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20/08/23, 15:01 Altro che stile italiano nel mondo: l’Italia della moda perde la faccia – La Voce di New

de la faccia – La Voce di New York


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Fashion February 19, 2019

Altro che stile italiano nel mondo:


l’Italia della moda perde la faccia
Dolce & Gabbana prima, poi Prada e Gucci commettono
gravissimi errori con pubblicità offensive che dimostrano
un'insensibilità italiana ai pregiudizi

Caterina De Medici

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20/08/23, 15:01 Altro che stile italiano nel mondo: l’Italia della moda perde la faccia – La Voce di New York

Immagine della campagna pubblicitaria di Gucci ripresa da twitter

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Il cibo, il vino, i mobili, le auto…sono solo alcune delle creazioni Made in Italy che ci fanno

sentire così forti e amati fuori dai nostri confini. Ma l’orgoglio più grande è di sicuro la moda.

Non serve ricordare quali altissimi valori di qualità e stile vengano associati con i marchi italiani

in tutto il mondo. E anche quando il paese barcolla economicamente, i suoi prodotti del lusso

restano vincenti e ammirati.

I mesi a cavallo tra il 2018 e 2019 però hanno visto un

susseguirsi di eventi che hanno messo fortemente in

discussione l’etica e l’adeguatezza culturale del nostro

settore moda. A Novembre 2018 Dolce & Gabbana

alle prese con la preparazione di una sfilata

sensazionale a Shanghai lancia su Instagram dei video

che ritraggono una modella dai tratti asiatici mentre

con difficoltà cerca di mangiare piatti nostrani come

La pubblicità offensiva di Dolce & Gabbana pizza, spaghetti e cannoli con le bacchette. Lo
commentata in Cina
sconcerto mediatico è frastornante: i video vengono

ritenuti razzisti, ignoranti e denigratori. Durante la

bufera di commenti sul profilo social Instagram, Stefano Gabbana si lascia andare a insulti

durante una lite via messaggio resa pubblica dalla follower interessata, definendo la Cina un

Paese di “Ignorant Dirty Smelling Mafia”. Letteralmente “ignorante, sporco, puzzolente, di

mafiosi”. Lo show viene annullato dal governo cinese e in poche ore l’intero e-commerce dei

prodotti Dolce & Gabbana in Cina sparisce. Patetico il messaggio ufficiale sul profilo Instagram

dell’azienda sostenendo che l’account di Stefano Gabbana fosse stato sabotato da terzi. E allo

stesso modo ridicolo il tentativo di sistemare le cose con un video in cui i due stilisti siciliani si

scusano dal profondo del loro cuore dichiarando il loro amore per il Paese del sol levante.

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Una vetrina con le scimmiette di Prada

Il mese seguente Prada mette nelle sue vetrine natalizie dei pupazzetti a forma di scimmia di

colore marrone scuro con delle grosse labbra rosse. Negli Stati Uniti si grida allo scandalo.

L’animaletto pare una diretta rappresentazione di “black face”, una caricatura divenuta simbolo

dell’oppressione sociale degli afroamericani negli USA dell’800’ poiché utilizzata per ridicolizzare

l’allora segregata popolazione di colore. E’ subito protesta mediatica, e davanti al negozio Prada

di Soho si manifesta. Il marchio ritira immediatamente il prodotto e pubblica una lettera di

scuse, spiegando che il riferimento avvenuto fosse stato del tutto non intenzionale e

assolutamente in contrasto con i valori dell’azienda.

A Febbraio 2019 un altro colosso italiano suscita uno

scandalo simile. Gucci mette in vendita online un

maglione girocollo nero stile “balaklava” ossia con il

collo alto a coprire mezzo volto. A combaciare con la

bocca della modella bionda, un grosso paio di labbra

rosse appaiono tessute nella maglia. Anche questa

immagine sembra ispirata dallo stesso black face. I

seguaci della moda scatenano tutto il loro disdegno su

Instagram, capitanati dall’indignata black community.

Le scuse di Gucci per il suo prodotto offensivo “Happy black history month”, “Canceled”, “Racist”

sono alcuni dei commenti sotto ai post del brand. In

questo caso la reazione aziendale non si limita a delle

semplici scuse. È di pochi giorni fa la notizia dell’incontro avvenuto ad Harlem, quartiere di New

York, tra Marco Bizzarri CEO di Gucci e il designer afro-americano Dapper Dan, stilista

leggendario della moda hip-hop da un paio d’anni collaboratore con il marchio italiano. Il

risultato dell’incontro è la nascita di un programma di quattro iniziative che mira a variegare il

personale dell’azienda a tutti i livelli e a creare un team che si occuperà esclusivamente di

inclusione e diversità culturale.

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Insomma, in pochi mesi tre dei più grandi nomi della moda hanno dato scandalo producendo

immagini considerate razziste e offensive. Il denominatore comune? Tutti e tre sono italiani.

Nonostante Gucci abbia preso una posizione innovativa per un cambiamento radicale, la strada

da fare per il resto del paese è ancora lunga. Da designer di moda italiana, a New York da quasi

nove anni, mi sono trovata non solo a riflettere a lungo su questi episodi, ma soprattutto a

rispondere a domande di colleghi e amici sconcertati: perché proprio in Italia? E la risposta è

sempre la stessa. L’Italia è un paese omogeneo contraddistinto da una cultura locale e non

internazionale. Non c’è confronto con altre culture all’interno dei suoi confini e tantomeno

esiste una conoscenza o coscienza di altri. Anzi, regna un senso di superiorità che riscontro

spesso vivendo all’estero. Un esempio riguarda gli italiani in vacanza a New York. Criticano cibo

e quant’altro e rapportano tutto ai propri usi e costumi, credendo di sapere come si dovrebbe

mangiare e vivere, basandosi solo sulle loro aspettative. Senza minimamente accorgersi che qui

non vige uno stile di vita unico ma centinaia, quante le nazionalità che popolano questa

metropoli.

In Italia è diffusa una chiusura mentale e culturale che si verifica costantemente. Ad esempio

siamo un paese piccolo che parla una lingua unicamente sua. Eppure siamo tra i peggiori nella

conoscenza dell’inglese. Nonostante ciò continuiamo a doppiare i film stranieri invece di

importarli in lingua originale sottotitolati. Perché in Italia si italianizza tutto. Ma rimaniamo

nella moda. Perché non si verificano simili episodi in case di moda francesi o inglesi? Perché

queste si trovano in società sicuramente più multietniche dove, per quanto anche loro sofferenti

di insorgenze e movimenti razzisti, esiste sicuramente una naturale sensibilità nei confronti di

cittadini non bianchi, perché parte della popolazione stessa da molte generazioni. Mentre in

Italia, storicamente paese di emigrazione, si è solo da poco alle prese con l’arrivo di flussi

migratori da altre regioni del mondo. Ora, viene spontaneo domandarsi, ma è ancora possibile

una situazione di chiusura culturale nel 2019, in un’era di totale globalizzazione?

Apparentemente si. Ma ciò che trovo grave e inaccettabile non è tanto questo stallo culturale.

Resto dell’idea, anche se ovviamente in disaccordo con il mio concetto di società evoluta, che a

casa tua hai il pieno diritto di fare quello che vuoi e credere in ciò che vuoi. Quello che davvero

sconcerta invece e’ che questa piccolezza culturale sia ramificata all’interno di aziende che

servono un mercato internazionale, globale. Nel mondo di oggi unificato da Instagram, Facebook

e Youtube, non si può più pensare come vent’anni fa che siano i marchi e le riviste a dettare legge

dall’alto in fatto di canoni estetici, stile e tendenze. A quel tempo il pubblico metabolizzava

passivamente tali informazioni senza avere una piattaforma dove dibattere. Con la venuta dei

social media e degli smartphones, i settori della comunicazione e dell’abbigliamento hanno

subito una vera e propria inversione di potere. Ora è il consumatore a dettare legge su ciò che

piace ed è di moda. E non solo: ne è creatore in prima persona, vedi il fenomeno “influencers”

alla Chiara Ferragni e simili.

Quindi, più che mai non trovo possibile giustificare questa perpetua totale ignoranza culturale

quando si tratta di approcciare clientele di altri paesi formate da molteplici gruppi etnici. Se poi

aggiungiamo che le popolazioni offese nello specifico fossero fette di mercato fondamentali dalle

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quali queste firme prendono pure ispirazione e ne idolatrano lo stile come nel caso di Gucci e la

cultura hip-hop, allora lo scandalo è ancora più grave perché risultato di una vera blaxploitation.

Ossia uno sfruttamento della cultura afro come superficiale fonte di ispirazione al fine di

guadagno, rimanendone al tempo stesso estraneo e a quanto pare totalmente ignorante al

riguardo. La sensazione che si ha è che la cultura afro piaccia a livello del mondo dello spettacolo,

musica e moda, ma venga sempre apprezzata comunque mantenendo una debita distanza.

Più internazionale è il mercato e maggiori sono le responsabilità etiche e sociali che un’azienda

deve assumere. E non perché lo dico io, ma perché lo dice il pubblico stesso, pronto a rivoltarsi

con la forza letale di uno tsunami denunciando e distruggendo la reputazione dei più grandi

marchi sui social, chiamandoli razzisti e ipocriti, causando buchi da miliardi di dollari di

fatturato. Le recenti cronache sopra citate ne sono testimonianza.

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Caterina De Medici

DELLO STESSO AUTORE

So Much for Global Italian Style: Altro che stile italiano nel mondo:
Italy Loses Face in Fashion Flub l’Italia della moda perde la faccia
Caterina De Medici Caterina De Medici

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SEMPRE SU LA VOCE DI NEW YORK

Petitions in Sussex Fed Agents May Have New Sp


Demand that … Enough Evidence … About
un anno fa • 2 commenti 10 mesi fa • 1 commento un anno f

Now that Queen Elizabeth is The Washington Post Numero


dead, the people of Sussex reported today that Federal speculat
are speaking up: they … agents believe they have … Elizabeth

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Wolfgang Achtner − ⚑
4 anni fa

Antonio,

Tu scrivi della “tua” reazione dimostrando la solita insensibilità degli italiani


perché il punto centrale dell’articolo è la sensibilità degli “altri”, soprattutto
quando la pubblicità di un bene italiano è mirato a quegli altri, a casa loro.

Allora, sarebbe fondamentale tenere in conto i loro usi e costumi per evitare
errori. Fondamentalmente, è anche una questione di rispetto e siccome, oggi, è
facilissimo - soprattutto per una grande azienda informarsi su certe cose - il
non farlo, più ancora della stupidità e dell’arroganza (che questa volta D&G han
pagato a caro presso) - è proprio una questione di mancanza di rispetto.

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Wolfgang Achtner − ⚑
5 anni fa edited

Sono pienamente d’accordo con quanto scritto da Greta Valigi, in n particolare


per quanto concerne una chiusura mentale generalizzata qui in Italia e la
certezza che hanno tutti gli italiani di essere migliori, più furbi, di mangiare
meglio, vestire meglio, ecc., rispetto a chiunque altro nel mondo.

Per quanto concerne le 3 vicende riguardanti la comunicazione e il mondo delle


moda, credo che potrebbe anche aver agito un fattore che ho avuto più volte
modo di vedere in altri campi. Parlo del fatto che in molto aziende non sia
apprezzato chi pensi autonomamente e, quindi, si permette di criticare la
dirigenza anche in casi dove si tratta di evitare errori, e/o grave imbarazzo,
come in questo caso.

Basti ricordare quando l'ex premier Matteo Renzi in importanti eventi


internazionali commerciali o politici si metteva a parlare in inglese
maccheronico - tipo Alberto Sordi e “All right ma non girare a destra”, ne
l’Americano a Roma - e nessuno dei suoi consiglieri aveva il coraggio di
affrontarlo e dirgli che fosse preferibile che parlasse in italiano e poi lasciasse
fare la traduzione ad un interprete perché col suo pessimo inglese oltre a
coprire di ridicolo se stesso, copriva di ridicolo il paese intero. È quindi
possibile che nelle 3 aziende ci sia stato chi avesse previsto che quelle pubblicità
fossero sbagliate e che avrebbero potuto avere conseguenze fortemente negative
ma che abbia preferito tenere la bocca chiusa piuttosto che rischiare l’ira dei
capi.

In base ad esperienze personali credo di poter affermare che, in generale, il


mondo degli affari, della politica, ecc., in Italia genera “yes men”.

Lo so bene perché mentre lavoravo per un’importantissima azienda nel campo


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p p p p
delle telecomunicazioni, essendomi pubblicamente opposto ad una decisione
gravemente errata di un amministratore delegato, sono stato licenziato e poi,
siccome ho insistito - a ragione - mi son trovato coinvolto in una serie di
querele ( successivamente risoltesi in via extra giudiziaria perché l’azienda
sapeva che avevo ragione).

Nei casi riguardanti Dolce e Gabbana, Prada e Gucci, queste aziende sono state
costrette - dal clamore internazionale e dalle perdite economiche - a fare
pubbliche scuse e a cercare di riparare in fretta un’enorme perdita d’immagine,
ma fino a quando nelle aziende italiane non sarà possibile porre in discussione
le decisioni dei capi senza per questo rischiare il posto o la carriera, non sono
per niente certo che queste esperienze negative servano ad evitare errori simili
in futuro.

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A
Alice A. − ⚑
4 anni fa

Brava Greta, mi raccomando resta a New York, qui in Italia stiamo benissimo
senza di te.

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A t i A t ⚑

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