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IL TROVATORE

Analisi del personaggio: Azucena


Una donna ai margini della società, figlia di un artista e di un ribelle.
Prigioniera di un incubo terribile.
Per un macabro scherzo della sorte diventa la madre del figlio dell'uomo che
ha condannato sua madre al rogo; la madre del ragazzo, che avrebbe voluto
eliminare per vendicarsi; di quel ragazzo che si trova senza alcuna colpa, se
non l’essere figlio di suo padre, a sostituire il vero figlio della zingara.
Bruciato, per errore. Una zingara: una persona fuori dalla società,
appartenente ad un altro mondo, ad un mondo fatalmente contro. Non vive
che per compiere la vendetta, per riparare all’errore che ha compiuto nella
smania di vendicarsi. Eppure ama il ragazzo che odia. Lo ha salvato, lo ha
curato. Ma forse nel suo inconscio lo ha fatto solo perché ha sperato che
fosse proprio lui a compiere la vendetta e a uccidere il fratello. Da qui la
schizofrenia di Azucena che muove verso i campi di Pelilla, dove spento
fama lo disse, e poi impone a Manrico, quasi fosse un’ordalia, di spingere fino
all’elsa la lama all’empio, il Conte di Luna, in core. C’è di più: si affida alle
braccia di Manrico, che si crede suo figlio, dal quale invoca la protezione e,
poi, quando viene svegliata, non ha una parola di pietà per lui, ma si premura
solo di gettare in faccia all’altro la verità – egli era tuo fratello – e di gridare
all’anima della madre, come se la evocasse, che lei ha compiuto il suo
compito. Il debito è stato saldato. Come nel mito greco, la vendetta ha lavato
l’onta e Azucena, sorta di Elettra rediviva, ha vendicato il sangue della madre
ingiustamente uccisa. Il melodramma italiano non aveva mai incontrato un
personaggio di questo genere. A ben guardare ancora più originale di
Rigoletto.
 
La voce, il ruolo e la vocalità

Il Trovatore va in scena il 19 gennaio 1853 al Teatro Apollo di Roma. La


prima Azucena è Emilia Goggi. Artista di fama, ha 37 anni, con alle spalle
un’onorevole carriera destinata a diventare sempre più rilevante. Purtroppo,
quattro anni dopo, nel 1857 muore prematuramente. Al di là di questa
doverosa informazione, è sempre più evidente che Verdi, pur tenendo conto
dei problemi pratici, spinge i suoi interpreti ad una drammaturgia sempre
più esigente. Il ruolo è quello di una madre che non necessariamente deve
essere vecchia. Considerando l’età di Manrico, Azucena dovrebbe essere
una donna che non supera i quarant’anni. La vita, però, la colloca fuori dal
tempo. La tradizione non offre niente di simile e la Fidés del Prophète di
Meyerbeer non fa testo. Si tratta di una figura molto più tradizionale che canta
in quello stile tipico del grand-opéra, dove il virtuosismo offusca spesso le
ragione del dramma. Azucena invece segna un’altra tappa di quel viaggio
alla scoperta delle possibilità espressive della voce che Verdi compie
con la ua parabola artistica.
 
L’interprete: Fiorenza Cossotto

Il Coro degli Zingari ha appena terminato di inneggiare alla zingarella. Non


richiesta Azucena attacca la sua canzone, "Stride la vampa". Il ritmo
ternario la sospinge, quasi fosse un intimo tormento, un moto interno
che la fruga e che la spinge a rivivere l'orrida scena per se stessa, prima
che per gli altri.
Segue il ritmo, che allarga e stringe, in un gioco mirabile, e lo trasforma
subito in un elemento espressivo. Non teme di affondare nel petto il suono
compatto, di una compattezza materica. Al contrario lo cerca per dare alla
melodia quel colore che il momento richiede. In un attimo siamo nel dramma
e nel personaggio, con una di quelle immedesimazioni totali ed immediate,
possibili solo ai grandi interpreti. La voce è giusta: di autentico
mezzosoprano, che oggi è diventata materia rara. Così Azucena balza fuori
subito a tutto tondo ed ancora una volta, non smetteremo mai di ripeterlo, il
requisito musicale, ma prima ancora il materiale vocale, diventa elemento
strategico per dare compiuto risalto al personaggio, al suo dramma.
Qualunque costume indossasse, Azucena non sarebbe tale, se la voce non
realizzasse quello che invece appare con immediatezza nel canto del
mezzosoprano .
In questo prospettiva la sua esecuzione di "Stride la vampa", se non tralascia,
almeno mette in ombra i trilli che segnano invece la linea melodica del pezzo.
Se affrontati correttamente, magari a mezza voce, per rispettare uno
strumentale sommesso, dovrebbero generare un effetto simile ad una sorta di
ipnosi.
Nel Racconto che segue "Stride la vampa" la situazione è identica. Azucena
narra a Manrico la storia funesta. In realtà parla a sé stessa: è l’ossessiva
rievocazione del fatto che ha infranto definitivamente la sua vita e l’ha gettata
in uno stato di totale confusione. "Condotta ell’era in ceppi". L’accento
incisivo ed elettrico segna tutta l’esecuzione a dimostrazione che in Verdi
l’accento è tutto. La dizione chiara si fa martellante, capace di mettere in
rilievo le parole, quasi fossero sbalzate nel bronzo, con effetto coinvolgente,
basti l'es. di "al rogo la cacciavano", mentre le frasi sono giustamente avvolte
in un gioco di luci ed ombre che assecondano la dinamica verdiana.
L’arco narrativo non si allenta e che si fa sempre più teso. Arrivata a
"Quand’ecco", declama con voce soffocata che si fa via via più ansiosa, fino
al La acuto di "Mi vendica!", che suona grande, potente, inesorabile. La nota
diventa un segnale, l'inizio della parte più angosciosa della trance, mentre il
canto si fa ancora più martellante fino al La, quello di "Mio figlio avea
bruciato!", un vero e proprio grido dell’anima. Poi l’agitazione si placa e,
facendo leva sul registro grave intona "Sul capo mio" e scende per quattro
volte al La grave che Verdi usa per rappresentare con il suono
l’angoscia profonda che pervade Azucena. É proprio l’adesione totale,
spontanea, improntata ad un realismo che però non è
estraneo alla vocalità verdiana
É proprio la scena del carcere a ribadire,la natura di questa vocalità che
trascende la tradizione belcantistica per scavare nelle parole. Il lungo
Recitativo è tutto illuminato dall’accento: la disperazione di "Far di me strazio
non potranno i crudi" con la discesa al La grave; il colore nero del "dito della
morte"; l’ossessione di "un cadavere"; il Fa diesis gridato di "difendi la tua
madre!"; l’allucinazione di "Un giorno", che culmina nella lancinante
lacerazione di "Ahi... chi mi toglie". Poi l’attacco dell’Andantino, "Sì, la
stanchezza", dove la dolente melodia è ancora scossa dalla paura del rogo,
prima di sublimarsi nella cantilena dei "nostri monti".
 

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