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contributi di
Anna Marson, Renzo Franzin, Marco Favaro, Ezio Da Villa, Alberto Nunies, Massimiliano
Rossi, Andrea Zannoni
Le foto presenti in questo volume, messe gentilmente a disposizione dal Centro Civiltà dell’Acqua
di Mogliano Veneto, non vogliono essere un corredo di immagini ma una sorta di narrazione sul
Veneto, a partire dalle sue acque.
Un tentativo di leggere la storia recente delle nostre terre attraverso le vicende che interessano le
sue acque: vale a dire le politiche e le tecniche che le hanno imprigionate, inquinate e privatizzate.
Acque come metafora di quel bene comune, insostituibile ed esauribile, del quale è necessario
prendersi cura per costruire una diversa convivenza
2
3
Indice
prefazione
Per il Veneto terra di relazioni
una crescita senza sviluppo - ricostruire il territorio per ritrovare se stessi - risorse - una via
d’uscita? - la trappola dell’identità - riprendere in mano le trasformazioni: il ruolo della politica -
una nuova programmazione - nuovi criteri oltre la crescita - ridare senso ai luoghi - liberare e
federare - ambiente e territorio - welfare come politica di sviluppo - economia e sviluppo -
promuovere e sostenere comunicazione e cultura
Politiche
proposte di sistema su alcuni macrotemi che consideriamo strategici
Oltre le rovine: il territorio e l’ambiente
il Veneto: un patrimonio territoriale complesso - l’uso del territorio nel modello di sviluppo recente
- perché riportare il territorio, nella sua complessità e unicità fisica, al centro delle politiche -
l’indissolubile nesso tra modello di sviluppo e qualità del territorio e dell’ambiente - il modello
territoriale ed economico in atto, e i suoi possibili sviluppi, richiedono una più attenta
evidenziazione dei costi territoriali e ambientali - l’edificazione di nuove aree: risposta a un bisogno
collettivo, o speculazione di pochi a danno di molti? - il risultato: un territorio troppo e male
urbanizzato - l’alternativa c’è: riusare le aree dismesse e riprogettare le aree senza qualità anziché
“consumare” nuovi suoli - ri-progettare centralità e confini, identità, differenza e diversità -
dall’imposizione sovraordinata alla promozione di autogoverno consapevole - uno scenario
inquietante con cui è opportuno fare i conti: il cambiamento climatico - in questo contesto, quali
sono le politiche territoriali e ambientali auspicabili?
Il welfare al centro
l’oscuro orizzonte del welfare: il quadro nazionale - welfare regionale - regione che vai… - il posto
del welfare nel Veneto - proposte verdi per un nuovo welfare regionale - le sfide imposte dai
cambiamenti strutturali - i cardini di una politica verde per il welfare - promozione locale della
salute - nuova programmazione per l’integrazione delle politiche - a partire (anche) da chi ci lavora
- comuni al centro - nuovi servizi per il welfare delle comunità - cittadinanza e lavoro - welfare e
innovazione - welfare e formazione - welfare e terzo settore - strumenti - territorialità e promozione:
una politica sanitaria per la qualità sociale - promozione della salute - nuovi distretti
Cultura formazione conoscenza
per una società della conoscenza - la conoscenza ai tempi del liberismo - la formazione: un altro
punto di vista - la Regione e le politiche per la formazione - per una Carta regionale della
formazione e dell’istruzione - formazione professionale - quale autonomia - istruzione e formazione
per tutto l’arco della vita - formazione continua - università - “non uno di meno”- dignità -
strumenti - beni e politiche culturali - per una politica regionale - politiche culturali e sviluppo
locale - linee guida - azioni e programmi - il ruolo della Regione - strumenti per la libertà di
conoscenza
Economia qualità territorio
crisi della crescita caratteristiche dell’economia veneta - elementi per una politica economica per un
Veneto terra delle relazioni - una nuova programmazione - obiettivi - dai distretti ai sistemi locali -
integrazione tra Agenda 21 e Patti Territoriali - la dimensione locale dello sviluppo sostenibile
regolato: la regolazione partecipata - di non solo PIL…- economia ambiente - beni comuni -
responsabilità sociale delle imprese - sostenere e diffondere le esperienze di economia solidale -
fiscalità ambientale - una delocalizzazione governata - promuovere il microcredito e la finanza
locale - politiche di contesto - innovazione e riflessività dello sviluppo - quale innovazione per
quale società
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Il Veneto sulle rive del mare
il Veneto sulle rive del mare - competenze regionali - tra cementificazione e turismo di massa -
erosione costiera - lagune - Delta del Po, Polesine: area non satura - una rete di parchi costieri -
pesca - un mare senza frontiere
Marghera: alle radici del futuro
l’orizzonte negato - un “crimine di pace” - Porto Marghera o della falsa coscienza del Nord Est –
bonifiche - la falsa svolta dell’idrogeno - alcune risorse su cui contare - argomenti per uno scenario
futuro - criteri per una svolta
La nostra montagna
tra degrado e riscatto - un sistema in affanno - il dialogo e le radici - una nuova rotta - possibili
azioni - agricoltura e sviluppo rurale - un modello insediativo - servizi per chi abita - turismo -
mobilità - un’idea in prospettiva - coordinare le risorse
Nodi
analisi e proposte su alcuni temi paradigmatici e complessi
Energie
energia mondo - il ruolo delle Regioni - Veneto: un quadro desolante - strumenti per l’alternativa -
Comuni e Province - le proposte verdi per un Piano Energetico Ambientale Regionale: le linee
guida - obiettivi e temi: diffusione delle energie rinnovabili - strumenti per la diffusione delle
rinnovabili - rifiuti- la ricerca- intervenire sulla domanda: efficienza e razionalizzazione energetica-
per una mobilità non energivora - servizi pubblici locali
Mobilità e sviluppo
per un Veneto policentrico - un Veneto in coda? - criteri per uscire dal tunnel - indirizzi strategici -
alcune linee d'azione infrastrutture per il Veneto: dalle grandi opere alle buone opere - una
questione di metodo - alcuni elementi per un piano
La terra dei fiumi
la terra dei fiumi - l’acqua dei filosofi e degli imperatori - dall’acqua libera all’acqua incubata - i
sistemi artificiali: il caso del Piave - il neolitico moderno: la bonifica idraulica e agraria – il ciclo
idrico integrato e la gestione dell’acqua - acque, frontiera per (ri)pensare gli equilibri con la natura e
approdare a nuove forme di democrazia
Parchi: quando l’utopia può farsi concreta
Il ruolo possibile dei parchi - una strategia regionale - reti oltre il parco - i parchi come laboratori -
un parco in città - aree naturali protette di interesse locale - il nulla che c’è- (ri) cominciamo da tre
(per ora…) - alcune proposte
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Difesa della fauna e della biodiversità
la caccia nel Veneto - caccia a specie rare - un calendario venatorio su misura - la caccia in deroga:
una norma truffaldina - i costi della caccia - la caccia fonte di inquinamento da piombo e da plastica
- la caccia, i privati e l’agricoltura - cacciatori paladini dell’ambiente?- caccia e bracconaggio: un
confine pressoché inesistente - caccia e incidenti - un maltrattamento legalizzato - la nascita del
Coordinamento Protezionista Veneto - gli obiettivi del CPV
Una terra da curare
uno sguardo globale - l’agricoltura nel Veneto - politiche regionali e politiche comunitarie -
proposte per nuove politiche - energia e agricoltura - un futuro per l’agricoltura veneta – alcune
idee per cambiare rotta
Immigrazione: la qualità della convivenza
oltre il razzismo e la carità - alcuni dati e previsioni - regolamentazione dei flussi - enti locali e
regioni - il fantasma della segregazione - il protagonismo degli immigrati e delle immigrate -
migranti ed il lavoro - per una effettiva coesione sociale: la tutela dei diritti sociali fondamentali -
informare per non dover dire…- senza un tetto - comunicare integrazione - i compiti delle
istituzioni
Lavoro tra qualità e diritti
il Nord Est al lavoro - tendenze e numeri - flessibilità ovvero precarietà: nuovi scenari del lavoro -
qualità del lavoro e qualità dello sviluppo - per una “Carta regionale dei diritti del nuovo lavoro”-
politiche del lavoro e Regione - tutela del tragitto e reddito di cittadinanza - formazione e
conoscenza - lavoro e società - contro il sommerso e l’illegalità – salute e sostenibilità dei lavori
Non solo torpedone
un turismo di qualità per il Veneto delle relazioni - necessità della politica - uno sguardo alle cifre -
turismo nel Veneto - eppure…- un altro modello? - Sistemi Turistici Locali – alcune proposte per
invertire la rotta
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per il Veneto, terra di relazioni
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“Ciò che i modelli cercano di modellare è pur
sempre un sistema di potere; ...ciò che conta veramente è
ciò che avviene nonostante loro: la forma che la società va
prendendo lentamente, silenziosamente, anonimamente,
nelle abitudini, nel modo di pensare e di fare nella scala di
valori”
(Italo Calvino, Palomar, Torino, 1983)
Che cos’è il Nord Est? In che modo un territorio, che ha nel Veneto l’epicentro, e che
comprende profonde diversità geografiche culturali, storiche e sociali, riesce a mobilitare un
“comune sentire”?
In realtà è proprio da queste diversità e da questa multiformità che è caratterizzato il Nord
Est: “un territorio che non è unitario ma è la somma di culture locali, di paesaggi, di modelli
economici inediti che generano parti di territorio distinte, segmenti di economie, atomi di società
che convivono, interagiscono, entrano in competizione ma, alla fine, si sorreggono a vicenda” 1. Il
“comune sentire” dei suoi abitanti è legato alla volontà di tradurre questa multiformità in fattori
competitivi, in “miracolo economico” - smentendo la vulgata comune che voleva queste terre
escluse - e che ne ha segnato i caratteri peculiari della sua crescita e della sua affermazione nei
confronti di modelli produttivi diversi come il Nord Ovest del fordismo maturo.
Le reti di conoscenze e di fiducia, le risorse ambientali, la coesione sociale, i giacimenti
culturali sono state messe al lavoro per creare quel successo che ha cementato il riconoscersi nel
“modello nord est”, mentre il policentrismo tipico di queste terre è stato il fattore decisivo che ha
permesso l’instaurarsi del rapporto simbiotico impresa - comunità locale2.
Ma qualcosa in quel meccanismo “magico” si è incrinato: “la crisi di questo capitalismo
altro non è che la crisi dei suoi tre reagenti chimici elementari: famiglia, paese, distretto. Questi
avevano metabolizzato il fordismo e lo sviluppo locale trasformandoli in localismo e comunità
economiche locali dove la famiglia messa al lavoro, il paese con i suoi capannoni industriali hanno
fatto distretti e un’enorme piattaforma produttiva densa di merci e localismi. I tre reagenti chimici
del dna territoriale non bastano più nella globalizzazione. Il modello è maturo e stanco.” 3.
In cambio della distruzione dei beni comuni - ambiente, salute, tempi di vita - i veneti
sottoscrissero un sorta di “patto produttivo - consumistico” che offriva ricompense in termini di
redistribuzione di ricchezze e di identificazione con un modello sociale vincente. Questo patto non
funziona più. Fino ad alcuni anni fa fenomeni come l'usura del territorio, la sicurezza personale, la
qualità della vita non eccellente, erano considerati un equo prezzo da pagare per il miglioramento
del reddito, della mobilità sociale e dei consumi. Per coloro che nello spazio di una sola generazione
sono passati dalla povertà alla ricchezza, un certo degrado dell'ambiente e ritmi di lavoro frenetici
erano parte di ciò che distingueva "i veneti" dal resto dei lavoratori/imprenditori italiani e, in un
certo senso, erano motivo di orgoglio. Oggi, a poco a poco, i costi ambientali e sociali della crescita
sono percepiti come inaccettabili.
1
Bruno Zanon, Società locali, territori, nuovo confini, in Urbanistica dossier, 63/ 2004
2
Francesco Indovina, Evoluzione di un economia regionale, Portogruaro, 1996
3
Aldo Bonomi, Ma quale declino, il nordest è nell’età dello sviluppo, in www.aaester.it
8
Non è quindi più possibile guardare settorialmente al sistema economico-produttivo,
sperando che “cambi la congiuntura sfavorevole”: potrà anche registrarsi una ripresa nei consumi e
nella produzione - anche se la specializzazione produttiva ad alto contenuto manifatturiero della
nostra economia è sempre più esposta alla concorrenza di aree emergenti 4 - ma quello a cui stiamo
assistendo è una crisi sistemica del modello: sono arrivati ad esaurimento quei beni e quelle risorse
sociali e ambientali, non monetizzabili né riproducibili, essenziali per il perseguimento della
crescita5. Dal rapporto di ricerca sugli imprenditori vicentini compilato da Ilvo Diamanti su
commissione dell'Assindustriali di Vicenza, emergono quegli elementi alla base della crisi di
“consenso” del modello, diffidenza ed un senso di attesa, una certa stanchezza: dopo la corsa allo
sviluppo dell’impresa, all’apertura internazionale, alla globalizzazione, la società vicentina tende a
prendere le distanze dalla realtà e dai valori puramente economici. Nel suo rapporto, Diamanti
afferma che non è tanto il modello economico ad essere in discussione, il limite sta, piuttosto, nella
politica e nel territorio. I vicentini, in questo caso, provano un senso di insofferenza di fronte alla
carenza di tempo libero ed allo scadere delle relazioni interpersonali: il prezzo da pagare, insomma,
comincia a parere troppo alto. Nelle analisi di osservatori come Diamanti è illustrato la fine di un
illusione: quella che la soddisfazione dei molteplici bisogni della società potesse essere affidati ai
meccanismi del mercato e della produzione.
L’estenuarsi del sistema provoca l’emergere dei tratti di una società malata che, per non
rinunciare al relativo benessere acquisito, scarica sul lavoro dei più deboli, gli immigrati,
l’insostenibilità economica e sociale del modello. Se fino a poco tempo fa il mondo del lavoro nel
Veneto era caratterizzato da coesione e da una relativa mancanza di conflittualità dovuta
all’adesione a comuni valori e alla promessa di redistribuzione della ricchezza che compensavano
l’illegalità diffusa (ambientale, fiscale, sicurezza sul lavoro) e i frequenti fenomeni di sfruttamento,
questa realtà si sta sinistramente trasformando. La compressione dei costi e delle garanzie del
lavoro come fattore competitivo del modello produttivo, un welfare arretrato e fragile che affida alle
donne immigrate - spesso in condizioni di isolamento e insicurezza - i servizi alla persona, una
politica abitativa inesistente che favorisce l’insediamento di “ghetti” all’interno dei contesti urbani:
sono tutti elementi che contribuiscono a far risaltare le tracce di una società segregazionista. Dalle
ricerche condotte da Davis Sacchetto emerge un quadro agghiacciante sulla composizione etnica del
mondo del lavoro provocata dalla regolazione selettiva dei flussi migratori e dalla tendenziale
separazione occupazionale tra veneti e immigrati, non solo nella gerarchia, ma anche nella tipologia
di mansioni che vede gli immigrati ricoprire le occupazioni più gravose e insalubri 6.
9
questa ricerca sta proprio nell’utilizzo del QUARS, che interroga la capacità delle istituzioni a
livello locale di promuovere un diverso modello di sviluppo - non legato a parametri quantitativi -
che risponda ad indicatori di qualità sociale e di sostenibilità ambientale. Secondo le intenzioni
degli autori della ricerca si intende assumere la dimensione locale - e quella regionale in particolare
- proprio perché questa può essere protagonista della costruzione di un modello di sviluppo
alternativo a quello attuale, distruttivo del territorio e socialmente iniquo.
Il Veneto rivela, alla luce di questo innovativo indicatore, una situazione difficile: mentre
secondo il tradizionale parametro del PIL (procapite), quindi della pura e semplice disponibilità
economica, nella classifica delle regioni italiane il Veneto ricopre la sesta posizione, prendendo ad
esame il nuovo parametro, il QUARS, che include le dimensioni qualitative dello sviluppo, il
Veneto scivola all’undicesimo posto. La nostra regione, secondo questa ricerca, risulta possedere,
sempre in raffronto con le altre regioni italiane, una dotazione di risorse pubbliche (pro-capite)
scarsa soprattutto se raffrontata con la ricchezza individuale diffusa. In altre parole uno dei deficit
principali di cui il Veneto soffre è la mancanza di investimenti in beni pubblici (scuola, sanità,
qualità ambientale ecc). Questa fotografia mette in luce la mancanza di politiche pubbliche in grado
di aumentare la qualità sociale a fronte di una forte ricchezza economica. Il dato risulta
particolarmente grave se si pensa che la scarsità di risorse investite nei beni pubblici non fa che
aggravare i livelli di sviluppo umano su cui già si segnalano difficoltà, come la scolarizzazione: una
sorta di circuito vizioso per cui il Veneto rischia di avvitarsi perseguendo il peggioramento della
qualità complessiva di vita di ciascuno e delle comunità.
8
Eugenio Turri, La megalopoli padana, Venezia, 1999
9
Anna Marson, Barba Zuchon Town, Milano, 2001
10
Eugenio Turri,, La megalopoli padana, Venezia, 1999
10
La nebulosa insediativa è un modo di vivere in una mobilità individuale, nella quale macro-
spostamenti e micro-spostamenti si aggrovigliano e si ingorgano in un intricato spazio privo di
centro, nel quale tutte le funzioni possono essere poste ovunque. E come è vero che “ogni realtà
estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo, giacchè l’estetica è la madre dell’etica” 11, intrecciata
alla devastazione del territorio incontriamo la devastazione sociale, simboleggiata dal trionfo della
villettopoli, l’archetipo di quell’ “individualismo proprietario” che ne rappresenta il corollario
antropologico. “Le villette si ergono su un terrapieno decorato da ciuffi di ortensie colorate statuette
di gesso…Il rialzo serve per la tavernetta, un locale seminterrato che occupa interamente l’area
della casa. E’ il luogo della socialità, il simulacro delle osterie di un tempo, dei bar di paese dove si
consumavano le ore e il bianco secco dei colli trevigiani. La casa con giardino è diventata
ipertrofica, (…)estende il proprio dominio perché include gli spazi collettivi, ingloba il tempo
libero”12.
Proprio perché vi è un intreccio profondo tra paesaggio esterno (devastazione ambientale) e
interno (mutazione antropologica), una politica di restauro dell’ambiente e dei beni comuni non può
che partire da una profonda consapevolezza culturale; sia della diversità della geografia regionale
sia del fatto che il paesaggio non é un dato oggettivo da conservare, ma che può avvenire solo
grazie all’azione consapevole delle comunità insediate 13. Il territorio, come ci insegna Alberto
Magnaghi, non esiste in natura ma è l’esito dinamico di un sistema di relazioni fra società e
ambiente, è dunque l’azione della comunità insediata a costruire buone o cattive relazioni con
l’ambiente e quindi buoni o cattivi equilibri eco sistemici14.
11
Iosif Brodskij, Dall’esilio, Milano, 1988
12
Francesco Erbani, L’Italia maltrattata, Roma, 2003
13
Adone Brandalise, Soglie e confini: etiche ed estetiche del paesaggio veneto, in AA.VV., Heimat, Roma, 2000
14
Alberto Magnaghi, Progetto locale, Torino, 2000
15
Andrè Gorz, L’immateriale, Torino, 2003
11
carico di energie per il quale devono essere create le condizioni per farle liberare” 16, la voglia di
intraprendere, che ha contraddistinto l’uscita dalla miseria e il boom economico, si declina, in modi
ovviamente diversi, nell’emergere dell’ economia sociale che ha nel Veneto una punta di
eccellenza17. Permane, malgrado le evidenti lacerazioni, un forte capitale sociale, un reticolo
associazionistico che fa sì che la società veneta mantenga una certa coesione: occorre investire
prioritariamente in questa risorsa privilegiando politiche sociali, ambientali ed economiche che la
tutelino e rigenerino.
La trappola dell’identità
In risposta alla crisi fin qui delineata, una parte consistente della destra nel Veneto, e
ufficialmente il governo regionale, ha perseguito una politica identitaria 21 fondata sulla proposizione
di una presunta ancestrale identità veneta. Questa operazione si sintonizza con le crescenti
16
citato in Giorgio Brunetti, Interdipendenza sociale e sviluppo economico: una riflessione sulla realtà veneta, in
Economia e società regionale, 2/2003
17
vedi Gianni Moriani, Veneto 2000, economia & solidarietà, Padova, 2000
18
Daniele Marini, Nord Est 2004, Venezia, 2004
19
Daniele Marini,, Nord Est 2004, Venezia, 2004
20
Francesca Gelli, Città – Arcipelago, in Foedus 1/2000
21
per una panoramica, e una critica serrata, sulla politica identitaria della destra veneta vedi Identici a chi? Quaderno
n°4, 2001 dell’Osservatorio Veneto a cura di Piero Brunello e Luca Pes
12
insicurezze provocate dal tramonto dei modelli tradizionali di riferimento 22, ma in realtà svela
platealmente la sua inconsistenza, sia sul piano storico e filologico sia sulla possibilità di attrarre e
aggregare significativi consensi in una regione ovviamente e irrimediabilmente meticcia 23. Questo
progetto va di pari passo con la visione di un monolitico centralismo regionale - una sorta di
nazionalismo etno-regionalista (qualcuno ha parlato di etno - capitalismo…) - condito dalla retorica
dei supposti valori immutabili dei veneti: spirito d’intrapresa, religiosità, obbedienza. Questa
semplicista quanto devastante risposta alla crisi di legittimità statuale va assolutamente messa a
nudo, criticata e superata per le sue valenze escludenti, razziste e mistificatorie.
A questa operazione ideologica noi opponiamo una visione plurale e aperta che - guardando
anche alla storia con sguardo interrogante e non alla ricerca di miti rassicuranti 24 - pensiamo possa
aiutarci a vivere con meno dolore e incomprensioni gli intrecci e i mutamenti di oggi. L’identità,
infatti, non è un museo ingessato, “le mie radici sono di fronte ai miei passi”, dice un poeta siriano,
l’identità è soprattutto progetto di futuro, è capacità e fiducia di potersi proiettare verso il futuro.
Non solo l’identità non è esclusione, separatezza, contrapposizione. La costruzione di identità delle
persone non è un processo individuale che possa crescere nell’isolamento, nel chiuso di una stanza
o davanti allo specchio, al contrario è il risultato della partecipazione ad un sistema di relazioni
sociali, è facilitato dal sentirsi parte attiva di una comunità o dall’impegno per la cura dei propri
luoghi.
Le plurali identità che attraversano il Veneto rappresentano certamente una formidabile
risorsa sociale e culturale se viste, non in un ottica etnica o astorica, ma nel loro divenire ed
intrecciarsi all’interno del contesto culturale, ambientale e sociale della regione. Identità aperte,
capaci di costruire luoghi comuni di incontro e di confronto, a partire dal "bene comune" costituito
dal patrimonio locale, ambientale, storico. L’identità è un percorso molteplice, allo stesso tempo
individuale e collettivo, fatto delle diverse differenze che si succedono nella vita di ciascuno e che
attraversano la storia del luogo che si abita. Le caratteristiche che possono fare del Veneto un attore
collettivo non sono solo economiche né mono-identitarie, ma frutto di una condivisa
rappresentazione come comunità di destino, contenitore non indifferente di pluralità, in grado di
proporre un proprio progetto strategico e culturale legato alle molteplici appartenenze e radici.
13
degli interessi dati, ha fatto sì che i conflitti sociali che hanno attraversato i nostri territori non
potessero divenire pienamente politici e non potessero di conseguenza elaborare modelli alternativi
sul piano sociale ed economico al modello veneto percepito come ineluttabile 27.
In questo quadro c’è da considerare come il processo di globalizzazione dell’economia
promuove uno svuotamento dei beni comuni e tra questi vanno ricomprese le istituzioni: i sistemi
produttivi, finanziari, culturali tendono a misurarsi autonomamente e a non corrispondere ad uno
spazio geografico determinato; ad esempio lo spazio economico che chiamiamo Nord Est non
corrisponde ad una entità né amministrativa né nazionale spaziando dalla Slovenia alla Lombardia.
Le contraddizioni a cui siamo giunti mostrano la necessità di profonde discontinuità che non
possono passare che per un nuovo ruolo della politica: la Regione, se vuole superare la crisi di
legittimità che in qualche modo l’attanaglia, deve proporre un suo rinnovato ruolo programmatorio
e progettuale, proponendosi come livello essenziale di governo tra il territorio locale e le reti
dell’economia globalizzata. A fronte di una economia dei flussi, uno sviluppo predatorio ed
indifferente alla qualità dei territori, la Regione può declinare politiche di radicamento delle
economie, di localizzazione delle risorse, di riequilibrio delle esternalità del mercato. Agendo come
soggetto promotore di sviluppo locale, indicando una prospettiva di sviluppo oltre le macerie della
crescita dissennata e tra le insidie di una globalizzazione neoliberista, facendosi soggetto dello
sviluppo e non più strumento, per altro spuntato, dello status quo.
14
lettura e uno scenario su cui far convergere le diverse azioni. L’esplicitazione di uno scenario che
illumini un orizzonte temporale di non breve scadenza rappresenterebbe una novità per le politiche
di questa regione;
2) Gli invisibili. L’attuale assetto della rappresentanza degli interessi, che risente di una
impostazione fordista, esclude di fatto moltissime soggettività e figure sociali quali i lavoratori
atipici, ma anche i destinatari delle politiche di welfare (gli anziani, i bambini, i vecchi/nuovi
poveri), gli immigrati: è evidente come vi siano ormai troppi soggetti che non hanno accesso
all’arena politica, per cui non sono previsti processi di rappresentanza. D’altro canto, non è
pensabile in questi casi una mera, meccanica applicazione dei tradizionali meccanismi di
rappresentanza. Occorre, perciò, pensare a processi partecipativi nuovi che diano “voce” a chi oggi
non può esprimersi.
3) I lontani. I processi sociali economici e politici che trovano origine all’interno del
territorio regionale hanno impatto anche al di fuori della regione. Evidente è il caso delle
delocalizzazioni produttive, delle multinazionali, delle reti economiche e finanziarie che dal Nord
Est ricadono nel resto nel mondo. I processi di globalizzazione economica non avvengono nel
vuoto, ma sempre all’interno di un quadro istituzionale, ossia vengono regolati da un insieme, più o
meno coerente, di norme, regimi monetari, organizzazioni, politiche, comportamenti e pratiche
sociali. La scommessa regionale dev’essere consapevole: occorre arginare gli effetti negativi -
degrado ambientale, sfruttamento del lavoro, rapina delle risorse - amplificare quelli positivi e
adottare comportamenti e pratiche adeguate al fine di piegare il mutamento a fini che si ritengono
desiderabili. Vogliamo che la Regione si faccia carico, per quanto la riguarda, dei processi globali:
per questo occorre che la capacità di governo regionale superi, così come fa l’impresa globale, le
sue stesse basi territoriali per concorrere al governo delle reti economiche e finanziarie che si
estendono bene aldilà del territorio di pertinenza.
15
può esaurirsi nella misurazione delle sole grandezze economiche; occorre quindi uno sforzo per la
creazione e diffusione di indicatori alternativi di qualità della vita come il QUARS già preso in
esame.
16
“contratti di fiume”, la riproduzione del paesaggio storico; in questa visione lo spazio rurale è
nuovamente parte integrante dello spazio urbano e ne definisce la figura territoriale” dando vita, in
definitiva, ad un “sistema policentrico e reticolare, fondato sulla valorizzazione dei giacimenti
patrimoniali locali in forme durevoli e autosostenibili, dotati di alta qualità ambientale e di forti
istituti di autogoverno”37.
Ed è anche nel carattere “anfibio” del Veneto, nel suo intrecciarsi di acque e di terre, che si
deve guardare per progettare un diverso sviluppo: le acque i fiumi, le risorgive così come la laguna,
identificano un territorio, gli conferiscono personalità geografica; 38 grazie anche alla miriade di lotte
e di progetti39 che propugnano la necessità che le acque ritrovino un loro posto in un Nord est
ripensato.
E da ripensare, e soprattutto da selezionare, la domanda persistente di nuove strade:
domanda che origina da un modello insediativo folle. Una regione delle relazioni e degli scambi
dovrebbe puntare all’intermodalità, sulla razionalizzazione dei flussi e della distribuzione,
sull’integrazione delle filiere, e, a monte, alla razionalizzazione degli insediamenti: un di più di
modernizzazione e di capacità di governo per la preservazione dei beni comuni.
Liberare e federare
E’ in un tale contesto che la sfida del federalismo può rivelare tutte le sue potenzialità.
All’interno di un progetto che punta alla valorizzazione della qualità e alla promozione di uno
sviluppo locale e singolare dei diversi territori si pone il problema dell’autogoverno di questi
processi. Cioè della possibilità da parte degli abitanti di prendere in mano le trasformazioni dei loro
territori assumendo le responsabilità del loro sviluppo. Tutto questo quando sempre più complesso
appare il governo pubblico delle risorse ambientali e sociali sia per l’ampiezza dei fenomeni che
sfuggono alla dimensione amministrativa sia per la moltiplicazione dei soggetti. Pensiamo solo al
problema dei servizi pubblici locali, amministrati da società che si configurano sempre più come
multinazionali, ma il cui governo ha importanti impatti sulla qualità ambientale e sociale dei territori,
o il governo dell’area metropolitana veneta che non ha trovato, dopo anni di dibattito, nessuna
risposta concreta. L’estrema complessità della società veneta, la pluralità delle appartenenze e degli
interessi rendono sempre meno efficace la rappresentanza da parte dei partiti. Per questo prendono
sempre più corpo nella società organismi intermedi, rappresentanti d’interessi diffusi che
rappresentano una risorsa di coesione insostituibile per la società.
Nella nostra idea di federalismo occorre attribuire alle autonomie locali - i municipi quali
soggetti istituzionali in grado di promuovere processi reali di autogoverno - poteri e risorse: non solo
allo scopo di aumentare l’efficienza del sistema, ma anche per alimentare un processo di
coinvolgimento, responsabilizzazione e valorizzazione del bene comune. E’ urgente trovare
strumenti di collaborazione istituzionale che permettano il coordinamento e le sinergie tra i diversi
comuni, senza appesantimenti di ulteriori livelli istituzionali. Inoltre prioritario sarà attivare un
processo istituzionale, in grado di cogliere e coinvolgere, che colga le differenze di appartenenze,
non solo territoriali, ma anche sociali, culturali, del lavoro. Tutto questo all’interno di un quadro in
cui i processi di globalizzazione mettono in discussione i tradizionali assetti di governo del territorio
e della società con una perdita progressiva di capacità da parte dello Stato di regolazione politica
della società e un estensione in vece del mercato di regolare i meccanismi sociali. Parallelamente il
processo di unificazione europea ha rivelato, con l’approvazione del cosiddetto Trattato
37
Alberto Magnaghi e Anna Marson,Verso nuovi modelli di città in M.Carbognin, E.Turri, G.M.Varanini (a cura di),
Una rete di città. Verona e la rete metropolitana Adige-Garda. Verona 2004
38
Francesco Vallerani, Acque a nordest, Verona, 2004
39
Ci riferiamo alla redazione da parte del Centro Civiltà dell’acqua di Mogliano della Carta del Piave, così come la
proposta di Parco per quanto riguarda il corso del medio Brenta o del Bacchiglione. Ed anche la miriade di conflitti
locali promossi con l’obiettivo di affermare l’acqua come bene pubblico
17
Costituzionale, la sua debolezza e la sua incapacità di coinvolgere attraverso un processo politico i
soggetti sociali che abitano il continente.
Il processo federativo può rappresentare un rinnovamento della politica necessario perché gli
abitanti riprendano in mano responsabilmente il loro destino comprendendo la necessità della
comunicazione e del rapporto con gli altri e con i processi globali che ci attraversano. Il fallimento
dei lavori per il nuovo statuto regionale, addirittura chiamato correntemente, e pomposamente,
“nuova costituzione”, dimostra l’immaturità della società politica, specialmente se si considera che
questo fallimento è dovuto essenzialmente alle contraddizioni della maggioranza, al suo dividersi tra
opposte necessità identitarie che in tutti i casi hanno arroccato la maggioranza su posizioni retrive
e /o xenofobe e ne hanno infine bloccato la capacità di decisione e di interlocuzione con il
centrosinistra e con le stesse forze vive della società veneta.
Ambiente e territorio
La sfida più impegnativa che attende il governo del Veneto è quella di promuovere
un’inedita, quanto radicale, riconversione ambientale di un territorio caratterizzato da una economia
avanzata. Si tratterà in pratica di porre il rispetto e la rigenerazione delle risorse ambientali e degli
equilibri ecosistemici quale obiettivo unificante delle diverse componenti di governo. La qualità
ambientale deve divenire uno dei criteri in base al quale giudicare, a fronte di indicatori condivisi,
l’appropriatezza delle diverse politiche. Occorre un deciso salto di qualità delle politiche ambientali
che non possono più fare affidamento né solo su soluzioni di tipo “comando e controllo” basate su
proibizione e divieti né su soluzioni tecnologiche - depuratori e biotecnologie - impiegate a valle di
processi dissipatori e devastanti. In assenza di una decisa politica che orienti nella direzione della
sostenibilità la programmazione dello sviluppo non è pensabile attendersi una spontanea de-
materializzazione della produzione e del consumo. Prova ne sia che nella nostra regione, in questi
anni di crisi, l’unico settore che ha continuato a crescere è stata l’edilizia 40 e l’attività estrattiva, più
o meno legale, legata al ciclo del cemento 41. L’obiettivo di migliorare la qualità ambientale implica
un profondo cambiamento della struttura economico sociale: non sono sufficienti, anche se
necessari, innovazioni di processi e di prodotti - sviluppo di tecnologie, riduzione di emissioni, di
rifiuti e di flussi i materiali nei processi produttivi – ma occorre promuovere modelli di consumo e
di produzione compatibili con l’ambiente e una sostanziale modifica degli stili di vita.
Tutto ciò rende imprescindibile un processo di coinvolgimento e di partecipazione dei
diversi soggetti alla delineazione e alla condivisione di uno scenario futuro da cui discendano le
diverse misure a medio e lungo termine. L’obiettivo è quello di integrare gli aspetti ambientali nei
vari settori come la politica dei trasporti e dell’energia, le politiche agricole, dell’innovazione e
dell’educazione. Occorre mettere in atto un modello di gestione delle scelte democratico, basato su
un sistema informativo trasparente, su una organizzazione orizzontale dei processi, per permettere il
coinvolgimento di una molteplicità di soggetti, all’affermarsi del principio della condivisione.
A fondamento di questo processo dovranno essere posti i principi di precauzione, del chi
inquina paga, del processo decisionale democratico e aperto. Fondamentali saranno quelli strumenti
fiscali in grado di spostare, per quanto di competenza regionale, sulle risorse, in particolare
energetiche, i carichi fiscali. Facendo leva su una diversificazione di strumenti, fiscali, urbanistici,
economici, è inoltre tempo di metter in atto una nuova fase delle politiche ambientali fondate sulla
ricostruzione della qualità ecologica dei luoghi, del ripristino – non limitandosi quindi alla tutela e
alla prevenzione - del benessere degli ambienti naturali e degli ambienti costruiti. Creazioni di reti
ecologiche, rinaturalizzazione dei corsi d’acqua, manutenzione del paesaggio agrario, restauro dei
centri urbani: queste sono le “grandi opere” di cui ha bisogno il nostro territorio.
18
A partire dalla nostra idea di “Veneto, terra di relazioni”, il welfare acquista un nuovo
ruolo: da politica riparativa dei danni sociali provocati da una crescita data ed indiscutibile, diventa
strumento fondamentale di qualificazione dello sviluppo. Per raggiungere questo obiettivo le
politiche sociali dovranno a pieno titolo inserirsi nei processi programmatori. La nostra proposta di
welfare vuole, in prima istanza, rappresentare un segnale in controtendenza rispetto al processo in
atto che sottrae all’arena pubblica la discussione riguardo ai beni e ai problemi sociali 42. La
scolarizzazione, la salute, tendono a divenire beni privati da acquisire secondo modalità simili a
quelle del mercato, prescindendo dal loro carattere pubblico e dal fatto che sono questioni che
investono le soggettività presenti in una società che solo in quanto garantite rispetto ai beni primari
possono esplicare la loro potenzialità di risorse umane da investire a favore della collettività..
E’ per questo che in uno scenario in cui alle tradizionali disuguaglianze si aggiungono
fratture sociali nuove, cambiano le caratteristiche dominanti del rischio, cambiano i caratteri e i
percorsi che portano all’esclusione, il welfare non può che partire dai nuovi fenomeni di marginalità
e di esclusione dando vita a politiche d’inserimento sociale e potenziando luoghi pubblici di
partecipazione che ne definiscono i caratteri. E’ necessario allora che la regia del welfare passi a
pieno titolo ai Comuni quali soggetti in grado di promuovere politiche integrate di promozione
sociale. Riteniamo che non basti una ‘semplice’ politica redistributiva, ma che ad essa vadano
accompagnate misure di ricostruzione delle occasioni di benessere sociale (istruzione, abitazione,
ambiti relazionali, rapporti gerarchici, organizzazione del lavoro). Accettare pienamente questa
ottica significa appropriarsi delle parole "politica della salute" non come uno slogan affascinante e
ad effetto, ma come principio-guida per qualsiasi scelta, a partire da quella, imprescindibile e
basilare, del Servizio sanitario inteso come sistema che ha nella dimensione territoriale le migliori
chance di efficacia. Le politiche per la salute devono avere nei rinnovati e potenziati distretti il loro
luogo principe di attuazione, perché venga davvero attuata una integrazione, non al ribasso, tra
politiche sociali e politiche sanitarie e, più in generale, politiche dello sviluppo. Ciò che produce
integrazione sociale all’interno di una comunità non sono solo quelle attività che si rivolgono
esplicitamente e formalmente, ad un oggetto socio-assistenziale, socio-educativo, socio-sanitario,
ma anche tutti quegli interventi che hanno come denominatore comune l’interazione stretta con la
vita quotidiana degli individui, si pensi ad esempio alla riqualificazione delle periferie o
l’attivazione di luoghi di comunicazione e di aggregazione. Per questo una strategia per il welfare
non può riguardare solo le categorie classiche dei servizi sociali, ma deve tendere a realizzare per
tutti i cittadini, in una visione per questo aspetto universalistica, una vita dignitosa per tutti, e non si
rivolge solo alle fasce più deboli.
L’idea di un nuovo welfare, che molti dicono di voler perseguire, è tale solo se incorpora
l’idea di sviluppo e cioè quella di un sistema socialmente integrato fra produzione di beni e
produzione di servizi. Se la cittadinanza è definita, riprendendo le riflessioni di Ota de Leonardis 43,
come processo sociale, e non solo come uno status di appartenenza, se è un concetto riferito
all’agire, non all’essere o all’avere, come noi sosteniamo, l’obiettivo delle politiche di welfare sarà
la promozione di cittadinanza, vale a dire un processo che tende ad espandersi, a non escludere e a
dare spazio ad una costruzione sociale e politica perennemente in corso. I servizi quindi non
tratteranno più bisogni, carenze, deficit, inadeguatezze ma saranno beni al servizio delle
potenzialità, delle capacità, dei desideri, degli attori che in tal modo potranno esplicitare la loro
capacità d’agire.
Economia e sviluppo
La politica economica può rappresentare uno strumento fondamentale al fine di
contraddistinguere il Veneto come terra di relazioni significative e di promozione di differenze. Il
governo regionale dovrà dotarsi di una strategia di sviluppo economico che intrecci gli obiettivi di
42
Ota de Leonardis, In un altro welfare, Milano, 1998
43
Ota de Leonardis, In un altro welfare, Milano, 1998
19
miglioramento della qualità sociale e ambientale della comunità usando tutti gli strumenti in un suo
possesso per promuovere davvero una governance significativa. Non ci si può in alcun modo
limitare ad “accompagnare le dinamiche autonome dell’economia” ma si deve fare in modo che le
comunità locali e le azioni volontarie si integrino con gli strumenti di programmazione e di
pianificazione. Questo indirizzo della politica deve dunque costituire la cornice per il mercato locale
emancipandosi dai soli criteri del marketing e non rifuggendo dal suo dovere di orientamento, di
scelta, di decisione. Ciò richiede il superamento della ideologia sottesa alle politiche liberiste dei
governi che si fondano sull’illusione circa le capacità del mercato di autoregolarsi razionalmente
rispetto all’impatto ambientale, all’uso delle risorse, all’equa distribuzione della ricchezza.
L'alternativa parte da qui: da un progetto politico che valorizzi le risorse e le differenze
locali promuovendo processi di autonomia cosciente e responsabile, di regolazione della
eterodirezione del mercato44. Questa strategia deve coinvolgere i soggetti produttori e i lavoratori in
una visione della sviluppo locale per cui le risorse territoriali vengano implementate attraverso
investimenti in produzioni utili, condivise socialmente e ambientalmente sostenibili. Occorre uno
spostamento di focus: non si parlerà più di finalizzare la programmazione ad una domanda di beni e
servizi basata sui tradizionali e non più sostenibili stili di produzione e consumo, ma di promuovere
politiche per l’innovazione di processo e di prodotto – che si integrino a livello di distretto con
finalità ambientali (EMAS) - che permettano al Veneto di non dover competere, in una spirale al
ribasso, sulla base della compressione del costi ambientali e del lavoro. Si tratterà anche di
valorizzare quelle filiere economiche - agricoltura di qualità, turismo sostenibile, riassetto
idrogeologico, formazione, economia della conoscenza, servizi - che, pur producendo minor quote
di PIL, non solo hanno un basso impatto sull’ecosistema ma concorrono all’aumento della qualità
territoriale e al “restauro” del capitale sociale. Richiamando due autori, che l’economia del Nordest
hanno molto indagato, occorre “accelerare l’evoluzione verso un’economia dei servizi, rivolti sia
alle imprese, sia alle persone, rafforzando un’economia della conoscenza ma anche della qualità
sociale (salute, ambiente, turismo) che oggi costituiscono fattori produttivi primari per le aree a
sviluppo industriale maturo”45.
Queste filiere economiche possono peraltro comportare una domanda di lavoro più
qualificata e ad alto contenuto cognitivo. Per questo si tratterà di utilizzare diversi strumenti,
dall’innovazione tecnologica alle politiche fiscali adottando un approccio integrato, frutto
dell'interazione fra le politiche di diversi settori e fondato su una visione più olistica nella quale le
considerazioni ambientali influenzino le politiche sociali ed economiche - e viceversa. Proponiamo
di adottare i Sistemi Economici Locali (SEL) come unità d’analisi e d’intervento per politiche
economiche territoriali, strumento che può permettere di tener conto della completa struttura
produttiva e delle complesse interazioni sociali che caratterizzano un territorio 46, superando l’ottica,
oggi troppo semplificata, del distretto.
20
la premessa indispensabile di ogni percorso di promozione culturale, di miglioramento ambientale,
di inclusione sociale. Soprattutto oggi quando si moltiplicano anche i rischi di un controllo
crescente dei mezzi di informazione da parte di interessi e poteri “forti” e di una conseguente
omologazione culturale al “pensiero unico”.
Le capacità cognitive, di discussione, scambio devono riguardare la società nel suo
complesso soprattutto in rapporto ai beni pubblici. Occorre promuovere a diversi livelli - università,
scuole, centri di formazione, università del tempo libero, incontri aperti - la riflessione sul modello
di sviluppo, le esternalità, le modalità d’innovazione e le strategie del cambiamento, le modalità di
convivenza e l’interazioni con il mondo. Lo sviluppo locale impone maggior attenzione alle
vocazioni del territorio, alla valorizzazione delle sue risorse, alle produzioni di qualità, e affida un
ruolo nuovo e interessante alla comunità locale, rivitalizza l’impegno pubblico, accresce il potere
decisionale della comunità: per tutto ciò lo sviluppo locale ha bisogno di cultura, di partecipazione,
di coesione sociale, perché è il prodotto della qualità della cittadinanza di un territorio.
La conoscenza è uno straordinario fattore di comprensione del proprio potere, della
potenzialità di sviluppare percorsi endogeni, autosostenibili e innovativi: sia conoscenza locale,
informale sia discorso culturale e scientifico formalizzato. Nella nostra regione questi livelli hanno
sempre convissuto: la grande architettura palladiana che risente di canoni estetici internazionali
accanto alla pieve dove si esprimeva la devozione popolare, “letterati disposti al vernacolo ma
capaci di un eccellente latino e di un rapporto intellettualisticamente attrezzato con l’italiano
letterario” testimoniano questo intreccio47.
E’ prioritario ridare dignità, nelle quadro delle competenze importanti della Regione, alla scuola e
alle università pubbliche come agenti fondamentali di formazione e di ricerca e quindi di
qualificazione del capitale sociale. Occorre discutete insieme il compito sociale che pensiamo spetti
al sistema formativo. Il compito del sistema formativo, come sostiene Marcello Cini, si fa
ambizioso perché dovrebbe “abituare i giovani ad una corretta articolazione del pensiero razionale”,
dovrebbe “aiutare tutti a non rimanere esecutori e consumatori passivi e a diventare capaci di
prendere delle decisioni […] Si tratta di riconoscere che l’incredibile aumento di complessità della
rete di relazioni che legano ogni individuo agli altri nel tessuto sociale obbliga ciascuno a compiere
quotidianamente delle scelte che possono influire sul futuro proprio e altrui.” Qualcosa di più
complesso e affascinante del produrre dei “semi lavorati” per il mondo della produzione come si
prefigge chi governa oggi il sistema formativo .
E’ importante far sì che nelle città e nei paesi vi siano luoghi stimolanti, aperti al mondo,
alle innovazioni, ad una cultura cosmopolita, aperta alle differenze, con una importante qualità
ambientale e sociale. Creare contesti di incontro e dialogo: fare della società veneta un laboratorio
di comunicazione. Le città e i paesi devono tornare ad essere quelli che sono sempre stati delle
“fabbriche di comunicazione”. Non solo i luoghi dedicati dell’alta cultura, che dovranno essere
adeguatamente supportati ma anche i luoghi quotidiani possono essere incontro tra la cultura
formalizzata e la vita di tutti i giorni ed essere stimoli di curiosità, critica e indagine.
Oggi sono spesso i letterati, gli artisti, non gli economisti, gli analisti più attenti dello
spaesamento che stiamo vivendo: quelli come Zanzotto, Meneghello, Rigoni Stern, Cibotto, Camon,
Bandini, Naldini, che hanno visto morire una cultura, e, in modo forse ancora più radicale, le nuove
generazioni che in questo spaesamento sono nate. E’ a questi intellettuali, veri e propri sismografi
della società, che i giovani si affidano spesso per decifrare i mutamenti quotidianamente
sperimentati. Bisogna pensare a “officine”, che possono e devono divenire anche le scuole stesse, in
ogni angolo del Veneto dove far avvenire scambi, ricerche, interrogazioni. Si deve investire per
sperare in una società consapevole, critica, aperta verso il mondo, e per questo in grado di prendere
in mano le redini del proprio sviluppo. La perdita di identità dei luoghi non è del tutto indipendente
dal grave impoverimento a cui stiamo assistendo del ruolo della parola, dalla capacità di produrre
narrazione, che nasce più dai luoghi che dal tempo. Qui sta anche il profondo valore educativo della
47
Adone Brandalise Soglie e confini: etiche ed estetiche del paesaggio veneto, AA.VV, Heimat, Roma, 2000
21
dimensione locale, che può rivitalizzare il piacere della narrazione, attraverso cui si rinforzano le
identità personali e collettive. Tutto ciò introduce ad un’idea di conoscenza che ha bisogno
dell’approccio sistemico per comprendere i problemi, che opera sia sul piano dell’analisi che della
sintesi, che include il rapporto di causa - effetto in un insieme di altre relazioni possibili (la
retroazione, il ciclo, il caso, ecc), che sviluppa la capacità di “pensare per relazioni”. Significa dare
alle persone l’occasione e gli strumenti per essere coinvolte nelle strategie di sviluppo,
promuovendo le capacità degli abitanti di sviluppare riflessioni e appunto “racconti” intorno alle
sue caratteristiche.
22
politiche
analisi e proposte
sui grandi temi
della vita
della nostra regione
23
oltre le rovine:
il territorio e l’ambiente
Il Veneto: un patrimonio territoriale complesso
Il Veneto possiede un patrimonio territoriale complesso e senza paragoni, fatto di valli
alpine e montagne, altipiani, colline moreniche e vulcaniche, pianure asciutte, pianure bonificate in
epoca romana o precedente, aree di costa, aree umide, lagune e isole, grandi fiumi e aree di
divagazione degli stessi. Si tratta di un territorio complesso e allo stesso tempo fortemente
antropizzato: poche regioni italiane possiedono una tale varietà di territori, esito non tanto o non
solo di fenomeni naturali ma di una fortissima interazione nei secoli tra società insediata e
ambiente.
L'antropizzazione diffusa di questo territorio non è un fenomeno recente: le aree di assoluta
naturalità sono praticamente inesistenti, ma fino a qualche decennio or sono la presenza antropica
diffusa non solo conviveva con elementi di qualità ambientale, ma era stata essa stessa artefice di
molti di questi elementi, così come di un paesaggio ritenuto fra i più belli del mondo. I saperi
accumulati in secoli di interazione antropica con la natura avevano dato luogo a figure territoriali
nelle quali l'insediamento umano e le attività produttive che lo sostenevano assumevano in ciascun
luogo caratteri peculiari e qualificati.
Negli anni più recenti la rapidità del cambiamento, l'ideologia dello sviluppo inteso come
crescita degli insediamenti e industrializzazione delle diverse attività produttive (agricoltura,
manifattura ecc.), e come crescita dei flussi (finanziari, di persone, di merci), ha fatto smarrire la
sapienza con la quale le diverse comunità insediate si erano fino a quel momento rapportate alle
specificità e alle regole di ciascun luogo.
La montagna e le valli alpine hanno perso la loro popolazione, attirata nei centri
pedemontani o di pianura dalla possibilità di un posto di lavoro in fabbrica; ciò ha prodotto la
perdita dei saperi e delle economie locali, l'assenza di manutenzione dei boschi, la scomparsa dei
pascoli. Oggi che la produzione industriale, magari sostenuta dai contributi pubblici come nel caso
del Cadore, è in crisi per la concorrenza dei paesi a minor costo del lavoro e minori attenzioni
all'ambiente, inizia a farsi strada la consapevolezza che gli investimenti collettivi lungimiranti
avrebbero dovuto essere altri, finalizzati a mantenere la popolazione, i saperi e le produzioni
tradizionali sul territorio, creando così i presupposti per uno sviluppo anche turistico a maggior
valore aggiunto locale (cfr. Montagna e Turismo). Oggi che questa prospettiva è più chiara, il
territorio è ormai desertificato.
I fiumi alpini, l'Adige, la Brenta, la Piave, il Tagliamento, e i più tranquilli fiumi di
risorgiva, come il Sile e la Livenza, dopo aver rappresentato per secoli la principale rete di trasporto
merci e persone, di approvvigionamento energetico, di irrigazione per l'insieme dei territori
attraversati e per tutte le genti che lungo il fiume vivevano, sono stati sfruttati come risorse
prioritariamente al servizio dell'industrializzazione di pianura, e come cave per l'urbanizzazione,
senza restituire nulla in cambio. La fascia delle risorgive, risorsa eccezionale che attraversa il
territorio dell'alta pianura veneta da ovest a est, patrimonio d'acqua dolce in grado di dissetarci tutti,
è stata urbanizzata o trasformata in fabbrica (agricola o manifatturiera) senza attenzione alle
ricadute sulla qualità delle acque, peraltro in larga misura privatizzate. Oggi che l'acqua inizia ad
apparire una risorsa scarsa, le nostre acque in parte non ci appartengono più, in parte sono
fortemente inquinate.
24
Le colline, terre di ciliegi e vigne, di olivi e mandorli, si sono salvate (dall'urbanizzazione,
non dalla distruzione della policultura e quindi del paesaggio tradizionale) soltanto laddove la
coltura vitivinicola specializzata è stata concorrenziale, come valore fondiario dei terreni, rispetto
all'edificazione (ad esempio nella zona del Cartizze, o nelle colline del Soave), oppure ha svolto un
ruolo complementare rispetto all'attrattività turistica (riviera del Garda); altrove si sono visti
insediamenti produttivi arrampicarsi fin su in collina, laddove un tempo crescevano i ciliegi, e
magari abbandonarla agli immigrati africani per le condizioni ambientali ormai invivibili provocate
dall'inquinamento industriale (nella zona delle concerie di Arzignano, Chiampo, Montebello, ad
esempio).
La pianura asciutta, o asciugata in tempi ormai molto lontani, sulla quale si espande la
marmellata dell'attuale città diffusa, è stata anch'essa fino a tempi assai recenti un reticolo ordinato
di centri, strade, opifici e campagne (rese) fertili, anche se oggi è oramai quasi irriconoscibile per
l'espansione delle urbanizzazioni e per i tagli inferti dalle infrastrutture.
La fascia costiera, composta di spiagge, dune, aree umide e fasce boscate retrostanti, ha
costituito per secoli un ambiente di enorme valore ambientale e sociale; ambientale, per il proprio
ruolo di fitodepuratore e di habitat naturale; sociale, per l'uso comune, collettivo, delle terre e delle
acque. Le bonifiche dell'ultimo secolo, la trasformazione agroindustriale, l'espansione di bassa
qualità del turistificio litoraneo hanno reso quasi irriconoscibili gli elementi patrimoniali di lungo
periodo; eppure proprio oggi, con il previsto venir meno dei sussidi europei all'agricoltura, con
l'obsolescenza delle macchine idrovore che garantiscono il drenaggio dei terreni, con la domanda di
riqualificazione dei luoghi di offerta turistica, anche questi luoghi possono essere utilmente
ripensati, non sono destinati necessariamente a scomparire del tutto a favore di una conurbazione di
edifici e darsene.
Per cambiare le politiche territoriali e ambientali finora praticate il primo passo è quello di
riconoscere la ricchezza della diversità, il valore unico e specifico di ciascuna componente del
patrimonio; non si può pensare di applicare la medesima politica a questi diversi territori. La
creazione di valore aggiunto territoriale passa oggi anche attraverso la valorizzazione dell'identità
propria a ciascun luogo, e quindi non soggetta (o meno soggetta) alla concorrenza globale.
25
Tertium non datur dal momento che le Province e i loro Piani Territoriali Provinciali,
previsti dalla legge urbanistica in vigore fino a quest'anno (LR 61/85) rispettivamente come soggetti
e strumenti di riferimento per la valutazione delle trasformazioni ammissibili, sono stati privati di
fatto del potere loro attribuito formalmente (non approvando i rispettivi PTP, e lasciandone
decadere quindi le relative salvaguardie quinquennali, peraltro spesso ignorate dagli stessi
promotori).
Gli aspetti che hanno maggiormente caratterizzato l’uso del territorio nel modello di sviluppo
recente, e che richiedono oggi di essere profondamente ridiscussi, possono essere così sintetizzati:
- l’uso dell’ambiente insediativo come esternalità da sfruttare, anziché come risorsa da
valorizzare e riprodurre
- il territorio governato attraverso la localizzazione di funzioni
- la contrazione degli investimenti produttivi (e conseguentemente della popolazione) sulle
pianure e fondo valli
- la costa e la montagna trattate come macchine da turismo
- la richiesta e proposta di nuove infrastrutture (viste come strumento per promuovere nuove
urbanizzazioni di aree agricole) anziché di investimenti nella gestione della logistica merci e
nel trasporto pubblico.
26
E’ la presa in conto di queste interrelazioni che può farci individuare scelte di sviluppo
effettivamente sostenibili: politiche intersettoriali che pongano al centro l’unicità di ciascun
territorio (quella certa vallata alpina, quella porzione di pianura caratterizzata dalla centuriazione
romana, quei terreni litoranei di bonifica recente, e così via).
27
Questo ragionamento vale in generale per la (tendenziale) chiusura dei diversi cicli
ambientali: acqua, rifiuti, energia ecc. Solo una loro gestione e controllo collettivo, a livello per
quanto possibile locale, può consentire da un lato scelte coerenti con i progetti di sviluppo propri di
ciascun luogo e dall’altro un’accettazione sociale degli effetti indesiderati che questi cicli spesso
generano sul territorio.
Il nesso tra il modello di sviluppo di volta in volta adottato e la sua capacità (o meno) di
aumentare la qualità del territorio e dell’ambiente può essere reso più evidente sviluppando
indicatori territoriali e ambientali, a livello sia regionale che locale, da usarsi come riferimento per
la valutazione delle diverse ipotesi di trasformazione dei luoghi.
28
ricadute ambientali negative ma accettabili, o guadagno di pochi e degrado delle condizioni di vita
di molti?
Questo esempio sembra richiedere, con urgenza, l’esplicitazione e la discussione pubblica dei costi
e dei benefici, territoriali e ambientali, diretti e indiretti, attuali e differiti, delle trasformazioni di
volta in volta ipotizzate.
Una società intera che gioca a Monòpoli. Ma siamo sicuri che la posta in gioco sia una
vincita?
Se guardiamo agli occupati e alle nuove imprese della nostra regione, le attività immobiliari ed
edilizie rappresentano più della metà del totale. Come dire che gran parte delle energie, finanziarie e
di innovazione, delle famiglie, degli imprenditori e dei lavoratori sono dedicate al gioco del
mattone. D’accordo che c’è stata la crisi degli apparentemente facili guadagni di borsa, la Tremonti
che consentiva alle imprese di detrarre come investimento anche le spese in edilizia, le banche che
concedono capitale di rischio soltanto contro ipoteche immobiliari, le partite IVA che hanno la
necessità di garantirsi un reddito futuro al posto della pensione che non ci sarà, e il mattone che
storicamente si è rivalutato in misura maggiore di quasi tutti gli altri investimenti disponibili per il
piccolo o medio risparmiatore, ma non è che il contesto sia cambiato?
Nel dopoguerra vi erano in media quasi tre persone per una stanza, oggi abbiamo tre stanze a
persona: vi sono forti squilibri nella loro distribuzione, in particolare tra immigrati e “autoctoni”,
ma non è certo il sistema di promozione immobiliare privato in atto a poter loro garantire degli
alloggi più dignitosi. Il saldo demografico naturale è negativo, e le prospettive sono quelle di un
progressivo e consistente aumento della popolazione anziana. Solo l’immigrazione ci può
consentire di mantenere nel futuro la popolazione attuale.
Molte attività produttive sono già delocalizzate o vanno delocalizzandosi all’estero.
Le nostre città vanno svuotandosi di funzioni (la produzione all’estero, il commercio nei
centri commerciali in mezzo alla campagna, i cinema nelle multisale esterne, le attività di servizio
nei centri direzionali in prossimità dei caselli autostradali) e perdono quindi la qualità urbana che le
connotava, il nostro territorio è pieno di aree dismesse o in via di dismissione, la nostra campagna
ha perso i propri caratteri di paesaggio rurale ed è ingombra di oggetti edilizi e infrastrutture
progettate apparentemente a casaccio (in realtà con grande attenzione alle proprietà dei terreni).
Siamo davvero sicuri che continuare a investire nel mattone non si riveli tra qualche anno un
gigantesco fallimento? Chi le comprerà o le affitterà mai, queste case generalmente brutte, mal
costruite, fredde d’inverno e calde d’estate, raggiungibili solo con l’auto privata, in una campagna
sempre più inquinata dal rumore e dall’inquinamento del traffico, e che non possiede più nessuna
qualità del paesaggio rurale d’un tempo?
Scopo delle politiche pubbliche sarebbe quello di tutelare l’interesse pubblico da un
probabile fallimento collettivo, anziché incoraggiare la speculazione a rischio. Sarebbe utile
ricordarlo, anche se non sembra più così di moda.
29
meno si avvalgono delle professionalità locali, imprese spesso specializzate nell’aggiudicarsi al
minimo costo le commesse e poi chiedere pagamenti aggiuntivi o fallire programmaticamente, a
essere più rappresentate. Imprese che ricorrono al caporalato, che non rispondono degli infortuni sul
lavoro, che pagano le tasse (quando le pagano) in misura irrisoria rispetto agli effettivi guadagni.
Anche a prescindere da questi aspetti, fondamentali ma già trattati altrove (vedi lavoro:
qualità e diritti→) l’urbanizzazione di nuove aree comporta costi assai elevati per la collettività:
oltre alla sottrazione di terreni a valenza ambientale o agricola, essa richiede investimenti pubblici
consistenti per la realizzazione delle urbanizzazioni collettive e la fornitura dei servizi. Con una rete
acquedottistica che perde in media quasi metà dell’acqua trasportata, con reti fognarie miste e
obsolete, con infrastrutture stradali che richiederebbero numerosi adeguamenti, estendere
ulteriormente questi servizi va chiaramente a discapito degli interventi di manutenzione e rinnovo
delle reti esistenti.
L’estensione dell’edificato a bassa densità comporta inoltre costi molto elevati, spesso
insostenibili, per servizi quali il trasporto pubblico, l’assistenza a domicilio agli anziani, la
dotazione di servizi sociali in genere. Nell’edificazioni di nuove aree non urbanizzate tutti noi
paghiamo dunque una serie di costi, diretti e indiretti, ambientali e finanziari. Pochi ci guadagnano,
in particolare coloro che vedendo i propri terreni agricoli trasformarsi in edificabili realizzano una
rendita fondiaria del tutto gratuita.
Dal punto di vista dell’interesse collettivo, è dunque sempre più difficile, nelle condizioni
attuali, trovare un saldo positivo a molte pratiche in corso.
Nel discutere e decidere le politiche pubbliche che rendono possibile l’edificazione di nuove
aree appare dunque necessario e urgente esplicitare anche il saldo sociale delle trasformazioni
ipotizzate: chi ci guadagna, e chi ci perde? E quanto, in termini di vite, di denaro pubblico e di
guadagno privato?
50
Istat, Statistiche dell’attività edilizia, anni vari, Coses 2003.
30
Se guardiamo ai Comuni in cui si è localizzata la maggiore attività edilizia, le corrispondenze tra
nuovi volumi costruiti, numero complessivo di abitanti, eventuali incrementi demografici o
imprenditoriali non sono (con poche eccezioni) significative.
Qualcuno potrebbe comunque arguire che tutto ciò corrisponde semplicemente alla
realizzazione di fatto della città metropolitana veneziano-veneta (vedi Effetti Metropolitani →). Ma
alle aree urbane e ancor più metropolitane siamo abituati ad associare, oltre a servizi di rango
superiore, servizi di trasporto pubblico efficienti, una buona dotazione di spazi pubblici di qualità,
una facile accessibilità alla campagna circostante,. Che nella nostra regione si tratti di un territorio
male urbanizzato ancor prima di essere troppo urbanizzato si evince con chiarezza dai risultati di
una recente ricerca che ha comparato l’evoluzione dal 1950 al 1990 dell’area compresa tra Mestre e
Padova con altre numerose aree europee51. In quarant’anni la percentuale di superficie urbanizzata è
quasi triplicata, passando dal 13,5 al 36,6% della superficie totale. Dai dati dell’attività edilizia
successiva al 1990 si può ipotizzare che la percentuale di territorio urbanizzato sia oggi superiore al
40%. Non si tratta solo di una percentuale particolarmente alta in assoluto 52; ciò che lo fa leggere
come caso negativo sono i valori (tra i peggiori) registrati in relazione all’aumento della dispersione
dell’urbanizzato, alla perdita di aree naturali e agricole (vedi Una terra da curare →), alla
diminuzione persino delle aree verdi urbane. I territori “valorizzati” dall’urbanizzazione sono
terreni perduti per l’attività produttiva agricola, e per i servizi da questa prestati quando condotta in
modo sostenibile: salvaguardia idrogeologica, valorizzazione paesistica, mitigazione ambientale,
fruibilità di percorsi campestri di qualità estetica e ambientale generalmente più elevata di quella
posseduta dalle aree verdi urbane.
Non possiamo infine trascurare l’elevata estensione territoriale di questo modello di
urbanizzazione che caratterizza in modo specifico il Veneto (nelle altre aree urbane europee
considerate non vi è continuità di queste percentuali a livello dell’intera regione), per cui i pesanti
carichi ecologici del territorio costruito appaiono compensati all’interno della regione metropolitana
dell’area centrale veneta soltanto da poche aree a valenza ambientale complessa, in primo luogo la
laguna di Venezia.
E’ necessario promuovere ed esigere una diversa qualità territoriale e ambientale degli interventi,
contro la pratica di usare la firma del progettista famoso, o del progettista politicamente garantito,
per coprire i volumi di nuova realizzazione e l’attenzione dei progetti alla sola massimizzazione
degli utili immediati (ovvero degli utili del promotore e dell’impresa, non degli acquirenti o del
territorio in cui sono inseriti).
L’alternativa c’è: riusare le aree dismesse e riprogettare le aree senza qualità anziché
“consumare” nuovi suoli
Un censimento delle aree dismesse, in via di dismissione o parzialmente riutilizzabili
evidenzierebbe nel nostro territorio un patrimonio enorme, sufficiente a dare risposta a tutte le
(eventuali) domande di localizzazione di nuove funzioni. La possibilità di edificare ex novo nuove
aree andrebbe in ogni caso subordinata alla dimostrazione della non possibilità di localizzazione in
aree già urbanizzate, e le procedure e gli oneri di urbanizzazione relativi alle due tipologie di
intervento dovrebbero essere fortemente differenziati per favorire il riuso (e i progetti esito di
processi partecipativi ed effettivamente partecipati dalla pluralità degli attori i cui interessi,
economici ma anche di qualità della vita, sono in gioco). Oggi è un po’ il contrario: a chi interviene
nelle aree dismesse sono richiesti progetti più dettagliati, soggetti a procedure assai più lunghe,
garanzie maggiori e oneri diretti spesso pari o superiori a quelli per l’edificazione in zona agricola.
51
European Environmental Agency, Towards an urban Atlas: Assessment of spatial data on 25 european cities and
urban areas. Env.issues Report no.30, 2002
52
Valori superiori al 35% di territorio urbanizzato sono considerati, dal punto di vista ecologico, situazioni di crisi della
capacità autoriproduttiva dei principali cicli ambientali a base territoriale.
31
E’ dunque essenziale garantire una combinazione di strumenti fiscali, economici e regolativi
che promuova il riuso di aree già urbanizzate e scoraggi il consumo di nuovi suoli, imputando a
questo consumo i costi complessivi, compresi quelli differiti e indiretti, che lo accompagnano
(perdita di suoli agricoli, aumento delle pressioni ambientali, necessità di nuove infrastrutture e di
nuovi interventi di mitigazione/compensazione ambientale). In coerenza con ciò, qualsiasi nuovo
intervento potrebbe ad esempio essere chiamato a contribuire al restauro ambientale e paesistico
della campagna, per un’estensione tale da compensare il proprio impatto, oltre a pagare gli altri
costi diretti sopra richiamati. Il riuso delle aree già urbanizzate anziché l’urbanizzazione di terreni
agricoli, la contrattazione con i proprietari delle aree da riqualificare per promuovere attraverso
questi interventi una nuova politica della casa 53, l’attenzione a promuovere usi del territorio in grado
di ridurre la mobilità, l’investimento nelle diverse modalità di trasporto sostenibile (trasporto
pubblico collettivo, trasporto delle merci su ferro e acqua e gestione della logistica, mobilità
ciclabile e pedonale) sono campi d’azione strettamente interrelati.
Le decisioni su quali siano le potenzialità, nel senso ampio del termine, dei diversi luoghi
non possono essere lasciate alla decisione degli investitori immobiliari (che spesso hanno voce
pubblica in veste di industriali, o addirittura società partecipate da enti pubblici territoriali: di modo
che non è più chiaro chi è il controllato e chi il controllore) e degli amministratori locali alla
ricerca di voci libere di bilancio con cui realizzare opere visibili dai propri cittadini-elettori.
Queste decisioni richiedono una pratica politica che si concretizzi nella partecipazione dei diversi
attori non solo economici alla loro definizione, e un’equa imputazione dei costi. Di fatto le
esternalità le paghiamo tutti, e i costi diretti o indiretti sul territorio sono spesso ben più elevati
dell’investimento effettuato dai promotori.
53
Nonostante la percentuale sempre più elevata delle abitazioni in proprietà, il problema di trovare un’abitazione a
prezzo economicamente sostenibile nei luoghi in cui vi è maggiore offerta di lavoro qualificato sta diventando
soprattutto per i giovani un problema crescente. In prospettiva lo sarà probabilmente sempre più anche per gli anziani
non in grado di vivere soli o isolati. Questa domanda effettiva o potenziale non deve tuttavia diventare, come lo è stata
anche nel recente passato, l’alibi per legittimare nuove urbanizzazioni in territorio agricolo.
32
culturale di ciascun luogo, attraverso azioni anche simboliche di rifondazione delle identità
cancellate dall’espansione urbana
Lavorare a rafforzare le diverse identità locali significa ricostruire relazioni tra tutti coloro
che abitano lo stesso luogo, anche interrogandosi sulle differenze nel percepire e vivere i luoghi, gli
spazi pubblici, le diverse dimensioni ambientali a partire dalle specificità di genere, di età, di etnia,
di cultura, di ritmi lavorativi. Queste diverse soggettività possono esprimersi più facilmente se
l’oggetto della discussione non è una questione lontana e apparentemente sottratta alle conoscenze
di senso comune, ma il luogo da ciascuna di esse vissuto e quindi intimamente conosciuto. Questo
metodo rende possibile ipotizzare un programma di riqualificazione, partecipata ed ecologica, dei
diversi luoghi che risponda in primo luogo alle esigenze di chi abita il territorio.
33
caratterizzato dagli insediamenti diffusi? Al di là degli ipermercati e delle multisale, difficilmente
accessibili a chi sia sprovvisto di auto e di passione consumistica, quali sono oggi i luoghi per
incontrarsi, conoscersi, confrontare le proprie idee, aiutarsi reciprocamente a vivere? Viene il
dubbio che la nozione di interesse pubblico emergente abbia purtroppo una strana assonanza con
l’organizzazione del territorio che ci siamo dati. Una diversa politica territoriale può dunque
promuovere anche una maggiore partecipazione delle comunità alla costruzione delle politiche
pubbliche locali.
In riferimento alle politiche territoriali e ambientali, ciascun livello di governo del territorio
regionale potrebbe impegnarsi da subito a cedere sovranità verso il basso, verso il locale, ponendo
come vincolo la simmetricità del movimento: i Comuni ai cittadini, le Province ai Comuni, la
Regione alle Province. Distribuire potere significa distribuire anche il controllo su chi il potere
dovesse esercitarlo a danno della collettività.
Ciò significa anche rivedere profondamente l’interpretazione che la Regione ha finora dato,
con la LR 11/04 e con gli atti di indirizzo successivi 54, dei nuovi principi di governo del territorio
fatti propri nell’ultimo decennio da molte regioni italiane.
Distribuire potere richiederebbe in primo luogo che la Regione, anziché riservarsi il diritto
di codificare quali conoscenze del territorio siano effettivamente utili e necessarie nella stesura dei
piani urbanistici e territoriali e quali no (come se Puos d’Alpago, Nanto, Cavarzere e S.Michele al
Tagliamento avessero caratteristiche e problemi analoghi, e potessero quindi essere indagati con la
medesima “lista della spesa”), rendere pubblicamente disponibili alcune conoscenze che essa
detiene e usa, non condividendole né con gli enti locali, né con i cittadini: gli aggiornamenti della
Carta Tecnica Regionale, le ortofoto più recenti, i modelli digitali del terreno, le istruttorie dei piani
urbanistici locali.
Una maggior consapevolezza nell’autogoverno richiederebbe inoltre la promozione di una
più diffusa cultura di comprensione delle regole storiche di costruzione e trasformazione di ciascun
luogo, e di relazione con i beni collettivi sovralocali, affinché da un lato l’esercizio locale delle
decisioni non produca esiti distruttivi dell’ambiente, dall’altro il punto di vista locale possa
effettivamente concorrere a migliorare le trasformazioni di interesse sovralocale.
La delega come noto non solo deresponsabilizza, ma invita a comportamenti opportunistici:
poter dire che le decisioni relative ai problemi che oggi sperimentiamo nel nostro territorio sono
state prese da qualcun altro ci fa sentire innocenti, anche se noi stessi nelle nostre scelte quotidiane
riproduciamo il problema.
Il governo regionale dovrebbe incoraggiare maggiormente gli abitanti del Veneto, siano essi
“autoctoni” o immigrati, a considerare questo territorio la loro casa, e di conseguenza a partecipare
attivamente alla sua continua riprogettazione: assicurando la massima trasparenza sulle decisioni in
discussione, garantendo strumenti di salvaguardia rispetto a comportamenti di speculazione
opportunistica, adottando linguaggi e procedure che rendano comprensibile ciò di cui si parla e
accessibili (metaforicamente, ma anche fisicamente) i luoghi del governo pubblico.
Il movimento di “cessione di sovranità” dovrebbe essere accompagnato da una forte
trasparenza nel comunicare le decisioni prese, le procedure impiegate per decidere e le basi
conoscitive che le fondano. A fronte di piani sempre più flessibili e soggetti a continue modifiche
incrementali è infatti il quadro conoscitivo di riferimento ad assumere valore normativo nel
definire quali azioni siano ammissibili e quali no.
34
contrastanti, ulteriore dissesto idrogeologico, carenza o eccessiva abbondanza d’acqua, consumi
energetici crescenti per difendersi dal caldo e dall’umidità.
Come noto il cambiamento climatico non è un fenomeno nuovo, è sempre stato presente e
accuratamente osservato (con gli strumenti del passato, ovvero principalmente con la memoria
dell’esperienza) e considerato nelle scelte relative, ad esempio, alla localizzazione degli
insediamenti. Tutti gli insediamenti storici sono infatti, con assai rare eccezioni, localizzati sui
terreni (o sui versanti) relativamente più stabili o più elevati rispetto alla campagna (o al territorio)
circostante, con una buona dotazione d’acqua ma sufficientemente al sicuro dai rischi idraulici. Solo
nei decenni più recenti questa regola è stata abbandonata, con l’illusione che le tecnologie moderne
potessero tutelare il territorio da qualsiasi rischio, rendendolo indifferentemente urbanizzabile. Il
crollo del monte Toc e il conseguente disastro del Vajont, ma anche le centinaia e migliaia di luoghi
veneti a rischio di esondazione o più modestamente di ristagno delle acque meteoriche ci dicono
che non è esattamente così che funziona.
In considerazione della elevata e crescente probabilità di eventi meteorici intensi, e
dell’impossibilità di stimarne con certezza tempi ed effetti, molti paesi si stanno attrezzando ad
adottare i cosiddetti approcci precauzionali: restituire ai fiumi il loro territorio di divagazione 55,
restituire ai terreni prossimi al mare la loro configurazione naturale, prestare maggiore attenzione a
localizzare gli insediamenti solo nelle aree idrogeologicamente più stabili, progettare insediamenti
che non richiedano il consumo di energie non rinnovabili per difendersi dal caldo e dall’umidità, e
più in generale che non contribuiscano attraverso il modello di trasporto, di costruzione, di consumo
a peggiorare i cambiamenti climatici in corso56.
Nel Veneto gli effetti già visibili del cambiamento climatico, in molti casi peggiorati dalle
trasformazioni antropiche del territorio, sono rilevanti: crolli nelle rocce dolomitiche per lo
scioglimento del permafrost, erosione degli argini fluviali alla base per l’insufficiente trasporto
solido dei fiumi57, difficoltà a limitare l’intrusione delle acque nei territori costieri, aumento dei
periodo di siccità ed eventi di piena ricorrenti.
La prima cosa da fare è riscoprire le antiche regole di localizzazione degli insediamenti,
tenendo conto del fatto che l’estesa urbanizzazione attuale del territorio ha straordinariamente
aumentato i problemi e modificato alcune invarianti.
La seconda è assumere la piena responsabilità, anche dei singoli luoghi, rispetto al
cambiamento climatico in corso; ciò consente di ripensare le diverse politiche ambientali e
territoriali da un punto di vista totalmente nuovo, riprogettando in particolare lo stile dei consumi
collettivi (approvvigionamento energetico, modalità di trasporto, chilometri incorporati nelle merci
rese disponibili sul mercato locale, consumo d’acqua rispetto alle capacità di ricarica degli
acquiferi, consumi energetici degli edifici ecc.) in funzione della riduzione dell’impronta ecologica
complessiva e del ripristino delle funzioni naturali del territorio vitali per la nostra sopravvivenza
futura. Ciò non solo può aiutarci a contenere gli effetti del cambiamento climatico sul nostro
territorio, ma può contribuire a evitare nel futuro probabili migrazioni forzate di interi popoli per
cause ambientali.
55
In Germania una recente proposta di legge federale (Gesetz zur Verbesserung des vorbeugenden Hochwasserschutzes,
marzo 2004) vieta qualsiasi edificazione e propone la demolizione e rinaturazione delle urbanizzazioni in atto nelle aree
interessate da tempi di ritorno centennali degli eventi di piena. Approcci analoghi sono ritrovabili nelle politiche inglesi
del DEFRA e recente London Plan.
56
Vedasi a questo riguardo anche il recente documento europeo COM(2004)60 Towards a thematic strategy on the
urban environment.
57
Quest’ultimo dovuto anche e soprattutto all’attività di escavazione o prelievo di materiali destinati all’attività edilizia.
35
passare dalla quantità di suolo occupato alla qualità degli insediamenti; ciò significa non
urbanizzare altri suoli agricoli, sottraendoli alla loro funzione primaria, ma densificare
selettivamente alcune delle aree già urbanizzate, dotandole di servizi urbani adeguati e
considerando ciò occasione per ricostruire il paesaggio e la campagna circostanti;
adottare come criterio principale per la scelta dei luoghi da densificare la presenza di un
nodo del trasporto pubblico locale, a partire da quelli che garantiscono la maggior frequenza
del servizio e tempi di percorrenza certi;
in generale per quanto riguarda gli insediamenti produttivi, e in particolare per quanto
riguarda gli insediamenti turistici, tenere insieme gli aspetti della riqualificazione gestionale
e fisica;
diffondere elementi di qualità urbana (non solo strade: acquedotti, corridoi ecologici, sistemi
di aree verdi fruibili, trasporti pubblici) ben disegnati ed efficienti; ma come faranno le
amministrazioni pubbliche a garantire una buona qualità di tutte queste infrastrutture quando
la loro estensione continua a crescere, e in tutte le direzioni?
operare una contemporanea dismissione delle aree urbanizzate più esterne o incongrue,
destinandole anche attraverso strumenti di perequazione ad aumentare gli standard urbani a
verde;
considerare la campagna, la qualità dei suoi processi produttivi e della sua immagine, la
fruibilità dei suoi percorsi, una risorsa fondamentale per la riqualificazione delle
urbanizzazioni esistenti;
fare i conti con i probabili effetti del cambiamento climatico, adottando misure atte a
prevenire il dissesto idrogeologico, restituendo in particolare ai fiumi alcuni territori di loro
pertinenza;
assicurare un uso attento e responsabile della risorsa acqua, la cui qualità ma anche quantità
sono indicate come elementi a rischio nel prossimo futuro;
36
dotare i diversi centri di un luogo pubblico in cui la società locale possa incontrarsi,
riconoscersi, dialogare ed esercitare la democrazia; molti centri minori, sorti all’incrocio fra
più vie di comunicazione, sono oggi ridotti ad attraversamenti stradali che hanno tolto loro
ogni ruolo pubblico. Restituirli ad altre funzioni più congrue significa restituire a questi
centri il loro cuore, il loro spazio pubblico e di incontro, ruolo oggi abusivamente esercitato
da centri commerciali o altri non-luoghi che escludono di fatto una parte consistente della
popolazione.
Anna Marson
37
il welfare al centro
L’oscuro orizzonte del welfare: il quadro nazionale
Il disegno della destra al governo è chiaro: sostituire progressivamente i servizi pubblici con
il mercato da una parte e con l’intervento “morale” e ”compassionevole” (“aiutare gli ultimi” per
citare uno slogan dell’ultima campagna elettorale) dall’altra, riducendo la spesa sociale e
sostenendo gli operatori privati. La riduzione dei trasferimenti a regioni e comuni, i tagli alla sanità,
alla scuola e alla spesa sociale, così come l’abbandono del sistema pubblico, stanno mettendo
seriamente in discussione principi costituzionali di pari opportunità ed uguaglianza e servizi
essenziali realizzati e promossi in questi anni da istituzioni pubbliche e vari soggetti sociali. Il “libro
bianco” sul welfare, la legge Bossi-Fini, la riforma della scuola e la riforma del mercato del lavoro
sono interventi che hanno l’obiettivo comune di perseguire lo smantellamento di garanzie sociali
fondamentali.
Si sta, dunque, delineando un disegno preciso che prevede alcuni passaggi di fondo: la
mercificazione dei servizi e delle persone; la stigmatizzazione e la criminalizzazione di ogni forma
di differenza e di devianza; la diminuzione degli spazi reali di partecipazione; il ritorno a vecchie
forme di assistenzialismo e un’idea residuale di welfare. Il tentativo è quello di cancellare pezzo
dopo pezzo l’intero sistema dei diritti per riscriverlo in maniera più omogenea e coerente alle
dinamiche e all’organizzazione del modello liberista, fondato sul paradigma dell’incompatibilità tra
giustizia sociale e necessità di crescita della competitività. Gli effetti più immediati di questa
situazione si stanno scaricando sulle aree più svantaggiate del Mezzogiorno e sui soggetti più
deboli. Le persone sono sempre più povere di diritti, sanno che quel che fino a ieri era accessibile
oggi non lo è più.
Welfare regionale
Diversi provvedimenti legislativi succedutesi in questi anni hanno promosso un processo di
progressiva "localizzazione" del welfare socio-assistenziale. La Regione acquista nel settore socio-
assistenziale maggiore autonomia legislativa, mentre continua a svolgere sul piano amministrativo
un ruolo fondamentale di programmazione, coordinamento e indirizzo. Spetta infatti al governo
regionale la ripartizione delle risorse finanziarie, la programmazione generale delle politiche sociali,
la definizione degli ambiti territoriali di gestione, l’individuazione dei livelli essenziali delle
prestazioni e dei servizi in conformità con quelli indicati dallo Stato, degli standard organizzativi ed
operativi delle strutture, delle regole generali per i sistemi di affidamento dei servizi socio-
assistenziali a soggetti privati.. In base al nuovo testo dell’art. 119 Cost., inoltre, le regioni e gli enti
locali devono provvedere a finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite con tributi
ed entrate proprie e compartecipazione al gettito di tributi erariali. A fronte di questa situazione,
Caritas italiana e Fondazione Zancan denunciano 58: “il nuovo scenario potrebbe essere quello di un
mosaico di welfare regionali impegnati a garantire LEA troppo diversi e inadeguati per essere degni
di questo nome”. Un processo che prometteva decentramento e valorizzazione delle realtà
territoriali si tradurrà nell’abbandono di livelli di garanzia e universalità minima e nell’esplodere
delle differenziazioni regionali. Inoltre la valorizzazione dell’autonomie locali nasconde in realtà
dei potenti neocentralismi regionali che poco lasciano alle possibilità dei comuni di costruire
welfare caratterizzati dalla partecipazione e dalla responsabilizzazione delle comunità.
58
Caritas Italiana, Fondazione Zancan, Cittadini Invisibili – Rapporto 2002, Milano, 2002
38
Riportiamo, condividendola, l’analisi di Cgil e Gruppo Abele 59: “l’orizzonte potrebbe essere
quello della riproduzione della verticalità a livello locale, con un di meno di spessore comunitario
dettato da più mercato e meno risorse pubbliche”. Gli ostacoli posti sul cammino della realizzazione
di un welfare municipale sono quelli di “tagli ai trasferimenti ai Comuni, differenziazioni
impositive, diversificazioni sui criteri di qualità dei servizi, ma anche assenza di professionalità di
sistema, debolezza delle pratiche di sviluppo locale, arretratezza delle dinamiche partecipative e di
cittadinanza attiva”.
Lungi dal promuovere responsabilità e partecipazione dal basso, il nuovo welfare
regionalizzato si configura come una mistura tra un modello neocentralista incentrato sulle regioni,
e un modello mercantilista neoliberale che affida ideologicamente ai meccanismi del mercato la
soddisfazione dei bisogni sociali: il peggio che si potesse immaginare60.
39
universalistica64. Pur non abbracciando l’impostazione “estremistica” della regione Lombardia, il
Veneto, in assenza di un disegno strategico, sembra confidare nella attuale “tenuta” del modello. Il
livello dei servizi socio - sanitari, per quanto disomogeneo nel territorio, è ancora di discreto livello,
con punte d’eccellenza nel settore sanitario65; per questo si tenta di mantenerlo così com’è
rimandando scelte di fondo assolutamente necessarie e improcrastinabili. Questa impostazione
risulta insostenibile, non solo economicamente, ma perchè non è in grado di promuovere obiettivi di
salute correttamente intesi e di affrontare, ma nemmeno percepire, i nuovi bisogni emergenti nella
società veneta. Inoltre l’incapacità di promuovere una strategia compiuta permette il
diffondersi di processi di privatizzazione striscianti - progressiva esternalizzazione di servizi
negli ospedali, cartolarizzazione degli edifici ecc.. - legati alla necessità del contenimento della
spesa affrontato senza ragionamenti sulle priorità e gli obiettivi da salvaguardare.
A parer nostro vi è urgenza della messa a punto di una vera e propria strategia di largo
respiro che identifichi i bisogni della comunità nel suo complesso, presenti e futuri, e, soprattutto, il
ruolo che il sistema sociale dovrà avere all’interno delle politiche di sviluppo locali pena la
progressiva riduzione del sistema del welfare a pronto soccorso - più o meno efficiente - dei casi
acuti ed estremi di sofferenza sociale. Le politiche sociali, da interventi marginali ed emergenziali
per alcune situazioni particolarmente critiche, devono divenire centrali orientando le politiche di
sviluppo locale. Occorre un punto di vista radicalmente diverso che non sia fondato sull’attesa
messianica che il circuito tra crescita economica, arricchimento, consumo risolva tutte le
problematiche sociali (sapendo che mai e da nessuna parte in realtà questo è successo). Bisogna
arrivare alla consapevolezza che questo paradigma è fallito nella misura in cui quel tipo di sviluppo
ha divorato la coesione e il capitale sociale della società.
40
occorre farsi carico delle forme di disagio dei cosiddetti “normali”: le trasformazioni socio
economiche, demografiche e culturali in atto hanno ormai ampliato l’area del disagio dei giovani
adulti e anziani aldilà delle forme note e conclamate sulle quali sino ad oggi si è modellata l’offerta
dei servizi e la formazione degli operatori.
Se l’obiettivo delle politiche di welfare è la promozione di cittadinanza, occorre definire la
cittadinanza come processo sociale, non come uno status di appartenenza, ma un concetto riferito
all’agire, non all’essere o all’avere: un processo che tende ad espandersi, a non escludere e a
costruire, una costruzione sociale e politica perennemente in corso 67. Nel campo del welfare e dei
servizi questo concetto implica il fatto che i servizi non trattano bisogni, carenze, deficit,
inadeguatezze ma le potenzialità, le capacità, i desideri, degli attori con cui il sistema interagisce per
allargare spazi di esercizio della capacità d’agire di ciascuno. Occorre liberare capacità d’azione per
le persone e possibilità di scegliere il proprio piano di vita e assumere il valore della persona e delle
scelte delle persone, ragionando intorno a questo per costruire politiche di libertà per tutti, che
promuovano l’autodeterminazione dei soggetti, tentando di eliminare quelle difficoltà che ne
ostacolano l’espressione.
Questo obiettivo costringe ad una diversa configurazione organizzativa dei servizi: da
strutture che rispondono a un bisogno a servizi come processi di attivazione e di organizzazione
sociale. In questo contesto occorre porre al centro le libere scelte di ciascuno (la possibilità di
compierle, cioè). Conseguenza di questo ragionamento è la necessità di sottrarre al dominio del
discorso giudiziario e penale fatti, comportamenti, abitudini che pensiamo debbano essere trattati
socialmente68. Tossicodipendenza, prostituzione, clandestinità sono condizioni che riguardano
cittadini e cittadine: loro dev’essere la scelta, e a loro si deve dare l’opportunità, di determinare il
proprio percorso di vita. Oggi si predilige la risposta repressiva, punitiva e regolamentativa:
pensiamo che si debbano elaborare politiche sociali che invertano decisamente questa tendenza con
l’obiettivo di restituire dignità, libertà e autodeterminazione ai soggetti.
Pensiamo inoltre che sia importante identificare parametri e indicatori per le valutazione
delle politiche sociali, come ci ricorda Lavinia Bifulco 69, “rispetto al grado in cui esse promuovono
la partecipazione dei cittadini alla vita sociale ed economica. La qualità sociale così intesa richiede
di misurare le politiche non solo riguardo gli outcomes ma anche con riguardo ai processi attraverso
cui esse si dispiegano e prendono corpo”. Terreno d’elezione per costruire l’integrazione tra le
politiche sono i contesti locali: ed è quindi attorno alla costruzione del welfare municipale, inteso
non come puro decentramento di funzioni, ma come costruzione di nuove dimensioni in grado di
favorire rafforzamento dei legami sociali, l’individuazione di tutti gli strumenti che contribuiscano
al “benessere” della comunità, al rafforzamento e, ove necessario, alla ritessitura di “legame
sociale”. Tutto questo implica un chiarimento nella definizione di sussidiarietà 70: affermata a livello
istituzionale, e riconosciuta a livello costituzionale (art. 118 della Costituzione), come
riconoscimento e responsabilizzazione dei livelli più bassi del governo rispetto alla tenuta e la
qualità della società locale; ma la sussidiarietà è anche cavallo di battaglia delle destre per la
ridislocazione delle problematiche sociali nell’ambito familiare e il conseguente abbandono dei
soggetti fragili alle logiche di mercato 71. Occorre svelare decisamente questa ambiguità affermando
un concetto di sussidiarietà per cui il governo locale si impegna a promuovere e valorizzare le
67
Ota de Leonardis, In un altro welfare, Milano, 1998
68
si veda a questo proposto l’appello e la proposta di legge conseguente promossa da Forum Droghe e da centinaia di
operatori del settore “Dal penale al sociale” in www.fuoriluogo.it
69
Lavinia Bifulco (a cura di), Il genius loci del welfare, Roma, 2003
70
per una interessante lettura sulle motivazioni politico culturali della revisione costituzionale che hanno portato
all’introduzione della sussidiarietà nel dettato costituzionale e sulle potenziali ricadute sociali si veda Giuseppe Cotturri,
Novità e portata progressiva della sussidiarietà orizzontale nella Costituzione italiana, in Gli argomenti umani, 9/2003
71
La retorica familista presente nel Piano regionale di sviluppo e nella proposta di Legge quadro sul welfare testimonia
tutto questo
41
capacità di autorganizzazione della società civile ma garantendo la natura pubblica – e quindi
pubblicamente discutibile oltre che accessibile- dei servizi e della loro modalità di erogazione.
Le sfide imposte dai cambiamenti
Un ragionamento sulle politiche sociali non può prescindere dal tentativo di mettere in
evidenza alcuni fattori di cambiamento e di sofferenza che attraversano la società veneta. La
società veneta, così come tutte le società “mature” dal punto di vista della crescita economica, vede
aumentare la differenziazione sociale, l’autonomizzazione dei diversi ambiti di vita, la
pluralizzazione dei ruoli e delle appartenenze sociali che mettono in evidenza l’affermarsi di
orientamenti soggettivi diversificati: questo scenario di crescente complessità produce un bisogno di
servizi ben più ampio e sofisticato di quello che era stato alla base dei vecchi sistemi di welfare 72.
L’impatto sociale negativo del modello di sviluppo si manifesta, in forme diverse, anche presso le
categorie “forti” della società veneta e non solo tra le classiche categorie del disagio (anziani,
tossicodipendenti, immigrati ecc..). Una recente indagine incentrata sul rapporto tra crescita
economica e qualità della vita svela tendenze importanti: “le persone continuano a lavorare,
secondo i ritmi frenetici imposti dalla locomotiva del Nord Est, sempre in marcia verso nuove mete.
Tuttavia inizia a serpeggiare una certa stanchezza. Un’ampia porzione della popolazione veneta,
friulana, giuliana - circa i tre quarti (74%) – sperimenta almeno qualche volta nella vita di tutti i
giorni, condizioni di stress” 73. E sono le stesse categorie del disagio che si sono fatte sempre meno
definibili secondo le categorie tradizionali: la devianza conclamata ha abbandonato la massiccia
visibilità in piazze e strade e si è insinuata nella vita quotidiana di un numero crescente di famiglie
normali. Sotto il profilo demografico e sociale, va registrata l’ulteriore conferma dei trend registrati
alla fine degli anni Novanta con il prolungamento della durata media della vita e la marcata
tendenza, nel nostro territorio in particolare, ad un progressivo invecchiamento della popolazione.
Tale processo demografico si accompagna al definitivo abbandono di quei modelli familiari che
assicuravano la tenuta di reti informali di assistenza e di cura: il trionfo della famiglia
mononucleare, con l’aumento dell’occupazione in attività extradomestiche di tutti i membri adulti
(donne e uomini) del nucleo, fa crescere il numero delle persone ultrasessantacinquenni che vivono
sole. Una maggiore speranza di vita significa anche un proporzionale aumento della popolazione
anziana affetta dalle patologie tipiche dell’invecchiamento e, pertanto, in condizioni di progressiva
perdita dell’autonomia individuale: cresce il numero degli anziani non autosufficienti, ma si allarga
anche il ventaglio delle “fragilità”. Questo dato non deve però condurre a conclusioni
deterministiche e allarmistiche: l’invecchiamento della popolazione se porterà di per sé un impatto
sulla spesa sanitaria, ma questo impatto potrà essere condizionato da politiche e innovazioni che
non per forza, anzi, debbano prevedere una flessione delle garanzie74.
L’ondata recessiva che, a partire dall’autunno 2001, ha investito tutte le economie
occidentali, insieme alle politiche economiche attuate dal Governo nazionale, fa sentire i propri
effetti proprio sui settori sociali meno abbienti e, tra questi, sui soggetti sociali più deboli. Le
crescenti difficoltà riguardano non solo soggetti e nuclei familiari “marginali” o “a rischio”, ma,
oltre a toccare quanti vengono ormai definiti come “working poor” (poveri nonostante siano
occupati), arrivano a lambire anche settori di quello che un tempo sarebbe stato definito “ceto
medio”- in Italia si calcola che sia circa il 12% la quota di coloro che, pur lavorando, gode di un
reddito che è al di sotto della soglia di povertà relativa 75 - dove l’imprevisto manifestarsi di
condizioni di fragilità e il conseguente venir meno di una delle fonti di reddito finora garantite,
rischia di trascinare l’intero nucleo familiare sotto la soglia statistica di povertà 76. Occorre pensare
72
Paolo Calza Bini (a cura di), Lo stato sociale in Italia, Roma, 2001
73
Fabio Bordignon, in Fondazione Nord Est, Nord Est 2003, Rapporto sulla società e l’economia, Venezia 2003
74
Per un introduzione a questo tema, spesso oggetto di sbrigative quanto inesatte conclusioni, si veda Aldo Piperno,
avremo le risorse per curarci ?, in Economia e lavoro, 1/2002
75
Andrea Fumagalli, Quale reddito di cittadinanza ?, in www. sbilanciamoci.org
76
Almeno un terzo dei lavoratori dipendenti dei più diffusi settori industriali potrebbe essere a rischio povertà, un altro
terzo addirittura già in gravi difficoltà: questo il risultato di uno studio della Cgil di Treviso, che ha preso in esame
42
inoltre all’impatto che avranno, per il prossimo futuro, pensioni sempre più basse non in grado di
assicurare ai lavoratori un reddito adeguato nel periodo successivo al pensionamento 77. Una ricerca
della Caritas evidenzia “l’esistenza nel Nord - Est di un numero difficilmente trascurabile di
persone che non vivono in condizioni di semplice povertà in senso relativo, definite cioè rispetto
agli standard medi di vita della popolazione locale, bensì in condizioni di grave deprivazione, che in
non pochi casi assumono configurazioni estreme e ne mettono a repentaglio la possibilità di
condurre una vita sana e prolungata, oltre che socialmente significativa.” 78. Tale situazione impone
la necessità di ripensare, complessivamente, le politiche e gli strumenti di intervento sulle “vecchie
e nuove” povertà, sul medio-lungo periodo, nella prospettiva di un “reddito di cittadinanza” in
grado di garantire un esistenza dignitosa ad ogni cittadino (vedi politiche del lavoro →).
“Sempre più anziani, sempre più poveri, sempre più soli”, dunque, se ci fosse permessa
un’estrema sintesi del quadro che abbiamo di fronte.
I cardini di una politica verde per il welfare
Proponiamo alcune linee d’indirizzo che dovrebbero informare una nuova Legge Regionale
sul welfare. Quella proposta dalla giunta Regionale è essenzialmente inemendabile, e una revisione
del Piano dei servizi alla persona79 che, pur tra mille ombre, è suscettibile di un lavoro di
implementazione. Tutto questo bene sapendo che le trasformazione non possono essere “decretate”
ma occorre, oltre che promuovere leggi, regolamenti e circolari, attivare processi coinvolgenti e
profondi tra gli attori delle politiche.
Promozione locale della salute
L’adozione e la promozione di metodologie quali quelle definite nel Progetto “Città sane”,
promosso dall’Organizzazione Mondiale della sanità, dovrebbe vedere la Regione come importante
centro propulsore e coordinatore in tutte le realtà locali che volessero intraprendere tale progetto.
Proponiamo la costituzione di una struttura di consulenza a supporto dei Comuni per la promozione
di Progetti complessi aventi la Promozione della salute come obiettivo strategico. Promozione
locale della salute sembra ragionevole che implichi oltre al riorientamento delle risorse e
dell’offerta, decentrandole molto più fortemente di quanto finora non sia accaduto, il riorientamento
dell’attenzione dall’acuzie alle aree ad altra integrazione siano esse rappresentate da anziani
bambini, donne, portatori di patologie di lunga durata,di cronicità vere o prodotte. Riorientamento
dell’attenzione e delle risorse da servizi residenziali a servizio della persona, da centri di
riabilitazione a servizi riabilitativi integranti nel territorio, da servizi a bassa tecnologia ospedaliera
a servizi distrettuali.
Il Progetto “Città sane” può rappresentare un autentico strumento di riequilibrio del sistema di
welfare attraverso la definizione di un quadro di riferimento caratterizzato dai seguenti elementi:
1. centralità del cittadino nel definire i bisogni di salute della comunità locale, con relativa
necessità di rafforzare i sistemi definiti di assistenza primaria.
2. equità, accessibilità ai servizi e superamento dell’esclusione sociale come fattori
discriminanti per un sistema di tutela e promozione della salute che vuole avere un valore
universalistico e non speculativo, che pone come tratto prioritario sistemi di tutela
comunitari e solidaristici.
4.905 lavoratori dei settori legno, metalmeccanico, tessile e commercio, tutti inquadrati nel IV livello (circa il 30% degli
addetti), occupati in 13 aziende tra le maggiormente rappresentative dei vari settori in provincia. Si tratta di soggetti con
un numero di anni di anzianità aziendale pari a 6 anni o inferiori, collocabili in una fascia di reddito netto compreso tra i
10 mila ed i 15 mila euro annui.
77
Angelo Marano, Avremo mai la pensione ?, Milano, 2002
78
Alessandro Castegnaro, Persone in grave povertà nel Nord Est del benessere diffuso, in Studi Zancan, 2/2003
79
lo strumento prioritario che la legge assegna alle Regioni per l’assolvimento delle funzioni loro attribuite: ha lo scopo
di favorire la definizione di politiche integrate, in materia di interventi sociali, sanitari, dell’istruzione, della formazione
professionale e del lavoro, e di indicare modalità di collaborazione e coordinamento con gli Enti locali e con i soggetti
operanti nel terzo settore
43
3. cooperazione intersettoriale: proprio per il carattere universalistico della salute, come
prima descritto, è evidente che uno dei maggiori ostacoli ad un’azione efficace è
rappresentato dalla tendenza a confinare un sistema complesso all’interno di letture
riduttive con relativa concentrazione di risorse e poteri nell’ambito di aree ristrette di
azione , quale si configura a scopo esemplificativo quella medico sanitaria.
4. processi di pianificazione fondati sull’evidenza e sulla partecipazione.
44
strategico ridefinire nuovi diritti del lavoro. Sarà importante recuperare al sistema formativo e delle
tutele sociali quelle figure – in primis le “badanti”- oggi abbandonate al sistema di mercato,
attraverso strumenti quali quelle dell’Agenzia sociale del lavoro domestico 82. Il ricorso sempre più
consistente a rapporti di lavoro precario e per ciò stesso a qualificazione discutibile, oltre a
rappresentare un problema per la persona, contribuisce alla strategia generale della maggioranza di
centro-destra di dequalificare, prima, le strutture pubbliche per determinare, poi, l'avanzamento di
processi di privatizzazione del sistema.
I Comuni al centro
Partiamo dalla consapevolezza che, come ci ricordano David Benassi e Enzo Mingione,
“l’impronta locale dei meccanismi di produzione del bisogno e dei modelli d’implementazione delle
politiche assistenziali, impone di attribuire ampi margini di autonomia al livello di intervento
operativo, vale a dire ai comuni”83. Occorre eliminare gli elementi di “confusione” oggi presenti
nella ripartizione delle funzioni tra ente regionale e comuni. La Regione deve assumere una
funzione di natura prettamente regolativa. L’estromissione dei comuni dalla gestione della sanità e
l’attribuzione, obbligatoria, alle ULLSS delle competenze in materia di servizi alla persona, sanitari
e sociali ha contribuito ad affievolire i legami tra servizi socio – socio assistenziali e servizi sanitari
e il ruolo giocato dalle ULLSS rischia di soffocare e annullare nei propri compiti meramente
gestionali il lavoro tecnico-politico di costruzione della rete locale e di realizzazione della
sussidiarietà o, peggio, con lo svolgere in modo surrettizio un ruolo politico alle dirette dipendenze
di centri di potere lontani (Regione) o poco trasparenti84.
I processi decisionali legati all’obiettivo di spostare le risorse dall’ospedale al territorio - per
citare un processo che sta mobilitando importanti risorse ed energie - devono essere governati con il
concorso diretto degli enti locali, altrimenti continueremo ad assistere allo scaricarsi sul comune
degli oneri legati alla dismissione dei degenti dagli ospedali. L’accentramento regionale dei compiti
di accreditamento è un passo importante, quanto grave, nello spogliare i Comuni delle funzioni
centrali che la legge gli riserva. In questo senso è importante riprendere, e difendere, la lettera e lo
spirito della Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali n.
328/2000, e garantirne la piena applicazione. Anche a dispetto di recenti, contraddittorie, scelte
politiche nazionali e regionali, risulta evidente, alla luce della normativa vigente, il ruolo centrale e
forte che il Comune gioca all'interno dell’intero sistema di welfare. Occorre rilanciare il ruolo di
sostegno della Regione attraverso l’istituzione di un servizio di consulenza e supporto ai Comuni -
da non confondersi con il burocratico controllo - sia nel momento centrale della redazione dei Piani
di Zona sia continuativamente nella gestione e nella formazione.
Nel Piano regionale per i servizi alla persona si ipotizzano forme organizzative sperimentali
che vedono la creazione di un nuovo soggetto gestionale a partecipazione comunale: pensiamo
possa essere un buon inizio a patto che si configuri un forte potere d’indirizzo e di governo da parte
dell’ente locale e nello stesso tempo lo sviluppo di una partnership fondata sulla suddivisione di
compiti e funzioni. L’integrazione tra sanitario e sociale, la diminuzione della spese ospedaliera e il
contestuale investimento nei servizi territoriali, di prevenzione e promozione della salute deve
vedere il Comune al centro del processo decisionale. Occorre valutare l’esperienza toscana -
individuando le modalità di adattamento alla realtà veneta - dove il Piano sanitario regionale 2002-
2004 introduce la sperimentazione della c.d. “società della salute”, un’istituzione alla quale
partecipano sia il comune che l’azienda sanitaria e nella quale il comune non assume solo funzioni
di programmazione e controllo, ma “compartecipa” ad un governo comune del territorio finalizzato
82
vedi l’esperienza di Biella descritta in Animazione Sociale 10/2003 ma possiamo ricordare l’iniziativa della Regione
Liguria “Lavoro DOC” di sostegno e formazione, vedi Paola Piva, Partire dalle famiglie per riorganizzare i servizi
pubblici in Animazione Sociale 12/2003
83
David Benassi, Enzo Mingione, Welfare locale, lotta all’esclusione sociale e riforma delle assistenza in Italia, in
Economia e Lavoro, 1/2002
84
Franco Dalla Mura, Dove stanno andando i servizi, in Animazione Sociale, 10/2003
45
ad obiettivi di salute e diviene, a tutti gli effetti, “cogestore” dei servizi socio - sanitari territoriali 85.
La responsabilizzazione dei Comuni nel governo strategico delle risorse, sia umane che finanziarie
avrebbe il significato di una reale applicazione del federalismo contrastando la riproposizione a
livello regionale del centralismo.
Cittadinanza e lavoro
La nuova frontiera con cui il sistema di welfare, anche a livello regionale, dovrà confrontarsi
riguarda la profonda trasformazione del mondo del lavoro, il dilagare della precarietà,
l’indebolimento dell’identificazione dei soggetti con il lavoro: tutte queste trasformazioni
richiedono sistemi di protezione sociale molto più sofisticati di quanto non siano quelli di oggi
(vedi politiche del lavoro)87. Il sistema dell’assistenza in Italia riflette una logica di accesso alle
prestazioni che finisce per penalizzare coloro che non hanno un rapporto continuativo con il
mercato del lavoro e che non rientrano in una delle categorie alle quali viene riconosciuto il diritto
di ricevere sostegno monetario. In tale contesto ciò che ha maggiormente distinto l’Italia dagli altri
paesi europei è la mancanza di uno strumento di garanzia del livello minimo di reddito che non sia
85
Regione Toscana, Piano sanitario regionale 2002-2004
86
tratti dalla ricerca “Welare urbano e standard urbanistici” pubblicata in Lavinia Bifulco (a cura di) Il genius loci del
welfare, Roma, 2003
87
vedi il numero monografico di L’Assistenza Sociale 1/2/2003 su “L’ambigua nozione di flessibilità”
46
soggetto a vincoli categoriali o di meritevolezza: per questo s’impone la necessità di pensare,
guardando all’iniziativa già attuata della Regione Campania, alla prospettiva di un “reddito di
cittadinanza” in grado di garantire un esistenza minimamente dignitosa ad ogni cittadino.
Questo nuovo modo di intendere il welfare come diritto a un basic income (reddito universale di
base), sembra lontano dalla nostra realtà politica quotidiana ma è in realtà prefigurato dalla Carta
dei Diritti Europea recentemente approvata. L'articolo 34 infatti afferma: "Ogni individuo che
risieda o si sposti legalmente all'interno dell'Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e
ai benefici sociali (…). Al fine di lottare contro l'esclusione sociale e la povertà, l'Unione riconosce
e rispetta il diritto all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa volte a garantire un'esistenza
dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal
diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali". Va sottolineato come le prestazioni non
siano espressamente vincolate alla cittadinanza (sembrerebbero rientrarvi quindi anche i cittadini
extracomunitari residenti in Europa) e che non sono citati vincoli espliciti alle erogazioni.
Welfare e innovazione
La Regione dovrà promuovere nella programmazione locale la sperimentazione di interventi
innovativi. Le direttrici per l’innovazione descrivono i criteri progettuali, di organizzazione e di
funzionamento della rete - anche con l’obiettivo di consolidare e rafforzare le leggi innovative sulle
politiche sociali - possono essere così definite:
1. partecipazione attiva delle persone nella definizione delle politiche che le riguardano;
2. integrazione degli interventi nell’insieme delle politiche sociali, mobilitando a tal fine tutti gli
attori interessati e prevedendo una strategia unitaria per l’integrazione sociosanitaria;
4. potenziamento delle azioni per l’informazione, l’accompagnamento, gli sportelli per la
cittadinanza;
5. sviluppo degli interventi per la domiciliarità e la deistituzionalizzazione;
6. interventi per favorire l’integrazione sociale, sviluppo delle azioni e degli interventi per la
diversificazione e la personalizzazione dei servizi e delle prestazioni sociali;
Strumenti
Piano integrato per la cittadinanza sociale
Pensiamo alla promozione di un piano integrato per la cittadinanza sociale - fortemente
interconnesso sia con il Piano Regionale per i servizi alla persona, sia con i diversi Assessorati
47
competenti - che si ponga l’obiettivo di riordinare diversi interventi, flessibili e adattabili alle
diverse realtà locali, aventi come finalità la promozione della cittadinanza nella direzione della
“capabilità”, della competenza sociale, della presa in carico comunitaria. Il Piano dovrebbe avere
come punti qualificanti:
- l’istituzione di una rete di formazione, sostegno e scambio delle buone prassi innovative in
campo di promozione di cittadinanza sociale
- sostegno alla generalizzazione dei bilanci di sostenibilità sociale e partecipativi degli Enti
Locali
- promozione, presso gli Enti Locali, di strumenti di lettura e di valutazione dell’impatto
sociale delle azioni amministrative
- formazione dei funzionari e dirigenti delle amministrazioni, degli operatori sociali del
pubblico e del privato sociale sul tema della promozione di comunità
- politiche di sostegno all’imprenditoria sociale e ambientale a carattere innovativo
- consulenza e promozione, in collaborazione con i diversi servizi, di elementi innovativi e di
promozione sociale nei diversi progetti di competenza regionale e comunale
- un Piano regionale, integrato con il Piano dell’Offerta Formativa, per la formazione alla
cittadinanza attiva e consapevole.
Carta per la cittadinanza sociale
Pensiamo alla carta per la cittadinanza sociale come strumento per potenziare la partecipazione
dei cittadini, l’esercizio di una cittadinanza attiva nell’ambito dell’accesso ai servizi sociali
attraverso la conoscenza dei servizi sociali esistenti e dei diritti che devono essere riconosciuti nelle
situazioni di bisogno sociale della vita quotidiana. La carta definisce, documenta, e regola i diritti ed
i doveri dei cittadini, delle amministrazioni, e delle organizzazioni della società civile. Per questo
occorre porre attenzione al percorso per l’adozione della Carta per la cittadinanza sociale.
Livelli di cittadinanza sociale
Occorre definire livelli ulteriori e più specifici rispetto a quelli indicati nel piano nazionale, e
diversificati a livello territoriale, frutto di processi partecipativi di elaborazione. I livelli essenziali
così individuati dovrebbero andare a far parte integrante delle Carte della cittadinanza sociale. Un
processo partecipativo locale che influisca sui livelli di assistenza trasformandoli in livelli di
cittadinanza sociale da assicurare al territorio. I criteri di definizione dei livelli di cittadinanza
dovranno essere: il finanziamento, le modalità di erogazione dei servizi, indicatori di epidemiologia
sociale che documentano l’effettiva tutela dei diritti di cittadinanza. Lo strumento dei Livelli di
cittadinanza sociale dovrebbero quindi ribaltare la logica, adottata dalle regioni contraddicendo lo
spirito della legge88, dei livelli essenziali di assistenza intesi come standard minimi in relazione alle
risorse disponibili, concependosi come un processo che individua sia le fonti di finanziamento e gli
standard di erogazione delle prestazioni, ma anche le modalità di accesso, l’efficacia
dell’intervento, gli elementi per la realizzazione di un percorso assistenziale attivo. In questo modo,
i Livelli di cittadinanza sociale, divengono strumenti in mano ai Comuni per governare l’evoluzione
dei servizi e non una semplice modalità di ripartizione della spesa.
Risorse
Siamo in presenza di un quadro generale di riduzione di risorse e di abbandono di fasce sempre
più elevate di "soggetti deboli": in termini reali una quota crescente di oneri si va spostando
direttamente sugli utenti o sulle loro famiglie, con contestuale disimpegno della Pubblica
Amministrazione. Considerare le risorse per il welfare una spesa è una decisione politica ed
ideologica precisa: pensiamo sia corretto invece definire investimenti, e farne discendere così le
opportune decisioni, le risorse dedicate al benessere e alla coesione sociale delle comunità. Per
questo va marcata una inversione di tendenza: congelare ad una data certa la percentuale di
incidenza, adeguata alla media europea, delle risorse per il welfare sul totale delle spese correnti di
88
Nerina Dirindin, I livelli essenziali di assistenza, la spesa sociale e l’articolo 119 della Costituzione, Legautonomie,
Atti del convegno, 24 giugno 2003, Roma
48
Regione, Province, Comuni, dando quella percentuale come soglia minima invalicabile, da
rendicontare separatamente in sede di consuntivo, e da considerare al netto della partecipazione
degli utenti e delle loro famiglie. Inoltre è importante qualificare gli investimenti nel sociale in base
a delle scelte strategiche: occorre privilegiare i servizi territoriali di promozione e a bassa soglia
rispetto alle grandi strutture che, aldilà delle dichiarazioni d’intenti, rimangono privilegiate
nell’allocazione delle risorse. Un ragionamento dev’essere fatto sul ruolo delle Fondazioni bancarie,
che ai sensi del D. L.vo n°153/1999, artt.1 e 2, sono persone giuridiche private di diritto privato
senza scopo di lucro, e i cui statuti individuano gli “scopi di utilità sociale e di promozione dello
sviluppo economico” da perseguire, perchè siano parte attiva integrativa nel finanziamento pubblico
dei progetti, individuati a livello locale, in grado di realizzare i livelli essenziali di prestazione 89.
Occorre inoltre, coerentemente con il modello municipalista da noi proposto, trasferire ai comuni,
sulla base di indicazioni programmatica generali indicate dalle regioni, il Fondo sociale regionale
oggi gestito centralisticamente dalla regione. Nella consapevolezza che le problematiche sociali e
sanitarie della non autosufficienza rappresenteranno per il futuro un impegno significativo anche sul
piano finanziario, ci sembra importante che la Regione Veneto promuova la costituzione di un
Fondo apposito90.
Piano regolatore del sociale
Al fine di promuovere una reale integrazione delle politiche a livello territoriale che assumano
la necessità di coordinare politiche formative, del lavoro, abitative, urbanistiche, pensiamo che vada
promossa e supportata da parte della regione l’adozione, da parte dei comuni, del Piano Regolatore
Sociale, già in via di sperimentazione in alcune realtà urbane, quale strumento principe per il
ridisegno del sistema locale del welfare urbano. Il Piano Regolatore sociale assumerà
principalmente la funzione di orientare le politiche sanitarie, urbanistiche, della scuola,
dell’ambiente, dei tempi, affinché gli interventi sociali non rimangano confinati nella sfera
assistenziale senza una reale integrazione con le politiche complessive.
Accreditamento
Occorre superare le modalità “tutto tecnico - organizzativa, prestazionistica e centrata su
criteri di tipo mercantile” degli accreditamenti denuncia la Caritas. L'accreditamento è la
certificazione che un soggetto erogatore di servizi, terzo settore, impresa profit ma anche pubblico,
deve avere per poter entrare a far parte di questa rete e quindi stipulare contratti con la pubblica
amministrazione. È evidente che il nuovo sistema richiederà una accresciuta capacità di verifica e di
controllo, oltre che sull'accesso ai servizi in termini di appropriatezza, sul possesso e mutamento dei
requisiti di qualità nonchè sulla appropriatezza delle prestazioni. L'attività di vigilanza è destinata a
svolgere un ruolo crescente di promozione e stimolo nei riguardi dei soggetti gestori pubblici e
privati con la funzione di migliorare l'offerta dei servizi. Essa deve prefigurare un sistema misto di
carattere ispettivo sanzionatorio, da un lato, e di carattere consultivo e promozionale dall'altro,
fornendo anche attività di consulenza tecnica per il raggiungimento degli obiettivi assistenziali
fissati in sede di determinazione dei requisiti di qualità dei servizi. I criteri che si dovranno definire
per l’accreditamento dovranno prefigurare un insieme di azioni positive che garantiscano una
qualità dei servizi che assicuri l’eguaglianza e l’equità nell’accesso, e che abbia al centro la
personalizzazione del processo, la partecipazione della persona alle scelte che lo riguardano, la
globalità della presa in carico tramite l’integrazione professionale e delle risorse presenti nella
comunità, l’appropriatezza organizzativa e metodologica degli interventi, la valutazione della
soddisfazione degli utenti91. Occorre riscrivere la Legge regionale 16 agosto 2002, n. 22 che norma
89
Esemplare l’esperienza della Fondazione Manodori di Reggio Emilia che, oltre ad essere protagonista di iniziative
innovative nel campo del welfare locale, ha impostato una stretta collaborazione e sinergia d’azione con gli Enti locali:
Mauro Bigi, Sussidiarietà e territorio nell’esperienza della Fondazione Manodori, in Gino Mazzoli (a cura di), Il welfare
come leva dello sviluppo locale, Reggio Emilia, 2003
90
La Cgil Veneta ha, a questo proposito, elaborato una prposta dettagliata: Cgil, Un fondo regionale per la non
autosufficienza, 2004 in www.cgil.it/veneto
91
Diana Mauri, Abitare, in Lavinia Bifulco (a cura di)Il genius loci del welfare, Roma, 2003
49
l’accreditamento dando centralità al Comune nel processo di accreditamento e precisando il
concetto di qualità sociale. La costruzione in sede locale dei criteri in un quadro di riferimento
regionale, con la partecipazione di tutti i soggetti che hanno interesse al sistema qualità dei servizi
evita il rischio che l’accreditamento divenga una pratica burocratica da espletare.
Bonus
L’uso indiscriminato dello strumento del bonus può rappresentare il grimaldello attraverso il
quale si vuole attuare meccanismi mercantili logiche di mercato nell’organizzazione e ridisegno del
sistema dei servizi sociali regionali. La Giunta regionale non maschera le sue intenzioni: “con
l’introduzione dei bonus (articolo 20 Testo Unico per le politiche sociali) si intende migliorare la
qualità delle prestazioni, promuovere assistenza privata, regolare ed aumentare il numero delle
famiglie che si affacciano nel mercato sociale regolato dall’ente pubblico”. Noi proponiamo una
introduzione dei bonus calibrato solo sulle persone in grado di effettuare scelte autonome e inteso
come integrazione, non sostituzione, dei servizi. Accanto all’introduzione dei bonus proponiamo il
budget di cura che prevede una regia pubblica nella predeterminazione di un pacchetto obiettivi-
risorse calibrati e progettati su scala individuale coniugando risorse dei soggetti, delle famiglie, del
contesto sociale, del privato sociale, del pubblico, negoziando con i soggetti interessati,
riconvertendo tra le altre ingenti risorse finora attribuite a istituzioni spesso totalizzanti, a
riabilitazione infinita e in genere improbabile. Le forme di gestione dei budget di cura prevedono la
corresponsabilizzazione del privato profit e non profit, delle famiglie e dei soggetti, del volontariato
e dell’associazionismo, capitalizzando legami ed investendo su un ulteriore capitalizzazione degli
stessi.
Accesso
Proponiamo l’attivazione nei Comuni, in accordo con le USL, dello sportello unico per
l’accesso al sistema locale dei servizi socio-assistenziali, socio-sanitari, socio-educativi: uno
strumento importante per facilitare i cittadini a fornire informazioni e orientamento sui diritti, le
opportunità sociali e le risorse. Lo sportello svolgerebbe quindi funzione di ascolto, informazione,
orientamento attivando poi i competenti servizi per la presa in carico.
Piani di zona
Il Piano di Zona deve divenire occasione per veicolare una impostazione nel governo delle
politiche sociali orientata alla sussidiarietà nella logica di fornire autonomia e “empowerment” ai
territori, con una funzione regionale di indirizzo, stimolo, accompagnamento e promozione del
miglioramento continuo. “È infatti proprio nella costruzione di una funzione di pianificazione
diffusa a livello di comunità locale che si gioca buona parte del successo della riforma” scrive il
Formez92. Ma perché questo avvenga occorre che la Regione investa nella promozione e
nell’incentivazione della funzione programmatoria livello locale attraverso la predisposizione di
figure di promotori sociali e con la costituzione di un Ufficio di Piano per sostenere l’attuazione e la
predisposizione dei Piani locali.
Esternalizzazione dei servizi
Una parte consistente dei servizi sociali viene gestita, nella nostra regione, in convenzione
da cooperative sociali. Questa realtà e sì frutto di una tradizione sociale cooperativistica e
mutualistica ma è anche la ricaduta di un forte contingentamento della spesa pubblica e quindi della
necessità, per gli enti locali, di esternalizzare i servizi per riuscire a “far quadrare” i magri bilanci.
Occorre rivedere gli strumenti dell’esternalizzazione, cioè lo schema di convenzione e gli
strumenti di attuazione, al fine di:
- garantire agli utenti la possibilità di portare il loro punto di vista nella verifica del servizio
- garantire la formazione degli operatori
- garantire spazi effettivi di coprogettazione e verifica93 con i responsabili dell’ente pubblico
- garantire i soci delle cooperative dal punto di vista dei diritti e della qualità del lavoro
92
Formez, L’attuazione della riforma del welfare locale, Roma 2003
93
Facciamo riferimento alla metodologia dialogica alla valutazione vedi Studio APS, Spunti 7/2003
50
- promuovere il lavoro di rete e l’apertura al territorio
- promuovere la soggettività dei destinatari
La definizione di nuove modalità impone, ovviamente, una riflessione attenta sui problemi
legati a queste forme di collaborazione tra soggetti pubblici e del privato sociale: problemi che
inevitabilmente sono legati alla crescita qualitativa dei bisogni, alla crescita professionale degli
operatori pubblici e privati, alla reale diffusione di una cultura della trasparenza e della qualità che
fino ad oggi non ha sempre contraddistinto il settore sociale
Contratto “città buona” o “quartiere buono”
Le esperienze a tutela dell’infanzia maturate a seguito dell’emanazione della L. 285, e dai
contratti di quartiere, l’avvio della progettazione sociale nell’ambito dei programmi dei patti
territoriali, la crescita degli interventi finanziati dalla UE per le donne e i giovani a rischio mostrano
finalmente un livello più elevato della programmazione sociale a livello comunale. Crescono le
esperienze di progettazione sociale che si incanalano nei percorsi di sviluppo locale: in sostanza,
dalla cultura dei servizi alla persona alla cultura dei servizi per lo sviluppo locale. Occorre
supportare questa tendenza. Proponiamo quindi l’istituzione di una cabina di regia regionale per la
promozione di un Programma integrato "Città buona" o "contratto quartiere buono", di durata non
meno che decennale, che veda nella struttura regionale il compito di:
- indirizzare e implementare le risorse con la predisposizione di linee di finanziamento ad hoc
- l’indicazione di linee generali per la presentazione di progetti da parte dei Comuni
- attività di supporto e consulenza per al progettazione e l’avvio dei progetti nelle diverse realtà
Alle realtà locali il compito di individuazione, costruzione e attuazione dei progetti.
51
del paziente. In questo quadro gli ospedali devono costituire une rete integrata di presidi
caratterizzati da una diversa intensità di cura e specializzazione, ma comunque sempre finalizzate al
massimo livello di qualità. La riorganizzazione della rete ospedaliera deve essere supportata da una
analisi approfondita, non economicistica, della possibile utilizzazione del patrimonio esistente; più
sedi ospedaliere comportano certamente maggiori costi di gestione, ma la diffusione nel territorio è
patrimonio acquisito; va salvaguardato il policentrismo del nostro sistema sanitario, una sanità
vicina ai bisogni della gente, la garanzia di requisiti uniformi di qualità e sicurezza per i cittadini 95.
La strada maestra non è quella dei tagli, ma una vera programmazione e riorganizzazione della rete
ospedaliera, partendo dal nostro modello policentrico, e per realizzare con un Piano Socio-Sanitario
e con il Piano Sociale Regionale un nuovo assetto e una forte integrazione socio sanitaria quale
componente decisiva del sistema di welfare locale. Riteniamo vada perseguita la riconversione di
risorse finanziarie e umane e di strutture in un disegno complessivo che ha come obiettivo la
centralità della prevenzione, il potenziamento e la qualificazione dell'assistenza primaria e
territoriale, l'avvio di politiche di riorganizzazione solo in presenza di progetti di riconversione delle
risorse, nonché di nuove dotazioni finanziarie destinate ad investimenti per attrezzature e strutture.
Assumiamo la centralità del territorio e del distretto come asse strategico della nostra
proposta politica. Centralità del sistema territoriale-distrettuale, intesa come luogo nel quale si
intercettano i bisogni, si interpreta il bisogno di assistenza, si individuano le fonti del disagio, si
incontrano la programmazione sociale e quella sanitaria; si portano i servizi vicino alle persone e ai
loro bisogni in forma partecipata; si supera l'approccio alla politica sanitaria intesa solo come
produzione ospedaliera e di posti letto: si afferma compiutamente il diritto alla salute e al benessere.
Questa pensiamo sia una reale applicazione del pensiero federalista 96: superare la concezione dei
“pacchetti di prestazioni” uguali su tutto il territorio e in tutte le realtà per rispondere ai bisogni
effettivi di salute; altrimenti il potere agli enti locali vengono impiegati solo per decidere che cosa
tagliare. La necessaria continuità tra la cura dell'episodio acuto e la riabilitazione deve rientrare
formalmente nei protocolli diagnostico-terapeutici e nel percorso assistenziale di ogni paziente.
Occorre promuovere prioritariamente (secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità) la continuità assistenziale fra Ospedale e territorio per garantire il recupero e la
riabilitazione. I reparti di lungo-degenza per la stabilizzazione dei quadri clinici, i reparti di
riabilitazione estensiva, i centri di cure territoriali e gestiti in collaborazione con i medici di
medicina generale, rappresentano strutture importanti su cui investire in termini di risorse, nuovi
modelli organizzativi e professionalità elevate. Solo in questo modo è possibile dare una risposta
adeguata e credibile ai bisogni di certezze e sicurezza espresse dai cittadini, che altrimenti rischiano
di veder sparire gli ospedali cui essi hanno storicamente fatto riferimento, in assenza di risposte
alternative adeguate.
95
È inoltre da segnalare che la razionalizzazione della rete ospedaliera privilegiando i grandi ospedali rispetto ai piccoli
contrasta con le nuove tendenze che vedono proprio nei piccoli ospedali luoghi dove poter assicurare livelli di qualità
migliori. Si vedano le conclusioni del Progetto di ricerca “Principi guida tecnici, organizzativi e gestionali per la
realizzazione e gestione di ospedali ad alta tecnologia e assistenza” in www.ilbisturi.it
96
Si veda Ivana Cavicchi, Salute e federalismo, Torino, 2001
52
di ognuno, in particolare, di quanti programmano, ai diversi livelli di competenza e di responsabilità
loro affidate, le attività sociali e sanitarie per la promozione della salute.
Sui luoghi di lavoro il tema salute e sicurezza risulta, in un sempre maggior numero di casi,
assolutamente residuale: il modello Veneto della piccola impresa, del lavoro flessibile, della ricerca
dell’abbattimento del costo del lavoro sembra rappresentare il terreno più esposto. Il quadro dei
rischi che mina la salute alimentare è ampio e grave ed una parte minima è rappresentata dalle
sempre più diffuse intolleranze, dall'aumento dei soggetti obesi nella popolazione, dal crescente
numero di anziani con patologie da alimentazione, per non parlare delle forme acute, più facilmente
individuabili. Nulla si sa sui rischi a lungo termine derivanti dalle manipolazioni biochimiche, di
più recente introduzione; su quelli relativi agli agenti introdotti nelle colture per la concimazione e
per la lotta agli infestanti, nonché su quelli usati per la conservazione e il trasporto dei prodotti.
Il rilancio degli obiettivi di prevenzione deve coinvolgere la totalità del sistema, e non solo
questo o quel servizio: non si tratta perciò di creare nuovi servizi, ma di immaginare pacchetti di
prestazioni appropriati e percorsi unitari di accesso ed erogazione di cui siano responsabili unità
territoriali professionalmente adeguate alla complessità del bisogno. Occorre un investimento nei
dipartimenti di prevenzione perché allarghino gli ambiti di pertinenza e d’intervento nell’area
dell’epidemiologia e della comunicazione per la salute. Occorre un rafforzamento, in modo
trasversale, soprattutto delle competenze nei campi dell’epidemiologia, delle malattie infettive,
della tossicologia e della salute ambientale, della comunicazione del rischio, dell’accreditamento e
miglioramento della qualità e della formazione.
Nuovi distretti
I distretti socio – sanitari devono divenire il perno dell’integrazione e della programmazione
socio – sanitaria territoriale. I distretti si dovranno configurare non tanto come delocalizzazioni dei
servizi ma come area di confine in cui istituzioni e società autorganizzata si congiungono con
l’obiettivo della lotta all’esclusione sociale e il miglioramento della qualità dei servizi, attraverso
l’identificazione dei bisogni, la ricerc-azione, la valutazione partecipata e la promozione di
comunità. I nuovi distretti dovranno definirsi come strumento di evidenziazione del fabbisogno,
di autogestione e di accesso ai servizi sociali, sanitari, educativi, ricreativi ecc…e contestualmente
promuovere la partecipazione dei cittadini alla sua programmazione e alla sua gestione.
Questa trasformazione, da un distretto inteso come organizzazione fondata sulla produzione
di prestazioni a quella di un distretto luogo della presa in carico delle persone, deve associarsi a un
assetto aziendale e a un’impostazione di programmazione regionale coerenti, che facilitino e
favoriscano questo ruolo e questa funzione.
Per questo occorre definirne le rinnovate funzioni
- il distretto governa l’assistenza: è responsabile della tutela della salute delle persone di un
determinato territorio, non solamente della cura della malattia delle persone ivi residenti. Legge i
bisogni, li trasforma in domanda, definisce l’offerta per rispondervi.
- Il distretto non è solo sanità: al suo interno le prestazioni di carattere sanitario si integrano e si
armonizzano con le prestazioni di carattere sociale, per un approccio globale e un supporto alla
persona a tutto campo.
- Il distretto tipicamente adotta approcci, valutazioni e interventi multidisciplinari: solo così si
possono ottenere risposte soddisfacenti, risultati più duraturi per i problemi «complessi» che il
distretto è chiamato ad affrontare.
- Il distretto è un percorso di salute: deve prendersi in carico la persona in maniera globale. Ne
deriva che il bisogno di assistenza non può essere scomposto e frammentato in tanti tasselli quanti
sono i problemi, con risposte isolate e prestazioni inevitabilmente scoordinate tra di loro, talora
contrastanti o discontinue.
- Il distretto diventa un’articolazione della società: contribuisce ad arricchire e garantire alla
persona il pieno sviluppo della propria personalità, specialmente se colpita da fattori che ne limitano
53
le potenzialità (malattia, stati di fragilità: età anziana, disabilità, malattie - soprattutto croniche di
lunga durata e progressivamente invalidanti -, condizioni di rischio, ecc..).
- Il distretto per la sua complessità richiede una managerialità direzionale. L’organizzazione del
distretto si basa sulla precondizione di aver definito: mandato, funzioni proprie, linee gerarchiche,
responsabilità. È dotato (come anche sancito nella riforma ter) di autonomia tecnico-gestionale ed
economico-finanziaria.
54
cultura formazione conoscenza
Per una società della conoscenza
Le trasformazioni che hanno attraversato il nostro territorio hanno assunto i connotati di una
“apocalisse antropologica”97. Sono velocemente venute a mancare le categorie e i valori fondanti
che avevano, nel bene e nel male, reso coesa e definita una società. Richiamarle in vita
retoricamente non serve a nulla98: occorre attraversare la crisi fornendo a tutti strumenti di lettura,
luoghi di confronto, temporanee bussole di orientamento. Così come non serve invocare granitiche
identità; pensiamo infatti che le identità siano risorse in formazione e mutamento e le radici vadano
comprese nella loro complessità99. Nel Veneto “la battaglia politica per un’alternativa si intreccia
con la battaglia culturale, anzi è la stessa cosa: agire politicamente significa, qui, agire
culturalmente, cioè cambiare modi di vivere, di pensare, di organizzare, la vita comune e gli stessi
stili di vita”100: modificare le finalità e il senso dello sviluppo è prima di tutto, prima di una azione
politica o amministrativa, una battaglia culturale. Occorre che il Veneto divenga luogo ospitale per
le idee, il dibattito, la formazione. La strategia che abbiamo in mente non riguarda tanto la
conoscenza come elemento essenziale nella competizione internazionale, intesa quindi come
valorizzazione e la qualificazione della “risorsa umana” o di una maggiore innovazione nei processi
produttivi. Quello che noi intendiamo và nella direzione di promuovere conoscenza come strumento
essenziale di ampliamento della democrazia, di riduzione delle disuguaglianze, di qualificazione
delle relazioni, di orientamento nel mondo. Conoscenza, spirito critico, voglia di ricerca per “il
Veneto terra delle relazioni”. Per noi è imprescindibile andare nella direzione di una società in cui
la conoscenza è un patrimonio sociale a disposizione di tutti, un diritto di cittadinanza riconosciuto
e perseguito, come opportunità per tutte le persone di poter partecipare, con sufficiente grado di
consapevolezza, alle trasformazioni del proprio mondo, che si presenta sempre più complesso.
97
Aldo Bonomi, Il distretto del piacere, Torino, 2000
98
come fa invece a piene mani il Programma Regionale di Sviluppo della Giunta Galan. In particolare nel capitolo
riguardante il welfare viene richiamato il ruolo cardine della famiglia veneta nel welfare (leggi: lo sfruttamento della
donna sia essa madre di famiglia o badante immigrata) trascurando il fatto che nel frattempo la famiglia veneta è
letteralmente andata in mille pezzi.
99
segnaliamo l’interessante opera di Marco Aime, Eccessi di culture, Torino, 2004 dove peraltro viene presa in esame la
politica identitaria della giunta Galan
100
Gianfranco Bettin, Smottamenti e inquietudini, in Lo straniero, 52/2004
55
Il disegno di revisione dei sistemi di istruzione e formazione richiama ed insieme promuove
un impianto culturale ed ideologico, che mira ad una sempre più forte “atomizzazione” delle
società. La sfaccettata molteplicità del vivere, la complessità delle relazioni sociali, la ricchezza del
confronto tra i valori e le culture si semplificano nella polarizzazione tra mercato ed individui. Il
mercato è l’unica dimensione che conta davvero. Il mercato è il regolatore sociale “senza se e senza
ma”, in grado di garantire la moltiplicazione delle opportunità per i singoli individui. Quanto tutto
ciò sia solo un’operazione ideologica è sotto gli occhi di tutti. Nella realtà, per un verso, si
mantengono le barriere protezionistiche ed i controlli monopolistici (agricoltura in Europa ed
informazione in Italia sono un buon esempio), per un altro, aumenta la selezione sociale, aumenta la
concentrazione della ricchezza, aumentano le disuguaglianze.
Questo impianto fortemente ideologico provoca tra l’altro la rottura della coesione sociale,
la messa in discussione dei valori fondanti delle società democratiche, l’aumento della solitudine
delle persone, ridotte ad una “folla di io” che esistono e valgono solo in quanto consumatori, in
quanto “funzioni” del mercato. Perfino i monumenti hanno valore solo se hanno un prezzo, ecco
quanto si è voluto comunicare, sul piano ideologico e simbolico, con la costituzione da parte del
governo Berlusconi della Patrimonio SPA (l’agenzia a cui sono stati trasferiti tutti i beni culturali e
demaniali dello Stato con l’incarico di venderli).
56
coniugare conservatorismo culturale e restaurazione pedagogica con la destrutturazione della
formazione esistente, Ma è un disegno che presenta gravi ed intrinseche debolezze, perché è
ideologico, perché impoverisce il ruolo sociale e professionale delle scuole e di chi vi opera, perché
espone i lavoratori alla precarietà e alla subordinazione, perché ha in testa un’idea di bambino e di
ragazzo che non c’è più e che non può non provocare nuova disaffezione e nuove lontananze,
perché vuole trasmettere una cultura vecchia, irrigidita, inutile. La proliferarazione di corsi di
diploma mirati su segmenti molto specialistici del mercato del lavoro concretizza una duplice
insania, sia dal punto di vista della flessibilità sia da quello della capacità di innovare. Alle singole
imprese servirebbero giovani già preparati per le loro specifiche esigenze ma, se si seguisse questa
tendenza, i lavoratori diverrebbero "rigidi" e le imprese diverrebbero "cieche". Gli occhi grazie alle
quali le imprese possono individuare opzioni innovative e coltivarle sono infatti costituite da
persone che hanno più conoscenze di quelle correntemente necessarie. I lavoratori preparati per le
esigenze di particolari tipi di impresa risulterebbero inutilizzabili da altri tipi di impresa e
resterebbero disoccupati e farebbero comunque fatica ad adeguarsi a cambiamenti delle produzioni
e delle tecnologie. Per un Veneto che è “costretto” ad una profonda innovazione del modello
produttivo (vedi politiche economiche →) questo tipo di formazione, che lega i ragazzi all’attuale
modalità della produzione in maniera meccanicistica, provocherà impatti particolarmente deleteri.
Le riforme peggiorano, e di molto, la situazione, perché sono funzionali ad un Paese
individualista, diffondono ignoranza e vanno contro gli interessi e i bisogni delle persone che in
quel sistema dovrebbero crescere. Il mondo della formazione e della cultura è di fronte ad un bivio.
Si tratta, infatti, o di rassegnarsi e assistere ad una progressiva delegittimazione della scuola
pubblica, alla secondarizzazione dell’Università, alla marginalizzazione delle Accademie e dei
Conservatori, alla riduzione della ricerca a settore servente del mercato, con tutti i drammi sociali
che ciò comporterà, o di impegnarsi a delineare una nuova politica della conoscenza in grado di
interagire con lo sviluppo del mondo contemporaneo, con le richieste della società e con la
complessità del sapere come condizione indispensabile per qualificare le condizioni di vita delle
persone.
Nella scelta tra queste due alternative si collocano i valori della nostra democrazia e dello
sviluppo equo e solidale: bisogna scegliere, con urgenza e con chiarezza di prospettiva. Per questo il
ritiro in toto della Riforma Moratti e dei decreti conseguenti è un obiettivo essenziale per poter
immaginare una qualificazione della formazione formativa della scuola e dell’università. La
possibile azione regionale si inserisce in questo quadro. La progressiva regionalizzazione del
sistema della formazione che riguarda in particolare il canale della formazione professionalizzante
mira a dequalificare, e differenziare ulteriormente la formazione italiana. La Regione dovrà
promuovere un’azione, per quanto di sua competenza, in contrasto con questa deriva precisando
alcuni principi di carattere generale e fornendo strumenti per la promozione di un sistema regionale
della formazione accessibile e di qualità.
57
- la tutela delle persone da ogni mercificazione delle proprie condizioni. In una società sempre
più globale, in cui il ruolo della conoscenza e della ricerca diventano fondamentali. La conoscenza
non serve solo per entrare a pieno diritto nella sfera sociale “adulta” ma è uno strumento
indispensabile affinché ognuno riesca a governare e ad essere attore consapevole: per questo deve
essere rafforzata.
- il riconoscimento e la valorizzazione delle professionalità di tutto il personale, intese come
diritto ad una formazione qualificata, forte avanzamento della condizione economica e come
sostegno ed incentivazione della professionalità. La professionalità dei lavoratori della scuola è
garanzia del diritto ad una formazione di qualità.
- l’autonomia della ricerca come condizione perché il nostro Paese diventi un punto di riferimento
qualificato sui terreni delle risorse, energie, ambiente, innovazioni compatibili con la dignità ed il
rispetto dell’essere umano e dell’ambiente che lo circonda.
La formazione professionale
La Regione avrà un ruolo fondamentale nella riqualificazione del ruolo della formazione
professionale. La formazione professionale deve diventare soggetto protagonista del sistema
formativo che deve garantire a tutti il diritto alla formazione per tutto l’arco della vita. La Regione
deve avere una ruolo di regia del comparto della formazione professionale nel suo complesso e un
ruolo essenziale nel valorizzazione dei profili di qualità, sperimentazione e innovazione. Le azioni
per la formazione dovranno inserirsi nell’ambito delle più ampie azioni per lo sviluppo locale, con
l’integrazione nel territorio delle iniziative di orientamento, formazione, incontro tra domanda e
offerta di lavoro, nonché di tutte le altre iniziative nel campo dell’istruzione e delle politiche sociali
in grado di rafforzare e qualificare l’offerta di lavoro. Siamo convinti che il problema dello sviluppo
di professioni, la possibilità di trovare lavoro, e lo sviluppo di un territorio, siano ambiti di una
stessa questione, facce della stessa medaglia. Se si vuole affrontare la problematica della
formazione finalizzata ad agevolare l’inserimento lavorativo bisogna calare tale attività sulla realtà
di quel singolo territorio, non è possibile riprodurre modelli e contesti formativi indipendentemente
dal contesto in cui stiamo operando. Riteniamo inoltre che la formazione sia intimamente legata
all’idea di sviluppo di quel territorio, una buona formazione quindi deve essere progettata non solo
a partire dall’idea dei formatori, anche se contestualizzata sul territorio, ma deve essere progettata
assieme al territorio, tenendo conto della programmazione di sviluppo che il territorio si dà o si è
dato. La programmazione della formazione dev’essere prefigurativa dei cambiamenti in corso o che
avverranno: occorre un approccio dinamico dello sviluppo che accompagni e stimoli i mutamenti
auspicabili. Inoltre il ruolo della formazione professionale è determinante affinché il cambiamento
non si trasformi in emarginazione per chi lo deve affrontare ed è, da questo punto di vista, un
formidabile mezzo per garantire ai lavoratori, sia quelli in ingresso sia quelli già inseriti, condizioni
di lavoro dignitose e la possibilità di migliorarle, riducendo il rischio di espulsione a fronte dei
mutamenti nell’organizzazione del lavoro stesso.
E’ evidente che un sistema di formazione professionale fondato su queste priorità ha bisogno
di un governo regionale capace di programmare quelle attività, raccordandole con il mercato del
lavoro, di una attività continua di monitoraggio ma anche di una capacità di anticipare le evoluzioni
di quel mercato, in modo da garantire percorsi che facilitino l’inserimento lavorativo dei giovani,
ma anche di sostenere la qualificazione del modello di sviluppo, attraverso la qualificazione delle
competenze professionali degli operatori. Sono attività più sofisticate che richiedono un presidio
costante e nel contempo una forte flessibilità nell’organizzazione dell’offerta formativa. Occorre la
messa a regime di percorsi formativi, articolati in cicli, rivolti alla fascia dei giovani di età tra i 15 e
i 18 anni che assicurino:
- una programmazione congruente con le politiche di sviluppo locale;
- la personalizzazione del percorso, tenendo conto delle specificità dei soggetti,
58
- il rispetto degli standard formativi, e la loro certificazione, omogenei rispetto al territorio
nazionale e focalizzati sullo sviluppo di competenze di base, tecnico-professionali e
trasversali in grado, anche mediante attività di tirocinio, di realizzare un percorso educativo
unitario;
- la stabilizzazione a regime del sistema di formazione degli apprendisti;
- la messa a sistema di progetti integrati di istruzione scolastica e formazione professionale
che consentano, mediante la determinazione del valore dei crediti formativi maturati nella
scuola, nella formazione professionale e nell’apprendistato, il passaggio dall’uno all’altro
dei canali formativi.
Occorre promuovere l’integrazione. L’integrazione implica che, riconoscendo reciprocamente i
diversi mandati ed i propri limiti, il sistema di formazione professionale e quello scolastico, sulla
base della rilevazione dei bisogni delle persone che ad essi si rivolgono, si mettono insieme e
costruiscono il progetto formativo integrato, in cui ciascuno apporta il suo specifico, professionale e
culturale. Un’integrazione che è utile alla scuola per superare la dicotomia tra saperi e competenze,
arricchendo e ampliando la cultura di base dei giovani con la conoscenza del lavoro, non certo in
termini addestrativi, rendendo reale l’orientamento, coniugando insieme la conoscenza di sé con la
conoscenza delle molteplicità e diversità delle opportunità disponibili sul territorio, e garantendo
saperi e conoscenze per la cittadinanza attiva a chi, dopo l’obbligo scolastico, ha scelto, invece, la
formazione professionale. In tal senso l‘integrazione non è una pratica da adottare per i più deboli,
ma al contrario un’opportunità, diversamente modulata, da offrire a tutti.
La Regione deve promuovere la predisposizione di servizi stabili di informazione e di
orientamento personalizzato, a partire dalla scuola dell’obbligo, idonei a individuare competenze,
capacità e attitudini dei giovani, a informarli sulle opportunità formative e di lavoro in apprendistato
esistenti nel territorio, a indirizzarne l’accesso a un percorso di formazione. L’adozione di un
approccio di tipo preventivo ai problemi dell’occupazione, la relativa priorità riconosciuta
all’obiettivo dell’occupabilità, la prospettiva di un sistema informato al principio della formazione
per tutto l’arco della vita esaltano la funzione dell’orientamento come azione di supporto alla
realizzazione di percorsi di vita autodeterminati, educativi o professionali che siano. Occorre inoltre
una azione decisa per la qualificazione e regolamentazione dell’apprendistato: occorre invertire
la tendenza per cui l’apprendistato diviene occasione di bassa remunerazione per i lavoratori.
La quota oraria per la formazione deve essere adeguata, non residuale rispetto alle ore dedicate al
lavoro. L’obiettivo cui gradualmente tendere, partendo dalla attuali 240 h annue minime, dovrebbe
vedere un’alternanza piena tra studio e lavoro, con un monte orario quindi paritetico. La formazione
si deve realizzare presso i centri di formazione professionale accreditati, che organizzeranno
un’apposita offerta e con caratteristiche analoghe a quelle proposte per l’obbligo formativo. In tutti i
casi deve trattarsi di formazione esterna all’azienda.
Quale autonomia.
Dietro l’insieme delle misure riformatrici si sta disegnando un nuovo sistema centralistico a
base regionale, in cui le scuole vengono espropriate del loro ruolo di elaborazione professionale,
culturale ed educativa, L’autonomia viene limitata ai soli aspetti gestionali e le scuole sono
sottomesse alle Direzioni Regionali o all’Assessore di turno. La logica dell’autonomia dovrebbe
invece sottolineare il legame tra ogni scuola e il territorio nei cui confronti essa deve assumersi una
funzione di promozione, di animazione culturale, interpretandone le esigenze e cercando di
rispondere ad esse. Vuol dire che la scuola diventa un’insostituibile risorsa, un effettivo agente di
sviluppo culturale, civile, sociale, del territorio e della comunità locale non solo e non tanto perché
prepara al lavoro ma anche e soprattutto perché costruisce una nuova cittadinanza attiva,
consapevole, responsabile e la costruisce interloquendo e relazionandosi con gli altri soggetti
imparando a tener conto dei processi reali in campo. Nelle scuole, grazie alla normativa
sull’autonomia, ci sono strumenti per difendere e valorizzare la qualità della scuola e contrastare le
59
negatività che la Riforma Moratti contiene, infatti ogni intervento normativo, sia di carattere
nazionale che regionale, non può non tener conto dei poteri che hanno le scuole in regime di
autonomia. La Regione deve promuovere l’autonomia scolastica, contro ogni tentativo di
soffocamento o compressione, quale garanzia della libertà di insegnamento, di pluralismo culturale
e come strumento per realizzare piani formativi in stretto collegamento con le necessità del
territorio. Coerentemente pensiamo che la Regione debba trasferire alle scuole ogni competenza
propria in materia curriculare e didattica, in particolare le quote dei piani di studio, che saranno
attribuiti dal progetto Moratti e dal nuovo testo di riforma costituzionale alla Regione stessa,
espropriando le scuole della competenza attuale sulla definizione del 15% del monte ore.
Per valorizzare l’autonomia scolastica, la Regione e gli Enti locali dovranno sostenere
- l’innovazione didattica, progetti di qualificazione dell’offerta formativa, prioritariamente realizzati
da istituzioni scolastiche in rete o in consorzio; azioni volte al perseguimento del successo
formativo ed al contrasto della dispersione scolastica; azioni volte all’integrazione dei ragazzi
disabili e all’inclusione degli stranieri o in condizione di disagio sociale;
- il rafforzamento dei rapporti fra le scuole, fra queste e gli Enti locali, la valorizzazione delle
diverse risorse (educative, formative, culturali, scientifiche, tecniche, tecnologiche e professionali)
presenti nel territorio.
Quale ulteriore strumento di sostegno allo sviluppo dell’autonomia e al compito di docenti e
formatori, la Regione promuove l’istituzione di Centri di servizi che avranno lo scopo di mettere in
rete le migliori esperienze di innovazione didattica e offriranno servizi su richiesta delle istituzioni
scolastiche, o degli enti locali.
60
L’accesso a opportunità di formazione sul lavoro appare uno degli elementi distintivi di
cristallizzazione e rafforzamento delle disuguaglianze nel mercato del lavoro - nella occupabilità
delle persone non solo all’ingresso, ma lungo il ciclo di vita. Sono i lavoratori a bassa qualifica i più
esposti non tanto alla perdita del lavoro quanto a non trovarne un altro nel caso in cui lo perdano. La
bassa o nulla esperienza formativa si somma, aumentandone le conseguenze in termini di
dequalificazione professionale, alla bassa qualità del lavoro che si svolge (misurata dalla esistenza
di stimoli ad apprendere, varietà, possibilità di autonomia) 102. Occorre un impegno continuativo e
consistente, assistito da adeguate risorse per la costruzione e alimentazione di un “sistema”
regionale di formazione continua. Occorre mettere in campo strumenti programmatori a livello
locale ( Patti territoriali per la formazione) che attuino le linee d’intervento dei Piano operativi
regionali valorizzando la dimensione locale, la funzione delle strategie formative e il nuovo ruolo
degli attori locali dello sviluppo. Prioritario è l’individuazione di nuovi bacini d’impiego (beni
culturali, manutenzione e riqualificazione ambientale, servizi di prossimità, riqualificazione urbana)
rendendo funzionale le politiche formative e per il lavoro alle esigenze del territorio e coerenti con
le differenti condizioni locali.
Questo strumento, anche se non và mitizzato, può servire a contrastare le derive di
precarizzazione insite nella crescente flessibilizzazione - e di impoverimento culturale e
professionale che ne consegue - del mercato del lavoro (vedi politica del lavoro →).
Università
Anche per l’Università una possibile via di salvezza alla dequalificazione e privatizzazione
che la stanno potentemente attraversando può trovarsi nell’azione locale. E’ dal territorio che
possono venire bisogni reali e domande genuine di conoscenza, di sapere socialmente plausibile. E’
al territorio che l’università può rivolgere i suoi sforzi per non perdere i contatti con la società (e
non solo con il mercato) e con i cittadini (che non sono solo consumatori). Il compito storico delle
Università è di fornire sostegno culturale, scientifico e tecnico al territorio. Per questo occorre un
rinnovato ruolo della Regione, non solo in una decisa promozione del diritto allo studio, ma anche
nella capacità ci interlocuzione per attivare attività di ricerca e didattica in collaborazione con
soggetti sociali e istituzionali sui temi della sostenibilità socioambientale dello sviluppo. La
Regione dovrà promuovere - attraverso accordi di programma - la domanda degli enti locali e dei
soggetti sociali affinché l’Università acquisti il ruolo di intelligenza territoriale.
102
Chiara Saraceno, Formazione, povertà ed esclusione sociale, in www.lavoce.it
61
studio abbia al suo centro prevalentemente il sostegno ai bisognosi, mentre è decisamente
inaccettabile che il diritto allo studio sia piegato a finanziamenti a favore del privato 103.
Altri strumenti che si dovranno individuare saranno il comodato gratuito dei libri di testo, i
prestiti d’onore per l’acquisto di strumenti formativi, corsi per allievi di lingua madre non italiana,
potenziamento dei laboratori e delle biblioteche degli istituti scolastici. Anche in questo modo, con
il concorso ed il coordinamento dell’attività dei comuni e delle province, con l’impegno di risorse
significative, la Regione può tentare di arginare il degrado che accompagna la riforma in atto e che
investe, attraverso la scuola, l’intera società. Occorre inoltre investire perché la scuola recuperi un
ruolo di inclusione sociale potenziando le attività di sostegno all’integrazione dei disabili e la
mediazione interculturale per l’inclusione degli immigrati.
Dignità
Occorre sostenere le attività di qualificazione continua sia degli insegnanti sia dei formatori
investendo perciò nella formazione. Proponiamo di istituire assegni di studio annuali da destinare al
personale docente che intenda avvalersi del periodo di aspettativa previsto dalla legge 448 del ’98.
Tali assegni, vere e proprio “borse di studio” saranno concessi a docenti e formatori che
progetteranno un personale progetto di aggiornamento legato alle esigenze didattiche sui punti
critici della riduzione dell’abbandono, della lotta alla selezione, dell’accoglienza e dell’inclusione
degli stranieri, dell’integrazione degli alunni disabili.
Strumenti
I principali strumenti per la loro attuazione configurano un insieme, intimamente correlato e
fortemente interdipendente, del pari articolato e diversificato, che è necessario tenere in coerenza:
i programmi comunitari assistiti dal Fse;
i programmi di intervento statali (per le strutture scolastiche e il diritto allo studio, per il Dsu,
per la formazione continua, per l’occupazione, per l’imprenditorialità femminile, per l’inserimento
lavorativo dei disabili), che prevedono forme diverse di concorso della Regione;
i piani e programmi regionali, settoriali e intersettoriali che, in tutti i campi considerati,
intervengono in via autonoma o integrando risorse proprie con quelle comunitarie, statali e di
privati;
i programmi di attuazione o di sviluppo a livello locale.
Si tratta pertanto di riuscire a garantire un efficace coordinamento programmatico e attuativo di tale
complesso di politiche, di programmi e di interventi al perseguimento e alla realizzazione degli
obiettivi strategici sopra individuati.
62
“dismissione urgente”, mettendo in vendita letteralmente in tre giorni decine di immobili in tutta
Italia, ancora una volta senza consultazioni previe col ministero dei Beni culturali. In modo del tutto
analogo, il devastante condono edilizio destinato a ferire profondamente le nostre città e i nostri
paesaggi non solo ignora, ma irride e calpesta la proposta di legge Urbani sulla qualità
architettonica e ambientale, approvata dal governo poche settimane prima. Inoltre l’art. 27 della
Finanziaria 2004 impone infatti la verifica dell’interesse artistico, storico e archeologico dei beni
non solo immobili, ma anche mobili di proprietà pubblica entro il termine perentorio di 30 giorni.
Responsabili della verifica sono oltre tutto le Soprintendenze regionali, di creazione recentissima e
che non dispongono degli inventari dei beni, ancora (e giustamente) presso le relative
soprintendenze di settore. Citiamo inoltre l’art. 32 del disegno di legge-delega in materia ambientale
che è stato emendato in modo da consentire la totale sanatoria degli illeciti in materia paesaggistica,
senza alcun limite all’aumento delle superfici e dei volumi e senza alcuna dichiarazione di
compatibilità basata sulle norme di protezione del paesaggio, cioè aggravando oltre il credibile le
norme già pessime della legge sul condono edilizio.
A questo potente e arrogante attacco al bene pubblico la Regione può rispondere mettendo in
atto procedure di blocco degli atti di vendita e farsi parte di una grande battaglia di civiltà contro
saccheggiatori e vandali.
105
si veda in proposito Roberto Grossi e Marco Meneguzzo (a cura di), La valorizzazione del patrimonio culturale per
lo sviluppo locale, Primo Rapporto Annuale Federculture
106
Silvia Dell’Orso, Altro che musei, Roma, 2002
107
pensiamo alle operazione di “adozione dei monumenti” promosse da Legambiente con le scuole
www.legambiente.com
63
del sistema bibliotecario, sistemi museali, circuiti dei piccoli teatri. Bisogna progettare una politica
culturale regionale articolate per reti, strutture, servizi, unitaria e trasversale ai diversi ambiti di
intervento: dall'archeologia all'arte contemporanea. Riguardo al grande contenitore dei beni culturali
il paesaggio - bene culturale esso stesso e testimone dinamico dell'evoluzione dei luoghi da
difendere e tramandare - deve svilupparsi una nuova cultura di tutela e valorizzazione. Gli interventi
di recupero e valorizzazione del patrimonio architettonico, ad esempio, devono perdere il loro
carattere di interventi di emergenza, talvolta disinseriti da una logica progettuale di contesto
territoriale o addirittura privi della necessaria destinazione d'uso, per assumere il ruolo di "chiavi di
volta" di un territorio capaci di innescare processi originali di sviluppo locale in un contesto
regionale. Riguardo alla salvaguardia del paesaggio Domenico Luciani sottolinea: “per
salvaguardarli è necessario introdurre un elemento di discontinuità rispetto al semplice concetto di
tutela, parlando invece, decisamente, di governo”. La valorizzazione dei beni culturali, che dovrà
sempre più essere gestita progettualmente e operativamente dalle Province e dai Comuni in
collaborazione con gli istituti e le associazioni culturali, dovrà tendere ad acquisire una prospettiva
di processo territoriale di lungo periodo. Strategico dovrà essere nella fruizione pubblica dei beni
culturali rapporti e collaborazioni tra istituzioni locali e mondo della scuola. Reti e sistemi dovranno
divenire le parole chiave delle politiche culturali regionali: sistemi museali, reti bibliotecarie, reti
interculturali, reti teatrali, reti per l'arte contemporanea.
64
Linee guida
Le linee guida di un’azione regionale in questo campo:
consolidare e ampliare l’armatura territoriale (luoghi e opportunità di espressione, di formazione
e di fruizione della cultura) a garanzia dei diritti primari di cittadinanza nonché del mantenimento e
della qualificazione permanente del capitale umano;
il potenziamento dell’intervento per la conservazione, il recupero funzionale e la valorizzazione
del patrimonio di interesse storico, artistico, ambientale e culturale, assumendo a criteri-guida della
programmazione l’equilibrio territoriale, aderente alla sua caratteristica di patrimonio “diffuso”, e
l’equilibrio di ambito tematico (archeologia industriale e cultura del lavoro, arte contemporanea,
castelli e fortificazioni, patrimonio religioso, ecomusei e parchi culturali, strutture dello spettacolo,
strutture bibliotecarie, ecc.), corrispondente alle sue caratteristiche di stratificazione storica e
diversificazione tipologica.
sostenere la valorizzazione della risorsa cultura complessivamente intesa come parte integrante
e sostanziale di programmi locali di sviluppo che utilizzano le risorse endogene
(ambientali/culturali) oltre i confini dell’attrattività turistica (ricerca, tecnologia, innovazione,
servizi, ecc.);
la qualificazione degli interventi nel senso dell’integrazione:
- infrasettoriale, ai fini della definizione e dotazione di compiuti “sistemi culturali”, nei quali cioè le
diverse e diversificate strutture, luoghi, produzioni si configurino come un insieme interrelato di
risorse e opportunità disponibili sia per i bisogni delle comunità sia per qualsiasi altra utilizzazione
(turistica, economica, scientifica, ecc.);
- intersettoriale, ai fini dell’utilizzazione complessiva e unitaria di risorse che si complementano
l’una con l’altra producendo un valore aggiunto (le strutture culturali come risorsa per l’educazione
e la formazione, come bacini d’impiego, come fonte per le produzioni artigianali, come terreno di
sviluppo per applicazioni tecnologiche);
Azioni e programmi
Per questo pensiamo ad una serie di azioni:
valorizzazione dei beni culturali che, presenti diffusamente nel Veneto policentrico, possono
interagire con le politiche di sviluppo agricolo, dell’agriturismo, del turismo culturale, concorrendo
alla vitalità dei piccoli centri e dando visibilità al loro patrimonio 111. L’obiettivo principale è creare
dei veri e propri distretti culturali attraverso cui si afferma la riscoperta della territorialità come
fattore competitivo e di sviluppo.
o elaborazione di linee guida per la valorizzazione e la tutela dell’insieme degli edifici che
costituiscono quel “patrimonio diffuso” che connota i centri storici. Occorre adottare politiche
caratterizzate dal carattere integrato degli interventi; dal ricorso a nuove relazioni cooperative tra
istituzioni pubbliche e soggetti privati; da una capacità regolativa dei meccanismi di mercato
affinché la rivalorizzazione immobiliare innescata dalla riqualificazione, sia associata alla
polifunzionalità degli insediamenti. La rigenerazione del capitale manufatto offre l’occasione per
produrre valori estetici-simbolici-storici, ed insieme valori economici e valori sociali; per potersi
realizzare, il processo di conservazione richiede l’elaborazione di una forma di pianificazione
strategica, interattiva, ciclica, incrementale, fortemente partecipativa.
all’innovazione tecnologica e organizzativa nei servizi dell’informazione e della cultura
(sistema museale, reti bibliotecarie, ecc.) che ha determinato nuove forme e modalità di gestione
mediante la diffusione di nuove tecnologie e la valorizzazione dell’artigianato di qualità;
111
l’esempio più “ovvio” sono le Ville Venete su cui si sconta una mancanza di governo nella tutela, ma pensiamo
all’edilizia rurale diffusa - simbolo di quel patrimonio “minore” che contraddistingue il tessuto storico culturale di un
territorio - spesso in stato d’abbandono e inglobata dall’espandersi della città diffusa; o comunque quel patrimonio
“minore” che contraddistingue il tessuto storico culturale di un territorio
65
alla produzione di strumenti per la conoscenza e la tutela del patrimonio culturale che, oltre a
sostenere attività di elevato e specifico rilievo professionale e scientifico, costituiscono la base per
ulteriori attività nel campo del restauro e dell’editoria;
la stabilità di una rete territoriale di centri interculturali, in modo che le diverse comunità
dispongano di strutture, luoghi, opportunità di conoscenza, accoglienza e integrazione, in un
contesto di riconoscimento e valorizzazione delle diverse culture;
al censimento e alla valorizzazione dei centri di arte contemporanea, come espressione della
vitalità e della continuità della produzione artistica;
all’estensione delle opportunità di fruizione di tutte le forme di spettacolo (teatro, musica,
danza) mediante un’azione integrata di individuazione di poli (lirico, della prosa, della danza ecc…)
da una parte, di messa in rete e di valorizzazione di soggetti e strutture nel territorio dall’altra.
determinare un contesto di incentivazione alla produzione di attività di prosa, musica, cinema,
danza di alto livello qualitativo, ai fini di rendere visibile e competitivo anche sul mercato
internazionale un settore di rilievo dell’economia veneta, promovendo in primo luogo, in questo
contesto, l’ulteriore sviluppo dei poli di eccellenza e favorendo le attività di produzione
sperimentali (ricerca, integrazione tra forme artistiche diverse, ecc.) nei piccoli teatri;
favorire l’innovazione dei prodotti (forme espressive, linguaggi, tecniche e contenuti, ecc.),
mediante il sostegno continuativo alla ricerca e alla sperimentazione,;
potenziare il sistema pubblico della distribuzione dello spettacolo;
la realizzazione del catalogo regionale dei beni culturali mediante l’integrazione delle risorse
informative dello Stato, della Regione, delle autonomie e delle istituzioni locali rese accessibili in
rete telematica;
66
promuovano e consolidino il ruolo internazionale, in modo da affermare stabilmente la realtà di
Venezia e del Veneto come “capitali della cultura” in Europa.
67
strumenti per la libertà di conoscenza
lo sviluppo della Società dell'Informazione richiede di modificare la definizione dei diritti
universali: oggi più che ieri la definizione dei beni comuni, del valore della condivisione del sapere
sarebbe la leva di un nuovo rinascimento, in un periodo in cui la guerra sembra l'unica risposta
praticata al declino del modello di sviluppo. Mai come oggi la crisi mostra limiti e opportunità di un
diverso modello; ma questo necessita la definizione di un diritto internazionale che garantisca la
condivisione cooperativa della conoscenza. La necessità di definire e sviluppare i nuovi commons,
beni comuni della società, liberamente accessibili, riuscendo allo stesso tempo a valorizzare
intelligenze individuali, investimenti economici e bisogni collettivi è la nuova frontiera politica,
sociale ed economica che ci troviamo ad affrontare. Definire l'accesso ai saperi collettivi come un
diritto universale pone un problema inedito in termini legislativi, assolutamente in controtendenza
rispetto alla sacralità dei brevetti e del copyright, dato che sempre più la legislazione europea,
occidentale e internazionale utilizza come una clava e un ricatto di fronte alla crisi di competitività e
alle richieste dei Pesi emergenti. Inoltre grande valore assume la libera accessibilità delle
produzioni intellettuali e immateriali pubbliche, a partire dalla funzione della ricerca e
dell'università; scientifico, perché fornisce alla ricerca medica di base ed applicata un nuovo terreno
di gioco. Si pone un problema di regolazione nella condivisione, che possa consentire sintesi della
creatività individuale, degli investimenti pubblici e privati, dei bisogni collettivi: lo statuto dei
lavoratori della conoscenza, la definizione di un diritto d'autore che riconosca l'autore in quanto tale
e non i diritti connessi di edizione e sfruttamento pongono al centro la funzione della paternità
intellettuale, ancor prima che il nodo della proprietà intellettuale. La definizione di un sapere libero
e accessibile, in campo scientifico, nel sistema delle comunicazioni, nell'universo culturale,
consentirebbe la definizione di un nuovo terreno di gioco e di una nuova funzione dello sviluppo,
capace di aprire le porte del fortino occidentale e di riaprire un canale di comunicazione scientifico
e non solo nelle relazioni tra cultura occidentale e culture emergenti, in alternativa la modello del
conflitto religioso e della guerra preventiva permanente112.
Il capitale immateriale, reso privato grazie alla proprietà intellettuale, è causa di una drammatica
trasformazione, in alcuni settori della produzione, verso un’economia di monopolio, che mette in
crisi l’ideologia della concorrenza perfetta e che genera grandi ingiustizie sociali (vedi il caso dei
brevetti sull’HIV). “La conoscenza d’altronde è l’unica risorsa che può essere moltiplicata
attraverso la condivisione”113, per questo un soggetto pubblico come la Regione, oltre a promuovere
una formazione pubblica e accessibile, può mettere in campo strumenti per contrastare questa
deriva.
accesso all’informazione
non si vive sole informazioni ma è vero che le attività relative all’informazione costituiscono una
buona fetta del PIL: l’informazione è un punto chiave per la competitività in numerosi campi. Il
rischio maggiore che corriamo con l’approccio attuale alla società dell’informazione è quello
dell’espansione continua del controllo esercitato dalle grandi imprese, fattore che in Italia è
particolarmente evidente. Ma parallelamente alle progressiva concentrazione della proprietà dei
media si sta sviluppando una nuova concezione della società dell’informazione. Una visione
centrata sulle reti, sul libero accesso, sulla partecipazione e sulla condivisione che ha una forte
spinta “dal basso”. Nuove forme e strumenti della comunicazione vengono affiancati a quelli
tradizionali per costruire comunità globali a partire dalle realtà locali, per scambiare conoscenze
amplificare le voci rese marginali, organizzare e rafforzare la partecipazione e praticare la diversità
culturale e intellettuale114. E’ fondamentale per agevolare forme di solidarietà, nuove possibilità di
112
il paragrafo è tratto dal documento sottoscritto da diversi intellettuali italiani “Condividi la conoscenza: nuovi
Commons, nuovi diritti” vedi www..fiorellocortiana.it
113
Enzo Rullani, Economia della conoscenza, Roma, 2004
114
pensiamo, tra le mille altre, alle esperienze delle televisioni di quartiere ( telestreet).
68
condivisone delle esperienze e di formazione reciproca che le tecnologie dell’informazione siano
disponili e accessibili.
L’alfabetizzazione ad un uso consapevole delle tecnologie di comunicazione passa anche per i
divari intergenerazionali che si sono aperti. Colmare questi divari non significa incentivare
l’acquisto di PC, palmari, telefoni cellulari ecc…, ma offrire la possibilità di apprendere funzioni,
poter scegliere con cognizione di causa e farne un uso appropriato per non trattare le nuove
tecnologie solo come merce dalla fruizione passiva ma come formidabili opportunità di socializzare
e condividere conoscenze.
free software
il free software rientra invece è definito da quattro libertà fondamentali:
-libertà di eseguire il programma, per qualsiasi scopo;
-libertà di studiare come funziona il programma, e adattarlo alle proprie necessità;
-libertà di ridistribuire le copie in modo da aiutare il prossimo;
-libertà di migliorare il programma e distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo tale che
tutta la comunità ne tragga beneficio.
La disponibilità del codice sorgente e le modalità di collaborazione che sostengono lo sviluppo del
software libero ricalcano il metodo cooperativo caratteristico del mondo scientifico, basato sulla
condivisione dei saperi e su una competizione orientata al miglioramento dello stato della ricerca e
non esclusivamente alla creazione di profitti. Tuttavia, la componente economica non è aliena al
mondo del software libero, ma ha assunto forme differenti rispetto a quelle caratteristiche di
un'economia di mercato fondata su brevetti e licenze. In free software, infatti, l'aggettivo free
riguarda esclusivamente la libertà di accedere e di modificare il codice e non la gratuità dei prodotti.
Il software libero è protetto da un nuovo tipo di licenza, denominata GPL (General Public Licence)
o copyleft. In base a tale licenza ognuno può modificare e distribuire il prodotto, ma non si possono
apporre restrizioni individuali sul prodotto redistribuito. Il copyleft consente a chi possiede un
programma di utilizzarlo in un numero indefinito di copie, cambiarlo a suo piacimento, distribuirlo
nella forma originale o modificata, gratuitamente o a pagamento, alle sole condizioni di distribuirlo
in formato sorgente e di indurre chiunque acquisisca il prodotto ad aderire allo stesso tipo di
contratto. Tale licenza offre quindi ad ogni programmatore che sviluppi nuove porzioni di codice, a
partire da quello esistente e liberamente disponibile, la possibilità di avviare una propria attività
basata sulla rivendita del prodotto modificato, sull'installazione del software, l'assistenza, la
formazione degli utenti e la personalizzazione in base alle esigenze dei propri clienti. A partire dal
software libero è quindi possibile sviluppare nuovi business model incentrati non sull'acquisizione
di una posizione monopolistica sul mercato, ma sulla personalizzazione e la customizzazione dei
prodotti, riattivando un meccanismo di libera concorrenza legato all'efficienza del software e alla
sua capacità di rispondere a bisogni emergenti. Un ulteriore vantaggio è costituito dalla possibilità
di sviluppare e fare affidamento sulle risorse presenti in ambito locale, e di limitare il processo di
delega di competenze e professionalità che è andato rafforzandosi con l'estensione sul mercato di
modelli proprietari e con la supina accettazione da parte degli stati di un modello di divisione
internazionale del lavoro che comprende poche aziende innovatrici concentrate in una manciata di
nazioni, circondate da un mare di utenti. La Regione può promuovere il software libero ad
esempio con un suo utilizzo nella Pubblica Amministrazione.
open source
nei paesi ricchi i settori industriali e dei servizi basati sulla conoscenza hanno superato i settori più
tradizionali. Si è assistito ad una crescita accelerata del numero di brevetti e della proprietà
intellettuale, concentrati per il 94% nei paesi sviluppati. Le regole della proprietà intellettuale sono
diventate un ostacolo alla diffusione della conoscenza e pongono una doppia barriera allo sviluppo
per i paesi poveri: procedure troppo onerose per tutelare la proprietà e costi di brevetto che limitano
l’accesso anche a beni essenziali, come ad esempio quelli farmaceutici. Nel settore farmaceutico la
brevettazione, imposta dalle multinazionali farmaceutiche, comporta costi da 3 a 10 volte superiori
69
per farmaci essenziali e salvavita. L’esperienza del software libero illumina la pratica,
generalizzabile della condivisione aperta delle conoscenze.
E’ convinzione comune che la vera natura dell’informazione è collegata al concetto dell’uso
estensivo e condiviso, e che la realtà della società dell’informazione oggi richiede una filosofia
completamente nuova sulla proprietà intellettuale. E’evidente che i benefici per una società dove
l’informazione è condivisa superano gli interessi dei detentori della proprietà intellettuale. In tempi
recenti sono emerse nuove idee sulla proprietà intellettuale che riconoscono l’importanza dei diritti
degli inventori ma allos tesso tempo individuano il valore che si acquista con la condivisione delle
conoscenze e delel informazioni. L’open content porta lo stesso approccio del free software a una
gamma di altri lavori di creazione come siti web, musica, film, fotografia, letteratura ecc..
La Regione potrebbe attivare, sull’esempio dell’associazione no profit Creative Commmons 115, un
servizio di attribuzione di copyright senza onere che permetteranno agli autori di condividere
liberamente le loro opere.
eccezione culturale
l’eccezione culturale è una categoria giuridica riconosciuta dall’Unesco intesa come possibilità di
mantenere politiche europee e nazionali di quote di programmazione e di aiuti finanziari in alcuni
settori di rilievo culturale sottraendole ai negoziati commerciali sui beni e sui servizi. L'eccezione
culturale è di fatto un rifiuto rifiuto opposto dalla Comunità europea all'applicazione dei principi del
libero scambio propri del Gatt, poi diventato Omc (creato secondo le previsioni dell'Uruguay
Round, dagli accordi di Marrakech), in alcuni settori culturali come l’audiovisivo ed al cinema.
L'esempio più eclatante riguarda il sistema francese di finanziamento del cinema e della televisione,
ove il sostegno finanziario pubblico all'industria cinematografica e audiovisiva permette, mediante
strumenti diversi (aiuti automatici, aiuti selettivi) di assicurare il finanziamento della creazione e
produzione francese. La tutela della proprietà intellettuale collettiva caratterizza spesso i settori
dell'artigianato di qualità, come nel caso della legge veneta (legge regionale 23 dicembre 1994, n.
70) sul marchio per il vetro artistico di Murano, quello sulla ceramica artistica (legge 9 luglio 1990,
n. 188) di diversi distretti italiani (Faenza, Calagirone, Albisola, Deruta). Anche nel settore agro-
alimentare e vinicolo sono diffusi i marchi collettivi, come la Denominazione di origine controllata
(Doc) per i vini o la Denominazione di origine protetta (Dop) per i prodotti alimentari. Il valore
della diversità culturale è stato assimilato dall'Unesco all'importanza che la biodiversità ha per la
natura.
La sfuggente definizione dell'ambito culturale può anche agevolare un'applicazione meno rigida del
riparto di competenze normative e amministrative. Si può riportare il recente esempio della legge
regionale del Lazio sulla salvaguardia dei locali storici regionali: a stretto rigore quell'intervento
normativo riguardava la tutela e dunque avrebbe dovuto essere adottato dallo Stato, ma la Corte
costituzionale ha aggirato l'ostacolo affermando che si trattava non di beni culturali ai sensi del
Testo unico decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, ma di altri beni di rilievo e interesse
culturale, con riferimento ai quali potevano intervenire anche strumenti di protezione previsti dal
legislatore regionale territorialmente competente116.
La possibilità di dettare discipline differenziate sul territorio e derogatorie rispetto a quelle
"centrali", in ragione delle tradizioni locali da tutelare (beni e servizi), apre la possibilità per una
tutela - pensiamo alle produzioni artigianali nei centri storici - che interferisca con il processo
omologante del neoliberismo.
115
www.creativecommons.org
116
Sergio Foà, Walter Santagata Eccezione culturale e diversità culturale. Il potere culturale delle organizzazioni
centralizzate e decentralizzate, in Aedon, 2/2004
70
economia qualità territorio
Analizzavamo insieme la possibilità di sfruttare meglio le risorse. C’erano tutte queste castagne per terra, e altrettante
ancora sugli alberi. Perché non andavano in pianura a venderle? Ne parlammo ai contadini, e loro ci dissero: “Perché
nessuno le vuole”. Ci mettemmo a postulare fabbrichette di marmellata di castagne sotto i pendii; e immaginavamo la
valle ripulita e redenta dalla prosperità, e la gente con le scarpe. “Dove faresti le fabbrichette?” “Là, sotto, in
pianura, oltre il lago.” “E allora perchè la gente dovrebbe restare proprio qui a vivere?” Già: anzi, perché proprio la
marmellata di castagne ? Forse la cosa più importante non sono le castagne, ma le fabbrichette. Si possono fare anche
i bottoni. “Cosa dici tu, che in Italia si faranno, queste fabbrichette?” “Cosa vuoi sapere?” “Questa valle resterà
vuota, le case saranno abbandonate; sarà un costone di collina.” Queste case non mi parevano edifici, ma modi di
vivere; le corti tra i castani, e le viottolle, e le stalle, e i sottoportici, tutto era mescolato con la povertà, era questa la
forma della valle e della vita italiana.
Dissi a Bene: “Per uccidere la povertà, dovranno sfasciare l’Italia”. “Esagerato,” disse Bene.
Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, 1986
117
Bruno Anastasia, Giancarlo Corò, Un lungo periodo di bassa crescita: cattiva congiuntura o fase di riaggiustamento
strutturale?, in Daniele Marini (a cura di), Nord Est 2003, Venezia, 2003
118
Banca D’Italia, Note sull’andamento dell’economia del Veneto nel 2003, Venezia, 2004
71
nel territorio regionale, hanno messo in crisi l’efficacia stessa e la continuità del modello produttivo
esistente”. Il problema dell’esaurimento delle risorse non si limita a questo: sono state erose anche
tutti quei fattori propulsivi riconducibili ai caratteri collettivi, quali la disponibilità al rischio, il
contare sulle proprie forze, codici di condotta condivisi, relazioni fiduciarie, “tessuto sociale” come
forma di coesione ed integrazione incardinato sulla famiglia. Riteniamo che la crescita sia avvenuta
attraverso l’erosione irreversibile del capitale ambientale e sociale, per questo non condividiamo
l’auspicio di una sua ripresa tout court: vogliamo invece indagare i fattori qualitativi della crisi del
modello di sviluppo veneto e partire da lì per proporre delle vie d’uscita perché, come chiarisce
Claudio Napoleoni, “non è affatto vero che si possa risolvere contemporaneamente il problema di
una maggiore quantità di crescita e di una modifica della qualità dello sviluppo” 119. A nostro avviso,
chiunque si proponga di governare il Veneto si troverà di fronte ad una scelta ineludibile: o cercare
gli strumenti per promuovere una crescita in affanno e l’efficienza del sistema d’imprese, e quindi
fare della crescita del PIL l’obiettivo delle politiche di questa regione, o invertire la rotta e
perseguire la qualità dello sviluppo, del restauro delle relazioni e degli habitat.
72
rischio di fallimento (come nel caso Stefanel), o la necessità di procedere a un vasto piano di
riconcentrazione produttiva con probabile utilizzo dei subfornitori come futuri lavoratori dipendenti
(come nel caso del nuovo stabilimento Benetton a Treviso). L'estrema flessibilizzazione del lavoro
(sia in termini di orario che di salario) non è più sufficiente oggi ad arginare il processo di
verticalizzazione e gerarchizzazione produttiva nelle produzioni a più alto contenuto tecnologico, e
soprattutto la potenziale concorrenza delle produzioni asiatiche e terzomondiste, per quanto
riguarda le produzioni a bassa qualità122. L’estenuazione della competizione basata sulla
compressione del costo e della qualità del lavoro e sull’elusione della legalità ambientale porta ad
una spirale negativa: l’”opacità” della gestione, l’elusione delle normative provoca una reazione a
catena in quanto finisce “per ingabbiare le imprese in un equilibrio subottimale: minore accesso ai
mercati finanziari, minore opportunità di salti organizzativi attraverso l’impiego di manager non
proprietari e quindi minori opportunità di crescita”123.
L’ “opacità” della produzione, oltre a non rilanciare l’economia, ha delle ripercussioni
dirette sull’ambiente: vale la pena ricordare che il Veneto è al secondo posto tra le regioni
settentrionali nella classifica dell’abusivismo edilizio illustrata nel Rapporto Ecomafia 2003 124, nel
quale si evidenzia il ruolo della nostra regione nel ciclo illegale del cemento – con l’eclatante
fenomeno dell’escavazione selvaggia dei fiumi - e nel traffico dei rifiuti.
Elementi per una politica economica, per un Veneto terra delle relazioni
Il mercato globale usa il territorio dei vari paesi e delle diverse aree geografiche come uno
spazio economico unico; in questo spazio le risorse locali sono beni da trasformare in prodotti di
mercato e di cui promuovere il consumo, senza alcuna attenzione alla sostenibilità ambientale e
sociale dei processi di produzione. I territori e le loro "qualità specifiche" - le diversità ambientali,
di cultura, di capitale sociale - sono dunque "messe al lavoro" in questo processo globale, che però,
troppo spesso, le consuma senza riprodurle. Al contempo si è rafforzato il protagonismo dei soggetti
locali, città e regioni: “città e regioni, sempre più impegnate in negoziati diretti con imprese
multinazionali, diventarono gli agenti più importanti delle politiche di sviluppo economico” 125
afferma Manuel Castelles. Accanto ai problemi della crescita economica, qualcuno ha cominciato a
preoccuparsi della distribuzione del reddito, del soddisfacimento dei bisogni fondamentali della
difesa dell’ambiente, dell’identità culturali delle comunità locali 126. Si è così riscoperta l’importanza
della piccola dimensione, delle piccole imprese, dell’identità territoriale, dei servizi di prossimità,
degli attori locali. Si sono affermati nuovi principi:
- lo sviluppo si definisce come processo discontinuo e negoziato in termini specifici e
differenziati per i diversi contesti socio economici;
- il cambiamento si produce non per effetto di una semplice applicazione di programmi decisi
dall’alto, ma in seguito alla negoziazione tra le parti che rappresentano interessi diversi
- gli obiettivi dei programmi di sviluppo non si limitano alla dimensione tecnico- produttiva,
ma sia allargano ai fattori economici e sociali:
- i soggetti principali dello sviluppo non sono più soltanto le istituzioni o gli imprenditori ma
le diverse parti sociali
Lo sviluppo locale può divenire sostenibile se si introducono profondi cambiamenti nella
programmazione delle politiche e nella pianificazione delle iniziative, nonché nella loro attuazione.
L'alternativa a questa globalizzazione parte da qui: da un progetto politico che valorizzi le risorse e
122
“L’Italia è stato tra i paesi più colpiti dalla concorrenza della Cina proprio nei prodotti dove il nostro paese è
diventato leader mondiale negli ultime tre decenni: tessile.- abbigliamento e calzature, gioielli, pietre ornamentali,
lampade, mobili, casalinghi, rubinetti, piastrelle, occhiali, componenti meccanici e persino macchine industriali” in
Marco Fortis, Alberto Quadrio Curzio, Alle prese con la concorrenza asiatica, in il Mulino, 6/2003
123
Sandro Trento, Stagnazione e frammentazione produttiva, in il Mulino 6/2003
124
Legambiente, Rapporto Ecomafia 2003, Napoli 2003
125
Manuel Castells, Il potere delle identità, Milano, 2003
126
Facciamo riferimento in particolare a Giacomo Beccattini, Aldo Bonomi, Alberto Magnaghi
73
le differenze locali promuovendo processi di autonomia cosciente e responsabile, di rifiuto della
eterodirezione del mercato127. Occorre individuare un nuovo modello di sviluppo che, uscendo da
un approccio meramente economico, ponga maggiore attenzione alla sua sostenibilità in termini di
impatto ambientale e di qualità di vita dei suoi abitanti. Rispetto allo sviluppo globale la sfida è
quella di acquisire autonomia e controllo del proprio sviluppo: non uno sviluppo eterodiretto dalle
reti lunghe dell’economia globalizzata ma uno sviluppo determinato dalle risorse e dalla volontà
collettiva dei cittadini. Bisogna incoraggiare interventi locali "dal basso", specifici per ciascuna
area, incentrati sulla cooperazione di una platea composita di attori istituzionali e sociali, pubblici e
privati, nonché su alleanze produttive interregionali, riconoscendo dunque i fondamenti sociali
dell’agire economico.
L'idea sottostante a questo approccio è che il successo economico è un esito che dipende, oltre
che dai talenti imprenditoriali, dalla qualità dell'ambiente socio-istituzionale locale e dall'intensità
delle relazioni formali e tacite tra gli attori, ovvero dal capitale sociale (fiducia, reciprocità,
cooperazione, reputazione) che alimenta il patrimonio di interdipendenze non-mercantili e di
relazioni fiduciarie tra gli individui. Lo sviluppo locale così inteso, che si identifica in primo luogo
con la crescita delle reti civiche e del "buon governo" della società locale, non può divenire
localismo chiuso, difensivo, ma deve costruire reti alternative alle reti lunghe globali, fondate sulla
valorizzazione delle differenze e specificità locali, di cooperazione non gerarchica e non
strumentale. Con la specificazione della dimensione locale il concetto di sviluppo si allarga fino a
comprendere anche indicatori qualitativi legati ai luoghi. In tal modo la politica deve
necessariamente interagire con la comunità locale e integrare in questa prospettiva l’azione
volontaria con gli strumenti di programmazione e di regolazione, costruire cioè la cornice per il
mercato locale in modo consen-suale, superando l’errata convinzione circa le capacità intrinseche
del mercato di autoregolarsi, rispetto all’impatto ambientale e all’uso delle risorse, unicamente
attraverso strumenti volontari quali le certificazioni ambientali, i regolatori fiscali e così via.
Per questo occorre introdurre una serie di nuove dimensioni, quali:
uno spostamento di focus, orientando la programmazione alla riconciliazione fra ambiente e
sviluppo, invece di finalizzarla ad una domanda di beni e servizi basata sui tradizionali, e
non più sostenibili, stili di produzione e consumo;
un approccio integrato, frutto dell'interazione fra le politiche di diversi settori e fondato su
una visione più olistica nella quale le considerazioni ambientali influenzino le politiche
sociali ed economiche - e vice versa;
la valutazione tra scenari, opzioni e scelte alternative basate sui principi di sostenibilità e la
traduzione di tale valutazione in chiari obiettivi, tempi, dimensioni territoriali, poteri, ruoli,
competenze e responsabilità.
74
attraverso la formazione e la promozione dell’integrazione - che siano in grado di costruire un
sistema coeso. Occorre incidere sulle competitività del territorio e delle imprese che vi operano
facendo leva sulle capacità cooperative di tutti i protagonisti, compresi gli interlocutori sociali. Il
ruolo dei poteri pubblici locali è infatti stato ancillare e accomodante rispetto alle esigenze che, di
volta in volta, emergevano spontaneamente dalle imprese. Non c’è stata programmazione diretta
dello sviluppo distrettuale da parte delle amministrazioni locali, né costruzione di un organico
sistema di relazioni istituzionali in grado di indirizzare i distretti verso l’acquisizione di autonomia
strategica129. Anche nella promozione dei Patti territoriali la “Regione viene percepita dagli attori
dei patti come una figura di controllo che come un attore significativo per la definizione del
progetto”. Eppure Il Patto Territoriale – che noi proponiamo si integri con la metodologia di
Agenda 21 - è uno degli strumenti della “nuova programmazione” che mira, almeno nell'intenzione
del legislatore, a stimolare e rafforzare, per l'appunto, la cooperazione tra gli attori per lo sviluppo
economico localizzato130.
Oggi, peraltro grazie ai processi di “deregulation” (avviati con la riforma Bassanini), e di
“devolution” (attraverso la riforma del titolo V° della Costituzione del 2001 e il prossimo Ddl La
Loggia) la ripartizione dei poteri di promozione, indirizzo e gestione delle politiche industriali in
genere e delle politiche della ricerca e innovazione in particolare stanno subendo una radicale
modifica. In questo scenario, l’affidamento alle Regioni della gestione di una serie di leggi
nazionali di incentivazione attraverso il c.d. Fondo Unico per le Imprese, con la possibilità di
determinare localmente l’entità della ripartizione finanziaria fra i singoli strumenti, va dunque
guardato come il primo passo e terreno di sperimentazione verso una fase di pieno protagonismo
regionale nella definizione delle politiche e la promozione di una programmazione che favorisca lo
sviluppo locale autosostenibile e l’integrazione su base territoriale delle diverse politiche di
sviluppo. La definizione di un quadro istituzionale di relazioni, al cui interno giocano un ruolo
primario le rappresentanze associative degli attori sociali interessati, può rappresentare una via
nuova e alternativa rispetto a quella, spontanea ed anarchica, dei vecchi distretti industriali.
Naturalmente, accanto al metodo, è fondamentale il contenuto produttivo alla base della formazione
dei sistemi territoriali. In questo senso, è evidente che la costruzione di un quadro istituzionale è
complementare alla definizione di una programmazione regionale dello sviluppo fondata sulla
sostenibilità sociale e ambientale e sulla valorizzazione delle tipicità e delle caratteristiche
qualitative della Veneto.
Cediamo la “penna” a Bruno Anastasia e Giancarlo Corò per quanto riguarda il ruolo possibile
della Regione nelle politiche economiche: “per quanto il livello regionale della politica economica
sia vincolato da poteri deboli e risorse scarse, gli strumenti su cui agire non mancano: pensiamo alle
politiche per le infrastrutture e la regolazione della mobilità; agli incentivi per l’innovazione e la
cooperazione tecnologica; al sostegno allo studio e alla ricerca avanzata;….; alla tutela del
paesaggio come risorsa fondamentale per un turismo di qualità; alla creazione di un ambiente
favorevole agli investimenti esterni”.
Obiettivi
Proponiamo una serie di obiettivi strategici per una nuova politica economica per un “Veneto
terra delle relazioni”:
costruire un ruolo propulsivo della Regione nella programmazione integrata sia aumentando
i progetti integrati sia riqualificando e rilanciando quelli esistenti;
promuovere e sostenere i Sistemi Economici Locali espressione della pluralità delle
vocazioni e delle potenzialità dello sviluppo;
129
Patrizia Messina, Regolazione politica dello sviluppo locale, Torino, 2001
130
Massimo Bressan, Albino Caporale, L’irruzione del territorio nelle politiche di sviluppo, in Sviluppo locale, 19/2002
75
sostenere il superamento dello sviluppo economico mono-settoriale a favore della
diversificazione delle attività e della loro diversificazione
identificare nuovi parametri di sviluppo economico in grado di dare visibilità alla
dimensione integrata dello sviluppo;
favorire e sostenere i settori economici - agricoltura di qualità, turismo sostenibile, riassetto
idrogeologico, sviluppo delle energie rinnovabili, formazione ecc… - che pur producendo
una minore quota di Pil hanno un basso impatto sull’ecosistema e concorrono alla
valorizzazione del capitale sociale e ambientale dei territori;
orientare nell’ottica della sostenibilità e della sicurezza i processi produttivi, favorendo
l’introduzione di innovazioni che riducano il consumo di risorse e di energia , ampliando il
ricorso a fonti rinnovabili e pulite;
promuovere una strategia di innovazione scientifica e tecnologica di processo e di prodotto
e la diffusione di sistemi di qualità;
promuovere la responsabilità sociale delle imprese e lo sviluppo di un economia solidale;
sostenere la qualificazione e i diritti dei lavoratori contrastando la crescente precarizzazione
e insicurezza;
131
Marco Bellandi, Beni pubblici specifici e sviluppo sostenibile, in Sviluppo locale, 22/2003
132
per una trattazione scientifica del concetto di sistema territoriale si veda Giuseppe Dematteis, Progetto implicito,
Milano, 1995. La Regione Toscana, grazie all’elaborazione dell’Irpet, già utilizza i sistemi territoriali come unità
complesse d’intervento di politica economica
76
L’approccio dei sistemi territoriali può aiutare la politica ad uscire da un approccio in cui
l’industria manifatturiera - più o meno innovata – rimane la spina dorsale dei ragionamenti, delle
risorse e dell’attenzioni della politica economica regionale.
77
lavoro, ecc.) e fra di essi e gli interessi diffusi (come l'ambiente, ma non solo: si pensi agli anziani,
al terzo settore in genere, ai consumatori, ecc.). Gli attori allora non sono (e non possono essere più)
solo quelli del modello di governo corporativo (imprese, organizzazioni di rappresentanza degli
interessi sindacali o datoriali, rappresentanze politico-istituzionali), ma debbono aprirsi agli
interessi diffusi secondo una "logica di negoziato" (cioè di assunzione reciproca di responsabilità)
che tutti devono condividere. Un vero e proprio "modello cooperativo di negoziato" alla cui base
siano comuni orientamenti di codeterminazione delle strategie e delle politiche di intervento tali da
incorporare l'ambiente come uno degli assi di riferimento culturale della regolazione. Si tratta cioè
di arrivare a definire un processo decisionale allargato, quale quello per lo sviluppo sostenibile nei
modelli proposti con le Agende 21 locali sia a livello internazionale che comunitario.
Economia ambiente
La “variabile ambiente” deve divenire, per il sistema produttivo regionale, un importante fattore
di qualificazione, riconversione e riconoscimento. Il sistema produttivo veneto, nei suoi diversi
settori - industria, turismo, agricoltura e servizi - dovrà puntare ad un strategia di preservazione e
restauro dei beni comuni, l’ambiente in primis, e identificare in questa strategia il suo fattore
competitivo primario. Bisogna superare l’attuale approccio che, a parole, punta ad un
“bilanciamento” tra attività produttive e rispetto dell’ambiente, nella realtà cerca di attenuare la
133
Giacomo Beccattini, Ribaltare l’ideologia del mercato, in Il Ponte, 7-8/2003
78
portata vincolistica della legislazione ambientale: crediamo che occorra puntare invece ad un nuovo
modello di interventi caratterizzato da un approccio di tipo preventivo e da una gestione locale delle
problematiche ambientali, connesse all’attuale sistema produttivo. Risulta, infatti, necessario non
fermarsi ad un semplice bilanciamento delle esigenze dell’ecologia ed esigenze dell’economia, ma
integrare i due paradigmi in una prospettiva capace di produrre nuove opportunità per gli attori
sociali, economici ed istituzionali.
In questa prospettiva appare strategico:
- promuovere innovazioni di prodotto e di processo anche attraverso il sostegno alle attività di
ricerca;
- sviluppare appropriate iniziative anche di comunicazione, finalizzate a rendere apprezzabili e
praticabili da parte di settori produttivi significativi gli incrementi di concorrenzialità conseguibili
mediante l’introduzione di innovazioni ambientalmente sostenibili e suscettibili di certificazione di
qualità ambientale;
- mettere in opera strumenti di carattere patrizio fra soggetti pubblici e categorie economiche.
Sulla base di tali considerazioni si deve superare un precedente approccio limitato alla
sensibilizzazione e informazione delle categorie produttive, e si deve invece puntare ad un piano
coordinato di interventi finalizzato alla diffusione delle certificazioni di qualità ambientale di
processo e di prodotto tra le imprese .(EMAS/ISO14001 ECOLABEL). Risulta opportuno
rafforzare giuridicamente lo strumento dell’accordo volontario: il ricorso ad accordi volontari e
protocolli d’intesa è previsto principalmente in materia di inquinamento atmosferico, rifiuti,
bonifiche, energia, aria, acqua, aree protette e rischi industriali.
Queste innovazioni devono avere come riferimento non la singola impresa ma una scala
comprensoriale. Per questo è importante, seguendo l’esperienza piemontese, articolare dei centri
servizi territoriali in grado di fungere da service di filiera per l’introduzione di innovazioni in senso
sostenibile: EMAS 2 rappresenta da questo punto di vista uno strumento adatto ad introdurre
logiche di sostenibilità in ambito distrettuale e di PMI 134. Aderendo all'orientamento comunitario
esplicitato nel Libro verde sull’IPP (Integrated Product Policy) occorre sviluppare su scala
regionale un ampio spettro di misure per promuovere l'efficienza ecologica dei prodotti in modo da
coinvolgere a tutti i possibili livelli di azione le varie parti interessate (imprese, consumatori,
organizzazioni non governative, ecc. ).
Beni comuni
il processo di privatizzazione e di liberalizzazione dei servizi pubblici locali, malgrado
l’incertezza normativa e la debolezza dell’imprenditoria italiana, procede con velocità. Noi
pensiamo che i beni oggetto del processo di privatizzazione, in primis l’acqua, non possono essere
omologati ad altri tipi di beni in quanto la loro esauribilità, l’incertezza rispetto ai tempi della loro
riproducibilità, l’infinita serie di interconnessioni con l’ambiente complesso, li rende intransigenti
alla logica di mercato. La privatizzazione inoltre comporta l’espropriazione delle sedi democratiche
di temi cruciali per lo sviluppo generale in quanto le politiche che riguardano l’approvvigionamento
dell’acqua, la fornitura d’energia, il trasporto collettivo delle persone rischiano di venire gestite, non
da rappresentanti liberamente eletti dai cittadini, ma da imprenditori che ragionano in un ottica di
mercato.
Per questo pensiamo che la Regione debba formulare una legge regionale che preveda:
- dichiarare l’acqua patrimonio dell’umanità e normarne l’accesso in solidarietà con le altre
popolazioni e le generazioni future
- determinazione di standard di qualità e tariffe determinate con chiarezza, grazie a criteri e
procedure trasparenti;
134
Fabio Araldo, La gestione ambientale nei distretti industriali, in Economia delle fonti di energia e dell’ambiente
2/2002
79
- monitoraggi periodici sulla qualità dei servizi erogati e sulla qualità percepita dagli utenti,
ma anche le procedure per gli inoltri dei reclami, le richieste di rimborso, gli indennizzi per
gli eventuali disservizi;
- l'individuazione dei contenuti obbligatori dei contratti di servizio con cui i gestori, a fronte
degli introiti delle tariffe, dovranno impegnarsi a precisi standard quantitativi, qualitativi ed
ambientali
- la tutela del personale dipendente, anche in caso di subentro di impresa;
- l’istituzione di un Osservatorio regionale, con competenze in materia di analisi
dell’efficienza dei gestori, benchmarking delle prestazioni, interventi correttivi a favore
dell’utente.
- l’istituzione di una “cabina di regia” per gli azionisti pubblici delle pubblic utilities a livello
regionale che coordini, sostenga e qualifichi il ruolo degli azionisti pubblici
135
editoriale di NE, 1/2004
80
Sostenere e diffondere le esperienze di economia solidale
sono molteplici, anche nella nostra regione 136, gli esperimenti di economia solidale che cercano,
attraverso forme di autogestione e di cooperazione, di promuovere:
valorizzazione della dimensione locale: valorizzando delle caratteristiche peculiari dei
luoghi (conoscenze, saperi tradizionali, peculiarità ambientali, ricchezze sociali e
relazionali).
economia di giustizia: impegnandosi mantenere e a favorire condizioni di equità nella
distribuzione dei proventi delle attività economiche, sia tra i membri dell'organizzazione
produttiva, sia fra le diverse aree del sistema economico (tanto al Nord quanto al Sud del
Mondo).
sostenibilità ecologica: svolgendo le propria attività economica secondo modalità tali da
consentire una riduzione dell'impronta ecologica del distretto e comunque tali da non
compromettere, anche nel lungo periodo, l'organizzazione vitale (resilienza) degli
ecosistemi.
La realizzazione pratica dei tre principi fondamentali enunciati viene perseguita attraverso il
metodo della partecipazione attiva dei soggetti alla definizione delle modalità concrete di
gestione dei processi economici. Tale modalità partecipativa presuppone da parte dei soggetti la
disponibilità a confrontarsi e a condividere con altri idee e proposte su progetti definiti di volta in
volta dai diversi soggetti.
Queste esperienze portano con sé una fortissima carica ideale e si organizzano in forme di reti e di
distretti dell’economia solidale. Citiamo tra le diverse esperienze le Botteghe del commercio equo e
solidale, i Gruppi di Acquisti Solidali (GAS: gruppi di consumatori che organizzano l’acquisto di
prodotti locali, biologici, equi e solidali direttamente dai produttori ), le MAG (gruppi
autogestionari di finanza etica dalla cui esperienza è sorta Banca Etica) i LETS (gruppi di persone
che si uniscono a livello locale per scambiare beni e servizi senza bisogno dell’intermediazione del
denaro), le Banche del Tempo, i SEL (sperimentazione di una moneta locale che dia possibilità di
accesso a credito e servizi a dimensione locale). Rilevante è la possibilità di instaurare
collaborazioni e partnership con le istituzioni locali.
Fiscalità ambientale
Il tema della fiscalità ambientale riveste un particolare interesse alla luce del nuovo scenario
costituzionale che attribuisce agli enti territoriali significativi margini di discrezionalità anche in
questo campo. La fiscalità ambientale deve essere considerata un elemento fondamentale per la
politica pubblica ambientale, a qualunque livello di governo essa venga adottata: infatti lo
strumento fiscale, ispirato al principio “chi inquina paga”, permette di influenzare i comportamenti
dei soggetti spingendoli verso scelte ambientalmente più sostenibili. Come è noto, le ragioni a
favore dell’impiego di strumenti fiscali in campo ambientale sono numerose e vanno dagli obiettivi
di efficienza allocativa (le imposte correttive infatti consentono di raggiungere il punto di ottimo
sociale) a quelli di riduzione dell’inquinamento (il pagamento dell’imposta spinge il soggetto ad
una continua ricerca di modalità di produzione o di consumo innovative, cioè a minor degrado
ambientale), fino all’eventuale vantaggio che va sotto il nome di “doppio dividendo” (oltre ai
benefici in termini di politica ambientale, esistono anche quelli collegati alla possibilità di
rimuovere le imposte distorsive vigenti su lavoro e capitale, sostituendole con le imposte sull’uso
delle risorse naturali). In sostanza il ricorso agli strumenti di mercato consente agli agenti
economici di percepire correttamente i segnali di prezzo e di costo comprensivi delle
economie/diseconomie esterne prodotte dalle loro azioni sull’ambiente e, al tempo stesso, apre spazi
per una “tassazione di scopo” che potrebbe ristabilire un equilibrio tra prelievo su lavoro e capitale
da una parte, e prelievo su consumi e inquinamento dall’altra.
136
come l’esperienze di autogestione perseguita dall’Associazione Macramè di Verona o delle Terre della Grola della
Valpolicella, o le MAG attive a Verona e Venezia oltre naturalmente all’esperienza consolidata di Banca Etica a Padova
81
E’ importante sottolineare, però, che il ricorso al mercato non può costituire l’unica risposta
al problema della sostenibilità dei rapporti fra uomo e ambiente. Quindi, una buona strategia
d’intervento per una gestione sostenibile di tutto il territorio regionale dovrà essere una gestione
“integrata” da vari punti di vista: fra i livelli di governo, fra i vari comparti antropici che creano
pressioni sul sistema ecologico e, infine, fra le varie azioni attuabili nel breve o nel lungo periodo.
In questa ottica la Regione si presenta come un livello di governo per il quale la multisettorialità
delle funzioni svolte è così ampia da consentire la progettazione e implementazione di una politica
fiscale con finalità ambientali, che sia coerente e credibile dal punto di vista dei contribuenti. Per
delineare una riforma della struttura fiscale che recepisca le problematiche ambientali e che soddisfi
maggiormente il principio “chi inquina paga” occorrerebbe, non soltanto conoscere le potenzialità
dei singoli strumenti fiscali (esistenti o utilizzabili) e delle relative basi imponibili, ma anche
stabilire in via prioritaria quali possibili linee d’intervento seguire.
Una riforma fiscale “verde” dovrebbe seguire criteri e finalità quali:
- riqualificare in senso ambientale il prelievo fiscale a parità di gettito complessivo, per indurre
comportamenti eco-compatibili;
- privilegiare un intervento leggero ma pervasivo, rivolto a orientare comportamenti
ambientalmente corretti in ognuno dei settori su cui esistono o si possono utilizzare strumenti
fiscali, con manovre su aliquote o basi imponibili piuttosto contenute. In generale, rispetto ad un
intervento fiscale limitato tipologicamente (al limite, una sola imposta) ma di grande rilievo
quantitativo, l’uso di tante piccole imposte ambientali ha il vantaggio di indurre una percezione
limitata del carico tributario provocato dalla politica ambientale e di diffondere gli effetti su più
ambiti;
- infine, adottare criteri settoriale o tematici per la selezione degli interventi: fra quelli che sono i
naturali ambiti di applicazione della tassazione ambientale (fonti energetiche, mobilità, risorse
naturali, emissioni inquinanti).
Si possono ipotizzare delle modifiche per i tributi regionali appartenenti a tre specifiche
macro-aree, la mobilità, i rifiuti e le attività produttive, che rappresentano senza dubbio gli ambiti
prioritari d’intervento per una fiscalità “verde”, vista la rilevanza che vi assumono gli impatti
dell’uomo sull’ambiente.
82
positivi, e di adottare comportamenti e pratiche adeguate al fine di piegare il mutamento a fini che si
ritengono desiderabili. Occorre dare vita all’Agenzia Regionale per l’internazionalizzazione per far
sì che il processo di delocalizzazione si tramuti in un processo complesso, governato e che contenga
obiettivi di sviluppo sociale, sostenibile e democratico.
83
puntare a rendere sostenibile il circuito creditizio sia sul piano sociale che sul piano
finanziario;
inserire la crescita delle micro e piccole imprese in un quadro di sviluppo locale.
I l ruolo della Regione nel campo della finanza pubblica deve essere quello di definire con
chiarezza il quadro degli incentivi alle aziende in base a criteri che favoriscano le imprese e i
progetti innovativi. Inoltre la Regione dovrà dare propulsione al ruolo di Veneto Sviluppo affinché
promuova una politica del credito, che influenzi anche i soggetti privati, nel segno dell’accessibilità.
Politiche di contesto
I territori che riescono ad offrire spazi evocativi, non indifferenziati, entro i quali poter
arricchire le esperienze sociali ha più opportunità di essere in futuro competitiva 139. Un luogo
ospitale, stimolante, aperto al mondo, alle innovazioni, una cultura cosmopolita, aperta alle
differenze, con una importante qualità ambientale e sociale: questo tipo di contesto può favorire
l’apertura e la trasformazione delle nostre PMI, perché può ospitare attrarre nuovi talenti, i soggetti
che detengono il potenziale della conoscenza e della creatività. Giorgio Brunetti sottolinea “ adesso
le imprese per continuare a vivere hanno bisogno dell’aggancio con le università, con i centri di
ricerca, e devono imparare a sentire, se non a dialogare, con altri soggetti anche artisti: leggere
Zanzotto fa pensare, così come sentire Paolini o guardare certi film di Mazzacurati” 140 mentre
Innocenzo Cippoletta si domanda come un territorio possa attrarre giovani intelligenze in grado di
dare stimoli al nostro tessuto produttivo e rilancia: “una vivibilità che, per i giovani talenti, è fatta
innanzi tutto di una moltitudine di occasioni di lavoro, di stimoli intellettuali, di diversità di
ambienti, di presenze artistiche e creative capaci di generare uno stile di vita proiettato sulla
innovazione creativa”141. Anche perché il problema non è solo quello di attrarre nuove intelligenze
ma come avverte Enzo Rullani: “è assolutamente cruciale, a questo scopo, sviluppare
un'intelligenza terziaria radicata sul territorio, che alimenti la crescita di nuove professioni e di
nuove imprese, facendo da interfaccia tra manifattura locale e funzioni commerciali globali.
Un'intelligenza che oggi il territorio ha in misura molto limitata e che, anche pensando alla nuova
politica industriale, comincia a diventare la priorità delle priorità” 142. Per questo occorre una politica
che punti alla riqualificazione delle aree urbane, che freni la pericolosa deriva della città diffusa alla
Los Angeles propria del Veneto centrale, ricostruendo attorno ai nuclei urbani poli di qualità
ambientale sociale in grado di essere magneti di sviluppo del territorio.
84
pienamente conto delle specificità e delle caratteristiche sociali ed economiche della regione” 144. La
dimensione sub-nazionale (regionale e locale) non si limita ad essere il punto di partenza della
domanda (ed il punto di arrivo dell'offerta) di prodotti scientifici e tecnologici ma tende ad
assumere una valenza autonoma, a stabilire direttamente reti di relazioni ed iniziative strategiche nel
campo della scienza e della tecnologia: questo sia in regioni in ritardo di sviluppo attraverso il
contributo dei Fondi Strutturali, sia nelle aree più avanzate secondo la logica dei "motori dello
sviluppo". Quello che stenta a definirsi è un’indicazione chiara sulla strada da intraprendere viste le
risorse e le condizioni socio economiche, come afferma Rullani “servono un’economia e una
politica della conoscenza che partano da una definizione di identità, fissando le qualità distintive del
modello italiano anche nel modo di produrre e propagare la conoscenza” 145. Insomma non ha senso
rincorrere anche sul terreno della ricerca e dell’innovazione i “giganti”, ma occorre identificare i
caratteri peculiari che possono identificare il sistema italiano della ricerca e dell’innovazione.
Il governo regionale deve esercitare un ruolo programmatorio autorevole: “la perdita delle
professionalità tradizionali, le carenze nella formazione di nuove professionalità, la mancanza di
rapporti organici con il mondo della ricerca, sono tutti problemi che i normali automatismi ( il
mercato, la tecnologia, la burocrazia delle amministrazioni) non riescono ad affrontare
convenientemente”146. Partiamo da un tessuto che ha sempre sofferto di fragilità legate
all’innovazione, in particolare la Fondazione Nord Est147 indica le seguenti tre fragilità:
• livello assoluto dell’investimento in R&S (0,5 – 0,6 % sul Pil);
• capacità e qualità delle interazioni ricerca - imprese (il numero di imprese che collabora
abitualmente con Università o Centri di ricerca non supera il 4 - 5% del totale);
• capacità di generare breaktrough tecnologici e di trasformare le conoscenze tacite in conoscenze
codificate (basso numero di brevetti, limitato numero di spin off e start up innovative, innovazione
di tipo incrementale più che fondamentale).
L’arretratezza del modello produttivo crea inoltre una strozzatura tra una offerta di lavoro
sempre più qualificata da parte di giovani e un offerta dequalificata ancorata ancora ad un modello
produttivo basato sul lavoro estensivo e a basso contenuto cognitivo 148. Occorre sostenere
l’innovazione affinché si possa pervenire a processi produttivi a minor consumo di energia e
materia e a minor intensità di lavoro: un’opportunità deriva dalle regole europee, IPPC, Kyoto, ecc,
che assumono per l’Italia la valenza di un obbligo di modernizzazione. Occorre quindi trasformare
questi obblighi in opportunità e valutare i vantaggi che possono derivare dall’innovazione
tecnologica e ambientale da obiettivi tipo zero rifiuti e analisi a pieno ciclo di vita del prodotto.
Cioè, come chiarisce Carlo Donolo, “la condizione per il successo di politiche integrate del
territorio con sostenibilità e della diffusione nei distretti di strategie tipo EMAS e altre certificazioni
sta probabilmente nel legare le politiche ambientali (in senso lato) alle politiche di riqualificazione:
tecnologica, professionale, di prodotto e di processo delle imprese distrettuali”.
Da individuare, come ha sottolineato la Fondazione Nordest, una maggiore articolazione
delle forme agevolative e procedurali in modo da prevedere per ogni intervento lo strumento più
appropriato (contributo a fondo perduto, finanziamento agevolato, bonus fiscale, garanzie
finanziarie, capitale di rischio), insieme al procedimento amministrativo più opportuno (automatico
o valutativo).
85
quanto necessario) di quote di tecnologia all’interno del processo produttivo. Occorre attivare un
processo che coinvolga la società nel suo complesso assumendo la conoscenza come una risorsa
fondamentale per la partecipazione “distribuito” nel sociale e non contenuto in un circuito chiuso 149.
Nulla come la riduzione della conoscenza e del sapere ad un sapere unico mette a repentaglio il
discorso democratico che dev’essere costitutivamente plurale e pluralista. Una vera “società della
conoscenza” rigetterà modelli rigidi e accentrati di produzione delle innovazioni ma privilegerà
modelli inclusivi e partecipativi di discussione pubblica.
La politica deve mirare a promuovere la varietà e la diversità e secondo un approccio
evolutivo: occorre promuovere la creatività, l’adattamento agli stimoli del mercato e la
valorizzazione delle nuove opportunità tecnologiche, tramite la creazione di un sistema di
innovazione composto da un insieme di istituzioni in relazione tra loro e aperto verso l’esterno.
Occorre adottare paradigmi nuovi come quello delle reti e dei sistemi complessi e adattativi, che si
focalizzano sui concetti di innovazione e integrazione e sono appropriati per comprendere e guidare
il cambiamento rapido e pervasivo nelle strutture economiche verso un’economia basata sulla
conoscenza e l’apprendimento. La presenza di voci di dissenso è garanzia di un tessuto culturale
vivace e ricco, come chiarisce Renzo Rullani: “le conoscenze critiche sono quelle che consentono
innanzitutto di innovare coltivando la propria differenza distintiva - con idee originali - attraverso
un rapporto più diretto e dialogico con il mondo della scienza e della tecnologia, ma anche con altri
mondi che possono arricchire il significato di quanto si fa si sa fare” 150. La conoscenza tecnico
scientifica formalizzata va integrata alla conoscenza locale dei fattori ambientali e culturali che
fanno del territorio un unicità.
La conoscenza locale è uno straordinario fattore di comprensione del proprio potere, della
potenzialità di sviluppare percorsi endogeni, autosostenibili e innovativi. Pensiamo inoltre che
politiche dell’innovazione e della conoscenza debbano riguardare non solo il comparto industriale:
il turismo, ad esempio, e i beni culturali abbisognano di un investimento nel campo della
conoscenza delle risorse storico paesaggistiche che avrebbe peraltro un evidente ricaduta
economica. Inoltre è impensabile attuare politiche per l’innovazione e la conoscenza quando
aumenta il peso del lavoro precario, nero, irregolare, usa e getta: l’innovazione di processo e di
prodotto deve necessariamente accompagnarsi alla qualificazione del lavoro attraverso anche la
certezza dei diritti e della dignità dei lavoratori.
Il processo di innovazione dipende non solo dall’accessibilità a conoscenze complementari,
ma anche dalle capacità di assorbimento individuali e queste dipendono dall’investimento nelle
risorse umane, dalla valorizzazione delle conoscenze di base, dallo sviluppo dei sistemi di
formazione e dagli investimenti in formazione continua, che assicurano una maggiore flessibilità e
ricettività al nuovo. In particolare, la creatività dipende dalla capacità di connettere elementi
esistenti in modi nuovi, di accettare stimoli esterni e da uno sforzo continuo di costruzione su questi
stimoli per creare qualche cosa di nuovo151. Noi pensiamo che vadano accompagnate ed integrate
alle politiche per l’innovazione, strategie per coinvolgere le comunità sulle finalità e processi dello
sviluppo, che vada promossa la capacità degli abitanti di sviluppare riflessioni e discorsi pubblici
intorno alle sue caratteristiche. Il sapere scientifico e tecnologico insieme alle sue applicazioni nei
processi produttivi deve divenire una casa di vetro. I Centri di ricerca sulle manipolazione genetiche
in agricoltura, promosse da Cassamarca a Treviso, non hanno la caratteristica di beni comuni per lo
sviluppo del territorio anche se come tali vengono presentati: non tutta l’innovazione è buona,
funzionale ad una riqualificazione dello sviluppo, alla liberazione di tempi di lavoro. Occorrono
luoghi pubblici in cui questo viene discusso: perché la scienza e la tecnologia sono alleati della
qualità se hanno caratteristiche processuali aperte e pubbliche.
149
Enzo Rullani, Economia della conoscenza, Roma, 2004
150
Enzo Rullani, Economia della conoscenza, Roma, 2004
151
Riccardo Cappellin, Le politiche industriali e del lavoro nell’economia della conoscenza, in
www.fondazionedivittorio.it
86
87
luoghi
88
Effetti metropolitani
La fascia centrale della pianura veneta è di fatto diventata oggi un’unica grande
conurbazione, nella quale i flussi di persone, merci, informazioni sono intensi e relativamente privi
di gerarchia.
A questa conurbazione manca tuttavia una qualità urbana (in termini di dotazione di servizi
collettivi, possibilità di usare mezzi alternativi all’auto privata, ricchezza di relazioni sociali e
intergenerazionali, disponibilità di spazi verdi pubblicamente accessibili ecc.) senza che abbia
saputo conservare le precedenti qualità di campagna organizzata all’interno di una densa trama
urbana policentrica. Il modello di sviluppo che l’ha prodotta ha messo infatti al lavoro, negli ultimi
trent'anni, il territorio come fattore di produzione tendenzialmente infinito e a basso costo,
producendo così un urbanizzato diffuso (“città diffusa”, ma priva di effetti urbani) e di bassa
qualità.
Oggi questo territorio caratterizzato da una conurbazione tendenzialmente continua che va
da Verona a Venezia, intasando a settentrione la pianura fino ai primi rilievi prealpini e
rarefacendosi verso Sud nel passare dalla pianura asciutta alle terre di più recente bonifica, è quindi
non più campagna e non ancora città. E’ una campagna male urbanizzata con alcuni luoghi di
qualità che corrispondono generalmente alle aree di più antica urbanizzazione.
Con l'espressione metropoli o conurbazione metropolitana si intende oggi generalmente
designare aree urbanizzate estese e continue; ciò cui ci si riferisce non è tuttavia soltanto (e forse
neppure) una concentrazione straordinaria di popolazione o di aree edificate, quanto la densità di
relazioni, le funzioni di comando rispetto alla rete, le economie di agglomerazione, l’effetto urbano
(tutte le aree metropolitane del comando globale si caratterizzano anche per una loro forte e specifica
identità “urbana”, al contrario delle megalopoli terzomondiali).
Nel contesto europeo, l’attuale enfasi sulle regioni urbane policentriche è indizio della crisi
ormai conclamata dei modelli organizzativi centro-periferici tipici della fase industriale fordista, a
fronte del nuovo ruolo assunto dal territorio nello sviluppo economico e del benessere. Nella nuova
struttura “molecolare” della produzione, che comporta la complessificazione delle relazioni, il
territorio come giacimento di capitale storico, fisico e sociale, diviene risorsa fondamentale per la
produzione di “valore aggiunto territoriale”.
Il progetto ufficiale dell’attuale amministrazione regionale non solo non affronta i problemi
evidenti nel territorio metropolitano veneto, ma promuove una ulteriore deterritorializzazione del
modello insediativo di lungo periodo operata distribuendo nuove funzioni, in particolare centri
direzionali, in corrispondenza dei nodi del sistema stradale e autostradale. Ciò concorrerebbe a
distruggere le residue identità del sistema insediativo storico, svuotando dalle residue funzioni
presenti (malgrado il già compiuto decentramento di servizi pubblici, attività commerciali, buona
parte dell’offerta culturale e ricreativa) i centri urbani; essa comporterebbe inoltre un utilizzo
dell’auto privata ancora maggiore dell’attuale, aumentando i problemi ambientali e la congestione, e
togliendo utenti potenziali al sistema di trasporto pubblico.
Se questo progetto appare dunque per più ragioni inaccettabile, qual’è il progetto di
territorio desiderabile per la città metropolitana?
A prescindere dalle dispute su quale sia la forma istituzionale più adatta a governare la città
metropolitana e su quante e quali debbano essere le città metropolitane venete (Verona, Verona con
le sue propaggini verso Mantova e Trento, Venezia, Pa-Tre-Ve, Vi-Pa-Tre, e tutte le ulteriori
89
combinazioni possibili) appare utile ragionare anzitutto sul progetto di territorio metropolitano
desiderabile, ovvero sugli "effetti metropolitani" che richiedono una regolazione diversa da quella
in atto.
Qui di seguito provo dunque a enumerare una serie di dimensioni progettuali centrali per
ridefinire il problema degli effetti metropolitani e della loro regolazione.
3. la qualità urbana-metropolitana è data in primo luogo dalla qualità dei servizi collettivi e
degli spazi aperti
- Manhattan è anche Central Park e la Subway; Londra è inimmaginabile senza Regent’s Park,
Hampstead, la Green Belt agricola e la Tube; e così via
- la qualità della campagna infraurbana e periurbana è un elemento essenziale per la qualità della
vita urbana, per il commercio di alimenti locali di qualità (i mercati degli agricoltori-contadini, i
mercatini biologici), per la qualità dell’aria, dell’acqua, del paesaggio
- la dotazione e ancor più la qualità gestionale dei servizi (a partire da: trasporto collettivo,
intermodalità, logistica, trasparenza e tempi delle azioni istituzionali e procedure pubbliche)
costituiscono un obiettivo prioritario
4 un buon progetto richiede l’attivazione delle energie sociali, attraverso una partecipazione
ampia, capace di rappresentare gli interessi diffusi e dare spazio alla progettualità
- le forme di regolazione pubblica devono garantire una partecipazione aperta alla definizione e
gestione del progetto
- le società che gestiscono i servizi di pubblica utilità sono attori centrali, ma non devono avere il
potere di imporre i loro progetti, dal momento che rappresentano interessi privati di natura
aziendale
- la democrazia partecipativa va rifondata dal locale, aprendo i luoghi più vicini ai cittadini
(municipalità, comuni) a forme di partecipazione continuativa e integrata
90
5. la dimensione fisica del territorio non è esito ineluttabile delle trasformazioni sociali ed
economiche, ma può determinare i futuri possibili
- le megalopoli informi si sono diffuse e vanno ulteriormente diffondendosi soprattutto nel sud del
mondo, mentre le città del comando globale sono state bene attente a mantenere i loro confini e le
loro invarianti storiche
- una città globale come Londra aumenta la propria importanza economica anche grazie ad una
progettazione territoriale attenta all’identità dei diversi luoghi che formano la città
- una città metropolitana diffusa come la Deltametropool olandese definisce il proprio progetto
fisico futuro per determinare lo sviluppo economico
- lavorare maggiormente sugli scenari fisici può essere molto utile per costruire in modo condiviso
progetti di futuro non eccessivamente ambigui
7. dalla pianificazione funzionale alla pianificazione delle identità: città metropolitana come
federazione di municipalità e dei villaggi urbani che le compongono
- la scarsa e male applicata pianificazione funzionale ha prodotto un territorio metropolitano
spezzatino; se non funzionano le singole parti, come può funzionare la città metropolitana?
- un esercizio fondamentale è quello di riscoprire il villaggio urbano che c’è in ogni lembo della
città metropolitana, per recuperarne il senso e gli attori sociali locali
- ciascun villaggio di cui si compone la municipalità e la città metropolitana deve essere dotato di
qualità urbana: spazi pubblici, possibilità di muoversi senza utilizzare l’automobile, dotazione di
servizi collettivi, densità insediativa sufficiente a permettere tutto questo, accessibilità diretta alla
campagna e agli spazi naturali
- ciascun villaggio può e deve prendersi cura di ciò che gli sta attorno, sia essa campagna,
infrastrutture, corsi d’acqua e quant’altro
- ciascuna municipalità, rapportandosi al proprio territorio aperto, può e deve porsi il problema della
sua impronta ecologica
- gli insediamenti produttivi, se non compatibili con le altre funzioni, devono essere progettati a loro
volta con attenzione alla loro impronta ecologica, alla campagna e agli spazi naturali circostanti, ai
servizi e alle infrastrutture richieste
- le diverse funzioni commerciali, direzionali e di servizio vanno distribuite nei centri per arricchire
l’effetto urbano, sostenere la dotazione dei servizi pubblici e ridurre la mobilità automobilistica
91
Perseguire come primo obiettivo la competitività economica, interpretandola come
strettamente interrelata alla crescita, non è il modo migliore per soddisfare i rimanenti obiettivi
enunciati, come dimostrano ad esempio gli effetti sociali e ambientali di medio periodo del modello
Nordest. E’ pertanto necessario ridefinire l’agenda politica ridimensionando il ruolo dominante della
competizione economica, a favore di modelli di sviluppo che perseguano il benessere attraverso una
diversa attenzione alla qualità dei fattori sociali, ambientali e territoriali. Il concetto tradizionale di
rango (basato sul solo PIL) cambia quando vengono introdotti nuovi indicatori di benessere.
A ben guardare, in Europa sempre più il confronto e la competizione non avvengono fra
singole metropoli interne a un’unica entità nazionale, ma piuttosto fra regioni urbane diversamente
collocate in un unico spazio economico e politico europeo. Ma che si tratti di singole città o regioni,
vi è un riconoscimento scientificamente fondato che se tutte competono l’una contro l’altra per porsi
verso l’alto, anziché per sviluppare al meglio le loro specificità e relazioni cooperative a livello
locale/regionale e tra reti di città transnazionali, creando sinergie fra i reciproci punti di
forza/eccellenze, ci saranno molti vinti e pochi vincitori.
Se fra le varie parti della conurbazione metropolitana veneta prevarrà la competizione,
anziché la cooperazione nel definire un disegno territoriale che promuova le diverse identità
specifiche, contrastando l'attuale tendenza ad annullarle in una marmellata omologante, assegnando
a ciascuna il ruolo che essa ha dimostrato di saper svolgere al meglio, e costruendo insieme servizi
comuni migliori, difficilmente si otterranno effetti metropolitani di qualità.
Anna Marson
92
Il Veneto sulle rive del mare
Coste e lagune
Le coste del Veneto si sviluppano per circa 113 km dal sistema deltizio del fiume Po alla
foce del Tagliamento e si caratterizzano per la natura bassa e sabbiosa. La linea di costa è interrotta
nella propria continuità soltanto dalle bocche di porto degli apparati lagunari e dalle foci dei
numerosi fiumi di natura alpina e prealpina che si immettono in Adriatico.
Sul fragile ecosistema della linea di costa si sono addensati gli effetti del modello di
sviluppo veneto: tra massiccia occupazione edilizia e balneare, vaste bonifiche agrarie e “usi” del
mare e delle coste artificiosi e dilaganti (vedi il boom della motonautica da diporto e i porti
turistici), solo pochissimi tratti di costa possono nel Veneto far presagire quale doveva essere il
paesaggio di inizio novecento. Si è trattato di un fenomeno assai recente che in poco più di un
secolo ha completamente trasformato, e in larga parte distrutto per sempre, il patrimonio naturale e
biologico delle coste venete. D’altronde stando all’interno di una logica di sviluppo predatorio è
difficile pensare di salvaguardare i delicati equilibri dell’assetto costiero che sono regolati da
processi complessi coinvolgenti il retroterra e il mare antistante152.
La costa rappresenta sia un fondamentale punto di lettura e monitoraggio della situazione che è
venuta a determinarsi nel rapporto terra/mare, sia la base di una politica nuova per avviare una
spirale virtuosa nel rapporto tra aree interne e aree marine. Lo studio, e l’efficace governo e tutela,
non può prescindere da un’approfondita conoscenza dei bacini idrografici che gravitano su un
determinato litorale.
Competenze regionali
La Regione ha competenze, riguardo le problematiche della costa e del mare, molto ampie
(D.Lgs 31.3.1998 n° 112):
- programmazione e gestione integrata degli interventi di difesa delle coste e degli abitatati
costieri
- programmazione, pianificazione, progettazione ed esecuzione degli interventi di
costruzione, bonifica, e manutenzione dei porti di rilievo regionale e interregionale, e delle
opere edilizie a servizio dell’attività portuale
- rilascio di concessione di beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale.
Quindi vi è un’ampia possibilità di impostare e promuovere politiche significative a livello
regionale.
Le principali problematiche che riguardano la relazione tra il Veneto, il suo litorale e il mare
possono essere così identificate:
la localizzazione lungo le coste di attività altamente inquinanti come le industrie
petrolchimiche;
la costruzione di centrali termoelettriche insediate in alcune fra le aree più pregiate per
presenze artistiche e naturalistiche;
lo sviluppo di un'agricoltura con forte impiego di sostanze chimiche, sia per la
fertilizzazione che per la difesa delle colture;
un aumento esponenziale degli insediamenti civili e produttivi con gravi effetti di
impermeabilizzazione del territorio;
152
Marcello Zunica, Lo spazio costiero italiano, Roma, 1987
93
una concentrazione spazio-temporale dell'industria delle vacanze e del turismo di massa che
pone il problema di un alleggerimento del carico antropico a favore dello sviluppo di un
turismo con livelli di qualità più elevati, anche come condizione per poter avere una
effettiva destagionalizzazione e migliori risultati economici;
un aumento esponenziale dello sforzo di pesca che ha provocato l'emergere di gravi
problemi per il settore;
Occorre pertanto porre sul tappeto importanti temi di programma e di progetto quali:
una pianificazione integrata attraverso un Piano regionale della fascia costiera con funzioni
di indirizzo e coordinamento nei confronti dei Piani comunali;
la realizzazione di una rete costiera di parchi e riserve naturali;
l'utilizzazione e la razionalizzazione della portualità esistente;
la riqualificazione e la sottrazione dei manufatti esistenti e lo stop a nuova edificazione;
l'avvio di seri progetti per il turismo ecocompatibile, agendo verso la destagionalizzazione,
facendo chiarezza su quello che potrebbe essere il più serio problema per la conservazione
dei prossimi decenni;
la difesa della costa dall'erosione e dall'inquinamento.
94
Un esempio luminoso di riconversione radicale e partecipata dello sviluppo è quello di Calvià
nelle Isole Baleari dove, attraverso un Piano d’azione costruito grazie alla partecipazione dei diversi
soggetti, si è posto mano ad una incisiva ri-naturalizzazione della costa e si è impostata un offerta
turistica basata sui beni ambientali.
Come è già successo nel campo dell’alimentazione una nuova domanda sta cominciando a
spingere i tour operatori a fare scelte nuove: pensiamo all’esperienza del “pesca turismo”, una
nuova modalità di turismo sostenibile ideata e gestita da cooperative di pescatori in diverse zone
d’Italia che integrano la loro tradizionale attività portando turisti a bordo per illustrare le regole, i
tesori e i problemi del mare e della pesca 157. Purtroppo la cecità dei nostri amministratori, e di molti
operatori economici, induce ad identificare sempre nuove frontiere di espansione quantitativa
misurata in metri cubi di cemento. Esautorata la costa di manufatti residenziali la nuova “sfida” è
rappresentata dalla nautica da diporto - settore in forte espansione anche grazie a politiche fiscali
compiacenti - con relativi porti e residenze annesse. Emblematico è il caso del Palalvo - il Piano
d’area della Laguna e dell’area litorale del Veneto Orientale - un colossale assalto cementizio che
prevede la costruzione di ben 9 porti turistici, con annessi villaggi, per un totale di due milioni e
mezzo di metri cubi di cemento 158. La nautica da diporto rappresenta così il “nuovo volano” per
l’ulteriore cementificazione delle coste e l’erosione degli ultimi frammenti di naturalità del litorale
veneto. La diffusione della nautica da diporto nei canali interni porta con sé l’impatto, devastante
nel caso della delicata morfologia lagunare, del moto ondoso 159. Una riproposizione sulle vie
d’acqua del fenomeno della motorizzazione di massa.
Erosione costiera
Il mancato apporto solido dei fiumi dovuto all’estrazione di inerti e alla cementificazione degli
alvei è una delle principali cause dell’erosione costiera. Analogamente la selvaggia
cementificazione sulle coste e l’assenza di sistemi di protezione ha fatto sparire le dune e le
retrodune, veri serbatoi di sabbia e naturali barriere antierosione. Recentemente la Commissione
europea ha reso noti i risultati dello studio “Living with Coastal Erosion in Europe: Sediment and
Space for Sustainability” da cui emerge che già un quinto della superficie costiera dei paesi
dell’Unione è soggetto ad una riduzione della linea di costa compreso tra 0,5 e 2 metri l’anno con
casi particolarmente gravi che arrivano sino a 15 metri. Lo studio fornisce anche delle
raccomandazioni per contrastare il fenomeno a livello europeo, che consistono sostanzialmente nel
rafforzare l’elasticità costiera ristabilendo un equilibrio sedimentario; intervenire con atti
pianificatori e di investimento, ma anche attraverso l’approfondimento delle attuali conoscenze.
Negli ultimi anni, diversi tratti della costa veneta sono stati oggetto di importanti interventi di
ripascimento con sabbia prelevata da cave marine in corrispondenza di antiche linee di costa, che
hanno portato ad una ricostruzione dell’arenile per alcune decine di chilometri. Solo per quanto
riguarda il litorale del Veneto orientale è prevista un’opera di ripascimento con 1.600.000 m3 di
sabbie, mentre per quanto riguarda i litorali veneziani è previsto l’apporto di 2.000.000 di m3 di
sabbie. Il costo degli interventi per la Regione Veneto, per il quadriennio 2001-2004, è di
50.295.000 euro. Un investimento molto oneroso che rischia di avere effetti solo nel brevissimo
termine. L’operazione di ripascimento effettuata, ad esempio, ad Eraclea Mare, dopo solo un anno,
è stata vanificata per più del 50%.
Emerge la consapevolezza che non tutte le spiagge sono difendibili, anche perché in molti
casi è proprio la loro erosione che garantisce l'afflusso di sabbia a settori limitrofi, e molte delle
soluzioni fino ad ora adottate per contrastare l’erosione su alcune spiagge, hanno determinato
157
Alfredo Somozza, Viaggiare ad occhi aperti, ovvero il turismo responsabile, in Gianni Palumbo, Danilo Selvaggi (a
cura di), Le coste italiane, Parma, 2003
158
segnaliamo la strenua opposizione a questo progetto in difesa della laguna del Veneto orientale portata avanti dal
Comitato Difesa Territorio Caorle www.parcolagunarevenetorientale.it
159
Giannandrea Mencini, Sull’onda viva del mare, Roma, 2000
95
l’arretramento di arenili limitrofi. E’ bene anche richiamare l’attenzione riguardo ai possibili effetti
sull’ecosistema per lo sfruttamento delle cave di sabbie sottomarine: è evidente che, per avere
maggiori garanzie sugli eventuali disturbi dell’azione di dragaggio delle sabbie sottomarine, sarebbe
necessario avviare una fase conoscitiva, oltre a quella attuale di monitoraggio, da affidare ad
organismi scientifici estranei alle fasi istituzionali di intervento. Devono inoltre essere considerati
con attenzione gli effetti sull’ecosistema marino e sull’attività di pesca, che in molte situazioni si
rivelano devastanti.
E’ fondamentale tenere presente che le soluzioni tecnologiche intervengono di fatto per
limitare degli effetti e che a queste è comunque necessario affiancare politiche di gestione del
territorio in grado di frenare invece le cause che determinano l’erosione non naturale delle
coste.
Il convivere con l'erosione è la nuova sfida che ci aspetta e se saremo costretti a difendere in
ogni modo litorali intensamente urbanizzati, occorrerà parallelamente valutare in quali ambiti
consentire all'erosione di procedere, considerando che in molti casi la delocalizzazione di piccole
strutture ha dei costi economici, e certamente ambientali, assai minori di quelli della difesa ad
oltranza.
In questo quadro non è pensabile proseguire nell'edificazione delle fasce costiere, ben sapendo che
sarà fra breve necessario intervenire per difendere gli stessi insediamenti.
Lagune
“La laguna è anche quiete, rallentamento, inerzia, pigro e disteso abbandono, silenzio in cui
a poco a poco s’imparano a distinguere minime sfumature di rumore, ore che passano senza scopo e
senza meta come le nuvole; perciò è vita, non stritolata dalla morsa del dover fare, di aver già fatto
e già vissuto - vita a piedi nudi che sentono volentieri il caldo della pietra che scotta e l’umido
dell’alga che marcisce al sole”160. Claudio Magris coglie così alcuni caratteri della laguna, un
ecosistema, sopravvissuto in alcune nicchie alle profonde trasformazioni di questo secolo, la cui
fragilità, e insofferenza alle dinamiche della cosiddetta modernità, invoca cure e strategie
particolari.
Le lagune dell’alto Adriatico presentano caratteri geografici, idrografici, ecologici, e naturalistici
tali da renderle uniche nel contesto europeo. Ormai eccezioni lungo una costa fortemente
trasformata e omologata dalla mano dell’uomo, le lagune si presentano ancora come importante
giacimento di naturalità, essendo caratterizzate da un mosaico di habitat diversi che ne fanno un
prezioso serbatoio di biodiversità animale e vegetale. L’analisi dell’impronta ecologica della
Provincia di Venezia evidenzia il ruolo insostituibile della Laguna Veneta nel bilanciare l’impatto
ambientale, altrimenti insostenibile anche nel breve periodo, delle attività produttive della
provincia161. Insomma le lagune non rappresentano solo un valore estetico e naturalistico
ineguagliabile, ma pure una “stampella” ecologica ed energetica ad un sistema al collasso. Anche
per questo occorre definire senza esitazioni obiettivi di preservazione, riqualificazione, bonifica
(vedi Marghera→) e riequilibrio idraulico. Occorre un’opera paziente e “fine” che ripari ai guasti
del novecento che hanno alterato un equilibrio costruito in secoli di cure, e che và di pari passo, anzi
è la stessa cosa, della salvaguardia e promozione di Venezia. In quest’ottica il Mose diventa parte
del problema, non certo una soluzione162. Mentre lo strumento del Parco naturale per le lagune del
Veneto, già previsto dal Piano Territoriale Regionale di Coordinamento, può ridare unitarietà
necessaria agli interventi da compiere all’interno di questi ecosistemi.
Le lagune, da zone di crisi, aree depresse da bonificare o ultime aree di frontiera da
conquistare, possono rappresentare uno straordinario laboratorio per una convivenza fra attività
160
Claudio Magris, Microcosmi, Milano, 1998
161
Arca onlus, Provincia di Venezia, Università degli Studi di Siena, Studio di Sostenibilità della Provincia di Venezia,
2003
162
vedi Gianfranco Bettin, Dove volano i leoni, Fine secolo a Venezia, Milano, 1991
96
antropiche e delicati equilibri ambientali. Se la necessità della tutela, anche attraverso la creazione
di Parchi regionali - interregionali nel caso del Delta del Po - dotati delle necessarie risorse
economiche e normative, è fuori di dubbio, con essa va integrata un’opera di promozione e
riscoperta di quelle attività e culture lagunari che nei secoli hanno caratterizzato una civiltà. La
riscoperta di un patrimonio di natura e di cultura che può essere considerato un paradigma
esemplare, particolarmente utile nel recuperare misura ed equilibrio in molte delle nostre attività,
negli stili di vita, di consumo, d’uso e persino di produzione.
97
molto particolare. Soprattutto se del "sistema" entreranno a far parte adeguati corridoi ecologici che
evitino la formazione di un arcipelago di aree biologicamente sane avulso dal contesto territoriale
sempre più degradato, e grazie ai quali si eviti di concedere all'ambiente una percentuale di
territorio, per poi fare della rimanente quello che si vuole. Il concetto di corridoi ecologici (o
biologici) dovrebbe essere esteso anche al concetto di salvaguardia delle unità di paesaggio, facendo
coincidere gli interessi più specificatamente ambientali a quelli di tipo storico-culturale che sono
estremamente importati e diffusi proprio nell'Italia mediterranea. Questa unitarietà, questa
particolarità che pure caratterizza una estensione di molte migliaia di chilometri, è stata fino ad oggi
di fatto ignorata nel dibattito concernente i temi della protezione. In genere si parla di parchi
terrestri e di aree marine, ma non di parchi il cui operato è condizionato da questa specificità
territoriale che è appunto la fascia costiera.
Un sistema dei parchi e delle aree protette della costa potrebbe avere come pilastri il Parco lagunare
di Caorle e Bibione, il Parco della Laguna di Venezia e il Parco del Delta del Po, intesi come nodi
primari di una rete ecologica che irraggia la loro azione – e le loro buone pratiche - nel territorio
limitrofo, laboratori di sostenibilità, motori di uno sviluppo diverso.
Pesca
A livello globale, così come nei nostri mari, la pesca industriale sta provocando il tracollo
delle risorse ittiche. Chiari segni di sovrasfruttamento di importanti stocks di pesce, modificazione
degli ecosistemi, significative perdite economiche e conflitti internazionali stanno mettendo in crisi
la sostenibilità a lungo termine delle risorse. Secondo la FAO tra il 1950 e il 1997 il pescato
oceanico globale è passato da 19 milioni di tonnellate a oltre 90 milioni l’anno, toccando
probabilmente il limite massimo di sfruttamento: 11 delle 15 maggiori aree di pesca e il 70% delle
principali specie ittiche sono sovrasfruttate o sfruttate al limite biologico. Occorre promuovere lo
sviluppo e la crescita del sistema della aree marine protette, che occupano appena lo 0,5% della
superficie degli oceani, e la diffusione anche in Italia dei sistemi di certificazione della pesca
sostenibile. Le aree marine protette sono una delle misure più concrete ed efficaci per conservare
l’integrità degli ecosistemi, promuovere il turismo sostenibile e accrescere le popolazioni delle
specie ittiche oggetto di pesca. Lasciar crescere i pesci in un’area protetta è un investimento a lungo
termine: è come depositare i propri soldi in banca e attendere gli interessi. Inoltre le aree limitrofe
alle aree marine protette sono altamente produttive per i pescatori, come dimostrano gli esempi in
Kenya, nel Parco Marino Nazionale vicino a Mombasa, dove si registra un incremento del pescato
del 110% e in Tunisia, vicino alla Riserva Marina di Tabarca. In Italia basta ricordare i vantaggi per
la pesca e per il turismo della Riserva Marina di Ustica e quella di Miramare, a Trieste.
Per questo occorre dare seguito concreto alle proposte d’istituzione di una fascia costiera di
3 miglia interdetta alla pesca a strascico che abbia nelle Tegnùe - formazioni rocciose affioranti dal
fondale sabbioso, colonizzate da una ricca e particolare flora e fauna, veri e propri giacimenti di
biodiversità - i capisaldi. Contestualmente occorre, insieme ai pescatori, promuovere attività di
pesca non invasive e selettive. Il ruolo del pescatore in questo contesto va sempre più inquadrato
nelle indicazioni del Codice di Condotta della Pesca Responsabile (FAO 1996), dove la sua
figura è intesa come protagonista della gestione e dell'uso compatibile del mare, non più quindi
come soggetto dedito esclusivamente al prelievo delle risorse. Del resto, più di altri settori la pesca
si basa su un rapporto imprescindibile fra il pescatore e il mare, risultato di tradizioni tramandate e
radicate nel corso dei secoli, fatto di profonda conoscenza e rispetto.
98
collaborazione fra le popolazioni rivierasche per la rinascita di una civiltà di origini antiche e grandi
prospettive con lo sviluppo della ricerca, la gestione attenta e consapevole delle ricchezze
ambientali ed economiche, una pesca più rispettosa degli equilibri biologici, un turismo
d'eccellenza, un'agricoltura e un'economia di qualità.
Nonostante i guasti delle politiche che hanno marginalizzato l'importanza del Mare
Adriatico nel corso del novecento, appare auspicabile e necessario l'impegno di tutte le realtà
istituzionali, politiche ed economiche delle sue coste, per avviare una collaborazione che porti alla
rinascita dell'intera area, e in questo percorso le regioni e gli enti locali possono avere un ruolo di
primo piano. E’ necessario un preciso impegno politico a continuare i lavori per la realizzazione di
una "Area Marina Particolarmente Sensibile" riconosciuta dall'Organizzazione Marina
Internazionale.
Il riconoscimento cioè dell'Alto Adriatico come "un'area che necessita di una protezione speciale
attraverso l'azione dell'OMI e per la sua rilevanza dovuta a riconosciute ragioni ecologiche, socio-
economiche o scientifiche e che può essere vulnerabile all'impatto ambientale delle attività legate
al traffico marittimo".
Il Mare Adriatico rappresenta uno straordinario ecosistema ambientale e sociale. Sul suo
bacino si affacciano popoli diversi e le sue acque hanno visto civiltà diverse incontrarsi e scontrarsi.
Dal punto di vista ambientale l'Adriatico è ricco di luoghi suggestivi, ma anche particolarmente
delicati. Un ecosistema delicato, un "mare chiuso" che necessita di un'attenzione particolare e di
azioni che permettano di poter salvaguardare la prospettiva di un territorio e di una risorsa marina di
qualità.
Marco Favero
99
Marghera: alle radici del futuro
L’orizzonte negato
Il porto industriale di Marghera osservato dalla laguna esercita un certo fascino. Ribaltando
il punto di osservazione, però, le emozioni cambiano: si cerca istintivamente l’acqua senza trovarla
e la laguna, vista da Marghera città, diventa un orizzonte negato. Ogni varco è chiuso dalle
recinzioni delle industrie e oltre, acciaio e fumi, impianti ancora attivi ed edifici abbandonati in
progressiva decadenza, aree in rapida trasformazione e luoghi desolati, da qualunque accesso, ogni
relazione con l’acqua è preclusa. Eppure, nel quartiere, ancora in molti raccontano dei bagni alla
spiaggia della “Rana”, un angolo particolare della laguna raggiungibile dopo una lunga passeggiata
attraverso i campi dei “Bottenighi”. La sabbia era portata dalle acque del “Tron” e del “Lusore”,
due corsi d’acqua originati da risorgive che attraversano le campagne ad ovest di Venezia. Oggi,
alla foce, poco prima dello sbocco in laguna, i due fiumi si trasformano in un canale industriale
dalle sponde cementificate e con una portata in buona parte costituita da scarichi industriali che, nel
corso degli anni, hanno profondamente mutato la composizione dei suoi fondali trasformando il
limo in una micidiale composizione di sostanze chimiche organiche ed inorganiche difficilmente
riscontrabili altrove in queste quantità, qualità e diversità. E’ difficile, oggi, comprendere le ragioni
di chi ha voluto insediare una delle maggiori aree industriali d’Europa ai margini di un ecosistema
fragile e delicato come quello della Laguna di Venezia, in compenso possiamo misurarne le
conseguenze: chilometri di canali scavati nel cuore della laguna a profondità incompatibili,
devastanti per la regolazione dei flussi di marea e per la morfologia lagunare; migliaia di ettari di
terreni agricoli, barene e velme imboniti con i materiali derivanti dallo scavo dei canali e con i
rifiuti tossici delle prime industrie insediate; enormi quantità di sostanze inquinanti riversate
direttamente per decenni nelle acque della laguna ed accumulate sui fondali; migliaia di tonnellate
di altre sostanze, anche cancerogene, immesse nell’atmosfera attraverso camini privi di qualsiasi
sistema di abbattimento. Anche i suoli, da “Passo Campalto” a “Fusina”, passando per i “Pili” e
attraversando prima e seconda zona industriale sono tutti contaminati, a volte fino a tre metri di
profondità: fosfogessi, fluorogessi, derivati della bauxite, ceneri di pirite, idrocarburi clorurati,
ceneri di carbone, nerofumo, fanghi al mercurio, metalli pesanti ed altro. Milioni di metri quadrati
da bonificare o mettere in sicurezza.
Questa è la fotografia attuale di Marghera e delle zone industriali attigue, un’immagine che
riflette un sistema legislativo e un’azione amministrativa in grave ritardo rispetto ai nuovi scenari
industriali della globalizzazione dei mercati e delle produzioni, con conseguenze pesanti sulle
possibilità di trasformazione e risanamento degli insediamenti industriali allocati a Porto Marghera.
Un ritardo che rischia di trasformarsi in una condanna a morte dell’intera area, lasciando un
mucchio di macerie contaminate e irremovibili a testimoniare uno dei più discutibili modelli di
sviluppo dell’occidente.
Si tratta di questioni purtroppo comuni alla maggior parte delle vecchie aree produttive
italiane ed europee nate e cresciute nello stesso periodo e, in questo caso, aggravati e complicati
dalla particolare sensibilità e originalità dell’ambiente lagunare, dalla fragilità della città di Venezia
e dalla vicinanza di estese aree urbane.
E’ proprio alla consapevolezza dell’irreversibilità dei cambiamenti in atto e alla necessità
dell’avvio di nuovi percorsi di risanamento e di sviluppo, che deve ispirarsi una nuova progettualità
urbanistica e una conseguente prassi amministrativa, rivolte decisamente al del futuro, perché
Marghera è molto di più della sua zona industriale: è la realizzazione vissuta di un raro esempio di
quartiere immaginato come modello di pianificazione urbanistica secondo i più lungimiranti
indirizzi della prima metà del secolo scorso; è, insieme, territorio anfibio di bordo lagunare travolto
dai segni del lavoro industriale; è una rassegna antologica particolarmente rara delle straordinarie
vicende geologiche, fluviali e idrauliche che hanno interessato il bordo perilagunare interno di una
100
delle lagune più trasformate dall’uomo nella sua storia millenaria; è territorio di antichi boschi
planiziali e di palude; è luogo fondamentale del pluricentrico Comune di Venezia, via via
tramutatosi da approdo a porta acquea verso l’interno a zona industriale potente; è teatro delle più
significative battaglie sociali, sindacali ed ambientali dell’ultimo secolo; è terreno di confronto nella
definizione di nuovi assetti economici e produttivi orientati allo sviluppo sostenibile. E’, insomma,
laboratorio sperimentale della post-modernità che conserva memoria e densità storica di ogni epoca
che qui, evolvendosi, lasciò un segno rintracciabile iscritto proprio in questo territorio incerto.
Marghera è tutto questo e per questo può diventare molto altro.
Ad esempio, una nuova frontiera per la scienza e la tecnica: un laboratorio di
sperimentazione per riparare i danni ambientali prodotti da forme di sviluppo ambientalmente e
socialmente insostenibili. Saranno i chimici, gli urbanisti, i sociologi, i biologi, gli economisti e i
geologi ad occuparsi di restituire alle generazioni future un territorio privo di rischi per la salute e
per l’ambiente, luoghi in cui consolidare una nuova economia capace di rispettare le capacità di
carico dell’ambiente in cui si insedia. Un sapere articolato e multidisciplinare che dovrà orientare
amministratori più attenti verso forme insediative capaci di modellare i luoghi del lavoro e delle
relazioni sociali, creando il paesaggio futuro più simile a quello del passato e quindi riprendendo il
filo della sua originale identità. Ciò deve riguardare non solo le aree produttive ma anche quelle
urbane di periferia dove si e vissuta inconsapevolmente una espropriazione del capitale naturale
durata quasi un secolo.
Lavorare per Marghera assume quindi un significato che è al tempo stesso, etico, estetico,
ambientale, sociale e che per queste molteplici ragioni diventa infine non solo e non semplicemente
una nuova fase della trasformazione del territorio interessato, ma il recupero di ogni trasformazione
precedente in una sintesi la cui portata diventa, di fatto, storica.
Un “crimine di pace”
“Chi ha perso in questa storia sono i singoli lavoratori: prima tenuti all’oscuro di tutto, poi
ingannati, svillaneggiati, sfruttati, ricattati e, peggio ancora, fatti morire o ammalare”. E’ un
passaggio della requisitoria del Pubblico Ministero Felice Casson durante il processo ai dirigenti
della Montedison per strage e disastro ambientale. Un processo che ha avuto il merito di portare alla
luce il fatto che un’impresa, una grande impresa di Stato, in nome del profitto ha deliberatamente
messo a repentaglio la vita e la salute di migliaia di persone. Sempre Felice Casson dichiara: “la
Montedison si è comportata come un necroforo. Ha cinicamente aspettato di avere i morti in casa:
non ha voluto muoversi prima”. Una nuova stagione per Marghera e per l’area industriale non può
che partire dall’impegno a restituire giustizia alle vittime di questo immenso “crimine di pace”.
La storia di Porto Marghera è tristemente nota all’Italia intera. Così come è noto l’articolo
15, III° comma, delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore di Venezia del 1962, che
condannò Marghera ad essere quel che è stata per decenni. Secondo quell’articolo «...nella zona
industriale di Porto Marghera troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono
nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze
velenose, che producono vibrazioni o rumori». E così in effetti è stato. L’elenco delle attività
produttive che nei trent’anni in cui è rimasta in vigore questa norma sono state realizzate a
Marghera è impressionante: uno dei più grandi poli chimici del nostro paese, alluminio, cantieristica
navale, raffinazione, siderurgia, energia elettrica, commercio di prodotti petroliferi.
Il polo chimico ha prodotto moltissime materie prime, prodotti intermedi e prodotti finali. In
particolare, nel 1951 vengono avviati i reparti cloro - soda che producono cloro, soda caustica e
ipoclorito e l’anno successivo inizia la produzione di trielina, acetilene e quindi cloruro di vinile
monomero (CVM) e polivinilcloruro (PVC). E’ a Marghera che inizierà la produzione della plastica
in Italia. Ma si producono per decenni anche fibre acriliche e fertilizzanti, ammoniaca ed etilene,
acido fosforico e fluoridrico, solo per citarne alcune. Ancora oggi, compresi nel perimetro
industriale abbiamo potuto censire 1500 diversi punti di emissione in atmosfera dai quali escono, in
101
quantitativi davvero preoccupanti, 120 diverse sostanze chimiche che comprendono composti
tossici e cancerogeni.
Bonifiche
Porto Marghera è una delle aree più avvelenate d’Italia ed è insieme all’Acna di Cengio e
Bagnoli ai primi posti della lista dei “siti industriali d’interesse nazionale” in attesa di bonifica,
previsti dalla legge 426/98. Il censimento dei siti contaminati di recente realizzato dalla Provincia di
Venezia, documenta una situazione impressionante: una superficie che si estende per milioni di
metri quadrati, compresa tra il bordo lagunare e i canali industriali, è stata coperta di rifiuti
industriali. I residui solidi delle industrie di Porto Marghera sono serviti per interrare barene,
“consolidare” terreni o riempire cave dimesse adiacenti le aree industriali. I reflui liquidi non
depurati, versati direttamente in laguna, hanno trasformato i fondali dei canali industriali in
concentrati chimici micidiali. Gli effetti epidemiologici delle emissioni atmosferiche sono oggetto
di analisi solo in questi ultimi anni, tuttavia segnalano un’incidenza altissima fra le emissioni
inquinanti in atmosfera e talune patologie gravi. L’analisi di terreni e fondali riporta alla luce i
fosfogessi (radioattivi) espulsi dalla chimica degli azotati, i fluorogessi prodotti dalla chimica del
fluoro, i derivati della bauxite provenienti dalle imprese dell’alluminio, le ceneri di pirite derivanti
dalla produzione di acido solforico, gli idrocarburi clorurati (diossine comprese), i fanghi al
mercurio e il nerofumo dispersi dal petrolchimico, ceneri di carbone bruciate nelle centrali
termoelettriche, metalli pesanti e altro ancora.
Secondo il “Rapporto sulla compromissione e lo stato dei fondali lagunari” commissionato
dal Magistrato alle Acque e dall’Autorità Portuale di Venezia per mappare le aree “compromesse”
del bacino lagunare, risulta vi siano oltre 7 milioni e mezzo di metri cubi di fanghi tossici e nocivi
dei quali ben 1.600.000 metri cubi sono molto pericolosi e per questo dovranno essere scavati e
opportunamente trattati in modo da non rilasciare più agenti tossici e preservare le falde sotterranee
dai rischi di inquinamento.
Un’area più estesa della città storica di Venezia è contaminata e deve essere bonificata o
messa in sicurezza per evitare rischi ambientali o sanitari. Ad oggi sono disponibili, e si stanno già
utilizzando, circa 70 milioni di euro stanziati dai governi del centrosinistra alla fine degli anni
novanta (ministro Ronchi) e 271 milioni di euro della Montedison ottenuti dal Pubblico Ministero
Casson nell’ambito del processo al Petrolchimico come risarcimento del danno ambientale. Per il
164
si veda: Comune di Venezia, Variante al Piano regolatore di Porto Marghera, in Urbanistica quaderni, 9/1996
102
risanamento complessivo mancano svariati milioni di euro, cifre che hanno l’ordine di grandezza di
una manovra finanziaria. Gli interventi in corso riguardano solamente la messa in sicurezza di
emergenza della zona industriale, tramite marginamento delle sponde che confinano con il bordo
lagunare e l’escavo dei fanghi contaminati dai canali industriali. Nulla è fino ad oggi disponibile,
nonostante l’accordo nazionale del ‘98 per la chimica preveda un contributo pubblico fino al 50%,
per le bonifiche dei terreni industriali contaminati.
Sarebbe grave dimostrare nei fatti di non aver imparato nulla dalla nostra storia e vedere la
delicata e complessa opera di risanamento di Porto Marghera trasformarsi in un’enorme azione
speculativa incapace di restituire aree produttive utili all’economia veneziana o ambienti e paesaggi
riqualificati e fruibili. Non è inutile allarmismo. Le contese tra i vari soggetti interessati rallentano
ormai da troppo tempo sia l’applicazione delle disposizioni ministeriali per l’esecuzione delle
bonifiche o delle messe in sicurezza, sia l’utilizzazione dei milioni di euro già potenzialmente
disponibili per interventi urgenti. Altre parti del mondo hanno già affrontato e risolto problemi
analoghi a questi165, ma per Venezia l’incredibile intreccio di competenze, poteri e interessi rischia
di paralizzare l’azione di risanamento. A questo punto occorre semplificare le procedure e
individuare precisamente le responsabilità del Comune di Venezia, della Provincia, della Regione,
del Ministero dell’Ambiente e, soprattutto, delle aziende proprietarie delle aree o responsabili del
danno ambientale.
165
come nel caso della riconversione del bacino industriale della Ruhr in Germania
103
è quello di mantenere l’attuale insostenibile filiera produttiva basata sugli idrocarburi e sul cloro,
producendo così grandi quantitativi di idrogeno per non meglio identificati utilizzi finali. Il tutto
cercando, grazie alla diffusa disinformazione sulla natura dell’idrogeno, di accreditare l’immagine
di un’industria disponibile a nuove tecnologie compatibili con l’ambiente.
166
Comune di Venezia, Variante al Piano regolatore di Porto Marghera, in Urbanistica Quaderni, 9/96
104
la politica deve promuovere il processo decisionale - così come è già avvenuto nel caso della
Variante al Piano Regolatore e per alcuni aspetti dell’Accordo sulla chimica del ’98 -
riequilibrando la forza dei soggetti in campo, ridando voce agli abitanti di Marghera e
Malcontenta. Il ruolo degli abitanti in tali processi non può essere marginale ma deve poter
contribuire direttamente e solidamente alla definizione di una nuova identità urbana; .
Porto Marghera va ripensata non più come polo a sé stante, isolato nel territorio, ma come
nuova realtà urbana e produttiva integrata al contesto urbano e alle sue attività economiche e
culturali. L’area portuale e industriale di Marghera può riassumere una funzione centrale di
motore della trasformazione degli equilibri e delle trame territoriali a scala metropolitana del
Comune di Venezia;
la riqualificazione ambientale dell’area attraverso il ristabilirsi di un rapporto con la Laguna
e con Marghera - città giardino - è strettamente intrecciata al superamento della
zonizzazione produttiva e alla promozione di un tessuto urbano multifunzionale idoneo a
supportare produzioni ad alto valore cognitivo e innovativo;
il ripensamento e la trasformazione della vecchia area industriale non può prescindere dalla
conservazione della memoria di Porto Marghera. La sua storia conflittuale e sanguinosa
deve divenire patrimonio condiviso, valore testimoniale 167. Una rimozione totale della realtà
e memoria industriale in vista di scenari affollati da shopping center, centri direzionali e
dalla retorica sull’immaterialità, non è auspicabile né eticamente sostenibile.
167
Guido Zucconi, Ripensare Marghera nel suo valore testimoniale, in Giancarlo Carnevale, Esther Gianni (a cura di)
Sintesi per un futuro possibile di Porto Margh’era, Roma, 2004
105
E´ arrivato il momento delle grandi scelte. Alla chimica va dato il tempo di programmare la
propria dismissione che non potrà andare oltre gli otto - dieci anni, e fino ad allora occorre
potenziare la gestione delle emergenze in caso di incidente. Nel frattempo, però, va avviato il più
grande intervento ambientale del secolo: la bonifica dei suoli contaminati. Il problema dei problemi
per il rilancio di Porto Marghera, oltre al recupero di autodeterminazione nella pianificazione di uno
sviluppo sostenibile, è quello dell’avvio delle bonifiche del sito contaminato definito dalla
perimetrazione della legge 426/98 (quindi non solo della “penisola della chimica”). Un’opera
colossale che comporterà investimenti per milioni di euro (migliaia di miliardi di lire), fatta di nuovi
impianti industriali, nuovi sistemi di analisi e controllo e che creerà le condizioni per attrarre nuove
professioni e offrirà durature opportunità di lavoro per le future generazioni. Senza le bonifiche non
ci potrà essere rilancio né futuro.
Non è sufficiente ipotizzare il solo adeguamento degli impianti alle norme ambientali e di
sicurezza ed al risanamento dei terreni, delle falde e della laguna contaminati: ciò di cui abbiamo
veramente bisogno è l’impegno intellettuale per immaginare forme diverse di utilizzo del territorio,
modalità di delocalizzazione degli impianti maggiormente a rischio, la riconversione produttiva
delle attività più inquinanti in altre attività a minore impatto ambientale, in una logica di
sostenibilità e di condivisione delle scelte che veda protagonisti proprio i cittadini di Marghera e di
Malcontenta. Persone che devono finalmente essere poste nella condizione di poter influire sulle
scelte strategiche che li riguardano direttamente, riappropriandosi di un territorio e di uno
straordinario capitale naturale che per troppi anni è stato loro sottratto.
Oggi ancora non è possibile delineare il nuovo assetto di Porto Marghera, perché la
mancanza di una classe imprenditoriale locale capace di immaginarlo e proporlo, abituata ai
vantaggi di un’economia di Stato o para-Stato e con poca attitudine al rischio d’impresa, associata
a pezzi significativi di un sindacato non molto propenso ai cambiamenti, condizionano fortemente
la politica locale. Persino il Piano Regolatore per Porto Marghera, che finalmente ha restituito
almeno la possibilità di progettare un diverso assetto produttivo, è stato condizionato da queste
posizioni.
Ricerca e Università potrebbero ricoprire un ruolo di primo piano nei nuovi scenari, a patto che
agiscano diversamente da come ha fatto il Parco Scientifico Tecnologico di Venezia che invece di
fungere da incubatore di nuovi filoni di sviluppo, è diventato un efficientissima agenzia immobiliare
specializzata in mercati di aree ed edifici collocati in luoghi estremamente interessanti dal punto di
vista economico e strategico.
Sarà possibile delineare una nuova Marghera solo se, assecondando l’opinione prevalente
nei cittadini veneziani168, la classe dirigente locale sarà in grado di governare il declino in atto con
gli strumenti di cui è in possesso e con limpido e forte atto di volontà che recuperi il potere di
scegliere gli indirizzi di sviluppo del proprio territorio, sottratti dal fascismo sin dall’inizio del 900.
Autorevoli rappresentanti politici e sindacali locali continuano a far riferimento all’Accordo di
Programma per la Chimica, firmato nel 1998 da industrie, sindacato, enti locali e ministeri
competenti. E’ una scelta sbagliata, incapace di riconoscere che l’accordo non ha prodotto
cambiamenti significativi e neppure certezze per l’esistente.
A costoro occorre contrapporre l’idea di un nuovo strumento di programmazione territoriale
e industriale più vincolante e che preveda obiettivi più precisi: una sfida, per certi versi immensa,
alla capacità di governo della classe politica regionale. Si tratta di cominciare a praticare quella
forma di solidarietà sociale anche con le altre generazioni prevista nel 1992 a Rio de Janeiro da 178
Paesi. Dovremo cioè essere capaci di attuare veramente uno sviluppo sostenibile, quella forma di
sviluppo cioè, che oltre a garantire il nostro benessere, non dovrà compromettere quello delle
generazioni future. Chi ha pensato alla vecchia Marghera, di questo non si era preoccupato e noi ne
stiamo pagando le conseguenze.
168
il 6-7 giugno 1998 si tenne un referendum autogestito sul rischio Marghera: dei 21.000 votanti oltre il 98% era
favorevole alla riconversione degli impianti chimici pericolosi
106
Ezio Da Villa
107
La nostra montagna
Tra degrado e riscatto
Abbandono, banalizzazione, divertimentificio sono i nuovi rischi e i paradossi che
attraversano questi territori ancora alla ricerca di un progetto comune di futuro, tra le povertà di un
passato rimosso ed una incerta ed apparente ricchezza del presente. Paesi che si svuotano in
montagna e diffuso inurbamento a fondo valle, elevata dispersione scolastica e piena occupazione,
distretti industriali e perdita di competenze e diversificazioni produttive ed artigianali,
condensazione delle aziende agricole ed erosione delle biodiversità con conseguenti strutturali
modifiche del paesaggio agrario, degli insediamenti rurali e della manutenzione del territorio. La
montagna, e la montagna del Nord Est a maggior ragione, sono anche complesso “snodo” di
importanti settori e distretti produttivi (manifatturiero, turistico, energetico) che determinano forti
pressioni insediative ed infrastrutturali, con inversi ma conseguenti fenomeni di conurbazione,
spopolamento, abbandono delle aree più marginali. Queste montagne che custodiscono il più vasto
campionario di ambienti e di condizioni fitoclimatiche del continente, e che rappresentano uno
straordinario ponte biotico e una rilevante memoria culturale ed identitaria per l’Europa sono
dunque a rischio di banalizzazione e degrado. Sono inoltre già da tempo soggette a catastrofi
annunciate.
Sono queste solo alcune complesse contraddizioni di un modello di sviluppo che non ha
ancora saputo fare delle sue qualità e peculiarità ambientali, storiche e culturali il proprio elemento
distintivo, di valorizzazione e di coesione sociale 169. Ai pericoli della deterritorializzazione e
dell’omologazione il governo regionale deve rispondere, rilanciando, un progetto locale che si
fonda sulla consapevolezza dell’unicità e complessità, sensibilità e vulnerabilità di questi luoghi e
attraverso la promozione di competenze, produzioni e servizi di qualità capaci di coniugare il
meglio della tradizione con l’innovazione necessaria per affrontare le nuove emergenze. Vero
laboratorio aperto dove sperimentare concretamente reali ed efficaci integrazioni tra priorità
ambientali e gestione complessiva, coniugando tradizioni ed innovazione, riscoprendo saperi e
sensibilità strettamente connesse a questo ecosistema e ai suoi protagonisti.
Un sistema in affanno
Il settore turistico soffre di un calo di presenze in tutte le principali stazioni dell'arco alpino
italiano ed estere, e da questo dato non è esente la montagna veneta (vedi politiche del turismo →).
L'economia turistica è la risorsa primaria per l'arco alpino, basti pensare che nelle Alpi vivono
tredici milioni di residenti e transitano ogni anno 60 milioni di turisti, con un fatturato annuo che si
aggira intorno ai 25 miliardi di euro, pari al 5 per cento del fatturato turistico mondiale. A ciò deve
essere aggiunta un'altra considerazione, e cioè che l'occupazione dei posti letto nelle varie strutture
ricettive è concentrata in poche località e per brevi periodi. Alcune industrie, come quella
dell'occhiale che più di altre ha avuto il pregio di sviluppare posti di lavoro e il sorgere di migliaia
di piccole imprese ed anche di concentrare oltre il 70% della produzione mondiale di occhiali in
provincia di Belluno, sta conoscendo da alcuni anni un ridimensionamento da parte dei cosiddetti
terzisti e imprese minori, con crescita di fatturato e di numero di posti di lavoro nelle 3-4 imprese di
importanza mondiale quali Luxottica, Safilo, De Rigo, Marcolin. Queste imprese hanno trasferito
altrove i loro centri direzionali spostando alcune produzioni in Paesi dove la manodopera ha minori
169
per una descrizione sulla crisi, sociale, ambientale, culturale e antropologica della montagna veneta vedi Federica
Bellicanta, La montagna uccisa dai turisti, in Lo straniero, 22/2002
108
costi e dove vi sono possibilità maggiori di penetrazione sul mercato mondiale in modo
concorrenziale.
Di questa sofferenza del sistema montagna l’invecchiamento della popolazione 170 e il dissesto
idrogeologico sono indicatori evidenti.
Il dialogo e le radici
In nessun luogo quanto in montagna risulta evidente il pericolo di un devastante corto
circuito tra globalizzazione culturale, processo che impone la creazione di non - luoghi omologati, e
localismo difensivo. Per non cadere in queste semplificazioni occorre sì “difendere la valle” e la sua
identità, ma non tanto barricandosi dietro le “fortezze” di un’identità chiusa, ma coltivando le
passioni locali e nel contempo dialogando con l'esterno. Molteplicità e scambio fanno parte delle
culture nel territorio alpino. Grazie agli scambi con altre regioni culturali alpine, le differenti
identità regionali possono essere ampliate in una coscienza alpina comune. Le comunità storiche
non sono mai state formazioni immobili, ma attraverso i passi avveniva uno scambio dinamico
continuo con le valli montane vicine e lontane e con la pianura. Elementi di altre culture sono stati
integrati a poco a poco e adattati alle proprie necessità. I concetti di sviluppo per il futuro sono
solidi solo se elaborati in un dialogo comune con gli stessi interessati. Il pericolo dello sradicamento
e dell’emarginazione culturale è da contrastare con un ampio programma di scambio. È necessario
creare numerose possibilità di incontri culturali anche con culture non alpine ed extrauropee. Come
dire che ci vuole una duplice cultura, unica condizione per vivere o sopravvivere nel difficile
mondo della complessità che ci assedia. Per rimediare a tali sconvolgimenti strutturali che rischiano
di travolgere una cultura montana che ha nelle Alpi una tradizione secolare, retaggio di antichi
saperi territoriali, occorre una politica di sviluppo partecipato che riesca a stabilire regole e principi.
Fragilità ambientale
La direttiva comunitaria sulla Valutazione d’Impatto Ambientale riconosce le zone
montuose e forestali quali aree geografiche a particolare sensibilità ambientale. Questa particolare
ed intrinseca fragilità delle aree montana risulta evidente, ad esempio, quando si prende in esame il
comportamento dell’inquinamento atmosferico nelle vallate alpine. È provato infatti che in presenza
di particolari ma ricorrenti condizioni climatiche, anche modeste emissioni in atmosfera provocano
significative ripercussioni sulla qualità dell’aria nelle valli alpine. Il Centro Sperimentale della
Regione Veneto di Arabba ha rilevato, con uno studio sui comportamenti climatici e meteorologici
nella Valle Belluna tra il 1970 e l’anno 1985, che il persistere di anticicloni continentali sull’arco
alpino, durante la stagione fredda, determinano condizioni di stabilità atmosferica e conseguenti
fenomeni di inversione termica. In presenza di tale situazione climatica, che nella Val Belluna
interessa mediamente 61 giorni all’anno, viene impedita la circolazione dell’aria nei bassi strati
dell’atmosfera e favorito il ristagno e l’accumulo delle emissioni inquinanti nei nostri fondovalle in
corrispondenza delle aree a maggiore concentrazione abitativa.
Tali effetti sono ben evidenziati dal monitoraggio sanitario eseguito dal Registro Tumori del
Veneto i cui tabulati indicano proprio nella Val Belluna, dal Longaronese al Feltrino, l’area del
Veneto maggiormente colpita da elevati tassi di insorgenze tumorali: valori che eccedono del 20-
25% la frequenza dei casi registrati nel resto del campione veneto. Una situazione sanitaria che,
sorprendentemente, risulta essere più critica di quella registrata dallo stesso Registro Tumori, in
aree urbane ed industrializzate come Venezia-Marghera, Vicenza, Treviso o Verona. Questa realtà
170
“Lavori recenti hanno mostrato come nel contesto della regione Veneto tutta la zona montana della provincia di
Belluno possa ricondursi a zone di cosiddetto “malessere demografico”, ovvero zone in cui i tassi di incremento
naturale della popolazione (in questo caso sensibilmente negativi) sono tali da comportare conseguenze preoccupanti
sul suo stesso sviluppo. In particolare, il problema dell’invecchiamento della popolazione sembra essere più intenso
nelle zone montuose che altrove, con una situazione destinata a peggiorare considerevolmente nel prossimo futuro.”
Gianpiero Della Zuanna, Popolazione e sviluppo, in Daniele Marini e Silvia Oliva (a cura di), Belluno 2003, Venezia,
2003
109
induce, anche nelle politiche ambientali e di pianificazione territoriale, a modulare le strategie e le
scelte regionali tenendo conto delle differenti sensibilità/fragilità presenti 171.
171
si veda il documento del Forum di discussione dei comitati e delle associazioni della provincia di Belluno
“Sostenibilità ambientale: analisi e proposte”
172
Rapporto 2003 della Fondazione Nord Est sulla provincia di Belluno
110
recuperare e valorizzare antichi valori-saperi del vivere ed operare in montagna quali :la
diversità, l’essenzialità, il senso del limite, la mutualità; una sorta di ritorno al futuro,
memoria postmoderna per una vera prospettiva di sostenibilità e decrescita
Possibili azioni
In questo contesto e con queste premesse proponiamo alcune azioni prioritarie per i territori di
montagna che potrebbero da subito aggregare consensi, risorse ed energie.
In particolare:
connettere la rete delle aree protette (parchi nazionali, regionali ma anche ZPS, SIC ed altri
ambiti di tutela) attraverso l’individuazione di credibili e motivati corridoi ecologici (vedi
politiche dei parchi →);
ridefinire e rielaborare su base locale gli habitat prioritari e le liste rosse di specie;
favorire interventi urgenti per la difesa del suolo, la prevenzione e mitigazione del rischio
idrogeologico, con una più significativa tutela delle acque ed una rigorosa determinazione dei
deflussi vitali, attivando anche percorsi di rinaturalizzazione dei corpi idrici più dissestati;
promuovere il turismo sostenibile privilegiando l’ospitalità rurale diffusa quale possibile
preziosa integrazione del reddito dei presidi montani;
favorire l’inter modalità alternativa al traffico veicolare (anche attraverso il recupero delle linee
ferroviarie minori);
valorizzare e sostenere l’agricoltura di montagna, le attività e le produzioni agro-silvo pastorali
ecocompatibili e biologiche con particolare attenzione al recupero dei cultivar e dei saperi -
sapori locali;
assicurare e sostenere la conservazione o il ripristino degli elementi peculiari del paesaggio
agrario alpino e la conservazione delle tipologie edilizie tradizionali;
promuovere la pianificazione territoriale integrata;
fornire innovative risposte al fabbisogno energetico attraverso il risparmio energetico, la micro
cogenerazione diffusa e le fonti rinnovabili (vedi politiche energetiche →);
111
alta qualità a cui riconoscere la denominazione tutelata (DOP e IGP) provenienti da particolari
ambiti territoriali.
Un ruolo di rilievo possono assumere le terre di proprietà pubblica ad uso agricolo per una
valorizzazione produttiva eco-compatibile e di salvaguardia ambientale, scongiurando le eventuali
privatizzazioni e promuovendo servizi e formazione per il pieno utilizzo della valenza degli usi
civici. Le foreste possono rappresentare la connessione funzionale fra le attività primarie, la tutela
dei suoli e la biodiversità, il turismo e l’artigianato, la protezione degli insediamenti a valle in una
continuità montagna-pianura sulla cui valorizzazione politica e programmatica si misura la qualità
dell’azione dei pubblici poteri regionali e locali. In questo contesto, non va trascurato uno sforzo
concentrato per rispondere adeguatamente alle recenti norme comunitarie, che prevedono il rispetto
di parametri igenico-sanitari per la produzione di alcuni prodotti tipici e introducono misure che
rischiano di “cancellare” le vecchie tradizioni artigianali delle piccole e medie aziende locali
specializzate in queste attività173.
Un modello insediativo
In ogni valle le maggiori centralità urbane sono cresciute negli ultimi decenni cominciando a
registrare gli stessi fenomeni e le stesse caratteristiche della megalopoli padana, come ad esempio
l’espansione della città diffusa pur con tutti i condizionamenti fisici che pone l'ambiente vallivo 174.
Il Piano di indirizzo territoriale della Regione deve andare nella direzione di un modello diverso di
sviluppo insediativo che riprende il filo delle regole insediative della montagna contenendo e
qualificando l’urbanizzazione diffusa nel fondovalle. Le indicazioni sono di ricostruire le
opportunità ma non secondo il modello della città: ci sono altre qualità rispetto al vivere in città, chi
sceglie non deve essere penalizzato E questo può verificarsi solo attraverso la conoscenza del
territorio, la sua pianificazione e la sua gestione sulla base di una progettualità condivisa e
attraverso la diffusione e la condivisione delle informazioni, attraverso la partecipazione della
comunità locale alle scelte legate al territorio. Secondo queste indicazioni, bisogna pensare alla
valorizzazione dei nuclei sparsi, al recupero di strutture insediative che costituivano la regola
insediativi della montagna e che sono il frutto di un’esperienza e storia pluriennale, di un
condizionamento nella morfologia che le caratteristiche impongono. Questo è un processo che si
deve fare con i piani strutturali, con la descrizione dei territori per ricavarne le regole che il
territorio stesso detta alla collettività.
173
gli operatori in un documento reperibile su www.cansiglio.it denunciano: “Le malghe della montagna veneto-friulana
devono essere messe in condizione di continuare la loro secolare attività di produzione di latticini e formaggi che
rappresentano una indiscutibile ricchezza alimentare e culturale per qualità e varietà. Le malghe devono essere tutelate
da interessi speculativi. I formaggi tipici devono essere tutelati con marchi e denominazioni che identifichino la loro
specificità e la loro tradizione. Da più parti (Monte Grappa, Monte Cesen, Carnia,ecc) viene segnalata la scomparsa di
formaggi tipici che rischiano l'estinzione”.
174
la dinamica di erosione della SAT (suolo agricolo totale) nella provincia di Belluno da parte di altre destinazioni
d’uso del suolo,corrisponde ad una perdita netta di 43mila ettari, un territorio pari quasi a quello dei comuni di
Longarone, Cortina e Feltre messi assieme. In dieci anni lo sviluppo economico ha consumato più suolo che nei tre
decenni precedenti.
112
condizioni fisiche e sociali di “vicinato” senza la quali le comunità sono condannate allo
sgretolamento. La scelta di voler continuare a garantire ai cittadini di montagna, anche a costi
sociali, la possibilità di usufruire di servizi pubblici efficienti ed accessibili non è una mera
rivendicazione sindacale ma una conditio sine qua non per intervenire sui territori con
responsabilità, avendo garantite condizioni di vita dignitose ed essendo pronti ad impegnarsi per la
promozione sociale, economica e culturale delle popolazioni stesse. In montagna inoltre è
particolarmente sentita la necessità di diffondere sistemi informatici che consentono, attraverso siti
internet, a luoghi lontani e poco accessibili di comunicare e di scambiarsi idee, progetti e proposte
in tempo reale.
Il turismo
Occorre sviluppare forme di turismo capaci di portare benefici a tutte le parti interessate (turisti,
imprese turistiche, popolazione locale) riassorbendo il più possibile i costi complessivi di tale
sviluppo. Il modello fin qui perseguito di grandi infrastrutture in particolare per gli sport invernali
non deve vedere ampliamenti ma unicamente razionalizzazioni e ammodernamenti che non
provochino ulteriori impatti. Purtroppo si continua perseverare su questa strada 175 senza peraltro
valutare gli incidenza che potranno avere, e che già oggi hanno, i cambiamenti climatici nella
prosecuzione di queste attività. Il turismo, nella nuova accezione e soprattutto per le realtà come
quelle di montagna, deve essere considerato come supporto dell'identità locale. È nostro obiettivo
costante tradurre questi aspetti in indirizzi di sviluppo, in risorse disponibili, all'interno di una
visione integrata che riesce a legare tra di loro il turismo il commercio, l'artigianato, il settore agro-
alimentare e naturalmente all'ambiente. In particolare è importante connettere la “filiera turistica” ai
settori dell'agricoltura, dell'artigianato e della valorizzazione culturale del territorio, nella misura in
cui questi caratterizzano le diverse aree del territorio, sia a livello di immagine percepita dalla
clientela turistica, sia a livello di struttura socio-economica delle aree (vedi politiche del turismo
→). Il turismo deve divenire stimolo della produzione locale in quanto mette a disposizione una
domanda potenziale per i prodotti tipici dell'area .
La mobilità e le montagne
Le Alpi fino a poco tempo fa erano un territorio di frontiera, periferico nelle politiche e nelle
azioni di ogni Stato. Con l’UE le Alpi si sono riscoperte come cuore e non semplice cerniera
dell’Europa, sede di importanti comunità e distretti produttivi, in significativa crescita demografica
ed economica. Questa nuova centralità geografica produce conflitti e contraddizioni in primo luogo
per il moltiplicarsi (reso più intenso dall’integrazione Europea) di proposte di grandi opere
infrastrutturali di attraversamento che pongono comunque il problema della sostenibilità
ambientale, degli alti costi e dei tempi di realizzazione 176. Si deve pensare a quale modello di
viabilità e utile per una riqualificazione e riappropriazione da parte di chi ci vive di un sentiero di
sviluppo autosostenibile per la montagna. Occorre partire da quelle che sono le vere emergenze del
sistema: l’adeguamento della rete ferroviaria per i valichi, i costi e le inefficienze rispetto alla
gomma, i nodi urbani ferroviari della rete, l’assenza di una strategia specifica per il trasporto merci
e parallelamente realizzare la manutenzione e la messa in sicurezza della rete stradale attraverso le
175
cercando di saltare sul carro della probabile ultima tornata di contributi in questo settore gli amministratori si
affrettano a concludere tutti i progetti di collegamento possibili tra i vari poli sciistici degli Altopiani. Così è stato nel
2003 per Lavarone-Malga Rivetta, così oggi si prospetta il grande collegamento con il vicentino attraverso l'Alpe di
Folgaria e il completamento verso Passo Vezzena delle piste di Lavarone, fantasticando di avveniristici collegamenti
funiviari di "super-collegamento" dai Fiorentini a Lavarone o dalla Valsugana a Vezzena.
176
il problema non sono solo le grandi infrastrutture: pensiamo al progetto di realizzare una nuova arteria stradale sulle
falde del Monte Baldo (strada Costermano - Malcesine ovvero 'II Gardesana') formalizzata nel Piano Territoriale
Provinciale. Se si realizzasse questo progetto verrebbe rotto irreparabilmente l'equilibrio di tutto l'entroterra del Lago di
Garda e del Monte Baldo.
113
Alpi per limitarne l’impatto ambientale sulle valli e le popolazioni 177. Gianluca Zandanel, in un
lucido articolo che meriterebbe ampia diffusione, così si esprime a proposito dei diversi progetti
infrastrutturali: “se il Cadore non vuole divenire un corridoio di transito al servizio di tutti tranne
che di se stesso, ha bisogno di opere utili al proprio futuro, calibrate sulle proprie esigenze di
sviluppo e prima ancora di sopravvivenza, che certo non sono legate ad opere come un’autostrada
sotto la Mauria totalmente inutile oltre che dannosa”178.
Helmut Moroder, vice presidente della Commissione Internazionale per la Protezione delle
Alpi - CIPRA, ha suggerito uno scenario per la mobilità nell'arco alpino: le Alpi come una vasta
area impermeabile al trasporto stradale di merci, "i confini con la pianura equivarrebbero alle
coste di un mare, lungo le quali si troverebbero diversi porti (interporti), il passaggio delle merci
attraverso questo "mare" dovrebbe quindi avvenire con le modalità consentite: la ferrovia ad
esempio"179. Questo scenario porterebbe qualità alla vita delle Alpi con ricadute benefiche nella
pianura. Oggi l'unica visione è quella di riproporre, in termini peggiori l'esistente ad esempio con il
completamento della Valdastico che comporterebbe un aumento di traffico sull’Autobrennero.
Occorre partire da quelle che sono le vere emergenze del sistema. E’ urgente realizzare la
manutenzione e la messa in sicurezza della rete stradale attraverso le Alpi per limitarne l'impatto
ambientale sulle valli e le popolazioni. Si deve perseguire l'ammodernamento della rete
ferroviaria individuando gli interventi più urgenti e in grado di dare una risposta efficace alle
specifiche e diverse esigenze del trasporto merci e passeggeri. Occorre lavorare per un utilizzo al
massimo delle potenzialità della rete esistente secondo i livelli di efficienza resi possibili dalle
moderne tecnologie
Occorre definire il quadro delle priorità in una logica di integrazione della rete europea e nella
prospettiva di aumentare l'offerta per gli operatori delle merci. Sottolineiamo come attualmente la
ferrovia del Brennero ha oggi una consistente capacità di trasporto non utilizzata, pertanto già oggi
sarebbe possibile trasferire una quota rilevante di mezzi pesanti dalla strada alla rotaia. Oggi solo
una quota minoritaria delle oltre 140 milioni di tonnellate di merci che ogni anno
attraversano le Alpi lo fa a bordo di treni, ma i problemi non sono solo nelle linee alpine quanto
nell'insieme dei collegamenti e degli attraversamenti tra i nodi di Torino, Milano, Genova,
Bologna, Verona, Padova. Occorre ratificare il Protocollo Trasporti della Convenzione quadro per
la protezione delle Alpi e bloccare qualsiasi ipotesi di costruzione di nuovi assi stradali transalpini
in contrasto con tale Protocollo o di raddoppio delle gallerie di valico stradali esistenti,
predisporre subito il trasferimento obbligatorio dalla strada alla ferrovia delle merci pericolose e
infiammabili; occorre inoltre intervenire sulle linee ferroviarie complementari della Pianura Padana
per garantire corsie preferenziali al trasporto merci e promuovere lo sviluppo del traffico
intermodale, adeguando le tecnologie degli interporti esistenti.
177
come ci ricorda la Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi – CIPRA, con una sua risoluzione
pubblicata sul sito www.cipra.org, il Protocollo Trasporti non è ancora stato ratificato. “Chiediamo che vengano
adottate o promosse adeguate misure per la riduzione dell’apporto inquinante e delle emissioni acustiche a carico della
popolazione residente lungo le infrastrutture di trasporto di grande comunicazione nelle Alpi e lungo gli assi di transito
attraverso le Alpi (ferrovia e strada). La priorità assegnata alla ferrovia deve essere recepita nella pianificazione e
portata avanti con coerenza ed energia. Oltre a ciò chiediamo l’adozione di strumenti per l’introduzione della verità dei
costi nel trasporto su strada, che potrebbe essere efficacemente e rapidamente realizzata attraverso una tassa
sui ,trasporti pesanti commisurata alle prestazioni (TTPCP) in tutti i Paesi alpini. In attesa della sua introduzione, nei
principali assi stradali non ancora interessati dalla TTPCP, si potrebbe adottare un pedaggio. La verità dei costi deve
essere introdotta non solo nel traffico di transito, ma anche nel trasporto interalpino, non solo per i mezzi pesanti, ma
anche per il traffico motorizzato privato. Il protocollo Trasporti costituisce un ottimo presupposto per un’azione unitaria
e coordinata. Noi esortiamo pertanto le Parte contraenti della Convenzione delle Alpi ad adottare queste misure in
comune, a raccogliere dati sulla situazione delle Alpi – in particolare nel settore dei trasporti – e di controllare con un
monitoraggio comune l’efficienza e l’efficacia delle misure adottate”.
178
Gianluca Zandenel, Per non diventare territorio di transito al servizio di tutti tranne che di noi, in il Cadore, 10/2004
179
Helemet Moroder, Le Alpi, luogo di cerniera, in Urbanistica Dossier 63/2004
114
Un’idea in prospettiva
Occorre che taluni centri montani, in stretto collegamento con tutto il sistema delle Alpi,
diventino sedi istituzionali di ricerca per la cultura ambientale 180. Le attuali risorse tecnologiche
della comunicazione e dell'informazione fanno sì che i luoghi montani non siano più da considerarsi
come isolati in situazioni inaccessibili o scomode per la gestione di tali iniziative di ricerca. Al
contrario, oggi i luoghi alpini possono diventare le più opportune sedi per laboratori d'osservazione
in campo ecologico, per istituzioni di studio delle politiche ambientali d'interesse non soltanto
locale. Tali attività si ricerca possono attirare molteplici altre attività ad esse connesse e contribuire
pertanto a rendere di nuovo autosufficiente nell'autoriproduzione talune località montane. Tale
indicazione, che pone la montagna come sede di un centro di cultura ecologica al servizio quanto
meno di tutta la regione, ma più in generale a livello europeo, può assumersi a simbolo di quanto
importante può essere il recupero del mondo montano, della sua cultura, delle sue valenze naturali
per il futuro.
Coordinare le risorse
C’è una difficoltà dei diversi “attori” in gioco di riconoscersi in un ruolo ben preciso e, quindi,
di muoversi decisamente e senza tentennamenti verso la collaborazione con gli altri livelli di
governo verso un coordinamento univoco delle proposte, delle azioni e degli interventi che hanno
comunque, come unico obiettivo la valorizzazione, la promozione e lo sviluppo delle aree montane.
La scarsa presenza in questi anni di un coordinamento unico riguardo le aree montane
evidentemente non ha significato e non significa che non vi sia stato un flusso di risorse attivato e
attivabile per questi territori, significa piuttosto che ancor oggi non è possibile avere un quadro
esaustivo di quanto è stato impegnato e speso e dei risultati concreti ottenuti. E quindi, per un verso,
autorizza la montagna veneta a sentirsi “povera” e “trascurata” e, per un altro, mal consente azioni
integrate sia sul piano territoriale, sia sul piano intersettoriale. E’ necessaria una azione di sostegno
e di coordinamento da parte della Regione, assistiamo infatti ad un paradosso: le aree più depresse e
isolate, quelle che più ne avrebbero bisogno, hanno difficoltà a produrre progetti validi e integrati
fra più settori e usufruire di risorse in grado impostare uno sviluppo durevole181.
Valter Bonan
180
181
Questo fenomeno è stato evidenziato, per quanto riguarda l’area veneta, da S. Vanin, M. Zolin, Il contesto
socioeconomico e le occasioni di sviluppo: un analisi per area problema, argomenti 10/2004 in cui vengono presi in
esame gli impatti su alcuni territori “arretrati” della nostra regione delle politiche di sviluppo integrate.
115
nodi
abbiamo analizzato ed elaborato proposte
rispetto ad alcuni nodi significativi
dello sviluppo veneto.
Senza la pretesa di essere esaustivi,
abbiamo voluto esemplificare come sia possibile
misurare la nostra idea generale di convivenza
applicandola ai singoli temi
116
Energie
Energia mondo
La geopolitica è intessuta dai percorsi degli oleodotti e dalle localizzazioni dei pozzi: gli
equilibri geostrategici dipendano in larga parte dagli approvvigionamenti energetici e gli stessi
determinano, in larga misura, le politiche di dominio, guerra e rapina in tutto il globo. Gli abitanti
dei paesi del nord del mondo costituiscono 1/5 dell’umanità ma consumano più del 50%
dell’energia prodotta e l’Italia da sola consuma più energia di tutta l’Africa. La revisione delle
politiche energetiche rappresenta la trama di una riconversione più profonda del modello di
sviluppo e dei rapporti di potere all’interno del pianeta. La crescita economica, conseguita
attraverso l’aumento della produzione e dei consumi, continua ad essere l’unico grande obiettivo
dell’economia mondiale, trascinando la crescita dei consumi energetici. I Verdi propongono un
radicale cambiamento del modello energetico: il risparmio energetico, le energie rinnovabili, la
micro cogenerazione diffusa sono per noi gli assi alternativi di governo. Le politiche energetiche
sono lo strumento strategico di possibile cambiamento dell’economia, della distribuzione della
ricchezza, della qualità sociale e ambientale. La prospettiva capace di creare in poco tempo una
reale alternativa alle fonti fossili è l'integrazione delle diverse fonti rinnovabili (solare termico,
solare fotovoltaico, eolico, idroelettrico, biomasse, legno, ecc.) puntando sulle diverse vocazioni dei
territori.
In quest’ottica le fonti rinnovabili possono innescare processi virtuosi, capaci di legarsi alle
risorse locali e di contribuire ad uno sviluppo equilibrato proprio nelle aree interne (pensiamo alla
montagna), nei territori agricoli, attento ai valori del paesaggio. Serve per questo una chiave di
attenzione "locale" capace di ragionare sui territori e le prospettive di riqualificazione, ma anche
una forte attenzione al consenso, alla diffusione di informazioni e di partecipazione attiva alle
scelte. Il nuovo sistema energetico deve essere uno dei fattori di sviluppo e di rafforzamento di
sistemi economici locali autosostenibili182. Un sistema economico, ambientale e sociale a rete dove
vi sia ampia autonomia dei soggetti locali e che non preveda gerarchie e poli attrattori destrutturanti
il sistema reticolare. In questo senso occorre promuovere, piuttosto che grandi centrali di
produzione, tecnologie diffuse, accessibili, efficienti e controllabili collettivamente quali la
generazione distribuita. I vantaggi attesi da questo trend tecnologico consistono nella possibilità di
sfruttare risorse energetiche locali, nell’applicazione delle fonti pulite (rinnovabili), nelle ridotte
necessità di trasporto dovute alla vicinanza fra produzione e consumo, nella maggiore
diversificazione del mix energetico, minori dipendenza dalle importazione, complessivamente, in
una maggiore sicurezza nell’approvvigionamento elettrico. Il modello dominante predilige i grandi
impianti, sostiene la “riscoperta” del nucleare, predica il perpetuare un modello dissipativo,
insostenibile ed ingiusto. A seconda dei modelli di sviluppo e di società che prevarranno ci sarà più
o meno grande spazio per scelte tecnologiche diverse e contrapposte.
117
trasporto e della distribuzione, di armonizzare nei provvedimenti concreti le diverse politiche, di
inserire gli obiettivi energetici nel quadro dello sviluppo sostenibile quale configurato dalla
Comunità europea e degli impegni assunti a livello europeo e internazionale dal nostro Paese sulla
riduzione delle emissioni climateranti. Mentre il progetto di legge La Loggia e il nuovo decreto
legge Marzano sembrano andare in tutt’altra direzione. Comunque le emergenze degli ultimi anni
quali l’aumento del consumo dell’energia elettrica, i problemi di fragilità della rete, il programma di
nuove centrali (anche grazie al programma di liberalizzazione del mercato), l’attivazione dei titoli di
efficienza, hanno sottolineato la necessità di un quadro programmatorio a livello regionale. Tutto
questo all’interno dell’obiettivo quadro fissato dalla Direttiva Europea 2001/77/CE di avere in Italia
per il 2010 un utilizzo dell’energia da fonti rinnovabili al 25% dei consumi elettrici.
118
riferimenti legislativi e normativi, le opportunità finanziarie, i vincoli, gli obblighi e i diritti per i
soggetti economici operatori di settore, per i grandi consumatori e per l’utenza diffusa. Un fattore
qualificante di questa programmazione è l’intreccio tra politiche ambientali ed energetiche: infatti il
legame è indissolubile e le soluzioni possono essere trovate insieme, nell’ambito del principio di
sostenibilità del sistema energetico.
L’importanza della definizione dei Piani Energetico-Ambientali Regionali è stata richiamata
nel giugno 2001 nel “Protocollo d’intesa della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle
Province Autonome per il coordinamento delle politiche finalizzate alla riduzione delle emissioni di
gas-serra nell’atmosfera”, noto come “Protocollo di Torino”, che si prefigge lo scopo di “pervenire
alla riduzione dei gas serra, così contribuendo all’impegno assunto dallo Stato italiano nell’ambito
degli obblighi della UE stabiliti dagli accordi internazionali e programmato nella delibera CIPE
137/98 del 19.11.98.” Un richiamo fondamentale presente nel Protocollo è il richiamo alla necessità
di raccordo ed integrazione con gli altri settori di programmazione e al ruolo dell’innovazione
tecnologica, degli strumenti finanziari e delle leve fiscali tariffarie ed incentivanti. Con la firma del
Protocollo di Torino le Regioni individuano nella pianificazione energetico - ambientale lo
strumento per indirizzare, promuovere e supportare gli interventi regionali nel campo dell’energia
assumendo a livello di Regione impegni ed obiettivi congruenti con quelli assunti per Kyoto
dall’Italia in ambito comunitario (abbattimento al 2010-2012 delle emissioni di CO2 a livelli
inferiori del 6,5% rispetto a quelli del 1990).
Comuni e Province
In un’ottica di generazione energetica decentrata sul territorio, diviene strategica la
responsabilizzazione dei comuni e delle province quali soggetti responsabili delle politiche
energetiche territoriali. L’’’azione di decentramento amministrativo, in attuazione della legge
n°59/97,, del D..lgs.. n°112/98 e della L.C. 3/01 consente alle Regioni di strutturare compiutamente
le funzioni in materia energetica delineando con proprio provvedimento il riparto delle competenze
con gli Enti Locali (Comuni e Province) presenti nel territorio con l’unico vincolo di rispettare le
competenze riservate allo Stato. E’ necessario operare un coordinamento regionale delle varie
iniziative provinciali e comunali, sia di pianificazione energetica, sia di attuazione dell’Agenda 21 e
di altre iniziative avviate in sedi diverse. Questo aspetto strategico non solo è corretto da un punto
di vista normativo (Decreto legislativo 31 marzo 1998 e Legge 10/1991) ma sottolineato da
numerosi e qualificati enti: sia perché le città sono sistemi altamente energivori (nei paesi OCSE le
città consumano energia tra il 60 e l'80% del totale )183, sia perché un approccio che coinvolga i
cittadini, attraverso le strutture istituzionali a loro più vicine, rappresenta un processo di
responsabilizzazione più efficace. Da questo punto di vista la strategia di Agende 21 locali,
sull’esempio di quanto fatto a Venezia184, costituisce il quadro di riferimento fondamentale per le
politiche energetiche. Le funzioni territoriali degli Enti Locali hanno grande impatto sulla
sostenibilità operando, ad esempio, per la micro cogenerazione e teleriscaldamento urbano o
gestione della mobilità urbana e più in generale per l’ utilizzo della energia quale fattore di
integrazione delle politiche di gestione della città.
Le Province inoltre, con il decreto legislativo 112/98, hanno assunto competenze importanti,
fra cui la redazione e l’adozione dei programmi di intervento per la promozione delle fonti
rinnovabili e del risparmio energetico e l’autorizzazione alla installazione ed all’esercizio degli
impianti di produzione di energia fino a 300 MW termici. Sebbene le Province non siano obbligate
per legge a predisporre un proprio Piano Energetico, alcune di queste (tra cui Belluno), hanno
183
dall’analisi complessiva dei Piani Energetici Comunali finora realizzati risulta che l’efficienza energetica delle
nostre città appare nettamente migliorabile, con possibili riduzioni dei consumi energetici del 10-15%, ottenibili
attraverso interventi tecnicamente ed economicamente realizzabili in molti settori (abitazioni, ospedali, scuole,
industrie, ecc.) e che la produzione di energia da fonti rinnovabili a livello urbano è ancora troppo esigua se non
insignificante;
184
Paolo Cacciari, Come riaccendere la luce? Coi Piani energetici comunali, in Carta 28/2003
119
ritenuto opportuno dotarsi di questo strumento di programmazione. La Provincia riveste, infatti, un
ruolo importante nella pianificazione di settori di attività all’interno dei quali risultano fondamentali
gli aspetti energetici, quali il coordinamento della pianificazione territoriale, la tutela dalle
emissioni inquinanti, la programmazione della gestione dei rifiuti.
Obiettivi e temi
Diffusione delle energie rinnovabili
Occorre promuovere la produzione di energia dalle fonti rinnovabili, in un’ottica di
diversificazione delle fonti e di riduzione delle emissioni di gas clima-alteranti, in linea con gli
obiettivi enunciati dalla delibera CIPE 19.11.98, dal “Patto per l’Energia e l’Ambiente” stipulato in
seno alla Conferenza nazionale per l’Energia e l’Ambiente del novembre 1998. Oggi la Regione
Veneto, nel porsi lo sciagurato obiettivo d’incrementare la produzione di energia elettrica 186, ha
deciso di affidare l’incremento per il 44% alla costruzione di nuove centrali alimentate da
combustibili fossili e solo per il 12,8% alle “rinnovabili”, all’interno delle quali troviamo anche
l’incenerimento delle RSU. Questo dato da solo evidenzia il ruolo che oggi la Regione (non)
assegna alle energie rinnovabili. Ma è una visione miope, oltre che ambientalmente insostenibile.,
visto che non punta alla differenziazione delle fonti e quindi alla sicurezza degli
approvvigionamenti – pensiamo alla vicenda della centrale di Porte Tolle la cui produttività nel
Luglio 2003 è stata messa in ginocchio dalla mancanza d’acqua del Po’ mettendo in stato d’allarme
l’intero sistema energetico nazionale – ma persegue nell’ ”impiccare “ la produttività energetica
regionale alle sole centrali termolettriche di grossa taglia.
120
dalla sviluppo del mercato dei Certificati Verdi, titoli che attestano la produzione energetica da fonti
rinnovabili e dai decreti sull’efficienza energetica del 2001 che stabiliscono obiettivi quantitativi
nazionali di miglioramento dell’efficienza energetica. Vi sono altri meccanismi di incentivazione
legati alle singole fonti come i programmi riguardanti le tecnologie solari, sia termiche che
fotovoltaiche Uno strumento in mano alla Regione, ad oggi inutilizzato, è quello degli Accordi
Volontari settoriali: questi strumenti consentono di promuovere interventi in accordo e intesa con
diversi soggetti. Un altro ruolo chiave in mano alla Regione è quello della semplificazione delle
procedure autorizzative attraverso la definizione di politiche finalizzate a rafforzare lo sviluppo
delle fonti rinnovabili.
Rifiuti
Sviluppo della raccolta differenziata, del riciclaggio e riutilizzo dei rifiuti, con ricorso solo
residuale alla termovalorizzazione dei rifiuti secondo le linee previste dal dal d.lgs. 22/1997, nonché
al recupero energetico dal biogas ai fini del conseguimento di un miglior bilancio ambientale:
attraverso la revisione del sistema di gestione dei rifiuti, in accordo sia con la legislazione esistente
che con le esperienze più avanzate, possono essere conseguite significative riduzioni delle emissioni
climalteranti188. Il recupero del 60% della carta e del 50% della frazione organica potrebbero
consentire di ridurre le emissioni climalteranti da rifiuti a circa 1/3 del livello attuale 189.
La ricerca
Pensiamo debba focalizzarsi sul processo di de-materializzazione e aumento dell’efficienza
energetica dei processi e dei prodotti l’incentivazione dell’innovazione e della ricerca tecnologica,
anche mediante, per quanto di competenza della Regione, la valorizzazione dei centri e dei parchi
tecnologici esistenti: purtroppo l’economia del nord-est, come quella italiana d’altronde, vede il
consolidarsi di una struttura produttiva e tecnologica dove il settore high-tech è sempre più esile.
Questo all’interno di un crollo degli investimenti a livello nazionale della ricerca nel campo
energetico - ambientale: dal 1990 il budget per la ricerca in questi campi si è ridotto di meno della
metà e ha riguardato in modo significativo anche le energie rinnovabili190.
121
civile attraverso l’incentivazione di interventi volti ad aumentare l’efficienza energetica ed il
rispetto dell’ambiente, con conseguente abbattimento dei costi economici, e la riduzione delle
emissioni inquinanti nei processi di produzione e trasformazione dell’energia.
In una regione a forte vocazione industriale come il Veneto le occasioni di risparmio
energetico nella produzione industriale sono numerosissime ed estremamente remunerative: con
l'introduzione della micro cogenerazione si ottengono risparmi energetici del 20-30%; con il
recupero di calore dai processi produttivi si possono ottenere risparmi del 10-20%; la micro
cogenerazione è particolarmente adatta ad industrie che utilizzano calore a bassa e media
temperatura, come quelle del settore caseario, agroalimentare, dei laterizi, ecc.; ulteriori risparmi si
possono ottenere con motori elettrici ad alto rendimento, con il rifasamento degli impianti, ecc..
Importante ruolo possono avere in questo senso la promozione delle certificazioni ambientali tipo
EMAS nei distretti produttivi. Un altro strumento in questa direzione è l’adozione “anticipata” della
direttiva IPPC. La direttiva IPPC impone, per l’autorizzazione agli impianti industriali medio-
grandi o comunque di impatto significativo, una valutazione integrata di impatto e di emissioni,
sostituendo e integrando le tradizionali singole autorizzazioni per le emissioni in atmosfera, per i
rifiuti, per gli scarichi idrici. Ha come scopo quello di spingere le aziende ad adottare le “migliori
tecniche disponibili” per ridurre il loro impatto ambientale. L’Italia ha recepito la direttiva solo
formalmente: infatti, per quanto riguarda le autorizzazioni al proseguimento delle attività già
esistenti, l’applicazione della direttiva è sospesa in attesa di nuove linee guida. In questa situazione
di stallo la Provincia di Torino, di Trento e la Regione Marche hanno anticipato sul loro territorio
la Direttiva IPPC.
Il Libro Verde sulla sicurezza dell’approvvigionamento energetico ricorda che “secondo le
stime più recenti, a parte l’enorme potenziale tecnico di miglioramento dell’efficienza energetica
(stimato al 40% dell’attuale consumo di energia), esiste un considerevole potenziale economico
legato a miglioramenti del rendimento energetico pari ad almeno il 18% del consumo attuale”. I
benefici attesi sono le riduzioni delle emissioni, la riduzione dei costi e l’aumento dell’affidabilità
del sistema. Un insieme di programmi per l’efficienza energetica realizzati da EDF, Ademe, e dalla
regione Provence- Alpes- Còte d’Azur, permetterà di evitare la costruzione di una linea ad alto
voltaggio tra Boutre e Carros, nel sud della Francia con un risparmio economico al 2020 di 60
milioni di Euro. La Regione potrà (potrebbe già adesso se solo lo volesse…) stipulare con i
distributori accordi per il conseguimento degli obiettivi di incremento dell'efficienza negli usi finali
dell'energia fissati dagli atti di programmazione regionale (provvedendo anche con proprie risorse
attraverso procedure di gara).
122
Il processo di privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici locali ha un importante
riflesso sulle politiche energetico – ambientali. Già oggi nel Veneto 563.017 utenti sono serviti da
15 aziende per quanto riguarda il gas mentre la distribuzione dell’energia elettrica è assicurata da 2
aziende a 130.206 utenti: la tendenza la distribuzione del gas e dell’energia elettrica venga fornito
nel giro di un decennio da una azienda speciale di livello interregionale. Queste aziende pertanto
sono, e più saranno di fatto, i punti di riferimento, i “capisaldi delle politiche industriali” nel
territorio, in quanto, non essendo delocalizzabili, rappresentano per l’infrastruttura industriale per i
servizi di riferimento. L’incidenza che avranno sulle politiche energetico-ambientali sarà crescente
in quanto a livello locale-territoriale si potranno attuare (o meno) quelle linee di intervento che la
programmazione regionale (ma anche nazionale) intende perseguire. Il continuo contatto con
l’utenza, sia civile che industriale (cioè con settori che compongono la domanda), fa già da oggi di
loro “attori privilegiati” per il monitoraggio e la valutazione di azioni e interventi di
accompagnamento previsti nella programmazione regionale. Il settore, ad oltre dieci anni dall’avvio
del complesso disegno di riforma, sembra ormai presentare i numeri per potersi configurare come
une vera e propria industria. Esso rappresenta infatti il 4% del valore aggiunto dell’economia
italiana e incide per il 5% nella spesa complessiva delle famiglie.
Noi pensiamo che prioritariamente si debba esaltare la sfera pubblica delle decisioni, cioè
impedire che i cittadini vengano privati della possibilità di decidere e dibattere riguardo le loro
condizioni di vita. Crediamo che si possano mettere in campo degli strumenti perché i servizi siano
sotto il controllo pubblico e che quindi la strategia d’impresa venga messa a punto secondo le
indicazioni scaturite dall’espressione della volontà pubblica. Pensiamo infatti che il mercato non sia
assolutamente uno strumento efficace per distribuire, secondo criteri di giustizia, le possibilità di
ben-essere dei cittadini. Per questo proponiamo l’istituzione di una struttura regionale di garanzia
che possa intervenire per assicurare il governo degli enti locali e della regione sulla strategia
d’impresa delle multiutilities e perché perseguano politiche di sostenibilità ambientale ed energetica
123
mobilità e sviluppo
Per un Veneto policentrico
Il sistema della mobilità riveste un ruolo centrale in ogni società contemporanea: questo
dato è enfatizzato dalla progressiva globalizzazione dell'economia. Attorno al tema della mobilità
inoltre si intrecciano le questioni della salute e della sicurezza, dell'inquinamento, del consumo di
energia e delle emissioni di gas serra, della vivibilità delle città, degli assetti del territorio e delle
infrastrutture, degli impatti ambientali e del paesaggio. Diverse criticità ambientali derivano dal
sistema dei trasporti: la crescita della mobilità e in particolare del trasporto merci determinano e
influenzano i maggiori indicatori ambientali emissione di C02, emissione di inquinanti in
atmosfera (in particolare benzene e PM10), inquinamento acustico, l'impatto delle infrastrutture
fisse in termini di occupazione di suolo e frammentazione delle aree verdi.
E' importante sottolineare come il miglioramento tecnologico degli autoveicoli, con
conseguente diminuzione delle emissioni, è ampiamente compensato dall'aumento degli
autoveicoli in circolazione: si rivela quindi sbagliato fare affidamento, per un abbattimento delle
emissioni inquinanti totali, solamente sull'adeguamento tecnologico delle autovetture. A secondo
del tipo di trasporto considerato le infrastrutture fisse hanno caratteristiche e dimensioni
differenziate ma implicano comunque consumo di spazio (particolarmente rilevante nelle aree
urbanizzate) e impermeabilizzazione del territorio. Fra le diverse modalità di trasporto quella
su strada ha assunto in Italia una dimensione dominante. La pressione all'uso della strada è
costante e si abbina ad una pressione per la realizzazione di sempre nuove e più grandi
infrastrutture viarie che vengono ogni volta saturate nel giro di pochi anni. Il trasporto
individuale su strada è poi all'origine di tutti i problemi di permanente congestione all'interno delle
aree urbane e del loro conseguente degrado.
L'obiettivo strategico per i Verdi è quello di ridurre il consumo e la necessità di trasporto ma
contemporaneamente di migliorane la qualità e la fruibilità: oggi la movimentazione delle merci è
"gonfiata" favorita com'è da costi troppo bassi rispetto ai costi effettivi e dalla mancanza di reali
alternative. E' necessario perseguire modelli sociali e di produzione più sobri e sostenibili, una
più razionale pianificazione degli insediamenti, una innovazione nelle logistica, una incentivazione
dei mercati a scala locale.
Un Veneto in coda?
La “nebulosa insediativa” che caratterizza il Veneto si è costruita grazie ad un sistema di
mobilità centrata sull'automobile. La motorizzazione di massa ha favorito la diffusione insediativa,
la riallocazione delle aziende produttive, la costituzione di nuovi poli sul territorio lì dove mancava
ogni condizione urbana: dai centri commerciali, ai parchi tematici, dai centri direzionali ai centri
per lo sport e il divertimento: il continuo espandersi di questa nebulosa alimenta a sua volta la
mobilità privata in un circolo che è divenuto infernale. "La forte dispersione spaziale di un sistema
insediativi residenziale a bassa densità, e di un sistema produttivo molto frazionato sulla intera
pianura, in piccole concentrazioni o singole unità che integrano sul territorio i loro cicli produttivi
aumenta di molto la domanda di mobilità degli individui e delle imprese" recita il Documento
programmatico territoriale della Regio n e . A lcuni dati: nell'ultimo decennio i veicoli registrati
in Veneto sono aumentati del 35 - 40%, raggiungendo la media di 1 ,3 abitanti/veicolo; le stesse
percentuali d'aumento (+ 40%) si registrano nel traffico autostradale; l'utilizzo dei mezzi pubblici
si è ridotto di 1/3; l'85 % degli spostamenti intercomunali di persone avviene su strada e con
autoveicolo privato e sempre su strada viaggia l'85 % delle merci a lunga percorrenza (quelle a
breve percorrenza viaggiano esclusivamente su strada). Inoltre le previsioni, per i prossimi anni,
indicano tra il 3 ed il 5%, l'incremento annuale del traffico stradale: ciò aumenterà notevolmente il
livello di saturazione del sistema viario Veneto giunto ormai, in molti punti, al collasso. Tutta
124
l'area Veneta e del Nord-Est più in generale, infatti, con allargamento della Unione Europea ad
Est, sta subendo forti incrementi dei traffici, in particolare nel trasporto merci su strada.
La situazione nelle aree urbane è particolarmente critica: secondo uno studio di
Legambiente considerate le medie di Pm10 nelle nostre città, utilizzando i parametri OMS nei
capoluoghi veneti (Rovigo escluso) sono stimabili oltre 400 morti premature ogni anno
correlate al particolato atmosferico. Il policentrismo Veneto richiede interventi più leggeri di
ritessitura dei territori, di messa in sicurezza dell'esistente, di promozione dell’intermodalità e
arresto della crescita per diffusione. Nuovi criteri, che ribaltando la logica della grande
infrastruttura che sacrifica la vocazione dei luoghi, "cuciano" consensualmente le maglie di rete
esaltando il vero punto di forza del Veneto: il suo policentrismo, appunto. Per questo noi
pensiamo che la Regione debba, attraverso una nuova programmazione della mobilità e dei
trasporti, acquisire un ruolo autorevole, di collaborazione o di conflitto, nei confronti del
governo nazionale - contrapponendosi ad esempio alla sciagurata Legge Obiettivo - dell'Unione
Europea - negoziando le caratteristiche dei "Corridoi" - riprendendo in mano la
programmazione e quindi la capacità di selezione delle priorità a partire dalla definizione di
criteri certi in un comparto così strategico per la qualità della convivenza192 .
125
ambientali più significative e verificare che le nuove infrastrutture rispettino questo criterio.
• sicurezza. La mobilità sostenibile deve ridurre al minimo tecnicamente possibile il rischio per
gli utenti (coloro che si muovono) e per i non utenti (coloro che non si muovono).
Indirizzi strategici
Una strategia di sostenibilità per il settore della mobilità deve agire sulla domanda, e non
solo sull'offerta. Non è cioè possibile limitarsi a rilevare acriticamente la domanda di mobilità e
le sue tendenze, costruendo su tale base scenari di sviluppo infrastrutturale finalizzati a
conseguire un improbabile quanto costoso equilibrio fra offerta e domanda.
Occorre:
• migliorare l'efficienza dei diversi mezzi di trasporto;
• aumentare l'efficienza dell'impiego dei diversi modi di trasporto attraverso politiche di
gestione dell'offerta e della domanda (investimenti, norme d'uso delle infrastrutture,
politiche tariffarie e fiscali, ecc.)
• promuovere soluzioni ottimizzate che consentano di ridurre le distanze percorse per
ogni spostamento, a parità di spostamenti attraverso adeguate politiche di assetto territoriale e
di organizzazione delle attività economiche e sociali.
126
problema. Il Piano Triennale dei Trasporti 2002-2004 indica come priorità il recupero di efficienza
del sistema infrastrutturale" che in realtà si traduce nell'elencazione di opere: la Valdastico sud,
Nuova Romea, Pedemontana autostradale, il Passante di Mestre (il passante "largo" e il tunnel
autostradale).
L’efficienza dei diversi governi regionali si è misurata dalla capacità di "cantierare"
comunque infrastrutture stradali. La realizzazione di nuove strade sembra l'unica opera
concreta che il governo pubblico deve fare per meritarsi i favori del sistema produttivo. La
mancanza di strade sembra l'unico handicap di un modello per il resto esemplare. Eppure
Giancarlo Corò sottolinea come "tra gli anni '80 e i primi '90 proprio l'area del Nordest sia
stata in Italia la più favorita dagli interventi complessivi in campo infrastrutturale" e che "il
Veneto presenta una dotazione di rete in rapporto alla superficie territoriale superiore di circa
il 30% al valore medio nazionale" 193.
L'analisi puntuale delle scelte infrastrutturali viarie operate per il Veneto basata con i
parametri di sostenibilità del sistema dei trasporti comporta una bocciatura senza appello delle
infrastrutture lineari progettate. Serve trasparenza nei costi e nei contributi statali delle opere
autostradali e delle nuove superstrade a pedaggio, per realizzare opere attraverso progetti
approfonditi e condivisi. Da Mestre alla Romea alle Pedemontana, serve ragionare dei
problemi e non delle soluzioni proposte dai concessionari, procedure trasparenti, qualità delle
opere necessarie al superamento dei problemi veri di congestione nelle aree.
In realtà occorre spostare l'attenzione dal lato dell'offerta, nuove strade, al lato della
domanda, un modello insediativo e produttivo che non produca domanda di mobilità. La
vecchia logica dell'infrastrutturazionc come adeguamento dell'offerta ad una domanda
indipendente, se non come stimolo alla domanda stessa, è intrinsecamente "insostenibile":
conduce all'offerta più o meno perversa dove l'offerta di infrastrutture genera la domanda che a
sua volta rende insufficiente l'offerta. Secondo la nostra ottica e assumendo obiettivi di
sostenibilità complessiva territoriale altre sono le priorità nel settore dei trasporti, legate ad
esempio all'aumento della sicurezza sulla rete stradale attraverso interventi che pongano
mano al degrado delle infrastrutture, ma anche risolvendo i problemi di intersezioni e incroci a
raso, i raggi di curvatura, con rotatorie o la decongestione e la riqualificazione delle aree
urbane attraverso il rilancio gli investimenti infrastrutturali per il trasporto pubblico
urbano realizzando tramvie e metropolitane di superficie nelle città e nelle aree metropolitane
venete, sperimentando nuove tecnologie e rinnovando il parco circolante.
193
Giancarlo Coro, Morfologia economica e sociale del Nord est, in Ilvo Diamanti (a cura di) Idee del Nord Est: mappe,
rappresentazioni, progetti, Torino, 1998
127
motivi di critica delle modalità prescelte per la realizzazione corridoio 5 concernono il
consumo e l'impermeabilizzazione di nuovo territorio in aree fortemente antropizzate. La
necessità di ridurre il traffico automobilistico nelle nostre aree metropolitane e di diminuire i
pesanti costi ambientali e umani originati dal traffico merci su gomma sottolineano l’urgenza
del potenziamento della rete ferroviaria, soprattutto in prossimità dei grandi nodi urbani e
del trasporto marittimo. Secondo dati Italferr, l'80% della domanda ferroviaria attuale (il
dato è confermato anche nelle previsioni di incremento della domanda) riguarda itinerari di
breve-media percorrenza (50/80 km). E' in questa fascia di concentrazione della domanda reale,
che la ferrovia ha i maggiori margini di incremento per quanto riguarda il trasporto passeggeri, ed
è quindi in questa fascia che si deve garantire un esercizio efficiente della rete ferroviaria.
Per quanto riguarda il Corridoio adriatico, il Governo ha inserito nel primo elenco
delle opere strategiche della legge obiettivo (approvato il 21 Dicembre dal CIPE) l'Autostrada
Romea tra Ravenna e Venezia, e le Regioni Veneto e Emilia Romagna hanno sottoscritto a
Novembre 2001 un accordo per definire di comune accordo il tracciato. Un tracciato che ha
l'obiettivo di continuare verso Nord l'asse adriatico e l'E45, mettendo in connessione i porti di
Ravenna e Venezia ma ignorando l'interporto di Padova (strategico per la logistica merci), e
che si conclude sulla tangenziale di Mestre (già oggi notoriamente sovraccarica). Il progetto e
le tesi proposte non sono però credibili per diversi motivi ma soprattutto per l’assurdità di unire
due porti senza pensare di potenziare il trasporto marittimo. Il traffico pesante sulla Romea - una
delle più alte quote di traffico pesante d'Italia e in costante crescita in una delle strade con il più
alto tasso di incidenti e di morti in Italia - è determinato per una quota assolutamente
maggioritaria dai flussi dei Tir che percorrono l'asse gratuito Nord-Sud che attraverso la E45 e la
Romea risale l'Italia, e non dagli spostamenti tra i porti di Ravenna e Venezia. Flussi che con la
realizzazione dell'autostrada rimarrebbero sulla Romea. Strategico per ridisegnare la mobilità delle
merci sarebbe invece connettere i porti con Padova e l'interporto. La direttrice da rinforzare
del traffico di interesse nazionale non è quella parallela alla Romea ma invece quella tra
Ravenna a Ferrara, che metta in connessione la E.45 con l'A 3, dove occorre realizzare un
tracciato adeguato e a pedaggio per i traffici che oggi sono sulla statale 16, trafficata e che
passa per numerosi centri storici. La centralità degli spostamenti merci in questo modo viene
riportata sull'interporto di Padova snodo integrato strategico e lungo le direttrici sull'asse Torino-
Venezia, e verso Trieste e il Brennero. La condizione più importante e di prospettiva per la
mobilità è quella di realizzare interventi sulla rete ferroviaria e marittima in grado di creare una
reale alternativa per il trasporto delle merci, completando quella che viene chiamata la "Romea
ferroviaria", un asse Ravenna-Venezia, collegato con Padova (e l'interporto) e Bologna.
128
mera sommatoria non coordinata di segmenti di modalità trasportistiche differenti ma come
una funzione strettamente integrata al sistema logistico. Siamo però consapevoli che due
potentissimi fattori ostano alla realizzazione di un sistema logistico e cioè l'elevata
polverizzzazione delle imprese e un gran limite culturale: occorre avviare il potenziamento e/o
costruzione di scali ferroviari "intermodali", nell'area Pedemontana Veneta e Friulana,
attrezzandoli come punti di raccolta e di interscambio fra Gomma e Ferro, per l'aggregazione
dei traffici in uscita (o in arrivo) dal sistema produttivo "diffuso", caratteristico di quest'area,
in modo da incentivare anche "organizzativamente" il trasferimento di quote crescenti di traffico
merci sul vettore ferroviario.
• autostrade del mare
la Regione può svolgere una funzione di pungolo per la progettazione delle cosiddette autostrade
del mare approvate dall'UE e incentivando l'utilizzo del trasporto cabotiero dai porti dell'alto
adriatico (VE-TS in particolare). Occorre rilanciare il trasporto merci attraverso l'Adriatico, per
levare traffico dalle strade e realizzare un vero sistema intermodale. L'Adriatico può diventare un
sistema efficiente di Porti grandi (Trieste, Venezia, Ravenna, Ancona, Brindisi) e minori (come
Chioggia, San Benedetto del Tronto, ecc.). Gli interventi di adeguamento dei porti, di collegamento
con la rete ferroviaria e stradale costano meno e sono più utili e efficaci per la mobilità. Servono
interventi infrastrutturali necessari a sviluppare la logistica commessa a tale modalità di trasporto:
interventi nelle aree portuali (quali aree terminal, spazi, collegamenti) per ridurre tempi di
manovra e di allaccio alla rete nazionale. Le potenzialità con la loro realizzazione, secondo alcune
ricerche, sarebbero, a livello nazionale, di 240mila Tir portati via dalle strade entro il 2004, 640mila
entro il 2010.
• potenziare la rete ferroviaria
con il raddoppio e il quadruplicamento dei binari lungo le direttrici principali perché questo è
ancora oggi il problema di tante tratte fondamentali a binario unico (sulla linee Adriatica, su tratte
fondamentali per il trasporto merci e passeggeri come la Verona-Bologna). L'adeguamento deve
partire dai valichi (Brennero), per rafforzare i corridoi fondamentali (Adriatico) a partire dalle
linee-esistenti, programmando e progettando per tempo le nuove linee attraverso un ampio
confronto con il territorio. Occorre una strategia per i nodi urbani, che punti a realizzare subito
le tratte di aggiramento dedicate alle merci, liberando quindi linee di ingresso alle città per i treni
regionali e metropolitani, per i porti di connessione diretta con la rete e di creazione di spazi di
manovra per le merci.
• mobilità nelle aree urbane
recuperare i problemi di inquinamento e congestione è possibile: realizzando tramvie e
metropolitane di superficie nelle città e nelle aree metropolitane venete, sperimentando nuove
tecnologie, rinnovando il parco circolante. A livello cosiddetto micro appare rilevante per le
ricadute sul benessere ambientale la realizzazione, almeno nei centri con un certo numero d'abitanti,
dei Centri di Distribuzione Urbana delle merci. Il progetto dovrebbe prevedere la concentrazione
delle merci nel CDU, il successivo smistamento verso la città ottimizzando i percorsi, riducendo i
viaggi con bassi tassi di riempimento ed utilizzando mezzi a basso impatto ambientale.
129
impatti additivi o sinergici prodotti sul territorio e l'assicurazione della sostenibilità delle
trasformazioni, in un orizzonte temporale di medio lungo termine.
Erasmo Venosi
130
la terra dei fiumi
“Non c’è bisogno di personificare un fiume;
esso è letteralmente molto più vivo in quanto tale e,
come l’aria e la terra, è una creatura più potente ed essenziale
di qualsiasi essere vivente comparso sulla terra.
Il fiume è una di quelle rare, immense, rudi e riservate creature
grazie alle quali la nostra esistenza è diventata possibile”
James Agee Let Us Now Praise Famous Men (1939)
194
Loredana Capuis, Acqua nel culto e culto dell’acqua nel Veneto preromano, in “Letture d’Acqua”, Editrice Cleup
s.c.a.r.l.., Padova 1994 (pag.(pag. 137)
195
Nel XX secolo, in Italia le vittime per catastrofi idrogeologiche nella quasi totalità provocate da interventi sbagliati
dell’uomo, sono state più di 10.000
196
Nel 1997, anno record, “la produzione nazionale di energia elettrica in Italia è stata di 251 miliardi di kWh. Di questi
187 miliardi di kWh sono stati prodotti dall’ENEL.
131
secondarie , sviluppare l’agricoltura. Lo si fece con una radicalità tale (non rintracciabile in nessun
altro Paese europeo impegnato in quegli anni nello stesso obiettivo) che, alla fine, ci siamo trovati a
governare il nostro futuro in un territorio in parte creato e totalmente garantito da un sistema di
governo delle acque completamente artificiale e ciò che allora costituì un impresa oggi incomincia a
mostrare limiti preoccupanti.
197
“Ad alimentare il sistema idrico sotterraneo del Veneto contribuiscono, come risulta da recenti indagini, le
precipitazioni dirette (20%), le pratiche irrigue (34%) e le dispersioni in alveo dei corsi d’acqua di superficie (46%)” da
Salvaguardia del patrimonio idrico sotterraneo del Veneto. Cause del depauperamento in atto e provvedimenti urgenti
da adottare, C.N.R.-Gruppo Nazionale per la difesa dalle catastrofi idrogeologiche, Venezia 2000
198
Maria De Fanis e Francesco Vallerani, Escavazioni in alveo e problemi ambientali: i casi del medio corso di Brenta
e Piave in “Veneto: un ambiente a rischio” , AGel Editrice, Padova 1999
199
Direttiva C.E. n. 1782 del 2003
200
Massimo Sargolini, Rete ecologica e pianificazione territoriale, in “Parchi”, n.39/03 (pag.76)
132
I sistemi artificiali: il caso della Piave
Il Veneto, come le altre regioni subalpine, è traversato verticalmente da alcuni grandi fiumi
alpini (Adige, Brenta, Piave, Tagliamento) che alimentano attraverso il materasso permeabile di
origine glaciale dell’alta pianura, decine di piccoli, medi e grandi fiumi di risorgiva, dando vita ad
un complesso sistema idraulico di acque di superficie e sotterranee, comunicante e dunque
interdipendente. Un capitale naturale, rinnovato periodicamente dai processi naturali che hanno i
loro epicentri nei bacini montani in cui si raccoglie, scorre e filtra una quantità enorme di acqua.
Un’antologia di fiumi, di laghi (fra cui il più grande d’Italia), di ghiacciai, di ampie zone vallive e
lagunari, elementi residui di un diffuso carattere palustre di molti territori e, infine, anche di un
sistema altrettanto diffuso di laghi su bacini artificiali che ne caratterizzano il paesaggio montano.
Ai benefici indiscutibili che lo sviluppo porta con sé, raramente si affiancano i dati e le
dimensioni dell’impoverimento radicale, del travolgimento che esso ha prodotto nell’ambito delle
risorse e degli equilibri naturali, in particolare per quanto riguarda l’acqua. Basti pensare ad
esempio, che la riduzione del freatico indifferenziato fra Brenta e Piave, causa le attività umane è
stato quantificato in un abbassamento di livello medio di “ 3-4 metri nell’alta conoide del Piave e di
oltre sette metri in quella del Brenta”201
E’ forte e diffusa la convinzione che comunque e in ogni caso l’applicazione di ulteriori
raffinate tecnologie potrà recuperare il danno al capitale naturale che pure, oramai, tutti considerano
significativamente compromesso. L’acqua è, da questo punto di vista, un elemento che riassume in
sé chiara e inequivocabile questa contraddizione della cultura politica veneta (e non solo), infatti
essa è invocata come bene da tutelare e tuttavia, nonostante l’insieme di norme gestionali 202, spesso
contradditorie e sempre insufficientemente applicate, che la Regione Veneta si è data, l’uso e i
consumi dell’acqua dolce sono ancora mal identificati e quantificati.
201
AA.VV. Salvaguardia del patrimonio idrico sotterraneo del Veneto. Cause del depauperamento in atto e
provvedimenti urgenti da adottare, C.N.R.-Gruppo Nazionale per la difesa dalle catastrofi idrogeologiche, Venezia
2000 (pag. 10 vol.1)
202
PIANO REGIONALE DI RISANAMENTO DELLE ACQUE (PRRA): è lo strumento di pianificazione della
Regione Veneto degli interventi di tutela delle acque, di differenziazione e ottimizzazione dei gradi di protezione del
territorio, di prevenzione dai rischi di inquinamento, di individuazione dei principali schemi fognari e depurativi.
PIANO DI TUTELA DELLE ACQUE: dovrà essere elaborato sulla base degli strumenti di programmazione
regionale in materia di acque quali: il PRRA, il “Piano direttore per il disinquinamento della Laguna di Venezia”, il
“Piano Direttore per il risanamento della parte a monte del bacino Fratta-Gorzone”, il “Modello strutturale degli
acquedotti”, Progetto integrato Fusina.
MODELLO STRUTTURALE DEGLI ACQUEDOTTI DEL VENETO: modello che contiene lo schema
acquedottistico. Approvato con la DGR n° 1688 del 16 giugno 2000, di recepimento della Legge 36/1994
SCHEMA ACQUEDOTTISTICO DEL VENETO CENTRALE: prevede opere di interconnessione delle strutture
acquedottistiche di quattro ambiti territoriali ottimali, finalizzate a garantire un sistema territoriale affidabile ed
efficiente di approvvigionamento idrico che possa avvalersi di fonti di qualità garantita..
PIANI D’AMBITO: sono predisposti dalle Autorità d’Ambito, serviranno per definire il nuovo assetto strutturale e
gestionale del Servizio Idrico Integrato. La Regione ha un ruolo di coordinamento e indirizzo dei compiti di
programmazione e pianificazione.
PIANI DI BACINO: rappresentano lo strumento operativo, normativo e di vincolo finalizzato a regolamentare le
azioni nel settore della difesa del suolo. Previsti dalla L. 183/1989, Norme per il riassetto organizzativo e funzionale per
la difesa del suolo. Anche la Direttiva 200/60/CE (non ancora recepita dall’Italia) che istituisce un quadro per l’azione
comunitaria in materia di acque prevede tali piani.
PIANO DI ASSETTO IDROGEOLOGICO: persegue l’obiettivo primario di garantire al territorio del bacino un
livello di sicurezza adeguato rispetto ai fenomeni di dissesto idraulico e geologico, con la finalità della salvaguardia
delle persone, della protezione degli abitati, delle infrastrutture, dei luoghi e ambienti di pregio paesaggistico, culturale
e ambientale interessati da fenomeni di dissesto, nonché della riqualificazione e tutela delle caratteristiche e delle risorse
del territorio.
133
Nella nostra regione, più del 90% dei fiumi e torrenti alpini sono pesantemente condizionati
da sistemi artificiali per la produzione idroelettrica e impoveriti dalle derivazioni ad uso agricolo.
Esemplare, in quest’ottica la vicenda della Piave 203, un fiume alpino che in un percorso
relativamente breve – 210 chilometri dalla sorgente alla foce – riassume in sé una serie di
caratteristiche altrimenti introvabili: il suo percorso, da nord a sud entro i confini dell’attuale
Veneto e dell’antica area orientale che s’affaccia sul golfo terminale dell’Adriatico, su di un asse
mediano fra il Po e il Tagliamento, ne hanno fatto la via più breve e praticabile fra la regione alpina
orientale e lo specchio del Mediterraneo; le qualità geomorfologiche del suo bacino rappresentano
una varietà notevolissima di ambienti di pregio distribuiti fra i boschi di alta montagna, i rilievi
collinari della pedemontana, l’alta pianura di ghiaie, la fascia delle risorgive e le aree umide
prelagunari; le antichissime frequentazioni dell’uomo lungo il suo corso e le pratiche millenarie
d’uso dell’acqua, dalla navigazione alla fluitazione, dallo sfruttamento della forza dinamica
dell’acqua alle diversioni per usi agricoli, hanno addensato storie e patrimoni monumentali lungo il
suo corso, quasi senza soluzione di continuità; la consistente portata di acque meteoriche del suo
bacino montano (in media 5.000 milioni di mc annui) e la naturale irrequietezza delle sue acque
hanno indotto le comunità a sperimentare, fin dal 15° secolo pratiche intensive e diffuse di
regolazione e contenimento del rischio idraulico.
La Piave, lungamente trafficata e fittamente abitata nelle sue aree di bacino, è oggi il fiume
del Nordest in cui più netta ed evidente è stata la cesura che, a cavallo fra il 19esimo e il 20esimo
secolo, ha radicalmente cambiato il rapporto fra uomo e acqua 204. Ciò è avvenuto, non solo per
l’evoluzione delle società rivierasche dalle attività quasi esclusivamente agricole a quelle
manifatturiere e industriali, ma per la concomitanza delle due imprese che più di altre connotano il
passaggio del Veneto alla modernità: la costruzione del polo industriale di Porto Marghera 205 e la
parallela azione di bonifica idraulica e agraria della bassa pianura fra Po e Isonzo.
La coincidenza della progettazione e sviluppo di queste due imprese, fra il 1920 e il 1950,
trasformarono il destino del fiume: da cordone ombelicale fra il nord alpino e il sud mediterraneo,
esso diventò fonte di energia idroelettrica e sistema idraulico finalizzato, in una parte consistente, al
consumo energetico dell’area industriale di Marghera e all’irrigazione della nuova agricoltura.
Questo sistema artificiale, tecnicamente perfetto, non prevede significative restituzioni al corso
naturale del fiume dell’acqua captata e solo recentemente si è incominciato ad applicare una politica
dei rilasci in alveo con l’obiettivo di raggiungere il cosiddetto minimo deflusso vitale e salvare la
vita biologica del fiume.
Il caso Piave riassume in sé in modo emblematico, non solo l’evolversi delle trasformazioni
in epoca moderna e contemporanea, nel rapporto fra acqua e modelli dello sviluppo nel Veneto, ma
certifica, attraverso l’insieme delle questioni ancora irrisolte che riguardano la sua sopravvivenza
anche l’assoluta mancanza di una politica regionale indirizzata, contemporaneamente, alla riduzione
203
Matteo Fiori, Renzo Franzin, Sergio Reolon, Il conflitto dell’acqua. Il caso Piave, Cierre Edizioni, Verona 2000
204
Alcuni dati rendono in maniera esemplare questo cambiamento: lungo il corso del fiume a tutt’oggi funzionano 30
impianti di produzione idroelettrica (ENEL) con più di 50 singole captazione degli affluenti in alta quota; 6 grandi
laghi artificiali creati con altrettante dighe o sbarramenti artificiali raccolgono circa 160 milioni di mc d’acqua e 11
serbatoi di modulazione hanno una capacità utile di altri 22-23 milioni di mc; il tutto è collegato da una fitta rete di
canali e tubazioni (quasi sempre all’interno delle montagne) di circa 200 chilometri. Quando nel 1957 la SADE
incominciò a costruire la Diga del Vajont questo sistema d’uso delle acque era pressoché completato, quel nuovo bacino
di 150 milioni di mc d’acqua, doveva raddoppiare la riserva di energia da mettere in campo a fronte di uno sviluppo
socio-economico che, proprio in quelli anni, impennava verso un trend vertiginoso. Il fallimento del progetto Vajont a
seguito della frana del 9 ottobre 1963, non pregiudicò la piena funzionalità di quanto era già stato costruito e, ancora
oggi, quel sistema produce da solo circa il 12% dell’energia idroelettrica nazionale. Ancora, parte consistente delle
acque del bacino del Piave, all’altezza del Fadalto, vengono dirottate verso il bacino della Livenza e, più in giù,
nell’area dell’alta pianura, si procede ad ulteriori prelievi e derivazioni, a sostegno dell’agricoltura.
205
Mario Coglitore, Alle origini di Porto Marghera: dalle paludi ai primi insediamenti industriali, in “Il Ponte” ,
Milano 2003 (pag. 99 n. 09/03)
134
del rischio idraulico, al ripristino delle condizioni naturali di parte dei corpi idraulici di superficie e
alla creazione di tutela del patrimonio delle acque sotterranee.
Il che fare?, ancorché riferito ad un riordino ed a una semplificazione della normativa
regionale sui tempi della pianificazione territoriale in relazione alla riduzione del rischio
idrogeologico, alla riqualificazione ambientale e alla tutela delle acque sotterranee e di superficie,
non potrà che partire dall’avviare un laboratorio sperimentale assumendo come elemento decisivo
l’obiettivo di salvare un fiume, per sperimentare tecniche d’intervento e politiche partecipative
puntuali, sul modello del percorso ipotizzato nel Forum del 22 marzo 2002 a San Donà di Piave,
con il documento “Una carta per la Piave. Costruire una nuova civiltà del fiume” 206.
Gli interventi tecnici possono, ovviamente, variare a seconda della casistica fluviale
esaminata, quello che deve comunque essere confermato come metodo imprescindibile per il
raggiungimento dell’obbiettivo è il processo partecipativo: “se si vuole che la concezione del fiume
come bene comune non resti solo un’affermazione astratta o idealistica, il suo governo deve essere il
risultato di un processo decisionale il più possibile orizzontale e condiviso, perché le procedure
istituzionalizzate di partecipazione alla conoscenza degli atti e dei documenti di piano –
osservazioni, deduzioni ecc. – sono insoddisfacenti da molti punti di vista, escludono chi non è
possesso delle competenze tecniche necessarie ad inserirsi nella procedura e sono inefficaci per il
superamento del conflitto e la costruzione di visioni condivise”207.
135
di quanto con esso - comunità di uomini e contesti ambientali - viveva da millenni 208. Nelle fasi
attraverso cui la bonifica si realizza non è casuale che quella idraulica sia indispensabile a
introdurre quella agraria che finisce, sulla tabula rasa ottenuta dai prosciugamenti, per rimescolare
tutte le relazioni, da quelle sociali a quelle culturali, da quelle economiche a quelle politiche,
assegnando i nuovi terreni, riorganizzando e ridistribuendo ruoli e lavoro: l’unica autentica, grande
rivoluzione dell’Italia moderna.
Il paesaggio planiziale subisce un totale ribaltamento e nella scenografia che ne risulta
s’insediano potentissimi, non i segni dell’uomo che sono già ampiamente presenti anche in tutti gli
ambienti umidi, ma gli esiti geometrici di un pensiero razionale che introduce visibilmente i criteri
di sicurezza, ordine e produttività nella nuova geografia poderale. L’acqua ne esce definitivamente
ridimensionata: ora può scorrere solo in canali diritti come fusi, ingoiata dalle idrovore viene
disarmata della sua pericolosità, è utilizzata per uomini, animali e campi. Quel lento e inarrestabile
disperdersi dentro le reti artificiali in cui l’uomo l’ha costretta, sembra definitivamente cancellarla
dalla quotidianità, ridurla a pura merce che serve il coltivo. E’ il trionfo della Diesel e della terra
distesa, coltivata sino all’ultima zolla, spianata, sminuzzata, concimata, costretta entro un reticolo di
stradoni lunghi e diritti, solcata da una miriade di canali di scolo dalle rive brulle.
Tuttavia questa icona della redenzione è oggi aggredita dall’urbanizzazione
incontrollata: “le ville che erano state le centralità del paesaggio veneto del passato ora sono state
sostituite dal capannone, la nuova centralità che conta”209. In realtà il fenomeno
dell’urbanizzazione diffusa, variamente classificato dai pianificatori (mosaico di paesaggi, sistema
urbano, rete di città, città sparpagliata, città diffusa ecc.), oltre a consumare territorio in modo
disordinato e con effetti di impoverimento del profilo paesaggistico, compie la definitiva
cancellazione delle relazioni funzionali ed estetiche fra le forme dell’abitare e del produrre e
l’acqua, al punto da rendere fragile persino il potentissimo sistema artificiale di difesa delle terre di
bonifica su cui oggi si “scaricano” letteralmente buona parte delle conseguenze di una gestione
sbagliata delle acque di aree urbane e urbanizzate situate a monte delle bonifiche.
Se a questo si aggiunge che, per effetto dei provvedimenti europei, in vigore dal 2006,
vi sarà una riconversione significativa delle risorse finora destinate al sostegno attivo delle
produzioni agricole su scala estensiva (mais, soia, barbabietola ecc.), il punto debole dell’intero
territorio veneto torneranno ad essere proprio quelle aree agricole, fra l’alta pianura e la costa, già
soggette ad una radicale trasformazione meno di ottant’anni fa. Qui, infatti, è di tutta evidenza il
danno ambientale che l’espansione incontrollata di aree urbane, artigianali, industriali, lo sviluppo
puntiforme di insediamenti produttivi, isolati e fragili, ha prodotto in questi ultimi due decenni, sul
pur limitato corredo ambientale rintracciabile. In questi luoghi, significativamente modificati
dall’azione antropica degli agricoltori per più di cinquant’anni – dalla prima fase della bonifica sino
agli anni ottanta - con effetti di recupero di parte dei profili agrari attraverso le piantate, la
ricostituzione delle siepi di fosso e dei piccoli boschi tutori delle economie aziendali del legno, si è
(re)imposta una semplificazione del territorio che lo espone agli esiti più radicali delle alluvioni,
dell’inquinamento diffuso, delle variazioni climatiche e dell’impoverimento colturale.
Non vi è dubbio alcuno che l’azione principale da attivare in questa parte della pianura è
una riconsiderazione complessiva della qualità di produzione agricola, puntando decisamente a
208
Oggi la bonifica veneta è affidata a 20 Consorzi che regolano le acque di 1.072.585 ha di territorio e di questi ben
330.000 attraverso l’uso di 297 impianti idrovori con 115.926 cavalli di potenza installata. Completano il sistema 4.425
Km di argini artificiali, 16.172 Km di canali artificiali controllati da 11.533 manufatti idraulici e l’intero comparto da
lavoro a più di 1.000 addetti.
209
Eugenio Turri, La megalopoli padana, Marsilio Edizioni, Venezia 2000
136
ripristinare l’insieme dei sottosistemi idraulici minori (collettori, fossi, capezzagne, scoline ecc.)
come condizione essenziale per la tenuta idraulica e un reinvestimento sulle produzioni agricole di
nicchia e su una qualificazione ambientale come valore aggiunto del prodotto locale.
Più in generale, nelle zone caratterizzate da complessi nodi idraulici, da sistemi artificiali di
regimazione delle acque, la revisione necessaria riguarda un nuovo rapporto che deve stabilirsi fra
riduzione accettabile del rischio idraulico e la rinaturalizzazione di molti dei corsi superficiali,
considerando che quest’ultima azione richiede investimenti mirati e offre non solo una diversa
qualità del paesaggio e della cenosi fluviale, ma concrete possibilità di introdurre nuove ed efficaci
pratiche finalizzate al disinquinamento (bacini di fitodepurazione), alla gestione morbida delle
emergenze idrauliche (espansione delle aree di pertinenza fluviale) ad una programmazione
intelligente degli usi agricoli (riutilizzo delle ex-cave come depositi d’acqua).
210
Legge 5 gennaio 1994 n. 36
211
l.r. n.5 del 1998
212
E’ il programma degli interventi necessari ad assicurare una gestione efficiente, efficace ed economica delle risorse
idriche con proiezioni di previsione di 20-30 anni
137
La situazione è ulteriormente complicata da scadenze afferenti il tema della gestione dell’acqua
provenienti da direttive europee, parzialmente attenuate dai successivi provvedimenti nelle
Finanziarie del Governo nazionale, che prevedono come sbocco la collocazione sul mercato delle
aziende di gestione o delle loro aggregazioni con un netto indirizzo a far rientrare l’acqua nella sfera
delle merci a gestione privata.
Nel groviglio delle disposizioni regionali, nazionali ed europee, il nodo largamente irrisolto
riguarda la mancata individuazione di adeguati strumenti e spazi che favoriscano il processo
partecipativo alla gestione dell’acqua, considerando che quest’ottica è l’unica realmente efficace,
non solo per ottimizzare il servizio, ma soprattutto per sottrarre l’acqua alle leggi del mercato e
realizzare la mission essenziale del settore, quella che si sintetizza nella definizione dell’acqua
come bene patrimoniale pubblico destinato ad usi solidali.
E’ necessario fissare in questa fase di trasformazione nella gestione dell’acqua, alcuni
obbiettivi essenziali ad uno sviluppo accettabile della modernizzazione: da un lato, utilizzare i Piani
d’Ambito degli AA.T.O. per allargare e rafforzare i principi di pubblicità, tutela e controllo degli
usi dell’acqua in relazione al principio che essa è da considerarsi bene patrimoniale e non merce;
dall’altro, imporre alle singole aziende scelte che favoriscano lo scorporo del servizio idrico
integrato dalle politiche aziendali con cui vengono gestiti altri comparti, assegnando a questo
settore il valore prevalente di servizio pubblico controllato attraverso forme di partecipazione
adeguate.
Acque, frontiera per (ri)pensare gli equilibri con la natura e approdare a nuove forme
di democrazia
La semplificazione del mondo è presente fin dentro le mura domestiche. L’acqua della
quotidianità ci viene distribuita dalla macchina-rubinetto e questa è l’immagine e la sintesi
percettiva attraverso cui la conoscono la maggior parte delle persone nel mondo sviluppato.
Non solo sono scomparsi i tradizionali mestieri legati all’acqua e non solo per effetto dei
cambiamenti tecnologici della modernità e della post-modernità, ma è mutato profondamente il
rapporto con lo stesso elemento anche per effetto della inesorabile riduzione di tutto quello che i
miti delle origini e la sacralità degli usi aveva depositato nella sua aurea, l’acqua viene declassata a
risorsa, quindi affidata ai numeri anziché ai sensi, è sinonimo di instabilità e rischio e dunque
consegnata agli ingegneri, ridotta a mera merce di consumo e di conseguenza commercializzata. E
qui s’inserisce l’altra fase, quella più recente della nostra storia, per cui l’acqua diventa oro, denaro
sonante, affare su scala planetaria, risorsa appunto da inserire nel mercato e, naturalmente, qui si
aprono contraddizioni notevoli con le culture che, invece, per tradizione e necessità, non possono
permettersi questa evoluzione. Va da sé che, comunque, una riconquista della percezione originaria
dell’acqua, delle forme di civiltà, dei saperi e delle pratiche che intorno ad essa si sono coagulate ed
esaltate non può che partire dalla considerazione che questo bene non può diventare mero oggetto di
mercato e, in modo altrettanto netto, che è necessario ripensare, fin dal gesto quotidiano, la nostra
contiguità con l’acqua, perché essa, se ben accettata e interpretata, ci aiuta a riconciliarci con la
Natura.
E’ insieme un processo di riconquista della relazione diretta con l’acqua e le sue forme,
esigendo nel governo del territorio la riproposizione di quelle buone pratiche che possono restituirci
un orizzonte accettabile nella sua qualità globale e, dunque, politica; ed è anche questione tutt’altro
che irrilevante per la modernizzazione della democrazia considerato che la tutela dei beni naturali
essenziali coincide con i diritti della collettività e si realizza nella possibilità concreta di partecipare
a definirne gli usi più equilibrati.
In proposito, facendo propria un’affermazione di alcuni specialisti 213 sulla regionalizzazione
dell’acqua in Inghilterra – “la sistemazione delle acque è un processo più politico che tecnico” –
Bernard Barraque, ingegnere, ricercatore e responsabile francese del progetto Eurowater , scrive: “
213
Denis Parker e Edmund Roswell (1980)
138
Al di là del dibattito degli specialisti sulla privatizzazione, si scoprono numerose implicazioni
associate alla trasformazione delle politiche pubbliche dell’acqua: ma la più fondamentale non è
forse quella della modernizzazione della democrazia?214”.
Renzo Franzin
214
Bernard Barraqué, Le politiche dell’Acqua in Europa, De Angeli Editore, Milano 1999 (pag. 305)
139
parchi:
quando l’utopia può farsi concreta
Il ruolo possibile dei parchi
“Nel superare la sbornia delle magnifiche sorti progressive di uno sviluppo insostenibile, di
consumo e di conurbazione, nel pieno di una ingovernata ed oligarchica competitività globale,
lentamente ci si accorge che il vero valore aggiunto, non delocalizzabile di un territorio consiste
proprio nelle sue peculiarità e diversità bioculturali, nelle produzioni tradizionali, in contesti
relazionali esclusivi: beni tutti da conservare a da valorizzare non solo come credibili potenzialità di
nuova economia ma anche quali garanzie di qualità ed equità, attuali e future, del vivere questi
luoghi per le comunità locali”215. E’ il presidente del Parco delle Dolomiti Bellunesi, Valter Bonan,
ad affermare questo, e queste parole si arricchiscono di significato proprio perché in filigrana vi si
legge l’esperienza positiva di un Parco che rappresenta uno straordinario magnete di sviluppo locale
per tutta l’area delle dolomiti bellunesi216.
Da tempo il sistema dei parchi si propone di armonizzare le azioni a tutela della risorsa
ambiente con le attese, i bisogni, le capacità e le potenzialità delle varie realtà territoriali, con il più
largo concorso di tutti i soggetti interessati. Si tratta di mettere in atto una nuova prospettiva di
collaborazione e cooperazione che sia in grado di garantire sia un'azione efficace per la
conservazione delle risorse naturali e il miglioramento delle condizioni ambientali, sia la
partecipazione delle comunità coinvolte, rafforzando il ruolo dei poteri locali in stretta
concertazione interistituzionale con quelli di area vasta. Il parco rappresenta una straordinaria
opportunità di sperimentare un nuovo rapporto tra società e natura, tra cultura e cicli naturali, tra
storia tradizioni e modernità: “quello che è certo è che gran parte dei parchi italiani si è avviata
lungo un sentiero di riconciliazione tra attività umane e salvaguardia ambientale, tra innovazione
tecnologica, e recupero delle tradizioni locali…nessuna posizione nostalgica o passatista ma
nemmeno esaltazione pura e semplice del progresso e dell’economia come fine dell’agire
sociale”217.
I parchi possono quindi rappresentare degli strumenti di sviluppo locale in particolare nelle
aree - pensiamo alle zone montane o al Polesine - non ancora devastate dal modello della città
diffusa del Veneto centrale e alla ricerca di modelli non periferici ma originali di sviluppo.
Contrariamente a quanto predicato da molti le aree periferiche dello sviluppo non hanno bisogno di
più mercato e più modernizzazione, ma di una strategia di valorizzazione delle specificità locali e li
parco può rappresentare lo strumento utile non solo per una tutela della biodiversità ambientale ma
per favorire sentieri di auto sostenibilità.
215
Valter Bonan, estratto dall’intervento al Convegno “Alpi, ritorno al futuro” (Torino, 20 febbraio 2004) in
www.parks.it
216
da sottolineare l’iniziativa, dopo il recupero delle malghe d’alta quota e l’uso delle energie rinnovabili, quello della
"carta qualità": un documento nel quale vengono inseriti, e quindi segnalati a turisti e residenti, le attività di servizio e le
produzioni più strettamente legate al "sistema parco" e che rendono l'area un territorio unico al mondo. Si tratta di
un'iniziativa di "marketing territoriale", intesa a promuovere il territorio del parco nel suo complesso, costituito da
animali, fiori, montagne e paesaggi, ma anche da strutture turistiche di qualità per accogliere i visitatori, da prodotti
agricoli tipici, da produzioni artigianali tradizionali. Purtroppo la furia devastatrice della “casa delle libertà” ha portato
alla estromissione del Presidente Valter Bonan, mettendo così a rischio le tante azioni portate avanti dal Parco, in favore
di un Presidente di sicura fede governativa.
217
Tonino Perna, Aspromonte, Torino, 2002
140
E’ possibile pensare ad una strategia regionale per la promozione dei parchi e delle aree protette
a partire da due assunti generali fondamentali:
definitivo superamento delle concezioni “insulari” delle aree protette, in favore di una vera
e propria “territorializzazione” delle politiche che le riguardano, basata sul riconoscimento
che esse fanno parte inscindibile di più vasti sistemi ecologici, economici, sociali e culturali;
pieno riconoscimento della inseparabilità dei problemi ambientali a tutti i livelli da quelli
sociali ed economici, e quindi delle politiche di conservazione da quelle volte a promuovere
lo sviluppo sostenibile.
La Regione dovrà farsi promotore di una politica di sostegno ai parchi e alle aree protette.
L’obiettivo a medio termine è quello di rafforzare il sistema regionale delle aree protette mediante
l’individuazione di specifici obiettivi gestionali per la tutela e la valorizzazione, con una maggiore
integrazione tra le politiche di settore, con una più efficiente destinazione e utilizzo delle risorse per
gli investimenti, con la realizzazione di interventi integrati di sistema.
Pensiamo alla elaborazione di un programma regionale pluriennale per le aree protette, fondato
sugli indispensabili obiettivi di conservazione della biodiversità, di tutela del paesaggio, di difesa
del suolo e integrato con i programmi di sviluppo e valorizzazione. Il programma regionale
dovrebbe contenere i seguenti obiettivi prioritari:
o consistente aumento di superficie delle aree protette
o la specifica previsione di un ruolo per i territori protetti all'interno delle misure
previste per l'impiego dei fondi strutturali e in particolare il rafforzamento delle
misure di sostegno ai sistemi agricoli che contribuiscono alla qualità della tutela
territoriale ed alla valorizzazione delle produzioni tipiche,
o la costruzione di una Rete Ecologica Regionale, concepita come grande
infrastrutturazione ambientale della Regione, che abbia le aree protette come punti
nodali e di eccellenza e che sia parte della Rete Europea "Natura 2000";
o contribuire, per il territorio di pertinenza regionale, alla realizzazione di interventi
organici e di sistema per gli ambiti geografici (Alpi, bacino del Pò, coste…) che,
utilizzando le aree protette come elementi di sperimentazione e di irradiazione,
favoriscano la creazione della Rete Ecologica e sostengano lo sviluppo durevole
delle comunità umane insediate nei Comuni delle aree protette;
o il sostegno a programmi di sviluppo locale che, prevedendo criteri di priorità per gli
interventi nelle Aree Protette, siano indirizzati al mantenimento della presenza
dell'uomo ed al miglioramento della qualità della vita delle comunità presenti
insieme alle attività tradizionali, alle culture e alle identità territoriali;
Proponiamo l’istituzione, sull’esempio della Regione Lazio, di un'agenzia espressamente
dedicata alle aree protette, una struttura dedita a elaborare e dirigere programmi strategici poi
declinati in progetti specifici per lo sviluppo sostenibile a tutto campo da realizzare nei parchi e
nelle riserve, adattati alle singole realtà locali: dalla formazione professionale all'agricoltura
biologica, dal censimento del patrimonio abitativo inutilizzato per affittarlo ai turisti alla
realizzazione dello sportello unico per cittadini e imprese presenti nelle aree protette.
141
naturale-culturale su cui si basa la qualità del territorio e, inversamente, la qualità complessiva del
territorio può influenzare positivamente le condizioni ambientali ed il futuro dei parchi.
Diventa in questo senso chiaro che la rete ecologica regionale, in questa prospettiva, non può
in alcun modo ridursi ad una rete di parchi e di aree protette, anche se parchi ed aree protette
possono costituire nodi strategici per la costruzione del sistema. Un sistema orientato a “produrre
qualità” ambientale sull’intero territorio deve poter mettere in rete una molteplicità di risorse che
soltanto in parte possono ricondursi alla concezione ed alle pratiche istituzionali delle aree protette:
guardando ad una esperienza relativamente vicina ai nostri territori, il Progetto APE ha mostrato ad
esempio l’importanza delle imponenti fasce biopermeabili snodate lungo la catena appenninica
(praterie primarie e secondarie, formazioni forestali e aree desertiche di varia natura) ai fini del
mantenimento della continuità longitudinale del sistema, e l’importanza del reticolo idrografico ai
fini della ricostituzione delle connessioni trasversali. E’ in questa visione sistemica più ampia ed
articolata su tutto il territorio che deve essere affrontato anche il tema dell’integrazione dei siti
d’interesse comunitario. E’ importante inoltre che la rete da costruire non si limiti a svolgere una
funzione meramente biologica ma debba assumere un significato più complesso.
La piena considerazione della diversità paesistica, l’attenzione per la ricchezza e la
diffusione del patrimonio culturale e delle reti storiche di relazioni, la consapevolezza della densità
delle soggiacenti dinamiche economiche, sociali e culturali che plasmano il territorio, hanno da
tempo indotto, non solo nel nostro paese, a parlare di sistemi di connessioni “bio-culturali”, di una
vera e propria “infrastruttura ambientale”: una infrastruttura di base, che, anteponendosi a quelle
correntemente frequentate (come le infrastrutture dei trasporti o dell’energia) tenda ad assicurare su
tutto il territorio le condizioni di uno sviluppo ambientalmente sostenibile.
Un parco in città
Quello dei parchi periurbani e delle aree protette connesse ai sistemi delle aree urbane, la cui
identità e gestione ha assunto in questi anni un particolare interesse segnatamente nelle realtà dei
sistemi di aree protette regionali. Le dinamiche di aggregazione/disaggregazione dei contesti urbani
ed il continuo evolversi delle città dal modello della gestione centralizzata alla cosiddetta "città
142
diffusa", hanno fatto si che l'influsso delle conurbazioni interessassero anche territori a particolare
valenza ambientale, senza dimenticare tante realtà ambientali interne alle città stesse, che nel tempo
hanno acquisito maggiore significato e ruolo nelle politiche territoriali metropolitane (vedi effetti
metropolitani ←). Se i parchi sono momento di ripensamento della pianificazione locale e di area
vasta ecco che nelle aree urbane gli approcci di gestione sostenibile, possono fornire un grande
contributo anche innescando ricerche ed azioni per l'individuazione di nuovi strumento di
salvaguardia territoriale, ponendo lo strumento parco a confronto con temi e territori di particolare
complessità. La convezione europea del Paesaggio ha sancito che anche le aree urbane, degradate o
deframmentate da una crescita disordinata costruiscono valori sui quali operare. La generale azione
di riqualificazione che ha interessato tanti contesti urbani nazionali come l'estendersi di strumenti
locali di recupero come le misure Urban o i PRUSST, conferiscono ormai ai contesti metropolitani
il peso di vere aree di ricucitura del territorio.
143
Euganei219, o al via libera, con il famigerato Piano cave, all’escavazioni che minacciano, malgrado
l’area sia soggetta a Parco regionale, le sorgenti del Sile.. Esili inoltre i finanziamenti – lo 0,3% del
bilancio regionale – insufficienti anche per pagamento del personale 220. Ridare fiato ad una politica
regionale vuol dire molte cose: innanzitutto una legge regionale che recepisca le “novità” della
legge nazionale del ’91 e la nuova cultura dei parchi che nel frattempo si è affermata. Ma anche
l’istituzione di nuovi parchi può concretamente dare il segnale di una inversione di tendenza.
144
La laguna di Venezia è uno degli ecosistemi costieri più estesi, 60.000 ettari di superficie,
d'Europa e dell'intero bacino Mediterraneo, con un immenso patrimonio biologico, faunistico e
floristico ed alcune specie di animali e di vegetali rare o minacciate d'estinzione. La laguna
racchiude, oltre alla città di Venezia, varie isole con importanti testimonianze storiche ed artistiche
di una civiltà irripetibile. Venezia con la sua laguna è infatti protetta dall’UNESCO come
patrimonio culturale dell’intera umanità e a tutti sono note le inestimabili ricchezze d’arte, di storia
e di cultura che essa custodisce e che ne giustificano la salvaguardia e gli interventi indirizzati verso
la conservazione. La città storica è inscindibilmente legata alla sua laguna: la cultura e tradizioni dei
suoi abitanti, l’architettura dei suoi monumenti, il tessuto urbano ed edilizio ricamato sull’acqua,
sono stati forgiati e hanno preso forma dal paesaggio e dall’ambiente lagunare, che le fanno non
solo da meravigliosa cornice, ma conferiscono alla città di Venezia un significato che in un contesto
diverso non sarebbe dato di cogliere. Il bacino lagunare pur presentando, specie sulla fascia di
gronda, insediamenti urbani, una marcata infrastrutturazione (aeroporto, ponte stradale e ferroviario
translagunare, porto marittimo) e l’ampia area industriale di Porto Marghera, tuttavia riserva ancora
un notevole spazio all’habitat naturale che ne fanno una delle zone umide naturali (wetland) più
importanti del nostro paese e del bacino Mediterraneo. Ma l’eccezionalità va al di la delle presenze
faunistiche, se pensiamo che sotto il profilo vegetazionale e di altri contingenti faunistici la laguna
di Venezia rappresenta un fondamentale elemento di cerniera e connessione ecologica tra le aree
costiere naturali dell’Alto Adriatico, alcuni biotopi dell’entroterra e le aste fluviali che sfociano
subito a Sud e Nord e sono interconnesse anche idraulicamente al bacino lagunare (Piave, Sile,
Dese, Bacchiglione, Brenta).
Il Comune di Venezia, nel 1985, riunì una Commissione tecnico-scientifica
multidisciplinare per individuare in uno studio preliminare le caratteristiche dell’ambiente e la
proposta di tutela complessiva dell’area lagunare. Si è così arrivati alla presentazione di una
proposta di Parco Naturale, che comprenda tutto il bacino lagunare incluso nella conterminazione
lagunare, nonché la stessa città di Venezia e di Chioggia, le isole lagunari e i litorali racchiusi tra le
foci del Sile e del Brenta e che necessariamente preveda una zonizzazione degli ambiti lagunari, sia
per differenziarne gli usi, rendere compatibili le attività economiche esistenti e non congelare il
territorio, consentendo quindi le attività necessarie alla vita della città, sia per proteggere gli habitat
più pregiati e più significativi di barena, delle valli da pesca, della laguna viva, dei litorali e delle
aree di gronda.
Tale proposta è stata inserita in strumenti di pianificazione territoriale della Regione Veneto ed in
particolare nel Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (PTRC) che all’art. 33 individua la
laguna di Venezia come Parco di interesse regionale. Tale proposta è stata ripresa anche nel
PALAV, piano di tutela paesistica della laguna veneta ai sensi della Legge ”Galasso” 431/85 , oggi
raccordata nel Testo Unico sui Beni Culturali (D.lgs. 490/99)
Il Parco della Brenta
Il Parco del Medio Brenta è previsto dal PTRC e la sua istituzione è oggetto di numerose
proposte di legge regionale. Il territorio che gravita intorno ad un fiume intreccia con esso un
rapporto vitale, il cui disequilibrio, come quello verificatosi in questi anni, si ripercuote sulla qualità
della vita di tutti. Il Brenta, o la Brenta, come usa dire da sempre la cultura locale, ha legato per
secoli le sue sorti a quelle delle popolazioni rivierasche, in una simbiosi per lungo tempo
armoniosa, improvvisamente alterata dall'impatto con uno sviluppo economico che ha troppo
preteso, non tenendo conto degli equilibri del fiume e del territorio ad esso circostante. Le
escavazioni selvagge, gli inquinamenti industriali, ne hanno infatti profondamente stravolto la
fisionomia. Il territorio della Brenta è fortemente antropizzato e denso di attività spesso altamente
inquinanti. L'escavazione ha prodotto danni anche all'agricoltura, diretti o indiretti: l'abbassamento
dell'alveo ha prosciugato prese d'acqua dei canali di irrigazione e dei pozzi. Metalli tossici
avvelenano le acque del fiume, provenienti dalle numerose attività industriali, altamente inquinanti,
presenti sul territorio e, ad aggravare l'inquinamento, si aggiungono gli scarichi fognari dei centri
145
urbani. Accanto a tutto questo, notevoli sono ancora gli esempi storico-architettonici di pregio, le
interessanti testimonianze di archeologia industriale, aree paesisticamente ancora intatte e, negli
spazi dissestati abbandonati dagli escavatori, una "rivincita" spontanea della natura, dove il bosco
tende a recuperare lo spazio perduto e i voli dei martin pescatori testimoniano questa ripresa di
possesso. Tra le province di Vicenza e di Padova, vi sono segni di un rinnovato interesse per la
salvaguardia di un territorio che è tutt'uno con l'ambito fluviale e la sua storia. Tutto ciò evidenzia
una sempre maggiore consapevolezza della necessità di una tutela coordinata e organica del
territorio.
146
difesa della fauna e della biodiversità
Pianificare la tutela
L’asse portante per una politica in difesa della biodiversità e della fauna è l’opzione
pianificatoria. Ossia, l’opzione per la quale le scelte in campo faunistico-venatorio s’inscrivono
all’interno di una più vasta gestione agro/silvo/pastorale, attraverso ad esempio l’attuazione delle
normative sull’agricoltura biologica e integrata, sulla tutela della biodiversità e sulla prevenzione del
dissesto idrogeologico. E’ evidente infatti che gestire l’attività venatoria così come previsto dalle
vigenti normative (L.157/92, L.R.50/93 e D. 409/79/CEE) significa in primo luogo gestire il
territorio, in quanto habitat delle specie oggetto di prelievo venatorio. La gestione dell’attività
venatoria, fino a quando non si riuscirà ad ottenerne la definitiva abolizione, è uno degli obiettivi
che gli enti pubblici dovrebbero perseguire considerando gli importanti principi normativi relativi
alla tutela della fauna selvatica. La prima questione da porre è quella della caccia conservativa; si
deve affermare il principio (e la pratica) della sostenibilità ambientale del prelievo venatorio;
gestione conservativa significa porsi seriamente il problema della conservazione delle specie
(oggetto di prelievo e non) e della promozione degli habitat. La caccia di selezione (intesa come
caccia con metodi selettivi, a soggetti individuabili secondo classi di sesso/età, assegnati secondo un
piano di prelievo commisurato alla struttura ed alle caratteristiche quantitative di ciascuna
popolazione gestita) rappresenta un modello di gestione delle risorse faunistiche pressoché inattuato
in tutto il Veneto con alcune rare eccezioni. Sullo sfondo di questo scenario sta la possibilità di
registrare finalmente un’armonizzazione tra i diversi attori istituzionali (ATC, Parchi, riserve
naturali, aree contigue ecc...). Per questo i miglioramenti ambientali dovranno riguardare la maggior
quota dei bilanci degli ATC e dovranno essere coordinati, in modo strategico con tutta la politica
regionale (e provinciale) della promozione degli habitat, della agricoltura sostenibile, dei corridoi
ecologici, dei SIC (direttiva Habitat), delle ZPS direttiva uccelli, misure previste dai Fondi
Strutturali Europei ecc...
Occorre implementare sempre di più e meglio la tutela della fauna migratoria con misure di forti
restrizioni all’attività venatoria, modificando in modo più coraggioso le strategie di ripopolamento
di quella stanziale in vista di una completa riproducibilità della fauna stanziale allo stato naturale,
facendo diventare le Zone di Ripopolamento e Cattura delle vere e proprie aree di gestione e tutela,
limitando infine l’estensione di molti Ambiti Territoriali di Caccia - come quelli vicentini - al fine di
rendere più cogente il legame cacciatore-territorio
E’ fondamentale infatti che ogni cacciatore sia legato al proprio territorio: ognuno dove
gestire il patrimonio di fauna a disposizione promuovendo così la responsabilizzazione dei
cacciatori. Occorre respingere i tentativi di riproporre il ‘nomadismo venatorio’ per gli uccelli
migratori (come sta accadendo attualmente in consiglio regionale con alcuni PPDDLL del
centrodestra), specie particolarmente delicate e già fortemente in pericolo: vorrebbe dire ritornare a
insostenibili concentrazioni di cacciatori nelle zone di passaggio dei migratori - in particolare la
Laguna di Venezia, il Delta del Po, la Laguna di Caorle, ecosistemi delicati che non potranno
sopportare tale l’impatto - senza più alcun freno. Inoltre i Parchi nazionali e le altre aree protette,
derivanti dalla Legge 386/91, rappresentano, considerate le motivazioni di istituzione ed il ruolo
attuale e potenziale svolto a favore della fauna selvatica, importanti siti di riproduzione, sosta ed
irradiamento delle specie selvatiche,per questo si ritiene che in queste aree la caccia debba essere
sempre vietata. Tale divieto dovrà essere esteso a tutte le aree sottoposte a particolari regimi di
tutela: siano essi parchi e riserve naturali; oasi e zone di protezione; foreste demaniali dove è inibito
l’esercizio venatorio; aree contigue a parchi e riserve; zone S.I.C. (siti di interesse comunitario);
Z.P.S. (zone di protezione speciale); corridoi ecologici e zone di protezione dell’avifauna migratoria
in prossimità dei valichi montani al fine di raggiungere la maggio percentuale possibile di territorio
vietato alla caccia.
147
Una delle più concrete possibilità di espansione geografica e di incremento numerico per la
fauna deriva dal mantenimento e dalla ricostituzione dei sistemi ambientali tipici. L’incentivazione
dell’agricoltura biologica, delle colture a perdere per la fauna e dei miglioramenti ambientali,
dovrebbero essere un obiettivo prevalente nei Piani di Sviluppo finanziati con i fondi comunitari e
nell’impiego delle risorse economiche di Regioni, Province ed A.T.C.. A questo riguardo si
sottolinea l’importanza di ricercare una strategia di utilizzo coordinato e congiunto dei fondi a
disposizione (p.e. Programmi agro-ambientali CEE e fondi a disposizione di A.T.C. e Province) sul
modello già sperimentato da altri Paesi europei (p.e. con il set-aside faunistico). L’azione deve
essere finalizzata ad uno preciso obiettivo: la conservazione degli ambienti tipici e della locale fauna
selvatica.
148
qualcosa?)!. Questi censimenti rasentano addirittura il ridicolo: per la Lepre bianca il numero di
soggetti censiti dal piano provinciale in ogni riserva è sempre un multiplo di 10, sembra che a
Belluno la Lepre bianca sappia contare e abbia delle particolari doti matematiche perché vivrebbe,
secondo la provincia, solo in gruppi di 10, 20, 30, 40 o 50 soggetti per ogni riserva alpina! Questo
piano di abbattimento viola pure la legge che prevede che l’esercizio venatorio sia consentito
purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica.
Si cacciano queste specie rare e a rischio nonostante un’annata decisamente sfavorevole per
il processo riproduttivo che ha portato la vicina provincia di Trento a proteggere sia la Pernice
bianca che la Coturnice in modo assoluto e severissimo. Se la provincia di Belluno continuerà di
questo passo (va ricordato che la stessa situazione riguarda le province di Treviso e Vicenza) queste
rare creature rischieranno l’estinzione come sta accadendo per il Francolino di monte che dopo anni
di massacri venatori è quasi estinto tanto da indurre lo stato italiano a cancellarlo dalle specie
cacciabili. La caccia è il fattore principale di declino di queste specie e nessun cacciatore potrà dare
la colpa del loro costante calo ai pesticidi, infatti negli habitat di questi animali non si coltiva nessun
prodotto agricolo e i pesticidi non vengono utilizzati.
149
1979, come i Fringuelli, le Peppole, la Passera mattugia, il Passero, lo Storno, il Cormorano e la
Tortora dal collare orientale. Con la legge regionale veneta n.17 del 13 Agosto 2004 inoltre,
fortemente voluta da Alleanza Nazionale, ciascuno dei 60.879 cacciatori veneti potrà abbattere in
un anno ben 100 Passeri, 100 Passere mattugia, 100 Storni, 50 Tortore dal collare orientali, 50
Cormorani, 40 Fringuelli e 20 Peppole; per un totale di 6.087.900 Passeri e 6.087.900 Passere
mattugia, 6.087.900 Storni, 3.043.950 Tortore dal collare orientale, 3.043.950 Cormorani,
2.435.160 Fringuelli e1.217.580 Peppole per un totale complessivo di uccelli abbattibili legalmente,
per la stagione 2004, pari a 28.004340 unità. La caccia a queste sette specie di uccelli protetti è
partita il 19 settembre 2004 per terminare il 31 dicembre 2004. Va detto che la legge è stata
approvata in violazione di tutte le rigide procedure previste dalla direttiva comunitaria e degli
accordi assunti in merito a livello statale. La Conferenza Stato Regioni con provvedimento n.2000
del 20/05/04 aveva stabilito una quota di uccelli cacciabili in deroga, in particolare: 437.400
Fringuelli e 23.400 Peppole nell’ambito della spartizione della quota spettante all’Italia. Come
abbiamo visto La Regione ha moltiplicato queste quote almeno per 5.
150
come dati ipotetici minimali i 700.000 cacciatori che cacciano una sola giornata la settimana (sulle
tre o cinque previste), che sparano un colpo solo per giorno, in un anno di caccia in Italia si produce
un totale di rifiuti pari a quelli prodotti da una città come Brescia.
225
La Lega per l’Abolizione della Caccia del Veneto per fare informazione su questa tematica e dare un minimo di
supporto ai privati cittadini ha elaborato un “Vademecum anticaccia” nel quale vengono elencate le principale regole
dell’esercizio venatorio a tutela delle proprietà private, colture agricole, animali domestici con indicati i numeri di
pronto intervento ai quali rivolgersi. vedi www.lacveneto.it
151
insettivoro, protetto dalla legge statale e persino dalla Convenzione di Berna sulla tutela degli
uccelli.
- domenica 19 settembre, giorno di apertura della caccia, a Motta di Livenza (TV) è stata compiuta
una carneficina di Tortore dal Collare, specie protetta in Europa ma cacciabile in Veneto grazie alla
legge approvata dal Consiglio regionale su forti pressioni di Alleanza Nazionale.
L’ennesima conferma di questo fenomeno deriva dai dati dei Centri Recuperi Fauna Selvatica delle
Province dove vengono soccorsi centinaia di esemplari di animali protetti impallinati solo ed
esclusivamente a caccia aperta.
Caccia e incidenti.
La caccia, spesso, costituisce un reale pericolo per l’incolumità delle persone. Ogni anno
infatti la caccia è causa di un numero impressionante di incidenti con morti e feriti sia tra i
cacciatori che tra ignari passanti o gitanti. Solo nella stagione venatoria 2003/2004, nel periodo
compreso tra l’1/09/2003 e il 30/01/2004, si sono verificati 140 incidenti di caccia che hanno
causato il ferimento di 89 persone, 75 delle quali cacciatori e ben 14 civili. Gli incidenti mortali
sono stati addirittura 51 che hanno visto perire 50 cacciatori e 1 civile. L’attuale stagione di caccia
2004/2005 sembra non smentire il bollettino di guerra dello scorso anno, in pochi giorni di caccia, a
partire dal 19 settembre, ci sono già stati 49 incidenti di caccia con 38 feriti, dei quali 29 cacciatori
e 9 civili, e con ben 11 morti, dei quali 10 cacciatori e un civile.
Le attuali leggi sulla caccia sono ormai inadeguate e sorpassate per una società moderna
come la nostra e per le nostre campagne fortemente urbanizzate. Si pone il problema di una
revisione delle autorizzazioni: i cacciatori italiani non hanno avuto un addestramento professionale
all’uso delle armi, la maggior parte di loro non ha neanche superato un esame in proposito perché
ha preso la licenza di caccia prima che le leggi lo prevedessero. L’esame per la licenza che prevede
solo una grossolana conoscenza delle armi è stato previsto per la prima volta solo nel 1977 con la
legge 968. Ora, la maggior parte dei cacciatori italiani attualmente in attività ha più di 43 anni,
perciò cacciava prima dell’entrata in vigore di quella norma. Non c’è da stupirsi se le scarse
conoscenze in materia di armi danno esito mortale in una cinquantina di casi all’anno. Un deterrente
poi sarebbe quello di inasprire le sanzioni per chi spara vicino alle case ed alle strade prevedendo il
ritiro della licenza e aumentando e incentivando la vigilanza venatoria.” 226 Segnaliamo un
recentissimo studio del 2003 condotto dal Prof. Filippo Schillaci, di Promiseland Italia, dal titolo
“Se la caccia fosse un lavoro” 227: questa ricerca arriva alla conclusione che la caccia è incompatibile
con i principi che vedono salute e sicurezza del cittadino come valore primario ed irrinunciabile
evidenziando che mentre nel lavoro accade 1 incidente mortale su 3.500.000 giornate lavorative,
nella caccia si verifica 1 incidente mortale su 550.000 giornate di caccia; ciò significa che si muore
di caccia 6,4 volte più frequentemente che sul lavoro e che nella caccia c’è una probabilità
maggiore di 297 volte che un incidente sia mortale. Le conclusioni di questo studio sono le
seguenti:
1) se un’attività lavorativa si svolgesse nelle stesse condizioni di rischio della caccia sarebbe
dichiarata illegale.
2) la caccia è incompatibile con i principi che vedono salute e sicurezza del cittadino valore
primario ed irrinunciabile.
Va ricordato che i sindaci possono emettere delle ordinanze per chiudere la caccia in determinate
aree fortemente urbanizzate; ricordiamo che la LAC è attrezzata e disponibile a fornire tutte le
indicazioni e le ordinanze già in vigore per facilitare questi importanti passaggi amministrativi.
226
la Lac Veneto mette a disposizione un vademecum che riporta tutte le regole che i cacciatori devono rispettare e a
chi chiedere aiuto www.lacveneto.it
227
www.lacveneto.it
152
Un maltrattamento legalizzato
Dati statistici affermano che solo un animale ogni tre spari viene abbattuto, ciò porta ad
ipotizzare che moltissimi animali che non vengono abbattuti spesso rimangono feriti. Accade quindi
che oltre ai circa 250 milioni di animali abbattuti in una sola stagione venatoria in tutta Italia
altrettanti potrebbero essere quelli feriti e destinati ad una morte atroce in preda a sofferenze, fame,
sete e/o addirittura divorati vivi dalle larve della mosca carnaria. Accade infatti molto spesso ai
frequentatori di boschi e campagne di ritrovare durante la stagione venatoria numerosi animali
morti o feriti. Un altro maltrattamento legalizzato è quello destinato ai richiami vivi per la caccia da
appostamento, catturati nei roccoli per essere destinati per sempre in una gabbietta dove non
potendo nemmeno aprire le ali perderanno la funzione delle stesse.
153
6. Protezione del 70% del territorio
Proteggere almeno il 70% del territorio equivale a garantire una salvaguardia anche a tutta la fauna
protetta ed in via di estinzione oggetto di disturbo causato dalla caccia alle specie consentite. Si
riduce anche il bracconaggio e si consente ai cittadini di fruire tranquillamente di boschi e
campagne senza il pericolo di essere impallinati.
7. Protezione di Starna, Coturnice, Fagiano di monte, Pernice bianca, Lepre bianca
Queste specie stanziali sono a rischio di estinzione. La Starna autoctona è praticamente estinta da
anni. Proteggiamole prima che si estinguano !
8. Apertura della caccia al 1° ottobre e chiusura al 30 novembre
Con l’attuale apertura al primo di settembre si possono abbattere uccelli e mammiferi non ancora
autosufficienti e genitori con prole. Valgono gli esempi del Germano reale, Merlo, Gallinella
d’acqua che spesso a settembre allevano ancora i piccoli. Con la chiusura attuale al 31 gennaio si
consentono dei veri e propri massacri. Stremati dalle rigide temperature invernali, terreni e specchi
d’acqua ghiacciati, poche ore di luce, poco cibo, per gli animali è già troppo senza aggiungere la
caccia.
9. Divieto di detenzione di soggetti vivi o morti di specie protette
Vietare la detenzione degli uccelli protetti è necessario per limitare i dilaganti fenomeni del
commercio illegale di soggetti morti per l’imbalsamazione e commercio e cattura di soggetti vivi
per le fiere degli uccelli. Più una specie è rara e minacciata, più è pagata da collezionisti di uccelli
impagliati senza scrupoli.
10. Domenica giorno di divieto di caccia
Si vuole così consentire a tutti i cittadini di muoversi liberamente in campagna e nei boschi, in
tranquillità e senza pericoli.
11. Divieto d’uso di cartucce contenenti piombo
L’uso delle cartucce con pallini di piombo porta ogni anno allo sversamento solo nel Veneto di
circa 1400 ton. di questo metallo pericoloso nei terreni agricoli inquinandoli e mettendo a rischio la
nostra salute. Il piombo entra nella catena alimentare ed è tossico. Per questo è stato bandito in
molti stati esteri e sostituito con pallini in lega soprattutto nella caccia nelle zone umide per evitare
il fenomeno del saturnismo.
12. Vietare la caccia nei terreni dei privati
Solo in Italia è consentito ai cacciatori di entrare impunemente nei terreni privati senza chiedere il
permesso.
13. No alle licenze di caccia intoccabili
Attualmente le sanzioni accessorie relative al ritiro della licenza sono a dir poco ridicole tant’è che
non ne è previsto il ritiro nemmeno nei casi più gravi. Se un cacciatore viene sorpreso con il
carniere di centinaia di uccelli protetti (Rondini, Pettirossi, ecc.) rischia solo una ammenda senza il
ritiro della licenza, nemmeno per un sol giorno!
14. Vietare la caccia con il falco e con l’arco
La caccia con il Falco è doppiamente dannosa: i falchi per la falconeria sono allevati da piccoli ed
imprintati, il loro rifornimento spesso avviene anche con il prelievo su commissione dei piccoli nei
nidi provocando danni gravissimi alle popolazioni dei falchi selvatici. Un falco lanciato per la
caccia non conosce le leggi e può predare specie di uccelli protetti. La caccia con l’arco è esercitata
nei confronti di caprioli, daini e cervi che per la loro mole difficilmente possono essere uccisi da
una freccia e se feriti possono vagare per giorni prima di morire di stenti e divorati dalle infezioni.
Andrea Zannoni
154
una terra da curare
Uno sguardo globale
Oggi più di un miliardo di persone hanno fame, non per mancanza di cibo, ma perché non
hanno accesso al cibo. E anche chi ha cibo, non ha comunque accesso al cibo sano: le crisi di
obesità, ma soprattutto l'epidemia della "mucca pazza" e quella dell'"influenza dei polli" si sono
diffuse ovunque solo perché abbiamo trattato con violenza questi animali, semplicemente, per
produrre di più. Un'altra conseguenza disastrosa di questo modello di sviluppo sull'alimentazione è
la non corrispondenza tra i costi reali e i prezzi del cibo: sul mercato liberista troviamo cibo dall'alto
costo con prezzi alti e viceversa. Per lo più, quando i prezzi non sono alti è perché dietro ci sono i
monopoli che controllano attraverso sovvenzioni agricole e trattati commerciali il mercato
dell'alimentazione. Siamo giunti ad una situazione paradossale: ci sono aree del pianeta ove vi è un
surplus di beni alimentari e, al contrario, altre aree ove questi stessi beni scarseggiano. Le attuali
logiche di mercato e di profitto impediscono che vi sia una naturale “osmosi” di questi beni tra le
aree “più ricche” e quelle “più povere”. Non si tratta di utilizzare “tecnologie” più efficaci nelle
aree più povere, come alcuni ci vogliono convincere: gli abitanti di queste non saprebbero con quali
mezzi acquistare queste tecnologie se non incrementando la loro dipendenza “dai ricchi” ovvero
allargando il loro mostruoso debito.
Dobbiamo partire da qui, dalle ingiustizie globali in tema di cibi, di agricoltura e di accesso
alle risorse per proporre nuove politiche per l’agricoltura del nostro territorio. Come afferma
Vandana Shiva: “abbiamo bisogno di un nuovo sistema alimentare mondiale fondato sulla verità.
Verità, per sapere davvero cosa mangiamo. Verità, per conoscere e controllare come e da chi il cibo
è prodotto. Verità, per distribuire cibo attraverso un sistema di regole commerciali chiaro e che
favorisca la biodiversità e la produzione locale di cibo di alta qualità”228.
155
complessivamente inteso, dalla valorizzazione della cultura, dell’ambiente e del territorio al
turismo, dall’infrastrutturazione materiale e immateriale alla fiscalità.
156
stalle con poca o senza terra e macchine agricole per la normale conduzione aziendale (con la scusa
dell’adeguamento del sistema produttivo “ambientale”), in barba alle richieste dell’Unione Europea
che ci chiede un cambiamento di rotta!
In una logica di sviluppo agricolo sostenibile, con la Riforma intermedia della PAC ma ancor di
più con il successivo periodo di programmazione agricola comunitaria (2007-2013), la
pianificazione regionale dovrebbe assecondare le soluzioni più innovative offerte dalla legislazione
europea. A nostro avviso, pertanto, le scelte di base sulle politiche agricole dovrebbero andare nelle
seguenti direzioni:
- immediata adozione del disaccoppiamento, evitando di ricorrere ad un’applicazione
parziale. Ciò significherebbe prolungare nel tempo le attuali distorsioni, e ingiustizie, provocate
dai regimi contributivi attualmente in vigore. Anche per il comparto zootecnico, l’indennità
compensativa (premio alle vacche nutrici, alla macellazione e ai maschi bovini) dovrebbe essere
immediatamente disaccoppiata. I contributi ai produttori sono nati per garantire un reddito
paragonabile a quello degli altri settori economici. Il disaccoppiamento, insieme alla
modulazione, ridistribuisce il reddito tra tutta la popolazione agricola e non solo tra quella che
da decenni vive, a volte di pura assistenza, grazie ai sussidi in agricoltura.
- immediata opzione per regionalizzare la Politica Agricola Comunitaria. In questo
modo la scelta del legislatore/pianificatore deve evitare ciò che accade in molti comparti
agricoli, ossia che le “quote” dei diritti individuali non diventino mai più una rendita di alcuni a
scapito di altri (ridistribuzione dei sussidi tra i produttori della regione –non in senso
amministrativo-).
- vincolare il contributo (di qualsiasi natura, ossia come sostegno al reddito ovvero
come premio all’azienda) alla misurazione della eco-condizionalità (consumo di energia,
consumo di acqua, rilascio di micro e macro nutrienti, quantificazione numerica della
biodiversità -metri lineari di siepi e boschetti, indicatori di avifauna, mamofauna, altri
bioindicatori-, adozione di tecniche di coltivazione/allevamento rispettose delle diverse forme di
vita, estensivizzazione degli allevamenti)230.
- un’applicazione della modulazione dei contributi (progressiva riduzione del
contributo all’aumentare del premio annuo riscosso) che favorisca innanzitutto il permanere
delle piccole aziende, economicamente vitali, nel territorio regionale.
- garantire alle aziende che si sottopongono al servizio di consulenza aziendale
volontario, la priorità all’accesso delle provvidenze comunitarie e regionali. Il servizio di
consulenza deve essere strutturato in modo tale che soggetti terzi, pubblici o privati, accreditati
dalla PA, garantiscano il rispetto dell’azienda agricola delle pratiche relative eco-condizionalità
nonchè il monitoraggio aziendale continuo.
A prescindere dai futuri vincoli comunitari, che ben s’intende saranno già un passo in avanti rispetto
alle politiche agricole attuali, le scelte regionali (nei Piani come nei bandi di selezione) dovranno
garantire:
- la massima priorità alle aziende che s’impegnano a convertire l’intera azienda a
metodi di conduzione estensivi (Ce 2092/91) ovvero verso sbocchi di mercato del prodotto
tipico (DOP, IGP, AS) o tradizionale (DM MIPAF). In questo senso è indispensabile che la
Regione del Veneto sia più decisa, almeno sino a quanto fatto sinora, a verificare che gli
organismi incaricati di controllare il processo/prodotto diano maggiori garanzie circa la bontà
dei controlli e dei risultati attesi, almeno per rispondere agli standard minimi richiesti dal
consumatore.
- che l’insediamento in agricoltura sia un premio legato ai giovani che:
230
esistono già iniziative in questo campo come il Progetto di contabilità ambientale in agricoltura promosso dalla
Regione Toscana. Vedi Sivia Calamndrei, Per un’agricoltura sostenibile, in Agricoltura, Alimentazione, Economia
Ecologia, 1/2002
157
- adottano un sistema di produzione a basso impatto ambientale certificato (reg. Ce
2092/91) su tutta l’azienda, ovvero s’impegnano a condurre l’azienda nel rispetto di
norme più rigorose (rispetto agli standard minimi comunitari) di quelle previste per: il
benessere degli animali, la tutela dell’ambiente,
- l’insediamento sia finalizzato all’acquisto di beni o servizi legato al processo
produttivo di cui al precedente punto,
- che l’azienda si sottoponga al servizio di consulenza aziendale.
A nostro avviso non si tratta di opzioni neutre o marginali, ma di strumenti che se
scelti e attivati con oculatezza possono potenziare e qualificare pienamente la portata della
riforma della politica agricola comunitaria.
La Regione ha sicuramente in mano una opportunità unica con la regionalizzazione dei
premi e, integrandole con tutte le altre misure appena descritte, è realistico pensare ad una vera
trasformazione profonda dell’agricoltura veneta, basata sull’agricoltura familiare e lo sviluppo
sostenibile.
Energia e Agricoltura
La direttiva europea del maggio 2003 ha triplicato la quantità di carburanti totali prodotta
dall’ agricoltura e quindi suscettibili di esenzione dalle accise. Dal 2,5% del totale si è passati al 6%
del totale con un incremento di superficie agricola coltivabile a biomasse per energia di circa
1.500.000 ha per tutta l'Europa. In Italia, ad oggi, possono essere prodotte fino a 300.000 tonnellate
di biodiesel da agricoltura da cui possono dedursi le accise. Nei fatti però, il nostro Paese non ne
produce che poche centinaia di ha e, quindi, di fatto l’intero quantitativo proviene dall’estero. Le
norme sul biodiesel non prevedono l’abolizione delle accise per il biodiesel puro, ma solo per quelli
misti con il risultato che il contributo di risparmio delle accise va a beneficio dei petrolieri, i quali,
additivando al 2,5% la benzina con biodiesel, risparmiano le accise sul 2,5% del prezzo
complessivo. Un raggiro a danno degli agricoltori. Il biodiesel, ma più ancora gli oli lubrificanti da
agricoltura, rappresentano una straordinaria risorsa per il futuro energetico del pianeta e per la
salubrità dell’aria e dell’acqua. Il biodiesel puro (solo quello puro) è biodegradabile al 100% quindi
è fondamentale il suo impiego in ambiente marino, diporto e cabotaggio, nelle aree protette e in
tutte le aree sensibili ambientalmente. Ovviamente, resta fondamentale il tipo di coltivazioni, per
non deturpare il pianeta con contributi di inquinanti e quindi di nuovi idrocarburi veicolati sui
campi per produrre più colture industriali, causando una beffa per il pianeta e un danno per le
finanze. Ecco che vanno incrementate le colture sostenibili e vanno sviluppate le sementi che
richiedono ridotti apporti di azoto e per le latitudini Italiane anche colture non idroesigenti.
Rilanciare l’energia da agricoltura in questi giorni è tra l’altro fondamentale, visto l’aumento del
prezzo del greggio che ha causato un incremento del 40% del prezzo del gasolio agricolo, con
conseguente crisi verticale delle colture in serra ad alta incidenza energetica e la perdita di
competitività di tutto il settore agricolo in genere. Quindi è giunta l’ora delle fattorie energetiche,
non più gasolio agricolo ma libertà di prodursi il biodiesel in proprio da varie oleaginose e in
particolare da girasole e canapa. Multifunzionalità dell’azienda agricola nella produzione di energia
elettrica da biomasse non solo per l’autoproduzione, ma come produttori per il mercato. Il pellets, il
cippato insieme alle nuove caldaie che producono calore e frigorie (aria condizionata)
rappresentano una rivoluzione ormai disponibile e un abbattimento dei costi radicale. Le positive
esperienze di leggi regionali come quella in Toscana per la coltura industriale della canapa possono
essere sviluppate anche in altri territori, soprattutto dove è necessario sostituire colture non più
produttive e non sostenibili.
158
competitività delle produzioni agroalimentari regionali, alle richieste di tutela dei consumatori e alle
necessità di sviluppo delle zone rurali. Al centro di tale strategia si situano le politiche di
incentivazione della qualità certificata, mirate sia all'affermazione dei marchi collettivi legati a
territori specifici, quali i DOP e gli IGP, sia alla diffusione di sistemi di certificazione di prodotto in
grado di valorizzare, differenziandole, le produzioni agricole regionali.
Se non si riuscirà a valorizzare il ruolo dell’agricoltura sul territorio, al di la del concetto di
competitività dell’impresa, il prezzo da pagare sarà altissimo in termini di devastazione ambientale,
di disgregazione di un tessuto sociale rurale e di qualità dei prodotti.
Questo significherà non solo produrre dei prodotti di qualità, ma “produrre” un territorio di
qualità: il radicchio del trevigiano, gli asparagi del bassanese, l’Amarone della Valpolicella. Questa
impostazione, peraltro, comporta la promozione di un diversa cultura che assuma la responsabilità
sociale della produzione come coordinata dell’azione dei “nuovi contadini”. La ricerca della qualità
del prodotto diverrà anche qualità del lavoro e responsabilità sociale verso i consumatori. Ricerca
che deve tradursi anche in comunicazione: il mondo dell’agricoltura deve essere visibile - non per i
ciclici “scandali” alimentari - ma per la trasparenza del proprio lavoro quotidiano di presidio e
promozione della qualità.
Questa nuova impostazione non sarà indolore: ci rendiamo conto perfettamente che decenni
di “non politica” - cioè di mancanza di scelte e indirizzi e di accondiscendenza verso le diverse
lobby agricole attraverso la redazione di Piani di Sviluppo Rurale che in sostanza puntavano a
premiere i soggetti più politicamente “pesanti” fuori da qualsiasi logica strategica - ha
“incancrenito” una situazione per cui continuano a sussistere ampie zone agricole che sopravvivono
grazie ai sussidi e dove prevalgono produzioni ad alto impatto ambientale.
La valorizzazione di una agricoltura legata al territorio, e non alle dinamiche globalizzanti
dell’agro-industria, esige - e porta con sé - una riconversione ambientale complessiva. Noi siamo
convinti che non si possa operare una riconversione ambientale del Veneto senza promuovere
un diverso modello di un’agricoltura fortemente compenetrata nel sistema ecologico e
territoriale. L’agricoltura biologica, non più intesa solo come metodo di produzione, ma come
possibile modello di sviluppo capace di incidere sui consumi ed i comportamenti è la risposta su cui
lavorare. Veri investimenti dovranno andare a serie politiche di promozione: su questo campo
l’attuale Amministrazione regionale ha dato pessima mostra di sé (pensiamo alla fine fatta da un
progetto quale Paniere Veneto): è fondamentale invece attrezzare una campagna promozionale della
qualità veneta in grado di sostenere i prodotti della nostra terra.
Accanto a queste politiche andrebbe sostenuta un vera multifunzionalità del ruolo
dell’azienda agricola che quindi non avrebbe neanche un interesse ad una massimizzazione delle
produzione perché fonte di guadagno più remunerativa sono i servizi offerti. La promozione di
politiche di consumo legate al ciclo corto, a forme distributive innovative sono altri elementi
portanti di un modello di sviluppo rurale che deve poggiarsi sul concetto di sostenibilità.
Obiettivi strategici per la valorizzazione dell’agricoltura e più in generale della ruralità
saranno:
- promuovere lo stretto legame tra qualità degli alimenti, loro naturalità e salute, tale da costituire il
contenuto di una politica della qualità e della valorizzazione delle tipicità;
- promuovere la riserva di biodiversità, meta di riposo e di riscoperta di valori culturali, artistici e di
qualità della residenza che integra fortemente le altre attrattive del Veneto nel campo dell’arte, del
turismo della costa e della montagna e che, in sintonia con queste, definisce e qualifica l’immagine
del Veneto nel mondo;
- la rivitalizzazione degli spazi rurali attraverso la valorizzazione dei prodotti tipici, delle attività
agrituristiche e delle produzioni biologiche, offrendo ai soggetti rurali nuove opportunità di reddito
e migliori condizioni di vivibilità.
159
Alcune idee per cambiare rotta.
231
Chiara Medda, Come sviluppare la filiera corta, in Bioagricltura maggio/giugno 2004
160
L’introduzione di colture geneticamente manipolate mette a rischio le coltura tipiche, locali,
di qualità, biologiche che rappresentano la forza e il futuro della nostra agricoltura. Inoltre
l’introduzione degli OGM rappresentano un rischio di inquinamento genetico di cui non
conosciamo pienamente le conseguenze per gli ecosistemi e per l'uomo. Occorrono interventi
urgenti e drastici, soprattutto nei confronti della distribuzione sementiera, a tutela degli stessi
agricoltori, spesso agenti incolpevoli di questa contaminazione e prime vittime di questo sistema.
Per questo i Verdi hanno presentato una Proposta di legge regionale d’iniziativa popolare per
rendere il Veneto OGM Free - libero dalle produzioni OGM.
Massimiliano Rossi
161
Immigrazione:
la qualità della convivenza
Contro il razzismo, oltre la carità
A fronte di un fenomeno strutturale e irreversibile quale l’immigrazione verso il nord del
mondo di migliaia di uomini e donne, spesso la politica, la cultura e i nostri stessi strumenti di
analisi vengono messi a dura prova. Quando si parla di immigrazione un condensato di irrazionalità
(il desiderio che il fenomeno abbia fine, “non arrivino più” o “se ne tornino a casa loro” 232), di
malcelato razzismo (l’essere inferiori, inclini alla malavita, meno adatti alla convivenza), o di
supposto realismo (“siamo troppi”, “è meglio aiutarli a casa loro”) toglie spazio ad una riflessione
impegnativa su come aiutare il formarsi di una nuova convivenza. L’immigrazione porta con sé
l’esigenza di un ridiscussione di fondo: un processo non facile e non privo di rischi e conflitti.
Occorre spostare il cuore della questione: non sono gli immigrati il problema, la loro presenza
rappresenta un dato di fatto, il problema è nostro e sta nella capacità di rinnovare la nostra identità e
i valori su cui poggia la nostra convivenza233.
Il tentativo di rimozione del dato è sicuramente un errore che non potrà che portare
conflittualità, paura, insicurezza per tutti. Il Veneto deve recuperare una sua vocazione di terra di
relazione e scambio: la presenza degli immigrati rappresenta l’occasione per ridefinire i modi e i
significati delle nostre identità e storia. Questo già succede spontaneamente, ognuno di noi modifica
la propria percezione, ma questa ridiscussione deve essere messa al centro di una strategia politica
per la costruzione di un territorio plurale. Occorre mettere in discussione le retoriche mono-
identitarie per cui le identità si fonderebbero su un insieme stabile e oggettivamente definibile di
tratti culturali. Pensiamo invece che identità mobili si costruiscano nel contesto di relazioni,
interazioni, e reazioni sociali e che sia diritto inalienabile dell’individuo quello alla propria
individualità, liberi da mono-appartenenze etniche e culturali attribuite e ingessate. Sarà piuttosto il
confronto con gli altri e con la nostra storia, anche di emigrazione, e non la riproposizione di una
nostra sempiterna e mitica identità minacciata, che potremmo trovare la forza di affrontare le
insicurezze di questo mondo.
Riportiamo una riflessione che ci aiuta a capire quanto l’immigrazione, lungi da
rappresentare una sventura o solo una risorsa per l’economia, possa divenire un’occasione per
affrontare i problemi di coesione e di senso che attraversano la società veneta: “mentre il Veneto è
aperto al mercato internazionale e su questo ha poggiato tutto il suo sviluppo industriale ed
economico, dall’altro ha partorito una cultura localistica per cui Territorio, Tradizione ed Etnia sono
diventati circolari valori a sé, e tutti quelli che stanno dentro a questo circolo sono persone accolte e
accettate, ma quando arrivano persone che non vi appartengono sono viste come una minaccia. Ma
se Territorio, Tradizione ed Etnia fossero dei valori avrebbero un’energia tale da espandersi
integrando naturalmente gli altri, altrimenti non si può parlare di valori. Inoltre i cosiddetti valori
veneti sono caduti , ecco perché hanno bisogno di gridarli, perché nella prassi non ci sono più”234.
Il processo immigratorio comporta inoltre una verifica sulla saldezza del nostro stato sociale:
una verifica impegnativa ma salutare per tutti. Rinnovare una politica dell’abitare, ad esempio,
diventa esigenza impellente oggi a fronte dell’immigrazione di nuove genti, ma una revisione
secondo criteri di giustizia, qualità e accessibilità dell’abitare nelle città favorisce una società
232
da parte dei residenti c’è spesso l”illusione” che il fenomeno sia transitorio: ha descritto bene questo atteggiamento
mentale nella nostra regione Ferruccio Gambino in Migranti nella tempesta, Verona, 2003
233
vedi Jurgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo, Milano, 2003 una serrata discussione su diritti,
relativismo culturale e comunitarismo
234
don Giuseppe Stoppiglia, Che fare, in Veneto, in Lo Straniero, 28/2002
162
migliore per tutti. Crediamo che vi sia la possibilità, confortati da esperienze molteplici 235, di
elaborare e mettere in pratica politiche concrete e incisive riguardo l’immigrazione, malgrado
sembri dominare un approccio irrazionale, demagogico della questione. Secondo Catherine de
Wenden, direttrice alla ricerca presso il CERI (Centro studi e ricerche internazionali, CNRS/IEP
Parigi): "il diritto alla mobilità fa parte dei diritti emergenti. L'idea che i paesi europei non potranno
impedire all'infinito la mobilità degli uomini comincia a diffondersi, non solo tra i movimenti di
difesa dei diritti dell'uomo ma anche nel mondo imprenditoriale. La legittimità della chiusura delle
frontiere, foriera di effetti perversi e in netto scollamento rispetto alle esigenze economiche e
demografiche dell'Europa, può esser messa in discussione"236.
163
extracomunitari introducendo ulteriori vincoli e rigidità, che pesano negativamente sulle imprese,
sulle famiglie e gli stessi immigrati. La legislazione nazionale, vessatoria ed escludente, aggrava la
condizione di minorità sociale, giuridica, culturale e psicologica degli immigrati attraverso la
moltiplicazione dei divieti e delle restrizioni agli ingressi e alle permanenze con l’oggettiva
moltiplicazione del rischio della clandestinità. Come sottolineano Maria Castiglioni e Gianpiero
Dalla Zuanna: “non è possibile azzerare gli ingressi irregolari, ma un rapporto di uno a uno fra
nuovi regolari e nuovi irregolari sancisce il fallimento della legge Turco-Napolitano nel determinare
le procedure di ingresso…..con la legge Bossi-Fini continuerà a essere difficilissimo assumere
regolarmente lavoratori domestici e operai provenienti direttamente dall’estero. Siamo facili profeti
dicendo che la mancata semplificazione delle procedure di ingresso avrà come conseguenza un
nuovo aumento di clandestini. Inoltre, il collegamento fra lavoro e permesso di soggiorno farà
entrare (o rientrare) nella clandestinità tutte le persone straniere che si troveranno senza un impiego,
ma non hanno alcuna intenzione di tornare al loro paese d’origine”. Purtroppo questa (drammatica)
profezia si è ampiamente avverata.
164
confinati i figli di immigrati, e comunque di classi sociali escluse, mentre le scuola private saranno
appannaggio degli autoctoni benestanti. Anche nell’insediamento abitativo, come documentato da
una ricerca sull’insediamento degli immigrati nel Veneto, si delinea un quadro analogo; nelle
conclusioni, infatti, gli autori sottolineano: “appurato il sussistere di fenomeni di segregazione
spaziale, vanno tenuti in considerazione anche gli effetti cumulativi derivanti dall’agire di altre
forme di segregazione espresse ad esempio dai meccanismi di incontro tra domanda e offerta di
lavoro e che possono rafforzare le forme di concentrazione residenziale” 244.
Davanti a questo scenario occorre impostare una politica seria che coinvolga diversi livelli: dalla
scuola al lavoro, dalle politiche abitative al welfare. Serve una posizione chiara da parte della
Regione, attraverso l’approvazione di una nuova legge regionale sull’immigrazione (quella attuale è
stata pensata ormai più di un decennio fa): è un’esigenza evidente alla luce delle politiche miopi,
fallimentari elaborate a livello nazionale.
Il protagonismo degli immigrati e delle immigrate
Una condizione necessaria per il successo dei processi di integrazione è che i soggetti del
cambiamento siano visibili e conosciuti, ovvero che gli immigrati stessi siano interlocutori sociali e
protagonisti attivi. In questo senso, è strategico supportare una positiva organizzazione degli
immigrati. Se queste condizioni si realizzano, allora diventa possibile e più facile per i residenti
conoscere gli immigrati, le loro realtà di provenienza, le culture di cui sono portatori; allo stesso
modo, le comunità di immigrati hanno migliori opportunità per presentarsi e farsi conoscere nella
ricchezza delle proprie tradizioni. Sarà quindi più facile far emergere ed affrontare le esigenze
concrete delle diverse comunità conviventi nel nostro territorio, costruendo strumenti efficaci nel
far trionfare il rispetto del pluralismo culturale, sociale e religioso.
Immigrazione e lavoro
Nel lavoro si gioca una importante possibilità d’integrazione degli immigrati. Essi sono destinati
ad essere, anzi lo sono già, una parte importante del futuro produttivo della nostra Regione. Ma oggi
lo scenario non parla solo di possibilità di integrazione: Pietro Basso e Fabio Perocco, coordinatori
del Master sull’immigrazione dell’Università di Venezia, avanzano una tesi:”alle imprese servono
sempre nuovi contingenti di lavoratori immigrati, ma perché tale fornitura di manodopera
corrisponda in pieno alle loro attese bisogna che si tratti di una forza lavoro per quanto è possibile
indifesa”245. Sono precari perché soggetti deboli, subiscono per questo condizioni di lavoro
invalidanti, sono collocati socialmente più in basso anche perché non conoscono la lingua e perché
sono esclusi dai processi formativi246. E’ significativa in questo senso l’incidenza dei lavoratori in
nero immigrati sul totale dei lavoratori in nero: tale incidenza era nel biennio 2000-2002 del 20%
per salire al 33% nel 2002247. Il Dossier Caritas 2004 segnala come vi siano indicatori di crisi
nell’occupazione degli immigrati. L’onda lunga della crisi sembra dunque raggiungere anche le
qualifiche più basse quelle tradizionalmente occupate dagli immigrati. Tutto questo non farà che
rendere più difficile l’emersione e la regolarizzazione. Promuovere l’integrazione nel lavoro non
solo farà bene alla democrazia ma farà bene anche al sistema economico che ha bisogno soprattutto
243
Migranti in Veneto dopo la regolarizzazione secondo il Dossier Caritas 2004 a cura di IDOS - Centro Studi e
Ricerche Immigrazione Dossier Statistico
244
Stefania Bragato, Rita Canu, Le dinamiche residenziali di italiani e immigrati nel Veneto, in Giuseppe Sciortino,
Asher Colombo (a cura di), Un’immigrazione normale, Bologna, 2003
245
tratto da Cgil, ARCI, Antigone, CNCA, Legambiente, Rapporto sui diritti globali 2004, Roma, 2004
246
rimandiamo al Mattino di Padova del 30 giugno 2003 per l’ennesima storia di sfruttamento di operai in aziende
venete “attraverso intermediari 3 aziende del padovano impiegavano decine di operai immigrati che percepivano fino al
40% in meno del minimo contrattuale con orari di 12 ore giornaliere e senza nessuna garanzia contrattuale”.
247
si veda Marco Paggi, aspetti normativi e forme di lavoro degli immigrati,in Osservatorio Veneto sul lavoro nero,
elusione ed evasione contributiva, “Attorno al lavoro sommerso in Veneto. Una ricognizione”, Venezia, 2003
165
di una buona qualità del lavoro per far uscire le nostra regione da una situazione di crisi che
trent’anni di crescita caotica ci hanno consegnato.
Per una effettiva coesione sociale: la tutela dei diritti sociali fondamentali
La coesione sociale è frutto di effettivi processi di integrazione sul territorio. Maggiore impulso
dovrà essere dato alle misure dirette ad assicurare agli stranieri regolari il pieno esercizio dei diritti
loro riconosciuti. Va ricordato innanzitutto che anche con la nuova legge sull’immigrazione rimane
in vigore la parte, largamente inapplicata, della normativa del 1998 relativa ai processi
d’inserimento e di integrazione sociale dei migranti. Restano validi, fra l’altro, gli articoli
riguardanti il diritto alla salute e, per i minori, all’istruzione, che risultano prioritari rispetto alla
condizione giuridica dell’immigrato che ha bisogno di cure o che chiede di frequentare la scuola.
In Veneto nell’anno scolastico 2003-2004 vi sono stati più di 35.800 alunni con cittadinanza
straniera, il 12,7% del totale nazionale. Viene subito dopo la Lombardia per numero di alunni non
italiani, ed è quarto per incidenza sul totale della popolazione scolastica (5,6%).“La scuola è una
“istituzione mediatrice sotto tensione” che si trova a dover soddisfare i bisogni degli scolari
immigrati e quelli dei loro compagni nativi; bisogni che, in presenza di un continuo indebolimento
degli investimenti nel sistema scolastico, possono divenire pericolosamente alternativi” gli uni
rispetto agli altri”248. Il ruolo della scuola come luogo di inclusione (cultura, conoscenza,
formazione ←) è messo a dura prova dalla riforma e dai tagli al finanziamento: “con i tagli previsti,
sono molti i dubbi su quanto si riuscirà a mantenere in piedi degli interventi, molte volte egregi,
fatti dalle scuole. Mentre prima, sia attraverso il recupero ore, la disponibilità, i distacchi alcuni
provvedimenti a livello di programmi prevedevano queste cose, ora sembra non siano più previste,
almeno sulla carta della riforma in generale” commenta Don Bruno Baratto della Caritas Veneta.
Per questo la Regione dovrà investire con convinzione in questo settore perché qui si gioca la
possibilità di passare dall’emergenza dell’immigrazione alla quotidianità dell’inclusione. Per quanto
riguarda la formazione degli adulti occorre potenziare il ruolo dei Centri territoriali in
collaborazione con gli Enti locali attraverso un Piano straordinario: il diritto all’istruzione e alla
formazione coincide nel caso degli immigrati con la possibilità stessa di accedere ad altri diritti.
Un problema di mancato esercizio dei diritti si rileva tuttora sia nel campo della salute, dati a
livello locale fanno presumere che circa il 30% dei regolari, aventi diritto per legge all’assistenza
sanitaria a condizione di parità con i cittadini italiani, non si è mai iscritto al Servizio Sanitario
Nazionale249, condizione preliminare per l’accesso all’assistenza. Un primo passo, di semplice e
onesta civiltà, è quello di aiutare il trasferimento, per quanto di competenza della Regione,
delle competenze in materia di soggiorno dalle questure agli enti locali. Una delle differenze più
evidenti fra un italiano ed un migrante, sul piano della cittadinanza civile, è data dal diverso livello
amministrativo-istituzionale a cui l’uno e l’altro devono rivolgersi per ricevere documenti
essenziali: il primo si rivolge al Comune, e cioè all’articolazione democratica dello Stato più vicina
al cittadino, mentre il secondo ha l’obbligo di rapportarsi, al fine di ottenere il permesso di
soggiorno, con la Questura, struttura a cui è demandato il compito di tutelare l’ordine. Ciò
contribuisce al diffondersi di quel senso comune per cui il migrante ha come principali interlocutori
gli organi di polizia proprio perché potenzialmente pericoloso e da tenere quindi sotto controllo 250.
248
Migranti in Veneto dopo la regolarizzazione secondo il Dossier Caritas 2004 a cura di IDOS - Centro Studi e
Ricerche Immigrazione Dossier Statistico
249
i dati sono desunti da Giovanna Zincone (a cura di), Secondo Rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia,
Bologna, 2001
250
per un decostruzione puntuale delle retoriche securtarie e sulla correlazione tra politiche della sicurezza e paura vedi
Giuseppe Mosconi, Criminalità, sicurezza e opinione pubblica nel Veneto, Padova, 2000
166
Carattere di priorità dovrà essere riconosciuto all’obiettivo di eliminare o quanto meno ridurre le
barriere, tanto di tipo prettamente linguistico o, più in generale, culturale, quanto di tipo
organizzativo, che ostacolano la fruibilità dei servizi da parte degli immigrati. In questo ambito la
priorità deve essere data alla formazione specifica degli operatori posti a contatto con l’utenza
immigrata e alla diffusione del ricorso ai mediatori culturali. E’ l’esigenza che si strutturino - in
collaborazione con enti locali, sindacati, associazioni - strutture d’informazione, orientamento e
formazione al lavoro251. Per questo un’ulteriore sforzo dovrà essere diretto all’informazione sui
diritti e sulla legge, risolvendo sul nascere eventuali conflitti, in quanto l’informazione porta ad una
consapevolezza dei propri diritti da parte degli utenti e obblighi per gli enti erogatori.
Si tratta:
di produrre informazione in più lingue;
di attivare forme di interpretariato sociale e di mediazione linguistico-culturale;
di garantire loro le misure di assistenza sociale quando ciò si rende necessario;
di dare avvio ad iniziative di sostegno e di intermediazione nel settore degli alloggi
di promuovere attività formativa in grado di ampliare e di qualificare le possibilità di sbocchi
occupazionali.
Senza un tetto
La casa rappresenta oggi, per gli immigrati, il problema più grave 252. Se è vero che la grande
maggioranza degli immigrati non è senza casa (una integrazione avvenuta senza uno specifico
sostegno assistenziale), il modello prevalente appare come un modello di inserimento
subordinato: solitamente gli immigrati devono ricorrere a edifici che risultano irrecuperabili alle
esigenze della popolazione locale. Il secondo Rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia
segnala gli effetti di polarizzazione delle sistemazioni abitative: miglioramento per quote di
immigrati stabilizzati da un lato, persistente precarietà per le componenti più deboli e per quelle
all'inizio del percorso migratorio dall'altro. Il dato di fondo è la debolezza delle nostre politiche
abitative dal punto di vista sociale: l'estrema ristrettezza di un'offerta di affitto accessibile, e
l'insufficienza delle politiche mirate rivolte all'area della povertà 253. La scommessa
dell'innovazione è in gran parte affidata alla legislazione sull'affitto (legge 431/98), che prevede
incentivi fiscali per riportare nel mercato alloggi sfitti e per moderare i canoni attraverso forme di
contratti concordati, e istituisce un fondo per la concessione di contributi integrativi alle famiglie
con basso reddito: purtroppo questa misura non è in grado di soddisfare l'elevata domanda di alloggi
sociali data la scarsità quantità di risorse.
251
“urgente risulta essere la necessità di attivare servizi di orientamento e formazione al fine di valorizzare le
competenze spesso ignorate del lavoratore immigrato che, spesso, si ritrova confinato in uno status sociale inferiore a
quello ricoperto in patria. La questione è di grande rilievo per positivi processi d’integrazione che si ripercuotono anche
sulle seconde generazioni” Fondazione Corrazzin, Nella terra del lavoro, l’inserimento sociale e lavorativo degli
immigrati nel Nord – Est, Febbraio 2002
252
si veda la ricerca della Fondazione Corrazzin, Nella terra del lavoro, l’inserimento sociale e lavorativo degli
immigrati nel Nord – Est, Febbraio 2002
253
Antonio Tosi, Politiche abitative in Giovanna Zincone (a cura di), Secondo Rapporto sull’integrazione degli
immigrati in Italia, Bologna, 2001
167
· le Province devono predisporre piani provinciali di interventi per l’integrazione, assumendo un
ruolo attivo sia nella concessione dei contributi alle associazioni impegnate in essi sia nel
promuovere la partecipazione degli immigrati alla vita sociale;
· i Comuni devono assumere un ruolo di programmazione e realizzazione degli interventi, in
collaborazione con i soggetti del privato sociale.
168
Lavoro tra qualità e diritti
Il Nord Est al lavoro
Il lavoro ha rappresentato, per la società veneta, uno strumento di identificazione, di
affermazione sociale e di costruzione comunitaria. Una professionalità diffusa, generata dalle molte
abilità artigianali, e una mobilità professionale accentuata rappresentano alcuni fra i fattori centrali
del successo economico. Il sistema produttivo ha potuto disporre di quote significative di
manodopera, disponibili e flessibili, anche in virtù di una peculiare cultura del lavoro. Cultura che
mostra spesso il suo lato negativo nei ritmi forzati e negli orari prolungati 254. Ma la situazione oggi
sta mutando radicalmente, come illustra chiaramente Daniele Marini: “diversi indicatori e fenomeni
farebbero sostenere che quel modello ha esaurito la propria spinta propulsiva (…) .si va esaurendo
la manodopera disponibile locale, gli stessi lavoratori immigrati risultano non essere sufficienti a
rispondere alle necessità, il mercato del lavoro è giunto alla saturazione, cambia anche
l’atteggiamento della popolazione nei confronti del lavoro. Dunque, cambia un fattore peculiare e
centrale mediante il quale la società del Nord Est si è costruita” 255. Profonde trasformazioni hanno
attraversato questo mondo e hanno intaccato le esperienze profonde degli individui, le loro modalità
di identificazione sociale. Queste trasformazioni portano con sè il rischio di inedite forme di
sfruttamento e di esclusione basate sulla negata accessibilità ai saperi e ad una nuova diffusione del
lavoro servile256. D’altro canto queste trasformazioni contengono anche le premesse per ragionare
su nuove modalità di ricerca della qualità e della dignità dei lavori e nei lavori: su questo la Regione
può fare la sua parte.
Tendenze e numeri
Nel 2003, secondo il rapporto curato da Veneto Lavoro, il tasso di disoccupazione si
conferma bassissimo, intorno al 3,4% inalterato rispetto al 2002. In un contesto di stagnazione
questa bassa quota di disoccupati è contraddittoria solo in apparenza. L’andamento negativo
dell’economia, infatti, non produce effetti immediati sui tassi di disoccupazione, grazie al declino
demografico ed alla forte contrazione della produttività. Ciò nonostante, per assicurare la tenuta del
sistema, è stato necessario ricorrere in modo massiccio agli strumenti di sostegno per crisi aziendali
e ristrutturazioni. La dinamica complessiva delle assunzioni si mantiene costante da diversi anni,
ma cresce notevolmente la quota di assunzioni con contratti flessibili (circa 40% a tempo
determinato, 12% di interinale, 12% di apprendistato), che nel 2003 hanno sfiorato il 30% del
totale. L’aumento dell’occupazione temporanea spiega più della metà della crescita complessiva
dell’occupazione veneta nel 2003. Nel documento anticipatorio del Rapporto sul mercato del lavoro
nel Veneto relativo al 2004 si sottolinea come “la quota di temporanei, anch’essa ha evidenziato un
netto incremento, maggiore di quello registrato a livello nazionale, arrivando all’8,1% e ritornando
quindi sui livelli di incidenza osservati nel 2000, prima che vari fattori (credito d’imposta etc.) ne
frenassero l’ascesa”257. Una ricerca della CGIA di Mestre rivela come nel Nord Est fossero
254
1Osservatorio Veneto, Frammenti di lavoro, Quaderno 2/1999. D’altronde Bruno Anastasia, meno di 5 anni orsono,
sottolineava l’esistenza, non limitata a piccoli gruppi, del fenomeno dei “workhoolics”. Bruno Anastasia, Scenari del
mercato del lavoro, in Capire il Nord Est, Milano, 2000
255
Daniele Marini (a cura di), La flessibilità nel mercato del lavoro del Nord Est: risorsa o problema? Atti del seminario
della Fondazione Nord Est Venezia, 2001 In Davis Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente, Verona, 2004 vi sono
contenute penetranti analisi sui riflessi sociali in particolare sui giovani dei mutamenti del mercato del lavoro
256
“ Sono lavori flessibili e precari, con redditi bassi, molto spesso vicini e, in vari casi al di sotto della linea di povertà.
…..spesso le collaborazioni coordinate e continuative non sono lavoro formalmente dipendente , non hanno nulla di
autonomo, ma raccolgono in sé tanto di una nuova forma di lavoro servile”. Cgil, ARCI, Antigone, CNCA,
Legambiente, Rapporto sui diritti globali 2004, Roma, 2004
257
Veneto lavoro, Mercato del lavoro ed economia veneta nella congiuntura attuale. Prime note per il Rapporto 2004
sul mercato del lavoro in Veneto, in www.venetolavoro.it
169
impiegati, nel 2002, il 42% dei collaboratori coordinati continuativi (figura ora sostituita dal lavoro
a progetto) presenti in Italia258. Questo tipo di contratti nasconde spesso la trappola della precarietà a
vita vista l’alta probabilità per un individuo di ripetere la medesima esperienza di lavoro precario:
nel Veneto poco meno del 40% dei lavoratori interessati da un rapporto di lavoro flessibile ripete la
medesima esperienza nell’anno successivo259.
170
possibilità di accedere ai finanziamenti necessari per la crescita e l’adeguamento tecnologico e per
una serie di servizi che migliorino la qualità della produzione. Una simile dinamica è resa possibile
da una buona capacità imprenditoriale e da rapporti di lavoro continuativi, garantiti e ben
remunerati.
171
invece esercitare un ruolo significativo nelle relazioni industriali e all’interno di una rinnovata
contrattazione territoriale, oggi nella nostra regione poco utilizzata 265, in particolare nelle aree
distrettuali. La contrattazione territoriale si pone come l’obiettivo più adeguato per rispondere alle
dinamiche produttive che coinvolgono e innervano l’intero territorio.
Formazione e conoscenza
Non è sufficiente, anche se necessario, progettare reti di sostegno economiche: “la conoscenza, la
capacità di costruire senso è l’elemento chiave, la tutela e nel contempo lo strumento fondamentale
per attraversare ed essere attraversati dalla flessibilità, per comprendere ed agire senza essere
travolti”267. La frammentazione della produzione e del lavoro dovuta alla creazione di reti produttive
complesse e interdipendenti ha come conseguenza l’alienazione della conoscenza non solo dagli
individui ma anche dalle comunità e dai territori: ne risultano penalizzati il governo delle risorse,
265
Mario Giaccone, Le relazioni industriali in Veneto negli ultimi vent’anni, in Economia e società regionale, 2/2004
266
Andrea Fumagalli, Misure contro la precarietà esistenziale e distribuzione del reddito, in Posse, 2004
267
Achille Orsenigo, La costruzione dell’identità lavorativa in un mondo sollecitato dalla flessibilità, in Spunti, 6/2002
172
dell’ambiente e della salute. Si sta affermando un vero e proprio mercato delle conoscenze e delle
innovazioni sempre più globale e alienato dai territori e dalle comunità, che su questi però ha una
influenza determinante. L’innovazione può essere la forma attraverso cui il sistema territoriale
ricostruisce la propria riconoscibilità nel mondo: ma occorre che questo avvenga senza perdere il
controllo del processo puntando a rendere socialmente valutabili gli obiettivi e gli esiti
dell’innovazione. Per questo occorre dare alle persone strumenti per poter comprendere i processi.
La formazione permanente, integrata ad un’organizzazione del lavoro che offra nuove opportunità
di apprendimento, è questo il terreno decisivo per contrastare la nuova alienazione e la crescente
esclusione sociale268 (vedi cultura, formazione, conoscenza ←). La formazione permanente
funziona solo se ha davvero accompagnato la vita lavorativa delle persone, se si è basata su
periodici bilanci delle competenze, se ha saputo valorizzare le risorse intellettuali di ciascuno, se ha
saputo riconoscere i diversi livelli di autonomia e di responsabilità. A tutti deve essere data la
possibilità di crescere professionalmente, di apprendere nel lavoro, di vedere riconosciute le
competenze che con il lavoro e con la formazione si acquisiscono a prescindere dalla natura
giuridica del contratto. Occorre che divenga diffusa e concreta la coscienza dell’importanza del
sapere individuale e collettivo per l’autorganizzazione delle vite individuali e collettive, degli
ecosistemi e comunità locali, regionali: riappropriarsi dei saperi e delle conoscenze è condizione
fondante della riappropriazione collettiva libera e pacifica del potere.
Lavoro e società
Occorre riorganizzare, secondo criteri socialmente utili, la ripartizione del lavoro accettando
il principio per cui occorrerà aumentare non solo la produttività fisica del lavoro, ma la sua
produttività sociale: occorre incentivare un processo di orientamento dell’economia che dia risposta
al un progressivo spostamento della domanda dai beni privati ai beni sociali. Il potenziamento di
mercati locali legati alle condizioni socioambientali del territorio, assume un’importanza strategica
visto il contesto in cui viviamo dove i costi sociali del lavoro vengono scaricati sugli individui (si
pensi alle pensioni) e vi è una caduta della solidarietà tra le diverse parti sociali 269.
Inoltre l’orientamento verso produzioni di qualità risponde alla crescente domanda di “senso“ da
conferire all’attività lavorativa270. In termini di creazione di posti di lavoro esiste, ad esempio, un
notevole potenziale nel settore delle energie rinnovabili 271, chiave fondamentale per la riconversione
dello sviluppo. Le attività di costruzione come il rinnovamento di edifici privati e commerciali, la
tutela del patrimonio culturale, il riassetto dei centri urbani e delle infrastrutture cittadine (in
particolare la costruzione di strade pedonali e di piste ciclabili e lo sviluppo della rete di trasporti
pubblici) hanno il merito di creare posti di lavoro, incrementare l’attività economica a livello locale
(anche nel settore turistico), preservare le risorse energetiche, migliorare la qualità dell’ambiente e
adeguare alle esigenze moderne le infrastrutture abitative e di trasporto. L’investimento in settori ad
alta qualità ambientale e sociale comporta inoltre la creazione di lavori qualificati che rispondono
alla crescente domanda da parte di giovani laureati. Esiste infatti oggi uno scollamento nel mercato
del lavoro veneto tra una domanda di lavoro altamente qualificata e un’ economia basata ancora su
produzioni a basso contenuto cognitivo272.
173
l’agricoltura è il settore dove vi è la maggiore incidenza di unità di lavoro irregolari (il 27% nel
Veneto273). Numerosi studi prevedono una espansione del fenomeno legato al declino e alla scarsa
competitività del sistema produttivo italiano 274. Pensiamo che la strategia per contrastare l’economia
sommersa e accompagnare le imprese alla legalità debba incentrarsi sul territorio. L’illegalità in
questo campo, infatti, non solo danneggia i lavoratori, ma rappresenta una risposta miope alla
crescente competitività attraverso la compressione dei costi ambientali e sociali della produzione: il
contrasto a questo fenomeno non può che riguardare la qualità complessiva dei sistemi economici e
sociali locali che appare decisiva nell’influenzare i comportamenti e la qualità produttiva del
territorio. La lotta al lavoro nero necessita di interventi strutturali che agiscano sia sull’eccezionalità
quanto sul consolidamento dei sistemi economici locali, aumentando la qualità dei sistemi
produttivi, estendendo tutele e diritti, rendendo più funzionali gli assetti organizzativi degli organi
ispettivi.
Proponiamo l’elaborazione e l’attuazione di “Piani locali di sistema per l’emersione” (su base
provinciale e regionale) come strumenti d’intervento tanto sul versante dei benefit diretti e specifici
per le imprese che emergono, quanto sulla qualificazione della manodopera coinvolta (formazione),
sulla qualificazione del territorio da un punto di vista urbanistico, sulla messa a disposizione di
servizi di accompagnamento, tutoraggio e consolidamento dei processi di emersione.
273
i dati sono desunti dal rapporto di ricerca dell’Osservatorio Veneto sul lavoro nero, elusione ed evasione
contributiva, “Attorno al lavoro sommerso in Veneto. Una ricognizione”, Venezia, 2003
274
sul tema si veda Alessandro Genovesi, Lavoro nero e qualità dello sviluppo, Roma, 2004
174
Non solo torpedone
Un turismo di qualità per il Veneto delle relazioni
Oggi il modello di offerta turistica ancora dominante, fatto di infrastrutture pesanti,
irriconoscibilità dei luoghi, divertimentificio, è in crisi. Il turismo invernale montano, dopo aver
superato la fase di successo e di rapida espansione negli anni ’80, ha iniziato la fase di maturità che
nella teoria del ciclo del prodotto prelude al declino 275. Anche il classico turismo estivo da “spiaggia
e ombrellone” è in fase di declino conclamato. Quel modello turistico si rivolgeva ad una
organizzazione sociale - modalità lavorative, modelli culturali, strutture famigliari - oggi
tramontata. Siamo di fronte alla necessità di una revisione profonda, che non è indolore, delle
modalità e della cultura del fare turismo. Secondo noi, più che un ulteriore investimento in
infrastrutture, intrattenimento o marketing che tenti di estenuare un modello in crisi, occorre volgere
lo sguardo altrove verso modelli leggeri di turismo basati sulla conoscenza del territorio. Francesco
Vallerani, ad esempio, tratteggia, felicemente, una possibile prospettiva quando indica nella pratica
del escursionismo e del turismo sostenibile nei paesaggi fluviali una occasione per “cogliere gli
elementi meno noti della complessa territorialità del modello veneto” 276. Non parliamo di un
turismo di massa ma di un “offerta” turistica che da una parte rispetta il territorio attraverso attività
a basso impatto e dall’altra coglie le nuove tendenze che rifuggono dal modello del turismo di
massa per cercare esperienze più “autentiche” di ricerca territoriale e antropologica. Per altro il
perseguimento di questa offerta può avere delle ricadute rigenerative sul territorio stimolando il
recupero memoriale di antiche quotidianità o la riscoperta di giacimenti eno-gastronomici.
175
valenze fisiche, paesaggistiche, produttive e ad una comunità, intesa come valori, storia, tradizioni,
caratteristiche umane. Il turismo è consumato nei luoghi dove si produce; la sua integrazione con il
territorio ne costituisce un fondamentale vantaggio competitivo.
176
Locali in riferimento alla legge 135/2001 nazionale, non considera fattori strategici quali i
giacimenti agroalimentari di qualità o ignora comparti turistici come quello giovanile 278.
Occorre una programmazione che consideri come i mutamenti in atto: l’avvento un turismo
di nuova generazione, territoriale, basato su diverse modalità di offerta e rivolto a soddisfare gli
interessi speciali, cioè le attitudini. I mutamenti strutturali della domanda turistica, poi, caratterizzati
da una segmentazione sempre più spinta con marcate differenze tra un segmento e l'altro, tra una
stagione e un'altra, con sovrapposizioni tra turisti e residenti fruitori del tempo libero, impongono
all'offerta turistica una gestione economica basata su una pluralità d'imprese organizzate
territorialmente. D'altro canto, la stessa nuova legge quadro nazionale (135/01) nell'ambito di un
fortissimo decentramento funzionale associa un generale riconoscimento al turismo e alle risorse
turistiche come fattore essenziale di sviluppo locale territoriale. La disfunzione dunque tra un
mercato che necessità costantemente di innovatività e di adeguata regolamentazione e una
normativa che fatica a comprenderne la complessità, risulta evidente. Eppure uno dei principali
risultati della riflessione teorica sul turismo, che la citata legge nazionale ha colto (art. 5 comma 5),
è rappresentato proprio dal Sistema locale di offerta turistica (SLOT), inteso come un insieme di
attività e fattori di attrattiva che, situati in uno spazio definito (un sito, una località, un’area) siano in
grado di proporre al visitatore un’offerta articolata e integrata, realizzando un sistema di ospitalità
turistica specifica e distintiva che valorizza le risorse e la cultura locale.
L’applicazione della legge nazionale nel Veneto è stata di tipo ”inerziale” attraverso il
riconoscimento di preesistenti organismi come le Aziende di promozione turistica con un elenco di
insiemi di comuni, nell’ipotesi, forse, di avviare un processo di “regionalizzazione”. Tutto ciò non
ha impedito lo sviluppo e la diffusione di beni e servizi turistici locali, ma non ha portato ad una
crescita qualitativa del sistema di accoglienza e quindi della stessa “qualità” della domanda di
consumo di tempo libero e non ha permesso che si utilizzassero tutte le potenzialità insite nel
turismo ai fini dello sviluppo dell’occupazione. La mancanza dunque di politiche integrate che con
la valorizzazione e la salvaguardia del territorio, attivino anche politiche occupazionali ci riporta a
constatare che in troppe località turistiche la situazione ambientale è ad un livello preoccupante
(approvvigionamento idrico, qualità dell’acqua potabile e della balneazione, erosione del suolo e
delle coste, desertificazione , incendi boschivi, sviluppo edilizio incontrollato, traffico
congestionato, ecc.).
Eppure…
Eppure il turismo ha vitalmente bisogno di conservare le preziose risorse naturali e sociali
che ne costituiscono il presupposto. I flussi turistici possono avere impatti pesanti sui delicati
equilibri dei centri storici, delle città d’arte, delle aree archeologiche, ma il turismo per esistere ha
bisogno di conservare quegli equilibri che esso stesso rischia di rompere. Un paesaggio intatto e la
diversità culturale e biologica rappresentano risorse insostituibili, precondizioni per ogni attività
turistica. Sono in costante aumento le richieste di conoscenza dello spazio, la consapevolezza
ecologica, il confronto tra culture, l’approccio con le diverse tradizioni che portano alla nascita di
nuovi turismi, come quello culturale, naturalistico, enogastronomico, ecc.. La competizione del
prodotto turistico domestico si gioca sempre più sui cosiddetti fattori “no price”.
Cresce nei turisti la considerazione per l’importanza dell’ambiente: sempre più esso
rappresenta una variabile decisiva sia per la scelta delle destinazioni sia per giudizio sulla
soddisfazione per le vacanze trascorse. L’ambiente è una componente interna del prodotto turismo,
vivono o muoiono insieme, ma questo non vuol dire che la salvaguardia dell’ambiente si
accompagni sic et simpliciter allo sviluppo del turismo, infatti molti operatori turistici considerano
la qualità dell’ambiente come componente essenziale dell’offerta turistica, ma non tutti: permane
278
Sulle potenzialità del turismo legato ai giacimenti enogastronomici e sulle regole per “non improvvisare” si veda
Davide Paolini, Giacimenti Enogastronomici, il rischio turismo, in Equilibri 1/2004
177
per molti operatori la logica dell’anticipare e massimizzare le possibilità di immediato guadagno a
scapito delle generazioni future279.
279
Alessandro Lanza, Francesco Pigliare, Economia del turismo: crescita, qualità ambientale, sostenibilità, in Equilibri,
1/2004
280
si veda la Carta per un Turismo Sostenibile di Lanzarote reperibile su www.solidea.org
281
Gianni Moriani, Manuale di ecocompatibilità, Venezia,2001
282
si vedano gli atti della Conferenza Internazionale sul Turismo Sostenibile, Rimini 28-30 giugno 2001 reperibili su
www.actanet.it in particolare
283
Mara Manente, Federica Montaguti, Sostiene Venezia. Prodotto, dinamiche della domanda e regione turistica, in
equilibri 1/2004. in questo studio le autrici dimostrano come flussi turistici consistenti stiano in questi ultimi anni
privilegiando l’entroterra veneto grazie allo scadimento dell’offerta turistica veneziana.
178
Una problema centrale è il ruolo di Venezia come grande attrattore del Veneto, con le difficoltà
che ne conseguono: la difficoltà di gestione dei flussi e il decadimento della città a puro luogo di
attrazione turistica e la difficoltà di ricostruzione del tessuto cittadino per una restituzione
identitaria della città a coloro che la abitano. Le politiche applicate per un’evoluzione in tal senso
sono numerose e diversificate ma stentano il raggiungimento degli obiettivi. La necessità di
orientare i flussi turistici a tutto territorio regionale a partire da Venezia in un’ottica di gestione
integrata del territorio, permetterebbe di divulgare ed approfondire la conoscenza del Veneto, di
ridistribuire le entrate legate al settore e decongestionare l’afflusso cittadino
179
3) predisposizione di un Marchio d’Area Regionale per il riconoscimento della Qualità
complessiva del sistema turistico
4) promozione di un sistema di analisi e conoscenza dei flussi e dei fenomeni legati al turismo come
supporto indispensabile alla formulazione delle strategie
5) promozione dei comparti turistici minori
6) promozione di un sistema formativo per il turismo sostenibile (in collaborazione con le
organizzazione degli operatori e l’Università)
7) apertura di collaborazioni a livello internazionale (meditteraneo ed europeo in particolare) per lo
scambio di esperienze, promozione di partnership.
Alberto Nunies
180
I principali progetti di legge presentati
dal consigliere Gianfranco Bettin, nel corso della legislatura 2000-2005
181
“Questo progetto di legge è stato ideato per dare una precisa e puntuale risposta a quelle che sono
le reali esigenze di tutela della fauna selvatica e di tutti i cittadini che praticano attività sportive e
ricreative in campagna, collina e montagna. Le novità introdotte riguardano disposizioni per
l'effettiva protezione della fauna, che risulta ormai dilaniata dalla scellerata gestione faunistica
operata dalla Regione negli ultimi anni.”
Il testo integrale di tutte le proposte di legge, mozioni ed interrogazioni sono visionabili nel sito
www.consiglioveneto.it
182
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