Sei sulla pagina 1di 53

Manuale di Storia della scuola italiana

Scuole ed istituzioni educative negli Stati preunitari


Il problema scolastico tra ne ‘700 (periodo delle riforme illuminate) e inizi ‘800 (con dominazione
francese) va emergendo come esigenza sia per le opportunità sia per i timori.
All’indomani della Restaurazione, i sovrani ed il ceto politico dirigente sono chiamati a trovare
delle soluzioni a questo problema. Le soluzioni pervenute dagli Stati, che a partire dal 1815
iniziano a emanare speci che legislazioni per regolare istruzione pubblica e privata, come la
centralizzazione e la razionalizzazione della scuola - posta sotto il controllo dei governi ed
ordinata.

I fattori che condizionano l’e ettiva applicazione delle leggi emanate sono molti:
• presenza o assenza della domanda di istruzione, legata a condizioni sociali ed economiche
del territorio;
• inadeguata preparazione maestri;
• carenza edi ci scolastici;
• insu cienza strumenti didattici.

Toccherà alla Legge Casati mettere insieme i tassello di questo mosaico complesso.

La scuola pubblica e privata nella Lombardia austriaca


La politica austriaca della Restaurazione risente delle scelte messe a frutto durante il ventennio
teresio-giuseppino e la dominazione napoleonica.

La riforma scolastica di Maria Teresa d’Austria e Giuseppe II. Voluta nella seconda metà del ‘700. Si sviluppa attraverso
l’emanazione di provvedimenti pragmatici ed una serie di azioni rilevanti:
• Dichiarazione imperiale volta a dichiarare l’istruzione quale interesse dello Stato;
• Riforma dei libri elementari;
• inchiesta sullo stato delle scuole milanesi;
• piano organico per istituzione scuole elementari e preparatorie, scuole d’arti professionali e
studi secondari.
Mira a:
• de nire sistema capillare di scuole;
• introdurre obbligo scolastico;
• sancire gratuità scuole;
• attribuire maggiore importanza a educazione religiosa necessaria per formare il buon
cristiano ed il buon cittadino;
• quali care maestri/e, attraverso corsi di metodo
• utilizzare clero per sopperire a di coltà economiche dei comuni.
Questi principi, sebbene non sempre capaci di tramutarsi in realtà (es. obbligo scolastico),
insieme alle politiche attuate dai napoleonidi (-> scuola = mezzo indispensabile per formazione
giacobino repubblicano), forti cano l’istruzione di base rendendola una realtà consolidata e
di usa.

Il governo restaurato, riferendosi alla scuola popolare austriaca, nel 1818 emana il Regolamento
per le Scuole Elementari nel Regno Lombardo-Veneto (reso e ettivo nel 1821):
• istituzione di scuole “ovunque si tiene un libro parrocchiale”;
• gratuità e obbligatorietà “per tutti i fanciulli/e 6-12 anni”;
• in caso di contravvenzione, multa “per ogni mese di mancanza”.

Sono poi istituite per ambo i sessi:


• scuole elementari minori ➡ primi rudimenti del sapere
🚹 sezioni maschili ➡ studio Religione cattolica, lettura, scrittura, aritmetica, pesi, misure,
monete, elementi “per esprimere in iscritto proprie idee”
🚺 sezioni femminili ➡ + lavori donneschi per buon andamento famiglia
ff
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
ff
fi
ffi
ff
• scuole elementari maggiori, formate da 3/4 classi (principali città e capoluoghi di provincia)
🔘 corso inferiore (prime 3 classi) ➡ - insegnamenti scuole elementari minori
- studio calligra a, ortogra a, grammatica italiana,
precetti per scrivere brevi componimenti e “leggere e
scrivere latino sotto dettatura”
🔘 quarta classe ➡ studio principi di architettura, geometria, meccanica, stereometria,
disegno, geogra a, storia naturale e sica
• scuole elementari tecniche ➡ preparazione a piccoli impieghi nel commercio e carriera
burocratica
➡ insegnamenti storia, “scienza del commercio”, “arte di tener
libri di ragione” e di “storia delle arti”, matematica, chimica,
tedesco, francese, inglese
Tutto il settore pubblico dell’istruzione è a dato al clero: scuole minori a parroci; scuole maggiori
a direttore che per legge è un ecclesiastico.

Uno dei principali problemi che il governo è chiamato a risolvere è la formazione pedagogica dei
maestri. La questione trova una soluzione (formale) con l’annessione alle scuole elementari
superiori di una cattedra di metodica e catechistica. Gli aspiranti maestri devono superare con
lode gli studi delle terze e quarte classi, seguire un corso (dai 3 ai 6 mesi), svolgere un tirocinio e
sostenere un esame di idoneità. La formazione si poggia anche su corsi di metodica (3 mesi) e
sulla pubblicazione di testi speci ci.

Ci sono, inoltre, sia il problema della formazione delle maestre, sia quello del trattamento
economico dei maestri.

L’insu cienza delle iniziative pubbliche indirizzate alle fanciulle consente una oritura di iniziative
private legate all’operato di congregazioni religiose.

L’istruzione secondaria continua a seguire il tradizionale indirizzo umanistico, rimanendo in gran


parte a data ai vecchi precettori.

• I licei, la cui costituzione si basa in gran parte sul Regolamento organico del 1807, sono
ristrutturati in base alla risoluzione sovrana del novembre 1816 e modellati sulle facoltà
loso che esistenti.
• Una nuova normativa dell’aprile 1833 disciplina i licei-convitti la cui direzione è a data ad un
provveditore. La durata del corso, dal 1825, passa da 3 a 2 anni.
• Il corso ginnasiale si compone di 4 classi di grammatica, a cui seguono altre 2 classi di
umanità. L’insegnamento si basa maggiormente sullo studio del latino e del greco, su metodi
grammaticali e stilistici e su esercitazioni pesanti. Il governo austriaco, nel 1849, amplia il
programma di lingua e letteratura italiana e quello di scienza esatte e naturali. Grande
importanza è attribuita allo studio della religione. Gli esami sono mensili e semestrali. La
politica ginnasiale austriaca non può considerasi, nel suo complesso, tanto positiva quanto
quella rivolta alle scuole elementari. Sulle capacità degli insegnanti sono in molti a sollevare
dubbi.
• Nell’arco di tempo fra Restaurazione e 1820-1 si registra un orire di iniziative private tese alla
fondazione di scuole i mutuo insegnamento. Sono scuole basate sulla metodologia descritta per
la prima volta nel 1803 in Inghilterra da Joseph Lancaster. Queste sono messe in crisi dal
riordino delle scuole governative e successivamente stroncate dal governo austriaco.
• Appoggiati dall’autorità di Giandomenico Romagnosi, sovvenzionati da nobiltà/borghesia/clero,
gli asili si di ondono con rapidità.
• L’istruzione non statale vanta una lunga tradizione sia attraverso collegi, retti soprattutto da
ordini religiosi, sia attraverso istituti, frutto di iniziative personali. Questa consuetudine è
regolata dal 1819 dal Regolamento degli istituti privati, che esorta i giovani che intendono
istruirsi privatamente a rivolgersi ad insegnanti regolarmente approvati dal Governo, a prestare
massima cura all’insegnamento religioso ed ad adottare stessi libri utilizzati nelle scuole
pubbliche. Con il Regolamento in breve tempo le scuole private sono messe nella condizione di
chiudere o di rinunciare ad ogni velleità d’indipendenza.
fi
ffi
fi
ffi
ff
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
fi
ffi
Nell’ordinamento scolastico l’elemento ecclesiastico occupa, nel campo dell’istruzione, un ruolo
preminente. In questo periodo però il potere civile si serve di quello religioso, in tutti i rami
dell’istruzione, per legittimare il suo dominio.

L’istruzione pubblica e privata in Piemonte


Il ritorno della monarchia sabauda segna il ripristino del Magistro della Riforma, da cui dipende
l’intero ordinamento dello Stato, delle Costituzioni e dei Regolamenti del 1772 di Carlo Emanuele
III, che implicano un sostanziale monopolio nella scuola di ordini religiosi.
Al termine dell’occupazione francese, la scuola ritorna nella mano del clero; in mancanza di
ecclesiastici, l’insegnamento è a dato a chierici con l’obbligo di ottenere dal Vescovo della
Diocesi la conferma della licenza di portare l’abito talare.

Dopo i moti del 1821, il governo sabaudo, con l’intento di garantire un’istruzione minima ai ceti
popolari, intesa come strumento di controllo sociale, interviene nel campo della scuola pubblica
emanando nel luglio 1822 le Regie Patenti con un annesso Regolamento degli studi.
Il Regolamento riordina il sistema scolastico ed impone, riguardo all’istruzione elementare,
l’obbligo di istituire “in tutte le città una scuola per istruire i fanciulli nella lettura, scrittura, dottrina
cristiana e negli elementi di lingua italiana e dell’aritmetica, col titolo di Scuola comunale”.
Inoltre:
• sono dettati i criteri per l’accertamento dell’idoneità dei maestri;
• si dichiara la gratuità dell’insegnamento elementare;
• è limitata l’autorità delle amministrazioni comunali.
Le nuove norme però non stabiliscono sanzioni per i comuni inadempienti né prevedono la
concessione di fondi per quelle amministrazioni in condizioni di ristrettezze economiche; inoltre,
non rivolgono attenzione nei confronti degli insegnanti, del loro trattamento economico e della
loro formazione.
Il Regolamento accontentavi liberali, obbligando i comuni ad istituire, a proprie spese, scuole
elementari in tutti i borghi.
Nel 1826, le Regie Patenti disciplinano in maniera rigida l’insegnamento privato, consentito ai
“parroci nelle rispettive Parrocchie”.

L’aspirazione ad un rinnovamento educativo è avvertita da pochi spiriti liberali.

Anche il movimento in favore degli asili infantili si sviluppa in Piemonte, però con maggiore
lentezza rispetto al Lombardo-Veneto. L’interesse degli aristocratici per l’educazione del popolo è
prevalentemente legato a motivazioni d’ordine sociale, economico, politico e religioso.
Un’impronta propriamente educativa si deve all’in uenza di Ferrante Aporti ed al nuovo indirizzo
che prende la politica piemontese dalla ne degli anni ’30.
La politica liberale di Carlo Alberto ed il favore della pubblica opinione niscono per determinare
una rapida di usione degli asili aportiani in tutto il Piemonte.

L’impulso alla di usione dell’istruzione è legato anche all’attività:


• dell’Associazione Agraria (1842), che diviene centro di studi e di discussioni su problemi
economici e politi da cui scaturiscono delle proposte innovative anche nel campo
dell’istruzione;
• della Società d’istruzione e di educazione, fondata nel 1849 con l’obbiettivo di perseguire “il
bene dell’istruzione e dell’educazione ed il miglioramento dello stato degli Istitutori”.

L’opera dei privati singoli ed associati è ancheggiata anche da alcuni periodici di carattere
educativo, tra cui il foglio periodico Letture popolari ed il giornale d’educazione e d’istruzione
elementare L’educatore Primario.

Un miglioramento delle condizioni scolastiche, sia riguardo alla preparazione degli insegnanti sia
riguardo ai sussidi, si deve alla fondazione nel 1844 di una Scuola superiore di metodo, presso
l’Università di Torino. Da questa scuola escono una serie di libri di testo di rilevante importanza
per l’istruzione elementare.
Accanto a tale scuola, nalizzata a formare i professori di metodo, a partire dal 1845 si attivano
anche le scuole provinciali di metodo, destinate alla preparazione dei maestri, nelle quali si
tengono corsi della durata di 3 mesi.
ff
ff
fi
ffi
fi
fi
fl
fi
La nomina a Magistrato della Riforma del marchese Al eri segna il sopravvento delle idee liberali
nel campo dell’insegnamento e l’assunzione, da parte del governo, di maggiori responsabilità.
Nel giugno 1847, si presenta al Parlamento subalpino u progetto di legge che fa dipende la
pubblica istruzione dalla Direzione generale del Ministero Segretario di Stato incaricato. Il
progetto, che distingue le scuole maschili in 3 gradi, stabilisce che nelle scuole elementari “si
danno l’istruzione e l’educazione necessarie a tutti i cittadini indistintamente”.

Le Regie Patenti del novembre 1847 istituiscono la Regia Segreteria di Stato per l’istruzione
pubblica, con la funzione di “promuovere il progresso del sapere, provvedere in ogni parte
all’amministrazione degli Instituti e stabilimenti appartenenti all’insegnamento ed alla pubblica
educazione”.
➡ La pubblica istruzione ottiene un proprio rappresentante in seno al Consiglio di Conferenza e di
conseguenza una propria autonomia funzionale.

Nell’ottobre 1848, Carlo Alberto emana un decreto con cui riorganizza la pubblica istruzione degli
Stati Sardi. Si tratta della LEGGE BONCOMPAGNI, presentata alla Camera mentre il Regno è
impegnato nella prima guerra d’indipendenza, attraverso la quale l’insegnamento passa
de nitivamente dalla tutela del clero alla sorveglianza ed alle dipende dell’autorità civile.
Il nuovo assetto accentra allo Stato il controllo della pubblica istruzione, prevede una progressiva
laicizzazione delle scuole, abolisce i privilegi degli ordini religiosi riguardo all’insegnamento e
qualsiasi ingerenza scolastica degli ecclesiastici sulla scuola. La Legge non sottende un
orientamento antireligioso, concedendo spazi all’iniziativa privata e all’associazionismo.
La legge, che mira ad organizzare in maniera più razionale la scuola pubblica, istituisce in ogni
capoluogo di provincia, per la gestione delle scuole elementari e delle secondarie, i Consigli
provinciali.
Il nuovo sistema, che ria erma l’obbligatorietà e la gratuità dell’istruzione primaria, prevede:
• le scuole elementari, divise in:
• inferiori ➡ catechismo, leggere, scrivere, primi elementi di aritmetica, principi della lingua
italiana
• superiori ➡ grammatica e “componimenti italiani”, “ulteriori sviluppi” dell’aritmetica, i
primi elementi di geometria, delle scienze naturali, della storia e della geogra a;
• le scuole post-elementari, divise in:
• speciali ➡ preparano all’esercizio di quelle professione per cui non è necessaria
un’istruzione a livello universitario
• secondarie ➡ lingue antiche e lingue straniere, elementi della loso a e della scienza;
funzione di preparare i giovani agli studi universitari.

Una legge approvata nell’ottobre 1848, rivolta al grado secondario, istituisce in alcuni convitti un
corso speciale destinato ai giovani che non intendono dedicarsi agli studi classici e, al posto dei
soppressi collegi tenuti dai Gesuiti, collegi-convitti i quali comprendono i corsi di grammatica (3
anni), retorica (2 anni), loso a (2 anni) ed un corso elementare diviso in 4 anni che, essendo
collegato ai collegi, assume un carattere elitario. Inoltre, la disposizione stabilisce, per le scuole
elementari, il principio della rotazione degli insegnanti.

Nell’ottobre 1848 viene approvato il Regolamento interno e piano di studii de nisce i


programmi di studio ed un complesso di norme che riguardano le scuole elementi attivate
all’interno dei collegi.

L’opera riformatrice del Boncompagni è considerata insu ciente da molti intellettuali del tempo.
Le critiche riguardano varie questioni, tra cui:
❌ mancata istituzione di scuole medie non fondate sul latino e rivolte alla preparazione per
l’esercizio delle professioni tecniche e dei mestieri;
❌ insu cienze provvedimenti riguardanti la preparazione dei maestri e le scuole di metodo;
❌ problema dell’educazione femminile;
❌ mancata a ermazione dei principi dell’obbligatorietà dell’istruzione elementare e della
gratuità della scuola elementare pubblica.
fi
ffi
ff
fi
ff
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
Alla Legge Boncompagni seguono altri provvedimenti:
• legge sull’amministrazione dei comuni -> iscrive tra le spese obbligatorie quelle per
l’istruzione elementare per ambo i sessi;
• regio decreto -> norme precise per la gestione dei convitti nazionali;
• Regolamento che ordina scuole secondarie in conformità ai principi esposti dalla Legge
Boncompagni;
• Istruzioni Provvisorie per le scuole primarie per gli adulti (marzo 1849). Sono rivolte ai
comuni ed alle associazioni provate, che intendono istituire scuole quotidiane serali e scuole
feriali diurne a favore degli adulti. Suddividono le scuole primarie in:
• elementari ➡ dottrina cristiana e storia sacra; lettura e scrittura; principi lingua italiana,
aritmetica, pesi e misure;
• superiori ➡ religione; grammatica italiana; nozioni diritto costituzionale, codice civile,
geogra a e storia patria; principi economia domestica e rurale, d’igiene pubblica e privata;
aritmetica applicata ad agricoltura e commercio; principi geometria applicata e scienze
naturali.
Tuttavia, la Statistica dell’istruzione primaria negli Stati Sardi del 1850 mostra che le scuole
per gli adulti sono sono ancora una realtà di usa.

Ai problemi emersi tenta di dare una risposta il ministro Luigi Cibrario.


Il suo sostituto, Giovanni Lanza, è promotore della legge Riordinamento dell’Amministrazione
Superiore della Pubblica Istruzione (giugno 1857), che è orientata ad accentrare allo Stato
qualsiasi a are relativo all’istruzione, ormai intesa quale strumento per costruire una solida
“identità nazionale”.

La scuola nel Ducato di Modena e Reggio


Col ritorno di Francesco IV cessa l’interesse per i problemi dell’istruzione che aveva caratterizzato
il governo precedente.
Sono apportate delle modi che riguardo all’insegnamento della religione; sono espulsi gli studenti
ebrei dalle scuole primarie e secondarie. Con le disposizioni del luglio 1815 sono trasferite, sotto
la direzione del ministro di pubblica economia e d’istruzione, tutte le scuole mantenute dallo
Stato. Ci sono alcune norme in base a cui le classi elementari, di umanità e di retorica, continuano
ad essere gratuite, mentre cessano di esserlo le scuole di grammatica.

Nel 1819 il ministro decreta la limitazione ed il controllo delle scuole private: chi intende aprire o
continuare a tenere un istituto privato è tenuto ad ottenere l’autorizzazione del Ministero che,
dopo gli opportuni accertamenti, stabilisce, caso per caso, a quale insegnamento il richiedente
può essere abilitato.
Il decreto resta in vigore no al dicembre 1825, anno in cui il Duca ordina la chiusura di tutte le
scuole private e vieta il proseguimento degli studi nelle scuole pubbliche degli allievi provenienti
da istituti privati.

Nel 1820, il ministro stabilisce qualche regola generale legata al funzionamento della scuola,
senza a rontare questioni rilevanti.

Nel novembre 1829 sono dettate nuove regole riguardanti la nomina degli insegnanti di umane
lettere: il ministro prescrive le gli aspiranti speci ci esami volti a valutare la moralità e la
preparazione.

Dopo la fuga di Francesco IV il governo provvisorio, che elabora una legge volta al riordino delle
scuole di ogni grado ed istituisce una Prefettura di pubblica istruzione, emana anche alcuni
provvedimenti con i quali revoca le norme che vietano agli ebrei di frequentare le scuole
pubbliche.

Con la legge del febbraio 1831, il governo provvisorio decreta l’abolizione di alcuni licei-convitti
ed il riordino del ginnasio; la legge poi stabilisce la gratuità delle scuole primarie e secondarie,
introduce alcune restrizioni per le scuole private e rinvia ad un regolamento volto a garantire
uniformità di mesi alle scuole comunali della provincia e della capitale.
fi
ff
ff
fi
fi
fi
ff
É emanato un decreto ministeriale con cui si istituisce una scuola per la preparazione degli
insegnanti di belle lettere.

Nel 1839, è elaborato il Regolamento per le scuole inferiori comunnali. A da ai parroci la


direzione dell’istruzione religiosa ed a un direttore/ispettore quella dell’insegnamento e della
disciplina. Distingue 5 gradi di insegnamento, ma non ne stabilisce la durata. Prevede per:
• classi normali -> lettura, scrittura, elementi lingua italiana, 4 operazioni d’aritmetica, “regola
del 3”;
• classi di grammatica -> lingua italiana e latina;
• classi di umanità e retorica -> precetti e pratica del “ben parlare”, “esercizio di poetare”.

Del problema dell’istruzione sembra volersene occupare Francesco V, che nomina una
commissione con l’incarico di elaborare un piano generale relativo all’insegnamento pubblico. Il
successivo Regolamento conferma le norme precedenti d la centralità in tutte le scuole dello
studio della dottrina scolastica.

L’istruzione nel Granducato di Parma, Piacenza e Guastalla


Nel novembre 1814 viene emanato il Piano e regolamento per l’Università degli studi dei ducati di
Parma, Piacenza e Guastalla.
Il progetto a da l’educazione e l’istruzione all’Università cui appartengono i professori delle
diverse facoltà, gli insegnanti delle scuole secondarie, i maestri delle scuole elementari, i direttori
degli istituti privati.
I maestri dipendono dal Magistrato, con i seguenti compiti:
• elaborazione piano e metodo generale istruzione;
• de nizione obblighi professori e maestri;
• de nizione vacanze e ore da dedicare a studi;
• de nizione doveri disciplinari discenti;
• stabilire requisiti richiesti per ammissione a vari gradi scolastici, a esami laurea e a gradi
accademici.
Il ne del Piano è quello di istituire in ogni comune una scuola primaria completa di 3 classi o
almeno la prima classe.

L’ordinamento scolastico sotto Maria Luigia prevede scuole distinte in superiori (o facoltative),
secondarie e primarie.
Le scuole secondarie sono divise nelle 5 classi della scolastica, mantenute da un consorzio di
comuni e regolare con programmi, orari, testi di studio e criteri disciplinari diversi.
La scuola elementare comprendere 3 classi. La sua situazione però non è soddisfacente:
scandente preparazione maestri, angustia locali, mancanza norme relative all’istruzione delle
giovanette. Questi fattori ed altri favoriscono il sorgere e l’a ermarsi di numerosi istituiti privati.

Menzione particolare merita l’introduzione del parmense del mutuo insegnamento (don Paolo
Gandol ).

Nell’ottobre 1831 viene pubblicato un nuovo Regolamento, che istituisce scuole primarie, “a
comodo dei comuni e mantenute a spese loro”, e scuole secondarie. Vi sono delle norme precise
su orari e programmi, in modo da impedire ai maestri libertà di movimento ed azione. Non a ronta
questioni rilevanti, come il ribella della formazione e preparazione degli insegnanti.

Accanto alle scuole, per iniziativa di provati, sorgono anche alcuni asili infantili.
A Parma di istituiscono anche le Case della Provvidenza, che accolgono ragazzi da 8 a 18 anni e
o rono loro la possibilità di imparare un mestiere e di essere istruiti nella meccanica, geogra a,
aritmetica e geometria.

La scuola nel Granducato di Toscana


La politica dei discendenti di Leopoldo I è caratterizzata da un’ampia tolleranza nei confronti
dell’iniziativa privata.
ff
fi
fi
fi
fi
fi
ffi
ff
ffi
ff
fi
La scuola elementare, benché gratuita, è poco frequentata e pressoché assente nelle comunità
più periferiche. Nel periodo della Restaurazione, le scuole secondarie sono a date, dopo la
soppressione dell’ordine dei Gesuiti, ai Barnabiti e ai padri Scolopi (permeati dalla cultura dei
ceti dirigenti, incluse le componenti liberali).

Le scuole di mutuo insegnamento si sviluppano a Firenze, Livorno e Pisa.


Accanto a queste, si di ondo anche gli asili infantili.

Il Granduca, col sovrano Decreto del novembre 1845, nomina una Commissione per elaborare un
piano di riforma per l’insegnamento primario è secondario, che produce nel ‘46 un progetto ed
un’amministrazione e della cultura pedagogica dello Stato toscano alla vigilia del ‘48.
La fondazione di un Liceo statale a Firenze rompe il monopolio fatto dagli Scolopi e segna gli
inizi di un’istruzione di grande avvenire.

Scuole nello Stato Ponti cio


Papa Pio VII, subito dopo la Restaurazione, si preoccupa di elaborare una politica culturale per
l’istruzione popolare e di sorvegliare e disciplinare l’insegnamento privato.
Il Motu proprio del luglio 1816 istituisce una commissione cardinalizia, che elabora il Metodo
generale di pubblica istruzione ed educazione.

Leone XII, nel settembre 1824, emana la bolla Quod Divina Sapientia, che segna il ripristino della
Sacra Congregazione degli Studi.
La situazione di disordine dell’istruzione elementare spinge il papa a ricondurre l’istruzione ad un
sistema organico e il disordine è disciplinato dalle norme contenute dalla Costitutio de recta
ordinatione studiorum in dictione ecclesiastica ed attuate dal Regolamento elaborato dalla Sacra
Congregazione. I 27 titoli disciplinano l’intero comparto scolastico. Recepiva e trasferiva sul
versante scolastico i 2 principi di uniformità e centralizzazione. Contiene un esteso regolamento
universitario, o rendo solo alcune norme per le scuole primarie; mentre, non contiene
disposizione per gli istituti per la formazione di insegnanti e per le scuole secondarie. Sopprime in
tutto lo Stato le scuole di mutuo insegnamento.

Il nuovo ordinamento delle scuole elementari si limita solo a disciplinare le scuole tenute dai
privati; mentre lascia piena libertà alle scuole rette da Congregazioni religiose.

La Sacra Congregazione degli Studi, nel settembre 1825, pubblica il Regolamento delle scuole
private elementari, composto su 5 titoli. Il 1º titolo conferma l’obbligo dei maestri di munirsi della
licenza e le pene per i contravventori. Nel 2º titolo, che tratta il numero dei locali scolastici e
delle materie d’insegnamento, sono ripostate informazioni sui locali che devono essere ampi,
ben illuminati, lontani da bettole, corredati di banchi e dei sussidi necessari ed ornati con
l’immagine di Cristo e della Vergine.
Questo Regolamento, esteso anche alle scuole regionarie, è rilevante perché “estendendo anche
alle scuole tenute dai maestri ragionari il piano di studi prescritto per quelle elementari private,
tolse loro il tradizionale privilegio di impartire anche l’istruzione di tipo secondario no al ciclo
dell’umanità e della retorica”.

Sono previsti testi uniformi per la grammatica italiana, la prosodia e la retorica. Sono resi
obbligatori l’insegnamento della l’italiana e l’adozione del libro del Pallavinci.

Nella seconda metà degli anni ‘20, operano scuole parrocchiali (gratuite) e scuole ponti cie
(semi-gratuite; si impartiscono dottrina cristiana, primi rudimenti leggere, scrivere e calcolo, per le
bambine anche lavori donneschi).

Nell’aprile 1832, la Sacra Congregazione prende la decisione che tutti i maestri che non
professano buone massime, non operano con saggezza o di cui non si sospettano non sani
principi religiosi e politici devono essere sottoposti a tribunali ordinari, per essere sospesi o
destituiti.

Con Pio IX, la Sacra Congregazione dichiara di voler incrementare gli istituti rivolti al popolo, tra
cui le scuole notturne e gli asili infantili.
ff
ff
fi
ffi
fi
fi
Durante l’esperienza della Repubblica Romana è dichiarato il principio di potere l’istruzione sotto
il pieno controllo statale, pur a ermando di non voler abolire il ruolo moralizzatore della religione.
Dopo la caduta della Repubblica è abolito il Ministero della Pubblica Istruzione e reintegrata nei
suoi poteri la Sacra Congregazione degli Studi.

L’istruzione nel Regno delle Due Sicilie


Con il rientro a Napoli di Ferdinando I di Borbone, l’istruzione pubblica e privata è ordinata
mediante un nuovo assetto all’apparato burocratico e l’è a azione di una serie di provvedimenti.

Nell’agosto 1815 è istituita per i domini peninsulari la Commissione di Pubblica Istruzione, che
viene incaricata di estendere le sue vedute sopra tutte le parti dell’istruzione e di vigilare le scuole
private.
Nel gennaio 1817 è istituita per i domini insulari la Suprema Commissione di Pubblica
Istruzione ed Educazione, da cui dipendono tutte le scuole primarie e secondarie, i collegi di
studi, i convitti, i conservatori ed i seminari.

Nel maggio 1816 è promulgato il Regolamento per le scuole primarie de’ fanciulli di Napoli e
del Regno che sancisce la gratuità e l’obbligatorietà dell’istruzione primaria attraverso
l’attivazione di scuole poste a carico delle amministrazioni comunali. Sono dettate indicazioni
volte ad ampliare il raggio d’azione della scuola pubblica, tra cui l’obbligo di munirsi della
“matricola di aver assistito alle scuole primarie, di saper leggere, scrivere, il Catechismo di
religione ed i Doveri sociali” per intraprendere un mestiere.
Lo Stato attribuisce al clero una posizione di assoluta centralità nella gestione della scuola
pubblica.

Per i domini insulari, la Commissione di Palermo emana, nel novembre 1818, i Regolamenti per
le scuole primarie, che prevedono l’attivazione in ogni comune di scuole “di leggere, e scrivere
correttamente, nell’aritmetica elementare, e nelle istruzioni morali del Catechismo di Religione, e
dei doveri sociali adottati dal Governo”.

Riguardo all’istruzione femminile, sono emanati, contestualmente ai provvedimenti del 1816 e ‘19,
speci ci regolamenti che ordinano l’apertura di scuole gratuite di leggere, scrivere, far di conto,
catechismo e arti donnesche.
In Sicilia, dalla seconda metà del XVIII sec., sono in funzione una rete di Collegi di Maria.

Nel dicembre 1816, è emanata la legge organica dell’amministrazione civile, che stabilisce, a
seconda della classe del comune, il tetto massimo degli onorari di maestri e maestre.
Nel maggio 1816 è emanato un decreto che disciplina il trattamento pensionistico di tutti i
dipendenti pubblici.

Subito dopo la Restaurazione, il governo pone attenzione anche all’istruzione secondaria,


professionale, militare e privata:
• promulgazione degli Statuti per i licei, i collegi e le scuole secondarie;
• approvazione del Regolamento per le scuole nautiche;
• organizzazione degli istituti di educazione militare;
• emanazione del Regolamento per le Scuole private e i Pensionati.
I moti del 1820-21 determinano nel Governo borbonico una maggiore rigidità nei confronti
dell’istruzione pubblica. Nell’aprile 1821, sono costituite:
• 4 Giunte di Scrutinio, per valutare tutti coloro che “pubblicano opere in stampa e che
istruiscono la gioventù nella scuole pubbliche e private”;
• Congregazioni di spirito, per garantire assiduità a parati che religiose.
La politica repressiva è accompagnata da misure che mirano a ripristinare il monopolio
ecclesiastico sulla pubblica istruzione.
L’amministrazione centrale della pubblica istruzione passa dalla dipendenza del Ministero
dell’Interno a quella del Presidente dell’Università.
Si istituiscono Commissioni provinciali di Pubblica Istruzione.
fi
ff
In Sicilia, dopo i mori, nel 1821 è istituita una Giunta di Scrutinio pe’ Letterati, con l’incarico di
valutare la condotta dei maestri e professori, e sono emanati i Regolamenti per le scuole comunali
e per le scuole private (tra le cose, introducono il mutuo insegnamento).

Tra il 1825 e il ‘30, dopo l’ascesa al trono di Francesco I (la cui politica è improntata a un rigido
autoritarismo e chiusa a novità e progresso), le iniziative legate a istruzione pubblica sono ridotte.
Le uniche iniziative di rilievo riguardano la Sicilia, dove nell’ottobre 1825 è pubblicato il Piano di
riforma per le Accademie e i Collegi dell’isola e nel giugno 1828 il Metodo e Corso scolastico da
osservarsi in tutte le scuole primarie, secondarie, pubbliche e private, che regola l’adozione dei
metodi normale e lancasteriano e fornisce indicazioni sui programmi e sui libri di testo da adottare
nelle scuole primarie e secondarie.

Ferdinando II non pone cura nei confronti dell’istruzione pubblica.


L’emanazione di un decreto nel gennaio 1831 prescrive una riduzione generale degli stipendi ed
in igge un colpo duro ai maestri e alle maestre. Ciò si traduce in un complessivo abbassamento
delle retribuzioni o nell’a do della scuola ai parroci, no ad arrivare - soprattuto per le scuole
femminili - alla de nitiva chiusura di diversi istituti.

Negli anni ‘30 si segnalano varie iniziative legate all’istruzione tecnico-professionale.

Agli inizia degli anni ‘40, il Presidente della Giunta di Pubblica Istruzione elabora il Progetto di
Riforme pel regolamento della pubblica istruzione, che concede ampio spazio all’iniziativa
privata e trasferisce il peso dell’istruzione pubblica alle province prevedendo l’attivazione di 3
gradi scolastici.
La proposta induce Ferdinando II ad emanare, nel gennaio 1843, un decreto che a da l’istruzione
primaria ai Vescovi autorizzati a scegliere, sospendere e rimuovere maestri/e e così formalizzando
il ritiro dello Stato dall’istruzione primaria.
L’istruzione primaria però continua a procedere senza modi che di rilievo, a data a maestri-
parroci. Il deserto incentiva l’iniziativa privata laica che si propone con realizzazioni di grande
rilievo dal punto di vista pedagogico e culturale.

Dopo la concessione della Costituzione, Ferdinando II, nel marzo 1848, istituisce a Napoli la
Commissione provvisoria di Pubblica Istruzione. Questa elabora un piano innovativo di riforma
della scuola primaria e secondaria, che però resta sul piano degli intenti.
Il Parlamento siciliano, le ‘48, approva lo Statuto Costituzionale del Regno di Sicilia nel quale è
a ermata la libertà dell’insegnamento e la gratuità della scuola pubblica.

Nel ‘49, Ferdinando II istituisce il Consiglio generale di Pubblica Istruzione ed accorpa il


Ministero di Pubblica Istruzione a quello degli A ari ecclesiastici, attribuendo al clero il controllo
della scuola pubblica.
Nell’ottobre ‘49, con un decreto si prescrivono un’età minima di 28 anni per coloro che vogliono
insegnare, l’obbligo di munirsi del ‘real permesso e della ‘carta autorizzante’ rilasciata
dall’Università e di sottoporsi ad un esame scritto in lingua italiana sul Catechismo e sulla
“scienza che si propongono di insegnare”.

Negli ultimi 10 anni di vita del Regno borbonico, si registrano buoni risultati con riguardo
all’istruzione secondaria. Diverse sono le realizzazioni scolastiche tecnico-professionali legate a
istituti agrari, a scuole di arti e mestieri, commerciali e nautiche. Sul versante dell’istruzione
primaria, vi sono diversi provvedimenti che mirano a migliorare vari aspetti della scuola pubblica,
la condizione dei/delle maestri/e ed a incentivare la frequenza scolastica.

Asili nido e scuole dell’infanzia nella storia italiana


A partire dalla seconda metà del ‘900 si assiste ad un crescente sviluppo di istituzioni e agenzie
educative volte alla cura e all’educazione della prima infanzia. Queste istituzioni hanno sempre
visto un soggetto politico pubblico giocare in ruolo importante a livello legislativo, decisionale,
economico e di supervisione organizzativa.

Parlando di servizi educativi per la prima infanzia in Italia occorre sottolineare 3 punti.
ff
fl
fi
ffi
ff
fi
fi
ffi
ffi
1. Non vi è traccia di alcun intervento “sistematico” no alla ne degli anni ‘60 e dei primi anni
‘70 del ‘900.
2. Per lungo tempo l’infanzia è stata pensata come “oggetto da accudire” (e non soggetto da
educare) -> intervento sociale a dato a soggetto politici che non appartenevano a
dimensione “scolastica”.
3. Le strutture per l’infanzia 0-3 e quelle 3-5 sono state per lungo tempo indipendenti tra loro e
non comunicanti l’una con l’altra.

Il percorso storico e culturale che ha portato le scuole dell’infanzia ad essere considerate vere e
proprie scuole può dirsi culturalmente e pedagogicamente concluso ai primi del ‘900, con la
Scuola materna delle sorelle Agazzi e la Casa dei bambini di Maria Montessori.

Gli asili nido diventano strutture educative solo a partire dai primi anni ‘70.
La nascita delle prime forme di asili nido ha motivazioni sociali: si sente la necessità di custodia
ed assistenza anche per l’infanzia sotto i e anni.

La nascita di una scuola dell’infanzia nell’Ottocento


La maternità e la conseguente situazione infantile di rischio e di degrado cominciarono ad essere
prese in considerazione in Europa all’inizio ‘800. Furono gli intellettuali italiani di estrazione
cattolica a rendere possibile le prime esperienze di “asili”: strutture che, all’insegna della carità
“privata”, potessero accudire le madri delle famiglie povere, supportandole nella cura e
nell’allevamento dei gli più piccoli.

Il termine “asilo” cominciò ad essere utilizzato in Italia intorno agli anni ’30, per indicare
un’istituzione assistenziale ed educativa pensata per la “seconda infanzia” (3-6 anni).
Il primo “asilo di carità per l’infanzia” fu aperto a Cremona nel 1829 da Ferrante Aporti: gli asili
aportiani cercavano di preparare bambini/e all’istruzione elementare, curandone lo sviluppo sico,
intellettuale e morale e cercavano di valorizzare il gioco, a ancandola alle attività artigianali
(maschi) o all’economia domestica (femmine). Il modello degli asili aportiani si di use un po’
ovunque nella penisola.

La disattenzione politica alla scuola dell’infanzia è proverbiale nella legge Casati: in piena
espansione del sistema industriale, con il conseguente assorbimento di lavoratrici madri, non è
dedicata nemmeno una riga all’educazione dell’infanzia tra i 3 ed i 5 anni. La questione degli
“asili” fu però in parte recuperata dal Regolamento organico del Regno d’Italia sull’istruzione
elementare, in cui la preoccupazione principale sembra essere la “salubrità della sede”.

Gli “asili di educazione per l’infanzia”, tradizionalmente di impostazione cattolica, furono oggetto
di interesse anche da parte del controprogramma laico di istruzione promosso in area massonica
nei primi anni ’60 dell’800.

Nella prima metà degli anni ’60 iniziò a di ondersi il modello dello Kindergarden (o “giardino
dell’infanzia” froebeliano).

Esperienze d’avanguardia nell’Italia tra ne ‘800 e primo ‘900


Il ministro Paolo Franceso Perez, con il Regio Decreto del settembre 1880, stabilì che per il ruolo
di insegnante nei giardini dell’infanzia era necessaria l’idoneità all’insegnamento nel gufo inferiore
delle scuole elementari o un tirocinio almeno triennale esercitato presso un giardino d’infanzia
annesso alle Scuole normali.

La ne dell’800 e il primo ‘900 sono un periodo molto fertile per l’innovazione pedagogica e
didattica nel campo dell’educazione infantile.

Negli anni ’90 le sorelle Agazzi aprirono la Scuola di Mompiano per la primissima infanzia, che
sviluppava una particolare attenzione per la musica, l’igiene, le occupazioni della vita domestica
ed il mutuo insegnamento. Elemento peculiare del “metodo Agazzi” era l’attenzione alla
spontaneità ed alla quotidianità, materializzata nell’utilizzo di oggetti reperibili nelle tasche dei
bambini come supporto alla pratica educativa.
fi
fi
ffi
ff
fi
fi
ffi
fi
ff
fi
Nel 1907, Maria Montessori fondò la Casa dei bambini a Roma. Partendo dall’idea che il
bambino che approda alla scuola dell’infanzia è già un bambino “deviato” da abitudini familiari e
sociali poco funzionali allo sviluppo educativo, l’ambiente di apprendimento predisposto era
diretto alla “normalizzazione” dell’infanzia. L’ambiente della Casa, pur avendo le caratteristiche
di un luogo protetto e familiare a misura di bambino, era anche una sorta di “clinica didattica”.
Uscito dalla fase della “mente assorbente” (0-3 anni), al bambino e alla sua nuova “mente
matematica” (3-6 anni) andava o era al bambino la possibilità di operare una selezione sempre
più consapevole dei dati di esperienza accumulati nei primi anni di vita: questo era possibile
mediante materiali di apprendimento che agissero come “astrazioni generalizzate”. Il “materiale di
sviluppoӏ la precondizione del metodo educativo. I compiti che si richiedevano si combinavano
ad una serie di attività pratiche tipiche della vita quotidiana del bambino.
Tutta la vita della Casa era supervisionata da un nuovo tipo di insegnante, la cui prima
caratteristica doveva essere l’umiltà. La maestra organizzava l’ambiente di apprendimento,
mostrava al bambino il corretto uso del materiale, prendeva nota sul comportamento individuale.

Nel febbraio 1902, il ministro Nunzio Nasi emanò alcune circolari sui titoli di studio necessari per
insegnare nelle scuole della prima infanzia, distinguendo competenze e livelli tra Asilo infantile e
Giardino d’infanzia.

Con il governo Sonnino, il ministro Edoardo Daneo nel dicembre 1909 varò una circolare nella
quale si normava lo “statuto modello per l’istruzione di nuovi asili infantili”. Proseguì la sua
opera luigi Credaro: obbligo di vaccinazione, tutela dell’igiene e domande di sussidio per gli asili
infanzia (1912). Il Regio Decreto del gennaio 1914 ssava istruzione, programmi ed orari per gli
Asili infantili e i Giardini dell’infanzia.

Il problema dell’accudimento della primissima infanzia


Le prime e vere proprie iniziative di assistenza per bambini/e più piccoli (0-3 anni) si ebbero in
Italia a partire dal decennio 1840-50.

Fu l’educatore milanese Giuseppe Sacchi ad avviare il progetto del Pio ricovero per bambini
lattanti nel 1850, anno che può essere considerato la vera e propria data di inizio delle istituzioni
assistenziali per la prima infanzia in Italia. Si trattava di strutture destinate principalmente alla
custodia della prole delle operaie impiegate stabilmente in manifatture e fabbriche della città. Fu
avviata in collaborazione con Laura Solera Mantegazza. L’impostazione della cura e le
metodiche di accudimento dei bambini erano allineate al meglio delle conoscenze igieniche ed
educative del tempo.

Seguendo il modello sacchiano, i presepi si di usero a macchia d’olio per tutta la seconda metà
dell’800, soprattutto nelle città dell’Italia settentrionale. Le principali utenti erano il ceto urbano
delle lavoratrici a domicilio e le salariate giornaliere occupate in maniera saltuaria.

Si ebbe una di usione degli asili aziendali: strutture organizzate all’interno delle fabbriche, al ne
di costudire i bambini delle dipendenti e per consentire l’allattamento con il minor dispendio di
tempo. Nacque nell’interesse economico dell’azienda.

Un’altra istituzione importante per la storia dell’asilo nido è la nascita dell’Istituto pro lattanti e
slattati (Matova, 1905), per opera del medico Ernesto Soncini, che impostò l’istituto all’insegna di
una rigorosa puericultura: il Memoriale del neonato (1908) costituì il primo modello di libretto
sanitario della storia della pediatria italiana. Da qui nacque una cultura dell’asilo nido come
presidio territoriale di base per i servizi socio-assistenziali per la maternità e l’infanzia.
Tra il 1905 e il 1924 vi è un consolidamento e un’espansione di tali iniziative.

La svolta del fascismo: la scuola materna e l’asilo nido dell’ONMI


Durante il fascismo la scuola materna e l’asilo nido si trovarono riordinarti con la riforma Gentile
(1923) e con l’istituzione dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (1925).

La scuola materna
ff
ff
ff
fi
fi
Con un decreto del maggio 1923 si u cializzarono i Giardini d’Infanzia d’ispirazione froebeliana e
le Case dei bambini di ispirazione montessoriana, obbligando ogni istituto preposto alla
formazione delle future maestre di averne uno per le attività di tirocinio.

Con 3 Regi Decreti si normarono le adozioni dei libri di testo nelle scuole elementari e nelle
scuole popolari pubbliche e private, si riorganizzò la scuola elementare introducendo
l’obbligatorietà dell’istruzione religiosa e si classi carono i gradi dell’istruzione elementare.

Il 1º grado, detto “preparatorio”, era costituito dalla “scuola materna”, durava 3 anni (bambini
3-6 anni). Aveva un carattere ricreativo e si proponeva di disciplinare le prime manifestazioni del
carattere e dell’intelligenza del bambino. Con il Regio Decreto del 1923, si trasferirono
u cialmente la “vigliava e tutela” del settore al Ministero della Pubblica Istruzione e si stabilì che
le insegnanti avessero il titolo di “abilitazione all’insegnamento del grado preparatorio”.
Il modello pedagogico voluto da Gentile è messo in atto da Giuseppe Lombardo Radice era il
metodo Agazzi.
Il programma della scuola materna era “preparatorio” ai programmi di una scuola elementare
divisa in 2 gradi.

Il fascismo e la risposta ai bisogni sociali come costruzione del consenso: il ruolo dell’Opera Nazionale Maternità e Infanzia
Gli asili nido ebbero un grosso impulso con la nascita dell’OPERA NAZIONALE MATERNITÀ E
INFANZIA: organizzazione istituita con Regio Decreto del dicembre 1925 e de nitivamente normata
con Regio Decreto del dicembre 1934.
Aveva la nalità di sostegno alle madri lavoratrici a tutto tondo, principalmente rivolgendosi a
soggetti di classe povera.
Fu il primo grande organismo parastatale con lo scopo di promuovere iniziative assistenziali e
dare risposte “politiche” per la protezione e l’assistenza della maternità e dell’infanzia.
La legge attribuiva poi il compito di “provvedere alla protezione ed assistenza delle gestanti e
delle madri bisognose o abbandonate, dei bambini, lattanti e divezzi no al 5º anno di età,
appartenenti a famiglie bisognose che non possono prestar loro tutte le necessarie cure per un
razionale allevamento, dei fanciulli sicamente o psichicamente anormali e dei minori
materialmente o moralmente abbandonati”, oltre che di quello traviati o delinquenti no all’età di
18 anni compiuti.
Altri scopi erano la promozione di suole teorico-pratiche di puericultura, l’organizzazione (a livello
provinciale) della pro lassi antitubercolare dell’infanzia e la vigilanza sull’applicazione di ogni
disposizione legislativa e/o regolamentare in vigore per la protezione della maternità e
dell’infanzia.
ONMI è un complesso sistema di strutture destinate alla prima infanzia: consultorio per lattanti e
divezzi, dispensario, asilo per lattanti e divezzi, asilo-nido per lattanti e divezzi sino a 3 anni, asilo-
nido.
I servizi per l’infanzia dell’ONMI furono ispirati dal principio di garantire prima di tutto la salute
della donna incinta e puerpera in di coltà. Questa concezione permetteva di accedere ai servizi
solo alle madri “meritevoli”: ben disposte ad allattare e disposte a sottomettersi docilmente al
controllo dei propri comportamenti quotidiani e della propria moralità.
Dal momento in cui il bambino entrava nel nido, questi diventava quasi di esclusiva proprietà del
nido stesso e della sua organizzazione funzionale.
La struttura edilizia dei nidi prevedeva una rigida distribuzione degli spazi in 3 ambienti, ampi ed
impersonali m nei quali operava personale tutto vestito di bianco: refettorio, dormitorio e salire per
la ricreazione. Il modello si avvicinava a quello di tipo infermieristico.
La gamma dei bisogni infanti era limitata alle funzioni psico siologiche di base.

Conclusioni
La saldatura tra le due fasce di età 0-3 e 3-6 che si realizzò durante il periodo fascista fu un
e etto casuale della soluzione data a 2 problemi.
L’accudimento extra-familiare per la fascia 0-3 è concepito come una prestazione di tipo sociale
assistenziale, mentre quanto previsto per la fascia 3-6 è una preparazione alla vita scolastica.

La prosecuzione dell’emittente nei primi due decenni della Repubblica


Il dibattito sull’asilo nido
ff
ffi
fi
fi
fi
ffi
ffi
fi
fi
fi
fi
fi
Caduto il fascismo, non caddero molte delle istituzioni: i nidi ora “ex ONMI” proseguirono la loro
attività, a ancati da una nuova ondata di “nidi aziendali”.
L’esperienza degli asili “ex ONMI” e degli asili aziendali, nonostante il tentativo positivo di
provvedere all’assistenza dei bambini piccoli, presentava dei limiti strutturali, per risolvere i quali
occorreva una piccola “rivoluzione culturale”:
• limite geogra co: la loro di usione era disomogenea, con strutture concentrate nelle gradi
città industriali del Nord e assenza del servizio nelle aree rurali e/o del Meridione;
• le iniziative era scollegate dalle politiche sociali rivolte a famiglia e infanzia;
• mancava una visione pedagogica del problema, che fosse capace di far superare l’originaria
dimensione prevalentemente assistenziale e custodialistica dei nidi;
• personale “educativo” non aveva goduto di una formazione di qualità.

Nel 1960 l’Unione Donne Italiane presentò una pionieristica proposta di legge per il passaggio
delle competenze dall’ONMI alle amministrazioni locali.
Nel 1965 venne promossa una proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione di un
servizio nazionale di asili nido.
Nel 1968 CGIL, CISL e UIL presentarono una formale richiesta per l’istituzione di strutture che
favorissero la madre lavoratrice.

Il dibattito sulla scuola dell’infanzia


Dal punto di vista socio-economico, un sempre maggiore numero di donne “mamme” aveva
cercato e trovato adeguate forme di sostegno a famiglie sempre più “nucleari”.
Dal l’unto di vista culturale, la migliore conoscenza psicopedagogica dell’infanzia d lo sviluppo dei
mezzi di comunicazione aveva di usa la convinzione che la fascia d’età della scuola materna
costituisse una parte assai importante del processo di crescita.

Nell’immediati dopoguerra, si assistette a una serie di iniziative dal basso di scuole materne
autogestite. Queste esperienze ebbero vita più o meno lunga.

L’attenzione politica alla scuola materna negli anni ‘50 fu sporadica ed episodica.

All’inizio del 1966, il governo Moro presentò una legge istitutiva della scuola materna statale, che
suscitò polemiche sia nella sinistra che temeva un’eccessiva ingerenza della Chiesa, sia degli
ambienti cattolici, che temevano un’eccessiva ingerenza statale. L’inviata mossa di porre la
ducia sul provvedimento fece cadere il governo nel gennaio 1966.
Si dovrà attendere no al ‘68 per l’entrata della scuola materna statale nel sistema scolastico
italiano.

Nel frattempo, a livello locale nacquero alcune esperienze che anticipavano il ruolo pubblico nel
settore dell’educazione dell’infanzia.

Nel novembre ‘63 si aprì la prima scuola comunale dell’infanzia denominata “Robinson”.

La svolta degli anni ‘60: la scuola materna statale e l’asilo nido comunale
La scuola materna statale
La scuola materna statale, una dei più importanti risultati del centrosinistra, fu attaccata con la
legge del marzo ‘68 n. 444, Ordinamento della scuola materna statale, con Luigi Gui.
Con l’aggettivo “statale” si intendeva per la prima volta nella storia del Paese il preciso dovere
dello Stato verso la prima infanzia.
La scuola ha per nalità l’educazione, lo sviluppo della personalità infantile e l’assistenza e la
preparazione alla frequenza dell’obbligo scolastico, in sintonia con l’educazione familiare.
L’iscrizione alla scuola rimaneva facoltativa, ma la frequenza diventava gratuita.
La scuola si rivolgeva a bambini/e dai 3 ai 6 anni, strutturata su un minimo di 3 sezioni, aperta 10
mesi all’anno. Per la prima volta nella storia dell’Italia unita, gli oneri per l’edilizia erano a carico
dello Stato e non degli Enti locali. Il personale era solo femminile, fornito di un diploma speci co.
Tutte le forme di istruzione pre-elementare per la fascia 3-6, in particolare i “Giardini dell’Infanzia”
o istituzioni simili, diventarono “scuole materne statali”.
fi
ffi
fi
fi
fi
ff
ff
fi
Gli Orientamenti della scuola materna statale arrivarono nel settembre ‘69. Sono centrali le
esigenze socio-a ettive del bambino, in un quadro di collaborazione e continuità tra scuola e
famiglia.
È garantita dallo Stato la libertà di insegnamento.
Identi cano le forme dell’opera educativa della scuola materna.
Dal punto di vista metodologico, sono raccomandate al tempo stesso l’individualizzazione e la
vita di gruppo, con particolare attenzione a quei bambini che manifestano una “situazione di
ri utati o isolati, o socialmente instabili”.

L’asilo nido comunale


Si giunge nel 1971 alla LEGGE 1044, denominata Piano quinquennale per l’istituzione degli
asili-nido comunali con il concorso dello Stato.
La legge rappresentava un importante è decisivo provvedimento nel campo delle politiche sociali
italiane per l’infanzia, in quanto riconosceva a tutti i bambini/e il diritto di accedere all’asilo nido,
che diventava così un servizio pubblico.

A concorrere all’a ermazione e alla nascita dell’asilo nido furono soggetti sociali e politici.
Le donne, che tramite le loro organizzazioni difendevano il lavoro extradomestico come momento
di emancipazione, rivendicavano l’istituzione di servizi sociali che rendessero questa istanza una
realtà.
I sindacati confederali che richiedevano riforme per implementare servizi allora non esistenti.
I partiti della sinistra.
Gli enti locali, che intendevano attivare rapporti più snelli e immediato tra pubblici poteri e
cittadini.

La Legge 1044 riconosceva il diritto all’educazione e all’assistenza, trasformandoli in


“cittadini”.
A ermava il principio del carico sociale dei costi. La legge stabiliva il principio del
nanziamento pubblico degli asili nido, mediante l’istituzione di un fondo speciale.
Gli asili nido erano collegati ad un “territorio”, e pertanto riconosciuti u cialmente come servizi
sociali pubblici, rivolti a tutte le famiglie.
La legge riconosceva le pari opportunità alle donne.
La legge prevedeva il passaggio di tutti gli asili nido nanziati pubblicamente dallo Stato sotto il
controllo delle amministrazioni locali, nella fattispecie Regioni e Comuni, assicurando nel
contempo il nanziamento delle iniziative.

Gestione.
• Stato ➡ nanziamento
• Regioni ➡ coordinamento (con apposita normativa regionale)
• Comuni ➡ gestione

La legge demandava alle Regioni ampi spazi di intervento legislativo.


In questa legge era presente una concezione mista di una fusione dell’asilo, assistenzialistica ed
educativa.

Aspetti positivi
✅ Legge riconosce infanzia come presenza “storica” e provvede a difenderla sia come parte della
famiglia, sia come gura “debole” della società di massa.
✅ Legge assicura pari opportunità formative a tutta l’infanzia.
✅ Legge pre gurava il decentramento amministrativo agli enti locali.
Aspetti negativi
❌ A 5 anni dall’entrata in vigore della legge, erano stati attivati solo il 10% dei nidi preventivati.
❌ Si assistette a una divaricazione tra Nord e Sud del Paese.
❌ L’asilo nido pubblico aveva alti costi di gestione.
❌ Ci fu in parte una burocratizzazione, che irrigidì il modello formativo originario.
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
ff
ff
fi
fi
ffi
Dopo alcuni anni, sorgeva la necessità di un modello più elastico, quali cato come educativo, che
fosse al tempo stesso e ciente ed e cace.

Al dicembre ‘76 è datata la legge di scioglimento e trasferimento delle funzioni dell’ONMI ai


Comuni.

Per comprendere l’importanza e l’innovazione delle leggi, devono essere tenuti in considerazione
alcuni mutamenti nella famiglia e una nuova sensibilità culturale e pedagogica.
Per quanto riguarda la famiglia, dalla metà degli anni ‘70 le dinamiche intrafamigliari cominciarono
a modi carsi. Si inaugurò un persistente processo di frammentazione dei nuclei famigliari, inteso
sia come restrizione dei membri sia come isolamento interfamigliare.
Per quanto riguarda la nuova sensibilità culturale, il nido andava trasformando andava
trasformando progressivamente in un luogo non solo tra bambini e bambine, ma anche tra
genitori ed educatori e tra le famiglie, in un continuo e pro cuo confronto sull’educazione della
prima infanzia. L’incontro tra famiglie tendeva ad essere funzionale al superamento del concetto
assistenzialistico di “custodia temporanea” ancora presente nella legge 1044.
Per far fronte a queste problematiche, le Regioni cercarono di implementare servizi che
incorporassero alcuni elementi di innovazione.

Gli Orientamenti del 1991 e le nuove tipologie di asilo nido


I nuovi Orientamenti per la scuola materna statale del 1991
A partire dagli anni ‘70, per una serie di ragioni socioeconomiche e pedagogico-culturali, iniziò a
decollare una nuova immagine di “bambino/a” fondata su acquisizioni socio-psico-pedagogiche
d’avanguardia o che riprendevano e dettagliavano meglio intuizioni già proprie del primo ‘900.
L’infanzia in età prescolare era vista come una fase della vita in cui il/la bambino/a sono già
soggetti attivi, dotati di caratteristiche comportamentali che li predispongono al rapporto sociale e
di capacità cognitive speci che.

Per l’aggiornamento della scuola materna statale, il ministro Giovanni Galloni, nel febbraio 1988,
costituì una commissione che lavorò per 2 anni.

Gli Orientamenti per le attività educative nelle scuole materne statali, conosciuti come
“NUOVI ORIENTAMENTI”, furono varati mediante il D.M. del giugno 1991 dal ministro Riccardo
Misai.
Nella legge si preferì utilizzare la dizione “scuola dell’infanzia”, rispetto a “scuola materna”.
Era preservata un’autonomia educativa e didattica della scuola.
Ria ermavano la centralità del bambino, la non obbligatorietà della scelta scolastica in questa
fase, un curricolo propedeutico alla “continuità” del processo educativo, una personalizzazione
dei percorsi è una grande attenzione ai vari momenti educativi (non solo scolastici) nello sviluppo
cognitivo ed a ettivo dell’infanzia.
La scuola dell’infanzia diventava un’agenzia promotrice di “campi d’esperienza educativa”,
ciascuno dei quali era da considerasi articolato e articolabile secondo le dimensioni dello sviluppo
a ettivo ed emotivo, sociale, etico-morale e “di un corretto atteggiamento nei confronti della
religiosità e delle religioni e delle scelte dei non credenti”.
Delineavano un metodo fondato sulla valorizzazione del gioco, sull’esplorazione e la ricerca, sulla
vita di relazione, sulla mediazione didattica intenzionale, sull’osservazione-progettazione-veri ca e
sulla documentazione.
Si delinea una nuova gura di insegnante di scuola: un professionista dell’educazione formato a
livello universitario e in continuo aggiornamento, capace di collaborare con il team delle college e
di interagire con le famiglie, facendosi carico in modo maturo degli aspetti tecnico-gestionali del
ruolo.

Le nuove tipologie di asilo nido


Per gli anni ‘70 e ‘80 la pedagogia manifesta una nuova attenzione alle istituzioni pre-scolastiche
e per la prima infanzia e al modo peculiare con cui i comportamenti cognitivi, a ettivi e sociali dei/
delle bambini/e della faccia 0-3 potevano essere corroborati anche al di fuori della famiglia.
Questo comprava una rottura con le pratiche del passato: occorreva interessarsi a tutti/e i/le
bambini/e in quanto tali.
ff
ff
fi
ff
fi
ffi
fi
ffi
fi
fi
ff
fi
Alla metà degli anni ‘80 i costi a carico delle collettività dei nidi erano diventati di cilmente
sostenibili, e per questo di mutò la natura giuridico-politica dei nidi, da servizi pubblici a servizi a
domanda individuale.

Nell’agosto 1997 fu approvata la legge n. 285 denominata Disposizioni per la promozione dei
diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza (LEGGE TURCO).
La legge non era rivolta solo alla prima infanzia, ma anche all’adolescenza, con particolare
attenzione ai soggetti in di coltà.
La legge si proponeva, attraverso interventi innovativi, dei diritti di tutti i soggetti in età evolutiva.
La legge prospettava un metodo di lavoro innovativo, che richiedeva una collaborazione tra le
risorse esistenti del territorio.
La legge presenta 4 obiettivi principali:
• sceglieva itinerari di crescita, della formazione e della socializzazione delle persone come
luogo di prevenzione del disagio e di ra orzamento delle identità, di sviluppo del benessere e
della cultura, di misura dell’e cacia politica ed amministrativa nella gestione di spazi e tempi;
• concepiva le politiche per l’infanzia e l’adolescenza come tratto distintivo delle politiche
sociali;
• si richiedeva alle istituzioni, alla società civile e a tutte le organizzazioni non lucrative di
elaborare i Piani di intervento e non solo di realizzare le attività;
• si auspicava l’Inter ciò tra solidarietà sociale e compatibilità ambientale.
L’art. 5 individuava 2 modalità per la fascia 0-3:
• l’avvio di “servizi con caratteristiche educative, ludiche, culturali e di aggregazione sociale,
che prevedevano la presenza di genitori, familiari o adulti che quotidianamente si occupavano
della loro cura”;
• l’avvio di “servizi con caratteristiche educative e ludiche per l’assistenza a bambini da 18 mesi
a 3 anni per un tempo giornaliero non superiore a 5 ore privi di servizi di mensa e riposo
pomeridiano”.
Tentava di uni care nelle modalità, nell’organizzazione e nella gestione i servizi innovativi, che si
con guravano come luoghi di cura ed educazione dei bambini con orari più ridotti rispetto ai
servizi più tradizionali; di socializzazione, di gioco e di autonomia per i bambini stessi; di
aggregazione sociale e di confronto per le famiglie e per le altre gure che stanno intorno al
bambino; di sostegno alla genitorialità dove condividere ed elaborare risposte comuni ai problemi
che interessano l’esperienza di essere genitori.
All’interno della cornice Centri per i bambini e per le famiglie erano individuate 3 tipologie di
servizi:
• spazio-famiglia -> organizzato per genitori; orari essibili; programmazione attenta degli spazi;
• spazio bambini-bambine -> bambino protagonista; bambini dai 18 ai 36 mesi; occasioni di
attività, di gioco, di interazione e di condivisione con i pari; occasione positiva di prima
separazione sia per genitori sia per bambini; progetto educativo che rispecchia asilo nido;
• centro per le famiglie -> impegno a sostenere esperienze di genitorialità e vita quotidiana delle
famiglie; al centro intervento genitori.

La scuola dell’infanzia nelle Indicazioni Nazionali e la nascita del settore 0-6


La scuola dell’infanzia delle Indicazioni Nazionali
Nella proposta della riforma di Luigi Berlinguer -legge del febbraio 2000, n. 30, legge Quadro in
materia di Riordino dei Cicli dell’Istruzione - la scuola dell’infanzia riprende il compito a datole
dagli orientamenti del ‘91: “concorre all’educazione e allo sviluppo a ettivo, cognitivo e sociale
dei/delle bambini/e di età tra 3 e 6 anni […] operando per assicurarne une e ettiva eguaglianza
delle opportunità educative; nel rispetto dell’orientamento educativo dei genitori, concorre alla
formazione integrale dei/delle bambini/e”.

Tre anni dopo, con il ministro Moratti - legge marzo 2003, n. 53 -, la scuola dell’infanzia “di durata
triennale, concorre all’educazione e allo sviluppo a ettivo, psicomotorio, cognitivo, morale,
religioso e sociale […], essa contribuisce alla formazione integrale dei/delle bambini/e, realizza la
continuità educativa con il complesso dei servizi all’infanzia e con la scuola primaria”.
Da questa legge derivano le Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati delle Attività Educative
nelle scuole dell’Infanzia (Indicazioni Nazionali 2004). Propongono una scansione tra “obiettivi
generali” ed “obiettivi speci ci del processo formativo”. Per quanto riguarda gli obiettivi generali,
la “Scuola dell’Infanzia ra orza l’identità personale, l’autonomia e le competenze dei bambini.
fi
fi
ff
ffi
fi
ffi
ff
fl
ff
fi
ff
ff
ffi
ffi
Raggiunge questi obiettivi collocandoli in un progetto di scuola articolato ed unitario, che
riconosce la priorità della famiglia e l’importanza del territorio di appartenenza”. Per quanto
riguarda gli obiettivi speci ci, essi sono utilizzati “per progettare Unità di Apprendimento che,
mediante apposite scelte di metodi e contenuti, trasformino le capacità personali di ciascun
bambino in competenze”. Sono strettamente collegati ai “campi di esperienza”.
Novità delle Indicazioni Nazionali 2004 è il Portfolio delle competenze individuali. Esso consiste
in: 1. una descrizione essenziale dei percorsi seguiti e dei progressi educativi raggiunti; 2. una
documentazione regolare e signi cativa di elaborati che o ra indicazioni di orientamento fondate
su risorse, modi e tempi dell’ apprendimento, interessi, attitudini e aspirazioni personali dei
bambini”. Il Portfolio sparì de nitivamente dalla normativa a partire dalle Indicazioni successive.

Il ministro Fioroni vara nel 2007 le nuove Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per
il primo ciclo d’istruzione (Indicazioni Nazionali 2007). La parte relativa alla scuola dell’infanzia fa
parte integrante delle Indicazioni. Nel ciclo di istruzione 3-14 anni l’apprendimento avviene
declinato attraverso “campi di esperienza” nella scuola dell’infanzia e nelle “aree di discipline”
nella scuola del primo ciclo di istruzione: le scuole, all’interno della loro autonomia didattica,
articolano i campi di esperienza al ne di favorire il percorso educativo. Vengono stabiliti i
“traguardi per lo sviluppo delle competenze” e gli “obiettivi di apprendimento”.

Le Indicazioni Nazionali 2012 di Profumo riprendono la struttura di quelle del 2007, mantenendo
il binomio fondamentale Traguardi per lo sviluppo delle competenze/Obiettivi di apprendimento.

La nascita del settore 0-6


La vera rivoluzione, nel campo delle politiche dell’educazione è dell’istruzione dell’infanzia, è
giunta nel biennio 2015-7, all’interno del riordino complessivo del pianeta scuola con la legge
delega ed i conseguenti decreti delegati, operazione ricordata come la “Buona scuola”.
Il decreto legislativo dell’aprile 2017 n. 65, Istituzione del sistema integrato di educazione di
istruzione dalla nascita sino ai sei anni, per la prima volta riconosce che “alle/ai bambine/i p, dalla
nascita no ai 6 anni”, “per sviluppare potenzialità di relazione, autonomia, creatività,
apprendimento in un adeguato contesto a ettivo, ludico e cognitivo, sono garantite pari
opportunità di educazione e di istruzione, di cura, di relazione e di gioco, superando
disuguaglianze e barriere territoriali, economiche, etniche e culturali”.
Per agire rispetto allo scopo “viene progressivamente istituito il Sistema integrato di educazione
e di istruzione per le/i bambine/i in età compresa dalla nascita no al 6 anni. Il sistema
prevede un’articolazione in nidi e micronidi; sezioni primavera; servizi integrativi.
È prevista una compartecipazione economica delle famiglie ai servizi educativi per l’infanzia. Ma
possono essere previste agevolazioni tari arie in base all’ISEE o l’esenzione totale per le famiglie
con un particolare disagio economico o sociale. È anche previsto che le aziende pubbliche e
private possano erogare alle/ai lavoratrici/tori che hanno gli in età compresa fra i 3 mesi ed i 3
anni un “Buoni nido”.
Molto importante è l’istituzione, presso il MIUR, di un Fondo nazionale per il Sistema integrato di
educazione e di istruzione.
Nel decreto permane un’inspiegabile dualità a livello formativo del personale: per gli educatori del
nido è prevista una laurea a base triennale molto speci ca, mentre per il personale della scuola
dell’infanzia una laurea magistrale quinquennale a ciclo unico che abilità anche all’insegnamento
nella scuola primaria.

I servizi educativi per l’infanzia e e scuole dell’infanzia niscono per costituire “la sede primaria dei
processi di cura, educazione ed istruzione per la completa attuazione delle nalità previste”.

La scuola elementare
Legge Casati (legge 3725 del novembre 1859)
Si tratta dell’intervento destinato ad avere e etti più duraturi nella de nizione del modero sistema
d’istruzione elementare nel Regno d’Italia, no all’Italia repubblicana.
Fu emanata nel novembre 1859 dal ministro Gabrio Casati.

In questa fase particolarmente rilevante per il Risorgimento nazionale - sia per l’annessione da
parte del Regno di Sardegna della Lombardia e di altri territori retti da governo lopiemontesi sia
fi
fi
fi
fi
fi
ff
ff
fi
ff
fi
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
per l’attività preparatoria all’Impresa dei Mille - il tema dell’educazione degli italiani ebbe un
carattere ideologico e strategico. La scuola divenne uno delle leve più e caci per la
costruzione del carattere degli italiani e del loro risorgimento morale.

La legge è articolata in 380 articoli, divisi in 5 titoli, dedicati soprattutto all’amministrazione


della pubblica istruzione e all’istruzione superiore e classica.

Alle elementari è dedicato il titolo V, diviso in capi:


I. Oggetto ed obbligo dell’insegnamento;
II. Idoneità, elezione e doveri dei maestri;
III. Stipendi, sussidi e pensioni;
IV. Delle scuole private;
V. Delle scuole normali.

L’istruzione elementare era di 2 gradi, inferiore e superiore, ciascuno di 2 anni in 2 classi distinte.
Essa era data gratuitamente in tutti i comuni, i quali vi provvedevano, gratuitamente, in
proporzione delle loro facoltà e secondo i bisogni dei loro abitanti.
Erano gli enti locali a dirigere questo comparto della scuola pubblica.
Ad ogni comune doveva corrispondere una scuola nella quale sarebbe stata garantita l’istruzione
inferiore maschile e femminile in classi distinte.
Le scuole elementari di grado superiore dovevano garantirsi nei comuni di oltre 4.000 abitanti e
dove esistessero istituti d’istruzione pubblica che richiedevano, come requisito d’ammissione,
l’aver compiuto l’intero ciclo di studi base.

Un sistema di esami pubblici, con scadenza semestrale, garantiva la veri ca degli apprendimenti
sulle seguenti materie obbligatorie, nel corso inferiore: insegnamento religioso, lettura, scrittura,
aritmetica elementare, lingua italiana, nozioni elementari sul sistema metrico.
A queste si aggiungevano, nel grado superiore: regole della composizione, calligra a, tenuta dei
libri, geogra a elementare, esposizione dei fatti più notevoli della storia nazionale, cognizioni di
scienze siche e naturali applicabili principalmente agli usi ordinari della vita.

La questione dell’obbligo scolastico


Tra l’articolato legislativo e la pratica scolastica si veri cò uno scarto. Il principio dell’obbligo fu
tutt’altro che semplice da far rispettare tanto ai comuni quanto alle famiglie. I governi della Destra
storica avevano infatti mantenuto sulla questione un atteggiamento quanto meno incerto.
I padri, o coloro che ne facevano le veci, avevano l’obbligo di procacciare l’istruzione elementare
dei gli ed il sindaco avrebbe perseguito la negligenza con punizioni a norma delle leggi dello
Stato che tuttavia non esistevano. Perché ci fossero misure sanzionatorie occorre attendere il
1877, quando il ministro Michele Coppino (Sinistra storica) interviene sulla questione assegnando
pene ai genitori inadempienti.
Un processo come l’alfabetizzazione capillare avrebbe reso necessario un cospicuo investimento
soprattutto sugli insegnanti. La gura del/della maestro/a era però fragile sia sul versante
sindacale sia su quello intellettuale. Gli insegnanti elementari erano eletti tra candidati muniti di
“patenti di idoneità” e “attestato di moralità” rilasciato dal sindaco. L’elezione consentiva l’incarico
per un triennio ed era rinnovabile; era a discrezione del municipio convertire al sesto anno la
conferma del maestro in un impiego a vita. La paga dei maestri e le spese per lo stabilimento e
mantenimento della scuola erano a carico dei comuni.
L’istruzione elementare dell’800 non può essere descritta in termini omogenei, dato che lo stretto
legame con municipi, territorio e famiglie rendevano l’o erta scolastica molto di erenziata.
Così com’era stata concepita, l’istruzione pubblica negli anni immediatamente postunitari aveva il
carattere d’istruzione libera, a data alla buona volontà delle famiglie e dei municipi. La speranza
dei legislatori della Desta storica era stata di limitare l’ingerenza governativa.
Tuttavia, le mutate esigenze di politiche comportavano una profonda ricon gurazione dei compiti
dell’istruzione di base. Quest’ultima diveniva assimilabile alla coscrizione militare. Ciò comportava
un rovesciamento del principio di sussidiarietà, con un sostanziale ra orzamento dell’azione dello
Stato è una funzione ausiliaria dei Comuni e delle famiglie.
È in questa cornice che si collocano 2 riforme collegate tra loro: una più stringente legislazione in
merito all’obbligo scolastico e l’estensione del su ragio. La riforma del sistema elettorale
ammetteva il diritto elettorale si soli cittadini maschi alfabeti che avessero compiuto 25 anni e
fi
fi
fi
ffi
fi
ff
fi
ff
ff
fi
fi
ffi
fi
ff
pagassero almeno 40 lire d’imposta dirette, o appartenessero a determinate categorie.
L’istruzione elementare diventava quindi una sorta di titolo minimo d’ingresso all’esercizio del
voto.

Dal 1877 al 1911


La LEGGE COPPINO (n. 3961 del luglio 1877), di soli 13 articoli, conteneva almeno 2 importanti
principi: la determinazione dell’obbligo dai 6 ai 9 anni, con l’esplicitazione delle sanzioni per le
eventuali inadempienze, e il carattere aconfessionale di questo percorso di studi.
La legge cercava di dare risposta ai risultati insoddisfacenti dell’alfabetizzazione popolare,
tendeva ad agganciare l’acquisizione dell’istruzione ad un ampliamento della partecipazione alla
vita civile.
La legge dava avvio ad un processo graduale di statalizzazione dell’istruzione. La scuola oltre
al luogo del leggere e scrivere diveniva il canale privilegiato per il “catechismo civile”, un sapere
essenziale per dare al popolo la coscienza del proprio voto.

A fare da sfondo allo stato della scuola elementare nell’ultimo quarto dell’800 vi erano altre 2
questioni: la condizione economica dei maestri elementari e l’impiego dei minori in attività
lavorative nel settore primario e secondario.
La legge ssava i minimi stipendiali distinguendo tra scuole urbane e rurali, tra attività di docenza
nel corso elementare inferiore dai 6 ai 9 anni e quello superiore, tra insegnanti di sesso maschile e
femminile. Le retribuzioni degli insegnanti elementari erano però virtuali, dato che si riferivano ai
minimi indicati dalla legge, ma erano poi le amministrazioni comunali che pagavano, spesso
anche meno di quanto sato dal Ministero. Ogni comune interpretava a suo modo gli obblighi di
legge lasciando che fossero sindaci e consiglieri comunali a eleggere i maestri sulla base delle
convenienze ideologiche e economiche delle comunità locali.

Sul nire degli anni ‘80 dell’800, lo stato materiale delle scuole era misero. L’obbligo esercitato dai
6 ai 9 anni, senza che ci fossero forme di istruzione successiva, lasciava gli italiani monchi nella
loro formazione.
Il passaggio della scuola elementare allo Stato e un aumento di stipendio costituirono 2 temi
molto dibattuti nell’opinione pubblica italiana a ne secolo.

La connotazione esplicitamente laica della scuola negli anni che seguirono la riforma Coppino si
saldava ad un clima teso a costruire una nuova unità spirituale, nazionale e patriottica. Non erano
estranei a questi aspetti l’introduzione nella scuola elementare di 2 discipline come l’educazione
sica ed il lavoro manuale educativo.
Nel 1878 il ministro Francesco De Sanctis introdusse gli esercizi ginnici ssandone la durata a
mezz’ora al giorno. Il rinvigorimento del corpo era inteso in senso più ampio come educazione
all’ordine, alla disciplina, alla precisione e concisione di comando, all’obbedienza pronta e piena.
Con il ministro Baccelli fu ancor più orientato in senso militaresco, accentuandone la componente
di formazione civica, morale, nazionali della scuola popolare. L’esaltazione della disciplina
costituiva la premessa di una religione civile, quella per la patria.

Era ora di mettere mano ai programmi scolastici, rimasti invariati dagli anni ‘60 dell’800:
l’insegnamento oggettivo, il lavoro manuale educativo, il museo didattico. Di capitale importanza
erano lo studio e l’apprendimento della lingua italiana, per la preoccupazione di centralizzare ed
uni care, anche sul piano linguistico, la penisola.

Le conferenze pedagogiche negli anni ‘80 dell’800 e la riforma della scuola normale messa in atto
da De Sanctis insistevano sulla necessità che i maestri ponessero al centro dello loro didattica le
conoscenze reali.
Si deve al pedagogista Aristide Gabelli l’elaborazione più compiuta di questo indirizzo. Nei
programmi scolastici del 1888 ribadiva l’importanza di “avvezzare” la gente “a osservare i fatti, in
luogo di giudicarne senza esame […] e a trarre da tutto quello che cade sotto i sensi occasione di
esperienza e materia di ammaestramento, formando così quel prezioso strumento testa”.
Nelle Istruzioni generali si legge: “il maestro deve tener presente, che la scuola ha da servire 3 ni,
a dar vigore al corpo, penetrazione all’intelligenza e rettitudine all’animo”. Era quindi parte
dell’educazione degli italiani la cura del proprio corpo e della salute. Quanto all’educazione
intellettuale i programmi invitavano ad appendere per esperienza. Quando all’educazione morale
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
il ne era di “formar gente retta, tranquilla, solida e seria”. Quanto alla rettitudine dell’animo, si
faceva leva sulle disposizione d’animo e sul contegno del maestro.

L’ispirazione positivisica, che portò molti frutti alla scuola elementare di ne secolo, doveva però
fare i conti con la triste condizione dei maestri. I temi che alimentarono il dibattito politico tra ne
secolo e primo decennio ‘900 furono: liberazione dalle angherie delle amministrazioni locali,
ampliamento della formazione e richiesta di nuovi criteri di reclutamento.
A questo si aggiungeva la richiesta di ampliare la durata dell’istruzione elementare. Inoltre,
cresceva la convinzione che una vera laicizzazione della scuola elementare e una sua
connotazione patriottica e nazionale sarebbe derivata solo dalla sua completa statalizzazione.

In un clima mutato, il ministro Guido Baccelli rmò i nuovi programmi. La ragione di questo
cambiamento derivavano sia dal “voler togliere il troppo ed il vano dai programmi precedenti” sia
dall’idea di voler imprimere alla scuola elementare “ gura e carattere proprio”.
La riforma dell’istruzione primaria portava avanti nella fase più conservatrice dell’età crispina è
ben racchiusa nella formula pronunciata dallo stesso Baccelli: “Istruire il popolo quanto basta
educarlo più che si può”.

Accese questioni si sollevarono sul nire del secolo anche sulla questione dell’insegnamento della
religione. Nel corso degli anni, tale materia era divenuta obbligatoria per i comuni, ma facoltativa
per gli scolari. Il ministro Baccelli chiariva che i comuni avrebbero continuato a provvedere
all’istruzione religiosa, se richiesta dai genitori, ma nelle ore ssare dal consiglio scolastico
provinciale e con i soli insegnanti di classe che fossero considerati idonei dallo stesso consiglio.
La proposta da un lato voleva mostrare la sensibilità del governo Crispi nei confronti delle autorità
religiose, dall’altro voleva contenere la capacità manifestata dal movimento cattolica di garantire
tale insegnamento.

Dal 1901 nacque e orì l’Unione Magistrale Nazionale. Il sodalizio era il risultato sia
dell’impegno di vivaci riviste scolastiche, bollettini magistrali e fogli associativi sia dell’azione
culturale e politica del deputato radicale Luigi Credaro.
L’UMN, espressione di quello che diverrà “partito della scuola”, diventò la principale
organizzazione di maestri in Italia e tra le più in uenti anche a livello europeo. Svolge un ruolo
di primaria importanza dall’età giolittiana all’avvento del fascismo. Grazie al suo lavoro, alcuni
provvedimenti legislativi imboccarono la strada della statalizzazione dell’istruzione elementare.

Nella legge Nasi (legge 45 del febbraio 1903) si a ermava che l’assunzione dei maestri potesse
avvenire solo tramite concorso e si spostava la supervisione delle procedure dal livello comunale
a quello provinciale.

Un provvedimento stabiliva l’obbligo della Direzione didattica nei comuni con popolazione non
inferiore a 10.000 abitanti o con almeno 20 classi. Per questa nuova funzione si istituirono corsi di
perfezionamento per i licenziati delle scuole normali per abilitarli alla carriera ispettiva, divenuto
poi vera e propria Scuola Pedagogica, di durata biennale, presso le università nel Regno, nelle
facoltà di Lettere e Filoso a.

La legge Orlando del luglio 1904 richiamava la necessità per i Comuni di “iscrivere in bilancio un
fondo per sovvenire gli iscritti appartenenti a famiglie povere sia con la refezione scolastica sia
con la distribuzione di indumenti, libri di testo e altro”.

L’orientamento del ministro Vittorio Emanuele Orlando era di accompagnare lo sviluppo


industriale con un miglioramento complessivo dell’istruzione pubblica. La creazione della scuola
popolare da lui istituita nella legge 1904 a dava all’orario i nuovi oneri derivanti dalla riforma. La
quinta e la sesta classe potevano essere istituite nei Comuni dove già esisteva il corso elementare
superiore. L’obbligo scolastico no ai 12 anni avrebbe garantito ad ogni alunno d’acquisire una
prima infarinatura di conoscenze tecniche.

A fronte dell’ ine cacia dei provvedimenti specie nelle aree rurali, l’orientamento dell’UMN virò a
sinistra, schierandosi con la posizione di chi chiedeva una scuola popolare, laica. Questo
comportò la fuoriuscita della componente cattolica dall’organizzazione e la nascita, nel 1906,
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
ffi
fi
fl
ff
fi
fi
fi
fi
dell’associazione magistrale “Niccolò Tommaseo”, favorevole a proseguire alcune rivendicazioni
tradizionali dei maestri cattolici.

Dal 1911 all’avvento del fascismo


La LEGGE DANEO-CREDARO del giugno 1911 segnò il passaggio dell’istruzione elementare dai
comuni allo Stato, pur con la signi cativa eccezione dei comuni più grandi, capoluogo di provincia
e di circondario e quelli che, al ne di conservare la loro autonomia, avessero ottenuto una
condotta particolarmente virtuosa, contenendo nel triennio successivo l’analfabetismo sotto la
soglia del 25% della popolazione. Le scuole non erano a dare direttamente allo Stato, ma ad un
suo organo intermedio, il Consiglio scolastico provinciale.
La legge interveniva su molteplici aspetti:
• stanziamenti per l’edilizia scolastica;
• riordinamento della scuola rurale con la creazione della classe IV;
• determinazione dei minimi stipendiali;
• costituzione di direzioni didattiche;
• potenziamento delle scuole serali, estive per adulti;
• istituzione obbligatoria, in ogni comune, del Patronato scolastico, con scopo di
incoraggiamento di attività culturali, collaterali alla scuola, fondamentali per incentivare la
frequenza scolastica.
Gentile inscriveva il problema educativo in una nuova cornice loso ca “come missione umana, e
come coscienza speculativa di questa missione”. Il compito del maestro non era di dare un
sapere ma dare il bisogno del sapere, solo così l’istruzione elementare sarebbe uscita dalle
secche del positivismo didatticistico per approdare al mare aperto della costruzione spirituale
degli italiani.

L’avvento della Prima guerra mondiale avrebbe dato argomenti a chi incolpava la scuola di non
alimentare adeguatamente in senso di appartenenza alla nazione. L’istruzione degli italiani
necessitava di una conversione in senso patriottico. La scolarizzazione elementare aveva ormai
stretti legami con quella progettualità politica nazionalista che il fascismo seppe valorizzare.

La riforma Gentile (1923)


La riforma ebbe un duplice carattere: da un lato faceva sintesi di molto dibattiti irrisolti nell’Italia
postunitaria, dall’altro ribadiva il ruolo preminente dello Stato nell’educazione nazionale
chiudendo la porta al sistema politico liberale, mettendo le basi per una svolta in senso fascista
dell’istruzione pubblica.

Tre sono gli interventi normativi da mettere a fuoco:


• il RD del maggio 1923 n. 1054: veniva ordinata l’istruzione media e contenente la riforma
dell’istruzione magistrale;
• il RD dell’ottobre 1923 n. 2185: ordinamento dei gradi scolastici e dei programmi didattici
dell’istruzione elementare;
• il RD dell’ottobre 1923 n. 2410: articolava le scuole elementari in classi cate e non classi cate
provvisorie o sussidiate.

Gentile aveva una visione d’insieme che faceva perno sul principio che le scuole, tenute dallo
Stato, dovessero essere “poche ma buone” e che la selezione fosse un compito strettamente
connesso con l’obbiettivo di formare una élite privilegiata vagliata con criteri meritocratici.
Lo Stato avrebbe perseguito un ideale aristocratico di cultura umanistica altamente scienti ca sia
attraverso l’istruzione classica sia attraverso l’esame di Stato (inteso come determinazione di
standard qualitativi).

La scelta di rendere obbligatoria l’istruzione religiosa a livello elementare era da intendersi


come una concessione data in virtù dei vantaggi che sarebbero derivati, sia in termini politici sia in
termini ideologici.

Un ruolo di primo piano nel programma culturale di Gentile era riservato alla riforma dell’istruzione
magistrale che passava da essere garantita entro la scuola normale di tipo post-elementare ad un
istituto magistrale, di tipo secondario superiore, costituito da 4 di corso inferiore e successivi 3.
L’asse culturale era umanistico.
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
fi
La scuola elementare si divideva in grado inferiore, di 3 anni, e superiore, di altri 2. Le classi
oltre la quinta prendevano il nome di classi integrative e avviamento professionale.
Circa i contenuti dell’insegnamento, il robusto impianto teoretico era stato preceduto ed
accompagnati dalla sagace azione di GIUSEPPE LOMBARDO RADICE, che si fece portatore di una
nuova idea di didattica basata sulla possibilità di una rinascita nazionale a partire dalle capacità
soggettive dell’uomo di migliorasi. Tratti che si ritrovano negli ordinamenti e nei programmi del
1923 sono: centralità alla coltivazione dello spirito del bambini, la profonda intesa tra maestro
e scolaro, la ducia nella creatività soggettiva dell’ allievo, la cura dell’educazione estetica.

Nell’art. 3 del RD dell’ottobre ‘23 si a ermava che “a fondamento e coronamento dell’istruzione


elementare in ogni suo grado è posto l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma
ricevuta nella tradizione cattolica”.

Particolare riguardo era dato all’Italia sia in storia che in geogra a.

Negli anni successivi al ‘24, si misero in atto continui interventi di correzione dell’impianto
originario anche sulla base della trasformazione del governo da esecutivo di colazione a vera e
propria dittatura autoritaria, a partire dal ‘25.
Vero è che almeno i programmi e le prescrizioni didattiche di Lombardo Radice contengono il
meglio che l’idealismo pedagogico abbia espresso per l’educazione infantile. L’autore
incoraggiava gli insegnanti a rinnovare la loro cultura ricorrendo alle vive fonti della vera cultura
del popolo.
Ne derivava la prospettazione di una scuola serena, in cui allo studio si alternavano attività
ricreative.

Le a ermazioni di Lombardo Radice stridevano con la gestione burocratica amministrativa


perseguita dal fascino tramite:
• l’accentramento e la sempli cazione della macchina della scuola e la sia trasformazione in
forma gerarchica;
• la nomina governativa dei vertici chiamati a funzioni di garanzia e controllo;
• l’impiego in un tto sistema di veri ca per mezzo degli esami intermedi, a conclusione e ad
ammissione agli studi, la cui punta era l’Esame di Stato al termine delle scuole seo maie
superiori;
• la veri ca ed il controllo sia sulla formazione/selezione degli alunni sia sulla quantità degli
insegnanti.
Il fascismo aveva ben compreso che la scuola era la più alta istituzione politica del Paese, ad essa
era a dato il compito di formare quella coscienza nazionale che il risorgimento non era stato in
grado di plasmare.

La fascistizzazione della scuola


Tra ‘25 e ‘29 (anni in cui si posero basi dell’organizzazione dello Stato fascista) venne istituita
l’OPERA NAZIONALE “BALILLA” (‘26) per “l’assistenza e l’educazione sica e morale della
gioventù”. Divideva i giovani in “Balilla”, dagli 8 ai 14 anni, e “Avanguardisti”, dai 14 ai 18.
Assunse il compito dell’educazione sica degli alunni delle scuole pubbliche elementari.
Il suo ambito si estendeva oltre la scuola attraverso conferenze, giochi collettivi, concorsi
scolastici, proiezioni cinematogra che, corsi di cultura fascista, …
Seppure l’iscrizione fosse volontaria, la sua azione si estendeva ben oltre il servizio ai tesserati.
Negli anni del consenso (‘29-‘36) i simboli e le insegne dell’ONB iniziarono a riempire
l’immaginario scolastico.

A decorrere dal ‘28 vi fu io divieto di “qualsiasi formazione ed organizzazione, anche provvisoria,


che si proponga di promuovere l’istruzione, l’avviamento a professione, arte o mestiere, o, in
qualunque altro modo, l’educazione sica, morale o spirituale dei giovani”.

Nel ‘29 la denominazione del Ministero della Pubblica Istruzione cambiò in Ministero
dell’Educazione Nazionale.
ff
ffi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
ff
fi
fi
Un provvedimento stabilì l’adozione obbligatoria nella scuola elementare del Libro Unico di
Stato. Il ne era quello di esercitare il controllo assoluto sugli aspetti sostanziali
dell’insegnamento. Il libro doveva a avere un alto pro lo didattico e tecnico, e sul piano dei
contenuti doveva educare gli studenti nella nuova atmosfera creata dal regime, dando loro la
consapevolezza dei doveri del cittadino fascista e di quello che l’Italia era stata nella storia, nelle
lettere, nelle scienze, nelle arti e di quello che sarebbe diventata in futuro.

Nel ‘29 vi è anche la conclusione dei trattati lateranensi con i quali si de nì il Concordato con la
Chiesa Cattolica. I Patti garantirono alla Chiesa il riconoscimento del cattolicesimo quale religione
di Stato. L’insegnamento della religione cattolica riceveva un’ulteriore autorevole approvazione è
una più solida cornice istituzionale.

La compilazione del Giornale di Classe divenne obbligatoria.

Spettò al ministro De Vecchi esasperare il carattere militaresco dell’educazione nazionale. Per


crescere un “vero fascista” occorreva adottare la cosiddetta “boni ca” della scuola, cioè liberarla
da quei maestri che non volevano accettare il militarismo e il caporalismo del regime.
L’educazione nazionale fu totalmente assoggettata allo Stato fascista.

Nel ‘38 furono emanati i Provvedimenti per la difesa nella razza nella scuola fascista, in forza
dei quali non sarebbero stati ammessi all’u cio di insegnante nelle scuole statali o parastatali
persone di razza ebraica e al contempo si negava agli alunni di razza ebraica di iscriversi alle
scuole. Vietati anche tutti i libri di autori ebraici. L’unica concessione da parte dello Stato fu la
possibilità di istituire “sezioni separate” di scuola elementare, laddove si fossero poteri raccogliere
ameno 10 alunni di “razza ebraica” e la possibilità per la comunità ebraica di gestire proprie
scuole.

Con il motto “La scuola italiana agli italiani”, Giuseppe Bottai annunciò una riforma che dava
avvio alla penetrazione di una cultura persecutoria e propagandistica a danno dei “diversi”.
Attraverso circolari ed interventi programmati, come la Carta della Scuola, il ministro Bottai volle,
da un lato, costruire una teoria del fascismo in grado di sostituirsi al gentilianesimo (non in grado
di rispondere alle attese di un moderno Stato totalitario), dall’altro, introdurre delle prassi che
rendessero la scuola realmente fascista nei contenuti, nei metodi e nella sua stessa articolazione.
Con la Carta della scuola si delineava un intervento che aveva il carattere di recupero dell’unità
loso ca dell’insegnamento con la restaurazione della disciplina nella scuola, ma anche quello di
una innovazione in grado di portare anche la suola sul “piano dell’Impero”.
La pedagogia del fascismo doveva essere totalitaria. Secondo Bottai, doveva intervenire sulla
formazione dell’individuo nella sua totalità. L’Umanesimo fascista di Gentile veniva reinterpretato
in forza della proposta di uni care i corsi inferiori di ginnasio, istituto magistrale e liceo scienti co
e dall’introduzione, n dalla scuola elementare, del lavoro (visto come strumento in grado di far
emergere le attitudini di ciascuno).
La riforma Bottai mirava a stabilire precise classi cazioni attraverso cui preparare degli uomini
capaci di a rontare i problemi concreti della ricerca scienti ca e della produzione.
L’istruzione pubblica diventò tutt’uno con la Gioventù Italiana del Littorio (GIL). Ne derivava un
servizio scolastico o erto dallo Stato, comprendente non solo la frequenza obbligatoria, ma
anche alle attività della GIL. Un libretto personale accompagnava gli alunni nel loro percorso di
studi, evidenziando il pro tto scolastico degli allievi e la loro preparazione politica e guerriera.
La scuola elencare, distinta in urbana e rurale, era divisa in 2 cicli: il primo (6-9 anni) dava una
prima concreta formazione del carattere; il secondo (9-11 anni) detto “Scuola del lavoro”, con
esercitazioni pratiche. La funzione selettiva della scuola era garantita dagli esami di licenza e
dall’articolazione del percorso post-elementare in scuola artigiana e scuola tecnico professionale
e scuola “unica”. Solo attraverso la media unica era possibile accedere a tutti gli studi secondari
superiori.

Nelle scuole si di usero nuovi moderni strumenti di propaganda, come la radio. Con l’Istituto
Luce anche il cinema raggiunse le aule scolastiche.

Dalla caduta del fascismo alla Repubblica


fi
fi
fi
ff
ff
fi
ff
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
Dopo la nascita del governo Badoglio, i ministri della Pubblica Istruzione smantellarono alcuni
capisaldi dell’educazione fascista: il saluto romano, le forme di animazione paramilitari, la
Gioventù Italiana del Littorio. Venne anche soppressa la Carta della Scuola.

Nell’Italia del post 8/10/‘43 si assiste ad un complesso avvio di anno scolastico m in relazione al
grado di emancipazione dalla dittatura raggiunto nelle diverse regioni.
Nel sud, la stesura di un itinerario didattico alternativo a quello di regime avvenne soprattuto per
opera del Governo Militare Alleato: C.Washburne proponeva una scuola che doveva fondare “sul
libero sviluppo delle disposizioni e forze dei fanciulli” è una didattica che avrebbe dovuto favorire
l’iniziativa e l’operosità personale. Non mancava un richiamo alla solidarietà e alla responsabilità
“verso tutti gli uomini”.
Nel centro, la dura occupazione tedesca fede il tentativo di organizzazione una resistenza a livello
d’istruzione elementare.
Nel nord il quadro scolastico era a dato al controllo della Repubblica Sociale Italiana. C.A.Biggini
incoraggiò la revisione e il rinnovo dei libri di Stato per l’ordine elementare come uno degli
strumenti per “accelerare le tappe della rinascita”. I Programmi di Studio del ‘34 furono una
revisione dei Programmi del ‘23, che si presentarono sfoltiti. La sempli cazione dei programmi e
la progressiva scomparsa dei libri di Stato resero possibile lo svilupparsi del far uso, a scopo
didattico, di qualsiasi risorsa da parte degli insegnanti.

L’esperienza delle “repubbliche partigiane”. Nell’esperienza più compiuta, il territorio dovette porsi
direttamente di fronte al problema della scuola. Si tentò di stendere nuovi programmi di studio.
Una priorità fu quella di epurare e defascistizzare le strutture scolastiche, promuovere la
formazione democratica dei docenti, favorire la nascita dei sindacati dei docenti. Si voleva
creare una scuola umanistica, ma non nel senso di farne una scuola esclusivamente classica o
aristocratica, ma nel senso più largo della parola; una scuola socialista in senso lato e unica, non
quella già deformata della Carta della Scuola. Si iniziò l’opera di revisione dei testi scolastici e
della loro epurazione.
La culla all’interno della quale le idee di democrazia e partecipazione poterono essere messe in
pratica fu la “formazione partigiana”. Fu il luogo dove avvenne un’educazione alla vita civile
basata anche su una nuova “didattica” partecipativa ed inclusiva.

Il processo che portò all”approdo della scuola elementare italiana dal fascismo alla repubblica
attraverso gli anni della guerra di liberazione non fu lineare. Allontanare dall’amministrazione tutti
coloro che in passato erano risultati compromessi con il regime non fu un’impresa facile.

La cosiddetta fase di “normalizzazione”, con la consegna al Governo Italiano dell’amministrazione


del territorio dell’Italia del Nord, diede avvio ad una diversa fase nella storia della scuola italiana.

Dalla rinascita della vita democratica alla metà degli anni Cinquanta
A Liberazione avvenuta (2/6/‘46) si tennero le prime elezioni politiche a su ragio universale,
nelle quali poterono votare anche le donne. Da esse scaturì l’organo legislativo elettivo proposto
alla stesura di una Costituente per la Repubblica (Assemblea costituente). In questa sede si
ebbe il più alto momento di ri essione circa i nuovi indirizzi di politica scolastica dell’Italia
democratica.
L’art. 3 impegnava lo Stato, e la scuola, a rendere e ettivi, sul piano pratico, la “pari dignità
sociale” e l’ “uguaglianza” posti alla base della “Repubblica fondata sul lavoro”.
Nell’art. 34, ‘la scuola è aperta a tutti’ e ‘l’istruzione inferiore, impartita per almeno 8 anni, è
obbligatoria e gratuita’ si legano al principio secondo cui ‘l’arte e la scienza sono libere e libero
ne è l’insegnamento’ (art. 33). Nell’art. 33 si a erma che “la Repubblica detta le norme generali
sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi”.

Nei governi centristi, retti da Alcide De Gasperi, il Ministero della Pubblica Istruzione fu a dato
sempre alla Democrazia Cristiana e, nello speci co, a Guido Gonella ( no al ‘51), a cui
succedette Antonio Segni.
Nell’aprile ‘47, G. insediò una commissione che promosse un’inchiesta. Intento di Gonella era
promuovere una sorta di costituente della scuola. Il ministro comprese la riprogettazione della
scuola necessitava del consenso di larga parte dell’opinione pubblica.
fl
ffi
ff
fi
ff
fi
fi
ff
ffi
Molto importante è l’attenzione che i governi a guida democristiana riservarono a maestri e
maestre: associazionismo (Aimc), circolazione di riviste di supporto all’azione didattica, sviluppo
di un’ampia editoria di settore.
Nel ‘47, G. varò un decreto volto a istituire la “scuola popolare”, al ne di combattere
l’analfabetismo e completare l’istruzione popolare per i giovani e gli adulti dai 12 anni in su. La
scuola popolare prevedeva 3 tipi di corsi: per analfabeti, per semianalfabeti e per sprovvisti di
licenza elementare.
G. stese un testo breve, approvato dal Consiglio dei Ministri nel giugno ‘51 (Norme generali
sull’Istruzione). Il progetto venne accantonato, senza arrivare in aula.
Nel ‘51, il ministro G. venne sostituito alla Pubblica Istruzione da Antonio Segni, che volle
dedicarsi ad un’azione di ordinaria amministrazione.
Tra il ‘48 e il ‘53 vennero messe in atto diverse misure relative alla lotta dell’analfabetismo, al
riordino amministrativo della scuola, all’istruzione popolare, all’educazione prescolastica e si
aggiornò la modalità di reclutamento degli insegnanti.
La Pubblica Istruzione dovette fare i conti con la duplice ricostruzione materiale (ripristinare
edi ci distrutti, riedi care stabili ed ampliarli) e spirituale (→ aprirsi a proposte pedagogiche
come l’attivismo). Nel dopoguerra, ebbero un’ampia di usione le opere di Dewey, grazie anche
alla mediazione di intellettuali come Lamberto Borghi. Un peso considerevole ebbe, nella
formazione ed animazione dei docenti elementari del dopoguerra, la casa editrice ‘La Scuola di
Brescia’ e la sua rivista Scuola Italiana Moderna.
La pedagogia d’ispirazione cattolica si muoveva cercando di superare sia lo statalismo etico di
matrice fascista sia il liberalismo borghese ed individualista, criticando anche le posizioni marxiste
e comuniste.
Il maestro elementare era un personaggio chiave del processo di socializzazione e lo resterà
almeno no a che il suo prestigio verrà messo in crisi dal di ondersi della televisione (anni ’60). I
cinque anni di istruzione obbligatoria erano l’unica occasione per entrare in contatto con un
sapere formale e strutturato. Il maestro e la maestra erano i principali veicoli per trasmettere
sapere e cultura. Essi incarnarono, specie dopo che venne consolidandosi il processo di
nazionalizzazione della scuola elementare, l’immagine stessa dell’autorità e dello Stato. I “ferri
del mestiere” del maestro elementare furono costituti da un’attività di aggiornamento e dalle
riviste magistrali (da cui si attingevano temi da svolgere, brani da dettare, esercizi di aritmetica,
attività scienti che, suggerimenti per aspetti didattici e pedagogici).

Negli anni della rinascita della vita democratica mancò un disegno organico di riforma e la
politica fu caratterizzata da una serie più o meno minuta di provvedimenti come:
• approvazione della legge n. 326 dell’aprile ’53, che modi cava la scuola popolare del ’47 e le
modalità di lotta all’analfabetismo;
• legge n. 645 (’54) che costituì un primo tentativo di attuare il dettato costituzionale sul diritto
allo studio attraverso nanziamenti e stanziamento di borse di studio;
• legge delega 1181/’54 che garantiva l’autonomia dello stato giuridico del personale della
scuola rispetto ad altri pubblici impieghi.

I Programmi Didattici del 1955


Col DPR del giugno ’55, n. 503, vennero introdotti nella scuola elementare i Programmi Didattici
(PROGRAMMI ERMINI), che adeguavano, almeno formalmente, l’istruzione primaria ai dettami della
Costituzione. I programmi avevano “carattere normativo”, prescrivevano il grado di
preparazione che l’alunno doveva raggiungere per assicurare la formazione basilare
dell’intelligenza e del carattere, condizione per una consapevole ed e ettiva partecipazione alla
vita della società e dello Stato.
La Premessa sosteneva che la scuola aveva come suo fondamento e coronamento
l’insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica.
Quanto alla didattica da adottarsi nella scuola primaria, i programmi non erano particolarmente
prescrittivi, lo Stato infatti non aveva una propria metodologia educativa. L’estensore si rifaceva ai
principi della tradizione educativa umanistica e cristiana: dignità della persona, rispetto dei valori
di spiritualità e libertà, formazione integrale. Inoltre, si aggiungevano alcuni suggerimenti, quali il
“muovere dal mondo concreto del fanciullo, tutto intuizione, fantasia e sentimento”. Il richiamo al
fatto che l’educazione degli alunni non cominciava dalla scuola e non si esauriva in essa mirava a
dimostrare come il piano didattico dovesse essere calato sulla struttura psicologica del
fi
fi
fi
fi
fi
ff
fi
ff
fi
ff
fanciullo. Per non impartire un complesso determinato di nozioni occorreva comunicare al
fanciullo la gioia ed il gusto di imparare e di fare da sé. Le matrici pedagogiche trasudano dalla
Premessa:
• tentativo di conciliare salvaguardia della spontaneità dello studente con la disciplina;
• richiamo alla percezione naturale del bambino e al globalismo;
• rifarsi alle diverse fasi di sviluppo psichico del bambino;
• principio della libertà e invito a fare scaturire dall’alunno stesso l’interesse all’apprendere.

Nel ’57 si procedette all’introduzione dei cicli didattici nella scuola elementare: 2+3.

Educazione femminile. Per la I e II classe, si leggeva: “Le bambine siano lasciate ai loro giochi
preferiti e vengano addestrate alle più semplici e più facili attività della casa”. Per il secondo ciclo:
“Il lavoro femminile sia tenuto nella più alta considerazione come uno degli elementi di formazione
spirituale della donna e per la sua grande in uenza morale e materiale nella vita domestica. Le
fanciulle saranno pertanto esercitate in graduali lavori più facili e più comuni di maglia, di cucito,
di rattoppo, di rammendo e di ricamo, con particolare riguardo alle esigenze più sentite ed alle
tradizioni dell’ambiente locale. Siano inoltre educate ai più facili lavori di pulizia, di abbellimento e
di buon governo della casa. Sarà curata anche la pratica dell’igiene e, possibilmente, delle più
elementari abilità nel cucinare”.

Gli anni Sessanta: trasformazioni sociali e nuova domanda d’istruzione


Tra ne anni ‘50 e primi anni ‘60 si registrò una vivacità economica della società italiana. Essa si
accompagnò ad un processo di graduale travaso dalla campagna alla città. Tali mutamenti
incisero anche sul versante dell’istruzione, dato che la selezione scolastica era stata prima di tutto
geogra ca.
Un ultimo mutamento che merita attenzione è quello dei sistemi di comunicazione di massa.
L’uni cazione linguistica della penisola è avvenuta principalmente grazie all’e cace azione dei
canali comunicativi universali: radio, cinema e televisione. I media conservarono un carattere
pedagogico e monopolista.
Un capitolo a sé merita l’avvento della televisione. Le trasmissioni presero avvio u ciale nel
gennaio ‘54 con l’inaugurazione del Programma Nazionale. La di usione degli apparecchi fu
rapida e la “centralità” di questo strumento divenne anche centralità educativa. Il nuovo mezzo si
rilevò e cace nel tramettere contenuti, nel veicolare valori, nel legittimare comportamenti.

Anche l’istruzione elementare era in rapida trasformazione. Le classi dell’istruzione primaria erano
a ollate e gli studenti manifestavano una maggiore propensione alla prosecuzione degli studi.
L’universalizzazione della scuola dell’obbligo, e la conseguente trasformazione della scuola
secondaria in scuola di massa, avvenne anche in forza di un mutamento nel quadro politico,
con il passaggio dal centrismo al centrosinistra. A. Fanfani nel ‘62 istituì la scuola media
uni cata. Ad essa di a ancarono interventi per la nazionalizzazione delle industrie elettriche,
l’istituzione del cedolare d’acconto, l’aumento delle pensioni, il completamento di infrastrutture.
La gura del maestro, in quell’Italia che da contadina diviene industriale e terziaria, perde il suo
prestigio sociale. Questa scuola continuava a perpetrare la sua funzione riproduttiva e selettiva,
distribuendo gli alunni nelle classi in relazione alle famiglie di origine, alle provenienze
geogra che,….

La rivendicazione del tempo pieno e quella, parallela, dell’inclusione degli alunni con svantaggi
sici, ma anche sociali ed economici, costituì uno degli aspetti maggiormente dibattuto tra la ne
degli anni ‘60. Erano esigenze che scaturivano più che da motivazioni pedagogiche da ragioni
sociali, politiche e culturali.

L’inclusione e i dibattiti sulla scuola degli anni Sessanta


La contestazione studentesca lambì l’istruzione elementare senza travolgerla.
Gli insegnanti non manifestarono platealmente il loro disagio derivante dallo svolgere una
professione che era al tempo stessi di ripiego e ambita.
Le Norme sull’ordinamento per la scuola elementare (‘71) davano legittimità giuridica al tempo
pieno nella scuola elementare. Già con la legge del dicembre ’67, n. 1213, erano state meglio
de nite le “attività parascolastiche”. Sul piano della didattica, il Governo legittimava una
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
ffi
ffi
fl
ff
ffi
ffi
fi
signi cativa innovazione nei curricula, visto che le ore aggiuntive a quelle costituenti il normale
orario scolastico erano svolte con speci co compito, da insegnanti elementari di ruolo. Le attività
extra si aggiungevano a quelle del normale orario a 25 ore. Dal punto di vista teorico, il legislatore
sembrava recepire centrica, l’attenzione al rapporto scuola-società, la didattica ruotante attorno a
centri di interesse. Erano anni in cui venivano pubblicati testi che ribaltavano la funzione
dell’insegnante, trasformandolo da semplice ripetitore dei programmi ministeriali a ricercatore.
Bisogna però precisare che il tempo pieno non divenne mai un modello nazionale.
La stagione del tempo pieno coincise con quella degli Organi collegiali, della gestione sociale e
della maggiore presenza delle famiglie nella scuola.
La conquista più signi cativa della stagione fu la legge 447 del luglio ’73, che delegò il governo a
emanare norme sullo stato giuridico del personale insegnante. I decreti delegati del maggio ’74
includevano non solo aspetti contrattuali, ma davano vita agli organi collegiali della scuola e
includevano importanti modi che nella sperimentazione didattica e nell’aggiornamento degli
insegnanti. Per la prima volta, nella scuola elementare, si introducevano il consiglio di classe, di
interclasse e di plesso. All’interno di ogni direzione didattica era anche ssato un collegio dei
docenti e un consiglio di circolo/istituto. Le questioni di carattere didattico sarebbero state
competenza dei docenti, mentre per l’amministrazione dei fondi, per le attività extra scolastiche,
per l’organizzazione delle classi si faceva riferimento al consiglio di circolo. In forza dell’art. 1 del
DPR 416/’74, la scuola assumeva il carattere di una comunità che interagiva con la più vasta
comunità sociale e civile articolata a più livelli.
Non meno rilevante è il concetto di funzione docente spettante agli insegnanti di ogni ordine e
grado. A norma dell’art. 2 del DPR 417, essi dovevano svolgere attività di trasmissione della
cultura, di contributo all’elaborazione di essa e di impulso alla partecipazione dei giovani a tale
processo e alla formazione umana e critica della loro personalità.
Partecipazione e cura, due verbi ricorrenti nella politica scolastica degli anni ’70, erano anche
alla base della piena integrazione degli alunni con disabilità. La legge 118 del marzo ’71, rivolta
genericamente ai mutilati ed invalidi civili, racchiudeva la prima signi cativa individuazione del
principio di integrazione scolastica. Dai primi anni ’70 in avanti si mirò a rendere normali le
sezioni speciali, tant’è che il programma svolto doveva essere analogo a quello delle altre classi
elementari o medie. La cura e l’inclusione si associava anche alla preparazione professionale e
alla specializzazione del personale docente.
La strada orientata ad abbattere l’ultimo baluardo della scuola elementare del’Italia liberale, quella
della classe nelle mani di un unico docente, era ormai imboccata e ricevette un importante
suggello dall’approvazione nell’agosto ’77 della legge n. 517. Il dispositivo era costituito da un
unico provvedimento. In esso si a rontavano molteplici tematiche: dall’ampliamento dei tempi di
permanenza a scuola alla essibilità nell’organizzazione dei gruppi di classe; dall’introduzione di
nuovi criteri di valutazione alla scelta alternativa al libro di testo. Frequente è il rimando al
concetto di integrazione. Si a ermava una concezione egualitaria e non più selettiva della
scuola dell’obbligo.

I programmi del 1985 e la riforma degli ordinamenti


I dibattiti pedagogici del secondo ‘900 avevano reso obsoleta l’immagine del “bambino intuitivo”
e fantasioso degli anni ’50 per far spazio ad un “fanciullo consapevole del suo rapporto con un
sempre più vasto tessuto di relazioni e scambi”. La scuola elementare veniva quindi concepita
come un “ambiente educativo di apprendimento” nel quale il bambino maturava
progressivamente la propria capacità di azione diretta, di progettazione e veri ca, di esplorazione,
di ri essione e di studio individuale. Sul piano pratico questo si tradusse all’apertura a nuove
materie signi cativamente denominate educazione all’immagine, al suono e alla musica, motoria.
Qualche anno più tardi, si dovette intervenire sul piano ordinamento per a dare non più ad un
maestro unico, ma ad una pluralità di docenti, la conduzione di più classi in forma modulare. Per
questo si avviò una sperimentazione triennale, che permise il varo della legge 148 del giugno ’90
‘Riforma dell’ordinamento della scuola elementare’ con ministro della Pubblica Istruzione Sergio
Mattarella.
I programmi dell’85 contenevano importanti novità: l’educazione alla convivenza democratica e
la considerazione che i mezzi di comunicazione di massa o rono occasioni continue di un
confronto vario e pluralistico. Anche sul piano metodologico e organizzativo si registravano
rilevanti trasformazioni nella conduzione della classe. Andava prendendo piede la pratica della
programmazione didattica tra docenti. La scuola elementare si impegnò in un lavoro rinnovato di
fl
fi
fi
fi
fl
fi
ff
ff
fi
ff
fi
fi
ffi
fi
“sintonizzazione” della proposta didattica e della progettazione educativa. La programmazione
didattica doveva esser assunta e realizzata dagli insegnanti anche come sintesi progettuale e
valutativa del proprio operato.
La scuola elementare dei primi anni ’90 era molto diversa da quella che l’aveva preceduta.
Innanzitutto per quanto riguarda l’orario della attività didattiche, estese a 27 ore settimanali
elevatili no ad un max. di 30, a cui si aggiungeva il tempo mensa. Secondariamente, perché si
era de nitivamente spezzata la corrispondenza biunivoca insegnante=classe. In ultimo, perché il
lavoro in team trasformava la professionalità dei maestri: oltre a quelli di classe, di norma 3, si
aggiungevano in molti casi l’insegnante di religione, di sostegno e di lingua straniera.

Dall’avvio della “seconda repubblica” all “buona scuola”


Un cambio di passo nella politica scolastica italiana si veri cò dopo l’avvento di quella che
giornalisticamente venne de nita la “seconda repubblica”. Alcuni fattori sociali interni e
internazionali possono essere considerati alla base della nascita di un sistema bipolare tra la
coalizione di centro-destra e quella di centro-sinistra.
Nella XIII legislatura, la legge 59 del marzo ’97 avviò la riforma del sistema scolastico,
organizzando sulla base di una rete di istituzioni dotate di autonomia funzionale. La questione
dell’autonomia scolastica comportò una diversa disciplina della quali ca dirigenziale dei capi di
istituto, l’adozione di un regolamento che de nì la natura e gli scopi dell’autonomia delle istituzioni
scolastiche, oltre che un regolamento concernente le Istruzioni generali sulla gestione
amministrativo-contabile delle istituzioni scolastiche.
Il quadro normativo di maggior rilievo per la scuola elementare fu quello messo in campo dal min.
Luigi Berlinguer con la legge in materia di riordino dei cicli dell’istruzione (2000). Il “sistema
educativo di istruzione e formazione” si articolava nella scuola di base (ciclo primario) e in scuola
secondaria (ciclo secondario), con un obbligo scolastico al 15º anno di età, mentre l’obbligo di
frequenza di attività formative si estendeva no al compimento del 18º anno di età. La scuola di
base aveva la durata di 7 anni ed era raccordata alla scuola dell’infanzia, che la precedeva, e alla
scuola secondaria, che la seguiva. Essa si concludeva con un Esame di Stato.
Il lascito più cospicuo della XIII leg. era costituito dall’autonomia amministrativa, didattica e
organizzativa delle istituzioni scolastiche, facenti parte di un unico sistema scolastico
nazionale. Ogni istituto, retto da un dirigente scolastico, organizzava un proprio Piano
dell’O erta Formativa, che rappresentava il piano d’azione educativa e di istruzione della scuola.
Si apriva per ogni istituto la possibilità di ricevere fondi dallo Stato e risorse nanziarie da Comuni,
Province e Regioni o da altri enti e privati.
Nel momento del passaggio al centro-destra, restavano inattuati 2 documenti rilevanti. Il primo
aveva de nito i contenuti essenziali per la formazione di base (’97) e il secondo (Gli indirizzi per
l’attuazione del curriculo) forniva indicazioni curricolari circa la quota oraria nazionale del ciclo di
base. In esso si teorizzava il passaggio dal programma al curriculo, sulla base che il curriculo è
elaborato dai docenti.
Pur in un quadro competitivo tra destra e sinistra, vi furono elementi di continuità tra i diversi
schieramenti, come la disponibilità a consentire un monitoraggio del sistema scolastico. Per
garantire un controllo omogeneo fu dato avvio nel ’99 all’Istituto nazionale per la valutazione
del sistema di istruzione (INVALSI) e al Servizio nazionale di valutazione del sistema educativo di
istruzione e di formazione.
Il 2º governo Berlusconi intese superare le proposte della sinistra tramite la legge 53 del 2003
(min. L.Moratti), comprendente un nuovo riordino dei cicli che introduceva una scuola d’infanzia e
un primo ciclo di istruzione (3+5), con possibilità di anticipare l’iscrizione alla prima classe. Ad
esso si accompagnarono le Indicazioni Nazionali per i Piani Personalizzati e le Attività Educative
nelle Scuole dell’Infanzia nella Scuola Primaria, nella Scuola Secondaria di 1º grado.
Nella XV legislatura si ebbe un nuovo cambio di fronte: il min. G.Fioroni operò modi cando le
precedenti Indicazioni Nazionali richiamandosi concettualmente ai Programmi della scuola
elementare dell’85 e agli Orientamenti della scuola dell’Infanzia del ’91. Si passò così dalla
personalizzazione dei piani di studio ad una rinnovata attenzione al curriculo.
ff
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
Gli ultimi provvedimenti di rilievo per la scuola elementare restano legare all’ennesima stesura
delle Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione del
2012. Il min. Profumo metteva in rilievo la validità dell’impianto educativo e culturale della scuola
di base italiana e sottolineava le sue vocazione di accoglienza ed inclusione.
Nel settembre 2014, M.Renzi presentò il suo programma di riforma per una “buona scuola”. Si
mettevano a fuoco 3 questioni: ruolo insegnanti; argomenti di studio negli anni a venire;
organizzazione gestionale scuola. Nel luglio 2015 venne approvato un ambizioso riordino del
comprato della pubblica istruzione.

L’istruzione secondaria
Il progetto libernazionale
La scuola secondaria classica, insieme all’Università, aveva nel testo della LEGGE CASATI (1859)
una preponderanza non solo quantitativa dal punto di vista di una classe dirigente per la quale
fare la nuove élite era premessa necessaria per fare i nuovi italiani. Nella scuola classica
casatiana il latino si collocava in posizione di netta prevalenza rispetto alle altre discipline: il dato
della prevalenza testimonia la volontà della sua strumentalizzazione ai ni dell’acquisizione della
lingua nazionale.
L’insieme dei quadri che si de nì coi progressivi aggiustamenti dei programmi del 1860 può
essere de nito un sistema medio di classicità.
L’art. 188 della legge Casati de niva così le nalità dell’istruzione secondaria: ammaestrare i
giovani in quegli studio mediante i quali si acquista una cultura letteraria e loso ca che apre
l’adito agli studi speci ci che menano al conseguimento dei gradi accademici nelle Università
dello Stato.
La consapevolezza dell’importanza dell’istruzione secondaria classica accomunava tutta l’élite
politico culturale del nuovo Regno e la vide impegnata sia in ambito editoriale che nell’alta
amministrazione.
La vicenda dei seminari mostra come, dopo un iniziale scontro, il compromesso fra il nuovo Stato
e la persistente società cattolica fosse legato oltre che alla cultura politica delle sue élite
all’intrecciarsi tra l’incapacità del primo di fondare e gestire in proprio in quantità e qualità
adeguata istituzioni educative.
In quella stessa stagione si consumò l’abolizione anche di diritto delle facoltà teologiche nelle
università statali, destinata ad avere conseguenze di lungo periodo sulle caratteristiche della
cultura del clero e sulla cultura italiana nel suo insieme.
Il reale di ondersi di sensibilità culturali di origine tedesca di ritardato dalla lentezza del costituirsi
di un nuovo ceto di insegnanti secondari formati nelle università del nuovo Stato secondo le
nuove sensibilità; solo la generazione che cominciò a insegnare negli anni ‘90 era abbastanza
omogeneamente fornita dei prescritti titoli.
La legge del 1866 sulle corporazioni religiose permise il trasferimento di molti edi ci a sede dei
licei statali.
L’insegnamento della storia letteraria come disciplina autonoma comprare in Italia con i
PROGRAMMI COPPINO (1867).
In questo contesto normativo la Storia della letteratura italiana del De Sanctis nasce come
testo per le scuole secondarie ed è la prima di una lunga serie che fonda un genere in cui vi è la
necessità di de nire una tradizione nazionale. Qui ai trovano insieme il disegno di fondare una
scienza nazionale ed il realismo della gradualità alimentato dalla consapevolezza di chi
proveniva da una delle zone più problematiche del nuovo regno.
Per l’eterogeneità della formazione dei docenti e per le caratteristiche del positivismo italiano si
può a ermare che ci siano stati manuali di loso a nell’età del positivismo.
L’inchiesta Scialoja sull’istruzione secondaria del 1873 testimonia le carenze e le eterogeneità e la
mancanza di una comune sensibilità di da verso le esigenze di riforma. Emerse la
consapevolezza della carenza di professori laureati alla quale si cercò di venire incontro col
regolamento generale della facoltà di lettere e loso a del 1875.
ff
ff
fi
fi
fi
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
Il Regolamento e i programmi per i ginnasi e i licei del regno del 1844 testimoniano il permanere di
una concezione retorica dell’insegnamento delle lingue classiche, mentre in tema di
insegnamento della lingua italiana cercava di tenere insieme il ruolo trasversale dell’italiano,
l’esigenza di scrivere in bello stile e la funzione civile nazionale dello studio della letteratura.
L’età della Sinistra storica vede la ricostruzione di una rete di scuole gesuitiche, ma anche di un
attivismo di nuove élite laicali che era comunque una forma di modernizzazione e di
integrazione.

La correzione liberdemocratica
L’età giolittiana costituisce per la scuola secondaria una stagione prevalentemente di passaggio.
Nel segmento secondario non si registra né un aumento della spesa né tanto meno una chiara
volontà politica.
La de nizione dello stato giuridico non ha nel caso degli insegnanti secondari il forte valore
periodizzante che si riscontra nel caso degli insegnanti elementari.
La Federazione Nazionale Insegnanti Scuole Medie (1902-G.Kirner) è un vivace luogo di dibattito
culturale.
L’elaborazione della pedagogia gentiliana fece alcune delle sue prime prove in relazioni a
questioni di politica scolastica e una delle sue opere principali fu un manuale per le scuole
normali.
Al concretismo de La Voce (Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini) sono estranei i problemi della
scuola secondaria non classò a così come la speci cità dei rapporti tra i vari segmenti del sistema
scolastico.
La realtà di usa degli insegnanti bene cia dell’impatto della prima generazione di insegnanti ben
formati almeno in senso culturale.
Il Liceo moderno, creato da Credaro nel 1911, rappresenta l’esito minimale del dibattito, ma è
testimonianza di un concreto impegno riformatore. Per lo storico odierno costituisce
un’anticipazione del successivo liceo scienti co e come quello a lungo variante ancillare del Liceo
per antonomasia.

Il consolidamento reazionario
L’esigenza di fermare la crescita della secondaria classica e la sua implicita relativa
democratizzazione è presente nel dibattito intorno alla cultura delle riviste del primo ‘900 ed ha
nel pensiero di Gentile una delle sue forme più alte e consapevoli. La riforma Gentile
rappresenta un signi cativo momento di convergenza tra liberalismo conservatore e richieste
cattoliche, nel contesto del governo Mussolini.
Nel campo dell’amministrazione scolastica netto era il ritorno ad una piramide gerarchizzata
(ministro-provveditore-preside) con la soppressione delle rappresentanze elettive dei docenti.
Anche il passaggio a provveditorati era uno strumento di tale verticalizzazione, seppur associata
una strumentale valorizzazione delle culture regionali e dei dialetti.
L’introduzione dell’esame di Stato rispondeva ad un’istanza elitista di quali cazione e limitazione
quantitativa del ruolo della scuola statale. L’esame era anche l’ultimo di una serie di sbarramenti
che avevano l’intenzione di creare un percorso ad ostacoli che frenasse la spinta dell’istruzione
secondaria.
Rilevante è l’esclusione delle donne dall’insegnamento di alcune discipline.
L’asse culturale di Gentile non era quello letterario, ma quello storico- loso co. Netto era il
privilegiamento dell’istruzione classica con programmi basati su un insegnamento storico-
letterario delle lingue sia antiche che moderne.
Altra caratteristica è la presenza di cattedre multidisciplinari.
Aspetto rilevante della riforma è la rinnovata valorizzazione dell’istituto del concorso della
cattedra.
Il Concordato del 1929 con la Chiesa cattolica cambia in parte in quadro non solo perché apre
qualche maggiore spazio alla scuola non statale cattolica, ma soprattutto perché estende la
religione no al liceo.
Gli anni ‘30 vedono, con le cosiddette ‘pari cazioni, un consolidamento dello status delle scuole
cattoliche, principalmente nel settore dell’istruzione magistrale, grazie al ruolo dell’editoria
scolastica, con presenze quali cate come quelle delle SEI e dell’Editrice La Scuola.
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
Il min. De Vecchi vede nel ‘35 l’introduzione dell’insegnamento della cultura militare nelle scuole
secondarie.
I Programmi del ‘36 prescrivevano nelle Avvertenze generali al programma di storia una
nalizzazione in chiave di educazione politica nazionale.
Dell’ampio programma contenuto nella Carta della scuola (‘39) venne attuato, con la legge del ‘40,
solo quello relativo alla media inferiore, grazie soprattutto all’opera amministrativa di N.Padellaro,
che portò a una maggiore scolarizzazione in quella fascia d’età e a una qualche speci ca
ri essione pedagogico-politica. Era rilevante l’attenzione alle questioni della formazione
professionale e dell’orientamento e alle questioni connesse al signi cato culturale e politico
del lavoro.

La democratizzazione grigia
Nella lunga stagione della “prima repubblica”, la scuola secondaria liceale subisce le minori
modi che di ordinamento. La Costituzione del ‘47 non prevede indicazioni speci che in tema di
istruzione secondaria.
Nel settore della scuola secondaria liceale si sviluppa a partire dagli anni ‘50 l’onda del
cambiamento senza riforma, di cui sono dimensioni quali canti il superamento del gap di
genere e un aumento degli ordini di grandezza. Si può constatare il decollo della realtà del liceo
scienti co che diventa progressivamente il curricolo liceale più di uso.
Almeno per tutti gli anni ‘50 si può parlare di una compiuta egemonia democristiana in chiave di
un cattolicesimo libernazionale sui licei.
L’istruzione dell’insegnamento dell’educazione civica è il frutto di un processo che può essere
individuato nelle iniziative dell’Unione Cattolica Insegnanti Medi.
Aldo Moro fu consapevole che tanto il consolidamento delle istituzioni democratiche quanto
l’importante fase di sviluppo economico che l’Italia attraversava richiedevano una sottolineatura
del ruolo educativo della scuola. La soluzione da lui adottata nel ‘58 per de nire la nuova
disciplina scolastica sommava la conoscenza di norme e principi, dunque obbiettivi cognitivi, e
opzione trasversale, dunque obbiettivi comportamentali ed etico-civili.
La scuola media unica del ‘62 è frutto della progettualità del cattolicesimo politico, e i programmi
del ‘63 sono in parte rilevante opera di personalità che erano cresciute nel e con l’UCIIM - tra le
quali spicca A.Agazzi con la sua formula di trasformare la scuola media in scuola di tutti e per
ciascuno. L’equilibrio tra secondarietà e completamento dell’obbligo è reso complesso da scelte
normative quali le discipline opzionali e le classi di erenziali.
La scuola di ne anni ‘60 prevedeva implicitamente un tempo ed un sostegno di cui gli scolarizzati
di prima generazione non disponevano. A questo si aggiungeva la consapevolezza
dell’inadeguatezza della formazione iniziale e dell’aggiornamento dei docenti.
La crisi di crescita del ‘68 provocò risposte politiche parziali riferite solo alla parte terminale del
sistema, quali l’esame di maturità e l’accesso agli studi universitari.
Risale al ‘69 la riforma dell’esame di maturità, insieme alla liberizzazione degli accessi agli studi
universitari.

Dal Convegno di Frascati (‘70) emerge la proposta dell’unitarietà della secondaria riformata dal
quale scaturì una serie di proposte di legge mai andate in porto che hanno portato a parlare di
“non decisione politica” o “cambiamento senza riforma”.
La seconda ondata del ciclo della democratizzazione è data dalla legge dell’agosto ‘77 n. 517 con
l’abolizione degli esami di riparazione delle scuole medie inferiori e l’inserimento dei disabili, e dal
Dm del febbraio ‘79 che prevedeva l’abolizione del l’agino come disciplina nella secondaria di 2º
grado nel contesto di nuovi programmi che vedevano anche un’in uenza della didattica
linguistica.
Nello stesso contesto politico, la riforma della secondaria superiore non andava in porto, in
mancanza di una cultura sindacal-associativa e accademico-pedagogica egemone che riuscisse
a fare sintesi. Un insieme di fattori sociali e organizzativi che non permettono di a ermare che la
scuola media sia una realtà omogenea.
Ultimo prodotto di tale stagione sono i cosiddetti programmi Brocca del ’91.
fi
fl
fi
fi
fi
ff
fi
fl
ff
fi
fi
fi
ff
fi
L’incerta “seconda repubblica”
La vicenda scolastica della “seconda repubblica” è segnata da una serie di riforme annunciate e
progettate, anche se solo in parte attuate, non solo per l’alternarsi di governi di centrosinistra e di
centrodestra.
Il richiamo al discorso comparativo europeo e globale appare spesso non molto più che un
espediente retorico.
Durante il primo governo Prodi, il Ministero Berlinguer lasciò come principale eredità duratura in
ambito scolastico la riforma della formazione iniziale dei docenti elementari, che vide al tempo
stesso la ne dell’istituto magistrale ma anche la costituzione della rete dei corsi di laurea in
Scienze della formazione primaria.
L’autonomia scolastica, che non solo il ciclo secondario, si scontra nei licei con una minore
consuetudine dei docenti a lavorare insieme e ha anche un rivolto istituzionale nel debole status
dei dipartimenti disciplinari.
La formazione degli insegnati secondari veniva articolata con un ulteriore segmento post-terziario
di specializzazione: la Scuola di Specializzazione per l’insegnamento Secondario, poi modi cata
con percorsi di diverse caratteristiche e durata.
Gli esperti di Berlinguer si rilevarono incapaci di fare sintesi tra i diversi interessi in gioco e nirono
in alcuni casi per generare problemi ancora oggi ingarbugliati.
La legge del marzo 2000 n. 62, Norme per la parità scolastica e disposizioni sul diritto allo studio e
all’istruzione, attuò la previsione costituzionale dell’istituto della parità, pur limitandosi agli aspetti
giuridici, con l’importante a ermazione di principio secondo cui le scuole paritarie fanno parte del
sistema nazionale d’istruzione, mentre gli aspetti economici furono in larga parte delegati a
legislazioni regionali in tema di diritto allo studio. La multiforme area delle scuole cattoliche vide
un passaggio progressivo dalle congregazioni storiche alle cooperative.
Il governo Berlusconi, con il min. Moratti, vide la collaborazione di un importante gruppo di esperti
che, in nome di un ritorno allo spirito della Costituzione, prendeva fortemente le distanze dalla
asserita, non meno della costituzione formale, frutto del pluridecennale impegno di larga parte dei
cattolici.
Sempre alle politiche dei governi succedutisi dalla metà degli anni ‘90 in poi è da ricollegarsi il
processa che va sotto il nome complessivo di “autonomia scolastica” - avviato con la legge del
marzo ‘97 n. 59 - che ha generato un intreccio tra l’ispirazione costituzionale, il principio di
sussidiarietà derivante dalle “norme generali” di cui parla l’art. 33 della Costituzione e le istanze di
riforma amministrativa legate al discorso di politica educativa connesso al “new public
management”. La legge costituzionale dell’ottobre 2001 n. 3 ha modi cato il dettato dell’art. 117,
stabilendo che lo Stato ha legislazione esclusiva in materia di norme generali sull’istruzione,
mentre è materia di legislazione concorrente tra Stato e Regioni l’istruzione, salva l’autonomia
delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell’istruzione e della formazione professionale. Da
quest’ultima disposizione si ricava il principio che l’istruzione e la formazione professionale siano
materia di legislazione regionale esclusiva, fatte salve le norme generali e l’autonomia delle
istituzioni scolastiche.
Il Ministero Gelmini appare caratterizzato da una politica si pesanti tagli che tolgono organicità e
consenso a un processo riformatore globale le cui dichiarate intenzioni di meritocrazia alludono a
una vaga ideologia manageriale. Nel complesso si può parlare di una riforma impermeata sul
bilancio.
Un processo di medio periodo è quello della comprensivizzazione orizzontatale di molte scuole
secondarie superiori, che ha portato alla formazione degli ISIS.
La legislatura 2013-18 è stata segnata dalla gura di M.Renzi e dal suo piglio decisionista, di cui
sono emblematici il Jobs Act e la legge 107/2015 (“La buona Scuola”). L’attenzione dell’opinione
pubblica si è prevalentemente centrata sull’immissione in ruolo di alcune decisioni di precari, ma
con complessivi che ne depotenziano lo stato giuridico. Altra problematica innovazione è
l’alternanza scuola-lavoro. Le vicende dell’attuazione di tale legge hanno messo in luce la
debolezza della gura del dirigente.
La spesa sul medio periodo appare stagnante e la situazione appare particolarmente grave per
l’istruzione secondaria e la ricerca. La dispersione scolastica alimenta tassi di scolarità
comparativamente modesti, mentre sono signi cative le percentuali di femminizzazione e
invecchiamento del corpo docente.
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
L’istruzione normale e magistrale
Gli insegnanti al centro di un processo esemplare di modernizzazione
Il maestro elementare è un’invenzione ottocentesca. È agente ma anche frutto della
scolarizzazione di massa, che si intreccia strettamente con gli atri aspetti della modernizzazione
socioeconomica, demogra ca e culturale di ne secolo. Le società scolarizzate sono diverse da
quelle che le hanno precedute e l’istituzione che le innerva prende forma nell’arco di poche decine
di anni. Selezionare e formare i maestri diventa un a are di stato. I maestri sono missionari e
ambasciatori di una civiltà alfabetizzata.
L’investimento degli Stati in una scuola elementare aperta a tutti è senza precedenti.
Prima ancora di portare i bambini a scuola bisognava portare l’alfabeto all’interno del sistema
scolastico.
Nell’antico regime la capacità di leggere poteva essere acquisita in famiglia o in qualche scuola
più o meno formale tenuta dal prete o attraverso un mercato frammentato di maestri ambulanti o
gure femminili. Si imparava in età relativamente tarda. Si imparava a leggere e non
necessariamente a scrivere.
L’associazione lettura-scrittura in termini didattici si a ermò in stretta congiunzione con
un’evoluzione dei modelli calligra ci e a tecnologie più economiche ed ergonomiche.
Prima della modernizzazione scolastica erano considerate scuole vere e proprie quelle in cui si
accedeva già sapendo leggere e scrivere e possedendo i rudimenti del latino.
‘Dentro l’alfabeto, fuori il latino’: questa fu la manovra attraverso cui i riformatori di ispirazione
illuminista portarono avanti il progetto di una scuola popolare aperta a tutti.
Fonti e studi restituiscono un quadro in cui, tra ‘700 e ‘800, sono già di use istituzioni scolastiche.
Qui abbiamo il volto educativo di una modernità che predispone procedure standardizzate per
gestire grandi numeri di solari attraverso un articolato apparato amministrativo e l’interazione con
un vivace mercato editoriale.
A cavallo del ‘900 le scuole nuove la contesteranno in nome dell’individualizzazione.
Solo con l’a ermazione della scuola di massa, e con la nascita di un ceto di insegnanti con un
minimo di possibilità materiale e culturale di mobilitarsi, può prendere forma un movimento
internazionale e policentrico volto a superarla, come l’attivismo.
Per arrivare a questo punto ci vuole tutto l’800. Gli stati generano i maestri.
L’investimento pedagogico delle classi dirigenti fa degli insegnanti dei missionari laici, un po’
simili al popolo che devono elevare ma consacrati a una causa superiore.

La scuola normale e i suoi modelli in Italia


Il Regno d’Italia (marzo 1861) adottò la normativa scolastica promulgata pochi mesi prima del
regno di Sardegna.
Fra il tentativo di fusione con la Lombardia austriaca (1848) e la Seconda guerra d’indipendenza
(1859-61) si snoda il ‘decennio di preparazione’: un percorso di ammodernamento politico dello
Stato piemontese, che ebbe tra i suoi risvolti un ciclo di legislazione scolastica aperto dalla legge
Boncompagni (1848) e chiuso dalla legge Casati (1859).
La legge Casati era nata a misura di un regno del Nord relativamente omogeneo che univa le due
regioni più alfabetizzate della penisola. L’estensione della legge a un territorio più vasto,
complesso è resistente alla scolarizzazione fu un delicato processi amministrativo e culturale.
Quello che la legge doveva disciplinare non era un sistema scolastico di uso e articolato nelle sue
parti. L’istruzione elementare e quella magistrale erano pensate accanto all’istruzione tecnica
nell’insieme della scuola popolare. La legge obbligava i comuni a o rire, nei limiti della loro
possibilità, una scuola gratuità ai bambini che avessero compiuto 6 anni. L’ordinamento dato
all’istruzione elementare era quadriennale.
I modelli allora disponibili per la formazione dei maestri derivavano dalla modernizzazione
didattica che aveva caratterizzato il riformismo scolastico illuminista: ‘metodo normale’. Nei
territori italiani la prima scuola normale sorse nel 1786 a Milano.
Nel Regno di Savoia un orientamento sensibile all’istruzione popolare si di use fra le classi
dirigenti nel 2º quarto dell’800 e precedette lo sviluppo della legislazione scolastica:
• 1844: istituzione Scuola normale di metodo;
fi
ff
fi
fi
fi
ff
ff
ff
ff
ff
ff
• 1846: istituzione Scuola superiore di metodo e Scuole provinciali di metodo per maestri in
servizio e aspiranti;
• 1853: nascita Scuole magistrali;
• 1858 (Legge Lanza): istituzione Scuole normali. La legge Casati ne previde 9 maschili e 9
femminili nelle province antiche e nuove del Regno. Il corso si articolava in 3 anni; al termine
del 2º si poteva sostenere l’esame per la patente di grado inferiore. Alle femminili si accedeva
a 15 anni, alle maschili a 16.
Per tutto il primo ‘800 l’insegnamento elementare aveva mosso i suoi passi in uno scenario
indistinto in cui operavano diverse gure. Nel 2º ‘800 l’intervento statale modellò una categoria
professionale numerosa e nuova. Le previsioni normative sulla formazione di maestre/i andarono a
regime di gradualmente. Non tutti coloro che intendevano darsi all’insegnamento compirono le
scuole normali; n dai primi anni ci furono diverse alternative consentite per prepararsi all’esame e
per conseguire la patente.
Le scuole normali nel Regno d’Italia nacquero sul solco di una tradizione recente che però aveva
già maturato una duplice vocalizzazione su quel che il maestro doveva sapere e saper fare, con
un orientamento all’acculturazione di base e un altro alla professionalizzazione. Da un lato gli
studi normali prendevano forma attorno a una serie di procedure didattiche e prevedevano un
tirocinio nelle scuole; dall’altro o rivano una formazione di base di tipo umanistico a un
uditorio popolare.
Gli indirizzi del positivismo pedagogico incoraggiarono l’oscillazione verso il polo della
professionalizzazione, con gli interventi sui programmi dei primi anni ‘80. La LEGGE GIANTURCO
(1896) istituì scuole complementari triennali annesse a scuole normali femminili.
Anche l’istruzione per la prima infanzia cominciò ad emergere come oggetto delle cure formative
dello Stato. Nel 1880 il min. De Sanctis aveva richiesto la patente di grado inferiore per i Giardini
d’infanzia froebeliani; il requisito fu esteso nel 1889 a tutti gli asili sovvenzionati. La legge
Gianturco aboliva la patente inferiore, ma istituiva presso le Scuole normali un corso per maestre
giardiniere.
Nel passaggio tra XIX e XX sec. l’Italia attraversava una stagione di modernizzazione
socioeconomica e politica che sostenne il percorso espansivo della scolarizzazione e
dell’alfabetizzazione. La LEGGE DANEO-CREDARO (giugno 1911), con l’avocazione allo Stato della
gestione delle scuole elementari, fu la più signi cativa risposta legislativa al fatto che la domanda
e l’o erta di istruzione si incontravano su livelli più alti. Nello stesso anno una legge di luogo istituì
corsi magistrali biennali presso i comuni privi di scuola normale. Sia Credaro che Berenini
elaborarono un progetto di riassetto complessivo, ma nessuno dei due giunse all’approvazione
parlamentare.

L’istituto magistrale nella scuola gentiliana e nel dopoguerra


Nell’ottobre ‘22 Mussolini formò il suo primo governo e chiamò al Ministero della Pubblica
Istruzione Giovanni Gentile, che mise a punto il più articolato disegno di riordino che il sistema
scolastico italiano abbia conosciuto. Le idee di Gentile erano maturate attraverso un dibattito sulla
scuola che negli anni precedenti aveva mobilitato insegnanti ed intellettuali.
L’istituto magistrale fu parte del riordino dell’istruzione media o secondaria, cuora della RIFORMA
GENTILE (maggio ‘23). Il corso inferiore era di 4 anni e vi si accedeva per esame subito dopo la
licenza elementare; un ulteriore esame consentiva l’accesso al corso superiore, di 3 anni.
L’abilitazione professionale, alla ne del percorso, consentiva l’accesso ai soli istituti superiori di
magistero e non all’università.
Il riordino della scuola elementare prevedeva un corso di 5 anni preceduto da un grado
preparatorio triennale (‘scuola materna’). L’abilitazione a lavorare nelle scuole materne veniva
rilasciata attraverso percorsi triennali che vennero chiamati ‘scuole di metodo’ e poi ‘scuole
magistrali’.
Fra i due poli dell’arricchimento culturale e della pratica didattica, la nuova formazione degli
insegnanti elementari (rif. Gentile) privilegiava dichiaratamente il primo. A presidio della serietà
degli studi magistrali venne introdotto il latino e un esame di ammissione - che restò no al ‘68. La
pedagogia veniva ricondotta all’insegnamento della loso a. Venne meno il tirocinio.
ff
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
A riaprire il via al tirocinio fu Bottai (‘40). Si trattava dell‘ultima ambiziosa riforma scolastica del
fascismo. La sua attuazione fu compromessa dalla guerra e dal crollo del regime.
La scuola media triennale introdotta da Bottai lasciò sul campo una conseguenza strutturale: la
disarticolazione del corso magistrale inferiore (3+4).
Fra le conseguenze della mancata riforma vi fu la lunga durata dei programmi del ‘45, frutto del
tentativo dell’amministrazione di defascistizzare la scuola.
Nessuna riforma sembrò possibile per tutto il secondo ‘900.

Gli studi pedagogici in università


Nate per i diplomati magistrali, le facoltà di Magistero avevano laureato insegnanti di pedagogia
per gli Istituti e le Scuole magistrali, direttori ed ispettori. Inoltre, avevano o erto un canale
“minore” per accedere all’insegnamento delle materie letterarie nelle medie.
Gli istituti superiori di magistero, che furono poi eretti a facoltà nel ‘36, erano anch’essi frutto della
riforma Gentile.
La legge del dicembre ‘04 previde percorsi di perfezionamento per diplomati magistrali che furono
poi istituti, con il nome di Scuole pedagogiche, presso le 13 facoltà di Filoso a e lettere. Oltre
che per la carriera direttiva ed ispettiva, rilasciavano titoli valutabili per l’insegnamento nelle
scuole tecniche e complementari.
Chiudendo l’esperienza delle scuole pedagoghe, il RD del marzo ‘23 n. 736 istituì gli istituti di
magistero di Roma e Firenze, li aprì agli studenti maschi e conferì loro tanfo universitario. In
autunno fu istituito un terzo a Messina. Il corso era quadriennale e abilitava all’insegnamento di
materie letterarie alle scuole medie inferiori e negli istituti magistrali di pedagogia, loso a, storia e
geogra a. La stessa legge aprì la strada al pareggiamento di istituti superiori di magistero da corpi
o persone morali.
Dal ‘36 gli istituti superiori di magistero furono incorporati nelle rispettive università come facoltà
di Magistero, che rilasciavano lauree in Materie letterarie, Pedagogia e Lingue e letterature
straniere.
La trasformazione delle facoltà di Magistero in facoltà di Scienze della formazione avvenne nel
‘95. Il progetto di spostare all’università la formazione di maestre/i prese corpo 3 anni dopo con la
nascita di un corso di laurea quadriennale in Scienze della formazione primaria (‘96). Il corso
divenne poi laurea magistrale a ciclo unico (2010). Un passaggio fondamentale era però
intervenuto nel 2003, con il riconoscimento del valore abilitante per insegnare nella scuola
dell’infanzia e nella scuola primaria.
La legge 107 del 2015 estese agli educatori del nido il principio della formazione universitaria.

Istruzione tecnica e formazione professionale


Il lavoratore quali cato nella società della conoscenza
Negli ultimi anni è emersa la tendenza a collocare la formazione tecnica e e professionale
nell’ambito delle risorse umane e in rapporto alle necessità della loro de nizione, articolazione e
aggiornamento come capacità di adattamento a condizioni di incertezza, essibilità e mobilità e
come capacità di cogliere opportunità per l’occupabilità e l’imprendività. Oggi il lavoratore è una
gura pienamente responsabile del processo lavorativo, capace di rispondere autonomamente
in forma adattiva alle s de dell’incertezza e della conseguente essibilità, dotato di una
professionalità dinamica sempre in costruzione.
Negli ultimi anni si sarebbe passati dall’uomo da lavoro al lavoro per l’uomo. Si enfatizza così la
centralità del lavoratore all’interno della trasformazione culturale, sociale ed economica e dai
profondi cambiamenti nella divisione del lavoro.
Gli odierni knowledge workers si vengono ride nendo in modo diverso rispetto alla tradizione
storica del mestiere (quali ca) e della professione (diploma).
Parlare di istruzione tecnica e professionale nel caso italiano vuol dire parlare di “uomini da
lavoro” e di una strati cazione sociale per via professionale che si è consolidata fra ‘800 e ‘900
attraverso l’a ermazione della società industriale e dei suoi sistemi formativi specializzati e
polarizzati.
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fl
ff
fi
fi
fi
La scuola del lavoro nella fondazione dell’Italia unita
Il nuovo Stato italiano ha riservato nella seconda metà dell’800 un’attenzione ridotta,
frammentaria e spesso contraddittoria all’istruzione tecnica e professionale.
Dimostrazione diretta la danno le norme giuridiche ed i dati statistici inerenti tali istituzioni
scolastiche. In questo senso, emblema delle di coltà vissute dall’istruzione tecnica nella 1ª fase è
la riforma posposta dal min. Casati nel 1859. Essa viene redatta modellandosi sulla LEGGE
BONCOMPAGNI del 1848, che distingue l’istruzione secondaria del Regno di Sardegna in studi
classici e in “corsi speciali”, ovvero Scuole tecniche, riservate a giovani che si preparano
all’esercizio delle professioni per le quali non è necessario lo studio universitario delle professioni.
La LEGGE CASATI costituisce il corpus univoco con cui si organizza il sistema scolastico del Regno
d’Italia. È ad essa che si deve la tripartizione con cui si distingue la scuola classica dagli istituti
tecnici e da quelli professionali. Esclusa dal sistema scolastico nazionale, lasciata alle iniziative
di privati o associazioni o all’ispirazione caritativa di gruppi religiosi, l’istruzione professionale si
mantiene nel “sommerso” del sistema educativo-formativo.
Eredi di una lunga data dell’apprendistato artigiano, commerciale e contabile consolidato nel
basso Medioevo e in Età moderna, gli istituti scolastici professionali sono il frutto libero di
iniziative spontanee, nati per esigenze economiche locali ed ancorati alla speci cità del
territorio. Tuttavia, visto il disinteresse statale, la loro fortuna testa legata ai responda di tali
istituzioni. La mancanza dell’intervento del neonato Stato italiano porta a delineare una cartogra a
degli istituti professionali del Regno “a macchia di leopardo”.
Alla di erenza imposta dalla localizzazione, va aggiunta la variabile non prevedibile dell’attivazione
di corsi e scuole, specialmente per i ceti popolari, da parte di congregazioni religiose.
L’istruzione tecnica resta imbrigliata nelle contraddizioni di una élite politica e culturale poco
ricettiva rispetto ai cambiamenti che la rivoluzione industriale incipiente stava apportando negli
equilibri socioeconomici. Se Casati, con l’istruzione tecnica, intende o rire ai giovani la
“conveniente cultura generale e speciale”, nella realtà combina il di cile equilibrismo tra
istruzione generale e speciale a vantaggio della prima. Le scuole tecniche di fanno copie sbiadite
dei ginnasi. Nonostante il tentativo e ettuato dal nuovo min. T.Mamiani, la neonata istruzione
tecnica viene percepita come una scuola di “seconda fascia” rispetto alla formazione classica.
Tale percezione è giusti cata dalla legge Casati, con cui la separazione tra istruzione tecnica,
ginnasiale e liceale si fa realmente esplicita da riguardare edi ci scolastici, livello di competenza
fra centro e periferia dello Stato e personale direttivo.
Con il RD del novembre 1861, gli IT di 2º grado vengono a dati al nuovo Ministero per
l’agricoltura, l’industria e il commercio (MAIC).
Al termine del 1° quindicennio di vita del Regno d’Italia, la complessità di gestione del reparto
formativo in carico al MAIC conduce alla decisione, nel 1878, di riassegnare l’IT al MPI.

Verso la ne del secolo: l’orizzonte si allarga


Nonostante le indecisioni e i problemi connessi alla progettazione dell’istruzione tecnica, c’è un
consenso sempre maggiore di questa tipologia di formazione, anche grazie all’a ermazione
nell’opinione pubblica del valore della formazione tecnico-scienti ca.
I numeri non fanno che consolidarsi nella direzione di una maggiore fruizione dell’istruzione
tecnica sia negli anni della Sinistra storica che nella chiusura del secolo.
L’istruzione tecnica viene riformata sotto il MPI da M.Coppino, con la durata degli iter scolastici
degli istituti uniformata a 4 anni e con la de nizione dei programmi dettagliati per i 3 indirizzi:
sico-matematica, agrimensura, commercio e ragioneria.
Per quanto riguarda l’istruzione professionale, il passaggio del governo del Regno d’Italia alla
Sinistra liberale dalla ne degli anni ‘70 ha diversi e etti su questa forma scolastica. Dopo
l’abolizione e la reintroduzione del MAIC avvenuta negli anni 1877-8, il Ministero si trova a doversi
occupare delle scuole professionali. L’acquisizione del sistema scolastico professione da parte di
un Ministero del Regno conduce a un maggiore controllo e a una forma di tendenziale
standardizzazione regolativa delle diverse tipologie di scuole professionali.
Le due circolari ministeriali del 1879 e 1880, a cura dei min. B.Cairoli e L.Miceli, segnano
l’ingresso dello Stato nella cura e nell’organizzazione dell’istruzione professionale. Con la
prima lo Stato abbia un intervento di nanziamento per la formazione professionale. La seconda
conduce ad una categorizzazione delle diverse forme di scuola professionale; così dagli anni ‘80
fi
ff
fi
fi
fi
ff
fi
fi
ffi
ff
ffi
fi
fi
ffi
ff
ff
fi
fi
vengono distinte in: Scuole di arti e mestieri, Scuole di arte applicata all’industria e Scuole
speciali.
La forma di scolarizzazione mantiene così uno stretto legame con la dimensione pratica e le
speci cità territoriali.
Il processo di standardizzazione dell’istruzione professionale si conclude sul nire del sec. con il
RD 488/1898, che indica precisi programmi per gli indirizzi industriali, agrari e commerciali.

L’età giolittiana e la prima industrializzazione


L’esordio del ‘900 rappresenta l’ultima fase della stagione liberale del giovane Stato italiano e
vede attuare un consistente dogammo di riforme che interessano anche l’istruzione. La strada per
il conseguimento di una scuola popolare, obbligatoria e gratuita per la transizione al lavoro
manuale e ai mestieri, viene tracciata per mezzo dei cosiddetti “provvedimenti Orlando” (1904) e
della legge Daneo-Credaro (1911). Questo non accade per gli indirizzi della scuola secondaria,
specie per l’istruzione tecnica: l’intervento pubblico si limita a mantenere lo status quo, cercando
di conservare invariata la struttura e l’organizzazione delle scuole e degli istituti tecnici. L’esito è
motivato dall’incremento continuo d’iscritti che le scuole e gli istituti tecnici registrano no allo
scoppio della Grande Guerra.
Un discorso diverso si può fare per quel che riguarda le scuole professionali, su cui l’intervento
statale si fa evidente. Con la fase di sviluppo costante nel decennio 1896-1908 (“grande slancio
economico”) e con la nascita del moderno sistema industriale italiano, la classe dirigente e le
forze imprenditoriali locali iniziano ad occuparsi delle questioni riguardanti la preparaIone e
l’avviamento al lavoro dei giovani indirizzati verso carriere produttive, manuali ed esecutive.
Riservata alle classi popolari emergenti, l’i.p. viene ributta e passa ad essere considerata
d’importanza strategica per la crescita produttiva del Paese.
Con i PROVVEDIMENTI ORLANDO (1904) con l’introduzione della “Scuola popolare” come istruzione
post-elementare intende costituire l’anticamera agli istituti professionali veri e propri, garantendo
al contempo uno spazio per l’adempimento dell’obbligo di istruzione levato a 12 anni. La legge
riporta il corso elementare ai 4 anni pensati da Casati e de nisce una scelta al termine del 1° ciclo
di studi: chi intendeva proseguire gli studi nelle scuole secondarie avrebbe sostenuto un esame di
“maturità”, mentre gli altri avrebbero completato l’obbligo scolastico nella 5ª e nella nuova 6ª
classe. La riduzione dell’orario scolastico a 3h giornaliere, unita alla essibilità delle materie
d’insegnamento in base alle necessità territoriali, costituiscono 2 tra gli aspetti centrali ed
innovatori di questo nuovo corso. Le Istruzioni Programmatiche, contenute nei programmi
elaborati nel 1905 da F.Orestano insistono sulla nalità pratica ed utilitaristica di tutto
l’insegnamento. Gli esiti della riforma tuttavia mostrano l’insuccesso del corso popolare.
Tra il 1907 e il 1909 e il 1912 e il 1913, l’intero ramo commerciale e industriale viene razionalizzato
cercando di fornire stabilità economica e di uniformare gli indirizzi didattici. L’intervento dello
Stato si fa più diretto. I provvedimenti emanati forniscono una serie di nanziamenti considerati
necessari per “consentire un usso di ci si pubblici superiore a quello attuabile con le sole leggi di
bilancio”.
All’interno del poliedrico mondo dell’istruzione professionale, vengono individuate Scuole
industriali, commerciali, Scuole professionali femminili e Scuole d’arti industriali.
Il controllo statale diventa sempre più evidente con la creazione nel 1908, presso il MAIC,
dell’Ispettorato generale dell’insegnamento agrario, industriale e commerciale e del
Consiglio superiore dell’insegnamento agrario, industriale e commerciale.
Il controllo e la razionalizzazione dell’i.p. proseguono con la legge n. 854/1912 del min. F.S.Nitti ed
il successo o Regolamento del ‘13, provvedendo a riordinare tutte le scuole professionali
dipendenti dal MAIC, con l’istituzione di una scuola professionale triennale di 1º grado accanto
alle scuole di 2° (che si articolano in Scuole industriali e Scuole commerciali) e 3° grado (suddivise
in Istituti industriali e Istituti commerciali). Il sistema però non sarà mai realizzato in forma
compiuta.
Con lo scoppio della Grande Guerra e con la “mobilitazione industriale”, l’importanza di
possedere, a livello nazionale, maestranze e cienti ed istruite nelle industrie contribuisce a far
emergere nuovamente le ragioni della formazione professionale. La guerra si fa primo e
signi cativo momento di veri ca del lavoro compiuto in età liberale: gli esiti incerti e poco
fi
fi
fi
fl
ffi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
confortanti sul fronte Italo-Austriaco mettono in risalto anche l’ine cienza del sistema d’istruzione
italiano.

Il moltiplicarsi delle funzioni e il fascismo


Il fascismo intese “riformare per restaurare” anche nel campo della scuola tecnica e
dell’istruzione professionale. Il fascismo operò una modernizzazione conservatrice in cui si
espressero le preoccupazioni della classe dirigente nei confronti dei fenomeni crescenti di
apertura sociale e di democratizzazione politica. La spinta si orientò in una revisione conservatrice
della scuola u ciale, a reclamare un potenziamento della scuola classica e un ritorno di quella
tecnica alla legge Casati.
L’i.t. era ormai stabilizzato nella sua ripartizione su 3 principali sezioni, a cui si potevano a ancare
sezioni agronomiche e industriali.
Con la LEGISLAZIONE DI GENTILE e l’elevamento dell’obbligo d’istruzione a 14 anni, la
combinazione uscita a inizio ‘900 dalle riforme Orlando viene superata: la Scuola elementare viene
portata a 5 anni, cui seguono le Scuole complementari senza alcuno sbocco successivo
nell’o erta formativa della pubblica istruzione e nalizzate all’avviamento al lavoro immediato o al
passaggio a qualche riforma addestrativa extra-scolastica o all’apprendistato. La scuola
complementare assume la sionomia di una “scuola di scarico”, professionalizzante.
L’i.t. gentiliano, ampliato a 8 anni e diviso in un corso inferiore e superiore, non è preceduto dalle
scuole tecniche inferiori e vi si accede direttamente dopo le scuole elementari. Con la riforma
fascista l’i.t. vede le sue sezioni ridotte a 2 (agrimensura e commercio e ragioneria). Scompare la
sezione sico-matematica dell’i.t. che poteva dare accesso ai corsi universitari scienti ci e
tecnologici.
Per quanto riguarda l’i. tecnica e professionale riferita al Ministero dell’economia nazionale, con il
RD 3123/1923 viene articolato un vasto sistema di istituzioni formative, specializzate
nell’insegnamento professionale soprattutto industriale, ma sempre fuori dal sistema scolastico
dipendente dal MEDN. Con RD 749/1924 vengono riorganizzate le Scuole di commercio.
Sempre nel ‘24 si interviene anche nelle Scuole pratiche d’agricoltura. Rapidamente l’e etto
depressivo della riforma selettiva sull’istruzione t. e p. si manifesta.
La frammentazione organizzativa dell’i. t. e p. orbitante intorno allo Stato fascista è in
controtendenza rispetto alla linea di graduale debole coordinamento emerso in età giolittiana.
Nel ‘28 una gran parte dell’istruzione tecnico-professionale ritorna o arriva per la 1ª volta sotto il
controllo della Pubblica Istruzione. Fra ne anni ‘20 e primi anni ‘30, il campo dell’i. t. e p. fu
fortemente interessato da un’opera di razionalizzazione promossa dal regime fascista nei
confronti della frammentata eredità sia dell’età giolittiana sia della 1ª fase della riforma Gentile.
Le scuole complementari vengono superate nel ‘29. Sono riuni cate con corsi integrativi di
avviamento professionale e con altre scuole di avviamento al lavoro, trasformandole in Scuole
secondarie di avviamento al lavoro, le quali a loro volta vennero superate con la riforma della
scuola media unica del ‘62. Il riordino de nitivo si ha con la L. 889/1931, quando l’istituto tecnico
inferiore e superiore trova collocazione attorno alla sezione agraria, industriale, commerciale,
per geometri e nautica. In questo contesto si realizza il de nitivo distacco del governo
dell’economia di una parte consistente delle scuole professionali inferiori e superiori, con quelle
tecniche. Da una parte il vantaggio è una maggiore de nizione e standardizzazione dell’o erta
formativa; dall’altra lo svantaggio è il graduale è de nitivo distacco dell’i. t.-p. dal mondo del
lavoro concreto.
Nel ‘29 vengono previsti Consorzi provinciali per l’i.t., nel tentativo di coordinare pluralismo
istituzioni e soggetti operanti su singoli territori. Tali consorzi sono soppressi a ne anni ’70.
L’ultimo intervento del fascismo è la CARTA DELLA SCUOLA (‘39) sotto il min. G.Bottai. Erano
previsti corsi per lavoratori, da organizzarsi da parte delle organizzazioni di rappresentanza degli
interessi datoriali e sindacali. Conseguenza di queste indicazioni è la nascita di istituti nazionali di
formazione professionale extra-scolastica: l’Ente nazionale fascista di addestramento
commerciale e l’Istituto nazionale fascista per l’addestramento e il perfezionamento dei
lavoratori dell’industria. La Carta della scuola non ebbe ricadute normative rilevanti per via della
guerra e poi della caduta del regime. Unico intervento operativo fu la riuni cazione dei percorsi di
scuola media inferiore accomunati dal latino. Nella Carta era scritto: “il lavoro [in tutte le sue
ff
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
ff
ff
ffi
forme] è tutelato dallo Stato come dovere sociale, si associa allo studio e all’addestramento
sportivo nella formazione del carattere e dell’intelligenza.

Struttura tripartita dell’istruzione professionalizzante oggi


L’attuale tripartizione tra istruzione tecnica, istruzione professionale e formazione professionale è
l’esito di un lungo processo di formalizzazione sul piano normativo, regolamentate ed
organizzativo.
Se l’istruzione generale classica, scienti ca ed in parte anche tecnica è chiaramente de nita n
dalla legge Casati, che costruisce la scuola dell’Italia unita, la professionalizzazione dei percorsi
formativi è meno evidente, o meglio è evidente solo nelle funzioni tecniche operative più basse e
nelle mansioni esecutive e rinviata a contesti extra-scolastici.
In Italia, n dall’uni cazione nazionale, è stato abbastanza chiaro cosa si intenda per i.t., mentre
per lungo tempo assai meno de nita è la distinzione tra essa e l’istruzione e la formazione
professionali.
La formazione professionale riguarda principalmente i corsi di addestramento o perfezionamento
in cui la dimensione teorica risulta meno limitata e, talvolta, completamente assente.
L’i.t., inferiore e superiore, pur segnata anch’essa da travagliate vicende normative e
regolamentari, mantiene sempre la sua originaria caratterizzazione scolastica ancorata
all’educazione nazionale.
La tripartizione della formazione “speciale” collegata al lavoro è stata il lo conduttore nell’analisi
storica della sua evoluzione.
La riforma della scuola Berlinguer ipotizzava la “licealizzazione” dell’i.t.. Questo indirizzo sarà poi
portato a compimento dalla L. 53/2003 (riforma Moratti) che strutturava due sistemi dell’istruzione
secondaria superiore, il ramo dell’istruzione generalista di tipo liceale, anche per i saperi tecnici, e
il ramo unitario dell’istruzione professionale statale e della formazione professionale regionale. La
legge Moratti prevedeva inoltre l’alternanza scuola-lavoro, confermata poi dalla “Buona Scuola”
(2015). La licealizzazione dell’istruzione tecnica viene però congelata dalla legge Bersani sulle
liberalizzazioni. La riforma Gelmini (2010) regolamenta in ne l’i. t. e p. di Stato, razionalizzando ne
è snellendone la struttura, ma mantenendo di fatto la storica tripartizione tra scuola e extra-
scuola.

L’università
Che cos’è l’università?
L’istituzione universitaria a onda le sue radici nelle corporazioni di studenti e di docenti emerse
in diverse città medievali per l’autogoverno delle comunità dedicate agli alti studi loso ci,
teorici, medici e giuridici e per la cura delle relazioni del personale studioso con il resto della
società e con il potere pubblico.

Elementi caratteristici
• unione dell’insegnamento con la ricerca scienti ca e la ri essione intellettuale originale;
• il riconoscimento da parte della società e del potere costituito come luogo adeguato allo
studio e al conseguimento di una formazione certi cabile, e quindi come istituto privilegiato
per l’avvio alle professioni di interesse pubblico per la loro complessità intellettuale;
• rivendicazione da parte atenei dell’autonomia culturale e di gestione;
• natura al contempo discontinua ed intrecciata delle istituzioni, sorte individualmente ma legate
da rapporti di scambio di conoscenze, di mobilità del personale docente e studente e di
continuo confronto emulativo è competitivo.

Se il rapporto tra alti studi e Chiesa cattolica era radicato n dal Medioevo, l’emergere dello Stato
moderno ha portato a un intervento sempre più evidente del potere politico nella fondazione degli
atenei, nel loro mantenimento economico, nel loro controllo della qualità della formazione
professionale e nella richiesta di percorsi d’istruzione adeguati al personale.
L’in uenza statale generò però problemi per l’autonomia degli atenei. La comunità degli
accademici rispose a tali cambiamenti ra orzando la comune identità professionale e
proteggendo le proprie attività dalle in uenze esterne. Una simile reazione ebbe dei contraccolpi e
negativi: curricoli e programmi nirono per cristallizzarsi attorno alla mappa del sapere emersa
nelle istituzioni universitarie del tardo Medioevo.
fl
fi
fi
ff
fi
fi
fl
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
fi
fi
fi
A cavallo dell’800 iniziò un rinnovamento delle istituzioni universitarie nei maggiori Paesi. Gli studi
accademici divennero un importante strumento di selezione e di legittimazione delle classi
dirigenti degli stati-nazione. Grandi potenze e Paesi emergenti trovarono vantaggioso impegnarsi
nella costituzione di sistemi universitari nazionali coordinati ed e cienti.

L’università per l’Italia unita: la legge Casati


Nell’800 la penisola aveva un panorama universitario denso in proporzione degli abitanti rispetto
al resto d’Europa e con sedi universitarie antiche o radicate nel tessuto socio-culturale per il loro
ruolo d’università di Stato.
Lo strumento legislativo che doveva raccogliere le diverse sedi universitarie italiane in un unico
sistema nazionale e rimetterle al passo con i più avanzati modelli internazionali era la LEGGE
CASATI (‘59). Casati e i suoi collaboratori dovevano rispondere a diverse sollecitazioni interne ed
internazionali.
L’impianto generale della legge si caratterizzava per una decisa reazione alle in uenze
ecclesiastiche. Aveva un carattere centralizzato e dirigista incentrato sul ruolo del Ministero e del
Consiglio superiore della Pubblica Istruzione.
Le sedi universitarie esistevano solo con il riconoscimento governativo: il governo decideva
quali tra le facoltà universitarie riconosciute dovevano essere presenti in ogni sede, e stabiliva per
ogni facoltà l’elenco delle materie fondamentali e in no di cattedre coperte dai professori ordinari.
La legislazione ssava il metodo standard di individuazione dei professori ordinari nel ‘concorso’.
A ciò di aggiungeva per il min. la possibilità di nominare alle cattedre senza concorso studiosi di
cui si riconosceva la “singolare perizia” nella disciplina.
Le sedi universitarie mantenevano, pur sotto controllo ministeriale, i propri organismi di gestione,
e in esse erano radicate facoltà ed insegnamenti. I docenti godevano, inoltre, di garanzie a tutela
della libertà accademica. Era mutata la gura dei “liberi docenti”, ovvero studiosi ed esperti
riconosciuti idonei da una commissione di professori a tenere nella propria facoltà corsi di det.
ambiti specialistici delle materie in programma.

Tra aperture e riforme mancate: l’età liberale


Dopo la proclamazione del Regno d’Italia, la legge Casati venne estesa a tutto il territorio dello
Stato, ma da subito fu oggetto di critiche e tentativi di profonda modi ca.
Il 1º progetto di riordino generale del sistema era opera di C.Matteucci e prevedeva un ulteriore
ra orzamento del centralismo amministrativo in vista della realizzazione di un piano di
funzionamento organico del sistema nazionale. M. diede corpo alle sue idee nel 1862. Dopo
aver provveduto all’omologazione amministrativa ed economica degli atenei, ssando un anno
accademico a cadenza uniforme, regolando le iscrizioni e imponendo un costo delle tasse
omogeneo il min. procedette con un piano radicale di uniformazione dei programmi di studio e
di veri ca del pro tto. L’idea di base era quella di concentrare le risorse disponibili su un numero
limitato di atenei, in grado di sostenere impianti scienti ci all’avanguardia e di o rire le condizioni
più adeguate agli alti studi e alla formazione e di lasciar sopravvivere le sedi provinciali solo
laddove e ettivamente necessarie.
Il regolamento Matteucci incontrò immediatamente opposizioni negli atenei di provincia, al punto
che nel ‘63 M.Amari accantonò la di erenziazione funzionale tra atenei e ogni progetto di chiusura
di sedi. Al partire dal suo Ministero videro garantita la propria esistenza nuove istituzioni
accademiche.
Negli anni successivi videro luce altri progetti di intervento strutturale sul sistema universitario. A
partire dal 1881, i governi della Sinistra raccolsero alcune istanze improntate a maggiore
autonomia culturale e amministrativa per sedi locali e facoltà. Questo era lo spirito con cui il min.
G.Baccelli elaborò una serie di proposte volte a dare libertà di manovra agli atenei nella selezione
del personale, nella proposta dei programmi di studio e nella gestione nanziaria. Lo strumento di
veri ca della qualità delle scelte didattiche e culturali degli atenei doveva essere l’esame di Stato
per l’accesso alle professioni. L’obbiettivo era di ottenere, attraverso il libero confronto, la
distinzione di importanza e funzione tra le diverse sedi, e in prospettiva una riduzione numerica
delle università con la chiusura dei centri minori.
I provvedimenti che trovarono e ettua attuazione avevano una portata limitata alla soluzione di
problemi speci ci. Una questione che emerse nella politica universitaria dell’Italia unita fu la
necessità di attrezzare gli atenei alla formazione dei docenti delle scuole secondarie per le materie
ff
fi
fi
ff
fi
fi
fi
ff
ff
fi
fi
ffi
fi
fi
ff
fl
fi
scienti che e letterarie. Solo nel 1875, le facoltà letterarie e scienti che si dogarono di uno
strumento di preparazione all’insegnamento medio (“scuole di magistero”).
Nel 1873 un’altra modi ca agli ordinamenti aveva visto l’abolizione delle facoltà teologiche nelle
università statali.
In una società in cui si era solo iniziato a limitare l’analfabetismo con l’obbligo dell’istruzione
elementare, l’università era l’approdo di quasi tutti coloro che ne avevano titolo.
Le facoltà tradizionali fornivano una preparazione caratterizzata dal classico impianto teorico delle
professioni liberali, non immediatamente applicabile a professionalità che lo sviluppo economico e
industriale di ne ‘800 rendeva più ricercate. Furono a ancate alle tradizionali università, istituti
d’istruzione superiore da esse distinti. Simili scuole rappresentavano lo sbocco privilegiato per il
perfezionamento negli studi superiore dei diplomati provenienti dalle speci che sezioni degli
istituti tecnici.
Anche sul versante del perfezionamento dei giovani laureati, erano assenti i programmi di
specializzazione post-laurea. La soluzione fu quella di nanziare e potenziare un vasto programma
di borse di studio per l’estero. Fu soprattutto attraverso la possibilità di compiere queste
esperienze se nella 2ª metà dell’800 i corsi universitari si imposero, anche in Italia, come canale
privilegiato di formazione alla scienza e di sprovincializzazione della cultura nazionale.
Il corpo docente degli atenei italiani si assicurò negli anni ‘70 e ‘80 dell’800 un ruolo di
interlocutore istituzionale, attraverso l’a ermazione della pratica elettiva per numerose cariche
previste dalla Casati come di nomina ministeriale.

La riforma Gentile e l’università nel fascismo


La coerenza complessiva del disegno gentiliano fece sì che nel suo progetto l’università mutasse
aspetto e funzionamento innanzitutto in conseguenza dei mutamenti del resto del sistema.
I licei classici e scienti co erano le uniche scuole che permettevano l’accesso alle facoltà
universitarie. A questa tendenza contribuì l’aumento delle tasse d’iscrizione imposto da Gentile.
A Gentile si dovette la riorganizzazione di borse e posti di studio nelle Opere universitarie, per il
sostegno alle quali venne anche introdotta una tassa di scopo richiesta ai laureati che
esercitavano privatamente le libere professioni.
Per quanto riguardava il governo degli atenei, Gentile propose un delicato equilibrio tra libertà
culturale e controllo politico autoritario. Da un lato il Consiglio superiore e i rettori di tutte le
università tornarono a essere di nomina governativa; dall’altro, i singoli atenei potevano dotarsi di
statuti che, debitamente approvati da decreto reale, consentivano la libera organizzazione dei
percorsi di studi e l’o erta di nuovi corsi di laurea o di perfezionamento e specializzazione post-
laurea. Inoltre si introdusse l’esame di Stato come veri ca delle competenze.
Dopo le dimissioni di Gentile (1924), l’assetto della scuola secondaria venne gradualmente mutato
per venire incontro alle richieste delle famiglie del ceto medio impiegatizio emergente. La
selezione in entrata nelle scuole medie ad accesso universali e la di coltà dell’esame nale
vennero attenuate, e dalla ne degli anni ‘20 il nº di iscritti all’università riprese a salire. Ciò portò
l’opinione pubblica a discutere dell’applicazione del numero chiuso.
La successione degli esami parziali introdotti da lezioni cattedratiche rimase lo standard didattico
pressoché universale.
Dopo le dimissioni di Gentile, le modi che introdotte dalla sua riforma furono mantenute e
applicate soprattuto laddove agevolavano il processo di fasci stazione e di controllo autoritario
degli atenei che il regime intendeva portare avanti. Dalla ne degli anni ‘20 i Gruppi universitari
fascisti divennero l’unica realtà associativa studentesca riconosciuta e l’appartenenza ad essi
divenne condizione per l’accesso a premi, borse e posti di studio. Nel ‘31, ai professori
universitari venne imposti un giuramento di fedeltà al governo fascista. Dal ‘33 assistenti e liberi
docenti dovettero essere iscritti al Partito nazionale fascista per poter ottenere incarichi annuali
d’insegnamento. Nel giugno ‘35 la nomina delle commissioni per i concorsi a cattedre tornò ad
essere prerogativa esclusiva del Ministero. A ció si a ancava un controllo più stringente sulla
condotta civile e politica dei candidati, è un rinnovato ricorso alle nomine governative per chiara
fama e singolare perizia, soprattuto per cattedre politicamente signi cative. Successivamente,
iniziò un intenso lavoro di omologazione dei percorsi di studio e dello status delle discipline.
fi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
ff
ffi
ffi
fi
fi
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
L’obiettivo di De Vecchi e Bottai era quello di indebolire il peso politico delle facoltà universitarie e
di parcelizzare il corpo professorale, trovando il consenso per una politica di centralizzazione
autoritaria nei professori degli istituti superiori.
A partire dal settembre ‘38, il min. Bottai applicò nel mondo dell’università le leggi razziali nei
confronti di docenti e studenti di origine ebraica. A questi ultimi fu proibita l’iscrizione
all’università, mentre chi era già immatricolato, se cittadino italiano, poteva continuare gli studi,
ma perdeva il diritto a borse e posti di studio, e ai docenti ebrei venne impedito di proseguire
l’insegnamento.
Nel ‘23 era stato fondato da Gentile, con la collaborazione dell’alto funzionario del Ministero degli
Esteri, l’Istituto interuniversitario italiano. L’organismo gestiva e distribuiva tra le varie università
del Paese gli scambi di docenti e studenti tra gli atenei italiani e l’estero.

La dif coltà del campionamento: il primo ventennio repubblicano


L’università che la Repubblica italiana ereditava dal passato era quella che gli ultimi ministri
fascisti avevano posto sotto rigoroso controllo del governo. Esse furono abolite dal governo
antifascista. I processi di epurazione di docenti ebbero scarsi risultati.
Sull’enorme di governo gli atenei, il legislatore repubblicano si mostrò tutto sommato
conservativo: pur a fronte di alcuni mutamenti signi cativi, come la solenne a ermazione
costituzionale della libertà d’insegnamento e la ripresa della prassi elettiva per rettori,
rappresentanti in Consiglio superiore e commissari di concorso, in generale venne mantenuto
l’accertamento burocratico per ogni modi ca richiedeva un’approvazione ministeriale e
parlamentare.
L’entrata in vigore della COSTITUZIONE REPUBBLICANA (‘48) avrebbe dovuto rimettere in discussione
l’assetto universitario: l’art. 33 sanciva, oltre alla libertà d’insegnamento, la possibilità per le
università di “darsi ordinamenti autonomi”, mentre l’art. 34 povera al centro dell’impegno
educativo dello Stato la promozione del diritto allo studio, impegnando la Repubblica a istituire
forme di sostegno economico.
Solo a cavallo del ‘60 il dibattito pubblico sull’istruzione superiore conobbe un salto di qualità. Nel
‘59 il min. della Pubblica Istruzione G.Medici commissionò a un gruppo di studio un rapporto di
previsione del fabbisogno di capitale umano nel sistema produttivo italiano no al ‘75. I
suggerimenti di policy riguardavano una maggiore apertura all’accesso gli atenei per tutte le
scuole secondarie.
La commissione d’indagine sull’istruzione creata da Luigi Gui nel ‘62 si occupò ampiamente di
università, ridisegnandone i contorni secondo le prospettive internazionali più avanzate. I capisaldi
della proposta elaborata dopo un anno erano:
• sostituzione restrizioni d’accesso con prove d’accesso per la veri ca della preparazione e
con corsi propedeutici per sviluppo competenze principali;
• maggiore liberalizzazione dei percorsi di studio e loro mutamento in base a esigenze e
interessi studenti e consigli professori;
• a ancamento alla laurea di corsi di diploma professionalizzanti più brevi e dottorato di ricerca;
• gestione delle attività di ricerca e di formazione da parte dei dipartimenti;
• introduzione della di erenziazione dei ruoli docenti;
• sostituzione del Consiglio superiore con Consiglio nazionale universitario;
• assunzione da parte del Governo del compito di rimuovere qualsiasi ostacolo materiale
all’accesso dei giovani agli atenei, garantendo adeguato nanziamento a borse di studio per i
meno abbienti e garantendo possibilità di proseguire studi a ragazzi provenienti da regioni
prive di università.
Nel ‘65 Gui presentò alla Camera dei deputati il progetto di riforma universitaria. Ma
l’approvazione alla scuola media unica e l’arenarsi di altri provvedimenti sulle scuole secondarie
resero meno urgente un intervento sulle università.

Ritardi e recuperi: dal Sessantotto alla ne del XX sec.


Per avere un intervento legislativo complessivo si dovette attendere il d.p.r. 382/1980. Il cuore del
provvedimento era la sistemazione dei ruoli docenti. All’interno delle facoltà si promuoveva la
costituzione di dipartimenti che coordinassero l’attività di ricerca dei cultori di campi disciplinari
simili e che regolassero l’attività dei ricercatori. Il nuovo programma di formazione era però ancora
modellato sulle borse di perfezionamento post-laurea messe in palio da alcuni istituti e prevedeva
una didattica scarna.
ffi
fi
ff
fi
fi
fi
fi
fi
fi
ff
La faticosa gestione dell’ampliamento dei servizi universitari italiano bloccò per un altro decennio
i progetti di messa a punto di un governo del mondo accademico. Solo nel ‘89 vide la luce il
Ministero dedicato all’Università e alla Ricerca scienti ca e tecnologica (MURST), con a
capo A.Ruberti. Dotati di personalità, gli atenei potevano darsi i propri statuti e regolamenti e
potevano istituire nuovi corsi di studi.
L’obbiettivo delle modi che legislative promosse da Ruberti era quello di rendere più dinamico e
sciolto l’aggiornamento dell’o erta di studi universitari secondo gli sviluppi richiesti dal mondo del
lavoro e della cultura e secondo le esigenze delle realtà locali.
Linee di tendenza simili furono riprese dal min. che riavviò l’azione riformatrice dopo la crisi
istituzionale che l’Italia attraversò col dissolvimento dei partiti politici tradizionali nel ‘92:
l’esponente del centrosinistra L.Berlinguer. La nuova legislazione universitaria istituiva la
distinzione generale tra i corsi di laurea triennale e quelli della successiva laurea specialistica
(doppio titolo accademico).
L’autonomia delle sedi si era ampliata dal piano didattico e culturale a temi di interesse
economico ed amministrativo.

Il nuovo millennio e le s de dell’internazionalizzazione


Dal TRATTATO DI MAASTRICHT (‘92) emerse il profondo legame tra integrazione dell’istruzione e
agevolazione della mobilità dei lavoratori sul mercato europeo. Il documento sottolineava la
necessità di garantire in tutto lo spazio comunitario un’istruzione di qualità, sia promuovendo la
cooperazione tra i Paesi membri dell’armonizzazione di percorsi di studio e carriere, nella
mobilità di studenti e docenti e nella cooperazione tra istituti per la didattica e la ricerca, sia
integrandone gli sforzi a livello comunitario col sostegno materiale ed istituzionale a tali
obiettivi. Nell’87 fu varato il PROGRAMMA ERASMUS, piano di mobilità studentesca di massa.
Le politiche europee sull’università individuarono da subito gli atenei e gli istituti di formazione
superiore come i veri creatori della politica universitaria con le loro iniziative, proposte e
collaborazioni transnazionali, piuttosto che gli stati-nazione e i loro sistemi universitari intesi
ciascuno come un tutto organico.
Tra 2001 e 2006 si ebbe lo sviluppo di nuovi ordinamenti universitari italiani durante il Ministero
Letizia Moratti. Gli atenei vennero spinti a interpretare l’autonomia didattica come possibilità di far
proliferare confusamente corsi di laurea nalizzati alla formazione di gure professionali
iperspecialistiche. Nel 2005 si scelse di prevedere l’esaurimento del ruolo di ricercatore a tempo
indeterminato entro il 2013 e di sostituirlo gradualmente con contratti triennali rinnovabili. In base
ad essa, le istituzioni accademiche si riservarono di garantire l’inamovibilità e la piena tutela della
posizione professionale di un docente, solo dopo aver veri cato per un certo nº di anni le sue
capacità didattiche e i risultati dei suoi studi.
L’introduzione dei ricercatori a tempo determinato senza un’e ettiva riforma del reclutamento
ra orzò la tendenza storica delle sedi locali a moltiplicare il personale subalterno.
A ne 2010 l’alleanza di centro-destra con la nuova min. Mariastella Gelmini riuscì a varare una
nuova legislazione:
• nel governo delle sedi il Consiglio di amministrazione acquisiva in uenza rispetto all’organo
rappresentativo della popolazione universitaria (Senato accademico);
• le facoltà erano abolite, e il ruolo di fondamentale articolazione amministrativa e di gestione
della didattica e della ricerca passava ai dipartimenti;
• l’accreditamento del corso docente dei corsi di laurea e di dottorato e la periodica valutazione
della qualità della ricerca del personale e la periodica valutazione della qualità della ricerca sono
demandati all’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca.
La crisi economica mondiale esplosa nel 2008 ha spinto a ridurre drasticamente la spesa
pubblica. L’applicazione dei mutamenti legislativi per l’università ha assecondato la riduzione
dell’impegno nanziario dello Stato. Ad assicurare nel lungo periodo il controllo della spesa fu
anche il ruolo della valutazione della ricerca.
A seguito di queste politiche, nell’ultimo decennio l’università italiana ha visto restringersi l’o erta
formativa e la popolazione studentesca, e aumentare gli squilibri tra regioni ricche e povere. A
parziale rimedio di simili di coltà, idealmente, il legislatore è sembrato a più riprese proporre il
ricorso alle università telematiche, riconosciute nel 2003 dalla min. Moratti.
ff
fi
fi
fi
fi
ffi
ff
fi
fi
fi
ff
fl
fi
ff
LE DONNE A SCUOLA
Fin dai primi anni ’60, la storiogra a ha indagato il rapporto donne-istruzione, grazie agli studi di
Tina Tomasi e Dina Bertoni Jovine, che hanno fatto emergere come nel corso della storia le
disuguaglianze dal punto di vista formativo si siano tradotte in termini di inferiorità culturale per le
donne.
A partire dagli anni ’80, diverse studiose hanno sviluppato una ri essione pedagogica incentrata
sulla categoria di genere. Accogliendo la s da dei women’s studies è stata rivendicata
l’importanza della cultura di genere. I problemi relativi al rapporto tra i sessi e alla conseguente
formazione dell’identità di genere, si sono rilevati negli ultimi 30 anni, questioni centrali a livello
storiogra co.
La storia u ciale è stata rivisitata, cercando di individuare le ragioni della scarsa presenza delle
donne in determinati percorsi scolastici e professionali.
Molti degli studi hanno sondato i meccanismi di formazione di bambini, donne, insegnanti, anche
negli aspetti più informali, grazie soprattutto alle fonti autobiogra che. Si è trattato di un ambito di
ricerca che ha trovato in varie occasioni terreni di convergenza e di lavoro interdisciplinare con le
indagini compiute da diverse storiche, le quali hanno dato vita nell’89 alla Società Italiana delle
Storiche.

L’Italia preunitaria
Il quadro della situazione riguardante l’istruzione femminile negli Stati pre-unitari è caratterizzato
da un clima di generale arretratezza, soprattutto a causa dei retaggi secolari e perduranti
pregiudizi. Il destino della donna le attribuisce un ruolo naturale da svolgere esclusivamente negli
spazi privati, con l’addestramento precoce e accurato della mano per imparare gesti destinati a
venir ripetuti all’in nito nel chiuso delle abitazioni. Si tratta di regole e abilità apprese attraverso
un’educazine di tipo informale tra le mura domestiche o in un convento, tramandate da
generazioni al femminile, in vista del matrimonio o della monacazione.
Il vento egualitaristico della Rivoluzione francese non portò grandi cambiamenti. Disciplinamento
interiore ed esteriore della donna caratterizzavano gli istituti laici di origine napoleonica, poi
trasformati negli educandati governativi dell’Italia postunitaria, dove una ragazza di famiglia agiata
poteva apprendere comportamenti consoni al su rango, oltre all’acquisizione di una cultura
ornamentale da esibire nei sbalordì e in qualche occasione mondana.
Il decreto 21/03/1810, applicato al Regno italico, stabiliva che l’insegnamento dell’alfabeto
doveva essere impartito anche nei conservatori e negli orfanotro , ma con esiti che ebbero
di coltà a trovare riscontro.
Con la Restaurazione, le condizioni sconfortanti del resto d’Italia, in merito soprattuto
all’istruzione femminile, trovarono una situazione meno drammatica nei territori che vennero
nuovamente sottoposti al dominio asburgico. Il regolamento del 1818 prevedeva l’obbligo
scolastico anche femminile.
Nella Lombardia austriaca, l’esigenza di alfabetizzazione rese necesaria dal 1840 l’organizzazione
dei primi corsi nalizzati alla preparazione delle maestre, nettamente distinti da quelli maschili,
anche a livello contenutistico.
Questi due provvedimenti contribuirono alla di usione del modello austriaco anche nel Regno di
Sardegna, con la L. BONCOMPAGNI (4/10/1848) e la L. LANZA (22/06/1857). Quest’ultima istituiva
scuole magistrali, a durata triennale, distinte in maschili e femminili.
A ridosso della promulgazione della L. CASATI (13/10/1859), il decreto emanato nel 1858 da
L.C.Farini per l’Emilia prevedeva “scuole secondarie anche per le fanciulle”m a di erenza della
legge dell’istruzione del futuro Stato italiano, che non avrebbe fatto alcun riferimento all’istruzione
femminile di tipo secondario.

Il periodo post-unitario
La scuola elementare
Con l’eguaglianza formale a livello scolastico, sancita dalla L. CASATI del 1859 si diede avvio ad
una signi cativa fase di passaggio da un’educazione fondata su pratiche informali ad un lento
processo di alfabetizzazione, che si realizzò in un contesto formalizzato come la scuola,
fondato quasi tutto sulla pagina scritta. Fu tuttavia un percorso lungo e pieno di ostacoli, a causa
del persistente divario tra nord e sud, tra città e campagna; in quelle realtà dove si facevano
ffi
fi
fi
ffi
fi
fi
fi
fi
ff
fl
fi
fi
ff
sentire più forti i perduranti pregiudizi e il pesante retroterra sociale, economico e culturale, si
trattò di un obbligo “sulla carta” per molte bambine.
In merito ai programmi di insegnamento, nel secondo biennio della scuola elementare, si
prevedevano a livello contenutistico alcune sostanziali di erenze tra maschi e femmine. Ma per il
maggior numero delle donne, la cultura intellettuale deve aver quasi unico ne la vita domestica e
l’acquisto delle cognizioni che si richiedono al buon governo della famiglia, della quale esse
devono formare l’aiuto e l’ornamento. Gli stessi manuali scolastici rimandavano a una precisa
suddivisione dei ruoli di genere.

Le maestre
Le scuole postelementari che videro a ermarsi una sempre maggiore e progressiva a uenza
femminile furono le scuole normali, destinate alla formazione professionale degli insegnanti
elementari. Anche la Scuola normale era distinta per generi. I programmi di studio, pressoché
analoghi, per i futuri maestri e le future maestre si di erenziavano in quanto per i primi era previsto
un corso elementare di agricoltura e le nozioni fondamentali sui diritti e doveri del cittadino,
sostituiti per le seconde dai lavori donneschi.
La presenza dei convitti, annessi alle scuole normali femminili, contribuiva a plasmare le allieve,
esercitando un rigido controllo e una severa sorveglianza. L’obbiettivo era formare una maestra
morigerata, in possesso di poche cognizioni chiare e semplici, in grado di trasmettere insieme
all’alfabeto alcune precise regole comportamentali.
La Scuola normale si a ermò come il percorso scolastico preferenziale per le glie della piccola
borghesia e delle famiglie operaie cittadine, un percorso obbligato per quelle giovani motivate ad
ottenere un titolo immediatamente spendibile.
Le maestre percepivamo uno stipendio inferiore in terzo rispetto ai colleghi maschi, è molto
spesso erano costrette a ricoprire le sedi più disagiate, dove, per la loro condizione di donne,
venivano spesso osteggiate dalla popolazione locale e non era infrequente che fossero vittime di
angherie ed ostilità. Le maestre di campagna percepivano uno stipendio nettamente inferiore
rispetto alle loro colleghe di città: la L. Casati aveva stabilito i minimi salariali degli stipendi annuali
che variavano sulla base delle classi cazioni della scuola, del grado, delle classi maschili e
femminili.
La condizione più frequente dell’insegnante elementare era quella del nubilato: indispensabile
prerogativa per l’assunzione da parte dei Comuni, si richiedeva l’attestato di moralità; mentre si
prevedeva il licenziamento nel caso che la reputazione morale risultasse in qualche modo
compromessa.
Il numero di maestre si rivelò in constante crescita nell’ultimo trentennio dell’800.
Lo scarso prestigio di un lavoro meno remunerato rispetto a qualsiasi altra categoria del pubblico
impiego aveva favorito la fuga degli uomini verso altri tipi di professione. Molte amministrazioni,
soprattutto per motivi di bilancio, si videro costrette ad assumere preferibilmente le maestre
anche per l’insegnamento nelle classi superiori maschili.
Il Regolamento del 1895 comunque precisò come le maestre fossero da preferisti nel caso di
classi miste e potessero ottenere la nomina in scuole maschili inferiori e con deroghe da
richiedersi volta a volta anche in quelle maschili superiori.
L’attività scolastica delle maestre si rilevò cruciale, da un capo all’altro della penisola, per la
formazione degli italiani e delle italiane nell’Italia postunitaria.
Molte maestre promossero anche un vero e proprio rinnovamento educativo nell’ambito
dell’educazione prescolastica dell’infanzia.

Le professoresse
Sull’accesso alle donne all’università e all’insegnamento nella scuola secondaria, si era aperto un
dibattito nell’ultimo trentennio dell’800, che aveva trovato esito nel progetto di canalizzare la
richiesta di una cultura superiore da parte delle giovani negli Istituti Superiori Femminili del
Magistero. D’altra parte, il progressivo aumento del nº delle scuole normali femminili, a causa
della continua richiesta di maestre elementari, rendeva più opportuno a darvi l’insegnamento a
docenti donne per questioni di ordine morale.
Fu il min. F. De Sanctis a farsi interprete di tale esigenza: nel dicembre 1878 rmò il decreto per la
creazione di 2 Regi Istituti superiori femminili di Magistero (ISFM), a Roma e a Firenze, riservati
alle licenziate delle Scuole normali. Essi avevano il duplice compito di preparare future insegnanti
ff
fi
ff
ff
ff
ffi
fi
fi
fi
ffl
di Lettere, Pedagogia e Lingue straniere delle Scuole complementari e normali femminili, al
tempo stesso di “dare a quelle signorine che vi aspirassero una cultura più copiosa e più
elevata di quella che possono ottenere dalle scuole elementari e dalle Scuole normali”.
Il decreto non ebbe vita facile, divenendo oggetto di un vivace confronto sulla stampa con forti
ripercussioni in Parlamento in merito all’opportunità di creare ex novo un istituto superiore
parallelo a un corso universitario, volto alla formazione esclusiva di docenti donne.
Il compito di convertire il decreto venne assunto da G.Baccelli, che ribadiva sostanzialmente la
nalità ambivalente dei due istituti.
In entrambi gli ISFM di Roma e Firenze, l’insegnamento consisteva in un approfondimento delle
diverse aree disciplinari, previste nel precedente percorso magistrale, ma con alcune importanti
novità, come l’inserimento delle lingue e letterature moderne. In linea con la cultura positivista del
tempo, anche le materie scienti che risultavano ben rappresentate e in perfetto equilibrio con
quelle di area umanistica.
Gentile, col decreto del marzo ‘23, li dotò di un’impostazione esclusivamente umanistica,
eliminando tutte le materie di area scienti ca, trasformandoli in istituti universitari, aperti ai maestri
diplomati.
I 2 ISMF registrarono un buon tasso d’iscrizioni.
Le di coltà d’inserimento delle docenti-donne nella scuola secondaria favorì la maggiore
frequenza femminile degli Istituti di Magistero, rispetto alle facoltà universitarie. Diverse diplómate
accompagnarono l’insegnamento presso le Scuole normali con la riscrittura di libri ad uso
scolastico, di romanzi e racconti per l’infanzia, di saggi e articoli.

L’accesso alla scuola secondaria


In merito all’istruzione secondaria, la L. Casati ometteva qualsiasi riferimento al femminile: non
esplicitava alcuna restrizione. Non si pensò perciò alla creazione di Ginnasi e Licei
speci catamente femminili.
Tuttavia, nel corso degli anni ‘70 dell’800, si registrarono i primi casi di giovani che si iscrissero ai
ginnasi e alle scuole tecniche. Ma, in conseguenza della decisione di alcuni presidi di non
ammettere donne, il problema giunse in Parlamento.
Nel 1882 si giunse alla CIRCOLARE MINISTERIALE DEL MIN. COPPINO, che stabilì che le donne
potevano iscriversi a qualsiasi ordine e grado scolastico secondario.
Sul piano culturale, punto di riferimento del dibattito sulla questione dell’accesso femminile
all’istruzione secondaria e superiore fu il saggio di John Stuart Mill The Subjection Women
(1869). Il saggio di Mill può essere ritenuto la Magna Charta del movimento emancipazionista.

L’ingresso nelle università


Otto anni prima dell’apertura u ciale della scuola secondaria alle donne, il REGOLAMENTO BONGHI
(art. 11, 1875) aveva stabilito che esse potevano iscriversi a qualsiasi facoltà universitaria.
In genere, le prime pioniere che approdarono all’università appartenevano alla borghesia
commerciale ed intellettuale del tempo.
Nonostante il mutato quadro culturale tra ‘800 e ‘900 veda una ristretta schiera di donne
conseguire una laurea, permane il carattere segregante delle carriere femminili.
Il passaggio da ‘800 e ‘900 è stato quindi giustamente de nito un periodo di cerniera, in quanto si
determina storicamente la con ittualità tra una visione tendente per secoli a circoscrivere nel
privato ruolo femminile e l’a ermarsi della donna come soggetto sociale, grazie soprattutto alla
possibilità di accedere alla scuola pubblica.

Dall’età giolittiana alla Grande Guerra


Battaglie magistrali
Con l’approvazione dello stato giuridico dei docenti elementari (legge Nasi, 1903) si intendeva
porre ne all’arbitrio delle nomine locali, costringendo le amministrazioni comunali a
corrispondere lo stesso stipendio a coloro che insegnavano nelle classi maschili, al di là della
di erenza di genere.
Il Regolamento del 1904 permise poi alle maestre di insegnare nelle classi maschili anche di grado
superiore.
fi
ff
ffi
fi
fi
ff
fl
ffi
fi
fi
fi
In anni cruciali, connotati da spinte al cambiamento, la gura dell’insegnante-donna acquistava
un nuovo spessore. Agli albori del secolo emergeva sempre di più la consapevolezza della nuova
funzione che ormai contraddistingueva quella folta schiera di “madri sociali della popolazione
crescente”. Costrette a vivere un di cile ruolo di mediazione tra ceti medi e proletariato, tra
poteri centrali e periferici, rivendicando maggiori spazi, rispetto ai colleghi, nel lavoro e nelle
associazioni, erano sempre più convinte della profonda ingiustizia che le escludeva dai diritti di
cittadinanza, e quindi dal voto politico e amministrativo.
L’avvio del secolo scorso inoltre vide la sperimentazione di nuove metodologie in campo didattico
da parte di un’ampia schiera femminile.

La difficile ascesa all’insegnamento nella scuola secondaria


La professione che in genere veniva intrapresa dalle donne che riuscivano a laurearsi era quella
dell’insegnamento nella scuola secondaria, esse tuttavia potevano solo aspirare a cattedre
presenti nelle classi femminili.
Nel luglio 1907, le emancipazioniste dell’Unione Femminile e dell’Associazione per la donna
insorsero contro le disposizioni ministeriali che avevano escluso le aspiranti dai concorsi a
cattedre per le classi maschili e miste, rivendicando sia la creazione di una graduatoria unica che
tenesse conto esclusivamente del merito, sia la coeducazione dei sessi in ogni ordine e grado
scolastico. Le loro proteste caddero nel vuoto.
La Grande Guerra, con il richiamo degli uomini al fronte, rappresentò quella situazione di
emergenza che consentì alle donne di poter insegnare in ogni ordine e grado scolastico, con la
conseguente abrogazione della norma che le escludeva dalla classi miste e maschili. Questo
avvenne in concomitanza con l’abolizione dell’autorizzazione maritale, nel ‘19, che riconosceva
nalmente la capacità giuridica della donna.

Il fascismo
Giovanni Gentile con la sua riforma del ‘23 si fece interprete delle istanze relative ad una scuola
ad hoc per le donne, con la realizzazione di un liceo femminile. Si trattava di un liceo che non
o riva alcuno sbocco universitario e neppure il conseguimento di un diploma professionale. Ebbe
subito successo, tanto che si dovette giungere alla decisione di sopprimerlo nel ‘29. L’obiettivo di
Gentile era di contente l’a uenza delle donne all’insegnamento nella scuola elementare.
Per rendere più appetibile per i maschi la carriera magistrale, egli trasformò le Scuole normali in
Istituti Magistrali di durata quadriennale, dimezzando il numero delle sedi. Si trattava anche in
questo caso di una decisione atta a scoraggiare le aspiranti maestre a frequentarli.
Col R.D. del marzo ‘23, gli Istituti superiori di magistero femminile assunsero una connotazione
universitaria, di carattere esclusivamente umanistico, e furono aperti ai maestri diplomati.
Sulla base delle nuove normative, le classi femminili e le maschili del 1º ciclo, come le classi miste
presenti nelle zone rurali, vennero a date alle maestre, mentre il 2º ciclo maschile fu riservato ai
maestri, i quali mantenevano pure il diritto di insegnate nella classi maschili del 1º ciclo.
Le maestre dovevano morto spesso ricoprire posti nella realtà rurali e più disagiate. Il Regime
cercò in ogni modo di ostacolare le donne sposate a intraprendere la professione dell’insegnante.
La gura della maestra elementare, durante il Ventennio, godette di una scarsa considerazione,
pur trattandosi di una professione tollerata. Si tornò però all’ideale del passato, ovvero quello di
una donna che anche negli aspetti esteriori doveva assumere una connotazione di assolta
morigeratezza.
Le maestre furono impegnate anche a livello extrascolastico, con la fondazione dell’Opera
Nazionale Balilla (‘26), dovendo organizzare le attività delle bambine, inquadrate in Figlie della
lupa, Piccole italiane, Giovani italiane.
Il R.D. del dicembre ‘26 stabilì che le laureate venissero escluse dai concorsi a cattedre di lettere,
latino, greco, storia, loso a ed economia politica nei licei classici d scienti ci e dai concorsi a
cattedre di italiani e storia negli istituti tecnici. Esse furono pure escluse dal ruolo di preside.
Nel ‘28 si stabilì per le studentesse il pagamento delle doppie tasse per l’iscrizione alle scuole
secondarie e all’università, mentre l’anno dopo, nel ‘29, venne vietati alle giovani l’accesso alla
Scuola Normale Superiore di Pisa.
fi
ff
fi
fi
ffl
fi
ffi
ffi
fi
fi
La CARTA DELLA SCUOLA, presentata dal min. dell’educazione nazionale G.Bottai e approvata nel
febbraio ‘39, prevedeva che la donna venisse formata in un Istituto femminile triennale. Si
trattava di un documento programmatico che l’entrata in guerra dell’Italia impedì di trasformare il
legge.
Durante il con itto, si dovettero però abbandonare le misure più drastiche, prese in precedenza:
abrogazione del decreto sulla riduzione del personale femminile nel pubblico impiego ed
annullamento del provvedimento che aveva stabilito quali fossero gli impieghi adatti alle donne.
Già nel ‘32 esistevano gli istituti di Magistero professionale per la donna, poi trasformati in istituto
tecnico femminile.

Dal secondo dopoguerra ad oggi


Con la nascita della repubblica, il decreto legislativo dell’aprile ‘45 n. 239 rmato dal min. A.Ruiz,
soppresse tutti i divieti che escludevano le donne dalle cattedre e dalle presidenze. Poco prima,
un altro decreto (1º febbraio ‘45, n. 23) aveva concesso loro il diritto di voto, le quali votarono per
la prima volta per le elezioni dell’assemblea costituente e il 2/6/‘46 per il referendum istituzionale.
A partire dagli anni ‘60, e soprattutto dopo l’istituzione della scuola media uni cata (31/12/1962)
cominciò a veri carsi in Italia il fenomeno della cosiddetta “femminilizzazione” a livello di scuola
secondaria inferiore. La nascita della scuola media unica fece crescere nell’arco di pochi anni la
presenza delle insegnanti-donne. Non si giunse però a una vera e propria coeducazione dei sessi,
in quanto alcune attività restavano distinte per genere. Sempre nei programmi della scuola media
del ‘63 permaneva ancora una visione del ruolo tradizionale della donna. La cosiddetta
feminizzazione del corpo insegnante, particolarmente vistosa nella scuola elementare e nella
media inferiore, strinse sempre più marcatamente la società italiana, rispetto al resto del mondo
occidentale.
Dagli anni ‘70 ad oggi comunque l’accesso femminile nel campo delle diverse professioni è
apparso sempre più evidente. Fu un quegli anni, caratterizzati da nuovi cambiamenti culturali, a
cui diede un contributo notevole anche il movimento femminista, che fu gettata la premessa che
favorì il costante aumento del numero delle laureate.
Tuttavia, ancora oggi l’inserimento lavorativo, nonostante gli enormi progressi avvenire nel campo
dell’istruzione universitaria, resta, in termini comparativi, ancora ridotto rispetto a quello maschile,
perlomeno ai vertici delle carriere.

Istruzione ed economia
Istruzione e sviluppo economico: uno sguardo generale
A partire dalla ne degli anni ‘60 si iniziò ad avvertire la ristrettezza dei tradizionali approcci alla
storia dell’educazione. L’attenzione degli studiosi si spostò sull’analisi delle relazioni tra struttura
sociale e sistema educativo.
Negli stessi anni uscì un lavoro destinato a diventare un punto di riferimento per i futuri studi
educativi: Istruzione e sviluppo di C.M.Cipolla (’69). Nel volume sono ssati i principali fattori
socioeconomici che in uenzarono lo sviluppo dei sistemi scolastici e dei processi di
alfabetizzazione nell’Occidente. Poco tempo dopo, un suo allievo ricostruì le dinamiche tra
sviluppo economico e sistema scolastico nell’Italia del XIX sec. con il volume Istruzione e sviluppo
economico in Italia nel XIX sec. (‘71).

Fattori socioeconomici capaci di incidere sul sistema educativo e sui livelli di alfabetismo
• Disponibilità di un surplus economico in grado di permettere ad una società di mantenere
inattive quote di popolazione per gli anni necessari alla loro istruzione. Lo scenario degli attuali
Paesi avanzati, caratterizzato da un accesso universale alla scuola secondaria e da una forte
quota di soggetti applicati all’istruzione superiore, sarebbe insostenibile senza il surplus
prodotto dall’automazione industriale. Se si guarda alle tempistiche della scolarizzazione di
massa europea, è facile osservare le relazioni tra investimenti nella pubblica istruzione e
incremento del surplus. (A CAPO) La pressione esercitata dalla domanda di maestranze in
grado di interfacciarsi con macchinari complessi e la di usione coeva di un liberalismo aperto
alle classi lavoratrici promosso dalle idee di Stuart Mill a portare gli Stati ad investire
nell’istruzione elementare di massa e a introdurre il principio dell’obbligo scolastico. (A CAPO)
L’accesso di massa all’istruzione secondaria superiore fu un fenomeno proprio dell’Europa
postbellica, promosso dalla ricostruzione industriale secondo i principi della catena di
fl
fi
fi
fl
ff
fi
fi
fi
montaggio e, successivamente dell’automazione e dagli incrementi di surplus da essi
prodotti. A partire dagli anni ‘70, il crescente processo di terziarizzazione delle economie
occidentali ha prodotto una forte spinta all’ampliamento degli accessi post secondari, con
sensibili investimenti sull’istruzione superiore e universitaria.
• Costi. Essi non possono essere de niti entra una contabilità delle spese necessarie al
mantenimento dell’impianto educativo. Per questo motivo, è stato coniato il concetto di costo
opportunità: spese presenti materiali e immateriali (costo) che una società a ronta in vista di
bene ci futuri (opportunità). La sua percezione non è solo sociale, ma anche famigliare: le
scelte delle famiglie sull’educazione dei propri gli sono soggette alle pressioni del costo
opportunità. La percezione famigliare del costo opportunità è il termine ultimo nel determinare
i destini educativi di un individuo. È un fattore di rilievo nel determinare gli accessi ai diversi
gradi di istruzione, sia a livello collettivo sia nella loro strati cazione sociale.
• Fattori socioculturali e ideologici.

Come un solido sistema educativo non è una premessa necessaria ad attuare un processo di
sviluppo economico, così non è scontato che po sviluppo economico sia una condizione
necessaria alla costruzione di una solida o erta di istruzione. Per altro verso, è indubbio che,
senza l’apporto di un sistema educativo ine ciente, lo sviluppo economico risulterà e mero. Le
società che non sanno investire per tempo in istruzione sono condannate ad un inesorabile
declino.
I modelli regionali portano ulteriori complessità, nelle quali entrano rilevanti interferenze portate da
fattori demogra ci, culturali, ambientali, …:
• grado di urbanizzazione;
• distribuzione della ricchezza: più equa è la distribuzione più saranno facilitati gli accessi ai
vari gradi d’istruzione. Un fattore in grado di incidere con forza sulla domanda e sull’o erta
d’istruzione nelle società agricole è la distribuzione della proprietà fondiaria e la natura dei
patti agrari;
• fattori socioculturali: appartenenza di genere, appartenenza a minoranza linguistica.

La chiave di lettura
A rontare il tema del rapporto istruzione-sviluppo economico in Italia signi ca fare i conti con la
dicotomia Nord-Sud.
Germania e Italia sono due stati che realizzarono negli stessi anni il loro processo di uni cazione e
con strutture economiche simili. Altrettanto simili furono le modalità con cui si realizzò il processo
di industrializzazione dei due Paesi. In entrambi, il ruolo centrale fu giocato dallo Stato e dalle
banche di credito. Le similitudini sono però alterate dal ritardi italiano sulla Germania: se il decollo
industriale tedesco inizia pochi anni dopo il processo di uni cazione, il decollo industriale italiani
ritarda no all’aprirsi del ‘900 (età giolittiana). Il ritardo fu il frutto di una polarizzazione della classe
dirigente italiana: da una parte una borghesia manifatturiera dinamica ed aperta al cambiamento,
dall’altra parte una borghesia professionale e agraria tradizionalista e di erente verso le
trasformazioni.
Si possono individuare 4 cicli economici che investono l’Italia:
1. da Unità a 1899 -> predominio di politiche favorevoli alla borghesia agraria e professionale;
2. da 1899 a 1914 (età giolittiana) -> decollo industriale del Paesi all’interno del triangolo
Milano-Torino-Genova
3. avvento del fascismo (1922-45);
4. 1958-73: nuova fase di sviluppo industriale.

Istruzione ed economia in Italia dal 1861 al 1922


La LEGGE CASATI (1859) instaura un impianto educativo a 2 canali: lo Stato sostiene a suo carico
la formazione delle élite e delle professioni mentre a da ai comuni, a ermandone l’obbligo, il
mantenimento della scuola elementare. Ancor più penalizzata l’istruzione professionale, la cui
esistenza è relegata nella buona volontà di province e comuni a sostenere gran parte dei costi
dietro ad un contributo dello Stato lasciato nell’indeterminatezza e non superiore al 50% degli
stipendi degli insegnanti. L’obbligo scolastico proposto dalla Casati è solo formale, in quanto
manca l’apparato sanzionatorio.
ff
fi
fi
fi
fi
ff
ffi
fi
ffi
fi
fi
ff
ff
fi
ff
ff
ffi
fi
I primi anni unitari o rono una situazione disastrosa è riconducibile solo in parte all’arretratezza
dei sistemi educativi preunitari.
Lo sviluppo economico del Nord non è stato tale, come del resto in tutta Europa, da abbattere in
modo signi cativo le barriere sociali di accesso all’istruzione secondaria, che resta riservata a una
platea ristretta di giovani. Tuttavia, nelle regioni più sviluppate, le famiglie sono più propense ad
investire sulla formazione tecnica dei gli, vista come capace di o rire opportunità lavorative
migliori rispetto all’istruzione classica.
La seconda rivoluzione industriale richiedeva maestranze alfabete e fornite di una scolarizzazione
anche più estesa del solo leggere, scrivere e far di conto. Sviluppare l’attitudine all’uso razionale
del tempo, alla disciplina, al rispetto delle regole e della vita di gruppo, alla consapevolezza dei
propri ruoli è una funzione propria della scuola elementare: obiettivi de niti con chiarezza n dal
‘700, quando lo Stato rivendica il proprio primato nell’istruzione del popolo. La di usa
disponibilità di popolazione scolarizzata, prima ancora che alfabeta, è un volano del decollo
industriale.
In assenza di sviluppo economico, nei primi decenni unitari la scolarizzazione del Meridione segna
un recupero sulla scolarità settentrionale. Sarà lo sviluppo industriale del Nord a radicalizzare il
ritardo meridionale, gettando le basi di un antinomia ancora insoluta nell’Italia di oggi.
Nonostante le criticità, la rete scolastica italiana conosce buoni progressi quantitativi nei primi 20
anni unitari. Tuttavia, ci imbattiamo in un progresso e mero, costruito su basi fragili e frutto
dell’impatto del minimo investimento nell’istruzione popolare chiesto ai comuni dalla L.Casati. Nei
20 anni successivi, solo il Nordest è il Centro continuano a crescere, mentre il Sud resta fermo.
Spostandoci al 1916, sono evidenti i meriti della politica giolittiana nella scolarizzazione del
Meridione. L’uscita della legislazione casatiana sull’istruzione primaria su realizza in 2 momenti:
• legge speciale per le province meridionali del 1906;
• legge Daneo-Credaro (1911): legge di avocazione delle scuole elementari allo Stato.
Gli investimenti sulla scuola meridionale del primo ventennio unitario premiano più la scolarità
femminile che quella maschile. Superata la stagnazione del ventennio successivo, la scolarità di
entrambi i sessi inizia a riprendere per ssarsi, nel 1916, su di erenziali molto ridotti.

Istruzione ed economia in Italia dal 1923 al 1973


Escluso il settore ferroviario, dove il Paese è in grado di esprimere eccellenze ingegneristiche, il
ritardo tecnologico sul resto d’Europa si fece di anno in anno più evidente, no ad esprimersi in
tutta la sua drammaticità nella Seconda guerra mondiale, dove l’Italia poteva vantare sistemi
d’arma poco più o nulla più avanzati rispetto al ‘18.
Anche le politiche sociali vanno contro i modelli richiesti da una società industriale.
La politica scolastica del fascismo è espressione di una visione arretrata ed agraria della
società. Il disprezzo di Gentile verso le discipline scienti che, il suo disinteresse verso i percorsi di
formazione professionale e tecnica sono in perfetta consonanza con la visione sociale ed
economica del regime. Si dovrà attendere la caduta del regime e superare gli anni della
ricostruzione per assistere ad un nuovo decollo industriale del Paese, sostenuto da un’importante
crescita dei consumi: una fase espansiva che dalla 2ª metà degli anni ‘50 si spinge no alla crisi
petrolifera del ‘73.
Mentre in Europa si guardava all’accesso universale all’istruzione post-elementare, il fascismo
interruppe la tensione verso questo obbiettivo avviata dall’età giolittiana.
L’Italia fascista è un paese rimasto fermo agli investimenti scolastici giolittiani.
Il fascino ben poco ha fatto per abbattere le barriere sociali di accesso all’istruzione secondaria,
ed esempio di questo ne è la scarsa dinamicità dei di erenziali tra indice maschile e femminile.
Il ventennio fascista, con lo sviluppo industriale del Paese, congelò il progresso scolastico, che ne
è corollario e sostegno. Il fascismo marcò un ritardo ventennale sulle dinamiche di scolarizzazione
dei Paesi avanzati, che si sarebbe ripercosso sull’Italia del dopoguerra. L’Italia repubblicana
ereditò dal fascismo un Paese con quote ampiamente maggioritarie della popolazione a rischio di
analfabetismo funzionale, anche se i ritardi nella scolarizzazione non impedirono il boom
economico tra anni ‘50 e ‘60. Un fattore decisivo del 2º decollo industriale italiano fu l’ampia
disponibilità di maestranze quali cate a basso costo.
Tra gli anni ‘60 e ‘70 le politiche scolastiche italiane rimuovono le barriere sociali di acceso
all’istruzione secondaria superiore, anche se il prolungato di erimento dei salari dei giovani
collocati allo studio produce un costo opportunità oneroso per le famiglie, soprattutto se a bassa
fi
ff
fi
fi
fi
ffi
ff
fi
ff
ff
ff
fi
fi
ff
fi
fi
scolarizzazione dei genitori. Molte famiglie, prima escluse, appro ttano delle aperture sociali agli
accessi alle scuole superiori e sono disposte a sostenere sacri ci per o rire un futuro migliore ai
loro gli. Tuttavia, il costo opportunità indirizza le loro scelte, che avvengono sotto 2 condizioni:
scelta di una scuola tecnica per in accesso rapido al mondo del lavoro ed impossibilità di
fallimento.

Conclusioni e brevi considerazioni sul presente


Le dinamiche della scolarizzazione e dell’alfabetizzazione degli italiani ri ettono in forma
speculare le fasi economiche attraversate dal Paese.
L’unità italiana si realizza mentre l’Europa sta attraversando una fase di recessione del ciclo
inaugurato dalla 1ª riv. industriale, mentre il fascismo si a erma nella fase di recessione del ciclo
avviato dalla 2ª riv. industriale di ne ‘800. Scolarità e competenza alfabetica trovano le loro spinte
più forti nelle fasi di espansione (età giolittiana, “miracolo economico”), mentre incontrano
di coltà nelle fasi recessive. Fasi di crisi e recessione incidono sulla disponibilità di risorse da
investite nell’istruzione.
La crisi petrolifera del ‘73 segna la ne della fase espansiva del 2º dopoguerra. Sebbene l’Italia sia
entrata a far parte delle principali potenze industriali, i suoi indici di scolarizzazione restano
indietro rispetto alle altre nazioni sviluppate. Su tale ritardo incidono gli aspetti dilazioni della
“descolarizzazione” fascista. Non meno evidenti sono le responsabilità della politica scolastica
repubblicana: la permanenza dell’impianto gentiliano ha proiettato nell’Italia contemporanea un
sistema scolastico a trazione umanistica, estraneo alle esigenze dello sviluppo industriale e agli
interessi culturali e professionali delle classi lavoratrici. Le stesse aperture sociali promosse dalle
politiche scolastiche che vanno dalla scuola media unica ai decreti delegati del ‘74, passano
attraverso la nidi cazione si curriculum umanistici in percorsi tecnici e professionali che danno
accesso a tutte le facoltà universitarie: il risultato fu un sistema secondario alternativo ai licei ma
altrettanto selettivo e in grado di o rire alti standard formativi.
La crisi petrolifera del ‘73 avvia una fase recessiva di lungo periodo dell’economia occidentale che
prosegue no ad oggi. La scuola si inserisce in questo discorso nella misura in cui è stata
chiamata in causa come responsabile della disoccupazione giovanile e della debolezza
contrattuale dei giovani sul mercato del lavoro. I danni causati dall’ impianto cognitivista sui
“riformati” sistemi educativi dell’Occidente rischiano di produrre modelli polarizzati, con un lone
elitario (liceale) da un lato e un lone di scarico (tecnico professionale) dall’altro. In Italia la crisi ha
compito soprattutto gli istituti tecnici, che hanno perso la loro funzione di ascensore sociale.
L’in uenza che le organizzazioni economiche sovranazionali hanno sulle politiche scolastiche
dell’Occidente è un chiaro indice del crescente funzionalismo che si sta instaurando tra scuola d
mercato.

Scuola italiana e regione cattolica


Le due questioni più dibattute, ovvero l’insegnamento della religione cattolica (in forma
disciplinare quanto di usa) e la libertà d’insegnamento (intesa come libertà di istituire e gestire
scuole), sono state rilevanti nel più complessivo sistema di relazioni Stato-Chiesa.

L’insegnamento religioso
La LEGGE CASATI (1859) ha posto le basi del sistema scolastico nazionale. In cima all’elenco
delle materie obbligatorie per la scuola dell’ordine elementare, essa poneva l’insegnamento
religiosos, in piena ottemperanza al carattere confessionale dello Statuto albertino. Tuttavia,
pur a fronte dell’assegnazione di una posizione privilegiata alla disciplina, i ministri della Pubblica
Istruzione espressi dai governi liberali chiamavano ad insegnare “religione” maestre/i, cioè
insegnanti non religiosi ma laici.
Pochi mesi dopo il varo della legge (1860), il Regolamento delle Scuole elementari prevedeva che
fossero “dispensati dallo studio delle materie religiose i fanciulli che non professano il culto
cattolico”.
La politica scolastica dei governi della Destra storica, per quanto rispettosa della componente
cattolica, appariva espressione di una cultura liberale là dove, accanto alla difesa della tradizione
apostolica romana, ne laicizzava l’insegnamento a dandolo ad insegnanti che non avevano
modo di formarsi adeguatamente, poiché nelle Scuole normali la disciplina religiosa non era
impartita.
La legge Casati rompeva una consuetudine presente in molti stati preunitari, cioè quella di
a dare la direzione delle scuole a parroci. Inoltre, essa allentava il legame tra educazione
ffi
ffi
fl
fi
fi
fi
ff
fi
fi
ff
fi
ffi
ff
fi
fi
ff
fl
fi
religiosa e formazione intellettuale, che era stato a fondamento della politica scolastica in
Europa nell’età dell’assolutismo.
La legge Casati ed i conseguenti programmi delle elementari erano emanati da una classe politica
che, mentre cercava di limitare l’in usso politico della Chiesa, era al tempo stesso consapevole
che un sistema scolastico ostile alla religione ben di cilmente avrebbe incontrato il consenso
delle famiglie.
All’inizio del decennio successivo, una circolare del 1870 (C.Correnti) trasformava la religione da
insegnamento “con eventuale richiesta di esonero” ad insegnamento “su richiesta”.

Le Facoltà teologiche statali, i seminari e le congregazioni


La presenza dell’insegnamento religioso nel sistema scolastico italiano si interseca con le vicende
relative alle leggi emanate dalla classe dirigente liberale post-unitaria con l’esplicita nalità di
sopprimere o nazionalizzare le istituzioni ecclesiali preposte alla formazione del clero.
Tra 1860-65 si avviò un tentativo di controllo statale dei seminari, chiedendo ai vescovi di
adeguare metodi e programmi alle direttive del nuovo Stato italiano. Alle resistenze ecclesiali che
seguirono, le autorità risposero inizialmente con la chiusura di seminari presenti sul suolo
nazionale. Dopo un fallimentare tentativo di “secolarizzare” i curricoli ed i corsi di studio, si
registrò un di uso ri uto di dare atto Ali decreto di soppressione, mantenendo attive molte scuole
collegate ai seminari. Tra 1872-1907 si avviò un processo che mitigò la legislazione precedente,
garantendo di fatto la convivenza tra istituzioni statali ed ecclesiali proposte alla formazione
della gioventù.
La vicenda dei seminari mostra come, dopo un iniziale scontro, il compromesso tra nuovo Stato è
persistente società cattolica fosse legato a diversi fattori.
Nel 1866 il parlamento sabaudo emanò una legge che prevedeva la soppressione degli ordini e
delle congregazioni religiose, alla quale l’anno successivo fece seguito un provvedimento per la
liquidazione dell’asse ecclesiastico. Sul lungo periodo, tale intervento legislativo sfociò in un
compromesso generalizzato, dovuto alla limitata capacità dello Stato di costruire in modo di uso
ed articolato una rete di scuole ed un rinnovato corpo docenti.
Con il succedersi di vari avvenimenti, declinò la presenza di congregazioni maschili
espressamente vocate all’istruzione, come gli Scolopi ed i Barnabiti. L’e etto sistemico più
rilevante su tutto il complesso delle congregazioni insegnanti fu quello della perdita, pressoché
totale, della gestione di scuole pubbliche comunali.
Attraverso la LEGGE SCIALOJA-CORRENTI (1873) si consumò l’abolizione anche di diritto delle
facoltà teologiche all’interno delle università statali.
Nel 1877 venne portato a termine il processo di soppressione del ruolo dei direttori spirituali.

Dall’età della Sinistra storica alla caduta del fascismo


Nell’età della Sinistra storica si assiste alla ricostruzione di una rete di scuole gesuitiche.
L’intransigimento cattolico fu sensibile alle tematiche educative, ma la disomogeneità territoriale e
quella sociale della sua di usione ne limitarono di molto l’e cacia.
Nei decenni di ne secolo, lo scontro politico relativo all’insegnamento della religione fu una
questione intorno a cui i cattolici trovarono un’occasione non controversa di mobilitazione ed uno
spunto per saldare un’alleanza con larga parte del liberalismo giolittiano.
Con la LEGGE COPPINO (1877) scompariva - di fatto - l’insegnamento della religione cattolica
dai curricoli della scuola primaria. Tuttavia, nella realtà, l’insegnamento della religione cattolica
continuò ad essere impartito nelle scuole elementari, almeno no a quando rimasero alle
dipendenze delle autorità comunali.
Il confronto tra fronte laico e fronte cattolica tornava a riaccendersi in relazione alla pubblicazione
del REGOLAMENTO RAVA (1908) - che ribadiva l’impegno dei comuni a far impartire, su richiesta dei
genitori, l’insegnamento religioso - e della MOZIONE “BISOLATI” (1908) - che invitava il Governo ad
assicurare il carattere laico della scuola elementare. La mozione venne a ossata; il Regolamento
Rava venne approvato. Le due vicende segnavano la scon tta della proposta di abolizione
dell’insegnamento religioso e determinavano una disarticolazione del fronte laico.
ff
fi
fi
ff
fl
ffi
fi
ffi
fi
ff
ff
fi
ff
Con il decreto rmato da Gentile (1923), la religione cattolica veniva posta al centro
dell’insegnamento primario. La riforma Gentile prevedeva una rivalutazione della religione
cattolica nei contenuti della elementare, ma la escludeva nella scuola secondaria. Nelle scuole
secondarie la riforma Gentile, a seguito di una circolare del ‘24, prevedeva l’insegnamento
extracurricolare della religione degli istituti magistrali.
Il CONCORDATO rmato tra Scuola fascista e Chiesa cattolica (1929) sancì l’estensione alle
scuole secondarie dell’insegnamento religioso.
Nel medesimo periodo si registrava un consolidamento delle scuole cattoliche, ma soprattutto
del ruolo dell’editoria scolastica cattolica.
All’inizio degli anni ‘40, il tentativo messo in opera dal min. dell’Educazione nazionale Bottai di
inquadrare anche le scuole cattoliche nel totalitarismo educativo fascista attraverso l’Ente
Nazionale Insegnamento Medio era destinato nei fatti ad esiti molto parziali. Esso nì per far
crescere di molto le scuole pari cate.
La L. 86 del gennaio ‘42 segnò il compimento del passaggio dalla normativa gentiliana ad una
normativa particolare per le scuole cattoliche.

Dalla caduta del fascismo a oggi


Con la caduta de nitiva del fascismo e la conclusione della Seconda guerra mondiale si avviò una
nuova era anche per la scuola italiana e per l’insegnamento religioso. Dopo il referendum
istituzionale del 2/6/1946, la fase costituente consentì ai cattolici eletti nelle liste della Democrazia
cristiana di assumere un ruolo attivo rilevante, sia nella formulazione di principi fondamentali sia
nella previsione del rango costituzionale della scuola e nelle speci che formulazioni.
La questione dell’insegnamento della regione cattolica fu implicitamente risolta tramite la
cosiddetta costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi, mentre il nodo della libertà di
insegnamento non fu del tutto sciolto dall’ambigua aggiunta dell’espressione “senza oneri per lo
Stato”, generalmente nota come “emendamento Corbino”.
La dottrina costituzionalista si è articolata tra un’opzione laica e di sinistra (che ha fatto derivare
dall’emendamento Corbino un divieto assoluto di nanziamento) e una corrente cattolica e
liberale. Quest’ultima al contrario, ha ritenuto che il divieto fosse limitato all’istituzione e non al
funzionamento, rispetto al quale lo Stato, nelle sue diverse articolazioni, può eventualmente
nanziare le istituzioni che svolgano un servizio di pubblica utilità.
Per quanto riguarda la situazione delle scuole cattoliche dopo la caduta del fascismo, nel ‘45 si
assistette alla creazione della Federazione istituti dipendenti dall’autorità ecclesiastica.
Alla metà del secolo scorso, possiamo individuare una sorta di turning point nel ‘55, che fu l’anno
dei programmi per la scuola elementare dal min. Ermini: esponenti ecclesiastici di diversa
sensibilità invitarono i cattolici all’impegno anche all’interno della scuola statale. Essi
rappresentarono il momento di maggiore in uenza della pedagogia cattolica u ciale nella scuola
italiana.
In questo contesto, segnato da un rinnovato protagonismo dei cattolici nella politica e nella
società italiane, si presenta come emblematica l’istituzione dell’insegnamento dell’educazione
civica.
Aldo Moro si mostró consapevole del fatto che sia il consolidamento delle istituzioni
democratiche sia l’imponente fase di sviluppo economico richiedevano una sottolineatura
esplicita del ruolo educativo della scuola. La soluzione da lui adottata nel ‘58 per de nire la nuova
disciplina scolastica sommava la conoscenza di norme e principi a un’opzione trasversale.
Con l’approvazione della legge del marzo ‘85 n. 121 giungeva a conclusione il processo di
revisione concordataria. Per quanto riguarda l’Insegnamento della Religione Cattolica, la revisione
concordataria segnava una rilevante innovazione nel passaggio tra l’eventuale esonero e la
richiesta di avvalersi o meno.
All’inizio del nuovo millennio, la legge del marzo 2000 n. 62 (Norme per la parità scolastica e
disposizioni sul diritto allo studio e all’istruzione) attuava la previsione costituzionale dell’istituto
della parità.
Per quanto riguarda il pro lo giuridico degli insegnanti di religione, ricordiamo che risale al 2004 il
primo concorso per l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione.
Per quanto riguarda lo sviluppo degli organismi di controllo e coordinamento delle scuole
cattoliche, alla ne del secolo scorso iniziava a operare il Centro studi per la scuola cattolica.
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fi
fl
fi
fi
ffi
fi
fi

Potrebbero piacerti anche