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UNDICESIMO RAPPORTO

SULLA DOTTRINA SOCIALE


DELLA CHIESA NEL MONDO
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
CARDINALE VAN THUÂN
SULLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

UNDICESIMO RAPPORTO
SULLA DOTTRINA SOCIALE
DELLA CHIESA NEL MONDO

Popoli, nazioni, patrie:


tra natura e artificio politico

a cura di
GIAMPAOLO CREPALDI
STEFANO FONTANA

Con saggi di
Mauro Ronco, Gianfranco Battisti, Giacomo Gubert,
Samuele Cecotti, Silvio Brachetta

In collaborazione col Centro Studi Rosario Livatino


e altri cinque Centri di ricerca internazionali
© 2020 Edizioni Cantagalli S.r.l. - Siena

Grafica di copertina: Alessandro Bellucci

Stampato da Edizioni Cantagalli


nel mese di gennaio 2020

ISBN 978-88-6879-854-3
SOMMARIO

Indirizzo di saluto
Le nazioni e l’unità del genere umano
Carlo Costalli 7

Presentazione
La cultura delle nazioni nella Dottrina sociale della Chiesa
S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi 9

Sintesi introduttiva
Popoli, nazioni, patrie
Stefano Fontana con Fernando Fuentes Alcantara,
Alfredo Mantovano, Daniel Passaniti, Grzegorz
Sokolowski, Manuel Ugarte Cornejo 17

Il problema dell’anno
Popoli, nazioni, patrie: tra natura e artificio politico
La patria italiana nel nuovo millennio
Mauro Ronco 23

I popoli come obiettivo e come strumento:


una prospettiva geopolitica
Gianfranco Battisti 43

Identità e missione. Uno sguardo sociologico sulle “radici”


Giacomo Gubert 65

La negazione dei legami naturali e l’ideologia globalista


Samuele Cecotti 83

Popoli e nazioni in Sant’Agostino e nei Padri della Chiesa


Silvio Brachetta 93

La Dottrina sociale della Chiesa nei Cinque Continenti


Spagna. La questione della Catalogna e il risveglio delle
nazioni
Stefano Magni 107

5
Francia. L’Europa si suicida assassinando le nazioni che
la compongono. Con l’aiuto di Macron
Silvio Brachetta 114

Italia. Il confronto politico su “sovranismo” e “populismo”


Andrea Mariotto 124

Regno Unito. I nodi dell’attualità: indipendenza, uscita


dall’Unione europea e immigrazioni
Luca Pingani 129

Ungheria. Bisogna essere nazione oltre che società


Paolo Piro 134

Balcani. I popoli dei Balcani tra globalismo occidentale


e universalismo islamico
Pier Luigi Bianchi Cagliesi 140

Stati Uniti. Ex pluribus unum: lo strano caso del


patriottismo americano
Fabio Trevisan 150

Africa. Il tribalismo principale causa dei gravi problemi


del continente
Anna Bono 165

Venezuela. Un popolo e una nazione schiacciati dal regime


Samuele Maniscalco 173

Argentina. Disintegrazione sociale ed erosione della


propria identità nazionale
Daniel Passaniti 183

Brasile. Il divorzio tra nazione e Stato e l’ideologia della


liberazione
Frederico Romanini de Abranches Viotti 191

La Dottrina sociale della Chiesa nel mondo


Cronologia dei principali avvenimenti del 2018
a cura di Benedetta Cortese 199

6
Indirizzo di saluto
LE NAZIONI E L’UNITÀ DEL GENERE UMANO
Carlo Costalli*

Anche quest’anno il Rapporto dell’Osservatorio Interna-


zionale Card. Van Thuân coglie uno dei nodi culturali di mag-
giore interesse nell’agenda politica. L’uomo fa parte di una
unità a dimensione universale, l’unità del genere umano, che
il cristianesimo conferma nei suoi tratti naturali ed eleva a
quelli soprannaturali nell’unica figliolanza in Dio Padre. Fa
anche parte di comunità di dimensioni più ridotte. Di que-
ste, alcune hanno carattere naturale, come la famiglia e la
nazione, altre hanno carattere elettivo, come le aggregazioni
intermedie della società. Tra questi livelli della convivenza
umana non dovrebbe esserci contrapposizione. Il fine del
bene comune e il principio organizzativo della sussidiarietà
costituiscono due principi della Dottrina sociale della Chiesa
di imprescindibile valore per far coesistere in modo articolato
e coordinato nello stesso tempo le appartenenze sociali.
Le identità di queste appartenenze sociali derivano dai
loro fini naturali e dai doveri che ne conseguono. I diritti ne
conseguono come strumenti per assolvere ai doveri. Così è
anche per i diritti dei popoli e delle nazioni, che la Dottrina
sociale della Chiesa ha sempre difeso. Sono diritti che non
nascono da un contratto tra gli aderenti ad una certa colletti-
vità, ma che sgorgano dalla natura umana, dato che appunto
per natura e per poter raggiungere i suoi fini umanizzanti, la
persona vive dentro una comunità che ella chiama “patria”.
Lungo la storia molte ideologie hanno vagheggiato un uomo
“astratto” e senza radici, ma esso non esiste, dato che la fami-

* Presidente nazionale del Movimento Cristiano Lavoratori (MCL),


Roma.

7
glia, come luogo dei “padri”, naturalmente si estende nella
“patria”, che pure è a suo modo il luogo dei padri, nel senso
di una autorevole identità morale e di civiltà ottenuta da chi
ci ha preceduto.
Contemporaneamente, però, le identità culturali e storiche
delle nazioni hanno anche il bisogno di aprirsi tra di loro e nei
confronti di una comune identità umana capace di esprimere
una grammatica naturale in cui tutti si possano riconoscere.
Questo universalismo, se non viene inteso in modo astratto
ed appiattente, può liberare le identità nazionali dai pericoli
del nazionalismo, ossia della chiusura aggressiva in se stesse.
Ritengo che la Dottrina sociale della Chiesa possa svolgere
questo compito di cultura politica di tenere aperto il rapporto
tra due necessità umane: quella delle radici in una patria e
quella delle radici in una comunità mondiale.
Auguro a questo undicesimo Rapporto dell’Osservatorio
Internazionale Card. Van Thuân il successo dei precedenti e
mi compiaccio con S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi e con tutto
lo staff per il lavoro fatto.

8
Presentazione
LA CULTURA DELLE NAZIONI
NELLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi*

Il tema dei popoli, delle nazioni e delle patrie ha senz’al-


tro un posto importante nella Dottrina sociale della Chiesa
e negli insegnamenti pontifici, siano essi le enciclice sociali
strettamente intese oppure altre espressioni del magistero.
Si può però anche dire che da quando si è imposto il ricono-
scimento che la questione sociale si è fatta “mondiale”, come
indicato dalla Populorum progressio di Paolo VI e anticipato
dall’attenzione al processo di socializzazione proposto da Gio-
vanni XXIII, l’attenzione alle nazioni abbia progressivamen-
te lasciato il passo a quello circa la dimensione internazionale
delle problematiche sociali. Non che il primo livello di inte-
resse sia scomparso, ma è certamente emersa l’urgenza di
dedicare una crescente attenzione al secondo, che oggi viene
indicato solitamente, anche se in modo non completamente
accettabile, con gli aggettivi “globale” (da cui globalismo) e
“mondiale” (da cui mondialismo).
Possiamo fare a questo proposito un semplice confronto.
La Centesimus annus (1991) di Giovanni Paolo II esamina in
profondità il tema della nazione, secondo modalità e contenu-
ti su cui tornerò più avanti, mentre dedica uno sguardo certa-
mente interessante ma abbastanza fuggevole alla globalizza-
zione. L’Enciclica contiene una lettura teologica della caduta
del Muro e quindi esamina certamente i problemi internazio-
nali, come in altro contesto ancora caratterizzato dai “bloc-
chi” aveva già fatto la Sollicitudo rei socialis (1987), ma non

* Arcivescovo, Vescovo di Trieste, Fondatore e Presidente Emerito


dell’Osservatorio.

9
mette a fuoco se non in via iniziale il fenomeno che i sociologi
chiamano oggi “globalizzazione”, vale a dire l’azione incon-
trollata di forze sovranazionali che operano a livello appunto
globale. Si tratta, come noto, di forze finanziarie, produttive,
comunicative, culturali che non trovano al loro livello nessun
autentico potere politico che non sia quello di una generica e
spesso inefficace governance internazionale. La Centesimus
annus era ancora maggiormente interessata alla dimensione
della nazione che a quella della globalità. Se invece esaminia-
mo la Caritas in veritate (2009) di Benedetto XVI, notiamo
che l’argomento della nazione e della patria è trattato in modo
trascurabile, mentre molta attenzione viene data ai proces-
si globali. Non solo perché vi si tratta della crisi finanziaria
ed economica scoppiata due anni prima della pubblicazione
dell’Enciclica, né solo perché affronta il problema transnazio-
nale della protezione dell’ambiente, inteso anche come am-
biente umano, ma soprattutto perché individua il principale
pericolo del processo di globalizzazione che viene indicato
nello “spirito di tecnicità” e perché azzarda alcune proposte
circa la gestione mondiale del potere politico. Il paragrafo 67
dell’Enciclica si spinge molto avanti nel proporre come ur-
gente una «vera Autorità politica mondiale […] Una simile
autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo
coerente ai principi di sussidiarietà e solidarietà, essere ordi-
nata alla realizzazione del bene comune, impegnarsi nella re-
alizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato
ai valori della carità e della verità. Tale autorità, inoltre, dovrà
essere da tutti riconosciuta, godere di potere effettivo per ga-
rantire a ciascuno la sicurezza, l’osservanza della giustizia, il
rispetto dei diritti. Ovviamente essa deve godere della facoltà
di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le
misure coordinate adottate nei vari fori internazionali». Qui
si profila una autorità dotata di poteri di governo e perfino di
coercizione da potersi anche intendere come lesivi dell’auto-
rità che spetta per diritto di natura ai popoli e alle nazioni. La
lettura completa dell’Enciclica corregge questa impressione,

10
ma non c’è dubbio che l’attenzione alla dimensioine globale
sia stata privilegiata rispetto a quella nazionale.
Se non ci limitiamo ai testi delle encicliche sociali stretta-
mente intese1, ma allarghiamo lo sguardo anche ad altre fonti
del magistero sociale, ci accorgiamo che il tema dei popoli,
delle nazioni e delle patrie non è stato per niente abbandona-
to, e non poteva del resto che essere così, tanto esso è connes-
so, fin dalla riflessione dei Padri della Chiesa2, con la fede cat-
tolica. Fin dall’evento della Pentecoste, il messaggio cristiano
si è sempre rivolto alle singole persone ed anche ai popoli.
La fede cattolica vuol fare di tutte le nazioni un unico popo-
lo nella Grazia, una nazione nuova, ma questo avviene non
negando le nazioni naturalmente intese, bensì assumendole
ed elevandole3. La non identificazione della religione con la
nazione, come accadeva invece per l’ebraismo, non significa
l’abbandono della dimensione nazionale. Nel famoso dialogo/
dibattito di J. Ratzinger/Benedetto XVI con il rabbino Jacob
Neusner4, questa doppia dimensione – nazionale e universale
– del cristianesimo rispetto all’ebraismo risulta in modo mol-
to convincente. In Gesù di Nazaret5, Benedetto XVI spiega
che Gesù, slegando la fede cristiana dalla nazione e “forzando
i confini”, non la separa da essa, e il NuovoTestamento non
recide i propri legami con il Vecchio, come dire che la Legge
antica non viene superata dalla Legge nuova6. La nazione è
l’insieme dei legami naturali degli uomini e se il cristianesi-

1
Approfitto per segnalare che ormai l’abitudine di confinare la Dottrina
sociale della Chiesa solo nelle encicliche strettamente sociali è da considerar-
si inadeguata e forse lo è sempre stata, fin dai tempi della Rerum novarum.
2
Cfr. J. Ratzinger, L’unità delle nazioni. Una visione dei Padri della
Chiesa [1973], Morcelliana, Brescia 2009.
3
Perché la grazia non toglie la natura ma la perfeziona (Cfr. Tommaso
d’Aquino, S. Th., I, q. I, a. 8, ad 2).
4
J. Neusner, Un rabbino parla con Gesù, San Paolo, Cinisello Balsamo
2007.
5
Cfr. Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, Milano 2007, pp. 129-56.
6
Cfr. S. Cecotti, La teologia della legge antica e della legge nuova, in
AA.VV., Il diritto e i diritti. Il senso della legge e le leggi senza senso, a cura di
S. Fontana, Fede & Cultura, Verona 2019, pp. 39-72.

11
mo se ne distaccasse evaporerebbe nell’astrattezza e predi-
cherebbe un universalismo vuoto. Il legame con le nazioni
significa allora la capacità della fede cristiana di edificare la
città, di generare e consolidare relazioni sociali, di farsi cul-
tura e civiltà. Per questo Benedetto XVI sostiene che c’è bi-
sogno del legame del Nuovo Testamento con il Vecchio. La
questione è di grande interesse per la Dottrina sociale della
Chiesa. Una fede cristiana universalistica, intesa sull’esem-
pio dell’universalismo illuminista7 o massonico, perderebbe i
contatti con l’insieme dei legami naturali e storici che si con-
solidano nelle nazioni e prenderebbe congedo dalla Dottrina
sociale della Chiesa, la quale ha senso solo se il cristianesimo
si fa corpo nella storia.
All’ordine interno delle nazioni aveva dedicato il Radio-
messaggio natalizio del 1942 Papa Pio XII, e il riferimento
al diritto naturale a proposito della nazione è un punto non
oltrepassabile della Dottrina sociale della Chiesa. Giovanni
Paolo II infatti lo riprende, tra i tanti altri luoghi, nel Messag-
gio alla Conferenza episcopale polacca in occasione del 50mo
anniversario dell’inizio della Seconda Guerra mondiale (26
agosto 1989) ove parlò di “Europa delle patrie”, e nel discorso
all’Assemblea dell’ONU del 1995. Il numero 157 del Compen-
dio della Dottrina sociale della Chiesa ricorda che esistono
i “diritti” delle nazioni, fondati appunto sul diritto natura-
le: «La nazione ha un fondamentale diritto all’esistenza […]
alla propria lingua e cultura […] a modellare la propria vita
secondo le proprie tradizioni […] a costruire il proprio futu-
ro provvedendo alle generazioni dei giovani un’appropriata
educazione». I processi delle relazioni sovranazionali, come
per esempio quello dell’Unione Europea8, e la gestione politi-

7
Cfr. T. Todorov, Lo spirito dell’Illuminismo, Garzanti, Milano 2007. Il
libro mostra che l’illuminismo è passato dal giacobinismo politico al giacobi-
nismo culturale, il cui universalismo si è fatto nichilista.
8
Cfr. Europa: la fine delle illusioni, IX Rapporto sulla Dottrina sociale
della Chiesa nel mondo, a cura di G. Crepaldi e S. Fontana, Cantagalli, Siena
2017.

12
ca delle migrazioni9 non richiedono come strumento forme di
super-Stato globale né richiedono come obiettivo una società
multireligiosa o multiculturale al disopra del bene comune,
perché esiste il diritto delle nazioni alla propria identità e
questa identità fa parte integrante del bene comune. Il Com-
pendio della Dottrina sociale della Chiesa si spinge a postula-
re una «dimensione operativa mondiale» (n. 372), ma essendo
che l’obiettivo di fondo è di assicurare il rispetto della dignità
dell’uomo e il bene comune (ivi), la dimensione della sovrani-
tà nazionale (n. 475) non può essere eliminata10.
La Dottrina sociale della Chiesa considera fondamentale
e non trascendibile la dimensione della nazione anche in or-
dine ad altri elementi della vita sociale, secondo quanto ri-
chiamato dal Compendio della Dottrina sociale della Chiesa,
come la famiglia (n. 213), la crescita demografica (n. 483), il
lavoro (nn. 269, 274), la pace (n. 508).
Con i riferimenti condotti finora ho inteso mostrare, anche
se non in modo esaustivo, come l’insegnamento della Dottri-
na sociale della Chiesa sul popolo, la nazione e la patria sia
ricco e puntuale e come non sia stato soppiantato, o peggio
eliminato, dalle riflessioni in ordine alla questione globale
della convivenza della comunità umana. Del resto, i due prin-
cipi fondamentali del bene comune e della sussidiarietà11 ci
dicono che non si può prescindere da tale livello. Il bene co-
mune non può prescindere dai fini naturali delle compagini

9
Cfr. Il caos delle migrazioni, le migrazioni nel caos, VIII Rapporto sulla
Dottrina sociale della Chiesa nel mondo, a cura di G. Crepaldi e S. Fontana,
Cantagalli, Siena 2016.
10
Faccio notare che il Compendio non sempre distingue con precisione
la Nazione e lo Stato, come quando, per esempio, aferma che «Ad ogni po-
polo corrisponde in genere una Nazione, ma per varie ragioni non sempre i
confini nazionali coincidono con quelli etnici». Qui la Nazione sembra esse-
re equiparata allo Stato, mentre il popolo sembra avere necessariamente un
carattere etnico. Ciò non impedisce però che sovranità e diritti dei popoli e
delle nazioni siano adeguatamente presentati nel Compendio.
11
Cfr. AA.VV., Le chiavi della questione sociale. Bene comune e sussidia-
rietà: storia di un equivoco, a cura di S. Fontana, Fede & Cultura, Verona
2018.

13
sociali, dalla famiglia alla nazione alla comunità internazio-
nale, che non possono essere appiattiti su un unico bene co-
mune. È il fine a dettare il bene12 e il fine della nazione pre-
cede, per ordine naturale, quello dello Stato o della comunità
internazionale ed è possibile chiamare “patria” la propria na-
zione, anche se questa non è uno Stato e non viene conside-
rata dal punto di vista delle relazioni internazionali. Quanto
al principio di sussidiarietà, occorre ricordare che esso pure
dipende dall’ordine finalistico dei diversi corpi sociali, la qual
cosa vincola sia i livelli susperiori alla nazione che la nazione
stessa. Quest’ultima può pretendere una propria sovranità di
identità e di cultura non per autodeterminarsi senza criterio
ma per raggiungere i propri fini naturali in conformità con il
proprio bene comune. I livelli superiori sono tenuti a ricono-
scere questo diritto della nazione sempre però in vista dell’as-
solvimento di un dovere. Non va mai dimenticato che i doveri
precedono i diritti e li fondano in ogni campo13.
Tra i Pontefici recenti, un posto particolare nell’insegna-
mento sulla nazione e sulla patria spetta a Giovanni Paolo
II. Egli ha sviluppato l’argomento in molti documenti, ma
soprattutto nell’Enciclica Centesimus annus e nel libro Me-
moria e identità. Nell’Enciclica sociale del 1991, di fronte al
crollo del macrosistema comunista e alla non-vittoria di quel-
lo capitalista, riproponendo le linee fondamentali di una ri-
costruzione sia nei devastati Paesi dell’Europa orientale sia
in quelli sifiduciati dell’Europa occidentale, il Papa torna ad
indicare l’importanza della nazione e della patria che, non a
caso, veniva negata in ambedue i sistemi, pur se con mezzi di-
versi. L’uomo, egli dice nel paragrafo 24 dell’Enciclica, non si
spiega a partire dall’economia, «l’uomo è compreso in modo
più esauriente, se viene inquadrato nella sfera della cultura
attraverso il linguaggio, la storia e le posizioni che egli as-

12
Cfr. Tommaso d’Aquino, S. Th., I-II, q. 18, a. 4, resp.
13
Cfr. S. Fontana, Per una politica dei doveri dopo il fallimento della
stagione dei diritti, Cantagalli, Siena 2006.
sume davanti agli eventi fondamentali dell’esistenza». Più
precisamente: «Al centro di ogni cultura sta l’atteggiamento
che l’uomo assume davanti al mistero più grande: il miste-
ro di Dio». Qui si colloca il discorso della nazione, dato che
esistono anche le “culture delle nazioni”, le quali «sono, in
fondo, altrettanti modi di affrontare la domanda circa il senso
dell’esistenza personale: quando tale domanda viene elimi-
nata, si corrompono la cultura e la vita morale delle nazioni».
Le culture delle nazioni, e quindi le nazioni stesse nella loro
identità, devono continuamente riscoprire le radici religiose
della loro cultura. Al contrario, se si vuole «sradicare il biso-
gno di Dio dal cuore dell’uomo», allora si condanna a morte
anche la cultura della nazione14. Il rapporto tra la nazione e
Dio avviene tramite la cultura e implica da un lato che si dia
una cultura della nazione, un suo collante identificativo im-
materiale, e dall’altro che la fede in Dio si faccia cultura. Chi
nega l’uno o l’altro corno del problema non riesce a spiegare
il rapporto tra religione e nazione.
Nel libro Memoria e identità (2005) Giovanni Paolo II fa ri-
salire il termine “patria” al quarto comandamento: «la patria
in un certo senso si identifica con il patrimonio, con l’insieme
di beni che abbiamo ricevuto in retaggio dai nostri padri»15,
e per questo il patriottismo «si colloca nell’ambito del quarto
comandamento, il quale ci impegna ad onorare il padre e la
madre»16. La patria è così collegata con la famiglia ed ambe-
due «rimangono realtà insostituibili»17. Col termine nazione
«si intende designare una comunità che risiede in un certo

14
Strettamente parlando, in questi passi non si parla del Dio della reli-
gione cattolica, ma genericamente di Dio. Il discorso potrebbe quindi portare
alla libertà religiosa, ma non alla indispensabilità del Dio della religione cat-
tolica anche per fondare adeguatamente la nazione. L’estensione di queste
parole al Dio cristiano può essere comunque fatta con riferimento ad altri
passi, ossia in modo indiretto.
15
Giovanni Paolo II, Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei
millenni, Rizzoli, Milano 2005, p. 76.
16
Ibidem, p. 83.
17
Ibidem, p. 85.

15
territorio e che si distingue dalle altre comunità per una pro-
pria cultura. La dottrina sociale cattolica ritiene che tanto la
famiglia quanto la nazione sono società naturali, e quindi non
frutto di semplice convenzione. Perciò nella storia dell’uma-
nità esse non possono essere sostituite da nient’altro».
Questo XI Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel
mondo è dedicato al tema del popolo, della nazione e della
patria ed ho cercato in questa Presentazione di mostrare la
necessità di una simile riflessione che ha i suoi presupposti e
le sue esigenze nella Dottrina sociale della Chiesa. L’esigenza
e perfino l’urgenza però è dettata anche dalla storia dei nostri
giorni quando non solo le nazioni vengono aggredite da altre
nazioni, o nuovamente colonizzate con strumenti sofisticati
di natura finanziaria, ma vengono negate nella loro natura e
nei loro doveri/diritti da spinte sovranazionali, mondialiste e
globalizzanti che svuotano le persone delle loro radici e cre-
ano una massa mondiale di disadattati riadattabili dal nuovo
potere.

16
Sintesi introduttiva
POPOLI, NAZIONI, PATRIE
Stefano Fontana*

Questo XI Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel


mondo affronta il tema emergente del cosiddetto “risveglio
delle nazioni”, sulla scia dei risultati di alcuni Rapporti che lo
hanno preceduto in questi ultimi anni. Sono infatti evidenti le
relazioni di temi quali le migrazioni oppure il futuro dell’Eu-
ropa, trattati negli anni scorsi, e questo dei popoli, nazioni e
patrie. Il flusso migratorio mette in difficoltà il mantenimen-
to delle identità nazionali, mira a costruire una società mul-
ticulturale e multireligiosa e spesso le reazioni negative nei
suoi confronti derivano proprio dal sentirsi “minacciati” nella
propria anima culturale. Il processo di unificazione europea
è oggi in grandi difficoltà anche perché ha trascurato di pro-
teggere e valorizzare le identità dei popoli, imponendo una
omogeneizzazione che molti ritengono una minaccia. Questo
XI Rapporto è quindi lo sbocco obbligato dei precedenti, oltre
ad intercettare un problema concreto e molto sentito.
Si può dire che all’origine del problema ci sia il rapporto
tra la nazione e lo Stato. Da quando si è andato costituen-
do lo Stato moderno assoluto e burocratico, le varie nazioni,
per evitare di rimanere schiacciate sotto la sua onnipotenza,
hanno cercato di darsene uno su misura, un proprio Stato.

* Direttore dell’Osservatorio Cardinale van Thuân sulla Dottrina sociale


della Chiesa, Trieste (Italia). Sottoscrivono la Sintesi introduttiva: Fernando
Fuentes Alcantara, Direttore della Fundación Pablo VI, Madrid; Alfredo
Mantovano, Vicepresidente del Centro Studi Rosario Livatino, Roma;
Daniel Passaniti, Direttore esecutivo CIES-Fundación Aletheia, Buenos
Aires; Grzegorz Sokolowski, Presidente della Fondazione Osservatorio
Sociale (Fundacja Obserwatorium Społeczne), Wroclaw (Polonia); Manuel
Ugarte Cornejo, Direttore del Centro de Pensamiento Social Católico della
Universidad San Pablo di Arequipa, Perù.

17
C’è stato quindi, secondo il modello inaugurato a Westfalia
nel 1648, una crescente identificazione tra nazione e Stato.
Tale identificazione ha condotto a forme di nazionalismo, os-
sia di oppressione delle minoranze nazionali interne e di lotta
contro gli altri Stati, che a loro volta rappresentavano altre
nazioni in via esclusiva. Secondo l’espressione di Hobbes,
se la nascita dello Stato fa cessare le lotte interne in quanto
stabilisce un potere assoluto al quale tutti i cittadini si sono
volontariamente e irrevocabilmente sottomessi rinunciando
alla libertà per avere la pace, esso non fa cessare le lotte tra
gli Stati, che sono, nei loro rapporti reciproci, come degli indi-
vidui impegnati in una lotta di tutti contro tutti. Si può allora
dire che la nascita dello Stato moderno ha indotto l’identifica-
zione tra nazione e Stato e questo ha prodotto il nazionalismo
e la guerra tra gli Stati/nazione.
Il primo punto da chiarire è quindi la natura dello Stato
rispetto alle nazioni. La questione non è di avere degli Stati
deboli o “minimi”, ma di evitare che siano essi – gli Stati – a
pianificare dall’alto e dal centro la vita dei popoli e delle na-
zioni, sovrapponendosi ad essi e facendo da collante assoluto
della loro coesistenza. In certi casi, come accenna la Caritas
in veritate, lo Stato non è ancora adeguatamente costituito,
e questo non è un bene nemmeno per la nazione o le nazioni
che vivono su quel territorio. Ma consolidare lo Stato non si-
gnifica renderlo una mega-macchina nel senso di Max Weber.
Lo Stato è uno strumento che, socialmente parlando, “viene
dopo” altre dimensioni naturali della vita comunitaria, come
la famiglia, la nazione e i corpi intermedi, e che, giuridica-
mente parlando, è a servizio di tali realtà che lo precedono se-
condo i principi del diritto naturale. Al contrario, lo Stato as-
soluto e burocratico finisce per dimenticare il diritto naturale
e considerare solo il diritto positivo secondo la prospettiva
del positivismo giuridico. In questo modo lo Stato finisce col
pretendere di aver sempre ragione, anche quando trascura o
opprime le realtà naturali che lo precedono. Se lo Stato nasce,
come vuole il pensiero moderno, da un contratto, allora esso

18
si costituisce a prescindere da un ordine e un diritto naturali
e non è legato da nessun dovere rispetto a realtà comunita-
rie naturali che lo precedano, comprese le nazioni. Ribadire
invece la dignità delle nazioni significa riferirsi ad un ordi-
ne naturale nel quale gli strumenti, come è appunto lo Stato,
sono funzionali ai fini da cui dipendono.
Prima della nascita dello Stato moderno, vale a dire nell’e-
poca medievale, lo Stato nel significato attuale del termine
non esisteva, ma le nazioni sì. Esse erano collegate tra loro in
una articolata unità che si poneva a diversi livelli. La molte-
plicità creativa e la dimensione universale si tenevano insie-
me senza opprimersi. Mancava lo Stato ma non mancava la
comunità politica, né quello si identificava con questa. Siamo
davanti ad uno snodo molto importante nel rapporto tra le
nazioni e lo Stato: non bisogna identificare comunità politi-
ca e Stato moderno, la comunità politica precede lo Stato e
può strutturarsi politicamente al di fuori della forma statale
nata da Hobbes o Roussseau. I principi del bene comune e
della sussidiarietà correttamente intesi sono qui di aiuto so-
stanziale. Senza bene comune non c’è unità, perché l’unità è
data dal fine. Non è però lo Stato a indicare il bene comune, il
quale risiede nelle finalità naturali della comunità politica in
sé e nei suoi componenti naturali. La sussidiarietà fornisce i
criteri per articolare politicamente e giuridicamente, con in-
ventiva e creatività oggettivamente fondate, questa unitaria
articolazione.
Dal punto di vista storico si pone però un problema di no-
tevole portata. Gli Stati moderni hanno secoli di storia alle
spalle e la loro artificialità è ormai sedimentata. Le rivendica-
zioni nazionali possono mettere in difficoltà un tessuto poli-
tico stabilito, creare lotte civili, destabilizzare e conflittualiz-
zare. Si possono innescare anche processi a catena, sicché le
richieste di autonomia o addirittura di indipendenza politica
da parte di singoli popoli e nazioni possono diventare occa-
sioni di conflitti geopolitici densi di conseguenze dolorose.
L’attuale sistema politico scende dall’alto, per rovesciare la

19
prospettiva bisogna andare cauti: nella pratica, non ogni ri-
vendicazione di autonomia e indipendenza nazionale merita
di essere incondizionatamente sostenuta. Perché, in qualche
caso, anche la volontà di indipendenza politica nasconde in sé
una concezione statalista e centralista pari a quella da cui si
vorrebbe uscire. Oggi molti Stati hanno al loro interno varie
nazioni e popoli: si pensi solo alla Russia o alla Cina. La molti-
plicazione di richieste di indipendenza potrebbe far temere il
disfacimento che verrebbe impedito da un inasprimento del
centralismo. Questi processi potrebbero venire sostenuti da
potenze straniere per mettere in difficoltà l’avversario: si trat-
ta di questioni sulle quali occorre da un lato precisare bene
i concetti di nazione e di Stato, e dall’altro dotarsi di grande
realismo e prudenza pratica.
Attualmente sul nostro pianeta ci sono nazioni che hanno
un proprio Stato, ci sono Stati che hanno al proprio interno
più nazioni e popoli, ce ne sono altri la cui identità nazionale
è vulnerata dalle migrazioni, ci sono nazioni che stringono
tra loro accordi a cavallo di più confini statali, ci sono Stati
che danno vita a intese economiche e politiche sovranazio-
nali, come nel caso dell’Unione Europea. Quando si verifi-
ca quest’ultimo processo occorre porre grande attenzione a
che non si attui un livellamento delle nazioni e dei popoli e
che non si chieda rinunce sostanziali circa la propria identità
culturale ai Paesi che entrano nell’unione. Ciò comporta non
solo che non nasca un super-Stato assoluto e burocratico al
di sopra degli Stati che si uniscono, ma anche che non nasca
un’ideologia politica universalistica imposta dalle nuove éli-
tes sovranazionali. Ambedue le cose sarebbero molto negative
per le identità nazionali, che vanno salvaguardate, rispettate,
non protette come folklore o archeologia, ma lasciate vivere,
più che fatte vivere.
In questo contesto generale, il concetto di patria va ritrova-
to e rimotivato. La patria non è solo lo Stato a cui si appartie-
ne e del quale si è cittadini. Poteva essere così, come abbiamo
detto sopra, quando lo Stato moderno aveva inglobato in sé la

20
nazione, magari creandola artificialmente come è avvenuto
per l’Italia. La patria è la realtà comunitaria, dotata di una
propria cultura e di una propria storia di simboli e significati,
in cui le persone e le famiglie trovano un loro orizzonte di
senso, di appartenenza, di naturale finalismo. La patria è il
luogo, fisico e simbolico nello stesso tempo, delle radici. La
patria va conosciuta e amata, non certo disprezzata o vilipe-
sa. C’è oggi un globalismo culturale che disprezza le patrie, o
cerca di catturarle nel proprio sistema di fruizione turistica
disincarnata. Si diffonde una cultura mondialista standardiz-
zata, con una lingua costituita da non più di 200 parole ormai
codificate, e con una serie di principi operativi convenzionali
formalizzati.
Quando si parla di patria viene naturale fare riferimento
alla storia lungo la quale l’appartenenza nazionale si è solidi-
ficata. Bisogna però fare riferimento non solo alla storia ma
anche alla natura. Principi e valori nazionali non sono validi
solo perché ereditati dalla storia, ma perché sono conformi
alla natura dell’uomo, della famiglia e della comunità. Perché
esprimono in modo originale l’ordine della vita sociale così
come la natura umana esige. La storia trasmette anche usi
e costumi irrazionali e innaturali, dai quali le culture delle
nazioni vanno depurate. L’uomo è senz’altro cultura, ma la
cultura autentica rispetta la sua natura.
La patria ha quindi a che fare con la verità, e qui si inse-
risce il discorso della relazione della religione cattolica con
le culture. Il cristianesimo si muove su due poli: l’unità del
genere umano fondata sulla figliolanza di un unico Padre e
la realtà specifica dei singoli popoli. Ambedue i piani rientra-
no sia nella creazione che nella redenzione: l’uomo è creato
così e viene salvato così. Il cristianesimo, e quindi la Chiesa,
fonda sia l’unità del genere umano che l’appartenenza ad un
popolo. Infatti ambedue le appartenenze nascono, come in-
segnato da Giovanni Paolo II, dalla domanda che l’uomo si
fa sul senso ultimo della sua esistenza e quindi su Dio. Non
tutte le religioni assolvono a questo compito nello stesso

21
modo. La religione cattolica rivendica per sé un ruolo unico,
perché unica a porre in relazione la rivelazione con la ragione
e, quindi, la cultura con la base naturale. Ciò richiede che la
Chiesa cattolica non appiattisca la propria azione, il proprio
insegnamento e il proprio linguaggio sulle istituzioni, siano
esse quelle sovrastatali o quelle statali, ma tutte le illumini
con la sua Dottrina sociale che ha il potere di porre ogni cosa
al suo giusto livello, salvaguardando l’insieme.

22
Il problema dell’anno
Popoli, Nazioni, Patrie: tra natura e artificio politico
1

LA PATRIA ITALIANA NEL NUOVO MILLENNIO


Mauro Ronco*

Occhi puri per conoscere la patria


Lo scrittore argentino Leopoldo Lugones narrò in odi stu-
pende la grandezza cattolica dell’antica civilizzazione ibero-
argentina. Terminò una delle sue Odas Seculares con il verso:

«Ojos mejores para ver la Patria»

come auspicio per un futuro di dignità e di onore del pro-


prio Paese1.
È difficile oggi parlare della patria. Per dirne seriamente
qualcosa occorrerebbe scrostare delicatamente dagli occhi la
patina opaca che sottrae allo sguardo la verità delle cose e
che il nichilismo anti-familiare impedisce di riconoscere e di
amare.
La profondità del reale è velata da un certo mistero, che si
apre quando sia ancora cristallina nell’anima la fonte dell’a-
more di Dio. Come la ragione è certa dell’esistenza di Dio,
grazie alla constatazione della trascendenza all’io delle cose
che la circondano e della loro bellezza, eppure non è in grado
di scoprirne l’intimo mistero, così la ragione percepisce con
certezza l’esistenza della patria, anche se non è capace, senza

* Presidente del Centro Studi Rosario Livatino, Roma.


1
L. Lugones, Odas Seculares [1910], Ediciones la Biblioteca Digital (26
novembre 2013).

23
l’aiuto rivelativo proveniente dai suoi genitori e dai suoi ante-
nati, di decifrarne razionalmente il significato salutare.
Se Dio non avesse rivelato, seppure in piccolissima parte,
il mistero dell’amore che è racchiuso nella sua essenza trini-
taria, la conoscenza razionale della sua esistenza rischierebbe
di svanire nel corso del tempo, sopraffatta in ciascuno dalle
prove della vita, schiacciata quasi dalla drammatica consape-
volezza della presenza e dell’opera del male nella storia. Allo
stesso modo, senza la rivelazione dei parenti in ordine al va-
lore della patria, anche la sua memoria primigenia nell’anima
sfiorirebbe ben presto, disseccata dalla constatazione della
discordia che rende spesso irrespirabile la vita sociale. Oc-
corre al riguardo una precisazione. All’esempio dei familiari
si aggiunge spesso in modo prezioso l’esempio rivelativo che
proviene dalla concordia sociale del proprio Paese. La discor-
dia, invece, come accade sempre più di frequente nel mondo
moderno, costituisce un ostacolo pesante al riconoscimento
della patria.
Io ebbi da piccolo la grazia della rivelazione. Alla doman-
da per quale ragione non portasse all’anulare l’anello d’oro di
nozze, come mia madre, ma un cerchio d’acciaio, mia nonna
mi spiegò che, partito mio padre per la guerra nel 1940, non
era parso giusto, a lei e a mio nonno, non donare alla patria,
che ne aveva bisogno, tutti gli oggetti d’oro che essi possede-
vano in casa. La rivelazione mi ha accompagnato per tutta la
vita. Anche se non mi sono riconosciuto nei governanti del
lungo dopoguerra, che ho contrastato sempre sul piano cul-
turale e politico, mai ho rinnegato la patria italiana, nata nel
“risorgimento” da trame inique e ingiustizie palesi, eppure
unita in un destino comune che la Provvidenza non ha osta-
colato e il cui indirizzo ha cercato in varie occasioni di instra-
dare al servizio dell’intera Cristianità.

24
La verità della cosa che si chiama col nome di patria
Si può introdurre il tema riferendoci alla Sacra Scrittura,
Gen 2,15:

«Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino


di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse».

Come abbiamo ricevuto dai nostri genitori la patria, così


la ricevette da Dio il primo uomo. La patria, come scrive Mi-
guel Cruz, è un tozzo di pane della creazione. Una manciata
di universo, impastata di sementi e di stelle che l’uomo ha il
compito di coltivare e custodire2. Coltivare e custodire la ter-
ra dei padri è il respiro che alimenta la vocazione alla patria.
La patria è qualcosa di concreto e di reale. Non si sceglie la
patria, ma la si incontra come dono di Dio.
Un padre gesuita argentino, Leonardo Castellani, ha scrit-
to che il patriottismo istintivo è l’attaccamento alle immagini
che ci sono familiari e che hanno avuto risonanza affettiva
nella nostra infanzia. Si tratta di qualcosa di “naturale”, di una
inclinazione umana orientata al bene, ma che diventa buona
o cattiva a seconda dell’ordine che la ragione le conferisce.
Quando la Nazionale italiana sconfisse quella germanica
4 v. 3 in un’epica partita dei campionati mondiali di calcio
del 1970 in Messico, l’intero nostro Paese fu incendiato da un
fuoco di entusiasmo incontenibile. Era buono, quel fuoco?
Era un fuoco, qualcosa di naturale, tendenzialmente predi-
sponente al bene, che sarebbe potuto diventare buono ove
fosse stato incanalato in condutture di energia per dissodare
il terreno, talora arido e pietroso, del popolo intero.

2
Miguel Cruz (pseudonimo di Enrique Prevedel, scrittore tucumano),
Misterios de amor, amistad y patria, Buenos Aires 2013, p. 105. Debbo rico-
noscere il mio debito verso questo scrittore. Mentre alla fine di agosto 2019
mi trovavo in Argentina per partecipare a convegni giuridici, preoccupato
per la scadenza della consegna di questo scritto, trovai casualmente in una
libreria cattolica il libro di Cruz. Lo acquistai e mi sono ispirato a molte sue
riflessioni.

25
Sempre Castellani ha osservato che, se l’attaccamento alla
patria diventa vizioso, degrada in una forma di nazionalismo
aggressivo verso le altre patrie, invidioso per il bene che esse
posseggono. Se, invece, il patriottismo è assunto dalla ragio-
ne come vocazione per il bene comune, esso diventa virtù. Da
inclinazione naturale si tras-forma nella virtù primaria che
costituisce la base per la salvezza di ciascuna società umana:
la giustizia.
La società moderna ha dimenticato che la giustizia si ra-
dica nella ferma e costante volontà di dare a ciascuno il suo,
secondo il fulgido dictum di Ulpiano:

«Iustitia est constans et perpetua voluntas ius


suum cuique tribuendi»3,

dignità che Sant’Ambrogio ha ripreso e completato:

«iustitia est quae unicuique quod suum est tribu-


it, alienum non vindicat, utilitatem propriam ne-
gligit ut communem aequitatem custodiat»4.

Il suum non è soltanto quello che deriva dal contratto, ben-


sì prima, e più radicalmente ancora, il suum è ciò che viene
da coloro che ci hanno donato la vita. Perciò vi è una giustizia
specialissima, in relazione all’oggetto elevato cui l’atto giusto
è diretto. La virtù della religione e la virtù della pietas sono
forme speciali di giustizia. Prima di tutto dobbiamo ricono-
scere il suum di Dio: la virtù di religione. In secondo luogo, il
suum dei padri: e questa virtù si chiama pietas, con termine
latino che non si può tradurre in italiano se non in modo im-
perfetto. E come dobbiamo ai genitori la pietas, che è reve-
renza, rispetto, deferenza, assistenza, amore, come insegna

3
Domizio Ulpiano, Dig., I, 1, 10.
4
Ambrogio da Milano, De officiis, 1, 24, cit. in Tommaso d’Aquino, S.
Th., II II, q. 58, art. 11,3.

26
il primo comandamento della seconda Tavola, così dobbiamo
una forma analoga di pietas agli antenati che hanno dato for-
ma alla piccola porzione di mondo in cui siamo nati, nonché
a tutti coloro che hanno fatto parte e appartengono tutt’oggi
alla medesima terra. Perché anch’essi hanno a noi largito – e
largiscono ancora oggi – i doni di cui si alimenta la nostra vita.
Il Dottore Angelico insegna a proposito della pietas, come
virtù speciale della giustizia, che:

«Debetur autem aliquid specialiter alicui quia


est connaturale principium producens in esse et
gubernans»5.

La pietas, pertanto, è una virtù speciale, che ciascuno deve


ai genitori e alla patria. Siccome Dio è principio della nostra
esistenza in maniera molto superiore a essi:

«[...] alia virtus est religio, quae cultum Deo exhi-


bet, a pietate, quae exhibet cultum parentibus et
patriae. Sed ea quae sunt creaturarum per quan-
dam superexcellentiam et causalitatem transfe-
runtur in Deum, ut Dionysius dicit, in libro De
div. nom. Unde per excellentiam pietas cultus Dei
nominatur, sicut ed Deus excellenter dicitur Pater
noster»6.

E infine:

«Ad tertium dicendum quod pietas se extendit ad


patriam secundum quod est nobis quoddam essen-
di principium»7.

5
Tommaso d’Aquino, S. Th., II II, q. 101, a. 3,3.
6
Ibidem, q. 101, a. 3, r. 3.
7
Ibidem, r. 3.

27
La pietas verso la patria è un prolungamento della pietas
verso i genitori. Il primo Comandamento della seconda Tavo-
la ordina:

«Onora tuo padre e tua madre, come il Signore,


Dio tuo, ti ha onorato, affinché tu abbia una vita
lunga e felice nella terra che il Signore, tuo Dio,
ti da».

La stretta relazione tra i genitori e un luogo determinato


del mondo è significativa. La felicità si dà in un luogo segnato
dai confini del dono di Dio e della storia degli avi. Non si dà
in qualsiasi luogo e in qualsiasi modo, ma soltanto onorando,
cioè amando e rispettando i propri antenati e la propria pa-
tria. Lì è più facile coltivare l’amicizia con il proprio prossimo.
Dio è l’unico cui va l’adorazione, cioè l’amore e il timore con-
giunti, a fronte della sua trascendenza infinita e del suo amo-
re gratuito e misericordioso per ciascuno di noi; ci si unisce
però a Dio non da soli, ma con gli amici più cari. Sono costoro
quelli che condividono l’amicizia più alta e disinteressata, l’a-
more comune per il bene di tutti.

Il dinamismo della patria


La patria non è un patrimonio dato una volta per tutte, che
va usato e sfruttato, senza fare alcunché al fine di emendarne
i vizi della formazione e per accrescerlo in qualità e quantità.
Vale qui la parabola dei talenti, che troppo spesso è interpre-
tata in chiave esclusivamente individuale. Servo malvagio
e infingardo è colui che, per avarizia e accidia, nasconde il
talento ricevuto dal padrone, restituendoglielo intatto, senza
nulla aver compiuto per farlo fruttificare8. Governanti mal-
vagi e infingardi sono non soltanto coloro che dissipano il

8
Mt 25,14-30.

28
patrimonio della patria, ma anche quelli che, per ignavia e
codardia, si limitano a conservarlo nella sua materialità, sen-
za tener conto che il patrimonio della patria è stato consegna-
to a ciascun governante dagli antenati affinché esso frutti in
termini di servizio a Dio, all’umanità e al popolo soggetto al
governo.
Guai ai governanti che hanno dissipato il patrimonio mo-
rale della patria! Guai a coloro che, credendo di accrescere il
patrimonio materiale, ne hanno scalfito il patrimonio morale!
Una grande mestizia invade il mio cuore allorché medito
sugli ultimi settant’anni di storia italiana. Sollecitati dal ve-
nerabile Pontefice Pio XII a riscoprire, dopo la calamità della
guerra, la grandezza della patria italiana per diffonderne la
bellezza nel mondo intero, ci siamo reclusi nel recinto dell’ar-
ricchimento materiale a ogni costo, a imitazione di altre po-
tenze, gettando allo sbaraglio le vere nostre ricchezze – la
pietà dei cittadini, la castità delle madri, la fecondità dei ma-
trimoni, la sobrietà dei costumi, la cura per i figli, l’assistenza
agli anziani e ai malati, l’ospitalità agli stranieri, l’inesauribi-
le dedizione al lavoro dei padri – come se fossero tutte queste
cose fardelli inutili da lanciare giù dalla barca, affinché essa
corresse più veloce sulle ali della secolarizzazione, cioè del
distacco da Dio e dalla sua legge.
Fin da ragazzo ho odiato la truce e oscena “commedia all’i-
taliana” che ha infestato le sale cinematografiche e poi le te-
levisioni, per irridere – sotto lo sguardo perfido del Nemico – i
costumi popolari, amplificando i vizi, ignorando le virtù civi-
che e sociali e ignominiosamente disprezzando le virtù mora-
li – soprattutto la laboriosità e il virtuoso risparmio del denaro
per i figli – nonché la disponibilità al sacrificio delle genti d’I-
talia. E allo sguardo compiaciuto del Nemico si accompagna-
va il rimprovero del nemico interno che approfittava di ciò
per far la “morale” al popolo, che ancora non era pervenuto
alla modernità dell’anglosassone, o alla serietà professionale
del tedesco, o alla laicità del francese di Parigi o all’ugualita-
rismo senza qualità dell’homo sovieticus.

29
La bontà della radice dell’albero si vede dai frutti. Il disa-
stro economico è costantemente preannunciato; ma non lo si
denuncia nelle sue cause remote e ancor meno vi è chi lo curi
nelle sempre più gravi sue evoluzioni patologiche.
Nulla è detto sullo smarrimento della strada maestra del-
le virtù. Che si può dire dello scadimento della temperanza?
Che si può dire della fuga dalla virtù della fortezza da parte di
coloro che sono preposti alla difesa dei valori presi d’assalto e
alla reazione contro il dileggio delle autorità costituite? Che si
può dire dell’infermità della giustizia, soprattutto ferita dalle
faide tra coloro che hanno per compito perseguire il delitto, e
dall’improprio lassismo prodotto da una criminologia critica
che ha abbandonato da decenni l’approccio realistico al pro-
blema del diffondersi della violenza e della frode delittuosa
nel corpo vivo della società? Che si può dire infine della pru-
denza dei governanti, asserragliati nei fortini delle istituzio-
ni, intenti a molestarsi tra loro, improvvidi nei rapporti con i
governi stranieri, senza vergogna nel mostrarsi proni ai loro
desideri e senza la dignità di rivendicare la laboriosità del po-
polo italiano.
Il patrimonio della patria deve essere coltivato. Raccoglia-
mo l’insegnamento del Genesi; facciamolo nostro; lavoriamo
per ricostituirlo, partendo ovviamente dal patrimonio spi-
rituale, non del tutto perduto, come si può constatare dalle
ovazioni che salgono dalle piazze a chi, pur indegnamente –
come sarebbe indegno ciascuno di noi –, osa baciare il Cro-
cefisso e affidare il Paese al Sacro Cuore di Maria, Vergine e
Madre; proseguiamo con la restaurazione del patrimonio ma-
teriale, ritornando al lavoro con lena rinnovata; imponiamo
ai proprietari, grandi e piccoli, con la leva fiscale, di investire
nuovamente risorse nel Paese; sterilizziamo con giusti tributi
i profitti perversi della delocalizzazione industriale; garantia-
mo protezione adeguata al lavoro delle categorie più disagiate
e degli immigrati regolari.
La patria non è qualcosa la cui esistenza sia fissata sta-
ticamente nel passato. È un’eredità che dobbiamo continua-

30
mente rinnovare per consegnarla alle generazioni future. La
patria è una realtà viva, la cui esistenza continua solo se noi
la coltiviamo affinché i figli e i nipoti e i pronipoti possano an-
cora abitarla felici. Come accade per le risorse materiali, che,
appena crediamo di possederle davvero, ci sono già sfuggite,
così è per il patrimonio della patria, che, appena crediamo di
averlo nelle mani per sfruttarlo appieno, si sottrae alla nostra
disponibilità.

La custodia della patria


La patria, oltre che promossa nelle sue potenzialità di ric-
chezza spirituale e materiale, va anche difesa.
Il nemico è esterno o interno. La guerra si combatte oggi
in modo ancora convenzionale. Soprattutto, però, la guerra
contemporanea è asimmetrica e comporta l’uso di metodolo-
gie assai variegate, molte delle quali innovative, rispetto alle
quali non è semplice approntare gli adeguati mezzi di difesa.
I governanti debbono individuare, in primo luogo, i poten-
ziali nemici della patria. Nel mondo globalizzato, senza con-
fini rigidi del territorio, i più aggressivi e pericolosi nemici
della patria sono gli immensi oligopoli dell’industria digitale,
dell’informazione, del divertimento e del commercio. Questi
nemici distruggono le radici della patria – delle patrie – con
un odio che sembra preso in prestito dal Nemico per annichi-
lire la rete delle relazioni personali che nutrono la vita spiri-
tuale e materiale dell’uomo: la famiglia, il municipio, il me-
stiere, l’impresa, la città, lo Stato, come comunità che tende
all’autosufficienza, pur nel vivace scambio commerciale con
le altre patrie, al fine di garantire il benessere stabile e la cre-
scita economica e spirituale dell’intera società.
Come combattere questi nemici, che si presentano ano-
nimamente nelle nostre case per sedurci con le apparenze
più banali e attrarci con le trivialità più sguaiate, trattando
offensivamente coloro che talvolta riescono a evidenziarne

31
le menzogne, come se fossero propalatori di odio, secondo la
nota tecnica rivoluzionaria dell’inversione dell’accusa? L’u-
nico rimedio è diffondere inesorabilmente la verità con una
intelligente strategia che riunisca le energie intellettuali an-
cora vigili, chiedendo l’aiuto dei cittadini tuttora consapevoli
che il vero, il buono, il giusto e il bello sono messi sotto scacco
dagli oligopolisti dell’informazione.
Verità-verità: questo il grido che deve promanare da cia-
scun uomo o da ciascuna donna, da qualsiasi comunità che
nutra ancora in se stessa il desiderio della libertà. L’asservi-
mento tramite la seduzione può finire. La via è stretta e im-
pervia. Una certa parte degli intellettuali cattolici ha disertato
lungo il percorso. Lo stesso è a dirsi con grande tristezza del
silenzio di molti ecclesiastici, anche consacrati nell’ordine
episcopale, che potrebbero – Dio lo voglia – fare molto per
contestare la disinformazione e far risplendere la verità!

Gli idoli che vanno abbattuti


Un idolo tenebroso della modernità è la concorrenza libe-
ra dei mercati economici e finanziari, esercitata senza alcun
controllo da parte dell’autorità pubblica.
La prima lunga fase del liberalismo dal 1789 al 1914 ha se-
gnato il dominio dell’usura sul lavoro, con la terribile crisi
sociale mirabilmente denunciata nelle sue cause dal Pontefi-
ce Leone XIII nella Rerum novarum. Egli insegnava che nei
Paesi ove la ricchezza si era:

«accumulata [...] in poche mani [...] e largamente


estesa la povertà”9, era “di estrema necessità ve-
nir in aiuto senza indugio e con opportuni prov-
vedimenti ai proletari, che per la maggior parte

9
Leone XIII, Rerum novarum. Introduzione, I.

32
si trovano in assai misere condizioni, indegne
dell’uomo»10.

Dopo la fase totalitaria, comunista e nazionalsocialista, la


liberalizzazione dei mercati economici e finanziari ha eretto
l’idolo della concorrenza al vertice della piramide dei valori
della comunità internazionale. In questa fase l’ambizione è
ancora più superba: si tratta di creare un subdolo e iniquo
rapporto tra il padrone e gli schiavi, trattati come consuma-
tori dipendenti dai beni materiali, ma anche spesso dai vizi
inoculati e indotti (pornografia, droga, gioco d’azzardo).
L’Unione Europea ha fatto della concorrenza lo strumento
principale della sua politica economica. Ma se la concorrenza
è assolutamente libera, vince inevitabilmente chi è in grado
di investire nella produzione e nel commercio il maggior vo-
lume di denaro possibile, abbassando i costi della produzione
e della commercializzazione, soprattutto riducendo all’osso il
costo del lavoro e svilendo la qualità del prodotto. Gli operato-
ri più piccoli e poi medi e poi grandi del mercato spariscono.
Gli oligopoli, in “concorrenza” tra loro (ma questa concorren-
za basta ai globalisti della mondializzazione per sostenere che
il mercato è libero), comprimono il costo del lavoro, aumenta-
no i prezzi dei prodotti e impoveriscono il corpo sociale, che
diventa progressivamente sempre più dipendente da conglo-
merati multinazionali che traggono ulteriori vantaggi dalle
asimmetrie dei regimi tributari dei vari Stati, localizzando i
centri direzionali del business nei luoghi fiscalmente più con-
venienti o più disponibili alla trattativa sul volume degli im-
ponibili e sulle aliquote di prelievo.
Ora, se le cose stanno così – e stanno veramente in questo
modo – la nostra patria non deve genuflettersi innanzi all’ido-
lo della concorrenza.
Sul giornale che rappresenta il capitalismo finanziario
italiano, il direttore della testata e alcuni managers supremi

10
Ibidem, n. 2.

33
compivano sistematicamente atti di aggiotaggio facendo ap-
parire quote di vendita del giornale falsamente artefatte. Nel-
lo stesso momento gli editorialisti agitavano minacce verso il
governo e i piccoli imprenditori balneari, che avevano, con il
lavoro di decenni, strappato la terra al mare facendo fiorire
l’industria turistica. La colpa del governo era di non applica-
re la direttiva Bolkestein, che imponeva, in omaggio al fetic-
cio, l’assegnazione per bando pubblico degli spazi demaniali
destinati alle spiagge, spossessandone i concessionari tradi-
zionali. Così i potenti oligopolisti del turismo internazionale,
quelli che organizzano i tour sessuali nei bordelli dell’Asia
orientale, si sarebbero aggiudicati a furor di offerte al rialzo
le concessioni, affinché i loro azionisti sfruttassero appieno a
beneficio degli investitori mondialisti una risorsa importante
del nostro Paese.
Non sapete forse che la concorrenza spietata, che non co-
nosce regola alcuna, è il luogo in cui domina l’usuraio? La
direttiva Bolkestein rappresenta, a duecento anni di distanza,
l’equivalente della legge Le Chapelier, che nel 1991 abolì nel-
la Francia della rivoluzione ancora liberale i mestieri e la pro-
tezione corporativa della qualità del prodotto e della promo-
zione dell’apprendistato. Anche allora la parola d’ordine era
di favorire la concorrenza. I mestieri proteggevano la qualità
e formavano gli apprendisti perché diventassero maestri nel
mestiere. Se era obbligatorio rispettare determinati parame-
tri per ciascun tipo di produzione, perché non fare lo “stesso”
prodotto senza rispettarli? Perché non lasciare che il mercato
fosse invaso, a ogni livello, da prodotti di qualità deteriore,
che costano meno, ma si consumano più in fretta, costringen-
do i poveri a indebitarsi per rinnovare continuamente i pro-
dotti e rimpinguando i produttori che non rispettano i para-
metri di qualità, sfruttando la mano d’opera a basso costo dei
bambini e delle donne e mettendo in disparte gli apprendisti
che imparavano il mestiere sulle orme dei loro Maestri?
I sindacati operai si ricostruirono su basi classiste e socia-
liste per dar voce alla protesta contro lo sfruttamento fero-

34
ce che il liberalismo industrialista esercitò per tutto il secolo
XIX nei Paesi della rivoluzione industriale. Papa Leone XIII,
come già accennato, dipinse in modo mirabile la condizione
dei poveri nella fase acuta dell’imperialismo liberale.
Nel secondo postguerra i sindacati sono riapparsi. Fin
quando costituirono la cinghia di trasmissione delle direttive
politiche del Partito Comunista, essi furono temuti e riveri-
ti. Ma, convertitosi il comunismo in liberalismo aggressivo,
i sindacati sono stati emarginati e i lavoratori sono rimasti
privi di tutela.
Il secondo idolo è la privatizzazione delle imprese ad alto
livello tecnologico e ad intensa concentrazione di capitale.
Vi sono nel mondo contemporaneo dei servizi essenziali per
tutta la società, svolti attraverso l’uso di tecnologie costosis-
sime, che non possono non essere di proprietà dello Stato o
di enti esponenziali degli interessi dei cittadini. Ciò per varie
ragioni. Ma, soprattutto, perché i) essi sono essenziali per la
sopravvivenza dell’intera comunità, e non debbono essere la-
sciati nella incertezza del calcolo economicistico dell’utilità
dei privati; perché ii) richiedono investimenti immensi, pro-
iettati nell’arco di decenni, che l’imprenditore privato non è
in grado di prevedere, di realizzare e di mantenere in un’ot-
tica privatistica e perché iii) implicano l’attribuzione e la ge-
stione di quote sovrabbondanti di potere economico – e, dun-
que, anche finanziario e politico – che, se affidate a privati,
squilibrano in modo irreparabile il rapporto tra i cittadini e la
politica, rendendo irrilevanti le istituzioni di rappresentanza
popolare versus il potere politico.
Dunque, l’ente pubblico, che agisce istituzionalmente
nell’interesse di tutti deve poter controllare la proprietà e l’e-
sercizio di questi servizi. Si pensi alla gestione delle risorse
idriche, delle risorse energetiche, delle reti infrastrutturali
che consentono e favoriscono le comunicazioni e i trasporti.
Questi beni appartengono alla patria. Sottrarli alla sua dispo-
nibilità, sul pretesto che l’esercizio pubblico non è convenien-
te economicamente o che i funzionari pubblici sono disonesti,

35
costituisce un vero e proprio crimine di Stato. Si selezionino
accuratamente gli amministratori; li si punisca severamente
quando violano i loro doveri; ma non si ceda al ricatto dei mo-
raleggiatori che vogliono fare delle colpe di taluni i motivi per
travolgere il giusto assetto delle cose.
Che dire, allora, dei nemici interni che hanno comprato a
prezzo vile i pezzi pregiati dell’industria italiana negli anni
dell’abbuffata predatoria (1992-2008), per poi rivendere agli
stranieri, a prezzi moltiplicati, gli assets che avevano inde-
gnamente acquistato? Se in quegli anni il Tesoro avesse ven-
duto anche le Ferrovie dello Stato ai capitani coraggiosi, ora
– che esse sono state riportate a leader mondiale del trasporto
persone su treno grazie all’intelligenza e alla bravura di ma-
nagers pubblici e all’impiego di investimenti pubblici – non
troveremmo neanche più le rotaie, perché i privati le avreb-
bero rottamate a beneficio del rilancio dell’industria automo-
bilistica! Che intanto, tra il plauso generalizzato, sta portando
fuori dall’Italia tutto il know how di scienza, di esperienza, di
innovazione accumulato nel tempo dalla eccezionale scuola
ingegneristica italiana. Nel frattempo i media del main stre-
am accusano i governi di perdere le “eccellenze” italiane, che
sono costrette a recarsi in Inghilterra, negli Stati Uniti, in
Francia per far valere la loro competenza!
E che dire di coloro che hanno venduto, privatizzandoli,
alcuni decisivi assets industriali italiani? Non ne parlo se non
per dire che essi certamente non sono amici patriae!
Se la lotta contro il nemico interno è ardua, ancor di più
lo è quella contro il nemico esterno. La nostra patria è stata
precipitata, per codardia, ignavia e ingenuo arrendismo paci-
fista, a partire dal Trattato di Maastricht (7 febbraio 1992), in
una serie di istituzioni di cui ha perso ogni controllo e da cui
ha ricevuto ingenti danni.
L’ambizione del Trattato era il superamento della sempli-
ce collaborazione economica tra Stati trasformando la Comu-
nità in una Unione Europea implicante una unione politica,
sociale, economica e monetaria.

36
Il passo che si voleva compiere – e che in parte è stato com-
piuto – era gigantesco. Se fosse giusto compierlo, soprattutto
in quel tempo e in quel modo, non voglio pronunciarmi qui
per la complessità del problema. Dico soltanto che, per ragio-
ni di ordine, soprattutto religioso, culturale e politico quel
passo non era conveniente e proporzionato alla nostra patria,
che aveva una missione storica universalista non riconducibi-
le a un’unione semplicemente europea.
Ma se il passo si decise di compierlo, la classe governante
che lo compì avrebbe dovuto attrezzarsi per difendere la pa-
tria dallo schiacciamento che era ampiamente preventivabi-
le, sia sul piano economico-industriale, per la forza e la vastità
dell’area a diretto o indiretto controllo finanziario germanico,
sia sul piano politico-militare, per l’asimmetria radicale tra
la force de gruppe francese e le strumentazioni militari de-
gli altri Paesi. Invece, la classe politica italiana si presentò
a quell’appuntamento nel più completo disfacimento, sotto-
posta ai colpi di maglio di una magistratura inquirente che
rivendicava il suo ruolo di giustiziere dei mali d’Italia (“Mani
pulite”). Peraltro, la classe politica che aveva fino ad allora de-
tenuto le leve del governo non aspettava altro che di ricevere
alimento di vita dal Partito Comunista, che stava compien-
do un vero suicidio volontario assistito (dall’ipercapitalismo
mondialista) per trasformarsi nel Partito radicale di massa,
vero motore della modernizzazione globalista, allo scopo di
governare il Paese.
Tra i governanti di allora vi erano, come sempre vi sono e
vi saranno nel mondo, i lupi e gli agnelli. Gli “agnelli” – per
lo più democristiani della vecchia generazione – erano lieti
di dismettere le responsabilità di governo, sentendosi final-
mente liberati dal compito di contrastare la dura opposizione
comunista, latrice di pericoli giudiziari anche per la sinergia
tra una parte consistente della magistratura e gli agenti di
punta del Partito Comunista in volontaria autodissoluzione.
Affidarsi senza remore a una guida europea era per que-
sti “agnelli” il traguardo di una vita condotta con mediocri-

37
tà, aiutando il proprio Paese, ma non troppo, non certo fino
a quel sacrificio indispensabile per dare all’Italia la dignità
perduta con una guerra sciagurata. In fin dei conti, di Europa
non avevano forse parlato anche i Pontefici, e il più conser-
vatore di tutti tra loro, il venerabile Pio XII? Perché, dunque,
non affidarsi a essa? Di Europa aveva parlato per primo, con
toni discutibilmente profetici, proprio il democristiano fran-
cese Robert Schuman nella famosa dichiarazione del 9 mag-
gio 195011.
Essi forse non si rendevano conto che l’istituzione europea
stava cambiando struttura, governance e mission. L’ingresso
nella nuova Europa, come sopra accennato, – in ogni caso assai
discutibile e comunque più seriamente negoziabile – avrebbe
richiesto in ogni caso una nuova classe dirigente, attrezzata
sul piano culturale e storico, nonché preparata ad affrontare
dinamiche finanziarie economiche e giuridiche di straordina-
ria complessità. In quel periodo, invece, dopo “Mani pulite”,
l’Italia politica era distratta da una farsesca contrapposizione
tra i liberali di destra, che sostenevano Silvio Berlusconi, e
i liberali di sinistra, che si impegnavano coralmente per de-
nunciarlo all’Europa come molestatore impertinente dello
Stato di diritto con le riforme ad personam ignobilmente pro-
poste dai suoi governi.
Nel frattempo i “lupi” vendevano il patrimonio italiano a
privati volenterosi, pronti a rivenderlo allo straniero non ap-
pena le quotazioni dei titoli – nell’ubriacatura della globaliz-
zazione che offuscava in quegli anni la mente di molti – fosse-
ro risaliti e avessero generato un consistente profitto.
Assopiti nel sonno, sognando un’Europa di fantasia, i
governanti non si accorsero neppure che i rapporti politici
stavano cambiando al suo interno in modo radicale. Al con-
solidamento economico-finanziario della Germania, che, so-
prattutto dopo l’unificazione, era in grado di operare come

11
Su cui cfr. sinteticamente C. Réveillard, La construction européenne,
II ed., 2012, p. 15.

38
un gigante industriale, trovando nelle regioni orientali del
continente spazi immensi di crescita, faceva da contraltare
lo statuto internazionale della Francia come potenza vincitri-
ce della guerra, come componente di diritto del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite e come detentrice di una forza
atomica militare.
Quando nel 2009 il premier italiano Silvio Berlusconi, che
aveva stretto con l’arte dell’intrigo e della seduzione un rap-
porto personale con il dittatore libico, allo scopo di proteggere
la rete industriale dell’ENI in quel territorio, facendo al con-
tempo della Libia un antemurale delle ondate di migranti dal
Centro Africa verso l’Europa, il Presidente della Repubblica
francese, in spirito di “amicizia” con il nostro Paese, abbatté,
nel più completo disprezzo del diritto internazionale, il go-
verno libico, facendone uccidere il dittatore da un suo killer,
e scompaginò l’operato delle imprese industriali italiane in
quel territorio. Esse, peraltro, avevano assicurato il progresso
economico del partner africano e la leadership dell’ENI nel
mercato del petrolio. Da quel momento si è scatenata in Libia
una vera guerra della Repubblica francese contro gli interessi
dell’economia italiana. Molti nostri governanti, insigniti pe-
raltro della Legion d’Honneur, hanno assecondato la politica
francese per accrescerne le sfere di influenza politica, nella
finanza, nell’industria e nel commercio. Nulla è stato compiu-
to per frenare a livello diplomatico questo scivolamento pro-
gressivo verso la neutralizzazione politica della nostra patria
e verso il suo asservimento agli altri partner europei.
Non siamo forse tutti insieme nell’Europa? Non apparte-
niamo forse tutti alla medesima Europa? Non ci ha assicurato
l’Europa la pace? Non sembra che i governanti degli altri Pa-
esi la pensino così.

39
Conclusione
Allora, la patria va difesa come un bene che Dio ci ha do-
nato e che i nostri antenati hanno trasformato in un giardino
meraviglioso. Forse che non ci sono stati grandi combattenti
per la giustizia e l’onore in Italia? Alla Montagna Bianca la
vittoria arrise all’esercito imperiale anche perché i picchieri
napoletani costrinsero con le picche alzate i cavalieri in rotta
a sfidare in prima fila le sorti della battaglia; a Lepanto sulle
navi di Spagna erano in gran numero i marinai e i soldati na-
poletani, e vi erano le navi da guerra genovesi, veneziane, sa-
baude, toscane e romane. E come non ricordare che a Otranto
nel 1480, dopo il massacro degli uomini e dei ragazzi della cit-
tà, gli ottocento cristiani scampati, rifugiatisi nella Cattedra-
le, furono trascinati su un colle accanto alla città e decapitati.
Morirono impavidi sotto la scimitarra mussulmana. Non vi
furono abiure o tradimenti, nonostante la promessa del co-
mandante turco Gedik Ahmet Pascià di far salva la vita a chi
si fosse convertito alla religione di Mohammed. I loro resti
sono ancora là, come un esercito schierato a battaglia, nella
sacrestia della stupenda Cattedrale di Otranto, a testimonian-
za dell’eroismo che i nostri antenati seppero dimostrare in
difesa della patria e della Cristianità.
La vita in questa terra è una lotta, contro il nostro egoismo,
anzitutto, e poi contro gli ostacoli che l’esistenza ci riserva
ogni giorno, non impropriamente definita valle di lacrime
nella preghiera alla Vergine del Salve Regina. La vita è lotta
contro il male che si insinua in noi e che inquina le azioni no-
stre e degli altri. La vita è lotta contro il Nemico che ci seduce
e ci accusa e che detesta la gioia e la felicità nostra, dei fratelli
e dei nostri figli.
A questa lotta appartiene anche l’impegno di custodia del-
la patria. Un nazionalismo ben inteso, come unione forte e
coerente delle volontà più limpidamente motivate a difende-
re la patria contro l’assalto interno ed esterno, è, in certi mo-
menti, indispensabile.

40
Secondo Miguel Cruz, che ho citato in apertura, il nazio-
nalismo è la giusta reazione dettata dalla necessità che «gli
anticorpi di una nazione rispondano per rafforzare il respiro
vitale di sopravvivenza e integrità in un popolo che si sta di-
sgregando e va verso la sottomissione e la perdita della sua
libertà»12.
Non vi è libertà del cittadino se non è libera la sua patria.
Allorché un popolo smarrisce la virtù di religione e abbando-
na il culto dovuto pubblicamente a Dio; disprezza la propria
tradizione storica; si diverte a farsi beffe dei costumi degli
antenati; irride alle tragedie della propria terra o si compiace
delle sue difficoltà; invita gli stranieri a infliggere ferite alla
propria economia o alla propria stabilità finanziaria; ebbene
in quel momento un gruppo determinato di uomini e donne
può e deve offrirsi come baluardo ultimo di resistenza, offren-
do la propria stessa vita per scongiurare l‘abominio della de-
solazione, nella certezza che ogni sofferenza per il bene del
popolo è offerta di un sacrificio a Dio nostro Signore. Nella
testimonianza per Dio e per la patria sono custoditi i semi dei
nuovi cristiani.
Come raccontano i libri sacri, il martirio dei sette fratelli
Maccabei e della loro intrepida madre fu la pietra angolare,
nel II secolo avanti Cristo, della vittoria del giudaismo contro
il deturpamento della sua fede, nonché della morte del perse-
cutore Antioco Epifane e della purificazione del tempio.

«Il Maccabeo intanto e i suoi uomini, guidati dal


Signore, rioccuparono il tempio e la città, distrus-
sero le are innalzate dagli stranieri sulle piazze e i
recinti sacri. Purificarono il tempio e vi costruiro-
no un altro altare; poi, facendo scintille con le pie-
tre, ne trassero il fuoco e offrirono sacrifici, dopo
un’interruzione di due anni; prepararono l’altare
degli incensi, le lampade e l’offerta dei pani. Fatto

12
M. Cruz, Misterios de amor, amistad y patria, cit., p. 123.

41
ciò, prostrati a terra, supplicarono il Signore di
non farli più incorrere in quei mali ma, se mai
peccassero ancora, venissero da lui corretti con
clemenza, ma non abbandonati in mano a un po-
polo di barbari e bestemmiatori»13.

Che sia così anche per noi in quest’ora di tenebre per la


nostra patria.

13
2Mac 10,1-4.

42
Il problema dell’anno
Popoli, Nazioni, Patrie: tra natura e artificio politico
2

I POPOLI COME OBIETTIVO E COME


STRUMENTO: UNA PROSPETTIVA GEOPOLITICA
Gianfranco Battisti*

Federico Ratzel (1844-1904)1 vede i popoli come una delle


tre componenti fondamentali degli Stati, assieme ai territo-
ri ed all’insieme di legami espliciti ed impliciti che egli sin-
tetizza nel termine “sovranità”. Si tratta di comunità a base
territoriale, che nel tempo assumono una interna coesione
ed un’omogeneità che viene a differenziarle da quelle stan-
ziate su altri territori. Ciò avviene grazie all’azione “creativa”
dell’ambiente in cui vivono – tanto fisico che biologico – frut-
to dell’incessante incontro/scontro tra uomo (inteso sempre
come collettività) e natura. Questo processo, che concettual-
mente viene mutuato dal lavoro degli antropologi, costituirà
il nucleo centrale dell’analisi portata avanti dal contempora-
neo Paul Vidal de la Blache (1845-1918), il fondatore della ver-
sione francese della geografia dell’uomo. Una scuola, quella
di Vidal, che negli anni attorno alla I guerra mondiale (di cui
abbiamo da poco ricordato il centenario) è stata letta in anti-
tesi a quella tedesca, in contrapposizione ideologica rispetto
all’eterno “nemico” germanico.
Intellettuale nato in un Paese che ha raggiunto relativa-
mente presto la sua unità, Vidal focalizza i gruppi umani, che

* Università di Trieste.
1
Il fondatore della geografia umana e – al suo interno – della geografia
politica.

43
gerarchizza, dalla tribù alla civiltà capace di imprimere la sua
orma attraverso i secoli. Ratzel, il quale vive direttamente
l’esperienza dell’unificazione tedesca, è affascinato piuttosto
dalla dinamica degli Stati, che nascono, muoiono, si modifi-
cano, quasi fossero degli organismi viventi, anzi dei “superor-
ganismi” nei quali i singoli componenti finiscono col dare un
unico indirizzo al loro agire spaziale. Grazie alla loro cultura
materiale e spirituale, i popoli divengono così delle nazioni, il
cui destino – legato vuoi al passato, vuoi al futuro – si dispiega
nel tempo. Casi emblematici sono l’Italia, il cui moto unitario
trae ispirazione sia dal Rinascimento che dalla romanità, e gli
Stati Uniti, che ricorrono ad un certo punto alla retorica del
“destino manifesto”.
Oggigiorno, chi si azzardi ad evocare la nazione corre il ri-
schio di venir criminalizzato; si è coniato addirittura il termi-
ne sovranismo per indicare la corrente di pensiero che vuole
fondare la politica dei popoli sulla loro identità nazionale. Si
tratta evidentemente di una operazione ideologica, una misti-
ficazione che tenta di nascondere la realtà delle cose. Di fatto,
le nazioni esistono in quanto i popoli sono diversi fra loro:
più per le loro caratteristiche culturali che per quelle razzia-
li, sempre meno accreditate dalla scienza moderna. Queste
diversità implicano necessariamente una separazione, frutto
della contrapposizione di interessi, che alla radice è lotta per
il controllo delle risorse reperibili in un dato territorio. Da
qui appunto l’esigenza della separazione, che non si limita
all’ambito sociale ma assume presto o tardi una componente
spaziale/geografica. Ciò determina la nascita dei confini e del-
le contese che sempre li accompagnano.

Dalla politica alla geopolitica


Intesa come attività pratica volta ad acquisire il potere e
ad usarlo, la politica risponde da sempre a poche regole pre-
cise, quanto agli obiettivi ed ai metodi. Riguardo ai primi, si

44
tratta sostanzialmente di: 1) assumere il controllo di un grup-
po umano; 2) accrescerne la dimensione, aumentando così il
potenziale di cui si dispone; 3) usarlo per sottomettere altri
gruppi, che vengono integrati in misura differenziata.
Quanto alle metodiche, la panoplia è ancora più ridotta: 4)
il divide et impera; 5) il nemico del mio nemico è mio amico.
La geopolitica è semplicemente l’applicazione di questi
scarni principi al concreto contesto socio-geografico. Rispetto
a quest’ultimo, i popoli divengono alternativamente prede e
strumenti per procurarsele. Semplici risorse (fungibili, quin-
di sostanzialmente anonime) impiegabili per finalità diverse.
Oggetto sempre, mai soggetto, poiché quello che appare a
volte come volontà collettiva è in realtà la proiezione, come
su di uno schermo mobile, del volere (di potenza) dei capi.
Il divide et impera, cioè la regola grazie alla quale esigue
minoranze assumono il controllo di masse anche cospicue
(ciò sembra più evidente nel caso delle dittature, ma funzio-
na altrettanto bene nei meccanismi operanti all’interno dei
sistemi “democratici”) vale sia all’interno che all’esterno.
Una volta assunto il potere, le masse vengono irregimenta-
te ed usate come una clava nei confronti dei gruppi stanziati
al di fuori dei confini statuali. Da qui un gioco del domino
che aggrega al nucleo iniziale sempre nuove componenti.
Nei casi “virtuosi” l’obiettivo è di ricongiungere le membra
sparse della nazione – è il caso dell’unificazione dell’Italia
e della Germania – ma ben presto le attenzioni si rivolgono
ai territori marginali, dove la presenza dei caratteri naziona-
li si affievolisce mentre subentrano elementi di nazionalità
diverse. Ad un certo punto la volontà di potenza prende di
mira territori ancor più distanti, con i quali gli elementi in
comune mancano quasi del tutto. Nulla quaestio, la molla di
tutti i processi è squisitamente economica (anche se a vol-
te mascherata da motivazioni di natura politica, interna od
esterna che sia). A farla breve, prima o poi uno Stato si ritrova
ad inglobare aree che presentano una cultura diversa, magari
omogenea a quella di altri Stati preesistenti e che rimangono

45
contermini. Nasce così il problema delle minoranze e della
loro gestione, che diviene problema tanto di politica interna
che di politica estera.

La lotta per le minoranze


In questi territori la lotta per il potere finisce col tradur-
si in una competizione per l’assimilazione degli immigrati,
indipendentemente da dove essi provengano. Dal resto della
Spagna, com’è nel caso attuale della Catalogna, dal resto del-
la Jugoslavia, com’era in passato per la Slovenia; ovvero dal
resto del mondo, com’è oggi per i singoli Stati dell’Europa,
o ieri per la provincia francofona del Québec all’interno del
Canada. Le velleità secessioniste passano sempre e dovun-
que attraverso l’adozione di politiche tendenti a scoraggiare
(se non proprio impedire) l’uso della lingua e della religione
degli “stranieri”. Di converso, chi controlla l’amministrazione
dello Stato tende a cancellare i caratteri propri delle comu-
nità locali, si tratti del governo di Washington nei confronti
dei nativi americani2, del governo fascista nei confronti degli
alloglotti dell’Alto Adige e della Venezia Giulia3, dei Cinesi
nei confronti degli islamici Ujguri e delle numerose comunità
cristiane presenti nell’immenso Paese.
Il conflitto denuncia chiari connotati spaziali. In questo
senso gli sloveni di Trieste e di Gorizia parlano ancor oggi di
“territorio etnico sloveno” e lamentano che anno dopo anno
questo venga diminuito e “snaturato” per far luogo alle in-
frastrutture pubbliche ed all’insediamento degli italiani. Non
si tratta di recriminazioni sterili. Nel comune di Monrupino/
Repentabor, molti anni or sono la costruzione di un nuovo

2
D. Fiorentino, Le tribù devono sparire. La politica di assimilazione
degli indiani negli Stati Uniti d’America, Carocci, Roma 2001.
3
Nella pur bellissima Guida della Carsia Giulia, G. Cumin non usa mai
i termini slavi, sloveni, croati, sicché quanti leggessero questo testo senza
avere dimestichezza dei luoghi faticherebbe a farsene un quadro realistico.

46
complesso immobiliare è stata autorizzata a condizione che
gli esterni che vi prendessero dimora non ne assumessero la
residenza. In quello di San Dorligo della Valle/Dolina, lo sta-
tuto comunale approvato non molti anni orsono indica quale
finalità dell’Ente locale “il mantenimento del carattere slo-
veno” ed agli immigrati non appartenenti a quell’etnia vie-
ne negata la sepoltura nel cimitero. Siamo nella provincia di
Trieste, che cent’anni or sono è costata agli Italiani 600 mila
morti ed oltre 1 milione di mutilati.
Non è d’altronde un caso solo italiano. Le comunità vallo-
na (francofona) e fiamminga (neerlandofona) sono da decenni
“separate in casa” all’interno di uno Stato – il Belgio – che non
può vantare una nazionalità comune e quindi nel lungo pe-
riodo è destinato a spaccarsi. Storicamente, l’assenza di una
nazione finisce per condannare le costruzioni geopolitiche,
per quanti sforzi si faccia per tenerle assieme. Come direbbe
Ratzel, senza un “suo” popolo, viene a cadere uno dei pilastri
dell’idea stessa di Stato.
Un caso a sé è quello delle comunità che ad un certo pun-
to della loro storia fanno la scelta di aprirsi all’esterno, inco-
raggiando una migrazione di massa rivolta al mondo intero e
mantengono questa politica per un periodo abbastanza lungo
da eliminare la dominanza di una etnia rispetto alle altre. L’e-
sempio tipico è quello degli Stati Uniti, che non rispecchia-
no più la situazione sintetizzata nell’acronimo WASP, vale a
dire: bianco, anglo-sassone, protestante. A quanto pare, que-
sto gruppo non è più maggioritario all’interno dell’Unione,
neanche a livello relativo. La trasformazione è andata avanti
irresistibilmente, accompagnata da una presa di coscienza
dei vari gruppi che potremmo definire “etnici” (ad es. i negri
americani non si distinguono per la loro provenienza dalle di-
verse nazioni africane, né quelle tradizionali né quelle – irrea-
listiche – sorte in seguito alla divisione del continente operata
dai colonizzatori). Oggi i discendenti di questi immigrati ten-
dono a rifiutare l’eredità culturale anglo-sassone e lo fanno
attraverso gesti pubblici come l’abbattimento dei monumenti

47
agli eroi della Confederazione e addirittura quelli a Cristoforo
Colombo.
Quanto ai nuovi immigrati, la pressione che questi stanno
esercitando al confine tra Stati Uniti e Messico ha costretto
già diversi presidenti a mettere in atto misure di contenimen-
to degli arrivi. Su questa agenda, Trump, la cui istanza per la
costruzione di un muro di confine desta grande scalpore, si
trova ad essere solo l’ultimo della serie. Non si può comunque
sottacere come l’uso pubblico dello spagnolo si stia diffon-
dendo in tutti gli Stati dell’Unione e che l’immigrazione dei
latinos stia in pratica riportando l’elemento etnico originario
in tutti i territori dell’Ovest che gli USA hanno strappato al
Messico nel corso dell’800. Il fatto in sé ha caratteri epocali,
tanto più in quanto la perdita di questi territori è avvenuta
proprio a causa della scarsa copertura umana che caratteriz-
zava delle terre un tempo marginali a causa della scarsità di
risorse idriche.

Un fantasma si sta aggirando per il mondo


Nel 1989 il mondo ha festeggiato la caduta del muro di Ber-
lino, un evento che ha fatto sognare la caduta di tutti i muri,
tant’è che più di un intellettuale ha sproloquiato sulla “fine
della storia”4. L’entrata in funzione del Trattato di Schengen
ha in effetti portato – fatto inaudito – allo smantellamento di
tutte le linee fortificate esistenti all’interno dell’Europa co-
munitaria, opere erette durante la “guerra fredda” che prati-
camente dividevano in due il nostro continente. In realtà la
storia non si è mai arrestata e non ha tardato molto a dare i
segni dei suoi movimenti. Nuovi muri stanno sorgendo un po’
dovunque5: a fine 2018 nel mondo si contano 77 nuovi muri,
che vedono all’opera o in fase progettuale ben 45 Stati. Sol-

4
F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.
5
T. Marshall, I muri che dividono il mondo, Garzanti, Milano 2018.

48
tanto in Europa, a partire dal 2015, ne sono stati eretti per una
lunghezza complessiva di 1287 km. In prevalenza si tratta di
barriere volte a impedire l’arrivo dei migranti, una classica
“missione impossibile”; da qui la nascita di una serie di linee
successive che stanno segmentando in particolare i Balcani6.
Anche la Svezia e la Danimarca sono però giunte a questa
determinazione, mentre i Paesi baltici stanno fortificando i
confini con la Russia.
In Medio Oriente, tristemente noto è il muro tra Israele e
gli scampoli residui della Palestina araba, ma in questi anni
la Turchia ha eretto sullo stesso modello 764 km di barriere
avveniristiche per impedire il passaggio dei curdi attraverso
il confine con la Siria. A loro volta gli Emirati Arabi Uniti si
sono tutelati contro l’Oman, il Kuwait verso l’Iraq e quest’ul-
timo ha iniziato a costruire lungo il confine con la Siria. In
Asia centro-orientale non si è da meno, vedi le frontiere Iran-
Pakistan e Pakistan-India, l’intero perimetro dell’Uzbeki-
stan, il confine tra India e Bangla Desh, Brunei e Malaysia,
Malaysia e Thailandia, Cina e Nord Corea, infine il confine
militarizzato tra le due Coree.
Sotto i nostri occhi disattenti il mondo si sta dividendo
più ancora che in passato. Quasi tutti i muri sono rivolti ai
migranti, ma la questione, come si rileva in Europa, viene a
contrapporre fra loro i Paesi contermini. È dunque un motivo
di divisione che può far emergere altri dissapori sinora tenuti
sotto controllo. Piaccia o meno, nel momento in cui la globa-
lizzazione sta presentando il conto un po’ a tutti i Paesi stia-
mo entrando in una nuova epoca, caratterizzata dal ritorno
del nazionalismo, che rappresenta la copertura ideologica per
il perseguimento del “sacro” egoismo nazionale. Demonizza-
re questo fenomeno può portare un apparente sollievo, ma si
tratta di una rimozione puramente psicologica: le ruote della
storia si sono rimesse in marcia e stanno accelerando.

6
Nuove barriere corrono infatti tra Grecia e Macedonia, Macedonia e
Serbia, Serbia e Ungheria, Slovenia e Croazia, Austria e Slovenia.

49
Minoranze di ieri e di oggi
In Asia, la Cina, che sta assumendo sempre più il ruolo
di potenza globale, per il momento cerca di sinizzare e porre
sotto controllo tutte le minoranze, da quelle etniche a quelle
geografiche (Sin Kiang, Tibet, Hong Kong). In India il partito
del congresso, che aveva portato il subcontinente all’indipen-
denza e lo aveva governato per decenni, è svaporato lasciando
il posto al partito popolare del premier Narendra Modi, soste-
nitore di un’identità nazionale fondata sull’induismo, che cri-
minalizza islamici e cristiani. Uomo forte, Modi ha promesso
di far diventare l’India la terza economia più forte del mondo
entro il 2030 e per intanto ha sostanzialmente “annesso” la
provincia autonoma del Kashmir, che sulla base del principio
religioso (la popolazione è prevalentemente islamica) viene
contesa dal Pakistan sin dall’indipendeza dei due Paesi. Di
fronte alla presa di coscienza degli indù, anche il vicino Sri
Lanka sta riscoprendo la propria identità buddista, che è sta-
ta riaffermata attraverso una sanguinosa guerra civile com-
battuta contro l’etnia Tamil. Si tratta dei discendenti degli
indiani trasferitisi sull’isola in varie ondate, a partire dal sec.
XIII.
In Medio Oriente la Turchia di Erdogan sta rifondandosi
all’insegna dell’Islam. Israele si è ridefinito quale patria degli
ebrei, spiazzando il milione e mezzo di arabi che vi risiedono
da sempre. In Siria, che è diventata, come la Spagna degli
anni ‘30, la palestra dove si sperimentano le nuove armi con
le quali sarà combattuta la III guerra mondiale, il regime è
riuscito ad impedire la divisione del Paese tra le diverse com-
ponenti etniche. La dinastia Assad si muove dunque anch’es-
sa in un orizzonte nazionale, pur modellato in funzione di una
popolazione plurietnica e plurireligiosa che aveva sinora con-
vissuto pacificamente.
Negli USA, la strategia di Trump, sintetizzata nel motto
America first, si appoggia a due pilastri – il ritorno al mercan-

50
tilismo in economia e lo stop all’immigrazione – che sono i
due ingredienti principali di una politica nazionalista.
In Europa, la fuoruscita del Regno Unito dalla UE avviene
in nome di un’identità che di British conserva in realtà sola-
mente il ricordo. Giova poi sottolineare come uno degli osta-
coli principali per la Brexit sia rappresentato dal contenzioso
storico tra Londra e Dublino, che non consente il ripristino
di un confine vero e proprio tra l’Ulster e l’EIRE. Anche qui,
al nazionalismo britannico si contrappone l’analoga tensione
ideale da parte degli irlandesi.
Parallelamente alla Brexit, sui confini orientali della UE i
Paesi ex satelliti di Mosca, che hanno da poco riacquistato la
loro indipendenza, si ribellano ai burocrati di Bruxelles che
pure ne garantisce lo sviluppo economico. Lo fanno in nome
della difesa delle specifiche identità nazionali, attraverso ini-
ziative che da un lato cercano di tutelare le proprie culture e
dall’altro si oppongono all’ immigrazione, soprattutto islami-
ca. Le recenti elezioni per il parlamento europeo hanno visto
l’insuccesso del tentativo, organizzato dai partiti cosiddetti
sovranisti (peraltro largamente rappresentati anche in Fran-
cia, in Germania, in Austria), di scardinare la maggioranza
cristiano-socialista che governa l’Unione. Sostenere che l’on-
da sia ormai passata sembra comunque prematuro, specie in
considerazione degli inevitabili effetti socialmente destabi-
lizzanti che verranno dalla nuova, grave crisi economica che
sta per abbattersi sul mondo intero.
Al di fuori della UE, Russia ed Ucraina si stanno confron-
tando per il controllo dei territori dove vive la minoranza rus-
sofona (che localmente è però maggioranza). Nel suo tenta-
tivo di ricostruire lo Stato, Putin sta puntando decisamente
sulla comune eredità culturale che unisce i popoli della Fede-
razione Russa, proponendo una sintesi originale tra la storia
degli zar e quella dell’Unione Sovietica.
I movimenti di popolazione innescati durante la II guerra
mondiale dal regime nazista e dalle potenze vincitrici suc-
cessivamente alla sua conclusione hanno alterato irreversi-

51
bilmente la distribuzione dei tedeschi all’interno del Paese.
Di conseguenza è completamente scomparso il tessuto regio-
nale tradizionale che si era costituito e mantenuto nei secoli,
lasciando il posto ad un impasto di elementi eterogenei che
solo formalmente si ritrovano inquadrati nei diversi Laender.
Nascono frattanto le no-go-zones, ghetti etnici colonizzati e
presidiati da etnie di immigrati omogenei per quanto riguar-
da la provenienza. Nelle città inglesi, tedesche, belghe, olan-
desi, svedesi, a somiglianza di quanto avviene da un paio di
secoli nelle città americane. China towns, Little Italy, strada
di Los Angeles dove negli anni si sono affrontati con le mitra-
gliette cinesi da un lato e dall’altro. Fenomeni transitori negli
USA, nell’epoca in cui le dinamiche economiche erano in pie-
no svolgimento, tant’è che vi si manifestava una fisiologica
transizione da un’etnia all’altra (la China town di Washington
nel 1992 era la zona dei tedeschi nella prima parte del secolo,
dopo aver ospitato gli italiani a fine ’800). Oggigiorno, con la
stagnazione che si diffonde ovunque nell’ex ricco Occidente,
rischiano di stabilizzarsi, dando vita ad aree etnicamente ca-
ratterizzate, preludio all’affermarsi di una coscienza naziona-
le che disarticolerà il tessuto sociale di molti Stati.
È la sociologia – la scienza umana “americana” per eccel-
lenza, assieme alla sua sorella, la psicologia sociale – a porta-
re avanti l’ideologia attuale. Essa focalizza le comunità che
esprimono caratteri più rarefatti, comunità più mobili, non
ancorate tendenzialmente ad uno specifico territorio. Si trat-
ta di classi sociali, di gruppi accomunati dal livello di reddito,
la professione, i comportamenti, quali la militanza politica,
la frequenza ai riti collettivi dello sport o della musica legge-
ra, l’uso delle droghe, ecc. Tutti elementi che compongono
il quadro della realtà ma che vengono analizzati separata-
mente, non tanto per ricercare la mistura che fornisce la base
della comunanza, quanto per evidenziare le differenze al loro
interno.
Da qui la tutela delle minoranze: legittima e talvolta lo-
devole sotto il profilo etico, per quanto attiene ai destini dei

52
popoli, tuttavia essa finisce inevitabilmente coll’alimentare la
disgregazione della nazione e quindi dello Stato, il che provo-
ca presto o tardi una reazione che può assumere connotati di
violenza.
Si assiste dunque al confronto tra due modelli di nazione
(o di Stato-nazione): la nazione giovane, composta essenzial-
mente di immigrati (la Roma del rifugio), in continua evo-
luzione perché i nuovi arrivati hanno usi e costumi sempre
diversi, e la tradizione, rappresentata dalle civiltà che vanta-
no un passato, nelle quali le diverse componenti hanno avuto
modo di sedimentarsi fino a costruire un basamento solido,
capace di sfidare il tempo. Per intenderci, gli Stati Uniti d’A-
merica ed i vecchi Stati dell’Europa.

Il problema delle migrazioni


Il modello di immigrazione continua è funzionale alla cre-
scita artificiale di una popolazione, che è così in grado di au-
mentare la propria numerosità più di quanto lo consenta la
dinamica demografica naturale. Essa è particolarmente utile
quando si abbia abbondanza di risorse naturali e/o di capitali
(finanziari e tecnologici). È il caso degli Stati Uniti d’Ame-
rica, il cui sviluppo è stato alimentato nell’arco di tre secoli
e mezzo dalle falangi di emigranti che lasciavano l’Europa,
in parallelo con un flusso continuo di capitali in uscita dal
vecchio continente. Un gioco dal quale alla fine tutti hanno
tratto vantaggio.
Perché ciò avvenga vi sono quindi due presupposti: che
nei Paesi di origine vi sia un’eccedenza di forza lavoro non
immediatamente utilizzabile e che negli stessi si verifichi
un’accumulazione di capitali da investire preferibilmente
all’estero. Com’è facile intuire, le due condizioni tendono ad
escludersi a vicenda, dato che la disponibilità di capitali do-
vrebbe consentire l’approntamento di occasioni di lavoro per
i disoccupati. Il caso dell’Irlanda, come pure quello dell’Italia

53
unita tra ’800 e ’900, è esemplare. Privi di capitali, i due Paesi
hanno allentato la pressione sul mercato interno del lavoro
tramite l’emigrazione; quest’ultima ha poi attivato consisten-
ti flussi di rimesse alle famiglie che hanno sostenuto le relati-
ve bilance dei pagamenti a beneficio dell’intero Paese.
Nella situazione attuale, la forza lavoro viene a contare
sempre meno, in presenza di una concentrazione produt-
tiva in impianti sempre pià grandi e sempre più meccaniz-
zati. Come se ciò non bastasse, le condizioni dell’economia
mondiale stanno peggiorando in conseguenza di una diffusa
maldistribuzione degli investimenti. Con un’economia sta-
gnante, in Europa e negli USA l’arrivo di masse di immigra-
ti, accompagnate da cospicui investimenti dai Paesi islamici,
dalla Cina e dall’India, si traduce in un’auto-invasione. Tutto
questo avviene poi in tempi troppo rapidi perché le nostre so-
cietà riescano ad assorbire gli afflussi senza esplodere. Da qui
una crescente ostilità verso gli stranieri, che si traduce in de-
cisioni politiche eclatanti: se negli Stati Uniti la Casa Bianca
tende a sbarrare con ogni mezzo l’accesso ai latino-americani,
al punto da mettere in discussione la normativa sullo jus loci,
all’altro lato dell’Atlantico il Regno Unito lascia l’Unione Eu-
ropea (a quanto si dice) per poter porre una barriera all’immi-
grazione dal resto del continente.
A parte quanti si rifanno, erroneamente, all’ideale evan-
gelico7, i sostenitori dell’apertura indiscriminata all’immigra-
zione si giustificano affermando che ciò si rende necessario
per supplire alla natalità, ormai crollata nelle società già ric-
che dell’Occidente. A ben vedere, i responsabili di questa tra-
gica situazione sono proprio gli stessi che hanno sostenuto e

7
Del resto ridimensionato dallo stesso Papa Francesco, il quale ha più
volte ribadito che il diritto all’emigrazione non corrisponde ad un diritto
all’immigrazione e che ogni Paese debba farsi carico solamente delle perso-
ne che è in grado di accogliere dignitosamente e di integrare nel proprio tes-
suto sociale. Cfr., ad es., la conferenza stampa sul volo di ritorno dal viaggio
apostolico in Irlanda [https://www.interris.it/religioni/il-papa--l-integrazione-
come-condizione-per-accogliere] (27/8/2018).

54
sostengono tuttora l’aborto di Stato e il controllo generalizza-
to delle nascite. Si tratta di gruppi ideologizzati, che guarda
caso coincidono con gli sponsor dell’immigrazione, come è
agevole verificare.

La sostituzione dei popoli


L’ipotesi delle migrazioni sostitutive quale risposta alla
crisi demografica dei Paesi avanzati, in particolare dell’Euro-
pa, è stata fatta propria dalle Nazioni Unite8, ormai ridotte a
mera cinghia di trasmissione di decisioni politiche prese da
singoli governi. I politici di ambito progressista, che hanno
generalmente poca simpatia verso le forze dell’ordine, amano
sostenere che sia impossibile bloccare l’immigrazione. In re-
altà non vi è cosa più facile, come sta emergendo nonostante
la compatta contrarietà dell’establishment, dall’azione svolta
dal ministro Salvini nell’ultimo anno. Senza voler scendere
a dei giudizi sulla persona, appare chiaro che siamo in pre-
senza di argomentazioni squisitamente politiche, oltreché
ideologiche. Si preferisce così illudere la gente sulla possibi-
lità di bloccare i cambiamenti climatici – che dipendono es-
senzialmente dalla natura – anziché quelli che senza ombra
di dubbio dipendono dall’azione umana. Questi gli ordini di
scuderia ci vengono – horresco referens – dagli ambienti che
non mancano occasione per presentarsi quali difensori della
democrazia.
Chi ha studiato il problema parla ormai apertamente di
armi di migrazione di massa9. L’esempio classico è rappre-
sentato dalla minaccia di aprire le frontiere in entrata e in
uscita agli africani attuata da Gheddafi nel 2004, che gli è val-
sa la revoca delle sanzioni da parte della UE. Sotto attenzione

8
Replacement Migration: Is It a Solution to Declining and Ageing Popu-
lations? United Nations, 2001.
9
K. M. Greenhill, Armi di migrazione di massa. Deportazione, coerci-
zione e politica estera, Leg, Gorizia 2016.

55
è attualmente la politica della Turchia di concentrare nelle fa-
sce di confine della Siria presidiate dalle proprie truppe i mi-
liziani in fuga davanti all’esercito di Assad. Si paventa infatti
l’ipotesi che in futuro Erdogan intenda organizzare un refe-
rendum fasullo per potersi annettere questi territori, com’è
già avvenuto negli anni ’20 per la provincia di Antiochia.
Sarebbe tuttavia altamente fuorviante guardare al di fuori
dell’Occidente per individuare i responsabili dell’attuale si-
tuazione. Il problema sorge infatti con l’imposizione su sca-
la planetaria dell’aborto, che più ancora dei contraccettivi
ha bloccato il meccanismo di riproduzione delle popolazioni
“ricche”. Anche qui, una volta preso atto delle conseguenze,
invertire la rotta è totalmente nelle mani dell’uomo. La stes-
sa Cina, che oggi paga decenni di politica del “figlio unico”,
sta correndo rapidamente ai ripari, al punto da promuovere
il matrimonio fra le nuove generazioni10. Ma nell’Occidente
già prospero, i “padroni del vapore” si mostrano di tutt’altro
intendimento. I marxisti superstiti attribuiscono questa de-
terminazione alla volontà degli imprenditori di calmierare il
costo del lavoro ricostruendo grazie alle nuove leve terzomon-
diali quello che Marx definiva “l’esercito industriale di riser-
va”. L’ipotesi è tutt’altro che peregrina.
Da parte nostra aggiungeremmo che nelle economie soste-
nute ormai più dai consumi che dalla produzione, la materia
prima indispensabile per far marciare il sistema è data piut-
tosto dai consumatori. Importiamo consumatori non evoluti,
disposti a vivere in abitazioni fatiscenti e grazie a servizi di
welfare di bassa qualità, sostenuti dalle tasse pagate dalle po-
polazioni autoctone. In attesa di essere sostituite a tutti gli
effetti, soprattutto a quelli politici. È infatti notorio che gli
immigrati, essendo alla ricerca di un inserimento quale sia, la
politica rappresenti una scelta pregevole. Sono numerose le
carriere fortunate tra gli immigrati di prima e seconda gene-

10
M. Lombardo, Yang Huiyan. La regina del mattone che si è costruita
anche il matrimonio, «il Giornale», 14/8/2019, p. 18.

56
razione. Un esempio “politicamente scorretto” potrebbe esse-
re quello dell’austriaco Adolf Hitler nella Germania tra le due
guerre mondiali.

Cui prodest?
Se questi sono i presupposti, interessante è verificare se
vi siano delle corresponsabilità rispetto all’accentuarsi dei fe-
nomeni migratori. Facciamo mente locale al 2015, quando in
Germania si scaricò oltre un milione di immigrati. All’epoca
nel web si fece gran parlare della disponibilità dimostrata dai
tedeschi nei confronti dei nuovi ospiti. In Africa e in Oriente
sarebbero arrrivati così messaggi di incoraggiamento all’emi-
grazione. Circa la metà di queste vere e proprie sollecitazio-
ni sarebbero risultate invece provenire da Stati Uniti, Regno
Unito, Australia e Canada. A scoprirlo è stata l’intelligence di
Mosca11, quella intelligence che viene spesso accusata di dif-
fondere delle fake news12 e quindi dovrebbe venir censurata.
All’atto pratico, l’arrivo di questa massa di stranieri ha cre-
ato tensioni sociali non di poco conto, che le autorità hanno
cercato in tutti i modi di mettere a tacere. L’opinione pubbli-
ca ha comunque reagito attraverso un generalizzato sposta-
mento a destra dell’elettorato, con la conseguenza di mettere
definitivamente in crisi l’equilibrio politico del Paese. Questo
spiega perché la Germania sia fortemente interessata a re-
spingere in Italia tutti gli stranieri che sono passati attraverso
il nostro territorio, nonché a dirottare sull’Europa mediterra-
nea in generale i flussi di gente che le arriverebbero in futuro.
In Italia si arriva principalmente dal mare, quindi prota-
goniste della grande migrazione sono diventate le cosiddet-

11
Secondo l’accademico russo V. Shalak, un’analisi sui contenuti di oltre
19 mila tweet correlati ai rifugiati rivelava che la stragrande maggioranza
indicavano Germania e Austria quali Paesi più accoglienti [http://orientalre
view.org/2015/09/21/who-is-twitter-luring-refugees-to-germany/] (21/9/2015).
12
Cfr. il programma Fake News: A Roadmap lanciato dalla NATO nel
2018 [https://www.stratcomcoe.org/fake-news-roadmap] (accesso 26/8/2019).

57
te organizzazioni non governative. Sono queste delle entità
private, che svolgono attività a livello internazionale indipen-
dentemente dagli Stati. Vi sono peraltro dei fatti che indiriz-
zano l’osservatore su altre interpetazioni. Il primo di questi è
la relativa frequenza di personale con frequentazione di am-
bienti militari nelle ong che traghettano in Italia i migranti13.
Colpisce poi la nazionalità delle stesse: sulle 10 in attività nel
Mediterraneo nel 2017, ben 5 erano tedesche. È vero che del-
le 6 navi utilizzate solo una era immatricolata in Germania,
ma questo farebbe supporre piuttosto che sia in atto un ma-
scheramento dei mandanti, dato che la Germania possiede
un gran numero di porti, i quali non distano dal Mediterraneo
più di quelli olandesi14. Inoltre si registra una sorta di “staf-
fetta” tra le ong, le quali si passano le navi l’una l’altra, quasi a
voler coprire le tracce. Che poi dietro vi sia l’azione dei servizi
segreti è più di un’ipotesi di lavoro15.
Appare realistico concludere che si abbia a che fare con
enti a carattere transnazionale, tramite i quali organismi poli-
tici ufficiali e non ufficiali si avvalgono dell’etichetta di orga-
nizzazioni non governative per mettere in opera delle vere e
proprie azioni di natura politica ai danni di determinati Stati.

13
All’origine della maltese MOAS (attualmente uscita dal business dei
migranti) vi sono due italo-americani che lavorano nelle assicurazioni, ma di
un genere particolare: assicurano infatti le emergenze (compresi i mercenari)
ed i servizi di intelligence (ergo: spionaggio). Primo direttore è stato l’ex capo
di S.M. dell’esercito maltese [https://www.lucadonadel.it/analisi-ong-nel-me
diterraneo/] (accesso 23/8/2019). A sua volta il fondatore di SOS Méditerranée
è un ex ammiraglio tedesco. Quanto a Carola Rakete, comandante della Sea
Watch, protagonista del clamoroso braccio di ferro con le autorità italiane, il
padre è un ex ufficiale della Bundeswehr con una trentennale esperienza di
consulente per industrie della difesa.
14
Nei quali è immatricolata la maggior parte delle imbarcazioni utiliz-
zate.
15
Fonti militari maltesi e 007 italiani indicherebbero ad es. che tra le
attività svolte dal MOAS vi siano operazioni di intelligence per conto del go-
verno statunitense, anche attraverso strumenti per intercettazioni ad ampio
raggio (G. Micalessin, Ong-trafficanti, le segnalazioni dei servizi e i silenzi
del governo, «il Giornale», 29/4/2017.)

58
Questo spiega i riconoscimenti ufficiali, le coperture giudizia-
rie, i finanziamenti di origine dubbia.
Siamo in presenza di una sorta di guerra “non conven-
zionale” che vede come vittime tanto i Paesi d’origine dei
migranti quanto quelli di arrivo. I primi vengono privati di
elementi giovani, mediamente acculturati, che potrebbero in-
vece contribuire al decollo delle loro economie; i secondi si
vedono sottoposti ad una vera e propria invasione che, avve-
nendo al di fuori di qualsiasi regola e considerazione econo-
mica, pone problemi di integrazione che in futuro sono desti-
nati a divenire drammatici.

La connessione aborto-migrazioni
Trump sembra non tanto voler rompere questo disegno,
sponsorizzato dagli ambienti liberal, anche se il piano di ri-
durre la crescita demografica in determinati paesi per render-
li incapaci di difendersi dalla penetrazione delle multinazio-
nali americane matura all’epoca della presidenza Nixon – il
Memorandum Jaffe approvato da Kissinger.
A quanto si dice, Nixon sarebbe stato allontanato dalla
Casa bianca in quanto ostile alla politica di esternalizzazione
dell’industria americana, dunque per impedirgli di frenare la
globalizzazione.
Ocorre prendere atto che lo scontro tra i popoli ha preso
forme differenti rispetto al passato: da un lato la distruzione
delle economie nazionali conseguente alla liberalizzazione dei
movimenti di merci e di capitali e l’aborto di massa dall’altro,
hanno messo a disposizione strumenti di lotta meno visibili,
apparentemente poco cruenti ma estremamente efficaci. Che
dietro tutte le cose ci sia una regia, lo dimostra la considera-
zione di un analista americano: “La Cina sarà vecchia prima
di diventare ricca” (cit.). Oggi l’ex “Celeste impero” registra
una crescente carenza di manodopera, quella manodopera a

59
basso costo che le ha consentito di assurgere al rango di pri-
ma economia mondiale.
Ai due strumenti summenzionati bisogna adesso aggiun-
gere il controllo delle migrazioni.
In fututo l’Unione deve contare sulla propria capacità di
procreare e costruire opportunità di lavoro per la propria po-
polazione invece di fornirne agli altri popoli. Il commercio
internazionale, quando raggiunge dimensioni squilibrate di-
venta una minaccia per lo Stato, deve dunque venir riportato
alla sua dimensione fisiologica, quella che consente all’eco-
nomia di conservare la propria funzionalità.
Naturalmente il Presidente americano non è un ingenuo,
questa politica va interpretata in primo luogo a beneficio de-
gli Stati Uniti (America first!). Ciò significa che la dialettica
degli Stati va giocata come si faceva prima della globalizza-
zione, vale a dire attraverso una trattativa “uno ad uno”, che
consente agli USA di prevalere automaticamente su quasi
tutti i partners. Quanto a quelli di taglia similare, si passa
alle maniere forti. Unione Europea (e soprattutto Germania),
Giappone, Russia, Cina. La dialettica interstatale si basa sem-
pre sui rapporti di forza esistenti.

Come andrà a finire/Il contesto reale


Negli ultimi decenni nelle vicende internazionali compa-
iono sempre più di frequente i Paesi extraeuropei, molti dei
quali la nostra cultura è solita considerare come fossero abi-
tati da “popoli senza storia”. Se si fa eccezione per le “colo-
nie di popolamento”, dove la Gran Bretagna ha esportato per
secoli le proprie eccedenze demografiche (il Nord America,
l’Australia e la Nuova Zelanda), gli Stati ex coloniali non han-
no mai posseduto, a differenza di quelli europei, un caratte-
re nazionale. La loro configurazione geografica è stata infatti
costruita a tavolino, ritagliando popoli e territori in base alla
logica (si fa per dire) dei rapporti di forza tra i colonizzatori,

60
rapporti misurati per giunta sulla scacchiera mondiale. Etnie,
culture e religioni si trovano così divise e mescolate in insie-
mi altamente eterogenei16. Da queste divisioni, che general-
mente presentano una dimensione geografica, deriva una
debolezza d’origine nei governanti locali, che si traduce nella
difficoltà di arginare la penetrazione degli interessi stranieri,
specie nei confronti degli ex colonizzatori. L’Occidente ne ha
approfittato (e lo fa tuttora) cercando di impedire alle sue ex
colonie di darsi un’organizzazione moderna ed efficiente che
permetta di imboccare la strada di uno sviluppo autonomo.
All’uopo sono state messe in atto quattro serie di misure.
La prima è stata il neocolonialismo, che punta al control-
lo delle economie locali grazie alla superiorità tecnologica,
finanziaria e commerciale. Prosecuzione diretta del sistema
coloniale, questo modello di penetrazione è stato successi-
vamente perfezionato con il pieno dispiegarsi della globaliz-
zazione. Non potendo impedire la nascita in quesi Paesi di
un tessuto industriale, si è deciso di renderlo non autonomo,
inglobando le singole produzioni entro “catene di valore” seg-
mentate a livello mondiale e delle quali i Paesi sviluppati rie-
scono a mantenere il controllo. Parallelamente si è cercato di
ridurre la crescita demografica dei nuovi Paesi, nell’intento
di mantenere il controllo delle risorse naturali attraverso il
rallentamento della domanda locale. Ultima, ma non in ordi-
ne di tempo, la strategia della tensione politico-militare, che
punta a rendere ingovernabili gli Stati che non si piegano agli
interessi stranieri. Si è partiti dalla diffusione del modello
della “repubblica delle banane” per giungere alla distruzione
completa di diversi Stati. L’elenco fa impressione: Somalia,
Jugoslavia, Iraq, Libia, Siria, Jemen. Altri ne sono usciti for-

16
Si pensi al Togo, piccolo Paese che si affaccia al Golfo di Guinea, il
quale nel 1956 perdette metà del territorio, unito alla Costa d’oro a formare il
Ghana. Ciò ha separato politicamente l’etnia maggioritaria Ewe a vantaggio
di altri gruppi. Oppure alla Nigeria, una federazione abitata da 250 gruppi
etnico-linguistici (dei quali 3 principali), grosso modo divisi tra cristiani ed
islamici.

61
temente acciaccati – Libano, Vietnam, Cambogia, Algeria. E
la storia continua.

Una nuova dialettica delle nazioni


Nel corso dell’oltre mezzo secolo che ci separa dalla deco-
lonizzazione, le cose hanno subito comunque un’evoluzione. I
Paesi del “terzo mondo”, vecchi e nuovi, appaiono oggi teatro
di una ampia riorganizzazione. Un po’ dovunque si manife-
sta la ricerca di un’omogeneità culturale che richiama in vari
modi l’esperienza del continente europeo. Stiamo assistendo
ad una nuova fioritura delle nazioni, con le luci e le ombre
che sempre accompagnano questo processo. Ciò comporta
in primo luogo il rifiuto del multiculturalismo: le differenze,
lungi dal costituire una ricchezza, come si pretende sempre
più nell’Occidente, sono percepite quali elementi di disgrega-
zione che indeboliscono l’azione di governo17. Quest’ultima
infatti non può non basarsi sul principio di autorità, fondato
sul criterio democratico della maggioranza dei consensi. I re-
gimi in questione sono infatti accomunati dal carattere au-
toritario18. Tratti comuni appaiono la crescente intolleranza
verso le minoranze etniche, linguistiche, religiose, specie nei
confronti delle religioni considerate “straniere”.
C’è poi il caso del più grande Stato del mondo, che si esten-
de a cavallo tra Europa ed Asia. Giova rilevare come dopo il
tramonto del progetto di guidare l’espansione mondiale del

17
Ne sono consapevoli gli Sloveni, i quali debbono al rigido controllo
dell’immigrazione – effettuato pur sotto il regime di Tito – il mantenimen-
to di un’omogeneità etnico-linguistica che ha loro consentito di sganciarsi
quasi pacificamente dalla federazione jugoslava. Ciò non è invece riuscito a
Croazia e Bosnia-Erzegovina, minate dalla frammentazione etnico-religiosa.
Questo precedente va tenuto in debito conto quando si voglia giudicare l’at-
teggiamento dei Paesi dell’Est europeo rispetto al problema dell’immigra-
zione.
18
Alcuni esempi: la Cina comunista di Xi Jinping, l’India “induista” di
Davendra Modi, l’Iran sciita di Hassan Rouhani, e i numerosi Paesi sunniti:
il Pakistan di Arif Alvi, l’Arabia Saudita di Mohammed Bin Salman, la Tur-
chia di Recep Erdogan.

62
marxismo-leninismo, anche la Russia postsovietica si trovi di
fronte al problema di ridefinirsi quale federazione multietni-
ca. Vi è dunque un’altra etnogenesi in corso. Per certi versi
anche la Russia post sovietica può considerarsi un Paese in
via di sviluppo, minacciata di disgregazione. Non meraviglia
pertanto che anch’essa sia retta da una leadership forte.
Di fronte a questo scenario di aggregazioni l’Occidente,
e in ispecie l’Europa, sta attraversando un processo di di-
sgregazione interna che investe tutti i maggiori Stati che lo
compongono. La graduale perdita dell’omogeneità culturale,
sovrapponendosi all’aumento delle disparità economiche sta
rendendo ingovernabile l’intera Europa. Quanto agli Stati
Uniti, la spaccatura tra quanti sostengono i valori tradizionali
dell’America (ancorati all’eredità anglo-sassone) e coloro che
li vogliono affossare in nome del multiculturalismo e della
libertà dei costumi, sta raggiungendo dimensioni inaudite
nella storia dell’Unione.
Come si vede, il pianeta appare diviso in due, con una par-
te – ampiamente maggioritaria quanto a superficie e popola-
zione – che unisce tassi elevati di sviluppo all’aumento della
coesione sociale (spontanea o meno), a fronte di un “vecchio
mondo” segnato dalla stagnazione, l’invecchiamento della
popolazione e l’aumento della conflittualità interna. Questi
diversi mondi sono peraltro collegati strettamente fra loro,
sicché questa divaricazione sta creando le premesse per un
rovesciamento degli equilibri di potere alla scala planetaria.
Tempi bui si prospettano, in particolare per l’Europa. Non va
dimenticato che storicamente la sua espansione attraverso
gli oceani è stata resa possibile, assai più che da una certa
superiorità tecnologica, dall’avere via via incontrato delle so-
cietà in preda a profonde crisi interne. Si pensi alla situazione
degli Aztechi nel Messico, degli Inca nel Perù, alla frammen-
tazione dell’impero Moghul in India, alla crisi dell’impero ci-
nese, alla lenta agonia dell’impero ottomano19.

19
«Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi» (Mc
3,24).

63
Nell’incontro-scontro delle civiltà preconizzato già nel
1993 da Samuel Huntington20, i rapporti di forza sono deter-
minanti per l’evolversi delle relazioni tra le civiltà ed i popoli
che le incarnano. Oggi la crisi sta radicalizzandosi nel nostro
continente, nel quale sta maturando un elemento di debolez-
za che non si ricorda dai tempi della decadenza dell’impero
romano. La presenza di cospicue comunità di immigrati, che
anche geograficamente tendono a concentrarsi21, realizza
una dissociazione del tessuto fondativo degli Stati. Per giun-
ta, essa viene ad offrire un ottimo prestesto per future inge-
renze nei nostri Paesi da parte di governanti con velleità re-
vansciste ovvero semplicemente espansioniste. Si pensi alla
Turchia attuale, che non fa mistero delle proprie ambizioni
di riguadagnare i territori (europei e non solo) già apparte-
nenti all’impero dissoltosi nel 1920. In questo quadro, l’ormai
generalizzata apostasia dei popoli ex cristiani viene a cancel-
lare il principale elemento di coesione delle società europee
ed insieme l’unico fattore che storicamente le accomunava.
Non si esagera quando si rileva come le conseguenze ultime
potrebbero assumere il carattere di un vero e proprio “castigo
di Dio”.

20
S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale,
Garzanti, Milano 2000.
21
Da qui la formazione di nuovi ghetti, colonizzati e presidiati da etnie
di immigrati omogenee riguardo alla provenienza. Un tempo caratterizzanti
le città nordamericane (Little Italy, China town, ecc.), oggi rappresentano un
fenomeno sempre più diffuso nel panorama urbano dell’Europa occidentale.

64
Il problema dell’anno
Popoli, Nazioni, Patrie: tra natura e artificio politico
3

IDENTITÀ E MISSIONE. UNO SGUARDO


SOCIOLOGICO SULLE “RADICI”
Giacomo Gubert*

In questo scritto presenteremo alcune osservazioni sul so-


vranismo e il globalismo, fatte da un punto di vista partico-
lare, suggeritoci dalla scelta lessicale stessa (due sostantivi
astratti con suffisso “-ismo”), ormai comune nella comunica-
zione sociale; li osserveremo infatti quali manifestazioni di
disordine, presupponendo dunque una misura e un ordine
sociali che ci permetta di considerarli con sguardo critico.
Non ci occuperemo del punto di vista degli attori della sce-
na politica, non per un giudizio implicito sulle loro qualità ma
proprio in quanto tali; nemmeno ci interesseremo, se non se-
condariamente, del copione della loro azione politica e socia-
le. Chiaro esempio del punto di osservazione scelto sarà già
il prossimo paragrafo, in cui, trattando della sovranità, non
citeremo l’articolo 1 della Carta repubblicana italiana: “La so-
vranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei
limiti della Costituzione”.

“Non c’è autorità se non da Dio” (Rm 13,1b)


Iniziamo ad avvicinarci al punto di osservazione annun-
ciato con questa nota citazione di san Paolo, che qui prendia-

* Dottore di ricerca in Sociologia.

65
mo come espressione di una verità razionale. Essa, indicando
l’origine, il presente e la fine del potere sovrano (o semplice-
mente sovranità), nell’impedirne la chiusura, apre in manie-
ra radicale la realtà sociale (e quindi ogni sistema e proposta
politica). Questa apertura originaria, attuale e finale si riper-
cuote sui vari livelli di sovranità permettendone l’ordinata
coordinazione, che invece sfugge, anche per ragioni pratiche
che vedremo poi all’opera, nel caso dell’Unione Europea, ad
ogni sovranismo e globalismo, inteso qui, il primo, in senso
generale come fenomeno di cesura ad un qualsiasi livello nel
processo continuo delle coordinazioni politiche, e l’altro come
appiattimento (o inversione) del processo stesso.
Lasciando da parte, per ragioni di spazio, l’interessante
questione sull’origine del potere sovrano, aggiungiamo due
osservazioni sulla sua fine e la sua attualità.
Il paradosso escatologico del potere, ben individuato da
Gaston Fressard1 è di essere fatto non per durare e conso-
lidarsi, secondo il luogo comune, ma per volere la sua fine
raggiungendo il suo fine, cioè giungere al suo compimento.
Questo paradosso escatologico costituisce la principale misu-
ra, dinamica, di legittimità del potere2. La coordinazione sus-
sidiaria, verticale e orizzontale, con le sue perdite e guadagni,
certamente assomiglia al raggiungimento di questo fine e al
giungere alla sua fine.
Nella stessa linea, con un’accentuazione metodologica an-
cora più utile ai nostri fini, inseriamo qui un’osservazione sul
presente del potere che dobbiamo ad Erich Voegelin.

1
Faccio riferimento a Autorité et bien commun, Ad Solem, Parigi 2015,
pp. 59-67. Sull’argomento ho tratto profitto dalla lettura del bel libretto di
Émilie Tardivel, Tout pouvoir vient de Dieu. Un paradoxe chrétien, Ad So-
lem, Parigi 2015.
2
A cui bisognerebbe aggiungere per completezza quella, propriamente
rivelata, di trattenere l’Anticristo, secondo 2Ts 2,6-7.

66
“Presenza sotto il dominio di Dio”
Nel 1964 Erich Voegelin tiene un corso di undici lezioni
su “Hitler e i tedeschi”3 Al termine della prima lezione, vo-
lendo sviluppare degli strumenti diagnostici per affrontare
il problema esperienziale fondamentale di questo corso, che
era l’ascesa al potere di Hitler, afferma: «Vi è un altro signi-
ficato di presente, nel quale esso è sempre collegato all’esi-
stenza dell’uomo nella sua presenza sotto il dominio di Dio.
Nella misura in cui l’uomo, che esiste e agisce nel tempo
immanente, esiste sotto il dominio di Dio, egli ha presenza.
E il significato di passato e futuro diverrà generalmente in-
terpretabile solo partendo da questa presenza, poiché altri-
menti ogni cosa sarebbe uno svolgimento senza importanza
in un flusso esteriore di tempo. Che cosa significa quindi
comprendere il presente? Alla base della comprensione del
presente bisogna intendere una virtù, la virtù di porre il pre-
sente del tempo immanente sotto il giudizio della presen-
za sotto il dominio di Dio. Questo genere di comprensione
globale, quindi, è un problema umano generale, non qual-
cosa tipico dell’era moderna, non qualcosa valido solo per
i tedeschi, ma per ogni uomo: porre il presente immanente
nell’ambito del processo immanente sotto il giudizio della
presenza»4.
Dopo aver fatto riferimento all’origine di queste consi-
derazioni, nate nel confronto tra Platone e i sofisti, Erich
Voegelin prosegue: «Quindi, ciò che verrà chiamata “scien-
za della politica” nasce nell’ambito della critica del tempo
nel senso di una società empiricamente immanente che non
pone se stessa sotto il giudizio alla presenza di Dio. Questo
significa che la scienza dell’ordine dell’uomo nella società
sorge dalla reazione contro la non esistenza nel presente.
[…] Questa comprensione globale del passato, che implica
sempre una comprensione del presente, era relativamente

3
Hitler e i tedeschi, Medusa, Milano 2005.
4
Ibidem, p. 47.

67
semplice nella situazione di Platone, dal momento che egli
dovette occuparsi unicamente dei processi storici interni
alla polis ellenistica. Per noi, nella situazione attuale, la fac-
cenda è assai più complicata. Ci è particolarmente difficile
comprendere il nostro presente, dal momento che la nostra
società è dominata da diversi tipi di principi e punti di vista
ideologici – non solo quello marxista o nazionalsocialista, ma
anche quello positivista, progressista, liberale laico, e molti
altri – che erigono a principio d’impedimento di una com-
prensione unitaria del presente. E questo principio d’impe-
dimento è già così antico – risale ad almeno duecento anni
fa – da aver esercitato la sua influenza su tutto l’Occidente,
e in particolare sulla Germania, ponendo enormi ostacoli a
una tale comprensione, che deve essere tentata più e più
volte. Quindi se desideriamo comprendere il passato al fine
di comprendere il presente, abbiamo un compito di portare
a termine: liberarci di tutto il ciarpame ideologico per far
si che la conditio humana a termine»5. Compito arduo, già
allora (siamo nel 1964): le ideologie si sono impadronite del
vocabolario classico e cristiano, le parole stesse hanno cam-
biato significato, non è facile nemmeno parlare di questi
argomenti; così si esprime Erich Voegelin, pur confidando
ancora nell’enorme tesoro della tradizione classica, umani-
stica e cristiana ancora presente in Occidente. Nel contesto
di questo scritto, scanseremo questo compito per noi ecces-
sivo e proveremo invece ad usare questo “strumento diagno-
stico” della “presenza sotto il dominio di Dio” per i fini che
ci siamo proposti.

Identità-missione
Introduciamo due concetti chiave della critica del sovrani-
smo e del globalismo presentando brevemente l’esempio del-

5
Ibidem, p. 48.

68
la Romania6 che abbiamo studiato nel passato7. Cercheremo
di trarre profitto da alcuni dati empirici, pur datati, nei quali,
al di là delle intenzioni dei ricercatori che li hanno prodot-
ti, abbiamo intravisto tracce dell’esperienza sociale che sta a
fondamento dei nostri concetti chiave. Facciamo riferimento
a ciò che è chiamato “sentimento di appartenenza territoria-
le” sulla quale esiste un’ampia letteratura italiana8 e interna-
zionale, nonostante i forti preconcetti della sociologia riduzio-
nista di matrice positivista. Accade infatti, in modo analogo
ai sentimenti di appartenenza territoriale (ed esperienze so-
ciali simili correlate a vari livelli) ciò che è successo al senso
religioso (con tutto ciò che esso comporta), di essere colpiti
da una profezia negativa di scomparsa o residualità sociale
ad opera del progresso. Ora, anche dopo il fallimento e fram-
mentazione della grande narrazione progressista, permane in
molti uno schema di pensiero secondo il quale queste espe-
rienze non possono che essere regressive.
Nel progetto di ricerca “Etnobarometro” furono previste
anche delle domande tese a rilevare l’etnocentrismo della
popolazione romena e della minoranza ungherese, che ripor-
tiamo in tabella 1. L’elemento di contatto con il concetto di
identità-missione consiste nella ricerca di un senso che uni-
fichi l’esperienza collettiva di una nazione, mentre quelli di

6
Riteniamo utile riportare qui almeno una breve descrizione della situa-
zione etnica in Romania, confrontando i censimenti del 1977 (tra parentesi) e
del 2002. La popolazione risulta così ripartita: 89.5% (88.1%) di romeni, 6.6%
(7.9%) di ungheresi, 2.5% (1.06%) di rom, 0.3% (1.6%) di tedeschi, 0.3% (0.26%)
di ucraini ed il restante 0.8% diviso tra altri gruppi, tra cui meritano una
menzione, per la loro importanza storica, gli ebrei, ridotti nel decennio 1980-
’90 a meno di un quarto, che contano oggi circa novemila membri (25 mila
nel 1977). Vi sono inoltre più di duecentomila romeni insediati all’esterno
dei confini attuali dello Stato, di cui circa un quinto nella confinante Serbia
e più della metà nelle regioni storiche della Bucovina e della Bessarabia, che
non cessano, anche in ragione di questa presenza, di essere considerate parte
della geografia mentale della nazione romena.
7
Cfr. G. Gubert, Doppia secolarizzazione: la situazione religiosa della
Romania post-comunista, ISIG, Gorizia 2007.
8
Ci permettiamo di ricordare R. Gubert, L’Identificazione etnica, Edi-
zioni Del Bianco, Udine 1976.

69
distanza sono facilmente reperibili, dato il tono irragionevol-
mente negativo delle domande. Tra gli intervistati romeni
l’accordo sulle affermazioni positive, sommando sia gli esclu-
sivisti (“auto”) che gli inclusivisti (“et/et”), è sempre intorno
ai tre quarti del campione, con il valore più alto per la prima
affermazione, vicina all’oggettività e che richiama l’idea del-
la nazione sofferente, piuttosto comune nella storia culturale
romena, almeno nei suoi tentativi interpretativi.
Per quanto riguarda gli asserti negativi, la situazione è si-
mile, con l’eccezione di una parte consistente degli intervi-
stati (56% i romeni su se stessi, 66% gli ungheresi sui romeni)
che ammette l’eccessiva verbosità del discorso nazionale a cui
non corrispondono azioni positive in tal senso. La scelta degli
asserti mostra la volontà di smascherare una atteggiamento
etnocentrico, di cui la tabella confermerebbe l’esistenza, a
scapito tuttavia del sereno riconoscimento di credenze sul-
la missione dell’ambito territoriale in cui si vive, che è poco
scientifico squalificare in quanto tali, proponendone espres-
sioni deformate come quelle della tabella 1.
Pertanto la ragione per cui presentiamo questi dati par-
ticolari e datati è di mostrare un esempio di “misura senza
misura”, così frequente nelle scienze sociali ed inoltre, oltre
l’esempio, una traccia di un’esperienza umana centrale che
vogliamo introdurre. Nel caso della tabella 1 i ricercatori ri-
tennero che l’assenso alle affermazioni proposte fosse segno
inequivocabile di un atteggiamento “etnocentrico”, mentre
esso potrebbe essere dovuto a semplice ignoranza della storia
europea e mondiale o invece rivestire un significato sociale
che vada oltre l’inquadramento in una categoria sociologica.
Ciò che si pensa di aver oggettivamente misurato e che vie-
ne detto “etnocentrismo” potrebbe essere semplicemente la
coscienza di una missione collettiva implicata in un’apparte-
nenza territoriale.

70
Tab. 1: Percentuali di accordo tra ungheresi (H) e romeni (R)

Verso affermazioni auto etero et/et


dette etnocentriche (%) h r h r h r h r

La nazione nella storia


ha sofferto ma siamo 62 76 4 2 32 19 2 3
sopravvissuti.

Il senso di solidarietà
nella nazione è 33 39 19 22 34 32 14 7
ammirevole.
La nazione è sempre
stata pioniere
57 58 2 5 9 26 32 11
della civilizzazione
europea.
Nessuna altra nazione
ha dato al mondo
41 53 2 1 25 21 32 25
tanti grandi scienziati,
compositori, scrittori.

È una nazione superba


e presuntuosa abituata 18 9 31 59 9 32 42 26
a comandare.

Dicono di essere
ospitali, ma sono solo 8 11 41 38 12 14 39 37
approfittatori.

Ci sono poche altre


nazioni in Europa
centrale 4 42 66 16 8 14 22 28
di cui si parla così tanto
e che fanno così poco.
Dicano quello che
vogliono su loro stessi,
ma non arriveranno 2 17 64 12 10 15 24 56
mai a livelli europei di
democrazia.

Fonte: Nastasă, Salat (eds.) (2000: 145)

71
In secondo luogo è altrettanto importante conoscere le ca-
ratteristiche che soggettivamente si considerano costitutive
dell’identità romena, in diretto confronto con quelle della mi-
noranza ungherese. Al fine di ottenere risultati standardizzati
e più facilmente interpretabili, al campione di intervistati (Et-
nobarometro 2000) si sottopose una lista di possibili tratti iden-
titari: in tabella 2 è riportato l’assenso mostrato verso ognuno
di essi, mentre in tabella 3 all’intervistato fu richiesto di indi-
care il più importante per sé (in quanto romeno o ungherese in
Romania) e quello che si credeva essere più importante per gli
altri (ungherese in Romania e romeni, rispettivamente).

Tab. 2: Caratteristiche distintive dell’identità romena (ungherese) (%)

romeni ungheresi

Essere nato in Romania


56.3 3.0
(Ungheria).
Avere cittadinanza romena
37.1 8.2
(ungherese).
Essere di madre lingua
41.9 82.5
romena (ungherese).
Essere battezzato in una
30.1 23.5
chiesa romena (ungherese).
Vivere in Romania
18.2 2.4
(Ungheria).
Rispettare la bandiera
14.9 17.3
romena (ungherese).
Appartenere alla cultura
23.1 44.7
romena (ungherese).
Considerarsi romeno
40.2 63.8
(ungherese).
Rispettare le tradizioni
22.5 23.9
romene (ungheresi).
Parlare romeno (ungherese)
14.7 25.5
in famiglia.

Fonte: Nastasă, Salat (2000: 341)

72
Si noterà subito quanto le risposte su se stessi somiglino
alle risposte sugli altri, risultato ambiguo che lascia spazio
alle interpretazioni preferite: potrebbe essere sia segno di for-
te etnocentrismo sia semplice conoscenza della natura uma-
na. In questo caso la misurazione sembra aver fallito l’obiet-
tivo di un risultato univoco e manca di elementi essenziali:
che cosa sappiamo infatti dell’intensità, reale e simbolica,
del confronto quotidiano tra le due popolazioni? Serve anche
almeno un tentativo di misurazione della distanza/vicinanza
sociale.

Tab. 3: La più importante caratteristica


dell’identità romena (ungherese) (%)

Romeni Ungheresi
auto etero auto etero
Essere nato in Romania
18.9 16.2 1.0 3.9
(Ungheria)
Avere cittadinanza romena
12.4 12.5 2.8 5.8
(ungherese)
Essere di madre lingua romena
14.0 17.4 28.0 25.6
(ungherese)
Essere di religione “romena”
10.1 8.0 8.0 7.0
(ungherese)
Vivere in Romania (Ungheria) 6.1 5.4 0.8 3.0
Rispettare la bandiera romena
5.0 3.3 5.9 4.2
(ungherese)
Appartenere alla cultura
7.7 8.5 15.2 12.8
romena (ungherese)
Considerarsi romeno
13.4 13.9 21.6 20.7
(ungherese)
Rispettare le tradizioni romene
7.5 8.1 8.1 9.5
(ungheresi)
Parlare romeno (ungherese) in
4.9 6.7 8.6 7.5
famiglia
Totale 100.0 100.0 100.0 100.0

Fonte: Nastasă, Salat (2000: 341)

73
Ai nostri fini sia l’elenco delle caratteristiche distintive sia
il loro ordinamento ci istruiscono sugli elementi costitutivi
della identità-missione.
Concludiamo questa breve presentazione con una classifi-
cazione: in base a tre domande contenute nella ricerca euro-
pea sui valori (nella rilevazione del 1990 “EVS 90” ed in quella
del 1999 “EVS 99”)9 abbiamo diviso i due campioni statistici in
cinque modelli di sentimento di appartenenza territoriale. Il
primo, maggioritario, lo abbiamo denominato “lococentrico”,
modello in cui il sentimento d’appartenenza decresce con la
distanza, “globale” nel caso opposto, “glocale” quando il sen-
timento si polarizza ai due estremi dell’ordine. Vi sono inoltre
due forme miste, incentrate sull’appartenenza alla nazione,
la prima aperta secondariamente al livello locale, la secon-
da a quello internazionale. Altro corrisponde ad un modello
misto senza ordine riconoscibile, in cui prevale la tensione
verso un’appartenenza europea, oggetto di sentimenti molto
contrastanti tra i romeni.

Tab. 4: Modelli di sentimento di appartenenza


territoriale in Romania (%)

Modello % (EVS 90) % (EVS 99)


Lococentrico 59 63
Nazional-locale 30 22
Nazional-globale 6,5 4.5
Globale 2,5 3.5
Glocale 2 2
Altro -- 5
Totale (1078) (1056)
(Non risposte) (25/1103=2,3%) (90/1146=7.9%)

Nostra elaborazione

9
European Values Study, cfr. [https://europeanvaluesstudy.eu/].

74
Notiamo sia la preponderanza del modello d’appartenenza
più naturale, quello lococentrico (molto vicino all’approccio
spaziale all’identità che presenteremo sotto) sia il regresso si-
gnificativo del complesso dell’appartenenza incentrata sulla
nazione.
Interrompiamo a questi primi passi una ricerca che, per po-
ter dialogare proficuamente con la riflessione più teorica do-
vrebbe essere necessariamente molto lunga e articolata, e av-
viciniamoci decisamente al concetto di identità-missione. Lo
abbiamo pensato scegliendo, senza approfondirlo, un approc-
cio spaziale perché riteniamo che esso faccia riferimento reali-
stico ad un’esperienza primaria della persona, che trova natu-
ralmente inserito il proprio corpo in un luogo, stratificato e or-
dinato, a cui sente di appartenere e che ne costituisce una sua
espansione oltre che una forma di radicamento. Gli studi an-
tropologici di Eliade sui riti di costruzione, a cui rimandiamo10,
mostrano con abbondanza di materiali questa relazione di re-
ciproca animazione a partire da uno dei primi ambiti dell’e-
spansione spaziale del proprio corpo che è la casa-dimora. La
ricerca sociale continua a scontrarsi del resto con l’inelimina-
bilità, anche in condizioni estreme, drammatiche o piacevoli,
di questa espansione territoriale: la dottoressa Cristina Bezzi,
che ha condotto un eccellente studio sul campo tra i ragazzi
di strada di Bucarest,11 poteva vedere continuamente il peri-
metro delle abitazioni immateriali di questi giovani abitanti
delle pubbliche vie; la letteratura sui campi di concentramen-
to mostra un’esperienza analoga come infine in altre situazio-
ni sociali (la vita di un fotografo su di una nave da crociera),
in cui i riferimenti territoriali sembrerebbero svanire invece
di smarrirsi a causa del prolungato vagabondare. Altro cam-
po interessante di applicazione è lo studio delle esperienze
dell’emigrante, che si separa dolorosamente da una parte del-

10
Cfr. M. Eliade, I riti del costruire, Jaca Book, Milano 1990.
11
C. Bezzi, I bambini di strada a Bucarest. Saggio di ricerca etnografica,
Tesi di laurea, Università degli Studi di Perugia, Perugia 2002.

75
la propria persona lasciando il suo luogo, per quanto là non
sia possibile vivere.
All’espansione di sé corrisponde altrettanto naturalmente
un radicamento di pari variabile e relativa misura: diciamo
nostro uno spazio in diversi modi, sia per intensità del legame
di cui facciamo esperienza sia per l’ampiezza del noi umano
a cui facciamo riferimento. Le due dimensioni sono inestrica-
bili: è il nostro corpo-persona, a tutti i gradi sociali della sua
realizzazione, che anima lo spazio (sino ad esserne un centro,
persino cosmico) e lo spazio può sussistere, direbbe Eliade,
solo in quanto è animato nella presenza di questo corpo-per-
sona attualizzato. Per questo il radicamento umano è intrec-
cio di entrambi: né puramente fisico, come quello di un albe-
ro o di un animale nel suo territorio, né astrattamente sociale,
come parte di un’organizzazione mobile, senza legami con un
determinato territorio. Il radicamento è pertanto radicamen-
to in una comunità, sin dall’esperienza primaria del nostro
corpo in uno spazio. E nella comunità l’appartenenza terri-
toriale può espandersi anche temporalmente ad una velocità
ed intensità altrimenti impossibile: la storia del luogo delle
nostre dimore è presente nella tradizione, in tutti i modi, fisi-
ci, scritti, orali, in cui il passato può essere trasmesso. Scrive
Simone Weil in La prima radice: «Il bisogno di avere radi-
ci è forse il più importante e il meno conosciuto dell’anima
umana. Difficile definirlo. L’essere umano ha sue radici nella
concreta partecipazione, attiva e naturale, all’esistenza di una
comunità che conservi vivi certi tesori del passato e certi pre-
sentimenti dell’avvenire»12.
La questione dell’identità si associa, polarmente, all’aspet-
to dinamico dell’appartenenza spaziale che è quello, ancora
più difficile da ben comprendere, della missione. La missione
è scoperta nella ricerca dell’identità, in un processo continuo,
perlopiù latente (e la latenza non è affatto estranea al buon
esito del processo stesso), fatto più di cose, di sedimentazioni

12
S. Weil, La prima radice, Edizioni di Comunità, Milano 1973.

76
che di idee. Come ogni individuo domanda il motivo del suo
essere così e non altrimenti, accade similmente per ogni per-
sona-comunità cosciente di se stessa. Questa domanda è po-
sta a tutti i livelli di organizzazione, tra i quali per importanza
bisogna ricordare quello nazionale-statuale, soprattutto nella
sua fase genetica. Questa scoperta, tanto più vera quanto più
vissuta nella “presenza sotto il dominio di Dio”, si differen-
zia dall’invenzione dell’identità-missione (la storia ci offre un
vasto campionario di questi prodotti di parte) così come dal-
le soluzioni pragmatiche (la riduzione dell’identità-missione
ad un elenco di obiettivi raggiungibili nel breve periodo) e
da quelle fatte di concetti vuoti (in cui ogni identità-missione
diventa mediazione, ponte, strumento di dialogo e riconcilia-
zione). Per questa ragione è molto più facile che le parti e i
partiti le sfruttino piuttosto che le elaborino: per ciò servo-
no comunità e popoli ancora dotati di una capacità cultura-
le autonoma e di un legame con la propria tradizione ancora
sufficientemente radicati. Altrimenti prevale la forza dell’u-
niversalismo pubblico dello ubi nummus ibi patria e del tri-
balismo dell’indifferenza individuale. Eppure anche il livello
globale, coordinato con tutti gli altri livelli esistenti, avrebbe
la sua identità-missione, ben diversa dall’appiattimento e dal-
la disintegrazione: la gestione sociale dello schema binario
umano/non-umano13.
Abbandoniamo ora lo spazio romeno, pur interessante14,
per dedicarci al caso dello spazio europeo, più centrale per il
tema che stiamo trattando.

13
Rimandiamo a P. Donati, La società dell’umano, Marietti, Genova
2009. Segnaliamo la Prefazione del compianto Emmanuele Morandi, che ben
inquadra la proposta sociologica donatiana e la finale Bibliografia di riferi-
mento.
14
Già nell’estate del 1943 l’antropologa statunitense Ruth Benedict rac-
colse in uno scritto, dal titolo Rumanian culture and behavior, poi non pub-
blicato, una serie di riflessioni molto interessanti sull’identità-missione del
popolo romeno.

77
Europa ed Unione Europea
Il lungo stallo del “progetto europeo”15 è certamente in re-
lazione sia con il sovranismo sia con il globalismo. Da una
parte un progetto politico e democratico di così grandi dimen-
sioni e durata, che insiste su un continente di così ricca ela-
borazione culturale, nel quale si confrontano forze estrema-
mente diseguali e che affronta altri attori globali più grandi e
potenti, difficilmente potrà mantenere l’equilibrio ed evitare
ricorrenti crisi. Anche nelle migliori condizioni, saranno ne-
cessari periodici riequilibri e riorganizzazioni, a vari livelli.
D’altra parte nemmeno le scelte sono state le migliori, a par-
tire dal ben noto tradimento perpetrato dai popoli europei
verso la propria identità-missione comune (conseguenza di
altri tradimenti ai livelli inferiori), plasticamente raffigura-
ta, sin dai tempi di san Paolo, dalla supplica del Macedone,
ascoltata in visione e riportata negli Atti degli Apostoli: «Pas-
sa in Macedonia e aiutaci!», e dalla risposta di Paolo: «Subito
cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci
aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore» (cfr. At
16,9-10). L’Unione Europea, in stallo perché squilibrata (per
alcuni aspetti si è andati troppo avanti, per altri si è troppo
indietro; lo squilibrio tra Stati membri, sempre più numerosi
e disuguali, è difficilmente gestibile e richiederebbe nuove
soluzioni, difficili da trovare), è diventata così coprotagonista
del disordine sovranista e interprete di quello globalista, di-
menticando la sua missione nello spazio europeo. Giunti in
così breve tempo ad una conclusione, ci permettiamo ora un
passo indietro allo scopo di tentare di intravvedere un punto
di ripartenza del progetto europeo. Ciò facendo, non del tutto
senza frutto, ci siamo tuttavia scontrati con un dato sociale

15
Cfr. Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân sulla Dottri-
na sociale della Chiesa, Europa: la fine delle illusioni, Nono Rapporto sul-
la Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo, a cura di G. Crepaldi e S. Fontana,
Cantagalli, Siena 2017.

78
apparentemente estraneo ai discorsi sul progetto europeo, a
cui vorremo dare un certo risalto.
Da un lato si possono infatti trovare ragioni di crisi interne
allo stesso progetto europeo, così come fu delineato dai suoi
tre grandi padri cattolici: Alcide De Gasperi, Robert Schuman
e Konrad Adenauer. Esse, tutte da discutere, perché ogni
aspetto di un sistema istituzionale, per di più sovranazionale,
comporta una serie di conseguenze ai vari livelli di governo,
possono tuttavia essere ridotte a due di ordine generale. La
prima ragione di crisi è antica e coincide di fatto con la morte
di Alcide De Gasperi: la bocciatura della Comunità Europea
di Difesa per opera della Francia (30 agosto 1954) ha blocca-
to irrimediabilmente l’integrazione europea in un ambito di
vitale importanza che avrebbe dovuto affiancare se non pre-
cedere l’integrazione economica. Il dover abbandonare un’o-
pera evidentemente incompiuta in questo aspetto centrale fu
probabilmente l’ultima purificazione che Alcide De Gasperi
sperimentò nella sua morte cristiana (il 19 agosto 1954).
La seconda ragione di crisi concerne il ruolo assegnato
all’Assemblea Parlamentare Europea, nata con i trattati di
Roma del 25 marzo 1957 (il giorno, il mese e il luogo sono
di grande importanza) ed il cui primo Presidente fu proprio
Robert Schuman. Pur assumendo, dal 30 marzo 1962, il nome
di Parlamento Europeo, esso, per ragioni molto comprensibi-
li che concernono il rispetto delle prerogative nazionali, non
ha subito un’evoluzione parlamentare, come invece crediamo
sarebbe necessario per contribuire a creare un consenso euro-
peo, almeno nelle materie di competenze comunitaria.
Ma queste ragioni di crisi interne perdono decisamente
d’importanza se confrontate ad altre che concernono inve-
ce i profondi mutamenti sociali avvenuti in questi sessanta
anni. I padri fondatori, e pensiamo allora a Konrad Adenauer,
l’unico dei tre che fu anche firmatario dei Trattati di Roma,
non avrebbero potuto immaginare, crediamo, una tale situa-
zione, che costituisce una autentica minaccia alla realtà stes-

79
sa dell’Europa, ben oltre il pur lodevole progetto dell’Unione
Europea.
Per illustrare questa minaccia, basti accostare al principa-
le merito, universalmente riconosciuto, del progetto europeo,
cioè una lunga ed inedita pace in Europa occidentale, con il
numero impressionante di aborti volontari richiesti e pratica-
ti nei sei Paesi fondatori della Comunità Economica Europea
(e negli altri Stati membri la situazione è molto simile, con
rare eccezioni). La stessa data dei trattati, solennità dell’An-
nunciazione, la bandiera del Consiglio d’Europa (del 1955,
solo nel 1985 adottata dalla CE) con le sue dodici stelle, la pre-
senza della Beata Vergine Maria in tutto il continente (anche
ad Amsterdam!), suggeriscono questo accostamento. In uno
stesso spazio geografico, che nei secoli ha visto innumerevoli
guerre, in uno stesso periodo, vediamo coesistere la pace tra
le nazioni e un conflitto intimo, tra donna e figlio, tra donna
e uomo, tra generazioni, tra famiglia e famiglia, tra individuo
e società che si ripete milioni e milioni di volte e milioni di
volte si risolve con una morte, con l’espulsione del “clandesti-
no”, con la rottura di antichissime alleanze.
Le cifre hanno poco senso, e sono difficilmente precise.
Servirebbe dare un nome proprio a questi piccoli, più che con-
tarli. Ricordando chi conosce il loro vero nome e, se badiamo
all’Apocalisse, lo ha scritto su una pietra bianca, ricordando le
miriadi dei loro angeli custodi, che hanno vegliato su di loro,
come ci assicura san Matteo nel suo vangelo, perché si capi-
sca il peso politico di questo fatto, diciamo che questi conflitti
intraeuropei hanno ucciso quindici, forse venti milioni di pic-
coli d’uomo. Crediamo che essi, loro sì, veglino sull’Europa e
sulla sua identità-missione.
In tutto ciò, in questo fatto bruto, vediamo tuttavia una
minaccia ancora maggiore al progetto europeo che crediamo
non solo ammutolisca ma faccia piangere, ad ogni ricorrenza,
tutti coloro che hanno lavorato alle fondamenta dell’unifica-
zione del nostro continente.

80
Questa guerra che produce queste vittime non è affatto
osteggiata, per esprimerci eufemisticamente ma senza alcu-
na ipocrisia. La stragrande maggioranza delle forze sociali, e
una buona parte di singoli cittadini, la vogliono. Conviene,
è socialmente necessaria in un’Europa sempre più popolata
da figli programmati (figli del desiderio di un figlio, diceva
Paul Yonnet16), prodotti, selezionati; in un Cielo che accoglie
i rifiutati, gli scartati, gli spezzati, i soppressi recuperandoli
dalle immondizie speciali. Un’Europa di madri e padri feriti.
Un’Europa politicamente così disperata che già suggerire mi-
gliorie e aggiustamenti sembra puro divertissement, se non
proprio un tradimento. Per questo ci permettiamo di non in-
vocare i tre patroni dell’Europa, e nemmeno le tre patrone,
degnissime persone, certamente, grandi lavoratori e lavora-
trici sulla terra ed ora in Cielo. Invochiamo, in attesa dell’ot-
tavo giorno, una settima patrona, santa Madre Teresa di Cal-
cutta che, per l’Europa e per il mondo, parlò schiettamente
dell’aborto volontario e di tutte le sue conseguenze personali
e politiche. Accanto a Maria, è lei l’anima celeste europea che
ci consola ogni 25 marzo.

16
Cfr. P. Yonnet, Le recul de la mort. L’avènement de l’individu contem-
porain, Gallimard, Paris 2006.

81
Il problema dell’anno
Popoli, Nazioni, Patrie: tra natura e artificio politico
4

LA NEGAZIONE DEI LEGAMI NATURALI E


L’IDEOLOGIA GLOBALISTA
Samuele Cecotti*

L’odierna condizione dell’uomo occidentale è sempre più


quella d’uno sradicato, nel senso etimologico del termine, in-
tendendo con ciò un essere umano sempre più (solo) indivi-
duo e sempre meno parte di una comunità e di una storia che
lo precede e lo radica in una identità.
Le radici familiari, sociali, etnico-culturali, patrie sono
sempre più labili e corrose. E questo processo non è solo e
tanto subito quanto progettato, voluto e perseguito con te-
nacia proprio dalle forze politico-culturali che paiono espri-
mere l’avanguardia di quel progresso che sempre più si va
identificando con l’anima stessa dell’Occidente inteso come
modernità.
La modernità, anche e proprio ora che si supera nella post-
modernità, si rivela nel suo dato essenziale come corrosione
d’ogni senso permanente, come sradicamento universale,
come radicale secolarizzazione, come individualismo realiz-
zato e per ciò stesso compiuto nella massa ove ogni individua-
lità confluisce e si dissolve.
Innanzi a questo processo dissolutore dell’identità, in
quanto dissolutore delle realtà storico-naturali nelle quali l’i-
dentità si acquisisce, la risposta della umanità che vive l’Oc-
cidente non è senza resistenza. Certo una resistenza consape-

* Vicepresidente dell’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân sulla


Dottrina sociale della Chiesa.

83
vole e pensata è di pochi, di piccole minoranze dotate degli
strumenti concettuali per svolgere una critica essenziale alla
modernità di cui tale processo è coerente espressione. Tutta-
via si può parlare con buoni argomenti d’una resistenza po-
polare al processo di dissoluzione in Occidente pur dovendo
precisare che tale resistenza è spesso più sentimentale che
razionale, più “di pancia” che “di testa”.
Ciò detto e dunque avendo ben presenti i limiti e le con-
traddizioni della resistenza popolare al processo dissolutore
in atto, si può scorgere proprio in questa resistenza popolare
al globalismo (generatrice del fenomeno politico del populi-
smo/sovranismo) il riemergere carsico del Reale socio-politico
negato e/o adulterato dalla modernità ideologica: il populus
come realtà etico-giuridica, l’idea di natio che nulla ha a che
vedere con il nazionalismo ideologico figlio della Rivoluzione
francese e del romanticismo ottocentesco, l’idea di patria con
il compreso vincolo morale tra le generazioni nella tradizione.
Se il popolo, detto sovrano nelle Costituzioni occidentali
contemporanee, altro non è che una somma aritmetica di in-
dividui tra loro identici (il principio di “uno vale uno”) perché
numericamente e non qualitativamente considerati, non così
prima del razionalismo politico illuminista fattosi ordina-
mento costituzionale con la Rivoluzione francese.
La considerazione astratta e numerica dell’uomo porta a
considerare non la realtà storica concreta della persona uma-
na come “figlio di …”, “marito di …”, “padre di …” che, ad
esempio, è capofamiglia di quella certa casa, è artigiano in
quella certa arte, è membro di quella comunità locale, ap-
partiene a quella certa etnia e parla quella certa lingua, etc.
L’uomo è ridotto ad una unità aritmetica: è UN cittadino, nel
senso che è un “UNO” come cittadino. E come “UNO” uguale
a ogni altro “UNO”.
Il popolo, che poi si dice sovrano, non sarà allora che la
somma di tutti gli “UNO” a formare un insieme aritmetico
computabile quantitativamente e neutro qualitativamente. A
delimitare il confine di un popolo così inteso, stando coeren-

84
temente alle premesse, non sarà nulla di reale ma di mera-
mente convenzionale/fattuale.
Date le premesse razionalistiche, la delimitazione dei po-
poli sovrani entro confini geografici nazionali otto-novecen-
tesca non regge se non come tappa d’un processo il cui esito
ultimo tendenziale non può che essere la Repubblica Univer-
sale (di cui il globalismo è l’ideologia apologetica) di un popo-
lo unico coincidente con la somma di tutti quegli “UNO” che
sono gli uomini-cittadini del mondo.
Un tale progetto – la Repubblica Universale sogno illumi-
nista e meta dell’agenda globalista – necessita il passaggio
dal teorico al fattuale della riduzione dell’uomo a individuo, a
unità aritmetica intercambiabile. Necessita cioè la distruzio-
ne di tutti i legami storico-naturali che vincolano l’uomo ad
una realtà a lui precedente e ne costituiscono l’identità per-
sonale. I legami costitutivi verso Dio, la patria e la famiglia,
ovvero quei legami naturali che ogni uomo pio onora, debbo-
no essere dissolti affinché l’individuo sia integralmente au-
todeterminato e l’umanità intera si dia come una massa di
individui apolidi e dall’identità fluida.
Dissolvere la forza potentemente identitaria e radican-
te della famiglia e della natio/patria è mezzo necessario per
conseguire il fine della Repubblica Universale così come
espellere Dio dallo spazio pubblico, relativizzare la religione
e favorire un tendenziale irenismo/sincretismo (opzione mul-
ticulturale/multireligiosa come ottimo da perseguire) ma an-
che destrutturare il maschile/femminile e la relativa identità
sociale di genere. Ogni identità che non sia opzionale e mu-
tevole, che non sia fluida e autodeterminata deve scomparire
così che gli uomini siano finalmente tutti eguali perché tutti
egualmente ridotti a unità aritmetica e possano come eguali
essere così cittadini del mondo (nuovo).
Evidentemente non è facendo riferimento al popolo come
inteso nelle Costituzioni occidentali che si resiste all’ideolo-
gia globalista in quanto è proprio il globalismo l’esito coeren-
te dell’idea moderna di uomo (individuo razionalisticamente

85
inteso) e di popolo (somma quantitativa di individui). Piut-
tosto, nella resistenza popolare, è il Reale socio-politico che
riemerge, magari confusamente, attingendo a quella Realtà
che, proprio in quanto realtà, è più forte d’ogni ideologia. Così
sono le realtà socio-politiche storico-naturali, i legami natu-
rali tra gli uomini a riemergere come resistenti al processo
dissolutore.
Per capire il populismo nel suo riferirsi al popolo in con-
trapposizione all’ideologia globalista è necessario riattingere
al significato vero di popolo, alla sua essenza. Tornare alla re-
altà dell’ordine socio-politico così come colto dalla classicità
e dalla cristianità.
Scrive il pagano Cicerone «Populus autem non omnis
hominum coetus quoquo modo congregatus, sed coetus
multitudinis iuris consensu et utilitatis communione socia-
tus. Eius autem prima causa coeundi est non tam inbecilli-
tas quam naturalis quaedam hominum quasi congregatio»1
(De re publica I, 25, 39). Questa definizione di popolo diviene
“cristiana” e così attraversa i secoli, citata da sant’Agostino
(il popolo è «coetus juris consensu et utilitatis communione
sociatus» De civ. Dei, II, 21), nell’Alto Medioevo sant’Isidoro
di Siviglia nelle sue Etimologie la ribadisce: «Populus est hu-
manae multitudinis, juris consensu et concordi comunione
sociatus». E così pure san Tommaso d’Aquino: «populus est
coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione
sociatus» (S. Th. I-II, 105, 2).
Questa definizione ci consegna tre verità: 1) I popoli sono
realtà naturale (forma d’aggregazione naturale tra gli uomi-
ni), nel senso che gli uomini per natura sono sociali; 2) si dà
popolo solo dove gli uomini sono uniti in società secondo di-
ritto; 3) si dà popolo solo dove gli uomini sono uniti in vista
d’una comune utilità, in ultima analisi, del bene comune.

1
«Popolo non è ogni unione d’uomini aggregati casualmente, ma l’unio-
ne d’una moltitudine legata in società nel consentire al diritto e nella comu-
nanza d’utilità. La sua prima causa d’unirsi è non tanto la debolezza, quanto
lo è una forma d’aggregazione direi naturale tra gli uomini».

86
Il diritto senza il quale non si dà popolo, con ogni evidenza,
fa riferimento a quell’ordine obbiettivo di giustizia che prece-
de e fonda ogni diritto positivo. Solo nella conformità al dirit-
to naturale la socialità umana è vincolo che genera e mantie-
ne in vita un popolo. Consentire al diritto (naturale prima che
positivo) implica il conoscerlo e il riconoscerlo come norma-
tivo e ciò è compito della ragione. L’uomo, con la sua ragione
naturale, è in grado di conoscere la legge inscritta dal Creato-
re, di conoscere cioè quell’ordine obbiettivo di giustizia per il
quale si può discernere il bene dal male. Ma l’uomo è animale
sociale anche nel conoscere, è animale culturale ovvero co-
nosce sempre a partire da un già conosciuto trasmessogli da
chi lo ha preceduto e ricevuto con l’istruzione (familiare in
primis). La conoscenza della legge naturale si fa così cultura
lungo le generazioni, si specifica e si declina nel particolare
di ciascuna comunità umana, si fa tradizione. Ecco allora che
si dà popolo solo in presenza di una comune tradizione tale
per cui la moltitudine degli uomini in società possa avere ed
abbia un reale consenso sul diritto.
Il termine che classicamente meglio esprime questa di-
mensione di comunione intergenerazionale2 nella tradizione
di una collettività umana è quello di natio indicante un grup-
po umano legato da vincoli di comune origine, con lingua,
usi, costumi e istituti giuridici comuni3.
Le nationes, classicamente intese, non coincidono con gli
Stati, ci possono essere entità statuali che al proprio interno
comprendono più nationes così come una stessa natio può

2
Per il valore essenziale del vincolo intergenerazionale nell’esser uomo
cfr. C. Caffarra, Discorso Il rapporto inter-generazionale, Vidiciatico, 25
giugno 2011, in [http://www.gliscritti.it/blog/entry/921].
3
Per leggere in unità i concetti di populus e di natio è forse utile ri-
cordare la definizione che dà sant’Agostino di popolo «populus est coetus
multitudinis rationalis, rerum quas diligit concordi communione sociatus»
(De civ. Dei, XIX, 24) dove alla razionalità dei componenti è unito un comune
giudizio di dilezione circa il bene e il male, il desiderabile e l’indesiderabile,
il bello e il brutto, giudizio comune possibile solo in presenza di una comune
cultura/tradizione.

87
essere presente in più Stati. L’esempio del Sacro Romano Im-
pero, la cui eredità giunse sino al ‘900 con l’impero asburgico,
è illuminante circa una statualità europea multinazionale.
La natio non coincide con la comunità politica ma non è
ad essa estranea o indifferente, piuttosto è realtà sociale che
concorre (con la famiglia) a definire l’identità di ciascuna per-
sona e della res publica.
È nella natio, intesa come comunione intergenerazionale
di una collettività umana nel vincolo d’una comune tradizio-
ne, che la cultura si forma e cresce, che l’ordine naturale di
giustizia è sempre meglio conosciuto e vissuto, che ciascuno
riceve la propria identità nativa.
La natio, come la famiglia, è realtà che precede l’indivi-
duo, che ciascuno di noi non sceglie ma in cui nasce e si ri-
trova ad esistere. Si appartiene ad una natio per nascita in
un legame naturale e non elettivo che è l’estensione lungo i
secoli e tra molti del legame familiare. Sotto questo aspetto
un altro concetto capitale è quello di patria, intesa come terra
(ma anche cultura, tradizione, comunità) dei padri. La patria
è la terra dei propri avi, è il luogo (fisico o morale-culturale)
dove si vive l’identità ricevuta a partire dalla famiglia e che ci
lega ad una storia, in una catena intergenerazionale. Verso la
patria, la morale cattolica ha sempre riconosciuto dei doveri
analoghi a quelli dovuti verso i genitori, la patria è una esten-
sione della paternità.
Come ricordato dal Cardinale Raymond Leo Burke al con-
vegno “Città dell’uomo versus Città di Dio – Ordine mondiale
globale versus Cristianità” promosso da Voice of the family e
tenutosi a Roma presso la Pontificia Università San Tomma-
so d’Aquino (Angelicum) giovedì 16 e venerdì 17 maggio 2019:
«La virtù del patriottismo è una risposta eccellente a quanto
richiesto dal Quarto Comandamento del Decalogo, il primo di
sette che trattano del nostro rapporto con il mondo e con gli
altri, in accordo con quanto richiedono i primi tre riguardo al
rapporto con Dio».

88
Questo perché, come insegna Santa Romana Chiesa e lim-
pidamente scrive san Tommaso d’Aquino nella Somma di
teologia (S.th. II-II, q. 101), è la virtù della pietas a stabilire
vincoli di giustizia e di carità non solo verso i genitori e verso
Dio ma pure verso la patria, come anche ricorda lo stesso Car-
dinale Burke citando la New Catholic Encyclopedia: «Come
scrive san Tommaso d’Aquino, l’amore particolare per una
Patria è un elemento importante di quella forma preferenzia-
le di carità chiamata pietas. Attraverso la pietà la persona ha
l’obbligo di amare Dio, i genitori, la patria […]: Dio attraverso
la creazione, i genitori attraverso la procreazione e l’educazio-
ne, la Patria attraverso la formazione di un’identità storica e
culturale». La virtù della pietas e la giustizia legale impongo-
no ad ogni uomo di amare, onorare e servire la propria patria:
«La pietà riguarda la patria come un principio della nostra
esistenza; invece la giustizia legale mira al bene della patria
in quanto è bene comune» (S.th. II-II, q. 101, a. 3 ad 3).
Il bene della patria è bene comune perché il bene dell’uo-
mo in quanto uomo (animale sociale e politico) necessita il
legame tra le generazioni nella tradizione, necessita l’appar-
tenenza del singolo ad una comunità che lo precede e ne co-
stituisce l’identità. L’uomo, per natura, è fatto per vivere nel-
la continuità dell’eredità dei padri, dentro una discendenza
che è anche catena generazionale di lingua, saperi e costumi.
E proprio perché la persona umana, per natura, vive e cre-
sce dentro legami costituenti la sua identità è la virtù della
pietas a indirizzarci all’amore per la patria, intesa come prin-
cipio della nostra esistenza. Dio Creatore ci pone e mantiene
nell’essere, i nostri genitori ci generano alla vita e ci educano,
la patria (intesa come eredità degli avi) ci dona una comunità
e una tradizione, una identità storica che vive in una terra e
ci fa uomini di una certa etnia, parlanti una certa lingua, con
una certa cultura.
La natio è realtà storico-naturale che offre alla persona
umana una lingua, una cultura, un diritto! L’autorità politica,
per la Dottrina sociale della Chiesa, deve porsi innanzi alla/e

89
natio/nationes a lei soggetta/e con attitudine di servizio. L’au-
torità politica deve cioè servire la/e natio/nationes custoden-
done la tradizione, favorendone lo sviluppo organico secondo
la propria identità storica, cogliendo nella tradizione della na-
tio l’originale contributo di quella collettività alla giustizia e
al bene comune.
L’autorità deve esercitarsi, rispetto alla vita organica della
natio, con l’unico criterio della verità/giustizia discernendo
quanto è conforme all’ordine naturale da quanto non lo è,
quanto è vero e buono da quanto non lo è. Questo è e deve es-
sere l’unico criterio, dentro e conformemente al quale lo svi-
luppo armonico e organico della/e tradizione/i della/e natio/
nationes deve essere custodito e promosso.
La distanza da quanto avvenuto e avviene negli Stati mo-
derni, nell’UE e nella prospettiva globalista è di ogni evidenza.
Si può riconoscere, almeno in analogia, lo stesso intento die-
tro le politiche di disgregazione della famiglia e dietro quelle
di dissoluzione delle identità nazionali. Dissolvere l’identità
storica di una natio, relativizzare il legame con la patria (ov-
vero con i padri, gli antenati e la loro eredità) presuppone la
stessa idea di uomo e di popolo che giustifica l’azione disgre-
gatrice a danno della famiglia: è l’idea illuminista astratta
dell’uomo e del popolo come somma numerica di individui.
Dietro all’ideologia globalista e all’ideologia liberal-radica-
le sta una stessa opzione di fondo che si traduce poi in ciò che
l’Arcivescovo Crepaldi ha chiamato «male comune». Il pro-
getto ideologico in opera almeno dal 1789 passa tanto attra-
verso l’agenda liberal-radicale dei “nuovi diritti” quanto at-
traverso il globalismo dissolutore delle nationes perché teso
alla costruzione di una “nuova umanità” di individui senza
radici, liberati da ogni vincolo naturale/tradizionale, da ogni
vincolo relazionale che non sia liberamente costituito e libe-
ramente annullabile.
Tutto ciò che ci precede e che si dà a noi come dato reale
indipendente dalla nostra volontà (la famiglia in cui siamo
generati, la natio/patria in cui nasciamo, la natura umana cui

90
apparteniamo e che ci fa quello che siamo) è oggetto di odio
e di azione dissolutoria da parte di quella modernità che ha
fatto della libertà luciferina la propria opzione fondamentale.
È battaglia tra due visioni inconciliabili dell’uomo e del
mondo, quella classico-cristiana (ordine obbiettivo delle cose,
diritto naturale, identità storiche dei popoli come bene, natio-
nes/patrie come luoghi dell’umano, famiglia) e quella moder-
na (assenza o inconoscibilità della Realtà, diritto come con-
venzione e arbitrio formale, libertà con il solo criterio della
libertà, uomo come individuo apolide e senza radici, dissolu-
zione di ogni legame stabile familiare/sociale)4.
La resistenza al globalismo-liberal-radicalismo è dunque
non solo lecita ma doverosa.
Tuttavia non sempre le forze che conducono tale resisten-
za lo fanno per le ragioni vere, con chiarezza di analisi e con
i giusti argomenti. Nel campo sovranista/populista molta è
l’ambiguità e molta la confusione.
La Dottrina sociale della Chiesa può e deve essere quella
luce intellettuale che rende manifesto l’errore della moderni-
tà politica mentre mostra la possibilità d’una polis “come Dio
comanda” e così facendo offre alla resistenza le vere ragioni
per resistere e il positivo per cui impegnarsi.

4
Dice ancora il Cardinale Burke nella sua relazione dal felice titolo “Pie-
tà filiale e patriottismo nazionale come virtù essenziali dei cittadini del cielo
al lavoro sulla terra”: «Vorrei riflettere a proposito della nostra relazione con
la Patria, che domanda da parte nostra la pratica di quella parte della pietà
(uno dei sette doni dello Spirito Santo) che si chiama patriottismo. […] C’è chi
propone e lavora per un unico governo mondiale, cioè per l’eliminazione dei
singoli governi nazionali, così che tutto possa essere posto sotto il controllo
di una sola autorità politica globale. Per costoro […] la lealtà verso la patria
ovvero il patriottismo sono ritenuti un male. Tale patriottismo è spesso chia-
mato nazionalismo, un termine che evoca i mali di una male interpretata o
corrotta identità nazionale e ciò oscura la fedeltà naturale a una identità con
un certo Paese e con la sua cultura».

91
Il problema dell’anno
Popoli, Nazioni, Patrie: tra natura e artificio politico
5

POPOLI E NAZIONI IN SANT’AGOSTINO


E NEI PADRI DELLA CHIESA
Silvio Brachetta*

È inesatto sostenere che la persona umana si esaurisca


nell’individuo, ovvero che la sostanza dell’ente – persona
compresa – sia semplicemente individuata e non anche uni-
versale. I concetti di “popolo”, “nazione” o “patria” sono tal-
mente connaturati all’uomo, che non si dà Rivelazione senza
coinvolgere la storia delle genti, delle città, delle nazioni e
delle patrie. Il coinvolgimento dell’aspetto sociale, mai se-
parato dalla vicenda dell’individuo, rientra da sempre nella
storia, in generale, e nella storia della salvezza, in particolare.
In continuità con l’insegnamento patristico, Karol Wojtyła
(Giovanni Paolo II) afferma che «come la famiglia, anche la
nazione e la patria rimangano realtà non sostituibili», nel
senso che «la dottrina sociale cattolica parla in questo caso
di società “naturali”, per indicare un particolare legame, sia
della famiglia che della nazione, con la natura dell’uomo, la
quale ha una sua dimensione sociale»1. Con il termine «na-
zione», in particolare, «si intende designare una comunità
che risiede in un certo territorio e che si distingue dalle al-
tre comunità per una propria cultura»: famiglia e nazione –
spiega Wojtyła – sono «società naturali e, quindi, non frutto

* Comitato di Redazione, Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân


sulla Dottrina sociale della Chiesa.
1
Giovanni Paolo II, Memoria e identità. Conversazioni a cavallo dei
millenni, Rizzoli, Milano 2005.

93
di semplice convenzione»2. Non solo, ma famiglia e nazione,
«nella storia dell’umanità, non possono essere sostituite da
nient’altro», nemmeno dallo «Stato, benché la nazione per
sua natura tenda a costituirsi in Stato»3. Le persone, quindi,
non si associano per contratto, ma per la dimensione intrinse-
camente sociale della natura umana.

Dio, Padre d’Israele


I Padri della Chiesa del primo millennio cristiano si espri-
mono, nella loro teologia, con le categorie del Testo sacro, il
quale restituisce i termini della Rivelazione di Dio all’uomo,
che raggiunge il singolo solo attraverso la mediazione della
famiglia e della nazione. Certamente Dio si rivela al singolo
profeta, re o patriarca, ma il contenuto di ciò che si comunica
ha portata universale ed è sempre tramandato ai posteri per
mezzo di un qualche contesto sociale (tribù, caste sacerdotali,
cortigiani, scuole di redazione, ecc…).
Non è difficile, per i Padri del primo millennio cristiano,
trattare del dato della fede con le categorie filosofiche del pro-
prio tempo, poiché «la filosofia patristica» si appoggia «alle
tradizioni filosofiche antiche, in modo particolare allo stoi-
cismo e al neoplatonismo»4. Concetti filosofici preesistenti,
quali «logos» o «legge naturale», sono utilizzati dai Padri sen-
za difficoltà, tanto perfettamente si adattano alla spiegazio-
ne e – in molti casi – alla difesa razionale (apologetica) della
Rivelazione.
Non c’è, nei Padri, una trattazione sistematica della dottri-
na sociale, peraltro nata come disciplina solo nel XIX secolo,
ma la quasi totalità delle questioni convergono specialmente
sulla cristologia, sulla soteriologia, sulla teologia trinitaria e
– per il legame tra Gesù e Maria – sulla mariologia. La preoc-

2
Ivi.
3
Ivi.
4
M. Scattola, Teologia politica, Il Mulino, Bologna 2007, p. 39.

94
cupazione dei Vescovi5 e degli autori sacri è, primariamente,
quella di difendere e dimostrare le verità attorno alla doppia
natura di Cristo, all’uguaglianza divina del Verbo col Padre,
all’unico Dio in tre Persone e alla divinità dello Spirito Santo,
sulla spinta soprattutto del contrasto ai movimenti ereticali
diffusi. Allo stesso tempo, però, viene interamente coinvolta,
nelle trattazioni, la modalità “sociale” della Rivelazione, sem-
pre riferita al Cielo come ad un regno, ad Israele come ad un
popolo o una nazione santa, ai santi medesimi come ai citta-
dini della Gerusalemme celeste, al Paradiso come alla patria
definitiva dei penitenti.
C’è un legame strettissimo e analogico (in senso aristote-
lico) tra il Dio che si rivela – che è principalmente padre – e
il popolo ebraico – che è la società dei figli e, per derivazione,
dei fratelli. Proprio perché il Dio d’Israele «è essenzialmente
padre» tutta la storia della salvezza si dipana su di una di-
mensione patriarcale, non solo in quanto la famiglia israelita
gravita attorno al padre, ma anche perché il sostantivo “pa-
dre” si applica indistintamente al re (padre della nazione), al
sacerdote, al profeta, al consigliere regio, all’antenato e al sa-
piente6. Il fatto che Dio è all’origine del mondo, della realtà e
degli uomini, determina l’importanza della genealogia e della
discendenza, non soltanto in Israele, ma nell’intero Oriente
pagano e precristiano7. Del resto la paternità di Dio, trasmes-
sa al popolo dai patriarchi, non è un’esclusiva per Israele, ma
ha valenza universale, per il fatto che la salvezza è rivolta a
tutti gli uomini: infatti «la filiazione abramitica, indispensa-
bile alla salvezza, non è costituita dall’appartenenza razziale,
ma dalla penitenza» e «dall’imitazione delle opere del patriar-
ca, cioè dalla sua fede»8.

5
I Padri della Chiesa sono Vescovi, per la quasi totalità.
6
X. Léon-Dufour, Dizionario di Teologia biblica, Marietti, Torino 1976,
voce: «Padri e padre».
7
Cfr. ivi.
8
Ivi.

95
Le “primizie delle nazioni”
Gli stessi Padri della Chiesa, devono la loro relazione con
la paternità alla filiazione abramitica “per fede”, rintraccia-
bile nell’Antico Testamento, ma interamente compiuta da
Gesù Cristo nel Nuovo. La filiazione “per fede”, che sorpassa
la propria nazione etnica, si fa concreta solo dove c’è l’obbe-
dienza, che è la virtù filiale maggiore. A questo proposito, San
Clemente Alessandrino afferma che Dio chiama figli solo co-
loro i quali «Egli ha adottato» – noi cristiani, cioè, «e da noi
soli vuole essere chiamato padre, non da quelli che non gli
obbediscono»9.
La parabola della storia salvifica indica che «tra i padri
umani e Dio esiste una somiglianza» e «soltanto questa pater-
nità divina dà alle paternità umane il loro pieno significato»10.
Così pure la patria terrena – la terra dei padri – è solo figura e
promessa della patria escatologica, che è la casa di Dio Padre
ultraterrena. In questo senso Israele vive l’esperienza dello
sradicamento, della schiavitù in Egitto, prima, e poi delle
occupazioni assira, babilonese, greca e romana; i patriarchi
sono spesso stranieri ed ospiti11: sono in cerca di una patria
e la trovano in Canaan, solo per perderla di nuovo, a seguito
della caduta di Samaria e di Gerusalemme e dell’esilio forzato
a Babilonia (o altrove). Gesù stesso è rigettato da quelli del-
la sua patria12. E la stessa Giudea procuratoria, dopo Cristo,
non sopravviverà all’invasione romana e per gli ebrei inizierà
la diaspora. La condizione materiale e spirituale dell’esilio è
strettamente connessa al concetto di patria, come dice il Pon-
tefice San Leone I, rivolgendosi al peccatore: «[…] chiunque
tu sia, che vuoi gloriarti del nome di cristiano, […] destinato a
morire ininterrottamente durante un lungo esilio e disperso

9
Clemente Alessandrino, Protreptico ai Greci, c. XII.
X. Léon-Dufour, Dizionario, cit., voce: «Padri e padre».
10
11
Cfr., p. es., Gen 12,1s; Eb 11,13.
12
«Ma Gesù disse loro: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua
patria e in casa sua”» (Mt 13,57).

96
alla stregua della polvere, […]» è stata data la facoltà di torna-
re «al tuo Creatore, di riconoscere il tuo Padre […]»13.
Quanto poi alle nazioni e ai popoli – e alla dialettica con
Israele o, più estesamente, con la cristianità – i Padri usano
una prospettiva che «oscilla costantemente tra il particolari-
smo e l’universalismo»14. O meglio: si tratta di una dialettica
che «ritma tutto lo svolgimento della storia della salvezza»15.
Da una parte c’è un solo Israele, un solo popolo di Dio, una
sola Chiesa, in cui vi è la salvezza16; dall’altra c’è la vocazione
universale alla salvezza e il Vangelo è da predicare a tutte le
genti. La distinzione tra Israele e le altre nazioni comincia a
monte, nel linguaggio biblico: mentre il popolo di Dio è gene-
ralmente indicato con l’ebraico «‘am» e con il greco «laòs», le
nazioni traducono l’ebraico «gojim» e il greco «èthne». Eppu-
re, alla parusia del Signore, si presenteranno davanti al trono
dell’Agnello «uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione»17.
Il mistero ha molto a che fare con la verità secondo cui tutto il
genere umano deriva dalla coppia dei progenitori nell’Eden18.
Le genealogie bibliche, in un modo o nell’altro, fanno capo ad
Adamo ed Eva, anche se, in seguito, Dio permette la diversi-
ficazione delle genti, in lingue e nazioni. Seppure Israele non
neghi una certa parentela naturale con le nazioni limitrofe,
tuttavia la patristica, in accordo con il Testo sacro, riconosce
ad esso una vocazione del tutto peculiare, che lo pone in un
perpetuo stato di ostilità nei confronti degli altri popoli19.

13
Leone Magno, Secondo discorso tenuto per il Natale del Signore, c. IV.
14
X. Léon-Dufour, Dizionario, cit., voce: «Nazioni».
15
Ivi.
16
«Salus extra Ecclesiam non est», da cui l’espressione «Extra Ecclesiam
nulla salus» («Non c’è salvezza al di fuori della Chiesa»): Cipriano di Carta-
gine, Epistole a Papa Stefano, ep. n. 72.
17
Ap 5,9.
18
Il magistero ha sempre respinto il poligenismo darwiniano, in favore
del monogenismo. Cfr., p. es., Pio XII, Lett. enc. Humani generis, IV.
19
Cfr. X. Léon-Dufour, Dizionario, cit., voce: «Nazioni».

97
Gli oracoli dei profeti si riferiscono spesso al giudizio di
Dio sulle nazioni ed è chiaro – ad esempio in Isaia20 – che è
richiesta ai popoli la conversione, essendo «la salvezza finale
appannaggio esclusivo d’Israele»21. Spesso, però, la salvezza
è veicolata da non ebrei, per cui il favore divino è accorda-
to alle «primizie delle nazioni»: Melchisedec, Jetro, Naaman,
Tamar, Rahab, Rut, Ciro22. La stessa logica permane con l’in-
carnazione del Verbo: nei Magi, «che rappresentano le reli-
gioni pagane circostanti, il Vangelo vede le primizie delle na-
zioni che nell’incarnazione accolgono la Buona Novella della
salvezza»23.

La città di Dio
I Padri del primo millennio non solo si trovano coinvol-
ti – in negativo, in difesa – nelle contestazioni eterodosse e
antidogmatiche di ariani, adozionisti o marcioniti, ma devo-
no esprimersi positivamente su di una questione altrettanto
fondamentale: in che rapporto sono i tre grandi ambiti – Dio,
Chiesa, Mondo – che costituiscono tutta la realtà? Se è certa-
mente vero che tutto procede da Dio, non è però immediato
stabilire in che modo è distribuita l’autorità e con che criteri
si applichi il primato politico e spirituale tra Cristo-Chiesa-
Sacerdozio e Imperatore-Mondo-Politica. Nel popolo e negli
scrittori cristiani d’Oriente e d’Occidente, c’è una continua
tensione tra la città terrena e la città di Dio, che costituisce in
nuce la teologia politica cristiana, inaugurata da San Paolo e
perseguita dai Padri almeno fino all’VIII secolo.

Grosso modo, si può dire che «la storia antica e medievale


è dominata dall’alternanza di queste tre forme di teologia po-

20
Is 19,16-25.
21
X. Léon-Dufour, Dizionario, cit., voce: «Nazioni».
22
Cfr. ivi.
23
Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 528.

98
litica»: un «impero senza chiesa» (Impero Romano d’Oriente,
monofisismo), una «chiesa senza impero» (Impero Romano
d’Occidente, fino al Medioevo) e «una chiesa con un impero»
(Sacro Romano Impero medievale)24. Tutto dipende da come
viene interpretata, da laici e chierici, la modalità con la qua-
le la trascendenza si rivela al mondo: se la trascendenza si
rivela «esclusivamente come Verbo eterno», allora si «mani-
festa solo nel regno secolare»; se invece «agisce come Verbo
incarnato», essa sarà «presente solo nella Chiesa»; oppure la
trascendenza si dà «a conoscere contemporaneamente come
logos eterno e come logos incarnato» e, dunque, si manifesta
«allo stesso tempo nel Regno e nella Chiesa, con proporzio-
ni diverse»25. Eusebio di Cesarea scrive di un Oriente in cui
l’impero s’identifica con la comunità dei fedeli, senza alcuna
mediazione, mentre Agostino «rovescia questo principio» e
sottintende che «l’unica manifestazione del logos divino sulla
terra sia stata quella di Cristo», per cui la mediazione è ne-
cessaria e spetta ai sacerdoti26. Anche il re ha una sua fun-
zione, ma questa è subordinata all’ordine sacro della Chiesa,
secondo Tertulliano e Clemente I Romano i quali, assieme a
Giovanni Crisostomo, Ambrogio e Gelasio, sostengono che «il
creato è regolato da un ordine divino, al cui apice partecipa-
no le gerarchie politiche e l’imperatore», di modo che c’è una
certa «sacralità e ministerialità dell’autorità politica»27. Vi-
sione, questa, che sarà tipicamente medievale, già sostenuta
dall’Areopagita: «[…] la gerarchia è nello stesso tempo ordine,
scienza e azione, conformandosi, per quanto è possibile, agli
attributi divini, e riproducendo, per mezzo dei suoi splendori
originali, un’espressione delle cose che sono in Dio»28.

24
M. Scattola, Teologia politica, cit., p. 40.
25
Ibidem, pp. 39, 40.
26
Ibidem, pp. 40, 41.
27
Ibidem, p. 41.
28
Dionigi Areopagita, La gerarchia celeste, III, 1.

99
È con Sant’Agostino d’Ippona e con l’opera La città di
Dio29, che la tensione mondo-Chiesa, politica-teologia, è inter-
pretata con maggiore accuratezza. Il riferimento alla politica
qui non è improprio, poiché si tratta della scienza della civi-
tas, della pòlis, di cui gli abitanti sono cittadini. La civitas di
Agostino non è la «città dell’uomo», al cui interno si sviluppa
la città di Dio, come recentemente è stato sostenuto30, quasi
per dire che la città umana dev’essere una sintesi tra Babilo-
nia e Gerusalemme. Agostino non parla di «città dell’uomo»,
sarebbe banale, né parla di sintesi; parla invece di due città: la
città terrena e la città di Dio, che sono due realtà opposte, inco-
municabili, poiché si muovono su logiche antitetiche, distanti
tra loro quanto la mentalità mondana è lontana dalla Rivela-
zione. Durante la storia, però, le due città convivono assieme,
fino alla parusia, in una sorta di «civitas permixta»31: Roma
(Babilonia) e Gerusalemme, sono realtà storiche individuate
e separate ma, allo stesso tempo, mescolate in un medesimo
spazio. In particolare, «le due città non sono riconoscibili in
questo fluire dei tempi e sono fra di loro commischiate, fino a
che non siano separate dall’ultimo giudizio»32.
È vero che esiste una santa Chiesa storica, società perfet-
ta33, visibile, geografica. È anche vero che c’è un potere civile,
che s’identifica in Roma profana, anch’essa visibile e identi-
ficabile. Qui però s’inserisce il pensiero di Agostino: Chiesa
e Stato sono sì perfettamente distinguibili, ma non lo sono
affatto i confini tra le due realtà. In conformità alla Rivela-

29
Agostino d’Ippona, De civitate Dei contra Paganos, [da ora De civ.]
opera in ventidue libri composta tra il 413 e il 426. In questa sede uso il testo
tradotto da D. Gentili, Città Nuova, Roma 2000.
30
Cfr. Commissione Teologica Internazionale (Sottocommissione
Libertà Religiosa), La libertà religiosa per il bene di tutti. Approccio teolo-
gico alle sfide contemporanee, 2019, n. 61.
31
«Città mista», «città composita»: De civ., I, 35; XVIII, 54 (2); XIX, 26.
32
«Perplexae quippe sunt istae duae civitates in hoc saeculo invicemque
permixtae, donec ultimo iudicio dirimantur»: De civ., I, 35.
33
Cfr., p. es., Paolo VI, Udienza Generale, 25 maggio 1966: «La Chiesa è
appunto una società giuridica, organizzata, visibile, perfetta».

100
zione, il Vescovo d’Ippona afferma che non è possibile sape-
re, fino al giorno del giudizio (ovvero per tutto il corso della
storia), quali siano i cittadini dell’una e dell’altra città. Il con-
fine esiste, ma passa all’interno del cuore dell’uomo, che in
ogni istante della propria vita può sconfinare e decidere, in
conformità col suo libero arbitrio, a quale città appartenere.
Non si tratta, dunque, di un confine temporale o geografico,
ma interno al cuore: «Non uscire fuori, rientra in te stesso;
nell’uomo interiore abita la verità»34.

La via mondana e la via santa


Per Agostino, allora, non è strano che nella Chiesa vi sia-
no dei traditori e, viceversa, anche a Babilonia, «anche fra i
nemici, sono nascosti dei futuri concittadini»35 della Gerusa-
lemme celeste. Nella sua teologia vi è inoltre la distinzione tra
«quelli che sono fuori (dalla città di Dio terrena) ma saranno
dentro, e quelli che sono dentro, ma saranno fuori (dalla città
di Dio celeste)»36. Le due città, quindi, «corrono permixtae»
e «solo la fine le differenzierà»: «Gerusalemme e Babilonia
sono due dei loro nomi» e «vanamente si cercherebbe di iden-
tificare l’una con la Chiesa e l’altra con l’Impero, o comunque
con Roma»37. Va detto che Agostino attribuisce alla Chiesa
un concetto estremamente largo. La Chiesa agostiniana è non
solo «ogni chiesa locale esistente qui ed ora», ma pure una
«comunità in senso sia storico, sia escatologico», così da in-
cludere «gli angeli e i santi, risalendo sino ad Abele»38. Que-

34
«Noli foras ire, in teipsum redi, in interiore homine habitat veritas»:
Agostino, De vera rel. 39, 72.
35
De civ., I, 35.
36
D. Gentili, nota 30, p. 58, in testo cit.
37
M. Bettetini, Tre città in una Storia: il De civitate Dei, «Etica & Poli-
tica», XVI, 2014, 1, pp. 448, 449.
38
R. Dodaro, I fondamenti teologici del pensiero politico agostiniano: le
virtù teologali dello statista come ponte tra le due città, «Etica & Politica»,
IX, 2007, 2, p. 39.

101
sta enorme estensione implica che il senso di ogni cittadinan-
za e virtù civile terrena, non può che trovare fondamento in
Cristo e nella sua Gerusalemme celeste. È anzi l’incarnazione
di Cristo al centro di tutto, poiché Egli, «con la sovrapposizio-
ne della natura umana alla divina, rende possibile la duplice
cittadinanza anche per l’uomo»39.

Benché la divina provvidenza abbia stabilito la coesisten-


za storica delle due città e benché spesso principi e sovrani
non vedano oltre l’orizzonte di una gloria mondana, non è im-
possibile – anzi è auspicabile – che il potere politico ricerchi
la vera virtù. Nella Lettera a Macedonio, Agostino afferma
che «le tradizionali quattro virtù civili» – «prudenza, fortez-
za, temperanza e giustizia» – possono essere trasformate dal-
la vera devozione, in modo tale che «lo statista è in grado di
giungere a giudizi moralmente retti»40. L’importante è che il
fedele laico, in qualsiasi ambito si trovi, riesca a vincere la
guerra contro se stesso e a far prevalere l’«amor Dei», tipico
della città di Dio, sull’«amor sui», prerogativa della mentalità
mondana.
In assenza, dunque, del «culto divino non può esservi al-
cun ordine politico» e «solamente la città di Dio può realiz-
zare la vera armonia tra gli uomini»41. Come infatti Agostino
spiega, tutta la storia greca e romana dimostra che un popolo
il quale «adora falsi dei, istituisce sempre società ingiuste»,
poiché «la città terrena è sempre preda del male» e «figlia del
peccato»42. Per tutti i primi dieci libri del De civitate Dei, il
Vescovo d’Ippona elenca gli errori delle civiltà pagane e della
romana, in particolare, che hanno portato al collasso dell’im-
pero. La regalità sociale di Cristo, nel senso di una riflessione
sul rapporto tra libero arbitrio umano e provvidenza, è onni-
presente nel testo e l’autore esprime una forte critica al paga-

39
M. Bettetini, Tre città in una Storia, cit., p. 449.
40
R. Dodaro, I fondamenti teologici…, cit., p. 42. Cfr. Agostino, Ep. 155.
41
M. Scattola, Teologia politica, cit., p. 46. Cfr. De civ., XIX, 21; XIX, 24.
42
Ivi.

102
nesimo e al fatto che le divinità pagane istruiscano gli uomini
circa la via del vizio, piuttosto che sulla virtù. La vera causa
del crollo dell’impero va quindi ricercata non tanto in un di-
fetto della provvidenza del Dio d’Israele – questa era l’accusa
che i pagani facevano al nascente cristianesimo – ma dalla
sempre crescente rilassatezza dei costumi, dall’immoralità
intrinseca del politeismo, dalla corruzione senza controllo e
dalla corsa sfrenata verso il potere dei principi. E se «non è
rispettata la giustizia – si chiede Agostino – che cosa sono gli
Stati, se non delle grandi bande di ladri»?43
Nella città di Dio le suggestioni mondane sono rovesciate:
non «la virtù deve seguire la gloria, l’onore e il potere», ma
«questi beni devono seguire la virtù»44. Bisogna precisare che
Agostino non rinnega nulla di quanto ha dato al mondo la
saggezza filosofica greco-romana e il diritto dei grandi ma-
gistrati. Platone e Cicerone sono i più citati, assieme ad altri
storici e scrittori. Non sono i mezzi a dare problema, ma i fini,
che per le due città sono opposti. Per mezzo dello «splendore
dell’Impero Romano» – scrive Gilson – «Dio ha mostrato ciò
che potevano le virtù civili, anche senza la vera religione» e,
tuttavia, il Creatore ha voluto «far capire che, con l’aggiunta
di questa, gli uomini diventano cittadini di un’altra città, il cui
re è verità, la cui legge è carità e la cui misura è eternità»45.
Gilson sostiene che sono gli stessi filosofi a ritenere il paga-
nesimo inadeguato a darsi la felicità, ottenibile solo con la sa-
pienza da essi cercata, ma non trovata. Tanto più – continua
il filosofo francese – che le nazioni pagane si disinteressano
alla sapienza e a quello che insegnano e ricercano i filosofi. Al
contrario, la Chiesa ha una teologia, un magistero, un deposi-
to della salvezza, eredi della grande stagione filosofica della
civiltà classica46.

43
De civ., IV, 4.
44
Ibidem, V, 12.
45
É. Gilson, La filosofia nel Medioevo, La Nuova Italia, Firenze 1973.
46
Cfr. ivi.

103
Autonomia delle realtà temporali
All’epoca dei Padri comincia a farsi strada la dottrina ge-
lasiana «delle due spade»47, mentre in Oriente nasce con Co-
stantino il fenomeno del cesaropapismo che, a parte l’aspetto
negativo d’ingerenza negli affari spirituali, manifesta in una
certa misura il profondo desiderio dei sovrani d’incarnare
un ministero tutto sommato sacro. A seguito di una lettura
parziale di Agostino, in effetti, c’è chi è portato ad escludere,
dall’unico disegno provvidente della storia, la componente
mondana e secolare (vista più come un ostacolo alla salvezza)
che però, già nel primo millennio e pure in seguito, rivendica
un proprio ruolo non secondario. Origene e Agostino – a pa-
rere di Benedetto XVI48 – centrano meglio, rispetto ad altri,
il ruolo del potere temporale nella storia sacra: «La religione
politica dei Romani» – come di ogni società pagana – «non ha
alcuna verità» in sé, essendo un asservimento alle «potenze
antidivine» (il culto agli déi è, per la fede cristiana, culto ai de-
moni), che porta alla divinizzazione della politica e della cit-
tà. Essendo il pensiero antico forgiato sull’assunto platonico
della distanza infinita e dell’incomunicabilità tra Dio e l’uo-
mo, il mondo pagano «tendeva a una restaurazione del rango
religioso della pòlis e, in tal modo, a relegare la religione cri-
stiana dell’aldilà nell’ambito puramente privato»49. Agostino,
più che Origene, fa sua la sensibilità della fede cristiana, che
non tollera «un’emarginazione della realtà politica dall’ordi-
ne dell’unico Dio», perché fanno parte dell’unica realtà creata
e increata. Mentre, però, sia Origene, sia Agostino, rimango-
no fedeli al «pensiero escatologico» cristiano, in quanto repu-

47
Avversario del monofisismo, Papa Gelasio I (V sec.) espose la dottrina
dei “due poteri”, per cui a papa e imperatore competevano due poteri previsti
dalla provvidenza, anche se non di pari valore (l’auctoritas della Chiesa sa-
rebbe dovuta essere superiore alla potestas imperiale). Gelasio s’ispirava ad
Agostino e al diritto romano.
48
J. Ratzinger, Senza verità la politica è culto dei demoni, «L’Osserva-
tore Romano», 23/01/2011.
49
Ivi.

104
tano «tutto questo mondo un’entità provvisoria», il Vescovo
d’Ippona non crede sia sbagliato, per i membri santi della
città di Dio, occuparsi anche della città terrena: egli «ritenne
giusto che i cristiani, membri della patria eterna, prestassero
servizio in Babilonia come funzionari, anzi come imperatori»,
per via del fatto che, in attesa della parusia, è necessario met-
tere «in conto una permanenza della situazione attuale»50.
A differenza di Origene, insomma, Agostino non crede che
«la sua civitas Dei» sia «una comunità puramente ideale di
tutti gli uomini che credono in Dio», però il popolo di Dio «non
ha neppure la minima comunanza con una teocrazia terrena,
con un mondo costituito cristianamente, bensì è un’entità
sacramentale-escatologica, che vive in questo mondo quale
segno del mondo futuro»51. Da qui l’importanza massima,
per i seguaci di Cristo, pur essendo parte storica della città
terrena e pur avendo la reale possibilità storica di costruire
una civiltà cristiana (Medioevo), di non perdere mai di vista
il loro essere cittadini del Cielo. Su questo i Padri sono con-
cordi. Dice San Basilio: «La tua cittadinanza sia nei cieli. La
tua vera patria è la Gerusalemme celeste; i suoi concittadini e
compatrioti sono “i primogeniti, coloro i cui nomi sono scritti
nei cieli”»52. E così il Crisostomo, sulla necessità di evitare
che il nemico possa fare una breccia nelle mura della città
di Dio: «[…] fin che la ricinge da ogni parte invece di muro
la sagacia e la prudenza del pastore, ogni artificio dei nemici
ridonderà a loro scorno e derisione, mentre gli abitanti se ne
staranno dentro al sicuro; ma se alcuno riesca a farla cessare
in qualche parte, pur non distruggendola interamente, rovina
per così dire tutto il resto per causa di quella parte»53.

50
Ivi.
51
Ivi.
52
Basilio di Cesarea, Omelie sull’Esamerone, Om. IX, n. 2. Cfr. Eb 12,23.
53
Giovanni Crisostomo, De sacerdotio, IV, 6.

105
LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
NEI CINQUE CONTINENTI

Spagna*

La questione della Catalogna e il risveglio delle


nazioni
Il 14 ottobre 1919, in Spagna, la condanna a pene detentive
da 9 a 13 anni per 13 dei leader indipendentisti ha fatto scop-
piare di nuovo la protesta in Catalogna. Gli anni di carcere a
cui sono stati condannati 9 ex politici catalani sono previsti
dal reato di “sedizione”, ma non di “ribellione” (sedizione con
l’uso della forza), nel caso dei 4 ex ministri catalani si aggiun-
ge anche il reato di malversazione per l’uso illegale di fondi
pubblici, per l’organizzazione del referendum per l’indipen-
denza, giudicato anti-costituzionale dalla magistratura. La
protesta catalana del 2017 ha avuto caratteristiche pacifiche.
Tuttavia, proprio perché si è trattato di una violazione della
Costituzione e di una sfida allo Stato centrale spagnolo, Ma-
drid ha reagito con estrema durezza, sia nella repressione del-
le operazioni di voto, sia negli arresti e nelle condanne suc-
cessive. La posta in gioco è molto alta, non solo per la Spagna:
è in gioco la definizione stessa di Stato unitario moderno.
Non è mai esistito uno Stato nazionale catalano, nel sen-
so moderno del termine. Sono esistite le contee che facevano
capo a Barcellona, chiamate Catalogna fin dall’Alto Medioevo.
È esistito un Principato di Catalogna, parte del nuovo regno
di Aragona, formatosi nel 1162 dopo il matrimonio del conte
di Barcellona, Raimondo Berengario IV, con Petronilla d’A-
ragona. Il potere regio, in Barcellona e nelle contee catalane
era comunque limitato dal parlamento locale, uno dei primi

* A cura di Stefano Magni.

107
in Europa: la Cort General, eredità del periodo delle contee.
Nel 1469, il matrimonio di Ferdinando d’Aragona con Isabella
di Castiglia portò alla fusione dei due regni e alla nascita del-
la Spagna. Non hanno torto, dunque, gli spagnoli, a ritenere
la Catalogna come parte inscindibile della loro identità. Ma
neppure i catalani a ritenersi una nazione a sé, sempre au-
tonoma nel corso dei secoli, con proprie istituzioni, storia e
tradizioni, soprattutto con una lingua che ha poco in comune
con il castigliano.
L’11 settembre 1714, alla fine della Guerra di Successione
spagnola, combattuta fra le forze fedeli a Carlo III d’Asbur-
go contro quelle di Filippo V di Borbone, l’esercito borbonico
espugnò Barcellona, fedele agli Asburgo, dopo un lungo asse-
dio durato più di un anno. Benché si trattasse di una guerra
fra dinastie, non certo di un conflitto fra nazioni, viene tuttora
ricordato come il momento della fine della Catalogna. Forti
della dottrina dello Stato assoluto e centralista, i Borbone, in-
fatti, abolirono le istituzioni catalane e vietarono la lingua lo-
cale, imponendo il castigliano. Nel 1716, due anni dopo la ca-
duta di Barcellona, i Decreti di Nueva Planta diedero i natali
al moderno Stato spagnolo, con capitale Madrid. L’11 settem-
bre di ogni anno, dal 1976, viene celebrato a Barcellona con
marce di rivendicazione nazionale, la “Diada”. Non è questa,
tuttavia, la vera origine dell’indipendentismo catalano odier-
no che è molto più recente.
Una seconda forma di secessionismo trae origine dal se-
paratismo all’epoca della Repubblica (1931-1936) e poi della
Guerra Civile Spagnola (1936-1939). La rimozione della mo-
narchia diede l’opportunità ai separatisti catalani di rifarsi
vivi. La lingua e le tradizioni erano state tramandate nel cor-
so degli ultimi due secoli, soprattutto dopo il risveglio cul-
turale, tipico di tutti i popoli europei, avvenuto nell’Ottocen-
to, con il Romanticismo. Nel 1932, subito dopo la fine della
monarchia, in Catalogna si affermò la Sinistra Repubblicana
(Erc), il cui leader, Lluis Companys, proclamò l’indipendenza
il 6 ottobre 1934, sfidando l’allora governo Lerroux (radicale,

108
ma alleato con formazioni di destra). La secessione durò solo
una notte: l’esercito spagnolo intervenne subito e stroncò sul
nascere l’esperimento. Companys tornò libero nel 1936, ap-
poggiato dal nuovo governo socialista e riottenne ben presto
una posizione di potere locale a Barcellona. Con lo scoppio
della Guerra Civile, la Catalogna fu alleata di ferro di Madrid
contro l’insurrezione militare di Francisco Franco. I repub-
blicani, i comunisti, gli anarchici, gli stessi indipendentisti
catalani, identificarono Franco, monarchia e Chiesa come un
tutt’uno e, nel caso di anarchici e comunisti, soprattutto la
Chiesa come religione da debellare. 2.441 ecclesiastici (1.538
sacerdoti, 824 religiosi e 76 suore) di cui tre Vescovi, vennero
assassinati. Durante la guerra, in Catalogna fu sterminato il
35% di tutto il clero spagnolo. Alla fine del conflitto, con la
vittoria di Franco e l’instaurazione della sua dittatura, l’au-
tonomia catalana venne soppressa, così come la sua lingua e
le sue istituzioni. Lluis Companys, arrestato dai tedeschi in
Francia nel 1940 e consegnato alla Spagna, dove venne fucila-
to subito, divenne un’icona dell’indipendentismo. La Sinistra
Repubblicana catalana porta tuttora in sé le caratteristiche
ideologiche di quella sanguinosa esperienza, dimenticando lo
sterminio dei cattolici e presentandosi come erede legittima
della resistenza a Franco. Ma neppure questa è la vera origine
dell’attuale indipendentismo catalano.
La vera origine va rintracciata nel 2010. In quell’anno, in-
fatti, il Tribunale Costituzionale iberico, cancellò diversi arti-
coli dello Statuto di autonomia della Catalogna in vigore dal
2006. Occorre fare un piccolo passo indietro per comprender-
ne appieno l’importanza. Dopo la morte di Francisco Franco
la costituzione del 1979 garantì ampia autonomia alla regione
(comunità) della Catalogna. Vennero ripristinate le sue isti-
tuzioni e l’uso della lingua catalana. Nei primi anni 2000, il
patto di autonomia venne rinegoziato con Madrid per otte-
nere un trasferimento di maggiori poteri. Il governo sociali-
sta, guidato da José Luis Zapatero, accettò il compromesso.
Lo statuto venne approvato con un referendum il 18 giugno

109
2006 (lo stesso anno in cui un referendum in Italia bocciò una
riforma simile per una maggior autonomia delle regioni, la
“devoluzione”). Il leader del Partito Popolare, allora all’oppo-
sizione, Mariano Rajoy (futuro premier), portò la questione
a cospetto del Tribunale costituzionale e vinse la sua causa
nel 2010, limitando fortemente la devoluzione prevista dallo
statuto. Vennero cancellati due articoli dal forte valore simbo-
lico: la definizione della Catalogna come “nazione” e l’uso del
catalano come “lingua preminente”.
Dal 2010 in poi, la marcia dell’indipendentismo è sta-
ta piuttosto rapida: da movimento ideologico e di nicchia è
diventato movimento di massa in soli sei anni. Dal 2010, la
Diada è diventato un momento politico di massa, con mar-
ce di centinaia di migliaia di catalani. Impressionante è stata
l’edizione del 2014, bicentenario della caduta di Barcellona.
La realtà secessionista è emersa chiaramente il 27 settembre
2012, quando la Generalitat, il parlamento catalano autono-
mo, ha votato per indire un referendum sull’autodetermina-
zione. Il referendum si è svolto cinque anni dopo, in seguito a
un lungo dialogo infruttuoso con Madrid. E la risposta è stata
dura. La polizia è intervenuta per smantellare i seggi e di-
sperdere gli elettori, da lì in avanti le autorità di Madrid, con
il pieno appoggio del re, hanno ridotto al minimo l’autonomia
della Catalogna anche con l’applicazione dell’articolo 155 che
permette al governo centrale di prendere il controllo o com-
missariare tutte le istituzioni locali. La condanna dei leader
indipendentisti è solo l’ultima tappa di questo percorso di ri-
centralizzazione. Ma non è detto che ponga fine alla questio-
ne catalana. Anzi: la massiccia adesione alle manifestazioni
di protesta, dimostra che ancora molto rancore cova sotto le
ceneri.
Resta da capire la vera natura di questo secessionismo e
le sue reali dimensioni. Riguardo a quest’ultimo punto, qua-
lunque spagnolo citerà sempre una sola cifra: 47%, che è l’o-
pinione indipendentista censita nell’ultimo sondaggio prima
del tentativo di referendum indipendentista del 2017. Ma si

110
tratta di una cifra molto approssimativa, considerando gli er-
rori ripetuti dei sondaggi in questi anni e la caratteristica a
dir poco scottante della domanda, a cui non è facile rispon-
dere. In assenza di una regolare consultazione elettorale è
impossibile rispondere alla domanda sulle dimensioni del
movimento indipendentista. Sulla sua natura, invece, è mol-
to limitante considerarla come ideologica. Negli anni ’10 di
questo secolo, la guida dell’indipendentismo, infatti, non è ri-
masta nelle mani della Sinistra Repubblicana, ma è stata pre-
sa da leader di partiti moderati, come Artur Mas (leader del
partito Convergenza e Unione, di ispirazione democristiana
e liberaldemocratica) e il suo successore Carles Puigdemont,
l’organizzatore materiale del referendum del 2017. Sarebbe
oltremodo riduttivo cercare i motivi solo nell’economia. Sicu-
ramente conta il fatto che la Catalogna sia la regione più ricca
e produttiva della Spagna: al 2017 (anno del referendum) rea-
lizzava il 20% del Pil nazionale e il 23% dell’intera produzione
industriale e ospitava il 46% delle aziende straniere che inve-
stivano in Spagna. Lo statuto è stato votato dai catalani in un
periodo in cui la Spagna era in crescita. La nascita dell’ondata
secessionista, nel 2010, è avvenuta in piena crisi economica.
Però nel 2017, quando è stata tentata la secessione, la Spagna
stava già riprendendosi, anche grazie alle riforme economi-
che di Mariano Rajoy. Quindi è difficile trovare una correla-
zione diretta fra crisi e secessionismo.
La causa è da ritrovare, piuttosto, nel contesto generale di
risveglio delle nazioni, a cui si assiste ovunque nel mondo.
Il separatismo catalano è simile, per ideologia e cronologia,
a quello della Scozia che nel 2014, dunque negli stessi anni,
ha ottenuto (e perso) un referendum legale per la separazione
dal Regno Unito. Negli stessi anni ’10 si è assistito, dall’altra
parte, anche alla vittoria del referendum britannico per l’usci-
ta del Regno Unito dall’Unione Europea (2016). E fra la legi-
slatura europea del 2014 e quella attuale, si nota, in generale,
un aumento degli eurodeputati euroscettici, anche all’interno
di partiti ufficialmente europeisti come il Ppe (basti pensare

111
all’apporto di Fidesz, il partito di Orban in Ungheria, con il
suo 51% di consensi in patria). Per non parlare della cresci-
ta della Lega in Italia, attualmente il partito più euroscettico
e discendente diretto della Lega Nord, unico partito dichia-
ratamente secessionista nella storia italiana. Se ci liberiamo
degli schemi politici tradizionali destra-sinistra, progressisti-
conservatori e anche europeisti-euroscettici, c’è un elemento
che accomuna tutti questi movimenti: la volontà di separarsi
dal governo centrale, di riprendere un controllo democratico
sul proprio territorio. Più alla lontana, è la stessa volontà che
ha spinto gli americani a votare Donald Trump, con la sua
promessa di tenere in conto “prima l’America”, non rispetto
a un governo centrale (visto che è indipendente dal Regno
Unito dal 1776), ma dai vincoli delle istituzioni sovranaziona-
li. Non un conflitto destra-sinistra, conservazione-progresso,
dunque, ma centro-periferia potrebbe essere la caratteristi-
ca di questo nuovo scontro politico che si vede sorgere un
po’ ovunque, nelle forme più diverse, a seconda della storia e
delle circostanze locali. Dove lo Stato è più coeso, il rancore
è rivolto verso il nuovo potere centrale emergente: Bruxel-
les. Dove è meno coeso, si rivolge contro il proprio governo
centrale e spesso chiede la legittimazione dall’Ue: Scozia e
Catalogna hanno movimenti indipendentisti e fortemente
europeisti.
Tale volontà di riappropriarsi dell’identità e di conseguen-
za dell’autogoverno è paradossalmente incentivata dalla glo-
balizzazione. Non è un caso che la nascita di molte nuove
nazioni, dal 1989 ad oggi, sia coincisa con la fine della con-
trapposizione fra grandi blocchi e l’inizio dell’ultima globa-
lizzazione, specialmente dopo l’introduzione dell’Organizza-
zione mondiale del Commercio nel 1995. Con un commercio
più libero «diventa possibile per le persone essere parte della
stessa zona economica, senza necessariamente essere parte
della stessa entità politica. Sono in grado di commerciare fra
loro, senza necessariamente essere d’accordo sulla politica»,
come osservava uno studio dell’Institute of Economic Affairs

112
sulla Brexit nel 2012. Lo studio, che citava a sua volta un al-
tro articolo dell’American Economic Review, concludeva che:
«La liberalizzazione del commercio e le dimensioni medie dei
Paesi sono inversamente proporzionali. La globalizzazione
dei mercati procede a braccetto con i separatismi politici». E
il separatismo mette in risalto la differenza netta fra nazione
e Stato. Mentre la nazione è una comunità fondata su lingua,
cultura e tradizione comuni, un “plebiscito di tutti i giorni”
come lo definiva Ernest Renan, lo Stato è un costrutto artifi-
ciale, nato in età moderna fra il XV e il XIX Secolo, monopo-
lista tendenziale della violenza. È un prodotto degli assolu-
tismi e della loro tendenza ad accentrare tutto nelle mani di
un sovrano (prima re, poi governo democratico, ma sempre
sovrano). La Catalogna è nazione, non è mai stata uno Stato
nazionale. Eppure esiste ed è parte di un fenomeno centrifu-
go sempre più importante.

113
Francia*

L’Europa si suicida assassinando le nazioni che la


compongono. Con l’aiuto di Macron
Gli Stati moderni occidentali, al loro interno, sono sempre
più simili ad un coacervo di popoli e nazioni. L’unione econo-
mica e la conseguente irrilevanza dei confini nazionali, alme-
no in Europa, rendono agevole non solo l’incremento dell’im-
migrazione, ma cristallizzano il convincimento che lo Stato
possa esistere solo nella dimensione multiculturale e multina-
zionale. Se questa condizione, in passato, era costitutiva degli
imperi1 e non creava problemi insormontabili per la civiltà,
ciò era dovuto alla solidità identitaria del potere centrale, che
garantiva l’unità e assegnava a quella specifica società, sulla
quale regnava, un’inconfondibile caratteristica etica e cultu-
rale, al di là delle peculiarità nazionali. Oggi, al contrario, il
potere centrale di uno Stato, o di un gruppo di Stati, fonda la
propria azione sull’assenza di ogni riferimento etico e cultura-
le, ad eccezione di quello legato al liberalismo illuminista, di-
venuto nel frattempo libertarismo totalitario. Ne va, dunque,
della civiltà, che si sfalda e implode in se stessa.
La Francia, dalla Rivoluzione del 1789 in poi, è permeata di
questo spirito, proprio perché è il luogo storico della sua ela-
borazione filosofica e politica. È noto che dalla Francia, prima
ancora che dal mondo anglosassone, promana da due secoli
abbondanti una fonte inesauribile di laicismo, esasperatosi
specialmente dopo il secondo conflitto mondiale e, recente-
mente, durante il governo di François Hollande2. Ne risen-

* A cura di Silvio Brachetta.


1
Impero inteso come l’insieme di nazioni o popoli, con differenze di lin-
gua, usi e costumi.
2
Durante la presidenza di François Hollande – dal 2012 al 2017 – l’esecu-
tivo socialista francese ha introdotto il matrimonio tra persone omosessuali
(“mariage pour tous”, legge Taubira) e ha riformato l’educazione scolastica

114
te anche il rapporto tra i popoli stanziali in Francia, spesso
intralciato dalla stessa idea di laicità repubblicana, che vor-
rebbe livellare le culture su di un piano ritenuto neutro, ma
che invece ignora e contrasta le necessità religiose e la realtà
vitale delle persone.

Salafismo radicalizzato
Si possono solo fare stime imprecise attorno ai gruppi etni-
ci francesi, ovvero a come è composta la popolazione, perché
in Francia è vietato il censimento su base razziale e religio-
sa. Grosso modo, nell’Esagono3 vivono a tutt’oggi 64 milioni
di persone, delle quali gli autoctoni (i francesi oriundi) sono
attorno ai 54 milioni4. Gli altri 10 milioni sono suddivisi tra
nordafricani (da 4 a 6 milioni), ebrei (500 mila), italo-francesi
(4 milioni) e minoranze varie (polacchi, rumeni, spagnoli, por-
toghesi, cinesi).
A parte gli italo-francesi e le altre popolazioni di tradizione
latina, tedesca, anglosassone e slava, decisamente omogenee
ai valori cristiano-occidentali, abbiamo in Francia le due più
grandi comunità ebraiche e musulmane d’Europa. Se la pre-
senza degli ebrei può essere considerata millenaria, la pre-
senza nordafricana (Africa equatoriale e occidentale) è dovuta
al retaggio coloniale e alle ondate migratorie del XX secolo,
originatesi, nella quasi totalità, dalle regioni del Maghreb5.

in senso laicista (riforme Peillon e Vallaud-Belkacem). Con la medesima ri-


forma ha sostenuto l’insegnamento della “teoria gender” nelle scuole, mor-
tificando contemporaneamente l’insegnamento legato alle materie classico-
cristiane. L’esecutivo ha, inoltre, incrementato l’eutanasia (legge Claeys-Le-
onetti). Si vedano a questo proposito il precedenti Rapporti dell’Osservatorio
nei capitoli riguardanti la Francia.
3
Hexagon, Esagono: altro nome per indicare la Francia continentale, che
ricorda la forma di questa figura geometrica.
4
Dati Insee (Institut national de la statistique et des études économiques).
5
Il Maghreb corrisponde a Marocco, Algeria e Tunisia. Se s’includono
anche Libia, Sahara occidentale e Mauritania, il comprensorio prende il
nome di Grande Maghreb.

115
Prima della radicalizzazione dell’Islam – cioè prima dell’in-
tifada6 e delle recenti guerre mediorientali – la convivenza
pacifica, specialmente tra ebrei e musulmani, era garantita
dal riferimento comune ai valori francesi post-illuministici,
repubblicani e laici, che prevalevano sulle questioni religiose.
La stagione dei grandi attentati, che va dai fatti delle Torri
gemelle7 a quelli conseguenti alla creazione dello Stato Isla-
mico8, ha successivamente inasprito il rapporto tra francesi
di religione islamica (musulmani radicalizzati) e il resto della
popolazione, che ha dovuto subire diversi atti di terrorismo e
fenomeni diffusi d’intolleranza.
Forse ha ragione Simon Kuper, quando dice che la Francia
si sta «spezzando»9. E rincara: «Da quando mi sono trasferi-
to in Francia nel 2002, ho visto il paese completare una rivo-
luzione culturale». Il problema è che la Francia ha partorito
«una nuova società individualizzata, globalizzata e irreligio-
sa»: il cattolicesimo «si è quasi estinto (solo il 6 per cento dei
francesi ora frequenta abitualmente la messa)» e «la popola-
zione non bianca ha continuato a crescere». Kuper parla di
una società frammentata, che chiede ad Emmanuel Macron e
all’esecutivo «una nuova politica», che non può realizzarsi a
causa della chiusura elitaria dei «vincitori», i quali «esistono
in una sorta di ‘autarchia’, raramente mescolati con altre clas-
si» e sono «ottimisti in una nazione pessimista».
Sarebbe sbagliato, però, considerare i rapporti tra i popoli
francesi solo per mezzo delle categorie sociologiche. Il vero di-
scrimine è la questione religiosa, spesso ignorata dai media, o
ridotta a puro impulso irrazionale, a generatore di radicalizza-
zione e violenza. Lo scrittore Alain Finkielkraut, più di altri,
denuncia da tempo l’alleanza ideologica «tra la sinistra radi-

6
In arabo, “intifada” ha il senso di “rivolta”, “sollevazione”. Dal 1987 è
uno dei nomi del conflitto israelo-palestinese.
7
Crollo del World Trade Center, New York, 11 settembre 2001.
8
Califfato dell’IS, oppure Daesh, 29/06/2014.
9
S. Kuper, How France’s cultural revolution is causing new political di-
vides, «Financial Times», 30/05/2019.

116
cale antisionista e giovani di banlieue vicini all’islamismo»,
per dire che il pericolo non viene dal populismo contempora-
neo, ma dal salafismo alleato alla nomenklatura liberal10. E il
salafismo11 sta causando, oltre a una lunga serie di difficoltà
sociali, la grande fuga degli ebrei dalla Francia verso Israele:
si tratta di un «fenomeno inquietante iniziato quindici anni
fa», secondo il rabbino Nissim Sultan12. Non è facile capire
come mai un ebreo possa abbandonare la propria casa e una
vita stabile, costruite in uno dei Paesi del liberalismo trion-
fante. Eppure – spiega Finkielkraut – accade che, «in dieci
anni, l’80 per cento degli ebrei di Seine-Saint-Denis ha lascia-
to il dipartimento», laddove Seine-Saint-Denis ospitava «ol-
tre un decimo di tutta la popolazione ebraica francese».

Radicamento e sradicamento
Secondo un sondaggio della Commissione Europea13,
quasi il 40 per cento degli ebrei d’Europa ha intenzione di
tornare in Israele, poiché lamenta una recidiva dell’antisemi-
tismo. Esagerazioni o meno, da circa un lustro si è verificato
in Francia un incremento delle «violenze antisemite e anti-
cristiane», come sostiene il filosofo Robert Redeker14, anche
sui dati forniti da L’Osservatorio della Cristianofobia15. L’av-
versione all’ebraismo e al cristianesimo non proviene solo

10
E. Palazzini, Il filosofo Finkielkraut: «Ma quale populismo, il pericolo
viene dal salafismo», «Il Primato Nazionale», 20/02/2019.
11
Il “salafismo” (“salafiyya”) è una scuola di pensiero sunnita-hanbalita.
Ha cominciato a radicalizzarsi negli anni Trenta del XX secolo in Tunisia e,
ai nostri giorni, anche tra i musulmani francesi.
12
G. Meotti, «Metà degli ebrei di Grenoble è fuggita». La Francia si
svuota per antisemitismo, «Il Foglio», 10/03/2019.
13
Commission Européenne, Réponse à l’antisémitisme et réagit à une
enquête selon laquelle l’antisémitisme est en progression dans l’UE, Bruxel-
les, 10 dicembre 2018.
14
L. Grotti, Non ci sono mai stati così tanti atti anticristiani in Fran-
cia, «Tempi», 07/03/2019.
15
Daniel Hamiche, Février: mois record dans les annales de la christia-
nophobie en France, «L’Observatoire de la Christianophobie», 04/03/2019.

117
dal mondo islamico, ma pure dalla stessa Francia repubbli-
cana e politica, che ha fatto della laicità una sorta di religione
fondamentalista. Cosa si cerca di distruggere? – si domanda
Redeker. Innanzitutto «la legge della Scrittura, i due Testa-
menti, l’idea stessa che la Scrittura è il nostro fondamento co-
mune». Il fondamento, cioè, «della civiltà giudaico-cristiana»,
che è «sotto attacco frontale». Come, infatti, sosteneva Clau-
del – dice Redeker – «Francia e Israele sono le due nazioni
che hanno un destino e una responsabilità soprannaturali».
Israele, si potrebbe aggiungere, pure nel senso cristiano di
nuovo Israele.
Che la Francia sia da intendere come patria, nel senso di
Claudel, è del tutto evidente almeno dai tempi del ministero
di Santa Giovanna d’Arco. Lo storico Jules Michelet (1798-
1874) scriveva che, prima della Pulzella, la Francia «era stata
un agglomerato di provincie, un vasto caotico insieme di feu-
di, un grande paese, una vaga espressione geografica». Con
Giovanna d’Arco, essa «diviene una patria e lo diviene per la
forza di un cuore»16. Anche lo storico André Bossuat17 (1895-
1987) sostenne che la Pulzella fu «la creatrice del sentimento
nazionale e della patria». In Giovanna d’Arco, allora, «si com-
pendia la Francia sia nell’amor di patria che nella tradizione
cristiana, poiché ella è sia una santa cattolica (come il Santo
crociato Luigi IX) che un’eroina nazionale (come la laica, sim-
bolica Marianna)»18.
Ora però le cose non sono più così semplici, immediate,
nitide. Soprattutto dal 14 maggio 2017 – giorno dell’elezione
di Emmanuel Macron a Presidente della Repubblica – chi po-
trebbe ancora dare una definizione netta di patria, o di na-
zione, o di popolo francese? A capo dell’esecutivo di Francia
c’è un uomo dal carattere indefinibile e politicamente irriso-

16
J. Michelet, Storia di Giovanna d’Arco, Astra Editrice, Lecce 1957,
p. 25.
17
A. Bossuat, Jeanne d’Arc, Puf, Paris 1968, p. 114.
18
Ch. Fantuzzi, Il 30 maggio 1431 morì Giovanna d’Arco, la fanciulla
che salvò la Francia in nome di Dio, «Ticino Live», 30/05/2018.

118
luto, malsicuro, quando invece i nostri tempi sono carenti di
una guida chiara, di prese di posizione certe, di scelte non
equivoche. Macron, al contrario, incarna l’astrazione, tipica
della cultura contemporanea e dell’europeismo inculturato.
Si definisce liberal, equidistante da destra e sinistra19: gene-
rico luogo comune, che significa assai poco. Afferma di non
essere socialista, pur avendo militato tra i socialisti, seppure
in area centrista20: Si considera «ardentemente pro-Europa»,
salvo le scelte anti europeiste – in politica estera – nei primi
mesi del suo mandato21. Appoggia l’immigrazione, da un lato
(i rifugiati) ma, dall’altro, propone leggi più severe sul dirit-
to di asilo e non vede bene per nulla l’immigrazione di tipo
economico22.
Ne viene fuori un esecutivo debole su tutti i fronti, interni
ed esterni. L’inconcludenza politica si trasforma, così, in re-
lativismo etico e culturale e, viceversa, il relativismo genera
figure politiche senza spessore. Cresce, tra i cittadini, un sen-
so di sradicamento, al posto del radicamento, secondo le sug-
gestioni di Simone Weil23. Il radicamento dovrebbe invece
costituire la sostanza di una nazione o il principio dello Sta-
to. Il fenomeno immigratorio non è secondario. Parlando di
guerra e di conquista, Simone Weil afferma: «Lo sradicamen-
to è minimo quando i conquistatori sono un popolo migratore
che s’insedia nella terra conquistata», poiché «si mescola alla
popolazione e vi mette radice»24. E, tuttavia, «quando il con-
quistatore rimane straniero sul territorio che ha occupato, lo

19
Cfr. A. Maggi, Elezioni Francia, «Macron ultra-liberista, è il degno ere-
de di Hollande», «Affaritaliani», 24/04/2017.
20
Dal 2014 al 2016, governo Hollande.
21
Cfr. J. Bittner, Macron’s disastrous Eurozone plan, «The New York
Times», 24/05/2017.
22
Cfr. Migranti, Macron: «Francia non sempre ha fatto la sua parte sui
rifugiati, ma non accoglieremo quelli economici», «Il Fatto Quotidiano»,
12/072017.
23
Simone Weil aveva parlato di «radicamento» e «sradicamento» in
L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain,
Gallimard, 1949 [ed. it. La prima radice, Mondadori, Milano 1999].
24
Ibidem, p. 49.

119
sradicamento è una malattia quasi mortale per le popolazioni
sottomesse»25.

Pronunciamenti da parte del clero


Le immigrazioni attuali di profughi, clandestini o migran-
ti economici, pur non essendo ascrivibili ad un’occupazione
territoriale dovuta ad un conflitto armato, creano problemi di
sradicamento, sia per gli oriundi del luogo, sia per gli stessi
immigrati, che rimangono stranieri (nel senso espresso dalla
Weil) e soffrono essi stessi per avere abbandonato la patria
di origine. Se ci si può chiedere quanto corrisponda al vero
la teoria di Renaud Camus, sulla «Grande Sostituzione»26,
secondo cui le immigrazioni sarebbero null’altro che un pro-
gramma di colonizzazione al fine di stravolgere per sempre la
cultura e l’essenza dei francesi, è invece sicura la prassi assi-
milazionista della Francia, almeno fino all’ultimo decennio.
L’assimilazionismo francese è un modello d’integrazione in-
teramente fondato sul laicismo repubblicano, che chiede riso-
lutamente all’immigrato – e a qualsiasi cittadino – l’adesione
ai valori liberali e illuministici francesi. L’assimilazionismo è
altra cosa dal multiculturalismo, anche perché l’atteggiamen-
to assimilazionista tende ad inculcare qualcosa e non tiene
in debito conto le culture altrui, specie nell’aspetto religioso.
Ora però che i concetti si sono fatti sempre più ambigui
e persino la laicità non sembra avere i contorni precisi di un
tempo, è giocoforza che il multiculturalismo riemerga, sorret-
to specialmente dalla sinistra, intransigente quanto all’immi-
grazionismo, ma transigente ad ogni aspetto – anche delete-
rio – delle culture d’importazione. L’immigrazionismo, però,
ha l’aspetto di un’ideologia, come sostiene il Card. Robert Sa-
rah: «Questo attuale desiderio di globalizzare il mondo sop-

25
Ibidem, p. 50.
26
R. Camus, Le Grand Remplacement, Reinharc, Neuilly sur Seine 2011.

120
primendo le nazioni, le specificità, è pura follia»27 – dice du-
rante un’intervista a Valeurs Actuelles. Il motivo è soprattutto
biblico-teologico: «Il popolo ebraico dovette andare in esilio,
ma Dio lo riportò nel suo paese. Cristo dovette fuggire da Ero-
de in Egitto, ma tornò nel suo paese alla morte di Erode. Tutti
devono vivere nel loro paese». Si sente qua, nelle parole di
Sarah, un’eco del gran male dello sradicamento, a cui si rife-
riva la Weil; le radici non sono qualcosa di accidentale, ma di
essenziale per la nazione.
E dunque – continua Sarah – «è una falsa esegesi usare la
Parola di Dio per valorizzare la migrazione». Il Cardinale non
ha alcun timore di esprimersi mediante affermazioni chia-
re: «La Chiesa non può cooperare con questa nuova forma
di schiavitù diventata migrazioni di massa». E, ancora, non
teme di sollevare il tema della barbarie: «Se l’Occidente con-
tinua in questo modo fatale, c’è un grande rischio che, a cau-
sa della mancanza di nascite, sparisca, invaso dagli stranieri,
proprio come Roma è stata invasa dai barbari».
La voce di Sarah è comunque ancora molto isolata. Il Ve-
scovi francesi sono in una fase di evidente impasse rispetto ai
problemi attuali del Paese. Sulla crisi dei «gilet gialli»28, ad
esempio, la Conferenza episcopale francese (Cef) non è anda-
ta oltre ad un semplice elenco di cinque domande natalizie da
proporre ai fedeli, in modo da innescare un certo dibattito29,
mai realmente decollato. La Conferenza Episcopale Francese
(Cef), da un certo tempo a questa parte, non propone quasi
più nulla nei suoi comunicati, se non brevi considerazioni
astratte e di circostanza. Nell’imminenza delle elezioni per
il rinnovo del Parlamento europeo (maggio 2019), i Vescovi

27
R. Cascioli, Immigrazionismo? Figlio della crisi di fede. Parola di Sa-
rah, «La Nuova Bussola Quotidiana», 10/04/2019.
28
Il “movimento dei gilet gialli” (“mouvement des gilets jaunes”) è un
moto di protesta popolare, sviluppatosi nel maggio 2018, contro la recente
riforma fiscale e contro l’aumento dei prezzi.
29
Conférence des évêques de France, Appel aux catholiques de Fran-
ce et à nos concitoyens, 11 dicembre 2018.

121
francesi non si sono spinti oltre qualche luogo comune30:
invito ad andare a votare, ricerca della pace, importanza del
bene comune, dei diritti umani, della solidarietà, attenzione
per i fenomeni migratori, questione dell’economia globalizza-
ta. Il tutto riassunto nel consueto invito al «discernimento»,
senza però fornire alcun criterio su cosa sia il bene comune,
su come politiche sbagliate possano introdurre il male comu-
ne, su cosa debbano essere fondati i diritti umani, su cosa ci
sia di bene o di male nell’immigrazione, su quale sia la dif-
ferenza tra pace disarmata e pace in Cristo, sui confini tra
solidarietà e assistenzialismo.

L’uomo dev’essere homo migrator


I media francesi, alla stregua della grancassa mediatica
europea, condannano quotidianamente i populismi e i na-
zionalismi. Si tratta di un’operazione preordinata all’imposi-
zione della dottrina immigrazionista, di modo che l’opinione
pubblica divenga assuefatta all’accettazione del multicultu-
ralismo. Ne è convinto ancora Alain Finkielkraut, pur essen-
do, in quanto ebreo, del tutto critico all’estremizzazione del
nazionalismo e della retorica populista, che si erano mutati
in fascismo e nazismo. Nel mondo contemporaneo, tuttavia,
«criticando nazionalismo e populismi – dice Finkielkraut –
si cerca di criminalizzare il diritto dei popoli alla continuità
storica»31. Si nega la realtà della patria e l’esistenza dei confi-
ni nazionali, così da introdurre l’ideologia dell’«homo migra-
tor»: io penso – continua il filosofo – «che la parola “migrante”
sia rivelatrice in sé. Agli occhi dei partigiani dell’ospitalità in-
condizionata, dell’apertura infinita delle frontiere, l’uomo che
arriva non viene definito né per la sua origine né per la sua

30
Conférence des évêques de France, Élections européennes: quelle
Europe voulons-nous?, 25 marzo 2019.
31
A. Devecchio, Alain Finkielkraut: «Je suis toujours Charlie et je n’en
démordrai pas», «Le Figaro Enquêtes», 07/01/2019.

122
destinazione, ma solo per il suo essere in viaggio». Si è svilup-
pato, anche in Francia, un «antirazzismo ideologico», che «è
insopportabile» e che «porta a rivolte assolutamente legitti-
me». Non c’è altra via – a parere di Finkielkraut – se non quel-
la di «rallentare i flussi migratori, perché la forza dei numeri
rende impossibile sia l’assimilazione che l’integrazione».
Una cosa, insomma, è il grave problema della sofferenza
delle popolazioni africane e asiatiche, un’altra è la cura adot-
tata dall’Unione Europea, che contempla la cancellazione
di se stessa e dei propri confini. All’interno del mondo occi-
dentale – dice lo scrittore Michel Houellebecq – «l’Europa ha
scelto un modo di suicidio particolare, che include il fatto di
assassinare le nazioni che la compongono»32. L’Unione Euro-
pea e la Francia, in particolare, vivono da troppo tempo in una
dimensione orizzontale, ma Houellebecq «non si rassegna a
un mondo divenuto materialista, privo di trascendenza». In
Europa si parla un po’ di tutto; di costume, di spettacolo, d’in-
clusione, di «biodiversità», ma «non si parla mai di salvare le
civiltà, le culture, i modi di vita umani».

32
S. Montefiori, Michel Houellebecq a 7: «Soltanto la patria può salvar-
ci», «Corriere della Sera 7», 15/05/2019.

123
Italia*

Un dibattito politico incentrato su “sovranismo” e


“populismo”
«Nei Paesi dell’Unione Europea, nelle istituzioni dell’U-
nione si nota spesso un vuoto di contenuti e un ossequio alle
procedure. La retorica “europeistica” spesso fa diventare pri-
oritario lo “stare insieme” piuttosto dei fini e dei contenuti di
questo stare insieme. Si parla spesso di “bene comune” den-
tro l’Unione, ma non lo si definisce quasi mai. Si è parlato e
si parla di “principio di sussidiarietà” ma alla fine si scopre
che di esso si ha una visione solo funzionalistica e operati-
vistica, non contenutistica: sussidiarietà per fare cosa?». È
un’osservazione – posta dall’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi
a febbraio 2018 in occasione della presentazione del X Rap-
porto curato dal nostro Osservatorio – che ben si presta a de-
scrivere anche la situazione italiana. Dalle elezioni politiche
del 4 marzo 2018, infatti, emerge un Governo di coalizione
formato da due dei tre maggiori partiti, il Movimento 5 stelle
e la Lega, che propongono nel loro programma elettorale, pur
con accenti e sfumature differenti, una sostanziale rimessa
in discussione dei rapporti con le istituzioni europee. Anche
attraverso il collegamento con forze analoghe di altri Paesi –
si pensi, ad esempio, al Front National di Marine Le Pen in
Francia o ai partiti andati al potere negli Stati del cosiddetto
Gruppo di Visegrad – l’obiettivo di questi partiti è quello di
sostenere istanze più marcatamente identitarie riaffermando
la necessità di difendere anzitutto gli interessi nazionali ri-
spetto a quelli continentali. Presto queste posizioni conduco-
no ad un contrasto con le istituzioni europee, e il terreno di
scontro sul quale con più evidenza si rivela questa frizione è
la gestione dei flussi migratori provenienti dal Nord Africa.

* A cura di Andrea Mariotto.

124
Se da una parte vi è la necessità di rispondere alla richiesta di
accoglienza delle persone che chiedono ospitalità, asilo politi-
co o che fuggono da teatri di guerra o situazioni di persecuzio-
ne, dall’altro questa necessità si deve adattare con il compito
che un Governo ha di gestire l’ordine pubblico e di far rispet-
tare le proprie leggi per garantire una equilibrata convivenza
civile, a maggior ragione se si tratta di fenomeni nei quali si
verificano infiltrazioni della criminalità organizzata.
Ben presto il dibattito pubblico si anima e si creano due
fazioni opposte, e le rivendicazioni di chi vorrebbe una più
decisa difesa dei confini e degli interessi nazionali vengono
bollate dal mainstream come posizioni “populiste” o “sovra-
niste” con accezioni tutt’altro che positive. Vale la pena, in
questa sede, sottolineare invece come la Dottrina sociale del-
la Chiesa sostenga che un corretto governo delle migrazioni
debba essere guidato dal criterio del bene comune, e non in-
vece da un’accoglienza indiscriminata. Si evidenzia così che
la progressiva cessione di sovranità a favore dell’Europa da
parte dei singoli Paesi evidenzia una difficoltà a conciliare,
se non altro in alcune materie, le legislazioni nazionali con
le normative e i trattati di rango differente. «L’Unione Eu-
ropea, pur dicendosi a servizio delle nazioni e dei popoli, in
realtà è una costruzione artificiale di trattati, gestiti da una
classe artificiale di burocrati, e con una cultura artificiale
essa stessa priva di alcun legame con la legge morale natu-
rale. Lo prova il fatto che dalle istituzioni europee arrivano
ormai sistematicamente agli Stati membri pressioni indebite
perché essi approvino leggi contrarie alla vita e alla famiglia,
ossia contro i dettami della legge morale naturale, con cui
l’Unione Europea ha tagliato i ponti»: così Stefano Fontana,
direttore dell’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân,
fotografa la situazione in un intervento a Firenze nel marzo
20181. Nella stessa occasione, si precisa l’importanza del ri-

1
S. Fontana, Quale futuro per l’Europa? Radici cristiane e relativismo
radicale, popoli e politiche dell’Unione, intervento al Convegno organizza-

125
spetto delle identità culturali dei singoli popoli come gran-
de occasione mancata nella costruzione dell’attuale Unione
Europea: «L’Europa è sempre stata un incrocio di culture e
di popoli, incrocio reso possibile dal comune riferimento alla
natura umana, riferimento garantito dalla religione cristiana.
È infatti impareggiabile la visione della persona umana nata
in Europa, trasmessa poi all’Occidente non come espressio-
ne di una cultura di parte ma come conquista universale. Ma
oggi in Europa avviene proprio questo: ci si è congedati dalla
natura umana e, quindi anche dalle culture dei popoli e delle
nazioni che si vorrebbe uniformare e amalgamare artificial-
mente come dentro un tritacarne. Stanno nascendo nel no-
stro continente nuove rivendicazioni del diritto alla propria
identità culturale e spesso questo viene rivendicato in pole-
mica con le istituzioni europee».
Sul piano nazionale, bisogna sottolineare che anche le con-
sultazioni amministrative e regionali confermano un’adesio-
ne significativa dell’elettorato alle posizioni scettiche nei con-
fronti dell’Europa, con un successo particolare dei candidati
della Lega, al quale corrisponde una flessione complessiva
del Movimento 5 stelle nelle elezioni di maggio 2019, che pa-
tisce un calo vistoso di consensi anche alle elezioni regionali
dell’autunno 2019 insieme agli altri partiti tradizionali come
il Partito Democratico, che dopo 50 anni perde il governo di
una Regione tradizionalmente legata alla sinistra come l’Um-
bria e corre il rischio di cedere anche in un’altra “roccaforte”
come l’Emilia Romagna2.
Allo stesso risultato portano anche le elezioni europee che
si tengono a maggio 2019 per eleggere i 73 parlamentari che
devono rappresentare l’Italia a Bruxelles. Il risultato delle
urne conferma la preferenza data al programma della Lega,

to dall’Associazione Scienza&Vita Firenze, 26 marzo 2018. Consultabile su


[www.vanthuanobservatory.org].
2
Nel momento in cui si scrive non si sono ancora tenute le consultazioni
in quest’ultima regione.

126
che si aggiudica il 34% dei voti staccando il Partito Democra-
tico al 22% e il Movimento 5 stelle, fermo al 17%.
Se il problema del rispetto del principio di sussidiarietà
si manifesta con così grande evidenza nei rapporti tra Stati
membri ed Europa, fino a generare veri e propri scontri tra
istituzioni come nel caso della gestione dell’immigrazione vi-
sto sopra, allo stesso modo in Italia tale richiamo ha già ini-
ziato a farsi vivo nel rapporto tra Regioni e Governo centrale:
il 22 ottobre 2017 si tengono in Lombardia e Veneto i referen-
dum consultivi per richiedere maggiori attribuzioni in diver-
se materie come previsto dall’art. 116 della Costituzione. En-
trambe le consultazioni danno come riscontro un esito pres-
soché plebiscitario a favore dell’ottenimento delle maggiori
attribuzioni con il 96% in Lombardia e del 98% in Veneto. Ad
onor del vero, i referendum hanno dato vita ad un negoziato
che si è protratto senza particolari entusiasmi e che ancora
oggi non è giunto ad alcun risultato concreto, nonostante la
presenza al Governo – fino alla crisi che si è consumata tra
agosto e settembre del 2019 – della Lega, che a livello locale
era la principale promotrice di tale iniziativa referendaria.
,Nel Paese c’è un notevole dibattito sui concetti di “sovra-
nismo” e di “populismo”. I sovranisti vengono accusati di
egoismo nazionale, dei populisti si dice che non fanno propo-
ste politiche ma accontentato il palato e le esigenze viscerali
degli elettori. In realtà le cose sono più articolate e sarebbe
auspicabile che il pensiero politico conducesse su questi ar-
gomenti una seria riflessione. I vertici della Chiesa italiana si
sono prevalentemente espressi contro le politiche cosiddette
sovraniste e populiste, conducendo spesso polemiche dirette
nei confronti del partito della Lega, specialmente durante il
primo governo Conte, quando a capo del ministero degli in-
terni c’era il segretario della Lega Matteo Salvini. Secondo
alcuni osservatori questa chiusura nei confronti dei cambia-
menti politici in atto nella destra ha allontanato la gerarchia
della Chiesa dal “sentire” politico di molti cattolici ed ha ri-
schiato di appiattire la posizione dei Vescovi italiani sui parti-

127
ti di sinistra che, nella precedente legislatura avevano prodot-
to in Parlamento leggi inaccettabili sulla famiglia. In questo
contesto si è anche verificato uno spostamento di accento del-
le gerarchie ecclesiali italiane sui temi dell’immigrazione e
dell’ecologia piuttosto che su quelli su vita e famiglia, posti in
secondo piano. Nell’ottobre 2019 una intervista del Cardinale
Camillo Ruini pubblicata sul “Corriere della Sera” ha fatto
pensare e discutere, avendo egli detto tra l’altro che la Chiesa
deve dialogare con Salvini e con il partito della Lega. Confi-
diamo che ciò possa rasserenare gli animi attorno alle parole
“sovranismo” e “populismo” e che per la Chiesa sia occasio-
ne per adoperare più accuratamente i principi della Dottrina
sociale della Chiesa, in grado di inquadrare nel modo dovuto
questi problemi.

128
Regno Unito*

I nodi dell’attualità: indipendenza, uscita dall’Unione


Europea e immigrazioni
Nel presente capitolo verranno descritti, in modo assoluta-
mente sintetico, i principali accadimenti avvenuti nel Regno
Unito riferibili al tema proposto dal presente Rapporto: “Po-
poli, nazioni e patrie”.

Indipendenza del Galles e della Scozia


Il 24 marzo 2018 il “Plaid Cymru” (partito indipendentista
gallese di centro-sinistra) ha annunciato, per voce di Adam
Price, le proprie linee programmatiche per il futuro: istituire
una compagnia aerea nazionale gallese, creare una rete ener-
getica nazionale, fondare una agenzia immobiliare nazionale
e permettere l’istruzione universitaria gratuita a tutti gli stu-
denti gallesi. Le proposte avanzate andrebbero nella direzio-
ne di chiedere, anche se non nell’immediato, un referendum
istituzionale per l’indipendenza del Galles. Il “Plaid Cymru”
(traducibile in “Partito del Galles”) rappresenta una forza
politica gallese fondata nel secolo scorso (1925) ma che sola-
mente dal 1966 ha dei propri rappresentanti nel Parlamento
britannico. Esso orienta la propria azione politica su due assi:
l’indipendentismo e l’europeismo. Da un lato quindi propone
forme di autogoverno che possano incentivare l’autonomia
gallese in modo sempre maggiore rispetto al governo centra-
le di Londra; allo stesso tempo però guarda con attenzione ai
fondi ottenuti dall’Unione Europea che sono stimabili in circa
700 milioni di sterline dal 2000 ad oggi.
Sempre nel 2018 è tornato all’attenzione della classe poli-
tica il tema dell’indipendenza della Scozia. Il 6 ottobre 2018

* A cura di Luca Pingani.

129
un lungo corteo ha sfilato per le vie di Edimburgo chiedendo
l’indipendenza della Scozia: è l’annuale marcia organizzata
da “All Under One Banner” per mantenere viva la sensibi-
lità della popolazione sul tema dell’indipendenza scozzese.
Se il numero dei partecipanti alla marcia può essere fonte di
discussioni (100 mila per gli organizzatori mentre le autori-
tà cittadine parlano di circa 20 mila) appare più evidente e
certo il distacco che si sta realizzando fra il governo centrale
di Londra e quello di Edimburgo: la Scozia, durante il refe-
rendum sulla Brexit, ha manifestato in modo chiaro la pro-
pria vocazione europeista e non è quindi a favore dell’uscita
dall’Unione Europea. Inoltre, nelle attuali trattive fra Bruxel-
les e Londra, ha continuato ad essere considerata come un
tema poco più che marginale. Non stupisce quindi la richiesta
di un nuovo referendum di indipendenza alla luce dei risul-
tati di quello tenutosi nel 2014: 44.70 per cento i contrari, con
una percentuale di votanti, rispetto agli aventi diritto, pari all’
84 per cento.

Brexit
Per il terzo anno consecutivo il tema della “Brexit” trova
spazio nel capitolo di questo Rapporto dedicato al Regno Uni-
to. Nel 2018 l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea,
così come definito dal referendum popolare che si tenne nel
2016, è risultata essere tutt’altro che conclusa. Procedendo
con la dovuta sintesi è possibile indentificare due eventi prin-
cipali fra tutte le azioni politiche che hanno accompagnato
il processo della Brexit: l’approvazione da parte del Gover-
no del Regno Unito del White Paper “The future relationship
between the United Kingdom and the European Union” e la
pubblicazione e accettazione da parte dei restanti 27 Paesi eu-
ropei del documento “The draft Agreement on the Withdra-
wal of the United Kingdom from the European Union”.

130
Il 6 luglio 2018 il primo ministro inglese Theresa May ha
ottenuto dal suo gabinetto l’approvazione per trattare con
l’Unione Europea una Brexit “leggera” che avrebbe portato
alla creazione di una nuova area di libero scambio tra Regno
Unito ed Unione Europea, un nuovo sistema di mobilità per
i cittadini e la fine della giurisdizione della Corte di giustizia
europea sul suolo di Sua Maestà. Questi punti sono descritti
nel documento “The future relationship between the United
Kingdom and the European Union” che verrà poi ribattezzato
“Chequers agreement”. L’accoglienza di questo documento
da parte dei leader europei è stata decisamente fredda: Do-
nald Tusk (Presidente del Consiglio Europeo) lo definì come
un primo passo nella giusta direzione, ma numerose proble-
matiche continuavano ad essere ancora aperte, soprattutto in
merito al libero mercato. Le istituzioni europee, infatti, teme-
vano che permettere la libera circolazione di persone, merci,
servizi e capitali sarebbe potuto diventare un allettante pre-
cedente per altri Paesi decisi a seguire la strada intrapresa
dal Regno Unito.
Se per la May le cose non sono andate bene in Europa è ne-
cessario ammettere che in casa sua sono andate decisamente
peggio. La pubblicazione della proposta di accordo ha portato
ad una serie di dimissioni da parte di elementi di spicco del
panorama politico del Regno Unito: David Davis, Steve Ba-
ker (rispettivamente Segretario e Sottosegretario di Stato per
l’uscita dall’Unione Europea) e Boris Johnson (Segretario di
Stato per gli Affari esteri e del Commonwealth). In particola-
re, quest’ultimo ha tenuto un discorso particolarmente critico
nei confronti di Theresa May, attribuendole la responsabilità
di avere portato lo stato della contrattazione in “a fog of self-
doubt” (una nebbia di mancanza di fiducia in se stessi).
Le trattative sono proseguite fino al 14 novembre dello
stesso anno, quando i 27 Paesi dell’Unione Europea e il gover-
no del Regno Unito (rappresentato sempre da Theresa May)
hanno definito un piano di uscita descritto nel testo “The
draft Agreement on the Withdrawal of the United Kingdom

131
from the European Union”. Anche questo documento avrà
però vita breve: già il giorno successivo alla sua presentazio-
ne, il Segretario di Stato per l’uscita dall’Unione Europea, Do-
minic Raab, ha annunciato le proprie dimissioni, accusando
Theresa May di avere tradito la “public trust” (fiducia pub-
blica) mentre il 30 novembre si è dimesso il Ministro dell’U-
niversità, Scienza, Ricerca e Innovazione (Sam Gyimah). Il
Primo Ministro ha preso atto delle difficoltà connesse all’ap-
provazione del documento e il 10 dicembre il governo decide
di ritardare il voto parlamentare posticipandolo al 21 gennaio
dell’anno successivo. Il 2018 si conclude quindi con un nulla
di fatto e una leadership, quella di Theresa May, sempre più
in discussione.

La crisi dei migranti che attraversano il canale della


Manica
Nel 2018 è esplosa quella che è stata definita la crisi dei
migranti del canale della Manica. I numeri possono sembrare
decisamente ridotti rispetto a quelli di altri Paesi (si stima
che in circa tre mesi a partire dal novembre 2018 abbiano at-
traversato il canale circa 450 persone) tuttavia non deve stu-
pire il clamore mediatico e l’interesse politico che il flusso
migratorio ha suscitato.
Il termine crisi, viste anche le reali dimensioni del feno-
meno, è stato perlopiù utilizzato da giornali e politici che so-
stengono politiche anti-immigrazione e che hanno visto in
questi accadimenti un possibile sostegno alle proprie idee e
ad una uscita veloce dalla Unione Europea. Toni molto più
pacati e realistici sono invece stati utilizzati dal Segretario di
Stato per gli affari interni, Sajid Javid, che ha preferito par-
lare di “major incident” mentre Stephen Daisley, editoriali-
sta dello Spectator, ha preferito parlare di una “piccola crisi”
legata non tanto ai migranti quanto piuttosto alla difficoltà
del Regno Unito di monitorare i propri confini. Cercando di

132
analizzare il fenomeno migratorio, emerge un quadro deci-
samente chiaro in cui è possibile definire le cause e valutare
i contesti che ne hanno permesso la realizzazione. La quasi
totalità della popolazione migrante è di giovane età e di ori-
gine iraniana. Nonostante in quel Paese non vi sia tutt’ora
in corso una guerra e non vi siano condizioni di carestia o di
emergenza sanitaria, può essere realistico pensare che il go-
verno teocratico islamico reggente possa condizionare pesan-
temente le possibilità di realizzazione delle ambizioni delle
fasce più giovani e povere della popolazione. Questo flusso
migratorio è caratterizzato da modalità diverse da quelle pre-
cedenti: i maggiori controlli di frontiera dei veicoli a gomma
hanno portato i migranti ad optare per l’utilizzo della via del
mare attraverso gommoni o imbarcazioni non sempre adatte
a questo scopo. Inoltre, sempre ipotizzando, è realistico cre-
dere che l’incremento del flusso migratorio, perlopiù da parte
di giovani iraniani, sia stato reso possibile anche grazie alle
politiche adottate dalla Serbia che nel 2018 ha optato per la
liberalizzazione dei visti ai cittadini iraniani.

133
Ungheria*

Bisogna essere nazione oltre che società


Le elezioni europee ungheresi del 26 maggio 2019 hanno
attribuito al partito di governo Fidesz un consenso che sfiora
il 53 per cento. Viktor Oraban, leader del partito e capo del
governo, consolidato il suo successo, ha più volte dichiarato
di fare riferimento ad una «democrazia fondata sul cristiane-
simo, chiamata illiberale». Una cosa che «non significa neces-
sariamente che sia anti-liberale. Una distinzione importante
questa. Oggi sono i democratici i veri nemici della libertà. Es-
sendo io un sostenitore della libertà devo essere illiberale»1.
Per il leader magiaro, di famiglia calvinista, il riferimento
al cristianesimo è ricorrente e il suo discorso ha una porta-
ta che travalica gli stretti interessi ungheresi e tocca il tema
dell’identità, della sovranità e della sopravvivenza del concet-
to di nazione. Il ruolo della religione, chiamata in causa da
Orban, è stato oggetto di attenzione da parte di un eminente
storico del liberalismo, il prof. Pierre Manent il quale scrive:
«dobbiamo imparare di nuovo a parlare politicamente della
religione»2. Secondo lo studioso, in gioco c’è l’idea stessa
di democrazia rappresentativa che è «governo di se stessi
[…] per essere rappresentati occorre prima essere. Per esse-
re veramente bisogna esistere secondo una condizione indi-
pendente dalla rappresentanza»3. Tale condizione sarebbe
quella di essere rappresentabili, e un popolo lo è se è nazione,
oltre che società. Orban, e con lui molti ungheresi, sembra
avere afferrato il bandolo della matassa dei problemi dell’U-
nione Europea, dei suoi limiti che sono quelli dell’ideologa

* A cura di Paolo Piro.


1
Intervista a «La Stampa», 01/05/2019.
2
P. Manent, In difesa della nazione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008,
p. 42.
3
Ibidem, p. 33.

134
progressista professata da Bruxelles. L’Unione si vanta di
avere perfezionato il commercio e la comunicazione, niente
più frontiere, niente più dazi, comunicazioni e spostamenti
più veloci ed economici. Un perfezionamento che sembra es-
sere alquanto deficitario sul piano dei risultati sociopolitici,
non solo per le cifre non esaltanti dello sviluppo economico
del meridione d’Europa, ma soprattutto per lo stato di preca-
rietà e di stallo nel quale versa il processo unitario. Insomma,
il mercato e la comunicazione non producono “comunità”,
anzi, sembra che la deprimano mettendo in crisi l’esito finale,
la nazione. Una erosione che intacca lo Stato nazionale che fu
per l’Europa moderna ciò che la polis fu per la Grecia antica.
Lo Stato è sempre meno sovrano, mentre governi e parlamen-
ti sono sempre meno rappresentativi. Sarà per questo che su
La Stampa di Torino lo scorso 1° maggio, Orban ha affermano
«tutta Budapest è stata bombardata ma l’abbiamo ricostrui-
ta». Il senso di patria è il biglietto da visita dell’Ungheria che
non crede in una patria senza nazione.
Per questo motivo il tema dell’inverno demografico sta
al centro dell’agenda politico-economica del paese magiaro
«in tutta Europa ci sono sempre meno nascite. Per i Paesi
occidentali la risorsa sta nell’immigrazione, nel fare arrivare
persone per pareggiare i conti; per noi la migrazione signi-
fica arrendersi e la pensiamo diversamente: non vogliamo
soltanto numeri, vogliamo bambini ungheresi»4, ha decla-
mato Orban in un discorso al parlamento. Le autorità ma-
giare hanno varato un progetto in cui le donne con almeno
quattro figli non pagheranno più l’imposta sul reddito insie-
me ad una nutrita serie di misure pro-famiglia5. «Mentre si
allunga la vita dell’uomo, si accorcia la vita del popolo. Che

4
E. Palazzini, “Fate figli per la patria”: Orban lancia piano straordina-
rio per la natalità, «Il Primato Nazionale», 11/02/2019.
5
Cfr. Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân sulla Dot-
trina sociale della Chiesa, Islam: un problema politico, X Rapporto sul-
la Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo, Cantagalli, Siena 2018, capitolo
sull’Ungheria. pp. 115-121.

135
straordinario fenomeno umano! Tanto che quest’ultimo in-
vecchia e va verso la morte velocemente, anche più veloce-
mente dell’individuo»6. Un popolo di anziani muore prima
degli anziani stessi e l’Ungheria, pare, non voglia soccombere
a un destino che la UE invece sponsorizza insieme a Papa
Francesco il quale, con “semplicità” gesuitica, afferma «mi
hanno raccontato che in un Paese europeo ci sono cittadine
semivuote a causa del calo demografico, si potrebbero trasfe-
rire lì alcune comunità di migranti, che tra l’altro sarebbero
in grado di riavviare l’economia della zona»7.
L’Ungheria, che conserva la propria moneta, il Fiorino,
ha un tasso di sviluppo del 3-4 per cento annuo, un debito
pubblico al 73 per cento in progressivo calo, un salario medio
orario di 9,1 euro l’ora in ascesa, un prodotto lordo pro capite
di 28mila euro ed un tasso di natalità a 1,45. Dire Ungheria è
dire “gruppo di Visegrad”, 64 milioni di cittadini europei sui
quali incombono le critiche della UE con le relative procedure
a proposito di “violazione dei valori fondamentali della UE”,
in base all’art 7 del Trattato. Nonostante questo, Budapest ri-
ceve dalla UE più di quanto dà, con uno sbilancio a suo favore
di 3.1 miliardi di euro. Insomma Maastricht sembra non voler
lasciare Orban, pur costatandolo, così come Orban non lascia
né il PPE né l’Unione stessa.
Le reiterate accuse di attentato alle libertà democratiche
fanno riferimento a provvedimenti legislativi sulla riforma
del sistema giudiziario, sulle nomine, le promozioni e gli sti-
pendi dei magistrati e sulla riforma della scuola. A questo
proposito Budapest ha fatto una scelta coraggiosa, avocando
a se il disegno dell’impianto culturale della scuola unghere-
se. Solo il Centro Statale dello Sviluppo dell’Istruzione (Ofi)
può pubblicare libri scolastici. L’Ofi, baluardo per l’educazio-
ne del cittadino ungherese del futuro, punta al ripristino del

6
P. Manent, In difesa della nazione, cit.
7
Intervista a Papa Francesco comparsa su cinque dei sei quotidiani del
gruppo editoriale de La Repubblica, «La Stampa», 08/08/2019, p. 3.

136
valore della patria e della religione nonché ad affrontare temi
come il multiculturalismo, l’immigrazione, il senso dell’iden-
tità culturale nazionale con un taglio alternativo al mainstre-
am progressista-globalista. Budapest ha lanciato una vera e
propria sfida culturale giudicata da Bruxelles come illiberale
ed antidemocratica semplicemente perché alternativa al po-
liticamente corretto che informa il progressismo dell’Unione.
Nonostante le critiche provenienti dalla UE, l’Ungheria
sembra continuare per la sua strada, e, mentre pone in es-
sere, indipendenti atti di politica estera come l’apertura di
un ufficio con funzioni diplomatiche e commerciali a Geru-
salemme, anche se l’ambasciata resta a Tel Aviv, attiva una
vera e propria guerra contro istituzioni come la CEU – Central
European University, di George Soros. L’Ungheria è segno di
contraddizione, il giornale tedesco Zeit racconta un Paese in
declino politico, morale ed economico, sempre più diviso e
meno democratico, con una libertà di stampa in grande pe-
ricolo e le libertà civili delle comunità LGBTQ e dell’univer-
sità, come la CEU, messe in seria discussione. La lotta con-
tro la CEU è emblematica dello sforzo identitario ungherese,
della volontà di contrastare i progetti panculturalisti, le infil-
trazioni della cultura gender e del pensiero unico. Anche la
Coca Cola fa la guerra a Orban. Per pubblicizzare il festival
rock che si tiene ogni estate sull’isola danubiana di Margit
Szigel – quest’anno sarà il 22 agosto e sarà intitolato “love
revolution” –, la multinazionale ha pensato bene di lanciare
una campagna pubblicitaria pro LGBT a colpi di manifesti
giganti con foto di coppie gay con lo slogan “zero zuccheri,
zero pregiudizi”. Le contestazioni dei vertici istituzionali del
governo ungherese hanno subito innescato reazioni indigna-
te della multinazionale che Budapest di omofobia, razzismo…
e quant’altro.
Le parole d’ordine dell’Ungheria che vuole conservare so-
vranità e identità sono: “Iste, Haza, Csalad”, Dio, Patria, Fa-
miglia. Per Orban la patria non è un’astrazione, ma la realtà
molto concreta di un territorio, un popolo, una cultura e una

137
storia con cui identificarsi. Un oggetto d’amore condiviso nei
secoli con chi ti ha preceduto, nel nome del quale si pone
mano ad opere che si proiettano verso le generazioni future,
che sono patrimonio di una realtà che supera il frammento
temporale dell’oggi. Senza il senso di patria l’uomo politico
lavorerà per la prossima elezione, difficilmente per la pros-
sima generazione, con la quale non vede relazione alcuna. Il
progetto dell’Ungheria di oggi si situa in questo alveo, una
visione di popolo che si riconosce come nazione proiettata nel
futuro, un progetto che, necessariamente richiama l’esigenza
di riguadagnare sovranità: «la capacità di un corpo politico
di stabilire come stare nel mondo e nella storia, come rap-
portarsi con l’ambiente esterno, come riconoscere di interes-
si permanenti di uno Stato. …. Sovranità come volontà della
nazione non è necessariamente nazionalismo, è autonomia di
quella volontà, anche la più pacifica e dialogante; e la sovrani-
tà come creazione della distinzione tra interno ed esterno non
è necessariamente xenofobia, ma è volontà di delimitare uno
spazio su cui il soggetto politico collettivo abbia diretto potere
e responsabilità»8.
Non è un caso che a Budapest dal 1993 sia stato istituito
il memento park, uno spazio nel quale si trovano cimeli di
tutti i tipi, statue, coccarde, riproduzioni marmoree, placche,
statue di Stalin, cartoline di Breznev, spille sovietiche ed an-
ticaglie del governo filonazista delle Frecce Ferrate, tutto per
ricordare che l’oppressione hitleriana e il regime comunista
sono state la mortificazione della sovranità ungherese che va
riconquistata e tenuta stretta. Sovranità nazionale alla quale
oggi attenta il liberismo economico, per questo l’Ungheria ha
conservato la propria moneta, il Fiorino. Il liberismo preten-
de di relativizzare l’esercizio delle sovranità attraverso la li-
bertà del commercio e dello scambio, imponendo alla politica
l’impero dell’utile e del profitto, ingabbiando gli Stati nelle
maglie dell’interdipendenza. Il Fiorino consente, a Budapest,

8
C. Galli, Apologia della sovranità, «Limes», 3 (2019), p. 161.

138
una relativa padronanza di scelte ed una navigazione più spe-
dita nella “economia della crisi” che vive l’Europa, ridimen-
sionando l’influenza che il liberismo economico globalizzante
ha sulla politica interna di molti Paesi.
Si discute se le idee di Orban siano frutto di una visione e
riflessione intellettuale o soltanto una invenzione strategica,
una prassi di marketing politico9. Fatto sta che «il premier
ungherese considera l’attuale continente, al netto delle sue
diversità interne, una koinè storico-culturale basata sull’ere-
dità giudaico cristiana»10 ed è a partire da tale visione che
muoverebbe le sue scelte politiche interne ed europee. Sba-
glia in toto, oppure è in malafede, chi vede nell’Ungheria e
nel gruppo di Visegrad, un pericoloso sbilanciamento euro-
peo verso la Russia di Putin. Non si può dimenticare che del
gruppo fa parte la Polonia, ma soprattutto quanto la sovranità
di quelle nazioni sia stata mortificata nel XX secolo dai nazi-
sti e dai comunisti.
Osservando il procedere dell’Ungheria, sembra proprio
che il Paese di Santo Stefano condivida l’affermazione di
Pierre Manent, «per essere rappresentati occorre essere rap-
presentabili», e per realizzare questo è indispensabile che un
popolo sia Nazione. Viktor Orban lo ha capito, e gli ungheresi
non gliene fanno una colpa…. Anzi.

9
Per meglio delineare il profilo del leader ungherese, la rivista «Limes»
riporta un curioso aneddoto secondo cui Orban avrebbe incontrato privata-
mente lo storico Yuval Noah Harari, incuriosito dalla lettura di un suo libro
“Homo Deus. Breve storia del futuro”. Harari, storico ed intellettuale rite-
nuto un influencer di calibro globale è un personaggio dai riferimenti ideali
totalmente antitetici a quelli del leader ungherese.
10
S. Bottoni, L’antieuropeo in nome dell’Europa: Orban non è un clone
di Putin, «Limes», 12 (2017), p. 211.

139
Balcani*

I popoli balcanici tra globalismo occidentale e univer-


salismo islamico
I Balcani hanno da sempre fatto da palcoscenico ai grandi
eventi che hanno segnato la storia del continente europeo. La
loro importanza è dettata fondamentalmente dalla posizione
strategica di ponte fra l’Europa e la Russia, nonché fra l’Euro-
pa, Turchia e Medio Oriente, determinando per secoli l’area
come un vero e proprio centro nevralgico della storia europea
e di scontro fra potenze di ogni continente.
La definizione politica di Balcani venne in uso nel XIX se-
colo per designare i Paesi europei interessati dall’espansione
e dalla successiva dissoluzione dell’Impero Ottomano. Le ca-
ratteristiche del territorio, solcato da catene montuose paral-
lele che ostacolarono il movimento in direzione nord-sud, una
colonizzazione uniforme già ai tempi dell’espansione greco-
romana, e la sua stessa collocazione geografica contribuisco-
no a spiegare le tormentate vicende storiche che hanno carat-
terizzato la penisola. Superati gli strascichi del conflitto che
hanno condotto alla dissoluzione della Jugoslavia, la Serbia
ha intrapreso un processo di rinnovamento strutturale basato
su riforme politiche ed istituzionali per garantire maggiore
impulso allo sviluppo economico. Lo stato multietnico, la Yu-
goslavia, sorto nelle zona balcanica doveva racchiudere in sé
tutte le caratteristiche di uno Stato nazionale forte che però
divenne il prototipo di un esperimento nel quale si doveva-
no bilanciare le pulsioni nazionalistiche delle varie compo-
nenti etniche con il potere centrale incarnato dalla dinastia
Karađorđević. L’uomo forte e autoritario incarnato nella per-
sona del re Aleksandar Karađrorđevć prima e da Josip Broz
Tito poi, non fece altro che smorzare e bloccare tutte le con-

* A cura di Pierluigi Bianchi Cagliesi.

140
traddizioni etniche e religiose presenti nel Paese, contraddi-
zioni che regolarmente scoppiarono in due occasioni stori-
che: nel 1941, nell’attacco nazifascista al regno di Yugoslavia,
e nel 1991 con la disgregazione della Yugoslavia. L’avvento
di regimi autoritari o dittatoriali nell’area finì per avere una
funzione di tappo di una pentola a pressione. Crollato il re-
gime autoritario scoppiarono tutte le contraddizioni etniche
e religiose a lungo sopite. Ciò portò, nel recente passato, a
cruenti scontri etnico-religiosi che insanguinarono in partico-
lare i territori della ex Yugoslavia. Ancora una volta il Balcani
diventarono preda delle dispute tra le potenze di turno.
Per quanto concerne l’Unione Europea, è stato da tempo
avviato un dialogo politico con i Paesi dei Balcani occidentali,
finalizzato al rafforzamento della partnership, a beneficio di
una possibile adesione all’UE. L’interessamento di Bruxelles
contribuisce al rafforzamento di un equilibrio geopolitico, at-
traverso la ricerca di una maggiore sicurezza regionale e il
contrasto alla criminalità organizzata internazionale finaliz-
zata prevalentemente al traffico di droga e di esseri umani.
Particolare attenzione suscita la questione energetica, lega-
ta all’estrazione di petrolio e gas e al loro transito dall’Asia
all’Europa. Gli Stati Uniti osservano la regione con interesse
per necessità geostrategiche, tese ad ottenere il controllo di
territori di religione islamica, anche se tale interesse è an-
dato man mano affievolendosi in linea con la politica este-
ra della passata amministrazione Obama. La Russia, forte
dell’influenza esercitata fino agli anni 90 nella regione, au-
spica di potersi riaffacciare in Europa, attraverso i Balcani,
utilizzando lo strumento delle risorse energetiche e dei flussi
commerciali che provengono dall’oriente. Turchia, Germania
e Italia stanno cercando di svolgere un’opera di proselitismo
commerciale, ritenendo i Balcani un mercato in espansione.
La penisola balcanica potrebbe ancora una volta innescare
una detonazione a catena in Europa, eventualità da evitare a
tutti i costi per non ricadere nei bagni di sangue del passato
che hanno già travolto il continente europeo.

141
In questo grande interrogativo geografico che va da Lubja-
na a Sofia, tutti gli attori della politica mondiale contempora-
nea, continuano a tessere le loro trame, cercando di annettere
i Balcani nella propria sfera di influenza. Anche l’Europa di-
scute su come riuscire ad inglobare la regione balcanica nel-
la sua sfera di influenza, rimettendo al centro della propria
agenda la questione dell’europeizzazione dei Balcani, cercan-
do di far entrare, uno dopo l’altro, gli Stati della regione nel
grande contenitore di Bruxelles. Un compito arduo in quanto
l’Europa non deve fare i conti solo con le multiformi realtà
religiose, ma anche con il mondo multipolare di cui i Balcani
sono una rappresentazione vivente. L’Osservatorio sui Bal-
cani nota al riguardo che «nell’intera area rimane piuttosto
consistente e decisivo l’aiuto economico esterno. Paesi come
la Serbia, la Bosnia, la Macedonia, l’Albania, solo per citare i
più significativi in questo contesto, soffrono della persistente
assenza di una stabilizzazione economica e della possibilità
di sviluppo di un mercato interno. Il recente accordo dei mi-
nistri degli esteri della regione sulla creazione di una zona di
libero mercato prosegue in parallelo con la ancor lenta abo-
lizione dei visti interni. Condizioni che consentirebbero una
maggiore libertà di movimento per gli oltre 50 milioni di citta-
dini dell’area. Cifra questa che rappresenta pure un interesse
economico per i Paesi dell’UE».

Parte dai Balcani la strategia anglosassone per


circondare la Russia
Come molti hanno compreso, la strategia di accerchiamen-
to della Russia, attuata dalle Amministrazioni USA ed acce-
lerata dal gruppo di potere neocon presente a Washington, si
basa sulla penetrazione nelle aree limitrofe della Federazio-
ne Russa, la zona di sicurezza della Russia, per sottrarne il
controllo a Mosca e creare delle enclave filo occidentali che

142
determinino situazioni di contrasto nelle aree sensibili di in-
fluenza russa.
Questo riguarda Paesi come l’Ucraina, la Georgia, la Bie-
lorussia, i Paesi baltici, l’Asia centrale e l’Europa orientale, in
particolare la Bulgaria, la Polonia e la Romania, includendo
l’importante zona dei Balcani da cui si è innescata la miccia
che ha portato alla prima guerra mondiale.
Osserva il giornalista e scrittore Luciano Lago che: «non si
tratta di una strategia nuova ma, se si studia con attenzione la
storia, fin dai tempi dell’Impero Britannico, gli anglosassoni
cercarono in ogni modo di contrastare la forte influenza rus-
sa nei Balcani che veniva esercitata tramite quelli che allo-
ra la Russia aveva come correligionari sotto forma di Serbia,
Bulgaria e Grecia nella penisola balcanica. Consideriamo che
in quell’epoca, siamo a cavallo del XIX e XX secolo, Impe-
ro Russo degli Zar aveva esteso la sua influenza in una area
molto vasta fra i Balcani e l’Eurasia che era oggetto di forte
interesse anche dagli anglosassoni. Furono gli antefatti del
primo conflitto mondiale che oggi, nei corsi e ricorsi della sto-
ria, ritornano di attualità. Con l’attuale predominio dell’Impe-
rialismo USA, gli anglosassoni sono ricorsi all’Islam radicale
ed ai gruppi salafiti che sono manovrati abitualmente dagli
Stati Uniti e dalla Gran Bretagna e vengono utilizzati in modo
che si oppongano nel mondo ai loro concorrenti geopolitici,
vuoi la Russia, vuoi l’Iran. Il fattore musulmano ha sempre
avuto un’ampia base sociale nei Balcani, originato dalle inva-
sioni ottomane e radicatosi poi nei decenni successivi grazie
ad un alto indice demografico. Il centro dell’Islam radicale in
Europa si trova nel Kosovo, uno Stato artificiale voluto dagli
anglosassoni, nato grazie all’operazione della NATO nella ex
Yugoslavia nel 1999, ed è uno Stato che, posto nel centro dei
Balcani, è intrecciato con il fulcro del terrorismo e del traffico
di droga e che rappresenta uno fra gli strumenti più impor-
tanti della politica occidentale. Non a caso si trova in Kosovo
la più grande base USA, “Camp Bondsteel”, da dove si diri-

143
gono molte delle operazioni occulte dei servizi di intelligence
USA.
Il tutto avviene sotto la copertura della NATO che ha il
presidio territoriale e che cerca di assorbire tutti i Paesi del-
la regione, inclusa la Macedonia e la Serbia. L’adesione di
quest’ultima alla NATO è ostacolata dal contenzioso territo-
riale con il Kosovo. L’Occidente impone uno scambio di ter-
ritori: la Serbia deve accettare la perdita del Kosovo, ma po-
trebbe ottenere altri territori in cambio. Tuttavia i nazionalisti
serbi filo russi si oppongono fermamente a questo scambio.

Un Califfato nei Balcani?


Il fallimento nella realizzazione del califfato radicale isla-
mico in Siria ha costretto gli anglosassoni a raggruppare le
loro forze. Alcuni di questi gruppi jihadisti sono stati trasferi-
ti in Asia centrale, e un’altra parte è stata collocata, in attesa
di ordini, nell’area dei Balcani. L’obiettivo è lo stesso di sem-
pre, il nemico geopolitico numero uno, la Russia, che viene
attaccato da direzioni convergenti.
La costituzione di un Califfato salafita nei Balcani è un
nuovo obiettivo strategico della strategia USA: dovrà costi-
tuirsi (prevedono gli esperti) entro la metà del nuovo secolo.
Ora ci sono processi di costruzione di strutture portanti di
questo califfato. Tra 10-15 anni si formerà il nucleo, i cui con-
fini sono delineati dall’habitat della popolazione che pratica
l’Islam. Si tratta dell’Albania (56,7% di musulmani), Bulgaria,
Grecia, Macedonia (33,3%), Bosnia-Erzegovina (40%), Mon-
tenegro (19%), Kosovo (96,9%). La presenza di popolazione
mussulmana è in forte aumento ed è dovuta sia all’alto tas-
so di natalità sia all’apporto delle ondate migratorie e questa
presenza è destinata a cambiare a medio termine il panorama
demografico di tutti questi Paesi. Questa presenza sarà un
focolaio dell’islam radicale, che opera attraverso il terrorismo
nel ventre sud-orientale dell’Europa. Superfluo domandarsi

144
chi andrà a beneficiare. La risposta è così ovvia che non vale
la pena parlarne, visto che trattasi delle stesse centrali che
sospingono le migrazioni e le destabilizzazioni di Paesi del
Medio Oriente e del Nord Africa. Guerre, rivoluzioni colorate
e migrazioni, sono fenomeni intimamente collegati.
Nella regione del futuro Califfato, già 6 milioni di persone
sostengono l’Islam wahabita/salafita, con la diffusione della
predicazione degli iman di provenienza saudita. Sono state
create cellule di combattenti già attivi, ci sono campi di ad-
destramento per i miliziani arruolati. I servizi di intelligence
serbi e austriaci ne hanno individuate 46 in Bosnia ed Erzego-
vina, 10 in Albania e Kosovo, il Kosovo è al primo posto come
numero di jihadisti, l’Albania è al secondo posto, la Bosnia
ed Erzegovina è al quarto. Allo stesso tempo, il movimento
in questa zona è diventato più attivo – il flusso di radicali, in
partenza e in arrivo nei Paesi della regione, si è intensificato.
L’indebolimento della Serbia e il rafforzamento di Albania
e Croazia ha determinato un cambiamento degli equilibri di
potere e questo significa esercitare pressioni sulla Russia dai
Balcani. Questo è l’obiettivo principale dell’intera strategia
balcanica degli anglo USA e della NATO.
Un altro obiettivo degli anglosassoni è di sottrarre i Paesi
balcanici all’influenza culturale, economica e politica della
Russia, con la non celata finalità di mantenere un alto grado
di conflitto permanente nell’area che rappresenta l’incrocio
di tre civiltà. Gestire le forze di questo conflitto offre l’oppor-
tunità di influenzare il mondo dell’Islam, dell’Europa e della
Russia. Era tutto previsto nella strategia disegnata dallo stra-
tega ebreo americano, Zbigniew Brzezinski, e da lui descritta
nel suo libro La Grande Scacchiera. Esattamente a quella si
stanno attenendo le amministrazioni USA, da Bush a Obama
e, adesso, a Trump.
Molti analisti ritengono che il conflitto aperto inizierà
quando, una volta realizzato il Califfato dei Balcani, questo
tenterà di spingersi verso il Caucaso.

145
La Bosnia Erzegovina rimane un’area instabile ed
estremamente pericolosa
La situazione più pericolosa riguarda la Bosnia, dove i
servizi di sicurezza stimano che siano tremila i radicali isla-
mici pronti a entrare in azione in tutta Europa. La Bosnia-
Erzegovina è stato il primo Paese balcanico ad assistere ad
una forte penetrazione, a causa della guerra e della necessità
dei musulmani bosniaci di finanziamenti e armi. Il coinvolgi-
mento nella guerra bosniaca tra il 1992 e il 1995, di combat-
tenti integralisti islamici ha dato il via al forte radicalismo
islamico. Il seme di una strumentalizzazione dell’Islam in
chiave politica risale agli anni ’30 quando sorse il movimento
dei “Giovani Musulmani”, il cui obiettivo era la grande na-
zione musulmana nei Balcani. Del movimento faceva parte
anche Alija Izetbegovic, divenuto Presidente della Bosnia a
cavallo della lotta per l’indipendenza negli anni 1992/1996.
Era quindi fatale che questa lotta finisse per essere condot-
ta con l’ausilio di volontari islamici, i cosiddetti “Mudzahid”
(quelli che in Medio Oriente si chiamano “Mujaheddin” ov-
vero “Combattenti per la guerra santa”). Le stime relative a
kosovari, albanesi, macedoni e bosniaci che si sono uniti ai
gruppi radicali in Siria ed Iraq sono in costante crescita. Dalla
guerra nei Balcani, alcuni movimenti islamisti nei Paesi dei
Balcani occidentali hanno realizzato una infrastruttura capil-
lare, sofisticata, composta da rifugi sicuri in villaggi isolati
e nelle moschee controllate da imam radicali. Ma anche da
mezzi elettronici e di stampa online, che propagano notizie da
vari fronti del jihad e propaganda politica. Gli eventi occorsi
hanno fatto sì che l’attenzione della comunità internazionale,
attraverso le sue organizzazioni principali, fosse rivolta prima
in Bosnia e successivamente in Kosovo, dove tuttora la NATO
è impegnata con la missione KFOR. La Bosnia Erzegovina è
ancora coinvolta nel processo di normalizzazione post-bellico,
iniziato con gli Accordi di Dayton del 1995. I rapporti istitu-
zionali con la Serbia registrano cauti miglioramenti: dal 2013

146
le rispettive autorità hanno lanciato segnali di apertura che
lasciano intravedere la volontà di distensione nelle relazio-
ni internazionali, il desiderio di maggiore stabilità nell’area
e un incremento degli scambi commerciali con il correlato
miglioramento del benessere delle popolazioni. Il contrasto
al terrorismo internazionale di matrice islamica rappresenta
una ulteriore sfida che le autorità di Sarajevo stanno affron-
tando; quest’attività è resa più complessa dalla multietnicità
e dal pluralismo religioso del Paese, che lo rendono partico-
larmente vulnerabile ad infiltrazioni di tipo terroristiche. Un
numero stimato tra 200 e 300 combattenti occidentali in Siria
(foreign fighters) sono di origine bosniaca e stanno facendo
progressivamente rientro dopo aver combattuto tra le fila del
cosiddetto Stato Islamico. In ambito europeo, la Bosnia Er-
zegovina ha sottoscritto nel 2008 l’Accordo di Associazione e
Stabilizzazione (ASA), primo passo del processo di adesione
alla UE, ma, di fatto, non ha ancora implementato alcuna mi-
sura volta a soddisfare le condizioni imposte.

Il Kosovo e la sua pericolosa instabilità


La minaccia alla sicurezza del Kosovo non è legata soltan-
to al ritorno in patria dei volontari islamici dal Medio Oriente,
ma anche alla propaganda jihadista ed al suo impatto sulla
popolazione giovanile locale. Non ci riferiamo solo ad un peri-
colo esterno, ma anche ad un serio rischio all’interno del ter-
ritorio interno kosovaro. Molte associazioni sono state chiuse,
molti imam sono stati arrestati. Tuttavia, la penetrazione del
credo wahabita nel Paese è tale che un’efficace operazione
di controllo rimane alquanto difficile. Il timore è che, nono-
stante la disfatta dell’ISIS, la radicalizzazione della società
abbia oramai raggiunto livelli di guardia. Organizzazioni ed
associazioni caritatevoli saudite hanno aperto ospedali, dato
assistenza alle famiglie, aperto oltre 100 scuole coraniche fi-
nanziate da Riyadh, messo in piedi almeno 250 moschee di

147
ispirazione wahabita, mettendo al libro paga della locale am-
basciata saudita almeno 140 predicatori. Il potere di convin-
cimento dei soldi ha fatto il resto. Se non bastasse, la pro-
paganda dell’ISIS ha più volte fatto cenno al Kosovo come
obiettivo dell’espansione del califfato. Circola la voce che nel
Paese esistano dei campi di addestramento per jihadisti dove
i potenziali volontari islamici riceverebbero un addestramen-
to militare dai quadri della forza paramilitare dell’UCK (Eser-
cito di Liberazione del Kosovo) che aveva combattuto contro
la Serbia per l’indipendenza del Kosovo. Benché dichiarata
organizzazione terroristica e ufficialmente disciolta, le gesta
di questa formazione godono ancora di molto seguito nell’o-
pinione pubblica locale. E per il semplice fatto che la guerra
contro Belgrado aveva assunto una connotazione religiosa,
adesso l’UCK trova dei punti di contatto con l’estremismo
islamico. Quindi il movimento, iniziato con caratteristiche
nazionalistiche, nelle sue convulsioni talvolta anche crimi-
nali si è adesso riproposto in chiave religiosa. Nelle carceri
kosovare, inoltre, il fenomeno della radicalizzazione islami-
ca sembra abbia assunto dimensioni rilevanti. Gioca a favore
dell’espansione del credo salafita e dell’estremismo islamico
anche il fatto che, a fronte dei soldi elargiti dalle associazioni
caritatevoli islamiche saudite, il Paese si confronta con gros-
si problemi economici e di disoccupazione. E questo spinge
soprattutto i giovani a trovare attraente un certo approccio
religioso.
Il Kosovo, pur non avendo avuto sinora alcun attentato sul
proprio territorio ha approvato una legislazione antiterrori-
smo molto efficace, ricevendo contributi finanziari e sostegno
addestrativo dagli USA. La presenza di un contingente NATO
sul proprio territorio (presenza giustificata dalla mancata re-
alizzazione di un accordo con la Serbia sulla minoranza serba
nel nord del Paese) aiuta la polizia locale a controllare meglio
i propri confini. Nel contempo sono stati emessi documen-
ti di riconoscimento difficilmente falsificabili, costituito un
database generale e messo in funzione un controllo compu-

148
terizzato per individuare le falsificazioni negli aeroporti e ai
confini. Durante una sua visita in Kosovo, il Presidente serbo
Aleksandar Vučić si è sforzato di dimostrare che i comuni a
maggioranza serba nel nord del Kosovo appartengono anco-
ra, in un certo senso, alla Serbia, evitando tuttavia di parlare
di Kosovo come parte integrante della Serbia, come definito
nella Costituzione serba. Una visita così concepita è in piena
sintonia con il desiderio espresso dalla leadership di Belgrado
di raggiungere un accordo con Pristina su una nuova deli-
mitazione territoriale tra i due paesi. Durante la visita non è
stato reso noto alcun dettaglio al riguardo, ma già da qualche
tempo si parla della possibilità che l’enclave serba al nord del
Kosovo venga annessa alla Serbia: in cambio il Kosovo otter-
rebbe i comuni a maggioranza albanese situati nel sud della
Serbia.

149
Stati Uniti*

Ex pluribus unum: lo strano caso del patriottismo


amercano
Per cercare di comprendere lo spirito patriottico del po-
polo statunitense è necessario fare un rapido excursus nella
tricentenaria storia, a partire almeno da quel 4 luglio 1776,
che sancì l’atto di nascita degli Stati Uniti d’America, gior-
no dell’Indipendenza (Independence Day) al Congresso di
Filadelfia.
Con la Dichiarazione di Indipendenza (cui contribuì in ma-
niera decisiva Thomas Jefferson [1743-1826]), uno dei padri
fondatori degli USA), le 13 colonie britanniche dell’East Coast
rivendicarono il diritto di staccarsi dal Regno della Gran Bre-
tagna, anche se l’American War of Independence (1775-1783)
era ancora in corso.
Fu soprattutto la sconfitta britannica del 1781 a Yorktown,
in Virginia, a decretare la vittoria dell’esercito condotto dal
generale George Washington (1732-1799) e a istituzionalizza-
re lo stesso Washington quale primo Presidente degli Stati
Uniti d’America, dal 1789 al 1797. Va considerato, nella vitto-
ria finale contro l’Impero britannico, l’apporto fondamentale
delle truppe francesi condotte dal marchese De La Fayette
(1757-1834), proveniente da una ricca famiglia di proprietari
terrieri, che sarà eletto successivamente negli Stati Generali
durante la Rivoluzione francese del 1789, tanto da diventa-
re comandante della Guardia Nazionale dopo la presa della
Bastiglia.
Le due rivoluzioni, quella americana e quella francese,
succedutesi nel breve giro di una decina d’anni, hanno avuto
tuttavia una specificità tale che non si possono assolutamen-
te accomunare. Persino le Carte costituzionali di riferimen-

* A cura di Fabio Trevisan.

150
to, la Dichiarazione di Indipendenza statunitense del 1776 e
la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino france-
se del 1789 (basata sulla bozza proposta dal già menzionato
marchese La Fayette) presentano delle sostanziali differenze,
come ad esempio l’esortazione finale alla Divina Provviden-
za in quella statunitense, assente nella Carta rivoluzionaria
francese.
Interessante in questo marcato senso religioso notare
l’affinità spirituale tra la Dichiarazione di Indipendenza del
1776 e il successivo “Discorso di Gettysburg” del 19/11/1863,
tenuto dal Presidente Abraham Lincoln (1809-1865) durante
il periodo della guerra di secessione americana (1861-1865),
con il quale riprendeva la presenza di Dio nel destino della
nuova nazione americana: «noi qui solennemente si prometta
che questi morti non sono morti invano; che questa nazione,
guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di
un governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a
perire dalla terra».
Il monumento nazionale del Monte Rushmore, scolpito
sulle pareti rocciose nello stato del South Dakota, esprime il
carattere patriottico del popolo statunitense, espresso nelle
figure intagliate nella pietra di George Washington, Thomas
Jefferson, Theodore Roosevelt (1858-1919) e Abraham Lin-
coln, corrispondenti rispettivamente alla nascita, alla crescita,
allo sviluppo e alla conservazione degli Stati Uniti d’America.
Va ricordato inoltre che gli ex coloni inglesi divenuti indi-
pendenti, e quindi statunitensi, dalla fine del XVIII secolo,
non posero filtri immigratori durante quel periodo pionieri-
stico, appositamente per contrastare i nativi indigeni (o india-
ni) d’America. La disciplina immigratoria degli ingressi negli
Stati Uniti risale al 1875, quando esplicitamente si rifiutaro-
no gli indigenti, gli analfabeti, le prostitute e soprattutto gli
anarchici e i comunisti.

151
La formazione del popolo statunitense
Dal punto di vista storico e statistico balza agli occhi come
negli Stati Uniti d’America sia avvenuto il più grandioso pro-
cesso immigratorio nel giro di poco più di due secoli, passan-
do dai 4 milioni di abitanti nel 1700 ai 23 milioni del 1800 sino
ad arrivare ai 327 milioni circa di abitanti nel 2018.
Anche la stratigrafia delle diverse razze e della moltitudi-
ne di Paesi di provenienza attestano un’eterogeneità quasi
indescrivibile, se pensiamo che solo dal 1820 al 1892 gli Stati
Uniti hanno accolto oltre 15 milioni di immigrati, così come
nel periodo successivo, dal 1892 al 1924, hanno ottenuto la
cittadinanza oltre 18 milioni di stranieri.
Negli Stati Uniti si possono trovare quindi quasi tutte le
razze del mondo e si possono parlare quasi tutte le lingue del
mondo. Come è stato reso possibile un senso patriottico di
appartenenza alla nazione statunitense da una congerie di
popolazioni così diverse?
Credo che a questa domanda essenziale abbia risposto in
tempi recenti uno dei più celebri storici americani contempo-
ranei, Eric Foner, docente di storia americana alla Columbia
University di New York: «Il senso di patria americano tende
all’universalismo, vuole esprimere valori che vanno al di là
della nazione».
Per comprendere appieno la dichiarazione autorevole di
Foner, credo sia opportuno legarla al simbolo evocato dall’im-
ponente “Statua della Libertà”, a quella donna massiccia che
rappresenta allegoricamente la libertà e a quelle frasi poe-
tiche incise sul suo basamento: «Qui, dove si infrangono le
onde del nostro mare si ergerà una donna potente con la tor-
cia in mano, la cui fiamma è un fulmine imprigionato, e avrà
come nome Madre degli Esuli. Il faro nella sua mano darà il
benvenuto al mondo».
Come Thomas Jefferson parlava di “Impero della libertà”,
così l’allegoria della “Statua della libertà” afferma il luogo

152
dove tutti possono godere (almeno teoricamente) della libertà
personale, politica, economica.
Ecco che il senso di patria, negli Stati Uniti, non esprime
solo fedeltà alla terra dei padri e delle madri o ad una tradizio-
ne secolare, ma piuttosto attesta la difesa della libertà univer-
sale, secondo le parole precise di Eric Foner: «Il patriota che
difende l’America pensa di battersi per la libertà di tutti. Il
patriottismo americano è sempre accompagnato dall’idea che
gli Stati Uniti abbiano l’obbligo e il diritto di diffondere i pro-
pri valori nel mondo». Si tratta quindi di un senso di patria
non solo legato alla terra ma soprattutto a dei valori, primo fra
tutti quello caratterizzato dalla libertà o dalle libertà.
La storia patriottica del popolo statunitense è assai diversa
da quella europea, caratterizzata quest’ultima da una partico-
lare etnia, da una specificità culturale, linguistica, geografi-
ca. L’accenno alla considerazione geografica non è banale, in
quanto, a differenza degli Stati Uniti d’America, il territorio
europeo è stato teatro di lotte di confine, di religioni, di po-
tenze diverse.
Negli Stati Uniti ciò non è accaduto, in quanto geogra-
ficamente non si è dovuto combattere contro un vicino, un
confinante potente. La considerazione di un’immensa terra a
disposizione (basti pensare che la densità media della popola-
zione statunitense è di 28 abitanti per Kmq.) ha reso possibile
la costituzione di una terra con tante patrie che qui si ritrova-
no in un’unica bandiera a stelle e strisce, in un unico inno, in
una medesima celebrazione (Independence Day).
Dai primi presidenti degli Stati Uniti a Trump, gli ameri-
cani pensano al loro Paese, alla loro nazione come presidio
di libertà, come un impero che esporta libertà e democra-
zia. Gli Stati Uniti costituiscono quindi una terra di libertà
e uguaglianza, riprendendo lo spirito pionieristico dei Padri
Pellegrini (Pilgrim Fathers), primi coloni del 1600, ritenen-
dosi missionari responsabili della diffusione di alti valori
umani universali. La variegata origine del popolo statuniten-
se non può prescindere, ad esempio, da William Penn (1644-

153
1718), fondatore ed eponimo dello Stato della Pennsylvania,
appartenente alla congregazione religiosa dei Quaccheri.
La commemorazione della “Giornata del Ringraziamento”
(Thanksgiving Day), una delle principali festività degli Stati
Uniti, ricorda i sacrifici dei primi cristiani puritani inglesi ap-
prodati nel Nuovo Continente e rinsalda quello spirito e quel-
la fede iniziale a quella portata da genti e popoli diversi, con
flussi immigratori successivi.

Il nazionalismo americano
Tutti hanno ancora sotto gli occhi la distruzione e le vitti-
me dell’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001,
ma forse non tutti si ricordano lo spirito di corpo mostrato in
quei drammatici momenti dagli americani, condensabile in
quelle incitazioni altisonanti scandite: “U-S-A, U-S-A!” rivolte
ai soccorritori, pompieri o vigili, ma anche a politici o rappre-
sentanti delle istituzioni statunitensi. Sembra davvero incre-
dibile come un popolo così diversificato (dobbiamo pensare
che i nativi americani oggi sono all’incirca 2 milioni) abbia
mostrato uno spirito patriottico e an attaccamento alla nazio-
ne così vigoroso.
Secondo il rinomato studioso nativo del Maryland Louis
Snyder (1907-1993) in un suo famoso saggio del 1976 – Varie-
ties of Nationalism. A comparative study –, il nazionalismo
americano si completa soltanto nel XX secolo attraverso due
fattori: l’organizzazione politico-militare e il movimento di
massa.
Essendo questo studio una comparazione tra le situazioni
europee e quella americana, Snyder ha evidenziato la diversi-
tà della tradizione europea da quella del suo Paese. Ha potuto
così definire, in concordanza con un altro saggio sociologico
precedente del 1968 di Seymour Martin Lipset (1922-2006) dal
titolo Is America different? A new Look at American Excep-
tionalism, con il termine “exceptionalism” la particolare e

154
originale configurazione del nazionalismo americano. Questa
peculiare “eccezionalità” consiste soprattutto, come già evi-
denziato, nella plurima composizione etnica degli americani,
nella mancanza di una storia antica e nell’inevitabile realtà
religiosa, sociale e culturale di riferimento assai diversificata.
A fronte di questa composizione eterogenea l’elemento
fondamentale coesivo è stato ed è tuttora l’idea comune di
patria e l’orgoglio nazionale nel difenderla, soprattutto nei
momenti di maggiore tensione.
Non va tuttavia dimenticato, come ha ben documentato
lo storico e saggista statunitense Arthur Meyer Schlesinger
jr. (1917-2007) nel volume: Storia degli Stati Uniti d’America,
che fu attraverso la Guerra Civile o di Secessione, e quindi
attraverso il sacrificio di vite umane in quel conflitto di fine
‘800, che il concetto di “nazione” ha assunto un afflato misti-
co e di grande onore per tutto il popolo americano. Questo
sentimento di orgoglio e di appartenenza ha trovato il proprio
fondamento nel patrimonio ideale dei padri fondatori degli
USA, nella Dichiarazione di Indipendenza e nella Costituzio-
ne repubblicana del 1787.
Dai primi coloni puritani del XVII secolo all’ultimo pre-
dicatore religioso i fondamentali diritti della persona e del-
la libertà sono stati privilegiati e condivisi. Persino l’ottimi-
smo e il pragmatismo dei primi pionieri si sono riversati con
continuità ad alimentare la vision del popolo statunitense in
quell’American Way of Life proposto a tutti i livelli: dal cam-
po scientifico a quello dello spettacolo, dall’ambito politico a
quello culturale.
Questo caratteristico orgoglio nazionale ha potuto svilup-
parsi, secondo studiosi come lo storico autorevole Frederik
Jackson Turner (1861-1932), che ha sviluppato la cosiddetta
“tesi della frontiera” nella sua opera più significativa: The
Significance of the Frontier in American History, in virtù
dell’enorme disponibilità di spazio che gli americani hanno
potuto godere. Questo concetto rilevante della “frontiera”
quale disponibilità di spazio e di terra è stato abbinato suc-

155
cessivamente a quello dell’“abbondanza”, che traduceva in
opportunità concrete il desiderio di autorealizzazione dell’uo-
mo, come ha evidenziato lo storico del ‘900 David Potter nel
significativo saggio dal titolo eloquente: People of Plenty. The
economic Abundance and the national Character. Gli Ameri-
cani quindi sono chiamati, anche come singoli, ad aderire al
modello dell’American Way of Life, non senza esercitare uno
spirito critico e vigilante sull’esercizio dei diritti della perso-
na, sulla moralità pubblica, soprattutto in materia di espres-
sione istituzionale.
Va infine collocata questa vision nel cercare di compren-
dere lo spirito della nazione americana, all’interno di un si-
stema politico federale, ossia di un sistema che non prevede
un modello statuale centralizzato da applicarsi sopra la testa
dei cittadini, ma, al contrario, di esperimenti dal basso in cui
viene privilegiata la libertà, la democrazia e l’universale rico-
noscimento di diritti costitutivi inalienabili (almeno teorica-
mente fondati). Come ha espresso lo storico tedesco, natura-
lizzato statunitense, Hans Kohn (1891-1971) nel suo American
Nationalism. An interpretative essay, il divenire cittadino
americano ha significato sempre identificarsi con l’idea origi-
nale di libertà, scaturita attraverso le rivoluzioni e le guerre,
che questo enorme territorio ha conosciuto.

Born in the USA


In una canzone del celebre cantautore americano Bruce
Springsteen, dal titolo Born in the USA, credo si possa rinve-
nire, seppur attraverso reiterate critiche, lo spirito patriottico
statunitense. Ecco il testo completo della famosa canzone:

Sono nato negli U.S.A.


Sono nato negli U.S.A.
Nato negli U.S.A.

156
Una volta mi sono messo in un piccolo guaio dalle mie parti
così mi hanno messo un fucile in mano.
E mi hanno mandato in una terra straniera
a ammazzare i musi gialli.

Sono tornato a casa alla raffineria


ma il datore di lavoro ha detto: «Figliolo se dipendesse da me».
Sono andato a parlare con un uomo del V.A.
Mi ha detto: «Figliolo, non capisci adesso?».

Avevo un fratello a Khe Sahn combatteva contro i Viet Cong.


Loro sono ancora là lui se n’è andato per sempre.
Aveva una donna di cui era innamorato a Saigon.
Mi è rimasta una foto di lui tra le sue braccia.

Giù nell’ombra del penitenziario


fuori tra i bagliori della raffineria
sono dieci anni che brucio per la strada.
Non ho un posto dove correre, non ho un posto dove andare.

Basta dare una rapida scorsa al testo per comprendere


come l’essere nati negli USA costituisca un passaggio obbli-
gato per la comprensione del sogno americano (American
dream) e dell’ideale di libertà.
Come ha giustamente osservato un anglista e americani-
sta contemporaneo, Alessandro Portelli, per accostarsi alla
canzone menzionata di Springsteen occorre cercare di capire
il modo particolare con cui si esplica il conflitto sociale negli
Stati Uniti, che spesso scaturisce nella cosiddetta “America
profonda” lontana dai grandi miti delle città metropolitane
o delle grandi aree di riferimento culturale (West Coast, East
Coast). Si tratta di un’America meno conosciuta, che non sta
sotto i riflettori dei media o dell’industria dello spettacolo, e
che cova un “malessere invisibile”, un disagio diffuso, un di-
sincanto dal sogno libertario spesso evocato.

157
Portelli, da attento studioso di cultura popolare statuni-
tense, riporta l’esempio illuminante di un genere musicale, il
country, che sembrerebbe la musica di un’America spensie-
rata e un po’ conservatrice. Al contrario, egli rileva dai testi
country una disillusione e una denuncia critica molto affine
a quella di Bruce Springsteen. L’essere “Born in the USA”
diventa certamente un ostinato attaccamento alla nazione ma
anche un appello critico affinché l’America dei “senza voce”,
delle classi meno abbienti, possano riconoscersi in quello
sconfinato Paese dei diritti e delle libertà.
La bandiera dell’America first sventolata con grande suc-
cesso dal Presidente Donald Trump fa riferimento a questo
orgoglio nazionalistico di appartenenza che ha sempre avuto
come riferimento gli Stati Uniti d’America come avamposto
economico-culturale di riferimento per il mondo intero.

Il problema dell’immigrazione
Il problema dell’immigrazione negli Stati Uniti va in-
quadrato all’interno di un sistema liberal-democratico in un
contesto di liberismo economico (“selvaggia liberalizzazio-
ne”) che ha manifestato, soprattutto dopo la crisi dei mutui
subprime e del crollo della banca d’affari Lehman Brothers
nel 2008, un fenomeno sempre più diffuso di senzatetto, i co-
siddetti homeless.
Questa spinta alla “finanziarizzazione dell’economia”, che
ha prodotto gravi danni a livello mondiale, ha visto, soprattut-
to negli USA, la crescita di uno squilibrio economico-sociale
riassumibile in pochi dati: ben il 41% delle persone più ricche
al mondo sono statunitensi, a confronto di decine di milioni
che faticano a far fronte ai bisogni più elementari.
Anche se dal 1965 è stato abolito il sistema delle quote na-
zionali per le richieste di cittadinanza, fondandolo piuttosto
su un modello più razionale e conveniente quale l’aiuto al
ricongiungimento familiare, alla capacità di investimento, al

158
titolo di studio o alla professione svolta, gli Stati Uniti hanno
dovuto da sempre affrontare il problema del flusso immigra-
torio illegale proveniente dal vicino Mexico, reso ancor più
difficile dalla lunghezza dei confini dei due Stati.
A questo annoso problema di confine con l’America cen-
trale, si è aggiunto il problema del terrorismo, soprattutto di
matrice islamica, che ha visto numerosi attentati sul suolo
statunitense e culminato con il già menzionato attacco alle
Torri Gemelle del 2001.
In questo senso va inquadrato l’ordine esecutivo del 2017:
“Proteggere la nazione da ingressi terroristici stranieri”, che
ha permesso a Trump di limitare i rifugiati a massimo 50 mila
presenze annue, sospendendo altresì, anche se temporanea-
mente, l’ingresso a 7 Paesi a maggioranza musulmana: Iraq,
Iran, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen.
Nonostante questi proditori attacchi all’identità nazionale
e ai valori di libertà tipici di quell’”americanismo” che rico-
nosciamo in tanti ambiti della vita socio-culturale degli USA,
le istituzioni democratiche statunitensi, anche dal punto di
vista della risoluzione dei problemi legati all’immigrazione,
non hanno mai abdicato ai dettami costituzionali, come ad
esempio prevede il XIV emendamento della Costituzione, che
conferma lo stato giuridico di Ius soli (“diritto del suolo”) in
modo automatico e senza condizioni ad ogni cittadino nato
sul suo territorio, indipendentemente dalla cittadinanza dei
propri genitori. Per i non nati sul territorio degli Stati Uniti,
la naturalizzazione o cittadinanza americana può essere otte-
nuta dopo 5 anni di residenza (o 3 anni se si è sposati con un
cittadino/a americana).
Il problema dell’immigrazione va infine visto all’interno
di un processo di destrutturazione della famiglia e di allarga-
mento dei disagi e delle povertà, che hanno portato, in anni
più recenti, alla crescita fino al 50 per cento delle conviven-
ze fuori dal matrimonio e addirittura al 73 per cento le fa-
miglie monoparentali (in particolare quelle della popolazione
afro-americana).

159
I problemi storici legati alla formazione stessa degli Stati
Uniti d’America hanno evidenziato, soprattutto nei momen-
ti di crisi economico-sociale, un antagonismo tra i cosiddetti
“WASP”, acronimo di “White Anglo Saxon Protestant” e tutti
coloro, soprattutto neri, considerati razzisticamente estranei
al “suprematismo bianco” ritenuto originario.
Anche se, come abbiamo ripetutamente ricordato, la for-
mazione del popolo statunitense è eterogenea di razze, reli-
gioni e culture diverse, i cosiddetti “nativisti bianchi” (ovvia-
mente un esiguo numero di americani) tendono a conside-
rarsi alla stregua di soli “autentici americani”, dando adito
a esacerbazioni che spesso sconfinano in atti di violenza con
esiti talvolta sanguinari. Ne consegue che certo “populismo
demagogico” si senta custode dei valori originari degli Stati
Uniti d’America e che quindi propugni battaglie per la tutela
della presunta tradizione costituiva “bianca”.

“America first”
Il famoso slogan (America first) che ha contraddistinto l’a-
scesa al potere di Donald Trump non è di stretta pertinenza
dello stesso Presidente degli Stati Uniti, in quanto già alla
fine degli anni ’30 del XX secolo era sorto un comitato, Ameri-
ca first, presieduto dall’aviatore Charles Lindberg (1902-1974)
con il sostegno del magnate dell’automobile Henry Ford
(1863-1947), per contrastare la linea interventista nel secon-
do conflitto mondiale. “America first” rappresenta quindi la
difesa di ciò che Thomas Jefferson chiamava “impero della
libertà”, ossia un Paese libero dalla tirannia e che offre op-
portunità di crescita (economico-sociale in primis) a tutti gli
americani.
Nella storia degli Stati Uniti si sono succedute rivendi-
cazioni di diritti, soprattutto e inizialmente da parte della
minoranza nera degli Stati del Sud, così come l’America ha

160
conosciuto progressivamente manifestazioni in favore dell’u-
guaglianza delle donne.
Il concetto originario di libertà è stato impropriamente
esteso a quello di “liberazione”, culminato nella rivoluzione
sessuale, musicale e delle droghe del ’68 e che ha visto prota-
gonisti (e vittime allo stesso tempo) i poeti della “beat gene-
ration” e numerosi altri artisti, musicisti e persone comuni di
quel tempo.
Ritornando all’appello “America first”, esso va inserito
all’interno di quel sentimento patriottico “esclusivo e origi-
nale” che ha contraddistinto gli Stati Uniti e che lo lega alla
difesa di un insieme di valori, primo fra tutti quello della li-
bertà. Se un tempo i nemici degli USA erano considerati l’U-
nione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche o il nazismo di
Hitler, oggi, soprattutto dopo l’attentato alle Torri Gemelli, è
diventata la minaccia integralista islamica.
In tal senso il Patriot Act, voluto da George Bush dopo l’at-
tentato dell’11 settembre 2001, rappresenta il sentimento di
unità nazionale, l’essere “statunitensi”. Certamente l’appor-
to congiunto di tante etnie allo sforzo bellico nella seconda
guerra mondiale ha incrementato il processo di integrazione
razziale, così come la partecipazione attiva delle donne alla
vita politica, culturale e sociale (ma anche militare) ha raffor-
zato la visione della donna.
La presenza e la minaccia di un nemico ideologico, avver-
so agli USA, ha rafforzato il sentimento patriottico di unità
nazionale (si veda ad esempio l’andamento del patriottismo
statunitense fino al 1989, durante l’epoca della cosiddetta
“guerra fredda”).
Se pensiamo, ancora, alle considerazioni di Robert Kenne-
dy (1925-1968) che, seppur contrario alla guerra del Vietnam,
si fece promotore dell’inasprimento delle sanzioni a tutti co-
loro che avessero profanato la bandiera a stelle e strisce du-
rante le contestazioni che portarono al ’68, si può facilmen-
te intuire quanto lo spirito di “America first” sia stato e sia
tuttora radicato nella popolazione americana. Agli occhi del

161
cittadino statunitense, la nazione USA rappresenta, anche
con aspetti di esplicito dissenso, il baluardo all’esercizio delle
libertà, la tutela dei diritti, l’appartenenza, a livello federale e
locale, ad un progetto unitario grandioso.
Il nazionalismo statunitense di “America first”, rilancia-
to perentoriamente da Trump, esprime così, anche ai nostri
giorni, un modello di spirito patriottico nell’era della globa-
lizzazione e rafforza un principio di identità che porta, nono-
stante le spinte centrifughe del globalismo, alla condivisione
di ideali e di valori irrinunciabili.

Le radici dell’americanismo
Da parecchi studiosi e intellettuali statunitensi è stata in-
dividuata una mentalità cosiddetta “insulare” della propria
nazione. Si è ribadito il pericolo “isolazionista” che ha portato
gli USA, nella strenua difesa dei diritti e delle libertà, a non
curarsi attentamente di ciò che accade fuori dai propri con-
fini, denunciando la scarsa conoscenza di maggior parte del
popolo statunitense di ciò che accade realmente nel mondo.
Lo stesso Tocqueville (1805-1859), dopo aver visitato gli
Stati Uniti, aveva detto e scritto in modo paradossale che non
aveva mai conosciuto un Paese con un così basso grado di
libertà del pensiero. Questo “American Way of Life” è stato
ricondotto anche attualmente, ad una visione un po’ miope
degli accadimenti esterni, tanto da suscitare in alcuni critici
il sospetto di un conformismo acritico che contraddirebbe l’e-
spressione americana di “impero della libertà”, di tutela del
pensiero.
Questo atteggiamento di presunta acriticità è dovuto, se-
condo alcuni, al concetto equivoco di “patriottismo”, inteso
come sinonimo di appoggio incondizionato al governo del
Paese.
Non avendo qui la pretesa di esaurire tali congetture né
di rilevarne appieno la fondatezza, è innegabile che la costi-

162
tuzione specifica del patriottismo americano (che possiamo
riassumere, anche se un po’ impropriamente, con il termine
“americanismo”) abbia radici letterarie, filosofiche e teologi-
che sviluppatesi poi nel corso della storia.
Il grande poeta e scrittore Walt Whitman (1819-1892), con-
siderato uno dei padri della poesia statunitense, considerava
l’America stessa come una specie di religione, ma senza una
teologia. Intendeva come “religione” una celebrazione poe-
tica della democrazia, con la difesa delle libertà individuali
e l’aspirazione ad una maggiore giustizia sociale. Un senti-
mento laico potente che inneggiasse religiosamente alla li-
berazione dell’individuo e del mondo intero, riscontrabile in
quel motto “e pluribus unum” (“dai molti, uno”) inscritto nel-
lo stemma degli Stati Uniti e che allude alla composizione dei
cinquanta Stati americani.
La “filosofia della democrazia” è stata esplicitata anche
dallo scrittore e pedagogista statunitense John Dewey (1859-
1952), il quale si era ispirato in parte a Whitman nel designare
l’idea di democrazia come un progetto eterno di progresso so-
ciale senza fine e quindi come stile di vita e modo di pensare
da proporre e sostenere. Inutile sottolineare quanto, solo per
citarne alcuni, questi autori (Whitman e Dewey) siano stati in-
fluenti nella formazione del pensiero, nel sistema educativo e
nei costumi del popolo americano.
Anche il filosofo John Rawls (1921-2002) ha contribuito
più recentemente a definire il concetto di “giustizia sociale”,
spesso frainteso in un Paese con delle disuguaglianze così
forti come gli Stati Uniti.
Dal punto di vista più specificamente cattolico, oltre alla
schiera di prelati, porporati e vescovi statunitensi, emerge un
dato ragguardevole di fedeli laici che si muovono in difesa
della vita (attivisti pro-life) e che costituiscono un popolo a
difesa dei principi non negoziabili della vita, della famiglia e
dell’educazione. A difesa dell’attaccamento alla nazione, essi
difendono la Patria terrena e quella celeste, condannando il
mondialismo e la globalizzazione che vorrebbe destrutturare

163
la natura del popolo con la sua fede, le sue tradizioni, le sue
libertà.
Nell’American Way of Life odierna, la professione di fede
cattolica corrobora il patriottismo originario, inserendolo in
accordo alla legge naturale voluta e inscritta da Dio nel cuore
dell’uomo, innestando l’autorità divina e la regalità di Cristo
Re nell’esplicitazione del bene comune e riconducendo l’a-
more per la patria al quarto Comandamento: «Onora il padre
e la madre».

164
Africa*

Il tribalismo principale causa dei gravi problemi del


continente
«We, the people of the Federal Republic of Nigeria – Noi,
il popolo della Repubblica federale della Nigeria»: inizia con
queste parole il Preambolo alla Costituzione della Repubbli-
ca federale nigeriana, in vigore dal 1999, affermando «ferma-
mente e solennemente» l’impegno di «unità» e «armonia» di
una «nazione sovrana, indivisibile e indissolubile, di fronte a
Dio». «Noi, il popolo» nigeriano – prosegue il testo – adottia-
mo una costituzione allo scopo di promuovere «buon governo
e benessere per tutti gli abitanti del nostro Paese, secondo i
principi di libertà, uguaglianza e giustizia e al fine di consoli-
dare la nostra unione».
Sono espressioni nobili e solenni. Ma le intenzioni procla-
mate trovano assai poco riscontro nella realtà.
La Nigeria, ex colonia britannica indipendente dal 1960, è
una federazione di 36 Stati, popolata da circa 190 milioni di
persone per ciascuna delle quali l’appartenenza indissolubile
è quella tribale.
Quattro sono i gruppi etnici principali: nella metà setten-
trionale del Paese dominano gli Hausa e i Fulani e in quella
meridionale gli Yoruba e gli Ibo, i primi residenti nelle regio-
ni sudoccidentali e i secondi in quelle sudorientali. In tutto,
però, le tribù nigeriane sono oltre 250 e altrettanti le lingue e
i dialetti.
Aver redatto questa Carta costituzionale, come le prece-
denti, in inglese, la lingua assunta come ufficiale dopo l’in-
dipendenza, non indica, come spesso si sostiene, una persi-
stente dipendenza culturale dall’ex madrepatria britannica: è
stata piuttosto l’unica soluzione praticabile dal momento che

* A cura di Anna Bono.

165
nessuno dei gruppi etnici principali avrebbe accettato un te-
sto scritto in una lingua diversa dalla propria.
Lo Stato permanente di conflitto inter e intra tribale, ti-
pico delle economie di sussistenza e di rapina, in Nigeria si
polarizza in scontro tra nord e sud. Le popolazioni originarie
del nord sono dedite alla pastorizia, quelle del sud sono agri-
cole. Come tutti i pastori africani, Hausa e Fulani disprezzano
agricoltori e artigiani fino a considerarli meno che umani, ma
hanno sempre attinto alle loro risorse, depredandoli di raccol-
ti, bestiame e persone, per integrare l’economia pastorale ap-
pena più redditizia di caccia e raccolta. Con la scoperta al sud
dei giacimenti di petrolio che fanno della Nigeria il primo pro-
duttore di greggio del continente e il 13mo a livello mondiale,
il divario tra nord e sud è sensibilmente aumentato e con esso
le tensioni. La conflittualità tribale è però elevatissima anche
nelle regioni petrolifere, dove tribù e clan si contendono l’ac-
cesso ai benefici indotti dall’industria estrattiva, e in generale
nei contesti urbani, dove le etnie si disputano con la forza il
controllo delle attività e delle risorse economiche.
“Unità”, per un nigeriano educato nella tradizione, è un
termine che si applica al contesto familiare e tribale; “armo-
nia” è il rapporto ideale con gli antenati (e con gli esseri che
popolano il mondo soprannaturale) ai quali guarda con ansia,
temendone a ogni momento la collera.
Spesso minimizzato, ignorato e persino del tutto negato,
oppure spiegato come un fenomeno estraneo alla tradizione
africana, nato con la colonizzazione europea che, secondo al-
cune scuole di studi, avrebbe diviso in tribù popoli fino ad
allora poco connotati etnicamente, creando rivalità e antago-
nismi prima inesistenti, il tribalismo in realtà permea la vita
sociale e politica africana, oggi come in passato: un sistema
di comunità – tribù, clan, lignaggi – alle quali si appartiene
per nascita, invalicabili e insostituibili, antagoniste e ostili.
La guerra inter e intra tribale di conquista – per il controllo di
terre fertili, pascoli, punti d’acqua... – e di rapina – per accre-
scere le risorse a disposizione con raccolti, bestiame, utensili

166
e forza lavoro sottratti ad altre comunità – è stato un elemento
strutturale delle economie di sussistenza africane, caratteriz-
zate – che si tratti di caccia e raccolta, pastorizia o agricoltura
– da una bassa produttività che non assicura con regolarità le
risorse necessarie.
«In Somalia i rapporti di sangue sono le fondamenta di
ogni interazione sociale. […] La tua famiglia, il tuo sotto-clan,
il tuo clan sono tutto ciò che hai. Il clan decide la posizione di
ciascuno all’interno della famiglia. Determina chi puoi consi-
derare amico e chi devi guardare come un nemico. Cosa puoi
vendere e a chi. Cosa puoi comprare e da chi. Il clan è il tuo
presente e il tuo futuro. Sente al posto tuo, agisce al posto tuo
e pensa per te. È la tua anima e la tua identità. Il clan può pro-
teggerti, ma può anche diventare la tua prigione». A fornire
questa semplice e perfetta descrizione della struttura tribale
africana non è uno studioso, ma Waris Dirie, una ex fotomo-
della somala di fama internazionale che da anni si batte con-
tro le mutilazioni genitali femminili. Il brano è tratto da un
suo libro, Lettera a mia madre (Milano, 2009). Lo stesso testo
contiene una altrettanto efficace illustrazione della mentalità
tribale, espressa in un ammonimento del padre dell’autrice,
dispiaciuto per un comportamento secondo lui non appro-
priato nei confronti di alcuni famigliari: «questa è la legge
della tua famiglia: tu e i tuoi fratelli contro i vostri fratellastri.
I tuoi fratelli, i tuoi fratellastri e tu contro i vostri cugini. La
vostra famiglia contro le altre famiglie. Il vostro clan contro
gli altri clan”».
Né l’Islam, con la sua proposta unificante di una “umma”,
la comunità dei fedeli, né il Cristianesimo, con il suo mes-
saggio di fratellanza universale, sono riusciti a trascendere in
Africa l’appartenenza e i confini etnici. Anzi, ne sono divenuti
una modalità là dove tribù convertite nei secoli alle due reli-
gioni si affrontano, contendendosi, come accade da millenni,
risorse e mezzi di sopravvivenza. In Nigeria, ad esempio, gli
Hausa, i Fulani e le altre popolazioni del nord sono musulma-
ni; nel sud prevale il cristianesimo, cattolico e protestante.

167
Per il 51 per cento dei nigeriani quello evocato nel preambolo
della Costituzione è il Dio di Maometto e per il 47 per cento è
il Dio cristiano. Dal 1999 l’appartenenza religiosa è diventata
un fattore destabilizzante sempre più critico e una nuova mi-
naccia – l’Islam integralista – si è abbattuta sui valori di unità,
giustizia, uguaglianza e libertà, proprio pochi mesi dopo che
era stata adottata la costituzione che li proclama sacri e dopo
che, per la prima volta dal 1983, ai nigeriani era stato permes-
so di eleggere un parlamento e un presidente, ponendo fine a
15 anni di regimi militari autoritari e corrotti.
Negli Stati moderni, nati con le indipendenze al termine
del periodo coloniale europeo, la conflittualità etnica non solo
non è venuta meno, ma si è estesa al controllo dell’apparato
statale, fonte di potere e di ricchezze immense, e ha assun-
to potenzialità distruttive enormi grazie alla disponibilità di
armi e di tecnologie militari un tempo assenti. Il malgoverno
e la corruzione eletta a stile di vita ne sono una conseguenza.
Ne era consapevole Papa Benedetto XVI che, durante i
suoi due viaggi apostolici in Africa (Camerun e Angola, 2009;
Benin, 2011) e in occasione della visita ad limina dei Vescovi
angolani (2009), ha indicato tribalismo, corruzione e strego-
neria come le principali cause dei gravi problemi sociali ed
economici del continente. Rivolgendosi ai fedeli durante le
celebrazioni della messa nella capitale del Benin, Cotonou, il
Pontefice aveva deplorato la tendenza delle comunità africa-
ne a chiudersi e a respingere gli estranei, esaltando per contro
il vincolo «più forte di quello delle nostre famiglie terrene e di
quello delle vostre tribù» che si crea attorno all’altare dove la
condivisione del sangue e del corpo di Cristo «rende fratelli
e sorelle realmente consanguinei» uomini e donne «di tribù,
lingue e nazioni diverse».
Il tribalismo oggi rende le elezioni delle «mere maratone
etniche», denunciano i Vescovi africani, incentra i processi
politici «sul fulcro dei gruppi tribali». Fa anche di peggio.
Scatena conflitti feroci che possono degenerare in pulizia et-
nica e genocidio. In Nigeria dal 2018 gli attacchi dei pastori

168
Fulani e le conseguenti rappresaglie degli agricoltori hanno
provocato circa 2.000 morti e decine di migliaia di sfollati. In
una lettera aperta indirizzata il 15 luglio 2019 al Presidente ni-
geriano Muhammadu Buhari, l’ex Presidente Olusegun Oba-
sanjo sostiene che il Paese sta arrivando a un punto di non
ritorno, con il rischio che le violenze interetniche degenerino
in pogrom o in «genocidio in stile rwandese» se si continuerà
ad accusare di ogni violenza solo i Fulani e quindi a convo-
gliare su di loro il risentimento popolare. «Analoghi attacchi
contro altre tribù – ammonisce Obasanjo – possono portare
allo stesso risultato e sfociare in violente rivolte in qualche
parte del Paese, suscettibili di estendersi rapidamente ad al-
tre, portando allo smembramento della Nigeria».
Dalla Mauritania alla Repubblica Centrafricana, i Fulani
e le loro mandrie contendono vasti territori alle etnie dedite
all’agricoltura. Non sono estranei al conflitto etnico-religioso
che dal 2013 attanaglia la Repubblica Centrafricana, una del-
le più gravi crisi in atto nel continente africano, iniziata nel
2013 con un colpo di Stato messo a segno da una coalizione
di milizie antigovernative, Seleka, espressione delle etnie mi-
noritarie di fede islamica. La frattura tra le tribù di pastori
transumanti e quelle degli agricoltori è esacerbata dal fattore
religioso. Nonostante il ripristino delle istituzioni democrati-
che nel 2014, la crisi ha scatenato una cruenta guerra civile e
tuttora, nonostante un susseguirsi di accordi di pace di fatto
mai rispettati e la presenza di una missione di peacekeeping
delle Nazioni Unite, Minusca, l’80 per cento del Paese è con-
trollato da gruppi armati: gli Anti-Balaka, milizie formatesi in
origine per proteggere le comunità cristiane dagli attacchi dei
combattenti ex Seleka, e le varie bande armate in cui Seleka
si è frantumata dopo il suo scioglimento come coalizione. I
combattenti hanno raggiunto livelli raccapriccianti di violen-
za e crudeltà, mai visti prima nel Paese. Hanno violato ospe-
dali, missioni, strutture religiose, campi profughi infierendo
su persone del tutto inermi, con l’unico obiettivo di seminare
terrore. «Sono presenti tutti i primi segni allarmanti di un

169
possibile genocidio» diceva nel 2017 l’allora responsabile del-
la missione di pace Stephen O’Brien, chiedendone il poten-
ziamento. Pochi giorni prima si era verificato uno degli epi-
sodi più efferati. Tra il 3 e il 4 agosto gli anti-Balaka avevano
liberato Gambo, una cittadina del sud est, dai Seleka che la
occupavano da quattro anni. Qualche giorno dopo un anti-Ba-
laka per qualche motivo ha sparato a dei militari Minusca. I
caschi blu hanno reagito con violenza mettendo in fuga i mili-
ziani. Quando lo hanno saputo, i Seleka sono tornati a Gambo
e ne hanno ripreso possesso, decisi a “punire” la popolazio-
ne che aveva accolto gli anti-Balaka ed è stato un massacro.
Hanno inseguito i civili che tentavano di mettersi al sicuro,
braccandoli persino nell’ospedale – ha raccontato Monsignor
Juan Jose Aguirre Munoz, Vescovo della diocesi di Bangas-
sou – hanno ucciso sei dipendenti della Croce Rossa e molti
ammalati: «hanno preso queste persone, le hanno sgozzate.
Anche i bambini malati hanno subito la stessa sorte».
Si è parlato di genocidio e pulizia etnica anche a proposito
della guerra civile scoppiata nel 2013, spazzando via le spe-
ranze di pace e sviluppo del più giovane Paese del mondo:
il Sudan del Sud, nato due anni prima dalla secessione dal
Sudan, dopo i dolorosissimi decenni di persecuzione subiti
dalle popolazioni meridionali del Paese, vittime del proget-
to di islamizzazione e arabizzazione del Presidente Omar
al Bashir. Il Paese era in macerie, la popolazione superstite
esausta. Ma con l’indipendenza il Paese aveva acquisito i tre
quarti dei giacimenti di petrolio del Sudan e gli impianti di
estrazione già funzionanti. Inoltre poteva contare su illimitati
crediti internazionali per la ricostruzione, sull’assistenza di
tutte le agenzie umanitarie delle Nazioni Unite e di centinaia
di organizzazioni non governative. Per trasformare in pochi
anni il Sudan del Sud in un Paese in pieno sviluppo bastava
solo evitare due tentazioni fatali: la corruzione sfrenata, male
endemico in Africa, che trasforma le risorse nazionali in bot-
tino, e il tribalismo che induce etnie, clan, lignaggi a lottare
per aggiudicarselo, il mezzo ideale essendo far man bassa di

170
cariche politiche e amministrative a ogni livello dell’apparato
statale.
I sud sudanesi non sono stati capaci di liberarsene. Malgo-
verno e livelli di corruzione insostenibili hanno fin dall’inizio
sprecato gran parte delle risorse che avrebbero dovuto essere
utilizzate nella realizzazione delle infrastrutture e dei servizi
di cui il Paese era quasi del tutto sprovvisto. Quanto al fattore
tribale, a impadronirsi di gran parte dei posti di governo e di
potere è stata l’etnia più numerosa, quella dei Dinka, che han-
no ottenuto anche la presidenza, affidata a Salva Kiir. «Se le
altre etnie saranno escluse o mal rappresentate, non staranno
a guardare – aveva detto alla vigilia dell’indipendenza monsi-
gnor Cesare Mazzolari, allora Vescovo di Rumbek – e, invece,
gli stessi clan Dinka già si stanno disputando ferocemente le
cariche». L’etnia meno disposta a «stare a guardare» era quel-
la Nuer, seconda per numero e importanza. Alcuni ministeri e
la carica di Vicepresidente assegnata al suo leader, Riek Ma-
char, non sono bastati ad appagarne le aspettative. Le ten-
sioni tra Dinka e Nuer, a fronte di un ulteriore, progressivo
accentramento del potere nelle mani dei Dinka, sono andate
crescendo fino al punto di rottura raggiunto nell’estate del
2013, quando Machar ha annunciato di volersi candidare alle
elezioni presidenziali, in agenda nel 2015. Il Presidente Salva
Kiir ha reagito togliendogli subito la carica di Vicepresidente
e accusandolo di aver tentato un colpo di Stato. La situazio-
ne è poi rapidamente precipitata, trasformandosi il 15 dicem-
bre di quell’anno in conflitto armato, con i militari divisi e gli
eserciti di alcuni movimenti ribelli schierati con gli uni o gli
altri, a seconda dell’appartenenza etnica. Pochi mesi dopo lo
scontro ai vertici politici si è trasformato in conflitto etnico
generale con livelli di violenza, brutalità e crudeltà, a detta
degli osservatori, terrificanti. Finora il bilancio è di 400 mila
morti e oltre due milioni di profughi. I toni usati contro le et-
nie avversarie ricordano quelli impiegati in Rwanda nel 1994
per indurre gli Hutu a sterminare i Tutsi: e allora fu strage di
937 m ila civili in cento giorni.

171
Da qualche mese in Africa si è aperta una nuova crisi. In
Etiopia l’etnia Sidama, il quinto maggiore gruppo etnico del
Paese, chiede l’indipendenza. Le manifestazioni indipenden-
tiste sono state represse al costo di alcune decine di morti.
Il governo promette entro cinque mesi un referendum. Nes-
suno ci crede. Le proteste continuano. Può essere un nuovo
teatro di guerra.

172
Venezuela*

Un popolo e una nazione schiacciati dal regime


Le notizie sul Venezuela non finiscono mai di sbalordire
chi segue con attenzione l’agonia di questo Paese latinoame-
ricano, un tempo il più prospero del subcontinente grazie alle
sue immense riserve petrolifere. Nonostante il continuo af-
flusso di petrodollari nel secolo scorso, già da molte decadi la
nazione veniva corrosa da fenomeni crescenti di corruzione
e di mala amministrazione ad opera di una classe politica ve-
nale e incapace. Tale situazione ha costituito il terreno ideale
per la comparsa nella storia nazionale di uno spregiudicato
demagogo, il colonnello Hugo Chávez, che a forza di agitare
le acque e in seguito ad un sanguinoso tentativo di golpe nel
1992, costato 14 vite umane, ha infine raggiunto il potere nel
1998 per vie costituzionali.
Il distratto elettorato, che allora lo elesse Presidente, tra-
scurò indubbiamente l’importanza dell’amicizia che univa il
colonello ai fratelli Castro, padroni sempiterni della disastrata
Cuba, e prese con leggerezza in fatto che, dietro all’etichetta
di “bolivariano” e alla generica definizione di “populista”, in
Hugo Chávez si nascondeva un leninista dalle ambizioni ben
diverse rispetto a quelle della lotta per l’indipendenza dalla
Spagna fatta da Bolívar o rispetto alle inconsistenze ideolo-
giche di altri “populisti” della regione. Se è vero che oggi la
maggior parte di quelli che lo votarono se ne è pentita amara-
mente, non è meno vero che quel voto fu un passo estrema-
mente sfortunato dalle interminabili conseguenze disastrose.
Dopo aver assunto la presidenza, Hugo Chávez non tardò
a far capire che per portare avanti la sua agenda socialista era
necessario ridurre progressivamente i diritti dei cittadini e
dei corpi intermedi della società, a tutto beneficio del potere

* A cura di Samuele Maniscalco.

173
centrale dello Stato. Tuttavia, prevaleva ancora in molti la dif-
fusa impressione che si trattasse di annunci di un soldato na-
zionalista, alquanto furbo e spaccone, che non avrebbe inciso
granché sulla vita reale. Con lui, la storia ci ha insegnato una
volta di più che per i Paesi che si inabissano nel “socialismo
reale”, diventa sempre più arduo rovesciare i processi di ridu-
zione della libertà individuale e di simmetrica ipertrofia del
potere centrale, quando l’opinione pubblica finalmente si ri-
sveglia. Inoltre, nel caso del Venezuela, i detentori attuali del
potere hanno tutto l’interesse a conservarlo e ad accrescerlo
ad ogni costo, in modo da evitare l’incombente minaccia di
corti internazionali per i diritti umani e processi penali per
narcotraffico, voluti specialmente dalla giustizia americana.
Hugo Chávez ha giurato per la prima volta agli inizi del
1999. Disponendo dell’appoggio popolare e di ingenti risorse
finanziarie, è riuscito a farsi rieleggere più o meno democra-
ticamente nel 2002, nel 2006 e nel 2012, ma avvalendosi sem-
pre più apertamente di riforme costituzionali, di nuove leggi
elettorali e manipolando le urne allo scopo di perpetuarsi al
potere.

Per Chávez la Chiesa è il tumore del Venezuela


Parallelamente, Chávez ha scatenato una persecuzione
delle figure politiche e intellettuali che avrebbero potuto far-
gli una seria opposizione e ha iniziato a dimostrare una cre-
scente impazienza nei confronti della Chiesa cattolica vene-
zuelana, che definiva come il “tumore” della Nazione1.
Nonostante alla fine della vita (per ironia della sorte fu col-
pito proprio da un tumore che lo portò alla morte) abbia dato
segni almeno esterni di ravvicinamento alla fede della sua
infanzia, l’avversione di Chávez e del chavismo verso l’epi-
scopato è durata due decenni, e non si è certamente arrestata

1
Hugo Chávez murió “en el seno de la Iglesia”, «Aci Prensa», 06/03/2013.

174
sotto la dittatura sempre più radicale, spietata e fallimentare
di Nicolás Maduro, prima vice e poi, dopo la morte del colo-
nello nel 2013, suo successore in chiara violazione della legge,
al punto che l’ex ministro della difesa e degli esteri, Fernando
Ochoa Antich, all’epoca del cambio al vertice scrisse: «Il go-
verno guidato da Nicolás Maduro è incostituzionale e illegit-
timo. È una chiara usurpazione delle funzioni di Presidente.
[…] L’unica verità è che attualmente siamo governati da una
cricca di ambiziosi al servizio dei fratelli Castro, che aspira a
mantenere il potere voltando le spalle alla volontà del nostro
popolo. Questa grave situazione diventa ancora più insosteni-
bile di fronte alla crisi economica. Inutile chiudere gli occhi.
Gli omicidi, i sequestri e le rapine sono il nostro pane quoti-
diano. Nessuna classe sociale ne è immune, dal più umile al
più potente. Le cifre sono spaventose: nei quattordici anni
di governo chavista sono state uccise oltre 150 mila persone,
una cifra paragonabile a quella di un Paese in guerra. Nel
2012 si sono verificati 1.050 sequestri, ben ventitré volte la
cifra del 1999, quando Chávez assunse la presidenza. Queste
sono realtà che non scompaiono con la propaganda»2.
Eppure, sotto Maduro, la sofferenza del popolo è divenuta
ancora più dura, mentre i presuli venezuelani non si sono mai
stancati di chiedere il ripristino dello Stato di diritto, a vol-
te dovendo bilanciare la prudenza con la fermezza nel dover
far fronte al diverso atteggiamento della diplomazia vaticana.
Il fino a poco tempo fa Arcivescovo di Caracas, il Cardinale
Jorge Urosa, era esplicito nel denunciare nel febbraio 2015,
nel corso di una sua visita a Roma, che «uno dei principali
problemi è che il governo vuole instaurare un sistema poli-
tico totalitario, marxista-comunista, che è la causa di tutte le
difficoltà che stiamo vivendo»3, nel tentativo di far capire ai

2
Nos gobiernan los Castro, «Venezuela Analítica», 22/02/2013.
3
Cardenal Urosa: Totalitarismo marxista-comunista trajo la crisis a Ve-
nezuela, «Aci Prensa», 16/02/2015.

175
suoi interlocutori della Curia romana la difficoltà di dialogare
con una simile realtà.
Ben più esplicito è stato il noto analista argentino specia-
lista di affari iberoamericani, Andrés Oppenheimer, che ha
scritto: «Lo sforzo di mediazione del Vaticano è stato un di-
sastro. Ha legittimato il governante autoritario di quel Paese,
Nicolás Maduro, lanciandogli un salvagente quando milioni
di manifestanti scesi in strada esigevano le sue dimissioni
nell’ottobre 2016. E ha permesso a Maduro di guadagnare
tempo, rafforzarsi e reprimere ancor di più l’opposizione»4. E
l’ex ministro di Giustizia spagnolo, Alberto Ruíz Gallardón,
ha persino rincarato la dose: «Con immenso dolore, includo
il Vaticano nella mia denuncia dell’equidistanza fra vittime e
boia. […] I Vescovi venezuelani sono stati degli eroi davanti al
tiranno. Ma Roma ha affrontato il tema come se si trattasse di
una disputa di limiti territoriali»5.
In occasione della visita del Santo Padre in Colombia,
dove il Cardinale Urosa si era recato per incontrarlo, il porpo-
rato dichiarò alla stampa: «Il dialogo e la cultura dell’incontro
che Papa Francesco desidera per il Venezuela non sono pos-
sibili, perché il governo non ascolta ragioni. […] Il governo
è impegnato nello stabilire un sistema totalitario, statalista,
comunista e non ascolta ciò che diciamo: che questa strada è
una strada sbagliata»6.

Coraggiose testimonianze di altri Vescovi


La scrittrice e giornalista italo-venezuelana Marinellys
Tremamunno ha fatto un lungo e continuato sforzo per man-
tenere l’Italia informata sul dramma della nazione caraibi-

4
Papa Francisco, ¡dé un paso atrás en Venezuela!, «El Nuevo Heral,
08/02/2010.
5
Venezuela, una nación secuestrada, «El Mundo», 02/08/2017.
6
Obispos venezolanos se reunieron con el papa: “El diálogo no es posible
con un gobierno totalitario”, «Informativo NTN24», 07/09/2017.

176
ca, terra che ha ospitato, soprattutto dopo la Seconda guer-
ra mondiale, molti connazionali della Penisola. Tanti di loro
hanno messo radici profonde nel tessuto del Venezuela, con-
tribuendo significativamente, con la loro cultura e la loro pas-
sione per il lavoro, a migliorare le condizioni di vita della po-
polazione venezuelana nei decenni precedenti al chavismo.
Oggi, anche loro assaggiano, come tutti, gli amari frutti di 25
anni di questa triste esperienza.
La Tremamunno ha raccolto in un volume dal titolo elo-
quente Venezuela, l’Eden del Diavolo7, le testimonianze
preziose di diversi presuli venezuelani, che rivelano l’ormai
insanabile spaccatura fra il regime di Maduro e il mondo cat-
tolico. Da questi dialoghi veniamo a conoscenza di considera-
zioni della massima importanza.
Mons. Fernando José Castro Aguayo, membro della pre-
latura dell’Opus Dei e Vescovo di Margarita, ha dichiarato in
un’intervista alla giornalista italo-venezuelana: «Abbiamo un
regime assistenzialista, che mira a rendere la vita dei citta-
dini dipendente dallo Stato. È grave perché questo smantel-
la la famiglia in modo assoluto e distrugge le relazioni che
possono essere stabilite tra gli uomini. Quello che viviamo
è qualcosa di inumano e innaturale» (p. 38). Per conto suo,
mons. José Luis Azuaje Ayala, Presidente della Conferenza
episcopale venezuelana (Cev), dà un giudizio altrettanto se-
vero: «In Venezuela si vive in un conflitto permanente, che
porta chiunque alla depressione: le immense code per fare
benzina o per comprare qualsiasi prodotto colpiscono la di-
gnità umana. Tuttavia non possiamo pensare che quello che
accade in Venezuela sia qualcosa di fortuito; tutto è pianifica-
to e sfortunatamente sta dando risultati» (p. 46).
Nel volume sono riportate le testimonianze di altri Vescovi
venezuelani, come quella di mons. José Manuel Romero Bar-
rios, Vescovo di El Tigre: «Tra di noi sono stati innestati l’odio,

7
M. Tremamunno, Venezuela, l’Eden del Diavolo, Edizioni Infinito, For-
migine 2019.

177
la lotta di classe e il risentimento; sconfiggerli ci costerà di-
verse generazioni» (p. 66). L’Arcivescovo emerito di Caracas,
il Cardinale Jorge Savino Urosa, rincara la dose: «Il Venezuela
vive un reale e terribile periodo buio della sua storia perché
il popolo, specialmente la parte più povera, è soggetto a una
serie di carenze e di difficoltà mai sperimentate negli ultimi
cento anni di vita nazionale» (p. 72). E ha aggiunto: «La causa
è un’assurda concezione ideologica secondo la quale lo Stato
deve controllare tutti i mezzi di produzione e per questo il go-
verno attacca e rende la vita impossibile agli imprenditori. Ne-
gli ultimi anni, oltre il 50% delle aziende ha chiuso i battenti e
questo ha provocato una forte disoccupazione. Quella di chi è
al governo è una politica economica sbagliata, totalitaria, mar-
xista e rovinosa. Così ora tutti i venezuelani sono più poveri,
ma i poveri soffrono più che mai. Questo governo che vuole
apparire come il redentore dei poveri è il loro carnefice» (p.73).
Mons. Ovidio Pérez Morales, Arcivescovo emerito della
diocesi di Los Teques ed ex Presidente della Conferenza epi-
scopale del Venezuela, non nutre illusioni: «Dopo vent’anni
di socialismo del XXI secolo, abbiamo un Paese collassato, ab-
biamo un disastro di tipo globale, in ambito economico, poli-
tico ed etico-culturale» (p.118). «Quello che viviamo è un pro-
getto totalitario, che porta inevitabilmente allo scontro con la
Chiesa» (p. 119).

Campo di concentramento
L’autorevole agenzia ACI-Prensa ha riportato nel 2018 le
seguenti terribili informazioni fornite dal Vescovo di Carúpa-
no, mons. Jaime Villaroel: «È in atto una tragedia di dimen-
sioni inimmaginabili. […] Oggi muoiono migliaia di venezue-
lani per mancanza di cibo e di farmaci e perché si violano i
diritti umani permanentemente, […] le industrie sono state
distrutte, soltanto nel mese di ottobre l’inflazione è stata del
280% circa, il salario minimo si aggira fra i quattro e i sei dol-

178
lari mensili; nel 2017 sono morte oltre 20.000 neonati perché
non c’è modo di accudire le madri nel parto». Il presule non
ha remore nel definire il Venezuela intero come un enorme
“campo di concentramento”, aggiungendo che «quel regime
che oggi presiede Nicolás Maduro sta compiendo una strage,
uccidendo il nostro popolo di fame e per mancanza di cibo»8.
Un regime oppressivo il cui simbolo per eccellenza po-
trebbe essere l’Helicoide, vecchio shopping center di lusso
all’epoca delle vacche grasse, la cui immensa struttura edili-
zia è oggi utilizzata per incarcerare e torturare gli oppositori:
«Ogni giorno arrivano persone coperte di sangue – denuncia
un ex-prigioniero – alcune sono incoscienti, altre sono legate.
Tutti i muri sono macchiati di sangue e di escrementi». «Io
sono stato detenuto nella cella chiamata ‘piccolo inferno’ – ri-
vela Rosmit Montilla, un altro ex-prigioniero – era uno spazio
di cinque metri per tre che conteneva ventidue prigionieri.
Vivevamo, dormivamo e andavamo in bagno lì. Eravamo tor-
turati ogni giorno»9.

Sempre più immersi nella tragedia


Il Venezuela sembra non finire mai di precipitare. Un nu-
mero vicino ai quattro milioni, su una popolazione di 32 mi-
lioni, ha preso la via dell’esilio, fuggendo dalla fame e dalla
repressione politica. Molti di coloro che restano sopravvivono
rovistando tra i cassonetti della spazzatura. I supermercati
mostrano scaffali vuoti mentre i media parlano di caccia aper-
ta ai cani randagi per cibarsene. La denutrizione infantile è
alle stelle. Giovani mamme cercano chi possa adottare i loro
neonati, perché non hanno come nutrirli. Le farmacie sono
prive di medicinali di base e negli ospedali non si trova più
siero né materiale per effettuare interventi chirurgici. Manca

8
Venezuela es un campo de concentración donde se comete exterminio,
denuncia obispo, «Aci Prensa», 01/11/2018.
9
In «Tradizione Famiglia Proprietà», giugno 2019.

179
continuamente l’elettricità con tutta la catena di disfunzione
sociali, sanitarie ed economiche che questo comporta e tut-
to ciò in un Paese che, ricchissimo di petrolio, non dovrebbe
avere nessun problema di energia. Mancano persino le ostie
per la distribuzione della Santa Comunione nelle Messe. L’in-
flazione ha raggiunto livelli astronomici, periodicamente si
devono togliere gli zeri dal valore della valuta nazionale, ri-
battezzandola ogni volta con i nomi più ridicoli: i bolívar so-
vrani hanno di recente sostituito i bolívar forti10.

Un caos istituzionale
In questo scenario da incubo, il Venezuela ha scorto un’u-
scita dal tunnel col governo costituzionale pro tempore di
Juan Guaidò, Presidente dell’Assemblea Nazionale, unico
organismo legittimo rimasto nel Paese. Nonostante sia sta-
ta suffragata dalla maggioranza dell’elettorato, l’Assemblea
Nazionale è stata esautorata sotto indicazione di Maduro, che
ha convocato una parallela Assemblea Costituente allo scopo
di ritagliarsi su misura una nuova Costituzione che accresca
ulteriormente i suoi poteri dittatoriali. Gli Stati Uniti, buona
parte d’Europa e la maggioranza delle nazioni latinoameri-
cane hanno riconosciuto Guaidò come legittimo Capo dello
Stato venezuelano dal gennaio scorso, eppure, trascorso un
semestre dalla sua proclamazione, nessuno sforzo finora
compiuto è stato sufficiente per rimuovere Maduro dal potere
che ha revocato persino il mandato di Guaidò, il quale a sua
volta non riconosce questa decisione11.

10
Cfr. P.R. Campos, Na Venezuela Igrejas nao tem ostias, «Catolicismo»,
808 (aprile 2018).
11
Cfr. Guaidó si dichiara presidente pro tempore del Venezuela. Con il
sostegno di Trump. Maduro non si arrende, «La Stampa», 24/01/2019; Vene-
zuela: Trump e i Paesi del Sudamerica riconoscono Guaidó presidente. Ma-
duro: “Colpo di Stato”, «Corriere della Sera», 19/01/2019; Venezuela, Maduro
revoca a Guaidò la carica di presidente del Parlamento, «La Repuublica»,
28/03/2019.

180
In mezzo al caos istituzionale, le divergenze strategiche
dei leader dell’opposizione non hanno agevolato certo l’uscita
di scena di Maduro, che pure fino a pochi mesi fa sembrava
abbandonato da tutti, nascosto in una sorta di bunker e in
procinto di imbarcarsi per l’Avana. Per ora, la situazione at-
tuale vede il dittatore rimanere al suo posto, magari traballan-
te ma forte dell’appoggio pavido di una alta classe militare, a
sua volta accusata di pesanti coinvolgimenti col narcotraffico,
ansiosa di non incorrere nei processi minacciati dal governo
statunitense nel caso di un cambio di regime. Inoltre, Maduro
conta sul sostegno di un considerevole contingente militare
cubano presente nel territorio venezuelano12.

Prospettive future
Sul futuro del Venezuela si possono fare molte ipotesi, al-
cune di portata geostrategica internazionale. Molti venezue-
lani puntano su un sollevamento dei quadri militari medi,
meno coinvolti negli affari di droga. Altri opinano che, a que-
sto punto, una richiesta di intervento internazionale da parte
di Juan Guaidò sarebbe una mossa costituzionale. Altri an-
cora pensano che il regime collasserà dall’interno, come un
tempo l’Unione Sovietica, vittima del suo proprio fallimento
economico e del marciume morale.
Comunque si risolvano queste incognite, una cosa è certa,
è passata ormai l’epoca di un’opinione pubblica che abbiamo
descritta come “distratta” all’epoca della vittoria elettorale di
Chávez nel 1998. Oggi assistiamo invece ad un notevole fe-
nomeno di resilienza soprattutto fra i più giovani, i quali non
smettono di protestare in ogni foro, specialmente e con inau-

12
Cfr. Per Pompeo Maduro era pronto volare a Cuba, ma è stato dissuaso
da Mosca, «Agi», 30/04/2019; Crise na Venezuela. Há um “forte contingente
militar cubano” na Venezuela, «Sic Noticias», 12/03/2019.

181
dito coraggio, in mezzo alla strada, nonostante le esecuzioni
sommarie, gli arresti e le torture13.
Il popolo venezuelano è ancora in grande maggioranza cat-
tolico e trova nella Patrona nazionale, la Madonna di Coro-
moto, il suo rifugio in questa ora di angoscia e la speranza in
un’aurora radiosa che dissiperà la notte comunista e lascerà
il passo ad un migliore avvenire.

13
Il Rapporto Onu sui diritti umani nel Venezuela, presentato il 4 luglio
2019, afferma che «nel 2018 il Governo ha registrato 5.287 morti, presumibil-
mente per resistenza all’autorità». Fino a maggio 2019 sono morte altre 1.569
persone per motivi analoghi e «secondo le statistiche dello stesso Governo»,
tuttavia si osserva che «altre fonti indicano che le cifre possono essere di
molto superiori».

182
Argentina*

Disintegrazione sociale ed erosione della propria


identità nazionale
Il tema di questo Rapporto ci porta a riflettere sulla ne-
cessità di recuperare l’identità nazionale contro i pericoli del
globalismo e del suo “pensiero unico”, nonché i pericoli che
hanno esacerbato i nazionalismi e/o – aggiungiamo – i populi-
smi demagogici nelle loro diverse versioni.
Per questo vale la pena ricordare che il concetto di nazione
implica una «comunità etnica di uomini uniti da vincoli di
sangue, territorio, cultura, lingua, in possesso di uno speci-
fico legame di solidarietà interna, rispetto ad altri gruppi so-
ciali», e che pertanto, la caratteristica distintiva di un nazio-
nalismo sano deve essere ricercata nella solidarietà interna
di un gruppo umano tanto con il suo passato, come con il suo
presente e futuro. D’altra parte, patria significa patrimonio
culturale, tradizioni e costumi ricevuti dagli antenati, essa è
la «terra dei padri», è «la quantità di terra in cui si può par-
lare una lingua e dove possono regnare costumi, uno spirito,
un’anima e un culto, è quella porzione di terra in cui un’ani-
ma può respirare e un popolo può vivere». È chiaro quindi
che i concetti di nazione e patria non devono essere confusi
con il concetto di Stato; quest’ultimo infatti, pur rappresen-
tando l’organizzazione politica e giuridica di una società, può
decidere di stabilire un ordine contrario al sentimento nazio-
nale e all’identità stessa che lo sostiene, come è successo in
Argentina. E d’altra parte vale anche la pena chiarire che la
fede cattolica e universale che suscita l’amore per la “patria

* A cura di Daniel Passaniti. Traduzione dallo spagnolo di Benedetta


Cortese.

183
celeste” non si oppone al sentimento patriottico terreno, ma
piuttosto lo rafforza1.
San Giovanni Paolo II ha detto in merito: «In questo sen-
so, l’universalità, dimensione essenziale nel Popolo di Dio,
non si oppone al patriottismo né entra in conflitto con esso. Al
contrario lo integra, rafforzando in esso i valori che possiede;
soprattutto l’amore alla propria Patria, portato, se è necessa-
rio, fino al sacrificio; ma allo stesso tempo aprendo il patriot-
tismo di ciascuno al patriottismo degli altri, affinché siano
intercomunicanti e si arricchiscano. La pace vera e duratura
deve essere frutto maturo di una raggiunta integrazione di
patriottismo e universalità»2.
È pur vero che questo principio di nazionalità che costitui-
sce la particolarità e l’identità culturale di un popolo è oggi in
tensione permanente con fattori esogeni che lo erodono. La
forte mobilità sociale, il dinamismo dei fenomeni migratori,
il potere egemonico dei social media e la globalizzazione eco-
nomica che caratterizzano il nuovo orizzonte mondiale con le
sue tendenze a pensiero unico, e di fronte ad esso l’insorgenza
di forti particolarismi etnico-culturali di reazione che voglio-
no la sopravvivenza e la preservazione della propria identità
spiegano la tensione attuale. «Questa tensione tra particolare
ed universale, infatti, si può considerare immanente all’es-
sere umano. In forza della comunanza di natura, gli uomini
sono spinti a sentirsi, quali sono, membri di un’unica grande
famiglia. Ma per la concreta storicità di questa stessa natura,
essi sono necessariamente legati in modo più intenso a parti-
colari gruppi umani; innanzitutto la famiglia, poi i vari gruppi
di appartenenza, fino all’insieme del rispettivo gruppo etni-
co-culturale, che non a caso, indicato col termine “nazione”,
evoca il “nascere”, mentre, additato col termine “patria” (“fa-
therland”), richiama la realtà della stessa famiglia. La condi-

1
C. Palumbo, Guía para un estudio sistemático de la Doctrina Social de
la Iglesia, IV edizione, Editorial CIES, Buenos Aires 2004, pp. 225-228.
2
Giovanni Paolo II, Discorso ai Vescovi dell’Argentina a Buenos Aires,
12 giugno 1982, n. 6.

184
zione umana è posta così tra questi due poli – l’universalità
e la particolarità – in tensione vitale tra loro; una tensione
inevitabile, ma singolarmente feconda, se vissuta con sereno
equilibrio»3.
In quello stesso discorso Giovanni Paolo II ha però messo
in guardia dal pericolo di posizioni ideologiche riduttive ed
esclusiviste che reagiscono a questi fenomeni, in modo squi-
librato. «Per amara esperienza sappiamo che la paura della
“differenza”, specialmente quando si esprime mediante un
angusto ed escludente nazionalismo che nega qualsiasi dirit-
to all’“altro”, può condurre ad un vero incubo di violenza e
di terrore. E tuttavia, se ci sforziamo di valutare le cose con
obiettività, siamo in grado di vedere che, al di là di tutte le
differenze che contraddistinguono gli individui e i popoli, c’è
una fondamentale comunanza, dato che le varie culture non
sono in realtà che modi diversi di affrontare la questione del
significato dell’esistenza personale. Proprio qui trovaio una
fonte del rispetto dovuto ad ogni cultura e ad ogni nazione:
qualsiasi cultura è uno sforzo di riflessione sul mistero del
mondo e in particolare dell’uomo: è un modo di dare espres-
sione alla dimensione trascendente della vita umana. Il cuore
di ogni cultura è costituito dal suo approccio al più grande dei
misteri: il mistero di Dio»4.

Argentina: identità e volontà di essere una nazione,


l’amore per la Patria
Nessun Paese, nessuna nazione può raggiungere il suo
vero sviluppo se non partendo dalla propria identità, dai pro-
pri valori, costumi e tradizioni. I fattori esogeni che portano
all’uniformità e al pensiero unico rappresentano non solo una
minaccia per l’identità delle persone, ma anche per il loro sti-

3
Giovanni Paolo II, Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Uni-
te per la celebrazione del 50mo dalla fondazione, New York, 5 ottobre 1995.
4
Ivi.

185
le di vita e le loro aspettative di progresso. In realtà «L’identi-
tà, la fedeltà a se stessi, quel complesso di dati che ci consente
di incontrarci l’un l’altro, riconoscerci e programmare le no-
stre vite senza la violenza dell’incomprensione, trova precisa-
mente la sua ragion d’essere in una comunità trasparente per
origine, certezze condivise e abitudini inconfondibili, adotta-
te spontaneamente e che si arricchiscono quotidianamente
nelle collaborazioni richieste dalla convivenza in un ambito
civico delimitato come una nazione»5.
È chiaro, quindi, che non si può avere un’esperienza di svi-
luppo o aspettative di progresso di una nazione, se la stessa
non è centrata sul rispetto della propria cultura e tradizione
(identità di origine), sull’impegno collettivo e sulla piena con-
sapevolezza dei doveri sociali (identità di coscienza) e sulla
ferma volontà di essere e di realizzare un progetto di vita in
comune (identità di destino).
L’identità implica la capacità di rimanere se stessi (ade-
renza a se stessi) in circostanze e relazioni diverse. Ed è data
da tre elementi: coscienza, memoria e cultura. Chi non ha co-
scienza non ha identità, ed è nella coscienza che riconosciamo
i valori fondamentali; la scoperta di questi valori riguarda la
storia e vive quindi della memoria. Ora, i valori sono sempre
gli stessi per tutti gli uomini, ma il modo in cui questi vengo-
no vissuti è diverso per ogni persona, famiglia e nazione; ed
ecco l’importanza e il significato della cultura: «ogni cultura
umana è un percorso verso la verità dell’uomo […] sono per-
corsi diversi, e l’uomo che crede di non appartenere a nessu-
na cultura, essendo cosmopolita e internazionale, è un uomo
che non ha cultura. Per essere internazionale devi prima es-
sere profondamente nazionale. Colui che non ha consapevo-
lezza della propria cultura nazionale, che non capisce come
funzionano la storia e la solidarietà della propria nazione, non
può capire come funzionano la solidarietà, la storia o la vita di

5
M. Lascano, La corrupción de la cultura y de la identidad nacional,
Ciclos de Cultura y Etica Social, CIES, Buenos Aires 2003.

186
un’altra nazione, né può capire come le nazioni possano lavo-
rare insieme all’interno di un’umanità comune»6.
Dieci anni fa, Papa Benedetto XVI, rivolgendosi ai Vescovi
argentini, ha parlato loro della necessità di un risveglio spi-
rituale e morale delle comunità e dell’intera società, basato
su un’azione evangelizzatrice fondata sui valori cristiani che
hanno plasmato la storia e la cultura argentina7. Purtroppo,
l’Argentina è oggi uno dei Paesi della regione che dimostra
chiaramente una profonda disintegrazione sociale e l’erosio-
ne della propria identità nazionale, a causa di un decadimen-
to morale che si è aggravato negli ultimi anni. Da qui la ne-
cessità imperativa del risveglio spirituale e morale dell’intera
società di cui parlava Papa Benedetto XVI.
In relazione a questa disintegrazione sociale, il grande sto-
rico britannico Arnold Toynbee ha affermato: «La frattura nel
corpo sociale […] costituisce un’esperienza collettiva e quindi
superficiale. Il suo significato sta nel fatto di essere il segno
esteriore e visibile di una frattura spirituale interna, una frat-
tura spirituale che si apre nell’anima degli uomini […] Nelle
profondità di qualsiasi scisma che appare sulla superficie del-
la società […] verrà trovata una frattura dell’anima»8.
Questa è la vera questione: l’Argentina potrà sanare que-
sta crepa spirituale interna solo recuperando e rivendicando
i valori cristiani che hanno forgiato la sua matrice culturale
e la sua identità nazionale. E questo deve avvenire primaria-
mente nell’anima di ogni argentino, in modo che egli possa
emergere e vedersi riflesso nell’intera società e nelle sue isti-
tuzioni. È drammaticamente evidente la necessità di inver-
tire questa crisi morale e le anomalie sociali prevalenti, per
poter recuperare la Repubblica a partire dalla sua stessa es-

6
R. Buttiglione, Identidad y globalización. 8vas Jornadas Bancarias,
ABRA, Buenos Aires 1997.
7
Benedetto XVI, Discorso ai Vescovi della Conferenza Episcopale di Ar-
gentina in visita “ad limina apostolorum”, 30 aprile 2009.
8
Arnold J. Toynbee, Estudio de la Historia, Emecé Editores SA, Bue-
nos Aires 1957, tomo V, seconda parte, p. 385

187
senza, dalle fondamenta, dalle radici morali, spirituali e cul-
turali che hanno dato origine alla nostra Nazione.
Ben affermava un pensatore e scrittore argentino alcuni
anni fa, quando sosteneva che la differenza fondamentale
tra questa Argentina del Bicentenario e l’altra Argentina del
Primo Centenario, fosse essenzialmente spirituale. Mentre
la prima Argentina possedeva l’impulso patriottico e il senso
eroico che ha fondato la Patria, oggi assistiamo a un popolo
sconsiderato, senza vocazioni, dominato, incapace di amarsi
e dimentico di ciò che desiderava essere9. Qualche tempo
dopo, lo stesso scrittore e pensatore, in una nota affermava
che l’Argentina è oggi un «Paese senza nerbo, senza orgoglio,
triste, teso, aggressivo, senza un copione di grandezza, con un
milione e mezzo di giovani alla deriva d’innanzi alla imbecil-
lità della bailanta, la tentazione del crimine o il suicidio del
paco […] Un paese senza Stato e senza direzione di successo
non è un Paese trasgressivo ma stupido […] La dis-educazio-
ne antipatriottica e antinazionale ha raggiunto in questi anni
i suoi scopi anarchici […] Siamo in una pericolosa terra di
nessuno […] ne deriva quindi che il nostro passato ci sembra
quasi un futuro utopico»10. Queste sono parole pronunciate
più di dieci anni fa e pur tuttavia assolutamente attuali.

Il patriottismo come virtù


Patriottismo, parola dimenticata se non ridicolizzata
nell’odierna Argentina. Il patriottismo appartiene alla virtù
della giustizia ed è una forma della virtù della pietà, infatti, è
proprio dell’uomo l’amore per la famiglia e per la patria, così
come l’amore soprannaturale per la Chiesa.
Patriottismo significa gratitudine, abnegazione, servizio e
dedizione al bene comune, fedeltà alla tradizione e ai valori

9
A. Posse, Argentina, el gran viraje, Emecé Editores SA, Buenos Aires
2000.
10
Id., in «La Nación», 11/09/2008.

188
che hanno plasmato l’identità nazionale. Disse Papa Leone
XIII: «Ora, pertanto, se siamo obbligati per legge di natura
ad amare e difendere particolarmente quella città nella qua-
le siamo nati, fino al punto che un buon cittadino non può
dubitare di dover dare anche la vita per la patria […] l’amore
soprannaturale per la Chiesa e l’amore naturale per la patria
sono entrambi figli della stessa sempiterna fonte, poiché han-
no come causa e autore Dio stesso»11.
C’era un’Argentina in cui chi scrive questa nota ha vissu-
to, dove gli insegnanti e le insegnanti (non declassati a meri
lavoratori nel campo dell’educazione) erano predicatori della
dignità e della libertà dell’uomo, dell’amore per la patria e i
suoi simboli; dove studenti e soldati giuravano solennemente
sulla bandiera, che era rispettata e custodita da tutta la po-
polazione; c’era un’Argentina il cui inno nazionale veniva
cantato con emozione patriottica, nelle scuole, nelle caserme,
nelle università e in qualsiasi evento pubblico, in cui le feste
nazionali venivano celebrate con sfilate civili-militari; un’Ar-
gentina in cui la Chiesa era presente in tutti gli atti civici, nei
quartieri e nella vita di tutti i giorni. C’era un’Argentina in
cui, come diceva Julián Marías, c’era amore per la Patria12.
Questo amor di patria Patria, suppone, tra l’altro, di cono-
scere e inserirsi nella sua vera storia (non certo quella con-
tenuta nel libretto ideologizzato oggi ampiamente diffuso e
persino insegnato nelle scuole), perché da quel passato sto-
rico – afferma Julián Marías – riceviamo l’energia che ci fa
avanzare verso il futuro.
Insieme all’assenza di patriottismo c’è un altro grande
deficit nell’attuale Argentina: la mancanza di consapevolez-
za dei doveri sociali e la conseguente assenza di un impegno
comunitario che garantisca, in ogni momento, la coesione so-
ciale e un progetto di vita in comune.

11
Leone XIII, Enciclica Sapientiae cristianae, 10 gennaio 1890.
12
J. Marías, Breve tratado de la ilusión, Editorial Alianza, Madrid 1990.

189
In virtù di questa sub-cultura e del pragmatismo utilitari-
stico che prevale oggi nella società argentina non vi è consa-
pevolezza che ogni uomo nasce con un debito, che siamo tutti
debitori dal primo secondo della nostra esistenza. Debitori in
primo luogo verso Dio, perché ci ha donato gratuitamente la
possibilità di esistere ed è Lui che ci sostiene nel corso della
nostra esistenza. Essere debitori verso Dio significa amare e
rispettare la sua Legge sia nella vita privata che nella vita
pubblica. Siamo poi debitori verso la nostra famiglia, i nostri
genitori, che ci hanno messo al mondo, si sono presi cura di
noi e ci hanno fornito i beni materiali e spirituali necessari
per la nostra formazione personale. Infine, debitori verso la
nostra patria, perché in essa siamo nati e perché solo attra-
verso essa nutriamo la nostra identità e la nostra volontà di
essere una nazione sovrana.
Per essere in grado di superare il declino in cui è piena-
mente calata e che la mantiene alla soglia del sottosviluppo,
l’Argentina deve recuperare la propria volontà e salvare quel
progetto di vita comune che è la nazione; allo stesso tempo
deve formare ed educare gli uomini al dovere, pienamente
consapevoli di un destino comune e impegnati verso la pro-
pria patria.
Al di là del colore politico del governo del momento, e no-
nostante i populismi di sinistra o di destra che si alternano
al potere in Argentina e che hanno propiziato e installato un
ordine pubblico contrario all’essere nazionale, siamo convin-
ti che la nazione dimostrerà di essere in grado di affronta-
re le sfide presentate dal mondo attuale solo partendo dalla
propria identità e matrice culturale; in questo modo e solo in
questo modo l’Argentina sarà in grado di recuperare la gran-
dezza che aveva una volta.

190
Brasile*

Il divorzio tra nazione e Stato e l’ideologia della


liberazione
«Questa manifestazione è molto anomala: le persone si
urtano le une contro le altre e chiedono scusa!». Con queste
parole uno dei manifestanti riassumeva il clima di cordialità
che regnava nella Avenida Paulista il 15 marzo 2015, a San
Paolo, dove oltre un milione di brasiliani, di ogni ceto sociale
e di ogni età, si era riversato per protestare contro il governo
del Partito dei Lavoratori (PT).
Nessun incidente grave venne denunciato. La stessa Po-
lizia Militare, abituata a fronteggiare provocazioni nelle pre-
cedenti manifestazioni della sinistra, veniva ricevuta tra gli
applausi. I bambini chiedevano di farsi dei selfie con il Bat-
taglione d’Urto. La stessa scena si ripeteva in tutto il Brasi-
le, nelle centinaia di città e paesi che hanno visto analoghe
proteste.
Dopo decenni di governi di sinistra, compresi gli otto
anni del “social-democratico” Fernando Henrique Cardoso
(PSDB), seguiti dagli otto anni di Luís Inácio Lula da Silva
(PT) e gli oltre cinque anni di Dilma Roussef (PT), il Paese si
era sollevato contro la sinistra e contro la corruzione.

La sconfitta del PT è stata una sconfitta della Teologia


della Liberazione
«Io sono stato un frutto della Teologia della Liberazione»,
disse l’ex Presidente Lula, oggi in carcere a Curitiba, nel sud
del Brasile, in un video registrato che è possibile trovare su

* A cura di Frederico Romanini de Abranches Viotti.

191
Youtube1. Il PT, così come altri partiti di sinistra, è sempre
dipeso dalle Comunità ecclesiali di base (CEB) in mano alla
sinistra cattolica. Infatti, dalle CEB provengono i principali
leader di quei partiti.
Su questo, Fra Betto, uno degli esponenti di spicco di quel-
la corrente, ha affermato di recente in un suo articolo: «Du-
rante i decenni degli anni ’70 e ’80, le CEB svolsero un ruolo
importante nella congiuntura brasiliana. Sono state vivai di
leader popolari che hanno creato movimenti sociali e rivita-
lizzato il sindacalismo combattente. Hanno favorito la capilla-
rità nazionale del PT, anche se non hanno mai avuto carattere
partitico e accoglievano militanti di diversi partiti»2.
Stessa ammissione venne fatta nel 2006 dall’allora Presi-
dente della Conferenza episcopale brasiliana (CNBB), secon-
do quanto riferito dalla “Folha de Londrina”: «Il Presidente
della Conferenza nazionale dei Vescovi del Brasile, Cardinale
Geraldo Majella, ieri ha riconosciuto che la Chiesa, tramite
le CEB, negli anni ’80 appoggiò l’espansione del Partito dei
Lavoratori nel Paese»3.
Nonostante la vittoria dei partiti di sinistra non sia mai
stata frutto di una adesione dell’opinione pubblica a quella
corrente ideologica4, essa rappresentò non solo il governo
di un partito di sinistra ma anche di un governo legato inti-
mamente alla Teologia della Liberazione. In questo senso, la
sconfitta del PT rappresenta anche la sconfitta di un proget-
to molto più vecchio, ampio e profondo. Un progetto che si

1
Lula fala sobre Lech Walesa, Igreja, socialismo e outros (2002). Video
disponibile su YouTube [https://youtu.be/efkaaNgNI_c].
2
Frei Betto: Comunidades Eclesiais de Base: CEBs, «LeonardoBoff.com»
(blog dell’ex frate Leonardo Boff, un altro esponente della Teologia della Li-
berazione in Brasile), 31/01/2018.
3
CNBB reconhece que Igreja ajudou a fortalecer o PT, «Folha de Londri-
na», 03/04/2006.
4
Oltrepasserebbe lo scopo di questo articolo entrare nei particolari di
quella vittoria. Riassumendo, si potrebbe dire che fu il frutto dell’attività di
sagrestie coinvolte nella Teologia della Liberazione, di una trasformazione
cosmetica di quei partiti (che cercarono di avvicinarsi al centro ideologico) e
di una forte ed efficace campagna di marketing politico.

192
confonde con la stessa sinistra cattolica e il suo sforzo per la
rivoluzione sociale tramite le CEB.
Le suddette manifestazioni di strada hanno preso in mano
il Brasile, confondendo e zittendo la sinistra che ancora oggi
non riesce a riorganizzarsi.

Malcontento crescente nell’opinione pubblica


Nonostante la loro sorprendente imponenza, le manife-
stazioni non erano inattese. Il malcontento per la direzione
intrapresa dal Paese era molto vivo lungo le strade e lo si per-
cepiva anche su Internet e negli incontri fra amici e persino
con gente sconosciuta.
L’enorme quantità di provvedimenti con la pretesa d’esse-
re “popolari”, ma di fatto profondamente impopolari, adottati
o ampliati dai successivi governi di sinistra, avevano prodotto
molto disappunto poi trasformato in diffidenza e infine in un
grande e generalizzato malcontento.
Per esempio, gli ultimi governi avevano ufficializzato
gradualmente la pratica dell’aborto negli ospedali pubblici;
approvato o proposto leggi intese a regolare persino la vita
familiare, al punto di proibire qualche scappellotto corret-
tivo ai figli; incentivato la cosiddetta “ideologia di genere”
nelle scuole, censurando libri didattici non allineati; la pra-
tica omosessuale non solo veniva tollerata, ma chiunque si
manifestasse contrario rischiava la persecuzione e l’accusa
di “omofobia”; il diritto di proprietà, basato su due comanda-
menti della Legge divina, veniva costantemente trasgredito
da una riforma agraria di stampo socialista e di confisca, e
dall’occupazione di terre e case non adeguatamente repressa
ma, anzi, incoraggiata; l’iniziativa privata era inibita da una
pesante legislazione burocratica e da alte tasse; la nota ar-
monia razziale brasiliana diveniva bersaglio di una “politica
razziale affermativa” che, nel cercare di privilegiare alcune
minoranze attraverso il meccanismo delle quote, dava origi-

193
ne a una vera “lotta di razze” dentro il territorio nazionale;
la diplomazia brasiliana, fino a quel momento competente e
mossa dagli alti interessi nazionali, si avvicinava chiaramen-
te ai regimi dittatoriali di Cuba, Venezuela, Iran; si era persi-
no giunti a minacciare di estromettere i simboli religiosi da
innumerevoli luoghi pubblici.
Prese singolarmente, nessuna di queste misure sarebbe
bastata per generare tutta la reazione vista in Brasile. Tutta-
via, messe insieme, delineavano l’immagine di un Paese di-
verso – persino agli antipodi – rispetto al sentire comune del
brasiliano.
Nel contempo, la responsabilità per gli innumerevoli scan-
dali di corruzione, i più grandi mai visti nel Paese, ricadeva
sul partito al governo del Brasile, il PT5, che era accusato di
essersi impadronito dello Stato allo scopo di servirsene per la
sua ideologia socialista.
Tutto ciò ha dato origine ad un diffuso malessere, analogo
a quello verificatosi nei Paesi dietro la cortina di ferro e che
preannunziava la fine dell’URSS avvenuta nel 1991.
In una puntuale analisi, il prof. Plinio Corrêa de Oliveira
descrisse quel “malcontento” nei Paesi dell’Est europeo come
una convergenza di «tutti i malcontenti regionali e naziona-
li, economici e culturali, da decenni accumulati nel mondo
sovietico dietro una apparenza di indolente e tragica apatia;
apatia di chi non concorda con nulla ma è impedito fisica-
mente di parlare, di muoversi, insomma, di manifestare un
disaccordo efficace»6.

Il divorzio fra la Nazione e lo Stato


Già dal 1982, lo stesso autore scriveva per la Folha de S.
Paulo nell’articolo Attenzione con i pacati: «Se la sinistra si

5
13 escândalos do PT no poder, «O Globo».
6
In «Catolicismo», 471 (marzo 1990).

194
precipiterà a rendere effettive le rivendicazioni “popolari” e
livellatrici […]; se si mostrerà esasperata e acida nel ricevere
le critiche dell’opposizione; se diventerà persecutoria […], il
Brasile si sentirà frustrato nel suo anelito di un regime ‘bon
enfant’, di una vita distesa e spensierata. In un primo mo-
mento si allontanerà dalla sinistra. Successivamente, si risen-
tirà. Infine, diverrà furibondo. La sinistra avrà perso la partita
della popolarità»7.
Ci sono situazioni in cui l’opinione pubblica si sottomet-
te a un silenzio volontario simile al liquido contenuto in una
bottiglia sotto pressione. L’apparente tranquillità della bot-
tiglia immobile nasconde la pressione in essa contenuta, ma
nel momento in cui la si apre, quella pressione salta fuori.
Quando qualcuno si alza contro l’apparente unanimità del
“politicamente corretto” e dice quello che molti altri pensa-
no in silenzio, l’opinione compressa come in una bottiglia di
champagne dà luogo a una esplosione di consonanze.
Negli ultimi anni, in Brasile, abbiamo visto una di queste
grandi consonanze che si producono fra persone delle più
svariate origini e condizioni. Non è stato certo il Brasile di-
pinto dai grandi mass media o dai sociologi e analisti politici
di stampo più o meno liberal, bensì un Brasile profondo, au-
tentico, che ama l’ordine e la pacatezza, e che ha fatto sentire
la sua voce all’unisono.
La sinistra, immaginando di controllare il Paese, perché a
capo del Governo, è rimasta sorpresa da una reazione conser-
vatrice così ampia e ancora poco studiata ed esplicitata.
Nel 1987, analizzando il progetto di una nuova Costituzio-
ne per il Brasile, promulgata nel 1988 e oggi in vigore, il prof.
Plinio Corrêa de Oliveira metteva in guardia sulle crepe che
si stavano aprendo nel Paese fra la nazione e lo Stato. Se i po-
litici avessero continuato a trascurare il sentimento maggio-
ritariamente conservatore del brasiliano medio, «il divorzio
fra Paese legale e Paese reale sarà inevitabile. Si creerà una

7
«Folha de S. Paulo», 14/12/1982.

195
di quelle situazioni storiche drammatiche in cui il contenuto
autentico della Nazione fuoriesce dallo Stato, e quest’ultimo
passa a vivere (se questo è vivere) svuotato di esso»8, egli
affermava.
Questo divorzio fra nazione e Stato, fra Brasile reale e Bra-
sile di superficie è andato accentuandosi fino ai nostri giorni,
culminando infine nelle manifestazioni in cui i colori verde-
oro della bandiera brasiliana venivano sventolati in segno di
ripudio per il rosso dei socialisti. Gli slogan gridati esprime-
vano i desideri dei manifestanti: “Voglio che mi ridiano il mio
Brasile”, “La nostra bandiera non sarà mai rossa”.
Poco dopo quelle manifestazioni, il 2 dicembre 2015, il
Congresso brasiliano diede inizio al processo di impeachment
dell’allora Presidente Dilma Rousseff a causa degli scandali
di corruzione nei quali era coinvolto il suo partito. Quel pro-
cesso è durato fino al 31 agosto 2016.
La sinistra, che si diceva vittima di un golpe, decise allo-
ra di puntare tutto sulle elezioni amministrative fissate due
mesi dopo, supponendo che esse avrebbero dimostrato l’in-
soddisfazione dell’opinione pubblica per l’impeachment e
consacrato la sua vittoria.

Le elezioni amministrative del 2016


«Va riconosciuto che alle elezioni il popolo ha seppellito le
nostre proposte, sedicenti di sinistra, rappresentate soprat-
tutto dal PT, ma non solo» (Senatore Cristovam Buarque)9.
Il New York Times, in un ampio servizio sul rigetto della
sinistra in Brasile e in America Latina, affermava: «in meno
di un anno gli elettori hanno frustrato i movimenti di sinistra
in Argentina, hanno eletto un banchiere di investimenti in

8
P. Corrêa de Oliveira, Projeto de Constituição Angustia o País, Edito-
ra Vera Cruz, S. Paulo 1987, p. 201.
9
Cfr. A. Matais – M. de Morais, Pronto, falei, «O Estado de S. Paulo»,
4/10/2016, Coluna do Estadão.

196
Perù, mentre i parlamentari hanno posto fine al mandato del
leader della sinistra in Brasile»10. Il servizio si dilungava poi
sulla vittoria del “no” al referendum sugli accordi con la guer-
riglia narco-marxista in Colombia e sul risultato delle elezioni
amministrative in Brasile.
Il progetto “bolivariano”, capeggiato dal Venezuela, si tro-
vava davanti a un netto rovesciamento nel continente.
In Brasile, il Partito dei Lavoratori (PT), della ex Presi-
dente Dilma Rousseff, è stato il più castigato di tutti dagli
elettori. Come commenta Merval Pereira in un articolo su O
Globo, «questa umiliazione nazionale patita dal PT, nella per-
fetta definizione del “Financial Times”, è la prova che la lar-
ga maggioranza dei cittadini brasiliani rifiuta il partito che si
dice vittima della persecuzione politica».11
Dirsi di sinistra iniziò ad essere così fonte di discredito,
dopo le manifestazioni che avevano riempito le piazze del
Brasile, che la stessa ex-senatrice del PT (che in seguito la-
sciò il partito), nota militante femminista e allora candidata
sindaco per la città di San Paolo, Marta Suplicy, giunse a dire:
«Non mi sono mai collocata come una di sinistra»12.

Elezioni presidenziali del 2018


Smentendo i sondaggi che davano la sinistra vincente, le
urne mostrarono un Paese ignorato dai grandi media. Nello
Stato di Minas Gerais, l’ex Presidente Dilma Rousseff (PT),
considerata fino alla vigilia delle elezioni la grande favorita
per uno dei seggi al Senato Federale, giunse solo quarta. Non
era soltanto una sconfitta elettorale, ma la conferma popolare
dell’impeachment subito due anni prima.

10
Cfr. D. Buarque, in «Notícias UOL», 4/10/2016.
11
M. Pereira, “Rever a Relação”, “O Globo”, 4 ottobre 2016.
12
«Non mi sono mai sentita una di sinistra, ha detto Marta Suplicy»,
“Folha de São Paulo”, 20 settembre 2016.

197
L’indomani, subito dopo la prima tornata elettorale, i ti-
toli di apertura dei giornali erano chiari: Onda conservatrice
cambia la mappa politica13; Onda conservatrice crea gruppo
bolsonarista al Congresso14; La nuova onda conservatrice in
Brasile15; Bolsonaro surfa sull’onda conservatrice16. La secon-
da tornata elettorale confermò la disfatta della sinistra il gior-
no della festa di Cristo Re, 28 ottobre, conferendo la vittoria
all’attuale Presidente Jair Bolsonaro.
Oltre ad un’onda conservatrice, quello che il Brasile sta
sperimentando è un movimento di reazione conservatore.
Questo salutare movimento di opinione pubblica non è dimi-
nuito, neanche dopo la vittoria di un candidato che si posizio-
na molto più a destra rispetto al ventaglio politico nazionale e
che si presenta come un conservatore che difende la proprie-
tà e la famiglia.
Forse il Brasile, nato con una Santa Messa celebrata all’ar-
rivo dei portoghesi, può essere un esempio più nitido di quel-
la reazione conservatrice che si verifica in diversi Paesi del
mondo. E forse, questo spiega anche perché il Paese sia con-
tinuamente bersaglio di ostili campagne di stampa da parte
dei media nazionali e internazionali.
Come reagirà l’attuale governo a queste campagne e se sarà
fedele ai suoi elettori, è ancora troppo presto per dirlo. Ma la
reazione vista in Brasile non è né passeggera né superficiale;
è destinata a rimanere. E segnerà una nuova epoca storica
in questo Paese benedetto dal Cristo Redentore dall’alto del
monte Corcovado a Rio de Janeiro.

13
In «O Globo», 08/10/2018.
14
In «El País» (Spagna), 07/10/2018.
15
In «Carta Capital» [www.cartacapital.com.br].
16
In «O Estado de S. Paulo», 08/10/2018.

198
LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA NEL MONDO
CRONOLOGIA DEI PRINCIPALI
AVVENIMENTI DEL 2018

31 dicembre 2018
USA. L’amministrazione Trump, nell’impegno di contrastare
l’immigrazione illegale verso gli Stati Uniti, ha documentato at-
traverso il Dipartimento di Stato alcuni numeri che sintetizza-
no l’efficacia delle misure adottate. Desta notevole impressione
l’impedimento all’ingresso, attraverso il cosiddetto Muslim Ban,
di immigrati musulmani provenienti dai Paesi a rischio terrori-
smo, arrivato all’80% in meno rispetto all’amministrazione pre-
cedente di Obama.

19 dicembre 2018
MONDO. Pubblicato l’annuale Global Terrorism Index (GTI),
dall’Istituto per l’Economia e la Pace (IEP). Costituisce la più ef-
ficace risorsa per monitorare le tendenze del terrorismo globale,
attraverso l’inquadramento di oltre 170mila episodi terroristici
dal 1970 al 2017.

VATICANO. Pubblicato il testo La dismissione e il riuso ecclesia-


le di chiese. Linee guida, approvato dal Pontificio Consiglio della
Cultura e dai delegati delle Conferenze episcopali di Europa, Ca-
nada, Stati Uniti e Australia a conclusione del Convegno inter-
nazionale “Dio non abita più qui? Dismissione di luoghi di culto
e gestione integrata dei beni culturali ecclesiastici” (Pontificia
Università Gregoriana, 29-30 novembre 2018).

18 dicembre 2018
ITALIA. Pubblicato il nuovo libro di Stefano Fontana: Chiesa
gnostica e secolarizzazione. L’antica eresia e la disgregazione
della fede, Edizioni Fede & Cultura.

11 dicembre 2018
FRANCIA. Comunicato dalla Conferenza episcopale Appel aux
catholiques de France et à nos concitoyens ove si interviene sul
fenomeno dei gilet gialli ponendo cinque domande in proposito.

199
10-11 dicembre 2018
MONDO. Durante la Conferenza intergovernativa dell’ONU
tenutasi a Marrakech (Marocco) viene formalmente adottato il
“Global Compact for Safety, Ordely and Regular Migrations”.

10 dicembre 2018
VATICANO. Messaggio del Papa ai partecipanti alla Conferenza
internazionale: “I diritti umani nel mondo contemporaneo: con-
quiste, omissioni, negazioni”, Roma, 10-11 dicembre 2018.

UNIONE EUROPEA. Dichiarazionie in occasione del 70mo an-


niversario della Dichiarazione universale dei Diritti umani di
Mons. Theodorus C.M. Hoogenboom, Presidente della Commis-
sione per le questioni giuridiche della COMECE.

3 dicembre 2018
ITALIA. Presentato ufficialmente il Decimo Rapporto sulla Dot-
trina sociale della Chiesa nel Mondo dell’Osservatorio Interna-
zionale Card. Van Thuân dedicato al tema: Islam: un problema
politico.

UNIONE EUROPEA. Dichiarazione del Presidente della COME-


CE circa il sostegno della Chiesa cattolica al Global Compact del-
le Nazioni Unite sulle migrazioni.

22-25 novembre 2018


VATICANO. Messaggio del Papa ai partecipanti alla VIII edizio-
ne del festival della Dottrina sociale della Chiesa sul tema “Il
rischio della libertà”.

22 novembre 2018
ITALIA. Save the Children: pubblicato il IX Atlante dell’Infanzia
a Rischio Le periferie dei bambini, dedicato alle periferie educa-
tive in Italia.

19 novembre 2018
FRANCIA. L’ultimo numero della rivista francese «Catholica»
diretta da Bernard Dumont parla dell’origine dell’idea di “Chiesa
in uscita” e la fa risalire al padre domenicano Marie-Dominique
Chenu. La cosa interessa anche la Dottrina sociale della Chiesa,
dato che padre Chenu, com’è noto, nei primissimi anni Settanta
del secolo scorso aveva lanciato la più radicale negazione della
possibilità stessa della Dottrina sociale della Chiesa, consideran-
dola una ideologia.

200
18 novembre 2018
VATICANO. Messaggio del Papa per la II Giornata mondiale dei
Poveri: Questo povero grida e il Signore lo ascolta.

16 novembre 2018
ONU. Le responsabilità morali ed etiche delle Università in ri-
sposta alle realtà globali dei migranti e dei rifugiati: discorso di
S.E. Arc. Bernardito Auza, Osservatore Permanente della Santa
Sede presso le Nazioni Unite.

9 novembre 2018
ITALIA. Il 36mo Premio Internazionale Cultura Cattolica è stato
conferito da parte della Scuola di Cultura Cattolica di Bassano
del Grappa (Vicenza, Italia) alla prof.ssa Hanna-Barbara Gerl-
Falkovitz «testimone autorevole dell’indispensabilità e vitalità
del pensiero cattolico per l’intera cultura europea e per il futuro
stesso dell’Europa».

5 novembre 2018
BELGIO. La Commissione per gli Affari sociali della COMECE
pubblica Shaping the future of work. Il Documento invita l’UE a
modellare le trasformazioni digitali ed ecologiche del mondo del
lavoro sul bene comune.

1 novembre 2018
VATICANO. Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore
di molti (Mt 24,12): Messaggio del Santo Padre Francesco per la
Quaresima 2018.

30 ottobre 2018
ITALIA. Partire svantaggiati. La disuguaglianza educativa tra
i bambini dei paesi ricchi: Report Card 15 del Centro di Ricerca
Innocenti dell’UNICEF.

29 ottobre 2018
Prima lezione della Scuola di Dottrina sociale della Chiesa te-
nuta dall’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi su la «Nuova Bussola
Quotidiana». La Scuola è organizzata dall’Osservatorio Interna-
zionale Card. Van Thuân.

26 ottobre 2018
ITALIA. Comincia presso il Convento dei Frati Cappuccini la pri-
ma sezione della Scuola di Dottrina sociale della Chiesa “Mater

201
et Magistra” di Bergamo, organizzata dall’Osservatorio Interna-
zionale Card. Van Thuân.

UNIONE EUROPEA. L’Assemblea di Autunno della COMECE


invita i cittadini a partecipare alle elezioni europee con discerni-
mento e responsabilità.

ARGENTINA. Appello della Conferenza episcopale argentina:


Distinguiamo: sesso, genere e ideologia, in vista di possibili modi-
fiche alla legge in vigore sull’educazione integrale, contrarie alla
visione cristiana del mondo e che potrebbero limitare l’esercizio
delle libertà dei genitori e delle istituzioni educative.

CHIESA. Un appello ai leader di tutto il mondo, in vista della


Cop24 sul clima che si terrà in Polonia a dicembre, perché inter-
vengano per contrastare gli effetti devastanti del riscaldamento
globale, è stato firmato dai Presidenti delle Conferenze episcopa-
li regionali di Europa, Asia, Africa, America Latina ed Oceania.
Nel documento i Vescovi della Chiesa cattolica invitano i governi
a intraprendere azioni ambiziose e immediate per affrontare e
superare gli effetti devastanti della crisi climatica.

24 ottobre 2018
POLONIA. Il dott. Luca Pingani dell’Osservatorio Internaziona-
le Card. Van Thuân tiene a Varsavia una relazione dal titolo Eu-
ropa: fine delle illusioni al Convegno internazionale promosso
da “Europa Christi”.

CUBA. In una Lettera pastorale la Conferenza episcopale di


Cuba si esprime sul Progetto della nuova Costituzione del Paese
che, alla fine del processo di revisione, sarà sottoposta a refe-
rendum popolare. I Vescovi sottolineano nella Lettera i temi che
essa deve tenere in considerazione in quanto reggono la società
cubana: la dignità dell’uomo e della donna, il rispetto dei diritti
umani, la famiglia, l’economia e il servizio al bene comune.

20 ottobre 2018
ITALIA. A Montefiascone (Viterbo), si tiene il terzo Convegno
annuale “San Tommaso e la Dottrina sociale della Chiesa” pro-
mosso dall’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân in-
sieme all’Istituto del Verbo Incarnato (IVE) e ad altri partners,
quest’anno dedicato a “La legge, le leggi; il diritto, i diritti”.

202
16 ottobre 2018
ITALIA. Messaggio del Papa per la Giornata mondiale
dell’alimentazione.

28 settembre 2018
ONU. Intervento di mons. Gallagher all’incontro su “Protezione
delle minoranze religiose nelle aree di conflitto”.

29 settembre 2018
VATICANO. La verità vi farà liberi (Gv 8,32). Fake news e gior-
nalismo di pace: Messaggio del Papa per la 52ma Giornata mon-
diale delle Comunicazioni sociali.

27 settembre 2018
ITALIA. Prolusione di S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi, Presiden-
te dell’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân, sul Diritto
alla vita al 51mo Convegno sui problemi internazionali dell’Istitu-
to Nicolò Rezzara, Vicenza.

22-25 settembre 2018


VATICANO. Viaggio apostolico di Papa Francesco in Lituania,
Lettonia ed Estonia.

22 settembre 2018
ITALIA. Presso il Convento dei Frati Minori Cappuccini di Ber-
gamo, Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio Internazio-
nale Card. Van Thuân, partecipa al Convegno “Sessantotto e
Humanae vitae. Antropologie a confronto” con una relazione dal
titolo Humanae vitae: aspetti sociali dell’enciclica sull’amore
coniugale.

20 settembre 2018
FRANCIA. La Dignità della Procreazione: comunicato della
Conferenza episcopale francese sulla PMA. I Vescovi sottoline-
ano che la procreazione riguarda direttamente la dignità della
persona ed illustrano i principali problemi etici sollevati dalla
pratica della PMA.

17 settembre 2018
UNIONE EUROPEA. In occasione della Conferenza interna-
zionale su “Religious freedom and development coopertion to
reduce the causes for migration”, la COMECE ha sottolineto il
primario diritto di ogni persona a vivere con dignità nel proprio
Paese senza essere costretta a migrare.

203
MONDO. Rapporto ONU: Lo stato della sicurezza alimentare e
dell’alimentazione nel mondo 2018. Rafforzare la resilienza cli-
matica per la sicurezza alimentare e l’alimentazione.

15 settembre 2018
VATICANO. Visita pastorale del Santo Padre Francesco alle Dio-
cesi di Piazza Armerina e Palermo in occasione del 25mo anniver-
sario della morte del Beato Pino Puglisi.

14 settembre 2018
VATICANO. Ricorre il ventennale della pubblicazione dell’Enci-
clica Fides et ratio di Giovanni Paolo II.

1 settembre 2018
VATICANO. Messaggio di Papa Francesco per la celebrazione
della Giornata mondiale di Preghiera per la cura del creato.

25-26 agosto 2018


VATICANO. Viaggio apostolico di Papa Francesco in Irlanda in
occasione dell’Incontro mondiale delle Famiglie a Dublino.

25 agosto 2018
ITALIA. Esce il nuovo Manuale di Dottrina sociale della Chiesa
di George J. Woodall, Fede & Cultura, Verona.

23 agosto 2018
ITALIA. Presso il santuario di Madonna di Strada a Fanna (Por-
denone), si è svolto il 46° Convegno annuale degli amici di «In-
staurare omnia in Christo», periodico cattolico, culturale, religio-
so e civile diretto dal prof. Danilo Castellano. Il tema del conve-
gno, nel 50° dell’evento rivoluzionario, presenta il titolo “Il ’68: la
Chiesa e la società civile di fronte e dopo la Contestazione”.

25 luglio 2018
VATICANO. Ricorre il 50°anniversario della pubblicazione
dell’Enciclica Humanae vitae di Paolo VI.

23 luglio 2018
ITALIA. Inizia sul quotidiano cattolico online «La Nuova Busso-
la quotidiana» il blog di Stefano Fontana dedicato alla Dottrina
sociale della Chiesa.

204
14 luglio 2018
NICARAGUA. La verità ci renderà liberi: comunicato della Con-
ferenza episcopale del Nicaragua (CEN). I Vescovi denunciano
«la mancanza di volontà politica del governo di dialogare» e di
cercare processi reali che portino il Paese verso una democrazia
reale.

11 luglio 2018
USA. Brett M. Kavanaugh, cattolico, è stato scelto come giudice
della Corte Suprema federale statunitense al posto del dimis-
sionario Anthony Kennedy. Sostenuto dalla Federalist Society,
organizzazione conservatrice negli USA, Kavanaugh è sempre
stato paladino dei principi non negoziabili.

7 luglio 2018
VATICANO. Visita pastorale del Santo Padre Francesco a Bari.

4 luglio 2018
ITALIA. L’obiezione di coscienza e i suoi fondamenti: Nota
dell’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi sulla sentenza di assoluzio-
ne della farmacista di Monfalcone che si era rifiutata di vendere
la cosiddetta pillola del giorno dopo.

25 giugno 2018
VATICANO. Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipanti
all’Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita.

25 giugno 2018
VATICANO. Discorso ai partecipanti all’incontro “Educare e
trasformare”, promosso dalla Fondazione Gravissimum Educa-
tionis. Papa Francesco invita la comunità educativa cattolica a
“globalizzare la speranza”.

21 giugno 2018
VATICANO. Pellegrinaggio ecumenico di Papa Francesco a
Ginevra.

19 giugno 2018
USA. The Age Gap in Religion Around the World: Rapporto sulla
religiosità mondiale del Pew Reserch Center. Lo studio riguarda
106 Paesi del mondo, studiati per 10 anni.

205
16 giugno 2018
ITALIA. Incontro del Santo Padre Francesco con la delegazione
del Forum delle Associazioni familiari.

12 giugno 2018
USA. Storico incontro a Singapore tra Donald Trump e il leader
della Corea del Nord, Kim Jong-un, nel quale hanno congiunta-
mente firmato un trattato per la denuclearizzazione della peni-
sola coreana.

11 giugno 2018
MONDO. L’UNCTAD pubblica il Rapporto sullo sviluppo econo-
mico 2018 in Africa dal titolo Economic Development in Africa
Report: Migration for Structural Transformation.

9 giugno 2018
VATICANO. Discorso del Santo Padre Francesco ai partecipan-
ti all’Incontro per Dirigenti delle principali Imprese del settore
petrolifero, del gas naturale e di altre attività imprenditoriali col-
legate all’energia.

30 maggio 2018
ITALIA. Dichiarazione dell’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi nel
40mo anniversario della legge 194 (22 maggio) che ha introdotto
nell’ordinamento del nostro Paese l’interruzione volontaria della
gravidanza, ossia l’aborto.

28 maggio 2018
VATICANO. Discorso del Santo Padre Francesco alla delegazio-
ne della Federazione internazionale delle Associazioni dei Medi-
ci cattolici (Fiamc).

21 maggio 2018
FRANCIA. Popoli dell’Occidente, ritornate ai monasteri!: omelia
del Cardinale Robert Sarah nella Cattedrale di Chartres, a con-
clusione del pellegrinaggio di Pentecoste, che ha visto giungere
da Parigi a Chartres una folla di 15mila pellegrini.

20 maggio 2018
VATICANO. Messaggio del Santo Padre Francesco per la Gior-
nata Missionaria mondiale: Insieme ai giovani, portiamo il Van-
gelo a tutti.

206
18 maggio 2018
IRLANDA. Vescovi irlandesi hanno scritto una lettera consegna-
ta a tutte le parrocchie intitolata Due vite, un solo amore, per
invitare a “salvare l’ottavo emendamento”, cioè a votare il 25
maggio 2018 contro l’abrogazione della norma costituzionale che
potrebbe aprire alla legalizzazione dell’aborto in un Paese che
ancora si reputa cattolico.

11 maggio 2018
ITALIA. Intervento di Mons. Crepaldi in Senato in occasione
della presentazione presso il Palazzo Giustiniani in Roma del
libro di J. Ratzinger-Benedetto XVI, Liberare la libertà. Fede e
politica nel terzo millennio (Cantagalli).

10 maggio 2018
VATICANO. Visita pastorale del Santo Padre Francesco a Noma-
delfia nella Diocesi di Grosseto e a Loppiano (Firenze).

8 maggio 2018
USA. Trump ha annunciato la fine del trattato multilaterale, ri-
tirandosi dall’accordo sul programma nucleare dell’Iran, paven-
tando una pericolosa corsa agli armamenti nel Medio Oriente.

5 maggio 2018
VATICANO. Messaggio del Santo Padre Francesco ai parteci-
panti al II Forum internazionale sulla Schiavitù moderna.

28 aprile 2018
ITALIA. Dichiarazione dell’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi nel
giorno della morte del piccolo Alfie Evans: La società che ha con-
dannato Alfie Evans ha vita breve. Bisogna continuare a prepa-
rare il futuro.

20 aprile 2018
ITALIA. Humanae vitae, aspetti politici dell’enciclica sull’amo-
re coniugale: relazione di Stefano Fontana, direttore dell’Osser-
vtorio Internazioneale Card. Van Thuân, alla Facoltà Teologica
della Sardegna.

10 aprile 2018
UNIONE EUROPEA. La COMECE, in collaborazione con la Eu-
ropean Jewish Community Center (EJCC) ed altri partners, ha
organizzato la Conferenza su “Religious Rituals and Fundamen-
tal Rights”.

207
6 aprile 2018
USA. Il governo ha organizzato un dispiegamento ingente di
4000 Guardie nazionali lungo il confine con il Mexico per raffor-
zare il controllo della frontiera e limitare chi, al contrario, come
ad esempio l’Ong “Pueblo sin Fronteras”, vorrebbe abbatterle.

24 marzo 2018
ITALIA. Parte la prima lezione della Scuola di Dottrina sociale
della Chiesa dell’Emilia organizzata dall’Osservatorio Interna-
zionale Card. Van Thuân con una relazione di Stefano Fontana
su La Dottrina sociale della Chiesa: annuncio di Cristo nelle re-
altà temporali.

24 marzo 2018
ITALIA. Presentato a Trieste, presso l’aula Magna del Semina-
rio, il IX Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo
dal titolo Europa, la fine delle illusioni. Sono intervenuti: l’on.
Alfredo Mantovano, magistrato, Vicepresidente del Centro Studi
Livatino; il prof. Gianfranco Battisti, Università di Trieste, e l’Ar-
civescovo Giampaolo Crepaldi, Vescovo di Trieste e Presidente
dell’Osservatorio.

17 marzo 2018
VATICANO. Viaggio apostolico del Santo Padre Francesco a Pie-
tralcina e a San Giovanni Rotondo nel centenario dell’apparizio-
ne delle stimmate permanenti a San Pio da Pietralcina.

14 marzo 2018
USA. Dopo l’ennesima strage (17 morti) da parte di uno studente,
avvenuta in una scuola a Parkland, Florida, il movimento per
il controllo delle armi ha organizzato una grande manifestazio-
ne nazionale, denominata “National School Walkout”, contro la
“National Rifle Association”, che difende i proprietari di armi e il
II Emendamento della Costituzione (la libertà di portare le armi).

8 marzo 2018
UNIONE EUROPEA. Mons. Jean-Claude Hollerich, Arcivescovo
di Lussemburgo, è eletto Presidente della COMECE. Tra i Vice-
presidenti eletto anche l’italiano Mons. Mariano Crociata.

1 marzo 2018
COLOMBIA. I Vescovi, a fronte dell’aberrante progetto di riso-
luzione rilasciato dal Ministero della Salute e della protezione
sociale, che prevede una “procedura per l’attuazione del diritto

208
a morire con dignità di bambini, bambine e adolescenti”, divul-
gano la Dichiarazione dal titolo Se vogliamo la pace, difendiamo
la vita.

21 febbraio 2018
ITALIA. L’Arcivescovo Giampaolo Crepaldi, Vescovo di Trieste
e Presidente dell’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân,
tiene a Milano una conferenza su invito del Centro Studi Livati-
no sul tema Civiltà della vita e legislazioni che la minacciano.

11 febbraio 2018
VATICANO. Messaggio del Santo Padre Francesco per la XXXIII
Giornata mondiale della Gioventù 2018.

USA. Dopo l’annuncio di Trump del trasferimento dell’amba-


sciata americana a Gerusalemme, riconoscendola così capitale
di Israele, i palestinesi hanno iniziato un’ondata di proteste.

VATICANO. «“Ecco tuo figlio … Ecco tua madre”. E da quell’ora


il discepolo l’accolse con sé» (Gv 19, 26-27): Messaggio del Santo
Padre Francesco per la XXVI Giornata mondiale del Malato.

9 febbraio 2018
ITALIA. Presentato a Roma presso la Sala Marconi di Radio
Vaticana, il IX Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel
Mondo dell’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân dal ti-
tolo Europa, la fine delle illusioni.

3 febbraio 2018
ITALIA. «La Nuova Bussola quotidiana» in collaborazione con
l’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân sulla Dottrina so-
ciale della Chiesa e la partecipazione di 14 centri culturali cattoli-
ci, organizza “Conoscere la verità praticare la giustizia”, incontro
nazionale delle Scuole di Dottrina sociale della Chiesa “Mater et
Magistra”.

29 gennaio
VATICANO. Discorso del Santo Padre in occasione dell’inaugu-
razione dell’Anno giudiziario del Tribunale della Rota romana.

28 gennaio 2018
USA. L’amministrazione di Donald Trump nomina ambascia-
tore degli Stati Uniti per la libertà religiosa Sam Brownback,
cattolico, governatore del Kansas. Paladino di battaglie pro-life

209
e difensore dei principi non negoziabili, Brownback è il primo
uomo politico cattolico ad essere investito di questa carica istitu-
ita dall’International Religious Freedom Act.

15-22 gennaio 2018


VATICANO. Viaggio apostolico di Papa Francesco in Cile e Perù.

14 gennaio 2018
VATICANO. Messaggio del Papa per la Giornata mondiale del
Migrante e del Rifugiato: Accogliere, proteggere, promuovere e
integrare i migranti e i rifugiati.

8 gennaio 2018
VATICANO. Discorso del Santo Padre ai membri del Corpo di-
plomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione
degli auguri per il nuovo anno.

1 gennaio 2018
VATICANO. Messaggio del Santo Padre Francesco per la cele-
brazione della LI Giornata mondiale della Pace: Migranti e rifu-
giati: uomini e donne in cerca di pace.

210
OSSERVATORIO INTERNAZIONALE
CARDINALE VAN THUÂN
SULLA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA
www.vanthuanobservatory.org

Fondatore e Presidente Emerito:


S. E. Mons. Giampaolo Crepaldi
Presidente:
Giordano Faccincani
Vice Presidente:
Don Samuele Cecotti
Direttore:
Stefano Fontana
Consiglieri:
Gianfranco Battisti, Carlo Costalli, Giorgio Piccolomini
Revisore unico:
Stefano Nedoh

Finalità dell’osservatorio
L’Osservatorio Internazionale Card. Van Thuân è istitui-
to per promuovere la dottrina sociale della Chiesa a livello
internazionale.
Fornisce una informazione ragionata sulla dottrina socia-
le della Chiesa su cui raccoglie sistematicamente dati, do-
cumenti, studi, mettendoli a disposizione, anche on-line, di
quanti ne siano interessati.
L’Osservatorio elabora riflessioni, valutazioni, approfondi-
menti sulla Dottrina sociale della Chiesa, in un’ottica univer-
sale ed interdisciplinare.
Infine, l’Osservatorio segnala e sostiene esperienze che
traducano in atto la Dottrina sociale della Chiesa nei vari set-
tori della vita sociale internazionale.

211
Attività dell’Osservatorio
L’Osservatorio realizza le seguenti attività:
– Portale web www.vanthuanobservatory.org
Si tratta di un portale web in tre lingue: italiano, inglese e
spagnolo. Fornisce documenti, informazioni, strumenti rela-
tivi alla Dottrina sociale della Chiesa. Gli iscritti alla newslet-
ter sono migliaia da tutto il mondo.
– Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa, rivista trime-
strale dell’Osservatorio pubblicata in Italia, in America La-
tina e in Spagna. L’edizione italiana è pubblicata, ammini-
strata e distribuita dalle Edizioni Cantagalli di Siena (www.
edizionicantagalli.com).
– Collana I Quaderni dell’Osservatorio presso le edizioni
Cantagalli di Siena. La Collana pubblica in lingua italiana
studi e ricerche sulla Dottrina sociale della Chiesa.
– Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel Mondo.
Dal 2009, ogni anno l’Osservatorio pubblica un Rap-
porto sullo stato della Dottrina sociale della Chiesa nel
mondo in una specifica Collana presso le Edizioni Can-
tagalli di Siena.
– Convegno annuale in memoria del Cardinale Van Thuân.
Il 16 settembre di ogni anno l’Osservatorio organizza un Con-
vegno su tematiche inerenti alla Dottrina sociale della Chiesa
in memoria del Cardinale Van Thuân nel giorno della com-
memorazione della sua morte, avvenuta il 16 settembre 2002.
A questo Convegno sono soprattutto invitati i Gruppi Amici
del Cardinale Van Thuân.

212
CARDINAL VAN THUÂN INTERNATIONAL
NETWORK

Il Cardinal Van Thuân International Network è stato isti-


tuito nel gennaio 2009 e comprende le Istituzioni e Centri di
ricerca dedicati alla Dottrina sociale della Chiesa e che colla-
borano in rete tra loro sotto il nome del Cardinale Van Thuân.
Capofila del Network è l’Osservatorio Internazionale Car-
dinale Van Thuân di Verona (Italia).
Attualmente fanno parte del Network l’Università Catto-
lica San Pablo di Arequipa (Perù), la Fundación Pablo VI di
Madrid (Spagna) e il CIES, Centro de Investigaciones de Éti-
ca Social di Buenos Aires (Argentina). Il Network è aperto ad
altri Soggetti che volessero farvi parte.
Scopo del Network è di collaborare insieme per favorire la
conoscenza e la diffusione della Dottrina sociale della Chiesa
nei rispettivi contesti socio-culturali e per progettare insieme
studi e appuntamenti culturali.
Attualmente, le principali forme di collaborazione riguar-
dano la co-edizione del Bollettino di Dottrina sociale della
Chiesa, che esce, oltre che in Italia, ad Arequipa per l’Ameri-
ca Latina e a Madrid; la co-edizione di libri e la redazione del
Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa nel mondo.

Istituzioni aderenti al Network


Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân
sulla Dottrina sociale della Chiesa
Via Besenghi, 16
34143 Trieste (Italia)
info@vanthuanobservatory.org

Universidad Católica San Pablo


Centro de Pensamiento Social Católico

213
Urb. Campiña Paisajista s/n
Arequipa (Perú)
www.ucsp.edu.pe

Fundación Pablo VI
Paseo Juan XXIII, 3
28040 Madrid (Spagna)
www.fpablovi.org

CIES - Centro de Investigaciones de Ética Social


Tacuarì 352. C1071AAH
Ciudad Autonoma de Buenos Aires (Argentina)
cies@fundacionaletheia.org.ar

Fundacja Obserwatorium Społeczne


(Fondazione Osservatorio Sociale)
Plac Katedralny 1
50-329 Wrocław
Wroclaw (Polonia)
www.obsertwatoriumspoleczne.pl

214
RED LATINOAMERICANA
CARDENAL VAN THUÂN
PARA LA DOCTRINA SOCIAL DE LA IGLESIA

Con il patrocinio del nostro Osservatorio è stata costitui-


ta in America Latina la Red Latinoamericana Cardenal Van
Thuân para la Doctrina Social de la Iglesia. Le istituzioni
co-fondatrici sono: Centro de Investigación en Ética Social
CIES-Fundación Aletheia (Argentina), Centro de Pensa-
miento Social Católico de la Universidad Católica San Pablo
(Perú), Universidad Popular Autónoma del Estado de Puebla
(México), Organización de Universidades Católicas Latino-
americanas y del Caribe (Chile), Universidad Juan Pablo II
(Costa Rica).

215
EDIZIONI CANTAGALLI
Via Massetana Romana, 12
Casella Postale 155
53100 Siena
Tel. 0577 42102 Fax 0577 45363
www.edizionicantagalli.com
e-mail: cantagalli@edizionicantagalli.com

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