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SCAFFALE APERTO

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Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris
insidenbtes
Bernardo di Chartres diceva che siamo un po’ come nani seduti sulle spalle
dei giganti
John of Salisbury, Metalogicon, III, 4

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Alberto Labellarte

ATOMISMO
E CORPUSCOLARISMO

Nella Napoli di fine Seicento

ARMANDO
EDITORE

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ISBN: 978-88-6992-674-7
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Sommario

Premessa 7

Introduzione 9
Il Seicento: età barocca? 9
La nuova scienza 11

Capitolo primo
Il corpuscolarismo italiano del Seicento. Problemi 15
di metodo
Lo status quaestionis del corpuscolarismo italiano del Seicento 15
Implicazioni semantiche della transizione dall’aristotelismo 19
al corpuscolarismo

Capitolo secondo
L’Accademia degli Investiganti e la scienza moderna 23
a Napoli
L’Accademia degli Investiganti 23
Tommaso Cornelio, il “pratico della scienza” 30
Nota introduttiva 30
Fisica e ipotesi teorica nei Progymnasmata physica 34

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La struttura atomica della materia 47
La ricostruzione dell’immagine fisica dell’Universo 51
Lucantonio Porzio, un cartesiano sulle tracce di Robert Boyle 59
L’atomismo: l’analogia delle sostanze 59
Francesco d’Andrea, giurista e atomista investigante 69
La polemica filosofica nella Napoli di fine Seicento 69
Il libertinismo erudito 73
D’Andrea atomista: l’Apologia, i Dubbi, le Riflessioni 77
e le Lezioni
Le Risposte ad Aletino 106
Giuseppe Valletta, un intellettuale moderno 119
Un’istituzione nell’Europa di fine secolo 119
La polemica sull’Inquisizione e la libertas philosophandi 135
Una “via quasi di storia” 153
La giustificazione storica del corpuscolarismo nella Istoria 175
filosofica

Bibliografia 207

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Premessa

I membri dell’Accademia degli Investiganti furono


tra i promotori del rinnovamento culturale nel meridio-
ne d’Italia a partire dalla seconda metà del Seicento,
secolo durante cui si assistette a un complessivo rin-
novamento del sapere. Il fondatore dell’Accademia
investigante, Tommaso Cornelio, introdusse i saggi di
Descartes e Gassendi e contribuì assieme allasua cer-
chia a rinvigorire il quadro del sapere partenopeo me-
diante quella corrente di pensierofilosofico-scientifico
di stampo baconiano e galileiano.
Solo recentemente sono stati avviati studi sugli in-
teressi scientifici dell’Accademia investigante, poiché
in precedenza furono solamente considerati gli aspetti
ideologici delle discussioni delle figure principali, non-
ché i loro riflessi politici1. La vecchia storiografia ha
immaginato “un vuoto di idee” intercorso tra il pensiero
di Tommaso Campanella e quello di Giambattista Vico,
1 U. Baldini, G. Zanier, P. Farina, F. Trevisani, Ricerche sull’atomismo del Seicento.

Atti del Convegno di studio di Santa Margherita Ligure (14-16 ottobre 1976), La Nuova Italia,
Firenze 1977, p. 14.

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rappresentazione poco verosimile di una pagina di cul-
tura densa di significato storico.
D’altra parte neppure un’interpretazione storiografi-
ca in senso previchiano rende merito delle caratteristi-
che dei “pratici della scienza” investiganti che legarono
i loro studi a un atteggiamento più aperto nei riguardi
della filosofia – la libertas philosophandi –, accoglien-
do il “fatto” esperienziale all’interno di una dimensione
lentamente libera dall’aristotelismo.
L’ansia del nuovo – aspetto peculiare degli uomini del
Seicento – permette di considerare in primis la dimensio-
ne culturale proria del Seicento, ossia il Barocco.

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Introduzione

Il Seicento: età barocca?

Il giudizio negativo di Benedetto Croce sull’“età


barocca” ha il suo prodromo nel Settecento: il lemma
“barocco”, di etimologia e significato incerti, coniato
per indicare alcune particolari esigenze artistiche che si
discostavano dal classicismo del Rinascimento, mutò
il suo significato per indicare aspetti della vita civile
e politica dei paesi controllati dalla monarchia di Spa-
gna1. A partire dalla metà del Novecento l’“età baroc-
ca” contraddistinse in modo approssimativo il periodo
tra la fine del Cinquecento e i primi del Settecento du-
rante il quale trionfò la Controriforma, si svilupparono
le monarchie cattoliche (austriaca, bavarese, francese

1 B. CroCe, Storia dell’età barocca in Italia, Adelphi, Milano 1993: «Non c’è difficoltà

alcuna ad additare la caratteristica del Barocco, quella che lo distingue dall’”accademico” o


dal “sentimentalistico” o dallo “svenevole”, e che consiste nel sostituire la verità poetica, e
l’incanto che da essa si diffonde, con l’effetto dell’inaspettato e dello stupefacente, che eccita,
incuriosisce, sbalordisce e diletta mercé la particolare forma di scotimento che procura. Non
c’è difficoltà, perché, com’è notissimo, tale caratteristica fu programmaticamente esposta dai
letterati di quella scuola, e dal principale di essi, il Marino, che dié al poeta per “fine” la
“meraviglia”, ammonendo che “chi non sa far stupire lasci di far poesia e “vada alla striglia”,
vada a fare il mozzo di stalla».

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e spagnola) e vi fu il predominio del ceto aristocrati-
co. In ambito artistico e letterario quest’età è dominata
dal gusto per l’“irregolare” e dalla metafora della vita
come labirinto, specchio e teatro. Questa è l’immagine
del Seicento che la recente storiografia ha consegnato:
bizzarria, disordine, utopia, meraviglia, nuovo, crisi,
repressione, rivoluzione, assolutismo etc. La conflit-
tualità permeò completamente la realtà sociale del
Seicento2. Se si considera l’Età Barocca come modello
per l’intero XVII secolo, allora si possono riconosce-
re tutti gli elementi di antitesi anche nella letteratura
filosofico-scientifica. Come gli stili artistici dell’arte
barocca sono espressione d’indipendenza dai canoni
del classicismo rinascimentale, così è interessante no-
tare che il superamento della regola è un tema presen-
te anche in ambito filosofico: per ricostruire ab imis
fundamentis il sapere, uno dei più rigorosi analizza-
tori di metodiche epistemologiche, Descartes, esclude
anzitutto il sistema della logica aristotelica per porre
il metodo universale come momento necessario della

2 R. villari, Introduzione all’uomo barocco, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. IX-X: «La

conflittualità “barocca” ha colpito gli storici per la sua intensità, per la sua diffusione e per
l’influenza che ebbe nel momento di pensare e di agire. Lo scontro ideale, politico e religioso,
la continuità e ampiezza della guerra, la crescita dell’antagonismo sociale, la rivoluzione, le
puntigliose questioni di precedenza nella quotidianità del rituale amministrativo ed eccle-
siastico, la frequenza del duello, sono sembrati caratteri propri del periodo […]. L’aspetto
peculiare della conflittualità barocca, infatti, non è tanto il contrasto tra soggetti diversi quanto
invece la presenza di atteggiamenti apparentemente incompatibili o e evidentemente contrad-
dittori all’interno dello stesso soggetto. La convivenza di tradizionalismo e ricerca del nuovo,
di conservatorismo e ribellione, di amore della verità e culto della dissimulazione, di saggezza
e di follia, di sensualità e di misticismo, di superstizione e razionalità, di austerità e “consumi-
smo”, dall’affermazione del diritto naturale e dall’esaltazione del potere assoluto, è fenomeno
di cui si possono trovare esempi innumerevoli nella cultura e nella realtà del mondo barocco».

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conoscenza certa: occorre prestare fede solamente alle
alle cognizioni che appaiono indubitabilmente note. Il
modello, cui si ispira la concezione cartesiana della
scienza, è quello della matemartica, perché le scienze
matematiche hanno in sé i semina veritatis che sono
i medesimi che si ritrovano nella mente, quando si sa
fare un buon uno di essi3.

La nuova scienza

Tra gli ambiti culturali europei, il sapere vive il suo


momento di svolta epocale noto con l’accezione di “ri-
voluzione scientifica”. Bisogna tenere in considerazio-
ne che lo scienziato contemporaneo non ha nulla a che
a vedere con quello moderno: Johannes Kepler com-
pilò almanacchi annui – in cui buona parte fu dedicata
alle predizioni astrologiche –, elaborò una teoria della
corrispondenza tra le orbite dei pianeti e le proprietà
geometriche dei cinque poliedri e salvò infine la ma-
dre settantenne dalla condanna di stregoneria; Francis
Bacon, dopo la condanna per peculato e il suo defini-
tivo allontanamento dal Parlamento inglese, presentò
una nuova organizzazione del sapere e della cultura
cultura nella New Atlantis; René Descartes fu membro
del leggendario ordine segreto ermetico-cristiano dei
Rosa Croce.

3 G. MoCChi, Omaggio a Tommaso Cornelio, Vol. I, Rubbettino, Catanzaro 2004, p. 15.

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L’idea di un brusco passaggio dal sapere magico
allo scientifico, dal sistema astrologico all’astronomi-
co galileiano e newtoniano, fu oggetto di discussione
degli storici della scienza H. Butterfield e A.R. Hall.
Questa tradizione storiografica è d’origine positivista4
e si presenta fortemente permeata di specifiche asser-
zioni filosofico-ideologiche. L’indagine storiografi-
ca positivista ha inteso per “storia della scienza” una
graduale progressione dell’attività scientifica, cioè
approssimazione nel tempo a una lettura vera dei fe-
nomeni. Quindi, ciò che ha comportato modifiche di
fondo nelle opzioni metafisiche, comprese le implica-
zioni filosofiche, ideologiche e scientifiche non è stato
spiegato in riferimento a una dinamica interna, come
qualcosa di non necessariamente scontato le cui cause
si sarebbero potute chiarire mediante lo sviluppo della
riflessione tra il XVI e il XVII secolo. Il lento persi-
stere di elementi tradizionali (vitalistici, magici etc.)
– il caso di Harvey che riprende l’antica teoria greca
dell’aura spermatica5 – è dovuto a una mancanza di
consapevolezza dell’autore o al suo eclettismo. In tal
modo si è dunque posta una direzione predeterminata
dello sviluppo, non configurata come problema, ma
come fatto da interpretare.
L’opportunità di mettere a fuoco gli elementi di per-
sistenza della mentalità magico-ermetica all’interno del

4 Baldini, Zanier, Farina, Trevisani, Ricerche sull’atomismo del Seicento cit., pp. 3-6.
5 MoCChi (a cura di), Omaggio a Tommaso Cornelio cit., p. 16.

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pensiero moderno è stata resa possibile dagli studi di
F. Yates, D.P. Walker, P.M. Rattansi, A.G. Debus, R.S.
Westfall, M. Boas Hall, D.C. Allen, M. Jacob – solo
per citarne alcuni – peraltro già esaminati da Eugenio
Garin. Ciò ha dato luogo, in anni non troppo lontani, ad
appassionate discussioni sull’opportunità d’individua-
reil peso specifico degli elementi di persistenza delle
idee della tradizione ermetica e magina all’interno di
un’epoca segnata dall’emergere del nuovo6. Questa di-
versa impostazione metodico-storiografica non assume
come fatto predeterminato la direzione di sviluppo del
pensiero moderno; inoltre le articolazioni dello svilup-
po non sono lette come direzioni o pause della linea
evolutiva principale. Si deve ricostruire geneticamente7
il processo inteso come sviluppo a partire da qualcosa e
non come avvicinamento a qualcosa.
Il frutto da trarre da questo insegnamento è il se-
guente: ricostruendo la storia dei concetti e degli og-
getti scientifici – atomo e corpuscolo –, questi ultimi
emergeranno da un iniziale e confuso miscuglio con

6 F. CrisPini, Metafisica del senso e scienze della vita. Tommaso Cornelio, Guida, Napoli

1975, p. 31: «È oramai abbastanza noto, senza che perciò occorra insistervi più di tanto, come
soltanto in una simile disposizione storiografica, invincibilmente dotata del gusto del relativo,
fortemente consapevole della funzione dell’errore nella formazione e nello sviluppo delle
scienze, conscia dell’uso che deve fare e del conto in cui deve tenere le nozioni di accresci-
mento, accumulazione ed evoluzione nelle scienze, si possano ottenere frutti non magri e si
possa rendere intrinsecamente utile lo stesso lavoro di ricerca. Se tutto ciò costituisce la trama
di riferimento più facile ed ovvia di una attuale teoria della storiografia, i suoi punti nodali
sono tuttavia più complessi e le questioni inerenti al significato epistemologico e culturale
delle rivoluzioni scientifiche, quelle inerenti al valore per la scienza della storia delle scienze,
si connettono ad una serie di molti altri problemi in maniera tale da fornire allo storico delle
idee un serio ammonimento a guardarsi dal ricorrere a formule semplicistiche».
7 Baldini, Zanier, Farina, Trevisani, Ricerche sull’atomismo del Seicento cit., p. 21.

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termini aristotelici, assumendo successivamente un’i-
dentità più precisa intorno alla fine del Seicento, più
specificatamente nel territorio oggetto delle osserva-
zioni, il meridione d’Italia.

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Capitolo primo
Il corpuscolarismo italiano del Seicento.
Problemi di metodo

Lo status quaestionis del corpuscolarismo italiano


del Seicento

Un elemento importante, che segnò i confini del mo-


derno, fu il passaggio dalla dimensione universalistica
della ratio imitandi dell’umanesimo filosofico e let-
terario a una metodologica che contraddistinse l’idea
dell’artificio come innovazione naturale. Per gli uma-
nisti il criterio dell’imitatio naturae significò ritornare
all’origine e ricongiungersi a ciò che è imitato. Questa
mimesi fu anche uno stimolo a dar vita a una cultura di-
versa, a ritrovare nella propria i segni e le eredità di un
mondo lontano. La prospettiva programmatico-meto-
dologica rinunciò alla dimensione suddetta, poiché alla
base di questo mutamento prospettivo vi fu un’imma-
gine diversa della natura che rimosse ogni differenza
tra la fisica dei cieli e della Terra, che lesse il libro del
mondo mediante caratteri dell’alfabeto matematico e

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che spiegò i singoli movimenti attraverso l’analogia de-
gli ingranaggi meccanici. Il profondo mutamento della
considerazione della natura e delle sue leggi si rifletté
sulla materia: non si trattò più di leggere quest’ultima
come un plenum formarum, bensì come un continuum
omogeneo1. Il mutamento della concezione della ma-
teria ci permette di passare alla tematica corpuscolare
italiana le cui premesse sono da ricondurre a un gruppo
di filosofi, medici e naturalisti d’inizio Seicento, espo-
nenti dell’aristotelismo padovano, che elaborarono
nuovamente la teoria dei minima naturalia di Aristote-
le, derivandola parzialmente da Galeno e collegandola
a spunti della teoria pneumatica di Erone2 e a una cono-
scenza spesso indiretta dell’atomismo democriteo. La
combinazione degli elementi suddetti condusse ai se-
guenti caratteri, quali la mancata attribuzione di aspetti
geometrico-meccanici, il rifiuto della risoluzione degli
aspetti qualitativi degli enti nei loro attributi meccanici,
il rifiuto dell’ipotesi fisica del vuoto e l’associazione
delle tesi corpuscolari al finalismo della natura. Questi
criteri furono presenti con una certa evidenza anche nei
naturalisti meridionali, cioè Telesio, Bruno, Severino,
Fracastoro, Cardano, Santorio nel Galilei del periodo
padovano. Duranti i suoi studi a Padova il matemati-
co pisano disapprovò la teoria atomistica di Democri-
to e nel manoscritto De coelo lo scienziato toscano, a
1 MoCChi(a cura di), Omaggio a Tommaso Cornelio cit., p. 21.
M. Boas, Hero’s Pneumatica. A Study of its Transmission and Influence, «Isis», XL
2

(1949), pp. 47 sgg.

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proposito della formazione del mondo, sostenne che
quest’ultimo non avvenne «come per Democrito e Leu-
cippo, dal concorso degli atomi e del vuoto interpo-
sto»» e «[…] da ciò si comprende l’errore di Democri-
to e dei suoi seguaci che asserivano che molti fossero
i mondi […] reputando che questo mondo e gli infiniti
fossero stati creati a caso dal concorso degli atomi: ma
il mondo è creato al fine di permettere alla nostra mente
di pervenire alla conoscenza di Dio e per acquisire una
tale nozione un solo mondo è sufficiente»3. Nel quarto
Libro del De coelo, di cui Galilei riprese i commenti
dei Gesuiti del Collegio romano, lo Stagirita confutò
il discontinuismo atomistico-democriteo: l’atomismo è
la negazione di ogni continuità e generazione; gli atomi
sono quanti (elementi materiali figurati) privi di ele-
menti; al loro moto meccanico si devono le cose na-
turali. La contraddizione consiste nel considerare gli
atomi come grandezze relative e far generare i com-
posti da questi4. Nel sesto Libro della Fisica Aristotele
criticò l’atomismo, ricorrendo a un’argomentazione del
moto: come quest’ultimoè un continuo sempre divisi-
bile, così una retta è sempre divisibile, senza che siano
ammesse parti consecutive non separabili5. Galilei si
avvalse oltre a ciò della tesi agostiniana e occamista
della potentia Dei absoluta la quale può aumentare
3 G.Galilei, Opere, Ed. Naz. I, 22 s – 28.
4arisT., De coelo, 303 a 35 – 310 a 15; trad. it. Del cielo a cura di O. lonGo, Vol. III,
Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 348-353.
5 arisT., Phys., 231 a 20 – 232 a 20; trad. it. Fisica a cura di A. rUsso, Vol. III, Laterza,

Roma-Bari 2007, pp. 137-139.

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infinitamente alcune qualità come la grazia o la luce
della gloria, ma anche distribuire in modo disomogneo
il calore di un corpo. Galilei si avvalse dunque delle te-
orie nominaliste per respingere la tesi atomista: l’acqua
non ha un minimo naturale assegnabile né una mini-
ma figura né un minimo di quantità per esistere6. Dal
successivo De motu antiquiora Galilei aderì al corpu-
scolarismo democriteo, confutando la teoria degli ele-
menti e le tesi della leggerezza positiva e dell’assurdità
del moto nel vuoto. Negli anni a cavallo tra il 1612 e
il 1632 lo scienziato pisano pubblicò il Discorso sulle
cose stanno in su l’acqua (1612), la Risposta (1615),
Il Saggiatore (1623) e il Dialogo (1632) in cui l’inter-
pretazione dei fenomeni fisici (galleggiamento, riscal-
damento, congelamento, rarefazione, condensazione
etc.) si fondò sull’impiego dei princìpi dell’idrostatica
archimedea e sulla teoria corpuscolare della materia cui
si affiancò una spiegazione del meccanismo della per-
cezione sensibile alternativa a quella formulata dalla
Scolastica7. Fu nella scuola galileiana che si collocò
l’autentico filone evolutivo del corpuscolarismo8, per-
ché concretizzarono le ipotesi corpuscolari legandole
ai risultati della sperimentazione e dell’osservazione.
La seconda generazione galileiana aggiunse alle spo-
radiche analisi di Galilei sugli atomi l’influsso del
6 P. redondi, Atomi, indivisibili e dogma, «Quaderni storici», 20, il Mulino, Bologna,

p. 532.
7 P. GallUZZi, Tra atomi e indivisibili. La materia ambigua di Galilei, Leo S. Olschki,

Firenze 2011, p. 4.
8 Baldini, Zanier, Farina, Trevisani, Ricerche sull’atomismo del Seicento cit., p. 11.

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corpuscolarismo elaborato da Gassendi e Descartes,
considerato tuttavia solo nelle sue implicazioni stret-
tamente fisiche ed esperienziali. Un altro filone del
corpuscolarismo italiano del Seicento è rappresentato
dall’Accademia degli Investiganti e dai circoli napole-
tani influenzati da quest’ultima. La caratteristica filo-
sofica generale di tale Accademia fu lo spiccato eclet-
tismo dei suoi membri il quale ci permette d’ipotizzare
che le loro posizioni furono il risultato di suggestio-
ni tratte dal naturalismo meridionale, dal galileismo
e dalle teorie di Boyle, Descartes e Gassendi9. Prima
di prendere in esame i concreti interessi scientifici
dell’Accademia degli Investiganti, sarà necessario un
breve esame delle caratteristiche della fisica aristote-
lica per fornire alcune implicazioni semantiche della
transizione dall’aristotelismo al corpuscolarismo.

Implicazioni semantiche della transizione


dall’aristotelismo al corpuscolarismo

Le dottrine fisiche di Aristotele furono accettate come


dogmi per sessanta generazioni; la sua influenza sulle
scienze fisiche e sulla concezione dell’Universo fu tut-
tavia nel complesso più negativa che positiva. Le ragio-
ni sono da ricercare nella sua concezione biologica del

9 A. QUondaM, Minima dandreiana: prima ricognizione sul testo delle ‘Risposte’ di F.

D’Andrea a B. Aletino, «Rivista storica italiana», 82 (1970), pp. 887-916.

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mondo fisico e nella tendenza a sintetizzare le scoperte
in un modello prefissato, costruendovi sopra una teoria
generale assoluta10. Il sistema peripatetico è infatti una
strutturazione di regole e concetti che dalla universalità
formale della logica giunge ai singoli contesti osserva-
tivi. L’interpretazione di un singolo fenomeno mette in
conto l’ontologia “generale” (la filosofia prima), le va-
rie ontologie “regionali” (ad esempio la filosofia natu-
rale) e gli assiomi (il principio di non contraddizione).
Tale complessità di livelli è certamente presente anche
nei corpi teorici della scienza moderna, tuttaviavi resta
implicita11. L’“implicito” è essenziale per la sopravvi-
venza delle strutture concettuali della scienza moderna,
ma non si dà per corpi teorici della completezza, qua-
li l’aristotelismo e, generalmente, per ogni sistema che
associa metafisica e fisica12. Ogni teorizzazione scien-
tifica deve dare per ammessa una consistente mole di
dati: in via di esempio la meccanica newtonianasi basa
sull’ipotesi secondo cui il libro della natura è scritto in
caratteri matematici; definisce i concetti di massa, quan-
tità di moto, e forza e presuppone infine i princìpi d’iner-
zia, proporzionalità e azione e reazione. In base a quanto

10 S. saMBUrsky, The physical world of the Greeks, Routledge and Kegan Paul, London

1956; trad. It. Il mondo fisico dei greci a cura di V. GeyMonaT, Feltrinelli, Milano 1983, p. 94.
11 I livelli di una teoria, che possono inglobare una certa ontologia, determinate tecniche

matematiche, i risultati di altre teorie, non sono esplicitati contro di essa, bensì tacitamen-
te presupposti. Esistono inoltre regole non formalizzabili, afferenti al concetto kuhniano di
paradigma, concernenti questioni come la desiderabilità di certe riche etc. (T.S. kUhn, The
Structure of Scientific Revolutions, The University of Chicago, Chicago 1962; trad. it. La
struttura delle rivoluzioni scientifiche a cura di A. CarUGo, Einaudi, Torino 2009, pp. 60-64
12 Baldini, Zanier, Farina, Trevisani, Ricerche sull’atomismo del Seicento cit., p. 245.

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scritto consideriamo il particolare status della filosofia
della natura di Aristotele: essa comprende una particola-
re “lettura” della realtà naturale; alcune regole “gramma-
ticali” e la relativa ricerca della definizione dei termini. I
due momenti sono strettamente connessi tra loro, tant’è
che il secondo elemento si presenta come “assioma” del
primo. La filosofia peripatetica, arricchita dai filosofi
arabi e scolastici, è un corpo “scientifico” che esclude
la propria fallibità13. Stando alle parole del filosofo La-
katoas la filosofia peripatetica ha messo in moto uno
“[…] «slittamento di problema». […] Se invece un pro-
gramma non predice mai alcun fatto nuovo, ma elimina
le anomalie solo con trucchi verbali, esso è regressivo e
sta diminuendo di contenuto”14. Questa connessione di
livelli chiarisce il grandissimo rilievo storico dei sistemi
metafisici15. Questa rigidità è tuttavia un elemento di de-
bolezza, perché la falsificazione di un singolo enunciato
empirico, concatenato, in modo ascendente, a un’ontolo-
gia regionale e quest’ultima, a sua volta, a un’ontologia
generale, ne comporta la caduta completa16.
Le considerazioni svolte ci permettono di concludere
che l’aristotelismo rappresenta la matrice della genesi
concettuale delle versioni seicentesche del corpuscola-
rismo per due aspetti:
13 Baldini, Zanier, Farina, Trevisani, Ricerche sull’atomismo del Seicento cit., p. 26.
14 i. lakaTos, P.k. FeyeraBend, Sull’orlo della scienza, Pro e contro il metodo, a cura di
M. MoTTerlini, Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 141.
15 Baldini, Zanier, Farina, Trevisani, Ricerche sull’atomismo del Seicento cit., p. 26
16 K.R. PoPPer, The Logic of Scientific Discovery, 1934; trad. it. Logica della scoperta

scientifica. Il carattere autocorrettivo della scienza, a cura di M. TrinChero, Einaudi, Torino


1998, pp. 309-310.

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1. La teoria atomistica, anziché formulare ipotesi ri-
strette ai singoli fenomeni naturali, si presenta come
sostitutiva, sotto il profilo fisico-metafisico, dell’a-
ristotelismo, coprendo l’ampia gamma dei livelli di-
scorsivi della filosofia peripatetica;
2. L’atomismo non elimina alcuni tratti della filosofia
di Aristotele, quali le regole metodiche, le procedure
argomentative e la definizione dei termini.

Nulla chiarisce meglio l’onnipervasiva presenza


della categorizzazione e del linguaggio aristotelici in
un autore di rottura quale fu Bacon: nel suo Valerius
Terminus il filosofo britannico sostenne che il fine del
nuovo metodo scientifico fosse la scoperta delle forme
delle nature semplici; sebbene egli si fosse riferito a
esse come qualità irriducibili dovute sia all’ordinamen-
to delle particelle (schematismus latens) sia alla serie di
movimenti infinitesimali dei moti sensibili (processus
latens), ripeté nella sostanza la concenzione gnoseolo-
gica dello Stagirita.

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Capitolo secondo
L’Accademia degli Investiganti e la scienza
moderna a Napoli

L’Accademia degli Investiganti

Uno degli ideali, infatti, che più agitavano l’animo del


Cornelio, fu l’istituzione di un’accademia nella sua
nuova dimora sule orme di quella dei Lincei in Roma
e del Cimento […]. I soci dapprima si riunirono nella
casa del Cornelio. Non ne furono contenti, cercarono
come propria sede luogo più degno dell’alto conses-
so, e questo fu il museo del palazzo di Andrea d’Are-
na, signore di Conclubetto […]. L’accademia fu detta
degl’Investiganti ed aveva come stemma un bracco
con il motto: “Vestigia lustrat”. […] Il Borelli nella let-
tera citata ricorda non pochi scienziati […].Luca Por-
zio meglio esplicò i fenomeni della capillarità, e fu il
primo a trattare dell’igiene che non deva mancare in
un esercito. Sebastiano Bartoli per il suo ardimento nel
difendere la nuova scuola s’acquistò gran fama oltre le
Alpi, non meno che per i suoi studi sulle acque termali.

23

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[…] I due fratelli, Gennaro e Francesco d’Andrea, il
primo egregio per sapere, per scritti, per cariche occu-
pate, il secondo è caratterizzato dal Mabillon “magnum
eloquentiae flumen et fulmen”. […] Lo scopo dell’ac-
cademia è precisato dal Borelli con queste parole; “ve-
ritates philosophicae investigantur”. L’attributo filo-
sofico non deve avere il significato ristretto, ma uno
molto più esteso, cioè, secondo lo spirito della cultura
del tempo, importa cognizioni sia astratte sia pure spe-
rimentali; cosa che lo stesso autore indica con aggiun-
gere la frase “certis et indubitatis experimentis”. Anzi
bisogna dire che aveva come scopo precipuo il favo-
rire le scienze naturali, specificatamente la medicina.
La sua opera, infatti, si svolse sia contro i metodi di
ricerca sia contro le dottrine galeniche cui una caterva
immane venerava più che per scopi culturali, per turpe
interesse. […] Il metodo adoperato nell’indagine del
vero era quello sperimentale […]17.

Dal passo riportato risulta che il rinnovamento cul-


turale della società napoletana fu dovuto principalmen-
te all’istituzione dell’Accademia degli Investiganti18.
Aceti sottolineò non solamente gli elementi di rinno-
vamento e discontinuità rispetto alla cultura precedente
– quella galenica –, ma mise in luce anche l’influenza
della nuova cultura tra i membri della società colta e,
17 A. aCeTi,
Un genio cosentino negletto, V. Serafino, Cosenza 1833, pp. 469-478.
18 M.Torrini, L’Accademia degli Investiganti. Napoli 1663-1670, «Quaderni storici», 16
(1981), il Mulino, Bologna, p. 845.

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in prticolar modo, tra i giovani. Benché Galilei fosse
stato condannato, gli Investiganti ritennero che il rin-
novamento della filosofia e della scienza non potesse
essere scisso dall’impegno civile, sebbene la propa-
ganda delle loro dottrine fosse portata avanti con molta
precauzione e prudenza nel tentativo di non incagliare
nelle maglie dell’Inquisizione, evento che si verificò
nel 1688, quando giunsero a Napoli i Commissari del
Sant’Uffizio per contrastare la diffusione della filosofia
moderna. La testimonianza del membro dell’Accade-
mia Juan Caramuel y Lobkovitz, vescovo di Campagna
e Satriano, teologo, matematico e un uomo dalle ster-
minate letture, ci attesta dell’attività dell’Accademia e
ricorda i suoi frequentatori, cioè vescovi, prelati, aba-
ti, principi, duchi, marchesi, conti, medici, filosofi e,
ancora, nobili di ogni Stato, rimarcando che in questa
accademia non si tratta “de Rethorica, aut Rhytmica,
ut in Italia plurimis, sed de Philosophia, ut in Europa
paucis”. Ogni affermazione avebbe ricevuto il vaglio
dell’esperimento, la mente libera da qualsivoglia “ido-
lum per experimenta Physica ad indagationem verita-
tis contendit”19. Escluse completamente le questioni
di natura teologica, l’Accademia trattò “solum Physi-
ca et substantiae materialis corporeae ve essentiam et
vires”20. L’efficacia dell’Accademia, che andò ben oltre
gli effettivi anni della sua attività, è tuttavia un elemento

19 Torrini, L’Accademia degli Investiganti cit., p. 851.


20 Torrini, L’Accademia degli Investiganti cit., p. 852.

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precipuo della sua atipicità. Non è un caso che le due
opere più significative furono i Progymnasmata physi-
ca di Tommaso Cornelio – pubblicati nel 1663, quando
l’accademia non era ufficialmente sorta – e il Parere
sull’incertezza della medicina – pubblicato nel 1681 al
termine della seconda fase della sua attività. Lungi dal
presentarsi come una New Atlantis l’Accademia degli
Investiganti sorse come fortezza da cui sferrare attac-
chi contro la cultura dominante. I promotori investiro-
no le strutture pubblico-politiche del significato della
loro battaglia, chiedendo loro una presa di posizione,
diversamente dall’atteggiamento tenuto dai discepoli
di Galilei i quali promossero la sospensione della lotta
ideologica21. Proprio Cornelio, al suo ritorno a Napoli
agli inizi degli anni 50, chiese “[…] perché in Francia,
Inghilterra, in Olanda, e in molte parti della Germania,
e dell’Italia stessa sia già rotto il ghiaccio che havean
posto le schole agli ingegni, perché non dovessero più
oltrepassare ed in Napoli solo habbia a parer tanto stra-
no che vi sia un huomo, che a somiglianza del Galileo,
del Chartesio, del Gassendo, dell’Erveo, del Gilberto,
e di tanti e tanti altri, voglio arricchire il Mondo di no-
velle specolazioni, o voglia esercitarsi in quelle, che da
queste tali sono già state inventate22”. L’esperienza del-
la peste napoletana del 1656, durante la quale morì il
medico Marco Aurelio Severino, maestro di Cornelio,
Baldini, Zanier, Farina, Trevisani, Ricerche sull’atomismo del Seicento cit., p. 11.
21

T. Cornelio, Discorso dell’eclissi detto nell’Accademia degli Otiosi nel sì 29 maggio


22

1653, datoin luce per l’Accademico detto l’Arrestato, per Camillo Cavallo, Napoli 1652.

26

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rimarcò l’impreparazione delle autorità ecclesiastiche
e civili; pertanto Cornelio premise ai suoi Progymna-
smata un Dialogus polemico in cui rinnovamento della
filosofia ed esercizio della medicina furono talmente
collegati che l’essere seguaci di Galeno apparì agli oc-
chi di Cornelio una vera e propria colpa. Nei Progym-
nasmata Cornelio spaziò dall’astronomia alla filosofia,
dall’epistemologia alla medicina, alla fisiologia, miran-
do, attraverso una salda metodologia d’impronta carte-
siana, alla reimpostazione del dibattito filosofico23. Se
fu la lettura di quest’opera che sollecitò gli Investiganti
a riunirsi ella casa di Valletta, tuttavia sono stati avve-
nimenti esterni, quali la proibizione dell’insegnamento
privato della chimica e la discussione violenta intorno
la macerazione dei lini nel lago di Agnano – entrambi
iniziati nell’autunno del 1663 –, a indurre il gruppo sud-
detto a costituirsi in accademia. Nel 1664 l’Accademia
diede avvio ai suoi lavori con un intento prettamente
polemico, aspetto sottolineato dal Giornale di Innocen-
zo Fuidoro che collegò le polemiche presenti nei libri di
Bartoli e Cornelio alla proibizione dell’insegnamento
della chimica24. Malgrado ciò non si deve necessaria-
mente concludere che l’Accademia avesse esclusiva-
mente un intento polemico-ideologico, poiché intese
anche promuovere discussioni collegate ai canoni della
rivoluzione scientifica. Infatti come riferirono i due

23 Torrini, L’Accademia degli Investiganti cit., p. 848.


24 I. FUidoro, Giornali dal 1660 al 1680, a cura di F. Schützer, Napoli 1934, 1, p. 206.

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membri della Royal Society Philip Skippon e John Ray
giunti a Napoli nel 1664:

Nel palazzo del marchese di arena, il 29 giugno, fum-


mo introdotti nella sala dove gli accademici investi-
ganti si incontrano ogni mercoledì pomeriggio, e no-
tammo circa 60 persone presenti. Essi discettavano di
varie cose e introdussero l’esperimento dell’acqua che
ascende in tubicini di vetro, su cui puoi ragionarono.
Dopo di ciò Leonardo di Capua discusse del caldo e
del freddo; poi Luca Antonio Porzio si sedette ad una
cattedra all’altro capo della sala e lesse un discorso
sullo stesso argomento; e quando li astanti erano com-
piaciuti da qualcosa gridavano bene25.

L’idea di una ricerca tesa a risolvere questioni sorte


con l’avvento della nuova scienza e l’esigenza di trova-
re soluzioni ai problemi sanitaridi Napoli furono senza
dubbio gli aspetti più originali dell’attività investigan-
te. A tale aspetto si legò pertanto una distinzione nelle
pubblicazioni: opere più direttamente scientifiche e
attribuite ai rispettivi autori; scritti anonimi, che riflet-
terono il punto di vista dell’Accademia, decisamente
polemici. L’anonimato significò collegialità, mediante
cui il gruppo si compattò per rispondere agli attacchi
delle istituzioni civili o ecclesiastiche26. Dopo una
25 P. skiPPon, An Account of a Journey Made Thro’ Part of the Low-Countries, Germany,

Italy, and France, «A Collection of Voyages and Traverls», London 1752, 6, p. 620.
26 Torrini, L’Accademia degli Investiganti cit., p. 850.

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breve interruzione, tra il 1670 e il 1684, l’Accade-
mia riprese le sue iniziative: Cornelio pubblicò una
seconda edizione dei Progymnasmata e tenne una fit-
ta corrispondenza con i membri della Royal Society;
Leonardo di Capua fu in corrispondenza invece con
l’Accademia fondata da Cristina di Svezia. Quando
Cornelio morì nel 1684, l’Accademia si strinse at-
torno alla figura di di Capua, deceduto nel 1695, cui
successe, dando così avvio alla terza fase dell’Acca-
demia, Valletta. Nel 1688 ebbe inizio il processo agli
ateisti durante cui l’Inquisizione napoletana infierì du-
ramente contro i novatores e particolarmente contro
coloro che professavano idee atomistiche. Ciò indusse
i giuristi d’Andrea, Grimaldi e Valletta a scrivere apo-
logie in difesa della filosofia moderna e dei membri
dell’Accademia che la professarono. Rilevante fu l’a-
zione di Valletta il quale redasse la sua storia filosofica
per difendere di Capua dalle accuse mosse dal padre
gesuita Giovanni Battista de Benedictis e per riaffer-
mare l’innocenza della teoria atomistica. Il processo
agli ateisti provocò tuttavia l’eclissi dell’Accademia
degli Investiganti i quali aderirono a nuove istituzio-
ni tra cui ricordiamo“gli Incuriosi” e l’Accademia di
Medinaceli. Quest’ultima, fondata a Napoli dallo stes-
so viceré Luis Francisco de la Cerda di Medinaceli,
nel cui palazzo si tennero le sedute, accolse Valletta e
Vico e spostò gli interessi dei filosofi napoletani verso
le discipline storiche e umanistiche, riservando minor

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attenzione agli studi fisici e astronomici, evitando così
di suscitare l’apprensione della Chiesa.

Tommaso Cornelio, il “pratico della scienza”

Nota introduttiva

La storiografia moderna ha reso merito a Tommaso


Cornelio di aver contribuito al rinnovamento della cul-
tura del Mezzogiorno d’Italia a partire dalla seconda
metà del Seicento mettendo in contatto l’ambiente na-
poletano, ancora refrattario agli sviluppi della scienza
moderna, con gli ambienti dell’Italia settentrionale e
dell’Europa27. A tale storiografia, certamente più vigile,
perché ha tolto il velo che coprì i rappresentanti dell’e-
poca precedente a quella di Vico, si riconosce l’impegno
di aver capito, senza giungere a eccessi, quali premesse
politiche e filosofico-scientifiche si raccolsero nella cul-
tura investigante, a quali prospettive civili essa mirasse,
quali nessi la congiunsero con il pensiero di Vico e qua-
li le discontinuità rispetto a quest’ultimo28. In altre pa-
role, capire tutte le forme concrete in cui si tradusse l’i-
deale programmatico investigante, antiformalistico, an-
tidogmatico, razionalista e sperimentalista; riconoscere
l’incidenza del nuovo metodo sull’organizzazione delle

27 MoCChi (a cura di), Omaggio a Tommaso Cornelio cit., p. 41.


28 MoCChi (a cura di), Omaggio a Tommaso Cornelio cit., pp. 41-42.

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scienze. Il “vuoto” di idee, che la vecchia storiografia
ha immaginato esistesse tra il pensiero di Campanella e
Vico, fu una rappresentazione assolutamente poco ve-
rosimile di una pagina della cultura. Difatti, tra il 1958
e il 1969, si crearono le premesse per un clima favore-
vole al ripensamento e rivalutazione di quella pagina
del pensiero, antecedente a Vico, scritta da Cornelio, di
Capua, Porzio, d’Andrea e Valletta: la ricerca di de Gio-
vanni, l’introduzione di Badaloni, il volume di Gregory
su Gassendi, quelli sulla storia della filosofia di Garin,
lo scritto vallettiano di Comparato, le pagine dedicate
da Mastellone a d’Andrea e i richiami diretti all’opera
di Cornelio apparvero come punti di forza per ricostrui-
re la problematica scientifica degli Investiganti. Al di là
della rivalutazione filosofico-scientifica portata avanti,
ciò che spetta a noi è l’analisi e lo studio delle idee scien-
tifiche di Cornelio – nello stesso modo si procederà per
studio del pensiero di Porzio, di Capua, d’Andrea e Val-
letta – che permetteranno di colmare quel vuoto storico-
scientifico. L’interesse all’esame del pensiero di Corne-
lio nasce con lo scopo di controllare le sue risposte alle
esigenze intellettuali dell’epoca, di vedere se e come
queste ultime si traducono in una forma epistemologica
pertinente alla condizione storica delle scienze naturali
e alle istanze che la incalzarono29. È lecito domandare
ai testi di Cornelio la verità, seppur provvisoria, sulla
natura delle cose raggiunta mediante le osservazioni,
29 MoCChi (a cura di), Omaggio a Tommaso Cornelio cit., pp. 46-47.

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entro quali limiti tecnico-strutturali Cornelio operò e in
che modo s’avvantaggiò dell’insegnamento cartesiano
e gassendiano, collegandolo all’ancor viva tradizione
filosofica del naturalismo cinquecentesco. Una lettura
del pensiero di Cornelio, finalizzata ai problemi che
emergono dalla storia epistemologica della scienza, può
rendere più chiari i rapporti tra filosofia e scienza così
come si presentarono alla coscienza dei “pratici della
scienza” del Seicento che per gran parte del secolo si
adoperarono per legittimare teoreticamente e sperimen-
talmente le proposizioni e il senso del nuovo ragiona-
mento. Ciò che riabilita a nostro parere la figura di Cor-
nelio, sovente dimenticato nella storia della scienza e
della filosofia, non risiede nell’accrescimento arbitrario
del suo peso in qualità di autore, bensì nel leggere le sue
opere come un sintomo delle incertezze della scienza
del suo tempo. In tal modo si delimiterà il vichismo,
affinché non sovrasti i problemi che affascinarono la
riflessione di Cornelio e degli altri Investiganti. Il rin-
novamento scientifico fu interpretato da Cornelio e dai
suoi colleghi Investiganti nel senso di un libero accesso
alla concretezza dell’esperienza e a un diverso uso della
filosofia30. L’atteggiamento antimetafisico di Cornelio
30 B. de Giovanni, Filosofia e diritto in Francesco D’Andrea. Contributo alla storia del

previchismo, Giuffrè, Milano 1958, pp. 31-41: «[…] in questo legare la ricerca sulla “natura
delle cose” alle possibilità umane dell’esperienza, a ciò che lo studio individuale può conosce-
re con uno sforzo appunto individuale, determinato. L’antimetafisica è nell’antiuniversalismo,
nell’impossibilità, affermata senza riserve, di superare le condizioni particolari dell’esperien-
za […]. È evidente, in relazione a questa tema, che non ci troviamo in presenza di compiuti
sistemi filosofici che consentano definizioni rigorose, tali da esaurire e concludere – per il
loro stesso rigore e da una certa prospettiva – i termini di una problematica. Nello studiare

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non scivolò tuttavia nello scientismo, ma c’indica dove
il problema scientifico sfumò entro incerti spessori e
oltrepassò i confini del particolare e della stessa ogget-
tività fisico-matematica. Gli elementi metafisici perma-
nenti nella filosofia di Cornelio furono dovuti a «[…]
ondeggiamenti nella ricerca delle soluzioni, incertezze
gnoseologiche che denunciano indirettamente un’in-
telligente sensibilità per le avvertite difficoltà e girano
intorno a determinati problemi indicandone così la rico-
nosciuta centralità […]»31. Il rifiuto della metafisica fu
piuttosto negazione dell’astrattismo e della speculazio-
ne metafisica32. L’indagine di Badaloni pone la figura
di Cornelio in un contesto teorico e storico-culturale nel
quale giunsero all’Investigante sia le spinte problema-
tiche afare proprio il taglio scientifico moderno sia la
reazione contro il nuovo metodo33.
pensatori minori alcuni dei quali vollero legato il loro nome alla sola attività di pratici della
scienza, è necessario saper vedere più in là della lettera, saper cogliere il principio informatore
delle loro posizioni […]».
31 P. Piovani, Il pensiero filosofico meridionale tra la nuova scienza e la «Scienza nuova»,

«Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche della Società di Scienze, Lettere e Arti in
Napoli», 70 (1959), p. 74.
32 B. De Giovanni, La vita intellettuale a Napoli fra la metà del ’600 e la restaurazione del

regno. Cap. 1: Il rinnovamento della scienza nella seconda metà del ’600, «Storia di Napoli»,
Società editrice Storia di Napoli, Napoli 1970, p. 413: «[…]la deviazione del meccanicismo
verso il vitalismo, depurata dai miti dell’anima mundi e dalle magiche corrispondenze tra
l’uomo e i fermenti della vita natura è un momento significativo del ripensamento europeo
della fisica cartesiana, che già in Spinoza spengeva la radicalità di certi dualismi, e che nella
scuola dei Chimici o nelle ricerche bio-fisiologiche pareva intesa a riscoprire vita e movimen-
to del meccanismo non più inerte della natura […]. […] una filosofia naturale […] legata più
al modo spirituale di Spinoza al probabilismo sperimentalistico di Gassendi che al dichiarato
dualismo di Cartesio […]».
33 N. Badaloni, Introduzione a G.B. Vico, Feltrinelli, Milano 1961, p. 65, p. 167:

«Nonostante che la teoria dello spiritus fosse sfociata in Della Porta, in Imperato ed in altri
in una filosofia dell’esperienza, il rapporto tra realtà e pensiero restava bloccato, come se non
fosse possibile interpretare una serie di fatti di esperienza ora alla luce di una, ora di altra ipo-
tesi ricerca. Il rapporto esperienza-verità era uno dei punti fermi del periodo della tarda filoso-

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Fisica e ipotesi teorica nei Progymnasmata physica

Gli anni Cinquanta del Seicento furono l’alba dei


grandi sistemi di filosofia che ebbero il fine di superare
l’interpretazione animistica e aristotelica della natura,
finendo presto con l’imporre soluzioni contraddittorie.
Quali servigi rese la filosofia alla scienza nel tentativo
d’introdurre nelle cose un razionalismo garante della
permanenza delle leggi?
Con Descartes la scienza rischiò di non avere più con-
tatti, in nome della ragione, con i fatti. Lo scetticismo
di Gassendi, sebbene mantenesse aperte le finestre dei
sensi ai fatti del mondo, non si oppose completamente al
razionalismo cartesiano, perché gettò nella dinamica dei
fenomeni fisici le reti di un’ontologia generale. I sistemi
filosofici della metà del Seicento peccarono dunque d’ec-
cessivo razionalismo, tanto da rivolgersi al fantastico, o
d’eccessivo sperimentalismo che non colse le intrinse-
che connessioni dei fenomeni della natura. Eppure, dalla

fia scientifica rinascimentale. Ora questo rapporto viene sbloccato; la realtà seguita a produrre
i suoi effetti, ma questi possono essere anche variamente interpretati a seconda delle ipotesi da
cui si prendono le mosse. L’attenzione si sposta dalle cose al pensiero che enuncia la probabile
spiegazione del presentarsi delle cose. Questo passaggio, per quanto ovvio possa sembrare, è
una conquista del gruppo investigante, e facilita la penetrazione del pensiero cartesiano. […]
la filosofia ha accumulato un enorme materiale di ricerche particolari, anatomiche, fisiologi-
che, fisiche, i cui risultati sono venuti in contraddizione da una parte con le leggi generali e
con i princìpi universali che Cartesio aveva esposto, dall’altra con quel concetto dell’animale
macchina su cui Cartesio aveva basato il mantenimento della sostanza pensante. Anche gli
Investiganti hanno cooperato a porre in luce questa crisi. Di fronte al sistema cartesiano si è
venuta sviluppando ora nella cultura europea una filosofia del particolare e del concreto, che
tende a localizzare o a correggere molte enunciazioni generali della metafisica cartesiana. La
successiva elaborazione del pensiero degli Investiganti non poteva non tenere conti di tali ri-
sultati del pensiero europeo, in particolare attraverso Malebranche, ma anche attraverso filoni
più nascosti, quali il pensiero di Tommaso Burnet, o addirittura dello Spinoza».

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seconda metà del XVII secolo, avvalendosi dei risultati
raggiunti dalla filosofia meccanicistica e corpuscolari-
stica, ci si mosse alla scoperta del mondo, verificando
contemporaneamente le convinzioni della filosofia mec-
canicistica e le ambizioni di quella sperimentalistica: la
questione fondamentale fu l’organizzazione di un’onto-
logia regionale dei fenomeni fisici che non contemplasse
una razionalità unica né un indistinto corpo di fatti34. Tale
fase di depressione epistemologica35 permise di fissare le
posizioni di Cornelio e i tratti generali dell’articolato pia-
no dei Progymnasmata physica. Prima di esaminare in
dettaglio il suo capolavoro scientifico dobbiamo tenere
conto della sua prima opera, rimasta incompiuta, il Me-
ditationum de Mundi structura liber primus (1644-1646)
in cui la posizione di Cornelio fu vagamente cartesiana36.
Profondamente convinto di vivere un tempo in cui – Cor-
nelio citava Seneca – […] Ea quae diu latuerunt in lucem
dies extravit37, egli s’ispirò all’idea di modernità quale
fu concepita da Francis Bacon del quale Cornelio riprese
alcuni pensieri senza però citarlo:

Frusta autem et fortassit contra proprium institutum


antiquitatem homines venerantus. Etenim mundi se-
nium et grandae vitas nostris, quam priscis aetatibus
est tribuenda38.
34 MoCChi (a cura di), Omaggio a Tommaso Cornelio, cit., p. 91.
35 MoCChi (a cura di), Omaggio a Tommaso Cornelio, cit., p. 92.
36 M. Torrini, Tommaso Cornelio e la ricostruzione della scienza, Guida, Napoli 1977, p. 32.
37 T. Cornelio, Meditationum de Mundi Structura liber primus, Ms. casanatense 827, c. 9.
38 Cornelio, Meditationum de Mundi Structura liber primus cit., c. 6r.

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Nam non parvifaciendae sunt nostrorum temporum
insignes navigantiones, quibis prurimi naturae effec-
tus innotuerunt; nec minus aestimanda sunt super in-
venta et praesertim telescopii cujus ope nova in coela
sidera, idest maximae partes mundi patuerunt39.

Dopo tale discorso preliminare Cornelio ricostruì


in primis l’immagine dell’Universo secondo le coor-
dinate cartesiane. Egli passò al vaglio le ipotesi co-
smologiche tolemaica, copernicana e tichiana; prose-
guì con l’esame del problema dell’infinità dell’Uni-
verso; espose il principio della continuità del moto;
rispose alle questioni relative alla natura del Sole, a
ciò che causa la sensazione visiva e alla possibilità
che i raggi, non trasmettendo luce e calore, attraver-
sassero liberamente corpi diafani40. Il medesimo en-
tusiasmo per il valore del nuovo e la profonda fiducia
nello “strumento” della Matematica per la conoscen-
za del mondo della natura si ritrova nelle opere De
cognatione aeris et aquae e nell’Epistola ad Marcel-
lum Crescentium qua motuum illorum cui vulgo ob
fugam vacui fieri dicuntur vera causa per circum-
pulsionem ad mentem Platonis explicatur a Timaei
Locrensis Crathigenae, di cui parleremo in seguito,
nelle quali Cornelio ricostruì più liberamente i temi
trattati nel Meditationum.

39 Cornelio, Meditationum de Mundi Structura liber primus cit., 6r.


40 Cornelio, Meditationum de Mundi Structura liber primus cit., c. 13 – c. 23.

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Riprendendo l’esame dei Progymnasmata physica,
l’opera si apre con un’esortazione dell’accademico Leo-
nardo di Capua a ritrovarvi le “nuove e inaudite ragioni
ed osservazioni” con le quali fondare il diritto della nuo-
va scienza a procedere libera sulla via dell’esplorazione
della natura. Di Capua colse il filo conduttore di tutta
l’opera di Cornelio, vale a dire portare alla luce un modo
diverso di condurre l’esperienza scientifica, basato su
una differente ragione filosofica che non alimenti false
certezze. Di Capua intuì per di più da dove provenivano
gli impulsi teorici che fondano le osservazioni di Corne-
lio, ossia Galilei, Descartes e Harvey con i quali condi-
vise il vero metodo del filosofare:

[…] vero modo dei filosofare: dei princìpi delle cose


naturali, dell’anima, e del moto, e del discorrente, e
del solido, e del calore e del freddo, e della luce, e dei
colori, e dell’altre che si chiamano sensibili qualità;
e come si facciano i sentimenti; e in che la vita degli
animali consista; e se l’ufficio di quella per qualche
spazio di tempo lasciar si possa: ed onde avvegna quel
movimento, o soffiato, che dicon flusso, e riflusso del
mare: onde l’avvelar dei corpi, ch’appellan gravi, e
come quelli uniformemente poi tutti si muovano: qual
sia la cagione della strabocchevole forza della percos-
sa: e onde nasca il pendimento dei corpi solidi […]41.

41 L. Di Capua, Lezioni intorno alla natura delle mofete, Salvatore Castaldo, Napoli 1683,

pp. 3 sgg.

37

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Della varietà degli argomenti trattati nel Progymna-
smata, il di Capua, nella sua lettera al lettore, ne indicò
solamente uno, quello relativo alla nutrizione, per illu-
strare il modello meccanico e chimico alla base della
visione della natura di Cornelio42. La lettera al lettore
è seguita dal Dialogus in Proemii suffectusin cui sono
protagonisti Stelliola, Trusiano43 e Bruno alle prese
con un dibattito in cui si oppongono novatores e tra-
dizionalisti, ossia coloro che sottomettono all’autorità
degli antichi il metodo, l’idea di un’intelligenza che
sappia emanciparsi dall’autorità d’Aristotele e Gale-
no e sappia procedere solamente con i suoi mezzi per
accogliere informazioni intorno al mondo dei fenome-
ni naturali44. I dubbi di Trusiano sulle novità dei mo-
derni, l’entusiasmo di Stelliosa – che ricorda quello di
Cornelio – per le complura recens inventa che mirifice
42 Cornelio, Progymnasmata physica cit., F. Barba, Venetiis 1663, Progymnasmata VI,

De Nutricatione, Leonardus a Capua lectori, pp. 200 sgg.: «Quotenim aut quanta profert
inventa Progymnasmata illud (ut caetera sileam) quod est de Nutricatione: Scilicet in pri-
mis docet cibos in ventriculo non calore confici, nec acrioribus domtaxat succis dissolutus
exteri, sed alia quadam ratione concoqui: Chylum item non per lacteas Aselii venas ad jecur
permanere, nec omne alimentum per ductus Pecqueti ad cor delabi. Praeterea sanguinem non
in iecinore fieri, nec in corde atque liene, nec ullu, extare in animalium corporibus peculiare-
am sanguinis officinam: neque porro sanguine partes anguscere atque nutriri. Ad haec fellis
ususm obscurum sane est et ignotum aperit. Tum vias indicat per quas linphatica nuncupavit,
originem usumque patefacit. Et tandem veram germanamque glandularum naturam, et utilita-
tem ostendit, ac plurimas interea novas inauditasque observations describit».
43 La figura di Trusiano è molto probabilmente da identificare con quella del medico fio-

rentino Torrigiano de’ Torrigiani. Il Torrigiano, vissuto tra il 1270 e il 1320, studiò a Bologna
a Parigi, allievo dell’istruttore Taddeo e che Marziano Rosa ascrive tra gli esuli espulsi da
Firenze insieme con Dante, è l’autore di un Plusquam commetum in parva Galeni artem. Il
Torrigiano, già noto tra i contemporanei come plus quam Commentator, è indifferentemente
indicato come Turisiano, Crusiano, Trusiano. (Torrini, Tommaso Cornelio e la ricostruzione
della scienza cit., p. 103)
44 Cornelio, Progymnasmata physica, Dialogus in Proemii locum suffectus, p. 2: «Quin

potius undique circumspiciamus, libremus singula, nihilque non examinemus, et seu intelli-
gentiae viribus, seu observatione rationeque, si liceat, sensibus capta, pensemus».

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arrident45 e l’esortazione di Bruno alle innovazioni del
tempo46 diedero all’agguerrita disputa una dimensione
in cui fu investita tutta la cultura del passato e di quella
contemporanea a Cornelio la quale cercò di uscire dalla
stagnazione in nome di un accrescimento infinito del
sapere47. Trusiano continuò tuttavia a mostrare tituban-
za nei riguardi della nuova scienza e ribadì il suo incrol-
labile rispetto verso l’antichità, sebbene Stelliola gli
facesse notare quanto fosse incolmabile la distanza tra
Aristotele e Galeno (la questione della generazione)48.
Il dissenso tra Trusiano e Stelliola non poté essere
semplicemente ricondotto a un contrasto verbale, ben-
sì a due modi differenti di guardare al Cosmo. Trusia-
no fu sordo a ogni innovazione e ritenne che lo stato
d’incertezza,in cui si trovò la medicina, fosse dovuto
ai novatores i quali smarrirono l’eredità di Aristotele
e Galeno, inseguendo i deliri dei chimici e Paracelso.
A questo punto del dialogo Bruno interrompe Trusia-
no, elogiando la medicina dei chimici49 e invitando

45 Cornelio, Progymnasmata physica cit., p. 5


46 P. rossi, I filosofi e le macchine. 1400-1700. Feltrinelli, Milano 2002, pp. 68 sgg.
47 Cornelio, Progymnasmata physica cit., p. 14: «Ad summam cogita naturam arcana non

simul edocere, sed servare semper quod ostendat exquirentibus: inexhaustos esse illius the-
sauros, nec umquam fore, et eiusdem mysteria penitus recludantur; etsi complura ex interiore
deprompta sacrario in lucem dies extrahat, et longioris aevi diligentia».
48 Cornelio, Progymnasmata physica cit., pp. 26-27: «Homines procreari Galenus cen-

suit ex viri mulierisque siminibus permistis, quorum utrumque tam materiae, quam effectio-
nis rationem habere credidit: at Aristoteles scripsit mores effundere semen in quo efficiendi
vis insit, foeminam vero solam praebere materiam, quam putavit esse sanguinem. Ad haec
Aristoteli cor tum sensus motusque, tum vitae et nutricationis principium visum est: sed
Galenus tres contituit in homine principatus non potes tale modo, sed locis etiam disjunctos;
nempe sentiendi movendique vim in cerebro, vigendi in corde, et alendi in jecore».
49 Cornelio, Progymnasmata physica cit., p. 53: «[…] qui medendi rationem a contem-

platione causarum deducere studunt, novas indagaturi sint via; quia nimirum ea nuper phae-

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quest’ultimo a leggere proprio i Progymnasmata per
cogliere le novità che riguardano la natura delle cose. Il
primo dei Progymnasmata, dedicato al vescovo Cara-
muel, verte sulla questione epistemologica riguardante
lo stato d’incertezza e ritardo della ricerca fisiologica,
opposto ai risultati indubitabili ottenutidalla Geometria
Analitica, dall’Astronomia, dall’Algebra e dalla Chi-
mica50. A differenza della Metafisica e della Matemati-
ca51, la Fisiologia è scienza del concreto, cioè dei corpi;
i suoi “strumenti”, mediante cui appropriarsi delle im-
magini delle cose, sono gli organi di senso, il suo fine
è di esporre con rigore la ragione interna della natura;
pertanto, come l’Astronomia, così la Fisiologia deve
escogitare ipotesi per ricercare i princìpi delle cose52.
Tuttavia, maggiore è la libertà degli astronomi, perché
essi non si pongono il problema di una struttura mag-
giormente circoscritta delle ipotesi «[…] quippe quibus
semplicissima quaedam cognitio proposta est, ad quam
pluribus viis potest perveniri»53; per i fisici l’oggetto

nomena animadversa in animalium oeconomia, quae omnino videntur evertere fundamenta,


super quibus hypoteses conjecturacque Madicinne rationalis fuerunt hactenus superstructae».
50 Cornelio, Progymnasmata physica, pp. 59-60: «Quis enim non admiretur automata

versatilesque machinas, quae siderum cursum cum coeli ratione congruentem indicant, tem-
porum intervalla designant, et anima coeli phaenomena velut ignara causa repraesentant?
Quis item non su suspiciat praeclara Architectonices machinamenta, et Chymiae miracula, in
quibus gloriari nostra aetas jure optimo potest?»
51 Cornelio, Progymnasmata physica cit., p. 65: «[…] quorum alterum impuntandum na-

turae, quae cum veritatem in profundo (ut ait Democritus) penitus abstruserit, imbecillas dedit
intelligentiae nostrae vires ad illam eruendam; alterum vero philosophantibus, qui naturae
contemplationem praepostero plerumque aggrediuntur».
52 Cornelio, Progymnasmata physica, p. 65: «[…] ita similiter in Physiologia fieri possit,

ut excogitentur hypotheses, quae tametsi non omnino cohereant, omnium tamen rerum natu-
ralium eventa demonstrent».
53 Cornelio, Progymnasmata physica, p. 79.

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dell’indagine è tale che «iis opus sit hipotheses exco-
gitare, quae ad verum ipsum, vel ad similitudinem veri
quam proxime accedant»54. Il discorso metodologico di
Cornelio poggia su due momenti:
· Il meccanicismo e il chimismo, cioè le basi su cui
fondare la Fisiologia come scienza, perché l’uno of-
fre, mediante l’analogia delle costruzioni artificiali,
la possibilità di spiegare con esattezza l’organizza-
zione dei corpi, l’altro di operare esperienze vive. In
ogni caso entrambi sorretti da un approccio diretto
alle cose;
· L’ipotesi, identificata con la ratio philosophandi, ha
una duplice funzione, ossia di principio dimostrativo
esteso a tutti i fenomeni della natura E di principio
direttivo di approssimazione al vero.

Il processo investigativo non si arresta però alle sin-


gole ipotesi, perché considera «An que aliqua possint
axiomata. Quae ita unicuique sint manifesta, un nemo
unquam de illis dubitae. Nam demum ex his, accurata
ratiocitione elici poterunt eorum, quae inquiruntur, de-
monstrationes […]»55. La scelta sperimentalista di Cor-
nelio è indubbia, ma la ratio philosophandi cartesiana,
destinata a sostenerla, deve ripiegare sull’incertezza e
sulla verosimiglianza, scogli su cui si infrange il rigido
meccanicismo di Descartes56. Quanto ai princìpi delle
54 Cornelio, Progymnasmata physica, p. 80.
55 Cornelio, Progymnasmata physica, p. 81.
56 MoCChi (a cura di), Omaggio a Tommaso Cornelio cit., p. 104.

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cose, dai presocratici a Platone e Aristotele, agli Stoi-
ci, a Epicuro, a Telesio e a Paracelso, ha regnato una
contrastante opinione filosofica, contrasto mitigatosi ai
tempi di Cornelio grazie a Gilbert, Campanella, Galilei,
Bacon, Descartes, Gassendi e Hobbes. La fisica mec-
canicistica di Descartes risulta essere tuttavia la strada
più sicura per Cornelio tra la contrarietà delle opinio-
ni: della fisica cartesiana condivide la distinzione tra
materia «ex qua quaeque res efficatur» e forza «quae
qicque efficiar» e la concezione della materia come ri-
cettacolo dei corpi57. Secondo Cornelio, fedele all’im-
postazione contenutistica di Descartes, gli unici due
princìpi in grado di spiegare la costituzione del mondo
sono la materia e il movimento; nel secondo Progym-
nasma, fatta eccezione per i filosofi che hanno identi-
ficato i princìpi delle cose nel Mondo e Dio, Cornelio
può rileggere le opinioni dei filosofi del passato e del
periodo rinascimentale in quanto corroboranti la tesi
di Descartes58. La critica rivolta da Cornelio a Galilei
57 Cornelio, Progymnasmata physica, pp. 96-98: «Sed tamen in definiendis rerum prin-

cipiis, videntur omnes cum antiquis, et cum Democrito potissimum, conspirare. […] Rectius
ergo locum ponamu ses se intervallum, seu spatium quod a corpore obsidetur; idest ipsam
rei materiam. Quare sicuti corpus intellegi sine loco non potest, ita nequit sine corpore locus
consistere; ac proinde nullum inane esse potest».
58 Cornelio, Progymnasmata physica, pp. 85-103: «Parmenideas unum atque immobile

posuit universum; principia vero due, nempe ignem et terram, vel calidum et frigidum, seu
lumen et tenebras: et illus quidem efficiendi vim habere, hoc vero accipiendi, et quasi patien-
di. In eadem quoque fuisse sententia perhibetur Melissus Parmenides auditor. At Leucippus
rerum initia posuit plenum et inane; et illud quidem in atomos seu corpuscola individua di-
versarum formarum dispertitum hac illac ferri; hoc vero locum praestare, per quem ipsae
atomi ferantur. Omnes atomis atque inani concrescere omnia, et generari voluit. Cum vero
rem omnem uberius esset persequutus, atomorum naturam subtiliter expressit; tradidit enim
illastum numero, tum etiam figurarum varietate infinitas esse; ac iuxta earumdem figuras, nu-
merum, ordinem, dispositionemquemrerum omnium concretiones fieri. Epicurus a Democrito
pleraque omnia accipiens docuit universitatem duabus ad initio rebus constare, corporibus ni-

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non tenne in considerazione la soluzione proposta da
quest’ultimo, cioè un tentativo di portarsi oltre la teoria
atomistica classica, cercando di dissolverne le antino-
mie insite nella stessa nozione di “atomo” inteso come
limite necessario alla divisione materiale, soglia che
assume più il carattere di un postulato teoretico che la
conseguenza di una dimostrazione59. Nei Discorsi e di-
mostrazioni matematiche Galilei intrecciò l’esigenza di
trovare una più stabile fondazione alla teoria della ma-
teria di matrice atomistica all’ambizione di fornire un
contributo all’analisi dell’indivisibile matematico. La
dissertazione galileiana sulla divisibilità del continuo
suggerisce varie ipotesi di lettura: il tentativo di fornire
una chiave d’accesso matematico-filosofica al Miste-
ro della Transustanziazione o il proposito di fornire un
nuovo approccio alla prova ontologica sull’esistenza
di Dio per via matematica60. Nei Discorsi la soluzione
di Galileo prende avvio dall’enigma della ruota di Ari-
stotele61: Galilei-Salviati formula l’ipotesi secondo cui
anche i corpi solidi sono alla base strutturati in compo-
nenti semplici non quanti62. La soluzione dell’enigma

mirum et inani. Corpora autem ex quibus concretiones fiunt, et in quae dissoluuntur, individua
esse, et immutabilia, ac figuram diversitate incomprehensibilia».
59 saMBUrsky, Il mondo fisico dei Greci cit., p. 120.
60 redondi, Atomi, indivisibili e dogma cit., pp. 556-566.
61 arisT., Mech., trad. it. Meccanica a cura di M.F. Ferrini, Bompiani, Milano 2010, c. 24.

62 Galilei, Opere cit., VII, p. 476: «E questo, che si dice delle semplici linee, si intenderà
detto delle superfici e dei corpi solidi, considerandoli come composti di infiniti atomi non
quanti: mentre li vorremmo dividere in parti quante, Non è dubbio che potremo disporre in
spazi più ampli del primo occupato dal solito se non con l’interposizione di spazi vacui, vacui,
dico, almeno della materia del solido; ma se intenderemo l’altissima e ultima resoluzione
fatta ne i primi componenti non quanti ed infiniti, potremo concepire tali componenti distratti

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della rota non deve essere intesa come un esercizio ma-
tematico-speculativo, bensì come lo svolgimento di un
ragionamento indirizzato a verificare la non ripugnanza
per la ragione di concepire un’estensione finita compo-
sta di infinite parti vacue e/o piene non quante63. Nei
Discorsi non s’intende dedurre né provare l’esistenza
dell’indivisibile fisico per via matematica, ma, attraver-
so il ricorso all’analogismo, illustrarne la trasposizione
in sede fisica di certe acquisizioni dell’investigazione
matematica. Le coordinate metodologiche delle specu-
lazioni di Galileo sull’infinito si presentano più come
programma di ricerca che come teoria. La precarietà del
discorso contribuisce a chiarire anche la ragione per la
quale Galilei accedette a diverse tradizioni filosofiche
così come a motivi cusaniani e bruniani64. Se i risul-
tati dell’investigazione matematica non furono dunque
omologabili in fisica, essi poterono dischiudere univer-
si teorici diversamente inintelligibili65. Il termine “me-
tamorfosi” costituì un punto essenziale della faticosa
ricerca galileiana sulla struttura dei corpi. Il concetto
suddetto segnò il distacco dalle conclusioni raggiunte

in spazio immenso senza interposizione di spazi quanti vacui, ma solamente di vacui Infiniti
non quanti»
63 FesTa, GaTTo (a cura di), Atomismo e continuo nel XVII secolo, Istituto Italiano per gli

studi filosofici, Napoli 2000, p. 141.


64 FesTa, GaTTo (a cura di), Atomismo e continuo nel XVII secolo cit., p. 143.
65 Galilei, Opere, VIII, p. 85: «O che diremo di cotali metamorfosi nel passare dal finito

all’infinito? Perché dobbiamo sentire repugnanza maggiore, mentre, cercando l’infinito nei
numeri, andiamo a concluderlo nell’uno? E mentre che rompendo un solido in molte parti e
seguitando di ridurlo in minutissima polvere, risoluto che si fusse ne gl’infiniti suoi atomi non
più divisibili, perché non potremmo dire, quello essere ritornato in un solo continuo, ma forse
è fluido come l’acqua o il mercurio o il medesimo metallo liquefatto?»

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nel Saggiatore, ove le ultime risoluzioni della materia
danno origine a una trasformazione degli elementi nella
sostanza più nobile, cioè la luce; nei Discorsi le ultime
divisioni, il passaggio dal quanto al non quanto – all’in-
finitesimo – non implicano più la trasformazione della
sostanza, bensì un cambiamento di stato fisico, in altre
parole il passaggio dallo stato solido a fluido66. Il con-
cetto di atomo è un concetto limite con cui rappresen-
tiamo le estreme divisioni di una sostanza: passando dal
minimo all’atomo, pian piano un corpo perde determi-
nate proprietà fisiche, acquisendone di nuove, a mo’ di
esempio la fluidità. La struttura atomica della materia
non è di per sé responsabile della fluidità; il cambia-
mento di stato si produce nel momento in cui gli ato-
mi, liberati da qualunque forza che li unisce, si portano,
tenendo presenti le leggi di Archimede, verso il basso,
disponendosi secondo gravità. Tra gli elementi della na-
tura, l’acqua è l’unica a possedere le proprie parti natu-
ralmente disgregate per le quali non è necessario alcu-
no strumento di divisione: la fluidità è la caratteristica
sostanziale, sempre in atto, dell’acqua. I suoi indivisi-
bili sono privi di collegamento, fatta eccezione per la

66 Galilei, Opere, VIII, pp. 85-86: «[…] io non so trovare migliore ripiego per risolvere

alcune sensate apparenze, tra le una è questa. Mentre io piglio un corpo duro, o sia pietra o
metallo, E che con martello o sottilissima lima lo vo al possibile dividendo in minutissima ed
impalpabile polvere, chiara corsa è che i suoi minimi, ancora che per la loro piccolezza siano
impercettibili a uno a uno dalla nostra vista dal contatto, tuttavia son eglino ancora quanti,
figurati numerabili […]. Ma se noi tenteremo di vedere tali accidenti nell’acqua, nissuno ve ne
troveremo […]. Da questo mi pare di poter molto ragionevolmente arguire, i minimi dell’ac-
qua, ne i quali ella pur sembra essere risoluta […], esser differentissimi da i minimi quanti e
divisibili; né saprei ritrovare altra differenza, che l’essere indivisibili»

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contiguità; i suoi componenti si portano sempre al punto
più basso; i minimi dell’acqua coincidono esattamente
con le estreme divisioni della sostanza, vale a dire gli
atomi67. Il profilo della struttura della materia tracciato
da Galilei non poté che rimanere allo stato di abboz-
zo e non ebbe certamente i caratteri di una teoria della
materia compiuta. Tale sistema degli elementi risultò li-
mitato, poiché Galilei si preoccupò esclusivamente dei
suoi aspetti fisici e non anche di quelli chimici, preoc-
cupazione che si rintracciò in tutti i corpuscolaristi della
prima metà del Seicento i quali ritennero che i cambia-
menti di stato della materia fossero solamente dovuti
a variazioni meccanico-quantitative. Quest’analisi ci
riporta alla critica di Cornelio a Galilei e alla sua af-
fermazione secondo cui le proprietà geometriche delle
figure non sono sempre riferibili ai corpi fisici68. Oltre
ai princìpi di materia e movimento, Cornelio affronta
il problema dell’etere, dello spazio vuoto, della gravità
dei corpi, impegnando tali concetti a un confronto con
il pensiero di Descartes. La Fisica di Cornelio e i prin-
cìpi della materia e del movimento si sottraggono a una
rigorosa visione matematico-geometrica cartesiana per
assumere maggiore spessore fisico-sensibile, una più
spiccata materialità, una maggiore immersione della
mens nelle cose. Quanto alla composizione dell’etere,
il filosofo cosentino ribadì che esso non fu altro che
67
FesTa, GaTTo (a cura di), Atomismo e continuo nel XVII secolo cit., p. 146.
68
Cornelio, Progymnasmata physica, p. 104: «Complura occurrunt in Mathematicis pa-
radoxa, quae quidem aliena sunt a physica ratione».

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materia e movimento, più precisamente una materia i
cui corpuscoli sono in costante agitazione, tale da ren-
dere questo elemento caldo69.

La struttura atomica della materia

Sono stato lungo tempo aspettando qualche specola-


zione del Sig. Torrini e del Sig. Mersenni intorno al
quesito V.A.; finalmente accorgendomi che costoro si
ritrovano impiegati in altre contemplazioni, né sj arri-
schiano a far uscire dalla loro penna cosa che non ha
con maturo giudizio esaminata, ho stimato espedien-
te scrivere alcuni miei pensieri, i quali forse daranno
a V.S. motivo di investigar dottrina più nobile […].
Mi ricordo d’haver detto a V.S. che il Torricelli con
una sperienza dimostrava che il Vavuo non solamente
non era ripugnante all’ordine della natura, ma che di
fatto si ritrovasse: et io lo diedi a V. S. questa rela-
zione mentre discorrevamo di quei Vacuoli, che am-
mette Herone nella prefazione delle sue Machine Spe-
ziali. Quindi fors’ella si pigliò l’errore, pensando che
69 Cornelio, Progymnasmata physica, pp. 143-144: «Mira sunt, et prorsus incredibilia,

quae de calore scripta sunt ab Hippocrate. Mihi, inquit, ille, sane videtur id quod calidum
vocamus immortale esse, et cuncta intellingere, cernere, audire, et omnino scire omnia tum
presentia, tum futura. Ejus autem plurima pars, quum turbata essent omnia, in supernam cir-
cumferentiam secessit; et videntus veteres ipsum Aethera nuncupasse. Telesius quoque calori
plus aqueo tribuit; nam lumen praeter caetera, moltumque a calore proficisci voluit. Haec
autem, et alia ejusmodi, esti explicari, et ad naturam revocari quadammodo possint, ita tamen,
ut sonant, a re et physica ratione remota videntur, aut certe hyperbolicus dicta. Enimvero vis
illa, in qua lucis calorisque actio consistit, a motu et agitatione Aetheris revera pendet. Hinc
autem sensus est omnis, animique intelligentia, ut suo loco perspicuum faciemus».

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havessi detto che il Torricelli havesse dimostrato che
si ritrovasse dell’aria entro l’acqua […]70.

Possiamo dedurre dalla lettera che Cornelio, incal-


zato dalle amichevoli insistenze del suo maestro Seve-
rino, si affrettò a comporre in breve tempo il trattatello
De cognatione aeris et aquae che inviò a Napoli nello
stesso anno (1646). Quest’ultimo sarebbe rimasto in
forma manoscritta sino al 1663, quando la morte di Se-
verino, a causa della pestilenza del 1656, ne rese im-
possibile l’utilizzo. Il De cognatione, nella cui dedica
a Camillo Pellegrini Cornelio rievocò l’origine dello
scritto71, fu completato due anni dopo l’esperimento
di Torricelli che suscitò a Roma grande eco e spinto
gli scienziati gesuiti, che si schierarono ufficialmente
e unanimemente contro l’esistenza del vuoto, con una
disponibilità sperimentale sorprendente, a fare e rifa-
re, mutando condizioni e mezzi, le esperienze dei loro
oppositori galileiani72. Nello scritto Cornelio, pren-
dendo posizione contro l’esistenza del vuoto, attribuì
alla nozione di etere una funzione centrale: di fronte
al disgregarsi del Cosmo aristotelico, l’etere permette
di concepire unitariamente la natura dei Cieli e della

70 M. Torrini, Lettere inedite di Tommaso Cornelio a M.A. Severino, «Atti e memorie

dell’Accademia Toscana di scienze e lettere La Colombaria», 35 (1970), pp. 146-147.


71 T. Cornelio, De cognatione aeris et aquae, Progymnasmata physica, F. Barba, Venetiis

1663, p. 142: «Dissertationem hanc, quam olim Severino nostro efflagitante conscripseram, in
lucem proferre constitui Camille non vulgaris amice: Confido enim non iniucundam fore re-
rum naturalium studiosis, lucubrationem illa, que Cl. Viro, dim in vivis esset, usque eo placuit,
ut digna visa sit, quae eruditissimis suius de Respiratione Piscium commentarys, infereretur».
72 Torrini, Tommaso Cornelio e la ricostruzione della scienza cit., p. 19.

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Terra e la loro conservazione quantitativa73. La cono-
scenza dell’Universo è possibile solamente attraverso
l’unificazione quantitativa della materia, ossia median-
te la riduzione dell’universum ad hominem. Lungi da
constatazioni secondo cui l’Universo fosse un animale
senziente – come ritenne Campanella – basate sull’ana-
logia macrocosmo-microcosmo, il Mondo di Cornelio
perse qualsiasi connotazione animistica, perché retto da
leggi meccaniche e matematiche da cogliere attraver-
so l’uniformità di metodo e mezzi d’indagine: la ratio
e l’experimentum sono la vera analogia del Cosmo74.
Proprio questa uniforme quantificazione permise d’in-
terpretare ogni cambiamento di stato della materia
come un diverso stato d’aggregazione di quest’ultima,
cioè dei componenti della medesima75. Cornelio citò il
73 Cornelio, De cognatione aeris et aquae cit., pp. 143-144: «Quamobrem sapienter

decernunt illi, qui considerantes phaenomena nostro potissimum saeculo in Coelo tubi dio-
ptrici ope depraehensa, multiplices illos orbes, quos antiquiores Astrologi ad determinandos
stellarum motus confixerant, e rerum natura eliminantes, in eorumdem locum substituunt
pellucidam, ac summe tenuem substantiqm, aetheris nomine significatam: secus enim neque
praecipuas naturae operationes explicare. Nam, ut silentio propagationem, quis unquam de
condensatione et rarefactione aeris verosimilia dicturum se speret, nisi hac aetheris sbstantia
admissa? Profecto enim si rarefactio et condensatio ita fieret, ut vulgo ponitu, Mundus quan-
doque deficeret, quandoque vero redundaret, vel etiam nunc aliqua eiusdem pars efficeretur
inanis; nunc autem penetratio dimensionum contingeret, quae sane sunt absurda».
74 Cornelio, De cognatione aeris et aquae cit., p. 143: «Quatuor vero vulgarium elemen-

torum ordinem, atque distinctionem evertit natura Coeli parvia, et aeque ac sublunaria regio
mutationibus obnoxia».
75 Cornelio, De cognatione aeris et aquae cit., p. 144: «Libet autem perquirere, quomodo

una eademque aquae natura enumeratas tres formas possit induere. At eius quidem res facilis
videbitur explicatio, si usurpemus hypotheses incomparabilis Philosophi Renati des Cartes:
Etenim aquae particulae (quas atomos appellare licebit, non quidem geometrico rigore, hoc
est omnimo insecabiles, sed Physica ratione, ut sint prima aquae componentia, seu corpuscola
individua, in quae duntaxat ipsum aquae corpus naturaliter dividi ultimo possit) concipiendae
sunt oblongae, ac teretes, quae lentius agitatae soluteque, ut facile repere possint, humoris
figuram subeunt: verum si implicatae rigeant, glaciem effingunt. Denique si celeriter, ac in
gyrum quodammodo actae voluantar, ita ut aliae ab alijs magis ac magis recedant, vaporis
speciem exhibent».

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caso dell’acqua76, sebbene il mutamento della materia
non fosse più affidato all’azione di un agente esterno (il
calore di Telesio), bensì alla disposizione al mutamento
degli atomi stessi, attitudine dovuta all’unico principio
ammesso da Cornelio sulla scia di Descartes, cioè il mo-
vimento77. L’esempio sperimentale che Cornelio traeva
dal testo Meteore di Descartes fu quello dell’ampolla
riempita d’acqua posta sul fuoco e circondata di neve78.
Il filosofo cosentino paragonò le particelle dell’acqua
a delle anguille variamente disposte e conformate per
spiegare il fenomeno. Per quanto riguarda la conclusio-
ne dell’esperimento Cornelio ritenne che l’aria non fu
altro che il prodotto dell’evaporazione dell’acqua79.
76 Cornelio, De cognatione aeris et aquae cit., p. 144: «Nam quid ad aquam pertinet,

illam in triplici statu, quasi triformem experimur quotidie. Aliquando enim in glaciem con-
creta, duri corporis speciem rapraesentat: plerunque autem liquentis humoris formam exhibet;
et nonnunquam etiam soluitur in vapores, modo densiores opacosque, modo autem rariores
atque pellucidos»
77 Cornelio, De cognatione aeris et aquae cit., p. 144: «Libet autem perquirere, quomodo

una eademque aquae natura enumerata tres formas possit induere. At eius quidem res facilis
videbitur explicatio, si usurpemus hypotheses incomparabilis Philosophi Renati des Cartes:
Etenim aque particulae […] concipiendae sunt oblongae, ac teretes, quae lentius agitatae solu-
teque, ut facile repere possint, humoris figuram subuent: verum si implicatae rigeant, glaciem
effingunt. Denique si celeriter, ac in gyrum quodammodo actae voluantur, ita ut aliae ab alijs
magis ac magis recedant, vaporis speciem exhibent».
78 Cornelio, De cognatione aeris et aquae cit., p. 144-145: «Caeterum oportunum erit

haec omnia experimentis illustrare. Paretur itaque ampulla vitrea proceriore collo praedita,
et crassa ne frangi facile possit; Hanc ad medium fere collum aquae plenam, igni admove-
bimus: Nam simula c calorem conceperit aqua, turgere sinsim incipit, donec ad fervorem
usque adacta insigniter excrevisse videatur. Interim si eiusdem ostio vesicam omnino inamen,
hoc est compressam inferamus, observabimus hanc confestim intumescere a vaporibus aqueis
sublimia petentibus. Sed ampulla ab igne detracta aqua subsidere, ac in minus spatium cogi
incipit. Demum si ampullam nivibus, nitroque cirecumsepientes aquam in glaciem concre-
scere finamus, videbimus hanc non modo iterum exundare, sed multo quoque maius spatium,
quam antea feruens implerat, comprehendere. Hic glacies aquae innatat, et metalla cocnerta
sub ijsdem liquatis demersa sursum feruntur: ut propterea manifestum sit, non solum a calore,
sed ab ipso etiam frigore ingenti aquam rarefieri, atque in maiorem molem distendi».
79 Cornelio, De cognatione aeris et aquae cit. pp. 145-146. «Aquae igitur particulas oblon-

gas laevesque anguillis vivis, vel recenter mortiuis cum Cartesio comparabimus, ut intelligamus

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La ricostruzione dell’immagine fisica dell’Universo

Il soggiorno romano, le amicizie e le letture qui ma-


turate, così come quelle altrettanto decisive nell’am-
biente napoletano, insieme con i futuri membri
dell’Accademia degli Investiganti, condizionarono
l’educazione filosofica di Cornelio. Proprio durante
questo periodo della sua formazione si manifestò il
definitivo distacco dalle idee del suo maestro Seve-
rino e dall’impostazione naturalistica telesiana80. Sia
nell’Epistola del 1649 sia nel De cognatione Cornelio
avrebbe portato avanti il suo violento attacco contro
la tradizione filosofica81. A tale offensiva si collegò la
lettera di Cornelio indirizzata al suo maestro Severino

qua ratione moveri, ac inter se repere facile possint. At aquam in glaciem concretam con-
feremus cum eiusdem anguillis exsiccates, vel gelu rigentibus, quae quidem in semetipsas
perplicatae impediunt quo minus fluere, ac repere queant […]. Unde constare etiam potest
maiorem, potioremque aeree molis partem esse substantiam etheream; ut propterea nihil aliud
sit aer, quam aether impursus, hoc est vaporibus, atque halitibus e terra advectis inquinatus.
[…] Primum autem liquet non posse intra aquas diutis subesse portiones aereas magnitudinis
conspicue, nisi interea hae alicui duro corpori adhaeserint, secus ob diversitatem loci, quem
sibi vindicant gravia et levia sursum efferuntur in auras. […] At vero nulla unquam vi po-
terimus aquam ita compellere, ut propeterea quasquam e globulis in imo iacentibus sursum
adsurgat. Sed enim aqua et si frigore condensetur, non tamen externo etiam conatu perinde ac
aer, comprimi et in minorem molem contrahi potest».
80 Torrini, Tommaso Cornelio e la ricostruzione della scienza cit., p. 29.
81 T. Cornelio, Epistola ad Marcellum Crescetium qua motuum illorum cui vulgo ob

fugam vacui fieri dicuntur vera causa per circumpulsionem ad mentem Platonis explicatur a
Timaei Locrensis Crathigenae, «Progymnasmata physica», F. Barba, Venetiis 1663, p. 131:
«At vero quidam Philosophi, qui nihil ultra corticem norunt, de natura, se potius de rebus
naturalibus non aliter loquuntur, quam si illae mentis, rationisque participes, ac propriarum
functionum cosciae forent. Aiunt enim illas rebus amicis oblectari, et ad eas sponte accurrere,
fugere vero inimicas, imo vires suas adversus easdem intendere; et quod non sine risu excipe-
re possum, interdum etim contra propria propensiones sponte moveri, ne vacuum propignatur,
monstrum same formidabile, et ipsius nature terror. Hinc exorta inania illa inscitiaeque plena
vocabula Sympatathiae, Antipathie, Antiperistasis et similia, ad quae tanquam ad sacram an-
choram solent confugere Philosophi nostri, quotiescunque in arcanis cognoscendis caligar
intellectus».

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nel dicembre del 1648 nella quale il tono affettuoso
non nascose tuttavia la diversa direzione intrapresa dal
primo82. Nella misura in cui Cornelio trovò consonan-
za di idee con Descartes, l’unico in grado di fornirgli
le nuove chiavi di lettura per comprendere l’Universo,
di pari passo la preoccupazione, che dalla dissoluzione
dell’aristotelismo si avvantaggiassero l’astrologia e la
magia, si accrebbe in lui83. L’Epistola chiarisce che
una filosofia rinnovata, sotto le insegne del cartesia-
nesimo, è l’unica in grado di fornire il metodo adatto
alla scienza della natura per instaurare una proficua
relazione tra Fisiologia e Fisica, tra materia e corpo84.
82 Torrini, Lettere inedite di Tommaso Cornelio cit., pp. 147-148: «Non mi stenderò poi

molto a risolvere in risolvere le difficoltà che ella mi propone, sì perché stimo che a quest’ora
le siano sovvenute le mie raggioni, sì ancora perché la soluzione di queste si contiene essen-
zialmente nel mio libretto, conciosiache la nodrizione si faccia col sangue che è distribuito
e dispensato a tutto il corpo in virtù della palpitazione del cuore, che manda per l’arterie il
sangue a tutte le parti, ciascheduna de’ quali ritiene appo di sì que’ minimi del nodrimento
che le sono proPorZionati. Così come il Sole manda il calore e la luce alla Terra senza che
questa si adopri in tirarli. In quanto all’altro dubbio che V. S. soggiunge cioè che mediante
la mia dottrina si dovrebbe togliere l’appetito delle parti sentievoli, io havrei da dirle molte,
me per hora basterà che io l’accenni due mie proposizioni, che qualche giorno mostrerò con
raggioni et esperienze esser verissimo. L’una di queste sta che io penso non esser parte del
corpo degli animali che pensa, ma dirò con quel poeta nostro Plutarco che la sola mente ode
e vede, ogn’altra cosa è sorda e cieca. La seconda è che io non ho bisogno di ammettere ap-
petito alcuno nelle sostanze corporee, fuor che una convenienza di figura, di sito, di moto o di
grandezza o di altro simile accidente che io soglio chiamar modi. E di ciò ne potrà V. S. vedere
accennato brevemente il mio pensiero a c. 55 del mio libretto».
83 Cornelio, Progymnasmata physica cit., p. 28: «Alij demum obtusiore ingenio donati,

cum nequeant laudem fructumque ex veris, et solidis disciplinis acquirere, ad vanas falla-
cesque arte confungiunt; de quibus ementita miracula praedicant impudenter ij, ut est apud
Ennium, qui sui quaestus caussa fictas suscitant sententias. Hinc factum est ut apud complures
iam hodie Physiologia, et Mathematicae disciplinae tanquam vulgares scientiae pro nihilo
habeantur: nam nascio quid maius sibi pollicentur a Cabala, Alchymia, Astrologia, Magia,
alijsque praestigijs, quas hominum fraus seu superstitio commenta est».
84 Cornelio, Epistola ad Marcellum Crescetium qua motuum ollorum cui vulgo ob fugam

vacui fieri dicuntur vera causa per circumpulsionem ad mentem Platonis explicatur a Timaei
Locrensis Crathigenae cit., p. 115: «Superioribus igitur annis cum ad naturales viventium
functiones contemplandas agrederer, haerere coepi in disquisitione illius virtutis, qua viventia
succos quibus aluntur augescuntque, trahere putantus, vulga facultatem attractricem nuncun-

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L’epistola fu scritta sotto lo pseudonimo di Timeo da
Locri, discepolo di Platone: Timeo sarebbe stato il pen-
satore di raccordo tra la filosofia cartesiana e l’antica
filosofia italica pitagorico-democritea – accentuando
così il carattere polemico contro la tradizione aristo-
telico-scolastica –, nonché l’unico filosofo in grado di
sfidare adversariorum tela85. Passando all’indagine
dei contenuti dell’Epistula, Cornelio si servì dei risul-
tati ottenuti dall’esperimento svolto da Torricelli per
ricostruire un’immagine fisica, omogenea e compatta
del Cosmo, in seguito al crollo del sistema aristoteli-
co-tolemaico86. La novità delle soluzioni e il ricorso
alla matematica nell’indagine dei fenomeni naturali

pant. Arbitrabar enin nulla ratione fieri posse, ut trahens, motum ullum rei attrahendae, impri-
meret, nisi eidem foret alligatum, exemplo manus, uncini aut alterius cuiusvis tractorii organi,
quod quidem non trahit, nisi corpori trahendo fuerit affixum. Sed contrarium tamen mihi
suadere videbantur vires magneticae, electricae, atque etiam motus illi, quo ob fugam vacui
fieri dicuntur; in his enim quae trahuntur, nullo vinculo videntur alligata trahenti. Tandem re
melius pensitata animadverti nullam in memoratius motibus contingere attractionem: verum
ea, que moventur corpora a circumiectis propelli».
85 Cornelio, Epistola ad Marcellum Crescetium qua motuum ollorum cui vulgo ob fugam

vacui fieri dicuntur vera causa per circumpulsionem ad mentem Platonis explicatur a Timaei
Locrensis Crathigenae cit., p. 111: «Varia semper fuisse hominum ingenia, ac nostros Italos
plerumque in excogitandi rebus exceluisse; nonnullas autem nationes in illustrandis divulgan-
disque aliorum invetis diligentiores ac paratiores sese praestare solitas esse. Motus sanguinis
ad Herveio descriptum iampridem. Agnoverat, et amicis indicaverat Paulus Sarpa Venutus;
quin etiam illum multo ante designaverat Andreas Cesalpinus, qui cum pluribus loci, tum
praecipue libro V quaestionum peripateticarum quaetione IV. Scripsit sanguine ex dextero
cordis ventriculo in sinistrum per pulmones traijci; atque huic sanguinis circulationi optime
respondere ea, quae in dissectione natantur. Opticus item tubnus, quem primus omnium protu-
lisse a Joanne Baptista Porta Neapolitano; neque vero ad eiusmodi artificium amplificandum
profuisse parum videtur industria Galilaei Fontanae Torricelli, aliorumque Italorum. Mitto
sapientiam aristotelico nomini, re autem vera sophisticis tricij iamdiu amanpatam, Italiae pri-
mum assertam fuisse ab illustribus illis philosophicae libertatis vindicibus Telesio, Patritio,
et Galilaeo».
86 Cornelio, Epistola ad Marcellum Crescetium qua motuum ollorum cui vulgo ob fugam

vacui fieri dicuntur vera causa per circumpulsionem ad mentem Platonis explicatur a Timaei
Locrensis Crathigenae cit., p. 114: «Praestat tamen novas, atque inauditas opiniones commi-
nisci, quam inventas, ubi de illarum vanitate consisterit, obstinate defendere».

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furono i due elementi con cui rivendicare la libertas
philosophandi87. Secondo Cornelio il progresso del
sapere ha come fine non l’acquisizione di una teoria
generale, che spieghi tutto il complesso dei fenomeni
naturali, bensì la formulazione di un metodo che giu-
stifichi la propria fondatezza nell’indagine. Cornelio
non trascurò il positivo insegnamento di Galilei op-
posto alla strada tracciata dagli aristotelici: a differen-
za della ricerca dei rerum principia, Galilei oppose la
spiegazione di ciò che è e di ciò che avviene. Questo
atteggiamento significò concretamente da un lato il ri-
fiuto ad attendere a opere filosofiche in senso tradizio-
nale, cioè che affrontassero il complesso dei fenomeni
naturali, i meccanismi della conoscenza (i principia
philosophiae) per sviluppare studi su fenomeni, anche
di grande rilievo, ma parziali, funzionali a una deter-
minata ricerca da un lato; dall’altro evidenziare un
disagio profondo, cioè la sensazione che, evitando di
affrontare questioni metafisiche, si fosse tagliati fuori
dalle grandi correnti di pensiero europee. Per dare una
sua valutazione del fenomeno della pressione dell’aria
e dell’esperimento torricelliano, il filosofo cosentino
87 Cornelio, Epistola ad Marcellum Crescetium qua motuum ollorum cui vulgo ob fugam

vacui fieri dicuntur vera causa per circumpulsionem ad mentem Platonis explicatur a Timaei
Locrensis Crathigenae cit., p. 115: «Ego autem, ut nostri, in plerisque soleo ad utilitata ra-
tione Philosophandi recedere: neque enim ita semper Aristoteli addictus sum, ut quandoque
non probem etiam placita Democriti, ut Platonis; nec item solam veterum Philosophiam ita
veneror, ut aliquando non secter Neotericorum dogmata; quippe placent nonnulla ex Telesio,
complura ex Galilaeo arrident, plutima tandem mihi suppeditat Renatus des Cartes ad eam
Philosophandi methodum, qua ego utor: interdum ert occurrunt disquisitiones, in quibus nec
dicti Auctores, nec quisquam alius mihi plene satisfacit, quapropoter proprias positiones se-
quutus, ea soleo decernere, quae mihi rationum momenta suadere videntur».

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abbandonò qualsiasi implicazione metafisica e ogni
pretesa sistematica, guardando proprio al primo aspet-
to dell’eredità galileiana suddetta. La discontinuità
dell’impostazione di Cornelio non consisté nel rifiuto
di opporre sistema a sistema, bensì nel richiamo alla
libertas philosophandi. In primis Cornelio avanzò nel-
la sua epistola indicazioni metodologico-epistemolo-
giche, ossia sollevò la questione se i sensi fossero gli
strumenti più indicati per cogliere la ricchezza della
natura. Nell’incompleto De Mundi structura l’oscurità
della natura fu dovuta all’inadeguatezza degli organi
di senso; nell’Epistola Cornelio accantonò tale osta-
colo, insistendo maggiormente sulla resistenza fornita
dal pregiudizio (gli idola innati di Bacon)88. Affer-
mando la validità sensoriale nella conoscenza della
natura, Cornelio sottopose all’attenzione del lettore
la questione fondamentale intorno a cui ruota l’intera
lettera: sulla base delle indicazioni fornite dall’esperi-
mento di Torricelli, in che modo è possibile respingere
l’esistenza del vuoto? Nel De cognatione il filosofo
cosentino ipotizzò l’esistenza dell’etere, potendo così
concepire unitariamente la natura dei Cieli e della Ter-
ra e la loro conservazione quantitativa. Contrariamen-
te, nella lettera, si affida al ragionamento sillogistico:
88 Cornelio, Epistola ad Marcellum Crescetium qua motuum ollorum cui vulgo ob fugam

vacui fieri dicuntur vera causa per circumpulsionem ad mentem Platonis explicatur a Timaei
Locrensis Crathigenae cit., p. 114: «Quamquam hodie plerique cum prava quadam consuetu-
dine de via deflexerint, eo sensim deducit sint, ut quamcumque semel a Praceptoris hauserunt
disciplinam, eandem pugnacissime tueantur; nec ab illa seu rationum momentis, seu experien-
tiis possint abduci; imo vero aetate provecti obstinatius obdurant; quippe, ut inquid Horatius,
Turpe putant minotibus; et quae Imberber didicere, senes perdenda fateri».

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se il vuoto esistesse, il tessuto unitario della materia e
il fondamento della scienza verrebbero meno, apren-
do la strada a una riconsiderazione qualitativa della
materia che si fonderebbe sulle nozioni di intelligenze
dotate di finalismo; la dislocazione dei corpi all’in-
terno di uno spazio non più omogeneo implicherebbe
inoltre spiegazioni ad hoc per ogni fenomeno, quali la
simpatia, l’analogia e le intelligenze motrici. Secondo
Cornelio la novità della scienza risiedé nella capaci-
tà di spiegare l’intera gamma dei fenomeni natura-
li, ricorrendo a un’ipotesi, quand’anche provvisoria.
Cornelio guardò proprio a una lettera inviata da Tor-
ricelli a Ricci per innescare la sua ipotesi dell’etere.
Il discepolo di Galilei scriveva che «[…] se trovassi
una causa manifestatissima, dalla quale derivi quella
resistenza che si sente nel voler fare il vacuo, indar-
no mi pare si cercherebbe di attribuire al vacuo quella
operazione che deriva apertamente da altra cagione
[…]. Noi viviamo sommersi nel fondo d’un pelago
d’aria elementare, la quale per esperienze indubitate
si sa che pesa […]89». Il “pelago”, di cui scrive Tor-
ricelli, diviene per Cornelio l’etere e le osservazioni
astronomiche non avrebbero fatto altro che dimostrare
l’utilità della concezione dell’etere90. Se l’estensione
89 P. GallUZZi, M. Torrini (a cura di), Le Opere dei Discepoli di Galileo. Carteggio

1642-1648, 1, Barbera, Firenze 1975, p. 122.


90 Cornelio, Epistola ad Marcellum Crescetium qua motuum ollorum cui vulgo ob fugam

vacui fieri dicuntur vera causa per circumpulsionem ad mentem Platonis explicatur a Timaei
Locrensis Crathigenae cit., p. 204: «Nimirum est illa pura, levis, ac tenuissima substantia,
quae per sublimem fertur locum, sive aetheris, sive ignis, aut Coeli nomine appellare velis:
Quoeque, ut inquit Plato, minutissimis constat partibus; unde per aquam, et terram, et aerem,

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è la caratteristica costitutiva della materia, il luogo
«[…] non est spatium a contentorum mole diversum,
sed una eademque reapse est extensio loci, et materiae
corporeae locatae»; da ciò egli deduce che ogni movi-
mento «[…] ex uno in alium locum migrare; nisi inte-
rim ex loco novissime comparato, in locum pristinum
aliud aliquod corpus transferatur. Unde fit ut facilis
sit motus per aerem, aquamque, et alia fluida corpora,
quorum partes mobile occurrenti cedentes, in eiusdem
locum continuo subsequantur […]91». In base a tali
supposizioni la spiegazione dell’argento vivo o mercu-
rio e di ogni fenomeno naturale appare, grazie alla no-
zione di etere, in tutta la sua semplicità. Infatti, quan-
do l’altezza del mercurio «maiorem habet rationem»
di quella dell’aria sovrastante, «quam huius gravitas
ad gravitatem illus», il mercurio discende sino a ri-
et quae ex ijs constituuntir, permeat; ipsaque a nulla continer potest. […] Nihil autem hic
moror illos qui coelorum compagem ex durissima; ac adamtine pene materia conflatam, in
solidos Orbes distribuunt: Nam nemo est nisi vel rerum coelestium penitus ignatus, vel in
propugnandis erroribus nimis pertinax, qui post usum tubi dioptrici, hanc solidorum orbium
distinctionem velit admittere; cum ea demum in corporibus coelestibus deprehenda sint phae-
nomena, quae aliter explicari nequeunt, nisi posita Coeli materia fluida, qualis est haec, quam
veterum testimonio comprobatam, aetheris nomime significamus. Hinc ut dicam quod rest
est, aether mihi primum innotuit: eius autem contemplatio perutijs mihi visa est ad complu-
ra naturae phaenomena explicanda: nam rarefactio et condensatio, magnetis item effluvium
quaelibet corpora permeans, soni denique, caloris et luminis operationes, et innumera alia
naturae phaenomena, vix aliter, quam per aetherem explicare posse mihi videntur; ut proinde
animadverterem potiores nobilioresque naturae operationes pendere ab hac substantia, quae
non immerito inter praecipua mundi elementa est adnumeranda. […] Aetherea igitur substan-
tia, cuius summa tenuitas, perspicuitasque sensus nostros implet, et effugit, replet spatium
illud clepsydrae, quod post hydrargyria defluxum inane videtur. Nec mirum videri debet, quod
huiusmodi materia vitri soliditatem penetrare possit. Nam saepe ex ampulla vitrea, sigillo, ut
loquuntur hermetico clausa, tenuissimi quidam liquores ad ignem essudant, et nonnulli etiam
chymici sales egrediuntur».
91 Cornelio, Epistola ad Marcellum Crescetium qua motuum ollorum cui vulgo ob fugam

vacui fieri dicuntur vera causa per circumpulsionem ad mentem Platonis explicatur a Timaei
Locrensis Crathigenae cit., p. 128.

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stabilire l’equilibrio perduto, ma poiché non scende in
uno spazio vuoto «proximum sibi e sua sede deturbat,
idque quod pellitur, vicinum etiam extrudit, atque hoc
deinde sibi contiguum aerem pellit, et hic successive
sibi continuum propulsit; donec tandem ab aere […]
nequit ulterius penetrare, exprimatur aether in locum
ab hydrargyro derelictum successurus […]92». Tutto
ruota intorno al concetto di circumpulsio, tesi presente
nel Timeo di Platone, secondo cui «nessun vuoto esi-
ste, dove possa entrare alcuna cosa che si muove, e il
fiato da noi è messo fuori, è chiaro a chiunque quello
che segue, cioè che esso non va nel vuoto, ma caccia
l’aria vicina dal luogo suo. E quest’aria cacciata spinge
sempre quella vicina, e secondo questa necessità tutta
l’aria respinta in giro verso il luogo, donde è uscito il
fiato, entrandovi dentro e riempiendolo, segue il fiato,
e questo si fa tutto insieme, come ruota che gira, per-
ché il vuoto non c’è»93.
Qual è, in conclusione, la validità delle esperienze di
Cornelio e qual è il filo conduttore teorico che le regge?
In primis si deve affermare che alla diretta osservazione
dei fenomeni è assegnato il compito di evitare che la
mens fugga nell’astrazione e si riconosca interamente
nelle cose. La ragione fisica invocata è contrapposta
alla ragione geometrizzante di Descartes ed è una legge
92 Cornelio, Epistola ad Marcellum Crescetium qua motuum ollorum cui vulgo ob fugam

vacui fieri dicuntur vera causa per circumpulsionem ad mentem Platonis explicatur a Timaei
Locrensis Crathigenae cit., p. 123.
93 PlaTo, Timaeus, 79 b-c; trad. It. Timeo a cura di C. GiarraTano in PlaTone, Opere

complete, Laterza, Roma-Bari 1993, 9, p. 431.

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di regolazione meccanica, perché la stessa struttura
materiale dei corpi ne è dotata. L’Universo di Corne-
lio si dispone su una pluralità di elementi, una pluralità
di “meccaniche” che limitano la ragione matematico-
unificatrice cartesiana. Il movimento dei corpuscoli co-
stituisce il punto di riferimento essenziale per dirigere
l’indagine verso ciò che concretamente spiega l’Uni-
verso: ciò che colpisce Cornelio è la sua struttura che si
dispiega su fasi lavorative differenti, ove il cartesiane-
simo è legato all’atomismo democriteo e di Gassendi94.

Lucantonio Porzio, un cartesiano sulle tracce


di Robert Boyle

L’atomismo: l’analogia delle sostanze

[…] fa d’uopo d’accennare qui cosa avesse fatta il


Porzio in quell’Adunanza. Egli parlò molte volte in-
torno a diversi argomenti di Scienze Naturale, come
della Pressione dell’Aria, de’ Filtri, delle Goccie di
cristallo, che rotte in qualche punta interamente si stri-
tolano, del Sorgimento de’ Licori nelle fistole aperte
d’ambidue gli estremi, e d’altre cose così fatte; ma di
tutti questi suoi discorsi accademici, questo ultimo so-
lamente fu in Venezia stampato nel 1667. Si dee qui
aggiungere per la verità: che, non poca parte aveva

94 MoCChi (a cura di), Omaggio a Tommaso Cornelio cit., pp. 111-112.

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in questi discorsi, in riguardo dell’elocuzione France-
sco d’Andrea, il quale colla dolce sua eloquenza dava
qualche miglior forma alle cose, che brevemente Lu-
cantonio pensava, ed esprimeva95.

Il Discorso, da cui è tratto il brano summenzionato,


assai prossimo a un’autobiografia intellettuale, fu la pri-
ma opera del membro investigante di Pasetano la qua-
le rappresentò, più che l’espressione del suo pensiero
originale, il sentimento dell’intero gruppo degli Inve-
stiganti, nonché quanto Robert Boyle scrisse da pochi
anni intorno al problema accennato nel passo suddetto
nei Nova experimentaphysico-mechenica che costitui-
rono l’alveo entro cui Porzio fece fluire il suo scritto96.
Durante gli anni del suo soggiorno partenopeo e prima
della partenza per Roma (1670), Porzio fu probabilmen-
te una figura marginale rispetto ai suoi colleghi. Inoltre,
poiché a lui spettò l’onere di riprovare gli esperimenti
tenutisi nell’Accademia del Cimento, ciò ci permette di
concludere che la sua posizione fosse quella di prepa-
ratore di esperimenti, stimolando successivamente la
discussione dei membri più anziani dell’Accademia.
Tuttavia, al di là della “carica” rivestita, quest’ultima
gli permise di prendere dimestichezza con gli stru-
menti tecnico-scientifici portati a Napoli dal Marchese
95 L.A. PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta,

atque ad meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., Felicis Caroli Mosca,
Neapoli 1736, p. 18.
96 E. lojaCono, Immagini di René Descartes nella cultura napoletana dal 1644 al 1755,

Conte, Lecce 2003, p. 39.

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d’Arena durante il suo viaggio lungo la Penisola. Nel
suo De Nonnulis Fontibus Naturalibus, composto circa
quarant’anni dopo la sua esperienza napoletana, Porzio
rievocò la nascita del Discorso:

[…] coram peritissimis viris Francisco ab Andrea,


Joanne Caramuele, Leonardo a Capua, Thoma Cor-
nelio, aliisque amicis doctissimis, qui frequentes erant
in Academia physico-mathematica, quam in Neapoli
apud se instituerat Ill.mus et Ex.mus D.D. Andreas
Conclubet Marchio Arenae pluries demonstravi, ne-
que circa latera vasorum, quorum substantia facile
humescit ab iquis, nque in philtris, neque in tubis re-
tortis, neque in aliis multis alicuius momenti esse ae-
ris gravitatem97.

Il Discorso di Porzio ha inizio con un richiamo alla


tematica metodologica: egli riprende il tema della me-
raviglia la quale racchiude in sé un duplice momento,
uno attivo e uno passivo. L’incipit, nel quale si afferma
il carattere attivo dei sensi nella conoscenza dei feno-
meni della natura, è accompagnato da un’altra afferma-
zione di Porzio secondo cui l’intera filosofia europea
non è estranea al “sentimento” di meraviglia. La di-
chiarazione in merito al ruolo attivo dei sensi precede
il nucleo centrale dell’opera, vale a dire il movimen-

97 L.A. PorZio, De Nonnulis Fontibus Naturalibus, Impensis B. Gessari, Neapoli 1704,

p. 129.

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to dei fluidi verso l’alto, anch’esso degno di meravi-
glia e considerazione98. Per la spiegazione del feno-
meno suddetto l’autore elabora tre ipotesi: il moto di
ascensione può essere attribuito ai corpi, all’aria o ai
fluidi stessi99.La prima ipotesi, l’attrazione magneti-
ca, è respinta, perché il giovane investigante ricalca
la concezione dello spazio di Descartes100, un Cosmo
totalmente pieno in cui il movimento avviene a causa
del fenomeno della trasmutazione dei corpi, cioè del-
la circumpulsio di reminiscenza corneliana. Il filosofo
di Pasetano teme di trovarsi – e il suo timore appa-
re giustificato – di fronte a una spiegazione di sapo-
re neoaristotelico, a una nuova ontologia delle quali-
tà. Piuttosto Porzio auspica una spiegazione in cui la
98 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque

ad meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., p. 324: «Ma i buoni, e veri
Filosofi, che an altro fine principale, che di andare rintracciando la verità delle cose, dovendo
con tutto il potere de’ loro sensi osservare ciò, che v’è nel Mondo, certamente più di tutti gli
altri debbono ammirarlo, e dove non ponno giungere col’ loro intendimento a conoscerne la
natura, colmi di meraviglia debbono restare stupefatti. […] Dal quale mio sentimento non
solo non mi parete voi alieni, ma veggio chiaramente, che maravigliando continuamente di
questa machina dell’Universo, e delle sue parti; per altra via non vi siate avanzati nella scienza
delle cose naturali, che per quella della sperienza su le cose delle quali meravigliati vi siete: e
veggo pure, che non isperate farvi progressi, che colla guida e colla scorta dell’osservazioni».
99 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque

ad meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., p. 326-327: «E de’ corpi per
li quali l’acqua, per esempio, ascende, si potrebbe dire, ch’ad essi si debbia principalmente
attribuire l’effetto del sollevarsi ella sopra quel che per ragione della sua maggiore gravezza
ridpetto all’aria può parer si convenga […]. A’ quali non fono molto differenti di sentimento,
quei ch’oltre alla gravità ammettono nell’aria, e nelle sue parti la virtù, che chiamano elastica,
colla quale vogliono, che l’aria continuamente, e per tutti i versi prema i corpi […]».
100 La concezione di uno spazio completamente pieno è comune a tutto il gruppo degli

Investiganti e in tale nozione si registra il punto di maggiore attrito con il pensiero di Galilei e
la grandissima influenza che desCarTes ha avuto. Nel De motu, opera composta durante il suo
soggiorno romano, PorZio rimase fedele a tale concezione dello spazio: «Omnes supponunt
corpora figurarum quarumcunque multis modis moveri posse; ac quidem vicinarium muta-
tionibus multa corpora saepius moveri manifestum est». (L.A. PorZio, De Motu Corporum
nonnulla, Bernardini Gessari, Napoli 1704, p. 1.)

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diversa composizione dei corpi, all’interno dei quali
avviene l’ascensione dei liquidi, assuma una funzione
complementare, vale a dire se può impedire la riuscita
del fenomeno, quanto meno non può assicurarne la ri-
uscita. La seconda ipotesi, secondo cui la virtù elastica
dell’aria è causa del sorgimento dell’acqua, conserva
un carattere provvisorio, esclusivamente operativo di
fronte alla ricchezza della natura101: secondo Porzio,
sono prova “le esperienze del chiarissimo e grande
osservatore degli effetti della natura” Robert Boyle –
citato ben 10 volte nel corso del suo Discorso102 – il
quale, sebbene scopritore della virtù elastica dell’a-
ria, notò, nel corso dei suoi esperimenti con la mac-
chinina macchina pneumatica, che l'acqua ascende al
medesimo livello, quand’anche l’aria si sia rarefatta.
Pertanto, scartata l’ipotesi della virtù elastica dell’aria,
non gli restò che sostenere la tesi secondo cui fosse
l’acqua stessa a muoversi e ad ascendere per lambire il
liquido; tuttavia, muovendo un’obiezione a se stesso,

101 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque ad

meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., p. 330: «Mi diranno alcuni, che
tutto ciò si spieghi ottimamente co’l concedere all’aria una virtù elastica, colla quale ella pre-
ma da per tutto intorno i corpi, e li sostenti da sotto, e d’intorno non men di quel che di sopra li
prema, e che’l simile faccia l’acqua, onde non debba nelle suddette sperienze alterarsi il peso
de’ corpi. Io per me vi confesso, che non so se questa risposta sciolga le difficoltà. In oltre
quella virtù elastica non mi par tanto chiara, quanto ella si suppone; né so se meccanicamente,
com’è ragionevole si possa spiegare, e credo che vi sia qualche cosa, che debba screditarla.
[…] con tutto ciò vi affermo, che questa pressione non può essere cagione del sorgimento
de’ licori ne’filtri, nelle fistolette, ed intorno a molti corpi, e che con tal supposizione non si
possono spiegar tutti gli effetti, che in questa materia s’osservano».
102 Si tratta del primo ampio riferimento di un moderno napoletano all’opera di Boyle

apparsa nel 1661 (Nova Experimenta physico-mechanica de vi aeris elastica, T. Robinson,


Oxionae 1661). C. PiGheTTi, Influsso scientifico di Robert Boyle nel tardo ‘600 italiano,
Angeli, Milano 1988, non tiene conto di questo testo di PorZio.

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l’autore ritenne che non fosse possibile osservare o
dedurre altro movimento che non sia quello prodotto
dalla gravità. Se si volesse ipotizzare dunque che l’ac-
qua si muova secondo un altro movimento, quest’ulti-
mo non potrebbe mai essere verso l’alto, perché nessun
corpo si muove verso ciò che gli è opposto103. A questo
punto dell’esame Porzio ha respinto l’ipotesi più as-
surda e verificato le altre due –virtù elastica dell’aria e
ascensione dei liquidi motu proprio – sulla base della
loro aderenza o meno alla manifestazione fenomenica
della natura. Egli non ha negato loro validità generale,
tuttavia ha rimarcato, di fronte alla ricchezza dei feno-
meni della natura, la loro provvisorietà e, proprio per il
loro carattere generale, l’impossibilità di comprendere
ogni caso. L’esame delle ipotesi maggiormente verosi-
mili è stato reso possibile, non perché esse siano state
dedotte da eventuali princìpi primi (cosa è la leggerez-
za o pesantezza) o perché l’autore si sia servito dell’e-
sperienza sensoriale tout court, vale a dire alla maniera
aristotelica. Contrariamente egli si è servito dell’espe-
rimento, cioè creare delle condizioni innaturali entro

103 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque ad

meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., p. 341: «[…] la gravità, o legge-
rezza de’ corpi sia una delle cose per qual, ch’io mi sappia non conoscente, e non ispiegate
ancora da’ Filosofi. Né mi par, che si debba aver per cefto ch’abbiano i corpi continuamente
un movimento, o forza di andare in giù, o in su (mi sia qui lecito, o Signori, considerare il
moto, come cosa distanta da’ corpi). Imperoche può ben essere, che ‘l loro proprio, e naturale
movimento, per lo quale sono tali, quali sono, non sia né in giù, né in su rispetto a quelle cose
che noi abbiamo fatto termine del sopra, e del sotto; ma che in alcuni luoghi per cagione delle
vicine sostanze possa egli ricevere qualche mutazione, o nuova direzione, per la quale è poi
trasporti i corpi verso uno di questi termini, o forse là dove per cagione di altre vicine sostanze
più facilmente li muova, secondo ricerca la loro disposizione».

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cui interrogare la natura, affinché quest’ultima faccia
emergere alcune condizioni non sempre rilevabili at-
traverso i sensi. Lo stesso discorso vale anche per la
fase meno propriamente sperimentale, ossia quella in
cui si definisce il discorso scientifico per rendere in-
telligibile l’esperimento. La legge nonsvela dunque la
verità, ma permette all’uomo di avanzare verso teorie
il più possibile meno contraddittorie: la ricchezza della
natura è tale che ogni singola legge non può dar ragione
del tutto, ma può solamente tentare di descrivere ogni
singolo fenomeno mediante l’ausilio degli strumenti e
dell’esperienza provocata, vale a dire l’esperimento104.
Il collegamento della conoscenza all’esperienza ha una
doppia funzione: da un lato positiva perché evita che
la mente possa tentare arbitrariamente di descrivere
la realtà servendosi solamente astratte supposizioni;
dall’altro negativa perché l’esperienza rappresenta un
limite invalicabile della conoscenza, tale da renderla
sempre verosimile e mai definitivamente certa. Emer-
ge nelle considerazioni fatte da Porzio una delle tema-
tiche più originali dell’Accademia degli Investiganti,
cioè la disarmonia tra mente e natura.
104 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque

ad meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., pp. 342-343: «Tutto ciò dico
io, non perché sia mia intenzione di determinare adesso cosa alcuna intorno alla gravità o
leggerezza de’ corpi; ma bensì per avvisare modestamente coloro, i quali troppo ferventi nelle
loro obiezioni, con questi termini mi volessero atterrare, che prima di proporre le loro ragioni,
sono essi in obbligo di dichiararmi, ciò, ch’intendano ne’ corpi per gravità, o leggerezza; e mi
debbono prima insegnare se i corpi in ogni luogo, ed in ogni tempo si stimare gravi o gravi, o
leggieri, ed in che modo, e per qual cagione, e se’l movimento, o forza, che diciamo gravità,
o leggerezza sia molto diverso dal movimento, o virtù, colla quale si producono ne’ corpi, ed
altri effetti, e molte altre cose intorno a questa stessa materia, mi debbono prima dichiarare».

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In base alle teorie della materia e del moto di De-
scartes105, Porzio fonda su di esse il concetto di ana-
logia106 delle sostanze107 e giustifica quel che appare
inconcepibile agli assertori del sapere tradizionale,
la trattazione del moto indipendentemente dal prin-
cipio della Scolastica: i fluidi possono mescolarsi tra
di loro non a causa delle loro qualità fisiche (pesan-
tezza o leggerezza), bensì a causa della disposizio-
ne della forma delle particelle che li compongono108.
La spiegazione atomistica consente al filosofo di
Pasetano di affrontare la questione della viscosità o

105 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque ad

meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., pp. 344-345: «[…] nondimeno mi
pare, che si debba affermare, che i licori eziandio quando più quieti e stagnanti appariscono ad
ogni più esquisita veduta, abbiano tuttavia gran moto, e che le loro parti senza, ch’l tutto muti
vicino s’agitino continuamente tra se medesime, e perciò altre ascendono, altre discendono,
e quelle, che discese erano di nuovo ascendano senza aver timore di quelle larve di gravità, e
leggerezza, e dell’essere uguali nel peso o nella leggerezza. […] Per lo che si dee dire, che’l
proprio movimento de’ licori non sia in giù, o in su; ma che indifferentemente le loro parti
agitandosi altre ascendano, altre discendano, altre lateralmente si muovano, e tra di loro si
cedano il luogo, e continuamente mutino sito rispetto a se stesse».
106 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque ad

meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., pp. 347-348: «E per non replicare
spesse volte le medesime cose per l’avvenire chiameremo analogia la dispisizione, per la qua-
le alcuni licori si mischino insieme, e diremo, che quelli, che non si mischiano, abbiano difetto
di analogia; e similmente diremo, che tra quei licori, e quelle sostanze, che non si sciolgono,
o calcinano in essi, e quelle, né meno se ne possono bagnare, o umettare, come tra’l vetro, e
l’argento vivo, vi sia difetto di analogia».
107 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque ad

meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., p. 54: «Chiameremo analogia la


disposizione per la quale alcuni licori si mischiano insieme»
108 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque

ad meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., pp. 347-348: «Ne’ quali
mischiamenti di licori non s’ha ragione alcuna di quella famosa sentenza. Omne grave de-
orsum, et leve sursum: non men di quel che di sopra vi dissi, che nell’estrazioni ragione
non se n’avesse. Imperoche quante volte abbiano i licori abalogia, per la quale co’l loro
movimento si possano unire insieme, ancorche l’uno più grave, o leggiero si debba dir
dell’altro, tuttavolta senza aver timore di queste larve, le parti del corpo chiamato più grave
si vedranno sorgere, ed insinuarsi tra le parti del corpo più leggiero, e lateralmente ancora
trascorrere per l’analogia licore».

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tenacità dell’acqua introdotta attraverso una citazione
tratta dalla Prima Giornata dei Discorsi di Galilei109:
di fronte alla posizione di rifiuto assunta da Salviati
in merito al problema della viscosità, Sagredo sotto-
pone all’attenzione del suo interlocutore l’esempio
delle gocce d’acqua sospese tra le foglie di cavoli
“senza spargersi e spianarsi”110. A sostegno della tesi
secondo cui l’acqua è impossibilitata a unirsi all’aria,
Salviati richiama l’esperienza della sfera di cristallo
riempita d’acqua e dotata di un foro sottilissimo111.
Al fenomeno della viscosità e tenacità di Salviani,
Porzio ritiene di poter applicare la sua teoria dell’a-
nalogia, sostituendo la poco chiara spiegazione gali-
leiana di “disconvenienza tra l’acqua e l’aria”. Porzio
precisa il concetto di analogia112 ricorrendo sia alla
metafora cartesiana dell’anguilla113 sia alla capacità
109 Galilei, Opere cit., VIII, p. 115.
110 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque
ad meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., p. 349: «Galilei Galilei nel
primo Dialogo delle due nuove scienze fa, che Sagredo propunga la seguente diffiicoltà a
Salviati, il negare che nell’acqua vi sia viscosità, colla quale ella resista all’esser divisa. Se
nulla di tenaticità, o coerenza risiede tra le parti dell’acqua, come possono sostenersi assai
grandi pezzi, e molto rilevati, in particolare sopra le foglie de’ cavoli, senza spargersi, e
spianarsi?»
111 Galilei, Opere cit., VIII, p. 115.
112 R. desCarTes, Meteora (AT VI 652): «Deinde suppono exiguas illas partes quibus aqua

componitur, longas, laeves et lubricas esse, anguillatrum parvularum instar».


113 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque

ad meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., p. 355-356: «Oltre ciò mi


sovvenne, che l’ingegnoso Renato delle Carte volendo spiegare aslcuni effetti, che si vedono
nell’acque, stimò, che giustamente si potessero assomigliare le loro parti all’anguille. Or se
noi supponeremo avere un legno, il quale abbia molto forami capace di molte anguille, le
quali comdossimamente vi possano giacere, non veggio poi perché come queste anguille non
si possano unire, e mischiare delle altre; onde si veggia poi un gruppo di anguille pendente dal
legno, senza ch’alcuna ne caggia, con tutto che moto abbiano, e nella forze di visco le unisca,
e le faccia stare accolte insieme; ma si bene il loro proprio movimento. Né veggio perché ‘l
simile non si possa dire delle gocce d’acqua pendenti dai rami. Ed avendosi un tino, il quale

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di coerenza dei fluidi dovuta al moto delle particelle
e alla disposizione delle parti114. Il Discorso termi-
na con un’ultima spiegazione che Porzio avanza per
chiarire come sia possibile all’acqua ascendere attra-
verso i filtri che si presentano asciutti: in questo caso
il liquido salirà con un certo ritardo, perché il fluido
provocherà delle “aspirazioni” che pian piano bagne-
ranno i filtri115.
abbia intorno i suoi lati molti seni, o pori grossi, che vogliamo dire, capaci di molte anguille,
conforme possiamo dire, che se questi seni saranno pieni di corpi non analoghi all’anguille
[…]. […] E nella medesima maniera, che noi possiamo intendere, ch’essendo i forami de’ lati
del tino, pieno d’anguille, o di altri corpi analoghi all’anguille, che nella capacità dei tino si
contengano, queste possano ascendere intorno i lati del tino, e misciandosi, ed unendosi co’l
loro proprio movimento coll’anguille sostenute ne’ seni, o forami, possano rappresentare agli
occhi nostri un picciol monte d’esse intorno i lati del tino […]».
114 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque

ad meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., p. 359: «Sorge l’acqua nel-
le fistole molto anguste, aperte da ambidue gli estremi, essendo elle umide alquanto, cioè
contenendo ne’ loro pori appunti, come se fossero picicole conchette, o acqua, o altro licore
analogo all’acqua, e vi sorge ella da se stessa in virtù del suo proprio movimento, co’l quale
ei unisce, e mischia coll’acqua contenuta ne’ pori delle fistole. Laonde essendo elle molte
anguste di modo, che l’acqua da un lato di avantaggio possa toccar l’acqua dal lato opposto, se
ne vedranno ripiene fin’ a cinque, o sei dita della loro longitudine, e tal’ora assai di più, mas-
simamente se non saranno erte a perpendicolo al piano orizzontale, e vi si vedrà poi l’acqua
giacere in maggior altezza, e sopra il livello dell’acqua soggiancente».
115 PorZio, Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collecta, atque ad

meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II cit., p. 363: «Ed egli è tanto chiaro,
o Signori, che dall’acqua, e dagli altri licori, che noi abbiamo, continuamente escano fumi,
vapori, o espiazioni che dir vogliamo, ed è così manifesto, che queste aspirazioni possano
umettare molte, e molte sostanze, alla quale s’incontrino, e ritornando in forma di licore pos-
sano empiere i pori di quelle, ch’io non istimo per niente necessario, ch’io mi affatichi a
dimostrarlo. Anzi alcuni buoni scrittori sono di opinione, che quest’aria, che tanto è necessa-
ria alla nostra vita, di altro non sia principalmente composta, che delle espirazioni continue,
ch’escono non solo danno le liquide sostanze, ma dalla terra, e da tutti gli altri solidi corpi, che
in questo nostro mondo s’osservano. E credo io, che questa sia la cagione per la quale l’aria
s’osservi diversa, secondo la diversità de’ luoghi, e secondo, che varie sono le sostanze prossi-
me ad essa; conciosiache il vapore, ch’esse dall’acqua per esempio sia assai differente da quel
che dal vino, dall’olio, e similmente da gli altri licori si solleva, e tra di loro assai diverse siano
l’espirazioni, ch’escono da questa, e quella sorte di terra, e che da gli alberi, dalle miniere de’
metalli, del vetriolo, del zolfo, e dall’altre cose s’innalzano. Per lo che mischiandosi coll’aria,
continuamente varie, e varie sostanze, secondo la diversità de’ luoghi per cagione de’ corpi
diversi, ai quali ella è prossima, non dee recarci maraviglia, che non sia ella uniforme, e d’una
medesima natura in tutti i luoghi».

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Francesco d’Andrea, giurista e atomista
investigante

La polemica filosofica nella Napoli di fine Seicento

Dopo l’uscita del Parere di Leonardo di Capua


(1681), i seguaci investiganti e i loro avversari sposta-
rono i contenuti del dibattito dalle polemiche scientifi-
che a questioni di carattere esclusivamente filosofico e
teologico. Temi, quali la struttura della materia e l’ato-
mismo, furono completamente assenti sia nelle opere
dei tradizionalisti, come le Lettere apologetiche in di-
fesa della teologia scolastica, e della filosofia peripa-
tetica del gesuita Giovan Battista de Benedictis, sia in
quelle dei novatores come esempio le Cinque lettere in
difesa della moderna filosofia di Lucantonio Porzio o
le Risposte in difesa della filosofia del sig. Lionardo di
Capua di Francesco d’Andrea. Anche la produzione po-
etico-letteraria di matrice investigante risentì del clima
culturale indicato: nel poema anonimo in endecasillabi
sciolti toscani dal titolo Sogni ne’ quali si discorre delle
cose naturali a mente d’Aristotele e di Democrito di
Antinoo Cicuto, sebbene siano presenti spunti di rifles-
sione sul rapporto tra atomismo e medicina, si scrive:

[…] qual facendo di lor i tuoi discepoli


Quasi cento per uno ognor vi lucrano,
e ‘l puoi vedere sin molto men d’un secolo

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la medicina presso i tuoi corpuscoli
non sol riebbe il già perduto metodo,
per mal Galeno, del famoso Ippocrate,
m’ancor vi ritrovo tesori asconditi
per ogni parte ad arricchir un medico […]116.

La figura di d’Andrea, uomo politico dedito ai pro-


blemi giuridico-politici e filosofico-scientifici del suo
tempo e del suo Paese, è racchiusa in un arco temporale
che va dal 1648 (anno in cui fu nominato avvocato fi-
scale della città di Chieti) al 1698 (anno del suo deces-
so); in questo cinquantennio egli guardò alla situazione
del vicereame con piglio del giurista, ossia di colui che
difese sempre i diritti del sovrano contro le usurpazioni
giuridiche dei feudatari. D’Andrea fu lettore di Grozio
e Pufendorf, sostenne l’atomismo di Gassendi e il cor-
puscolarismo di Descartes. Per tale ragione i suoi de-
trattori lo accusarono di essere “ribelle e Masaniello”;
coloro che temettero la sua preparazione intellettuale
additarono in lui il propagatore di dottrine pericolose, il
sostenitore di idee discusse nei paesi riformati; il gesu-
ita de Benedictis lo accusò di nutrire idee ateistiche117.
Il quinquennio 1683-1688 rappresentò, per usare le pa-
role di Garin, “un ingresso sempre più decisivo del Sud
nel moto delle idee e, a un certo punto, quasi di uno
spostamento del centro di gravità della cultura filoso-
116
Biblioteca Oratoriana dei Gerolamini, Napoli, ms. XXVIII 1 65, c. 47v.
S. MasTellone, Francesco D’Andrea. Politico e giurista (1648-1698). L’ascesa del
117

ceto civile, Olschki, Firenze 1969, pp. 7-10.

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fico-scientifica”118. Colui che fece conoscere a Napoli
le nuove tendenze del pensiero europeo fu Tommaso
Cornelio il quale, come riportò d’Andrea nella sua ope-
ra Avvertimenti ai nipoti, tornando da Roma, portò nel
suo bagaglio le opere più importanti del tempo:

Le aveva portate tutti insieme, e insieme le aveva date a


leggere ai suoi amici meridionali per colmar loro la sete
del sapere, sebbene vi fossero espresse le più disparate
tendenze. È facile figurarsi quale impressione avevano
suscitato da noi quei volumi, ove trovavansi alla fine ri-
soluti in forma organica e completa molti dei problemi
che tante volte erano balenati alla mente, senza che que-
sta da sé avesse potuto dare l’opportuna spiegazione119.

D’Andrea fu il primo ad abbracciare, per merito del


suo amico Cornelio, il pensiero di Descartes; dopo-
diché altri aderirono alle nuove idee, come di Capua
e Porzio. A questi ultimi balenò l’idea di dare vita a
un’adunanza di tutti quei letterati il cui desiderio sa-
rebbe stato quello di discutere di filosofia solamente
con l’ausilio della ragione, dei sensi e del metodo spe-
rimentale della filosofia moderna. Espressione matura
del movimento culturale investigante fu il Parere di di
Capua (1681) in cui l’autore dichiarò esplicitamente
la sua adesione alle dottrine dei filosofi moderni, cioè
118
E. Garin, Da Campanella a Vico, «Cultura e Scuola», 7 (1968), p. 8.
F. d’andrea, Avvertimenti ai nipoti,«I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento.
119

Francesco d’andrea» a cura di N. CorTese, L. Lubrano, Napoli 1923, p. 27.

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Copernico, Galilei, Bruno, Bacon, Descartes, Boyle
Harvey e Hobbes. L’opera del membro investigante
fu un’esaltazione della nuova cultura europea e un’e-
splicita difesa della teoria atomistica120. Opposizioni
al movimento investigante certamente non mancarono:
vi furono letterati partenopei che diedero vita all’Acca-
demia dei Discordanti e criticarono le idee di Cornelio
e dei suoi seguaci; dopo la pubblicazione del suddetto
Parere, di Capua fu oggetto di critiche sia da parte di
Domenico Ausilio nelle sue Considerazioni sopra il
Parere del Capua sia da parte Jacopo Lavagna il quale
compose i Dialoghi sopra il Parere121. Sebbene Cor-
nelio fosse morto nel dicembre del 1684, privando gli

120 L. di CaPUa, Parere divisato in otto ragionamenti ne’ quali partitamente narran-

dosi l’origine, e’l progresso della medicina chiaramente l’incertezza della medesima si fa
manifesta, Giacomo Raillard, Napoli 1681, pp. 60-61: «Ecco quel sentiero, che segnarono
i barbari da prima, indi i Greci, et ultimamente i modern i nostri filosofanti, che in tan-
to pregio, e tanta fama, gloriosamente salirono. E perché crederemo noi, che l’antica età
avesse e Talete, e Anassimene, e Senofane, e Anassimandro, e Pitagora, ed Empedocle,
e Leucippo, e Democrito, ed Eraclito, ed Anassagora, e Socrate, e Platone, e Aristotele,
ed Epicuro, e Zenone, e tanti e tanti altri filosofi d’immortale fama degli: e si pregino
parimente, e si diano vanto i nostri secoli d’aver recati al mondo il Cardinale Cusano, e’l
Copernico, e’l PAtrici, e’l Telesio, e’l Ramo, e’l Donio, e Ticone, e’l Cheplero, e’l Bruni, e’l
Gilberti, e’l Montagna, e’l Mersenni, e’l Bassoni, e’l Galilei, e lo Stigliola, e’l Campanella,
e’l Verulamio, e Renato, e’l Gassendi, e’l Iungio, e’l Digbi, e l’Oggelandio, e’l Boile, e’l
Borrelli, e’l Maignano, e’l Robervallio, e’l Malpighi, e’l Redi, e lo Stenone, e’l Ricci, e l’U-
liva, e’l PorZio, e’l Bellii, e’l Marchetti, e’l Montanari, e questi, che sommamente fregiano
la nostra Patria Tommaso Cornelio, Giovan Battista Capucci, e D. Carlo Buragna, di cui
ben tostoo s’ammireranno gl’ingegnosi filosofici trovamenti, ed altri incomparabili eroi,
che con gloriosissima gara l’un dell’altro sen vanno per le vastissime regioni della natura
superbi, e alti voli spiegando: se non perché tutti costoro vaghi oltremodo di spiar la sola
verità, non mai a’ detti di niuno trasportar ciecamente si lasciarono. E vivranno sempremai
pe’l contrario senza fama, senza lode appo i saggi, e prudenti stimatori delle cose tutti co-
lori, che togliere non vogliono una sì necessaria libertà; anzi sovente in tanti falli della loro
cieca ostinazione sono tratti, che né senza risa rimembrare, né senza nota d’obbrorio, e di
vitupero nominare unque si possono».
121 R. CoTUGno, La sorte di G.B. Vico e le polemiche scientifiche e letterarie dalla fine del

XVII alla metà del XVIII secolo, Laterza, Bari 1914, pp. 52-53.

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Investiganti del loro maestro, essi reagirono vigoro-
samente alle accuse dei conservatori. Nell’agosto del
1685, d’Andrea, impegnato nella difesa dei suoi amici,
scrisse a Magliabechi, affinché quest’ultimo fornisse
notizie delle opere dei moderni122.

Il libertinismo erudito

Nella seconda metà del Seicento, giuristi e avvocati


assunsero notevole peso nella vita politico-ammini-
strativa della cittadina e, in qualità di “togati”, dette-
ro prova di uno spiccato atteggiamento anticlericale
nel rinnovamento della tradizione giurisdizionalisti-
ca napoletana. Questo gruppo di giuristi insisté sulle

122 A. QUondaM, M. rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi, Vol. I,

Guida, Napoli, 1978, pp. 368-369: «Mi trovo impegnato di fare un’apologia in difesa degli
atomisti contro le prediche di un padre predicatore che non ha fatto altro che predicar contro
loro e ha promesso di predicare tutta la vegnente vernata sul medesimo soggetto. Gli ha trattati
da atei, da ignoranti, con cento altri spropositi, sparlando del Gassendo e di Renato e di tutti
gli altri, senza però aver letto nessuno di loro e senza sapere in che consista la dottrina degli
atomi. E perché l’apologia ha da esser fatta per gl’ignoranti, perché con uomini che sanno non
ve ne sarebbe bisogno, stimo di fortificarla assai più coll’autorità che colla ragione. E sopra
tutto ho bisogno della notizia di tutti i libri de’ moderni che seguitano questa maniera di filo-
sofare, tanto di quei che principalmente sostentano la dottrina degli atomi o delle particelle,
che tutti poi tendono ad uno, quanto di quei che filosofando si servono di spiegar le cose per
via di unione di parti, sicché si vede che son della medesima dottrina. Ma perché in questa
città di questi libri ve n’è grandissima scarsezza, e io avrei gusto di nominali distintamente coi
titoli dati ai loro libri e con sapere anche il tempo quando si son stampati, questa notizia non
posso averla che da Vostra Signoria, che da tutta l’Europa è conosciuto pel primo uomo che sia
in aver cognizione di quanto si è scritto, sicché può chiamarsi una viva bibliteca. Soprattutto
avrei caro saper tutti gli italiani, o che hanno scritto in Italia. Di questi io non ho notizia d’altri
che del Berigardi nel Circolo pisano, di Roderico da Castro che fu lettore a Pisa, il Galileo, il
padre Cosmo nella Fisica universale e’l padre rissini ultimamente, monaco olivetano, nella
sua Filosofia naturale. Di quei poi che trattando altre materia filosofiche hanno filosofato per
questa maniera, non so altri che ‘l Borrelli, il signor Redi, il Malpighi e il Montanari, il signor
Dal Papa, e’l Bellini, in alcuni suoi opuscoli».

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prerogative degli ufficiali regi e sull’indipendenza
dalla Santa Sede per quanto riguarda l’esercizio delle
proprie attività giuridiche. Il fenomeno dell’anticuria-
lismo meridionale si connetté alla formazione di quel
nucleo, il ceto civile, i cui rappresentanti di maggior
spicco assunsero il gravoso compito di far rispettare i
diritti del loro sovrano. I punti di discordia tra la Cu-
ria romana e il ceto civile, su cui si fondò l’autorità
del viceré, furono l’immunità della Chiesa, la censura
dei libri e il regio exequatur, cioè il diritto da parte
del sovrano di approvare i provvedimenti della Chiesa
nel mezzogiorno. Il pensiero dei togati trasse forza e
ispirazione dalla nuova concezione del diritto di na-
tura, mettendo in questo modo in dubbio la validità
dei tribunali ecclesiastici123. La lotta giuridica e anti-
curialista contro il Sant’Uffizio s’intrecciò per d’An-
drea con la polemica per la libertà di pensare e con i
risultati ottenuti dalla filosofia dei moderni. Il primo
contrasto tra i tradizionalisti e i moderni s’ebbe nel
1681, quando l’arcivescovo di Napoli cercò d’impe-
dire la pubblicazione del Parere di di Capua. Secondo
l’opinione dell’arcivescovo vi furono contenute idee
permeate di ateismo; tuttavia, ciò che riportò in vigo-
re la dottrina di Democrito fu essenzialmente dovuto
alla discussione dei novatori sul problema del meto-
do. Questa discussione, che permise di studiare le for-
me costitutive dei fenomeni, cioè quelli in cui questi
123 MasTellone, Francesco D’Andrea. Politico e giurista (1649-1698) cit., p. 165.

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ultimi si riducono, indirizzò i pratici della scienza alla
dottrina atomistica la quale non fu accettata per le
sue esigenze di carattere antiteologico, bensì perché
si trattò dell’unica filosofia che consentì di spiegare
in termini meccanicistici il processo sperimentale. Se
il metodo atomistico significò ipotesi scientifica veri-
ficabile e confutabile, ciò non indusse a trasformare
la polemica antiscolastica in antimetafisica. I lettera-
ti napoletani utilizzarono una serie di argomentazioni
tratte dai testi dei pensatori dell’Umanesimo, del Ri-
nascimento e dell’Età Moderna, per mettere in luce
che la loro battaglia fosse esclusivamente condotta
contro le pretese della filosofia aristotelica e scolasti-
ca. Il fine della lotta combattuta non fu a favore della
ragione cartesiana: quest’ultima fu posta al di sopra
e al di fuori del campo del reale e non ebbe pertanto
una propria verità. I novatori napoletani si legarono
dunque a una filosofia della mens, a una ragione fisica,
dalla spiccata materialità, maggiormente immersa nel-
le cose124. Non si trattò pertanto di ateismo o di liber-
tinismo rozzo come intesero i tradizionalisti, bensì di
libertinismo erudito legato alla libertà del filosofare da
intendere in senso etico, come condizione per una cul-
tura veramente umanistica. La libertas philosophandi
denotò dunque l’attitudine speculativa indipendente-
mente dalla dottrina di un determinato filosofo. L’op-
posizione alle idee nuove di di Capua e dei suoi amici
124 Badaloni, Introduzione a G.B. Vico cit., pp. 163-164.

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si concluse tuttavia con l’intervento delle autorità in-
quisitoriali, dando vita al processo agli ateisti. Non è
il caso qui di ripercorrere la storia dei processi inten-
tati dal Tribunale del Sant’Uffizio nel periodo 1688-
1697 contro alcuni giovani seguaci delle nuove ten-
denze filosofiche. Non soddisfatto dell’intervento del
Sant’Uffizio, il gesuita Giovan Battista de Benedictis,
avendo notato che il male prodotto dalla filosofia dei
moderni cresceva, a suo dire, di giorno in giorno, s’as-
sunse il compito di combattere i seguaci della dottrina
atomistica, assalendoli con un libro in italiano, scrit-
to sotto forma di epistole, le Lettere apologetiche in
difesa della teologia scolastica, e della filosofia pe-
ripatetica. De Benedictis, sotto il falso nome di Bene-
detto Aletino, riconobbe acutamente che le due fonti
principali della nuova filosofia furono la novità delle
opinioni e la libertà dell’opinare. Nelle sue cinque let-
tere egli concluse che gli atomisti e i libertini ebbero
dalla loro parte Gassendi, Descartes, Boyle e Hobbes,
stigmatizzando le dottrine di questi ultimi pensatori
come eretiche e protestanti, pertanto condannabili dal
Tribunale dell’Inquisizione. In nome della libertà del
filosofare, contro i metodi oscurantisti dell’Inquisizio-
ne, si levarono voci, come quelle di Valletta, Caravita,
de’ Fusco, Biscardi e d’Andrea.

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D’Andrea atomista: l’Apologia, i Dubbi,
le Riflessioni e le Lezioni

Dunque della quale tutte le cose naturali costano, non ha


da essere altro che quella materia stessa, che veggiamo,
e che tocchiamo. La cui essenza non in altro consiste,
che in essere una sostanza ch’habbia estensione, cioè,
che habbia le tre dimensioni delle quali costano tutti i
corpi, sì che, l’esser materia, e l’esser corpo sia una me-
desima cosa, dalla quale per ciò, noi ancora consistia-
mo, in quanto siamo composti di anima, e di corpo. E
per ciò tutte le mutazioni che si fanno nella materia, han
da esser similmente corporee, ciò è compositione, tra-
spositione e movimento delle parti di essa materia. E da
questa dipendono tutte le forme, o natura, o apparenze,
che dir vogliamo dei corpi naturali […]125.

Durante il biennio 1669 e il 1680 d’Andrea intra-


prese un viaggio per la penisola italiana per trovare ri-
medio alle sue precarie condizioni di salute. Il viaggio
fu fecondo per il giurista napoletano, perché, oltre alla
ritrovata salute, poté frequentare alcuni dei maggio-
ri scienziati e letterati del tempo, tutti sostenitori del-
la dottrina atomistica (Lorenzo Bellini, Giuseppe Del
Papa, Marcello Malpighi, Alessandro Marchetti, Pie-
tro Mengoli, Geminiano Montanari, Federico Nomi e

125 F. d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofi-

ca della Napoli di fine Seicento, a cura di A. Borrelli, Liguori, Napoli 1995, pp. 1-2.

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Francesco Redi). Questa esperienza permise al giurista
di constatare quanto la sua città fosse arretrata rispet-
to agli sviluppi delle scienze e delle tecniche e d’ap-
profondire il suo atomismo i cui rudimenti apprese
nell’Accademia di Colonna, contribuendo a svilupparli
nell’Accademia degli Investiganti126. Durante il viag-
gio fu fondamentale la sosta presso il castello di Tor-
riglia (1673-1675) da Gian Andrea Doria. Il rapporto,
che si instaurò tra d’Andrea e il principe, rispettivamen-
te di maestro e allievo, consentì al giurista di comporre
uno di quei manoscritti che il dott. Antonio Borrelli ha
intitolato Lezioni. Questo scritto si apre con la conside-
razione secondo cui la scienza e la storia sono i settori
fondamentali della cultura dell’uomo moderno. Queste
due discipline sono strettamente connesse sia dal pun-
to di vista metodologico sia da quello pedagogico, per-
ché entrambe si avvalgono di un approccio realistico ai
fenomeni umani e naturali: la storia è indagine serrata
attraverso la consultazione dei documenti delle ragioni
che hanno determinato gli eventi; il metodo della scien-
za da applicare per l’accertamento dei fatti naturali è
analogo, perché s’indagano le ragioni di un fenomeno
mediante l’esperimento.

A la lezione delle istorie dovrebbe per mio avvi-


so aggiungersi la notizia delle cose naturali; poiché

126 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 3.

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conforme per quelle s’imparano le azioni de gli huo-
mini, così per questa si apprendono le operazioni del-
la natura; dalla ignoranza delle quali spesse volte gli
huomini inciampano in gravissimi errori. […] Infinite
cose si insegnano con una mente da quei che sono sti-
mati maestri nelle scienze, che la sperienza dimostra
esser false, onde molte cose anche nelle azioni umane
si stimano dover procedere di un modo, che chi cono-
sce quello con quale opera la natura, conosce essere o
impossibili o difficilissime a dover succedere in quel-
la maniera. Questa scienza trovasi oggi è arrivata al
maggior segno che sia stata mai, per le molte sperien-
ze che si sono fatte di cose incognite a gli antichi, e
per li nuovi scoprimenti, così della fabbrica del corpo
umano, come di altri mirabilissimi effetti in natura, e
i Principi stessi non disdegnano di applicarvi il loro
studio e di promuovere gli avanzamenti127.

Nelle sue Lezioni d’Andrea citò naturalisti e scien-


ziati, come Boyle, Descartes, Galilei, Gassendi, Redi
e Regius, tutti noti atomisti seppure con le opportune
differenze:

Questa filosofia è nimica delle dispute, poiché attenden-


do alla verità delle cose, sdegna come inutili le conten-
zioni delle parole. E perché delle cose noi non potemo

127 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 3.

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haverne altra cognizione, che per mezzo de’ sensi, per-
ciò tutta è dedita alle sperienze et al discorso sensato,
che fondasi sopra le medesime. Quindi non giurando
nelle parole di alcuno, da molti e chiamata filosofia
libera, perché non sta ligata a’ principii delle scuole;
da altri filosofia elettiva, perché elegge da tutte le sette
quello che ciascheduna ha di buono; da altri filosofia
moderna, per la novità delle sperienze, non conosciute
da gli antichi; ma meglio di tutti è chiamata più comu-
nemente filosofia sensata, perché, colla scorta de’ sensi,
non ammette per vero nelle cose sensibili se non quello
che per essi sensi ne vien dimostrato. I suoi principii
sono semplicissimi perché non possono esser niegati,
se non da chi sia privo di senso. E questi con poche
carte sono stati posti in metodo da Errico Reggio, nel
suo libro intitolato Fundamentae Phisicies, seguitando
la dottrina del famoso Descartes, che stabilì i medesimi
principii, e può dirsi il principale autore di questa nuo-
va filosofia. Ma perché il Descartes per la stravaganza
e bizzarrie via dell’ipotesi che formò circa l’università
delle cose non può facilmente intendersi tacchino sia
alquanto più provetto in questo genere di studio, sareb-
be bene cominciare dalla lettura del Galileo, il quale
nel Dialogo del sistema del mondo, nel trattato delle
galleggianti, nel Saggiatore e nelle altre sue opere fisi-
co matematiche, ha scoverto infinite verità nelle cose e
trattate con tanta chiarezza, ch’ogni mediocrissimo in-
gegno può non solo intenderle perfettissimamente, ma

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può leggerle con gusto e come per spasso. E trattando
di varie materie, e nelle quali l’una non è necessaria di-
pendenza dall’altra, possono anche a prendersi separa-
tamente, e quando alcuna per difetto di geometria (che
da lui è quasi sempre adoperata per fondamento della
dimostrazione) non s’intendesse, ciò non impedisce che
non si possono intendere l’altre, dalla cognizione delle
quali poi si arriva facilmente alla cognizione di quelle
che prima non s’intendevano. I libri del Redi, filosofo e
medico del Gran Duca, circa le nove esperienze, il libro
dell’accademia di Firenze, l’opere del Boile, che tutte
trattan di nuovo esperimenti, son curiosissimi e servon
mirabilmente per dimostrar la verità di questa nuova
dottrina, Che può chiamarsi nuova in quanto che non
viene insegnata nelle schuole, ma è antichissima se si
considera che non vi è cosa più antica della verità, e che
la maggior parte di queste nuove sentenze fu insegna-
ta da gli antichi filosofi, benché non potessero confer-
marle colle sperienze, colle quali oggi vengon non solo
comprovate, ma dimostrate. Quando poi fussero letti i
suddetti libri e si volessero far maggiori progressi nella
dottrina, si potrebbono leggere l’opere del Gassendo;
le quali però, essendo assai voluminose, più le stime-
rei necessarie perché havesse da insegnarla ad altri, che
per chi havesse gusto di apprenderla per la sola curiosi-
tà e per ornamento della vita civile128.

128 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., pp. 148-149.

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Nelle Lezioni d’Andrea intese non solamente elen-
care i testi fondamentali della “filosofia sensata”, bensì
dimostrare che non si devono atterrire coloro i quali vo-
gliono avvicinarsi a essa prospettando faticosi e lunghi
anni di studio; inoltre non si devono seguire i consigli
dei maestri delle scienze i quali, per non perdere l’e-
gemonia culturale, ritennero che mediante la filosofia
peripatetico-scolastica si potessero apprendere più no-
zioni in un più breve lasso di tempo. In breve, chiunque
avrebbe potuto facilmente apprendere la dottrina dei
moderni, purché libero dai pregiudizi e deciso a utiliz-
zare la propria ragione e i propri sensi senza sottomet-
terli ad alcuna autorità129. Prima d’illustrare i princìpi
della dottrina dei moderni, d’Andrea indicò le tre regole
essenziali per facilitare l’apprendimento della dottrina
atomistica con cui eliminare i pregiudizi connessi alla
didattica delle scuole:

Quindi si danno alcune regole facilissime et alcuni


principii assai semplice, che possono giovar assai per
conseguire una tal cognizione. Delle quali la prima è
non ammettere cosa che ne venga insegnata, se non si
intenda chiaramente che sia vera, è tutto ciò che non si
adegua al nostro intendimento, parlando sempre ne’ i
puri termini naturali, haverlo per sospetto di falso. La
seconda, che tutte quelle dispute, nelle quali filosofi si

129 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., pp. 149-150.

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sono trattenuti per tanti secoli, senza mai haverne po-
tuto venire a capo e che dureranno per sinché durerà il
mondo, si debban tralasciare come inutili, mentre per
esse non vi è mai speranza che possa arrivarsi al con-
seguimento della verità che l’che quella che sola deve
cercarsi nella scienza naturale. E la terza, che non dob-
biam vergognarci di confessar che molte cose non le
sappiamo, particolarmente quando si tratta di indagare
le prime cause de gli effetti della natura; poiché tutti
gli antichi filosofi, e precisamente Platone, che pur fu
stimato l’idolo della filosofia, furono di questo parere,
che le prime cagioni da noi non si posson non sapere,
onde non havremo ripugnanza ad alcune interrogazioni
che potrebbon farcisi risponder con grandissima inge-
nuità di non saperle; nel che pur ci mostreremo più savi
di quei che credono di saperle, senza che le sappiano130.

Quanto ai princìpi, essi sono quelli enunciati nelle


opere degli autori che d’Andrea cita e alla cui base vi è
l’atomismo. Tali presupposti sono sufficienti a spiegare
tutti i processi di generazione e corruzione delle cose
che possiedono il modo della materialità e dell’esten-
sione, fatta eccezione per la parte razionale dell’anima
umana la quale, essendo stata creata da Dio, è pertanto
immortale131. La generazione e la corruzione dipendono

130 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 150.


131 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., pp. 150-151.

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perciò dal movimento delle particelle le quali mutano
l’essere precedente della res. In conclusione non è ne-
cessario introdurre termini astratti nell’indagine fisica,
come la forma, la privazione, gli accidenti o le forme
sostanziali, perché è sufficiente attenersi alla materia e
al moto132. A d’Andrea interessò esclusivamente indivi-
duare i princìpi (materia e movimento delle particelle)
della generazione e della corruzione delle cose; materia
e moto rappresentano il vero discrimina tra coloro che
si professano seguaci della filosofia moderna e colo-
ro che sono ancora ancoràti alle dottrine d’Aristotele.
Quanto al resto, cioè questioni intorno a cui gli stessi
moderni furono in disaccordo o che furono in contra-
sto con i dogmi della Chiesa post-tridentina, d’Andrea
decise di non entrare nel merito, lasciando il problema
filosoficamente aperto:

Del resto poi, se la materia sia infinita, come vogliono


alcuni, o terminata, come dicono i più, o indefinita,
come disse il Descartes; se dia il vacuo, come insegnò
il Galileo, e doppo di lui il Gassendo, o si sia implican-
te in natura, come stimò il Descartes,; se le parti siano
divisibili in infinito e se si diano i punti che non hanno
parti, con altre questioni simili, ciò poco importa per
la cognizione delle cose naturali, potendo e dell’una e
dell’altra maniera rettamente filosofarsi nel ricercar la

132 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., pp. 151-152.

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natura di quella materia che veggiamo e nel considerar
le parti corporee, delle quali essa materia costa, colle
mutazioni che continuamente si fanno, nelche consiste
tutto lo scopo dell’inquisizione fisica133.

Al rapporto tra scienza e fede fu dedicata la seconda


parte delle Lezioni: d’Andrea non scorse alcuna possi-
bilità di contatto tra esse, perché appartengono a campi
diversi e mirano a fini divergenti, contrariamente a ciò
che la Curia romana, dopo la condanna di Galileo, non
ha voluto assolutamente accettare. Sino a quando la te-
ologia cattolica fosse rimasta legata alla filosofia della
natura di Aristotele, non avrebbe mai potuto accettare
l’idea dell’autonomia tra scienze e fede né l’atomismo
meccanicistico. La confusione tra scienza e fede indus-
se i “moderni casisti” a una serie di errori, come credere
che la velocità di due corpi nell’aria dipendesse da loro
peso o sostenere la generazione spontanea. In breve, i
casisti applicarono alla scienza gli stessi metodi della
fede, trasformando la filosofia naturale di Aristotele in
dogma. La scienza dei moderni richiede contrariamente
l’uso libero della ragione, l’attenzione ai dati sensibili
e un’applicazione rigorosa134. Le Lezioni precedettero
il rientro a Napoli del giurista il quale trovò l’ambiente
partenopeo affatto mutato rispetto a come lo lasciò: in

133 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 152.


134 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 155.

85

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una lettera a Redi del 1680, egli constatò che l’attività
di Cornelio si insterilì e che di Capua, dopo la mor-
te del fondatore dell’Accademia, espresse il desiderio
d’abbandonare la scena pubblica. Tuttavia, a bilanciare
questa situazione, fu la nuova generazione di studiosi
che animò l’Accademia (Stefano Biscardi, Giacinto De
Cristofaro, Aniello Di Napoli, Tommaso Donzelli, Ni-
cola Galizia, Antonio Monforte e Gaspare Paragallo) i
quali manifestarono apertamente e poco prudentemen-
te le proprie idee sull’atomismo e il libertinismo. Così
Maurizio Torrini sintetizzò le caratteristiche della cul-
tura filosofica e scientifica investigando sul finire degli
anni ottanta del Seicento:

Un accentuato sensismo che mirava oramai decisamen-


te gattoni materialistici, una lettura dei moderni da Car-
tesio a Gassendi che ne esaltava i comuni tratti atomi-
stici, una concezione convenzionale della scienza, ma
che non ne amputava l’efficacia operativa, una filosofia
che adoperava più “conghietture” che ragioni, di fatto
scienza delle cose tra le altre scienze, e per la quale il
Di Capua, incerto se rimetterla nelle mani dei medici,
non vedeva altro cominciamento che il “tatto” […]135.

Naturalmente la reazione della Chiesa non si fece


attendere, in particolare quella dei Gesuiti, la quale

135 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., pp 163-167.

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sfociò nel processo agli ateisti. Nel tentativo di neu-
tralizzare la divulgazione della filosofia dei moder-
ni, nonché l’accentuazione sensistica e materialisti-
ca impressa a questa filosofia, si sferrarono attacchi
contro le loro idee, tacciandole di ateismo, e contro
i supposti costumi degli Investiganti (omosessualità,
sodomia etc.). Eppure, secondo d’Andrea, il termine
“atomismo” deriva da un innocente parola, cioè quella
di atomo, la quale, scrive il giurista, è usata per “spa-
ventare i fanciulli quando piangono”.

La dottrina degli atomi altro non insegna se non che


tutte le cose che stan soggette a generazione e corru-
zione compongansi di minutissime et indivisibili par-
ticelle, non in altro varie tra loro che di movimenti, di
grandezza e di figura, e dalla sua composizione, traspo-
sizione e dissoluzione di esse parti edalla diversità de’
lor moti e delle configurazioni nascer tutto ciò che in
natura diciamo generarsi e corrompersi. Questa è tutta
la dottrina degl’atomi, la quale non riconosce per au-
tore né Democrito, né Epicuro; ma fu molto più antica,
forse nacque col mondo medesimo, o almen da che gli
huomini cominciarono a filosofare. E perciò o si con-
sideri come ne viene insegnata dagl’antichi, e in ispe-
zialità da Platone, che l’apprese da’ pitagorici, e questi
da Pitagora, e quegli da altri più antichi di lui; o com’è
ella è per se medesima e da ciascuno che n’habbia ta-
lento può leggersi nel libro della natura; o come ‘stata

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rinovata da’ moderni e si legge ne’ loro libri, non può
dirsi che tra quante opinioni sian state inventate o
possono inventarsi da’ filosofi circa i principii delle
cose naturali, possa pensarsene altra che sia né più ve-
risimile, né più adatta al nostro intendimento, né più
conforme al senso e alla ragione di quella degl’atomi,
né per conseguenza che meglio si conformi alle verità
rivelateci per la fede, per esser che un vero non possa
mai contradire ad un altro vero. Essendo che Pitagora,
per cominciare dagl’antichi, che fu il primo che tra noi
l’insegnasse, e con lui tutti i pitagorici, e dopo loro
Platone, tutti concordemente insegnarono tutto questo
grande universo, che chiamiamo mondo, esser stato
nel principio creato da Dio; il quale, havendo creata la
materia che dovea essere suggetto di tutte le cose che
havevan da generarsi, l’avesse divisa in minutissime
particelle varie tra loro di grandezza e di figura, alle
quali diede anche il moto, accioché, continuamente
movendosi et agitandosi, et ora unendosi ora discio-
gliendosi, venissero a far perpetua nel mondo la gene-
razione e la corruzione. In maniera che tutte l’essen-
ze o nature di tanti e sì vari corpi che continuamente
veggiamo nella natura generarsi, e dopo generati cor-
rompersi, d’altro non si originassero che dalla varia
composizione, cioè dalla varietà della situazione del
moto e della figura delle suddette particelle; le qua-
li perché da Democrito e da altri che vennero dopo
lui furon stimate indivisibili, non perché fusser punti

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matematici, come alcuni falsamente han creduto136,
ma o per l’estrema loro picciolezza, oltre alla quale
non fusse più lecito alla natura di dividerle, o più tosto
per la lor solidità e robustezza, come non continenti
alcuna mistione di vacuo, senza del quale non istima-
vano i corpi star soggetti a divisione137.

D’Andrea rievoca le idee espresse da Galilei nel


Saggiatore, in merito al sorgimento delle affezioni se-
condarie che avviene quando i corpi esterni entrano in
contatto con gli organi di senso mediante il loro movi-
mento e la loro configurazione. Nell’universo meccani-
co concepito da d’Andrea, l’uomo è dunque simile, in
merito al suo funzionamento, agli ingranaggi interni di
un orologio138 i quali se non comunicassero tra loro il
moto, non potrebbero segnare l’ora:

Non dipendendo la natura dall’opinione degli huomi-


ni; ma l’opinioni intanto son vere, in quanto che si uni-
formino alle operazioni della natura; la quale non ope-
ra che meccanicamente per mezzo di strumenti corpo-
rei, i quali non possono servire alle operazioni se non
per mezzo del mondo, della figura del contatto, come
veggiam nelle ruote di un orologgio […]. E se ven-
ne attribuita Democrito fu perché egli coll’eminenza

136 Probabile riferimento al Galilei dei Discorsi.


137 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica
della Napoli di fine Seicento cit., pp. 68-69.
138 Il paragone tra il funzionamento della natura e quello dell’orologio risale a Oresme.

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del suo ingegno nel quale da Aristotele fu preferito
anche a Platone, l’illustrò maggiormente e la ridus-
se a metodo, dimostrando come dalla sola varietà del
sito, della figura e del moto delle particelle si potesse
cagionar non solamente tutte le varietà delle essenze
e delle nature ne’ composti; ma che dalla medesima
poteano originarsi tutte le qualità, non solamente le
proprie de’ corpi, come l’esser raro o denso, molle o
duro, fluido o consistente, levigato o aspro, quali nes-
sun dubiterà che nascano dalla varia composizione o
configurazione delle parti o dalla maggiore o minore
attitudine ch’habbiano al muoversi; ma anche quel-
le che chiamiamo sensibili, le quali arche stiano più
nell’animal sensitivo che ne’ medesimi corpi, come
sono i colori, gli odori, i sapori, il caldo e’l freddo et
altre qualità simili; le quali non essendo nelle cose che
vari movimenti delle lor particelle, e per conseguenza
vari modalità della loro materia, ferendo per ragion del
contatto o per se stesse, o per mezzo di corpi interpo-
sti, le fibrille de’ nostri sensorii, cagionano in noi una
impressione o alterazione nel cerebro o negli umori, o
in altra parte dove si faccian le sensazioni, per la quale
secondo la varietà del moto e degli organi per li quali
si trasmette quell’impressione all’anima, o secondo la
diversità della disposizione di essa anima ad alterar-
sene, si cagionano in lei tante e si varie sensazioni139.

139 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., pp. 84-85.

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A corollario di quanto sinora sostenuto da d’Andrea
è l’affermazione secondo cui le qualità sensibili sussi-
stono esclusivamente negli uomini: se così non fosse,
si causerebbero in tutti gli uomini i medesimi effetti
dovuti a un determinato corpo esterno. L’esempio por-
tato dal giurista per corroborare la sua tesi è preso a
prestito da Descartes ed è quello dello strofinio pro-
vocato da una piuma, quando quest’ultima tocca la
pelle: essa genera solletico, fastidio oppure alcunché.
Tali “virtù” non possono essere presenti nella piuma,
perché, se lo fossero, una medesima cosa acquisirebbe
contemporaneamente proprietà tra loro contrarie il che
è contraddittorio; pertanto, ciò che si può sicuramente
asserire è il contatto della piuma con la pelle e il suo
movimento:

Poiché se tali qualità fussero entità che sussistesser


naturalmente nelle cose, dovrebbero esse uniformi a
tutti e produrre i medesimi effetti o almeno non pro-
durli contrari; essendo impossibile che una cosa sia
per se stessa e bella e brutta, e dolce e amara, e odoro-
sa e puzzolente, e sonora e dissonante, e calda e fredda
nel medesimo tempo. Dunque tutte dette qualità non
sono altro che varie sensazioni che produncosi nell’a-
nimal sensitivo secondo la varia disposizione de’ suoi
organi, ancorché il movimento che viene dagl’oggetti
sia il medesimo. Conforme un medesimo titillamento
o solletico a tal’uno concilierà il sonno, che ad altri

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il farà andar nelle furie, e ad altri si renderà poco o
nulla sensibile. Donde si vede il contatto solo esser
nelle cose; ma la qualità sensibile, cioè quell’affezio-
ne che nasce in noi da tal contatto, esser solamente
nell’animal sensitivo. […] La medesima sentenza cir-
ca le qualità, cioè quali siano in noi e ne’ nostri sensi, e
quali ne’ corpi, la spiegò pienamente Epicuro, detto il
padre della natura, nell’Epistola ad Erodoto, dicendo
negli atomi non altre poter ritrovarsi che la grandezza,
il peso e la figura, e se altre hanno colla figura neces-
saria connessione, come sono l’asprezza e la liscezza,
et haverebbe potuto aggiungner ne’ composti la flui-
dità, la consistenza, la rarità, la densità, la durezza e
la mollezza, che dipendono dalla maggiore o minore
attitudine delle particelle al moto; ma tutte l’altre cose
non essere proprie ne’ corpi, anzi non esser entità in
natura. […] Qual qualità dunque daremo alla cicuta di
velenosa o salutifera? E se si risponderà che ha qualità
di esser salutifera alle capre e velenosa a gli huomini,
questo è lo stesso che dire che non ne tiene nessuna,
perché se vu fussero gli huomini e le capre, non sa-
rebbe né salutifera né velenosa. E questo è quello che
dicono gli atomisti: che se non ci fussero gli occhi,
non ci sarebbon colori, se non ci fussero gusti non ci
sarebbono sapori; e se non ci fusse udito, non ci sareb-
bon suoni; e cos’ degl’altri sensi. Et all’incontro, che
se dalla fussimo dotati di più sensi che non habbiamo,
come non habbiamo certezza che altri animali non gli

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habbiano, tutte quelle impressioni che riceveremmo
nell’anima per quegli altri sensi, tutte crederemmo
esser qualità nelle cose che pur non ci sono. Et all’in-
contro non perché non havessimo nessun senso, per
questo lascierebbon nelle cose esservi quelle che son
vere proprietà de’ corpi, come son la materia e la gran-
dezza della quale costano e le di lei modalità, che sono
il movimento e la figura. Il che non è niegar la fede a
i sensi e dir che ‘l fuoco non è caldo e la neve non è
fredda, e che il zucchero non sia dolce e ‘l fiele non sia
amaro, come scioccamente declamano i censori degli
atomisti, o perché non intendano quel che dicono, o
perché fingano di non intenderlo, per prender motivo
di calunniarli presso gli ignoranti. Ma è indagar da fi-
losofi in che consistano il caldo del fuoco e ‘l freddo
della neve, o la dolcezza del zucchero, o l’amarezza
del fiele; e che sorte di operazione sia quella che si fa
in natura quando noi sentiamo riscaldarci o raffred-
darci; e in che differiscano intorno a ciò gli animali
sensitivi dalle cose insensante140.

A quest’ordine di problemi bisogna collegare i mano-


scritti anonimi riguardanti l’atomismo: il primo d’essi è
una richiesta di chiarimento di alcuni Dubbi, contenen-
te anche le Risposte di un religioso contro la dottrina
degli atomi; il secondo, le Riflessioni, è un responso di

140 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., pp. 86-99.

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un atomista, dietro il quale si cela lo stesso d’Andrea,
ai dubbi e alle risposte del religioso, certamente un ari-
stotelico, informato ma non aggiornato sulle nuove dot-
trine. Ciò si evince dal dubbio che il religioso avanza
in merito al rapporto tra la figura degli atomi e le cose:

Questi poi al sicuro non diram mai che gl’atomi de’


melloni sian sferici, e molto meno quei della neve, tut-
ta volta haveranno molto a che fare a disbrigarsi da
quest’istanza che può farsi contro di loro in tal gui-
sa. Il fuoco per voi si compone d’atomi sferici perché
questa figura è precisa causa eprincipio del calore, né
può dirsi altrimenti da chi mette gl’atomi totalmente
omogenei di natura: dovunque si trova la figura sfe-
rica trovasi la precisa caggione e ‘l vero principio del
caldo; trovandosi lungo questa figura ne’ melloni ton-
di, e nella neve quando s’ammassa in palloni sferici,
necessariamente doverà dirsi caldi per trovarsi in essi
la vera caggione del calore, cioè la sferica figura. E
suderan freddo a liberarsi da questo caldo nevoso141.

All’obiezione dell’impreparato religioso l’atomista


si limita a dire:

[…] l’argomento è troppo debole per mandare altri


in sacco; anzi ch’è ridicolo; perché non diredero mai

141 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 124.

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gl’atomisti alla sola figura il dar l’essere alle cose, ma
alla figura unita col moto e con la situazione. Ma ciò
non tocca a’ platonici che non compongono l’anime
d’atomi, et assai meno a’ moderni, che sono cristiani142.

Tra i vari punti trattati in questi scritti vi sono anche


i problemi riguardanti la natura degli atomi sia quello
– ben più spinoso – concernente il mistero dell’Euca-
ristia. Quanto al primo dei due problemi l’autore dei
dubbi chiede “se […] i suddetti filosofi [Leucippo,
Democrito e Platone] stimavano gli atomi punti indi-
visibili e poi dicevano che avessero figura. Si desidera
sapere se sia certo che li stimassero punti, perché in
tal caso la contraddizione sarebbe inescusabile. E pare
impossibile che filosofi così grandi avessero potuto
dire uno sproposito simile, che il punto potesse aver
figura quando non ha parti143”. La risposta fornita dal
religioso aristotelico chiama in causa gli atomisti an-
tichi i quali concepirono gli atomi come punti mate-
matici; tuttavia, stretti dalla contraddizione delle loro
tesi, si rifugiarono nel campo della fisica, intendendo-
li non più come punti matematici, bensì come corpu-
scoli indivisibili. Contro quest’ultima tesi, ricorda il
religioso, Aristotele sostenne l’infinita divisibilità po-
tenziale e l’indivisibilità dei punti matematici; inoltre,

142 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 139.


143 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 111.

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Aristotele fornì una sua interpretazione dei fenomeni
naturali, ricorrendo alla nozione di minima naturalia,
vale a dire i quattro elementi (acqua, aria, fuoco e ter-
ra) – ricavati dalla dottrina di Empedocle – infinita-
mente divisibili, attraverso cui fu possibile superare le
fallacie degli atomisti144. La risposta del moderno ato-
mista mostra in primo luogo la mancata conoscenza
della dottrina degli atomi da parte dell’aristotelico – il
quale sostiene erroneamente che gli antichi atomisti
avessero ritenuto gli atomi dei punti; in secondo luo-
go, tale responso ricalca l’atteggiamento di d’Andrea,
ossia la sua volontà di non entrare in questioni filo-
soficamente aperte sulle quali vi è disaccordo tra gli
stessi moderni145. Sulla base di tale dialogo a tre sino-
ra riportato,possiamo concludere che una fazione con-
tinua a parlare di minima naturalia, di forme sostan-
ziali, di punti indivisibili e di materia infinitamente
divisibile; l’altra di atomi, del loro movimento e della
loro figura, di generazione e di corruzione. Due conce-
zioni scientifiche inconciliabili: l’una incentrata sulla
disputa e sulle nozioni; l’altra sui processi meccanici
che sottendono i processi della natura. Questione ben
144 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., pp. 118-119.


145 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 136: «Al terzo mi dice che nessun atomista degl’antichi
stimò gl’atomi punti, e che tutti li chiamavano magnitudines athomos, e perciò lor diedero
moto e figura, e varietà anche di grandezza, e che la questione se la quantità costi d’infiniti
punti e se sia divisibile in infinitum è un’altra cosa della quale gl’atomisti, in quanto son ato-
misti e voglion passare avanti e considerare la generazione delle cose, non se ne piglian briga
e tutte queste dispute le lasciano a gli scolastici, i quali consumano il cervello a studiare falzo.
Per non saper giammai che cosa è il quanto».

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più ostica è quella relativa al dogma dell’Eucaristia
che arroventa maggiormente la disputa tra atomisti e
aristotelici.

[…] la transustanziazione era l’unico dogma arren-


dere flagrante dell’antinomia fra la testimonianza dei
sensi e l’affermazione di fede dottrinale. Il dogma im-
pone infatti dei fenomeni sensibili – colore, sapore,
odore – identici e delle proprietà meccaniche chimi-
che identiche a quelli dell’esperienza di tutti giorni,
ma postula accanto a queste identità dell’esperienza
un cambiamento radicale della sostanza del pane e
del vino consacrati. Non era arduo prevedere che esso
avrebbe fatto delle vittime fra i filosofi e gli scienziati.
Un dogma è per una religione ciò che un postulato è
per una teoria ipotetico deduttiva: nessuno pretende di
dimostrarlo, ma è legittimo chiedersi se la sua formu-
lazione è intelligibile, oppure se è autocontraddittoria.
Di qui lo sforzo per interpretare razionalmente questo
mistero, per capirne il significato. Ora la dottrina della
transustanziazione poneva molte sfide alla compren-
sione umana. Fra questi due grandi ordini di domande.
Come si produce questa trasformazione di sostanza:
annichilazione, o conversione della sostanza origi-
naria del pane del vino in corpo il sangue di Cristo?
Il secondo quesito riguarda invece la permanenza di
dati sensibili originali. Permanenza miracolosa, d’ac-
cordo, ma sottoposta all’esperienza comune dei sensi:

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come spiegare questi fenomeni e la loro percezione
fisica? […] Al dogma della transustanziazione era fa-
cilmente assegnabile un grande destino filosofico. È
infatti chiaro che sarebbe stato più facile razionaliz-
zare l’idea della permanenza di fenomeni sensibili la
cui sostanze era mutata, se si fosse slegata l’idea di
sostanza da quella dei fenomeni sensibili. All’oppo-
sto, come viene riconosciuto anche dai moderni apolo-
geti, ogni filosofia che avesse introdotto nella nozione
di sostanza degli elementi quantitativi, sotto forma di
estensione, numero, proprietà meccaniche, avrebbe
reso più difficile, se non contraddittoria, la condizione
di esistenza della sostanza nel sacramento146.

Nessuna filosofia fu più consona alle esigenze della


fede della metafisica aristotelico-tomistica: quest’ul-
tima permise di affrontare problemi logici e filosofici
dell’Eucaristia mediante il concetto dell’ilemorfismo.
Secondo tale teoria un corpo è composto di due princìpi
metafisici: la materia che dà al corpo la sua estensione,
e la forma la quale conferisce attività e proprietà spe-
cifiche al corpo; pertanto, una sostanza è il prodotto di
questi due princìpi. Quando avviene il miracolo dell’Eu-
caristia, si ha una sostanza diversa dalla sua estensione,
perché la sostanza del corpo di Cristo non coincide né
con l’estensione dell’ostia né con le proprietà sensibili
di questa. La dottrina ilemorfistica presentò il seguente
146 P. redondi, Galilei eretico, Laterza, Roma-Bari 2009, pp. 263-264.

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vantaggio, vale a dire la separazione miracolosa di
un corpo dalla sua estensione. Separata così la mate-
ria dall’estensione, la transustanziazione divenne una
dottrina nazionale con tutti i vantaggi teorici che San
Tommaso illustrò nella quaestio 75 della sua Summa
Theologicae:

Rispondo: Sopra abbiamo già chiarito che in questo


sacramento è presente il vero corpo di Cristo; il quale
non può iniziarvi la sua presenza con un moto locale;
anzi abbiamo visto pure che il corpo di Cristo non è
in esso neppure localmente: perciò bisogna conclude-
re che il corpo di Cristo vi inizia la sua presenza per
la conversione in esso della sostanza del pane.Questa
conversione però non è simile alleconversioni natura-
li, ma è del tutto soprannaturale, compiuta. dalla sola
potenza di Dio. Di qui le parole di S. Ambrogio: “È
noto che la Vergine generò fuori dell’ordine della na-
tura. Ora, anche ciò che noi consacriamo è il corpo
nato dalla Vergine. Perché dunque cerchi l’ordine na-
turale nel corpo di Cristo, se il Signore stesso Gesù è
stato partorito dalla Vergine fuori dell’ordine di natu-
ra?”. E a commento del passo, “Le parole che vi ho ri-
volto”, a proposito di questo sacramento, “sono spirito
e vita”, il Crisostomo afferma: “Sono cioè spirituali,
non hanno niente di carnale, né seguono un proces-
so di natura, liberate da ogni necessità terrena e dal-
le leggi che vigono sulla terra”. È chiaro infatti che

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ogni ente opera in quanto è in atto. Ma ogni agente
creato è limitato nel suo atto, appartenendo a un dato
genere e a una data specie. Quindi l’azione di qualsiasi
agente creato si limita a un determinato atto. Ora, la
determinazione di qualsiasi cosa al proprio essere in
atto dipende dalla forma. Perciò un agente naturale o
creato non può causare che una trasmutazione di for-
ma. E quindi ogni conversione, che si compia secondo
le leggi naturali, è un cambiamento soltanto formale.
Dio invece è atto infinito, come abbiamo spiegato nel-
la Prima Parte. Perciò la sua azione si estende a tutta
la natura dell’ente. E quindi può produrre non soltanto
delle conversioni formali, in cui in un medesimo sog-
getto si succedono forme diverse; ma può trasmutare
tutto l’ente, in modo che tutta la sostanza di un ente
si converta per intero nella sostanza di un altro. Ciò
appunto avviene per virtù divina in questo sacramen-
to. Infattitutta la sostanza del pane si converte in tutta
la sostanza del corpo di Cristo, e tutta la sostanza del
vino in tutta la sostanza del sangue di Cristo. Perciò
questa non è una convelsione formale, ma sostanziale.
Né rientra tra le specie delle mutazioni naturali, ma
con termine proprio può dirsi transustanziazione147.
147 ThoMas aQUinas, Summa Theologiae, Studio Domenicano, Bologna 2015, 50564, III,

q. 75, a. 4 co.: «Respondeo dicendum quod, sicut supra dictum est, cum in hoc sacramento sit
verum corpus Christi, nec incipiat ibi esse de novo per motum localem; cum etiam nec corpus
Christi sit ibi sicut in loco, ut ex dictis patet, necesse est dicere quod ibi incipiat esse per con-
versionem substantiae panis in ipsum. Haec tamen conversio non est similis conversionibus
naturalibus, sed est omnino supernaturalis, sola Dei virtute effecta. Unde Ambrosius dicit, in
libro de sacramentis,
liquet quod praeter naturae ordinem virgo generavit. Et hoc quod conficimus, corpus ex
virgine est. Quid igitur quaeris naturae ordinem in Christi corpore, cum praeter naturam sit

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In conclusione quelli eucaristici sono fenomeni
sensibili separati dalla sostanza, accidenti senza sog-
getto148, pertanto la qualità – l’estensione – dell’ostia
consacrata non è sostenuta né dalla materia del pane
né da quella dell’aria circostante. L’ostia permane

ipse dominus Iesus partus ex virgine? Et super illud Ioan. VI, verba quae ego locutus sum vo-
bis, scilicet de hoc sacramento, spiritus et vita sunt, dicit Chrysostomus, idest, spiritualia sunt,
nihil habentia carnale neque consequentiam naturalem, sed eruta sunt ab omni tali necessitate
quae in terra, et a legibus quae hic positae sunt. Manifestum est enim quod omne agens agit
inquantum est actu. Quodlibet autem agens creatum est determinatum in suo actu, cum sit de-
terminati generis et speciei. Et ideo cuiuslibet agentis creati actio fertur super aliquem deter-
minatum actum. Determinatio autem cuiuslibet rei in esse actuali est per eius formam. Unde
nullum agens naturale vel creatum potest agere nisi ad immutationem formae. Et propter hoc
omnis conversio quae fit secundum leges naturae, est formalis. Sed Deus est infinitus actus,
ut in prima parte habitum est. Unde eius actio se extendit ad totam naturam entis. Non igitur
solum potest perficere conversionem formalem, ut scilicet diversae formae sibi in eodem su-
biecto succedant, sed conversionem totius entis, ut scilicet tota substantia huius convertatur
in totam substantiam illius. Et hoc agitur divina virtute in hoc sacramento. Nam tota substan-
tia panis convertitur in totam substantiam corporis Christi, et tota substantia vini in totam
substantiam sanguinis Christi. Unde haec conversio non est formalis, sed substantialis. Nec
continetur inter species motus naturalis, sed proprio nomine potest dici transubstantiatio».
148 ThoMas aQUinas, Summa Theologiae, 50675, Studio Domenicano, Bologna 2015,

III, q. 77, a. 1 co.: «Respondeo dicendum quod accidentia panis et vini, quae sensu de-
prehenduntur in hoc sacramento remanere post consecrationem, non sunt sicut in subiecto in
substantia panis et vini, quae non remanet, ut supra habitum est. Neque etiam in forma sub-
stantiali, quae non manet; et, si remaneret, subiectum esse non posset, ut patet per Boetium,
in libro de Trin. Manifestum est etiam quod huiusmodi accidentia non sunt in substantia
corporis et sanguinis Christi sicut in subiecto, quia substantia humani corporis nullo modo
potest his accidentibus affici; neque etiam est possibile quod corpus Christi, gloriosum et
impassibile existens, alteretur ad suscipiendas huiusmodi qualitates. Dicunt autem quidam
quod sunt, sicut in subiecto, in aere circumstante. Sed nec hoc esse potest. Primo quidem,
quia aer non est huiusmodi accidentium susceptivus. Secundo, quia huiusmodi accidentia
non sunt ubi est aer. Quinimmo ad motum harum specierum aer depellitur. Tertio, quia acci-
dentia non transeunt de subiecto in subiectum, ut scilicet idem accidens numero quod primo
fuit in uno subiecto, postmodum fiat in alio. Accidens enim numerum accipit a subiecto.
Unde non potest esse quod, idem numero manens, sit quandoque in hoc, quandoque in alio
subiecto. Quarto quia, cum aer non spolietur accidentibus propriis, simul haberet accidentia
propria et aliena. Nec potest dici quod hoc fiat miraculose virtute consecrationis, quia verba
consecrationis hoc non significant; quae tamen non efficiunt nisi significatum. Et ideo relin-
quitur quod accidentia in hoc sacramento manent sine subiecto. Quod quidem virtute divina
fieri potest. Cum enim effectus magis dependeat a causa prima quam a causa secunda, potest
Deus, qui est prima causa substantiae et accidentis, per suam infinitam virtutem conservare
in esse accidens subtracta substantia, per quam conservabatur in esse sicut per propriam
causam, sicut etiam alios effectus naturalium causarum potest producere sine naturalibus
causis; sicut corpus humanum formavit in utero virginis sine virili semine».

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miracolosamente senza sostanza, così come gli acci-
denti, quali il colore, il sapore e l’odore. Questi ultimi
agiscono come se dipendessero da una sostanza, ma
in realtà operano senza di essa. La teoria tomistica de-
gli accidenti senza sostanza mise al riparo la dottrina
della transustanziazione dal punto di visto dialettico-
filosofico che avrebbe potuto fare appello all’espe-
rienza sensibile dell’odore, del sapore e del colore, e
da quello dello scetticismo che avrebbe turbato le co-
scienze dei fedeli, sviluppando l’ipotesi del topo che
rosicchia l’ostia149. Contrariamente, una concezione
corpuscolare della materia, nella quale si nega qualsi-
asi distinzione tra sostanze e accidenti, non consente
di pensare che il pane e il vino, attraverso il miracolo
e pur conservando le loro specifiche qualità, diventi-
no esattamente il corpo e sangue di Cristo. Poiché il
pane e il vino, così come tutta la materia, sono com-
posti d’aggregati di atomi, i quali sono responsabili di
quei determinati attributi, allora essi restano tali an-
che dopo l’avvenuta consacrazione. L’unica possibili-
tà sarebbe quella dell’intervento miracoloso di Dio il
quale dovrebbe imprimere nelle particelle del pane e
del vino l’anima di Cristo; tuttavia la teologia cattolica
non avrebbe mai potuto accettare tale compromesso,
perché l’avrebbe pericolosamente avvicinata alle tesi
cartesiane o all’interpretazione simbolica del dogma
da parte dei riformati. D’altra parte, seppur lontano
149 redondi, Galileo eretico cit., pp. 268-269.

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da una concezione corpuscolaristica della materia, lo
stesso Lutero affermò nella sua opera De Captivitate
babilonica Ecclesiae Praeludium del 1520 che:

La mia coscienza mi conferma dell’opinione che


nell’eucaristia con vera carne e il vero sangue di Cri-
sto, sia del vero pane e vino. […] Alcuni esercitano la
loro arte le loro sottigliezze per cercare dove rimane
il pane quando è trasformato nella carne di Cristo e il
vino nel suo sangue, e anche come in una così piccola
particella di pane e di vino possa essere contenuto tutto
il Cristo, la sua carne e il suo sangue. Ma non importa
nulla che tu non lo veda. Basta che tu sappia che un
segno divino, in cui la carne e sangue di Cristo sono
veramente contenuti; come e dove rimettilo a lui150.

In secondo luogo ammettere una concezione discre-


ta della materia, anziché una di stampo aristotelico,
avrebbe comportato un assurdo logico-teologico: se si
ammettesse l’esistenza di atomi non ulteriormente divi-
sibili, allora non si sarebbe potuta affermare l’infinita
divisibilità dell’ostia consacrata, ossia la presenza del
corpo di Cristo nella sua integrità in ogni singola parte
dell’Ostia, seppur di dimensioni infinitesimali151. Tor-
nando all’esame dei manoscritti di d’Andrea, il dubbio
16º e la relativa risposta avanzata dal religioso sono
150V. vinay, Scritti religiosi di Lutero, UTET, Torino 1967, pp. 308-322.
151d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica
della Napoli di fine Seicento cit., p. 22.

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dedicati proprio al tema dell’Eucaristia152. Il religioso
colpisce esattamente il punto debole della teoria corpu-
scolare e l’atomista non può far altro che sostenere che
ogni buon cattolico, aldilà della sètta filosofica d’ap-
partenenza, deve credere in tale mistero; il problema
dell’Eucaristia non è dunque apertamente affrontato e
si tenta solamente di scagionare la dottrina degli atomi
dall’accusa di eresia, citando autori cattolici che han-
no tentato d’interpretare il dogma secondo gli schemi
concettuali della nuova filosofia153. Fu il carattere for-
temente materialistico, che assunse l’atomismo napole-
tano sul finire del Seicento, ad arroccare la Chiesa nella
sua posizione oltranzista di difesa dell’aristotelismo e
del tomismo. Solamente mettendo da parte la separa-
zione tra scienza e fede e approfondendo l’atomismo
cristiano di Gassendi e di Boyle, la Chiesa avrebbe
probabilmente potuto accettare il corpuscolarismo e si
sarebbe posta fine alla lunga battaglia ideologica. Tutta-
via, sebbene l’empirismo di Boyle abbia avuto una pic-
cola incidenza sugli accademici investiganti – si ricordi
l’opera giovanile di Porzio sull’ascensione dei liquidi –,
un testo fondamentale dell’autore irlandese, quale ilThe
Christian Virtuoso del 1690, non ebbe affatto diffusio-
ne; in tale opera, Boyle sostenne, differentemente da
Descartes e dagl’Investiganti, che Dio, una volta create

152 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 126.


153 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., pp. 126-129

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le particelle e il moto, non ebbe terminato il suo com-
pito, perché la sua azione sarebbe quella di conservare
la natura sino alla fine del creato154. Furono coloro che
combatterono la dottrina degli atomi, cioè i Gesuiti, i
quali rifiutarono il rigido determinismo meccanicistico,
a importare e ad approfondire le opere del naturalista
irlandese, diffondendone il pensiero. L’atomismo napo-
letano di fine Seicento rimase dunque lontano dalle po-
sizioni di Boyle, discusse dai letterati cattolici (Giusep-
pe Avanti, Giovanni Bottari, Francesco Bianchini e Ce-
lestino Galiani), nonché dall’impostazione rigidamente
fisico-matematica della scuola galileiana e newtoniana.
Inoltre, il dibattito di fine secolo fu povero sotto l’aspet-
to scientifico, ma ricco dal punto di vista ideologico,
perché impegnò giuristi e teologi nell’offrire soluzioni
o critiche alla problematica atomistica155. Spetterà a un
altro membro investigante, nonché noto giurista, Vallet-
ta, dar vita alla storia filosofica dell’atomismo, riallac-
ciando le origini di quest’ultimo a Mosè, alla scuola di
Pitagora e al pensiero dei Padri della Chiesa, mostran-
do viceversa come l’aristotelismo non sia nient’altro
che fonte di eresie e una deviazione storica dall’esatto
modo di studiare i fenomeni della natura.

154 R. Boyle, Il virtuoso cristiano. Ove si dimostra che l’uomo dedito alla filosofia speri-

mentale è aiutato piuttosto che ostacolato a essere un buon cristiano, in C. PiGheTTi (a cura
di), Opere di Robert Boyle, UTET, Torino 1977, pp. 65-80.
155 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 32-33; V. Ferrone, Scienza Natura Religione: mondo
newtoniano e cultura italiana nel primo Settecento, Jovene, Napoli 1982, p. 171.

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Le Risposte ad Aletino

Di fronte alla rinnovata minaccia portata da Ale-


tino, il quale pubblicò nel 1694 le Lettere, d’Andrea,
in seguito all’improvvisa morte di di Capua, si sentì in
obbligo di rispondere ad Aletino (il gesuita de Bene-
dictis) per difendere l’amico investigante ritenuto “uno
de’ maggiori ornamenti ch’habbia avuto a di’ nostri
ed anche ne’ passati la nostra Città”156. Le Risposte di
d’Andrea sono divise in due parti: la prima è una meti-
colosa demolizione della filosofia aristotelica, avversa-
ta dai Padri della Chiesa, i quali colsero l’impossibilità
di armonizzare le sue concezioni e la fede cristiana, e
successivamente rifiutata da Lorenzo Valla – “il pri-
mo che a bandiere spiegate assaltò il Liceo157” –, da
Pietro Ramo, da Mario Nizolio, da Ludovico Vives e
da Francesco Patrizi158. Infine il giurista porta avanti
un’esame dell’atomismo attraverso le opere di Pietro
Ramo, Francesco Patrizi, della Philosophia Burgundia
di Jean Baptiste Duhamel e di Gassendi. Nella seconda
parte dell’opera si analizzano compiutamente le teo-
rie della sensazione di Galilei, di Descartes e dei loro

156 F. d’andrea, Lettera familiare di Francesco D’Andrea a D. Antonio d’Aquino

Principe di Ferolito in difesa de’ pareri di Lionardo di Capoa contro le accuse contenute nelle
lettere Apologetiche di Benedetto Aletino, c. 3v.
157 d’andrea, Lettera familiare di Francesco D’Andrea a D. Antonio d’Aquino Principe

di Ferolito in difesa de’ pareri di Lionardo di Capoa contro le accuse contenute nelle lettere
Apologetiche di Benedetto Aletino, pc. 37v.
158 d’andrea, Lettera familiare di Francesco D’Andrea a D. Antonio d’Aquino Principe

di Ferolito in difesa de’ pareri di Lionardo di Capoa contro le accuse contenute nelle lettere
Apologetiche di Benedetto Aletino, c 84v.

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seguaci, quali Lorenzo Bellini, Giovanni Alfonso Bo-
relli, Marcello Malpighi, Alessandro Marchetti, Gemi-
niano Montanari e Francesco Redi159. Inoltre l’autore
sviluppa le seguenti tesi: il rapporto della modernità
con la tradizione cattolica avversa ad Aristotele; il ri-
congiungimento con un sapere antico il quale trae il suo
inizio dal mito, sviluppandosi poi razionalmente nell’a-
tomismo di Pitagora, Leucippo, Democrito, Platone,
Epicuro e Gassendi. D’Andrea riconobbe che l’op-
posizione rinascimentale si esercitò prevalentemente
nell’ambito della logica e della metafisica aristoteliche:

È vero che per quel che tocca le cose fisiche non se


n’havea sino a questo tempo che pochissime o nessu-
na cognizione, onde quei medesimi che impugnaron la
dottrina di Aristotele il ferrono più nelle cose metafi-
siche o nelle logiche che nelle puramente naturali160.

D’Andrea non si limitò tuttavia a identificare il ri-


fiuto del pensiero di Aristotele come il tratto distintivo
della filosofia dei moderni; anzi egli scrisse che “il vero
filosofo a proposito della natura non opera secondo opi-
nione.” Certo è il riferimento all’operato di Galilei il
quale “essendo stato il primo che, rinovato l’instituto
della scuola di Platone, [fece] servire le matematiche
159 d’andrea, Lettera familiare di Francesco D’Andrea a D. Antonio d’Aquino Principe

di Ferolito in difesa de’ pareri di Lionardo di Capoa contro le accuse contenute nelle lettere
Apologetiche di Benedetto Aletino, cc. 15v-16r e 84v-85r.
160 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., pp. 39-39.

107

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alla inquisizione delle cose fisiche […]161”. La nuova
visione del mondo si fonda sull’atomismo – ritenuto un
sapere astorico, la verità più antica del mondo162 – e
su una teoria gnoseologica la quale determina l’apporto
epistemico dei sensi. Questa teoria si erge sulle rovine
del nozionismo scolatico il quale fece uso delle forme
sostanziali e delle specie intenzionali163: accettando il
suggerimento di Camillo Colonna, d’Andrea predilisse
l’atomismo, perché ritenuta la dottrina più adatta a spie-
gare il modo di operare della natura164. La dottrina ato-
mistica, che attraversò tutta la storia della cultura uma-
na prima di essere definitivamente riscoperta durante
l’Età Moderna, confutò sia le concezioni astronomiche
aristoteliche, basate su una differenza tra la fisica dei
Cieli e della Cerra, sia la dottrina delle qualità inerenti
alle cose stessi:

E da questa dottrina ne siegue che non possan ne’ corpi


considerarsi altre qualità che che quelle che risultano
dal vario movimento e dalla varia figura e situazione
delle loro parti, come sono l’esser rari, o densi, gravi
o leggieri165.
161 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., c. 17r.


162 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., c. 42v.


163 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., 219r.


164 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., 44r-44v.


165 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., 32v.

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Il mondo può essere colto in un primo momento
dai sensi i quali non ingannano mai; tuttavia essi non
riproducono perfettamente la realtà: pertanto è neces-
sario cogliere il meccanismo latente dei fenomeni na-
turali attraverso il quale si giunge alla loro conoscen-
za. La nuova scienza è dunque lontana da ogni forma
di verbalismo e “non si ferma al solo specolare, ma
che conosce il vero modo in cui si operano tante me-
raviglie nella natura al fine di liberarsi di infiniti erro-
ri nell’uso della vita […]166”. D’Andrea fu il membro
investigante che colse maggiormente l’entusiasmo che
accompagnò i moderni pensatori europei e napoletani,
nonostante il clima fortemente ostile della città parte-
nopea sul finire del Seicento dovuto al processo agli
ateisti167. Emblema dell’avanzamento della scienza fu
il cannocchiale che permise a Galileo di divenire “[…]
instauratore della scienza della natura e la cui maniera
di filosofare è stata seguita da tutti i moderni […]168”.
Pertanto d’Andrea fu assolutamente certo “[…] che
più di tutti i passati […] possa veramente dirsi il se-
colo della filosofia.169”. Contrariamente i peripatetici,
166 d’andrea, Lettera familiare di Francesco D’Andrea a D. Antonio d’Aquino Principe

di Ferolito in difesa de’ pareri di Lionardo di Capoa contro le accuse contenute nelle lettere
Apologetiche di Benedetto Aletino cit., 212r.
167 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98, 19v-20r.
168 d’andrea, Lettera familiare di Francesco D’Andrea a D. Antonio d’Aquino Principe

di Ferolito in difesa de’ pareri di Lionardo di Capoa contro le accuse contenute nelle lettere
Apologetiche di Benedetto Aletino cit., 20r.
169 d’andrea, Lettera familiare di Francesco D’Andrea a D. Antonio d’Aquino Principe

di Ferolito in difesa de’ pareri di Lionardo di Capoa contro le accuse contenute nelle lettere
Apologetiche di Benedetto Aletino cit., 85r.

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tra i quali il giurista annovera Aletino, operano come
fossero dei sonnambuli e si vantano di aver impiegato
gran parte della loro vita “in cercar di sapere cose nelle
quali il gran Pico della Mirandola si dolse di aver mal
spesi sei anni e il Leonico […] dieci, senza aver fatto
altro acquisto di conoscere alla perfine che non sapea
niente”170. Alla base del pensiero del giurista napoleta-
no vi sono le riflessioni di Descartes il quale fu sosteni-
tore di una concezione della materia che si risolve nei
corpuscoli e nel moto di questi ultimi:

Stimò Renato, che tutti i corpicciuoli, ne’ quali la ma-


teria è divisa, habbiano un moto proprio, lor comuni-
cato dall’Autore del tutto, nel principio del moto. Que-
sto moto volle, che non sia mai per estinguersi, ma che
habbia da dare, per quanto durerà il Mondo e che solo
da un corpicciuolo passi all’altro, sì che quanto uno ne
acquista, tanto un altro ne perde. E così farsi la perpe-
tua generazione e corruttione delle cose; opinion del-
la quale non credeno, che al Mondo non sia altra più
vera. Perché se tal moto non vu fusse, non ci sarebbero
né generatione, né corrutione, e ‘l Mondo si starebbe
sempre di una medesima maniera. Ma come questo
moto per la picciolezza di quri corpicciuoli è da noi
insensibile; così insensibile anche ha da esser la muta-
zione del vicinato, che l’un corpicciuolo fa dall’altro;
170 d’andrea, Lettera familiare di Francesco D’Andrea a D. Antonio d’Aquino Principe

di Ferolito in difesa de’ pareri di Lionardo di Capoa contro le accuse contenute nelle lettere
Apologetiche di Benedetto Aletino cit., 216v-217r.

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ma se vi è moto, forzosamente sia da esservi mutatione
di vicinato; sì che quei corpicciuoli ch’eran vicini, si
allontanino, e quei ch’eran lontani si avvicinanino171.

Se la teoria atomistica di d’Andrea è legata all’im-


postazione cartesiana, la sua teoria della conoscenza e
delle sensazioni è interamente influenzata dal Saggia-
tore di Galilei:

Tutta la differenza tra i Filosofi atomisti e quei chia-


mansi Peripatetici circa le qualità sensibili altro non
è che quella, che circa il designar la natura, o essen-
za di tutte le cose naturali si ravvisa in tutto il resto
dell’una, e dell’altra filosofia. Ciò è, che conforme
gli Atomisti non considerano le cose se non per quel-
lo che veramente sono e non ammettono in natura
altre entità (parlano delle cose corporee) che la sola
materia in minutissime particelle divisa, le quali
come si varian di sito, di mole e di figura, stiman es-
ser bastanti a formar tutte le varie nature o proprietà,
o vogliam dire anche essenze delle cose, per le quali
l’une dall’altre differiscono senza aver perciò da ri-
correre aà quelle decantate forme sostanziali, delle
quali ormai par che ne sia stufo il mondo; della me-
desima maniera tutte le virtù, o potenze, o energia,
o con qual vocabolo dir le vogliamo, colle quali veg-
171 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98 cit., 183v-184r.

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giamo da corpi naturali farsi tante, e sì varie ope-
razioni designate con nome di qualità quali i nostri
Peripatetici voglian similmente che siano tante enti-
tà distinte dalla materia e dalle medesime lor forme
sostanziali, vogliono gl’Atomisti che non sian, che
movimento delle medesime parti della materia che,
secondo che variamente si muovono e variansi di sito
e di figura, producan così in se stesse, come ancor
negl’altro corpi, tante varie mutationi e negl’animal
sensitivi tante varietà di sensazioni172.

Le sensazioni, affezioni dell’anima sensitiva, sono


dovute al contatto tra i sensi e la struttura atomica
degli oggetti: tutto avviene dunque per concomitanza
di cause fisiche e fisiologiche. Quanto alla trattazione
del caldo e del freddo, dei colori e della luce, d’An-
drea si serve dei passi del Saggiatore per chiarire i
primi due termini, dei testi dei Descartes per la secon-
da coppia di parole. Ciò che d’Andrea dimostra è che
se le sensazioni del caldo e del freddo non apparte-
nessero ai corpi, medesima conclusione riguardereb-
be i colori e la luce173. A proposito del calore Galilei
affermò che questo termine non esprime nulla di re-
ale, se non il movimento velocissimo dei corpuscoli,
chiamati ignicoli, che colpiscono gli organi di senso.
172 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98 cit., 253r-v.
173 d’andrea, D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica filosofica

della Napoli di fine Seicento cit., p. 45.

112

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A tal proposito d’Andrea cita uno dei passi più celebri
del Saggiatore:

[…] avendo già veduto come molte affezioni, che sono


reputate qualità residenti ne’ soggetti esterni, non anno
veramente altra essistenza che in noi, e fuor di noi non
sono altro che nomi, dico che inclino assai a credere
che il calore sia di questo genere, e che quelle materie
che in noi producono e fanno sentire il caldo, le quali
noi chiamiamo con nome generale fuoco, siano una
moltitudine di corpicelli minimi, in tal e tal modo fi-
gurati, mossi con tanta velocità; i quali, incontrando il
nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità,
e che il lor toccamento, fatto nel loro passaggio per
nostra sentenza e sentito da noi, sia l’affezzione che
noi chiamiamo caldo, grato o molesto secondo la mol-
titudine e la velocità minore o maggiore d’essi minimi
che ci vengono pungendo e penetrando […]174.

D’Andrea ipotizza come fonte di Galilei il Timeo


di Platone, affermando che “questa fu la dottrina di
Galilei circa il calore, la medesima insegnatane da
Timeo discepolo di Pitagora”175. Per quanto riguarda
l’esame della luce, d’Andrea aggiunge un particolare

174 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98 cit., 284r-v.
175 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98 cit., 284v.

113

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interessante, cioè che Galilei non avrebbe osato av-
venturarsi nello studio della natura della luce, per-
ché ciò non avrebbe significato esaminare l’odora-
to, all’olfatto o l’udito, ma confrontarsi con le Sacre
Scritture e la filosofia scolastica. Il giurista napoleta-
no, contrariamente alla reticenza mostrata dall’astro-
nomo pisano, elabora una concenzione materialistica
della luce secondo la quale quest’ultima ha la mede-
sima struttura delle altre cose, non differendo le sue
particelle da quelle del calore:

[…] conorme i corpicciuoli, che escan da’ corpi


odoriferi, venendone anche per centinaia di miglia-
ia a ferirne gli organi dell’odorato ne cagionan la
sesanzione degli odori […], della medesima manie-
ra i raggi luminosi percotendone gli organi della
vista quella sensazion che chiamiamo luce, senza
però aver da ricorrere a qualle finte specie, già den-
tro la medesima scuola rifiutate come intelligibili e
di niun pro […]176.

Il giurista napoletano, conscio di aver intrapreso una


strada dottrinalmente pericolosa, replicò contro colo-
ro che avrebbero potuto contestare la sua proposizione
come come contraria alle Sacre Scritture, ricorrendo a
un doppio argomento: il primo rievoca il tentativo di
176 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98 cit., 286r-v.

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Galilei d’interpretare nel modo corretto le Scritture; il
secondo attiene al significato del termine “luce”:

E primieramente per quel che riguarda la narratione


Mosaica non istimerò far di mestieri indagar coi sa-
cri espositori se quel che Moisè scrisse nell’opera di
sei giorni l’avesse così scritto, perché veramente Iddio
avesse consumato sei giorni nella creatione del Mon-
do, o più tosto, per accomodarsi all’intendimento di
quel popolo rozzo al quale scriveva, quando per altro
dalle medesime Sacre Cante abbiamo che Iddio fecit
omnia simul177.

La onde per isfugir gli equivoci, dovrem prima di-


stinguere il doppio significato nel qual può prendersi
questo vocabulo di luce. Il primo intendendo per luce
quei minutissimi corpicciuoli, che spinti da’ corpi lu-
minosi verso il nostr’occhio, cagionan nella nostr’A-
nima la sensazione, o vogliam dire il fantasma della
luce. Il secondfo, quando per luce intenderemo appun-
to quell’affezzione, o qualità, che dir vogliamo, per la
quale gli si rapresenta le cose di tanti, e sì vaghi colori
dipinte; e in questo senso par difficile il poterla distin-
guere dal senso dell’istessa vista […]178.

177 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98 cit., 288r-v.
178 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98 cit., 189r.

115

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Sulla base di quanto esposto nel primo dei due argo-
menti d’Andrea fa risalire la dottrina corpuscolare della
luce a Mosè:

Or quando Mosè disse che Dio creò la luce, certo sta


che non poté intenderla in questo secondo significa-
to, perché non creati ancor gl’animali, non vi potea
esser vista, ma forzosamente l’intese nel primo, cio
è per quei globuli, o qual altra sostanza si siano, che
facendo impressione negli organi visuali, fussero atti
a produrre negli animali, quando si fusser creati, la
sensation della luce. E in questo senso vien distrut-
tal’opinion di quei che vogliono che questa tal luce sia
qualità o accidente: perché Mosè disse che fu creata
come cosa che sussistesse per sé medesima, né avesse
bisogno d’altro corpo sul quale s’appoggiasse […]179.

L’ultima parte della seconda Risposta è dedicata al


rapporto che sussiste tra l’azione della luce, la super-
ficie degli oggetti e la struttura anatomica degli occhi.
In primo luogo d’Andrea ritiene che come la diversità
degli strumenti musicali crea innumerevoli suoni, così
il movimento dell’aria provoca la varietà dei colori. In
secondo luogo, sulla scia di Boyle, il giurista napole-
tano nega la distinzione tra colori veri e apparenti, per-
ché i colori non sono altro che luce e quest’ultima ha
179 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98 cit., 289r-v.

116

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la sua essenza nell’apparire. Tale fu anche la posizione
di Descartes il quale nel testo delle Meteore scrisse che
“non posso accettare la distinzione dei Filosofi, laddo-
ve sostengono che vi sono colori veri e altri che sono
solo falsi apparenti. Poiché infatti tutta la vera natura
dei colori sta solo nell’apparire, mi par contraddizione
affermare che sono falsi apparenti”180. Ciò nonostante
nelle Risposte Descartes è presentato non solamente
in qualità di fisico, ma anche come personificazione
della libertas philosophandia cui s’ispirò di Capua nel
suo Parere:

Il Signor Lionardo […] non si servì mai né della dot-


trina né dell’autorità del Cartesio, né nominò che due
volte […] se non si fusse egli apertamente dichiara-
to non convenirsi per l’acquisto delle scienze esser
parteggiante di nessuna setta assai più Galileista che
Cartesiano avrebbe l’Apologista avuto occasion di
stimarlo181.

Descartes rappresentò esclusivamente quella via pre-


ferenziale attraverso la quale si costruì il nuovo sapere
che tenne insieme filosofi, letterati, naturalisti e scien-
ziati. Insieme con Descartes d’Andrea pose anche Gali-
lei come personaggio rappresentativo dell’età felice che
180 R. desCarTes, Le Meteore, in Opere scientifiche, a cura di E. lojaCono, UTET, Torino

1983, Vol. II, pp. 475-476.


181 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98 cit., 5v.

117

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la scienza stava vivendo; eppure a vantaggio del filoso-
fo francese d’Andrea riscontrò non solamente l’utilizzo
del sapere matematico, ma anche la presenza nella sua
dottrina di due princìpi metafisici, vale a dire “che Dio
abbia create tutte le cose che la nostra anima non abbia
dipendenza dalla materia”182. Descartes apparve allora
come l’abitante ideale d’una città utopica della ragione
nella quale sia i cattolici sia i riformatori avrebbero po-
tuto operare uniti per liberare l’umanità dai pregiudizi e
assicurarle nuove conquiste scientifiche:

Cattolici e protestanti, in quanto lavorano per il pro-


gresso umano, fanno per il d’Andrea parte di una città
che non è quella religiosa ma invece della ragione e
della scienza, e si danno perciò reciproco aiuto ed han-
no un comune obiettivo183.

In conclusione la nuova concenzione fisica della re-


altà, ossia quella atomistica, abbracciata da tutti i filo-
sofi liberi, corrispose per d’Andrea anche a una nuova
visione della vita civile. Come rilevò giustamente Ba-
daloni, vi è un’implicita critica alla realtà esistente che
per d’Andrea significa una diversa concezione della
vita civile fondata sulla libertà del filosofare di contro
a ogni restrizione inquisitoriale e a ogni imposizione

182 d’andrea, Risposta del Sig. Francesco D’Andrea a favore del Sig.or Lionardo de

Capua contro le lettere Apologetiche al Sig.or Principe di Castiglione fatta nella sua dimora
in Procida io credo nel 1697 a 98 cit., 26r.
183 Badaloni, Introduzione a G.B. Vico cit., p. 163.

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baronale184. La libertas philosophandi rappresenta l’e-
lemento unificatore della molteplice attività di d’An-
drea, nonché il nucleo delle sue posizioni politiche.

Giuseppe Valletta, un intellettuale moderno

Un’istituzione nell’Europa di fine secolo

Agli inizi degli anni ’80 del Seicento, in coincidenza


con l’acuirsi del conflitto tra tradizionalisti e novato-
res, ebbe termine l’itinerario spirituale di Valletta che
lo avrebbe portato sempre più lontano dall’esercizio
della sua professione forense per dedicarsi interamente
alle corrispondenze e alla raccolta di libri. Ci è utile
un’affermazione di d’Andrea che compendia, nella sua
Relazione de’ servizi fatti, l’ideale di vita di Valletta:
“adattato veramente a gli antichi”. La figura del com-
merciante e dell’illustre avvocato scomparve e quella
del dotto, dedito alla ricerca, alle corrispondenze e alle
raccolte, emerse all’interno della “repubblica de’ lette-
rati”. Le lettere a Magliabechi del 1681-1682 danno te-
stimonianza di questa svolta psicologico-spirituale:

Avendo sospirato da molto tempo l’onore di essere


ancor io annoverato fra gl’ultimi de’ suoi sevitori non
mi è stato permesso l’adempimento di tal generoso

184 Badaloni, Introduzione a G.B. Vico cit., pp. 101-102.

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disiderio non meno per la tenuità del mio piccolo ta-
lento quanto per la sinistra sorte che per molto mezzi
usati ne sono stato stimato incapace […]185.

Molto lentamente e tra numerosi equivoci a Napoli,


più velocemente nel resto dell’Europa, Valletta mostrò
la nuova immagine di se stesso che espose all’Europa
dei dotti, ossia quella di un’istituzione, come i primi
biografi tramandarono di lui. Nel suo Elogio186, pubbli-
cato sul Giornale de’ letterati due anni dopo la morte
di Valletta (1713), Apostolo Zeno colse nel vivo il si-
gnificato dell’esperienza vallettiana in Italia e a Napoli:
dopo essersi dedicato alla professione forense, sentì il
richiamo delle Muse; grazie a loro cominciò il suo rap-
porto con i libri, il suo desiderio d’apprendere la lingua
greca e quella inglese e il gusto per la lettura che indus-
se Valletta a edificare una delle più famose biblioteche
nel mondo degli eruditi. Intorno a questa biblioteca, si
formò il primo gruppo di “pratici della scienza” della
città di Napoli, tra cui spiccarono i nomi di Tommaso
Cornelio e Leonardo di Capua. Il giudizio di Zeno si
soffermò di nuovo tuttavia sull’attività di Valletta, quale
divulgatore di conoscenze: Zeno menzionò le citazioni
ricevute, misurò l’ampietta delle relazioni intrattenute
ed elencò i manoscritti e i libri rari che la biblioteca

185 A. QUondaM, M. rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi, Vol. II,

Guida, Napoli 1978, p. 1052.


186 A. Zeno, Elogio del Signor Giuseppe Valletta Napoletano, «Giornale de’ Letterati

d’Italia», 24 (1715), pp.49-105.

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contenne. Il maggior biografo di Valletta, Berti, descris-
se più dettagliamente la situazione storica in cui Vallet-
ta visse: il biografo riferì che l’investigante si dedicò
alla professione forense “forse per essere quella gran
Vicaria scala a’ primi Ministeri, ed a’ primi maneggi
del Regno”187. Nominato dal viceré los Velez giudice
di Vicaria, avrebbe rifiutato tale incarico, accettando
invece il ruolo di consigliere e avvocato dei poveri.
Berti presentò il percorso di Valletta come se fosse già
indirizzato verso l’erudizione e la rinuncia agli onori:
in altri termini, arricchire la sua personalità dei meriti
del filosofo che rinuncia consapevolmente alla vanità
del successo mondano. Quanto alla sua sterminata bi-
blioteca, Louvois e Stoisch riferirono che contenne ol-
tre 16.000 volumi, composta di opere scelte sotto vari
profili, dal contenuto all’antichità, passando per la bel-
lezza tipografica. Berti non mancò inoltre di riportare
i suoi giudizi sulla casa di Valletta, intesa come “em-
porio de’ letterati”, “pubblico tempio sacrato a Palla-
de” e quelli presenti nelle lettere destinate a Valletta,
considerato restauratore delle lettere e del buon gusto a
Napoli; senza dimenticare tutti coloro che lodarono la
sua biblioteca e che chiesero in prestito i suoi libri188.
187 A.P. BerTi, Vita di Giuseppe Valletta detto fra gli arcadi Bibliofilo Atteo, scritta dal

Pare Allesandro Pompeo Berti della Congregazione della Madre di Dio, detto tra gli Arcadi
Nicasio Porriniano. All’Illustrissimo Signore Alessandro Buonvisi Patrizio Lucchese,«Le vite
degli Arcadi illustri scritte da diversi autori, e pubblicate d’ordine della generale adunanza
da Giovanni Mario Crescimbeni Canonico di S. Maria in Cosmedin, e Custode d’Arcadia»,
Stamperia di Antonio de’ Rossi alla piazza di Ceri, Roma 1708, 4 (1727), p. 41.
188 BerTi, Vita di Giuseppe Valletta Napoletano detto fra gli Arcadi Bibliofilo Atteo cit.,

pp. 43-62.

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I contemporanei di Valletta furono dunque consci di es-
sere di fronte a una svolta culturale: nel 1688 il nuovo
viceré conte di Santo Stefano si recò in incognito a ren-
dere omaggio alla biblioteca dell’erudito Valletta. La
notizia, come riportò la Gazzetta del Parrino, fu appresa
dalla popolazione e per i due fu come un riconoscimen-
to ufficiale189. Della biblioteca di Valletta, in grado di
esercitare un’alta funzione civile sia di formazione sia
d’informazione, è possibile ricostruire la maggior parte
dei fondi, la struttura e il senso della classificazione:
esiste un inventario del 1726, redatto al momento della
vendita della biblioteca di Valletta alla congregazione
dell’Oratorio di Napoli, che fornì l’intera architettura
intellettuale190. I libri furono divisi per lingua, forma-
to e, infine, per materie: precedettero i libri in lingua
latina, divisi in folio, suddivisi a loro volta in ecclesia-
stici, filosofici, matematici, medici, storici, geografici,
bibliotecari, autori greci e latini, libri filologici e anti-
quari e, infine, poeti latini contemporanei. La seconda
sezione (per formato) comprese testi giuridici e poli-
tici in latino, libri in lingua italiana (testi poetici e di
drammaturgia). In conclusione seguirono le altre sezio-
ni linguistiche (volumi in francese, inglese, olandese e
spagnolo). Come si evince, la classificazione si ottiene
combinando il criterio linguistico e quello per materie:
esso indica chiaramente la difficoltà di comunicazione
189 Gazzetta napoletana pubblicata dal Parrino, 12 maggio 1688, n. 47.
190 V.I. CoMParaTo, Giuseppe Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del ‘600,
Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1968, pp. 98-99.

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in cui si trovò la cultura del mezzogiorno, stretta tra
l’impossibilità di apprendere lingue moderne e lo sfor-
zo di Valletta di superare le barriere linguistiche, stu-
diando da sé gli idiomi dei moderni; al di là di quella
di Valletta, nessuna biblioteca napoletana fu in grado di
offrire una simile raccolta di libri nelle lingue moderne.
In merito alla classificazione per materie, quest’ultima
rispecchiò la formazione del giurista napoletano, da un
lato rispondente alla tradizione culturale del vicereame
e dall’altro alla struttura culturale della stessa Europa. In
primo luogo si distinsero i libri ecclesiastici – teologici
e morali – redatti da autori cattoli e riformati; seguirono
i testi dei Padri della Chiesa, di critica biblica e quelli
legati alla storia ecclesiastica e alle recenti polemiche
religiose. In secondo luogo trovarono posto i testi filo-
sofici, matematici e medici, in particolar modo tutte le
novità della ricerca scientifica, naturalistica e medica
di provenienza italiana, inglese e olandese191. In terzo
luogo furono collezionati i libri di storia, specialmen-
te quelli dedicati alla storia del Regno e del vicereame
napoletano e i resoconti di viaggi europei ed extraeuro-
pei. Infine i testi degli autori greci e latini, particolar-
mente noti per le loro edizioni filologicamente corrette,
e quelli degli autori rinascimentali e d’inizio Seicen-
to192. Le restanti sezioni della biblioteca furono sezioni

191 deCarTes, Gassendi, la MoThe le vayer, laMy, dU haMel, hUeT, réGis, le polemi-

che anticartesiane etc. Tra gli autori inglese spiccarono Boyle, Hobbes, Locjke, i platonici di
Cambridge e i Principia di Newton.
192 CoMParaTo, Giuseppe Valletta cit., pp. 98-99.

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miscellanee: materie ecclesiastiche, la nuova scienza, la
storia, la filologia, la letteratura, la poesia, il diritto e la
politica secondo uno schema essenzialmente enciclope-
dico che dette vita a un’originale sintesi tra la tradizione
del vicereame e quella dell’Europa settentrionale. Val-
letta seguì anche gli orientamenti della tradizione napo-
letana investigante e, deciso a imitare i suoi amici acca-
demici, intraprese una fitta corispondenza con la Royal
Society di Londra, ricevendo anche l’invito a divenirne
membro. La biblioteca di Valletta incisè profondon-
damente in tutti i settori della vita sociale e culturale
napoletani, rivoluzionando in tal modo il mondo della
conoscenza. Il rischio di tale monumento fu di legarsi
tuttavia indissolubilmente all’erudizione di un singolo,
come affermarono i suoi detrattori193, vale a dire Vallet-
ta stesso, se quest’ultimo non avesse inserito il suo qua-
dro di conoscenze in una fitta rete di scambi epistolari.
Il Seicento rappresentò il secolo delle corrispondenze
erudite: non si trattò più dell’epistola di stampo uma-
nistico, perché la corrispondenza seicentesca divenne
un genere letterario, cioè lo strumento migliore per de-
stinare e ricevere informazioni rapidamente e circolar-
mente per erssere avvisatidelle novità librarie letterarie
e scientifiche, oltre che per brevi cenni critici. La “re-
pubblica de’ letterati” divenne un fenomeno di livello
internazionale per merito di Magliabechi, bibliotecario

193 Il medico di Capasso si mosse in questa direzione: “Chi non liegge i libri, che le ghietta

/ perzò ghietta li tuoi, Peppe valletta.”

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del Granduca di Toscana, che ricevette corrispondenze
da tutti, diramandale dappertutto; trasmise lettere, libri,
manoscritti e informazioni; infine, attraverso i suoi cor-
rispondenti più intimi, come Valletta, costituì piccole
centrali informative nei vari Stati in cui era divisa la
Penisola italiana. Quanto a Valletta, negli anni ’80 del
Seicento, le sue corrispondenze con Magliabechi s’in-
fittirono, il che significò per il giurista napoletano una
forma di riconoscimento all’interno dell’ambiente dei
dotti: Magliabechi ricevette da Valletta sempre qualche
copia in più dei nuovi libri, a partire dal Parere di di Ca-
pua del 1681, con la richiesta di distribuirli. Fu dunque
un Valletta maturo quello che si presentò a Magliabe-
chi, desiderosono di notizie, libri ed edizioni corrette194.
Confrontando le realtà culturali degli altri Stati italiani
con quella napoletana, Valletta non poté fare altro che
terminare le sue lettere chiedendo continuamente “Per
grazia qualche notizia letteraria!195; le sue necessità an-
darono dai libri di filosofia naturale di Della Porta a
quelli di diritto di Alberico Gentili:

Rendo affettuose grazie a Vostra Signoria illustrissima


del poemetto del Nerini pregandola ad avvertirmi se vi
è altro dopo la composizione fatta al re Matthia, per-
ché pare che vi siano altre operette appresso, mentre

194 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., pp. 1053-
1054.
195 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., pp. 1056-
1057.

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non accenna il fione. Per grazia qualche notizia lette-
raria, perché qui non vi ne giunge pur una, né pur ad
alcun, essendo tutti applicati all’interesse, ed in nostro
signor Francesco Nicodemi pur c’è scappato, essendo
in tutto e per tutto miseramente consacratosi al foro.
Io per alcuni miei fini tengo gran necessità del libro
della Villa di Giovan Battista Della Porta e dell’altro
d’Alberico Gentile De rege, se si ritrovassero costì o
pure per toglierli da qualcheduno che l’avesse, li darei
un regolato prezzo; e ratificandol’ il carattere resto col
medesimo di Vostra Signoria illustrissima umilissimo
ed obligatissimo servitore196.

Nella lettura Valletta cercò di dimenticare una città


nella quale si non manifestò alcun interesse per la cul-
tura; infatti la corrispondenza con Magliabechi registrò
di rado notizie di pubblicazioni provenienti da Napoli,
fatta eccezione per il suddetto testo di di Capua, il testo
sulle Mofete del medesimo autore (1683) e, infine, mi-
scellanee di storia napoletana:

Sarà consignata a Vostra Signoria illustrissima la Sto-


ria napoletana di più autori ultimamente raccolti in
conformità del suo comando, et che ho già consignato
per la strada di Roma, dispiacendomi non esservi al-
tri altri di cuoriso per la miseria de’ letterati, lettere
e stampe vi è nel cielo napoletano, non essendo per

196 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., p. 1064.

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molto tempo uscita cosa migliore che Vostra Signo-
ria illustrissima diede nella Biblioteca napoletana; la
quale credo che abbia avuta dal signor Rayllard. Fra
breve riceverà ancora un altro libretto che già sta sul
torchio del signor Leonardo di Capoa, come scanzia
del signor Cinelli, et pregandola di avvisi letterati re-
sto perpetuaìmente di Vostra Signoria illustrissima
umilissimo, devotissimo, servitore197.

Furono tempi non particolarmente propizi per gli


eruditi: gli uomini “di successo” non nutrirono stima
per coloro che si dedicarono esclusivamente all’erudi-
zione, distanziando questi ultimi per il potere politico
ottenuto e per la ricchezza economica dovuta alle cari-
che; a loro volta, gli eruditi considerarono impossibile
che uomini dediti al foro, agli uffici – in altre parole,
ai beni mondani –, potessero ricevere cittadinanza nel-
la “repubblica de’ letterati”. La medesima situazione
politica non fu favorevole ai letterati: nel gennaio del
1683 il marchese los Velez fu sostituito nella carica
di viceré dal marchese del Carpio il quale impose una
stretta fiscale e militare al vicereame che avvantaggiò
gli uomini d’azione: l’intero mezzogiorno fu ridotto in
miseria a causa della guerra di Messina, della svaluta-
zione monetaria e del banditismo supportato dai baroni.
A tutto ciò si aggiunse la morte di Tommaso Cornelio,
avvenuta nel 1684, fondatore e membro dell’Accademia
197 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., p. 1064.

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degli Investiganti, che recò grave danno alla cultura
napoletana la quale non riuscì a trovare in di Capua,
restio a qualsiasi impegno che lo vedesse vincolato alla
vita pubblica, uguale capacità di promozione della fi-
losofia dei moderni. Tuttavia la situazione mutò l’anno
successivo, quando i benedettini Jean Mabillon e Mi-
chel Germain giunsero a Napoli, su raccomandazione
di Magliabechi, per far visita a Valletta, l’unico in gra-
do di riceverli e guidarli attraverso l’avventurosa map-
pa dell’intellettualità partenopea. Particolarmente im-
portante fu il rapporto con Mabillon di cui si conosce-
vano il De re diplomatica e gli Analecta, nonché le sue
simpatie per un cattolicesimo delle origini: Mabillon,
oltre a divenire un punto fermo nella corrispondenza di
Valletta, ebbe conoscenza diretta del metodo di lavoro
degli eruditi, il che gli permise di vagliare l’autentici-
tà e l’importanza dei manoscritti presenti nei conventi
meridionali. Al termine della sua visita, nell’opera Mu-
seum italicum, Mabillon parlò affettuosamente di Val-
letta e della sua difficile impresa di formare una buona
biblioteca in un paese controllato dall’Inquisizione198.
Furono proprio i contatti con le personalità della filo-
sofia moderna che indussero Magliabechi e Valletta a
scambi di lettere cifrati:

Mi ha recato tanto cordoglio la lettera di Vostra Signo-


ria illustrissima che scrivo a forza questi due versi per

198 CoMParaTo, Giuseppe Valletta cit., pp. 109-112.

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un dolore di testa che m’ha cagionato. Io non sapei
lamentarmi di chi né che non sapendo bene come sia
andata la faccenda perché, se sia uscito ciò dal mio
amico, avrei occasione non poco lamentarmi, perché
ogni cosa puossi errare, mentre io per stare cinque
mesi ammalato sono stato necessitato stare alla fede
di altri, però farò ogni diligenza per iscoprire questo
fatto, dovendo essere in mani del signor Rayllard l’o-
riginale, nel quale mi ricordo benissimo che vi erano
lettere signate e non nomi e cognomi, onde prego in
tutti i modi Vostra Signoria illustrissima a consolar-
mi con mandarmi gli avvertimenti necessarii perché
in tutti i modi voglio ristamparlo, per ammenda della
cieca mia fede e per castigo di chi mi fa stare così tur-
bato che Vostra Signoria illustrissima non può credere,
perché io fracancamente giuro su l’anima mia non es-
servi stata colpa mia veruna199.

Il 19 marzo 1686 Valletta diede notizia a Magliabe-


chi della sua inziativa di far ricopiare e raccogliere in
un volume tutte le lettere inviategli dal bibliotecario del
Granduca di Toscana:

Essendo molte le lettere de’ miei amici che per godere


e rivederle, e particolarmente quelle piene di rudizione
o toccanti notizie letterarie, colle comodità d’un co-
pista, che servì anche in mio padre Mabillon e darli

199 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Anrtonio Magliabechi cit., p. 1072.

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ancora luogo di guadagno, ho fatto copiare dal me-
desimo in un volume le suddette lettere, fra le quali è
vero che vi ne sono di Vostra Signora illustrissima, ma
sono quelle leggibili e toccanti a notizie solamente e
non quelle che potrebbero recar gelosia. Essendo che
queste sono tutte lacerarte nell’atto che le ricevei, e di
ciò non ne può dubitare Vostra Signoria illustrissima
perché io non sono sono così balordo che voglia re-
gistrare qurllo che potrebbe pregiudicare il costume
e l’estimazione di Vostra Signoria illustrissima, ma
quelle che spettano ad erudizioni e notizie letterarie
Vostra Signoria illustrissima non mi può provare del
gusto che n’ho nel conservarmele, copiarle e rilegger-
le, e credami Vostra Signoria illustrissima che n’ho
così belle e particolarmente in latino, scrittemi, che
meriterebbero la lettura di Vostra Signoria illustris-
sima ancora e, giacché molti amici letteratissimi mi
onorano a scrivermi, bisogna fare quel conto che ne
devo, e più di Vostra Signoria illustrissima200.

Nello stesso anno l’autorità filologica di Valletta


crebbe grazie allo studio della lingua greca, cui si dedi-
cò sin dal 1680; avendo colto l’importanza di tale idio-
ma, egli istituì l’anno dopo, con l’aiuto di d’Andrea,
una cattedra di greco presso l’Università di Napoli che
fu affidata al prete brindisino Gregorio Messere201.

200 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., 1076.
201 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno af Antonio Magliabechi cit., pp. 86-90.

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Quanto all’ottima preparazione raggiunta da Valletta,
ne diede testimonianza una lettera di Barbieri del 28
maggio 1686:

Per avvalermi delle grazie di Vostra Signoria illu-


strissima, vacando nella catedrale di Napoli un ca-
nonicato del quondam canonico Borrello, da pro-
vederci per Roma, ne supplico le grazie di Vostra
Signoria illustrissima a diritura in Roma in mia per-
sona indegna, ma col merito di lei s’avvanzeranno
li miei difetti. Il pesce prodigioso di Polonia, il cui
ritratto anco stampossi in Firenze, mi fa supplica-
re lei del vero. Questi, s’è vero, nelle lettere, cioè
A.D.I.H.F.R.P., nel tempo del sommo papa Innocen-
zo XI, par che balordaggini, che di me può darne
ragguaglio il mio signor Lorenzo Crasso, mio pasto-
re, e ‘l signore Giuseppe Valletta202.

Nonché, negli stessi anni, le epistole inviate da Buli-


fon a Magliabechi:

Dopo aver riverito Vostra Signoria illustrissima come


devo, li dirò come ho solecitato il signor Giuseppe Val-
letta aciò avessi fatto terminare la Biblioteca volante.
Mi dice che d’uno giorno ad l’altro sarà finita203.

202 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., p. 73.
203 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., p. 120.

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Questa settimana si deve terminare la Biblioteca vo-
lante per le sollecitazioni che vi ho fatto; ne ho cercato al
signor Valletta, il quale m’ha detto che ne farà capitare a
Vostra Signoria illustrissima una vintina con altri libri204.

Oggi ho ricevuto dal signor don Giuseppe Valletta


venti esemplari della terza scansia della Biblioteca vo-
lante, con due opere di Fracastore, le quali unite con
alcuni libri miei, de’ quali fo dono a Vostra Signoria il-
lustrissima, li mandarò per prima ocasione di feluca a
Livorne, diretti al signor Amiel Mateo Barrigues, mio
corrispondente, aciò li consegni a chi Vostra Signoria
illustrissima ordinarà. Vi saranno alcune copie delle
Lettere, quale già terminai205.

Ho visto da un copista che il signor Valletta ha fatto


copiare in forma de libro le erudite lettere che Vostra
Signoria illustrissima li ha scritte in diversi tempi,
però Vostra Signoria illustrissima non ne faci moto,
perché non so se vole che si sapia206.

L’infittirsi dei contrasti tra giurisdizione ecclesiastica e


vicereale costituì l’occasione per la Deputazione laica cit-
tadina, contraria al procedimento segreto dell’Inquisizio-
ne, che si sarebbe trasformato in un mezzo di pressione
politica contro il programma vicereale di riappropriazione
204 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., p. 121.
205 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., pp. 121-122.
206 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., p. 122.

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delle proprie regalie, di affidare a numerosi giuristi, tra
cui Valletta, il compito di ricostruire la storia della tradi-
zionale opposizione napoletana all’istituto del Sant’Uffi-
zio. La scrittura del vasto trattato, preparato per tale occa-
sione e intitolato Intorno al procedimento ordinario nelle
cause che si trattano nel Santo Officio nella città e regno
di Napoli, iniziò nel 1691 come informò lo stesso Valletta
in una lettera a Magliabechi del 4 dicembre 1691:

[…] essendomi stata data l’incumbenza da’ superiori


ch’io scrivessi intorno le differenze correnti dell’In-
quisizione, par che molto mi gioverebberoo questi libri
trattanti dell’una e dell’altra giurisdizione, intorno alla
quale Inquisizione prego ancora Vostra Signoria illu-
strissima favorirmi con la sua vasta erudizione di qual-
che notizia, come de’ libri intorno alla medesima mate-
ria, sapendo certamente che, se vuole, potrà favorirmi
e molto giovarmi, com’espressamente ne la prego207.

Il testo fu concluso nel 1694 e in seguito sottoposto


a numerosi rimaneggiamenti, nonché a una traduzio-
ne latina che sarebbe apparsa circa dieci anni dopo per
un’edizione lipsiense; la polemica volse ormai a termi-
ne, sebbene restasse latente la conflittualità tra il grup-
po dei tradizionalisti e quello dei novatores. Da questo
trattato, e precisamente dall’inciso208 antinquisitoriale,
207 QUondaM, rak (a cura di), Lettere dal Regno ad Antonio Magliabechi cit., p. 1092.
208 Molte sono le difficoltà che s’incontrano nel ricostruire il processo testuale che dall’in-
ciso alla Lettera per arrivare infine all’Istoria filosofica; le testimonianze più vicine al pen-

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in cui Valletta rintracciò le vere ragioni del “processo
agli ateisti”, ossia la progressiva perdita di controllo
dell’istruzione da parte dei gruppi ecclesiastici sostituiti
dalla filosofia moderna cartesiana e gassendiana, il giu-
rista napoletano avrebbe sviluppato e successivamente
staccato il discorso filosofico di cui scriveremo nel pa-
ragrafo dedicato allo studio di tale opera. Dopo il 1698
Valletta partecipò attivamente ai lavori dell’accademia
promossa dal duca di Medinacoeli, componendo liriche
e lezioni – Dell’imperio de’ persiani, Sopra la vita di
Galba imperatore, Della vita dell’imperator Pertinace
e Del duello – di argomento storico, ma dall’evidente
uso politico in un momento di massima partecipazione
dell’intelligenza napoletana all’affermazione del potere
del nuovo viceré. Gli ultimi anni della vita di Valletta
furono contraddistinti da un parziale, ma progressivo
smembramento della sua biblioteca, a causa della de-
cadenza della sua funzione di centro culturale in un ge-
nerale riorientamento delle linee di studio che tesero a
mettere definitivamente da parte gli sviluppi della ricer-
ca libertina napoletana.

siero di valleTTa, poco interessate a una visione dinamica del suo progetto, forniscono scarsi
aiuti nerll’affrontare la questione della datazione delle opere e delle loro diverse elaborazioni.
Lo studio di tali modificazioni pone innanzitutto il problema di ritrovare sia i manoscritti sia
le stampe, nonché di poter ricostruire in successione le contaminazioni e le aggiunte in modo
da giungere a una corretta lezione delle opere del valleTTa. Il problema storico-filologico fu
già avvertito da Croce che, pur fornendo un breve saggio su valleTTa, in cui fornì indicazioni
utili per l’inquadramento dell’Istoria filosofica, non riuscì a ricostruire le vicende interne delle
scrittute vallettiane, negandone anche una propria dignità storiografica. Il giudizio di Croce fu
successivamente corretto all’ampliarsi degli studi sulla cultura del periodo.

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La polemica sull’Inquisizione e la libertas
philosophandi

La Curia romana e gli ambienti ecclesiastici napo-


letani stimarono il fervore delle iniziative, nelle corri-
spondenze e nell’arrivo di libri proibiti un fenomeno
preoccupante. Il timore destato non fu dovuto esclusi-
vamente al diffondersi della filosofia dei moderni e al
suo eventuale intreccio con l’eresia protestante, ma an-
che all’affermazione di un nuovo costume, ateo e liber-
tino, che non cercava affatto di nascondersi attraverso
il conformismo. Colui che per primo destò apprensione
all’interno degli ambienti ecclesiastici fu Marco Aure-
lio Severino, il medico e maestro di Tommaso Cornelio,
il quale fu sottoposto a procedimento da parte dell’In-
quisizione a causa di una serie d’atteggimenti anticon-
venzionali (non scoprirsi al passaggio del Viatico, non
suggerire la confessione ai malati gravi etc.209). Le pri-
me avvisaglie d’un irrigidimento delle autorità ecclesia-
stiche ebbero luogo a partire dal 1681, quando fu pro-
cessato il marchese Serra – il che indusse le Piazze alla
richiesta di abolizione del Sant’Uffizio napoletano – e
dal 1685, anno in cui d’Andrea scrisse a Magliabechi
la lettera in cui chiese libri per comporre la sua Apolo-
gia in cui avrebbe difeso la dottrina atomistica. Queste
schermaglie iniziali furono accompagnate dalla diffu-
sione della teologia quietista, considerata sintomo verso
209 CoMParaTo, Giuseppe Valletta cit., p. 139.

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l’eterodossia nell’attività degli eruditi: non era ancora
giunto a Napoli il giansenismo, dottrina diffusa dal già
citato de Benedictis il quale tradusse sia in italiano sia in
latino gli Entretiens de Cleandre et d’Eudoxe (1695) del
gesuita Gabriel Daniel210. Le reazioni rabbiose del basso
clero, delle categorie minori avvocatesche e della plebe
napoletana – quest’ultima incitata dalle accuse di nega-
zione del miracolo di S. Gennaro – furono dirette con-
tro i letterati, accusati di libertinismo, il quale li avrebbe
condotti su due strade parallele, ma entrambe contrarie
alla fede: l’ateismo o l’eresia. Fu un personaggio mi-
nore, Francesco Paolo Manuzzi, cittadino di Conversa-
no, a dare avvio al “processo agli ateisti”, denunciando
nel 1688 al Tribunale dell’Inquisizione i dottori Basilio
Giannelli e Giacinto De Cristofaro con le seguenti moti-
vazioni: i due giovani dottori affermarono che Gesù non
fosse il figlio di Dio, ma un semplice uomo desideroso
di proclamarsi re; che prima di Adamo saebbero esistiti
uomini composti di atomi; essendo Cristo un impostore,
ne conseguì che il pontefice non avesse né il potere tem-
porale né quello spirituale. Il vero scopo della Curia fu
però duplice: da un lato colpire gli artefici principali del-
la moderna filosofia, perché i due accusati erano mem-
bri dell’Accademia investigante e in strettissimi rapporti
con Magliabechi, Bulifon, Valletta, d’Andrea e altri eru-
diti; dall’altro attaccare la Piazza del Popolo, messa in
allarme dal padre di Giacinto De Cristofaro. La Piazza
210 CoMParaTo, Giuseppe Valletta cit., p. 142.

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del Popolo costituì una Deputazione contro il Sant’Uf-
fizio e inviò in Spagna l’avvocato Francesco Sernicola
per ottenere il privilegio d’esentare Napoli dal Tribunale
dell’Inquisizione. Inoltre la Piazza incaricò gli avvocati
Fusco, Biscardi e Valletta di stendere delle memorie sul-
la materia del Sant’Uffizio. Valletta terminò la sua me-
moria solamente nel 1693, il che lo indusse a modificare
il suo trattato in una lettera a papa Innocendo XII. Ciò
che maggiormanente interessò il giurista napoletano fu
una diversa concenzione della religione, la cui trattazio-
ne andò di pari passo con quella della libertas philoso-
phandi e con un’immagine diversa della Chisa non più
asserragliata nella sua ortodossia. Quest’ultima si allon-
tanò sempre più dallo spirito evangelico, accettando i
compromessi con il potere politico, sia durante l’Impero
romano sia durante il Regno di Federico II, trasforman-
dosi infine in un’istituzione retta solamente dallo spi-
rito inquisitorio. Le pagine iniziali della lettera inviata
al pontefice richiamano alla fede: vi è un solo Dio, una
sola religione e una sola Chiesa. La Chiesa, cui Valletta
alluse, è quella di Cristo, degli Apostoli, dei martiri, del-
la legge d’amore e non di quella dell’odio e della guerra.
Infatti, se gli Ebrei inflissero la pena di morte agli ido-
latri attraverso le loro severissime leggi, queste ultime
cedettero il passo a quelle della pietà: da una religione
fondata sul timore di un Dio terribile si giunse a una fon-
data sulla salvezza. Tuttavia, a causa dell’adesione degli
imperatori romani al Cristianesimo, i governanti persero

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di mira la purezza della dottrina cristiana, tramutando la
salvaguardia spirituale in punizione corporale. Fonda-
mentale fu per Valletta la separazione della ragione di
Stato dai compiti della Chiesa, favorendo così la rinasci-
ta della tradizione autentica di quest’ultima da ricondur-
re ai secoli dell’Alto Medioevo, durante i quali i vescovi
giudicarono e condarrono alla scomunica, contrastando
le pene corporali del potere “laico”. La frattura con la
Chiesa delle origini si sarebbe avuta nel Basso Medio-
evo, quando furono bandite le crociate contro gli Albi-
gesi, i Catari e i Patarini, eresie punite disumanamente.
Dal ragionamento di Valletta possiamo evincere che fu
il Sant’Uffizio a costituire un grave pericolo per la pace
interna degli Stati, poiché il nuovo tipo d’inquisizione,
creatosi a seguito della commistione tra interessi stata-
li e religiosi, contrastò con lo spirito fondamentale del
Cristianesimo. La sua attività non fu solamente disuma-
na, ma soprattutto illegale, perché mentre si operò indi-
scriminatamente contro gli eretici, si elaborarono anche
procedure straordinarie, consistenti nel giudizio som-
mario, senza possibilità di difesa alcuna. Valletta si sentì
profondamente lontano dal mondo dei proceduristi, dal-
la loro fredda e minuta elencazione dei reati commessi,
nonché dalle loro condanne delle umane tragedie nasco-
ste dietro la facciata dell’eresia. La consuetudine del se-
greto fu dovuta unicamente alla durezza degli esecutori,
nascondendo così sotto il mando della fede atti contro
la pietà e la carità cristiane. Quanto alle accuse d’eresia,

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si ridussero in giudizi sul riferito, sul sentito dire, con-
trastando contro ogni normale legge del processo. Ab-
bandonando subito dopo il terreno della storia, Valletta
passò al confronto tra l’ordinamento civile ed ecclesia-
stico, mostrando come il primo rispondesse ai princìpi
generali del diritto naturale cristiano di Sant’Anselmo,
San Tommaso, di Molina e Suarez – obbligatorio per i
giudici civili e tanto più per quelli ecclesiastici, perché il
fine consiste nell’attuazione diretta della legge di Dio –,
mentre il secondo volesse arbitrariamente risalire alle
intenzioni dell’accusato, entrando con le minacce e la
tortura nel segreto della sua coscienza, tralasciando di
accertare i fatti211:

Né sembrerà disdicevole rappresentare alla Santissi-


ma mente di Vostra Beatitudine, che l’ordine giudi-
ziario è assolutamente una regola, e una solennità da
osservarsi per la legge civile, stimandosio in ciò civili
le leggi de’ Pontefici stessi, le quali possono variarsi,
e mutare: la notizia però de’ testimoni, che si fa per
la pubblicazione de’ loro nomi, e de’ loro difetti, egli
è assolutamente immutabile, e per così dire indispen-
sabile. Perocché negandosi, si toglierebbe affatto la
difesa al preteso reo, alla quale secondo la ragione
delle genti, del mondo tutto, de i Canoni, dell’Evan-
gelio, della natura, e d’Iddio steso da niuno Pontefi-
ce (sia lecito dirlo con quella riverenza, che si dee)

211 CoMParaTo, Giuseppe Valletta cit., pp. 167-175.

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derogare si puote. […] Come Dunque il Pegna chiama
consuetudine ciò ch’è disunanza, et abuso introdotto
contro un Concilio, contro i Canonim contro Innocen-
zo e Bonifacio stesso, e contro l’autorità dell’antica
e nuova legge, e contro la ragion naturale. Nec enim
advrrsus ius naturale valet lex, nec consuetudo con-
tra legem nec contra ius commune, disse Francesco
Connano; poiché negandosi i nomi de’ testimoni, a
negare si viene la difesa contra ogni diritto delle gen-
ti, e della natura e d’Iddio stesso. La consuetudine
allora può essere accettabile, et plausibile quando è
accompagnata dalla ragione al parer di tutti. […] Nul-
la, dice Ugone Grozio, supra divinam, aut naturalem,
aut rationalem legem valet consuetudo. Et il diritto
di natura egli è immutabile. […] Ma quando ancora
vi fosse stato un espresso compiacimento, e consenso
universale di tutta la Citta, di tutte le Piazza nobili, e
populare, e di tutto il Regno, precedente un Parlamen-
tare pubblico, e generale, et il confermamento ancora
del medesimo Re, e plauso di tutti i Regii Ministri in
ricevendo, et approvando questi modi straordinarii in
tai giudizi, non perciò potrà mai la Chiesa restarne
offesa, e pregiudicata, perché egli è contro il diritto
di natura, il qual per niuno atto, per niuno consen-
timento, per niun’approvazione, per niun Principe, e
per niuna legge rinunciare e rievocare si puote. […]
La legge di natura egli è comune, e ciascuno seco
stesso la tiene per propria ragione, e proprio istinto,

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come l’essere vegetabile, e l’essere ragionevole, e
niuno migliormente di Ugone Grozio diffinir seppe
la legge di natura in questo modo dicendo: Lex aeter-
na primaque est qua Deus cuncta excogitavit, creavit,
et gubernat, et mutat, deducitque ad fines suos etiam
variabilia invaribiliter. Ab hac derivatur lex naturalis
inserta in animis hominum, et in tota natura rerum,
quae est Dei, ejusdemque directrix, nec violari potesti
nisi a Deo ut Domino, non ut legislatore. Neque enim
Papa, aut Rex super legem divinam etiam positivam
dispensare possunt, sed tantum super papales, et ra-
gios quisque suos212.

Idealmente Valletta unì Grozio a Sant’Agostino e San


Tommaso, ai giuristi romani e a Cicerone, Pierre Ayrault
e a L’Hôpital, in una catena di riferimenti storici a una
legge immutabile ed eterna che è sopra ogni consuetu-
dine e a cui il diritto positivo deve continuamente rife-
rirsi. Se l’autorità civile o religiosa emanasse una leg-
ge o stabilisse una consuetudine contraria all’umanità,
chiunque avrebbe l’obbligo di disubbidire, rifacendosi
a una norma superiore, impressa da Dio nell’anima di
ogni uomo. Il diritto di natura si basa su una consape-
volezza interiore ed è contemporaneamente razionale,
perché immutabile nei suoi princìpi, e storico, perché

212 G. valleTTa, Al nostro Santissimo Padre Innocenzo XII intorno al procedimento

Ordinario e Canonico nelle cause che si trattano nel Tribunale del Santo Ufficio nella città
e regno di Napoli. Ubi periculum maius intenditur, ibi procul dubio est plenius consulendum,
B.N.N., ms. XI C. 10, ff. 58v-117r.

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si stabilisce nelle varie situazioni storiche: pertanto Val-
letta poté interpretare la storia dell’Inquisizione come
vicenda di sangue, di tumulti e di consenso contrario al
diritto naturale. Rimase un’aporia da risolvere al giuri-
sta: Giordano Bruno, Cesare Vanini, Francesco Alois e
Bernardino Gargano furono veramente atei o eretici, op-
pure accadde loro ciò che capitò a Lorenzo Valla,vale a
dire essere accusati per gelosia? Valletta rispose a tale
questito, affermando che i veri atei furono pochissimi
e che si poterono contare sulla punta delle dita: qual-
che filosofo antico (Ippone, Pitagora, Crizia, Prodico,
Teodoro, Evemero, Callimaco, Euripie e Anassagora) e
moderno (Simon de Tournai, William Hacket, Girolamo
Cardano e Spinoza)213. Riflettendo sull’Inquisizione e
sugli arresti da essa condotta ai danni dei seguaci della
moderna filosofia, Valletta intuì che al fondo vi furono
sia il progressivo declino delle Scuole sia un equivoco
sulla natura e sugli scopi della cultura investigante, il che
indusse il giurista a scrivere un’altra lettera al pontefice
con lo scopo di difendere l’onore dei suoi concittadini:

Perocché, avendo già, per soddisfare al genio de’ De-


putati, incominciato a scrivere una lettera indirizzata
alla Santità Vostra intorno al procedimento del Santo
Uffizio nella nostra città di Napoli, certo è che io non
ebbi altra intenzione che raccorre breve e semplice-
mente le ragiomni, ch’ella ne tiene. Indo poi crescendo

213 CoMParaTo, Giuseppe Valletta cit., pp. 179-181.

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da giorno in giorno, o ciò fosse per l’ampiezza della
materia, o per la moltitudine delle ragioni, e varietà de-
gli argumenti e delle autorità che si recavano in prova,
s’è tanto oltre la scrittura avanzata, ch’è per comporre
un volume intero. Così io, mentre pensava di avere già
compita tutta la fatica, volli ancora investigare la ca-
gione e l’origine de’ movimento e tumulti della nostra
città accaduti per tal procedimento nel tribunale del
Santo Uffizio. Quand’ecco che io conobbi, e vidi chia-
ramente, che la cagione di tai tumulti altro non sia data
che una tal gelosia, per così dire, di Scuole coll’occa-
sione d’una certa Filosofia nomata comunemente Mo-
derna, avvegnaché ella sia antichissima, e professata
dagli uomini migliori, e più savii della nostra città.
E perché la cosa o non è pur ben intesa, ovvero se
intesa, per ambixzione o per astio o per altra cosa, è
contrastata a campo aperto, sono forzato, come avvi-
sai nella suddetta altra scrittura, con quest’altra lettera,
indirizzata parimente alla Santità Vostra, dimostrarne
apertissimamente la verità (per ordine ancora datomi
da’ medesimi Deputati), acciocché niente si taccia per
quello che convenevolmente appartiene alla difesa; e
distendere un lungo ragionamento, per far palese una
volta, e più chiara testimonianza al mondo dell’em-
pietà della Filosofia Aristotelica e dell’innocenza di
quest’altra che chiaman Moderna214.

214 G. valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697), «Opere filosofiche» a cura di M. rak, Olschki, Firenze 1975, pp. 77-78.

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La stesura della Lettera avvenne in concomitanza
con la pubblicazione di due scritti fortemente polemici
da parte dei tradizionalisti, nonostante l’abiura di Ro-
sito e di De Magistris: le già citate Lettere apologeti-
che (1694) del gesuita de Benedictis e la Turris furti-
tudinis composta dai due figli dell’avvocato Gaetano
Ageta. De Benedictis mostrò alla radice i punti su cui
la filosofia dei moderni contrastò le verità rivelate: la
nuova scienza, mettendo da parte la teologia scolastica,
aprì nuovamente il contrasto tra fede e ragione; respin-
gendo la filosofia dello Stagirita e conseguentemente
la dottrina delle forme sostanziali, la filosofia atomi-
stica non riuscì più a spiegare la presenza reale di Cri-
sto nell’Eucaristia; rifiutando la filosofia aristotelica,
l’unico approdo della nuova scienza fu l’averroistica
doppia verità o lo scetticismo; i moderni, esaltando De-
scartes, ignorarono che la fonte della sua filosofia fosse
l’epicureismo e il fine di tale sètta filosofica restasse
non la dimostrazione dell’esistenza di Dio, bensì l’in-
finità del mondo e l’affermazione di una spiegazione
esclusivamente meccanicistica della natura. L’accusa di
de Benedictis verte dunque sulla separazione operata
dai moderni tra esperienza e logica, cioè tra il “che”
e il “perché”; infine la tanto decantata libertas philo-
sophandi si risolve per il gesuita in un’equivalenza tra
atomismo e libertinismo la quale già emerse durante i
processi del 1691. Quanto alla Turris furtitudinis, essa
contribuì a mantenere vivo uno spirito di crociata contro

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tutti gli aspetti della nuova cultura, individuando in Val-
letta il simbolo di quest’ultima. Nell’opuscolo ci si sca-
gliò contro coloro che “Nihil plane profitentur credere,
nisi quod oculis cernent”, nonché contro “licentiamo
maledicendi, adeo ut Scepticismum ejusque individu-
um comitem Atheismum plenis introduxerint velis”215.
Coloro che credettero solamente a ciò che i loro occhi
mostrano ebbero come modelli il dubbio cartesiano,
presentato come “scepticismum praetensamque liber-
tatem philisophandi”, e la dottrina atomistica contenuta
nel De rerum natura di Lucrezio216. Inoltre i novatores
diffusero gli eretici sistemi di Copernico e Galilei217,
mentre in campo medico abbandonarono Ippocrate e
Galeno sulla scia dei rinnovati studi portati avanti da
Cornelio e di Capua218. In teologia rifiutarono le dottri-
ne di San Tommaso e San Bonaventura, accettando le
eretiche tesi di Cornelius Otto Jansen presenti nella sua
opera principale, l’Augustinus219. In ultimo, la critica
dei tradizionalisti colpì anche lo stile letterario dei “fal-
si dotti”, considerati come “poetastri petrarchisti”220.
Stando alle accuse presenti nella Turris fortitudinis,
Valletta si macchiò di tutti i reati elencati, in aggiunta
alla sua sovversiva azione di divulgatore di conoscen-
za mediante la sua sterminata biblioteca. La difesa di
215 Turris fortitudinis propugnata a filiis lucis adversus filios tenebrarum, ms. B.S.N.S.P.,

XXIII. D. 6, f. 147v.
216 Turris fortitudinis propugnata a filiis lucis adversus filios tenebrarum cit., f. 148r.
217 Turris fortitudinis propugnata a filiis lucis adversus filios tenebrarum cit., f. 149r.
218 Turris fortitudinis propugnata a filiis lucis adversus filios tenebrarum cit., f. 149v.
219 Turris fortitudinis propugnata a filiis lucis adversus filios tenebrarum cit., ff. 152-153.
220 Turris fortitudinis propugnata a filiis lucis adversus filios tenebrarum cit., f. 154r-v.

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Valletta avrebbe dovuto necessariamente spaziare per
tutti i campi d’accusa presenti nell’opera dei figli di
Ageta: il giurista napoletano scrisse nel breve inserto
della Lettera che tutti i Padri della Chiesa coltivarono la
filosofia, perché essa permise loro la libertà di pensare;
inoltre l’ambito di applicazione della filosofia stessa si
limitò esclusivamente agli avvenimenti e alle loro cau-
se che accadono nella natura; in terzo luogo si chiamò
erroneamente tale filosofia moderna, perché quest’ul-
tima è in realtà antichissima, tanto da essere insegnata
per la prima volta esattamente nel mezzogiorno da Pita-
gora e successivamente ripresa da Democrito e Platone.
Grazie a questo antico legame con le scuole filosofiche
italiche, che attinsero dalla sapienza mosaica egiziana,
la filosofia moderna è dunque una philosophia peren-
nis e la critica rivoltale sarebbe dovuta cessare, perché,
contrariamente a questa tradizione, Aristotele sostenne
la mortalità dell’anima, l’indifferenza di Dio e l’eternità
del mondo. Valletta comparò Platone a Aristotele, rifa-
cendosi alla tradizione dell’Umanesimo (Pletone, Vives
e Filelfo) e a quella del Rinascimento (Agostino Steu-
co, Bernardino Donato, Samuel Parker e René Rapin).
Quanto alla tradizione seicentesca, Valletta attinse dal-
le Exercitationes in Aristoteleos di Pierre Gassendi dal
quale ricavò argomenti utili per presentare la filosofia
di Aristotele guasta nei princìpi, fonte di tutte le eresie
e fondamento dell’ateismo:

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Imperocché a tutti si permette la libertà del filosofare.
[…] Tanto maggiormente che la natura, invidiosa, per
così dire, a rivelare i suoi segreti, avarissmamente per-
mette che ora una cosa ura un’altra si sveli, come s’è fi-
nora sperimentato per tante osservazioni fatte e si fanno
in molte celebri Accademie dell’Europa, scoprendosi
sempremai novelli arcani, non che nuove e plausibili
opinioni nelle Filosofie. […] Ora sia lecito d’esaminare
più espressamente se la Filosofia che chiaman Moderna
sia d’alcun pregiudizio alla nostra fede cattolica. Pri-
mieramente è necessario ch’io rinnovi alla mente della
Santità Vostra quei tempi più freschi in cui sì felicemen-
te apparò le scienze tutte, e con ciò io rinnovelli, e ral-
legri insieme, l’idee della prima sua età; perché non v’è
cosa che maggiormente la’nimo ricrei, che la memoria
degli anni scolareschi, perché ciò egli non è altro che un
tornare a vivere quella vita innocente e più lieta dell’uo-
mo. Si ricorderà dunque Vostra Santità che malamente
questa Filosofia sia nomata moderna, percch’ella è più
antica, anzi la primiera d’gn’altra nella nostra Italia nata
e coltivata; onde il nome d’Italiana Filosofia acquistò,
ed ancora felicemente ritiene, come va provando per
tutto un libro Giovanni Scheffero, dandogli il titolo:
De natura, et contiotutione Philosophicae Italicae, sive
Pythagoricae. Italiani essendo stati i più celebri filoso-
fi di questa setta: Timeo da Locri, Parmenide da Elea,
città della nostra Lucania, da’ quali denominò due de’
suoi Dialoghi Platone, Archita da Taranto, Filolao suo

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discepolo, Lisia ugualmente da Taranto, maestro di Epa-
minonda, Ocello Lucano, Marino discepolo di Proclo,
e tant’altri. Questa Filosofia adunque fu fondata ed in-
segnata nella nostra Calabria, detta anticamente Magna
Grecia, che compredea quasi tutta la spieggia marittima
del nostro Regno, propagata nella Grecia e distesa poi
per tutto il Mondo. E Pittagora benché comunemente
creduto da Samo della Grecia, da altri tenuto dell’altra
Samo, città della Calabria stessa, ne fu l’inventore, il
quale, non tanto per l’altezza del suo intendimento e
della sua sapienza, quanto per la pietà verso Dio e per
l’onestà de’ costumi, meritò le lodi di Clemente Ales-
sandrinoo, da Filone il Giudeo e danti altri celebri Au-
tori, così Gentili come Cattolici; ed Ambrogio ad Ireneo
scrivendo fa testimonianza esser tratta la sua dottrina
da quella di Moisè. Questa filosofia fu seguitata da
Democrito, discepolo di Leucippo, e da Platone di So-
crate uditore. Il primo anche da Aristotele viene molto
commendato, il quale poi bruciò li di lui libri, come vo-
gliono alcuni. Il secondo però oppugnato, né questo fia
meraviglia peroché Platone suo maestro in molte cose
viene dannato dal medesimo Aristotele, o sia stato per
lusuria d’ingegno ovvero per vaghezza di gloria, che
suole più facilmente muovere gl’ingegni più contumaci
ed altieri, in calcando altre vestigia e fuora di quelle che
additarono i proprii maestri, da cui ricevettero i primi
semi e i buoni documenti della migliore e più vera dot-
trina; perché da tutti rgli venga comunemente ripreso

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ed incolpato d’arroganza. Qui contro di lui scrisse Ago-
stino: Taccia Aristotele, il quale contra Platone è sem-
pre fanciullo. E, certamente tutti gli antichi, i quali non
separarono l’eloquenza dalla dottrina, vogliono che il
Principe de’ Filosofi sia Platone, così chiamandolo Am-
brogio e Agostino, Lattanzio ed eusebio il dottissimo,
e savissimo, ed Arnobio il divino, e il grande: Platone
ille divinus, multul Deo digna, nec communia sentiens
multitudinis, e altrove: Plato ille magnus, pie, sancte-
que sapiens. All’incontro: Aristoteles numquam pie aut
sancte doctus, disse Filone Giudeo221.

Istituito un legame, seppure debole, tra atomismo e


platonismo, fondato esclusivamente sulla comune ori-
gine italica, Valletta poté difendere l’atomismo fisico
democriteo-epicureo all’interno del quadro metafisico
platonico, considerata l’ipotesi più adatta per creare le
condizioni del progresso scientifico222. Quanto a Descar-
tes, egli mosse da princìpi più alti, creando un sistema
filosofico del tutto nuovo il quale ebbe come fondamenti
principali l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima:

Renato Descartes, prendendo egli più alti principii,


fece da se stesso un altro sistema di Filosofia, il quale
ebbe per fondamento principale d’essa in provando

221 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., pp. 82-89.


222 T. GreGory, Studi sull’atomismo del Seicento. I. Sebatian Basson, «Giornale critico

della filosofia italiana», Sansoni, XLIII (1964), pp. 38-65.

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l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, e su
questi veri e saldissimi fondamenti gettò le sue radici
quella sua altissima Filosofia, raggirando sempre le
sue Meditazioni intorno a sì nobili e certi principii,
a cui aggiunse degli altri a tutti plaesi; i quali sono
così conformi a’ buoni e giusti sentimenti, che molti
d’essi veggonsi tratti adgli Autori più approvati della
Chiesa. In modo che riconosciutosi ciò dal Padre de
Farvague, ch’era allora uno di quelli che gravemente
si opponevano a Renato, divenne egli poi uno de’ più
grandi difensori di lui, avendo chiaramente in essi
ritrovato i medesimi sentimenti della Transustanzia-
zione, ch’era quasi l’unico e solo punto che l’arre-
stava. Il che dopo qualche tempo distese nelle sue
Conclusioni Teologiche, le quali aveva ancora cavate
dal libro il Cardinale d’Ailly, e Vescovo di Cambrai,
aveva fatto il Maestro delle Sentenze, per manifesta-
re che questo Cardinale propose l’opinione di Rena-
to toccante gli accidenti della Santissima Eucaristia,
conforme alla definizione del Concilio Ecumenico
di Costanza223.

L’approvazione o il rifiuto di un sistema filosofico


dipese per Valletta dalla libertà del filosofare che al suo
interno fu concessa, la quale rappresentò quindi una
necessità per l’uomo impegnato a investigare i segreti

223 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., pp. 133-134.

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della natura. La verità delle cose umane fu nascosta e
velata a causa del peccato originale in cui l’uomo si
trovò: la filosofia non divenne pertanto sapienza, ma il
cammino verso la sapienza; questo cammino si presen-
tò per di più sempre incerto e irto di ostacoli:

Ciò è seguito per la solita libertà che ci è nel filosofa-


re: perché non vi è cosa che tenga più involti ed avvi-
luppati gl’ingegni umani che la diversità dell’opinioni
de’ filosofanti. E per molto che siano stati alcuni sa-
vissimi, verissima cosa egli è che non hanno ritrovato
altro di certo che l’incertezza medesima224.

Evidente nel luogo suddetto il richiamo alla teo-


ria dell’incertezza presente nell’ottavo ragionamento
del Parere di Leonardo di Capua. Quest’ultimo cri-
ticò il principio d’autorità in filosofia, rivendicando
la libertà del filosofare, non tanto per le necessità di
una disputa antiaristotelica, quanto perché la storia
del pensiero umano gli apparve priva di un legame
sistematico-metafisico e completamente risolta in in-
vestigazioni e in scoperte singolari fondate sull’espe-
rienza: la differenza tra i filosofi antichi e moderni
risiede esclusivamente nell’investigazione diretta dei
fenomeni della natura. Per questa ragione, l’unica
“finestra”, attraverso cui l’uomo accede ai misteri

224 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., p. 143.

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della natura, è quella dei sensi, cioè il modo in cui
l’uomo avverte individualmente il messaggio di ciò
che è fuori di sé. Sebbene i sensi restino l’unica base
sperimentale, tuttavia anche il “discorso” costitu-
isce parte della ricerca scientifica, perché attraver-
so quest’ultimo è possibile coordinare la miriade di
esperimenti. La sfiducia da parte di di Capua nei siste-
mi giustificò il suo atteggiamento che sfiorò i confini
dello scetticismo: una filosofia della mens, una ragio-
ne fisica, fisico-sensibile, dalla spiccata materialità,
maggiormente immersa nelle cose. Avanzando l’ipo-
tesi di una netta separazione tra filosofia e teologia e
il diritto dell’uomo d’investigare liberamente i feno-
meni della natura, servendosi dei più disparati sistemi
filosofici, Valletta sostenne che in regime di libertà
filosofica non si desse alcuna eresia, perché lo scopo
della filosofia non è di trovare Dio, bensì di studia-
re i meccanismi della natura. Per di più – si desume
l’influenza di Boyle sul pensiero del giurista napole-
tano – il naturalista della scuola di Valletta avrebbe
potuto coltivare al meglio la conoscenza del mondo
fisico, accettando proprio i presupposti dell’esisten-
za di Dio e dell’immortalità dell’anima, dimostrando
così che tutto ciò che avviene in natura è da attribuire
alla potenza divina la quale si esprime attraverso l’in-
finita varietà degli atomi. Sul rapporto tra libertas
philosophandi e la dottrina atomistica Valletta tor-
nerà nella Lettera in difesa della moderna filosofia

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e de’ coltivatori di essa (1691-1697)225 e nella Istoria
filosofica (1697-1704), percorrendo una “via quasi di
storia” per difendere la filosofia dei moderni.

Una “via quasi di storia”

I processi del 1688-1697 contro i filosofi moderni e,


tra questi, contro gli atomisti, furono dovuti a un pro-
fondo e lungo disagio dell’apparato del potere ecclesia-
stico nella città di Napoli e nel vicereame: la redistribu-
zione del potere politico interno a favore del “popolo
civile” dotato di un gruppo di abili giuristi; la progres-
siva perdita di centralità dell’insegnamento ecclesiasti-
co; le prese di posizione da parte del governo vicere-
ale in materia di legittimità di possessi, suffragate dal
gruppo di giuristi suddetto; la diffusione del dibattito su
tematiche scientifiche e storico-giuridiche; l’aumenta-
ta circolazione di corrispondenze e viaggiatori, prove-
nienti spesso da aree religiosamente sospette; infine la
diffusione di eresie, quali quelle quietiste, gianseniste e
protestanti, costituirono ragioni sufficienti per una for-
te presa di posizione da parte delle autorità ecclesiasti-
che226. A partire dal 1690 G.B. Giberti, già inquisitore
romano nonché vescovo di Cava dei Tirreni, esercitò
una forte pressione inquisitoriale contro il gruppo degli
225 Esistono dieci manoscritti e un’edizione a stampa di questa opera, indicata sia come

Lettera sia come Filosofia.


226 G. valleTTa, Opere Filosofiche, a cura di M. rak, Olschki, Firenze 1975, p. 33.

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atomisti attraverso carcerazioni improvvise. Nell’otto-
bre del 1691 l’esasperazione dei cittadini partenopei
indusse la Deputazione eletta dalle Piazze a inviare ur-
genti lettere al viceré e al Re di di Spagna Carlo in cui si
sarebbe prospettata la possibilità di disordini popolari e
di un contrasto politico nella città, qualora il Sant’Uffi-
zio non avesse limitato la propria attività e garantito le
libertà cittadine. Il viceré, sollecitato da Madrid, aderì
prontamente alle richieste della Deputazione e provvide
a esiliare dal mezzogiorno il vescovo di Cava dei Tirre-
ni e a trasferire nelle carceri arcivescovili gli inquisiti.
Tuttavia la Deputazione decise di stendere un memoria-
le in cui ricapitolò i privilegi cittadini a riguardo e riba-
dì il punto di vista della città. Solamente dopo le abiure
del gennaio del 1693 i gruppi in contrasto raggiunsero
un’intesa, decidendo di rivolgersi al papa per risolvere
definitivamente la questione: fu inviata una delegazio-
ne con il compito di mostrare al pontefice una serie di
scritture contenente i privilegi dei cittadini di Napoli227.
La Deputazione, eletta dalle Piazze per la trattativa su
tali questioni, decise di chiamare Valletta per effettuare
un primo esame della documentazione storica relativa
ai procedimenti inquisitoriali, fissando le linee metodo-
logiche di un’opposizione a tale pratica. E fu dunque in
tale frangente che Valletta stese la sua prima opera siste-
matica, un trattato storico-giuridico, la suddetta opera

227 L. aMaBile, Il Santo Officio dell’Inquisizione in Napoli. Narrazionr con molti docu-

menti inediti, S. Lapi, Città di Castello, p. 54 sgg.

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Intorno al procedimento ordinario nelle cause che si
trattano nel Santo Officio nella città e Regno di Napoli.
La prima testimonianza riguardante tale scritto è offerta
dal biografo di Valletta Berti:

Ma non si danno mai, tanto per ordinario a consocere


gli Uomini dotti, se non allora, che debbono trattare
qualche importante questione per la lor Patria. Consi-
derandosi allora come Patrocinatori d’una causa pub-
blica, hanno ogni stimolo al fianco portarvisi da valo-
rosi, e stimano questa una occasione degna di far prova
d’ogni loro sapere. Un’Opera per tanto eccellente, e più
delle altre faticata fu quella, che fece il Valletta in dife-
sa della sua Patria a richiesta de’ Deputati della Città di
Napoli, i quali poi anche ne lo rimunerarono col regalo
di mille Ducati come si vede dalla loro conclusione in
suo beneficio, a’ 14 Dec. 1694 nella quale si dice, che
avendo egli con molte autorità e dottrine, e con som-
ma erudizione evidentemente provato la giustizia, che
circa di ciò assiste a quel fedelissimo Pubblico, hanno
stimato di non fraudare un così buon Cittadino della
lode, che si deve alle due onorate fatiche; che perciò
hanno determinarto, e conchiuso, che registri ne’libri
della deputazione questo appuntamento in segno del
gradimento, che n’hanno avuto, ed accioché abbiano
qualche piccola mercede le sue fatiche228.

228 BerTi, Vita di Giuseppe Valletta detto fra gli Arcadi Bibliofilo Atteo cit., p. 57 sgg.

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Valletta dedicò anni di riflessione alla realizzazione
dell’opera menzionata che concluse tre anni dopo, os-
sia nel 1694, con una stesura del Procedimeto ordinario
molto ampia e completa e soprattutto strutturalmente
diversa rispetto alle annotazioni fornitegli dalla Deputa-
zione. Nonostante la continua riflessione di Valletta che
portò all’ampliamento del Procedimento ordinario per
accumulo di fonti, frutto di discussioni e suggerimen-
ti, sin dalla sua prima stesura tale opera comprese un
breve inciso filosofico che fu progressivamente esteso
e modificato. Poiché “il processo agli ateisti” ebbe ini-
zio con la repressione dei filosofi moderni e giacché fu
coinvolto esclusivamente il gruppo investigante, cioè il
gruppo più culturalmente avanzato della città di Napoli,
l’inciso filosofico assunse ben presto un ruolo impor-
tante nell’opera tanto da divenire un’opera nell’opera:
Valletta decise di metterlo da parte per dedicargli suc-
cessivamente una maggiore attenzione. Ciò fu dovuto
anche all’attenuazione della questione inquisitoriale che
portò a un allentamento del clima di tensioni: il Proce-
dimento ordinario mutò da intervento diretto da esporre
pubblicamente a matrice per le opere filosofiche di Val-
letta229. La diffusione clandestina dell’inciso filosofico
provocò tuttavia una ripresa della polemica cittadina in-
centrata non più su questioni giuridiche, bensì su quel-
le ideologico-filosofiche: infatti l’inciso denunciò le
lotte di potere nascoste sotto il pretesto della condanna
229 valleTTa, Opere Filosofiche cit., p. 43.

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della filosofia dei moderni; fece appello a un repertorio di
idee che si richiamarono al diritto di natura e alla libertà
intellettuale; infine rievocò la protezione di quelle forze
politiche orientate decisamente contro gli interessi degli
eccledsiastici. La decisione di accentuare ed estendere il
discorso filosofico, tanto da intaccare l’unità argomen-
tativa del Procedimento ordinario, ebbe lo scopo di evi-
denziare come l’ideologia del “popolo civile” poggiasse
su una coerente teoria della conoscenza che trovò la sua
continuità nella migliore tradizione filosofica europea.
Ampliando l’inciso, Valletta andò alla ricerca dei legami
tra la riflessione napoletana a lui contemporanea e l’ato-
mismo europeo: nel momento in cui si fosse trovata la
congiunzione attraverso la ricostruzione delle vicende
in chiave storica della filosofia moderna, sarebbe sta-
to possibile giustificare ogni entusiasmo, nonché ogni
adesione a essa. Valletta avvertì il bisogno di estendere
due tratti solo parzialmente esaminati nelle prime ste-
sure dell’inciso filosofico: la possibilità di servirsi del
modello umanista che interpretò la dottrina platonica
come tradizione antica cripto-cristiana per creare un’al-
ternativa all’aristotelismo; la necessità di difendere il
filosofo moderno per antonomasia che in quel frangente
storico subì i maggiori attacchi da parte dei filosofi sco-
lastici, Descartes, non per una sostanziale adesione alle
sue teorie, quanto per una questione metodologica. La
parte avversa non lesse mai nulla di questo autore, non
ne intese il messaggio cristiano e non seppe ascoltare

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il parere favorevole del clero più illuminato d’Europa.
I tradizionalisti si arroccarono nell’utilizzo degli stru-
menti della Tarda Scolastica filo-aristotelica e s’impe-
lagarono in dispute dialettiche sospettabili di eresia per
loro origini gentili. La domanda che avrebbe permesso
l’ulteriore sviluppo dell’inciso filosofico fu la seguen-
te: come fu possibile una tale deviazione di parte della
filosofia scolastica che smarrì la purezza del Cristiane-
simo dei Padri della Chiesa? La risposta fu una ripresa
delle tesi dei riformatori secondo cui la critica non si
sarebbe dovuta rivolgere all’ideologia reggente il Cri-
stianesimo, quanto agli strumenti intellettuali di questa
– l’aristotelismo – che provocò un grave dissidio con
il moderno avanzamento della conoscenza230. In questa
ricostruzione serrata si evidenziò l’intento di Valletta
di procedere a una sistemazione generale della ricerca
napoletana sotto il comune segno della dottrina atomi-
stica, intesa come teoria del concreto, trasmettendo la
lezione napoletana sia alle nuove generazioni post-in-
vestiganti sia ai dotti europei. Il tentativo si realizzerà
compiutamente nelle opere Lettera in difesa della mo-
derna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-1697) e la
Istoria filosofica (1697-1704). Concentrando la propria
impostazione difensiva alla parte storica, Valletta chiarì
il proprio interesse non tanto per la polemica diretta,
quanto per una ricerca delle origini e dei meriti della
filosofia moderna:
230 valleTTa, Opere filosofiche cit., pp. 44-49.

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Laonde, tralasciando la parte disputabile, dalla quale
sempremai la verità fugge e se ne va lontana, oppo-
nendosi ragioni. Ragioni, argomenti ad argomenti, e
spesse volteco’ sofismi pugnando, con assai delibera-
to consiglio ho scelto la parte istorica, in qua ponere
argumenta licet, non argumentari. La quale, essen-
do maestra della vita, e de’ tempi, e de’ costumi, allo
scrivere di Cicerone stesso, potrà assai bene accon-
ciamente comparire più schietta, e più sicneramente
difendersi la Santità Vostra la causa onestissima e il
diritto di questa Filosofia iniquissimamente oltraggia-
ta dalla turba de’ Peripateci231.

La filosofia è in primis un sapere antichissimo, tra-


mandato da Adamo agli Ebrei, da questi agli Egizi e
infine dagli Egizi ai Greci e ai Romani. In Italia la più
antica forma di sapere fu di Pitagora la cui nobile tradi-
zione, diffusasi nella Magna Grecia e successivamente
abbracciata da Democrito e da Platone, fu successiva-
mente interrotta da Aristotele di cui Valletta stilò un
elenco delle eresie dipendenti dalla sua filosofia, non-
ché di errori, non solamente teologici, ma soprattutto
riguardanti la ricerca naturale:

Si ricorderà dunque Vostra Santità che malamente


questa Filosofia sia nomata moderna, percch’ella è

231 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., p. 79.

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più antica, anzi la primiera d’gn’altra nella nostra Ita-
lia nata e coltivata; onde il nome d’Italiana Filosofia
acquistò, ed ancora felicemente ritiene, come va pro-
vando per tutto un libro Giovanni Scheffero, dando-
gli il titolo: De natura, et contiotutione Philosophicae
Italicae, sive Pythagoricae. Italiani essendo stati i più
celebri filosofi di questa setta: Timeo da Locri, Par-
menide da Elea, città della nostra Lucania, da’ quali
denominò due de’ suoi Dialoghi Platone, Archita da
Taranto, Filolao suo discepolo, Lisia ugualmente da
Taranto, maestro di Epaminonda, Ocello Lucano, Ma-
rino discepolo di Proclo, e tant’altri. Questa Filosofia
adunque fu fondata ed insegnata nella nostra Calabria,
detta anticamente Magna Grecia, che compredea qua-
si tutta la spieggia marittima del nostro Regno, pro-
pagata nella Grecia e distesa poi per tutto il Mondo.
E Pittagora benché comunemente creduto da Samo
della Grecia, da altri tenuto dell’altra Samo, città della
Calabria stessa, ne fu l’inventore, il quale, non tanto
per l’altezza del suo intendimento e della sua sapien-
za, quanto per la pietà verso Dio e per l’onestà de’
costumi, meritò le lodi di Clemente Alessandrinoo, da
Filone il Giudeo e danti altri celebri Autori, così Gen-
tili come Cattolici; ed Ambrogio ad Ireneo scrivendo
fa testimonianza esser tratta la sua dottrina da quella di
Moisè. Questa filosofia fu seguitata da Democrito, di-
scepolo di Leucippo, e da Platone di Socrate uditore. Il
primo anche da Aristotele viene molto commendato, il

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quale poi bruciò li di lui libri, come vogliono alcuni. Il
secondo però oppugnato, né questo fia meraviglia pe-
roché Platone suo maestro in molte cose viene dannato
dal medesimo Aristotele, o sia stato per lusuria d’in-
gegno ovvero per vaghezza di gloria, che suole più fa-
cilmente muovere gl’ingegni più contumaci ed altieri,
in calcando altre vestigia e fuora di quelle che addita-
rono i proprii maestri, da cui ricevettero i primi semi
e i buoni documenti della migliore e più vera dottrina;
perché da tutti rgli venga comunemente ripreso ed in-
colpato d’arroganza. Qui contro di lui scrisse Agosti-
no: Taccia Aristotele, il quale contra Platone è sempre
fanciullo. E, certamente tutti gli antichi, i quali non
separarono l’eloquenza dalla dottrina, vogliono che
il Principe de’ Filosofi sia Platone, così chiamandolo
Ambrogio e Agostino, Lattanzio ed eusebio il dottis-
simo, e savissimo, ed Arnobio il divino, e il grande:
Platone ille divinus, multul Deo digna, nec communia
sentiens multitudinis, e altrove: Plato ille magnus, pie,
sancteque sapiens. All’incontro: Aristoteles numquam
pie aut sancte doctus, disse Filone Giudeo. […] E chi
potrà giammai dubitare che la Filosofia Aristotelica
sia stata l’unica e sola cagione, anzi l’origine stessa di
tutte le eresie, essendo ciò manifesto per l’autorità di
tutti gl’Istorici e di tutti i Santi Padri, che in quei tem-
pi fiorirono, i quali erano presenti alle dispute e ne’
Concili stessi per confutarle? Aezio, Vescovo d’Antio-
chia ne’ primi tempi appunto della nostra Chiesa, non

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fu egli Eretico, e sopra soprannomato Ateo: Aetius
Atheus? Non per altro, se non perché troppo addetto
alle Categorie d’Aristotele egli era, come nota Carpo-
craziani e i Teodosiani il venerarono come idolo: Et
non minus faciunt Moderni, scrive Tommaso Campa-
nella, qui dicunt Aristoteli non esse contradicendum.
E nel secolo passato Ermolao, quanto riguardevole per
la sua pietà e virtù, Barbaro in ciò, perché invocasse
una volta il Diavolo per intendere l’Entelecheia d’A-
ristotele, come narra Gabriele Naudeo. E tant’altri, i
quali l’hanno riprovato e confutato solo per timore
che non s’imprimesse al Cristiano un carattere della
sua dialettica, per essere tutta contraria alla semplicità
della fede, la quale altro non richiede che una umile
sottomissione e totale credenza, senza veruno ragiona-
mento e discorso umano. […] I Luteri, i Calvini, i Me-
lanoni, i Buceri, i Zuingli e gli altri loro seguaci, an-
corché apparentemente si dimostrassero nemici d’A-
ristotele, gettarono e coltivarono i loro velenosi semi
non con altri principii se non con quelli d’Aristotele
stesso. I Pomponazii, i Porzii ed altri tralignarono da’
vari sentimenti dell’immortalità dell’anima, non con
altro errore, se non con quello d’Aristotele medesimo.
I Serveti, i Socini, i Postelli non con altra direzione
che di lui stesso divulgarono que’ loro pessimi ritro-
vati, e scelleratissime innovazioni alla nostra Reli-
gione. Il Macchhiavellismo, ch’è lo stesso che l’Atei-
smo, exiit (dice il Campanella, col sentimento ancora

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di Melchior Cano, dottissimo Spagnuolo, ed uno de’
più fecondi Scolastici del suo tempo, ed il maggior or-
namento della famiglia Domenicana, degnissimo Ve-
scovo nell’Isole Canaerie, e fu eziando uno de’ Padri
che intervennero al Concilio di Trento) exiit, torno a
dire, ex Peripateticismo. […] San Tommaso, allegan-
do Agostino medesimo coll’autorità del Gellio, prova
che sia un impostore, come rapporta il Campanella.
Scoto, e Francesco Mairone, come un ignorante affat-
to della Metafisica, e che le cose tra esse loro repu-
gnanti avesse approvato Giovanni Pico della Mirando-
la e Francesco Patrizio il riprendono nella Geografia e
nell’Astronomia, nelle Meteore, nell’istorie degli’ani-
mali; e ch’egli abbia malamento creduto che la terra
sia più elevata verso il Settentrione che altrove, che ‘l
Danubio prenda l’origine da’ Pirenei. Pietro Gassendo
lo biasima nell’errore intorno alla Galassia, all’origine
delle vene e de’ nervi del cuore, ed in moltre altre si-
mili cose. Telesio, Durando, Baccone, Bassone, l’Har-
veo, Cherleo, Galilei, Maurneo, e Pietro Alliacense e
Nicola di Cusa Cardinali, ed ultimamente Valeriano
Magno, piissimo e dottossimo autore Capuccino, che
fu Missionario al Nord, il confutano, l’accusano e lo
tacciano di molte altre simili sciocchezze. La somma
e la sostanza sia, dice il medesimo Gassendo, che non
v’è persona che senza rossore diffender lo possa, né,
senza tema e nota espressa d’infamia e di vituperio,
che seguire lo voglia nell’impossibilità della creazione

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per lo stabilimento del suo principio che non si faccia
niente dal niente; che il Mondo sia eterno e l’anima
mortale; che providenza di Dio sia talmente limitata
nelle cose celesti che non estenda più di quello ch’è
sopra la Luna, negando ancora l’idee, e conseguen-
temente il Verbo di Dio, non che Dio stesso Autore
di tutte le cose; l’esistensa degli Angeli, de’ Diavoli,
l’Inferno, e lq gloria beata, e con ciò le pene a’ cattivi
e i premii a’ buoni232.

Il problema più delicato sorse nel momento in cui


Valletta dovette chiarire i rapporti tra l’aristotelismo e il
tomismo: negare Aristotele avrebbe significato demo-
lire l’intero edificio filosofico-teologico di San Tom-
maso? Il Doctor Angelicus, inteso da Valletta, non fu
più un aristotelico, bensì un teologo che fece sue alcune
delle tesi dello Stagirita con l’intento di correggerne al-
tre233. Rinnovata l’immagine di San Tommaso, Valletta
evindenziò che, oltre ai Padri della Chiesa, anche i più
grandi teologici e filosofi cristiani, specialmente del
Rinascimento concordarono con la filosofia platonica

232 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., pp. 83-120.


233 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., pp. 125-126: «Quindi San Tommaso stesso, discepolo d’Alberto Magno, si avvalse
nella sua Teologia di quella Filosofia e di quella morale d’Aristotele, che più purgatamente
fu distesa in compendio da San Giovanni Damasceno, avendo da esso preso un modo più
particolare e sincero; e il Campanella afferma che San Tommaso: Nullo pacto putan dum est
Aristotelizasse sed tantum Aristotelem exposuisse, ut occurreret malis per Aristotelem illatis.
E San Tommaso medesimo si lamentò molto con altri Filosofi più giudiciosi del suo tempo
che gli Arabi e i Mori colà nell’Africa avevan contaminata la Filosofia e l’Opere tutte d’Ari-
stotele, per non saper egli molto bene di Greco […]»

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e preferirono Platone ad Aristotele: facendo riferimen-
to al platonismo di Niccolò da Cusa, di Ficino e di
Pico, Valletta dimostrò, all’interno di una prospetti-
va storiografica, il legame della filosofia di Platone
con la philosophia perennis. In tal modo Valletta ebbe
il vantaggio di sfuggire all’inconciliabità teorica tra
atomismo democriteo-epicureo e platonismo. Dopo
le lodi a Platone e dopo aver stabilito che gli atomi
sono i princìpi di tutte le cose, il giurista napoletano
si soffermò sulla cristianizzazione del pensiero epicu-
reo a opera di Gassendi il quale abbracciò la filosofia
democritea, perché più funzionale nella spiegazione
delle operazioni e della fisiologia del corpo umano.
L’atomismo fu dunque insegnato anche da coloro che
furono membri delle gerarchie ecclesiastiche, senza
che ciò avesse sollevato dubbi sulla sua effettiva con-
ciliabilità con le dottrine cristiane, nonché accettato
da Descartes il quale, avendo fondato una nuova fi-
losofia a partire dai più alti princìpi, rimase pur sem-
pre fedele a una spiegazione atomistico-corpuscolare
della materia234. La difesa di Valletta si spostò dunque
234 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., pp. 127-134: «Il quale [la filosofia platonica e democriteo-epicurea] fu poi segui-
tato da’ maggiori ingegni Italiani, cioè Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola e da
altri cattolici, e particolarmente da Niccola da Cusa e da Pietro Bembo ambuedue Cardinali; il
quale contro d’Aristotele così esclamò: Fovemus serpentem inter viscera nostra. Di maniera
che vedesi per lo più sempre osservata la Platonica, la Democritica e l’Epicurea Filosofia,
essendo che sono tutte uniformi in concedendo che gli Atomi fossero i primi principii di tutte
le cose corporee, e che il sovrano bene del piacere non conista ne’ diletti indegni e brutali, ma
solamente nell’animo, e nella vita onesta e tranquilla della virtù, non come ltrimenti voleva
Aristotele, com’è detto. Fu notato bensì Epicuro per così dire plagiario, avendo pubblicati per
suoi i libri degli Atomi di Democrito, e dannata in lui l’opinione della mortalità dell’anima. Gli
altri suoi sentimenti, per la sua moderazione e moralità, sembrarono così giusti e ragionevoli

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a Descartes e al cartesianesimo: egli accennò agli elo-
gi rivolti a questa filosofia da Marsenne, da Maignan,
da Malebranche e da Arnauld. Tuttavia il cartesiane-
simo presentato dal giurista napoletano fu ben lungi
da rappresentare quella filosofia che fu il collante dei
membri dell’Accademia degli Investiganti: il pensie-
ro di Descartes fu ridotto all’essenziale, ossia all’ipo-
tesi e al principio del dubbio. Ciò permise a Valletta
di avviare un excursus sull’incertezza delle filosofie,
fornendo una rassegna di opinioni diverse di filosofi

a Girolamo il Santo, ch propose a’ Cristiano di suo tempo la lezioni de’ suoi libri; e da molto
Santi Padri ei fu commendato. […] E Sant’Ambrogio, ancorché più severo d’ogni altro Sanrto
Padre, e nelle Filosofie più rigido, pur egli stimò essere più compatibili gli orti d’Epicuro che
d’Aristotele i portifi, come affatto dannevoli non che pericolosi; perocché ne’ libri degli uffizi
al Cristiano appartenenti, così n’avvisò: Epicuri Hortos tolerabiliores esse Lyceo Aristotelis.
[…] Questa Filosofia adunque d’Epicuro, o se altrimenti chiamar si voglia Democritica, vien
molto largamente divisata e comprovata dall’incomparabile Pier Gassendi, Canonico, e poi
Preposto nella Chiesa di Digne, sua patria, teologo e professore delle Matematiche scienze
in Parigi, il quale fu di pura e castissima vita, e uno de’ più illustri ornamenti della Francia, e
quasi l’oracolo stesso delle lettere del secol nostro, di cui giustamente dir si potrebbe ech’egli
intorno alle cose filosofiche e scienze Matematiche ne diede il giudicio come Pittagora e
spiegolle come Platone. […] Ma sia lecito farne qualche parola, e dir solo che il Gassendi,
avendo appreso nelle scuole la Filosofia d’Aristotele, e da esso poi tutti i varii sistemi degli
antichi Filosofanti, per quanto gli fu permesso dalla condizione umana, e dal suo proprio inte-
dimento e abilità, volle dopo seguitare e perfezionare quella d’Epicuro, come più acconcia e
proPorZionata Filosofia d’ogni altra, ammettendo gli Atomi principii di tutte le cose corporee;
[…]. Sostenendo però che Dio gli abbia creati, e che Dio avesse lor dato il movimento e il
distendimento e la figura. […] Renato desCarTes, prendendo egli più alti principii, fece da
se stesso un altro sistema di Filosofia, il quale ebbe epr fondamento principale d’essa in pro-
vando l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, e su questi veri e saldissimi fondamenti
gettò le sue radici quella sua altissima Filosofia, raggirando sempre le sue Meditazioni intono
a sì nobili e certi principii, a cui aggiunse degli altri a tutti palesi; i quali sono così conformi
a’ buoni e giusti sentimenti, che molti d’essi veggonsi tratti dagli Autori più approvati della
Chiesa. In modo che riconosciutosi ciò dal Padre de Farvague, ch’era allora uno di quelli che
gravemente si opponevano a Renato, divenne egli poi uno de’ più grandi difensori di lui, aven-
do chiaramente in essi ritrovato i medesimi sentimenti della Transunstanzione, ch’era quasi
l’unico e solo punto che l’arrestava. Il che dopo qualche tempo distese nelle sue Conclusioni
Teologiche, le quali aveva ancora cavate dal libro il Cardinale d’Ailly, e Vescovo di Cambrai,
aveva fatto sopra il Maestro delle Sentenze, per manifestare che questo Cardinale propose l’o-
pinione di Renato toccante gli accidenti della Santissima Eucaristia, conforme alla definizione
del Concilio Ecumenico di Costanza».

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appartenenti alle più differente sètte, cosa che avreb-
be potuto far pensare a un esito scettico della Lette-
ra. Difendere la libertà di pensiero, facendo cenno
alle diversità e all’incertezza delle opinioni umane,
avrebbe necessariamente condotto all’oscurità circa i
segreti della natura e della fede (probabilismo teologi-
co)? Non si può concludere che il pensiero di Valletta
giunga a un esito scettico o al probabilismo teologico,
perché se è certamente vero che tutto ciò che gli uomi-
ni possono raggiungere nella loro ricerca è solamente
ciò che è probabile, tuttavia la probabilità può essere
sempre accertata, seppur momentaneamente, secondo
la lezione di di Capua, attraverso l’esperimento. Inol-
tre Valletta non nascose il suo giudizio negativo sui
sofismi del probabilismo teologico e morale il quale
non deve essere mai confuso con quello scientifico:
il probabilismo come corrente teologica non sarebbe
mai stato accettato dai promotori della libertà del fi-
losofare, perché esso avrebbe condotto alla mancan-
za di un principio di autorità e, sul versante morale,
al lassimo. Separando dunque il campo della filosofia
da quello teologico-morale, si concede alla prima uno
spazio indefinito da poter esplorare, accompagnato da
una sorta di conservatorismo teologico e di rigorismo
morale: se la libertà è ritenuta pericolosa nel campo
dell’interpretazione teologica, è tuttavia nutrimento
nel campo delle opinioni filosofiche. Quanto più fer-
mo rimane il patrimonio delle verità rivelate, tanto più

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incerto diviene il traguardo delle scienze umane235. Il
presunto scetticismo di Valletta mirò esclusivamente a
rendere dubbiosa la possibilità di accedere alla cono-
scenza del sovrumano. Quanto al resto Valletta rimase
fiducioso nelle capacità dell’uomo di svelare attraver-
so la scienza i segreti della natura sulla scia dell’otti-
mismo baconiano236. I moderni superarono gli antichi
con le loro scoperte e le nuove interpretazioni della
natura attraverso il metodo sperimentale:

E noi sopravanzando in due mila anni d’esperienza,


siam piuttodto superiori. Indi Cicerone stesso, sin dà
suoi tempi, vantava di essersi la sua età ugualmente
fatta superiore nell’arti e nelle scienze, perché più fi-
nalmente rese migliori e perfette, come ugualmente
deì suoi tempi affermò Tacito: Nec omnia apud prio-
res meliora, et artium imitanda posteris. E che i Mo-
derni abbiano trapassato, e sopraffatto gli Antichi,
egli è chiaro per tanti sperimenti, e nuovi instrumenti
per essi fatti nelle celebri Accademie di Firenze, del-
la Francia, della Germania, dell’Inghilterra, di Lipsia
ed altrove237.

Valletta passò in rassegna le scoperte dei novatores,


dimostrando quanto avessero travalicato le convinzioni
235 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., pp. 136-139.


236 Badaloni, Introduzione a G.B. Vico cit., pp. 215-216.
237 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., pp. 173-174.

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degli antichi e, in particolare, di Aristotele: la natura
dei corpi, i regni naturali, la generazione, la Terra e
l’Universo furono indagati dagli scienziati Galilei, di
Capua, Cornelio e Redi238. È manifesto che Valletta, in-
dugiando sulle scoperte dei moderni, avesse modificato
238 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., pp. 177-179: «E chi per molto ha passeggiato ne’ Licei, e per poco dimorato nelle
Scuole de’ Filosofi moderni, ben conosce la natura di tanti animali, de’ quali non favella
Aristotele, insegnata dall’Aldrovando, dal Vorstio e dal Bauhino; la virtù, e la qualità di tante
erbe e di tante piante portate a noi dagli Antipodi, e fatte descrivere dal Principe Federigo
Cesi, ed ora più abbondamente descritte nel libro detto Hortus Malabaricus; la natura di tanti
minerali e di tante cose acculte, taciuta da Aristotele scoverta dal Cardano, dallo Scaligero,
da Giorgio Agricola e da Ferrante Imperato. Ed intorno alla struttura del corpo umano quan-
te cose si sono scoverte da’ moderni? Gasparre Asellio ritrovò le vene lattee: il Pacqueto
il sacco latteo, col dutto toracico, chilifero; Virsungio il canaletto pancreatico; Tommaso
Bartolino i vasi linfatici; Maercello Malpighi quante meraviglie ha detto intorno alla struttura
del cervello, delle ghiandole, e de’ polmoni; e l’ovario delle donne, che distrugge affatto la
dottrina della generazione dell’uomo d’Aristotele, ritrovato dal Vanhorne? E l’aggiramento
del sangue da Guglielmo Harveo, dimostrato pria da Paolo Serpi e da Andrea Cesalpini, e
tanti sperimenti nella natural Magia del nostro Giovambattista Della Porta; le maravigliose
invenzioni nella Chimica da Basilio Valentino, da Teofrasto Paracelso e dal Vanhelmont; e le
osservazioni alla circumpulsione, secondo la mente di Platone; intorno alla vita, al nutrimen-
to, alla parentela dell’aria, dell’acqua, descritte dal nostro Tommaso Cornelio; e tante altre
spiegazioni del Capucci, del Severino, del nostro Lionardo da Capua ne’ suoi Pareri e nelle
Mofete, e di Francesco Redi. Il nobilissimo ritrovamento dell’argento vivo ne’ cannelli per
la prova del vuoto del Torricelli, esaminata alla lunga dal Padre Bartoli Gesuita; de’ Vortici
del gran Renato; e di tanti, tant’altri ritrovati del Verulamio, del Borrelli, del Keplero, del
Gilberto, dello Stelliola, del Campanella, del Digby, del Gassendi, del Boyle e d’altri. […]
Nell’Astronomia che non hanno scoverto i moderni? Dimostrando che i Cieli essere fluidi, e
non più orbi solidi come vollero gli antichi; pianeti stimati prima fare i loro giri intorno alla
terra, muoversi intorno al Sole; Venere mutar le sue fasi, o figure a guisa di Luna; Mercurio
e Marte ancora far lo stesso; Giove essere circondato da quattro stelle, chiamate Medicee, e
Saturno da cinque altre, come disse il Cassini; esser la Luna un corpo di superficie disuguale
e montuosa; ritrovarsi nella faccia del Sole molte macchie di disuguale grandezza e di varia
durazione, agli antichi ignote; e la qualità e la disposizione delle Comete e d’altri corpi celesti,
non intese da Aristotele ed investigate da Ticone e dal Galilei; […] ne’ gravi cadenti accele-
rarsi il moto secondo i numero spari, ed essere il tempo radice quadrata dfello spazio decorso,
e non già esser vera la dottrina d’Aristotele il quale disse che i gravi di diverso peeso avessero
diversa accelerazione, secondo la proporziione della gravità; il mezzo non continuare, ma im-
pedire piuttosto il moto de’ proetti; […] l’aria essere un corpo elastico, e potersi questa estrar-
re da qualche spazio; […] Ma qual penna potrà giammai abbastanza celebrare i nobilissimi
ritrovanti del Telescopio, del Microscopio, dell’Igroscopio e del Termometro; della Bussola
nell’arta nautica, e dall’istromento da render dolci le sale acque del mare, e di cotante altre
cose nuove che alla giornata si van ritrovando? Onde si viene più e più sempre a conoscere la
debolezza dell’antiche Filosofie e la verità delle moderne […]».

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il carattere della scienza, da probabilità a verità,
quest’ultima offerta dai sensi, inizialmente oscura e
senza discorso, ma successivamente resa compresibile
per merito della sperimentazione. Inoltre s’affacciaro-
no l’idea di progresso intellettuale e l’identificazione
della filosofia con la ricerca naturalistica, dimostran-
do così quanto Valletta si fosse mosso esclusivamente
nell’orbita metodologica della riflessione investigante,
subendo pertanto l’influsso di Cornelio e di Capua. Il
pensiero di Valletta fu dunque più vicino all’ambito in-
vestigante che a quello del cartesianesimo puro, seb-
bene quest’ultimo avesse influenzato i membri investi-
ganti la cui difesa fu pertanto estrinseca: Descartes fu
presentato come pensatore conciliabile con la teologia
di Sant’Agostino, un filosofo dunque cristiano che at-
tinse dal Genesi per affermare l’esistenza di Dio e l’im-
mortalità dell’anima, conducendo vita devota, attaccato
solamente per gelosia degli aristotelici:

Questa è qiuella Filosofia di Renato, il quale sdegnan-


do di vedere più involte e deturpate le scuole Cristia-
ne nelle Filosofie de’ gentili, meditò e distese una Fi-
losofia affatto lontana dal Paganesimo, confermando-
la alla nostra Santa Religione […]. Questa è dunque
quella Filosofia di Rento, il quale, considerando che
tutta la Filosofia Agostino il Santo distinse in due soli
principii, che sono: l’immortalità dell’anima, accio-
ché noi stessi conosciamo e l’esistenza di Dio […].

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Questa è dunque quella Filosofia di Renato, alla quale
diede il titolo di Monsù Parlier Antiques fides, Theo-
logia nova […]239.

Ricostruendo i lineamenti di Descartes quale filosofo


cristiano che finalizzò le sue ricerche per dimostrare le
verità di fede, Valletta fu consapevole di ripetere le esi-
genze del tomismo: egli diede dunque ragione alle obie-
zioni degli Scolastici secondo cui la filosofia cartesia-
na fu semplicemente una riedizione in chiave moderna
del tomismo? Pare proprio di sì, come deduciamo dalle
sue parole:

Che ha a che fare la ragione umana colla Teologia


stessa? Quemadmodum enim, dice il Verulamio, The-
ologiam in Philosophia quaerere perinde est, ac si vi-
vos quaeras ingter mortuos, ita contro Philosophiam
in Theologia quaerere aliud non est, quam mortuos
qauerere inter vivos.Oltreché la Filosofia egli è ancel-
la e serva della Teologia medesima […]240.

I due campi non furono pertanto del tutto indipenden-


ti e opposti, tuttavia secondo Valletta sarebbero dovuti
rimanere distinti, per permettere alla filosofia di eser-
citare il suo pieno diritto alla libertà, assicurando alla

239 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., pp. 181-183.


240 valleTTa, Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di essa (1691-

1697) cit., p. 187.

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religione stessa una purezza non inficiata dai sofismi
della logica aristotelica. La polemica contro la teologia
scolastica ebbe dunque senso se intesa come diatriba
per la libertà della ricerca che aristotelismo e scolastici-
smo negarono, poiché costrinsero la natura a seguire la
metafisica. La critica di Thomas More, di Jean Gerson,
di Leonico, di Pico, di Fludd e di Malebranche si rivolse
contemporaneamente sia all’aristotelismo sia alla sco-
lastica, perché tali pensatori ritennero che il pensiero
dello Stagirita fosse stato più adatto alle dispute e alla
dialettica che alla religione cristiana, riempiendola di
eresie ed errori. Contrariamente il pensiero di Platone è
più sapienza che filosofia e se si fosse scelta una dottri-
na dell’Assoluto per confermare le verità di fede, allora
sarebbe stato preferibile il platonismo all’aristotelismo.
Qualora qualche libro di filosofia cattolica contenesse
affermazioni in contrasto con la fede, sarebbe necessa-
rio condannare la singola proposizione o l’intero libro
il quale può contenere numerose affermazioni che nulla
hanno a che fare con la religione? Non vi è ragione,
secondo Valletta, di togliere la libertà del filosofare per
una singola proposizione eretica, perché togliere la li-
bertas philosophandi significa eliminare la libertà della
stessa opinione, perché opinare e filosofare sono la me-
desima cosa. La verità è dunque ricercata da coloro che
intraprendono la strada della filosofia, sebbene la verità
stessa sia raggiunta solamente dalla religione: all’uomo
non resta che la libertà di aggirarsi come meglio crede

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in campo filosofico, cosciente che in quest’ultimo non
si potrà mai raggiungere alcuna verità definitiva. Quan-
to alla libertà, Valletta fu consapevole di ripetere le pa-
role di Spinoza presenti nel suo Tractatus?

Se fosse altrettanto facile comandare agli animi come


alle lingue, ogni regno sarebbe sicuro e nessun domi-
nio diventerebbe violento. Ciascuno infatti vivrebbe
secondo l’ingegno di chi comanda e saprebbe, per il
solo decreto di costui, ciò che è vero o falso, bene o
male, giusto o ingiusto. Ma questo, come notammo
all’inizio del capitolo XVII, non può avvenire; non
può darsi cioè che l’animo di qualcuno sia totalmente
in potere di un altro, giacché nessuno può trasferire a
iun altro il suo diritto di natura, ossia la sua facoltà di
ragionare liberamente e di giudicare ogni cosa, né può
esservi costretto. […] Se pertanto nessuno può cedere
la propria libertà di giudicare e sentire ciò che vuole,
ma ciascuno è padrone dei propri pensieri, ne conse-
gue che in uno Stato non si potrà mai tentare di otte-
nere, se non a prezzo di un grave insuccesso, che gli
uomini parlino su comando dei poteri sovrani, benché
pensino cose diverse e contrarie. […] Dai fondamenti
dello Stato sopra spiegati consegue che il suo fine ul-
timo non è dominare, né controllare gli uomini con la
paura e renderli schiavi di qualcuno, bensì quello di
liberarli dal timore, affinché ciascuno viva, per quan-
to è possibile, sicuramente, ossia affinché ciascuno

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conservi nel modo migliore il suo diritto naturale a
esistere e ad agire senza danno per sé e per gli altri.
[…] Il fine dello Stato è dunque, nei fatti, la libertà241.

Certamente Valletta nascose tale fonte per il pericolo


che avrebbe corso d’invalidare la sua difesa prestando-
si alle accuse di spinozismo: Valletta reagì solamente
alla temperie liberale di cui lesse nelle gazzette olan-
desi e inglesi. Le tesi di Valletta furono in realtà lon-
tane da quelle di Spinoza e di Descartes: dal filosofo
olandese lo separò la concenzione di un intelletto che
non può conoscere lo sterminato campo dell’ignoto e
l’idea secondo cui la religione deve rinunciare a valer-
si della ragione umana come strumento dimostrativo;
da Descartes infine lo separò l’esigenza di dimostrare
filosoficamente l’esistenza di Dio. Il filosofo antico
più congeniale a Valletta fu Epicuro il quale confinò
il divino in una sfera in cui potesse disinteressarsi del-
le vicende umane. Quanto al pensatore moderno, Huet
seguì al meglio la tradizione epicurea, perché capì sia
l’impossibilità di spiegare razionalmente i misteri della
fede sia la necessità di sottoporre al vaglio della ragio-
ne il messaggio deformato delle cose tramite i sensi242.
Nella Lettera l’elemento caratterizzante della difesa di
Valletta fu dato dal fatto che tutta la filosofia dei mo-
derni fosse pia, santa e accordabile con la fede cristiana,
241 B. sPinoZa, Trattato teologico-politico, XX, pp. 724-727, in sPinoZa, Opere, a cura di

F. MiGnini, Mondadori, Milano 2007.


242 CoMParaTo, Giuseppe Valletta cit., p. 217.

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perché derivante dalla sapienza di Adamo e di Mosè.
La Lettera gli parve tuttavia carente sul piano storico,
inducendolo a completarla attraverso “l’istoria filosofi-
ca”, mostrando le vicende di quella filosofia perenne e
antica quanto il mondo, perché tramessa da Adamo.

La giustificazione storica del corpuscolarismo


nella Istoria filosofica

Tra la fine del 1703 e gli inizi del 1704 fu data alle
stampe, imperfetta, clandestinaed edita all’insaputa del
suo autore, una ricerca in materia di storia della filo-
sofia che fu indicata nelle intitolazioni apocrife come
Istoria filosofica, Storia della filosofia e Storia della
filosofia corpuscolare243. Quest’opera fu l’esito di una
riflessione decennale iniziata con una traccia di poche
righe inserita ad apertura del trattato inquisitoriale del
1691-1692. Quest’ultimo fu compilato per analizzare
le ragioni filosofiche dei tumulti e delle lotte cittadine
provocate, a partire dal 1688, dal noto “processo agli
ateisti”, teso a colpire gli intellettuali atomisti napole-
tani. Negli anni 1693-1694 il discorso originario subì
una profonda frattura, perché Valletta sottopose il tratta-
to a un processo di modificazione e arricchimento della

243 Esistono cinque esemplari della stampa clandestina di cui non sono state ritrovate le

copie manoscritte; sono inoltre prive di indicazione dell’autore, della data e del luogo di pub-
blicazione e di titolazione. Il titolo qui utilizzato è quello proposto da Rak, mentre, nelle
lettere a Magliabechi, valleTTa chiamò quest’opera Filosofia.

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sequenza tematica originale, in particolare per ciò che
riguarda l’inciso filosofico, progressivamente arricchi-
to di argomentazioni. Dopo la pubblicazione del trattato
antinquisitoriale, avvenuta nel 1694 con la successiva
traduzione latina, Valletta iniziò la revisione della trac-
cia filosofica, rimasta a livello di semplice accenno nel
trattato – la tradizione della filosofia italica e del pitago-
rismo, la continuità con la tradizione platonico-demo-
criteo-epicurea e la rottura di tale tradizione filosofica
a causa dell’aristotelismo –, con lo scopo di difendere
l’attività di ricerca dell’ultimo quarantennio napoletano,
motivando diversamente i toni attraverso una trattazione
teorica e storica più completa dei singoli temi. Il giurista
napoletano procedette dunque a un’analisi storiografica
della tematica libertina di Napoli, non più intesa come
episodio contingente della polemica tra moderni e tradi-
zionalisti, bensì allacciandola a un piano più generale,
cioè quello del contrasto secolare tra la filosofia peren-
ne e la tradizione aristotelico-scolastica. Con tale storia
della filosofia si sistematizzò da un lato il materiale di
circa un quarantennio di ricerca condotta a Napoli – la
parte strettamente filosofica –, dall’altro si definirono le
componenti ideologiche degli intellettuali del gruppo in-
vestigante. Sebbene fosse il manifesto in cui si definì la
posizione di un gruppo, quello del “ceto civile”, l’opera
si presentò soggetta a diverse interpolazioni, elaborate
in discussioni di gruppo: la scrittura ne risultò composita
ed eterogenea, il che fu da attribuire sia alla sua matrice

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antinquisitoriale sia al difficile tentativo di Valletta di
ricostruire storicamente un’altra tradizione filosofica
europea e mediterranea moderna che avrebbe avuto una
sostanziale continuità storica con le prime filosofie della
natura degli antichi, alternativa a quella aristotelico-sco-
lastica. Si trattò dunque di un’operazione intellettuale
molto complessa sotto il profilo delle ragioni storiche e
formali. Fare storia della filosofia – all’inizio delle sue
prove – significò per la cultura libertina europea celebra-
re la possibilità di storicizzare il proprio lavoro critico e
dei gruppi che ne sostennero l’attività a livello sociale.
La storia vallettiana si pose pertanto in opposizione ri-
spetto alle storie prodotte dalla cultura classico-cristia-
na, caratterizzate dall’atemporalità e dalla mitizzazione
di una gamma di idee sottratte a ogni argomentazione; la
scrittura di Valletta si pose in accordo con i criteri della
ricerca europea del tempo, dal Malebranche a Locke, nel
tentativo di fissare i criteri di misurazione dei fatti e delle
idee all’interno però di parametri storici. Scopo di questo
scritto fu dunque di procedere a una prima raccolta dei
materiali di ricerca per elaborare una forma storica della
filosofia, considerata tra il medio e tardo secolo 17º e il
primo ventennio del secolo 18º, accertando così come
si fosse giunti a una revisione della nozione stessa di fi-
losofia. Poiché la Istoria di Valletta fu una delle prime
a essere stata scritta in lingua nazionale, i modelli per
una forma storica, che sono stati messi in relazione con
questo testo, possono essere distinti nei seguenti settori:

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· I generi della storia politico-militare;
· I generi delle vite della tradizione classico-rinasci-
mentale;
· Le storie settoriali delle singole scienze della natura
di chiara matrice baconiana;
· I procedimenti neo-storici elaborati dal “popolo civi-
le” per le tecniche giuridiche;
· Le storie filosofiche provenienti dalle aree francesi,
inglesi, olandesi e tedesche;
· Le ipotesi di lavoro presenti nel campo della stori-
cizzazione dei fatti scientifici (le opere di Cornelio e
di Capua);
· La ricerca antiquaria della filologia ecclesiastica;
· La ricerca di Valletta medesimo condizionata dal di-
battito cittadino incentrato sulla manovra da parte
degli ecclesiastici contro gl’intellettuali e culminata
nel 1688 con le denunce a carico di Basilio Giannelli
e Giacinto De Cristofaro e il loro arresto.

Nel 1691 Valletta ricevette il compito ufficiale dalla


Deputazione di provvedere alla difesa dei privilegi citta-
dini in materia di procedimenti inquisitoriali. La ricerca
e l’analisi dei documenti relativi, che nell’ottica della
Deputazione avrebbe dovuto dar vita a un trattato scien-
tificamente e giuridicamente ineccepibile, richiese più
tempo del previsto al giurista napoletano e fu successi-
vamente superato dagli avvenimenti, ossia il tentativo di
mediazione direttamente presso la Santa Sede, e da altre

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scritture di altri giuristi napoletani che riscossero ugual-
mente successo nella polemica cittadina. Anche tali ope-
re adottarono parzialmente uno schema storico, perché
ebbero il compito di articolare un discorso sui privilegi
cittadini e sugli episodi di resistenza antinquisitoriale, in
particolare di quello del 1661: tali opere svolsero dunque
un discorso storicista – l’antica storia dei privilegi della
città di Napoli in materia d’inquisizione – che fu ritenu-
to il più adatto per dimostrare la coerenza della legisla-
zione cittadina. Questi testi, che precedettero il lavoro
di Valletta, s’articolarono tuttavia in un dibattito carat-
terizzato dal confronto tra norme: il loro momentaneo
successo ebbe termine, allorché si attenuò la polemica,
chiedendo l’intervento diretto del pontefice e del viceré.
Il trattato di Valletta non fu invece programmato in sede
di Deputazione: casomai vi fu solamente una discussio-
ne preliminare, perché si trattò d’un incarico ufficiale da
retribuire. Il trattato del giurista napoletano fu infatti di
ampio respiro e, sebbene non si sottrasse alla polemica
antinquisitoriale, si configurò come lavoro sui rapporti
tra comunità e Stato in materia di fede. Nel dicembre del
1694, anno in cui il giurista napoletano terminò il trattato,
quest’ultimo fu continuamente sottoposto a rifacimenti
che ne alterarono lo schema iniziale tanto che crebbe,
al suo interno, l’inciso filosofico che avrebbe avuto il
compito di segnalare, nello schema iniziale, le ragioni di
fondo del dibattito ideologico scoppiato a Napoli: la per-
dita del controllo delle accademie e della circolazione

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dei libri da parte delle gerarchie ecclesiastiche, in par-
ticolare dei gesuiti, coincise con la perdita del potere
amministrativo vicereale. Il collegamento tra questi due
fatti e la decisione di colpire gl’intellettuali atomisti fu
sin troppo evidente e Valletta ebbe chiaro questo nesso;
tuttavia in sede di Deputazione, in cui non gli fu chiesto
un deciso confronto sui temi storico-filosofici – di scar-
sa utilità politica –, il giurista napoletano portò avanti il
compito assegnatogli. Poiché Valletta si rese conto che
non si sarebbe potuto chiarire il problema storico del
controllo delle eresia senza definire le ragioni ideologi-
che che obbligarono il potere, sia politico sia religioso, a
certe forme di controllo, egli decise di staccare il discor-
so ideologico-politico, da consegnare alla Deputazione,
da quello storico-filosofico, iniziando un nuovo e lungo
lavoro riguardante il tema della difesa della libertà di
ricerca e della netta distinzione tra ateismo e antiscola-
sticismo244. Quanto detto ci permette di considerare la
sequenza tematica dell’opera: un’apostrofe al papa ri-
assume la tormentata storia dell’opera e le ragioni della
sua stesura (pp. 1-2); segue una difesa della metodologia
storiografica, della filosofia in generale e della libertà
filosofica (pp. 3-7); s’individuano le due scuole filoso-
fiche, quella greca e quella italica, della quale Valletta
individua Pitagora come suo iniziatore. Dopo la trat-
tazione delle dottrine pitagoriche, il giurista passa allo

244 M. rak, La parte istorica. Storia della filosofia e libertinismo erudito, Guida, Napoli

1971, pp. 11-24.

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sviluppo della corrente atomistica da Democrito a Epi-
curo (pp. 7-18); Democrito prosegue tale tradizione, fon-
dando il corretto metodo d’indagine della natura basato
sull’esperienza. Su tale metodo, esercitato su tutto l’arco
del sapere ed esteso all’ambito morale-politico, Valletta
fonda la successiva filosofia epicurea (pp. 18-47); se-
condo Valletta, le tre tradizioni filosofiche suddette teo-
rizzarono una complessa teoria degli atomi le cui fonti
sono da ricercare nell’antichissima filosofia ebraica e
nelle sapienze originarie (pp. 47-101); su tali premes-
se atomistiche, Platone avvia e approfondisce il suo di-
scorso filosofico (pp. 102-115), creando le premesse sia
della successiva filosofia cristiana dei Padri della Chiesa
sia del futuro pensiero umanistico e rinascimentale (pp.
115-120); parallelamente a tale tradizione di pensiero
se ne sviluppa un’altra negativa, quella aristotelica (pp.
1240-124), causa di tutte le eresie succedutesi (pp. 124-
160), nonché del sorgere di una filosofia anticristiana a
opera dei commentatori e traduttori arabi (pp. 172-194);
su quest’ultima tradizione si fonda la Scolastica, divisa-
si in scuole o sètte aliene da una stretta osservanza del-
la dogmaticca cristiana ortodossa (pp. 194-220); contro
tale filosofia eterodossa si muove una tradizione che si
collega all’atomismo nella sua versione platonica, co-
stituendo la vera ossatura di un pensiero contempora-
neamente scientifico e cristiano (pp. 220-240). L’opera,
mutila nel finale, si chiude con una citazione del Fludd.
Per quanto il quadro generale sia lineare, il discorso

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vallettiano si presenta frammentario se non addirittura
contraddittorio per le seguenti ragioni:
· La Istoria filosofica è il tratto finale di un testo già
elaborato su cui Valletta intervenne di volta in volta,
modificando il tema precedentemente fissato e inse-
rendo nuove interpolazioni che tesero a modificare
gradualmente l’aspetto dell’opera senza che il giuri-
sta avesse proceduto a una ristrutturazione generale
del sistema stesso;
· Le sezioni testo non completate, le ripetizioni, i vuo-
ti e i ripensamenti (per esempio le ascendenze pita-
goriche ricostruite solamente dopo aver precisato la
consistenza della filosofia italica antica) avrebbero
potuto essere letti come articolazioni di un’opera illi-
mitatamente aperta a integrazioni – legata agli even-
ti del dibattito cittadino – e disponibile a introdurre
continuamente nuovi materiali di ricerca ricavati dal-
la saggistica sperimentalistica meridionale.

Lo schema esposto non esaurisce naturalmente la


lettura della Istoria filosofica, perché a monte se ne
possono suppore altri: il testo si presenta con una ca-
ratteristica struttura a tesi (la tradizione atomistica e
la sua coerenza con la religione cristiana, la devizione
eretica dovuta alla filosofia peripatetica etc.) e una a
difesa (la rivalutazione del pensiero di Pitagora, di De-
mocrito e di Epicuro, il valore scientifico della dottri-
na degli atomi e, infine, la sua sostanziale accettabilità

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con la prospettiva cristiano-cattolica). Quest’ultima
strutturazione dell’opera è dissimulata, ossia si inseri-
sce nel primo schema precedentemente illustrato, per-
ché una storia “ideologica” non avrebbe potuto non
fare i conti con il forte clima di ostilità nei riguardi
di ogni novità, tra cui vi fu la filosofia corpuscola-
re, indicata – seppur indirettamente, mediante la ri-
costruzione storica – come la migliore delle filosofie.
Il problema fu d’inserire in schemi già collaudati e
accettati un discorso volto alla scoperta di una filoso-
fia alternativa, di punti di contatto tra la tematica ato-
mistica e l’ortodossia religiosa, rileggendo i materiali
della tradizione patristica secondo una nuova ottica,
differente da quella scolastica, ritenuta deviante. Una
lettura “ambigua” fu dunque dovuta alla discordanza
tra struttura dell’opera e singoli tratti del discorso, il
tutto motivato da una scelta intellettuale di fondo, os-
sia la teorizzazione dell’incertezza di cui Leonardo di
Capua fu l’esponente di maggior spicco nell’ambiente
medico-scientifico investigante. Poiché tra i novato-
res napoletani si diffuse una concezione più elastica
della cultura tendente a rintracciare nella strumenta-
zione concettuale messa a punto da di Capua – la te-
oria dell’incertezza – un mezzo di apertura verso uno
spazio teorico vuoto, l’accettazione di un certo grado
d’incertezza, intesa come apertura coraggiosa da un
punto di vista concettuale, passò anche in campo sto-
riografico-filosofico, cioè nelle analisi delle opinioni

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contrastanti245. Il movimento del discorso vallettiano
andò però a discapito di un quadro d’indicazioni cro-
nologiche ben determinate: Noè e la Sapienza egizia
sono separati da due eventi generalissimi, il Diluvio
e la Divisione delle Genti; la Scolastica e le sue fasi
sono state datate in modo approssimativo; i rapporti
storici tra le sapienze sono indeterminati (la Sapienza
ebraica precede o segue Mosè? Da quest’ultima trae
origine la Sapienza dei Galli? Gli Egizi sono prepo-
sti o posposti agli Ebrei?); Ferecide Siro fu maestro
di Pitagora, tuttavia Valletta indica quest’ultimo come
iniziatore della filosofia italica. Oltre a tali interroga-
tivi e a volontarie imprecisioni cronologiche, Valletta
fece riferimento all’ipotesi di un’originaria sapienza
di casta (Brachmani, Rabini, Magi etc.) che detenne il
potere politico e intellettuale; al di là del richiamo ba-
coniano di una sapienza filosofica, volutamente alte-
rata in linguaggio popolare ricco d’immagini, Valletta,
facendo coincidere la prima filosofia con una domina-
zione di casta, tramutò per analogia il “popolo civile”
napoletano in una nuova casta detentrice della nuova
cultura e del nuovo ordine sociale, tesa a soppianta-
re la filosofia scolastica e probabilmente a irrigidirsi
anch’essa nelle proprie verità. Malgrado lo schema in-
dicato, Valletta trattò in modo più esteso e complesso
la filosofia pitagorica rispetto alle prime Sapienze e, in
245 L. GiansiraCUsa, La giustificazione storica del corpuscolarismo nella “Istoria filoso-

fica” di Giuseppe Valletta, «Rivista di Storia della Filosofia», XLIII (1988), Angeli, Milano,
p. 183.

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particolare, a quella mosaica, nonostante l’importanza
di queste ultime per ricostruire la condizione origina-
ria della filosofia corpuscolare. L’andamento “sofisti-
co” delle argomentazioni presentate dal giurista napo-
letano rimane spesso polemicamente costrittivo e per
tale ragione non è esente da vuoti concettuali: è il caso
dell’identificazione di Mosè, fondatore della sapienza
ebraico-cristiana, con Mocho, favoloso padre dell’ato-
mismo, la cui soluzione, preparata attraverso diverse
notazioni, è adottata come se fosse scontata. Le di-
gressioni della parte storica postulano una conoscen-
za filosofica pacificata dal documento storico stesso
che costituisce per analogia l’equivalente letterario
della sperimentazione in campo scientifico246. Fedele
alla sua intenzione di ripercorrere tappa dopo tappa la
storia della filosofia prima di giungere al pensiero di
Gassendi e Descartes – cosa peraltro non compiuta –,
Valletta ripeté, all’inizio della sua Istoria filosofica,
l’enunciazione della Lettera e le ragioni per le quali
scelse “la parte istorica”:

Tralasciando adunque la parte disputabile, dalla quale


sempremai la Verità va lontana, opponendosi ragioni
a ragioni, argomenti ad argomenti e tal volta sofismi
a sofismi, con perpetue liti e tenzioni, ond’ebbe a dir-
si: Nil agit exemplum litem quod liite resolvit, con
assai deliberato consiglio, ho scelto la parte Istorica,

246 rak, La parte istoria. Storia della filosofia e libertinismo erudito cit., pp. 32-38.

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in qua ponere argumenta licet, non argumentari. Poi-
ché, essendo l’Istoria Maestra della vita e de’ tempi
e de’ costumi, allo scrivere di Cicerone stesso, potrà
assai bene acconciamente comparire più schietta, e
più sinceramente difendersi la Santità Vostra la causa
onestissima, e ’l Diritto, di questa Filosofia iniquissi-
mamente oltraggiata dalla turba de’ Peripateci. Così
furon degni di grandissima lode tanti Scrittori, e Greci
e Latini, i quali a questo mio metodo so appigliarono,
ponendo perpetuo silenzio a quella sorte di dispute che
sembrano inventate per tormento degl’ingegni e per
bandirre la Verità dalle Scuole licenziosissime delle
ciancie, volli dire de’ seguaci di Aristotile. Gli Eretici
stessi dettero questa lode al dottissimo Cardinal Ba-
ronio, il quale, dovendo scrivere delle cose attenenti
alla nostra Chiesa Cattolica, elesse, con assai matu-
ro e sano avvedimento, la parte Istorica, per trarne le
conseguenze più vere, e reali. […] Farò in somma che
l’Istoria ubbidisca e giovi alla Fiosofia247.

La filosofia, maestra di vita e strada verso la sapien-


za, significa libertà umana; essa è pericolosa se volge la
sua ricerca verso il divino, ma necessario qualora inve-
stighi i misteri della natura:

Anzi conobbero i Gentili medesimi non dovere il buon


Filosofante più che oltre considerare nelle Celestiali

247 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., p. 220.

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cose di quelloa che a lui si appartiene: Eos solum
(ebbe a dir Simplicio) de causus naturalibus philoso-
phari statuisse, nequequam autem de iis quae super
Naturam existebant. E Platone nel libro delle Leggi
accusì d’empietà coloro che che investigar voleano le
cose Divine, anzi troppo curiosamente le ume: Maxi-
mum Deum totumque Mundum dicimus inquirendum
non esse, nec rerum causas multo studio indagandas,
nec pium id dicimus. […] Da quel che s’è detto dell’a-
buso del filosofare parmi potersi intendere perché
Sant’Agostino, dopo aver detto: Nam quicquis omnem
Philosophiam fugiendam putat nihil vult aliud quam
non amare sapientiam, egli stesso poscia soggiugne:
Divina Scriptura non omnino Philosophos, sed Philo-
sophos huius mundi evitandos esse praecipit. Intendea
egli di questo passo di San Paolo: Videte ne qui vos
decipiat per Philosophiam. E volle dire il Santo Ve-
scovo doversi fuggire quella Filosofia, la quale, con
falsi argomenti e sofistici, o secondo le massime del
Mondo, s’indirizza o, per meglio dire, di que’ Filosofi,
pongonsi a fabbricar conghietture di cose divine che
sorpassano l’umano intendimento. […] Voglio da ciò
inferire, Beatissimo Padre, che, lasciate in disparte le
cose attinenti alla Teologia, chi potrà agli uomini di
buona mente negar la libertà di filosofare? […] Tanto
maggiormente che la Natura istessa – invidiosa, per
così dire, di rivelare i suoi secreti che gode di star
ascosa – pur tal volta avarissimamente permette che

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ora una cosa ora un’altra si sveli, come si è fin’ora
sperimentato per tante osservazioni fatte e che si fanno
in molte celebri Accademie dell’Europa, scoprendosi
sempremai novelli arcani, non ché nuove e plausibili
opinioni […]. Nostro intendimentoi è, Beatissimo Pa-
dre, d’andar coì lumi della Filosofia ricercando le Di-
vine cose, sicché ne convenga il metovato rimprovero
di San Paolo e di Sant’Agostino. La Filosofia, tenu-
ta ne’ suoi cancelli, ella è innocentissima, qualunque
Scuola ei voglia seguitarsi, perché liberi in ciò sono
i giudicii degli Uomini, di seguitare qualunque setta
che vogliono […]. Ma non siamo già in que’ tempi
del Gentilesimo quando l’esser Filosofo abbracciava
ancora tutte le parti di quella favolosa Teologia, e che,
per sì fatta stranissima connessione, veniano le diffe-
renti Sette di Filosofia come altrettante Sette di Reli-
gion riguardate248.

Dopo aver dimostrato che la filosofia non arreca


alcun danno al Cristianesimo, purché “tenuta ne’ suoi
cancelli”, Valletta inizia la ricostruzione dei sentieri
antichissimi della filosofia italica il cui fondatore, se-
condo le testimonianze di Giuseppe Ebreo, Ermippo,
Aristobulo e Clemente Alessandrino, fu Pitagora il qua-
le apprese la dottrina atomica degli Ebrei attraverso
gli Egizi e i Fenici, in particolare da Mocho, dai suoi

248 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 222-223.

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discepoli e dalla sètta degli Esseni249. Ciò che Valletta
non chiarì fu il rapporto instauratosi tra gli Ebrei e gli
Egizi cioè se fossero stati questi ultimi “figliuoli de’ no-
stri Patriarchi e i discepoli de’ vecchi Profeti”. Il proble-
ma, lasciato volontariamente nell’ombra, appassionò la
cultura europea e Valletta, che lesse di tale tematica nel-
le gazzette europee e nelle opere di Marsham, Spencer e
Kircher, riconobbe i pericoli di una possibile ascenden-
za della sapienza egizia rispetto a quella ebraica. D’al-
tra parte al giurista napoletano interessò poco l’idea di
una primordiale filosofia di Adamo che si sarebbe poi
scissa in buona, quella egizia, pitagorica, democritea
e platonica, e atea, trasmessasi a partire dal pensiero
di Aristotele. Al momento parve necessario dimostrare
che Pitagora fosse stato, nonostante l’oscillazione tra
questi e Ferecide Siro, l’iniziatore della filosofia itali-
ca. Valletta poté procedere con una limitata esposizione
del pensiero del filosofo di Samo, accennando alla sua
teoria della trasmigrazione delle anime – rifiutata dal
giurista poiché incompatibile con il dogma cristiano – e
alla sua concezione della divinità come unità e come
ente incorruttibile e immateriale250. Alla ricostruzione
249 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 225-228: «Questa adunque Italiana

Filosofia ebbe sua origine da Ferecide Siro, a cui succedette Pitagora, ed a lui il suo figliuolo.
[…] Questa adunque Filosofia, o che di voglian seguitare i principii di Democrito o d’Epi-
curo, ebbe l’origine e ‘l primo suo nascimento nella nostra Magnagrecia, che comprendea
quasi tutta la spiagia marittima del nostro Regno e tutta quella estremità de’ liti lche l’uno e
l’altro mare superiore ed inferiore circorda. […] E tutto ciò che da Mosè fu detto intorno alla
Giustizia egli [Pitagora]ridusse in compendio, al dir del medesimo Clemente l’Alessandrino,
e Giuseppe [Ebreo] stesso […]».
250 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 229-231: «Oltracciò egli fu il primo

che nella Grecia manifestasse, con forti argomenti, l’immortalità dell’Anima […]. E – quan-

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storica della figura di Pitagora seguì un’operazione di
cristianizzazione – analoga a quella messa a punto da
Gassendi – di Democrito ed Epicuro – lasciando nell’o-
blio il maestro Leucippo –, entrambi principi della fi-
losofia della natura e padri, insieme con Pitagora, della
tradizione filosofica meridionale. Esemplare del me-
todo storiografico di Valletta fu il modo con cui egli
dimostrò la fiducia di Democrito nella Provvidenza di-
vina: ben lontano dall’aver posto il mondo come opera
del Caso, il filosofo di Abdera postulò una forza ge-
nerale della Natura (la Necessità, un’oscura intuizione
della Provvidenza) che provvide a creare e a ordinare
il Mondo. Inoltre lo stesso Mondo non avrebbe potuto
che essere composto di atomi, perché la creazione non
fu nient’altro che creazione di questi ultimi. Nella Natu-
ra nulla avviene a caso, perché tutto è stato organizzato
dalle leggi impresse da Dio che governa continuamente
il moto degli atomi i quali si scindono e si ricompon-
gono secondo un ordine supoeriore voluto dalla divini-
tà251. Il limite più evidente della ricostruzione storica

tunque egli sostenesse la strana opinione della trasmigrazione […] – egli si dee nientidimaco
questo fallo a lui condonare, perché nemo fuit Philosophorum, qui peccavit aliqua, come disse
il Gassendi nell’Epistole. […] Egli fu ancora colui che insegnò Dio esser Unità, e mente che
si diffonde in tutte le parti dell’Universo».
251 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 231-237: «Or la medesima Filosofia

di Pitagora fu seguitata da Democrito, descepolo di Leucippo, della nobil prosapia di Ercole,


nel tempo istesso il primo Dittatore […]. Che non abbia Democrito negato giammai la
Provvidenza di Dio, lo va dottamente provando il Gravio nel libro della Filosofia Istorica
[…]. Egli adunque dava due principii, l’uno del Vacuo, altramente Raro e non Ente, e l’altro
del Pieno, chè un Ente denso e solido, formato da infiniti Atomi, o sia particelle indivisibili
insieme annodate. […] ma egli parmi di potere affermare senza alcuna dubbiezza, che dicendo
Democrito farsi le cose a caso, intese egli del Fato. E per Fato intendea l’ordine delle cause
stabilite dalla Provvidenza e dall’Autor della Natura, da lui detto Necessità».

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dell’atomismo intrapresa da Valletta è la scarsa atten-
zione prestata agli aspetti più rigorosamente teoretici
e l’appiattimento delle diversità tra il modello di De-
mocrito e di Epicuro. Valletta rilevò esclusivamente le
affinità dottrinali senza tener conto delle mutazioni nel
quadro concettuale globale dei sistemi; ciò spiega per-
ché a Valletta interessi maggiormente tessere una linea
omogenea di continuità tra il corpuscolarismo antico e
quello moderno senza addentrarsi in spinose difficoltà
teoriche. Finanche nell’analisi della figura di Epicuro,
Vallettà non puntò sui temi dottrinali, ma si servì dell’e-
redità ermetica tramessa dai platonici di Cambridge,
della tradizione storico-filosofica olandese, di Bacon,
di Magneno e di Leonardo di Capua, della simpatia per
il pensiero di Lucrezio, tramandata da Lorenzo Valla
sino alla fine del Seicento, nonché di tematiche tratte
da Gassendi e da Du Rondel ben conosciute e seguite
a Napoli come attestò Vico nella sua Autobiografia252.
Per rivalutare in termini cristiani la filosofia epicurea,
Valletta stilò un lungo elenco di autori che lodarono
Epicuro sin dai tempi antichi: Diogene Laerzio, Cice-
rone, Seneca, Luciano, Petronio, Properzio, Lucrezio,
San Gregorio, Sant’Ambrogio, Lattanzio, Sant’Agosti-
no, Samuel Parcker, Pierre Gassendi, Sebastian Basson,
Claude de Bérigard e Jean Chrysostome Magnen253. La
rivalutazione delle dottrine atomistiche di Democrito ed

252 CoMParaTo, Giuseppe Valletta cit., pp. 230-231.


253 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 239-254.

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Epicuro agli occhi del pontefice e dei suoi contempora-
nei permise a Valletta di evidenziare il minimo comu-
ne denominatore della nuova storia della filosofia che
permise di legare direttamente la filosofia meridionale
investigante – insieme con quella europea del tempo –
alla dottrina rivelata ad Adamo da Dio, offuscata dal
peccato, ma ancora viva nella coscienza degli uomini: il
punto intersecante fu il concetto di “atomo”. L’utilizzo
di quest’ultimo termine avrebbe significato correre il
rischio di cadere nel materialismo. Pertanto due furono
le vie che avrebbero permesso di evitare tale rischio:
· L’una fu di considerare la materia inerte e attribuire il
moto a un ente – Dio – al di fuori della stessa materia;
· L’altra pressupone di dimostrare l’ascendenza mo-
saica dell’atomismo, ossia interpretare in chiave cor-
puscolare il Genesi254.

Valletta trovò utile percorrere quest’ultima via,


poiché ebbe il vantaggio di presentarsi come una
risposta moderata da dare al problema delle origini
egizie della filosofia, nonché permettere di conciliare
cronologia biblica e quella delle sapienze orientali:
questa via di ricerca lasciò tuttavia all’oblio il periodo
antecedente a Mosè e la questione della cronologia
dei libri sacri. Il giurista napoletano si trovò d’accor-
do con altri autori, quali Casaubon, Gale, Selden e
Huet, che identificarono il mitico scienziato fenicio
254 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., p. 255.

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Mocho con Mosè, rifiutando la teoria di Thomas Bur-
net espressa nella sua Archeologia filosofica in cui il
teologo inglese avanzò dubbi circa l’autenticità del-
le testimonianze di Giamblico e Posidonio e l’iden-
tificazione di Mocho com Mosè255. Se Pitagora non
fu considerato il fondatore della filosofia atomistica,
allora la filosofia italica divenne, secondo la ricostru-
zione di Valletta, il termine medio dello sviluppo ge-
nerale dell’atomismo il quale trasse le sue origini da
Mocho/Mosè, influenzando successivamente il pen-
siero di Democrito, Epicuro e Lucrezio. Conseguen-
temente a tale ipotesi di lettura, le unità numeriche
della scuola pitagorica, le quattro radici di Empedocle
e i triangoli del Timeo platonico furono assimilati alla
struttura atomica della natura teorizzata da Democrito
ed Epicuro. L’atomismo rappresentò dunque un’unica
dottrina di cui si sottovalutarono però problemi gravi,
quali la divisibilità all’infinito non ammissibile nel
pensiero atomistico. Solamente obliando le divergen-
ze concettuali delle diverse scuole di pensiero, Vallet-
ta poté presentare una storia della filosofia organica
e omogenea, in cui figurarono anche Aristotele e gli

255 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 255-260: «Quanto al nostro proposito

però non mi pare doversi tener gran conto della considerazione del Burnet nel libro dell’Ar-
cheologia, cioè non aver noi alcuna certa notizia che Sanchoniathon avesse parlato della
Filosofia degli Atomi e seguentemente nemmen di Mocho potersi affermare, imperoché di fa-
cile gli risponderemo, primieramente che se Scrittori contanto antichi non puossi con certezza
affermare che cosa abbiano scritto, molto meno potrassi giudicare con verità che non abbiano
scritto. […] Assai più debole si è l’altro argomento di Burnet, quando ei dice che questa si fu
una invenzione di Posidonio Filosofo per oscurar la gloria di Leucippo e di Democrito, primi
inventori, secondo lui, di questa Filosofia».

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Stoici, raggiungendo così lo scopo prefissato, ossia la
legittimità della riflessione atomistica a lui contem-
poranea, specialmente nell’elaborazione gassendista.

Ma che che sia di ciò, egli non sie fuor di proposito


ridurci anche per la memoria siccome questa Filosofia
degli Atomi (la qual presentemente vien da dottissimi
Inglesi [Boyle] chiamata Corpuscolare), non solo fu
di Democrito, Epicuro, Leucippo e Anassagora, ma di
presso che di tutti i migliori, con poco o niente divario.
[…] Empedocle medesimo disse esser composti gli
stessi Elementi di particelle per la loro picciolezza in-
visibili, ma però simili, e spezialmente formate di una
stessa figura, e rotonde, le quali sono come Elementi
degli Elementi, giusta lo che narra Plutarco nel libro
De Placitis Philosophorum. […] Ma ben tutti può va-
lere il solo Platone, il quale, con Xenocrate, chiamò gli
atomi Grandezze, o sia quantitadi, invisibili, le quali
per la picciolezza non ponno vedersi. E ‘l Pachimero,
nel libro del’Insecabili, allega, in confermamento di
ciò, quel luogo del Timeo ove dicesi il fuoco per tenu-
ità delle particelle penetra tutte le cose; quai vocaboli
sono ancora famigliari al medesimo Aristotele, parti-
colarmente nel libro della Generazione ed in quello
della Metafisica. […] Quindi è ch’Empedocle stesso e
Timeo, tralasciando il termine d’unità usato dagli altri
lor compagni Pitagorici, più chiaramente si servirono
di quello degli Atomi, come osservò il dottissimo

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Gassendi: Ut videat solum a Pythagoricis coeteris dif-
ferre, quod cum Atomos id, quod sunt perspicue nomi-
naverint, illi obscuro vocabulo unitates appellaverint.
[…] Rimanendo sempre intere le medesime particelle,
le quali, come che primi semi di tutte le cose, non pon-
no risolversi che in lor medesime: le simili alle simili
unendosi, cioè le terrestri alla terra, le acquose all’ac-
que, le ignee, ovvero eteree, al fuoco o all’etere. Sino
a tanto che, ricevendo altra mutazione, tornino gli
Atomi di diversa spezie ad unirsi e formare altri corpi,
con perpetuo circoolo di generazione e corruzione256.

La storia della filosofia di Valletta mise in luce una


concezione della materia molto simile a quella di Ba-
con, Campanella, Gassendi e di Capua, intesa come un
fatto vivente257, ben lontana invece da quella presentata
da Ralph Cudworth, platonico della scuola di Cambrid-
ge, il quale accostò, nel tantativo di rivalutare l’atomi-
smo, quest’ultimo allo spiritualismo258. Sulla scia degli
autori suddetti, anche Valletta si affrettò a considerare
la materia non eterna, bensì creata, e sempre uguale a

256 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 261-265.


257 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 265-266: «Per materia non intese
certamente il Bacone altro che gli Atomi ancor confusi e chiamolli materia, come prima di
lui avean fatto i migliori filosofanti, giusta lo che fu osservato da Marsilio Ficino nel Timeo
di Platone: Refert enim Materiam, sive Atomos. Né altrimenti chiamolli il Poeta Astrologo:
Materiaeque datun est cogi. […] Il che, dic’egli [Gassendi], non esser riprovato dagli al-
tri Filosofi, ma bensì confermato dal Padre Campanella in molti luoghi delle sue Questioni
Fisiologiche, dicendo costui sulle parole di Salomone: Creavit Mundum ex materia invisa,
textus Basili aut. Terra autem era invisibilis et inconstructa, et per terram intelligunt mate-
riam primam Expositores […]».
258 CoMParaTo, Giuseppe Valletta cit., p. 234.

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se stessa, perché ogni fenomeno si sarebbe dovuto ri-
solvere in un cambiamento di stato fisico e non nella
creazione o distruzione di materia:

E certamente chi voglia ben filosofare intorno ai prin-


cipii delle cose naturali par che non possa tenere altra
via migliore, più verisimile, acconcia ed adattata al
nostro modo d’intendere – anzi più conforme al co-
mun senso e alla ragione – che quella degli Atomi:
Principia, quae ad omnia possunt accomodari, disse
Aristotele stesso259.

Lo studio della struttura atomica della realtà sugge-


risce il fine unico della virtù che si realizza nel supera-
mento dell’unitaria apparenza fenomenica e delle pas-
sioni nei riguardi dei beni materiali. Fu preso a modello
da parte di Valletta il filosofo Pierre Gassendi il quale
rappresentò l’immagine vivente del valente investi-
gatore della natura e del buon cattolico260. Non pago,
259valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., p. 269.
260valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 270-273: «In fatti tutto agevolmente
si può espliciare colla cosmiglianza delle particelle e della figura de’ pori, più o meno atti al
ricevimento di esse, e dal vario movimento ancora, senza che faccia d’uopo ricorrere all’An-
cora degl’ignoranti, cioè a dire a quei vani vocabili, non significativi, di simpatia e qualitade
occulta, co’ quali si soddisfano gli Aristotelici Trattanto l’ombre come cosa salda. Da quanto
sin’ora detto divien palese con quanta ragione veggasi da’ miglioruomini e più savii di tut-
ta Europa riguardata la Pitagorica, la Platonica, la Democritica e l’Epicurea come una sola
Filosofia. Essendo elle tanto uniformi in ciò: che gli Atomi siano i primi principii di tutte le
cose corporee, e che il sovrano bene non consiste ne’ diletti e ne’ piaceri indegni e brutali,
ma solamente in quelli dell’animo e ne la vita onesta e tranquilla della virtù; […] Or questa
Filosofia, per quel che s’attiene a’ moderni seguaci di Epicuro, ella è stata molto largamente
divisata e rischiarata dall’incomparabile Pier Gassendi, Canonico e poi Prevosto nella Chiesa
Cattedrale di Digne sua Patria, Teologo e Professore delle Matematiche Scienze in Parigi; il
quale fu di puma e castissima vita, ed uno de’ più illustri ornamenti della Francia e quasi dissi
l’Oracolo stesso delle lettere e del secol nostro. Di lui giustamente dir si potrebbe aver le cose

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Valletta s’inoltrò nel difficile tentativo d’interpretare
il Genesi come narrazione della specificazione di una
massa prima indifferenziata di atomi: egli riconobbe
con Celso, Simplicio, Filone e Filopono la possibilità
che Mosè avesse parlato in modo semplice (atechnòs),
sebbene fosse fattibile ricavare dalle sue parole le tracce
della costituzione del mondo fisico. Identificando Mosè
con Mocho e considerando la sapienza ebraica antichis-
sima e prima a ogni altra cultura, fosse essa caldea,
fenicia o egizia, Valletta sostenne che dalle fonti della
sapienza mosaica avessero attinto numerosi autori anti-
chi tra cui Esiodo, Talete, Anassagora, Pitagora, Plato-
ne, Timeo e Democrito. Un ultimo spinoso problema fu
affrontato da Valletta prima di procedere con l’analisi
della filosofia peripatetica: il pensiero platonico e i suoi
sviluppi moderni. Platone fu “Atomista […] uomo tan-
to seguace ed innamorato, per così dire, di Pitagora, che
comperò prima i di lui libri a carissimo prezzo e poscia
quei del medesimo Filolao per dieci mila danari al dir
di Gellio”261. Più interessante il tentativo d’interpreta-
zione della figura di Descartes, al centro di una vasta
operazione culturale da parte di Valletta che avrebbe ce-
lato il Descartes storico. Il pensatore francese divenne il
filosofo della libertà e dell’incertezza, perché rifiutò il

Filosofiche e Scienze Matematiche giudicato come Pittagora ed esplicate come Platone. […]
volle finalmente seguitare e perfezionare quella d’Epicuro come la più acconcia e verisimile
d’gn’altra Filosofia, espliciando col mezzo degli Atomi, o sia particelle, le più secrete maravi-
glie della Natura. Fu quindi seguitata la Filosofia Corpuscolare dalle migliori e più rinomate
Cattedre di Europa».
261 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., p. 292.

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principio di autorità e fondò il suo pensiero su una netta
divisione tra la sfera teologica, il luogo della verità, e
quella della filosofia, il regno dell’opinione. Per queste
ragioni i moderni preferirono Descartes allo Stagirita,
perché egli coniugò “il vero sentiero al migliore e più
certo modo di filosofare che ad un cristiano convenga”:
non per caso Valletta rievocò il dubbio cartesiano (de-
contestualizzandolo) delle Meditazioni – l’unico testo
di Descartes effettivamente letto dal giurista napoletano
– per dare testimonianza della filosofia come esclusivo
campo dell’opinione:

Altro a ciò, nelle cose Fisiche quanto lume egli ab-


bia dato Platone a’ nostri moderni filosofanti si scorge
spezialmente presso Renato, della sottil materia dal
Sole e dalle Stelle versata e sparsa per tutte le parti del
Mondo, ch’è cagione di tutti i moti, la qual fu chiama-
ta da Platone or Anima del Mondo ed or fuoco. Intorno
alla Natura della luce, ei disse ancora altro non essere
che una fiamma in maggiore spazio accesa, appunto
come i Moderni hanno affermato. Onde, di grazia, il
Boile ed altro se non dal Timeo di Platone impararao-
no essere i colori una fiammetta o lume, in certo modo
determinato e fuori vegnente, nelle superficiali parti
del corpo riflettendo e rompendo, dal che i varii colori
derivano? Platone appresseo Villisio e gli altri esse-
re il sangue origine di ogni calore e pascimento della
nutrizione ed Anima de’ Bruti? Donde l’acido? Donde

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se non dal medesimo Timeo la Circolazion del San-
gue, considerata prima dal Sarpi, e poi sperimentata
e divulgata da l’Erveo Inglese? Donde, dico, è tratta
se non dal quel detto di Platone che l’intemperie degli
umori provenga dall’impedimento del circolar moto
del sangue? Donde Villisio stesso apparò sì nobilmen-
te la formentazione del sangue, e che nel cuore proba-
bilmente ella alberghi?262

Al termine dell’analisi della tradizione platonica,


giunge il momento di far fronte alla filosofia di Aristo-
tele: in questo atto d’accusa Valletta si lasciò trascinare
dalla vis polemica, mettendo da parte la ricostruzione
storicistica per far prevalere l’elemento ideologico.
Con un’iniziale e forte presa di posizione a favore di
Pietro Ramo, accusato ingiustamente di eresia da dif-
fidenti arisrtotelici, Valletta individua nello studio del-
la filosofia aristotelica l’origine delle eresie: Abelardo,
Berengario, Eckaert, Wycliffe, Huss, Girolano da Pa-
gra, i Socini, Lutero, Postet, Cremonini, Cardano, An-
drea Cesalpino, Herbert di Cherbury, Thomas Hobbes
e Spinoza furono eretici. Particolare attenzione fu data
al pensiero degli ultimi tre “grandi impostori”263, nei
quali culminò l’empietà aristotelica, perché a loro fu
accreditata il principio dell’unità della sostanza opposto
a quello di Descartes che non abbandonò il dualismo

262 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 303-304.


263 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., p. 326.

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anima/corpo264. Il pensiero di Spinoza giunse nella Pe-
nisola italiana grazie a Niels Stensen che, già prima del-
la pubblicazione del Trattato teologico-politico, entrò
in familiarità con il pensiero del filosofo portoghese.
Fortemente colpito dalla radicalità delle tesi contenu-
to nel Trattato, Stensen inviò una lettera a Spinoza,
comunicandogli tutta la sua amarezza. Poiché non ri-
cevette risposta alcuna, nel 1675, ormai stabilitosi in
Italia, decise di pubblicare la lettera, dando così avvio
alla letteratura critica sulla filosofia spinoziana nella
Penisola. Nella lettera Stensen affermò che nel Trattato
si consente “a tutti di pensare e di dire di Dio ciò che
vogliono, purché non sia contrario all’obbedienza che
è dovuta […] non tanto a Dio quanto agli uomini: il
che equivale a ridurre tutto il bene dell’uomo alla bontà
del governo civile, ossia al benessere materiale”265. La
critica di Stensen mosse contro il principio civile della
tolleranza religiosa e dell’autorità dovuta al pontefice,
per la cui formulazione Spinoza adottò il metodo della
264 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 325-326: «Le scelleratezze fanno ri-

cordarci d’un altro mostro di empietade Aristotelica cioè a dire di Benedetto Spinoza, Giudeo
di nazione ma di professione Ateista, poiché, se ben egli pubblicato avesse nel MDCLXIII
un libro de’ rprincipii di Renato, nulladimeno o si ha a credere che allora era di tal peste
imbrattato, perché nemo repente fuit turpissimus, o perché avesse divisati per minsegnarli in
forma di dimostrazioni ad un sio Discepolo, come si dice nella Prefazione fatta al medesimo
libro dello Spinosa da Ludovico Meyer, ma che in fatti non fusse stato mai Renatista. […]
Non esservi altra via, ei disse, che questa nostra mortale, senza veruna speranza di premio o
tema di supplicio dopo la morte. Esser perciò lecito a chi che sia di recare ad effetto qualunque
desiderio si voglia, secondo lo stato di Natura potere l’un uomo rendersi Signore dell’altro,
ed usar ogni violenza ed inganno, e che solamente a quello che vien disposto per legge dalla
Città ciascuno viene obbligato di ubbidire, perché a lei spetta, dic’egli, di determinare qual
cosa sia giusta o ingiusta, pio od empia, secondo i sentimenti testè mentivati del medesimo
Hobbes e del Baron Herbet».
265 sPinoZa, Epistolario. Carteggio Spinoza/Stensen. Settembre/ottobre 1761, pp. 1444-

1453, in sPinoZa, Opere, a cura di F. MiGnini, Mondadori, Milano 2007.

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certezza dimostrativa. Intorno a tali punti d’accusa si
sviluppò a partire dalla fine del Seicento la successiva
critica antispinoziana. Secondo Valletta nell’ateismo di
Spinoza si compendiò lo spirito del sistema aristotelico:
conduce all’ateismo non tanto la filosofia di Aristotele
con i suoi errori, quanto il tentativo dei suoi “seguaci”
di superare in termini metafisici e dialettici il divario
esistente tra l’umano e il divino e tra la corporeità e l’in-
corporeità. Il disprezzo per dialettica aristotelica, piena
di sottigliezze, ebbe come conseguenza per la teologia e
la morale il sorgere di una nuova logica che si sottrasse
alla verifica dei sensi e della rivelazione. La Dialettica
non fu da rigettare in toto, purché fosse ancorata alla
metodologia cartesiana delle idee chare e distinte e a
quella platonica del sillogismo. I princìpi del discorso
logico sarebbero stati in seguito verificati dalla Natura,
che è giudice della verità, come affermò Valletta sulla
scia di Bacon, Descartes, Arnauld e Ramo:

La natura, cioè Dio, ha impresso in noi, con diversi


gradi di perfezione, un certo discernimento del ben dal
male, e dal falso dal vero, che, quando col cattivo uso
di fallaci argomentazioni, non si corrompe, o impedi-
sce, ne fa tra mille viluppi di mensognem e di cattivi
principii, giudicar dirittamente, e trarre, con distinte
idee, una dall’altra vera proposizione […] Che ché sia
di ciò riman chiaro che, senza la Loca de’ Peripatetici,
ei si può, col lume di non corrotta Natura, ben giudicare

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e silogizare, onde quello sarà sempremai il miglior
metodo di Dialettica che ne fa riflettere in noi mede-
simi al principio del pensare, alle idee chiare o confu-
se e alla dipendenza immediata di una proposizione
dall’altra, già conosciuta per vera; onde siamo in un
certo modo costretti a concedere quella che chiamasi
conseguenza, comme osservasi in varii Dialoghi del
Divino Platone266.

Se la Dialettica aristotelica è nociva per la Filoso-


fia, allora a maggior ragione lo è per la Teologia: il pe-
ricolo corso dalla Teologia rappresenta il pretesto per
Valletta per iniziare la storia della filosofia scolastica.
Il giurista napoletano, dopo aver accennato alla polemi-
ca condotta dalla Retorica del Quattrocento e del Cin-
quecento contro la Logica scolastica scollegata dalla
vita comunitaria, considerò Aberlardo l’iniziatore delle
Schole medievali, tradizione che continuò con Porreta-
no, Pietro Lombardo e Alberto Magno. Seguirono Duns
Scoto e la terza Scolastica che introdusse inutili voca-
boli come l’Ecceità. La fase finale della filosofia delle
Schole ebbe inizio nel XIV secolo, periodo in cui fiori-
rono numerosi commenti alle opere di Aristotele e alle
Sentenze di Pietro Lombardo e durante il quale la Logi-
ca divenne lo strumento privilegiato delle diverse sètte.
Secondo il parere di Valletta fu necessario attendere il
periodo della Riforma, affinché fosse possibile adottare
266 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 340-354.

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una teologia libera nell’organizzazione dei dogmi e da
qualsiasi coinvolgimento nelle dispute sofistiche:

Il primo ad infettarla, per così dire, nella Università di


Parigi, si fu Pietro Abelardo, il quale nel corpo ebbe,
per malignità de’ congionti, il vizio di Eunuco, e nel-
la mente quello di essere soverchiamente addetto alla
Dialettica, degno discepolo in ciò di quel Ruscellino
Inglse che da Giovanni Aventino fu appellato institu-
tore di un nuovo Liceo. […] In somma San Tommaso
nella sua Scolastica seppe adoprare Aristotile contra di
Aristotile per condurre i Peripatetici alla vera credenza
co’ principii del loro Maestro, ma del rimanente fondò
la sua Teologia non sopra la ragione umana, ma sopra
le verità rivelate. […] Discepolo di questo Arrigo, e di
lui medesimo Antagonista e di San Tommaso, fu il fa-
moso Giovanni Duns Scozzese, acutissimo Dialettico,
e per conseguente assai lontano dal vero modo d’in-
dagar la verità. […] Giovanni Duns fu il primo che,
intorno a gli anni di Cristo MCCC, introdusse nelle
Scuole que’ mostruosi e spaventevoli, non men che
Barbari, vocaboli di Supposizioni, Ecceità, Formalità,
Virtualità, Modi intrinseci ed altri simiglianti, o più
strani: onde n’ebbe il nome di Dottor Sottile […]. La
quarta età, per così dire, della Scolastica Teologica,
cominciata di già troppo a degenerare dal suo primo
metodo e purità, si puo dire esse stata dal MCCCXX
in cui fiorì Durando, sino al tempo di Gabriello Biel da

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Spira, tempo veramente ricordevole per gli tanti Co-
mentarii che, senza modo né fine, furon fatti sopra le
opere di Aristotile e sopra il libro delle Sentenze. Tra’
più famosi nel mestier’ de Sillogismi fiorì Guglielmo
Occamo, grande Antagonista di Scoto, detto altramen-
te il Sofista e ‘l Dottor invincibile e singolare, là dove,
prima che divenisse Eretico, appellavasi il Venerabile.
[…]Ascoltiamo quello che della Filosofia Aristotelica
dice Roberto Fludd, quantunque siasi un Autore ac-
ciecato tra dendissime tenebre di superstiziosa e falsa
erudizione: Haec nos Christiani videmus esse vera, et
tamen in isto seculo caduco (in quo Satan videtus ha-
bere dominium) Philosophia Aristotelica /267.

In questo modo s’interruppe l’opera di Valletta in


un’ultima negazione del metodo scolastico e della sua
utilità per la Chiesa. La libertà filosofica ebbe il suo
rovescio in una teologia senza innovazioni e sofismi
che confinò con il fideismo. La Istoria terminò alle so-
glie del Rinascimento, allorché Valletta avrebbe dovuto
intraprendere la discussione della filosofia moderna e
dimostrare che quest’ultima si connette con l’antichis-
sima sapienza mosaica, italica e democritea. Probabil-
mente a tale interruzione non fu estraneo in primo luo-
go il fatto che, all’iniziale ottimismo baconiano e gali-
leiano, atto a svelare con una puntuale investigazione
i segreti della natura, si fece strada la teoria dell’incertezza
267 valleTTa, Istoria filosofica (1697-1704) cit., pp. 354-386

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di Capua, cioè l’idea di una filosofia mobile e provviso-
ria, contraria a una teologia assolutizzante. Proseguire
sulla strada della filosofia scolastica avrebbe significato
per Valletta rifiutare il valore delle Sacre Scritture, del
pensiero della Patristica e della disciplina della Chisa,
rinvigorendo il fronte dei riformatori. In secondo luo-
go Valletta ebbe consapevolezza dei limiti del percor-
so storico-filosofico intrapreso: egli non risolse il pro-
blema del rapporto tra storia sacra e profana; si valse
dell’erudizione olandese per ricondurre la filosofia mo-
derna all’adamitica, sebbene fosse costretto continua-
mente a difendere l’atomismo dalle accuse di ateismo
ed eresia, in particolare per quanto riguarda l’immor-
talità dell’anima e l’esistenza di Dio. Trovò valido ri-
fugio nelle dottrine di Gassendi e Descartes, tuttavia la
crisi del cartesianesimo, del suo dualismo, il successo
del monismo spinoziano e i nuovi interrogativi posti a
inizio del Settecento dal deismo suggerirono ai primi
storici della filosofia una nuova soluzione: non più ri-
condurre l’atomismo alle sue origine adamitiche, bensì
di adeguarlo ai nuovi risultati della scienza newtoniana.
Con la sua via storica Valletta poté sottrarsi alla disputa,
combattuta a colpi di pamphlets a Napoli, elaborando
un’ipotesi storiografica rispondente alla strategia cultu-
rale del ceto medio partenopeo. L’intervento di Valletta
sui materiali offerti dalla tradizione assunse ben presto
un carattere selettivo all’interno di quella che fu la que-
relle des ancies et des modernes: poiché non si giunse

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a una visione del passato che legasse epoca e riflessioni
filosofiche, fu chiara la condanna poco approssimativa
dell’aristotelismo, ritenuto estraneo alla linea dell’orto-
dossia religiosa e della ricerca scientifica. Le premesse
di questa condanna furono da ricondurre al metodo di
Valletta: egli guardò “da moderno” alle auctoritates,
non più assunte indiscriminatamente, ma sottoposte al
vaglio della ragione storica, l’unica in grado di accerta-
re o meno l’attendibilità della documentazione. Questa
metodologia storiografica scisse veritates e auctoritates
il che condusse Valletta a un taglio interpretativo inedi-
to e a una lettura del pensiero patristico più confacente
all’ideologia del “ceto civile”. Furono l’autonomia del-
la ricerca filosofica e l’uso eclettico del pensiero dei
Padri della Chiesa a consentire l’avvio di una stagione
della ragione storica che portò al declino della tradizio-
nale compilazione erudita e alla nascita della historia
critica illuministica268.

268 GiansiraCUsa, La giustificazione storica del corpuscolarismo nella “Istoria filosofi-

ca” di Giuseppe Valletta cit., pp. 189-191.

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Sommario

Fonti primarie

Cornelio T. Discorso dell’eclissi detto nell’Accademia degli Otiosi nel


sì 29 maggio 1653, dato in luce per l’Accademico detto l’Arrestato,
per Camillo Cavallo, Napoli 1652.
— Epistola ad Marcellum Crescetium qua motuum illorum cui vulgo ob
fugam vacui fieri dicuntur vera causa per circumpulsionem ad men-
tem Platonis explicatur a Timaei Locrensis Crathigenae, «Progym-
nasmata physica», F. Barba, Venetiis 1663.
— Meditationum de Mundi Structura liber primus, Ms. casanatense 827.
D’andrea F., Avvertimenti ai nipoti, «I ricordi di un avvocato napole-
tano del Seicento. Francesco d’Andrea» a cura di N. Cortese, L.
Lubrano, Napoli 1923.
— D’Andrea atomista. L’«Apologia» e altri inediti nella polemica fi-
losofica della Napoli di fine Seicento, a cura di A. Borrelli, Liguori,
Napoli 1995.
Di Capua L. Parere divisato in otto ragionamenti ne’ quali partitamente
narrandosi l’origine, e’l progresso della medicina chiaramente l’incer-
tezza della medesima si fa manifesta, Giacomo Raillard, Napoli 1681.
— Lezioni intorno alla natura delle mofete, Salvatore Castaldo, Napoli 1683.
Porzio L.A. De Nonnulis Fontibus Naturalibus, Impensis B. Gessari,
Neapoli 1704.
— Opera omnia, medica, philosophica, mathematica, in unum collec-
ta, atque ad meliorem, commodioremque formam redacta. Tomus II
cit., Felicis Caroli Mosca, Neapoli 1736.
Valletta G. Lettera in difesa della moderna filosofia e de’ coltivatori di
essa (1691-1697), «Opere filosofiche» a cura di M. RAK, Olschki,
Firenze 1975.
— Opere Filosofiche, a cura di M. RAK, Olschki, Firenze 1975.

Fonti secondarie in ordine alfabetico

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del Seicento. Atti del Convegno di studio di Santa Margherita Ligu-
re (14-16 ottobre 1976), La Nuova Italia, Firenze 1977.
Comparato V.I., Giuseppe Valletta. Un intellettuale napoletano della
fine del ’600, Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli 1968.

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Ferrone V., Scienza Natura Religione: mondo newtoniano e cultura ita-
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Carteggio 1642-1648, 1, Barbera, Firenze 1975.
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«Giornale critico della filosofia italiana», Sansoni, XLIII (1964).
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L’ascesa del ceto civile, Olschki, Firenze 1969.
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