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CAPITOLO V - L’ETA’ MODERNA

1. Contesto storico – patologico


Tra il 1350 e il 1550 l’Italia si trovava al centro dei commerci con paesi lontani, principalmente per
il suo essere immersa nel mar Mediterraneo, e questo rese possibile il diffondersi di malattie
infettive. Uomini e cose erano vettori di agenti patogeni: dalla Crimea e dall’Asia, nel Trecento
erano arrivati in Italia, per via del grano, il topo nero, il bacillo della peste e la pulce indiana; alla
fine del Quattrocento dalle Indie Occidentali, tramite la Spagna, arrivò il treponema pallidum.
Quando Colombo sbarcò il 4 marzo 1493 nel porto di Barcellona, con lui c'erano alcuni reduci
affetti da un morbo chiamato mal de hispaniola (ulcera rodente dei genitali e bubboni agli inguini)
che avevano contratto tramite rapporti sessuali con indigene: si trattava della sifilide.
Si può asserire che ci fu uno ‘’scambio’’ tra le popolazioni indigene e gli esploratori, in particolare
uno scambio tra vaiolo e sifilide. L'arrivo degli europei provocò quello che fu definito «lo shock
biologico della conquista»: milioni di indigeni furono oggetto di una strage immane provocata dallo
sconvolgimento della loro immunità naturale da parte di malattie a loro sconosciute quali vaiolo,
morbillo, tubercolosi. Il vaiolo, esploso nelle Antille nel 1518, risparmiò soltanto poche centinaia di
indigeni isolani, poi raggiunse Messico e Guatemala destabilizzando l'impero degli aztechi, poi
proseguì verso il Perù dove destabilizzò l'impero degli inca: tutto questo portò, nel susseguirsi di
recrudescenze epidemiche e succedersi di epidemie diverse, allo spopolamento del subcontinente
amerindio.
In Italia si scontravano la vecchia peste (bubbonica, polmonare, setticemica) e la nuova peste (la
sifilide). La vecchia peste si rifaceva viva ad ogni generazione, faceva precipitare la curva
demografica ed economica. Accanto a queste, altre malattie si accampavano stabilmente In Europa
e in Italia: dissenterie, tifi. Il «morbo castrense» era il tifo petecchiale, una «peste di guerra» portata
dai lanzichenecchi che andavano al sacco di Roma (1527) e il cui vettore era rickettsia Prowazecki.
In Europa invece c'era una peste «marina», che si diffondeva tra gli equipaggi imbarcati per lunghi
periodi di navigazione, e che colpiva i marinai spagnoli, portoghesi, inglesi, francesi, olandesi con
lividi alle gambe, carne crescente e sanguinante in bocca (emorragie gengivali) sangue dal naso e
grande debolezza (anemia). Questa malattia era lo scorbuto, ed era dovuta al fatto che questi
soggetti imbarcati per lunghi periodi pativano la privazione di frutta e verdura e quindi carenza di
vitamina C.
La sifilide nel Rinascimento ebbe un impatto su tutta l'Europa: il Muralto nel 1495 scrisse che il
male serviva ottimamente per discriminare i buoni dai cattivi, i morigerati dai reprobi. Questa
malattia era simbolo e modello della malattia peccaminosa e vergognosa, era vista come una
punizione divina perché la pena era in relazione diretta con il peccato, dal momento che la malattia
si trasmetteva con il commercio sessuale e l'organo colpevole era il primo a venire colpito. La
sifilide si diffuse in tutta l'Europa a causa della promiscuità sessuale, e veniva chiamata in modo
diverso nei vari stati: mal franzese, morbo hispano, mal de naples, era chiamato mal dei tedeschi in
Polonia, mal dei polacchi in Russia, mal dei cristiani nel mondo arabo. Ciascun popolo cercava di
trasferire agli altri l'origine e la colpa della malattia. Nel primo Cinquecento la malattia uccise in
Europa 20 milioni di individui.
Fu un medico veronese, Girolamo Fracastoro, a battezzare per la prima volta il mal franzese con il
nome Syphilis seu morbus gallicus. Fracastoro riassumeva e faceva proprie le conoscenze fino
allora acquisite circa i modi e i mezzi per preservarsi dalla malattia oppure guarirne, come aria pura,
ginnastica, dieta base di pesce e verdura, acqua fresca, consigliava di temperare l'inclinazione al
vino e l'ardore dei sensi, e diceva che la malattia era incurabile ma proponeva delle cure palliative:
il «vivo argento» (mercurio) e il «legno santo» (guaiaco). La scorza del guaiaco, decotta e spalmata
sulla pelle oppure ingerita per bibita, faceva sudare i corpi sotto le coltri così da sfumare i malanni,
mentre le particelle di mercurio agivano come microproiettili che distruggevano i germi.
La sifilide man mano tendeva a farsi da subacuta a cronica e da epidemica ad endemica (ciò era
dovuto ovviamente non alle cure con mercurio e guaiaco, né tantomeno al cambio di comportamenti
e costumi umani, ma era dovuto al cambiamento del suo’’ genio epidemico’’).

2. Lo studio della medicina in Italia e in Europa


Berengario era un chirurgo e scrittore di un compendio di anatomia umana (ma la sua opera più
celebre è il tractatus de fractura calveae sive cranei, nel quale figura la prima descrizione
sistematica dello strumentario per la craniotomia). Nel Cinquecento l’anatomia veniva studiata da
medici, chirurghi ma anche vescovi, preti, giudici, becchini: questi ultimi andavano pure a
profanare le tombe per prelevare le salme ancora fresche di sepoltura da consegnare agli anatomisti
più curiosi, in modo che gli anatomisti avessero disponibilità di cadaveri da sezionare.
Le aperture cadaveriche erano operazioni scientifico-rituali che venivano eseguite in inverno (per la
maggiore facilità di conservazione dei cadaveri). Mentre il «lettore» commentava dalla cattedra i
testi autorevoli, l’«incisore» sezionava il cadavere e l’«ostentore» dimostrava gli organi espiantati al
pubblico ammesso ad assistere (pubblico composto da dottori, studenti, giudici, preti).
Una grande figura in questo campo fu Andrea Vesalio, un medico fiammingo che aveva studiato a
Parigi, nell’università roccaforte del galenismo: egli faceva le sezioni, mentre Guinterio si occupava
di leggere e tradurre Galeno dal vivo.
Pur non eseguendo personalmente le dissezioni, Guinterio consentiva ad alcuni studenti di
dissezionare i cadaveri al posto degli usuali settori. Vesalio ha quindi la possibilità di iniziare a
praticare personalmente sezioni autoptiche su cadaveri umani. Non trovando una completa
corrispondenza tra i testi e quello che constata direttamente, egli inizia a dubitare dell’esattezza
della anatomia galenica: dalle proprie osservazioni-descrizioni vedeva profilarsi la scoperta di un
corpo nuovo. Scoprire e fondare una nuova anatomia voleva dire individuare uno per uno i tanti
errori di Galeno e confutarli tutti insieme alla loro comune e unica fonte: il cattivo metodo,
derivante dalla pratica di studiare l'anatomia sull’animale e non sull'uomo, e derivante anche dal
fatto che tanti anatomisti rimanevano in cattedra a studiare i testi di Galeno senza effettivamente
aver mai usato il coltello.
Vesalio pubblica nel 1543 il De humani corporis fabrica, opera di 663 pagine divise in 7 libri e
corredate da oltre 300 illustrazioni dell’incisore-pittore fiammingo Jan Stephan Van Calcar.
Vesalio divenne protagonista di una rivoluzione scientifica antigalenica: l’anno della pubblicazione
della Fabrica è ritenuto un punto di cambiamento radicale nella storia della Medicina.
La Fabrica viene considerata il manifesto del nuovo metodo d’indagine anatomica, il fondamento
teorico e pratico della medicina scientifica. Dedicata all’imperatore Carlo V, la Fabrica mette
subito in crisi la tradizione medica antica e compie velocemente il giro delle università e delle corti
europee.
Un’altra rivoluzione venne iniziata dal medico elvetico Aureolo Paracelso. Figlio di un farmacista
che lo aveva avviato il mestiere di famiglia, Paracelso si recò in Carinzia, terra di minatori, dove
ebbe modo di vedere malattie e infortuni che colpivano gli uomini e così cominciò a studiare i
metalla, i minerali racchiusi nelle viscere della terra (ai i tempi di Paracelso i metalli noti erano 7 in
corrispondenza con i corpi celesti: oro, argento, piombo, rame, stagno, ferro, mercurio). Egli
frequentava medici, circoli umanistici, e credeva anch'egli in un mondo nuovo indossando i panni
del riformatore: Paracelso era infatti partigiano di un medico nuovo. Di tale medico forniva egli
stesso il prototipo: un medico per il quale il vero magistero non stava nei libri di Galeno o
Avicenna, ma nella esperienza diretta dettata dalle malattie a cominciare da quelle di minatori e
contadini, e nella sperimentazione dei rimedi sgorganti dalle viscere della terra come le acque
minerali e le sorgenti termali oppure elaborati a partire da metalli.
Paracelso diceva che la medicina doveva essere una «alchimia metallurgica», una «agricoltura
umana»: infatti la medicina fino a quel momento si basava soltanto sullo studio di libri, veniva
oppressa la tecnica, la manualità, quindi era una pratica molto meno produttiva rispetto ad attività
manuali come la metallurgia e l'agricoltura esercitate da minatori e contadini.
La rivoluzione di Paracelso aveva una connotazione anche sociale perché minacciava i ruoli della
società e i ranghi della professione; le gerarchie politiche e religiose reprimevano ogni suo
tentativo. I farmacisti erano inviperiti contro di lui perché egli disprezzava la loro polifarmaceutica.
Paracelso nel Paragranum, afferma che i quattro pilastri della medicina sono la filosofia,
l'astronomia, l'alchimia e le virtù.
Contro il galenico contraria contrariis curantur lancia l'opposto similia similibus (secondo
Paracelso una malattia può essere curata con la stessa sostanza che l'ha causata).
La virtù è una via etico- pratica di approccio al sapere e al buon comportamento nell'esercizio
professionale, cioè la virtù fissa le norme interiori cui deve uniformarsi il buon medico, norme che
sono diverse e più importanti di quelle esteriori dettate dai regolamenti. Essere un buon medico è
anche uno stile di vita corrispondente ad un imperativo morale.
L’alchimia di Paracelso è una nuova tipologia di alchimia, non più basata sulla trasmutazione dei
metalli, bensì dei vegetali, e da lui denominata «spagiria»: dal greco spào (estraggo) e agheiro
(raccolgo). Si tratta infatti di estrarre alla miniera dei minatori e raccogliere alla miniera degli
agricoltori: la medicina deve essere un lavoro con le mani, quindi chirurgica, deve essere anche
chimica- farmaceutica.
I medici, dice Paracelso, devono essere medici e chirurghi e nessuno deve essere separato dall'altro
come accade invece nella pratica.
L’ astronomia è intesa da Paracelso come la scienza speculativa degli astri, argomentazione delle
influenze degli astri sull'uomo: nel laboratorio dell'alchimista c'è anche la sfera di cristallo in cui
l'occhio medico vede riflettersi la concava sfera del cielo e con essa i segni delle malattie e i destini
dei malati (nel Cinquecento erano ancora molti i medici che basavano la loro attività terapeutica
sull'osservazione e divinazione degli astri e sul calcolo degli oroscopi). La sua astronomia non era
una oroscopia da indovini, piuttosto una metodologia del rapporto dell'uomo (in particolare del
medico) con gli astri: secondo lui così come la materia terrosa diventa gassosa e volatile, adatta a
raggiungere gli astri, così l'uomo poteva tendere a Dio, e il nuovo medico tendere al controllo e al
dominio della natura. L’ astronomia era il corrispettivo dell'alchimia, e questo veniva dimostrato
dell'antimonio, un metallo appena scoperto che dopo fusione e raffreddamento in presenza di ferro
si rapprendeva in una forma cristallina a struttura stellare, detta appunto «stella d’antimonio».
Ma l’astronomia di Paracelso era anche altro: era la retta anatomia che sostituiva l'anatomia
sbagliata, quella che scruta i malati quando sono già morti. Secondo Paracelso, per capire il perché
di un mal di ventre, era molto meglio scrutare il pianeta Marte (perché chi ha fegato è bellicoso e
marziale) che scrutare il fegato dopo averlo eviscerato.
Paracelso non è solo il prototipo di un medico nuovo; è anche il mago pansofico che tutto sa e tutto
usa (metalli e astri, elementi e quintessenze, fatti e idee, cose parole) per operare nel grande
laboratorio della natura, compresa quella umana.

3. Tra corsia e libreria: opere e studi che aprono lo scenario a nuove tecniche mediche
Il bolognese Leonardo Fioravanti era un paracelsiano che teneva in scarso conto l’anatomia e che
si prefiggeva di trasformare la medicina da teorica in pratica.
Leonardo Botallo (scopritore del forame ovale e del dotto arterioso) era un chirurgo, padrone del
metodo per curare le ferite da schioppo.
Girolamo Cardano era il più innovatore, che insegnava medicina all'università di Pavia ed era
accreditato di guarigioni straordinarie e godeva della fama di medico-mago. Nella sua opera
maggiore De subtilitate, Cardano afferma che il medico squisito deve essere padrone della magia
naturale, scienza- ponte tra l'osservazione empirica e la tecnica operativa cui facevano da supporto
esperimenti, oroscopi, cabale, calcoli.
Anche Andrea Cesalpino godeva della fama di medico- mago ed era prefetto dell’orto botanico
pisano. Egli scrisse De plantis e De metallis. Si iniziò ad avere a cuore non solo la salute dei
cittadini ma anche il mercato di nuovi prodotti della terra, quindi vengono raccolte e studiate
diverse specie arboree.
Gaspare Tagliacozzi inaugurava la plastica del naso dell'orecchio e del labbro, utilizzate
soprattutto per le ferite d'arma bianca.
Scipione Mercurio trattò «l’arte dei parti» e la «medicina delle donne»; suoi sono i tre libri della
comare o ricoglitrice, nelle quali è contemplata tutta la materia inerente al parto normale, consigli
per la gravidanza, prime cure del neonato, parto difficile, parto cesareo, malattie ostetrico-
ginecologiche e della prima infanzia, un libro scritto in volgare in modo da poter essere letto dalle
levatrici dei parti e dalle allevatrici dei neonati.
Ambroise Parè fu un chirurgo che si rese conto che le ferite da armi da fuoco non erano rese
velenose dalla polvere da sparo, quindi non andavano causticate con olio bollente; si rese inoltre
conto che gli amputati di gamba sopravvivevano o guarivano più facilmente se il moncone di
amputazione anziché cauterizzato, veniva sottoposto al legatura dei vasi sanguigni. Parè fu il
curante dei re di Francia, era il maestro e prototipo di una schiera di chirurghi efficienti ed efficaci
che strappavano a sicura morte sui campi di battaglia, centinaia di mutilati e feriti.
Nelle corsie di degenza si osservava quindi una figura professionale non nuova, quella del chirurgo,
dotata però di una nuova dignità e di maggiore presenza, che andava prendendosi la stessa
importanza del ruolo della più altolocata medicina.

4. La riforma ospedaliera e il progresso medico


Un documento del 1508 descrive il funzionamento di un ospedale: le malattie acute, suscettibili di
guarigione, venivano trattate nell'«ospedale maggiore» mentre i cronici, inguaribili e invalidi, la cui
salute piena non poteva essere recuperata o la cui salute residua necessitava di prolungata
assistenza, venivano ricoverati negli «ospedali minori» (satelliti e decentrati). Medici e chirurghi
inoltre dovevano assumere a pieno titolo la funzione di curante degli infermi, prima affidata agli
infermieri, e dovevano assumere, ancora prima dell'attività curativa in corsia, l'attività di
accettazione, selezione diagnostica e smistamento dei malati. Questo appena descritto fu il primo
aspetto (organizzativo) di una vera e propria riforma ospedaliera; il secondo e terzo aspetto furono
quello giuridico-amministrativo (cioè comparivano amministratori, direttori e gestori) ed etico-
pratico per cui si tendeva a realizzare una assistenza meno formale e più realistica.
Questo fu un modello da imitare l'Europa: l’ospedaliero sistema della carità del Trecento diventa
così sistema degli ospedali maggiori, un’assistenza intesa non solo come cura ma anche e
soprattutto come terapia. Gli ospedali non erano più finalizzati a curare i poveri infermi, ma aveva
l’ulteriore fine di risanare i malati suscettibili di guarigione; nelle corsie non si affaccendavano più
solo fratres, sores, servi di Dio, ma anche medici fisici-filosofi formati nelle università e fisici-
chirurghi formati negli ospedali stessi. Gli uni esercitavano la medicina interna che si interrogava
sulle cause dei morbi rivolgendosi soprattutto alla cura degli organi interni, gli altri esercitavano la
medicina esterna che si rivolgeva soprattutto alla cura delle affezioni esterne e delle ferite. La
chirurgia veniva esercitata con diverse metodiche: la chirurgia medicamentaria (propria di chi
impomatava e fasciava), la chirurgia ferramentaria (propria di chi operava con coltello e cauterio) e
la chirurgia meccanica (propria di chi usava apparecchi). I ferri del mestiere comprendevano
lancette per i salassi, rasoi, bisturi, scalpelli, martelli, forbici, pinze, seghe, trapani, uncini, cauteri.
Gli apparecchi andavano dalle semplici stecche da applicare con bende, a corde e verricelli.
I malati venivano divisi in categorie: non c'era più un indistinto genere umano da curare, bensì
gruppi patologicamente diversi, ciascuno con la sua specie di male. Le cure non erano più generiche
di assistenza e aiuto, ma erano pratiche specifiche per quella malattia. I curanti degli infermi non
erano più infermieri generici ma medici chirurghi specialisti di questo o quel male.
A curare erano anche i semplici, termine che indicava gli humiles ma anche le erbe medicinali
nascenti dall’ humus della terra. Questi soggetti umili e semplici operavano per l’umanità afflitta dai
mali, erano persone del popolo che in veste di infermieri si volgevano alla cura degli infermi.
Contemporaneamente la diffusione della stampa aveva reso il libro un importante strumento di
progresso: il progresso in campo medico-sanitario si misurava nella tendenza all’aumento della vita
media, che era dato in minima misura dalla medicina, ma soprattutto era dato dal miglioramento
delle condizioni di vita nonostante carestie, epidemie e guerre. Il progresso dipendeva anche
dall’acquisizione delle tecniche apprese nelle corsie degli ospedali e consultabili presso le librerie
che si trovavano negli ospedali stessi, nelle università, nei collegi. L’università di Padova, nel
Cinquecento vivaio e palestra di medici e futuri medici di tutta Europa, assicurava un largo
consumo e ricambio di libri di medicina. Le librerie soprattutto veneziane portavano alla luce i più
celebri e importanti libri di medicina del Cinquecento come il Fasciculus (1491), un trattato di
scritti medici vari quali un prontuario delle urine, un compendio delle malattie più frequenti, le
indicazioni per il salasso e cenni di medicina delle donne. Il Cinquecento fu quindi un secolo di
grande fioritura editoriale.
Con gli opuscola anatomica (Venezia, 1564) di Bartolomeo Eustachi (l’anatomista che diede il
nome alle trombe di Eustachio che uniscono orecchie e retrobocca) venne messo il sigillo dei tempi
alla sperimentazione anatomica: egli tagliava i nervi ricorrenti ai cani perché non potessero latrare,
apriva gli animali vivi per mostrare come battesse il cuore, mostrava come l’urina dagli ureteri
scendesse in vescica. L’età aurea dell’anatomia chirurgica stava per concludersi, per lasciare il
campo alla seicentesca ‘’anatomia viva’’ o fisiologia, pilastro della nuova scienza medica.

5. Dall’anatomia alla fisiologia, dalla fisiologia alla fisiopatologia


Una nuova fisiologia, totalmente diversa da quella vecchia galenica, veniva acquisita dalla medicina
nei primi trent’anni del Seicento. Con essa la medicina moderna acquistava le basi scientifiche che
anche i medici d'oggi pongono a fondamento della loro pratica clinica. Essa era la «medicina
statica» (De statica medicina, Venezia 1614) del medico istriano Santorio Santorio, e la «medicina
cinematica» del medico inglese William Harvey.
Il primo tipo in Italia aveva come sfondo la rivoluzione scientifica legata a Galileo Galilei, quindi
una radicale trasformazione della conoscenza: con il metodo di Galilei i fatti naturali vengono
scomposti in elementi concettuali semplici (induzione astraente) e ricomposti in ipotesi (inferenza
deduttiva) da dimostrare. Si tratta quindi del metodo ipotetico- sperimentale proprio della scienza
moderna, che consiste nel leggere in termini matematici cioè secondo logica quantitativa, i fatti
naturali.
Il secondo tipo, la medicina cinematica di Harvey, era basata sul moto del cuore del sangue. Harvey
aveva studiato a Padova il metodo del calcolo (da lui usato nella dimostrazione matematica del
circolo chiuso del moto del sangue) e aveva assimilato le scoperte conseguite dai grandi anatomisti
del Cinquecento: la chiusura del forame interatriale descritto da Botallo, l’impervietà del setto
interventricolare descritto da Vesalio, la circolazione cuore polmoni descritta dal Realdo Colombo,
l’unidirezionalità delle valvole delle vene descritta da Fabrizi d'Acquapendente. Proprio la
dimostrazione di Fabrizi aveva dato ad Harvey l'idea della possibile circolarità del sangue a partire
dal moto centripeto del sangue venoso. L’ipotesi di Harvey viene dimostrata attraverso ripetute
ligature dei vasi sanguigni alle braccia e alle gambe.
Harvey non ha solo l’intuizione del circolo sanguigno, ma in relazione all’epoca egli idea anche una
nuova concezione monarchica della natura, in cui il sole era il cuore del macrocosmo e il cuore era
il sole del microcosmo. Il nuovo cardiocentrismo aveva una valenza anche metaforica, come si può
intuire dalle parole che scrisse Harvey a Carlo I Stuart: << Serenissimo Re, il cuore degli esseri
umani è il fondamento della vita, il signore di tutto ciò che è connesso alla vita, il sole del
microcosmo. Dal cuore dipende tutta l'energia ed il vigore. In modo analogo il Re costituisce il
fondamento del suo Regno, il sole del suo microcosmo, il cuore dello Stato>>
Harvey e i suoi studi furono, secondo Hobbes e Cartesio, un contributo decisivo per il nascente
meccanicismo scientifico.
La «medicina meccanica» o «iatromeccanica» del Seicento, sviluppatasi grazie a Hobbes e Cartesio,
era l’ambito in cui alla macromacchina harveyana propellente il sangue si aggiungevano la
macromacchina osteo-artro-muscolare della locomozione, descritta da Giovanni Alfonso Borelli
nel 1680, e le micromacchine osservate e descritte grazie ad un nuovo strumento chiamato
microscopio.
Grazie agli studi al microscopio, Marcello Malpighi fondò l'anatomia microscopica: egli descrisse
il funzionamento degli alveoli polmonari dell'opera De pulmonibus, e la rete mirabile dei glomeruli
renali (chiamati successivamente di Malpighi) e dei capillari sanguigni. Osservò nel sangue
coagulato la presenza di «atomi rossi» (i nostri globuli).
Accanto alla medicina meccanica vi era la «medicina chimica» o «iatrochimica» nata con la
spagirica di Paracelso.
In Inghilterra la iatrochimica era coltivata dai fisiologi di Oxford, primo tra tutti Robert Boyle, che
asseriva di aver tratto dalla filosofia ‘’ corpuscolare’’ l'impulso propulsore della ricerca che lo
portava a definire il concetto di elemento chimico e a precisare la differenza tra miscuglio e
combinazione (quindi a porre le basi della chimica moderna).
Robert Hooke stesso inquadrava nella filosofia corpuscolare la sua prima descrizione di una
cellula.
La cultura medico- scientifica inglese si esprimeva in tre grandi opere in cui rispettivamente fegato,
cervello e cuore venivano descritti e rappresentavano i tre organi centrali dell'organismo umano:
Glisson, autore della Anatomia hepatis, inseriva in fisiologia il principio della «irritabilità» secondo
cui tutto ciò che vive è in grado di reagire agli stimoli.
Willis, autore del Cerebri anatome, cancellava dalla fisiologia la «rete del miracolo» che Galeno
aveva supposto esistente alla base del cervello, sostituendo essa il circolo poligonale arterioso che
prenderà poi il suo nome.
Lower, autore del Tractatus de corde, fu il primo a praticare il tentativo di trasfusione di sangue
animale da cane a cane mettendo in comunicazione l'arteria carotide dell'animale donatore con la
vena giugulare dell'animale ricevente.
Il tentativo di Lower segna l’inizio della realizzazione del progetto scientifico che ha come obiettivo
il migliorare progressivamente e prolungare la vita umana.
Thomas Sydenham, reduce di guerra che aveva visto scorrere il sangue sui campi di battaglia,
studiò dapprima a medicina Oxford e in seguito divenne docente e medico di successo. Egli studiò
profondamente le epidemie londinesi di peste e vaiolo, e le sue cure ai vaiolosi (trattati fino a quel
momento con coperte di lana e bevande bollenti, affinché gli umori piccanti fossero espulsi col
sudore e bollissero fino a scoppiare nelle pustole) fecero scalpore: egli infatti sbarazzò i malati dalle
coperte e diede loro da bere acqua d'orzo ghiacciata, aumentando la percentuale di guarigione. Egli
pubblicò il Methodus curandi febres, contrapponendo alle sterili dottrine tendenti a distaccare il
medico del paziente, la fertile osservazione diretta dei sintomi, la rilevazione degli effetti delle cure
sul decorso della malattia e lo studio delle statistiche mediche: si trattava quindi di una medicina ad
osservazione che si contrapponeva alla medicina ufficiale galenica. Sydenham venne definito
‘’Ippocrate secondo’’.
Andava pertanto distruggendosi in tutta l'Europa la teoria galenica: i medici cominciavano a
incuriosirsi, a guardare, a investigare le cause e le proprietà dei fenomeni naturali applicando al
contempo mani e cervello a cimentare sperimentalmente questi stessi fenomeni accanto a fisici,
chimici.
Francesco Redi, un fisiologo, medico e biologo, portò a due grandi risultati: il primo, che dalla
putredo inanimata, cioè dalla materia in putrefazione, nascesse spontaneamente la vita animale. Il
secondo era l'inquadramento metodologico del problema dei vermi parassiti: gli studi rediani
costituiscono il fondamento della moderna parassitologia.
Giacinto Cestoni studiando la scabbia o rogna che affliggeva i marinai, dimostrò che la malattia
non era dovuta alla acrimonia umorale attraversante la pelle e alla generazione spontanea in
quest'ultima dei parassiti, ma era dovuta alla crescita degli acari che nascevano dalle uova e che si
annidavano nei cunicoli scavati nello strato corneo della cute, trasmissibili anche una semplice
stretta di mano.
A Parigi Jean Pecquet, scoprendo la circolazione della linfa dall'intestino alla vena sottoclaveare
sinistra (attraverso la cisterna chilifera detta poi di Pecquet e il dotto toracico) dava l'ultimo colpo
alle dottrine di Galeno.
L’ esistenza dei vasi linfatici era stata già scoperta dai greci, scoperta poi caduta in oblio, e venne
riscoperta a Pavia dal medico cremonese Gaspare Aselli, che asserisce che la linfa circolante nelle
vene bianche e lattee della regina Anna d'Austria si era rappresa a livello del seno determinando il
cancro mammario. Un braccio della regina era tumefatto per ingorgo linfatico.
A Parigi la chimica innescava un avanzamento della farmacologia: Nicolas Lemery nella sua opera
asserisce che la chimica ha il compito di fornire indicazioni sperimentali alle quale i medici possono
attingere per la preparazione dei farmaci. Il problema era che il valore terapeutico dei rimedi, più
che sull'esperienza diretta, era desunto dalla tradizione trasmessa dai predecessori: motivo per cui
innovazioni come la comparsa sul mercato della corteccia peruviana o china-china, farmaco
antifebbrile di provenienza amerindia, alimentava le controversie in quanto era impensabile che
esistesse un farmaco che guariva le febbri senza purgare e senza far vomitare, cioè senza far
evacuare gli umori piccanti ritenuti responsabili dello stato febbrile (secondo la concezione galenica
invece i farmaci dovevano avere questo effetto).
Alla fine del XVII secolo il filosofo Nicolas de Malebranche scrive che i medici dovrebbero usare
passi greci e latini servendosi di termini nuovi e fuori dal comune in modo che ai loro ascoltatori
risultino come grandi uomini che vengono ascoltati e creduti come degli oracoli; secondo lui è
necessario che i medici per farsi una fama e ottenere obbedienza parlino qualche volta una lingua
che i loro pazienti non capiscono. Questo distacco tra medici e pazienti era tanto maggiore quanto
più basso era il livello socioculturale di questi ultimi, ed era pari alla dissociazione tra la nuova
scienza fisiologica e la pratica clinica: la pratica clinica restava arretrata rispetto alla scienza. La
nuova idea della pratica medica sembrava essere quella del metodo anatomo-clinico cioè la
comparazione dei segni di malattia rilevati nel malato con le lesioni morbose osservate nel
cadavere, come operato dall’olandese Silvio (al cui nome è legato l’omonimo acquedotto che mette
in comunicazione terzo e quarto ventricolo cerebrale e la scissura che delimita il lobo temporale dai
lobi parietale e frontale) che eseguiva autopsie e con esse integrava l'attività clinica svolta nelle sale
ospedaliere di Leida. Allievo di Silvio fu Graaf (scopritore dei follicoli).
A Leida famoso era anche il nome di Hermann Boerhaave (1638-1738), che voleva coniugare tra
loro la nuova scienza chimico-meccanica e la clinica, cioè fondare la pratica medica sulla nuova
fisiopatologia. Il suo trattato, Institutiones medicae, consta di cinque parti dedicate alla fisiologia,
patologia, semeiotica, igiene, terapeutica: è la sistemazione di tutte le moderne acquisizioni e ipotesi
circa la struttura e la funzione dei vari organi e dell'intero organismo in condizioni sia normali che
patologiche quindi un vero e proprio trattato di fisiopatologia.
Un’altra sua opera, gli Aphorismi, sono il complemento particolare del sistema generale e
rappresentano il frutto dell'osservazione ripetuta, dell'esperienza al letto del malato.
Boerhaave venne chiamato il professor celeberrimus nelle lettere dei pazienti che si rivolgevano a
lui. Egli forma i futuri medici asserendo che due cose si richiedono al medico: primo, che sia
dottrinato nella scienza medica; secondo, che abbia un suo vivo genio per poter esercitare questa
scienza in favore dei malati, perché non basta al medico sapere tutto, ma deve anche possedere la
predetta facoltà per esercitare con essa una medicina affabile a vantaggio dei malati. Egli insegue il
neo-ippocratismo, che poteva realizzarsi nella pratica clinica semplicemente adottando metodi e
comportamenti nuovi, propri di un medico aggiornato al passo coi tempi.
Bernardino Ramazzini, professore di medicina a Modena e Padova, segue la dottrina di
Boerhaave. La novità che egli porta è l'oggetto della sperimentazione della pratica clinica: i
lavoratori e le loro malattie. Egli infatti, alle classiche domande di cosa soffri? Da quanti giorni?
vai di corpo? cosa mangi? Ne aggiungeva un'altra: che lavoro fai?
Ramazzini andava per botteghe e sui luoghi di lavoro a posare l'occhio clinico sui vari lavoratori:
tintori, conciatori, beccai, unguentari, stagnai, solfatari, vetrai, per vedere e capire la loro patologia.
Affermava che, contrariamente a quello che si pensava, bisognava lavare e cambiare i vestiti e la
biancheria a chi giace malato. Dalla clinica individualizzante e dall’igiene personale, Ramazzini
passava all'epidemiologia rilevando quanti fossero i lavoratori affetti da questa o quella malattia
oppure i candidati ad ammalarsi: dalla terapia del singolo lavoratore ammalato passava
risolutamente a proporre la prevenzione e di tutti i lavoratori. Vesciche trasparenti poste davanti al
viso dovevano proteggere gli occhi di tutti i vuotacessi; gambali e maschere di vetro dovevano
proteggere le estremità e i volti di tutti i minatori; forti e ripetuti salassi, nonché purganti dovevano
essere evitati a tutti i contadini, malnutriti e spossati dalle fatiche.

6. Una rivoluzione non solo scientifica ma anche demografica


Il Seicento era stato un secolo punteggiato fittamente da penurie e carestie, malattie ed epidemie.
Tra le due grandi pesti seicentesche, quella milanese e quella londinese, si era inserita anche quella
che aveva colpito tutta l'Italia centro meridionale con punte massime a Roma e a Napoli. Da queste
e altre crisi di mortalità era derivato prima l'arresto della spinta demografica che aveva
caratterizzato la seconda metà del Cinquecento, e poi la controspinta che aveva portato nel Seicento
a un drastico calo della popolazione europea a cui avevano contribuito anche vaiolo e tifo
petecchiale.
Il Settecento invertiva la tendenza al calo della popolazione: il secolo dei lumi registrava, oltre a
un'accelerazione della ragione scientifica, un’accelerazione dell'incremento demografico in Europa.
Questo incremento non fu la conseguenza delle applicazioni in medicina della rivoluzione
scientifica ma la conseguenza del fatto che la disponibilità di alimenti aumentò in maniera cospicua
dalla fine del XVII secolo.

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