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SCAFFALE - 194

a cura di
Stefania Mazzone
194

L’idea di questo volume a molte voci si muove nell’ambito culturale e

Stefania Mazzone

SCAFFALE DEL NUOVO MILLENNIO


semantico della dimensione del concetto di umanità, definito a partire dalla
mobilità. I testi che lo compongono propongono, attraverso le diverse NARRARE
dimensioni del sapere, dall’operativo al giuridico, dallo storico al filosofico,
dall’antropologico al sociologico e al politologico, una definizione sincroni-
ca, diacronica, ma anche acronica di umanità. Una sorta di cassetta degli
LE MIGRAZIONI
attrezzi, agile e variegata, per chi voglia, a diversi livelli, trovare strumenti di
riflessione, approfondimento, intervento nell’ambito della dimensione tra diritto, politica, economia
delle migrazioni umane. Cogliendo l’urgenza del tema, il volume si costrui-
sce intorno al carattere innovativo dell’approccio. Un’esperienza di ricerca e
di pratica, secondo i tempi dettati dall’agenda dei fatti e degli interventi su
questi: una prassi in narrazione.

NARRARE LE MIGRAZIONI
Stefania Mazzone insegna Storia delle dottrine politiche presso l’Università
degli Studi di Catania. Studia il rapporto tra ideologie, istituzioni e narrazioni
tra il moderno e il postmoderno, con particolare attenzione alle questioni di
storia della corporeità e di genere e alla storia del rapporto tra ordine pubbli-
co ed eversione. Tra i suoi lavori, Passioni e artificio. Individuo e ordine sociale nella
filosofia di David Hume, Milano, 1999; Stato e Anarchia. La filosofia politica del
libertarismo americano: Murray Newton Rothbard, Milano, 2000, Tempo e potere.
Tragitti di democrazia costituente, Milano, 2004; Filosofia del corpo. Il desiderio
immaginativo, Acireale-Roma, 2013.

In copertina:
Salvador Dalì, La Nave, 1935 (part.)

Euro 42,00 9 788863 182118


SCAFFALE DEL NUOVO MILLENNIO

194

1
NARRARE LE MIGRAZIONI
tra diritto, politica, economia

a cura di Stefania Mazzone

Prefazione di Francesco Rocca


Presidente di Croce Rossa Italiana,
della Federazione Internazionale di Croce Rossa
e Mezzaluna Rossa

BONANNO EDITORE

3
ISBN 978-88-6318-211-8

Proprietà artistiche e letterarie riservate


Copyright © 2018 - Gruppo Editoriale Bonanno s.r.l.
Acireale - Roma

www.gebonanno.com
gebonanno@gmail.com

4
Indice

Prefazione
Francesco Rocca pag. 11

Introduzione
Stefania Mazzone ” 19

La problematica e le nozioni
della criminalità organizzata
Salvatore Aleo ” 23

La governance delle migrazioni


tra human security e trasformazioni della cittadinanza
Alessandro Arienzo, Pietro Sebastianelli ” 37

Da Oriente a Occidente: i genovesi da Chio a Messina


Maria Concetta Calabrese ” 51

Il Comitato di Catania della Croce Rossa Italiana


e il Restoring Family Links: oltre l’accoglienza
Davide Casella, Silvia Dizzia ” 61

La tutela delle categorie migranti deboli:


il progetto SPRAR vulnerabili
Stefania Castiglia ” 73

Alcune ipotesi su migrazioni e comunità immaginate


Andrea Giuseppe Cerra ” 83

Il controllo dello spazio


per la «gestione» degli stranieri immigrati
Carlo Colloca ” 93

5
Le migrazioni come dimensione missionaria
di solidarietà universale
nel pensiero e nell’opera di don Luigi Giussani
Giorgia Costanzo pag. 103

“Sicilia amara”: profili dell’emigrazione siciliana


tra XIX e XX secolo
Alessia Maria Di Stefano ” 115

Meno Welfare, più paure. Migrazioni e terrorismi:


dispositivi normativi, ordini discorsivi
e insicurezza sociale
Stefania Ferraro ” 131

Solo per andare via:


le proteste dei /delle migranti in Sicilia
Federica Frazzetta, Gianni Piazza ” 143

Tracce, plurivocità, omissis:


per una narrazione non lineare della migrazione
Filippo Furri ” 157

Il Mediterraneo antico: un mare aperto


Emilio Galvagno ” 167

Le comunità dell’odio. Hate-speech, social media


e migrazione durante le elezioni del 2018
per il rinnovo del Parlamento italiano
Mattia S. Gangi ” 181

I salvataggi in mare, fra istanze umanitarie


ed esigenze di sicurezza
Roberto Massimiliano Gennaro ” 193

Spigolature filosofiche sull’Altro


Fabrizio Grasso ” 207

Le politiche migratorie europee e la società civile


Daniela Irrera ” 217

6
Storie di morti e scomparsi nell’enclave di Melilla
Carolina Kobelinsky pag. 227

Migrazioni e (percezione della) sicurezza.


Dimensione giuridico-penale
Enrico Lanza ” 237

La crisi della società dei diritti:


dai diritti umani agli status delle persone migranti
Delia La Rocca ” 255

Urbanitas, integrazione e cittadinanza


Orazio Licandro ” 265

Migrazione come esodo:


il caso degli anarchici nell’Ottocento
Stefania Mazzone ” 277

Vittorio Emanuele Orlando


e la “coscienza del popolo”
Leone Melillo ” 287

La fascia trasformata della provincia di Ragusa,


un ghetto diffuso
Michele Mililli ” 297

Frammenti relitti della diaspora greco-albanese in Sicilia


(XV-XVI sec.)
Paolo Militello ” 305

Silenziose voci dal mare. Il ricordo e la dimenticanza


Dario Monteforte ” 317

Razzismo, antirazzismo e universale politico


Matteo Negro ” 323

7
Narrare la (morte in) migrazione.
«Semiotica del genocidio»,
violenza culturale e “diasporicidio”
Guido Nicolosi pag. 333

Un’emigrazione in senso inverso:


il Portogallo in Brasile
Aldo Nicosia ” 349

L’incontro tra greci e indigeni in Sicilia


in età coloniale: forme di contatto
e processi di acculturazione.
Sonia Nicotra ” 363

Migranti culturali. Dinamiche economiche


e sociali della mobilità studentesca in Sicilia,
fra passato e presente.
Daniela Novarese ” 371

La Comunità europea, l’Italia


e la prima crisi migratoria albanese
nel post-guerra fredda (1990-1991)
Simone Paoli ” 383

Esodi europei del ’900: il caso dei giuliano-dalmati


Raoul Pupo ” 393

La Libia dopo la “Primavera Araba”.


Le origini del caos e della frammentazione
Simone Rinaldi ” 405

Giovani donne migranti tra protezione e promozione


Laura Savelli ” 421

Spunti di riflessione sul ruolo degli enti territoriali


nella gestione del fenomeno migratorio
Maria Laura Signorelli ” 433

8
Attuali profili evolutivi
del rapporto tra Cittadinanza e Immigrazione
Fabrizio Tigano pag. 443

La criminalizzazione dei migranti irregolari


nella società dell’insicurezza
Simona Tigano ” 453

L’eccidio degli emigrati italiani a New Orleans


del 14 marzo 1891: fu vero linciaggio?
Jacopo Torrisi ” 471

La conservazione degli equilibri in materia di asilo


tra poca attenzione alla forma
in materia di assetto delle fonti del diritto
ed eccesso di formalismo
in materia di definizione del principio di solidarietà
Fausto Vecchio ” 491

Lampedusa, luogo di nessuno, e Anteo


Tino Vittorio ” 499

9
URBANITAS, integrazione e cittadinanza
Orazio Licandro* 45

1. La diversità barbarica

Nel declinare la ‘diversità’, questione dall’indubbia perennità e


capacità di attraversare società e modelli dall’antichità ai nostri
giorni, nei suoi svariati profili e accenti certamente tra i ‘diversi’
che toccano maggiormente la sensibilità dell’opinione pubblica
nella temperie attuale ci sono innanzitutto i migranti. Il feno-
meno dei flussi migratori, divenuto quasi un dato più strutturale
che emergenziale per l’elevatissimo numero di conflitti bellici in
atto, per le potenti trasformazioni economiche e sociali in atto
che hanno accresciuto esponenzialmente disuguaglianze sociali
ed economiche, da tempo investe l’Europa, i governi nazionali,
le società, condizionandone il dibattito e l’agenda politica, mi-
nandone coesione e offrendo linfa al risorgere di pericolosi na-
zionalismi oggi ammantati, come vuole una nuova suggestiva e
suadente semantica, di ‘sovranismo’.
Non costituiscono certo una novità, anzi sono tornate prepo-
tentemente di moda, l’analisi e la comparazione con l’impero ro-
mano: lo dimostra l’enorme mole di letteratura dedicata a temi
specifici, dalla cosiddetta etnogenesi alle diverse linee di politica
legislativa poste in campo dagli imperatori (dal contrasto alla in-
clusione), ma la storiografia contemporanea deve fare i conti con
un fardello pesante e condizionante, derivante soprattutto dallo
scontro interno alla grande storiografia ottocentesca che, per usare
un’espressione di Patrick J. Geary, ci ha lasciato un ‘paesaggio avve-
lenato’, ove la questione germanica nel suo rapporto con l’impero
romano si è letta e ricostruita nell’ottica delle ‘Völkerwanderung-
en’ (cioè ‘le migrazioni dei popoli’, espressione della storiografia

*
Professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche dell’antichità e di Pa-
pirologia, Università di Catania.

265
tedesca classica) o delle ‘grandi invasioni’ o ‘invasioni barbariche’
(tipica invece della storiografia di lingua romanza).
Se una cosa va detta, è che nonostante i progressi restano sul
campo le macerie di quelle visioni preconcette, spesso infondate
e fuorvianti della questione ‘Barbari’, oggi sotto i condiziona-
menti ideologici dei rinascenti nazionalismi di una caotica post-
modernità come lo fu allora sotto gli infuocati dibattiti ideolo-
gici e politici del nazionalismo ottocentesco, come ancora scrive
Geary: «La vera storia delle nazioni che hanno popolato l’Europa
nell’Alto Medioevo non comincia nel VI secolo, bensì nel XVIII.
Ciò non significa negare che gli uomini che hanno vissuto in
un lontano passato non abbiano avuto un sentimento nazionale
o d’identità collettiva. Ma il dibattito intellettuale e gli scontri
politici del XVIII e del XIX secolo hanno a tal punto trasformato
il modo di vedere i gruppi sociali e politici da rendere impossi-
bile una visione ‘oggettiva’ di ciò che furono le categorie sociali
nell’Alto Medioevo, senza che essa non risulti in qualche modo
ottenebrata da questo passato più prossimo».
Al contrario, il fenomeno di questi popoli-esercito nomadi
e senza alcun senso dello ‘Stato’ e principalmente del loro rap-
porto con l’impero romano costituiscono problemi complessi,
enormi, dalle più disparate implicazioni, forieri, come in effetti
furono, di trasformazioni profonde, di certo non inquadrabili
né interpretabili semplicisticamente e con geometrica simmetria
in termini di violenza, abbattimento, distruzioni, barbarie, fine
della civiltà oppure di enfatica esaltazione dell’alba radiosa di un
‘nuovo mondo’ per legittimare l’idea di un’Europa dalle origini
germaniche. e tuttavia si tratta di temi che non possono certo
trovare spazio in queste brevi pagine, assai più limitatamente
concentratesu pochi documenti, alcuni assai noti e di capitale
importanza e altri meno ma altrettanto interessanti per assumere
angoli di visuale diversi da quelli consueti.
Come dicevo prima, sebbene nuovi approcci della ricerca stia-
no innovando e solcando fortunatamente terreni poco esplorati e
fecondi, suggestive in questo senso le pagine di un libro denso e
innovativo di James C. Scott (Against the Grain. A Deep History
of the Earliest State, Yale University 2017), purtroppo continua-
no a resistere luoghi comuni e tra i più triti, e anche rozzi, vi è
quello tutto muscolare, violento, del cozzare tremendo tra due

266
civiltà e del tracollo rovinoso di una delle due. Un recente libro
di un giornalista con il pallino delle scienze antichistiche, Michel
De Jaeghere, apparentemente di successo per il numero di co-
pie diffuse, è la prova di come non si debba fare storiografia. La
migliore, e anche copiosa, letteratura in materia dimostra infatti
quanto fosse assai più complessa la realtà, quanto fossero dinami-
ci e flessibili i rapporti tra impero e popolazioni straniere e come
all’interno dell’impero stesso la società romana, una società co-
struita sulle diseguaglianze soprattutto quella tardoantica, fosse
tutt’altro che rigidamente imperniata su Romanitas e Barbaritas.
Partiamo, allora, da una costituzione imperiale di Arcadio e
Onorio del 5 aprile del 399 d.C. conservata nel Codex Theodo-
sianus:

CTh. 13. 11.10. Impp. arcadius et honorius aa. messalae prae-


fecto praetorio. Quoniam ex multis genti bus sequentes romanam
felicitatem se ad nostrum imperium contulerunt, quibus terrae laeticae
administrandae sunt, nullus ex his agris aliquid nisi ex nostra adnota-
tionem ereatur. Et quotiamo aliquanti aut amplius quam meruerant
occuparunt aut colludio principalium vel defensorum vel sub repticiis
rescriptis maiorem, quam ratio poscebat, terrarum modum sunt con-
secuti, inspector idoneus dirigatur, qui ea revocet, quae aut male sunt
tradita aut improbe ab aliquibus occupata. dat. non. april. medio-
lano theodoro v. c. cons.

Si tratta di un testo particolarmente interessante per i molti


spunti di riflessione che offre, ma per lo più, salvo eccezioni,
lasciato in ombra. Il dispositivo imperiale partiva da una precisa
premessa poggiante su due motivi: il primo, l’arrivo nei territori
dell’impero di molti migranti stranieri, e l’espressione usata dalla
cancelleria imperiale è univoca nel lasciare intendere che si trat-
tava tutt’altro che di arrivi ‘molecolari’ a carattere episodico bensì
di un consistente e costante flusso; il secondo, la considerazione
imperiale che tali moltitudini giungevano ai confini dell’impero
inseguendo una romana felicitas. Difficile non cedere alla tenta-
zione di attualizzare il testo dinanzi al fenomeno migratorio di
chi oggi fugge da guerre e miseria in cerca di migliori condizioni
materiali di vita, ma limitiamoci a cogliere il motivo propagan-
distico di un governo imperiale desideroso di mostrare un volto
accogliente.

267
Ciò che mosse Arcadio e Onorio nel varo del provvedimen-
to non fu certo un sentimento solidaristico del tutto estraneo
all’opinione pubblica dominante, alla base ne stavano invece ben
altre motivazioni di ordine politico e militare relative, in partico-
lare, alla categoria dei laeti, sulla cui esatta fisionomia ancora si
discute. Il testo imperiale è significativo, in primo luogo, perché
i laeti appaiono in una luce positiva, anzi persino funzionale alla
salvezza dell’impero, tanto da destinare loro terre ove stanziarsi,
secondo regole e procedure e interventi repressivi dei fenomeni
corruttivi dei funzionari preposti all’insediamento. In secondo
luogo, perché permette di correggere il luogo comune dell’uni-
versale aspro pregiudizio verso i Barbari, mentre si contrapposero
nettamente due diversi atteggiamenti, anche dalle formulazioni
estreme, a favore e contro.
Al forte sprezzo di Sinesio (de regn. 19) verso l’alterità bar-
barica, a cui può affiancarsi l’anonimo del De rebus bellicis, ove
compare la metafora dispregiativa e ferina dei minacciosi popoli
latranti ai confini dell’impero, faceva da contraltare la voce di Te-
mistio (or. 16.207 b-c; 16.211 a-d), favorevole a una politica di
apertura, se non di assimilazione, sebbene sempre in quell’ottica
di utilitas perseguita da Teodosio, motivo completamente assun-
to anche da Orosio. Eppure, non sono affatto pochi i provvedi-
menti contenuti, ad esempio, nel Codex Theodosianus e varati in
tempi diversi e da vari imperatori diretti a proibire usanze barba-
riche con lo scopo evidente di impedire ogni possibile contami-
nazione, rendendo estremamente dura la loro radicale condizio-
ne di diversità di alienigeni: dal divieto di commercio spinto sino
all’embargo a quello di navigazione, dal divieto di insegnare ai
barbari persino l’arte di costruire navi al divieto di matrimonio.
Ma alcuni divieti possedevano una valenza simbolica partico-
larmente pregnante, a cominciare da quello disposto da una lex
generalis ad populum del 397 d.C. Varata da Arcadio e Onorio
(CTh. 14.10.2), che irrogava una pena severissima (exilium per-
petuum) a coloro che avessero indossato nella città di Roma gam-
bali e calzoni lunghi. Si pensi al divieto fatto alle donne in della
Francia di indossare il burqua. Quelle misure furono ribadite da
Arcadio e Onorio nel 399 d.C. con una nuova costituzione in-
viata al praefectus urbi Flaviano (CTh. 14.10.3). Circa diciassette
anni dopo, nel 416 d.C., toccava a Onorio e Teodosio II ridare

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smalto al divieto con una costituzione, forse di portata ancora
più ampia, diretta sia ai cittadini romani e stranieri liberi sia agli
schiavi con l’indicazione delle relative differenti pene applicabili
(CTh. 14.10.4).
Da un certo punto di vista, la preoccupazione imperiale non
era del tutto infondata dal momento che la convivenza sempre
più diffusa produceva effetti reciproci, non soltanto un incivili-
mento delle genti germaniche ma anche un radicamento di usi
germanici presso i Romani. Nei testi imperiali la foggia barbarica
di un individuo era considerata un disvalore a Roma (ma anche a
Costantinopoli) e negli immediati dintorni come dimostra pure
uno scorcio di Procopio, incapace di stemperare l’intolleranza
verso quei Romani (gli ‘Azzurri’ di Costantinopoli) che si accon-
ciavano alla maniera barbarica: «La loro prima ribellione investì
l’acconciatura che venne trasformata. Essi non si tagliavano i ca-
pelli come gli altri romani, i baffi restavano intatti al modo per-
siano. Quanto ai capelli sul davanti erano rasati fino alle tempie,
dietro se li lasciavano penzolare, senza criterio come i Messageti.
Chiamavano unna questa foggia […] prediligevano mantelli e
brache e soprattutto calzature che fossero unne di nome e fog-
gia. Portavano armi» (arc. 7.8-10). È appena il caso di osservare
l’esatta corrispondenza con i divieti introdotti dalle costituzioni
imperiali poc’anzi citate, tanto da potersi dire che, pur conden-
sandoli in poche righe, Procopio ne dimostrava la perdurante
attualità nel VI secolo d.C.
Che fossero molteplici le ragioni dell’ostilità verso usanze,
consuetudini, regole di vita germaniche, è cosa ovvia, e sarebbe
impossibile qui discuterne, però la scelta di soffermarsi su quei
divieti è dettata dal fatto che essi simbolicamente, forse più di
altri proprio perché aggredivano con radicalità aspetti esteriori
(abbigliamento, acconciatura), aiutano a comprendere la cifra
dell’ostilità e del disprezzo culturale di fondo nutrito verso questi
‘diversi’. L’utilizzazione di aggettivi come venerabilis o sacratis-
sima riferiti a Roma non era semplice propaganda o consunto
omaggio alla vecchia capitale imperiale, quegli aggettivi esprime-
vano altro, cioè un preciso indicatore culturale e identitario sedi-
mentatosi da molti secoli. Ammiano Marcellino, noto odiatore
dei Barbari, a tal punto offre uno spunto interessante nel descri-
vere la meraviglia dei Goti alla vista di Costantinopoli: «La loro

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audacia venne meno quando, avanzando, osservarono il perime-
tro delle mura, oblungo con gli immensi blocchi di case, e videro
le irraggiungibili bellezze della città, l’immensa popolazione che
vi abitava e lì vicino lo stretto che divide il Ponto dall’Egeo». Ed è
sulla città che bisogna far leva per provare a capire di più. Perché
non vi erano soltanto ragioni etniche alla base delle discrimina-
zioni, ma pure un altro spettro di valori che si condensava nella
città e nella sua ideologia. E se la città per eccellenza era Roma,
poi anche la Seconda Roma cioè Costantinopoli, era nelle cose
che quel modello culturale costituisse lo spartiacque della civili-
tas da cui erano esclusi i Barbari, salvo l’abbandono dei loro co-
stumi per conseguente romanizzazione: la civilitas nei documenti
antichi trovava una sintesi nella cosiddetta urbanitas.

2. L’URBANITAS nella TABULA BANASITANA e in P. GISS. 40.II

Per chiarire come ciò non fosse solo il frutto dell’urto alle frontie-
re tra l’impero e le popolazioni germaniche nei secoli tardoanti-
chi, ma qualcosa dalle radici profonde affondanti in un impianto
ideologico e identitario squisitamente romano assai più risalente,
basta qualche esempio.
Nella Tabula Banasitana (180/181 d.C.), Marco Aurelio nel
concedere la cittadinanza ai principes della gens Zegrensium, della
Mauretania Tingitana, motivava il gesto come eccezionale ricom-
pensa per i meriti e i servigi improntati alla massima fedeltà a
Roma. L’eccezionalità stava nel fatto che Roma non era adusa
concedere la cittadinanza a gentes, ovvero a comunità nomadi o
comunque di carattere tribale, non strutturate in città e, pertan-
to, prive di una cultura urbana.
Un’ulteriore conferma, giunge dalla documentazione suc-
cessiva al 212 d.C., contenente informazioni tali da mettere se-
riamente in discussione ciò che è stato sinora un punto fermo,
ovvero la concessione universale della cittadinanza romana agli
stranieri residenti nell’impero attraverso la Constitutio antoninia-
na del 212 d.C., salvo le (presunte) eccezioni menzionate dalla
lacunosa clausola di PGiss. 40. I.
Interessante è infatti cosa accadde agli Egizi della χώρα nel
215 d.C., dunque appena qualche anno dopo con un decreto di

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espulsione degli Egizi da Alessandria varato da Caracalla a segui-
to di una sommossa culminata in un bagno di sangue (PGiss. 40.
II). Del decreto colpisce non solo e non tanto l’espulsione degli
Egizi, quanto il fastidio imperiale, se non addirittura un radicale
disprezzo verso quegli Egizi della χώρα, priva, come è noto, di
città, statuto negato alle metropoli ma riconosciuto soltanto ad
Alessandria, Naucrati e Tolemaide.
Questi Egizi della χώρα, ben distinti dagli Egizi romani,
Ἀυρήλιοι, restavano dunque estranei alla cultura della città: tan-
to lontani nei loro costumi di vita e dalle maniere poco civili,
da essere vissuti davvero come diversi e incompatibili come si
legge nell’aspro passaggio finale del decreto di Caracalla (ἔτι τε
καὶ ζω[ῇ] δεικνύει ἐναντία ἤθη ἀπὸ ἀναστροφῆς [πο]λειτικῆς
εἶναι ἀγροίκους Α[ἰ]γυπτίους, PGiss. 40. II, ll. 16-30). Docu-
menti del genere costringono a tornare a riflettere sulla portata
universale del provvedimento del 212 d.C., per concludere che la
cittadinanza romana non fu concessa a tutti. Ne restarono esclusi
certamente gli Egizi della χώρα perché privi di città e della rela-
tiva cultura, ovvero dell’urbanitas.

3. L’URBANITAS essenza del modello romano

Ma in cosa consisteva l’urbanitas? Dobbiamo alla mirabile squa-


dra di commissari giustinianei guidata da Triboniano la conser-
vazione di alcuni preziosi documenti che illuminano l’aspetto
cruciale dell’urbanitas, termine evocante, da un canto, un essen-
ziale tratto identitario culturale della cittadinanza romana e, da
un altro, la relazione tra una persona e un territorio.
In particolare, sono due i passi significativi: uno di Ulpiano
e un altro di Modestino che, integrandosi e confermandosi reci-
procamente, contribuiscono a chiarire appunto cosa entrasse in
gioco nella valutazione della relazione tra una persona e il terri-
torio, o i territori, su cui insisteva:

D. 50. 1.27. 1 (Ulp. 2 ad ed.): Si quis negotia sua non in colonia,


sed in municipio semper agit, in illo vendit, emit contrahit, in eo foro
balin eo spectaculi sutitur, ibi festos diescelebrat, omnibus denique mu-
nicipii commodis, nullis colonia rum fruitur, ibi magis habere domici-
lium, quam ubi colendi causa deversatur.

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D. 50. 1. 35 (Modest. 1 exc.): Εἰδέναι χρὴ ὅτι ὁ ἐν ἀγρῷ καταμένων
ἰνκόλας οὐ νομίζεται· ὁ γὰρ ἐκείνης τῆς πόλεως ἐξαιρέτοις μὴ
χρώμενος οὕτως οὐ νομίζεται εἶναι ἰνκόλας.

I due giuristi severiani individuavano un preciso indicatore


della qualità del legame di un individuo con il territorio, e cioè
la partecipazione alla vita economica, sociale e culturale di una
città. Insomma, nei brani dei Digesta appena richiamati vengono
in considerazione il caso di chi possedeva un rapporto ambiguo
tra due strutture urbane, una colonia o un municipio, (il caso
su cui si soffermava Ulpiano), oppure quello di colui che, abi-
tando in un fondo rustico, non si avvalesse delle prerogative, dei
vantaggi, dei servizi, insomma dei commoda, della città (il caso
esaminato da Modestino). Numerose erano le disposizioni degli
statuti municipali in cui si contemplavano ed enumeravano pro-
prio tali aspetti: nella lex Irnitana, ad es., si menzionano cenae e
ludi (cap. 77); distribuzioni di denaro (cap. 79); spectacula (cap.
81); epula, viscerationes (cap. 92). Mi pare allora che possa dirsi
che i due testi confermino un preciso e univoco orientamento di
continuità dei prudentes romani attenti non tanto, o almeno non
soltanto, al luogo dove banalmente si soggiornasse, cioè dove di-
remmo volgarmente oggi si andasse a dormire, ma alla sostanza
reale e qualificata del rapporto tra individuo e comunità. Si trat-
tava, insomma, di uno dei cardini su cui ruotava l’essenza della
romanità, cioè l’urbanitas quale stile di vita urbano che soltanto
una struttura cittadina era in grado di offrire ai propri membri:
un tessuto urbanistico fatto di edifici privati e pubblici con strut-
ture in grado di assicurare la vita associata nel profilo economico,
culturale, politico. L’attenzione anche alle strutture materiali, ove
si svolgeva la vita cittadina, costituì sempre una delle fondamen-
ta ideologiche della città e della cittadinanza: templi, fori, teatri,
fontane, ginnasi, scuole, definivano un modello non solo e non
tanto urbanistico quanto assai più profondamente culturale. Lo
schema del modello era già offerto da Cicerone che nel De offici-
is, in un tentativo di inquadramento definitorio del civis, teneva
strettamente congiunti tre aspetti:

Cic. de off. 1. 17. 53: multa enim sunt civibus inter se communia,
forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudi-
nes praeterea et familiaritates cum multis res rationes que contractae.

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Dunque, dagli elementi istituzionali, quali il diritto e i giudici
e la politica (leges, iura, iudicia, suffragia), ai rapporti interperso-
nali e di affari, alle strutture materiali cittadine (forum, fana, por-
ticus, viae), nonostante la distanza di diversi secoli, da Cicerone a
Modestino, la linea non appare affatto mutata. Sempre quei me-
desimi tre aspetti cesellavano a tutto tondo lo status di cittadino e
del rapporto con una comunità urbana. Commoda e, aggiungerei
conseguentemente, munera (servizi e doveri) erano tra i cardini
principali del modello culturale romano della città, senza i quali
il funzionamento delle organizzazioni cittadine avrebbe sofferto
molto, fallendo l’obiettivo dell’aequalibis compensatio indicato da
Cicerone. In altre parole, commoda e munera assurgevano nella
riflessione giurisprudenziale a criteri oggettivi, indicatori essen-
ziali per determinare attraverso un rapporto qualificato con una
struttura urbana il domicilium di un individuo e di conseguenza
il rapporto con una città piuttosto che con un’altra. Ma il cuo-
re del problema restava quello sottolineato della cultura urbana,
misura di una compiuta romanizzazione, di norma requisito per
il conseguimento della cittadinanza.
In questa prospettiva, allora, si spiega perché già Strabone, a
proposito delle popolazioni iberiche e dei Turdetani in particola-
re, osservasse con una punta di meraviglia le loro maniere civili,
l’adozione dello stile di vita romano, l’abbandono della loro lin-
gua a favore del latino e la scelta di chiamare le loro città con nomi
romani (Strab. geogr. 3. 2. 15). Eppure, tutto ciò non impediva
che continuassero a coesistere, in un quadro più generale di inte-
grazione, cittadini e non cittadini: ne sono esempi il decretum di
Anastasio I del 500 d.C. (SEG 9. 356), in cui si distingueva an-
cora tra Romani ed Egizi, e il caso dei Goti di Teoderico l’Amalo
che sempre in quel medesimo torno di tempo, nonostante fossero
ammessi e integrati nelle terre occidentali dell’impero, mantene-
vano lo status di peregrini foederati (stranieri alleati).

Bibliografia

R. Arcuri, Romanitas e barbaritasnell’Italia ostrogota: aspetti cultu-


rali e socioeconomici, in «MedAnt» 14/1-2, 2011, 477-498; Ead.,
Etnogenesi, «entelechia barbarica» e attuali orientamenti storio-

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Finito di stampare nel mese di dicembre 2018
presso Creative 3.0 - Reggio Calabria

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