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Nell’ambito del diritto del lavoro viene studiato il diritto dei rapporti di lavoro subordinato o lavoro
dipendente (dimensione individuale), insieme al diritto sindacale (dimensione collettiva)
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“E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa,
prestando il proprio lavoro, intellettuale o manuale, alle dipendenze e sotto la direzione
dell’imprenditore” (art. 2094 cod. civ.)
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-Spiegazione articolo:
La relazione contrattuale che si instaura tra prestatore di lavoro e datore di lavoro viene presentata con
determinati elementi strutturali:
- “implicazione della persona del lavoratore” nello scambio contrattuale;
- “collaborazione” (“collaborare nell’impresa”): dal latino cum laborare, inteso come “lavorare
insieme”, nei termini di richiedere una prestazione di lavoro non isolata, ma da integrare con quella degli
altri prestatori di lavoro e con l’organizzazione produttiva nel suo insieme;
Naturalmente, una cosa è la fattispecie tipica in astratto, sulla carta (delineata appunto nell’art. 2094 cod.
civ.) e altra cosa può essere il concreto svolgimento del rapporto di lavoro. Non sempre si rinviene
completa corrispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta. Così può accadere che nel contratto
di lavoro le parti scrivano che la prestazione di lavoro è erogata in autonomia e, invece, di fatto, si
accerta che il prestatore lavora con pieno assoggettamento ai poteri datoriali. Anche perché è evidente che
le due parti del contratto di lavoro – prestatore di lavoro e datore di lavoro – formalmente sono sullo stesso
piano, ma dal punto di vista concreto esiste una ineliminabile debolezza contrattuale del prestatore rispetto
al datore di lavoro (si parla a tal proposito del lavoratore come “contraente debole” e del contratto di
lavoro come “contratto sbilanciato”). Tale inferiorità del lavoratore potrebbe indurlo ad “accettare”, senza
opposizioni, la condotta del datore di lavoro.
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poiché il lavoratore non adempie i doveri che derivano dal contratto di lavoro mettendo a disposizione
dell'imprenditore le sue energie lavorative, ma è necessario e indispensabile che il suo comportamento
sia tale da rendere possibile al datore di lavoro l'uso effettivo e proficuo di queste energie lavorative.
Ciò si realizza anche mediante l'integrazione tra gli apporti dei singoli operatori nel contesto unitario
della funzione e/o del servizio a cui la prestazione lavorativa si riferisce.
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-Contratto «sbilanciato»
Il contratto di lavoro subordinato, a differenza di tutti gli altri contratti civilistici, è strutturalmente
sbilanciato. Si parla del lavoratore quale «contraente debole»
Dal momento che ad esso l’ordinamento attribuisce determinate tutele e un consistente sistema di
protezioni (sconosciuto invece al lavoro autonomo).
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Difatti, la nozione si ricava “in negativo” (cioè per sottrazione) rispetto a quella del lavoro subordinato
indicata nell’art. 2094 c.c.
Si è in presenza di lavoro autonomo, ovvero di un contratto d’opera, quando una persona si obbliga a
compiere in cambio di un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e
senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente.
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in base a quali criteri l’interprete – in primis, il giudice – qualificherà il rapporto di lavoro come subordinato
piuttosto che autonomo? A quali “indici” darà importanza?
• assenza di rischio;
Per un certo periodo, in dottrina, si è tentato di agganciare la subordinazione a profili vari della condizione
socio-economica del prestatore di lavoro: quali debolezza economica, estraneità ai mezzi di produzione…
Tuttavia si tratta di profili storicamente variabili, estranei alla fattispecie tipizzata dal legislatore e,
comunque, sprovvisti di sufficiente idoneità qualificatoria.
L’impossibilità di costruire sulla base dell’art. 2094 una nozione generale e onnicomprensiva di
subordinazione ha favorito una maggiore attenzione da parte della dottrina alle operazioni di qualificazione
effettuate dalla giurisprudenza. La giurisprudenza ha enucleato una serie di indici della subordinazione.
Trovandosi di fronte ad un rapporto di lavoro, essa procede ad un confronto i cui termini di paragone sono
costituiti, da un lato, dalle caratteristiche dello specifico rapporto e, dall’altro, dalle caratteristiche del
modello di rapporto contraddistinto dalla totalità degli indici rivelatori della situazione di subordinazione.
Quanto agli indici della subordinazione, come elaborati dalla giurisprudenza, questi si
distinguono in “essenziali” e “residuali”.
Gli Indici essenziali sono: subordinazione tout court, etero-determinazione, assoggettamento del
lavoratore al potere di controllo e disciplinare del datore di lavoro e inserimento del lavoratore
nell’impresa.
Gli indici Indici sussidiari o residuali, invece, sono: continuità giuridica o materiale, retribuzione
a tempo, vincolo di orario, assenza di rischio per il lavoratore, oggetto della prestazione (ovvero
obbligazione di mezzi e non di risultato), dipendenza da un solo datore, mancanza di organizzazione in
capo al lavoratore e garanzia della retribuzione (non aleatorietà); c.d. nomen iuris.
In definitiva, la riconduzione dello specifico rapporto da qualificare alla fattispecie tipica – quella di cui
all’art. 2094 c.c. – viene affidata all'apprezzamento di una serie di indici, variabili e variamente combinabili
fra di loro. Dunque, si è in presenza di un giudizio di fatto largamente discrezionale.
Al riguardo, la Cassazione ha affermato che, in sede di legittimità, è censurabile solo l’individuazione degli
indici della subordinazione, ma non anche la valutazione delle circostanze di fatto che hanno portato il
giudice a ritenere oppure ad escludere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
Le difficoltà di qualificazione del rapporto di lavoro hanno favorito l’assunzione, tra gli indici
giurisprudenziali residuali, del c.d. nomen iuris ovvero della qualificazione che le stesse parti hanno
eventualmente attribuito al rapporto stesso: si fa riferimento alla qualificazione che le stesse parti del
contratto di lavoro (lavoratore e datore di lavoro) decidono liberamente di formalizzare. In tutti gli altri
contratti del diritto civile tale qualificazione operata dalle parti può considerarsi risolutiva ai fini del
problema qualificatorio. Per il contratto di lavoro subordinato, invece, si pone il problema dello strutturale
squilibrio delle posizioni contrattuali dei due contraenti, uno squilibrio che è tutto a favore del datore di
lavoro e a svantaggio del prestatore di lavoro (definito “contraente debole”). Se quindi si ritenesse di
riconoscere valore, ai fini della qualificazione, al criterio del “nomen iuris”, nei fatti, si affiderà al datore di
lavoro il potere di “imporre” all’altra parte (il lavoratore) la qualificazione che meglio gli aggrada.
Sul tema, fermo restando il principio della prevalenza dello svolgimento effettivo del rapporto di lavoro
sulla volontà cartolare espressa dalle parti, la Cassazione propone qualche apertura al criterio del nomen
iuris, affermando che, ai fini della qualificazione, deve guardarsi anche alla volontà delle parti, nel senso che
se le parti hanno dichiarato di voler escludere l'elemento della subordinazione, non è possibile,
soprattutto se vi è la presenza di elementi compatibili sia con l’uno che con l’altro tipo di rapporto,
qualificare diversamente il rapporto, salvo che non si dimostri che l’elemento della subordinazione si sia
concretamente realizzato nello svolgimento del rapporto.
A tale indice può tuttavia farsi ricorso solo sussidiariamente, ovvero quando la volontà cartolare non risulti
contraddetta dalle modalità di effettivo svolgimento del rapporto, che sono sempre destinate a prevalere in
sede di qualificazione.
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-Casistica
Il caso del lavoratore pony express
“… dalle dichiarazioni rese dai testi, è emerso che il rapporto di lavoro era stato connotato dagli
elementi propri dell’autonomia e non già della subordinazione, atteso che il pony express non aveva
obbligo di orario o di giustificazione delle assenze e, soprattutto, era libero di decidere quante
consegne effettuare” (Trib. Roma, sezione lavoro, n. 6409/2002).
• Il profilo decisivo è il dato della possibilità per il lavoratore di non rispondere alle chiamate e della
mancanza del potere di etero-direzione da parte del datore di lavoro
• Il giudice non rileva pertanto la sussistenza, nel caso di specie, degli indici essenziali della
subordinazione
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La realtà lavorativa è ben più complessa e frastagliata e sovente propone tipologie di rapporti di lavoro
che, nei fatti, contengono elementi della subordinazione misti ad elementi dell’autonomia, che negano
pertanto questi ultimi.
Si tratta quindi di una categoria creata in via interpretativa giurisprudenziale che estende le regole del
processo del lavoro anche alle prestazioni lavorative rese in modo coordinato e continuativo senza
vincolo di subordinazione.
- Continuità la prestazione non è occasionale, ma perdura nel tempo ed importa un impegno costante del
prestatore a favore del committente;
In entrambi i casi si tratta di lavoro autonomo (senza vincolo di subordinazione dice il legislatore).
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Rimane intatta invece la possibilità di stipulare anche in futuro collaborazioni coordinate e continuative
in base all’art. 409 c.p.c. (si ritorna alla situazione passata)
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L’inadempimento degli obblighi predetti può far scattare l’esercizio del potere disciplinare, da parte del
datore di lavoro: sanzioni disciplinari (art. 2106 cod. civ. e art. 7 legge n. 300/70)
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Relativamente all’obbligo di diligenza (che è «specifica» e va ben oltre la diligenza ordinaria, quella del c.d.
buon padre di famiglia, richiesta quale criterio generale per l’adempimento delle obbligazioni dall’art. 1176
c.c.), l’art. 2104 c.c., comma I, sancisce che il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla
natura della prestazione dovuta, dall'interesse dell'impresa e da quello superiore della
produzione nazionale.
2. Interesse dell’impresa: Il richiamo all’interesse dell’impresa impone che la diligenza del prestatore sia
valutata non soltanto con riferimento alle modalità di svolgimento dell’attività allo stesso assegnate, ma
anche con riferimento alla complessiva attività da svolgere nell’organizzazione e alla possibilità di utilizzare
utilmente in questa la prestazione del singolo lavoratore.
Il lavoratore dovrà cioè eseguire le proprie mansioni integrandole nell’organizzazione del datore di lavoro
(qui si registra un nesso con la «collaborazione nell’impresa» di cui all’art. 2094 c.c.)
3. Interesse superiore della produzione nazionale: il richiamo al superiore interesse della produzione
nazionale, invece deve ritenersi abrogato con la caduta dell’ordinamento corporativo.
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-Casistica
• - l’operaio edile che, nel fare la malta, dimentica di usare uno dei suoi componenti essenziali o ne
sbaglia la quantità, provocando una scarsa tenuta dell’intonaco;
• - il tecnico del computer che non si preoccupa di effettuare periodici salvataggi del materiale
informatico
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Agì poi con "negligenza", perché pure rendendosi conto della scarsa dimestichezza con l'italiano e
l'inglese del timoniere "si avventurava in una manovra rischiosa senza procedere alla sostituzione«
(Trib. Genova, giusta causa di licenziamento).
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-Diligenza e collaborazione
L'obbligo di collaborazione è insito nel dovere di diligenza e trova fondamento anche nel dovere di
esecuzione secondo buona fede, poiché il lavoratore non adempie i doveri nascenti dal contratto di
lavoro mettendo formalmente a disposizione dell'imprenditore le sue energie lavorative, ma è
necessario e indispensabile che il suo comportamento sia tale da rendere possibile al datore di lavoro
l'uso effettivo e proficuo di queste, il che si realizza anche mediante l'integrazione tra gli apporti dei
singoli operatori nel contesto unitario della funzione e/o del servizio cui la prestazione lavorativa
inerisce (riguarda).
Cassazione civile sez. lav. 26 settembre 2013 n. 22076
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si tratta di comportamenti del lavoratore, adottati fuori dell’orario di lavoro, ma comunque funzionali
all’adempimento della prestazione di lavoro. Essi sono dovuti proprio in virtù del dovere di diligenza e
di correttezza e buona fede che incombe sul lavoratore subordinato.
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-Casistica giurisprudenziale
Si può sindacare il comportamento del lavoratore che, assente per malattia, si dedichi durante la
convalescenza ad altra attività lavorativa tale da ritardarne la completa guarigione e conseguentemente
il rientro in servizio (Cass. 7.6.1995, n. 6399).
L’espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore, durante lo stato
di malattia, è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento
dell’obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro: guidare una moto di grossa cilindrata,
recarsi in spiaggia e prestare una seconda attività lavorativa sono stati ritenuti dalla S.C. indici, di per sé,
di scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata
guarigione, oltrechè dimostrativi dell’inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque
l’espletamento di un’attività ludica o lavorativa (Cass. 21.4.2009, n. 9474).
Un lavoratore dipendente di Ferrovie dello Stato, che si occupava assieme ad altri colleghi, dello
smaltimento di materiali ferrosi sull’intero territorio nazionale, si era visto contestare dalla Procura
della Repubblica di Belluno il reato di peculato ai danni delle Ferrovie dello Stato, per aver sottratto
indebitamente materiale ferroso.
Il licenziamento viene confermato dalla Corte di Cassazione, la quale sottolinea che «… per il compito
che il lavoratore era chiamato a svolgere – operazione di vendita di materiale ferroso a peso, previa
pesatura – il dovere di diligenza richiesto al dipendente era rafforzato”, dovendo di conseguenza
“considerarsi irrilevante l’affermazione dell’interessato secondo cui egli avrebbe agito osservando le
direttive del proprio superiore gerarchico”.
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Diversa è la soluzione nel caso in cui l’operazione di vestizione sia diretta dal datore di lavoro, che ne
disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione: in questo caso, si tratta di lavoro effettivo e deve essere
retribuito.
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-Dovere/obbligo di obbedienza
Per quanto riguarda il dovere o l’obbligo di obbedienza, l’art. 2104 c.c., comma II, sancisce che il lavoratore
deve osservare le disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore e
dai collaboratori dai quali gerarchicamente dipende. L’obbedienza non è un obbligo autonomo, ma una
modalità necessaria della prestazione di lavoro subordinato, idonea a consentire di verificare l’esattezza
dell’adempimento della prestazione dovuta (insieme all’obbligo di diligenza). Pertanto, l’adempimento del
lavoratore è diligente solo se ha ad oggetto una prestazione: - tecnicamente corretta e osservante delle
disposizioni impartite dal datore di lavoro.
Il principio generale è questo: nel caso di rifiuto, il lavoratore si assume il rischio di risultare
inadempiente se poi il datore dimostra in giudizio la legittimità del suo operato. Pertanto, la regola è
che il lavoratore subordinato debba eseguire comunque l’ordine ricevuto e poi si rivolga al giudice del
lavoro per chiedere di accertarne l’illegittimità, con obbligo di risarcimento in capo al datore di lavoro.
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• Intreccio con il potere direttivo del datore di lavoro (e i suoi limiti): ad es. in tema di mansioni
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-Giurisprudenza
Il lavoratore adibito a mansioni non rispondenti alla qualifica può chiedere giudizialmente la
riconduzione della prestazione nell’ambito della qualifica di appartenenza, ma non può rifiutarsi
aprioristicamente, senza avallo giudiziario, di eseguire la prestazione richiestagli, essendo egli tenuto a
osservare le disposizioni per l’esecuzione del lavoro impartite dall’imprenditore ai sensi degli art. 2086
e 2104 c.c., da applicarsi alla stregua del principio sancito dall’art. 41 Cost., e potendo egli invocare
l’art. 1460 c.c. (eccezione di inadempimento) solo in caso di totale inadempimento del datore di lavoro,
a meno che l’inadempimento di quest’ultimo sia tanto grave da incidere in maniera irrimediabile sulle
esigenze vitali del lavoratore medesimo (Tribunale Latina, sez. lav., 14 gennaio 2014).
Soltanto in via eccezionale, il lavoratore può rifiutare di adempiere quando è posto innanzi a ordini
illeciti che lo esporrebbero a responsabilità penali o nei casi di c.d. autotutela conservativa, quando cioè
l’osservanza della disposizione datoriale pregiudicherebbe suoi diritti fondamentali.
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“Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con
l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione
dell’imprenditore, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”
In particolare, l’art. 2105 cod. civ. pone in capo al lavoratore due obblighi, ovvero:
Secondo una datata ma ancora valida operazione interpretativa, gli obblighi appena citati sono
specificazione della correttezza e della buona fede.
Sia l’obbligo di non concorrenza, sia l’obbligo di riservatezza sono obblighi di contenuto negativo (ovvero
obblighi di “non fare”) finalizzati alla tutela dell’interesse del datore a preservare la capacità di concorrenza
dell’impresa e la sua posizione di mercato.
Risulta controversa la possibilità di estendere il contenuto dell’art. 2105 cod. civ., per poter ricomprendere
comportamenti ulteriori rispetto a quelli specificati.
Mentre la dottrina prevalente è restia ad ammettere estensioni,la giurisprudenza ritiene che gli obblighi di
non concorrenza e riservatezza sarebbero solo un richiamo esemplificativo di tutti quei comportamenti
ulteriori che, per la loro natura e le loro conseguenze, contrastano con le finalità e gli interessi
dell’impresa.
L’obbligo di non concorrenza implica l’astensione del lavoratore da ogni attività in concorrenza (trattare
affari in concorrenza con l’imprenditore), che può essere esercitata tanto per conto proprio, quanto per
conto di terzi. L’obbligo di non concorrenza vige soltanto per la durata del rapporto di lavoro e si estingue
alla cessazione di questo.
In caso di violazione, l’azienda può ripetere i compensi già erogati e chiedere il risarcimento dei danni
provocati dal lavoratore.
Per rafforzare l’intensità del vincolo, è possibile inserire nel contratto una clausola che preveda una penale
da pagare in caso di inadempimento.
Qualora voglia estendersi l’obbligo di non concorrenza oltre la durata del rapporto di lavoro è necessario
venga inserito nel contratto il c.d. patto di non concorrenza. Al riguardo, l’art. 2125 cod. civ. stabilisce i
requisiti essenziali di tale patto affinchè sia legittimo, ovvero:
Il patto di non concorrenza va fatto per iscritto a pena di nullità
L’obbligo di riservatezza impone il divieto di diffondere notizie attinenti all’impresa con pregiudizio per
essa (segreti aziendali). Tale obbligo ha ad oggetto tutte le informazioni di carattere organizzativo e
produttivo, da intendersi in senso ampio (informazioni di carattere tecnico, informazioni di contenuto
commerciale, amministrativo e economico-finanziario).
- le informazioni apprese dal dipendente per via dello svolgimento delle proprie mansioni
Dato il suo fondamento contrattuale, l’obbligo di riservatezza si estingue con il concludersi del
contratto di lavoro, fatto salvo il patto di non riservatezza.
Permane anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro per il ragionevole lasso di tempo in cui
l’interesse alla segretezza può permanere? È discusso in dottrina e giurisprudenza (questione aperta)
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L’attività del lavoratore che si traduca nell’invenzione di procedimenti lavorativi, di prodotti o simili riceve
una specifica disciplina. Norma di riferimento è l’art. 2590 cod. civ., il quale attribuisce al lavoratore il diritto
ad essere riconosciuto autore dell’invenzione industriale realizzata nello svolgimento del rapporto di
lavoro, rinviando alle leggi speciali la disciplina degli aspetti patrimoniali.
- l’invenzione c.d. aziendale, ovvero l’ipotesi in cui l’invenzione è svolta nell’esecuzione e nell’adempimento
del contratto, ovvero l’ipotesi in cui l’invenzione è attuata in orario di lavoro, utilizzando le occasioni e le
possibilità offerte dalla propria posizione nell’impresa; In questo caso, i diritti patrimoniali appartengono al
datore di lavoro e al lavoratore spettano il diritto di essere riconosciuto autore dell’invenzione e un equo
premio (a condizione, però, che il datore di lavoro ottenga il brevetto sull’invenzione o la utilizzi in regime di
segretezza industriale).
- l’invenzione c.d. occasionale, ovvero l’ipotesi in cui l’invenzione rientra nell’ambito dell’attività
dell’impresa, ma è realizzata indipendentemente dal rapporto, fuori dall’orario di rapporto e con mezzi
propri del lavoratore; In questo caso, i diritti patrimoniali appartengono al lavoratore, ma il datore di lavoro
ha il diritto di prelazione (diritto ad essere preferito) per l’uso o per l’acquisto del brevetto.
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Dilatazione dell’obbligo di fedeltà ad opera della giurisprudenza:
Sono ricompresi anche comportamenti ulteriori (rispetto a quelli dell’art. 2105 c.c.) che per la loro
natura e le loro conseguenze contrastano con le finalità e gli interessi dell’impresa o che ledono la
fiducia (es. del lavoratore in malattia che svolge altra attività: intreccio tra violazione degli obblighi di
diligenza e di fedeltà).
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-Casistica giurisprudenziale
Appropriazione di materiale aziendale, sia pure di modico valore, e incidenza sul vincolo di fiducia per
gli adempimenti successivi (Trib. S. Maria. C. V.), anche alla luce dello svolgimento di attività in
concorrenza con quella datoriale.
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-I POTERI del datore di lavoro: i limiti legislativi posti dalla legge n. 300/70
(Statuto dei Lavoratori)
Collegamento tra “poteri datoriali” e “nozione di subordinazione” (art. 2094 c.c.)
I limiti: necessità logico-giuridica di riequilibrare la situazione contrattuale a tutela della dignità del
prestatore di lavoro (c.d. contraente debole)
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È potere giuridico fondamentale del datore di lavoro, finalizzato alla conformazione della prestazione
lavorativa rispetto agli assetti complessivi dell’organizzazione produttiva.
Si tratta dell’insieme dei poteri datoriali volti a garantire l’esecuzione e la disciplina del lavoro conformi agli
interessi sottesi al rapporto di lavoro subordinato.
Norme di riferimento sono gli artt. 2086, 2094 e 2104, comma II, cod. civ.
In particolare:
l’art. 2086, sancisce che “l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i
suoi collaboratori”,
l’art. 2094, sancisce che “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a
collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto
la direzione dell’imprenditore”
l’art. 2104, al comma II sancisce che “il prestatore di lavoro deve osservare le disposizioni per
l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo
dai quali gerarchicamente dipende”.
È chiaro che, in nome del potere direttivo, il datore di lavoro detta le disposizioni per l’esecuzione del
lavoro e dirige il lavoratore subordinato. L’ordinamento pone delle limitazioni al potere, per evitare
sconfinamenti che arrechino danno alla persona del lavoratore.
In origine, gli unici limiti posti all’esercizio del potere direttivo erano quelli posti dal codice civile, ovvero i
limiti generali di correttezza e di buona fede.
Successivamente, tali limiti sono stati rafforzati dallo Statuto dei lavoratori (legge n. 300/1970) e dalla
legislazione più recente, in primis quella antidiscriminatoria, costantemente evolutasi nel tempo (a partire
dalla lotta contro le discriminazioni sessuali, sino ad arrivare alla repressione di una serie di discriminazioni,
per razza, origine etnica, religione, convinzioni personali, handicap, età, orientamento sessuale).
Nello stesso Statuto dei lavoratori si rimarca la necessità di non discriminare il lavoratore: si pensi all’art.
15, a norma del quale: “è nullo qualsiasi patto o atto diretto a:
subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una
associazione sindacale, ovvero cessi di farne parte;
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«Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei
luoghi di lavoro e norme sul collocamento»
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Concettualmente, occorre distinguere tra controllo sull’attività lavorativa (voglio controllare se e come
lavorano i miei dipendenti) e controllo a fini di tutela del patrimonio aziendale (voglio vigilare sui beni
materiali della mia azienda).
Il lavoratore: rischia di vedere un’invadenza della sua sfera personale, della sua riservatezza e dignità
personale.
Da qui la necessità di regole precise e di garanzie (cfr. il Titolo I dello Statuto dei lavoratori).
Necessità di tenere distinti i due tipi di controllo: controllo sugli impianti aziendali e controllo sull’attività
lavorativa.
Lo Statuto dei lavoratori sottopone tale potere a precisi vincoli, al fine di tutelare la libertà, la dignità e la
riservatezza del prestatore di lavoro. A tutela della dignità e della libertà del lavoratore gli artt. 2-6 dello
Statuto dei Lavoratori (L. 300/1970) impongono dei limiti al potere di controllo e vigilanza del datore di
lavoro: (vedi i vari articoli analizzati dopo)
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Con ciò non si intende precludere al datore il potere di controllare l’esatto adempimento della prestazione
da parte del lavoratore, ma solo evitare forme odiose e surrettizie di vigilanza. Ne deriva che analoga forma
di pubblicità non è necessaria per coloro le cui mansioni contemplino il controllo e l’organizzazione del
lavoro.
La legge afferma il principio della conoscibilità da parte dei lavoratori (e dei loro rappresentanti
sindacali) delle fonti del controllo stesso
La forma di garanzia più forte per i lavoratori è il divieto del c.d. controllo occulto
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In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione
ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale.
In mancanza di accordo, gli impianti e gli strumenti di controllo possono essere installati previa
autorizzazione delle sede territoriale dell'Ispettorato nazionale del lavoro o, in alternativa, nel caso di
imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più sedi territoriali, della sede
centrale dell'Ispettorato nazionale del lavoro. I provvedimenti di cui al terzo periodo sono definitivi.
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L’art.6 vieta, in linea di principio, le perquisizioni personali, che devono essere strettamente limitate alle
situazioni in cui esse risultino indispensabili per la tutela del patrimonio aziendale, in relazione alla qualità
degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti.
In tali casi, a tutela della dignità del lavoratore, tali visite potranno essere eseguite solo all’uscita dai luoghi
di lavoro, con la salvaguardia della dignità e della riservatezza e con l’applicazione di sistemi di selezione
automatica riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori.
Le ipotesi nelle quali possono essere disposte le visite personali e le relative modalità, devono essere
concordate dal datore di lavoro con le Rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, con la
commissione interna. In mancanza di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del
Lavoro.
Contro i provvedimenti dell'Ispettorato del lavoro di cui al precedente comma, il datore di lavoro, le
rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la commissione interna, oppure i sindacati dei
lavoratori di cui al successivo articolo 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del
provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale.
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Durante l’orario di lavoro, il lavoratore aveva scattato foto che ritraevano sia lui sia altri colleghi e le
aveva postate su facebook con commenti poco carini sul loro datore di lavoro e, inoltre, aveva visitato,
sempre durante le ore lavorative, siti di carattere pornografico.
Tali condotte realizzano … “un’evidente violazione dei doveri di diligenza, lealtà e correttezza”.
con riferimento alle espressioni ingiuriose utilizzate nei confronti dell’azienda contenute nel profilo
Facebook pubblico, esse determinano una lesione dell’immagine aziendale;
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“È fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell'assunzione, o nel corso dello svolgimento del rapporto di
lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del
lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell'attitudine professionale del
lavoratore”.
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Necessità di integrare l’art. 8 (norma speciale per i lavoratori) con la successiva normativa in
materia di “tutela della privacy” (d.lgs. n. 196/2003 – Codice in materia di protezione dei dati
personali, norma generale per tutti i cittadini)
Quanto al trattamento dei dati personali: prima a norma della L. 675/1996 e ora del Codice Privacy (D.lgs.
196/2003) è stabilito che bisogna garantire che tale trattamento si svolga nel rispetto dei diritti
fondamentali e della dignità delle persone, avendo particolare riguardo alla riservatezza e all’identità
personale. Sono dunque destinatari della disciplina limitativa tutti i soggetti che, a vario titolo, detengono
una banca dati, ossia un complesso di dati personali. La legge ha inoltre istituito la figura del “Garante per la
protezione dei dati personali”, un’autorità amministrativa indipendente che svolge funzioni di vigilanza e ha
poteri sanzionatori. Gli interessati hanno il diritto di essere informati, preventivamente o successivamente,
attraverso il diritto di accesso, in ordine alle modalità e finalità del trattamento dei dati, alla loro natura, al
luogo in cui sono custoditi e all’ambito di diffusione dei medesimi; hanno altresì il diritto di rettifica e quello
di cancellazione dei dati trattati illegittimamente. Una tutela più forte è inoltre stabilita per i “dati sensibili”
ossia quelli idonei a rilevare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, politiche,
sindacali di altro genere, nonché dati riguardanti la salute e la vita sessuale: il trattamento di tali dati deve
essere consentito dall’interessato e autorizzato dal Garante, cui i titolari delle banche dati devono
comunicare tutte le informazioni necessarie.
Il complessivo apparato di tutela è estensibile anche alle banche dati aziendali tenute dai datori.
L’esenzione del datore di lavoro dalla richiesta del consenso del lavoratore è legittima in quanto si muova
nella logica della funzionalizzazione dell’adempimento agli obblighi contrattuali, secondo le linee segnate
dall’art.8, ma il lavoratore potrà sempre pretendere che i dati che lo riguardano, in possesso del datore,
siano oggetto di un trattamento rispettoso dei limiti imposti dalla normativa generale, e potrà far valere i
suoi diritti individualmente o tramite il sindacato.
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Computer aziendale è equiparato agli altri strumenti di lavoro e pertanto il datore può esercitare il
controllo; Tuttavia, la posta elettronica, ad esempio, secondo il Garante della privacy va protetta alla
stregua della corrispondenza epistolare o telefonica.
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-un obbligo di pubblicità del c.d. regolamento disciplinare (nullum crimen sine lege: "nessun
crimine senza legge");
-un criterio di proporzionalità tra sanzione adottata e tipo di infrazione (art. 2016 c.c.);
-procedure predeterminate dalla legge per giungere alla irrogazione della sanzione
disciplinare.
Norme di riferimento del potere disciplinare sono gli artt. 2106 c.c. e 7 dello Statuto dei lavoratori,
i quali individuano i presupposti del potere in questione; occorre distinguere tra:
L’art. 2106 c.c. sancisce che l’inosservanza, da parte del prestatore di lavoro, degli obblighi previsti
negli artt. 2104 e 2105 c.c. può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, in base alla
gravità dell’infrazione.
I presupposti sostanziali del potere disciplinare sono:
- la sussistenza del fatto addebitato (spetta al datore di lavoro provare il fatto addebitato, mentre
sul prestatore di lavoro grava l’onere di discolparsi, con la possibilità, in alcuni casi, di provare
l’eventuale riconducibilità del fatto addebitato ad una situazione di impossibilità a lui non
imputabile);
Ex art. 7 L.300/1970:
“ Le norme disciplinari relative alle sanzioni, alle infrazioni alle quali le sanzioni possono essere
applicate ed alle procedure di contestazione delle stesse, devono essere portate a conoscenza dei
lavoratori mediante affissione in luogo accessibile a tutti. Esse devono applicare quanto in materia
è stabilito da accordi e contratti di lavoro ove esistano .
Nello specifico, l’art. 7 richiede la preesistenza di un testo che, oltre alle procedure di
contestazione, individui le infrazioni e le relative sanzioni, in modo che non si abbia la creazione ex
post né delle une, né delle altre, ed impone che questo venga portato a conoscenza dei lavoratori
mediante “affissione in un luogo accessibile a tutti” (al riguardo, occorre sottolineare come le
Sezioni Unite della Corte di Cassazione abbiano affermato l’indefettibilità (cioè non ci devono
essere difetti) dell’affissione, a pena di inapplicabilità del codice disciplinare);
Infine, l’articolo in esame, stabilisce che “salvo analoghe procedure previste dai contratti collettivi
di lavoro e ferma restando la facoltà di adire l’autorità giudiziaria, il lavoratore al quale sia stata
applicata una sanzione disciplinare può promuovere nei 20 giorni successivi, anche a mezzo
dell’associazione alla quale sia iscritto, ovvero conferisca mandato, la costituzione, tramite l’ufficio
provinciale del lavoro e della massima occupazione, di un collegio di conciliazione ed arbitrato,
composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro scelto di comune
accordo o, in difetto di accordo, nominato dal direttore dell’ufficio del lavoro.
La sanzione disciplinare resta sospesa fino alla pronuncia da parte del collegio”. Qualora il datore
di lavoro non provveda, entro dieci giorni dall'invito rivoltogli dall'ufficio del lavoro, a nominare il
proprio rappresentante all’interno del collegio, la sanzione disciplinare non ha effetto. Se il datore
di lavoro ricorre all’autorità giudiziaria, la sanzione disciplinare resta sospesa fino alla definizione
del giudizio.
Si tratta della fase della impugnazione della sanzione disciplinare irrogata: qualora il lavoratore
riscontri vizi procedurali o ritenga la sanzione sproporzionata potrà contestarla, scegliendo due
strade, tra loro in alternativa: la strada giudiziale tradizionale o, in alternativa, quella di
promozione di un collegio di conciliazione e arbitrato. In questo secondo caso, la questione sarà
cioè devoluta alla cognizione di tale collegio. L’ordinamento incentiva la scelta del collegio di
conciliazione assicurando la “sospensione” della sanzione disciplinare.
La disposizione normativa fissa una precisa scansione temporale della procedura disciplinare:
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Fermo restando quanto disposto dalla legge 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte
sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro (ad eccezione di
quanto affermerà la giurisprudenza in tema di «licenziamento disciplinare»);
inoltre la multa non può essere disposta per un importo superiore a quattro ore della retribuzione base
e la sospensione dal servizio e dalla retribuzione per più di dieci giorni.
In ogni caso, i provvedimenti disciplinari più gravi del rimprovero verbale, non possono essere applicati
prima che siano trascorsi cinque giorni dalla contestazione per iscritto del fatto che vi ha dato causa.
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-Recidiva
Non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro
applicazione.
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“… non è legittimo il licenziamento (disciplinare) del dipendente che si intrattiene per quindici minuti a
parlare con il collega in attesa di altro materiale su cui lavorare” (Corte di Cassazione, sentenza n. 6125
del 12.03.2013)
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Per la Cassazione: “L’essere adibiti a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può, difatti,
consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell’ambito della
qualifica di appartenenza, ma non lo autorizza a rifiutarsi, senza un eventuale avallo giudiziario (che
può essergli urgentemente accordato in via cautelare) di eseguire la prestazione lavorativa richiestagli”.
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… la prova dello svolgimento di attività fisica – nel caso, la coltivazione di un fondo – durante la malattia
non legittima il licenziamento del dipendente se le attività svolte non sono tali da poter concretamente
mettere in pericolo l’equilibrio fisico del lavoratore e dunque la sua capacità di adempiere
correttamente alla prestazione.
Per la Cassazione, infatti, è correttamente motivato il ragionamento del giudice di merito che aveva
appurato che il dipendente era rientrato tempestivamente a lavoro dopo il periodo di malattia, e che
soltanto successivamente si era verificata, a suo carico, una intossicazione farmacologica, per cui era da
escludere qualsiasi collegamento causale con il comportamento tenuto dal lavoratore durante la
malattia.
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La Corte di Cassazione, con la sentenza in esame, ha precisato che è legittimo il licenziamento del
lavoratore che durante lo stato di malattia lavora in discoteca come addetto alla sicurezza anche se per
un solo giorno.
Per la S.C. (suprema corte di cassazione), infatti, anche se “non sussiste nel nostro ordinamento un
divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il
periodo di assenza per malattia”,un simile comportamento può rappresentare una giusta causa di
recesso quando la nuova attività sia tale da “far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a
giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione”; o ancora quando
“l’attività stessa valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche dell’infermità denunciata ed alle
mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare anche
potenzialmente la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore”.
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La Cassazione, con la sentenza in oggetto ha ricordato, infatti, che pur trattandosi di una sottrazione di
modico valore, si trattava di un comportamento che fa venire meno la fiducia tra datore e prestatore.
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La Corte di Cassazione con la sentenza in esame ha precisato che se il vigilante invece di controllare ciò
che accade nell'azienda dove è chiamato a fare sorveglianza, fa telefonate private, rischia il
licenziamento. La Cassazione, ha confermato la sentenza della Corte d'Appello di Lecce che aveva
rigettato il ricorso di un uomo, dipendente di un istituto di vigilanza, che chiedeva di dichiarare
illegittimo il licenziamento intimatogli.
Il dipendente, addetto all'ingresso di un ospedale, aveva più volte effettuato telefonate di svago, lunghe
anche due ore, mentre era in servizio.
A scoprirlo era stata l'azienda ospedaliera, che aveva controllato i tabulati non spiegandosi il numero
eccessivo delle chiamate rilevate. A quel punto, coincidendo con gli orari di turno del dipendente,
l'Istituto di vigilanza, datore di lavoro, lo aveva licenziato.
Nel caso in esame, secondo i giudici, «è stato conferito giusto risalto al tipo di attività svolta
dall'addetto alla sorveglianza all'ingresso del presidio ospedaliero, che richiede particolare attenzione
per evitare il rischio di intrusioni di soggetti non autorizzati, eventualmente pericolosi, in un ambiente
quale quello ospedaliero, evidenziandosi anche il pregiudizio rispetto alla perdita di future commesse
da parte della società che aveva in appalto il servizio».
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«… è provato che il lavoratore P. in data 4 maggio 2006 avesse avuto una discussione con
l’amministratore della società, durante la quale aveva proferito frasi offensive e minacciose (fra cui “io
ti distruggo”, “ti spacco il fondoschiena”)» (Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 28 ottobre 2015 –
28 gennaio 2016, n. 1595)
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L'avevano vista correre in ospedale mentre spingeva una barella con una paziente defunta e
canticchiava. Un episodio finora mai emerso quello attribuito all'ormai ex infermiera Daniela Poggiali e
riferito in mattinata dall'avvocato dell'Ausl ravennate Carlo Zoli davanti al giudice del Lavoro Roberto
Riverso.
Il legale, a sostegno della conferma del licenziamento, ha anche elencato quelli che ha definito «i
precedenti» come la somministrazione arbitraria di sedativi e di lassativi a pazienti oltre ai due
procedimenti aperti per vari furti in corsia. «Chi è di noi - ha quindi chiesto al giudice riferendosi alla
42enne - che farebbe ricoverare un paziente in una struttura nella quale agisce lei?».
La condotta tenuta dalla Poggiali - ha scritto il giudice nella sua sentenza - costituisce in sé giusta
causa di licenziamento in quanto denota totale carenza della idoneità a svolgere le mansioni
affidatele".
Particolare riferimento è per "l'inidoneità morale a proseguire nelle prestazioni" di lavoro. Al centro
della decisione c'è "l'evidente prendersi gioco di una propria paziente deceduta, che traspare in
maniera cristallina dalle fotografie".
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Art. 37 Cost. sulla parità tra uomo-lavoratore e donna-lavoratrice e sulla tutela della essenziale
funzione familiare della donna.
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a) subordinare l'occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una
associazione sindacale oppure cessi di farne parte;
Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di
discriminazione politica o religiosa.
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Nell’ambito di tale gruppo di compiti, le specificazioni del comportamento concretamente dovuto dal
lavoratore spettano al datore di lavoro, che le attua di volta in volta nell’esercizio del proprio potere
direttivo
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I prestatori di lavoro subordinato si distinguono in: Dirigenti/ Quadri (l. n. 190/85)/ Impiegati/ Operai
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-LE MANSIONI
• Le qualifiche sono raggruppate in entità classificatorie più ampie, fissate dalla legge e definite
categorie.
Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive.
Ogni patto contrario è nullo (collegamento con l’art. 2113 c.c.: dispone l’invalidità di tutti gli atti, unilaterali
o contrattuali, con cui il lavoratore abdichi a diritti scaturenti da norme di legge o di contratto
‘inderogabili’).
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In forza del principio di “contrattualità delle mansioni” (confermato dall’art. 2103 cod. civ.,
secondo cui il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto) le mansioni
- e, di conseguenza, la qualifica e la categoria - del lavoratore si determinano in base alle intese
intercorse fra le parti. In mancanza di un’indicazione precisa delle mansioni, il punto di
riferimento saranno le mansioni effettivamente svolte in modo stabile nell’organizzazione del
lavoro. In forza di ciò, l’identificazione della qualifica -e, indirettamente, della categoria- costituisce
spesso motivo di controversie. In tal caso, la decisione dipende da un confronto tra le mansioni
effettivamente svolte e quelle indicate e comunicate alla stregua delle classificazioni contrattuali
correntemente in uso nell’azienda.
Ora, dato che i criteri di classificazione e di gerarchia delle qualifiche sono fissati nella
contrattazione collettiva, secondo la giurisprudenza prevalente i parametri cui far riferimento per
l’inquadramento dovranno desumersi dalla stessa contrattazione. Base della valutazione sono le
mansioni oggettive dedotte nel rapporto, non le caratteristiche professionali del lavoratore. Infatti,
nel nostro ordinamento, la qualifica soggettiva del lavoratore (intesa come somma delle capacità
personali professionali) è priva di rilevanza giuridica.
In ragione di questo, nulla vieta che un lavoratore provvisto di una certa qualificazione
professionale sia assunto in mansioni e qualifiche diverse, anche inferiori. Inoltre, nulla vieta che le
mansioni di assunzione siano polivalenti o promiscue. Nel caso di mansioni promiscue (ovvero a
cavallo tra qualifiche diverse) l’inquadramento può presentare problemi.
In tal caso, la giurisprudenza ritiene che bisogna far riferimento alle mansioni di fatto prevalenti. Al
fine di individuare le stesse, occorre combinare il criterio quantitativo (quello che verifica quale sia
la mansione svolta più frequentemente) con il criterio qualitativo (quello che individua la
mansione professionalmente più rilevante). Le qualifiche e le categorie hanno una rilevanza
qualificatoria diversa. Mansioni e qualifica individuano l’oggetto della prestazione dovuta dal
lavoratore e, di conseguenza, i tratti essenziali del suo trattamento (a cominciare da quello
economico). In tal senso, la qualifica costituisce la posizione giuridica del lavoratore, da cui
derivano una serie di doveri/diritti inerenti al rapporto di lavoro. Le categorie si determinano sulla
base delle mansioni e qualifiche e consentono di individuare alcuni aspetti del trattamento cd
normativo del lavoratore.
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La distinzione tra operai e impiegati è tradizionalmente operata dall’art. 1 r.d. 1825/1924 (c.d.
legge sull’impiego privato), nel quale l’impiegato è definito colui che al servizio dell’azienda svolge
attività professionale, con funzioni di collaborazione tanto di concetto che di ordine, eccettuata
pertanto ogni prestazione che sia semplicemente di manodopera. La scarsa incisività dei criteri
stabiliti dalla norma (ovvero, la “professionalità” e la “non manualità”) aveva giustificato
l’elaborazione del criterio della “collaborazione impiegatizia” in forza della quale si distinguevano:
-I dirigenti
Quanto al dirigente, questo è tradizionalmente definito dalla giurisprudenza come l’alter ego
dell'imprenditore, preposto alla direzione dell’intera impresa o di un ramo importante e
autonomo di essa e provvisto di piena autonomia, nell’ambito delle direttive generali
dell’imprenditore. Recependo le indicazioni della giurisprudenza, la contrattazione collettiva
individua i dirigenti in coloro che ricoprono in azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado
di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esercitano le loro funzioni.
Ex art. 2095 c.c.: i prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e
operai, al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi dell’impresa.
Il riconoscimento della qualifica dirigenziale attraverso la contrattazione rende applicabile la
disciplina contrattuale, ma non basta di per sé a rendere applicabile la disciplina legale speciale. I
giudici hanno cercato di tenere separata la qualifica di dirigente ai fini legali e la qualifica di
dirigente ai fini contrattuali, con il riconoscimento della cd qualifica convenzionale di dirigente.
In buona sostanza, può essere riconosciuta ad alcuni lavoratori privi di reali poteri direttivi la
qualifica convenzionale di dirigente, al fine di attribuire loro un trattamento economico più
favorevole (senza che a ciò consegua l’applicazione della disciplina legale dei dirigenti, quando
questa è peggiorativa rispetto a quella dei non dirigenti).
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-I quadri
Per quanto riguarda i quadri, l’introduzione nell’art. 2095 del riferimento a tale categoria è stata
disposta dall’art. 1 l. 190/1985. Ex art. 2 l. 190/1985 i quadri sono coloro che, pur non
appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante
importanza ai fini dello sviluppo e dell’attuazione degli obiettivi dell’impresa. Il compito di stabilire
i requisiti di appartenenza alla categoria dei quadri è affidato alla contrattazione collettiva.
Per quanto riguarda la disciplina che trova attuazione, quanto occorre sottolineare è:
• che il datore di lavoro è tenuto ad assicurare il quadro contro il rischio di responsabilità civile
verso terzi conseguente a colpa nello svolgimento delle proprie mansioni,
• che la contrattazione collettiva può prevedere, in deroga all’art. 2103 cod. civ., un periodo
superiore ai tre mesi per l'assegnazione definitiva alle mansioni di quadro,
• che ai quadri è riconosciuto un trattamento contrattuale più favorevole rispetto a quello degli
operai e degli impiegati e, infine,
• che, per gli aspetti non espressamente regolati, ai quadri si applicano le norme riguardanti la
categoria degli impiegati, salva diversa previsione della contrattazione collettiva.
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-La disciplina contrattuale delle qualifiche: l’inquadramento unico.
• il superamento (parziale) della divisione tra operai e impiegati, con l’adozione di una scala di
classificazione unificata,
Ad ogni modo, mentre quest’ultimo obiettivo si è consolidato nel tempo, i primi due hanno subito
delle alterazioni. Nel corso del tempo, infatti, si sono avute importanti innovazioni, frutto della
consapevolezza che negli attuali contesti produttivi una valutazione corretta del lavoro può
raggiungersi soltanto adottando procedure flessibili di adattamento continuo delle classificazioni
alla realtà produttiva. Questa evoluzione incide anche sul sindacato giudiziale e sui diritti del
singolo lavoratore all’inquadramento. Il controllo giudiziale è tradizionalmente ammesso per
verificare la congruenza tra le mansioni concrete del singolo e la relativa classificazione, mentre
non è ammesso sulle regole classificatorie, che rientrano nell’insindacabile competenza
dell’autonomia collettiva.
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In concreto, l’unico limite posto a garanzia del lavoratore era l’invariabilità in peius (in peggio)
della retribuzione, mentre la discrezionalità imprenditoriale nell’uso della forza lavoro restava
ampia e incontrollata. Questo era reso ancora più evidente dal fatto che i limiti stabiliti dalla
norma riguardavano solo le modifiche unilaterali, mentre non incidevano sulle modifiche
consensuali, le quali erano ritenute ammissibili, senza condizioni, e quindi anche in peius.
Invece, l’art. 13 dello Statuto dei lavoratori ha innovato la materia riformulando l’art. 2103 cod.
civ., il quale si presentava nella seguente formulazione: “Il prestatore di lavoro deve essere adibito
alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che
abbia successivamente acquisito, oppure a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte,
senza alcuna diminuzione della retribuzione.
Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento
corrispondente all'attività svolta e l'assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non
abbia avuto luogo per sostituzione del lavoratore assente con diritto alla conservazione del posto,
dopo un periodo fissato dai contratti collettivi e comunque non superiore a tre mesi.
Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni
tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”.
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È possibile asserire che le modifiche in orizzontale sono ammesse solo per mansioni equivalenti a
quelle di assunzione oppure a quelle successivamente svolte in maniera stabile, senza alcuna
diminuzione della retribuzione.
La giurisprudenza ha inteso il concetto di “equivalenza” in modo piuttosto rigido e statico, tale da
escludere qualsiasi mobilità verso il basso. Per tale ragione, l’art. 13 dello Statuto è divenuto una
delle norme più criticate, data l’eccessiva rigidità che avrebbe indotto nell’impiego della forza
lavoro. In realtà, la rigidità indotta nell’impiego della forza lavoro è stata giustificata sottolineando
come la norma abbia quale precipuo fine quello di tutelare la professionalità del lavoratore.
L’equivalenza, dunque, è essenzialmente equivalenza professionale. L’equivalenza professionale
va accertata considerando attitudini e capacità acquisite dal lavoratore, ovvero quel bagaglio di
perizia ed esperienza che costituisce il suo patrimonio professionale (nozione statica di
equivalenza).
Tuttavia, secondo un orientamento dottrinale, sviluppato dalla giurisprudenza, l’equivalenza
professionale va accertata considerando la capacità professionale potenziale del lavoratore,
derivatagli dalla sua formazione culturale di base e dall’abilità tecnica acquisita attraverso
l’esperienza.
In altre parole, bisognerebbe dare rilievo non al “saper fare”, ma al “saper come fare” (nozione
dinamica di equivalenza). In caso di violazione del precetto normativo, il lavoratore può richiedere:
- la dichiarazione di nullità dell'atto,
- la condanna alla reintegra e, infine,
- il risarcimento del danno da dequalificazione (c.d. danno alla professionalità).
Grava sul lavoratore l’onere di provare, anche per presunzioni, la natura e le caratteristiche del
danno subito.
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Equivalenti vengono considerate quelle mansioni che consentono l’utilizzazione del patrimonio
professionale acquisito dal lavoratore, inteso come bagaglio di esperienze e competenze già maturate
nello svolgimento delle mansioni precedentemente espletate.
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La seconda parte del primo comma dell’art. 2103 cod. civ. disciplina l’assegnazione a mansioni
superiori (mobilità verso l’alto o verticale). Può verificarsi infatti l’ipotesi dello svolgimento in
concreto da parte del prestatore di mansioni aventi un contenuto professionale «superiore»
rispetto alle mansioni formalmente assegnategli. Il lavoratore, in questi casi, ha diritto al
trattamento retributivo corrispondente all’attività svolta.
Se tale situazione supera un regime «temporaneo» (6 mesi o il diverso periodo fissato dai contratti
collettivi), allora scatta per il lavoratore una importante protezione, cioè il diritto
all’inquadramento definitivo nella categoria superiore corrispondente alle mansioni che sta
svolgendo (c.d. diritto alla promozione automatica).
Al riguardo, si è discusso se i tre mesi di svolgimento delle mansioni superiori debbano essere
continuativi oppure se si possono cumulare distinti periodi. La giurisprudenza prevalente
propende per la prima soluzione. Tuttavia, precisa che eventuali interruzioni di tale periodo non
connesse a reali esigenze produttive non impediscono il cumulo e quindi la promozione, in quanto
devono ritenersi in frode alla legge. La promozione si realizza automaticamente al compiersi del
periodo temporale, salvo nell’ipotesi di sostituzione di lavoratore assente con diritto alla
conservazione del posto, con onere della prova a carico del datore. Abbiamo detto che l’art. 2103
è stato oggetto di 2 importanti riforme. Analizzata la disciplina così come modificata dallo Statuto
del Lavoratori, occorre ora analizzare la riforma operata, di recente, dal d.lgs. 81/2015.
Il nuovo testo dell’art. 2103, risultante dopo le modifiche apportate dall’art.3 del D.lgs. 81/2015,
introduce maggiore flessibilità per le imprese nel governo del lavoro, autorizzando profonde
dequalificazioni del lavoratore e allargando lo spettro della mobilità orizzontale:
“Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto e a quelle
corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito, ovvero
riconducibili allo stesso livello o categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente
svolte”.
Dunque, scomparsa la nozione di equivalenza presente nella precedente formulazione, la mobilità
non è più limitata entro l’orizzonte della equivalenza professionale, ma consente l’adibizione a
mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime
effettivamente svolte.
In sostanza, sono considerate equivalenti tutte le mansioni collocate nel medesimo livello
contrattuale, con il solo limite della categoria legale di inquadramento (dirigenti, quadri, impiegati,
operai), anche implicanti la spendita di una professionalità profondamente diversa (rivitalizzando
le categorie legali di cui all’art. 2095). Si tratta sicuramente di una norma che allarga lo stesso jus
variandi del datore di lavoro. Ciò costituisce l’oggetto di un potere unilaterale e insindacabile del
datore, che non necessita di alcuna giustificazione.
L’unico blando limite è che il mutamento possa essere accompagnato, ove necessario,
dall’assolvimento di un obbligo formativo il cui inadempimento non determina comunque la
nullità dell’atto di assegnazione alle nuove mansioni. Il vero problema è rappresentato dalla c.d.
mobilità verso il basso: si tratta di una modifica delle mansioni in senso peggiorativo per il
lavoratore (“demansionamento”). Quest’ultima può avvenire solo in presenza di una
giustificazione: sicchè lo spostamento a mansioni inferiori deve essere giustificato da una
modificazione dell’organizzazione produttiva tale da ricadere sulla posizione concretamente
occupata dal lavoratore. Tale riduzione di tutela per il lavoratore viene giustificata dalle esigenze di
mutamento dei mercati, tali da non consentire stringenti garanzie per i lavoratori. In tal senso, per
evitare il licenziamento dei lavoratori, si attua una modifica delle mansioni, pur nel sacrificio della
professionalità degli stessi. Sicchè, graverà sul datore di lavoro la prova del nesso di causalità.
Tuttavia, come detto, benchè in senso peggiorativo, l’adibizione a mansioni che appartengono al
livello di inquadramento inferiore è possibile con il solo limite dell’appartenenza alla medesima
categoria legale: tale potere, ribadiamolo, va esercitato in caso di modifica degli assetti
organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, che potrà quindi sottoporre a
sindacato giudiziale la sussistenza dei presupposti per lo spostamento, con la conseguente
declaratoria di nullità dell’atto ove il datore non fornisca la relativa prova.
Ulteriori ipotesi possono essere previste dai contratti collettivi di qualsiasi livello, anche aziendale.
Il mutamento deve, in tali casi, essere comunicato per iscritto, a pena di nullità, ed il lavoratore ha
diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo goduto, con
esclusione degli elementi collegati a modalità di svolgimento della precedente prestazione
lavorativa.
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In linea di principio, NO. La normativa del 2015 tuttavia offre alcune aperture «eccezionali»
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Non c’è più il riferimento al criterio-limite dell’equivalenza delle mansioni dal punto di vista della
professionalità del lavoratore.
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Nella nuova formulazione è sufficiente che le nuove mansioni siano riconducibili alla «categoria legale»
di riferimento.
Il bene protetto dalla norma resta in ogni caso la «professionalità» del lavoratore, cioè la garanzia del
diritto del lavoratore alla conservazione e allo sviluppo del bagaglio di conoscenze e abilità tecnico-
professionali.
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può avvenire solo in presenza di una giustificazione: lo spostamento a mansioni inferiori deve essere
giustificato da una modificazione dell’organizzazione produttiva che ricada sulla posizione
concretamente occupata dal lavoratore all’interno della stessa. È il datore di lavoro che deve dare
prova del nesso di causalità.
Lo spostamento deve avvenire, comunque, all’interno della stessa categoria legale e soltanto su
mansioni classificate nel livello immediatamente inferiore di classificazione prevista dal contratto
collettivo.
Ove le nuove mansioni lo richiedano, il datore di lavoro è tenuto a fornire al lavoratore la formazione
necessaria.
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• gli accordi individuali che dispongono lo spostamento a mansioni inferiori per soddisfare un
interesse qualificato del lavoratore (quello di evitare un licenziamento, comunque giustificato da
ragioni oggettive, come nell’ipotesi di abolizione del posto di lavoro per motivi tecnologici, senza
possibilità di reimpiego altrove),
• gli accordi individuali che dispongono lo spostamento a mansioni inferiori a causa delle
condizioni del lavoratore (invalido, in maternità, esposto a rischi sanitari, portatore di handicap),
• gli accordi collettivi che dispongono lo spostamento a mansioni inferiori a causa della situazione
dell’impresa (in alternativa alla mobilità) e, infine,
• le intese realizzate nell’ambito dei contratti collettivi di prossimità (l’art. 8 d.l.138/2011 statuisce
che i contratti collettivi, aziendali o territoriali, sottoscritti dalle associazioni comparativamente più
rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda
possono realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti
di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario. Tali
intese possono derogare in peius sia al contratto collettivo, sia alla legge e sono efficaci nei
confronti di tutti i lavoratori se sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario).
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• Giudiziale
• Amministrativa
• Sindacale
* Si tratta di sedi che forniscono «assistenza» al lavoratore e dove si presuppone che si riduca quella
condizione di metus (timore) del c.d. contraente debole
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L’architrave del sistema normativo è l’art. 2087 cod. civ.: esso impone al datore di lavoro di
predisporre tutte le misure idonee, secondo l’esperienza, la tecnica e la particolarità del lavoro, a
prevenire situazioni di danno per la salute fisica e la personalità del lavoratore alla luce della
mutevole realtà produttiva (cd. principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile).
(«L'imprenditore è tenuto ad adottare, nell'esercizio dell'impresa, le misure che, secondo la particolarità del
lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei
prestatori di lavoro»).
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• Prevenzione
• Protezione
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• Art. 32 Cost : La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse
della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di
legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
• Art. 41, comma 2 Cost: L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La
legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
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-Bi-direzionalità dell’obbligo
Tutela dell’integrità fisica del lavoratore (infortuni e malattie professionali).
Tutela della “personalità morale” del lavoratore: si tratta degli aspetti psichici, attinenti al “benessere”
del lavoratore all’interno dell’organizzazione di lavoro (es. il mobbing).
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-Principi generali
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Per adeguare l’impostazione codicistica alla direttiva costituzionale sul diritto alla salute, l’art. 9
dello Statuto dei lavoratori attribuisce ai lavoratori il diritto:
- di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie
professionali;
La norma statutaria e quella codicistica sono poi confluite nel d.lgs. n. 626/94 (modificato dal d.lgs.
242/96). Successivamente, è stato emanato il d.lgs. 81/2008 (cd Testo Unico in materia di tutela
della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), il quale ha riorganizzato la materia, abrogando quasi
tutte le discipline previgenti, compreso il d.lgs. 626/1994.
Al riguardo, ricordiamo che il d.lgs. 81/2008 si applica a tutti i settori di attività, privati e pubblici, e
a tutte le tipologie di rischio. Le norme del TU hanno determinato un importante salto di qualità
nella concezione della sicurezza nei luoghi di lavoro. Il sistema che ne deriva risulta imperniato sul
principio della prevenzione, da realizzarsi tramite una valutazione di tutti i rischi presenti in
azienda. L’obiettivo è quello di eliminare tali rischi alla fonte o comunque di ridurli al minimo,
mediante un’attività di programmazione degli interventi, destinata a coinvolgere attivamente una
nutrita serie di figure.
Si tratta del c.d. modello partecipato della sicurezza, che coinvolge oltre al datore di lavoro, ai
dirigenti, ai preposti e agli organismi pubblici di controllo, anche il servizio di prevenzione e
protezione ed il suo responsabile, il medico competente, i lavoratori e il rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza. Il TU è oggi il riferimento normativo in materia di sicurezza sul lavoro.
Il datore di lavoro (definito dal d.lgs. 81/2008 come il soggetto titolare del rapporto di lavoro o
come colui che ha responsabilità dell’organizzazione o dell’unità produttiva) resta il principale
responsabile in materia.
L’obbligo di sicurezza posto a carico del datore di lavoro viene scomposto in una serie
di specifici adempimenti, quali:
- la valutazione dei rischi connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa,
al fine di individuare le fonti di pericolo e l’entità del danno che può derivarne;
Come prima detto, il cd. modello partecipato della sicurezza coinvolge oltre al datore di lavoro, ai
dirigenti, ai preposti e agli organismi pubblici di controllo, anche il servizio di prevenzione e
protezione ed il suo responsabile, il medico competente, i lavoratori e il rappresentante dei
lavoratori per la sicurezza.
Per quanto riguarda il rappresentante dei lavoratori, questi ha diritto:
- di accedere ai luoghi di lavoro in cui si svolgono le lavorazioni.
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rappresentante dei lavoratori per la sicurezza (RLS: il rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza è la figura, eletta o designata, che ha il compito in un'azienda di rappresentare i lavoratori per
quanto concerne la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro);
responsabilità e cooperazione del
lavoratore; formazione e addestramento; apporto della contrattazione collettiva.
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-Autotutela
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-Discriminazione diretta (art. 25 co. 1 d.lgs. 198/2006)
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-Molestie
• Molestie sessuali
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-Gli strumenti
• Le «azioni positive»
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Le «azioni positive» consistono in misure volte alla rimozione degli ostacoli che
impediscono la realizzazione di pari opportunità.
-Finalità
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-La retribuzione
FONTI E PRINCIPI
Fonti individuali e collettive
La retribuzione, secondo le definizioni generali ricavabili dagli art. 2094 e 2099 cod. civ., costituisce
la prestazione fondamentale cui è tenuto il datore di lavoro nei confronti del prestatore di lavoro
subordinato.
La contrattazione collettiva si occupa della determinazione quantitativa della retribuzione.
All’autonomia individuale, invece, viene riconosciuta la possibilità di migliorare gli standards
retributivi stabiliti dalla contrattazione collettiva. La legislazione ordinaria in materia retributiva si
limita a disciplinare aspetti secondari dell’istituto, come forme e modalità di adempimento.
Non così la giurisprudenza, la quale ha esercitato una funzione di grande rilievo
nell’interpretazione dei maggiori profili dell’istituto. Infine, salvo per quanto riguarda la parità tra
uomini e donne, la materia retributiva esula dalle competenze comunitarie.
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I giudici distinguono:
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Nel lavoro tra parenti c’è, al contrario, la presunzione di gratuità: però essa può
essere vinta in giudizio fornendo la prova contraria.
Nel caso di prestazioni lavorative rese fra persone conviventi legate da vincolo di
parentela o di affinità, le prestazioni stesse si presumono gratuite e non
ricollegabili ad un rapporto di lavoro.
Tale presunzione può essere vinta dalla dimostrazione (che spetta alla parte che
sostiene l’esistenza di un rapporto di lavoro), dei requisiti della subordinazione e
dell’onerosità delle rispettive prestazioni.
Ma deve trattarsi di prova precisa e rigorosa, non evincibile dalla sola circostanza
che le attività in questione anziché svolgersi nello stretto ambito familiare, siano
collegate all’esercizio di un’impresa, qualora questa sia gestita ed organizzata con
criteri prevalentemente familiari (di per sè soli non compatibili con l’entità
economica dell’impresa e con le sue empiriche variabili strutturali ed
organizzative) (Cass. n. 1880/1980).
Nel caso in cui i soggetti del rapporto di lavoro siano conviventi le relazioni di
affetti familiari di parentela e di interessi tra essi esistenti giustificano la
presunzione di gratuità, mentre, nell’ipotesi di soggetti non conviventi sotto lo
stesso tetto, ma appartenenti a nuclei familiari distinti ed autonomi, tale
presunzione cede il passo a quello di normale onerosità del rapporto superabile
con la dimostrata sussistenza di sicuri elementi contrari.” (Cass. n. 3287/1986).
In alcuni casi di prestazioni lavorative rese tra “conviventi more uxorio”, i giudici
hanno accolto la domanda di accertamento della subordinazione (e quindi
onerosità e non gratuità).
• Esempio:
Occorre osservare che è vero che la presunzione di gratuità del lavoro coniugale
è stato esteso anche alla convivenza “more uxorio”(v. Cass. n. 5215/2000), ma in
questo secondo caso è richiesto che il datore di lavoro che invoca la gratuità del
rapporto dimostri che la suddetta convivenza sia analoga a quella legittima, non
solo sul piano spirituale della solidarietà personale, ma anche sul versante
economico.
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Le fonti di disciplina:
• Legge
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Queste specificità fanno sì che il nesso di corrispettività tra le prestazioni, subisca delle alterazioni
significative in una serie di casi di sospensione del rapporto di lavoro per motivi attinenti al
lavoratore ma anche con riferimento ad alcuni istituti retributivi cd. differiti (es. gratifica natalizia,
retribuzione feriale, indennità di anzianità ecc.) che compensano la prestazione resa senza un
rigoroso riferimento al lavoro effettivamente svolto.
La disciplina della retribuzione trova la sua fonte preminente nella contrattazione
collettiva che, più precisamente, si occupa della determinazione quantitativa della retribuzione.
A questo proposito, però, bisogna richiamare la nostra Carta Costituzionale che detta
precetti fondamentali. L’art. 36 Cost., infatti, stabilisce che “il lavoratore ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro” (= principio di proporzionalità)
“e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (=
principio di sufficienza).
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La giurisprudenza ha riconosciuto immediata precettività alla norma di cui all’art. 36 Cost. e, per
questo, ha riconosciuto al giudice la possibilità di sindacare se la retribuzione spettante al
lavoratore è o meno conforme alla norma costituzionale.
Per determinare il livello retributivo conforme all’art. 36 Cost. i giudici, da sempre, hanno utilizzato
come parametro la retribuzione base (c.d. minimi tabellari) fissata dai contratti collettivi nazionali
di categoria in base alla qualifica del lavoratore. Le retribuzioni individuate sulla base delle tabelle
costituiscono, quindi, il livello retributivo minimo e vincolante tutti i rapporti di lavoro di quella
categoria. Poiché si va a guardare ai minimi tabellari fissati dai contratti collettivi, “sufficienza” e
“proporzionalità” non possono essere considerati valori uniformi per tutti i lavoratori. Sono,
piuttosto, valori variabili in ragione della qualifica del singolo lavoratore.
Peraltro, secondo la giurisprudenza, le tabelle fissate dai contratti collettivi nazionali di categoria
costituiscono solo un parametro di riferimento, non necessario: il giudice ben può decidere di
discostarsene, fornendo un’adeguata motivazione.
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-Bipartizione
Pertanto, nell’istituto della retribuzione convivono due obbligazioni:
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-Non discriminazione
• Principio di non discriminazione in materia retributiva
Sono vietati trattamenti retributivi differenziati per motivi di sesso tra lavoratori e lavoratrici:
tra l’altro c’è un richiamo nell’art. 37 Cost.
Art. 37 Cost.: “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni
che spettano al lavoratore …
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- l’art. 2121cod. civ., nella sua vecchia formulazione (oggi questa norma disciplina solo l’indennità
di mancato preavviso), individuava quali elementi che dovevano essere computati nel calcolo delle
indennità di mancato preavviso e di anzianità “tutti i compensi corrisposti al lavoratore dal datore
di lavoro, aventi carattere continuativo, con esclusione delle sole prestazioni erogate a titolo di
rimborso spese” si tratta, dunque, di una definizione alquanto ampia;
- l’art. 2120 cod. civ. (così come modificato dalla l. 297/82 che ha sostituito la vecchia indennità di
anzianità con il trattamento di fine rapporto) ha introdotto una diversa nozione di retribuzione da
tenere presente nel calcolo del trattamento di fine rapporto: devono essere considerate “tutte le
somme corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo con occasionale”;
- l’art. 12 della l. 153/1997, riavvicinando ai fini contributivi e fiscali le due nozioni di retribuzione
prima esistenti, prende in considerazione “tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo
percepiti anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro” à insomma,
anche ai fini contributivi e fiscali il legislatore adopera una nozione ampia.
- la determinatezza, richiesta dagli art. 2099 e 1346 cod. civ., al fine di definire
l’ammontare della retribuzione in misura fissa o variabile;
- la corrispettività, richiesta dal 2094 cod. civ., va intesa nel senso che la
retribuzione va ricondotta, non a specifiche prestazioni di lavoro, ma alla causa
del rapporto di lavoro;
- la continuità, intesa come Pagamento effettuato in cambio di una prestazione ricorrente nel
tempo in modo regolare.
Tali caratteri, poi, sono stati utilizzati in modo combinato tra di loro per far ricomprendere nella
retribuzione quasi tutti i compensi erogati dal datore di lavoro in dipendenza del rapporto di
lavoro, con carattere necessario e ricorrente nel tempo (sono esclusi solo i rimborsi spese) à per
questo si parla di onnicomprensività del concetto di retribuzione.
Come è stato utilizzato, nella pratica, il concetto onnicomprensivo di retribuzione così
individuato?
Qui si colloca la distinzione tra “retribuzione-corrispettivo” e “retribuzione-parametro”. Il concetto
onnicomprensivo di retribuzione, infatti, è stato utilizzato per individuare l’oggetto
dell’obbligazione retributiva (retribuzione-corrispettivo), ma anche per determinare la
retribuzione-parametro, ossia la base di computo su cui calcolare l’ammontare di altre voci
retributive (quali ad es. l’indennità di fine rapporto, la retribuzione feriale ecc.).
Chiaramente ciò comporta un ampliamento della nozione di retribuzione e, anche per questa
ragione, la tendenza giurisprudenziale è stata molto criticata.
Si è obiettato:
- che la nozione onnicomprensiva di retribuzione non ha alcun fondamento normativo;
- che nel nostro ordinamento, se esistono più nozioni, è perché ciascuna risponde ad un fine
diverso e non ad una presunta omogeneità strutturale della retribuzione;
- che l’ampliamento indifferenziato della nozione di retribuzione può produrre
effetti distorsivi;
- che l’aumento di una singola voce retributiva incide notevolmente su tutti gli
istituti e, in particolare, sugli elementi differiti della retribuzione;
- e che può aversi un superamento della contrattazione collettiva.
Si tratta di critiche che non sono rimaste prive di effetto sulla giurisprudenza, al punto che questa
ha finito per abbandonare la nozione onnicomprensiva di retribuzione.
La Cassazione, infatti, da questo momento in poi ha ripetutamente affermato che “la
onnicomprensività non è un principio del nostro ordinamento” e che “per stabilire l’ammontare
della retribuzione bisogna andare ad interpretare le formule impiegate dalle disposizioni di legge e
dalle clausole dei contratti collettivi quali “retribuzione normale”, “retribuzione globale di fatto”,
“normale retribuzione di fatto giornaliera” ecc.
L’art. 3 della l. 402 del 1996 ha avallato questo ripensamento negando, a livello legislativo, il
principio di onnicomprensività. Una volta abbandonata la nozione onnicomprensiva di
retribuzione, il problema si sposta sul piano della interpretazione delle disposizioni di legge e delle
clausole dei contratti collettivi che, di volta in volta, fissano gli elementi della retribuzione-
parametro (ossia la base di computo su cui calcolare l’ammontare di altre voci
retributive come l’indennità di fine rapporto, la retribuzione feriale ecc.).
La retribuzione feriale, ad esempio, ha origine legale in quanto trova applicazione il 2109, comma
2, cod. civ. Questa norma, tuttavia, si limita a dire che le ferie devono essere retribuite, senza
aggiungere in che misura. Per questo, nell’individuazione del compenso, soccorre l’autonomia
collettiva.
Per le festività non lavorate, che hanno sempre un’origine legale, è previsto che debba trovare
applicazione la “normale retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento
accessorio”. Sono istituti di origine contrattale, invece, la tredicesima e la quattordicesima
mensilità.
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Il cottimo obbligatorio è previsto nel lavoro a domicilio a causa del fatto che il lavoro viene svolto
fuori dall’impresa e, di conseguenza, non è controllabile in base al tempo impiegato, ma solo dal
punto di vista del risultato. Nell’apprendistato, invece, è previsto il divieto di cottimo al fine di
evitare che l’apprendista si preoccupi di intensificare il lavoro invece di concentrarsi
nell’apprendimento. L’art. 2101 cod. civ. stabilisce delle procedure che l’imprenditore è tenuto a
rispettare quando si tratta di fissare la retribuzione a cottimo. Questi deve comunicare
preventivamente ai prestatori di lavoro quali sono gli elementi costitutivi della tariffa di cottimo, le
lavorazioni da eseguire e il compenso unitario, nonché i dati che riguardano la quantità di lavoro
eseguito e il tempo impiegato. Potrà modificare tali elementi soltanto nel caso in cui dovessero
cambiare le condizioni di lavoro che li giustificano.
Le tariffe di cottimo, inoltre, diventano definitive solo dopo che è trascorso un periodo di
adattamento previsto dai contratti collettivi: ciò al fine di proteggere il lavoratore contro eventuali
alterazioni che il datore di lavoro, in modo unilaterale, introduce nei tempi di cottimo.
A partire dagli anni ’90 la tematica del cottimo è risultata in buona parte assorbita da quella della
c.d. retribuzione variabile. Le altre forme di retribuzione previste dall’art.2099 cod. civ. hanno
un’importanza più ridotta.
Per quanto riguarda la retribuzione in natura, qui il compenso consiste in un bene diverso dal
denaro. L’importanza della retribuzione in natura oggi è collegata soprattutto al riconoscimento
dei c.d. fringe benefits: si tratta di benefici aventi carattere non monetario erogati ai dipendenti,
specie al personale altamente qualificato, da parte
dei datori di lavoro ( disponibilità dell’automobile, del cellulare ecc). Tali benefici, spesso,
costituiscono una parte non secondaria del trattamento economico complessivo.
La provvigione si caratterizza per il fatto che il compenso è determinato in una percentuale che
dipende dagli affari trattati oppure conclusi dal lavoratore.
Nel caso della partecipazione agli utili si riscontra un coinvolgimento del lavoratore
nell’andamento dell’azienda, con riferimento ad un elemento estraneo rispetto all’attività
lavorativa, come il risultato dell’impresa soggetto alle influenze del mercato.
Dalla provvigione e dalla partecipazione ai prodotti si distingue, infine, la partecipazione agli utili.
Il compenso consiste in una partecipazione agli utili, appunto, e ciò consente un coinvolgimento
del lavoratore nella vita dell’azienda. Ma si badi bene che il titolo della partecipazione del
lavoratore resta pur sempre lo scambio con la prestazione di lavoro, dunque, si tratta di una
situazione diversa dalla partecipazione del socio.
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La disciplina contrattuale della retribuzione conosce una serie di istituti diversi da quelli già
accennati. Una distinzione ricorrente è quella tra:
Molto spesso viene utilizzata l’espressione “automatismi retributivi” per indicare istituti che
comportano un incremento automatico del trattamento economico quando si verificano
determinati fatti o cadenze temporali: gli scatti di anzianità e il TFR, ad esempio, sono automatismi
connessi all’anzianità di servizio. Il nucleo centrale della retribuzione è la retribuzione tabellare
fissata dai contratti collettivi nazionali di categoria in base alla qualifica del lavoratore.
Le tabelle fissate nei contratti collettivi nazionali vengono integrate dalla contrattazione aziendale,
se presente. Gli incrementi aziendali, di solito, non confluiscono nella retribuzione tabellare o
base. Essi vengono fissati secondo forme e nomi diversi (premi annuali, superminimi aziendali,
gratifiche come la quattordicesima mensilità ecc.) e contribuiscono a comporre la retribuzione
normale o globale. Quest’ultima, peraltro, può includere elementi ulteriori legati alle
caratteristiche della prestazione individuale oppure ai suoi peculiari contenuti professionali.
L’ammontare di questi elementi, di norma, è controllato dalla contrattazione collettiva.
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Si tratta di un elemento della retribuzione che, pur maturando in stretta correlazione con il
quotidiano svolgimento della prestazione di lavoro, viene corrisposto in un momento diverso e
successivo rispetto a quello della maturazione .
Il lavoratore può chiedere la riscossione anticipata, per un importo non superiore al 70% del
trattamento maturato fino al momento della richiesta.
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-Modalità di calcolo
Si prendono a riferimento le retribuzioni dovute per ciascun anno di servizio prestato divise
per 13,5 (art. 2120, comma 1, c.c.).
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• Gratifiche: per far fronte a bisogni o spese del lavoratore (erogate una volta all’anno).
• Indennità: previste per varie ragioni dalla contrattazione collettiva (lavoro disagiato, turno,
sottosuolo, lavori nocivi, maneggio denaro, trasferta).
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-L’adempimento dell’obbligo retributivo
-Post-numerazione
Quando la retribuzione viene erogata in maniera fissa e a cadenze periodiche si applica la regola
(consuetudinaria) della postnumerazione, secondo cui l’ammontare della retribuzione viene
precisamente conteggiato dopo che la prestazione di lavoro si è svolta.
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Il luogo dove deve essere eseguita la prestazione di lavoro, generalmente, è individuato dalle parti
al momento della stipulazione del contratto. Il datore di lavoro, nell’esercizio del suo potere
direttivo, ha però la facoltà unilaterale di trasferire il lavoratore da un’unità produttiva all’altra.
Tuttavia, la legge richiede che il trasferimento del lavoratore sia fondato su “comprovate ragioni
tecniche, organizzative e produttive” (art. 2103, comma 7, c.c.).
Le ragioni oggettive addotte dal datore di lavoro non possono però essere sindacate nel merito da
parte del giudice. Il giudice deve solo verificare la sussistenza delle ragioni oggettive e
l’insussistenza di eventuali ragioni discriminatorie celate dietro la scelta datoriale. In base all’art.
1182 cod. civ., il luogo di adempimento della prestazione, se non è determinato contrattualmente,
deve desumersi dagli usi o da altre circostanze (prima tra tutte quella della natura della
prestazione). Secondo l’interpretazione prevalente, qualora la prestazione ha ad oggetto
l’esercizio di un’attività lavorativa, la determinazione del luogo di esecuzione e la sua modifica
sono affidate al potere direttivo del datore di lavoro. L’art. 13 dello Statuto dei lavoratori, nel
novellare l’art. 2103 cod. civ. e nel disciplinare per la prima volta il trasferimento del lavoratore, ha
confermato l’esistenza di tale potere unilaterale, assoggettandone l’esercizio a limiti interni e
prevedendo la nullità dei patti contrari. L’art. 13 dello Statuto non prende in considerazione
qualsiasi spostamento spaziale del lavoratore, ma soltanto quello da un’unità produttiva ad
un’altra. La giurisprudenza propende per una nozione unitaria di trasferimento, ricomprendendovi
qualsiasi spostamento idoneo ad allontanare il lavoratore dalla propria unità produttiva di origine
(c.d. trasferimento esterno). Dalla nozione sono esclusi, invece, gli spostamenti del lavoratore
all’interno della medesima unità produttiva (c.d. trasferimenti interni). L’art. 13 dello Statuto
subordina l’esercizio del potere di trasferimento all’esistenza di comprovate ragioni tecniche,
organizzative e produttive. Al termine “comprovate” l’orientamento giurisprudenziale prevalente
attribuisce un significato debole, nel senso che il datore ha l’onere di comunicare i motivi del
trasferimento al proprio dipendente, ma soltanto a fronte di una sua esplicita richiesta.
Quanto alle “ragioni tecniche, organizzative e produttive”, la tesi prevalente è nel senso di
escludere un controllo di merito sulle scelte datoriali. Pertanto, il giudice dovrà limitarsi ad
accertare l’effettiva presenza di tali ragioni e il nesso di causalità tra queste e il provvedimento
preso, ma non potrà chiedere prova dell’inevitabilità del trasferimento. Per la giurisprudenza più
recente, anche i comportamenti del lavoratore, qualora determinino una situazione di c.d.
incompatibilità ambientale, essendo causa di disorganizzazione e disfunzione aziendale, integrano
una ragione oggettiva che legittima il trasferimento.
Infine, sono previsti limiti più consistenti al potere di trasferimento a vantaggio di peculiari figure
di lavoratori, ovvero:
- il dirigente sindacale aziendale, per il cui trasferimento è richiesto il previo nulla osta delle
associazioni sindacali di appartenenza,
- il dipendente che ricopre una carica elettiva pubblica, per il cui trasferimento è richiesto il
consenso,
- il fruitore dei congedi di maternità e paternità, per il cui trasferimento è richiesto il consenso,
- il lavoratore con handicap grave e i congiunti che lo assistono con continuità, per il cui
trasferimento è richiesto il consenso e il diritto di scegliere, ove possibile, la sede più vicina al
proprio domicilio.
Il lavoratore che voglia far valere l’illegittimità del trasferimento deve impugnare il trasferimento
entro il termine di decadenza di 60 giorni dalla data di ricezione della relativa comunicazione e, nei
successivi 180 giorni, deve depositare il ricorso presso la cancelleria del giudice del lavoro, oppure
comunicare al datore di lavoro la richiesta di un tentativo di conciliazione o arbitrato. Qualora il
datore rifiuti conciliazione o arbitrato, oppure accetti ma non si giunga ad un accordo, il lavoratore
deve depositare il ricorso entro 60 giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.
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- la direttiva CE 88/2003,
- l’art. 36, commi II e III, della Costituzione, secondo cui “la durata massima della giornata
lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali
retribuite e non può rinunziarvi”,
- il d.lgs. 66/2003. Con particolare riguardo al d.lgs. 66/2003 (che ha provveduto all’integrale
abrogazione delle pregresse disposizioni legislative e regolamentari non espressamente richiamate
dal decreto stesso), occorre anzitutto sottolineare come le disposizioni in esso contenute si
applichino a tutti i settori di attività pubblici e privati, sebbene siano previste numerose
esclusioni e deroghe.
Ex art. 3 d.lgs. 66/2003, la durata normale della settimana lavorativa è fissato in 40 ore. Tuttavia, i
contratti collettivi (di qualsiasi livello purché stipulati dalle organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative) possono stabilire una durata minore e riferire l’orario
normale alla durata media delle prestazioni lavorative per periodi ultra-settimanali non superiori
all’anno (è questo il c.d. orario multiperiodale, che consiste nel superamento convenzionale dei
limiti normali, salvo compensazione nell’anno: es. in un arco temporale di 12 settimane,
considerato come multi-periodo di riferimento, il datore di lavoro potrà richiedere 6 settimane di
48 ore lavorative, seguite da 6 settimane di 32 ore, senza che vengano in considerazione
prestazione di lavoro straordinario, dato che la durata media della settimana lavorativa nel multi-
periodo risulterà essere pari a 40 ore). Ex art. 4 d.lgs. 66/2003, la determinazione delle durata
massima della settimana lavorativa (comprendente, quindi, anche il lavoro straordinario) è
demandata ai contratti collettivi (stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più
rappresentative), nel limite di 48 ore, per ogni periodo di 7 giorni, da calcolarsi, non
settimana per settimana, ma come media in un arco temporale non superiore a 4 mesi, elevabile
dalla contrattazione collettiva a 6, ovvero a 12 mesi, per ragioni obiettive, tecniche o inerenti
all’organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi (es. il datore di lavoro potrà
richiedere al lavoratore settimane lavorative anche di 56 ore, compensate da settimane di durata
inferiore al limite massimo di 48 ore, in modo tale che il limite venga rispettato in un periodo di 4
mesi).
Accanto alla durata della settimana lavorativa, normale e massima, la legge non fa alcun
riferimento alla durata della giornata lavorativa, il che ha implicato il venir meno della storica
limitazione della giornata lavorativa ad 8 ore. Tuttavia, fermo il fatto che nulla impedisce alla
contrattazione collettiva di fissare tetti di orario giornaliero, una limitazione della durata della
giornata lavorativa può essere ricavata dalla norma sul riposo giornaliero.
Dato che il lavoratore ha diritto ad 11 ore di riposo consecutivo ogni 24 ore (ex art. 7 d.lgs.
66/2003) e ad una pausa di almeno 10 minuti nella giornata lavorativa superiore a 6 ore (ex art. 8
d.lgs. 66/2003), è possibile dedurre che la giornata lavorativa non può superare 12 ore e 50 minuti.
La presenza di un limite, seppur indiretto, di orario massimo giornaliero consente di fugare i dubbi
di costituzionalità che possono porsi in relazione all’art. 36 Cost. che impone al legislatore di
fissare la durata massima della giornata lavorativa.
Ex art. 1 d.lgs. 66/2003, quando parliamo di orario di lavoro facciamo riferimento a qualsiasi
periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio delle
sue attività e delle sue funzioni. Dal computo dell’orario effettivo sono esclusi:
Come confermato anche dalla giurisprudenza comunitaria, nella nozione non rientra soltanto il
lavoro caratterizzato da un’effettiva applicazione delle energie lavorative, ma vi rientrano anche i
periodi nell’ambito dei quali il lavoratore, benché non impegnato in un’attività di lavoro in senso
stretto, stia comunque mettendo a disposizione del datore di lavoro le proprie energie lavorative,
essendo obbligato a restare sul luogo di lavoro, per poter fornire a richiesta del datore
immediatamente la propria prestazione. Con riferimento ai singoli rapporti, l'orario normale di
lavoro viene determinato per accordo delle parti e può essere modificato da un successivo
accordo tra le stesse, fermo il rispetto dei limiti fissati dalla legge ed eventualmente dalla
contrattazione collettiva. Per quanto concerne i margini concessi al datore di lavoro per
modificare unilateralmente l’orario di lavoro concordato, la legge nulla prevede (fermo restando,
ovviamente, il necessario rispetto dei limiti fissati dalla legge ed eventualmente dalla
contrattazione collettiva). Per la modifica dell’estensione dell’orario, l’opinione dominante nega
l’esistenza di un potere unilaterale del datore, richiedendo l’assenso del lavoratore.
Non così per la modifica della collocazione temporale dell’orario, dato che secondo la
giurisprudenza in tale ipotesi la modifica costituisce tipica manifestazione del potere direttivo ed
organizzativo della natura. Infine, aspetto specifico è quello relativo alla distribuzione sul multi
periodo dell’orario settimanale normale. Dato che in tale materia il legislatore rimette tutti i
poteri alla contrattazione collettiva, è pacifico che gli interventi del datore di lavoro sono possibili
solo in presenza di una disciplina collettiva autorizzatoria.
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Quando parliamo di lavoro straordinario facciamo riferimento al lavoro prestato oltre l’orario
normale settimanale fissato dalla legge (quindi, oltre le 40 ore settimanali, oppure oltre alla loro
media in regime di orario multiperiodale). Nella vigente legislazione, il lavoro straordinario,
sommato al lavoro normale, deve essere contenuto entro l’orario massimo settimanale stabilito
dai contratti collettivi, senza eccedere in ogni caso le 48 ore calcolate come media.
Per quanto riguarda il lavoro straordinario riferito alla giornata lavorativa, visto che è venuto meno
ogni riferimento legislativo, un ruolo significativo è spesso svolto dalla contrattazione collettiva. In
ogni caso, resta fermo che la prestazione lavorativa giornaliera non può mai superare il tetto delle
12 ore e 50 minuti. Entro i limiti anzi considerati (ovvero, orario massimo settimanale, orario
massimo giornaliero) i contratti collettivi sono liberi di regolare le modalità di esecuzione delle
prestazioni di lavoro straordinario. In mancanza di disciplina collettiva, il ricorso al lavoro
straordinario è ammesso solo se la richiesta del datore riceve il consenso del lavoratore e nel
limite massimo di 250 ore annue.
Salvo diversa disposizione della disciplina collettiva, il lavoro straordinario può essere richiesto
anche senza il consenso del lavoratore e oltre il limite delle 250 ore annue:
Il lavoro straordinario deve essere computato a parte e compensato con maggiorazioni retributive,
la cui determinazione è integralmente rimessa alla contrattazione collettiva. Inoltre, la
contrattazione collettiva può consentire ai lavoratori di usufruire di riposi compensativi, in
aggiunta o in alternativa alle maggiorazioni retributive.
Quando parliamo di lavoro supplementare facciamo riferimento al lavoro prestato oltre l’orario
normale fissato dai contratti collettivi, ma entro l’orario normale settimanale fissato dalla legge. In
questo caso, non trova attuazione la disciplina legislativa sul lavoro straordinario, ma quella
contrattuale prevista per il lavoro supplementare.
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In materia di lavoro notturno, la prima regolamentazione specifica si è avuta con il d.lgs. 532/1999,
ora trasposto con alcune modifiche nel d.lgs. 66/2003. Il legislatore definisce il periodo notturno
come il periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo fra la mezzanotte e le
cinque del mattino e il lavoratore notturno come il lavoratore che durante il periodo notturno
svolge in via non eccezionale almeno 3 ore del suo tempo di lavoro giornaliero o una certa parte
del suo orario di lavoro normale, secondo le norme definite dal contratto collettivo nazionale di
lavoro. Inoltre, si aggiunge che, in difetto di disciplina collettiva, è considerato lavoratore
notturno qualsiasi lavoratore che svolga per almeno 3 ore lavoro notturno per un minimo di 80
giorni lavorativi all’anno (limite, quest’ultimo, riproporzionabile in caso di lavoro a tempo parziale).
L’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le 8 ore complessive nel periodo di 24
ore, fatta salva la facoltà dei contratti collettivi di individuare un periodo di riferimento più ampio
delle 24 ore sul quale calcolare come media il limite delle 8 ore.
Inoltre, ai contratti collettivi nazionali (e in assenza di questi, ma solo nel settore privato, ai
contratti territoriali e aziendali stipulati con le organizzazioni comparativamente più
rappresentative) compete l’ulteriore facoltà di derogare alle disposizioni anzi viste in tema di
limite alla durata del lavoro notturno.
E, infine, alla contrazione collettiva è affidata l’eventuale definizione delle riduzioni dell’orario di
lavoro o dei trattamenti economici indennitari nei confronti dei lavoratori notturni.
In capo al datore di lavoro che faccia ricorso al lavoro notturno, il d.lgs. 66/2003 pone una serie di
obblighi procedurali, derogabili ad opera dei contratti collettivi nazionali (e in assenza di questi, ma
solo nel settore privato, ai contratti territoriali e aziendali stipulati con le organizzazioni
comparativamente più rappresentative). In particolare, il datore di lavoro ha l’onere di informare e
consultare sull’introduzione del lavoro notturno le Rappresentanze sindacali in azienda aderenti
alle organizzazioni firmatarie del contratto collettivo applicato nell’impresa e, in mancanza, le
organizzazioni territoriali dei lavoratori per il tramite dell’associazione cui l’azienda aderisce o
conferisce mandato. Inoltre, il d.lgs. 66/2003 impone una serie di accertamenti sanitari, a favore
dei lavoratori da adibire o adibiti al lavoro notturno, preventivi e periodici, almeno ogni
due anni, volti a verificare l’assenza di controindicazioni al lavoro notturno cui sono adibiti i
lavoratori stessi.
Non possono essere adibiti al lavoro notturno:
- i minori
Infine, sono previste delle ipotesi nelle quali il lavoro notturno non deve essere obbligatoriamente
prestato. Una prima ipotesi riguarda la lavoratrice madre di un figlio di età inferiore a 3 anni o,
alternativamente, il padre convivente con la stessa (nonostante il silenzio della norma la tutela è
estensibile anche ai genitori adottivi o affidatari). Una seconda ipotesi riguarda le lavoratrici o i
lavoratori che siano l’unico genitore affidatario di un figlio convivente di età inferiore a 12 anni.
L’ultima ipotesi riguarda le lavoratrici e i lavoratori che abbiano a proprio carico un soggetto
disabile ai sensi della l. 104/1992 e successive modifiche.
Quando parliamo di lavoro a turno facciamo riferimento a qualsiasi metodo di organizzazione del
lavoro, anche a squadre, in base al quale dei lavoratori siano occupati negli stessi posti di lavoro,
secondo un determinato ritmo, compreso il ritmo rotativo, che può essere di tipo continuo o
discontinuo, e che comporti la necessità per i lavoratori di compiere un lavoro a ore differenti su
un periodo di tempo determinato di giorni o di settimane.
Il lavoratore a turni è il lavoratore il cui orario di lavoro sia inserito nel quadro del lavoro a turni.
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Ex art. 1 d.lgs. 66/2003 il tempo di non lavoro (o tempo di riposo) è qualsiasi periodo che non
rientra nell’orario di lavoro. Il riposo si distingue in:
- riposo infra-giornaliero (ovvero le pause),
- riposo giornaliero,
- riposo settimanale,
Per quanto riguarda il riposo infragiornaliero qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda
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-Trasferimento/trasferta
Secondo l’orientamento prevalente, l’art. 13 dello Statuto disciplina solo il trasferimento definitivo
del lavoratore. Resterebbero escluse, dunque, altre fattispecie organizzative, tra le quali la
trasferta (consiste in una modifica temporanea del luogo di esecuzione della prestazione
lavorativa). Il trasferimento è istituto diverso:
-dalla “trasferta” del lavoratore: si tratta dello spostamento temporaneo e provvisorio da un luogo
all’altro per l’esecuzione di una specifica attività lavorativa (al lavoratore spetta un’apposita
indennità).
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-LICENZIAMENTO
LA CESSAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
Il rapporto di lavoro può estinguersi per:
- per risoluzione consensuale (= mutuo consenso)
- per scadenza del termine, nei contratti di lavoro a tempo determinato;
- per altre particolari circostanze previste dalla legge;
- per morte del lavoratore.
- Per recesso del datore di lavoro (= licenziamento) o per recesso del lavoratore (= dimissioni): il
recesso è espressione del potere, attribuito a ciascuna delle parti del rapporto di lavoro, di
scioglierlo. In quanto si tratta di un atto unilaterale recettizio, esso deve essere comunicato al
destinatario.
A differenza del licenziamento, nel caso delle dimissioni del lavoratore valgono le regole generali
del codice civile (artt. 2118 e 2119), ovvero il solo obbligo di dare congruo preavviso. Tuttavia, è
possibile, ex art. 2119 cod. civ., fare a meno del preavviso, ove ricorra una causa che non consenta
la prosecuzione, neppure temporanea, del rapporto di lavoro. Ad ogni modo, il vero problema che
si pone in ordine alle dimissioni del lavoratore attiene all’indagine sulla genuina manifestazione di
volontà del lavoratore, attesa la sua posizione di contraente debole: basti pensare al fenomeno
delle c.d. “dimissioni in bianco”, ossia di quelle dimissioni predisposte su richiesta del datore di
lavoro all’atto dell’assunzione o durante il rapporto di lavoro.
Proprio al fine di porre argine a tale fenomeno, il legislatore ha previsto ipotesi di nullità delle
dimissioni, ovvero quando vi siano dimissioni:
In tutti questi casi, l’atto delle dimissioni si presume nullo, e dunque si considera “tamquam non
esset” (come se le dimissioni non fossero mai state rassegnate). Il d.lgs. 151/15 prevede 2
modalità per dimettersi o risolvere consensualmente il rapporto di lavoro, facendo venir meno la
presunzione di nullità di cui innanzi:
- attraverso modalità telematiche su appositi moduli del Ministero del lavoro, trasmessi al datore
di lavoro e alla Direzione territoriale del lavoro;
- adottandole nelle “sedi conciliative” di cui all’art 2113 cod. civ. (sindacale, amministrativa,
giudiziale).
Quanto al licenziamento, invece, sussistono leggi specifiche successive al codice civile, volte a
proteggere il lavoratore illegittimamente licenziato.
Nel nostro ordinamento, il potere di licenziamento non risulta essere libero, bensì incontra taluni
limiti: si parla infatti di recesso vincolato.
L’ordinamento italiano, soprattutto con la legge 604/66, fissa la regola della necessaria
giustificazione del licenziamento (requisito causale del licenziamento), salvo quell’area residuale
(molto limitata) del libero licenziamento (ossia del recesso ad nutum, e, dunque, senza
giustificazione).
In tale area vi rientrano:
• Dirigenti: in virtù di quel particolare vincolo di fiducia che renderebbe improponibile una
prosecuzione/reintegrazione;
• Lavoratori in prova: si può licenziare, a patto che il recesso riguardi la sperimentazione sul
comportamento professionale del lavoratore in prova (e non abbia altre motivazioni);
• Apprendisti: alla fine del rapporto formativo, il datore può recedere liberamente ex art. 2118 c.c.
• Lavoratori domestici: si tratta di lavoratori inseriti in una comunità familiare, che richiede grande
sintonia e fiducia
• Sportivi professionisti
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- Licenziamento collettivo
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La differenza tra “giusta causa” e “giustificato motivo soggettivo” è, per un verso, una differenza di
tipo quantitativo: il giustificato motivo soggettivo si caratterizza per la minore gravità
dell’inadempimento (anche se si tratta comunque di un inadempimento “notevole”), tale da
consentire la prosecuzione provvisoria del rapporto per il periodo di preavviso.
Difatti:
• La “giusta causa” non consente prosecuzione provvisoria e quindi non è previsto preavviso.
• il “giustificato motivo soggettivo” consente la prosecuzione provvisoria e quindi è previsto il
preavviso.
Sussiste anche una differenza di tipo qualitativo: la giusta causa comprende sia le ipotesi di
giustificato motivo soggettivo “aggravato” (che superano cioè la soglia del “notevole”
inadempimento), sia fatti o comportamenti estranei ad un inadempimento attuale, attinenti a fatti
extra-lavorativi, aventi un’incidenza sulla fiducia nei successivi adempimenti del lavoratore
(lesione del vincolo fiduciario per i successivi adempimenti: ad es. il cassiere di banca che, fuori
dall’orario di lavoro, commette il reato di appropriazione indebita ai danni di terzi). Quanto al
giustificato motivo oggettivo, abbiamo detto che questo concerne “Ragioni inerenti alla attività
produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. In questa ipotesi,
il licenziamento non dipende da alcuna condotta colpevole del lavoratore, ma da ragioni
riguardanti l’impresa (es. riduzione di commesse, riconversione tecnologica, etc.).
Deve sussistere (e sarà il giudice a “vigilare”):
• Effettività delle esigenze aziendali alla base del licenziamento;
• Nesso causale tra tali esigenze e il licenziamento del lavoratore
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- Licenziamento intimato in violazione delle norme a tutela della maternità e della paternità
- Licenziamento orale
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-Licenziamento disciplinare
Venendo al licenziamento disciplinare, si intende per tale quel licenziamento intimato per
comportamenti imputabili a titolo di colpa al lavoratore. Il licenziamento disciplinare è una
tipologia di recesso che ricomprende
- sia il licenziamento per giustificato motivo soggettivo (vale a dire il licenziamento, con preavviso,
causato da un notevole inadempimento del lavoratore ai suoi obblighi contrattuali),
- sia il licenziamento per giusta causa, ovvero il licenziamento, senza preavviso, determinato da un
comportamento disciplinarmente rilevante del lavoratore tale da non consentire la prosecuzione,
neppure temporanea, del rapporto di lavoro.
-Le tutele
Il discorso sulle tutele diviene importante quando ci si chiede cosa succede quando il Giudice
accerta l’illegittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro, in quanto non supportato né
da giusta causa, né da giustificato motivo.
Il licenziamento incorre in particolari conseguenze qualora il provvedimento manchi di una giusta
causa o di un giustificato motivo (oggettivo o soggettivo). In tali casi si parla di illegittimità del
licenziamento e il lavoratore gode delle tutele previste dalla legge.
Le recenti riforme hanno articolato ulteriormente i sistemi di tutela in caso di licenziamento
illegittimo: si ricorda
- riforma del 2012, cd. Riforma Fornero, L. 92/2012
- riforma 2014-2015, cd. Jobs Act, in particolare, D.lgs. 23/2015.
Tali riforme si pongono in continuità tra loro, rispondendo entrambe ad una nuova filosofia di
approccio al mercato del lavoro, all’insegna del modello di flexicurity di derivazione comunitaria.
Sicchè, il quadro generale delle norme da prendere a riferimento è così sintetizzabile:
- L. 604/66
- L. 300/1970
- L. 92/2012
- D.lgs. 23/2015
È ancora utilizzabile la distinzione tra due tipologie di tutela, in tema di licenziamenti illegittimi:
- tutela “obbligatoria”, prevista dall’art. 8 L. 604/66
- tutela “reale”, prevista dall’art. 18 St. Lav.
Quanto alla tutela obbligatoria, è opportuno rilevare come questa sia una tutela meno forte
rispetto alla tutela reale, e si applica alle imprese di minori dimensioni. L’art. 8 della legge
604/1966, così come sostituito dall’art. 2 della legge 108/1990, disciplina le conseguenze
sanzionatorie applicabili in caso di licenziamento illegittimo (di un lavoratore assunto prima del 7
marzo 2015) comminato da un datore di lavoro che non rientra nelle soglie dimensionali indicate
dall’art. 18 della legge 300/1970. La disposizione in parola prevede in particolare che, in dette
ipotesi, a prescindere dal vizio individuato, il giudice annulla il licenziamento e condanna il
datore di lavoro a riassumere il dipendente entro il termine di tre giorni, oppure, in mancanza, a
versargli un’indennità risarcitoria, la cui misura viene determinata tra un minimo di 2,5 e un
massimo di 6 mensilità (tenendo conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni
dell’impresa, dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonché del comportamento e della
condizione delle parti). L’indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di
lavoro con anzianità superiore a dieci anni, e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con
anzianità superiore a 20 anni. In buona sostanza, il licenziamento, anche se dichiarato illegittimo,
risolve il rapporto di lavoro, ma fa sorgere in capo al datore di lavoro un’obbligazione alternativa:
o riassume o risarcisce.
Chiaramente, RIASSUNZIONE sta a significare che vi è ricostruzione EX NOVO del rapporto di
lavoro, sicchè il periodo intercorrente tra l’intimazione del licenziamento e la sentenza dichiarativa
della illegittimità del licenziamento stesso, anche ai fini contributivi e previdenziali, va perduto
(cioè non viene recuperato dal lavoratore licenziato).
Quanto alla tutela reale, questa si configura come una tutela maggiormente più forte ed effettiva
rispetto a quella obbligatoria, e trova applicazione in relazione alle imprese di maggiori
dimensioni.
In relazione al campo di applicazione dell’art. 18, questo trova applicazione in relazione ad
imprese di dimensioni medio-grandi, ovvero:
• unità produttive con più di 15 dipendenti (5 se agricole);
• unità produttive con meno di 15 dipendenti (5 se agricole) se l'azienda occupa nello stesso
comune più di 15 dipendenti (5 se agricola);
• aziende che complessivamente hanno più di 60 dipendenti
*attenzione: a partire dal d.lgs. n. 23/2015 (c.d. Jobs act), tale differenziazione tra imprese, in base
al limite dimensionale, non troverà più applicazione.
La forza della tutela reale risiede nella REINTEGRAZIONE del lavoratore unita al RISARCIMENTO
DEL DANNO subito dal lavoratore medesimo per il licenziamento ingiustificato, commisurato alla
retribuzione globale di fatto “dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva
reintegrazione”, fermo restando che la misura del predetto risarcimento non potrà essere
inferiore a 5 mensilità, sebbene il tempo trascorso sia minore.
Per REINTEGRAZIONE si intende l’ordine rivolto al datore di lavoro di ripristinare, anche sul piano
fattuale, il rapporto di lavoro. Sicchè, il lavoratore “recupera”, diversamente da quanto non accada
con la tutela obbligatoria, anche ai fini contributivi e previdenziali, tutto il periodo intercorrente
tra il momento del licenziamento e la successiva sentenza dichiarativa della illegittimità.
In relazione a tale ultimo punto, ci si è chiesti cosa sarebbe accaduto se il datore di lavoro non
avesse ottemperato spontaneamente all’ordine di reintegra. Secondo la giurisprudenza, al datore
di lavoro non è precluso, nei fatti, di non ottemperare all’obbligo e di lasciare inutilizzato il
lavoratore pur erogandogli la retribuzione regolarmente.
L’ordine di reintegra, cioè, non sarebbe suscettibile di esecuzione forzata perché implica un
obbligo di fare infungibile e incoercibile (che cioè non può essere soddisfatto per equivalente).
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-Organizzazioni di tendenza
Si applica sempre il regime di tutela obbligatoria (con esclusione quindi della tutela reale), a
prescindere dalle dimensioni dell’impresa.
Si tratta di “datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fine di lucro attività di natura
politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto” (es. giornali, sindacati,
partiti politici).
*attenzione: con il d.lgs. n. 23/15, cade questa distinzione e vengono attratte anche tali
imprese nel regime indennitario.
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Dunque, viene riscritto l’art. 18 con una più ampia articolazione (superando l’alternativa secca tra
tutela “reale” e tutela “obbligatoria”), e difatti il regime sanzionatorio viene articolato su 4 livelli,
e, precisamente:
1. il regime della REINTEGRAZIONE PIENA (o tutela reale piena, o a risarcimento pieno)
2. il regime della TUTELA REALE LIMITATA (o a risarcimento limitato o tutela reale attenuata)
3. il regime della TUTELA RISARCITORIA PER LICENZIAMENTI INEFFICACI (o tutela risarcitoria
debole o indennitaria debole)
4. il regime della TUTELA RISARCITORIA FORTE (o indennitaria forte).
Quanto al regime della REINTEGRAZIONE PIENA (o tutela reale piena, o a risarcimento pieno), ai
sensi dell’art 18 comma 1 St. Lav., questo si applica nei casi di licenziamento discriminatorio,
intimato in concomitanza con il matrimonio, intimato per fruizione dei congedi a tutela della
genitorialità, per motivo illecito determinante, orale, per altre ipotesi di nullità, ed è prevista la
REINTEGRAZIONE NEL POSTO DI LAVORO, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e
quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro (diversamente dalle altre 3
tipologie di tutele, che trovano applicazione soltanto in relazione a datori di lavoro con limiti
occupazionali medio-alti); inoltre, il giudice, con la sentenza, condanna il datore di lavoro al
risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la
nullità, stabilendo una indennità commisurata all’ultima retribuzione maturata dal giorno del
licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione.
In ogni caso, la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a 5 mensilità, tuttavia dedotto
quanto percepito dal lavoratore nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività
lavorative (cd. aliunde perceptum). Il datore di lavoro è condannato inoltre per il medesimo
periodo al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Inoltre, fermo restando il diritto al risarcimento del danno, al lavoratore è data la facoltà di
chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità
pari a 15 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Quanto al il regime della TUTELA REALE
LIMITATA (o a risarcimento limitato o tutela reintegratoria attenuata), questo si applica:
• in caso licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo illegittimo perché il fatto
contestato non sussiste o perché il fatto contratto collettivo nazionale di lavoro applicabile;
Infine, quanto al regime della TUTELA RISARCITORIA FORTE (o indennitaria forte), questo si applica
a tutte le ipotesi non contemplate dalle altre tutele, qualora il giudice accerti che non ricorrono gli
estremi del giustificato motivo soggettivo o oggettivo o della giusta causa addotti dal datore di
lavoro. In tal caso il giudice, dichiarando risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data
del licenziamento, condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria
onnicomprensiva determinata tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero
dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle
condizioni delle parti. Analizzate le 4 forme di tutela introdotte dalla Riforma Fornero, occorre
considerare come questa abbia apportato alla disciplina dei licenziamenti individuali anche
ulteriori modificazioni:
- viene introdotto, per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, una procedura di
conciliazione obbligatoria che il datore di lavoro con più di 15 lavoratori deve attivare prima della
comunicazione del licenziamento;
- viene posto a carico del datore di lavoro l’obbligo di specificare nella lettera di licenziamento i
motivi che lo hanno determinato;
- viene ridotto da 270 a 180 giorni il termine entro il quale deve essere depositato il ricorso
giudiziale o comunicato alla controparte il tentativo di conciliazione o arbitrato a seguito
dell’impugnazione stragiudiziale;
- viene introdotto un rito specifico per le controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei
licenziamenti nelle ipotesi regolate dal novellato art. 18.
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La vicenda relativa all’art. 18, tuttavia, non si è esaurita con la riforma Fornero. Difatti, il processo
riformatore è proseguito con l’emanazione della legge delega n. 183/2014, cui fanno seguito ben
otto decreti attuativi. In ordine ai licenziamenti, ad ogni modo, occorre focalizzarsi sul D.lgs.
n.23/2015 (“Disposizioni in materia di contratto a tutele crescenti”).
Tra le finalità della riforma si annoverano:
- “rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di
occupazione” (art. 1, comma 7, l.d.);
- “riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze
del contesto occupazionale e produttivo” (art. 1, comma 7);
- “garantire la fruizione dei servizi essenziali in materia di politica attiva del lavoro su tutto il
territorio nazionale” (art. 1, comma 3)
- “garantire adeguato sostegno alla genitorialità, attraverso misure volte a tutelare la maternità
delle lavoratrici e favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro per la
generalità dei lavoratori” (art. 1, comma 8).
Nel perseguire tali obiettivi, il Governo Renzi si ispira al modello europeo della c.d. flexicurity: si
tratta di una strategia politica che tenta di aumentare la flessibilità del mercato del lavoro,
dell’organizzazione e delle relazioni di lavoro, da una parte, e di aumentare la sicurezza - la
employment security e la social security - dei gruppi più deboli dentro e fuori il mercato del
lavoro, dall’altra parte. Segnatamente, quanto al campo di applicazione del contratto di lavoro a
tutele crescenti, questo si applica:
- Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato a far data dal 7 marzo 2015 (data di entrata in vigore
del decreto 23)
La nuova disciplina interessa tutti i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto (7 marzo 2015).
I lavoratori già in forza prima di questa data continueranno, invece, a beneficiare dei regimi di
tutela previsti dall’art. 18, purché, naturalmente, risultino assunti in strutture che superano le
soglie numeriche previste dalla legge (unità produttiva con più di 15 lavoratori, o più di 5 se si
tratta di imprenditore agricolo, o più di 60 dipendenti in totale).
Nell’immediato, dunque, per questi lavoratori non cambia nulla. Occorre peraltro tenere conto
che, nel caso in cui il datore di lavoro, in conseguenza di nuove assunzioni a tempo indeterminato
avvenute successivamente all'entrata in vigore di detto decreto, raggiunga le soglie dimensionali
previste dall’art. 18, a tutti i lavoratori (vecchi e nuovi assunti) si applicherà integralmente la
disciplina del contratto a tutele crescenti, e il relativo regime sanzionatorio previsto in caso di
licenziamento ingiusto. Allo stesso modo, la nuova disciplina verrà applicata anche nei casi di
conversione, successiva all'entrata in vigore del decreto, di contratto a tempo determinato o di
apprendistato in contratto a tempo indeterminato. I lavoratori già assunti a tempo indeterminato
prima del 7 marzo 2015, seppur a oggi non interessati dalle novità normative, potranno comunque
esserlo in futuro, allorché dovessero cambiare lavoro, transitando nella condizione di “nuovi
assunti” presso un diverso datore di lavoro.
Sinteticamente, in base alla nuova disciplina introdotta dal D.lgs. 23/2015, il regime sanzionatorio
per i licenziamenti illegittimi è così articolato:
1. tutela reale piena per le ipotesi di licenziamento discriminatorio o nullo per espressa previsione
di legge, ovvero orale, che prevede il diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro e
al risarcimento del danno, senza determinazione ex lege di limiti massimi. Si badi che tale tutela è
prevista espressamente anche per i casi specifici di difetto di giustificazione del licenziamento
intimato per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore.
2. tutela reale limitata per i casi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta
causa nell’unica ipotesi in cui sia dimostrata direttamente in giudizio l’insussistenza del fatto
materiale contestato al lavoratore, che prevede il diritto dello stesso alla reintegrazione nel posto
di lavoro e al risarcimento del danno, la cui misura, relativamente al periodo antecedente alla
pronuncia di reintegrazione, non può essere superiore a 12 mensilità.
3. tutela risarcitoria forte per ogni altro caso di licenziamento ingiustificato diverso dalle ipotesi
indicate al numero 2, che prevede il diritto del lavoratore al pagamento di una indennità di
importo pari a 2 mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque compresa tra 4 e 24
mensilità.
4. Tutela risarcitoria debole nei casi di licenziamento comunicato senza l’indicazione della
motivazione o di licenziamento disciplinare in violazione della prescritta procedura, che prevede il
diritto del lavoratore al pagamento di una indennità di importo pari a una mensilità per ogni anno
di servizio, in misura comunque compresa tra 2 e 12 mensilità.
Per i licenziamenti intimati da datori di lavoro fino a 15 dipendenti, la nuova normativa prevede
espressamente:
- L’esclusione della tutela reale limitata
- Il dimezzamento dell’importo delle indennità risarcitorie previste nei casi di applicazione della
tutela risarcitoria forte e debole, che in ogni caso non può superare il limite di 6 mensilità.
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In ogni caso, “la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi
che lo hanno determinato” (nuovo art. 2, comma 2, l. 604/66, come sostituito dall’art. 1,
comma 37, l. 92/12); e non c’è più il doppio termine per i motivi (15 gg. + 7 gg.).
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Il licenziamento deve essere preceduto da una comunicazione effettuata dal datore di lavoro
alla Direzione territoriale del lavoro competente, al fine di favorire una conciliazione della
vertenza (nuovo art. 7, l. 604, come sostituito dall’art. 1, comma 40, l. 92/12).
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-accerta che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’art. 2110 c.c. (sospensione del
rapporto per malattia, infortunio, etc.).
-accerta la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo (il giudice PUO’ … non deve).
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-g.m.o.
Nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo:
NO REINTEGRAZIONE, ma indennità risarcitoria da 12 a 24 mensilità.
Queste disposizioni si applicano soltanto ai datori di lavoro medio-grandi. Per le altre imprese
vige la l. 604/66 (tutela obbligatoria).
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-I PRESUPPOSTI
-Oneri procedurali
Osservanza della procedura di cui all’art. 4: obbligatorietà
-Obbligo di comunicazione;
-Fase amministrativa.
La comunicazione alle rsa/rsu o alle associazioni sindacali territoriali determina l’avvio della
procedura. Contenuto della comunicazione:
i motivi dell’eccedenza
i profili professionali interessati
le eventuali misure alternative
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-LA PROCEDURA
Il datore di lavoro deve, preliminarmente, dare comunicazione dei previsti licenziamenti alle
Rappresentanze sindacali aziendali, nonché alle rispettive associazioni di categoria.
Tale comunicazione deve indicare:
- i motivi che determinano la situazione di eccedenza di personale;
- i motivi tecnici, organizzativi e/o produttivi per i quali si ritiene di non poter evitare i
licenziamenti;
In questa fase preliminare, pertanto, il sindacato riveste un ruolo centrale, rafforzato dalla
previsione (introdotta dalla L.92/2012), secondo cui gli eventuali vizi della comunicazione possono
essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della
procedura di licenziamento collettivo. A seguito di tale comunicazione le Rappresentanze sindacali
aziendali e le associazioni di categoria, eventualmente assistite da esperti, possono chiedere un
esame congiunto della situazione e, qualora non sia possibile evitare la riduzione di personale,
mediante misure alternative, è esaminata la possibilità di ricorrere a misure sociali di
accompagnamento tese a facilitare la riqualificazione e la riconversione dei lavoratori licenziati.
In caso di esito negativo, la struttura territoriale dell’Ispettorato (o Direzione territoriale del
lavoro), può convocare le parti per effettuare un ulteriore tentativo di accordo.
Esaurita questa fase, il datore di lavoro deve procedere ad individuare i lavoratori da licenziare tra
tutti quelli eccedenti, attenendosi a precisi criteri di scelta. Segnatamente, tali criteri di scelta sono
stabiliti all’interno dei contratti collettivi e, qualora questi manchino, il datore di lavoro deve
attenersi ai criteri indicati dall’art 5 comma 1 L. 223/91 in concorso tra loro, quali: carichi di
famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative.
Una volta individuati i lavoratori, il datore di lavoro può esercitare il diritto di recesso che deve
essere comunicato per iscritto e nel rispetto del termine di preavviso.
Entro 7 giorni dalla comunicazione dei recessi, deve essere comunicato per iscritto, alla Direzione
Regionale del Lavoro, alla Commissione Regionale permanente tripartita e alle associazioni di
categoria, l’elenco dei lavoratori licenziati, con la puntuale indicazione delle modalità con le quali
sono stati applicati i criteri di scelta. Il predetto termine di 7 giorni è stato previsto dalla L.92/2012.
In precedenza, la comunicazione doveva avvenire contestualmente alla comunicazione del recesso
ai lavoratori. La Riforma Fornero ha, poi, esteso ai licenziamenti collettivi, ai fini dell’impugnazione
del licenziamento, le disposizioni dell’art. 6 L.604/66, che individua i termini per l’impugnazione
del licenziamento individuale. Resta, dunque, confermato il temine di decadenza di 60 giorni dalla
ricezione della sua comunicazione, con qualsiasi atto scritto, anche extra-giudiziale, idoneo a
rendere nota la sua volontà, anche attraverso l’intervento dell’organizzazione sindacale diretto
ad impugnare il licenziamento stesso. Il lavoratore deve, altresì, rispettare l’ulteriore termine di
180 giorni entro il quale, pena l’inefficacia della impugnazione, deve depositare in Tribunale il
ricorso giudiziale, ovvero comunicare al datore di lavoro la richiesta di tentativo di conciliazione o
arbitrato.
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-Convenzionali/negoziali
-Legali (in via suppletiva): in concorso tra di loro, esigenze tecnico-produttive ed organizzative,
carichi di famiglia, anzianità.
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Il regime sanzionatorio dei licenziamenti collettivi illegittimi si articola, a seguito delle modifiche
della Riforma Fornero, sui seguenti tre livelli in relazione alle diverse ipotesi di illegittimità.
Pertanto, se il licenziamento è illegittimo:
- per violazione della forma scritta, il giudice ordina al datore di lavoro la reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro e lo condanna al risarcimento del danno e al versamento dei
contributi previdenziali e assistenziali (tutela reale piena);
- per violazione della procedura sindacale prevista dalla l.223/91, il giudice dichiara risolto il
rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al
pagamento di una indennità risarcitoria onnicomprensiva compresa tra un minimo di 12 ed un
massimo di 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (tutela risarcitoria forte);
- per violazione dei criteri di scelta, il giudice annulla il licenziamento e ordina al datore di lavoro
la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e lo condanna al pagamento di una indennità
risarcitoria non superiore a 12 mensilità e al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali
(tutela reale limitata).
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Nei confronti dei lavoratori (operai, impiegati e quadri) rientranti nel campo di applicazione del
D.lgs. 23/2015, si applica il nuovo regime sanzionatorio basato, invece, su due livelli di tutela.
Difatti, se il licenziamento è illegittimo:
- per violazione della forma scritta, il giudice ordina al datore di lavoro la reintegrazione del
lavoratore nel posto di lavoro e lo condanna al risarcimento del danno e al versamento dei
contributi previdenziali e assistenziali (tutela reale piena).
- per violazione della procedura sindacale o per violazione dei criteri di scelta, il giudice dichiara
estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore sempre in ogni caso al
pagamento di una indennità di importo pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento
per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a 4 e non
superiore a 24 mensilità (tutela risarcitoria forte).