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IL PESTIFERO E CONTAGIOSO MORBO:

Capitolo Primo
1557-1558: una grave epidemia di influenza colpì la Sicilia. Il dottor Ingrassia ammoniva le autorità a non
chiedere informazioni specifiche ritenendole oggetto di studio dei medici. Gli uffici della Sanità dovevano
"provvedere all’universale”, alla collettività, in termini di prevenzione.

Le sfere di competenza non potevano essere separate. I dottori si occupavano di terapia e anche di
prevenzione e dovevano fornire consulenza agli uffici della Sanità su tutti e due gli aspetti.

Molto spesso le cure non sembravano dare reali risultati contro la peste quindi gli stessi dottori si
dedicavano di più alla prevenzione.

Il medico genovese Contardo, autore del trattato “Il modo di preservarsi e curarsi dalla peste”, sosteneva
che la parte preventiva fosse più nobile di quella curativa.

Sono concetti che danno un’impressione di modernità. La loro applicazione era approssimativa, non
avevano idee adeguate sull’eziologia del morbo.

EZIOLOGIA DEL TEMPO: si era convinti che la peste fosse generata da atomi velenosi. Essi provenivano da
materia in putrefazione o emanati da individui infetti. Gli atomi infettavano l’aria e la rendevano
“miasmatica”. Gli atomi cattivi erano “viscosi”, si attaccavano a oggetti, animali e uomini. Se inalati o
assorbiti dai pori della pelle gli atomi avvelenavano l’uomo, causando infermità e nei casi peggiori la morte.
Gli atomi potevano trasferirsi da corpo a corpo.

L’unico modo per evitarne la diffusione era interrompere il contatto nelle aree ad alto rischio.

La teoria era dotata di coerenza interna ma il sistema si basava di concetti provenienti da un’ignoranza
dogmatica.

Ancora oggi un’allarmante quantità di scienziati crede che se le teorie sono logiche allora sono
naturalmente veritiere quando non è così.

L’uomo non è in grado di comprendere fatti nuovi senza fare riferimento a concetti esistenti. Il ricercatore
parte sempre dalla realtà e non opera nel vuoto, nessun ricercatore parte da tabula rasa.

All’inizio del XVII secolo in Francia i medici che visitavano i malati di peste cominciarono a indossare una
palandrana di toile-cirèe : una sottile tela di lino rivestita da una pasta di cera mescolata a sostanze
aromatiche. Divenne molto popolare in Italia allo scoppio della nuova epidemia di peste del 1656-1657.

L’idea che stava dietro la confezione dell’abito era che gli atomi velenosi dei miasmi non vi si “attaccavano”
e dal momento che sembrava funzionare venne preso come una prova della natura miasmatica
dell’epidemia.

Padre Antero Maria di San Bonaventura era un frate che venne incaricato della gestione del principale
lazzaretto dell’epoca. Il frate ebbe un’intuizione eccezionale, anche se in realtà la sua voleva essere solo
una battuta. Non avendo molta fiducia nell’abito sopracitato diceva che esso non serviva contro la peste ma
proteggeva solo dalle pulci.

L’osservazione era geniale, ma non venne colta dato che le pulci erano considerati insetti fastidiosi ma
innocui, se l’abito serviva solo contro le pulci allora voleva dire che era inutile.

La gente del Rinascimento ebbe molte osservazioni geniali:


- Notarono che coloro che maneggiavano alcuni materiali (lana, cotone, canapa, lino, tappeti, sacchi
di grano ecc.) erano più esposti a contrarre il morbo. Essi potevano contenere di fatto pulci infette,
ma questo non venne capito.
- Si resero conto che il morbo imperversava soprattutto nei mesi più caldi, ma non legarono questa
scoperta al ciclo di vita di ratti e pulci. Era nei mesi più caldi che per le strade luride si sentivano gli
odori più immondi e misere in relazione gli eventi scorgendone una dimostrazione del fatto che i
miasmi nascevano chiaramente dai materiali in putrefazione nel clima caldo e umido dell’estate.

La lezione della storia è che molto spesso le persone trovano semplice manipolare i fatti per adeguarli alle
convinzioni piuttosto che fare il contrario.

A tale miscuglio tra errore ed esattezza si aggiungeva un mix di provvedimenti insensati e illuminati.

ESEMPIO: secondo le teorie mediche dominanti la peste originava dalla corruzione dell’aria. Conseguenza
di questa idea era che la prima cosa da fare fosse bonificare l’ambiente. Due secoli dopo, quando il colera
flagellò l’Europa, venne applicato lo stesso provvedimento.

A Firenze nel 1630 Francesco Rondinelli riferiva che quando la peste dilagava a Bologna, Parma e Piacenza.
In questo caso la Magistratura della Sanità suddivise la città in 6 zone, i sestieri, ponendo ciascuna di queste
sotto il controllo di gentiluomini scelti tra i membri della Compagnia di San Michele, associazione religiosa
di laici. La Magistratura temeva che nelle case di basso ceto la gente dormisse su vecchi e sporchi pagliericci
e istruì i gentiluomini affinché rifornissero i poveri di pagliericci. I gentiluomini scoprirono una situazione
peggiore di quella che avevano immaginato. Essi trovarono pochi malati ma molte case in cui la povertà era
talmente dilagante che le persone non possedevano un letto e dormivano su un po' di paglia sporca.
Richiesero dunque un migliaio di pagliericci da distribuire con un marchio che ne impedisse la vendita o il
pignoramento per il pagamento di debiti.

Era usuale bruciare i materassi su cui avevano dormito i malati di peste, a Firenze vennero bruciati anche
quelli sudici dei soggetti sani. Si trattò di un provvedimento preventivo che funzionò perché evitò un grande
veicolo di pulci.

ALTRI ESEMPI DI AZIONI GIUSTE ORIGINATE DA TEORIE SBAGLIATE: la distribuzione degli abiti cerati, il
tempestivo isolamento dei soggetti infetti e dei loro contatti.

Quando scoppiava un’epidemia veniva imposto un blocco sulla maggior parte dei commerci e quando la
pestilenza dava segni di regressione si usava indire una “Quarantena Generale” per dare il colpo di grazia al
flagello.

QUARANTENA GENERALE: quante più persone possibile dovevano rimanere al chiuso nelle proprie case per
40 giorni.

Quando nell’inverno del 1630 venne decretata la quarantena a Firenze gli ordini imponevano che tutti i
maschi e le femmine dai 13 anni in giù fossero tenuti in quarantena in casa.

Venne fatta un’indagine da cui risultò che molti abitanti della città avrebbero avuto bisogno della carità e
che il loro numero era aumentato dopo la quarantena.

Il fatto triste è che tutto questo sforzo era inutile: confinare le persone nei luoghi in cui allignava la fonte
dell’infezione significava accrescere il rischio di contagio. I medici brancolavano nel buio, combattendo
contro un nemico sconosciuto.

Capitolo Secondo
Nel giugno del 1652 la Magistratura della Sanità genovese notificò che a Firenze e in altre città dell’Italia
settentrionale erano risuonati degli avvisi che ad Alghero, in Sardegna, si fossero registrati dei casi di peste.

La magistratura aveva proceduto bandendo Alghero e sospendendo la Sardegna.

Bando e Sospensione erano termini tecnici usati per indicare interruzione di commercio e comunicazione.
Né persone, né imbarcazioni, né mercanzie potevano entrare nel territorio che aveva emanato il bando,
tranne in alcuni luoghi dove venivano sottoposti a quarantena. In casi di eccezionale pericolo le autorità
avevano il diritto di rifiutare di ammettere persone, imbarcazioni e mercanzie persino alle stazioni di
quarantena. Coloro che violavano bandi o sospensioni venivano considerati “banditi” e sottoposti alla pena
capitale.

BANDO: una regione veniva bandita quando il caso di peste era accertato, durava a lungo

SOSPENSIONE: una regione veniva sospesa quando il contagio era sospetto e non certo. Era decretata per
“beneplacito” quindi poteva essere revocata dopo poco.

La notifica emessa da Genova non era un’eccezione, era consuetudine che le città dell’Italia Settentrionale
si scambiassero notizie circa le condizioni sanitarie, la frequenza della corrispondenza era variabile.

Quel che vi era di eccezionale nel messaggio di Genova era la gravità dell’informazione. Le autorità sanitarie
avevano guardato con apprensione il dilagare della peste nel bacino del Mediterraneo, avendo ancora in sé
il ricordo della strage di epidemia del 1630.

Genova fece diramare un annuncio allarmante: un vascello genovese salpato da Alghero era giunto a
Genova e il capitano aveva riferito che lo scrivano di bordo era morto, forse di peste. Gli oggetti di proprietà
dello scrivano erano stati pubblicamente bruciati e imbarcazione e ciurmi erano stati posti in quarantena.

Tali notizie suscitarono allarme, la Magistratura della Sanità di Firenze bandì Alghero e sospese la Sardegna
e lo stesso fecero Lucca e Bologna.

La Magistratura Suprema della Sanità del ducato di Toscana aveva sede a Firenze. A Livorno vi era un’altra
importante Magistratura che rivendicava di dover rispondere solo al granduca.

A Pisa l’Ufficio della Sanità rispondeva a Firenze ma era autorizzato ad applicare misure preventive
d’urgenza di propria iniziativa, comunicandole prima.

Quando le notizie raggiunsero Pisa e Livorno le due città entrarono in agitazione. Essendo vicine alla costa
erano esposte ai pericolosi arrivi dal mare. Entrambe le città applicarono intensive misure di controllo nei
confronti dei vascelli che giungevano da Sardegna e Corsica.

Nessuno fino a quel momento aveva tenuto la Corsica in considerazione, ma data la vicinanza tra le isole
era scontato che tra loro vi fossero degli stretti rapporti. Non essendo stato denunciato nessun caso
nell’isola la misura era insensata da un lato, dall’altro la Corsica era un dominio genovese. Le norme di
convenienza e protocollo prevedevano che prima di prendere una tale decisione fosse necessaria una
comunicazione a Genova stessa. Firenze intrapresa la stessa scelta. Si giustificarono per la decisione presa
affermando di averla presa sotto l’imposizione del granduca. Dovettero però sentirsi in imbarazzo: qualche
anno prima, quando durante l’epidemia di Tifo Roma aveva bandito la Toscana senza avvisare Firenze essi
avevano giudicato quella scelta come un capriccio, ora stavano facendo lo stesso.

La Magistratura di Firenze avvisò Lucca con l’intenzione di far prendere alla Repubblica la stessa scelta e in
una lettera a Genova non menzionò la Corsica come zona sospetta. La lettera per Lucca fu spedita con un
corriere speciale per mantenere segreto il contenuto. Più tardi la Magistratura della Sanità di Firenze decide
di ratificare formalmente il bando della Sardegna e la sospensione della Corsica. Su desiderio del Granduca
furono costruite delle forche lungo la costa, a simboleggiare l’intenzione a far rispettare le regole.
Un chirurgo genovese scoprì un caso di peste su un vascello proveniente dalla Sardegna e la stessa diagnosi
fu fatta su un passeggero. L’autorità genovese ne fece rapporto alle Magistrature della Sanità dell’Italia
settentrionale. A tal punto i fiorentini non potevano far a meno di informare Genova della sospensione
della Corsica.

Nella discussione la Magistratura della Sanità genovese si era divisa in due parti:

- I moderati: si limitavano ad una lieve protesta nei confronti del comportamento dei toscani
manchevole di diplomazia
- Altra fazione: ebbe la meglio. Genova sospese Piombino, l’isola d’Elba e Pianosa, un atto di protesta
rivolto a Lucca.

A Livorno accadde un altro fatto: delle navi provenienti dalla Corsica richiedevano la patente genovese e
aggiravano la sospensione spacciandosi per genovesi.

Le relazioni tra Granducato e Repubblica erano inclinate dalla rivalità economica:

- Da un lato: Genova scorgeva in Livorno una minaccia


- Dall’altro: i toscani diffidavano dei genovesi.

Prendendo come pretesto che a Genova continuavano a giungere navi sarde la Magistratura della Sanità di
Firenze sospese Genova e i suoi domini.

Genova aveva appreso che due vascelli provenienti dalla Sardegna che non erano stati ammessi in Corsica
erano sbarcati a Livorno. Livorno venne sospesa.

Un’imbarcazione di Livorno chiamata La Madonna Della Speranza era partita da Alessandria d’Egitto e
aveva fatto scalo a Rosetta, dove era scoppiata un’epidemia di peste. Il comandante aveva contratto
l’infezione ed era morto così come il chirurgo di bordo e un marinaio. Quando la nave entrò a Livorno le fu
negato l’accesso.

I fiorentini informarono Genova dell’accaduto e per dire che a Livorno erano passati dei genovesi che erano
stati autorizzati a sbarcare e a circolare dopo solo 3 giorni di quarantena. La risposta genovese fu
sprezzante.

I Magistrati raccomandarono al Granduca di revocare la sospensione, ma il granduca Ferdinando non


accettò. Nella lettera i genovesi avevano affermato che la città godeva di buona salute e la corte di Firenze
accolse tale pretesto come un invito ad ispezionare la città.

Solitamente una missione consisteva di una sola persona, un medico o un chirurgo. Il granduca raccomandò
invece di mandare un dottore e un gentiluomo. Il granduca e i consiglieri avevano architettato una
“capitolazione” tra Firenze, Genova e Santa Sede. L’accordo avrebbe portato le tre città a stabilire comuni
norme di sanità e provvedimenti comuni nei 3 maggiori porti del Mar Tirreno: Genova, Livorno e
Civitavecchia. Per garantire l’osservanza delle misure ogni stato avrebbe permesso agli altri due un
rappresentante degli Uffici sanitari.

La Magistratura della Sanità di Firenze accondiscese. I magistrati scelsero il dottor Monti e il signor Silvestri
per la missione. Monti era il medico della Magistratura della Sanità di Livorno, Silvestri era un conosciuto
mediatore. L’intera faccenda cominciò a muoversi in due direzioni parallele:

- Piano tecnico: dalla Magistratura si attendeva che mantenesse il contatto con la controparte a
Genova e che raggiungesse l’accordo
- Piano diplomatico: la corte allertò il rappresentante diplomatico istruendolo di informare la Santa
Sede di tale accordo.
Monti e Silvestri partirono e il loro ingresso in città venne accettato dai genovesi. Solennità e cerimonia
erano fondamentali in casi come questo. Il signor Silvestri espresse la proposta ai magistrati che
accettarono la proposta e permisero ai due di visitare la città in compagnia di un medico, un chirurgo e il
sindaco.

Al primo appuntamento i genovesi non si presentarono, al secondo sì, e cominciò l’ispezione e la stesura
del rapporto.

Visitarono il lazzaretto. All’ingresso vi erano i mercenari tedeschi a sorvegliare. I pazienti erano divisi in due
gruppi:

- Quelli sottoposti a quarantena brutta: i soggetti erano definiti “brutti” perché avevano contratto la
malattia o erano stati a stretto contatto con una fonte di infezione. Comportava l’isolamento per 40
giorni o più a cui seguivano altri giorni di convalescenza.

- Ricoverati in purga di sospetto: non si aveva certezza che fossero stati a contatto con una fonte
d’infezione ma avevano strane febbri o provenivano da zone con alto tasso di contagi.

A quest’ultimo gruppo appartenevano uomini tornati a Genova dalla Maremma.

La Maremma: regione con popolazione sparsa perché vi era la malaria, che in Toscana era endemica.
Lavoratori agricoli giungevano in Maremma attratti dalla carenza di manodopera e contraevano la malattia.
In Toscana la malaria era diffusa, per questo gli inviati trovarono strano che malati con “febbre ordinaria”
fossero rinchiusi nel Lazzaretto.

All’arrivo della squadra d’ispezione a tutti i ricoverati fu imposto di togliersi i vestiti e il dottor Monti li visitò
tutti e su nessuno trovò i segni della peste.

Visitarono poi i due maggiori ospedali: lo Spedale Maggiore e lo Spedale degli Incurabili. Qui uomini e
donne erano separati.

LO SPEDALE MAGGIORE: vi erano due gruppi

- i pazienti “con febbri” trattati dai medici


- i pazienti “per il cerusico” ovvero con ferite, ulcere, piaghe e ascessi.

La parola febbre copriva tutti i tipi di condizione, a testimonianza della dilagante ignoranza medica del
tempo.

LO SPEDALE DEGLI INCURABILI: aveva numeri più alti. Il numero delle donne superava quello degli uomini. I
pazienti per il cerusico qui erano gli individui con ferite provocate da armi da fuoco o da incidenti sul lavoro.

Per comprendere la situazione bisogna tener conto del fatto che:

- la popolazione di Genova era in buona salute


- all’ospedale andavano solo i poveri
- non tutti i pazienti dell’ospedale provenivano dalla città

Per quanto riguarda l’ispezione del porto Monti fornisce dati su tutti i vascelli e le ciurme, ma non si sa se
sia stata accurata.

Al termine delle ispezioni Monti affermò che non vi era evidenza di contagio e Silvestri affermò che le
misure intraprese erano così accurate che si poteva nutrire speranza per il futuro. Occorreva una revoca
delle sospensioni.
Il signor Silvestri, al termine dell’incontro con i Magistrati, non si mostrò soddisfatto dalla loro risposta (essi
affermarono di essere lieti del resoconto e che avrebbero inviato una lettera a Firenze) e decise di recarsi
dal suo amico Giovanni Spinola (gentiluomo genovese in buoni rapporti con Firenze), richiese una risposta
secca da parte dei magistrati. Il Signor Spinola riferì che era in corso la stesura di una lettera indirizzata a
Firenze la quale non conteneva nulla più di quanto detto a voce. Richiese una nuova udienza e la ottenne,
dicendo che credeva di non essersi spiegato bene. Affermò che Firenze gli aveva offerto l’autorità di
stabilire direttamente con loro la data di revoca e di immediato vigore degli accordi. Il presidente disse che
avrebbe dato una risposta. La lettera giunse per mano del Cancelliere che anticipò che il messaggio non
conteneva nulla di nuovo, ma confidò che essendo stati per primi i fiorentini a interrompere i rapporti
adesso erano loro a dover recuperare. Una volta che i fiorentini avessero abolito le sospensioni lo stesso
avrebbero fatto i genovesi.

Silvestri non accettò la lettera: voleva che tutto fosse messo per iscritto ma il cancelliere ritornò con la
stessa lettera. Silvestri non tornò a bordo della propria nave, ma poco dopo fu costretto a tornarsene a
mani vuote.

Il sovrano ricevette il resoconto di Silvestri ma non sapeva nulla dell’atteggiamento dei genovesi e scrisse
all’ambasciatore a Roma per comunicare al Papa che gli accertamenti erano andati a buon fine e che era
incline a riaprire i commerci con la città. Il granduca si affrettò a comunicare a Genova la sua intenzione di
riaprire confini e commercio. Anche i genovesi inviarono un’ordinanza per la riapertura e la situazione si
normalizzò.

I fiorentini scrissero una lettera indirizzata a Genova per prendere atto della revoca della sospensione e
colsero l’opportunità per esprimere il loro parere: reputavano necessario che le varie potenze procedessero
“di concerto” nell’adottare le misure riguardanti i vascelli in arrivo da aree colpite o sospette di peste. La
standardizzazione delle misure sanitarie avrebbe eliminato le proteste dei mercanti e dei capitani che
solevano paragonare le misure adottate dai vari porti.

Le autorità genovesi approvarono, seppur con atteggiamenti critici, informando i Toscani di possedere già
un ottimo regolamento che poteva al massimo essere modificato sotto loro consiglio. Aggiungevano che,
una volta concordato un comune corpo di norme, non era necessaria la reciproca vigilanza.

Procedere di concerto: comportava non solo l’adozione di un sistema di regole simili per i porti ma anche
che, se una delle parti avesse bandito o sospeso un’area, l’altra parte l’avrebbe seguita.

Una volta messo in pratica quanto detto i due porti seguirono effettivamente le stesse norme. I fiorentini,
una volta tratto accordo coi genovesi, si impegnarono nel cercare di contrarlo anche con Roma e Napoli.

Roma e Napoli avevano fatto parte della cerchia dei “corrispondenti”.

Doppia missione dei fiorentini:

- applicazione delle stesse regole


- corrispondenza regolare

Alla Santa Sede tale accordo ebbe l’approvazione. Per la corrispondenza si diede l’incarico a Monsignor
Farnese: si sarebbe limitato a rispondere ai messaggi con la concessione di rivolgersi a loro con il titolo di
Illustrissimi.

A Napoli i risultati furono più magri. La risposta delle autorità fu improntata sullo scetticismo, non
nutrivano molta fiducia nei confronti del loro comitato sanitario il quale era composto da persone che
“compravano” la carica. Questo implicava che essi provvedessero a rifarsi della spesa con la corruzione.
Dopo alcuni giorni l’ambasciatore fiorentino tornò e il reggente assicurò che seguivano le medesime
pratiche ma che, essendo sotto il dominio spagnolo, non potevano agire di concerto con Genova e Firenze
se si trattava di bandire o sospendere delle aree.

L’impresa non ebbe dunque successo: Genova e Firenze applicarono l’accordo ma ebbe breve durata.

Dopo due secoli venne tentato qualcosa di analogo: indotta dallo spauracchio del colere si aprì a Parigi la
Prima Conferenza sanitaria internazionale alla quale convennero i delegati di 11 Paesi. Impiegarono sei
mesi per giungere ad un nulla di fatto. La sua importanza risiede nel fatto che essa “stabilì il principio che la
tutela sanitaria era materia appropriata per la consultazione internazionale”

Capitolo Terzo (1630-1631)


La peste arrivò al Granducato di Toscana: nel mese di luglio morirono alcune persone a Trespiano, vicino
Firenze. Secondo gli Ufficiali la peste nera era stata portata da un uomo che era andato nella città di
Bologna, già infetta, per affari. Furono registrate in seguito altre morti sospette.

Pistoia non aveva un ufficio permanente della Sanità. Quando cominciarono a circolare le notizie il Consiglio
generale della città nominò 6 cittadini alla carica di deputati della sanità.

PRIMA MISURA APPLICATA: creazione di un cordone sanitario con guardie alle porte e restrizione al
movimento delle persone e delle merci.

La Magistratura della Sanità di Firenze intimava a tutte le città del Granducato di tenere le strade più pulite
possibile.

Al termine dei vari consigli indetti le misure intraprese rappresentano l’impotenza della scienza medica del
tempo.

- I medici proibirono la coltivazione di bachi da seta e la produzione di seta grezza. I bachi da seta
producevano cattivo odore e si credeva perciò che rendessero l’aria miasmatica. A Pistoia molta
gente viveva producendo seta.
- Deliberarono che nessun ammalato fosse autorizzato ad entrare in città senza essere visitato dai
medici locali.
- Espulsero dalla città forestieri, saltimbanchi ed ebrei. L’idea era quella di ridurre l’affollamento.
- Rifiutarono di prolungare la fiera annuale del bestiame anche se era molto redditizia
- Ordinarono a chirurghi, medici e barbieri di non uscire dalla città per lavorare a contatto con la
gente senza prima aver avvisato i Signori della città.
- Fu tassativamente proibito il movimento di persone e merci

Forti interessi economici si opponevano a queste misure restrittive. Pistoia era uno dei principali fornitori di
vino per Firenze, al tempo della vendemmia era usanza portare il vino vecchio a Firenze e far posto al vino
nuovo nelle cantine di Pistoia. Il divieto di movimento venne sospeso.

La peste venne accertata nella vicina Prato, il cerchio si stava per chiudere. Venne istituito un lazzaretto
fuori città e al medico Arrighi e al chirurgo Magni (lavoratori del lazzaretto) fu imposto di vivere fuori dalla
città. Venivano pagati 10 lire al giorno, 15 scudi al mese e ricevettero un compenso per l’uso del cavallo.

Il cerchio si chiuse: la peste fu accertata a Pistoia. I deputati della Sanità erano anche amministratori e si
preoccuparono per l’amministrazione delle risorse monetarie. Decisero di depositare i fondi al Banco di
Rospigliosi e stabilirono che tutti i pagamenti agli Uffici della Sanità sarebbero stati fatti non in contanti ma
tramite banco. Nominarono un provveditore.

Il modo di agire nei confronti della Chiesa fu pratico. Le misure si fecero più restrittive e i deputati si misero
contro un numero sempre crescente di persone. I deputati avevano i poteri per poter sopportare l’ira dei
cittadini ma non quella del clero. Decisero di ricorrere al vescovo per richiedere la licenza che permetteva,
in caso di contagio, di serrare anche le case dei religiosi. Il vescovo acconsentì.

I deputati operavano fra molti vincoli:

- Primo limite: ignoranza medica del tempo.


- Secondo limite: di natura economica. La società toscana era povera e parsimoniosa per natura.

I deputati agivano sotto un commissario generale: Luigi Vettori. Quando l’epidemia stava esaurendosi inviò
alla Magistratura della Sanità un rendiconto mirabile.

L’epidemia si sviluppò velocemente nei mesi di ottobre, novembre e dicembre. Con l’anno nuovo si ebbe
una fase di regressione. Tra aprile e maggio l’epidemia tornò a divampare.

Nel lazzaretto fuori porta furono ricoverati coloro che provenivano dalla città e dalla campagna. In città la
prima ondata fu più pesante della seconda, nel contado al contrario.

Il contagio era talmente elevato che il lazzaretto si ritrovò pieno senza posti per i nuovi malati, stabilirono di
ordinare dei nuovi posti letto e che i pazienti guariti fossero tutti mandati a casa in convalescenza per far
posto agli altri. Era necessario acquistare panni di lana, lenzuola, coperte per i mesi freddi. Fu deciso che,
degli effetti personali dei malati, quelli che non andavano bruciati fossero spediti in lazzaretto.

Fu ampliato il cimitero, fu comprata più calce e vennero assunti nuovi becchini

I deputati:

- Da un lato erano preoccupati che non venissero riconosciuti e registrati tutti i casi infetti
- Dall’altro lato erano in allarme per le condizioni di affollamento del lazzaretto

Notificarono che il personale medico dovesse inviare una nota in scriptis di tutti i malati. Deliberarono di far
assumere un dottore e un chirurgo per far visitare in città chiunque manifestasse malattie sospette.

Decretarono che nessun ammalato fosse ricoverato in lazzaretto senza essere visitato dal medico
incaricato, il dottor Arrighi.

DOTTOR ARRIGHI: aveva 30 anni, era stato medico condotto ed era un uomo compassionevole e dedito
all’incarico. Mostrava buon senso comune, prendeva in seria considerazione le condizioni fisiche dei malati
ed evitava la diffusa flebotomia. Raccomandava di cibare i malati con buoni cibi quali carne e uova e
raccomandava soprattutto pulizia. Ma la somministrazione degli altri medicamenti usuali, tra cui l’”olio
controveleni”: un disgustoso decotto di scorpioni bolliti, dimostrava che il suo trattamento medico non
poteva avere valore pratico. Le probabilità di sopravvivenza dipendevano dalla vis medicatrix naturae.

TASSO DI MORTALITA’: 51%. Diverso dal tasso di letalità che è il rapporto tra deceduti e contagiati.

Si rileva quello di mortalità perché è tutt’altro che certo che tutti i ricoverati del lazzaretto fossero colpiti da
peste.

In realtà tale tasso non era affatto alto. Va considerato che:

- Il trattamento medico non aveva valore pratico


- Nel lazzaretto spesso vi erano persone che morivano per altre malattie e non di peste

La peste uccide in fretta, nel giro di 3/6 giorni dalla comparsa della malattia. I pazienti che sopravvivono al
7/8 giorno hanno buone probabilità di guarigione.

L’ospedalizzazione non è tempestiva, molti moriranno in casa e in ospedale resteranno coloro che saranno
considerati più resistenti.
Tra i pazienti della città la mortalità raggiunge il 60%, nel contado il 50%.

L’ospedalizzazione era più rapida per chi viveva in città, molti di coloro che vivevano in campagna o nelle
frazioni saranno morti in casa.

Gli stanziamenti per la sanità a Pistoia servivano per pagare i dottori. I deputati durante un’epidemia
dovevano affannarsi per cercare fondi.

Principali fondi: erario pubblico, prestiti e contributi caritativi. La beneficenza giocava un ruolo
fondamentale. La carità era istituzionalizzata. Molte istituzioni pubbliche o semipubbliche erano aperte ai
donatori. Queste istituzioni che avevano in origine un patrimonio già cospicuo si arricchivano reinvestendo
le quote e godevano di autonomia amministrativa.

A Pistoia le più impostanti erano l’Opera di San Jacopo, l’Opera di San Giovanni e La Sapienza.

Altro grande donatore fu il Monte di Pietà, una banca pubblica i cui profitti dovevano istituzionalmente
essere devoluti in beneficenza. Vi erano anche raccolte di elemosine nelle chiese e altre provenienze di
varia natura.

I deputati dovettero provvedere al vitto per i pazienti degli ospedali, per i mendicanti e per coloro che
erano stati posti in quarantena nelle loro case.

I salari erano bassi in confronto ai costi degli alimenti.

Tra le pazienti del lazzaretto vi erano delle madri che allattavano i propri bambini. Alcune di esse morirono,
altre non potevano più allattarli a causa della malattia e i deputati dovettero affrontare il problema di
nutrire i piccoli. Le balie sane rifiutavano di andare in lazzaretto così i deputati comprarono delle capre con
cui alimentare i bimbi tramite il latte.

Quando l’epidemia si placò licenziarono alcuni membri del personale e ridussero le paghe. Procedura
analoga fu adottata per i lavoratori del lazzaretto. Nel lazzaretto il medico prestò servizio solo per 5 mesi,
assistente e chirurgo per 11. I servigi del medico erano considerati troppo costosi.

Una volta rimessi dall’infezione i pazienti erano avviati a una casa di convalescenza. Era convinzione che il
convalescente rimanesse contagioso, ed era un’idea corretta ed efficace. Più lungo era il periodo di
isolamento, maggiore era il margine di sicurezza.

Istituirono due ospedali per convalescenti, uno per uomini e uno per donne. Quando i convalescenti
venivano mandati in queste strutture i loro abiti venivano bruciati e li si riforniva di nuovi. I vecchi
indumenti potevano essere ricetto di pulci infette, ma era una pratica costosa, i deputati raccoglievano
indumenti anche attraverso la carità.

I deputati facevano di tutto per assicurarsi che le vittime di peste fossero sepolte a una determinata
profondità da terra. Tale era la povertà che la gente non aspettava altro che la morte di qualcuno per
mettere le mani sui suoi oggetti personali.

I deputati rimborsarono agli “artisti” (artigiani e operai) dei soldi per compensare ai loro beni personali
bruciati.

Nacque la convinzione che oltre alla lana ecc. anche il pelo di cani e gatti e le penne di polli e piccioni fosse
ricettacolo di miasmi e dunque procedettero con l’accalappiare e sopprimere i cani, rendendo
inconsapevolmente la vita più facile ai ratti.

Il lazzaretto era l’anticamera dell’inferno e molti facevano resistenza ad entrarvi, e anche se le autorità
riuscivano a convincere i poveri non vi riuscivano con le persone importanti.
Dell’ospedale si aveva una concezione diversa dalla nostra: vi si ricoveravano solo i poveri.

Una volta messi in quarantena chi era ricoverato doveva essere rifornito di tutto e anche i poveri serrati
nelle proprie case ne avevano bisogno, mentre i ricchi agivano da sé.

Nei lazzaretti venivano internati gli appartenenti al ceto inferiore, i benestanti rimanevano in quarantena
nelle loro case. I deputati argomentavano che i poveri vivevano in quartieri affollati, i benestanti in grandi
case e rischiavano meno il contagio.

Vettori distinse “cittadini” e “artisti”, benestanti e operai. Nessun cittadino fu confinato nel lazzaretto, è
impossibile dire se vi furono ricoverati tutti i lavoratori.

La croce davanti la porta indicava le case degli appestati. Durante il giorno gli abitanti si affacciavano:
chiacchieravano, imploravano la benedizione di un prete, chiedevano consiglio medico, calavano un
paniere per essere riforniti di viveri. A volte al posto del paniere calavano dei cadaveri.

La casa veniva serrata quando vi era un decesso, sia che avvenisse nell’abitazione sia che avvenisse al
lazzaretto. Alto era il numero delle persone morte nei lazzaretti. La proporzione delle morti in ospedale era
bassa perché la gente faceva resistenza a farsi ricoverare nei lazzaretti e perché i casi non venivano scoperti
rapidamente e una volta giunti al ricovero spesso era troppo tardi.

Vettori non ha minimizzato il fenomeno di proposito: riportava le informazioni che gli venivano passate ed
esse erano spesso incomplete.

Gli amministratori del lazzaretto non avevano motivo di registrare un numero inferiore, se accadde
qualcosa del genere si verificò in città. Quando un decesso veniva attribuito alla peste tutta la famiglia era
posta in quarantena e le suppellettili della casa venivano bruciate e per questo i medici ricevevano pressioni
affinché trascrivessero una causa diversa della morte.

Vettori sottolinea che le cifre sui decessi in città si riferiscono alle vittime che venivano seppellite nel
cimitero del lazzaretto fuori città perché si credeva che anche da morti potessero corrompere l’aria. Di
norma i morti venivano seppelliti dentro le mura della città. Se la gente moriva di peste in città ma il loro
decesso non veniva registrato come morte per peste allora non venivano spediti nelle fosse comuni. Queste
morti apparivano però nei registri ecclesiastici, seppur senza la loro causa.

Le cifre relative ai mesi di epidemia mostrano un calo dei casi di mortalità, la gente moriva in lazzaretto e
meno gente in casa. I medici vengono assolti dall’accusa di non aver denunciato tutti i casi di peste.

La città patì nel 1629 un’elevata mortalità collegata ad un’epidemia tiroidea e alla carestia.

È possibile che parte della città l’avesse abbandonata. Quando l’epidemia passò fu effettuato un
censimento da cui risultò che in città vi erano più di 7mila abitanti. I dati di Vettori reggono a ogni possibile
verifica.

A Pistoia l’epidemia scoppiò a fine autunno: quando l’epidemia stava prendendo consistenza il clima freddo
dei mesi invernali interruppe la spirale. La seconda ondata primaverile non raggiunse lo stesso picco.
L’andamento stagionale contribuì a contenere i danni.

I medici erano generalmente in grado di distinguere tra tifo e peste. In assenza di osservazione
microbiologica è possibile che la diagnosi fosse errata ma la mortalità fu atipica per una pestilenza.

Il principale vettore del bacillo della peste è la pulce del ratto.

APPENDICE
1. Sintomi e segni
Dai medici dell’epoca:
Febbri, bubboni dolenti, ansia e panico, macchie rosse come morsi di pulci, sete persistente e
lingua nera, inappetenza, strana urinazione, diarrea, respiro affannoso, fiacchezza, vesciche
acquose scure e di forma simili a carboni.

Da un manuale medico moderno:


l’insorgenza è improvvisa e caratterizzata da brividi e tremiti profondi. La temperatura sale fino a
39,5/41°C. il volto esprime ansia e timore. Sintomi frequenti sono vomito, difficoltà respiratorie,
congestione delle congiuntive, può manifestarsi deficit uditivo. Talvolta compaiono convulsioni,
stato soporoso, coma. Attorno alla 3° giornata possono manifestarsi petecchie, emorragie
polmonari e gastrointestinali. I bubboni (linfonodi ingrossati, dolenti, molli) compaiono tra II e V
giornata.

2. Diagnosi
Identificare la peste e ammetterne la presenza era oggetto di controversie. È necessario
considerare molti fattori. Ammettere la presenza di epidemia non era facile. Il medico che dichiarò
la presenza di peste a Busto Arsizio nel 1630 morì ammazzato e molto spesso i medici che
emanavano tali notizie erano soggetti a ostilità. Non bisogna sottovalutare l’importanza psicologica
delle pressioni esercitate sui medici.

DISTINZIONE: peste bubbonica e polmonare. Alcuni dividono anche peste bubbonica e setticemica,
anche se la seconda è solo un caso più acuto della prima.

Si esitava a riconoscere la peste se non comparivano bubboni, carboni e macchie, ma molto spesso
la malattia era presenta anche senza questi evidenti segnali. La peste aveva molti sintomi comuni
ad altre malattie e la diagnosi era difficile. Nel tentativo di delineare il morbo andarono allungano la
lista dei sintomi.

Fecero distinzioni tra: peste vera, contagio pestilenziale, febbre effimera, febbre putrefatta ecc

Classificazione e terminologia non valgono a nulla se non si conosce l’eziologia. I dottori del 500
non avevano nemmeno il supporto dei test.

Prima di accordare l’autorizzazione a seppellire un defunto gli ufficiali della Sanità chiedevano un
certificato di morte in cui fosse specificata la causa del decesso e tale certificato doveva essere
rilasciato da un medico o un chirurgo. Quando cominciavano ad esserci notizie di peste gli ufficiali
diventavano più rigorosi.

L’esumazione non era una pratica insolita per lo studio delle cause della morte anche se era più
frequente l’autopsia e l’inumazione. Occorre ammettere che la tecnologia rudimentale e
l’incapacità nel distinguere condizioni patologiche e condizioni cadaveriche rendevano inutili le
autopsie.

3. Contagiosità
I dottori e gli ufficiali del tempo sovrastimavano la contagiosità della peste. Nell’età d’oro della
microbiologia fu stabilito che la peste è una malattia del ratto, viene veicolata da ratto a ratto per
opera della pulce e che le pulci sono intermediarie nella trasmissione del morbo da ratto a uomo.
Il contagio interumano compare solo nel caso di peste polmonare, mediante le goccioline di
espettorato.
Il contagio uomo – pulce dell’uomo – uomo non è tanto probabile perché la pulce dell’uomo non è
un vettore efficiente di peste. Le pulci dell’uomo e forse i pidocchi sono stati capaci di trasmettere
l’agente patogeno da uomo a uomo.
La rilevanza di questo fatto va considerata alla luce delle condizioni di vita degli uomini del tempo.
Le pulci abbondavano nei corpi dei poveri come in quelli dei ricchi, negli ospedali e anche nei
lazzaretti. Le pulci infette hanno la capacità di sopravvivere da 6 settimane a un anno e possono
trovare ricetto nei vestiti, nei pagliericci, in stracci, pellicce, tappeti e cose simili.

4. Prognosi
Sebbene i dottori non si astenessero dal trattare pazienti con vescicatori, unguenti e vari preparati
essi nutrivano poca fiducia nei loro sforzi, le prognosi erano cattive. Nel tre-quattrocento i dottori
avevano imparato a distinguere tra “peste” e “peste con sputo di sangue” ed erano preparati a fare
una prognosi sfavorevole nei casi di peste polmonare che in quelli di peste bubbonica.

5. Mortalità
Le informazioni statistiche sugli effetti della peste trattano di mortalità totale, ovvero del numero
totale di decessi. Se si hanno informazioni sul numero di abitanti si può calcolare il tasso grezzo di
mortalità. Quanto ai dati raccolti, non vanno presi nel loro valore nominale. L’accuratezza statistica
era ancora ai primordi e la disgregazione della vita cittadina incideva in modo sfavorevole sulle
procedure di registrazione. Quando in una comunità scoppiava un’epidemia di peste la prospettiva
era che un quarto o metà della popolazione morisse. Quando l’epidemia colpiva il centro urbano
chi aveva la possibilità si disperdeva nel contado. Quando in una data area scoppiava l’epidemia
alcune aree di campagna riuscivano a farla franca ma molte no, e lo stesso vale per le aree urbane.
In generale i fenomeni biologici non sono mai definibili con facilità.

6. Morbilità e letalità
Morbilità: numero degli infetti sul totale della popolazione
Letalità: numero dei decessi sul numero degli infetti
Mortalità: numero dei decessi sul totale della popolazione

7. Differenze di morbilità e differenze di mortalità


All’epoca erano d’accordo nell’affermare che l’incidenza della peste era maggiore nei ceti inferiori e
se consideriamo le condizioni malsane in cui viveva la popolazione lavoratrice ciò non è strano.
Dottore Ingrassia: pensava che morbilità e letalità fossero più elevate tra i popoli.
Dottore Parisi: pensava che la morbilità fosse più elevata tra la plebe e la letalità tra la nobiltà.
Tutti e due basavano il proprio pensiero su congetture.
Nel corso dell’epidemia il tasso di letalità non rimaneva costante. In alcune epidemie il tasso medio
di letalità era più alto nella fase iniziale, in altri casi valeva il contrario. I dati in questione chiariscono
che occorre andar cauti con le generalizzazioni.

8. Il corso della malattia


La malattia aveva un andamento veloce e nei casi gravi presto si giungeva alla morte. Il morbo aveva
un rapido corso e la morte avveniva in qualche giorno.

9. Il corso dell’epidemia
Le epidemie di peste potevano divampare in qualsiasi periodo e stagione. La curva delle pestilenze è
conforme al modello “a campana” e può essere asimmetrica sia a destra che a sinistra. I diversi gradi
di distorsione della pestilenza ci ricordano che ogni epidemia è un evento storico unico. A volte si
incontrano curve a due picchi. Il punto più basso di una curva coincide con i mesi invernali.
L’avvento del tempo freddo causa una diminuzione delle pesti del ratto che o muoiono o vanno in
letargo e i ratti rallentano la loro attività sessuale. La primavera può portare ad una recrudescenza di
peste epizootica ed epidemica. La stagione calda favoriva la diffusione del contagio, il freddo clima
invernale fungeva da deterrente.

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