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Contrade a venire.

Il Veneto dopo il Duemila.


Idee e voci per una regione più verde.

a cura dei Verdi del Veneto


Coordinamento di Gianni Belloni
Introduzione di Gianfranco Bettin

contributi di
Anna Marson, Renzo Franzin, Marco Favaro, Ezio Da Villa, Alberto Nunies, Massimiliano
Rossi, Andrea Zannoni
Le foto presenti in questo volume, messe gentilmente a disposizione dal Centro Civiltà dell’Acqua
di Mogliano Veneto, non vogliono essere un corredo di immagini ma una sorta di narrazione sul
Veneto, a partire dalle sue acque.
Un tentativo di leggere la storia recente delle nostre terre attraverso le vicende che interessano le
sue acque: vale a dire le politiche e le tecniche che le hanno imprigionate, inquinate e privatizzate.
Acque come metafora di quel bene comune, insostituibile ed esauribile, del quale è necessario
prendersi cura per costruire una diversa convivenza

hanno collaborato alla realizzazione del volume:


Moreno Barbieri, Augusto Benato, Fabrizio Boscolo, Riccardo Bottazzo, Giuseppe Caccia,
Francesca Corsi, Christian dalla Vecchia, Paolo De Marchi, Fabio Gasperini, Maurizio Gobbo,
Carlo Martin, Meme Pandin, Ezio Orzes, Max Siabane, Tiziana Stella, Marzio Sturaro, Michele
Testolina, Pier Giorgio Tiozzo, Giuseppe Turudda, Franco Zecchinato

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3
Indice
prefazione
Per il Veneto terra di relazioni
una crescita senza sviluppo - ricostruire il territorio per ritrovare se stessi - risorse - una via
d’uscita? - la trappola dell’identità - riprendere in mano le trasformazioni: il ruolo della politica -
una nuova programmazione - nuovi criteri oltre la crescita - ridare senso ai luoghi - liberare e
federare - ambiente e territorio - welfare come politica di sviluppo - economia e sviluppo -
promuovere e sostenere comunicazione e cultura
Politiche
proposte di sistema su alcuni macrotemi che consideriamo strategici
Oltre le rovine: il territorio e l’ambiente
il Veneto: un patrimonio territoriale complesso - l’uso del territorio nel modello di sviluppo recente
- perché riportare il territorio, nella sua complessità e unicità fisica, al centro delle politiche -
l’indissolubile nesso tra modello di sviluppo e qualità del territorio e dell’ambiente - il modello
territoriale ed economico in atto, e i suoi possibili sviluppi, richiedono una più attenta
evidenziazione dei costi territoriali e ambientali - l’edificazione di nuove aree: risposta a un bisogno
collettivo, o speculazione di pochi a danno di molti? - il risultato: un territorio troppo e male
urbanizzato - l’alternativa c’è: riusare le aree dismesse e riprogettare le aree senza qualità anziché
“consumare” nuovi suoli - ri-progettare centralità e confini, identità, differenza e diversità -
dall’imposizione sovraordinata alla promozione di autogoverno consapevole - uno scenario
inquietante con cui è opportuno fare i conti: il cambiamento climatico - in questo contesto, quali
sono le politiche territoriali e ambientali auspicabili?
Il welfare al centro
l’oscuro orizzonte del welfare: il quadro nazionale - welfare regionale - regione che vai… - il posto
del welfare nel Veneto - proposte verdi per un nuovo welfare regionale - le sfide imposte dai
cambiamenti strutturali - i cardini di una politica verde per il welfare - promozione locale della
salute - nuova programmazione per l’integrazione delle politiche - a partire (anche) da chi ci lavora
- comuni al centro - nuovi servizi per il welfare delle comunità - cittadinanza e lavoro - welfare e
innovazione - welfare e formazione - welfare e terzo settore - strumenti - territorialità e promozione:
una politica sanitaria per la qualità sociale - promozione della salute - nuovi distretti
Cultura formazione conoscenza
per una società della conoscenza - la conoscenza ai tempi del liberismo - la formazione: un altro
punto di vista - la Regione e le politiche per la formazione - per una Carta regionale della
formazione e dell’istruzione - formazione professionale - quale autonomia - istruzione e formazione
per tutto l’arco della vita - formazione continua - università - “non uno di meno”- dignità -
strumenti - beni e politiche culturali - per una politica regionale - politiche culturali e sviluppo
locale - linee guida - azioni e programmi - il ruolo della Regione - strumenti per la libertà di
conoscenza
Economia qualità territorio
crisi della crescita caratteristiche dell’economia veneta - elementi per una politica economica per un
Veneto terra delle relazioni - una nuova programmazione - obiettivi - dai distretti ai sistemi locali -
integrazione tra Agenda 21 e Patti Territoriali - la dimensione locale dello sviluppo sostenibile
regolato: la regolazione partecipata - di non solo PIL…- economia ambiente - beni comuni -
responsabilità sociale delle imprese - sostenere e diffondere le esperienze di economia solidale -
fiscalità ambientale - una delocalizzazione governata - promuovere il microcredito e la finanza
locale - politiche di contesto - innovazione e riflessività dello sviluppo - quale innovazione per
quale società

4
Il Veneto sulle rive del mare
il Veneto sulle rive del mare - competenze regionali - tra cementificazione e turismo di massa -
erosione costiera - lagune - Delta del Po, Polesine: area non satura - una rete di parchi costieri -
pesca - un mare senza frontiere
Marghera: alle radici del futuro
l’orizzonte negato - un “crimine di pace” - Porto Marghera o della falsa coscienza del Nord Est –
bonifiche - la falsa svolta dell’idrogeno - alcune risorse su cui contare - argomenti per uno scenario
futuro - criteri per una svolta
La nostra montagna
tra degrado e riscatto - un sistema in affanno - il dialogo e le radici - una nuova rotta - possibili
azioni - agricoltura e sviluppo rurale - un modello insediativo - servizi per chi abita - turismo -
mobilità - un’idea in prospettiva - coordinare le risorse

Nodi
analisi e proposte su alcuni temi paradigmatici e complessi
Energie
energia mondo - il ruolo delle Regioni - Veneto: un quadro desolante - strumenti per l’alternativa -
Comuni e Province - le proposte verdi per un Piano Energetico Ambientale Regionale: le linee
guida - obiettivi e temi: diffusione delle energie rinnovabili - strumenti per la diffusione delle
rinnovabili - rifiuti- la ricerca- intervenire sulla domanda: efficienza e razionalizzazione energetica-
per una mobilità non energivora - servizi pubblici locali
Mobilità e sviluppo
per un Veneto policentrico - un Veneto in coda? - criteri per uscire dal tunnel - indirizzi strategici -
alcune linee d'azione infrastrutture per il Veneto: dalle grandi opere alle buone opere - una
questione di metodo - alcuni elementi per un piano
La terra dei fiumi
la terra dei fiumi - l’acqua dei filosofi e degli imperatori - dall’acqua libera all’acqua incubata - i
sistemi artificiali: il caso del Piave - il neolitico moderno: la bonifica idraulica e agraria – il ciclo
idrico integrato e la gestione dell’acqua - acque, frontiera per (ri)pensare gli equilibri con la natura e
approdare a nuove forme di democrazia
Parchi: quando l’utopia può farsi concreta
Il ruolo possibile dei parchi - una strategia regionale - reti oltre il parco - i parchi come laboratori -
un parco in città - aree naturali protette di interesse locale - il nulla che c’è- (ri) cominciamo da tre
(per ora…) - alcune proposte

5
Difesa della fauna e della biodiversità
la caccia nel Veneto - caccia a specie rare - un calendario venatorio su misura - la caccia in deroga:
una norma truffaldina - i costi della caccia - la caccia fonte di inquinamento da piombo e da plastica
- la caccia, i privati e l’agricoltura - cacciatori paladini dell’ambiente?- caccia e bracconaggio: un
confine pressoché inesistente - caccia e incidenti - un maltrattamento legalizzato - la nascita del
Coordinamento Protezionista Veneto - gli obiettivi del CPV
Una terra da curare
uno sguardo globale - l’agricoltura nel Veneto - politiche regionali e politiche comunitarie -
proposte per nuove politiche - energia e agricoltura - un futuro per l’agricoltura veneta – alcune
idee per cambiare rotta
Immigrazione: la qualità della convivenza
oltre il razzismo e la carità - alcuni dati e previsioni - regolamentazione dei flussi - enti locali e
regioni - il fantasma della segregazione - il protagonismo degli immigrati e delle immigrate -
migranti ed il lavoro - per una effettiva coesione sociale: la tutela dei diritti sociali fondamentali -
informare per non dover dire…- senza un tetto - comunicare integrazione - i compiti delle
istituzioni
Lavoro tra qualità e diritti
il Nord Est al lavoro - tendenze e numeri - flessibilità ovvero precarietà: nuovi scenari del lavoro -
qualità del lavoro e qualità dello sviluppo - per una “Carta regionale dei diritti del nuovo lavoro”-
politiche del lavoro e Regione - tutela del tragitto e reddito di cittadinanza - formazione e
conoscenza - lavoro e società - contro il sommerso e l’illegalità – salute e sostenibilità dei lavori
Non solo torpedone
un turismo di qualità per il Veneto delle relazioni - necessità della politica - uno sguardo alle cifre -
turismo nel Veneto - eppure…- un altro modello? - Sistemi Turistici Locali – alcune proposte per
invertire la rotta

principali progetti di legge presentati nell’ultima legislatura


bibliografia

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per il Veneto, terra di relazioni

7
“Ciò che i modelli cercano di modellare è pur
sempre un sistema di potere; ...ciò che conta veramente è
ciò che avviene nonostante loro: la forma che la società va
prendendo lentamente, silenziosamente, anonimamente,
nelle abitudini, nel modo di pensare e di fare nella scala di
valori”
(Italo Calvino, Palomar, Torino, 1983)

Che cos’è il Nord Est? In che modo un territorio, che ha nel Veneto l’epicentro, e che
comprende profonde diversità geografiche culturali, storiche e sociali, riesce a mobilitare un
“comune sentire”?
In realtà è proprio da queste diversità e da questa multiformità che è caratterizzato il Nord
Est: “un territorio che non è unitario ma è la somma di culture locali, di paesaggi, di modelli
economici inediti che generano parti di territorio distinte, segmenti di economie, atomi di società
che convivono, interagiscono, entrano in competizione ma, alla fine, si sorreggono a vicenda” 1. Il
“comune sentire” dei suoi abitanti è legato alla volontà di tradurre questa multiformità in fattori
competitivi, in “miracolo economico” - smentendo la vulgata comune che voleva queste terre
escluse - e che ne ha segnato i caratteri peculiari della sua crescita e della sua affermazione nei
confronti di modelli produttivi diversi come il Nord Ovest del fordismo maturo.
Le reti di conoscenze e di fiducia, le risorse ambientali, la coesione sociale, i giacimenti
culturali sono state messe al lavoro per creare quel successo che ha cementato il riconoscersi nel
“modello nord est”, mentre il policentrismo tipico di queste terre è stato il fattore decisivo che ha
permesso l’instaurarsi del rapporto simbiotico impresa - comunità locale2.
Ma qualcosa in quel meccanismo “magico” si è incrinato: “la crisi di questo capitalismo
altro non è che la crisi dei suoi tre reagenti chimici elementari: famiglia, paese, distretto. Questi
avevano metabolizzato il fordismo e lo sviluppo locale trasformandoli in localismo e comunità
economiche locali dove la famiglia messa al lavoro, il paese con i suoi capannoni industriali hanno
fatto distretti e un’enorme piattaforma produttiva densa di merci e localismi. I tre reagenti chimici
del dna territoriale non bastano più nella globalizzazione. Il modello è maturo e stanco.” 3.
In cambio della distruzione dei beni comuni - ambiente, salute, tempi di vita - i veneti
sottoscrissero un sorta di “patto produttivo - consumistico” che offriva ricompense in termini di
redistribuzione di ricchezze e di identificazione con un modello sociale vincente. Questo patto non
funziona più. Fino ad alcuni anni fa fenomeni come l'usura del territorio, la sicurezza personale, la
qualità della vita non eccellente, erano considerati un equo prezzo da pagare per il miglioramento
del reddito, della mobilità sociale e dei consumi. Per coloro che nello spazio di una sola generazione
sono passati dalla povertà alla ricchezza, un certo degrado dell'ambiente e ritmi di lavoro frenetici
erano parte di ciò che distingueva "i veneti" dal resto dei lavoratori/imprenditori italiani e, in un
certo senso, erano motivo di orgoglio. Oggi, a poco a poco, i costi ambientali e sociali della crescita
sono percepiti come inaccettabili.

1
Bruno Zanon, Società locali, territori, nuovo confini, in Urbanistica dossier, 63/ 2004
2
Francesco Indovina, Evoluzione di un economia regionale, Portogruaro, 1996
3
Aldo Bonomi, Ma quale declino, il nordest è nell’età dello sviluppo, in www.aaester.it

8
Non è quindi più possibile guardare settorialmente al sistema economico-produttivo,
sperando che “cambi la congiuntura sfavorevole”: potrà anche registrarsi una ripresa nei consumi e
nella produzione - anche se la specializzazione produttiva ad alto contenuto manifatturiero della
nostra economia è sempre più esposta alla concorrenza di aree emergenti 4 - ma quello a cui stiamo
assistendo è una crisi sistemica del modello: sono arrivati ad esaurimento quei beni e quelle risorse
sociali e ambientali, non monetizzabili né riproducibili, essenziali per il perseguimento della
crescita5. Dal rapporto di ricerca sugli imprenditori vicentini compilato da Ilvo Diamanti su
commissione dell'Assindustriali di Vicenza, emergono quegli elementi alla base della crisi di
“consenso” del modello, diffidenza ed un senso di attesa, una certa stanchezza: dopo la corsa allo
sviluppo dell’impresa, all’apertura internazionale, alla globalizzazione, la società vicentina tende a
prendere le distanze dalla realtà e dai valori puramente economici. Nel suo rapporto, Diamanti
afferma che non è tanto il modello economico ad essere in discussione, il limite sta, piuttosto, nella
politica e nel territorio. I vicentini, in questo caso, provano un senso di insofferenza di fronte alla
carenza di tempo libero ed allo scadere delle relazioni interpersonali: il prezzo da pagare, insomma,
comincia a parere troppo alto. Nelle analisi di osservatori come Diamanti è illustrato la fine di un
illusione: quella che la soddisfazione dei molteplici bisogni della società potesse essere affidati ai
meccanismi del mercato e della produzione.
L’estenuarsi del sistema provoca l’emergere dei tratti di una società malata che, per non
rinunciare al relativo benessere acquisito, scarica sul lavoro dei più deboli, gli immigrati,
l’insostenibilità economica e sociale del modello. Se fino a poco tempo fa il mondo del lavoro nel
Veneto era caratterizzato da coesione e da una relativa mancanza di conflittualità dovuta
all’adesione a comuni valori e alla promessa di redistribuzione della ricchezza che compensavano
l’illegalità diffusa (ambientale, fiscale, sicurezza sul lavoro) e i frequenti fenomeni di sfruttamento,
questa realtà si sta sinistramente trasformando. La compressione dei costi e delle garanzie del
lavoro come fattore competitivo del modello produttivo, un welfare arretrato e fragile che affida alle
donne immigrate - spesso in condizioni di isolamento e insicurezza - i servizi alla persona, una
politica abitativa inesistente che favorisce l’insediamento di “ghetti” all’interno dei contesti urbani:
sono tutti elementi che contribuiscono a far risaltare le tracce di una società segregazionista. Dalle
ricerche condotte da Davis Sacchetto emerge un quadro agghiacciante sulla composizione etnica del
mondo del lavoro provocata dalla regolazione selettiva dei flussi migratori e dalla tendenziale
separazione occupazionale tra veneti e immigrati, non solo nella gerarchia, ma anche nella tipologia
di mansioni che vede gli immigrati ricoprire le occupazioni più gravose e insalubri 6.

Crescita senza sviluppo


Quello che ha caratterizzato il Veneto è una crescita - cioè l’aumento della capacità di
produzione e di distribuzione delle merci e del denaro - senza che tutto questo abbia comportato uno
sviluppo e cioè un aumento della qualità sociale diffusa. A testimoniare questa evoluzione i risultati
di una recente ricerca7 in cui è stato messo a punto, e applicato, un indicatore, il QUARS (QUAlità
Regionale dello Sviluppo), che si prefigge di misurare la qualità dello sviluppo delle regioni
italiane. Il QUARS rappresenta e sintetizza le quattro dimensioni principali identificate nel rapporto
- lo sviluppo umano, lo stato dell'ambiente, la qualità sociale, la spesa pubblica - ciascuna delle
quali, ovviamente, è spiegata da altri sotto-indicatori. L’obiettivo, nel mettere a punto e utilizzare
questi strumenti, è quello di mettere in luce la differenza tra benessere inteso come esclusiva
produzione di ricchezza monetaria (a qualsiasi costo) e qualità della vita. Il particolare interesse di
4
Bruno Anastasia, Giancarlo Corò, Un economia in fase di stallo, in Daniele Marini (a cura di), Nord Est 2004,
Venezia, 2004
5
Pierre Veltz, Economia e territori, Paolo Perulli (a cura di ) Neoregionalismo, Torino, 1998
6
Devis Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente, Verona, 2004
7
Sbilanciamoci, Come si vive in Italia ? Qualità sociale, diritti umani, ambiente, politiche pubbliche regione per
regione, in www.sbilanciamoci.org

9
questa ricerca sta proprio nell’utilizzo del QUARS, che interroga la capacità delle istituzioni a
livello locale di promuovere un diverso modello di sviluppo - non legato a parametri quantitativi -
che risponda ad indicatori di qualità sociale e di sostenibilità ambientale. Secondo le intenzioni
degli autori della ricerca si intende assumere la dimensione locale - e quella regionale in particolare
- proprio perché questa può essere protagonista della costruzione di un modello di sviluppo
alternativo a quello attuale, distruttivo del territorio e socialmente iniquo.
Il Veneto rivela, alla luce di questo innovativo indicatore, una situazione difficile: mentre
secondo il tradizionale parametro del PIL (procapite), quindi della pura e semplice disponibilità
economica, nella classifica delle regioni italiane il Veneto ricopre la sesta posizione, prendendo ad
esame il nuovo parametro, il QUARS, che include le dimensioni qualitative dello sviluppo, il
Veneto scivola all’undicesimo posto. La nostra regione, secondo questa ricerca, risulta possedere,
sempre in raffronto con le altre regioni italiane, una dotazione di risorse pubbliche (pro-capite)
scarsa soprattutto se raffrontata con la ricchezza individuale diffusa. In altre parole uno dei deficit
principali di cui il Veneto soffre è la mancanza di investimenti in beni pubblici (scuola, sanità,
qualità ambientale ecc). Questa fotografia mette in luce la mancanza di politiche pubbliche in grado
di aumentare la qualità sociale a fronte di una forte ricchezza economica. Il dato risulta
particolarmente grave se si pensa che la scarsità di risorse investite nei beni pubblici non fa che
aggravare i livelli di sviluppo umano su cui già si segnalano difficoltà, come la scolarizzazione: una
sorta di circuito vizioso per cui il Veneto rischia di avvitarsi perseguendo il peggioramento della
qualità complessiva di vita di ciascuno e delle comunità.

Ricostruire il territorio per ritrovare se stessi


Non è possibile comprendere la portata delle trasformazioni ambientali del Nord Est
limitandosi a leggere i dati riguardanti i fiumi e le falde avvelenate, le colline deturpate, i territori
cementificati, l’aria avvelenata. Il grave disagio che si registra è dato dal fatto che il disegno
d’insieme del paesaggio veneto si è reso irriconoscibile, è andato in frantumi, e con esso un’idea di
convivenza e simbiosi con l’ambiente. Sul territorio si sono scaricati gli effetti di un modello
produttivo predatorio e dell’assenza di una azione di governo da parte dei poteri pubblici. E’ andato
in frantumi il paesaggio veneto additato come frutto di una civiltà che insieme al calcolo economico
perseguiva la bellezza, l’opera che desse piacere e soddisfazione allo sguardo. Uno spettacolo unico
che nutriva la consapevolezza dei veneti della bellezza della propria terra, della sua unicità. Questo
paesaggio come teatro, “come proscenio che guarda a Venezia e alle sue rappresentazioni, al suo
mare e alla sua laguna…”8, è stato distrutto insieme all’arte che l’ha modellato. Quella cultura per
cui l’ambiente era allo stesso tempo guscio e prodotto, un intreccio inestricabile di natura e cultura,
un unicum irripetibile, il “paesaggire” di Zanzotto, è andata perduta. La coesione sociale e culturale
che la caratterizzava è stata soppiantata dall’esaltazione dell’individuo astratto, che misura il suo
successo nella capacità di produrre e consumare, senza relazioni che non siano il massificato
accedere ai beni del mercato: è da questa “apocalisse antropologica” che trova forma l’anomia di
una “campagna male urbanizzata” senza luoghi e beni comuni. La città diffusa che si và estendendo
ben oltre il Veneto centrale, la “nebulosa centrale veneta” secondo la definizione di Domenico
Luciani, che travalica nelle aree periferiche di un Veneto un tempo policentrico: questo modello,
come analizza Anna Marson, “si è finora riprodotto e continua a riprodursi per contaminazione
progressiva del territorio”9. Un modello onnivoro che cancella le diversità e che estenua i suoi
caratteri omologanti: un paesaggio che più che brutto è noioso, irritante nella sua ripetitività, senza
sorprese, con il suo traffico intasato sulle strade principali, la macchina come elemento
onnipresente, onnivoro insopportabile10.

8
Eugenio Turri, La megalopoli padana, Venezia, 1999
9
Anna Marson, Barba Zuchon Town, Milano, 2001
10
Eugenio Turri,, La megalopoli padana, Venezia, 1999

10
La nebulosa insediativa è un modo di vivere in una mobilità individuale, nella quale macro-
spostamenti e micro-spostamenti si aggrovigliano e si ingorgano in un intricato spazio privo di
centro, nel quale tutte le funzioni possono essere poste ovunque. E come è vero che “ogni realtà
estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo, giacchè l’estetica è la madre dell’etica” 11, intrecciata
alla devastazione del territorio incontriamo la devastazione sociale, simboleggiata dal trionfo della
villettopoli, l’archetipo di quell’ “individualismo proprietario” che ne rappresenta il corollario
antropologico. “Le villette si ergono su un terrapieno decorato da ciuffi di ortensie colorate statuette
di gesso…Il rialzo serve per la tavernetta, un locale seminterrato che occupa interamente l’area
della casa. E’ il luogo della socialità, il simulacro delle osterie di un tempo, dei bar di paese dove si
consumavano le ore e il bianco secco dei colli trevigiani. La casa con giardino è diventata
ipertrofica, (…)estende il proprio dominio perché include gli spazi collettivi, ingloba il tempo
libero”12.
Proprio perché vi è un intreccio profondo tra paesaggio esterno (devastazione ambientale) e
interno (mutazione antropologica), una politica di restauro dell’ambiente e dei beni comuni non può
che partire da una profonda consapevolezza culturale; sia della diversità della geografia regionale
sia del fatto che il paesaggio non é un dato oggettivo da conservare, ma che può avvenire solo
grazie all’azione consapevole delle comunità insediate 13. Il territorio, come ci insegna Alberto
Magnaghi, non esiste in natura ma è l’esito dinamico di un sistema di relazioni fra società e
ambiente, è dunque l’azione della comunità insediata a costruire buone o cattive relazioni con
l’ambiente e quindi buoni o cattivi equilibri eco sistemici14.

Le risorse per invertire la rotta


Gli stessi ingredienti che hanno assicurato al Nord Est il successo sono stati triturati da un
modello di sviluppo che ha avuto nella crescita e nella competitività economica gli unici parametri
di riferimento. Questa vera e propria “monocultura della mente” ha sradicato le radici della sua
stessa crescita. Si è arrivati al limite “oltre il quale sono a rischio quei caratteri originali, quelle
stratificazioni storiche, quei patrimoni d’identità (urbana, paesaggistica, antropologica) che hanno
reso possibile il decollo e accompagnato il travolgente sviluppo di questi anni” (Domenico Luciani).
A fronte di questa “perdita”, il “comune sentire”, che si è finora declinato solamente nella
sfida della competitività economica, conserva delle “eccedenze”, delle risorse di coesione che
possono declinarsi in un diverso modo di convivere e di rappresentarsi, basato sulla giustizia
sociale, sull’apertura al mondo, sulla qualità del vivere, sulla pluralità territoriali e sociali, su una
nuova alleanza con l’ambiente e il territorio. Andrè Gorz sintetizza mirabilmente: “l’economia
visibile, detta formale, è solo una parte relativamente ridotta, dell’economia totale. Il suo dominio
su quest’ultima ha reso invisibile l’esistenza di un’economia primaria fatta di attività, di scambi e di
relazioni non mercantili mediante i quali sono prodotti il senso, la capacità di amare, di cooperare,
di sentire, di legarsi agli altri, di vivere in pace con il proprio corpo e con la natura” 15.
In Veneto vi sono risorse straordinarie per invertire la rotta: occorre cominciare mettendo a
valore l’intellettualità giovanile diffusa che si è formata nei campi della qualità ambientale e
territoriale, dell’interculturalità, dei beni storici e monumentali, delle produzioni tipiche e di qualità.
Oggi queste risorse sono emarginate da un modello che continua a scommettere in attività
insostenibili e senza futuro né qualità come l’edilizia, o meglio il modello edile dominante, o le
escavazioni, ma potrebbero, in presenza di politiche diverse, portare un impulso straordinario allo
sviluppo di qualità del Veneto. Il Nord Est, secondo Giuseppe De Rita, “è un grande contenitore

11
Iosif Brodskij, Dall’esilio, Milano, 1988
12
Francesco Erbani, L’Italia maltrattata, Roma, 2003
13
Adone Brandalise, Soglie e confini: etiche ed estetiche del paesaggio veneto, in AA.VV., Heimat, Roma, 2000
14
Alberto Magnaghi, Progetto locale, Torino, 2000
15
Andrè Gorz, L’immateriale, Torino, 2003

11
carico di energie per il quale devono essere create le condizioni per farle liberare” 16, la voglia di
intraprendere, che ha contraddistinto l’uscita dalla miseria e il boom economico, si declina, in modi
ovviamente diversi, nell’emergere dell’ economia sociale che ha nel Veneto una punta di
eccellenza17. Permane, malgrado le evidenti lacerazioni, un forte capitale sociale, un reticolo
associazionistico che fa sì che la società veneta mantenga una certa coesione: occorre investire
prioritariamente in questa risorsa privilegiando politiche sociali, ambientali ed economiche che la
tutelino e rigenerino.

Una via d’uscita?


Occorre ricostruire quel tessuto policentrico che la nostra regione custodiva rendendo ogni
luogo fonte di differenze e relazioni: da Venezia alla terraferma, dalla città alla campagna, dalla
pianura alla montagna, dal Polesine al Veneto centrale, dalle acque alle terre. Per questo non
bisogna esitare a proporre forti discontinuità con il modello oggi in crisi: “non è sufficiente una
semplice manutenzione degli elementi fondativi dello sviluppo ma è necessario realizzare una
progettazione diversa” (Daniele Marini)18. E’ ineludibile ripensare la collocazione e la missione del
Veneto nel mondo globale: non più locomotiva competitiva che tutto macina e travolge nella sua
corsa, ma un progetto aggregante ed inclusivo che immagini, e costruisca, il Veneto come terra
delle relazioni, poichè “il Nord Est è in misura crescente una società e un economia collocata in un
crocevia di flussi”19.
Vogliamo dare un progetto ad una terra che dialoghi e “lavori” con il Mediterraneo, con la
regione balcanica e verso i paesi che si affacciano tumultuosamente al mercato unico, attivando
relazioni significative e complesse che non possono ridursi al flusso inesausto dell’economia
globale - indifferente ai luoghi e alle differenze - ma che riguardino le idee, le società, il complesso
della vita degli uomini e delle donne. Costruire relazioni in un mondo occupato ad ergere e
proteggere frontiere ci sembra una sfida adatta ai tempi, di cui vi è un immenso bisogno: è una
necessità ineludibile se si raccoglie la sfida del governo di quella complessità che caratterizza la
nostra società. Pensiamo che questa sia la strada migliore per “agire” nel e sul territorio e non subire
le tendenze che comunque sono in atto e che nessuna grande fortezza (neppure la “Fortezza
Europa”), e nessuna “piccola patria” barricata con muri e dazi e autoreferenziale, potrà contrastare.
Terra di relazioni perché essa stessa terra di differenze, da sempre in grado, come ci racconta la sua
storia, di farne ricchezza. Se saprà rappresentare questo progetto, sarà possibile consentire alle
diverse organizzazioni - enti locali, rappresentanze di interessi diffusi, reti di attori sociali - di
connotarsi e caratterizzarsi in un quadro integrato e di riconoscersi parti di un interesse generale 20.
Questa idea andrà declinata in politiche sociali, culturali ed economiche che si concretizzeranno in
linee programmatiche. Significherà investire in politiche culturali, in innovazione, in politiche
sociali inclusive, in politiche della formazione, nel restauro partecipato dei luoghi, nelle produzioni
che aumentano le qualità dei territori, nell’economia immateriale e innovativa.

La trappola dell’identità
In risposta alla crisi fin qui delineata, una parte consistente della destra nel Veneto, e
ufficialmente il governo regionale, ha perseguito una politica identitaria 21 fondata sulla proposizione
di una presunta ancestrale identità veneta. Questa operazione si sintonizza con le crescenti

16
citato in Giorgio Brunetti, Interdipendenza sociale e sviluppo economico: una riflessione sulla realtà veneta, in
Economia e società regionale, 2/2003
17
vedi Gianni Moriani, Veneto 2000, economia & solidarietà, Padova, 2000
18
Daniele Marini, Nord Est 2004, Venezia, 2004
19
Daniele Marini,, Nord Est 2004, Venezia, 2004
20
Francesca Gelli, Città – Arcipelago, in Foedus 1/2000
21
per una panoramica, e una critica serrata, sulla politica identitaria della destra veneta vedi Identici a chi? Quaderno
n°4, 2001 dell’Osservatorio Veneto a cura di Piero Brunello e Luca Pes

12
insicurezze provocate dal tramonto dei modelli tradizionali di riferimento 22, ma in realtà svela
platealmente la sua inconsistenza, sia sul piano storico e filologico sia sulla possibilità di attrarre e
aggregare significativi consensi in una regione ovviamente e irrimediabilmente meticcia 23. Questo
progetto va di pari passo con la visione di un monolitico centralismo regionale - una sorta di
nazionalismo etno-regionalista (qualcuno ha parlato di etno - capitalismo…) - condito dalla retorica
dei supposti valori immutabili dei veneti: spirito d’intrapresa, religiosità, obbedienza. Questa
semplicista quanto devastante risposta alla crisi di legittimità statuale va assolutamente messa a
nudo, criticata e superata per le sue valenze escludenti, razziste e mistificatorie.
A questa operazione ideologica noi opponiamo una visione plurale e aperta che - guardando
anche alla storia con sguardo interrogante e non alla ricerca di miti rassicuranti 24 - pensiamo possa
aiutarci a vivere con meno dolore e incomprensioni gli intrecci e i mutamenti di oggi. L’identità,
infatti, non è un museo ingessato, “le mie radici sono di fronte ai miei passi”, dice un poeta siriano,
l’identità è soprattutto progetto di futuro, è capacità e fiducia di potersi proiettare verso il futuro.
Non solo l’identità non è esclusione, separatezza, contrapposizione. La costruzione di identità delle
persone non è un processo individuale che possa crescere nell’isolamento, nel chiuso di una stanza
o davanti allo specchio, al contrario è il risultato della partecipazione ad un sistema di relazioni
sociali, è facilitato dal sentirsi parte attiva di una comunità o dall’impegno per la cura dei propri
luoghi.
Le plurali identità che attraversano il Veneto rappresentano certamente una formidabile
risorsa sociale e culturale se viste, non in un ottica etnica o astorica, ma nel loro divenire ed
intrecciarsi all’interno del contesto culturale, ambientale e sociale della regione. Identità aperte,
capaci di costruire luoghi comuni di incontro e di confronto, a partire dal "bene comune" costituito
dal patrimonio locale, ambientale, storico. L’identità è un percorso molteplice, allo stesso tempo
individuale e collettivo, fatto delle diverse differenze che si succedono nella vita di ciascuno e che
attraversano la storia del luogo che si abita. Le caratteristiche che possono fare del Veneto un attore
collettivo non sono solo economiche né mono-identitarie, ma frutto di una condivisa
rappresentazione come comunità di destino, contenitore non indifferente di pluralità, in grado di
proporre un proprio progetto strategico e culturale legato alle molteplici appartenenze e radici.

Riprendere in mano le trasformazioni: il ruolo della politica


In Veneto la politica ha tradizionalmente svolto un ruolo ancillare, non ha mai voluto
interferire con il mercato e la famiglia visti come soggetti principi della regolazione dell’economia e
della società25. Si è limitata a ritagliarsi un ruolo di intermediazione tra il potere centrale e la società
veneta. Un esempio, che riguarda il tema del governo del territorio, lo riporta un documento
ufficiale della Regione Veneto che recita: “la risposta in termini legislativi è arrivata solitamente in
ritardo rispetto ai danni provocati ed anziché essere orientata a stimolare processi di pianificazione
e di controllo, si è quasi sempre tradotta in leggi preoccupate di legittimare gli insediamenti
produttivi sparsi, ritrovando per essi una definizione urbanistica e, talvolta, prevedendone anche
l’ampliamento”26.
In questo contesto si è formato un ceto politico che non ha fatto che perpetuare questo ruolo,
abdicando a qualsiasi progettualità che interferisse con i rapporti di potere dati. La carenza di figure
rappresentative nella politica veneta è un problema strutturale e culturale, e non può essere ridotto,
come spesso si fa, ad un problema di personalità. La riduzione della politica a mera rappresentanza
22
Marco d’Eramo, Lo sciamano in elicoterro, Milano, 1999
23
sulla composizione della popolazione veneta e la consistenza della componente immigrata si veda Maria Castiglioni,
Gianpiero Della Zanna, Una popolazione in movimento: il Nord Est e la nuova europa, in Daniele Marini,, Nord Est
2004, Venezia, 2004
24
un luminoso esempio è l’opera di Aldo Pettenella, Storie Euganee che aiuta a fare giustizia a molti miti quali la
religiosità e la pace sociale e che indaga la microstoria dei rapporti tra ambiente, cultura e istituzioni.
25
Anna Marson, Barba Zuchon Town, Milano, 2001
26
Regione Veneto, Documento programmatico territoriale per le consultazioni, Venezia, 2004

13
degli interessi dati, ha fatto sì che i conflitti sociali che hanno attraversato i nostri territori non
potessero divenire pienamente politici e non potessero di conseguenza elaborare modelli alternativi
sul piano sociale ed economico al modello veneto percepito come ineluttabile 27.
In questo quadro c’è da considerare come il processo di globalizzazione dell’economia
promuove uno svuotamento dei beni comuni e tra questi vanno ricomprese le istituzioni: i sistemi
produttivi, finanziari, culturali tendono a misurarsi autonomamente e a non corrispondere ad uno
spazio geografico determinato; ad esempio lo spazio economico che chiamiamo Nord Est non
corrisponde ad una entità né amministrativa né nazionale spaziando dalla Slovenia alla Lombardia.
Le contraddizioni a cui siamo giunti mostrano la necessità di profonde discontinuità che non
possono passare che per un nuovo ruolo della politica: la Regione, se vuole superare la crisi di
legittimità che in qualche modo l’attanaglia, deve proporre un suo rinnovato ruolo programmatorio
e progettuale, proponendosi come livello essenziale di governo tra il territorio locale e le reti
dell’economia globalizzata. A fronte di una economia dei flussi, uno sviluppo predatorio ed
indifferente alla qualità dei territori, la Regione può declinare politiche di radicamento delle
economie, di localizzazione delle risorse, di riequilibrio delle esternalità del mercato. Agendo come
soggetto promotore di sviluppo locale, indicando una prospettiva di sviluppo oltre le macerie della
crescita dissennata e tra le insidie di una globalizzazione neoliberista, facendosi soggetto dello
sviluppo e non più strumento, per altro spuntato, dello status quo.

Per una nuova programmazione


La mancanza di una cultura programmatoria da parte della Regione Veneto è un dato
testimoniato dalla esperienza degli operatori economici e sociali, dagli amministratori e dagli
studiosi: è opinione comune che la Regione non è stata in grado di coordinare politiche di sviluppo
locale, di cogliere richieste e input dal basso, di fare sistema. 28. E’ evidente inoltre che i costi in
termini di disservizi, uso dissennato del territorio, disagio sociale sono altissimi. E’ tempo che
l’ente Regione, all’interno di un quadro di rapporti federalistici con gli enti locali, le organizzazioni
sociali, le rappresentanze di interessi diffusi, promuova una vera programmazione dello sviluppo.
Una programmazione che argini le pretese degli interessi privati laddove collidono con i beni
comuni, e che si ponga come obiettivo, non l’incremento del PIL, ma della qualità del vivere e
dell’abitare il territorio.
Questa “nuova programmazione” si deve dotare di tutti gli anticorpi necessari per non
divenire a sua volta un processo autoreferenziale. In questo senso è importante identificare quali
sono i “soggetti” che normalmente non trovano posto nei tavoli decisionali e che invece dovrebbero
essere coinvolti, per quanto anomali, a pieno titolo. Proviamo dunque ad identificare le “categorie”
regolarmente escluse dai meccanismi della programmazione.
1) Il futuro. Marshall McLuhan sosteneva che “i politici applicano le soluzioni di ieri ai
problemi di oggi”. Ci piacerebbe poterlo smentire. Includere il futuro nell’analisi e nella decisione
vuol dire non prendere solamente in considerazione gli interessi e il contesto di oggi ma rendersi
profeti dei cambiamenti in corso e tentare di governarli 29. Questo non vuol dire semplicemente
accogliere retoricamente il diritto, mai divenuto cogente, “delle generazioni future”, quanto riuscire
a decifrare e affrontare le trasformazioni che verranno e che già da oggi si rendono palesi. Pensiamo
ad esempio ai cambiamenti climatici che, secondo l’opinione concorde della stragrande
maggioranza degli scienziati, provocheranno una intensificazione degli eventi climatici estremi con
conseguente sconvolgimento dell’assetto idrogeologico del territori. Prospettiva che rende urgente
una politica territoriale di riassesto dei bacini fluviali e delle coste. Per non parlare delle
improrogabili, ma nel Veneto sembrano rimanere un miraggio, politiche energetiche di risparmio e
utilizzo delle fonti rinnovabili. Ma per decifrare i cambiamenti occorre possedere una griglia di
27
si veda Marco Almagisti, Gianni Riccamboni, Forme di regolazione e capitale sociale nel Veneto, in Venetica, 2001
28
Gianni Riccamboni, Patrizia Messina, Regolazione politica e sviluppo locale, in Osservatorio Veneto, 3/1999
29
vedi William Irwin Thompson, Gaia e la politica della vita, in Ecologia e autonomia, Milano, 1988

14
lettura e uno scenario su cui far convergere le diverse azioni. L’esplicitazione di uno scenario che
illumini un orizzonte temporale di non breve scadenza rappresenterebbe una novità per le politiche
di questa regione;
2) Gli invisibili. L’attuale assetto della rappresentanza degli interessi, che risente di una
impostazione fordista, esclude di fatto moltissime soggettività e figure sociali quali i lavoratori
atipici, ma anche i destinatari delle politiche di welfare (gli anziani, i bambini, i vecchi/nuovi
poveri), gli immigrati: è evidente come vi siano ormai troppi soggetti che non hanno accesso
all’arena politica, per cui non sono previsti processi di rappresentanza. D’altro canto, non è
pensabile in questi casi una mera, meccanica applicazione dei tradizionali meccanismi di
rappresentanza. Occorre, perciò, pensare a processi partecipativi nuovi che diano “voce” a chi oggi
non può esprimersi.
3) I lontani. I processi sociali economici e politici che trovano origine all’interno del
territorio regionale hanno impatto anche al di fuori della regione. Evidente è il caso delle
delocalizzazioni produttive, delle multinazionali, delle reti economiche e finanziarie che dal Nord
Est ricadono nel resto nel mondo. I processi di globalizzazione economica non avvengono nel
vuoto, ma sempre all’interno di un quadro istituzionale, ossia vengono regolati da un insieme, più o
meno coerente, di norme, regimi monetari, organizzazioni, politiche, comportamenti e pratiche
sociali. La scommessa regionale dev’essere consapevole: occorre arginare gli effetti negativi -
degrado ambientale, sfruttamento del lavoro, rapina delle risorse - amplificare quelli positivi e
adottare comportamenti e pratiche adeguate al fine di piegare il mutamento a fini che si ritengono
desiderabili. Vogliamo che la Regione si faccia carico, per quanto la riguarda, dei processi globali:
per questo occorre che la capacità di governo regionale superi, così come fa l’impresa globale, le
sue stesse basi territoriali per concorrere al governo delle reti economiche e finanziarie che si
estendono bene aldilà del territorio di pertinenza.

Nuovi criteri oltre la crescita


Oltre che nuovi “soggetti” la programmazione regionale dovrà incorporare nuovi criteri. “Il
re (il PIL) è nudo”, sostiene da tempo un economista come Giacome Beccattini: ”il progresso vero
non sta, per me, nell’incremento medio (una media trilussiana) di un punto percentuale di PIL, ma
nella bonifica dei luoghi inquinati, nel salvataggio di Venezia dalle maree, nella costruzione nei
cittadini della fiducia nell’azione pubblica, nella possibilità di passeggiare nelle città senza
avvelenarsi con lo smog o il timore di scippi, via continuando. Il progresso di un paese io lo vedo,
insomma nel miglioramento dei luoghi e nella progressiva trasformazione di non luoghi in
luoghi”30.
Il PIL - come tutti gli indicatori economici – presenta, come è noto, numerosi limiti: non
include il valore del lavoro svolto all’interno delle mura domestiche (la cura ed assistenza ai minori,
agli anziani, ecc.), che pure influenza tanto significativamente le condizioni di vita della
popolazione; esclude e sottostima tutte le attività informali; è insensibile al sistema di valori
collettivi e valuta in modo eguale beni e servizi finalizzati al miglioramento della qualità della vita
(asili nido, ecc.) e beni che hanno una ricaduta negativa su di essa (produzione nocive ecc.); non
conteggia le risorse accessibili a tutti ma con un alto costo sociale, come il patrimonio naturale; è
indifferente al problema della distribuzione delle risorse, per cui la situazione in cui un tale ha due
polli e l’altro nessuno non si distingue da quella in cui entrambi hanno un pollo ciascuno. Inoltre,
come sottolinea ancora Beccattini “si oscura il fatto che se un incremento di produzione delle merci
di una collettività ne sconquassa l’ordine sociale, distrugge il valore di certi saperi produttivi, o di
consuetudini che danno sapore alla vita, non c’è alcuna garanzia che il di più di malessere medio
che ne discende per alcuni dei suoi membri non ecceda il corrispondente di più di benessere medio
dei medesimi, o di altri suoi membri”31. Se lo sviluppo è un concetto multidimensionale, esso non
30
Giacomo Becattini, Luoghi ,traslocali e benessere sociale, in Sviluppo locale, 21/2002
31
Giacomo Beccattini, Ribaltare l’ideologia del mercato, in Il Ponte, 7-8/2003

15
può esaurirsi nella misurazione delle sole grandezze economiche; occorre quindi uno sforzo per la
creazione e diffusione di indicatori alternativi di qualità della vita come il QUARS già preso in
esame.

Ridare senso ai luoghi


La crescita regionale con il suo carattere uniformante ha danneggiato le vocazioni singolari
dei luoghi. Ma le forze politiche ed economiche più retrive scommettono ancora in progetti
devastanti come, ad esempio, il Palalvo, il piano di sviluppo che interessa la laguna e le valli di
Caorle e Bibione32 o come la realizzazione di infrastrutture senza tenere adeguatamente conto degli
ambiti naturali o agricoli distrutti (come, ad esempio, nel caso dei Palù in provincia di Treviso 33),
nonostante venga messo in luce dalle analisi economiche come la qualità ambientale e il carattere
specifico dei luoghi giochino un ruolo fondamentale nell’accrescimento dei vantaggi competitivi dei
diversi sistemi produttivi territoriali locali 34. La qualità territoriale è stata prodotta nel tempo dalle
relazioni tra le comunità insediate e l’ambiente: occorre riprendere in mano queste relazioni a partire
dall’auto-riconoscimento di luoghi dotati di identità territoriali.
Un obiettivo di governo del Veneto sarà perciò quello della definizione e promozione degli
“statuti dei luoghi”, a partire dal luogo più complesso e rinomato, cioè Venezia, e di rinnovate
relazioni tra essi. Occorre mettere a punto una strategia che incorpori le diverse politiche settoriali e
che si ponga l’obiettivo di valorizzare le mille differenze che ancora caratterizzano il territorio
veneto. La ri-costruzione di questi luoghi non è operazione da condurre a tavolino anche perché non
si parte da zero: le centinaia di conflitti “ambientali” che attraversano il Veneto sono la spia non solo
di un malessere diffuso ma anche di una capacità propositiva e di una volontà matura di
codeterminare le scelte rispetto al luogo in cui si abita 35. Per perseguire questo obiettivo strategico
occorre mettere in campo una geometria variabile di strumenti: nelle zone ad alta vocazione
naturalistica - la Montagna o il Polesine, la Laguna o i Colli Euganei - pensiamo ad una rete di
Parchi in grado di promuovere efficacemente lo sviluppo locale connaturato alla forte connotazione
naturalistica dei luoghi. Il parco rappresenta una straordinaria opportunità di sperimentare un nuovo
rapporto tra società e natura, tra cultura e cicli naturali, tra storia tradizioni e modernità, uno
esperimento avanzato di “riconciliazione tra attività umane e salvaguardia ambientale, tra
innovazione tecnologica, e recupero delle tradizioni locali” che ha portato “i parchi italiani verso una
pratica di promozione sociale, culturale ed economica delle popolazioni che vivono nei loro territori,
verso strategie di sviluppo locale compatibile”36;
Nella zona centrale veneta occorre ridare identità allo spazio rurale e allo spazio urbano
oggi entrambi irriconoscibili affondati come sono nella grande nebulosa veneta. Bisogna avviare
processi di riqualificazione dell’esistente, occorre promuovere una rinnovata identità ai centri
urbani attraverso una determinazione dei confini, il disegno di centri, di piazze, di luoghi pubblici di
riconoscimento e aggregazione, la pianificazione di una mobilità sostenibile che non gli riduca a
nodi di passaggio della mobilità lunga.
Contestualmente occorre ripensare l’agricoltura che da area di risulta della cattiva
urbanizzazione possa riqualificarsi come elemento di presidio del territorio e delle reti ecologiche,
attraverso il restauro di “paesaggi agrari che intrecciano in un disegno unitario produzione
agroforestale di qualità e salvaguardia idrogeologica, restauro delle reti ecologiche, la
riqualificazione dei sistemi fluviali e del ciclo delle acque anche attraverso nuovi strumenti quali i
32
su questo progetto vedi www.wwf.it/veneto
33
sul ruolo dei Palù nel paesaggio venento e nella memoria contadina vedi Nadia Breda, Terà freda, vergine, no se pol
lavorarla in Il gallo silvestre 12/2002
34
Carlo Donolo, Il distretto sostenibile, Milano, 2003
35
una ricerca sui conflitti ambientali nel Veneto è s tata pubblicata da Osservatorio Veneto, quaderno n°3/2000. Il sito
dei Verdi del Veneto così come quello del WWF www.wwf.it/veneto sono buoni strumenti per indagare i conflitti
ambientali della regione.
36
Tonino Perna, Aspromonte, Torino, 2002

16
“contratti di fiume”, la riproduzione del paesaggio storico; in questa visione lo spazio rurale è
nuovamente parte integrante dello spazio urbano e ne definisce la figura territoriale” dando vita, in
definitiva, ad un “sistema policentrico e reticolare, fondato sulla valorizzazione dei giacimenti
patrimoniali locali in forme durevoli e autosostenibili, dotati di alta qualità ambientale e di forti
istituti di autogoverno”37.
Ed è anche nel carattere “anfibio” del Veneto, nel suo intrecciarsi di acque e di terre, che si
deve guardare per progettare un diverso sviluppo: le acque i fiumi, le risorgive così come la laguna,
identificano un territorio, gli conferiscono personalità geografica; 38 grazie anche alla miriade di lotte
e di progetti39 che propugnano la necessità che le acque ritrovino un loro posto in un Nord est
ripensato.
E da ripensare, e soprattutto da selezionare, la domanda persistente di nuove strade:
domanda che origina da un modello insediativo folle. Una regione delle relazioni e degli scambi
dovrebbe puntare all’intermodalità, sulla razionalizzazione dei flussi e della distribuzione,
sull’integrazione delle filiere, e, a monte, alla razionalizzazione degli insediamenti: un di più di
modernizzazione e di capacità di governo per la preservazione dei beni comuni.

Liberare e federare
E’ in un tale contesto che la sfida del federalismo può rivelare tutte le sue potenzialità.
All’interno di un progetto che punta alla valorizzazione della qualità e alla promozione di uno
sviluppo locale e singolare dei diversi territori si pone il problema dell’autogoverno di questi
processi. Cioè della possibilità da parte degli abitanti di prendere in mano le trasformazioni dei loro
territori assumendo le responsabilità del loro sviluppo. Tutto questo quando sempre più complesso
appare il governo pubblico delle risorse ambientali e sociali sia per l’ampiezza dei fenomeni che
sfuggono alla dimensione amministrativa sia per la moltiplicazione dei soggetti. Pensiamo solo al
problema dei servizi pubblici locali, amministrati da società che si configurano sempre più come
multinazionali, ma il cui governo ha importanti impatti sulla qualità ambientale e sociale dei territori,
o il governo dell’area metropolitana veneta che non ha trovato, dopo anni di dibattito, nessuna
risposta concreta. L’estrema complessità della società veneta, la pluralità delle appartenenze e degli
interessi rendono sempre meno efficace la rappresentanza da parte dei partiti. Per questo prendono
sempre più corpo nella società organismi intermedi, rappresentanti d’interessi diffusi che
rappresentano una risorsa di coesione insostituibile per la società.
Nella nostra idea di federalismo occorre attribuire alle autonomie locali - i municipi quali
soggetti istituzionali in grado di promuovere processi reali di autogoverno - poteri e risorse: non solo
allo scopo di aumentare l’efficienza del sistema, ma anche per alimentare un processo di
coinvolgimento, responsabilizzazione e valorizzazione del bene comune. E’ urgente trovare
strumenti di collaborazione istituzionale che permettano il coordinamento e le sinergie tra i diversi
comuni, senza appesantimenti di ulteriori livelli istituzionali. Inoltre prioritario sarà attivare un
processo istituzionale, in grado di cogliere e coinvolgere, che colga le differenze di appartenenze,
non solo territoriali, ma anche sociali, culturali, del lavoro. Tutto questo all’interno di un quadro in
cui i processi di globalizzazione mettono in discussione i tradizionali assetti di governo del territorio
e della società con una perdita progressiva di capacità da parte dello Stato di regolazione politica
della società e un estensione in vece del mercato di regolare i meccanismi sociali. Parallelamente il
processo di unificazione europea ha rivelato, con l’approvazione del cosiddetto Trattato

37
Alberto Magnaghi e Anna Marson,Verso nuovi modelli di città in M.Carbognin, E.Turri, G.M.Varanini (a cura di),
Una rete di città. Verona e la rete metropolitana Adige-Garda. Verona 2004
38
Francesco Vallerani, Acque a nordest, Verona, 2004
39
Ci riferiamo alla redazione da parte del Centro Civiltà dell’acqua di Mogliano della Carta del Piave, così come la
proposta di Parco per quanto riguarda il corso del medio Brenta o del Bacchiglione. Ed anche la miriade di conflitti
locali promossi con l’obiettivo di affermare l’acqua come bene pubblico

17
Costituzionale, la sua debolezza e la sua incapacità di coinvolgere attraverso un processo politico i
soggetti sociali che abitano il continente.
Il processo federativo può rappresentare un rinnovamento della politica necessario perché gli
abitanti riprendano in mano responsabilmente il loro destino comprendendo la necessità della
comunicazione e del rapporto con gli altri e con i processi globali che ci attraversano. Il fallimento
dei lavori per il nuovo statuto regionale, addirittura chiamato correntemente, e pomposamente,
“nuova costituzione”, dimostra l’immaturità della società politica, specialmente se si considera che
questo fallimento è dovuto essenzialmente alle contraddizioni della maggioranza, al suo dividersi tra
opposte necessità identitarie che in tutti i casi hanno arroccato la maggioranza su posizioni retrive
e /o xenofobe e ne hanno infine bloccato la capacità di decisione e di interlocuzione con il
centrosinistra e con le stesse forze vive della società veneta.

Ambiente e territorio
La sfida più impegnativa che attende il governo del Veneto è quella di promuovere
un’inedita, quanto radicale, riconversione ambientale di un territorio caratterizzato da una economia
avanzata. Si tratterà in pratica di porre il rispetto e la rigenerazione delle risorse ambientali e degli
equilibri ecosistemici quale obiettivo unificante delle diverse componenti di governo. La qualità
ambientale deve divenire uno dei criteri in base al quale giudicare, a fronte di indicatori condivisi,
l’appropriatezza delle diverse politiche. Occorre un deciso salto di qualità delle politiche ambientali
che non possono più fare affidamento né solo su soluzioni di tipo “comando e controllo” basate su
proibizione e divieti né su soluzioni tecnologiche - depuratori e biotecnologie - impiegate a valle di
processi dissipatori e devastanti. In assenza di una decisa politica che orienti nella direzione della
sostenibilità la programmazione dello sviluppo non è pensabile attendersi una spontanea de-
materializzazione della produzione e del consumo. Prova ne sia che nella nostra regione, in questi
anni di crisi, l’unico settore che ha continuato a crescere è stata l’edilizia 40 e l’attività estrattiva, più
o meno legale, legata al ciclo del cemento 41. L’obiettivo di migliorare la qualità ambientale implica
un profondo cambiamento della struttura economico sociale: non sono sufficienti, anche se
necessari, innovazioni di processi e di prodotti - sviluppo di tecnologie, riduzione di emissioni, di
rifiuti e di flussi i materiali nei processi produttivi – ma occorre promuovere modelli di consumo e
di produzione compatibili con l’ambiente e una sostanziale modifica degli stili di vita.
Tutto ciò rende imprescindibile un processo di coinvolgimento e di partecipazione dei
diversi soggetti alla delineazione e alla condivisione di uno scenario futuro da cui discendano le
diverse misure a medio e lungo termine. L’obiettivo è quello di integrare gli aspetti ambientali nei
vari settori come la politica dei trasporti e dell’energia, le politiche agricole, dell’innovazione e
dell’educazione. Occorre mettere in atto un modello di gestione delle scelte democratico, basato su
un sistema informativo trasparente, su una organizzazione orizzontale dei processi, per permettere il
coinvolgimento di una molteplicità di soggetti, all’affermarsi del principio della condivisione.
A fondamento di questo processo dovranno essere posti i principi di precauzione, del chi
inquina paga, del processo decisionale democratico e aperto. Fondamentali saranno quelli strumenti
fiscali in grado di spostare, per quanto di competenza regionale, sulle risorse, in particolare
energetiche, i carichi fiscali. Facendo leva su una diversificazione di strumenti, fiscali, urbanistici,
economici, è inoltre tempo di metter in atto una nuova fase delle politiche ambientali fondate sulla
ricostruzione della qualità ecologica dei luoghi, del ripristino – non limitandosi quindi alla tutela e
alla prevenzione - del benessere degli ambienti naturali e degli ambienti costruiti. Creazioni di reti
ecologiche, rinaturalizzazione dei corsi d’acqua, manutenzione del paesaggio agrario, restauro dei
centri urbani: queste sono le “grandi opere” di cui ha bisogno il nostro territorio.

Welfare come politica di sviluppo


40
vedi Veneto Lavoro, Rapporto sul lavoro nel Veneto, Venezia, 2004
41
vedi Legambiente, Rapporto Ecomafie 2003, Napoli, 2003

18
A partire dalla nostra idea di “Veneto, terra di relazioni”, il welfare acquista un nuovo
ruolo: da politica riparativa dei danni sociali provocati da una crescita data ed indiscutibile, diventa
strumento fondamentale di qualificazione dello sviluppo. Per raggiungere questo obiettivo le
politiche sociali dovranno a pieno titolo inserirsi nei processi programmatori. La nostra proposta di
welfare vuole, in prima istanza, rappresentare un segnale in controtendenza rispetto al processo in
atto che sottrae all’arena pubblica la discussione riguardo ai beni e ai problemi sociali 42. La
scolarizzazione, la salute, tendono a divenire beni privati da acquisire secondo modalità simili a
quelle del mercato, prescindendo dal loro carattere pubblico e dal fatto che sono questioni che
investono le soggettività presenti in una società che solo in quanto garantite rispetto ai beni primari
possono esplicare la loro potenzialità di risorse umane da investire a favore della collettività..
E’ per questo che in uno scenario in cui alle tradizionali disuguaglianze si aggiungono
fratture sociali nuove, cambiano le caratteristiche dominanti del rischio, cambiano i caratteri e i
percorsi che portano all’esclusione, il welfare non può che partire dai nuovi fenomeni di marginalità
e di esclusione dando vita a politiche d’inserimento sociale e potenziando luoghi pubblici di
partecipazione che ne definiscono i caratteri. E’ necessario allora che la regia del welfare passi a
pieno titolo ai Comuni quali soggetti in grado di promuovere politiche integrate di promozione
sociale. Riteniamo che non basti una ‘semplice’ politica redistributiva, ma che ad essa vadano
accompagnate misure di ricostruzione delle occasioni di benessere sociale (istruzione, abitazione,
ambiti relazionali, rapporti gerarchici, organizzazione del lavoro). Accettare pienamente questa
ottica significa appropriarsi delle parole "politica della salute" non come uno slogan affascinante e
ad effetto, ma come principio-guida per qualsiasi scelta, a partire da quella, imprescindibile e
basilare, del Servizio sanitario inteso come sistema che ha nella dimensione territoriale le migliori
chance di efficacia. Le politiche per la salute devono avere nei rinnovati e potenziati distretti il loro
luogo principe di attuazione, perché venga davvero attuata una integrazione, non al ribasso, tra
politiche sociali e politiche sanitarie e, più in generale, politiche dello sviluppo. Ciò che produce
integrazione sociale all’interno di una comunità non sono solo quelle attività che si rivolgono
esplicitamente e formalmente, ad un oggetto socio-assistenziale, socio-educativo, socio-sanitario,
ma anche tutti quegli interventi che hanno come denominatore comune l’interazione stretta con la
vita quotidiana degli individui, si pensi ad esempio alla riqualificazione delle periferie o
l’attivazione di luoghi di comunicazione e di aggregazione. Per questo una strategia per il welfare
non può riguardare solo le categorie classiche dei servizi sociali, ma deve tendere a realizzare per
tutti i cittadini, in una visione per questo aspetto universalistica, una vita dignitosa per tutti, e non si
rivolge solo alle fasce più deboli.
L’idea di un nuovo welfare, che molti dicono di voler perseguire, è tale solo se incorpora
l’idea di sviluppo e cioè quella di un sistema socialmente integrato fra produzione di beni e
produzione di servizi. Se la cittadinanza è definita, riprendendo le riflessioni di Ota de Leonardis 43,
come processo sociale, e non solo come uno status di appartenenza, se è un concetto riferito
all’agire, non all’essere o all’avere, come noi sosteniamo, l’obiettivo delle politiche di welfare sarà
la promozione di cittadinanza, vale a dire un processo che tende ad espandersi, a non escludere e a
dare spazio ad una costruzione sociale e politica perennemente in corso. I servizi quindi non
tratteranno più bisogni, carenze, deficit, inadeguatezze ma saranno beni al servizio delle
potenzialità, delle capacità, dei desideri, degli attori che in tal modo potranno esplicitare la loro
capacità d’agire.

Economia e sviluppo
La politica economica può rappresentare uno strumento fondamentale al fine di
contraddistinguere il Veneto come terra di relazioni significative e di promozione di differenze. Il
governo regionale dovrà dotarsi di una strategia di sviluppo economico che intrecci gli obiettivi di
42
Ota de Leonardis, In un altro welfare, Milano, 1998
43
Ota de Leonardis, In un altro welfare, Milano, 1998

19
miglioramento della qualità sociale e ambientale della comunità usando tutti gli strumenti in un suo
possesso per promuovere davvero una governance significativa. Non ci si può in alcun modo
limitare ad “accompagnare le dinamiche autonome dell’economia” ma si deve fare in modo che le
comunità locali e le azioni volontarie si integrino con gli strumenti di programmazione e di
pianificazione. Questo indirizzo della politica deve dunque costituire la cornice per il mercato locale
emancipandosi dai soli criteri del marketing e non rifuggendo dal suo dovere di orientamento, di
scelta, di decisione. Ciò richiede il superamento della ideologia sottesa alle politiche liberiste dei
governi che si fondano sull’illusione circa le capacità del mercato di autoregolarsi razionalmente
rispetto all’impatto ambientale, all’uso delle risorse, all’equa distribuzione della ricchezza.
L'alternativa parte da qui: da un progetto politico che valorizzi le risorse e le differenze
locali promuovendo processi di autonomia cosciente e responsabile, di regolazione della
eterodirezione del mercato44. Questa strategia deve coinvolgere i soggetti produttori e i lavoratori in
una visione della sviluppo locale per cui le risorse territoriali vengano implementate attraverso
investimenti in produzioni utili, condivise socialmente e ambientalmente sostenibili. Occorre uno
spostamento di focus: non si parlerà più di finalizzare la programmazione ad una domanda di beni e
servizi basata sui tradizionali e non più sostenibili stili di produzione e consumo, ma di promuovere
politiche per l’innovazione di processo e di prodotto – che si integrino a livello di distretto con
finalità ambientali (EMAS) - che permettano al Veneto di non dover competere, in una spirale al
ribasso, sulla base della compressione del costi ambientali e del lavoro. Si tratterà anche di
valorizzare quelle filiere economiche - agricoltura di qualità, turismo sostenibile, riassetto
idrogeologico, formazione, economia della conoscenza, servizi - che, pur producendo minor quote
di PIL, non solo hanno un basso impatto sull’ecosistema ma concorrono all’aumento della qualità
territoriale e al “restauro” del capitale sociale. Richiamando due autori, che l’economia del Nordest
hanno molto indagato, occorre “accelerare l’evoluzione verso un’economia dei servizi, rivolti sia
alle imprese, sia alle persone, rafforzando un’economia della conoscenza ma anche della qualità
sociale (salute, ambiente, turismo) che oggi costituiscono fattori produttivi primari per le aree a
sviluppo industriale maturo”45.
Queste filiere economiche possono peraltro comportare una domanda di lavoro più
qualificata e ad alto contenuto cognitivo. Per questo si tratterà di utilizzare diversi strumenti,
dall’innovazione tecnologica alle politiche fiscali adottando un approccio integrato, frutto
dell'interazione fra le politiche di diversi settori e fondato su una visione più olistica nella quale le
considerazioni ambientali influenzino le politiche sociali ed economiche - e viceversa. Proponiamo
di adottare i Sistemi Economici Locali (SEL) come unità d’analisi e d’intervento per politiche
economiche territoriali, strumento che può permettere di tener conto della completa struttura
produttiva e delle complesse interazioni sociali che caratterizzano un territorio 46, superando l’ottica,
oggi troppo semplificata, del distretto.

Promuovere e sostenere comunicazione e cultura


Pensare ad uno sviluppo basato sulle relazioni vuol dire mettere al centro i processi di
conoscenza. Grande attenzione viene oggi posta sui meccanismi che presiedono all’innovazione dei
processi produttivi sottolineando come nell’economia moderna il ruolo della conoscenza sia
determinante: noi pensiamo che ancora più attenzione debba essere dedicata alla promozione di
processi di conoscenza e comunicazione all’interno di tutta lo società. La conoscenza è un valore
sociale da difendere ed un bene pubblico da incrementare. In questa prospettiva riserviamo grande
attenzione all’informazione che è un anello persistente nel percorso formativo di ogni individuo e
44
si veda i documenti della rete per un nuovo municipio in www.carta.org
45
Bruno Anastasia, Giancarlo Corò, Un’economia in fase di stallo, in Daniele Marini (a cura di) Nord Est 2004,
Venezia, 2004
46
Per una trattazione scientifica del concetto di sistema territoriale si veda Giuseppe Dematteis, Progetto implicito,
Milano, 1995. La Regione Toscana, grazie all’elaborazione dell’Irpet, già utilizza i sistemi territoriali come unità
complesse d’intervento di politica economica

20
la premessa indispensabile di ogni percorso di promozione culturale, di miglioramento ambientale,
di inclusione sociale. Soprattutto oggi quando si moltiplicano anche i rischi di un controllo
crescente dei mezzi di informazione da parte di interessi e poteri “forti” e di una conseguente
omologazione culturale al “pensiero unico”.
Le capacità cognitive, di discussione, scambio devono riguardare la società nel suo
complesso soprattutto in rapporto ai beni pubblici. Occorre promuovere a diversi livelli - università,
scuole, centri di formazione, università del tempo libero, incontri aperti - la riflessione sul modello
di sviluppo, le esternalità, le modalità d’innovazione e le strategie del cambiamento, le modalità di
convivenza e l’interazioni con il mondo. Lo sviluppo locale impone maggior attenzione alle
vocazioni del territorio, alla valorizzazione delle sue risorse, alle produzioni di qualità, e affida un
ruolo nuovo e interessante alla comunità locale, rivitalizza l’impegno pubblico, accresce il potere
decisionale della comunità: per tutto ciò lo sviluppo locale ha bisogno di cultura, di partecipazione,
di coesione sociale, perché è il prodotto della qualità della cittadinanza di un territorio.
La conoscenza è uno straordinario fattore di comprensione del proprio potere, della
potenzialità di sviluppare percorsi endogeni, autosostenibili e innovativi: sia conoscenza locale,
informale sia discorso culturale e scientifico formalizzato. Nella nostra regione questi livelli hanno
sempre convissuto: la grande architettura palladiana che risente di canoni estetici internazionali
accanto alla pieve dove si esprimeva la devozione popolare, “letterati disposti al vernacolo ma
capaci di un eccellente latino e di un rapporto intellettualisticamente attrezzato con l’italiano
letterario” testimoniano questo intreccio47.
E’ prioritario ridare dignità, nelle quadro delle competenze importanti della Regione, alla scuola e
alle università pubbliche come agenti fondamentali di formazione e di ricerca e quindi di
qualificazione del capitale sociale. Occorre discutete insieme il compito sociale che pensiamo spetti
al sistema formativo. Il compito del sistema formativo, come sostiene Marcello Cini, si fa
ambizioso perché dovrebbe “abituare i giovani ad una corretta articolazione del pensiero razionale”,
dovrebbe “aiutare tutti a non rimanere esecutori e consumatori passivi e a diventare capaci di
prendere delle decisioni […] Si tratta di riconoscere che l’incredibile aumento di complessità della
rete di relazioni che legano ogni individuo agli altri nel tessuto sociale obbliga ciascuno a compiere
quotidianamente delle scelte che possono influire sul futuro proprio e altrui.” Qualcosa di più
complesso e affascinante del produrre dei “semi lavorati” per il mondo della produzione come si
prefigge chi governa oggi il sistema formativo .
E’ importante far sì che nelle città e nei paesi vi siano luoghi stimolanti, aperti al mondo,
alle innovazioni, ad una cultura cosmopolita, aperta alle differenze, con una importante qualità
ambientale e sociale. Creare contesti di incontro e dialogo: fare della società veneta un laboratorio
di comunicazione. Le città e i paesi devono tornare ad essere quelli che sono sempre stati delle
“fabbriche di comunicazione”. Non solo i luoghi dedicati dell’alta cultura, che dovranno essere
adeguatamente supportati ma anche i luoghi quotidiani possono essere incontro tra la cultura
formalizzata e la vita di tutti i giorni ed essere stimoli di curiosità, critica e indagine.
Oggi sono spesso i letterati, gli artisti, non gli economisti, gli analisti più attenti dello
spaesamento che stiamo vivendo: quelli come Zanzotto, Meneghello, Rigoni Stern, Cibotto, Camon,
Bandini, Naldini, che hanno visto morire una cultura, e, in modo forse ancora più radicale, le nuove
generazioni che in questo spaesamento sono nate. E’ a questi intellettuali, veri e propri sismografi
della società, che i giovani si affidano spesso per decifrare i mutamenti quotidianamente
sperimentati. Bisogna pensare a “officine”, che possono e devono divenire anche le scuole stesse, in
ogni angolo del Veneto dove far avvenire scambi, ricerche, interrogazioni. Si deve investire per
sperare in una società consapevole, critica, aperta verso il mondo, e per questo in grado di prendere
in mano le redini del proprio sviluppo. La perdita di identità dei luoghi non è del tutto indipendente
dal grave impoverimento a cui stiamo assistendo del ruolo della parola, dalla capacità di produrre
narrazione, che nasce più dai luoghi che dal tempo. Qui sta anche il profondo valore educativo della
47
Adone Brandalise Soglie e confini: etiche ed estetiche del paesaggio veneto, AA.VV, Heimat, Roma, 2000

21
dimensione locale, che può rivitalizzare il piacere della narrazione, attraverso cui si rinforzano le
identità personali e collettive. Tutto ciò introduce ad un’idea di conoscenza che ha bisogno
dell’approccio sistemico per comprendere i problemi, che opera sia sul piano dell’analisi che della
sintesi, che include il rapporto di causa - effetto in un insieme di altre relazioni possibili (la
retroazione, il ciclo, il caso, ecc), che sviluppa la capacità di “pensare per relazioni”. Significa dare
alle persone l’occasione e gli strumenti per essere coinvolte nelle strategie di sviluppo,
promuovendo le capacità degli abitanti di sviluppare riflessioni e appunto “racconti” intorno alle
sue caratteristiche.

22
politiche
analisi e proposte
sui grandi temi
della vita
della nostra regione

23
oltre le rovine:
il territorio e l’ambiente
Il Veneto: un patrimonio territoriale complesso
Il Veneto possiede un patrimonio territoriale complesso e senza paragoni, fatto di valli
alpine e montagne, altipiani, colline moreniche e vulcaniche, pianure asciutte, pianure bonificate in
epoca romana o precedente, aree di costa, aree umide, lagune e isole, grandi fiumi e aree di
divagazione degli stessi. Si tratta di un territorio complesso e allo stesso tempo fortemente
antropizzato: poche regioni italiane possiedono una tale varietà di territori, esito non tanto o non
solo di fenomeni naturali ma di una fortissima interazione nei secoli tra società insediata e
ambiente.
L'antropizzazione diffusa di questo territorio non è un fenomeno recente: le aree di assoluta
naturalità sono praticamente inesistenti, ma fino a qualche decennio or sono la presenza antropica
diffusa non solo conviveva con elementi di qualità ambientale, ma era stata essa stessa artefice di
molti di questi elementi, così come di un paesaggio ritenuto fra i più belli del mondo. I saperi
accumulati in secoli di interazione antropica con la natura avevano dato luogo a figure territoriali
nelle quali l'insediamento umano e le attività produttive che lo sostenevano assumevano in ciascun
luogo caratteri peculiari e qualificati.
Negli anni più recenti la rapidità del cambiamento, l'ideologia dello sviluppo inteso come
crescita degli insediamenti e industrializzazione delle diverse attività produttive (agricoltura,
manifattura ecc.), e come crescita dei flussi (finanziari, di persone, di merci), ha fatto smarrire la
sapienza con la quale le diverse comunità insediate si erano fino a quel momento rapportate alle
specificità e alle regole di ciascun luogo.
La montagna e le valli alpine hanno perso la loro popolazione, attirata nei centri
pedemontani o di pianura dalla possibilità di un posto di lavoro in fabbrica; ciò ha prodotto la
perdita dei saperi e delle economie locali, l'assenza di manutenzione dei boschi, la scomparsa dei
pascoli. Oggi che la produzione industriale, magari sostenuta dai contributi pubblici come nel caso
del Cadore, è in crisi per la concorrenza dei paesi a minor costo del lavoro e minori attenzioni
all'ambiente, inizia a farsi strada la consapevolezza che gli investimenti collettivi lungimiranti
avrebbero dovuto essere altri, finalizzati a mantenere la popolazione, i saperi e le produzioni
tradizionali sul territorio, creando così i presupposti per uno sviluppo anche turistico a maggior
valore aggiunto locale (cfr. Montagna e Turismo). Oggi che questa prospettiva è più chiara, il
territorio è ormai desertificato.
I fiumi alpini, l'Adige, la Brenta, la Piave, il Tagliamento, e i più tranquilli fiumi di
risorgiva, come il Sile e la Livenza, dopo aver rappresentato per secoli la principale rete di trasporto
merci e persone, di approvvigionamento energetico, di irrigazione per l'insieme dei territori
attraversati e per tutte le genti che lungo il fiume vivevano, sono stati sfruttati come risorse
prioritariamente al servizio dell'industrializzazione di pianura, e come cave per l'urbanizzazione,
senza restituire nulla in cambio. La fascia delle risorgive, risorsa eccezionale che attraversa il
territorio dell'alta pianura veneta da ovest a est, patrimonio d'acqua dolce in grado di dissetarci tutti,
è stata urbanizzata o trasformata in fabbrica (agricola o manifatturiera) senza attenzione alle
ricadute sulla qualità delle acque, peraltro in larga misura privatizzate. Oggi che l'acqua inizia ad
apparire una risorsa scarsa, le nostre acque in parte non ci appartengono più, in parte sono
fortemente inquinate.

24
Le colline, terre di ciliegi e vigne, di olivi e mandorli, si sono salvate (dall'urbanizzazione,
non dalla distruzione della policultura e quindi del paesaggio tradizionale) soltanto laddove la
coltura vitivinicola specializzata è stata concorrenziale, come valore fondiario dei terreni, rispetto
all'edificazione (ad esempio nella zona del Cartizze, o nelle colline del Soave), oppure ha svolto un
ruolo complementare rispetto all'attrattività turistica (riviera del Garda); altrove si sono visti
insediamenti produttivi arrampicarsi fin su in collina, laddove un tempo crescevano i ciliegi, e
magari abbandonarla agli immigrati africani per le condizioni ambientali ormai invivibili provocate
dall'inquinamento industriale (nella zona delle concerie di Arzignano, Chiampo, Montebello, ad
esempio).
La pianura asciutta, o asciugata in tempi ormai molto lontani, sulla quale si espande la
marmellata dell'attuale città diffusa, è stata anch'essa fino a tempi assai recenti un reticolo ordinato
di centri, strade, opifici e campagne (rese) fertili, anche se oggi è oramai quasi irriconoscibile per
l'espansione delle urbanizzazioni e per i tagli inferti dalle infrastrutture.
La fascia costiera, composta di spiagge, dune, aree umide e fasce boscate retrostanti, ha
costituito per secoli un ambiente di enorme valore ambientale e sociale; ambientale, per il proprio
ruolo di fitodepuratore e di habitat naturale; sociale, per l'uso comune, collettivo, delle terre e delle
acque. Le bonifiche dell'ultimo secolo, la trasformazione agroindustriale, l'espansione di bassa
qualità del turistificio litoraneo hanno reso quasi irriconoscibili gli elementi patrimoniali di lungo
periodo; eppure proprio oggi, con il previsto venir meno dei sussidi europei all'agricoltura, con
l'obsolescenza delle macchine idrovore che garantiscono il drenaggio dei terreni, con la domanda di
riqualificazione dei luoghi di offerta turistica, anche questi luoghi possono essere utilmente
ripensati, non sono destinati necessariamente a scomparire del tutto a favore di una conurbazione di
edifici e darsene.
Per cambiare le politiche territoriali e ambientali finora praticate il primo passo è quello di
riconoscere la ricchezza della diversità, il valore unico e specifico di ciascuna componente del
patrimonio; non si può pensare di applicare la medesima politica a questi diversi territori. La
creazione di valore aggiunto territoriale passa oggi anche attraverso la valorizzazione dell'identità
propria a ciascun luogo, e quindi non soggetta (o meno soggetta) alla concorrenza globale.

L’uso del territorio nel modello di sviluppo recente


Le politiche territoriali recenti della Regione Veneto, e in generale le politiche aventi una
ricaduta diretta sulle trasformazioni del territorio, sono andate esattamente nella direzione opposta.
Se lasciamo stare le dichiarazioni di principio, e guardiamo alle pratiche effettivamente esercitate,
non possiamo che constatare come, a fronte del venire meno delle domande in parte oggettive
(anche se non necessariamente condivisibili) che avevano portato alla crescita dell'urbanizzazione
dagli anni '70 agli anni '90 (in particolare la crescita delle attività produttive ed economiche in
generale), l'urbanizzazione del territorio e la previsione di nuove infrastrutture non soltanto è
continuata, ma ha assunto ritmi sempre più accelerati.
Gli imprenditori domandano nuove infrastrutture e nuove aree edificabili, ma hanno in molti
casi ceduto le attività produttive tradizionali e investono ora nell'attività immobiliare. La domanda è
quindi, si potrebbe dire, autoreferenziale.
Gli attori dotati di voce significativa, in merito alle trasformazioni territoriali, sono i Sindaci
che non rispondono ormai quasi a nessuno del proprio operato (e quindi se sono illuminati va tutto
bene, ma se non lo sono?) e gli amministratori e i funzionari regionali che legittimano le scelte
locali (approvando i.piani regolatori e le relative varianti) e le rendono possibili (contribuendo con i
propri finanziamenti alla realizzazione delle infrastrutture), quando addirittura non le sollecitano (la
vicenda di molti Piani d'area regionali è al riguardo esemplificativa di una sorta di gioco al rilancio
di progetti di sviluppo).

25
Tertium non datur dal momento che le Province e i loro Piani Territoriali Provinciali,
previsti dalla legge urbanistica in vigore fino a quest'anno (LR 61/85) rispettivamente come soggetti
e strumenti di riferimento per la valutazione delle trasformazioni ammissibili, sono stati privati di
fatto del potere loro attribuito formalmente (non approvando i rispettivi PTP, e lasciandone
decadere quindi le relative salvaguardie quinquennali, peraltro spesso ignorate dagli stessi
promotori).
Gli aspetti che hanno maggiormente caratterizzato l’uso del territorio nel modello di sviluppo
recente, e che richiedono oggi di essere profondamente ridiscussi, possono essere così sintetizzati:
- l’uso dell’ambiente insediativo come esternalità da sfruttare, anziché come risorsa da
valorizzare e riprodurre
- il territorio governato attraverso la localizzazione di funzioni
- la contrazione degli investimenti produttivi (e conseguentemente della popolazione) sulle
pianure e fondo valli
- la costa e la montagna trattate come macchine da turismo
- la richiesta e proposta di nuove infrastrutture (viste come strumento per promuovere nuove
urbanizzazioni di aree agricole) anziché di investimenti nella gestione della logistica merci e
nel trasporto pubblico.

Riportare il territorio al centro delle politiche pubbliche


Rispetto a una concezione del territorio come supporto per l’attuazione delle diverse politiche
settoriali, attraverso una sua “spartizione” fra diverse funzioni (dalla strade, alle urbanizzazioni, alle
zone di conservazione della natura) sembra oggi indispensabile riportare il territorio, nella sua
complessità e unicità fisica, al centro delle politiche pubbliche. Ciò richiede di considerarlo ex ante
come insieme di luoghi ciascuno dotato della propria identità culturale e materiale, nei quali le
politiche devono sapersi calare in modo adeguato, ed ex post come elemento di verifica di ciò che le
diverse politiche sono state effettivamente in grado di valorizzare o distruggere.
Il territorio è infatti da sempre il luogo in cui tutti i nodi (e le incongruenze fra dire e fare),
vengono al pettine; peccato che tutto ciò divenga di solito (in assenza di un punto di vista
intenzionalmente attento) evidente soltanto ad alcuni anni di distanza da quando le decisioni sono
state prese. La diffusa organizzazione settoriale delle politiche pubbliche fa invece sì che,
normalmente, prima vengano prese le decisioni relative ai settori più forti (in termini di peso
politico, bilancio disponibile ecc.: infrastrutture e lavori pubblici, ad esempio) e poi si cerchi di
arrangiarne al meglio le incongruenze e gli effetti negativi sul territorio quale luogo essenziale per
una molteplicità di funzioni (non soltanto per muoversi, ma anche e in primo luogo per vivere, per
riprodursi). Un chiaro esempio al riguardo è dato sia dalle procedure seguite per decidere
infrastrutture quali il Passante di Mestre, o la nuova Romea, nelle quali gli aspetti politici e
finanziari hanno monopolizzato la discussione, che dalle scelte localizzative delle nuove aree per
insediamenti produttivi nelle quali la proprietà dei terreni o i confini comunali entro i quali ricadono
hanno sempre contato di più di qualsiasi altro fattore.
Ciò che effettivamente produce la qualità dei diversi luoghi è invece come in ciascuno di essi
vengono governate le interrelazioni tra i diversi usi, le diverse funzioni in essere e potenziali: tra
produzione agricola in cerca di mercati remunerativi e insediamenti urbani che domandano
alimenti, paesaggi rurali e campagna percorribile nel tempo libero; tra funzioni centrali alla ricerca
di localizzazioni appropriate e dotazione di servizi pubblici ma anche di qualità sociale, culturale e
ambientale che può attrarle; tra prevenzione del dissesto idrogeologico e promozione dei saperi e
delle filiere produttive locali; tra valorizzazione immobiliare e riproduzione dei paesaggi; tra
salvaguardia ambientale e attrattività turistica.

26
E’ la presa in conto di queste interrelazioni che può farci individuare scelte di sviluppo
effettivamente sostenibili: politiche intersettoriali che pongano al centro l’unicità di ciascun
territorio (quella certa vallata alpina, quella porzione di pianura caratterizzata dalla centuriazione
romana, quei terreni litoranei di bonifica recente, e così via).

L’indissolubile nesso tra modello di sviluppo e qualità del territorio e dell’ambiente


Le politiche territoriali e ambientali non possono gestire efficacemente la mitigazione degli
effetti negativi di un modello di sviluppo che basa la propria razionalità anche economica sul
massimo sfruttamento dei beni comuni: il territorio è stato fino agli anni più recenti considerato, nel
Veneto, un fattore produttivo ampiamente disponibile e a basso costo.
In questo contesto lo spazio d’azione per le politiche territoriali e ambientali è consistito quasi
esclusivamente nel tentativo di razionalizzare gli effetti più perversi (ovvero antieconomici, anche
nel breve periodo) del modello di sviluppo in atto, e di sottrarre porzioni di territorio a questo
modello devastante attraverso la creazione di zone protette (parchi).
Oggi non è più così: il territorio disponibile è sempre meno (il modello dell’urbanizzazione
dispersa e dispersiva fa sì che non si trovi neppure lo spazio per far passare nuove infrastrutture
come la Pedemontana, al punto che per presentarla pubblicamente i promotori siano costretti a
esibire cartografie di alcuni decenni fa, per minimizzare la rappresentazione degli impatti), e costa
(anche dal punto di vista puramente monetario) sempre di più.
L’idea di ripensare i parchi non più come zone protette dallo sviluppo, ma come fulcri per
promuovere un nuovo benessere, mettendo al lavoro le diverse risorse patrimoniali locali (ambiente
fisico, società insediata, culture tradizionali e saperi innovativi) in una prospettiva di valorizzazione
anche economica che ne garantisca la riproduzione nel tempo (cfr. PARCHI), è un seme che
andrebbe sperimentato sull’intero territorio.
Per il futuro, a fronte di prospettive di reddito più incerto, o di un sistema economico
comunque destinato a cambiare radicalmente, il territorio e le sue diverse risorse appaiono
essenziali a garantirci un livello minimo di benessere, e quindi anche di reddito, garantito. Siamo
così certi di poterne fare a meno? Di mattoni è difficile vivere, di campagna si può comunque
sopravvivere. E poi, quale turismo e quale localizzazione di attività ad alto valore aggiunto
pensiamo di riuscire ad attrarre, in luoghi sempre più brutti e omologati?
Il patrimonio territoriale locale e la sua riproduzione giocano un ruolo essenziale, oltre che
nello sviluppo economico, nel garantirci le diverse dimensioni non monetarie del benessere, e nel
ridurre il rischio complessivo al quale siamo esposti.
Almeno una parte dei fattori di rischio ambientale dipendono dalla gestione del territorio
locale, e bene sembrano averlo compreso alcuni paesi europei che per tutelare la salute dei cittadini
investono in un ambiente più sano, in filiere alimentari locali di qualità che garantiscano la
sicurezza dei cibi e la non contaminazione dei suoli e delle acque, in generale in azioni che
minimizzino i rischi e massimizzino la qualità per tutti coloro che abitano un certo territorio (senza
esportare risultati indesiderati altrove).
La promozione di filiere locali non è utile soltanto alla riduzione dell’impatto ambientale,
ma è fondamentale sia per il mantenimento dell’attività agricola e del presidio contadino 48, che per
la costruzione di nuove comunità in grado di ridurre il rischio e lo spaesamento sociale. Non solo
comprare l’insalata o il formaggio prodotto a qualche chilometro da casa riduce enormemente la
nostra impronta ecologica di consumatori 49, ma costruisce legame sociale in grado di ridurre ad
esempio il rischio del piccolo produttore di investire in nuove produzioni biologiche o di qualità.
48
Attori fondamentali per la manutenzione del territorio, e per le conoscenze contestuali in merito ai diversi luoghi che
essi in alcuni casi ancora possiedono, con la fine dei sussidi comunitari alla produzione agricola potranno avere un ruolo
anche economico significativo se riusciranno a integrare funzioni produttive e ambientali.

27
Questo ragionamento vale in generale per la (tendenziale) chiusura dei diversi cicli
ambientali: acqua, rifiuti, energia ecc. Solo una loro gestione e controllo collettivo, a livello per
quanto possibile locale, può consentire da un lato scelte coerenti con i progetti di sviluppo propri di
ciascun luogo e dall’altro un’accettazione sociale degli effetti indesiderati che questi cicli spesso
generano sul territorio.
Il nesso tra il modello di sviluppo di volta in volta adottato e la sua capacità (o meno) di
aumentare la qualità del territorio e dell’ambiente può essere reso più evidente sviluppando
indicatori territoriali e ambientali, a livello sia regionale che locale, da usarsi come riferimento per
la valutazione delle diverse ipotesi di trasformazione dei luoghi.

Il modello territoriale ed economico in atto, e i suoi possibili sviluppi, richiedono una


più attenta evidenziazione dei costi territoriali e ambientali
La delocalizzazione delle attività produttive, alla ricerca di dumping salariali e ambientali
sempre più ‘convenienti’ rispetto al profitto dell’impresa individuale, scaricano sul nostro territorio
e sulla società che vi è insediata non soltanto la responsabilità di esportare sfruttamento e
inquinamento, e il costo dei rischi che vi sono connessi (dalle rivendicazioni anche violente di una
più equa distribuzione di ricchezza al ritorno dell’inquinamento esportato in forma di alimenti, aria,
acqua, cambiamento climatico, epidemie e quant’altro), ma anche i diversi costi connessi al
trasporto sempre più frenetico di merci.
Si tratta di costi ambientali (i diversi tipi di inquinamento da traffico: aria, rumore, suolo)
ma anche monetari (il finanziamento pubblico delle nuove infrastrutture richieste, la manutenzione
straordinaria delle vecchie) ed economici nel senso più ampio del termine (tempo perso nella
congestione, salute a rischio, suolo consumato per infrastrutture, risorse politiche e burocratiche
dedicate alla trattazione del problema).
Il modello di sviluppo in atto prevede tuttavia, oltre alla delocalizzazione delle attività
produttive, l’utilizzo del surplus finanziario ricavato (dalla vendita di molte attività o dal maggiore
guadagno ottenuto grazie allo sfruttamento di esternalità esistenti in giro per il mondo) in attività
protette dal monopolio esistente di fatto (la gestione dei servizi di interesse collettivo) o in attività
immobiliari ed edilizie.
Anziché investire in forme più avanzate di organizzazione del processo produttivo, o in
innovazioni di prodotto, da un lato si ricerca dunque il guadagno più facile e immediato legato allo
sfruttamento dei differenziali salariali e ambientali, dall’altro si investono i guadagni nelle forme
più tradizionali di rendita, quella monopolistica o quella immobiliare. I cui effetti sul territorio e
sull’ambiente, per come viene abitualmente praticata, sono decisamente negativi.
Più recentemente, la “grande opportunità” cui la regione intera sembra destinata è quella di
diventare un terminal logistico tra Nord e Sud, Est e Ovest di Europa e Mediterraneo. Ma che
significa logistica? Nuove strade (ad esempio il completamento dell’ormai obsoleto e finora
bloccato progetto di completamento dell’autostrada d’Alemagna), nuove aree di deposito e
movimentazione merci, espansione degli aeroporti e del porto, e dei traffici connessi, con i diversi
azionisti individuali o gestori che agiscono ognuno massimizzando il proprio interesse,
incassandone le rendite e scaricando su tutti noi i costi? In realtà la logistica è qualcosa di
immateriale, è innanzitutto l’organizzazione dei flussi finalizzata alla loro riduzione e
razionalizzazione. Riduzione e razionalizzazione possono forse richiedere anche alcuni interventi
fisici, ma la valutazione della loro effettiva necessità può variare moltissimo a seconda del punto di
vista da cui ci si pone: aumento del benessere collettivo, ovvero prospettive di sviluppo economico
durevole nel tempo e a beneficio di una parte consistente della popolazione regionale, a fronte di
49
Riduce l’inquinamento dei mezzi di trasporto merci, gli involucri usati per proteggere i prodotti, i conservanti,
l’intermediazione sui prodotti, ecc.

28
ricadute ambientali negative ma accettabili, o guadagno di pochi e degrado delle condizioni di vita
di molti?
Questo esempio sembra richiedere, con urgenza, l’esplicitazione e la discussione pubblica dei costi
e dei benefici, territoriali e ambientali, diretti e indiretti, attuali e differiti, delle trasformazioni di
volta in volta ipotizzate.

Una società intera che gioca a Monòpoli. Ma siamo sicuri che la posta in gioco sia una
vincita?
Se guardiamo agli occupati e alle nuove imprese della nostra regione, le attività immobiliari ed
edilizie rappresentano più della metà del totale. Come dire che gran parte delle energie, finanziarie e
di innovazione, delle famiglie, degli imprenditori e dei lavoratori sono dedicate al gioco del
mattone. D’accordo che c’è stata la crisi degli apparentemente facili guadagni di borsa, la Tremonti
che consentiva alle imprese di detrarre come investimento anche le spese in edilizia, le banche che
concedono capitale di rischio soltanto contro ipoteche immobiliari, le partite IVA che hanno la
necessità di garantirsi un reddito futuro al posto della pensione che non ci sarà, e il mattone che
storicamente si è rivalutato in misura maggiore di quasi tutti gli altri investimenti disponibili per il
piccolo o medio risparmiatore, ma non è che il contesto sia cambiato?
Nel dopoguerra vi erano in media quasi tre persone per una stanza, oggi abbiamo tre stanze a
persona: vi sono forti squilibri nella loro distribuzione, in particolare tra immigrati e “autoctoni”,
ma non è certo il sistema di promozione immobiliare privato in atto a poter loro garantire degli
alloggi più dignitosi. Il saldo demografico naturale è negativo, e le prospettive sono quelle di un
progressivo e consistente aumento della popolazione anziana. Solo l’immigrazione ci può
consentire di mantenere nel futuro la popolazione attuale.
Molte attività produttive sono già delocalizzate o vanno delocalizzandosi all’estero.
Le nostre città vanno svuotandosi di funzioni (la produzione all’estero, il commercio nei
centri commerciali in mezzo alla campagna, i cinema nelle multisale esterne, le attività di servizio
nei centri direzionali in prossimità dei caselli autostradali) e perdono quindi la qualità urbana che le
connotava, il nostro territorio è pieno di aree dismesse o in via di dismissione, la nostra campagna
ha perso i propri caratteri di paesaggio rurale ed è ingombra di oggetti edilizi e infrastrutture
progettate apparentemente a casaccio (in realtà con grande attenzione alle proprietà dei terreni).
Siamo davvero sicuri che continuare a investire nel mattone non si riveli tra qualche anno un
gigantesco fallimento? Chi le comprerà o le affitterà mai, queste case generalmente brutte, mal
costruite, fredde d’inverno e calde d’estate, raggiungibili solo con l’auto privata, in una campagna
sempre più inquinata dal rumore e dall’inquinamento del traffico, e che non possiede più nessuna
qualità del paesaggio rurale d’un tempo?
Scopo delle politiche pubbliche sarebbe quello di tutelare l’interesse pubblico da un
probabile fallimento collettivo, anziché incoraggiare la speculazione a rischio. Sarebbe utile
ricordarlo, anche se non sembra più così di moda.

L’edificazione di nuove aree: risposta a un bisogno collettivo, o speculazione di pochi a


danno di molti?
Le attività immobiliari si basano sullo sfruttamento di manodopera immigrata spesso priva
delle minime garanzie. Le nuove edificazioni non risolvono peraltro il drammatico problema
abitativo di molti immigrati, nel senso che sono loro precluse per ragioni innanzitutto di costo, a
volte anche di rifiuto sociale.
La manodopera meno qualificata viene impiegata soprattutto per le attività edilizie a
maggiore rendita fondiaria e minore valore aggiunto di prodotto, ovvero all’urbanizzazione di
nuove aree agricole. Nelle costruzioni ex novo sono soprattutto le imprese meno qualificate, che

29
meno si avvalgono delle professionalità locali, imprese spesso specializzate nell’aggiudicarsi al
minimo costo le commesse e poi chiedere pagamenti aggiuntivi o fallire programmaticamente, a
essere più rappresentate. Imprese che ricorrono al caporalato, che non rispondono degli infortuni sul
lavoro, che pagano le tasse (quando le pagano) in misura irrisoria rispetto agli effettivi guadagni.
Anche a prescindere da questi aspetti, fondamentali ma già trattati altrove (vedi lavoro:
qualità e diritti→) l’urbanizzazione di nuove aree comporta costi assai elevati per la collettività:
oltre alla sottrazione di terreni a valenza ambientale o agricola, essa richiede investimenti pubblici
consistenti per la realizzazione delle urbanizzazioni collettive e la fornitura dei servizi. Con una rete
acquedottistica che perde in media quasi metà dell’acqua trasportata, con reti fognarie miste e
obsolete, con infrastrutture stradali che richiederebbero numerosi adeguamenti, estendere
ulteriormente questi servizi va chiaramente a discapito degli interventi di manutenzione e rinnovo
delle reti esistenti.
L’estensione dell’edificato a bassa densità comporta inoltre costi molto elevati, spesso
insostenibili, per servizi quali il trasporto pubblico, l’assistenza a domicilio agli anziani, la
dotazione di servizi sociali in genere. Nell’edificazioni di nuove aree non urbanizzate tutti noi
paghiamo dunque una serie di costi, diretti e indiretti, ambientali e finanziari. Pochi ci guadagnano,
in particolare coloro che vedendo i propri terreni agricoli trasformarsi in edificabili realizzano una
rendita fondiaria del tutto gratuita.
Dal punto di vista dell’interesse collettivo, è dunque sempre più difficile, nelle condizioni
attuali, trovare un saldo positivo a molte pratiche in corso.
Nel discutere e decidere le politiche pubbliche che rendono possibile l’edificazione di nuove
aree appare dunque necessario e urgente esplicitare anche il saldo sociale delle trasformazioni
ipotizzate: chi ci guadagna, e chi ci perde? E quanto, in termini di vite, di denaro pubblico e di
guadagno privato?

Il risultato: un territorio troppo e male urbanizzato


Nonostante la stasi demografica, nell’ultimo decennio il numero complessivo di abitazioni è
cresciuto ulteriormente. Stiamo dunque tutti più larghi, oppure abbiamo suddiviso le nostre
abitazioni? No, semplicemente s’è continuato a immettere nel mercato nuovi volumi edilizi,
indipendentemente dalla effettiva domanda d’uso degli stessi.
Dal 1992 al 2000 sono stati costruiti nella sola Provincia di Venezia 30 milioni di m 3 di
nuovi fabbricati residenziali e non50, pari a circa 37 m3 per abitante. Di questi m3, più della metà
appartengono a fabbricati non residenziali. Ma come, non abbiamo avuto soprattutto negli anni più
recenti una delocalizzazione all’estero di molte attività produttive? Nell’intervallo considerato
l’anno in cui sono stati realizzati i maggiori volumi non residenziali è proprio l’ultimo, il 2000.
L’impressione è quella che si sia persa ogni capacità dei soggetti pubblici di indirizzare lo
sviluppo verso forme sostenibili, anche economicamente, nel medio-lungo periodo: si pensi che
nell’intera area metropolitana di Francoforte si prevedono di realizzare nei prossimi 15 anni solo
220 ettari di nuove aree per insediamenti produttivi, quanto i progetti di due o tre piccoli Comuni.
E questa spinta all’estensione del territorio urbanizzato non appare affatto conclusa: la
semplice attesa della realizzazione di nuove infrastrutture stradali genera transazioni fondiarie e
pressioni ad autorizzare o addirittura promuovere nuove aree a destinazione soprattutto
commerciale e produttiva nelle pertinenze. Il fantomatico corridoio cinque, che ognuno interpreta a
proprio piacimento come fascio di strade, oppure ferrovie, sta costituendo di fatto un dispositivo per
moltiplicare la valorizzazione (un tempo si chiamava speculazione) fondiaria e immobiliare.

50
Istat, Statistiche dell’attività edilizia, anni vari, Coses 2003.

30
Se guardiamo ai Comuni in cui si è localizzata la maggiore attività edilizia, le corrispondenze tra
nuovi volumi costruiti, numero complessivo di abitanti, eventuali incrementi demografici o
imprenditoriali non sono (con poche eccezioni) significative.
Qualcuno potrebbe comunque arguire che tutto ciò corrisponde semplicemente alla
realizzazione di fatto della città metropolitana veneziano-veneta (vedi Effetti Metropolitani →). Ma
alle aree urbane e ancor più metropolitane siamo abituati ad associare, oltre a servizi di rango
superiore, servizi di trasporto pubblico efficienti, una buona dotazione di spazi pubblici di qualità,
una facile accessibilità alla campagna circostante,. Che nella nostra regione si tratti di un territorio
male urbanizzato ancor prima di essere troppo urbanizzato si evince con chiarezza dai risultati di
una recente ricerca che ha comparato l’evoluzione dal 1950 al 1990 dell’area compresa tra Mestre e
Padova con altre numerose aree europee51. In quarant’anni la percentuale di superficie urbanizzata è
quasi triplicata, passando dal 13,5 al 36,6% della superficie totale. Dai dati dell’attività edilizia
successiva al 1990 si può ipotizzare che la percentuale di territorio urbanizzato sia oggi superiore al
40%. Non si tratta solo di una percentuale particolarmente alta in assoluto 52; ciò che lo fa leggere
come caso negativo sono i valori (tra i peggiori) registrati in relazione all’aumento della dispersione
dell’urbanizzato, alla perdita di aree naturali e agricole (vedi Una terra da curare →), alla
diminuzione persino delle aree verdi urbane. I territori “valorizzati” dall’urbanizzazione sono
terreni perduti per l’attività produttiva agricola, e per i servizi da questa prestati quando condotta in
modo sostenibile: salvaguardia idrogeologica, valorizzazione paesistica, mitigazione ambientale,
fruibilità di percorsi campestri di qualità estetica e ambientale generalmente più elevata di quella
posseduta dalle aree verdi urbane.
Non possiamo infine trascurare l’elevata estensione territoriale di questo modello di
urbanizzazione che caratterizza in modo specifico il Veneto (nelle altre aree urbane europee
considerate non vi è continuità di queste percentuali a livello dell’intera regione), per cui i pesanti
carichi ecologici del territorio costruito appaiono compensati all’interno della regione metropolitana
dell’area centrale veneta soltanto da poche aree a valenza ambientale complessa, in primo luogo la
laguna di Venezia.
E’ necessario promuovere ed esigere una diversa qualità territoriale e ambientale degli interventi,
contro la pratica di usare la firma del progettista famoso, o del progettista politicamente garantito,
per coprire i volumi di nuova realizzazione e l’attenzione dei progetti alla sola massimizzazione
degli utili immediati (ovvero degli utili del promotore e dell’impresa, non degli acquirenti o del
territorio in cui sono inseriti).

L’alternativa c’è: riusare le aree dismesse e riprogettare le aree senza qualità anziché
“consumare” nuovi suoli
Un censimento delle aree dismesse, in via di dismissione o parzialmente riutilizzabili
evidenzierebbe nel nostro territorio un patrimonio enorme, sufficiente a dare risposta a tutte le
(eventuali) domande di localizzazione di nuove funzioni. La possibilità di edificare ex novo nuove
aree andrebbe in ogni caso subordinata alla dimostrazione della non possibilità di localizzazione in
aree già urbanizzate, e le procedure e gli oneri di urbanizzazione relativi alle due tipologie di
intervento dovrebbero essere fortemente differenziati per favorire il riuso (e i progetti esito di
processi partecipativi ed effettivamente partecipati dalla pluralità degli attori i cui interessi,
economici ma anche di qualità della vita, sono in gioco). Oggi è un po’ il contrario: a chi interviene
nelle aree dismesse sono richiesti progetti più dettagliati, soggetti a procedure assai più lunghe,
garanzie maggiori e oneri diretti spesso pari o superiori a quelli per l’edificazione in zona agricola.

51
European Environmental Agency, Towards an urban Atlas: Assessment of spatial data on 25 european cities and
urban areas. Env.issues Report no.30, 2002
52
Valori superiori al 35% di territorio urbanizzato sono considerati, dal punto di vista ecologico, situazioni di crisi della
capacità autoriproduttiva dei principali cicli ambientali a base territoriale.

31
E’ dunque essenziale garantire una combinazione di strumenti fiscali, economici e regolativi
che promuova il riuso di aree già urbanizzate e scoraggi il consumo di nuovi suoli, imputando a
questo consumo i costi complessivi, compresi quelli differiti e indiretti, che lo accompagnano
(perdita di suoli agricoli, aumento delle pressioni ambientali, necessità di nuove infrastrutture e di
nuovi interventi di mitigazione/compensazione ambientale). In coerenza con ciò, qualsiasi nuovo
intervento potrebbe ad esempio essere chiamato a contribuire al restauro ambientale e paesistico
della campagna, per un’estensione tale da compensare il proprio impatto, oltre a pagare gli altri
costi diretti sopra richiamati. Il riuso delle aree già urbanizzate anziché l’urbanizzazione di terreni
agricoli, la contrattazione con i proprietari delle aree da riqualificare per promuovere attraverso
questi interventi una nuova politica della casa 53, l’attenzione a promuovere usi del territorio in grado
di ridurre la mobilità, l’investimento nelle diverse modalità di trasporto sostenibile (trasporto
pubblico collettivo, trasporto delle merci su ferro e acqua e gestione della logistica, mobilità
ciclabile e pedonale) sono campi d’azione strettamente interrelati.
Le decisioni su quali siano le potenzialità, nel senso ampio del termine, dei diversi luoghi
non possono essere lasciate alla decisione degli investitori immobiliari (che spesso hanno voce
pubblica in veste di industriali, o addirittura società partecipate da enti pubblici territoriali: di modo
che non è più chiaro chi è il controllato e chi il controllore) e degli amministratori locali alla
ricerca di voci libere di bilancio con cui realizzare opere visibili dai propri cittadini-elettori.
Queste decisioni richiedono una pratica politica che si concretizzi nella partecipazione dei diversi
attori non solo economici alla loro definizione, e un’equa imputazione dei costi. Di fatto le
esternalità le paghiamo tutti, e i costi diretti o indiretti sul territorio sono spesso ben più elevati
dell’investimento effettuato dai promotori.

Ri-progettare centralità e confini, identità, differenza e diversità


Una nuova cultura del limite reintroduce anche nell’urbanistica il progetto di confini che
disegnino e delimitino il paesaggio urbano, definendo proporzioni e relazioni sostenibili fra
insediamento e ambiente all'interno di ciascun sistema territoriale locale: i percorsi percorribili a
piedi dalla fermata del trasporto pubblico come limite dell’urbano; le reti ecologiche e i bacini
idrografici come determinanti degli equilibri fra città e territorio, fra paesaggio urbano e rurale; i
sistemi delle acque, naturali e artificiali, valorizzati come sistema metabolico della città
(valorizzazione delle fasce di pertinenza fluviale, riciclaggio, rinaturazione, sistemi di depurazione
in sinergia con le funzioni del territorio agricolo); la chiusura tendenziale dei cicli delle acque, dei
rifiuti, delle merci, dell'alimentazione, dell’agricoltura ecc., per ridurre l’impronta ecologica e
attivare scambi fra regioni di tipo non imperiale.
Il progetto degli spazi aperti diviene determinante nel ridisegno delle figure territoriali e dei
confini urbani, nel ridare forma all’urbanizzazione che ne è priva, sia nell’area metropolitana più
diffusamente urbanizzata che lungo i litorali, nelle valli alpine e prealpine, o nelle campagne ancora
tali.
Il progetto fondato sulla individuazione di centralità e confini, non tanto o solo la centralità e
i confini di Padova o Vicenza, Asolo o Adria, ma di Favaro, dell’Arcella, di S.Agostino, di Gaggio,
e di tutte quelle centinaia di antichi comuni, di frazioni, di luoghi di recente urbanizzazione in cui
una maggiore qualità anche fisica potrebbe produrre un diverso e maggiore benessere sociale e
territoriale, supera la scomposizione del territorio per parti monofunzionali, evidenziando la
profondità temporale, l’identità paesistica, la qualità estetica, la complessità sociale, economica e

53
Nonostante la percentuale sempre più elevata delle abitazioni in proprietà, il problema di trovare un’abitazione a
prezzo economicamente sostenibile nei luoghi in cui vi è maggiore offerta di lavoro qualificato sta diventando
soprattutto per i giovani un problema crescente. In prospettiva lo sarà probabilmente sempre più anche per gli anziani
non in grado di vivere soli o isolati. Questa domanda effettiva o potenziale non deve tuttavia diventare, come lo è stata
anche nel recente passato, l’alibi per legittimare nuove urbanizzazioni in territorio agricolo.

32
culturale di ciascun luogo, attraverso azioni anche simboliche di rifondazione delle identità
cancellate dall’espansione urbana
Lavorare a rafforzare le diverse identità locali significa ricostruire relazioni tra tutti coloro
che abitano lo stesso luogo, anche interrogandosi sulle differenze nel percepire e vivere i luoghi, gli
spazi pubblici, le diverse dimensioni ambientali a partire dalle specificità di genere, di età, di etnia,
di cultura, di ritmi lavorativi. Queste diverse soggettività possono esprimersi più facilmente se
l’oggetto della discussione non è una questione lontana e apparentemente sottratta alle conoscenze
di senso comune, ma il luogo da ciascuna di esse vissuto e quindi intimamente conosciuto. Questo
metodo rende possibile ipotizzare un programma di riqualificazione, partecipata ed ecologica, dei
diversi luoghi che risponda in primo luogo alle esigenze di chi abita il territorio.

Dall’imposizione sovraordinata alla promozione di autogoverno consapevole


Delle politiche regolative sovraordinate sono ormai noti non soltanto i forti deficit di
implementazione, ma anche la scarsa capacità di attivare energie sociali e cognitive nel costruire
azioni appropriate ai diversi luoghi. Le politiche sovraordinate implicano generalmente un
approccio tecnocratico, che fa affidamento ai tecnocrati e alle soluzioni o agli strumenti a più
elevato contenuto tecnologico.
Nell’esperienza delle politiche regionali che più di recente abbiamo vissuto nel Veneto si
aggiunge un altro problema, ossia la contemporanea presenza di politiche sovraordinate e di un
attore Regione che spesso ha confuso i ruoli normativi e di arbitro con quelli di giocatore, definendo
tutto ciò “co-pianificazione”. Per fare un esempio, nei Prusst (Programmi di riqualificazione urbana
e sviluppo sostenibile del territorio) a suo tempo promossi dal governo nazionale, la Regione
Veneto istruiva e valutava le diverse proposte degli enti locali non solo partecipando lei stessa ad
alcune di queste, ma attribuendo alla propria eventuale presenza nelle proposte un punteggio
aggiuntivo. Un altro esempio è quello dei Piani d’Area, originariamente concepiti dal Ptrc (Piano
territoriale regionale di coordinamento) come momento di dettaglio delle tutele ambientali previste
per alcune aree (laguna di Venezia, Vallevecchia di Caorle, ecc.), e invece estesi indebitamente ad
ampie aree del territorio regionale in concorrenza ai Ptp (Piani territoriali provinciali) adottati dalle
Province e mai approvati dalla Regione. I fantasiosi progetti di urbanizzazione contenuti in questi
programmi e piani elaborati con la partecipazione diretta dell’amministrazione regionale tolgono
ogni possibile dubbio relativo al fatto che l’intrusione sovraordinata potesse essere eventualmente
dovuta alla volontà di garantire la tutela del territorio.
A valle di una simile esperienza di governo regionale appare più che mai necessario
promuovere una maggiore coscienza civica dei ruoli e delle regole, ma anche esperienze di
autogoverno che sappiano opporre alle interpretazioni arbitrarie e di parte, cui troppo spesso fa da
contrappunto l’indifferenza e la sensazione come cittadini di non poter contare, la costruzione
sociale dal basso di quante più politiche territoriali e ambientali è possibile.
Oltre a mettere in gioco le conoscenze locali, i saperi delle genti che abitano i luoghi, a
fronte dei saperi esperti troppo spesso di parte, ciò può concorrere a far riscoprire il senso e la
passione dell’impegno civico. Promuovere forme di regolazione specifiche quanto sono specifici e
unici i diversi luoghi obbliga inoltre alla ricerca di tecnologie (e di dimensioni, anche dei trattamenti
ambientali) appropriate a ciascun luogo e ai suoi problemi.
I poteri di autonomia conferiti agli enti locali dalla riforma del Titolo V della Costituzione
consentono oggi di interpretare l’autogoverno in forme sperimentali. Autogoverno non tanto del
sindaco autocrate, ma della collettività che vive e si prende cura di un certo territorio. Ma ciò
richiede insieme consapevolezza culturale dell’importanza di sperimentare in questa direzione e
volontà politica di farlo.
Ma quale comunità, e quindi quali forme di autogoverno delle comunità, sarà mai possibile
in un territorio disseminato di villette individuali o con manifesta ancorché incongruente pretesa di
essere tali? Quali spazi pubblici, fisici e metaforici, dell’interazione sociale si danno nel territorio

33
caratterizzato dagli insediamenti diffusi? Al di là degli ipermercati e delle multisale, difficilmente
accessibili a chi sia sprovvisto di auto e di passione consumistica, quali sono oggi i luoghi per
incontrarsi, conoscersi, confrontare le proprie idee, aiutarsi reciprocamente a vivere? Viene il
dubbio che la nozione di interesse pubblico emergente abbia purtroppo una strana assonanza con
l’organizzazione del territorio che ci siamo dati. Una diversa politica territoriale può dunque
promuovere anche una maggiore partecipazione delle comunità alla costruzione delle politiche
pubbliche locali.
In riferimento alle politiche territoriali e ambientali, ciascun livello di governo del territorio
regionale potrebbe impegnarsi da subito a cedere sovranità verso il basso, verso il locale, ponendo
come vincolo la simmetricità del movimento: i Comuni ai cittadini, le Province ai Comuni, la
Regione alle Province. Distribuire potere significa distribuire anche il controllo su chi il potere
dovesse esercitarlo a danno della collettività.
Ciò significa anche rivedere profondamente l’interpretazione che la Regione ha finora dato,
con la LR 11/04 e con gli atti di indirizzo successivi 54, dei nuovi principi di governo del territorio
fatti propri nell’ultimo decennio da molte regioni italiane.
Distribuire potere richiederebbe in primo luogo che la Regione, anziché riservarsi il diritto
di codificare quali conoscenze del territorio siano effettivamente utili e necessarie nella stesura dei
piani urbanistici e territoriali e quali no (come se Puos d’Alpago, Nanto, Cavarzere e S.Michele al
Tagliamento avessero caratteristiche e problemi analoghi, e potessero quindi essere indagati con la
medesima “lista della spesa”), rendere pubblicamente disponibili alcune conoscenze che essa
detiene e usa, non condividendole né con gli enti locali, né con i cittadini: gli aggiornamenti della
Carta Tecnica Regionale, le ortofoto più recenti, i modelli digitali del terreno, le istruttorie dei piani
urbanistici locali.
Una maggior consapevolezza nell’autogoverno richiederebbe inoltre la promozione di una
più diffusa cultura di comprensione delle regole storiche di costruzione e trasformazione di ciascun
luogo, e di relazione con i beni collettivi sovralocali, affinché da un lato l’esercizio locale delle
decisioni non produca esiti distruttivi dell’ambiente, dall’altro il punto di vista locale possa
effettivamente concorrere a migliorare le trasformazioni di interesse sovralocale.
La delega come noto non solo deresponsabilizza, ma invita a comportamenti opportunistici:
poter dire che le decisioni relative ai problemi che oggi sperimentiamo nel nostro territorio sono
state prese da qualcun altro ci fa sentire innocenti, anche se noi stessi nelle nostre scelte quotidiane
riproduciamo il problema.
Il governo regionale dovrebbe incoraggiare maggiormente gli abitanti del Veneto, siano essi
“autoctoni” o immigrati, a considerare questo territorio la loro casa, e di conseguenza a partecipare
attivamente alla sua continua riprogettazione: assicurando la massima trasparenza sulle decisioni in
discussione, garantendo strumenti di salvaguardia rispetto a comportamenti di speculazione
opportunistica, adottando linguaggi e procedure che rendano comprensibile ciò di cui si parla e
accessibili (metaforicamente, ma anche fisicamente) i luoghi del governo pubblico.
Il movimento di “cessione di sovranità” dovrebbe essere accompagnato da una forte
trasparenza nel comunicare le decisioni prese, le procedure impiegate per decidere e le basi
conoscitive che le fondano. A fronte di piani sempre più flessibili e soggetti a continue modifiche
incrementali è infatti il quadro conoscitivo di riferimento ad assumere valore normativo nel
definire quali azioni siano ammissibili e quali no.

Uno scenario con cui bisogna fare i conti: il cambiamento climatico


Oltre a quanto fin qui accennato, c’è un fantasma che si aggira per il mondo (e quindi anche
per il Veneto): quello del cambiamento climatico. Alcuni (e fra questi il nostro governo nazionale)
fanno finta di non vederlo, questo fantasma che minaccia di provocare eventi meteorici intensi e
54
DGR 3178 dell’8.10.2004.

34
contrastanti, ulteriore dissesto idrogeologico, carenza o eccessiva abbondanza d’acqua, consumi
energetici crescenti per difendersi dal caldo e dall’umidità.
Come noto il cambiamento climatico non è un fenomeno nuovo, è sempre stato presente e
accuratamente osservato (con gli strumenti del passato, ovvero principalmente con la memoria
dell’esperienza) e considerato nelle scelte relative, ad esempio, alla localizzazione degli
insediamenti. Tutti gli insediamenti storici sono infatti, con assai rare eccezioni, localizzati sui
terreni (o sui versanti) relativamente più stabili o più elevati rispetto alla campagna (o al territorio)
circostante, con una buona dotazione d’acqua ma sufficientemente al sicuro dai rischi idraulici. Solo
nei decenni più recenti questa regola è stata abbandonata, con l’illusione che le tecnologie moderne
potessero tutelare il territorio da qualsiasi rischio, rendendolo indifferentemente urbanizzabile. Il
crollo del monte Toc e il conseguente disastro del Vajont, ma anche le centinaia e migliaia di luoghi
veneti a rischio di esondazione o più modestamente di ristagno delle acque meteoriche ci dicono
che non è esattamente così che funziona.
In considerazione della elevata e crescente probabilità di eventi meteorici intensi, e
dell’impossibilità di stimarne con certezza tempi ed effetti, molti paesi si stanno attrezzando ad
adottare i cosiddetti approcci precauzionali: restituire ai fiumi il loro territorio di divagazione 55,
restituire ai terreni prossimi al mare la loro configurazione naturale, prestare maggiore attenzione a
localizzare gli insediamenti solo nelle aree idrogeologicamente più stabili, progettare insediamenti
che non richiedano il consumo di energie non rinnovabili per difendersi dal caldo e dall’umidità, e
più in generale che non contribuiscano attraverso il modello di trasporto, di costruzione, di consumo
a peggiorare i cambiamenti climatici in corso56.
Nel Veneto gli effetti già visibili del cambiamento climatico, in molti casi peggiorati dalle
trasformazioni antropiche del territorio, sono rilevanti: crolli nelle rocce dolomitiche per lo
scioglimento del permafrost, erosione degli argini fluviali alla base per l’insufficiente trasporto
solido dei fiumi57, difficoltà a limitare l’intrusione delle acque nei territori costieri, aumento dei
periodo di siccità ed eventi di piena ricorrenti.
La prima cosa da fare è riscoprire le antiche regole di localizzazione degli insediamenti,
tenendo conto del fatto che l’estesa urbanizzazione attuale del territorio ha straordinariamente
aumentato i problemi e modificato alcune invarianti.
La seconda è assumere la piena responsabilità, anche dei singoli luoghi, rispetto al
cambiamento climatico in corso; ciò consente di ripensare le diverse politiche ambientali e
territoriali da un punto di vista totalmente nuovo, riprogettando in particolare lo stile dei consumi
collettivi (approvvigionamento energetico, modalità di trasporto, chilometri incorporati nelle merci
rese disponibili sul mercato locale, consumo d’acqua rispetto alle capacità di ricarica degli
acquiferi, consumi energetici degli edifici ecc.) in funzione della riduzione dell’impronta ecologica
complessiva e del ripristino delle funzioni naturali del territorio vitali per la nostra sopravvivenza
futura. Ciò non solo può aiutarci a contenere gli effetti del cambiamento climatico sul nostro
territorio, ma può contribuire a evitare nel futuro probabili migrazioni forzate di interi popoli per
cause ambientali.

In questo contesto, quali sono le politiche territoriali e ambientali auspicabili?

55
In Germania una recente proposta di legge federale (Gesetz zur Verbesserung des vorbeugenden Hochwasserschutzes,
marzo 2004) vieta qualsiasi edificazione e propone la demolizione e rinaturazione delle urbanizzazioni in atto nelle aree
interessate da tempi di ritorno centennali degli eventi di piena. Approcci analoghi sono ritrovabili nelle politiche inglesi
del DEFRA e recente London Plan.
56
Vedasi a questo riguardo anche il recente documento europeo COM(2004)60 Towards a thematic strategy on the
urban environment.
57
Quest’ultimo dovuto anche e soprattutto all’attività di escavazione o prelievo di materiali destinati all’attività edilizia.

35
 passare dalla quantità di suolo occupato alla qualità degli insediamenti; ciò significa non
urbanizzare altri suoli agricoli, sottraendoli alla loro funzione primaria, ma densificare
selettivamente alcune delle aree già urbanizzate, dotandole di servizi urbani adeguati e
considerando ciò occasione per ricostruire il paesaggio e la campagna circostanti;

 adottare come criterio principale per la scelta dei luoghi da densificare la presenza di un
nodo del trasporto pubblico locale, a partire da quelli che garantiscono la maggior frequenza
del servizio e tempi di percorrenza certi;

 promuovere un sistema di mobilità che integri trasporto pubblico su ferro, su gomma,


parcheggi, percorsi protetti e diretti pedonali e ciclabili finalizzati non solo al tempo libero
ma anche come tracciati più vantaggiosi di quelli automobilistici per gli spostamenti
quotidiani di corto e medio raggio;

 selezionare gli insediamenti produttivi ecologicamente attrezzabili, e concentrare su di essi


le azioni che prevedono il concorso dell’azione pubblica;

 in generale per quanto riguarda gli insediamenti produttivi, e in particolare per quanto
riguarda gli insediamenti turistici, tenere insieme gli aspetti della riqualificazione gestionale
e fisica;

 interrompere la consequenzialità nuove strade-nuove urbanizzazioni: gli insediamenti


residenziali è opportuno siano serviti dal trasporto pubblico, gli insediamenti produttivi sono
già ora sovradimensionati rispetto alla domanda di aree per attività produttive (mentre la
domanda di realizzare plusvalore fondiario e immobiliare non ha ovviamente limite);

 diffondere elementi di qualità urbana (non solo strade: acquedotti, corridoi ecologici, sistemi
di aree verdi fruibili, trasporti pubblici) ben disegnati ed efficienti; ma come faranno le
amministrazioni pubbliche a garantire una buona qualità di tutte queste infrastrutture quando
la loro estensione continua a crescere, e in tutte le direzioni?

 operare una contemporanea dismissione delle aree urbanizzate più esterne o incongrue,
destinandole anche attraverso strumenti di perequazione ad aumentare gli standard urbani a
verde;

 considerare la campagna, la qualità dei suoi processi produttivi e della sua immagine, la
fruibilità dei suoi percorsi, una risorsa fondamentale per la riqualificazione delle
urbanizzazioni esistenti;

 fare i conti con i probabili effetti del cambiamento climatico, adottando misure atte a
prevenire il dissesto idrogeologico, restituendo in particolare ai fiumi alcuni territori di loro
pertinenza;

 assicurare un uso attento e responsabile della risorsa acqua, la cui qualità ma anche quantità
sono indicate come elementi a rischio nel prossimo futuro;

 promuovere forme di rappresentazione del territorio che ne evidenzino gli elementi


patrimoniali e identitari, sia fisici che socioeconomici, quale elemento fondativo di un
sistema territoriale che non comporti distruzione del capitale fisico e sociale faticosamente
realizzato nel passato;

36
 dotare i diversi centri di un luogo pubblico in cui la società locale possa incontrarsi,
riconoscersi, dialogare ed esercitare la democrazia; molti centri minori, sorti all’incrocio fra
più vie di comunicazione, sono oggi ridotti ad attraversamenti stradali che hanno tolto loro
ogni ruolo pubblico. Restituirli ad altre funzioni più congrue significa restituire a questi
centri il loro cuore, il loro spazio pubblico e di incontro, ruolo oggi abusivamente esercitato
da centri commerciali o altri non-luoghi che escludono di fatto una parte consistente della
popolazione.

Anna Marson

37
il welfare al centro
L’oscuro orizzonte del welfare: il quadro nazionale
Il disegno della destra al governo è chiaro: sostituire progressivamente i servizi pubblici con
il mercato da una parte e con l’intervento “morale” e ”compassionevole” (“aiutare gli ultimi” per
citare uno slogan dell’ultima campagna elettorale) dall’altra, riducendo la spesa sociale e
sostenendo gli operatori privati. La riduzione dei trasferimenti a regioni e comuni, i tagli alla sanità,
alla scuola e alla spesa sociale, così come l’abbandono del sistema pubblico, stanno mettendo
seriamente in discussione principi costituzionali di pari opportunità ed uguaglianza e servizi
essenziali realizzati e promossi in questi anni da istituzioni pubbliche e vari soggetti sociali. Il “libro
bianco” sul welfare, la legge Bossi-Fini, la riforma della scuola e la riforma del mercato del lavoro
sono interventi che hanno l’obiettivo comune di perseguire lo smantellamento di garanzie sociali
fondamentali.
Si sta, dunque, delineando un disegno preciso che prevede alcuni passaggi di fondo: la
mercificazione dei servizi e delle persone; la stigmatizzazione e la criminalizzazione di ogni forma
di differenza e di devianza; la diminuzione degli spazi reali di partecipazione; il ritorno a vecchie
forme di assistenzialismo e un’idea residuale di welfare. Il tentativo è quello di cancellare pezzo
dopo pezzo l’intero sistema dei diritti per riscriverlo in maniera più omogenea e coerente alle
dinamiche e all’organizzazione del modello liberista, fondato sul paradigma dell’incompatibilità tra
giustizia sociale e necessità di crescita della competitività. Gli effetti più immediati di questa
situazione si stanno scaricando sulle aree più svantaggiate del Mezzogiorno e sui soggetti più
deboli. Le persone sono sempre più povere di diritti, sanno che quel che fino a ieri era accessibile
oggi non lo è più.

Welfare regionale
Diversi provvedimenti legislativi succedutesi in questi anni hanno promosso un processo di
progressiva "localizzazione" del welfare socio-assistenziale. La Regione acquista nel settore socio-
assistenziale maggiore autonomia legislativa, mentre continua a svolgere sul piano amministrativo
un ruolo fondamentale di programmazione, coordinamento e indirizzo. Spetta infatti al governo
regionale la ripartizione delle risorse finanziarie, la programmazione generale delle politiche sociali,
la definizione degli ambiti territoriali di gestione, l’individuazione dei livelli essenziali delle
prestazioni e dei servizi in conformità con quelli indicati dallo Stato, degli standard organizzativi ed
operativi delle strutture, delle regole generali per i sistemi di affidamento dei servizi socio-
assistenziali a soggetti privati.. In base al nuovo testo dell’art. 119 Cost., inoltre, le regioni e gli enti
locali devono provvedere a finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite con tributi
ed entrate proprie e compartecipazione al gettito di tributi erariali. A fronte di questa situazione,
Caritas italiana e Fondazione Zancan denunciano 58: “il nuovo scenario potrebbe essere quello di un
mosaico di welfare regionali impegnati a garantire LEA troppo diversi e inadeguati per essere degni
di questo nome”. Un processo che prometteva decentramento e valorizzazione delle realtà
territoriali si tradurrà nell’abbandono di livelli di garanzia e universalità minima e nell’esplodere
delle differenziazioni regionali. Inoltre la valorizzazione dell’autonomie locali nasconde in realtà
dei potenti neocentralismi regionali che poco lasciano alle possibilità dei comuni di costruire
welfare caratterizzati dalla partecipazione e dalla responsabilizzazione delle comunità.

58
Caritas Italiana, Fondazione Zancan, Cittadini Invisibili – Rapporto 2002, Milano, 2002

38
Riportiamo, condividendola, l’analisi di Cgil e Gruppo Abele 59: “l’orizzonte potrebbe essere
quello della riproduzione della verticalità a livello locale, con un di meno di spessore comunitario
dettato da più mercato e meno risorse pubbliche”. Gli ostacoli posti sul cammino della realizzazione
di un welfare municipale sono quelli di “tagli ai trasferimenti ai Comuni, differenziazioni
impositive, diversificazioni sui criteri di qualità dei servizi, ma anche assenza di professionalità di
sistema, debolezza delle pratiche di sviluppo locale, arretratezza delle dinamiche partecipative e di
cittadinanza attiva”.
Lungi dal promuovere responsabilità e partecipazione dal basso, il nuovo welfare
regionalizzato si configura come una mistura tra un modello neocentralista incentrato sulle regioni,
e un modello mercantilista neoliberale che affida ideologicamente ai meccanismi del mercato la
soddisfazione dei bisogni sociali: il peggio che si potesse immaginare60.

Regione che vai…


L’ampia potestà in capo alle regioni determina, a seconda della politica regionale seguita,
esiti diversi, dando vita a differenti modalità di intervento degli enti locali nell’organizzazione dei
servizi sociali e ad un diverso grado di collaborazione tra pubblico/privato nella gestione degli
stessi: si aprono, infatti, per le regioni scelte politico-organizzative assai diversificate per esempio
in materia di esternalizzazione dei servizi, di limitazione del ricorso alla gestione delle aziende
sanitarie, di incentivi all’esercizio associato delle funzioni tra i comuni e via dicendo. Da una parte
abbiamo la Regione Lombardia in cui l’impianto ideologico neoliberista è fortissimo e determina
politiche sociali fortemente improntate all’apertura al mercato dei servizi sociali: il Piano Socio
sanitario regionale lombardo si propone, ad esempio, “la graduale esternalizzazione di tutti i servizi
che ancora rimangono a gestione diretta permettendo alle aziende, nella loro articolazione
distrettuale di concentrarsi sul governo della domanda” e ancora di “liberalizzare gli
accreditamenti”61. Dall’altra il caso della Toscana dove il Piano sanitario regionale 2002-2004
riafferma, in controtendenza, un ruolo principe del Comune, non solo nel settore socio assistenziale,
ma di compartecipazione ad un governo comune del territorio finalizzato ad obiettivi di salute e
diviene, a tutti gli effetti, “cogestore” dei servizi socio - sanitari territoriali 62. Siamo quindi in
presenza di modelli regionali distinti, caratterizzati, da visioni, anche radicalmente, divergenti
riguardo l’attuazione di meccanismi di mercato nell’erogazione e organizzazione dei servizi e
quindi da coinvolgimenti e ruoli diversi attribuiti al soggetto pubblico.

Il posto del welfare nel Veneto


La critica di fondo che muoviamo al disegno del welfare veneto è di non aver voluto fare del
welfare uno strumento strategico di riconversione dello sviluppo locale 63. Il welfare viene ancora
considerato come riserva di servizi utili a soccorrere in momenti acuti di crisi: non viene visto come
un progetto complesso, e non settoriale, finalizzato al risanamento delle ingiustizie e della fragilità.
E’ significativo che la Regione Veneto a più di tre anni dalla promulgazione a livello nazionale
della legge quadro - che costituisce uno dei tasselli fondamentali di innovazione del sistema italiano
di welfare - non ne abbia di fatto recepito le indicazioni: in realtà la Regione, insieme al governo in
carica e a molte altre amministrazioni regionali, è impegnata in un tentativo di svuotamento della
legge di riforma dei servizi sociali e di ridimensionamento della sua portata innovatrice e
59
Gruppo Abele - CGIL, Rapporto sui diritti globali 2003, Roma, 2003
60
sulla deriva neocentralista si veda lo studio dell’Associazione Nuovo Welfare, il lungo cammino della riforma in
www.nuovowelfare.it
61
C.R. della Lombardia n.462/2002, Approvazione del Piano socio-sanitario regionale 2002-2004. L’impostazione
normativa determina il fatto che l’accreditamento di una struttura privata avvenga a prescindere dal fabbisogno della
comunità territoriale: l’accreditamento quindi diviene un diritto della struttura privata a fronte di alcuni requisiti
62
Regione Toscana, Piano sanitario regionale 2002-2004
63
Si veda lo studio di Patrizia Messina, Giorgia Nesti, La riforma delle politiche sociali in Veneto e in Emilia Romagna:
quale idea di regolazione?, Università di Siena, 2001

39
universalistica64. Pur non abbracciando l’impostazione “estremistica” della regione Lombardia, il
Veneto, in assenza di un disegno strategico, sembra confidare nella attuale “tenuta” del modello. Il
livello dei servizi socio - sanitari, per quanto disomogeneo nel territorio, è ancora di discreto livello,
con punte d’eccellenza nel settore sanitario65; per questo si tenta di mantenerlo così com’è
rimandando scelte di fondo assolutamente necessarie e improcrastinabili. Questa impostazione
risulta insostenibile, non solo economicamente, ma perchè non è in grado di promuovere obiettivi di
salute correttamente intesi e di affrontare, ma nemmeno percepire, i nuovi bisogni emergenti nella
società veneta. Inoltre l’incapacità di promuovere una strategia compiuta permette il
diffondersi di processi di privatizzazione striscianti - progressiva esternalizzazione di servizi
negli ospedali, cartolarizzazione degli edifici ecc.. - legati alla necessità del contenimento della
spesa affrontato senza ragionamenti sulle priorità e gli obiettivi da salvaguardare.
A parer nostro vi è urgenza della messa a punto di una vera e propria strategia di largo
respiro che identifichi i bisogni della comunità nel suo complesso, presenti e futuri, e, soprattutto, il
ruolo che il sistema sociale dovrà avere all’interno delle politiche di sviluppo locali pena la
progressiva riduzione del sistema del welfare a pronto soccorso - più o meno efficiente - dei casi
acuti ed estremi di sofferenza sociale. Le politiche sociali, da interventi marginali ed emergenziali
per alcune situazioni particolarmente critiche, devono divenire centrali orientando le politiche di
sviluppo locale. Occorre un punto di vista radicalmente diverso che non sia fondato sull’attesa
messianica che il circuito tra crescita economica, arricchimento, consumo risolva tutte le
problematiche sociali (sapendo che mai e da nessuna parte in realtà questo è successo). Bisogna
arrivare alla consapevolezza che questo paradigma è fallito nella misura in cui quel tipo di sviluppo
ha divorato la coesione e il capitale sociale della società.

Le proposte verdi per un nuovo welfare regionale


La nostra proposta di welfare vuole, prima di tutto, rappresentare un segnale in
controtendenza rispetto al processo in atto che sottrae all’arena pubblica la discussione riguardo ai
beni e ai problemi sociali66. La scolarizzazione, la salute, tendono a divenire beni privati da
acquisire secondo modalità simili a quelle del mercato, prescindendo dal loro carattere pubblico, dal
fatto che sono questioni che investono le soggettività presenti in una società e ignorando che le
questioni in gioco attengono al valore fondante della giustizia. Tanto più che alle tradizionali
disuguaglianze si aggiungono fratture sociali nuove, cambiano le caratteristiche dominanti del
rischio, cambiano i caratteri e i percorsi che portano all’esclusione: è urgente, pena
l’imbarbarimento della società, che il welfare parta dalla nuova fenomenologia della marginalità e
dell’esclusione dando vita a politiche d’inserimento sociale, potenziando luoghi pubblici di
partecipazione. E’ indispensabile rideterminare l'idea di cittadinanza; la cittadinanza oggi non
riguarda solo il rapporto tra quelli che “stanno sotto” e quelli che “stanno sopra”, ma il rapporto tra
quelli che “stanno fuori”, cioè gli esclusi, e quelli che “stanno dentro”, cioè gli inclusi: spesso l'area
dell'esclusione sociale non coincide esattamente né con l'area della povertà, né con l'area dello
sfruttamento. Peraltro, gli studi sulle disuguaglianze nella mortalità e nella morbilità dimostrano che
non basta una ‘semplice’ politica redistributiva, ma che ad essa vanno accompagnate misure
serissime di ricostruzione delle occasioni di benessere sociale (istruzione, abitazione, ambiti
relazionali, rapporti gerarchici, organizzazione del lavoro).
E’ da respingere inoltre ogni impostazione minimalistica o assistenzialistica secondo cui i
servizi socio assistenziali vanno organizzati esclusivamente per fornire una risposta alle “patologie
sociali” più evidenti oppure alle situazioni di non autosufficienza. Oltre le patologie conclamante
64
Importante strumento per inquadrare questa strategia il rapporto di ricerca sull’attuazione della legge 328/2001
promossa dall’associazione Nuovo Welfare in www.nuovowelfare.it e il Rapporto curato dal Formez “L’attuazione
della riforma del welfare locale” in www.formez.it
65
interessanti a proposito i risultati della ricerca sulla soddisfazione dei servizi sanitari veneti in Silvio Scanagatta (a
cura di), Cittadinanza e salute, Franco Angeli, Milano, 2002
66
Ota de Leonardis, In un altro welfare, Milano, 1998

40
occorre farsi carico delle forme di disagio dei cosiddetti “normali”: le trasformazioni socio
economiche, demografiche e culturali in atto hanno ormai ampliato l’area del disagio dei giovani
adulti e anziani aldilà delle forme note e conclamate sulle quali sino ad oggi si è modellata l’offerta
dei servizi e la formazione degli operatori.
Se l’obiettivo delle politiche di welfare è la promozione di cittadinanza, occorre definire la
cittadinanza come processo sociale, non come uno status di appartenenza, ma un concetto riferito
all’agire, non all’essere o all’avere: un processo che tende ad espandersi, a non escludere e a
costruire, una costruzione sociale e politica perennemente in corso 67. Nel campo del welfare e dei
servizi questo concetto implica il fatto che i servizi non trattano bisogni, carenze, deficit,
inadeguatezze ma le potenzialità, le capacità, i desideri, degli attori con cui il sistema interagisce per
allargare spazi di esercizio della capacità d’agire di ciascuno. Occorre liberare capacità d’azione per
le persone e possibilità di scegliere il proprio piano di vita e assumere il valore della persona e delle
scelte delle persone, ragionando intorno a questo per costruire politiche di libertà per tutti, che
promuovano l’autodeterminazione dei soggetti, tentando di eliminare quelle difficoltà che ne
ostacolano l’espressione.
Questo obiettivo costringe ad una diversa configurazione organizzativa dei servizi: da
strutture che rispondono a un bisogno a servizi come processi di attivazione e di organizzazione
sociale. In questo contesto occorre porre al centro le libere scelte di ciascuno (la possibilità di
compierle, cioè). Conseguenza di questo ragionamento è la necessità di sottrarre al dominio del
discorso giudiziario e penale fatti, comportamenti, abitudini che pensiamo debbano essere trattati
socialmente68. Tossicodipendenza, prostituzione, clandestinità sono condizioni che riguardano
cittadini e cittadine: loro dev’essere la scelta, e a loro si deve dare l’opportunità, di determinare il
proprio percorso di vita. Oggi si predilige la risposta repressiva, punitiva e regolamentativa:
pensiamo che si debbano elaborare politiche sociali che invertano decisamente questa tendenza con
l’obiettivo di restituire dignità, libertà e autodeterminazione ai soggetti.
Pensiamo inoltre che sia importante identificare parametri e indicatori per le valutazione
delle politiche sociali, come ci ricorda Lavinia Bifulco 69, “rispetto al grado in cui esse promuovono
la partecipazione dei cittadini alla vita sociale ed economica. La qualità sociale così intesa richiede
di misurare le politiche non solo riguardo gli outcomes ma anche con riguardo ai processi attraverso
cui esse si dispiegano e prendono corpo”. Terreno d’elezione per costruire l’integrazione tra le
politiche sono i contesti locali: ed è quindi attorno alla costruzione del welfare municipale, inteso
non come puro decentramento di funzioni, ma come costruzione di nuove dimensioni in grado di
favorire rafforzamento dei legami sociali, l’individuazione di tutti gli strumenti che contribuiscano
al “benessere” della comunità, al rafforzamento e, ove necessario, alla ritessitura di “legame
sociale”. Tutto questo implica un chiarimento nella definizione di sussidiarietà 70: affermata a livello
istituzionale, e riconosciuta a livello costituzionale (art. 118 della Costituzione), come
riconoscimento e responsabilizzazione dei livelli più bassi del governo rispetto alla tenuta e la
qualità della società locale; ma la sussidiarietà è anche cavallo di battaglia delle destre per la
ridislocazione delle problematiche sociali nell’ambito familiare e il conseguente abbandono dei
soggetti fragili alle logiche di mercato 71. Occorre svelare decisamente questa ambiguità affermando
un concetto di sussidiarietà per cui il governo locale si impegna a promuovere e valorizzare le

67
Ota de Leonardis, In un altro welfare, Milano, 1998
68
si veda a questo proposto l’appello e la proposta di legge conseguente promossa da Forum Droghe e da centinaia di
operatori del settore “Dal penale al sociale” in www.fuoriluogo.it
69
Lavinia Bifulco (a cura di), Il genius loci del welfare, Roma, 2003
70
per una interessante lettura sulle motivazioni politico culturali della revisione costituzionale che hanno portato
all’introduzione della sussidiarietà nel dettato costituzionale e sulle potenziali ricadute sociali si veda Giuseppe Cotturri,
Novità e portata progressiva della sussidiarietà orizzontale nella Costituzione italiana, in Gli argomenti umani, 9/2003
71
La retorica familista presente nel Piano regionale di sviluppo e nella proposta di Legge quadro sul welfare testimonia
tutto questo

41
capacità di autorganizzazione della società civile ma garantendo la natura pubblica – e quindi
pubblicamente discutibile oltre che accessibile- dei servizi e della loro modalità di erogazione.
Le sfide imposte dai cambiamenti
Un ragionamento sulle politiche sociali non può prescindere dal tentativo di mettere in
evidenza alcuni fattori di cambiamento e di sofferenza che attraversano la società veneta. La
società veneta, così come tutte le società “mature” dal punto di vista della crescita economica, vede
aumentare la differenziazione sociale, l’autonomizzazione dei diversi ambiti di vita, la
pluralizzazione dei ruoli e delle appartenenze sociali che mettono in evidenza l’affermarsi di
orientamenti soggettivi diversificati: questo scenario di crescente complessità produce un bisogno di
servizi ben più ampio e sofisticato di quello che era stato alla base dei vecchi sistemi di welfare 72.
L’impatto sociale negativo del modello di sviluppo si manifesta, in forme diverse, anche presso le
categorie “forti” della società veneta e non solo tra le classiche categorie del disagio (anziani,
tossicodipendenti, immigrati ecc..). Una recente indagine incentrata sul rapporto tra crescita
economica e qualità della vita svela tendenze importanti: “le persone continuano a lavorare,
secondo i ritmi frenetici imposti dalla locomotiva del Nord Est, sempre in marcia verso nuove mete.
Tuttavia inizia a serpeggiare una certa stanchezza. Un’ampia porzione della popolazione veneta,
friulana, giuliana - circa i tre quarti (74%) – sperimenta almeno qualche volta nella vita di tutti i
giorni, condizioni di stress” 73. E sono le stesse categorie del disagio che si sono fatte sempre meno
definibili secondo le categorie tradizionali: la devianza conclamata ha abbandonato la massiccia
visibilità in piazze e strade e si è insinuata nella vita quotidiana di un numero crescente di famiglie
normali. Sotto il profilo demografico e sociale, va registrata l’ulteriore conferma dei trend registrati
alla fine degli anni Novanta con il prolungamento della durata media della vita e la marcata
tendenza, nel nostro territorio in particolare, ad un progressivo invecchiamento della popolazione.
Tale processo demografico si accompagna al definitivo abbandono di quei modelli familiari che
assicuravano la tenuta di reti informali di assistenza e di cura: il trionfo della famiglia
mononucleare, con l’aumento dell’occupazione in attività extradomestiche di tutti i membri adulti
(donne e uomini) del nucleo, fa crescere il numero delle persone ultrasessantacinquenni che vivono
sole. Una maggiore speranza di vita significa anche un proporzionale aumento della popolazione
anziana affetta dalle patologie tipiche dell’invecchiamento e, pertanto, in condizioni di progressiva
perdita dell’autonomia individuale: cresce il numero degli anziani non autosufficienti, ma si allarga
anche il ventaglio delle “fragilità”. Questo dato non deve però condurre a conclusioni
deterministiche e allarmistiche: l’invecchiamento della popolazione se porterà di per sé un impatto
sulla spesa sanitaria, ma questo impatto potrà essere condizionato da politiche e innovazioni che
non per forza, anzi, debbano prevedere una flessione delle garanzie74.
L’ondata recessiva che, a partire dall’autunno 2001, ha investito tutte le economie
occidentali, insieme alle politiche economiche attuate dal Governo nazionale, fa sentire i propri
effetti proprio sui settori sociali meno abbienti e, tra questi, sui soggetti sociali più deboli. Le
crescenti difficoltà riguardano non solo soggetti e nuclei familiari “marginali” o “a rischio”, ma,
oltre a toccare quanti vengono ormai definiti come “working poor” (poveri nonostante siano
occupati), arrivano a lambire anche settori di quello che un tempo sarebbe stato definito “ceto
medio”- in Italia si calcola che sia circa il 12% la quota di coloro che, pur lavorando, gode di un
reddito che è al di sotto della soglia di povertà relativa 75 - dove l’imprevisto manifestarsi di
condizioni di fragilità e il conseguente venir meno di una delle fonti di reddito finora garantite,
rischia di trascinare l’intero nucleo familiare sotto la soglia statistica di povertà 76. Occorre pensare
72
Paolo Calza Bini (a cura di), Lo stato sociale in Italia, Roma, 2001
73
Fabio Bordignon, in Fondazione Nord Est, Nord Est 2003, Rapporto sulla società e l’economia, Venezia 2003
74
Per un introduzione a questo tema, spesso oggetto di sbrigative quanto inesatte conclusioni, si veda Aldo Piperno,
avremo le risorse per curarci ?, in Economia e lavoro, 1/2002
75
Andrea Fumagalli, Quale reddito di cittadinanza ?, in www. sbilanciamoci.org
76
Almeno un terzo dei lavoratori dipendenti dei più diffusi settori industriali potrebbe essere a rischio povertà, un altro
terzo addirittura già in gravi difficoltà: questo il risultato di uno studio della Cgil di Treviso, che ha preso in esame

42
inoltre all’impatto che avranno, per il prossimo futuro, pensioni sempre più basse non in grado di
assicurare ai lavoratori un reddito adeguato nel periodo successivo al pensionamento 77. Una ricerca
della Caritas evidenzia “l’esistenza nel Nord - Est di un numero difficilmente trascurabile di
persone che non vivono in condizioni di semplice povertà in senso relativo, definite cioè rispetto
agli standard medi di vita della popolazione locale, bensì in condizioni di grave deprivazione, che in
non pochi casi assumono configurazioni estreme e ne mettono a repentaglio la possibilità di
condurre una vita sana e prolungata, oltre che socialmente significativa.” 78. Tale situazione impone
la necessità di ripensare, complessivamente, le politiche e gli strumenti di intervento sulle “vecchie
e nuove” povertà, sul medio-lungo periodo, nella prospettiva di un “reddito di cittadinanza” in
grado di garantire un esistenza dignitosa ad ogni cittadino (vedi politiche del lavoro →).
“Sempre più anziani, sempre più poveri, sempre più soli”, dunque, se ci fosse permessa
un’estrema sintesi del quadro che abbiamo di fronte.
I cardini di una politica verde per il welfare
Proponiamo alcune linee d’indirizzo che dovrebbero informare una nuova Legge Regionale
sul welfare. Quella proposta dalla giunta Regionale è essenzialmente inemendabile, e una revisione
del Piano dei servizi alla persona79 che, pur tra mille ombre, è suscettibile di un lavoro di
implementazione. Tutto questo bene sapendo che le trasformazione non possono essere “decretate”
ma occorre, oltre che promuovere leggi, regolamenti e circolari, attivare processi coinvolgenti e
profondi tra gli attori delle politiche.
Promozione locale della salute
L’adozione e la promozione di metodologie quali quelle definite nel Progetto “Città sane”,
promosso dall’Organizzazione Mondiale della sanità, dovrebbe vedere la Regione come importante
centro propulsore e coordinatore in tutte le realtà locali che volessero intraprendere tale progetto.
Proponiamo la costituzione di una struttura di consulenza a supporto dei Comuni per la promozione
di Progetti complessi aventi la Promozione della salute come obiettivo strategico. Promozione
locale della salute sembra ragionevole che implichi oltre al riorientamento delle risorse e
dell’offerta, decentrandole molto più fortemente di quanto finora non sia accaduto, il riorientamento
dell’attenzione dall’acuzie alle aree ad altra integrazione siano esse rappresentate da anziani
bambini, donne, portatori di patologie di lunga durata,di cronicità vere o prodotte. Riorientamento
dell’attenzione e delle risorse da servizi residenziali a servizio della persona, da centri di
riabilitazione a servizi riabilitativi integranti nel territorio, da servizi a bassa tecnologia ospedaliera
a servizi distrettuali.
Il Progetto “Città sane” può rappresentare un autentico strumento di riequilibrio del sistema di
welfare attraverso la definizione di un quadro di riferimento caratterizzato dai seguenti elementi:
1. centralità del cittadino nel definire i bisogni di salute della comunità locale, con relativa
necessità di rafforzare i sistemi definiti di assistenza primaria.
2. equità, accessibilità ai servizi e superamento dell’esclusione sociale come fattori
discriminanti per un sistema di tutela e promozione della salute che vuole avere un valore
universalistico e non speculativo, che pone come tratto prioritario sistemi di tutela
comunitari e solidaristici.

4.905 lavoratori dei settori legno, metalmeccanico, tessile e commercio, tutti inquadrati nel IV livello (circa il 30% degli
addetti), occupati in 13 aziende tra le maggiormente rappresentative dei vari settori in provincia. Si tratta di soggetti con
un numero di anni di anzianità aziendale pari a 6 anni o inferiori, collocabili in una fascia di reddito netto compreso tra i
10 mila ed i 15 mila euro annui.
77
Angelo Marano, Avremo mai la pensione ?, Milano, 2002
78
Alessandro Castegnaro, Persone in grave povertà nel Nord Est del benessere diffuso, in Studi Zancan, 2/2003
79
lo strumento prioritario che la legge assegna alle Regioni per l’assolvimento delle funzioni loro attribuite: ha lo scopo
di favorire la definizione di politiche integrate, in materia di interventi sociali, sanitari, dell’istruzione, della formazione
professionale e del lavoro, e di indicare modalità di collaborazione e coordinamento con gli Enti locali e con i soggetti
operanti nel terzo settore

43
3. cooperazione intersettoriale: proprio per il carattere universalistico della salute, come
prima descritto, è evidente che uno dei maggiori ostacoli ad un’azione efficace è
rappresentato dalla tendenza a confinare un sistema complesso all’interno di letture
riduttive con relativa concentrazione di risorse e poteri nell’ambito di aree ristrette di
azione , quale si configura a scopo esemplificativo quella medico sanitaria.
4. processi di pianificazione fondati sull’evidenza e sulla partecipazione.

Nuova programmazione per l’integrazione delle politiche


Per chiarire ciò che intendiamo per integrazione riportiamo un passo dell’importante
documento promosso dal Forum per la salute mentale 80 in cui l’accento è posto sulle problematiche
relative al disagio psichico ma il ragionamento riguarda tutto il mondo del sociale: “riunire ciò che
in questi anni è stato diviso, ci pare oggi centrale: la clinica, il sociale, il biologico, lo psichico, le
istituzioni e i soggetti, l’assistenza e il lavoro e tante altre. E’ come se una forza spingesse proprio
tutti verso un destino separato, passivo, assegnato. Riunire perché si sviluppi il conflitto sulle
esperienze concrete e non sugli artefatti delle cose separate (…). Oggetti veri come la casa, un
reddito, il possesso delle cose utili, il corpo stesso, non sono riprodotti dalle cure di per sé. Sono
loro al contrario che permettono alle cure di avere il senso, la direzione, la bellezza. Si dice
“integrazione socio-sanitaria”, ma è questo che con essa noi intendiamo”.
La legge di riforma del welfare introduce la necessità dell’integrazione delle diverse politiche
che possano influenzare la qualità sociale delle comunità. Non si può infatti addossare alla sole
politiche sociali la responsabilità della qualità sociale complessiva. Occorre integrare coerentemente
nel concreto dell’agire amministrativo salvaguardia e interventi sull’ambiente, valorizzazione delle
risorse culturali e umane, sostegno a sistemi locali di sviluppo, interventi di recupero del degrado
umano: una risposta possono essere i Piani per l’inclusione sociale in grado di integrare diversi
settori amministrativi in unico progetto d’inclusione. Proponiamo inoltre, sull’esempio di quanto
già accade nella Regione Emilia Romagna (articolo 22 della legge regionale sul welfare) che gli atti
di programmazione regionale di settore (politiche sociali, sanitarie, educative e formative, del
lavoro, culturali, urbanistiche ed abitative) contengano una specifica valutazione di impatto della
programmazione stessa sui soggetti socialmente più deboli.

A partire (anche) da chi ci lavora


La rielaborazione del sistema di welfare che stiamo cercando di delineare dovrà avere come
risorse protagoniste le professionalità, presenti e potenziali. La priorità posta all’attivazione di
comunità, all’integrazione degli interventi, l’enfasi posta sulle risorse sociali, l’obiettivo
dell’abbandono del paradigma riparatorio pongono, prima di tutto domande alla professionalità
presenti nel sistema del welfare. Pensiamo ad una ridiscussione approfondita e partecipata sulle
caratterizzazioni, gli indicatori di qualità, le caratteristiche e i pericoli della flessibilità, le modalità
di declinazione dei diritti. Se l’obiettivo è quello della crescita e qualificazione professionale,
all’interno di un sistema che viene denominato “orientato alla qualità”, la precondizione è quella
che istituzione, operatori, terzo settore, rappresentanze sindacali condividano l’orizzonte della
trasformazione, la caratterizzazione e la missione dei servizi, il ruolo da ciascuno ricoperto 81. La
formazione permanente e l'aggiornamento continuo sono gli strumenti indispensabili per la piena
valorizzazione della professionalità del personale; essi devono essere finalizzati al completamento
della preparazione professionale, al miglioramento della qualità del servizio e alla progressione
delle capacità professionali. Questo impegno nella formazione, nell’aggiornamento e qualificazione
deve coinvolgere i lavoratori del Terzo Settore e delle strutture convenzionate. Oggi il lavoro
associato, cooperativo va visto nel nuovo quadro evolutivo del lavoro in generale: è necessario e
80
in www. forumsalutementale.it, raccomandiamo la lettura integrale e attenta del documento: uno delle opere più
interessanti sull’innovazione del welfare circolanti oggi in Italia
81
facciamo riferimento all’elaborazione dello Studio APS espressa nella rivista Spunti in www.studioaps.it

44
strategico ridefinire nuovi diritti del lavoro. Sarà importante recuperare al sistema formativo e delle
tutele sociali quelle figure – in primis le “badanti”- oggi abbandonate al sistema di mercato,
attraverso strumenti quali quelle dell’Agenzia sociale del lavoro domestico 82. Il ricorso sempre più
consistente a rapporti di lavoro precario e per ciò stesso a qualificazione discutibile, oltre a
rappresentare un problema per la persona, contribuisce alla strategia generale della maggioranza di
centro-destra di dequalificare, prima, le strutture pubbliche per determinare, poi, l'avanzamento di
processi di privatizzazione del sistema.

I Comuni al centro
Partiamo dalla consapevolezza che, come ci ricordano David Benassi e Enzo Mingione,
“l’impronta locale dei meccanismi di produzione del bisogno e dei modelli d’implementazione delle
politiche assistenziali, impone di attribuire ampi margini di autonomia al livello di intervento
operativo, vale a dire ai comuni”83. Occorre eliminare gli elementi di “confusione” oggi presenti
nella ripartizione delle funzioni tra ente regionale e comuni. La Regione deve assumere una
funzione di natura prettamente regolativa. L’estromissione dei comuni dalla gestione della sanità e
l’attribuzione, obbligatoria, alle ULLSS delle competenze in materia di servizi alla persona, sanitari
e sociali ha contribuito ad affievolire i legami tra servizi socio – socio assistenziali e servizi sanitari
e il ruolo giocato dalle ULLSS rischia di soffocare e annullare nei propri compiti meramente
gestionali il lavoro tecnico-politico di costruzione della rete locale e di realizzazione della
sussidiarietà o, peggio, con lo svolgere in modo surrettizio un ruolo politico alle dirette dipendenze
di centri di potere lontani (Regione) o poco trasparenti84.
I processi decisionali legati all’obiettivo di spostare le risorse dall’ospedale al territorio - per
citare un processo che sta mobilitando importanti risorse ed energie - devono essere governati con il
concorso diretto degli enti locali, altrimenti continueremo ad assistere allo scaricarsi sul comune
degli oneri legati alla dismissione dei degenti dagli ospedali. L’accentramento regionale dei compiti
di accreditamento è un passo importante, quanto grave, nello spogliare i Comuni delle funzioni
centrali che la legge gli riserva. In questo senso è importante riprendere, e difendere, la lettera e lo
spirito della Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali n.
328/2000, e garantirne la piena applicazione. Anche a dispetto di recenti, contraddittorie, scelte
politiche nazionali e regionali, risulta evidente, alla luce della normativa vigente, il ruolo centrale e
forte che il Comune gioca all'interno dell’intero sistema di welfare. Occorre rilanciare il ruolo di
sostegno della Regione attraverso l’istituzione di un servizio di consulenza e supporto ai Comuni -
da non confondersi con il burocratico controllo - sia nel momento centrale della redazione dei Piani
di Zona sia continuativamente nella gestione e nella formazione.
Nel Piano regionale per i servizi alla persona si ipotizzano forme organizzative sperimentali
che vedono la creazione di un nuovo soggetto gestionale a partecipazione comunale: pensiamo
possa essere un buon inizio a patto che si configuri un forte potere d’indirizzo e di governo da parte
dell’ente locale e nello stesso tempo lo sviluppo di una partnership fondata sulla suddivisione di
compiti e funzioni. L’integrazione tra sanitario e sociale, la diminuzione della spese ospedaliera e il
contestuale investimento nei servizi territoriali, di prevenzione e promozione della salute deve
vedere il Comune al centro del processo decisionale. Occorre valutare l’esperienza toscana -
individuando le modalità di adattamento alla realtà veneta - dove il Piano sanitario regionale 2002-
2004 introduce la sperimentazione della c.d. “società della salute”, un’istituzione alla quale
partecipano sia il comune che l’azienda sanitaria e nella quale il comune non assume solo funzioni
di programmazione e controllo, ma “compartecipa” ad un governo comune del territorio finalizzato
82
vedi l’esperienza di Biella descritta in Animazione Sociale 10/2003 ma possiamo ricordare l’iniziativa della Regione
Liguria “Lavoro DOC” di sostegno e formazione, vedi Paola Piva, Partire dalle famiglie per riorganizzare i servizi
pubblici in Animazione Sociale 12/2003
83
David Benassi, Enzo Mingione, Welfare locale, lotta all’esclusione sociale e riforma delle assistenza in Italia, in
Economia e Lavoro, 1/2002
84
Franco Dalla Mura, Dove stanno andando i servizi, in Animazione Sociale, 10/2003

45
ad obiettivi di salute e diviene, a tutti gli effetti, “cogestore” dei servizi socio - sanitari territoriali 85.
La responsabilizzazione dei Comuni nel governo strategico delle risorse, sia umane che finanziarie
avrebbe il significato di una reale applicazione del federalismo contrastando la riproposizione a
livello regionale del centralismo.

Nuovi servizi per il welfare delle comunità


I servizi devono essere costruiti sulla base del riconoscimento delle capacità positive,
modificando lo schema riparatorio e residuale della risposta, per rendere i servizi stessi fautori di
trasformazione. Per questo occorre facilitare la crescita di un sistema in cui i servizi sono orientati
alla produzione della qualità sociale, intesa come vivibilità, individuale e collettiva, del territorio.
Bisogna superare l’impostazione per cui i servizi hanno un carattere "reattivo", in uno schema
lineare bisogno-risposta. Il riassetto del sistema dei servizi e degli interventi sociali deve far leva
sull’interdipendenza fra il potenziamento dei servizi domiciliari, lo sviluppo di servizi aperti verso
destinatari e comunità e la de-istituzionalizzazione, con la conseguente riqualificazione delle
strutture residenziali in direzione di modelli comunitari e familiari. Occorre promuovere, nel Piano
socio sanitario regionale e nelle linee guida ai Piani di Zona, sistemi locali di salute mentale,
promozione dell’assistenza domiciliare, delle piccole residenze di tutela, delle case - famiglia
perché venga superata e battuta la nuova deriva che mira a ri-rinchiudere le forme del disagio.
Questo passaggio è per noi fondamentale perchè qualifica la nostra proposta nel senso della qualità
e degli obiettivi che un sistema per la qualità sociale deve porsi. Non solo battersi per la natura
pubblica e universale del welfare ma un profondo orientamento qualitativo verso il benessere e
l’inclusione sociale.
Per questo i criteri da utilizzare nella riformulazione dei servizi devono essere 86:
- permeabilità: attenzione alle condizioni che consentono ai singoli e collettività di “entrare”
nelle strutture di welfare e orientare i beni e i servizi erogati
- flessibilità: capacità di interagire con la specificità e la variabilità delle persone e dei
contesti territoriali in cui vivono
- diversificazione e integrazione: a ciascuno l’intervento e il servizio più appropriato ma
coordinato con gli altri che rientrano nello stesso sistema
- l’ascolto: attenzione all’intelligenza dei problemi e delle soluzioni espressa dai singoli e
dalla comunità.
- il coinvolgimento: allargamento degli spazi di partecipazione dei cittadini
nell’organizzazione delle politiche, delle misure, dei servizi
- la bassa soglia: la necessità di assicurare l’accessibilità di servizi e interventi modificando
in questa direzione i confini organizzativi e i criteri di selezione

Cittadinanza e lavoro
La nuova frontiera con cui il sistema di welfare, anche a livello regionale, dovrà confrontarsi
riguarda la profonda trasformazione del mondo del lavoro, il dilagare della precarietà,
l’indebolimento dell’identificazione dei soggetti con il lavoro: tutte queste trasformazioni
richiedono sistemi di protezione sociale molto più sofisticati di quanto non siano quelli di oggi
(vedi politiche del lavoro)87. Il sistema dell’assistenza in Italia riflette una logica di accesso alle
prestazioni che finisce per penalizzare coloro che non hanno un rapporto continuativo con il
mercato del lavoro e che non rientrano in una delle categorie alle quali viene riconosciuto il diritto
di ricevere sostegno monetario. In tale contesto ciò che ha maggiormente distinto l’Italia dagli altri
paesi europei è la mancanza di uno strumento di garanzia del livello minimo di reddito che non sia

85
Regione Toscana, Piano sanitario regionale 2002-2004
86
tratti dalla ricerca “Welare urbano e standard urbanistici” pubblicata in Lavinia Bifulco (a cura di) Il genius loci del
welfare, Roma, 2003
87
vedi il numero monografico di L’Assistenza Sociale 1/2/2003 su “L’ambigua nozione di flessibilità”

46
soggetto a vincoli categoriali o di meritevolezza: per questo s’impone la necessità di pensare,
guardando all’iniziativa già attuata della Regione Campania, alla prospettiva di un “reddito di
cittadinanza” in grado di garantire un esistenza minimamente dignitosa ad ogni cittadino.
Questo nuovo modo di intendere il welfare come diritto a un basic income (reddito universale di
base), sembra lontano dalla nostra realtà politica quotidiana ma è in realtà prefigurato dalla Carta
dei Diritti Europea recentemente approvata. L'articolo 34 infatti afferma: "Ogni individuo che
risieda o si sposti legalmente all'interno dell'Unione ha diritto alle prestazioni di sicurezza sociale e
ai benefici sociali (…). Al fine di lottare contro l'esclusione sociale e la povertà, l'Unione riconosce
e rispetta il diritto all'assistenza sociale e all'assistenza abitativa volte a garantire un'esistenza
dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti, secondo le modalità stabilite dal
diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali". Va sottolineato come le prestazioni non
siano espressamente vincolate alla cittadinanza (sembrerebbero rientrarvi quindi anche i cittadini
extracomunitari residenti in Europa) e che non sono citati vincoli espliciti alle erogazioni.

Welfare e innovazione
La Regione dovrà promuovere nella programmazione locale la sperimentazione di interventi
innovativi. Le direttrici per l’innovazione descrivono i criteri progettuali, di organizzazione e di
funzionamento della rete - anche con l’obiettivo di consolidare e rafforzare le leggi innovative sulle
politiche sociali - possono essere così definite:
1. partecipazione attiva delle persone nella definizione delle politiche che le riguardano;
2. integrazione degli interventi nell’insieme delle politiche sociali, mobilitando a tal fine tutti gli
attori interessati e prevedendo una strategia unitaria per l’integrazione sociosanitaria;
4. potenziamento delle azioni per l’informazione, l’accompagnamento, gli sportelli per la
cittadinanza;
5. sviluppo degli interventi per la domiciliarità e la deistituzionalizzazione;
6. interventi per favorire l’integrazione sociale, sviluppo delle azioni e degli interventi per la
diversificazione e la personalizzazione dei servizi e delle prestazioni sociali;

Welfare e terzo settore


Il terzo settore è di per sé il regno della ambiguità: il terzo settore può risolversi in una
espansione dell'attività caritativa, il settore a cui affidare i morti e i feriti prodotti dalla
competizione sfrenata della globalizzazione: quindi una specie di ambulanza a cui si affidano le
vittime di questo processo sempre più ineluttabile e fatale della competizione. Ma può determinarsi
anche come un luogo "autonomo" con forme di organizzazione specifica e capacità innovativa
d’intervento; è evidente che proprio per questa ambivalenza c'è bisogno di strategia che cerchi di
impedire che l'economia sociale si traduca in una specie di infinito bricolage di cui nessuno è in
grado di cogliere il significato generale, ma che invece promuova un modello di organizzazione
sociale autogestionaria e comunitaria. La cooperazione, i sindacati, i comuni possono diventare
soggetti determinanti per costruire questa rete, attraverso Patti sociali territoriali, di Welfare
municipali; le forme di economia sociale in definitiva possono diventare dei punti di grande forza in
termini di qualità sociale, di rappresentatività sociale e politica, di occupazione: in definitiva di
innovazione e inclusione sociale.
In una visione moderna e non ideologizzata di sussidiarietà, in cui ogni attore sociale è portatore di
interessi collettivi, occorre allargare la sfera del pubblico estendendola ad altre soggettività, in
modo da configurare un'arena pubblica abitata anche da organizzazioni non statuali.

Strumenti
Piano integrato per la cittadinanza sociale
Pensiamo alla promozione di un piano integrato per la cittadinanza sociale - fortemente
interconnesso sia con il Piano Regionale per i servizi alla persona, sia con i diversi Assessorati

47
competenti - che si ponga l’obiettivo di riordinare diversi interventi, flessibili e adattabili alle
diverse realtà locali, aventi come finalità la promozione della cittadinanza nella direzione della
“capabilità”, della competenza sociale, della presa in carico comunitaria. Il Piano dovrebbe avere
come punti qualificanti:
- l’istituzione di una rete di formazione, sostegno e scambio delle buone prassi innovative in
campo di promozione di cittadinanza sociale
- sostegno alla generalizzazione dei bilanci di sostenibilità sociale e partecipativi degli Enti
Locali
- promozione, presso gli Enti Locali, di strumenti di lettura e di valutazione dell’impatto
sociale delle azioni amministrative
- formazione dei funzionari e dirigenti delle amministrazioni, degli operatori sociali del
pubblico e del privato sociale sul tema della promozione di comunità
- politiche di sostegno all’imprenditoria sociale e ambientale a carattere innovativo
- consulenza e promozione, in collaborazione con i diversi servizi, di elementi innovativi e di
promozione sociale nei diversi progetti di competenza regionale e comunale
- un Piano regionale, integrato con il Piano dell’Offerta Formativa, per la formazione alla
cittadinanza attiva e consapevole.
Carta per la cittadinanza sociale
Pensiamo alla carta per la cittadinanza sociale come strumento per potenziare la partecipazione
dei cittadini, l’esercizio di una cittadinanza attiva nell’ambito dell’accesso ai servizi sociali
attraverso la conoscenza dei servizi sociali esistenti e dei diritti che devono essere riconosciuti nelle
situazioni di bisogno sociale della vita quotidiana. La carta definisce, documenta, e regola i diritti ed
i doveri dei cittadini, delle amministrazioni, e delle organizzazioni della società civile. Per questo
occorre porre attenzione al percorso per l’adozione della Carta per la cittadinanza sociale.
Livelli di cittadinanza sociale
Occorre definire livelli ulteriori e più specifici rispetto a quelli indicati nel piano nazionale, e
diversificati a livello territoriale, frutto di processi partecipativi di elaborazione. I livelli essenziali
così individuati dovrebbero andare a far parte integrante delle Carte della cittadinanza sociale. Un
processo partecipativo locale che influisca sui livelli di assistenza trasformandoli in livelli di
cittadinanza sociale da assicurare al territorio. I criteri di definizione dei livelli di cittadinanza
dovranno essere: il finanziamento, le modalità di erogazione dei servizi, indicatori di epidemiologia
sociale che documentano l’effettiva tutela dei diritti di cittadinanza. Lo strumento dei Livelli di
cittadinanza sociale dovrebbero quindi ribaltare la logica, adottata dalle regioni contraddicendo lo
spirito della legge88, dei livelli essenziali di assistenza intesi come standard minimi in relazione alle
risorse disponibili, concependosi come un processo che individua sia le fonti di finanziamento e gli
standard di erogazione delle prestazioni, ma anche le modalità di accesso, l’efficacia
dell’intervento, gli elementi per la realizzazione di un percorso assistenziale attivo. In questo modo,
i Livelli di cittadinanza sociale, divengono strumenti in mano ai Comuni per governare l’evoluzione
dei servizi e non una semplice modalità di ripartizione della spesa.
Risorse
Siamo in presenza di un quadro generale di riduzione di risorse e di abbandono di fasce sempre
più elevate di "soggetti deboli": in termini reali una quota crescente di oneri si va spostando
direttamente sugli utenti o sulle loro famiglie, con contestuale disimpegno della Pubblica
Amministrazione. Considerare le risorse per il welfare una spesa è una decisione politica ed
ideologica precisa: pensiamo sia corretto invece definire investimenti, e farne discendere così le
opportune decisioni, le risorse dedicate al benessere e alla coesione sociale delle comunità. Per
questo va marcata una inversione di tendenza: congelare ad una data certa la percentuale di
incidenza, adeguata alla media europea, delle risorse per il welfare sul totale delle spese correnti di
88
Nerina Dirindin, I livelli essenziali di assistenza, la spesa sociale e l’articolo 119 della Costituzione, Legautonomie,
Atti del convegno, 24 giugno 2003, Roma

48
Regione, Province, Comuni, dando quella percentuale come soglia minima invalicabile, da
rendicontare separatamente in sede di consuntivo, e da considerare al netto della partecipazione
degli utenti e delle loro famiglie. Inoltre è importante qualificare gli investimenti nel sociale in base
a delle scelte strategiche: occorre privilegiare i servizi territoriali di promozione e a bassa soglia
rispetto alle grandi strutture che, aldilà delle dichiarazioni d’intenti, rimangono privilegiate
nell’allocazione delle risorse. Un ragionamento dev’essere fatto sul ruolo delle Fondazioni bancarie,
che ai sensi del D. L.vo n°153/1999, artt.1 e 2, sono persone giuridiche private di diritto privato
senza scopo di lucro, e i cui statuti individuano gli “scopi di utilità sociale e di promozione dello
sviluppo economico” da perseguire, perchè siano parte attiva integrativa nel finanziamento pubblico
dei progetti, individuati a livello locale, in grado di realizzare i livelli essenziali di prestazione 89.
Occorre inoltre, coerentemente con il modello municipalista da noi proposto, trasferire ai comuni,
sulla base di indicazioni programmatica generali indicate dalle regioni, il Fondo sociale regionale
oggi gestito centralisticamente dalla regione. Nella consapevolezza che le problematiche sociali e
sanitarie della non autosufficienza rappresenteranno per il futuro un impegno significativo anche sul
piano finanziario, ci sembra importante che la Regione Veneto promuova la costituzione di un
Fondo apposito90.
Piano regolatore del sociale
Al fine di promuovere una reale integrazione delle politiche a livello territoriale che assumano
la necessità di coordinare politiche formative, del lavoro, abitative, urbanistiche, pensiamo che vada
promossa e supportata da parte della regione l’adozione, da parte dei comuni, del Piano Regolatore
Sociale, già in via di sperimentazione in alcune realtà urbane, quale strumento principe per il
ridisegno del sistema locale del welfare urbano. Il Piano Regolatore sociale assumerà
principalmente la funzione di orientare le politiche sanitarie, urbanistiche, della scuola,
dell’ambiente, dei tempi, affinché gli interventi sociali non rimangano confinati nella sfera
assistenziale senza una reale integrazione con le politiche complessive.
Accreditamento
Occorre superare le modalità “tutto tecnico - organizzativa, prestazionistica e centrata su
criteri di tipo mercantile” degli accreditamenti denuncia la Caritas. L'accreditamento è la
certificazione che un soggetto erogatore di servizi, terzo settore, impresa profit ma anche pubblico,
deve avere per poter entrare a far parte di questa rete e quindi stipulare contratti con la pubblica
amministrazione. È evidente che il nuovo sistema richiederà una accresciuta capacità di verifica e di
controllo, oltre che sull'accesso ai servizi in termini di appropriatezza, sul possesso e mutamento dei
requisiti di qualità nonchè sulla appropriatezza delle prestazioni. L'attività di vigilanza è destinata a
svolgere un ruolo crescente di promozione e stimolo nei riguardi dei soggetti gestori pubblici e
privati con la funzione di migliorare l'offerta dei servizi. Essa deve prefigurare un sistema misto di
carattere ispettivo sanzionatorio, da un lato, e di carattere consultivo e promozionale dall'altro,
fornendo anche attività di consulenza tecnica per il raggiungimento degli obiettivi assistenziali
fissati in sede di determinazione dei requisiti di qualità dei servizi. I criteri che si dovranno definire
per l’accreditamento dovranno prefigurare un insieme di azioni positive che garantiscano una
qualità dei servizi che assicuri l’eguaglianza e l’equità nell’accesso, e che abbia al centro la
personalizzazione del processo, la partecipazione della persona alle scelte che lo riguardano, la
globalità della presa in carico tramite l’integrazione professionale e delle risorse presenti nella
comunità, l’appropriatezza organizzativa e metodologica degli interventi, la valutazione della
soddisfazione degli utenti91. Occorre riscrivere la Legge regionale 16 agosto 2002, n. 22 che norma
89
Esemplare l’esperienza della Fondazione Manodori di Reggio Emilia che, oltre ad essere protagonista di iniziative
innovative nel campo del welfare locale, ha impostato una stretta collaborazione e sinergia d’azione con gli Enti locali:
Mauro Bigi, Sussidiarietà e territorio nell’esperienza della Fondazione Manodori, in Gino Mazzoli (a cura di), Il welfare
come leva dello sviluppo locale, Reggio Emilia, 2003
90
La Cgil Veneta ha, a questo proposito, elaborato una prposta dettagliata: Cgil, Un fondo regionale per la non
autosufficienza, 2004 in www.cgil.it/veneto
91
Diana Mauri, Abitare, in Lavinia Bifulco (a cura di)Il genius loci del welfare, Roma, 2003

49
l’accreditamento dando centralità al Comune nel processo di accreditamento e precisando il
concetto di qualità sociale. La costruzione in sede locale dei criteri in un quadro di riferimento
regionale, con la partecipazione di tutti i soggetti che hanno interesse al sistema qualità dei servizi
evita il rischio che l’accreditamento divenga una pratica burocratica da espletare.
Bonus
L’uso indiscriminato dello strumento del bonus può rappresentare il grimaldello attraverso il
quale si vuole attuare meccanismi mercantili logiche di mercato nell’organizzazione e ridisegno del
sistema dei servizi sociali regionali. La Giunta regionale non maschera le sue intenzioni: “con
l’introduzione dei bonus (articolo 20 Testo Unico per le politiche sociali) si intende migliorare la
qualità delle prestazioni, promuovere assistenza privata, regolare ed aumentare il numero delle
famiglie che si affacciano nel mercato sociale regolato dall’ente pubblico”. Noi proponiamo una
introduzione dei bonus calibrato solo sulle persone in grado di effettuare scelte autonome e inteso
come integrazione, non sostituzione, dei servizi. Accanto all’introduzione dei bonus proponiamo il
budget di cura che prevede una regia pubblica nella predeterminazione di un pacchetto obiettivi-
risorse calibrati e progettati su scala individuale coniugando risorse dei soggetti, delle famiglie, del
contesto sociale, del privato sociale, del pubblico, negoziando con i soggetti interessati,
riconvertendo tra le altre ingenti risorse finora attribuite a istituzioni spesso totalizzanti, a
riabilitazione infinita e in genere improbabile. Le forme di gestione dei budget di cura prevedono la
corresponsabilizzazione del privato profit e non profit, delle famiglie e dei soggetti, del volontariato
e dell’associazionismo, capitalizzando legami ed investendo su un ulteriore capitalizzazione degli
stessi.
Accesso
Proponiamo l’attivazione nei Comuni, in accordo con le USL, dello sportello unico per
l’accesso al sistema locale dei servizi socio-assistenziali, socio-sanitari, socio-educativi: uno
strumento importante per facilitare i cittadini a fornire informazioni e orientamento sui diritti, le
opportunità sociali e le risorse. Lo sportello svolgerebbe quindi funzione di ascolto, informazione,
orientamento attivando poi i competenti servizi per la presa in carico.
Piani di zona
Il Piano di Zona deve divenire occasione per veicolare una impostazione nel governo delle
politiche sociali orientata alla sussidiarietà nella logica di fornire autonomia e “empowerment” ai
territori, con una funzione regionale di indirizzo, stimolo, accompagnamento e promozione del
miglioramento continuo. “È infatti proprio nella costruzione di una funzione di pianificazione
diffusa a livello di comunità locale che si gioca buona parte del successo della riforma” scrive il
Formez92. Ma perché questo avvenga occorre che la Regione investa nella promozione e
nell’incentivazione della funzione programmatoria livello locale attraverso la predisposizione di
figure di promotori sociali e con la costituzione di un Ufficio di Piano per sostenere l’attuazione e la
predisposizione dei Piani locali.
Esternalizzazione dei servizi
Una parte consistente dei servizi sociali viene gestita, nella nostra regione, in convenzione
da cooperative sociali. Questa realtà e sì frutto di una tradizione sociale cooperativistica e
mutualistica ma è anche la ricaduta di un forte contingentamento della spesa pubblica e quindi della
necessità, per gli enti locali, di esternalizzare i servizi per riuscire a “far quadrare” i magri bilanci.
Occorre rivedere gli strumenti dell’esternalizzazione, cioè lo schema di convenzione e gli
strumenti di attuazione, al fine di:
- garantire agli utenti la possibilità di portare il loro punto di vista nella verifica del servizio
- garantire la formazione degli operatori
- garantire spazi effettivi di coprogettazione e verifica93 con i responsabili dell’ente pubblico
- garantire i soci delle cooperative dal punto di vista dei diritti e della qualità del lavoro
92
Formez, L’attuazione della riforma del welfare locale, Roma 2003
93
Facciamo riferimento alla metodologia dialogica alla valutazione vedi Studio APS, Spunti 7/2003

50
- promuovere il lavoro di rete e l’apertura al territorio
- promuovere la soggettività dei destinatari
La definizione di nuove modalità impone, ovviamente, una riflessione attenta sui problemi
legati a queste forme di collaborazione tra soggetti pubblici e del privato sociale: problemi che
inevitabilmente sono legati alla crescita qualitativa dei bisogni, alla crescita professionale degli
operatori pubblici e privati, alla reale diffusione di una cultura della trasparenza e della qualità che
fino ad oggi non ha sempre contraddistinto il settore sociale
Contratto “città buona” o “quartiere buono”
Le esperienze a tutela dell’infanzia maturate a seguito dell’emanazione della L. 285, e dai
contratti di quartiere, l’avvio della progettazione sociale nell’ambito dei programmi dei patti
territoriali, la crescita degli interventi finanziati dalla UE per le donne e i giovani a rischio mostrano
finalmente un livello più elevato della programmazione sociale a livello comunale. Crescono le
esperienze di progettazione sociale che si incanalano nei percorsi di sviluppo locale: in sostanza,
dalla cultura dei servizi alla persona alla cultura dei servizi per lo sviluppo locale. Occorre
supportare questa tendenza. Proponiamo quindi l’istituzione di una cabina di regia regionale per la
promozione di un Programma integrato "Città buona" o "contratto quartiere buono", di durata non
meno che decennale, che veda nella struttura regionale il compito di:
- indirizzare e implementare le risorse con la predisposizione di linee di finanziamento ad hoc
- l’indicazione di linee generali per la presentazione di progetti da parte dei Comuni
- attività di supporto e consulenza per al progettazione e l’avvio dei progetti nelle diverse realtà
Alle realtà locali il compito di individuazione, costruzione e attuazione dei progetti.

Territorialità e promozione: una politica sanitaria per la qualità sociale


Le scelte sulla Sanità sono scelte di politica e di qualità dello sviluppo: vanno quindi
ricondotte alla politicità delle scelte di fondo. Il sistema territoriale è l'elemento su cui operare una
vera e propria svolta. Il punto critico del nostro Servizio sanitario regionale, che pure ha raggiunto
livelli di eccellenza, può essere individuato nella carenza dei servizi dedicati alla prevenzione, alla
lotta alla diseguaglianza e all'emarginazione, nella carenza di una efficiente rete di interventi
territoriali e distrettuali94. Del tutto inadeguato è stato così lo sviluppo di un sistema di cure primarie
che riconoscesse nel distretto il punto di reale integrazione e programmazione. Lo stesso Piano
Regionale riconosce che “in generale, nonostante le enunciazioni di principio, ma anche i coerenti
atti programmatori ed amministrativi, l’attenzione a tutti i livelli, è ancora fortemente centrata
sull’ospedale”. L'esigenza di programmazione e integrazione si afferma, oggi, a fronte di un
bisogno di servizi connotato da una forte crescita e da tratti di novità. L'aumento del numero degli
anziani produce un bisogno crescente di servizi sanitari, prevalentemente dedicati alle forme di
cronicità e di assistenza socio-sanitaria. Una risposta a questo fenomeno attraverso una tradizionale
politica di "posti letto" quale soluzione residenziale assistita, si rivela sempre più costosa e incontra
sempre meno consenso tra i soggetti interessati. La crescita della società multietnica determina
nuovi bisogni e necessita di nuove tutele anche sanitarie, in particolare verso gli immigrati che
ancora non sono regolarizzati. E' una condizione, questa, che somma al rischio per la loro salute le
occasioni di esclusione.
Occorre riservare all'ospedale il ruolo di cura di quegli episodi acuti che, richiedendo un'alta
intensità di assistenza, un monitoraggio continuo delle funzioni vitali e un impiego di mezzi
diagnostici complessi, non possono essere affrontati efficacemente in ambulatorio, o al domicilio
94
in questo senso una cartina di tornasole sono le politiche sanitarie per gli immigrati è la necessità, in qualche realtà
regionale intrapresa,”di provvedere ad un "riorientamento" complessivo dei servizi. Si vuole con ciò intendere sia un
ripensamento dell'organizzazione interna al servizio stesso sulla base delle dimostrate esigenze della sua potenziale
utenza (flessibilità orari di apertura, disponibilità servizi di interpretariato, sviluppo del lavoro in gruppo
multidisciplinare, stimolo all'integrazione socio-sanitaria...), che una sua effettiva apertura all'esterno, in raccordo con
altre strutture sia del volontariato e del privato sociale afferenti al medesimo territorio sia altri enti locali”.
Documento "accesso ai servizi sanitari" gruppo di lavoro Salute e Immigrazione - Cnel 2000

51
del paziente. In questo quadro gli ospedali devono costituire une rete integrata di presidi
caratterizzati da una diversa intensità di cura e specializzazione, ma comunque sempre finalizzate al
massimo livello di qualità. La riorganizzazione della rete ospedaliera deve essere supportata da una
analisi approfondita, non economicistica, della possibile utilizzazione del patrimonio esistente; più
sedi ospedaliere comportano certamente maggiori costi di gestione, ma la diffusione nel territorio è
patrimonio acquisito; va salvaguardato il policentrismo del nostro sistema sanitario, una sanità
vicina ai bisogni della gente, la garanzia di requisiti uniformi di qualità e sicurezza per i cittadini 95.
La strada maestra non è quella dei tagli, ma una vera programmazione e riorganizzazione della rete
ospedaliera, partendo dal nostro modello policentrico, e per realizzare con un Piano Socio-Sanitario
e con il Piano Sociale Regionale un nuovo assetto e una forte integrazione socio sanitaria quale
componente decisiva del sistema di welfare locale. Riteniamo vada perseguita la riconversione di
risorse finanziarie e umane e di strutture in un disegno complessivo che ha come obiettivo la
centralità della prevenzione, il potenziamento e la qualificazione dell'assistenza primaria e
territoriale, l'avvio di politiche di riorganizzazione solo in presenza di progetti di riconversione delle
risorse, nonché di nuove dotazioni finanziarie destinate ad investimenti per attrezzature e strutture.
Assumiamo la centralità del territorio e del distretto come asse strategico della nostra
proposta politica. Centralità del sistema territoriale-distrettuale, intesa come luogo nel quale si
intercettano i bisogni, si interpreta il bisogno di assistenza, si individuano le fonti del disagio, si
incontrano la programmazione sociale e quella sanitaria; si portano i servizi vicino alle persone e ai
loro bisogni in forma partecipata; si supera l'approccio alla politica sanitaria intesa solo come
produzione ospedaliera e di posti letto: si afferma compiutamente il diritto alla salute e al benessere.
Questa pensiamo sia una reale applicazione del pensiero federalista 96: superare la concezione dei
“pacchetti di prestazioni” uguali su tutto il territorio e in tutte le realtà per rispondere ai bisogni
effettivi di salute; altrimenti il potere agli enti locali vengono impiegati solo per decidere che cosa
tagliare. La necessaria continuità tra la cura dell'episodio acuto e la riabilitazione deve rientrare
formalmente nei protocolli diagnostico-terapeutici e nel percorso assistenziale di ogni paziente.
Occorre promuovere prioritariamente (secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità) la continuità assistenziale fra Ospedale e territorio per garantire il recupero e la
riabilitazione. I reparti di lungo-degenza per la stabilizzazione dei quadri clinici, i reparti di
riabilitazione estensiva, i centri di cure territoriali e gestiti in collaborazione con i medici di
medicina generale, rappresentano strutture importanti su cui investire in termini di risorse, nuovi
modelli organizzativi e professionalità elevate. Solo in questo modo è possibile dare una risposta
adeguata e credibile ai bisogni di certezze e sicurezza espresse dai cittadini, che altrimenti rischiano
di veder sparire gli ospedali cui essi hanno storicamente fatto riferimento, in assenza di risposte
alternative adeguate.

Promozione della salute


Di fronte alla complessità dei fattori che compongono il quadro della salute nel nostra
regione è prioritario rilanciare la cultura della promozione. Nell'intervento sanitario sviluppare la
prevenzione significa invertire la rotta che ha visto finora centrale il momento della cura e
dell'assistenza ospedaliera; investire risorse adeguate per sviluppare i servizi sul territorio;
incrementare il livello di consapevolezza delle persone; promuovere corretti stili di vita.
Prevenzione significa creare ambienti di vita e di lavoro salubri, eliminare le condizione di rischio.
Prevenzione è un impegno certo di risorse, ma anche un sicuro risparmio economico su costi sociali
e sanitari futuri. Prevenzione è un'impronta culturale che deve informare i comportamenti di tutti e

95
È inoltre da segnalare che la razionalizzazione della rete ospedaliera privilegiando i grandi ospedali rispetto ai piccoli
contrasta con le nuove tendenze che vedono proprio nei piccoli ospedali luoghi dove poter assicurare livelli di qualità
migliori. Si vedano le conclusioni del Progetto di ricerca “Principi guida tecnici, organizzativi e gestionali per la
realizzazione e gestione di ospedali ad alta tecnologia e assistenza” in www.ilbisturi.it
96
Si veda Ivana Cavicchi, Salute e federalismo, Torino, 2001

52
di ognuno, in particolare, di quanti programmano, ai diversi livelli di competenza e di responsabilità
loro affidate, le attività sociali e sanitarie per la promozione della salute.
Sui luoghi di lavoro il tema salute e sicurezza risulta, in un sempre maggior numero di casi,
assolutamente residuale: il modello Veneto della piccola impresa, del lavoro flessibile, della ricerca
dell’abbattimento del costo del lavoro sembra rappresentare il terreno più esposto. Il quadro dei
rischi che mina la salute alimentare è ampio e grave ed una parte minima è rappresentata dalle
sempre più diffuse intolleranze, dall'aumento dei soggetti obesi nella popolazione, dal crescente
numero di anziani con patologie da alimentazione, per non parlare delle forme acute, più facilmente
individuabili. Nulla si sa sui rischi a lungo termine derivanti dalle manipolazioni biochimiche, di
più recente introduzione; su quelli relativi agli agenti introdotti nelle colture per la concimazione e
per la lotta agli infestanti, nonché su quelli usati per la conservazione e il trasporto dei prodotti.
Il rilancio degli obiettivi di prevenzione deve coinvolgere la totalità del sistema, e non solo
questo o quel servizio: non si tratta perciò di creare nuovi servizi, ma di immaginare pacchetti di
prestazioni appropriati e percorsi unitari di accesso ed erogazione di cui siano responsabili unità
territoriali professionalmente adeguate alla complessità del bisogno. Occorre un investimento nei
dipartimenti di prevenzione perché allarghino gli ambiti di pertinenza e d’intervento nell’area
dell’epidemiologia e della comunicazione per la salute. Occorre un rafforzamento, in modo
trasversale, soprattutto delle competenze nei campi dell’epidemiologia, delle malattie infettive,
della tossicologia e della salute ambientale, della comunicazione del rischio, dell’accreditamento e
miglioramento della qualità e della formazione.
Nuovi distretti
I distretti socio – sanitari devono divenire il perno dell’integrazione e della programmazione
socio – sanitaria territoriale. I distretti si dovranno configurare non tanto come delocalizzazioni dei
servizi ma come area di confine in cui istituzioni e società autorganizzata si congiungono con
l’obiettivo della lotta all’esclusione sociale e il miglioramento della qualità dei servizi, attraverso
l’identificazione dei bisogni, la ricerc-azione, la valutazione partecipata e la promozione di
comunità. I nuovi distretti dovranno definirsi come strumento di evidenziazione del fabbisogno,
di autogestione e di accesso ai servizi sociali, sanitari, educativi, ricreativi ecc…e contestualmente
promuovere la partecipazione dei cittadini alla sua programmazione e alla sua gestione.
Questa trasformazione, da un distretto inteso come organizzazione fondata sulla produzione
di prestazioni a quella di un distretto luogo della presa in carico delle persone, deve associarsi a un
assetto aziendale e a un’impostazione di programmazione regionale coerenti, che facilitino e
favoriscano questo ruolo e questa funzione.
Per questo occorre definirne le rinnovate funzioni
- il distretto governa l’assistenza: è responsabile della tutela della salute delle persone di un
determinato territorio, non solamente della cura della malattia delle persone ivi residenti. Legge i
bisogni, li trasforma in domanda, definisce l’offerta per rispondervi.
- Il distretto non è solo sanità: al suo interno le prestazioni di carattere sanitario si integrano e si
armonizzano con le prestazioni di carattere sociale, per un approccio globale e un supporto alla
persona a tutto campo.
- Il distretto tipicamente adotta approcci, valutazioni e interventi multidisciplinari: solo così si
possono ottenere risposte soddisfacenti, risultati più duraturi per i problemi «complessi» che il
distretto è chiamato ad affrontare.
- Il distretto è un percorso di salute: deve prendersi in carico la persona in maniera globale. Ne
deriva che il bisogno di assistenza non può essere scomposto e frammentato in tanti tasselli quanti
sono i problemi, con risposte isolate e prestazioni inevitabilmente scoordinate tra di loro, talora
contrastanti o discontinue.
- Il distretto diventa un’articolazione della società: contribuisce ad arricchire e garantire alla
persona il pieno sviluppo della propria personalità, specialmente se colpita da fattori che ne limitano

53
le potenzialità (malattia, stati di fragilità: età anziana, disabilità, malattie - soprattutto croniche di
lunga durata e progressivamente invalidanti -, condizioni di rischio, ecc..).
- Il distretto per la sua complessità richiede una managerialità direzionale. L’organizzazione del
distretto si basa sulla precondizione di aver definito: mandato, funzioni proprie, linee gerarchiche,
responsabilità. È dotato (come anche sancito nella riforma ter) di autonomia tecnico-gestionale ed
economico-finanziaria.

54
cultura formazione conoscenza
Per una società della conoscenza
Le trasformazioni che hanno attraversato il nostro territorio hanno assunto i connotati di una
“apocalisse antropologica”97. Sono velocemente venute a mancare le categorie e i valori fondanti
che avevano, nel bene e nel male, reso coesa e definita una società. Richiamarle in vita
retoricamente non serve a nulla98: occorre attraversare la crisi fornendo a tutti strumenti di lettura,
luoghi di confronto, temporanee bussole di orientamento. Così come non serve invocare granitiche
identità; pensiamo infatti che le identità siano risorse in formazione e mutamento e le radici vadano
comprese nella loro complessità99. Nel Veneto “la battaglia politica per un’alternativa si intreccia
con la battaglia culturale, anzi è la stessa cosa: agire politicamente significa, qui, agire
culturalmente, cioè cambiare modi di vivere, di pensare, di organizzare, la vita comune e gli stessi
stili di vita”100: modificare le finalità e il senso dello sviluppo è prima di tutto, prima di una azione
politica o amministrativa, una battaglia culturale. Occorre che il Veneto divenga luogo ospitale per
le idee, il dibattito, la formazione. La strategia che abbiamo in mente non riguarda tanto la
conoscenza come elemento essenziale nella competizione internazionale, intesa quindi come
valorizzazione e la qualificazione della “risorsa umana” o di una maggiore innovazione nei processi
produttivi. Quello che noi intendiamo và nella direzione di promuovere conoscenza come strumento
essenziale di ampliamento della democrazia, di riduzione delle disuguaglianze, di qualificazione
delle relazioni, di orientamento nel mondo. Conoscenza, spirito critico, voglia di ricerca per “il
Veneto terra delle relazioni”. Per noi è imprescindibile andare nella direzione di una società in cui
la conoscenza è un patrimonio sociale a disposizione di tutti, un diritto di cittadinanza riconosciuto
e perseguito, come opportunità per tutte le persone di poter partecipare, con sufficiente grado di
consapevolezza, alle trasformazioni del proprio mondo, che si presenta sempre più complesso.

La conoscenza ai tempi del liberismo


L’ “economia della conoscenza”, ovvero la riduzione della conoscenza alle logiche del
mercato, ha provocato e sta provocando due effetti sui sistemi formativi. Per un verso subordina la
produzione di conoscenza ai bisogni dell’economia, per un altro ha bisogno di trasformare gli stessi
“luoghi” che producono conoscenza in un settore appetibile per il mercato (anche a garanzia del
primo aspetto), esponendo la capacità di investire in istruzione e formazione dell’intero sistema
Paese ai “capricci” del mercato e alle esigenze delle multinazionali. Per muoversi in questa
direzione occorre smontare il sistema pubblico, ridurne i costi sostituendolo con un servizio a
domanda individuale, più flessibile, più facilmente organizzabile in segmenti gestiti da privati, dove
tende a scomparire la funzione pubblica della scuola e la sua dimensione di luogo collettivo in cui si
impara insieme ad altri. In questa prospettiva servirà una superficiale conoscenza di base per tutti,
una più raffinata per coloro che sono destinati a far parte della classe dirigente, ed una forte
segmentazione dei saperi specialistici, in netto contrasto con quel ”apprendere ad apprendere” che
ha illuminato le teorie e le pratiche (poche a dire il vero) degli anni 80 e 90. Oltre al ritorno al ruolo
selettivo e di controllo politico delle scuole, che devono far emergere i migliori per la competizione
nazionale e internazionale.

97
Aldo Bonomi, Il distretto del piacere, Torino, 2000
98
come fa invece a piene mani il Programma Regionale di Sviluppo della Giunta Galan. In particolare nel capitolo
riguardante il welfare viene richiamato il ruolo cardine della famiglia veneta nel welfare (leggi: lo sfruttamento della
donna sia essa madre di famiglia o badante immigrata) trascurando il fatto che nel frattempo la famiglia veneta è
letteralmente andata in mille pezzi.
99
segnaliamo l’interessante opera di Marco Aime, Eccessi di culture, Torino, 2004 dove peraltro viene presa in esame la
politica identitaria della giunta Galan
100
Gianfranco Bettin, Smottamenti e inquietudini, in Lo straniero, 52/2004

55
Il disegno di revisione dei sistemi di istruzione e formazione richiama ed insieme promuove
un impianto culturale ed ideologico, che mira ad una sempre più forte “atomizzazione” delle
società. La sfaccettata molteplicità del vivere, la complessità delle relazioni sociali, la ricchezza del
confronto tra i valori e le culture si semplificano nella polarizzazione tra mercato ed individui. Il
mercato è l’unica dimensione che conta davvero. Il mercato è il regolatore sociale “senza se e senza
ma”, in grado di garantire la moltiplicazione delle opportunità per i singoli individui. Quanto tutto
ciò sia solo un’operazione ideologica è sotto gli occhi di tutti. Nella realtà, per un verso, si
mantengono le barriere protezionistiche ed i controlli monopolistici (agricoltura in Europa ed
informazione in Italia sono un buon esempio), per un altro, aumenta la selezione sociale, aumenta la
concentrazione della ricchezza, aumentano le disuguaglianze.
Questo impianto fortemente ideologico provoca tra l’altro la rottura della coesione sociale,
la messa in discussione dei valori fondanti delle società democratiche, l’aumento della solitudine
delle persone, ridotte ad una “folla di io” che esistono e valgono solo in quanto consumatori, in
quanto “funzioni” del mercato. Perfino i monumenti hanno valore solo se hanno un prezzo, ecco
quanto si è voluto comunicare, sul piano ideologico e simbolico, con la costituzione da parte del
governo Berlusconi della Patrimonio SPA (l’agenzia a cui sono stati trasferiti tutti i beni culturali e
demaniali dello Stato con l’incarico di venderli).

La formazione: un altro punto di vista


Viviamo in un mondo che cambia rapidamente, in cui occorre imparare a governare la massa
crescente di informazioni e le ricorrenti innovazioni tecnologiche, in cui occorre sfuggire
all’acritica cultura delle “magnifiche sorti e progressive”. Il compito del sistema formativo, come
sostiene Cini, si fa ambizioso perché dovrebbe “aiutare tutti a non rimanere esecutori e consumatori
passivi e a diventare capaci di prendere delle decisioni […] Si tratta di riconoscere che l’incredibile
aumento di complessità della rete di relazioni che legano ogni individuo agli altri nel tessuto sociale
obbliga ciascuno a compiere quotidianamente delle scelte che possono influire sul futuro proprio e
altrui”. Di fronte a questi scenari la formazione non si identifica nell’apprendimento della “nuova
enciclopedia”, né si può ridurre ad addestramento professionale, che solo può produrre persone
deboli sia sul mercato del lavoro che nella vita sociale e privata. Nel prossimo futuro diventerà
sempre più importante imparare a fare delle scelte, in un mondo in cui l'incertezza è la condizione
epistemologica ed esistenziale che condiziona il mondo dei saperi e quello dei comportamenti.
Ciascuno dovrà sapersi orientare e prendere posizione nel mondo, assumersi responsabilità,
partecipare alla soluzione dei problemi, lavorare con gli altri, gestire conflitti e diversità, sviluppare
la capacità di prevedere e la disponibilità ad affrontare l'imprevedibile, recuperare radici e valori in
processi di mondializzazione che sembrano annullare le individualità e le identità. Diviene perciò
essenziale imparare a “pensare per relazioni”, a collegare tra loro informazioni derivanti da contesti
diversi, a cogliere le relazioni tra fenomeni, in un sistema e tra sistemi, a costruire reti di
interpretazioni significative tra locale e globale.
Tutto ciò è la premessa necessaria per imparare a contestualizzare gli apprendimenti nella
comprensione del mondo che ci circonda per formare persone consapevoli, interessate a partecipare
ai processi sociali e culturali del nostro tempo, consapevoli delle sfide in campo e capaci di
affrontarle. Il punto di forza è la connessione tra apprendimenti disciplinari, costruzione di
competenze trasversali e formazione alla cittadinanza attiva, perché è soprattutto in questo tipo di
percorsi che il mondo delle scelte e quello del pensare si intersecano e consolidano la personalità
del soggetto che apprende rinforzandone la capacità di capire e di agire, il senso di sé e la fiducia
che capire si può.

La Regione e le politiche per la formazione


Nella riforma della scuola (oltre che in quella dell’Università) appare in tutta la sua
evidenza il disegno organico, che, sotto il cappello ideologico di un liberismo oltranzista, cerca di

56
coniugare conservatorismo culturale e restaurazione pedagogica con la destrutturazione della
formazione esistente, Ma è un disegno che presenta gravi ed intrinseche debolezze, perché è
ideologico, perché impoverisce il ruolo sociale e professionale delle scuole e di chi vi opera, perché
espone i lavoratori alla precarietà e alla subordinazione, perché ha in testa un’idea di bambino e di
ragazzo che non c’è più e che non può non provocare nuova disaffezione e nuove lontananze,
perché vuole trasmettere una cultura vecchia, irrigidita, inutile. La proliferarazione di corsi di
diploma mirati su segmenti molto specialistici del mercato del lavoro concretizza una duplice
insania, sia dal punto di vista della flessibilità sia da quello della capacità di innovare. Alle singole
imprese servirebbero giovani già preparati per le loro specifiche esigenze ma, se si seguisse questa
tendenza, i lavoratori diverrebbero "rigidi" e le imprese diverrebbero "cieche". Gli occhi grazie alle
quali le imprese possono individuare opzioni innovative e coltivarle sono infatti costituite da
persone che hanno più conoscenze di quelle correntemente necessarie. I lavoratori preparati per le
esigenze di particolari tipi di impresa risulterebbero inutilizzabili da altri tipi di impresa e
resterebbero disoccupati e farebbero comunque fatica ad adeguarsi a cambiamenti delle produzioni
e delle tecnologie. Per un Veneto che è “costretto” ad una profonda innovazione del modello
produttivo (vedi politiche economiche →) questo tipo di formazione, che lega i ragazzi all’attuale
modalità della produzione in maniera meccanicistica, provocherà impatti particolarmente deleteri.
Le riforme peggiorano, e di molto, la situazione, perché sono funzionali ad un Paese
individualista, diffondono ignoranza e vanno contro gli interessi e i bisogni delle persone che in
quel sistema dovrebbero crescere. Il mondo della formazione e della cultura è di fronte ad un bivio.
Si tratta, infatti, o di rassegnarsi e assistere ad una progressiva delegittimazione della scuola
pubblica, alla secondarizzazione dell’Università, alla marginalizzazione delle Accademie e dei
Conservatori, alla riduzione della ricerca a settore servente del mercato, con tutti i drammi sociali
che ciò comporterà, o di impegnarsi a delineare una nuova politica della conoscenza in grado di
interagire con lo sviluppo del mondo contemporaneo, con le richieste della società e con la
complessità del sapere come condizione indispensabile per qualificare le condizioni di vita delle
persone.
Nella scelta tra queste due alternative si collocano i valori della nostra democrazia e dello
sviluppo equo e solidale: bisogna scegliere, con urgenza e con chiarezza di prospettiva. Per questo il
ritiro in toto della Riforma Moratti e dei decreti conseguenti è un obiettivo essenziale per poter
immaginare una qualificazione della formazione formativa della scuola e dell’università. La
possibile azione regionale si inserisce in questo quadro. La progressiva regionalizzazione del
sistema della formazione che riguarda in particolare il canale della formazione professionalizzante
mira a dequalificare, e differenziare ulteriormente la formazione italiana. La Regione dovrà
promuovere un’azione, per quanto di sua competenza, in contrasto con questa deriva precisando
alcuni principi di carattere generale e fornendo strumenti per la promozione di un sistema regionale
della formazione accessibile e di qualità.

Per una Carta regionale della formazione e dell’istruzione


Mettere in campo una proposta programmatica sulla formazione significa, innanzitutto,
partire dai valori ed essere su questi molto netti e determinati.
- il diritto alla formazione e alla conoscenza per tutto l’arco della vita. Va assicurata a tutti la
possibilità di accedere e di rimanere con successo nei percorsi formativi, scolastici e universitari
senza alcuna discriminazione di razza, sesso, condizione sociale ed economica. Il sapere è un bene
anche per le persone adulte e per gli anziani, non solo per i giovani.
- la dimensione pubblica e laica della scuola, dell’università e della ricerca, come garanzia del
pluralismo, della democrazia e delle pari opportunità. Esse devono rappresentare il luogo
privilegiato d’investimento di risorse e di impegni conseguenti contro ogni ipotesi di
privatizzazione.

57
- la tutela delle persone da ogni mercificazione delle proprie condizioni. In una società sempre
più globale, in cui il ruolo della conoscenza e della ricerca diventano fondamentali. La conoscenza
non serve solo per entrare a pieno diritto nella sfera sociale “adulta” ma è uno strumento
indispensabile affinché ognuno riesca a governare e ad essere attore consapevole: per questo deve
essere rafforzata.
- il riconoscimento e la valorizzazione delle professionalità di tutto il personale, intese come
diritto ad una formazione qualificata, forte avanzamento della condizione economica e come
sostegno ed incentivazione della professionalità. La professionalità dei lavoratori della scuola è
garanzia del diritto ad una formazione di qualità.
- l’autonomia della ricerca come condizione perché il nostro Paese diventi un punto di riferimento
qualificato sui terreni delle risorse, energie, ambiente, innovazioni compatibili con la dignità ed il
rispetto dell’essere umano e dell’ambiente che lo circonda.

La formazione professionale
La Regione avrà un ruolo fondamentale nella riqualificazione del ruolo della formazione
professionale. La formazione professionale deve diventare soggetto protagonista del sistema
formativo che deve garantire a tutti il diritto alla formazione per tutto l’arco della vita. La Regione
deve avere una ruolo di regia del comparto della formazione professionale nel suo complesso e un
ruolo essenziale nel valorizzazione dei profili di qualità, sperimentazione e innovazione. Le azioni
per la formazione dovranno inserirsi nell’ambito delle più ampie azioni per lo sviluppo locale, con
l’integrazione nel territorio delle iniziative di orientamento, formazione, incontro tra domanda e
offerta di lavoro, nonché di tutte le altre iniziative nel campo dell’istruzione e delle politiche sociali
in grado di rafforzare e qualificare l’offerta di lavoro. Siamo convinti che il problema dello sviluppo
di professioni, la possibilità di trovare lavoro, e lo sviluppo di un territorio, siano ambiti di una
stessa questione, facce della stessa medaglia. Se si vuole affrontare la problematica della
formazione finalizzata ad agevolare l’inserimento lavorativo bisogna calare tale attività sulla realtà
di quel singolo territorio, non è possibile riprodurre modelli e contesti formativi indipendentemente
dal contesto in cui stiamo operando. Riteniamo inoltre che la formazione sia intimamente legata
all’idea di sviluppo di quel territorio, una buona formazione quindi deve essere progettata non solo
a partire dall’idea dei formatori, anche se contestualizzata sul territorio, ma deve essere progettata
assieme al territorio, tenendo conto della programmazione di sviluppo che il territorio si dà o si è
dato. La programmazione della formazione dev’essere prefigurativa dei cambiamenti in corso o che
avverranno: occorre un approccio dinamico dello sviluppo che accompagni e stimoli i mutamenti
auspicabili. Inoltre il ruolo della formazione professionale è determinante affinché il cambiamento
non si trasformi in emarginazione per chi lo deve affrontare ed è, da questo punto di vista, un
formidabile mezzo per garantire ai lavoratori, sia quelli in ingresso sia quelli già inseriti, condizioni
di lavoro dignitose e la possibilità di migliorarle, riducendo il rischio di espulsione a fronte dei
mutamenti nell’organizzazione del lavoro stesso.
E’ evidente che un sistema di formazione professionale fondato su queste priorità ha bisogno
di un governo regionale capace di programmare quelle attività, raccordandole con il mercato del
lavoro, di una attività continua di monitoraggio ma anche di una capacità di anticipare le evoluzioni
di quel mercato, in modo da garantire percorsi che facilitino l’inserimento lavorativo dei giovani,
ma anche di sostenere la qualificazione del modello di sviluppo, attraverso la qualificazione delle
competenze professionali degli operatori. Sono attività più sofisticate che richiedono un presidio
costante e nel contempo una forte flessibilità nell’organizzazione dell’offerta formativa. Occorre la
messa a regime di percorsi formativi, articolati in cicli, rivolti alla fascia dei giovani di età tra i 15 e
i 18 anni che assicurino:
- una programmazione congruente con le politiche di sviluppo locale;
- la personalizzazione del percorso, tenendo conto delle specificità dei soggetti,

58
- il rispetto degli standard formativi, e la loro certificazione, omogenei rispetto al territorio
nazionale e focalizzati sullo sviluppo di competenze di base, tecnico-professionali e
trasversali in grado, anche mediante attività di tirocinio, di realizzare un percorso educativo
unitario;
- la stabilizzazione a regime del sistema di formazione degli apprendisti;
- la messa a sistema di progetti integrati di istruzione scolastica e formazione professionale
che consentano, mediante la determinazione del valore dei crediti formativi maturati nella
scuola, nella formazione professionale e nell’apprendistato, il passaggio dall’uno all’altro
dei canali formativi.
Occorre promuovere l’integrazione. L’integrazione implica che, riconoscendo reciprocamente i
diversi mandati ed i propri limiti, il sistema di formazione professionale e quello scolastico, sulla
base della rilevazione dei bisogni delle persone che ad essi si rivolgono, si mettono insieme e
costruiscono il progetto formativo integrato, in cui ciascuno apporta il suo specifico, professionale e
culturale. Un’integrazione che è utile alla scuola per superare la dicotomia tra saperi e competenze,
arricchendo e ampliando la cultura di base dei giovani con la conoscenza del lavoro, non certo in
termini addestrativi, rendendo reale l’orientamento, coniugando insieme la conoscenza di sé con la
conoscenza delle molteplicità e diversità delle opportunità disponibili sul territorio, e garantendo
saperi e conoscenze per la cittadinanza attiva a chi, dopo l’obbligo scolastico, ha scelto, invece, la
formazione professionale. In tal senso l‘integrazione non è una pratica da adottare per i più deboli,
ma al contrario un’opportunità, diversamente modulata, da offrire a tutti.
La Regione deve promuovere la predisposizione di servizi stabili di informazione e di
orientamento personalizzato, a partire dalla scuola dell’obbligo, idonei a individuare competenze,
capacità e attitudini dei giovani, a informarli sulle opportunità formative e di lavoro in apprendistato
esistenti nel territorio, a indirizzarne l’accesso a un percorso di formazione. L’adozione di un
approccio di tipo preventivo ai problemi dell’occupazione, la relativa priorità riconosciuta
all’obiettivo dell’occupabilità, la prospettiva di un sistema informato al principio della formazione
per tutto l’arco della vita esaltano la funzione dell’orientamento come azione di supporto alla
realizzazione di percorsi di vita autodeterminati, educativi o professionali che siano. Occorre inoltre
una azione decisa per la qualificazione e regolamentazione dell’apprendistato: occorre invertire
la tendenza per cui l’apprendistato diviene occasione di bassa remunerazione per i lavoratori.
La quota oraria per la formazione deve essere adeguata, non residuale rispetto alle ore dedicate al
lavoro. L’obiettivo cui gradualmente tendere, partendo dalla attuali 240 h annue minime, dovrebbe
vedere un’alternanza piena tra studio e lavoro, con un monte orario quindi paritetico. La formazione
si deve realizzare presso i centri di formazione professionale accreditati, che organizzeranno
un’apposita offerta e con caratteristiche analoghe a quelle proposte per l’obbligo formativo. In tutti i
casi deve trattarsi di formazione esterna all’azienda.

Quale autonomia.
Dietro l’insieme delle misure riformatrici si sta disegnando un nuovo sistema centralistico a
base regionale, in cui le scuole vengono espropriate del loro ruolo di elaborazione professionale,
culturale ed educativa, L’autonomia viene limitata ai soli aspetti gestionali e le scuole sono
sottomesse alle Direzioni Regionali o all’Assessore di turno. La logica dell’autonomia dovrebbe
invece sottolineare il legame tra ogni scuola e il territorio nei cui confronti essa deve assumersi una
funzione di promozione, di animazione culturale, interpretandone le esigenze e cercando di
rispondere ad esse. Vuol dire che la scuola diventa un’insostituibile risorsa, un effettivo agente di
sviluppo culturale, civile, sociale, del territorio e della comunità locale non solo e non tanto perché
prepara al lavoro ma anche e soprattutto perché costruisce una nuova cittadinanza attiva,
consapevole, responsabile e la costruisce interloquendo e relazionandosi con gli altri soggetti
imparando a tener conto dei processi reali in campo. Nelle scuole, grazie alla normativa
sull’autonomia, ci sono strumenti per difendere e valorizzare la qualità della scuola e contrastare le

59
negatività che la Riforma Moratti contiene, infatti ogni intervento normativo, sia di carattere
nazionale che regionale, non può non tener conto dei poteri che hanno le scuole in regime di
autonomia. La Regione deve promuovere l’autonomia scolastica, contro ogni tentativo di
soffocamento o compressione, quale garanzia della libertà di insegnamento, di pluralismo culturale
e come strumento per realizzare piani formativi in stretto collegamento con le necessità del
territorio. Coerentemente pensiamo che la Regione debba trasferire alle scuole ogni competenza
propria in materia curriculare e didattica, in particolare le quote dei piani di studio, che saranno
attribuiti dal progetto Moratti e dal nuovo testo di riforma costituzionale alla Regione stessa,
espropriando le scuole della competenza attuale sulla definizione del 15% del monte ore.
Per valorizzare l’autonomia scolastica, la Regione e gli Enti locali dovranno sostenere
- l’innovazione didattica, progetti di qualificazione dell’offerta formativa, prioritariamente realizzati
da istituzioni scolastiche in rete o in consorzio; azioni volte al perseguimento del successo
formativo ed al contrasto della dispersione scolastica; azioni volte all’integrazione dei ragazzi
disabili e all’inclusione degli stranieri o in condizione di disagio sociale;
- il rafforzamento dei rapporti fra le scuole, fra queste e gli Enti locali, la valorizzazione delle
diverse risorse (educative, formative, culturali, scientifiche, tecniche, tecnologiche e professionali)
presenti nel territorio.
Quale ulteriore strumento di sostegno allo sviluppo dell’autonomia e al compito di docenti e
formatori, la Regione promuove l’istituzione di Centri di servizi che avranno lo scopo di mettere in
rete le migliori esperienze di innovazione didattica e offriranno servizi su richiesta delle istituzioni
scolastiche, o degli enti locali.

Istruzione e formazione per tutto l’arco della vita.


Occorre considerare l’educazione degli adulti come una vera priorità incentivando tutte le
diverse articolazioni che la contraddistinguono e incentivandone la frequenza. Nell’educazione
degli adulti, in un’ottica di sviluppo globale, viene proposto il concetto di lifelong learning E’ un
concetto potente per incoraggiare lo sviluppo ecologicamente sostenibile, per promuovere
democrazia, giustizia, stili di vita sostenibili, la coscienza dell’interdipendenza globale. Da questo
punto di vista l’educazione degli adulti non può essere letta unicamente come lifelong education,
perché non si tratta di far durare il processo educativo per tutta la vita (con il rischio estremo di
pensare che la gente debba andare a scuola per tutta la vita), ma di riconoscere che la vita può
rappresentare un continuo processo di crescita e di apprendimento, se vengono garantite alcune
condizioni e se sono riconosciuti alcun i diritti: il concetto di lifelong learning vuole sottolineare “la
necessità di vivere tutta la vita in condizioni di apprendimento”. In un’ottica di lifelong learning si
capisce che le “agenzie” che concorrono alla formazione lungo tutto l’arco della vita non sono
unicamente quelle “formali”, la scuola e i sistemi della formazione professionale, ma anche quelle
“non formali” che vanno dalle famiglie alle organizzazioni religiose, dai mass media alle
organizzazioni sindacali, dalle formazioni politiche al mondo del no profit, del volontariato e
dell’associazionismo101.
Se cresce il livello di conoscenza della popolazione cresce il benessere complessivo ed i
vantaggi sono su più fronti: quello dei minori costi sociali, quello della qualità della vita pubblica
conseguente ad una maggiore partecipazione e democrazia, quello relativo al miglioramento
complessivo di un sistema produttivo che compete a livello internazionale sulla qualità e non sui
costi. In questa direzione occorre riservare un’attenzione particolare agli anziani ed ai loro bisogni
di conoscere e sapere, che sovente rappresentano una sorta di recupero di spazi e desideri che non è
stato possibile esaudire prima.

Una formazione continua.


101
ci permettiamo di ricordare, visto il contesto, l’esperienza delle Università Verdi degli anni ’80 che hanno avuto un
ruolo prezioso nel formare una generazione di operatori sociali e militanti politici

60
L’accesso a opportunità di formazione sul lavoro appare uno degli elementi distintivi di
cristallizzazione e rafforzamento delle disuguaglianze nel mercato del lavoro - nella occupabilità
delle persone non solo all’ingresso, ma lungo il ciclo di vita. Sono i lavoratori a bassa qualifica i più
esposti non tanto alla perdita del lavoro quanto a non trovarne un altro nel caso in cui lo perdano. La
bassa o nulla esperienza formativa si somma, aumentandone le conseguenze in termini di
dequalificazione professionale, alla bassa qualità del lavoro che si svolge (misurata dalla esistenza
di stimoli ad apprendere, varietà, possibilità di autonomia) 102. Occorre un impegno continuativo e
consistente, assistito da adeguate risorse per la costruzione e alimentazione di un “sistema”
regionale di formazione continua. Occorre mettere in campo strumenti programmatori a livello
locale ( Patti territoriali per la formazione) che attuino le linee d’intervento dei Piano operativi
regionali valorizzando la dimensione locale, la funzione delle strategie formative e il nuovo ruolo
degli attori locali dello sviluppo. Prioritario è l’individuazione di nuovi bacini d’impiego (beni
culturali, manutenzione e riqualificazione ambientale, servizi di prossimità, riqualificazione urbana)
rendendo funzionale le politiche formative e per il lavoro alle esigenze del territorio e coerenti con
le differenti condizioni locali.
Questo strumento, anche se non và mitizzato, può servire a contrastare le derive di
precarizzazione insite nella crescente flessibilizzazione - e di impoverimento culturale e
professionale che ne consegue - del mercato del lavoro (vedi politica del lavoro →).

Università
Anche per l’Università una possibile via di salvezza alla dequalificazione e privatizzazione
che la stanno potentemente attraversando può trovarsi nell’azione locale. E’ dal territorio che
possono venire bisogni reali e domande genuine di conoscenza, di sapere socialmente plausibile. E’
al territorio che l’università può rivolgere i suoi sforzi per non perdere i contatti con la società (e
non solo con il mercato) e con i cittadini (che non sono solo consumatori). Il compito storico delle
Università è di fornire sostegno culturale, scientifico e tecnico al territorio. Per questo occorre un
rinnovato ruolo della Regione, non solo in una decisa promozione del diritto allo studio, ma anche
nella capacità ci interlocuzione per attivare attività di ricerca e didattica in collaborazione con
soggetti sociali e istituzionali sui temi della sostenibilità socioambientale dello sviluppo. La
Regione dovrà promuovere - attraverso accordi di programma - la domanda degli enti locali e dei
soggetti sociali affinché l’Università acquisti il ruolo di intelligenza territoriale.

“non uno di meno”.


Pensiamo che un paese all’altezza delle sfide della cosiddetta società della conoscenza abbia
bisogno di cittadini con un alto grado di istruzione e che quindi suo obiettivo prioritario debba
essere portare la stragrande maggioranza dei giovani al diploma. Il rafforzamento e l’estensione a
ogni livello degli interventi del diritto allo studio, con particolare riguardo al segmento a più alto
tasso di abbandono costituito dagli studenti dei primi anni della scuola secondaria, e del diritto allo
studio universitario (numero di borse di studio corrispondenti al numero degli studenti idonei,
incremento degli alloggi universitari), per concorrere a un significativo innalzamento del numero
dei diplomati e dei laureati. i giovani e gli adulti siano messi nelle condizioni di incontrare il sapere.
Se il sapere arricchisce le persone, e se il beneficio prodotto dal punto di vista economico e sociale
è evidente, allora il suo costo non può essere caricato sulle spalle dei singoli. Occorre un piano
regionale per il diritto allo studio che riconosca, in relazione al reddito, ad ogni individuo e
proporzionalmente alla durata degli studi un contributo economico crescente a testimoniare
dell’investimento che il Paese mette in campo. Non è più possibile che l’intervento sul diritto allo

102
Chiara Saraceno, Formazione, povertà ed esclusione sociale, in www.lavoce.it

61
studio abbia al suo centro prevalentemente il sostegno ai bisognosi, mentre è decisamente
inaccettabile che il diritto allo studio sia piegato a finanziamenti a favore del privato 103.
Altri strumenti che si dovranno individuare saranno il comodato gratuito dei libri di testo, i
prestiti d’onore per l’acquisto di strumenti formativi, corsi per allievi di lingua madre non italiana,
potenziamento dei laboratori e delle biblioteche degli istituti scolastici. Anche in questo modo, con
il concorso ed il coordinamento dell’attività dei comuni e delle province, con l’impegno di risorse
significative, la Regione può tentare di arginare il degrado che accompagna la riforma in atto e che
investe, attraverso la scuola, l’intera società. Occorre inoltre investire perché la scuola recuperi un
ruolo di inclusione sociale potenziando le attività di sostegno all’integrazione dei disabili e la
mediazione interculturale per l’inclusione degli immigrati.

Dignità
Occorre sostenere le attività di qualificazione continua sia degli insegnanti sia dei formatori
investendo perciò nella formazione. Proponiamo di istituire assegni di studio annuali da destinare al
personale docente che intenda avvalersi del periodo di aspettativa previsto dalla legge 448 del ’98.
Tali assegni, vere e proprio “borse di studio” saranno concessi a docenti e formatori che
progetteranno un personale progetto di aggiornamento legato alle esigenze didattiche sui punti
critici della riduzione dell’abbandono, della lotta alla selezione, dell’accoglienza e dell’inclusione
degli stranieri, dell’integrazione degli alunni disabili.

Strumenti
I principali strumenti per la loro attuazione configurano un insieme, intimamente correlato e
fortemente interdipendente, del pari articolato e diversificato, che è necessario tenere in coerenza:
i programmi comunitari assistiti dal Fse;
i programmi di intervento statali (per le strutture scolastiche e il diritto allo studio, per il Dsu,
per la formazione continua, per l’occupazione, per l’imprenditorialità femminile, per l’inserimento
lavorativo dei disabili), che prevedono forme diverse di concorso della Regione;
i piani e programmi regionali, settoriali e intersettoriali che, in tutti i campi considerati,
intervengono in via autonoma o integrando risorse proprie con quelle comunitarie, statali e di
privati;
i programmi di attuazione o di sviluppo a livello locale.
Si tratta pertanto di riuscire a garantire un efficace coordinamento programmatico e attuativo di tale
complesso di politiche, di programmi e di interventi al perseguimento e alla realizzazione degli
obiettivi strategici sopra individuati.

Beni e politiche culturali


La concezione privatistica della cultura è evidenziata - nel settore dei beni culturali - dalla
legge “eversiva” sulla Patrimonio S.p.A.: una mostruosità giuridica che per la prima volta nella
storia italiana crea un meccanismo di dismissioni indiscriminate del patrimonio immobiliare
pubblico (inclusi i beni culturali)104. L’affidamento alle Scip (Società per la cartolarizzazione di
immobili pubblici) delle dismissioni del nostro patrimonio è procedura doppiamente contestabile,
non solo per scarsa trasparenza ma anche perché concepita in modo da eludere lo scomodo
passaggio attraverso i pareri di merito del ministero dei Beni culturali. Ma non solo: l’impianto
ideologico che governa la cultura in questo paese è palesato inoltre dal un decreto legislativo varato
in tutta fretta il 24 dicembre 2002 che ha introdotto con un colpo di mano il concetto di
103
occorre por fine all’attuale scandalosa normativa sui buoni scuola , si veda, sull’inefficacia e ingiustizia di questo
strumento, Tullio Jappelli, Il buono non aiuta la scuola, in www.lavoce.it. Ricordiamo come il buono scuola sia stato
oggetto di una battaglia referendaria che, pur persa, ha permesso di far emergere la natura ideologica di questo
strumento
104
si veda l’esemplare “pamphlet” di denuncia civile: Salvatore Settis, Italia S.P.A., l’assalto al patrimonio culturale,
Milano, 2002 e anche l’aggiornatissimo www.patrimoniosos.it

62
“dismissione urgente”, mettendo in vendita letteralmente in tre giorni decine di immobili in tutta
Italia, ancora una volta senza consultazioni previe col ministero dei Beni culturali. In modo del tutto
analogo, il devastante condono edilizio destinato a ferire profondamente le nostre città e i nostri
paesaggi non solo ignora, ma irride e calpesta la proposta di legge Urbani sulla qualità
architettonica e ambientale, approvata dal governo poche settimane prima. Inoltre l’art. 27 della
Finanziaria 2004 impone infatti la verifica dell’interesse artistico, storico e archeologico dei beni
non solo immobili, ma anche mobili di proprietà pubblica entro il termine perentorio di 30 giorni.
Responsabili della verifica sono oltre tutto le Soprintendenze regionali, di creazione recentissima e
che non dispongono degli inventari dei beni, ancora (e giustamente) presso le relative
soprintendenze di settore. Citiamo inoltre l’art. 32 del disegno di legge-delega in materia ambientale
che è stato emendato in modo da consentire la totale sanatoria degli illeciti in materia paesaggistica,
senza alcun limite all’aumento delle superfici e dei volumi e senza alcuna dichiarazione di
compatibilità basata sulle norme di protezione del paesaggio, cioè aggravando oltre il credibile le
norme già pessime della legge sul condono edilizio.
A questo potente e arrogante attacco al bene pubblico la Regione può rispondere mettendo in
atto procedure di blocco degli atti di vendita e farsi parte di una grande battaglia di civiltà contro
saccheggiatori e vandali.

Per una politica regionale


Oltre al blocco degli atti di vendita, la Regione, per quanto di sua competenza, dovrà
promuovere una politica che esprima culturalmente una radicale diversità dagli indirizzi nazionali.
Crediamo che, di fronte a questa situazione sempre più preoccupante sia opportuno indicare alcune
questioni fondanti per le politiche culturali pubbliche che il Veneto, con le sue istituzioni e
associazioni, dovrà sviluppare. Vi sono alcune questioni centrali inderogabili: da una concezione
dei beni culturali come “risorsa”, “giacimenti” da mettere al lavoro e da sfruttare economicamente
occorre opporre una concezione dei beni culturali come memoria e bene comune assolutamente
insofferente alle regole del mercato. Il nostro patrimonio culturale è un insieme indissolubilmente
legato alla complessità del territorio, testimone della stratificazione storica che lo ha prodotto ed è
costitutiva del patto di cittadinanza che lega gli abitanti al luogo.
Per questo il bene culturale non è “individuabile”, quantificabile e monetizzabile perché
inserito in un unicum che è indissolubilmente patrimonio pubblico. Il che non vuol dire che i beni
culturali non siano anche formidabili “attrattori” e che, attraverso la loro opportuna valorizzazione,
possa avviarsi la riqualificazione di un territorio. Non a caso proponiamo i distretti culturali quali
sistema integrato di offerte culturali e turistiche, siamo a conoscenza delle potenzialità economiche
che la valorizzazione del bene culturale implica105. Inoltre pensiamo alla formidabile opportunità di
creazione di nuovi lavori che una corretta valorizzazione dei beni culturali induce 106. Ma questi, pur
importanti, aspetti non devono offuscare il principio per cui il bene culturale è prima di tutto un
carattere costitutivo della nostra identità. Per questo la loro tutela e valorizzazione deve divenire un
processo partecipato che coinvolge la comunità, le scuole, le fondazioni107.
Le politiche culturali devono essere caratterizzate da una concezione della cultura come
fondamentale diritto di cittadinanza per chiunque viva ed operi in Veneto. Questa concezione deve
orientare politiche di riequilibrio territoriale che permettano di iniziare a valorizzare le potenzialità,
spesso inespresse, del Veneto minore o delle aree degradate della città diffusa, superando i limiti di
una politica culturale elitaria e attenta esclusivamente ai centri forti della tradizione culturale.
Occorre sviluppare "reti" territoriali policentriche per lo sviluppo di azioni culturali: reti territoriali

105
si veda in proposito Roberto Grossi e Marco Meneguzzo (a cura di), La valorizzazione del patrimonio culturale per
lo sviluppo locale, Primo Rapporto Annuale Federculture
106
Silvia Dell’Orso, Altro che musei, Roma, 2002
107
pensiamo alle operazione di “adozione dei monumenti” promosse da Legambiente con le scuole
www.legambiente.com

63
del sistema bibliotecario, sistemi museali, circuiti dei piccoli teatri. Bisogna progettare una politica
culturale regionale articolate per reti, strutture, servizi, unitaria e trasversale ai diversi ambiti di
intervento: dall'archeologia all'arte contemporanea. Riguardo al grande contenitore dei beni culturali
il paesaggio - bene culturale esso stesso e testimone dinamico dell'evoluzione dei luoghi da
difendere e tramandare - deve svilupparsi una nuova cultura di tutela e valorizzazione. Gli interventi
di recupero e valorizzazione del patrimonio architettonico, ad esempio, devono perdere il loro
carattere di interventi di emergenza, talvolta disinseriti da una logica progettuale di contesto
territoriale o addirittura privi della necessaria destinazione d'uso, per assumere il ruolo di "chiavi di
volta" di un territorio capaci di innescare processi originali di sviluppo locale in un contesto
regionale. Riguardo alla salvaguardia del paesaggio Domenico Luciani sottolinea: “per
salvaguardarli è necessario introdurre un elemento di discontinuità rispetto al semplice concetto di
tutela, parlando invece, decisamente, di governo”. La valorizzazione dei beni culturali, che dovrà
sempre più essere gestita progettualmente e operativamente dalle Province e dai Comuni in
collaborazione con gli istituti e le associazioni culturali, dovrà tendere ad acquisire una prospettiva
di processo territoriale di lungo periodo. Strategico dovrà essere nella fruizione pubblica dei beni
culturali rapporti e collaborazioni tra istituzioni locali e mondo della scuola. Reti e sistemi dovranno
divenire le parole chiave delle politiche culturali regionali: sistemi museali, reti bibliotecarie, reti
interculturali, reti teatrali, reti per l'arte contemporanea.

Politiche culturali e sviluppo locale


Anche in Italia, la cultura assume sempre più spesso un ruolo centrale nel contribuire a
connotare regioni, città, luoghi, nell’identificare e nel promuovere il “locale” come portatore di una
irripetibile complessità che informa una particolare qualità della vita, del luogo, del paesaggio. I
sistemi museali, le tessere di libero accesso a beni culturali e musei, i festival, la connessione di
manifestazioni culturali, cinema e spettacolo dal vivo con la cultura eno-gastronomica e con le
produzioni agricole di eccellenza sono oggi a pieno titolo considerati risorse per lo sviluppo
economico e sociale, oltreché culturale, punti di forza per uno sviluppo territoriale strategico.
Le tematiche dello sviluppo locale implicano sovente processi di convergenza tra politiche
culturali e politiche di sviluppo socio-economico non sempre sostanziati da specifici strumenti
tecnici, ma più spesso sostenuti da un’attività di coordinamento sul campo, da processi di
cooperazione intersettoriale. “Il necessario requisito perché questo sentiero di crescita possa essere
intrapreso risiede nell’effettiva presa di coscienza da parte della città che la cultura sia un vero e
proprio asset da mettere a valore al pari di altri settori economici tradizionalmente considerati fonte
primaria di sviluppo e reddito” argomenta Renzo Rullani108.
In questa direzione una proposta operativa riguarda i cosiddetti “distretti culturali” 109 che
rappresentano uno dei temi di dibattito e di sperimentazione in Italia. I distretti culturali, in
particolare in aree metropolitana, possono portare nuova linfa alle comunità locali utilizzando i
servizi artistici e culturali per attrarre, contrastare il declino economico industriale e tracciare una
nuova immagine della città. Al contrario dei distretti industriali italiani, che concorrendo alla
crescita economica hanno d’altronde concorso alla diffusione urbana, al degrado del paesaggio e a
modelli di insediamento sul territorio fortemente problematici e poco sostenibili, ai distretti culturali
si chiede, invece, di operare per una integrazione del paesaggio, per la costruzione di nuove
centralità, per un recupero ambientale dei territori.
Come rileva Michele Trimarchi “la cultura produce un valore specifico che comprende la
meraviglia per la bellezza ma anche l’apprendimento di linguaggi complessi, che passa per vie
soggettive e spesso intuitive per contribuire al perseguimento di una finalità che soltanto negli
ultimi anni gli economisti stanno scoprendo senza più vergognarsene: la felicità.” 110
108
Enzo Rullani, Stefano Miceli, Eleonora Di Maria, Città e cultura delle reti, Bologna, 2002
109
Pietro Antonio Valentino, Le trame del territorio, Piacenza, 2003
110
Michele Trimarchi, Impariamo l’economia della cultura, in Reset, 86/2004

64
Linee guida
Le linee guida di un’azione regionale in questo campo:
consolidare e ampliare l’armatura territoriale (luoghi e opportunità di espressione, di formazione
e di fruizione della cultura) a garanzia dei diritti primari di cittadinanza nonché del mantenimento e
della qualificazione permanente del capitale umano;
il potenziamento dell’intervento per la conservazione, il recupero funzionale e la valorizzazione
del patrimonio di interesse storico, artistico, ambientale e culturale, assumendo a criteri-guida della
programmazione l’equilibrio territoriale, aderente alla sua caratteristica di patrimonio “diffuso”, e
l’equilibrio di ambito tematico (archeologia industriale e cultura del lavoro, arte contemporanea,
castelli e fortificazioni, patrimonio religioso, ecomusei e parchi culturali, strutture dello spettacolo,
strutture bibliotecarie, ecc.), corrispondente alle sue caratteristiche di stratificazione storica e
diversificazione tipologica.
sostenere la valorizzazione della risorsa cultura complessivamente intesa come parte integrante
e sostanziale di programmi locali di sviluppo che utilizzano le risorse endogene
(ambientali/culturali) oltre i confini dell’attrattività turistica (ricerca, tecnologia, innovazione,
servizi, ecc.);
la qualificazione degli interventi nel senso dell’integrazione:
- infrasettoriale, ai fini della definizione e dotazione di compiuti “sistemi culturali”, nei quali cioè le
diverse e diversificate strutture, luoghi, produzioni si configurino come un insieme interrelato di
risorse e opportunità disponibili sia per i bisogni delle comunità sia per qualsiasi altra utilizzazione
(turistica, economica, scientifica, ecc.);
- intersettoriale, ai fini dell’utilizzazione complessiva e unitaria di risorse che si complementano
l’una con l’altra producendo un valore aggiunto (le strutture culturali come risorsa per l’educazione
e la formazione, come bacini d’impiego, come fonte per le produzioni artigianali, come terreno di
sviluppo per applicazioni tecnologiche);

Azioni e programmi
Per questo pensiamo ad una serie di azioni:
 valorizzazione dei beni culturali che, presenti diffusamente nel Veneto policentrico, possono
interagire con le politiche di sviluppo agricolo, dell’agriturismo, del turismo culturale, concorrendo
alla vitalità dei piccoli centri e dando visibilità al loro patrimonio 111. L’obiettivo principale è creare
dei veri e propri distretti culturali attraverso cui si afferma la riscoperta della territorialità come
fattore competitivo e di sviluppo.
o elaborazione di linee guida per la valorizzazione e la tutela dell’insieme degli edifici che
costituiscono quel “patrimonio diffuso” che connota i centri storici. Occorre adottare politiche
caratterizzate dal carattere integrato degli interventi; dal ricorso a nuove relazioni cooperative tra
istituzioni pubbliche e soggetti privati; da una capacità regolativa dei meccanismi di mercato
affinché la rivalorizzazione immobiliare innescata dalla riqualificazione, sia associata alla
polifunzionalità degli insediamenti. La rigenerazione del capitale manufatto offre l’occasione per
produrre valori estetici-simbolici-storici, ed insieme valori economici e valori sociali; per potersi
realizzare, il processo di conservazione richiede l’elaborazione di una forma di pianificazione
strategica, interattiva, ciclica, incrementale, fortemente partecipativa.
all’innovazione tecnologica e organizzativa nei servizi dell’informazione e della cultura
(sistema museale, reti bibliotecarie, ecc.) che ha determinato nuove forme e modalità di gestione
mediante la diffusione di nuove tecnologie e la valorizzazione dell’artigianato di qualità;

111
l’esempio più “ovvio” sono le Ville Venete su cui si sconta una mancanza di governo nella tutela, ma pensiamo
all’edilizia rurale diffusa - simbolo di quel patrimonio “minore” che contraddistingue il tessuto storico culturale di un
territorio - spesso in stato d’abbandono e inglobata dall’espandersi della città diffusa; o comunque quel patrimonio
“minore” che contraddistingue il tessuto storico culturale di un territorio

65
alla produzione di strumenti per la conoscenza e la tutela del patrimonio culturale che, oltre a
sostenere attività di elevato e specifico rilievo professionale e scientifico, costituiscono la base per
ulteriori attività nel campo del restauro e dell’editoria;
la stabilità di una rete territoriale di centri interculturali, in modo che le diverse comunità
dispongano di strutture, luoghi, opportunità di conoscenza, accoglienza e integrazione, in un
contesto di riconoscimento e valorizzazione delle diverse culture;
al censimento e alla valorizzazione dei centri di arte contemporanea, come espressione della
vitalità e della continuità della produzione artistica;
all’estensione delle opportunità di fruizione di tutte le forme di spettacolo (teatro, musica,
danza) mediante un’azione integrata di individuazione di poli (lirico, della prosa, della danza ecc…)
da una parte, di messa in rete e di valorizzazione di soggetti e strutture nel territorio dall’altra.
determinare un contesto di incentivazione alla produzione di attività di prosa, musica, cinema,
danza di alto livello qualitativo, ai fini di rendere visibile e competitivo anche sul mercato
internazionale un settore di rilievo dell’economia veneta, promovendo in primo luogo, in questo
contesto, l’ulteriore sviluppo dei poli di eccellenza e favorendo le attività di produzione
sperimentali (ricerca, integrazione tra forme artistiche diverse, ecc.) nei piccoli teatri;
favorire l’innovazione dei prodotti (forme espressive, linguaggi, tecniche e contenuti, ecc.),
mediante il sostegno continuativo alla ricerca e alla sperimentazione,;
potenziare il sistema pubblico della distribuzione dello spettacolo;
la realizzazione del catalogo regionale dei beni culturali mediante l’integrazione delle risorse
informative dello Stato, della Regione, delle autonomie e delle istituzioni locali rese accessibili in
rete telematica;

Il ruolo della Regione


Lo spostamento delle politiche regionali, riguardo alle strutture culturali, da una logica
meramente “istituzionale” a una logica di “servizio” (fruizione e offerta) orientata all’utente e ai
bisogni delle comunità passa sostanzialmente attraverso la costituzione di “reti” di strutture
(pubbliche, private, dell’autorganizzazione sociale) capaci, mediante la cooperazione e la messa in
comune delle risorse, di dotare ogni territorio di livelli e standard di servizi progressivamente
maggiori e più elevati.
Occorre avviare un processo della piena autonomia degli enti e delle istituzioni locali nella
programmazione degli interventi per la cultura e della distinzione di ruolo tra Regione ed enti locali
sulla base non della dimensione dell’interesse (dei beni e delle attività culturali) bensì della
dimensione funzionale. I poteri locali devono poter disporre in piena autonomia, nel quadro degli
obiettivi e degli indirizzi della programmazione regionale, del complesso delle risorse, proprie e
acquisite, per l’utilizzazione dei beni culturali nell’ambito e ai fini dei programmi di sviluppo dei
sistemi locali.
La Regione, per parte sua, dovrà sviluppare un ruolo più incisivo sul terreno del
complessivo governo dei processi e della realizzazione di azioni a ricaduta generale, atte a elevare
la qualità e il grado di funzionamento dei sistemi e a introdurvi elementi di innovazione. Gli assi
fondamentali nei quali ricondurre l’azione complessiva (potenziamento e valorizzazione
multifunzionale del patrimonio, estensione e qualificazione innovativa dei servizi, sviluppo
complessivo di un “sistema” territoriale articolato e insieme coeso mediante una programmazione
regionale che dia compiuta espressione alla sussidiarietà istituzionale e funzionale) saranno:
da una parte, la costruzione e alimentazione della società della conoscenza e dell’informazione,
come fattore di pari opportunità e di miglioramento della qualità di vita per tutti i cittadini e come
risorsa per lo sviluppo sostenibile del territorio;
dall’altra, l’implementazione e la maggiore valorizzazione degli aspetti di assoluta eccellenza
espressi in questo campo dalla nostra regione anche mediante iniziative ed eventi che ne

66
promuovano e consolidino il ruolo internazionale, in modo da affermare stabilmente la realtà di
Venezia e del Veneto come “capitali della cultura” in Europa.

67
strumenti per la libertà di conoscenza
lo sviluppo della Società dell'Informazione richiede di modificare la definizione dei diritti
universali: oggi più che ieri la definizione dei beni comuni, del valore della condivisione del sapere
sarebbe la leva di un nuovo rinascimento, in un periodo in cui la guerra sembra l'unica risposta
praticata al declino del modello di sviluppo. Mai come oggi la crisi mostra limiti e opportunità di un
diverso modello; ma questo necessita la definizione di un diritto internazionale che garantisca la
condivisione cooperativa della conoscenza. La necessità di definire e sviluppare i nuovi commons,
beni comuni della società, liberamente accessibili, riuscendo allo stesso tempo a valorizzare
intelligenze individuali, investimenti economici e bisogni collettivi è la nuova frontiera politica,
sociale ed economica che ci troviamo ad affrontare. Definire l'accesso ai saperi collettivi come un
diritto universale pone un problema inedito in termini legislativi, assolutamente in controtendenza
rispetto alla sacralità dei brevetti e del copyright, dato che sempre più la legislazione europea,
occidentale e internazionale utilizza come una clava e un ricatto di fronte alla crisi di competitività e
alle richieste dei Pesi emergenti. Inoltre grande valore assume la libera accessibilità delle
produzioni intellettuali e immateriali pubbliche, a partire dalla funzione della ricerca e
dell'università; scientifico, perché fornisce alla ricerca medica di base ed applicata un nuovo terreno
di gioco. Si pone un problema di regolazione nella condivisione, che possa consentire sintesi della
creatività individuale, degli investimenti pubblici e privati, dei bisogni collettivi: lo statuto dei
lavoratori della conoscenza, la definizione di un diritto d'autore che riconosca l'autore in quanto tale
e non i diritti connessi di edizione e sfruttamento pongono al centro la funzione della paternità
intellettuale, ancor prima che il nodo della proprietà intellettuale. La definizione di un sapere libero
e accessibile, in campo scientifico, nel sistema delle comunicazioni, nell'universo culturale,
consentirebbe la definizione di un nuovo terreno di gioco e di una nuova funzione dello sviluppo,
capace di aprire le porte del fortino occidentale e di riaprire un canale di comunicazione scientifico
e non solo nelle relazioni tra cultura occidentale e culture emergenti, in alternativa la modello del
conflitto religioso e della guerra preventiva permanente112.
Il capitale immateriale, reso privato grazie alla proprietà intellettuale, è causa di una drammatica
trasformazione, in alcuni settori della produzione, verso un’economia di monopolio, che mette in
crisi l’ideologia della concorrenza perfetta e che genera grandi ingiustizie sociali (vedi il caso dei
brevetti sull’HIV). “La conoscenza d’altronde è l’unica risorsa che può essere moltiplicata
attraverso la condivisione”113, per questo un soggetto pubblico come la Regione, oltre a promuovere
una formazione pubblica e accessibile, può mettere in campo strumenti per contrastare questa
deriva.
accesso all’informazione
non si vive sole informazioni ma è vero che le attività relative all’informazione costituiscono una
buona fetta del PIL: l’informazione è un punto chiave per la competitività in numerosi campi. Il
rischio maggiore che corriamo con l’approccio attuale alla società dell’informazione è quello
dell’espansione continua del controllo esercitato dalle grandi imprese, fattore che in Italia è
particolarmente evidente. Ma parallelamente alle progressiva concentrazione della proprietà dei
media si sta sviluppando una nuova concezione della società dell’informazione. Una visione
centrata sulle reti, sul libero accesso, sulla partecipazione e sulla condivisione che ha una forte
spinta “dal basso”. Nuove forme e strumenti della comunicazione vengono affiancati a quelli
tradizionali per costruire comunità globali a partire dalle realtà locali, per scambiare conoscenze
amplificare le voci rese marginali, organizzare e rafforzare la partecipazione e praticare la diversità
culturale e intellettuale114. E’ fondamentale per agevolare forme di solidarietà, nuove possibilità di

112
il paragrafo è tratto dal documento sottoscritto da diversi intellettuali italiani “Condividi la conoscenza: nuovi
Commons, nuovi diritti” vedi www..fiorellocortiana.it
113
Enzo Rullani, Economia della conoscenza, Roma, 2004
114
pensiamo, tra le mille altre, alle esperienze delle televisioni di quartiere ( telestreet).

68
condivisone delle esperienze e di formazione reciproca che le tecnologie dell’informazione siano
disponili e accessibili.
L’alfabetizzazione ad un uso consapevole delle tecnologie di comunicazione passa anche per i
divari intergenerazionali che si sono aperti. Colmare questi divari non significa incentivare
l’acquisto di PC, palmari, telefoni cellulari ecc…, ma offrire la possibilità di apprendere funzioni,
poter scegliere con cognizione di causa e farne un uso appropriato per non trattare le nuove
tecnologie solo come merce dalla fruizione passiva ma come formidabili opportunità di socializzare
e condividere conoscenze.
free software
il free software rientra invece è definito da quattro libertà fondamentali:
-libertà di eseguire il programma, per qualsiasi scopo;
-libertà di studiare come funziona il programma, e adattarlo alle proprie necessità;
-libertà di ridistribuire le copie in modo da aiutare il prossimo;
-libertà di migliorare il programma e distribuirne pubblicamente i miglioramenti, in modo tale che
tutta la comunità ne tragga beneficio.
La disponibilità del codice sorgente e le modalità di collaborazione che sostengono lo sviluppo del
software libero ricalcano il metodo cooperativo caratteristico del mondo scientifico, basato sulla
condivisione dei saperi e su una competizione orientata al miglioramento dello stato della ricerca e
non esclusivamente alla creazione di profitti. Tuttavia, la componente economica non è aliena al
mondo del software libero, ma ha assunto forme differenti rispetto a quelle caratteristiche di
un'economia di mercato fondata su brevetti e licenze. In free software, infatti, l'aggettivo free
riguarda esclusivamente la libertà di accedere e di modificare il codice e non la gratuità dei prodotti.
Il software libero è protetto da un nuovo tipo di licenza, denominata GPL (General Public Licence)
o copyleft. In base a tale licenza ognuno può modificare e distribuire il prodotto, ma non si possono
apporre restrizioni individuali sul prodotto redistribuito. Il copyleft consente a chi possiede un
programma di utilizzarlo in un numero indefinito di copie, cambiarlo a suo piacimento, distribuirlo
nella forma originale o modificata, gratuitamente o a pagamento, alle sole condizioni di distribuirlo
in formato sorgente e di indurre chiunque acquisisca il prodotto ad aderire allo stesso tipo di
contratto. Tale licenza offre quindi ad ogni programmatore che sviluppi nuove porzioni di codice, a
partire da quello esistente e liberamente disponibile, la possibilità di avviare una propria attività
basata sulla rivendita del prodotto modificato, sull'installazione del software, l'assistenza, la
formazione degli utenti e la personalizzazione in base alle esigenze dei propri clienti. A partire dal
software libero è quindi possibile sviluppare nuovi business model incentrati non sull'acquisizione
di una posizione monopolistica sul mercato, ma sulla personalizzazione e la customizzazione dei
prodotti, riattivando un meccanismo di libera concorrenza legato all'efficienza del software e alla
sua capacità di rispondere a bisogni emergenti. Un ulteriore vantaggio è costituito dalla possibilità
di sviluppare e fare affidamento sulle risorse presenti in ambito locale, e di limitare il processo di
delega di competenze e professionalità che è andato rafforzandosi con l'estensione sul mercato di
modelli proprietari e con la supina accettazione da parte degli stati di un modello di divisione
internazionale del lavoro che comprende poche aziende innovatrici concentrate in una manciata di
nazioni, circondate da un mare di utenti. La Regione può promuovere il software libero ad
esempio con un suo utilizzo nella Pubblica Amministrazione.
open source
nei paesi ricchi i settori industriali e dei servizi basati sulla conoscenza hanno superato i settori più
tradizionali. Si è assistito ad una crescita accelerata del numero di brevetti e della proprietà
intellettuale, concentrati per il 94% nei paesi sviluppati. Le regole della proprietà intellettuale sono
diventate un ostacolo alla diffusione della conoscenza e pongono una doppia barriera allo sviluppo
per i paesi poveri: procedure troppo onerose per tutelare la proprietà e costi di brevetto che limitano
l’accesso anche a beni essenziali, come ad esempio quelli farmaceutici. Nel settore farmaceutico la
brevettazione, imposta dalle multinazionali farmaceutiche, comporta costi da 3 a 10 volte superiori

69
per farmaci essenziali e salvavita. L’esperienza del software libero illumina la pratica,
generalizzabile della condivisione aperta delle conoscenze.
E’ convinzione comune che la vera natura dell’informazione è collegata al concetto dell’uso
estensivo e condiviso, e che la realtà della società dell’informazione oggi richiede una filosofia
completamente nuova sulla proprietà intellettuale. E’evidente che i benefici per una società dove
l’informazione è condivisa superano gli interessi dei detentori della proprietà intellettuale. In tempi
recenti sono emerse nuove idee sulla proprietà intellettuale che riconoscono l’importanza dei diritti
degli inventori ma allos tesso tempo individuano il valore che si acquista con la condivisione delle
conoscenze e delel informazioni. L’open content porta lo stesso approccio del free software a una
gamma di altri lavori di creazione come siti web, musica, film, fotografia, letteratura ecc..
La Regione potrebbe attivare, sull’esempio dell’associazione no profit Creative Commmons 115, un
servizio di attribuzione di copyright senza onere che permetteranno agli autori di condividere
liberamente le loro opere.
eccezione culturale
l’eccezione culturale è una categoria giuridica riconosciuta dall’Unesco intesa come possibilità di
mantenere politiche europee e nazionali di quote di programmazione e di aiuti finanziari in alcuni
settori di rilievo culturale sottraendole ai negoziati commerciali sui beni e sui servizi. L'eccezione
culturale è di fatto un rifiuto rifiuto opposto dalla Comunità europea all'applicazione dei principi del
libero scambio propri del Gatt, poi diventato Omc (creato secondo le previsioni dell'Uruguay
Round, dagli accordi di Marrakech), in alcuni settori culturali come l’audiovisivo ed al cinema.
L'esempio più eclatante riguarda il sistema francese di finanziamento del cinema e della televisione,
ove il sostegno finanziario pubblico all'industria cinematografica e audiovisiva permette, mediante
strumenti diversi (aiuti automatici, aiuti selettivi) di assicurare il finanziamento della creazione e
produzione francese. La tutela della proprietà intellettuale collettiva caratterizza spesso i settori
dell'artigianato di qualità, come nel caso della legge veneta (legge regionale 23 dicembre 1994, n.
70) sul marchio per il vetro artistico di Murano, quello sulla ceramica artistica (legge 9 luglio 1990,
n. 188) di diversi distretti italiani (Faenza, Calagirone, Albisola, Deruta). Anche nel settore agro-
alimentare e vinicolo sono diffusi i marchi collettivi, come la Denominazione di origine controllata
(Doc) per i vini o la Denominazione di origine protetta (Dop) per i prodotti alimentari. Il valore
della diversità culturale è stato assimilato dall'Unesco all'importanza che la biodiversità ha per la
natura.
La sfuggente definizione dell'ambito culturale può anche agevolare un'applicazione meno rigida del
riparto di competenze normative e amministrative. Si può riportare il recente esempio della legge
regionale del Lazio sulla salvaguardia dei locali storici regionali: a stretto rigore quell'intervento
normativo riguardava la tutela e dunque avrebbe dovuto essere adottato dallo Stato, ma la Corte
costituzionale ha aggirato l'ostacolo affermando che si trattava non di beni culturali ai sensi del
Testo unico decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, ma di altri beni di rilievo e interesse
culturale, con riferimento ai quali potevano intervenire anche strumenti di protezione previsti dal
legislatore regionale territorialmente competente116.
La possibilità di dettare discipline differenziate sul territorio e derogatorie rispetto a quelle
"centrali", in ragione delle tradizioni locali da tutelare (beni e servizi), apre la possibilità per una
tutela - pensiamo alle produzioni artigianali nei centri storici - che interferisca con il processo
omologante del neoliberismo.

115
www.creativecommons.org
116
Sergio Foà, Walter Santagata Eccezione culturale e diversità culturale. Il potere culturale delle organizzazioni
centralizzate e decentralizzate, in Aedon, 2/2004

70
economia qualità territorio
Analizzavamo insieme la possibilità di sfruttare meglio le risorse. C’erano tutte queste castagne per terra, e altrettante
ancora sugli alberi. Perché non andavano in pianura a venderle? Ne parlammo ai contadini, e loro ci dissero: “Perché
nessuno le vuole”. Ci mettemmo a postulare fabbrichette di marmellata di castagne sotto i pendii; e immaginavamo la
valle ripulita e redenta dalla prosperità, e la gente con le scarpe. “Dove faresti le fabbrichette?” “Là, sotto, in
pianura, oltre il lago.” “E allora perchè la gente dovrebbe restare proprio qui a vivere?” Già: anzi, perché proprio la
marmellata di castagne ? Forse la cosa più importante non sono le castagne, ma le fabbrichette. Si possono fare anche
i bottoni. “Cosa dici tu, che in Italia si faranno, queste fabbrichette?” “Cosa vuoi sapere?” “Questa valle resterà
vuota, le case saranno abbandonate; sarà un costone di collina.” Queste case non mi parevano edifici, ma modi di
vivere; le corti tra i castani, e le viottolle, e le stalle, e i sottoportici, tutto era mescolato con la povertà, era questa la
forma della valle e della vita italiana.
Dissi a Bene: “Per uccidere la povertà, dovranno sfasciare l’Italia”. “Esagerato,” disse Bene.
Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Milano, 1986

Crisi della crescita


Nell’analisi della crisi del modello economico veneto si registra una unanimità corale:
persino l’(auto) apologetico Programma Regionale di Sviluppo, promosso dalla giunta regionale,
deve registrare che “la recessione in atto ci rafforza nella convinzione che sia giunto il momento di
una profonda riflessione sui limiti di un modello di sviluppo industriale, come quello veneto sin qui
vincente sul piano della flessibilità, ma che sta trovando ostacoli crescenti sul cammino
dell’incremento della produttività e della competizione internazionale”, mentre l’Associazione degli
industriali arriva a conclusioni che solo qualche anno fa sarebbero state bollate come apocalittiche:
“soffermando l'attenzione sugli indicatori principali, risulta evidente come i fattori fondamentali che
avevano costituito gli elementi propulsivi dello sviluppo del Veneto, stanno progressivamente
esaurendo la loro forza. Il Veneto è al limite delle sue capacità endogene”. Anche osservatori
attenti come Anastasia e Corò concludono la loro stringente analisi con preoccupazione: “ora,
essendo la dinamica delle produttività l’indicatore di ultima istanza della capacità competitiva di un
sistema economico, è evidente come, ben più dei dati congiunturali, le tendenze strutturali appena
commentate facciano crescere le preoccupazioni sulle prospettive dell’economia regionale” 117.
Riportiamo un passo significativo del rapporto della Banca d’Italia sull’economia regionale:
“la persistente debolezza dell’economia, in un quadro caratterizzato dall’aumento della concorrenza
internazionale e da fluttuazioni del tasso di cambio effettivo nominale più contenute rispetto al
passato, può essere ricondotta alle caratteristiche strutturali del modello di sviluppo regionale.
La specializzazione produttiva in beni a basso contenuto tecnologico e il forte orientamento alle
esportazioni hanno reso l’economia regionale particolarmente vulnerabile di fronte alla concorrenza
dei paesi in via di sviluppo”118.
Queste dichiarazioni denunciano come la crisi del modello economico che ha caratterizzato i
nostri territori non sia una crisi congiunturale ma il manifestarsi dell’esaurimento delle sue risorse.
Questo significa che nel prossimo futuro potremmo assistere ad un superamento della crisi
congiunturale e ad una ripresa della crescita ma questo non significherà un superamento delle
contraddizioni che persistono alla base del modello.
I fattori che hanno creato il miracolo del nordest sono stati erosi dallo stesso incedere della
crescita: ecco cosa sottolinea lo stesso Programma Regionale di Sviluppo: “il modello diffuso che
caratterizza il sistema insediativo dell’area centrale veneta ha generato situazioni complesse e
avanzate di consumo di suolo, di illogica sottrazione di aree all’attività agricola e ambientale e di
disordine insediativo, determinando in definitiva un’usura eccessiva delle risorse naturalistiche non
riproducibili che, oltre a provocare come conseguenza uno scadimento del livello generale della vita

117
Bruno Anastasia, Giancarlo Corò, Un lungo periodo di bassa crescita: cattiva congiuntura o fase di riaggiustamento
strutturale?, in Daniele Marini (a cura di), Nord Est 2003, Venezia, 2003
118
Banca D’Italia, Note sull’andamento dell’economia del Veneto nel 2003, Venezia, 2004

71
nel territorio regionale, hanno messo in crisi l’efficacia stessa e la continuità del modello produttivo
esistente”. Il problema dell’esaurimento delle risorse non si limita a questo: sono state erose anche
tutti quei fattori propulsivi riconducibili ai caratteri collettivi, quali la disponibilità al rischio, il
contare sulle proprie forze, codici di condotta condivisi, relazioni fiduciarie, “tessuto sociale” come
forma di coesione ed integrazione incardinato sulla famiglia. Riteniamo che la crescita sia avvenuta
attraverso l’erosione irreversibile del capitale ambientale e sociale, per questo non condividiamo
l’auspicio di una sua ripresa tout court: vogliamo invece indagare i fattori qualitativi della crisi del
modello di sviluppo veneto e partire da lì per proporre delle vie d’uscita perché, come chiarisce
Claudio Napoleoni, “non è affatto vero che si possa risolvere contemporaneamente il problema di
una maggiore quantità di crescita e di una modifica della qualità dello sviluppo” 119. A nostro avviso,
chiunque si proponga di governare il Veneto si troverà di fronte ad una scelta ineludibile: o cercare
gli strumenti per promuovere una crescita in affanno e l’efficienza del sistema d’imprese, e quindi
fare della crescita del PIL l’obiettivo delle politiche di questa regione, o invertire la rotta e
perseguire la qualità dello sviluppo, del restauro delle relazioni e degli habitat.

Caratteristiche dell’economia veneta


Assistiamo ad un irreversibile cambiamento degli scenari internazionali che vedono
l’emergere di giganti economici che competono proprio sul terreno delle specializzazioni produttive
tipiche del nostro territorio: produzioni ad elevato contenuto manifatturiero e basso contenuto di
innovazione. L’unico settore dell’economia veneta che ha registrato, in questi anni di crisi, una
crescita significativa è l’edilizia trainata essenzialmente dalla domanda privata, sia di tipo
residenziale, sia a scopi produttivi (tra il 1997 e il 2002 si registra la nascita di oltre 16.000 imprese
attive, con una crescita percentuale del 24%). Anche nel settore dei servizi la crescita avviene solo
grazie al comparto del settore immobiliare, così che la terziarizzazione dell’economia veneta “ha
interessato in particolare i servizi connessi con il settore immobiliare i cui addetti sono più che
triplicati nell’ (ultimo n.d.r) decennio”120. Questi dati non solo testimoniano con evidenza come la
crescita veneta poggi ancora sull’assalto e il consumo di territorio e come vengano ancora
privilegiati settori tecnologicamente arretrati e ad alta intensità di lavoro (e di morti sul lavoro, non
dimentichiamolo!), ma dimostrano anche come vi sia una predilezione per la rendita immobiliare
piuttosto che verso il finanziamento delle attività produttive.
Tutto questo mentre indicazioni sfavorevoli per il Nord Est emergono dall’esame della spesa
in ricerca e sviluppo e Antonio Fazio, Presidente di Banca Italia, avverte: “la stessa dimensione
raggiunta dalle esportazioni del Nord Est potrebbe mutarsi in elemento di fragilità se dovessero
tardare l’aggiornamento tecnologico e lo sviluppo di prodotti più adatti a inserirsi nei segmenti
dinamici della domanda mondiale”. Anche Bruno Anastasia e Giancarlo Corò nel Rapporto sul
Nord Est 2004 segnalano: “la presenza di rendimenti decrescenti è dunque un fenomeno in una
certa misura scontato, anche se denota l’incapacità del sistema di trovare un nuovo cammino di
crescita basato su risorse - come conoscenza, creatività e tecnologia – in grado di fornire una
maggiore spinta alla dinamica della produttività”. Solo imprese ben strutturate e capaci di
sviluppare attività di ricerca e sviluppo sono in grado di rimanere competitive, e tali imprese
richiedono sempre più elevati livelli di flessibilità della produzione e incrementi di ritmi di lavoro
per i dipendenti e per il tessuto delle imprese subfornitrici.
L’internazionalizzazione e la delocalizzazione della produzione minore in Paesi a bassissimo
costo del lavoro (dall'Albania al Sud-Est asiatico, ai Paesi magrebini, come nel caso del settore
dell'intimo) sembra la strada maestra per affrontare la crisi 121. Laddove ciò non è possibile esiste o il
119
citato in Giorgio Lunghini, L’età dello spreco, Torino, 1995
120
Banca D’Italia, Note sull’andamento dell’economia del Veneto nel 2003, Venezia, 2004
121
A Vicenza tra il ’91 e il 2000 le industrie del tessile e dell’abbigliamento hanno perduto un migliaio di unità locali e
più di 10 mila adetti pari rispettivamente al 36% e 28% delle consistenze d’inizio periodo. (da Paolo Crestanello
Ermanno dalla Libera, La delocalizzazione produttiva all’estero nell’industria della moda: il caso di Vicenza, in
Economia e società regionale 2/2003)

72
rischio di fallimento (come nel caso Stefanel), o la necessità di procedere a un vasto piano di
riconcentrazione produttiva con probabile utilizzo dei subfornitori come futuri lavoratori dipendenti
(come nel caso del nuovo stabilimento Benetton a Treviso). L'estrema flessibilizzazione del lavoro
(sia in termini di orario che di salario) non è più sufficiente oggi ad arginare il processo di
verticalizzazione e gerarchizzazione produttiva nelle produzioni a più alto contenuto tecnologico, e
soprattutto la potenziale concorrenza delle produzioni asiatiche e terzomondiste, per quanto
riguarda le produzioni a bassa qualità122. L’estenuazione della competizione basata sulla
compressione del costo e della qualità del lavoro e sull’elusione della legalità ambientale porta ad
una spirale negativa: l’”opacità” della gestione, l’elusione delle normative provoca una reazione a
catena in quanto finisce “per ingabbiare le imprese in un equilibrio subottimale: minore accesso ai
mercati finanziari, minore opportunità di salti organizzativi attraverso l’impiego di manager non
proprietari e quindi minori opportunità di crescita”123.
L’ “opacità” della produzione, oltre a non rilanciare l’economia, ha delle ripercussioni
dirette sull’ambiente: vale la pena ricordare che il Veneto è al secondo posto tra le regioni
settentrionali nella classifica dell’abusivismo edilizio illustrata nel Rapporto Ecomafia 2003 124, nel
quale si evidenzia il ruolo della nostra regione nel ciclo illegale del cemento – con l’eclatante
fenomeno dell’escavazione selvaggia dei fiumi - e nel traffico dei rifiuti.

Elementi per una politica economica, per un Veneto terra delle relazioni
Il mercato globale usa il territorio dei vari paesi e delle diverse aree geografiche come uno
spazio economico unico; in questo spazio le risorse locali sono beni da trasformare in prodotti di
mercato e di cui promuovere il consumo, senza alcuna attenzione alla sostenibilità ambientale e
sociale dei processi di produzione. I territori e le loro "qualità specifiche" - le diversità ambientali,
di cultura, di capitale sociale - sono dunque "messe al lavoro" in questo processo globale, che però,
troppo spesso, le consuma senza riprodurle. Al contempo si è rafforzato il protagonismo dei soggetti
locali, città e regioni: “città e regioni, sempre più impegnate in negoziati diretti con imprese
multinazionali, diventarono gli agenti più importanti delle politiche di sviluppo economico” 125
afferma Manuel Castelles. Accanto ai problemi della crescita economica, qualcuno ha cominciato a
preoccuparsi della distribuzione del reddito, del soddisfacimento dei bisogni fondamentali della
difesa dell’ambiente, dell’identità culturali delle comunità locali 126. Si è così riscoperta l’importanza
della piccola dimensione, delle piccole imprese, dell’identità territoriale, dei servizi di prossimità,
degli attori locali. Si sono affermati nuovi principi:
- lo sviluppo si definisce come processo discontinuo e negoziato in termini specifici e
differenziati per i diversi contesti socio economici;
- il cambiamento si produce non per effetto di una semplice applicazione di programmi decisi
dall’alto, ma in seguito alla negoziazione tra le parti che rappresentano interessi diversi
- gli obiettivi dei programmi di sviluppo non si limitano alla dimensione tecnico- produttiva,
ma sia allargano ai fattori economici e sociali:
- i soggetti principali dello sviluppo non sono più soltanto le istituzioni o gli imprenditori ma
le diverse parti sociali
Lo sviluppo locale può divenire sostenibile se si introducono profondi cambiamenti nella
programmazione delle politiche e nella pianificazione delle iniziative, nonché nella loro attuazione.
L'alternativa a questa globalizzazione parte da qui: da un progetto politico che valorizzi le risorse e
122
“L’Italia è stato tra i paesi più colpiti dalla concorrenza della Cina proprio nei prodotti dove il nostro paese è
diventato leader mondiale negli ultime tre decenni: tessile.- abbigliamento e calzature, gioielli, pietre ornamentali,
lampade, mobili, casalinghi, rubinetti, piastrelle, occhiali, componenti meccanici e persino macchine industriali” in
Marco Fortis, Alberto Quadrio Curzio, Alle prese con la concorrenza asiatica, in il Mulino, 6/2003
123
Sandro Trento, Stagnazione e frammentazione produttiva, in il Mulino 6/2003
124
Legambiente, Rapporto Ecomafia 2003, Napoli 2003
125
Manuel Castells, Il potere delle identità, Milano, 2003
126
Facciamo riferimento in particolare a Giacomo Beccattini, Aldo Bonomi, Alberto Magnaghi

73
le differenze locali promuovendo processi di autonomia cosciente e responsabile, di rifiuto della
eterodirezione del mercato127. Occorre individuare un nuovo modello di sviluppo che, uscendo da
un approccio meramente economico, ponga maggiore attenzione alla sua sostenibilità in termini di
impatto ambientale e di qualità di vita dei suoi abitanti. Rispetto allo sviluppo globale la sfida è
quella di acquisire autonomia e controllo del proprio sviluppo: non uno sviluppo eterodiretto dalle
reti lunghe dell’economia globalizzata ma uno sviluppo determinato dalle risorse e dalla volontà
collettiva dei cittadini. Bisogna incoraggiare interventi locali "dal basso", specifici per ciascuna
area, incentrati sulla cooperazione di una platea composita di attori istituzionali e sociali, pubblici e
privati, nonché su alleanze produttive interregionali, riconoscendo dunque i fondamenti sociali
dell’agire economico.
L'idea sottostante a questo approccio è che il successo economico è un esito che dipende, oltre
che dai talenti imprenditoriali, dalla qualità dell'ambiente socio-istituzionale locale e dall'intensità
delle relazioni formali e tacite tra gli attori, ovvero dal capitale sociale (fiducia, reciprocità,
cooperazione, reputazione) che alimenta il patrimonio di interdipendenze non-mercantili e di
relazioni fiduciarie tra gli individui. Lo sviluppo locale così inteso, che si identifica in primo luogo
con la crescita delle reti civiche e del "buon governo" della società locale, non può divenire
localismo chiuso, difensivo, ma deve costruire reti alternative alle reti lunghe globali, fondate sulla
valorizzazione delle differenze e specificità locali, di cooperazione non gerarchica e non
strumentale. Con la specificazione della dimensione locale il concetto di sviluppo si allarga fino a
comprendere anche indicatori qualitativi legati ai luoghi. In tal modo la politica deve
necessariamente interagire con la comunità locale e integrare in questa prospettiva l’azione
volontaria con gli strumenti di programmazione e di regolazione, costruire cioè la cornice per il
mercato locale in modo consen-suale, superando l’errata convinzione circa le capacità intrinseche
del mercato di autoregolarsi, rispetto all’impatto ambientale e all’uso delle risorse, unicamente
attraverso strumenti volontari quali le certificazioni ambientali, i regolatori fiscali e così via.
Per questo occorre introdurre una serie di nuove dimensioni, quali:
 uno spostamento di focus, orientando la programmazione alla riconciliazione fra ambiente e
sviluppo, invece di finalizzarla ad una domanda di beni e servizi basata sui tradizionali, e
non più sostenibili, stili di produzione e consumo;
 un approccio integrato, frutto dell'interazione fra le politiche di diversi settori e fondato su
una visione più olistica nella quale le considerazioni ambientali influenzino le politiche
sociali ed economiche - e vice versa;
 la valutazione tra scenari, opzioni e scelte alternative basate sui principi di sostenibilità e la
traduzione di tale valutazione in chiari obiettivi, tempi, dimensioni territoriali, poteri, ruoli,
competenze e responsabilità.

Una nuova programmazione


La politica e le istituzioni operano in genere su due binari: sostenere la crescita, e poi,
eventualmente, curarne le ricadute negative con misure compensative, correttive, redistributive; così
si esprime a proposito Carlo Donolo “è facile capire che questo modo di operare risulta spesso
inefficace, non si sa se sia una necessaria ipocrisia strategica, o se contenga qualche deficit nella sua
stessa impostazione”128. Occorre che la politica espliciti senza ipocrisie se l’obiettivo è quello della
crescita economica oppure quello della qualità dello sviluppo. Per parte nostra pensiamo, infatti, che
il governo regionale debba avere una strategia riguardo allo sviluppo economico e che si intrecci
con gli obiettivi di miglioramento della qualità sociale e ambientale delle comunità.
A fronte delle contraddizioni fin qui evidenziate sembra ormai imprescindibile l’intervento di un
attore politico regolatore in grado di governare e regolare politicamente il sistema produttivo locale.
La rilevanza della dimensione politica deve giocarsi nella capacità di attivare risorse locali -
127
si veda i documenti della rete per un nuovo municipio in www.carta.org
128
Carlo Donolo, Il distretto sostenibile, Milano, 2003

74
attraverso la formazione e la promozione dell’integrazione - che siano in grado di costruire un
sistema coeso. Occorre incidere sulle competitività del territorio e delle imprese che vi operano
facendo leva sulle capacità cooperative di tutti i protagonisti, compresi gli interlocutori sociali. Il
ruolo dei poteri pubblici locali è infatti stato ancillare e accomodante rispetto alle esigenze che, di
volta in volta, emergevano spontaneamente dalle imprese. Non c’è stata programmazione diretta
dello sviluppo distrettuale da parte delle amministrazioni locali, né costruzione di un organico
sistema di relazioni istituzionali in grado di indirizzare i distretti verso l’acquisizione di autonomia
strategica129. Anche nella promozione dei Patti territoriali la “Regione viene percepita dagli attori
dei patti come una figura di controllo che come un attore significativo per la definizione del
progetto”. Eppure Il Patto Territoriale – che noi proponiamo si integri con la metodologia di
Agenda 21 - è uno degli strumenti della “nuova programmazione” che mira, almeno nell'intenzione
del legislatore, a stimolare e rafforzare, per l'appunto, la cooperazione tra gli attori per lo sviluppo
economico localizzato130.
Oggi, peraltro grazie ai processi di “deregulation” (avviati con la riforma Bassanini), e di
“devolution” (attraverso la riforma del titolo V° della Costituzione del 2001 e il prossimo Ddl La
Loggia) la ripartizione dei poteri di promozione, indirizzo e gestione delle politiche industriali in
genere e delle politiche della ricerca e innovazione in particolare stanno subendo una radicale
modifica. In questo scenario, l’affidamento alle Regioni della gestione di una serie di leggi
nazionali di incentivazione attraverso il c.d. Fondo Unico per le Imprese, con la possibilità di
determinare localmente l’entità della ripartizione finanziaria fra i singoli strumenti, va dunque
guardato come il primo passo e terreno di sperimentazione verso una fase di pieno protagonismo
regionale nella definizione delle politiche e la promozione di una programmazione che favorisca lo
sviluppo locale autosostenibile e l’integrazione su base territoriale delle diverse politiche di
sviluppo. La definizione di un quadro istituzionale di relazioni, al cui interno giocano un ruolo
primario le rappresentanze associative degli attori sociali interessati, può rappresentare una via
nuova e alternativa rispetto a quella, spontanea ed anarchica, dei vecchi distretti industriali.
Naturalmente, accanto al metodo, è fondamentale il contenuto produttivo alla base della formazione
dei sistemi territoriali. In questo senso, è evidente che la costruzione di un quadro istituzionale è
complementare alla definizione di una programmazione regionale dello sviluppo fondata sulla
sostenibilità sociale e ambientale e sulla valorizzazione delle tipicità e delle caratteristiche
qualitative della Veneto.
Cediamo la “penna” a Bruno Anastasia e Giancarlo Corò per quanto riguarda il ruolo possibile
della Regione nelle politiche economiche: “per quanto il livello regionale della politica economica
sia vincolato da poteri deboli e risorse scarse, gli strumenti su cui agire non mancano: pensiamo alle
politiche per le infrastrutture e la regolazione della mobilità; agli incentivi per l’innovazione e la
cooperazione tecnologica; al sostegno allo studio e alla ricerca avanzata;….; alla tutela del
paesaggio come risorsa fondamentale per un turismo di qualità; alla creazione di un ambiente
favorevole agli investimenti esterni”.

Obiettivi
Proponiamo una serie di obiettivi strategici per una nuova politica economica per un “Veneto
terra delle relazioni”:
 costruire un ruolo propulsivo della Regione nella programmazione integrata sia aumentando
i progetti integrati sia riqualificando e rilanciando quelli esistenti;
 promuovere e sostenere i Sistemi Economici Locali espressione della pluralità delle
vocazioni e delle potenzialità dello sviluppo;

129
Patrizia Messina, Regolazione politica dello sviluppo locale, Torino, 2001
130
Massimo Bressan, Albino Caporale, L’irruzione del territorio nelle politiche di sviluppo, in Sviluppo locale, 19/2002

75
 sostenere il superamento dello sviluppo economico mono-settoriale a favore della
diversificazione delle attività e della loro diversificazione
 identificare nuovi parametri di sviluppo economico in grado di dare visibilità alla
dimensione integrata dello sviluppo;
 favorire e sostenere i settori economici - agricoltura di qualità, turismo sostenibile, riassetto
idrogeologico, sviluppo delle energie rinnovabili, formazione ecc… - che pur producendo
una minore quota di Pil hanno un basso impatto sull’ecosistema e concorrono alla
valorizzazione del capitale sociale e ambientale dei territori;
 orientare nell’ottica della sostenibilità e della sicurezza i processi produttivi, favorendo
l’introduzione di innovazioni che riducano il consumo di risorse e di energia , ampliando il
ricorso a fonti rinnovabili e pulite;
 promuovere una strategia di innovazione scientifica e tecnologica di processo e di prodotto
e la diffusione di sistemi di qualità;
 promuovere la responsabilità sociale delle imprese e lo sviluppo di un economia solidale;
 sostenere la qualificazione e i diritti dei lavoratori contrastando la crescente precarizzazione
e insicurezza;

Dai distretti ai sistemi locali


La Regione Veneto identifica oggi nei distretti i luoghi deputati a rappresentare la
localizzazione del sistema produttivo industriale veneto. I limiti del sistema distrettuale di prima
generazione sono divenuti evidenti negli anni recenti, quando la bassa crescita economica ha reso
più competitivo il mercato e quando i processi di globalizzazione hanno fatto emergere nuovi
concorrenti sul piano del costo del lavoro. Appare oggi evidente come il sistema distrettuale di
prima generazione non sia stato in grado di affrancarsi dalle dinamiche dell’accumulazione delle
zone centrali e quindi non sia riuscito, salvo rare eccezioni, ad acquisire quelle funzioni strategiche
in grado di garantire autonomia e indipendenza nelle traiettorie di sviluppo. Questi limiti strutturali
derivano essenzialmente dal fatto che il loro sviluppo è stato spontaneo e non governato, sono in
qualche modo “il risultato della mancanza di un governo adeguato, che ricostituisca le risorse, ne
allarghi la base o le capacità, indirizzi la crescita, sono le diseconomie esterne” 131. Noi pensiamo
che occorra andare oltre i distretti adottando i Sistemi Territoriali come unità d’analisi e
d’intervento per politiche economiche territoriali: questo nuovo approccio ci può permettere di
tener conto della completa struttura produttiva e delle complesse interazioni sociali che
caratterizzano un territorio132.
Il sistema territoriale può rappresentare uno strumento efficace di politica economica
territoriale: si può immaginare che ad esso si possa pervenire attraverso un'azione di ricomposizione
territoriale, non solo e specificatamente riferita ai sistemi produttivi industriali, ma anche ad altri
sistemi economici, sociali e politici, per riprodurre o rafforzare, per consolidare e soprattutto
innovare forme di sviluppo territoriale, basato su risorse specifiche e dinamiche endogene, una
sapienza territoriale che non ha saputo tessere reti e relazioni utili, o delle quali ha indebolito, o,
peggio ancora, sciolto i legami. L’adozione del sistema territoriale può permettere un intervento sui
vari settori produttivi che compongono un’area – industria, agricoltura, servizi – individuando
sentieri di sviluppo armonici in cui un settore non deprivi le potenzialità di un altro ma che partendo
dalle vocazioni di un territorio e dallo statuto dei luoghi si promuovano le linee di sviluppo in grado
di portare benefici complessivi anche in termini ambientali e sociali.

131
Marco Bellandi, Beni pubblici specifici e sviluppo sostenibile, in Sviluppo locale, 22/2003
132
per una trattazione scientifica del concetto di sistema territoriale si veda Giuseppe Dematteis, Progetto implicito,
Milano, 1995. La Regione Toscana, grazie all’elaborazione dell’Irpet, già utilizza i sistemi territoriali come unità
complesse d’intervento di politica economica

76
L’approccio dei sistemi territoriali può aiutare la politica ad uscire da un approccio in cui
l’industria manifatturiera - più o meno innovata – rimane la spina dorsale dei ragionamenti, delle
risorse e dell’attenzioni della politica economica regionale.

Integrazione tra Agenda 21 e Patti Territoriali


Le Agende 21 locali rappresentano, secondo gli intendimenti della Conferenza
dell'Organizzazione delle Nazioni Unite (UNCED), lo strumento attraverso il quale gli obiettivi
globali per lo sviluppo sostenibile, sono tradotti in azioni locali. L'Agenda 21 locale interviene
quando a livello locale sussiste uno o più problemi dal punto di vista dell'ambiente, della salute e
dello sviluppo (compresa l'occupazione in rapporto alle risorse locali) da risolvere su cui i soggetti
locali trovano convenienza ad agire comunemente nel senso dello sviluppo sostenibile e non come
freno o limiti allo sviluppo. E' questo l'approccio "dal basso verso l'alto": le soluzioni sperimentate a
livello locale da comunità diverse in diverse parti del mondo (con l'obiettivo della sostenibilità)
integrano e arricchiscono la visione programmatica definita a livello internazionale.
Da questo punto di vista allora, nell'ambito delle Agende 21 locali, la Regione come ente sub-
nazionale viene ad assumere un ruolo strategico: essa, tramite la legislazione e la programmazione,
dovrà funzionare da raccordo tra la dimensione locale ristretta degli enti territoriali inferiori e la
dimensione globale dei problemi. La Regione cioè ha una sufficiente dimensione territoriale per
potere raccordare le diverse politiche locali orientate alla sostenibilità e mantiene comunque una
vicinanza alle comunità locali senz'altro superiore rispetto allo stato centrale. Da questo punto di
vista è fondamentale integrare la Programmazione negoziata regionale con le Agende 21 locali.
Quindi occorre pensare e come introiettare nelle azioni di governo regionale gli obiettivi definiti
dalle Agende 21 locali.
In questa prospettiva il processo di formazione della Agende 21 locali è davvero un'occasione
per un salto di ruolo sul piano della qualità delle azioni di governo locale dello sviluppo per il
sistema economico (pubblico e privato), sociale e istituzionale. Sia l'Agenda 21 locale che il Patto
Territoriale possono essere definiti come accordi promossi da enti locali, parti sociali o da altri
soggetti, pubblici o privati, relativi all'attuazione di un programma di interventi caratterizzato da
specifici obiettivi di promozione dello sviluppo locale. Garantire l'ecosostenibilità dello sviluppo
locale costituisce il movente fondamentale per l'elaborazione di un'Agenda 21, ma viene individuato
anche come uno degli elementi che devono caratterizzare il Patto Territoriale. In entrambi gli
strumenti stabilire un dialogo con la comunità (nella sua accezione più ampia possibile) con lo
scopo di determinare forme di stretta collaborazione, concertazione e consenso è ritenuto un
requisito essenziale del processo di elaborazione. In questo senso a livello locale è necessario
integrare gli obiettivi di sostenibilità ambientale e di riduzione dei fattori di pressione con le
condizioni per lo sviluppo economico.

La dimensione locale dello sviluppo sostenibile regolato: la regolazione partecipata


Il coinvolgimento di una maggiore pluralità di soggetti costituisce inoltre un'occasione per
ampliare la conoscenza del locale, acquisendo rappresentazioni dei problemi che difficilmente
possono essere interpretate attraverso mediazioni tecnico-scientifiche o politico-burocratiche. Il
nodo centrale della discussione, di fronte alla novità dei conflitti ambientali e alla ormai accertata
incapacità autoregolativa del mercato si sposta quindi verso gli attori della regolazione economica e
sociale, verso i fattori di loro inclusione o esclusione dall'arena concertativa, verso le considerazioni
di legittimazione o delegittimazione della loro rappresentatività, in una parola si sposta verso la
ridefinizione stessa delle coordinate sociali e culturali della regolazione sociale. Dal modello neo-
corporativo di relazioni industriali e di composizione del conflitto economico di interessi si
dovrebbe quindi tendere invece a passare ad uno allargato (associativo/pluralista) di regolazione
sociale, di composizione dei conflitti fra interessi statuiti e corporati (al loro interno, secondo le
dinamiche tradizionali della concertazione: politiche dei redditi, politiche sociali, politiche del

77
lavoro, ecc.) e fra di essi e gli interessi diffusi (come l'ambiente, ma non solo: si pensi agli anziani,
al terzo settore in genere, ai consumatori, ecc.). Gli attori allora non sono (e non possono essere più)
solo quelli del modello di governo corporativo (imprese, organizzazioni di rappresentanza degli
interessi sindacali o datoriali, rappresentanze politico-istituzionali), ma debbono aprirsi agli
interessi diffusi secondo una "logica di negoziato" (cioè di assunzione reciproca di responsabilità)
che tutti devono condividere. Un vero e proprio "modello cooperativo di negoziato" alla cui base
siano comuni orientamenti di codeterminazione delle strategie e delle politiche di intervento tali da
incorporare l'ambiente come uno degli assi di riferimento culturale della regolazione. Si tratta cioè
di arrivare a definire un processo decisionale allargato, quale quello per lo sviluppo sostenibile nei
modelli proposti con le Agende 21 locali sia a livello internazionale che comunitario.

Non di solo PIL……


Il PIL - come tutti gli indicatori economici - presenta numerosi limiti: non incorpora il valore
del lavoro svolto all’interno delle mura domestiche (la cura ed assistenza ai minori, agli anziani,
ecc.), che pure influenza tanto significativamente le condizioni di vita della popolazione; esclude e
sottostima tutte le attività informali (ad esempio, quelle del c.d terzo settore); è insensibile al
sistema di valori collettivi e pesa in modo eguale beni e servizi meritori (gli asili nido, ecc.) e beni
che hanno un valore negativo (la produzione di armi, di emissioni inquinanti, ecc.); non conteggia le
risorse libere, accessibili a tutti ma con un alto costo sociale, come il patrimonio naturale; è
indifferente al problema della distribuzione delle risorse, per cui la situazione in cui un tale ha due
polli e l’altro nessuno è considerata uguale a quella in cui entrambi hanno un pollo ciascuno.
Inoltre, come sottolinea Beccattini, “si oscura il fatto che se un incremento di produzione delle
merci di una collettività ne sconquassa l’ordine sociale, distrugge il valore di certi saperi produttivi,
o di consuetudini che danno sapore alla vita, non c’è alcuna garanzia che il di più di malessere
medio che ne discende per alcuni dei suoi membri non ecceda il corrispondente di più di benessere
medio dei medesimi, o di altri suoi membri”133.
Se lo sviluppo è un concetto multidimensionale, esso non può quindi esaurirsi nella misurazione
delle sole grandezze economiche; occorre quindi uno sforzo per la creazione e diffusione di
indicatori alternativi di qualità della vita. A questa esigenza rispondono numerosi indicatori. I più
noti, a livello internazionale, sono: l’indice di sviluppo umano elaborato dall’UNDP (che include
la speranza di vita alla nascita, il tasso di alfabetizzazione degli adulti, il tasso di scolarizzazione, il
Pil pro capite espresso in parità di potere d’acquisto); l’indice di povertà umana (sempre di fonte
UNDP) che tiene conto della quota di popolazione con speranza di vita inferiore ai 60 anni, della
percentuale di adulti analfabeti, e della proporzione di popolazione che vive sotto la soglia di
povertà e di quella che versa in uno stato di disoccupazione di lunga durata; il NNP (Net National
Product) che contabilizza, accanto al PIL, l’investimento in capitale umano, il deprezzamento e il
depauperamento delle risorse naturali e l’inquinamento ambientale; l’indice di Sen che corregge,
più semplicemente, il livello del PIL con la disuguaglianza nei redditi. Si tratta di indicatori che
fondano la propria ragion d’essere nella convinzione che la crescita economica sia una condizione
necessaria ma non sufficiente per godere di un’elevata qualità della vita e che quest’ultima,
conseguentemente, non possa essere misurata solo dal PIL.

Economia ambiente
La “variabile ambiente” deve divenire, per il sistema produttivo regionale, un importante fattore
di qualificazione, riconversione e riconoscimento. Il sistema produttivo veneto, nei suoi diversi
settori - industria, turismo, agricoltura e servizi - dovrà puntare ad un strategia di preservazione e
restauro dei beni comuni, l’ambiente in primis, e identificare in questa strategia il suo fattore
competitivo primario. Bisogna superare l’attuale approccio che, a parole, punta ad un
“bilanciamento” tra attività produttive e rispetto dell’ambiente, nella realtà cerca di attenuare la
133
Giacomo Beccattini, Ribaltare l’ideologia del mercato, in Il Ponte, 7-8/2003

78
portata vincolistica della legislazione ambientale: crediamo che occorra puntare invece ad un nuovo
modello di interventi caratterizzato da un approccio di tipo preventivo e da una gestione locale delle
problematiche ambientali, connesse all’attuale sistema produttivo. Risulta, infatti, necessario non
fermarsi ad un semplice bilanciamento delle esigenze dell’ecologia ed esigenze dell’economia, ma
integrare i due paradigmi in una prospettiva capace di produrre nuove opportunità per gli attori
sociali, economici ed istituzionali.
In questa prospettiva appare strategico:
- promuovere innovazioni di prodotto e di processo anche attraverso il sostegno alle attività di
ricerca;
- sviluppare appropriate iniziative anche di comunicazione, finalizzate a rendere apprezzabili e
praticabili da parte di settori produttivi significativi gli incrementi di concorrenzialità conseguibili
mediante l’introduzione di innovazioni ambientalmente sostenibili e suscettibili di certificazione di
qualità ambientale;
- mettere in opera strumenti di carattere patrizio fra soggetti pubblici e categorie economiche.
Sulla base di tali considerazioni si deve superare un precedente approccio limitato alla
sensibilizzazione e informazione delle categorie produttive, e si deve invece puntare ad un piano
coordinato di interventi finalizzato alla diffusione delle certificazioni di qualità ambientale di
processo e di prodotto tra le imprese .(EMAS/ISO14001 ECOLABEL). Risulta opportuno
rafforzare giuridicamente lo strumento dell’accordo volontario: il ricorso ad accordi volontari e
protocolli d’intesa è previsto principalmente in materia di inquinamento atmosferico, rifiuti,
bonifiche, energia, aria, acqua, aree protette e rischi industriali.
Queste innovazioni devono avere come riferimento non la singola impresa ma una scala
comprensoriale. Per questo è importante, seguendo l’esperienza piemontese, articolare dei centri
servizi territoriali in grado di fungere da service di filiera per l’introduzione di innovazioni in senso
sostenibile: EMAS 2 rappresenta da questo punto di vista uno strumento adatto ad introdurre
logiche di sostenibilità in ambito distrettuale e di PMI 134. Aderendo all'orientamento comunitario
esplicitato nel Libro verde sull’IPP (Integrated Product Policy) occorre sviluppare su scala
regionale un ampio spettro di misure per promuovere l'efficienza ecologica dei prodotti in modo da
coinvolgere a tutti i possibili livelli di azione le varie parti interessate (imprese, consumatori,
organizzazioni non governative, ecc. ).

Beni comuni
il processo di privatizzazione e di liberalizzazione dei servizi pubblici locali, malgrado
l’incertezza normativa e la debolezza dell’imprenditoria italiana, procede con velocità. Noi
pensiamo che i beni oggetto del processo di privatizzazione, in primis l’acqua, non possono essere
omologati ad altri tipi di beni in quanto la loro esauribilità, l’incertezza rispetto ai tempi della loro
riproducibilità, l’infinita serie di interconnessioni con l’ambiente complesso, li rende intransigenti
alla logica di mercato. La privatizzazione inoltre comporta l’espropriazione delle sedi democratiche
di temi cruciali per lo sviluppo generale in quanto le politiche che riguardano l’approvvigionamento
dell’acqua, la fornitura d’energia, il trasporto collettivo delle persone rischiano di venire gestite, non
da rappresentanti liberamente eletti dai cittadini, ma da imprenditori che ragionano in un ottica di
mercato.
Per questo pensiamo che la Regione debba formulare una legge regionale che preveda:
- dichiarare l’acqua patrimonio dell’umanità e normarne l’accesso in solidarietà con le altre
popolazioni e le generazioni future
- determinazione di standard di qualità e tariffe determinate con chiarezza, grazie a criteri e
procedure trasparenti;

134
Fabio Araldo, La gestione ambientale nei distretti industriali, in Economia delle fonti di energia e dell’ambiente
2/2002

79
- monitoraggi periodici sulla qualità dei servizi erogati e sulla qualità percepita dagli utenti,
ma anche le procedure per gli inoltri dei reclami, le richieste di rimborso, gli indennizzi per
gli eventuali disservizi;
- l'individuazione dei contenuti obbligatori dei contratti di servizio con cui i gestori, a fronte
degli introiti delle tariffe, dovranno impegnarsi a precisi standard quantitativi, qualitativi ed
ambientali
- la tutela del personale dipendente, anche in caso di subentro di impresa;
- l’istituzione di un Osservatorio regionale, con competenze in materia di analisi
dell’efficienza dei gestori, benchmarking delle prestazioni, interventi correttivi a favore
dell’utente.
- l’istituzione di una “cabina di regia” per gli azionisti pubblici delle pubblic utilities a livello
regionale che coordini, sostenga e qualifichi il ruolo degli azionisti pubblici

Responsabilità sociale delle imprese


Assistiamo ad una emersione di nuove pratiche, esperienze e discussioni che cadono a vario
titolo sotto la duplice categoria del "rapporto tra economia ed etica" e della "responsabilità sociale
delle imprese". Di fronte ai danni ambientali, alle produzioni considerate immorali (armi, tabacco,
alcool) e a comportamenti contrari ai diritti umani fondamentali (come il lavoro minorile) vi sono
movimenti di cittadini che nel tempo hanno maturato capacità di lobbying, di pressione, di
sensibilizzazione dell’opinione pubblica; secondo il Censis "va sviluppandosi una rete diffusa,
molecolare, per linee orizzontali di responsabilità sociale che investe l’insieme dei comportamenti
di consumo e di risparmio e che, nei fatti, determina un controllo dal basso rispetto all’allocazione
delle risorse ed alle scelte più generali". Da queste spinte dal basso e dalle esperienze concrete che
si sono consolidate è derivato lo sviluppo nel tempo di quelli che sono oggi gli strumenti più diffusi
tra le imprese che decidano di tenere conto dell’impatto sociale e ambientale della propria attività.
Tra questi: i codici di condotta, il bilancio sociale, i marchi di qualità sociale, gli investimenti
socialmente responsabili. Altro strumento che segue l'approccio culturale anglosassone è quello
della certificazione sociale. Si tratta dell'ancora poco diffuso SA 8000, standard internazionale di
certificazione "sociale", il cui obiettivo è proprio verificare la rispondenza dei comportamenti e dei
bilanci delle imprese alle stesse (vaghe) regole elaborate dall’ONU o dalle sue agenzie. Il rischio
oggi è che allo slogan "essere efficienti non basta" o "essere etici conviene" non si accompagni
un’adeguata politica di revisione di valori, cultura e procedure aziendali.
In un numero speciale della pubblicazione periodica della la Fondazione Nord Est dedicato a
questo tema si legge: “lo sviluppo economico distrettuale, fondato sulle PMI, si nutre delle risorse
del territorio e del suo capitale sociale. In esse trova la sua legittimazione. Nel momento in cui
queste risorse si vanno esaurendo si crea una progressiva divaricazione fra le sue componenti. La
responsabilità etica non si esaurisce nella redazione di un bilancio sociale…essa comprende la
necessità di trovare nuova legittimazione all’azione economica dell’impresa e nuovi ambiti di
reciprocità fra economia, territorio e società”135.
La Regione dovrebbe agire nella promozione di strumenti - come la certificazione sociale -
che possano rappresentare uno stimolo per accrescere l'attenzione delle imprese all'adozione di
politiche di sicurezza, regolarità e qualificazione del lavoro che possono conferire valore ai loro
prodotti/servizi e contribuire, ove sostenute da adeguate iniziative pubbliche, a qualificare
ulteriormente il sistema produttivo regionale. La stessa esigenza di fronteggiare fenomeni come
quello del lavoro sommerso e irregolare non può essere affidata ai soli strumenti ispettivi, bensì
anche a strumenti promozionali su base volontaria che si possano coniugare con un'esigenza di
carattere più generale (vedi politiche del lavoro →).

135
editoriale di NE, 1/2004

80
Sostenere e diffondere le esperienze di economia solidale
sono molteplici, anche nella nostra regione 136, gli esperimenti di economia solidale che cercano,
attraverso forme di autogestione e di cooperazione, di promuovere:
 valorizzazione della dimensione locale: valorizzando delle caratteristiche peculiari dei
luoghi (conoscenze, saperi tradizionali, peculiarità ambientali, ricchezze sociali e
relazionali).
 economia di giustizia: impegnandosi mantenere e a favorire condizioni di equità nella
distribuzione dei proventi delle attività economiche, sia tra i membri dell'organizzazione
produttiva, sia fra le diverse aree del sistema economico (tanto al Nord quanto al Sud del
Mondo).
 sostenibilità ecologica: svolgendo le propria attività economica secondo modalità tali da
consentire una riduzione dell'impronta ecologica del distretto e comunque tali da non
compromettere, anche nel lungo periodo, l'organizzazione vitale (resilienza) degli
ecosistemi.
La realizzazione pratica dei tre principi fondamentali enunciati viene perseguita attraverso il
metodo della partecipazione attiva dei soggetti alla definizione delle modalità concrete di
gestione dei processi economici. Tale modalità partecipativa presuppone da parte dei soggetti la
disponibilità a confrontarsi e a condividere con altri idee e proposte su progetti definiti di volta in
volta dai diversi soggetti.
Queste esperienze portano con sé una fortissima carica ideale e si organizzano in forme di reti e di
distretti dell’economia solidale. Citiamo tra le diverse esperienze le Botteghe del commercio equo e
solidale, i Gruppi di Acquisti Solidali (GAS: gruppi di consumatori che organizzano l’acquisto di
prodotti locali, biologici, equi e solidali direttamente dai produttori ), le MAG (gruppi
autogestionari di finanza etica dalla cui esperienza è sorta Banca Etica) i LETS (gruppi di persone
che si uniscono a livello locale per scambiare beni e servizi senza bisogno dell’intermediazione del
denaro), le Banche del Tempo, i SEL (sperimentazione di una moneta locale che dia possibilità di
accesso a credito e servizi a dimensione locale). Rilevante è la possibilità di instaurare
collaborazioni e partnership con le istituzioni locali.

Fiscalità ambientale
Il tema della fiscalità ambientale riveste un particolare interesse alla luce del nuovo scenario
costituzionale che attribuisce agli enti territoriali significativi margini di discrezionalità anche in
questo campo. La fiscalità ambientale deve essere considerata un elemento fondamentale per la
politica pubblica ambientale, a qualunque livello di governo essa venga adottata: infatti lo
strumento fiscale, ispirato al principio “chi inquina paga”, permette di influenzare i comportamenti
dei soggetti spingendoli verso scelte ambientalmente più sostenibili. Come è noto, le ragioni a
favore dell’impiego di strumenti fiscali in campo ambientale sono numerose e vanno dagli obiettivi
di efficienza allocativa (le imposte correttive infatti consentono di raggiungere il punto di ottimo
sociale) a quelli di riduzione dell’inquinamento (il pagamento dell’imposta spinge il soggetto ad
una continua ricerca di modalità di produzione o di consumo innovative, cioè a minor degrado
ambientale), fino all’eventuale vantaggio che va sotto il nome di “doppio dividendo” (oltre ai
benefici in termini di politica ambientale, esistono anche quelli collegati alla possibilità di
rimuovere le imposte distorsive vigenti su lavoro e capitale, sostituendole con le imposte sull’uso
delle risorse naturali). In sostanza il ricorso agli strumenti di mercato consente agli agenti
economici di percepire correttamente i segnali di prezzo e di costo comprensivi delle
economie/diseconomie esterne prodotte dalle loro azioni sull’ambiente e, al tempo stesso, apre spazi
per una “tassazione di scopo” che potrebbe ristabilire un equilibrio tra prelievo su lavoro e capitale
da una parte, e prelievo su consumi e inquinamento dall’altra.
136
come l’esperienze di autogestione perseguita dall’Associazione Macramè di Verona o delle Terre della Grola della
Valpolicella, o le MAG attive a Verona e Venezia oltre naturalmente all’esperienza consolidata di Banca Etica a Padova

81
E’ importante sottolineare, però, che il ricorso al mercato non può costituire l’unica risposta
al problema della sostenibilità dei rapporti fra uomo e ambiente. Quindi, una buona strategia
d’intervento per una gestione sostenibile di tutto il territorio regionale dovrà essere una gestione
“integrata” da vari punti di vista: fra i livelli di governo, fra i vari comparti antropici che creano
pressioni sul sistema ecologico e, infine, fra le varie azioni attuabili nel breve o nel lungo periodo.
In questa ottica la Regione si presenta come un livello di governo per il quale la multisettorialità
delle funzioni svolte è così ampia da consentire la progettazione e implementazione di una politica
fiscale con finalità ambientali, che sia coerente e credibile dal punto di vista dei contribuenti. Per
delineare una riforma della struttura fiscale che recepisca le problematiche ambientali e che soddisfi
maggiormente il principio “chi inquina paga” occorrerebbe, non soltanto conoscere le potenzialità
dei singoli strumenti fiscali (esistenti o utilizzabili) e delle relative basi imponibili, ma anche
stabilire in via prioritaria quali possibili linee d’intervento seguire.
Una riforma fiscale “verde” dovrebbe seguire criteri e finalità quali:
- riqualificare in senso ambientale il prelievo fiscale a parità di gettito complessivo, per indurre
comportamenti eco-compatibili;
- privilegiare un intervento leggero ma pervasivo, rivolto a orientare comportamenti
ambientalmente corretti in ognuno dei settori su cui esistono o si possono utilizzare strumenti
fiscali, con manovre su aliquote o basi imponibili piuttosto contenute. In generale, rispetto ad un
intervento fiscale limitato tipologicamente (al limite, una sola imposta) ma di grande rilievo
quantitativo, l’uso di tante piccole imposte ambientali ha il vantaggio di indurre una percezione
limitata del carico tributario provocato dalla politica ambientale e di diffondere gli effetti su più
ambiti;
- infine, adottare criteri settoriale o tematici per la selezione degli interventi: fra quelli che sono i
naturali ambiti di applicazione della tassazione ambientale (fonti energetiche, mobilità, risorse
naturali, emissioni inquinanti).
Si possono ipotizzare delle modifiche per i tributi regionali appartenenti a tre specifiche
macro-aree, la mobilità, i rifiuti e le attività produttive, che rappresentano senza dubbio gli ambiti
prioritari d’intervento per una fiscalità “verde”, vista la rilevanza che vi assumono gli impatti
dell’uomo sull’ambiente.

Una delocalizzazione governata


Nel corso degli anni ’90 il sistema industriale del Nord Est ha conosciuto una profonda
trasformazione del suo modello di crescita. La parte più visibile di questo processo è riconducibile
alla delocalizzazione produttiva, ovvero al trasferimento di importanti quote di attività
manifatturiera a basso valore aggiunto in paesi in via di sviluppo, con costi del lavoro
significativamente inferiori al nostro. Le conseguenze economiche di questo processo sono state,
nei nostri territori, significative, soprattutto in quei distretti industriali che su tali attività
manifatturiere hanno costruito nel tempo la base del proprio successo competitivo. Questo
fenomeno, insieme a quello dei movimenti migratori, determina la tendenza ad una nuova divisione
internazionale del lavoro. I paesi poveri non sono più, come un tempo, esclusivamente produttori e
esportatori di materie prime, ma diventano i fornitori, in patria e all’estero, di lavoro poco
qualificato e poco remunerato. Il gap tra nord e sud (o est e ovest) tende così a mantenersi e ad
allargarsi. La delocalizzazione produttiva, deve essere accompagnata da misure pubbliche
strategiche perché acquisti un suo spessore “geopolitico” in quanto leva per avviare dinamiche di
sviluppo fondate non più sulla logica della divisione internazionale del lavoro che consegna ai paesi
“emergenti” un ruolo periferico rispetto al modello economico egemone, ma la possibilità di
pensare ad uno sviluppo endogeno fondato su criteri di sostenibilità ambientale e sociale 137. La
scommessa regionale dev’essere consapevole, impedire gli effetti negativi, di estenderne quelli
137
Giancarlo Corò, Verso una governance dei processi di delocalizzazione produttiva, in Quaderni di Rassegna
Sindacale, 3/04

82
positivi, e di adottare comportamenti e pratiche adeguate al fine di piegare il mutamento a fini che si
ritengono desiderabili. Occorre dare vita all’Agenzia Regionale per l’internazionalizzazione per far
sì che il processo di delocalizzazione si tramuti in un processo complesso, governato e che contenga
obiettivi di sviluppo sociale, sostenibile e democratico.

Promuovere il microcredito e la finanza locale


Il tessuto delle banche locali di credito cooperativo sono state uno strumento essenziale per
la coesione sociale e l’identificazione tra impresa e società nel modello veneto; come sottolinea
Aldo Bonomi “un principio di identificazione fra comunità e banche locali ha segnato le vicende
della società e dell’ economia”138. Il mutamento intercorso ha bisogno di soluzioni nuove. Occorre
una politica che faciliti l’accesso al credito da parte sia di una nuova generazione d’imprenditori e
con essi di idee e finalità nuove per l’economia e la società veneta. L’attuale sistema infatti
rappresenta un ostacolo per chi voglia affacciarsi oggi sul mercato. I piccoli operatori economici, gli
imprenditori immigrati, le imprese sociali trovano difficoltà nell’ accedere al credito Da sempre
infatti queste aziende rappresentano per le banche un oggetto semi-sconosciuto e ad elevato rischio:
perché tengono una contabilità semplificata e non redigono un bilancio comparabile a quello delle
aziende maggiori, per cui è molto complicato evincere la reale consistenza patrimoniale o perchè,
trattandosi nella maggior parte dei casi di imprese individuali o di società di persone, i patrimoni
frutto dei risultati aziendali sono di proprietà dei singoli imprenditori e separati dal patrimonio
aziendale. Tutte condizioni che riducono la conoscenza profonda dell’azienda che richiede il
credito.
Su tutto questo articolato contesto incombe lo spettro del cosiddetto "Accordo di Basilea 2":
un meccanismo internazionale di regolamentazione del sistema bancario che opererà nella logica di
ridurre il rischio dell’operatività bancaria e quindi dei depositanti e, in ultima analisi, degli azionisti
della banca. È un sistema basato sui cosiddetti "coefficienti patrimoniali", vale a dire che una banca,
a fronte di un certo volume di crediti erogati - e quindi di rischio - deve avere una determinata
consistenza di patrimonio, cioè di mezzi propri.. Il rischio che si profila è che tale differenziazione
comporterà la concessione di meno credito, oppure di credito ad un tasso di interesse maggiore,
all’azienda più rischiosa attraverso il rating, meccanismo di valutazione che necessariamente deve
essere il più possibile standardizzato e oggettivo se vuole essere uno strumento di confronto tra
soggetti diversi: l’unico aspetto oggettivo valutabile è rappresentato dai numeri di bilancio, e quindi
ancora una volta le caratteristiche qualitative dell’impresa non avranno alcuna valenza. In pratica si
rischia che diventi più rigido il meccanismo delle garanzie patrimoniali invece che incentivare la
valutazione dei progetti di investimento.
La scommessa è l’innovazione nel modo di fare banca. È giunto il momento di sostenere in
questo campo l’utilizzo di strumenti come la microfinanza, che altrove, in situazioni certamente più
difficili e talora disastrose, sta dimostrando la sua efficacia per migliorare il tessuto economico e la
qualità della vita. Nei circuiti del microcredito troviamo presupposti e linee operative che affrontano
in modo innovativo la questione del rischio e del finanziamento di nuove attività, come ad esempio:
 tradurre le attività di sopravvivenza delle fasce più povere di popolazione in progetti
imprenditoriali;
 accompagnare la fornitura di credito con la formazione del microimprenditore e la
consulenza al progetto d’impresa;
 valorizzare la responsabilità individuale e collettiva, soprattutto attraverso garanzie di
gruppo. Questo meccanismo di controllo della comunità – che il premio Nobel per
l’economia Joseph Stiglitz chiama "monitoraggio dei pari" – disincentiva comportamenti di
moral hazard. In sostanza, al patrimonio materiale si sostituisce, come garanzia, un
patrimonio relazionale;
 mobilitare il risparmio anche partendo da piccole cifre e piccoli impegni;
138
Aldo Bonomi, Per un credito locale e globale, Milano, 2003

83
 puntare a rendere sostenibile il circuito creditizio sia sul piano sociale che sul piano
finanziario;
 inserire la crescita delle micro e piccole imprese in un quadro di sviluppo locale.
I l ruolo della Regione nel campo della finanza pubblica deve essere quello di definire con
chiarezza il quadro degli incentivi alle aziende in base a criteri che favoriscano le imprese e i
progetti innovativi. Inoltre la Regione dovrà dare propulsione al ruolo di Veneto Sviluppo affinché
promuova una politica del credito, che influenzi anche i soggetti privati, nel segno dell’accessibilità.

Politiche di contesto
I territori che riescono ad offrire spazi evocativi, non indifferenziati, entro i quali poter
arricchire le esperienze sociali ha più opportunità di essere in futuro competitiva 139. Un luogo
ospitale, stimolante, aperto al mondo, alle innovazioni, una cultura cosmopolita, aperta alle
differenze, con una importante qualità ambientale e sociale: questo tipo di contesto può favorire
l’apertura e la trasformazione delle nostre PMI, perché può ospitare attrarre nuovi talenti, i soggetti
che detengono il potenziale della conoscenza e della creatività. Giorgio Brunetti sottolinea “ adesso
le imprese per continuare a vivere hanno bisogno dell’aggancio con le università, con i centri di
ricerca, e devono imparare a sentire, se non a dialogare, con altri soggetti anche artisti: leggere
Zanzotto fa pensare, così come sentire Paolini o guardare certi film di Mazzacurati” 140 mentre
Innocenzo Cippoletta si domanda come un territorio possa attrarre giovani intelligenze in grado di
dare stimoli al nostro tessuto produttivo e rilancia: “una vivibilità che, per i giovani talenti, è fatta
innanzi tutto di una moltitudine di occasioni di lavoro, di stimoli intellettuali, di diversità di
ambienti, di presenze artistiche e creative capaci di generare uno stile di vita proiettato sulla
innovazione creativa”141. Anche perché il problema non è solo quello di attrarre nuove intelligenze
ma come avverte Enzo Rullani: “è assolutamente cruciale, a questo scopo, sviluppare
un'intelligenza terziaria radicata sul territorio, che alimenti la crescita di nuove professioni e di
nuove imprese, facendo da interfaccia tra manifattura locale e funzioni commerciali globali.
Un'intelligenza che oggi il territorio ha in misura molto limitata e che, anche pensando alla nuova
politica industriale, comincia a diventare la priorità delle priorità” 142. Per questo occorre una politica
che punti alla riqualificazione delle aree urbane, che freni la pericolosa deriva della città diffusa alla
Los Angeles propria del Veneto centrale, ricostruendo attorno ai nuclei urbani poli di qualità
ambientale sociale in grado di essere magneti di sviluppo del territorio.

Innovazione e riflessività dello sviluppo


Il ritardo italiano nella promozione della ricerca scientifica e nell’innovazione della
produzione è noto143: la scelta di perseguire la strada della precarizzazione dei rapporti di lavoro ha
messo in campo un’idea di sviluppo fondata su basse professionalità e su basse capacità innovative.
Le cosiddette riforme che investono, e smantellano, in questi anni la scuola e l’università -
contestualmente ad una politica di tagli che pregiudica qualsiasi ipotesi di progettualità pubblica
nell’ambito della ricerca e dell’innovazione - hanno, e non possono non avere, delle pesantissime
ricadute sui nostri territori (vedi conoscenza, formazione, cultura ←).
La Regione ha un ruolo potenzialmente importante nelle politiche dell’innovazione, come
viene sottolineato dalla Commissione europea: “occorre sensibilizzare le autorità regionali
all'importanza crescente delle politiche regionali per la promozione dell'innovazione. Quando
concepiscono o attuano politiche regionali dell'innovazione, le autorità regionali devono tener
139
Vittorio Torbianelli, Creatività, città, sostenibilità: pre-condizioni del nuovo sviluppo, in urbanistica Informazioni,
196/2004
140
Giorgio Brunetti, Interdipendenza sociale e sviluppo economico, in Economia e società regionale, 2/2001
141
Innocenzo Cippolleta, Il Nord est e le sfide dell’internazionalizzazione, in Daniele Marini (a cura di) Nord Est 2003
142
Enzo Rullani, I distretti industriali al tempo dell’economia globale, in Impresa e Stato, 63-64/2003
143
La letteratura sul tema del gap italiano nella ricerca è vastissima ci limitiamo a segnalare un articolo ricco di dati e di
riflessioni non omologate: Sergio Bruno, Le sfide della ricerca, in www.sbilanciamoci.it

84
pienamente conto delle specificità e delle caratteristiche sociali ed economiche della regione” 144. La
dimensione sub-nazionale (regionale e locale) non si limita ad essere il punto di partenza della
domanda (ed il punto di arrivo dell'offerta) di prodotti scientifici e tecnologici ma tende ad
assumere una valenza autonoma, a stabilire direttamente reti di relazioni ed iniziative strategiche nel
campo della scienza e della tecnologia: questo sia in regioni in ritardo di sviluppo attraverso il
contributo dei Fondi Strutturali, sia nelle aree più avanzate secondo la logica dei "motori dello
sviluppo". Quello che stenta a definirsi è un’indicazione chiara sulla strada da intraprendere viste le
risorse e le condizioni socio economiche, come afferma Rullani “servono un’economia e una
politica della conoscenza che partano da una definizione di identità, fissando le qualità distintive del
modello italiano anche nel modo di produrre e propagare la conoscenza” 145. Insomma non ha senso
rincorrere anche sul terreno della ricerca e dell’innovazione i “giganti”, ma occorre identificare i
caratteri peculiari che possono identificare il sistema italiano della ricerca e dell’innovazione.
Il governo regionale deve esercitare un ruolo programmatorio autorevole: “la perdita delle
professionalità tradizionali, le carenze nella formazione di nuove professionalità, la mancanza di
rapporti organici con il mondo della ricerca, sono tutti problemi che i normali automatismi ( il
mercato, la tecnologia, la burocrazia delle amministrazioni) non riescono ad affrontare
convenientemente”146. Partiamo da un tessuto che ha sempre sofferto di fragilità legate
all’innovazione, in particolare la Fondazione Nord Est147 indica le seguenti tre fragilità:
• livello assoluto dell’investimento in R&S (0,5 – 0,6 % sul Pil);
• capacità e qualità delle interazioni ricerca - imprese (il numero di imprese che collabora
abitualmente con Università o Centri di ricerca non supera il 4 - 5% del totale);
• capacità di generare breaktrough tecnologici e di trasformare le conoscenze tacite in conoscenze
codificate (basso numero di brevetti, limitato numero di spin off e start up innovative, innovazione
di tipo incrementale più che fondamentale).
L’arretratezza del modello produttivo crea inoltre una strozzatura tra una offerta di lavoro
sempre più qualificata da parte di giovani e un offerta dequalificata ancorata ancora ad un modello
produttivo basato sul lavoro estensivo e a basso contenuto cognitivo 148. Occorre sostenere
l’innovazione affinché si possa pervenire a processi produttivi a minor consumo di energia e
materia e a minor intensità di lavoro: un’opportunità deriva dalle regole europee, IPPC, Kyoto, ecc,
che assumono per l’Italia la valenza di un obbligo di modernizzazione. Occorre quindi trasformare
questi obblighi in opportunità e valutare i vantaggi che possono derivare dall’innovazione
tecnologica e ambientale da obiettivi tipo zero rifiuti e analisi a pieno ciclo di vita del prodotto.
Cioè, come chiarisce Carlo Donolo, “la condizione per il successo di politiche integrate del
territorio con sostenibilità e della diffusione nei distretti di strategie tipo EMAS e altre certificazioni
sta probabilmente nel legare le politiche ambientali (in senso lato) alle politiche di riqualificazione:
tecnologica, professionale, di prodotto e di processo delle imprese distrettuali”.
Da individuare, come ha sottolineato la Fondazione Nordest, una maggiore articolazione
delle forme agevolative e procedurali in modo da prevedere per ogni intervento lo strumento più
appropriato (contributo a fondo perduto, finanziamento agevolato, bonus fiscale, garanzie
finanziarie, capitale di rischio), insieme al procedimento amministrativo più opportuno (automatico
o valutativo).

Quale innovazione per quale società


Occorre però sottolineare alcuni fattori dirimenti nella politica dell’innovazione. Pensiamo
infatti che la sfida del cambiamento e dell’innovazione non possa ridursi al trasferimento (per
144
“Politica dell'innovazione: aggiornare l'approccio dell'Unione europea nel contesto della strategia di Lisbona”
Comunicazione della Commissione, Bruxelles, 2003
145
Enzo Rullani, Economia della conoscenza, Roma, 2004
146
Aldo Bonomi, Per un credito globale e locale, Milano, 2003
147
Fondazione Nordest, Tre priorità per le politiche regionali per l’innovazione, in Newsletter Nord Est 2/2003
148
Michele Cangiani, Silvia Oliva, L’economia veneta fra crescita e trasformazione, in Venetica…

85
quanto necessario) di quote di tecnologia all’interno del processo produttivo. Occorre attivare un
processo che coinvolga la società nel suo complesso assumendo la conoscenza come una risorsa
fondamentale per la partecipazione “distribuito” nel sociale e non contenuto in un circuito chiuso 149.
Nulla come la riduzione della conoscenza e del sapere ad un sapere unico mette a repentaglio il
discorso democratico che dev’essere costitutivamente plurale e pluralista. Una vera “società della
conoscenza” rigetterà modelli rigidi e accentrati di produzione delle innovazioni ma privilegerà
modelli inclusivi e partecipativi di discussione pubblica.
La politica deve mirare a promuovere la varietà e la diversità e secondo un approccio
evolutivo: occorre promuovere la creatività, l’adattamento agli stimoli del mercato e la
valorizzazione delle nuove opportunità tecnologiche, tramite la creazione di un sistema di
innovazione composto da un insieme di istituzioni in relazione tra loro e aperto verso l’esterno.
Occorre adottare paradigmi nuovi come quello delle reti e dei sistemi complessi e adattativi, che si
focalizzano sui concetti di innovazione e integrazione e sono appropriati per comprendere e guidare
il cambiamento rapido e pervasivo nelle strutture economiche verso un’economia basata sulla
conoscenza e l’apprendimento. La presenza di voci di dissenso è garanzia di un tessuto culturale
vivace e ricco, come chiarisce Renzo Rullani: “le conoscenze critiche sono quelle che consentono
innanzitutto di innovare coltivando la propria differenza distintiva - con idee originali - attraverso
un rapporto più diretto e dialogico con il mondo della scienza e della tecnologia, ma anche con altri
mondi che possono arricchire il significato di quanto si fa si sa fare” 150. La conoscenza tecnico
scientifica formalizzata va integrata alla conoscenza locale dei fattori ambientali e culturali che
fanno del territorio un unicità.
La conoscenza locale è uno straordinario fattore di comprensione del proprio potere, della
potenzialità di sviluppare percorsi endogeni, autosostenibili e innovativi. Pensiamo inoltre che
politiche dell’innovazione e della conoscenza debbano riguardare non solo il comparto industriale:
il turismo, ad esempio, e i beni culturali abbisognano di un investimento nel campo della
conoscenza delle risorse storico paesaggistiche che avrebbe peraltro un evidente ricaduta
economica. Inoltre è impensabile attuare politiche per l’innovazione e la conoscenza quando
aumenta il peso del lavoro precario, nero, irregolare, usa e getta: l’innovazione di processo e di
prodotto deve necessariamente accompagnarsi alla qualificazione del lavoro attraverso anche la
certezza dei diritti e della dignità dei lavoratori.
Il processo di innovazione dipende non solo dall’accessibilità a conoscenze complementari,
ma anche dalle capacità di assorbimento individuali e queste dipendono dall’investimento nelle
risorse umane, dalla valorizzazione delle conoscenze di base, dallo sviluppo dei sistemi di
formazione e dagli investimenti in formazione continua, che assicurano una maggiore flessibilità e
ricettività al nuovo. In particolare, la creatività dipende dalla capacità di connettere elementi
esistenti in modi nuovi, di accettare stimoli esterni e da uno sforzo continuo di costruzione su questi
stimoli per creare qualche cosa di nuovo151. Noi pensiamo che vadano accompagnate ed integrate
alle politiche per l’innovazione, strategie per coinvolgere le comunità sulle finalità e processi dello
sviluppo, che vada promossa la capacità degli abitanti di sviluppare riflessioni e discorsi pubblici
intorno alle sue caratteristiche. Il sapere scientifico e tecnologico insieme alle sue applicazioni nei
processi produttivi deve divenire una casa di vetro. I Centri di ricerca sulle manipolazione genetiche
in agricoltura, promosse da Cassamarca a Treviso, non hanno la caratteristica di beni comuni per lo
sviluppo del territorio anche se come tali vengono presentati: non tutta l’innovazione è buona,
funzionale ad una riqualificazione dello sviluppo, alla liberazione di tempi di lavoro. Occorrono
luoghi pubblici in cui questo viene discusso: perché la scienza e la tecnologia sono alleati della
qualità se hanno caratteristiche processuali aperte e pubbliche.

149
Enzo Rullani, Economia della conoscenza, Roma, 2004
150
Enzo Rullani, Economia della conoscenza, Roma, 2004
151
Riccardo Cappellin, Le politiche industriali e del lavoro nell’economia della conoscenza, in
www.fondazionedivittorio.it

86
87
luoghi

in queste pagine prendiamo in analisi


i caratteri e le problematiche
di alcuni luoghi paradigmatici del Veneto.
Alla base della nostre proposte e analisi vi è la
consapevolezza che la crescita recente ha in parte
distrutto i caratteri singolari dei diversi luoghi di
cui è composta la nostra regione.
In realtà la particolarità, e la ricchezza, del
Veneto risiede proprio nel suo essere polifonico,
nel suo contenere caratteri territoriali
profondamente differenziati.
Un nuovo sviluppo per il Veneto parte dal
restauro di queste differenze e
dalla capacità di metterle in relazione

88
Effetti metropolitani
La fascia centrale della pianura veneta è di fatto diventata oggi un’unica grande
conurbazione, nella quale i flussi di persone, merci, informazioni sono intensi e relativamente privi
di gerarchia.
A questa conurbazione manca tuttavia una qualità urbana (in termini di dotazione di servizi
collettivi, possibilità di usare mezzi alternativi all’auto privata, ricchezza di relazioni sociali e
intergenerazionali, disponibilità di spazi verdi pubblicamente accessibili ecc.) senza che abbia
saputo conservare le precedenti qualità di campagna organizzata all’interno di una densa trama
urbana policentrica. Il modello di sviluppo che l’ha prodotta ha messo infatti al lavoro, negli ultimi
trent'anni, il territorio come fattore di produzione tendenzialmente infinito e a basso costo,
producendo così un urbanizzato diffuso (“città diffusa”, ma priva di effetti urbani) e di bassa
qualità.
Oggi questo territorio caratterizzato da una conurbazione tendenzialmente continua che va
da Verona a Venezia, intasando a settentrione la pianura fino ai primi rilievi prealpini e
rarefacendosi verso Sud nel passare dalla pianura asciutta alle terre di più recente bonifica, è quindi
non più campagna e non ancora città. E’ una campagna male urbanizzata con alcuni luoghi di
qualità che corrispondono generalmente alle aree di più antica urbanizzazione.
Con l'espressione metropoli o conurbazione metropolitana si intende oggi generalmente
designare aree urbanizzate estese e continue; ciò cui ci si riferisce non è tuttavia soltanto (e forse
neppure) una concentrazione straordinaria di popolazione o di aree edificate, quanto la densità di
relazioni, le funzioni di comando rispetto alla rete, le economie di agglomerazione, l’effetto urbano
(tutte le aree metropolitane del comando globale si caratterizzano anche per una loro forte e specifica
identità “urbana”, al contrario delle megalopoli terzomondiali).
Nel contesto europeo, l’attuale enfasi sulle regioni urbane policentriche è indizio della crisi
ormai conclamata dei modelli organizzativi centro-periferici tipici della fase industriale fordista, a
fronte del nuovo ruolo assunto dal territorio nello sviluppo economico e del benessere. Nella nuova
struttura “molecolare” della produzione, che comporta la complessificazione delle relazioni, il
territorio come giacimento di capitale storico, fisico e sociale, diviene risorsa fondamentale per la
produzione di “valore aggiunto territoriale”.
Il progetto ufficiale dell’attuale amministrazione regionale non solo non affronta i problemi
evidenti nel territorio metropolitano veneto, ma promuove una ulteriore deterritorializzazione del
modello insediativo di lungo periodo operata distribuendo nuove funzioni, in particolare centri
direzionali, in corrispondenza dei nodi del sistema stradale e autostradale. Ciò concorrerebbe a
distruggere le residue identità del sistema insediativo storico, svuotando dalle residue funzioni
presenti (malgrado il già compiuto decentramento di servizi pubblici, attività commerciali, buona
parte dell’offerta culturale e ricreativa) i centri urbani; essa comporterebbe inoltre un utilizzo
dell’auto privata ancora maggiore dell’attuale, aumentando i problemi ambientali e la congestione, e
togliendo utenti potenziali al sistema di trasporto pubblico.
Se questo progetto appare dunque per più ragioni inaccettabile, qual’è il progetto di
territorio desiderabile per la città metropolitana?
A prescindere dalle dispute su quale sia la forma istituzionale più adatta a governare la città
metropolitana e su quante e quali debbano essere le città metropolitane venete (Verona, Verona con
le sue propaggini verso Mantova e Trento, Venezia, Pa-Tre-Ve, Vi-Pa-Tre, e tutte le ulteriori

89
combinazioni possibili) appare utile ragionare anzitutto sul progetto di territorio metropolitano
desiderabile, ovvero sugli "effetti metropolitani" che richiedono una regolazione diversa da quella
in atto.
Qui di seguito provo dunque a enumerare una serie di dimensioni progettuali centrali per
ridefinire il problema degli effetti metropolitani e della loro regolazione.

1. ci troviamo in un territorio abitato da millenni: è necessario acquisire una maggiore


conoscenza e coscienza delle stratificazioni del passato, internalizzandone le relative regole
(insediative e di rapporto con l’ambiente naturale), per disegnare il futuro
- le localizzazioni storiche dei principali insediamenti seguono molteplici regole, geomorfologiche,
di salubrità, di misura, di collocazione rispetto ai flussi d'acqua, di energia, di conoscenze, e da ciò
deriva la loro forte identità
- i segni del passato sono un patrimonio da valorizzare anche ai fini del benessere economico
- il passato ci insegna che questo territorio è un animale vivo, che si muove, e che alle sue
dinamiche naturali vanno lasciati spazi adeguati
- a ciascuna identità di luogo corrisponde una domanda di relativa autonomia nell’autogoverno: la
lunga storia di questo territorio ci insegna anche che a fronte dei cambiamenti delle istituzioni
sovraordinate le civitas locali e i rispettivi governi comunali rappresentano un elemento di forte
continuità

2. la società e l’economia metropolitana stanno cambiando, ed esprimono oggi una nuova


domanda di qualità
- il/la cittadino/a medio/a della conurbazione centrale possiede oggi maggiore cultura, e chiede
maggiore benessere piuttosto che maggior reddito a ogni costo
- i costi sociali, economici e ambientali della congestione e della dispersione caotica sono percepiti
come sempre meno sostenibili
- a questa nuova domanda va dato maggior credito e fiducia

3. la qualità urbana-metropolitana è data in primo luogo dalla qualità dei servizi collettivi e
degli spazi aperti
- Manhattan è anche Central Park e la Subway; Londra è inimmaginabile senza Regent’s Park,
Hampstead, la Green Belt agricola e la Tube; e così via
- la qualità della campagna infraurbana e periurbana è un elemento essenziale per la qualità della
vita urbana, per il commercio di alimenti locali di qualità (i mercati degli agricoltori-contadini, i
mercatini biologici), per la qualità dell’aria, dell’acqua, del paesaggio
- la dotazione e ancor più la qualità gestionale dei servizi (a partire da: trasporto collettivo,
intermodalità, logistica, trasparenza e tempi delle azioni istituzionali e procedure pubbliche)
costituiscono un obiettivo prioritario

4 un buon progetto richiede l’attivazione delle energie sociali, attraverso una partecipazione
ampia, capace di rappresentare gli interessi diffusi e dare spazio alla progettualità
- le forme di regolazione pubblica devono garantire una partecipazione aperta alla definizione e
gestione del progetto
- le società che gestiscono i servizi di pubblica utilità sono attori centrali, ma non devono avere il
potere di imporre i loro progetti, dal momento che rappresentano interessi privati di natura
aziendale
- la democrazia partecipativa va rifondata dal locale, aprendo i luoghi più vicini ai cittadini
(municipalità, comuni) a forme di partecipazione continuativa e integrata

90
5. la dimensione fisica del territorio non è esito ineluttabile delle trasformazioni sociali ed
economiche, ma può determinare i futuri possibili
- le megalopoli informi si sono diffuse e vanno ulteriormente diffondendosi soprattutto nel sud del
mondo, mentre le città del comando globale sono state bene attente a mantenere i loro confini e le
loro invarianti storiche
- una città globale come Londra aumenta la propria importanza economica anche grazie ad una
progettazione territoriale attenta all’identità dei diversi luoghi che formano la città
- una città metropolitana diffusa come la Deltametropool olandese definisce il proprio progetto
fisico futuro per determinare lo sviluppo economico
- lavorare maggiormente sugli scenari fisici può essere molto utile per costruire in modo condiviso
progetti di futuro non eccessivamente ambigui

6. per poter progettare la città metropolitana è necessario possedere tutte le competenze


necessarie
- oggi le decisioni relative agli investimenti produttivi o immobiliari sono spesso delocalizzate a
livello globale
- le decisioni relative alle infrastrutture e ai servizi pubblici possono tuttavia guidarne gli esiti,
purché siano coerenti tra di esse
- oggi molte competenze sono in capo allo Stato, alle amministrazioni regionali o (di fatto) a grandi
società di diritto (e spesso di capitale) privato
- per poter progettare la città metropolitana è necessario che gli enti pubblici territoriali che
rappresentano di fatto la città metropolitana ottengano tutte le competenze necessarie a poterne
effettivamente progettare le infrastrutture, i servizi e quindi l’assetto futuro

7. dalla pianificazione funzionale alla pianificazione delle identità: città metropolitana come
federazione di municipalità e dei villaggi urbani che le compongono
- la scarsa e male applicata pianificazione funzionale ha prodotto un territorio metropolitano
spezzatino; se non funzionano le singole parti, come può funzionare la città metropolitana?
- un esercizio fondamentale è quello di riscoprire il villaggio urbano che c’è in ogni lembo della
città metropolitana, per recuperarne il senso e gli attori sociali locali
- ciascun villaggio di cui si compone la municipalità e la città metropolitana deve essere dotato di
qualità urbana: spazi pubblici, possibilità di muoversi senza utilizzare l’automobile, dotazione di
servizi collettivi, densità insediativa sufficiente a permettere tutto questo, accessibilità diretta alla
campagna e agli spazi naturali
- ciascun villaggio può e deve prendersi cura di ciò che gli sta attorno, sia essa campagna,
infrastrutture, corsi d’acqua e quant’altro
- ciascuna municipalità, rapportandosi al proprio territorio aperto, può e deve porsi il problema della
sua impronta ecologica
- gli insediamenti produttivi, se non compatibili con le altre funzioni, devono essere progettati a loro
volta con attenzione alla loro impronta ecologica, alla campagna e agli spazi naturali circostanti, ai
servizi e alle infrastrutture richieste
- le diverse funzioni commerciali, direzionali e di servizio vanno distribuite nei centri per arricchire
l’effetto urbano, sostenere la dotazione dei servizi pubblici e ridurre la mobilità automobilistica

8. città metropolitana come esito della cooperazione, non della competizione


Al di là delle diverse declinazioni dei problemi metropolitani e delle soluzioni messe in campo per
trattarli, il problema ufficialmente definito sembra consistere in una sorta di quadratura del cerchio:
aumentare la competitività economica, ridurre l’esclusione sociale e migliorare la sostenibilità
ambientale.

91
Perseguire come primo obiettivo la competitività economica, interpretandola come
strettamente interrelata alla crescita, non è il modo migliore per soddisfare i rimanenti obiettivi
enunciati, come dimostrano ad esempio gli effetti sociali e ambientali di medio periodo del modello
Nordest. E’ pertanto necessario ridefinire l’agenda politica ridimensionando il ruolo dominante della
competizione economica, a favore di modelli di sviluppo che perseguano il benessere attraverso una
diversa attenzione alla qualità dei fattori sociali, ambientali e territoriali. Il concetto tradizionale di
rango (basato sul solo PIL) cambia quando vengono introdotti nuovi indicatori di benessere.
A ben guardare, in Europa sempre più il confronto e la competizione non avvengono fra
singole metropoli interne a un’unica entità nazionale, ma piuttosto fra regioni urbane diversamente
collocate in un unico spazio economico e politico europeo. Ma che si tratti di singole città o regioni,
vi è un riconoscimento scientificamente fondato che se tutte competono l’una contro l’altra per porsi
verso l’alto, anziché per sviluppare al meglio le loro specificità e relazioni cooperative a livello
locale/regionale e tra reti di città transnazionali, creando sinergie fra i reciproci punti di
forza/eccellenze, ci saranno molti vinti e pochi vincitori.
Se fra le varie parti della conurbazione metropolitana veneta prevarrà la competizione,
anziché la cooperazione nel definire un disegno territoriale che promuova le diverse identità
specifiche, contrastando l'attuale tendenza ad annullarle in una marmellata omologante, assegnando
a ciascuna il ruolo che essa ha dimostrato di saper svolgere al meglio, e costruendo insieme servizi
comuni migliori, difficilmente si otterranno effetti metropolitani di qualità.

Anna Marson

92
Il Veneto sulle rive del mare
Coste e lagune
Le coste del Veneto si sviluppano per circa 113 km dal sistema deltizio del fiume Po alla
foce del Tagliamento e si caratterizzano per la natura bassa e sabbiosa. La linea di costa è interrotta
nella propria continuità soltanto dalle bocche di porto degli apparati lagunari e dalle foci dei
numerosi fiumi di natura alpina e prealpina che si immettono in Adriatico.
Sul fragile ecosistema della linea di costa si sono addensati gli effetti del modello di
sviluppo veneto: tra massiccia occupazione edilizia e balneare, vaste bonifiche agrarie e “usi” del
mare e delle coste artificiosi e dilaganti (vedi il boom della motonautica da diporto e i porti
turistici), solo pochissimi tratti di costa possono nel Veneto far presagire quale doveva essere il
paesaggio di inizio novecento. Si è trattato di un fenomeno assai recente che in poco più di un
secolo ha completamente trasformato, e in larga parte distrutto per sempre, il patrimonio naturale e
biologico delle coste venete. D’altronde stando all’interno di una logica di sviluppo predatorio è
difficile pensare di salvaguardare i delicati equilibri dell’assetto costiero che sono regolati da
processi complessi coinvolgenti il retroterra e il mare antistante152.
La costa rappresenta sia un fondamentale punto di lettura e monitoraggio della situazione che è
venuta a determinarsi nel rapporto terra/mare, sia la base di una politica nuova per avviare una
spirale virtuosa nel rapporto tra aree interne e aree marine. Lo studio, e l’efficace governo e tutela,
non può prescindere da un’approfondita conoscenza dei bacini idrografici che gravitano su un
determinato litorale.

Competenze regionali
La Regione ha competenze, riguardo le problematiche della costa e del mare, molto ampie
(D.Lgs 31.3.1998 n° 112):
- programmazione e gestione integrata degli interventi di difesa delle coste e degli abitatati
costieri
- programmazione, pianificazione, progettazione ed esecuzione degli interventi di
costruzione, bonifica, e manutenzione dei porti di rilievo regionale e interregionale, e delle
opere edilizie a servizio dell’attività portuale
- rilascio di concessione di beni del demanio marittimo e di zone del mare territoriale.
Quindi vi è un’ampia possibilità di impostare e promuovere politiche significative a livello
regionale.
Le principali problematiche che riguardano la relazione tra il Veneto, il suo litorale e il mare
possono essere così identificate:
 la localizzazione lungo le coste di attività altamente inquinanti come le industrie
petrolchimiche;
 la costruzione di centrali termoelettriche insediate in alcune fra le aree più pregiate per
presenze artistiche e naturalistiche;
 lo sviluppo di un'agricoltura con forte impiego di sostanze chimiche, sia per la
fertilizzazione che per la difesa delle colture;
 un aumento esponenziale degli insediamenti civili e produttivi con gravi effetti di
impermeabilizzazione del territorio;

152
Marcello Zunica, Lo spazio costiero italiano, Roma, 1987

93
 una concentrazione spazio-temporale dell'industria delle vacanze e del turismo di massa che
pone il problema di un alleggerimento del carico antropico a favore dello sviluppo di un
turismo con livelli di qualità più elevati, anche come condizione per poter avere una
effettiva destagionalizzazione e migliori risultati economici;
 un aumento esponenziale dello sforzo di pesca che ha provocato l'emergere di gravi
problemi per il settore;

Occorre pertanto porre sul tappeto importanti temi di programma e di progetto quali:
 una pianificazione integrata attraverso un Piano regionale della fascia costiera con funzioni
di indirizzo e coordinamento nei confronti dei Piani comunali;
 la realizzazione di una rete costiera di parchi e riserve naturali;
 l'utilizzazione e la razionalizzazione della portualità esistente;
 la riqualificazione e la sottrazione dei manufatti esistenti e lo stop a nuova edificazione;
 l'avvio di seri progetti per il turismo ecocompatibile, agendo verso la destagionalizzazione,
facendo chiarezza su quello che potrebbe essere il più serio problema per la conservazione
dei prossimi decenni;
 la difesa della costa dall'erosione e dall'inquinamento.

Tra cementificazione e turismo di massa


Se osserviamo una foto notturna da Trieste a Pescara, con l’eccezione del delta del Po, la linea
di luci in corrispondenza della costa prosegue quasi continua. Seconde case, condomini,
multiproprietà, alberghi, camping, posteggi, edilizia privata di ogni tipo, che ricopre ormai la quasi
totalità delle nostre coste: un perfetto esempio di spreco del territorio. Denunciava il geografo
Marcello Zunica come “i lidi veneti propongono differenti esempi di strutture turistiche esplose
dopo gli anni cinquanta secondo canoni del tutto estemporanei” 153. L’urbanizzazione dovuta alle
attrezzature turistiche è avanzata senza alcun criterio estetico: le riviere sono nastri di
urbanizzazione continua, non hanno nulla a che vedere con l’idea, e la qualità, originaria di città
balneare. La via lungo mare non è più concepita come passeggiata o luogo del loisir, ma come
arteria di traffico, come infrastruttura funzionale alla progressiva commercializzazione degli spazi
di attraversamento154. E la “crescita estemporanea” non si è arrestata, visto che il Veneto spicca tra
le regioni del nord Italia per il fenomeno dell’abusivismo edilizio sulla costa: 1.664 case abusive
costruite nel 2002, il 19,2% in più rispetto al 2001 155. L’assenza di una qualsivoglia azione di
indirizzo e programmazione (vedi politiche del turismo →) ha fatto sì che l’industria turistica abbia,
nei fatti, parzialmente distrutto il capitale che permetteva la rendita. La crisi del turismo deriva
anche dall’incapacità di rispondere a nuove domande di naturalità: naturalità che in gran parte del
litorale veneto è stata persa per sempre. Anche se il quadro normativo per la tutela dei paesaggi
costieri è chiaramente definito, ciononostante, la cementificazione prosegue e le politiche
vincolistiche si sono rivelate in molti casi inefficaci per guidare le trasformazioni del territorio.
Occorre non solo l’imposizione passiva di limitazioni ma politiche attive basate sulla partecipazione
e sull’individuazione di soggetti (pescatori, operatori turistici, agricoltori ecc..) che le possano
sostenere. L’innovazione e la riconversione del modello è possibile, come dimostrano alcune
esperienze che si stanno sviluppando, nel Nord Europa ma anche nella vicina Romagna, pur con
una caratteristica pionieristica, nel campo dell’analisi, della programmazione e della gestione, che
vanno sotto il nome di Agenda 21 o Pianificazione e Gestione integrata delle aree costiere e che
stanno producendo cambiamenti e risultati importanti156 (vedi politiche del turismo→).
153
Marcello Zunica, Lo spazio costiero italiano, Roma, 1987
154
Francesca De Lucia, Georg Josef Frisch, Urbanizzazione e turismo irresponsabile, in Gianni Palumbo, Danilo
Selvaggi, Le coste italiane, Parma, 2003
155
Legambiente, Mare Monstrum 2003, in www.legambiente.com
156
Maria Berrini, Conferenza Internazionale sul Turismo Sostenibile, atti del convegno, Rimini 28-30 giugno 2001

94
Un esempio luminoso di riconversione radicale e partecipata dello sviluppo è quello di Calvià
nelle Isole Baleari dove, attraverso un Piano d’azione costruito grazie alla partecipazione dei diversi
soggetti, si è posto mano ad una incisiva ri-naturalizzazione della costa e si è impostata un offerta
turistica basata sui beni ambientali.
Come è già successo nel campo dell’alimentazione una nuova domanda sta cominciando a
spingere i tour operatori a fare scelte nuove: pensiamo all’esperienza del “pesca turismo”, una
nuova modalità di turismo sostenibile ideata e gestita da cooperative di pescatori in diverse zone
d’Italia che integrano la loro tradizionale attività portando turisti a bordo per illustrare le regole, i
tesori e i problemi del mare e della pesca 157. Purtroppo la cecità dei nostri amministratori, e di molti
operatori economici, induce ad identificare sempre nuove frontiere di espansione quantitativa
misurata in metri cubi di cemento. Esautorata la costa di manufatti residenziali la nuova “sfida” è
rappresentata dalla nautica da diporto - settore in forte espansione anche grazie a politiche fiscali
compiacenti - con relativi porti e residenze annesse. Emblematico è il caso del Palalvo - il Piano
d’area della Laguna e dell’area litorale del Veneto Orientale - un colossale assalto cementizio che
prevede la costruzione di ben 9 porti turistici, con annessi villaggi, per un totale di due milioni e
mezzo di metri cubi di cemento 158. La nautica da diporto rappresenta così il “nuovo volano” per
l’ulteriore cementificazione delle coste e l’erosione degli ultimi frammenti di naturalità del litorale
veneto. La diffusione della nautica da diporto nei canali interni porta con sé l’impatto, devastante
nel caso della delicata morfologia lagunare, del moto ondoso 159. Una riproposizione sulle vie
d’acqua del fenomeno della motorizzazione di massa.

Erosione costiera
Il mancato apporto solido dei fiumi dovuto all’estrazione di inerti e alla cementificazione degli
alvei è una delle principali cause dell’erosione costiera. Analogamente la selvaggia
cementificazione sulle coste e l’assenza di sistemi di protezione ha fatto sparire le dune e le
retrodune, veri serbatoi di sabbia e naturali barriere antierosione. Recentemente la Commissione
europea ha reso noti i risultati dello studio “Living with Coastal Erosion in Europe: Sediment and
Space for Sustainability” da cui emerge che già un quinto della superficie costiera dei paesi
dell’Unione è soggetto ad una riduzione della linea di costa compreso tra 0,5 e 2 metri l’anno con
casi particolarmente gravi che arrivano sino a 15 metri. Lo studio fornisce anche delle
raccomandazioni per contrastare il fenomeno a livello europeo, che consistono sostanzialmente nel
rafforzare l’elasticità costiera ristabilendo un equilibrio sedimentario; intervenire con atti
pianificatori e di investimento, ma anche attraverso l’approfondimento delle attuali conoscenze.
Negli ultimi anni, diversi tratti della costa veneta sono stati oggetto di importanti interventi di
ripascimento con sabbia prelevata da cave marine in corrispondenza di antiche linee di costa, che
hanno portato ad una ricostruzione dell’arenile per alcune decine di chilometri. Solo per quanto
riguarda il litorale del Veneto orientale è prevista un’opera di ripascimento con 1.600.000 m3 di
sabbie, mentre per quanto riguarda i litorali veneziani è previsto l’apporto di 2.000.000 di m3 di
sabbie. Il costo degli interventi per la Regione Veneto, per il quadriennio 2001-2004, è di
50.295.000 euro. Un investimento molto oneroso che rischia di avere effetti solo nel brevissimo
termine. L’operazione di ripascimento effettuata, ad esempio, ad Eraclea Mare, dopo solo un anno,
è stata vanificata per più del 50%.
Emerge la consapevolezza che non tutte le spiagge sono difendibili, anche perché in molti
casi è proprio la loro erosione che garantisce l'afflusso di sabbia a settori limitrofi, e molte delle
soluzioni fino ad ora adottate per contrastare l’erosione su alcune spiagge, hanno determinato

157
Alfredo Somozza, Viaggiare ad occhi aperti, ovvero il turismo responsabile, in Gianni Palumbo, Danilo Selvaggi (a
cura di), Le coste italiane, Parma, 2003
158
segnaliamo la strenua opposizione a questo progetto in difesa della laguna del Veneto orientale portata avanti dal
Comitato Difesa Territorio Caorle www.parcolagunarevenetorientale.it
159
Giannandrea Mencini, Sull’onda viva del mare, Roma, 2000

95
l’arretramento di arenili limitrofi. E’ bene anche richiamare l’attenzione riguardo ai possibili effetti
sull’ecosistema per lo sfruttamento delle cave di sabbie sottomarine: è evidente che, per avere
maggiori garanzie sugli eventuali disturbi dell’azione di dragaggio delle sabbie sottomarine, sarebbe
necessario avviare una fase conoscitiva, oltre a quella attuale di monitoraggio, da affidare ad
organismi scientifici estranei alle fasi istituzionali di intervento. Devono inoltre essere considerati
con attenzione gli effetti sull’ecosistema marino e sull’attività di pesca, che in molte situazioni si
rivelano devastanti.
E’ fondamentale tenere presente che le soluzioni tecnologiche intervengono di fatto per
limitare degli effetti e che a queste è comunque necessario affiancare politiche di gestione del
territorio in grado di frenare invece le cause che determinano l’erosione non naturale delle
coste.
Il convivere con l'erosione è la nuova sfida che ci aspetta e se saremo costretti a difendere in
ogni modo litorali intensamente urbanizzati, occorrerà parallelamente valutare in quali ambiti
consentire all'erosione di procedere, considerando che in molti casi la delocalizzazione di piccole
strutture ha dei costi economici, e certamente ambientali, assai minori di quelli della difesa ad
oltranza.
In questo quadro non è pensabile proseguire nell'edificazione delle fasce costiere, ben sapendo che
sarà fra breve necessario intervenire per difendere gli stessi insediamenti.

Lagune
“La laguna è anche quiete, rallentamento, inerzia, pigro e disteso abbandono, silenzio in cui
a poco a poco s’imparano a distinguere minime sfumature di rumore, ore che passano senza scopo e
senza meta come le nuvole; perciò è vita, non stritolata dalla morsa del dover fare, di aver già fatto
e già vissuto - vita a piedi nudi che sentono volentieri il caldo della pietra che scotta e l’umido
dell’alga che marcisce al sole”160. Claudio Magris coglie così alcuni caratteri della laguna, un
ecosistema, sopravvissuto in alcune nicchie alle profonde trasformazioni di questo secolo, la cui
fragilità, e insofferenza alle dinamiche della cosiddetta modernità, invoca cure e strategie
particolari.
Le lagune dell’alto Adriatico presentano caratteri geografici, idrografici, ecologici, e naturalistici
tali da renderle uniche nel contesto europeo. Ormai eccezioni lungo una costa fortemente
trasformata e omologata dalla mano dell’uomo, le lagune si presentano ancora come importante
giacimento di naturalità, essendo caratterizzate da un mosaico di habitat diversi che ne fanno un
prezioso serbatoio di biodiversità animale e vegetale. L’analisi dell’impronta ecologica della
Provincia di Venezia evidenzia il ruolo insostituibile della Laguna Veneta nel bilanciare l’impatto
ambientale, altrimenti insostenibile anche nel breve periodo, delle attività produttive della
provincia161. Insomma le lagune non rappresentano solo un valore estetico e naturalistico
ineguagliabile, ma pure una “stampella” ecologica ed energetica ad un sistema al collasso. Anche
per questo occorre definire senza esitazioni obiettivi di preservazione, riqualificazione, bonifica
(vedi Marghera→) e riequilibrio idraulico. Occorre un’opera paziente e “fine” che ripari ai guasti
del novecento che hanno alterato un equilibrio costruito in secoli di cure, e che và di pari passo, anzi
è la stessa cosa, della salvaguardia e promozione di Venezia. In quest’ottica il Mose diventa parte
del problema, non certo una soluzione162. Mentre lo strumento del Parco naturale per le lagune del
Veneto, già previsto dal Piano Territoriale Regionale di Coordinamento, può ridare unitarietà
necessaria agli interventi da compiere all’interno di questi ecosistemi.
Le lagune, da zone di crisi, aree depresse da bonificare o ultime aree di frontiera da
conquistare, possono rappresentare uno straordinario laboratorio per una convivenza fra attività

160
Claudio Magris, Microcosmi, Milano, 1998
161
Arca onlus, Provincia di Venezia, Università degli Studi di Siena, Studio di Sostenibilità della Provincia di Venezia,
2003
162
vedi Gianfranco Bettin, Dove volano i leoni, Fine secolo a Venezia, Milano, 1991

96
antropiche e delicati equilibri ambientali. Se la necessità della tutela, anche attraverso la creazione
di Parchi regionali - interregionali nel caso del Delta del Po - dotati delle necessarie risorse
economiche e normative, è fuori di dubbio, con essa va integrata un’opera di promozione e
riscoperta di quelle attività e culture lagunari che nei secoli hanno caratterizzato una civiltà. La
riscoperta di un patrimonio di natura e di cultura che può essere considerato un paradigma
esemplare, particolarmente utile nel recuperare misura ed equilibrio in molte delle nostre attività,
negli stili di vita, di consumo, d’uso e persino di produzione.

Delta del Po – Polesine – area non satura


Nel contesto delle coste e lagune che arricchiscono e rendono unico questo tratto di costa
adriatica il delta del Po rappresenta una specificità al pari della laguna veneziana, per qualità e
varietà naturalistica e faunistica, per sviluppo di un habitat frutto del rapporto e del conflitto con le
comunità umane insediatesi. Eppure il parco non decolla anzi viene vissuto come un limite e questo
in chiara discrepanza con la parte del delta gestita dalla regione Emilia Romagna in cui il parco
funziona, gode di finanziamenti adeguati, si sono sviluppate infrastrutture ricettive turistiche.
Non solo, ma la natura di area non satura così come di gran parte del territorio polesano rappresenta
oggetto di desiderio per gli insediamenti più “bizzarri”. Dalla presenza storica della centrale
termoelettrica di Polesine Camerini nella punta estrema del delta ai progetti portuali su Cà Capello,
al terminal gasiero pensato al largo di Porto Viro rifornito da un gasdotto che da Porto Viro
raggiunge Minerbio, al complesso-discarica di “tenuta Forti” per arrivare ai progetti ventilati in
questo ultimo periodo di spostare parte della produzione conciaria dal Chiampo sulla costa del
delta. Nessun interesse per le vocazioni autentiche di questa terra, per le economie sostenibili con le
valenze naturalistiche e i caratteri fondamentali di questa terra. Bensì consumo del territorio,
sfruttamento dei tratti di mare e della risorsa idrica a scopo energetico…
Le aree non sature crediamo rappresentino un valore positivo e vada sviluppata su di esse una
politica di promozione delle vocazioni, in particolare agricole e turistiche, progettando infrastrutture
di questo segno, promuovendo nuove colture e prodotti di eccelenza, creando ricettività turistica
sostenibile, rendendo le economie esistenti compatibili con questo disegno. Il delta del Po per la sua
particolarità ma anche per la sua valenza e ricchezza può essere un esempio di questo tipo di
promozione del territorio, del rapporto equilibrato tra difesa ambientale e sviluppo economico. Il
parco uno strumento prezioso in tal senso e l’ente parco il regista vero di questa pianificazione
sostenibile. Di esempio e motore per altre progettazioni territoriali nel Veneto, dove il territorio è
ancora sottratto alla cementificazione o dove va riconquistato e riqualificato in tal senso.

Una rete di parchi costieri


Occorre promuovere interventi organici e di sistema per l’ambito geografico della costa
veneta che utilizzi le aree protette come elementi di sperimentazione e di irradiazione, e sostengano
lo sviluppo durevole delle comunità umane insediate nei Comuni delle aree protette (vedi politica
dei parchi →). Non basta, anche se necessario, prevedere l’istituzione di parchi in alcune aree
costiere (come le lagune) che per particolari motivi morfologici, sociali ed economici hanno
mantenuto una relativa integrità e vocazione naturalistica. E’ fondamentale delineare un percorso in
grado di raccordare gli interventi e l'iniziativa delle varie aree protette sulla base di progetti per
grandi aree e temi. C’è l'esigenza di azioni volte a superare, anche per le aree protette, la
frammentarietà e ogni forma di separatezza sia di carattere istituzionale che di altro genere, ad
esempio tra terra e mare. Richiamiamo ancora la “voce profetica” di Marcello Zunica: “si tratta di
acquisire una mentalità verso le aree protette che non sappia di imbalsamazione ma che si rivolga
alla rianimazione, alla tutela, alla incentivazione” 163. Le aree protette possono però rappresentare
l'indispensabile testa di ponte per la ricerca, lo studio, la sperimentazione e l'affermazione di criteri
operativi e gestionali e di modalità di investimento utili per la protezione di un ambito territoriale
163
Marcello Zunica, Lo spazio costiero italiano, Roma, 1987

97
molto particolare. Soprattutto se del "sistema" entreranno a far parte adeguati corridoi ecologici che
evitino la formazione di un arcipelago di aree biologicamente sane avulso dal contesto territoriale
sempre più degradato, e grazie ai quali si eviti di concedere all'ambiente una percentuale di
territorio, per poi fare della rimanente quello che si vuole. Il concetto di corridoi ecologici (o
biologici) dovrebbe essere esteso anche al concetto di salvaguardia delle unità di paesaggio, facendo
coincidere gli interessi più specificatamente ambientali a quelli di tipo storico-culturale che sono
estremamente importati e diffusi proprio nell'Italia mediterranea. Questa unitarietà, questa
particolarità che pure caratterizza una estensione di molte migliaia di chilometri, è stata fino ad oggi
di fatto ignorata nel dibattito concernente i temi della protezione. In genere si parla di parchi
terrestri e di aree marine, ma non di parchi il cui operato è condizionato da questa specificità
territoriale che è appunto la fascia costiera.
Un sistema dei parchi e delle aree protette della costa potrebbe avere come pilastri il Parco lagunare
di Caorle e Bibione, il Parco della Laguna di Venezia e il Parco del Delta del Po, intesi come nodi
primari di una rete ecologica che irraggia la loro azione – e le loro buone pratiche - nel territorio
limitrofo, laboratori di sostenibilità, motori di uno sviluppo diverso.

Pesca
A livello globale, così come nei nostri mari, la pesca industriale sta provocando il tracollo
delle risorse ittiche. Chiari segni di sovrasfruttamento di importanti stocks di pesce, modificazione
degli ecosistemi, significative perdite economiche e conflitti internazionali stanno mettendo in crisi
la sostenibilità a lungo termine delle risorse. Secondo la FAO tra il 1950 e il 1997 il pescato
oceanico globale è passato da 19 milioni di tonnellate a oltre 90 milioni l’anno, toccando
probabilmente il limite massimo di sfruttamento: 11 delle 15 maggiori aree di pesca e il 70% delle
principali specie ittiche sono sovrasfruttate o sfruttate al limite biologico. Occorre promuovere lo
sviluppo e la crescita del sistema della aree marine protette, che occupano appena lo 0,5% della
superficie degli oceani, e la diffusione anche in Italia dei sistemi di certificazione della pesca
sostenibile. Le aree marine protette sono una delle misure più concrete ed efficaci per conservare
l’integrità degli ecosistemi, promuovere il turismo sostenibile e accrescere le popolazioni delle
specie ittiche oggetto di pesca. Lasciar crescere i pesci in un’area protetta è un investimento a lungo
termine: è come depositare i propri soldi in banca e attendere gli interessi. Inoltre le aree limitrofe
alle aree marine protette sono altamente produttive per i pescatori, come dimostrano gli esempi in
Kenya, nel Parco Marino Nazionale vicino a Mombasa, dove si registra un incremento del pescato
del 110% e in Tunisia, vicino alla Riserva Marina di Tabarca. In Italia basta ricordare i vantaggi per
la pesca e per il turismo della Riserva Marina di Ustica e quella di Miramare, a Trieste.
Per questo occorre dare seguito concreto alle proposte d’istituzione di una fascia costiera di
3 miglia interdetta alla pesca a strascico che abbia nelle Tegnùe - formazioni rocciose affioranti dal
fondale sabbioso, colonizzate da una ricca e particolare flora e fauna, veri e propri giacimenti di
biodiversità - i capisaldi. Contestualmente occorre, insieme ai pescatori, promuovere attività di
pesca non invasive e selettive. Il ruolo del pescatore in questo contesto va sempre più inquadrato
nelle indicazioni del Codice di Condotta della Pesca Responsabile (FAO 1996), dove la sua
figura è intesa come protagonista della gestione e dell'uso compatibile del mare, non più quindi
come soggetto dedito esclusivamente al prelievo delle risorse. Del resto, più di altri settori la pesca
si basa su un rapporto imprescindibile fra il pescatore e il mare, risultato di tradizioni tramandate e
radicate nel corso dei secoli, fatto di profonda conoscenza e rispetto.

Un mare senza frontiere


Dopo un periodo di decadenza, guerre, marginalizzazioni e degrado ambientale, si affaccia
la possibilità, per il Mare Adriatico, di un grande futuro con la conquista di una nuova centralità,
mediante la valorizzazione dei tesori artistici, territoriali, ambientali ed economici presenti sulle
coste. Con l'allargamento dell'Europa e la caduta delle frontiere si aprono nuovi scenari. Una nuova

98
collaborazione fra le popolazioni rivierasche per la rinascita di una civiltà di origini antiche e grandi
prospettive con lo sviluppo della ricerca, la gestione attenta e consapevole delle ricchezze
ambientali ed economiche, una pesca più rispettosa degli equilibri biologici, un turismo
d'eccellenza, un'agricoltura e un'economia di qualità.
Nonostante i guasti delle politiche che hanno marginalizzato l'importanza del Mare
Adriatico nel corso del novecento, appare auspicabile e necessario l'impegno di tutte le realtà
istituzionali, politiche ed economiche delle sue coste, per avviare una collaborazione che porti alla
rinascita dell'intera area, e in questo percorso le regioni e gli enti locali possono avere un ruolo di
primo piano. E’ necessario un preciso impegno politico a continuare i lavori per la realizzazione di
una "Area Marina Particolarmente Sensibile" riconosciuta dall'Organizzazione Marina
Internazionale.
Il riconoscimento cioè dell'Alto Adriatico come "un'area che necessita di una protezione speciale
attraverso l'azione dell'OMI e per la sua rilevanza dovuta a riconosciute ragioni ecologiche, socio-
economiche o scientifiche e che può essere vulnerabile all'impatto ambientale delle attività legate
al traffico marittimo".
Il Mare Adriatico rappresenta uno straordinario ecosistema ambientale e sociale. Sul suo
bacino si affacciano popoli diversi e le sue acque hanno visto civiltà diverse incontrarsi e scontrarsi.
Dal punto di vista ambientale l'Adriatico è ricco di luoghi suggestivi, ma anche particolarmente
delicati. Un ecosistema delicato, un "mare chiuso" che necessita di un'attenzione particolare e di
azioni che permettano di poter salvaguardare la prospettiva di un territorio e di una risorsa marina di
qualità.

Marco Favero

99
Marghera: alle radici del futuro
L’orizzonte negato
Il porto industriale di Marghera osservato dalla laguna esercita un certo fascino. Ribaltando
il punto di osservazione, però, le emozioni cambiano: si cerca istintivamente l’acqua senza trovarla
e la laguna, vista da Marghera città, diventa un orizzonte negato. Ogni varco è chiuso dalle
recinzioni delle industrie e oltre, acciaio e fumi, impianti ancora attivi ed edifici abbandonati in
progressiva decadenza, aree in rapida trasformazione e luoghi desolati, da qualunque accesso, ogni
relazione con l’acqua è preclusa. Eppure, nel quartiere, ancora in molti raccontano dei bagni alla
spiaggia della “Rana”, un angolo particolare della laguna raggiungibile dopo una lunga passeggiata
attraverso i campi dei “Bottenighi”. La sabbia era portata dalle acque del “Tron” e del “Lusore”,
due corsi d’acqua originati da risorgive che attraversano le campagne ad ovest di Venezia. Oggi,
alla foce, poco prima dello sbocco in laguna, i due fiumi si trasformano in un canale industriale
dalle sponde cementificate e con una portata in buona parte costituita da scarichi industriali che, nel
corso degli anni, hanno profondamente mutato la composizione dei suoi fondali trasformando il
limo in una micidiale composizione di sostanze chimiche organiche ed inorganiche difficilmente
riscontrabili altrove in queste quantità, qualità e diversità. E’ difficile, oggi, comprendere le ragioni
di chi ha voluto insediare una delle maggiori aree industriali d’Europa ai margini di un ecosistema
fragile e delicato come quello della Laguna di Venezia, in compenso possiamo misurarne le
conseguenze: chilometri di canali scavati nel cuore della laguna a profondità incompatibili,
devastanti per la regolazione dei flussi di marea e per la morfologia lagunare; migliaia di ettari di
terreni agricoli, barene e velme imboniti con i materiali derivanti dallo scavo dei canali e con i
rifiuti tossici delle prime industrie insediate; enormi quantità di sostanze inquinanti riversate
direttamente per decenni nelle acque della laguna ed accumulate sui fondali; migliaia di tonnellate
di altre sostanze, anche cancerogene, immesse nell’atmosfera attraverso camini privi di qualsiasi
sistema di abbattimento. Anche i suoli, da “Passo Campalto” a “Fusina”, passando per i “Pili” e
attraversando prima e seconda zona industriale sono tutti contaminati, a volte fino a tre metri di
profondità: fosfogessi, fluorogessi, derivati della bauxite, ceneri di pirite, idrocarburi clorurati,
ceneri di carbone, nerofumo, fanghi al mercurio, metalli pesanti ed altro. Milioni di metri quadrati
da bonificare o mettere in sicurezza.
Questa è la fotografia attuale di Marghera e delle zone industriali attigue, un’immagine che
riflette un sistema legislativo e un’azione amministrativa in grave ritardo rispetto ai nuovi scenari
industriali della globalizzazione dei mercati e delle produzioni, con conseguenze pesanti sulle
possibilità di trasformazione e risanamento degli insediamenti industriali allocati a Porto Marghera.
Un ritardo che rischia di trasformarsi in una condanna a morte dell’intera area, lasciando un
mucchio di macerie contaminate e irremovibili a testimoniare uno dei più discutibili modelli di
sviluppo dell’occidente.
Si tratta di questioni purtroppo comuni alla maggior parte delle vecchie aree produttive
italiane ed europee nate e cresciute nello stesso periodo e, in questo caso, aggravati e complicati
dalla particolare sensibilità e originalità dell’ambiente lagunare, dalla fragilità della città di Venezia
e dalla vicinanza di estese aree urbane.
E’ proprio alla consapevolezza dell’irreversibilità dei cambiamenti in atto e alla necessità
dell’avvio di nuovi percorsi di risanamento e di sviluppo, che deve ispirarsi una nuova progettualità
urbanistica e una conseguente prassi amministrativa, rivolte decisamente al del futuro, perché
Marghera è molto di più della sua zona industriale: è la realizzazione vissuta di un raro esempio di
quartiere immaginato come modello di pianificazione urbanistica secondo i più lungimiranti
indirizzi della prima metà del secolo scorso; è, insieme, territorio anfibio di bordo lagunare travolto
dai segni del lavoro industriale; è una rassegna antologica particolarmente rara delle straordinarie
vicende geologiche, fluviali e idrauliche che hanno interessato il bordo perilagunare interno di una

100
delle lagune più trasformate dall’uomo nella sua storia millenaria; è territorio di antichi boschi
planiziali e di palude; è luogo fondamentale del pluricentrico Comune di Venezia, via via
tramutatosi da approdo a porta acquea verso l’interno a zona industriale potente; è teatro delle più
significative battaglie sociali, sindacali ed ambientali dell’ultimo secolo; è terreno di confronto nella
definizione di nuovi assetti economici e produttivi orientati allo sviluppo sostenibile. E’, insomma,
laboratorio sperimentale della post-modernità che conserva memoria e densità storica di ogni epoca
che qui, evolvendosi, lasciò un segno rintracciabile iscritto proprio in questo territorio incerto.
Marghera è tutto questo e per questo può diventare molto altro.
Ad esempio, una nuova frontiera per la scienza e la tecnica: un laboratorio di
sperimentazione per riparare i danni ambientali prodotti da forme di sviluppo ambientalmente e
socialmente insostenibili. Saranno i chimici, gli urbanisti, i sociologi, i biologi, gli economisti e i
geologi ad occuparsi di restituire alle generazioni future un territorio privo di rischi per la salute e
per l’ambiente, luoghi in cui consolidare una nuova economia capace di rispettare le capacità di
carico dell’ambiente in cui si insedia. Un sapere articolato e multidisciplinare che dovrà orientare
amministratori più attenti verso forme insediative capaci di modellare i luoghi del lavoro e delle
relazioni sociali, creando il paesaggio futuro più simile a quello del passato e quindi riprendendo il
filo della sua originale identità. Ciò deve riguardare non solo le aree produttive ma anche quelle
urbane di periferia dove si e vissuta inconsapevolmente una espropriazione del capitale naturale
durata quasi un secolo.
Lavorare per Marghera assume quindi un significato che è al tempo stesso, etico, estetico,
ambientale, sociale e che per queste molteplici ragioni diventa infine non solo e non semplicemente
una nuova fase della trasformazione del territorio interessato, ma il recupero di ogni trasformazione
precedente in una sintesi la cui portata diventa, di fatto, storica.

Un “crimine di pace”
“Chi ha perso in questa storia sono i singoli lavoratori: prima tenuti all’oscuro di tutto, poi
ingannati, svillaneggiati, sfruttati, ricattati e, peggio ancora, fatti morire o ammalare”. E’ un
passaggio della requisitoria del Pubblico Ministero Felice Casson durante il processo ai dirigenti
della Montedison per strage e disastro ambientale. Un processo che ha avuto il merito di portare alla
luce il fatto che un’impresa, una grande impresa di Stato, in nome del profitto ha deliberatamente
messo a repentaglio la vita e la salute di migliaia di persone. Sempre Felice Casson dichiara: “la
Montedison si è comportata come un necroforo. Ha cinicamente aspettato di avere i morti in casa:
non ha voluto muoversi prima”. Una nuova stagione per Marghera e per l’area industriale non può
che partire dall’impegno a restituire giustizia alle vittime di questo immenso “crimine di pace”.
La storia di Porto Marghera è tristemente nota all’Italia intera. Così come è noto l’articolo
15, III° comma, delle Norme tecniche di attuazione del Piano regolatore di Venezia del 1962, che
condannò Marghera ad essere quel che è stata per decenni. Secondo quell’articolo «...nella zona
industriale di Porto Marghera troveranno posto prevalentemente quegli impianti che diffondono
nell’aria fumo, polvere o esalazioni dannose alla vita umana, che scaricano nell’acqua sostanze
velenose, che producono vibrazioni o rumori». E così in effetti è stato. L’elenco delle attività
produttive che nei trent’anni in cui è rimasta in vigore questa norma sono state realizzate a
Marghera è impressionante: uno dei più grandi poli chimici del nostro paese, alluminio, cantieristica
navale, raffinazione, siderurgia, energia elettrica, commercio di prodotti petroliferi.
Il polo chimico ha prodotto moltissime materie prime, prodotti intermedi e prodotti finali. In
particolare, nel 1951 vengono avviati i reparti cloro - soda che producono cloro, soda caustica e
ipoclorito e l’anno successivo inizia la produzione di trielina, acetilene e quindi cloruro di vinile
monomero (CVM) e polivinilcloruro (PVC). E’ a Marghera che inizierà la produzione della plastica
in Italia. Ma si producono per decenni anche fibre acriliche e fertilizzanti, ammoniaca ed etilene,
acido fosforico e fluoridrico, solo per citarne alcune. Ancora oggi, compresi nel perimetro
industriale abbiamo potuto censire 1500 diversi punti di emissione in atmosfera dai quali escono, in

101
quantitativi davvero preoccupanti, 120 diverse sostanze chimiche che comprendono composti
tossici e cancerogeni.

Porto Marghera o della falsa coscienza del Nord Est


Alcune semplicistiche analisi economiche, descrivono lo sviluppo e il declino del polo
industriale di Porto Marghera come evento a parte, estraneo al sano sviluppo che ha caratterizzato,
negli ultimi decenni, la restante parte del Nord Est. Il polo industriale, statale, assistito,
centralizzato, arcaico, inquinante e fallimentare contrapposto allo sviluppo reticolare, moderno,
vincente, risultato dell’imprenditorialità individualista veneta. In realtà, tra Porto Marghera e
l’economia del Nord Est vi sono fortissime interconnessioni164. Non solo la produzione energetica
termoelettrica - buona parte del carburante consumato nell’area del nord est viene raffinato a Porto
Marghera - ma anche il settore dell’alluminio trova nell’entroterra un significativo mercato di
sbocco, la cantieristica da crociera che rappresenta un motore per il comparto del mobile, il polo
chimico per cui nel nord est vi è un alta concentrazione di aziende utilizzatrici di materie plastiche
e di fibre. E’ importante sottolineare questo aspetto troppo spesso trascurato, perché così come la
vecchia industrializzazione di porto Marghera è stata ed è funzionale al modello ancora prevalente
dello sviluppo nordestino, un nuovo sviluppo per quest’area, basato sull’innovazione e la
riconciliazione con l’ecosistema, può diventare il volano per un sentiero di sviluppo del Nord Est
caratterizzato dalla ricerca tecnologica, dalle reti leggere e dalle produzioni sostenibili.

Bonifiche
Porto Marghera è una delle aree più avvelenate d’Italia ed è insieme all’Acna di Cengio e
Bagnoli ai primi posti della lista dei “siti industriali d’interesse nazionale” in attesa di bonifica,
previsti dalla legge 426/98. Il censimento dei siti contaminati di recente realizzato dalla Provincia di
Venezia, documenta una situazione impressionante: una superficie che si estende per milioni di
metri quadrati, compresa tra il bordo lagunare e i canali industriali, è stata coperta di rifiuti
industriali. I residui solidi delle industrie di Porto Marghera sono serviti per interrare barene,
“consolidare” terreni o riempire cave dimesse adiacenti le aree industriali. I reflui liquidi non
depurati, versati direttamente in laguna, hanno trasformato i fondali dei canali industriali in
concentrati chimici micidiali. Gli effetti epidemiologici delle emissioni atmosferiche sono oggetto
di analisi solo in questi ultimi anni, tuttavia segnalano un’incidenza altissima fra le emissioni
inquinanti in atmosfera e talune patologie gravi. L’analisi di terreni e fondali riporta alla luce i
fosfogessi (radioattivi) espulsi dalla chimica degli azotati, i fluorogessi prodotti dalla chimica del
fluoro, i derivati della bauxite provenienti dalle imprese dell’alluminio, le ceneri di pirite derivanti
dalla produzione di acido solforico, gli idrocarburi clorurati (diossine comprese), i fanghi al
mercurio e il nerofumo dispersi dal petrolchimico, ceneri di carbone bruciate nelle centrali
termoelettriche, metalli pesanti e altro ancora.
Secondo il “Rapporto sulla compromissione e lo stato dei fondali lagunari” commissionato
dal Magistrato alle Acque e dall’Autorità Portuale di Venezia per mappare le aree “compromesse”
del bacino lagunare, risulta vi siano oltre 7 milioni e mezzo di metri cubi di fanghi tossici e nocivi
dei quali ben 1.600.000 metri cubi sono molto pericolosi e per questo dovranno essere scavati e
opportunamente trattati in modo da non rilasciare più agenti tossici e preservare le falde sotterranee
dai rischi di inquinamento.
Un’area più estesa della città storica di Venezia è contaminata e deve essere bonificata o
messa in sicurezza per evitare rischi ambientali o sanitari. Ad oggi sono disponibili, e si stanno già
utilizzando, circa 70 milioni di euro stanziati dai governi del centrosinistra alla fine degli anni
novanta (ministro Ronchi) e 271 milioni di euro della Montedison ottenuti dal Pubblico Ministero
Casson nell’ambito del processo al Petrolchimico come risarcimento del danno ambientale. Per il

164
si veda: Comune di Venezia, Variante al Piano regolatore di Porto Marghera, in Urbanistica quaderni, 9/1996

102
risanamento complessivo mancano svariati milioni di euro, cifre che hanno l’ordine di grandezza di
una manovra finanziaria. Gli interventi in corso riguardano solamente la messa in sicurezza di
emergenza della zona industriale, tramite marginamento delle sponde che confinano con il bordo
lagunare e l’escavo dei fanghi contaminati dai canali industriali. Nulla è fino ad oggi disponibile,
nonostante l’accordo nazionale del ‘98 per la chimica preveda un contributo pubblico fino al 50%,
per le bonifiche dei terreni industriali contaminati.
Sarebbe grave dimostrare nei fatti di non aver imparato nulla dalla nostra storia e vedere la
delicata e complessa opera di risanamento di Porto Marghera trasformarsi in un’enorme azione
speculativa incapace di restituire aree produttive utili all’economia veneziana o ambienti e paesaggi
riqualificati e fruibili. Non è inutile allarmismo. Le contese tra i vari soggetti interessati rallentano
ormai da troppo tempo sia l’applicazione delle disposizioni ministeriali per l’esecuzione delle
bonifiche o delle messe in sicurezza, sia l’utilizzazione dei milioni di euro già potenzialmente
disponibili per interventi urgenti. Altre parti del mondo hanno già affrontato e risolto problemi
analoghi a questi165, ma per Venezia l’incredibile intreccio di competenze, poteri e interessi rischia
di paralizzare l’azione di risanamento. A questo punto occorre semplificare le procedure e
individuare precisamente le responsabilità del Comune di Venezia, della Provincia, della Regione,
del Ministero dell’Ambiente e, soprattutto, delle aziende proprietarie delle aree o responsabili del
danno ambientale.

La falsa svolta dell’idrogeno


Recentemente l’Unione degli Industriali di Venezia si è fatta sostenitrice dell’”Hydrogen
Park” che dovrebbe favorire l’utilizzo dell’idrogeno a Porto Marghera, in applicazioni relative ad
impianti di micro cogenerazione e a sistemi di trasporto. Nel caso veneziano, il gruppo di imprese
che andrà a costituire il distretto dell’idrogeno comprende: EVC, azienda che produce cloruro di
vinile monomero e polivinilcloruro (sostanze plastiche); DOW CHEMICAL, produttrice di
toluendiisocianato (monomero base per poliuretani) tramite fosgene; POLIMERI EUROPA, che
tramite cracking della virginnafta fornisce gli idrocarburi di base per la chimica italiana e
dall’impianto di cloro-soda produce il cloro necessario per CVM e TDI; SAPIO società che produce
a sua volta e vende liquidi criogenici (ossigeno, azoto, argon) e idrogeno, ed infine APRILIA,
azienda di Noale, che si sta occupando di ben altri problemi con una nuova proprietà. Inoltre, il
presidente dell’ENEL, che a Marghera produce energia elettrica utilizzando carbone in due vecchie
centrali termoelettriche, ha manifestato la sua intenzione di intervenire in questa partita
sull’idrogeno veneziano, investendo su un progetto di gassificazione del carbone per la produzione
di energia elettrica.
Una prima lettura della composizione del gruppo di imprese evidenzia immediatamente che
non si tratta di nuovi soggetti imprenditoriali, ma di uno spostamento di interessi da parte dello
stesso sistema industriale che da mezzo secolo opera a Porto Marghera e che scopre che uno dei
sottoprodotti delle attuali produzioni, l’idrogeno, è già disponibile nel sito a buon mercato, senza
grandi spese o particolari ricerche. Il progetto è stato stimolato da una cospicua disponibilità di
fondi del Ministero per l’Ambiente quantificata in cinque milioni di euro e da un’ulteriore
finanziamento promesso dall’attuale assessore regionale che si occupa di Porto Marghera, Antonio
Padoin, che dalla Legge Speciale per Venezia riuscirebbe a recuperare altri cinque milioni di euro.
Complessivamente, quindi, circa dieci milioni di euro di provenienza pubblica.
L’idrogeno non è energia pulita, come si vorrebbe far credere attraverso questa operazione
ampiamente propagandata dai media, ma un vettore energetico che può derivare energie rinnovabili
(idrogeno verde) - e quindi rappresentare davvero un’opportunità di riconversione del modello
energetico dominante - o utilizzare fonti energetiche tradizionali come gli idrocarburi o cicli
produttivi a elevato impatto ambientale (idrogeno nero). Nel caso dell’”Hydrogen Park” l’obiettivo

165
come nel caso della riconversione del bacino industriale della Ruhr in Germania

103
è quello di mantenere l’attuale insostenibile filiera produttiva basata sugli idrocarburi e sul cloro,
producendo così grandi quantitativi di idrogeno per non meglio identificati utilizzi finali. Il tutto
cercando, grazie alla diffusa disinformazione sulla natura dell’idrogeno, di accreditare l’immagine
di un’industria disponibile a nuove tecnologie compatibili con l’ambiente.

Alcune risorse su cui contare


Il patrimonio infrastrutturale esistente nell’area del Porto industriale di Marghera, fatto di
banchine, ferrovie, e strade, associato all’immagine di Venezia, alle università come centri
qualificati di ricerca, al saper fare dei suoi lavoratori, sono una garanzia di potere attrattivo per
nuovi investimenti tecnologicamente avanzati e ambientalmente sostenibili. “Porto Marghera è la
localizzazione ottimale per nuove iniziative imprenditoriali” 166
- per la sua alta dotazione di infrastrutture e di collegamenti di trasporto
- per la possibile integrazione delle attività insediate al suo interno con le attività localizzate
nell’area
- per la collocazione centrale rispetto ad alcune situazioni urbane ricche di servizi alla
produzione e di ricchezza culturale e sociale
- per la sua collocazione in tessuto territoriale fortemente urbanizzato e denso di attività
produttive
Porto Marghera si distingue da altre aree industriali costiere per le sue dimensioni, oltre 2000
ettari, e per la ricca dotazione infrastrutturale: 18 km di canali marittimi, 32 km di canali industriali,
40 km di strade interne, 135 km di rete ferroviaria interna, almeno 100 accosti e 13.000 ml di
banchina.La carenza di spazi in tutto il Veneto e la necessità di preservare i pochi suoli fertili
rimasti intatti dopo la sbornia insediativa da centri commerciali, aree artigianali, aree residenziali e
infrastrutture in generale, aumenta ulteriormente le opportunità di Venezia, ma il persistere di
industrie obsolete e in declino ne impedisce la completa valorizzazione.
Ma non solo le infrastrutture materiali: nel progettare un futuro per quest’area non bisogna
dimenticare che Marghera è parte della Laguna, così come Venezia, il Lido e Chioggia. Un modello
davvero sostenibile deve inserirsi in una visione e gestione unitaria di questo straordinario
patrimonio naturalistico e ambientale che dall’analisi eMergetica (uno degli indicatori della
sostenibilità) è risultato contribuire fino al 62,8% dell’intera capacità produttiva della provincia di
Venezia. La riqualificazione ambientale di Marghera passa per il recupero del suo rapporto con la
Laguna - negato dall’insediamento dell’area industriale - e dal risarcimento ambientale del territorio
attraverso la naturalizzazione e riqualificazione di aree sopravvissute all’insediamento produttivo e
terziario. Và in questa direzione il progetto della Provincia di Venezia di piantumare un bosco
planiziale nell’unico orizzonte verde di Marghera, a ridosso di Forte Tron, con il doppio scopo di
ripristinare l’antica presenza vegetale del bosco di pianura e di compensare le emissioni di anidride
carbonica immesse dai vari insediamenti produttivi ed infrastrutturali quali, ad esempio, industrie,
centrali termoelettriche, autostrada e tangenziale di Mestre.

Argomenti per uno scenario futuro


Il cambiamento di Porto Marghera è già in atto, così come sono già state elaborate idee forti
su di un possibile nuova vocazione - come il distretto della logistica al servizio delle autostrade del
mare - della sua area industriale.
Riassumiamo alcune “condizioni” che individuiamo per continuare il percorso:
 il nuovo recupero deve porsi l’obiettivo di ricucire diverse sensibilità e funzioni
individuabili nella nuova pianificazione al contrario della progettazione della vecchia Porto
Marghera elaborata secondo i dettami della cultura tayloristica ed obbedendo così solo alla
funzionalità produttiva,

166
Comune di Venezia, Variante al Piano regolatore di Porto Marghera, in Urbanistica Quaderni, 9/96

104
 la politica deve promuovere il processo decisionale - così come è già avvenuto nel caso della
Variante al Piano Regolatore e per alcuni aspetti dell’Accordo sulla chimica del ’98 -
riequilibrando la forza dei soggetti in campo, ridando voce agli abitanti di Marghera e
Malcontenta. Il ruolo degli abitanti in tali processi non può essere marginale ma deve poter
contribuire direttamente e solidamente alla definizione di una nuova identità urbana; .
 Porto Marghera va ripensata non più come polo a sé stante, isolato nel territorio, ma come
nuova realtà urbana e produttiva integrata al contesto urbano e alle sue attività economiche e
culturali. L’area portuale e industriale di Marghera può riassumere una funzione centrale di
motore della trasformazione degli equilibri e delle trame territoriali a scala metropolitana del
Comune di Venezia;
 la riqualificazione ambientale dell’area attraverso il ristabilirsi di un rapporto con la Laguna
e con Marghera - città giardino - è strettamente intrecciata al superamento della
zonizzazione produttiva e alla promozione di un tessuto urbano multifunzionale idoneo a
supportare produzioni ad alto valore cognitivo e innovativo;
 il ripensamento e la trasformazione della vecchia area industriale non può prescindere dalla
conservazione della memoria di Porto Marghera. La sua storia conflittuale e sanguinosa
deve divenire patrimonio condiviso, valore testimoniale 167. Una rimozione totale della realtà
e memoria industriale in vista di scenari affollati da shopping center, centri direzionali e
dalla retorica sull’immaterialità, non è auspicabile né eticamente sostenibile.

Criteri per una svolta


La storia recente porta il peso di centinaia di lavoratori morti per cancro o gravemente
ammalati, il presente minato da migliaia di ettari di terreni e da centinaia di falde da bonificare, è
scandito dal continuo stillicidio di incidenti che minano la tranquillità e la serenità di chi vive a
Venezia: una situazione non più sostenibile per l´ecosistema né per l´ambiente urbano unico al
mondo dove è insediata. Marghera deve molto alla sua zona industriale, ma oggi non è possibile
non vedere i limiti del modello industriale che l’ha “prodotta”. Non siamo di fronte, come alcuni
attori sociali vorrebbero forzatamente dimostrare, ad una egoistica contrapposizione tra cittadini e
lavoratori, piuttosto dobbiamo prendere atto di una volontà sempre più diffusa fra le popolazioni
residenti e oltre, di voler scegliere nuove compatibilità fra sviluppo e qualità dell’esistenza,
tentando di affermare con coerenza di scelte, la possibilità di recuperare il residuo ambientale e il
delicatissimo, patrimonio della gronda lagunare.
Il declino di quell’industria che ha caratterizzato la Marghera del secolo scorso è inarrestabile,
ma nuove forme di produzione sono possibili. Ostinarsi a vedere un futuro per l’industria pesante
senza impegnarsi ad immaginare altre evoluzioni nei modelli e nei sistemi destinati alla produzione
di beni e servizi, significa perdere di vista le nuove opportunità che il progresso vero offre, e
ritardare una radicale riconversione che, oltre che preservare la salute dell’ambiente e dei suoi
abitanti, potrebbe portare molto più lavoro di quello attualmente presente.
Nessuno può pensare che sia praticabile la strada della chiusura immediata delle fabbriche, è
tuttavia necessario programmare con urgenza la riconversione di quelle esistenti, perché è
un’inderogabile necessità, anzi, una regola imposta da fenomeni di globalizzazione dell’economia.
La comprensibile lotta intrapresa dal sindacato per la difesa dei posti di lavoro e della produzione
chimica, sembra purtroppo sempre di più un atto dovuto al ruolo sociale ricoperto che non una
prospettiva reale.
In tutto il Veneto cominciano a mancare aree per espansioni industriali. Nessun luogo della
regione possiede un patrimonio infrastrutturale come quello di Marghera, perché allora non
prefigurare una nuova epoca di insediamenti ambientalmente compatibili proprio qui?

167
Guido Zucconi, Ripensare Marghera nel suo valore testimoniale, in Giancarlo Carnevale, Esther Gianni (a cura di)
Sintesi per un futuro possibile di Porto Margh’era, Roma, 2004

105
E´ arrivato il momento delle grandi scelte. Alla chimica va dato il tempo di programmare la
propria dismissione che non potrà andare oltre gli otto - dieci anni, e fino ad allora occorre
potenziare la gestione delle emergenze in caso di incidente. Nel frattempo, però, va avviato il più
grande intervento ambientale del secolo: la bonifica dei suoli contaminati. Il problema dei problemi
per il rilancio di Porto Marghera, oltre al recupero di autodeterminazione nella pianificazione di uno
sviluppo sostenibile, è quello dell’avvio delle bonifiche del sito contaminato definito dalla
perimetrazione della legge 426/98 (quindi non solo della “penisola della chimica”). Un’opera
colossale che comporterà investimenti per milioni di euro (migliaia di miliardi di lire), fatta di nuovi
impianti industriali, nuovi sistemi di analisi e controllo e che creerà le condizioni per attrarre nuove
professioni e offrirà durature opportunità di lavoro per le future generazioni. Senza le bonifiche non
ci potrà essere rilancio né futuro.
Non è sufficiente ipotizzare il solo adeguamento degli impianti alle norme ambientali e di
sicurezza ed al risanamento dei terreni, delle falde e della laguna contaminati: ciò di cui abbiamo
veramente bisogno è l’impegno intellettuale per immaginare forme diverse di utilizzo del territorio,
modalità di delocalizzazione degli impianti maggiormente a rischio, la riconversione produttiva
delle attività più inquinanti in altre attività a minore impatto ambientale, in una logica di
sostenibilità e di condivisione delle scelte che veda protagonisti proprio i cittadini di Marghera e di
Malcontenta. Persone che devono finalmente essere poste nella condizione di poter influire sulle
scelte strategiche che li riguardano direttamente, riappropriandosi di un territorio e di uno
straordinario capitale naturale che per troppi anni è stato loro sottratto.
Oggi ancora non è possibile delineare il nuovo assetto di Porto Marghera, perché la
mancanza di una classe imprenditoriale locale capace di immaginarlo e proporlo, abituata ai
vantaggi di un’economia di Stato o para-Stato e con poca attitudine al rischio d’impresa, associata
a pezzi significativi di un sindacato non molto propenso ai cambiamenti, condizionano fortemente
la politica locale. Persino il Piano Regolatore per Porto Marghera, che finalmente ha restituito
almeno la possibilità di progettare un diverso assetto produttivo, è stato condizionato da queste
posizioni.
Ricerca e Università potrebbero ricoprire un ruolo di primo piano nei nuovi scenari, a patto che
agiscano diversamente da come ha fatto il Parco Scientifico Tecnologico di Venezia che invece di
fungere da incubatore di nuovi filoni di sviluppo, è diventato un efficientissima agenzia immobiliare
specializzata in mercati di aree ed edifici collocati in luoghi estremamente interessanti dal punto di
vista economico e strategico.
Sarà possibile delineare una nuova Marghera solo se, assecondando l’opinione prevalente
nei cittadini veneziani168, la classe dirigente locale sarà in grado di governare il declino in atto con
gli strumenti di cui è in possesso e con limpido e forte atto di volontà che recuperi il potere di
scegliere gli indirizzi di sviluppo del proprio territorio, sottratti dal fascismo sin dall’inizio del 900.
Autorevoli rappresentanti politici e sindacali locali continuano a far riferimento all’Accordo di
Programma per la Chimica, firmato nel 1998 da industrie, sindacato, enti locali e ministeri
competenti. E’ una scelta sbagliata, incapace di riconoscere che l’accordo non ha prodotto
cambiamenti significativi e neppure certezze per l’esistente.
A costoro occorre contrapporre l’idea di un nuovo strumento di programmazione territoriale
e industriale più vincolante e che preveda obiettivi più precisi: una sfida, per certi versi immensa,
alla capacità di governo della classe politica regionale. Si tratta di cominciare a praticare quella
forma di solidarietà sociale anche con le altre generazioni prevista nel 1992 a Rio de Janeiro da 178
Paesi. Dovremo cioè essere capaci di attuare veramente uno sviluppo sostenibile, quella forma di
sviluppo cioè, che oltre a garantire il nostro benessere, non dovrà compromettere quello delle
generazioni future. Chi ha pensato alla vecchia Marghera, di questo non si era preoccupato e noi ne
stiamo pagando le conseguenze.
168
il 6-7 giugno 1998 si tenne un referendum autogestito sul rischio Marghera: dei 21.000 votanti oltre il 98% era
favorevole alla riconversione degli impianti chimici pericolosi

106
Ezio Da Villa

107
La nostra montagna
Tra degrado e riscatto
Abbandono, banalizzazione, divertimentificio sono i nuovi rischi e i paradossi che
attraversano questi territori ancora alla ricerca di un progetto comune di futuro, tra le povertà di un
passato rimosso ed una incerta ed apparente ricchezza del presente. Paesi che si svuotano in
montagna e diffuso inurbamento a fondo valle, elevata dispersione scolastica e piena occupazione,
distretti industriali e perdita di competenze e diversificazioni produttive ed artigianali,
condensazione delle aziende agricole ed erosione delle biodiversità con conseguenti strutturali
modifiche del paesaggio agrario, degli insediamenti rurali e della manutenzione del territorio. La
montagna, e la montagna del Nord Est a maggior ragione, sono anche complesso “snodo” di
importanti settori e distretti produttivi (manifatturiero, turistico, energetico) che determinano forti
pressioni insediative ed infrastrutturali, con inversi ma conseguenti fenomeni di conurbazione,
spopolamento, abbandono delle aree più marginali. Queste montagne che custodiscono il più vasto
campionario di ambienti e di condizioni fitoclimatiche del continente, e che rappresentano uno
straordinario ponte biotico e una rilevante memoria culturale ed identitaria per l’Europa sono
dunque a rischio di banalizzazione e degrado. Sono inoltre già da tempo soggette a catastrofi
annunciate.
Sono queste solo alcune complesse contraddizioni di un modello di sviluppo che non ha
ancora saputo fare delle sue qualità e peculiarità ambientali, storiche e culturali il proprio elemento
distintivo, di valorizzazione e di coesione sociale 169. Ai pericoli della deterritorializzazione e
dell’omologazione il governo regionale deve rispondere, rilanciando, un progetto locale che si
fonda sulla consapevolezza dell’unicità e complessità, sensibilità e vulnerabilità di questi luoghi e
attraverso la promozione di competenze, produzioni e servizi di qualità capaci di coniugare il
meglio della tradizione con l’innovazione necessaria per affrontare le nuove emergenze. Vero
laboratorio aperto dove sperimentare concretamente reali ed efficaci integrazioni tra priorità
ambientali e gestione complessiva, coniugando tradizioni ed innovazione, riscoprendo saperi e
sensibilità strettamente connesse a questo ecosistema e ai suoi protagonisti.

Un sistema in affanno
Il settore turistico soffre di un calo di presenze in tutte le principali stazioni dell'arco alpino
italiano ed estere, e da questo dato non è esente la montagna veneta (vedi politiche del turismo →).
L'economia turistica è la risorsa primaria per l'arco alpino, basti pensare che nelle Alpi vivono
tredici milioni di residenti e transitano ogni anno 60 milioni di turisti, con un fatturato annuo che si
aggira intorno ai 25 miliardi di euro, pari al 5 per cento del fatturato turistico mondiale. A ciò deve
essere aggiunta un'altra considerazione, e cioè che l'occupazione dei posti letto nelle varie strutture
ricettive è concentrata in poche località e per brevi periodi. Alcune industrie, come quella
dell'occhiale che più di altre ha avuto il pregio di sviluppare posti di lavoro e il sorgere di migliaia
di piccole imprese ed anche di concentrare oltre il 70% della produzione mondiale di occhiali in
provincia di Belluno, sta conoscendo da alcuni anni un ridimensionamento da parte dei cosiddetti
terzisti e imprese minori, con crescita di fatturato e di numero di posti di lavoro nelle 3-4 imprese di
importanza mondiale quali Luxottica, Safilo, De Rigo, Marcolin. Queste imprese hanno trasferito
altrove i loro centri direzionali spostando alcune produzioni in Paesi dove la manodopera ha minori

169
per una descrizione sulla crisi, sociale, ambientale, culturale e antropologica della montagna veneta vedi Federica
Bellicanta, La montagna uccisa dai turisti, in Lo straniero, 22/2002

108
costi e dove vi sono possibilità maggiori di penetrazione sul mercato mondiale in modo
concorrenziale.
Di questa sofferenza del sistema montagna l’invecchiamento della popolazione 170 e il dissesto
idrogeologico sono indicatori evidenti.

Il dialogo e le radici
In nessun luogo quanto in montagna risulta evidente il pericolo di un devastante corto
circuito tra globalizzazione culturale, processo che impone la creazione di non - luoghi omologati, e
localismo difensivo. Per non cadere in queste semplificazioni occorre sì “difendere la valle” e la sua
identità, ma non tanto barricandosi dietro le “fortezze” di un’identità chiusa, ma coltivando le
passioni locali e nel contempo dialogando con l'esterno. Molteplicità e scambio fanno parte delle
culture nel territorio alpino. Grazie agli scambi con altre regioni culturali alpine, le differenti
identità regionali possono essere ampliate in una coscienza alpina comune. Le comunità storiche
non sono mai state formazioni immobili, ma attraverso i passi avveniva uno scambio dinamico
continuo con le valli montane vicine e lontane e con la pianura. Elementi di altre culture sono stati
integrati a poco a poco e adattati alle proprie necessità. I concetti di sviluppo per il futuro sono
solidi solo se elaborati in un dialogo comune con gli stessi interessati. Il pericolo dello sradicamento
e dell’emarginazione culturale è da contrastare con un ampio programma di scambio. È necessario
creare numerose possibilità di incontri culturali anche con culture non alpine ed extrauropee. Come
dire che ci vuole una duplice cultura, unica condizione per vivere o sopravvivere nel difficile
mondo della complessità che ci assedia. Per rimediare a tali sconvolgimenti strutturali che rischiano
di travolgere una cultura montana che ha nelle Alpi una tradizione secolare, retaggio di antichi
saperi territoriali, occorre una politica di sviluppo partecipato che riesca a stabilire regole e principi.

Fragilità ambientale
La direttiva comunitaria sulla Valutazione d’Impatto Ambientale riconosce le zone
montuose e forestali quali aree geografiche a particolare sensibilità ambientale. Questa particolare
ed intrinseca fragilità delle aree montana risulta evidente, ad esempio, quando si prende in esame il
comportamento dell’inquinamento atmosferico nelle vallate alpine. È provato infatti che in presenza
di particolari ma ricorrenti condizioni climatiche, anche modeste emissioni in atmosfera provocano
significative ripercussioni sulla qualità dell’aria nelle valli alpine. Il Centro Sperimentale della
Regione Veneto di Arabba ha rilevato, con uno studio sui comportamenti climatici e meteorologici
nella Valle Belluna tra il 1970 e l’anno 1985, che il persistere di anticicloni continentali sull’arco
alpino, durante la stagione fredda, determinano condizioni di stabilità atmosferica e conseguenti
fenomeni di inversione termica. In presenza di tale situazione climatica, che nella Val Belluna
interessa mediamente 61 giorni all’anno, viene impedita la circolazione dell’aria nei bassi strati
dell’atmosfera e favorito il ristagno e l’accumulo delle emissioni inquinanti nei nostri fondovalle in
corrispondenza delle aree a maggiore concentrazione abitativa.
Tali effetti sono ben evidenziati dal monitoraggio sanitario eseguito dal Registro Tumori del
Veneto i cui tabulati indicano proprio nella Val Belluna, dal Longaronese al Feltrino, l’area del
Veneto maggiormente colpita da elevati tassi di insorgenze tumorali: valori che eccedono del 20-
25% la frequenza dei casi registrati nel resto del campione veneto. Una situazione sanitaria che,
sorprendentemente, risulta essere più critica di quella registrata dallo stesso Registro Tumori, in
aree urbane ed industrializzate come Venezia-Marghera, Vicenza, Treviso o Verona. Questa realtà
170
“Lavori recenti hanno mostrato come nel contesto della regione Veneto tutta la zona montana della provincia di
Belluno possa ricondursi a zone di cosiddetto “malessere demografico”, ovvero zone in cui i tassi di incremento
naturale della popolazione (in questo caso sensibilmente negativi) sono tali da comportare conseguenze preoccupanti
sul suo stesso sviluppo. In particolare, il problema dell’invecchiamento della popolazione sembra essere più intenso
nelle zone montuose che altrove, con una situazione destinata a peggiorare considerevolmente nel prossimo futuro.”
Gianpiero Della Zuanna, Popolazione e sviluppo, in Daniele Marini e Silvia Oliva (a cura di), Belluno 2003, Venezia,
2003

109
induce, anche nelle politiche ambientali e di pianificazione territoriale, a modulare le strategie e le
scelte regionali tenendo conto delle differenti sensibilità/fragilità presenti 171.

Una nuova rotta


In questi anni la montagna è stata al centro di numerosi tavoli istituzionali e occasioni di
confronto e pianificazione. Ma aldilà del puro e semplice riconoscimento semantico del limitato
concetto di “peculiarità” troviamo bene poco. La realtà è quella di una sorta di “illusione”
pubblicitaria, apparentemente e mediaticamente tranquillizzante ma incapace di dare vita ad alcune
situazione concrete, visto che la pseudo-volontà politica non sfocia in norme attuative o
provvedimenti operativi, non discute di serie programmazioni finanziarie, non organizza ambiti
necessari alla reale crescita di una microeconomia diffusa. Fondamentalmente non costruisce
occasioni in cui cultura e imprenditorialità possano condividere idee di equilibrio ambientale capaci
di creare ricchezza e futuro.
La crescita economica si è tradotta spesso nell’uso dello spazio alpino come un grande
campo privo di storia geologica e umana, disponibile ad essere attrezzato in una colossale e ben
remunerativa Disneyland: “e il modello di sviluppo economico, estensivo non solo nell’uso della
manodopera ma anche delle risorse territoriali, che richiede costantemente nuovi insediamenti
produttivi, è sempre meno attuabile. Qui, ancora più che nelle altre aree venete, il sistema dell'
"economia alpina" è venuto sempre più sradicandosi da intrinseche modalità di cura ambientale 172.
In un contesto di "globalizzazione" occorre ricostruire le reti di collegamento che possono fare degli
insediamenti montani un sistema non più dipendente in via frammentaria da polarità cittadine (pur
mantenendo con le città il più vitale intreccio di relazioni). Bisogna lavorare nel dettaglio per
valorizzare le specificità territoriali e delle singole comunità locali, la diversificazione di situazioni
socio-economiche, culturali, istituzionali e territoriali devono necessariamente costituire la base di
modelli di programmazione d’area, in grado di valorizzare le progettualità locali e di
responsabilizzare sia la classe dirigente sia gli abitanti ad un governo più attivo e coordinato del
proprio territorio.
L’attuazione del programma di sistema territoriale integrato delle Alpi (previsto dalla L.N.
426/’98 non ancora attuato) può essere il contesto ottimale per sperimentare fattibilità e concretezza
delle reti ecologiche, intese non come baluardi contro la frammentazione ed il degrado del sistema
alpino, ma quali puntuali e credibili riferimenti istituzionali e territoriali sui quali ridefinire le
prossime politiche strutturali, affinchè siano in grado di promuovere credibili prospettive,
sussidiarietà e specificità gestionali a luoghi unici e comunità culturali e sociali complesse come
quelli di queste montagne.
Le linee programmatiche secondo noi dovranno essere
 nuovi statuti di autogoverno che siano in grado di riconoscere e rappresentare la specificità
del vivere la e nella montagna
 perequare le risorse trasferibili in funzione non soltanto dei parametri di popolazione ma
anche della sostenibilità del sistema montagna attraverso l’elaborazione di indicatori di
sostenibilità
 connettere le reti locali tra i territori montani veneti con quelle più lunghe ed affini della
Convenzione delle Alpi, di Agenda21, in un partecipato e condiviso sistema territoriale
alpino

171
si veda il documento del Forum di discussione dei comitati e delle associazioni della provincia di Belluno
“Sostenibilità ambientale: analisi e proposte”

172
Rapporto 2003 della Fondazione Nord Est sulla provincia di Belluno

110
 recuperare e valorizzare antichi valori-saperi del vivere ed operare in montagna quali :la
diversità, l’essenzialità, il senso del limite, la mutualità; una sorta di ritorno al futuro,
memoria postmoderna per una vera prospettiva di sostenibilità e decrescita

Possibili azioni
In questo contesto e con queste premesse proponiamo alcune azioni prioritarie per i territori di
montagna che potrebbero da subito aggregare consensi, risorse ed energie.
In particolare:
 connettere la rete delle aree protette (parchi nazionali, regionali ma anche ZPS, SIC ed altri
ambiti di tutela) attraverso l’individuazione di credibili e motivati corridoi ecologici (vedi
politiche dei parchi →);
 ridefinire e rielaborare su base locale gli habitat prioritari e le liste rosse di specie;
 favorire interventi urgenti per la difesa del suolo, la prevenzione e mitigazione del rischio
idrogeologico, con una più significativa tutela delle acque ed una rigorosa determinazione dei
deflussi vitali, attivando anche percorsi di rinaturalizzazione dei corpi idrici più dissestati;
 promuovere il turismo sostenibile privilegiando l’ospitalità rurale diffusa quale possibile
preziosa integrazione del reddito dei presidi montani;
 favorire l’inter modalità alternativa al traffico veicolare (anche attraverso il recupero delle linee
ferroviarie minori);
 valorizzare e sostenere l’agricoltura di montagna, le attività e le produzioni agro-silvo pastorali
ecocompatibili e biologiche con particolare attenzione al recupero dei cultivar e dei saperi -
sapori locali;
 assicurare e sostenere la conservazione o il ripristino degli elementi peculiari del paesaggio
agrario alpino e la conservazione delle tipologie edilizie tradizionali;
 promuovere la pianificazione territoriale integrata;
 fornire innovative risposte al fabbisogno energetico attraverso il risparmio energetico, la micro
cogenerazione diffusa e le fonti rinnovabili (vedi politiche energetiche →);

Agricoltura e sviluppo rurale


La produzione tipica è sempre stata considerata un fattore di pregio della "qualità della vita"
propria di tali luoghi, ricercata anche dai turisti. Tali prodotti di qualità sono tuttavia minacciati
insieme con la scomparsa dell'agricoltura montana. Al di là di altre ragioni per il declino
dell’agricoltura montana, intervengono ulteriori fattori depressivi che ne accelerano la definitiva
estinzione: tra essi una legislazione sui criteri di produzione del tutto inadeguata in quanto ignorante
delle condizioni di produzione proprie della montagna, nonché una pratica mercantile di
approvvigionamento esterno da grandi centri cittadini di deposito, manipolazione e distribuzione di
merci provenienti dal mercato"globalizzato". In controtendenza lo sviluppo rurale inteso come
integrazione di aspetti legati all’agricoltura, alla forestazione, alle produzioni tipiche, al turismo
ambientale e sostenibile, all’artigianato possono costituire un ottimo stimolo alle iniziative
imprenditoriali. Di più, se tali iniziative riescono a favorire lo sviluppo di una cultura partecipativa
che induca i residenti all’autoimprenditorialità, è probabile, e in alcune aree già si è verificato, che
si innesti un circuito virtuoso con il coinvolgimento attivo delle classi più giovani della
popolazione, ottenendo il duplice risultato di incrementare l’occupazione e la permanenza in loco.
Bisogna valorizzare la multifunzionalità dell'impresa agricola, i progetti possono indirizzarsi in
interventi ad alto valore ambientale come, ad esempio, interventi di sistemazione idraulica
attraverso tecniche di bio-ingegneria, il recupero di aree percorse da incendi, la salvaguardia del
paesaggio. L’obiettivo è che l’agricoltura di montagna non sia più intesa come un’agricoltura
marginale di mera sussistenza, ma si sviluppi verso la coltivazione e la trasformazione di prodotti di

111
alta qualità a cui riconoscere la denominazione tutelata (DOP e IGP) provenienti da particolari
ambiti territoriali.
Un ruolo di rilievo possono assumere le terre di proprietà pubblica ad uso agricolo per una
valorizzazione produttiva eco-compatibile e di salvaguardia ambientale, scongiurando le eventuali
privatizzazioni e promuovendo servizi e formazione per il pieno utilizzo della valenza degli usi
civici. Le foreste possono rappresentare la connessione funzionale fra le attività primarie, la tutela
dei suoli e la biodiversità, il turismo e l’artigianato, la protezione degli insediamenti a valle in una
continuità montagna-pianura sulla cui valorizzazione politica e programmatica si misura la qualità
dell’azione dei pubblici poteri regionali e locali. In questo contesto, non va trascurato uno sforzo
concentrato per rispondere adeguatamente alle recenti norme comunitarie, che prevedono il rispetto
di parametri igenico-sanitari per la produzione di alcuni prodotti tipici e introducono misure che
rischiano di “cancellare” le vecchie tradizioni artigianali delle piccole e medie aziende locali
specializzate in queste attività173.

Un modello insediativo
In ogni valle le maggiori centralità urbane sono cresciute negli ultimi decenni cominciando a
registrare gli stessi fenomeni e le stesse caratteristiche della megalopoli padana, come ad esempio
l’espansione della città diffusa pur con tutti i condizionamenti fisici che pone l'ambiente vallivo 174.
Il Piano di indirizzo territoriale della Regione deve andare nella direzione di un modello diverso di
sviluppo insediativo che riprende il filo delle regole insediative della montagna contenendo e
qualificando l’urbanizzazione diffusa nel fondovalle. Le indicazioni sono di ricostruire le
opportunità ma non secondo il modello della città: ci sono altre qualità rispetto al vivere in città, chi
sceglie non deve essere penalizzato E questo può verificarsi solo attraverso la conoscenza del
territorio, la sua pianificazione e la sua gestione sulla base di una progettualità condivisa e
attraverso la diffusione e la condivisione delle informazioni, attraverso la partecipazione della
comunità locale alle scelte legate al territorio. Secondo queste indicazioni, bisogna pensare alla
valorizzazione dei nuclei sparsi, al recupero di strutture insediative che costituivano la regola
insediativi della montagna e che sono il frutto di un’esperienza e storia pluriennale, di un
condizionamento nella morfologia che le caratteristiche impongono. Questo è un processo che si
deve fare con i piani strutturali, con la descrizione dei territori per ricavarne le regole che il
territorio stesso detta alla collettività.

Servizi per chi abita


Esistono problemi oggettivi legati alla qualità complessiva della vita per chi vive in montagna.
Uno dei problemi più sentiti è quello dei servizi, anche commerciali. La bassa densità di
popolazione, la dispersione dell'abitato e l'impiego sempre più sistematico del mezzo di trasporto
privato per ricorrere a beni e servizi di prima necessità sono i fattori maggiormente responsabili
della progressiva scomparsa di rivendite alimentari, dei servizi amministrativi locali, degli uffici
postali, delle scuole, ecc. La scomparsa dei servizi di base colpisce la totalità della popolazione e
indebolisce l'identità locale favorendo la disgregazione sociale. Tutto ciò richiede l'avvio di
“politiche di azione locale” a valenza urbanistica, occupazionale, formativa, ecc. intese a ricreare le

173
gli operatori in un documento reperibile su www.cansiglio.it denunciano: “Le malghe della montagna veneto-friulana
devono essere messe in condizione di continuare la loro secolare attività di produzione di latticini e formaggi che
rappresentano una indiscutibile ricchezza alimentare e culturale per qualità e varietà. Le malghe devono essere tutelate
da interessi speculativi. I formaggi tipici devono essere tutelati con marchi e denominazioni che identifichino la loro
specificità e la loro tradizione. Da più parti (Monte Grappa, Monte Cesen, Carnia,ecc) viene segnalata la scomparsa di
formaggi tipici che rischiano l'estinzione”.
174
la dinamica di erosione della SAT (suolo agricolo totale) nella provincia di Belluno da parte di altre destinazioni
d’uso del suolo,corrisponde ad una perdita netta di 43mila ettari, un territorio pari quasi a quello dei comuni di
Longarone, Cortina e Feltre messi assieme. In dieci anni lo sviluppo economico ha consumato più suolo che nei tre
decenni precedenti.

112
condizioni fisiche e sociali di “vicinato” senza la quali le comunità sono condannate allo
sgretolamento. La scelta di voler continuare a garantire ai cittadini di montagna, anche a costi
sociali, la possibilità di usufruire di servizi pubblici efficienti ed accessibili non è una mera
rivendicazione sindacale ma una conditio sine qua non per intervenire sui territori con
responsabilità, avendo garantite condizioni di vita dignitose ed essendo pronti ad impegnarsi per la
promozione sociale, economica e culturale delle popolazioni stesse. In montagna inoltre è
particolarmente sentita la necessità di diffondere sistemi informatici che consentono, attraverso siti
internet, a luoghi lontani e poco accessibili di comunicare e di scambiarsi idee, progetti e proposte
in tempo reale.

Il turismo
Occorre sviluppare forme di turismo capaci di portare benefici a tutte le parti interessate (turisti,
imprese turistiche, popolazione locale) riassorbendo il più possibile i costi complessivi di tale
sviluppo. Il modello fin qui perseguito di grandi infrastrutture in particolare per gli sport invernali
non deve vedere ampliamenti ma unicamente razionalizzazioni e ammodernamenti che non
provochino ulteriori impatti. Purtroppo si continua perseverare su questa strada 175 senza peraltro
valutare gli incidenza che potranno avere, e che già oggi hanno, i cambiamenti climatici nella
prosecuzione di queste attività. Il turismo, nella nuova accezione e soprattutto per le realtà come
quelle di montagna, deve essere considerato come supporto dell'identità locale. È nostro obiettivo
costante tradurre questi aspetti in indirizzi di sviluppo, in risorse disponibili, all'interno di una
visione integrata che riesce a legare tra di loro il turismo il commercio, l'artigianato, il settore agro-
alimentare e naturalmente all'ambiente. In particolare è importante connettere la “filiera turistica” ai
settori dell'agricoltura, dell'artigianato e della valorizzazione culturale del territorio, nella misura in
cui questi caratterizzano le diverse aree del territorio, sia a livello di immagine percepita dalla
clientela turistica, sia a livello di struttura socio-economica delle aree (vedi politiche del turismo
→). Il turismo deve divenire stimolo della produzione locale in quanto mette a disposizione una
domanda potenziale per i prodotti tipici dell'area .

La mobilità e le montagne
Le Alpi fino a poco tempo fa erano un territorio di frontiera, periferico nelle politiche e nelle
azioni di ogni Stato. Con l’UE le Alpi si sono riscoperte come cuore e non semplice cerniera
dell’Europa, sede di importanti comunità e distretti produttivi, in significativa crescita demografica
ed economica. Questa nuova centralità geografica produce conflitti e contraddizioni in primo luogo
per il moltiplicarsi (reso più intenso dall’integrazione Europea) di proposte di grandi opere
infrastrutturali di attraversamento che pongono comunque il problema della sostenibilità
ambientale, degli alti costi e dei tempi di realizzazione 176. Si deve pensare a quale modello di
viabilità e utile per una riqualificazione e riappropriazione da parte di chi ci vive di un sentiero di
sviluppo autosostenibile per la montagna. Occorre partire da quelle che sono le vere emergenze del
sistema: l’adeguamento della rete ferroviaria per i valichi, i costi e le inefficienze rispetto alla
gomma, i nodi urbani ferroviari della rete, l’assenza di una strategia specifica per il trasporto merci
e parallelamente realizzare la manutenzione e la messa in sicurezza della rete stradale attraverso le

175
cercando di saltare sul carro della probabile ultima tornata di contributi in questo settore gli amministratori si
affrettano a concludere tutti i progetti di collegamento possibili tra i vari poli sciistici degli Altopiani. Così è stato nel
2003 per Lavarone-Malga Rivetta, così oggi si prospetta il grande collegamento con il vicentino attraverso l'Alpe di
Folgaria e il completamento verso Passo Vezzena delle piste di Lavarone, fantasticando di avveniristici collegamenti
funiviari di "super-collegamento" dai Fiorentini a Lavarone o dalla Valsugana a Vezzena.
176
il problema non sono solo le grandi infrastrutture: pensiamo al progetto di realizzare una nuova arteria stradale sulle
falde del Monte Baldo (strada Costermano - Malcesine ovvero 'II Gardesana') formalizzata nel Piano Territoriale
Provinciale. Se si realizzasse questo progetto verrebbe rotto irreparabilmente l'equilibrio di tutto l'entroterra del Lago di
Garda e del Monte Baldo.

113
Alpi per limitarne l’impatto ambientale sulle valli e le popolazioni 177. Gianluca Zandanel, in un
lucido articolo che meriterebbe ampia diffusione, così si esprime a proposito dei diversi progetti
infrastrutturali: “se il Cadore non vuole divenire un corridoio di transito al servizio di tutti tranne
che di se stesso, ha bisogno di opere utili al proprio futuro, calibrate sulle proprie esigenze di
sviluppo e prima ancora di sopravvivenza, che certo non sono legate ad opere come un’autostrada
sotto la Mauria totalmente inutile oltre che dannosa”178.
Helmut Moroder, vice presidente della Commissione Internazionale per la Protezione delle
Alpi - CIPRA, ha suggerito uno scenario per la mobilità nell'arco alpino: le Alpi come una vasta
area impermeabile al trasporto stradale di merci, "i confini con la pianura equivarrebbero alle
coste di un mare, lungo le quali si troverebbero diversi porti (interporti), il passaggio delle merci
attraverso questo "mare" dovrebbe quindi avvenire con le modalità consentite: la ferrovia ad
esempio"179. Questo scenario porterebbe qualità alla vita delle Alpi con ricadute benefiche nella
pianura. Oggi l'unica visione è quella di riproporre, in termini peggiori l'esistente ad esempio con il
completamento della Valdastico che comporterebbe un aumento di traffico sull’Autobrennero.
Occorre partire da quelle che sono le vere emergenze del sistema. E’ urgente realizzare la
manutenzione e la messa in sicurezza della rete stradale attraverso le Alpi per limitarne l'impatto
ambientale sulle valli e le popolazioni. Si deve perseguire l'ammodernamento della rete
ferroviaria individuando gli interventi più urgenti e in grado di dare una risposta efficace alle
specifiche e diverse esigenze del trasporto merci e passeggeri. Occorre lavorare per un utilizzo al
massimo delle potenzialità della rete esistente secondo i livelli di efficienza resi possibili dalle
moderne tecnologie
Occorre definire il quadro delle priorità in una logica di integrazione della rete europea e nella
prospettiva di aumentare l'offerta per gli operatori delle merci. Sottolineiamo come attualmente la
ferrovia del Brennero ha oggi una consistente capacità di trasporto non utilizzata, pertanto già oggi
sarebbe possibile trasferire una quota rilevante di mezzi pesanti dalla strada alla rotaia. Oggi solo
una quota minoritaria delle oltre 140 milioni di tonnellate di merci che ogni anno
attraversano le Alpi lo fa a bordo di treni, ma i problemi non sono solo nelle linee alpine quanto
nell'insieme dei collegamenti e degli attraversamenti tra i nodi di Torino, Milano, Genova,
Bologna, Verona, Padova. Occorre ratificare il Protocollo Trasporti della Convenzione quadro per
la protezione delle Alpi e bloccare qualsiasi ipotesi di costruzione di nuovi assi stradali transalpini
in contrasto con tale Protocollo o di raddoppio delle gallerie di valico stradali esistenti,
predisporre subito il trasferimento obbligatorio dalla strada alla ferrovia delle merci pericolose e
infiammabili; occorre inoltre intervenire sulle linee ferroviarie complementari della Pianura Padana
per garantire corsie preferenziali al trasporto merci e promuovere lo sviluppo del traffico
intermodale, adeguando le tecnologie degli interporti esistenti.

177
come ci ricorda la Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi – CIPRA, con una sua risoluzione
pubblicata sul sito www.cipra.org, il Protocollo Trasporti non è ancora stato ratificato. “Chiediamo che vengano
adottate o promosse adeguate misure per la riduzione dell’apporto inquinante e delle emissioni acustiche a carico della
popolazione residente lungo le infrastrutture di trasporto di grande comunicazione nelle Alpi e lungo gli assi di transito
attraverso le Alpi (ferrovia e strada). La priorità assegnata alla ferrovia deve essere recepita nella pianificazione e
portata avanti con coerenza ed energia. Oltre a ciò chiediamo l’adozione di strumenti per l’introduzione della verità dei
costi nel trasporto su strada, che potrebbe essere efficacemente e rapidamente realizzata attraverso una tassa
sui ,trasporti pesanti commisurata alle prestazioni (TTPCP) in tutti i Paesi alpini. In attesa della sua introduzione, nei
principali assi stradali non ancora interessati dalla TTPCP, si potrebbe adottare un pedaggio. La verità dei costi deve
essere introdotta non solo nel traffico di transito, ma anche nel trasporto interalpino, non solo per i mezzi pesanti, ma
anche per il traffico motorizzato privato. Il protocollo Trasporti costituisce un ottimo presupposto per un’azione unitaria
e coordinata. Noi esortiamo pertanto le Parte contraenti della Convenzione delle Alpi ad adottare queste misure in
comune, a raccogliere dati sulla situazione delle Alpi – in particolare nel settore dei trasporti – e di controllare con un
monitoraggio comune l’efficienza e l’efficacia delle misure adottate”.
178
Gianluca Zandenel, Per non diventare territorio di transito al servizio di tutti tranne che di noi, in il Cadore, 10/2004
179
Helemet Moroder, Le Alpi, luogo di cerniera, in Urbanistica Dossier 63/2004

114
Un’idea in prospettiva
Occorre che taluni centri montani, in stretto collegamento con tutto il sistema delle Alpi,
diventino sedi istituzionali di ricerca per la cultura ambientale 180. Le attuali risorse tecnologiche
della comunicazione e dell'informazione fanno sì che i luoghi montani non siano più da considerarsi
come isolati in situazioni inaccessibili o scomode per la gestione di tali iniziative di ricerca. Al
contrario, oggi i luoghi alpini possono diventare le più opportune sedi per laboratori d'osservazione
in campo ecologico, per istituzioni di studio delle politiche ambientali d'interesse non soltanto
locale. Tali attività si ricerca possono attirare molteplici altre attività ad esse connesse e contribuire
pertanto a rendere di nuovo autosufficiente nell'autoriproduzione talune località montane. Tale
indicazione, che pone la montagna come sede di un centro di cultura ecologica al servizio quanto
meno di tutta la regione, ma più in generale a livello europeo, può assumersi a simbolo di quanto
importante può essere il recupero del mondo montano, della sua cultura, delle sue valenze naturali
per il futuro.

Coordinare le risorse
C’è una difficoltà dei diversi “attori” in gioco di riconoscersi in un ruolo ben preciso e, quindi,
di muoversi decisamente e senza tentennamenti verso la collaborazione con gli altri livelli di
governo verso un coordinamento univoco delle proposte, delle azioni e degli interventi che hanno
comunque, come unico obiettivo la valorizzazione, la promozione e lo sviluppo delle aree montane.
La scarsa presenza in questi anni di un coordinamento unico riguardo le aree montane
evidentemente non ha significato e non significa che non vi sia stato un flusso di risorse attivato e
attivabile per questi territori, significa piuttosto che ancor oggi non è possibile avere un quadro
esaustivo di quanto è stato impegnato e speso e dei risultati concreti ottenuti. E quindi, per un verso,
autorizza la montagna veneta a sentirsi “povera” e “trascurata” e, per un altro, mal consente azioni
integrate sia sul piano territoriale, sia sul piano intersettoriale. E’ necessaria una azione di sostegno
e di coordinamento da parte della Regione, assistiamo infatti ad un paradosso: le aree più depresse e
isolate, quelle che più ne avrebbero bisogno, hanno difficoltà a produrre progetti validi e integrati
fra più settori e usufruire di risorse in grado impostare uno sviluppo durevole181.

Valter Bonan

180
181
Questo fenomeno è stato evidenziato, per quanto riguarda l’area veneta, da S. Vanin, M. Zolin, Il contesto
socioeconomico e le occasioni di sviluppo: un analisi per area problema, argomenti 10/2004 in cui vengono presi in
esame gli impatti su alcuni territori “arretrati” della nostra regione delle politiche di sviluppo integrate.

115
nodi
abbiamo analizzato ed elaborato proposte
rispetto ad alcuni nodi significativi
dello sviluppo veneto.
Senza la pretesa di essere esaustivi,
abbiamo voluto esemplificare come sia possibile
misurare la nostra idea generale di convivenza
applicandola ai singoli temi

116
Energie
Energia mondo
La geopolitica è intessuta dai percorsi degli oleodotti e dalle localizzazioni dei pozzi: gli
equilibri geostrategici dipendano in larga parte dagli approvvigionamenti energetici e gli stessi
determinano, in larga misura, le politiche di dominio, guerra e rapina in tutto il globo. Gli abitanti
dei paesi del nord del mondo costituiscono 1/5 dell’umanità ma consumano più del 50%
dell’energia prodotta e l’Italia da sola consuma più energia di tutta l’Africa. La revisione delle
politiche energetiche rappresenta la trama di una riconversione più profonda del modello di
sviluppo e dei rapporti di potere all’interno del pianeta. La crescita economica, conseguita
attraverso l’aumento della produzione e dei consumi, continua ad essere l’unico grande obiettivo
dell’economia mondiale, trascinando la crescita dei consumi energetici. I Verdi propongono un
radicale cambiamento del modello energetico: il risparmio energetico, le energie rinnovabili, la
micro cogenerazione diffusa sono per noi gli assi alternativi di governo. Le politiche energetiche
sono lo strumento strategico di possibile cambiamento dell’economia, della distribuzione della
ricchezza, della qualità sociale e ambientale. La prospettiva capace di creare in poco tempo una
reale alternativa alle fonti fossili è l'integrazione delle diverse fonti rinnovabili (solare termico,
solare fotovoltaico, eolico, idroelettrico, biomasse, legno, ecc.) puntando sulle diverse vocazioni dei
territori.
In quest’ottica le fonti rinnovabili possono innescare processi virtuosi, capaci di legarsi alle
risorse locali e di contribuire ad uno sviluppo equilibrato proprio nelle aree interne (pensiamo alla
montagna), nei territori agricoli, attento ai valori del paesaggio. Serve per questo una chiave di
attenzione "locale" capace di ragionare sui territori e le prospettive di riqualificazione, ma anche
una forte attenzione al consenso, alla diffusione di informazioni e di partecipazione attiva alle
scelte. Il nuovo sistema energetico deve essere uno dei fattori di sviluppo e di rafforzamento di
sistemi economici locali autosostenibili182. Un sistema economico, ambientale e sociale a rete dove
vi sia ampia autonomia dei soggetti locali e che non preveda gerarchie e poli attrattori destrutturanti
il sistema reticolare. In questo senso occorre promuovere, piuttosto che grandi centrali di
produzione, tecnologie diffuse, accessibili, efficienti e controllabili collettivamente quali la
generazione distribuita. I vantaggi attesi da questo trend tecnologico consistono nella possibilità di
sfruttare risorse energetiche locali, nell’applicazione delle fonti pulite (rinnovabili), nelle ridotte
necessità di trasporto dovute alla vicinanza fra produzione e consumo, nella maggiore
diversificazione del mix energetico, minori dipendenza dalle importazione, complessivamente, in
una maggiore sicurezza nell’approvvigionamento elettrico. Il modello dominante predilige i grandi
impianti, sostiene la “riscoperta” del nucleare, predica il perpetuare un modello dissipativo,
insostenibile ed ingiusto. A seconda dei modelli di sviluppo e di società che prevarranno ci sarà più
o meno grande spazio per scelte tecnologiche diverse e contrapposte.

Il ruolo delle Regioni


La novella costituzionale che ha attribuito alle Regioni la competenza concorrente in tema di
energia le ha prepotentemente condotto in una dimensione che incide profondamente sulle scelte di
fondo della politica energetica nazionale. Ma rimane contraddittorio il processo di appropriazione
da parte delle Regioni del governo della risorsa energetica: le leggi 9 gennaio 1991, n. 9 e 10, la
rilevante riforma introdotta dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 e dal decreto legislativo 31 marzo
1998, n. 112 sul decentramento delle competenze amministrative dello Stato, aveva già consentito
alle Regioni di orientare le proprie scelte territoriali, di intervenire non solo nel campo del risparmio
energetico e delle fonti rinnovabili ma degli assetti energetici nei settori della produzione, del
182
vedi Alberto Magnaghi, Il progetto locale, Torino, 2000

117
trasporto e della distribuzione, di armonizzare nei provvedimenti concreti le diverse politiche, di
inserire gli obiettivi energetici nel quadro dello sviluppo sostenibile quale configurato dalla
Comunità europea e degli impegni assunti a livello europeo e internazionale dal nostro Paese sulla
riduzione delle emissioni climateranti. Mentre il progetto di legge La Loggia e il nuovo decreto
legge Marzano sembrano andare in tutt’altra direzione. Comunque le emergenze degli ultimi anni
quali l’aumento del consumo dell’energia elettrica, i problemi di fragilità della rete, il programma di
nuove centrali (anche grazie al programma di liberalizzazione del mercato), l’attivazione dei titoli di
efficienza, hanno sottolineato la necessità di un quadro programmatorio a livello regionale. Tutto
questo all’interno dell’obiettivo quadro fissato dalla Direttiva Europea 2001/77/CE di avere in Italia
per il 2010 un utilizzo dell’energia da fonti rinnovabili al 25% dei consumi elettrici.

Veneto: un quadro desolante


Gli enti pubblici – regioni, province e comuni – possono quindi, in un quadro di indirizzi
generali che spettano allo Stato, fare molto. Nel Veneto la politica energetica è affidata
sostanzialmente ai gestori privati, in particolare Enel, e le strategia, la programmazione e la
pianificazione pubblica risponde a questi interessi. Tutto ciò nella convinzione politica che il
lasciare fare o, al massimo, il rendersi garanti della realizzazione delle condizioni migliori per la
realizzazione delle strategie aziendali dei gestori privati sia il miglior modo di agire per favorire la
continuità dell’attuale modello di sviluppo regionale. Non a caso manca una struttura pubblica
regionale degna di questo nome sul tema energetico e un assessorato specifico o, quanto meno, un
referato autorevole. Effetto di ciò è la mancanza di un Piano Energetico Regionale o anche solo di
un abbozzo di Piano. Ciò che esiste oggi, a fine legislatura, è un documento striminzito con scarsi e
generici dati dove il capitolo “fonti rinnovabili” risulta ancora in “fase di realizzazione”.
Ne emerge comunque un quadro desolante: i 293 impianti che coprono il fabbisogno regionale sono
divisi in 176 idroelettrici con grandi problemi di approvvigionamento legati all’andamento della
piovosità, all’inghiaiamento dei serbatoi e bacini e alle nuove disposizioni in materia di deflussi
minimi che ne limitano la possibilità di modulare gli invasi e 116 termoelettrici soggetti a guasti e
necessità di manutenzione per l’invecchiamento degli impianti e all’andamento dei prezzi (borsa
elettrica) che pone periodicamente fuori mercato le produzioni determinando fermi degli impianti. I
grandi impianti sono 7: 3 di proprietà Enel e 4 Edison, che utilizzano olio combustibile a basso
tenore di zolfo, carbone e gas. Dai dati frammentari arriva però la “certezza”, non si sa sulla base di
quale tipo di analisi e di prospettiva, che il fabbisogno regionale di energia elettrica sia da
incrementare del 44% (sic!) e la speranza di poter affidare questo incremento al rafforzamento del
parco impianti alimentati con combustibili a basso costo e alta capacità di inquinamento (si pensi il
caso della centrale di Porto Tolle che produce in difformità alle norme europee in materia di
emissioni in atmosfera attraverso proroghe, a cui è stato dato parere positivo per l’utilizzo di
orimulsion e ora si è in attesa di un nuovo pronunciamento rispetto alla conversione a carbone),
sicuramente dissipatori di energia e di risorse attraverso anche nuove costruzioni e all’apporto
energetico dell’incenerimento di rifiuti (CDR in particolare), potenziando gli impianti esistenti,
creandone di nuovi e con la conversione di altri a questo scopo (cementifici?). L’incenerimento dei
rifiuti rappresenta per la Regione l’opzione più seria se non esclusiva di investimento sulle “fonti
rinnovabili”.

Strumenti per l’alternativa


Il Piano Energetico Regionale (PER) è il principale strumento attraverso il quale le Regioni
possono programmare ed indirizzare gli interventi, anche strutturali, in campo energetico nei propri
territori e regolare le funzioni degli Enti locali, armonizzando le decisioni rilevanti che vengono
assunte a livello regionale e locale. Inoltre il PER costituisce il quadro di riferimento per i soggetti
pubblici e privati che assumono iniziative in campo energetico nel territorio di riferimento. Esso
contiene gli indirizzi, gli obiettivi strategici, le indicazioni concrete, gli strumenti disponibili, i

118
riferimenti legislativi e normativi, le opportunità finanziarie, i vincoli, gli obblighi e i diritti per i
soggetti economici operatori di settore, per i grandi consumatori e per l’utenza diffusa. Un fattore
qualificante di questa programmazione è l’intreccio tra politiche ambientali ed energetiche: infatti il
legame è indissolubile e le soluzioni possono essere trovate insieme, nell’ambito del principio di
sostenibilità del sistema energetico.
L’importanza della definizione dei Piani Energetico-Ambientali Regionali è stata richiamata
nel giugno 2001 nel “Protocollo d’intesa della Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle
Province Autonome per il coordinamento delle politiche finalizzate alla riduzione delle emissioni di
gas-serra nell’atmosfera”, noto come “Protocollo di Torino”, che si prefigge lo scopo di “pervenire
alla riduzione dei gas serra, così contribuendo all’impegno assunto dallo Stato italiano nell’ambito
degli obblighi della UE stabiliti dagli accordi internazionali e programmato nella delibera CIPE
137/98 del 19.11.98.” Un richiamo fondamentale presente nel Protocollo è il richiamo alla necessità
di raccordo ed integrazione con gli altri settori di programmazione e al ruolo dell’innovazione
tecnologica, degli strumenti finanziari e delle leve fiscali tariffarie ed incentivanti. Con la firma del
Protocollo di Torino le Regioni individuano nella pianificazione energetico - ambientale lo
strumento per indirizzare, promuovere e supportare gli interventi regionali nel campo dell’energia
assumendo a livello di Regione impegni ed obiettivi congruenti con quelli assunti per Kyoto
dall’Italia in ambito comunitario (abbattimento al 2010-2012 delle emissioni di CO2 a livelli
inferiori del 6,5% rispetto a quelli del 1990).

Comuni e Province
In un’ottica di generazione energetica decentrata sul territorio, diviene strategica la
responsabilizzazione dei comuni e delle province quali soggetti responsabili delle politiche
energetiche territoriali. L’’’azione di decentramento amministrativo, in attuazione della legge
n°59/97,, del D..lgs.. n°112/98 e della L.C. 3/01 consente alle Regioni di strutturare compiutamente
le funzioni in materia energetica delineando con proprio provvedimento il riparto delle competenze
con gli Enti Locali (Comuni e Province) presenti nel territorio con l’unico vincolo di rispettare le
competenze riservate allo Stato. E’ necessario operare un coordinamento regionale delle varie
iniziative provinciali e comunali, sia di pianificazione energetica, sia di attuazione dell’Agenda 21 e
di altre iniziative avviate in sedi diverse. Questo aspetto strategico non solo è corretto da un punto
di vista normativo (Decreto legislativo 31 marzo 1998 e Legge 10/1991) ma sottolineato da
numerosi e qualificati enti: sia perché le città sono sistemi altamente energivori (nei paesi OCSE le
città consumano energia tra il 60 e l'80% del totale )183, sia perché un approccio che coinvolga i
cittadini, attraverso le strutture istituzionali a loro più vicine, rappresenta un processo di
responsabilizzazione più efficace. Da questo punto di vista la strategia di Agende 21 locali,
sull’esempio di quanto fatto a Venezia184, costituisce il quadro di riferimento fondamentale per le
politiche energetiche. Le funzioni territoriali degli Enti Locali hanno grande impatto sulla
sostenibilità operando, ad esempio, per la micro cogenerazione e teleriscaldamento urbano o
gestione della mobilità urbana e più in generale per l’ utilizzo della energia quale fattore di
integrazione delle politiche di gestione della città.
Le Province inoltre, con il decreto legislativo 112/98, hanno assunto competenze importanti,
fra cui la redazione e l’adozione dei programmi di intervento per la promozione delle fonti
rinnovabili e del risparmio energetico e l’autorizzazione alla installazione ed all’esercizio degli
impianti di produzione di energia fino a 300 MW termici. Sebbene le Province non siano obbligate
per legge a predisporre un proprio Piano Energetico, alcune di queste (tra cui Belluno), hanno
183
dall’analisi complessiva dei Piani Energetici Comunali finora realizzati risulta che l’efficienza energetica delle
nostre città appare nettamente migliorabile, con possibili riduzioni dei consumi energetici del 10-15%, ottenibili
attraverso interventi tecnicamente ed economicamente realizzabili in molti settori (abitazioni, ospedali, scuole,
industrie, ecc.) e che la produzione di energia da fonti rinnovabili a livello urbano è ancora troppo esigua se non
insignificante;
184
Paolo Cacciari, Come riaccendere la luce? Coi Piani energetici comunali, in Carta 28/2003

119
ritenuto opportuno dotarsi di questo strumento di programmazione. La Provincia riveste, infatti, un
ruolo importante nella pianificazione di settori di attività all’interno dei quali risultano fondamentali
gli aspetti energetici, quali il coordinamento della pianificazione territoriale, la tutela dalle
emissioni inquinanti, la programmazione della gestione dei rifiuti.

Le proposte verdi per un Piano Energetico Ambientale Regionale


Le linee guida
 una forte integrazione con gli aspetti di carattere ambientale, fattore decisivo di scelta, oltre
a quello energetico ed economico, dei possibili interventi 185. Il legame tra energia e ambiente è
indissolubile e le soluzioni possono essere trovate insieme, nell’ambito del principio della
sostenibilità del sistema energetico. Il Piano dovrà essere guidato anche da funzioni "obiettivo"
tipicamente ambientali, come il perseguimento degli obiettivi di Kyoto, mediante una serie di
misure di natura energetica e di innovazioni tecnologiche, pur nell’ambito del primo punto esposto.
 una marcata integrazione orizzontale con altri piani non energetici (Piano regionale di
sviluppo, Piano territoriale, Piano trasporti, Piano rifiuti, ecc.), dai quali trarre le indicazioni per
meglio definire gli obiettivi energetici da perseguire e, viceversa, per richiedere a questi la
necessaria valutazione energetica delle soluzioni individuate, con una concezione sempre più
integrata e trasversale del fattore energia.
 una diversa concezione delle modalità di raggiungimento degli obiettivi del Piano, con una
attenzione crescente alla partecipazione e condivisione delle scelte con i soggetti interessati.

Obiettivi e temi
Diffusione delle energie rinnovabili
Occorre promuovere la produzione di energia dalle fonti rinnovabili, in un’ottica di
diversificazione delle fonti e di riduzione delle emissioni di gas clima-alteranti, in linea con gli
obiettivi enunciati dalla delibera CIPE 19.11.98, dal “Patto per l’Energia e l’Ambiente” stipulato in
seno alla Conferenza nazionale per l’Energia e l’Ambiente del novembre 1998. Oggi la Regione
Veneto, nel porsi lo sciagurato obiettivo d’incrementare la produzione di energia elettrica 186, ha
deciso di affidare l’incremento per il 44% alla costruzione di nuove centrali alimentate da
combustibili fossili e solo per il 12,8% alle “rinnovabili”, all’interno delle quali troviamo anche
l’incenerimento delle RSU. Questo dato da solo evidenzia il ruolo che oggi la Regione (non)
assegna alle energie rinnovabili. Ma è una visione miope, oltre che ambientalmente insostenibile.,
visto che non punta alla differenziazione delle fonti e quindi alla sicurezza degli
approvvigionamenti – pensiamo alla vicenda della centrale di Porte Tolle la cui produttività nel
Luglio 2003 è stata messa in ginocchio dalla mancanza d’acqua del Po’ mettendo in stato d’allarme
l’intero sistema energetico nazionale – ma persegue nell’ ”impiccare “ la produttività energetica
regionale alle sole centrali termolettriche di grossa taglia.

Strumenti per la diffusione delle rinnovabili


Prospettive per lo sviluppo delle energie rinnovabili - la cui tecnologia è ormai ampiamente
accessibile e efficiente anche nei casi più “ostici” come quello del solare termico 187 - si attendono
185
citiamo il fatto che nella bozza di Piano Energetico Regionale predisposta dalla Giunta Galan mancano le serie
storiche sulle emissioni in atmosfera del Veneto di CO2 ed inquinanti classici (SO2, NOX, PM10, etc) e tutta una serie
di dati disaggregati legati ad altre problematiche ambientali (rumore, elettrosmog, scarichi di acque calde, etc) che sono
strettamente correlate alla produzione ed al consumo di energia.
186
i soli impianti termoelettrici esistenti in Veneto (5.373,5 MW al 2002) avrebbero – assumendo un fattore di
utilizzazione pari a 7.000 ore/anno – una potenzialità pari ad oltre 35.000 Gwh, ben superiore quindi al fabbisogno
regionale.
187
per una rassegna esaustiva sulle potenzialità e applicabilità delle rinnovabili in particolare nel contesto italiano vedi
Legambiente, Rapporto sulle energie rinnovabili 2004, Pescara 2004

120
dalla sviluppo del mercato dei Certificati Verdi, titoli che attestano la produzione energetica da fonti
rinnovabili e dai decreti sull’efficienza energetica del 2001 che stabiliscono obiettivi quantitativi
nazionali di miglioramento dell’efficienza energetica. Vi sono altri meccanismi di incentivazione
legati alle singole fonti come i programmi riguardanti le tecnologie solari, sia termiche che
fotovoltaiche Uno strumento in mano alla Regione, ad oggi inutilizzato, è quello degli Accordi
Volontari settoriali: questi strumenti consentono di promuovere interventi in accordo e intesa con
diversi soggetti. Un altro ruolo chiave in mano alla Regione è quello della semplificazione delle
procedure autorizzative attraverso la definizione di politiche finalizzate a rafforzare lo sviluppo
delle fonti rinnovabili.

Rifiuti
Sviluppo della raccolta differenziata, del riciclaggio e riutilizzo dei rifiuti, con ricorso solo
residuale alla termovalorizzazione dei rifiuti secondo le linee previste dal dal d.lgs. 22/1997, nonché
al recupero energetico dal biogas ai fini del conseguimento di un miglior bilancio ambientale:
attraverso la revisione del sistema di gestione dei rifiuti, in accordo sia con la legislazione esistente
che con le esperienze più avanzate, possono essere conseguite significative riduzioni delle emissioni
climalteranti188. Il recupero del 60% della carta e del 50% della frazione organica potrebbero
consentire di ridurre le emissioni climalteranti da rifiuti a circa 1/3 del livello attuale 189.

La ricerca
Pensiamo debba focalizzarsi sul processo di de-materializzazione e aumento dell’efficienza
energetica dei processi e dei prodotti l’incentivazione dell’innovazione e della ricerca tecnologica,
anche mediante, per quanto di competenza della Regione, la valorizzazione dei centri e dei parchi
tecnologici esistenti: purtroppo l’economia del nord-est, come quella italiana d’altronde, vede il
consolidarsi di una struttura produttiva e tecnologica dove il settore high-tech è sempre più esile.
Questo all’interno di un crollo degli investimenti a livello nazionale della ricerca nel campo
energetico - ambientale: dal 1990 il budget per la ricerca in questi campi si è ridotto di meno della
metà e ha riguardato in modo significativo anche le energie rinnovabili190.

Intervenire sulla domanda: efficienza e razionalizzazione energetica


Un obiettivo strategico è quello di ridurre la domanda elettrica, e più in generale i consumi
finali energetici pro capite, prendendo spunto dal Enregy action plan della California che si pone di
ridurre la potenza di punta di 2000 MW entro il 2007. E’ del Dicembre del 2003 la Direttiva
europea sugli usi finali energetici: attraverso questo strumento ci si prefigge di risparmiare l’1% dei
consumi energetici ogni anno per 6 anni. L’obiettivo sale all’ 1,5% per il settore pubblico.
Ricordiamo che lo Studio europeo Best arriva alla conclusione che i consumi annui di elettricità e
gas a livello UE possono essere ridotti del 10% rispetto alla tendenza odierna con un beneficio
economico netto di circa 10 miliardi di Euro l’anno. Occorre modulare una serie di interventi quali
ad esempio nuove linee per i regolamenti edilizi, come avviene in Emilia Romagna, che incentivino
misure di risparmio energetico negli edifici anche attraverso la promozione della bioedilizia 191.
Inoltre è possibile puntare alla riduzione dell’intensità energetica nei settori industriale, terziario e
188
nella bozza del piano regionale veneto dei rifiuti, in fase di discussione in Consiglio Regionale, sono previsti ben tre
nuovi inceneritori, in piena contraddizione con l’obiettivo del 50% di raccolta differenziata pianificata a breve, mentre
con questa percentuale, da calcoli fatti del WWF Veneto, i tre nuovi inceneritori risulterebbero inutili. L’incenerimento
dei rifiuti, non solo sottrae materiali al riciclaggio ed al compostaggio, ma è in grado anche di sottrarre finanziamenti
alle fonti rinnovabili di energia visto che l’incenerimento dei rifiuti viene erroneamente classificato come energia
rinnovabile e, nelle linee guida predisposte dal Ministero dell’Industria per l’utilizzo dei fondi strutturali europei, si
intende destinare all’incenerimento dei rifiuti ben il 40% di tutte le risorse destinate alle fonti rinnovabili di energia,
destinando solo il 13% all’energia solare, sia termica che fotovoltaica.
189
Duccio Bianchi, Metti il clima in discarica, in Qualeenergia 4/2003
190
vedi il Rapporto Energia Ambiente 2003 curato dall’ENEA

121
civile attraverso l’incentivazione di interventi volti ad aumentare l’efficienza energetica ed il
rispetto dell’ambiente, con conseguente abbattimento dei costi economici, e la riduzione delle
emissioni inquinanti nei processi di produzione e trasformazione dell’energia.
In una regione a forte vocazione industriale come il Veneto le occasioni di risparmio
energetico nella produzione industriale sono numerosissime ed estremamente remunerative: con
l'introduzione della micro cogenerazione si ottengono risparmi energetici del 20-30%; con il
recupero di calore dai processi produttivi si possono ottenere risparmi del 10-20%; la micro
cogenerazione è particolarmente adatta ad industrie che utilizzano calore a bassa e media
temperatura, come quelle del settore caseario, agroalimentare, dei laterizi, ecc.; ulteriori risparmi si
possono ottenere con motori elettrici ad alto rendimento, con il rifasamento degli impianti, ecc..
Importante ruolo possono avere in questo senso la promozione delle certificazioni ambientali tipo
EMAS nei distretti produttivi. Un altro strumento in questa direzione è l’adozione “anticipata” della
direttiva IPPC. La direttiva IPPC impone, per l’autorizzazione agli impianti industriali medio-
grandi o comunque di impatto significativo, una valutazione integrata di impatto e di emissioni,
sostituendo e integrando le tradizionali singole autorizzazioni per le emissioni in atmosfera, per i
rifiuti, per gli scarichi idrici. Ha come scopo quello di spingere le aziende ad adottare le “migliori
tecniche disponibili” per ridurre il loro impatto ambientale. L’Italia ha recepito la direttiva solo
formalmente: infatti, per quanto riguarda le autorizzazioni al proseguimento delle attività già
esistenti, l’applicazione della direttiva è sospesa in attesa di nuove linee guida. In questa situazione
di stallo la Provincia di Torino, di Trento e la Regione Marche hanno anticipato sul loro territorio
la Direttiva IPPC.
Il Libro Verde sulla sicurezza dell’approvvigionamento energetico ricorda che “secondo le
stime più recenti, a parte l’enorme potenziale tecnico di miglioramento dell’efficienza energetica
(stimato al 40% dell’attuale consumo di energia), esiste un considerevole potenziale economico
legato a miglioramenti del rendimento energetico pari ad almeno il 18% del consumo attuale”. I
benefici attesi sono le riduzioni delle emissioni, la riduzione dei costi e l’aumento dell’affidabilità
del sistema. Un insieme di programmi per l’efficienza energetica realizzati da EDF, Ademe, e dalla
regione Provence- Alpes- Còte d’Azur, permetterà di evitare la costruzione di una linea ad alto
voltaggio tra Boutre e Carros, nel sud della Francia con un risparmio economico al 2020 di 60
milioni di Euro. La Regione potrà (potrebbe già adesso se solo lo volesse…) stipulare con i
distributori accordi per il conseguimento degli obiettivi di incremento dell'efficienza negli usi finali
dell'energia fissati dagli atti di programmazione regionale (provvedendo anche con proprie risorse
attraverso procedure di gara).

Per una mobilità non energivora


I trasporti infatti costituiscono il settore chiave nei programmi di contenimento delle
emissioni dei gas serra. A fronte di miglioramenti dei motori e conseguente riduzione delle
emissioni unitarie per veicolo, l’aumento del parco macchine circolante, l’aumento della
percorrenza media annua e la diminuzione di passeggeri per veicolo hanno annullato i benefici
derivanti dalle innovazioni tecnologiche producendo un aumento complessivo di emissioni di CO2.
Per questo riteniamo strategiche azioni miranti alla riduzione della domanda di mobilità (vedi
politiche della mobilità→), spostamento delle merci e dei passeggeri da strada a ferrovia e il
coordinamento e l’incentivazione di Piani Urbani del Traffico che integrino i Piani Energetici
Comunali.

Servizi pubblici locali


191
nel riscaldamento degli ambienti la legge tedesca non consente di superare i 70 kWh al metro quadrato all’anno. Le
case passive (l’unico settore trainante nell’edilizia tedesca) non possono superare i 15 kWh/m2/a. In Italia, con un clima
molto più mite, si calcola (ma nessuno sa fornire dati precisi) che si raggiungano i 150-200 kWh/m2/anno.

122
Il processo di privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici locali ha un importante
riflesso sulle politiche energetico – ambientali. Già oggi nel Veneto 563.017 utenti sono serviti da
15 aziende per quanto riguarda il gas mentre la distribuzione dell’energia elettrica è assicurata da 2
aziende a 130.206 utenti: la tendenza la distribuzione del gas e dell’energia elettrica venga fornito
nel giro di un decennio da una azienda speciale di livello interregionale. Queste aziende pertanto
sono, e più saranno di fatto, i punti di riferimento, i “capisaldi delle politiche industriali” nel
territorio, in quanto, non essendo delocalizzabili, rappresentano per l’infrastruttura industriale per i
servizi di riferimento. L’incidenza che avranno sulle politiche energetico-ambientali sarà crescente
in quanto a livello locale-territoriale si potranno attuare (o meno) quelle linee di intervento che la
programmazione regionale (ma anche nazionale) intende perseguire. Il continuo contatto con
l’utenza, sia civile che industriale (cioè con settori che compongono la domanda), fa già da oggi di
loro “attori privilegiati” per il monitoraggio e la valutazione di azioni e interventi di
accompagnamento previsti nella programmazione regionale. Il settore, ad oltre dieci anni dall’avvio
del complesso disegno di riforma, sembra ormai presentare i numeri per potersi configurare come
une vera e propria industria. Esso rappresenta infatti il 4% del valore aggiunto dell’economia
italiana e incide per il 5% nella spesa complessiva delle famiglie.
Noi pensiamo che prioritariamente si debba esaltare la sfera pubblica delle decisioni, cioè
impedire che i cittadini vengano privati della possibilità di decidere e dibattere riguardo le loro
condizioni di vita. Crediamo che si possano mettere in campo degli strumenti perché i servizi siano
sotto il controllo pubblico e che quindi la strategia d’impresa venga messa a punto secondo le
indicazioni scaturite dall’espressione della volontà pubblica. Pensiamo infatti che il mercato non sia
assolutamente uno strumento efficace per distribuire, secondo criteri di giustizia, le possibilità di
ben-essere dei cittadini. Per questo proponiamo l’istituzione di una struttura regionale di garanzia
che possa intervenire per assicurare il governo degli enti locali e della regione sulla strategia
d’impresa delle multiutilities e perché perseguano politiche di sostenibilità ambientale ed energetica

123
mobilità e sviluppo
Per un Veneto policentrico
Il sistema della mobilità riveste un ruolo centrale in ogni società contemporanea: questo
dato è enfatizzato dalla progressiva globalizzazione dell'economia. Attorno al tema della mobilità
inoltre si intrecciano le questioni della salute e della sicurezza, dell'inquinamento, del consumo di
energia e delle emissioni di gas serra, della vivibilità delle città, degli assetti del territorio e delle
infrastrutture, degli impatti ambientali e del paesaggio. Diverse criticità ambientali derivano dal
sistema dei trasporti: la crescita della mobilità e in particolare del trasporto merci determinano e
influenzano i maggiori indicatori ambientali emissione di C02, emissione di inquinanti in
atmosfera (in particolare benzene e PM10), inquinamento acustico, l'impatto delle infrastrutture
fisse in termini di occupazione di suolo e frammentazione delle aree verdi.
E' importante sottolineare come il miglioramento tecnologico degli autoveicoli, con
conseguente diminuzione delle emissioni, è ampiamente compensato dall'aumento degli
autoveicoli in circolazione: si rivela quindi sbagliato fare affidamento, per un abbattimento delle
emissioni inquinanti totali, solamente sull'adeguamento tecnologico delle autovetture. A secondo
del tipo di trasporto considerato le infrastrutture fisse hanno caratteristiche e dimensioni
differenziate ma implicano comunque consumo di spazio (particolarmente rilevante nelle aree
urbanizzate) e impermeabilizzazione del territorio. Fra le diverse modalità di trasporto quella
su strada ha assunto in Italia una dimensione dominante. La pressione all'uso della strada è
costante e si abbina ad una pressione per la realizzazione di sempre nuove e più grandi
infrastrutture viarie che vengono ogni volta saturate nel giro di pochi anni. Il trasporto
individuale su strada è poi all'origine di tutti i problemi di permanente congestione all'interno delle
aree urbane e del loro conseguente degrado.
L'obiettivo strategico per i Verdi è quello di ridurre il consumo e la necessità di trasporto ma
contemporaneamente di migliorane la qualità e la fruibilità: oggi la movimentazione delle merci è
"gonfiata" favorita com'è da costi troppo bassi rispetto ai costi effettivi e dalla mancanza di reali
alternative. E' necessario perseguire modelli sociali e di produzione più sobri e sostenibili, una
più razionale pianificazione degli insediamenti, una innovazione nelle logistica, una incentivazione
dei mercati a scala locale.

Un Veneto in coda?
La “nebulosa insediativa” che caratterizza il Veneto si è costruita grazie ad un sistema di
mobilità centrata sull'automobile. La motorizzazione di massa ha favorito la diffusione insediativa,
la riallocazione delle aziende produttive, la costituzione di nuovi poli sul territorio lì dove mancava
ogni condizione urbana: dai centri commerciali, ai parchi tematici, dai centri direzionali ai centri
per lo sport e il divertimento: il continuo espandersi di questa nebulosa alimenta a sua volta la
mobilità privata in un circolo che è divenuto infernale. "La forte dispersione spaziale di un sistema
insediativi residenziale a bassa densità, e di un sistema produttivo molto frazionato sulla intera
pianura, in piccole concentrazioni o singole unità che integrano sul territorio i loro cicli produttivi
aumenta di molto la domanda di mobilità degli individui e delle imprese" recita il Documento
programmatico territoriale della Regio n e . A lcuni dati: nell'ultimo decennio i veicoli registrati
in Veneto sono aumentati del 35 - 40%, raggiungendo la media di 1 ,3 abitanti/veicolo; le stesse
percentuali d'aumento (+ 40%) si registrano nel traffico autostradale; l'utilizzo dei mezzi pubblici
si è ridotto di 1/3; l'85 % degli spostamenti intercomunali di persone avviene su strada e con
autoveicolo privato e sempre su strada viaggia l'85 % delle merci a lunga percorrenza (quelle a
breve percorrenza viaggiano esclusivamente su strada). Inoltre le previsioni, per i prossimi anni,
indicano tra il 3 ed il 5%, l'incremento annuale del traffico stradale: ciò aumenterà notevolmente il
livello di saturazione del sistema viario Veneto giunto ormai, in molti punti, al collasso. Tutta

124
l'area Veneta e del Nord-Est più in generale, infatti, con allargamento della Unione Europea ad
Est, sta subendo forti incrementi dei traffici, in particolare nel trasporto merci su strada.
La situazione nelle aree urbane è particolarmente critica: secondo uno studio di
Legambiente considerate le medie di Pm10 nelle nostre città, utilizzando i parametri OMS nei
capoluoghi veneti (Rovigo escluso) sono stimabili oltre 400 morti premature ogni anno
correlate al particolato atmosferico. Il policentrismo Veneto richiede interventi più leggeri di
ritessitura dei territori, di messa in sicurezza dell'esistente, di promozione dell’intermodalità e
arresto della crescita per diffusione. Nuovi criteri, che ribaltando la logica della grande
infrastruttura che sacrifica la vocazione dei luoghi, "cuciano" consensualmente le maglie di rete
esaltando il vero punto di forza del Veneto: il suo policentrismo, appunto. Per questo noi
pensiamo che la Regione debba, attraverso una nuova programmazione della mobilità e dei
trasporti, acquisire un ruolo autorevole, di collaborazione o di conflitto, nei confronti del
governo nazionale - contrapponendosi ad esempio alla sciagurata Legge Obiettivo - dell'Unione
Europea - negoziando le caratteristiche dei "Corridoi" - riprendendo in mano la
programmazione e quindi la capacità di selezione delle priorità a partire dalla definizione di
criteri certi in un comparto così strategico per la qualità della convivenza192 .

Criteri per uscire dal tunnel


Un modello sostenibile di mobilità è un obiettivo strategico dei Verdi, anche se, visti gli
inestricabili intrecci del sistema dei trasporti con il modello produttivo e di consumo
complessivo, è bene sottolineare come non si diano trasporti sostenibili all'interno di
un'economia globalmente insostenibile, è dunque evidente il fatto che una pianificazione
sostenibile dei trasporti e della mobilità non possa prescindere da un più generale contesto di
sostenibilità dello sviluppo sociale ed economico: le "isole" di sostenibilità in un mare di
insostenibilità possono svolgere un importante ruolo di sensibilizzazione e di disseminazione di
esperienza ma non possono però costituire un modello durevole di sostenibilità dello sviluppo.
Per poter affrontare adeguatamente un tema tanto complesso bisogna innanzitutto
distinguerne le varie componenti: è evidente che il trasporto delle persone e delle merci, in quanto
problematiche del tutto differenti, devono essere trattati in modo specifico. Fin da subito è
necessario aggredire i disagi causati dall’inquinamento da traffico ponendo come base la logica
strategica che si andrà attuando.
Il primo criterio al quale un modello sostenibile di mobilità deve ispirarsi è quello di
armonizzare le necessità di mobilità con la capacità dell’ambiente, riducendo il bisogno indotto di
mobilità senza comprimerne l'accessibilità ma rispettando la tutela dell’ambiente.
La quantità e la qualità della mobilità necessarie a soddisfare un determinato livello di
accessibilità e la qualità ambientale sono dunque le variabili su cui agire per una politica della
mobilità orientata in senso sostenibile. Si tratta, ovviamente, di un criterio strategico, da
implementare nel medio e lungo termine. Nel breve termine, sono comunque definibili alcuni
criteri generali di politica della mobilità che possono quanto meno invertire l'attuale tendenza ad
un modello sempre meno sostenibile e porre le basi per un intervento strategico finalizzato.
° dare concretezza e cogenza alla legislazione esistente. La legislazione relativa agli inquinanti,
sia atmosferici che fisici, è uno strumento estremamente efficace se utilizzato nell’ambito di un
Piano e può fin da subito porre le basi per una razionalizzazione del trasporto che va nella
direzione del “modello sostenibile”.
• efficienza nell'impiego delle risorse. La mobilità sostenibile tende ad un progressivo
affrancamento dall'impiego di risorse non rinnovabili.
• efficienza nell'impiego di superficie territoriale e di risorse ambientali. La mobilità sostenibile
deve assicurare il minimo consumo di suolo, e la massima tutela delle risorse territoriali ed
192
È il caso ad esempio della Regione Lombardia che pur con finalità per nulla sostenibili ha ottenuto un ruolo forte
(peraltro previsto per legge) nelle grandi opere che insistono nel suo territorio. Lanfranco Senn, Valutazione economica
delle politiche infrastrutturali: le “grandi opere”, Urbanistica Informazioni 196/2004

125
ambientali più significative e verificare che le nuove infrastrutture rispettino questo criterio.
• sicurezza. La mobilità sostenibile deve ridurre al minimo tecnicamente possibile il rischio per
gli utenti (coloro che si muovono) e per i non utenti (coloro che non si muovono).

Indirizzi strategici
Una strategia di sostenibilità per il settore della mobilità deve agire sulla domanda, e non
solo sull'offerta. Non è cioè possibile limitarsi a rilevare acriticamente la domanda di mobilità e
le sue tendenze, costruendo su tale base scenari di sviluppo infrastrutturale finalizzati a
conseguire un improbabile quanto costoso equilibrio fra offerta e domanda.
Occorre:
• migliorare l'efficienza dei diversi mezzi di trasporto;
• aumentare l'efficienza dell'impiego dei diversi modi di trasporto attraverso politiche di
gestione dell'offerta e della domanda (investimenti, norme d'uso delle infrastrutture,
politiche tariffarie e fiscali, ecc.)
• promuovere soluzioni ottimizzate che consentano di ridurre le distanze percorse per
ogni spostamento, a parità di spostamenti attraverso adeguate politiche di assetto territoriale e
di organizzazione delle attività economiche e sociali.

Alcune linee d'azione


Alcune linee d'azione coerenti con gli indirizzi strategici delineati possono essere così
sintetizzate:
• finalizzazione degli investimenti e della spesa pubblica nel settore ad obiettivi
verificabili e determinati sulla base di criteri di sostenibilità dello sviluppo territoriale ed
economico. esempio: la proposta, da noi condivisa, avanzata da Legambiente Veneto di
destinare almeno il 50% dei fondi destinati alle infrastrutture alla manutenzione e messa in
sicurezza delle strade;
• ottimizzazione dell'uso del capitale infrastrutturale esistente, mediante interventi di
gestione intelligente della circolazione, di orientamento della domanda, di traffic calming.
esempio: la proposta di revisione del pedaggio dell' A27 - calcolato non più sulla percorrenza
ma forfettariamente – per ottimizzarne l'uso attraendo la mobilità che oggi intasa la
Pontebbana e l'Alemagna.
• promozione dell'innovazione tecnologica, e della logistica, promozione di forme
innovative di offerta di servizi di trasporto (carpooling, car sharing, taxi collettivi, ecc.) e
progressiva rimozione dei vincoli amministrativi e normativi che ne ostacolano l'adozione.

Infrastrutture per il Veneto: dalle grandi opere alle buone opere


E’ mancata, nella nostra regione, una programmazione che misurasse e selezionasse gli
interventi sulla base di un'analisi dell'offerta e della domanda a partire dalla realtà economica,
demografica e territoriale nei diversi aspetti (qualitativo, quantitativo, economico) e sulla base di
scenari che ricostruissero i rapporti tra mobilità, infrastrutture e trasformazioni territoriali, sociali e
ambientali nel loro possibile evolversi nel tempo. Eppure gli strumenti per valutare gli interventi ci
sono, sono previsti dalla vigente normativa, se solo si volessero applicare: per ogni investimento
infrastrutturale vanno calcolati due indici sintetici d'aggregazione denominati VAN (valore
attuale netto) e SIR (saggio interno di rendimento). Il primo serve a comparare costi e benefici
(economici, sociali, ambientali) attualizzati e se il valore è negativo l'investimento non va
realizzato. Il secondo serve a verificare se esistono le condizioni per la sua fìnanziabilità.
Questi sono strumenti che hanno dei limiti (tasso d'attualizzazione e tempo
d'ammortamento) ma aiutano...
Le politiche dei trasporti nella nostra regione sono in realtà una elencazione di opere
infrastrutturali, in gran parte stradali o autostradali, ritenute indispensabili per affrontare il

126
problema. Il Piano Triennale dei Trasporti 2002-2004 indica come priorità il recupero di efficienza
del sistema infrastrutturale" che in realtà si traduce nell'elencazione di opere: la Valdastico sud,
Nuova Romea, Pedemontana autostradale, il Passante di Mestre (il passante "largo" e il tunnel
autostradale).
L’efficienza dei diversi governi regionali si è misurata dalla capacità di "cantierare"
comunque infrastrutture stradali. La realizzazione di nuove strade sembra l'unica opera
concreta che il governo pubblico deve fare per meritarsi i favori del sistema produttivo. La
mancanza di strade sembra l'unico handicap di un modello per il resto esemplare. Eppure
Giancarlo Corò sottolinea come "tra gli anni '80 e i primi '90 proprio l'area del Nordest sia
stata in Italia la più favorita dagli interventi complessivi in campo infrastrutturale" e che "il
Veneto presenta una dotazione di rete in rapporto alla superficie territoriale superiore di circa
il 30% al valore medio nazionale" 193.
L'analisi puntuale delle scelte infrastrutturali viarie operate per il Veneto basata con i
parametri di sostenibilità del sistema dei trasporti comporta una bocciatura senza appello delle
infrastrutture lineari progettate. Serve trasparenza nei costi e nei contributi statali delle opere
autostradali e delle nuove superstrade a pedaggio, per realizzare opere attraverso progetti
approfonditi e condivisi. Da Mestre alla Romea alle Pedemontana, serve ragionare dei
problemi e non delle soluzioni proposte dai concessionari, procedure trasparenti, qualità delle
opere necessarie al superamento dei problemi veri di congestione nelle aree.
In realtà occorre spostare l'attenzione dal lato dell'offerta, nuove strade, al lato della
domanda, un modello insediativo e produttivo che non produca domanda di mobilità. La
vecchia logica dell'infrastrutturazionc come adeguamento dell'offerta ad una domanda
indipendente, se non come stimolo alla domanda stessa, è intrinsecamente "insostenibile":
conduce all'offerta più o meno perversa dove l'offerta di infrastrutture genera la domanda che a
sua volta rende insufficiente l'offerta. Secondo la nostra ottica e assumendo obiettivi di
sostenibilità complessiva territoriale altre sono le priorità nel settore dei trasporti, legate ad
esempio all'aumento della sicurezza sulla rete stradale attraverso interventi che pongano
mano al degrado delle infrastrutture, ma anche risolvendo i problemi di intersezioni e incroci a
raso, i raggi di curvatura, con rotatorie o la decongestione e la riqualificazione delle aree
urbane attraverso il rilancio gli investimenti infrastrutturali per il trasporto pubblico
urbano realizzando tramvie e metropolitane di superficie nelle città e nelle aree metropolitane
venete, sperimentando nuove tecnologie e rinnovando il parco circolante.

La strategia dei corridoi e le nostre proposte


Nel nuovo scenario determinato dall'allargamento dell'U.E. a 25 e dal 2007 a 29, il Veneto
e il Nordest, occupano un posto strategico sulla carta geopolitica e geografica con affinità
elettive verso le relazioni con i paesi dell'est. Diventano pertanto ineludibili le scelte, di tipo
macro che riguardano il Corridoio adriatico e del Corridoio 5, perché dalle scelte operate
dipenderà la sostenibilità dello sviluppo nell'area centro orientale. L'obiettivo è quello di
proporre delle alternative alle infrastrutture prospettate (Alta Velocità e Autostrada Romea)
che comportino un minore impatto ambientale e si interconnettano maggiormente alle
esigenze dei territori che attraversano. Per quanto riguarda il corridoio 5 le scelte abbozzate
sulle caratteristiche del corridoio 5 appaiono inadeguate per l'obiettivo di trasferimento di
merci e persone dalla gomma alla rotaia. Inesistente, infatti, appare la logica di rete,
mancando nel progetto le connessioni con le infrastrutture puntuali di scambio modale (porti,
aeroporti, interporti, piattaforme logistiche) che rendono plausibile l'uso del termine sistema e
quindi la ragionevole certezza di un'efficienza perseguita con le nuove realizzazioni. Ulteriori

193
Giancarlo Coro, Morfologia economica e sociale del Nord est, in Ilvo Diamanti (a cura di) Idee del Nord Est: mappe,
rappresentazioni, progetti, Torino, 1998

127
motivi di critica delle modalità prescelte per la realizzazione corridoio 5 concernono il
consumo e l'impermeabilizzazione di nuovo territorio in aree fortemente antropizzate. La
necessità di ridurre il traffico automobilistico nelle nostre aree metropolitane e di diminuire i
pesanti costi ambientali e umani originati dal traffico merci su gomma sottolineano l’urgenza
del potenziamento della rete ferroviaria, soprattutto in prossimità dei grandi nodi urbani e
del trasporto marittimo. Secondo dati Italferr, l'80% della domanda ferroviaria attuale (il
dato è confermato anche nelle previsioni di incremento della domanda) riguarda itinerari di
breve-media percorrenza (50/80 km). E' in questa fascia di concentrazione della domanda reale,
che la ferrovia ha i maggiori margini di incremento per quanto riguarda il trasporto passeggeri, ed
è quindi in questa fascia che si deve garantire un esercizio efficiente della rete ferroviaria.
Per quanto riguarda il Corridoio adriatico, il Governo ha inserito nel primo elenco
delle opere strategiche della legge obiettivo (approvato il 21 Dicembre dal CIPE) l'Autostrada
Romea tra Ravenna e Venezia, e le Regioni Veneto e Emilia Romagna hanno sottoscritto a
Novembre 2001 un accordo per definire di comune accordo il tracciato. Un tracciato che ha
l'obiettivo di continuare verso Nord l'asse adriatico e l'E45, mettendo in connessione i porti di
Ravenna e Venezia ma ignorando l'interporto di Padova (strategico per la logistica merci), e
che si conclude sulla tangenziale di Mestre (già oggi notoriamente sovraccarica). Il progetto e
le tesi proposte non sono però credibili per diversi motivi ma soprattutto per l’assurdità di unire
due porti senza pensare di potenziare il trasporto marittimo. Il traffico pesante sulla Romea - una
delle più alte quote di traffico pesante d'Italia e in costante crescita in una delle strade con il più
alto tasso di incidenti e di morti in Italia - è determinato per una quota assolutamente
maggioritaria dai flussi dei Tir che percorrono l'asse gratuito Nord-Sud che attraverso la E45 e la
Romea risale l'Italia, e non dagli spostamenti tra i porti di Ravenna e Venezia. Flussi che con la
realizzazione dell'autostrada rimarrebbero sulla Romea. Strategico per ridisegnare la mobilità delle
merci sarebbe invece connettere i porti con Padova e l'interporto. La direttrice da rinforzare
del traffico di interesse nazionale non è quella parallela alla Romea ma invece quella tra
Ravenna a Ferrara, che metta in connessione la E.45 con l'A 3, dove occorre realizzare un
tracciato adeguato e a pedaggio per i traffici che oggi sono sulla statale 16, trafficata e che
passa per numerosi centri storici. La centralità degli spostamenti merci in questo modo viene
riportata sull'interporto di Padova snodo integrato strategico e lungo le direttrici sull'asse Torino-
Venezia, e verso Trieste e il Brennero. La condizione più importante e di prospettiva per la
mobilità è quella di realizzare interventi sulla rete ferroviaria e marittima in grado di creare una
reale alternativa per il trasporto delle merci, completando quella che viene chiamata la "Romea
ferroviaria", un asse Ravenna-Venezia, collegato con Padova (e l'interporto) e Bologna.

Alcuni elementi per un piano


• una nuova programmazione delle attività sul territorio mettendo sempre più in
relazione le politiche dei trasporti e una programmazione territoriale che superi la scala comunale
dei PRG e porti ad una programmazione di area vasta in modo da garantire
densificazione degli insediamenti e prevedendo la localizzazione di servizi logistici.
• sviluppo della metropolitana regionale
andrebbero realizzato il prolungamento della metropolitana regionale, attrezzando
tecnologicamente le linee ferroviarie esistenti: da Quarto d'Altino a Portogruaro; da Portogruaro a
Treviso; da Conegliano a Treviso, Castelfranco e Vicenza; da Vicenza a Senio; da Vicenza a
Padova; da Padova a Monselice e le linee ferroviarie dell'area Veronese; - collegamento della
Metropolitana con il "Marco Polo" di Venezia ed il "Catullo" di Verona; programmando nuove
linee integrate come la Padova - Piove di Sacco - Chioggia.
• logistica e intermodalità
a livello di scelte strategiche di tipo macro appare opportuno evidenziare la quasi totale assenza di
politiche regionali a supporto della realizzazione di un sistema di logistica fondata
sull'intermodalità e la logica Hub & Spoke (mozzo e raggi). Occorre progettare il trasporto come

128
mera sommatoria non coordinata di segmenti di modalità trasportistiche differenti ma come
una funzione strettamente integrata al sistema logistico. Siamo però consapevoli che due
potentissimi fattori ostano alla realizzazione di un sistema logistico e cioè l'elevata
polverizzzazione delle imprese e un gran limite culturale: occorre avviare il potenziamento e/o
costruzione di scali ferroviari "intermodali", nell'area Pedemontana Veneta e Friulana,
attrezzandoli come punti di raccolta e di interscambio fra Gomma e Ferro, per l'aggregazione
dei traffici in uscita (o in arrivo) dal sistema produttivo "diffuso", caratteristico di quest'area,
in modo da incentivare anche "organizzativamente" il trasferimento di quote crescenti di traffico
merci sul vettore ferroviario.
• autostrade del mare
la Regione può svolgere una funzione di pungolo per la progettazione delle cosiddette autostrade
del mare approvate dall'UE e incentivando l'utilizzo del trasporto cabotiero dai porti dell'alto
adriatico (VE-TS in particolare). Occorre rilanciare il trasporto merci attraverso l'Adriatico, per
levare traffico dalle strade e realizzare un vero sistema intermodale. L'Adriatico può diventare un
sistema efficiente di Porti grandi (Trieste, Venezia, Ravenna, Ancona, Brindisi) e minori (come
Chioggia, San Benedetto del Tronto, ecc.). Gli interventi di adeguamento dei porti, di collegamento
con la rete ferroviaria e stradale costano meno e sono più utili e efficaci per la mobilità. Servono
interventi infrastrutturali necessari a sviluppare la logistica commessa a tale modalità di trasporto:
interventi nelle aree portuali (quali aree terminal, spazi, collegamenti) per ridurre tempi di
manovra e di allaccio alla rete nazionale. Le potenzialità con la loro realizzazione, secondo alcune
ricerche, sarebbero, a livello nazionale, di 240mila Tir portati via dalle strade entro il 2004, 640mila
entro il 2010.
• potenziare la rete ferroviaria
con il raddoppio e il quadruplicamento dei binari lungo le direttrici principali perché questo è
ancora oggi il problema di tante tratte fondamentali a binario unico (sulla linee Adriatica, su tratte
fondamentali per il trasporto merci e passeggeri come la Verona-Bologna). L'adeguamento deve
partire dai valichi (Brennero), per rafforzare i corridoi fondamentali (Adriatico) a partire dalle
linee-esistenti, programmando e progettando per tempo le nuove linee attraverso un ampio
confronto con il territorio. Occorre una strategia per i nodi urbani, che punti a realizzare subito
le tratte di aggiramento dedicate alle merci, liberando quindi linee di ingresso alle città per i treni
regionali e metropolitani, per i porti di connessione diretta con la rete e di creazione di spazi di
manovra per le merci.
• mobilità nelle aree urbane
recuperare i problemi di inquinamento e congestione è possibile: realizzando tramvie e
metropolitane di superficie nelle città e nelle aree metropolitane venete, sperimentando nuove
tecnologie, rinnovando il parco circolante. A livello cosiddetto micro appare rilevante per le
ricadute sul benessere ambientale la realizzazione, almeno nei centri con un certo numero d'abitanti,
dei Centri di Distribuzione Urbana delle merci. Il progetto dovrebbe prevedere la concentrazione
delle merci nel CDU, il successivo smistamento verso la città ottimizzando i percorsi, riducendo i
viaggi con bassi tassi di riempimento ed utilizzando mezzi a basso impatto ambientale.

Una questione di metodo


Un giudizio decisamente negativo va espresso nei confronti dei metodi procedurali, assunti per
l'approvazione e valutazione delle infrastrutture. Il riferimento è alla legge 443/2001 che
consente una valutazione semplificata e sul progetto preliminare degli impatti determinati dalle
infrastrutture e il mancato recepimento della valutazione ambientale strategica. Servono regole
chiare, informazioni trasparenti per arrivare a progetti condivisi, studiati nelle ricadute sul
territorio. Su queste basi si crea il consenso sul territorio, la partecipazione dei Comuni all'iter,
dei cittadini. Recependo la Direttiva europea sulla Valutazione ambientale strategica per
programmi di spesa e opere strategiche e complesse con confronto tra alternative di tracciati e
soluzioni. Quest'ultima costituisce lo strumento, diversamente dal VIA, per " misurare " gli

129
impatti additivi o sinergici prodotti sul territorio e l'assicurazione della sostenibilità delle
trasformazioni, in un orizzonte temporale di medio lungo termine.

Erasmo Venosi

130
la terra dei fiumi
“Non c’è bisogno di personificare un fiume;
esso è letteralmente molto più vivo in quanto tale e,
come l’aria e la terra, è una creatura più potente ed essenziale
di qualsiasi essere vivente comparso sulla terra.
Il fiume è una di quelle rare, immense, rudi e riservate creature
grazie alle quali la nostra esistenza è diventata possibile”
James Agee Let Us Now Praise Famous Men (1939)

L’acqua dei filosofi e degli imperatori


L’acqua è un elemento assolutamente intrinseco a tutti i paesaggi, sia quelli reali che
occupano quotidianamente il nostro orizzonte visivo, sia quelli assai più pervasivi e silenziosi, che
vivono nella nostra percezione. Fin dal tempo più remoto, i fiumi hanno portato con sé l’idea di
circolazione nelle civiltà stanziali, ricchi di vita, incontri, paesaggi e anche di instabilità sino alla
disperazione della piena. Per difendersi da questa ciclica condanna i grandi Imperi del passato
allevarono una casta di idraulici che realizzarono grandi opere per rendere possibile la coabitazione,
fra uomini e fiumi, tuttavia non immaginarono in nessun caso di poter crescere e svilupparsi
fuggendo questo loro destino legato alle acque grazie a cui vivevano e pativano. Anzi, assunsero
appieno il valore simbolico di questa paradossale, necessaria, combattuta simbiosi, nelle
cosmogonie che disegnavano principio e fine dei loro mondi e giunsero persino a intravedere in
essa lo specchio dei ritmi vitali del corpo umano.
“A Tàlete, all’alba del VI secolo a.C., si deve la prima formulazione dell’esistenza di un
principio unico quale origine del tutto: l’acqua intesa come fonte o scaturigine delle cose, come
foce o termine ultimo delle cose; come flusso o sostanza permanente delle cose”194. Neppure i più
determinati domatori di acque inquiete, sumeri e romani prima, veneziani e olandesi poi, nonostante
il dispiegarsi di tecniche e mezzi via via più potenti, progettarono mai di ridurre al silenzio
l’universo liquido che circondandoli a volte li minacciava.
L’impresa disastrosa e miope è riuscita solo all’uomo moderno transitato dall’era pre a
quella post-industriale con il corredo di una ricchezza tecnologica che non ha bisogno di alcun
fondamento teosofico per giustificarsi: in poco più di un secolo, ogni acqua, è stata catturata e
incubata, privandola del principio naturale dell’instabilità per imporle quello irragionevole dello
sfruttamento. Dal Vajont a Soverato, da Narmada alla diga delle Tre Gole, oggi la storia dell’acqua
è storia di lotte, esodi, violenze, stragi e catastrofi, in nome di una sete e di una fame che,
nonostante tutto e anche per questo tutto, rischiano di restare la cifre negative anche del nuovo
millennio195.
La separazione fra il fiume e gli uomini introdotta dalla modernità con la scoperta
dell’energia idroelettrica196, è stata, nel Veneto ulteriormente confermata dal frutto sbagliato di una
giusta preoccupazione: tra il XIX e il XX secolo, lungo la fascia adriatica dal Po al Tagliamento, si
intraprese una titanica lotta per restituire terra alla terra, prosciugare paludi, regimare acque

194
Loredana Capuis, Acqua nel culto e culto dell’acqua nel Veneto preromano, in “Letture d’Acqua”, Editrice Cleup
s.c.a.r.l.., Padova 1994 (pag.(pag. 137)
195
Nel XX secolo, in Italia le vittime per catastrofi idrogeologiche nella quasi totalità provocate da interventi sbagliati
dell’uomo, sono state più di 10.000
196
Nel 1997, anno record, “la produzione nazionale di energia elettrica in Italia è stata di 251 miliardi di kWh. Di questi
187 miliardi di kWh sono stati prodotti dall’ENEL.

131
secondarie , sviluppare l’agricoltura. Lo si fece con una radicalità tale (non rintracciabile in nessun
altro Paese europeo impegnato in quegli anni nello stesso obiettivo) che, alla fine, ci siamo trovati a
governare il nostro futuro in un territorio in parte creato e totalmente garantito da un sistema di
governo delle acque completamente artificiale e ciò che allora costituì un impresa oggi incomincia a
mostrare limiti preoccupanti.

Dall’acqua libera all’acqua intubata


Paradossalmente, in questi ultimi anni, i segni d’acqua presenti nei nostri orizzonti
geografici, con cui quotidianamente anche se sempre più debolmente, noi dobbiamo interagire,
stanno addensando una problematica complessa di dimensione planetaria, un groviglio di questioni
che riaffiorano – soprattutto nei Paesi a sviluppo avanzato – dopo un lunghissimo silenzio, un’afasia
che ha caratterizzato la vita degli occidentali per quasi due secoli
Anche nel Veneto, intorno all’acqua numerosi interrogativi stanno prendendo forma e
consistenza: quasi tutti si possono riassumere nella parola d’ordine emergenza. Sono questioni che
si declinano nei gerghi dell’economia e della politica attraverso numerose analisi significative che
possono essere sintetizzate in un postulato: l’acqua presente nella regione non basta più alle attività
umane perché in parte è stata in modo irreversibile inquinata dalle stesse e diminuita nelle sue
riserve dalla ridotta capacità di assorbenza del territorio 197 e dalle escavazioni incontrollate lungo
alcuni fiumi, in particolare la Brenta e la Piave198
Ma l’elemento che ha resa esplosiva e per certi versi inedita questa emergenza, è
rintracciabile nella progressiva scomparsa, soprattutto nei Paesi più ricchi d’acqua – e il Veneto
primeggia fra le aree più ricche d’acqua d’Europa - della cura verso questo bene prezioso che, per
secoli, ha prodotto culture ricche di gesti e mestieri che, riconoscendone la preziosità e
l’imprendibilità, la gestivano come patrimonio da salvaguardare e da utilizzare nell’ambito di una
visione saggiamente utilitaristica, riducendone sprechi e rischi.
La mancata manutenzione delle reti idrauliche, maggiori e minori, è senza dubbio il frutto
diretto della frattura introdotta fra tradizione, identità e mestieri con lo sviluppo possibile, dal logo
dello sviluppo a tutti i costi, tuttavia la trasformazione dei suoli agrari con la cancellazione della
quasi totalità dell’idraulica minore di superficie è stata fortemente incentivata dagli incentivi della
U.E., negli anni settanta, per il sostegno dei sistemi di drenaggio sotterranei prevalentemente nei
suoli agrari della bonifica.
Negli ultimi anni, la stessa U.E. ha emanato disposizioni in materia che si propongono di
sostenere l’esatto opposto di quanto voluto negli anni settanta, cioè la ricostituzione del profilo
agrario tradizionale con il ripristino dell’idraulica minore di superficie.
Questo nuovo indirizzo trova alcune conferme programmatiche e degli strumenti operativi
rispettivamente nella Direttiva quadro della nuova Politica Agricola Comunitaria (P.A.C.) 199 e nei
piani locali per lo sviluppo delle reti ecologiche considerando che quest’ultimo strumento “ (…)
non è una corsa contro il tempo per difendere passivamente brandelli di territorio che s’immagina di
poter sottrarre ai processi evolutivi: al contrario, la rete è tutta dentro l’intreccio delle dinamiche
trasformative dei sistemi ambientale, insediativo e infrastrutturale ed andrà a costituire la struttura
di riferimento di tutti i processi pianificatori e del controllo razionale dell’evoluzione del
paesaggio”200

197
“Ad alimentare il sistema idrico sotterraneo del Veneto contribuiscono, come risulta da recenti indagini, le
precipitazioni dirette (20%), le pratiche irrigue (34%) e le dispersioni in alveo dei corsi d’acqua di superficie (46%)” da
Salvaguardia del patrimonio idrico sotterraneo del Veneto. Cause del depauperamento in atto e provvedimenti urgenti
da adottare, C.N.R.-Gruppo Nazionale per la difesa dalle catastrofi idrogeologiche, Venezia 2000
198
Maria De Fanis e Francesco Vallerani, Escavazioni in alveo e problemi ambientali: i casi del medio corso di Brenta
e Piave in “Veneto: un ambiente a rischio” , AGel Editrice, Padova 1999
199
Direttiva C.E. n. 1782 del 2003
200
Massimo Sargolini, Rete ecologica e pianificazione territoriale, in “Parchi”, n.39/03 (pag.76)

132
I sistemi artificiali: il caso della Piave
Il Veneto, come le altre regioni subalpine, è traversato verticalmente da alcuni grandi fiumi
alpini (Adige, Brenta, Piave, Tagliamento) che alimentano attraverso il materasso permeabile di
origine glaciale dell’alta pianura, decine di piccoli, medi e grandi fiumi di risorgiva, dando vita ad
un complesso sistema idraulico di acque di superficie e sotterranee, comunicante e dunque
interdipendente. Un capitale naturale, rinnovato periodicamente dai processi naturali che hanno i
loro epicentri nei bacini montani in cui si raccoglie, scorre e filtra una quantità enorme di acqua.
Un’antologia di fiumi, di laghi (fra cui il più grande d’Italia), di ghiacciai, di ampie zone vallive e
lagunari, elementi residui di un diffuso carattere palustre di molti territori e, infine, anche di un
sistema altrettanto diffuso di laghi su bacini artificiali che ne caratterizzano il paesaggio montano.
Ai benefici indiscutibili che lo sviluppo porta con sé, raramente si affiancano i dati e le
dimensioni dell’impoverimento radicale, del travolgimento che esso ha prodotto nell’ambito delle
risorse e degli equilibri naturali, in particolare per quanto riguarda l’acqua. Basti pensare ad
esempio, che la riduzione del freatico indifferenziato fra Brenta e Piave, causa le attività umane è
stato quantificato in un abbassamento di livello medio di “ 3-4 metri nell’alta conoide del Piave e di
oltre sette metri in quella del Brenta”201
E’ forte e diffusa la convinzione che comunque e in ogni caso l’applicazione di ulteriori
raffinate tecnologie potrà recuperare il danno al capitale naturale che pure, oramai, tutti considerano
significativamente compromesso. L’acqua è, da questo punto di vista, un elemento che riassume in
sé chiara e inequivocabile questa contraddizione della cultura politica veneta (e non solo), infatti
essa è invocata come bene da tutelare e tuttavia, nonostante l’insieme di norme gestionali 202, spesso
contradditorie e sempre insufficientemente applicate, che la Regione Veneta si è data, l’uso e i
consumi dell’acqua dolce sono ancora mal identificati e quantificati.

201
AA.VV. Salvaguardia del patrimonio idrico sotterraneo del Veneto. Cause del depauperamento in atto e
provvedimenti urgenti da adottare, C.N.R.-Gruppo Nazionale per la difesa dalle catastrofi idrogeologiche, Venezia
2000 (pag. 10 vol.1)
202
PIANO REGIONALE DI RISANAMENTO DELLE ACQUE (PRRA): è lo strumento di pianificazione della
Regione Veneto degli interventi di tutela delle acque, di differenziazione e ottimizzazione dei gradi di protezione del
territorio, di prevenzione dai rischi di inquinamento, di individuazione dei principali schemi fognari e depurativi.

PIANO DI TUTELA DELLE ACQUE: dovrà essere elaborato sulla base degli strumenti di programmazione
regionale in materia di acque quali: il PRRA, il “Piano direttore per il disinquinamento della Laguna di Venezia”, il
“Piano Direttore per il risanamento della parte a monte del bacino Fratta-Gorzone”, il “Modello strutturale degli
acquedotti”, Progetto integrato Fusina.
MODELLO STRUTTURALE DEGLI ACQUEDOTTI DEL VENETO: modello che contiene lo schema
acquedottistico. Approvato con la DGR n° 1688 del 16 giugno 2000, di recepimento della Legge 36/1994
SCHEMA ACQUEDOTTISTICO DEL VENETO CENTRALE: prevede opere di interconnessione delle strutture
acquedottistiche di quattro ambiti territoriali ottimali, finalizzate a garantire un sistema territoriale affidabile ed
efficiente di approvvigionamento idrico che possa avvalersi di fonti di qualità garantita..
PIANI D’AMBITO: sono predisposti dalle Autorità d’Ambito, serviranno per definire il nuovo assetto strutturale e
gestionale del Servizio Idrico Integrato. La Regione ha un ruolo di coordinamento e indirizzo dei compiti di
programmazione e pianificazione.
PIANI DI BACINO: rappresentano lo strumento operativo, normativo e di vincolo finalizzato a regolamentare le
azioni nel settore della difesa del suolo. Previsti dalla L. 183/1989, Norme per il riassetto organizzativo e funzionale per
la difesa del suolo. Anche la Direttiva 200/60/CE (non ancora recepita dall’Italia) che istituisce un quadro per l’azione
comunitaria in materia di acque prevede tali piani.
PIANO DI ASSETTO IDROGEOLOGICO: persegue l’obiettivo primario di garantire al territorio del bacino un
livello di sicurezza adeguato rispetto ai fenomeni di dissesto idraulico e geologico, con la finalità della salvaguardia
delle persone, della protezione degli abitati, delle infrastrutture, dei luoghi e ambienti di pregio paesaggistico, culturale
e ambientale interessati da fenomeni di dissesto, nonché della riqualificazione e tutela delle caratteristiche e delle risorse
del territorio.

133
Nella nostra regione, più del 90% dei fiumi e torrenti alpini sono pesantemente condizionati
da sistemi artificiali per la produzione idroelettrica e impoveriti dalle derivazioni ad uso agricolo.
Esemplare, in quest’ottica la vicenda della Piave 203, un fiume alpino che in un percorso
relativamente breve – 210 chilometri dalla sorgente alla foce – riassume in sé una serie di
caratteristiche altrimenti introvabili: il suo percorso, da nord a sud entro i confini dell’attuale
Veneto e dell’antica area orientale che s’affaccia sul golfo terminale dell’Adriatico, su di un asse
mediano fra il Po e il Tagliamento, ne hanno fatto la via più breve e praticabile fra la regione alpina
orientale e lo specchio del Mediterraneo; le qualità geomorfologiche del suo bacino rappresentano
una varietà notevolissima di ambienti di pregio distribuiti fra i boschi di alta montagna, i rilievi
collinari della pedemontana, l’alta pianura di ghiaie, la fascia delle risorgive e le aree umide
prelagunari; le antichissime frequentazioni dell’uomo lungo il suo corso e le pratiche millenarie
d’uso dell’acqua, dalla navigazione alla fluitazione, dallo sfruttamento della forza dinamica
dell’acqua alle diversioni per usi agricoli, hanno addensato storie e patrimoni monumentali lungo il
suo corso, quasi senza soluzione di continuità; la consistente portata di acque meteoriche del suo
bacino montano (in media 5.000 milioni di mc annui) e la naturale irrequietezza delle sue acque
hanno indotto le comunità a sperimentare, fin dal 15° secolo pratiche intensive e diffuse di
regolazione e contenimento del rischio idraulico.
La Piave, lungamente trafficata e fittamente abitata nelle sue aree di bacino, è oggi il fiume
del Nordest in cui più netta ed evidente è stata la cesura che, a cavallo fra il 19esimo e il 20esimo
secolo, ha radicalmente cambiato il rapporto fra uomo e acqua 204. Ciò è avvenuto, non solo per
l’evoluzione delle società rivierasche dalle attività quasi esclusivamente agricole a quelle
manifatturiere e industriali, ma per la concomitanza delle due imprese che più di altre connotano il
passaggio del Veneto alla modernità: la costruzione del polo industriale di Porto Marghera 205 e la
parallela azione di bonifica idraulica e agraria della bassa pianura fra Po e Isonzo.
La coincidenza della progettazione e sviluppo di queste due imprese, fra il 1920 e il 1950,
trasformarono il destino del fiume: da cordone ombelicale fra il nord alpino e il sud mediterraneo,
esso diventò fonte di energia idroelettrica e sistema idraulico finalizzato, in una parte consistente, al
consumo energetico dell’area industriale di Marghera e all’irrigazione della nuova agricoltura.
Questo sistema artificiale, tecnicamente perfetto, non prevede significative restituzioni al corso
naturale del fiume dell’acqua captata e solo recentemente si è incominciato ad applicare una politica
dei rilasci in alveo con l’obiettivo di raggiungere il cosiddetto minimo deflusso vitale e salvare la
vita biologica del fiume.
Il caso Piave riassume in sé in modo emblematico, non solo l’evolversi delle trasformazioni
in epoca moderna e contemporanea, nel rapporto fra acqua e modelli dello sviluppo nel Veneto, ma
certifica, attraverso l’insieme delle questioni ancora irrisolte che riguardano la sua sopravvivenza
anche l’assoluta mancanza di una politica regionale indirizzata, contemporaneamente, alla riduzione

203
Matteo Fiori, Renzo Franzin, Sergio Reolon, Il conflitto dell’acqua. Il caso Piave, Cierre Edizioni, Verona 2000
204
Alcuni dati rendono in maniera esemplare questo cambiamento: lungo il corso del fiume a tutt’oggi funzionano 30
impianti di produzione idroelettrica (ENEL) con più di 50 singole captazione degli affluenti in alta quota; 6 grandi
laghi artificiali creati con altrettante dighe o sbarramenti artificiali raccolgono circa 160 milioni di mc d’acqua e 11
serbatoi di modulazione hanno una capacità utile di altri 22-23 milioni di mc; il tutto è collegato da una fitta rete di
canali e tubazioni (quasi sempre all’interno delle montagne) di circa 200 chilometri. Quando nel 1957 la SADE
incominciò a costruire la Diga del Vajont questo sistema d’uso delle acque era pressoché completato, quel nuovo bacino
di 150 milioni di mc d’acqua, doveva raddoppiare la riserva di energia da mettere in campo a fronte di uno sviluppo
socio-economico che, proprio in quelli anni, impennava verso un trend vertiginoso. Il fallimento del progetto Vajont a
seguito della frana del 9 ottobre 1963, non pregiudicò la piena funzionalità di quanto era già stato costruito e, ancora
oggi, quel sistema produce da solo circa il 12% dell’energia idroelettrica nazionale. Ancora, parte consistente delle
acque del bacino del Piave, all’altezza del Fadalto, vengono dirottate verso il bacino della Livenza e, più in giù,
nell’area dell’alta pianura, si procede ad ulteriori prelievi e derivazioni, a sostegno dell’agricoltura.
205
Mario Coglitore, Alle origini di Porto Marghera: dalle paludi ai primi insediamenti industriali, in “Il Ponte” ,
Milano 2003 (pag. 99 n. 09/03)

134
del rischio idraulico, al ripristino delle condizioni naturali di parte dei corpi idraulici di superficie e
alla creazione di tutela del patrimonio delle acque sotterranee.
Il che fare?, ancorché riferito ad un riordino ed a una semplificazione della normativa
regionale sui tempi della pianificazione territoriale in relazione alla riduzione del rischio
idrogeologico, alla riqualificazione ambientale e alla tutela delle acque sotterranee e di superficie,
non potrà che partire dall’avviare un laboratorio sperimentale assumendo come elemento decisivo
l’obiettivo di salvare un fiume, per sperimentare tecniche d’intervento e politiche partecipative
puntuali, sul modello del percorso ipotizzato nel Forum del 22 marzo 2002 a San Donà di Piave,
con il documento “Una carta per la Piave. Costruire una nuova civiltà del fiume” 206.
Gli interventi tecnici possono, ovviamente, variare a seconda della casistica fluviale
esaminata, quello che deve comunque essere confermato come metodo imprescindibile per il
raggiungimento dell’obbiettivo è il processo partecipativo: “se si vuole che la concezione del fiume
come bene comune non resti solo un’affermazione astratta o idealistica, il suo governo deve essere il
risultato di un processo decisionale il più possibile orizzontale e condiviso, perché le procedure
istituzionalizzate di partecipazione alla conoscenza degli atti e dei documenti di piano –
osservazioni, deduzioni ecc. – sono insoddisfacenti da molti punti di vista, escludono chi non è
possesso delle competenze tecniche necessarie ad inserirsi nella procedura e sono inefficaci per il
superamento del conflitto e la costruzione di visioni condivise”207.

Il neolitico moderno: la bonifica idraulica e agraria


Un altro decisivo processo di ‘modernizzazione’ si accompagna a quello dell’industria
idroelettrica: è ad esso parallelo e, per certi versi, collegato, perché come il primo è il risultato di
un’idea di modernità fondata esclusivamente su obiettivi produttivistici: la bonifica idraulica di
vastissime aree umide, paludose o lagunari situate nel Veneto prevalentemente a ridosso della costa
adriatica, da destinarsi all’agricoltura
La questione assume connotati di rilievo dal XVI secolo quando i mercanti veneziani
investono nel territorio gli ingenti capitali frutto della loro espansione commerciale. e cominciano a
premere sul Governo della Repubblica per ottenere consistenti miglioramenti fondiari che risanino
i territori dalle paludi e dai residui di inondazioni fluviali periodiche. Sino alla fine dell’800’ (le
prime leggi organiche sulla bonifica sono del giovane Stato post-unitario) i tentativi diventano
sempre più corposi anche se limitati nei loro esiti dalle tecniche idrauliche di bonifica fondate quasi
esclusivamente sullo scolo naturale delle acque.
L’introduzione, prima del motore a vapore, poi di quelli a combustile, infine l’abbinamento
idrovora e motore elettrico, forniranno le tecnologie adeguate per imponenti bonifiche. Il quadro
legislativo è costituito da un’insieme di norme che dalla Legge Beccarini sino a quella Serpieri-
Mussolini, consentiranno l’obiettivo ambizioso del regime fascista di redimere le terre incerte,
sconfiggere la malaria, innalzare la produttività agricola, riorganizzare con un nuovo ordine
sociale la campagna e le aree palustri e lagunari.
La bonifica è, durante il suo ripetuto trasformarsi, una lotta inesausta per far emergere
dall’universo anfibio preesistente, il profilo della terra, il suo valore salvifico, l’approdo stabile a
cui ancorare gli ideali di redenzione dalla miseria. L’acqua è nemica di questa epifania perché
instabile, insidiosa, inadatta a stabilire primati, sconosciuta ai più che vivono in terre alte e città,
tuttavia né oscura, né minacciosa, né inospitale per chi abita i palù o i prai umidi, nel vastissimo
confine incerto fra acqua e terra che, sino all’inizio del ventesimo secolo, caratterizza molte aree
della nostra regione.
La bonifica cambia per sempre questo mondo, non un mondo spopolato come si immagina, anzi. Lo
cambia così radicalmente che non resterà nulla o quasi nulla di quanto esisteva prima sopra di esso,
206
Una carta per la Piave è rintracciabile e scaricabile nel sito del Centro Civiltà dell’Acqua
(http://www.provincia.venezia.it/cica/)
207
ibidem

135
di quanto con esso - comunità di uomini e contesti ambientali - viveva da millenni 208. Nelle fasi
attraverso cui la bonifica si realizza non è casuale che quella idraulica sia indispensabile a
introdurre quella agraria che finisce, sulla tabula rasa ottenuta dai prosciugamenti, per rimescolare
tutte le relazioni, da quelle sociali a quelle culturali, da quelle economiche a quelle politiche,
assegnando i nuovi terreni, riorganizzando e ridistribuendo ruoli e lavoro: l’unica autentica, grande
rivoluzione dell’Italia moderna.
Il paesaggio planiziale subisce un totale ribaltamento e nella scenografia che ne risulta
s’insediano potentissimi, non i segni dell’uomo che sono già ampiamente presenti anche in tutti gli
ambienti umidi, ma gli esiti geometrici di un pensiero razionale che introduce visibilmente i criteri
di sicurezza, ordine e produttività nella nuova geografia poderale. L’acqua ne esce definitivamente
ridimensionata: ora può scorrere solo in canali diritti come fusi, ingoiata dalle idrovore viene
disarmata della sua pericolosità, è utilizzata per uomini, animali e campi. Quel lento e inarrestabile
disperdersi dentro le reti artificiali in cui l’uomo l’ha costretta, sembra definitivamente cancellarla
dalla quotidianità, ridurla a pura merce che serve il coltivo. E’ il trionfo della Diesel e della terra
distesa, coltivata sino all’ultima zolla, spianata, sminuzzata, concimata, costretta entro un reticolo di
stradoni lunghi e diritti, solcata da una miriade di canali di scolo dalle rive brulle.
Tuttavia questa icona della redenzione è oggi aggredita dall’urbanizzazione
incontrollata: “le ville che erano state le centralità del paesaggio veneto del passato ora sono state
sostituite dal capannone, la nuova centralità che conta”209. In realtà il fenomeno
dell’urbanizzazione diffusa, variamente classificato dai pianificatori (mosaico di paesaggi, sistema
urbano, rete di città, città sparpagliata, città diffusa ecc.), oltre a consumare territorio in modo
disordinato e con effetti di impoverimento del profilo paesaggistico, compie la definitiva
cancellazione delle relazioni funzionali ed estetiche fra le forme dell’abitare e del produrre e
l’acqua, al punto da rendere fragile persino il potentissimo sistema artificiale di difesa delle terre di
bonifica su cui oggi si “scaricano” letteralmente buona parte delle conseguenze di una gestione
sbagliata delle acque di aree urbane e urbanizzate situate a monte delle bonifiche.
Se a questo si aggiunge che, per effetto dei provvedimenti europei, in vigore dal 2006,
vi sarà una riconversione significativa delle risorse finora destinate al sostegno attivo delle
produzioni agricole su scala estensiva (mais, soia, barbabietola ecc.), il punto debole dell’intero
territorio veneto torneranno ad essere proprio quelle aree agricole, fra l’alta pianura e la costa, già
soggette ad una radicale trasformazione meno di ottant’anni fa. Qui, infatti, è di tutta evidenza il
danno ambientale che l’espansione incontrollata di aree urbane, artigianali, industriali, lo sviluppo
puntiforme di insediamenti produttivi, isolati e fragili, ha prodotto in questi ultimi due decenni, sul
pur limitato corredo ambientale rintracciabile. In questi luoghi, significativamente modificati
dall’azione antropica degli agricoltori per più di cinquant’anni – dalla prima fase della bonifica sino
agli anni ottanta - con effetti di recupero di parte dei profili agrari attraverso le piantate, la
ricostituzione delle siepi di fosso e dei piccoli boschi tutori delle economie aziendali del legno, si è
(re)imposta una semplificazione del territorio che lo espone agli esiti più radicali delle alluvioni,
dell’inquinamento diffuso, delle variazioni climatiche e dell’impoverimento colturale.
Non vi è dubbio alcuno che l’azione principale da attivare in questa parte della pianura è
una riconsiderazione complessiva della qualità di produzione agricola, puntando decisamente a
208
Oggi la bonifica veneta è affidata a 20 Consorzi che regolano le acque di 1.072.585 ha di territorio e di questi ben
330.000 attraverso l’uso di 297 impianti idrovori con 115.926 cavalli di potenza installata. Completano il sistema 4.425
Km di argini artificiali, 16.172 Km di canali artificiali controllati da 11.533 manufatti idraulici e l’intero comparto da
lavoro a più di 1.000 addetti.
209
Eugenio Turri, La megalopoli padana, Marsilio Edizioni, Venezia 2000

136
ripristinare l’insieme dei sottosistemi idraulici minori (collettori, fossi, capezzagne, scoline ecc.)
come condizione essenziale per la tenuta idraulica e un reinvestimento sulle produzioni agricole di
nicchia e su una qualificazione ambientale come valore aggiunto del prodotto locale.
Più in generale, nelle zone caratterizzate da complessi nodi idraulici, da sistemi artificiali di
regimazione delle acque, la revisione necessaria riguarda un nuovo rapporto che deve stabilirsi fra
riduzione accettabile del rischio idraulico e la rinaturalizzazione di molti dei corsi superficiali,
considerando che quest’ultima azione richiede investimenti mirati e offre non solo una diversa
qualità del paesaggio e della cenosi fluviale, ma concrete possibilità di introdurre nuove ed efficaci
pratiche finalizzate al disinquinamento (bacini di fitodepurazione), alla gestione morbida delle
emergenze idrauliche (espansione delle aree di pertinenza fluviale) ad una programmazione
intelligente degli usi agricoli (riutilizzo delle ex-cave come depositi d’acqua).

Il ciclo idrico integrato e la gestione dell’acqua


La tanto discussa Legge Galli 210, dispone che la gestione del servizio idrico debba avvenire a
livello integrato, cioè debba abbracciare l’intero ciclo dell’acqua: sostanzialmente, gli indirizzi della
Legge Galli impongono la gestione dell’acqua “ad usi plurimi”dalla captazione, attraverso
l’adduzione, la potabilizzazione per immissione in rete, lo smaltimento e la depurazione delle acque
reflue, al fine di eliminare la preesistente situazione di frammentazione dei compiti e delle funzioni
in materia, in capo a numerosi enti territoriali e di gestione. Per farlo individua l’Ambito
Territoriale Ottimale (A.T.O.) come gestore unificante le politiche di tutela quali-quantitativa del
bene acqua, i piani di adeguamento delle strutture (impianti di captazione, potabilizzazione e
distribuzione) e quindi gli adeguamenti tariffari, individua i gestori del segmento destinato agli usi
civili e sviluppa attività di controllo sui medesimi..
Nel Veneto, per circa 4.500.000 utenti, sono previsti n. 8 AA.T.O. 211 individuati sulla scorta
di alcuni criteri che riferiscono all’unità del bacino idrografico, al superamento della
frammentazione delle gestioni e al conseguimento di adeguate dimensioni di scala per gestire il
servizio.
Di fatto, la Legge Galli e le conseguenti leggi regionali individuano una separazione netta fra
attività di indirizzo e controllo (AA.T.O.) e le attività di gestione (aziende singole o associate). La
realizzazione dell’intero impianto legislativo e i conseguenti assetti gestionali, si prevedono
concretizzabili in un periodo transitorio “di salvaguardia” della durata di 4 anni. La riforma è calata
su una situazione tutt’altro che semplice: nel Paese, prima del 1994, gli enti gestori dell’acqua erano
circa 13.000 da riorganizzarsi entro i 91 AA.T.O. previsti.
L’impianto legislativo ancorché porre in modo inequivocabile la proprietà pubblica delle
acque e i principi della tutela del bene proiettati su scale adeguate, mantiene un’area di debolezza in
uno dei punti cruciali del settore: quello della verifica politica e dunque della partecipazione diretta
dell’utenza sulle politiche dell’acqua. E’ pur vero che, attraverso il proprio Piano d’Ambito 212 ogni
A.T.O. può sviluppare tutte le azioni ritenute necessarie a rafforzare e dilatare l’area della
partecipazione delegata o diretta alle politiche dell’acqua, tuttavia le dinamiche industriali
imboccate da quasi tutti gli enti di gestione in larghissima parte ancora a totale capitale pubblico
(aggregazioni societarie, riorganizzazioni funzionali, allargamento dello spettro di iniziativa
aziendale ad altre gestioni come rifiuti, gas ecc.), vanno in direzione opposta ai vincoli del controllo
partecipato.

210
Legge 5 gennaio 1994 n. 36
211
l.r. n.5 del 1998
212
E’ il programma degli interventi necessari ad assicurare una gestione efficiente, efficace ed economica delle risorse
idriche con proiezioni di previsione di 20-30 anni

137
La situazione è ulteriormente complicata da scadenze afferenti il tema della gestione dell’acqua
provenienti da direttive europee, parzialmente attenuate dai successivi provvedimenti nelle
Finanziarie del Governo nazionale, che prevedono come sbocco la collocazione sul mercato delle
aziende di gestione o delle loro aggregazioni con un netto indirizzo a far rientrare l’acqua nella sfera
delle merci a gestione privata.
Nel groviglio delle disposizioni regionali, nazionali ed europee, il nodo largamente irrisolto
riguarda la mancata individuazione di adeguati strumenti e spazi che favoriscano il processo
partecipativo alla gestione dell’acqua, considerando che quest’ottica è l’unica realmente efficace,
non solo per ottimizzare il servizio, ma soprattutto per sottrarre l’acqua alle leggi del mercato e
realizzare la mission essenziale del settore, quella che si sintetizza nella definizione dell’acqua
come bene patrimoniale pubblico destinato ad usi solidali.
E’ necessario fissare in questa fase di trasformazione nella gestione dell’acqua, alcuni
obbiettivi essenziali ad uno sviluppo accettabile della modernizzazione: da un lato, utilizzare i Piani
d’Ambito degli AA.T.O. per allargare e rafforzare i principi di pubblicità, tutela e controllo degli
usi dell’acqua in relazione al principio che essa è da considerarsi bene patrimoniale e non merce;
dall’altro, imporre alle singole aziende scelte che favoriscano lo scorporo del servizio idrico
integrato dalle politiche aziendali con cui vengono gestiti altri comparti, assegnando a questo
settore il valore prevalente di servizio pubblico controllato attraverso forme di partecipazione
adeguate.

Acque, frontiera per (ri)pensare gli equilibri con la natura e approdare a nuove forme
di democrazia
La semplificazione del mondo è presente fin dentro le mura domestiche. L’acqua della
quotidianità ci viene distribuita dalla macchina-rubinetto e questa è l’immagine e la sintesi
percettiva attraverso cui la conoscono la maggior parte delle persone nel mondo sviluppato.
Non solo sono scomparsi i tradizionali mestieri legati all’acqua e non solo per effetto dei
cambiamenti tecnologici della modernità e della post-modernità, ma è mutato profondamente il
rapporto con lo stesso elemento anche per effetto della inesorabile riduzione di tutto quello che i
miti delle origini e la sacralità degli usi aveva depositato nella sua aurea, l’acqua viene declassata a
risorsa, quindi affidata ai numeri anziché ai sensi, è sinonimo di instabilità e rischio e dunque
consegnata agli ingegneri, ridotta a mera merce di consumo e di conseguenza commercializzata. E
qui s’inserisce l’altra fase, quella più recente della nostra storia, per cui l’acqua diventa oro, denaro
sonante, affare su scala planetaria, risorsa appunto da inserire nel mercato e, naturalmente, qui si
aprono contraddizioni notevoli con le culture che, invece, per tradizione e necessità, non possono
permettersi questa evoluzione. Va da sé che, comunque, una riconquista della percezione originaria
dell’acqua, delle forme di civiltà, dei saperi e delle pratiche che intorno ad essa si sono coagulate ed
esaltate non può che partire dalla considerazione che questo bene non può diventare mero oggetto di
mercato e, in modo altrettanto netto, che è necessario ripensare, fin dal gesto quotidiano, la nostra
contiguità con l’acqua, perché essa, se ben accettata e interpretata, ci aiuta a riconciliarci con la
Natura.
E’ insieme un processo di riconquista della relazione diretta con l’acqua e le sue forme,
esigendo nel governo del territorio la riproposizione di quelle buone pratiche che possono restituirci
un orizzonte accettabile nella sua qualità globale e, dunque, politica; ed è anche questione tutt’altro
che irrilevante per la modernizzazione della democrazia considerato che la tutela dei beni naturali
essenziali coincide con i diritti della collettività e si realizza nella possibilità concreta di partecipare
a definirne gli usi più equilibrati.
In proposito, facendo propria un’affermazione di alcuni specialisti 213 sulla regionalizzazione
dell’acqua in Inghilterra – “la sistemazione delle acque è un processo più politico che tecnico” –
Bernard Barraque, ingegnere, ricercatore e responsabile francese del progetto Eurowater , scrive: “
213
Denis Parker e Edmund Roswell (1980)

138
Al di là del dibattito degli specialisti sulla privatizzazione, si scoprono numerose implicazioni
associate alla trasformazione delle politiche pubbliche dell’acqua: ma la più fondamentale non è
forse quella della modernizzazione della democrazia?214”.

Renzo Franzin

214
Bernard Barraqué, Le politiche dell’Acqua in Europa, De Angeli Editore, Milano 1999 (pag. 305)

139
parchi:
quando l’utopia può farsi concreta
Il ruolo possibile dei parchi
“Nel superare la sbornia delle magnifiche sorti progressive di uno sviluppo insostenibile, di
consumo e di conurbazione, nel pieno di una ingovernata ed oligarchica competitività globale,
lentamente ci si accorge che il vero valore aggiunto, non delocalizzabile di un territorio consiste
proprio nelle sue peculiarità e diversità bioculturali, nelle produzioni tradizionali, in contesti
relazionali esclusivi: beni tutti da conservare a da valorizzare non solo come credibili potenzialità di
nuova economia ma anche quali garanzie di qualità ed equità, attuali e future, del vivere questi
luoghi per le comunità locali”215. E’ il presidente del Parco delle Dolomiti Bellunesi, Valter Bonan,
ad affermare questo, e queste parole si arricchiscono di significato proprio perché in filigrana vi si
legge l’esperienza positiva di un Parco che rappresenta uno straordinario magnete di sviluppo locale
per tutta l’area delle dolomiti bellunesi216.
Da tempo il sistema dei parchi si propone di armonizzare le azioni a tutela della risorsa
ambiente con le attese, i bisogni, le capacità e le potenzialità delle varie realtà territoriali, con il più
largo concorso di tutti i soggetti interessati. Si tratta di mettere in atto una nuova prospettiva di
collaborazione e cooperazione che sia in grado di garantire sia un'azione efficace per la
conservazione delle risorse naturali e il miglioramento delle condizioni ambientali, sia la
partecipazione delle comunità coinvolte, rafforzando il ruolo dei poteri locali in stretta
concertazione interistituzionale con quelli di area vasta. Il parco rappresenta una straordinaria
opportunità di sperimentare un nuovo rapporto tra società e natura, tra cultura e cicli naturali, tra
storia tradizioni e modernità: “quello che è certo è che gran parte dei parchi italiani si è avviata
lungo un sentiero di riconciliazione tra attività umane e salvaguardia ambientale, tra innovazione
tecnologica, e recupero delle tradizioni locali…nessuna posizione nostalgica o passatista ma
nemmeno esaltazione pura e semplice del progresso e dell’economia come fine dell’agire
sociale”217.
I parchi possono quindi rappresentare degli strumenti di sviluppo locale in particolare nelle
aree - pensiamo alle zone montane o al Polesine - non ancora devastate dal modello della città
diffusa del Veneto centrale e alla ricerca di modelli non periferici ma originali di sviluppo.
Contrariamente a quanto predicato da molti le aree periferiche dello sviluppo non hanno bisogno di
più mercato e più modernizzazione, ma di una strategia di valorizzazione delle specificità locali e li
parco può rappresentare lo strumento utile non solo per una tutela della biodiversità ambientale ma
per favorire sentieri di auto sostenibilità.

Una strategia regionale

215
Valter Bonan, estratto dall’intervento al Convegno “Alpi, ritorno al futuro” (Torino, 20 febbraio 2004) in
www.parks.it
216
da sottolineare l’iniziativa, dopo il recupero delle malghe d’alta quota e l’uso delle energie rinnovabili, quello della
"carta qualità": un documento nel quale vengono inseriti, e quindi segnalati a turisti e residenti, le attività di servizio e le
produzioni più strettamente legate al "sistema parco" e che rendono l'area un territorio unico al mondo. Si tratta di
un'iniziativa di "marketing territoriale", intesa a promuovere il territorio del parco nel suo complesso, costituito da
animali, fiori, montagne e paesaggi, ma anche da strutture turistiche di qualità per accogliere i visitatori, da prodotti
agricoli tipici, da produzioni artigianali tradizionali. Purtroppo la furia devastatrice della “casa delle libertà” ha portato
alla estromissione del Presidente Valter Bonan, mettendo così a rischio le tante azioni portate avanti dal Parco, in favore
di un Presidente di sicura fede governativa.
217
Tonino Perna, Aspromonte, Torino, 2002

140
E’ possibile pensare ad una strategia regionale per la promozione dei parchi e delle aree protette
a partire da due assunti generali fondamentali:
 definitivo superamento delle concezioni “insulari” delle aree protette, in favore di una vera
e propria “territorializzazione” delle politiche che le riguardano, basata sul riconoscimento
che esse fanno parte inscindibile di più vasti sistemi ecologici, economici, sociali e culturali;
 pieno riconoscimento della inseparabilità dei problemi ambientali a tutti i livelli da quelli
sociali ed economici, e quindi delle politiche di conservazione da quelle volte a promuovere
lo sviluppo sostenibile.
La Regione dovrà farsi promotore di una politica di sostegno ai parchi e alle aree protette.
L’obiettivo a medio termine è quello di rafforzare il sistema regionale delle aree protette mediante
l’individuazione di specifici obiettivi gestionali per la tutela e la valorizzazione, con una maggiore
integrazione tra le politiche di settore, con una più efficiente destinazione e utilizzo delle risorse per
gli investimenti, con la realizzazione di interventi integrati di sistema.
Pensiamo alla elaborazione di un programma regionale pluriennale per le aree protette, fondato
sugli indispensabili obiettivi di conservazione della biodiversità, di tutela del paesaggio, di difesa
del suolo e integrato con i programmi di sviluppo e valorizzazione. Il programma regionale
dovrebbe contenere i seguenti obiettivi prioritari:
o consistente aumento di superficie delle aree protette
o la specifica previsione di un ruolo per i territori protetti all'interno delle misure
previste per l'impiego dei fondi strutturali e in particolare il rafforzamento delle
misure di sostegno ai sistemi agricoli che contribuiscono alla qualità della tutela
territoriale ed alla valorizzazione delle produzioni tipiche,
o la costruzione di una Rete Ecologica Regionale, concepita come grande
infrastrutturazione ambientale della Regione, che abbia le aree protette come punti
nodali e di eccellenza e che sia parte della Rete Europea "Natura 2000";
o contribuire, per il territorio di pertinenza regionale, alla realizzazione di interventi
organici e di sistema per gli ambiti geografici (Alpi, bacino del Pò, coste…) che,
utilizzando le aree protette come elementi di sperimentazione e di irradiazione,
favoriscano la creazione della Rete Ecologica e sostengano lo sviluppo durevole
delle comunità umane insediate nei Comuni delle aree protette;
o il sostegno a programmi di sviluppo locale che, prevedendo criteri di priorità per gli
interventi nelle Aree Protette, siano indirizzati al mantenimento della presenza
dell'uomo ed al miglioramento della qualità della vita delle comunità presenti
insieme alle attività tradizionali, alle culture e alle identità territoriali;
Proponiamo l’istituzione, sull’esempio della Regione Lazio, di un'agenzia espressamente
dedicata alle aree protette, una struttura dedita a elaborare e dirigere programmi strategici poi
declinati in progetti specifici per lo sviluppo sostenibile a tutto campo da realizzare nei parchi e
nelle riserve, adattati alle singole realtà locali: dalla formazione professionale all'agricoltura
biologica, dal censimento del patrimonio abitativo inutilizzato per affittarlo ai turisti alla
realizzazione dello sportello unico per cittadini e imprese presenti nelle aree protette.

Reti oltre il parco


Nella prospettiva che si sta cercando di delineare, è chiaro che “le sfide della qualità” non
riguardano tanto o soltanto le condizioni ambientali interne ai parchi, ma quel che i parchi possono
fare per migliorare la qualità complessiva dei territori in cui sono ospitati. E’ questa qualità
complessiva - che deriva da un complesso di fattori interagenti “naturali” e “culturali”, economici e
sociali - che determina non solo le condizioni di vivibilità delle popolazioni ivi insediate, ma anche
le possibilità di attivare processi di autentica “valorizzazione” territoriale e quindi di sviluppo
durevole e sostenibile. Si profila quindi un’interazione che assume evidenza particolarmente alla
scala locale, ove i parchi possono concorrere in misura notevole all’arricchimento del patrimonio

141
naturale-culturale su cui si basa la qualità del territorio e, inversamente, la qualità complessiva del
territorio può influenzare positivamente le condizioni ambientali ed il futuro dei parchi.
Diventa in questo senso chiaro che la rete ecologica regionale, in questa prospettiva, non può
in alcun modo ridursi ad una rete di parchi e di aree protette, anche se parchi ed aree protette
possono costituire nodi strategici per la costruzione del sistema. Un sistema orientato a “produrre
qualità” ambientale sull’intero territorio deve poter mettere in rete una molteplicità di risorse che
soltanto in parte possono ricondursi alla concezione ed alle pratiche istituzionali delle aree protette:
guardando ad una esperienza relativamente vicina ai nostri territori, il Progetto APE ha mostrato ad
esempio l’importanza delle imponenti fasce biopermeabili snodate lungo la catena appenninica
(praterie primarie e secondarie, formazioni forestali e aree desertiche di varia natura) ai fini del
mantenimento della continuità longitudinale del sistema, e l’importanza del reticolo idrografico ai
fini della ricostituzione delle connessioni trasversali. E’ in questa visione sistemica più ampia ed
articolata su tutto il territorio che deve essere affrontato anche il tema dell’integrazione dei siti
d’interesse comunitario. E’ importante inoltre che la rete da costruire non si limiti a svolgere una
funzione meramente biologica ma debba assumere un significato più complesso.
La piena considerazione della diversità paesistica, l’attenzione per la ricchezza e la
diffusione del patrimonio culturale e delle reti storiche di relazioni, la consapevolezza della densità
delle soggiacenti dinamiche economiche, sociali e culturali che plasmano il territorio, hanno da
tempo indotto, non solo nel nostro paese, a parlare di sistemi di connessioni “bio-culturali”, di una
vera e propria “infrastruttura ambientale”: una infrastruttura di base, che, anteponendosi a quelle
correntemente frequentate (come le infrastrutture dei trasporti o dell’energia) tenda ad assicurare su
tutto il territorio le condizioni di uno sviluppo ambientalmente sostenibile.

I parchi come laboratori


I parchi hanno in realtà un potenziale ben più ampio di quello attualmente preso in
considerazione, in quanto luoghi di eccellenza nella sperimentazione di politiche di sostenibilità sul
territorio, laboratori dove è possibile dimostrare la praticabilità di tali politiche, partendo da settori
cruciali come il turismo sostenibile (vedi politiche del turismo →). I parchi possono porsi come
centri di eccellenza anche riguardo il grande tema dei mutamenti climatici, forse il più urgente,
caratterizzandosi come aree ad “emissione zero” di CO2, con obiettivi ben più ambiziosi di quelli
previsti dalle politiche nazionali. L’area protetta deve essere parte, oltre che a livello locale e
territoriale, di una battaglia sulla sostenibilità a livello globale, con un ruolo esplicito di
protagonismo, attraverso la promozione di politiche di elevata efficienza energetica (dall’edilizia
alla gestione dei servizi, dall’agricoltura alla mobilità) e promuovendo l’utilizzo delle fonti
rinnovabili. La visita ad un’area protetta può essere rivolta sia alla conoscenza del patrimonio
naturale, sia delle esperienze avanzate di politiche di sostenibilità sul territorio: la tutela e la
valorizzazione delle aree naturali protette passano attraverso uno sviluppo sostenibile integrando le
politiche ambientali con le diverse politiche di settore, dal turismo all’architettura fino
all’agricoltura. Un fattore di sostenibilità può essere rappresentato dall’innovazione tecnologica: è
necessario arrivare ad una sintesi tra tutela ed innovazione, che potrebbe voler dire la riscoperta di
materiali tradizionali con alte capacità energetiche e ambientali, oltre alla possibilità di utilizzare
tecnologie avanzate: è dunque necessario investire fortemente nella conoscenza, nella formazione e
nell’innovazione tecnologica intelligenze, che, non va dimenticato, rappresentano importanti
energie rinnovabili.

Un parco in città
Quello dei parchi periurbani e delle aree protette connesse ai sistemi delle aree urbane, la cui
identità e gestione ha assunto in questi anni un particolare interesse segnatamente nelle realtà dei
sistemi di aree protette regionali. Le dinamiche di aggregazione/disaggregazione dei contesti urbani
ed il continuo evolversi delle città dal modello della gestione centralizzata alla cosiddetta "città

142
diffusa", hanno fatto si che l'influsso delle conurbazioni interessassero anche territori a particolare
valenza ambientale, senza dimenticare tante realtà ambientali interne alle città stesse, che nel tempo
hanno acquisito maggiore significato e ruolo nelle politiche territoriali metropolitane (vedi effetti
metropolitani ←). Se i parchi sono momento di ripensamento della pianificazione locale e di area
vasta ecco che nelle aree urbane gli approcci di gestione sostenibile, possono fornire un grande
contributo anche innescando ricerche ed azioni per l'individuazione di nuovi strumento di
salvaguardia territoriale, ponendo lo strumento parco a confronto con temi e territori di particolare
complessità. La convezione europea del Paesaggio ha sancito che anche le aree urbane, degradate o
deframmentate da una crescita disordinata costruiscono valori sui quali operare. La generale azione
di riqualificazione che ha interessato tanti contesti urbani nazionali come l'estendersi di strumenti
locali di recupero come le misure Urban o i PRUSST, conferiscono ormai ai contesti metropolitani
il peso di vere aree di ricucitura del territorio.

Aree naturali protette di interesse locale


Nel Veneto sono presenti parchi e riserve d’interesse locale. Oggi questa tipo di area protetta
è ancora in attesa di una corretta soluzione e allocazione nonostante quanto stabilito dalla legge (art.
27 della L.R. n° 40/1984). E’ importante che in questi interstizi prevalentemente naturalistici operi
più attivamente e incisivamente anche l’ente locale singolo o associato. Prendiamo lo spunto
dall’esperienza di un’altra regione: in Toscana la legge del 1995 prevede la istituzione accanto ai
parchi nazionali, regionali e provinciali delle ‘Aree naturali protette di interesse locale’ (ANPIL) .
In base alla legge regionale toscana Comuni e Comunità montane esercitano le funzioni relative alla
gestione delle ANPIL, anche in forma associata, direttamente o attraverso la costituzione di aziende
speciali o istituzioni in applicazione della legge 142 del 1990. La individuazione dell’area di
interesse locale, la sua delimitazione compete dunque ai comuni i quali provvedono entro sei mesi,
in base alle previsioni del Programma, ad adeguare i propri strumenti urbanistici ed i propri
regolamenti. Questa norma stabilisce in sostanza che l’area protetta locale in coerenza e conformità
allo spirito della legge quadro è soggetta ad un regime ‘speciale’ a cui deve uniformarsi l’attività del
comune. E’ un punto assai importante perché conferma che le ANPIL sono inserite a tutti gli effetti
nel ‘sistema’ regionale delle aree protette mantenendo appunto quei caratteri di ‘specialità’ che sono
propri delle aree protette. Una specialità che si ritrova anche nelle forme di gestione previste le
quali sono affidate, qualora interessino più comuni, a organi di ‘cooperazione’ sul modello, almeno
come filosofia, dell’ente parco. Il tutto volto a assicurare da un lato lo ‘scopo’ dell’area protetta
locale, ossia a giustificarne la istituzione e dall’altro lato a garantire che la sua gestione si inserisca
nella ‘logica di sistema’.

Il nulla che c’è


Forse è proprio nel campo dei parchi e delle aree protette che si rende evidente l’arretratezza
culturale e il nulla politico in campo ambientale della classe dirigente veneta. 17 sono i parchi
regionali previsti dal Piano territoriale regionale di coordinamento (PTRC), entrato in vigore alla
fine del 1992, massimo strumento di pianificazione che dovrebbe costituire il quadro di riferimento
di tutte le azioni sul territorio veneto. Ad oggi i parchi regionali sono 5 per un totale di 56074 ha.
Non solo non è mai stata promulgata una legge quadro che faccia seguito alla legge quadro
nazionale del 1991 (sic!), ma l’azione politica della Regione si è contraddistinta per un tentativo di
svuotamento delle potenzialità di sviluppo dei Parchi e delle aree protette. Gli esempi non mancano:
ricordiamo la clamorosa vicenda del Parco del Delta del Po’ dove la strenua, quanto miope,
opposizione della Regione Veneto ha impedito la realizzazione, nei nostri territori, del Parco
nazionale, previsto dalla Legge nazionale 394/91, con il risultato di avere oggi un simulacro di
Parco regionale totalmente svuotato di qualsiasi progettualità 218, o l’azione di boicottaggio puntuale
ed esasperante volta a “tagliare le gambe” a qualsiasi possibilità di sviluppo del Parco dei Colli
218
vedi l’interessante sito degli Amici del Parco del Delta www.xoomer.virgilio.it/faroccat/index.html

143
Euganei219, o al via libera, con il famigerato Piano cave, all’escavazioni che minacciano, malgrado
l’area sia soggetta a Parco regionale, le sorgenti del Sile.. Esili inoltre i finanziamenti – lo 0,3% del
bilancio regionale – insufficienti anche per pagamento del personale 220. Ridare fiato ad una politica
regionale vuol dire molte cose: innanzitutto una legge regionale che recepisca le “novità” della
legge nazionale del ’91 e la nuova cultura dei parchi che nel frattempo si è affermata. Ma anche
l’istituzione di nuovi parchi può concretamente dare il segnale di una inversione di tendenza.

(ri) cominciamo da tre (per ora…)


La nostra richiesta è quella dell’applicazione delle previsioni del PTRC che prevedeva
appunto l’istituzione dei parchi delle Valli di Gares e San Lucano, del Monte Baldo, del Pasubio e
di Bosco del Consiglio, di Monte Pelmo, Monte Civetta, Marmolada - Ombretta, Monte Luppia –
San Vigilio, medio corso del Brenta, ambito fluviale del Mincio, Laguna di Venezia, Valle Vecchia
di Caorle, Antelao - Marmarole - Sorapiis. Presentiamo tre casi di particolare evidenza, e che
riguardano differenti tipologie di ecosistemi - costa, montagna e fiume - dove è tempo che si
proceda con urgenza all’istituzione del Parco come strumento di tutela e diverso sviluppo.
Il Parco del Consiglio
Il Cansiglio, altopiano carsico delle Prealpi Carniche, si presenta come una sorta di
piattaforma concava, dominante la pianura veneto-friulana e divisa tra le province di Treviso,
Belluno e Pordenone. Il territorio, caratterizzato da un sistema di competenze molto complesso,
presenta un patrimonio silvo-pastorale di oltre 7.000 ha., attualmente amministrato dall’Azienda di
Stato per le Foreste Demaniali, da Veneto Agricoltura e dall’Azienda dei Parchi e delle Foreste
regionali del Friuli. Oggi la Foresta del Cansiglio, che un tempo era chiamata anche “Bosco
d’Alpago”, si trova di fronte alla necessità di misure di salvaguardia complesse e delicate, non più
procrastinabili. Attualmente in Cansiglio sono già presenti sette Riserve Naturali, di queste quattro
ricadono nel territorio della Regione Veneto e le restanti in quello della regione Friuli – Venezia
Giulia : nonostante si tratti di forme di tutela di grande valore, queste non sono tuttavia sufficienti a
garantire la salvaguardia dell’intero ecosistema - Cansiglio.
L'ipotesi più realistica è quella della istituzione di un Parco Interregionale come proposto
dal Comitato per il Parco del Consiglio 221. Un Parco che consolidi le norme di tutela esistenti;
salvaguardi il patrimonio naturalistico, storico e paesaggistico ed incentivi lo sviluppo socio-
economico, valorizzando la vocazione di questo territorio all'educazione ambientale, alla
selvicoltura e all'agricoltura sostenibili. Un Parco che si formi in due fasi distinte: la prima fase con
l'Istituzione di un nucleo iniziale che comprenda la totalità del territorio demaniale veneto e friulano
(6.500 ha circa); una seconda fase con l'integrazione dei territori dei Comuni da raggiungere
attraverso un processo di verifica e di collaborazione tra Parco ed Enti locali. Un Parco e che sia
gestito da un Ente autonomo unico a guida regionale, che superi l'attuale frammentazione
amministrativa, che preveda la partecipazione degli Enti locali (Comuni e Comunità Montane), e
delle Istituzioni Universitarie. Un Parco che assuma la funzione di asse della connettività con i
Parchi vicini: Dolomiti Friulane, Parco delle Dolomiti Bellunesi, Dolomiti d’Ampezzo. La Regione
contrappone a questa proposta l’istituzione di una Riserva gestita da Veneto Agricoltura, ma, come
sottolinea giustamente il Comitato per il Parco, la proposta di legge per la Riserva, non tutela
affatto il Cansiglio, ma solo una parte di esso, per altro già tutelata dalla esistenza di alcune
importanti Riserve Naturali.
Il Parco della Laguna
219
all’interno del Parco dei Colli Euganei accanto al Parco japelliano della seicentesca Villa Selvatico classificata dal
piano ambientale dei Colli come “intorno di emergenza architettonica”, l’Amministrazione Comunale di Battaglia ha
deciso di farci passare una strada (con l’approvazione della Regione) per servire una nuova lottizzazione che sorgerà al
centro delle Valli Selvatiche una delle poche aree incontaminate. Una storia che sarebbe da collocare negli anni ’60 del
boom economico ma che per il Veneto del declino e della devastazione territoriale è storia di oggi.
220
vedi Parchi, finanziamenti in “riserva”, in il Sole 24 Ore Nord Est 12/3/2004
221
vedi www.cansiglio.it

144
La laguna di Venezia è uno degli ecosistemi costieri più estesi, 60.000 ettari di superficie,
d'Europa e dell'intero bacino Mediterraneo, con un immenso patrimonio biologico, faunistico e
floristico ed alcune specie di animali e di vegetali rare o minacciate d'estinzione. La laguna
racchiude, oltre alla città di Venezia, varie isole con importanti testimonianze storiche ed artistiche
di una civiltà irripetibile. Venezia con la sua laguna è infatti protetta dall’UNESCO come
patrimonio culturale dell’intera umanità e a tutti sono note le inestimabili ricchezze d’arte, di storia
e di cultura che essa custodisce e che ne giustificano la salvaguardia e gli interventi indirizzati verso
la conservazione. La città storica è inscindibilmente legata alla sua laguna: la cultura e tradizioni dei
suoi abitanti, l’architettura dei suoi monumenti, il tessuto urbano ed edilizio ricamato sull’acqua,
sono stati forgiati e hanno preso forma dal paesaggio e dall’ambiente lagunare, che le fanno non
solo da meravigliosa cornice, ma conferiscono alla città di Venezia un significato che in un contesto
diverso non sarebbe dato di cogliere. Il bacino lagunare pur presentando, specie sulla fascia di
gronda, insediamenti urbani, una marcata infrastrutturazione (aeroporto, ponte stradale e ferroviario
translagunare, porto marittimo) e l’ampia area industriale di Porto Marghera, tuttavia riserva ancora
un notevole spazio all’habitat naturale che ne fanno una delle zone umide naturali (wetland) più
importanti del nostro paese e del bacino Mediterraneo. Ma l’eccezionalità va al di la delle presenze
faunistiche, se pensiamo che sotto il profilo vegetazionale e di altri contingenti faunistici la laguna
di Venezia rappresenta un fondamentale elemento di cerniera e connessione ecologica tra le aree
costiere naturali dell’Alto Adriatico, alcuni biotopi dell’entroterra e le aste fluviali che sfociano
subito a Sud e Nord e sono interconnesse anche idraulicamente al bacino lagunare (Piave, Sile,
Dese, Bacchiglione, Brenta).
Il Comune di Venezia, nel 1985, riunì una Commissione tecnico-scientifica
multidisciplinare per individuare in uno studio preliminare le caratteristiche dell’ambiente e la
proposta di tutela complessiva dell’area lagunare. Si è così arrivati alla presentazione di una
proposta di Parco Naturale, che comprenda tutto il bacino lagunare incluso nella conterminazione
lagunare, nonché la stessa città di Venezia e di Chioggia, le isole lagunari e i litorali racchiusi tra le
foci del Sile e del Brenta e che necessariamente preveda una zonizzazione degli ambiti lagunari, sia
per differenziarne gli usi, rendere compatibili le attività economiche esistenti e non congelare il
territorio, consentendo quindi le attività necessarie alla vita della città, sia per proteggere gli habitat
più pregiati e più significativi di barena, delle valli da pesca, della laguna viva, dei litorali e delle
aree di gronda.
Tale proposta è stata inserita in strumenti di pianificazione territoriale della Regione Veneto ed in
particolare nel Piano Territoriale Regionale di Coordinamento (PTRC) che all’art. 33 individua la
laguna di Venezia come Parco di interesse regionale. Tale proposta è stata ripresa anche nel
PALAV, piano di tutela paesistica della laguna veneta ai sensi della Legge ”Galasso” 431/85 , oggi
raccordata nel Testo Unico sui Beni Culturali (D.lgs. 490/99)
Il Parco della Brenta
Il Parco del Medio Brenta è previsto dal PTRC e la sua istituzione è oggetto di numerose
proposte di legge regionale. Il territorio che gravita intorno ad un fiume intreccia con esso un
rapporto vitale, il cui disequilibrio, come quello verificatosi in questi anni, si ripercuote sulla qualità
della vita di tutti. Il Brenta, o la Brenta, come usa dire da sempre la cultura locale, ha legato per
secoli le sue sorti a quelle delle popolazioni rivierasche, in una simbiosi per lungo tempo
armoniosa, improvvisamente alterata dall'impatto con uno sviluppo economico che ha troppo
preteso, non tenendo conto degli equilibri del fiume e del territorio ad esso circostante. Le
escavazioni selvagge, gli inquinamenti industriali, ne hanno infatti profondamente stravolto la
fisionomia. Il territorio della Brenta è fortemente antropizzato e denso di attività spesso altamente
inquinanti. L'escavazione ha prodotto danni anche all'agricoltura, diretti o indiretti: l'abbassamento
dell'alveo ha prosciugato prese d'acqua dei canali di irrigazione e dei pozzi. Metalli tossici
avvelenano le acque del fiume, provenienti dalle numerose attività industriali, altamente inquinanti,
presenti sul territorio e, ad aggravare l'inquinamento, si aggiungono gli scarichi fognari dei centri

145
urbani. Accanto a tutto questo, notevoli sono ancora gli esempi storico-architettonici di pregio, le
interessanti testimonianze di archeologia industriale, aree paesisticamente ancora intatte e, negli
spazi dissestati abbandonati dagli escavatori, una "rivincita" spontanea della natura, dove il bosco
tende a recuperare lo spazio perduto e i voli dei martin pescatori testimoniano questa ripresa di
possesso. Tra le province di Vicenza e di Padova, vi sono segni di un rinnovato interesse per la
salvaguardia di un territorio che è tutt'uno con l'ambito fluviale e la sua storia. Tutto ciò evidenzia
una sempre maggiore consapevolezza della necessità di una tutela coordinata e organica del
territorio.

Alcune proposte per invertire la tendenza


1) attuazione delle previsioni del PTRC per l’istituzione di 17 parchi regionali
2) la predisposizione di un Programma regionale pluriennale per le aree protette, fondato sugli
indispensabili obiettivi di conservazione della biodiversità, di tutela del paesaggio, di difesa del
suolo e integrato con i programmi di sviluppo e valorizzazione.
3) la specifica previsione di un ruolo per i territori protetti all'interno delle misure previste per
l'impiego dei fondi strutturali e in particolare il rafforzamento delle misure di sostegno ai sistemi
agricoli che contribuiscono alla qualità della tutela territoriale ed alla valorizzazione delle
produzioni tipiche,
4) la costruzione di una Rete Ecologica Regionale, concepita come grande infrastrutturazione
ambientale della Regione, che abbia le aree protette come punti nodali e di eccellenza e che sia
parte della Rete Europea "Natura 2000";
5) il sostegno a programmi di sviluppo locale che, prevedendo criteri di priorità per gli interventi
nelle Aree Protette, siano indirizzati al mantenimento della presenza dell'uomo ed al miglioramento
della qualità della vita delle comunità presenti insieme alle attività tradizionali, alle culture e alle
identità territoriali;
6) l’istituzione della Agenzia regionale dei Parchi e delle aree protette come organo operativo per
l’elaborazione di programmi strategici utili allo sviluppo dei parchi
7) la redazione di una legge quadro sui parchi e le aree protette

146
difesa della fauna e della biodiversità
Pianificare la tutela
L’asse portante per una politica in difesa della biodiversità e della fauna è l’opzione
pianificatoria. Ossia, l’opzione per la quale le scelte in campo faunistico-venatorio s’inscrivono
all’interno di una più vasta gestione agro/silvo/pastorale, attraverso ad esempio l’attuazione delle
normative sull’agricoltura biologica e integrata, sulla tutela della biodiversità e sulla prevenzione del
dissesto idrogeologico. E’ evidente infatti che gestire l’attività venatoria così come previsto dalle
vigenti normative (L.157/92, L.R.50/93 e D. 409/79/CEE) significa in primo luogo gestire il
territorio, in quanto habitat delle specie oggetto di prelievo venatorio. La gestione dell’attività
venatoria, fino a quando non si riuscirà ad ottenerne la definitiva abolizione, è uno degli obiettivi
che gli enti pubblici dovrebbero perseguire considerando gli importanti principi normativi relativi
alla tutela della fauna selvatica. La prima questione da porre è quella della caccia conservativa; si
deve affermare il principio (e la pratica) della sostenibilità ambientale del prelievo venatorio;
gestione conservativa significa porsi seriamente il problema della conservazione delle specie
(oggetto di prelievo e non) e della promozione degli habitat. La caccia di selezione (intesa come
caccia con metodi selettivi, a soggetti individuabili secondo classi di sesso/età, assegnati secondo un
piano di prelievo commisurato alla struttura ed alle caratteristiche quantitative di ciascuna
popolazione gestita) rappresenta un modello di gestione delle risorse faunistiche pressoché inattuato
in tutto il Veneto con alcune rare eccezioni. Sullo sfondo di questo scenario sta la possibilità di
registrare finalmente un’armonizzazione tra i diversi attori istituzionali (ATC, Parchi, riserve
naturali, aree contigue ecc...). Per questo i miglioramenti ambientali dovranno riguardare la maggior
quota dei bilanci degli ATC e dovranno essere coordinati, in modo strategico con tutta la politica
regionale (e provinciale) della promozione degli habitat, della agricoltura sostenibile, dei corridoi
ecologici, dei SIC (direttiva Habitat), delle ZPS direttiva uccelli, misure previste dai Fondi
Strutturali Europei ecc...
Occorre implementare sempre di più e meglio la tutela della fauna migratoria con misure di forti
restrizioni all’attività venatoria, modificando in modo più coraggioso le strategie di ripopolamento
di quella stanziale in vista di una completa riproducibilità della fauna stanziale allo stato naturale,
facendo diventare le Zone di Ripopolamento e Cattura delle vere e proprie aree di gestione e tutela,
limitando infine l’estensione di molti Ambiti Territoriali di Caccia - come quelli vicentini - al fine di
rendere più cogente il legame cacciatore-territorio
E’ fondamentale infatti che ogni cacciatore sia legato al proprio territorio: ognuno dove
gestire il patrimonio di fauna a disposizione promuovendo così la responsabilizzazione dei
cacciatori. Occorre respingere i tentativi di riproporre il ‘nomadismo venatorio’ per gli uccelli
migratori (come sta accadendo attualmente in consiglio regionale con alcuni PPDDLL del
centrodestra), specie particolarmente delicate e già fortemente in pericolo: vorrebbe dire ritornare a
insostenibili concentrazioni di cacciatori nelle zone di passaggio dei migratori - in particolare la
Laguna di Venezia, il Delta del Po, la Laguna di Caorle, ecosistemi delicati che non potranno
sopportare tale l’impatto - senza più alcun freno. Inoltre i Parchi nazionali e le altre aree protette,
derivanti dalla Legge 386/91, rappresentano, considerate le motivazioni di istituzione ed il ruolo
attuale e potenziale svolto a favore della fauna selvatica, importanti siti di riproduzione, sosta ed
irradiamento delle specie selvatiche,per questo si ritiene che in queste aree la caccia debba essere
sempre vietata. Tale divieto dovrà essere esteso a tutte le aree sottoposte a particolari regimi di
tutela: siano essi parchi e riserve naturali; oasi e zone di protezione; foreste demaniali dove è inibito
l’esercizio venatorio; aree contigue a parchi e riserve; zone S.I.C. (siti di interesse comunitario);
Z.P.S. (zone di protezione speciale); corridoi ecologici e zone di protezione dell’avifauna migratoria
in prossimità dei valichi montani al fine di raggiungere la maggio percentuale possibile di territorio
vietato alla caccia.

147
Una delle più concrete possibilità di espansione geografica e di incremento numerico per la
fauna deriva dal mantenimento e dalla ricostituzione dei sistemi ambientali tipici. L’incentivazione
dell’agricoltura biologica, delle colture a perdere per la fauna e dei miglioramenti ambientali,
dovrebbero essere un obiettivo prevalente nei Piani di Sviluppo finanziati con i fondi comunitari e
nell’impiego delle risorse economiche di Regioni, Province ed A.T.C.. A questo riguardo si
sottolinea l’importanza di ricercare una strategia di utilizzo coordinato e congiunto dei fondi a
disposizione (p.e. Programmi agro-ambientali CEE e fondi a disposizione di A.T.C. e Province) sul
modello già sperimentato da altri Paesi europei (p.e. con il set-aside faunistico). L’azione deve
essere finalizzata ad uno preciso obiettivo: la conservazione degli ambienti tipici e della locale fauna
selvatica.

La caccia nel Veneto


Oggi il Veneto, con 55.000 cacciatori, è una regione dove la lobby venatoria riesce ad
influenzare ancora troppo fortemente le scelte politiche in tema di tutela della fauna selvatica. La
prova viene dalla semplice constatazione che oggi il Veneto è la regione d’Europa che ammette il
maggior numero di specie di animali cacciabili per legge, sette dei quali addirittura considerate
protette dalle direttive Europee. Giunta Regionale e Consiglio Regionale negli ultimi dieci anni
hanno legiferato solo in un’unica direzione, quella della liberalizzazione dell’attività venatoria con i
conseguenti gravissimi danni per tutta la fauna selvatica. La caccia però non va vista solo sotto il
profilo del danno alla fauna selvatica bensì per i danni che crea all’ambiente ed all’ecosistema, per
l’inquinamento, per il pericolo di incidenti di caccia, per gli abusi commessi nei confronti di privati,
agricoltori, colture agricole, animali allevati e animali d’affezione.

La caccia alle specie rare


L’attuale legge regionale sulla caccia, la L.R. 50/93 e i calendari emanati dalla Giunta
Regionale in base a tale legge, prevedono la caccia a specie selvatiche rare, o con popolazioni in
grave declino, o presenti nel territorio Veneto in quantità limitatissime. La caccia a queste specie
viene poi consentita in quantità esorbitanti rispetto alla reale consistenza delle popolazioni di queste
specie.. Il Calendario Venatorio della regione Veneto, approvato con DGRV 1780 del 18/06/04
prevede la caccia alle specie di anatre Canapiglia e Codone. Da alcuni monitoraggi effettuati
dall’INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica di Ozzano Emilia - Bologna) risultano
svernanti circa 3.000/4.000 esemplari di questi uccelli nella laguna di Venezia. Il calendario
regionale prevede pero’ che ogni cacciatore puo’ abbatterne 50 capi all’anno! In Laguna esercitano
la caccia circa 6.000 cacciatori, ovvero questi possono abbattere un totale di 300.000 uccelli di
queste specie. Vengono previsti quindi limiti di carniere fasulli, ovvero è come se in autostrada
venisse messo il limite dei 300 chilometri orari. In laguna di Venezia è stato censito l’ultimo
soggetto di Frullino svernante nel 1999. Sembra comunque che il Frullino, a parere degli stessi
cacciatori, transiti nella nostra regione in poche decine di migliaia. Sempre secondo il calendario
venatorio regionale di quest’anno i 6000 cacciatori veneziani possono cacciare un massimo di 500
capi anno di uccelli migratori. Ciò significa che in teoria possono abbattere un limite di 3.000.000
di Frullini l’anno! Lepre bianca, Pernice bianca, fagiano di monte, Coturnice sono specie di uccelli
presenti nelle nostre montagne in qualche centinaio di soggetti, ovvero sono specie a rischio di
estinzione: malgrado questo il Calendario Venatorio del Veneto li prevede come cacciabili.
In provincia di Belluno, per fornire un esempio, nel piano di abbattimento della stagione
2004/2005 troviamo i seguenti piani di abbattimento: 176 Lepri bianche, 80 Pernici bianche, 74
Fagiani di monte (detti anche Forcelli) e 60 Coturnici. Questi numeri sono stati determinati dalla
provincia di Belluno in base a dei censimenti che hanno coinvolto anche i cacciatori delle varie
riserve alpine. Dare l’incarico di effettuare i censimenti della fauna pregiata ai cacciatori in base ai
quali verrà determinato in percentuale il numero dei soggetti abbattibili è come dare l’incarico di
Ministro delle Finanze ad un evasore fiscale: sicuramente promulgherà un condono (vi ricorda

148
qualcosa?)!. Questi censimenti rasentano addirittura il ridicolo: per la Lepre bianca il numero di
soggetti censiti dal piano provinciale in ogni riserva è sempre un multiplo di 10, sembra che a
Belluno la Lepre bianca sappia contare e abbia delle particolari doti matematiche perché vivrebbe,
secondo la provincia, solo in gruppi di 10, 20, 30, 40 o 50 soggetti per ogni riserva alpina! Questo
piano di abbattimento viola pure la legge che prevede che l’esercizio venatorio sia consentito
purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica.
Si cacciano queste specie rare e a rischio nonostante un’annata decisamente sfavorevole per
il processo riproduttivo che ha portato la vicina provincia di Trento a proteggere sia la Pernice
bianca che la Coturnice in modo assoluto e severissimo. Se la provincia di Belluno continuerà di
questo passo (va ricordato che la stessa situazione riguarda le province di Treviso e Vicenza) queste
rare creature rischieranno l’estinzione come sta accadendo per il Francolino di monte che dopo anni
di massacri venatori è quasi estinto tanto da indurre lo stato italiano a cancellarlo dalle specie
cacciabili. La caccia è il fattore principale di declino di queste specie e nessun cacciatore potrà dare
la colpa del loro costante calo ai pesticidi, infatti negli habitat di questi animali non si coltiva nessun
prodotto agricolo e i pesticidi non vengono utilizzati.

Un calendario venatorio su misura


Le norme emanate dalla Regione Veneto contrastano con i criteri riconosciuti in questo
campo e con le esigenze di salvaguardia del patrimonio faunistico. Il calendario venatorio annuale,
infatti, contiene numerosi disposizioni tecniche che contrastano gravemente con i principi di tutela
della fauna selvatica sanciti dalla legge statale e dalle direttive comunitarie in materia (L.157/92 e
Direttiva “uccelli” la 409/79/CEE). Il Calendario Venatorio del Veneto per la stagione 2004/2005 -
approvato con Delibera della Giunta Regione Veneto n.1780 del 18/06/04 - ha incontrato le critiche
dell’INFS (Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica) che si è espresso negativamente per la pre -
apertura della caccia al Merlo nella pianura perché in questo ambiente questa specie è più
vulnerabile222 e sulla caccia vagante nel mese di gennaio. Questo tipo di caccia infatti costituisce un
grave disturbo della fauna selvatica, specie protette comprese, perché le poche ore di luce a
disposizione, con un clima invernale e terreni spesso ghiacciati, sono appena sufficienti per
ricercare il cibo necessario per non morire.
L’INFS inoltre ha espresso parere negativo per le giornate di caccia aggiuntive a ottobre e
novembre, ovvero alle 5 giornate agli uccelli migratori anziché tre giornate come prevede la legge
nazionale. Il calendario venatorio promulgato dalla Regione da modo ai cacciatori di cacciare quasi
ogni giorno senza nessuna pausa per i già strematissimi uccelli migratori in che svernano o
transitano nella nostra regione. L’INFS infine ha espresso parere negativo al ripopolamento con le
quaglie Coturnix Japonica, ovvero le quaglie giapponesi, perché queste si ibridano con le quaglie
selvatiche danneggiandole geneticamente. Questo è un altro aspetto della dannosità della caccia al
patrimonio faunistico della nostra regione.

La caccia in deroga: una norma truffaldina


Per caccia in deroga si intende la concessione di cacciare oltre alle specie cacciabili anche
specie di uccelli protette: ciò in base ad una direttiva comunitaria che ne consente la caccia solo in
casi estremi ed eccezionali per evitare gravi danni alle colture agricole e qualora non esistono
metodi di intervento alternativi. Inutile dire che la Regione Veneto ha utilizzato in modo improprio
le deroghe solo per ampliare la rosa delle specie cacciabili, per assecondare le istanze più estremiste
del mondo venatorio rappresentato in consiglio regionale in particolare dal gruppo di Alleanza
Nazionale.
Con Legge 17 del 13/08/04, approvata il 6/08/04, il Veneto ha concesso la caccia a 7 specie
di uccelli migratori protetti. Il Veneto è l’unica regione in Europa dove si possono cacciare ben 7
specie di uccelli protetti dalla Direttiva Comunitaria sulla conservazione degli uccelli, la n.409 del
222
circolare n.3239/TA11 dell’11/05/04

149
1979, come i Fringuelli, le Peppole, la Passera mattugia, il Passero, lo Storno, il Cormorano e la
Tortora dal collare orientale. Con la legge regionale veneta n.17 del 13 Agosto 2004 inoltre,
fortemente voluta da Alleanza Nazionale, ciascuno dei 60.879 cacciatori veneti potrà abbattere in
un anno ben 100 Passeri, 100 Passere mattugia, 100 Storni, 50 Tortore dal collare orientali, 50
Cormorani, 40 Fringuelli e 20 Peppole; per un totale di 6.087.900 Passeri e 6.087.900 Passere
mattugia, 6.087.900 Storni, 3.043.950 Tortore dal collare orientale, 3.043.950 Cormorani,
2.435.160 Fringuelli e1.217.580 Peppole per un totale complessivo di uccelli abbattibili legalmente,
per la stagione 2004, pari a 28.004340 unità. La caccia a queste sette specie di uccelli protetti è
partita il 19 settembre 2004 per terminare il 31 dicembre 2004. Va detto che la legge è stata
approvata in violazione di tutte le rigide procedure previste dalla direttiva comunitaria e degli
accordi assunti in merito a livello statale. La Conferenza Stato Regioni con provvedimento n.2000
del 20/05/04 aveva stabilito una quota di uccelli cacciabili in deroga, in particolare: 437.400
Fringuelli e 23.400 Peppole nell’ambito della spartizione della quota spettante all’Italia. Come
abbiamo visto La Regione ha moltiplicato queste quote almeno per 5.

I costi della caccia


Erroneamente si pensa che la caccia sia finanziata con i fondi derivanti dalle tasse regionali
e nazionali sulla caccia: in realtà non è così. I fondi delle tasse dei cacciatori servono a malapena a
finanziare i ripopolamenti effettuati dalle province tramite l’acquisto di lepri e fagiani di
allevamento provenienti anche dall’estero, nonché per le catture delle lepri nelle zone di
ripopolamento e cattura. I costi sostenuti dal contribuente per pagare la macchina burocratica che
consente l’esercizio della caccia sono purtroppo elevatissimi. I capitoli maggiori riguardano la
Vigilanza venatoria effettuata dalle amministrazioni provinciali e dal Corpo Forestale dello Stato,
gli assessorati provinciali e regionali della caccia con relative segreterie, gli uffici caccia provinciali
e regionali con funzionari, segreterie, dipendenti vari; la gestione, stampa, controllo, rilevamento
dati dei Tesserini regionali, gli uffici delle Questure adibiti al rilascio e rinnovo delle licenze di
caccia con relativi funzionari e impiegati. Queste sono solo alcune delle voci che incidono
pesantemente su questo amaro bilancio che vede come finanziatori noi contribuenti.
Solo la gestione dei roccoli, centri di cattura di uccelli migratori per fini di richiami vivi per
la caccia da capanno, costa al contribuente veneto annualmente la bellezza di circa 327.000 Euro
(dati 2002/2003). Il cacciatore paga solo una irrisoria cifra di rimborso spese per ogni richiamo vivo
ricevuto223. La ciliegina sulla torta di tutto questo è il fatto che oggi i cacciatori sono i cittadini più
privilegiati del Veneto; solo loro infatti possono vantare di non vedersi aumentare le tasse da ben 11
anni, l’ultimo aumento della tassa regionale, portata a 64 euro, risale al lontano 1 gennaio 1994.

La caccia fonte di inquinamento da piombo e da plastica


Un aspetto solitamente trascurato è quello dell’impatto ambientale che l’attività venatoria
crea sui terreni agricoli e sul territorio agrosilvopastorale in generale. Da un facile calcolo,
considerando che in Veneto ci sono circa 60.000 cacciatori, che potrebbero utilizzare solo 36 delle
76 giornate a disposizione, sparando 5 colpi al giorno anziché 107 (27 ai sensi del calendario
venatorio e 90 ai sensi della legge sulla caccia in deroga) e considerando che una cartuccia contiene
circa 35 grammi di piombo, risulta che i cacciatori veneti distribuiscono sul territorio della nostra
regione la bellezza di un minimo di 378 tonnellate l’anno del velenosissimo piombo. Da simili
calcoli risulta che in Italia i 700.000 cacciatori praticanti distribuiscono sui terreni la bellezza di
4.410 tonnellate ogni anno di piombo. Da un studio, svolto dal Dott. Massimo Tettamanti dal
titolo “Valutazione di impatto ambientale di un anno di caccia in Italia” 224, risulta che, prendendo
223
Il conteggio dei costi sostenuti dalle province con i nostri denari per far funzionare la macchina dell’uccellagione
istituzionale può essere scaricato dal sito www.lacveneto.it
224
lo studio del Dott. Massimo Tettamanti è consultabile e scaricabile dal sito della Lega per l’Abolizione della caccia
www.lacveneto.it

150
come dati ipotetici minimali i 700.000 cacciatori che cacciano una sola giornata la settimana (sulle
tre o cinque previste), che sparano un colpo solo per giorno, in un anno di caccia in Italia si produce
un totale di rifiuti pari a quelli prodotti da una città come Brescia.

La caccia, i privati e l’agricoltura


Oggi il cacciatore può entrare nei fondi altrui senza che i proprietari si possano opporre
grazie all’art.842 del codice civile. Si tratta di una eccezione alla proprietà privata anacronistica che
andrebbe abolita subito. Grazie a questa disposizione i cacciatori spesso compiono autentici soprusi,
violenze, intimidazioni, danni nei confronti di agricoltori e cittadini che vivono e lavorano nelle
campagne. L’arroganza e l’invadenza dei cacciatori nei confronti dei privati e delle loro proprietà è
presente ormai quotidianamente nella cronaca dei quotidiani locali e telegiornali delle emittenti
televisive locali225

Cacciatori paladini dell’ambiente?


E’ in corso un tentativo, da parte delle associazioni venatorie, di promuovere l’immagine del
cacciatore ecologista, una figura in realtà virtuale disegnata a tavolino dalla lobby venatoria per
finalità di propaganda. L’attuale normativa nazionale sulla caccia, la L.157/92, e quella regionale, la
L.R.50/93, prevedono molte disposizioni relative a forme di partecipazione della gestione
ambientale, ripristini ambientali del territorio, ripristino di habitat naturali (tutela siepi, messa a
dimora di piante, ecc.) dove i maggiori artefici sono gli ambiti territoriali di caccia e i comprensori
alpini, ovvero i cacciatori. Questa parte delle normative sulla caccia è quella in assoluto più
disattesa nella nostra regione perché da oltre 10 anni di entrata in vigore non si è fatto pressoché
nulla. Dai bilanci di quasi tutti gli Ambiti Territoriali di Caccia non è mai stato previsto nemmeno
un euro per l’acquisto di qualche pianta e la sua messa a dimora. I fatti che si riscontrano nelle
campagne sono però la prova inconfutabile che la caccia è solo distruzione, morte, sofferenza, fatti
per i quali crolla definitivamente il tentativo delle associazioni venatorie di promuovere la figura
puramente virtuale del cacciatore ecologista disegnata a tavolino per finalità di propaganda dalla
lobby venatoria, nata con l’intento di recuperare consensi nella società civile in favore della caccia.

Caccia e bracconaggio: un confine pressoché inesistente


I cacciatori in ogni sede, ovunque e sempre vanno dicendo che i bracconieri sono una cosa
mentre loro sono tutt’altra cosa. I fatti dimostrano il contrario: chi commette atti di bracconaggio ed
in particolare abbatte specie protette o particolarmente protette, o abbatte soggetti in numero
superiore al consentito, è quasi sempre in possesso di regolare licenza di caccia ed è iscritto ad una
delle associazioni venatorie italiane.
Riportiamo alcuni esempi che evidenziano come sia labile il confine tra cacciatore e
bracconiere:
- il 14 ottobre 2004 le Guardie venatorie della provincia di Venezia hanno sorpreso tre cacciatori
che a San Stino di Livenza (VE) avevano abbattuto un rarissimo esemplare di Piviere tortolino
(Eudromias morinellus), una specie rara ed in via di estinzione, considerata dalla legge sulla caccia
come “particolarmente protetta” (articolo 2 L.157/92).
- il 24 ottobre 2004 le Guardie della LIPU di Verona hanno sorpreso un cacciatore munito di
regolare licenza di caccia, che a Caprino Veronese, in località Boschi, aveva effettuato una
autentica strage di uccelli migratori, oltre 50, nascosto in un appostamento di caccia munito di
richiami vivi; nel carniere c’era anche una Pispola un piccolo uccello migratore prevalentemente

225
La Lega per l’Abolizione della Caccia del Veneto per fare informazione su questa tematica e dare un minimo di
supporto ai privati cittadini ha elaborato un “Vademecum anticaccia” nel quale vengono elencate le principale regole
dell’esercizio venatorio a tutela delle proprietà private, colture agricole, animali domestici con indicati i numeri di
pronto intervento ai quali rivolgersi. vedi www.lacveneto.it

151
insettivoro, protetto dalla legge statale e persino dalla Convenzione di Berna sulla tutela degli
uccelli.
- domenica 19 settembre, giorno di apertura della caccia, a Motta di Livenza (TV) è stata compiuta
una carneficina di Tortore dal Collare, specie protetta in Europa ma cacciabile in Veneto grazie alla
legge approvata dal Consiglio regionale su forti pressioni di Alleanza Nazionale.
L’ennesima conferma di questo fenomeno deriva dai dati dei Centri Recuperi Fauna Selvatica delle
Province dove vengono soccorsi centinaia di esemplari di animali protetti impallinati solo ed
esclusivamente a caccia aperta.

Caccia e incidenti.
La caccia, spesso, costituisce un reale pericolo per l’incolumità delle persone. Ogni anno
infatti la caccia è causa di un numero impressionante di incidenti con morti e feriti sia tra i
cacciatori che tra ignari passanti o gitanti. Solo nella stagione venatoria 2003/2004, nel periodo
compreso tra l’1/09/2003 e il 30/01/2004, si sono verificati 140 incidenti di caccia che hanno
causato il ferimento di 89 persone, 75 delle quali cacciatori e ben 14 civili. Gli incidenti mortali
sono stati addirittura 51 che hanno visto perire 50 cacciatori e 1 civile. L’attuale stagione di caccia
2004/2005 sembra non smentire il bollettino di guerra dello scorso anno, in pochi giorni di caccia, a
partire dal 19 settembre, ci sono già stati 49 incidenti di caccia con 38 feriti, dei quali 29 cacciatori
e 9 civili, e con ben 11 morti, dei quali 10 cacciatori e un civile.
Le attuali leggi sulla caccia sono ormai inadeguate e sorpassate per una società moderna
come la nostra e per le nostre campagne fortemente urbanizzate. Si pone il problema di una
revisione delle autorizzazioni: i cacciatori italiani non hanno avuto un addestramento professionale
all’uso delle armi, la maggior parte di loro non ha neanche superato un esame in proposito perché
ha preso la licenza di caccia prima che le leggi lo prevedessero. L’esame per la licenza che prevede
solo una grossolana conoscenza delle armi è stato previsto per la prima volta solo nel 1977 con la
legge 968. Ora, la maggior parte dei cacciatori italiani attualmente in attività ha più di 43 anni,
perciò cacciava prima dell’entrata in vigore di quella norma. Non c’è da stupirsi se le scarse
conoscenze in materia di armi danno esito mortale in una cinquantina di casi all’anno. Un deterrente
poi sarebbe quello di inasprire le sanzioni per chi spara vicino alle case ed alle strade prevedendo il
ritiro della licenza e aumentando e incentivando la vigilanza venatoria.” 226 Segnaliamo un
recentissimo studio del 2003 condotto dal Prof. Filippo Schillaci, di Promiseland Italia, dal titolo
“Se la caccia fosse un lavoro” 227: questa ricerca arriva alla conclusione che la caccia è incompatibile
con i principi che vedono salute e sicurezza del cittadino come valore primario ed irrinunciabile
evidenziando che mentre nel lavoro accade 1 incidente mortale su 3.500.000 giornate lavorative,
nella caccia si verifica 1 incidente mortale su 550.000 giornate di caccia; ciò significa che si muore
di caccia 6,4 volte più frequentemente che sul lavoro e che nella caccia c’è una probabilità
maggiore di 297 volte che un incidente sia mortale. Le conclusioni di questo studio sono le
seguenti:
1) se un’attività lavorativa si svolgesse nelle stesse condizioni di rischio della caccia sarebbe
dichiarata illegale.
2) la caccia è incompatibile con i principi che vedono salute e sicurezza del cittadino valore
primario ed irrinunciabile.
Va ricordato che i sindaci possono emettere delle ordinanze per chiudere la caccia in determinate
aree fortemente urbanizzate; ricordiamo che la LAC è attrezzata e disponibile a fornire tutte le
indicazioni e le ordinanze già in vigore per facilitare questi importanti passaggi amministrativi.

226
la Lac Veneto mette a disposizione un vademecum che riporta tutte le regole che i cacciatori devono rispettare e a
chi chiedere aiuto www.lacveneto.it
227
www.lacveneto.it

152
Un maltrattamento legalizzato
Dati statistici affermano che solo un animale ogni tre spari viene abbattuto, ciò porta ad
ipotizzare che moltissimi animali che non vengono abbattuti spesso rimangono feriti. Accade quindi
che oltre ai circa 250 milioni di animali abbattuti in una sola stagione venatoria in tutta Italia
altrettanti potrebbero essere quelli feriti e destinati ad una morte atroce in preda a sofferenze, fame,
sete e/o addirittura divorati vivi dalle larve della mosca carnaria. Accade infatti molto spesso ai
frequentatori di boschi e campagne di ritrovare durante la stagione venatoria numerosi animali
morti o feriti. Un altro maltrattamento legalizzato è quello destinato ai richiami vivi per la caccia da
appostamento, catturati nei roccoli per essere destinati per sempre in una gabbietta dove non
potendo nemmeno aprire le ali perderanno la funzione delle stesse.

La nascita del Coordinamento Protezionista Veneto


Per fronteggiare questo stato di cose le associazioni protezioniste, animaliste e ambientaliste
del Veneto, nel 2002 hanno promosso il C.P.V. - Coordinamento Protezionista Veneto, con
l’intendo di dare una risposta organica e coordinata a questi continui attacchi alla fauna selvatica.
La petizione promossa dal Coordinamento è stata sottoscritta da 72.000 cittadini veneti

Gli obiettivi del CPV


1. Moratoria della caccia per 5 anni.
La pressione venatoria nella Regione Veneto degli ultimi anni ha portato fa fauna selvatica allo
stremo ed ad una costante diminuzione, consentendo ogni anno l’uccisione di circa 40 milioni di
animali selvatici. Per consentirne una graduale ripresa e un adeguato censimento è indispensabile
vietare la caccia in tutte le sue forme per un periodo di almeno 5 anni.
2. Vietare l’uccellagione effettuata nei roccoli
Dal ’95 la regione autorizza annualmente le province a catturare migliaia di uccelli migratori nei
roccoli con le reti da uccellagione per fornire i cacciatori di richiami vivi. L’uso di reti è vietato
dalla Direttiva CE “Uccelli” perché sono mezzi non selettivi nei quali si catturano anche uccelli
minacciati di estinzione. Molti degli uccelli catturati subiscono danni permanenti, morendo per
stress da cattura ed ingabbiamento. Tuttora questa attività avviene senza controllo ed è affidata
spesso a vecchi uccellatori pagati con danaro pubblico.
3. Vietare l’uso dei richiami vivi
L’uso dei richiami vivi nella caccia è una vera e propria pratica di maltrattamento legalizzata. Si
tratta di uccelli abituati a migrare attraverso interi continenti costretti a vivere in gabbiette
ridottissime dove non possono nemmeno aprire le ali. Sono sottoposti alla “chiusa”, pratica crudele
che prevede lo spennamento a vivo e la detenzione al buio per diversi mesi per sfasare il loro ciclo
biologico e farli cantare in autunno anziché in primavera. Sono ormai centinaia le condanne per
maltrattamento animali inflitte dalla magistratura ai detentori di richiami vivi.
4. Vietare la caccia da appostamento
E’ la caccia più vile in assoluto, dove il cacciatore usando i richiami vivi aspetta la preda nascosto
in un capanno, dalla quale farà il tiro a segno dei malcapitati migratori per i quali non c’è quasi mai
scampo.
5. Proteggere tutti gli uccelli migratori
Gli uccelli migratori sono i più vulnerabili, per sopravvivere sono costretti a spostarsi per migliaia
di chilometri per raggiungere le aree di svernamento affrontando le peggiori avversità climatiche.
Negli inverni rigidi raggiungono mortalità anche del 70%. Non si riproducono in cattività quindi la
loro consistenza numerica può essere mantenuta solo con la protezione. Molte specie sono in grave
diminuzione e minacciati come: Combattente, Allodola, Marzaiola, Beccaccia, Canapiglia, Codone,
Quaglia, Frullino, Tortora e molte altre.

153
6. Protezione del 70% del territorio
Proteggere almeno il 70% del territorio equivale a garantire una salvaguardia anche a tutta la fauna
protetta ed in via di estinzione oggetto di disturbo causato dalla caccia alle specie consentite. Si
riduce anche il bracconaggio e si consente ai cittadini di fruire tranquillamente di boschi e
campagne senza il pericolo di essere impallinati.
7. Protezione di Starna, Coturnice, Fagiano di monte, Pernice bianca, Lepre bianca
Queste specie stanziali sono a rischio di estinzione. La Starna autoctona è praticamente estinta da
anni. Proteggiamole prima che si estinguano !
8. Apertura della caccia al 1° ottobre e chiusura al 30 novembre
Con l’attuale apertura al primo di settembre si possono abbattere uccelli e mammiferi non ancora
autosufficienti e genitori con prole. Valgono gli esempi del Germano reale, Merlo, Gallinella
d’acqua che spesso a settembre allevano ancora i piccoli. Con la chiusura attuale al 31 gennaio si
consentono dei veri e propri massacri. Stremati dalle rigide temperature invernali, terreni e specchi
d’acqua ghiacciati, poche ore di luce, poco cibo, per gli animali è già troppo senza aggiungere la
caccia.
9. Divieto di detenzione di soggetti vivi o morti di specie protette
Vietare la detenzione degli uccelli protetti è necessario per limitare i dilaganti fenomeni del
commercio illegale di soggetti morti per l’imbalsamazione e commercio e cattura di soggetti vivi
per le fiere degli uccelli. Più una specie è rara e minacciata, più è pagata da collezionisti di uccelli
impagliati senza scrupoli.
10. Domenica giorno di divieto di caccia
Si vuole così consentire a tutti i cittadini di muoversi liberamente in campagna e nei boschi, in
tranquillità e senza pericoli.
11. Divieto d’uso di cartucce contenenti piombo
L’uso delle cartucce con pallini di piombo porta ogni anno allo sversamento solo nel Veneto di
circa 1400 ton. di questo metallo pericoloso nei terreni agricoli inquinandoli e mettendo a rischio la
nostra salute. Il piombo entra nella catena alimentare ed è tossico. Per questo è stato bandito in
molti stati esteri e sostituito con pallini in lega soprattutto nella caccia nelle zone umide per evitare
il fenomeno del saturnismo.
12. Vietare la caccia nei terreni dei privati
Solo in Italia è consentito ai cacciatori di entrare impunemente nei terreni privati senza chiedere il
permesso.
13. No alle licenze di caccia intoccabili
Attualmente le sanzioni accessorie relative al ritiro della licenza sono a dir poco ridicole tant’è che
non ne è previsto il ritiro nemmeno nei casi più gravi. Se un cacciatore viene sorpreso con il
carniere di centinaia di uccelli protetti (Rondini, Pettirossi, ecc.) rischia solo una ammenda senza il
ritiro della licenza, nemmeno per un sol giorno!
14. Vietare la caccia con il falco e con l’arco
La caccia con il Falco è doppiamente dannosa: i falchi per la falconeria sono allevati da piccoli ed
imprintati, il loro rifornimento spesso avviene anche con il prelievo su commissione dei piccoli nei
nidi provocando danni gravissimi alle popolazioni dei falchi selvatici. Un falco lanciato per la
caccia non conosce le leggi e può predare specie di uccelli protetti. La caccia con l’arco è esercitata
nei confronti di caprioli, daini e cervi che per la loro mole difficilmente possono essere uccisi da
una freccia e se feriti possono vagare per giorni prima di morire di stenti e divorati dalle infezioni.

Andrea Zannoni

154
una terra da curare
Uno sguardo globale
Oggi più di un miliardo di persone hanno fame, non per mancanza di cibo, ma perché non
hanno accesso al cibo. E anche chi ha cibo, non ha comunque accesso al cibo sano: le crisi di
obesità, ma soprattutto l'epidemia della "mucca pazza" e quella dell'"influenza dei polli" si sono
diffuse ovunque solo perché abbiamo trattato con violenza questi animali, semplicemente, per
produrre di più. Un'altra conseguenza disastrosa di questo modello di sviluppo sull'alimentazione è
la non corrispondenza tra i costi reali e i prezzi del cibo: sul mercato liberista troviamo cibo dall'alto
costo con prezzi alti e viceversa. Per lo più, quando i prezzi non sono alti è perché dietro ci sono i
monopoli che controllano attraverso sovvenzioni agricole e trattati commerciali il mercato
dell'alimentazione. Siamo giunti ad una situazione paradossale: ci sono aree del pianeta ove vi è un
surplus di beni alimentari e, al contrario, altre aree ove questi stessi beni scarseggiano. Le attuali
logiche di mercato e di profitto impediscono che vi sia una naturale “osmosi” di questi beni tra le
aree “più ricche” e quelle “più povere”. Non si tratta di utilizzare “tecnologie” più efficaci nelle
aree più povere, come alcuni ci vogliono convincere: gli abitanti di queste non saprebbero con quali
mezzi acquistare queste tecnologie se non incrementando la loro dipendenza “dai ricchi” ovvero
allargando il loro mostruoso debito.
Dobbiamo partire da qui, dalle ingiustizie globali in tema di cibi, di agricoltura e di accesso
alle risorse per proporre nuove politiche per l’agricoltura del nostro territorio. Come afferma
Vandana Shiva: “abbiamo bisogno di un nuovo sistema alimentare mondiale fondato sulla verità.
Verità, per sapere davvero cosa mangiamo. Verità, per conoscere e controllare come e da chi il cibo
è prodotto. Verità, per distribuire cibo attraverso un sistema di regole commerciali chiaro e che
favorisca la biodiversità e la produzione locale di cibo di alta qualità”228.

L’agricoltura nel Veneto


L’agricoltura rappresenta la prima opportunità per la società veneta per mantenere e
salvaguardare il territorio e l'ambiente; mantenerlo sicuro e vivibile e farne fonte di beni alimentari
salubri e di qualità. 18.300 Kmq di superficie territoriale totale della nostra regione, 13.000 dei
quali costituenti la superficie delle aziende agricole, 8.600 dedicati alla coltivazione di specie
agricole: lo spazio fuori dalle città, dai centri industriali e dai centri direzionali, non è un "deserto
vuoto" ma un tessuto di attività, di scelte, di investimenti delle imprese agricole, il cui valore va ben
oltre il contributo al prodotto interno lordo regionale sviluppato annualmente. Riportare
l’agricoltura al centro della riflessione sullo sviluppo e la società vuol dire riconoscere al
mondo rurale e contadino il ruolo pubblico di custode delle risorse dei beni comuni come la
terra. Lo sviluppo tumultuoso degli ultimi tre decenni ha sottratto alle imprese agricole venete
1.500 kmq di superficie coltivata, compromettendo anche l'integrità del tessuto fondiario,
generando in molti casi situazioni al limite della possibilità di proseguire l'attività. Nella provincia
di Padova in un ventennio la superficie agricola ha perso più di un quarto della sua dotazione, a
Treviso più del 30% e a Vicenza quasi il 40%! Praticamente in 20 anni l’equivalente dell’estensione
territoriale di una provincia è stato sottratto alle tre province sopra citate. E' necessario riconvertire
lo sviluppo veneto dei prossimi anni: va dichiarato il territorio e l'ambiente come "invariante" dello
sviluppo futuro, cioè fulcro attorno alla tutela del quale si cerchino soluzioni di razionalizzazione e
riordino delle aree già urbanizzate e compromesse, senza intaccare nuovi territori per farne aree
industriali o quartieri. In questa direzione le politiche pubbliche vanno verificate e riorientate: dal
governo del territorio, alle politiche per l’impresa, dalle politiche per il lavoro al welfare
228
Vandana Shiva, intervento al convegno conclusivo di Terra futura, Firenze, aprile 2004

155
complessivamente inteso, dalla valorizzazione della cultura, dell’ambiente e del territorio al
turismo, dall’infrastrutturazione materiale e immateriale alla fiscalità.

Politiche regionali e politiche comunitarie


La politica agricola regionale è fortemente influenzata dalla Politica agricola comunitaria
(PAC). L’agricoltura europea soffre strutturalmente di un surplus produttivo, e questo ha fatto sì che
la competizione commerciale si sia combattuta quasi esclusivamente sui prezzi. Gli effetti di questa
guerra “al ribasso” sono stati un progressivo peggioramento della sicurezza e della qualità dei cibi,
l’espulsione di milioni di contadini dall’economia agricola, un crescente inquinamento ambientale.
Ma tali fenomeni non sono stati frutto del caso, bensì il risultato di politiche ben determinate.
La Politica Agricola Comunitaria ereditata dall’attuale Unione Europea soffre di pesanti
contraddizioni che sinteticamente possono essere riassunte nei seguenti punti:
- surplus produttivo in tutti i comparti agricoli;
- protezionismo esasperato in molti comparti (cereali, latte, carne, vino);
- mercato dei prodotti agricoli e dei terreni “drogato” dalle rendite create in seguito
alla politica dei sussidi;
- prezzi dei prodotti agricoli artificialmente sostenuti;
- assenza di turn over generazionale in tutto il settore primario con contemporanea
perdita di occupazione, diminuzione del numero di aziende, scarsa propensione all’innovazione.
La Politica Agricola Comune non ha voluto affrontare i problemi di fondo che sempre di più
vengono avvertiti come improrogabili a livello sociale come la maggior tutela delle risorse
ambientali (terra, acqua, aria), il maggior rispetto del paesaggio o la maggiore qualità intrinseca
(leggi sicurezza) del prodotto agricolo. In questo quadro la recente riforma della PAC 229 non ha
affrontato un problema centrale come l’abbassamento costante dei prezzi riconosciuti ai produttori
ed ha fatto troppo poco per riconoscere il ruolo multifunzionale dell’agricoltura ed indirizzare il
modello agricolo europeo verso uno sviluppo rurale sostenibile.
Le Regioni, intese come entità amministrative con potere legislativo, sono ormai le interlocutrici
principali delle decisioni prese a Bruxelles, ed hanno in mano gli strumenti per decidere o proporre,
sebbene in un ambito ristretto deciso dall’Unione Europea, come attuare queste politiche, avendo
proprio sulle modalità di attuazione margini molto ampi di decisionalità. Tanto più che la riforma
della PAC è strettamente connessa con le politiche di sviluppo rurale che vengono elaborate dalle
regioni. Si assiste, infatti, da molti anni ad progressivo spostamento delle risorse verso le politiche
di sviluppo rurale, ritenendole correttive delle distorsioni provocate dalla PAC.

Proposte per nuove politiche


I piani di sviluppo rurale rappresentano una insostituibile opportunità per intraprendere una
politica coraggiosa volta ad un maggior riconoscimento dell’agricoltura sostenibile e di qualità. Ciò
non significa rinunciare completamente alle politiche per le “commodities”, tanto importanti per il
nostro tessuto socio-economico, ma vuol dire intraprendere delle politiche virtuose per incentivare
la produzione di beni e servizi con maggiore valore aggiunto, non solo economico, ma anche
ambientale e sociale. Troppo spesso in questi anni la Regione del Veneto ha di fatto applicato “al
ribasso” le politiche e le risorse messe a disposizione dalla Commissione Europea. Non solo: le
stesse risorse regionali (ad esempio il Piano di disinquinamento della Laguna di Venezia) non
hanno portato, se non in minima parte, a premiare le aziende più impegnate nel risparmio
energetico, ad attuare sistemi di produzione più rispettosi delle risorse ambientali, o magari ad un
maggior rispetto del benessere animale. L’impostazione è ancora quella per cui vengono finanziate
229
L’Unione Europea ha confermato nel 1999 (Agenda 2000) l’interesse a modificare l’impianto complessivo della
PAC. Come è successo altre volte (Riforma Mac Sharry - 1992) la volontà riformatrice è andata via esaurendosi con
l’approvazione di Direttive, Regolamenti, Decisioni. La stessa cosa è accaduta con Agenda 2000 e con l’attuale riforma
intermedia della PAC

156
stalle con poca o senza terra e macchine agricole per la normale conduzione aziendale (con la scusa
dell’adeguamento del sistema produttivo “ambientale”), in barba alle richieste dell’Unione Europea
che ci chiede un cambiamento di rotta!
In una logica di sviluppo agricolo sostenibile, con la Riforma intermedia della PAC ma ancor di
più con il successivo periodo di programmazione agricola comunitaria (2007-2013), la
pianificazione regionale dovrebbe assecondare le soluzioni più innovative offerte dalla legislazione
europea. A nostro avviso, pertanto, le scelte di base sulle politiche agricole dovrebbero andare nelle
seguenti direzioni:
- immediata adozione del disaccoppiamento, evitando di ricorrere ad un’applicazione
parziale. Ciò significherebbe prolungare nel tempo le attuali distorsioni, e ingiustizie, provocate
dai regimi contributivi attualmente in vigore. Anche per il comparto zootecnico, l’indennità
compensativa (premio alle vacche nutrici, alla macellazione e ai maschi bovini) dovrebbe essere
immediatamente disaccoppiata. I contributi ai produttori sono nati per garantire un reddito
paragonabile a quello degli altri settori economici. Il disaccoppiamento, insieme alla
modulazione, ridistribuisce il reddito tra tutta la popolazione agricola e non solo tra quella che
da decenni vive, a volte di pura assistenza, grazie ai sussidi in agricoltura.
- immediata opzione per regionalizzare la Politica Agricola Comunitaria. In questo
modo la scelta del legislatore/pianificatore deve evitare ciò che accade in molti comparti
agricoli, ossia che le “quote” dei diritti individuali non diventino mai più una rendita di alcuni a
scapito di altri (ridistribuzione dei sussidi tra i produttori della regione –non in senso
amministrativo-).
- vincolare il contributo (di qualsiasi natura, ossia come sostegno al reddito ovvero
come premio all’azienda) alla misurazione della eco-condizionalità (consumo di energia,
consumo di acqua, rilascio di micro e macro nutrienti, quantificazione numerica della
biodiversità -metri lineari di siepi e boschetti, indicatori di avifauna, mamofauna, altri
bioindicatori-, adozione di tecniche di coltivazione/allevamento rispettose delle diverse forme di
vita, estensivizzazione degli allevamenti)230.
- un’applicazione della modulazione dei contributi (progressiva riduzione del
contributo all’aumentare del premio annuo riscosso) che favorisca innanzitutto il permanere
delle piccole aziende, economicamente vitali, nel territorio regionale.
- garantire alle aziende che si sottopongono al servizio di consulenza aziendale
volontario, la priorità all’accesso delle provvidenze comunitarie e regionali. Il servizio di
consulenza deve essere strutturato in modo tale che soggetti terzi, pubblici o privati, accreditati
dalla PA, garantiscano il rispetto dell’azienda agricola delle pratiche relative eco-condizionalità
nonchè il monitoraggio aziendale continuo.
A prescindere dai futuri vincoli comunitari, che ben s’intende saranno già un passo in avanti rispetto
alle politiche agricole attuali, le scelte regionali (nei Piani come nei bandi di selezione) dovranno
garantire:
- la massima priorità alle aziende che s’impegnano a convertire l’intera azienda a
metodi di conduzione estensivi (Ce 2092/91) ovvero verso sbocchi di mercato del prodotto
tipico (DOP, IGP, AS) o tradizionale (DM MIPAF). In questo senso è indispensabile che la
Regione del Veneto sia più decisa, almeno sino a quanto fatto sinora, a verificare che gli
organismi incaricati di controllare il processo/prodotto diano maggiori garanzie circa la bontà
dei controlli e dei risultati attesi, almeno per rispondere agli standard minimi richiesti dal
consumatore.
- che l’insediamento in agricoltura sia un premio legato ai giovani che:

230
esistono già iniziative in questo campo come il Progetto di contabilità ambientale in agricoltura promosso dalla
Regione Toscana. Vedi Sivia Calamndrei, Per un’agricoltura sostenibile, in Agricoltura, Alimentazione, Economia
Ecologia, 1/2002

157
- adottano un sistema di produzione a basso impatto ambientale certificato (reg. Ce
2092/91) su tutta l’azienda, ovvero s’impegnano a condurre l’azienda nel rispetto di
norme più rigorose (rispetto agli standard minimi comunitari) di quelle previste per: il
benessere degli animali, la tutela dell’ambiente,
- l’insediamento sia finalizzato all’acquisto di beni o servizi legato al processo
produttivo di cui al precedente punto,
- che l’azienda si sottoponga al servizio di consulenza aziendale.
A nostro avviso non si tratta di opzioni neutre o marginali, ma di strumenti che se
scelti e attivati con oculatezza possono potenziare e qualificare pienamente la portata della
riforma della politica agricola comunitaria.
La Regione ha sicuramente in mano una opportunità unica con la regionalizzazione dei
premi e, integrandole con tutte le altre misure appena descritte, è realistico pensare ad una vera
trasformazione profonda dell’agricoltura veneta, basata sull’agricoltura familiare e lo sviluppo
sostenibile.

Energia e Agricoltura
La direttiva europea del maggio 2003 ha triplicato la quantità di carburanti totali prodotta
dall’ agricoltura e quindi suscettibili di esenzione dalle accise. Dal 2,5% del totale si è passati al 6%
del totale con un incremento di superficie agricola coltivabile a biomasse per energia di circa
1.500.000 ha per tutta l'Europa. In Italia, ad oggi, possono essere prodotte fino a 300.000 tonnellate
di biodiesel da agricoltura da cui possono dedursi le accise. Nei fatti però, il nostro Paese non ne
produce che poche centinaia di ha e, quindi, di fatto l’intero quantitativo proviene dall’estero. Le
norme sul biodiesel non prevedono l’abolizione delle accise per il biodiesel puro, ma solo per quelli
misti con il risultato che il contributo di risparmio delle accise va a beneficio dei petrolieri, i quali,
additivando al 2,5% la benzina con biodiesel, risparmiano le accise sul 2,5% del prezzo
complessivo. Un raggiro a danno degli agricoltori. Il biodiesel, ma più ancora gli oli lubrificanti da
agricoltura, rappresentano una straordinaria risorsa per il futuro energetico del pianeta e per la
salubrità dell’aria e dell’acqua. Il biodiesel puro (solo quello puro) è biodegradabile al 100% quindi
è fondamentale il suo impiego in ambiente marino, diporto e cabotaggio, nelle aree protette e in
tutte le aree sensibili ambientalmente. Ovviamente, resta fondamentale il tipo di coltivazioni, per
non deturpare il pianeta con contributi di inquinanti e quindi di nuovi idrocarburi veicolati sui
campi per produrre più colture industriali, causando una beffa per il pianeta e un danno per le
finanze. Ecco che vanno incrementate le colture sostenibili e vanno sviluppate le sementi che
richiedono ridotti apporti di azoto e per le latitudini Italiane anche colture non idroesigenti.
Rilanciare l’energia da agricoltura in questi giorni è tra l’altro fondamentale, visto l’aumento del
prezzo del greggio che ha causato un incremento del 40% del prezzo del gasolio agricolo, con
conseguente crisi verticale delle colture in serra ad alta incidenza energetica e la perdita di
competitività di tutto il settore agricolo in genere. Quindi è giunta l’ora delle fattorie energetiche,
non più gasolio agricolo ma libertà di prodursi il biodiesel in proprio da varie oleaginose e in
particolare da girasole e canapa. Multifunzionalità dell’azienda agricola nella produzione di energia
elettrica da biomasse non solo per l’autoproduzione, ma come produttori per il mercato. Il pellets, il
cippato insieme alle nuove caldaie che producono calore e frigorie (aria condizionata)
rappresentano una rivoluzione ormai disponibile e un abbattimento dei costi radicale. Le positive
esperienze di leggi regionali come quella in Toscana per la coltura industriale della canapa possono
essere sviluppate anche in altri territori, soprattutto dove è necessario sostituire colture non più
produttive e non sostenibili.

Un futuro per l’agricoltura veneta


Per i Verdi la "politica della qualità" assume un’importanza strategica e costituisce la
risposta più avanzata ed efficace che il sistema agricolo veneto può dare alle esigenze di

158
competitività delle produzioni agroalimentari regionali, alle richieste di tutela dei consumatori e alle
necessità di sviluppo delle zone rurali. Al centro di tale strategia si situano le politiche di
incentivazione della qualità certificata, mirate sia all'affermazione dei marchi collettivi legati a
territori specifici, quali i DOP e gli IGP, sia alla diffusione di sistemi di certificazione di prodotto in
grado di valorizzare, differenziandole, le produzioni agricole regionali.
Se non si riuscirà a valorizzare il ruolo dell’agricoltura sul territorio, al di la del concetto di
competitività dell’impresa, il prezzo da pagare sarà altissimo in termini di devastazione ambientale,
di disgregazione di un tessuto sociale rurale e di qualità dei prodotti.
Questo significherà non solo produrre dei prodotti di qualità, ma “produrre” un territorio di
qualità: il radicchio del trevigiano, gli asparagi del bassanese, l’Amarone della Valpolicella. Questa
impostazione, peraltro, comporta la promozione di un diversa cultura che assuma la responsabilità
sociale della produzione come coordinata dell’azione dei “nuovi contadini”. La ricerca della qualità
del prodotto diverrà anche qualità del lavoro e responsabilità sociale verso i consumatori. Ricerca
che deve tradursi anche in comunicazione: il mondo dell’agricoltura deve essere visibile - non per i
ciclici “scandali” alimentari - ma per la trasparenza del proprio lavoro quotidiano di presidio e
promozione della qualità.
Questa nuova impostazione non sarà indolore: ci rendiamo conto perfettamente che decenni
di “non politica” - cioè di mancanza di scelte e indirizzi e di accondiscendenza verso le diverse
lobby agricole attraverso la redazione di Piani di Sviluppo Rurale che in sostanza puntavano a
premiere i soggetti più politicamente “pesanti” fuori da qualsiasi logica strategica - ha
“incancrenito” una situazione per cui continuano a sussistere ampie zone agricole che sopravvivono
grazie ai sussidi e dove prevalgono produzioni ad alto impatto ambientale.
La valorizzazione di una agricoltura legata al territorio, e non alle dinamiche globalizzanti
dell’agro-industria, esige - e porta con sé - una riconversione ambientale complessiva. Noi siamo
convinti che non si possa operare una riconversione ambientale del Veneto senza promuovere
un diverso modello di un’agricoltura fortemente compenetrata nel sistema ecologico e
territoriale. L’agricoltura biologica, non più intesa solo come metodo di produzione, ma come
possibile modello di sviluppo capace di incidere sui consumi ed i comportamenti è la risposta su cui
lavorare. Veri investimenti dovranno andare a serie politiche di promozione: su questo campo
l’attuale Amministrazione regionale ha dato pessima mostra di sé (pensiamo alla fine fatta da un
progetto quale Paniere Veneto): è fondamentale invece attrezzare una campagna promozionale della
qualità veneta in grado di sostenere i prodotti della nostra terra.
Accanto a queste politiche andrebbe sostenuta un vera multifunzionalità del ruolo
dell’azienda agricola che quindi non avrebbe neanche un interesse ad una massimizzazione delle
produzione perché fonte di guadagno più remunerativa sono i servizi offerti. La promozione di
politiche di consumo legate al ciclo corto, a forme distributive innovative sono altri elementi
portanti di un modello di sviluppo rurale che deve poggiarsi sul concetto di sostenibilità.
Obiettivi strategici per la valorizzazione dell’agricoltura e più in generale della ruralità
saranno:
- promuovere lo stretto legame tra qualità degli alimenti, loro naturalità e salute, tale da costituire il
contenuto di una politica della qualità e della valorizzazione delle tipicità;
- promuovere la riserva di biodiversità, meta di riposo e di riscoperta di valori culturali, artistici e di
qualità della residenza che integra fortemente le altre attrattive del Veneto nel campo dell’arte, del
turismo della costa e della montagna e che, in sintonia con queste, definisce e qualifica l’immagine
del Veneto nel mondo;
- la rivitalizzazione degli spazi rurali attraverso la valorizzazione dei prodotti tipici, delle attività
agrituristiche e delle produzioni biologiche, offrendo ai soggetti rurali nuove opportunità di reddito
e migliori condizioni di vivibilità.

159
Alcune idee per cambiare rotta.

Ridare centralità all’agricoltura all’interno del quadro normativo, e più in generale


nella politica e nella società.
L’agricoltura, e più in generale il mondo contadino, hanno assunto - in anni di decantate
sorti magnifiche e produttive dell’industrialismo grande e piccolo - la connotazione negativa di
mondo arretrato e oscuro. Negli ultimi anni il mondo agricolo è balzato agli onori della cronaca
grazie agli scandali alimentari come mucca pazza. Occorre che l’agricoltura, il grande rimosso dello
sviluppo neoliberista, riprenda nella cultura, nella politica e nella società il posto che merita come
attività e cultura complessa non riducibile alla produzione di merci per il mercato.
Promuovere i distretti rurali e i sistemi produttivi locali
Promuovere modelli di sviluppo locali che abbiano le produzioni agricole di qualità come
centro e come volano dello sviluppo. Il prodotto agricolo di qualità e il suo legame con il territorio
d’origine può essere la chiave del successo di un nuovo modello di sviluppo. Per questo occorre che
la politica di programmazione economica abbandoni la logica “monoindustriale” per assumere una
visione sistemica che preveda l’agricoltura come componete fondamentale dello sviluppo locale.
Connettere, anche geograficamente, la produzione degli alimenti al loro consumo,
facendo in modo di garantire una maggiore responsabilizzazione da parte della collettività nella
difesa degli ambiti agricoli; l’obiettivo strategico è quello della “filiera corta” ovvero la promozione
di tipologie di distribuzione che permettano il massimo avvicinamento possibile tra produttore e
consumatore. Una ricaduta di questa politica è peraltro l’abbassamento dei prezzi al consumo come
dimostra un esperienza che ha coinvolto migliaia di famiglie nel Canton Ticino nella Svizzera
italiana231.
Ridurre il carico inquinante ed energivoro prodotto dall’agricoltura modificando i
processi produttivi, disincentivando l’uso di prodotti inquinanti, favorendo le tecniche di
coltivazione a basso o nullo impiego di prodotti fitosanitari e fertilizzanti; è inoltre necessario
ricollegare l’allevamento alla terra favorendo il pascolo sul terreno e la chiusura dei cicli tra
zootecnia e agricoltura. In questo senso occorre sfatare ogni ambiguità rispetto all’”agricoltura
integrata” e predisporre bilanci energetici ambientali che verifichino concretamente la riduzione di
carichi inquinanti e di pratiche e colture energivore e le modalità per contrastarli
Migliorare la qualità del prodotto, per fare questo è necessario indirizzare la produzione
fornendo incentivi alla qualità e non alla quantità, anche attraverso l’utilizzo di marchi e
certificazioni. Ricordiamo la proposta di legge regionale dei Verdi per la “Tutela e valorizzazione
dei prodotti agroalimentari: iniziative per la qualità e la sicurezza” in cui è previsto, ai fini del
rilascio del marchio, la presenza di un disciplinare di produzione su un metodo di produzione che,
seppur non spingendosi all’ottenimento della qualità superiore del prodotto biologico, contenga gli
elementi minimi di salubrità e sicurezza alimentare richiesti oggigiorno dal consumatore.
Conservare la biodiversità delle specie agricole e zootecniche, regolamentando l’uso
delle varietà ad elevata produttività, connettendolo alla gestione di qualità del prodotto e
incentivando la conservazione delle varietà tradizionali, talvolta meno produttive, ma meglio
adattate alle condizioni ambientali locali.
Aumentare il livello di naturalità delle aree agricole, ricostruire il paesaggio agrario,
conservare i sistemi agricoli estensivi ad elevato valore naturalistico, come gli alpeggi, i prati
umidi, le praterie asciutte, gli uliveti vetusti, dove una elevata e caratteristica biodiversità dipende
dal mantenimento di pratiche colturali tradizionali. Occorre valorizzare e sostenere il ruolo di
presidio territoriale e di manutenzione dell’agricoltura: per questo bisogna superare pratiche che
banalizzano l’agricoltura a pura produzione di merci.
No ogm

231
Chiara Medda, Come sviluppare la filiera corta, in Bioagricltura maggio/giugno 2004

160
L’introduzione di colture geneticamente manipolate mette a rischio le coltura tipiche, locali,
di qualità, biologiche che rappresentano la forza e il futuro della nostra agricoltura. Inoltre
l’introduzione degli OGM rappresentano un rischio di inquinamento genetico di cui non
conosciamo pienamente le conseguenze per gli ecosistemi e per l'uomo. Occorrono interventi
urgenti e drastici, soprattutto nei confronti della distribuzione sementiera, a tutela degli stessi
agricoltori, spesso agenti incolpevoli di questa contaminazione e prime vittime di questo sistema.
Per questo i Verdi hanno presentato una Proposta di legge regionale d’iniziativa popolare per
rendere il Veneto OGM Free - libero dalle produzioni OGM.

Massimiliano Rossi

161
Immigrazione:
la qualità della convivenza
Contro il razzismo, oltre la carità
A fronte di un fenomeno strutturale e irreversibile quale l’immigrazione verso il nord del
mondo di migliaia di uomini e donne, spesso la politica, la cultura e i nostri stessi strumenti di
analisi vengono messi a dura prova. Quando si parla di immigrazione un condensato di irrazionalità
(il desiderio che il fenomeno abbia fine, “non arrivino più” o “se ne tornino a casa loro” 232), di
malcelato razzismo (l’essere inferiori, inclini alla malavita, meno adatti alla convivenza), o di
supposto realismo (“siamo troppi”, “è meglio aiutarli a casa loro”) toglie spazio ad una riflessione
impegnativa su come aiutare il formarsi di una nuova convivenza. L’immigrazione porta con sé
l’esigenza di un ridiscussione di fondo: un processo non facile e non privo di rischi e conflitti.
Occorre spostare il cuore della questione: non sono gli immigrati il problema, la loro presenza
rappresenta un dato di fatto, il problema è nostro e sta nella capacità di rinnovare la nostra identità e
i valori su cui poggia la nostra convivenza233.
Il tentativo di rimozione del dato è sicuramente un errore che non potrà che portare
conflittualità, paura, insicurezza per tutti. Il Veneto deve recuperare una sua vocazione di terra di
relazione e scambio: la presenza degli immigrati rappresenta l’occasione per ridefinire i modi e i
significati delle nostre identità e storia. Questo già succede spontaneamente, ognuno di noi modifica
la propria percezione, ma questa ridiscussione deve essere messa al centro di una strategia politica
per la costruzione di un territorio plurale. Occorre mettere in discussione le retoriche mono-
identitarie per cui le identità si fonderebbero su un insieme stabile e oggettivamente definibile di
tratti culturali. Pensiamo invece che identità mobili si costruiscano nel contesto di relazioni,
interazioni, e reazioni sociali e che sia diritto inalienabile dell’individuo quello alla propria
individualità, liberi da mono-appartenenze etniche e culturali attribuite e ingessate. Sarà piuttosto il
confronto con gli altri e con la nostra storia, anche di emigrazione, e non la riproposizione di una
nostra sempiterna e mitica identità minacciata, che potremmo trovare la forza di affrontare le
insicurezze di questo mondo.
Riportiamo una riflessione che ci aiuta a capire quanto l’immigrazione, lungi da
rappresentare una sventura o solo una risorsa per l’economia, possa divenire un’occasione per
affrontare i problemi di coesione e di senso che attraversano la società veneta: “mentre il Veneto è
aperto al mercato internazionale e su questo ha poggiato tutto il suo sviluppo industriale ed
economico, dall’altro ha partorito una cultura localistica per cui Territorio, Tradizione ed Etnia sono
diventati circolari valori a sé, e tutti quelli che stanno dentro a questo circolo sono persone accolte e
accettate, ma quando arrivano persone che non vi appartengono sono viste come una minaccia. Ma
se Territorio, Tradizione ed Etnia fossero dei valori avrebbero un’energia tale da espandersi
integrando naturalmente gli altri, altrimenti non si può parlare di valori. Inoltre i cosiddetti valori
veneti sono caduti , ecco perché hanno bisogno di gridarli, perché nella prassi non ci sono più”234.
Il processo immigratorio comporta inoltre una verifica sulla saldezza del nostro stato sociale:
una verifica impegnativa ma salutare per tutti. Rinnovare una politica dell’abitare, ad esempio,
diventa esigenza impellente oggi a fronte dell’immigrazione di nuove genti, ma una revisione
secondo criteri di giustizia, qualità e accessibilità dell’abitare nelle città favorisce una società

232
da parte dei residenti c’è spesso l”illusione” che il fenomeno sia transitorio: ha descritto bene questo atteggiamento
mentale nella nostra regione Ferruccio Gambino in Migranti nella tempesta, Verona, 2003
233
vedi Jurgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo, Milano, 2003 una serrata discussione su diritti,
relativismo culturale e comunitarismo
234
don Giuseppe Stoppiglia, Che fare, in Veneto, in Lo Straniero, 28/2002

162
migliore per tutti. Crediamo che vi sia la possibilità, confortati da esperienze molteplici 235, di
elaborare e mettere in pratica politiche concrete e incisive riguardo l’immigrazione, malgrado
sembri dominare un approccio irrazionale, demagogico della questione. Secondo Catherine de
Wenden, direttrice alla ricerca presso il CERI (Centro studi e ricerche internazionali, CNRS/IEP
Parigi): "il diritto alla mobilità fa parte dei diritti emergenti. L'idea che i paesi europei non potranno
impedire all'infinito la mobilità degli uomini comincia a diffondersi, non solo tra i movimenti di
difesa dei diritti dell'uomo ma anche nel mondo imprenditoriale. La legittimità della chiusura delle
frontiere, foriera di effetti perversi e in netto scollamento rispetto alle esigenze economiche e
demografiche dell'Europa, può esser messa in discussione"236.

Alcuni dati e previsioni


Nel Nord Est, come in tutto il Centro Nord, il saldo migratorio degli stranieri (attorno a
+50.000 l’anno) non è molto lontano dal numero dei nati (60.000 l’anno). In Italia, il rapporto di
uno a uno fra nascite e saldo migratorio era stato raggiunto solo nelle regioni del vecchio Triangolo
Industriale, nel periodo delle grandi migrazioni del Sud, nel corso degli anni Sessanta 237. Il
Rapporto 2004 sul Mercato del lavoro nel Veneto ipotizza come siano circa 200.000 gli immigrati
attivi nella nostra regione, circa il 10% del forza lavoro. Sempre lo stesso Rapporto documenta
come nel 2003 le assunzioni di immigrati si aggiravano intorno al 20% del totale. La percentuale di
forza lavoro immigrata è particolarmente accentuata in alcuni settori manifatturieri come nel settore
moda (40%), nell’agricoltura e nel legno (30%), nelle costruzioni e nei servizi alla persona.
Nel Rapporto Nord Est 2004 si sottolinea come l’economia regionale si stia posizionando
nei settori meno esposti alla concorrenza internazionale come il settore immobiliare, commerciale,
assistenza alla persona, e che questi settori vedono un largo impiego di lavoratori immigrati.
Ricorrenti si susseguono le proteste delle organizzazioni economiche rispetto alla scarsità di
manodopera e l’eccessiva esiguità delle quote programmate a livello centrale.
Nel Nord Est dovrebbero (il condizionale è dovuto alla difficoltà di stima di questa realtà) vivere
stabilmente almeno 400.000 immigrati che corrispondono al 10% della popolazione sotto i 50 anni.
Nel solo Veneto, secondo il Rapporto della Caritas 2004, gli immigrati regolari presenti sono circa
250 - 260.000, il 5,4% - 5,6% della popolazione totale.
Lo scenario prospettato da studi approfonditi suggerisce come “il sistema demografico
europeo con pochi giovani e molti anziani, si contrapporrà in modo sempre più netto a quello dei
Paesi dell’Africa e di gran parte dell’Asia, caratterizzato da una crescita continua – anche se via via
decrescente – della popolazione in età lavorativa. Di conseguenza al di là di tutti i possibili rimedi
“interni” è realistico ritenere che nei prossimi decenni le immigrazioni da Paesi extra europei
proseguiranno sostenute, e il nostro continente diventerà sempre più un crogiuolo di etnie, culture e
religioni”238.

Regolamentazione dei flussi


L’immigrazione è in effetti un fenomeno di una certa imponenza che chiede adeguate
politiche di governo e che segnala il fallimento delle politiche di regolamentazione dei flussi 239. Sia
quelle promosse dal centro sinistra, Legge Turco Napolitano, e a maggior ragione, quelle del centro
destra, Legge Bossi Fini, hanno fallito il loro intento dichiarato provocando l’estensione della
clandestinità. La legge Bossi-Fini ha modificato la normativa in materia di immigrazione di cittadini
235
pensiamo alle legislazioni regionali di Campania e Emilia Romagna
236
in www.cor.eu.int/it/
237
Maria Castiglioni, Gianpiero Dalla Zuanna, Popolazione e immigrazione: come cambia il Nord Est, in Rapporto
Nord Est 2003, Fondazione Nord Est
238
Maria Castiglioni, Gianpiero Dalla Zuanna, Una popolazione in movimento: il Nord Est e la “nuova Europa”, in
Rapporto Nord Est 2004, Venezia, 2004
239
Giuseppe Sciortino, Aspettando la prossima sanatoria? I nodi irrisolti delle politiche migratorie italiane, in La rivista
delle politiche sociali, 3/2004

163
extracomunitari introducendo ulteriori vincoli e rigidità, che pesano negativamente sulle imprese,
sulle famiglie e gli stessi immigrati. La legislazione nazionale, vessatoria ed escludente, aggrava la
condizione di minorità sociale, giuridica, culturale e psicologica degli immigrati attraverso la
moltiplicazione dei divieti e delle restrizioni agli ingressi e alle permanenze con l’oggettiva
moltiplicazione del rischio della clandestinità. Come sottolineano Maria Castiglioni e Gianpiero
Dalla Zuanna: “non è possibile azzerare gli ingressi irregolari, ma un rapporto di uno a uno fra
nuovi regolari e nuovi irregolari sancisce il fallimento della legge Turco-Napolitano nel determinare
le procedure di ingresso…..con la legge Bossi-Fini continuerà a essere difficilissimo assumere
regolarmente lavoratori domestici e operai provenienti direttamente dall’estero. Siamo facili profeti
dicendo che la mancata semplificazione delle procedure di ingresso avrà come conseguenza un
nuovo aumento di clandestini. Inoltre, il collegamento fra lavoro e permesso di soggiorno farà
entrare (o rientrare) nella clandestinità tutte le persone straniere che si troveranno senza un impiego,
ma non hanno alcuna intenzione di tornare al loro paese d’origine”. Purtroppo questa (drammatica)
profezia si è ampiamente avverata.

Enti locali e regioni


Le politiche sull’immigrazione italiana sono state sinora caratterizzate, più che politiche per gli
immigrati (dirette a governare l’accoglienza e l’integrazione), come politiche dell’immigrazione
(orientate alla disciplina degli ingressi e alla risoluzione delle emergenze che ne derivano ai fini
della prima accoglienza). Da ciò ne consegue che l’onere di determinare nel complesso una politica
di accoglienza, è stato affidato al ruolo di governo degli enti locali in forma tacita e
deregolamentata. Opinione condivisa da Derek Boden, relatore del progetto di parere sulla
comunicazione della Commissione delle Regioni d’Europa su immigrazione, integrazione e
occupazione: “è alle regioni e ai comuni che incombe la responsabilità di assicurare l'integrazione
dei migranti. Le amministrazioni locali e regionali sono responsabili della fornitura "sul campo" di
servizi agli immigrati e ai rifugiati. Occorre procedere ad un riparto delle competenze che
garantisca il rispetto del principio di sussidiarietà e concedere più mezzi alle collettività" 240.

Il fantasma della segregazione


Le attuali politiche hanno prodotto precarietà, una gestione insostenibile dei permessi,
clandestinità e reso ancora più arduo un governo ragionevole del fenomeno. Lo scenario che si
prospetta è quello di una segregazione strisciante. Nel mondo del lavoro dove, come ha
segnalato Ferruccio Gambino, emerge un quadro di composizione etnica del mondo del lavoro
provocata dalla regolazione selettiva dei fluissi migratori e dalla tendenziale separazione
occupazionale tra veneti e immigrati, sia nella gerarchia che nella tipologia di mansioni che vede gli
immigrati ricoprire le occupazioni più gravose e insalubri 241. Questa impostazione ha provocato una
svalutazione dell’intero lavoro salariato e una dequalificazione della produzione veneta che ancora
una volta ha puntato sui bassi salari e l’assenza di diritti come fattore competitivo 242 (vedi politiche
del lavoro). Malgrado il Veneto svetti nelle classifiche per la presenza di condizioni favorevoli
all’inserimento presenta un livello d’inserimento sociale e di radicamento stabile medio - basso: “il
che sta ad indicare come la regione esercitando da minor tempo un forte potere di attrazione sulla
popolazione immigrata ha ancora bisogno di “metabolizzare”, per così dire, le presenze straniere
sul proprio territorio e di “normalizzare” la sua recente funzione di area d’inserimento” 243.
Nel mondo della scuola dove lo smantellamento della scuola pubblica e l’aiuto alle scuole
private suggerisce uno scenario in cui nella scuola pubblica abbandonata e dequalificata verranno
240
in www.cor.eu.int/it
241
Ferruccio Gambino, Carichi di lavoro nella fabbrica diffusa del Veneto, in AA.VV. Distanze e legami, Roma, 2003
242
rimandiamo al Mattino di Padova del 30 giugno 2003 per l’ennesima storia di sfruttamento di operai in aziende
venete: “attraverso intermediari 3 aziende del padovano impiegavano decine di operai immigrati che percepivano fino al
40% in meno del minimo contrattuale con orari di 12 ore giornaliere e senza nessuna garanzia contrattuale”

164
confinati i figli di immigrati, e comunque di classi sociali escluse, mentre le scuola private saranno
appannaggio degli autoctoni benestanti. Anche nell’insediamento abitativo, come documentato da
una ricerca sull’insediamento degli immigrati nel Veneto, si delinea un quadro analogo; nelle
conclusioni, infatti, gli autori sottolineano: “appurato il sussistere di fenomeni di segregazione
spaziale, vanno tenuti in considerazione anche gli effetti cumulativi derivanti dall’agire di altre
forme di segregazione espresse ad esempio dai meccanismi di incontro tra domanda e offerta di
lavoro e che possono rafforzare le forme di concentrazione residenziale” 244.
Davanti a questo scenario occorre impostare una politica seria che coinvolga diversi livelli: dalla
scuola al lavoro, dalle politiche abitative al welfare. Serve una posizione chiara da parte della
Regione, attraverso l’approvazione di una nuova legge regionale sull’immigrazione (quella attuale è
stata pensata ormai più di un decennio fa): è un’esigenza evidente alla luce delle politiche miopi,
fallimentari elaborate a livello nazionale.
Il protagonismo degli immigrati e delle immigrate
Una condizione necessaria per il successo dei processi di integrazione è che i soggetti del
cambiamento siano visibili e conosciuti, ovvero che gli immigrati stessi siano interlocutori sociali e
protagonisti attivi. In questo senso, è strategico supportare una positiva organizzazione degli
immigrati. Se queste condizioni si realizzano, allora diventa possibile e più facile per i residenti
conoscere gli immigrati, le loro realtà di provenienza, le culture di cui sono portatori; allo stesso
modo, le comunità di immigrati hanno migliori opportunità per presentarsi e farsi conoscere nella
ricchezza delle proprie tradizioni. Sarà quindi più facile far emergere ed affrontare le esigenze
concrete delle diverse comunità conviventi nel nostro territorio, costruendo strumenti efficaci nel
far trionfare il rispetto del pluralismo culturale, sociale e religioso.

Immigrazione e lavoro
Nel lavoro si gioca una importante possibilità d’integrazione degli immigrati. Essi sono destinati
ad essere, anzi lo sono già, una parte importante del futuro produttivo della nostra Regione. Ma oggi
lo scenario non parla solo di possibilità di integrazione: Pietro Basso e Fabio Perocco, coordinatori
del Master sull’immigrazione dell’Università di Venezia, avanzano una tesi:”alle imprese servono
sempre nuovi contingenti di lavoratori immigrati, ma perché tale fornitura di manodopera
corrisponda in pieno alle loro attese bisogna che si tratti di una forza lavoro per quanto è possibile
indifesa”245. Sono precari perché soggetti deboli, subiscono per questo condizioni di lavoro
invalidanti, sono collocati socialmente più in basso anche perché non conoscono la lingua e perché
sono esclusi dai processi formativi246. E’ significativa in questo senso l’incidenza dei lavoratori in
nero immigrati sul totale dei lavoratori in nero: tale incidenza era nel biennio 2000-2002 del 20%
per salire al 33% nel 2002247. Il Dossier Caritas 2004 segnala come vi siano indicatori di crisi
nell’occupazione degli immigrati. L’onda lunga della crisi sembra dunque raggiungere anche le
qualifiche più basse quelle tradizionalmente occupate dagli immigrati. Tutto questo non farà che
rendere più difficile l’emersione e la regolarizzazione. Promuovere l’integrazione nel lavoro non
solo farà bene alla democrazia ma farà bene anche al sistema economico che ha bisogno soprattutto

243
Migranti in Veneto dopo la regolarizzazione secondo il Dossier Caritas 2004 a cura di IDOS - Centro Studi e
Ricerche Immigrazione Dossier Statistico
244
Stefania Bragato, Rita Canu, Le dinamiche residenziali di italiani e immigrati nel Veneto, in Giuseppe Sciortino,
Asher Colombo (a cura di), Un’immigrazione normale, Bologna, 2003
245
tratto da Cgil, ARCI, Antigone, CNCA, Legambiente, Rapporto sui diritti globali 2004, Roma, 2004
246
rimandiamo al Mattino di Padova del 30 giugno 2003 per l’ennesima storia di sfruttamento di operai in aziende
venete “attraverso intermediari 3 aziende del padovano impiegavano decine di operai immigrati che percepivano fino al
40% in meno del minimo contrattuale con orari di 12 ore giornaliere e senza nessuna garanzia contrattuale”.
247
si veda Marco Paggi, aspetti normativi e forme di lavoro degli immigrati,in Osservatorio Veneto sul lavoro nero,
elusione ed evasione contributiva, “Attorno al lavoro sommerso in Veneto. Una ricognizione”, Venezia, 2003

165
di una buona qualità del lavoro per far uscire le nostra regione da una situazione di crisi che
trent’anni di crescita caotica ci hanno consegnato.

Per una effettiva coesione sociale: la tutela dei diritti sociali fondamentali
La coesione sociale è frutto di effettivi processi di integrazione sul territorio. Maggiore impulso
dovrà essere dato alle misure dirette ad assicurare agli stranieri regolari il pieno esercizio dei diritti
loro riconosciuti. Va ricordato innanzitutto che anche con la nuova legge sull’immigrazione rimane
in vigore la parte, largamente inapplicata, della normativa del 1998 relativa ai processi
d’inserimento e di integrazione sociale dei migranti. Restano validi, fra l’altro, gli articoli
riguardanti il diritto alla salute e, per i minori, all’istruzione, che risultano prioritari rispetto alla
condizione giuridica dell’immigrato che ha bisogno di cure o che chiede di frequentare la scuola.
In Veneto nell’anno scolastico 2003-2004 vi sono stati più di 35.800 alunni con cittadinanza
straniera, il 12,7% del totale nazionale. Viene subito dopo la Lombardia per numero di alunni non
italiani, ed è quarto per incidenza sul totale della popolazione scolastica (5,6%).“La scuola è una
“istituzione mediatrice sotto tensione” che si trova a dover soddisfare i bisogni degli scolari
immigrati e quelli dei loro compagni nativi; bisogni che, in presenza di un continuo indebolimento
degli investimenti nel sistema scolastico, possono divenire pericolosamente alternativi” gli uni
rispetto agli altri”248. Il ruolo della scuola come luogo di inclusione (cultura, conoscenza,
formazione ←) è messo a dura prova dalla riforma e dai tagli al finanziamento: “con i tagli previsti,
sono molti i dubbi su quanto si riuscirà a mantenere in piedi degli interventi, molte volte egregi,
fatti dalle scuole. Mentre prima, sia attraverso il recupero ore, la disponibilità, i distacchi alcuni
provvedimenti a livello di programmi prevedevano queste cose, ora sembra non siano più previste,
almeno sulla carta della riforma in generale” commenta Don Bruno Baratto della Caritas Veneta.
Per questo la Regione dovrà investire con convinzione in questo settore perché qui si gioca la
possibilità di passare dall’emergenza dell’immigrazione alla quotidianità dell’inclusione. Per quanto
riguarda la formazione degli adulti occorre potenziare il ruolo dei Centri territoriali in
collaborazione con gli Enti locali attraverso un Piano straordinario: il diritto all’istruzione e alla
formazione coincide nel caso degli immigrati con la possibilità stessa di accedere ad altri diritti.
Un problema di mancato esercizio dei diritti si rileva tuttora sia nel campo della salute, dati a
livello locale fanno presumere che circa il 30% dei regolari, aventi diritto per legge all’assistenza
sanitaria a condizione di parità con i cittadini italiani, non si è mai iscritto al Servizio Sanitario
Nazionale249, condizione preliminare per l’accesso all’assistenza. Un primo passo, di semplice e
onesta civiltà, è quello di aiutare il trasferimento, per quanto di competenza della Regione,
delle competenze in materia di soggiorno dalle questure agli enti locali. Una delle differenze più
evidenti fra un italiano ed un migrante, sul piano della cittadinanza civile, è data dal diverso livello
amministrativo-istituzionale a cui l’uno e l’altro devono rivolgersi per ricevere documenti
essenziali: il primo si rivolge al Comune, e cioè all’articolazione democratica dello Stato più vicina
al cittadino, mentre il secondo ha l’obbligo di rapportarsi, al fine di ottenere il permesso di
soggiorno, con la Questura, struttura a cui è demandato il compito di tutelare l’ordine. Ciò
contribuisce al diffondersi di quel senso comune per cui il migrante ha come principali interlocutori
gli organi di polizia proprio perché potenzialmente pericoloso e da tenere quindi sotto controllo 250.

Informare per non dover dire…

248
Migranti in Veneto dopo la regolarizzazione secondo il Dossier Caritas 2004 a cura di IDOS - Centro Studi e
Ricerche Immigrazione Dossier Statistico
249
i dati sono desunti da Giovanna Zincone (a cura di), Secondo Rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia,
Bologna, 2001
250
per un decostruzione puntuale delle retoriche securtarie e sulla correlazione tra politiche della sicurezza e paura vedi
Giuseppe Mosconi, Criminalità, sicurezza e opinione pubblica nel Veneto, Padova, 2000

166
Carattere di priorità dovrà essere riconosciuto all’obiettivo di eliminare o quanto meno ridurre le
barriere, tanto di tipo prettamente linguistico o, più in generale, culturale, quanto di tipo
organizzativo, che ostacolano la fruibilità dei servizi da parte degli immigrati. In questo ambito la
priorità deve essere data alla formazione specifica degli operatori posti a contatto con l’utenza
immigrata e alla diffusione del ricorso ai mediatori culturali. E’ l’esigenza che si strutturino - in
collaborazione con enti locali, sindacati, associazioni - strutture d’informazione, orientamento e
formazione al lavoro251. Per questo un’ulteriore sforzo dovrà essere diretto all’informazione sui
diritti e sulla legge, risolvendo sul nascere eventuali conflitti, in quanto l’informazione porta ad una
consapevolezza dei propri diritti da parte degli utenti e obblighi per gli enti erogatori.
Si tratta:
 di produrre informazione in più lingue;
 di attivare forme di interpretariato sociale e di mediazione linguistico-culturale;
 di garantire loro le misure di assistenza sociale quando ciò si rende necessario;
 di dare avvio ad iniziative di sostegno e di intermediazione nel settore degli alloggi
 di promuovere attività formativa in grado di ampliare e di qualificare le possibilità di sbocchi
occupazionali.

Senza un tetto
La casa rappresenta oggi, per gli immigrati, il problema più grave 252. Se è vero che la grande
maggioranza degli immigrati non è senza casa (una integrazione avvenuta senza uno specifico
sostegno assistenziale), il modello prevalente appare come un modello di inserimento
subordinato: solitamente gli immigrati devono ricorrere a edifici che risultano irrecuperabili alle
esigenze della popolazione locale. Il secondo Rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia
segnala gli effetti di polarizzazione delle sistemazioni abitative: miglioramento per quote di
immigrati stabilizzati da un lato, persistente precarietà per le componenti più deboli e per quelle
all'inizio del percorso migratorio dall'altro. Il dato di fondo è la debolezza delle nostre politiche
abitative dal punto di vista sociale: l'estrema ristrettezza di un'offerta di affitto accessibile, e
l'insufficienza delle politiche mirate rivolte all'area della povertà 253. La scommessa
dell'innovazione è in gran parte affidata alla legislazione sull'affitto (legge 431/98), che prevede
incentivi fiscali per riportare nel mercato alloggi sfitti e per moderare i canoni attraverso forme di
contratti concordati, e istituisce un fondo per la concessione di contributi integrativi alle famiglie
con basso reddito: purtroppo questa misura non è in grado di soddisfare l'elevata domanda di alloggi
sociali data la scarsità quantità di risorse.

I compiti delle istituzioni


Affinché i fenomeni migratori vengano governati con efficacia, è necessaria la piena
partecipazione delle istituzioni a tutti i livelli, Regione, Province e Comuni. In particolare:
· la Regione deve assumere un nuovo ruolo di osservazione del fenomeno migratorio accanto a
funzioni effettive di programmazione, coordinamento e valutazione degli interventi, anche tramite
la predisposizione di un programma pluriennale di azioni per l’integrazione dei cittadini immigrati;

251
“urgente risulta essere la necessità di attivare servizi di orientamento e formazione al fine di valorizzare le
competenze spesso ignorate del lavoratore immigrato che, spesso, si ritrova confinato in uno status sociale inferiore a
quello ricoperto in patria. La questione è di grande rilievo per positivi processi d’integrazione che si ripercuotono anche
sulle seconde generazioni” Fondazione Corrazzin, Nella terra del lavoro, l’inserimento sociale e lavorativo degli
immigrati nel Nord – Est, Febbraio 2002
252
si veda la ricerca della Fondazione Corrazzin, Nella terra del lavoro, l’inserimento sociale e lavorativo degli
immigrati nel Nord – Est, Febbraio 2002
253
Antonio Tosi, Politiche abitative in Giovanna Zincone (a cura di), Secondo Rapporto sull’integrazione degli
immigrati in Italia, Bologna, 2001

167
· le Province devono predisporre piani provinciali di interventi per l’integrazione, assumendo un
ruolo attivo sia nella concessione dei contributi alle associazioni impegnate in essi sia nel
promuovere la partecipazione degli immigrati alla vita sociale;
· i Comuni devono assumere un ruolo di programmazione e realizzazione degli interventi, in
collaborazione con i soggetti del privato sociale.

168
Lavoro tra qualità e diritti
Il Nord Est al lavoro
Il lavoro ha rappresentato, per la società veneta, uno strumento di identificazione, di
affermazione sociale e di costruzione comunitaria. Una professionalità diffusa, generata dalle molte
abilità artigianali, e una mobilità professionale accentuata rappresentano alcuni fra i fattori centrali
del successo economico. Il sistema produttivo ha potuto disporre di quote significative di
manodopera, disponibili e flessibili, anche in virtù di una peculiare cultura del lavoro. Cultura che
mostra spesso il suo lato negativo nei ritmi forzati e negli orari prolungati 254. Ma la situazione oggi
sta mutando radicalmente, come illustra chiaramente Daniele Marini: “diversi indicatori e fenomeni
farebbero sostenere che quel modello ha esaurito la propria spinta propulsiva (…) .si va esaurendo
la manodopera disponibile locale, gli stessi lavoratori immigrati risultano non essere sufficienti a
rispondere alle necessità, il mercato del lavoro è giunto alla saturazione, cambia anche
l’atteggiamento della popolazione nei confronti del lavoro. Dunque, cambia un fattore peculiare e
centrale mediante il quale la società del Nord Est si è costruita” 255. Profonde trasformazioni hanno
attraversato questo mondo e hanno intaccato le esperienze profonde degli individui, le loro modalità
di identificazione sociale. Queste trasformazioni portano con sè il rischio di inedite forme di
sfruttamento e di esclusione basate sulla negata accessibilità ai saperi e ad una nuova diffusione del
lavoro servile256. D’altro canto queste trasformazioni contengono anche le premesse per ragionare
su nuove modalità di ricerca della qualità e della dignità dei lavori e nei lavori: su questo la Regione
può fare la sua parte.

Tendenze e numeri
Nel 2003, secondo il rapporto curato da Veneto Lavoro, il tasso di disoccupazione si
conferma bassissimo, intorno al 3,4% inalterato rispetto al 2002. In un contesto di stagnazione
questa bassa quota di disoccupati è contraddittoria solo in apparenza. L’andamento negativo
dell’economia, infatti, non produce effetti immediati sui tassi di disoccupazione, grazie al declino
demografico ed alla forte contrazione della produttività. Ciò nonostante, per assicurare la tenuta del
sistema, è stato necessario ricorrere in modo massiccio agli strumenti di sostegno per crisi aziendali
e ristrutturazioni. La dinamica complessiva delle assunzioni si mantiene costante da diversi anni,
ma cresce notevolmente la quota di assunzioni con contratti flessibili (circa 40% a tempo
determinato, 12% di interinale, 12% di apprendistato), che nel 2003 hanno sfiorato il 30% del
totale. L’aumento dell’occupazione temporanea spiega più della metà della crescita complessiva
dell’occupazione veneta nel 2003. Nel documento anticipatorio del Rapporto sul mercato del lavoro
nel Veneto relativo al 2004 si sottolinea come “la quota di temporanei, anch’essa ha evidenziato un
netto incremento, maggiore di quello registrato a livello nazionale, arrivando all’8,1% e ritornando
quindi sui livelli di incidenza osservati nel 2000, prima che vari fattori (credito d’imposta etc.) ne
frenassero l’ascesa”257. Una ricerca della CGIA di Mestre rivela come nel Nord Est fossero

254
1Osservatorio Veneto, Frammenti di lavoro, Quaderno 2/1999. D’altronde Bruno Anastasia, meno di 5 anni orsono,
sottolineava l’esistenza, non limitata a piccoli gruppi, del fenomeno dei “workhoolics”. Bruno Anastasia, Scenari del
mercato del lavoro, in Capire il Nord Est, Milano, 2000
255
Daniele Marini (a cura di), La flessibilità nel mercato del lavoro del Nord Est: risorsa o problema? Atti del seminario
della Fondazione Nord Est Venezia, 2001 In Davis Sacchetto, Il Nordest e il suo Oriente, Verona, 2004 vi sono
contenute penetranti analisi sui riflessi sociali in particolare sui giovani dei mutamenti del mercato del lavoro
256
“ Sono lavori flessibili e precari, con redditi bassi, molto spesso vicini e, in vari casi al di sotto della linea di povertà.
…..spesso le collaborazioni coordinate e continuative non sono lavoro formalmente dipendente , non hanno nulla di
autonomo, ma raccolgono in sé tanto di una nuova forma di lavoro servile”. Cgil, ARCI, Antigone, CNCA,
Legambiente, Rapporto sui diritti globali 2004, Roma, 2004
257
Veneto lavoro, Mercato del lavoro ed economia veneta nella congiuntura attuale. Prime note per il Rapporto 2004
sul mercato del lavoro in Veneto, in www.venetolavoro.it

169
impiegati, nel 2002, il 42% dei collaboratori coordinati continuativi (figura ora sostituita dal lavoro
a progetto) presenti in Italia258. Questo tipo di contratti nasconde spesso la trappola della precarietà a
vita vista l’alta probabilità per un individuo di ripetere la medesima esperienza di lavoro precario:
nel Veneto poco meno del 40% dei lavoratori interessati da un rapporto di lavoro flessibile ripete la
medesima esperienza nell’anno successivo259.

Flessibilità ovvero precarietà: nuovi scenari del lavoro


tra lavoro autonomo, tradizionalmente significativo in questa regione, e nuove forme del lavoro
dipendente cambia, tra mille contraddizioni, il panorama del mondo del lavoro: “la gestione della
flessibilità a sostegno delle esigenze dell’impresa, attraverso la variabilità degli orari e la
regolazione del mercato del lavoro, è stato sicuramente il tratto più originale della contrattazione
veneta del decennio”260. Nascono o crescono rapporti di lavoro che rendono meno nitida la
distinzione fra dipendenti e indipendenti. Si sta affacciando un mondo dove i lavori stanno
soppiantando il lavoro, per cui la discontinuità d'impiego e di carriera, involontaria o volontaria,
può diventare normale per un numero sensibilmente maggiore di soggetti. La costruzione
dell'identità professionale tende quindi a basarsi su più posti, più ruoli e più mestieri, perché
ciascuno di essi (al limite, ciascuna missione di lavoro temporaneo) aggiunge una porzione di
esperienza, di formazione, di sapere. L'identificazione sociale attraverso i lavori seguirà quindi
tragitti più complessi perché meno rettilinei e più personali, con sovrapposizioni e dissociazioni fra
la sfera del lavoro e le altre sfere dell'esistenza.
Ma non tutto il lavoro è meno esecutivo e non dappertutto è più cooperativo: la transizione è in
corso e il nuovo non ha soppresso il vecchio, dal quale del resto proviene. Per questo, il nuovo
contiene molti aspetti ambigui: basta pensare ai supermercati Carrefour 261, ai fast-food Mac
Donald's e a molti call center. Il sistema di riferimenti entro cui tutti ormai lavorano - camionista,
paramedico, financial promoter, web manager - è assai più complesso di quello dell'epoca taylor-
fordista: è una catena leggera e inafferrabile ma straordinariamente cogente 262 Questo modo del
lavoro vive forme di sfruttamento nuove e antichissime: i dati sugli infortuni sul lavoro dei
lavoratori interinali rivelano in parte quanto stiamo dicendo; come emerge dal Rapporto 2003
dell’Inail: “il risultato è in linea con gli elementi che gli addetti alla prevenzione vanno da tempo
rappresentando inascoltati e cioè la dimensione e la cause dei pericoli per la sicurezza del lavoro
che si nascondono dietro le quinte della cosiddetta flessibilità” 263. In Emilia, Lombardia e nel nostro
Veneto si registra più della metà degli infortuni denunciati, per queste categorie di lavoratori, a
livello nazionale.

Qualità del lavoro e qualità dello sviluppo


La precarietà che, come abbiamo visto, contraddistingue grande parte del mercato del lavoro
veneto, è funzionale ad una competitività di breve periodo che fa perno non tanto sulla qualità della
produzione ma esclusivamente sul prezzo finale della vendita. L’altra strada, quella di innovare
processi produttivi e prodotti, richiede oggi, sempre più, un processo di fidelizzazione del capitale
umano e cognitivo, al fine di favorire il più possibile lo sviluppo della ricerca dell’apprendimento e
della formazione. Nel quadro di una politica economica rinnovata, che competa sull’innovazione
dei prodotti e dei processi, la piccola impresa ha bisogno non tanto di un lavoro “usa e getta” che
riduca i costi di produzione e lasci intravedere un guadagno a breve termine, quanto piuttosto della
258
Centro Studi sintesi, La flessibilità nel mercato del lavoro nelle regioni del nord, in Microimpresa, 1/2004
259
Rapporto Veneto Lavoro 2003 in www.venetolavoro.it. Questa tendenza è confermata peraltro da altre ricerche: vedi
Mario Biagioli, Emilio Reyneri, Gilberto Seravalli, Flessibilità del mercato del lavoro e coesione sociale, in Stato e
mercato, 71/2004
260
Mario Giaccone, Le relazioni industriali in Veneto negli ultimi vent’anni, in Economia e società regionale, 2/2004
261
Renato Cardazzo, La stagione degli ipermercati: il Carrefour di Marcon, in Osservatorio Veneto, 1999
262
Sergio Bologna, Andrea Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione, Milano, 1997
263
Rapporto Inail 2003 in www.inail.it

170
possibilità di accedere ai finanziamenti necessari per la crescita e l’adeguamento tecnologico e per
una serie di servizi che migliorino la qualità della produzione. Una simile dinamica è resa possibile
da una buona capacità imprenditoriale e da rapporti di lavoro continuativi, garantiti e ben
remunerati.

Per una “Carta regionale dei diritti del nuovo lavoro”


La riforma del mercato del lavoro ha conseguenze rilevanti sull’organizzazione della società.
Si può dire, in una formula, che non è più l’economia ad essere incastonata nei rapporti sociali ma
sono questi ultimi ad essere incastonati nel rapporto economico con un rovesciamento dei valori che
emargina un gran numero di persone. Il nostro obiettivo dev’essere quello di contrastare questa
deriva passando da una flessibilità tutta a vantaggio delle imprese, a una flessibilità che incorpori
anche le scelte (e i bisogni) del lavoratore. Ciò significherebbe uscire dallo scenario della flessibilità
negativa attraverso nuove forme di tutela che riconoscano la possibilità di scelta del lavoratore.
Scelte che si basano sul mercato del lavoro locali, sulla possibilità di intercettare e organizzare
nuovi lavori sul territorio, su un’organizzazione del lavoro che diviene fattore condiviso e che
implica il riconoscimento delle diversità individuali all’interno di un quadro riconosciuto di regole.
Per questo occorre che il territorio si configuri come il luogo di ricomposizione dei saperi
(istruzione e formazione), ma anche della rappresentanza del lavoro e della frantumazione dovuta
alla flessibilità. Elemento costitutivo di questa configurazione è la coppia conoscenza-formazione
che prefigura una nuova organizzazione del lavoro, fondata sulla necessità/bisogno di apprendere.
Sapere e saper fare dovrebbero trovare il loro sviluppo nel binomio istruzione-formazione in quanto
terreno concreto del superamento della divisione tra lavoro manuale e intellettuale (vedi cultura,
formazione, conoscenza←). Perché ciò accada, qualunque sia la forma concreta del lavoro, è
necessaria la certezza del “contratto”. Pensiamo ad una “Carta regionale dei diritti del nuovo
lavoro” che stabilisca alcuni principi quali la pari dignità di tutti i cittadini, la funzione attribuita
all‘attività lavorativa, alla necessità dell’intervento regionale volto a correggere le sperequazioni di
posizioni. Il principio ispiratore di tutto questo sarà la tutela del lavoro in tutte le sue forme e
applicazioni che trova espressione nell’articolo 35 della Costituzione che esplicita come la
Repubblica ha il dovere di tutelare, in linea di principio qualsiasi lavoro. Esiste un’istanza generale
di tutela del lavoro che prescinde del posto che si occupa nei rapporti di produzione: l’implicazione
della persona nel lavoro - in qualsiasi lavoro - comporta l’attribuzione a tutti i lavoratori di un
nucleo inalienabile di diritti fondamentali che discende direttamente dal loro status di cittadini264.

Politiche del lavoro e Regione


I nuovi strumenti che la legislazione nazionale e regionale introducono, portano ad un
sistema di relazioni industriali a forte baricentro regionale, in cui sarà possibile promuovere
strategie e azioni in grado di condizionare il mercato del lavoro regionale. Sarà così possibile, per
un governo regionale intenzionato a farlo, contrastare la deregulation e le flessibilità solo funzionale
all’impresa. Tra gli altri il sistema di istruzione e formazione professionale e la politiche di sostegno
al reddito, costituiscono leve importanti in mano alle istituzioni regionali e provinciali per
accompagnare questa nuova fase di cambiamento del sistema economico e produttivo della
Regione. Infatti l’ente regionale ha potestà di legislazione concorrente, può inceppare il
meccanismo decisionale perché gestisce le competenze per l’impiego, può esercitare azione di
incentivo disincentivo su tutta la serie di finanziamenti che eroga in proprio e per conto della UE,
deve per primo, essendo egli stesso datore di lavoro, impegnarsi a non utilizzare forme di rapporto
di lavoro precarizzanti. Abbiamo già denunciato (vedi politiche economiche ←) la latitanza della
Regione tanto nella definizione quanto nella gestione delle politiche di sviluppo locale,
egemonizzate dal mondo imprenditoriale e dalle sue strutture associative. La Regione potrebbe
264
Riccardo Del Punta, Diritti e libertà del lavoro: quali tutele per il lavoro che cambia, in Giovanna Mari (a cura di),
Libertà, sviluppo, lavoro, Milano, 2004

171
invece esercitare un ruolo significativo nelle relazioni industriali e all’interno di una rinnovata
contrattazione territoriale, oggi nella nostra regione poco utilizzata 265, in particolare nelle aree
distrettuali. La contrattazione territoriale si pone come l’obiettivo più adeguato per rispondere alle
dinamiche produttive che coinvolgono e innervano l’intero territorio.

Tutela del tragitto e reddito di cittadinanza


Per passare da una flessibilità a tutto vantaggio delle imprese ad una flessibilità che
incorpori i bisogni dell’individuo, si rende necessaria una rete protettiva leggera e universale che
assista il lavoratore nella transizione di posto o di carriera, aiutandolo a valutare il proprio
potenziale e a ricollocarsi in modo adeguato; che certifichi i passaggi compiuti negli itinerari di
lavoro e di formazione, che accompagni i periodi di mobilità con attività di formazione, che metta a
frutto l'anzianità maturata negli impieghi temporanei presso la medesima impresa. Per fronteggiare
le discontinuità d’impiego bisogna, da un lato, consolidare i rapporti di lavoro flessibili nella misura
del possibile e del giusto, e, dall’ altro lato, aiutare e assistere, durante i periodi o le fasi di
transizione, tutti i lavoratori che ne hanno bisogno. L’obiettivo è che i passaggi da un impiego
all’altro, con i quali il singolo costruisce la propria identità professionale, lascino una traccia.
Occorre il rafforzamento del Servizio Pubblico all’Impiego (SPI), promuovere anagrafi del lavoro e
libretti elettronici dei lavoratori, le certificazioni professionali dei ruoli svolti e della formazione
fruita, graduazioni temporali dell’indennità di disoccupazione, ricomposizione delle carriere
contributive, garanzie minime di continuità contrattuale. Ma la risposta più forte e organica al tema
della tutela del tragitto è l’assegnazione ad ogni cittadino di un reddito di cittadinanza che miri ad
affrancare chi lo riceve dalle costrizioni del mercato del lavoro (vedi politiche del welfare←). Il
reddito di cittadinanza deve permettere di rifiutare il lavoro e le condizioni di lavoro “indegne”:
deve collocarsi in un ambiente sociale che permetta ad ognuno di scegliere permanentemente tra il
valore d’uso del suo tempo e il suo valore di scambio. Questo nuovo modo di intendere il welfare
come diritto ad un reddito universale di base, sembra lontano dalla nostra realtà politica quotidiana
ma è in realtà prefigurato dalla Carta dei Diritti Europea recentemente approvata. L'articolo 34
infatti afferma: "Ogni individuo che risieda o si sposti legalmente all'interno dell'Unione ha diritto
alle prestazioni di sicurezza sociale e ai benefici sociali (…). Al fine di lottare contro l'esclusione
sociale e la povertà, l'Unione riconosce e rispetta il diritto all'assistenza sociale e all'assistenza
abitativa volte a garantire un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse
sufficienti, secondo le modalità stabilite dal diritto comunitario e le legislazioni e prassi nazionali".
Va sottolineato come le prestazioni non siano espressamente vincolate alla cittadinanza
(sembrerebbero rientrarvi quindi anche i cittadini extracomunitari residenti in Europa) e che non
sono citati vincoli espliciti alle erogazioni.
Con la modifica del Titolo V della Costituzione la Regione può legiferare in materia di sostegno al
reddito - come dimostra peraltro la legge della Campania che ha introdotto una forma di reddito di
cittadinanza - inoltre sono in campo alcune proposte anche dettagliate sulla sostenibilità economica
di un proposta di questo tipo su scala regionale266.

Formazione e conoscenza
Non è sufficiente, anche se necessario, progettare reti di sostegno economiche: “la conoscenza, la
capacità di costruire senso è l’elemento chiave, la tutela e nel contempo lo strumento fondamentale
per attraversare ed essere attraversati dalla flessibilità, per comprendere ed agire senza essere
travolti”267. La frammentazione della produzione e del lavoro dovuta alla creazione di reti produttive
complesse e interdipendenti ha come conseguenza l’alienazione della conoscenza non solo dagli
individui ma anche dalle comunità e dai territori: ne risultano penalizzati il governo delle risorse,
265
Mario Giaccone, Le relazioni industriali in Veneto negli ultimi vent’anni, in Economia e società regionale, 2/2004
266
Andrea Fumagalli, Misure contro la precarietà esistenziale e distribuzione del reddito, in Posse, 2004
267
Achille Orsenigo, La costruzione dell’identità lavorativa in un mondo sollecitato dalla flessibilità, in Spunti, 6/2002

172
dell’ambiente e della salute. Si sta affermando un vero e proprio mercato delle conoscenze e delle
innovazioni sempre più globale e alienato dai territori e dalle comunità, che su questi però ha una
influenza determinante. L’innovazione può essere la forma attraverso cui il sistema territoriale
ricostruisce la propria riconoscibilità nel mondo: ma occorre che questo avvenga senza perdere il
controllo del processo puntando a rendere socialmente valutabili gli obiettivi e gli esiti
dell’innovazione. Per questo occorre dare alle persone strumenti per poter comprendere i processi.
La formazione permanente, integrata ad un’organizzazione del lavoro che offra nuove opportunità
di apprendimento, è questo il terreno decisivo per contrastare la nuova alienazione e la crescente
esclusione sociale268 (vedi cultura, formazione, conoscenza ←). La formazione permanente
funziona solo se ha davvero accompagnato la vita lavorativa delle persone, se si è basata su
periodici bilanci delle competenze, se ha saputo valorizzare le risorse intellettuali di ciascuno, se ha
saputo riconoscere i diversi livelli di autonomia e di responsabilità. A tutti deve essere data la
possibilità di crescere professionalmente, di apprendere nel lavoro, di vedere riconosciute le
competenze che con il lavoro e con la formazione si acquisiscono a prescindere dalla natura
giuridica del contratto. Occorre che divenga diffusa e concreta la coscienza dell’importanza del
sapere individuale e collettivo per l’autorganizzazione delle vite individuali e collettive, degli
ecosistemi e comunità locali, regionali: riappropriarsi dei saperi e delle conoscenze è condizione
fondante della riappropriazione collettiva libera e pacifica del potere.

Lavoro e società
Occorre riorganizzare, secondo criteri socialmente utili, la ripartizione del lavoro accettando
il principio per cui occorrerà aumentare non solo la produttività fisica del lavoro, ma la sua
produttività sociale: occorre incentivare un processo di orientamento dell’economia che dia risposta
al un progressivo spostamento della domanda dai beni privati ai beni sociali. Il potenziamento di
mercati locali legati alle condizioni socioambientali del territorio, assume un’importanza strategica
visto il contesto in cui viviamo dove i costi sociali del lavoro vengono scaricati sugli individui (si
pensi alle pensioni) e vi è una caduta della solidarietà tra le diverse parti sociali 269.
Inoltre l’orientamento verso produzioni di qualità risponde alla crescente domanda di “senso“ da
conferire all’attività lavorativa270. In termini di creazione di posti di lavoro esiste, ad esempio, un
notevole potenziale nel settore delle energie rinnovabili 271, chiave fondamentale per la riconversione
dello sviluppo. Le attività di costruzione come il rinnovamento di edifici privati e commerciali, la
tutela del patrimonio culturale, il riassetto dei centri urbani e delle infrastrutture cittadine (in
particolare la costruzione di strade pedonali e di piste ciclabili e lo sviluppo della rete di trasporti
pubblici) hanno il merito di creare posti di lavoro, incrementare l’attività economica a livello locale
(anche nel settore turistico), preservare le risorse energetiche, migliorare la qualità dell’ambiente e
adeguare alle esigenze moderne le infrastrutture abitative e di trasporto. L’investimento in settori ad
alta qualità ambientale e sociale comporta inoltre la creazione di lavori qualificati che rispondono
alla crescente domanda da parte di giovani laureati. Esiste infatti oggi uno scollamento nel mercato
del lavoro veneto tra una domanda di lavoro altamente qualificata e un’ economia basata ancora su
produzioni a basso contenuto cognitivo272.

Contro il sommerso e l’illegalità


Nel triennio 2000-2002 in Veneto sono state identificate circa 1700 aziende in nero e poco
meno di 50.000 lavoratori fuori regola; il fenomeno interessa tutti i settori economici anche se
268
Chiara Saraceno, Formazione, povertà ed esclusione sociale, in www.lavoce.it, 2003
269
Renato Cecchi, Nuove autonomie e nuove subalternità, in Giovanna Mari (a cura di), Libertà, sviluppo, lavoro,
Milano, 2004
270
Bruno Anastasia, Dopo la piena occupazione, quale senso per il lavoro? In Veneto, economia e società, 2/2000
271
in Germania lo sviluppo dell’energia rinnovabile ha creato 130.000 posti di lavoro (Rapporto Ambiente in
Repubblica 1/11/2004)
272
Michele Cangiani, Silvia Oliva, L’economia veneta fra crescita e trasformazione, in Venetica, 2001

173
l’agricoltura è il settore dove vi è la maggiore incidenza di unità di lavoro irregolari (il 27% nel
Veneto273). Numerosi studi prevedono una espansione del fenomeno legato al declino e alla scarsa
competitività del sistema produttivo italiano 274. Pensiamo che la strategia per contrastare l’economia
sommersa e accompagnare le imprese alla legalità debba incentrarsi sul territorio. L’illegalità in
questo campo, infatti, non solo danneggia i lavoratori, ma rappresenta una risposta miope alla
crescente competitività attraverso la compressione dei costi ambientali e sociali della produzione: il
contrasto a questo fenomeno non può che riguardare la qualità complessiva dei sistemi economici e
sociali locali che appare decisiva nell’influenzare i comportamenti e la qualità produttiva del
territorio. La lotta al lavoro nero necessita di interventi strutturali che agiscano sia sull’eccezionalità
quanto sul consolidamento dei sistemi economici locali, aumentando la qualità dei sistemi
produttivi, estendendo tutele e diritti, rendendo più funzionali gli assetti organizzativi degli organi
ispettivi.
Proponiamo l’elaborazione e l’attuazione di “Piani locali di sistema per l’emersione” (su base
provinciale e regionale) come strumenti d’intervento tanto sul versante dei benefit diretti e specifici
per le imprese che emergono, quanto sulla qualificazione della manodopera coinvolta (formazione),
sulla qualificazione del territorio da un punto di vista urbanistico, sulla messa a disposizione di
servizi di accompagnamento, tutoraggio e consolidamento dei processi di emersione.

Salute e sostenibilità dei lavori


Il Veneto ha indici di frequenza infortunistica superiori alla media nazionale, come riportato
dal rapporto di ricerca dell’Inail del 2003. Questo dato che riflette la struttura produttiva regionale
incentrata su produzioni “mature”. Nel 2003 (così come nel 2002) sono aumentate, nel Veneto, le
“morti bianche”: questo dato è in controtendenza con l’andamento nazionale che vede un leggera
flessione del numero delle morti sul lavoro. Occorre potenziare le strutture territoriali di
prevenzione, (vedi politiche del welfare←) ma più in generale riformulare i servizi nell’ottica della
promozione e della prevenzione.
A livello di politiche regionali è da segnalare, e da studiarne un’applicazione locale, l’iniziativa
della Regione Emilia Romagna di un Marchio di Qualità Sociale del Lavoro e della Produzione.

273
i dati sono desunti dal rapporto di ricerca dell’Osservatorio Veneto sul lavoro nero, elusione ed evasione
contributiva, “Attorno al lavoro sommerso in Veneto. Una ricognizione”, Venezia, 2003
274
sul tema si veda Alessandro Genovesi, Lavoro nero e qualità dello sviluppo, Roma, 2004

174
Non solo torpedone
Un turismo di qualità per il Veneto delle relazioni
Oggi il modello di offerta turistica ancora dominante, fatto di infrastrutture pesanti,
irriconoscibilità dei luoghi, divertimentificio, è in crisi. Il turismo invernale montano, dopo aver
superato la fase di successo e di rapida espansione negli anni ’80, ha iniziato la fase di maturità che
nella teoria del ciclo del prodotto prelude al declino 275. Anche il classico turismo estivo da “spiaggia
e ombrellone” è in fase di declino conclamato. Quel modello turistico si rivolgeva ad una
organizzazione sociale - modalità lavorative, modelli culturali, strutture famigliari - oggi
tramontata. Siamo di fronte alla necessità di una revisione profonda, che non è indolore, delle
modalità e della cultura del fare turismo. Secondo noi, più che un ulteriore investimento in
infrastrutture, intrattenimento o marketing che tenti di estenuare un modello in crisi, occorre volgere
lo sguardo altrove verso modelli leggeri di turismo basati sulla conoscenza del territorio. Francesco
Vallerani, ad esempio, tratteggia, felicemente, una possibile prospettiva quando indica nella pratica
del escursionismo e del turismo sostenibile nei paesaggi fluviali una occasione per “cogliere gli
elementi meno noti della complessa territorialità del modello veneto” 276. Non parliamo di un
turismo di massa ma di un “offerta” turistica che da una parte rispetta il territorio attraverso attività
a basso impatto e dall’altra coglie le nuove tendenze che rifuggono dal modello del turismo di
massa per cercare esperienze più “autentiche” di ricerca territoriale e antropologica. Per altro il
perseguimento di questa offerta può avere delle ricadute rigenerative sul territorio stimolando il
recupero memoriale di antiche quotidianità o la riscoperta di giacimenti eno-gastronomici.

Necessità della politica


Il settore turistico, per l’evidente complessità della sua filiera, per le sue valenze
interdisciplinari, per l’inscindibile dimensione locale - globale in cui è collocato, per l’impatto
sociale e ambientale, oltre che economico, sulle comunità locali, conferma l’urgenza di un governo
che riesca a confrontarsi con la cultura politica della complessità con una logica integrata, sistemica
e in grado di orientare sensibilmente la domanda. Inoltre, a partire dalle caratteristiche più sopra
richiamate, si è consolidata la convinzione che il settore turistico vada considerato in un’ottica di
sviluppo locale, perché è un fenomeno che può essere consumato solo in loco, non è riproducibile,
può essere fruito solo in presenza e non a distanza. In un’epoca in cui la globalizzazione assume
confini sempre più vasti e la preoccupazione di uno sviluppo differente si fa sempre più intensa, i
sistemi locali possono rappresentare le basi dello sviluppo economico del nostra regione: per questo
è importante identificarli e supportarli con politiche appropriate.
Una politica per il turismo si traduce in una politica per lo sviluppo territoriale che contenga
una particolare attenzione alla componente culturale, il che richiede strategie innovative nelle
politiche territoriali e di pianificazione, azioni di marketing, dove il territorio e i suoi processi di
ricomposizione sono al centro dell'attenzione generale. La qualità di una destinazione turistica è il
risultato di una molteplicità complessa di fattori quali la qualità delle risorse, dell’ambiente,
organizzazione dell’offerta ricettiva, dotazione infrastrutturale, cultura dell’ospitalità, ecc. 277.
L’immagine di una destinazione è contestualizzata, intimamente legata ad un territorio, nelle sue
275
Ernesto Rigoni, Modelli di produzione turistica, in Urbanistica Dossier 63/2004
276
Francesco Vallerani, Acque a nordest, Verona, 2004
277
si veda AA.VV. Turismo e territorio, Milano, 2002

175
valenze fisiche, paesaggistiche, produttive e ad una comunità, intesa come valori, storia, tradizioni,
caratteristiche umane. Il turismo è consumato nei luoghi dove si produce; la sua integrazione con il
territorio ne costituisce un fondamentale vantaggio competitivo.

Uno sguardo alle cifre


Il turismo rappresenta il settore più dinamico e generatore di reddito e di occupazione
dell'economia veneta. Secondo le stime riportate nell'XI° Rapporto sul Turismo italiano il settore ha
portato all’economia regionale 8.400 milioni di euro di valore aggiunto, pari a circa l'8% del PIL
regionale. Sempre l'XI° Rapporto evidenzia che la spesa turistica effettuata in Veneto da parte di
cittadini stranieri è pari a quasi 4.800 milioni di euro, ai quali vanno aggiunti più di 6.000 milioni di
euro spesi da turisti italiani.
Questa sintesi è fondata sull’incremento di una pluralità di attività economiche correlate al
turismo che, in termini di occupazione, portano ad una stima di circa 350.000 unità di lavoro
standard assorbite da circa 15.000 imprese di piccole e medie dimensioni. Il numero di strutture
ricettive rilevato è cosi articolato: n. 3.223 strutture alberghiere, n. 49.491 extra-alberghiere, n. 653
agenzie di viaggio e turismo ed altre imprese del settore turistico rilevate dall'ISTAT per circa 3.400
unità (da cui la stima prudenziale che almeno 15.000 siano rette a regime d'impresa).
L'indice lordo di occupazione del posto letto in media regionale, considerate tutte le strutture
ricettive, è pari al 32% mentre per il solo alberghiero è pari al 51%; ciò significa che la capacità
d'espansione rimane molto elevata al di fuori delle zone ad alta intensità turistica. Sul versante
domanda, il Veneto ha un flusso di turisti registrati in strutture ricettive pari a quasi 58 milioni di
presenze e a quasi 12 milioni di arrivi per il 2001, movimentando il 10% dell'intero incoming
nazionale. Di questo flusso in entrata nella Regione il 58% arriva dai paesi esteri ed il 42% è
mercato Italia. Oltre il 46% degli arrivi vengono registrati nel comprensorio città d'arte - quindi
Venezia, Verona, Padova, Treviso, Vicenza e tutti i centri storico/artistici disseminati sul territorio -
a seguire le località marine - Jesolo, Bibione, Caorle ecc - che con oltre 3,5 milioni di arrivi
incidono per il 29% sul totale regionale; la destinazione Lago di Garda raccoglie il 13% degli arrivi,
seguita dalle località montane con il 7% e dalle località termali - costituite dal bacino termale
euganeo e dal comprensorio di Recoaro - che evidenziano un'incidenza sul totale arrivi pari al 5%.
In termini di presenze - quindi di durata del soggiorno - il comprensorio delle località balneari
detiene il 45% del totale, seguita dalle città d'arte con il 22%, dal polo turistico del Lago di Garda
con il 15%, dalla montagna veneta con il 12% e dalle terme con il 6%.
La distribuzione dei flussi turistici nella distinzione territoriale degli ambiti provinciali -
anche se meno significativa sotto il profilo del prodotto turistico - vede leader la Provincia di
Venezia che nel 2001 ha registrato il 52% degli arrivi ed il 53% delle presenze regionali, seguita
dalla Provincia di Verona con il 20% degli arrivi e delle presenze, da Padova con il 9% degli arrivi
e il 8% delle presenze, da Belluno con il 7% di arrivi e 10% di presenze, Vicenza con 5% di arrivi e
4% di presenze, Treviso con 5% e 2% rispettivamente e infine la Provincia di Rovigo che raccoglie
il 2% degli arrivi e il 3% delle presenze regionali.

Turismo nel Veneto


Nel Veneto, nonostante la rilevanza del settore, la diffusione della pratica turistica non è
stata considerata con la dovuta attenzione e non è stata sorretta da accorte politiche settoriali nel
campo delle infrastrutture, della mobilità e dell’urbanistica ma soprattutto ha mancato di una
strategia d’insieme in grado di valutare e prevenire gli impatti, promuovere la qualità, migliorare la
fruibilità del territorio, diversificandola. E’ prevalso un approccio di tipo finanziario e di breve
periodo rispetto ad uno di programmazione strategica più complessiva, impostando il problema
esclusivamente come ampiezza della capacità ricettiva offerta. In questo senso la Legge quadro sul
turismo promossa dalla giunta regionale è stata un’occasione mancata: si è rivelata infatti solo un
semplicistico accorpamento delle leggi vigenti e, pur adottando lo strumento dei Sistemi Turistici

176
Locali in riferimento alla legge 135/2001 nazionale, non considera fattori strategici quali i
giacimenti agroalimentari di qualità o ignora comparti turistici come quello giovanile 278.
Occorre una programmazione che consideri come i mutamenti in atto: l’avvento un turismo
di nuova generazione, territoriale, basato su diverse modalità di offerta e rivolto a soddisfare gli
interessi speciali, cioè le attitudini. I mutamenti strutturali della domanda turistica, poi, caratterizzati
da una segmentazione sempre più spinta con marcate differenze tra un segmento e l'altro, tra una
stagione e un'altra, con sovrapposizioni tra turisti e residenti fruitori del tempo libero, impongono
all'offerta turistica una gestione economica basata su una pluralità d'imprese organizzate
territorialmente. D'altro canto, la stessa nuova legge quadro nazionale (135/01) nell'ambito di un
fortissimo decentramento funzionale associa un generale riconoscimento al turismo e alle risorse
turistiche come fattore essenziale di sviluppo locale territoriale. La disfunzione dunque tra un
mercato che necessità costantemente di innovatività e di adeguata regolamentazione e una
normativa che fatica a comprenderne la complessità, risulta evidente. Eppure uno dei principali
risultati della riflessione teorica sul turismo, che la citata legge nazionale ha colto (art. 5 comma 5),
è rappresentato proprio dal Sistema locale di offerta turistica (SLOT), inteso come un insieme di
attività e fattori di attrattiva che, situati in uno spazio definito (un sito, una località, un’area) siano in
grado di proporre al visitatore un’offerta articolata e integrata, realizzando un sistema di ospitalità
turistica specifica e distintiva che valorizza le risorse e la cultura locale.
L’applicazione della legge nazionale nel Veneto è stata di tipo ”inerziale” attraverso il
riconoscimento di preesistenti organismi come le Aziende di promozione turistica con un elenco di
insiemi di comuni, nell’ipotesi, forse, di avviare un processo di “regionalizzazione”. Tutto ciò non
ha impedito lo sviluppo e la diffusione di beni e servizi turistici locali, ma non ha portato ad una
crescita qualitativa del sistema di accoglienza e quindi della stessa “qualità” della domanda di
consumo di tempo libero e non ha permesso che si utilizzassero tutte le potenzialità insite nel
turismo ai fini dello sviluppo dell’occupazione. La mancanza dunque di politiche integrate che con
la valorizzazione e la salvaguardia del territorio, attivino anche politiche occupazionali ci riporta a
constatare che in troppe località turistiche la situazione ambientale è ad un livello preoccupante
(approvvigionamento idrico, qualità dell’acqua potabile e della balneazione, erosione del suolo e
delle coste, desertificazione , incendi boschivi, sviluppo edilizio incontrollato, traffico
congestionato, ecc.).

Eppure…
Eppure il turismo ha vitalmente bisogno di conservare le preziose risorse naturali e sociali
che ne costituiscono il presupposto. I flussi turistici possono avere impatti pesanti sui delicati
equilibri dei centri storici, delle città d’arte, delle aree archeologiche, ma il turismo per esistere ha
bisogno di conservare quegli equilibri che esso stesso rischia di rompere. Un paesaggio intatto e la
diversità culturale e biologica rappresentano risorse insostituibili, precondizioni per ogni attività
turistica. Sono in costante aumento le richieste di conoscenza dello spazio, la consapevolezza
ecologica, il confronto tra culture, l’approccio con le diverse tradizioni che portano alla nascita di
nuovi turismi, come quello culturale, naturalistico, enogastronomico, ecc.. La competizione del
prodotto turistico domestico si gioca sempre più sui cosiddetti fattori “no price”.
Cresce nei turisti la considerazione per l’importanza dell’ambiente: sempre più esso
rappresenta una variabile decisiva sia per la scelta delle destinazioni sia per giudizio sulla
soddisfazione per le vacanze trascorse. L’ambiente è una componente interna del prodotto turismo,
vivono o muoiono insieme, ma questo non vuol dire che la salvaguardia dell’ambiente si
accompagni sic et simpliciter allo sviluppo del turismo, infatti molti operatori turistici considerano
la qualità dell’ambiente come componente essenziale dell’offerta turistica, ma non tutti: permane

278
Sulle potenzialità del turismo legato ai giacimenti enogastronomici e sulle regole per “non improvvisare” si veda
Davide Paolini, Giacimenti Enogastronomici, il rischio turismo, in Equilibri 1/2004

177
per molti operatori la logica dell’anticipare e massimizzare le possibilità di immediato guadagno a
scapito delle generazioni future279.

Un altro modello di turismo?


Il turismo può dunque diventare un terreno privilegiato di sperimentazione dello sviluppo
sostenibile a patto che si promuovano azioni efficaci di governo delle risorse.
Per le caratteristiche dell’attività turistica sarà indispensabile coinvolgere tutti gli attori della filiera
turistica, l’applicazione al settore del turismo dell’Agenda 21, delle Direttive dell’O.M.T.
(Organizzazione Mondiale del Turismo) e dell’UNEP (United Nations Environment Programme),
l’adesione ai programmi comunitari per l’ambiente.
Occorre che “turismo sostenibile” non sia un concetto astratto o uno slogan, Per questo
l’Organizzazione Mondiale del turismo di Madrid (che è un agenzia dell’ONU) ne ha individuato
tre caratteristiche fondamentali: 280
1. le risorse ambientali devono essere protette
2. le comunità locali devono beneficiare di questo tipo di turismo sia in termini di reddito sia in
termini di qualità della vita
3. i visitatori devono vivere un esperienza di qualità
Vi sono numerosi esempi di azioni che tentano di riconvertire modelli turistici insostenibili:
l’UNEP ha sviluppato delle “linee guida” metodologiche per la valutazione della carrying capacity
(UNEP 1997), tale valutazione è finalizzata ad orientare e definire le politiche di sviluppo del
turismo, in particolare nelle aree costiere281. La metodologia propone l’analisi di tutte le componenti
dello sviluppo turistico locale: le caratteristiche ambientali e urbanistiche delle aree interessate, la
tipologia e l'ampiezza delle attrattive turistiche, le relazioni tra micro e macro politiche del turismo,
le preferenze della popolazione locale, dei turisti, degli operatori. Questa analisi dovrebbe
permettere di mettere in luce (e possibilmente “quantificare”) le caratteristiche (ambientali,
infrastrutturali, di mercato) che costituiscono la “capacità di carico” del sistema, che viene infine
valutata alla luce di diversi possibili scenari di sviluppo turistico e dal confronto con le volontà
politiche, economiche e sociali presenti nell’area.
Nel nord Europa, in Spagna ma anche nella vicina Romagna sono state promosse iniziative per
la sostenibilità, la riqualificazione di aree a grande presenza turistica 282. Queste analisi possono
portare anche a fissare dei limiti inderogabili alla possibilità di “valorizzazione” di alcune aree
come la “fragile” Laguna (vedi coste e lagune ←). Come già ampiamente dimostrato a livello
europeo ed evidenziato con alcune esperienze regionale quali il Comune di Bibione con la
certificazione Emas e quello di Cavallino tre porti con il Manifesto Ambientale dei Campeggi, le
politiche di salvaguardia ambientale nate direttamente da un’esigenza territoriale, oltre a garantire
una prosecuzione dell’attività turistica in quanto ne tutela il prodotto commerciale, si traducono in
un’efficace politica di marketing garante di una qualità dell’offerta complessiva.
Un fattore importante di una politica del turismo è l’elaborazione di informazioni e analisi
utili283. Inoltre la necessità di definire in maniera precisa la capacità di carico del territorio, occorre
elaborare una serie di utili indicatori quali strumenti necessari per la pianificazione delle politiche
turistiche locali.

279
Alessandro Lanza, Francesco Pigliare, Economia del turismo: crescita, qualità ambientale, sostenibilità, in Equilibri,
1/2004
280
si veda la Carta per un Turismo Sostenibile di Lanzarote reperibile su www.solidea.org
281
Gianni Moriani, Manuale di ecocompatibilità, Venezia,2001
282
si vedano gli atti della Conferenza Internazionale sul Turismo Sostenibile, Rimini 28-30 giugno 2001 reperibili su
www.actanet.it in particolare
283
Mara Manente, Federica Montaguti, Sostiene Venezia. Prodotto, dinamiche della domanda e regione turistica, in
equilibri 1/2004. in questo studio le autrici dimostrano come flussi turistici consistenti stiano in questi ultimi anni
privilegiando l’entroterra veneto grazie allo scadimento dell’offerta turistica veneziana.

178
Una problema centrale è il ruolo di Venezia come grande attrattore del Veneto, con le difficoltà
che ne conseguono: la difficoltà di gestione dei flussi e il decadimento della città a puro luogo di
attrazione turistica e la difficoltà di ricostruzione del tessuto cittadino per una restituzione
identitaria della città a coloro che la abitano. Le politiche applicate per un’evoluzione in tal senso
sono numerose e diversificate ma stentano il raggiungimento degli obiettivi. La necessità di
orientare i flussi turistici a tutto territorio regionale a partire da Venezia in un’ottica di gestione
integrata del territorio, permetterebbe di divulgare ed approfondire la conoscenza del Veneto, di
ridistribuire le entrate legate al settore e decongestionare l’afflusso cittadino

Sistemi Turistici Locali


Il S.T.L. è dunque un distretto turistico che nasce per lo sviluppo e la valorizzazione coordinata
delle risorse locali e che risponde alla necessità di aumentare la competitività turistica di un’area
territoriale. La novità del modello organizzativo proposto si concretizza in due aspetti fondamentali:
 l’esaltazione della dimensione territoriale dell’offerta turistica;
 l’integrazione necessaria fra le diverse componenti del sistema, e in particolare fra gli attori
pubblici e privati, non solo nella fase di gestione, ma anche in quella dell’elaborazione
progettuale.
In particolare, il S.T.L., così come definito nella legge-quadro, presenta elementi di grande
interesse, sotto i seguenti profili:
 non trae la sua legittimità da una mera volontà associativa di enti e soggetti, bensì dai caratteri
propri dell’ambito territoriale prescelto;
 non pone l’accento tanto sul livello attuale delle dotazioni turistiche di un territorio, ma sulla
capacità di quest’ultimo - anche solo potenziale - di offrire una gamma articolata e integrata di
attrattive e di servizi: il riferimento, perciò, non è più solo a contesti turisticamente affermati e
con elevata concentrazione di imprese turistiche e di posti letto, ma anche ad aree ricche di
risorse e di potenzialità di sviluppo turistico;
 riconosce una notevole importanza ai requisiti di omogeneità e di integrazione, cioè a quegli
elementi di coesione e di interconnessione che trasformano un insieme di località in un ambito
turisticamente rilevante;
 riconosce che i fattori territoriali (le risorse culturali e ambientali, le produzioni tipiche e
l’artigianato tradizionale) sono ragione costitutiva e fondante di un sistema turistico, superando
la tradizionale separatezza fra politiche per il turismo e politiche per i beni culturali;
 attribuisce un valore primario alla promozione ed alla programmazione “dal basso”, realizzata
attraverso la concertazione e la collaborazione pubblico-privata su base territoriale. E in questo
senso Agenda 21 rappresenta un modello ottimale.
La recente approvazione della Regione Veneto del Distretto turistico che congiunge le quattro
province di Venezia, capofila, Rovigo, Treviso e Vicenza, rifacendosi alla legge regionale 8/2003,
può essere considerato come un primo passo per il riconoscimento dell’importanza della filiera
turistica e la sua adozione a settore economico con il quale confrontarsi costantemente,
pianificandone le politiche di gestione. In questo caso però il distretto più che decentrarsi sembra
semplicemente allargarsi in maniera quasi sproporzionata, rischiando di confondere le specifiche
esigenze territoriali e le problematiche gestionali, in quanto comprende al suo interno buona parte
del patrimonio regionale.

Alcune proposte per invertire la rotta


1) obbligatorietà per i Sistemi Turistici Locali di formulazione di Piano Strategici che comprendano
l’analisi, la valorizzazione e la tutela delle diverse variabili costitutive dei luoghi
2) introduzione di criteri certi per il riconoscimento dei Sistemi Turistici Locali che prevedano
l’adozione di metodologie partecipative (quali Agenda 21) e strumenti per la sostenibilità (quali
modelli per la valutazione della carring capacity) nella formulazione dei Piani Strategici

179
3) predisposizione di un Marchio d’Area Regionale per il riconoscimento della Qualità
complessiva del sistema turistico
4) promozione di un sistema di analisi e conoscenza dei flussi e dei fenomeni legati al turismo come
supporto indispensabile alla formulazione delle strategie
5) promozione dei comparti turistici minori
6) promozione di un sistema formativo per il turismo sostenibile (in collaborazione con le
organizzazione degli operatori e l’Università)
7) apertura di collaborazioni a livello internazionale (meditteraneo ed europeo in particolare) per lo
scambio di esperienze, promozione di partnership.

Alberto Nunies

180
I principali progetti di legge presentati
dal consigliere Gianfranco Bettin, nel corso della legislatura 2000-2005

NORME PER LA PROTEZIONE DELLA SALUTE DEI CITTADINI E DELLA TUTELA


DELL’AMBIENTE DALLE ESPOSIZIONI A CAMPI ELETTRICI, MAGNETICI ED
ELETTROMAGNETICI . (Pdl 146)*
“Scopo della presente proposta di legge è, quello di estendere la tutela sanitaria delle
popolazioni a tutte le fonti di emissione di campi elettromagnetici, siano esse ad alta o bassa
frequenza, collegandosi a quanto espresso dalla recente Legge Quadro nazionale, al fine di dotare la
Regione di uno strumento legislativo adeguato a far fronte al continuo aumento di richieste di
concessione”

ORDINAMENTO REGIONALE PER LE ATTIVITÀ CULTURALI, LO SPETTACOLO,


LE ISTITUZIONI E I BENI CULTURALI (Pdl 211)
“Questo progetto di legge rappresenta la volontà di dare valore alla cultura, eliminando la
posizione residuale e persino miseramente clientelare che occupa tra le politiche regionali”

MODIFICHE ED INTEGRAZIONI ALLA LEGGE REGIONALE 21 GENNAIO 2000, N. 3


"NUOVE NORME IN MATERIA DI GESTIONE DEI RIFIUTI" (Pdl 454)*
“La proposta di legge intende salvaguardare il territorio regionale dal rischio di essere
destinatario di siti per lo stoccaggio e trattamento di rifiuti nucleari. Tale esigenza è divenuta
urgente in considerazione del recente decreto legge 14 novembre 2003, n. 314 adottato dal
Governo in materia di raccolta, smaltimento e stoccaggio di rifiuti radioattivi che prescinde
completamente dalle competenze legislative regionali previste dalla riforma del Titolo V della
Costituzione e si pone in contraddizione con il principio costituzionale di leale cooperazione tra
Stato e Regioni.”

TUTELA E VALORIZZAZIONE DEI PRODOTTI AGROALIMENTARI: INIZIATIVE


PER LA QUALITÀ E LA SICUREZZA (Pdl 239)*
“L’obiettivo dell’attuale proposta è proprio quello di definire un percorso, certo, certificabile e
controllabile che, similmente al metodo di produzione biologico, garantisca la “qualità” delle
produzioni agroalimentari”

DISPOSIZIONI URGENTI IN MATERIA DI SANATORIA DEGLI ABUSI EDILIZI (Pdl


429)
“ La presente proposta di legge non ammette la sanatoria delle opere edilizie realizzate in
assenza dei necessari titoli abilitativi, ovvero in difformità o con variazioni essenziali rispetto a
questi ultimi, e che siano in contrasto con gli strumenti urbanistici generali vigenti”

INIZIATIVA PER L’ORIENTAMENTO DEI CONSUMI, L’EDUCAZIONE


ALIMENTARE E LA QUALIFICAZIONE DEI SERVIZI DI RISTORAZIONE
COLLETTIVA (Pdl 371)
“Con tale proposta legislativa, si vuole stimolare il consumo delle produzioni tipiche,
tradizionali e biologiche, che rappresentano un grande patrimonio della tradizione agricola delle
popolazioni rurali venete. L’obiettivo finale è l’incremento delle opportunità “d’incontro” tra il
consumatore e i prodotti alimentari e agroalimentari di qualità”.

NORME PER LA PROTEZIONE DELLA FAUNA SELVATICA E DELLE COLTURE


AGRICOLE, PER LA MORATORIA QUINQUENNALE DELLA CACCIA E PER
L'ESERCIZIO VENATORIO (PDL 264)*

181
“Questo progetto di legge è stato ideato per dare una precisa e puntuale risposta a quelle che sono
le reali esigenze di tutela della fauna selvatica e di tutti i cittadini che praticano attività sportive e
ricreative in campagna, collina e montagna. Le novità introdotte riguardano disposizioni per
l'effettiva protezione della fauna, che risulta ormai dilaniata dalla scellerata gestione faunistica
operata dalla Regione negli ultimi anni.”

TUTELE REGIONALI IN MATERIA DI ORGANISMI GENETICAMENTE MODIFICATI**


La proposta di legge regionale di iniziativa popolare ha come obiettivo la difesa delle produzioni di
qualità, biologiche e tipiche, la promozione di una alimentazione sana e sicura a partire dalla
ristorazione collettiva. La proposta, attraverso il divieto di coltivazione, produzione e
somministrazione di prodotti contenenti O.G.M. e l'obbligo dell'etichettatura, pone la Regione
Veneto tra le promotrici in questo settore, anche in sede europea, di normative a tutela
dell'ambiente e dei cittadini.

Il testo integrale di tutte le proposte di legge, mozioni ed interrogazioni sono visionabili nel sito
www.consiglioveneto.it

* progetti di legge di cui il consigliere Gianfranco Bettin è primo firmatario


** proposta di legge d’iniziativa popolare promossa dai Verdi e sottoscritta da più di 5000
cittadini

182
Veneto, terra di relazioni
libri
AA.VV, Ecologia e autonomia, Feltrinelli, Milano, 1988
B. Anastasia (a cura di), Rapporto sul lavoro nel Veneto, Marsilio, Venezia, 2004
A. Bagnasco, F. Piselli, A. Pizzorno, C. Triglia, Il capitale sociale, il Mulino, Bologna, 2001
A. Bagnasco, Società fuori squadra, Il Mulino, Bologna, 2003
A. Bonomi, Il capitalismo molecolare, Einaudi, Torino, 1997
M.Carbognin, E.Turri, G.M.Varanini (a cura di), Una rete di città. Verona e la rete metropolitana
Adige-Garda, Cierre, Verona 2004
O. de Leonardis, In un altro welfare, Feltrinelli, Milano, 1998
G. Dematteis, Progetto implicito, Franco Angeli, Milano, 1995
M. d’Eramo, Lo sciamano in elicottero, Feltrinelli, Milano, 1999
C. De Michelis (a cura di), Identità veneta, Marsilio, Venezia, 1999
D. della Porta, La politica locale, Il Mulino, Bologna, 1999
G. Della Zuanna, A. Rosina, F. Rossi, Il Veneto, Marsilio, Venezia, 2004
C. Donolo, Il distretto sostenibile, Franco Angeli, Milano, 2003
F. Erbani, L’Italia maltrattata, Laterza, Roma, 2003
F. Gambino, E. Mingione, F. Pristinger (a cura di), Distanze e legami, Carocci, Roma, 2003
A. Gorz, L’immateriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003
F. Indovina, Evoluzione di un economia regionale, Ediciclo, Portogruaro, 1996
Legambiente, Rapporto Ecomafie 2003, Cuen, Napoli, 2003
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Legambiente (a cura di), Parchi italiani: le sfide della qualità, atti del convegno, 2003 in
www.legambiente.com
R. Moschini, I parchi e l’Europa, in www.parks.it
WWF, L’ara umida naturale della laguna di Venezia, 2003 in www.wwf.it/veneto
riviste
R. Moschini, Parchi: punto e a capo?, E-Quaderni del Giornale dei Parchi n°5 in www.parks.it
R. Moschini, Parchi al bivio, E-Quaderni del Giornale dei Parchi n°1 in www.parks.it

acque
libri
Vito Teti (a cura di), Storia dell’Acqua. Mondi materiali e universi simbolici, Donzelli Editore,
Roma 2003
Simon Shama, Paesaggio e memoria, Arnoldo Mondadori Editore SpA, Milano 1997
Oddone Longo e Paolo Scarpi (a cura di), Letture d’acqua, Cooperative Libraria Editrice Università
di Padova, Padova 1994
AA.VV., La civiltà delle acque, Silvana Editoriale, Milano 1993

195
Francesco Vallerani, Acque a nordest. Da paesaggio moderno ai luoghi del tempo libero, Cierre
Edizioni, Verona 2004
Paolo Fedeli, La natura violata. Ecologia e mondo Romano, Sellerio Editore, Palermo 1990
AA.VV., La laguna di Venezia, Cierre Edizioni, Verona 1995
Gianfranco Bettin, Laguna mondo, Ediciclo Editore srl, Portogruaro 1997
Francesco Vallerani, Praterie vallive e limpide correnti, Nuova Dimensione Ediciclo, Portogruaro
1992
AA.VV., Il conflitto dell’acqua. Il caso Piave, Cierre Edizioni, Verona 2000
Le dighe e le centrali idroelettriche del bacino del Piave, Camillo Pavan Editore, Treviso 2001
(ristampe di pubblicazioni ufficiali della SADE aggiornate al 1963)
Nadia Breda, Palù. Inquieti paesaggi fra natura e cultura, Cierre Edizioni Verona e Canova
Treviso 2001
Elisabetta Novello, La bonifica in Italia. Legislazione, credito e lotta alla malaria dall’Unità al
fascismo, Franco Angeli Editore, Milano 2003
riviste
Renzo Franzin, L’acqua rapita in Gli argomenti umani, sinistra e innovazione – Anno 1/n. 8
(pag.87), Editoriale il Ponte, Milano 2000

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