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Tradizione perduta e ritrovata
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collana di studi e ricerche
sulle tradizioni spirituali
Summetria
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Le immagini riprodotte sui testi di Simmetria sono in genere disegni originali di pro-
prietà degli autori; in altri casi, sono parziali riproduzioni di opere note e pubblicate
in più siti; per le stesse è stata richiesta autorizzazione e qualora ciò non fosse stato
possibile l’editore è a disposizione per regolare le spettanze di eventuali aventi diritto,
al momento ignoti.
indice
Prefazione ............................................................................................................ 9
Parte Prima
il rinnovAMento “trAdizionAle”................................................11
I. Looking back on progress.
Presentazione e rilettura di un saggio di Lord Northbourne .............11
Parte seconda
tre trAdizioni ArCAiChe .................................................................. 21
II. Antropologia della violenza.
Presentazione e rilettura di un saggio di Pierre Clastres ....................21
III. Il Sabato e il suo signiicato per l’uomo moderno.
Rilettura di un saggio di Abraham Joshua Heschel ............................. 38
IV. I Maestri di Aletheia nella Grecia arcaica.
Rilettura di un saggio di Marcel Detienne ............................................... 50
Parte terza
il suono oltre lA MusiCA ................................................................. 63
V. La bellezza sonora del mondo.
Breve storia dell’Armonistica in Italia........................................................63
VI. I conini della musica.
Presentazione e note a un saggio di R. Murray Schafer ......................78
VII. Il paesaggio sonoro urbano .................................................................. 94
Parte quarta
Gesto, orAlità e perforMAnCe ...................................................113
VIII. Crisi della scrittura e ritorno dei sensi.
Nuovi paradigmi fra antropologia, musica e teatro ............................113
IX. Decadenza dell’analfabetismo.
Presentazione e rilettura di un saggio di José Bergamìn ..................126
X. Il cante jondo. Il primitivo canto andaluso.
Presentazione e rilettura di un saggio di Federico García Lorca ..139
Parte quinta
tre MAestri del noveCento ArtistiCo..................................157
XI. Maya Deren: cineasta metaisica, antropologa del gesto ..........157
XII. Il caos, il caso e il ritrovamento della Tradizione.
Una rilettura dell’opera di John Cage ......................................................177
XIII. Tradizione e Sperimentalismo
Il “dubbio sull’armonia” di Giuseppe Chiari ........................................194
L’autore e Simmetria edizioni ringraziano l’AREL,
editore di AREL la rivista, Enrico Letta e Mariantonietta
Colimberti, che si sono succeduti nella sua direzione, per
aver ospitato i saggi qui pubblicati, e per aver consentito
la loro raccolta in questo volume.
A mia moglie Ornella e a mia iglia Soia
silvano panunzio
Prefazione
9
Ma essendo convintissimo che il linguaggio musicale seguita ad
essere un ponte unico e privilegiato verso la metaisica e verso il
contatto con la trascendenza, immagino che buona parte delle mie
dificoltà possano essere coninate nel mondo delle “prevenzioni”
acustiche e delle abitudini consolidate. Come uno, che per anni ed
anni avesse letto esclusivamente i testi della patristica e si trovasse
improvvisamente di fronte… alla scolastica!
Claudio Lanzi
10
Parte Prima
il rinnovAMento “trAdizionAle”
premessa
L’odierna nostra epoca, spesso deinita “postmoderna”, ha in verità
tutt’altro che accantonato i grandi miti della modernità. Eppure,
proprio nel seno stesso delle massime istituzioni del paese consi-
derato la punta avanzata della civiltà umana, gli Stati Uniti, sono
emerse negli ultimi decenni le più radicali ricerche che hanno rove-
sciato le consuete prospettive moderniste e progressiste. Da una
parte, da un’équipe del M.I.T., il celebre Politecnico Massachusetts
Institute of Technology di Boston, è nata l’opera di Giorgio de
Santillana e Herta von Dechend, che ha comprovato l’estensione
delle conoscenze scientiiche patrimonio di un’un’umanità vissuta
intorno al 7000 a.C, conoscenze scientiiche di natura pitagorica,
legate a una vita sacrale1. Dall’altra, dall’Institute for Food and
Development Policy di San Francisco è emerso lo studio di Frances
Moore Lappè e Joseph Collins sull’industrializzazione dell’agri-
coltura come causa della fame nel mondo2.
11
Tali importanti novità culturali, che demoliscono i miti moder-
nisti e progressisti della conoscenza e dell’economia, quando non
vengono senz’altro occultate dal dominante establishment, vengono
raramente messe in correlazione fra di loro. Infatti, sono ancora rari
gli autori e le pubblicazioni che consentono di capire le profonde
relazioni fra il Pensiero e la Terra, fra la Cultura e l’Agricoltura3.
12
(coltivazione chimica), presentando in dall’inizio questi due metodi
di coltivazione come opposti e mutualmente incompatibili; i termini
furono messi in contrasto in particolare nel titolo del Capitolo 3,
intitolato appunto “Organic versus chemical farming”5. Ma chi è
Lord Northbourne?
13
l’attuale punto di forza del nostro autore8. Lo vedremo rileggendo
l’introduzione a un suo piccolo, ma illuminante testo, dedicato al
tema del progresso: Looking back on progress, pubblicato origina-
riamente nel 1970 e ripubblicato nel 20029.
8 Per una panoramica di altri autori che, come Lord Northbourne, hanno coniu-
gato il perennialismo con la cultura ecologica cfr. Antropo-ecologia. Saggi di
W. Berry, J.Brown, J. Cooper, G. Eaton, A. Moore, S. H. Nasr, H. Oldmeadow,
P. Sherrard (a cura di Eduardo Ciampi), Terre Sommerse, Roma 2009.
9 Lord Northbourne, Looking back on progress, Sophia Perennis, New York
2002. Sotto diversi riguardi il testo può essere considerato una continuazione
ed ampliamento di René Guénon, Civiltà e progresso, capitolo I della parte
prima, di Idem, Oriente e Occidente (ed. or. 1924) (traduzione e cura di Pietro
Nutrizio), Luni, Milano 2013, pp. 18-35.
10 Confondere l’autentico “tradizionale” con il “reazionario” o “tradizionalista”
è uno dei crimini culturali più grandi che si possa fare, come segnalò già René
Guénon quasi settant’anni fa. Cfr. René Guénon, Tradizione e tradizionali-
smo, capitolo 31 di Idem, Il Regno della Quantità e i Segni dei Tempi (ed. or.
1945) (traduzione di Tullio Masera e Pietro Nutrizio), Adelphi, Milano 1982,
pp. 205-210.
Pier Paolo Pasolini, con il consueto acume, fu tra i primi a cogliere la diffe-
renza (vedi nota 305 del nostro saggio Il caos, il caso e il ritrovamento della
Tradizione. Una rilettura dell’opera di John Cage, in questo volume). Sulla
stessa lunghezza d’onda cfr. Giuseppe Cognetti, L’arca perduta. Tradizione
e critica del moderno in René Guénon, Pontecorboli, Firenze 1996, opera
appena ripubblicata in nuova edizione come L’età oscura. Attualità di René
Guénon, Mimesis, Milano 2014. Su quest’ultima cfr. nostra recensione:
http://www.europaquotidiano.it/2014/05/30/leta-oscura-di-rene-guenon/
11 Tutte le citazioni sono prese dalla edizione italiana: Lord Northbourne, Quale
progresso? Come lasciarsi alle spalle un’ideologia, Terre Sommerse, Roma
2007 (traduzione dall’inglese di Eduardo Ciampi).
14
d’una inalità. Quando l’idea di progresso viene applicata all’u-
manità nel suo insieme, o ad una sua qualsiasi parte, il modo in
cui viene concepita quella inalità dipende dalle risposte date ad
alcune domande, antiche quanto l’umanità, domande come: ‘Cos’è
l’universo’ ‘Cos’è la vita’ ‘Cos’è l’uomo?’”12.
Alle due mentalità corrisponde una diversa ricerca della libertà: “Sono
15
possibili due principali linee d’azione, relazionate rispettivamente
alle due parti della sua natura duale. Una è di cercare di liberare l’ego
dalle restrizioni imposte su di esso dall’ambiente, cioè migliorare
la propria situazione esterna. Questo è quel che la maggioranza di
noi cerca di fare in gran parte della propria vita. L’altra è cercare di
fuggire dalle limitazioni dell’ego come tale. In altre parole, possiamo
aspirare alla libertà per la nostra natura terrestre, o possiamo aspirare
alla libertà dalla nostra natura terrestre”.
16
mente beneico, e se la salvezza dell’anima immortale ha precedenza
sulla soddisfazione dell’ego, allora i suddetti obiettivi appariranno
in una luce assai diversa. Essi non si annulleranno, ma dare loro
importanza primaria implica stupidità e perversione. Per la maggior
parte della gente, invece, relegarli in posizioni subalterne, signiica
essere stupidi e persino perversi. Le attitudini e le azioni dei popoli
tradizionali ci appaiono spesso segnate da incomprensione ed insen-
sibilità. Ma a che servono i nostri successi nell’alleviare il dolore e
nel ritardare la morte se sono accompagnati dalla perdita proprio di
ciò che rende comprensibili e signiicativi, vita, morte e dolore?”.
17
esistono, e fa riferimento alle loro forme e qualità, come prodotti
della loro struttura osservabile e della loro interazione reciproca.
Cerca di discernere e di deinire le modalità di tali relazioni, e così
arrivare a qualcosa che rappresenta- se non, in modo assoluto, la
causa prima di tute le cose-quantomeno un tentativo di avvicina-
mento approssimativo, concepibile dalla mente umana. Il suo punto
di partenza preclude il fatto di prendere in considerazione qualsiasi
cosa che non sia nell’ambito della capacità della mente umana”.
18
L’unità, che è indivisibile, non può riguardare soltanto lui”15.
19
ine un’utopia temporale e terrestre”16.
20
Parte seconda
premessa
Fra il 196218 e il 197719, dunque nel breve spazio di tre lustri, uno
spettro si è aggirato per l’Europa 20 (e il mondo intero): l’antro-
pologia dell’etnologo francese Pierre Clastres (1934-1977). Di
quest’opera si può ripetere quanto Elémire Zolla scrisse a proposito
dell’opera di Hugo Winckler e la “scuola di Lipsia”: “da allora i
mestieranti accademici di qualche spicco poco hanno fatto se non
saccheggiare silenziosamente questo patrimonio che preferiscono
non menzionare, la cui intuizione centrale sono riusciti a rendere
tabù”21. In alternativa al “saccheggio silenzioso” si è optato per
21
il “cordone sanitario”22. Ma, al di là del metodo adottato, qual è
l’“intuizione centrale” che “sono riusciti a render tabù”? E, per
quel che concerne il presente saggio, in che modo tutto ciò ha a che
vedere con il tema della “violenza”?
22
coninarlo nel regno dei padri nobili dell’”antropologia anarchica”25.
Se Clastres è innanzitutto “l’erede di Lévi-Strauss”, è sul livello
epistemologico che va identiicato il suo lavoro, come quello del suo
maestro. Infatti, Clastres, che come Lévi-Strauss ha studiato ilo-
soia prima che etnologia, non ha fatto mai mistero di unire ad una
scrupolosa indagine sul campo e sui documenti un interesse estremo
verso la teoria, che informa di sé quasi tutti i suoi saggi, sebbene con
un linguaggio spesso affascinante e tutt’altro che accademico26.
il potere
Paradigmatico da questo punto di vista è lo straordinario saggio
del 1969, pubblicato sulla rivista francese “Critique” con il titolo
“Copernico e i selvaggi”27, nel quale si dichiara senza mezzi termini:
“Si tratta di una rivoluzione copernicana, nel senso che ino ad oggi,
e sotto certi aspetti, l’etnologia ha fatto ruotare le culture primitive
23
intorno alla civiltà occidentale e, si potrebbe dire, di moto centripeto.
L’antropologia politica ci sembra dimostrare ampiamente la necessità
di un rovesciamento completo delle prospettive (almeno se si intende
veramente fare sulle società arcaiche un discorso adeguato al loro
modo di essere, non a quello della nostra)”28. Poche righe prima
era stato riassunto il compito di un’antropologia politica generale
nell’articolazione di due grandi interrogativi:
24
2. Il potere politico (o relazione di comando ed obbedienza) non è il
modello del vero potere, ma semplicemente un caso particolare,
una realizzazione concreta del potere politico in certe culture,
quale l’occidentale (ma, naturalmente, non soltanto in questa).
Non vi è dunque alcuna ragione scientiica per farne il punto di
riferimento e il principio esplicativo di altre modalità differenti.
25
Nel saggio inale, che dà anche il titolo al suo opus magnum, la
nuova classiicazione è il punto di partenza: “La storia non ci offre,
in effetti, che due tipi di società assolutamente irriducibili l’una
all’altra, due macroclassi ciascuna delle quali comprende in sé delle
società che, al di là delle loro differenze, hanno in comune qualcosa
di fondamentale. Vi sono da una parte le società primitive, o senza
Stato, dall’altra le società statuali. È la presenza o l’assenza dell’i-
stituto dello Stato (suscettibile di assumere forme molteplici) che
assegna a ciascuna società il suo luogo logico, che traccia una linea
d’irreversibile discontinuità fra le società. L’apparizione dello Stato
ha operato la grande divisione tipologica fra selvaggi e civilizzati,
ha inscritto l’incancellabile cesura di là dalla quale tutto è cambiato,
perché il tempo diventa storia”32.
26
parole, e per quanto concerne le società primitive, il cambia-
mento al livello di quello che i marxisti chiamano l’infrastruttura
economica non determina affatto, come suo rilesso e corollario,
la sovrastruttura politica, poiché questa appare indipendente dalla
sua base materiale”35.
27
l’introduzione della differenza fra più ricchi e più poveri, perché
nessuno prova colà il desiderio assurdo di fare, di possedere, di
apparire più del suo vicino. La capacità, uguale per tutti, di soddi-
sfare i bisogni materiali, e lo scambio dei beni e dei servizi, che
impedisce costantemente l’accumulazione privata dei beni, rendono
semplicemente impossibile il nascere di un tale desiderio, desi-
derio di possesso che è, di fatto, desiderio di potere. La società
primitiva, prima società d’abbondanza, non lascia posto al desiderio
di sovrabbondanza”37.
37 Op. cit., p. 150. Clastres qui, come in tutto l’ultimo periodo della sua vita,
segue le tesi di antropologia economiche di Marshall David Sahlins, esposte
nel celebre volume, pubblicato nel 1972, Stone Age Economics (traduzione
italiana di Lucio Trevisan, L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbon-
danza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980). L’introduzione di
Clastres all’edizione francese dell’opera di Sahlins è apparsa in traduzione
poco dopo anche in Italia, cfr. “Società contro lo stato, società contro l’econo-
mia”, in “An. Archos”n. 1, febbraio 1978, pp. 11-24. La chiusura del saggio
già annunciava il suo ultimo scritto (vedi nota 34): “Il marxismo non può
pensare la società primitiva, poiché questa non è pensabile nel quadro della
dottrina marxista. Forse il marxismo può rivelarsi uno strumento conoscitivo
in rapporto a società dimidiate, o in rapporto a quelle strutture sociali, quali il
capitalismo, dove, apparentemente, al centro c’è l’economia. Ma tale metodo-
logia, applicata alle società indivise, società che pongono la loro unità nel
riiuto dell’economia, tale metodologia più che assurda si rivela oscurantista.
Se non è facile essere marxisti in ilosoia, è impossibile in etnologia”.
28
famiglie, lignaggi ecc., egli non dispone, per ristabilire l’ordine e
la concordia, che del solo prestigio che gli riconosce la società. Ma
prestigio non signiica potere, s’intende, e i mezzi a disposizione
del capo per assolvere il suo compito di paciicatore si limitano
esclusivamente all’uso della parola: nemmeno per arbitrare fra le
parti contendenti, egli può permettersi di prendere posizione per
l’una o l’altra; ma soltanto, armato della sola eloquenza, cercar di
persuadere coloro che deve paciicare di rinunciare alle ingiurie,
imitare gli antenati, che sono sempre vissuti in buona armonia.
Impresa mai garantita dal successo, scommessa ogni volta incerta,
perché la parola del capo non ha forza di legge. Se lo sforzo di
persuasione fallisce, il conlitto rischia di risolversi con la violenza
e il prestigio del capo può non sopravvivergli avendo egli dato prova
della propria impotenza a realizzare quanto si attendeva da lui”38.
29
la guerra
Fin qui la descrizione della società primitiva offerta da Pierre Clastres
è quella di una società che aborre la violenza e la coercizione, e che
mette in atto una rigorosa logica per scongiurare il sorgere di quel
monopolio per eccellenza della violenza, costituito dallo Stato. Se la
descrizione si fermasse qui non sarebbe scongiurata l’accusa di aver
ricostituito una ulteriore versione del mito del “buon selvaggio”, con
un “primitivo” tutto rose e iori. Niente di più sbagliato40. Nell’ultimo
periodo della sua vita Clastres stava lavorando al tema della guerra
nella società primitiva, e i due saggi che ha fatto in tempo a lasciarci
offrono illuminanti rilessioni in proposito41.
30
curioso o il ricercatore di scienze sociali si atterranno alla lettera
del discorso etnologico- o meglio se constateranno l’inesistenza di
un discorso sulla guerra primitiva in quella letteratura- potranno a
giusto titolo dedurne (fatta eccezione per alcuni aneddoti d’impor-
tanza secondaria) che la violenza non compare affatto nell’orizzonte
della vita sociale dei Selvaggi, che alla società primitiva è estraneo
qualunque conlitto armato, e che pertanto la guerra non è parte
del funzionamento normale, abituale delle società primitive. Una
volta esclusa la guerra dal discorso dell’etnologia, si potrà pensare
la società primitiva scissa dalla guerra. È giusto chiedersi, tuttavia,
se questo discorso scientiico sia vero; perciò smettiamo per un
istante di dargli retta e guardiamo alla realtà”42.
Come per il tema del potere, anche per quello della guerra Clastres
coniuga una scrupolosa indagine sul campo a un interesse estremo
verso la teoria: “Nessuna teoria generale della società primitiva può
evitare di tener conto della guerra; infatti il discorso sulla guerra
non si limita ad esser parte del discorso sulla società, ma addirittura
dà un senso a quest’ultimo: è l’dea della guerra ad esser misura
dell’idea della società. Per questo, l’assenza, nell’etnologia attuale, di
una rilessione sulla violenza potrebbe essere in un primo momento
spiegata con la sparizione effettiva della guerra, conseguente alla
perdita della libertà che riduce i Selvaggi a un paciismo coatto. Ma,
insieme, vi si potrebbe vedere il risultato dell’adesione a un tipo di
discorso sociologico tendente a escludere la guerra dall’ambito delle
relazioni sociali che sono parte della società primitiva. Il problema
consiste evidentemente nel capire se questo discorso è adeguato a
descrivere la realtà sociale primitiva. È opportuno dunque, prima
ancora di interrogare questa realtà, esporre sia pur brevemente il
discorso canonico sulla società e sulla guerra primitiva. Che si
31
sviluppa seguendo tre grandi direzioni: esiste infatti un discorso
naturalista, un discorso economicista e un discorso che la considera
come fenomeno di scambio”43.
32
Il secondo discorso sulla guerra da mettere da parte è quello econo-
micista, per il quale la guerra sarebbe il risultato della concorrenza
tra i gruppi per appropriarsi dei beni rari: “Sarebbe già dificile
capire da dove i Selvaggi, impegnati in una incessante ricerca del
cibo, potrebbero trarre l’energia e il tempo supplementari per guer-
reggiare contro i loro vicini: ma oltre a ciò, le ricerche attuali45
mostrano che l’economia primitiva è al contrario un’economia
dell’abbondanza e non della scarsità; la violenza non è dunque una
conseguenza della miseria, e la spiegazione economicista della
guerra vede crollare il proprio stesso fondamento. L’universalità
dell’abbondanza primitiva, infatti, esclude proprio che ad essa si
possa ricondurre l’universalità della guerra. Ma allora perché le
tribù sono in guerra? Per il momento, sappiamo già quale sia il
valore della risposta «materialista»; e se il processo economico non
ha nulla a che vedere con la guerra, sarà forse il caso di volgere lo
sguardo verso la struttura e l’azione politica46.
33
anche che sbagliarsi sulla guerra signiica sbagliarsi sulla società
nel suo complesso. Poiché crede che la caratteristica fondante
della società primitiva consista nel suo essere-per-lo-scambio,
Lévi-Strauss è indotto a concludere che la società primitiva e
società-contro-la guerra, una società in cui la guerra non è altro
che scambio mancato; il suo discorso è assai coerente ma falso, e
non perché sia viziato da una contraddizione interna, ma perché è
contrario alla realtà sociologica della società primitiva così come
può essere letta fondandosi sui dati dell’etnograia: non viene prima
lo scambio, ma la guerra, e proprio la guerra è inscritta nel modo
di funzionamento della società primitiva”47.
34
società primitiva ci dice che la guerra è contro lo Stato”49: “Riiuto
dell’uniicazione, riiuto dell’Uno separato, società contro lo Stato:
ogni comunità primitiva vuole continuare ad ubbidire alla propria
Legge (che le conferisce autonomia e indipendenza politica), riiu-
tando qualsiasi cambiamento sociale (la società resterà sempre
quel che è: un essere indiviso). Il riiuto dello Stato equivale al
riiuto dell’eteronomia, della Legge esteriore: detto in modo più
semplice, è il riiuto della sottomissione, che si inscrive come tale
nella struttura stessa della società primitiva […]. Che cos’è allora la
società primitiva? È una molteplicità di comunità indivise che ubbi-
discono tutte a una stessa logica del centrifugo. Qual è l’istituzione
che esprime e al tempo stesso garantisce la permanenza di questa
logica? È la guerra, cui risponde la vera natura delle relazioni fra
le comunità, e che è il principale mezzo sociologico per sostenere
la forza centrifuga di dispersione contro quella centripeta d’uniica-
zione. La macchina della guerra è motore della macchina sociale,
e la società primitiva si fonda interamente sulla guerra: la società
primitiva non può esistere né durare senza la guerra. Più intensa
è la guerra, minore è la spinta all’uniicazione; la guerra diviene
così il più forte nemico dello Stato, e la società primitiva è società
contro lo Stato in quanto è società-per-la-guerra”50.
Conclusione
Queste ultime parole di Pierre Clastres ci riportano al nostro assunto
iniziale: qual è l’”intuizione centrale” che “sono riusciti a render
tabù”? E in che modo tutto ciò ha a che vedere con il tema della
“violenza”? Il lettore che ci ha seguiti in qui adesso lo sa: “Fino a
prima di Clastres la società che ha sconitto e subordinato il potere
35
veniva collocata in una mitica età dell’oro oppure riportata ad un
divenire che doveva risultare la conseguenza di un processo storico,
ora invece le società che non si sono articolate intorno alla coppia
dominato-dominatore entrano nel concreto, esistono. Sono società
che hanno impedito a questa dimidiazione, a questa lacerazione
di svolgersi; hanno costruito un grande tessuto di civiltà artico-
landosi in modo diverso; uno spazio di libertà è esistito, uno spazio
di libertà sociali conquistate attraverso una grande sofferenza e
mantenute con la coscienza della presenza del dolore. Riferendosi
al capo che ha fatto innamorare la donna Clastres dice: «... illustra
perfettamente la concezione selvaggia di un potere radicalmente
differente dal nostro perché tutto lo sforzo del gruppo tende preci-
samente a separare «caperia e coercizione e dunque a rendere il
potere del capo impotente come strumento di coercizione della
società». Esiste anche un momento in cui la società si subordina al
capo, è la guerra, eppure anche questo momento si articola nella
società selvaggia come un dis-valore per l’organizzazione statalista
e come un valore positivo in quanto negazione di qualsiasi movi-
mento accentratore, centripeto, e coercitivo”51.
36
a quali condizioni una società cessa di essere primitiva? Perché
le codiiche comportamentali che scongiurano lo Stato vengono
meno in questo o quel momento della storia? È fuori dubbio che
solo un attento esame del funzionamento delle società primitive
permetterà di chiarire il problema delle origini. E forse la luce in
tal modo posta sul momento della nascita dello Stato chiarirà anche
le condizioni di possibilità (realizzabili o meno) della sua morte”52.
37
III. Il Sabato e il suo signiicato per l’uomo moderno.
Rilettura di un saggio di Abraham Joshua Heschel
premessa
Il Festival delle Scienze 2012 (19-22 gennaio all’Auditorium “Parco
della Musica” di Roma) ha avuto come suo tema “Il Tempo”. È stata
l’occasione per un confronto fra pensatori e studiosi di varia forma-
zione e disciplina, alcuni dei quali non hanno esitato a proporre
ipotesi insolite ed ardite sulla concezioni del tempo e perino sulla
sua eventuale inesistenza.
38
obiettivo. Tuttavia avere di più non signiica essere di più: il potere
che noi conseguiamo sullo spazio termina bruscamente alla linea
di conine del tempo: e il tempo è il cuore dell’esistenza. […] Noi
sappiamo, infatti, che cosa fare con lo spazio, ma non sappiamo
cosa fare con il tempo, senza porlo al servizio dello spazio. La
maggior parte di noi sembra affaticarsi per amore delle cose dello
spazio. Di conseguenza, soffriamo di profondo terrore del tempo e
rimaniamo atterriti quando siamo costretti a guardalo in faccia. Il
tempo per noi è sarcasmo, un viscido mostro traditore che nella sua
bocca da fornace incenerisce momento per momento la nostra vita.
Per non dover affrontare il tempo, noi cerchiamo rifugio nelle cose
dello spazio. […] L’uomo non può sottrarsi al problema del tempo.
A quanto più meditiamo, tanto più constatiamo che non possiamo
conquistare il tempo attraverso lo spazio. Possiamo dominare il
tempo soltanto nel tempo. […] Non è mia intenzione condannare
lo spazio. Denigrare lo spazio e la benedizione delle cose dello
spazio sarebbe denigrare le opere della creazione, le opere che
Dio contemplò e vide che «erano buone». Il mondo non può essere
visto esclusivamente sub specie temporis. Tempo e spazio sono
fra loro correlati; trascurare l’uno o l’altro signiica essere parzial-
mente ciechi. Noi ci opponiamo invece alla sottomissione incon-
dizionata dell’uomo allo spazio, il suo asservimento alle cose. Non
dobbiamo dimenticare che non è la cosa che conferisce signiicato
a un momento; è il momento che conferisce signiicato alle cose”.
39
una logica del tempo56.
40
iterativo, omogeneo, per cui tutte le ore sono uguali, senza qualità,
gusci vuoti, la Bibbia sente il carattere diversiicato del tempo: non
vi sono due ore uguali; ciascuna ora è unica, la sola concessa in
quel momento, esclusiva e ininitamente preziosa. L’ebraismo ci
insegna a sentirci legati alla santità nel tempo, ad essere legati ad
eventi sacri, a consacrare i santuari che emergono dal grandioso
corso del tempo. […] Il rituale ebraico può essere caratterizzato
come l’arte delle forme signiicative nel tempo, come architettura
del tempo […]. La maggior parte delle sue osservanze – il Sabato, la
Luna Nuova, le feste, l’anno sabbatico e l’anno del giubileo – sono
connesse a una certa ora del giorno o a una stagione dell’anno. Per
esempio, l’invito alla preghiera è legato alla sera, alla mattina e
o al pomeriggio. I principali temi della fede sono nell’ambito del
tempo; noi ricordiamo il giorno dell’esodo dall’Egitto, il giorno in
cui Israele si fermò al Sinai; la nostra speranza messianica è l’attesa
di un giorno, della ine dei giorni”.
41
santità nel tempo, il Sabato. […] In questo giorno siamo chiamati a
partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della
creazione al mistero della creazione; dal mondo della creazione alla
creazione del mondo”.
la transizione al sabato
Questo passaggio però non è automatico, occorre una conveniente
preparazione, che può scompaginare il Leviatano sociale57, cui
siamo furiosamente e nel contempo pateticamente aggrappati:
“Chi desidera entrare nella santità del giorno deve prima deporre
la profanità e il chiasso del commercio, il giogo della fatica. Deve
allontanarsi dallo stridore dei giorni dissonanti, dal nervosismo e
dalla furia dell’acquisire e dal tradimento perpetrato sulla sua stessa
vita. Egli deve prendere congedo dal lavoro manuale e imparare a
comprendere che il mondo è già stato creato e sopravviverà anche
senza l’aiuto dell’uomo. Per sei giorni della settimana noi lottiamo
con il mondo, spremendo proitto dalla terra; il Sabato ci interes-
siamo con cura speciale dei semi di eternità piantati nella nostra
anima. Al mondo diamo le nostre mani, ma la nostra anima appar-
tiene a Qualcun Altro. Per sei giorni della settimana noi cerchiamo
di dominare il mondo, nel settimo giorno cerchiamo di dominare il
nostro io. Nello spirito biblico, la fatica è un mezzo per il ine, e il
Sabato in quanto giorno di riposo dal lavoro non è stato creato per
far recuperare le energie perdute e renderci idonei alla successiva
fatica: esso è stato creato per amore della vita L’uomo non è bestia
57 Può essere di un certo interesse segnalare che la prima parte del I capitolo del
testo di Heschel fu pubblicata” il 17 marzo 1990 sul quotidiano comunista
“Il manifesto”, che all’epoca conteneva un inserto di due pagine intitolato “Il
Tempo, lavoro e vita, calendari di donne e uomini”. La citazione di Heschel
si collegava a una presa di posizione dei vescovi piemontesi in difesa della
domenica e contro il lavoro festivo.
42
da soma, e il sabato non serve ad accrescere la sua eficienza sul
lavoro. […] Il Sabato non è a servizio dei giorni feriali; sono invece
i giorni feriali che esistono in funzione del Sabato. Esso non è un
interludio, ma il culmine del vivere”.
43
per la vanità stessa di questa sua aflizione? Il Sabato non è tempo
di ansia o preoccupazione personale, di qualunque attività che possa
smorzare lo spirito di gioia. Il Sabato non è tempo per ricordare i
peccati, per confessare o pentirsi e nemmeno per invocare sollievo
o chiedere qualunque cosa di cui possiamo avere bisogno; è un
giorno fatto per la lode, non per le suppliche. Il digiuno, il lutto,
le manifestazioni di dolore sono proibiti. Il periodo di lutto viene
interrotto dal Sabato. […] Essere tristi al Sabato è un peccato. Infatti
il Sabato è un giorno d’armonia e di pace, pace tra uomo e uomo,
pace nel cuore dell’uomo e pace con tutte le cose. Nel settimo
giorno l’uomo non ha il diritto di interferire nel mondo di Dio, di
alterare lo stato delle cose isiche. […] Questo è il Sabato; la vera
felicità dell’universo”.
44
Non solo, ma attraverso il Sabato si manifesta all’uomo qualcosa
di altrimenti nascosto e inaccessibile, un’anima supplementare:
“La santità di questo giorno eletto non è qualcosa da contemplare
e dinanzi a cui ci si debba ritrarre in umiltà. È santo, ma non
lontano da noi; bensì in noi e per noi. […] Il Sabato conferisce
all’uomo qualcosa di reale, quasi percepibile, per così dire una
luce che splende dal suo intimo e che si irradia luminosa dal suo
volto. […] Secondo un’antica leggenda, la luce creata all’inizio
del mondo non fu la stessa che viene emessa dal sole, dalla luna
e dalle stelle. Questa luce del primo giorno era tale che avrebbe
permesso all’uomo di scorgere il mondo con uno sguardo solo, da
un estremo all’altro. Poiché l’uomo non era degno di godere della
benedizione di una simile luce, Dio la nascose; tuttavia nel mondo
futuro, essa splenderà dinanzi agli uomini giusti in tutta la sua
pristina gloria. Qualcosa di questa luce si rilette sui santi e sugli
uomini che agiscono in modo giusto, nel settimo giorno.: e questa
luce è chiamata l’anima supplementare”.
45
nulla di ciò che appartiene al tuo vocino; Io ti ho dato qualcosa che
appartiene a Me. Che cos’è questo qualcosa? L’ebraismo propugna
una visione della vita intesa come pellegrinaggio verso il settimo
giorno; l’aspirazione al Sabato durante tutti i giorni della settimana
esprime l’aspirazione al Sabato eterno durante tutti i giorni ella
nostra vita. Esso cerca di tramutare il nostro desiderio per le cose
dello spazio in desiderio per le cose del tempo, insegnando all’uomo
a desiderare il settimo giorno durante tutta la settimana”.
46
Il momento presente esiste perché Dio è presente. Ogni istante è un
atto di creazione. Un momento non è il punto d’arrivo ma un lampo,
il segnale dell’inizio. Il tempo è perpetua innovazione, è sinonimo
di continua creazione. Il tempo è il dono che Dio fa allo spazio”.
47
spazio. Nel giorno del Sabato ci è dato di partecipare alla santità
che è nel cuore del tempo. Anche quando l’anima è indurita, anche
quando dalla nostra gola rinsecchita non esce alcuna preghiera,
il riposo pulito e silenzioso del Sabato ci conduce a un regno di
ininita pace, o alla fonte della consapevolezza di ciò che signiica
l’eternità. Nel mondo del pensiero vi sono pochi concetti dotati di
una forza spirituale quanto quello del Sabato. In un futuro incom-
mensurabilmente lontano, quando le nostre teorie predilette saranno
ridotte a frammenti, quel meraviglioso arazzo cosmico splenderà
ancora. L’eternità esprime un giorno”.
Conclusione
Il testo che abbiamo voluto presentare, invitandone alla lettura,
ha in verità un’appendice intitolata “Spazio Tempo e Realtà (La
posizione centrale del tempo nella visione biblica del mondo)”. In
esso l’autore si confronta con alcuni aspetti del pensiero scientiico
occidentale, compresa la teoria della relatività einsteiniana. Non
ci è parso utile parlarne in questa sede, condividendo piuttosto le
seguenti parole dell’autore: “Appena noi lasciamo il regno della
isica e cambiamo non solo il metodo, ma lo scopo stesso della
conoscenza, tutti i nostri concetti assumono un aspetto e un signi-
icato diversi. Spazio e tempo ha nella ilosoia e nella religione un
signiicato diverso da quello che hanno nella isica. […] Il tentativo
di trasferire un concetto dal campo della isica, a cui spetta di
misurare gli eventi isici, a quello della metaisica, è evidentemente
ingenuo. L’eterogeneità di tempo e spazio non ha perso la sua
validità e, come ben sa ogni studente di ilosoia contemporanea, è
una caratteristica del pensiero moderno quella di prendere il tempo
in seria considerazione”.
Sono queste le parole che vale replicare anche a coloro che, come
48
ricordavamo all’inizio del presente articolo, nel corso del Festival
delle Scienze 2012 hanno con tanta sicumera discettato sull’e-
ventuale inesistenza del tempo. Ne sutor ultra crepidam, afferma
un ben noto proverbio, che tradotto nel nostro caso signiica che
esistono vari livelli di conoscenza, non uno!58
49
IV. I Maestri di Aletheia nella Grecia arcaica.
Rilettura di un saggio di Marcel Detienne
premessa
Nell’agosto 2011, sulle colonne del quotidiano “La Repubblica”, due
noti esponenti59 di quel che rimane in Italia, ma forse in generale,
della disciplina antica (ma non troppo, come vedremo) detta “ilo-
soia” hanno dialogato intorno al signiicato del termine “verità” nel
contesto attuale. La povertà di tale dibattito e delle sue miserrime
alternative (postmodernismo, neorealismo ecc.) suggeriscono di
riprendere in mano un piccolo, ma accurato studio pubblicato nel
1977 a Parigi presso la Librairie François Maspero: Les maîtres de
vérité dans la Grèce archaïque. L’autore, Marcel Detienne, è uno
storico che ha applicato alla propria disciplina un approccio antro-
pologico derivato in particolare dall’opera di Claude Lévi-Strauss.
59 Uno di essi, sulle colonne dello stesso quotidiano, qualche giorno prima aveva
confuso, non a caso, le funzioni della Trimurti indù (Brahma, Shiva, Visnu)!
60 Tutte le citazioni sono tratte dall’edizione italiana: Marcel Detienne, I maestri
di verità nella Grecia arcaica, Oscar Mondadori, Milano 1992.
50
poranei. […] Quando appare nel preludio del poema di Parmenide,
Aletheia 61 non scaturisce armata di tutto punto dalla mente del
ilosofo: ha una lunga storia alle spalle. […] La preistoria dell’A-
letheia ilosoica ci porta al sistema di pensiero dell’indovino, del
poeta e del re di giustizia, i tre settori dove un certo tipo di parola
si deinisce con Aletheia”. Prima del ilosofo c’è il saggio, anzi il
mago, più precisamente il sistema di pensiero del poeta, dell’in-
dovino e del re di giustizia, i tre settori dove un certo tipo di parola
si deinisce con Aletheia”.
Quanto alla prima: “Tutti gli epiteti della Musa, attraverso i quali
si sviluppa una vera e propria teologia della parola, testimoniano
l’importanza dell’equivalenza tra la Musa e la «parola cantata»
negli ambienti di aedi e poeti ispirati”.
61 Aletheia=Verità
51
istituisce un mondo simbolico religioso che è lo stesso reale”.
62 Su questo tema e sulla sua varia trattazione nella cultura contemporanea cfr.
Antonello Colimberti Dissociazione, Estetica e stati modiicati di coscienza,
in Trattato italiano di psichiatria culturale e delle migrazioni, (a cura di
Pietro Bria, Emanuele Caroppo, Patrizia Brogna, Mariantonietta Colimberti),
Società Editrice Universo, Roma 2010, pp. 205-209.
63 Lethe=Oblìo
52
sovranità: “Il Vecchio del Mare, dunque, rappresenta sul piano
mitico un aspetto della funzione di sovranità: il re di giustizia nelle
sue sembianze benevole e paterne”.
53
loro qualità proprie e da un piano del reale deinito, nella società
greca arcaica, attraverso la loro funzione”.
la parola magico-religiosa
Dopo aver presentato le igure del poeta, dell’indovino e del re di
giustizia come Maestri di Verità in quanto detentori di una parola
magico-religiosa, Detienne approfondisce lo statuto di questa parola.
54
effetti, i suoi detti di giustizia, sono una sorta di oracolo”.
67 Dike=Giustizia
68 Pistis=Fede
69 Peitho=Persuasione
55
Quanto alla prima: “Poiché Dike «realizza», la Giustizia è una
modalità della parola magico-religiosa allo stesso titolo di Aletheia.
Quando il Re pronuncia un «detto di giustizia», la sua parola ha
valore decisorio. Naturalmente, nel campo della giustizia l’Aletheia
è inseparabile da Dike. Nel mondo poetico, Dike però non è meno
indispensabile: un elogio si rende «con giustizia». […] In un certo
modo l’elogio è una forma di giustizia. Quando il poeta canta una
lode, segue la via della giustizia; i poeti sono «uomini di talento e
di equità». La loro Aletheia è rafforzata da Dike. Difatti, nel sistema
di pensiero religioso dove trionfa la parola eficace, non c’è alcuna
distanza tra la «verità» e la giustizia: questo tipo di parola è sempre
conforme all’ordine cosmico e ne è lo strumento necessario”.
56
Peitho, però, si mostra fondamentalmente ambivalente: beneica
e maleica. Ed è proprio questa ambiguità, che getta un ponte fra
il positivo e il negativo, a costituire il centro, e al tempo stesso il
motivo di crisi, dell’orizzonte di pensiero descritto da Detienne:
“Al livello del pensiero mitico, l’ambiguità è senza problemi in
quanto tutto questo pensiero obbedisce a una logica del contrasto
di cui l’ambiguità è un meccanismo essenziale. […] Per deinizione,
la parola è un aspetto della realtà; è una potenza eficace. Però
la potenza della parola non è orientata solo verso il reale; inevi-
tabilmente, è anche una potenza sugli altri; non esiste Aletheia
senza Peitho. Questa seconda forma della potenza della parola è
pericolosa: può essere l’illusione del reale. Ben presto si manifesta
un’inquietudine: la seduzione della parola è tale che essa può farsi
passare per la realtà; il logos può imporre allo spirito umano oggetti
che assomigliano alla realtà tanto da sembrar veri e che tuttavia
sono una vana immagine. Ma questa inquietudine, che traspare
attraverso alcuni versi di Esiodo e Pindaro, diviene un problema
fondamentale soltanto per un pensiero capace di porre la domanda
nuova, inedita, dei rapporti fra la parola e la realtà”.
le due vie
Alla crisi della parola magico-religiosa seguono due soluzioni, anti-
tetiche su un piano, complementari sull’altro: “Due soluzioni: quella
delle sette ilosoico-religiose, quella della Soistica e della Retorica.
Antitetiche: le prime collocano al centro del loro pensiero Aletheia
che diventa la nozione cardinale, mentre le seconde privilegiano
Apate70 che ha nel loro pensiero lo stesso ruolo di fondamentale
importanza. Complementari: le condizioni in cui Aletheia in un
caso regredisce, si dissolve, scompare e nell’altro si mantiene, si
70 Apate=Inganno
57
afferma, si consolida, offrono la prova in qualche modo speri-
mentale che Aletheia è realmente il centro di una conigurazione
di potenze religiose fra le quali intercorrono rapporti necessari”.
58
pongono in continuità con il passato: “Nel pensiero della sette
ilosoico-religiose, Aletheia è al centro di una conigurazione di
potenze e nozioni perfettamente omologhe a quelle che gli fanno
corteggio nel pensiero religioso: innestata dalla Memoria, in quanto
funzione religiosa, l’Aletheia è associata a Dike che segna la sua
identità con l’ordine delle cose”. È rafforzata anche dalla Pistis
che qui rappresenta la fede nell’Essere, l’accordo con una potenza
superiore di cui l’uomo accetta le rivelazioni, come nel pensiero
religioso degli indovini e dei poeti ispirati: la musa di Empedocle,
che dice l’Aletheia professa «parole degne di fede».
59
di verità»delle sette ilosoico-religiose prende tanto più coscienza
-lui che sa, lui che vede e dice l’Aletheia-della distanza che lo
separa dagli altri, dagli uomini che non sanno nulla, gli infelici
sballottati dal lusso incessante delle cose. Il veggente, sul piano
mitico, è in qualche modo naturalmente un «maestro di verità»,
sia esso indovino o poeta: l’Aletheia fa parte dell’ordine costitutivo
delle cose, è l’appannaggio di una funzione sociale, non è divisa
dall’Apate. Al contrario, nel mondo delle sette ilosoico-religiose,
dove la distanza fra gli dei e gli uomini si accresce, l’Aletheia
è nettamente scissa dall’Apate, non è più legata a una funzione
sociale: il mago è un individuo. Il nuovo «maestro di verità» prova
dunque necessariamente ciò che lo separa dagli altri uomini, tutto
ciò che lo rende un individuo d’eccezione”.
Il ilosofo
L’ultimo passaggio che Detienne ci descrive riguarda quello dal
mago al ilosofo, esempliicato dalla igura di Parmenide. Anche
qui, dapprima si sottolinea la continuità: “Quando Parmenide vuol
deinire la natura della sua attività spirituale e circoscrivere l’og-
getto della ricerca, ricorre al vocabolario delle sette e delle confra-
ternite. È il tema del viaggio sul carro. […] Solidale a un dono
di veggenza analogo a quello degli indovini e dei poeti ispirati,
l’Aletheia di Parmenide si dispiega inoltre al centro di una coni-
gurazione di potenze perfettamente simile a quella che domina il
pensiero religioso più antico. […] Per il suo contesto religioso, per
la sua conigurazione, l’Aletheia di Parmenide si iscrive nella linea
di una tradizione73 che, attraverso Epimenide e il movimento delle
60
sette, risale ino a Esiodo e al pensiero religioso di cui egli è il
testimone più autorevole. Le afinità, però si caratterizzano anche
su un terzo punto che tocca l’essenza della ilosoia parmenidea.
Per tutta la sua storia, Aletheia è al centro del problema dell’Essere:
dietro l’Aletheia dell’indovino, del poeta ispirato, abbiamo ricono-
sciuto la nozione di «parola-realtà» e l’Aletheia delle sette ilosoico-
religiose ci è apparsa come un primo schizzo dell’Essere-Uno. Ora,
in Parmenide il problema dell’Essere è centrale. […] Le afinità tra
Epimenide e Parmenide si caratterizzano inine su un ultimo punto:
il mondo di Parmenide è un mondo della scelta, come l’universo
delle sette ilosoico-religiose: esistono due vie, quella di Aletheia
e quella delle Doxai. O Aletheia o Apate”.
61
Conclusione
Con la deinizione di “abbozzo di una verità obiettiva” Detienne
conclude il suo excursus, che abbiamo voluto riassumere per il
lettore interessato ad avere un quadro più ampio del signiicato del
termine “verità”, anche alla luce degli attuali “dialoghi” sulle pagine
culturali di testate giornalistiche. Non sta a noi suggerire eventuali
e anche facili afinità fra l’antico e il moderno (ad esempio fra
pensiero soista e pensiero postmoderno), ma piuttosto ricordare a
chi abbia a cuore la sopravvivenza di una qualche nozione di Verità,
l’inutilità delle formule di breve successo escogitate al tavolino di
qualche convegno (vedi il caso del cosiddetto “neorealismo”).
74 Valgano come esempio le opere dello storico della scienza Giorgio de Santil-
lana, da Le origini del pensiero scientiico a Il mulino d’Amleto e Fato antico
e fato moderno.
62
Parte terza
63
stessi anni di concepimento e stesura del romanzo: l’Armonistica75
di Hans Kayser (1891-1964)76.
64
di indagine non è solo scientiica, ma sconina nell’ambito dei
rapporti tra forme materiali, spirituali e intellettuali che sembrano
non avere nulla in comune tranne il nesso col teorema armonico.
In questo senso la Harmonik è una dottrina delle corrispondenze;
65
di quanto appena detto da Dorles. Kayser afferma che l’Harmonik
è una norma, e non un “voler misurare al centimetro, o addi-
rittura al millimetro, per veriicare se questi valori sono rispettati
in un quadro”. Ecco l’errore di quei critici e di quegli artisti che
“pretendono che le norme da loro stabilite siano applicate al milli-
metro nelle opere d’arte che studiano,mentre noi vogliamo creare
delle norme allo scopo di attribuire, per così dire, il loro giusto
valore a queste conoscenze di fondo”. Dorles non è d’accordo che
“non si possa discutere la questione della scala musicale”, poiché
“si sa oggi che il problema della scala musicale non è assolutamente
dimostrabile con delle formule matematiche e quindi non rientra in
una possibilità di esattezza scientiica”. Al di là di questa osserva-
zione, si dice d’accordo sull’accezione aperta, e non dogmatica, con
cui Kayser ha appena spiegato quel “processo formativo” che sta
alla base tanto delle “forme vegetali” quanto di quelle artistiche”»78.
78 Ibidem, p. 64.
79 Ibidem, p. 142.
80 Cfr. Premesse antropologiche a un’estetica dell’asimmetrico, in Gillo Dorles,
Senso e insensatezza nell’arte d’oggi, Ellegi, Roma 1971, p. 157 e segg.
66
Banali, e al limite dell’offensivo, ci paiono invece le osservazioni
dello storico dell’architettura Daniele Pisani in una recensione agli
Atti del convegno: «… interventi a dir poco imbarazzanti, quali
quello di Hans Kayser, in cui la “dottrina del suono del mondo” in
cui consisterebbe l’Harmonik viene decantata come la panacea ai
mali del mondo moderno sulla base di presunti fondamenti scien-
tiici […] nostalgici dell’armonia perduta…»81
67
di determinati numeri d’ordine quello che noi possiamo udire e
sperimentare e che pervade la terra e il cosmo»83.
La conclusione è inevitabile:
«In seguito alle nozioni procurateci dalla “armonica” non è più
possibile (per dare un solo esempio) sorridere sprezzantemente
rappresentando che un giorno Keplero riteneva di udire la “musica
delle sfere”; ora riusciamo invece a capire ciò che egli, per intuizione,
sapeva: a motivo di quella capacità, nel più puro senso magica, egli
davvero “viveva”, forse addirittura “sentiva” il mondo e l’universo»85.
83 Ibidem, p. 134.
84 Ibidem, pp. 135-136.
85 Ibidem, p. 137.
68
La lenta crescita: Élemire Zolla e Rudolf Haase
Il testo di Gebser su Kayser fu pubblicato in Italia nel 1952.
Malgrado l’importanza sempre maggiore acquisita dall’autore nel
corso del tempo86, la sua risoluta indicazione ad occuparsi dell’Ar-
monistica non venne raccolta nel nostro Paese, ad eccezione di
Élemire Zolla che un decennio dopo, inserì nella sua nota intro-
duttiva all’antologia I mistici dell’Occidente uno straordinario
ottavo paragrafo, intitolato “Il misticismo come acusticità”, che
così scrive in puro stile kayseriano87:
86 Esiste anche una Società a lui dedicata, cfr. pagina web: http://www.gebser.org
87 Non si dimentichi peraltro che Kayser iniziò la sua carriera di scrittore e
studioso intorno al 1920-25 curando per le edizioni Insel di Lipsia i volumi
su Böhme e su Paracelso della collana di scritti di mistici tedeschi Der Dom.
69
occidentale determina con precisione la natura acustica della realtà
ponendo un rapporto esatto fra suono qualitativo (nota nella scala)
e sua determinazione quantitativa (lunghezza della corda, ampiezza
delle vibrazioni): i rapporti fra le note erano numericamente deinibili
e nel contempo udibili, la “materia” e lo “spirito” armonizzati dalla
corrispondenza; così a ogni suono che risuoni si riproduce in modello
minimo la creazione dell’universo e ogni atto di attenta audizione
consente di vedere l’armonia cosmica»88.
70
conoscenze scientiiche, cosicché ora, in seguito ai suoi studi, l’antico
pitagorismo appare in una veste del tutto nuova; e di fatto ha assunto
una dimensione che va assai oltre ciò che se ne poteva sapere nell’an-
tichità. Perciò a partire dall’Armonia Kayseriana possiamo pratica-
mente parlare di una nuova scienza, e d’altra parte passa in secondo
piano il fatto che questa si fondi su un’antica tradizione»91.
71
una disposizione dell’udito per i cosiddetti rapporti di proporzionalità
dell’intervallo, vale a dire per quegli intervalli che dai pitagorici in poi
costituiscono i fondamenti della nostra musica. E solo così si è trovato
l’ultimo anello di una catena di fatti, che insieme rappresentavano
il fondamento del pitagorismo armonico. Per Keplero e per Kayser
era naturale che gli intervalli fossero innati nella disposizione uditiva
dell’uomo, e proprio questo si sosteneva già nell’antichità; tuttavia ne
mancava ancora la prova e ora è stata trovata»94.
72
musicali presenti in strati inconsapevoli della nostra psiche, e per la
comprensione delle leggi della natura si serve del pensiero analogico,
vale a dire rivela le strutture morfologiche»95.
73
quella dello psicologo Riccardo Venturini99. Poi Alessandro Carrera
introduce la nuova scienza all’interno della rilessione musicologica
italiana100, Massimo Cacciari in quella ilosoica101 e Maria Franca
Frola in quello letterario.102 Ad essi farà seguito negli anni l’attenzione
costante e approfondita del paleontologo Roberto Fondi103 e dello
storico delle religioni Nuccio D’Anna104.
74
Sempre a partire dagli anni Ottanta l’Armonistica si fa largo in
Italia anche nella pratica artistica, in particolare in due ambiti
musicali: il paesaggio sonoro (nei due aspetti di soundscape studies,
studi sul paesaggio sonoro, e di environmental music, musica
ambientale) e il canto armonico. Nel primo caso è d’obbligo riferirsi
alla igura del compositore e studioso Albert Mayr (amico di lunga
data di Rudolf Haase105), il cui lavoro si è costantemente ispirato o
comunque confrontato con la tradizione pitagorica, e con l’Armo-
nistica in particolare, sia nei saggi che nelle opere artistiche106. Nel
secondo caso è d’obbligo riferirsi alla igura del musicista e studioso
Roberto Laneri, che a sua volta nella pratica e insegnamento del
canto armonico si è costantemente richiamato ai neopitagorici
contemporanei, fra i quali gli armonicali107.
La ine del Novecento e l’alba del nuovo secolo aprono una nuova
stagione dell’Armonistica in Italia con un rigoroso ritorno alle
fonti, ossia ad Hans Kayser. Tra il 1998 e il 2001 esce in cinque
volumi il monumentale Manuale di Armonica, l’opus magnum
105 Mayr fu promotore del volume citato alla nota 97 e traduttore del saggio di
Haase.
106 Nei numerosi saggi Mayr ha costantemente raccordato l’ambito dei
soundscape studies (studi sul paesaggio sonoro) a quelli dell’Armonistica,
mentre nelle opere artistiche (cfr. in particolare il lavoro graico Calendario
Armonico e i due lavori sonori Hora Harmonica e Dies Harmonica) vi ha
raccordato quello dell’environmental music (musica ambientale).
107 Cfr. in particolare l’opus magnum di Roberto Laneri, La voce dell’arcobaleno.
Origini, tecniche e applicazioni del canto armonico, Il Punto d’Incontro,
Vicenza 2002. Va segnalato che il testo di Laneri sul canto armonico era stato
preceduto in Italia dalla traduzione, presso la stessa casa editrice, di un saggio
di minore spessore culturale complessivo, ma con ampi riferimenti anch’esso
all’Armonistica: Jonathan Goldman, Il potere di guarigione dei suoni. Come
utilizzare le armoniche vocali per creare equilibrio, armonia e salute, Il Punto
d’Incontro, Vicenza 1998.
75
della Harmonik, pubblicato originariamente nel 1950 a Zurigo
in ottocento esemplari.108 La cura e la prefazione dell’opera sono
esemplarmente realizzate, con quello che un tempo si sarebbe detto
“intelletto d’amore, dalla studiosa di letteratura tedesca, docente
all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Maria Franca
Frola, che si attesta una volta di più come la più qualiicata e indi-
spensabile interprete di Kayser nel nostro Paese109.
108 Cfr. Hans Kayser, Manuale di Armonica (cura e prefazione di Maria Franca
Frola, traduzione di Isabella Valtolina), voll. 1-5, Fonte, Milano 1998-2001.
L’opera, da anni fuori catalogo, è fortunatamente consultabile e scaricabile
dalle pagine web:
http://www.esonet.it/News-ile-article-sid-1116.html
http://www.esonet.it/News-ile-article-sid-1135.html
http://www.esonet.it/News-ile-article-sid-1172.html
http://www.esonet.it/News-ile-article-sid-1207.html
http://www.esonet.it/News-ile-article-sid-1218.html
109 L’ampia parte dedicata a Kayser nel volume citato alla nota 76 ne costituiva
già una suficiente avvisaglia.
110 Cfr. Hans Kayser, Akròasis. La teoria dell’armonia del mondo (traduzione di
Alberico von Hüberstätten, revisione di Sahlan Momo), Semar, Roma 2011.
Sul web è possibile consultare e scaricare una diversa e successiva edizione
del testo: http://www.esonet.it/News-ile-article-sid-372.html.
76
di Kayser, quel Paestum111che nelle intenzioni dell’autore costituiva
una mera digressione, concernente l’Armonistica dei templi greci di
stile dorico, di una trilogia dal titolo complessivo Orphikon, di cui
fu completata solo la prima parte. Paestum, pubblicato originaria-
mente nel 1958 ad Heidelberg, fu l’ultima opera che l’autore poté
vedere conclusa prima della sua morte, avvenuta il 14 aprile 1964.
111 Cfr. Hans Kayser, Paestum. I suoni nascosti nei tre templi greci di Paestum
(cura e introduzione di Maria Franca Frola, traduzione di allievi del Master
in traduzione saggistico-letteraria tenutosi all’Università Cattolica di Milano
nell’anno accademico 2004-2005), Semar, Roma-L’Aja 2008. Inutile dire
che per questa edizione italiana valgono le stessa considerazioni già fatte per
il Manuale di Armonica (eccezionalità della cura ecc, con l’aggiunta di una
veste graica ed iconograica di grande eleganza).
112 Si tratta di una puntata del ciclo L’armonia del mondo (rubrica “Passioni”),
andata in onda su Radiotre il 31 luglio 2011 a cura di chi scrive, interamente
dedicata ad Hans Kayser e l’Armonistica, ospite della trasmissione Maria
Franca Frola. La puntata e l’intero ciclo possono essere ascoltati in podcast
alla seguente pagina web: http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/archivio/
ContentSet-930c74f5-1a63-432e-9cd8-e525e881b781.html.
113 Cfr. L’armonia del mondo. Hans Kayser e le forme della scienza pitagorica,
Simmetria, Roma 2015. (Atti dell’omonimo convegno, svoltosi a Roma il
21/2/2015).
77
VI. I conini della musica.
Presentazione e note a un saggio di R. Murray Schafer
78
ovviamente ed innanzitutto in quanto pioniere di quegli studi sul
paesaggio sonoro, che in alcuni suoi seguaci sono addirittura
divenuti studi sul “paesaggio ritmico-temporale” (timescape)118.
Deinizioni
L’attacco è radicale: «Nella cultura occidentale, molti termini sono
deiniti per contrasto rispetto ai loro opposti: la luce dal buio, il
buono dal cattivo, il bello dal brutto, la musica dalla non musica,
o dal rumore. Chi è alla ricerca di potere sociale sfrutta queste
categorie vicendevolmente esclusive per legittimare determinate
attività e stigmatizzarne altre»119.
Di qui, nel corso dei secoli, il succedersi di veti, da quelli della Chiesa
verso la musica profana a quelli della cultura bianca verso il jazz. Ma
deinire la musica per rigida opposizione non è obbligatorio, come
attesta la cultura giapponese o la stessa cultura greca arcaica, che
posseggono rispettivamente dei vocaboli come ongaku e mousikê
che coprono un’ampia gamma di signiicati spirituali e intellettuali.
Addirittura in molti paesi la parola musica nemmeno esiste: «Gran
parte della produzione sonora, in queste culture, sarebbe meglio
descritta dall’espressione magia dei suoni. C’è un suono speciale
per la guarigione, un altro per richiamare la pioggia, un altro ancora
79
per garantire una buona caccia o la sconitta di un nemico»120.
120 Ibidem. Della formazione nella Grecia antica di una musica teorica, non
più legata al mondo esterno, abbiamo diffusamente trattato in Il rapporto
uomo/natura alle radici della cultura musicale occidentale, Introduzione di
Antonello Colimberti (a cura di), Ecologia della musica. Saggi sul paesaggio
sonoro, Donzelli Editore, Roma 2004, pp. VII-XXXI.
121 Schafer, Musica/Non musica, lo spostamento delle frontiere, cit., p. 349.
L’antropologo Massimo Canevacci, pur apprezzando la ricca analisi di
Schafer, relativizza e sfuma l’opposizione spaziale aperto/chiuso: «Pur tutta-
via, in lui rimane una sorta di pregiudizio sulla cosiddetta superiorità popolare
dello spazio aperto come spazio pubblico contro lo spazio chiuso come
spazio aristocratico-borghese. In realtà così non è. Un autore così avanzato
non coglie le novità delle musiche isiche contemporanee che, pur stando
dentro spazi chiusi (le aree dismesse, vecchie fabbriche ecc.), si espandono
verso un oltre cartograico. La techno emessa in un rave non è una chiusura
della musica in confronto alla musica di strada più popolare. Al contrario,
la techno è incontrollata e incolmata, il suo inquinamento acustico è virale
nel senso che intacca ogni assuefazione normalizzata, ogni ecologia della
musica compatibile». (Massimo Canevacci, Graismi sonici, in http://www.
mediazone.info/site/_iles/documenti_pdf/Massimo%20Canevacci%20-%20
Graismi%20sonici.pdf).
80
Musica e rumore
«Con la vita in ambienti chiusi, due fattori si sono sviluppati in dire-
zioni opposte: l’arte somma della musica, da una parte, e l’inquina-
mento acustico, ovverossia i rumori, relegati all’esterno, dall’altra.
Da quando la musica d’arte si è trasferita in ambienti protetti, la
musica di strada è diventata oggetto di particolare disprezzo»122.
122 Ibidem.
Da sempre sensibile a questo aspetto è stato il compositore e artista visivo
del gruppo Fluxus Giuseppe Chiari, di cui ci occupiamo in un altro saggio
del volume. Fra i suoi testi più incisivi ricordiamo Suonare la città, dal
quale estrapoliamo dei passi: «Suonare la città è facile- quasi infantilmente
facile -è anche molto divertente, ma è illegale provate- se non ci credete a
suonare la città e vedrete che vi fermeranno subito subito non farete neppure
due passi ipotesi: voi montate un altoparlante su un’automobile mettete nel
registratore la Nona di Ludwig van Beethoven e avviate l’automobile in una
strada centrale alzate il volume vi fermano subito dopo cento metri è una
storia vissuta se avete un documento qualsiasi che dimostra che voi state
trasmettendo una reclame allora fanno proseguire- voi e la Nona se non avete
nessun documento allora voi suonate la città e questo non ha senso dunque
viene interrotto. […] Suonare la città signiica che un giorno lontano quando
vedremo un uomo giocare con un lungo bastone attraverso una cancellata e lo
sentiremo fare con gli elementi paralleli della cancellata delle linee tratteggiate
di rumore più itte o meno itte non vedremo un poliziotto arrestarlo perché
disturbava l’ordine» (Giuseppe Chiari, Suonare la città, in Michela Mollia (a
cura di ), Autobiograia della musica contemporanea, Lerici, Cosenza 1979,
pp. 229, 234, 235). Cfr. anche Giuseppe Chiari, Trattato di musica, Ulisse &
Calipso, Napoli 1993.
81
loro varie attività e sonorità compongono una spontanea polifonia
che non sembra disturbare nessuno, ma che anzi sembrano lasciare
perino degli spazi di quiete. Questo il commento del Nostro: «La
differenza tra Bruegel e Hogarth non dipende semplicemente dal loro
temperamento; essa è indicativa della sempre più netta distinzione
tra musica e ambiente sonoro- una distinzione resa più drastica, alla
ine del XVII secolo, dalla rapida diffusione di vetri per inestre. […]
La stampa di Hogarth ritrae inestre a vetro, la pittura di Bruegel no.
I personaggi di Bruegel si affacciano alle inestre per ascoltare, il
musicista di Hogarth va alla inestra per chiuderla».123
82
I “contenitori”: musica in lontananza e ascolto ravvicinato
Per Schafer nella storia della cultura i cambiamenti di contesto sono
di gran lunga più importanti di quelli stilistici: «Quando cambia il
contesto, cambia anche tutto il rimanente. Il primo grande cambia-
mento contestuale nella musica dell’Occidente avvenne quando la
musica abbandonò le strade per entrare nelle cattedrali; il secondo
con la creazione delle sale da concerto e i teatri operistici; gli studi
di registrazione e trasmissione sono responsabili del terzo, e inine
il recupero di echeggianti spazi aperti, siano essi urbani o rurali,
è il più recente. Ad ogni cambiamento del contesto, una porzione
considerevole di ciò che una volta era considerato musica viene
buttata via o condannata all’oblio degli archivi»124.
83
In particolare, poi, il cambiamento di contesto provoca impor-
tanti conseguenze sulla percezione: «La musica prodotta in luoghi
pubblici non richiede silenzio, si mescola con tutti gli altri suoni
presenti. Spesso non ha né un inizio né una ine, perché ci si passa
attraverso, o magari è lei che ci passa accanto. Non cerca pareti
di protezione o un pubblico raccolto che l’apprezzi. In termini di
consapevolezza sensoriale, potremmo dire che mentre la musica
eseguita in concerto incoraggia un ascolto focalizzato (e una visuale
focalizzata), la musica all’aperto stimola un ascolto periferico, invo-
lontario, di sottofondo»125.
125 Schafer, Musica/Non musica, lo spostamento delle frontiere, cit., p. 351. Sulle
differenze fra una visione centrale e una periferica ha scritto parole illuminanti
Alan Watts, di cui riportiamo il seguente lungo passo: «Noi siamo forniti di
due tipi di visione: quella centrale e quella periferica, non dissimili da una luce
concentrica e da una luce diffusa. La visione centrale serve per una visione
accurata come la lettura, nella quale i nostri occhi si concentrano su una
piccola area per volta, come dei fari. La visione periferica è meno cosciente,
è di splendore meno intenso che il fascio di luce del faro. La usiamo per
vederci la notte., e per acquisire una perfezione “subconscia” degli oggetti e
dei movimenti al di fuori della diretta linea della visione centrale. A differenza
della luce concentrica, essa può ammettere molte cose in una volta. V’è quindi
un’analogia (e forse più che una semplice analogia) fra la visione centrale e il
modo consapevole di pensare “una cosa per volta” e fra la visione periferica
e il processo piuttosto misterioso che ci rende capaci di regolare l’incredibile
complessità dei nostri corpi senza pensare affatto. Si potrebbe notare, inoltre,
che la ragione per cui noi chiamiamo complesso il nostro corpo deriva dal
tentativo di comprenderlo in termini di pensiero lineare, di parole e concetti.
Ma la complessità non risiede tanto nel nostro corpo quanto nel gravoso
compito di cercare di comprenderlo coi mezzi del pensiero. È come cercare
di cogliere i particolari di un salone con il semplice ausilio di un piccolo
raggio luminoso. È complicato come cercare di bere dell’acqua usando una
forchetta al posto di una tazza» (Alan W. Watts, La via dello zen, Feltrinelli,
Milano 1979, pp. 24-25).
84
nanza, e di solito è proprio così che rende meglio: il corno attra-
verso la foresta, i mietitori che cantano nei campi, le campane della
chiesa oltre la valle, mescolate ai versi di uccelli e altri animali, al
vento e all’acqua»126.
85
Ma le nuove tecnologie del XX secolo (altoparlanti, radio, regi-
stratori ecc.) hanno ulteriormente mutato il contesto dell’ascolto:
«Nel corso del secolo la musica si è estesa ovunque, dilagando in
ambienti nuovi. Ne sono conseguite la dislocazione e la moltipli-
cazione dei centri di potere, cosicché l’autorità una volta accordata
alle sale da concerto come punti nodali della società borghese otto-
centesca si è da tempo afievolita, o ha fatto marcia indietro»129.
129 Ibidem.
130 Ci si riferisce qui al celebre 4’ 33’’, pezzo interamente silenzioso, composto da
Cage nel 1952 e eseguito per la prima volta a Woodstock nel 1952. Nel corso
del tempo pochi in Italia seppero cogliere il senso del Vuoto e del Silenzio
cageano come Roberto Calasso in uno “storico” commento ad un concerto
milanese del compositore americano: «Cage, in fondo, non ha detto nulla di
tanto coinvolgente quanto la seguente ovvietà: che la musica è il mondo del
suono, perciò qualcosa che non comincia e non inisce nella sala da concerto,
ma ci accompagna in ogni attimo della vita. In una camera acusticamente
isolata non ascoltiamo il silenzio che è, se mai, una categoria metaisica), ma
il quasi impercettibile suono della circolazione del nostro sangue. Cage ha
invitato i suoi ascoltatori a rivolgere il loro orecchio a questa realtà. Ma, per
farlo, non bisogna tanto esercitare l’orecchio quanto la mente a costruire al
suo interno un po’ di Vuoto dove accogliere i suoni. Questa pacata risposta
può facilmente provocare reazioni violente, perché al proprio Pieno molti
sono pateticamente incollati (altrimenti- temono con ragione- non saprebbero
a cosa appigliarsi). Perciò, credo, Cage è tanto spesso ischiato». (Roberto
Calasso, John Cage o il piacere del Vuoto, in “Panorama”, 20 dicembre 1977).
86
erano solo una presa di coscienza di ciò che stava già accadendo. I
più ostinati frequentatori di concerti denunciarono questa fusione
come non musica, ma al di fuori delle sale essa prevaleva, dando
forma ad un nuovo tipo di ascolto che richiedeva non attenzione,
ma disattenzione. La musica andava udita come sottofondo, anziché
ascoltata consapevolmente»131.
87
centri commerciali e ambulatori medici. È stata persino introdotta
in alcune scuole americane. L’ultima istituzione a rimanerne esente
sembra essere la biblioteca pubblica»133.
gente che vi lavora, o conoscerà quali suoni siano nella natura e nelle esigenze
del lavoro». (Ezra Pound, L’orchestrazione dell’oficina, in Idem, Trattato
d’armonia e altri scritti musicali, Passigli Editori, Firenze 1988, pp. 131-132).
Cfr. anche R. Murray Schafer, Ezra Pound and Music, in “Canadian Music
Journal”, estate 1961, e R. Murray Schafer (ed), Ezra Pound and Music,
Faber and Faber, New York 1977. Su un altro piano le parole di Ezra Pound
sembrano entrare in corrispondenza con quelle del saggio africano Amadu-
Hampâte Bâ, quando alla domanda di Elémire Zolla se sarebbe possibile
trasformare in materia d’iniziazione, al pari degli antichi mestieri, il lavoro
industriale, rispose: «Nelle fabbriche non incantano le materie. L’uomo non
può dominare le materie se non canta. Da quando l’operaio non canta più la
macchina vive dell’anima umana. Forse di qui il gran numero di incidenti
sul lavoro? Ma per incantare le materie bisogna conoscerne i numeri, i ritmi.
I numeri sono i conduttori delle cose. Bisogna avere la scienza interiore, e
allora si apprende il ritmo della cosa e la si può estrarre, dominare, assimilare.
In caso contrario è essa che ci domina. Non a caso. Dio giura per i numeri».
(Elémire Zolla Introduzione a Amadu-Hampâte Bâ, Kaidara. Romanzo inizia-
tico, Rusconi, Milano 1971, p. 18).
133 Ibidem.
134 Il traduttore scrive “musica popolare”, ma crediamo sia da intendere nel
senso di popular music, termine che designa nei paesi anglosassoni la musica
leggera. L’aggettivo “popolare” indica appunto la diffusione di massa di tale
musica e non si riferisce, come il termine folk, a una cultura etnica.
88
della musica di sottofondo è quella di rendere conviviale l’ambiente,
di eliminare la tensione e prevenire attriti o fratture sociali. In quanto
tale, essa costituisce un’innegabile forma di musicoterapia»135.
135 Ibidem.
136 Tesi analoghe sono oggi propugnate nel più vasto campo estetico da Gillo
Dorles, come testimoniato dai suoi ultimi saggi, quali L’intervallo perduto,
Skira, Milano 2006 e Horror pleni. La (in) civiltà del rumore, Castelvecchi,
Roma 2008.
137 Si noti la differenza con la musica all’aperto rafigurata da Bruegel, dove nella
piazza si notano anche delle zone silenziose dove gli innamorati si possono
corteggiare e un bambino dormire tranquillo nella sua culla.
89
o generazione nei confronti della musica altrui non è oggi meno
evidente di un tempo, a dispetto della cosiddetta globalizzazione»138.
90
per Schafer quello della fusione fra musica e paesaggio sonoro, che
crea un interscambio dal paesaggio sonoro alla musica e viceversa:
«Gli etnomusicologi sono ben consapevoli del modo in cui la musica
popolare è stata inluenzata dai suoni della natura. È servito un po’
più di tempo ai musicologi per ammettere che compositori di rilievo
possano essere stati inluenzati allo stesso modo dai suoni dell’am-
biente in cui vivevano. […] Le inluenze della musica sul paesaggio
sonoro sono egualmente cospicue. Carillon, corni da caccia, corni
che annunciavano l’arrivo del postiglione sono alcuni esempi del
passato. Fischi di treni, clacson, telefoni, semafori e segnali d’an-
nuncio ne rappresentano le forme più recenti. […] La fusione di
musica e paesaggio sonoro ha prodotto alcuni effetti ironici. Siamo
testimoni diretti della crescente riproduzione, in forma sintetica,
di melodie ben conosciute sotto forma di prodotti che vanno dai
giocattoli per bambini ai chioschi di gelati ambulanti. In molti casi le
melodie contengono errori o inesattezze. […] In questo modo, “false”
varianti diventano “vere” per milioni di persone, tanto che la melodia
originale, se mai verrà ascoltata, sembrerà “sbagliata”. Nell’era della
duplicazione, il doppio può rendere obsoleto l’originale e imporre se
stesso come nuovo paradigma di autenticità»139.
139 Schafer, Musica/Non musica, lo spostamento delle frontiere, cit., pp. 356-357.
Anche su questo aspetto, di cui Schafer scorge solo il lato “apocalittico” valga
il confronto con Canevacci: «L’antropologia della musica si interessa dei
rumori, dei jingles, dei soundtracks, delle voci parlanti (lo sprechtgesang come
canto parlato non riguarda solo Wagner, ma anche il rap, le urla dei feriti, e la
rotazione delle pale degli elicotteri) abolendo le distinzioni canoniche di musica
classica, di massa e popolare, alla ricerca di intrecci, scansioni, attraversamenti,
miraggi e ibridizzazioni. La cavalcata delle valchirie in Apocalypse Now non
è più classica: è ibrida: perché non riprodotta nella sua purezza, ma nelle sue
sincretizzazioni sporche con panorami sonici e accelerazioni graiche. F. F.
Coppola e il suo compositore di sound-designer dissolvono l’aura delle valchirie
e liberano- anziché l’opera tradizionale ripetuta- una nuova ilologia sonica che
non è più fedele. O meglio, esprime la propria fedeltà testuale solo tradendo
l’identità al sempre uguale». (Massimo Canevacci, Graismi sonici, cit.).
91
“diritti sulle orecchie” ed ecologia acustica
Curiosamente, in tanta apparente caoticità, il vecchio diritto d’autore
sembra resistere, anzi potrebbe trovare nuove estensioni. «Una delle
caratteristiche principali dell’ambiente acustico è che un numero
crescente dei suoni che sentiamo appartiene a qualcuno. Molti
sono protetti dal diritto d’autore. Molti sono diventati il contras-
segno sonoro di determinati prodotti e per proteggerli sono state
combattute battaglie legali, esattamente come gli autori di canzoni
hanno combattuto per proteggerle da furti e plagi. Visto che prodotti
industriali continuano a riempire le nostre vite, e visto che il suono sta
diventando un elemento sempre più importante del confezionamento
di tali prodotti, è lecito immaginare per il futuro un ambiente acustico
dominato da un concetto simile a quello che l’industria alimentare
chiama “diritti sullo stomaco”- ovvero l’acquisto e la concessione in
esclusiva, per chi produce alimenti e bevande, del diritto di mettere
in commercio i propri prodotti in speciici territori. I “diritti sulle
orecchie” potrebbero diventare un argomento centrale nella sempre
più retorica guerra del commercio dei suoni»140.
140 Schafer, Musica/Non musica, lo spostamento delle frontiere, cit., pp. 357-358.
141 Sul lavoro pedagogico ricordiamo Schafer, Ear Cleaning. The Thinking Ear.
Complete Writings on Musical Education, BML, Don Mills 1967 (raccoglie cinque
pamphlet, due dei quali tradotti in italiano presso le Edizioni Suvini Zerboni di
Milano con il titolo La nuova orchestra: l’universo sonoro e… Quando le parole
suonano. Viaggio intorno alla vocalità), nonché Schafer, Educazione al suono.
100 esercizi per ascoltare e produrre il suono, Ricordi, Milano 1998.
92
dell’arte: «L’odierno paradigma musicale, una sorta di inarrestabile
diarrea di canzoni d’amore propinataci dalle chitarre, sarà sostituito
da forme nuove. I conini della musica continuano a mutare. In
Giappone, ad esempio, dei “progettisti dell’ambiente sonoro” sono
al lavoro per trovare dei suoni che possano decorare le stanze, così
come un normale arredatore farebbe con tessuti e colori. Questi
suoni non sono necessariamente complessi o continui. Potrebbero
essere brusii o semplici tracce, diverse in ogni singola stanza. C’è
da chiedersi: anche questa è musica? La musica del futuro, come
quella del passato, continuerà ad essere motivo di piacere, di dolore
e discussione; ma certo, non trattandosi di un elemento di impor-
tanza capitale per la sopravvivenza delle specie, nessuno riuscirà a
dimostrare chi ha torto e chi ha ragione»142.
142 Schafer, Musica/Non musica, lo spostamento delle frontiere, cit., pp. 358-359.
93
VII. Il paesaggio sonoro urbano
143 Maurizio Bettini, Voci – Antropologia sonora del mondo antico, Einaudi,
Torino 2008, p. 5. Cfr. nostra recensione:
http://www.europaquotidiano.it/2008/03/27/comerala-fonosferadegli-antichi/
144 R. Murray Schafer, Il paesaggio sonoro, Ricordi Unicopli, Milano 1985, cit.
in Bettini, cit., nota 1, p. 223.
94
Mayr: «Il primo progetto di ampio respiro realizzato da Schafer e
dai suoi collaboratori era The Vancouver Soundscape145, una docu-
mentazione sull’ambiente acustico della città in cui Schafer allora
viveva e insegnava. Essa consiste di registrazioni audio, descrizioni
verbali, spiegazioni teoriche e numerose fonti letterarie. Già qualche
anno prima, l’urbanista Michael Southworth146 (un allievo di Kevin
Lynch) aveva svolto una ricognizione sperimentale-acustica della
città di Boston, utilizzando tra l’altro alcuni non vedenti come
gruppo di controllo per la differenziazione tra luoghi acusticamente
informativi e non informativi»147.
145 R. Murray Schafer (a cura di), The Vancounver Sounscape, The World
Soundscape Project, Vancouver 1974.
146 Michael Southworth, The sonic environment of cities, in «Environment and
Behaviour», n. 1(1), 1969, pp. 49-70.
147 Albert Mayr, Introduzione a Idem (a cura di), Musica e suoni dell’ambiente,
Clueb, Bologna 2001, p. 8.
148 R. Murray Schafer (a cura di), Five village soundscapes, A.R.C. Publications,
Vancouver 1977.
95
citato in particolare il Centre de Recherche sur l’Environnement
Sonore (CRESSON) presso la Facoltà di Architettura dell’Uni-
versità di Grenoble, fondato da François Augoyard. Un campo al
quale il CRESSON si dedica prevalentemente è lo studio degli
«effetti sonori», vale a dire le reazioni a particolari conigurazioni
sonore, ma il centro si occupa anche molto degli aspetti acustici
negli ambienti ediicati. Sotto la direzione di Pascal Amphoux,
collaboratore del centro e docente presso l’École Polytechnique di
Losanna, è stata svolta una estesa indagine comparata su tre città
svizzere: Losanna, Zurigo e Locarno»149.
Verso la ine degli anni ‘80 si fece sempre più pressante l’esigenza
di un’organizzazione per il coordinamento degli studi sul paesaggio
sonoro. A Banff, nell’ambito della «First International Soundscape
Conference» del 1993, furono create le basi per il World Forum
for Acustic Ecology (WFAE), poi costituito formalmente durante
il convegno «Stockholm, Hey Listen» del 1998. Sono raggruppate
nel WFAE le diverse associazioni nazionali o sopranazionali;
attualmente: Australian Forum for Acustic Ecology, Canadian
Association for Sound Ecology/Association canadienne pour l’Éco-
logie sonore, United Kingdom and Ireland Soundscape Community,
Suomen Akustiken Ekologian Seura, American Society for Acoustic
Ecology, Forum Klangschaft (Svizzera, Austria, Germania, Italia),
Japanese Association for Sound Ecology.
149 Pascal Amphoux et alt., Aux écoutes de la ville. La qualité sonore des espaces
publics européens. Méthode d’analyse comparative: enquête sur trois villes
suisses, IREC Rapporto di ricerca 94, EPFL, Lausanne 1991.
96
New Soundscape Newsletter, venne curata da Justin Winkler a
Basilea. In seguito, a partire dal 2000, viene pubblicato il seme-
strale Soundscape- The Journal of Acoustic Ecology, curato da un
comitato redazionale internazionale.
97
venire ampliicati. Il passaggio da un paesaggio sonoro hi-i ad uno
lo-i è avvenuto con gradualità nel corso di molti secoli.»150
98
successo così totale dell’industraia se le macchine fossero state silen-
ziose. O, in termini ancora più enfatici e paradossali, se i cannoni
fossero stati silenziosi, non sarebbero mai serviti per fare la guerra.»153
99
primo impianto hi-i coincise esattamente con il momento in cui il
paesaggio sonoro mondiale scivolava in una condizione permanente
di ‘bassa fedeltà’».155
100
anche durare un’ora intera prima che si sia in grado di porsi in ascolto
con orecchio limpido. Talvolta è utile esercitarsi a trovare un suono
che presenti determinate caratteristiche. […] Può anche essere inte-
ressante isolare semplicemente alcuni suoni particolari presenti nel
paesaggio sonoro, per conoscere la loro frequenza e le loro modalità
di apparizione. […] Il registratore può rivelarsi un utile ausilio per
l’orecchio. Cercando di isolare un suono per una registrazione ad
alta fedeltà, l’orecchio è portato a notare quei dettagli presenti nel
paesaggio sonoro che in un primo momento erano passati quasi
inosservati. Il registratore permette di analizzare eventi e paesaggi
sonori in tempi successivi e, se lo si ritiene opportuno, di archiviarli
per il futuro. […] Si dovrebbe prestare soprattutto attenzione ai suoni
minacciati di estinzione e si dovrebbe cercare di registrarli prima
della loro scomparsa. Un oggetto sonoro in via di estinzione dovrebbe
essere considerato un importante reperto storico, dal momento che
un accurato archivio di queste registrazioni potrebbe rivelarsi, un
giorno, di estremi utilità e valore.»158
Inine, dopo aver riportato ampi esempi di ediici del mondo antico
dove i costruttori ediicavano non solo con l’occhio, ma anche con
l’orecchio (aniteatri della Grecia, moschee dell’Iran, templi della
Cina), propone come luogo centrale delle città un giardino pieno
di suoni, che restituisca attualità tanto ai giardini medioevali di
Bagdad, quanto a quelli italiani del Rinascimento e dell’età barocca:
«Un vero giardino è una festa per tutti i sensi. […] Un solo principio
potrà farci da guida in quest’impresa: lasciare che a parlare sia
sempre la natura. Acqua, vento, uccelli, legno e pietra- sono questi
gli elementi naturali che, come gli alberi e i cespugli, dovranno
essere modellati e strutturati in modo tale da produrre le loro
armonie più autentiche. […] Ci si dovrà preoccupare di riportare
101
almeno un’area del parco alle condizioni di un rifugio silenzioso,
nel mezzo della tumultuosa vita cittadina. […] Per questo motivo il
suo principale ornamento sarà il Tempio del Silenzio, una costru-
zione il cui unico scopo è la meditazione. Il Tempio del Silenzio
non ha nulla di particolare, se non che al suo interno tutti i visitatori
dovranno osservare il silenzio. Qui l’uomo affaticato potrà andare
alla ricerca della purezza dell’ultima musica, quella all’altro lato di
questo mondo, il silenzio, al centro del quale è possibile sentire il
suono delle grandi orbite della Musica delle Sfere.»159
102
Pascal Amphoux e l’Antropologia dell’Immaginario
Il secondo approccio al paesaggio sonoro è opera uno di uno dei più
prestigiosi esponenti del CRESSON (Centre de Recherche sur l’En-
vironnement Sonore della Facoltà di Architettura dell’Università di
Grenoble), l’architetto e geografo Pascal Amphoux.
Seguiamolo, in particolare per quanto riguarda il paesaggio sonoro
urbano, attraverso un recente intervento nel nostro Paese.
Il punto di partenza è una tricotomia: «Nella vita quotidiana, tre tipi
di relazioni con il mondo sonoro si compenetrano, privilegiando tre
atteggiamenti contrastanti (ascoltare, udire, intendere). Li deiniamo
rispettivamente ‘ambiente sonoro’, ‘contesto sonoro’ e ‘paesaggio
sonoro’. […] È infatti possibile evidenziare il fatto che l’ascolto di
una sequenza sonora implichi, per lo stesso ascoltatore, tre modi
di qualiicarla: può considerarla come un ambiente sonoro esterno
rispetto a sé stesso e con il quale mantiene relazioni funzionali di
emissione o ricezione; oppure come un contesto sonoro nel quale si
trova immerso e con il quale mantiene relazioni fusionali attraverso
le proprie attività; oppure come un paesaggio sonoro (in senso stretto)
contemporaneamente interno ed esterno rispetto a sé stesso e con il
quale mantiene relazioni percettive attraverso le sue esperienze este-
tiche. Signiica quindi che le parole ambiente, contesto e paesaggio
acquisiscono accezioni diverse. Non indicano tre tipi di sequenze di
natura diversa, bensì tre modi di ascoltare una stessa sequenza.»162
162 Pascal Amphoux, La città suonante - Dalla teoria alla pratica, in “Atlas”, n.
31 / La città suonante – Percezione e elaborazione del suono per la progetta-
zione urbana (a cura di Valeria Merlini), Atti del Seminario omonimo tenuto
a Bolzano il 17 novembre 2006, p. 39. Nel fascicolo, dedicato interamente
al paesaggio sonoro urbano, sono presenti, oltre a Amphoux, contributi di
Peter Morello, Albert Mayr, Valeria Merlini, Patrizia Tricanato, Maria Grazia
Pasquali, Silvano Bassetti, Elita Maule, Günter Olias, Stefano Zorzanello,
Georg Pichler, Detleu Ipsen, Olaf Schäfer.
103
Il primo atteggiamento è riassumibile nella seguente deinizione
formale: «L’ambiente sonoro indica l’insieme dei fatti oggettivabili,
misurabili e gestibili del mondo sonoro. In altri termini, l’ascolto
ambientale indica la rappresentazione che viene fatta del mondo
sonoro quando il soggetto attua un ascolto oggettivante, analitico
e gestionale (in una determinata cultura). Diremo che l’oggetto di
questo ascolto è la qualità acustica dell’ambiente sonoro.»163
104
ascoltatore assorto. L’oggetto di questa intesa è ciò che abbiamo
deinito bellezza fonica del paesaggio sonoro. La qualità ‘acustica’
rimandava alla dimensione fisica e oggettivabile dell’ambiente
sonoro, il benessere ‘sonoro’ alla dimensione vissuta e soggettiva
del contesto sonoro, la bellezza ‘fonica’, ora, connota la dimensione
contemplativa del paesaggio sonoro, nel senso in cui si può dire che
egli ‘ci parla’ (dalla radice greca phonè).»165
165 Ibidem.
166 Ibidem, p. 42.
105
L’approccio ambientale si colloca sotto il segno della correzione
acustica, che consiste sia nell’apportare correzioni all’ambiente, sia
nell’esigere correttezza da parte di un potere che potrebbe degenerare
in una sorta di ‘totalitarismo fonurgico’ vedendo (o meno) i danni che
la correzione potrebbe produrre sull’ambiente o sul paesaggio.»167
106
Riassumiamo, inine, le caratteristiche del terzo atteggiamento: «Il
terzo atteggiamento, inine, è creativo e consite nel comporre il
paesaggio. A questo livello, due tipi di azioni sono possibili. Si può
agire in situ, cioè sull’aspetto materiale del sito o delle emissioni
(trasformazione acustica dello spazio, sonorizzazione…), oppure in
auditu, ovvero sull’ascolto del pubblico, per cercare di costituire,
pian piano, una cultura sonora (più ampia rispetto a quella musicale)
che porti questo pubblico a modiicare ‘sensibilmente’ il proprio
ascolto ordinario in ambiente urbano. Nel primo caso è impossibile
fornire dottrine o raccomandazioni: bisogna lasciare agli ideatori la
possibilità di sviluppare progetti, ambiziosi o modesti, spettacolari
o poco percepibili, temporanei o permanenti. Nel secondo caso, è
possibile promuovere operazioni più dirette di sensibilizzazione
rispetto all’ambiente sonoro, con l’installazione di ‘mostre sonore’,
vale a dire manifestazioni in cui gli oggetti esposti sono ‘elementi
sonori’ […]. L’approccio paesaggistico, inine si colloca nel quadro
della creazione fonica che non consiste più nel correggere l’am-
biente né nel pianiicare il contesto, bensì nella promozione di
azioni, esperimenti e pratiche che stimolino via via l’acquisizione
di una cultura sonora radicata, alla stregua di una cultura letteraria,
cinematograica o architettonica.»169
107
in Gilbert Durand171 il suo fondatore, sostiene la tesi del valore
intrinseco e non strumentale dell’immagine. Estendendo tale
visione all’immagine sonora questo comporta una valorizzazione
dell’immaginario sonoro per le sue intrinseche qualità, non solo di
carattere naturale e sociale (di ambiente e contesto, nel linguaggio
di Amphoux), ma anche simboliche e metaisiche (di paesaggio nel
linguaggio di Amphoux).172
108
Echi antichi di un possibile futuro
A conclusione di questo breve excursus pare evidente perché tener
conto del paesaggio sonoro, ed in particolare di quello urbano, può
migliorare la qualità della vita delle persone, anche sotto il proilo
dell’identità culturale.
109
delle strade. All’estero cominciano ad affermarsi delle esperienze
in questo campo.»173
110
Comune ai due autori sembra essere, forse, il mito di una città
ideale, la stesso descritto in ripetute occasioni da un autore di
eccezione come Elémire Zolla 176: «Chi percorra gli scritti di
Zolla compresi tra il 1970 e il 1991 s’imbatte spesso in descri-
zioni di città ideali, dalla Città Perfetta, esplorata in Che cos’è la
Tradizione (1970) alla Città del sole in Aure (1985) alla Città della
Sapienza ne L’uomo perfetto nel 2030 (1991). La Carta balinese
del paesaggio interiore della testa riprodotta in Aure suggerisce
che quei luoghi visitati dal vivo, ricostruiti sulle evidenze storiche
o affabulati come altrettanti miti di una ‘conoscenza leggera’
(l’espressione Bambara è di Griaule), sono alla fin fine tutti
mentali, fatti della stessa sostanza dei sogni, realmente imma-
ginali come i sogni.»177
111
la città arcaica
La città arcaica fu anzitutto un simbolo; luogo
di contemplazione mistica, soltanto in un secondo tempo
si ridusse a un borgo fortiicato e centro di lavoro e di scambi.
Il suo sito era scelto per ispirazione divina e determinato
secondo un rituale
di geometria sacrale, la sua compagine forniva una ricapitolazione
del cosmo, si poneva come centro della terra dell’Uomo Divino.
Tutto vi era funzionale a ini contemplativi e stellari.
elemire zolla, Che cos’è la tradizione
la città zodiacale
Anche quando non si orientata con la cura astronomica
di Teotihuacan (‘citta degli dei’ in nahuatl) il villaggio o
l’accampamento indigeno è zodiacale, doppiamente diviso
secondo le due linee, del cardo e del decumano, da settentrione
a mezzodì e da oriente a ponente, con al centro il luogo del culto…
elemire zolla, Che cos’è la tradizione
il villaggio cosmo
(presso i Dogon) il villaggio è l’uomo divino che a settentrione
ha la testa (la quale si traduce nella forgia e nel luogo di
adunata degli anziani), a oriente e a ponente le mani (vi si
trovano le capanne dove le donne si recano in periodo impuro),
a mezzodì sono i piedi (le aree comuni). La città è duplice come
la diade divina e fra le sue metà è un cerchio che simboleggia il
cielo con l’ara della’avo dimentato serpente, emblema del sole
fra le are del fondatore rappresentanti le stelle.
elemire zolla, Che cos’è la tradizione
112
Parte quarta
premessa
«Non sperate di liberarvi dei libri»: è questo il titolo della
conversazione di Umberto Eco con Jean-Claude Carrière, pubblicata
da Bompiani ma anticipata in anteprima mondiale all’inaugurazione
della ventiduesima edizione della Fiera Internazionale del Libro di
Torino al Lingotto (14 maggio 2009). Come annunciato dai mass
media, i due prestigiosi e famosi intellettuali hanno affrontato il
futuro dei libri nell’età digitale, discutendo il ruolo della memoria,
la forza dei linguaggi visivi, il rapporto con il tempo, i pericoli e
le potenzialità dei nuovi strumenti, in un viaggio che va dal papiro
all’e-book. Com’è lecito aspettarsi, i due uomini di libro178 non
hanno mancato al loro dovere di compiere intelligenti ed argute
rilessioni sul tema, ma il titolo della conversazione preannuncia
una scontata autodifesa d’uficio della nostra tradizione letteraria
(nel senso di libresca) di contro alle nefandezze degli attuali mezzi
di comunicazione, magari visti anche come alieri dell’irrazionale e
distruttori del principio di non contraddizione (antica e ricorrente
ossessione di Umberto Eco, poi ripresa anche da altri)179.
178 Per il termine uomini di libro cfr. Ferdinando Taviani, Uomini di scena,
uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento,
Il Mulino, Bologna 1995.
179 In un’altra Fiera del libro (Francoforte) di alcuni anni fa Umberto Eco
113
Ma si tratta di vere opposizioni? I più avanzati modelli di ricerca
nelle scienze umane mettono ora fortemente in questione l’egemonia
tanto della civiltà del libro quanto della civiltà dell’immagine, quale
l’Occidente ha conosciuto in parte dai Greci, ma soprattutto dall’in-
venzione della stampa in poi. Proponiamo al lettore tre esempi,
tratti da altrettanti campi disciplinari, attraverso il lavoro di cinque
ricercatori italiani, tra i primi e più sensibili a recepire e sviluppare
nuovi paradigmi. 180
Antropologia culturale
Negli ultimi venti anni circa si è diffusa a livello internazionale
una nuova corrente di studi antropologici andata sotto il nome di
antropologia sensoriale o antropologia dei sensi. Alcuni dei suoi
più importanti esponenti appartengono alla scuola canadese di
David Howes e Constance Classen, ma non mancano statunitensi
di rilievo come Paul Stoller. Nel nostro Paese sono stati tradotti
solo pochi lavori di autori francesi come David Le Breton181, Alain
114
Corbin182 e Annick Le Guérer183, ma l’etnologo Alessandro Gusman
si è curato di presentare tale indirizzo in un suo pionieristico e
brillante lavoro: «I temi principali dell’antropologia sensoriale sono
tre: la critica del visualismo, il tentativo di coinvolgere tutti i sensi
nella pratica etnograica, e l’analisi dei modelli sensoriali vigenti
presso le società studiate.»184
182 Alain Corbin, Storia sociale degli odori. XVIII e XIX secolo, Mondadori,
Milano 1983.
183 Annick Le Guérer, I poteri dell’odore, Bollati Boringhieri, Torino 2004.
184 Alessandro Gusman, Antropologia dell’olfatto, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 9.
185 Ibidem.
115
particolari, infatti, gli uomini si sono afidati di più agli altri sensi,
cercando di adoperarli tutti al massimo delle loro potenzialità.»186
116
di pre-comprensione) di quali siano i fatti più importanti. L’invito
teorico degli antropologi sensoriali è perciò quello di smettere di
intendere le culture come testi, o più generalmente come qualcosa
da osservare, per cercare di fare proprio, per quanto possibile, il
modello sensoriale della società studiata.»188
Musica
In precisa corrispondenza alle tesi dell’antropologia sensoriale si è
deinita nel corso degli anni la ricerca teorica di Roberto Barbanti
sulla contrapposizione fra il paradigma acustico e il paradigma
retinico. Non ci soffermiano sui riferimenti storici che sono gli stessi
del paragrafo precedente (Aristotele, l’invenzione della prospettiva
e della stampa ecc.) per soffermarci invece sulle sue preziose indi-
cazioni sul presente: «A partire da questi anni, con l’invenzione del
computer assistiamo ad un ulteriore salto qualitativo che porterà
dall’analogico al digitale, e dunque alle immagini di sintesi. Queste
117
non riproducono più nulla, non sono più la traccia di un qualsivoglia
referente, ma al contrario, divenute totalmente intellegibili e model-
lizzate, esse sono prodotte ex novo letteralmente concepite in quanto
risultato di un processo puramente astratto/matematico: concettuale,
come afferma Bill Viola. ma non è tutto, poichè, grazie alla carat-
teristica di intellegibilità, tali immagini diventano anche interattive.
Ciò sottintende e necessita un’implicazione totale del soggetto all’in-
terno di questa dinamica. Il soggetto è in effetti, ancora una volta,
pre-igurato in termini algoritmici ed ogni sua mossa interattiva è, e
deve essere, alla lettera pre-vista. Queste immagini ci assorbono- ma
questo inglobamento, dunque, non sotto il segno della partecipazione
comune, dell’interscambio (vale a dire, come un primo approccio
lascerebbe intendere, con modalità acustiche), bensì, sotto quello del
distacco, della rigidità e della quantiicazione: il distacco analitico
necessario alla previsione algoritmica,la rigidità di questo universo
che è dato, in modo deinitivo, nei suoi elementi costitutivi, e la quan-
tiicazione che presiede a tutto questo processo.»190
118
espone in modo acustico. Ecco dunque l’aspetto fondamentale dell’ul-
tramedialità dissolvenza-superamento (ultra, vale a dire al di là) del
medium nella sua molecolarizzazione, ed eccsso (ultra) nella sua
generalizzazione pervasiva. […] Rigidità ultra retinica: la visione è
chiamata a penetrare e pre-vedere ogni aspetto del reale.»191
119
Non solo, ma al pari degli altri sistemi sensoriali rilevati dagli
antropologi, la musica non-notata viene tacciata di primitivismo:
«In una società vivente/scrivente tanto la musica quanto l’estetica
musicale risultano progressivamente centrate sulla partitura e sulla
testualità (e si ricordi che la scrittura musicale non ha unito, ma
separato opponendo quelli che sapevano cifrare e decifrare a quelli
che ne erano incapaci), l’improvvisazione, appresa oralmente o ad
orecchio e praticata su basi aurali anche da chi non si sottopone
all’autorità dell’ordine simbolico iscritto nella notazione, non può
che diventare iglia di un’estetica minore. Che tipo di oggetto è una
musica non solo generata mentre la si suona, ma appartenente al
registro dell’oralità ed anzi della vocalità, vale a dire concepita al di
fuori della scrittura e collegata al corpo vibrante e sonoro, contras-
segno sensibile della distinzione individuale? Un oggetto, anzi un
evento, che genera sospetto se non difidenza. Non un’opera, ma
la messa in opera, l’opera-azione. Ancora oggi vi sono sopravvi-
venze lessicali di questa connotazione negativa associata al termine
improvvisare, ad esempio quando si parla di soluzione improv-
visata, basata cioè su un grado di preparazione insuficiente, o
quando si conina la condotta improvvisata ai primi stadi dell’e-
voluzione musicale, come se si trattasse di un’abilità primitiva»193.
teatro
Se adesso passiamo agli studi teatrali, il primo a tematizzare nel
nostro paese la questione oralità/scrittura è stato Ambrogio Artoni,
che parte ancora una volta da Aristotele: «Dove si ferma Platone,
Aristotele compie un passo decisivo che gli consente infine di
azzardare un’ulteriore mossa. Deinita l’autonomia letteraria del
discorso poetico, è anche in grado di riconsiderare almeno in parte
120
la questione stessa della performance, come si intuisce da una certa
apertura allo spettacolo (nella Poetica) e come soprattutto si chiarisce
in alcuni passi della Politica. Quello che conta, è che comunque
il rapporto comunicativo sia unidirezionale, che la performance
dell’attore (del musico, del rapsodo) non implichi la com-parteci-
pazione attiva del destinatario: è il modello implicito del rapporto
scrittura/lettura che Aristotele allarga a quello intercorrente fra
esecuzione e ricezione. A noi la cosa può sembrare paciica, ma agli
occhi di un osservatore greco del IV secolo si trattava di operare uno
spostamento tutt’altro che scontato, come dimostra il vero e proprio
accanimento con cui Aristotele insiste sul concetto nella Politica. […]
L’ideale di Aristotele non si discosterebbe pertanto da un modello di
azione teatrale di dizione (o poco più) nel quale il ruolo di musica,
phoné e gesto non possano competere con l’essenza letteraria della
parola drammatica. Di qui anche i sospetti, ma anche gli anatemi nei
confronti dell’attore, ultimo, ma non residuale erede della tradizione
orale. Un surrogato, dirà il giovane Nietzsche nella Nascita della
Tragedia, del vecchio dionisiaco spirito della musica, che tuttavia
- come sappiamo - rimarrà sempre una minacciosa presenza agli
occhi della cultura occidentale e dei suoi etnocentrici fondamenti.»194
121
nei panni dell’attore, sulla nuova scena spettacolare, cui portò in
dote la costitutiva efimerità del suo fare: il gesto naturalmente, ma
anche il virtuosismo della voce, ino al canto appassionato che mentre
tendeva a sopraffare il canonico, misurato stile recitativo, tendeva ad
eccederne la funzione ino a sopraffare il canonico, misurato stile
recitativo. […] Ma gli animi che nonostante tutto riusciva ancora
a iniammare erano altri ormai rispetto a quelli che nel frattempo
avevano trasferito i teatri della poesia e del sapere sugli scaffali e sui
leggii delle biblioteche.»195
122
ci hanno insegnato le neuroscienze negli ultimi trenta-quarant’anni,
la fruizione estetica occidentale non rimuove, o almeno sottoutilizza,
soltanto il corpo (ivi compreso il cervello addominale), ma sottouti-
lizza anche il cervello superiore: più esattamente, l’emisfero destro,
cui sono demandate le funzione del movimento, della spazialità,
del pensiero olistico e della creatività, a favore dell’emisfero destro,
secondo la teoria della lateralizzazione, e gli strati più arcaici, del
cervello rettile e di quello paleomammifero, a favore della neo-
corteccia, secondo la teoria di Paul Mac Lean.»197
197 Marco De Marinis, Lo spazio della mente e lo spazio del corpo: nuovi
paradigmi per l’esperienza teatrale, in “Drammaturgia”, n. 10, 2003, pp.
390-391.
198 Ibidem, pp. 403-404.
123
Conclusione (fra terra e cielo)
Tirando le ila del nostro breve excursus, vorremo rilevare che la
vera posta in gioco oggi non è fra la civiltà del libro e la civiltà
dell’immagine, come il ritorno di un umanesimo accademico199 vuol
farci credere, ma semmai fra una deinitiva perdita dei sensi200 e un
possibile ritorno dei sensi. E questo anche in vista di mete più mistiche,
perché, come scrisse con consueta e rara precisione Elémire Zolla:
«Per trascendere il mondo bisogna che il mondo ci sia, per attingere
il soprannaturale è necessario che ci si rappresenti il naturale.»201
Non è un caso che la tradizione mistica cristiana202 parli di sensi
124
soprannaturali, come ricorda l’antropologo dei sensi David Le
Breton: «La tradizione cristiana fa riferimento anche alla dottrina
dei sensi spirituali formulata da Origene, ripresa da Gregorio di
Nissa, evocata da Agostino ed elaborata in seguito da Bonaventura.
I sensi spirituali sono associati all’anima e si iscrivono nella meta-
isica scaturita da una fede profonda, che consente di percepire
mediante organi spirituali l’impressione della presenza di Dio, del
quale la sensorialità profana non potrebbe rendere conto. I sensi
spirituali non abitano in permanenza il fedele, ma intervengono
a volte attraverso intuizioni folgoranti, offrendogli accessi a una
realtà soprannaturale segnata dalla presenza divina. Inoltre, essi
danno forma a un sentire dell’anima atto a penetrare universi che
non hanno misura comune con la dimensione corporea degli altri
sensi. Una vista per contemplare gli oggetti sovracorporei, com’è
il caso dei cherubini o dei seraini. Un udito capace di distinguere
voci che non risuonano nell’aria; un gusto per assaporare il pane
vivente, che discende dal cielo e dà la vita al mondo (Gv., 6, 33);
così pure, un odorato capace di percepire le realtà che hanno indotto
Paolo a deinirsi il profumo di Cristo (2 Cor, 2, 15), e un tatto simile
a quello che possedeva Giovanni quando dichiara di aver palpato
con le proprie mani il Verbo divino.»203
203 David Le Breton, Il sapore del mondo, cit. p. XVII. Sul tema dei sensi spiri-
tuali cfr. anche Antonio Gentili, I nostri sensi illumina. Saggio sui cinque sensi
spirituali, Àncora, Milano 2000, nonché lo straordinario saggio di Cristina
Campo intitolato Sensi soprannaturali, ora contenuto in Gli imperdonabili,
Adelphi, Milano 1987, pp. 231-248.
125
IX. Decadenza dell’analfabetismo.
Presentazione e rilettura di un saggio di José Bergamìn
L’autore
“Un gruppo dell’alta borghesia messicana si riunisce in un salone,
ma non può più uscirne, bloccato da una forza misteriosa. E
nessuno può entrare. Quando l’incantesimo si rompe, si ritrovano
in una chiesa”. Questa è la sommaria descrizione, tratta da “il
Morandini”, di uno dei più straordinari ilm della storia del cinema:
El angel exterminador (L’angelo sterminatore) di Luis Buñuel,
girato in Messico nel 1961. Molti conoscono questa pellicola, la
cui rinnovata visione potrà dare utili suggerimenti a chi desideri
strapparsi a questa ruota di dannati che è l’Italia presente (punta
avanzata dell’Occidente moderno?), ma pochi forse sanno che la
sceneggiatura, scritta dallo stesso regista insieme al fedele Luis
Alcoriza, è la rielaborazione dell’opera teatrale Los naufragos de
la calle Providencia di José Bergamín. Ma chi è José Bergamín?
126
proprio Paese in dalla fondazione nel 1933 del periodico Cruz y
Raya (cui contribuirono i più bei nomi dell’intellettualità europea
dell’epoca, fra cui una giovane Maria Zambrano), Bergamín, dopo la
chiusura della rivista nel giugno 1936 (poco prima del golpe militare
fascista) e l’inizio della Guerra civile spagnola, accentuò la sua mili-
tanza nel fronte democratico e repubblicano dirigendo l’Alianza
de Intelectuales Antifascistas e partecipando al governo in esilio
a Parigi, ino a dirigere nel 1937 a Valencia il secondo Congresso
Internazionale di scrittori in difesa della cultura. Tali iniziative e
prese di posizione gli costarono numerosi anni di esilio in vari Paesi
(Messico, Venezuela, Uruguay, Francia), salvo un intervallo, fra il
1958 e il 1963, durante il quale, rientrato in Spagna, fu incarcerato.
Il rientro deinitivo nel suo Paese avvenne nel 1970, ma non per
questo cessò la sua militanza politica che si realizzò dapprima nella
stesura di manifesti nettamente di parte repubblicana, poi, negli
ultimi anni, nella partecipazione allo schieramento indipendentista
basco, adesione vissuta ino al trasferimento in una località basca al
conine con la Francia, Fuenterrabia, dove morì.
127
vicino a quello di Maritain, vissuto in chiave letteraria piuttosto
che ilosoica”. Siamo in all’inadeguato (ed è anche quanto scrive
Wikipedia), che diventa poi del tutto fuorviante quando si inisce
ad adoperare per Bergamín la più diffusa e trita deinizione di
“cattolico progressista”.
206 Giorgio Agamben, In questo esilio. Diario italiano 1992-94, in Idem, Mezzi
senza ine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 146. Il
passo riportato è estrapolato da un contesto di considerazioni valide, anzi forse
ancor di più, se applicate agli anni successivi a quelli considerati dall’autore:
“Qui ci interessa solo l’evoluzione che si è compiuta a partire dalla ine degli
anni settanta. Poiché è allora che la corruzione completa delle intelligenze ha
assunto la forma ipocrita e benpensante che oggi si chiama progressismo. […]
Si vede oggi a cosa abbia condotto questa strategia. In ogni ambito, la sinistra
ha attivamente collaborato a che fossero predisposti gli strumenti e gli accordi
che la destra al potere non avrà che da applicare e sviluppare per ottenere
senza fatica i suoi scopi. Esattamente allo stesso modo la classe operaia fu
disarmata spiritualmente e isicamente dalla socialdemocrazia tedesca prima
di essere consegnata al nazismo. E mentre i cittadini di buona volontà sono
128
Se questo è vero, nessuno è stato meno “progressista” di José
Benjamin, cui spetterebbe piuttosto il termine di “imperdonabile”,
nell’accezione che ha nel rafinato saggio scritto più di quarant’anni fa
da Cristina Campo.207 Quella Cristina Campo che nel 1966 organizza
una raccolta di irme per una lettera – manifesto, resa pubblica il 5
febbraio, in cui si chiede che nei conventi venga mantenuta la lingua
latina. Fra le trentasette irme di artisti e intellettuali di ogni Paese
non manca quella di José Bergamín (il cattolico “progressista”!).208
129
i bambini, i popoli, le arti
Apriamo il saggio210: “Tutti i bambini, inché sono bambini, sono
analfabeti. Il bambino non può imparare le lettere dell’alfabeto, non
può imparare e leggere e a scrivere inché non ha quello che giusta-
mente si chiama uso della ragione: uso che sarà certamente abuso
quando il bambino si farà uomo alfabeta, uomo di lettere, se tale si
farà. L’uso e l’abuso della ragione sono in deinitiva l’utilizzazione
razionale, la ragione pratica. Difatti il bambino ha la ragione prima
di usarla, prima di sapere per cosa gli servirà o per cosa la utilizzerà
praticamente - non si può usare quello che non si ha - ma ha una
ragione intatta, spiritualmente immacolata, una ragione pura: cioè
una ragione analfabeta. E questa è la sua beatitudine. Non è che
non possa conoscere il mondo, ma lo conosce puramente: in modo
spirituale esclusivo, non letterale o letterato o letteraturizzato. La
ragione del bambino è una ragione puramente spirituale: poetica.”211
210 Tutte le citazioni sono prese dalla prima edizione italiana: José Bergamín,
Decadenza dell’analfabetismo, Rusconi, Milano 1972 (traduzione dallo
spagnolo di Lucio D’Arcangelo).
211 Negli stessi anni in cui scriveva Bergamín, un gesuita francese, Marcel Jousse,
dopo aver già scosso gli ambienti intellettuali parigini pubblicando il suo dotto-
rato alla Sorbona (Le Style oral rytmique et mnémotecnique chez les verbo
moteurs, Beauchesne, Paris 1925, Nouvelle Édition, Fondation Marcel Jousse,
Paris 1981), insegnava contemporaneamente in vari istituti di alta cultura parigini
(Sorbona compresa), proponendo la più rigorosa e profonda emersione novecen-
tesca di “saperi assoggettati” (espressione di Michel Foucault, sulle implicazioni
pedagogiche del cui pensiero cfr. Alessandro Mariani, Foucault: per una genea-
logia dell’educazione. Modello teorico e dispositivi di governo, Liguori, Napoli
2000), esemplarmente identiicati nel contadino, nel “primitivo”, e, appunto, nel
bambino. Le lezioni del gesuita, tenute e stenografate dalla sua fedele allieva
Gabrielle Baron, sono un patrimonio culturale che attende ancora di emergere e,
soprattutto, studiato. Valgano per ora i due volumi da noi curati: Marcel Jousse,
La sapienza analfabeta del bambino. Introduzione alla mimo pedagogia, Libreria
Editrice Fiorentina, Firenze 2011, e Marcel Jousse, Il contadino come maestro.
Lezioni alla Sorbona, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2012.
130
Dai bambini ai popoli 212: “Come i fanciulli, i popoli pensano e
credono contemporaneamente, giocando: poiché la loro razionalità
è pura o poetica, cioè divina. Perciò, mentre Dio gioca con i popoli
analfabeti come i fanciulli, il Demonio si gioca sempre i popoli
letterati, così come gli uomini che lo sono, gli uomini di lettere.
Quello che un popolo ha di fanciullesco e quello che un uomo ha
di popolare, che è quello che conserva di fanciullesco, è precisa-
mente l’analfabetismo. L’analfabetismo è la comune denominazione
poetica di ogni stato veramente spirituale”.
212 Popoli “spontanei”, avrebbe detto Marcel Jousse, con una terminologia che
fa tremare gli odierni etnologi “letterati”!
213 Nel saggio Bergamín non parla del cinema, ma lo nomina come “invenzione
mirabilmente analfabeta”.
131
la decadenza
Tali auree condizioni (il bambino, i popoli, le arti) vengono
sempre più messe a dura prova in quello che il “progressista”(!)
Bergamín chiama apertamente “processo di decadenza” (annun-
ciato già nel titolo del saggio), quando si afferma e impone una
cultura letterale, le cui origini non vengono certo eluse, ma anzi
chiaramente affermate: “È la cultura che ha alterato l’ordine del
mondo: che ha alterato tutte le cose, sopprimendo le gerarchie.
Quando si perde razionalmente il senso delle gerarchie, occorre
ordinare tutto per ordine alfabetico. L’ordine alfabetico è un falso
ordine. L’ordine alfabetico è il maggior disordine spirituale: quello
dei dizionari e dei vocabolari letterali, più o meno enciclopedici
cui la cultura letterale cerca di ridurre l’universo. Il monopolio
letterale della cultura ha alterato le cose disorganizzando le parole,
che sono anche cose e che, essendo cose (cose di idee o idee di
cose, cose di ragione o cose di gioco), sono una realtà razionale
pura o poetica, una realtà veramente spirituale o analfabeta. […]
L’ordine alfabetico internazionale della cultura, che nacque con gli
enciclopedisti - e che è una specie di mortale anticipazione dell’In-
ferno -, è giunto a trasformare, per logica e naturale conseguenza,
la rappresentazione totale del mondo, l’universo, in un Dizionario
Generale Enciclopedico, ordinato, com’è naturale, alfabeticamente.
Si tratta di un’alfabetizzazione generale e progressiva che ha
operato nella vita umana come una paralisi generale e progressiva
del pensiero.”214
132
Il processo di decadenza investe anche le arti, come ad esempio,
la poesia e il teatro215.
215 Bergamín non ne parla, ma si potrebbe citare anche la musica. Cfr. Jacques
Viret, La musica occidentale e la tradizione. Metamorfosi dell’armonia (a
cura di Antonello Colimberti), Simmetria, Roma 2012.
133
rendendola impopolare. Il teatro, che è. essenzialmente, presenza
e potenza, popolare, ossia, per deinizione, analfabeta, non può
parlare che per voci e gridi; non può parlare per segni; per segni si
parla soltanto in lettere. Ecco perché chi esclude a ragione la lette-
ratura da teatro lo fa ancora più letterario o letterato, più esclusiva-
mente alfabetico e letterale, quando disdegna la parola riducendola
alle apparenze e ai suoi apparati spettacolari. Così si fa un teatro
mimeticamente camaleontico che del teatro non conserva altro che
la vana apparenza nominale: la vuota impressione etimologica,
letterale, del nome”.
il cristianesimo
Dopo aver deinito la Docta ignorantia, celebre opera del ilosofo
tedesco Niccolò Cusano (1401-1464), “perfetta dottrina mate-
matica dell’analfabetismo cristiano”, il cattolico “imperdonabile”
Bergamín arriva al “fondatore”: “Quando Gesù era fanciullo e come
fanciullo analfabeta o analfabeta come un fanciullo (ché analfabeta
fu sempre: come fanciullo, come uomo e come Dio), quando era
fanciullo Gesù si smarrì e fu trovato nel tempio. Lì insegnava ai
dottori della legge, dottori della legge scritta, della lettera legale216
(gli stessi che poi lo avrebbero crociisso per questo: poiché era
analfabeta); lì insegnò la dottrina spirituale dell’ignoranza, che essi
non ascoltarono e non intesero. Perciò, quando poi lo condannarono
a morte come analfabeta, lo crociissero letteralmente, cioè a piè
della lettera o delle lettere, collocando sulla sua testa un cartello su
216 Questo legame fra lettera e legge, che Bergamín evidenzia come dimensione
antitetica all’orizzonte cristico e poi autenticamente cristiano, si riproporrà
con forza al momento di fare i conti con l’esperienza dell’alter Christus
(secondo Cristo), Francesco d’Assisi, come ha mostrato deinitivamente
Giorgio Agamben. Cfr. Giorgio Agamben, Altissima povertà. Regole monasti-
che e forma di vita, Neri Pozza, Vicenza 2011.
134
cui il letterato Pilato fece scrivere appositamente: Io sono il Re dei
Giudei; fece scrivere ciò per mostrare a tutti che avevano preso alla
lettera le parole di Cristo e che lo avevano crociisso prendendolo
così, letteralmente. Sotto questo INRI letterale, Cristo rese lo spirito
a Dio; «dando un gran grido» dice l’apostolo: divinamente e umana-
mente analfabeta. Lo spirito muore sempre crociisso a piè della
lettera. Ma muore per resuscitare”.
135
L’analfabetismo del “fondatore” si trasmette naturalmente ai suoi
discepoli e da essi ai seguaci di ogni tempo e luogo: “La ragione
poetica del pensiero dell’uomo è la sua fede217. La poesia è sempre
degli uomini di fede: mai degli uomini di lettere. Gli apostoli, come
uomini di fede per essere analfabeti, diedero alla vita di Cristo la
sua perfetta espressione poetica218. Paragonate i loro testi, poeti-
camente puri, con una qualunque delle innumerevoli vite di Gesù
Cristo, letterali o letterarie, che si sono scritte dopo: con quella di
Rénan, di Strauss o di Papini… o con qualunque altra (eccettuate
le visioni extraletterarie e analfabete dei mistici: come quella di
Caterina Emmerich219). Queste vite letterali di Cristo sono pagine
e pagine di vaga e amena letteratura che non dicono una sola parola
di verità; né una parola di verità né di menzogna, perché non sono
parole quello che dicono, ma lettere; la parola si può dire soltanto
come la dissero gli apostoli e i santi: poeticamente. Non tutti gli
analfabeti, per esserlo, devono essere santi, ma tutti i santi, per
essere santi, devono essere analfabeti. «Poiché non ho conosciuto
le lettere entrerò nei domini del Signore», dice il Salmista.”
217 Per una nozione di fede quantomeno comparabile con quella di José Bergamín
rinviamo a Giorgio Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai
Romani, Bollati Boringhieri, Torino 2000, in particolare cfr. la Sesta giornata,
pp. 106-127.
218 In particolare il Vangelo di Giovanni è deinito da Bergamín “Vangelo dell’a-
nalfabetismo spirituale più puro”.
219 All’esempio bergamíniano di Caterina Emmerich potremmo oggi aggiungere
quello della straordinaria mistica italiana Maria Valtorta (1897-1961), autrice
di L’ Evangelo come mi è stato rivelato, migliaia di pagine, oggi raccolte in
dieci volumi, scritte in appena quattro anni, mentre era immobilizzata nel
suo letto da un’infermità cronica. I volumi, insieme a vari altri scritti, posso
essere consultati sul sito: http://www.scrittivaltorta.altervista.org/index.htm.
136
Conclusione: diritto all’analfabetismo
Il testo che abbiamo voluto presentare, invitandone alla lettura,
ha in verità vari passaggi dedicati ad aspetti speciici della cultura
spagnola, quali, ad esempio, i nacimientos o Belenes, presepi che
si fanno per i bambini a Natale, o il cante hondo, lo stile vocale del
lamenco andaluso220.
137
disconoscere i diritti dell’analfabeta, che sono, originariamente,
quelli del fanciullo, i più puri interessi spirituali dell’infanzia? I
diritti dell’analfabeta sono gli stessi del fanciullo, prolungati spiri-
tualmente nell’uomo: e sono i diritti più sacri, perché rappresentano
l’unica libertà sociale indiscutibile: quella dello spirito; quella del
linguaggio creativo umano; quella del pensiero immaginativo
dell’uomo. L’analfabetismo spirituale e creatore dei popoli è ciò che
i popoli hanno di fanciullesco, di perennemente infantile; quindi
i popoli hanno diritto all’analfabetismo come i fanciulli, perché,
nelle stesse viscere spirituali del loro essere più profondo, sono
l’espressione di questa grande e profondissima cultura analfabeta
dell’universo. […] Perché il vero analfabetismo è la spiritualità
generatrice del linguaggio, che è lo spirito creatore di un popolo:
la sua poesia e il suo pensiero.”222
138
X. il cante jondo. Il primitivo canto andaluso.
Presentazione e rilettura di un saggio di Federico García Lorca
premessa
“Dal palco della Bowery Ballroom, nel Lower East Side di New York,
lo scorso 5 giugno Patti Smith ha intonato il suo Happy Birthday
all’amatissimo Federico García Lorca. Era un concerto tributo orga-
nizzato dalla stessa cantante per festeggiare il compleanno del poeta
scomparso, uno dei tanti eventi che dal 5 aprile al 21 luglio si susse-
guono ininterrotti in vari spazi della città. Lorca in NY: A Celebration
il titolo della rassegna organizzata dalla Fundación Federico García
Lorca con il supporto dell’Acción Cultural Española per riportare
in città il manoscritto ritrovato di Poeta a New York e celebrarne
al meglio l’autore. Sorta di diario in versi scritto da García Lorca
tra il 1929 e il 1930, durante la sua prima e unica permanenza in
America, venne più volte letto pubblicamente dal poeta per diventare
libro soltanto postumo, se vogliamo anche in coerenza con l’idea che
García Lorca aveva della poesia. Per Federico García Lorca la poesia
doveva essere orale più e prima ancora che scritta, costantemente
capace di risorgere, mai deinitiva, soprattutto performativa, letta
ad alta voce. È esattamente quello che fanno sul palco della Bowery
Ballroom Patti Smith e i suoi amici: poeti, musicisti, o semplicemente
gente trovata per strada, uno dopo l’altro, chiamati a ridare vita alle
parole di García Lorca.”223
223 Tiziana Lo Porto, “García Lorca in New York”, pagina web www.minimaet-
moralia.it/wp/García-lorca-in-new-york.
139
sul pezzo torneremo nella conclusione al presente saggio.
140
ostacolato l’adeguata valutazione di un autore che potrebbe essere
posto come esempio per l’intellettualità europea, se non per quella
tout court. Vari dizionari ed enciclopedie, anche fra le più stimate e
rispettabili, continuano ad utilizzare deinizioni inadeguate o addi-
rittura fuorvianti. Ad esempio, secondo l’Enciclopedia Treccani,
“talvolta ridotto a cantore folkloristico dell’Andalusia per raccolte
come il Romancero gitano (1928), suo primo successo popolare,
García Lorca in realtà superò questa posizione raccogliendo sugge-
stioni derivate sia dalla tradizione spagnola seicentesca sia dalle
moderne avanguardie”. Siamo in all’inadeguato,che diventa poi
del tutto fuorviante, quando si iniscono per adoperare per Lorca,
rovesciandone la prospettiva, le seguenti parole: “il desiderio del
poeta fu sempre rivolto a superare l’angusta e provinciale posi-
zione di cantore andaluso che gli derivava da parecchie circostanze
spesso estranee alla sua poesia. Il mito, che si impossessò di lui
alla morte, lo volle poeta immediato e quasi demoniaco, di scarsa
cultura, arrivando anche a dargli un’ascendenza zingaresca”.
141
se solo ci si confronta con mente aperta con uno dei suoi primi saggi
più brillanti ed ispirati: El cante jondo (primitivo canto andaluz)227.
1940 a New York presso la W.W. Norton & Co. uscì la prima edizione bilingue
di Poeta en New York. Il manoscritto ha avuto una lunga storia e Bergamín,
che non lo mostrò mai a nessuno, prima sostenne di averlo perduto poi di
conservarlo in un baule. La verità è che era passato di mano in mano. Poi,
nel 1997, quando sembrava perduto per sempre, è stato ritrovato in Messico
ed è così stato possibile un confronto degli originali di Lorca con il libro
pubblicato da Bergamín.
227 Testo della conferenza letta nel «Centro Artístico» di Granada, il 19 febbraio
1922, pubblicato poi a puntate dal “Noticiero Granadino”, col titolo Importan-
cia histórica y artística del primitivo canto andaluz llamado «cante jondo».
228 Sommaria descrizione dell’evento si può trovare alla seguente voce di
Wikipedia: http://en.wikipedia.org/wiki/Concurso_de_Cante_Jondo Per un appro-
fondimento invece si veda la seguente pagina web: http://institucional.us.es/
revistas/rasbl/38/art_28.pdf.
229 Tutte le citazioni sono prese dalla versione di Gianni Ferracuti (corredata
peraltro di ottime note) leggibile sul web alla seguente pagina: http://www.
ilbolerodiravel.org/med-online/med-online/lorca_cantejondo.pdf. In lingua italiana
esiste anche la traduzione contenuta in Federico García Lorca, Teoria e gioco
del duende. Interviste, conferenze e altri testi sul teatro (a cura di Rosa García
Camarillo), Ubulibri, Milano 1999. Il pur per molti versi pregevole libretto,
a proposito del nostro saggio, non lo pubblica nella sua integralità, ma curio-
samente lo fonde con un’altra conferenza successiva di Lorca sullo stesso
142
signiicato del Concorso: “ll gruppo di intellettuali e amici entusiasti
che patrocina l’idea del Concorso, non fa altro che lanciare un grido
di allerta. Signori, l’anima musicale del popolo è in gravissimo
pericolo! Il tesoro artistico di un’intera razza è avviato sulla strada
della dimenticanza! Si può dire che ogni giorno che passa cade una
foglia del mirabile albero lirico andaluso; i vecchi si portano nella
tomba i tesori inestimabili delle generazioni passate, e la valanga
grossolana e stupida dei couplés intorbida il delizioso ambiente
popolare dell’intera Spagna. È un’opera patriottica e degna quella
che si ha la pretesa di realizzare; è un’opera di salvataggio,un’opera
di cordialità e amore”.
143
spagnoli si uniscano, per istinto di conservazione, per deinire ed
esaltare le chiare bellezze e le suggestioni di questi canti. Unire,
dunque, all’idea patriottica e artistica di questo concorso la visione
deplorevole del cantaor con le nacchere e le coplas caricaturali del
cimitero mostra una totale incomprensione e un totale misconosci-
mento di ciò che è stato progettato”.
230 Si veda in particolare il saggio Manuel De Falla, Il «Cante Jondo» (canto primi-
tivo andaluso). Le sue origini, i suoi valori musicali, la sua inluenza nell’arte
musicale europea, traduzione di Gianni Ferracuti sulla pagina web seguente:
http://www.ilbolerodiravel.org/med-online/med-online/falla-cantejondo.pdf.
144
apre in mille petali i iori ermetici dei semitoni. Il canto lamenco
non procede per ondulazioni, ma per salti; come nella nostra
musica, ha un ritmo sicuro e nacque quando già da secoli Guido
d’Arezzo aveva dato il nome alle note. Il cante jondo si avvicina al
gorgheggio dell’uccello, al canto del gallo e alle musiche naturali
del bosco e della fonte. È, dunque, un rarissimo esempio di canto
primitivo, il più antico d’Europa, che porta nelle sue note la nuda
e raggelante emozione delle prime razze orientali”.
145
e lo straordinario uso del suo vocabolario nei testi delle canzoni.
Naturalmente, questo non vuol dire che tale canto sia puramente loro,
giacché, pur esistendo gitani in tutta Europa e anche in altre regioni
della nostra penisola, questi canti sono coltivati solo dai nostri.
146
orale231. Sono molti gli autori che si spingono a supporre che la parola
e il canto siano stati originariamente una sola cosa, e Luis Lucas, nella
sua opera Acoustique nouvelle, pubblicata a Parigi nel 1840, trattando
le eccellenze del genere enarmonico, dice “«che è il primo ad apparire
nell’ordine naturale, per imitazione del canto degli uccelli, del grido
degli animali e degli ininiti rumori della materia». Hugo Riemann,
nella sua Estetica musicale, afferma che il canto degli uccelli si
avvicina alla vera musica e non si può distinguere tra questo e il
canto umano in quanto entrambi sono espressione di una sensibilità”.
231 La fonte del cante jondo per Lorca (e de Falla) non è in altri termini che la
“musica tradizionale”, a cui l’oralità appartiene, come ripete ai nostri giorni
il musicologo francese Jacques Viret in apertura di un suo aureo saggio: “Lo
«spirito tradizionale» appartiene all’oralità. La sua espressione musicale è la
modalità” (Jacques Viret, La musica occidentale e la tradizione. Metamorfosi
dell’armonia (a cura di Antonello Colimberti), Simmetria, Roma 2012, p. 15).
147
Murciano, e passò con lui intere ore ascoltando le variazioni e
gli interludi dei nostri canti, e sull’eterno ritmo dell’acqua nella
nostra città, nacque in lui l’idea magniica della creazione della
sua scuola e l’audacia di usare per la prima volta la scala a toni
interi. Tornato al suo paese, diede la buona novella e spiegò ai suoi
amici le particolarità dei nostri canti, da lui studiati e usati nelle sue
composizioni. La musica cambia rotta; il compositore ha trovato ora
la vera fonte. I suoi discepoli e amici si orientano verso il popolare
e cercano, non solo in Russia, ma anche nel sud della Spagna, la
struttura per le loro creazioni. Lo provano i Souvenir d’une nuit
d’été à Madrid, di Glinka, e alcuni frammenti della Sheherezade
e il Capriccio spagnolo di Nicolás Rimsky Korsakow, che tutti
conoscete. Vedete come le modulazioni tristi e il grave orientalismo
del nostro canto inluisce da Granada a Mosca, come la malinconia
della Vela è raccolta dalle campane misteriose del Cremlino”.
148
e soprattutto di Granada, che considerava un vero paradiso, come
in realtà è. Claude Debussy, musicista della fragranza e dell’iride-
scenza, raggiunge il maggior grado della sua forza creatrice nel
poema Iberia, vera opera geniale dove alitano come in un sogno
profumi e tratti dell’Andalusia. Ma dove rivela con maggior esat-
tezza la nettissima inluenza del cante jondo è nel meraviglioso
preludio intitolato La porta del vino e nella vaga e tenera Soirée en
Grenade, in cui si rivelano, a mio giudizio, tutti i temi emozionali
della notte granadina, la lontananza azzurra della pianura, la sierra
che saluta l’agitato Mediterraneo, gli enormi denti di nebbia inca-
stonati negli sfondi, il rubato mirabile della città e gli allucinanti
giochi dell’acqua sotterranea. E la cosa più mirabile di tutto ciò
è che Debussy, pur avendo studiato seriamente il nostro cante,
non conosceva Granada. Si tratta dunque di un caso stupendo di
veggenza artistica, un caso di intuizione geniale, che sottolineo ad
elogio del grande musicista e ad onore del nostro popolo. Questo
mi ricorda il gran mistico Swedenborg, quando da Londra vide l’in-
cendio di Stoccolma e le profonde visioni dei santi dell’antichità”232.
232 Anche per Viret Debussy e il grande “rinnovatore tradizionale” del Novecento:
“Aldilà del regno durato tre secoli (1600-1900) del sistema tonale, Debussy si
è ricollegato con i principi della musica universale. […] È dunque Debussy
che incarna, all’inizio del XX secolo, il vero rinnovamento della musica
europea” (Viret, op. cit., p. 29 e p. 37).
149
nella sua opera il patrimonio lirico del canto andaluso. Anni dopo,
Manuel de Falla riempie la sua musica con i nostri motivi puri e belli
nella loro lontana forma spettrale. L’ultima generazione di musicisti,
come Adolfo Salazar, Roberto Gerhard, Federico Mompou e il
nostro Ángel Barrios, entusiasti sostenitori del progettato Concorso,
dirigono attualmente le loro lenti illuminatrici verso la fonte pura
e rinnovatrice del cante jondo e i deliziosi canti granadini, che
potrebbero essere detti castigliani, andalusi. Vedete, signori, la
trascendenza del cante jondo e che grande intuizione ha avuto
il nostro popolo nel dargli questo nome. È profondo, veramente
profondo, più di tutti i pozzi di tutti i mari che circondano il mondo,
molto più profondo del cuore attuale che lo crea e della voce che lo
canta, perché è quasi ininito. Viene da razze lontane, attraversando
il cimitero degli anni e le fronde dei venti marciti. Viene dal primo
pianto e dal primo bacio”.
233 Negli stessi anni in cui scriveva Lorca, un gesuita francese, Marcel Jousse,
dopo aver già scosso gli ambienti intellettuali parigini pubblicando il suo
dottorato alla Sorbona (Le Style oral rytmique et mnémotecnique chez les
verbo moteurs, Beauchesne, Paris 1925, Nouvelle Édition, Fondation Marcel
Jousse, Paris 1981), insegnava contemporaneamente in vari istituti di alta
cultura parigini (Sorbona compresa), proponendo la più rigorosa e profonda
emersione novecentesca di “saperi assoggettati”), esemplarmente identii-
cati nel bambino, nel “primitivo”, e, appunto, nel popolare-contadino. Le
lezioni del gesuita, tenute e stenografate dalla sua fedele allieva Gabrielle
Baron, sono un patrimonio culturale che attende ancora di emergere e, soprat-
tutto, studiato. Valgano per ora i due volumi da noi curati: Marcel Jousse,
150
“Le domande che tutti fanno su chi ha fatto queste poesie, quale
poeta anonimo le lancia nello scenario rozzo del popolo - questo
davvero non ha risposta. Jeanroy, nel suo libro Orígenes de la lírica
popular en Francia, scrive: «L’arte popolare non è solo la creazione
impersonale, vaga e incosciente, ma la creazione ‘personale’ che
il popolo raccoglie adattandola alla sua sensibilità». Jeanroy ha in
parte ragione, ma basta avere poca sensibilità per avvertire dov’è
la creazione colta, per quanto colore selvaggio essa possa avere.
Il nostro popolo canta le coplas di Melchor de Palau, di Salvador
Rueda, di Ventura Ruiz Aguilera, di Manuel Machado e altri, ma
che notevole differenza tra i versi di questi poeti e i versi creati dal
popolo! La differenza tra una rosa di carta e una rosa naturale! I
poeti che fanno i canti popolari intorbidano le linfe chiare del vero
cuore; e come si nota nelle coplas il ritmo sicuro e brutto dell’uomo
che sa di grammatica! Si deve prendere dal popolo solo le sue
essenze ultime e qualche trillo colorista, ma senza mai voler imitare
fedelmente le sue modulazioni ineffabili, perché non faremmo altro
che intorbidirle. Semplicemente, per educazione. Le vere poesie
del cante jondo non sono di nessuno, luttuano nel vento come
lanugine d’oro e ogni generazione le riveste di un colore diverso,
per abbandonarle alle future”.
151
ino a prendere parte attiva all’azione lirica234. […] L’andaluso, con
un profondo senso spirituale, afida alla natura tutto il suo tesoro
intimo con la perfetta certezza che sarà ascoltato”.
234 Qui come in seguito Lorca a dimostrazione delle sue considerazioni porta
degli esempi, che in questa sede dobbiamo tralasciare.
235 Sulla cultura islamica di Lorca si veda Pina Rosa Piras, “La «precoce» cultura
islamica di Federico García Lorca”, in Dai Modernismi alle Avanguardie:
atti del Convegno dell’Associazione degli Ispanisti Italiani: Palermo 18-20
maggio 1990 / coord. Carla Prestigiacono, Maria Caterina Ruta, Flaccovio,
Palermo 1991, pp. 173-180.
152
tratta il tema del pianto, lo fa con le stesse espressioni del nostro
poeta popolare, con la stessa costruzione spettrale e sulla base degli
stessi sentimenti. […] Per me, dunque, è stata una grande emozione
la lettura di queste poesie asiatiche, tradotte da don Gaspar María
de Nava e pubblicate a Parigi nel 1838, perché mi hanno immedia-
tamente evocato le nostre profondissime poesie”.
Lorca conclude i suoi riferimenti alla poesia del cante con il tema
del vino, che rivela profonde assonanze fra tradizioni diverse:
“Esiste anche una grande afinità tra i nostri autori di siguiriyas
[siguiriyeros] e i poeti orientali riguardo all’elogio del vino.
Entrambi cantano il vino limpido, il vino leva-pene, che ricorda le
labbra delle ragazze, il vino allegro, lontanissimo dallo spaventoso
vino baudelairiano. […] Dunque, signori, il cante jondo, tanto per
la melodia, quanto per le poesie, è una delle creazioni artistiche
popolari più forti del mondo, ed è nelle vostre mani conservarlo e
digniicarlo ad onore dell’Andalusia e delle sue genti”.
i cantaores
Il testo-conferenza di Lorca si conclude con l’elogio dei protagonisti
del cante: “La igura del cantaor è dentro due grandi linee; l’arco
del cielo all’esterno e il zigzag che serpeggia dentro la sua anima. Il
cantaor, quando canta, celebra un rito solenne, tira fuori le vecchie
essenze addormentate e le lancia al vento avvolte nella sua voce, ha un
profondo senso religioso del canto. La razza si avvale di loro per lasciar
fuggire il suo dolore e la sua storia vera. Sono semplici medium, vette
liriche del nostro popolo. Cantano allucinati da un punto brillante che
trema all’orizzonte, sono gente strana e semplice nello stesso tempo. Le
donne hanno cantato soleares, genere malinconico e umano di livello
relativamente facile per il cuore; invece, gli uomini hanno coltivato
di preferenza la portentosa siguiriya gitana, ma quasi tutti sono stati
153
martiri dell’irresistibile passione del cante. La siguiriya è come un
cauterio che brucia il cuore, la gola e le labbra di coloro che la dicono.
Bisogna cautelarsi dal suo fuoco e cantarla nella sua ora precisa”.
Tutti coloro che, nella propria vita, si sono emozionati con la copla
lontana che viene lungo il cammino, tutti coloro che la colomba bianca
dell’amore ha colpito nel cuore maturo, tutti gli amanti della tradizione
allacciata al futuro, chi studia sul libro come chi ara la terra, supplico
rispettosamente di non lasciar morire i pregevoli gioielli vivi della
razza, l’immenso tesoro millenario che copre la supericie spirituale
dell’Andalusia e di meditare sotto la notte di Granada sulla trascen-
denza patriottica del progetto presentato da alcuni artisti spagnoli”.
Conclusione
Dopo l’excursus lorchiano torniamo al nostro assunto, ossia a quanto
indicavamo nella premessa. Il breve frammento di Tiziana Lo Porto,
154
è signiicativo perché ci presenta un Lorca orale e performativo, che
non caso affascina una grande musicista e poetessa orale e perfor-
mativa dei nostri tempi, Patti Smith236. Ma tale tratto “moderno” di
Lorca non è affatto “modernista” (ci si passi l’apparente gioco di
parole), è piuttosto un “rinnovamento nella tradizione”, che il giova-
nissimo Lorca già compiutamente deinisce nella conferenza-testo
che abbiamo presentato e a cui resterà fedele tanto nella raccolta
del Poema del cante jondo (1921), considerata dalla critica più
“tradizionale”237 che in quella del Poeta a New York (1929-30), consi-
derata dalla critica più “innovativa”238.
155
Molto, troppo spesso, varie igure di artisti del Novecento conti-
nuano ad essere assimilati ad una sensibilità “modernista”, persino
“avanguardista”, specie di tipo “surrealista”, solo perché hanno
ovviamente abbandonato la falsa tradizione delle accademie.
Ma che l’innovazione di detti artisti vada nel segno di una vera
propria “restaurazione”239, intesa come “ritorno ai principi”,
questo continua a sfuggire, anzi forse “deve” sfuggire alla critica
blasonata. Altrimenti la storia artistica del Novecento dovrebbe
essere riscritta240.
239 Non esita a parlare di “restaurazione” uno dei più importanti e noti composi-
tori viventi, l’americano Steve Reich, cui recentemente la Biennale Musica
ha conferito il premio Leone d’Oro alla carriera. Si ascoltino le sue parole
sulla pagina web seguente: https://www.youtube.com/watch?v=Amu7BDrMPI8.
240 Come nostro modesto contributo a tale “causa” invitiamo a leggere i ritratti
della regista Maya Deren, e dei compositori John Cage e Giuseppe Chiari,
contenuti nella seguente Parte quinta di questo volume.
156
Parte quinta
premessa
“È la madre di tutti noi”. Questa è la spesso ripetuta deinizione
di Maya Deren, fatta originariamente dal regista statunitense Stan
Brakhage (1933-2003), considerato uno dei maggiori e più inluenti
ilmmakers sperimentali del XX secolo. Se si legge poi un celebre
testo del critico cinematograico Paul Adams Sitney sulla storia del
cinema d’avanguardia americano si scopre che i primi due capitoli
sono dedicati a Maya Deren e alla sua opera, messa anche a confronto
con Un Chien Andalou di Salvador Dalì e Louis Buñuel241.
241 Paul Adams Sitney, Visionary Film. The American Avant-Garde, Oxford
University Press, New York 1974. I primi due capitoli si intitolano rispetti-
vamente Meshes of the Afternoon (titolo del primo ilm della Deren) e Ritual
and Nature.
157
ilm è unica nella storia dell’antropologia”242.
formazione
Eleanora Derenskovskij nasce a Kiev il 29 aprile 1917 da famiglia
ebraica benestante e non osservante. Il padre Solomon era uno
psichiatra, allievo di Pavlov, che temendo di essere perseguitato per le
sue simpatie trotzkiste, decise di lasciare il Paese con la sua famiglia
per trasferirsi nel 1922 negli Stati Uniti, a Syracuse nello stato di New
242 Cecilia Pennaccini, “Grandi dei non possono cavalcare piccoli cavalli”.
Maya Deren e il vodù haitiano, in Giovanna Parodi da Passano (a cura di),
Mito e desiderio. Il corpo e la possessione nei riti afro-americani, Franco
Angeli, Milano 1995, p. 146.
243 Valga d’esempio la V edizione della rassegna Le Modelle. Antiche Donne
e Contemporanee. Percorsi di Genealogia Femminile: http://www.provincia.
pu.it/ileadmin/grpmnt/1150/libretto_e_calendario_2008_Le_Modelle.pdf.
158
York. Con l’ottenimento della cittadinanza nel 1928 il cognome fu
mutato in Deren. Dal padre Eleanora mutuò varie inluenze244, quali
una attenzioni al mondo onirico e la militanza nella sinistra politica,
quest’ultima condiviso con un sindacalista trotzkista, Gregory
Bardacke, che sposò giovanissima, ma da cui divorzierà ben presto
per dedicarsi agli studi. Dopo la sua laurea in letteratura inglese allo
Smith College i suoi interessi prendono un nuovo orientamento, fra
l’arte e l’antropologia, le sue due grandi passioni di vita.
159
in meno di venti giorni, Meshes, a causa della dimensione onirica
della “storia raccontata”, fu da subito associato alle poetiche surre-
aliste coeve. Ma, come è stato in seguito riconosciuto (a cominciare
dal grande psicologo, teorico del cinema e critico d’arte tedesco
Rudolph Arnheim), si tratta di un grave errore, cui mise in guardia
la stessa Deren, apertamente critica del surrealismo, niente affatto
interessata all’autoreferenzialità e alla “fantasticheria”247. Quanto
poi alle analisi freudiane, va ricordato che il suo frequente uso
spinse addirittura l’artista a ritirare il ilm dalla circolazione, ino
a quando il suo terzo marito, il compositore giapponese Teji Ito
non aggiunse una colonna sonora.248 Il successo della pellicola la
mise in contatto con gli ambienti dell’avanguardia newyorkese,
ilm citati, potrà utilmente leggere in lingua italiana l’esauriente volume (da
cui abbiamo ampiamente attinto) in commercio da una decina d’anni: Anita
Trivelli, Sulle tracce di Maya Deren. Il cinema come progetto e avventura,
Lindau, Torino 2003.
247 Riprendiamo il termine dalla nota, e sempre attuale, anche a distanza di
mezzo secolo, requisitoria di Elémire Zolla contenuta in Storia del fantasti-
care, Bompiani, Milano 1964, dove nel capitolo intitolato L’avanguardia,
il surrealismo e la liquidazione della simbologia scrive: “Il surrealismo, e
in genere l’avanguardia, è una truffa calcolata sulla scarsa probabilità che
qualcuno possa discernere i due ordini distinti, l’accesso all’intelletto attivo e
la disordinata fantasticheria puramente psichica o isiologica, dato che ormai
non sopravvive una conoscenza esatta della simbologia religiosa e della sua
possibile viviicazione” (p.213). Deren, come vedremo, conobbe la distin-
zione e, dopo la conoscenza della religione vodù, non esitò a parlare per la
sua ultima opera cinematograica di “metaisica”.
248 Ci permettiamo tuttavia di segnalare la possibile pertinenza per Meshes, come
del resto per altri ilm della Deren, delle proposte di psicanalisi archetipica, non
freudiana, ma di derivazione junghiana, di James Hillman, in particolare quelle
contenute in Il sogno e il mondo infero, Il Saggiatore, Milano 1988. Del resto,
Jung, come vedremo, sarà un importante riferimento dereniano negli ultimi anni
della sua vita. Ma per capire la visione del mondo onirico di Deren, accanto ad
Hillman, ma da tutt’altra prospettiva, sarà interessante accostare l’Antropologia
del gesto di Marcel Jousse, cosa che faremo al temine di questo articolo.
160
che gravitavano intorno al Greenwich Village, in particolare con
personaggi come John Cage (che farà una comparsa nel successivo
At Land) e Marcel Duchamp (con il quale gira nello stesso 1943 il
ilm Witch’s Cradle, rimasto incompiuto).
249 Per questo, accanto all’Hillmann della nota precedente, suggeriremmo anche la
lettura degli studi di Gaston Bachelard sugli elementi, pubblicati originariamente
tra il 1942 e il 1948, gli stessi anni in cui Deren girava i suoi primi ilm: Psicana-
lisi delle acque. Puriicazione, morte e rinascita, Red, Milano 1987; Psicanalisi
dell’aria. Sognare di volare. L’ascesa e la caduta, Red, Milano 1988; La Terra
e le forze. Le immagini della volontà, Red, Milano 1989; La Terra e il riposo.
Le immagini dell’intimità, Red, Milano 1994. Lo studio sul quarto elemento (il
Fuoco), rimasto incompiuto, è é stato pubblicato in lingua italiana come Poetica
del fuoco. Frammenti di un lavoro incompiuto, Red, Milano 1990.
Sullo stesso tema cfr. anche le conversazioni radiofoniche raccolte in Bache-
lard, La poesia della materia. Il sogno, l’immaginazione e gli elementi
naturali, Red, Milano 1997 (con 2 CD allegati con la voce di Bachelard).
250 Cit. in Anita Trivelli, op. cit., pp. 110-111.
161
Un altro anno e Deren realizza A Study in Coreography of Camera.
Questo brevissimo cortometraggio (durata 2’23’’) può essere
descritto come un pas de deux tra ballerino (l’afroamericano Talley
Beatty, ex membro della Dunham Company, ed unico interprete
del ilm) e cinepresa. Ogni drammatizzazione viene abbandonata,
ma non per questo siamo in presenza di un documentario “sulla”
danza, semmai di un ilm “che danza” (cine-danza), come ben
spiega la stessa autrice: “La maggior parte dei ilm di danza sono
registrazioni di danze che erano in origine concepite per il palco-
scenico teatrale e per il punto di vista isso frontale del pubblico.
Al massimo, quando la cinepresa agisce come un occhio mobile
del pubblico- quando si avvicina con primi piano o guarda di lato-
questa mobilità della visione ha un effetto soltanto supericiale
sulla concezione dello spazio e sui movimenti della danza stessa. In
questo ilm ho tentato di collocare il danzatore in uno spazio cine-
matograico illimitato. Inoltre, egli condivide con la cinepresa una
corresponsabilità per i movimenti stessi. Questa è, in altre parole,
una danza che può esistere solo sulla pellicola”251.
162
il “rituale cinematograico”, secondo la deinizione dell’autrice che
ne spiega anche il titolo: “Un rituale cinematograico, che si ottiene
non solo in termini spaziali, ma in termini di un Tempo creato dalla
cinepresa. Qui il tempo non è un vuoto che deve essere misurato
da un’attività spaziale atta a riempirlo. Al contrario, in questo ilm,
esso non solo crea realmente molte azioni ed eventi, ma costituisce
la speciale integrità della forma come un tutt’uno”252. Con questo
quarto cortometraggio la lontananza dall’autoreferenzialità surrea-
lista e dalle introspezioni psicoanalitiche è incommensurabile e senza
ritorno, all’insegna della “depersonalizzazione”253.
Ho chiamato questo nuovo ilm Ritual non solo per l’importanza della
qualità del movimento, ma perché un rituale è caratterizzato dalla
depersonalizzazione dell’individuo. In alcuni casi è persino marcato
dall’uso di maschere e indumenti voluminosi, così che la persona
dell’esecutore è virtualmente anonima; ed è anche marcato dalla
partecipazione della comunità, non come una serie e un accumulo di
personalità, nel senso del romanticismo, ma come un’entità omogenea
i cui modelli interni alla relazione tra gli elementi creano, insieme, un
movimento più ampio del corpo come un tutt’uno. L’intento di tale
personalizzazione non è la distruzione dell’individuo; al contrario,
essa lo estende oltre la dimensione individuale e lo libera dalla
specializzazione e dai conini della «personalità»254”.
163
Il ilm e il libro sul vodù
Mentre Ritual è al suo compimento Maya ricevette dalla Guggenheim
Fondation una borsa di studio per un ilm che mettesse in rapporto
i giochi infantili e i rituali di possessione di Haiti e di Bali, bambole
e dèi, feticci e carte da gioco255. Approdata ad Haiti nel settembre
1847, Deren fu la prima donna bianca ad essere iniziata alla religione
vodù. Tornò nel paese altre tre volte, per un totale di ventuno mesi
di soggiorno nell’isola caraibica, al termine dei quali L’Haitian ilm
footage, girato in 16 mm, senza sonoro e in bianco e nero, durava
complessivamente oltre quattro ore. Il ilm non fu mai montato e
iumi di inchiostro sono stati versati per coglierne le motivazioni.256
255 L’interesse per i signiicati profondi dei giochi e giocattoli infantili accomuna
alcune delle migliori menti. Valgano alcuni esempi. Cfr. innanzitutto Heinrich
von Kleist (Sul teatro di marionette), Charles Baudelaire (Morale del giocat-
tolo) e Rainer M. Rilke (Bambole), leggibili in lingua italiana in un unico
volumetto: Morale del giocattolo. Tre incursioni nell’immaginario dell’infan-
zia, Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri, Viterbo 1991. In tempi più recenti
segnaliamo un’altra triade: Giorgio Agamben, Il paese dei balocchi. Rilessioni
sulla storia e sul gioco, in Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e
origine della storia, Einaudi, Torino 1978, pp. 63-88; Claudio Lanzi, Inizia-
zione e magia nei giochi dell’infanzia, Simmetria, Roma 2012; e ultimo, ma
non certo per importanza, la nuova edizione di Elémire Zolla, Lo stupore
infantile, Marsilio, Venezia 2014, dove si riproducono in appendice sei pagine
di appunti zolliani dei primi anni Settanta del secolo scorso sui giochi infantili.
Su questi ultimi volumi (Lanzi e Zolla) ci permettiamo di rinviare alla nostre
recensioni leggibili sulle pagine web seguenti:
http://www.europaquotidiano.it/2013/03/27/quando-i-bambini-persero-linfanzia/
http://www.europaquotidiano.it/2014/09/29/lincanto-dellinfanzia-secondo-elemire-zolla/
Il mondo del bambino è, d’altra parte, anche uno dei settori privilegiati dell’Antro-
pologia del gesto di Marcel Jousse, cui accenneremo alla ine di questo articolo.
256 Elémire Zolla riassume da par suo così: “Durante una cerimonia uno degli
spiriti, un loa aveva fatto di Maya la sua cavalcatura e la rivelazione così
ottenuta le aveva imposto di descrivere dall’interno l’esperienza, non di
additarla puntandole addosso un mirino” (voce Antropologia poetica, in
Novecento Americano vol.III, Lucarini, Roma 1983, p. 722).
164
Tuttavia, negli anni Settanta del secolo scorso Tiji Ito, l’ultimo marito
di Maya, insieme con la nuova moglie Cheril, hanno assemblato
alcuni dei materiali girati e nel 1977 hanno messo in circolazione un
ilmato col titolo Divine Horsemen. The Living Gods of Haiti 257, della
durata di meno di un’ora. Questa è tutt’ora, purtroppo, la versione
che circola sul web o che è acquistabile in DVD. Purtroppo, perché
anche se l’accompagnamento sonoro si avvale di una parte del reper-
torio haitiano registrato da Deren, lo stile è quello dei reportages
televisivi, con la tipica intonazione neutra del narratore. Quanto di
più lontano dal pensiero di Maya, che scrisse: “Il solito stile infor-
mativo dei commenti per documentari o ilmati a uso turistico è
inadeguato a compensare il distacco del pubblico. Allora, la mia
intenzione è quella di usare la colonna sonora del ilm per fornire
la conoscenza dell’invisibile. Questa conoscenza dell’invisibile, a
sua volta, non solo informerà il pubblico su ciò che sta vedendo
e perché, ma permetterà anche di guardare con appropriato tono
emotivo. Il commento non deve solo fornire dei dati alla mente,
deve «compromettere» l’occhio, per far comprendere davvero al
pubblico, empaticamente, i signiicati emozionali e psicologici che
questi riti hanno per il serviteur haitiano. La soluzione di questo
problema sarebbe, ritengo, un commento poetico258”.
257 È il titolo del libro della Deren, cui accenneremo più avanti.
258 Cit. in Anita Trivelli, op. cit., p. 199.
259 È la lapidaria conclusione di Anita Trivelli in Ibidem, che aggiunge: “A questo
destino, evidentemente, intendeva sottrarre il suo lavoro haitiano, che avrebbe
preferito mostrare non montato”. Più morbida la posizione di Cecilia Pennac-
cini: “È necessario dunque guardare alle immagini del ilm sul vodù al di là
del loro montaggio; è infatti nelle immagini stesse, nella maniera con cui
sono state realizzate, per mezzo dell’inquadratura, delle focali, dei movimenti
165
un libro davvero formidabile, irriducibile a qualsiasi genere prece-
dente e successivo, anche in ambito antropologico: Divine Horsemen.
The Living Gods of Haiti, pubblicato a New York nel 1953260. La
premessa e l’introduzione espongono compiutamente il lucido progetto
di fusione fra arte e antropologia, che tanto affascinò il grande
mitologo Joseph Campbell, che scrisse la prefazione al volume261.
La prosa stessa poi è stata portata ad esempio262, come nell’apertura
della camera e dei personaggi e del gioco degli sguardi, che mi pare si possa
pienamente rintracciare il linguaggio originale della Deren. Esso è all’opera
nella qualità interna delle inquadrature e non (o almeno non compiutamente)
nel discorso che emerge dalla versione montata dal marito” (Cecilia Pennac-
cini, “Grandi dei non possono cavalcare piccoli cavalli”. Maya Deren e il
vodù haitiano, in Giovanna Parodi da Passano (a cura di), Mito e desiderio, Il
corpo e la possessione nei riti afro-americani, Franco Angeli, Milano 1995,
p. 154). A queste parole Pennaccini fa seguire prima un’analisi dettagliata del
ilm e poi la sceneggiatura desunta.
260 Cfr. edizione italiana: Maya Deren, I cavalieri divini del vodù (traduzione di
Cristina Brambilla), Est, Milano 1997.
Oltre ai vari scritti sul cinema, in precedenza (anno 1942) Maya aveva scritto
un saggio antropologico, di carattere più accademico, sul quale rimandiamo
ad Anita Trivelli, op. cit., pp. 240-251.
261 “Quando il libro fu scritto incontrò il favore di Joseph Campbell, il quale
doveva dire, nella prefazione, che esso era più verace di un ragguaglio
empirico-accademico, come di norma l’artista è il migliore interprete di
un mito: se vogliamo capire il Cristianesimo forse Dante ci può parlare più
autorevolmente di Max Weber. Campbell cita il testo canonico indù che
avverte: soltanto chi è capace di farci possedere dal dio, di entrare ed uscire
dal dio, può davvero dire di prestargli un culto” (voce Antropologia poetica,
in Novecento Americano vol.III, Lucarini, Roma 1983, p. 722).
262 “Maya descrive il sistema teologico e le cerimonie del voodoo in una prosa
piana e profonda, procedente come a circoli via via dilatati, concentrici sul pelo
dell’acqua. Esemplare è l’avvio. […] E via tornando sulle parole: mito, inizio,
discorso del crepuscolo, sempre meglio precisando e insensibilmente facendo
salire di livello in livello, spiegando con graduali, pacati ragionamenti la conce-
zione voodoo dei sommi archetipi o loa, che l’uomo può dire di conoscere
davvero quando li sa far scendere in tutta la loro forza, capaci di spossessarlo
166
del primo capitolo (La Trinità: Morti, Misteri e Marassa): “Giunto al
tramonto della sua vita, un vecchio racconta ad un giovane: ed ecco il
mito. Tutti i vecchi cominciano dal principio. Le loro storie parlano
sempre, in primo luogo, dell’origine della vita. Cominciano con l’im-
maginare quell’evento, di cui nessun uomo fu testimone, e che rimane,
tutt’ora, un mistero. Iniziano la storia della loro razza con un’inven-
zione favolosa, perché se la vita fu la prima ad apparire, in ordine di
tempo, essa è, per tutti gli uomini, il primo miracolo anche in ordine
d’importanza. È un fatto positivo. Il mito è un complesso di fatti dello
spirito materializzati in una leggenda”263. Il testo si conclude con la
descrizione della propria possessione (La bianca oscurità, come si
intitola appunto il capitolo inale): “Come il mondo sembrava chiaro
in quella prima intera luce! Pura forma senza l’oscurità del signi-
icato. Vedevo tutto in un colpo, senza successione, e ogni dettaglio
era uguale, e ugualmente lucido, prima che il senso d’importanza
relativa imponesse ai volti, che mi stavano intorno, una distinzione
fra lo splendore degli occhi e l’ombra delle narici. Eppure, mentre
guardavo, come per ricordare per sempre quel mondo primordiale,
già le forme si modulavano in signiicati e non erano più forme, ma
notte, perystile, gente. I vestiti bianchi e le camicie, il rivestimento
di pelle del’asson, ancora vibrante, si fusero un attimo con il ricordo
evanescente d’una tenda bianca nella notte scura e d’un vaso d’acqua.
Ero tornata anch’io, come le anime dei morti. Ma il viaggio di ritorno
fu lungo e duro per il forte cavallo e per il grande cavaliere.”264
167
Gli ultimi due ilm
A parere di alcuni studiosi la vena cinematograica di Maya Deren,
dopo l’immersione antropologica haitiana, si esaurì265. Non siamo
affatto d’accordo. Anzi, forse le due ultime opere rivelano ancor più
chiaramente quell’asse centrale della sua opera, che non sta nel cinema
o nella danza, e neppure nell’etnologia, ma nell’antropologia del gesto.
265 Scrive, ad esempio Pennaccini: “Dal momento del suo primo viaggio ad Haiti
la sua produttività in campo cinematograico sembra esaurirsi”. A suffragio
dell’affermazione vengono citati anche due passi dell’opera di Sitney Adams
(vedi nota 241): “Durante il suo soggiorno ad Haiti la sua carriera come
ilmmaker fu radicalmente sviata. […] In quel periodo la sua sorgente creativa
iniziale si era esaurita” (Pennaccini, op. cit., pp. 147 e 154).
266 La fascinazione per il pugilato e le arti marziali non è estranea ad una larga
parte di protagonisti del Novecento artistico. Cfr. Franco Rufini, Teatro e boxe.
L’“atleta del cuore” nella scena del Novecento, Il Mulino, Bologna 1994.
267 In Meditation, ad esempio, la musica, del tutto assente in Choreography, ha
una parte di rilievo, con un arrangiamento musicale, in cui intervengono, oltre
al lauto cinese, le percussioni registrate dalla regista ad Haiti.
268 Non a torto Trivelli, nel capitolo dedicato a Meditation, richiama costante-
mente il pensiero estetico di Paul Valéry, per poi concludere: “L’esercizio
dinamico della boxe cinese, la sua circolarità cinetica, così congeniale
allo sguardo della regista, inanella un circuito ininito che è forse l’ideale
prosecuzione del salto conclusivo, inito, di Choreography: dal principio del
movimento (Choreography) a quello stesso della vita (Meditation). Lungo il
168
L’ultimo ilm di Deren porta la data del 1959 (tre anni prima della
prematura scomparsa) e il titolo The Very Eye of Night. Anche
quest’opera può considerarsi un’estensione e perfezionamento di
Coreography, ma da un altro punto di vista. La danza torna al centro
dell’attenzione, in una vera e propria coreograia del cosmo, inter-
pretata dagli allievi della Metropolitan Opera Ballet School di New
York. L’idea risaliva al 1951, ma la traversie produttive ne fecero il suo
ilm più lungo e costoso. Prendendo spunto da Ritual, Maya stampò
tutto il ilm in negativo, per rendere visivamente questo viaggio
cosmico notturno. A differenza di Meditation il ilm non ebbe molto
successo, e tale giudizio fu confermato dalla critica successiva269. Ma
per sapere di cosa si tratti è meglio, ancora una volta, rivolgersi alla
stessa regista: “Il tema del ilm è l’universo interiore dell’uomo, in
cui egli entra quando si addormenta. Questo universo interiore è un
microcosmo, dotato di leggi, qualità e strutture analoghe a quelli del
macrocosmo: entrambi sono guidati da una «logica imperturbabilità»
e caratterizzati dall’ininità dello spazio e del tempo.”270
169
differenza, nel caso di questo ilm, che il sistema metaisico non è
di tipo tradizionale (come, per esempio, quello cristiano, buddhista
ecc.), ma basato sulle intuizioni universali a cui si è riferito Jung e
che, derivati dalla natura e dall’uomo stesso, sono invariabilmente
presenti nei sistemi tradizionali”272.
proposta
Alla ine di questo breve excursus proviamo a tirare le somme e
ad avanzare una proposta. Di certo Maya Deren non può essere
coninata nel ruolo di “madre del cinema sperimentale americano”.
I suoi ilm e i suoi scritti, sul cinema e non273, hanno una portata
ben più vasta e decisiva e Anita Trivelli ne coglie perfettamente il
signiicato in apertura del suo volume: “Questa cineasta ha promosso
infaticabilmente un cinema che demistiica l’individualità creatrice e
pone l’accento sulle radici ritualistiche dell’arte. L’attrazione di Maya
Deren per la danza, i giochi, le cerimonie religiose vudù e per ogni
forma ritualistica originavano dalla convinzione che spostarsi dall’au-
toreferenzialità, e dalle nostre abituali nozioni sul mondo, fosse una
necessità di vitale importanza tanto sul piano individuale quanto su
quello culturale”274. Parole che fanno eco a quelle di Elémire Zolla,
scritte venti anni prima: “I suoi scritti teorici sul cinema sono assai
prossimi a quelli di Artaud sul teatro: ella si proponeva un’arte
rituale, spersonalizzante, che restaurasse la consapevolezza di divinità
archetipe, eclissando così i nessi causali”275.
170
Lo zolliano riferimento ad Antonin Artaud276 ci pare particolar-
mente appropriato e denso di conseguenze inesplorate. Circa un
quarto di secolo fa veniva pubblicato in Francia, nella prestigiosa
collana Bibliothéque des Idées delle edizioni Gallimard, un impor-
tante saggio di Monique Borie277, che si distingueva nella pletora di
pubblicazioni sul visionario artista e pensatore francese. Nelle sue
pagine inali, fatto non rilevato neppure nella lunga prefazione di
Ferdinando Taviani, si accordava un posto di rilievo ad una interes-
sante comparazione: “Profferitore e mimo - di una pantomima non
pervertita - l’attore artaudiano ripercorre il tragitto del sorgere del
linguaggio che lo riporta alle origini di un’espressione umana in cui
il parlare era un atto del corpo sostenuto dall’energia dei muscoli
e del respiro. Il discorso d’Artaud sull’attore ricorda, in un certo
senso, lo spirito che ha guidato Marcel Jousse nelle analisi conluite
276 Per Zolla, non a caso, Artaud è, con René Daumal, l’unico che, capitato nel
gruppo surrealista, seppe anche uscirne fuori: “Artaud si libera della servitù
della bestemmia e del turpiloquio e anche della pornografia occulta; una
volta compreso il carattere demoniaco dell’avanguardia e del surrealismo
in specie, egli ne sa dare anche la diagnosi più esatta, smascherandola” (in
L’avanguardia, il surrealismo e la liquidazione della simbologia, in Storia del
fantasticare, op. cit., pp. 211-212). Anche altrove, associando di nuovo Artaud
ad Daumal in quanto «protagonisti della secessione dal surrealismo», Zolla
adopera parole che ben si adattano anche a Maya Deren: “Le arti primitive, egli
affermava, sono metaisica in azione. […] Le arti primitive non si spiegano con
la psicologia, il loro linguaggio incantatorio non è l’espressione di un semplice
sentire. Con Artaud le menti più vigili scoprono che le arti tribali non sono
ferine, ma parlano di stati alternativi della coscienza, non sono gridi di angoscia
esistenziale, ma punti d’appoggio per attivare la conoscenza di distinti gradi
dell’essere” (in Uscite dal mondo, Adelphi, Milano 1992, p. 466).
277 Monique Borie, Le Théâtre et le retour aux sources. Une approche anthropo-
logique, Gallimard, Paris 1989 (trad. it. Antonin Artaud. Il Teatro e il ritorno
alle origini, traduzione di Michela Scolaro, Nuova Alfa Editoriale, Milano
1994).
171
in Antropologia del gesto”278. Fin qui Monique Borie. Noi stessi,
che di Marcel Jousse ci siamo occupati, negli ultimi quindici anni,
in innumerevoli saggi279, abbiamo innanzitutto esaminato le valenze
teatrali e teatrologiche della sua Antropologia del gesto280. Restano
tuttora da esplorare le valenze cinematograiche, dopo i primi cenni
che risalgono addirittura agli anni Venti del secolo scorso281.
172
stronomia. L’astronomia mi ha indotto a porre il problema dell’al-
gebra: come si è arrivati a non pensare più se non in termini di x, y,
z? Allora, sono sceso di meccanismo in meccanismo e sono arrivato
al linguaggio dei gesti, che è all’origine dell’espressione umana e
dunque di tutte le liturgie, e che mi ha fatto comprendere l’espres-
sione mimo-drammatica dei profeti e dei popoli rimasti spontanei.
Ecco il grande sistema di ricerche al quale mi applico”283.
283 Cit. nella Prefazione del Comitato di studi Marcel Jousse a Marcel Jousse,
L’Antropologia del gesto (traduzione di Elena De Rosa), Edizioni Paoline,
Roma 1979, p. 10.
173
durata si fa mondo.284 E in quest’ultima frase non sentiamo e vediamo,
Ritual in Trasigured Time, a proposito del quale abbiamo ricordato
come Deren dicesse che “il Tempo non solo crea realmente molte
azioni ed eventi, ma costituisce la speciale integrità della forma come
un tutt’uno”? E non è tutto, perché nel passaggio successivo Jousse
afferma che “Là, nell’espressione visibile, colui che conosce diviene
in un certo senso, attraverso tutto il suo essere che agisce, l’oggetto
conosciuto. Lo diviene a tal punto che, a rigor di termini, il «ritmo-
mimatore» espressivo si trasformerà successivamente nelle diverse
fasi dei gesti internazionali che esprime. Oggi, grazie alle meraviglie
tecniche e scientiiche che lo schermo rende possibili, il cinemato-
grafo ci fa assistere a questo luido passaggio di un essere in un altro,
a questa graduale e insensibile fusione di un uomo in un oggetto di
cui egli esegue e «successivizza» le azioni, i gesti”285. Dunque in
Jousse troviamo non solo un oggetto d’interesse comune a Deren
ossia il gesto umano rilesso del gesto cosmico, osservato in parti-
colare nei tre settori privilegiati del bambino, del “primitivo” e del
folle286, ma la consapevolezza dell’importanza e delle possibilità del
mezzo cinematograico in questa ricerca. Abbiamo citato Jousse in
relazione a The Very Eye of Night, lo abbiamo fatto anche in relazione
174
a Ritual, ma che dire della dimensione onirica, ampiamente presente
nella Deren dei primi ilm, e che i critici più sprovveduti continuano
ad accostare al surrealismo e alla psicoanalisi287, malgrado il netto
riiuto della stessa regista? Ascoltiamo le parole di Jousse: “Il sogno
è un rigioco cinetico globale incessante, nel senso che i nostri mecca-
nismi di rigioco saranno fermi soltanto quando saremo morti. Solo il
suicidio può fermare volontariamente questo tragico ilm vivente”288.
Non state pensando al suicidio inale della protagonista (interpretata
da Deren stessa) in Meshes? E, per rimanere a Meshes, e al tema del
sonnambulismo che attraversa il ilm, ascoltiamo ancora Jousse: “Noi
sogniamo con tutto il nostro corpo. Quanto possederemo apparecchi
registratori abbastanza sensibili potremmo cogliere tutto ciò che si
gioca nei nostri diversi meccanismi di rigioco. Di solito, passano del
tutto inosservati i sogni corporei-manuali, salvo i casi di sonnam-
bulismo, allorché è impossibile non accorgersi che tutto rigioca
globalmente. Stupisce che i sonnambuli siano capaci di imprese
straordinarie, dovute al fatto che essi sono guidati soltanto dai loro
gesti. Il gioco della coscienza, che provocherebbe la vertigine, non
viene a interferire con il gesto”. E così via.289 Altro che scomodare
Freud290! Potremmo andare avanti, ma ci fermiamo qui, perché il
287 Fa senz’altro eccezione Anita Trivelli, che nel suo libro stigmatizza ripetuta-
mente tali interpretazioni.
288 Ibidem, p. 62.
289 Le poche pagine dedicate da Jousse al sogno andrebbero riportate integral-
mente, perché fanno piazza pulita di buona parte delle “interpretazioni” del
sogno in Deren.
290 Jousse sulla questione dell’inconscio si esprime molto chiaramente, usando
parole che sarebbero piaciute a Deren e che riportiamo integralmente: “C’è
in noi un subconscio che si ignora. Non sappiamo neppure di che cosa
siamo capaci; sono le nostre reazioni che ci istruiscono su noi stessi. Qui
incontriamo tutto il sistema freudiano della rimozione. In noi non vi è quasi
nulla di conscio! Quello che afiora alla coscienza è soltanto la millesima
175
nostro vuole essere solo un invito a gettare un po’ di attenzione verso
il pensiero e l’opera di un autentico genio291 femminile del Novecento,
Eleanora Derenkovskij divenuta Maya Deren, che sembra aver voluto
dare una risposta al rammarico di Marcel Jousse: “A questo punto
dobbiamo rammaricarci che i cineasti non abbiano avuto il tempo
di dover risolvere problemi esclusivamente gestuali. Il cinema muto,
dal punto di vista psicologico, aveva una ricchezza, un’espressività
di gran lunga più potente del cinema sonoro”292.
176
XII. Il caos, il caso e il ritrovamento della Tradizione293 .
Una rilettura dell’opera di John Cage
premessa
Nell’anno appena trascorso è ricorso il centenario della nascita
del compositore americano John Cage (Los Angeles, 1912-New
York, 1992). La data è stata l’occasione di numerose manifestazioni
culturali e spettacolari in svariate parti del mondo per celebrare un
personaggio la cui importanza è stata e continua ad essere rilevata
nei più diversi ambiti disciplinari.
Eppure molte tracce lasciate sul tema del caos dall’autore, nonché
293 L’espressione “ritrovamento della Tradizione” è stata usata dal musicologo Mario
Bortolotto in un passo del suo celebre testo dedicato alla Nuova Musica (Fase
seconda. Studi sulla Nuova Musica, Einaudi, Torino 1976), anche se gli autori
da lui esaminati (Boulez, Stockhausen, Berio, Nono ecc.) farebbero pensare
piuttosto al “burrato opposto alla Tradizione” (espressione di un altro passo).
Concordiamo, invece, pienamente con lui, quando in un ulteriore passo del
volume scrive: “Annullando la falsa tradizione, l’attaccamento pauroso all’ul-
timo anello della catena (il penultimo negli illuminati compositori alla moda,
il terzultimo nella media, il quartultimo nei conservatorî) Cage ritrova la verità
della tradizione”.
Così come concordiamo con un’altra sua sintetica deinizione dell’opera di
Cage: “Musica paradossalmente iniziatica, che certo ha obbedito più di ogni
altra all’invito di Debussy, la necessità di fondare una società per l’esoterismo
musicale” (Quella forma informale, in “l’Europeo” del 9-9-1980).
177
da alcuni suoi interpreti, se adeguatamente comprese, possono
apparire come tessere di un mosaico che alla ine lasciano scorgere
qualche antica igura, sia pure abbigliata con nuove vesti.
294 Unica eccezione è l’eccellente studio di Michele Porzio, Metaisica del silen-
zio. John Cage, l’Oriente e la nuova musica, Auditorium, Milano 1995. In
esso l’autore compie un impeccabile disamina dell’incontro, più che dell’O-
riente, dell’”orientamento tradizionale” (Guénon, Coomaraswamy, Schuon
ecc.) con il pensiero e l’opera di Cage. Il nostro presente scritto ne sotto-
scrive in pieno l’assunto e le conclusioni, speciicandone alcune componenti
(rapporto fra I Ching e sapere scientiico).
295 Il testo delle domande e delle risposte è interamente consultabile sul bel sito
web, dedicato a “John Cage in Italia”: http://www.johncage.it/links.html.
178
qualche riferimento a nomi e dottrine à la page, magari a ilosoi
detti postmoderni296, è servito:
“Si tratta ovviamente di un’idea che è nell’aria. Una delle cose che
mi ha inluenzato è stato il lavoro di Ananda K. Coomaraswamy,
poiché ha suscitato il mio interesse per la scienza e la isica.”
296 Vale ricordare a questo punto una intervista al compositore americano realiz-
zata nell’agosto 1978 da Luca Torrealta e Toni Verità per il quotidiano “Lotta
continua”. Alla domanda dell’intervistatore sul desiderio (il tema di moda
all’epoca e diffuso dalle cosiddette théories lottantes di Gilles Deleuze e Félix
Guattari) Cage risponde amabilmente e in maniera disarmante: “Preferisco
una mente vuota. So che è interessante il desiderio, ma c’è un rapporto con il
lavoro di Nietzsche?... e Deleuze?” Agli intervistatori non parve vero di sentir
pronunciare il nome del ilosofo francese e incoraggiarono a proseguire: “Sì,
Deleuze?” Ma Cage conclude soavemente: “Preferisco una mente vuota…”
(L’intera intervista è contenuta nel volume John Cage. Dopo di me il silenzio
(?), Emme Edizioni, Milano 1978).
Questo frammento di conversazione avrebbe dovuto deinitivamente scorag-
giare i critici da fuorvianti percorsi interpretativi, ma non è stato così. Valga
come esempio recente la presentazione lo scorso anno presso l’Università di
Bologna di una tesi di dottorato dal titolo Strati, piani, rizoma. John Cage
e la ilosoia di Gilles Deleuze e Félix Guattari! Lo studio, opera di Brent
Waterhouse, è consultabile sul sito web: http://amsdottorato.cib.unibo.it/5096/.
Anche Marco Gatto, questa volta da posizioni critiche ilomarxiste, insiste
ultimamente sulla relazione fra filosofia postmoderna, in particolare di
Deleuze, e Cage nel saggio (che richiama evidentemente un testo del ilosofo
italiano postmoderno Gianni Vattimo) John Cage e la ine della modernità
musicale, contenuto in John Cage. Una rivoluzione lunga cent’anni (a cura
di Giacomo Fronzi, Mimesis, Milano 2012.
179
“No, è stato un ilosofo. Era sia irlandese297 che indiano, un esempio
vivente di un accostamento tra l’oriente e l’occidente. Deve capire che
negli anni quaranta si pensava che un occidentale, come è accaduto
a me, non avesse alcun diritto ad interessarsi alla ilosoia orientale;
l’oriente era per gli orientali e l’occidente per gli occidentali, ed io
ero obbligato ad essere un occidentale. Ma quest’uomo, Ananda
Coomaraswamy, avendo una madre occidentale e un padre indiano298,
personiicava di fatto le due culture. Nel suo libro La trasigurazione
della natura nell’arte299 affermava che la responsabilità dell’artista
è quella di imitare la natura nel suo modo di operare. Ci è familiare
il concetto di un’arte che assomigli alla natura, ed il fatto che l’arte
cambi durante la sua storia. La domanda da porre è: cosa produce
questi cambiamenti? Una risposta che possiamo dare a noi stessi, se
non agli altri, è che l’arte cambia perché cambia il nostro concetto
sul modo in cui opera la natura. Per questo mi interessa, il modo in
cui opera la natura, non come scienziato, ma come compositore. Ed
è questo che mi ha convinto della necessità delle operazioni casuali;
se io usassi la musica per esprimere me stesso, la cosa sarebbe in
relazione, per esempio, con i miei sentimenti, ma non con la nostra
interpretazione del modo in cui opera la natura. Negli anni quaranta
credo che esistesse già il concetto dell’indeterminatezza, ma certo
non vi era l’interesse che c’è oggi per il caos. Io sono venuto a cono-
scenza del problema attraverso la filosofia orientale. In Cina, in
180
particolare, il caos non è un nemico, anzi è un amico. C’è una storia
nell’opera di Chang Tzu che racconta di uno dei Venti che va da Caos
e gli dice: “Il mondo è in una situazione rovinosa, cosa posso fare
per migliorarlo?” Caos mostrando nessuna attenzione, gli saltella
intorno come un uccellino. Il vento gli fa la domanda una seconda
volta, e non ottiene nessuna risposta. Come spesso succede nelle
iabe, la domanda va ripetuta tre volte. Alla terza volta, Caos smette
di saltellare e risponde: “Peggiorerai semplicemente le cose”. È per
questo che ho intitolato il mio diario “Come migliorerai il mondo”
e poi tra parentesi: “Peggiorerai semplicemente le cose”300. Questi
sono i miei pensieri e le preoccupazioni che ho avuto, sia nei miei
scritti che nelle mie composizioni”.
300 Traduzione parziale nella parte inale di John Cage, Silenzio (a cura di Renato
Pedio), Feltrinelli, Milano 1971. Il volume raccoglie parti di due libri del
compositore americano (Silence del 1961 e A Year from Monday del 1967).
301 “Avevo letto la Dance of Shiva, in cui tratta semplicemente dell’India. Ma
anche, è vero, di Nietzsche e della fratellanza intellettuale del genere umano”
(dalle conversazioni con Daniel Charles con John Cage, pubblicate in italiano
con il titolo Per gli uccelli, Multhipla, Milano 1977). In Italia il volume è
stato pubblicato solo nel 1997 dalle edizioni Luni e ripubblicato nel 2011
con la stessa traduzione di Giampiero Marano da Adelphi (ma alcune parti
erano state pubblicate in anni precedenti su riviste italiane di “orientamento
tradizionale”).
181
(rasa) secondo la tradizione indiana. Subito dopo Cage assiste alle
conferenze di Suzuki presso la Columbia University e viene intro-
dotto allo studio dello Zen. Ma mentre il suo rapporto con lo Suzuki
e lo Zen verrà costantemente sottolineato da numerosi critici come
un ilo rosso del pensiero e dell’opera del compositore americano302,
quello con Coomaraswamy è stato coninato, dai pochi esegeti che
se ne ricordano, ad un breve momento di vita303.
302 Tra i primi a soffermarsi sul tema nel nostro Paese ci fu Umberto Eco, che
dedica parecchie pagine al rapporto di Cage e lo Zen in un capitolo (Lo Zen
e l’Occidente) del celebre testo Opera Aperta, pubblicato nel 1962 per i tipi
dell’editore Bompiani.
303 Fanno eccezione i seguenti due studi dell’ultimo decennio:
1) il saggio di. David W. Patterson, “The Picture That Is Not in Colors: Cage,
Coomaraswamy, and the Impact of India”, in John Cage. Music, Philosophy,
and Intention, 1933-1950, ed. by David W. Patterson, Routledge, New York/
London 2002, pp. 177-216.
2) la tesi di dottorato di Edward James Crooks, John Cage’s entanglement with
the ideas of Coomaraswamy, discussa nel luglio 2011 presso la University of
York. Il lavoro, pur ricco nella documentazione, non trae le debite conseguenze
a causa di un ossessivo “culturalismo” che l’autore deriva dalle opere di Edward
Saïd, in particolare dal volume Orientalismo. A questo proposito, quando gli fu
chiesto come poteva un occidentale professare una ilosoia orientale malgrado
le barriere linguistiche e le differenze di mentalità, Cage rispose con la consueta
amabilità: “Crede che non ne esistano in Europa, e tra l’Europa e l’America?”
(dalle conversazioni con Daniel Charles con John Cage, pubblicate in italiano
con il titolo Per gli uccelli, Multhipla, Milano 1977).
304 Per una rapida visione d’insieme cfr. Gli esegeti della tradizione. Da Guénon
agli studiosi della Sophia Perennis (a cura di Eduardo Ciampi), Terre
Sommerse, Roma 2008. Cfr. nostra recensione:
http://www.europaquotidiano.it/2012/01/24/ilosoia-perenne/.
182
(forse ancora oggi?) fatto problema a chi, soprattutto negli ambienti
accademici, desiderava avvicinarsi ad un lascito intellettuale la cui
importanza e originalità era fuori discussione.305
183
Eppure, se l’ispirazione Zen in rapporto all’uomo Cage è sempre
stata fuori discussione, non altrettanto può dirsi di quella in rapporto
alla sua opera.
“Mi piacerebbe avere la sua opinione su certe idee che Alan Watts
184
ha sviluppato tempo fa e che mi sembrano opporsi a tutto ciò che
lei persegue. «Ci sono oggi, in Occidente, degli artisti che invocano
la testimonianza dello Zen per giustiicare l’arbitraria gratuità di
quel che essi fanno quando incorniciano tele bianche, compongono
(?) una musica silenziosa, incollano su una tavola dei pezzi di carta
buttati a caso e espongono degli ammassi di ilo spinato». Questi
artisti, Watts li qualiica beat zen. Non si sente coinvolto?”
307 L’intero testo, la cui prima versione fu pubblicata sulla Chicago Review dell’e-
state 1968, è leggibile in traduzione italiana in Alan W. Watts, Beat Zen e altri
saggi (traduzione di Piero Verni), Arcana, Roma 1973.
308 Cage si conferma qui tra i precursore dei soundscape studies. Su questa disci-
plina cfr. un precedente saggio contenuto in questo volume, Il paesaggio
sonoro urbano.
309 La prima traduzione italiana integrale è apparsa solo recentemente. Cfr. John
Cage, Silenzio (traduzione di Giancarlo Carlotti), Shake, Milano 2010.
310 Cfr. anche la successiva e nel contempo amabile e perida risposta di Cage:
Daniel Charles: “Suppongo perciò che lei condivida il suo punto di vista sulle
185
Il passaggio trascritto ci conferma quanto abbiamo indicato circa
una non perfetta coincidenza fra ispirazione zen e opera del
compositore americano. L’autorevole studioso Alan Watts rilevò il
problema, ma lo risolse, per così dire, con la conferma della auten-
ticità dell’ispirazione zen cageana ma, si badi bene, nelle sue pagine
scritte, non nelle musiche composte! Cage, da parte sua, ripete che
la sua iliazione zen è integrale, ma riguarda l’ispirazione, non certo
l’osservanza di canoni formali di arte zen!311
Ma siamo sicuri che Cage non osservi canoni, o che essi siano arbitrari?
In questo, che sembra un dialogo fra sordi, c’è una possibilità inter-
pretativa non del tutto esplorata, apparentemente paradossale, e che
è precisamente l’oggetto del presente nostro scritto: le metodologie
186
“caotiche” e “casuali” sono per John Cage proprio la via per un
ritorno alla Tradizione o, se si preferisce con altra espressione di
Guénon, alla Metaisica Orientale312, di cui la tradizione Zen è solo
una delle manifestazioni.
187
e, appunto, Ananda Coomaraswamy316. Ma chi era Christian Wolff
negli anni Cinquanta del secolo scorso?
J.C.: C’è stato il libro cinese degli oracoli: l’Yi Jing. Ma prima de
l’Yi Jing, lavoravo con i quadrati magici.317
316 In anni più recenti Frithjof Schuon diverrà il riferimento centrale della poetica
del compositore inglese John Tavener, che tra l’altro metterà in musica negli
Schuon Lieder del 2003 alcune poesie del grande metaisico svizzero.
317 Sul “quadrato magico” cfr. Rino Cammilleri, Il quadrato magico. Un mistero
che dura da duemila anni, Rizzoli, Milano 1999.
188
J.C.: Sì, ed ecco come. Io non gli facevo pagare le lezioni. Ora, suo
padre era editore318. Per ringraziarmi, Christian mi portava dei libri
che il padre pubblicava. Un giorno, fra questi, c’era l’Yi Jing. Alla
vista delle tavole dell’Yi Jing, ne fui immediatamente colpito per la
somiglianza con i quadrati magici. Era però molto meglio! Da quel
momento, l’Yi Jing non mi ha più abbandonato.
J.C.: Ma certo!
318 Kurt Wolff e sua moglie Helen erano due intellettuali tedeschi di origine
ebraica che avevano lasciato la Germania nel 1941. L’anno successivo fondato
la casa editrice Pantheon Books, che includeva nel suo ricco catalogo, oltre
all’edizione dell’Yi Jing di cui parla Cage, anche la prima traduzione in inglese
del fondamentale testo di Schuon citato da Christian Wolff (vedi nota 315).
319 Sulla vera e propria fede cageana nell’Yi Jing cfr. anche questo passo delle
conversazioni:
Daniel Charles: Ma non riiuta niente, ne l’Yi Jing?
John Cage: Accetto, ho sempre accettato tutto ciò che mi rivelava l’Yi Jing.
Non ho mai avuto l’idea di on accettarlo! Ed è proprio questo anzitutto, quello
che ci insegna l’Yi Jing: l’accettazione. Essenzialmente dà questa lezione:
se vogliamo usare operazioni casuali, dobbiamo accettarne il risultato.
Non abbiamo il diritto di servircene, se siamo decisi a criticarne il risultato
e cercare una risposta migliore. In realtà, l’Yi Jing promette una sorte del
tutto triste a coloro che insisterebbero nell’ottenere una buona risposta. Se
sono sfortunato dopo un’estrazione a sorte, se il risultato non mi soddisfa,
ho almeno, accettandolo, l’occasione di modiicarmi, di cambiare me stesso.
Ma se insisto nel voler cambiare l’Yi Jing, allora, è lui che cambia e non io,
e così, non ho ottenuto niente, realizzato niente!
189
Non è questa la sede per ripercorrere momento per momento, opera
per opera, il lavoro di Cage con l’l’Yi Jing. Quel che qui ci inte-
ressa è mostrare la consapevolezza della portata dell’Yi Jing come
strumento di conoscenza “tradizionale”. Ecco il passaggio delle
conversazioni decisivo per la nostra tesi e che ci riporta all’interesse
del compositore per la scienza:
D.C.: Fino a che punto si può portare questa afinità con l’Yi Jing?
190
J.C.: Ho fatto notare a Stent, sulle bozze di questo libro, a cosa mi
faceva pensare la sua tavola genetica. Ma non ho niente dell’uni-
versitario, e non potrei andare molto lontano nelle mie spiegazioni.
Così Gunther Stent, lui stesso molto colpito da questa scoperta, fece
appello a uno dei suoi amici, un poeta credo, che è molto esperto
dell’esegesi de l’Yi Jing320. È qualcuno che abita vicino a Berkeley,
e si interessa a l’Yi Jing nello stesso modo in cui Critchlow321 ha
potuto associare l’interesse per Fuller e quello che egli ha per
l’Yi Jing. Ebbene, questo poeta potè completare ciò che io avevo
suggerito. E dare a Stent i dettagli più ampi sulla struttura de l’Yi
Jing; ciò ha permesso a Stent di mettere a punto teoricamente gli
argomenti in favore dell’afinità tra l’Yi Jing e la microbiologia.
Questi argomenti sono, sembra, decisivi.”
320 Si tratta di Harvey Bialy, che oltre ad essere un poeta, era un giovane biologo
molecolare, che nel 1974 pubblicò il saggio The I Ching and the Genetic
Code, consultabile sul sito web: http://harveybialy.org/iles/The_I_Ching_and_
the_Genetic_Code,_I0_-_No._20,_1974.pdf.
321 Si tratta di Keith Critchlow, igura di spicco dell’ambiente “tradizionale”
inglese. Architetto, tra i massimi esperti di geometria sacra e tra i fondatori
della prestigiosa periodico Temenos (che ha dato poi vita all’istituto “Temenos
Academy”), ha avuto un scambio epistolare con John Cage, che così ricorda
il loro incontro in un altro passaggio delle conversazioni con Daniel Charles:
“Incontrai un architetto inglese, Critchlow, che s’interessava non solo alle idee
di Buckminster Fuller, ma, proprio come me, a l’Yi Jing. Egli ha costruito
un modello collegando i 64 esagrammi de l’Yi Jing al Dymaxion di Fuller.
In tal modo, ha potuto elaborare un modello della compatibilità tra ordine e
disordine. Le sue spiegazioni erano anche matematiche, e, confesso, ancora
una volta, di non aver capito molto bene”.
Due saggi di Critchlow apparvero In Italia sulla rivista di Elémire Zolla:
1) La igura Nasr, in “Conoscenza religiosa” n.3, 1979.
2) (insieme con Jane Carroll e Llewylyn Vaughan Lee), Il labirinto di Chartres
come possibile modello dell’universo, in “Conoscenza religiosa” n.4, 1980.
191
correlazione fra codice genetico, I Ching e quant’altro, con modalità
non difformi dal “gioco delle perle di vetro” evocato e descritto in
un celebre romanzo di Herman Hesse322.
322 Sulle probabili fonti di Hermann Hesse si veda l’accurato studio di Maria
Franca Frola, Hermann Hesse fra Armonica e Teosoia. Ricerca sulle fonti,
Editrice Tipograia Moderna, Nizza Monferrato (Asti) 1990.
323 Segnaliamo, in lingua italiana, i seguenti scritti;
1) Rudolph Haase, Lambdoma, I King, Codice genetico, in “Conoscenza
religiosa” n.1, 1980 (con una nota del biologo e genetista Giuseppe
Sermonti).
2) Leo-Georges Barry, L’I King-base del codice genetico, in Idem I numeri
magici nucleari chiave della cabbalà e I King base del codice genetico
(traduzione di Nicoletta Gabrielli), Atanòr, Roma 1981 (con una prefa-
zione di Raymond Abellio).
3) Giuseppe Sermonti, Il Tao della biologia. I Ching e il codice genetico, in
“Abstracta” n.31, 1988.
324 Il volume in questione è uscito in una prima versione, in lingua tedesca, in
Germania nel 1992 (anno della scomparsa di John Cage) e due anni dopo, nel
1994, in una versione più adatta al mercato statunitense, in lingua inglese.
325 Katya Walter, Il Tao del Caos. Dall’I-Ching al DNA: il codice fondamentale
dell’universo (traduzione di Daniele Ballarini), Piemme, Casale Monferrato
(Alessandria) 1999.
192
di divinazione cinese. E sapete qual’è la chiave di volta di tutto ciò?
326 René Guénon, La concezione tradizionale delle arti, in Idem, Studi sulla
massoneria (traduzione di Antonino Anzaldi), Basaia, Roma 1983. L’autore
non ha però previsto quel parziale incontro fra dottrine sapienziali antiche e
nuove visioni scientiiche (così come fra le prime e nuove visioni artistiche)
avvenuto negli ultimi decenni.
327 A coloro che trovassero da ridire sull’incontro fra il pensiero di René Guénon
(il Grande Avversario del Mondo Moderno) e alcuni momenti delle arti
moderne ricordiamo, a mo’ d’esempio, l’amicizia e attenzione del grande
metaisico francese nei riguardi dell’artista Albert Gleizes, di cu recensì anche
alcuni scritti, in cui si mostra come il cubismo ha obbligato a modiicare la
nozione unilaterale sensibile che ci giunge dalla Rinascenza e per ciò stesso
ad accostarsi a concezioni artistiche del Medioevo, il che può far rinascere
un’espressione religiosa. Cfr. René Guenon, recensione a Albert Gleizes,
La signiication humaine du cubisme, in Idem, Recensioni (traduzione di
Hermann), Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1981.
Sulla relazione fra i due personaggi cfr. Pierre Alibert, Albert Gleizes-René
Guénon, in Jean Pierre Laurant e Paul Barbanegra (a cura di) Cahiers de
l’Herne, «René Guénon», Éditions de l’Herne, Paris 1985.
193
XIII. Tradizione e Sperimentalismo
Il “dubbio sull’armonia” di Giuseppe Chiari328
194
sa, è stato una dei più importanti movimenti artistici del secondo
dopoguerra del Novecento, e la sua portata sui più vari fenomeni
artistici successivi è stata ampia.332 Ma mentre musicisti come La
Monte Young o Philip Corner, la cui attività è nata nell’alveo del movi-
mento, sono riconosciuti nell’autonomia della propria poetica, ed anzi
La Monte è riconosciuto piuttosto come igura di fondazione, vuoi
del minimalismo musicale, vuoi della drone music, vuoi della just
intonation, Chiari, forse anche perché è stato l’unico vero esponente
musicale in Italia di Fluxus, ancora fatica ad essere riconosciuto nei
suoi aspetti autonomi e fondativi, e non solo di seguace. Forse non ha
facilitato una tale comprensione neppure il fatto che, se l’ampia produ-
zione artistica di Chiari, al pari di John Cage, si è sempre accompa-
gnata una proliica attività di scrittore, l’una e l’altra le ha volutamente
disseminate non solo nelle più varie performance e pubblicazioni, ma,
spesso e volentieri, nella rete degli amici ed estimatori333.
195
Dubbio sull’armonia
L’attacco è radicale: «(L’armonia è) pensiero platonico dove la teoria
ha diritto all’esistenza tanto quanto la pratica. L’esistenza della
pratica è esistenza. Se rapportata all’esistenza della pratica, l’esi-
stenza della teoria non è tale. La pratica esiste. La teoria è un modo
di parlare di. I modelli teorici servono… non sono serviti…»335
335 In questo, come nei successivi passi riportati, non possiamo riprodurre il ritmo
tipograico, ossia la scansione sulla pagina, che fa in genere degli scritti teorici
di Chiari altrettante partiture quanto quelle musicali. Se questo è vero, ogni
suo testo andrebbe recitato, non solo letto (anche da soli nella propria stanza).
336 In grassetto nel testo originale.
196
favola della storia dell’estetica musicale, tuttora raccontata dai
manuali più in voga, non interessa il Nostro, che piuttosto aggre-
disce direttamente quello che il musicologo tedesco Heinz Heinrich
Eggebrecht ha chiamato principio pitagorico337, da cui nasce la
scienza della musica come teoria, nella duplice accezione di teoria
scientiica della musica e di scienza della musica teorica. 338
337 Heinz Heinrich Eggebrecht, Musica come linguaggio, in Il senso della musica.
Saggi di estetica e analisi musicale, Il Mulino, Bologna 1987. Naturalmente,
la igura di Pitagora, cui fa riferimento Eggebrecht, è quella exoterica che ci
tramanda la tradizione scientiica e ilosoica dell’Occidente. Per un pitago-
rismo musicale ed esoterico cfr. invece, in questo volume La bellezza sonora
del mondo. Breve storia dell’Armonistica in Italia.
338 Abbiamo discusso tutto ciò in Antonello Colimberti, Il rapporto uomo/natura
alle radici della cultura musicale occidentale, Introduzione a Ecologia della
musica. Saggi sul paesaggio sonoro (a cura di A. Colimberti), Donzelli
Editore, Roma 2004 pp. VIII e segg.
339 Cfr. Carl Dahlaus, Heinz Heinrich Eggebrecht, Che cos’è la musica, tradu-
zione di Angelo Bozzo, Il Mulino, Bologna 1988.
197
La scienza della musica non è interessata a questa domanda. Che
trova dispersiva. Il tema del contendere è: che tipo di conoscenza
pretendiamo dalla musica?»
198
contro il realismo platonico in nome di un relativismo e nominalismo,
magari con risonanze di decostruzionismo, molto à la page in epoca
post-modernista. Basterebbe tradurre il “dubbio sull’armonia” in “l’in-
venzione dell’armonia” ed il gioco sarebbe fatto. Non nascondiamo
che molti passi del testo potrebbero suggerire questo passaggio.
199
agli accordi. Siete pazzi. Sono gli accordi che assomigliano ai bassi.
L’accordo è nella mente ordinatrice di Rameau».
342 Sul canto gregoriano medievale cfr. il passo precedente; quanto alla musica
greca (pratica musicale, non teoria musicale, si badi) valga il seguente, sottile,
e spietato passo: «Gamucci si chiede perché i Greci non conobbero l’armonia.
Non si chiede perché i borghesi non conoscono la monodia». Baldassarre
Gamucci (1822-1892) è un musicista e critico musicale iorentino, autore
dell’erudita dissertazione tecnico-scientifica Perché i Greci antichi non
progredirono nell’armonia (Firenze 1881), cui in Nostro fa riferimento.
Cfr. l’analogo passo in altro scritto: «Tannery non si domanda perché i
borghesi non conobbero la melodia» (Giuseppe Chiari, Note di un musicista:
oggettivo, soggettivo, in Trattato di musica, op. cit., p. 97.). Paul Tannery
(1843-1904) è un matematico e storico della scienza francese, autore di
numerosi studi sulla scienza antica.
200
molti versi alla gran parte delle tradizioni musicali d’Oriente e non solo.
343 Gli articoli in questione sono stati per la prima volta raccolti in volume e
tradotti nel nostro Paese, cfr. Jean Thamar, La musica tradizionale, traduzione,
prefazione e cura di Antonello Colimberti, Luni, Milano 2016.
344 Cfr. il seguente passo in altro scritto: «La musica è l’arte del cantare e del
suonare. Il suonare è il cantare meccanico. Il cantare è un parlare con modula-
zioni estranee al senso. Il suonare è sempre una derivazione, imitazione del
cantare. Se non riferito al cantare, come attività che lo ha preceduto è privo di
senso. Per lungo tempo ha raddoppiato il parlare. Si è spesso negato la musica
come lingua per sfuggire al vecchio errore che diceva la musica sottolineatura
del parlato. La musica non è sottolineatura del parlato ma questo non esclude
che sia una lingua. In musica la semantica non è codiicata [un suono non
indica un albero] ma questo non esclude in musica la semantica» (Giuseppe
Chiari, Il canto quotidiano, in Trattato di musica, op. cit., p. 235 ).
Rileviamo en passant come Chiari, nella parte inale di questo passo, avvicini
senza saperlo l’Antropologia del gesto e del mimismo di Marcel Jousse, in
particolare la fondamentale nozione di “semantico-melodismo”. Valga questo
201
Per tornare a Chiari, nell’ultimo passaggio riportato c’è un’altra
fondamentale implicazione da non trascurare: non solo “in tempi
antichi”, ma “in tempi nuovi, in grandi ininiti spazi si suona e si
canta in monodia”. Nei “tempi nuovi” non è da cogliere solo la
eventuale persistenza dell’”antico”, ma piuttosto e propriamente la
“nuova musica”345. Qui ci viene in soccorso il musicologo francese
Jacques Viret, le cui fondamentali tesi musicali stanno mano a mano
penetrando anche nel nostro Paese346. Viret, infatti, pur muovendosi
dalle tesi di Thamar, ben lungi dallo scorgere solo un processo
di decadenza, offre un’altra visione del Novecento musicale, fuori
dalla vulgata musicologica più diffusa, tracciando una linea che da
202
Claude Debussy giunge ino al canto armonico e al minimalismo
musicale, cuore a suo dire della Tradizione ritrovata.
347 Cfr. Michael Nyman, La musica sperimentale, ShaKe Edizioni, Milano 2011.
348 L’espressione di “metaisica sperimentale delle arti” (visive, sonore, teatrali
ecc.) che preferiamo adottare può anche essere proicuamente accostata a
quella di “stile trascendentale”, usata dal regista e studioso di cinema ameri-
cano Paul Schrader: Lo stile trascendentale incarna l’arte trascendentale in
una cultura post-rinascimentale. Questo termine non è solitamente usato
nella storia dell’arte e io lo adopero per deinire quei tentativi degli artisti
contemporanei di recuperare le caratteristiche sacre dell’arte in una cultura
che ha subito il processo di secolarizzazione e di laicizzazione della Grecia e
del Rinascimento» (Paul Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson,
Dreyer, edizione italiana a cura di Gabriele Pedullà, traduzione di Christian
Raimo, Donzelli, Roma 2002, nota 5 p. 12).
349 Ad un tale “attraversamento” e successivo “ritrovamento” sembrano esplicita-
mente alludere le seguenti parole di Chiari: «La dodecafonia è come una risata
necessaria. Una maschera di Carnevale. Ma attenzione la maschera non deve
essere attaccata alla faccia. Non può divenire la nostra faccia. Necessitano
altre dodecafonie. Altre maschere. Altri gesti. E altre tecniche per togliersi
la maschera e respirare aria fresca. Il problema è molto dificile. Molto più
203
del pitagorismo esoterico350, vuoi del Maestro Eraclito, ambedue
esposizioni di quella sapienza (sophia), che ha preceduto l’“amore
per la sapienza” (filosofia) 351. Ma sul ritorno di una possibile
armonia l’ultima parola spetta ancora a Jacques Viret, con parole
che pensiamo non sarebbero dispiaciute al Nostro: «I miti sono
eterni. Ai tempi di Pitagora il mitico Orfeo distribuiva incantazioni
musicali con la sua lira: oggi il cantante rock, star adulata, non
potrebbe esserne l’avatar? La chitarra elettrica, sostituto rumoroso
e triviale della lira orica e apollinea, non ne è meno dispensa-
trice di armonia. Radicata nel passato tradizionale, l’armonia
attualizzata ha un ascendente sul presente e è aperta all’avvenire.
Un avvenire che ci si auspica “globalizzato” non nel senso di
uniformemente livellato, ma plurale nella sua unità, armonico nel
mutuo rispetto delle diversità. In comunione nella comune legge
armonica, gli uomini sono fratelli! Il contadino africano, bretone
o romano tende la mano al muezzin arabo, o al cantaor andaluso,
al cantore cristiano, a Perotino, Mozart, Debussy, John Tavener,
Elvis Presley…»352
204
Summetria
collana di studi e ricerche
sulle tradizioni spirituali
voluMi puBBliCAti
Altre pubblicazioni
CD di musica sacra e di musica profana:
Il canto dell’Amante, F. Todde
Cantar d’Amore, F. Todde