o
eroi, perché la realizzazione di statue del genere era sempre dovuta alla committenza di una città o di una
comunità che intendeva celebrare i propri Dei o eroi, impegnando un artista, per oltre un anno di
lavorazione per ogni statua, e in più, mettendogli a disposizione un materiale, il bronzo, molto costoso. Fino
ad oggi, le ipotesi fatte sull'identità dei personaggi, citando divinità ed eroi dell'antica comunità greca, non
essendo sostenute da indizi reali, non hanno potuto risolvere gli interrogativi posti dai due Bronzi.

Riguardo alle località che anticamente possono aver ospitato le statue (al di là dell'ipotizzata provenienza
da Reggio stessa, Locri Epizefiri, Olimpia o Atene), si è seguito l'indizio reale costituito dai tenoni ancora
presenti, al momento del ritrovamento, sotto i piedi dei due Bronzi – usati originariamente per ancorarli a
basi di pietra. I calchi dei tenoni, seguendo una delle ipotesi più affascinanti, sono stati trovati nei Donari
del Santuario di Apollo a Delfi, dove però non hanno trovato collocazione giusta in nessuna base di
monumento ancor oggi esistente, facendo restare non dimostrata anche l'ipotesi della provenienza di
almeno una delle due statue dal complesso degli ex voto che, ai lati della Via Sacra del Santuario,
comprendeva al tempo un centinaio di statue d'eroi della comunità greca.

Come l'attribuzione dello scultore e l'identificazione delle due statue, è ancora incerta la località di partenza
del viaggio di queste statue, perché la nave che li trasportava si trovava lungo una rotta marittima
normalmente seguita tra Grecia, Magna Grecia e Italia tirrenica (e viceversa); naturalmente non si hanno
poi indicazioni sulla destinazione del trasporto
I Bronzi di Riace presentano una notevole elasticità muscolare essendo raffigurati nella posizione definita a
chiasmo. In particolare il bronzo A appare più nervoso e vitale, mentre il bronzo B sembra più calmo e
rilassato. Le statue trasmettono una notevole sensazione di potenza, dovuta soprattutto allo scatto delle
braccia che si distanziano con vigore dal corpo. Il braccio piegato sicuramente sorreggeva uno scudo, l'altra
mano certamente impugnava un'arma. Il bronzo B ha la testa modellata in modo strano, appare piccola
perché consentiva la collocazione di un elmo corinzio. Il braccio destro e l'avambraccio sinistro della statua
B hanno subito un'altra fusione, probabilmente per un intervento di restauro antico.

Lo studio dei materiali e della tecnica di fusione rivela comunque una certa differenza tra le due statue, che
secondo alcuni potrebbero essere attribuite ad artisti differenti o realizzate in epoche distinte oppure da
uno stesso artista in luoghi differenti.

A seguito del restauro terminato il 14 giugno 1995, il materiale interno ai Bronzi ha rivelato la tecnica usata
per realizzare la forma delle due statue. Si è appreso che, intorno al simulacro iniziale, il modello finale
(prima del perfezionamento nei dettagli con la cera), fu realizzato sovrapponendo varie centinaia di strisce
d'argilla, rese facili da manipolare perché vi erano stati mescolati peli d'animali. Era questo un modo di
lavoro particolarmente difficile e lento, che però alla fine riusciva a far crescere nel modo voluto le masse
del corpo e dei muscoli, come dimostrano le stratificazioni concentriche dell'argilla trovata nelle gambe e
nel torace dei due Bronzi.

Cronide di capo artemisio

Il Cronide di capo Artemisio è una statua bronzea (h. 209 cm) dell'antica Grecia, databile al 480-470 a.C.
circa e conservata nel Museo archeologico nazionale di Atene. Fu ritrovata nei fondali marini antistanti
capo Artemisio, nell'odierna Eubea, ed è una delle pochissime opere bronzee originali che ci sono giunte.

Storia

Dettaglio del busto.


Il ritrovamento della statua avvenne nel 1926, anche se il recupero fu completato nel 1928. Essa si trovava
nei pressi di un relitto databile intorno al 200 a.C., del quale si sa poco, in quanto la spedizione di recupero
fu interrotta a causa della morte di un sub e mai più ripresa. Si presume che la nave fosse di origine
romana, una delle tante navi che all'epoca solcavano quei mari per portare elementi di arte greca verso
Roma. Anche se così fosse, a causa dell'interruzione dell'operazione di recupero, non è ancora chiaro se la
statua fosse imbarcata sul vascello o no.
Si è cercato senza successo di accostare il Cronide a uno dei grandi bronzisti greci dell'epoca, i cui nomi ci
sono stati tramandati dalle fonti: Onata di Egina, Pitagora di Reggio o Calamide. La mancanza però di opere
certe e l'inesistenza di accenni diretti al dio di Capo Artemisio rendono impossibile formulare
un'attribuzione sicura.

Descrizione e stile[modifica | modifica wikitesto]

La distinzione iconografica tra Zeus e Posidone è piuttosto difficile essendo rappresentati spesso in modo
molto simile. In questo caso, tuttavia, la disposizione della mano che lancia propende più per il tridente
piuttosto che per il fulmine, questo solitamente impugnato con tutte le dita a differenza del primo
impugnato con sole tre dita atte a calibrare il lancio[1].

Veduta tergale.
La statua rappresenta una figura maschile nuda protesa probabilmente nel lancio di un fulmine in avanti:
guardando il busto frontalmente, le gambe sono saldamente poggiate a terra e ruotate verso sinistra. Il
peso del corpo è sulla gamba sinistra e con quella destra, invece, cerca di darsi la spinta. Le braccia sono
entrambe distese all'altezza delle spalle e il volto è ruotato sempre verso sinistra fissando un obiettivo. Il
braccio sinistro è nell'atto di prendere la mira e quello destro è teso indietro, ma non è chiaro cosa la statua
dovesse tenere nella mano destra, forse un fulmine oppure un tridente (si tratterebbe quindi di una figura
di Zeus o, rispettivamente, di Poseidone, entrambi figli di Crono, da cui il nome Cronide), o qualcos'altro. Il
volto barbuto e con l'acconciatura finemente cesellata è tipico delle statue di divinità.

Lo scultore voleva indicare movimento dinamico, con l'apertura delle gambe, detta a "forbice", restando
attento all'equilibrio compositivo, che per i greci stava a simboleggiare qualità interiori. Braccia e gambe nel
complesso formano un chiasmo, ovvero una figura simile alla lettera chi dell'alfabeto greco (χ), secondo una
modalità compositiva assai in voga nel periodo arcaico; rispetto a atleti precedenti è chiaro però come il
Cronide sondi maggiormente lo spazio circostante con la posa aperta, sebbene sia ancora prevalente una
visione di tipo frontale.

Si presume che in origine negli occhi ci fossero inserti in avorio, che le sopracciglia fossero rivestite in
argento e che le labbra e i capezzoli fossero rivestiti in rame.
L'Auriga di Delfi
è una scultura greca bronzea (h. 184 cm), databile al 475 a.C. e conservata nel Museo archeologico di Delfi.

Storia
Rinvenuta negli scavi del santuario di Apollo a Delfi, faceva parte di una quadriga, commissionata da
Polizelo (Polizelo di Dinomene), tiranno di Gela, forse per ricordare una vittoria ottenuta nella corsa con i
carri, nel 478 o 474. Venne rinvenuta poiché sepolta da una caduta di massi dalle rupi Fedriadi nei pressi di
dove era collocata.

L'autore della statua è sconosciuto; l'ipotesi più probabile è che sia opera di Sotade di Tespie[1] o di
Pitagora di Reggio[2][3].

Descrizione e stile
La statua era collocata su un carro trainato da cavalli, del quale si conservano solo pochi frammenti. Lo
stato di conservazione è ottimo, anche se è mancante del braccio sinistro. Venne fusa a pezzi in bronzo
spesso, perché più resistente all'esposizione alle intemperie, con rifiniture eseguite a freddo: col bulino e
con applicazioni di argento per la benda ("tenia"), rame per le ciglia, pietra dura per gli occhi[3].

L'auriga veste un lungo chitone cinto in vita, pesante, scanalato, rigido quasi a costruire una colonna; nella
mano destra tiene delle redini; il volto è leggermente rivolto a destra. Attorno al capo la tenia del vincitore,
con decoro a meandro e incrostazioni di rame e argento. I capelli sono finemente disegnati, in riccioli che
non alterano le dimensioni del capo. Lo sguardo è intenso e vivo, con la tensione competitiva appena
leggibile, stemperata dall'atteggiamento sorvegliatamente misurato del corpo[3].

I piedi sono resi con una naturalezza fresca e precisa, molto veristica: mostrano infatti i tendini tesi per lo
sforzo appena compiuto[3].

Nessuna statua pervenutaci lontanamente rassomiglia all'auriga: solo alcuni esemplari ritrovati nella Magna
Grecia similmente e sommariamente ci ricordano il modello di Delfi. È soprattutto nel volto che si concentra
la singolarità di questo bronzo: legato alla bellezza ideale, dotato di tratti particolarissimi, è possibile che sia
stato sviluppato a partire da un volto individuale.

Nonostante la statua sia evidentemente legata ai moduli arcaici, essa è percorsa da un vigore innovativo.
L'Auriga di Delfi come il celebre Cronide di Capo Artemisio sono da considerarsi appartenenti allo stile
severo, sviluppatosi in Grecia tra il 480 e il 450 a.C.
La Kore di Euthydikos
(a volte italianizzata in "Eutidico") è una scultura votiva in marmo pario, di dimensioni inferiori al vero,
databile al 490-480 a.C. circa e conservata nel Museo dell'acropoli di Atene. Venne distrutta in occasione
della Seconda guerra persiana nel 480 a.C.

Scoperta
Fu una delle tante statue scoperte nella colmata persiana: dell’originale rimangono il busto dalla vita in su
insieme alla testa e, separatamente, le gambe al di sotto delle ginocchia insieme ai piedi e alla base. La
porzione superiore (Acropolis 686) fu ritrovata nel 1882 sull’acropoli di Atene, ad est del Partenone. Nel
1886-1887 venne alle luce la parte inferiore nei pressi dell’Eretteo.

Descrizione e stile

Dettaglio dei piedi e della base con l'iscrizione


La kore di Euthydikos è una testimonianza del passaggio dallo stile tardo arcaico allo stile severo, del quale
anticipa alcuni elementi pur appartenendo cronologicamente all’età arcaica. Alla tradizione precedente
appartiene il genere stesso dell’opera, nonché la postura frontale con il braccio destro allungato ad offrire
un dono ed il sinistro che tira la gonna sul fianco. Tra le novità, invece, fin da subito si notò che il volto
mancava del caratteristico sorriso arcaico, tanto che la kore ricevette il soprannome di imbronciata.

Le vesti (un himation sopra al chitone) sono di tradizione ionica e contraddistinte da un certo manierismo.
Esse rivelano però i volumi del corpo sottostante, come si può vedere nella parte inferiore: anche questa
attenzione rende la scultura un precoce esempio della statuaria di prima età classica. Sopra le vesti vennero
aggiunte decorazioni dipinte, come il fregio rappresentante una corsa di carri sul chitone. Sopra i capelli,
che ricadono in tre trecce sopra ciascuna spalla, la fanciulla indossa una tenia.

Per la somiglianza con l’Efebo biondo è stato proposto che le due opere siano state scolpite dallo stesso
autore.

Sulla base in marmo pentelico è riportata la seguente iscrizione:

ΕΥΘΥΔΙΚΟΣ Ο ΘΑΛΙΑΡΧΟ ΑΝΕΘΕΚΕΝ


«Euthydicos, figlio di Thaliarchos, ha dedicato (questa statua)».

Efebo biondo
L'Efebo biondo è una scultura del tipo del kouros in marmo pario di dimensioni inferiori al vero databile al
490-480 a.C. circa di cui sono rimasti soltanto la testa (Acropolis 689), conservata nel Museo dell'Acropoli di
Atene, ed il bacino.
Venne ritrovata nell’angolo sud-est dell’Acropoli di Atene insieme a muri di un antico edificio. Non è stata
mai provata dal punto di vista archeologico la sua provenienza dai detriti dell’epoca della seconda guerra
persiana. La datazione antecedente al 480 a.C. viene comunque accettata da molti studiosi per motivazioni
stilistiche.

Descrizione e stile
Questa scultura è infatti spesso accostata ad opere coeve come l’Efebo di Crizio e la Kore di Euthydikos:
quest’ultima, in particolare, potrebbe essere stata realizzata dallo stesso artista dell’Efebo biondo. Il suo
nome attuale è dovuto alla presenza di tracce di colore giallo sui capelli al momento della scoperta.

Notevole è la forte torsione a destra a livello del collo, che sarebbe ripresa dal frammento, corrispondente
al bacino, concordemente associato alla testa. Il corpo nel suo intero, secondo la ricostruzione, doveva
avere il peso appoggiato sulla gamba sinistra. Se questo è un elemento già tipico della prima età classica, i
capelli lunghi a riccioli chiusi da due trecce sono di tradizione arcaica: forte e innovativo è però il contrasto
che si forma fra questi ed il volto levigato.

Apollo Chatsworth

L'Apollo Chatsworth, noto anche come Chatsworth Head è una testa di bronzo di dimensioni leggermente
superiori al naturale che data a circa il 460 a.C. e che ora si trova al British Museum.

Descrizione
La testa in origine era parte di una statua completa, probabilmente, (visto i capelli ricci che arrivano alle
spalle) di Apollo, fatta di varie sezioni (testa, braccia, gambe, alcuni dei ricci dei capelli) prodotte
separatamente con tecnica della fusione a cera persa poi riunite. Una gamba della stessa scultura è al
Louvre (Br 69). Gli occhi probabilmente in origine erano fatti da inserti di vetro, marmo o avorio, tenuti in
loco da piastre di bronzo ancora visibili, che piegano in fuori a formare le ciglia. Le labbra sembrano siano
ricoperte con rame rosso per imitare il loro colore naturale.[1]

Scoperta[modifica
Nel 1834 il Louvre decise di acquistare la prima grande statua di bronzo rinvenuta in periodo moderno,
dopo la sua scoperta in Italia, vicino all'Isola d'Elba. Due anni dopo una statua completa fu scoperta vicino
Tamassos a Cipro e fu immediatamente recuperata dagli abitanti che la scavarono dalla sua posizione
usando un carro di buoi. Durante il viaggio la statua crollò perdendo gambe, braccia e torso.[2]

Provenienza
La testa fu acquistata da William Cavendish, VI duca di Devonshire a Smirne da H.P. Borrell nel 1838.[3] Le
altre parti della statua andarono perse, ma si pensa che una gamba, ora al Louvre, sia stata in origine parte
della statua.[2]

Il VI Duca del Devonshire e i suoi successori presero residenza alla Chatsworth House, da cui la statua
prende nome. Fu prestata al Fitzwilliam Museum nella metà degli anni 1930 e fu poi acquistata, dall'XI
duca, da parte British Museum nel 1958. È nel catalogo del British Museum con il numero 1958 0418 1 ed è
esposto nella Room 15.

Caratteristiche particolari
Una piccola sezione laterale nel retro della testa, al livello degli occhi, è stata rimossa in un modo che
implica che fosse stato fatto per permettere alla luce di illuminare gli occhi della statua. Può darsi che la
testa fosse posizionata in modo da sfruttare questa caratteristica in un tempio, o la posizione del sole in un
dato periodo dell'anno, ma questa è una ipotesi.
Il Discobolo
Il Discobolo è sicuramente una delle sculture più famose dell’antichità. Fu realizzato dal grande artista tra il
455 e il 450 a.C. La statua, come indica lo stesso nome, rappresenta un atleta mostrato nell’atto di lanciare
il disco, durante una competizione sportiva. Qualcuno ha riconosciuto nel giovane sportivo la figura
mitologica di Giacinto, ragazzo amato da Apollo e ucciso, involontariamente, proprio dal dio, che poi lo
trasformò in fiore. L’originale in bronzo di Mirone è andato perso ma la statua è nota grazie ad alcune copie
romane in marmo o in bronzo. Fra quelle marmoree, due in particolare sono degne di interesse, in quanto
completamente integre: la versione detta Lancellotti del Museo Nazionale delle Terme a Roma, considerata
la più bella, e la versione detta Townley, conservata al British Museum di Londra. Tali versioni sono quasi
identiche, differendo solo per la posizione della testa.

L’atleta impugna il disco nella mano destra e sembra colto nel momento in cui, dopo averlo alzato, si
appresta a compiere una forte rotazione prima di scagliarlo. Il corpo è ripiegato su sé stesso, a esclusione
del braccio destro che invece è completamente disteso all’indietro per ottenere più slancio. Il braccio
sinistro è appoggiato quasi verticalmente al ginocchio destro. Il torso, flesso in avanti, ruota verso destra,
come la testa, nella versione Lancellotti girata in direzione del braccio destro sollevato.

I muscoli sono incredibilmente contratti e le vene in rilievo sembrano pulsare. Il viso del giovane, tuttavia, è
assolutamente sereno, non manifesta alcun segno dello sforzo compiuto. Eppure, nessuno dubita della
natura dell’azione di questo atleta; è facile anzi immaginare quale atto abbia preceduto, quale seguirà
quello che il marmo ha fissato e quindi tutto lo svolgimento del moto.

La posa del Discobolo appare talmente sciolta, naturale e convincente che la scultura è stata considerata
come una delle più vive rappresentazioni di moto proposte da uno scultore classico. Una sorta di
fotogramma, in grado di fissare l’attimo esatto in cui, raggiunta la massima torsione, l’atleta si ferma un
solo istante, prima di effettuare lo scatto e scagliare il disco. Un esame più accurato dell’opera, invece,
suggerisce che Mirone volle soltanto esprimere solo l’idea del movimento, attraverso la costruzione
rigidamente geometrica di una posizione.

L’artista, cioè, scelse di alterare la rigorosa “verità” del gesto atletico per ottenere una “immagine” più
nobile e bella di quel gesto. Il busto dell’atleta si presenta infatti frontalmente, nonostante le sue gambe
siano di profilo; il braccio destro che regge il disco forma con il braccio sinistro e la gamba sinistra
(arretrata) un arco ideale ed elastico che compensa quello creato dalla coscia destra e dal torso. Un vero
atleta non riuscirebbe a scagliare il disco posizionandosi così.

Se dunque l’anatomia di un vero discobolo è stata osservata con attenzione e riproposta con fedeltà
assoluta, il fenomeno del suo movimento non è stato fedelmente riprodotto ma studiato e semplificato
attraverso l’uso di motivi convenzionali, sia pure mediati da una nuova attenzione per il dato naturale. Non
sfugge, inoltre, che, per quanto la statua sia a tutto tondo, la sua visione frontale resta di gran lunga quella
più interessante.

Fidia
Fidia (in greco antico: Φειδίας, Pheidías; Atene, 490 a.C. circa – Atene, 430 a.C. circa) è stato uno scultore e
architetto ateniese, attivo dal 470 a.C. circa ad Atene, Pellene, Platea, Tebe e Olimpia.

Zeus crisoelefantino
A completamento del grande tempio, la cui costruzione terminò verso il 456 a.C., fu chiamato ad Olimpia
intorno al 436 a.C. lo scultore Fidia. Tra il completamento del tempio e la commissione della statua
trascorsero vent'anni; i sacerdoti di Olimpia scelsero di affidare il lavoro a Fidia solo dopo l'inaugurazione ad
Atene della sua Atena Parthénos statua di culto all'interno del Partenone ad essa dedicato nel 438 a.C. A
disposizione dello scultore fu messo un edificio, a ovest del tempio, in cui sono rimaste tracce e reperti dei
materiali impiegati: avorio, ceramica, pasta vitrea e ossidiana, punteruoli, palette, martelli, lamine di
piombo e altro.[1] Fidia operò probabilmente con numerosi aiuti e completò l'opera intorno al 433 a.C.,
visto che l'anno seguente tornò ad Atene.[2]

La statua rimase nel santuario per oltre ottocento anni, suscitando sempre stupore e meraviglia nei fedeli.
L'imperatore romano Caligola (37-41), secondo Svetonio, cercò inutilmente di impossessarsi della statua
con ogni mezzo per portarla a Roma.

Della statua, nonostante l'enorme fortuna che ebbe nel mondo antico, non rimangono copie. Al contrario,
l'opera risulta ampiamente e dettagliatamente descritta dagli scrittori del mondo greco e latino, che
crearono attorno ad essa una ricca aneddotica. Anche le dimensioni della statua sono state ricostruite sulla
base delle numerose descrizioni provenienti dagli autori classici.

Il basamento della statua crisoelefantina occupava un'area di più di sei metri per dieci, e doveva superare i
12 metri di altezza. L'impressione di monumentalità doveva essere accentuata dalla non troppo felice
proporzione delle dimensioni tra essa e la struttura in cui era collocata: pur essendo il tempio di dimensioni
considerevoli, la testa di Zeus, rappresentato seduto in trono, ne sfiorava il soffitto, tanto che Strabone
ebbe a scrivere che, se il dio si fosse alzato in piedi, avrebbe scoperchiato il tempio.[9]

Un'esauriente descrizione ci viene dalle pagine di Pausania[10]: Zeus reggeva nella mano destra una Nike
(vittoria) d'oro[11][12] e avorio[13], mentre nella sinistra teneva uno scettro su cui poggiava l'aquila d'oro,
simbolo della divinità[14]. Il dio indossava sandali e il mantello di lamina d'oro era decorato con fiori di
giglio in pietra dura e pasta vitrea. Il trono, crisoelefantino anch'esso e decorato con ebano e pietre
preziose, recava in rilievo numerose rappresentazioni di ispirazione storica e mitologica, idealmente
collegate alle decorazioni già presenti nel tempio.

Atena parthenos
La statua crisoelefantina raffigurante Atena Parthènos (Αθηνά Παρθένος, "Atena la vergine") fu scolpita da
Fidia nel 438 a.C., anno in cui raggiunse il culmine della sua fama. Alta oltre 12 metri,[1] era collocata nel
nàos del Partenone, tempio principale dell'Acropoli di Atene che proprio da essa prese il nome. Della
statua, non pervenutaci, rimangono solo delle copie in scala molto ridotta e qualche raffigurazione su
gemma.

Realizzata solo pochi anni prima e con gli stessi materiali della Statua di Zeus a Olimpia,[2] si tramanda che
la statua fosse di dimensioni tali che per la sua costruzione occorse oltre una tonnellata d'oro (più
precisamente 1137 kg)[3]; il costo totale fu di 750 talenti, il corrispondente del salario annuo di 12.750
lavoratori.[4]

La statua è descritta dallo scrittore greco Pausania nel primo libro della sua Periegesi della Grecia (I. 24, 5-
7).[5]

La statua - secondo William Bell Dinsmoor - venne danneggiata da un incendio verificatosi all'interno del
Partenone poco prima del 165 a.C.,[6][7][8] ma fu restaurata, troneggiando nel tempio fino al V secolo,
quando un altro incendio la distrusse.[4]
Descrizione[modifica | modifica wikitesto]
Era alta circa 12,75 metri.[1] Differentemente dalla Statua di Zeus a Olimpia, realizzata pochi anni dopo da
Fidia, in cui il dio era ritratto in posizione seduta e in atteggiamento pacifico, la statua di Atena era ritta in
piedi e vestita come una guerriera, indossava un elmo, una corazza pettorale ed era dotata di lancia e
scudo.[2]

Dalle piccole copie sopravvissute è possibile ricostruire l'aspetto della statua: sul braccio destro della dea,
sostenuto da una colonnetta, si trovava la dea Nike, che simboleggiava le molte vittorie conseguite, mentre
il sinistro reggeva una lancia e poggiava su uno scudo, ornato sul lato esterno dalle scene di
amazzonomachia e su quello interno da una gigantomachia. Tale scudo aveva un diametro di quattro metri,
e nascondeva il serpente Erittonio, sacro ad Atena. I sandali rappresentavano scene di centauromachia. Le
decorazioni della statua riprendevano insomma quelle del fregio del tempio che l'ospitava.[9]

La dea indossava il peplo, contraddistinto da pieghe profonde, chiuso con una decorazione che
rappresentava Medusa, e l'egida, lo scudo che spesso è presente nelle sue raffigurazioni, ornato al centro
dalla testa di una Gorgone. Sulla testa la dea vestiva un elmo crestato con un cavallo raffigurato sopra di
esso. Sui tre cimieri si trovano anche una sfinge, che rappresenta la grande sapienza degli Egizi, e dei grifi
alati.

Su una copia dell'Atena Parthenos conservata al Museo nazionale romano è stata ritrovata la firma
frammentaria di uno scultore di nome Antioco.

Partenone

Il Partenone di Atene è il più importante tempio dell’Acropoli, ed è considerato la massima espressione


dell’architettura greca. Il tempio è dedicato ad Atena, dea della saggezza e protettrice della città di Atene.
Distrutto il primo tempio, quando la città fu conquistata dai Persiani tra il 480 e il 479, fu ricostruito sotto
Pericle ed affidato alla direzione di Fidia. Ictino e Callicrate, tra il 447 e il 438 edificarono il Partenone
proseguendo, modificando e ampliando un precedente tempio, ovvero un edificio periptero esastilo che
presentava il parthenon oltre al naos.

Il Partenone è dedicato alla dea Atena Parthenos (Atena Vergine). Ha una peristasi di 30,88 x 69,50 metri,
ed è di ordine dorico periptero octastilo.

La cella è divisa in tre navate da due file di colonne doriche; ogni fila è formata dalla sovrapposizione di
colonne di due dimensioni (quelle inferiori più alte e quelle superiori più basse). Le due file erano unite da
una fila supplementare di colonne sul lato Ovest, ad accogliere la statua crisoelefantina di Athena fidiaca.

A differenza degli altri templi, il Partenone presenta oltre al naos un altro locale, largo quanto il naos e
lungo più o meno la sua metà. Parliamo del Parthenon, al cui interno le vergini ateniesi tessevano il peplo
da offrire alla statua di Athena durante le feste Panatenèe a lei dedicate.

PARTENONE, STORIA E STRUTTURA Al momento della costruzione del Partenone, tra il 447 a.C. e il 432
a.C., per la sua decorazione furono creati tre gruppi di sculture: le metope, il fregio e le sculture dei
frontoni. Fra questi, le metope e il fregio facevano parte della struttura stessa del Partenone: non furono
prima realizzati e successivamente collocati sul tempio, ma scolpiti direttamente in situ, una volta ultimato.
Le metope erano singole sculture in altorilievo. Esistevano originariamente 92 metope, 32 su ciascuno dei
lati lunghi e 14 su ognuna delle due fronti. Ogni metopa era separata dalla seguente attraverso una
semplice decorazione architettonica, il triglifo.

Le metope erano disposte tutt'intorno all'edificio, sopra la fila esterna di colonne, e raffiguravano varie
battaglie mitologiche:

Sul lato nord era rappresentato l’Ilioupersis, scene della guerra di Troia;
il lato sud era dedicato alla Centauromachia, la battaglia tra i Lapìti e i Cenaturi (metà uomini, metà cavalli);
sulla facciata orientale era raffigurata la Gigantomachia, gli dèi dell'Olimpo in lotta contro i giganti;
a est era rappresentata l’Amazzonomachia, la battaglia tra i Greci e le Amazzoni.
I temi delle metope simboleggiano la vittoria della civiltà sulle barbarie, e della ragione sull’irrazionale. Né è
un esempio la vittoria del Lapit sul centauro.

Il fregio ionico, lungo 160 metri, era disposto al di sopra delle mura della cella, all'interno del peristilio
(ovvero la fila di colonne esterne), e non immediatamente visibile. È un'unica, continua scultura in
bassorilievo, e rappresenta la processione al tempio in occasione delle festività Panatenèe in onore di
Athena Polis.

Si può constatare la grandezza della concezione artistica di Fidia soprattutto nei due frontoni.
La tecnica scultorea di Fidia appare estremamente raffinata. Le statue, ciascuna delle quali assume pose ed
espressioni sempre diverse dalle altre sono finite anche nella loro parte posteriore non in vista. Infatti, a
differenza del tempio di Artemide a Corfù, dove si riduceva via via la misura delle statue senza curarsi della
sproporzionalità, e in quello di Aphaia a Egina dove le statue assumono posizioni diverse per occupare gli
spazi più piccoli del timpano, nel Partenone si ha l’impressione di una riduzione prospettica delle figure.

Descrizione e stile
Le statue, giunte a noi in condizioni frammentarie, mostrano le mani di più scultori, sebbene sia evidente
un progetto unitario di Fidia, che sicuramente realizzò personalmente alcuni dettagli. Le sculture erano
originariamente arricchite da dettagli bronzei e dipinte. Si è ipotizzato però che la colorazione fosse più
tenue di quella dei frontoni arcaici (come i frontoni di Egina), assecondando maggiormente i valori plastici
delle sculture.[1]

Entrambi i frontoni mostrano la genialità dello scultore ateniese, che si svincolò dai modelli precedenti, ad
esempio evitando di utilizzare una sola figura centrale, e generando un ritmo tra le figure che si propaga
anche ai rilievi laterali del tempio.[1]

Le statue infatti non sono distaccate una dall'altra (paratassi), non hanno una storia a sé propria, ma
interagiscono fra di loro, entrano in contatto concatenandosi. Ad ogni movimento concitato ne corrisponde
uno rilassato, secondo le regole del canone di Policleto.

Frontone orientale

Dioniso
Il frontone orientale raffigurava la mitica nascita di Atena dal cranio di Zeus:[2] il mito, raffigurato nella
parte centrale, è oggi completamente perduto. Ai lati stavano altre divinità che assistevano all'evento, di
difficile identificazione. Gli angoli erano probabilmente occupati dalle raffigurazioni del carro del Sole,
guidato da Helios (a sinistra) e della Luna, condotto da Selene (a destra),[3] che davano l'orizzonte
temporale simbolico del racconto. Partendo da sinistra si incontra una statua sdraiata che guardava verso il
carro del Sole, probabilmente Dioniso,[4] seguito dal gruppo di Demetra e Persefone, alle quali accorre una
donna per portare la notizia prodigiosa, forse Artemide o Iris.[1]

Sull'altra metà, quella destra, tre figure femminili stanno sedute o semisdraiate: si tratta forse di Hestia, dea
del focolare domestico, che si sta alzando facendo leva sul piede destro, Dione e Afrodite, reclinata nel
grembo della madre; tuttavia alcuni ritengono che queste ultime due rappresentino il mare (Thalassa) in
grembo alla terra (Gaia).[5] Altre statue perdute completavano la scena.[1]

La tensione psicologica attraversa le statue, anche se spesso acefale, a giudicare dai ritmi armoniosi e
controllati nei movimenti. Le figure femminili sono vestite dal tipico panneggio fidiaco a effetto bagnato,
con un tessuto delicatissimo animato da pieghette minute, che aderiscono al corpo rivelandone l'anatomia.
Su tale effetto gioca la luce creando magistrali effetti chiaroscurali, senza precedenti nel panorama della
scultura greca.[1]

I nudi appaiono possenti e atteggiati in maniera estremamente naturale. Il Dioniso ad esempio allarga le
ginocchia in obliquo, accentuando l'effetto di profondità spaziale e rompendo quel contenimento nello
spazio limitato tipico della scultura frontonale anteriore.

Frontone occidentale

Iride
Il frontone occidentale mostra la disputa tra Atena e Poseidone per il possesso dell'Attica, vinto dalla dea
col suo dono dell'olivo.[2] La narrazione era ancora più libera e vivace di quella sul frontone orientale, come
tipico anche di altri templi: dopotutto l'ingresso si situava quasi sempre ad est ed era più naturale che su
tale lato l'aderenza a forme tradizionali fosse più sentita[1].

Al centro stavano le due figure perdute degli dei, che si distaccavano con movimenti divergenti; seguivano
le due quadrighe, a sinistra con Hermes e Nike, che accompagnavano Atena, e a destra con Iris e Anfitrite,
venuti con Poseidone. Iris è raffigurata mentre sta salendo sull'Acropoli e la sua veste, scolpita molto
realisticamente e aderente al corpo, era stretta in vita da una cintura di bronzo, oggi perduta.[6] Negli spazi
rimanenti si trovavano gli eroi attici delle famiglie di Cecrope (a sinistra) e Eretteo (a destra); le estremità
mostrano figure sdraiate, di solito identificate come i fiumi personificati dell'Attica, Cefiso e Ilisso,
quest'ultimo colto nell'atto di sollevarsi su una roccia.[1][7]

La scena è caratterizzata da moti drammatici contrapposti generati dalle due figure divine al centro, il cui
impeto viene poi trasmesso agli altri personaggi. Anche i cavalli appaiono coinvolti nell'evento.[1]

Il panneggio anche qui è finissimo e con effetti similari a quello dell'altro frontone; i nudi sono poderosi e di
levatura eroica. Tra le figure più note quella di Iride, che sconvolta dal sentimento si lancia in una concitata
corsa, che riflette la tensione di tutti i personaggi.[8]
Policleto
Policleto (in greco antico: Πολύκλειτος, Polýkleitos; Argo, V secolo a.C. – ...) è stato uno scultore, bronzista
e teorico greco antico, attivo tra il 460 e il 420 a.C. circa.

Fu una delle massime figure della scultura greca del periodo classico, dalla quale dipende gran parte della
scultura greca del secolo successivo. Nessuna delle sue opere originali ci è giunta, infatti possiamo
ammirare solamente le copie realizzate in età romana. Nel Doriforo Policleto ha portato alle ultime
conseguenze la secolare tradizione scultorea che lo aveva preceduto, portando a soluzione in particolar
modo i problemi impostati nell'Efebo di Crizio e dagli scultori protoclassici, trasformandoli in una dottrina di
valenza universale. Di questo lavoro di selezione e approfondimento di problematiche relative al
movimento, al volume e all'equilibrio, Policleto ha voluto lasciare testimonianza scritta, attraverso un
commento chiamato Canone, di cui ci sono giunti due frammenti, in cui rendeva sistematiche le proporzioni
e i rapporti numerici ideali del corpo umano.

Discoforo
Il tipo chiamato Discoforo, o portatore del disco, del quale esistono numerose repliche e varianti, è stato
attribuito a Policleto su base esclusivamente stilistica, non essendo menzionato dalle fonti letterarie.
L'originale perduto viene solitamente datato al 465 a.C. circa. Nel Discoforo Policleto sembra già aver
avviato l'opera di selezione e perfezionamento della tradizione giunta sino a lui, ma la posa, la struttura del
torso e la visione frontale richiamano opere di stile severo quali l'Apollo dell'omphalos, suggerendo una
datazione alta. Si nota nella disposizione degli arti la soluzione chiastica che caratterizzerà tutte le opere
successive di Policleto, ma è ancora assente la chiarezza nell'alternarsi di tensione e rilassatezza nei muscoli
del torso e le gambe non possiedono ancora la posa tipica con la sinistra arretrata.[4] L'identificazione del
tipo come un discoforo da parte di Carlo Anti (Monumenti policletei, 1921) era stata suggerita inizialmente
da una attaccatura alla coscia destra nella copia conservata al Museo Torlonia, ma una copia ritrovata a
Efeso nel 1967 ha portato a dubitare che il giovane portasse originariamente un disco e ad ipotizzare anche
in quest'opera giovanile la presenza di una lancia.

Doriforo
Il Dorìforo ("portatore di lancia") è una scultura marmorea databile dalla fine del II secolo a.C. all'inizio del I
secolo a.C. circa[1] conservata presso il museo archeologico nazionale di Napoli. La scultura è la miglior
copia romana, ritrovata a Pompei, di un originale Doriforo bronzeo di età classica, eseguito da Policleto e
databile intorno al 450 a.C.

Un giovane nudo avanza leggermente sollevando il braccio sinistro, col quale tiene una lancia appoggiata
sulla spalla. L'anatomia appare regolata dalle proporzioni del canone, con un grande equilibrio formale.
Nuovo era, come ricordò Plinio (Naturalis Historia XXXIV, 56), il fatto che la statua si appoggiasse solo sulla
gamba destra, aiutata però da un sostegno a forma di tronco.

Esemplare è l'applicazione del chiasmo, ovvero del ritmo incrociato in grado di conferire estrema
naturalezza alla rappresentazione. La gamba destra, infatti, è tesa e corrisponde alla spalla sinistra in
tensione; l'arto inferiore sinistro, al contrario, è flesso e si collega alla spalla destra abbassata: ogni tensione
trova quindi la sua adeguata contrapposizione, smorzandosi sul lato opposto in un rilassamento. L'arco del
bacino inoltre si trova a essere inclinato verso la gamba flessa ed è opposto allo spostamento delle spalle.
Ne consegue un dinamismo trattenuto che annulla ogni impressione di staticità, a differenza dei precedenti
della statuaria arcaica e severa.
L'insieme è potente e muscoloso, con una testa dalla struttura robusta e dotata di un'espressione
meditativamente sospesa.

L'originale opera era bronzea, eseguita con la tecnica a cera persa; essa differiva dalla copia marmorea dal
tassello posto a sostenere il braccio destro di quest'ultima (elemento di sostegno inutile in una scultura
bronzea) e dal tronco, avente funzione di scaricare il peso.

Diadumeno
Il Diadumeno (in greco Diadúmenos, cioè "che si cinge la fronte [con la benda della vittoria]") è una statua
realizzata da Policleto verso il 420 a.C. e oggi nota solo da copie romane marmoree, tra cui la migliore è
considerata il Diadumeno di Delo nel Museo archeologico nazionale di Atene (h. 195 cm).

Un giovane atleta nudo solleva le braccia per allacciarsi in testa la benda della vittoria (la tenia).

Troviamo un'applicazione del chiasmo come nel Doriforo, il chiasmo è un ritmo incrociato capace di dare
estrema naturalezza alla rappresentazione, ogni tensione trova la sua adeguata contrapposizione. L'arco del
bacino inoltre si trova ad essere inclinato verso la gamba flessa. Ne consegue un dinamismo trattenuto, che
annulla ogni impressione di staticità, a differenza dei precedenti della statuaria arcaica e severa. A
differenza del Doriforo, nel Diadumeno il baricentro della figura non è su una gamba, bensì al centro fra le
due.

L'insieme è potente e muscoloso, ricco di sfumature, con una testa dalla struttura robusta e dotata di
un'espressione medativamente sospesa. Appare esaltata la mimesis, cioè il naturalismo basato
sull'imitazione del vero, equilibrato però dalla componente ideale.

Canone
Il Canone (in greco antico: Κάνον, "regola") è un trattato perduto sulle proporzioni dell'anatomia umana
scritto dallo scultore Policleto verso il 450 a.C. Noto solo da accenni in opere successive, è considerato il
primo trattato che teorizza i temi della bellezza e dell'armonia ed ebbe uno straordinario impatto, ispirando
anche le ricerche sul modulo architettonico. Con Policleto e il suo canone, l'arte greca entrò nel culmine
artistico di equilibrio e razionalità, definito "classico".

Durante la realizzazione del Doriforo, Policleto avviò una serie di misurazioni sugli individui alla ricerca delle
proporzioni e dei rapporti numerici ideali del corpo umano. Riportò le sue scoperte e teorie nel Canone, in
cui normalizzò la rappresentazione della figura virile eretta e nuda, riutilizzando in chiave nuova concezioni
e motivi già usati dai suoi predecessori.

Policleto è infatti considerato il primo vero artista del periodo classico, poiché grazie alle sue regole divenne
punto di riferimento per una sequela di scultori e bronzisti succedutigli.

Le sue opere hanno uno stile armonioso, studio attento dell'anatomia e perfezione delle proporzioni,
regolata dal suo canone che costituisce ancora un mistero (l'intero corpo uguale a 8 volte la testa è una
delle tante ipotesi).Il suo capolavoro è il Doriforo (portatore di lancia), noto in più copie. È nudo, stante (in
piedi), con una gamba leggermente arretrata.
Nel Doriforo ad esempio la testa del soggetto è 1/8 dell'altezza, 3/8 il busto, 4/8 le gambe.

Scuola policletea
Un elenco degli allievi di Policleto viene riportato da Plinio ed una cospicua serie di basi firmate,
proveniente dai santuari di Delfi e Olimpia, ne conferma la storicità. La prima fase della scuola è inoltre
testimoniata dalla base del noto donario di Delfi, fatto erigere dagli spartani per la vittoria di Lisandro sugli
ateniesi nel 405 a.C., opera alla quale collaborarono diversi scultori appartenenti alla scuola policletea di
prima generazione. La scuola policletea proseguì infatti lungo tre generazioni di bronzisti giungendo sino
all'età di Lisippo. All'interno della scuola le personalità isolabili e descrivibili sono poche e tra queste
soprattutto la figura di Naucide, allievo di prima generazione e contemporaneo di Periklitos, Athenodoros,
Dameas (di Kleitor in Arcadia),[11] Patrokles e Kanachos. Alla seconda generazione appartengono quegli
allievi fioriti intorno al 380-370 a.C.: Antifane, Policleto II, Alipo, Daidalos. Quest'ultimo come Naucide
stempera gli aspetti strutturali policletei in figure allungate e dotate di maggiore umanità. Infine, fioriti alla
metà del IV secolo a.C. si ricordano Kleon e Policleto III.[12]

L'influsso di Policleto sulla scuola attica fu denso di conseguenze contribuendo a rendere più sfumate le
distinzioni tra le due grandi tradizioni della scultura greca, quella attica appunto e quella peloponnesiaca;
né Skopas né Prassitele poterono prescindere dall'opera del grande maestro di Argo.

Prassitele
Prassitele (in greco antico: Πραξιτέλης, Praxitélēs; Atene, 400/395 a.C. – 326 a.C.) è stato uno scultore
greco antico vissuto nell'età classica ed attivo dal 375 a.C. alla sua morte. Viene considerato uno dei grandi
maestri della scultura greca del IV secolo a.C. insieme a Skopas e Lisippo.

Le fonti più antiche relative a Prassitele sono di età ellenistica. Esse riferiscono di opere variamente diffuse
nel territorio greco e in Asia Minore. Benché lavorasse anche il bronzo, egli era conosciuto soprattutto per i
suoi lavori in marmo (Plinio, Nat. hist., XXXIV, 69) che il pittore Nicia trattava per lui con cere colorate le
quali creavano una particolare patina lucente detta gànosis (Nat. hist., XXXV, 133). Gli sono stati attribuiti
almeno ventisette tipi scultorei in uso in epoca romana, il più ammirato dei quali fu l'Afrodite di Cnido.

Prassitele visse ad Atene in un'epoca caratterizzata da una vera e propria crisi, sia del modello della polis sia
per quanto riguarda l'identità della popolazione ateniese. Questa cominciò a percepire il mondo in una
dimensione più isolata rispetto al periodo classico di Pericle, quando la vittoria contro i Persiani, nel 480
a.C. a Salamina, aveva determinato un sentimento di superiorità capace di coinvolgere gran parte della
civiltà greca. Il mutamento causato dalle guerre peloponnesiache diede origine ad una nuova
interpretazione della realtà.[2]

L'Afrodite cnidia
è una scultura marmorea di Prassitele, databile al 360 a.C. circa e oggi nota solo da copie di epoca romana,
tra cui la migliore è considerata quella Colonna nel Museo Pio-Clementino[1]. È il primo nudo femminile
dell'arte greca.
Detta "Cnidia" proprio perché furono gli abitanti di Cnido, in Asia Minore, ad acquistare la statua, per
ornare il naos del piccolo tempio dedicato ad Afrodite Euplea
La scultura rappresenta la dea Afrodite nuda che si appresta a fare (o subito dopo) un bagno rituale, col
corpo definito armonioso. In un gesto di istintività e di noncurante pudicizia, come se fosse stata sorpresa
in quella posa da un estraneo, la mano destra è portata a coprire il pube, mentre l'altra prende (o depone?)
la veste su di un'idria (ὑδρία) appoggiata a sua volta su una base. Veste e vaso fanno in realtà da supporto
esterno alla statua, che può così sbilanciarsi leggermente in avanti e verso sinistra. In alcune versioni la
mano destra regge un asciugamano che copre le gambe della dea. Lo sguardo è trasognato e si perde
lontano.

Per la prima volta una dea viene rappresentata nuda ed in atteggiamenti intimi e personali. Proprio da
questo tipo di comportamento e di situazione prende il nome di ripiegamento intimista la corrente che
porta alcuni scultori, soprattutto Prassitele e Skopas a rappresentare divinità e figure mitologiche in
atteggiamenti di svago.

La sua nudità è un elemento voluto di seduzione, accentuato dalla lucentezza delle superfici del marmo e
dalle forme morbide e femminili del corpo che si muovono nello spazio disegnando un profilo sinuoso, a
"S". Come le altre sculture di Prassitele, anche questa statua è fatta per essere vista preferibilmente in
posizione frontale, l'unica che consenta di coglierne appieno la grazia.

Prassitele, secondo alcune testimonianze antiche, per la realizzazione della statua di Cnido usò come
modella Frine,Il capolavoro di Prassitele ispirò in seguito parecchi altri scultori; tra gli altri l'autore della
Venere di Milo
L'Apollo Sauroctono
(dal greco, σαυροκτόνος, "uccisore del rettile") è una scultura bronzea, attribuita convenzionalmente a
Prassitele. In epoca romana, ne furono tratte numerose copie marmoree oggi visibili nei principali musei del
mondo.

La statua significava forse il ruolo protettivo di Apollo, nella mano destra il dio doveva reggere una freccia
con cui si apprestava a colpire la lucertola, simbolo della malattia, dell'epidemia e del contagio, che si sta
arrampicando sul tronco dell'albero[1].

Dell'opera si conoscono varie repliche, oltre a quella del Louvre, di provenienza Borghese: tra le migliori
uno al Museo Pio-Clementino (inv. 750) e una bronzea al Cleveland Museum of Art (inv. 2004-30), che
alcuni hanno anche ipotizzato essere l'originale prassitelico.

Descrizione e stile
Apollo è raffigurato come efebo: ancora giovanetto, nudo e dalle membra molli, acerbe, quasi femminee, si
appoggia con morbido abbandono ad un tronco d'albero (necessario per reggere la statua). Il piede sinistro,
accostato al tallone destro, fa sì che la gamba sinistra sia completamente rilassata e quasi disarticolata,
accrescendo il senso di grazia del tenero corpo flessuoso. L'impostazione non è più verticale e ferma come
nelle opere degli scultori precedenti (si pensi ad esempio al Doriforo di Policleto), ma più dinamica e
sbilanciata, in grado di creare linee sinuose.

Il giovane dio, dallo sguardo un po' distratto, è colto nell'attimo in cui sta per trafiggere con uno stilo un
ramarro arrampicatosi sul tronco. È un dio che sta giocando: si tratta quindi di un'attività che nessuno
scultore delle età precedenti avrebbe mai pensato di attribuire a un essere divino.

Come la realizzazione dell'Afrodite Cnidia metteva in conto il coinvolgimento diretto dello spettatore,
motore dell'azione considerato un evento chiuso in se stesso, suscettibile solo di essere guardato
dall'osservatore, che quasi rubava alla divinità un istante di intimità,[2] anche nell'Apollo Sauroctonos al
riguardante è dato di contemplare la nuova relazione fatta di spazi, di gesti e di sguardi.

Dal punto di vista iconologico, può trattarsi di una versione di Apollo Alexikakos (Ἀπόλλων Ἀλεξίκακος),
ovvero protettore dal male. Infatti Apollo era anche dio della luce e, in quanto dispersore di tenebre,
difendeva gli uomini da vari pericoli: così agli epiteti alexikakos e apotropaios si affiancavano quelli di
smintheus (come difesa dal morso dei topi) e parnopios (che salva dalle cavallette).
Hermes con dionisio
L'Hermes con Dioniso è una scultura in marmo pario (h. 215 cm) di Prassitele, databile al 350-330 a.C. circa
e conservata nel Museo archeologico di Olimpia. La critica è divisa su chi la considera opera originale e chi
la ritiene invece una copia ellenistica dell'originale perduto.
Descrizione e stile
Secondo la mitologia greca, Dioniso era il figlio di Zeus e di Semele, una mortale, figlia di Cadmo, re di Tebe.
Spaventata da una dimostrazione di forza di Zeus, Semele morì di paura e il dio, sapendo che era incinta, le
prese il bambino dal ventre e lo portò nella coscia; dopo sei mesi nacque Dioniso, che venne affidato alle
cure del fratello Hermes. È probabile che la statua venne fatta come un'allegoria della pace tra gli abitanti
di Elide, che aveva Hermes come patrono, e Arcadia, che aveva per patrono Dioniso.

Il tema del rapporto tra uomo e bambino era forse già stato trattato dal padre di Prassitele, Cefisodoto,
come ricorda Plinio. Hermes, nudo, si sporge verso il fanciullo seduto sull'avambraccio sinistro, mentre il
destro è sollevato, forse per distrarre il bambino con un grappolo d'uva. Le divinità sono calate in un
contesto affettuoso e quotidiano, come nessuno prima di Prassitele aveva fatto, e la tradizionale verticalità
della figura è abbandonata in favore di forme più sinuose e sbilanciate, tanto che in questo caso è
necessaria la presenza del sostegno a sinistra.

Per la prima volta Prassitele si concentra sugli sguardi dei due personaggi, tanto da far risultare una scena
intensa.

Grande attenzione è riservata alla psicologia dei personaggi, dagli sguardi lontani e malinconici.

Il sapiente trattamento del marmo genera un forte colorismo, soprattutto nei capelli e nella chioma del dio
adulto, riprendendo una caratteristica di Fidia. Il panneggio appare morbido e leggero. La scultura
rappresenta anche molta umanità ed un rapporto fraterno tra il dio e il fanciullo.
Skopas
italianizzato Scopas o Scopa (in greco antico: Σκόπας, Skòpas; Paros, 390 a.C. circa – 330 a.C. circa), è stato
uno scultore e architetto greco antico. Fu tra i grandi maestri della scultura greca classica e di quella
occidentale in generale, che ebbe il merito di aprire alla dimensione dell'emotività umana, fino a quel
momento solo limitatamente esplorata.

Le radici dello stile di Skopas risiedono nello studio dell'arte classica di Fidia e di Policleto muovendosi in
una direzione opposta rispetto a quella di Lisippo. Skopas condivide con gli scultori del IV secolo a.C. la
volontà di creare un rapporto più stretto tra l'opera e l'osservatore, ma anche sotto questo aspetto, se
paragonata con le innovazioni introdotte da Prassitele, l'arte di Skopas resta classica nell'evitare ogni
rottura con la tradizione.

Differentemente da Fidia, la scultura di Skopas manca della grandezza nata dall'incrollabile fiducia
nell'umanità e negli dei, vi è in compenso la tragicità del vivere la condizione umana con tutta la
drammaticità del dolore e della sofferenza. Un esempio di questa particolare interpretazione è visibile nella
Menade danzante, dove tutto è movimento, proiezione, dinamicità. Anche in opere meno rivoluzionarie,
come il Pothos, dove il movimento è meno accentuato, sono i giochi di luce, i chiaroscuri, che danno vita a
una sensazione di movimento statico, una continua ricerca dell'andare oltre.

Un'altra caratteristica di Skopas era quella di non rifinire mai le proprie opere. Le sue sculture, pervenute a
oggi solo tramite copie romane dell'epoca imperiale, non erano mai completamente sgrezzate,
mantenendo sempre forti contrasti di luce e di ombra. Si potrebbe quasi dire fossero le antesignane dei
Prigioni michelangioleschi dove la vita, l'anima delle opere, vive già all'interno del blocco di marmo; anche
se appena sbozzata, la figura, il personaggio, la vitalità dell'opera esce fuori lo stesso in tutta la sua energia,
la sua vitalità.

Indici particolarmente significativi dello stile e dell'interpretazione emotiva della scultura di Skopas sono le
teste di Tegea, con i tratti somatici leggermente deformati, ma con una grande carica espressiva, nella
postura della bocca semiaperta, con i segni delle rughe che inarcano la fronte, lo sguardo, rivolto verso il
cielo, la profondità dello sguardo accentuata ancor più dalle orbite incavate che contrastano con la
sporgenza eccessiva delle sopracciglia.

La Menade danzante o Baccante è una scultura attribuita a Skopas, databile al 330 a.C. e conosciuta da una
piccola copia frammentaria in marmo (altezza 45 cm) conservata nel Museo delle sculture della Staatliche
Kunstsammlungen Dresden.

Descrizione e stile
La statua rappresenta una delle menadi, le fanciulle seguaci del dio Dioniso di cui celebravano il culto con
cerimonie orgiastiche e danze forsennate al suono di flauti e tamburelli, al culmine delle quali aveva luogo il
sacrificio di un capretto o di un capriolo, dilaniato a colpi di coltello e divorato crudo nel momento del
culmine estatico.

La menade di Dresda è molto danneggiata, senza tuttavia perdere i suoi tratti fondamentali. L'agitazione
che pervade tutta la figura viene resa dall'impetuosa torsione a vortice che, dalla gamba sinistra, passa per
il busto e il collo sino alla testa, gettata all'indietro e girata, a seguire lo sguardo, verso sinistra; il volto è
pieno, bocca naso e occhi sono ravvicinati, questi ultimi schiacciati contro le forti arcate orbitali per
conferire maggiore intensità all'espressione. Il panneggio si apre e si volge verso l'alto, assecondando il
ritmo ascensionale della statua. Il totale abbandonarsi del corpo alla passione è sottolineato anche dalla
massa scomposta dei capelli, dall'arioso movimento del chitone che, stretto da una cintura appena sopra la
vita, si spalanca nel vortice della danza, lasciando scoperto il fianco sinistro, e dal forte contrasto
chiaroscurale tra panneggi e capigliatura da una parte e superfici nude dall'altra. Le braccia, perdute,
dovevano seguire la generale torsione del corpo: il braccio sinistro, sollevato, stringeva contro la spalla un
capretto; il destro era teso all'indietro e la mano impugnava un coltello.

In questo lavoro resta poco della razionalità e del controllo delle opere, ad esempio, di Policleto,
raffigurando i nuovi orizzonti sociali, politici, culturali e religiosi che attraversavano la Grecia in un momento
di instabilità come il IV secolo a.C.

Il Pothos
è una scultura di Skopas, databile al 330 a.C. circa, conosciuta da una serie di repliche marmoree dell'epoca
romana; la migliore (altezza 180 cm) è considerata quella di via Cavour nella Centrale Montemartini dei
Musei Capitolini a Roma.
Alla Centrale Montemartini se ne conservano due copie: oltre a quella principale, è esposta anche una
versione acefala. Altre copie sono quella frammentaria del Louvre (senza le gambe), le due degli Uffizi, e
quella dei Musei Capitolini, restaurata con altri frammenti a formare un "Apollo con cetra".

La statua originale
La statua rappresenta Pothos, una divinità minore che rappresentava il desiderio amoroso.

L'opera è datata in via ipotetica all'ultima fase produttiva dell'artista. Fra le poche opere certe attribuite al
celebre maestro e di cui ci raccontano Pausania e Plinio, faceva parte sia di un gruppo con Eros e Imero
dedicato a Megara,[1] sia di un altro complesso statuario, con Afrodite e Fetonte, a Samotracia.[2]

In questo complesso statuario si possono notare i caratteri espressivi di una nuova corrente, tipici del IV
secolo a.C., ovvero il ripiegamento intimista, che si traduce nel raffigurare le divinità olimpiche in momenti
intimi e carichi di pathos.[3]

Oggi è possibile risalire all'originale grazie ad una quarantina di repliche di epoca romana ed ellenistica,
alcune delle quali per la prima volta definitivamente individuate da Adolf Furtwängler, nella seconda metà
dell'Ottocento, quali copie del Pothos di Skopas.

Descrizione e stile
Su una base si trova il ragazzo nudo dalle forme sinuose e delicate, appoggiato a qualcosa alla sua sinistra:
l'anca sinistra è prominente a quella destra e forma una linea curva con la coscia; il braccio sinistro
(perduto) è disteso lateralmente, con l'avambraccio, in alto; invece il destro un tempo stringeva un tirso
dionisiaco ossia un bastone cinto di edera e pampini.[4]

La testa, piccola e coi capelli ben segnati, ha un'espressione trasognata e guarda verso l'alto, a
simboleggiare il desiderio per un amore lontano. Gli occhi infossati e profondi sono tipici dello stile del
maestro. La figura è inclinata verso sinistra e sorretta dall'appoggio della veste che cade dalla spalla sinistra;
punti di appoggio che sono una caratteristica sempre presente nelle sculture di Skopas e Prassitele spesso
rappresentati da una pianta o un sostegno artificiale; altra caratteristica di entrambi gli scultori è la
particolare levigazione della superficie marmorea restituendole un completo realismo umano.
Il Mausoleo di Alicarnasso,
oggi Bodrum in Turchia, è un immenso monumento funebre in marmo bianco. Il mausoleo di Alicarnasso è
la monumentale tomba che Artemisia fece costruire per il marito, nonché fratello, Mausolo, satrapo della
Caria, ad Alicarnasso (l'attuale Bodrum, in Turchia) tra il 353 a.C. e il 350 a.C.[1]
Egli ne affidò il progetto agli architetti greci Phyteos e Satyros, e la decorazione ad alcuni dei maggiori
scultori del tempo: Briasside, Scopas, Timotheos, Leochares.

Plinio il vecchio nella sua Naturalis Historia, ci ha lasciato una descrizione delle dimensioni dell'edificio:

«… i lati sud e nord hanno una lunghezza di 63 piedi (ca. 18,67 metri); sulle fronti è più corto. Il perimetro
completo è di 440 piedi (ca. 130,41 metri); in altezza arriva a 25 cubiti (ca. 11,10 metri) ed è circondato da
36 colonne; il perimetro del colonnato è chiamato pteron […]. Skopas scolpì il lato est, Bryaxis il lato nord,
Timotheos (Timoteo) il lato sud e Leochares quello ovest ma, prima che completassero l'opera, la regina
morì. Essi non lasciarono il lavoro comunque, finché non fu completato, decisero che sarebbe stato un
monumento sia per la loro gloria sia per quella della loro arte ed anche oggi essi competono gli uni con gli
altri. Vi lavorò anche un quinto artista. Sullo pteron si innalza una piramide alta quanto la parte bassa
dell'edificio che ha 24 scalini e si assottiglia progressivamente fino alla punta: in cima c'è una quadriga di
marmo scolpita da Piti. Se si comprende anche questo l'insieme raggiunge l'altezza di 140 piedi (ca. 41,50
metri)...»
(Plinio il Vecchio)
Aveva base quadrangolare formata da 3 grandi gradoni sovrapposti di svariati metri,nel mezzo lo pteron
con le 36 colonne e in cima la piramide con 24 gradini.

In cima c’era il pezzo forte ; il carro . Questa scultura in marmo alta circa 7 metri, consisteva in due statue
erette raffiguranti Mausolo e Artemisia che cavalcavano su un carro trainato da quattro cavalli.

Gran parte del Mausoleo era composto di marmo e l’intera struttura raggiungeva i 42 metri di altezza.
Anche se di grandi dimensioni, il Mausoleo di Alicarnasso era più noto per le sue sculture decorate. La
maggior parte di questi sono stati dipinti con colori vivaci.

C’erano anche fregi che avvolgevano l’intero edificio. Questi erano estremamente dettagliati e
comprendevano scene di battaglia e di caccia, nonché scene della mitologia greca che includevano animali
mitici come i centauri.

L’edificio era ornato da oltre 300 sculture poste tutte intorno all’edificio, di cui circa 60 figure di leoni
adornavano in alto la piramide, 36 statue ritratto poste tra le colonne, 56 figure colossali collocate sul
gradone intermedio e 88 figure collocate sul primo gradone più basso rappresentando scene di
combattimenti tra Greci e Persiani o scene di caccia e sacrificio composte di statue ancora più grandi
rispetto le dimensioni normali dei personaggi ellenici.
Tali erano la magnificenza e l'imponenza della tomba di Mausolo che il termine mausoleo venne poi usato
per indicare tutte le grandi tombe monumentali.

La decorazione scultorea era ricchissima: oltre 360 statue a tutto tondo, tra animali e personaggi, e tre
fregi, che correvano intorno allo zoccolo e alla base della quadriga.

Della decorazione scultorea sono rimaste alcune lastre di un fregio con un’Amazzonomachia, cioè lotta tra i
Greci e le Amazzoni, collocate presso il British Museum a Londra.

Al British Museum di Londra è possibile ammirare anche i resti delle uniche due statue ben conservate, a
lungo interpretate come le sculture di Mausolo e Artemisia. Sono probabilmente due figure di dignitari che
ornavano gli spazi tra le colonne.

I frontoni del tempio di Atena Alea


erano due complessi scultorei che decoravano il tempio di Atena Alea a Tegea, in Arcadia, ricostruito dopo
l'incendio del 395-394 a.C.. Le fonti letterarie antiche riferiscono che l'incarico per l'erezione del nuovo
edificio venne affidata a Skopas, si ritiene al suo rientro in Peloponneso al termine degli incarichi per il
Mausoleo di Alicarnasso (351 a.C.), in qualità di architetto, mentre la sua supervisione alla decorazione
scultorea dei frontoni viene dedotta su base stilistica e nel riconoscimento di una sostanziale uniformità,
quale si può riscontrare nel Partenone e che è invece assente nel tempio di Asclepio a Epidauro. Delle due
composizioni frontonali restano oggi solo pochi frammenti, ma estremamente significativi, nel Museo
archeologico nazionale di Atene e nel Museo di Tegea.
Pausania si riferisce a Skopas come architetto e come autore delle statue di Asclepio e Igea che dovevano
affiancare nella cella la superstite statua eburnea di Atena Alea realizzata da Endoios; nulla dice invece della
sua partecipazione alle sculture frontonali.

Descrizione[modifica | modifica wikitesto]


La copertura del tempio di Tegea era decorata con un grande acroterio floreale all'apice di ciascun
frontone, probabilmente di circa 210 cm di altezza, e con una figura femminile disposta sopra ciascun
angolo laterale, alta circa 185 cm.[1] Il frontone est rappresentava la Caccia al cinghiale Calidonio, mentre
quello ovest il Combattimento fra Greci e Asiatici nella pianura del Caico, guidati rispettivamente da Achille
e Telefo. Il marmo usato per tutte le sculture era una varietà locale proveniente dalle cave di Doliana, a
circa cinque miglia dall'attuale villaggio di Alea.[2] La cornice del frontone misurava circa 190 cm in altezza e
16,45 m in lunghezza.[3] Le sculture del frontone occidentale erano più grandi di quelle del frontone
orientale: tramite la misurazione delle teste conservate si è potuta ipotizzare un'altezza, per le figure in
posizione stante, di circa 160 cm a est e 190 cm a ovest. Le discrepanze rispetto a queste dimensioni
standard sono in parte causate dalle correzioni ottiche.[4] Nella descrizione di Pausania (VIII.45.4-7), la
decorazione scultorea del frontone orientale comprendeva circa 15 figure. Ci sono giunti frammenti
consistenti da sette di queste figure, insieme a quelli di tre animali: il cinghiale e due cani.[3]

Pausania non dice nulla invece delle figure del frontone occidentale; si conservano frammenti significativi di
circa 8 o 9 degli eroi che dovevano esservi raffigurati.[5]

Programma iconografico[modifica | modifica wikitesto]


I soggetti della decorazione scultorea dovevano in qualche modo essere connessi al duplice ruolo svolto
dalla dea Atena Alea protettrice in battaglia e nelle avversità. Se è corretta l'esegesi che vede rappresentata
nei rilievi metopali della facciata orientale, in base ai frammenti iscritti dell'architrave, la storia mitica di
Tegea e della dinastia discendente da Aleo, sul frontone sovrastante la celebrazione di quest'ultima doveva
culminare nell'uccisione del cinghiale calidonio da parte di Atalanta, eroina tegeate per eccellenza. Dietro il
successo della dinastia tegeate vi era Atena Alea nel suo ruolo di divina protettrice in battaglia; il tema, pur
avendo un'impronta locale, si teneva all'interno di uno spirito panellenico; sulla facciata occidentale un
mito locale come quello della vita di Telefo permetteva invece di evocare il coinvolgimento della dea come
fonte di aiuto nelle avversità.[6]

Stile[modifica | modifica wikitesto]


L'apparenza solida e massiccia delle sculture di Tegea è incrementata dalle proporzioni delle figure in
rapporto allo spazio disponibile come si può dedurre dalle dimensioni sopra indicate, con un effetto di
compressione che doveva agire sulla forza della rappresentazione drammatica. In se stesse le figure
appaiono modellate in modo fluido e continuo, prive della demarcazione muscolare derivata dalla struttura
policletea; le tensioni muscolari compaiono raramente e improvvisamente ad accompagnare una
particolare attenzione rivolta alla struttura delle articolazioni, sempre subordinata ad una concezione
classica della forma. La struttura interna appare sufficientemente salda da mantenere il senso unitario della
figura pur all'interno di una prevalente morbidezza del modellato superficiale.[7] Il trattamento del
panneggio, d'altro canto, si allontana dalla complessa elaborazione tipica del calligrafismo postfidiaco,
ancora presente a Epidauro e in alcune parti del mausoleo di Alicarnasso.[8]

Le teste di Tegea sono unanimemente riconosciute come uniche nell'ambito della scultura greca classica;
esse sembrano presentare l'evoluzione di una forma che, tramite l'allargamento dei piani facciali, diviene
cubica e impostata saldamente sul collo ampio; allo stesso tempo la modellazione dei tratti del volto si
approfondisce applicandosi in particolar modo alla forma dell'occhio e della bocca. Nelle teste superstiti
colpisce la maggiore infossatura degli occhi che dà una particolare ombreggiatura capace di attrarre
maggiormente l'attenzione dello spettatore. Dettagli come lo sguardo rivolto verso l'alto e la bocca
semiaperta rivelano un notevole pathos drammatico. Questa attenzione particolare alla rappresentazione
del pathos, originatasi in epoca protoclassica nei frontoni del tempio di Zeus a Olimpia, ebbe un seguito
convincente nel frontone est del tempio di Asclepio a Epidauro, come la superstite testa di Priamo (Atene,
Museo archeologico nazionale 144) sembrerebbe mostrare. Lo scultore di Tegea tuttavia, opera una sorta
di selezione all'interno dei mezzi disponibili, in modo da adattare l'esigenza dell'espressività facciale ad un
più tradizionale contenimento classico. Nell'insieme dunque i caratteri delle teste di Tegea sembrano
essere l'espressione di una creatività individuale e originale, non debitrice, se non in modo parziale, a
esperienze precedenti.

Lisippo
Lisippo (in greco antico: Λύσιππος Lýsippos; Sicione, 390/385 a.C. – dopo il 306 a.C.) è stato uno scultore e
bronzista greco antico. Ultimo tra i grandi maestri della scultura greca classica, fu attivo dal 372-368 a.C.
fino alla fine del IV secolo a.C. Lavorò per Alessandro Magno, che ritrasse numerose volte, e terminò la
propria carriera al servizio di un altro re macedone, Cassandro I, tra il 316 e il 311 a.C.

Biografia[modifica | modifica wikitesto]


Originario di Sicione, città dell'Arcadia sul golfo di Corinto, nacque nei primi anni del IV secolo a.C. e si
formò verosimilmente sulle opere di Policleto e sulla scultura peloponnesiaca, nonostante Duride di Samo
lo dicesse formato al di fuori di ogni scuola e maestro, ovvero studioso della natura su consiglio di
Eupompo, forse enfatizzando troppo il tema letterario del genio autodidatta.

Fu soprattutto bronzista e lavorò a lungo nella sua città per poi spostarsi in vari centri della Grecia (Olimpia,
Corinto, Rodi, Delfi, Atene) e dell'Italia (Taranto).

Morì in data non precisata, ma sicuramente in età molto avanzata, come testimonia la notizia di un ritratto
di Seleuco I Nicatore, quindi visse fino alla fine del secolo.[1]

Opere[modifica | modifica wikitesto]


La prima opera di cui ci giunge notizia grazie a Pausania[2] è la statua eretta a Olimpia per le vittorie
atletiche di Troilo nel 372 a.C. Insieme all'opera di Lisippo, Pausania nomina altre opere di bronzisti sicioni
configurando l'ambiente entro il quale all'inizio della propria carriera operava colui che ne avrebbe in
seguito cambiato le regole. Di questo suo primo lavoro ci resta la base recante l'iscrizione, rinvenuta sul
luogo[3].

Di uno Zeus Nemeios:realizzato per Argo, attribuito a Lisippo da Pausania[4], ci è giunto il riflesso tramite
l'immagine su una moneta argiva di età imperiale: vi si legge una precoce realizzazione di quello schema
antitetico che resterà tipicamente lisippeo, con un lato del corpo in tensione, in questo caso il destro, che
regge sulla gamba il peso del corpo e tiene lo scettro saldamente puntato a terra, e un altro rilassato verso
il quale si scarica la tensione del lato opposto con il volgersi della testa.
La nota tipologia dell'Eracle in riposo, conosciuta soprattutto attraverso la versione dello Ercole Farnese,
attribuita a Lisippo dall'iscrizione sulla base dell'esemplare di Firenze, potrebbe avere origine in un
precedente esemplare in bronzo prodotto per Argo intorno al 340 a.C., di cui si ipotizza l'esistenza in
seguito al ritrovamento di una copia marmorea di età adrianea rinvenuta nelle Terme della città nel
1954[5], corrispondente all'immagine riprodotta su un tetradrammo di Argo del 290 a.C. circa. Vi si trova,
oltre allo schema antitetico precedentemente descritto, il movimento spiraliforme prodotto dal protendersi
nello spazio degli arti della parte sinistra in opposizione al braccio destro portato dietro la schiena.
Quest'ultimo aspetto iconografico sembra essere stato introdotto da Apelle e importato nel mondo della
scultura da Lisippo come uno tra i frequenti scambi tra i due artisti di Sicione attestati in letteratura da
Sinesio[6]. La datazione dell'ipotizzato originale bronzeo argivo è resa corrispondente a quella della base di
Corinto con la firma di Lisippo[7] dove per la prima volta si documenta un altro tipico schema utilizzato da
Lisippo (originariamente policleteo) che prevedeva entrambe le piante dei piedi interamente aderenti alla
base.

Tra il 343 e il 340 a.C. si data il soggiorno di Lisippo a Mieza, chiamatovi insieme ad altri artisti da Filippo II di
Macedonia, per l'educazione del giovane Alessandro. In questa occasione avvenne quell'incontro tra Lisippo
e Aristotele che tanta influenza dovette avere sul concetto di mimesi quale si sarebbe sviluppato nel
pensiero del filosofo[8]. Tra i temi più frequenti del periodo, svolti da tutti gli artisti confluiti a Mieza, vi era
quello della Caccia al leone, tra le attività presenti nell'educazione del giovane principe ed è a quest'epoca
che occorre datare l'originale plastico attribuibile a Lisippo da cui deriva il mosaico pavimentale di Pella e
che attraverso quest'ultimo ci appare debitore dei fregi nel Mausoleo di Alicarnasso. In seguito Lisippo
ritrasse Alessandro in combattimento, in varie pose eroiche e atteggiamenti divinizzati (come nel ritratto di
Alessandro Magno di Monaco di Baviera). Tra le opere prodotte per il sovrano ci furono la statua di
Alessandro appoggiato alla lancia, Alessandro nella battaglia del Granico nonché il suo sarcofago, già ad
Alessandria d'Egitto, perduto durante le guerre tra cristiani e pagani.

Seguirono, dopo la Battaglia di Cheronea (338 a.C.), il donario (v. Agias) commissionato da Daoco II e,
datato intorno al 335 a.C., l'Eros di Tespie opere in cui appare il tipico protendersi dell'opera nello spazio
(per quanto riguarda l'Agias il dato si intuisce dalle riproduzioni ceramografiche) che culminerà
nell'Apoxiomenos.

Il gruppo del Granico, destinato al santuario di Zeus a Dion per commemorare i soldati caduti nella
omonima battaglia del 334 a.C., era composto da venticinque statue equestri in bronzo ed è descritto da
Plinio[9], che lo vide a Roma, dove era stato portato nel 146. Dopo il 331 a.C. Lisippo realizza la Quadriga
del Sole[10]; ancora legata al periodo di Alessandro è l'allegoria del Kairos, simbolo del momento propizio
per il quale creò una iconografia che ebbe in seguito molta fortuna. Da situare dopo la morte di Alessandro
è invece l'Apoxiomenos[11], del quale resta celebre copia al Vaticano. Intorno al 320 a.C. collabora con
Leocare al gruppo votivo dedicato da Cratero a Delfi[12].

Alle fatiche di Eracle, gruppo statuario bronzeo per la città di Alizia, seguì la commissione, da parte dei
Tarantini, per l'esecuzione a Taranto di una statua alta circa 17 metri di Zeus, raffigurato in posizione eretta
vicino a un pilastro sormontato da un'aquila e nell'atto di scagliare una folgore, secondo l'iconografia locale
dello Zeus Kataibates. Il secondo colosso eseguito per i Tarantini era un Eracle meditante di cui riferisce
Strabone[13].

Stile[modifica | modifica wikitesto]


Plinio il Vecchio espresse su Lisippo un giudizio che racchiude molto dell'opinione di cui esso godeva nel
mondo antico ed è ancora oggi in massima parte valido: «È fama che Lisippo abbia contribuito molto al
progresso dell'arte statuaria, dando una particolare espressione alla capigliatura, impicciolendo la testa
rispetto agli antichi, e riproducendo il corpo più snello e più asciutto; onde la statua sembra più alta. Non
c'è parola latina per rendere il greco symmetria, che egli osservò con grandissima diligenza sostituendo un
sistema di proporzioni nuovo e mai usato alle statue "quadrate" degli antichi. E soleva dire comunemente
che essi riproducevano gli uomini come erano, ed egli invece come all'occhio appaiono essere. Una sua
caratteristica è di aver osservato e figurato i particolari e le minuzie anche nelle cose più piccole[14]».

Lisippo andò oltre il canone di Policleto introducendo in scultura quegli accorgimenti prospettici che già
venivano usati in architettura. Per i Greci infatti la visione si materializzava attraverso sfere successive che si
propagavano dalla forma dell'occhio e che influenzavano la percezione degli oggetti stessi, deformandoli. In
questo senso va motivata la riduzione della testa, rispetto alla misura tradizionale di 1/8 del corpo, e
accentuando lo slancio dei corpi snelli e longilinei. Il nuovo canone introdotto da Lisippo ci è stato
trasmesso da Vitruvio (III, 1-3).

L'Apoxyómenos, con la sua proiezione delle braccia in avanti, è considerata la prima scultura pienamente
tridimensionale dell'arte greca, che per essere apprezzata appieno richiede che lo spettatore vi faccia il giro
attorno.

Inoltre, in qualità di ritrattista del sovrano, Lisippo è considerato il fondatore del ritratto individuale che,
riproducendo l'aspetto esteriore del soggetto, ne suggeriva anche le implicazioni psicologiche ed emotive.
Fino ad allora il particolare senso collettivo delle città greche aveva frenato l'interesse verso la
rappresentazione dell'individuo e tutti i ritratti dei secoli precedenti (come quelli di Pericle, di Socrate, di
Eschilo...) sono da considerarsi dei puri "tipi" ideali (l'eroe, il filosofo, il letterato). All'interno della bottega
tuttavia, chi condurrà alle ultime conseguenze tali premesse sarà Lisistrato, mentre in Lisippo
l'allontanamento dalla tradizione significò, per quanto possibile, assoggettamento del vero alla libertà del
soggetto creatore.

Il ritratto di Alessandro Magno


di Lisippo, noto a noi grazie a numerose copie, come quella della Gliptoteca di Monaco di Baviera, del
Louvre, del museo dell'Acropoli di Atene, Museo archeologico di Istanbul, è uno dei capolavori del ritratto
ellenistico e un modello copiatissimo per i futuri ritratti di sovrani e regnanti, sia in epoca ellenistica che
romana e oltre.

La grande personalità di Lisippo e le mutate condizioni sociali e culturali fecero sì che venissero superate le
ultime riluttanze dell'arte greca verso il ritratto fisiognomico e si arrivasse a rappresentazioni fedeli dei
tratti somatici e del contenuto spirituale degli individui.

Nel realizzare il ritratto di Alessandro Magno trasformò il difetto fisico che obbligava il condottiero, secondo
le fonti, a tenere la testa sensibilmente reclinata su una spalla in un atteggiamento verso l'alto che sembra
alludere a un certo rapimento celeste, "un muto colloquio con la divinità"[1]. Le folte ciocche sono trattate
con naturalezza con un doppio ciuffo sulla fronte e la superficie levigata è trattata con sapienti passaggi, ma
sufficientemente mossi per evitare uno sgradevole appiattimento.
Questa opera fu alla base del ritratto del sovrano "ispirato", che ebbe una duratura influenza nei ritratti
ufficiali ben oltre l'età ellenistica.

L'Eros con l'arco


è un archetipo originariamente bronzeo creato da Lisippo per il santuario di Tespie probabilmente tra il 338
e il 335 a.C. L'opera alla quale accenna Pausania (IX, 27.3) è conosciuta da una ingente serie di copie
marmoree per lo più di epoca imperiale romana.

Descrizione[modifica | modifica wikitesto]


Gli studi relativi all'opera di Lisippo ebbero origine all'inizio dell'XIX secolo grazie a Ennio Quirino Visconti
che identificò la copia presente nei Musei capitolini di Roma (inv. 410) e proveniente da Villa d'Este a Tivoli.

La copia più antica e fedele all'originale è probabilmente il torso conservato alla Centrale Montemartini
(Musei Capitolini 2138), datato al I secolo a.C. Come si intuisce da questo marmo, l'originale bronzeo
doveva presentare la gamba destra più avanzata rispetto alla sinistra, leggermente inclinata e con il tallone
leggermente sollevato. Una seconda caratteristica dell'originale doveva essere la posizione del braccio
sinistro il quale, differentemente dalle copie di età imperiale, doveva presentarsi aderente al torso nell'area
dei pettorali, ma distaccato e proteso ad occupare lo spazio anteriore all'altezza dell'addome, il quale
restava conseguentemente libero e ben modellato. Questo schema corrisponde alla tipica ricerca lisippea
continuamente approfondita a partire dall'Agias, come si può dedurre dalle riproduzioni ceramografiche
dell'archetipo (Parigi, Museo del Louvre: Atene, Museo del Ceramico), fino alla piena realizzazione
dell'Apoxyómenos. Il movimento sinuoso del busto con l'accentuato contrapposto si perde nelle copie più
tarde, ma è ancora pienamente compreso nella copia al Museo nazionale romano (inv. 129185).

La comprensione del gesto dell'Eros, descritto nel passo di Publio Ovidio Nasone (Metamorfosi, V: «e
opponendovi il ginocchio curvò il flessibile corno») risulta più agevole a seguito del ritrovamento, nel
Ninfeo degli Eroti di Ostia nel 1940, di due copie (Ostia, Museo ostiense 139 e 1364) che hanno portato
grazie alla conservazione, seppure in frammenti, del braccio e della mano sinistra nuovi elementi che
facilitano l'esegesi. La mano sinistra con il medio sporgente tendeva la corda per saggiare la flessibilità
dell'arma con un movimento opposto alla spinta effettuata dalla destra (si conserva il braccio destro fino al
gomito nel pendant), alla quale corrispondeva la forza opposta all'estremità inferiore dell'arco da parte
della coscia destra.
La posizione dell'arco differisce tra le varie ricostruzioni e copie. Nella copia dei Musei Capitolini il foro che
ancora contiene il perno metallico al quale si agganciava l'arco bronzeo è stato riempito con stucco e si

trovava sul lato esterno della coscia. Altre copie presentano la tangenza tra gamba e arco al di sotto del
ginocchio, in una posizione che non può essere funzionale alla pressione necessaria all'azione, e alcune
(Museo archeologico nazionale di Venezia; Museo nazionale romano) conservano l'estremità dell'arco a
forma di testa d'aquila, un particolare che non è escluso potesse trovarsi nell'originale bronzeo. Assente
doveva essere invece nell'archetipo il tronco d'albero e la posizione della faretra nelle copie marmoree
risulta totalmente arbitraria.

L'Apoxyómenos
(traslitterazione dal participio greco ἀποξυόμενος, "colui che si deterge") è una statua bronzea di Lisippo,
databile al 330-320 a.C. circa e oggi nota solo da una copia marmorea (marmo pentelico) di età claudia del
Museo Pio-Clementino nella Città del Vaticano. Si conoscono inoltre varie copie con varianti.

La testa
L'Apoxyómenos (traslitterazione dal participio greco ἀποξυόμενος, "colui che si deterge") è una statua
bronzea di Lisippo, databile al 330-320 a.C. circa e oggi nota solo da una copia marmorea (marmo
pentelico) di età claudia del Museo Pio-Clementino nella Città del Vaticano. Si conoscono inoltre varie copie
con varianti.
Descrizione[modifica
L'Apoxyómenos raffigura un giovane atleta nell'atto di detergersi il corpo con un raschietto di metallo, che i
Greci chiamavano ξύστρα e i Romani strigilis, in italiano striglia.[4] Era uno strumento dell'epoca, di
metallo, ferro o bronzo, che era usato solo dagli uomini e, principalmente, dagli atleti per pulirsi dalla
polvere, dal sudore e dall'olio in eccesso che veniva spalmato sulla pelle prima delle gare di lotta.[1] L'atleta
è quindi raffigurato in un momento successivo alla competizione, in un atto che accomuna vincitore e vinto.
[4]

La versione dei Musei Vaticani si presume sia stata eseguita in un'officina romana di buona qualità, pure se,
ad una più attenta analisi, resta qualche piccola imperfezione e decadimento di livello; ne è un particolare
esempio la resa della zona interna del braccio sinistro. La statua risulta nella sua totalità sostanzialmente
completa e tuttora in condizioni molto buone. Piccoli particolari rovinati si possono riscontrare nella punta
del naso, mancante, diverse scheggiature relative all'orecchio sinistro, ai capelli, a una delle mascelle e
anche allo zigomo sinistro. Esistono due fratture sul braccio destro; una è situata alla metà circa del bicipite
e una seconda sopra il polso. Il braccio sinistro riporta una frattura alla spalla, dove si possono anche notare
piccole perdite di materiale e una seconda frattura al polso.

Su una vasta zona dell'avambraccio destro sono evidenti le tracce di leggere corrosioni e di un'antica azione
del fuoco. In una delle mani mancano tutte le dita e si notano fori di perni che risalgono ad un precedente
restauro.

Mancano anche il pene e una parte dei genitali nella zona inferiore. La gamba sinistra rivela una frattura
sotto l'anca. La gamba destra rivela due fratture; sotto la caviglia e sotto il ginocchio.

Stile[modifica | modifica wikitesto]


Col gesto di portare in avanti le braccia (tesa la destra e piegata la sinistra), la figura segnò una rottura
definitiva con la tradizionale frontalità dell'arte greca: le statue precedenti avevano infatti il punto di vista
ottimale davanti (un retaggio delle collocazioni dei simulacri nelle celle dei templi), mentre in questo caso
per godere appieno del soggetto si deve girargli intorno. Con tale innovazione l'opera è considerata la
prima scultura pienamente a tutto tondo dell'arte greca.

La figura si muove ormai nello spazio con una grande naturalezza, con una posizione a contrapposto che
deriva dal Doriforo di Policleto; in questo caso però entrambe le gambe sostengono l'atleta e la sua figura è
leggermente inarcata verso la sua sinistra, seguendo quel gusto per la dinamica e l'instabilità maturato da
Skopas qualche anno prima. Esso si protende nello spazio con audacia, col peso caricato sulla gamba
sinistra (aiutata da un sostegno a forma di tronco d'albero) e con una lieve torsione del busto, che spezza
irrimediabilmente la razionalità del chiasmo policleteo, cosicché i pesi non sono più distribuiti con
simmetria sull'asse mediano. Il corpo dell'opera è percorso da una linea di forza ondulata e sinuosa, che dà
l'impressione allo spettatore che l'opera possa in qualche modo andargli incontro.

Il corpo è snello, con una testa più piccola del tradizionale 1/8 dell'altezza del canone di Policleto, in modo
da assecondare un'innovativa visione prospettica, che tiene conto del punto di vista dello spettatore
piuttosto che della reale antropometria della figura. Scrisse a tale proposito Plinio che Lisippo «soleva dire
comunemente che essi [gli scultori a lui precedenti] riproducevano gli uomini come erano, ed egli invece
come all'occhio appaiono essere» (Naturalis Historia, XXXIV, 65.).

Agias
La statua di Agias è un'opera in marmo, databile alla fine del IV secolo a.C., facente parte del gruppo
dinastico fatto erigere da Daoco II a Delfi e conservato nel museo archeologico locale (inv. 1875).

Storia[modifica | modifica wikitesto]


La statua faceva parte di un donario marmoreo fatto erigere dal tetrarca di Tessaglia Daoco II nel santuario
di Apollo a Delfi, in seguito alla sua elezione, nel 337-336 a.C., a rappresentante dei tessali nella Lega di
Delfi. L'opera, che celebra la dinastia di Daoco II, potrebbe essere copia in marmo di un primo donario in
bronzo fatto erigere a Farsala su imitazione del Philippeion di Filippo II di Macedonia. Del perduto gruppo di
Farsala nel XIX secolo si conservava la base della statua del bisnonno di Daoco II, Agias, descritto
nell'epigrafe come atleta vittorioso. La base di Farsala riportava anche la firma di Lisippo come scultore.

Le figure marmoree di Delfi, che si disponevano linearmente su una stessa base e affiancavano la figura di
Apollo ipotizzata all'estrema destra, si sono quasi interamente conservate. Agìas, come ancora si legge
nell'iscrizione di Delfi, fu campione di pancrazio (uno sport che prevedeva una combinazione di lotta e
pugilato), e più volte vincitore delle gare olimpiche, di quelle delfiche, dei giochi istmici e dei giochi di
Nemea nel V secolo a.C.

Descrizione[modifica | modifica wikitesto]


L'atleta è raffigurato con un'espressione del volto tenace e vigorosa, ma dai tratti delicati. Il corpo è alto e
snello, la muscolatura ben disegnata. Il peso della figura è appoggiato su una gamba, mentre l'altra è
leggermente flessa, entrambi i piedi però appoggiano interamente sulla base secondo un'iconografia
frequente nelle opere dello scultore di Sicione a partire dal 340 a.C. circa (data della base di Corinto,
Corinto, Agorà n. 29). La testa è più piccola rispetto alle proporzioni classiche, la parte inferiore del corpo è
particolarmente allungata, le proporzioni della figura corrispondono a quelle attribuite al canone di Lisippo
da Gaio Plinio Secondo e ripreso dai trattati della scuola di Sicione da Vitruvio.

Nella stessa sala del museo, in cui è conservata la statua di Agias, sono esposte le altre sculture conservate
pertinenti al donario, tra queste, su base stilistica, sono state avvicinate a Lisippo le figure di Daoco I e Sisifo
II, mentre per quelle di Acnonio e Agelao si è ipotizzata una collaborazione con Leocare, collaboratore di
Lisippo nella Caccia al leone di Alessandro e Cratero dedicata da Cratero a Delfi.

Ellenismo
Ellenismo è il periodo storico compreso fra il 323 a.C. (anno della morte di Alessandro Magno) e il 31 a.C.
(anno in cui l’Egitto, dopo la battaglia di Azio, fu ridotto a provincia romana).

Il termine “ellenismo“ fu coniato dallo storico tedesco Johann Gustav Droysen, che intorno al 1840 pubblicò
per primo una Storia dell’Ellenismo. “Hellenismós” in greco significa “imitazione dei greci”. Droysen utilizzò
questo termine proprio per indicare che nell’età ellenistica si ebbe la massima diffusione della cultura
greca.

Durante questo periodo, che abbraccia i secoli III-I a.C., la Grecia (con le sue poleis) decadde politicamente,
ma la sua cultura si diffuse in tutto l’Oriente unificato da Alessandro Magno, restandone influenzata a sua
volta.

La caduta dell’ideale della polis greca, l’intenso movimento emigratorio dalla Grecia, la moltiplicazione dei
centri urbani causarono un profondo cambiamento dal punto di vista culturale.

La vita delle poleis non comportava più una costante, attiva e decisiva partecipazione dei cittadini alla vita
politica. La perdita di legami e di identità si tradusse in un’esaltazione della dimensione individuale del
destino di ciascun individuo.

Questo nuovo atteggiamento produsse reazioni diverse.

Da un lato, lo sconfinato orizzonte del mondo ellenistico e l’incontro concreto con popoli e culture diversi
fece maturare un atteggiamento mentale di curiosità e apertura che oggi definiamo con la parola
cosmopolitismo (dal greco kòsmos, «mondo», e polìtes, «cittadino»): non si era più solo cittadini della polis
ma cittadini del mondo.

Dall’altro, la dipendenza dalla volontà di sovrani potenti e lontani e il declino delle poleis esaltarono il senso
di isolamento e di insicurezza degli individui, che cercarono risposte nella religione, nella magia,
nell’astrologia. In ciò decisivo fu il sincretismo religioso, ossia la mescolanza di culti e pratiche soprattuttto
di origine orientale.

Veicolo di questo nuovo universo culturale era la lingua greca comune, la koiné (in greco «comune»), il
dialetto attico semplificato. Imposto da Alessandro Magno e inizialmente diffuso negli atti ufficiali e
commerciali, il greco divenne la lingua degli uomini di cultura. Grazie a questa lingua comune, realtà
lontane e fino ad allora isolate poterono entrare in comunicazione.

I sovrani ellenistici ebbero un ruolo importante nel processo dello sviluppo culturale. Con offerte allettanti
attirarono a corte poeti, filosofi, pittori, scultori. L’esempio grandioso fu quello di Alessandria d’Egitto, sede
del famoso Museo. Nel Museo, scienziati e ricercatori di tutto il mondo ellenistico lavorarono avvalendosi
delle strutture di ricerca più avanzate (l’osservatorio astronomico, il giardino zoologico, l’orto botanico, le
sale di dissezione anatomica, oltre naturalmente alla biblioteca); usufruirono inoltre della possibilità di
comunicazione con ricercatori e scienziati di ogni angolo del mondo allora conosciuto.

Fu grazie a queste condizioni che la ricerca scientifica conobbe in età ellenistica grandi progressi,
testimoniati da nomi come quello di Euclide, i cui Elementi di geometria (300 a.C. circa) si studiano ancora
oggi; Archimede di Siracusa (287-212 a.C.), autore di scoperte fondamentali di meccanica e di ottica;
Aristarco di Samo (inizio del III secolo a.C.), l’astronomo che per primo immaginò un universo con il Sole al
centro; Eratostene di Cirene (275-195 a.C), il geografo che calcolò con procedimenti matematici la
lunghezza dell’Equatore.
Notevoli furono anche le indagini nel campo dell’ingegneria meccanica che portarono a realizzare congegni
e macchine di concezione avanzatissima. Tuttavia queste conquiste della scienza non ebbero particolari
applicazioni, se non nel campo della teconologia militare e, più in particolare, in quello delle macchine da
guerra.

Nike di samotracia

La Nike di Samotracia è una scultura in marmo pario (h. 245 cm) di scuola rodia, dalla discussa attribuzione
a Pitocrito, databile al 200-180 a.C. circa e oggi conservata al Museo del Louvre di Parigi.

Storia
Ricostruzione della Nike (foto del 1879)
La Nike venne presumibilmente scolpita a Rodi in epoca ellenistica per commemorare la vittoria nella
battaglia dell'Eurimedonte, in cui la flotta del re siriano Antioco III (guidata da Annibale) combatté contro
una piccola flotta di navi di Rodi, che da poco si era schierata dalla parte di Roma nell'ambito della Guerra
romano-siriaca. L'isola di Samotracia volle commemorare il buon esito del conflitto realizzando un grande
tempio votivo in onore dei Grandi Dei Cabiri che si sviluppava su più livelli, dei quali quello alla sommità era
occupato proprio dalla Nike (Νίκη). L'autore è sconosciuto, e per quanto sia popolare l'attribuzione a
Pitocrito si tratta tuttavia di un errore legato al frammento "Louvre Ma4194" il quale non fa parte del
complesso statuario, e non è in alcun modo riconducibile a Pitocrito.

Dopo esser rimasta nel santuario dei Grandi Dei di Samotracia per diversi secoli, la Nike scomparve
misteriosamente, per poi essere rinvenuta il 15 aprile 1867 in stato frammentario da Charles Champoiseau,
viceconsole francese a Edirne, nella stessa isola egea (all'epoca parte dell'impero ottomano e nota come
Semadirek). Successivamente l'opera fu acquistata dai francesi, che intendevano includerla nelle collezioni
del Museo del Louvre, dove arrivò dopo un impervio viaggio che si sviluppò tra Costantinopoli, il Pireo,
Marsiglia e infine Parigi. Giunta nella Ville Lumière, la statua venne ricomposta e infine collocata sulla
sommità della scala Daru, progettata da Hector Lefuel per raccordare la Galerie d'Apollon e il Salon Carré.
Dalla nuova sede del Louvre la Nike venne spostata solo una volta, nel 1939, quando per proteggerla
dall'imminente seconda guerra mondiale venne trasportata nel castello di Valençay.[1]

Notevole il restauro svoltosi tra il 2013 e il 2014, con un costo globale di circa quattro milioni di euro, grazie
al quale sono state ripristinate tre nuove piume sull'ala sinistra e la cromia originale del marmo pario.[2]

Descrizione
La Nike che si erge maestosa in cima alla scala Daru
La statua, rinvenuta acefala e senza braccia, raffigura Nike, la giovane dea alata figlia del titano Pallante e
della ninfa Stige, adorata dai Greci come personificazione della vittoria sportiva e bellica. La dea, vestita con
un leggero chitone, è qui effigiata nell'atto di posarsi sulla prua di una nave da guerra battaglia (il
basamento, scolpito nel pregiato marmo di Larthos, proveniente dall'isola di Rodi). Un vento impetuoso
investe la figura protesa in avanti, muovendo il panneggio che aderisce strettamente al corpo, e crea un
gioco chiaroscurale di pieghette dall'altissimo valore virtuosistico, in grado di valorizzare il risalto dello
slancio. Dinamismo e abilità di esecuzione si uniscono quindi in un'opera che concilia spunti dai migliori
artisti dei decenni precedenti: il vibrante panneggio fidiaco, gli effetti di trasparenza e leggerezza prassitelici
e la tridimensionalità lisippea.

Scolpita nel pregiato marmo pario, la dea posa con leggerezza il piede destro sulla nave, mentre per il fitto
battere delle ali, che frenano l'impeto del volo, il petto si protende in avanti e la gamba sinistra rimane
indietro. Le braccia sono perdute, ma alcuni frammenti delle mani e dell'attaccatura delle spalle mostrano
che il braccio destro era abbassato, a reggere probabilmente il pennone appoggiato alla stessa spalla,
mentre il braccio sinistro era sollevato, con la mano aperta a compiere, secondo Marianne Hamiaux, un
gesto di saluto, oppure a reggere una corona. La volontà dell'autore della Nike ha esasperato tutto ciò che
può suggerire il movimento e la velocità.

Venere di Milo
L’Afrodite di Milo, meglio conosciuta come Venere di Milo, è una delle più celebri statue greche.

Si tratta di una scultura di marmo pario alta 202 cm priva delle braccia e del basamento originale ed è
conservata al Museo del Louvre di Parigi.

Sulla base di un'iscrizione riportata sul basamento andato perduto si ritiene che si tratti di un'opera di
Alessandro di Antiochia anche se in passato alcuni la attribuirono erroneamente a Prassitele.

Disegno della statua con l'iscrizione sul plinto mancante (Debay, 1821)
La Venere di Milo risale al 130 a.C. circa: è dunque un'opera ellenistica, sebbene si tratti di una scultura che
fonde i diversi stili dell'arte del periodo classico.

Venne ritrovata spezzata in due parti nel 1820 sull'isola greca di Milo da un contadino chiamato Yorgos
Kentrotas. Kentrotas nascose l'opera la quale fu poi tuttavia sequestrata da alcuni ufficiali turchi. Un
ufficiale della marina francese, Olivier Voutier, ne riconobbe il pregio e, grazie alla mediazione di Jules
Dumont d'Urville e del Marchese di Rivière, ambasciatore francese presso gli ottomani, riuscì a concluderne
l'acquisto. Dopo alcuni interventi di restauro, la Venere di Milo fu presentata al re Luigi XVIII nel 1821 e
collocata al museo del Louvre, dove è tuttora conservata.
La grande fama raggiunta dall'opera nel XIX secolo non fu dovuta soltanto alla sua bellezza e alla sua
perfezione, ma anche alla "propaganda" delle autorità francesi. Nel 1815, infatti, la Francia dovette
restituire la Venere de' Medici agli italiani, dopo che questa era stata portata in Francia tra le spoliazioni
napoleoniche. La Venere di Milo, dunque, venne "sponsorizzata" dai francesi per rimpiazzare così la perdita
dell'altra opera.[senza fonte]

Celebrata da artisti e critici, la Venere di Milo fu da molti considerata una delle più significative
rappresentazioni della bellezza femminile; l'unico che si distinse fu Pierre-Auguste Renoir che la liquidò
definendola "un gran gendarme".

Descrizione e stile[modifica | modifica wikitesto]

La Venere di Milo vista di fronte di lato e di retro


Afrodite si leva stante col busto nudo fino all'addome e le gambe velate da un fitto panneggio. Il corpo
compone una misurata tensione che richiama un tipico chiasmo di derivazione policletea. Il modellato è
reso con delicate suggestioni chiaroscurali, col contrasto tra il liscio incarnato nudo e il vibrare della luce nei
capelli ondulati e nel panneggio increspato della parte inferiore.

Non si conosce precisamente quale episodio mitologico della vita di Venere venga rappresentato: si ritiene
possa essere una raffigurazione della Venus Victrix che reca il pomo dorato a Paride. Del resto, alcuni
frammenti di un avambraccio e di una mano recante una mela sono stati ritrovati vicino alla statua stessa.
In generale comunque colpisce l'atteggiamento naturale della dea, ormai lontana dalla compostezza
"eroica" delle Veneri classiche dei secoli precedenti.
Dopo il ritrovamento dell'opera, sono stati numerosi i tentativi di ricostruirne la posa originaria (una
raffigurazione ad opera di Adolf Furtwängler riproponente la forma originale dell'opera è pubblicato in un
articolo di Kousser).

Il gruppo del Laooconte


Il gruppo scultoreo di Laocoonte e i suoi figli, noto anche semplicemente come Gruppo del Laocoonte, è
una scultura ellenistica della scuola rodia, in marmo (h 242 cm) conservata nel Museo Pio-Clementino dei
Musei Vaticani, nella Città del Vaticano. Raffigura il famoso episodio narrato nell'Eneide che mostra il
sacerdote troiano Laocoonte e i suoi figli assaliti da serpenti marini. L'opera è probabilmente una copia
romana della versione originale in bronzo.

Si è ipotizzato che l'originale fosse stato creato a Pergamo, come suggeriscono alcuni confronti stilistici con
opere della scuola locale: i pacifici rapporti tra la città dell'Asia minore e Roma erano infatti rafforzati dai
miti legati a Troia, dai quali discendevano le leggende di fondazione di entrambe le città[6].

Plinio comunque attesta la presenza a Roma della statua marmorea a metà del I secolo d.C. attribuendola a
scultori attivi un secolo prima. Infatti alcune iscrizioni trovate a Lindo, sull'isola di Rodi fanno risalire la
presenza a Roma di Agesandro e Atenodoro a un periodo successivo al 42 a.C., e in questo modo la data più
probabile per la creazione del Laocoonte deve essere compresa tra il 40 e il 20 a.C., per una ricca casa
patrizia, o più probabilmente per una committenza imperiale (Augusto, Mecenate), anche se il Laocoonte
sembra lontano dallo stile neoattico in auge nel periodo. Visto il luogo di ritrovamento è anche possibile
che la statua sia appartenuta, per un periodo, a Nerone.

Il ritrovamento
S. Maria in Aracoeli, lastra tombale di Felice De Fredis "qui ob proprias virtutes et repertum Lacoohontis (…)
simulacrum immortalitatem meruit"
La statua fu trovata il 14 gennaio del 1506[7] scavando in una vigna sul colle Oppio di proprietà di Felice de
Fredis, nelle vicinanze della Domus Aurea di Nerone: l'epitaffio sulla tomba di Felice de Fredis in Santa
Maria in Aracoeli ricorda l'avvenimento[2]. Allo scavo, di grandezza stupefacente secondo le cronache
dell'epoca, assistettero di persona, tra gli altri, lo scultore e pittore Michelangelo e l'architetto Giuliano da
Sangallo. Questi era stato inviato dal papa a valutare il ritrovamento, secondo la testimonianza di
Francesco, giovane figlio di Giuliano (che, ormai anziano, ricorda l'episodio in una lettera del 1567)[2].
Secondo questa testimonianza fu proprio Giuliano da Sangallo a identificare i frammenti ancora
parzialmente sepolti con la scultura citata da Plinio[8]. Esistono comunque testimonianze coeve che danno
la stessa identificazione della scultura appena rinvenuta[5].

Il gruppo statuario raffigura la fine di Laocoonte e dei suoi due figli Antifate e Timbreo mentre sono
stritolati da due serpenti marini, come narrato nel ciclo epico della guerra di Troia, ripreso successivamente
nell'Eneide da Virgilio[16], in cui è descritto l'episodio della vendetta di Atena, che desiderava la vittoria
degli Achèi, sul sacerdote troiano di Apollo, che cercò di opporsi all'ingresso del cavallo di Troia nella
città[17].

La sua posa è instabile perché nel tentativo di liberarsi dalla stretta dei serpenti, Laocoonte richiama tutta la
sua forza, manifestando con la più alta intensità drammatica la sua sofferenza fisica e spirituale. I suoi arti e
il suo corpo assumono una posa pluridirezionale e in torsione, che si slancia nello spazio. L'espressione
dolorosa del suo viso unita al contesto e la scena danno una resa psicologica caricata, quasi teatrale, come
tipico delle opere del "barocco ellenistico". La resa del nudo mostra una consumata abilità, con l'enfatica
torsione del busto che sottolinea lo sforzo e la tensione del protagonista. Il volto è tormentato da
un'espressione pateticamente corrucciata. Il ritmo concitato si trasmette poi alle figure dei figli[3]. I
lineamenti stravolti del viso di Laocoonte, la sua corporatura massiccia si contrappongono alla fragilità e
alla debolezza dei fanciulli che implorano, impotenti, l'aiuto paterno: la scena suscita commozione ed
empatia nell'animo di chi guarda[18].

La statua è composta da più parti distinte, mentre Plinio, in effetti, descrisse una scultura ricavata da un
unico blocco marmoreo (ex uno lapide). Tale circostanza ha creato sempre molti dubbi di identificazione e
attribuzione[19].

Vecchia ubriaca

ANALISI

- Realismo (carattere del chiaroscuro)


» scavo delle ossa, eccessivamente spigolose
» pelle cadente, floscia, rughe sul volto e collo
» posizione instabile con il collo rovesciato
all’indietro proprio come gli ubriachi
» stessa postura di una tragedia teatrale
» espressione assente, implorante, sfigurata
» è inebetita, non è una donna
» spostamento del punto di vista frontale
» la statua non guarda più dall’alto al basso
- Satirica
» ironia mordace che sottolinea il difetto
» l’arte inizia a cogliere gli umili e gli ultimi per
sottolineare come l’uomo si imbruttisce da sé
» è una critica al modo di vivere, non un
moto di commiserazione » assume un
carattere di avvertimento per lo spettatore
» abbraccia in modo possessivo l’oggetto, da
cui ne dipende anche strutturalmente: solo la
giara bilancia il peso della testa che ricade
all’indietro
» l’uomo si riconosce nella raffigurazione:
insegnamento di come condurre la vita
- Novità
» levigazione accurata delle superfici danno
un’idea di trasparenza delle vesti
» maggior maestria nel trattamento dei materiali
» dato anatomico scheletrico, pose nuove e
ardite per l’equilibrio della statua:
virtuosismo tecnico
» alla statua associato un giudizio e un carattere

La Vecchia ubriaca è una scultura in marmo databile al 300-280 a.C. circa e conosciuta da copie romane, tra
cui le migliori sono alla Gliptoteca di Monaco (h 92 cm) e ai Musei Capitolini di Roma.

Plinio citò in un passo una "vecchia ubriaca di Smirne", attribuendola al famoso Mirone, artista del V secolo
a.C., ma una cronologia del genere appare impensabile, perché lo stile dell'opera è ellenistico, mentre
Mirone visse molti anni prima. Plausibile che vi fu un errore dei copisti latini che scambiarono il nome
attribuito alla vecchia, "Maronide", con quello del noto scultore "Myronis", traducendo il passo quindi
come la vecchia "di Mirone". Gli storici dell'arte attribuiscono l'opera a Mirone di Tebe, attivo intorno alla
metà del III secolo a.C. alla corte di Pergamo.[1][2][3][4][5][6]

Soggetto della scultura è quindi Maronide, un'anziana donna ubriaca, che tiene tra le braccia un otre di
vino, distesa a terra con il busto alzato e la testa riversa all'indietro. Il volto rugoso, disperato e quasi
grottesco, è caratterizzato dalla bocca aperta e dallo sguardo perso nel vuoto, a causa dei fumi dell'alcol.

La scrupolosità dei particolari e l'aderenza della composizione alla realtà fanno dell'opera scultorea uno
degli esempi più riusciti del realismo che permea la scultura dell'età ellenistica, attenta per la prima volta
nel mondo greco alla resa di sentimenti personali, quali il dolore e lo sconforto.
Galata morente

Galata morente era una scultura bronzea attribuita a Epigono, autore di molte statue raffiguranti Galati,
databile al 230-220 a.C. circa e oggi nota da una copia marmorea dell'epoca romana conservata nei Musei
Capitolini di Roma.[1] Con il Galata suicida e con altre opere di identificazione più complessa doveva fare
parte del Donario di Attalo nella città di Pergamo.

L'opera fu commissionata da Attalo I di Pergamo per celebrare la sua vittoria contro i Galati. Non si conosce
esattamente l'identità dell'artista che realizzò l'opera: si ritiene si tratti di Epigono, lo scultore di corte della
dinastia dei sovrani di Pergamo.

Fu una delle opere scultoree dell'antichità più note e, per questo motivo, fu spesso ripreso da molti artisti
di epoche successive. La versione capitolina venne scoperta all'inizio del XVII secolo, durante gli scavi di
Villa Ludovisi. La prima testimonianza del ritrovamento risale al 1623, quando l'opera venne registrata
quale parte della collezione della potente famiglia romana. La capacità dell'artista e il pathos della scultura
suscitarono una grande ammirazione tra gli amanti dell'arte del XVII e del XVIII secolo, tant'è che molti tra
re e ricchi proprietari terrieri ne commissionarono una copia. Fu proprio durante quest'epoca che alcuni,
fraintendendo il tema dell'opera, ritennero si trattasse di un gladiatore morente, il che diede vita a tutta
una serie di denominazioni non corrette (tra le quali il Gladiatore morente, il Gladiatore ferito, il Mirmillone
morente).

Durante la campagna napoleonica in Italia, nel 1797, fu portata a Parigi per volontà del generale
Napoleone, insieme alle altre opere prelevate per mezzo del Trattato di Tolentino, quali il Bruto Capitolino,
la Venere Capitolina, e lo Spinario, nel contesto delle spoliazioni napoleoniche. La statua ritornò poi a Roma
nel 1815 e fu da quel momento esposta presso i Musei Capitolini, dove è a tutt'oggi conservata, grazie
all'intervento del Canova successivamente al Congresso di Vienna.

Alcune copie del Galata morente si possono osservare presso Il Museo dell'Arte Classica di Roma - La
Sapienza, il Museo di Archeologia classica dell'Università di Cambridge, presso la Galleria Courtauld di
Londra, oltre che a Berlino, Praga, Stoccolma, Venezia e Carrara.

Descrizione e stile[modifica | modifica wikitesto]


La statua raffigura, con grande realismo (specie nel volto), un guerriero galata morente, semisdraiato e col
volto rivolto in basso. Il soggetto presenta i tratti tipici del guerriero celtico, considerando gli zigomi alti,
l'acconciatura dei capelli, dalle folte e lunghe ciocche, e i baffi. In tale gusto si nota un accento sulla
particolare erudizione che circolava alla corte di Pergamo.

Eccezion fatta per una torque intorno al collo (una particolare collana tipica delle popolazioni celtiche), il
guerriero è completamente nudo. Sulla base, attorno ad esso alcune armi abbandonate. Col tipico
patetismo della scuola di Pergamo, l'artista evidenziò il dolore dello sconfitto, accentuandone il coraggio e il
valore e quindi, dall'altro lato, le qualità militari dei vincitori.

Galata suicida
Il Galata suicida, noto anche come Galata Ludovisi, è una copia romana in marmo (h. 211 cm) del I secolo
a.C. di una statua in bronzo di Epìgono realizzata intorno al 230-220 a.C., oggi conservata al Museo
Nazionale Romano di Palazzo Altemps di Roma.[1] L'opera originale, assieme al Galata morente, faceva
parte del Donario di Attalo, un perduto monumento trionfale sull'acropoli di Pergamo commissionato da
Attalo I per celebrare la propria vittoria contro i Galati.[2]
Storia e descrizione[modifica | modifica wikitesto]
Il Galata Ludovisi venne ritrovato negli scavi di Villa Ludovisi. Mostra un guerriero colto nell'atto di suicidarsi
conficcandosi una spada corta tra le clavicole. La punta della spada è già entrata nel corpo. È ben sorretto
dalle gambe poste divaricatamente che, insieme al busto, sono protese verso destra, mentre la testa è
fieramente rivolta all'indietro. Il corpo nudo, coperto solo sulla schiena da un mantello che vola
dinamicamente, mostra la dettagliata muscolatura del guerriero. L'immagine è incentrata sulla parte dove,
con la mano destra, si trova ad impugnare la spada già penetrata tra le clavicole. La moglie è abbandonata
sulle ginocchia, ormai a un passo dal suo "sonno eterno".

La scultura evoca profonde sensazioni di eroismo e pateticità, a evidenziare il valore dei vinti e quindi, di
riflesso, anche quello dei vincitori.

La statua raffigura, con grande realismo, i tratti somatici del guerriero celtico, con gli zigomi alti,
l'acconciatura dei capelli, dalle folte e lunghe ciocche e i baffi (si notano solo col viso visto frontalmente). In
tale gusto si nota un accento sulla particolare erudizione che circolava alla corte di Pergamo. Probabilmente
la figura stante si trovava al centro del donario, per questo è fatta per essere apprezzata da molteplici punti
di vista, sviluppandosi nello spazio che la circonda.
Ritrattistica

Il ritratto ellenistico è uno dei maggiori traguardi dell'arte greca, nel quale si riuscì, in maniera
definitivamente incontrovertibile, a realizzare ritratti fisionomici (cioè riproducenti le reali fattezze delle
persone), dotati anche di valenze psicologiche. Ci sono pervenute solo opere scultoree, ma sicuramente fu
un fenomeno che riguardò anche la pittura[1].

Fino al IV secolo a.C. infatti la creazione di effigie si era valsa di tratti somatici prettamente idealizzati, i
cosiddetti ritratti "tipologici" (dove si riconoscevano alcuni attributi della categoria degli individui). In ciò
pesava la funzione collettiva dell'arte, a servizio della polis piuttosto che del singolo, che arrivava a vietare
l'esposizione di immagini "private" in luoghi pubblici e a esaminare attentamente quelle degli uomini
illustri.

Fino a tutto il tardo ellenismo la statuaria greca usò solo figure intere o tutt'al più, in epoca tarda o area
periferica, la mezza figura, soprattutto in ambito funerario. Le teste che conosciamo oggi sono frutto delle
copie romane (presso i romani e gli italici in genere era infatti diffusa questa tipologia). Anche le teste su
erme furono copiate dai romani a partire da sculture intere.

Lisisppo, Ritratto di Alessandro Magno


La grande personalità di Lisippo e le mutate condizioni sociali e culturali fecero sì che venissero superate le
ultime reticenze verso il ritratto fisiognomico e si arrivasse a rappresentazioni fedeli dei tratti somatici e del
contenuto spirituale degli individui. Nel realizzare il ritratto di Alessandro Magno trasformò il difetto fisico
che obbligava il condottiero, secondo le fonti, a tenere la testa sensibilmente reclinata su una spalla in un
atteggiamento verso l'alto che sembra alludere a un certo rapimento celeste, "un muto colloquio con la
divinità"[2]. Questa opera fu alla base del ritratto del sovrano "ispirato", che ebbe una duratura influenza
nei ritratti ufficiali ben oltre l'età ellenistica.

A Lisippo o alla sua cerchia sono stati attribuiti con una certa concordanza anche i ritratti di Aristotele
(eseguito quando il filosofo era ancora in vita), quello ricostruito di Socrate di tipo II, quello di Euripide di
tipo "Farnese", nei quali è presente una forte connotazione psicologica coerente con i meriti della vita reale
dei personaggi.

Dopo Lisippo, tra i secoli II e I a.C., si ebbe uno sviluppo amplissimo del ritratto fisiognomico greco, e non
riguardò più solo i sovrani e gli uomini particolarmente illustri, ma anche i semplici privati: nell'ellenismo
infatti l'arte era ormai a disposizione del singolo e non più esclusivamente della comunità. Si diffusero
inoltre il ritratto onorario e il ritratto funerario.

Lysistratos, fratello di Lisippo, secondo le fonti prendeva un calco in gesso dei volti dal quale creava un
modello in cera che usava per la fusione in bronzo, creando, secondo Plinio, opere veritiere anche a scapito
della correttezza formale e della piacevolezza compositiva: dopotutto faceva parte del gusto ellenistico il
godimento verso gli aspetti caratteristici e anche deformi della realtà.

Tra i capolavori di questo periodo ci sono i ritratti di Demostene e di Ermarco, basati sul reale aspetto dei
personaggi (280-270 a.C.), il ritratto di anziano 351 del Museo Archeologico Nazionale di Atene, (200 a.C.),
la testa in bronzo di Anticitera (sempre ad Atene, 180-170 a.C. circa), il patetico ritratto di Eutidemo di
Battriana, ecc. Esempio di un verismo di maniera è il ritratto di ricostruzione dello Pseudo-Seneca di Napoli.

Ritrattistica ufficiale[modifica | modifica wikitesto]


Nei ritratti ufficiali, al posto della tendenza più prettamente "verista", si privilegiava dare una valenza più
nobile e degna, con espressioni più ieratiche e distaccate, che riflettesse la loro ascendenza divina. Tra i
migliori esempi ci sono i ritratti di Antioco III di Siria, di Tolomeo III, di Berenice II, di Tolomeo VI, di
Mitridate VI ecc.

Ascrivibile questa corrente è anche il bronzo detto di Giuba II, con riscontri in alcuni marmi alessandrini.

Ritratto di demostene
Il ritratto del famoso oratore greco deriva da un originale creato da Polyeuctos intorno al 280 a.C. per
l’Agorà di Atene. La statua, conosciuta attraverso un gran numero di copie di età romana, rappresentava
Demostene in piedi, avvolto in un ampio panneggio che gli lasciava scoperta la spalla destra, lo sguardo
rivolto verso il basso, le mani allacciate davanti al corpo, in un atteggiamento di intensa concentrazione.

Pseudo Seneca
Lo Pseudo-Seneca è un busto romano in bronzo della fine del I secolo a.C. scoperto a Ercolano nel 1754 e
conservato presso il museo archeologico nazionale di Napoli. Si tratta del più bell'esempio rinvenuto tra le
circa due dozzine di busti raffiguranti lo stesso soggetto.

Inizialmente si credeva che rappresentasse Lucio Anneo Seneca, il famoso filosofo romano del I secolo d.C.,
tuttavia, gli studiosi moderni concordano che sia probabilmente un ritratto immaginario, presumibilmente
di Esiodo, anche se sussiste altresì l'ipotesi che possa trattarsi di Lucrezio.

Probabilmente il busto originale era un bronzo greco perduto del 200 a.C. circa.

Eutidemo I
Nella raccolta di antichità Giustiniani questo ritratto raffigurante un uomo dall’espressione severa, segnato
da un fervido realismo, compariva come “servo pileato”, ovvero recante il pileo, berretto comunemente
indossato da individui di umile estrazione. Prediligendo una diversa lettura del copricapo, simile alla kausia
macedone, considerata con il diadema insegna regale e simbolo di potere a partire da Alessandro Magno, la
figura virile ritratta è stata tradizionalmente identificata con Eutidemo I, dinasta ellenistico che ha regnato
sulla Battriana, terra anticamente parte dell’impero di Alessandro Magno.
Tempio di Apollo a Delfi
Il Tempio di Apollo a Delfi era un complesso religioso risalente al IV secolo a.C. famoso per il suo oracolo.

Il tempio, di ordine dorico e periptero, venne edificato sui resti di un tempio anteriore, eretto nel VI secolo
a.C., che a sua volta venne eretto nella stessa posizione di un altro del VII secolo a.C. La sua costruzione è
attribuita agli architetti Trofonio e Agamede.[1]

Nel secolo VI a.C. era conosciuto come il "Tempio degli Alcmeonidi" in tributo alla famiglia ateniense che
aveva finanziato la sua ricostruzione dopo che un incendio aveva distrutto la sua struttura originale. Il
nuovo edificio era un tempio di stile dorico esastilo di 6 x 15 colonne che venne poi distrutto nell'anno 373
a.C. Le sculture del frontone sono attribuite a Praxias e Androstene, ateniensi. Di una proporzione simile, il
secondo tempio mantenne il modello 6 x 15 colonne nello stilobate.[1] Dentro vi stava l'adyton, il centro
dell'oracolo e il sedile della Pizia. Il monumento è stato restaurato in parte nel 1938.

Sopravvisse fino al 390 d.C., anno in cui l'imperatore cristiano Teodosio I, fece tacere l'oracolo con la
distruzione del tempio e la maggior parte delle statue e opere d'arte in nome del cristianesimo.[2] Il
santuario fu completamente distrutto dai cristiani zelanti della loro fede, nel loro tentativo di cancellare
ogni traccia di paganesimo.[2]

I tre templi storici[modifica | modifica wikitesto]


Il tempio più antico, distrutto da un incendio nel 548 a.C., fu opera dei leggendari architetti: Trofonio e
Agamede. Fu sostituito da quello ordinato dalla famiglia ateniese degli Alcmeonidi, alla fine del VI secolo
a.C. Ma crollò dopo un violento terremoto nel 373 a.C. Tra il 373 a.C. e 340 a.C., venne costruito l'edificio, di
cui si possono vedere i resti.

L'ultimo tempio (IV secolo a.C.)[modifica | modifica wikitesto]


Costruito in stile dorico, aveva sei colonne di tufo sul davanti e quindici sui lati. Vi si accedeva da tre gradini.
La parte meridionale era sostenuta da un muro, che a sua volta poggiava su una terrazza inferiore
sostenuta da un muro poligonale. Su questa terrazza, tra gli altri edifici, vi era probabilmente la sede della
Pizia. Nella stanza sotterranea del tempio (l'adyton), dove si trovava l'onfalo e sgorgava l'acqua della fonte
Castalia, la sacerdotessa di Apollo pronunciava i suoi oracoli sibillini, che i sacerdoti interpretarono e
trascrissero.
Il tempio di Apollo poggia a nord nella roccia e a sud e a ovest su sostruzioni grandiose a filari regolari. Lo
stilobate presenta 3 gradini di calcare bluastro di Haghios Ilias. Il tempio è di ordine dorico, periptero
esastilo (m 60,32 × 23,82) , con 15 colonne sui lati lunghi con pronao e opistodomo in antis. Nel pronao vi
erano i motti dei Sette Savi e vi era anche una statua di Omero; nella cella si conservavano inoltre l'altare di
Poseidone, le statue delle Moire, di Apollo Moiragètes, il focolare con il fuoco perpetuo, la sedia di Pindaro,
in ferro (su cui il poeta aveva recitato le sue poesie).[6]

Nel pronào del santuario erano riportate delle massime di sapienza: "nulla di troppo" (Meden Agan, μnδὲv
ἄγav)[7], "La certezza porta rovina"[8], ed il celebre motto ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ (gnōthi seautón) che significa
"conosci te stesso" e che sarà poi fatto proprio da Socrate. All'interno del recinto erano presenti delle
statue, tra le quali due scolpite da Patrocle di Crotone.

L'adyton rispetto alla solita collocazione dei templi greci era posto in posizione ipogea. Si accedeva da un
tunnel laterale al tempo e si giungeva in una sorta di cripta che conteneva l'omphalòs, le due aquile di Zeus,
un Apollo dorato, il sarcofago di Dionisio e il tripode della Pizia; accanto all'àdyton vi era l'οἴκος (oikos) dove
sostavano quelli che interrogavano l'oracolo. Sull'architrave erano infissi a est gli scudi presi a Platea ai
Persiani, a ovest e a sud quelli presi ai Galli.[6] All'interno vi era anche una fonte di acqua, la Kassotis, con
cui la Pizia, i sacerdoti e chi richiedeva gli oracoli si dissetavano.
La via sacra[modifica | modifica wikitesto]
La Via Sacra era la strada principale del gruppo di edifici che formavano il Santuario di Delfi. Cominciava
nell'angolo sud-est del recinto sacro, per arrivare, per mezzo di un sentiero a serpentina di circa 400 m,
all'ingresso del Tempio di Apollo.
Era largo circa 4 o 5 metri ed era fiancheggiata su entrambi i lati da monumenti votivi e tesori, ordinati per
essere costruiti dalle città greche e per proteggere le offerte dei loro abitanti.
I donatori, con queste manifestazioni di ricchezza e potere, intendevano dimostrare la loro venerazione e il
riconoscimento del dio, e costituivano la testimonianza più eloquente dell'individualità, della rivalità e della
divisione del mondo greco antico. Un esempio: gli Spartani, per celebrare la vittoria sugli Ateniesi alla fine
della Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), costruirono un ex voto dedicato ai loro ammiragli che
sconfissero il nemico nella decisiva battaglia di Egospotami, proprio di fronte al monumento che aveva
commemorato il trionfo degli Ateniesi sui Persiani a Maratona.

Il tesoro dei sifni


Il Tesoro dei Sifni è un edificio ionico, distilo in antis con due cariatidi, costruito intorno al 530-525 a.C.,
donato nel santuario di Apollo a Delfi dalla città di Sifno. I materiali originali appartenenti alla decorazione
ritrovati nel sito archeologico di Delfi sono esposti nel museo locale; una sua ricostruzione è stata invece
posta lungo la Via Sacra che conduce al santuario.

Il tesoro è stato datato in base a testimonianze scritte a poco prima del 525 a.C. Erodoto [1] narra che gli
abitanti della piccola isola di Sifno nelle Cicladi, diventati ricchi grazie allo sfruttamento di miniere di metalli
preziosi, vollero erigere un tesoro a Delfi e chiesero all'oracolo quanto sarebbe durata la loro ricchezza.
Questo episodio viene narrato insieme ad altri avvenimenti relativi alla preparazione della spedizione di
Cambise II di Persia contro l'Egitto nel 524 a.C., dunque in quest'epoca il Tesoro dei Sifni doveva già essere
stato eretto.[2] L'edificio inoltre è stato identificato tramite Pausania [3]: è il secondo dei thesauroi che egli
registra nel suo percorso lungo la Via Sacra e che descrive come sontuosamente decorato e dipinto, in
accordo con la descrizione di Erodoto. Per la sua costruzione i Sifni non dovettero badare a spese, pur
trattandosi di un piccolo edificio, e non essendovi sulla loro isola alcuna tradizione artistica, dovettero
rivolgersi ad artisti di chiara fama.
La datazione del Tesoro dei Sifni è importante come punto di riferimento cronologico e lo è particolarmente
per il tipo femminile della Cariatide, col suo panneggio ionico, di cui esistono numerose varianti tra le korai
ioniche o attiche dell'Acropoli ateniese.[4]

Il Tesoro dei Sifni era un edificio distilo con due cariatidi in sostituzione delle colonne poste tra i muri
laterali del pronao; un notevole fregio - il primo esempio noto di fregio narrativo continuo in quella che
diventerà la sua posizione canonica negli edifici ionici - corre al di sopra dell'architrave, serrato tra cornici di
foglie e di boccioli di loto; il fregio affronta temi diversi in ognuno dei quattro lati (i nomi dei personaggi
mitologici sono stati dipinti sullo sfondo) :[5] una Gigantomachia sul lato nord, il giudizio di Paride sul lato
ovest, il Concilio degli dei che dall'Olimpo assistono alla Guerra di Troia sul lato est e il Ratto delle Leucippidi
(figlie di Leucippo, re della Messenia) da parte dei Dioscuri sul lato sud. Il frontone a ovest, corrispondente
alla facciata di ingresso, raffigurava scene della battaglia di Troia e il frontone a est (l'unico rimasto)
raffigura la Contesa del tripode delfico tra Apollo e Eracle.
Ai fregi del Tesoro dei Sifni hanno collaborato due diverse officine: il frontone e i fregi meridionale e
occidentale (quello anteriore) presentano tratti ionici[2], e sembrano essere opera di uno scultore più
anziano, forse il direttore generale dei lavori, come spesso accadeva, ad un tempo architetto e scultore.[4] I
fregi orientale e settentrionale sembrano invece opera di un maestro occidentale, probabilmente ateniese.
[2] Mentre il maestro più anziano si mantiene fedele alla tradizione monumentale dell'alto arcaismo, a nord
e a est un artista forse più giovane varia le profondità del rilievo e si avvale di convenzioni praticate dai
ceramografi attici nei contemporanei vasi a figure rosse.[2]

Nei lati sud e ovest, diversamente dalla variata profondità dei rilievi nord e est, sono stati utilizzati solo due
piani: il piano delle figure e lo sfondo del rilievo. Le figure sono generalmente frontali o di profilo, lo scorcio
è poco usato e si nota un senso limitato del movimento delle figure nello spazio. Che questo scultore fosse
il più anziano e preminente artista in questo edificio è deducibile dalla assegnazione di quella che ne era,
prima dell'allargamento della Via Sacra all'inizio del V secolo a.C., la parte anteriore. Lo stesso scultore è
probabilmente responsabile anche delle cariatidi del portico.[6]

L'ipotesi stilistica dell'esistenza di due differenti officine è confermata dall'iscrizione che si trova nel fregio
settentrionale con la Gigantomachia, sullo scudo rotondo di un gigante.[2]

Propilei
Il nome Propilei è usato per indicare non solo la sezione centrale (il vero e proprio ingresso) ma anche le strutture
intorno ad essa. Il nome Propilei deriva dall’unione di due parole: πρό che indica “di fronte” e πύλαιος che
indica cancello.
Per quello si può affermare che la parola Propilei προπύλαια stia a significare prima o di fronte al cancello, che indica
la funzione stessa dell’edificio. Se volete saperne di più sulla sua interessante storia continuate a seguirci.
Epoca Micenea

In questo luogo, prima di Pericle in epoca micenea, sorgevano le fortificazioni murarie di accesso. Infatti
l’Acropoli di Atene è da sempre un luogo ricco di spiritualità e per questo motivo andava protetto. Ma dopo
il 480 a.C. quando la minaccia persiana svanì del tutto e le guerre sembravano cessate, si potè dare inizio
alla costruzione dei Propilei.

propilei acropoli atene


I Propilei, il monumentale ingresso dell’Acropoli di Atene
Epoca di Pericle

Pericle, ottenuto il potere e la pace, volle regalare alla città grandi opere edili per rinnovare il suo prestigio.
Infatti nel 437 a.C. l’architetto Mnesicle fu incaricato di costruire un monumentale ingresso per l’Acropoli. Il
grande progetto però non venne mai portato a termine poiché nel 431 a.C. scoppiò la guerra del
Peloponneso.

I lavori non vennero mai finiti, ma non tutti sanno che sono famosi i dibattiti dell’epoca sugli elevatissimi
costi di quest’opera pubblica. Infatti lo storico greco Eliodoro, cita nei suoi scritti la vicenda e ci fornisce la
cifra esatta che ammonta a 2012 talenti corrispondenti a 52.312 kg di oro, un vero e proprio record del
passato!
La Pianta dei Propilei

La pianta dei Propilei si compone di un portale centrale a cinque passaggi (quello centrale più largo per il
passaggio delle processioni Panatenee) fra due vestiboli composti da sei colonne di ordine dorico. Il
vestibolo occidentale, rivolto verso la città bassa è più ampio. Infatti si suddivide in tre navate separate da
una doppia fila di colonne di ordine ionico.

Dalle navate si accede alla sala della pinacoteca a nord, mentre dall’altro lato si accede al porticato sud,
ingresso (rimasto incompiuto) al Tempio di Atena Nike. Infine dalla pianta possiamo notare altri due
ambienti adiacenti al vestibolo orientale. Questi due porticati non vennero mai terminati, ma recenti scavi
ne hanno portato alla luce i basamenti, visibili ancora oggi. In conclusione, la scalinata centrale è
un’aggiunta di epoca romana.
L’architettura dei Propilei
I Propilei sono realizzati con blocchi di marmo bianco pentelico e pietra grigia di Eleusi. Questi sono i materiali che
ritroviamo nei tre corpi realizzati, quello centrale, la pinacoteca e il portico sul lato sud. Inoltre nel portico dell’ala
sud sono stati ritrovati alcuni blocchi di marmo in lavorazione.
Quest’incredibile scoperta ha sciolto molte questioni riguardanti i metodi costruttivi usati dagli antichi greci, poiché
presentano innesti e rilievi per la messa in opera.

Il carattere stilistico

Lo stile fonde ordine dorico e ordine ionico. Le motivazioni di questa scelta stanno nell’intenzione
dell’architetto Mnesicle di porre rimedio alle differenze di altezza intrinseche del terreno.

Per compensare tale “squilibrio” si avvalse dei due ordini costruttivi creando un gioco di proporzioni
nonché il capolavoro armonico che ancora oggi possiamo ammirare. Infatti questa struttura è presa a
modello in età neoclassica per grandi opere pubbliche come la Porta di Brandeburgo di Berlino.
Eretteo
L’Eretteo si trova sulla piana situata in cima alla collina dell’Acropoli di Atene. Più precisamente sul sito su cui in
passato sorgeva il tempio dedicato ad Atena Polias, di fianco al Partenone. Infatti questo edificio fu costruito in
sostituzione del precedente tempio, distrutto a seguito delle invasioni Persiane.
Iniziato nel 421 a.C. e terminato intorno al 406 a.C., questo monumento è costruito su un luogo ricco di spiritualità.
Inoltre ha la funzione di ospitare i culti legati ai miti degli eroi e delle divinità che fondarono la città. Infatti in
precedenza nello stesso punto sorgeva il grande tempio di Atena Polias (di cui sono visibili i resti). Per questo motivo
il nuovo edificio rimane legato ai culti arcaici.
Infatti le battaglie coi persiani terminate nel 480 a.C., distrussero i monumenti che celebravano i culti arcaici.
La città, quindi, rimase orfana del santuario dedicato ad Atena protettrice della città. Ma un luogo tanto importante non
poteva essere privo di un monumento che celebrasse le antiche tradizioni.

La costruzione dell’Eretteo
Per questi motivi Alcibiade nel 421 a.C. sfruttò una finestra di pace durante le guerre nel Peloponneso, per
commissionare il nuovo tempio. L’autore riuscì a conciliare in un unico edificio lo svolgimento di diversi riti che
celebravano la mitologia classica, sfruttando l’andamento irregolare del terreno per suddividere l’edificio in più
ambienti. Il risultato è una delle costruzioni più originali di tutto il mondo greco.

L’Eretteo è un tempio di ordine ionico suddiviso in due celle dedicate alle divinità protettrici e duesantuari (tombe)
dedicati ai culti della mitologia classica. Inoltre in una stanza posta sul lato ovest si sarebbero celebrati culti legati
agli eroi antichi. In particolare indichiamo Butes, ateniese leggendario che avrebbe participato alla spedizione degli
Argonauti.
La cella di Atena Polias
La cella est è dedicata al culto di Atena Polias e si compone di un pronao esastilo (sei colonne in facciata). Al suo
interno si raccoglievano le offerte portate in dono alla protettrice della città. Inoltre in una piccola cella sarebbe stata
conservata l’immagine della dea, venerata durante i riti. Infine è qui che le ragazze dell’aristocrazia ateniese si
dedicavano alla creazione del peplo.
La cella di Poseidone-Eretteo
La seconda cella è dedicata a Poseidone-Eretteo. Per accedervi bisogna superare l’ampio vestibolo nord, composto
da quattro colonne in facciata e due colonne laterali. Inoltre è proprio in questo punto che si possono vedere
le tracce del tridente del dio lasciate al tempo della disputa con Atena.
Il santuario di Pandroso
Dal vestibolo nord si accede anche al “Pandroseion”, il santuario di Pandroso, figlia di Cecrope che si sviluppa a
ovest. In questo luogo sarebbe nata la pianta di ulivo donata da Atena e che sarebbe ricresciuta spontaneamente
nonostante le devastazioni persiane. Questo luogo sacro è completato da un altare votivo situato sotto i rami della
pianta sacra.

Loggia delle Cariatidi


Infine nel lato sud del tempio troviamo la famosa loggia delle Cariatidi. Deve la sua fama alla presenza delle Cariatidi,
una tipologia di colonna scolpita per avere fattezze femminili. Le Cariatidi sostengono la trabeazione che forma il
portico d’accesso alla tomba di Cecrope, primo re-serpente di Atene.
L’Architettura e le decorazioni dell’Eretteo

Il progetto e la costruzione di questo edificio si deve con tutta probabilità all’architetto Filocle che lo
realizzò in marmo pentelico. Sia la pianta che l’aspetto esteriore dell’Eretteo fanno i conti con le
caratteristiche morfologiche del lotto di costruzione. Infatti in alcuni punti il dislivello sfiora i 3m di altezza
nella zona più elevata a sud-est.

eretteo filocle
L’Eretteo costruito dall’architetto Filocle
La facciata est

Questa facciata è caratterizzata dalla presenza di aei colonne di ordine ionico con le classiche volute. Le
colonne sostengono la trabeazione sulla quale si poggia il frontone. L’insieme degli elementi formano il
pronao est di accesso alla cella di Atena Polias. Inoltre si completava con un fregio policromo in marmo
scolpito e raffigurava eventi della vita di Atena.
La facciata nord
Questa è l’entrata al tempio che permette di accedere alla cella dedicata a Poseidone e al santuario di Pandroso. Si
compone di sei colonne di ordine dorico che sostengono una trabeazione arricchita da uno stupendo fregio. Le
sculture decorative del fregio narrano le vicende di Eretteo, Atena, Poseidone ed Efeso. Purtroppo, solo pochi
frammenti sono giunti fino a noi rendendo impossibile la ricostruzione della vicenda narrata.
Il portico delle Cariatidi
Questa facciata è caratterizzata dalla presenza del loggiato che ospita le Cariatidi. Questa loggia addossata al corpo
centrale funge da ingresso alla tomba di Cecrope.
Le Cariatidi dell’Eretteo appoggiano su una balaustra realizzata con blocchi di marmo e reggono l’architrave
decorata e la copertura. La loro funzione è quella di decorare il portale di accesso al santuario del re, ma alcuni studi
sostengono possa anche essere un monumento in onore delle figlie sacrificate. Tale teoria spiegherebbe la scelta di
queste particolari figure femminili.
Recinto di Pandroso
Questo piccolo cortile è uno dei luoghi più ricchi di spiritualità di tutto il tempio. Infatti all’interno delle mura
perimetrali che si sviluppano sul lato ovest è custodita la mitica pianta di ulivo di Atena. Inoltre include anche
la cappella votiva alla figlia di Cecrope e la tomba-santuario del padre. Sicuramente, uno dei luoghi da sempre caro
a tutti gli ateniesi.
Acropoli di Atene
L'acropoli di Atene si può considerare la più rappresentativa delle acropoli greche. È una rocca, spianata
nella parte superiore, che si eleva di 156 metri sul livello del mare sopra la città di Atene.[1] Il pianoro è
largo 140 m e lungo quasi 280 m. È anche conosciuta come Cecropia in onore del leggendario uomo-
serpente Cecrope, il primo re ateniese.

L'Acropoli è stata dichiarata patrimonio dell'umanità dall'UNESCO nel 1987.[2]


I resti sono risalenti all'epoca arcaica, ma sono state trovate tracce risalenti addirittura al Neolitico e al
Paleolitico; si attesta che alcune costruzioni imponenti si elevavano sull'acropoli alla fine del VII secolo a.C.,
epoca in cui le mura risalenti all'età micenea persero la loro importanza difensiva. Nella prima metà del VI
secolo a.C., dopo l'espulsione dei Pisistratidi, l'acropoli cessò di essere una fortezza.

Le antiche fortificazioni, le costruzioni, gli edifici templari e le statue furono distrutti durante l'occupazione
persiana del 480 a.C. I primi sforzi ricostruttivi degli ateniesi si concentrarono sulle opere di maggiore
utilità. Le mura e i bastioni furono ricostruiti sotto il governo di Temistocle e di Cimone, mentre durante
l'epoca di Pericle, per celebrare la vittoria sui Persiani e il primato politico, economico e culturale di Atene,
fu realizzata la ricostruzione dell'acropoli, con la costruzione del Partenone (all'interno del quale fu eretta
una statua colossale di Atena Parthenos, realizzata da Fidia e oggi perduta), dei Propilei e in seguito
dell'Eretteo e del Tempio di Atena Nike.
Tempio di Zeus a olimpia
Il tempio di Zeus ad Olimpia, costruito in stile dorico tra il 472 e il 456 a.C., é un tempio dell’antica
Grecia dedicato a Zeus, situato ad Olimpia, nella regione dell’Elide. A causa delle innovazioni,
riscontrabili in particolar modo nei frontoni del santuario, molti studiosi non fanno fatica ad affermare
che la sua costruzione abbia messo le radici e segnato l’inizio della scultura greca classica. Si
attribuisce il lavoro architettonico a Libone di Elide, mentre tradizionalmente si ritiene che
l’ignoto Maestro di Olimpia abbia edificato gli innovativi frontoni.
Il santuario panellenico di Zeus ad Olimpia era il più famoso santuario del mondo antico, alla confluenza dei
fiumi Cadeo e Alfeo, in un'area che, come attestano i reperti archeologici, era stata ininterrottamente
popolata tra il 2880 e il 1100 a.C. e che divenne zona cultuale in età tardomicenea, epoca alla quale
sembrano risalire le prime testimonianze del culto di Pelope, mitico fondatore dei Giochi olimpici. Come
tutti i santuari anche quello di Olimpia si componeva di vari edifici: il Philippeion, una tholos del IV secolo
a.C. fatta erigere da Filippo il Macedone e terminata da Alessandro, uno stadio nel quale a partire dal 776
a.C. si svolgevano ogni quattro anni i più importanti fra i giochi panellenici, accompagnati, come avveniva a
Delfi, da gare artistiche e letterarie, e l'importantissimo tempio di Era, la struttura più antica del santuario in
cui l'ordine dorico fa la sua prima comparsa in forme mature.[1]

Il tempio di Zeus (64,2 m di lunghezza, 24,6 m di larghezza e alto 20 m) fu eretto, secondo Pausania[2], con
il ricavato del bottino ottenuto a seguito della vittoria su Pisa, in Elide (circa 470 a.C.).[3]
Il tempio, periptero esastilo regolare, presenta un crepidoma rialzato di tre metri dal piano con alti gradini
(l'ultimo, più alto, di 0,56 m) e con rampa di accesso sulla fronte. L'interno ha due colonne in antis sul
pronao e sull'opistodomo e il vano della cella è tripartito da due file di colonne doriche. Le correzioni
ottiche sono presenti nelle colonne dei lati lunghi, inclinate di circa 60 mm, ma assenti sulla fronte, eccezion
fatta per le colonne d'angolo che partecipano del sistema laterale.[4] Fu costruito con calcare conchilifero
locale e coperto con stucco colorato per nascondere le imperfezioni, come era comune nell'architettura
greca. Il manto di copertura del tetto e la decorazione scultorea, giunta in gran parte fino a noi, erano
invece in marmo. All'interno una scala immetteva ad una galleria rialzata dalla quale era possibile ammirare
la statua crisoelefantina di Zeus, opera di Fidia posta nella cella, tra i due colonnati, in epoca successiva
all'erezione dell'edificio.[5]

Di quello che viene ritenuto il maggior complesso scultoreo appartenente allo stile severo ci sono rimaste
quasi tutte le statue frontonali (42), le metope dei due vestiboli (12, 6 su ciascun fregio) e alcuni dei
gocciolatoi a forma di testa di leone, alcuni originali e altri sostituzioni scolpite in epoca successiva.[5]
L'uniformità stilistica della decorazione ha portato all'attribuzione della progettazione e della
sovrintendenza dell'opera ad un unico artista anonimo definito Maestro di Olimpia. La composizione delle
figure dei frontoni, con statue in movimento, in piedi, accosciate, e reclinate, mostra il superamento della
rigidità di più antichi schemi in direzione di un maggiore equilibrio dinamico che si accompagna ad una
raggiunta coerenza tematica e compositiva. Nei frontoni come nelle metope, le figure divine, centrali non
solo a livello compositivo, non sono avvertite dagli umani che vivono la loro tragica vicenda, non vi
partecipano, ma ne segnano, per noi osservatori, l'atmosfera psicologica ed emotiva che si allenta
allontanandosi dal centro della scena.

Metope[modifica | modifica wikitesto]


Le 12 metope narrano le fatiche di Eracle (anche in questo caso, come in quello di Pelope, un tema legato
alle origine mitiche dell'Altis) come un graduale passaggio dalla giovinezza alla maturità senza alcun accento
favolistico, ma in una chiave drammatica volta ad esaltare nell'eroe le virtù etiche: la lotta solitaria di Eracle
contro i nemici dell'intera umanità simboleggia la progressiva maturazione lungo il cammino della vita e la
presenza silenziosa di Atena presagisce la premiazione della virtù con la vittoria e l'immortalità.
La scena sul frontone orientale raffigura i preparativi per la gara di corsa su carri tra Pelope e Enomao (re di
Pisa), le cui statue affiancano quella centrale di Zeus. Il tema è legato alle origini mitiche del santuario e il
momento raffigurato è quello del giuramento prima della gara: i due protagonisti, Enomao con la sposa al
fianco e Pelope con al fianco Ippodamia, la figlia di Enomao, sono figure isolate, esprimenti il raccoglimento
nell'attesa e una silenziosa tensione che sembra comunicarsi alle proprie compagne e agli altri personaggi,
servi e spettatori.

Gli elmi del Museo di Olimpia


Sul frontone occidentale, sottoposto a importanti restauri già in epoca antica, Lapiti e Centauri combattono
alle nozze di Piritoo, presiedute dalla figura centrale di Apollo. Ai suoi lati, Piritoo e Teseo guidano due
gruppi di lapiti; verso gli estremi del frontone anziane donne sdraiate si nascondono per sottrarsi alla lotta.
In opposizione alla raccolta intimità del frontone orientale la Centauromachia, tema comune nella Grecia
del V secolo a.C., favorisce l'animazione e il ritmo turbinoso del racconto, ma non si discosta dalla corsa dei
carri nell'intento etico e celebrativo.[6] Questa alternanza tra stasi e azione, ritmo e pensiero sembra
essere cifra distintiva dell'intero complesso, presente sia nelle metope, sia nei frontoni.[7]

L'elmo dei Dinomenidi[modifica | modifica wikitesto]


Una tra le offerte votive più importanti per il santuario di Zeus sono gli elmi dei Dinomenidi offerti dal
tiranno di Siracusa Ierone I in occasione della vittoria sugli etruschi nella Battaglia di Cuma del 474 a.C. Negli
elmi, due corinzi e uno etrusco entrambi custoditi presso il Museo di Olimpia salvo uno presso il British
Museum, vi è un'iscrizione dedicatoria uguale per tutti gli elmi.

Altare di pergamo
La realizzazione dell'altare fu iniziata sotto il regno di re Eumene II (197-159 a.C.) e, in seguito alla sua
morte, continuata dal successore e fratello Attalo II. L'opera si poneva come conferma definitiva della
vittoria di Pergamo sui rivali, i Galati, nel 166 a.C. sotto il regno appunto di Eumene II. Nel periodo
compreso tra il 166 a.C. e il 156 a.C., l'altare fu quasi totalmente completato, nonostante il re Prusia II di
Bitinia, intorno al 156 a.C., avesse attaccato la città.

Varie iscrizioni ricordano la presenza nel cantiere di numerosi artisti, pergameni, ateniesi e forse rodiesi.
Evidente è però che un unico maestro sovraintese all'opera, dando una visione unitaria a tutto il complesso
decorativo. Su chi possa essere si possono solo fare ipotesi non riscontrabili da dati oggettivi. È stato fatto il
nome di Firomaco, artista attico, che le fonti antiche ricordano come uno dei sette più grandi scultori greci.
Questa ipotesi, secondo alcuni, troverebbe una conferma stilistica in alcune scene, dove l'impostazione di
Zeus e Atena che combattono, ad esempio, ricorda quella di Atena e Poseidone nel frontone occidentale
del Partenone di Fidia. Vi sono stati letti anche contorni politici, sociali e religiosi: l'accomunare infatti i
pergameni agli ateniesi riaffermava l'appartenenza dei due popoli a un'unica stirpe, con gli stessi valori e la
stessa cultura.
Sui terrazzamenti dell'acropoli di Pergamo, che dai suoi 330 metri d'altezza dominava la valle del Caicó,
l'altare si levava scenografico e imponente, con una struttura molto originale di altezza di circa 25 metri. In
pianta l'altare ha una forma quadrangolare, con la facciata, rivolta alla vallata, mossa da una scalinata
centrale, larga quasi venti metri, e da due avancorpi, creanti una sorta di forma a "U".[1]

In alzato la struttura era rialzata di cinque gradini, dopo i quali si alzava il basamento, alto circa 4 metri,
lungo il quale si sviluppava il "grande fregio" continuo con la Gigantomachia. Si accedeva al livello superiore
tramite la scalinata centrale, appunto, ed esso consisteva in un grande vano, alto circa sei metri, circondato
da un colonnato ionico continuo, che proseguiva anche lungo gli avancorpi. All'interno del vano correva
lungo tutte le pareti un secondo colonnato, fatto a coppie di colonne unite da un'anima muraria. L'altare
vero e proprio si trovava al centro e su di esso si trovava il "piccolo fregio", con le Storie di Telefo, figlio di
Eracle e mitico fondatore della città.[1]

Dimensioni[modifica | modifica wikitesto]


Il fregio, lungo ben 120 m e scolpito su pannelli alti 228 cm e larghi circa 70–100 cm ciascuno, rappresenta
la mitica battaglia condotta dalle divinità dell'Olimpo contro i Giganti, esseri mostruosi figli del Cielo e della
Terra che avevano osato sfidare la sovranità di Zeus dando l'assalto alla dimora divina.[1] Nelle scene erano
trasposti inoltre anche i recenti fatti della guerra appena vinta contro i barbari Galati. L'identificazione di
questi ultimi non è casuale: fonti attestano infatti che per incutere timore ai nemici, i Galati usassero
acconciarsi i capelli in piccole ciocche rigide, frizionandoli con un impasto di gesso, chiamato tìtanos, da cui
l'ulteriore similitudine al termine Titànes, i Titani, simili ai giganti.

La decorazione seguiva un programma erudito, elaborato probabilmente dai filologi della Biblioteca di
Pergamo. Se nella parte orientale i Giganti lottano infatti con le tradizionali divinità olimpiche, nei restanti
lati un folto gruppo di divinità minori affollava le scene: a nord gli dei della notte, a sud gli dei della luce, a
ovest le divinità marine e Dioniso.[1]

Da un punto di vista stilistico, il grande fregio riprende alcuni stilemi dei grandi maestri dei decenni
precedenti, come la possanza dei nudi di Fidia, o la dinamicità delle figure di Skopas. In generale però il
senso di movimento è portato alle estreme conseguenze, ricorrendo spesso a linee oblique e divergenti,
che generano azioni convulse.[4] Inoltre appare accentuato il patetismo delle figure, con un senso teatrale
che accresce la partecipazione emotiva dello spettatore. Tali novità, nel complesso, sono state definite
"barocche", anche grazie a un maggiore ricorso del trapano, che crea effetti di chiaroscuro più accentuati, e
con l'alternarsi dell'altorilievo a parti lisce.[4]
L’altare era monumentale, con un grande fregio che correva lungo tutto lo zoccolo e rappresentava la
colossale lotta tra dèi e Giganti e un secondo, di dimensioni minori e sulle pareti interne del portico, che
narrava le imprese del nostro Telefo, le cui spoglie riposavano a Pergamo.
Perché?
Perché il figlio di Eracle era ritenuto progenitore della stirpe degli Attalidi e quindi di Eumene II stesso!

Fregio di Telefo, storie di Telefo

Il fregio appare con un rilievo non molto pronunciato, con personaggi disposti su più piani e un fondo
riempito da elementi paesaggistici: sembra un dipinto scolpito nel marmo.
Nelle varie scene viene narrata l’intera saga e per la prima volta gli episodi vengono collegati in un’unica
narrazione, proprio come in seguito avverrà nei fregi storici romani: ma qui Roma è vista come la nemica,
l’opera vuole essere filellenica, dimostrare l’antica origine dei rapporti di Pergamo con la Grecia e porsi
come padrona dell’Asia!
Ecco allora che si narra della vicenda che vide Telefo scontrarsi e fare pace coi Greci, creando un patto di
sangue, ecco narrare la nascita dell’eroe da Auge e Eracle, ecco insistere sulle origini divine dei sovrani di
Pergamo, direttamente discendenti di Zeus.
Il fregio di Telefo dell’Altare, probabilmente iniziato nel 168 a.C. e rimasto incompiuto dopo la morte di
Eumene II nel 159 a.C., oltre ad essere un capolavoro dell’arte ellenistica, vuole essere una celebrazione
assoluta del regno di Pergamo e un messaggio per i Romani.
Noi Pergameni siamo discendenti di Eracle e di Zeus.

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