È cresciuta artisticamente tra i moti del teatro danza europeo più folle e critico –
Anne Teresa De Keersmaeker, Jan Fabre e Alain Platel – sviluppatosi
particolarmente in area belga. Ma Erna Omarsdottir non è belga bensì islandese, come Bjork, con la quale ha pure collaborato, ed è quello stesso nord incandescente che si sprigiona nella frizione tra lei e la scena. Un ribollire terraqueo, uno svaporare vorticoso di essenze misteriose, aliti irrequieti e sorridenti che ci schiaffeggiano, ci fanno il solletico, ci scrollano come a metà di un sogno trattenendoci in veglia dentro quegli stessi onirici nodi. E si mette in moto una certa disordinata idea di libertà, intima e carica di ormoni, slabbrata e acrobatica. La tecnica, che pure è radicata nel suo corpo piccolo, atletico e sapiente, si mette da parte, si rende invisibile grazie a tentativi di volo tra soma e voce che si svolgono in un’idea di innocenza, e in accordo con altre musiche, suoni e respiri. La Omarsdottir si pone alla danza in una elementare nudità, esposta, dichiarando ogni fragilità al punto da usare i crolli come forza, e depistando i cliché. Ciò che vediamo, assistendo ai suoi spettacoli – con particolare riferimento a due produzioni realizzate in collaborazione col compositore Jóhann Jóhannsson, collaboratore a sua volta di musicisti quali Marc Almond, Barry Adamson e Pan Sonic – è qualcosa che ci riguarda per forza di cose, perché ha un’origine veritiera, perché non si nasconde dietro paraventi o pedanterie, perché proprio grazie a questo si mostra in tutta la sua forza politica e ribelle. Qualcosa che ci ricorda la nascita del teatro come ciò che si esaurisce in un gesto e ne crea subito un altro.
Sotto la tecnica c’è lei
Un canto ipnotico, sembra in loop, lei deve essere da qualche parte, ma non si vede. La scena ha l’aspetto disordinato di un luogo di prove, quasi vuoto, sulla destra una postazione musicale e una pila di cavi elettrici. A luci ancora accese in sala, entra in scena il musicista, sposta i cavi, sotto c’è lei. L’uomo siede alla tastiera (una carcassa di clavicembalo dentro la quale sono innestati a vista un computer e un organo elettronico Hammond B3, quasi come una ventraglia) e viene il buio. Sussulti, contrazioni, espressioni epilettiche del corpo e del viso, così comincia la vita scenica di Erna Omarsdottir in IBM 1401 - A user’s manual. Se l’idea è quella di un manuale per l’uso, come suggeriscono sia il titolo che la voce diffusa a un certo punto da un altoparlante, le istruzioni sono scritte in una lingua mai ascoltata prima, eppure comprensibile a tutti. Si tratta di un fanciullesco catalogo di espressioni che la Omarsdottir compone, con le musiche dal vivo di Jóhannsson, attraverso ginnastiche facciali e fisiche, a tradurre emozioni e provocazioni: ora è una bambinaccia irriverente, ora una ragazza disperata, poi una seduttrice, una rana, una pulzella indemoniata che annega nel suo rapimento fisico, forse una santa dai capelli biondi che si trasforma in figura da fumetto – può ricordare agli appassionati del genere certi mostriciattoli ghermandiani abitati da grezza allucinazione – e cade a terra come in morte apparente, o in stand by, per essere presto riattivata dal semplice tocco del musicista. IBM 1401 si ispira alla storia del primo computer che arrivò in Islanda nel 1964: gli operatori insegnarono alla macchina a ‘cantare’ dotandola di un’abilità umana. Tra musiche qua e là struggenti e animosità grottesca, sclerosi e improvvisi blocchi, seguiamo l’azione di una sonnambula che ci appare sempre in bilico su un crepaccio. Nella felicità infantile di un gioco continuo e autoreferenziale, si coglie il sospetto di uno splendore dello stato autistico. E ogni tanto si tocca il sesso, ogni tanto il movimento rallenta, preludendo a un nuovo accadimento. È una figura femminile come identità multipla, come azzardo e istinto, come atto precritico, che sviscera immagini e stati aldilà della ragione, in un legame continuo con l’infanzia, quell’infanzia che sola ci impartisce istruzioni per trovare connessioni, codici di vita e voci.
Dentro il canto c’è lei.
Immagini di un’adolescenza assassina, il suono elettrico di chitarre che scorticano i corpi attraverso riverberi e amplificazioni, un’idea del caos cosmico e di una primavera burrascosa. In The mysteries of love, l’altro spettacolo creato col musicista Jóhannsson, la Omarsdottir si sdoppia in un parto gemellare dalla memoria anche un po’ horror, ed entra in scena mano nella mano con Margret Sara Gudjonsdottir. Sono candide streghe, sono farfalle, sono bambole stuprate, imbellettate e sbavate, lolite in rosso e rosa che aprono e consumano capitoli sull’adolescenza, sul femminile, sull’eros. Le due, in scena con il musicista, compongono una partitura che cavalca la dismisura dell’invasamento amoroso, che provoca i “crampi dell’angoscia” per dirla con Lea Melandri, e scaturisce dall’incontenibile pressione emotiva dell’adolescenza, col vento che da dentro muove i capelli. “Dire niente o dire troppo, niente vie di mezzo” sembra essere il patto amoroso della loro esistenza, portata senza veli su volti conturbanti. Non addomesticate, emancipate per loro stessa natura, orfane d’innocenza, dotate di tenerezza e avvinghiate l’una all’altra come senza confini, eseguono dieci pezzi fisico-vocali, dimensione nella quale Erna cerca la via per abitare le verità indicibili. La voce cerca una fusione col corpo attraverso una canto un po’ punk, ma nel quale trovano spazio anche mugugni e versi segreti di due adolescenti apparentemente frontali e disarmate, ma anche guerriere, forse amazzoni còlte in tutta la loro forza e vulnerabilità.