Sei sulla pagina 1di 101

Biologia Monika Martiri

Studia il VIÙ ente e IL SUO

rapporto con l' ambiente

Adotta il metodo IPOTETICO deduttivo : .


Formulazione di un' IPOTESI sulla Base di dati e osservazioni
,


verifica dell' IPOTESI mediante PROTOCOLLI mirati
,

accettazione dell' ipotesi sulla Base di dati STATISTICI

Cellula
'

PIU piccola ÌTRUTTURCI ad

essere classificata come

vivente

1600 '
Robert Hooke scopre la cellula analizzando un TAPPO di SUGHERO AL MICROSCOPIO OTTICO .

'

1800 '
si identifico per la Prima volta il nucleo miglioramento dei microscopi

> sia GLI animali CHE I VEGETALI SONO COSTITUITI da cellule strutture simili

Teoria cellulare
Da queste osservazioni e da quelle successive si è arrivati alla teoria cellulare che si basa sui seguenti principi fondamentali:
- Tutti gli organismi sono composti da una o più cellule.
- La cellula è l’unità strutturale della vita.
- Le cellule possono avere origine solo per divisione di cellule preesistenti (tutte le cellule originano da altre cellule).
- Le cellule contengono informazioni genetiche sotto forma di DNA e tali informazioni vengono trasmesse dalla cellula
parentale alle cellule figlie.
La cellula, identificata sempre dalla presenza di una membrana, diventa così unite fondamentale di struttura e funzione del
vivente.
Caratteristiche dei viventi
- organizzazione cellulare
- metabolismo
- eccitabilità (capacità di rispondere agli stimoli)
- riproduzione
Organizzazione cellulare

< >
Unicellulari
,

Numero STRUTTURA della CELLULA


>

Pluricellulari


differenziamento cellulare Precario -1 eucarioti
v


comunicazioni Fra cellule pro -
Carion = Prima del NUCLEO .

nucleo .
Con membrana nucleare

senza nucleo e membrane e sistemi di membrane

interne .
interne

Metabolismo
L' insieme delle reazioni CHIMICHE CHE Hanno LUOGO in una cellula COSTITUISCE IL METABOLISMO cellulare TUTTE le Trasformazioni

CHIMICHE CHE avvengono nella cellula richiedono enzimi .

METABOLISMO >
capacità di accrescimento e Quindi necessità di scambiare materia ed energia .
Si possono distinguere due vie

METABOLICHE importanti ( serie di reazioni chimiche :

anabolismo >
richiede energia - TP

Reazioni ANABOLICI Il - > In cui le molecole BIOLOGICHE VENGONO SINTETIZZATE

CATABOLISMO > Per Produrre energia .

reazioni CATCIBOLICHE >


in cui le molecole BIOLOGICHE vengono degradate
GLI organismi si distinguono in due Gruppi ,
Che differiscono per il modo con cui ricavano energia per il loro METABOLISMO .

anabolismo

L S

AUTOTROFI eterotrofi - ricavano energia dalle sostanze nutritive

sintetizzate dagli organismi autotrofi .

L
>

Fotosintetici chemio sintetici

Utilizzando l' energia utilizzano molecole

Luminosa Producono le
,
inorganiche a Base di

sostanze organiche a AZOTO, Ferro


,
manganese

Per produrre l' energia necessaria


partire da
CO2 e H2O .

AL LORO CICLO VITALE .

Eccitabilità
V

capacità di rispondere AGLI

STIMOLI
Monika Martiri

Riproduzione
v

capacità di dare origine ad altri

individui simili a sè

Riproduzione

scissione ,
senza unione di cellule diverse .

Gemmazione
>

asessuata

Riproduzione >
Fecondazione -
ZIGOTE >
Con unione di cellule diverse (specializzate
SESSUQTG

> Uniformità
TUTTI i viventi presentano
>
Diversità >
La diversità della vita è dovuta all' evoluzione per selezione naturale come venne
,

PROPOSTO da Darwin .

Darwin Propose che i viventi discendono da antenati comuni e sono Quindi imparentati Tra loro .
Partendo dall' ipotesi di un' origine

comune è POSSIBILE raggruppare i viventi secondo criteri che utilizzano somiglianze e differenze ma anche
,
relazioni

STORICHE EVOLUTIVE .

Linea evolutiva comune

I sei regni eucarioti

procarioti
Protisti PIENE funghi quintali
lll Batteri archeobatteri
^
^

Batteri
caricati
Arctica gli

progenitore comune
| i Tre domini

la scienza CHE SI OCCUPA della classificazione dei viventi è la Tassonomia .


Vi sono due classi fondamentali di cellule, procariotiche ed eucariotiche, che si distinguono per la loro taglia
e per il tipo di strutture interne, o organuli, in esse contenute,
Le cellule procariotiche, strutturalmente più semplici si trovano solo fra i batteri e, viceversa, tutti i batteri
sono cellule procariotiche. Tutti gli altri tipi di organismi, protisti, funghi, piante e animali, sono composti di
cellule eucariotiche, strutturalmente più complesse.

Fra cellule procariotiche ed eucariotiche vi sono molte differenze fondamentali, ma anche alcune similitudini.
Le similitudini sono molto probabilmente legate al fatto che le cellule eucariotiche si sono evolute da antenati
procariotici. Pertanto entrambi i tipi di cellule hanno un linguaggio genetico identico, vie metaboliche comuni e
molte caratteristiche strutturali in comune:
entrambi i tipi di cellule sono delimitate da una membrana plasmatica di struttura identica che forma una
barriera a permeabilità selettiva per il mondo circostante; entrambi i tipi di cellule possono essere circondati
da una parete cellulare rigida che protegge la vita che si svolge al suo interno. Le pareti cellulari degli eucarioti
e dei procarioti, pur avendo una simile funzione, possono avere una composizione chimica estremamente
diversa.
Entrambe possiedono una regione nucleare, in cui risiede il materiale genetico, circondata dal citoplasma, ma
nei procarioti questa regione si identifica nel nucleoide, che manca di una membrana limitante che lo separi
dal citoplasma circostante.
Le cellule eucariotiche, al contrario, posseggono un nucleo, delimitato da una complessa struttura
membranosa, l’involucro nucleare.
Le cellule procariotiche contengono quantità di DNA relativamente piccole mentre la maggior parte delle
cellule eucariotiche contiene informazione genetica di molti ordini di grandezza maggiore di quella dei
procarioti. Entrambi i tipi cellulari hanno cromosomi contenenti DNA, ma i numerosi cromosomi delle cellule
eucariotiche hanno fibrille contenete DNA e proteine, mentre il singolo cromosoma di un procariota è
composto da DNA essenzialmente “nudo”.
Anche il citoplasma è molto diverso.
Il citoplasma delle cellule eucariotiche è pieno di strutture molto diverse ovvero una serie di strutture
membranose e organuli delimitati da membrane.
Al contrario, il citoplasma delle cellule procariotiche è privo di strutture membranose, se si eccettuano i
mesosomi che derivano dal ripiegamento della membrana plasmatica e il complesso delle membrane
fotosintetiche dei cianobatteri.
Le membrane citoplasmatiche delle cellule eucariotiche formano un sistema di canali e vescicole comunicanti,
con la funzione di trasportare sostanze da una parte all’altra della cellula o dall’interno all’esterno della cellula.
Le cellule eucariotiche contengono numerose strutture non delimitate da membrane: i tubuli e i filamenti del
citoscheletro, impegnati nella contrattilità, nel movimento e nel supporto meccanico della cellula; simili
strutture sono assenti nei procarioti.
I ribosomi, particelle non membranose, che funzionano da “banchi di lavoro” per la costruzione delle proteine,
sono presenti in entrambi i tipi di cellule e, sebbene nei procarioti siano più piccoli e contengano meno
componenti, il meccanismo di funzionamento è simile nei procarioti e negli eucarioti.
Le cellule eucariotiche si dividono per mitosi, un processo complicato in cui i cromosomi, duplicatisi, si
condensano in strutture compatte che vengono separate tramite un elaborato apparato che contiene
microtubuli.
Nei procarioti non vi è una condensazione di cromosomi né apparato del fuso: il DNA si duplica e le due copie
ottenute vengono separate dalla membrana cellulare che cresce e si interpone fra di esse (proliferazione più
rapida).
Monika Martiri
Monika Martiri
La maggior parte dei procarioti non è rappresentata da organismi sessuati: il loro cromosoma è in
singola copia e non hanno processi analoghi alla meiosi, alla formazione di gameti e ad una vera
fecondazione.
Anche se una vera riproduzione sessuale è assente nei procarioti, alcuni sono capaci di coniugazione,
per cui un frammento di DNA passa da una cellula ad un’altra. Tuttavia il ricevente, in genere, non riceve
dal donatore l’intero cromosoma e la presenza nella cellula ospite del proprio DNA insieme a quello del
donatore è momentanea, in quanto in breve tempo la cellula ritorna allo stadio di un unico cromosoma.
I meccanismi di locomozione dei procarioti sono semplici e possono essere realizzati da un semplice
flagello, che protrude dalla cellula e ruota. Il movimento rotatorio del flagello esercita una pressione sul
fluido che lo circonda, fornendo alla cellula la spinta a procedere avanti. Alcune cellule eucariotiche
(come gli spermatozoi) posseggono flagelli, che sono però molto più complessi dei semplici filamenti
proteici dei batteri e impiegano meccanismi diversi per generare movimento.

I virus
I virus sono la causa di molte malattie dell’uomo: AIDS, polio, influenza, herpes, morbillo e alcuni tipi di
cancro.
I virus sono parassiti intracellulari obbligati, in quanto non possono riprodursi se non all’interno di una
cellula vivente che, secondo il tipo di virus, può essere batterica, vegetale o animale.
Al di fuori di una cellula vivente, il virus esiste sotto forma di particella virale, o virione. Il virione contiene
una piccola quantità di materiale genetico che, a seconda del virus, può essere RNA o DNA, che si trova
avvolto da un involucro proteico detto capside, in genere costituito da un numero determinato di
subunità proteiche.
L’involucro proteico è costituito da molte copie di una unica proteina o di poche proteine; il virus ha
bisogno di uno o pochi geni per la sua costruzione che codifichino per quelle proteine.
Molti virus hanno un capside le cui subunità sono organizzate in un poliedro, cioè una struttura che ha
delle facce piane: la forma poliedrica comune a molti virus è l’icosaedro con venti facce.
I virus batterici, o batteriofagi, appartengono ai virus più complessi. I batteriofagi T (usati in esperimenti
fondamentali che dimostrano la struttura e le proprietà del materiale genetico) hanno una testa
poliedrica che contiene DNA e un corpo cilindrico attraverso il quale il DNA viene iniettato nella cellula
batterica.
Ogni virus ha proteine di superficie che si legano a componenti della superficie della sua cellula ospite.

Le infezioni virali sono fondamentalmente di due tipi:


- il virus blocca le normali attività sintetiche dell’ospite e costringe la cellula a mettere a disposizione il
proprio materiale per costruire proteine ed acidi nucleici virali, che vengono assemblati in nuovi virioni.
- il virus infettante non porta alla morte della cellula ospite, ma invece integra il suo DNA in quello dei
cromosomi dell’ospite. Il DNA virale integrato si chiama provirus.

I viroidi e i prioni sono patogeni che si ritengono costituiti rispettivamente soltanto da RNA e proteina,
I viroidi provocano numerosa malattie nelle piante, mentre i prioni sono la causa di malattie neurologiche
fatali nell’uomo e in altri mammiferi.
Cellula procariote ed eucariote a confronto
Monika Martiri
Somiglianze tra cellule procariotiche ed eucariotiche

Membrana plasmatica: tutte le cellule possiedono una barriera a permeabilità selettiva che separa la matrice
extracellulare da quella intracellulare

Parete cellulare: posizionata all’esterno della membrana cellulare, costituisce uno strato più forte rispetto alla
membrana cellulare stessa, conferendo resistenza strutturale alla cellula

Ribosomi: organelli coinvolti nella sintesi proteica

Citoplasma: soluzione acquosa in cui sono immersi i costituenti cellulari

Differenze tra cellule eucariotiche e procariotiche

Nucleo: gli eucarioti possiedono un nucleo delimitato da una doppia membrana; i procarioti invece non hanno
nucleo ma una regione chiamata nucleoide

DNA e cromosomi: negli eucarioti il DNA è suddiviso in coppie di cromosomi, mentre il DNA dei procarioti è
presente in singola copia

Organelli: le cellule eucariotiche hanno organelli legati alla membrana. Queste strutture mancano nei procarioti

Citoscheletro: insieme di strutture cellulari che formano una rete tridimensionale di tubuli e filamenti. Il
citoscheletro propriamente detto è quello presente nelle cellule degli eucarioti, mentre nei procarioti è per lo
più assente o presente in una forma più semplice e primitiva

Riproduzione: gli eucarioti prediligono la riproduzione sessuata mentre i procarioti la riproduzione asessuata

Procarioti
Rispetto agli eucarioti, i procarioti hanno meno DNA. I procarioti sono inoltre in grado di incorporare DNA
dall’esterno attraverso un processo detto trasformazione.
Si pensava che i procarioti non avessero citoscheletro, ma ultimamente sono state identificate proteine in
grado di formarne un modello molto semplificato rispetto a quello degli eucarioti.
In generale, il citoplasma di un procariote contiene sempre:

Cromosomi
Plasmidi
Sistemi enzimatici
Ribosomi

A differenza degli eucarioti, non ha mitocondri, lisosomi, Reticolo Endoplasmatico e apparato di Golgi.
Parete cellulare
Tutti i procarioti sono provvisti di parete cellulare, tranne i micoplasmi, parassiti endocellulari che vivono in
ambiente isotonico. Infatti la parete ha la funzione di mantenere invariata la forma delle cellula ed evita che la
stessa scoppi in situazioni diverse dall’isotonicità.

Esistono due tipi di pareti cellulari: gram positive e gram negative.


Infatti, utilizzando un colorante blu, si nota che ci sono batteri che si colorano e batteri che non si colorano: si può
così fare una distinzione, a seconda del tipo di parete cellulare presentata.

Monika Martiri

Pareti gram positive: si colorano


Queste cellule, sopra la membrana
plasmatica, presentano una parete cellulare
formata da peptidoglicani, amminozuccheri
che forniscono rigidità e permettono la
colorazione

Pareti gram negative: non si colorano


In queste cellule, un sottile strato di
peptidoglicani è ricoperto da un’altra
membrana plasmatica: non si ha colorazione
perché non ci sono zuccheri all’esterno.

Dopo la parete, ci può essere anche una capsula costituita da polisaccaridi che viene secreta dalla cellula stessa:
il suo scopo è quello di evitare la fagocitosi.

Il primo antibiotico scoperto è la penicillina che blocca la sintesi dei peptidoglicani, costituenti della parete
cellulare, che quindi diventa più fragile. Così i batteri si possono eliminare più facilmente, ma solamente i gram
positive sono sensibili alla penicillina.

Flagelli: polimeri costituiti da una proteina globulare, detta flagellina. La loro funzione è quella di permettere lo
spostamento della cellula. Sono tipici soprattutto dei batteri bacillari, in quanto i cocchi prediligono ambienti
secchi in cui è difficile muoversi.
I flagelli sono importanti per la chemiotassi, ossia il fenomeno con cui i corpi cellulari direzionano i loro
movimenti a seconda della presenza di alcune sostanze chimiche nel loro ambiente.

Pili: polimeri costituiti da monomeri detti piline e permettono alla cellula di nutrirsi, dato che aderiscono alle
sostanze nutritive di passaggio.
Sono inoltre molto utili per l’adesione tra cellule, che quindi si possono scambiare DNA (in particolare plasmidi),
trasportato dal batterio donatore al batterio ricevente.
Plasmide: molecola circolare di DNA, presente nel citoplasma di numerosi batteri e lieviti, in grado di duplicarsi
autonomamente rispetto al DNA nucleare e di esprimersi in caratteri quali, per es. (in alcuni batteri), il fattore per la
sessualità, la resistenza agli antibiotici, ecc.; viene ampiamente utilizzato in ingegneria genetica come vettore per
trasferire segmenti di DNA tra organismi diversi, in quanto è in grado di accogliere al proprio interno un tratto di DNA
estraneo e, quindi, di inserirsi a sua volta in un cromosoma di una cellula appartenente a un terzo organismo.

Resistenza agli antibiotici: il fattore di resistenza agli antibiotici può essere trasferito da una cellula all’altra
attraverso l’utilizzo di un plasmide, che trasforma alcune cellule sensibili in cellule resistenti ad un particolare
antibiotico.

Mesosomi
In alcuni punti la membrana su introflette per formare i cosiddetti mesosomi, che tuttavia non permettono la
compartimentazione tipica del sistema di endomembrane degli eucarioti.
A livello dei mesosomi avvengono funzioni specifiche: ad esempio, durante la divisone cellulare, lì si attacca il
DNA, contribuendo alla corretta divisione del corredo genetico.

Monika Martiri

I procarioti si riproducono in diversi modi, ad esempio per scissione binaria o gemmazione.


Durante la scissione binaria, il DNA è attaccato ad un mesosoma, ma prima di dividersi, la cellula duplica il
proprio DNA in modo semi-conservativo. I due filamenti si attaccano a due mesosomi diversi e le molecole di
DNA si separano l’una dall’altra; a quel punto, si forma un setto che separa il citoplasma in due e la cellula si
scinde, dando vita a due cellule figlie, ciascuna con la stessa informazione genetica della cellula madre.
Bioenergetica,
enzimi e metabolismo
La bioenergetica è lo studio dei vari tipi di trasformazione dell’energia di cui necessitano gli organismi viventi.

L’energia è la capacità di compiere lavoro.


La termodinamica è lo studio delle modificazione energetiche che accompagnano gli eventi dell’universo.
La prima legge della termodinamica è la legge della conservazione dell’energia. Essa afferma che l’energia
non può essere né creata né distrutta. L’energia può solo essere trasformata (trasdotta).
L’energia può anche essere immagazzinata.

Le cellule sono in grado anche di trasformare, conservare e trasportare energia.


L’energia chimica presente in certe molecole biologiche, come l’ATP, si trasforma in energia meccanica
quando nella cellula gli organelli sono spostati da un punto ad un altro, in energia termica quando viene
liberato calore durante la contrazione muscolare o in energia elettrica quando gli ioni fluiscono attraverso una
membrana.
Le reazioni che rilasciano calore sono dette esotermiche e quelle che assorbono calore endotermiche.

La seconda legge della termodinamica esprime il concetto che gli eventi nell’universo hanno una direzione:
essi procedono sempre “verso il basso”, da uno stato di energia più elevata verso uno ad energia più bassa.
Il calore passa da un corpo più caldo ad uno più freddo, non viceversa. Questi eventi si dicono spontanei in
quanto sono termodinamicamente favoriti e possono verificarsi senza l’apporto di energia esterna.
La perdita di energia disponibile durante un processo è l’effetto della tendenza dell’universo ad aumentare la
casualità, o disordine, ogni volta che si ha un trasferimento di energia.
L’entropia è la misura di questo disordine e la perdita di energia disponibile è uguale a T ΔS, dove ΔS è il
cambiamento di entropia tra gli stati iniziale e finale.

Insieme, la prima e la seconda legge della termodinamica affermano che l’energia dell’universo è costante,
ma che l’entropia è in continuo aumento verso il massimo. I concetti insiti in queste due leggi furono riuniti dal
chimico Gibbs nell’espressione ΔH = ΔG + T ΔS, dove: ΔG è la variazione di energia libera, cioè la variazione
di energia disponibile per compiere lavoro durante un processo; ΔH è la variazione di entalpia (o energia
totale del sistema); T è la temperatura assoluta; ΔS è la variazione di entropia del sistema.
Riordinata e scritta come ΔG = ΔH - T ΔS, l’equazione fornisce la misura della spontaneità di un particolare
processo.
Le trasformazioni energetiche sono spontanee se ΔG è negativo, cioè quando il processo va verso uno stato
di energia libera più basso. I processi che possono verificarsi spontaneamente, cioè quelli che sono
termodinamicamente favoriti sono descritti come esoergonici. Al contrario, se ΔG è positivo, allora il processo
non avviene spontaneamente, è termodinamicamente sfavorito ed è definito come endoergonico.

Enzimi
Senza gli enzimi (catalizzatori) le reazioni metaboliche procederebbero così lentamente di essere
impercettibili.
Di recente, si è evidenziato che alcune reazioni biologiche sono catalizzate da molecole di RNA. Il termine
enzima viene riservato ai catalizzatori proteici, mentre il termine ribozima viene usato per i catalizzatori a RNA.
Anche se gli enzimi sono proteine, molti di essi sono proteine coniugate, cioè contengono componenti non
proteici, detti cofattori, che possono essere inorganici (metalli) o organici (coenzimi).
Le vitamine e i loro derivati spesso funzionano come coenzimi.

Monika Martiri
Monika Martiri
Gli enzimi mostrano le seguenti proprietà:

1. Sono necessari solo in piccole quantità

2. Non sono alterati irreversibilmente durante la reazione e, pertanto, ogni molecola di enzima può partecipare
ripetutamente in singole reazioni

3. Non hanno nessun effetto sulla termodinamica della reazione. Gli enzimi non forniscono energia per una
reazione chimica e perciò non determinano se una reazione sia termodinamicamente favorevole (esoergonica)
o sfavorevole (endoergonica). Non determinano il rapporto prodotti/reagenti all’equilibrio.

Come catalizzatori, gli enzimi possono solo accelerare la velocità a cui una reazione chimica favorevole
procede.
Gli enzimi sono notevolmente specifici per i reagenti a cui si legano e per la reazione che possono catalizzare.
I reagenti legati ad un enzima sono detti substrati.

Le trasformazioni chimiche richiedono la rottura di alcuni legami covalenti nei reagenti. Per questo è
necessario che i reagenti abbiano una energia cinetica sufficiente a superare una barriera, la cosiddetta
energia di attivazione.
Un modo per aumentare la velocità di reazione è quello di aumentare l’energia dei reagenti; questo si ottiene,
in laboratorio, scaldando la miscela di reazione. Invece, applicando calore ad una reazione mediata da un
enzima, questo viene portato a rapida in attivazione, poiché viene denaturato.
I reagenti, quando sono nel punto massimo della curva energetica e sono pronti ad essere trasformati in
prodotti, sono allo stato di transizione.

Come catalizzatori, gli enzimi accelerano i processi di rottura e di formazione dei legami, ma per fare questo
devono essere coinvolti nelle attività che si svolgono tra i reagenti, con cui formano un complesso chiamato
complesso enzima-substrato.
La parte della molecola enzimatica che è direttamente coinvolta nel legare il substrato è definita sito attivo.
Il sito attivo ed il substrato hanno forme complementari e ciò consente loro di legarsi con un alto grado di
precisione.
Il legame del substrato con l’enzima avviene grazie alle interazioni non covalenti (legami ionici, legami
idrogeno, interazioni idrofobiche), che determinano la struttura della proteina stessa.
Inoltre, il sito attivo presenta una serie particolare di catene laterali di amminoacidi che influenzano il substrato
e abbassano l’energia di attivazione della reazione.

Il sito attivo è localizzato in una tasca o cavità che si dirige dall’ambiente acquoso nelle profondità della
proteina. Quando un substrato entra nella cavità del sito attivo, in genere rilascia le molecole di acqua ad esso
legate (desolvatazione) e penetra in un ambiente idrofobico dell’enzima.

L’enzima, per formare il complesso enzima-substrato, cattura il substrato dalla soluzione e successivamente
lo fissa sulla superficie della grossa molecola catalitica. Una volta in questa situazione, il substrato può essere
manipolato in diversi modi:
- orientamento del substrato: i substrati legati alla superficie di un enzima sono molto vicini e orientati
correttamente per facilitare la reazione.
- modificazione della reattività del substrato: gli enzimi sono composti da amminoacidi che hanno una
varietà di catene laterali diverse (gruppi R). Quando un substrato è legato al sito attivo di un enzima, la
distribuzione degli elettroni nella molecola del substrato è influenzata dalle catene laterali adiacenti
dell’enzima.
Questa influenza incrementa la reattività del substrato e stabilizza il complesso dello stato di transizione
formato durante la reazione.
La velocità delle reazioni può essere notevolmente condizionata da variazioni del pH. Gli enzimi non
possono variare il pH del mezzo, ma essi hanno numerosi amminoacidi, con catene laterali acide o
basiche, capaci di cedere o accettare protoni dal substrato, modificandone così la carica e rendendolo più
reattivo.
Sebbene le catene laterali amminoacidiche possano prender parte in varie reazioni, esse non sono molto
adatte a donare o accettare elettroni. Il trasferimento di elettroni è l’evento centrale nelle reazioni di ossido-
riduzione, che hanno un ruolo vitale nel metabolismo cellulare. Per catalizzare queste reazioni, gli enzimi
utilizzano cofattori (ioni metallo o coenzimi), che aumentano la reattività dei substrati rimuovendo o
donando elettroni.

- induzione di tensione nel substrato: benché il sito attivo di un enzima possa essere complementare al
substrato, varie ricerche indicano uno spostamento nelle posizione relativa di atomi dell’enzima, una volta
che il substrato sia stato legato. In molti casi la conformazione varia in modo tale che l’adattamento
complementare fra l’enzima e i reagenti venga migliorato (un adattamento indotto) e i gruppi reattivi
specifici dell’enzima si dispongono nella corretta orientazione. Quando un substrato si lega all’enzima,
alcuni legami del substrato possono essere sottoposti ad una tensione fisica o elettronica. Ciò ha l’effetto
di destabilizzare il substrato, portandolo allo stato di transizione, in cui la tensione è minore.

L’attività catalitica di un enzima viene descritta dallo studio della sua cinetica, cioè la velocità a cui è
catalizzata una reazione.
Modello di Michaelis-Menten della cinetica enzimatica: relazione matematica fra concentrazione del
substrato e velocità delle reazioni enzimatiche, misurando la quantità di prodotto formato (o di substrato
consumato) in un determinato intervallo di tempo.

Gli inibitori enzimatici sono molecole capaci di legarsi ad un enzima e di diminuirne l’attività. Gli inibitori
vengono utilizzati dalle cellule per regolare l’attività di molti dei loro enzimi.
Gli inibitori enzimatici si suddividono in due categorie: reversibili o irreversibili.
Gli inibitori irreversibili sono quelli che instaurano un legame molto forte con l’enzima, spesso formando
un legame covalente con i suoi residui amminoacidi (l’antibiotico penicillina agisce come un inibitore
irreversibile di un enzima chiave per la formazione della parete della cellula batterica).
Gli inibitori reversibili, interagiscono solo debolmente con un enzima, per cui possono facilmente essere
rimossi. Tra gli inibitori reversibili troviamo gli inibitori competitivi e non competitivi. Gli inibitori competitivi
sono reversibili e competono con il substrato per l’accesso al sito attivo dell’enzima. Dato che i substrati
hanno una struttura complementare al sito attivo a cui si legano, gli inibitori competitivi sono analoghi al
substrato e competono in tal modo per lo stesso sito legante, ma ne differiscono in maniera tale da non
poter essere trasformati in prodotti. Nell’inibizione non competitiva, il substrato e l’inibitore non competono
per lo stesso sito legante: l’inibitore agisce in un punto diverso dal sito attivo dell’enzima.

Monika Martiri
Monika Martiri

dotteressa
Ingresso del substrato nel sito
attivo dell’enzima

L’enzima reagisce con una molecola che viene chiamata substrato (qualsiasi molecola che possa agganciarsi
a un determinato enzima).
Gli enzimi sono specifici per un determinato substrato e pertanto, ad esempio, se questa molecola fosse il
glucosio, l’enzima sarebbe precisamente adeguato per far reagire soltanto il glucosio (il glucosio o molecole
estremamente simili a questo).
La zona in cui il substrato contatta l’enzima viene chiamato sito attivo dell’enzima e si forma un complesso
enzima-substrato. Successivamente la molecola di substrato viene convertita in una molecola di prodotto,
rigenerando così l’enzima che può andare così a svolgere un’ulteriore attività catalizzatrice in un’altra reazione
(l’enzima non viene modificato dalla reazione).
Monika Martiri

Gli enzimi sono catalizzatori biologici: abbassano l’energia di attivazione delle reazioni attraverso la
formazione di associazioni transitorie con i reagenti (substrati), trasformandoli nei prodotti.
Metabolismo
Il metabolismo rappresenta l’insieme delle reazioni biochimiche che avvengono in una cellula.
La maggior parte di queste reazioni può essere raggruppata in vie metaboliche contenenti una sequenza
di reazioni chimiche. Ciascuna è catalizzata da un enzima specifico, è il prodotto di una reazione diventa il
substrato per la successiva. Gli enzimi che formano una via metabolica si trovano di solito in un distretto
specifico della cellula, come i mitocondri o il citosol.
I composti che si formano ad ogni passaggio della via metabolica sono i metaboliti intermedi, che portano
alla formazione del prodotto finale.
Le vie metaboliche possono dividersi in due grandi gruppi:

Le vie cataboliche conducono alla degradazione di molecole complesse per formare costituenti
alimentari. Esse servono a due scopo: rendono disponibile materiale di partenza da cui possono essere
sintetizzate altre molecole e forniscono l’energia necessaria per molteplici attività della cellula.
L’energia liberata dalle vie cataboliche viene immagazzinata temporaneamente in due forme: fosfati ad
alto contenuto energetico (fondamentalmente ATP) ed elettroni ad alta energia (fondamentalmente
NADPH).

Le vie anaboliche richiedono energia e sintetizzano composti complessi da materiali di partenza più
semplici. Esse utilizzano l’energia chimica liberata dalle vie cataboliche esoergoniche.

Sia le vie cataboliche sia quelle anaboliche hanno reazioni chiave in cui gli elettroni sono trasferiti da un
reagente ad un altro: reazioni di ossido-riduzione (redox).

(Più atomi di idrogeno possono essere “strappati” dalle molecole “combustibile”, maggiore è la quantità di
ATP che alla fine può essere formato).

Il glucosio è la molecola chiave del metabolismo energetico sia delle piante sia degli animali.
L’ossidazione completa di una molecola di glucosio può liberare energia sufficiente per formare un gran
numero di molecole di ATP (fino a 36).
Vi sono due stadi nel catabolismo del glucosio e sono praticamente identici in tutti gli organismi aerobi.
Il primo stadio, la glicolisi, avviene nella fase solubile del citoplasma (citosol) e porta alla formazione di
piruvato. Il secondo stadio è il ciclo degli acidi tricarbossilici (ATC), che avviene nei mitocondri delle
cellule eucariotiche e nel citosol dei procarioti e, infine, ossida gli atomi di carbonio ad anidride carbonica.
La maggior parte dell’energia chimica del glucosio viene accumulata sotto forma di elettroni ad alta
energia, usata per sintetizzare ATP.
Monika Martiri
Glicolisi
La glicolisi ha inizio con l’unione dello zucchero ad un fosfato (1) a spese di una molecola di ATP.
La fosforilazione attiva lo zucchero, rendendolo idoneo a partecipare alle successive reazioni, in cui i fosfati
sono rimossi e trasferiti ad altri accettori. La fosforilazione intrappola anche il glucosio all’interno della cellula
perché il glucosio fosforilato non può attraversare la membrana cellulare. Ciò consente alla cellula di assorbire
più glucosio dall’ambiente circostante.
(2) il glucosio-6-fosfato si trasforma in fruttosio-6-fosfato e, quindi, in fruttosio-1,6-bisfosfato (3) a spese di una
seconda molecola di ATP.
Il bisfosfato con sei atomi di carbonio è scisso in due monofosfati con tre atomi di carbonio (4).
L’ATP si forma con due diverse modalità: la trasformazione della gliceraldeide-3-fosfato in 3-fosfoglicerato (6,7).
La reazione nel suo insieme è un’ossidazione di un’aldeide ad un acido carbossilico e avviene in due stadi
catalizzati da due diversi enzimi. Il primo di questi richiede un cofattore non proteico (un coenzima) chiamato
NAD per catalizzare la reazione.
La prima reazione è un’ossido-riduzione a due step, in cui due elettroni e un protone sono trasferiti dalla
gliceraldeide-3-fosfato (che viene ossidata) al NAD+ (che viene ridotto).
La forma ridotta del coenzima è il NADH. Un enzima che catalizza questo tipo di reazione è denominato
deidrogenasi; il NADH formato nella reazione si dissocia dell’enzima e viene sostituito dal NAD+.
Oltre alla via indiretta per la formazione di ATP, che coinvolge NADH, la trasformazione della gliceraldeide-3-fosfato
in 3-fosfoglicerato include una via diretta per la sintesi dell’ATP.
Nel secondo stadio di questa reazione (7) un gruppo fosfato viene trasferito dall’1,3-bisfosfoglicerato all’ADP per
formare una molecola di ATP.
Questa via diretta di formazione dell’ATP è una fosforilazione a livello del substrato, perché si realizza con lo
spostamento di un gruppo fosfato da uno dei due substrati dell’ADP.
Le rimanenti reazioni della glicolisi (stadi 8-10) includono una seconda fosforilazione di ADP a livello di substrato
(10).

Una caratteristica importante della glicolisi è quella di generare un limitato numero di molecole di ATP in assenza di
ossigeno. La glicolisi può essere considerata una via anaerobica, infatti continua a produrre ATP in assenza di
ossigeno molecolare.
Dato che ogni molecola di glucosio produce due molecole di gliceraldeide-3-fosfato, si formano quattro molecole di
ATP per molecola di glucosio ossidata a piruvato. D’altronde, due molecole di ATP devono essere idrolizzate per
innescare la glicolisi, lasciando la cellula un guadagno netto di due molecole di ATP per molecola di glucosio
ossidata.

Il piruvato, prodotto finale della glicolisi, è un composto chiave perché si trova all’incrocio fra via anaerobica
(indipendente dall’ossigeno) e via aerobica (dipendente dall’ossigeno).
In assenza di ossigeno molecolare, il piruvato è coinvolto nella fermentazione. Quando l’ossigeno è disponibile, il
piruvato è ulteriormente catabolizzato dalla respirazione aerobica.

Ossidazione anaerobica del piruvato:


la fermentazione
Uno dei prodotti dell’ossidazione della gliceraldeide-3-fosfato è NADH. La formazione del NADH avviene a spese
del NAD+, che si trova in piccola quantità nelle cellule; poiché è un reagente richiesto in questo importante
passaggio della glicolisi, se non venisse rigenerato NADH, l’ossidazione della gliceraldeide-3-fosfato si
bloccherebbe insieme alle reazioni successive della glicolisi.
Tuttavia, anaerobica mente il NADH non può essere ossidato a NAD+ per mezzo della catena di trasporto degli
elettroni, perché l’ossigeno è l’accettore finale degli elettroni della catena.
Le cellule sono capaci di rigenerare NAD+ con la fermentazione che comporta il trasferimento di elettroni da
NADH a piruvato, prodotto finale della glicolisi.
Similmente alla glicolisi, la fermentazione ha luogo nel citosol.
La fermentazione è un mezzo alternativo per rigenerare NAD+ quando i livelli di ossigeno molecolare sono bassi,
cosicché la glicolisi può continuare a mantenere la produzione di ATP.

Il prodotto della fermentazione varia fra diversi tipi di cellula o fra diversi organismi.
Quando le cellule muscolari sono soggette a contrazioni ripetute, il livello di ossigeno è basso e non soddisfa la
domanda metabolica della cellula. In queste condizioni, le cellule del muscolo scheletrico rigenerano NAD+
convertendo il piruvato in lattato.

Monika Martiri
Quando l’ossigeno diventa nuovamente disponibile in quantità sufficienti, il lattato può essere riconvertito in
piruvato per l’ulteriore ossidazione.
Le cellule di lievito convertono il piruvato in etanolo.

Quando una mole di glucosio è completamente ossidata, vengono rilasciate 686 kcal. Al contrario, solo 57
kcal vengono liberate quando la stessa quantità di glucosio è convertita in etanolo e solo 47 kcal sono
liberate quando è convertita in lattato.

Regolazione metabolica
La quantità di ATP presente nella cellula ad ogni dato istante è piccola. Con una quantità così limitata è
evidente che l’ATP non può essere la molecola in cui viene depositata la quantità maggiore di energia libera.
Le riserve energetiche della cellula sono, invece, immagazzinate come polisaccaridi e grassi.

La funzione di una proteina è strettamente correlata alla sua struttura (conformazione). Le cellule regolano
l’attività proteica modificando la conformazione di proteine chiave.
Nel caso degli enzimi, la regolazione dell’attività catalitica è basata nell’alterazione della struttura del sito
attivo.
I due meccanismi più comuni per alterare la struttura di un sito attivo dell’enzima sono la modificazione
covalente e la modulazione allosterica.

Modificazione covalente: Fischer e Krebs prepararono un estratto grezzo di cellule muscolari e trovarono
che le molecole inattive dell’enzima nell’estratto venivano attivate dalla semplice aggiunta di ATP nella
provetta.
Ulteriori indagini portarono alla scoperta di un secondo enzima nell’estratto, da loro chiamato “enzima
convertente”; esso trasporta un gruppo fosfato dall’ATP ad uno degli 841 amminoacidi che costituiscono la
molecola di fosforilasi (molecola che stavano studiando, enzima che si trova nelle cellule muscolari che
degrada il glicogeno in subunità di glucosio). La presenza del gruppo fosfato modifica la forma del sito attivo
dell’enzima e aumenta la sua attività catalitica.
Gli enzimi che trasferiscono gruppi fosfato da altre proteine sono chiamati protein-chinasi e regolano diverse
attività, quali l’azione ormonale, la divisione cellulare è l’espressione genica.
L”enzima convertente” scoperto da Krebs e Fischer fu più tardi chiamato fosforilasi chinasi.

Modulazione allosterica: è un meccanismo per il quale l’attività di un enzima è inibita o stimolata da un


composto che di lega ad un sito, chiamato sito allosterico, che è spazialmente distinto dal sito attivo
dell’enzima. Il legame di un composto al sito allosterico produce modificazioni conformazionali nella proteina
che provocano l’alterazione del sito attivo.
In funzione del particolare enzima e del particolare modulatore allosterico, il cambiamento della
conformazione del sito attivo può stimolare o inibire la sua capacità di catalizzare la reazione.
Uno dei principali meccanismi utilizzati dalle cellule per interrompere le vie anaboliche di montaggio è un tipo
di modulazione allosterica detta inibizione a feedback, in cui l’enzima che catalizza il primo passaggio di
una via metabolica viene temporaneamente inattivato quando la concentrazione del prodotto finale di quella
via raggiunge un certo livello.

Monika Martiri
I particolari enzimi della glicolisi e della gluconeogenesi (via anabolica che porta alla sintesi di glucosio) sono
enzimi chiave nelle loro rispettive vie metaboliche. Questi enzimi sono regolati, in parte, da AMP e ATP.
La concentrazione di AMP entro le cellule è inversamente correlata alla concentrazione di ATP.
Quando i livelli di ATP sono bassi, quelli di AMP sono alti e viceversa. Di conseguenza, concentrazioni elevate
di AMP segnalano ad una cellula che le sue riserve di ATP scarseggiano.

L’importanza della modulazione allosterica nel controllo metabolico è illustrata da studi recenti sull’enzima
protein-chinasi attivata dall’AMP, o semplicemente AMPK. L’enzima è attivato dall’aggiunta di un gruppo
fosfato e inibito dalla rimozione di questo gruppo fosfato.
Il risultato dell’attivazione dell’AMPK è una riduzione delle attività delle vie che consumano ATP ed un
incremento delle attività delle vie che producono ATP, il che determina un innalzamento della concentrazione di
ATP all’interno della cellula.
L’AMPK non è coinvolta soltanto nella regolazione energetica della cellula ma, almeno nei mammiferi, partecipa
anche alla regolazione del bilancio energetico a livello dell’intero organismo.
Nei mammiferi, il senso di appetito è controllato da centri situati nell’ipotalamo, che rispondono ai livello di
alcuni nutrienti ed ormoni nel circolo sanguigno. Un calo dei livelli ematici di glucosio, ad esempio, agisce
sull’ipotalamo stimolando il senso dell’’appetito. Tale stimolazione è mediata dall’attivazione dell’AMPK nelle
cellule nervose ipotalamiche. Al contrario, si ritiene che la sensazione di sazietà sia indotta da alcuni ormoni
che inibiscono l’attività dell’AMPK in quelle stesse cellule cerebrali.

Cellule vegetali:
regolazione del metabolismo mediante il ciclo luce/buio
Quando il sole splende, la pianta accumula la luce e produce zucchero attraverso il processo di fotosintesi.
Di notte, quando la luce solare non è disponibile, la pianta utilizza lo zucchero che ha prodotto durante il
giorno per mantenere attivo il suo metabolismo.
Le piante hanno sviluppato delle strategie biochimiche per utilizzare al massimo la luce producendo diversi
enzimi e proteine in diversi momenti della giornata.
Durante il giorno, le proteine coinvolte nella fotosintesi sono prodotte ad alti livelli. Questa produzione si
interrompe poco prima della notte, perché le proteine non sono necessarie al buio.
Se una pianta, che è stata cresciuta secondo il ciclo luce/buio, è spostata in condizioni di luce o buio costante,
subirà cambiamenti periodici nella produzione di proteine necessarie per la fotosintesi per un periodo di 24
ore.
Questo cambiamento periodico dell’attività di 24 ore è chiamato ritmo circadiano (il ciclo sonno/veglia
dell’uomo segue un ritmo circadiano).
Il fatto che il ritmo circadiano continui ad andare avanti in condizioni di luce o buio costante dimostra che le
piante hanno un orologio interno che monitora il tempo durante il giorno. Questo orologio è costruito da una
serie di proteine la cui attività oscilla in un periodo costante: in normali condizioni di luce/buio, l’oscillatore
all’interno delle cellule vegetali (oscillatore circadiano), rileva la luce dell’ambiente e si sincronizza con l’esterno
attraverso il ciclo luce/buio. Questa sincronizzazione si chiama intrattenimento. Tuttavia, se la luce viene
spenta l’oscillatore continua a funzionare.
Con un oscillatore circadiano, la pianta può iniziare a produrre le proteine per la fotosintesi all’alba ed essere
così pronta ad assimilare la luce al meglio quando il sole sorge.

Monika Martiri
Cellula eucariotica
Le cellule eucariotiche, a differenza di quelle procariotiche, oltre ad avere dimensioni maggiori, ospitano
nell’ambiente citoplasmatico una serie di organelli delimitati da una membrana biologica ed una
struttura intracellulare organizzata a moduli componibili, il citoscheletro, che conferisce alla cellula forma
e resistenza agli stress di natura fisico-meccanica.
All’interno delle cellule eucariotiche l’organulo più evidente è il nucleo, che contiene DNA ed è sito di
replicazione del DNA e della sintesi dell’RNA.
Gli organelli sono: nucleo, mitocondri, cloroplasti e plastidi, perossisomi, reticolo endoplasmatico,
apparato di Golgi e vescicole endo-lisosomiali.
Questi organelli sono immersi in una sostanza semifluida, confinata all’interno della membrana
plasmatica, detta citosol.
All’interno del citosol si trovano anche complessi macromolecolari, non rivestiti da membrane, definiti
generalmente come organelli citoplasmatici, quali i ribosomi ed i proteasomi, i primi fondamentali per la
sintesi proteica e i secondi nella degradazione delle proteine.

Membrana plasmatica
La membrana plasmatica è una lamina spessa approssimativamente 5nm composta da lipidi, proteine e
carboidrati che rappresenta il confine più esterno della cellula separando così l’ambiente intracellulare
(citoplasma) da quello extracellulare.
La membrana plasmatica consiste di un doppio strato fosfolipidico e costituisce una barriera
impermeabile alla maggior parte delle molecole idrosolubili, ma permeabile a quelle liposolubili e
gassose.
Il passaggio della maggior parte di ioni e molecole biologiche attraverso tale struttura è mediato da
proteine, responsabili del traffico selettivo tra i due ambienti. Sulla membrana plasmatica si trovano,
inoltre, proteine responsabili delle interazioni cellula-cellula e cellula-substrato insieme ad altre che,
agendo da sensori, permettono alla cellula di percepire stimoli provenienti dall’ambiente esterno.

La composizione lipidica delle membrane plasmatiche delle cellule animali include quattro diversi tipi di
fosfolipidi (molecole anfipatiche caratterizzate da una estremità, o testa, idrofilica e da una coda
idrofobica):
fosfatidilcolina, fosfatidiletanolamina, fosfatidilserina, e sfingomielina asimmetricamente distribuiti fra le
due metà del doppio strato lipidico. Il foglietto esterno è ricco di fosfatidilcolina e sfingomielina, mentre
in quello interno prevalgono fosfatidilserina e fosfatidiletanolamina.
Il foglietto interno contiene un quarto fosfolipide, il fosfatidilinositolo (cruciale nei meccanismi di
trasduzione del segnale).
Oltre ai fosfolipidi le membrane delle cellule animali contengono anche glicolipidi e colesterolo (assenti
nelle membrane dei batteri).
Il colesterolo con la sua struttura più rigida, rispetto alle catene idrocarburiche degli acidi grassi,
determina un irrigidimento della membrana, perché interferisce con il movimento delle catene
idrofobiche dei fosfolipidi responsabili della fluidità delle membrane stesse.
La fluidità delle membrane è una proprietà critica perché permette ai vari componenti delle membrane
stesse (lipidi e proteine) di spostarsi liberamente all’interno del bilayer lipidico. Non tutte le cellule
presentano il colesterolo come componente delle membrane plasmatiche.
La fluidità della membrana plasmatica è, quindi, una caratteristica strettamente dipendente dalla sua
composizione lipidica e soprattutto dalla quantità di alcuni lipidi, quali per esempio il colesterolo.

Monika Martiri
La struttura delle membrane oggi universalmente accettata è quella definita a mosaico fluido. Secondo
questo modello, i fosfolipidi si pongono in un doppio strato, organizzandosi in una particolare disposizione
(teste polari e idrofiliche verso l’esterno e code apolari e idrofobiche verso l’interno).
Pertanto le membrane sono descritte come fluidi bidimensionali in cui le proteine sono inserite in doppi strati
lipidici.
Le classi di proteine che popolano la membrana plasmatica sono definite in base alla localizzazione nel
bilayer lipidico.

Si distinguono così tre categorie:

Proteine integrali: a questa categoria appartengono le proteine che attraversano completamente lo


spessore della membrana plasmatica una o più volte (proteine transmembrana mono- e multi-passo) e che
possono essere rilasciate completamente dalla membrana solo in seguito a trattamenti che dissolvono le
membrane (detergenti).

Proteine periferiche: proteine che non interagiscono con il core idrofobico del bilayer fosfolipidico.
Le proteine periferiche sono associate alla membrana mediante legami elettrostatici deboli con le teste
idrofile dei lipidi oppure con le porzioni idrofile delle proteine integrali che sporgono dal doppio strato
fosfolipidico (interazioni proteina-proteina e/o proteina-lipidi che coinvolgono legami ionici).
Le proteine periferiche meglio studiate sono situate sulla faccia interna della membrana plasmatica. Queste
proteine formano una rete di fibrille che agiscono come uno “scheletro” flessibile per fornire un supporto
meccanico alla membrana durante i rapidi cambiamenti di forma della cellula. Altre proteine periferiche sulla
superficie interna della membrana agiscono come enzimi o come fattori che trasmettono segnali
transmembrana.
Anche la superficie extracellulare della membrana plasmatica può contenere proteine periferiche meno
conosciute.

Proteine ancorate: proteine ancorate alla membrana plasmatica tramite lipidi o glicolipidi a cui sono
covalentemente coniugate e la cui porzione polipeptidica non attraversa minimamente il doppio strato
lipidico.
Appartengono a questa classe tutte quelle associate alla membrana tramite ancore di
glicosilfosfatidilinositolo (GPI).
Generalmente questo tipo di proteine sono inserite nel foglietto esterno del doppio strato e sporgono sul
versante extracellulare. Si localizzano all’esterno del doppio strato fosfolipidico, sul versante extracellulare o
su quello citoplasmatico, ma sono legate covalentemente a una molecola lipidica situata nel doppio strato.

Quanto descritto non vale indistintamente per tutte le proteine, infatti in alcuni casi la diffusione passiva delle
proteine è vincolata alla loro associazione con il citoscheletro.
Un altro fattore che influenza in modo significativo la mobilità delle proteine nella membrana plasmatica è la
composizione lipidica della stessa. Il colesterolo per esempio determina un irrigidimento della membrana con
conseguente rallentamento della mobilità delle proteine al suo interno.
Pertanto possiamo dire che la mobilità delle proteine di membrana è controllata da una serie di fattori tra cui
componenti citoscheletriche di ancoraggio, organizzazione delle cellule in tessuti e composizione lipidica
delle membrane.

Monika Martiri
La composizione lipidica eterogenea delle membrane biologiche genera inoltre dei veri e propri
microdomini di membrana specializzati conosciuti come rafts e caveole.
Queste strutture sono costituite da una componente lipidica ricca di colesterolo e da proteine capaci di
conferire loro una certa rigidità e insolubilità ai detergenti alle basse temperature. Le loro funzioni spaziano
dall’organizzare processi come l’endocitosi, a rappresentare delle vere e proprie piattaforme su cui
vengono organizzate le fasi precoci del signaling cellulare.
Le caveole sono piccole (50-100 nm) invaginazioni della membrana plasmatica con struttura a fiasco,
caratteristiche di alcuni tipi cellulari (es. adipociti e cellule epiteliali).
Il marcatore proteico per eccellenza di queste strutture è la caveolina, mentre tra i lipidi di membrana il
colesterolo è il più abbondante, tant’è che la loro funzione è strettamente collegata alla presenza di questo
lipide. Farmaci che abbassano il livello di colesterolo cellulare causano infatti la disintegrazione delle
caveole.
I rafts sono strutture di membrana specializzate transitorie. Possono essere rappresentate come delle
piattaforme capaci di galleggiare libere nel doppio strato fosfolipidico oppure aggregare a formare delle
strutture di dimensioni maggiori. Il ruolo di queste strutture non è ancora completamente compreso, è
certo però che il loro anomalo assemblamento è causa di una lunga lista di patologie che va da malattie a
carattere neurodegenerativo (come la malattia di Parkinson e il morbo di Alzheimer) a malattie autoimmuni
sino alle neoplasie.

Domini transmembrana
Quali porzioni della catena polipeptidica sono effettivamente inserite all’interno del doppio strato?
Questi segmenti proteici inseriti nella membrana, solitamente chiamati domini transmembrana,
possiedono una struttura semplice e sono costituiti da una catena di circa 20 amminoacidi
prevalentemente apolari che attraversano il cuore del doppio strato lipidico formando un’α-elica (α-elica
rappresenta una conformazione favorita, poiché permette il formarsi del numero massimo di legami
idrogeno tra residui amminoacidici adiacenti, il che crea una configurazione altamente stabile, a bassa
energia).

Qui è rappresentata la glicoforina A, la


principale proteina integrale della
membrana plasmatica degli eritrociti.

Monika Martiri
Panoramica delle funzioni di membrana

Compartimentazione: le membrane formano superfici continue, ininterrotte e, pertanto, delimitano dei


compartimenti chiusi. La membrana plasmatica racchiude il contenuto dell’intera cellula (permette che
attività specializzate possano svolgersi senza interferenze esterne).

Supporto fisico per attività biochimiche: i componenti che sono immersi in una membrana non sono
liberi di muoversi e possono essere ordinati per una efficiente interazione.

Barriera con permeabilità selettiva: le membrane impediscono il libero scambio di molecole da un


versante all’altro ma, allo stesso tempo, forniscono un mezzo di comunicazione tra i compartimenti che
separano. Le membrane favoriscono il movimento di elementi selezionati all’interno e all’esterno dello
spazio vivente che circoscrivono.

Trasporto di soluti: la membrana contiene i “meccanismi” necessari per il trasporto fisico di sostanze da
un suo versante all’altro, spesso da una regione in cui il solito è presente a bassa concentrazione verso una
in cui è molto più concentrato. La membrana plasmatica è anche in grado di trasportare ioni specifici,
stabilendo, quindi, gradienti ionici tra i due versanti, citoplasmatico ed extracellulare.

Risposta a segnali esterni: la membrana plasmatica svolge un ruolo fondamentale nella risposta di una
cellula agli stimoli esterni, un processo noto come trasduzione del segnale. Le membrane contengono dei
recettori che si combinano con molecole specifiche dette ligandi. Per esempio, i segnali generati a livello
della membrana plasmatica possono indurre la cellula a sintetizzare una maggiore quantità di glicogeno, a
prepararsi alla divisione cellulare, a rilasciare calcio dalle riserve interne o innescare il suicidio
programmato.

Interazioni intercellulari: costituendo il limite esterno di ogni cellula vivente, media le interazioni fra una
cellula e le sue vicine, permette alle cellule di riconoscersi fra loro, di aderire quando è il caso e di
scambiarsi materiali ed informazioni.

Trasferimento di energia: le membrane sono strettamente coinvolte nei processi attraverso i quali una
forma di energia viene convertita in una forma diversa (trasferimento di energia). La principale forma di
trasferimento di energia si verifica durante la fotosintesi, quando l’energia della luce solare viene assorbita
da pigmenti legati a membrane, convertita in energia chimica ed accumulata nei carboidrati. Le membrane
sono inoltre implicate nel trasferimento di energia chimica dai carboidrati e dai grassi all’ATP.

Monika Martiri
Carboidrati di membrana

Nella membrana plasmatica delle cellule eucariotiche si trovano anche i carboidrati (dal 2 al 10% in peso
a seconda della specie e del tipo di cellula). Più del 90% dei carboidrati di membrana è legato con legami
covalenti alle proteine a formare glicoproteine. I carboidrati rimanenti sono legati ai lipidi con legami
covalenti a formare glicolipidi. Tutti i carboidrati della membrana sono rivolti verso l’ambiente
extracellulare. Anche i carboidrati delle membrane cellulari interne sono affacciati sul versante delle
membrane opposto al citosol.
Hanno diverse funzioni: proteggere la cellula, facilitare il riconoscimento per i recettori e far aderire le
cellule vicine.

I carboidrati dei glicolipidi della membrana degli eritrociti determinano se il gruppo sanguigno di un
individuo è A, B, AB o 0.
Un individuo che abbia il gruppo sanguigno di tipo A possiede un enzima che aggiunge un residuo di N-
acetilgalattosammina all’estremità della catena, mentre un individuo con gruppo sanguigno B possiede
un enzima che lega un residuo di galattosio all’estremità della catena. Le persone con gruppo sanguigno
AB possiedono entrambi gli enzimi, mentre quelle con gruppo sanguigno 0 sono prive degli enzimi.

I carboidrati si trovano nel versante extracellulare e formano il glicocalice. Il glicocalice rappresenta un


rivestimento di aspetto amorfo o fibrillare riconoscibile solo al microscopio elettronico.
Questa struttura che riveste la superficie esterna della membrana plasmatica di quasi tutte le cellule e a
cui è covalentemente ancorata, è costituita da proteoglicani e dagli oligosaccaridi dei glicolipidi e delle
glicoproteine ed è spessa dai 5 ai 20 nm.
Grazie alla sua composizione costituisce un microambiente idrofilo che circonda tutta la cellula a livello
del quale vengono legati ioni e molecole differenti.
A causa della sua composizione chimica, il glicocalice conferisce alla cellula una carica superficiale
esterna negativa.
Le principali funzioni svolte dal glicocalice sono due: da un lato protegge la superficie cellulare , dall’altro
i suoi oligosaccaridi sono coinvolti in numerose interazioni cellula-cellula e cellula-substrato.

Movimenti di molecole attraverso le membrane cellulari


Poiché i contenuti di una cellula sono completamente avvolti dalla sua membrana plasmatica, tutte le
comunicazioni tra la cellula e l’ambiente extracellulare devono essere mediate da questa struttura.
Il movimento di sostanze attraverso la membrana può avvenire fondamentalmente in due modi: in modo
passivo, per diffusione, oppure in modo attivo per mezzo di un processo di trasporto che richiede energia.

Trasporto passivo
È il tipo di trasporto più semplice. È un processo spontaneo in cui le molecole si spostano secondo gradiente
ovvero da una zona ad elevata concentrazione ad una a bassa concentrazione, annullando alla fine la differenza
di concentrazione fra le due regioni. Per questo motivo non viene consumata energia (sotto forma di ATP) per
attraversare la membrana. Esistono tre diversi tipi di trasporto passivo: diffusione semplice, diffusione facilitata e
osmosi.
- diffusione semplice: le molecole si muovono liberamente attraverso la membrana secondo gradiente. È il
trasporto tipico di piccole molecole apolari gassose (O2, N2, CO2, NO, NO2) e di piccole molecole polari
(quali acqua, etanolo, urea…).
La velocità con cui queste molecole diffondono attraverso la membrana dipende da tre elementi: gradiente di
concentrazione (se aumenta, aumenta la velocità), lipofilia delle molecole (più sono lipofile, più la diffusione è
veloce), dimensioni delle molecole (più sono piccole, maggiore è la velocità di diffusione).

Monika Martiri
Occorre dire che l’acqua si sposta grazie all’acquaporina, un canale che permette il passaggio secondo
gradiente di concentrazione. Il cosiddetto filtro di selettività permette di introdurre specifiche molecole
in un particolare canale: infatti, solo le molecole che legano i residui amminoacidici possono passare da
una parte all’altra (nel caso dell’acqua, si tratta di un canale polare).

-diffusione facilitata: le molecole più grandi e polari passano attraverso la membrana grazie a proteine
di trasporto. Queste possono essere di due tipi: carriers (permettono il passaggio di molecole polari
troppo grandi per diffondere liberamente come glucosio, saccarosio, amminoacidi) e canali ionici.
I canali ionici servono al trasporto di ioni, indispensabili per la cellula (come H+, Na+, K+, Cl, Ca++). I
canali sono altamente selettivi cioè riescono a traportare soprattutto lo ione per il quale sono predisposti
(es. il canale ionico per il potassio trasporta in larga quantità lo ione K+ e solo minimamente Na+).
La selettività dipende dall’interazione tra lo ione trasportato ed alcune regione interne della proteina
canale (quelle che circondano il tunnel di passaggio dello ione), interazione che a sua volta dipende dalla
carica elettrica e dalle dimensioni dello ione. Un esempio è dato dal canale del K+: esso presenta,
all’interfaccia con il canale, dei gruppi carbonilici (carichi negativamente). Questi attraggono K+ ma non
Na+ in quanto solo K+ è abbastanza grande da poter interagire in maniera elettrostatica con i gruppi
carbonilici, e quindi entrare.

I flussi di ioni vengono sfruttati per molte attività cellulari, come la propagazione dell’impulso nervoso o
per la secrezione di una sostanza. Gli ioni passano attraverso canali specifici.
Diversamente dall’acqua, che si può spostare secondo gradiente di concentrazione da un versante
all’altro, gli ioni possiedono una carica e perciò non dobbiamo solo considerare il gradiente di
concentrazione, ma anche il gradiente elettrochimico.

Il trasportatore del glucosio è un esempio di diffusione facilitata. La maggior parte delle cellule
possiede una proteina di membrana che facilita la diffusione del glucosio. Quando entra glucosio nella
cellula, si accumula fino a che non viene utilizzato. Ad un certo punto, il gradiente non sarà più a favore
dell’entrata del glucosio ma dell’uscita del glucosio. Quindi una volta entrato nel citoplasma, il glucosio è
rapidamente fosforilato, abbassando pertanto la concentrazione intracellulare del glucosio; ciò mantiene
un gradiente che favorisce la continua diffusione del glucosio entro la cellula. GLUT è il trasportatore del
glucosio e ce ne sono diversi tipi che permettono l’ingresso del glucosio con maggiore o minore
efficienza.

- osmosi: le membrane vengono dette semipermeabili. L’acqua si sposta facilmente attraverso una
membrana semipermeabile da una regione a concentrazione di soluto inferiore ad una regione a
concentrazione di soluto più elevata. Questo processo viene detto osmosi.
Quando due compartimenti con diversa concentrazione di soluto sono separati da una membrana
semipermeabile, il compartimento in cui la concentrazione di soluto è più elevata è definito ipertonico
rispetto a quello con concentrazione di soluto inferiore che è detto ipotonico.
Quando una cellula è posta in una soluzione ipotonica, essa assorbe acqua per osmosi e si gonfia.
Viceversa, quando una cellula è posta in una soluzione ipertonica, perde rapidamente acqua per osmosi
e si restringe. Quindi il volume cellulare è controllato dalla differenza fra la concentrazione sei soluti
all’interno della cellula e quella presente nell’ambiente extracellulare.

Monika Martiri
Trasporto attivo
Meccanismo più complesso; esso avviene infatti contro gradiente di concentrazione, avviene sempre con l’aiuto
di proteine di membrana e richiede consumo di energia (per questo è definito “attivo”). L’energia per il trasporto
attivo è fornita dall’ATP. Le proteine che effettuano un trasporto attivo sono chiamate “pompe”,
Il traporto attivo può essere primario o secondario. A seconda di come viene utilizzato l’ATP, il trasporto attivo può
essere suddiviso in trasporto attivo primario che utilizza direttamente l’energia che deriva dal legame fosfato
dell’ATP e il trasporto attivo secondario che utilizza invece l’energia di un gradiente di concentrazione che è stato
precedentemente creato da un trasporto attivo primario. È ovvio quindi che tutti i trasporti attivi secondari
dipendono strettamente dai trasporti attivi primari che utilizzano ATP per mantenere i gradienti di concentrazioni
necessari per il trasporto attivo secondario.

Trasporto attivo primario: l’energia derivante dall’idrolisi dell’ATP viene utilizzata direttamente per il trasporto di
molecole contro gradiente. Le proteine che intervengono nel trasporto primario sono di due tipi: pompe e
trasportatori ABC.
Le pompe possono essere, a loro volta di vari tipi:
Pompe P: cosi chiamate perché hanno un sito in cui si lega il gruppo P proveniente dall’ATP. Il legame con P
determina un cambiamento conformazionale della proteina, che le permette di svolgere la sua funzione. Queste
pompe trasportano soprattutto ioni positivi.
Pompe V: trasportano solo ioni H+. Si trovano sulla membrana dei lisosomi e degli endosomi.
Pompe F: strutturalmente simili a quelle di tipo V. In questo caso il trasporto di H+ avviene secondo gradiente e
serve a convertire ADP in ATP. Si trovano sulla membrana interna dei mitocondri.

Trasportatori ABC: sono proteine che trasportano grandi quantità di sostanze e farmaci (in caso di farmaci
prendono il nome di MDR ovvero multi-drug-resistance). Grazie alla loro azione l’organismo riesce a smaltire molti
farmaci che altrimenti risulterebbero dannosi e a far accumulare nelle cellule farmaci che se non si accumulano non
funzionano. Grazie a questo tipo di pome alcuni batteri resistono agli antibiotici.

Monika Martiri

Diffusione semplice: spontaneamente molecole in grado di attraversare lo strato fosfolipidico della membrana
(ossia molecole liposolubili, di piccola dimensione e non polari) si trasferiscono senza alcun dispendio energetico da
una zona a maggior concentrazione a una a minor concentrazione. Diffusione facilitata: si svolge sempre secondo
il gradiente di concentrazione e riguarda sostanze dotate di cariche elettriche (sostanze polari) che, non riuscendo
ad attraversare lo strato fosfolipidico, attraversano la membrana utilizzando canali specifici costituiti da proteine di
membrana. Anche in questo caso non si ha dispendio energetico; il canale è però specifico, nel senso che lascia
passare solo una specifica sostanza. Trasporto attivo: molecole specifiche si legano alle proteine sulla superficie
esterna della membrana cellulare; la proteina si comporta da vettore (carrier) consentendo l’ingresso della molecola
all’interno della cellula. Il trasporto attivo comporta un consumo di energia, perché avviene contro gradiente di
concentrazione, ossia da zone a concentrazione minore verso zone a concentrazione maggiore.
Trasporto attivo secondario: a seconda di come si spostano le molecole, il trasporto attivo secondario può
essere: antiporto, se il gradiente serve per trasportare due sostanze contemporaneamente ma in due direzioni
opposte; simporto, se il gradiente serve per trasportare due sostanze contemporaneamente e nella stessa
direzione (es. trasporto del glucosio con Na+, grazie a gradiente creato da Na+)

Monika Martiri

È importante notare che una stessa molecola può essere trasportata con modalità diverse. Ad esempio il
glucosio entra nelle cellule dell’intestino grazie al simporto con Na+ (trasporto attivo secondario). Al contrario, il
passaggio dalle cellule dell’intestino al compartimentò extracellulare avviene per diffusione facilitata, quindi con
un meccanismo di tipo passivo.
Esempio di antiporto: pompa sodio-potassio

Nel trasporto attivo primario l'energia necessaria a ioni e moleole per attraversare la membrana cellulare, viene fornita
direttamente dall'idrolisi di una molecola di ATP, che creando intermedi ad alta energia permette il loro spostamento.

Sistemi di questo tipo, quando trasportano ioni per creare un gradiente elettro-chimico, sono denominati "pompe".

Un classico esempio è la pompa sodio-potassio (o pompa Na/K), che è uno dei maggiori partecipanti al mantenimento del
potenziale di membrana.

La pompa sodio-potassio funziona sfruttando l'idrolisi di una molecola di ATP per spostare contro gradiente 3 ioni sodio
(Na+) verso l'ambiente extracellulare, e 2 ioni potassio (K+) verso l'ambiente intracellulare.

La pompa sodio-potassio funziona attraverso quattro fasi:

3 ioni sodio e 1 molecola di ATP si legano alla pompa sodio-potassio;

L'idrolisi dell'ATP (ADP+P) provoca un cambiamento di conformazione della proteina di membrana;

Gli ioni sodio (Na+) vengono liberati all'esterno della membrana e la nuova forma del canale permette il legame di 2
ioni potassio (K+);

Il rilascio del fosforo riporta il canale alla sua forma originaria e gli ioni potassio (K+) vengono liberati all'interno della
membrana cellulare.
Mitocondri
Questi organelli sono noti per il loro ruolo nel generare ATP (giocano anche un ruolo di vitale importanza nella
cattura e nel rilascio di ioni calcio, essenziali per innescare molte attività cellulari). I mitocondri sono molto
numerosi nelle cellule muscolari che hanno bisogno di grandi quantità di ATP per alimentare la loro
contrazione.
Il margine più esterno del mitocondrio contiene due membrane: la membrana mitocondriale esterna e la
membrana mitocondriale interna. La membrana esterna racchiude completamente il mitocondrio e ne
rappresenta il confine esterno. Benché parte della membrana interna si trovi appena all’interno della
membrana esterna, la maggior parte di essa forma profonde pieghe o invaginazioni, dette creste.
Le membrane mitocondriale dividono questo organello in due compartimenti ripieni di fluido, uno al centro del
mitocondrio, detto matrice, e un secondo tra membrana esterna e membrana interna, detto spazio
intermembrane.
Le membrane esterna ed interna hanno proprietà molto differenti.
La membrana esterna è formata per circa il 50% di lipidi e contiene una strana miscela di enzimi, interessati
ad attività così diverse come l’ossidazione dell’adrenalina, la degradazione del triptofano e l’allungamento
degli acidi grassi.
La membrana interna, invece, ha un alto rapporto proteine/lipidi (più di 3:1 in peso). La membrana interna è
praticamente priva di colesterolo e ricca di un insolito fosfolipide, la cardiolipina. Ambedue queste
caratteristiche sono proprie della membrana plasmatica dei batteri, dalla quale la membrana mitocondriale
interna si è probabilmente evoluta.

Si ritiene che la membrana mitocondriale esterna si derivata dalla membrana esterna presente com parte della
parete cellulare di alcune cellule batteriche, poiché ambedue le membrane contengono porine, proteine
integrali che formano canali che, quando sono ben aperti, rendono la membrana esterna permeabile a
molecole come ATP, NAD e coenzima A. Porine: proteine integrali di membrana che formano canali di
membrana ampi e non selettivi.
Al contrario, la membrana mitocondriale interna è altamente impermeabile.

Matrice mitocondriale: oltre a diversi enzimi, la matrice contiene ribosomi (di grandezza considerevolmente
minore rispetto a quelli presenti nel citoplasma) e parecchie molecole di DNA circolare a doppio filamento
(mtDNA).
Quindi i mitocondri possiedono un loro materiale genetico, anche se limitato, e i meccanismi per sintetizzare il
loro proprio RNA e le loro proteine.
Il DNA mitocondriale permette al mitocondrio di dividersi indipendentemente dalla cellula (come se il
mitocondrio fosse una “cellula nella cellula”). Inoltre il DNA mitocondriale si trasmette per via matrilineare. Al
momento della fecondazione (unione tra spermatozoo e ovocita per formare lo zigote), i mitocondri dello
spermatozoo, una volta entrati nell’ovocita, vengono eliminati. Per questo motivo, il nuovo individuo avrà lo
stesso DNA mitocondriale della madre, perché erediterà i mitocondri solo da lei.

Teoria endosimbiontica
Come hanno fatto gli eucarioti a diventare così complessi? Da dove vengono questi organelli? La teoria che
spiega come questo sia potuto accadere prende il nome di teoria endosimbiontica. Un endosimbionte è un
organismo che vive all’interno di un altro. Teoria secondo la quale la cellula eucariota deriverebbe da una
simbiosi, avvenuta nel corso dell'evoluzione, tra piccole cellule procariote provviste di plastidi e una cellula
più grande che le avrebbe inglobate per fagocitosi, stabilendo un rapporto di cooperazione. La mutata
composizione atmosferica (aumento dell'ossigeno) rese vantaggiosa la presenza dei simbionti, capaci di
catturare e convertire l'energia luminosa, i quali erano favoriti dall'accesso alle sostanze nutritive prodotte
dalla cellula ospite. I cloroplasti e i mitocondri delle cellule eucariote avrebbero avuto questa origine, essendo
derivati da antichi batteri in rapporto simbiotico con antiche cellule progenitrici.

Monika Martiri
Metabolismo aerobico
nel mitocondrio
I due prodotti finali della glicolisi (piruvato e NADH) possono essere metabolizzati in due modi diversi, a seconda
della presenza o assenza di ossigeno.
In presenza di ossigeno, gli organismi aerobi sono in grado di estrarre grandi quantità di energia aggiuntiva dal
piruvato e dal NADH prodotti dalla glicolisi, tanto da sintetizzare altre 30 molecole di ATP.
Questa energia è prodotta nei mitocondri.

Le molecole di piruvato prodotte dalla glicolisi sono trasportate attraverso la membrana mitocondriale interna
nella matrice, dove vengono decarbossilate per formare gruppi acetile a due atomi di carbonio. Il gruppo acetile è
trasferito poi al coenzima A (complessa molecola organica derivante dalla vitamina acido pantotenico) per
formare l’acetil CoA.
La decarbossilazione del piruvato e il trasferimento del gruppo acetile al CoA sono catalizzati dal complesso
multienzimatico della piruvato deidrogenasi.

Ciclo di Krebs (o ciclo degli acidi tricarbossilici)


Una volta formato, l’acetil CoA entra in una via ciclica detta ciclo degli acidi tricarbossilici, in cui il substrato viene
ossidato e la sua energia conservata. Questa via ciclica è nota anche come ciclo di Krebs o ciclo dell’acido
citrico.

Il primo passo è la condensazione del gruppo acetile a due atomi di carbonio con l’ossalacetato a quattro atomi
di carbonio, per formare una molecola di citrato, a sei atomi di carbonio.
Durante il ciclo, la catena della molecola del citrato viene accorciata, un carbonio alla volta, rigenerando la
molecola a quattro atomi di carbonio dell’ossalacetato, che può tornare a condensarsi con un altro acetil CoA.

Nel ciclo di Krebs, avvengono quattro reazioni in cui una coppia di elettroni viene trasferita da un substrato ad un
coenzima accettore di elettroni. Tre di queste reazioni riducono il NAD+ a NADH, una riduce il FAD a FADH2.

Quindi i principali prodotti delle reazioni sono i coenzimi ridotti FADH2 e NADH. Il NADH è, insieme al
piruvato, anche uno dei prodotti principali della glicolisi. I mitocondri non sono però in grado di importare il NADH
che si forma nel citosol dalla glicolisi.

Stadio 1: gli elettroni ad alta energia vengono passati dal FADH2 o dal NADH attraverso una serie di trasportatori
che formano la catena di trasporto degli elettroni localizzata nella membrana mitocondriale interna tramite
reazioni che rilasciano energia. L’energia rilasciata durante il trasporto degli elettroni viene immagazzinata sotto
forma di gradiente protonico tra i due lati della membrana. Gli elettroni a bassa energia vengono trasferiti ad un
accettore finale di elettroni: l’ossigeno molecolare (che viene ridotto ad acqua).

Stadio 2: il ritorno controllato dei protoni H+ attraverso la membrana, produce l’energia necessaria a fosforilare
l’ADP in ATP.

Se si sommano tutti gli ATP che si formano da una molecola di glucosio, completamente catabolizzata attraverso
la glicolisi e il ciclo di Krebs, il guadagno netto è al massimo di 36 ATP.

Monika Martiri
Trasporto degli elettroni

Gli elettroni ad alta energia associati al NADH e al FADH2 vengono trasferiti attraverso una serie di specifici
trasportatori che costituiscono la catena di trasporto degli elettroni (o catena respiratoria).
La catena di trasporto degli elettroni è formata da cinque tipi di trasportatori di elettroni legati alla membrana:
flavoproteine, citocromi, atomi di rame, ubichinone e proteine ferro-zolfo.
Con l’eccezione dell’ubichinone tutti questi trasportatori sono gruppi prostetici, cioè composti di natura non
amminoacidica strettamente associati a proteine.

Ogni trasportatore è ridotto dall’acquisto di elettroni dal trasportatore precedente. Così gli elettroni passano da un
trasportatore al successivo perdendo energia mentre si muovono “in discesa” lungo la catena. L’accettore finale di
questo “passamano” è l’ossigeno (O2), che accetta gli elettroni ormai privi di energia ed è ridotto ad acqua.

Perossisomi
I perossisomi sono semplici vescicole circondate da membrana che spesso contengono un nucleo denso formato
da enzimi ossidativi. I perossisomi sono organelli multifunzionali, contenenti più di 50 enzimi che partecipano ad
attività molto diverse tra loro, come l’ossidazione degli acidi grassi a catena molto lunga e la sintesi dei
plasmalogeni, che sono un’insolita classe di fosfolipidi del tessuto nervoso.
I perossisomi condividono diverse proprietà con i mitocondri: entrambi si duplicano per scissione da organelli
preesistenti; entrambi importano delle proteine già formate dal citosol; entrambi sono impegnati nel metabolismo
ossidativo.
Recentemente si è scoperto che dai mitocondri si formano vescicole che trasportano sostanze destinate ai
perossisomi.
Questi organelli si chiamano perossisomi perché sono il sito di formazione e di degradazione del perossido di
idrogeno (H2O2), un agente ossidante tossico e altamente reattivo.

Le cellule delle piante, proprio come altre cellule eucariotiche, contengono sia mitocondri che perossisomi.
I germogli delle piante contengono un particolare tipo di perossisoma, detto gliossisoma. Poiché i germogli non
hanno ancora sviluppato un sistema fogliare per assorbire la luce durante la fotosintesi, essi devono fare
affidamento sull’energia immagazzinata per alimentare la crescita della nuova pianta.
La fotosintesi e il cloroplasto
Gli organismi capaci di vivere utilizzando l’anidride carbonica come principale fonte di nutrizione sono detti
autotrofi.
La costruzione di molecole complesse a partire dall’anidride carbonica richiede l’utilizzo di grandi quantità di
energia. Nel corso dell’evoluzione si sono evoluti due tipi principali di autotrofi che vengono distinti per la sorgente
da cui attingono energia.
I chemioautotrofi utilizzano l’energia immagazzinata nelle molecole inorganiche (come l’ammoniaca, l’acido
solfidrico o i nitriti) per convertire anidride carbonica in composti organici, mentre i fotoautotrofi utilizzano
l’energia radiante del sole per svolgere questo compito.

La fotosintesi è un processo in cui gli elettroni con energia relativamente bassa sono rimossi da un composto
donatore e convertiti in elettroni ad alta energia a causa dell’assorbimento della luce.
La fotosintesi nelle cellule eucarioti avviene in un organello citoplasmatico a ciò deputato, il cloroplasto (si
trovano in numero da 20 a 40 per cellula).
La copertura esterna del cloroplasto è costituita da due membrane separate da un sottile spazio. Come la
membrana esterna del mitocondrio, la membrana esterna del cloroplasto contiene porine (che rendono questa
membrana permeabile). Al contrario, la membrana interna è relativamente impermeabile.

La maggior parte del meccanismo fotosintetico del cloroplasto, che comprende i pigmenti che assorbono la luce,
una complessa catena di trasportatori di elettroni e un apparato capace di sintetizzare ATP, è situato in un
sistema di membrane interne e fisicamente separato dalle membrane esterne.
La membrana interna del cloroplasto è organizzata in sacchi membranosi appiattiti, detto tilacoidi. I tilacoidi sono
disposti ordinatamente in pile dette grana, che assomigliano a pile di monete. Lo spazio interno del tilacoide è
detto lume e quello esterno al tilacoide ma all’interno della membrana esterna è detto stroma.
Come la matrice del mitocondrio, lo stroma di un cloroplasto contiene piccole molecole circolari a doppio
filamento di DNA e ribosomi simili a quelli dei procarioti che, insieme a diversi enzimi, costituiscono un deposito di
informazione genetica e gli strumenti per utilizzarla.

I cloroplasti sono organelli semiautonomi capaci di autoreplicazione, che si ritiene si siano evoluti da un procariote
fotosintetico (probabilmente un cianobatterio) capace di liberare ossigeno, unitosi in simbiosi con una cellula
ospite non fotosintetica. Come risultato i cloroplasti e i batteri fotosintetici hanno in comune molte proprietà,
comprese le porine della membrana esterna, il tipo di DNA e i ribosomi situati nello stroma e la natura del
complesso fotosintetico (teoria endosimbiontica, come nei mitocondri).

Gli organismi fotoautotrofi sono in grado trasformare l’energia luminosa in energia chimica, immagazzinandola
nella materia organica sintetizzata a partire da CO2 e H2O; a questo gruppo appartengono organismi eucarioti,
come le piante e le alghe, e organismi procarioti, come i batteri fotosintetici. Nelle cellule eucariote tale processo
avviene nei cloroplasti ad opera di importanti molecole cromofore (soprattutto clorofilla e carotenoidi), capaci di
captare quanti di luce e di trasferire tale energia a particolari centri di raccolta, che daranno poi luogo a una serie
di reazioni chimiche.
In particolare possiamo distinguere una fase luminosa, che si svolge quando la luce colpisce i pigmenti
fotosintetici, e una fase chimica indipendente dalla luce, in cui si innescano reazioni di ossidoriduzione, che
portano alla sintesi di molecole organiche (glucosio).
Interazioni fra cellule Monika Martiri
e
spazio extracellulare

Spazio extracellulare
Se ci si muove dalla membrana plasmatica verso l’esterno, si possono esaminare i tipi di elementi extracellulari
che circondano i vari tipi di cellule.
Tutte le proteine integrali di membrana, così come certi lipidi di membrana, contengono corte catene di zuccheri
che si estendono all’esterno della membrana plasmatica.
Queste protezioni di carboidrati formano uno strato strettamente addossato alla superficie esterna della
membrana plasmatica, chiamato glicocalice (o rivestimento cellulare).
Oltre a giocare un ruolo chiave nel mediare le interazioni cellula-cellula e cellula-substrato, il glicocalice può
dormire protezione meccanica alle cellule e servire da barriera alle particelle che raggiungono la membrana
plasmatica.

Molti tipi di cellule presentano una matrice extracellulare (MEC), cioè una rete organizzata di materiale
extracellulare presente nelle immediate vicinanze della membrana plasmatica. La matrice extracellulare può
consistere in un’associazione amorfa è scarsamente definita di proteine e polisaccaridi (come nello spazio
extracellulare dei tessuti connettivi lassi) o può assumere la forma di una struttura distinta il cui profilo è visibile
al microscopio ottico.
La MEC non è semplicemente un materiale passivo ed inerte; essa può giocare un ruolo chiave nel determinare
la forma e le attività della cellula. Una delle matrici extracellulari meglio definite è la membrana basale (o
lamina basale).

Anche se la MEC può avere può avere forme diverse in differenti tessuti ed organismi, i materiali che
costituiscono la MEC sono membri di un numero relativamente basso di famiglia molecolari:

collagene: i collageni sono una famiglia di glicoproteine fibrose presenti esclusivamente nelle matrici
extracellulari.
Essi sono caratterizzati da una elevata resistenza alla trazione e sono le proteine più abbondanti nel corpo
umano.
Il collagene è prodotto soprattutto dai fibroblasti (cellule presenti in vari tipi di tessuti connettivi) e dalle cellule
epiteliali.

Oltre ai collageni, la MEC tipicamente contiene anche notevoli quantità di un particolare tipo di complesso
proteico-polisaccarico chiamato proteoglicano.
La MEC, in aggiunta a collagene e proteoglicani, contiene diverse proteine che interagiscono l’una con l’altra in
modi ben definiti, come la fibronectina.
Ciascuna delle due catene polipeptidiche che formano una molecola di fibronectina contiene:

1. Siti di legame per altri componenti della MEC, inclusi specifici collageni e glicosaminoglicani, che aiutano ad
unire queste diverse molecole in una rete stabile ed interconnessa.
2. Siti di legame per recettori della superficie cellulare, che servono per tenere la MEC stabilmente legata alle
cellule.

Un’altra glicoproteina della MEC è la laminina che può avere funzioni, oltre che strutturali, anche regolative,
influenzando le capacità di crescita e differenziative di una cellula.
Quindi determinati componenti della MEC, tra cui la fibronectina, la laminina e il collagene, sono in grado di
legare recettori situati sulla superficie delle cellule.
Il gruppo più importante di recettori che legano le cellule al loro microambiente extracellulare è rappresentato
dalle integrine.
Le integrine sono una superfamiglia di proteine integrali di membrana composte da due catene polipeptidiche
transmembrana, una catena α e una catena β. Entrambe queste subunità delle integrine hanno diverse regioni:
una porzione extracellulare, un segmento transmembrana e un piccolo dominio citoplasmatico contenente siti di
legame per componenti del citoscheletro.
Perciò le integrine posso legarsi a componenti su entrambi i lati della membrana plasmatica. Il nome “integrina”
deriva dal concetto che queste proteine possono trasmettere segnali fra i compartimenti extracellulare ed
intracellulare per “integrare” eventi esterni ed interni.
I materiali extracellulari si legano alle integrine mediante il tripeptide RGD. Il legame di un ligando extracellulare
ed una integrina può generare dei segnali intracellulari che inducono dei cambiamenti specifici nelle attività della
cellula.

Adesione delle cellule con altre cellule


Diverse evidenze indicano che le cellule sono in grado di riconoscere la superficie di altre cellule, “sapendo” con
chi interagire e chi invece ignorare. L'adesione delle cellule ad altre cellule è mediata da diverse famiglie distinte
di proteine integrali di membrana: selectine, integrine, caderine e membri della superfamiglia delle
immunoglobuline.

Le giunzioni cellulari
Le giunzioni cellulari sono delle interazioni complesse che si stabiliscono tra cellule e matrice extracellulare. La
principale funzione di queste giunzioni è quella di mantenere la struttura e l’integrità del tessuto.
Si credeva inizialmente che le cellule fossero strettamente spese tra loro ma, grazie al microscopio elettronico, si
è visto che le cellule epiteliali sono separate tra loro, da un piccolo spazio occupato da liquidi interstiziali che
favoriscono la scambio di metaboliti tra l’epitelio vascolare e la rete capillare situata nel connettivo sottostante.
I dispositivi giunzionali si dividono in: giunzioni aderenti, giunzioni strette e giunzioni comunicanti.

Giunzioni aderenti e desmosomi


Le cellule di certi tessuti, in particolare gli epiteli ed il muscolo cardiaco, sono difficili da separare perché sono
tenute insieme fra loro da giunzioni adesive specializzate. Esistono due tipi principali di giunzioni adesive: le
giunzioni aderenti ed i desmosomi.
Le giunzioni aderenti circondano la cellula vicino alla sua superficie apicale, permettendo il contatto fra le cellula
e tutte le sue vicine.
La membrana plasmatica di una giunzione aderente contiene raggruppamenti di caderine che formano contatti
adesivi nello spazio extracellulare fra le superfici delle cellule.
I desmosomi sono presenti come delle macchie fra le cellule e sono caratterizzate da una concentrazione di
materiali extracellulari presenti tra le membrane plasmatiche e da placche dense citoplasmatiche nelle superfici
interne delle membrane. Sono un tipo di giunzione ancorante che si trova soprattutto nelle cellule epiteliali, ma
anche in altri tipi di tessuto sottoposti a stress meccanici come la mucosa dell’intestino, dello stomaco, delle
tube uterine.
Giunzioni strette
Le giunzioni strette sono siti specializzati di contatto che bloccano la diffusione dei soluti fra le cellule di un epitelio
(sigillano gli spazi).
Si dividono in zonule occludenti (disposte a cintura) e fasce occludenti (possiedono una struttura simile alle zonule
ma sono disposte in maniera discontinua e asimettrica).
Le zonule occludenti rendono impermeabili gli spazi intercellulari. Si trovano sulla superficie laterale delle cellule e
impediscono il passaggio di molecole tra le cellule stesse. Le zonule possiedono due componenti: le proteine
transmembrana (claudine, occludine, JAMs) e le proteine di ancoraggio (ZO-1, ZO-2, ZO-3).
Le proteine transmembrana possiedono un dominio extracellulare, che interagisce con il dominio extracellulare di
altre proteine appartenenti ad altre cellule. Possiedono anche un dominio citoplasmatico che interagisce con le
proteine di ancoraggio.
Le funzioni delle giunzioni strette (o occludenti): costituiscono una barriera di permeabilità protettiva e selettiva che
separa due componenti funzionalmente differenti; mantengono la polarità morfo-funzionale che caratterizza le
cellule del tessuto epitaliale.

Giunzioni comunicanti
Le giunzioni comunicanti formano un canale tra due cellule e vengono definite “gap junctions” (o sinapsi elettriche,
nelle cellule nervose). Questo canale permette il collegamento funzionale tramite piccole molecole che passano
velocemente da una cellula all’altra.
Le membrane plasmatiche di cellule adiacenti contengono canali formati da un’organizzazione esagonale di
subunità di connessina, che formano così un connessone. Il connessone di una membrana è allineato con il
connessone della membrana adiacente, formando un canale centrale che collega il citoplasma di una cellula con il
citoplasma della cellula adiacente.
Funzioni delle giunzioni comunicanti: mantengono l’omeostasi cellulare e tissutale, regolano il differenziamento,
regolano la proliferazione cellulare, sono responsabili del bystander effect (quando una cellula compromessa per
danno o malattia inizia il processo di morte cellulare, trasmette segnali a cellule connesse tramite giunzioni
comunicanti, provocandone la morte).
Sistema di endomembrane
Il citoplasma delle cellule eucariotiche contiene un sistema di organelli circondati da membrana,
comprendente il reticolo endoplasmatico, il complesso del Golgi, gli endosomi, i lisosomi e i vacuoli,
che sono funzionalmente e strutturalmente interconnessi l’uno all’altro e alla membrana plasmatica.
Questi organelli membranosi citoplasmatici sono elementi di una rete dinamica e integrata in cui i materiali
sono trasportati avanti e indietro da un distretto all’altro della cellula. Per la maggior parte i trasportatori che
portano il materiale da un organello all’altro, per esempio dal reticolo endoplasmatico al complesso di
Golgi, sono vescicole di trasporto che si formano dalla gemmazione di un compartimento di membrana.

Sono stati identificati parecchi di questi percorsi nel citoplasma. Si può distinguere una via biosintetica in
cui i materiali sono sintetizzati nel reticolo endoplasmatico o nel complesso di Golgi, modificati nel
passaggio attraverso il complesso di Golgi e trasportato all’interno del citoplasma alle varie destinazioni
quali la membrana plasmatica, i lisosomi o i vacuoli.
Questa via è definita anche via secretoria, dal momento che molte delle sostanze sintetizzate nel reticolo
endoplasmatico o nel complesso di Golgi sono destinate ad essere scaricate (secrete) al di fuori della
cellula.

Reticolo endoplasmatico

È un reticolo di tubuli e sacchi racchiusi da membrane a formare delle strutture che ricordano delle cisterne
appiattite.
Il reticolo endoplasmatico è suddiviso in due categorie: il reticolo endoplasmatico rugoso (RER) e il
reticolo endoplasmatico liscio (REL). Entrambi i tipi di ER compongono un sistema di membrane che
racchiudono uno spazio. Il contenuto fluido del citoplasma è diviso dall’ER in due compartimenti: lo spazio
racchiuso all’interno delle sue membrane, chiamato spazio luminale o cisternale e la regione all’esterno
delle membrane, che è lo spazio citosolico.
La distinzione morfologica tra RER e REL è basata sulla presenza di ribosomi attaccati al primo e sulla loro
assenza nel secondo.

Reticolo endoplasmatico liscio


Caratterizzato dall’assenza di ribosomi sulla sua superficie (da qui “liscio”). Il REL ha diverse funzioni:

-sintetizzare lipidi: i fosfolipidi per le membrane cellulari, il colesterolo, e i glicolipidi e sintesi degli ormoni
steroidei.
-detossificazione nel fegato di un gran numero di composti organici tra cui, ad esempio, barbiturici ed
etanolo.
-riserva di ioni calcio che vengono utilizzati come molecole segnale.
-è coinvolto nel metabolismo del glicogeno. Il glicogeno viene conservato, come riserva energetica, nel
fegato e nei muscoli. Il processo che porta ad ottenere glucosio dal glicogeno avviene grazie al REL.
Di fatto, grandi riserve di glicogeno sono mantenute nel fegato sotto forma di granuli attaccati alla
membrana esterna del REL. Quando aumenta la richiesta di energia chimica, il glicogeno viene degradato
in glucosio 1-fosfato, che poi è convertito a glucosio 6-fosfato nel citoplasma. In questa forma però il
glucosio non può uscire dalla cellula. Grazie ad un enzima, il glucosio 6-fosfatasi, presente solo sulle
membrane del REL, il gruppo P viene rimosso e il glucosio può uscire dalla cellula

Reticolo endoplasmatico rugoso


Deve il suo attributo “rugoso” alla presenza di ribosomi attaccati sul lato esterno della membrana che gli
conferiscono appunto un aspetto ruvido.
Le cisterne del RER sono molto sviluppate e abbondanti nelle cellule dove c’è un elevato metabolismo
proteico (es. cellule del fegato e dell’intestino). La funzione principale del RER è quella di rimaneggiare le
proteine sintetizzate dai ribosomi presenti sulla sua superficie esterna.

Monika Martiri
Alcune proteine, come proteine di secrezione, enzimi lisosomiali e proteine integrali si sintetizzano in parte
nel citosol, sviluppando un peptide segnale.
A questo punto, un complesso SRP (particella di riconoscimento del segnale) capta questo segnale e attacca la
proteina ad un traslocone, che è un canale di comunicazione con il RE.
Quindi, la proteina viene sintetizzata nel lume fino ad entrare all’interno del reticolo ma, se si tratta di una proteina
integrale di membrana, si integra direttamente alla membrana del RE.
Successivamente si formano vescicole contenenti le proteine del RER e i fosfolipidi del REL e si vanno a fondere,
dapprima nel complesso di Golgi, dove finiscono di essere sintetizzate, per poi unirsi alla membrana cellulare.

Di fatto, il reticolo endoplasmatico, fornisce solo una parziale modificazione alle macromolecole, che vengono poi
confezionate nell’apparato di Golgi.

Tutte le proteine secrete seguono una via secretoria comune che prevede:
RER → Golgi → vescicole secretorie → fusione con la membrana plasmatica e conseguente espulsione del
materiale all'esterno della cellula.

Apparato di Golgi

È un organulo localizzato in prossimità del nucleo, la cui funzione principale è quella di modificare il
contenuto delle vescicole provenienti dal RE.
Il complesso di Golgi ha una morfologia caratteristica che consiste di cisterne appiattite a forma di disco con
bordi dilatati, associate a vescicole e tubuli.

Il Golgi svolge tre funzioni:

-maturazione delle proteine


-nel Golgi vengono sintetizzati lipidi particolari. Sintesi di sfingomielina e glicosfingolipidi.
-smistamento delle proteine (le proteine ricevute dal RE vengono smistate alle loro destinazioni finali:
lisosomi, membrana plasmatica o secrezione nell’ambiente extracellulare).

Nei suoi sacchi appiattiti avvengono modifiche che completano le attività di maturazione delle proteine.
Le cisterne che formano le pile del Golgi sono polarizzate; la cisterna più vicina all’ER è detta essere dalla
parte cis mentre quella dalla parte opposta è detta essere dalla parte trans (i due versanti opposti della pila
di cisterne sono indicati come faccia cis, o di formazione, e faccia trans, o di maturazione).

Faccia cis: si affaccia sul RE e funziona come punto di smistamento. Infatti, le proteine prodotte dal RE
vengono portate al Golgi attraverso vescicole che viaggiano sui binari dei microtubuli e dei microfilamenti.
La faccia cis smista queste vescicole, controlla che le proteine siano state ricevute correttamente, altrimenti
le fa tornare indietro. Se le proteine vengono accettate, cominciano ad avanzare tra le varie cisterne.

Faccia trans: è caratterizzata dalla presenza di proteine modificate, che si spostano per raggiungere la
membrana.

In generale, le modifiche apportate nel Golgi consistono in aggiunte di unità lipidiche, glucidiche o di piccoli
gruppi funzionali e rimozioni amminoacidiche. Inoltre, si sintetizzano anche polisaccaridi complessi, come
glucosammidoglicani.
Come funziona l’apparato di Golgi?
Tratteremo il trasporto vescicolare attraverso le diverse cisterne.
Quando le vescicole arrivano sulla faccia cis del Golgi, si staccano altre vescicole che si dirigono sulla prima
cisterna, poi sulla seconda e, gradualmente, sulle successive. Intanto, il contenuto delle vescicole subisce
modifiche, dato che ogni cisterna ha enzimi specifici relativi a funzioni altrettanto specifiche.

Come avviene lo smistamento tra le varie cisterne?


La membrana del RE forma delle vescicole nelle quali rimangono incastrate le proteine che devono essere
trasportate. Quindi le vescicole (o gemme) devono saper riconoscere un punto bersaglio per poter rilasciare le
proteine che hanno precedentemente inglobato.
Queste vescicole (che dovremmo accogliere le macromolecole da trasferire) sono provviste di rivestimenti
proteici, aventi due funzioni: fungono da dispositivo meccanico che induce la membrana a curvarsi, formando
vescicole in gemmazione; costituiscono un meccanismo di selezione per i componenti che devono essere
trasportati nella vescicola.
Si riescono pertanto ad inglobare solo le proteine che hanno necessità di spostarsi. A seconda delle proteine
di rivestimento che caratterizzano una vescicola, si hanno informazioni sulla direzione che essa deve
intraprendere.

Le proteine di rivestimento sono:


- COP II: rivestono vescicole con trasporto in direzione antiretrograda, ossia dal RE alla faccia cis del Golgi.
- COP I: rivestono vescicole con trasporto in direzione retrograda, ovvero dal Golgi al RE, riportando indietro le
proteine.
- clatrina: vescicole che contengono proteine lisosomiali.
- coatomeri: complessi proteici che rivestono le vescicole della secrezione costitutiva (tipica delle cellule che
sintetizzano una molecola e la estrudono, continuamente, nel tempo).

Proteine v-SNARE e t-SNARE


Le vescicole di trasporto presentano sulla membrana un particolare recettore per il materiale da trasportare. A
ciascuno di tale recettore è associato dal lato citosolico una specifica proteina v-SNARE che ne segnala il
compartimento di destinazione. Su tale compartimento è presente una t-SNARE, che interagisce con la v-SNARE.
La proteina v-SNARE rappresenta una sorta di chiave che serve a far capire se la vescicola si sia dirigendo nel
compartimento corretto.
Pertanto, quando una vescicola, attraverso i binari del citoscheletro, raggiunge una cisterna bersaglio, incontra una
proteina chiamata proteina di ormeggio, la quale blocca la vescicola per facilitare il riconoscimento tra v-SNARE e
t-SNARE. A questo punto, la v-SNARE, come una chiave, si lega ad una proteina presente sulla membrana bersaglio
detta t-SNARE e la v-SNARE (chiave) va a legare la t-SNARE (serratura): se le due proteine combaciano, la vescicola
si fonde; altrimenti, se non corrispondono, significa che la vescicola è stata associata ad una cisterna sbagliata,
quindi essa non si fonde, si stacca dalla proteina di ormeggio e cerca di raggiungere la sua cisterna finale.
Lisosomi
Funzionano come organelli digestivi della cellula. Contengono enzimi idrolitici (circa 50 specie diverse) in
grado di aggredire e scindere macromolecole.
Tali enzimi svolgono la loro funzione in ambiente acido (pH 4/5).
Il ruolo più studiato dei lisosomi è la degradazione delle sostanze portate nella cellula dall’ambiente
esterno.
I lisosomi non sono soltanto coinvolti nella degradazione del materiale che entra nella cellula
dall’ambiente esterno; essi hanno anche un ruolo chiave nel turnover degli organelli, cioè nella distruzione
e nella loro sostituzione. Durante questo processo chiamato autofagia, un organello è circondato da una
membrana. La membrana che circonda l’organello si fonde poi con un lisosoma formando un vacuolo
autofagico.

Questi organelli hanno un ruolo importante nella fagocitosi, autofagia ed endocitosi.

I lisosomi primari, cioè i lisosomi che non hanno ancora preso parte alla digestione cellulare, si fondono
con vescicole fagocitiche che contengono materiale estraneo, come batteri, oppure con vescicole
autofagiche che contengono organelli cellulari, come i mitocondri. In entrambi i casi, una volta che il
processo digestivo è stato completato, l’organello diventa un corpo residuo. Il contenuto dei corpi residui
può essere eliminato dalla cellula per esocitosi o può essere trattenuto nel citoplasma come granulo di
lipofuscina (che aumentano di numero mano a mano che un individuo invecchia, infatti l’accumulo è
particolarmente evidente in cellule che vivono a lungo come i neuroni).

In generale i lisosomi si formano per gemmazione dalle membrane del Golgi e possono essere di tre tipi:
Lisosomi primari: sono le vescicole che si sono appena staccare dal Golgi, con gli enzimi ancora inattivi.
Non sono ancora uniti alle vescicole contenenti il materiale da degradare.
Lisosomi secondari: sono i lisosomi uniti alle vescicole contenenti il materiale da degradare. Grazie alle
pompe, il lisosoma acidifica il suo interno, attivando gli enzimi che distruggono il materiale presente. Nei
lisosomi secondari troviamo pertanto, enzimi, materiale ancora da digerire e materiale digerito.
Lisosomi terziari: si tratta dei corpi residui della digestione (granuli di lipofuscina).

Vacuoli
Si tratta di siti di immagazzinamento temporaneo di soluti cellulari, come ioni, zuccheri, amminoacidi,
proteine e polisaccaridi. Le cellule vegetali non hanno lisosomi e utilizzano pertanto i vacuoli per svolgere
funzioni affini. Infatti, questi organelli contengono sostanze tossiche che possono essere rilasciate
quando la cellula è danneggiata. I vacuoli sono siti di digestione cellulari simili ai lisosomi, provvisti di
enzimi digestivi che funzionano a pH acido.
L’assunzione cellulare di particelle e macromolecole
L’assunzione del materiale extracellulare nelle vescicole è distinto in categorie separate, fagocitosi ed
endocitosi che avvengono mediante meccanismi differenti.
La fagocitosi è l’assunzione di materiale corpuscolato mentre l’endocitosi è l’assunzione di materiale liquido,
soluti e macromolecole in sospensione.

Fagocitosi
La fagocitosi (il cibarsi della cellula) è un processo attuato da alcuni tipi di cellule specializzate nell’assunzione
di materiale corpuscolato dall’ambiente e ad un suo trasporto nel lisosoma.
Organismi eterotrofi unicellulari, si alimentano intrappolando particelle di cibo ed organismi più piccoli,
avvolgendoli all’interno di pieghe della membrana plasmatica. Le pieghe si fondono per formare un vacuolo
che si distacca dalla membrana plasmatica. Il vacuolo (o fagosoma) si fonde con un lisosoma ed il materiale è
digerito all’interno della cellula.
Nella maggior parte degli animali superiori la fagocitosi è un meccanismo di protezione piuttosto che di
nutrizione.

Endocitosi
Può essere suddivisa in due categorie: endocitosi generalizzata e quella mediata da recettori.
L’endocitosi generalizzata porta all’assunzione di fluidi extracellulari senza nessun riconoscimento da parte
della membrana superficiale.
L’endocitosi mediata da recettori porta all’assunzione di specifiche molecole extracellulari (ligandi), dopo che
si sono legate ai recettori sulla faccia esterna della membrana plasmatica.
Il materiale assunto dall’endocitosi è di solito portato ad una rete di tubuli e vescicole che sono conosciute nel
loro insieme come endosomi.

Esocitosi
In questo caso, le vescicole che si staccano, ad esempio, dall’apparato di Golgi o più in generale, dall’interno
della cellula, sono vescicole membranose che contengono molecole da espellere dall’ambiente cellulare. La
vescicola in questione si fonde alla membrana plasmatica e il contenuto viene riversato all’esterno.
Citoscheletro
Il citoscheletro è formato da tre tipi di strutture filamentose ben definite:
microtubuli, microfilamenti (filamenti di actina) e filamenti intermedi. I tre tipi di filamenti citoscheletrici
sono polimeri di subunità proteiche, tenute insieme da legami deboli non covalenti.
Questo tipo di costruzione fa sì che il citoscheletro possa rapidamente assemblarsi e disassemblarsi, processi
che dipendono da una complessa regolazione cellulare (a differenza dello scheletro animale, il citoscheletro è
una struttura dinamica, che può essere rapidamente smantellato in una regione della cellula e con altrettanta
rapidità ricostruito in un altro distretto cellulare).
Il citoscheletro rappresenta un complesso reticolo di filamenti e tubuli interconnessi tra loro che si estende
attraverso l’intero citoplasma.
Il citoscheletro fornisce supporto meccanico, ancoraggio per i vari organuli ed è coinvolto nel mantenimento
della forma di una cellula animale.
Le funzioni del citoscheletro sono:
- Un’impalcatura dinamica che fornisce il supporto strutturale, determina la forma della cellula e resiste alle
forze che tendono a deformarla.
- Un reticolo interno che stabilisce la posizione dei vari organuli all’interno della cellula.
- Una rete di binari per dirigere i movimenti di materiali e di organuli nella cellula.
- Un apparato che permette lo spostamento delle cellule.
- Un componente essenziale del macchinario per la divisione cellulare. Gli elementi del citoscheletro
formano l’apparato responsabile della separazione dei cromosomi, durante la mitosi e la meiosi, e della
suddivisione della cellula madre in due cellule figlie durante la citodieresi.

Microtubuli
Sono strutture cilindriche cave, con diametro di 25nm. Servono per fornire sostegno e forma alla cellula, ma
anche come binari lungo cui si spostano gli organuli intracellulari.
Sono inoltre responsabili della separazione dei cromosomi durante la divisione cellulare.
L’unità strutturale dei microtubuli è la tubulina, un dimero proteico formato da α e β-tubulina.
In molte cellule i microtubuli originano da una struttura perinucleare detta centrosoma. Nelle cellule animali
all’interno di ogni centrosoma si trova una coppia di centrioli, ciascuno formato da nove triplette di microtubuli
disposti a cerchio. Prima che la cellula si divida i centrioli si duplicano.
Le cellule vegetali sono prive di centrioli.

Precisamente, le due proteine che formano i microtubuli (α e β-tubulina) vanno a costituire i cosiddetti
eterodimeri: “dimeri” significa che queste due proteine si associano tra di loro, “etero” indica invece che si
tratta di molecole diverse (appunto, una è α e l’altra β).
Più eterodimeri si allineano sempre con lo stesso verso, formando un protofilamento. Nel protofilamento, la
tubulina β del primo dimero si associa alla tubulina α del secondo dimero; la tubulina β del secondo dimero si
associa alla tubulina α del terzo dimero e così via.
13 protofilamenti si affiancano formando un foglietto. Questo foglietto si avvolge formando un cilindro cavo
che costituisce il microtubulo.

I microtubuli vengono prodotti nel centro di organizzazione dei microtubuli, costituito dal centrosoma.
La polarità del protofilamento influenza l’assemblaggio: vi sono un polo + e un polo -.
La polimerizzazione avverrà solo ed esclusivamente in direzione del polo positivo, accrescendo così il
filamento.
I microtubuli generalmente contengono proteine accessorie, dette proteine associate ai microtubuli (MAP).
Le MAP aumentano la stabilità dei microtubuli e ne promuovono l’assemblaggio, collegando insieme le
subunità tubuliniche e rendendo più difficile il loro distacco.
I microtubuli fungono da binari per un gran numero di proteine motrici:
le proteine motrici della cellula convertono l’energia chimica (immagazzinata nell’ATP) in energia meccanica,
che viene usata per generare forze.
Una singola cellula può contenere un centinaio di differenti proteine motrici, ognuna di esse presumibilmente
specializzata per il trasporto di un particolare tipo di carico (cargo).

Le proteine motrici possono essere raggruppate in tre grandi famiglie: miosine, chinesine, dineine.
Le chinesine e le dineine si muovono lungo i microtubuli, mentre le miosine si muovono lungo i
microfilamenti.
Non si conoscono proteine motrici che usano i filamenti intermedi come binari.

Chinesina: è un tetramero costituito da due catene pesanti identiche e due catene leggere identiche,
associate a formare una molecola lunga e sottile. Una molecola di chinesina è formata da diverse parti, che
comprendono due teste globulari, che si legano al microtubulo ed agiscono come “macchine” che
idrolizzano l’ATP e generano forza.
Le molecole di chinesina si muovono lungo i microtubuli verso l’estremità + (da - a +) ovvero verso la
periferia della cellula.
In un assone, la chinesina trasporta vescicole e altri carichi verso i terminali sinaptici.

Dineina: è una proteina enorme formata da due catene pesanti identiche e da diverse catene Intermedie e
leggere. Ognuna delle catene pesanti è costituita da una grande testa globulare con una proiezione allungata
(peduncolo) e una coda. Ciascun peduncolo contiene il sito di legame al microtubulo, situato alla sua
estremità.
La proiezione più lunga, la coda, lega le catene leggere e intermedie, con funzioni non chiare.
A differenza della chinesina (che si muove verso l’estremità +), la dineina si muove verso l’estremità - del
polimero (quindi verso il centrosoma).
Nelle cellule nervose, la dineina è implicata nel movimento retrogrado degli organuli membranosi e nel
movimento anterogrado dei microtubuli.

Ciglia e flagelli: le ciglia sono espansioni di tipo proteico che permettono il movimento della cellula. Sono
formate da microtubuli e da bracci sporgenti. I bracci sono composti da dineina cigliare, una proteina motrice
che utilizza l’energia liberata dall’idrolisi dell’ATP per generare le forze necessarie per il piegamento di ciglia e
flagelli.

Centrioli e centrosoma
Nelle cellule animali, i microtubuli del citoscheletro sono generalmente nucleati dal centrosoma, una
struttura complessa che contiene due centrioli, circondati da un materiale pericentriolare.
I centrioli sono composti da una struttura di 9 triplette di microtubuli. I centrioli si trovano in una zona del
citoplasma ricca di proteine (principalmente tubuline) chiamata appunto centrosoma (perché solitamente
disposta al centro della cellula).
Filamenti intermedi
Strutture filamentose con diametro compreso tra gli 8 e i 12 nm, specializzate a provvedere alla resistenza
meccanica delle cellule soggette a stress fisici (compito condiviso con i microtubuli) come neuroni e cellule
muscolari.
Sono filamenti con spessore intermedio fra i microfilamenti e i microtubuli.
Ogni tipo di filamento intermedio è composto da una diversa subunità molecolare. A differenza di
microtubuli e microfilamenti, che hanno diametro costante e uguale composizione molecolare in tutte le
cellule eucariotiche, i filamenti intermedi hanno diametro e composizione variabile. I microtubuli sono
sempre costituiti da α e β-tubulina e i microfilamenti da monomeri di actina; i filamenti intermedi, a
seconda del tipo cellulare, sono costituiti da proteine diverse.

L’unità base di assemblaggio dei filamenti intermedi si pensa sia un tetramero bastoncellare formato da
due dimeri che si accostano lateralmente in modo sfalsato. Il tetramero, a sua volta, si organizza in una
struttura di otto tetramero; tale struttura diventa una parte del filamento intermedio finale, seguendo un
meccanismo di incastro.

Tipi di filamenti intermedi:

Cheratine: filamenti intermedi delle cellule epiteliali.


Vimentine: rappresentano il citoscheletro delle cellule mesenchimali.
Neurofilamenti: costituiscono il citoscheletro delle cellule nervose.
Nestine: filamento intermedio delle cellule in rapida proliferazione.

La tipizzazione dei filamenti intermedi viene utilizzata per la diagnosi dei tumori.
I filamenti intermedi sono connessi agli altri filamenti del citoscheletro mediante ponti proteici di plectina.

Microfilamenti
I microfilamenti di actina sono i più piccoli. Sono strutture cilindriche con diametro di 7 nm. I microfilamenti
sono costituiti da monomeri di una proteina a forma globulare, l’actina.
I microfilamenti, in associazione con altre proteine, formano un fitto reticolo tridimensionale al di sotto della
membrana plasmatica (cortex), contribuendo a mantenere la forma cellulare. Questo reticolo che avvolge la
cellula nel suo strato più esterno conferisce una consistenza semisolida (gel) al citosol.
I microfilamenti sono indispensabili per la motilità cellulare, funzione svolta con l’ausilio della miosina,
molecola a struttura bastoncellare capace di legare i microfilamenti e determinare lo scivolamento gli uni sugli
altri, attraverso un processo reversibile che permette alla cellula di estendersi e contrarsi a piacimento.
Actina e miosina sono un complesso importante non solo per la motilità cellulare, ma anche per la
formazione di complessi contrattili che si formano intorno al solco di scissione che compare quando una
cellula animale si divide in due cellule figlie.

In presenza di ATP, i monomeri di actina polimerizzano formando un filamento flessibile ad elica. Un filamento
di actina è essenzialmente una struttura a doppio filamento, con due solchi che decorrono lungo tutta la sua
lunghezza.
Polimerizzazione dei filamenti di actina: i microfilamenti di actina sono strutture altamente instabili, che si
assemblano (polimerizzano) e disassemblano in continuazione.
Questo fenomeno dipende dal fatto che la G-actina possiede una tasca in cui trattiene una molecola di ATP.
La presenza di ATP stabilizza l’actina e ne permette la polimerizzazione in filamenti.
Dopo 10 secondi, un legame fosforico dell’ATP viene scisso, diventando ADP+P. Successivamente, il gruppo
fosforico (P) viene escluso e nell’actina rimane solo ADP. L’actina legata all’ADP è instabile e si apre per
scambiare l’ADP con una nuova molecola di ATP. Questa apertura la porta, però, a staccarsi dal filamento
inducendone la rottura (depolimerizzazione).
Quando ci sono sufficienti molecole di ATP-actina libere, queste di assemblano a formare un filamento (processo
noto come nucleazione).
Alla fase di nucleazione segue la fase di allungamento.
L’actina ha forma approssimativamente simile a una sfera, ma non è una sfera perfetta. Ha piuttosto forma a
goccia e deve incastrarsi con un preciso orientamento per formare il filamento. Si potrà quindi riconoscere un
polo negativo, verso cui sono orientate le punte delle “gocce” di actina, ed un polo positivo, verso cui sono
orientate le porzioni tondeggianti della stessa. Lungo il polo positivo, l’aggiunta di altre actine è rapida in quanto
si incastrano facilmente mentre è più lenta lungo il polo negativo.

La chinesina e la dineina operano quindi in direzioni opposte sui binari creati dai microtubuli.
Tutti i motori noti per cooperare con i filamenti di actina appartengono alla superfamiglia delle miosine.
Le miosine si muovono verso l’estremità + di un filamento di actina (microfilamento).
Natura del gene e genoma

Genoma: insieme dell’informazione genetica presente in una specie. Un genoma contiene tutti i geni
necessari per “costruire” e far funzionare un determinato organismo.
La scienza della genetica ebbe origine intorno al 1860 con Mendel.
Mendel aveva in mente una serie di accoppiamenti, o meglio, di incroci tra piante di piselli con caratteri
ereditari differenti con l’obiettivo di individuare il modo in cui tali caratteri venivano trasmessi alla
discendenza.
Mendel trasse le seguenti conclusioni:

- i caratteri delle piante sono determinati da fattori ereditari (geni). Una singola pianta possiede due copie
di ciascuno dei geni responsabili dell’espressione e della trasmissione di un dato carattere; di queste
copie, che possono essere identiche o non, una è ereditata da un genitore e l’altra dall’altro. Le diverse
forme in cui si può trovare un singolo gene sono definite alleli. Per ognuno dei sette caratteri studiati, uno
dei due alleli è dominante sull’altro. Quando entrambi sono presenti insieme nella stessa pianta, l’allele
dominante maschera l’altro, che viene definito recessivo.

- ogni cellula riproduttiva (gamete) generata da una pianta contiene solo una copia di un gene per ogni
carattere. Quindi, per un dato carattere, un gamete può presentare l’allele recessivo o quello dominante,
ma non entrambi.

- i due alleli che determinano un carattere si trovano insieme durante l’intera vita di una singola pianta e
vengono separati (segregati) l’uno dall’altro durante la formazione dei gameti. Questa scoperta costituì la
base della “legge della segregazione” di Mendel.

- il modo in cui una coppia di alleli per un determinato carattere si divide nei gameti, non ha alcun effetto
sulla segregazione degli alleli per un altro carattere. Questa scoperta costituì la base della “legge
dell’assortimento indipendente” di Mendel.

Gli studi di Mendel non presero in considerazione la natura fisica di questi elementi o la loro localizzazione
all’interno dell’organismo.
Diversi studi successivi arrivarono alla seguente scoperta: tutta l’informazione genetica necessaria per
costruire e mantenere una pianta o un animale complesso doveva essere contenuta all’interno di una
singola cellula. Si scoprì che durante la divisione cellulare, il contenuto nucleare si organizzava in
“filamenti” resi visibili dalla colorazione con coloranti basici, che per questo vennero chiamati cromosomi
(“corpi colorati”).

Gene
• Unità ereditaria fondamentale degli organismi viventi
• Porzioni di genoma localizzate in precise posizioni all’interno della sequenza di DNA (o RNA in certi virus)
e contengono informazioni necessarie per codificare molecole che hanno una funzione
• Sono organizzati nei cromosomi
• Procarioti: è costituito quasi esclusivamente da sequenze codificanti
• Eucarioti: anche non codificanti.
Esoni = codificanti; introni = non codificanti

Monika Martiri
Cromosoma
• Struttura con cui ciascuna unità funzionale di DNA dopo essersi duplicata, si compatta associata a specifiche
proteine e viene trasmessa alle cellule figlie
• Filamento di DNA non distinguibile nella cromatina, responsabile della trascrizione genica durante la fase
funzionale della cellula
Si scoprì che i geni erano costituiti da DNA

DNA

• depositario dell’informazione che codifica


caratteri ereditari: nel DNA sono immagazzinate le
istruzioni che determinano tutte le caratteristiche
ereditabili che un organismo può manifestare
• contiene le informazioni per dirigere la propria
replicazione: la replicazione del DNA permette la
trasmissione delle info genetiche da una cellula madre
alle cellule figlie o da un individuo alla progenie
• contiene le informazioni per dirigere il processo di
costruzione delle proteine: i singoli geni portano info
per specifiche proteine, quindi deve esserci un
meccanismo per utilizzare le informazioni
immagazzinate in un gene per dirigere la sintesi di uno
specifico polipeptide

Struttura chimica degli acidi nucleici


Gli acidi nucleici, DNA e RNA, sono costituiti da catene polinucleotidiche, cioè polimeri lineari di unità chiamate
nucleotidi.
I nucleotidi sono molecole costituite da tre componenti: uno zucchero pentoso, una base azotata, uno o più
gruppi fosfato.
Nel caso del DNA lo zucchero è il deossiribosio (chiamato anche desossiribosio), mentre nell’RNA è il ribosio.
I due zuccheri differiscono per un gruppo OH presente nella posizione 2 del ribosio e che manca nel
deossiribosio.

Le basi azotate che si trovano negli acidi nucleici naturali sono di due tipi: purine (a doppio anello eterociclico) e
pirimidine (a singolo anello). Vi sono due purine, adenina e guanina, presenti sia nel DNA che nell’RNA, e tre tipi
di pirimidine, citosina, timina e uracile, di cui la citosina è comune a DNA e RNA, mentre la timina è componente
del solo DNA trovandosi al suo posto l’uracile nell’RNA.
La differenza tra uracile e timina è la presenza di un gruppo metilico in posizione 5 dell’anello pirimidinico.

Monika Martiri
Struttura chimica del DNA

• I geni sono costituiti da DNA


• L’unità strutturale del DNA è il nucleotide: il nucleotide è costituito da uno zucchero a 5 atomi di carbonio, il
desossiribosio, con un fosfato esterificato in posizione 5’ dell’anello dello zucchero e con una base azotata legata
al sito 1’.
• Due tipi di basi: pirimidine e purine
• Nucleotidi legati tra loro da legami covalenti a formare un polimero lineare, con uno scheletro (zucchero-fosfato)
uniti da un legame fosfodiesterico 3’-5’
• Il nucleotide è polarizzato, con un’estremità 5’, dove è situato il fosfato e un’estremità 3’
• 2 catene di nucleotidi avvolte a spirale attorno ad un asse centrale (destrorsa), con le basi rivolte verso l’interno
• Le 2 catene sono unite da legami idrogeno tra ogni base di una catena con l’altra.
• Questo legame è debole e si rompe facilmente però la presenza di molti legami H stabilizza l’intera molecola.

Una catena polinucleotidica ha una struttura ripetitiva. Essa consiste di uno scheletro (o impalcatura) in cui si
alternano zuccheri e gruppi fosfato, legati tra loro da legami 5' → 3' fosfodiesterici. Da questa impalcatura
protrudono lateralmente le basi azotate.

Chargaff osservò che, qualsiasi sia la fonte del DNA e nonostante la diversa composizione in basi, veniva
sempre rispettata una regola (che venne poi chiamata regola di Chargaff): la percentuale di A è sempre uguale
alla percentuale di T, e la percentuale di C è sempre uguale alla percentuale di G. Questa regola non è valida nel
caso dell’RNA.

• Due catene elicoidali avvolte attorno


allo stesso asse che formano una
doppia elica destrorsa
• Scheletro covalente idrofilico
(deossiribosio e gruppi fosforici)
all’esterno e le basi azotate impilate
all’interno
• La relazione spaziale che si crea tra
le catene genera una scanalatura
minore e una maggiore
• Appaiamenti: GΞC (+ stabile) e A=T
• Le due catene sono complementari e
i due filamenti che costituiscono la
doppia elica sono orientati in direzioni
opposte, sono antiparalleli

Monika Martiri
Frederick Griffith stava studiando la possibilità di fare un vaccino per prevenire la polmonite e per i suoi studi utilizzava due
ceppi del batterio Streptococcus pneumoniae: il ceppo R e il ceppo S (R e S stanno per rough e smooth, cioè “rugoso” e
“liscio”, a seconda dell’apparenza della colonia di batteri cresciuta in una piastra di agar). Il ceppo R, che è privo di una
capsula polisaccaridica, non causa polmonite nei topi in cui viene iniettato perché questi si difendono con il loro sistema
immunitario. Al contrario, il ceppo S, che ha una capsula polisaccaridica che lo protegge dalle difese immunitarie
dell’animale, causa polmonite e successiva morte nei topi in cui viene iniettato. Quando il ceppo S viene inattivato (ucciso)
alzando la temperatura e poi iniettato nei topi, perde l’effetto patogeno. Tuttavia, quando il ceppo S inattivato viene
mescolato col ceppo R e i due sono iniettati insieme nei topi, questi contraggono polmonite e muoiono. Isolando i batteri dal
sangue di questi topi morti, Griffith scoprì che il ceppo R normalmente non patogeno acquisisce la capsula polisaccaridica e
mantiene questa caratteristica fenotipica per molte generazioni. Griffith ipotizzò che un qualcosa del ceppo S inattivato
penetrasse nel ceppo R convertendolo in un S virulento. Lui chiamò questo qualcosa principio trasformante.
/
La domanda era: quale dei componenti macromolecolari presenti nell’estratto di batteri di ceppo S (proteine, lipidi,
polisaccaridi, DNA, RNA) è l’effettivo responsabile della trasformazione?
Solo l’eliminazione del DNA impediva la trasformazione dei batteri da rugosi a lisci e patogeni, dimostrando che era questa
molecola il principio trasformante. Il principio trasformante è il DNA. (esperimento di Avery che riprese l’esperimento di
Griffith).
Questa scoperta, che per molti anni è stata chiamata la bomba di Avery per indicare l’enorme impatto che successivamente
ebbe nei progressi dello studio del materiale genetico, arrivò in un certo senso prematura, quando ancora gran parte
dell’ambiente scientifico non era in grado di accettarla. Infatti, per vari motivi, anche i migliori ambienti scientifici avevano una
forte propensione a considerare come materiale genetico le proteine, piuttosto che il DNA. Infatti, le proteine si stavano
dimostrando molecole dalle straordinario possibilità strutturali e funzionali, mentre il DNA veniva per lo più considerato una
molecola troppo semplice.
La scoperta di Avery ebbe poco credito per qualche anno, finché venne pubblicato un esperimento di tipo completamente
diverso che confermò il DNA come materiale genetico. Questo esperimento, chiamato l’esperimento del frullatore, fu fatto
da Alfred Hershey e Martha Chase utilizzando i batteriofagi.
Un fago è un piccolo virus che infetta i batteri e consiste di un capside proteico che ne racchiude il materiale genetico.
Quando un fago infetta un batterio, vi inserisce il materiale genetico mentre il capside rimane al di fuori. Hershey e Chase
marcarono radioattivamente il DNA del fago con fosforo radioattivo (32P) e le proteine del capside con zolfo radioattivo (35S).
Subito dopo l’infezione del batterio con i fagi marcati nel brodo di coltura, questo veniva frullato con un normale frullatore,
che provocava il distacco del capside fagico vuoto dai batteri in cui era entrato il materiale genetico del fago. La successiva
centrifugazione del brodo di coltura consentì di verificare che il DNA marcato con 32P si trovava all’interno dei batteri, mentre
le proteine marcate con 35S erano rimaste fuori. Questo esperimento dimostrò che il DNA è il materiale genetico del fago e
che le proteine non trasmettono informazione genetica

mi;qe•i
'
• Monika Martiri
Struttura fisica del DNA (proposta di Watson-Crick)

Secondo il modello proposto da Crick e Watson le


coppie di basi, che con i loro anelli eterociclici sono
strutture sostanzialmente piatte, sono disposte quasi
perpendicolarmente rispetto all’asse della doppia elica,
come a formare dei gradini di una scala a chiocciola.
Le basi che si affacciano in ciascuna coppia sono
sempre una pirimidina e una purina e in particolare vi è
sempre l’appaiamento tra una A e una T e tra una G e
una C, il che giustifica la regolarità del diametro della
doppia elica.
Nella coppia di basi A-T la A si viene a trovare di fronte
alla T con una geometria e una distanza tali da
permettere la formazione di due legami idrogeno,
mentre nella coppia G-C la G e la C formano tre legami
idrogeno.

Una caratteristica importante del modello è che le due


catene polinucleotidiche sono “antiparallele”, cioè
sono disposte con una polarità 5' → 3' opposta l’una
rispetto all’altra dove si può osservare anche come i
Monika Martiri
due filamenti siano costituiti dall’alternanza di residui di
deossiribosio e di gruppi fosfato, mentre le basi
sporgono lateralmente per appaiarsi con quelle
dell’altro filamento.

La doppia elica forma un giro completo ogni 10 coppie di basi (3,4 nm).
L’elica presenta un’asimmetria dovuta alla posizione delle molecole di deossiribosio ai lati delle basi: infatti,
come conseguenza dell’opposta polarità 5' → 3' delle due eliche, i due zuccheri di ciascuna coppia di
nucleotidi si vengono a trovare dallo stesso lato.
Questa asimmetria genera nella doppia elica due solchi di dimensioni diverse, detti appunto solco maggiore
e solco minore. Questi due solchi sono molto importanti per il riconoscimento della sequenza del DNA: il
solco maggiore ha molti più atomi che possono essere donatori o accettori di legami idrogeno e come
conseguenza si può dire che il “linguaggio” presentato da questa zona dell’elica è molto più vario e ricco
che nel solco minore.
Inoltre, l’α-elica delle proteine ha la dimensione giusta per poter interagire esattamente con il solco
maggiore. Infatti, quasi tutte le proteine che si legano specificamente al DNA hanno dei domini ad α-elica
che riconoscono le sequenze esposte nel solco maggiore.
Superavvolgimento del DNA
Studiosi scoprirono che due molecole circolari di DNA di peso molecolare identico potevano avere velocità
di sedimentazione molto diverse quando venivano centrifugate in gradiente di densità. Ulteriori analisi
indicarono che le molecole di DNA che sedimentavano più velocemente mostravano una forma più
compatta, perché erano avvolte su se stesse, come un elastico con le due estremità ruotare in direzioni
opposte.
Il DNA in questo stato viene definito superavvolto. Dal momento che il DNA superavvolto è più compatto di
una molecola di DNA rilassato della stessa lunghezza, esso occupa meno volume e si muove più
rapidamente se sottoposto ad una forza centrifuga o ad un campo elettrico.

Il DNA è definito superavvolto negativamente quando in realtà è “sottoavvolto” e superavvolto positivamente


quando è superavvolto. I DNA circolari trovati in natura (es. mitocondriali, virali, batterici) sono superavvolti
negativamente.
Il superavvolgimento non è limitato ai DNA piccoli e circolari, ma si trova anche nei DNA lineari eucariotici.
Per esempio, il superavvolgimento negativo gioca un ruolo chiave nel permettere al DNA dei cromosomi di
essere compattato all’interno del nucleo cellulare.
Dato che il DNA superavvolto negativamente è predisposto allo svolgimento, esso è più idoneo si processi
che richiedono la separazione dei filamenti, cioè alla duplicazione (sintesi del DNA) e alla trascrizione (sintesi
dell’RNA).

Certi enzimi nelle cellule procariotiche ed eucariotiche sono in grado di cambiare lo stato superavvolto di
un duplex di DNA. Questi enzimi vengono definiti topoisomerasi poiché cambiano lo topologia del DNA.
Le cellule contengono una varietà di topoisomerasi, che possono essere divise in due classi.

Topoisomerasi di tipo I: cambiano lo stato superavvolto del DNA creando una rottura transitoria su uno dei
due filamenti del duplex. L’enzima taglia un filamento del DNA, permettendo al filamento complementare
intatto di ruotare, in modo da rilassare la molecola superavvolta. La topoisomerasi I è essenziale in processi
quali la duplicazione e la trascrizione per prevenire lo sviluppo di un eccessivo superavvolgimento nel
momento in cui i filamenti complementari di un DNA si separano e si srotolano.

Topoisomerasi di tipo II: provocano una rottura transitoria in entrambi i filamenti del duplex di DNA, fanno
passare attraverso tale rottura un segmento di DNA e, quindi, risaldano i filamenti rotti. Questo complesso
meccanismo si accompagna ad una serie di drastici eventi conformazionali. Oltre ad essere in grado di
superavvolgere e rilassare il DNA, le topoisomerasi II possono formare o sciogliere nodi in una molecola di
DNA. Possono concatenare molecole di DNA circolari indipendenti o, al contrario, separare molecole
concatenate. La topoisomerasi II è necessaria per districare le molecole di DNA prima che i cromosomi
duplicati si possano separare nel corso della mitosi.
La topoisomerasi umana di tipo II è bersaglio di diversi farmaci (es. etoposide e doxorubicina) usati nella
chemioterapia per uccidere cellule cancerose in rapida divisione. Questi farmaci agiscono legandosi alle
topoisomerasi ed impedendo che i filamenti di DNA tagliati siano rinsaldati.
Una delle più importanti proprietà della doppia elica del DNA è la denaturazione ovvero la sua capacità di
separarsi nei due filamenti che la compongono.

Denaturazione del DNA


I due filamenti di una molecola di DNA sono tenuti insieme da legami deboli, non covalenti. Se il DNA è sciolto in
una soluzione salina e lentamente riscaldato, ad una specifica temperatura inizierà la separazione dei suoi due
filamenti. In un intervallo di pochi gradi, il processo è completato e la soluzione contiene solo molecole a singolo
filamento completamente separate dalle loro complementari.
Il processo di denaturazione termica può essere seguito misurando l’incremento nell’assorbanza di luce
ultravioletta da parte del DNA in soluzione. A mano a mano che i due filamenti di DNA si separano, infatti, le
interazioni idrofobiche derivanti dall’impilamento delle basi si riducono e ciò cambia la natura elettronica delle
basi e ne incrementa l’assorbimento di radiazione ultravioletta.
La temperatura alla quale si ottiene la metà del processo di denaturazione è detta temperatura di fusione o di
melting. Più alto è il contenuto di GC (%G + %C) del DNA, più alta è la temperatura di fusione (stabilità maggiore
del DNA contente GC dovuta alla presenza di un legame idrogeno in più rispetto alla coppia di basi AT.

Rinaturazione del DNA


Raffreddando lentamente una soluzione di DNA precedentemente denaturato al calore, il DNA riacquista le
proprietà della doppia elica; esso riassorbe meno luce ultravioletta e può di nuovo svolgere il suo ruolo di
materiale genetico. Le molecole di DNA a singolo filamento complementare sono capaci di riassociarsi, un
evento definito rinaturazione o riappaiamento.
La rinaturazione ha portato allo sviluppo di una tecnica chiamata ibridazione degli acidi nucleici, nella quale i
filamenti complementari di acidi nucleici provenienti da fonti diverse possono essere mischiati a formare
molecole a doppio filamento (ibride).

Lo studio della velocità con cui i genomi di differenti organismi effettuano la rinaturazione ha permesso
l’identificazione delle diverse tipologie di sequenza presenti. Vi sono tre classi di sequenze che rinaturano a
velocità diversa, perché è diverso il numero di volte che la loro sequenza di nucleotidi è ripetuta all’interno della
popolazione di frammenti.
Le tre classi sono definite come frazione altamente ripetitiva, frazione moderatamente ripetitiva, frazione
non ripetitiva.

Sequenze di DNA altamente ripetitive: rappresentano circa l’1-10% circa del DNA totale, sono tipicamente
corte. All’interno del genoma le unità ripetitive sono ripetute un numero molto elevato di volte e disposte l’una di
seguito all’altra, cioè in tandem. DNA ripetitivo: risultante dalla ripetizione di sequenze di DNA denominate unità
ripetitive.
Le sequenze altamente ripetitive includono: DNA satellite, DNA minisatellite, DNA microsatellite.
Se si considerano le sequenze ripetute si troverà che queste ripetizioni sono a volte presenti con una
organizzazione in tandem, su due o più cromosomi, e altre volte disperse in tutto il genoma.
Se supponiamo che tutti i componenti di una famiglia di sequenze ripetute derivino da una singola copia,
come è possibile che i singoli membri si trovino dispersi su differenti cromosomi?
Barbara McClintock fu la prima studiosa a scoprire che alcuni elementi genetici erano in grado di muoversi da
un sito all’altro nel genoma. Certi elementi generici si spostavano nel cromosoma da un punto ad un altro,
completamente diverso, e chiamò trasposizione questo riarrangiamento genetico, ed elementi trasponibili,
gli elementi genetici mobili.

Alla fine degli anni ‘60 del secolo scorso in alcuni laboratori fu scoperto che anche nei batteri certo sequenze
di DNA sono in grado di muoversi da un punto all’altro del genoma. A tali elementi trasponibili fu dato il nome
di trasposoni.
La maggior parte dei trasposoni codifica per una proteina, la trasposasi, che da sola catalizza l’è scissione di
un trasposone da un sito di DNA donatore e il suo successivo inserimento in un sito di DNA bersaglio.
Questo meccanismo di “taglia e incolla” è mediato da due subunità distinte della trasposasi che legano
specifiche sequenze alle due estremità del trasposone (stadio 1).
Le due subunità si uniscono a formare un dimero attivo (stadio 2) che catalizza una serie di reazioni che
portano all’escissione del trasposone (stadio 3).
Il complesso trasposasi-trasposone si lega ad un DNA bersaglio (stadio 4), dove la trasposasi catalizza le
reazioni richieste per integrare il trasposone nel nuovo sito (stadio 5).

La maggior parte dei trasposoni a DNA eucariotici è escisso dal sito donatore e si inserisce in un sito bersaglio
distante (meccanismo “taglia e incolla”).

I retrotrasposoni, al contrario, operano secondo un meccanismo di “copia e incolla” che coinvolge un


intermediario ad RNA.
Il DNA dell’elemento trasponibile è trascritto in RNA il quale è poi “retrotrascritto” in DNA da un enzima
chiamato trascrittasi inversa, producendo una copia complementare di DNA. La copia di DNA è resa a doppio
filamento e poi integrata nel sito bersaglio del DNA.
Questo meccanismo permette ai trasposoni di incrementare notevolmente e rapidamente la presenza delle loro
copie all’interno del genoma, aumentando conseguentemente anche la grandezza del genoma stesso.
Come altri tipi di elementi trasponibili, i retrotrasposoni possono indurre mutazioni inserendosi casualmente
all’interno di geni funzionali, alterandone o, in alcuni casi, impedendone l’espressione.

Monika Martiri
Sequenze di DNA moderatamente ripetitivo:
Nei genomi di piante e animali, la frazione moderatamente ripetitiva può costituire dal 20 all’80% del DNA totale, a
seconda dell’organismo considerato. I componenti di queste sequenze sono sparsi (ossia interspersi) per tutto il
genoma come singoli elementi.
Il DNA moderatamente ripetitivo può essere codificante (codificano ad esempio prodotti genici conosciuti, sia RNA
come i rRNA, sia proteine tra cui gli istoni) o non codificante.
Queste sequenze non codificanti possono essere raggruppate in due classi, che sono definite SINE (elementi corti
interspersi) o LINE (elementi lunghi interspersi).
Questo DNA è costituito da elementi trasponibili che hanno la proprietà di migrare da un sito all’altro del genoma
attraverso un meccanismo enzimatico.
Si distinguono:

- elementi trasponibili a DNA (trasposoni): Il processo di migrazione all’interno del genoma viene denominata
trasposizione e avviene ad opera della trasposasi, proteina codificata da un gene contenuto nei trasposoni.
La trasposasi, da sola, catalizza l’escissione di un trasposone da un sito di DNA donatore e il suo successivo
inserimento in un sito di DNA bersaglio.
Questi elementi che migrano possono causare danni. Infatti, la trasposizione di porzioni del materiale genetico nel
gene può interrompere una sequenza specifica. La trasposasi è un enzima che permette un’azione di “taglia e
cuci”.

Monika Martiri
- elementi trasponibili a RNA (retrotrasposoni): al contrario, operano secondo un meccanismo di “taglia e incolla”
che coinvolge un intermediario ad RNA.
Il DNA dell’elemento trasponibile è trascritto in RNA, il quale è poi “retrotrascritto” in DNA da un enzima
chiamato trascrittasi inversa, producendo una copia complementare di DNA. Questo elemento è trasponibile,
si sposta in una nuova posizione del genoma ma ne rimane sempre una copia nella posizione originaria.

Questo meccanismo permette ai trasposoni di incrementare notevolmente e rapidamente la presenza delle loro
copie all'interno del genoma, aumentando conseguentemente anche la grandezza del genoma stesso.
Come altri tipi di elementi trasponibili, i retrotrasposoni possono indurre mutazioni inserendosi casualmente
all'interno di geni funzionali, alterandone o, in alcuni casi, impedendone l‘espressione.

Sequenze di DNA non ripetitive:


Questa frazione comprende geni che mostrano eredità mendeliana. I geni non ripetuti si trovano sempre
localizzati in un sito particolare, detto locus genico, su uno specifico cromosoma.
Il DNA mitocondriale
Il DNA mitocondriale costituisce una piccolissima parte del genoma umano (0,0005%) e avvalora la teoria
endosimbiotica.
È costituito da un doppio filamento a diversa composizione: un filamento heavy (H) e uno light (L).
- contiene 37 geni, 28 su filamento H e 9 su filamento L
- dei 37 geni, 24 codificano per prodotti maturi ad RNA e 13 per polipeptidi dei complessi multimerici del
mitocondrio
- i geni sono estremamente compatti

Ma quanto genoma serve?


Il contenuto minimo di DNA trovato in ciascuna classe aumenta con l’aumentare della complessità
biologica.
Tuttavia, comparazioni all’interno della stessa classe indicano la presenza di un eccesso di DNA rispetto
alla quantità richiesta per codificare il set di informazioni (proteine) necessarie.
Paradosso del valore C: solo una parte del genoma codifica per le informazioni fondamentali. Alcune
sequenze possono essere presenti in copia multipla e la loro quantità non correla con la complessità.

Differenza tra contenuto e complessità del DNA:

Contenuto (C): somma di tutte le sequenze di un genoma


Complessità (S): somma di tutte le sequenze diverse di un genoma.
Organismi con simile complessità (S) possono contenere quantitativi diversi di sequenze (C).
Espressione genica
L’informazione per costruire un organismo vivo, da un batterio all’uomo, risiede nel DNA.
L’informazione contenuta nel DNA diventa utilizzabile quando viene espressa sotto forma di RNA e proteine, che
rappresentano i costituenti strutturali e funzionali principali degli organismi viventi.

Con espressione genica ci si riferisce alla sintesi di un prodotto funzionale (per esempio un enzima) utilizzando
l’informazione codificata in un gene.
L’informazione presente in un segmento di DNA è resa disponibile alle cellule grazie a una molecola di RNA.
La sintesi di un RNA da uno stampo di DNA si chiama trascrizione. Il termine trascrizione indica un processo in cui
l’informazione codificata nei quattro desossiribonucleotidi del DNA è trascritta in un linguaggio simile che utilizza i
quattro ribonucleotidi dell’RNA.

L’insieme di trascrizione e traduzione costituisce un processo noto come espressione genica che consente al
gene di esplicare il suo effetto biologico.
- trascrittoma: tutti i diversi mRNA di una cellula
- proteoma: le diverse proteine espresse in una cellula.

Il concetto di gene a DNA che codifica per un messaggio a RNA che poi è tradotto in una proteina è noto come il
dogma centrale.

Le proteine sono sintetizzate nel citoplasma attraverso un processo chiamato traduzione.


La traduzione richiede la partecipazione di componenti diversi, fra cui i ribosomi. I ribosomi sono costituiti da RNA e
proteine. Gli RNA di un ribosoma si chiamano RNA ribosomiali (o rRNA) e, come per gli mRNA, ognuno è trascritto
da uno dei due filamenti di DNA di un gene. Anziché svolgere un ruolo informazionale (come gli mRNA) gli rRNA
forniscono un supporto strutturale e catalizzano reazioni chimiche in cui gli amminoacidi sono legati covalentemente
l’uno all’altro.
Gli RNA transfer (tRNA) costituiscono la terza classe di RNA richiesta per la sintesi delle proteine. I tRNA sono
necessari per tradurre le informazioni contenute nella sequenza nucleotidica di un mRNA nella sequenza di
amminoacidi di un polipeptide.
Sia gli rRNA che i tRNA devono la loro attività alle loro strutture secondaria e terziaria.

Monika Martiri
Ribosomi
I ribosomi contengono RNA ribosomiale (rRNA) e proteine.
Le proteine e gli RNA ribosomiali sono aggregati mediante legami non covalenti, primariamente da legami idrogeno.
(I ribosomi eucariotici hanno più DNA e più proteine rispetto a quelli procariotici).

Sono formati da due subunità (maggiore e minore), entrambe


costituite da un complesso di RNA e proteine.
I ribosomi vengono assemblati nel nucleo cellulare e
svolgono la loro attività di sintesi proteica nello spazio
citoplasmatico.
Una regione piana, definita piattaforma, nella lieve curvatura
della subunità minore, forma un solco mi corrispondenza con
la depressione della subunità maggiore.
Il solco tra le due subunità, accoglierà l’mRNA durante la
traduzione.
Replicazione e riparazione del DNA
Carattere semiconservativo della replicazione
In base all’ipotesi semiconservativa di Watson e Crick, ciascuna delle doppie eliche figlie è composta da un
filamento intero derivato dalla doppia elica parentale e da un filamento completo di nuova sintesi.
Questa ipotesi viene detta semiconservativa in quanto ogni cellula figlia riceve metà della struttura parentale.

Si potevano prendere altri due tipi di replicazione:


Replicazione conservativa: i due filamenti originali rimangono insieme (dopo essere serviti da stampo) e
altrettanto succede ai due filamenti neosintetizzati. Di conseguenza, una delle cellule figlie conterrà solamente
la doppia elica originaria interamente conservata, mentre l’altra cellula figlia conterrà solamente DNA di nuova
sintesi.
Replicazione dispersiva: l’integrità di ognuno dei due filamenti parentali va persa. Il risultato è che le cellule figlie
conterranno delle doppie eliche in cui ogni filamento è una combinazione di DNA vecchio e nuovo, cioè non si
conservano né i singoli filamenti né la doppia elica.

Il meccanismo della replicazione è meglio conosciuto nelle cellule batteriche.

Secondo il modello semiconservativo della replicazione, la separazione dei filamenti appaiati della doppia elica
è accompagnata alla sintesi di una coppia di filamenti complementari.

Monika Martiri

Il primo passo della replicazione del DNA è la separazione dei due filamenti che avviene ad opera di un enzima
chiamato elicasi. L’elicasi va a separare i due filamenti di DNA (mediante la rottura dei legami a idrogeno tra le
basi azotate) creando una forcella di replicazione.
Quindi, prima che inizi la sintesi i filamenti di DNA si separano formando una bolla di duplicazione. La bolla di
duplicazione si forma in corrispondenza di punti specifici detti origini di duplicazione. Le estremità di una bolla
sono dette forcelle di duplicazione, che si muovono in direzioni opposte ampliando la bolla (la replicazione
procede a partire dall’origine in entrambe le direzioni, è bidirezionale). Le due forcelle di replicazione si muovono
in direzione opposta fino ad incontrarsi in un punto del circolo opposto all’origine, dove la replicazione termina.
Nel frattempo, sui filamenti stampo non appaiati avviene la sintesi dei nuovi filamenti. Completata la sintesi, il
DNA si riavvolge ad elica.

La sintesi del DNA è catalizzata da una famiglia di DNA polimerasi. Per catalizzare la reazione di
polimerizzazione, l’enzima ha bisogno di tutti e quattro i deossiribonucleosidi trifosfati, di un filamento stampo e
di un primer con l’estremità 3’-OH libera a cui attaccare i nucleotidi. Il primer è necessario perché l’enzima non è
capace di iniziare la formazione di un filamento di DNA ; esso è solo capace di aggiungere nucleotidi.
Un’altra caratteristica della DNA polimerasi è che è capace di polimerizzare un filamento solo in direzione 5’ →3’,
mentre era stato ipotizzato che i nuovi filamenti venissero sintetizzati in direzioni opposte lungo i due filamento
stampo parentali. Questa scoperta ebbe una spiegazione quando si dimostrò che i due filamenti vengono
sintetizzati con modalità completamente diverse (replicazione semidiscontinua).

Replicazione semidiscontinua: la mancanza di attività di polimerizzazione in direzione 3’ → 5’ si spiega


semplicemente. I filamenti di DNA non possono essere sintetizzati in questa direzione. Vale a dire che entrambi i
filamenti neosintetizzati vengono assemblati in direzione 5’ →3’.
Le molecole di polimerasi responsabili della formazione dei due nuovi filamenti di DNA si muovono in direzione
opposta lungo i rispettivi filamenti stampo, procedendo entrambe in direzione 3’ → 5’ lungo lo stampo. Di
conseguenza uni dei filamenti neosintetizzati cresce in direzione della forcella di replicazione dove i filamenti si
separano, mentre l’altro filamento cresce in direzione opposta alla forcella.
Questo crea un ulteriore problema.
Il filamento che cresce in direzione della forcella può essere costruito per aggiunta continua di nucleotidi alla sua
estremità 3’.

Ma come viene sintetizzato l’altro filamento?


Il filamento che viene sintetizzato in modo continuo è detto filamento guida poiché la sua sintesi è continua via
via che la forcella di replicazione avanza. Il filamento che viene sintetizzato in modo discontinuo è detto filamento
in ritardo poiché l’inizio della sintesi di ogni frammento deve aspettare che i filamenti parentali si separino ed
espongano altro stampo.
Si scoprì che una parte del DNA viene costruita in piccoli frammenti, detti frammenti di Okazaki, che venivano
rapidamente legati a pezzi più lunghi precedentemente sintetizzati. L’enzima responsabile del congiungimento sei
frammenti di Okazaki in un filamento continuo è detto DNA ligasi.

Lo svolgimento del duplex e la separazione dei filamenti richiedono due diversi tipi di proteine che si legano al
DNA, la elicasi (proteina di svolgimento del DNA) e le proteine che si legano al DNA a filamento singolo (SSB).
L’elicasi prima si attacca al DNA nel punto di origine e poi si muove in direzione 5’ →3’ del filamento in ritardo,
svolgendo l’elica via via che si sposta.
La separazione dei filamenti è facilitata dall’attacco ai filamenti di DNA nudo della SSB che mantengono il DNA
disteso evitando che si riavvolga.

Nelle cellule eucarioti la replicazione avviene con un meccanismo simile e impiega proteine simili a quelle dei
procarioti. A differenza dei procarioti, la replicazione negli eucarioti inizia contemporaneamente in molti punti lungo
un cromosoma, con forcelle di replicazione che procedono esternamente in entrambe le direzioni a partire dal
punto di inizio.

Riparazione del DNA


Il DNA è una delle molecole della cellula più sensibili ai danni ambientali (radiazioni ionizzanti, sostanze chimiche,
radiazioni ultraviolette) che provocano delle alterazioni spontanee (lesioni).
Se queste lesioni non vengono riparate si verifica una alterazione permanente, o mutazione, nel DNA.
Se la mutazione si verifica in una cellula che si sta differenziando in gamete, l’alterazione genetica può essere
trasmessa alla generazione successiva. Le mutazione possono avere effetti anche in cellule non riproduttive; esse
infatti possono interferire con la trascrizione e la replicazione, provocare la trasformazione maligna della cellula e
accelerare il processo di invecchiamento di un organo.
Tenendo conto delle importanti conseguenze della molecola di DNA e dell’elevata frequenza con cui si verificano,
è fondamentale che le cellule possiedano dei meccanismi che permettono la riparazione del danno genetico.
Le cellule procarioti ed eucarioti possiedono un insieme di enzimi che perlustrano il DNA, cercando le alterazioni i e
le distorsioni che sono in grado di riconoscere e di riparare. In alcuni casi, il danno può essere riparato direttamente:
esiste un enzima, per esempio, che usa l’energia solare per rompere il legame che tiene insieme 2 pirimidine in un
dimero pirimidinico, riportando la molecola alla condizione originaria.
La maggioranza dei sistemi tuttavia richiede che la parte danneggiata del DNA venga e escissa, cioè rimossa
selettivamente.
La replicazione del DNA e la riparazione del DNA hanno molti aspetti in comune.

Riparazione per escissione nucleotidica


I sistemi di riparazione per escissione nucleotidica lavorano per rimozione di un piccolo tratto di un filamento di
DNA contenente qualche tipo di grossa lesione, come dimeri di pirimidina o nucleotidi ai quali sono stato attaccati
dei gruppi chimici.
Il processo di riparazione inizia con l’azione di una coppia di endonucleasi che opera dei tagli nello scheletro del
filamento alterato, ai due lati della lesione.
L’oligonucleotide danneggiato, compreso fra i due tagli, è mantenuto nel sull’ex unicamente dai legami idrogeno
con le basi dell’altro filamento.
Ricordiamo che durante la replicazione i legami idrogeno che tengono unito il duplex vengono rotti da una DNA
elicasi.
Si ritiene, infatti, che anche durante la riparazione per escissione nucleotidica intervenga una DNA elicasi per
allontanare l’oligonucleotide danneggiato dal filamento complementare intatto.
Una volta avvenuta l’escissione, l’intervallo viene riempito da una DNA polimerasi e il filamento viene ricongiunto da
una DNA ligasi.

Riparazione per escissione della base


Rimozione dei nucleotidi alterati che producono una minore distorsione della doppia elica.
In questo meccanismo di escissione, una DNA glicosilasi inizia la risposta cellulare riconoscendo l’alterazione e
rimuovendo la base per rottura di legame glicosidico che unisce la base alla molecola di zucchero.
Quando la purina o la pirimidina alterata è stata rimossa, il deossiribosio fosfato “decapitato” rimasto viene rimosso
da una endonucleasi, l’intervallo viene allargato da una fosfodiesterasi e poi riempito da una DNA polimerasi.
Il filamento alla fine ricongiunto da una DNA ligasi.
L’uracile si può formare dalla citosina e probabilmente questo è il motivo per cui la selezione naturale ha favorito
l’uso della timina come base del DNA piuttosto dell’uracile. Se fosse stato mantenuto l’uracile come una delle basi
del DNA, ciò avrebbe provocato delle difficoltà per i sistemi di riparazione nel distinguere tra un uracile, che
“apparteneva” a un particolare sito e uno che si era formato per alterazione della citosina.
L’enzima che rimuove l’uracile dal DNA è l’uracil-DNA glicosilasi.

Riparazione degli appaiamenti scorretti


Una coppia di basi male appaiate provoca nella doppia elica una distorsione che può essere riconosciuta da un
enzima di riparazione. Ma come può l’enzima sapere quale membro della coppia male appaiata è il nucleotide
sbagliato? Se venisse rimosso uno dei nucleotidi a caso, il 50% delle volte verrebbe fatta la scelta sbagliata, dando
origine a una mutazione permanente in quel punto specifico.
Perciò, perché un appaiamento scorretto venga riparato dopo che la DNA polimerasi è passata oltre, è
fondamentale che il sistema di riparazione sia in grado di distinguere il filamento neosintetizzato, che contiene il
nucleotide sbagliato, dal filamento parentale, che contiene il nucleotide corretto.
Nei batteri, i due filamenti si possono distinguere per la presenza o assenza di gruppi metilici. Infatti il filamento
parentale possiede gruppi metilici su determinati residui di adenosina, gruppi che vengono aggiunti al filamento
neosintetizzato dopo un certo tempo dalla replicazione. Il sistema di riparazione passa in rassegna il DNA prima di
questa tappa di metilazione e, quando un appaiamento scorretto viene riconosciuto, l’enzima rimuove e sostituisce
sempre i nucleotidi del filamento non metilato, il che garantisce che la coppia di basi ritorni al suo stato originale.
La riproduzione cellulare
Gli stadi attraverso cui la cellula passa da una divisione cellulare alla successiva costituiscono il ciclo cellulare.
Il ciclo cellulare è diviso in due fasi principali: la fase M (che comprende il processo della mitosi in cui i
cromosomi duplicati vengono separati in due nuclei, ed il processo di citocinesi in cui l’intera cellula viene
divisa fisicamente in due cellule figlie) e l’interfase.
L’interfase è di solito più lunga della fase M, ed è suddivisa in tre fasi distinte in base al periodo di replicazione,
che è limitato ad un periodo preciso all’interno del ciclo cellulare.

L’interfase quindi comprende:

G1: rappresenta il periodo che segue la mitosi e precede la replicazione;


Monika Martiri
S: è la fase in cui avviene la sintesi del DNA (e la sintesi degli istoni);

G2: è successiva alla replicazione e precede l’inizio della mitosi.

La durata del ciclo cellulare, come pure le fasi che lo compongono, possono variare grandemente a seconda
del tipo cellulare.

Una delle proprietà che contraddistingue i vari tipi di cellule è la capacità di crescere e dividersi.
È possibile individuare tre grandi categorie cellulari:

- Cellule che posseggono una estrema specializzazione strutturale, come le cellule nervose, quelle muscolari, i
globuli rossi, che hanno perso la capacità di dividersi. Una volta avvenuto il processo di differenziazione, le
cellule permangono in quello stato fino alla loro morte.

- Cellule che normalmente non si dividono, ma che possono essere indotte a dividersi in seguito ad un
appropriato stimolo (es. le cellule del fegato che possono essere indotte alla proliferazione in seguito ad
asportazione chirurgica da parte del fegato stesso).

- Cellule che possiedono normalmente un livello relativamente alto di attività mitotica. Certi tessuti
dell’organismo sono sottoposti ad un continuo rinnovo e nuove cellule devono essere continuamente formate
per divisione cellulare.

Numerosi fattori controllano il passaggio di una cellula attraverso il ciclo.


L’entrata di una cellula in fase M è guidata dall’attivazione di una protein-chinasi chiamata MPF (fattore di
promozione della maturazione).
L’MPF è costituito da due subunità: una subunità catalitica che trasferisce gruppi fosfato a residui specifici di
serina e treonina di particolari proteine substrato, ed una subunità regolatrice che fa parte di una famiglia di
proteine dette cicline.
La subunità catalitica viene chiamata chinasi ciclina-dipendente (Cdk).
Quando la concentrazione della ciclina è bassa, la chinasi è priva della subunità ciclina e risulta inattiva.
Quando la concentrazione della ciclina raggiunge un livello sufficiente, la chinasi viene attivata e porta la cellula
ad entrare in fase M.
Le fasi di controllo
Il ciclo cellulare continua se e solo se tutto procede nel verso giusto. Pertanto il blocco del ciclo cellulare
rappresenta una risposta protettiva che evita alla cellula di entrare in una situazione di autodistruzione e
garantisce la formazione di cellule figlie normali.
Esistono diversi punti di blocco:

Punto di controllo G1: la cellula entra nella fase G0 o, se il DNA è danneggiato in modo irreparabile, ha
luogo l’apoptosi. Altrimenti la cellula prosegue il ciclo.

Punto di controllo G2: la divisione mitotica avviene solo se il DNA è duplicato correttamente, altrimenti
avviene apoptosi.

Punto di controllo M: se i cromosomi non sono allineati correttamente lungo le fibre del fuso, la mitosi non
procede.

Fase M: mitosi e citocinesi

La mitosi è un processo di divisione nucleare in cui le molecole di DNA replicate di ciascun cromosoma sono
ripartite nei due nuclei.
La mitosi è di solito accompagnata dalla citocinesi, il processo che consente alla cellula di dividersi in due,
separando il citoplasma in due parti più o meno uguali.
Le due cellule figlie formate dalla mitosi e dalla citocinesi possiedono un corredo cromosomico identico tra loro
e a quello della cellula madre da cui hanno avuto origine.
La mitosi conserva pertanto il numero di cromosomi e genera nuove cellule per la crescita e il mantenimento di
un organismo.
La mitosi può avvenire sia in cellule diploidi che in cellule aploidi.

Il processo della mitosi viene suddiviso in cinque fasi distinte: profase, prometafase, metafase, anafase e
telofase.

Profase
I cromosomi duplicati si preparano a segregare e si assembla il complesso macchinario mitotico.

La struttura estesa della cromatina all’interfase è ideale per mettere la trascrizione e la replicazione, ma non va
bene quando la cellula deve segregare il proprio corredo cromosomico in due cellule figlie.
Per svolgere tale funzione, la cellula compatta i suoi cromosomi duplicati in fibre sempre più corte e spesse per
mezzo di un processo di condensazione cromosomica (grazie all’azione di un complesso multiproteico
chiamato condensina).
Come risultato della condensazione, i cromosomi di una cellula appaiono come costituiti da due strutture
speculari, chiamate cromatidi fratelli (i cromatidi si formano durante la replicazione del DNA nell’interfase che
ha preceduto la mitosi).
I cromatidi di ciascun cromosoma sono associati saldamente a livello dei centromeri.

(L’esame di sezioni di un cromosoma mitotico ha rivelato la presenza di una struttura proteinacea chiamata
cinetocore che si trova sulla superficie esterna del centromero di ciascun cromatide. Il cinetocore serve come
punto di contatto tra il cromosoma ed i microtubuli del fuso mitotico, come sito di attacco per numerose
proteine motrici coinvolte nel movimento dei cromosomi e come componente di un importante punto di
controllo mitotico).
Segue la formazione del fuso mitotico.
In una tipica cellula animale, il primo stadio nella formazione del fuso è la comparsa dei microtubuli in una
struttura caratteristica detta aster, attorno a ciascuno dei due centrosomi, durante la profase precoce.
Alla formazione dell’aster fanno seguito i movimenti dei centrosomi che si allontanano l’uno dall’altro
dirigendosi verso i poli opposti. Non appena i due centrosomi di distanziano, i microtubuli che li collegano
aumentano in numero ed in lunghezza.
Alla fine, i due centrosomi hanno raggiunto le posizioni opposte nella cellula stabilendo così i due poli.
La fine della profase è segnata dalla frammentazione della membrana nucleare e dalla dispersione dei suoi
frammenti sotto forma di piccole vescicole.

Prometafase
All’inizio della prometafase i microtubuli che derivano dal fuso in formazione, penetrano in quella regione
che precedentemente era il nucleo, e si collegano ai cinetocore dei cromosomi condensati.
Subito, i cinetocori si associano stabilmente alle estremità positive dei microtubuli cromosomici che
originano da entrambi i poli del fuso.
Alla fine, ogni cromosoma si sposta su un piano al centro del fuso, e tale processo è accompagnato sia
dall’accorciamento di alcuni microtubuli in seguito alla perdita di subunità di tubulina, sia dall’allungamento
di altri microtubuli in seguito all’aggiunta di subunità di tubulina.
Una volta che i cromosomi si sono stabilmente allineati su di un piano al centro del fuso, la cellula ha
raggiunto la metafase.

Metafase
Una volta che tutti i cromosomi sono stati allineati all’equatore del fuso (piastra metafasica), con ciascun
cromatidio di un cromosoma legati con il suo cinetocore ai microtubuli di un polo e il suo cromatide fratello
legato con il suo cinetocore ai tubuli del polo opposto, la cellula ha raggiunto lo stadio della metafase.
La metafase appare come uno stadio in cui la cellula fa una breve pausa.

Anafase
L’anafase inizia non appena i cromatidi fratelli si allontanano l’uno dall’altro ed incominciano a muoversi
verso i poli opposti.
Quindi l’anafase ha inizio con la separazione dei cromatidi fratelli.
Una volta separati, i cromosomi migrano verso i rispettivi poli grazie all’accorciamento dei microtubuli a cui
sono attaccati.
Il movimento dei cromosomi verso i poli viene indicato come anafase A, per distinguerlo da un movimento
differente ma simultaneo, detto anafase B, in cui i due poli del fuso si allontanano.

Telofase
Non appena i cromosomi raggiungono i rispettivi poli, essi tendono a raggrupparsi in una massa e ciò
determina l’inizio dell’ultimo stadio della mitosi, la telofase.
La telofase rappresenta il momento in cui le cellule figlie ritornano alle condizioni di interfase: riformazione
della membrana nucleare, dispersione dei cromosomi e riformazione dei sistemi membranosi citoplasmatici.

Monika Martiri
Citocinesi
La mitosi realizza la segregazione dei cromosomi duplicati nei nuclei figli, ma la cellula viene divisa nelle due
cellule figlie da un processo distinto, detto citocinesi. Nelle cellule animali questo processo avviene per
costrizione, mentre nelle cellule vegetali avviene per costruzione.
Le cellule animali si dividono in due grazie alla formazione di un solco che dalla superficie della cellula si sposta
sempre più verso l’interno.
Questo solco che avanza è ricco di filamenti di actina, che si pensa scivolino l’uno sull’altro, ed è guidato nel
suo movimento da forze di piccola entità generate dai filamenti di miosina II.
Si ritiene che il momento in cui avviene la citocinesi sia determinato da segnali che diffondono dai poli del fuso.
Nelle cellule vegetali, la citocinesi avviene per costruzione di una membrana cellulare e di una parete cellulare
su un piano situato tra i due poli.
In seguito si possono vedere piccole vescicole che si muovono verso questa regione ed iniziano ad allinearsi su
un piano. Le vescicole si fondono tra loro per formare lunghe catene in cui le stesse membrane delle vescicole
daranno luogo alle membrane plasmatiche delle cellule confinati, mentre il materiale racchiuso nelle vescicole
diventerà parte della parete cellulare.

La riproduzione asessuata avviene senza la formazione di gameti. Ciascuna cellula figlia riceve una copia del
DNA della cellula madre (quindi si tratta di un processo conservativo), basandosi sulla divisione mitotica.
La riproduzione sessuata implica invece la formazione di gameti, ossia cellula uovo e spermatozoo, che si
uniscono facendo sì che la prole riceva una combinazione del DNA dei genitori, basandosi sulla divisione
meiotica.
Goodmorning

aerofagia
adora
Monika Martiri
La meiosi
La formazione di progenie per riproduzione sessuata comporta l’unione di due cellule, ciascuna con un proprio
corredo di cromosomi.
La meiosi è quel processo in cui il numero dei cromosomi viene ridotto, di modo che le cellule che si
formeranno avranno una sola copia di ogni paio di cromosomi omologhi.
In questo modo la meiosi permette la produzione di una fase aploide durante il ciclo vitale, mentre la
fecondazione consente una fase diploide. Senza la meiosi la riproduzione sessuata non sarebbe possibile.
Diversamente da quanto succede nella mitosi, in cui i cromosomi in un’unica divisione vengono duplicati e
vengono separati nei nuclei di due cellule figlie, la duplicazione dei cromosomi, prima della meiosi, è seguita da
due divisioni successive che distribuiscono i cromosomi in quattro nuclei (affinché ognuno di questi nuclei
abbia un membro di ogni coppia di omologhi).
La meiosi, come ogni divisione cellulare, viene preceduta dalla replicazione del DNA.
La meiosi porta alla formazione dei gameti, ossia le cellule sessuali aploidi con 23 cromosomi.
Consta di due divisioni cellulari: meiosi I (riduzionale) e meiosi II (equazionale).

La meiosi è un processo che comporta due divisioni nucleari consecutive che portano alla produzione di nuclei
figli aploidi, i quali contengono un solo membro di ogni coppia di cromosomi omologhi; la meiosi perciò riduce
a metà il numero di cromosomi.

Profase I

Per far sì che ogni nucleo figlio contenga una sola copia di ogni omologo, durante la profase I avviene un
processo di appaiamento particolarmente elaborato e che non trova controparte nella mitosi. La profase I è
lunga e complessa e viene infatti suddivisa in varie fasi: leptotene, zigotene, pachitene, diplotene, diacinesi.

Leptotene è la prima fase della profase I, ed è il momento in cui i cromosomi diventano via via più visibili al
microscopio ottico.
La compattazione dei cromosomi procede per tutta la durata del leptotene fino al momento in cui i cromosomi
omologhi sono pronti per appaiarsi. Con il termine sinapsi si indica il processo che porta all’appaiamento dei
due omologhi, e questo avviene durante il zigotene.
La sinapsi tra i cromosomi avviene per mezzo di una struttura complessa che è detta complesso sinaptinemale
(CS), una struttura che ricorda una scala.
Quando una coppia di cromosomi omologhi si unisce in sinapsi dà origine ad un complesso che prende il
nome di tetrade. La fine della sinapsi segna l’inizio del pachitene. Durante questa fase il CS tiene gli omologhi
a stretto contatto. Qui avviene il crossing-over, ossia lo scambio reciproco di segmenti cromosomici localizzati
nella stessa posizione lungo il cromosoma (scambio di materiale cromosomico tra i due cromatidi).
L’inizio del diplotene è caratterizzato dal dissolvimento dei CS. I cromosomi omologhi iniziano a separarsi.
Pur allontanandosi gli uni dagli altri, gli omologhi rimangono a stretto contatto in alcuni punti che sono detti
chiasmi.
L’ultimo stadio della profase è la diacinesi, che prepara i cromosomi ad attaccarsi alle fibre del fuso. Notiamo
la scomparsa del nucleolo, la rottura dell’involucro nucleare, la migrazione delle tetradi verso la piastra
metafasica.
Metafase I
Ogni coppia di cromosomi omologhi è disposta in modo tale che entrambi i cromatidi di un cromosoma siano
rivolti verso lo stesso polo cosicché le fibre cromosomiche di un polo legheranno entrambi i cromatidi di un
singolo cromosoma.

Anafase I
Caratterizzata dalla migrazione dei cromosomi omologhi duplicati verso i poli opposti della cellula. (Ognuno dei
nuclei figli contiene dunque un solo assetto cromosomico duplicato).

Telofase I e citodieresi
I cromosomi raggiungono i poli della cellula. La citodieresi avviene normalmente contemporaneamente alla
telofase e si formano così due cellule figlie.
Durante la telofase si riforma la membrana nucleare e la cellula va in contro ad un periodo di sosta prima
dell’inizio della meiosi II.

La meiosi I è un processo riduzionale perché da una cellula diploide (2n) si generano due cellule aploidi (dal
punto di vista informazionale), ma ancora formate da cromosomi costituiti da due cromatidi.

La meiosi II è un processo del tutto simile alla mitosi, alla quale però non precede una duplicazione.
Il prodotti della meiosi sono 4 cellule figlie aploidi, con un numero aploide di cromosomi e con una quantità
aploide di DNA. Queste cellule sono diverse dalla cellula madre perché: è avvenuto crossing-over, è avvenuto
l’assortimento, il corredo genetico è stato dimezzato.
Oltre a ridurre il numero dei cromosomi, come richiesto per la riproduzione sessuata, la meiosi ha un ruolo
determinante nell’aumentare la variabilità genetica in una popolazione di organismi da una generazione all’altra.
L’assortimento indipendente permette ai cromosomi paterni e materni di mescolarsi durante la formazione dei
gameti, e la ricombinazione genetica fa sì che gli alleli paterni e materni di un dato cromosoma possano
scambiarsi anch’essi.
Differenze tra mitosi e meiosi

1 In entrambi i processi di divisione il DNA si duplica una volta: la mitosi comporta però solo una divisione
del nucleo e produce due cellule diploidi; la meiosi comprende due divisioni del nucleo e produce quattro
cellule aploidi.
2 Nella mitosi i cromatidi fratelli di un determinato cromosoma sono identici; nella meiosi invece, se
durante la profase I ha avuto luogo un crossing-over , i cromatidi fratelli possono essere diversi.
3 Nella meiosi il numero di cromosomi che si dispongono nella piastra metafasica è la metà rispetto al
nucleo mitotico.
Nella mitosi ciascun cromosoma si comporta in modo indipendente dal suo omologo; inoltre, durante
l’anafase, sono i cromatidi ad essere trascinati ai poli opposti della cellula. Se all’inizio di una divisione
mitotica abbiamo un cromosoma C, alla fine in entrambi i nuclei figli ritroviamo un cromosoma C, ciascuno
costituito da un singolo cromatidio. Grazie alla duplicazione del DNA, ciascuna cellula figlia si trova ad avere
le due serie complete di cromosomi (una di origine paterna e una di origine materna).
Nella meiosi le cose vanno diversamente: quando si formano le sinapsi, i cromosomi di origine materna si
appaiano ai loro omologhi paterni. Poi, durante l’anafase I, gli omologhi si separano: ciò assicura che
ciascun nucleo figlio riceva un rappresentante di ogni coppia. Per esempio, in una cellula umana, alla fine
della meiosi I ogni nucleo figlio contiene 23 dei 46 cromosomi di partenza. In tal modo il numero
cromosomico si dimezza passando da diploide ad aploide . Inoltre, la meiosi I assicura a ogni nucleo figlio
una serie completa di cromosomi.

- La meiosi avviene solo nelle cellule germinali, la mitosi sia nelle cellule somatiche che in quelle germinali.
- La meiosi è composta da due divisioni cellulari, la mitosi da una soltanto.
- L’appaiamento dei cromosomi omologhi avviene solo nella meiosi.
- La ricombinazione avviene quasi esclusivamente durante la meiosi.
- La meiosi determina la riduzione del numero di cromosomi nelle cellule figlie, da 46 a 23 (nell’uomo).
Comunicazione cellulare

La segnalazione cellulare è un fenomeno nel quale l’informazione passa attraverso la membrana all’interno
della cellula e, spesso, al nucleo cellulare. La segnalazione cellulare tipicamente include il riconoscimento dello
stimolo sulla superficie esterna della membrana plasmatica ; il suo trasferimento attraverso la membrana; la
trasmissione
del segnale all’interno della cellula, che scatena una risposta.
Le risposte possono includere un cambiamento nella espressione genica, una alterazione delle attività degli
enzimi metabolici, una riconfigurazione del citoscheletro, un cambiamento nella permeabilità agli ioni,
l’attivazione della sintesi del DNA, la morte della cellula.
Questo processo è spesso chiamato trasduzione del segnale in quanto lo stimolo ricevuto sulla superficie
cellulare è completamente diverso dal segnale rilasciato all’interno della cellula.
Dentro alla cellula, l’informazione passa lungo la via di trasduzione del segnale, che spesso include una varietà
di protein-chinasi e protein fosfatasi, che attivano o inibiscono i loro substrati attraverso cambiamenti di
conformazione.
Un’altra caratteristica importante delle vie di segnalazione è l’uso di proteine leganti GTP che servono come
interruttori che accendono e spengono le attività.
L’informazione non è sempre trasmessa dallo spazio extracellulare all’interno della cellula attraverso un
recettore della superficie cellulare; gli ormoni steroidi e l’ossido nitrico, per esempio, diffondono attraverso la
membrana cellulare e agiscono direttamente all’interno della cellula.

Specifici segnali chimici (molecole-segnale) inducono risposte mirate nelle cellule bersaglio, grazie alla
trasduzione del segnale.
Messaggeri extracellulari
• Piccole molecole come amminoacidi e loro derivati (glicina, adrenalina, ormone tiroideo)
• Gas, come NO e CO.
• Steroidei, derivati del colesterolo Regolano la gravidanza, il metabolismo dei carboidrati.
• Eicosanoidi, molecole non polari di 20 atomi di carbonio derivate da un acido grasso chiamato acido
arachidonico. Regolano ad il dolore, l’infiammazione, la pressione sanguigna, la coagulazione...
• Molti polipeptidi e proteine. Regolano la divisione cellulare, il differenziamento, la risposta immunitaria, la
morte o sopravvivenza cellulare

Il legame di un ligando (o primo messaggero) al recettore attiva all’interno della cellula una sequenza di eventi

Mr

Ci sono due tipi nettamente differenti di vie di trasduzione del segnale. In un tipo di via, l’attacco del ligando
al recettore sulla superficie cellulare è segnalato per mezzo dell’attivazione di una proteina legante GTP (una
proteina G), mentre nell’altro tipo di risposta, il legame del ligando è segnalato da una attivazione diretta di
un’attività enzimatica associata con il recettore.

Recettori accoppiati a proteine G e secondi messaggeri


L’ossidazione del glucosio per mezzo delle vie cataboliche della glicolisi e del ciclo di Krebs fornisce alla
maggior parte delle cellule la loro principale fonte di energia.
Il glucosio è immagazzinato nelle cellule animali sotto forma di glicogeno. La scissione del glicogeno nelle
sue subunità ricche di energia nei vertebrati è controllata da vari ormoni (glucagone, adrenalina). Ognuno
di questi ormoni si lega ad un recettore sporgente dalla membrana plasmatica di una cellula bersaglio.
Il legame dà iniziò ad una serie di reazioni che portano alla stimolazione dell’enzima fosforilasi che che
catalizza la reazione in cui il glicogeno è scisso in glucosio fosfato, il primo passo nel catabolismo dello
zucchero.

L’AMP ciclico è un esempio di secondo messaggero, una sostanza rilasciata all’interno della cellula come
risultato del legame di un primo messaggero (un ormone o un altro ligando) sul recettore posto sulla
superficie esterna della cellula.
Mentre il primo messaggero si lega esclusivamente ad una singola specie di recettore, il secondo
messaggero generato nel citoplasma è spesso in grado di innescare varie attività cellulari.
La degradazione del glicogeno a glucosio è stimolata dagli ormoni adrenalina e glucagone, che agiscono come
primi messaggeri legandosi ai loro rispettivi recettori sulla superficie della cellula bersaglio. Il legame degli ormoni
attiva un effettore adenilato ciclasi, sulla superficie interna della membrana, portando alla produzione di un
secondo messaggero diffusibile, l’AMP ciclico o cAMP. L’AMP ciclico evoca la sua risposta per mezzo di una
reazione a cascata nel,a quale una serie di enzimi è modificata covalentemente.

Sia il glucagone che l’adrenalina, come molti primi messaggeri, agiscono legandosi ai recettori che sono proteine
integrali di membrana. Il segnale è trasmesso dal recettore all’effettore per mezzo di una proteina eterotrimetrica
G.
La fosfolipasi C è un altro importante effettore della superficie interna della membrana plasmatica che può essere
attivato dalla proteina eterotrimetica G.

Il rapido aumento del Ca2+ citosolico porta ad un’apertura dei canali ionici nelle membrane citoplasmatiche o
plasmatiche. È responsabile dell’attivazione di una varietà di risposte cellulari.
Morte cellulare Monika Martiri

La morte cellulare è importante tanto quanto la divisione cellulare allo scopo di generare un individuo che
possieda tipi cellulari adeguati anche dal punto di vista del numero e disposizione nello spazio.Avviene
rapidamente e non lascia tracce: le morti generalmente non vengono notate.
La morte cellulare programmata elimina cellule non necessarie.
L’apoptosi, o morte cellulare programmata, è un processo normale che si verifica esclusivamente nelle cellule
animali. La morte per apoptosi è un processo pulito, ordinato, caratterizzato da una complessiva diminuzione del
volume della cellula e del suo nucleo, dalla perdita di adesione alle cellule vicine, dalla formazione di bolle sulla
superficie cellulare, dalla rottura della cromatina in piccoli frammenti e dalla rapida eliminazione dei “corpi
cellulari morenti” mediante fagocitosi.
L’apoptosi è spesso contrapposta ad un differente tipo di morte cellulare chiamata necrosi, che viene
generalmente indotta da traumi fisici o squilibri biochimici.
La necrosi è caratterizzata dal rigonfiamento della cellula e dei suoi organelli interni rivestiti di membrana, dalla
rottura della membrana plasmatica e perdita dei contenuti cellulari nell’ambiente circostante e dalla conseguente
induzione dell’infiammazione.

Necrosi
• Morte cellulare passiva, non regolata, risultato di processi di danno cellulari accidentali o patologici
• ipossia, temperature estreme, tossine da batteri, virus lisogeni, traumi
• quasi sempre un fenomeno dannoso per l’organismo (a volte fatale)
• le cellule morenti inviano segnali chimici al sistema immunitario e quindi la necrosi risulta potente attivatore dei
processi infiammatori
• questo perché la rottura della membrana favorisce la fuoriuscita dei contenuti cellulari che si spostano nella
matrice extracellulare innescando risposte infiammatorie
• questo permette ai fagociti nelle vicinanze di localizzare ed inghiottire le cellule morte e così avviene un
accumulo di tessuto necrotico e detriti cellulari in corrispondenza o in prossimità del sito della morte cellulare
• in questo caso si rende spesso necessaria l’asportazione chirurgica del tessuto necrotico

Apoptosi
Morte cellulare attiva, regolata, risultato di processi di rinnovo tissutale (morte cellulare programmata) o danni
cellulari accidentali o patologici lievi.
Richiede l’intervento di specifiche vie di segnalazione e protagonisti molecolari (es. caspasi, proteine della
famiglia di Bcl-2).
Non attiva (generalmente) processi infiammatori.
Via estrinseca dell’apoptosi
Lo stimolo per l’apoptosi è dato da una proteina chiamata TNF. Il TNF è una proteina prodotta da alcune cellule del
sistema immunitario in risposta a condizioni avverse, come l’esposizione a radiazioni ionizzanti, temperatura
elevata, infezioni virali.
Come altri tipi di primi messaggeri, il TNF evoca la sua risposta legandosi a un recettore transmembrana, il TNFR1
(membro di una famiglia di recettori di morte che mediano l’apoptosi).

Via intrinseca dell’apoptosi


L’attivazione della via intrinseca è regolata da proteine appartenenti alla famiglia di proteine Bcl-2.
Famiglia eterogenea: anti-apoptotici (es., Bcl-2) e pro-apoptotici (es., Bax).
Trascrizione
La trascrizione è un processo nel quale un filamento di DNA fornisce le informazioni per la sintesi di un
filamento di RNA. Gli enzimi responsabili della trascrizione sia nelle cellule eucariotiche che in quelle
procariotiche sono chiamati RNA polimerasi. Questi enzimi sono in grado di assemblare i nucleotidi, uno alla
volta, in una catena lineare di RNA la cui sequenza è complementare a uno dei due filamenti di DNA, che funge
da stampo.

Il primo passo nella sintesi di un RNA è l’associazione della polimerasi con lo stampo di DNA.
Il sito al quale si lega una molecola di RNA polimerasi prima di iniziare la trascrizione viene definito promotore.
Le RNA polimerasi non sono in grado da sole di riconoscere i promotori, ma richiedono l’intervento di ulteriori
proteine dette fattori di trascrizione.
Oltre a fornire un sito di legame per la polimerasi, il promotore contiene le informazioni che determinano quale
dei due filamenti di DNA verrà trascritto e il sito nel quale inizierà la trascrizione.
L’RNA polimerasi si muove lungo il filamento stampo in direzione 3’ → 5’.
Man mano che la polimerasi avanza, il DNA viene temporaneamente srotolato e la polimerasi assembla un
filamento complementare di RNA, che cresce dal suo terminale 5’ in direzione 3’.
La polimerasi, avanzando lungo lo stampo di DNA, inserisce il nucleotide complementare nella catena
nascente di RNA. Appena la polimerasi ha oltrepassato una certa regione del DNA, la doppia elica del DNA si
riforma.

Trascrizione procarioti
I procarioti contengono un solo tipo di RNA polimerasi, composta da cinque subunità che sono strettamente
associate per formare l’enzima fondamentale. L’enzima è legato a siti casuali del DNA.
Se, però, viene aggiunto all’RNA polimerasi un fattore sigma, prima che l’RNA polimerasi si leghi al DNA, la
trascrizione inizia nei siti appropriati.
Quando il fattore sigma si lega all’enzima fondamentale, l’affinità dell’enzima per i siti promotori del DNA
aumenta, mentre di riduce la sua affinità per il DNA in generale. Una volta iniziata la trascrizione, la subunità
sigma si separa dallo stampo del DNA, mentre la polimerasi continua la sua costruzione di un filamento
complementare di DNA.
Un’analisi delle sequenze di DNA a monte di un gran numero di geni batterici indica la presenza di due brevi
tratti che sono simili da un gene all’altro.
Uno di questi tratti è a circa 35 basi a monte del sito d’inizio ed è presente come variazione della sequenza
TTGACA (noto come regione —35).
La seconda sequenza si trova circa 10 basi a monte del sito d’inizio ed è presente come variazione della
sequenza TATAAT. Questo sito chiamato pribnow box è importante per l’identificazione del nucleotide a livello
del quale inizia la trascrizione.
La trascrizione inizia in punti specifici e termina quando viene raggiunta una specifica sequenza di nucleotidi.
In alcuni casi, una proteina chiamata fattore rho è richiesta per la terminazione, mentre nella maggior parte dei
casi, la polimerasi può interrompere la trascrizione e liberare la catena di RNA senza la necessità di fattori
addizionali.
Trascrizione eucarioti
Le cellule eucarioti presentano 3 distinti enzimi di trascrizione, ciascuno dei quali è responsabile della sintesi di
diversi gruppi di RNA.
La RNA polimerasi I sintetizza i grandi RNA ribosomiali.
La RNA polimerasi II sintetizza gli RNA messaggeri e la maggior parte dei piccoli RNA nucleari.
La RNA polimerasi III, sintetizza RNA a basso peso molecolare, compresi vari RNA di trasferimento e l’RNA
ribosomico.

Ciascuna delle polimerasi è coadiuvata nella sua funzione da una varietà di proteine ausiliarie, chiamate fattori di
trascrizione. Si possono individuare due categorie generali di fattori di trascrizione: i fattori generali di
trascrizione, necessari alla polimerasi per iniziare la trascrizione e i fattori specifici di trascrizione (o proteine
regolatrici di geni) che determinano la velocità alla quale un particolare gene o gruppo di geni viene trascritto.

L’iniziale molecola di RNA che è sintetizzata, è equivalente in lunghezza a quella totale del DNA trascritto e si
chiama trascritto primario, o pre-RNA.
I trascritti primari hanno un’esistenza effimera, perché vengono elaborati in RNA più piccoli e funzionali da una
serie di reazioni di maturazione. La maturazione dell’RNA richiede diversi piccoli RNA e le proteine a questi
associate. Questi sono chiamati piccoli RNA nucleari (snRNA) per la loro piccola dimensione e perché
funzionano nel nucleo.

RNA ribosomiali
Il DNA codificante l’RNA ribosomiale fa parte della frazione moderatamente ripetitivo del genoma.
Le cellule degli eucarioti hanno moltissimi ribosomi ciascuno contiene alcune molecole di RNA e proteine
ribosomiali. L’80% dell’RNA di una cellula è composto da RNA ribosomiale.
In una cellula che non si sta dividendo (interfase), l’rDNA si trova nei nucleoli che funzionano come organelli che
producono ribosomi che scompaiono durante la mitosi per ricomparire nei nucleoli delle cellule figlie nei pressi
delle zone del genoma che contengono i geni per rRNA.

Il nucleolo è uno degli organelli meglio conosciuti, dato che possiede una struttura semplice e manca di
componenti membranosi. I nuclei fibrillari del nucleolo sono costituiti da rDNA e rRNA trascritti.

RNA di trasferimento
Si stima che le cellule eucarioti abbiano circa 50 specie diverse di RNA di trasferimento, ciascuna codificata da
una sequenza di DNA che è ripetuta più volte nel genoma.
Il grado di ripetizione varia da organismo ad organismo.
I tRNA sono sintetizzati da geni che si trovano in piccoli gruppi sparsi nel genoma. Il tDNA in un gruppo è
composto in gran parte da sequenze spaziatrici, che non vengono trascritte e dalle sequenze codificanti per il
tRNA situate ad intervalli irregolari in ripetizioni a tandem.
Come per rRNA5S i tRNA sono trascritti dalla RNA pol III e la sequenza promotrice è presente all’interno della
parte codificante del gene piuttosto che all’estremità 5’.
• Il trascritto primario è più grande del tRNA maturo con tratti sulle estremità (3’ e 5’) che devono essere eliminati
• Tutti i tRNA maturi hanno una tripletta CCA alla loro fine, che vengono aggiunti enzimaticamente dopo la
maturazione del tRNA.
RNA messaggeri
Il macchinario molecolare nella trascrizione dell’mRNA
Tutti i precursori dell’mRNA sono sintetizzati dalla pol II con un certo numero di proteine ausiliarie definite
fattori generali di trascrizione.
Il promotore per la pol II si trova al 5’ dell’unità di trascrizione. Nella maggioranza dei geni studiati, una parte
fondamente del promotore (chiamata base del promotore) si tra tra 24 e 32 basi a monte del sito nel quale la
trascrizione inizia.
Questa regione contiene una sequenza di basi che è identica o molto simile all’oligonucleotide 5’-TATAAA-3’,
conosciuto come TATA box.
Questo tratto di DNA è il sito di assemblaggio di un complesso di preinizio che contiene i fattori generali di
trascrizione e la polimerasi.
L’assemblaggio del complesso preinizio è richiesto prima che inizi la trascrizione del gene.

Il primo passaggio nell’assemblaggio del complesso di preinizio è legame della proteina che lega il Tata box,
detta TBP che riconosce la sequenza di DNA dei promotori eucarioti.
La TBP non agisce da sola, ma serve come una subunità per un certo numero di fattori di trascrizione
multiproteici come TFIID (fattore di trascrizione per la polimerasi II, proteina D).
Il legame di TBP produce un cambiamento nella conformazione del DNA che risulta sottoavvolto e quindi più
aperto, questo permette alla polimerasi di accedere allo stampo
• Quindi il legame del TFIID al DNA permette l’associazione di altri fattori di trascrizione e la formazione del
complesso con pol e DNA per formare il complesso di pre-inizio
• Una volta iniziata la trascrizione alcuni dei fattori generali (es TFIIB e TFIID) si staccano mentre altri restano
associati alla pol che avanza
• Finchè TFIID rimane unito al promotore molecole addizionali di RNA pol si possono attaccare al sito
promotore e iniziare nuovi cicli di trascrizione.

Il dominio C-terminale (CTD) della subunità maggiore dell’RNA pol II ha una struttura particolare composta da
7 amminoacidi ripetuti più volte. Nei mammiferi il CTD è composto da 52 repliche di questo peptide. Tutti i 7
amminoacidi sono ottimi candidati per la fosforilazione da parte di protein-chinasi.
• La pol II nel pre-inizio non è fosforilata mentre quando impegnata nella trascrizione è fosforilata.
• Diventa fosforilata prima di iniziare la trascrizione per mezzo di una subunità di uno dei fattori di trascrizione
TFIIH che agisce come protein-chinasi.

La fosforilazione potrebbe allontanare dall’enzima i fattori di trascrizione che restano legati alla TATA box
permettendo all’enzima di muoversi lungo lo stampo del DNA.
L’altra subunità di TFIIH serve per separare i filamenti di DNA duplex permettendo alla pol II di procedere lungo
il filamento stampo.

Gli mRNA:
• Contengono una sequenza continua di nucleotidi in grado di codificare per uno specifico polipeptide
• Si trovano nel citosol
• Sono associati ai ribosomi
• Contengono una porzione non codificante cioè che non partecipa alla sintesi di proteine
• Particolari modificazioni alle estremità 5’ e 3’ (NON nei procarioti)
• 5’: cappuccio di metilguanosina
• 3’: serie di adenosine che formano una coda di poli(A)
Maturazione dell’RNA messaggero
L’RNA pol II assembla un trascritto primario che è complementare al DNA. Questo trascritto viene elaborato
nel nucleo per formare l’mRNA maturo che è trasportato nel citoplasma.
Gli RNA trascritti si associano con differenti proteine e con un certo numero di particelle distinte che sono gli
agenti responsabili della conversione del trascritto primario all’RNA messaggero maturo.

Le prime tappe di questo processo di conversione includono l’aggiunta del cappuccio all’estremità 5’ e del
poli(A) all’estremità 3’.
• Cappuccio in 5’: dopo la formazione dell’estremità 5’ di un precursore mRNA, alcuni enzimi modificano
questa porzione convertendo il terminale 5’ in un cappuccio di metilguanosina mentre la molecola di RNA è
ancora nelle sue fasi iniziali di sintesi.
Questo cappuccio ha diverse funzioni: impedisce a questa estremità 5’ di essere digerita da nucleasi,
interviene nel trasporto di mRNA fuori dal nucleo e ha un ruolo importante allinizio della traduzione
• Coda di poli(A) al 3’: tramite aggiunta di residui di A che stabilizza l’mRNA nel citosol proteggendolo dalla
degradazione.

Splicing del trascritto primario: la rimozione delle sequenze interposte


Le parti di un trascritto primario che corrisponde alle sequenze interposte del DNA (gli introni) vengono
rimosse in un processo complesso chiamato splicing dell’RNA. Perché si svolga un processo di splicing di
un RNA devono essere introdotte delle rotture nel filamento a livello delle estremità 5’ e 3’ (o siti del processo
di splicing) di ciascun introne, e gli esoni, situati a ciascun lato dei siti di splicing, devono essere legati
covalentemente.
Il processo di splicing è un processo finemente regolato ed è importante che si verifichi con assoluta
precisione, dal momento che la presenza o l’assenza di un solo nucleotide alterato in una sequenza di splicing
cambierebbe la sequenza di lettura del messaggio, causando una traduzione errata.

Il processo è garantito dalla presenza, nei siti di splicing, di sequenze altamente conservate evolutivamente.
• Le sequenze G/GU al 5’ dell’introne (sito 5’ di splicing) e AG/G all’estremità 3’ (sito 3’ di splicing) sono
presenti in quasi tutti i pre-mRNA eucarioti.
Una semplice sostituzione di base nella sequenza di DNA in questi tratti blocca il corretto splicing portando
all’accumulo di precursori non processati (maturati).

Le tappe che si verificano per la rimozione di introni nel pre-mRNA delle cellule animali sono simili a quello
che si vede nel gruppo II (funghi e cloroplasti delle piante) tranne che non sono autoalimentati.
Richiedono infatti di una grande presenza di proteine associate e di snRNA (small nuclear RNA) nucleari.
Dei vari snRNA che partecipano allo splicing di RNA, l’RNA U6 si suppone sia il ribozima che esegue i due
tagli nel pre-mRNA per rimuovere gli introni, mentre U4 è il suo inibitore.
Ribozimi: molecole di RNA in grado di catalizzare una reazione chimica, simile a enzimi che invece sono
proteine. Molti sono in grado di autocatalizzare la loro stessa sintesi.
Il processo di splicing è realizzato da uno spliceosoma costituito da più componenti, e contenenti una varietà
di proteine e particelle di ribonucleoproteine (snRNP), che si assemblano in una precisa successione al sito
di eliminazione dell’introne.
Codice genetico
Codice genetico: l’insieme delle regole attraverso le quali viene tradotta l'informazione codificata negli acidi
nucleici costituenti i geni per la sintesi di proteine nelle cellule.
Il codice genetico è un insieme di regole universali che specificano al ribosoma come passare dalla sequenza
nucleotidica dell’RNA messaggero alla proteina ovvero alla sequenza di amminoacidi. Dunque vi è una vera e
propria traduzione.
Il codice genetico è un insieme di 64 condoni differenti. Ogni codone è formato da tre basi azotate e prende
anche il nome di tripletta.
Di questi 64 condoni, 61 sono codificanti (vuol dire che 61 codoni sono correlati ad un amminoacido) e 3 sono
codoni di stop (UAA, UAG, UGA).
Nel momento in cui il ribosoma legge uno dei tre codoni di stop, la traduzione si ferma.
Il primo codone che segna l’inizio della traduzione è il codone di inizio (AUG). Questo primo amminoacido è la
metionina negli eucarioti e la formil-metionina nei procarioti.

Il codice genetico è degenerato/ridondante ed universale.


I codoni vengono letti dal ribosoma sull’mRNA.
Il codice genetico è ridondante perché lo stesso amminoacido viene codificato da più codoni quindi diversi
codoni possono specificare per lo stesso amminoacido.
• Degenerato: ad un singolo amminoacido può corrispondere più di un codone
• NON impreciso: nessun codone specifica per più amminoacidi
• Codone: tripletta di nucleotidi che codifica uno specifico amminoacido
• Quadro di lettura: determinato dal primo codone, in base al quale ogni tre residui nucleotidici inizia un nuovo
codone
• Traduzione: processo complessivo della sintesi proteica guidata dall’mRNA
• Attori: ribosomi (rRNA e proteine accessorie), tRNA, mRNA, amminoacidi, enzimi
• Dove: citosol per le proteine utilizzate dalla cellula; RER per le proteine di secrezione.

L’informazione presente nell’alfabeto nucleotidico del DNA e dell’RNA è decodificata dagli RNA di
trasferimento durante il processo di traduzione.
Gli RNA di trasferimento sono piccoli RNA che condividono una struttura tridimensionale a forma di L.
Una estremità del tRNA lega l’amminoacido e l’altra estremità contiene una sequenza detta anticodone,
costituita da tre nucleotidi complementari alla tripletta codone dell’mRNA.
I requisiti storici di complementarietà tra codone e anticodone sono meno rigorosi a livello della terza base del
codone, per permettere a codoni differenti, che specificano per lo stesso a amminoacido di usare il medesimo
tRNA.
Il legame dei tRNA ai loro corrispondenti amminoacidi è garantito da un gruppo di enzimi chiamato
aminoacil-tRNA sintetasi. Ciascun enzima è specifico per uno dei 20 amminoacidi ed è in grado di
riconoscere tutti i tRNA ai quali l’amminoacido può legarsi (tRNA isoaccettori).
Una tappa fondamentale di richiesta energetica, che serve durante l’intero processo di assemblaggio di un
polipeptide è data dall’utilizzo di energia durante la formazione dell’aminoacil-tRNA.
Un certo aa tende ad essere codificato da codoni correlati tra loro: questo riduce la possibilità che
sostituzioni di basi causino cambiamenti nella sequenza amminoacidica di una proteina.
Aa con proprietà simili (catene laterali acide, basiche, ecc) sono accomunati dallo stesso colore.

La sintesi proteica è l’attività sintetica più complessa che si verifica nella cellula.
Mentre altre macromolecole della cellula sono prodotte come risultato di reazioni enzimatiche
relativamente semplici, la costruzione di una proteina richiede vari tRNA con i loro amminoacidi
legati, i ribosomi, l’RNA messaggero, un certo numero di proteine con diverse funzioni.
Il processo è diviso in tre distinte attività: inizio, allungamento e termine.

Inizio
Il ribosoma inizia la traduzione in un sito specifico a livello dell’RNA messaggero, chiamato
codone di inizio.
L’mRNA non si lega ai ribosomi interi, ma invece alle subunità minore è maggiore del ribosoma in
differenti momenti.
La tappa più importante della fase di inizio è costituita dal legame della subunità ribosomiale
minore alla prima sequenza AUG nell’RNA messaggero, che serve da codone di inizio.
Alcune tappe richiedono l’aiuto di proteine, chiamate fattori di inizio (IF nei procarioti ed eIF negli
eucarioti).
Un fattore associato si muove lungo l’estremità 5’ del messaggero, rimuovendo qualsiasi regione
a doppio filamento, che potrebbe interferire con il movimento del ribosoma mentre cerca il
codone di inizio.
Oltre ai fattori proteici, è richiesto anche il GTP che si lega al tRNA iniziatore, prima di prende
contatto con la subunità minore del ribosoma. Quando il tRNA iniziatore si è legato il GTP viene
idrolizzato. L’idrolisi del GTP causa un cambiamento nella struttura del ribosoma, cambiamento
richiesto affinché possa iniziare la traduzione.
Ciascun ribosoma ha due siti in grado di legare le molecole di RNA di trasferimento.
Sito A (aminoacidico) e sito P (peptidico), che svolgono ruoli diversi nella traduzione.
Il sito A è quello nel quale gli aminoacil tRNA entrano nel complesso RNA-ribosoma, mentre il sito P è quello nel
quale il tRNA dona amminoacidi alla catena nascente.
Vi è un terzo sito, il sito E (exit) dal quale il tRNA lascia il ribosoma dopo aver ceduto il suo amminoacido
all’estremità della catena in crescita.

Allungamento
Durante l’allungamento si ripete con ciascun amminoacido incorporato, un ciclo di entrata di tRNA, di
formazione del legame peptidico e uscita di tRNA.
Gli aminoacil-tRNA entrano nel sito A, dove si legano al codone complementare dell’mRNA. A mano a mano che
ciascun tRNA entra, il polipeptide nascente legato al tRNA nel sito P viene trasferito all’amminoacido sul tRNA
del sito A, formando un legame peptidico.
Il tRNA non caricato (privo di amminoacido) del sito P viene espulso e il riposo a trasloca al codone successivo
dell’mRNA, pronto per la ripetizione del ciclo.

1. Legame tRNA successivo con EF-Tu (fattore di allungamento contenente GTP)


2. Legame del complesso al sito A del complesso di inizio
3. Idrolisi GTP e rilascio EF-Tu-GDP
4. Formazione legame peptidico tra i due aa (nei siti A e P)
5. Traslocazione: spostamento del ribosoma di un codone verso il 3’ dell’mRNA. Dipeptidil-tRNA va al sito P e il
tRNA deacilato al sito E. questo richiede GTP
6. Eliminazione del tRNA nella subunità E con possibilità di ricominciare il ciclo

Terminazione

• Raggiungimento di uno dei tre codoni di stop nel sito A


Fattori di terminazione (RF1-RF2-RF3) provvedono a:
• Idrolisi terminale del peptidil-tRNA
• Rilascio del polipeptide libero e dell’ultimo tRNA (ora scarico) dal sito P
• Dissociazione del ribosoma nelle sue subunità

Poliribosomi
Su un RNA messaggero impegnato nel processo di traduzione si vede sempre un certo numero di ribosomi
legato lungo il filamento. Questo complesso di ribosomi e mRNA prende il nome di poliribosoma o polisoma.
Ciascuno dei ribosomi si assembla dalle sue subunità a livello del codone di inizio e poi si muove verso
l’estremità 3’ dell’mRNA fino a raggiungere un codone di terminazione.
Non appena ciascun ribosoma si è mosso per un tratto sufficientemente lungo sull’RNA messaggero dopo
essere partito dal codone di inizio, un successivo ribosoma si lega all’mRNA e inizia la sua attività di traduzione.
La traduzione simultanea dello stesso mRNA da parte di numerosi ribosomi fa aumentare di molto la velocità
della sintesi proteica all’interno della cellula.
Il nucleo e il controllo dell’espressione genica
Controllo dell’espressione genica
• Sebbene le cellule che compongono un organismo pluricellulare (pianta, mammifero o fungo) siano diverse
strutturalmente, esse contengono tutte uno stesso corredo completo di geni
• Il contenuto di geni è lo stesso, ma esternamente possono cambiare enormemente (es. cellule di
cartilagine e neurone)
• Quindi ogni cellula contiene molte più informazioni genetiche di quelle che effettivamente utilizza
• Devono esserci meccanismi specifici che permettano alle cellule di esprimere queste informazioni in maniera
selettiva in ogni determinato momento
• Ogni cellula controlla la propria espressione genica e si assicura che in ogni momento siano sintetizzate
determinate proteine e altre no!
STESSO POTENZIALE MA ESPRESSIONE SELETTIVA!!!

Nucleo (eucarioti)

Composto da:
• Involucro nucleare: struttura molto complessa di membrane che determina il confine fra nucleo e citoplasma
• Cromatina: fibre nucleoproteiche altamente estese
• Matrice nucleare: rete fibrillare contenente proteine (simile al citoscheletro, struttura molto dinamica)
• Uno o più nucleoli: strutture amorfe in cui avviene la sintesi di rRNA
• Nucleoplasma: sostanza fluida in cui sono disciolti i soluti

La separazione del materiale genetico di una cellula dal citoplasma circostante può essere considerata la
caratteristica più importante che distingue gli eucarioti dai procarioti.
Il significato dell’involucro nucleare come struttura di confine è determinato da un paio di membrane
concentriche separate da uno spazio intermembranoso di 10-50 nm.
Le due membrane di fondono in corrispondenza di siti a forma di poro circolare contenenti una complessa
associazione di proteine.
In genere la membrana nucleare esterna è tappezzata di ribosomi è spesso è in continuità con la m,dna a del
reticolo endoplasmatico.
La superficie interna dell’involucro nucleare è ricoperta da una densa rete fibrillare chiamata lamina nucleare.
Si ritiene che la lamina nucleare agisca come da supporto strutturale per l’involucro nucleare e che serva da
sito di attacco per le fibre di cromatina alla periferia del nucleo. Le fibrille della lamina nucleare sono composte
da proteine chiamate lamine, facenti parte della stessa super famiglia di proteine che compongono i filamenti
intermedi del citoscheletro.
L’involucro nucleare è una barriera fra due dei compartimenti maggiori della cellula, il nucleo ed il citoplasma,
ed i pori nucleari sono le vie di passaggio attraverso tale membrana.
A differenza della membrana plasmatica, che blocca il passaggio di macromolecole fra il citoplasma e lo
spazio extracellulare, l’involucro nucleare è un centro di attività per il movimento di RNA e di proteine in
entrambe le direzioni fra i due compartimenti da esso delimitati.
La replicazione e la trascrizione del materiale genetico presente nel nucleo richiedono la partecipazione di un
gran numero di proteine che devono essere sintetizzate nel citoplasma e trasportate attraverso l’involucro
nucleare.
Invece gli mRNA, i tRNA e le subunità ribosomiali che sono prodotti nel nucleo devono essere trasportati
attraverso l’involucro nucleare nella direzione opposta. Tutti questi movimenti vengono convogliati attraverso i
pori nucleari.
I pori nucleari contengono un complesso apparato a forma di canestro chiamato complesso del poro
nucleare (CPN), che riempie il poro come un tappo, sporgendo sia verso il citoplasma che verso il
nucleoplasma.

MA
Soluti a basso peso molecolare passano per diffusione, molecole grandi passano se sono residenti nucleari
(proteine nucleari) perché contengono Siti di Localizzazione Nucleare (NLS), ad es il C-Ter della nucleoplasmina.
Genoma
• Ogni cromosoma contiene una molecola continua di DNA: più grande è il cromosoma, più lungo è il DNA che
esso contiene.
• Una cellula umana contiene 6 miliardi di paia di basi divise in 46 cromosomi (una molecola lunga 2m!)

Ma allora come può occupare lo spazio di un nucleo di soli 10 um di diametro? Riesce a compattarsi in una
maniera straordinaria

I cromosomi consistono in fibre di cromatina composte da DNA e proteine divise in:


• Istoni: piccole proteine basiche ben definite
• Proteine non istoniche: proteine diverse con funzioni strutturali, enzimatiche e regolatorie.
La cromatina contiene anche una piccola porzione di RNA.

I nucleosomi: il primo livello di organizzazione dei cromosomi


Il compattamento ordinato del DNA eucariotico dipende dagli istoni, un gruppo caratteristico di proteine basiche
divise in cinque classi distinguibili per il diverso contenuto di lisina ed arginina.
Gli istoni possono essere successivamente modificati tramite modificazioni amminoacidiche (fosforilazione ed
acetilazione) che avvengono dopo la sintesi della catena polipeptidica.
DNA e istoni si organizzano in strutture ripetute dette nucleosomi che contengono una parte centrale (core)
costituita da 146 bp di DNA superavvolto che gira per quasi 2 volte intorno ad un complesso di 8 molecole
istoniche: 2 molecole ciascuna di H2A, H2B, H3 e H4.

Monika Martiri

I nucleosomi sono interconnessi da segmenti di DNA di connessione (di DNA linker) con lunghezze variabili
• H1 è associato con entrambe le estremità del DNA che entrano ed escono dal nucleosoma. Interagisce con il
DNA linker costringendo il DNA ad una maggiore adesione all'ottamero istonico, grazie alla sua carica positiva
capace di neutralizzare quella negativa del DNA.

Le porzioni più idrofobiche e non cariche degli istoni occupano il centro del nucleosoma, promuovendo
l’aggregazione degli istoni.
• Le porzioni basiche e polari formano le code flessibili verso l’esterno così da permettere interazioni ioniche con i
gruppi fosfato negativi del DNA;
• L’interazione istoni-DNA è strutturale e NON dipende dalla sequenza nucleotidica, ma questo non significa che
essi siano localizzati a caso all’interno di un determinato gene, ma viene anche condizionato dal legame di
specifiche proteine non istoniche che condizionano la posizione dei nucleosomi
La diversa capacità del DNA di piegarsi intorno al nucleo di istoni è un altro fattore che influenza la posizione
dei nucleosomi.
Segmenti di DNA ricchi di coppie A-T sono più flessibili e più facilmente curvabili delle regioni ricche di coppie
G-C. I nucleosomi tendono a formarsi dove vi è un distribuzione ottimale di regioni ricche di A-T e di regioni
ricche in G-C, una caratteristica che abbassa l’energia richiesta per avvolgere il DNA intorno all’ottamero di
istoni.

Livelli di organizzazione
L’avvolgimento di DNA intorno ai nucleosomi è il primo livello di organizzazione della cromatina (10nm).
Al microscopio elettronico una sezione di nucleo appare con una serie di punti di circa 30nm (fibre di
cromatina) quando vengono preparati da nuclei in presenza di ioni bivalenti

Due modelli:
• Zig-zag: DNA linker disteso che cambia direzione formando due pile adiacenti di nucleosomi
• Solenoide: DNA linker curva un pò tra due nucleosomi che sono poi organizzati lungo una struttura
consecutiva elicoidale.

Lo stadio successivo nella gerarchia con cui le molecole di DNA vengono compattate nel nucleo consiste
nell’organizzazione delle fibre di cromatina da 30nm in una serie di ampie anse superavvolte.
La topoisomerasi II regola il grado di superavvolgimento del DNA nell’ansa.
Le anse potrebbero dividere il genoma in domini contenenti geni o piccoli gruppi di esse la cui espressione è
regolata comunemente

I cromosomi rappresentano l’ultimo stadio di compattamento della cromatina (1μm di lunghezza del
cromosoma contiene 1 cm di DNA). Questo compattamento finale avviene mediante un processo poco
conosciuto.

Eterocromatina ed eucromatina
Eterocromatina: 10% del materiale cromosomico che rimane condensato anche in interfase
• Eterocromatina costitutiva: sempre condensata in tutte le cellule. DNA sempre silente. Nei mammiferi situata
nel centromero o in posizioni specifiche dei cromosomi. Sequenze altamente ripetute, prive di geni codificanti
per proteine, infatti per effetto di posizione quando alcuni geni attivi si spostano in regioni vicine ad
eterocromatina divengono inattivi
• Eterocromatina facoltativa: porzioni di cromatina appositamente inattivate in specifiche fasi di vita
dell’organismo (es. inattivazione cromosoma X)
Eucromatina: in interfase torna ad uno stato disperso.

Cromosomi
Lo stato disperso della cromatina in una cellula in interfase favorisce la replicazione e la trascrizione, mentre lo
stato condensato nei cromosomi durante la mitosi facilita il trasferimento di un corredo intatto di DNA alle
cellule figlie.
I cromosomi durante la profase mitotica hanno una struttura ben organizzata e distinta determinata dalla
lunghezza e dalla posizione del centromero
• Cariotipo: appaiamento dei cromosomi omologhi in laboratorio, disposti in ordine decrescente in base alla
dimensione. Specifici coloranti (quinacrina) evidenziano delle specifiche bande sui cromosomi che
caratterizzano ciascuno di essi.
• Centromeri: sito nel quale le due superfici esterne introflettono. Il DNA centromerico lega proteine specifiche,
es quelle per siti di attacco del fuso durante divisione.
• Telomeri: ciascuna delle due estremità del filamento di DNA che forma un cromosoma contiene una regione
di sequenze ripetute chiamata telomero. che formana una specie di cappuccio per proteggere i cromosomi.
Questi sono mantenuti da una generazione cellulare alla successiva mediante uno speciale enzima: la
telomerasi che aggiunge unità ripetitive.

Funzioni:
• impedire la fusione delle estremità dei cromosomi (impediscono alle estremità dei cromosomi di fondersi tra
loro).
• facilitare la replicazione.
• impedire la degradazione dei cromosomi.
• facilitare l’interazione dei cromosomi con l’involucro nucleare.

Controllo dell’espressione genica: procarioti

• I procarioti (batteri) vivono a stretto contatto con ambienti che in ogni momento possono cambiare
composizione chimica.
• Si trovano a fronteggiare situazioni nelle quali i composti nutritivi possono essere presenti o no e quindi
devono utilizzare efficacemente le risorse di cui dispongono rispondendo a questi cambiamenti mediante
un’espressione genica selettiva e molto dinamica
• Questo per ottenere il massimo con il minimo sforzo
• Nessun eccesso di DNA
• Geni che fanno parte degli stessi processi biologici spesso raggruppati insieme per permettere la
regolazione coordinata dell’intero gruppo

Come esempio consideriamo il trasferimento in coltura di batteri da un terreno minimo ad uno contenente
lattosio o triptofano.
- il lattosio è un disaccaride composto da glucosio e galattosio la cui degradazione ossidativa può fornire alla
cellula intermedi metabolici ed energia.
La presenza di lattosio induce l’aumento della sintesi di molecole di enzima β-galattosidasi (per utilizzarlo).
Queste cellule batteriche stavano crescendo in condizioni minime prime del trasferimento, esse non avevano
alcun bisogno di questo enzima ma la presenza di lattosio ha indotto la sintesi del enzima!.
-il triptofano è un amminoacido essenziale; in assenza di tale composto nel mezzo, il batterio deve spendere
una certa quantità di energia per la sintesi di triptofano in modo da assicurare la disponibilità
dell’amminoacido per la sua incorporazione nelle proteine. Poniamo che tale amminoacido diventa disponibile
nel mezzo di coltura. La presenza dell’amminoacido triptofano nel terreno di crescita inibisce invece la sua
sintesi endogena. Quindi in presenza di triptofano i geni che codificano per gli enzimi deputati alla sua sintesi
sono repressi.
L’operone batterico
Nei batteri, i geni che codificano per gli enzimi di una determinata via metabolica sono in genere raggruppati
insieme in un complesso detto operone. Questi geni sono controllati in modo coordinato.
Un tipico operone batterico consiste di una serie di geni strutturali, di un gene regolatore e di due regioni con
funzioni di promotore e di operatore
• Geni strutturali: codificano per enzimi. I geni strutturali di un operano sono generalmente disposti l’uno di
fianco all’altro. La RNA polimerasi si muove da un gene al successivo trascrivendoli tutti in un unico mRNA
policistronico: singola catena mRNA che codifica per più proteine. Quindi all’accensione di un gene si
accompagna quella di tutti i geni codificanti per gli enzimi dell’operone.
• Promotore: sito di legame per RNA polimerasi prima di iniziare la trascrizione.
• Operatore: può essere a monte, a valle o lontano dal promotore e serve da sito di legame per proteine
regolatrici (repressore/attivatore).
• Gene regolatore: codifica per proteine con funzione di repressore o attivatore che se legati all’operatore
rendono il promotore disponibile o no al legame con la pol e quindi favoriscono o no la trascrizione. Il
repressore, ad esempio, può legarsi in maniera dipendente dalla sua conformazione che a sua volta è
dipendente dalla presenza o no di un composto chiave della via metabolica (lattosio o triptofano), quindi la
concentrazione del metabolita determina se l’operone sia attivo oppure spento.

Operone lac
È il gruppo di geni che regola la produzione degli enzimi necessari per metabolizzare il lattosio nelle cellule
batteriche. L’operone lac è un esempio di operone inducibile cioè in presenza di un metabolita chiave (lattosio)
induce la trascrizione dei geni strutturali.
• Questo contiene 3 geni strutturali in tandem.
• Se c’è, il lattosio entra, lega il repressore e ne cambia la conformazione rendendolo incapace di legare
l’operatore. Parte così la trascrizione degli enzimi per digerire lattosio che viene consumato.
• Mano a mano che si esaurisce il lattosio, il repressore torna ad avere capacità di legame con operatore e la
trascrizione dei geni strutturali si ferma.
GENI STRUTTURALI OPERONE LAC:
• lacZ, che codifica per la β‐galattosidasi
• lacY, che codifica per la lattosio permeasi, che permette l’ingresso del lattosio nella cellula
• lacA, che codifica per la tiogalattoside transacetilasi, aggiunge gruppi acetili al lattosio (ruolo poco chiaro)
Le proteine attivatrici regolano i geni attivandoli:
Agiscono sui promotori ma hanno una modesta capacità di legare in proprio la RNA polimerasi, per esempio
perché l’enzima li riconosce poco. Questi promotori deboli possono essere resi efficienti da proteine che si
legano a siti vicini sul DNA e facilitano alla RNA polimerasi l’inizio della trascrizione in quella zona.

Repressori, come quelli dell’operone lattosio o triptofano regolano l’espressione tramite controllo negativo.
L’operone Lac è sottoposto anche ad un controllo positivo (fenomeno effetto glucosio)
Se nel mezzo è presente glucosio, oltre che altre fonti metaboliche (lattosio o galattosio), le cellule usano
prima il glucosio come fonte di energia, ignorando gli altri zuccheri.
Il glucosio nel mezzo agisce come repressore della produzione di vari enzimi catabolici (esempio b-gal)
che porterebbero all’utilizzazione di altri zuccheri.
La [AMPc] (adenosin-monofosfato-ciclico) nelle cellule è correlata alla presenza di glucosio nel mezzo
Alta concentrazione di glucosio correla con bassa concentrazione di AMPc
Aggiungendo AMPc nel mezzo, in presenza di glucosio, gli enzimi catabolici normalmente assenti vengono
sintetizzati dalle cellule.

Operone trp
In un operone reprimibile, come l’operone per il triptofano, il repressore non è in grado di legare il DNA
operatore da solo.
Il controllo operatore-repressore reprime la trascrizione.
• Gli operoni trp regolano le vie anaboliche il cui substrato funziona da co-repressore.
• L’operone repressivo è sempre inattivo e si attiva soltanto in presenza del suo prodotto finale, l’amminoacido
triptofano.
• Questo operone produce enzimi per la sintesi del triptofano.
• I geni strutturali presenti nell’operone triptofano codificano per gli enzimi che reprimono la sintesi.
Quando il triptofano diventa disponibile, gli enzimi della via sintetica per il triptofano non sono più necessari ed
il complesso triptofano-repressore blocca la trascrizione.

Controllo dell’espressione genica: eucarioti

Mentre nei procarioti le proteine sono sintetizzate in funzione delle condizioni in cui le cellule crescono, negli
eucarioti la situazione è molto più complessa
• Hanno un genoma che contiene molte più informazioni, hanno cellule in stati differenziativi diversi ognuna con
precise richieste proteiche per funzionare

L’espressione genica può essere regolata in diversi momenti:


• a livello trascrizionale: quando e quanto spesso un gene,deve essere trascritto
• a livello maturazionale: determinano la via attraverso cui un pre-mRNA diventa mRNA tradotto maturo che
può essere tradotto in un polipeptide.
• a livello traduzionale: quando, quanto frequentemente e per quanto tempo un particolare mRNA deve essere
tradotto

Il livello finale di ciascuna proteina in una cellula eucariotica dipende dall’efficienza di ciascun passaggio.
• Trascrizione differenziale di geni come meccanismo principale per determinare quali proteine devono essere
sintetizzate in ogni momento
• Geni diversi espressi in momenti diversi della vita di una cellula ma anche in cellule in tessuti diversi di un
organismo o esposte a stimoli diversi
• Fattori di trascrizione: proteine che hanno il ruolo di legare sequenze specifiche di DNA e di stimolare o inibire
la trascrizione di geni vicini
• Ogni gene può essere regolato in molti siti regolatori diversi che legano proteine regolatrici differenti
• Una singola proteina di legame al DNA può legare molti siti nel genoma regolando così l’espressione di molti geni
diversi

Geni differenti sono espressi dalle cellule nei diversi stadi dello sviluppo embrionale, dalle cellule dei diversi tessuti
e da cellule sottoposte a diversi tipi di stimoli.
La trascrizione di un gene è controllata dai fattori di trascrizione, cioè da proteine in grado di legarsi a specifiche
sequenze presenti in siti esterni alla regione codificante di un gene.
La sequenza regolatoria più vicina a monte è il TATA box, che è il componente più importante del promotore di un
gene ed il sito di assemblaggio del complesso pre-inizio.
Si ritiene che l’attività delle proteine presenti sul TATA box dipenda sall’interazione con altre proteine legate a siti
differenti, tra cui vari elementi di risposta ed elementi enhacer.
Gli elementi enhacer sono caratterizzati dal fatto che essi mantengono la loro attività anche quando vengono
spostati da una posizione all’altra nel DNA o persino invertiti come orientamento. Alcuni enhacer possono essere
localizzati decine di migliaia di nucleotidi a monte del gene del quale stimolano la trascrizione. Si ritiene che le
proteine legate ad un enhacer siano portate a contatto con quelle legate al promotore mediante la formazione di
anse del DNA.

Altri fattori di trascrizione


• Fattori di trascrizione raggruppati in diversi classi i cui membri possiedono strutture simili
• La maggior parte di questi motivi contiene un segmento alfa-elica che è inserito nel solco maggiore del DNA
dove riconosce la sequenza di nucleotidi che fiancheggiano il solco

I motivi più comuni sono:


• Zinc-finger
• Helix-loop-helix
• Leucinezipper
• HMGbox
Ciascuno costituisce un’intelaiatura strutturalmente stabile sulla quale le superfici della proteine in grado di
riconoscere specificatamente il DNA possono essere posizionate per interagire con esso.
Repressione della trascrizione negli Eucarioti
Queste cellule possiedono meccanismi negativi di regolazione della trascrizione. Vi sono 2 modi:
• Sequenze regolatorie specifiche possono interagire con repressori proteici
• Oppure il DNA può essere modificato per renderlo meno accessibile come filamento stampo per la
trascrizione
Diverse proteine regolatorie negative si legano al promotore e bloccano l’assemblaggio del complesso di pre-inizio
per cominciare la trascrizione
• Altri repressori si legano a monte nel DNA ed inibiscono la trascrizione in altri modi
• Quindi la trascrizione dipende dal bilancio tra fattori positivi e negativi
Regolazione della fase di allungamento
Sebbene l’inizio della trascrizione sia la fase primaria di regolazione dell’espressione genica, esistono anche
meccanismi che controllano la fase di allungamento della trascrizione
Alcune sequenze determinano il rallentamento della RNA polimerasi durante la trascrizione, addirittura alcune la
fermano per un certo periodo
Alcuni fattori di trascrizione promuovono il blocco della pol e altri ne determinano il rilascio prematuro della RNA
pol dallo stampo di DNA
Ad esempio, il fattore TFIIS sembra agire promuovendo il passaggio della pol attraverso tali siti rimuovendo
nucleotidi dall’estremità 3’ del trascritto nascente in modo che la pol si sposti indietro per correggere l’errore e
quindi rallentando

Regolazione della maturazione dell’RNA


Lo splicing alternativo è un meccanismo diffuso mediante il quale un singolo gene può codificare per due o più
proteine correlate
La maggior parte dei trascritti primari (quindi i geni) contiene molti introni ed esoni
Spesso esistono meccanismi multipli mediante i quali un trascritto primario può essere sottoposto a splicing
generando così diversi mRNA maturi
Esistono meccanismi diversi di splicing alternativo: in alcuni casi un trascritto primario può contenere sequenze
alternative alle estremità 3’ o 5’ terminali.
In altri casi può diventare molto complesso permettendo alla cellule di “scegliere” quali esoni inserire nel mRNA
maturo fra un’ampia scelta di esoni, questo avviene perché l’apparato di splicing è in grado di riconoscere gli
specifici siti di splicing al 3’ e 5’ degli esoni.
Le proteine prodotte per splicing alternativo sono simili per la maggior parte della loro lunghezza tranne che per
alcune regioni chiave che possono influire su proprietà importanti come localizzazione cellulare, il tipo di substrati
con i quali interagire e la velocità di attività catalitica
Altri sistemi implicano il fatto che le cells siano in grado di controllare se un certo trascritto primario debba essere
maturato oppure no, ad in base ai cambiamenti nella sequenza del sito di splicing al 5’ possono influenzare il
legame di U1 con il pre-RNA.
Questo altera lo splicing permettendo a questi siti di essere riconosciuti più o meno facilmente e quindi inserito o
no nell’mRNA maturo

Regolazione a livello della traduzione


Questo tipo di controllo comprende un’ampia varietà di meccanismi regolatori differenti che agiscono sulla
traduzione degli mRNA già nel citosol
Questi sistemi comprendono:
• localizzazione dell’mRNA in determinati siti dentro la cellula
• la capacità della cellula stessa di controllare se un mRNA deve o no essere tradotto e quanto frequentemente
• la durata di vita dell’mRNA
Questi sistemi si operano attraverso interazioni tra mRNA e varie proteine citosoliche

Alcuni mRNA restano in una forma inattiva fino a che non devono attivarsi. Altro modo per regolare l’espressione
genica è agire sul tempo di permanenza di un mRNA
• mRNA procarioti cominciano ad essere degradati alla loro estremità 5’ ancora prima che la 3’ sia stata
completata, invece quelli eucarioti hanno vita più lunga
• La cellula riconosce gli mRNA e sa se deve degradarli più o meno velocemente
• mRNA senza poli(A) subito degradati, invece quelli con poli(A) più longevi
• Anche la lunghezza della coda di poli(A) può influire sulla longevità
Epigenetica
• Studio di meccanismi responsabili di cambiamenti ereditabili nelle funzioni del genoma senza alcuna
modificazione nella sequenza del DNA
• Si occupa dello studio dei cambiamenti che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo
• Studio di tutte le modificazioni ereditabili che variano l’espressione genica pur non alterando la
sequenza del DNA
• Quindi il segnale epigenetico è un cambiamento ereditabile che non altera la sequenza nucleotidica di un
gene ma la sua attività
• È lo studio delle modifiche fenotipiche ereditabili nell'espressione del gene, dal livello cellula
(fenotipo cellulare) agli effetti sull'intero organismo (fenotipo, in senso stretto), causato da meccanismi diversi
dai cambiamenti nella sequenza genomica, ovvero lo studio di meccanismi molecolari mediante i quali
l'ambiente altera il grado di attività dei geni senza tuttavia modificare l'informazione contenuta, ossia senza
modificare le sequenze di DNA.
• Queste mutazioni, dette ”epimutazioni”, durano per il resto della vita della cellula e possono trasmettersi alle
generazioni successive, senza tuttavia che le corrispondenti sequenze di DNA siano mutate; sono quindi fattori
non-genomici che provocano una diversa espressione dei geni dell'organismo.
• Sui fenomeni epigenetici si basa la maggior parte dei processi di differenziamento cellulare.

• Due principali componenti del codice epigenetico sono:


• Metilazione del DNA e le modificazioni della cromatina: entrambi sono necessari per un corretto sviluppo e
differenziamento e se mal regolati o mal controllati, possono essere coinvolti in patologie gravi
• La metilazione è una modificazione post-replicativa del genoma catalizzata dalle DNA metiltransferasi
• Interessa solo le citosine appartenenti ai dinucleotidi CpG (CpG island)
• Estensiva metilazione del genoma dei mammiferi coinvolta in diversi fenomeni biologici ed è essenziale per lo
sviluppo (1 nucleotide ogni 100 è metilato)
• È una modificazione dinamica perché oltre agli enzimi che aggiungono il gruppo metile ne esistono altri che lo
rimuovono
• Sebbene lo schema generale di metilazione del DNA cambi poco da tessuto a tessuto, lo schema di
metilazione può cambiare molto all’interno delle regioni regolatorie di geni specifici che vengono attivati
durante il differenziamento cellulare
Differenziamento cellulare
Processo che indica la maturazione di una cellula o di un tessuto da una forma primitiva (indifferenziata) ad una
matura (differenziata) con funzioni specializzate
È un processo operato dalla cellula di un organismo pluricellulare complesso per ripartirsi i compiti.
Avviene nello stato embrionale e i diversi tipi di tessuto che le cellule andranno a formare sono determinati dalle
sostanze secrete dalle stesse cellule e dalla conseguente disattivazione di alcune zone del DNA
Il fenomeno per cui da una cellula iniziale, di solito lo zigote, si originano gradualmente tipi cellulari diversi,
seppure muniti dello stesso genoma è detto differenziamento.
Ciascuna cellula trascrive geni che codificano per proteine comuni (geni housekeeping) che svolgono funzioni
basilari e geni specifici del tipo cellulare al quale essa appartiene.

Il differenziamento è l’acquisizione delle caratteristiche specifiche di una cellula specializzata a svolgere una
precisa funzione:
• Caratteristiche morfologiche
• Caratteristiche biochimiche
• Caratteristiche funzionali

Poiché ogni cellula di un determinato organismo contiene la stessa serie di geni (equivalenza genomica), come
può questa serie uguale di istruzioni genetiche produrre tipi differenti di cellule?

- Il DNA di cellule specializzate contiene


ancora la serie completa delle istruzioni
necessarie a formare un organismo intero
- Le cellule di un organismo non differiscono
perché contengono geni diversi, ma perché li
esprimono diversamente
- Le cellule che vanno incontro al
differenziamento non perdono il loro
materiale genetico, ma reprimono quei geni il
cui prodotto conferisce le caratteristiche di
un altro tipo cellulare
Il Differenziamento descrive i processi attraverso i quali una cellula acquisisce un nuovo fenotipo o dà origine a
cellule della progenie il cui fenotipo è diverso da quello parentale.
Una cellula differenziata:
1. non si modifica più
2. svolge una funzione specializzata
3. si divide di rado (tranne alcuni tessuti come es. il fegato)
4. è pronta a morire per usura

Il processo di differenziamento dà origine a una grande varietà di cellule specializzate.


Durante le ripetute divisioni cellulari che portano uno zigote a diventare un organismo pluricellulare adulto, le
singole cellule vanno incontro al differenziamento e diventano cellule specializzate nella struttura e nelle funzioni.

Cellule staminali: cellule primitive, non specializzate dotate della capacità di trasformarsi in diversi altri tipi cellulari
attraverso il differenziamento

Le cellule staminali sono cellule “non specializzate o indifferenziate”, che sono la riserva delle cellule.
Con il termine “ indifferenziate” si indica l’assenza di caratteristiche morfologiche, antigeniche e funzionali che sono
invece tipiche delle cellule mature o differenziate a cui le cellule staminali danno origine.
Per essere definita staminale, una cellula deve quindi godere di:
- Autorinnovamento
- Differenziamento
- Potenza.
Esiste un flusso continuo da cellule staminali, a progenitori, a differenziate.
Lo stato staminale è una caratteristica epigenetica

Molte patologie umane derivano dalla morte di specifici tipi di cellule. Il diabete di tipo 1, per esempio, origina
dalla morte delle cellule beta del pancreas; la malattia di Parkinson si sviluppa in seguito alla perdita dei
neuroni dopaminergici cerebrali.

Una cellula staminale è una cellula derivante da un embrione o da un adulto che ha la capacità di riprodurre
se stessa (autorinnovamento) per lunghi periodi o, in alcuni casi, per tutta la vita dell’organismo.
Essa può inoltre dare origine alle cellule specializzate che vanno a costituire i tessuti e gli organi del corpo.
Le cellule staminali possono essere:
• Totipontenti: possono produrre tutti i tipi cellulari che compongono un organismo (zigote nei mammiferi)

• Polipotenti: capacità di differenziarsi in uno qualsiasi dei tre strati germinali (ecto-meso-endo)

• Multipotenti: o anche cellule progenitrici. Potenziale limitato di differenziarsi (es cellula ematopoietica che
può svilupparsi in diversi tipi di cellule del sangue ma non può differenziarsi, ad es, in cellule cerebrali)

• Oligopotenza: capacità di differenziarsi solo in alcuni tipi cellulari ad esempio linfoide o mieloide

• Unipotenza: in un singolo tipo di cellule (precursori). Es epatociti

L’autorinnovamento è stato identificato per la prima volta nel 1963 durante studi sul midollo osseo e
rappresenta la capacità di tali cellule di compiere un numero illimitato di cicli replicativi mantenendo sempre il
medesimo stadio differenziativo.

Il differenziamento cellulare dipende generalmente da cambiamenti nell’espressione genica.


Il differenziamento è il processo mediante il quale una cellula diventa diversa dalla sua progenitrice e dalle altre
cellule figlie della stessa progenitrice.

Ogni staminale può dividersi dando origine a:


a) un’altra cellula uguale alla madre
b) una cellula destinata a differenziare (specializzarsi nella costruzione di uno dei molteplici tessuti del corpo
umano).

Una delle cause principali del morbo di Parkinson è la morte dei neuroni che
rilasciano la dopamina, un neurotrasmettitore che svolge un ruolo molto importante nel comportamento, nella
cognizione e nel movimento volontario. Un team di ricercatori della
Lund University, ha dimostrato come il trapianto di neuroni dopaminergici derivati da cellule staminali
embrionali possa ripristinare le funzioni motorie in ratti colpiti dal modello
animale del morbo di Parkinson. Le cellule trapiantate sono sopravvissute alla procedura e hanno riportato i
livelli di dopamina nella normalità entro cinque mesi, ripristinando le funzioni motorie degli animali. Ciò è stato
rilevato attraverso tecniche di imaging di risonanza magnetica e PET.

Gottfredson
Le cellule staminali si trovano infatti lungo tutto il corso dello sviluppo di un individuo
e si presentano con un grado di plasticità differente che permette di classificarle in:
a) totipotenti. È lo zigote, in quanto cellula che può differenziare dando origine ad un
organismo completo. Si tratta di una cellula transiente non espandibile come tale. Questo
stato viene mantenuto anche nelle fasi immediatamente successive fino all’embrione allo
stadio di 8 cellule.
b) pluripotenti. A questo gruppo appartengono due tipologie cellulari: le prime, presenti
transientemente nella blastocisti, prendono il nome di cellule embrionali staminali (ES); le
seconde, denominate “cellule iPS” (cellule dalla pluripotenza indotta) sono invece il risultato
di una recente scoperta che prevede una manipolazione in laboratorio, sono ottenute
riprogrammando, mediante l’inserimento di alcuni geni legati alla pluripotenza, cellule
mature adulte a cellule simil-ES. Diversamente dallo zigote, le cellule pluripotenti non
possono differenziare in un organismo completo. Tuttavia mantengono un elevato
potenziale differenziativo in quanto sono in grado di produrre i derivati dei tre foglietti
germinativi (ectoderma, mesoderma ed endoderma; da essi si originano tutti i tessuti
dell’organismo) e quindi di generare staminali tessuto-specifiche oltre alle tipologie di cellule
funzionalmente mature che da esse derivano - si tratta delle oltre 250 grosse tipologie di
cellule presenti nel feto e nell’organismo adulto. Le cellule pluripotenti non possono
generare cellule dei tessuti extra-embrionali (trofoectoderma e placenta).
c) multipotenti. Sono le cellule staminali adulte e tessuto-specifiche (dette anche
somatiche), presenti nei diversi tessuti del feto e dell’organismo adulto e in grado di
differenziare solamente nei tipi cellulari del tessuto di cui fanno parte. Per esempio la cellula
staminale ematopoietica differenzia generando gli 8 principali tipi cellulari maturi che
compongono il sangue. È importante sottolineare che le cellule staminali adulte (del sangue,
della pelle, del muscolo, del sistema nervoso, del rene, ecc), sebbene raggruppate in
un’unica tipologia, comprendono categorie e definiscono ambiti di ricerca ben distinti, in
quanto a caratteristiche delle cellule, possibilità del loro isolamento ed espansione,
potenzialità differenziativa e potenziali impieghi terapeutici.
Nelle diverse tipologie di cellule staminali presenti nelle varie fase dello sviluppo si assiste
ad un graduale restringimento delle potenzialità differenziative delle cellule.

Figura 3. Gerarchia della


potenzialità differenziativa
delle cellule. In cima alla
piramide si trova lo zigote, in
grado di originare tutto un
individuo completo, inclusi gli
annessi embrionali. Le cellule
staminali embrionali o le cellule
iPS (derivate da processi di
riprogrammazione) sono
pluripotenti, potendo originare
tutti i derivati dei tre foglietti
germinativi. A seguire, si trovano
le cellule staminali adulte
caratterizzate da uno stadio di
multipotenza, potendo originare
solo i derivati funzionali del
tessuto di origine ed i
precursori, cellule ad attività
proliferativa e differenziativa
ristretta ad uno o due tipi
funzionali. Infine, si ritrovano le cellule mature che, nei casi in cui possono dividersi, lo fanno soltanto per
generare altre cellule mature uguali a quelle di origine.

4
Monika Martiri
Cancro
Il cancro è una malattia genetica in quanto può essere associato ad alterazioni all’interno di geni specifici, ma nella
maggioranza dei casi non è una malattia ereditaria.
In una malattia ereditaria, il difetto genetico è presente nei cromosomi di un genitore ed è trasmesso allo zigote.
Al contrario, le alterazioni genetiche che conducono alla maggior parte dei timori insorgono nel DNA di una cellula
somatica durante la vita di un individuo.

Le cellule normali non si dividono, a meno che non vengano stimolate dal macchinario omeostatico
dell’organismo; le cellule normali non sopravvivono se hanno subito un danno irreparabile e neppure si allontanano
da un tessuto per dare origine a colonie in altre parti del corpo.
Al contrario, molte cellule tumorali sono soggette ad alterazioni di queste regolazioni che proteggono l’organismo
dal caos e dall’auto-distruzione.
Le cellule tumorali proliferano in modo incontrollato formando tumori maligni che invadono i tessuti sani
circostanti.
I tumori maligni tendono a metastatizzare, cioè a produrre cellule alterate che si staccano dalla massa di origine,
entrano nel circolo linfatico o vascolare e invadono zone distanti del corpo dove formano tumori secondari letali
(metastasi) che non sono più trattabili mediante rimozione chirurgica (se la crescita del tumore rimane localizzata,
la malattia può essere invece trattata e curata mediante rimozione chirurgica del tumore stesso).

A livello cellulare, la caratteristica più importante di una cellula tumorale è la perdita del controllo della crescita.
Le cellule tumorali possono essere considerate immortali perché continuano a dividersi all’infinito. Questa
differenza nel potenziale di crescita è in parte attribuita alla telomerasi presente nelle cellule cancerose è assente
nelle cellule normali (la telomerasi è l’enzima che consente il mantenimento dei telomeri alle estremità dei
cromosomi, permettendo quindi alle cellule di continuare a dividersi).

Le cellule tumorali sono geneticamente instabili e hanno spesso degli assetti cromosomici decisamente alterati,
una condizione definita aneuploidia, risultato di difetti nei punti di controllo mitotici oppure nella presenza di un
numero abnorme di centrosomi.
Quando l’assetto cromosomico di una cellula sana viene alterato, normalmente si attiva una via di segnalazione
che conduce all’autodistruzione (apoptosi) della cellula.
Al contrario, le cellule tumorali solitamente non attivano la risposta apoptotica anche quando il loro assetto
cromosomico viene fortemente alterato (proprietà importante che distingue molte cellule tumorali da quelle sane).

1775: Percival Pott correla il cancro con l’esposizione ad agenti ambientali (tumore degli spazzacamini correlato ad
esposizione alla fuliggine).
Oltre a numerose sostanze chimiche, sono stati individuati parecchi tipi di agenti cancerogeni, incluse le radiazioni
ionizzanti è una varietà di virus a DNA e RNA. Tutti questi agenti hanno una proprietà in comune: alterano il
genoma.
Sostanze chimiche cancerogene, come quelle presenti nella fuliggine o nel fumo di sigaretta, possono sia
dimostrarsi mutagene come tali oppure essere convertite in sostanze mutagene da enzimi cellulari.
Numerosi virus sono capaci di infettare le cellule dei mammiferi e trasformarle in cellule tumorali.
Questi virus sono divisi in due grandi gruppi: virus tumorali a DNA e virus tumorali a RNA (a seconda del tipo di
acido nucleico ritrovato all’interno della particella virale matura).
I virus tumorali possono trasformare le cellule perché possiedono geni i cui prodotti interferiscono con le normali
attività che regolano la crescita.
Monika Martiri

Lo sviluppo di un tumore maligno (tumorigenesi) è un processo a più stadi caratterizzato da una progressione di
alterazioni genetiche in una singola linea cellulare che potrebbero verificarsi nel corso di molte divisioni cellulari
successive e richiede decadi per completarsi.
La tumorigenesi è caratterizzata da più eventi:
- iniziazione: contatto con il genotossico che provoca mutazione nelle cellule (cellule iniziate). A questa fase non è
detto che il danno provochi il tumore.
- promozione: le cellule iniziano a dividersi formando raggruppamenti con genoma modificato.
- progressione: inizia con un tumore benigno ma poi queste cellule si trasformano in maligne in seguito ad
intervento di altre mutazioni o altri promotori tumorali.
Durante questo processo di progressione le cellule diventano sempre meno rispondenti ai normali meccanismi
regolatori del corpo e più capaci di invadere altri tessuti.

Geni oncosoppressori e oncogeni:


freni e acceleratori
I geni coinvolti nella cancerogenesi si dividono in due grandi categorie: i geni oncosoppressori e gli oncogeni.

Geni oncosoppressori: agiscono da freni cellulari. Codificano per proteine che limitano la crescita cellulare e
impediscono alle cellule di diventare maligne.
Furono scoperti con esperimenti in cui si fondevano cellule tumorali con cellule sane e le cellule tumorali perdevano le
caratteristiche maligne. Pertanto la cellula sana possedeva qualcosa capace di sopprimere la caratteristica tumorale.
Mutazioni recessive: entrambe le copie devono essere delete o mutate prima che venga perduta la loro funzione.

Geni oncogeni: codificano per proteine che favoriscono la perdita del controllo di crescita è la conversione di una
cellula allo stato maligno. Molti oncogeni agiscono per lo più da acceleratori della proliferazione cellulare ma hanno
anche altri ruoli: possono condurre ad instabilità genica, impedire l’apoptosi o promuovere metastasi.
Mutazioni dominanti: una sola copia dell’oncogene può far esprimere fenotipo alterato.

Mentre una mutazione in una delle due copie (alleli) di un oncogene può essere sufficiente per indurre la cellula a
perdere il controllo della sua crescita, entrambe le copie di un gene oncosoppressore devono essere inattivate per
avere lo stesso effetto.
Le cellule possiedono una varietà di geni, i proto-oncogeni, che hanno la potenzialità di sovvertire le attività proprie
della cellula e spingerla verso lo stato maligno.
I proto-oncogeni possono essere convertiti in oncogeni (cioè, attivati) con diversi meccanismi:

Gli oncogeni si comportano in maniera dominante, cioè una sola copia dell’oncogene può far esprimere alla cellula il
fenotipo alterato, indipendentemente dalla presenza o meno sul cromosoma omologo della copia normale o inattivata
del gene.
Quali sono i meccanismi che determinano la trasformazione di un proto-oncogene in un oncogene?
È importante ricordare che i proto-oncogeni codificano proteine che promuovono la crescita e la sopravvivenza
cellulare.
Le alterazioni associate ai tumori possono essere quantitative e qualitative:

Le alterazioni quantitative (eccesso di produzione di una proteina strutturalmente normale) possono essere
dovute a:
1. amplificazione genica: il gene può essere presente in copie multiple e ciò permette la produzione di una
maggiore quantità di mRNA e quindi di proteina.
2. alterato controllo trascrizionale: come conseguenza di traslocazioni cromosomiche che pongono il gene sotto il
controllo trascrizionale di un promotore particolarmente attivo.

Le alterazioni qualitative (che determinano la produzione di una proteina funzionalmente alterata, in quantità
normale) possono essere dovute a:
1. mutazioni puntiformi o piccole delezioni della sequenza codificante
2. traslocazioni cromosomiche che determinano la fusione tra due geni diversi: la proteina derivata è quindi una
proteina “ibrida” che contiene sequenze derivate da entrambi i geni.
Oncosoppressori
La trasformazione di una cellula normale in una cellula cancerosa è accompagnata dalla perdita di funzione di uno o
più geni oncosoppressori.
Il primo gene oncosoppressore ad essere studiato e clonato è associato a un raro tumore dell’infanzia che colpisce
la retina, detto retinoblastoma.
Il gene responsabile è detto RB. Esso si verifica con alta frequenza e in giovane età in membri di alcune famiglie e
si verifica sporadicamente ad un’età più avanzata tra i membri della popolazione generale (ciò porta a pensare che
il tumore retinoblastoma possa essere ereditario).
L’esame di cellule di bambini colpiti da retinoblastoma indicò che in un membro del tredicesimo paio di cromosomi
omologhi mancava un piccolo tratto dalla parte interna del cromosoma (quindi ereditato da uno dei genitori).

Il retinoblastoma per svilupparsi richiede che entrambe le copie del gene RB di una cellula della retina fossero
eliminate o mutate prima che la cellula potesse dare origine al retinoblastoma.
Il cancro si sviluppa quindi come risultato di due eventi indipendenti in un’unica cellula. Per questo motivo (data la
scarsa probabilità che entrambi gli alleli dello stesso gene siano il bersaglio di mutazioni inattivanti nella stessa
cellula, l’incidenza del cancro nella popolazione generale è molto bassa.

Inoltre gli individui affetti dalla forma ereditaria del retinoblastoma sono anche altamente a rischio di sviluppare in
seguito altri tipi di tumore, soprattutto sarcomi dei tessuti molli.

Quando le cellule di questi tumori sono messe in cultura in vitro il reinserimento di un gene RB normale nelle cellule
è solitamente sufficiente a sopprimere il fenotipo tumorale, indicando che la perdita della funzione di questo gene
contribuisce in maniera significativa alla tumorigenesi (il reinserimento di un gene RB funzionante sopprime il
fenotipo tumorale, questo indica l’importanza di questo gene nel regolare la crescita dei tessuti).

La proteina codificata dal gene RB, pRB, aiuta a regolare il passaggio delle cellule dalla fase G1 del ciclo
cellulare alla fase S (passaggio impegnativo per la cellula poiché una volta che questa entra in fase S, procede
invariabilmente attraverso il resto del ciclo cellulare e la mitosi).
Il passaggio da G1 ad S è accompagnato dall’azione di molti geni differenti che codificano per proteine che
vanno dalle DNA polimerasi alle cicline e agli istoni.

E2F: famiglia di fattori trascrizionale, bersagli chiave di pRB. Normalmente durante la fase G1, i fattori trascrizionali
E2F sono legati a pRB, che impedisce alle molecole di E2F di attivare numerosi geni che codificano per le proteine
richieste per svolgere le attività della fase S.

Il gene TP53
Il gene TP53 può essere responsabile dello sviluppo del cancro umano più di qualsiasi altro componente del
genoma. Il gene prende il nome dal prodotto che codifica, p53, un polipeptide dal peso molecolare di 53.000
dalton.
TP53 è l’oncosoppressore che, quando manca, è responsabile di una rara malattia ereditaria chiamata sindrome
di Li-Fraumeni. Le vittime di questa malattia sono afflitte da un’elevata incidenza di determinati tumori, inclusi il
tumore del seno, dell’encefalo e la leucemia.
Uno dei geni attivati da p53 codifica per una proteina chiamata p21, la quale inibisce la chinasi ciclina-
dipendente che normalmente regola il passaggio della cellula attraverso il punto di controllo G1. Come aumenta
il livello di p53 nella cellula danneggiata in G1, viene attivata l’espressione del gene p21 e viene bloccata la
progressione attraverso il ciclo cellulare. Questo da il tempo alla cellula di riparare il danno genetico prima che
inizi la replicazione del DNA.
Quando in una cellula entrambe le copie del gene TP53 sono mutate a tal punto che il loro prodotto non è più
funzionale, la cellula non può produrre l’inibitore p21 o esercitare le reazioni di controllo che le impediscono di
entrare in fase S quando ancora non è preparata a farlo.
L’impossibilità di riparare il danno del DNA porta alla produzione di cellule anormali con la potenzialità di diventare
maligne.

Oltre a regolare la progressione del ciclo cellulare e il riparo del DNA, p53 può dirigere una cellula geneticamente
danneggiata lungo un percorso che porta alla morte per apoptosi o necrosi, liberando in tal modo l’organismo dalle
cellule con un potenziale maligno.
P53: “Il guardiano del genoma”.

dbEaooEeE☆SaaA#eˢ
ESEˢTrAatS
La p53 può portare una cellula potenzialmente cancerosa verso l’arresto della crescita oppure anche all’apoptosi.
Studi recenti indicano che la p53 controlla anche le vie di segnalazione che portano alla senescenza cellulare, un altro
meccanismo che si è evoluto come barriera per bloccare la trasformazione di cellule modificate in un tumore maligno.
A differenza delle cellule apoptotiche, le cellule senescenti possono rimanere vive e metabolicamente attive, ma
vengono arrestate permanentemente nello stato di non-divisione.
Altri onco-soppressori
La poliposi adenomatosa familiare del colon (FAP) è una malattia ereditaria nella quale gli individui sviluppano
molti polipi pre-maligni (adenomi) dalle cellule epiteliali che rivestono la parete del colon. Se non rimosse, le cellule
di alcuni di questi polipi hanno grandi probabilità di progredire verso uno stadio completamente maligno.
Le cellule dei pazienti in questa condizione possiedono una delezione di una piccola porzione di cromosoma 5, che
è stata in seguito identificata come il sito di un gene oncosoppressore chiamato APC.
Un individuo che eredita una delezione APC si trova in una condizione analoga a quella di un individuo che eredita
una delezione di RB: se il secondo allele del gene viene inattivato in una determinata cellula, si perde il valore
protettivo della funzione del gene.

La perdita del secondo allele di APC induce la cellula a perdere il controllo sulla crescita e a proliferare fino a
formare un polipo invece di differenziarsi in una cellula epiteliale normale della parete intestinale.

BRCA1 e BRCA2: responsabili della maggior parte dei casi ereditari di tumore della mammella.
Questi geni codificano per proteine con domini a dito di zinco.
Si ritiene che siano oncosoppressori perché per lo sviluppo della patologia occorre che entrambe le copie siano
alterate. A differenza degli altri oncosoppressori nessuno dei due geni BRCA è alterato nei tumori sporadici.
Oncogeni
Gli oncogeni codificano per proteine che favoriscono la perdita di controllo sulla crescita e la conversione di una
cellula allo stato maligno.
Gli oncogeni sono derivati dai proto-oncogeni.
Sono stati identificati un centinaio di oncogeni ma solo 10-12 sono responsabili di tumorigenesi umana.

L’oncogene più spesso mutato nei tumori umani è RAS, che codificano per una proteina legante GTP che agisce
come un interruttore di spegnimento-accensione in diverse via chiave di segnalazione che controllano la
proliferazione e metabolismo cellulare.

A differenza degli oncosoppressori, solo raramente si sono potute far risalire malattie ad un oncogene ereditato.
È possibile che un oncogene mutato porti l’embrione a morire.
Le funzioni di un certo numero di oncogeni sono le seguenti:
- oncogeni che codificano per fattori di crescita o per i loro recettori: PDGF
- oncogeni che codificano per protein-chinasi citoplasmatiche: es. RAF (è una serina-treonina protein-chinasi che
si trova in cima alla cascata delle MAP chinasi, la principale via di segnalazione che controlla la crescita nelle cellule
→ posizione ottimale per creare caos all’interno di una cellula).
- oncogeni che codificano per fattori di trascrizione: MYC
- oncogeni che codificano enzimi metabolici
- oncogeni che codificano per prodotti che regolano l’apoptosi

Monika Martiri

Potrebbero piacerti anche