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a cura di
Stefania Mazzone
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Stefania Mazzone
NARRARE LE MIGRAZIONI
Stefania Mazzone insegna Storia delle dottrine politiche presso l’Università
degli Studi di Catania. Studia il rapporto tra ideologie, istituzioni e narrazioni
tra il moderno e il postmoderno, con particolare attenzione alle questioni di
storia della corporeità e di genere e alla storia del rapporto tra ordine pubbli-
co ed eversione. Tra i suoi lavori, Passioni e artificio. Individuo e ordine sociale nella
filosofia di David Hume, Milano, 1999; Stato e Anarchia. La filosofia politica del
libertarismo americano: Murray Newton Rothbard, Milano, 2000, Tempo e potere.
Tragitti di democrazia costituente, Milano, 2004; Filosofia del corpo. Il desiderio
immaginativo, Acireale-Roma, 2013.
In copertina:
Salvador Dalì, La Nave, 1935 (part.)
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1
NARRARE LE MIGRAZIONI
tra diritto, politica, economia
BONANNO EDITORE
3
ISBN 978-88-6318-211-8
www.gebonanno.com
gebonanno@gmail.com
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Indice
Prefazione
Francesco Rocca pag. 11
Introduzione
Stefania Mazzone ” 19
La problematica e le nozioni
della criminalità organizzata
Salvatore Aleo ” 23
5
Le migrazioni come dimensione missionaria
di solidarietà universale
nel pensiero e nell’opera di don Luigi Giussani
Giorgia Costanzo pag. 103
6
Storie di morti e scomparsi nell’enclave di Melilla
Carolina Kobelinsky pag. 227
7
Narrare la (morte in) migrazione.
«Semiotica del genocidio»,
violenza culturale e “diasporicidio”
Guido Nicolosi pag. 333
8
Attuali profili evolutivi
del rapporto tra Cittadinanza e Immigrazione
Fabrizio Tigano pag. 443
9
URBANITAS, integrazione e cittadinanza
Orazio Licandro* 45
1. La diversità barbarica
*
Professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche dell’antichità e di Pa-
pirologia, Università di Catania.
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tedesca classica) o delle ‘grandi invasioni’ o ‘invasioni barbariche’
(tipica invece della storiografia di lingua romanza).
Se una cosa va detta, è che nonostante i progressi restano sul
campo le macerie di quelle visioni preconcette, spesso infondate
e fuorvianti della questione ‘Barbari’, oggi sotto i condiziona-
menti ideologici dei rinascenti nazionalismi di una caotica post-
modernità come lo fu allora sotto gli infuocati dibattiti ideolo-
gici e politici del nazionalismo ottocentesco, come ancora scrive
Geary: «La vera storia delle nazioni che hanno popolato l’Europa
nell’Alto Medioevo non comincia nel VI secolo, bensì nel XVIII.
Ciò non significa negare che gli uomini che hanno vissuto in
un lontano passato non abbiano avuto un sentimento nazionale
o d’identità collettiva. Ma il dibattito intellettuale e gli scontri
politici del XVIII e del XIX secolo hanno a tal punto trasformato
il modo di vedere i gruppi sociali e politici da rendere impossi-
bile una visione ‘oggettiva’ di ciò che furono le categorie sociali
nell’Alto Medioevo, senza che essa non risulti in qualche modo
ottenebrata da questo passato più prossimo».
Al contrario, il fenomeno di questi popoli-esercito nomadi
e senza alcun senso dello ‘Stato’ e principalmente del loro rap-
porto con l’impero romano costituiscono problemi complessi,
enormi, dalle più disparate implicazioni, forieri, come in effetti
furono, di trasformazioni profonde, di certo non inquadrabili
né interpretabili semplicisticamente e con geometrica simmetria
in termini di violenza, abbattimento, distruzioni, barbarie, fine
della civiltà oppure di enfatica esaltazione dell’alba radiosa di un
‘nuovo mondo’ per legittimare l’idea di un’Europa dalle origini
germaniche. e tuttavia si tratta di temi che non possono certo
trovare spazio in queste brevi pagine, assai più limitatamente
concentratesu pochi documenti, alcuni assai noti e di capitale
importanza e altri meno ma altrettanto interessanti per assumere
angoli di visuale diversi da quelli consueti.
Come dicevo prima, sebbene nuovi approcci della ricerca stia-
no innovando e solcando fortunatamente terreni poco esplorati e
fecondi, suggestive in questo senso le pagine di un libro denso e
innovativo di James C. Scott (Against the Grain. A Deep History
of the Earliest State, Yale University 2017), purtroppo continua-
no a resistere luoghi comuni e tra i più triti, e anche rozzi, vi è
quello tutto muscolare, violento, del cozzare tremendo tra due
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civiltà e del tracollo rovinoso di una delle due. Un recente libro
di un giornalista con il pallino delle scienze antichistiche, Michel
De Jaeghere, apparentemente di successo per il numero di co-
pie diffuse, è la prova di come non si debba fare storiografia. La
migliore, e anche copiosa, letteratura in materia dimostra infatti
quanto fosse assai più complessa la realtà, quanto fossero dinami-
ci e flessibili i rapporti tra impero e popolazioni straniere e come
all’interno dell’impero stesso la società romana, una società co-
struita sulle diseguaglianze soprattutto quella tardoantica, fosse
tutt’altro che rigidamente imperniata su Romanitas e Barbaritas.
Partiamo, allora, da una costituzione imperiale di Arcadio e
Onorio del 5 aprile del 399 d.C. conservata nel Codex Theodo-
sianus:
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Ciò che mosse Arcadio e Onorio nel varo del provvedimen-
to non fu certo un sentimento solidaristico del tutto estraneo
all’opinione pubblica dominante, alla base ne stavano invece ben
altre motivazioni di ordine politico e militare relative, in partico-
lare, alla categoria dei laeti, sulla cui esatta fisionomia ancora si
discute. Il testo imperiale è significativo, in primo luogo, perché
i laeti appaiono in una luce positiva, anzi persino funzionale alla
salvezza dell’impero, tanto da destinare loro terre ove stanziarsi,
secondo regole e procedure e interventi repressivi dei fenomeni
corruttivi dei funzionari preposti all’insediamento. In secondo
luogo, perché permette di correggere il luogo comune dell’uni-
versale aspro pregiudizio verso i Barbari, mentre si contrapposero
nettamente due diversi atteggiamenti, anche dalle formulazioni
estreme, a favore e contro.
Al forte sprezzo di Sinesio (de regn. 19) verso l’alterità bar-
barica, a cui può affiancarsi l’anonimo del De rebus bellicis, ove
compare la metafora dispregiativa e ferina dei minacciosi popoli
latranti ai confini dell’impero, faceva da contraltare la voce di Te-
mistio (or. 16.207 b-c; 16.211 a-d), favorevole a una politica di
apertura, se non di assimilazione, sebbene sempre in quell’ottica
di utilitas perseguita da Teodosio, motivo completamente assun-
to anche da Orosio. Eppure, non sono affatto pochi i provvedi-
menti contenuti, ad esempio, nel Codex Theodosianus e varati in
tempi diversi e da vari imperatori diretti a proibire usanze barba-
riche con lo scopo evidente di impedire ogni possibile contami-
nazione, rendendo estremamente dura la loro radicale condizio-
ne di diversità di alienigeni: dal divieto di commercio spinto sino
all’embargo a quello di navigazione, dal divieto di insegnare ai
barbari persino l’arte di costruire navi al divieto di matrimonio.
Ma alcuni divieti possedevano una valenza simbolica partico-
larmente pregnante, a cominciare da quello disposto da una lex
generalis ad populum del 397 d.C. Varata da Arcadio e Onorio
(CTh. 14.10.2), che irrogava una pena severissima (exilium per-
petuum) a coloro che avessero indossato nella città di Roma gam-
bali e calzoni lunghi. Si pensi al divieto fatto alle donne in della
Francia di indossare il burqua. Quelle misure furono ribadite da
Arcadio e Onorio nel 399 d.C. con una nuova costituzione in-
viata al praefectus urbi Flaviano (CTh. 14.10.3). Circa diciassette
anni dopo, nel 416 d.C., toccava a Onorio e Teodosio II ridare
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smalto al divieto con una costituzione, forse di portata ancora
più ampia, diretta sia ai cittadini romani e stranieri liberi sia agli
schiavi con l’indicazione delle relative differenti pene applicabili
(CTh. 14.10.4).
Da un certo punto di vista, la preoccupazione imperiale non
era del tutto infondata dal momento che la convivenza sempre
più diffusa produceva effetti reciproci, non soltanto un incivili-
mento delle genti germaniche ma anche un radicamento di usi
germanici presso i Romani. Nei testi imperiali la foggia barbarica
di un individuo era considerata un disvalore a Roma (ma anche a
Costantinopoli) e negli immediati dintorni come dimostra pure
uno scorcio di Procopio, incapace di stemperare l’intolleranza
verso quei Romani (gli ‘Azzurri’ di Costantinopoli) che si accon-
ciavano alla maniera barbarica: «La loro prima ribellione investì
l’acconciatura che venne trasformata. Essi non si tagliavano i ca-
pelli come gli altri romani, i baffi restavano intatti al modo per-
siano. Quanto ai capelli sul davanti erano rasati fino alle tempie,
dietro se li lasciavano penzolare, senza criterio come i Messageti.
Chiamavano unna questa foggia […] prediligevano mantelli e
brache e soprattutto calzature che fossero unne di nome e fog-
gia. Portavano armi» (arc. 7.8-10). È appena il caso di osservare
l’esatta corrispondenza con i divieti introdotti dalle costituzioni
imperiali poc’anzi citate, tanto da potersi dire che, pur conden-
sandoli in poche righe, Procopio ne dimostrava la perdurante
attualità nel VI secolo d.C.
Che fossero molteplici le ragioni dell’ostilità verso usanze,
consuetudini, regole di vita germaniche, è cosa ovvia, e sarebbe
impossibile qui discuterne, però la scelta di soffermarsi su quei
divieti è dettata dal fatto che essi simbolicamente, forse più di
altri proprio perché aggredivano con radicalità aspetti esteriori
(abbigliamento, acconciatura), aiutano a comprendere la cifra
dell’ostilità e del disprezzo culturale di fondo nutrito verso questi
‘diversi’. L’utilizzazione di aggettivi come venerabilis o sacratis-
sima riferiti a Roma non era semplice propaganda o consunto
omaggio alla vecchia capitale imperiale, quegli aggettivi esprime-
vano altro, cioè un preciso indicatore culturale e identitario sedi-
mentatosi da molti secoli. Ammiano Marcellino, noto odiatore
dei Barbari, a tal punto offre uno spunto interessante nel descri-
vere la meraviglia dei Goti alla vista di Costantinopoli: «La loro
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audacia venne meno quando, avanzando, osservarono il perime-
tro delle mura, oblungo con gli immensi blocchi di case, e videro
le irraggiungibili bellezze della città, l’immensa popolazione che
vi abitava e lì vicino lo stretto che divide il Ponto dall’Egeo». Ed è
sulla città che bisogna far leva per provare a capire di più. Perché
non vi erano soltanto ragioni etniche alla base delle discrimina-
zioni, ma pure un altro spettro di valori che si condensava nella
città e nella sua ideologia. E se la città per eccellenza era Roma,
poi anche la Seconda Roma cioè Costantinopoli, era nelle cose
che quel modello culturale costituisse lo spartiacque della civili-
tas da cui erano esclusi i Barbari, salvo l’abbandono dei loro co-
stumi per conseguente romanizzazione: la civilitas nei documenti
antichi trovava una sintesi nella cosiddetta urbanitas.
Per chiarire come ciò non fosse solo il frutto dell’urto alle frontie-
re tra l’impero e le popolazioni germaniche nei secoli tardoanti-
chi, ma qualcosa dalle radici profonde affondanti in un impianto
ideologico e identitario squisitamente romano assai più risalente,
basta qualche esempio.
Nella Tabula Banasitana (180/181 d.C.), Marco Aurelio nel
concedere la cittadinanza ai principes della gens Zegrensium, della
Mauretania Tingitana, motivava il gesto come eccezionale ricom-
pensa per i meriti e i servigi improntati alla massima fedeltà a
Roma. L’eccezionalità stava nel fatto che Roma non era adusa
concedere la cittadinanza a gentes, ovvero a comunità nomadi o
comunque di carattere tribale, non strutturate in città e, pertan-
to, prive di una cultura urbana.
Un’ulteriore conferma, giunge dalla documentazione suc-
cessiva al 212 d.C., contenente informazioni tali da mettere se-
riamente in discussione ciò che è stato sinora un punto fermo,
ovvero la concessione universale della cittadinanza romana agli
stranieri residenti nell’impero attraverso la Constitutio antoninia-
na del 212 d.C., salvo le (presunte) eccezioni menzionate dalla
lacunosa clausola di PGiss. 40. I.
Interessante è infatti cosa accadde agli Egizi della χώρα nel
215 d.C., dunque appena qualche anno dopo con un decreto di
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espulsione degli Egizi da Alessandria varato da Caracalla a segui-
to di una sommossa culminata in un bagno di sangue (PGiss. 40.
II). Del decreto colpisce non solo e non tanto l’espulsione degli
Egizi, quanto il fastidio imperiale, se non addirittura un radicale
disprezzo verso quegli Egizi della χώρα, priva, come è noto, di
città, statuto negato alle metropoli ma riconosciuto soltanto ad
Alessandria, Naucrati e Tolemaide.
Questi Egizi della χώρα, ben distinti dagli Egizi romani,
Ἀυρήλιοι, restavano dunque estranei alla cultura della città: tan-
to lontani nei loro costumi di vita e dalle maniere poco civili,
da essere vissuti davvero come diversi e incompatibili come si
legge nell’aspro passaggio finale del decreto di Caracalla (ἔτι τε
καὶ ζω[ῇ] δεικνύει ἐναντία ἤθη ἀπὸ ἀναστροφῆς [πο]λειτικῆς
εἶναι ἀγροίκους Α[ἰ]γυπτίους, PGiss. 40. II, ll. 16-30). Docu-
menti del genere costringono a tornare a riflettere sulla portata
universale del provvedimento del 212 d.C., per concludere che la
cittadinanza romana non fu concessa a tutti. Ne restarono esclusi
certamente gli Egizi della χώρα perché privi di città e della rela-
tiva cultura, ovvero dell’urbanitas.
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D. 50. 1. 35 (Modest. 1 exc.): Εἰδέναι χρὴ ὅτι ὁ ἐν ἀγρῷ καταμένων
ἰνκόλας οὐ νομίζεται· ὁ γὰρ ἐκείνης τῆς πόλεως ἐξαιρέτοις μὴ
χρώμενος οὕτως οὐ νομίζεται εἶναι ἰνκόλας.
Cic. de off. 1. 17. 53: multa enim sunt civibus inter se communia,
forum, fana, porticus, viae, leges, iura, iudicia, suffragia, consuetudi-
nes praeterea et familiaritates cum multis res rationes que contractae.
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Dunque, dagli elementi istituzionali, quali il diritto e i giudici
e la politica (leges, iura, iudicia, suffragia), ai rapporti interperso-
nali e di affari, alle strutture materiali cittadine (forum, fana, por-
ticus, viae), nonostante la distanza di diversi secoli, da Cicerone a
Modestino, la linea non appare affatto mutata. Sempre quei me-
desimi tre aspetti cesellavano a tutto tondo lo status di cittadino e
del rapporto con una comunità urbana. Commoda e, aggiungerei
conseguentemente, munera (servizi e doveri) erano tra i cardini
principali del modello culturale romano della città, senza i quali
il funzionamento delle organizzazioni cittadine avrebbe sofferto
molto, fallendo l’obiettivo dell’aequalibis compensatio indicato da
Cicerone. In altre parole, commoda e munera assurgevano nella
riflessione giurisprudenziale a criteri oggettivi, indicatori essen-
ziali per determinare attraverso un rapporto qualificato con una
struttura urbana il domicilium di un individuo e di conseguenza
il rapporto con una città piuttosto che con un’altra. Ma il cuo-
re del problema restava quello sottolineato della cultura urbana,
misura di una compiuta romanizzazione, di norma requisito per
il conseguimento della cittadinanza.
In questa prospettiva, allora, si spiega perché già Strabone, a
proposito delle popolazioni iberiche e dei Turdetani in particola-
re, osservasse con una punta di meraviglia le loro maniere civili,
l’adozione dello stile di vita romano, l’abbandono della loro lin-
gua a favore del latino e la scelta di chiamare le loro città con nomi
romani (Strab. geogr. 3. 2. 15). Eppure, tutto ciò non impediva
che continuassero a coesistere, in un quadro più generale di inte-
grazione, cittadini e non cittadini: ne sono esempi il decretum di
Anastasio I del 500 d.C. (SEG 9. 356), in cui si distingueva an-
cora tra Romani ed Egizi, e il caso dei Goti di Teoderico l’Amalo
che sempre in quel medesimo torno di tempo, nonostante fossero
ammessi e integrati nelle terre occidentali dell’impero, mantene-
vano lo status di peregrini foederati (stranieri alleati).
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274
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275
Finito di stampare nel mese di dicembre 2018
presso Creative 3.0 - Reggio Calabria
504