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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI

FACOLTÀ DI ARCHITETTURA
CORSO DI TECNOLOGIE PER LA CONSERVAZIONE E IL RESTAURO DEI BENI
CULTURALI

L’ARTE DI MOSTRARE L’ARTE E LA PERCEZIONE VISIVA


UNO SGUARDO AL LUNGO CAMMINO DELLA MUSEOLOGIA
TRA SCIENZA, SUGGESTIONI ED EMOZIONI

Relatore: Tesi di Laurea di:


Prof. Paolo Sanjust Francesca Anedda
Matr. N. 36396
ANNO ACCADEMICO 2012-2013

L’ARTE DI MOSTRARE L’ARTE E LA PERCEZIONE VISIVA


UNO SGUARDO AL LUNGO CAMMINO DELLA MUSEOLOGIA
TRA SCIENZA E RELIGIONE, SUGGESTIONI ED EMOZIONI
INTRODUZIONE

L'obbiettivo della tesi è di presentare un excursus della comunicazione museale osservando, in


particolare, come le scoperte della percezione visiva abbiano influenzato e rivoluzionato il campo
della museologia.

Per rendere la ricerca più succinta ma il più possibile completa, si è deciso di analizzare solo l'area
italiana, senza rinunciare a considerazioni su riferimenti della museologia italiana ad altri contesti
europei; tale scelta è dettata anche da un particolare interesse per lo studio e la creatività degli
architetti, dei filosofi e dei filologi d'arte del nostro Paese.

Per una migliore comprensione dell'argomento trattato si è valutato opportuno iniziarne


l’esposizione dedicando il primo capitolo alla nascita dell'istituzione museale, e all'immediato
imporsi del problema di comunicazione tra opere strappate all'ambiente per le quali erano state
scelte o realizzate e visitatori impreparati emotivamente al loro godimento. Su questo aspetto, già
nel 1815 Quatremere de Quincy avvertiva che: “Le belle opere dell'arte, quelle che furono prodotte
dal sentimento profondo del loro accordo con la loro destinazione sono quelle che perdono di più
ad essere condannate al ruolo inattivo che le attende nei musei. Per impedirlo ci vorrebbe da parte
degli spettatori uno sforzo di immaginazione, una sensibilità di cui nessuno è capace in quel luogo
dove nessun sentimento accessorio prepara l'anima e la dispone alle affezioni corrispondenti
all'opera”.

Nel secondo capitolo è svolto un richiamo agli argomenti dell'ottica e della percezione visiva, la cui
conoscenza seppure sviluppata nell’ambito di altri studi disciplinari è necessaria per un corretto
approccio alle tecniche di osservazione. Saranno pertanto illustrati in maniera sintetica ma, per
quanto possibile, esaustiva l'anatomia e la fisiologia dell'occhio; mentre si approfondirà
maggiormente la percezione visiva, le cui regole costituiscono un prezioso supporto ai museografi.

Il corpo principale della tesi, affrontato nel terzo capitolo, è formato di tre parti, dedicate a tre
diversi esempi di approccio concettuale alla progettazione degli allestimenti museali.

Sarà analizzato il lavoro del gruppo milanese “BBPR” (Banfi, Barbiano, Peressuti, Rogers), in
particolare il lavoro museografico che il gruppo - diventato BPR dopo la morte di Banfi - effettua al
Castello Sforzesco di Milano. In questo caso l'allestimento si propone il compito di istruire le masse
e, pertanto, lo studio della percezione visiva è finalizzato a semplificare la comprensione della
mostra attraverso l’accurata organizzazione dei percorsi e l’evidenziazione della funzione originaria
delle opere, esposte in modo da suggerire al visitatore la cornice del loro ritrovamento o il loro
utilizzo primigenio.

A seguire, nella seconda parte, si analizzerà il modus operandi, assolutamente minimalista,


dell'architetto Franco Albini. Negli allestimenti di Abini il codice mediale usato è quello
dell'assenza: egli si serve infatti delle leggi dell'ottica per nascondere percettivamente le strutture
espositive. Il risultato è la leggerezza e l'ariosità degli spazi entro i quali le opere fluttuano, libere di
comunicare con la struttura ospitante e col visitatore.
Nella terza parte lo studio riguarderà uno degli architetti considerati tra i più importanti del '900, in
Italia come all'Estero: Carlo Scarpa.
Le opere museografiche di Scarpa presentano un forte codice mediale, il quale s’inserisce
visibilmente all'interno dell'allestimento con lo scopo di ricercare per ogni opera la sistemazione
spaziale che concorra - assieme alla luce - al miglior godimento visivo della stessa.
Gli allestimenti scarpiani sono definiti effimeri in quanto realizzati con il criterio di poter variare
nel tempo per adattarsi costantemente alle nuove e diverse necessità e sensibilità prodotte dai
mutamenti della società.
Nonostante quest’impostazione, ad oggi nessun architetto ha voluto, o potuto, mettere mano agli
allestimenti per renderli più rispondenti ai mutamenti, epocali, della nostra società ed alle nuove
necessità di comunicazione nei musei. Ma l'opera museografica di Carlo Scarpa risulta sempre ricca
di particolari da scoprire e costantemente capace di rispondere alla domanda di empatia tra opera,
ambiente e fruitore.

A conclusione della trattazione della tesi, nel quarto capitolo, saranno analizzati i mutamenti del
periodo a noi contemporaneo, ed i loro influssi sulla comunicazione nell'ambiente museale.
In un'era in cui la conoscenza viaggia sulla rete web, senza frontiere ed accessibile a tutti, le
necessità del fruitore museale sono cambiate profondamente; ciononostante, il suo insopprimibile
bisogno di essere coinvolto fisicamente ed emotivamente nella realtà della mostra rende
irrinunciabile la sua presenza fisica nei luoghi dell’allestimento. Le potenzialità delle nuove
tecnologie e dei nuovi mezzi di comunicazione multimediale, lungi dal diventare un fattore di
demotivazione delle visite, offrono nuove e straordinarie occasioni di arricchimento delle
esposizioni e delle modalità di fruizione. L’integrazione degli strumenti e dei metodi tradizionali
con le nuove possibilità di comunicazione interattiva, che vanno affiancando sempre più la
percezione visiva diretta, consentirà agli allestitori di trasformare le mostre in vere proprie
esperienze a forte capacità di coinvolgimento sia culturale che emotivo.
INDICE

Capitolo primo
NASCITA DELL'ISTITUZIONE MUSEALE pag. 4

1.1 Casa Museo di Sir. John Soane – Primi approcci alla maseografia. pag. 7

Capitolo secondo
PERCEZIONE VISIVA pag. 11

2.1 Anatomia dell'apparato visivo: l'occhio pag. 11


2.2 Fisiologia del processo visivo pag. 12
2.3 Processi psico-neurologici della percezione visiva pag. 14

Capitolo terzo
IL XX SECOLO E L'ARTE DI MOSTRARE L'ARTE pag. 25
3.1 Guppo BPR – Didattica delle masse..................................................................... pag. 24
3.2 Franco Albini – Opere fluttuanti pag. 30
3.2.1 Palazzo Bianco pag. 32
3.2.2 Palazzo Rosso pag. 35
3.3 Carlo Scarpa - Allestimenti effimeri pag. 39
3.3.1 Palazzo Abatellis pag. 43
3.3.2 Gipsoteca Canoviana pag. 46
3.3.3 Castelvecchio pag. 48

Capitolo quarto
LA MUSEOGRAFIA CONTEMPORANEA: INTERATTIVITA' ED
EMOTIVITA'. pag. 52
Capitolo primo
Nascita dell'istituzione museale

<Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! E' questo il motto
dell'illuminismo>1

Il movimento culturale e filosofico dell’illuminismo si sviluppa in tutta Europa – grazie anche agli
scambi epistolari tra pensatori di nazionalità diverse – a partire approssimativamente dal XVIII sec.,
risvegliando le menti di una borghesia che andava assumendo un ruolo sempre più egemonico negli
stati che si aprivano alla rivoluzione industriale, e di nuovo punto di riferimento per le grandi
masse.

Gli uomini “illuminati” vivono alla ricerca del sapere: perché il sapere è la via di liberazione da
ogni forma di schiavitù, fisica e mentale.

In quegli anni viene scritta – e pubblicata non senza problemi – l'Encyclopèdie che, per la prima
volta, diffonde il sapere depurato da tutte le teorie non comprovabili razionalmente.

L'elogio alla mente umana trovò il gradimento anche di famiglie di regnanti e di esponenti dell’alto
clero, che evidentemente vedevano nella nuova figura del “principe illuminato”, che guida il suo
popolo con ragione illuminata, la conferma del loro ruolo.

Sotto questa nuova spinta culturale, che accresceva il desiderio di conoscenza, e grazie appunto
all'iniziativa di alcuni “principi illuminati”, nacquero le prime istituzioni museali pubbliche.
Queste ebbero innanzitutto quelle funzioni che ancora oggi conosciamo: di conservazione dei beni
di valore storico; di didattica ai fini di conoscenza e diletto; e, con valenza simbolica, di
celebrazione della gloria patria, come poi vedremo.

I primi musei vengono aperti, come detto, da “sovrani illuminati” che aprono le collezioni reali al
pubblico, usando per esporre principi razionalisti di ordine e classificazione mai usati prima.

1 Kant Immanuel, “Risposta alla domanda che cos'è l'Illuminismo”, 1784.


Si inizia quindi a definire una tipologia
architettonica per il museo: si pensa ad
un'architettura che diventi cornice espositiva
dell'opera, per l’influenza che ebbe in questa
prima fase il collezionismo.

L'idea di “museo-palazzo” ottocentesca deriva


da Jean Nicholas Louis Dourand (1760-1834),
architetto e teorico dell'architettura francese.

Dourand elabora un progetto per il museo ideale che si sviluppa su una vasta area quadrangolare
con impianto centrale a croce greca; si organizza lo spazio secondo uno schema di sale concatenate
attorno a corti centrali e ad una rotonda baricentrica di snodo.

La funzione del Museo agli albori della sua istituzione è puramente didattica: le esposizioni sono
dei grandi libri di studio tridimensionali, reali; esse vengono organizzate come biblioteche proprio
perché si propongono come nuova istituzione del sapere e dello studio.

A frequentare questi musei erano quindi per lo più uomini di cultura, studiosi ed appassionati.

La percezione visiva non è contemplata nell'allestimento museale: i quadri vengono appesi


direttamente ai muri; manca totalmente un codice mediale; le sale nel loro arredamento tradiscono
ancora il legame e il gusto del collezionismo, con le loro pareti porpora e lussuosi divani posti a
ristoro del visitatore, mostrando le opere come nei salotti imperiali o clericali dove fino ad allora
erano state custodite.

In Francia, pur se ritenuta la culla dell'Illuminismo, il fenomeno dell'apertura dei musei si fa


attendere.

Non mancano di sicuro le iniziative, come l'esposizione pubblica delle opere reali nel 1753 al Palaix
de Luxembourg, che durò 6 anni; o l'approvazione da parte del re Luigi XIV del progetto di riunire
le opere delle diverse residenze reali, secondo principi razionali e coerenti, nella Galleria del
Louvre.

Ma nell'ambiente pre-rivoluzionario la fantasia e gli sforzi degli intellettuali e della borghesia erano
evidentemente rivolti a più spinose faccende, nei decenni che precedettero la rivoluzione francese
che scoppierà nel 1789.

Per l'inaugurazione del Louvre i francesi dovettero aspettare fino al 10 Agosto 1793.

Il primo progetto di D'Auviller – commissionato da Luigi XIV – fu stravolto nel piano ideologico:
da museo delle opere reali a “Musèe François”, il primo Museo Nazionale.

L'acquisizione dei beni esposti avviene prima dell'apertura del museo, attraverso le confische agli
ecclesiastici e agli aristocratici ed alla statalizzazione di tutti i beni della Corona.

L'apertura del museo si figura quindi come restituzione al popolo, legittimo proprietario, del suo
patrimonio nazionale. Le opere “statalizzate” vengono affrancate dall'arroganza del potere e prese
in custodia dallo Stato che le tutela e le pubblicizza.

Compito importate, quanto nuovo, del museo è di formare le nuove generazioni e informare le
coeve.

Ovviamente questa impostazione dilata enormemente l'afflusso di visitatori e la nuova domanda,


accompagnata dai mutamenti sociali della Francia post-rivoluzionaria, porta ad un altro importante
passo verso la concezione modera di museo:
- vengono estesi gli orari di apertura al pubblico;
- i cataloghi, per quanto curati, vengono stampati a prezzi modici – il catalogo del Louvre
descriveva brevemente ben 600 opere;
- era data per la prima volta la possibilità di effettuare visite guidate da un esperto.

Altro grande mutamento nel concepire un museo lo attua Napoleone Bonaparte.

Grande amante dell'arte, durante le sue campagne in giro per il mondo effettuava sistematiche
spoliazioni di opere d'arte dai luoghi di culto e dalle collezioni private, facendole poi esporre nei
musei dei francesi come il Louvre e il Museèe des Monuments François.

La varietà, la rarità e la qualità delle opere raccolte richiamò masse mai viste di visitatori che
esigevano di capire e sentire le emozioni raccontate o lette su un libro. Iniziò così a nascere il seme
dell'idea di un intermediario efficace tra opera e fruitore.

“Le belle opere dell'arte, quelle che furono prodotte dal sentimento profondo del loro accordo con
la loro destinazione sono quelle che perdono di più ad essere condannate al ruolo inattivo che le
attende nei musei. Per impedirlo ci vorrebbe da parte degli spettatori uno sforzo di immaginazione,
una sensibilità di cui nessuno è capace in quel luogo dove nessun sentimento accessorio prepara
l'anima e la dispone alle affezioni corrispondenti all'opera”.2

Ad affermare ciò fu Quatremere de Quincy nel 1815, il quale sembra aver già identificato, alla
nascita del museo, il suo limite principale: non riuscire a far comunicare le opere contenute al suo
interno.

1.1 Casa Museo di Sir. John Soane – Primi approcci alla museografia

Altra figura contemporanea a Q. de Quincy, che si pone il problema di ricreare il filo empatico tra
opera e fruitore, è Sir. John Soane. (1753-1837).

Architetto e appassionato dell'arte e di antichità, dal 1792 al 1833 (anno in cui cede la casa con
l'intera collezione allo Stato, a condizione che dopo la sua morte sarebbe diventata un museo) lavora
agli edifici dei civici n. 12, 13 e 14 di Lincoln's Inn Fields a Londra per trasformarli negli esterni
come negli spazi interni.

Nel 1806 viene nominato professore di architettura alla Royal Accademy, ed è in questo momento
che decide di organizzare la sua collezione, in modo da consentire ai suoi studenti di esaminare dal

2 Citato in “Comunicare nel museo”, Antinucci Francesco, ed. Laterza, 2004, pag.45.
vivo molte opere trattate a lezione.

Per fare ciò non era sufficiente per Soane una soluzione razionalistica che sistemasse le opere in
maniera didattica (come biblioteche, prassi del museo a lui contemporaneo); la sua intenzione era,
oltre che didattica, quella di stupire e ricreare, attraverso la percezione visiva, l'empatia tra opera e
spettatore.
“Lo spazio è talmente piccolo che siete costretti a
stare in fila indiana, ma quello che vedrete è da non
crederci, da togliere il fiato: intorno a voi non avete
altro che reperti archeologici, vasi, capitelli e colonne
di misure mastodontiche, copie di statue greche, busti,
tantissimi quadri, così tanti da sembrare libri!

E pagina dopo pagina potete sfogliare opere di


William Turner, Giovanni Piranesi e molti altri.

Sembra di vedere il celebre dipinto di Giovanni Paolo


Pannini, diventato l'emblema dell'amore per l'arte e
l'archeologia a metà del XVIII secolo.

I corridoi che collegano la libreria, dalla sala da


pranzo allo studio, sono letteralmente tempestati di
oggetti artistici alle pareti, agli stipiti delle porte, ai
soffitti, ovunque. […]

Il piano terra non poteva essere altro che una sorta di


cripta: un'atmosfera cupa e buia invade lo spettatore
che prova la sensazione di essere in camere mortuarie
o catacombe. L'unica fonte di luce viene dalla cupola
in vetro che sovrasta la struttura, illuminando le sale
totalmente occupate dall'immenso sarcofago di Seti I.
[…].
Continuando il tour al piano di sopra si passa per
pareti piene di nicchie con teschi, vasi funerari, lapidi,
tombe e scheletri. La copia dell'Apollo del Belvedere
indica la strada verso i piani superiori, da lì è
possibile ammirare la Venezia del Canaletto e altre
opere considerate tra le migliori del Canaletto”3

Quanto descritto è la sensazione di un visitatore che, come abbiamo visto, rimane stupito dalla
scenografia e dalla potenza empatica degli ambienti.

La tecnica espositiva di Soane deriva da tensioni storicistiche gotiche, barocche e neoclassiche che
pervadono l'animo dell'architetto.

Oggi il modello da lui usato verrebbe definito “modello della ridondanza”: tecnica espositiva basata
sull'equilibrio tra codice oggettuale, codice sfondo e codice mediale, che crea una situazione di
grande scenograficità, superando la percezione lineare o puntuale delle singole opere; la percezione
critica dell'opera si dissolve nel complesso scenografico.

Questo genere di riflessione è propria però del XX secolo, che andrò ad analizzare successivamente;
cerchiamo invece di capire le influenze culturali e storiche che hanno dato il via a questo nuovo
modo di concepire l'esposizione delle opere d'arte nel museo.

Il linguaggio utilizzato da Soane nell'esposizione è quello neoclassico; un neoclassicismo piuttosto


“noir” se andiamo ad osservare il piano terra col sarcofago di Seti I, o il modello della tomba della
moglie in sala da pranzo, oltre ai numerosi reperti funebri collezionati.

Penso che quest’impostazione non sia tanto un'ossessione del trapasso, quanto un forte legame coi
“fantasmi” del passato, che spesso comunicano con noi più di quanto non facciano personaggi o
opere a noi contemporanei.

Questo verrebbe spiegato anche dalla collocazione di numerosi specchi che pongono il visitatore

3 < http://www.arsetfuror.com/r14Notizie13s.htm >


materialmente all'interno della collezione, come a intendere che egli è parte viva e reale di quella
cultura.

Enorme impatto sul visitatore è dato inoltre dal gioco di ombre che enfatizza l'opera ricoprendola di
un'aura antica e misteriosa e riempiendola di pathos.

Questo aspetto fu studiato a lungo da Soane, fin da giovane quando, grazie ad una borsa di studio,
poté visitare l'Italia e le opere classiche; le sue ricerche lo portarono a capire che gli spazi creati
dalla luce sono insiemi complessi di figure e linee geometriche, e che essi possono essere
interpretati in maniera positiva, come parti esistenti o mancanti di un'opera – derivazione dell'amore
e dello studio per i ruderi.

Al linguaggio classico si aggiunge la spiritualità tipica gotica: luci che dall'alto bucano il buio per
svelare opere sacre – questa volta sacre non perché legate ad un culto, bensì perché legate alla
storia.

L'incredibile movimento e la complessità percettiva sono invece frutto della spazialità barocca.
Tutti questi fattori fanno sì che: “la luce di Soane non è un dato di fatto, ma un obbiettivo raggiunto
a fatica; non è una luce divina, ma terrena, consistente; che non vince sul buio ma genera
4
un'estetica della penombra”

4 Caliari Pier Federico, John Soane e il “Modello della Ridondanza”, lezioni dell’Arch. Prof. Sanjust Paolo.
Capitolo secondo
La percezione visiva

L'argomento della percezione visiva ha bisogno, per essere compreso, di una breve premessa
sull'anatomia dell'occhio, la sua fisiologia e i meccanismi neurologici che giocano un ruolo
essenziale nella trattazione di questa tesi.

2.1 Anatomia dell'apparato visivo: l'occhio.


Il bulbo oculare presenta nella sua parte esterna una
membrana trasparente detta cornea, la quale ha una
convessità maggiore rispetto alla sclera, ossia lo
strato più esterno del bulbo, di colore bianco.

Nell'essere umano la cornea è particolarmente


visibile e ciò comporta l'enorme comunicabilità del
nostro sguardo.

All'interno, dietro la cornea, troviamo un anello


colorato definito iride, anch'esso convesso verso
l'esterno e dotato di un foro centrale, la pupilla.

Quest'apertura ha la possibilità di mutare il suo diametro grazie ai muscoli posti intorno ad essa che
ne regolano la dilatazione o la contrazione in modo tale da rendere l'apporto di luce all'occhio
sempre ottimale nelle diverse condizioni ambientali.

Posteriormente alla pupilla è posto il cristallino, ossia la lente biconvessa asimmetrica che ci
permette di mettere a fuoco le immagini.

Tra cornea e cristallino lo spazio è riempito da un liquido detto umor acqueo, mentre la sostanza
gelatinosa che occupa la massima parte del volume dell'occhio viene definita umor vitreo.

Lo strato più interno dell'occhio è la retina, formata da cellule e fibre nervose che hanno funzioni
diverse e permettono la percezione dello stimolo luminoso e la sua trasformazione in impulso
elettrico da inviare al cervello per mezzo del nervo ottico.

Al centro della retina si trova una macchia giallastra - macula lutea - che si deprime in un punto di
alcune decimi di millimetri; tale punto è definito fovea ed è la regione nella quale la maglia retinica
si infittisce e le cellule sensibili sono più numerose permettendo in quest'area una migliore
risoluzione dell'immagine: è questo punto infatti che usiamo per focalizzare la nostra particolare
attenzione durante, ad esempio, la lettura.

La retina è separata dalla sclera da uno strato tenero e ricchissimo di pigmenti, la coroide, il quale
ha il compito di assorbire la luce non assorbita dalla retina, migliorando il contrasto delle immagini.

2.2 Fisiologia del processo visivo.

I raggi di luce che arrivano all'occhio superano lo strato trasparente della cornea ed entrano nella
pupilla la quale, come si è prima accennato, ha la possibilità di modulare il proprio diametro in base
alle condizioni di luminosità dell'ambiente che lo circonda, con un meccanismo utilizzato anche per
l'obbiettivo di una macchina fotografica.

Questo movimento può essere indotto però anche da stati emotivi: infatti davanti ad immagini che
suscitano in noi paura le pupille tendono a restringersi, davanti invece ad immagini che destano in
noi particolare interesse si assiste ad una dilatazione dei fori delle iridi.

I muscoli di cui sopra si è parlato non sono gli unici ad intervenire nel processo della visione:
l'occhio è dotato anche di muscoli extra oculari – collegati alla parte posteriore del bulbo – che
permettono il movimento oculare dandoci quindi la possibilità di osservare diverse porzioni di
spazio rimanendo immobili nel corpo.

E’ opportuno precisare “nel corpo”, in quanto i nostri occhi invece non smettono mai di muoversi.
Anche quando non sono interessati da movimenti volontari essi continuano a tremare.
Recentemente è stata capita la funzione di tale moto involontario: esso ci consente di mettere a
fuoco un'immagine quando la si fissa, facendo reagire ad ogni micro spostamento dell'occhio cellule
nervose diverse, tenendo così l'immagine sempre in movimento. Se si provasse infatti a fermare
artificialmente questo tremore il soggetto vedrebbe gradualmente dissolversi l'immagine
dell'oggetto fissato.

Esternamente al bulbo oculare troviamo degli altri muscoli interessati nel processo visivo: i muscoli
ciliari. Essi modificano la curvatura del cristallino permettendo, con la contrazione, la visione da
vicino e, con il rilassamento, la visione da lontano.
Una volta che i raggi luminosi hanno superato la cornea e sono entrati nel foro della pupilla,
passano attraverso il cristallino il quale, come ogni lente biconvessa, restituisce un'immagine
capovolta e rovesciata che si imprime sulla retina.

La retina è forse il punto più complesso della fisiologia dell'occhio umano, in quanto è qui che la
luce produce impulsi elettrici che generano informazioni.

Questa parte è costituita dai fotorecettori i quali sono legati a cellule bipolari che fungono da ponte
con le cellule gangliari, le cellule che vanno poi a staccarsi dal bulbo oculare per formare il nervo
ottico.

Lo strato di fotorecettori è formato da cellule di due tipi diversi: coni e bastoncelli.

I bastoncelli assorbono facilmente la luce, in conseguenza sono deputati alla visione notturna e si
attivano solo in condizioni di scarsa illuminazione; si trovano in numero maggiore nelle zone più
periferiche della fovea.

Nella zona foveale centrale invece troviamo concentrati i coni, i quali assorbono meno la luce
rispetto ai bastoncelli e permettono la visione diurna.

In ogni occhio umano sono presenti all'incirca 6 milioni di coni e 120 milioni di bastoncelli, ciò ci
permette di vedere ottimamente nelle ore diurne, quando il grande apporto di luce permette
l'attivazione dei coni, e discretamente nelle ore notturne, quando la scarsità luminosa fa azionare i
bastoncelli. Nelle ore di alba o tramonto invece l'apporto di luce non è sufficiente ad azionare i coni
e troppo abbondante per la stimolazione dei bastoncelli: la nostra visione così peggiora.

Anche la percezione cromatica è data da queste due classi di fotorecettori: i bastoncelli non
recepiscono colori, ma le fonti di luce; infatti quando le radiazioni luminose anche di diversa
lunghezza d'onda vanno a stimolare questi fotorecettori, essi rispondono sempre nello stesso modo,
accentuando la risposta nelle radiazioni che corrispondono ai colori blu-verdi.
I coni sono dotati di pigmenti colorati e recepiscono quindi i colori, non tutti allo stesso modo:
alcuni reagiscono alle tonalità rosso-arancio, altri a quelle verdi e altri ancora a quelle blu-violetto.

La luce che è arrivata fino ai fotorecettori viene poi assorbita dalla coroide e ciò che rimane di essa
sono solo delle informazioni, frazionarie tra l'altro, tradotte in impulso nelle cellule bipolari e
trasmesse a quelle gangliari che trasformeranno l'impulso in informazione neurale.

2.3 Processi psico-neurologici della percezione visiva.

“L'occhio non vede cose, ma figure di cose che significano altre cose”5

Fin dai tempi più antichi gli esseri umani hanno sentito la necessità di rappresentare graficamente la
realtà per esigenze diverse: decorazione, comunicazione, rituali, affermazione sociale o moda, e
così via.

Quanto notiamo in tali rappresentazioni grafiche è l'essenzialità: la realtà perde i dettagli non
considerati importanti e, al contempo, la ridondanza, poiché i dettagli eliminati vengono sostituiti
dall'accentuazione – o anche dalla creazione – di altri, questa volta simbolici.

Ciò dimostra come vi sia una differenza tra realtà oggettuale e realtà individuale e che vi sia un
passaggio chiave che porta dall'immagine stampata sulla retina fino alla zona neurale dove viene
elaborata l'informazione. Questo passaggio viene definito percezione.

Inutile dire quanto questo argomento abbia stuzzicato da sempre le menti più illuminate della storia
scientifica: per Pitagora – e poi per il suo seguace Euclide – la realtà era percepibile grazie a raggi
che escono dai nostri occhi; Democrito, al contrario, sosteneva che fossero le immagini, dette
eidola, ad entrare nell'occhio; Dante credeva che la percezione fosse legata all'ingresso di raggi
luminosi attraverso la pupilla, i quali avrebbero subito la conversione in immagini nello spazio
interno all'occhio.

Fu Johannes Kepler (1571-1630) a comprendere il ruolo che il nostro cervello gioca nella visione.

5 Italo Calvino, “Le città invisibili”, Letterature Italiana Einaudi, 1972, pag.5 .
Durante gli studi sull'ottica che lo occuparono dal 1604 al 1611, lo scienziato studiò le lenti
biconvesse e il funzionamento della camera oscura; i suoi ragionamenti lo portarono a supporre che
l'immagine proiettata sulla retina, capovolta e rovesciata, non venisse raddrizzata in alcuno stadio
nel processo visivo, e che fosse il nostro intelletto a percepirlo correttamente.

Quindi l'immagine arriva al nostro cervello capovolta, ed è la nostra esperienza che ce la fa


percepire come realtà.

Tale percezione mentale è stata poi confermata con un esperimento, semplice da mettere in atto ma
con un risultato di difficile spiegazione: un soggetto deve portare degli occhiali prismatici (che
ruotano l'immagine di 180° rispetto alla realtà) ininterrottamente per qualche giorno. Inizialmente
egli si sentirà confuso, avrà la sensazione di nausea e si orienterà male nello spazio; dopo qualche
giorno di uso costante degli occhiali queste sensazioni spariranno e lui percepirà l'immagine
capovolta dai prismi come corrispondente alla realtà. Il soggetto accuserà gli stessi malesseri ed il
medesimo senso di disorientamento anche quando gli occhiali prismatici verranno tolti.

Pochi anni dopo Keplero, Christoph Sheimer disegnò la struttura dell'occhio così come oggi la
conosciamo.

Un grande apporto alle scoperte sulla percezione visiva viene dato nel XX secolo dalla psicologia,
scienza che va a frugare, non nel cervello, ma nella mente umana.

Nella prima metà del XX secolo infatti si sviluppa in Germania una corrente teorica dal nome
“Gèstalt” – il cui significato è “forma” – che si occupa principalmente di studiare la percezione
visiva e i meccanismi grazie ai quali i processi interni danno forma al mondo esterno.

La nascita di questo movimento si fa risalire al 1912 quando Max Wertheimer (psicologo ceco;
1880/1943) scrisse un articolo in cui riqualificava il “percepire” come processo attivo e non
passivo, come si tendeva a ritenere fino ad allora; questa attività non era dettata da casualità, ma da
principi organizzativi generali e ben determinabili.

Si distingue quindi tra campo visivo, ossia quella porzione di immagine bidimensionale impressa
nella retina grazie ai suoi fotorecettori, e il mondo visivo, ossia la ricostruzione fenomenica
tridimensionale che il nostro intelletto crea del mondo reale.

Secondo la teoria della Gèstalt la percezione si configura come un insieme unitario e non come
l'insieme di più parti isolate; essa canonizza una serie di leggi percettive.
Queste leggi analizzano l'organizzazione figurale attraverso la separazione, totalmente inconscia, di
una figura dallo sfondo (ciò può accadere per differenza cromatica, materica o di trama, di
contorno, etc. ).

Wetheimer identifica delle leggi di unificazione figurale sulle quali è basato l'atto percettivo:
- VICINANZA: si tende a percepire insieme, come figura, le
parti che tra loro sono più vicine; quanto minore è la distanza
tra le parti tanto maggiore è la percezione di unitarietà.

- SOMIGLIANZA: si tende a percepire


unite le parti che tra loro sono
somiglianti per forma, colore e
grandezza.

- CONTINUITA' DI DIREZIONE: se viene dato un sistema di


figure che seguono traiettorie diverse e si intersecano, si
tenderà ad unificare in un'entità autonoma gli elementi che
seguono la stessa traiettoria.

- CHIUSURA: quando una porzione di campo visivo risulta


racchiusa da un contorno, essa viene percepita come
separata dal resto. Inoltre, se la linea di contorno risulta
spezzata, l'occhio umano tende a completarla.
- BUONA FORMA o SEMPLICITA': si percepiscono prima
e meglio le forme più regolari e semplici, nonché le più
simmetriche.

- DESTINO COMUNE: in un'immagine complessa gli


elementi che seguono la stessa direzione o lo stesso
orientamento vengono percepiti uniti secondo forme più
semplici ed equilibrate.

- ESPERIENZA PASSATA: se le varie figure puntuali


fanno parte di una configurazione a noi familiare,
tenderemo a percepirle organizzate nell'unità che noi
conosciamo meglio.

- SOVRAPPOSIZIONE: le forme
collocate sopra altre vengono percepite
come figure su uno sfondo.

- LEGGE DELL'AREA OCCUPATA:


l'area delimitata che occupa una
dimensione minore viene percepita come
figura, quella con dimensioni maggiori,
invece, come sfondo.

Ogni configurazione visiva genera delle forze percettive che segnano il passaggio dell'elaborazione
dell'immagine dal campo visivo al mondo visivo, sotto forma di stimolazioni del sistema nervoso.
Tali forze son determinate dal mondo interiore di chi osserva.
A questo punto si può comprendere che realtà oggettiva e mondo interno non coincidono, seppure
noi abbiamo l'illusione che sia invece così.

Questo si può capire osservando come la nostra mente crei forme inesistenti nella realtà.
Dei semplici segmenti posti casualmente
su un piano possono essere associati e
percepiti in forme a noi familiari; in
questo caso percepiamo l'immagine di un
cerchio e quella di un quadrato, pur non
esistendo graficamente né l'uno né l'altro.
Le linee vengono così percepite in “zone
organizzate”6, in blocchi che mantengono
un significato autonomo.

All'esatto contrario può capitare di trovarsi


di fronte ad un oggetto o immagine che pur
essendo realmente esistente noi non
percepiamo, se non con uno sforzo di
concentrazione.
Questo può accadere ad esempio in
un'immagine satura di dettagli che si
perdono nell'insieme.
Per percepire un particolare è necessario
metterlo a fuoco con entrambi gli occhi fino
a quando la sua immagine non ricade sulle
zone foveali, dove la fitta maglia retinica e
l'abbondanza di fotorecettori permettono un
ottima visione del dettaglio selezionato.

6 Pierantoni Ruggero, “L'occhio e l'idea – Fisiologia e Storia della visione”, ed. Bollati Boringhieri, 1981, pag.
166
Capiamo allora che l'attenzione è selettiva, in quanto si sceglie quale dettaglio focalizzare;
l'attenzione è inoltre condizionata dall'intensità che si pone nell'osservazione: più piccolo è il
particolare da cogliere più intenso dovrà essere lo sforzo di attenzione.

Per comprendere quali meccanismi vengano messi in gioco per il riconoscimento e la decodifica
delle figure sono state formulate diverse teorie, la più accreditata tra queste è quella di Richard
Gregory (1923-2010) che nel 1970 formula la teoria del “top-down processing”.

Gregory asserisce che, contrariamente a quanto sosteneva il suo collega J.J. Gibson (1907-1979)
nella teoria del “bottom-up processing” formulata nel 1966, la percezione non va univocamente
dalla retina al cervello, ma al contrario il cervello fa delle deduzioni su ciò che l'occhio vede e le
riconosce grazie all'esperienza.

Solitamente tale deduzione è corretta, ma talvolta si creano delle confusioni.

Il nostro cervello, quando si trova di fronte ad un'immagine


ambigua, rende due o N ipotesi diverse in base alle
configurazioni grafiche che ritiene possibili.

Ne è un esempio il cubo di Necker7. La semplice proiezione


isometrica del solido ha linee che possono appartenere a piani
diversi, per cui se si fissano gli incroci del cubo si possono
avere due diverse soluzioni volumetriche possibili.

Focalizzando l'attenzione in un suo incrocio infatti vedremo la


faccia del cubo, che per noi era percepita come la posteriore,
venire improvvisamente avanti e diventare la frontale, o
viceversa.

L'immagine è instabile e continua ad oscillare tra le due


diverse ipotesi; per arrivare ad una forma stabile e

7 Illusione scoperta da Louis Albert Necker - cristallografo svizzero (1786-1861) – nel 1832.
inequivocabile bisognerà aggiungere dei particolari grafici che
ne precisino la geometria.

Per la trattazione di questa tesi è quindi bene sottolineare che se l'aggiunta di dettagli tende a
rendere l'immagine indubbia e stabile, la sottrazione di questi permette al contrario una notevole
libertà nelle interpretazioni, sempre possibili ma mai reali. Interpretazioni effimere.

Un altro punto interessante da trattare è la visione dei contorni e della luminosità.

Come precedentemente accennato lo strato intermedio tra sclera e retina, la coroide, assorbe le
radiazioni luminose; l'informazione riguardante la quantità di luce di un ambiente o di un'area
limitata dunque è la prima ad essere filtrata, e non arriverà mai al cervello. Ciò che il nostro cervello
rielabora invece è la differenza di luminosità tra superfici adiacenti. Le linee su uno sfondo vengono
percepite immediatamente come immagini e anche se discontinue vengono associate dal nostro
cervello e riorganizzate per formare figure a noi familiari.

Anche quando il contorno non è graficamente segnato il nostro sistema di percezione cerca di
riconosce figure estese, semplici, omogenee e chiuse per mezzo del contrasto, ossia un parametro
che misura la variazione nello spazio della luminanza8.

La percezione delle immagini, la loro luminosità e intensità di colore sono quindi solo
rielaborazioni della nostra mente e non valori reali, essi dipendono dalla differenza tra due superfici
e non dalle loro proprie caratteristiche. A dimostrazione di quanto detto possiamo osservare un
effetto ottico conosciuto come “Bande di Mach”, dal nome del fisico austriaco che scoprì tale gioco
percettivo.

8 Grandezza fotometrica definita come il rapporto tra l'intensità luminosa emessa da una
sorgente verso una superficie normale alla direzione del flusso e l'area della superficie stessa. Da www.wikipedia.it,
voce “Luminanza”
Abbiamo qui una serie di bande di diverse
tonalità di grigio. Ogni banda è colorata
uniformemente, ma noi percepiamo una linea
più scura tra essa e la banda adiacente più
chiara e una linea più chiara tra essa e la
banda adiacente più scura.
Tale linea di demarcazione, per noi reale ed
esistente, è assolutamente effimera: basterà
difatti coprire la striscia al suo fianco per
vederla immediatamente svanire.

In quest'altra immagine invece possiamo


notare che i due rettangolini più piccoli
appaiono di differente colore: quello su
sfondo arancio e attiguo alla banda gialla
risulta scuro rispetto a quello posto su sfondo
celeste e affiancato alla banda di color blu
scuro. La differenza cromatica tra queste due
aree è esclusivamente percettiva. Anche in
questo caso basterebbe nascondere le bande
colorate per rendersi conto dell'identicità
cromatica dei due rettangoli.

La comprensione dei meccanismi fisiologici che pongono in essere tali illusioni visive è ancora
oggi oggetto di studi; la teoria più accreditata sostiene che alcune cellule neurali si attivino, mentre
altre si inibiscono nell'analisi della luminanza dell'area focalizzata e da questi impulsi on-off si
genera la sensazione del contrasto.
Capitolo Terzo
Il XX secolo e l'arte di mostrare l'arte

Il XX secolo si apre con i due conflitti mondiali che andranno a mutare radicalmente il tessuto
sociale dei paesi colpiti.

Grandi mutamenti erano già avvenuti nei secoli precedenti, dalla prima rivoluzione industriale
(1760/1830) in poi, che avevano portato ad un boom demografico insieme al miglioramento delle
condizioni di benessere per una fetta sempre più ampia della popolazione.

La borghesia produttiva prende il primato sociale a discapito dell'aristocrazia; un numero sempre


più alto di persone può usufruire di beni e servizi che fino ad allora gli erano preclusi.

Il benessere, frutto dei nuovi traguardi della scienza e del sapere, spinge ad un aumento
dell'alfabetizzazione e alla consapevolezza della necessità di accrescere le proprie conoscenze.
Inizia inoltre la lenta emancipazione delle donne che, con l'ingresso nelle nuove realtà lavorative,
acquisiscono peso sociale ed economico e possono affiancare l'uomo nel compito antico di “portare
il pane a casa”. Con il pensiero di Karl Marx, la nuova “classe operaia” inizia lentamente a
rivendicare i propri diritti ed un suo ruolo nella società.

Questa società, in ebollizione per i mutamenti che stava subendo, viene investita, dal 1914 al 1918,
prima, e dal 1939 al 1945, poi, dalle due guerre più catastrofiche e terribili della storia dell'umanità.
In quest’arco temporale un numero enorme di giovani appartenenti a due generazioni consecutive fu
chiamato alle armi e coinvolto in un'esperienza collettiva fortissima: da soldati essi imparano a
vivere in un sistema gerarchico rigorosamente strutturato, basato sulla disciplina e che impone la
responsabilità del comando e l’obbligo dell’obbedienza.

Il sacrificio è immane e, per la prima volta nella storia, le persone che hanno vissuto
quest’esperienza collettiva sono consapevoli del suo valore.

Al ritorno dalla grande guerra, i reduci rivendicano i giusti riconoscimenti per il servizio svolto per
la patria e, formati ad agire in gruppo in organizzazione gerarchica, iniziano a farlo in modo
collettivo.

Consci del valore del loro sacrificio vogliono essere parte attiva della nuova politica; sempre più
persone si iscrivono a partiti e sindacati e iniziano a nascere le manifestazioni pubbliche come
espressione di partecipazione.

La cultura e lo studio sembrano diventare gli strumenti per sovvertire l'ordine del mondo;
l'istruzione si dirama fino ai ceti più poveri, diventando finalmente accessibile a tutti i livelli sociali.
Lo studio diventa un diritto inalienabile nella nuova società.

Queste folle affamate di sapere vanno dunque sfamate; questo avviene col potenziamento di tutte le
istituzioni del sapere: scuole, biblioteche e, ovviamente, musei.

Con riferimento alla fruizione dei beni culturali, il problema dell'incomunicabilità delle opere
all'interno dei musei, posto da Q. de Quincy nel 1815 quando il numero di visitatori era limitato e
rappresentato da elitè di studiosi e appassionati, nel XX secolo si avvia a diventare una vera e
propria urgenza, per l’accresciuta domanda di cultura proveniente da una sempre più larga parte
della popolazione.
Nei primi anni '30 del 1900 vediamo comparire in Italia il primo germe di quella che diventerà la
museografia “moderna”, sviluppatasi nelle mostre temporanee della Quadriennale di Roma, della
Triennale di Milano o della Biennale di Venezia.

Durante il ventennio fascista però i musei italiani riprendono stili falso-ottocenteschi austeri, freddi
e sicuramente non comunicativi.

Dopo il grande conflitto mondiale gli italiani si trovano di fronte ad una nazione distrutta, nelle città
come negli animi: sorge la necessità di ricercare una nuova identità come popolo e di ricostruire gli
edifici umiliati dai bombardamenti.

Tali riflessioni non potevano che coinvolgere pienamente gli architetti italiani, chiamati a ridare
dignità alle città straziate dalla guerra: il ventennio 1945-1965 sarà infatti caratterizzato dal rispetto
e dalla valorizzazione delle preesistenze storiche e dal dialogo del “nuovo” col “vecchio”.

“Avevamo fatto l'abitudine a musei concepiti architettonicamente su scala monumentale, un


involucro nel quale l'opera d'arte veniva successivamente inserita; ma ora questo concetto ha
subito una trasformazione totale: le opere d'arte stesse creano l'architettura, determinano gli spazi,
prescrivendo le proporzioni delle pareti.”9

Il nuovo modo di organizzare i musei si focalizza sull'opera da esporre – diventata come abbiamo
detto simbolo della nostra cultura e materia di studio per costruire il presente – e sull'inserimento
armonico dell'architettura moderna in quella storica.

Grande innovazione nella museografia è l'introduzione di un codice mediale – apparente o nascosto


– col quale si dispongono gli spazi, si organizzano i percorsi espositivi e si studiano gli elementi
ostensivi così che questi concorrano alla miglior percezione visiva delle opere.

Mentre nel resto d'Europa e negli USA la “maniera” espositiva era dettata dalle ferree regole
razionaliste del Movimento Moderno Internazionale – il quale prediligeva spazi espositivi neutri in

9 Zevi Bruno, 1958; citato in “Carlo Scarpa – I musei” di Luciana Miotto, ed. Marsilio 2006.
cui l'opera è l'unico – in Italia tale rigidità viene mitigata dalla tradizione del Bel Paese e spesso
sostituita dall'estro e dalle competenze dell'architetto che modifica le regole in base alle diverse
esigenze espositive – e costruttive – trasformando l'opera tecnica in opera artistica.

3.1 Gruppo BPR – Didattica delle masse

Durante le due guerre mondiali un gruppo di architetti – G.L. Banfi (1910-45), L. Barbiano di
Belgiojoso (1908-2004), E. Peressuti (1908-76) e E.N. Rogers (1906-69) – formò il gruppo BBPR
(1932) che si impegnò a svecchiare la progettazione architettonica in Italia, cercando di unire il
Movimento Moderno Internazionale – che poneva come obbiettivo primario dell'architettura la
funzionalità – alle tradizioni locali italiane.

Questa necessità si fa impellente nel secondo dopoguerra, quando urge trovare delle soluzioni
nuove che mettano in rapporto le preesistenze, dilaniate dai bombardamenti, con le nuove
architetture, ponendo sempre al centro dei propri ragionamenti la “memoria”, che mai come allora
prese una così forte importanza sociale.

Nel 1956, il Gruppo BPR (G.L. Banfi muore prima di poterci lavorare, a soli 35 anni) effettua nel
Castello Sforzesco di Milano il restauro delle zone danneggiate e risistema le collezioni contenute al
suo interno.

La prima riflessione del BPR fu che l'insieme della struttura con le sue fortificazioni massicce, le
torri, il fossato coi ponti, la composizione dei tre cortili, si offriva perfetta per comunicare
immediatamente pathos e poesia.

Altra necessità fu quella di creare un luogo adatto alla didattica delle masse – in contrapposizione
alla severità austera ed esclusiva della Pinacoteca di Brera – che rispondesse alle esigenze del
pubblico, o che comunque ne stimolasse emotività, spettacolarità, grandiosità e fantasia.

“Partendo da tale impostazione teorica, il nostro compito si presentava altrettanto appassionante


quanto praticamente difficile, perché esso ci obbligava, dalla prima sala all'ultima, a creare un
linguaggio che, esprimendo queste istanze sociali, non cadesse mai nel banale o nel retorico...
Pochi motivi, ottenuti con un numero relativamente limitato di materiali, si snodano in seguito di
variazioni cui fanno d'accento momenti più melodici, suggeriti da qualche oggetto oppure da
qualche ambiente del castello di maggior rilievo.
Oggetti e ambienti sono argomenti museografici tanto integrati gli uni negli altri da non poter
essere considerati a parte, pur conservando gli uni e gli altri una chiara personalità di facile
lettura” 10.

Le parole dei membri del BPR illustrano perfettamente i loro intenti: usare l'allestimento per creare
una fortissima visione di insieme che ponesse in un dialogo armonico la struttura e l'opera e, al
contempo, permettesse al visitatore una facile lettura sia dell'opera singola che dell'architettura
ospitante; il tutto fu reso possibile giocando con forme, colori e materiali distribuiti nello spazio
secondo le regole della percezione visiva.

Nel Museo del Castello Sforzesco il “tour” si


apre con l'impressionante scenario del Portale
della Pusterla dei Fabbri, spostato dalla sua sede
esterna e posto all'interno. Assolutamente
imponente “s'apre come un arco trionfale
stupefacente”11.

Le prime tre sale, nel restauro, sono state


congiunte tra loro con l'apertura di grandi archi
che danno ariosità e maestosità allo spazio.
L'intento degli allestitori è di porre l'attenzione
della massa su reperti di particolare interesse per
gli studiosi.

10 Cit. da “Casabella – Continuità” del 1956, N°211, articolo “Carattere stilistico del Museo del Castello” di
L.Barbiano di Belgiojoso, E.Peressuti, E.N.Rogers, pag 65
11 Cit. vedi sopra.
Le opere vengono sistemate nello spazio in
modo da ricordare il loro ritrovamento o la
loro funzione originale: il mosaico è
ricostruito a terra, i resti di Santa Tecla e della
chiesa di Santa Maria di Aurona sono posti in
modo tale da suggerire il loro ritrovamento. I
capitelli non sono poggiati a terra o su pianali,
ma sostenuti da supporti lignei – con una
diversità di materiale volta a rendere
chiaramente distinguibile il nuovo dall'antico – di forme e linee semplici e moderne ma che
richiamano i fusti delle colonne.

Tale espediente porta il visitatore a riconoscere, attraverso l'esperienza passata, delle forme che
conosce, facilitando la comprensione di reperti spesso mutilati o frammentati.

La seconda sala, la più ampia, conserva ancora integre le


decorazioni del soffitto con gli stemmi dei casati nobiliari
spagnoli accompagnati da copiosi cesti di arbusti rigogliosi e
frutta. L'ariosità e l'eleganza dell'ambiente suggerisce agli
allestitori di spostare al suo interno l'imponente statua di Barnabò
Visconti, che stava nella più piccola sala attigua.

L'ambiente della seconda sala è comunque molto grande e


l'opera potrebbe scomparire in esso: si pongono quattro grossi
leggii di pietra beola grigia – sostenenti bassorilievi – che per
somiglianza e buona forma creano un secondo e più piccolo
spazio, questa volta percettivo.

L'opera, ritrovando le proporzioni, riacquista la sua maestosità;


la cornice percettiva la ripone al centro dell'attenzione del
visitatore.
Nella Sala delle Memorie Ambrosiane il
pavimento diventa di porfido rosso e la parete
viene ricoperta in legno di noce; l'ambiente
diventa severo e austero per accogliere le
reliquie dei martiri e dei Santi protettori,
nonché i fregi della Porta Romana.

In questo caso vediamo come l'uso dei


materiale e dei colori serva a far
immediatamente intuire allo spettatore la
sacralità dei reperti ivi conservati.

Allo stesso modo accade in altre sale come quella


delle Colombine, nella quale sono conservati
documenti artistici rinascimentali di enorme pregio;
dovendo comunicare questa volta eleganza e valore
estetico i materiali di allestimento diventano bronzo e
marmo, anche gli espositori si fanno più fini, più
piccoli e agili.

Ancora nella sala delle armi il tema cavalleresco


viene richiamato col color verde smeraldo.
Alla sala delle Asse – che contiene gli stemmi
degli Sforza – si è voluto dare l'aspetto di un
giardino, di un luogo aperto. La struttura,
designata all'esposizione di opere temporanee,
presenta un soffitto a volta affrescato con
arabeschi che diramano fino alle pareti. Sembra
di trovarsi all'interno di un fitto bosco.

Le pareti erano originariamente caratterizzate


da elementi verticali, per modificarne l’effetto
visivo e dare una visione unitaria di insieme
vengono ricoperte da pannelli in legno di noce.

A scandire il ritmo dello spazio interno vengono posti dei lampioni – sempre in stile “giardino” –
che hanno anche il compito di rischiarare l'arabesco del soffitto.

All'interno di questo spazio, poi, è posto un labirinto di pannelli espositivi destinati all’esposizione
delle opere della mostra di turno.

Passiamo ora all'importante Sala degli Scarlioni, così chiamata per la decorazione bianca e rossa di
motivi a zig-zag posta al sommo della parete, che gli Sforza definivano “a scaglioni” o “a
scarlioni”; all'interno di questa sala vengono custodite splendide opere della scultura lombarda del
'500.

Lo spazio viene trasformato strutturalmente, conservandone il valore: la pavimentazione è abbassata


fino a 180 cm creando ripiani di diverse altezze collegati tra di loro mediante un sistema di scalinate
di vaste proporzioni.

Le opere contenute sono tutte di altissima qualità ed interesse, ma il dover esporre, insieme ad opere
tutto sommato poco conosciute alle masse, la Pietà Rondinini, ha sicuramente richiesto agli
allestitori serie riflessioni.
La suddivisione dello spazio su tre livelli diversi introduce delle pause nel percorso che preparano il
visitatore alla scoperta dello splendido esempio di “non-finito” michelangiolesco.

La sala si apre con uno scenario prospettico dei tre livelli; al sommo troviamo l'Arca del Vescovo
Bagarotti, circondata dall'edicola Tarchetta del Duomo di Milano, un trittico con la raffigurazione di
una pietà e poi, a scendere, opere di Tommaso Cazzaniga e del Bambaja.
In tutto questo percorso la vista della Pietà è
celata: bisogna infatti superare un paravento
esagonale in marmo bianco per scoprire, con
enorme stupore, la bellissima scultura di
Michelangelo.

La costruzione di questo paravento è tale che


l'altezza, l'ampiezza e la distanza con la
seconda quinta lignea, creano un punto di
vista ideale al pieno godimento dell'opera.

Anche l'esagonalità della sua forma non è


casuale, essa infatti crea un contrasto coi
volumi chiaroscurali della Pietà: grazie alla
differenza di direzione e orientamento, tra le
linee della scultura di Michelangelo e quelle
del paravento, il nostro sistema visivo
percepisce le due figure – cromaticamente
assimilabili – come distinte.

3.2 Franco Albini – Opere fluttuanti.

Contemporaneamente alla nascita del gruppo BBPR, vediamo apparire sulla scena degli allestimenti
museali del dopoguerra un architetto che apporterà importanti innovazioni nella museologia: Franco
Albini (1905-1977).
Laureatosi al Politecnico di Milano nel 1928, Albini venne presto in contatto, nel 1932, con la
rivista Casabella. In linea con le nuovissime tendenze della cerchia della rivista di architettura,
promuove l'idea di essere un progettista “dal cucchiaio alla città”: questo motto diviene nel 1952 lo
slogan che Rogers inserisce nella Carta di Atene per spiegare l'essenziale interdisciplinarietà
dell'architetto moderno (e di formazione milanese), il quale si muove nelle tre discipline del design,
dell'architettura e dell'urbanistica.

La formazione museografica di Albini parte dalle mostre temporanee, in occasione delle quali
sperimenta nuovi sistemi espositivi che si basano sull'ariosità e la sensazione di leggerezza: lo
spazio architettonico e l'opera posta all'interno di questo spazio possono essere reinterpretati per
renderne più semplice la comprensione, ricreare il coinvolgimento dello spettatore nei confronti
dell'opera e ancora mediare tra opera contenuta e architettura ospitante.

Inizia così una rivoluzione culturale del linguaggio visivo.

Merito riconosciuto a questo architetto, e in questo caso museografo, è l'attenzione che egli pone
alla funzione di studio dell'istituzione museale: le opere non esposte all'interno delle sale venivano
collocate in depositi aperti al pubblico e di semplice consultazione.

E' importante inoltre porre l'attenzione sul “concetto di opera fluttuante” – concetto espresso dalla
museologa Caterina Marcenaro nel 1954, in riferimento all'atteggiamento minimalista con cui
l'allestitore si pone nel momento della creazione dei supporti ostensivi.

I materiali vengono ridotti drasticamente, tenendo conto solo delle parti utili all'esposizione delle
opere; utilizza, quando lo ritiene necessario, le più moderne tecnologie, ponendo in questo modo le
basi della futura architettura high-tech, la quale diventerà un mezzo essenziale della museografia
come vedremo più avanti.

Punto chiave di questa rivoluzione della comunicazione visiva è la percezione dello spazio.

In Albini diventa spazio atmosferico, ossia un'area nella quale la materia si dissolve nelle distanze
creando un effetto di indistinguibilità delle forme: in pratica viene data la sensazione di spazio
libero eliminando le aggiunte non opportune e aggiungendo elementi esili e lineari – come leggeri
pilastri, lampade fini e lunghe, schermature della luce fatte di veli o veneziane dalle lamelle molto
fini, etc. – i quali dissolvendosi nello spazio creano sfumature che costruiscono percettivamente
l'ambiente.

Albini afferma: “Per noi il valore didattico sta nelle nostre opere, ed è più attraverso le nostre
opere che diffondiamo le idee piuttosto che non attraverso noi stessi”12.

Per capire meglio il suo lavoro andiamo allora ad esaminare alcuni tra i suoi lavori più interessanti
per quanto riguarda l'argomento della tesi.

3.2.1 Palazzo Bianco

Il palazzo viene edificato tra il 1530 e il 1540, nell'allora nuovo quartiere destinato all'aristocrazia
genovese: l'edificio fu infatti creato per Luca Grimaldi, membro di un'importante famiglia del
luogo.

Dopo la sua morte il palazzo passò di proprietario in proprietario, venendo più volte rimaneggiato e
ampliato, fino al 1884 quando la duchessa di Galliera, Maria Brignoli Sale di Ferreri, lasciò per
testamento l'edificio al comune di Genova, con annesse le opere contenute al suo interno e alcune
rendite immobiliari che sostenessero il museo che lei voleva sorgesse a Palazzo Bianco.

La prima mostra presentata nel palazzo risale al 1889, a cura del pittore Giuseppe Isola, e dal 1892,
sotto la direzione del senatore Giovanni Ricci, andrà ad esporre un gran numero di manufatti
antichi, mostrati al pubblico ancora col gusto dell'accumulo, senza nessun criterio espositivo ben
preciso.

Fu tra il 1906 e il 1915 per mano di Gaetano Poggi, l'allora assessore alle Belle Arti, che, grazie alle
nuove tendenze filosofiche del razionalismo, le collezioni vennero sistemate secondo parametri
tematici o storici; creando così all'interno del museo tanti piccoli musei “di settore”.

12 Citata su www.archimagazine.com , affermazione di F.Albini durante un dibattito sull'architettura contemporanea


italiana al MSA nel 1959.
L'intento di dare ordine a quella grossa macchina caotica, che era il museo ai suoi albori, non riesce
però a dare risposta alla richiesta di comunicazione.

L'orrore della guerra colpisce anche Palazzo Bianco nel 1942, il quale viene consistentemente
danneggiato dai bombardamenti.

Dopo gli interventi di restauro che lo riportano al suo aspetto settecentesco, il museo poté riaprire
nel 1950 venendo nuovamente riordinato per volere del direttore dell'Ufficio delle Belle Arti,
Caterina Marcenaro (1906-1976); per tale scopo è chiamato ad occuparsi degli allestimenti Franco
Albini.

Il primo compito fu quello di selezionare drasticamente le opere da esporre, in modo da


semplificare il processo di comprensione e per ridare ad esse la loro individualità.

Le opere non selezionate per l'esposizione sono collocate in due depositi aperti al pubblico e si
ricercano soluzioni allestitive che ne semplifichino la consultazione: i depositi siti nel piano
intermedio del palazzo vengono organizzati in una serie di pareti a doppia faccia, mobili, sorrette da
esili supporti lineari in ferro; nei depositi ubicati invece nel sottotetto le pale espositive sono appese
a supporti che ne permettono lo scorrimento.

Ispirato dall'austera geometricità dei pavimenti in pietra ardesia e marmo bianco, e mosso da
tensioni razionaliste e puriste, l'allestimento pensato da Albini è di grande semplicità ma allo stesso
tempo moderno e funzionale.
Tutto il superfluo viene eliminato: scompare ogni
tipo di mobilio fisso e vengono poste esili
poltroncine in legno pieghevole che, oltre ad
essere, nella loro semplicità, elegantissime per
manifattura e materiali – corpo in legno nero con
snodi in ottone, sedile e schienale in cuoio
naturale – sono mobili e creano l'idea di qualcosa
che muta, che non starà per sempre in quel posto.

Spariscono anche le cornici dei quadri, quando considerate non pertinenti.


Le opere poste a parete vengono appese, con
dei cavi metallici, a lunghe guide in ferro che
vengono “nascoste” nell'imposta delle volte
dove la linea fine del metallo va a sovrapporsi
alla linea di demarcazione tra paramento
murario e volta. Le due linee, isoformi e
sovrapposte, vengono percettivamente fuse
assieme; la mimesi viene evitata scegliendo un
materiale di uso moderno che si distingua dalla
struttura storica e tradisca la sua funzione
tecnica.

Altre opere invece vennero collocate su supporti in ferro confitti su rocchi di antiche colonne.

Questo uso “dissacrante” del materiale archeologico destò vari dissensi: i suoi contemporanei
evidentemente non comprendevano che dietro quella decisione, ai loro occhi provocatoria, vi era
una profonda ed intelligente riflessione sul dialogo tra il moderno e le preesistenze. Albini
sosteneva infatti che la tradizione doveva essere uno strumento per progredire nel futuro e non si
poteva rimanere imbalsamati in essa.

Così accosta i due materiali: il ferro crea distacco tra opera esposta e ambiente, isolandola, e la
pietra antica li riunisce percettivamente.

A destare qualche polemica fu anche la soluzione trovata per semplificare la comunicabilità di


un'opera mancante di numerosissime parti, e difficilmente leggibile per scarsità di fonti sul
manufatto e la sua primitiva collocazione.

L'opera in considerazione è il Monumento Sepolcrale di Margherita di Brabante, dello scultore


Giovanni Pisano databile tra il 1313 e il 1314.

I frammenti rimasti raffigurano Margherita di Lussemburgo che viene sollevata ai cieli da due
angeli-diaconi durante il giorno del Giudizio (presumibilmente).

Trattandosi di una scultura a tuttotondo e data la mancanza di una lettura chiara della stessa, Albini
decide di costruire un supporto progettato proprio in funzione di quella particolare opera, che
permettesse al visitatore di osservarla con curiosità, studiandone ogni più piccolo particolare.

Le tre figure vengono poggiate su bracci


asimmetrici i quali seguono l'andamento della
composizione scultorea; il tutto è sorretto da un
cilindro telescopico in acciaio dotato di motore e
pompa idraulica che ne permettano il movimento
verticale e circolare.

L'idea del movimento ha la funzione di richiamare


l'attenzione del visitatore e guidarlo nella scoperta
dei dettagli.

Per quanto mutilato, il monumento funebre scolpito con maestria da Giovanni Pisano, è carico di
pathos; Albini non poteva quindi usare, come luce puntuale sull'opera, una luce bianca, fredda,
emanata da semplici ed esili barre metalliche – come quelle usate negli altri ambienti del museo –
per trascinare lo spettatore dentro a quel sentimento. Decide perciò di proiettare sull'opera delle luci
calde – date da lampade ad incandescenza e non dai tubi a catodo freddo – che creavano giochi di
luci e ombre assolutamente drammatici.

L'alternarsi di luce/ombra, considerando l'assenza di parti essenziali dell'opera che la spieghino,


stimola il cervello a completare l'immagine e focalizzare l'oggetto che si osserva con la percezione
visiva individuale: unendo a questo gioco chiaroscurale il movimento descritto, si creano molteplici
visioni percettive di quell'oggetto, le quali, sommate, formano non un'immagine finita ed oggettiva
del frammento scultoreo, ma un'idea di esso soggettiva ed in continua mutazione.

Viene creato un ponte immaginario tra un'opera che vuole parlare di sé ed un fruitore che non vuole
più solo ascoltare, ma anche dialogare.

3.2.2. Palazzo Rosso

Palazzo Rosso fu eretto per volontà della famiglia Brignoli-Sale tra il 1671 e il 1677.

La struttura del palazzo e le sue decorazioni mutarono più volte nei secoli a seconda di nuove
esigente abitative o di gusto.

Non cessarono nemmeno dopo il lascito del palazzo al Comune di Genova da parte della famiglia
De Ferrari Galliera, nel 1874.

Come accadde al Palazzo Bianco, anche il Palazzo Rosso subì gravi danni dai bombardamenti del
1942 e, come nel precedente caso, nel 1950 venne restaurato ed affidato poi a Franco Albini e
Caterina Marcenaro perché provvedessero al riordino e ad un nuovo allestimento del museo sito
all'interno del pregiato edificio genovese.

“Albini si divertiva a sfidare la legge di gravità con l'idea che in architettura tutto vola, niente
tocca terra. Questa voglia di leggerezza, quest'idea che si possa vincere sulla gravità è una visione
poetica delle cose.

Nelle mostre, che sono effimere per definizione, si poteva facilmente raggiungere questa vittoria
sulla gravità perché l'effimero è associabile al leggero, all'instabile, alla bellezza – perché la
bellezza è effimera – e la sua sfida era cercare di afferrarla. E spesso ci è riuscito.”13

Nella risistemazione del Palazzo Brignoli-Sale troviamo quest'idea di leggerezza e trasparenza


fortemente espressa; la sua applicazione è subito chiara già nell'atrio di ingresso e nelle logge che lo
sovrastano per tutta l'altezza della struttura.
Lo spazio necessitava di essere chiuso per garantire la
conservazione delle opere ivi esposte e l'omogeneità del
percorso museale; Albini decide di usare vetrate di cristallo
prive di intelaiature – sostituite da giunti in bronzo –
creando così uno spazio arioso per preservare l'impressione
di spazio aperto.

Dall'esterno l'idea di loggiato viene data con un gioco ottico:


le lunette delle arcate vengono murate all'intradosso e sotto
di esse la muratura arretra lasciando all'esterno le colonne.

L'alternarsi di pieni e vuoti con il conseguente effetto ombra/luce


che si crea offre al visitatore che osserva la struttura la netta
sensazione di uno spazio aperto e profondo.
Nelle sale l'alleggerimento dell'ambiente consistette anche
nell'eliminazione delle eccessive decorazioni barocche, stile che
Albini sostituisce con il suo, nettamente minimalista, non solo
negli “alleggerimenti” che riguardano la struttura storica, ma
soprattutto nell'allestimento dove rifugge il suggerimento esplicito
sull'opera e il suo ritrovamento, spesso pacchiano e ancora in uso tra i suoi contemporanei.

L'intento dell'architetto è di isolare le opere, decontestualizzandole, fornendo attraverso l'uso di


sostegni “invisibili” le informazioni necessarie perché il fruitore capisca l'opera e perché questa
comunichi con l'edificio che la ospita.

13 Da www.fondazioneaccenture.it; citazione di Renzo Piano su Franco Albini.


Si eliminano gli elementi di ostensione classici e al loro posto
vengono usati supporti a bandiera con bracci allungabili – che
si adattino al quadro che di volta in volta andranno ad ospitare
– e mobili, così da poterli esporre alla miglior luce possibile;
ancora, come a Palazzo Bianco, vengono usati i tondini in
acciaio che scorrono su barre metalliche poste sotto l'imposta
delle volte.

Gli espositori delle opere scultoree vengono


realizzati e calibrati in base all'opera che devono
sostenere. In ogni caso però troviamo strutture
ostensive lineari, che si contrappongono alla
complessità geometrica della scultura; il materiale
metallico moderno si stacca dalla pietra antica; la
distanza spaziale tra opera e sostegno è accentuata
spesso dai bracci orizzontali.

Si può capire allora come le conoscenze sulla percezione visiva vengano in aiuto ad Albini il cui
tentativo è di far scomparire l'allestimento: l'occhio percepisce come due figure distinte l'opera e il
supporto, la semplicità formale sposta l'attenzione sull'opera, di forme più complesse che
necessitano più tempo ed attenzione per essere comprese.

Molto interessanti sono anche le vetrine ideate per


contenere piccoli oggetti delle svariate tipologie –
maioliche, tessuti, monete, etc. Di forma parallelepipeda o
cruciformi – queste ultime con bracci di diverse lunghezze
– sono costituite da lastre in vetro che ne delineano i
volumi e che sembrano contenere oggetti sospesi sul
vuoto.

Vediamo quindi sempre esplicitato l'intento di creare un supporto che c'è perché adempie al suo
compito, ma non si vede perché si dissolve in quello che Albini definiva “spazio atmosferico”.
La ricerca di un filo conduttore tra architettura – opera d'arte – fruitore è costante, e questo filo nelle
opere di Albini è creato dall'uso sapiente dei materiali moderni o usati in accezione moderna.

Troviamo uno splendido esempio nell'illuminazione


d'ambiente delle sale, per la quale si riadoperano non
solo i lampadari, ma anche candelabri quasi tutti
settecenteschi.

Per dare a questi valore di “opera esposta” – in quanto


vere e proprie opere d'arte artigiana del tempo – e con
l'intento di isolarli percettivamente dalla struttura, come
si era fatto nelle altre soluzioni allestitive citate, Albini
li monta su sostegni in profilato d'acciaio che ne
suggeriscano il nuovo uso e li rileghino alla struttura
come se fossero pezzi d'esposizione e non più come
candelabri del palazzo.

E' risaputa la minuzia con la quale l'Architetto ricercava le soluzioni da mettere in essere attraverso
lo studio profondo della struttura storica che andava a toccare, e la pignola pianificazione dei lavori
attraverso innumerevoli disegni soprattutto dei dettagli.
Quando Albini e la Marcenaro si trovano di
fronte alla mancanza di documentazione sui
collegamenti verticali, ideano una struttura che
dialoghi armonicamente col contesto storico,
distaccandosene però totalmente con l'uso di
materiali e design modernissimi.

Si tratta di una scala a chiocciola a base


ottagonale. La struttura metallica, sospesa su
tiranti in acciaio, ricorda immediatamente la
struttura a doppia elica del DNA – forse non a
caso, dato che la prima pubblicazione
riguardante il modello schematico a doppia elica
della molecola di DNA compare sulla rivista Nature il 25 Aprile 1953, ad opera di James Watson e
Francis Crick, e Albini lavora a Palazzo Rosso dal 1952 al 1962.

Vediamo che si opta allora per un materiale e una geometria assolutamente a loro contemporanei,
così da isolare intuitivamente la struttura nuova di servizio da quella antica del palazzo; le due
strutture vengono rimesse in armonia tra loro grazie ai preziosi dettagli del corrimano – in legno
ricoperto di cuoio naturale – e del tappeto rosso che ricopre i freddi gradini in ferro

3.3 Carlo Scarpa – Allestimenti effimeri

Il prossimo architetto di cui ragioneremo non proviene dalla scuola di architetti milanese, ma il suo
operato apporterà consistenti rinnovamenti nella museografia, seguendo il percorso che in quegli
stessi anni anche i BBPR e Franco Albini stavano battendo.

Carlo Scarpa (Venezia 1906 – Sendai, Giappone, 1978) nasce e si forma a Venezia, luogo in cui
frequenta artisti ed intellettuali dell'Accademia delle Belle Arti – dove si diploma, nel 1926, e
diventa professore di disegno architettonico – e della Biennale.
Molto incisiva nelle sue opere è la formazione nelle vetrerie di Murano, per le quali progettava già
negli anni prima del diploma e per le quali lavorerà fino al 1947.

In quest'ambiente Scarpa matura l'interesse per le forme plastiche, l'uso dei colori e la modulazione
della luce attraverso il vetro.

Nel 1956 riceve il premio Olivetti come riconoscimento del suo impegno e dei suoi successi
nell'ambito delle progettazioni museali e temporanee; a questo seguiranno molti altri premi, anche
internazionali, come il premio IN-ARCH per il lavoro a Palazzo Abatellis (1962), il premio della
Presidenza della Repubblica per l'Architettura (1967), la nomina a membro del British Institute of
Design (1970), solo per citarne alcuni.

Il modus operandi scarpiano è assolutamente basato sul concetto di “effimero”: in tempi di grande
riflessione sul corso della storia e sulla costruzione del presente si focalizza l'attenzione su
un'architettura mutevole, non più duratura, che esprima l'idea di continuum storico.

Come abbiamo visto, l'introduzione delle mostre temporanee ha dato la possibilità agli architetti di
testare soluzioni ostensive che si pongano da medium tra strutture e opere di “lunga durata” ed
esposizioni di “breve durata”, ossia destinate a cambiare in seguito ai mutamenti storici e culturali.

Tale “filosofia del costruire” si affermerà saldamente alla fine del XX secolo e nel XXI secolo,
quando la globalizzazione, le innovazioni tecnologiche e la comunicazione di massa renderanno
necessario un linguaggio comprensibile universalmente; ma su questo torneremo più avanti.

Gli allestimenti di Carlo Scarpa si focalizzano sulla percezione del visitatore e sulla comunicabilità
delle opere e degli ambienti, è quindi interessante, per la trattazione di questa tesi, andare ad
analizzare le soluzioni messe in opera da questo “maestro dell'arte di mostrare l'arte”.14

“Voglio vedere, per questo disegno”.

Questa citatissima frase che Scarpa amava ripetere richiama la piena consapevolezza del ruolo che

14 Citato da www.archimagazine.com, Bibliografia di Carlo Scarpa.


gioca la percezione visiva nell'estetica del mondo, intendendo “estetica” nel suo significato più
antico derivante dal verbo greco “αισϑα'νοµαι" ossia “percepire attraverso la mediazione del
senso”.

Come in precedenza riferito, è col segno grafico che l'uomo rappresenta la realtà così come l'ha
percepita ed elaborata; all'inverso Carlo Scarpa usa il segno grafico per rendere reale l’opera che il
suo intelletto ha immaginata.

E' risaputa la cura maniacale con la quale, con questo intento, l'architetto veneziano disegnava le
soluzioni da mettere in essere, fin nel loro più piccolo particolare e senza lasciare alcun elemento al
caso.

In linea con il pensiero dei più grandi maestri dell'architettura italiana del tempo, Scarpa raccoglie
le tradizioni nostrane e le rielabora per creare uno stile moderno e totalmente scevro da regole fisse:
è la capacità di giudizio dell'architetto, la sua “intuizione compositiva”,15 a creare il rapporto
essenziale tra architettura – antica o nuova – e l'opera esposta.

Tale libertà comporta grandi responsabilità, per cui la conoscenza e la comprensione diventano
mezzi per la creazione.

Per esporre un'opera al meglio, infatti, non basta solo conoscerne la storia, bisogna cercare i suoi
significati non apparenti, profondi, comprendere i valori di cui tali oggetti artistici sono impregnati;
è necessario esaminare il materiale, le forme, il colore.

Dalle notizie ricavate dallo studio minuzioso dell’opera derivavano, di conseguenza, la più idonea
collocazione nello spazio, il supporto ideale a sostenerla e le tecniche per risaltarla.

Nei musei realizzati da Scarpa i percorsi non vengono rigidamente segnati, ma suggeriti attraverso
l'uso della prospettiva e delle leggi della percezione visiva; si creano rallentamenti o si introducono
ambienti di stacco e snodo; gli ambienti spesso si compenetrano ed al loro interno il ritmo viene
spezzato per assicurare varietà e dinamicità degli spazi – le scale, ad esempio, sono un elemento

15 Citato da “Carlo Scarpa – I musei” di Luciana Miotto; ed. Marsilio; pag. 28.
molto importante per spezzare il ritmo orizzontale e per permettere una molteplicità di punti di vista
diversi sulle opere, l'architettura e l'ambiente esterno che le circonda.

Negli allestimenti la luce – preferibilmente naturale – diventa un vero e proprio mezzo ostensivo
indispensabile per la comunicazione: la luce scarpiana enfatizza le opere, ne sottolinea alcuni
aspetti, le ricollega emotivamente all'ambiente dell'esposizione; tutto ciò avviene mediante la
realizzazione di nuove aperture – dove consentito – o la modifica, sempre reversibile, delle aperture
preesistenti, modulando la luce naturale attraverso teli di materiali, trame e colori diversi o infissi
creati ad hoc per ogni diversa esigenza.

Un altro modo, prettamente scarpiano, di usare la luce naturale era di far riflettere questa su
superfici lucide e specchi d'acqua – fermi o mossi – creando riverberi tanto suggestivi quanto utili
all'esposizione.

Nel riordino museale si riscontra una selezione del materiale artistico ancora più ferrea rispetto ai
suoi contemporanei, tanto che verrà da alcuni criticato per l'eccessivo isolamento in cui poneva le
opere; tale scelta era volutamente studiata per definire le relazioni tra opera, spazio e pubblico
mediante fattori dimensionali e sensoriali frutto delle geniali soluzioni ostensive di questo
architetto.

I supporti creati da Carlo Scarpa sono prevalentemente di forme semplici anche se, al contrario di
Albini, Scarpa non li nasconde percettivamente con la leggerezza e la trasparenza, ma conferisce ad
essi peso e presenza creando dei massicci codici mediali.

Nella costruzione degli ostensori la conoscenza dei materiali e della loro lavorazione è essenziale
per presentare al visitatore l'opera e, nel contempo, spiegarla. Scarpa è infatti convinto che ogni
materia sia potenzialmente fruibile, basta che questa venga lavorata e, successivamente, adoperata
secondo la sua natura: perché è nella natura delle cose che bisogna cercare le forme dell'arte.

Per questo motivo si seleziona il materiale dei supporti in base all'opera che si deve mostrare; allo
stesso modo vengono decise le forme e le dimensioni dei supporti, così che le opere vengano
esposte alla giusta altezza, osservabili da più punti di vista – se necessario – sottolineandone le
peculiarità formali o di contenuto.

Il modo di esporre di questo architetto veneziano è, come abbiamo precedentemente accennato,


influenzato dall'esperienza nelle vetrerie di Murano.

Troviamo nei suoi allestimenti un vivace quanto sapiente uso del colore; questo viene adoperato per
far risaltare i pezzi d'arte, esaltandone, per simpatia o contrasto, le caratteristiche materiche e
cromatiche e giocando sul rapporto sfondo-figura e sulla visione complessiva dello spazio, secondo
le regole della percezione visiva gestaltica.

3.3.1 Palazzo Abatellis

Il palazzo sorge a Palermo nel 1495 per mano dell'architetto Matteo Carnilivari, commissionato da
Francesco Abatellis – Maestro Portulano del Regno sotto il dominio spagnolo di Ferdinando il
Cattolico.

Anche questo edificio fu colpito dai bombardamenti del 1943, venne poi restaurato nel 1954 e
adibito a sede della Galleria Nazionale della Sicilia.

Per curare l'esposizione del nuovo spazio museale vennero chiamati Carlo Scarpa e Giorgio Vigni.

Il primo intervento nel riordino di un museo, come abbiamo visto anche nei precedenti casi, è la
selezione del materiale da esporre; quella adoperata da Vigni fu tanto drastica che diverse sale del
palazzo – su entrambi i livelli – vennero tolte dal percorso museale e adibite a deposito.

La prima sala che si scopre oltrepassando il cortile e l'ingresso è detta “Sala del Trionfo della
Morte”, in quanto prende il nome dall'affresco ivi conservato e proveniente dal cortile del Palazzo
Sclafani di Palermo.

Scarpa ritenne ideale l’ubicazione dell’opera nell'ex cappella che sorse nel palazzo dopo la sua
trasformazione in convento nel 1526, per collocarla nel fondo della parete absidale.
La larghezza della parete era però la medesima dell'affresco -
6,40 m - e ciò rendeva difficile inserirvi materialmente
l’opera. Pur di realizzare la soluzione ritenuta più idonea,
Scarpa pensò di scavare le pareti laterali del fondo absidale
per incassarvi l'affresco.

La mimesi sarebbe stata totale e l'opera sarebbe sembrata


davvero nata lì; per scongiurare tale risultato fa colorare lo
sfondo dietro l'opera e gli scavi laterali con una tinta color
senape scuro che riprende molte sfumature dell'affresco
nonché la colorazione dei pavimenti.

Attraverso tale effetto cromatico si crea una netta


separazione di significati tra architettura e oggetto esposto,
ma al contempo si attua una riunificazione percettiva tra
spazio – verticale e orizzontale – e la figura posta al suo
interno.

Scarpa con la sua scelta permette l’osservazione del


“Trionfo” da due differenti punti di vista: uno posto al
piano inferiore, all’inizio del percorso; l'altro al piano
superiore, dove l'architetto apre un vuoto davanti
all'abside.

L'importanza di osservare una figura da più angolazioni è


quella di favorire l’assunzione di più informazioni visive
sull’immagine, limitandone le ambiguità e favorendone la
comprensione.

Per godere di un altro splendido esempio dell'opera scarpiana basta superare la piccola sala delle
ceramiche ed entrare nella Sala della Laurana dove, davanti agli occhi del visitatore, appare di tre
quarti il “Busto di gentildonna” – opera di Francesco Laurana (XV sec), che immortala una donna
nota come Eleonora d’Aragona – inondato dalla luce mediterranea che, dalla finestra davanti alla
quale è posta, l’avvolge svelandone una, altrimenti impercettibile, inclinazione della testa.

L'opera fluttua sopra il suo piedistallo: sorretta


posteriormente da due perni in ottone e
anteriormente posata su una lamella di piombo,
si distanzia nettamente dal supporto, creato da
una semplice asta in bronzo sulla quale monta
una tavola di lucido ebano che ha il compito di
riflettere la luce e creare un riverbero che
amplifichi la “spiritualizzazione” dell'opera
scultorea considerata capolavoro del
Rinascimento europeo.

Scarpa prevede un secondo punto di vista: la scultura è infatti


pienamente godibile dalla seconda grande Sala dei Gagini – ultima sala
dell'esposizione delle sculture – dalla quale il Busto di Eleonora si
scorge in lontananza, incorniciato da due serie di arcate – quella che
divide la Sala del Laurana dalla prima Sala dei Gagini e quella che
divide quest'ultima dalla seconda Sala dei Gagini – ed esaltato dal
contrasto dei pannelli verdi posti su una porzione di muratura parallela,
all'altezza dell'opera.

Il forte contrasto tra il bianco marmo della scultura e il verde acceso


del pannello permette al nostro occhio di focalizzare bene l'immagine
anche se la si guarda da una grande distanza.

Anche nell'esposizione delle opere pittoriche Scarpa studia a fondo gli ambienti; dal momento che
la struttura non poteva essere liberamente rimaneggiata, Scarpa si attrezzò con dei sostegni
provvisori e mobili sui quali testava la miglior esposizione del dipinto che andava a sistemare.
Molto interessante è la collocazione della “Annunziata” di Antonello
da Messina: l'opera – di dimensioni abbastanza ridotte – viene posta
su un enorme pannello bianco e volta verso una finestra.

Il contrasto forte tra le tinte scure del dipinto e il candido supporto


risalta l'opera, facendo apparire i colori più intensi di quanto in realtà
si siano conservati.

Le pareti di questa sala vengono ricoperte da pannelli lignei che, oltre a sottolineare la maestosità
dei quadri esposti, creano un altro forte effetto di contrasto con i bianchi espositori adoperati.

3.3.2 Gipsoteca Canoviana

La gipsoteca nasce nel 1832 per volere del fratello di Antonio Canova, il cui intento era quello di
conservare ed esporre al pubblico la raccolta di gessi originali che egli riunì dopo la morte del
Antonio nel 1822.

Nel 1955, in occasione del bicentenario della nascita del famoso scultore, la Soprintendenza alle
Belle Arti commissiona a Carlo Scarpa un ampliamento della gipsoteca di Possagno – paese nativo
di Canova nella Provincia di Treviso.

L'area sulla quale sorgerà la nuova ala del museo è lunga e stretta, e in essa dovranno trovare
collocazione un gran numero di opere fino ad allora giacenti nei depositi.

Scarpa si trova così a dover posizionare delle opere scultoree candide in un ambiente ridotto e
chiuso.

L'enorme difficoltà era data soprattutto dal materiale: il gesso, col suo candore, risulta amorfo se
non illuminato dalla mutevole luce solare ma al contempo esso soffre enormemente l'effetto degli
agenti atmosferici.

L'architetto costruisce una struttura allungata e separata dal corpo preesistente da una piccola“calle”
di passaggio.
Il lungo ambiente è impostato su livelli
decrescenti che permettono una grande
varietà di punti di vista sulle opere esposte;
la copertura segue il digradare del livello
pavimentale e le stanze vengono “ritagliate”
negli angoli per creare dei tetraedri vetrati
dai quali la luce naturale possa diffondersi
perpendicolarmente al piano su cui posano
le sculture, riducendo l'effetto di
abbagliamento.

Le pareti della struttura convergono e


terminano su una vasca d'acqua che riflette
la luce solare, consentendo un apporto di
luminosità più consistente e suggestivo
all'interno delle sale.

Queste tecniche di illuminazione permettono grande dinamicità degli effetti, infatti la luce naturale
varia più o meno repentinamente in base alle condizioni meteo, alle ore della giornata e alle
stagioni.
L'amorfo gesso torna così ad esprimersi coi suoi volumi.

L'eccessivo candore di questo materiale mette Scarpa davanti ad una soluzione che ai tempi
sembrava incredibile: far risaltare un oggetto bianco su uno sfondo bianco.

“Indubbiamente uno che ha una cosa bianca – il gesso per esempio – per farla risaltare dovrebbe
fare il fondo scuro: viene abbastanza spontaneo pensare così. Invece, non per polemica contro la
razionalità tradizionale, ma per una specie di intuizione improvvisa, avevo osservato che mi
sembrava fosse meglio fare il fondo bianco”16

Ciò che Scarpa aveva intuito – e che verrà confermato dagli studi sulla percezione visiva negli anni
più avanti – è che un oggetto tridimensionale molto chiaro posto su uno sfondo scuro viene
percepito come una figura bidimensionale: il nostro occhio infatti percepisce una grande variazione
di luminanza tra sfondo e figura e non riesce a percepire quindi le differenze di luminanza interne
alla figura stessa, che risulta così piana.

Ponendo invece tali oggetti su uno sfondo anch'esso chiaro, i chiaroscuri creati dall'effetto luce-
ombra creano contrasto, rendendoci l'idea di un oggetto tridimensionale.

3.3.3 Castelvecchio

Il castello fu fatto costruire tra il 1354 e il 1356 da Cangrande II come dimora fortificata della
famiglia Della Scala. Dopo essere stato modificato in epoca napoleonica, danneggiato dai
bombardamenti del 1945 e ancora manomesso nei primi anni '50, nel 1956 il direttore del museo
sorto a Castelvecchio, Licisco Magagnato, decide di recuperare il nucleo antico del castello e di
riordinare l'esposizione della ricca collezione di scultura e pittura che documentava l'arte di Verona
e del suo territorio dal XII secolo al XVIII secolo.

Dell’opera fu incaricato Carlo Scarpa, il quale svilupperà i suoi interventi contestualmente agli studi
che lo stesso Magagnato – storico dell'arte – andava facendo sulla struttura e sul suo rapporto con la
città di Verona.

16 Citato da “Volevo ritagliare l'azzurro” di Carlo Scarpa, pag. 84


In questo intervento Scarpa trova il filo conduttore di tutte le soluzioni da porre in essere con il
coinvolgimento dell'architettura e della storia del castello e, soprattutto, della città.
Anche in questo caso l'esigenza di comunicazione viene soddisfatta dalla grande attenzione ai
rapporti spaziali.

La sistemazione della scultura equestre di Cangrande I Della Scala è un esempio di quanto appena
accennato: data la particolare importanza di questa scultura equestre medievale per la città di
Verona, l'idea iniziale di Scarpa fu quella di posizionarla nel cortile d’ingresso su un piedistallo di
dimensioni e forma uguali all'originale.

Durante i suoi studi, però, Magagnato scopre nei pressi dell'ala napoleonica la Porta del Morbio –
una porta trecentesca di accesso alla città – e una parte del paramento murario difensivo, sempre
risalente allo stesso periodo.

Tale punto del castello assume evidentemente un valore importante, più importante dell'ingresso
stesso.

Si decide di distruggere una parte dell'ala napoleonica e una scalinata esterna per riunificare lo
spazio verticale così come lo era nella sua versione primigenia, lasciando però i lavori incompleti
come a voler conservare la meraviglia del ritrovamento.
Il collegamento fisico e concettuale tra le due
parti della struttura ormai separate viene risolto
con il posizionamento della statua del
Cangrande proprio in quell'emblematico punto.

Scarpa sosteneva che tale opera, per essere


esteticamente goduta al meglio e per
comunicare il suo significato profondo,
dovesse essere vista sia dal basso – per
sottolinearne l'importanza strutturale e di
concetto – sia da una posizione ravvicinata –
così da poterla ammirare nei suoi preziosi
dettagli; inoltre la sua posizione ideale era
all'esterno, ponendosi ad emblema del museo,
ma protetta dagli agenti esogeni.

La soluzione a tutte queste esigenze fu la costruzione di una passerella esterna coperta, con funzioni
di cesura e snodo del percorso espositivo – che dopo la demolizione e la messa a nudo della
struttura antica fu fatto proseguire su due livelli posti ad altezze diverse.

L’inserimento espositivo attribuisce un’accentuata rilevanza alla figura dello Scaligero, la cui statua
è posta sulla sommità di un'alta struttura in calcestruzzo talmente sottile da essere da molti definita
come un origami.
All'interno, il percorso museale viene creato
attraverso il sapiente posizionamento delle
opere, le quali, raggruppate o isolate, sono
sistemate nello spazio secondo le regole
dell'osservazione ottica, soprattutto della
prospettiva; il visitatore viene così
costantemente invitato alla scoperta dell'opera
successiva, ma anche richiamato ad osservare
l'opera da punti di vista diversi.

La presenza di quadri di notevole importanza,


che però difficilmente carpiscono l'attenzione
del visitatore a causa delle loro ridotte
dimensioni, porta Carlo Scarpa a staccarli dalle
pareti e a proporli all'interno dello spazio
occupato dal pubblico posandoli su cavalletti
mobili; tale scelta spaziale comporta un'enorme
coinvolgimento dello spettatore, posto
materialmente nella condizione di scoprire i
dettagli della minuta opera.

I supporti realizzati, per quanto massicci,


aiutano a creare un ambiente sospeso.

Sorretti da piccoli peduncoli, spesso nascosti, gli


imponenti ostensori sembrano insistere su
cuscinetti d'aria; levitano immobili rendendo
un'idea di irrealtà, di effimero.
Capitolo quarto
La museografia contemporanea: interattività ed emotività.
Per comprendere meglio la museologia attuale e per riuscire ad ipotizzare il suo evolvere a breve
termine è necessario fermarci a ragionare sul grande mutamento che la società attuale sta vivendo.

Negli ultimi anni del secondo conflitto mondiale, le più eccelse menti scientifiche si ritrovarono ad
unire i loro sforzi per giungere a nuove soluzioni tecnologiche in grado di porre fine,
vittoriosamente per il blocco di appartenenza, al confronto bellico.

In seguito, i risultati delle ricerche e delle sperimentazioni in campo militare vennero affinati e
nuove applicazioni si succedettero costantemente, prevalentemente per sostenere il confronto tra le
nuove potenze mondiali, trasferito dai campi di battaglia ai nuovi scenari della Guerra Fredda e
combattuto sui vari fronti dalla deterrenza nucleare, del dominio sullo spazio, del controllo
elettronico delle informazioni.

La tecnologia militare e la ricerca che la sosteneva ebbero straordinarie ricadute in tutti i settori
della società, consentendo una rapida ripresa economica dei Paesi usciti distrutti dal conflitto, ed
avviando una nuova fase industriale basata sull’accentuata efficienza dei nuovi sistemi produttivi.

Negli anni '80, tra i due gradi blocchi mondiali che si fronteggiavano, l’Occidentale ed il Sovietico,
il lungo e travagliato percorso di dialogo per la distensione dei rapporti subì un’accelerazione che
portò, nel 1989, alla caduta del muro di Berlino. Quell’anno resterà il simbolo della fine del
lunghissimo secondo dopoguerra.

L’entusiasmo per la pace ritrovata alimentò nuova fiducia e mosse rinnovate energie. Inaspettati
orizzonti si aprirono soprattutto per il progetto di allargamento della Comunità europea, che la
Germania sostenne puntando decisamente alla riunificazione dei due Stati post bellici.

Nel frattempo, la scolarizzazione di massa aveva permesso ad ogni individuo di migliorare le


proprie condizioni sociali e di accede ai livelli culturali più alti.

A cavallo dei due secoli, la diffusione della cultura e delle conoscenze viene sempre più favorita dal
rapido progredire dei mezzi di comunicazione; e la mobilità planetaria delle persone e dei beni è
garantita, a condizioni facilmente raggiungibili, a strati sempre più ampi delle popolazioni.

La rivoluzione più incisiva, quella che segna l'inizio del XXI secolo, avviene però con lo
straordinario sviluppo dell’informatica e con l’Informatizzazione della società.

La rete telematica mondiale, ormai strumento di tutti – tanto che si è giunti a rivendicarne l’accesso
come uno dei diritti inalienabile dell'essere umano fin dalla nascita – ha aperto all’umanità la
straordinaria possibilità di disporre velocemente di ogni informazione necessaria e di poterla
confrontare con una quantità infinita di dati, della realtà attuale come del passato. L’web rompe
definitivamente ogni forma di isolamento, dando la possibilità a ciascun individuo o gruppo di
persone di mettersi in comunicazione col mondo intero e di creare una vasta rete di contatti globali.

Ogni grande mutamento offre aspetti positivi e negativi, rischi e opportunità.

Seppure le valutazione in merito agli stravolgimenti prodotti dalla diffusione dell’uso della rete
globale non rientrino tra gli scopi della tesi, è importante evidenziare un effetto prodotto dalla
“rivoluzione informatica” nel campo della fruizione dei beni culturali: se fino a pochi decenni fa per
poter osservare l’immagine riprodotta di un'opera di Leonardo era indispensabile procurarsi un
catalogo o una stampa, oggi basta un “clic” per averla a disposizione in HD sullo schermo del pc.

Ma l’assuefazione ad immagini mediate, rese accattivanti dalle possibilità dello schermo


elettronico, può portare a sensazioni di delusione davanti all'opera reale, se si continua ad osservarla
come al computer che la priva del suo contenuto artistico e la riduce a effimera immagine virtuale.

Una dimostrazione di questo rischio ci è fornita


da un resoconto delle impressioni dei turisti che,
visitando il Louvre a Parigi, scorgono un
quadretto di 77x53 cm, peraltro distanziato
notevolmente dal pubblico per ragioni di
sicurezza; molti di loro comprendono che si
tratta della Gioconda di Leonardo solo dalla
ressa al cordone, e quando riescono finalmente a
vederla il più classico dei commenti è: “tanto
caos per questo?”.

Il fatto fa comprendere l’entità dei cambiamenti che la museologia si trova ad affrontare per
continuare a rispondere alla domanda di comunicazione tra opera e fruitore.

Il visitatore del XXI secolo con grande probabilità conosce già – grazie al web – il museo che andrà
a visitare e le opere che vi sono esposte; ha inoltre cambiato il suo modo di acquisire informazioni:
il foglio di carta stampato e immutevole viene soppiantato da fogli digitali che permettono una
scelta libera e personalizzata dell'informazione; il bombardamento di immagini lo ha reso apatico
di fronte all'opera reale.

Tutto ciò rende evidentemente arduo il lavoro dell'allestitore contemporaneo, che ha però dalla sua
parte un fattore molto rilevante: l'enorme quantità di informazioni che ognuno di noi “assorbe” dal
mondo dell’informazione globale, a volte – o soprattutto? – passivamente, ci permettere di
riconoscere, tramite l'esperienza, molti più simboli e immagini.

Questo fenomeno dona all'allestitore più libertà di azione nell'adempiere il difficile compito di
coinvolgere emotivamente il pubblico.

Nell'era del touch-screen, un famoso vecchio ammonimento inverte la sua indicazione e si


trasforma in “guardare...e toccare!”, la partecipazione fisica diretta del visitatore nel museo diventa
indispensabile.
Compaiono così gli info-point digitali, in vari musei sorgono dei laboratori dove è possibile creare
la propria opera d'arte usando materiali, per così dire, tradizionali o altri di ultima generazione;
all'interno delle esposizioni stesse l'intervento creativo del visitatore è reso necessario alla
compiutezza dell'opera museografica.

Un esempio di mostra interattiva che esplica questo concetto è quella dedicata a Fabrizio De Andrè,
curata da Vittorio Bo, Guido Harari, Vincenzo Mollica e Pepi Morgia.

La mostra – itinerante – apre a Palazzo Ducale, in Genova, il 31 Dicembre 2008; il 16 Luglio 2009
arriva, nella sua seconda tappa, al museo MAN di Nuoro.

L'allestimento tutto è pensato in chiave moderna


e poetica, la sala degli schermi parlanti – che
approfondiscono temi di attualità trattati nelle
canzoni di De Andrè – è avvolta in un religioso
buio e riempita delle musiche del cantante
genovese; le sue lettere e gli appunti di
giovinezza diventano punti di luce nell'oscurità
delle sale; non vi è traccia di alcun mobilio e
dove è necessario – come nella sala della
musica, dove si stagliano nel buio 3 tavoloni in
legno grezzo illuminati da un faro che proietta la
storia dei dischi De Andrè – si tratta di
arredamento minimale e rustico.

Il punto chiave della mostra è la


comunicazione dell'artista scomparso col
pubblico che ancora lo sente vivo; l'enorme
coinvolgimento emotivo generato non può
essere soddisfatto con la sola proiezioni di
filmati, l'ascolto di musiche e la visione di
immagini (azioni che possono essere
compiute dal divano di casa), diventa
necessario che il visitatore entri nella mostra,
si senta parte di essa. Vengono sistemate
quindi per lo più postazioni interattive dove
poter scegliere le informazioni che si desidera
avere, nell'ordine preferito, e dove poter
addirittura creare le proprie video-installazioni
che faranno parte fisicamente del percorso
espositivo.

L'interattività non è però sempre sufficiente a colmare il profondo senso di piattezza interiore che
caratterizza numerosissimi visitatori a noi contemporanei; essi hanno bisogno di essere scossi, di
essere stupiti, di provare sensazioni che oggi Google non riesce più a dargli. E' qui che entrano in
gioco l'approfondimento psicologico del museologo e l'estro creativo del museografo.
Come si può, ad esempio, spiegare ad una persona annoiata la sensazione di “Infinito”? Se vuole,
può trovare sul web tutte le nozioni che gli servono per farsi un'idea oggettiva di cosa sia l'infinito;
quello che ricerca nel Museo non è più quindi la mera conoscenza, ma l'esperienza.

Una risposta all’interrogativo specifico la propone la mostra Infinitum allestita a Palazzo Fortuny, in
Venezia.

Voluta e creata, nel 2009, dall'olandese Vervoordt Foundation e dalla Fondazione Musei Civici di
Venezia, tale mostra affronta il tema dell'infinito sotto le sue diverse sfaccettature: dal non finito,
all'infinito cosmico, passando per il divino, l'immenso, l'infinito prospettico...

Le opere esposte sono tutte diverse per genere – sculture, installazioni moderne, dipinti, oggetti di
uso comune – e per datazione – da Giovanni Battista Piranesi a Jacob Hashimoto.

Molti sono gli artisti che si son misurati col tema dell'in-finitum, e la scelta del termine latino è
ideale in quanto spiega la sua complessa e problematica interpretazione.

Nell'ascesa dal piano terra all'ultimo piano si viene travolti da un susseguirsi di sensazioni diverse
ma tutte fortissime: le sale si snodano all'interno del labirinto architettonico – tale è Palazzo Fortuny
– e nei meandri del labirinto le opere son raggruppate in base all'interpretazione di infinito che
rappresentano – il cosmico, il non finito, e così via – occupando lo spazio non più in base “alla
migliore percezione visiva” ma in base al maggior “effetto scenografico”. Le leggi dell'ottica
vengono ancora chiamate in soccorso della progettazione dell'allestimento, ma questa volta servono
a creare suggestioni e ad emozionare.

In molte sale l'ambiente ci riporta indietro fino


alle wünderkamer ottocentesche: oggetti d'arte
ingombrano tutto il percorso del visitatore, che
si ritrova letteralmente circondato; alle pareti i
tessuti pregiati di Mariano Fortuny creano un
ambiente profondamente domestico e
accogliente; il visitatore si sente
emozionalmente parte di quel tutto.
Solo dopo aver assorbito la sensazione di caos il
visitatore inizia a porre la sua attenzione su ogni
singolo oggetto esposto.

Questa esperienza riconduce immediatamente a


quella di Sir. John Soane, ed alla sua casa museo
di Londra, in cui il modello ostensivo usato era
quello della ridondanza. Anche allora, come
oggi a palazzo Fortuny, l'intento era di stupire
avventori già eruditi (nel caso di Sir. J. Soane i
propri studenti, oggi i visitatori).

Il concetto di figura e sfondo viene così


ristudiato e reinterpretato; la semplicità e la
chiarezza dei musei del secondo '900 cede il
passo agli spazi emotivi del XXI secolo.

Così, se nel 1957 Carlo Scarpa opta per un


effetto “bianco su bianco” per migliorare la
percezione visiva di opere in gesso – e quindi
per favorire una loro migliore comprensione –
nel 2009 i curatori di “In-finitum” scelgono una
“Stanza nera” per offrire un’interpretazione del
dibattito filosofico e artistico sulla
rappresentazione del nero e sulla sensazione
dell'oscurità.
Tale ambiente, di ridotte dimensioni, è
totalmente occupato dal buio; nella parete
frontale si staglia la “Fine di Dio” di Lucio
fontana affiancata da due dipinti neri di Ad
Reinhardt.
L'effetto creato dagli allestitori non si può
spiegare a parole o con un'immagine, per
comprenderlo profondamente è necessario
provarlo, viverlo.

Si ritorna così al ragionamento sul cambiamento profondo subito dall'istituzione museale: da fonte
di conoscenza a fonte ti esperienza.
CONCLUSIONI

Il lavoro svolto con l’elaborazione della tesi, ricostruendo brevemente attraverso le idee e le
creazioni di straordinari artisti e professionisti della cultura il percorso ultrasecolare che ha
portato all’attuale realtà museale italiana, vuole rappresentare un piccolo contributo di riflessione
e di proposta su uno dei servizi più nobili ed alti che ogni società può offrire all’umanità: custodire
per le generazioni che verranno il patrimonio di opere e di pensiero tramandatole, garantendone
costantemente l’accesso e la piena conoscenza ad ogni persona.

Nella tesi si sottolinea l'importanza, nell'ambito della conservazione del patrimonio culturale, di
preservare non solo lo stato fisico, materico, del manufatto, ma anche il significato storico e
artistico che fa di un oggetto una testimonianza irripetibile del momento della sua creazione, della
sensibilità artistica del periodo, delle contaminazioni culturali e dei rapporti di scambio tra civiltà
diverse.

L’organizzazione dell’esposizione museale è affrontata partendo da un accurato studio


interdisciplinare teso alla comprensione dei contesti storici e sociali che caratterizzano sia la
produzione del reperto da esporre, sia lo scenario espositivo: nella trattazione degli esempi di
allestimenti del '900 non era possibile non iniziare con un sunto sulla storia del palazzo ospitante,
poiché il lavoro museografico si integra totalmente nella struttura destinata ad accoglierlo.

Lo studio interdisciplinare arriva a coinvolgere temi della biologia e della fisiologia umana, i cui
contenuti risultano indispensabili per meglio comprendere i meccanismi neurali che
sovraintendono alla percezione visiva degli oggetti osservati.

Nel presentare i principali artefici della realtà museale italiana si è reso necessario un breve
richiamo di taglio antropologico alle vicende dei personaggi considerati, finalizzato a capire
l'uomo che sta dietro il museografo, il livello culturale della famiglia di provenienza, l'ambiente nel
quale si è formato, il carattere e le tendenze filosofiche ed artistiche maturate, i suoi rapporti
sociali, culturali e politici nei contesti in cui è stato chiamato ad operare.

Nel presente momento storico, in cui le giovani generazioni sono chiamate a dare un rinnovato
impulso al processo di costruzione dell’unione europea, la fruizione condivisa del patrimonio
artistico potrà rappresentare un’occasione preziosa per un’effettiva integrazione culturale, senza la
quale si è dimostrato estremamente fragile ogni programma comunitario di sviluppo economico.
In tutta Europa le manifestazioni artistiche costituiscono già anche un'importante risorsa per i
sistemi economici dei Paesi.
Le mostre, itineranti, temporanee o stabili, diventano sempre più “eventi” di respiro internazionale,
ed il codice mediale torna prepotentemente al centro del dibattito museologico.
Uno studio critico ed approfondito degli allestimenti del '900 appare pertanto particolarmente utile
come base per la costruzione di una museologia contemporanea e futura, che sempre si dovrà
cimentare nella complessa arte di mostrare l'arte.
Ha accompagnato il lavoro della tesi anche l’intima convinzione che un efficace servizio museale,
capace di immergere il visitatore nel respiro vitale degli uomini e delle civiltà che hanno prodotto,
utilizzato, goduto, riscoperto e custodito per tramandarlo l’oggetto osservato, possa aiutare a
diffondere e rafforzare nelle persone la consapevolezza di essere parte di un’unica identità, priva di
barriere di tempo, di spazio, di cultura, di religione e fondata sul valore universale dell’Uomo, dei
suoi bisogni, dei suoi aneliti.

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