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É.

Gilson, La filosofia nel Medioevo

Introduzione

È solo a partire dal II secolo che si può parlare di un contatto tra filosofia e religione cristiana. Prima di allora, il
Cristianesimo era la dottrina religiosa fondata sulla fede nella persona di Cristo Gesù. Non si trattava di un’ideologia,
né del resto Gesù era un filosofo: il Cristianesimo è una “dottrina della salvezza” (p. 4). La religione cristiana, a
differenza della filosofia greca, si rivolge all’uomo nella sua libertà, quando la seconda lo fa nella necessità
dell’ordine delle cose.
Il Dio ebraico, perché è sull’ebraismo che si fonda la religione cristiana, è nella scrittura “Colui che è”: Io sono è
l’unico Dio. Come, del resto, non tributare a Dio il culto che gli spetta? La sua sapienza riluce in ogni dove nel
cosmo: “ha disposto ogni cosa secondo la sua natura, peso, ordine” (p. 5). La sapienza di Dio ha disposto il mondo
nel suo essere, lo ha anzi creato, ed è essa sola che può disvelarlo: “nessuna verità che si presenti al termine di una
ricerca condotta con l’umana ragione” (ibidem). Vediamo queste considerazioni alla luce del prologo del Vangelo
di Giovanni. Vi compare da subito una parola assai significativa, e cioè logos. Con l’introduzione di questa parola,
si attua il contatto, e si invera il rapporto: filosofia greca e cristianesimo sono ora connessi. O dunque siamo di fronte
alla fagocitazione del cristianesimo da parte della filosofia, o, viceversa, la religione cristiana si appoggia sulla
concettualità greca per svilupparsi. Il primo caso si concreta nello gnosticismo, che, proprio perché dal Cristianesimo
venne via via allontanato, non può considerarsi parte della religione del Messia. In realtà, è la seconda delle
possibilità prima prospettate ad essersi verificata: “partendo dalla persona concreta di Gesù, oggetto della fede
cristiana, Giovanni si rivolge ai filosofi per dir loro che quello che essi chiamano logos è Lui; che il logos si è fatto
carne e ha vissuto tra noi […]. Dire che Cristo è il logos non era un’affermazione filosofica, ma religiosa” (p. 6). Si
tratterebbe in altri termini di “approssimazioni” di concetti ellenistici, adatti a tradurre una consapevolezza di stampo
tutto religioso nelle parole del tempo; concetti che però, imposero una speculazione filosofica di lì in poi. Anche per
quanto riguarda le epistole paoline, è significativo notare che assistiamo ad una vera e propria subordinazione della
concettualità greca (che, proprio perciò viene recuperata) alla verità della fede cristiana. La ragione è strumentale:
dalla sapienza naturale, occorre giungere alla perfezione in-visibile (an-eidetica) di Dio. Così la filosofia greca è
asservita al Cristianesimo tanto in Giovanni quanto in Paolo. Ciò che i Greci chiamano logos è Cristo; ciò che dicono
Sapienza è la fede in Cristo. E questo per quell’approssimazione concettuale di cui sopra.

I. I padri greci e la filosofia

La filosofia compare nella religione cristiana allorché la sensibilità dei suoi adepti li portò a doversi confrontare con
una costruzione concettuale di una qualche complessità (apologetica, confronto polemico, sincretismo…).
- La “filosofia” è la sapienza dei pagani, ma ciò non costituiva tra i due ambiti dell’esistenza umana una
barriera rigida ed incrollabile.
o La sensibilità diversa e diversificata degli autori dei primordi li portò a trovare presto nella filosofia
un terreno comune dove misurarsi, ora polemicamente, ora in armonia.
I Padri apologisti fanno la loro comparsa nel II secolo. Gli apologisti, od Apologeti, sono così chiamati perché
numerose furono le apologie (i discorsi di difesa giuridici) che costoro redassero onde garantire ai Cristiani pacifica
residenza nell’Impero. Le apologie più antiche di cui abbiamo notizia datano ambedue 125 circa, e sono l’una di
Quadrato, l’altra di Aristide. La prima non ci è giunta.
- Nella sua apologia, Aristide comincia, come nella migliore tradizione filosofica ellenistica, con una
trattazione del movimento: dalla necessità dei movimenti nel cosmo si conclude la necessità di Dio, immobile
ed incomprensibile.
o Astri e stelle non sono dei, perché non vi è che un unico Dio, cui devono obbedienza tutti gli uomini
sulla terra, Greci, Ebrei o Romani che siano.
- “La visione cristiana dell’universo è dunque già fissata nelle sue grandi linee fin dal primo quarto del II
secolo […]. Il concetto di un Dio unico, creatore dell’universo, ne è il tratto dominante” (p. 12).
Altre due personalità significative nell’Apologetica sono Erma (possediamo Il pastore) e Giustino. Di ques’ultimo,
vissuto nel II secolo e martirizzato a Roma tra il 163 e il 167, ci sono giunte tre opere, due Apologie e un Dialogus
cum Tryphone.
- Particolarmente significativo è il Dialogus, composto intorno al 130, che rende l’idea del percorso culturale
ed educativo di un pagano cui viene consegnata la verità cristiana.

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o È impressionante notare la vitalità culturale dell’epoca, cui Giustino si consegna anima e corpo: cerca
Dio presso gli Stoici, ma questi non lo conoscono, poi presso i Peripatetici, ma questi cercano solo il
denaro, poi presso i Pitagorici, ma il loro sapere esoterico richiede una preparazione troppo
strutturata, e infine presso i Platonici.
o Con i discepoli di Platone, Giustino lo sentiva, la verità era vicina: “fui anche tanto sciocco da sperare
d’essere sul punto di vedere Dio immediatamente: perché questo è il fine della filosofia di Platone”.
o È l’incontro con un “vegliardo” a convertire Giustino alla vera fede: egli lo interroga su Dio e l’anima
e alle risposte platoniche di Giustino, non si fa problemi a dimostrarne tutta l’incoerenza (le anime
che dimenticano la vita sono inutilmente punite o premiate). Il punto su cui il vegliardo si distacca
da Platone con fermezza è però un altro: l’anima non è vita, ma la vita la riceve da Dio.
▪ “Questa risposta ci sembra, adesso, di una semplicità che confina con la banalità, ma essa
segnava nettamente la linea di demarcazione che divide il Cristianesimo dal platonismo” (p.
14).
- È solo a questo punto, e sollecitato dal vegliardo che Giustino si avvicina alla Scrittura, trovandovi la sola
filosofia sicura e salda.
Ecco perché il cristianesimo poté assimilare l’orizzonte concettuale greco: perché esso “offriva una soluzione nuova
dei problemi che i filosofi stessi avevano posto” (p. 15). La religione cristiana pone una verità nuova, che pertanto
si situa sperabilmente all’interno di una cornice di interrogazione filosofica.
- Si apre un problema non indifferente: se la rivelazione del vero è avvenuta con Cristo, per Cristo e in Cristo,
allora chi è venuto prima di Cristo è legittimato a non conoscere il vero.
o A tal proposito Giustino scriverà le due Apologie che ci sono giunte. Vi è una rivelazione del Verbo
a tutto il genere umano, la quale è anteriore alla sua incarnazione; la verità del Verbo è ragione
seminale in ciascun uomo. Pertanto, se Cristo è il Verbo, e se il Verbo è seminale, allora ci possono
essere stati cristiani ed anti-cristiani prima di Cristo.
o Ergo, il Verbo è la ragione profonda del vero, e perciò tutto ciò che di vero è stato detto, lo è stato
grazie al Verbo, cioè a Cristo. La razionalità umana partecipa del Verbo, cioè di Cristo, e questo in
virtù della “germinalità” del seme del vero.
- Dio è inconoscibile, inesauribile, ed incoglibile; nessuno gli ha mai parlato. Egli è il creatore del mondo, che
si è fatto conoscere dall’uomo inviando il suo figlio primogenito, ossia il Verbo, sulla terra, costituendolo
prima di tutte le creature. Il Padre ha generato il Verbo prima della creazione.
- Se dunque Dio padre è l’unico Dio, egli esiste il Figlio come Dio in secondo luogo, e lo Spirito Santo come
Dio “in terzo luogo”.
L’antropologia di Giustino propone un modello tricotomico dell’uomo di derivazione paolina: corpo, anima e spirito
(che pare essere il principio vivificatore dell’anima).
- L’anima è castigata nell’aldilà o premiata, secondo i meriti ed i demeriti acquisiti in questa vita.
o Il fatto è che un accento così forte sul libero arbitrio elimina di fatto l’intervento della Grazia (il ruolo
di Cristo nelle opere): non si capisce in che termini Giustino abbia tenuto insieme il ruolo di Cristo
nelle opere e delle opere in Cristo.
Il cristianesimo di Giustino fu il cristianesimo curioso e vitale proprio di chi fu più interessato ad assimilare ogni
possibile verità a quella cristiana, che a purificare quest’ultima in un’ansia di ortodossia. Taziano fu il campione di
quest’altra posizionalità.
- Taziano si convertì al Cristianesimo anch’egli dopo lunghissimi anni di educazione pagana, e, trasferitosi a
Roma, divenne discepolo di Giustino, di cui fu sempre profondo ammiratore. Entro il 172 però aderì allo
gnosticismo di Valentino, per poi fondare la setta degli Encratiti, caratterizzata da un rigorismo morale spinto
al parossismo e da un’astinenza rigorosissima.
- Tra il 166 e il 171 compone l’Oratio ad Graecos, dichiarando di fronte ai Greci i diritti dei cristiani residenti
nell’Impero.
o I Greci, scrive Taziano nell’Oratio, assunsero numerosi elementi dalla cultura ebraica e dalla Bibbia
in particolare. Per quanto tendenziosa, una convinzione del genere dimostra un fatto specifico di
grande rilievo: Taziano, così come Giustino (che aveva fatto professione di un argomento analogo)
è consapevole del fatto che un unico orizzonte concettuale accomuna la speculazione greca e la
religione cristiana; che cioè la Verità del cristianesimo e quella della speculazione non sono
disgiunte.
o Lo spirito antiellenico di Taziano è mirabile: i Greci hanno copiato la Bibbia, e “la nostra filosofia”,
ben più antica, è stata da loro totalmente fraintesa.

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o Non è necessario dimostrare punto a punto che le verità della filosofia greca sono desunte dalla
scrittura e che là dove la prima da quest’ultima si è allontanata, non ha dato altro che errore. Non è
neppure necessario confutare ciascun sistema filosofico singolarmente: i filosofi tra di loro
abbondano di confutazioni.
- Contro la religione pagana, si svolge la solita parata di argomenti: la mitologia è immorale ed assurda, e
l’astrologia costituisce un’insensata ed ingiustificata negazione della responsabilità.
- Solo il Cristianesimo, e null’altro, deve essere scudo al credente contro i mali; neppure la medicina deve
avere rilevanza.
- Come in Giustino, anche in Taziano Dio è unico, inconoscibile, ed oscuro. Principio di tutte le cose, è causa
della materia, come il padrone, nella sua posizione, lo è dello schiavo, e non alla maniera immanente degli
stoici.
o Prima opera del Padre è il Verbo, che era già presente in lui ab aeterno e da lui procede nel mondo.
Il Verbo è da Dio distribuito, non si divide da Dio; perciò l’unità indissolubile tra Verbo e Dio non
si rompe nel mondo.
o Il demiurgo è il Verbo: è questo che ha prodotto la materia e l’ha strutturata.
- Dio crea il mondo, e perciò tutto ciò che vi è nel mondo non è buono per essenza, ma per merito (e cattivo
per demerito): gli angeli che hanno defezionato lo hanno fatto di loro sponte, e perciò meritano una punizione.
o Sono gli angeli cattivi che hanno insegnato agli uomini la nozione di Destino, facendo sì che costoro
cominciassero a credere ad essa come si crede ad una forza reale.
Taziano non eredita da Giustino la tripartizione antropologica, ma opta per un modello dicotomico di animalità: un
primo livello di anima permea il cosmo nella sua materialità e nella sua caducità (l’anima è mortale), mentre un
secondo livello, immateriale, colloca nell’uomo la sua somiglianza con Dio, e rende l’anima immortale. Al di là
dell’oscurità dei testi, una conseguenza è importante: tanto in Giustino quanto in Taziano, la deduzione platonica
dell’anima naturalmente immortale perché principio di vita non è conciliabile con la Verità cristiana.
Come l’anima non è vita, ma riceve la vita, così l’anima è oscura, e riceve la luce; e la riceve dal Verbo. A causa
della sua ribellione contro Dio, l’anima perde la luce che lo pneuma le aveva donato. Perciò, occorre rivolgersi
quanto più risolutamente verso quello pneuma che l’anima ha perduto, quello spirito divino del tutto contrapposto
alla materia, quale ancora parla negli uomini da Dio stesso ispirati.
Sono chiare le tendenze dell’opera di Taziano, e soprattutto sono chiare le motivazioni che lo porteranno a fondare
la rigorosa ed austera setta degli Encratiti.
- Tutta l’opera di Taziano è una requisitoria contro il naturalismo greco. Dall’accusa di plagio, allo
smantellamento di tutto l’apparato etico e religioso a supporto della filosofia ellenistica.
o Non vi è sforzo di assimilazione, comprensione dei punti di forza della filosofia; essa è condannata.
Di Melitone abbiamo il titolo di un’Apologia, senza alcuna tradizione di un testo; ci sono conservati quattro
frammenti.
- Anche in Melitone il Cristianesimo è definito “la nostra filosofia”, e di esso si dice che “è fiorito presso i
barbari”, per poi diffondersi nell’Impero. E in questa diffusione vi è un vero e proprio disegno
provvidenziale.
- La convinzione fondamentale di Melitone era allora un’idea rivoluzionaria: la religione cristiana deve
divenire religione dell’Impero di Roma. A tal proposito, forse, Melitone promosse una singolare alleanza tra
cristianesimo e stoicismo, giacché ci è tramandata notizia di un suo sostegno della corporeità di Dio.
Giustino, Taziano e Melitone, tre personalità differenti ed eterogenee, accomunate dall’intento di dare un’abitazione
filosofica alla nuova Verità rivelata. Nella seconda metà del II secolo, “le circostanze erano sconcertanti per i
Cristiani. A partire dal regno degli Antonini, l’impero romano godeva di un’amministrazione saggia e ordinata;
eppure sotto il migliore di questi imperatori, Marco Aurelio, essi furono crudelmente perseguitati” (p. 27). I Cristiani
si proclamavano cittadini di un impero extramondano, e sottoposti ad un Dio che non era l’imperatore; donde l’accusa
di ateismo. Fu Atenagora con la sua Legatio pro Christianis a cercare un’estrema linea di difesa.
- Atenagora fu una voce più posata di quelle sia di Giustino che di Taziano circa i rapporti tra filosofia e
cristianesimo: su di un certo numero di punti, vi è un accordo sostanziale.
o Tante prese di posizione sono strumentali (mirare a rintracciare un antecedente illustre per posizioni
tipicamente cristiane – Aristotele per il monoteismo, su tutti – risultava assai conveniente), ma
Atenagora apportò un indubbio contributo alla ridefinizione dottrinale di contenuti di fede.
- Innanzitutto, Atenagora cercò di definire i rapporti tra fede e ragione. Dio è l’unica fonte della verità, e solo
la Rivelazione consente di conoscerlo. Però la Rivelazione non esclude l’intervento razionale, ma tutt’al più
lo richiede.

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o Vi è una vera e propria dimostrazione dialettica del monoteismo, troppo legata ad una concezione
corporea e spaziale di Dio per poter avere fortuna nel corso del tempo.
- Sulla teologia del Verbo, Atenagora segna un indubbio progresso: il Verbo è coeterno al Padre nel Padre,
non è un secondo Dio, ma è generato dal Padre. Lo Spirito Santo non riesce ad essere pensato.
Un’altra opera di Atenagora, il De resurrectione mortuorum è significativo per illuminare il metodo dell’autore.
- Parlare per la verità: Atenagora si impegna a dimostrare la possibilità della resurrezione dei morti (Dio, che
è autore della vita e perciò suo distruttore, può ben restituirla; né questo fa problema con il suo statuto).
- Parlare sulla verità: Atenagora si preoccupa ora di dimostrare che effettivamente la risurrezione dei morti
avrà luogo.
o Se l’uomo nasce per la contemplazione delle opere di Dio, la sua stessa esistenza assicura l’eterno.
o Se l’uomo è un indissolubile insieme di anima e corpo (è di capitale importanza che l’uomo sia
ontologicamente anima e corpo), allora il destino dell’anima è quello del corpo. Se pensiero e ragione
sono stati dati all’uomo per conoscere il Creatore, non è possibile che l’uomo non sia eterno.
o Se l’uomo è libero, gli tocca un premio od un castigo dopo la morte.
Quello che pare emergere dall’esperienza dell’Apologetica è la frattura che si situa all’interno degli spiriti dei
protagonisti, tra mondo greco e mondo cristiano. La verità, per questi autori è già data tutta nel Cristianesimo; l’unico
scopo che si pone loro è quello di chiarirla: ecco perché è fondamentale l’impiego di strutture derivate dai Greci.
Lo gnosticismo del II secolo e i suoi avversari.
“Sapere che Dio esiste e sapere ciò che si può affermare razionalmente nei suoi riguardi, in breve, conoscerlo
filosoficamente, non sembrava più sufficiente; ciò che si cerca è una gnosi (gnosis), cioè un’esperienza unificante e
divinizzante che permetta di raggiungerlo in un contatto personale e di unirsi realmente a lui” (p. 34).
- La gnosi è una posizione di primo acchito filosofica: cerca di impadronirsi della fede cristiana mediante i
mezzi del platonismo e dello stoicismo (ambedue filosofie già in qualche modo “aperte” verso la nuova fede).
o Non si può del resto parlare del movimento filosofico della gnosi: vi furono uomini e dottrine.
Tratto tipico dello gnosticismo è l’unione di sapienza e fede (sophia e psitis), al punto che si può considerare lo
gnosticismo come un tentativo sistematico di riassorbire la verità del cristianesimo (la Rivelazione cristiana) entro
uno schema puramente razionale. La conoscenza è l’unica vera meta dello gnosticismo.
Veniamo a conoscenza, attraverso il Dialogus cum Tryphone di Giustino, dell’esistenza di un tal Marcione, su cui
abbiamo delle informazioni.
- La sua filosofia ci è nota solo attraverso le confutazioni offerte dai suoi avversari, ma merita attenzione.
- Antitesi: Antico Testamento e Nuovo Testamento sono due parti antitetiche (e non complementari) della
Rivelazione. L’Antico Testamento rivela il Dio degli Ebrei, un Dio imperfetto, ordinatore (e non creatore)
del mondo, utilizza la materia, che è principio del male.
o Il “Dio straniero” è il vero Dio, rivelato da Gesù Cristo nella sua incarnazione. Questo Dio, al
contrario del Dio ebraico (che è rigore e frustrazione), è pienezza e bontà. La parabola di Cristo è
sintomo dell’amore di Dio per l’uomo, e la morale che ne consegue è una morale dell’amore ascetico
(la materia è il principio del male).
Un altro personaggio significativo in ambito gnostico è Basilide, autore di piglio ben diverso.
- Elabora una cosmogonia “lussureggiante” (p. 36), dove pullulano esseri semi-mitologici.
o Dio è assolutamente trascendente, inconoscibile, al di là di ogni immaginazione: è un Dio non-essere.
Sono presenti, in Dio, i germi dell’essere, che si articola secondo tre filiazioni; siamo sempre
all’interno dello sterèoma, una sfera rigida che racchiude Dio al proprio interno. Qui Dio crea il
Grande Arconte, che sarà il principio dell’universo.
o In una vera e propria processione prolifera di ipostasi, gli enti si moltiplicano, a popolare il cielo.
o Il Grande Arconte è soggetto a degenerazione: separato dallo sterèoma, in breve, si fa uguale a Dio.
Occorre allora tutto lo sforzo della prima filiazione, una conoscenza perfetta di Dio, per restaurare
l’antica purezza: è l’opera del Vangelo, che riconverte l’Arconte. Ecco la seconda filiazione. Per
quanto concerne la Terza, essa è la più perfetta, ed è la prole umana che conosce la redenzione in
Cristo Gesù. Gli uomini che applicheranno la gnosi saranno per essa stessa riscattati.
La gnosi di Valentino è valevole dal punto di vista filosofico.
- In principio, un’origine maschile, l’Abisso o il Padre, ed una femminile, il Silenzio: dalla loro unione nascono
Intelletto e Verità. Questa tetrade, radice dell’essere, incontra logos e Vita, da cui nasce l’uomo.
- Dopo una peripezia cui è soggetta la sapienza senza intelletto, che genera l’aborto della Concupiscenza,
Intelletto e Verità generano il Cristo e lo Spirito Santo, che insegnano la trascendenza di Abisso.
- Concupiscenza è purificata dalle sue passioni (timore, tristezza, mancanza e bisogno), e si genera così la
materia dell’universo, organizzata da un Demiurgo che, non conoscendo Dio, si crede egli stesso Dio.
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- Questo Dio, che è il Dio dell’Antico Testamento, dà origine a tre serie di filiazioni, fino a che, per mezzo
dell’intervento di Gesù Cristo, i salvati ascenderanno al pléroma (sede di Dio), insieme al Demiurgo. Una
conflagrazione generale sarà il segno della fine dei tempi.
“Una ‹‹gnosi›› è un sapere il cui possesso assicura la salvezza per liberazione da un errore originario legato alla storia
del mondo […]. Tutte queste dottrine si rifanno anzitutto al cristianesimo per il ruolo che attribuiscono a Gesù, ma
tendono a ridurre la sua opera alla semplice trasmissione della conoscenza che li salva” (p. 40). Lo gnosticismo
deve richiamarsi al cristianesimo per un motivo filosofico: vuole risolvere il problema del male. Tutto procede dalla
convinzione che la realtà possegga un principio buono (Dio), e dalla congiunta constatazione dell’esistenza del male
nella vita.
Lo gnosticismo è stato, sia chiaro, un tentativo di contraffazione del cristianesimo, di asservimento strumentale ed
ideologico delle sue verità (trattate come verità di filosofia e non di fede) onde stabilire un sistema di pensiero. Dopo
la diffusione della dottrina, ‘intorno agli anni ’30 del II secolo, si dovette procedere ad un’epurazione del
cristianesimo.
- Sant’Ireneo di Smirne: il suo caso fu particolarmente significativo, perché egli ebbe modo di conversare a
lungo con Policarpo, un diretto discepolo degli Apostoli. Suo è l’Adversus haereses, il cui intento è di mettere
al bando nel modo più radicale la dottrina gnostica.
o La verità di Dio non si offre all’uomo per mezzo del suo pensiero, ma “nel deposito impersonale
della fede”, laddove con “impersonale” altro non si intende se non riferirsi alla sfera di una tradizione
che coinvolge e trascende a un tempo gli attori che se ne fanno carico. Tale è la Chiesa.
o Dio lo si può conoscere, ma con sobrietà. Reservare Deo: lasciare a Dio le questioni più ardue e
complicate. “Non è per diventare sapienti che ci si fa cristiani, ma per salvarsi” (p. 42).
o Dio è il vero ed unico creatore del mondo, evidenza che si impone anche agli gnostici, allorché
devono stabilire un principio creatore del Demiurgo, che da quelli è considerato il creatore.
▪ Il problema degli gnostici è quello di postulare un Dio assolutamente primo e trascendente,
salvo poi renderlo legato al destino terrestre moltiplicando inopinatamente le ipostasi.
o “La testimonianza di Ireneo esprime chiaramente questo sentimento, così vivo presso i primi
pensatori cristiani, che l’intelligenza era dalla parte della fede” [corsivo nel testo, n.d.r.] (ibidem).
▪ Il Vangelo e le Scritture si accordano magnificamente con quanto ci è testimoniato dallo
spettacolo del mondo; ma perché non credere ad essi?
- I punti fermi della filosofia di S. Ireneo sono già quelli della speculazione medievale: Dio è creatore della
materia; il mondo è stato creato per mezzo del bene (e non dell’errore) e in vista del bene; Dio governa il
mondo con la Provvidenza; le cose sono manifestazione della natura di Dio, perché sono governate dalla sua
volontà. L’uomo, in quanto creato, è soggetto all’errore; la sua unione indissolubile di anima (duplice, a
recuperare la tripartizione paolina) e corpo provoca la condanna sistematica della metensomatosi.
o La psicologia di S. Ireneo prevede che le funzioni dell’anima siano intelletto e libero arbitrio.
Quest’ultimo tratto accomuna uomo e Dio: il verbo umano, come quello divino, procede dalla libera
volontà che caratterizza ambedue gli esseri.
o Una mossa di questo tipo è chiaramente fatta in funzione anti-gnostica: non è Dio ad essere
responsabile del destino degli uomini (forgiati in “serie” distinte), ma gli uomini stessi. Il male è
opera dell’uomo, Dio non c’entra nulla.
- Ireneo si fa autore di una sorta di “reportage” (p. 45) della fine dei tempi. L’Anticristo, con il suo numero
(666), dedotto da una ben singolare simbologia, devasta il mondo fino al giudizio finale.
La scuola di Alessandria è il primo vero centro di una speculazione filosofica nutrita di spirito cristiano. Una
ricchezza intellettuale di questo tipo procedeva da una complessità culturale particolare, arricchita dalla presenza,
nel centro, di una comunità di Ebrei ormai completamente ellenizzati (fu composta per loro la versione greca
dell’Antico Testamento, nota sotto il nome di Settanta). A livello culturale, è Filone a costituire, con la sua esegesi,
il punto di riferimento per le comunità cristiane del luogo.
La personalità più significativa del II-III secolo in Alessandria, sotto il profilo della speculazione religiosa, è quella
di Clemente. Possediamo un Protrettico, un Paedagogus, e una raccolta di Stromata.
- Il Protrettico è rivolto ai pagani, per sollecitare la loro conversione alla vera fede. La verità ci è stata rivelata,
ma perché non seguirla allora? La conosciamo, cosa conta mai quella dei nostri padri?
- Il Paedagogus costituisce il progetto educativo di Clemente nei confronti di un pagano convertito. Il
pedagogo non è Clemente, ma il Verbo, che ha posto dei limiti al peccato educando l’umanità. “Un dottore
non fa altro che illuminare lo spirito, ma un pedagogo migliora l’anima insegnando a vivere bene” (p. 48).
o È il Verbo che educa i Cristiani, tutti uguali nel Battesimo, alla salvezza, e ivi li conduce.
L’argomento è contro gli gnostici: non esiste un’aristocrazia della salvezza, ma tutti i Cristiani sono
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uguali di fronte alla salvezza. Se è vero che anche Clemente parla di una “gnosi”, è altrettanto vero
che tale gnosi spetta a tutti i Cristiani, proprio in quanto Cristiani. “Non occorre quindi niente di più
che la fede, perché se la fede è in se stessa piena e perfetta, non manca di nulla” (ibidem).
o Il pedagogo, il Verbo, educa gli uomini nella bontà, e procede per bontà, laddove sa mantenere diritto
il corso della nave anche nella tempesta. Ecco donde scaturisce l’esigenza di comporre una parte di
morale pratica per le comunità cristiane di Alessandria.
o La morale di Clemente è semplice: l’austerità che proclama è funzionale al riconoscimento del
Cristianesimo come bene e centro della vita. “Il vero sapere è conoscere se stessi; conoscendo se
stessi, si conosce Dio che ci ha fatti: conoscendolo, ci si scopre sempre più simili a lui e si è dunque
abbastanza belli per fare a meno di ornamenti” (p. 49). Occorre assecondare i desideri di ragione:
attenersi a ciò che è naturale, moderato e frugale, perché il Cristiano è già ricco, ed è il più ricco.
o Il Cristianesimo, proprio perché è interiore all’anima, può trovarsi ovunque, purché l’uomo viva
secondo ragione: occorre sì distaccarsi ellenisticamente dal mondo, ma farlo per amore di Dio.
- Gli Stromata (propriamente “miscellanea”), sono un insieme di varie argomentazioni di carattere filosofico
o teologico, volte a dimostrare per lo più che la filosofia è cosa buona, perché voluta da Dio.
L’argomentazione procede per lo più a partire dal fatto che l’intelligenza è un dono di Dio, e perciò farne
uso non può essere un fatto contrario alla volontà divina.
o La ragione è un riflesso della luce divina, e se pure Dio non parla direttamente ai filosofi, questi sono
nondimeno suoi profeti, nel momento in cui fanno uso dell’intelligenza e della ragione.
o Parimenti, l’ebraismo non è un male, perché l’Antico Testamento non è un male; semplicemente,
esso, e dunque l’Ebraismo, è incompleto. Gesù Cristo è il completamento, non il sovvertimento
dell’Antico Testamento e della filosofia greca.
o “Tutta la storia della conoscenza umana assomiglia al corso di due fiumi, la Legge ebraica e la
filosofia greca, alla cui confluenza fiorirebbe il cristianesimo […]. Come dice Clemente, ci sono due
antichi testamenti e uno nuovo” (p. 51). Filosofia e Legge sono propedeutiche alla fede cristiana.
o Dunque la filosofia non è un male, purché stia al suo posto: “come le arti liberali […] servono la
filosofia che è la loro padrona, la filosofia stessa ha come fine di preparare la sapienza” (p. 52).
o Fede e filosofia sono ambedue fondamentali, ma nell’ordine corretto. Perché ciò si inveri, è
necessario un fatto: che abbiano un punto di contatto. La phronesis umana, la sua saggezza, assume
diverse forme (noesis, episteme, techne), a seconda del campo di applicazione; è solo quando si apre
alla pietà, credendo nel Verbo ed in esso soltanto che può rimanere pienamente se stessa.
o La saggezza umana è poliedrica, scissa, articolata; occorre eliminare il male e trascegliere il bene. Il
male è Epicuro, ed egli soltanto; tutte le esortazioni paoline contro la follia del mondo sono dirette
contro di lui soltanto. Se Epicuro è il male superlativo, non tutta la filosofia è buona: la fede cristiana
servirà da catalizzatore per far emergere il vero nel pensiero dei pagani. In questo senso, emerge
chiaramente la verità delle filosofie pitagorica e platonica.
o Meritevole in Clemente è l’attenzione dedicata alla grazia e alla sua integrazione con il libero arbitrio.
L’opera di Clemente costituisce in un certo senso il completamento di quella di Giustino; l’impiego della filosofia
ai fini della fede è sancito con chiarezza, al punto che se ne ribadisce una sorta di necessità propedeutica. Quando la
fede si sostituisce alla filosofia, l’uomo dà il suo frutto, non solo nei termini di pensiero, ma soprattutto nei termini
delle virtù: la fede è Dio vivo in noi, e, dato che Dio è amore, la fede non è altro che l’amore nella vita, cioè virtù.
Sul finire del II secolo, Origene è attivo ad Alessandria, dove conosce Clemente e Ammonio Sacca, maestro di
Plotino. Siamo in pieno III secolo allorché è ordinato prete e fonda una biblioteca a Cesarea. Muore nel 253.
- “La violenza appassionata delle sue convinzioni è sottolineata dalla decisione che prese di mutilarsi per
seguire alla lettera il precetto di vivere in castità” (p. 57): di lui possediamo un De principiis in traduzione.
- Il De principiis si rivolge tanto a coloro che, pur avendo già abbracciato la fede, ad essa si rivolgono, quanto
agli atei e ai più tenaci ed accaniti nemici dei Cristiani. Occorre dirigere bene le controversie nella fede,
perché essa emerga fortificata, e per fare “bene”, occorre affidarsi a chi sa (si parla di “aristocraticismo
spirituale” – p. 58).
o Il cristiani sono sì tutti uniti, ma la sapienza è tra loro presente in gradi diversi: vi è chi non comprende
altro che il piano materiale della scrittura, chi raggiunge la gnosi, ossia la conoscenza allegorica, e
chi, più perfetto di tutti, raggiunge il senso spirituale della Scrittura, scorgendo nel mondo la
beatitudine eterna nell’aldilà.
- Dio è uno e perfetto, e perciò immateriale. Nella sua irrappresentabile unità egli è Padre, Verbo e Santo
Spirito, laddove però Origene non riesce ad articolare un pensiero consequenziale sui rapporti tra i tre.

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- Due cose sono chiare: il Verbo è coeterno al Padre, e perciò Dio, ma a lui subordinato. “Origene parla allora
del Verbo come di ‹‹un Dio››, primogenito della creazione, che genererà altri verbi dopo di sé, e di
conseguenza altri dei. Saranno le nature ragionevoli” (p. 59).
- Nel Verbo sono presenti le idee viventi di tutte le cose, e dunque Dio crea il mondo nella materia per la sua
potenza, suscitandolo dall’eternità. Se il mondo è illimitato nel tempo, esso è limitato nello spazio.
- Il Verbo crea il mondo, e, conoscendo perfettamente il Padre, situa liberamente gli altri verbi di cui popola
il mondo: i verbi sono liberi come libero è il Verbo che li situa, ed è perciò che vi è storia nel mondo: alcuni
verbi si attaccarono più fedelmente a Dio di altri; questo stabilì la gerarchia degli spiriti.
o Le anime umane, in virtù di un errore iniziale, sono imprigionate nei corpi, ma è loro possibile di
liberarsi mediante un cammino ascetico personale (chiara è qui l’influenza di Plotino). L’anima è lo
spirito iniziale che si è raffreddato, e la storia dell’anima è la storia dei suoi tentativi di recuperare il
calore iniziale perduto con la caduta.
- Parlare di un’origine e di una natura dell’anima, è difficile, per Origene: l’anima è di certo immateriale, ma
non è chiarissimo come inerisca al corpo.
- L’accento più forte, in Origene, resta comunque sempre sulla libertà: è deputato ad una scelta individuale di
fermarsi ad un certo punto sulla strada dell’innalzamento spirituale, o di procedere ancora.
o “Questa libertà fu la prima occasione del male, ma essa era e resta ancora la condizione necessaria
del bene. La possibilità di non scegliere Dio è correlativa a quella di sceglierlo” (p. 61).
o Ogni uomo deve conoscere se stesso per conoscere, mediante ciò la propria somiglianza con Dio, e
perciò stesso per conoscere Dio, impresa che gli è possibile mediante la grazia di Cristo, l’unico
uomo pienamente somigliante a Dio. La Grazia di Cristo è nella sua croce, nella liberazione che egli
compie dell’uomo, ma con la grazia deve collaborare il libero arbitrio, “perché questo risollevamento
ci appartenga” (ibidem).
- Dio, lo ripetiamo, ha creato tutto per bontà: la materia è dunque buona, ma è male per lo spirito chiudersi in
essa. Lo spirito deve dunque agire nella materia, per procedere verso Dio, e così si giungerà al giudizio. Dopo
questo, Dio provvederà a fare, coi frammenti del nostro mondo, infiniti altri mondi.
o “Sembra, tuttavia, che Origene abbia piuttosto pensato che un lento progresso si compia di mondo in
mondo e che il male debba un giorno sparire, eliminato dal bene. Così intravediamo confusamente
una fine veramente ultima dei tempi, dove tutto sarà così ben fissato nell’ordine” (p. 62).
Dai Grandi di Cappadocia a Teodoreto.
Il Credo di Nicea provvide a rendere “più difficili” le avventure dottrinali tipiche dei primordi del cristianesimo.
Nicea definisce lo statuto della fede nel Verbo; non resta altro da fare che prendere posizione: le eresie sono ora
scientemente scelte come tali, e se i padri continuano ad essere debitori della loro cultura alla grecità, cercano
ciononostante di emanciparsene il più possibile, dimostrandosi, quando non ostili, indipendenti.
Eusebio di Cesarea (265-340) è un ottimo esempio di quanto detto: egli “vuole mostrare ai pagani che un cristiano
può saperne quanto loro” (p. 64). Questo presuppone una fiducia nella bontà della filosofia non del tutto indifferente,
ed infatti Eusebio ritiene coerentemente che Platone raggiunga spesso il vero, benché lo mescoli inevitabilmente ad
errori esiziali. Platone, cioè Plotino per Eusebio (non si distingue più all’epoca tra i due), intravede la verità del Dio
di Mosè, del dogma trinitario e della creazione, di cui parla nel Timeo.
Un autore ben più significativo, appartenente sempre alla scuola di Cappadocia è Gregorio di Nazianzo (329-389).
Di temperamento molto introverso, dedito alla speculazione e all’ascesi, Gregorio ci è noto per un ciclo di cinque
sermoni, noti sotto la denominazione di Discorsi teologici, incentrati per lo più sul dogma trinitatrio.
- Gregorio di Nazianzo ha un bersaglio polemico non indifferente, e cioè l’Arianesimo. L’iniziatore di questa
dottrina, Ario, è uno spirito sensibile al potere veritativo della fede cristiana, ma incapace di accettare un
dogma quo talis, e perciò tentativamente interessato a ricondurlo entro spiegazioni di ordine razionale.
o Gregorio si trova di fronte l’ariano Eunomio, oratore di primissimo ordine, convinto della dipendenza
del mondo da un Dio che è innanzitutto ousìa (sostanza, essenza, realtà…). Eunomio parla di Dio
come ciò che assolutamente è, limitandosi a predicare di esso quanto già Platone attribuiva al cosmo
noetico. Dio è ingenerato; perciò, se il Verbo è generato non è consustanziale a Dio (che, del resto è
sostanza), né a Lui uguale. “Eunomio […] non aveva altro torto che quello di svuotare il mistero in
nome della logica” (p. 66).
- Gregorio riconosce la necessità di attingere alle radici della fede le proprie convinzioni, perché la voracità
della filosofia sta annettendo ad essa ogni campo dell’esperienza umana. Occorre ritornare alla semplicità
della fede, alla sua purezza, recuperabile unicamente mediante una preventiva riflessione sulla Scrittura. Tale
semplicità non è un rigetto violento della filosofia, ma una sua netta subordinazione. Si mediti sulla Scrittura,
poi si acceda alla filosofia.
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- Gregorio comincia a confutare Epicuro, ma, ricordandosi del monito lanciato a proposito della purezza,
prende immediatamente a parlare di Dio, e non di filosofia. Dio è incomprensibile (anche la filosofia lo
ammette), perciò l’unico modo che abbiamo di conoscerlo è di informarci direttamente da lui, per ciò che
dice.
o Solo a questo punto si può cominciare a speculare, e con dovizia e precisione. L’ordine del mondo
rivela un Logos come principio ad esso preposto. Dunque sappiamo che Dio esiste, ma, essendo
mescolati alla corporeità, non possiamo capire che cosa sia.
o Per caratterizzare Dio occorre procedere per via negationis: negare di Dio ciò che è manifesto che
egli non sia è il modo più sicuro per garantirne un’embrionale caratterizzazione.
o Una caratterizzazione positiva la raggiungiamo solo parzialmente, ed attribuendo a Dio quelle
determinazioni che lo caratterizzano come l’Essere: infinità ed eternità. Dio è “un oceano di realtà
infinita e senza limiti, completamente affrancato dalla natura e dal tempo”.
- Tutte le questioni filosofiche connesse al mistero, ricominciano sempre col trattarlo alla stregua di un
problema filosofico, e perciò sono questioni vane. Certo, anche Gregorio utilizza un linguaggio filosofico,
ma proprio per evidenziare fino a che punto è sottodeterminato per una comprensione del mistero. Nelle
parole di A. Puech: “Gregorio è profondamente cristiano. […] il suo pensiero e la sua vita sono stati sempre
guidati dalla sua fede. Ma egli conserva radicato nel cuore l’antico amore, l’amore ellenico delle lettere,
l’amore della poesia e della retorica. Non ha mai pensato di rinunciarvi, e se ne scusava compiacendosi nel
pensiero che la fede ci è stata rivelata dal Verbo divino [corsivo nel testo, n.d.r.]. Bisogna allora che sia la
parola umana a predicarla” (p. 69).
Un altro appartenente alla scuola di Cappadocia, compagno di Gregorio, è S. Basilio. Suo è il trattato che
eloquentemente reca il titolo di Ai giovani sul modo di trarre profitto dalle lettere elleniche. La cultura del tempo
era pagana; come acculturare i futuri Cristiani? “Basilio stesso risolse la difficoltà con eleganza, dando egli stesso
l’esempio di un’opera tutta fiorita di citazioni e di esempi presi dall’antichità, ma animata d’uno spirito integralmente
cristiano” (p. 69). Anche Basilio è interessato a confutare Eunomio e nella sua Adversus Eunomium la critica è spesso
feroce, fino alla beffa.
- Eunomio è ipocrita, e pecca di una fallacia nel ragionamento.
o È ipocrita perché si spaccia per cristiano, quando già prepara le sue conclusioni anti-nicene.
o Pecca di fallacia, perché dire che Dio è ingenerato, non equivale affatto a dire che l’ingenerato è Dio.
In altri termini, è vero che, come vuole Eunomio, nessun nome esaurisce Dio, ma questo non significa
che dobbiamo limitarci a garantire di Dio l’assenza di limitazioni. Ciascun nome porta seco due lati
di una stessa affermazione (e negazione a un tempo): Dio non è una certa cosa, per esserne
positivamente il correlativo.
o Perciò, non si può partire dall’ingenerato di Eunomio, ma dall’Essere di Dio, cosa che, sola, rende
possibile la coappartenenza ad esso di Padre e Figlio, e la loro specifica consustanzialità.
- Le Omelie sull’Hexaemeron. Si tratta di un corpus di sei omelie sul tema dei sei giorni della Creazione: “vi
si cercherebbe invano una filosofia, ma vi s’incontrano, involontariamente, numerose notizie sull’origine del
mondo e sulla struttura degli esseri che vi si trovano” (p. 71).
o Natura è creazione di Dio, con la correlativa temporalizzazione: Dio chiama all’essere la materia
stessa, assegnando a ciascuna regione del cosmo quella che le compete. La materia è creata, e perciò
la “materia prima”, un concetto di derivazione platonica, non può esistere.
o La cosmogonia di S. Basilio è già la prefigurazione del modello aristotelico-tomistico in vigore per
tutto il Medioevo. Dai quattro elementi originari, Dio ha tratto l’ordine assegnando a ciascuno il suo
luogo naturale. Gli elementi sono concordi ed armonici, e perciò il cosmo è strutturalmente ordinato.
Fratello di San Basilio è San Gregorio di Nissa, autore di un De homins opificio, un Commento sul Cantico dei
Cantici e le otto beatitudini e di un Dialogo con Macrina sull’anima e l’immortalità.
- Per quanto riguarda la cosmologia del Nisseno, il mondo è tradizionalmente diviso in due zone, e l’uomo vi
è in mezzo, a cavallo tra il visibile e l’invisibile. Il mondo visibile conosce una progressione dai vegetali
all’uomo, il quale comprende in sé funzione vegetativa, animale e razionale.
- Un’anima è definita come il principio animatore di un corpo; essa è unitaria, creata, vivente e razionale.
Anima e corpo sono pertanto correlativi di un medesimo essere: un corpo è cadavere senza l’anima; un’anima
non è tale senza un corpo. Dio crea anima e corpo con un atto simultaneo. Anima e corpo sono legati in modo
talmente indissolubile, che la prima va espletando le proprie funzioni mano a mano che il secondo cresce.
o L’anima non si separa mai dal corpo con cui fa unità, nemmeno dopo la morte.
- Se è vero che dall’organizzazione sistematica della vita occorre inferire un principio primo di essa, è
parimenti vero che dall’organizzazione sistematica del cosmo occorre inferire un principio primo di esso.
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o Guardando dunque alla creazione, si parta dall’uomo. Esso è fatto ad immagine e somiglianza di Dio,
e come dunque nel primo un pensiero preesiste al verbo, così è anche in Dio. Verbo e pensiero
costituiscono, nell’uomo, un solo atto, ed omogeneo, e perciò il Verbo divino è consustanziale al
padre e coeterno ad esso. Lo Spirito, parimenti, procede come fa il respiro nell’uomo (che è prodotto
da anima e corpo), e cioè dal Padre e dal Figlio.
- Dio chiama all’essere il cosmo dal nulla per un atto di bontà, e così facendo iscrive sulle cose il loro carattere
di instabilità. Il libero arbitrio è riflesso della mutabilità delle cose, e, forte di questo, l’uomo ha scelto non
come doveva, ponendo così in essere il male. È dunque l’uomo ad essere “creatore e demiurgo del male” (p.
76). L’errore è precisamente quello di preferire il sensibile al divino, e perciò il corpo, contaminato dalla
mala scelta dell’anima, è soggetto alla mortalità. Ecco perché Dio ha introdotto la sessualità nell’uomo.
- Dio non crea la realtà in senso stretto; o meglio, non è questo il punto rilevante della questione: quello che
Dio, immateriale ed incorporeo crea, è il cosmo noetico “sottoposto” alla realtà. Dio crea cioè gli intelligibili
che sono il fondo del reale (il reale è la commistione degli intelligibili che ne fondano i caratteri).
- La Grazia di Cristo, intesa come possibilità di recupero della somiglianza tra uomo e Dio è il primo passo
del cammino di salvezza. La fede è dunque il primo passo, seguito immediatamente dalla carità, che chiede
al fedele uno sforzo ascetico e contemplativo.
o Conoscere se stessi è dunque il primo gradino della salvezza, proprio per questa intimità con Dio.
È oggi evidente, agli occhi della storiografia, l’esistenza di un nuovo interprete della filosofia coeva, e cioè Nemesio.
- Nel suo De natura hominis, egli parla dell’uomo come di un microcosmo, un nodo di scambio tra mondo
sensibile e mondo spirituale. La continuità è una cifra della natura, e l’uomo non è che un esempio della
stessa. D’altronde è proprio quest’ordine a testimoniare nel modo più chiaro l’esistenza di Dio.
- L’uomo, in pieno possesso del libero arbitrio, può decidere se rigenerarsi o degenerarsi, a seconda del suo
volgersi verso Dio o verso il corpo, la sensibilità e, in genere il mondo materiale. A questo proposito, è
evidente l’adesione al platonismo: l’uomo è un’anima, cui spetta di scegliere i beni dell’anima. Quest’ultima
d’altronde è substantia incorporea suimet expletiva (“completa in se medesima”).
o La polemica è diretta contro la concezione aristotelica dell’anima come di una funzione biologica.
Una concezione come quella di Nemesio, favorisce la credenza nella resurrezione dei corpi.
o Si esponeva però il fianco ad un’obiezione pericolosa: se l’anima è in se stessa autosufficiente, com’è
possibile che Dio un giorno resusciti assieme al corpo l’anima? Di più ancora, come è possibile
l’unità indissolubile di anima e corpo?
- “È esattamente il problema che si è posto Nemesio: se l’anima è una sostanza completa, com’è possibile la
sua unione con il corpo?” (pp. 80-81).
o Il ricorso è ad Ammonio Sacca e a Plotino: gli intelligibili possono essere ricevuti dai corpi da cui
sono ricevuti, pur restando loro fondamentalmente estranei.
o Il fatto che l’anima sia unita al corpo è indubitabile: la nostra sensazione basta a dimostrarlo; il fatto
che l’anima sia indipendente dal corpo, è parimenti dimostrato dai sogni e dall’estasi. Perciò l’anima
è unita al corpo al modo degli intelligibili: indissolubile, ma non alterata.
- Per parlare poi della natura dell’anima e dell’inerenza con il corpo, Nemesio compie un singolare slittamento
verso Aristotele: la Bibbia in merito non dice nulla; alla teologia interessa solo che tutto sia tratto dal nulla,
non di che natura sia il tutto.
- L’antropologia di Nemesio prevede la classica tricotomia paolina: intelletto, anima e corpo. L’anima è
intelletto, così come è desiderio; ad essa compete di sentire le passioni (una passione è il sensibile della
modificazione). Il piacere è al di sopra delle passioni, ed esso è una gioia, ossia un’attività.
- L’uomo può produrre atti volontari od involontari, e l’atto si definisce volontario allorché l’agente è
consapevole di tutte le modificazioni in atto ed è egli stesso il principio dell’atto.
o Per parlare della deliberazione, momento fondamentale dell’atto volontario, Nemesio fa riferimento
all’intellezione desiderante, già concepita da Aristotele.
L’opera di Nemesio, “garantita dall’autorità di Gregorio di Nissa, al quale lo si attribuiva” (p. 84) sviluppa i mezzi
giusti per piacere al Medioevo, giacché introduce le classificazioni di cui si aveva bisogno.
Il periodo del principio della diffusione del Cristianesimo è caratterizzato da una vitalità culturale estrema: si
diffondono idee diversissime, al punto che un corpus di omelie oggi pervenutoci sotto il nome di Macario d’Egitto
(un’attribuzione di certo errata) predicava entro l’orizzonte del materialismo stoico una dottrina cristiana. Forte è
l’influenza del neoplatonismo, derivato da Ipazia per tramite di Sinesio. Vediamo comparire anche la figura di
Teodoreto, autore di una Scoperta della verità evangelica partendo dalla filosofia greca. Occorre ribadire il
messaggio di Eusebio: i credenti non sono ignoranti. “Fede e sapere sono inseparabili perché la credenza perecede

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la conoscenza e la conoscenza accompagna la credenza” (pp. 85-86). Teodoreto cita una frase di Numenio: “Che
cos’è Platone, se non un Mosè che parla greco?”.
Da Dionigi a Giovanni Damasceno
Il Corpus areopagiticum è un insieme di opere di vario argomento, composto intorno al primo terzo del VI secolo
da un tal Dionigi (non siamo sicuri che fosse questo il suo nome). L’intento dell’opera è definito da subito: stabilire
irrefutabilmente la verità cristiana, onde farne rilucere lo splendore, senza confutare le tesi avversarie.
- Nel suo Dei nomi divini, Dionigi si domanda fino a che punto sia lecito attribuire dei nomi a Dio. Occorre
decifrare alla luce della Scrittura la creazione, trovando solo in quella quanto vi è di vero, giacché Dio solo
può conoscersi integralmente.
o Nell’introduzione a Dei nomi divini, non pervenutaci (si trattava di un’opera sui Fondamenti
teologici), si era stabilito che Dio, inaccessibile alla ragione, non può essere nominato. Pertanto,
occorre affermare di Dio tutti i nomi che gli attribuisce la Scrittura, salvo poi negarli uno dopo l’altro
(teologia affermativa e teologia negativa). Lo stadio conclusivo è il riconoscimento della
trascendenza di Dio, che è iper-Essere, e perciò stesso la teologia più adeguata è quella superlativa.
Dio è trascendente in tutto: trascende l’affermazione così come la negazione, e negare una cosa di
Dio non significa affermarne il contrario. Ecco il contenuto della Teologia mistica.
- In Dei nomi divini, Dio è accostato prima di tutto come Bene, e di qui paragonato all’idea platonica del Bene
quale viene descritta nella Repubblica: una luce che permea di sé e struttura l’Essere. La strutturazione
dell’essere a partire dalla luce divina avviene secondo una scala, di cui è resa una descrizione nei due trattati
Della gerarchia celeste e Della gerarchia ecclesiastica.
o Il Bene non è una disposizione degli esseri, ma il loro stesso essere. “Il mondo è una ‹‹teofania›› che
sola ci permette di conoscere il suo autore” (p. 89).
o Se Dio è il Bene, e crea con ciò la realtà, allora il male non è che non-essere, inganno. Perciò il male
è frutto dell’operato umano, e della sua scelta.
o Se Dio è Bene, è parimenti Luce, Bellezza, Vita e così via, ed occorre applicare a tutte queste
determinazioni tutta la metodologia precedentemente esposta.
- Vi è nel cosmo una forza di Amore, che è quella che trae gli esseri da Dio nel mondo e dal mondo a Dio. “Il
che si esprime dicendo che l’amore è estatico (ex-stare)” (p. 90).
- Dio è dunque Bene, e perciò stesso è l’Essere: “Io sono Colui che sono”, l’Essere partecipa di Dio come
primo momento del dispiegamento della sua realtà. Le forme prototipiche di partecipazione, dalle quali
scaturiscono gli esseri sono le idee divine, da Dionigi subordinate a Dio.
o Dio è Essere (teologia affermativa), e perciò stesso non è essere (teologia negativa), perché Egli è
iper-essere (teologia superlativa). “Allo stesso modo che Dio non è l’essere, l’essere non è Dio:
l’essere non è che la prima di tutte le forme di partecipazione a Dio e […] condizione di tutte le altre”
(p. 91).
o Le idee partecipano dell’essere, dunque, tutto ciò che partecipa delle idee partecipa dell’essere. Se in
Dio tutte le idee coincidono, a livello ontologico, ossia a livello attuativo nella loro partecipazione
all’essere, esse sono molteplici, sono la seconda rivelazione, appena distinte le une dalle altre.
o Dio è l’Uno: senza di esso il molteplice non esiste, ma l’Uno esiste serenamente senza il molteplice.
Dio è unità assoluta, principio primo dell’esistente, perfetto proprio in quanto unitario.
“Ma perché parlare dell’Uno? […] Dio non ha nome: egli non è né divinità, né paternità, né filiazione;
in breve, egli non è niente di tutto ciò che non è, e niente di ciò che è; nessun essere lo conosce quale
egli è, e, a sua volta, poiché egli trascende ogni essere e ogni conoscenza, egli stesso non conosce
nessuna delle cose esistenti qual è” (p. 92).
Nel Medioevo non si è mai distinta l’opera di Dionigi l’Areopagita da quella di un suo continuatore, Massimo di
Crisopoli, o Massimo il Confessore. Suo è un volume di Ambigua, ossia un’opera Intorno ad alcuni passi
particolarmente difficili di Dionigi e di Gregorio di Nazianzo.
- Dio è la monade, incorruttibile e non moltiplicabile, dalla quale procede il molteplice, senza in alcun modo
che se ne alteri l’estraneità e la purezza.
- Il primo processo dalla Monade genera la Diade, per mezzo del Verbo; il secondo processo dà vita alla
Triade, con il Santo Spirito. Qui la monade s’arresta.
o Nel Verbo, conoscenza perfetta di Dio, è contenuta la radice ultima, ossia l’essenza, di tutto ciò che
esiste e deve esistere. “Con un’effusione di pura bontà, la triade divina irradia queste espressioni di
sé che sono le creature” (p. 94).
o Tutto dunque è contenuto nella prescienza del Verbo divino: il posto che ciascun essere occupa lungo
la gerarchia degli esseri, così come la determinazione di sé che alcuni esseri possono attuare.
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- In ogni caso, consta che merito e colpa sono premi e castighi a sé medesimi: la scelta della virtù implica
comunione con Dio, che è beatitudine; la scelta di allontanarsi da lui implica distacco, cioè pena.
- L’uomo è creato anima e corpo assieme: Origene ha torto a dire che l’anima preesiste al corpo. “In contatto
con il suo corpo con la dispersione della materia, lo era, col suo pensiero, con l’unità divina. La sua funzione
era dunque di raccogliere il molteplice nell’unità della sua conoscenza e di riunirlo a Dio. L’uomo ha fatto
esattamente il contrario: […] ha disperso ciò che era uno volgendosi dalla conoscenza di Dio a quella delle
cose” (p. 95). Ecco perché Dio si è fatto uomo, ricongiungendo in sé le due nature spirituale e corporea. Dio
ha congiunto l’uomo con se stesso, donandoci così la redenzione.
o È all’uomo redento che è data la possibilità di seguire la vocazione di Dio: egli è immobile e perfetto
e l’inquietudine umana a lui deve tendere.
o L’uomo è chiamato a conoscere Dio, il Bene supremo, e con ciò stesso a desiderarlo, proiettandosi
fuori di sé in un’attrazione estatica per il suo unico oggetto.
o Ogni uomo è chiamato a compiere una rigenerazione congiungendosi a Dio, e riconoscendo in lui la
preesistenza dell’idea da cui è stato tratto all’essere. L’uomo deve ricongiungersi al proprio modello
presente in Dio, cui tutte le cose tendono, per la rigenerazione, ossia la fine dei tempi, quando vi sarà
la divinizzazione di ogni cosa.
Tutte queste opere sono pervase da uno spirito tipicamente neoplatonico, ossia uno schema verticistico del reale,
facente capo ad un modello paradigmatico dello stesso, posto in un’unità trascendente e trascendentale rispetto al
reale. Esiste uno spirito differente in seno alla patristica greca, di cui uno dei primi interpreti è Giovanni Filopono.
- Egli è un cristiano amante di Aristotele, accoppiamento singolare in quest’epoca. Il primo problema con cui
si scontra è di vecchia data: è il problema dell’intelletto agente.
o “Viene poi la quarta interpretazione di Aristotele [Filopono ne ha discusse precedentemente altre tre,
segnatamente, un intelletto agente come Dio interno all’anima; un intelletto agente come natura
intermedia tra Dio e l’uomo – demiurgo – ; un intelletto agente che si insinua nell’anima dall’esterno
di volta in volta, n.d.c.], che è la vera: ogni uomo possiede il proprio intelletto che è ora in potenza,
ora in atto […]. È corretta questa interpretazione di Aristotele? […] era la sola che un aristotelico
cristiano potesse ammettere, giacché, come Filopono stesso ha notato […], essa autorizzava almeno
a sostenere l’immortalità dell’anima razionale” (pp. 98-99).
o La libertà di pensiero di Filopono è sorprendente: in un commentario alla Fisica, lo si vedrà prendere
posizione contro Aristotele ed elaborare la notissima teoria dell’impetus, destinata a gran fortuna.
L’ultimo interprete della patristica greca è Giovanni di Damasco, che muore nel 749. La sua opera fondamentale è
la Fonte della conoscenza. Il suo intento non era fare una filosofia, ma permettere ai teologi di elaborare un pensiero
strutturato. Molte formule di cui fa uso saranno grandemente riprese nel Medioevo: la conoscenza di Dio è
naturalmente inserita nella nostra anima, ed è la malignità di Satana ad averci distolti da essa.
- La prova è la tipica prova platonica: tutto ciò che vi è nella realtà è mutevole, per il solo fatto che ha ricevuto
l’essere; perciò se nulla è increato, ma creato, esiste un creatore che ha tutto creato. Parimenti,
l’organizzazione del cosmo rimanda ad un ordine, non ottenibile mediante il caos epicureo. Se vi è ordine,
vi è un ordinatore.
- Dio è trascendente, e perciò è al di là della conoscibilità stessa dell’uomo. Dio è al di là dell’essenza.
“L’impressione d’insieme che lascia la patristica greca è che in essa l’influenza di Platone e dei neoplatonici fu
dominante. Non fu certamente la sola” (p. 102). Stoicismo (al punto da rendere difficile la comprensione della
congiunzione di due dottrine così diverse), ed anche aristotelismo sono voci non indifferenti nel coro dei filosofi di
quest’epoca. Vi sono però delle notazioni di metodo imprescindibili: “cercare di cogliere nell’opera dei teologi gli
elementi filosofici di cui essi hanno fatto uso significa dare a questi elementi un rilievo che essi non hanno nelle
teologie da cui li ricaviamo” (ibidem). Perciò i Padri sono sì dei platonici, ma con un significato del tutto particolare.
Il Cristianesimo funge da catalizzatore di posizioni filosofiche che con esso si accordano; indubbiamente Platone
riscuote un successo ineludibile, per la concordanza o la presunta assonanza di certe posizioni vicine alla dottrina
cristiana, ma non dimentichiamo che i Padri furono cristiani, e perciò platonizzanti. D’altro canto, posizioni
filosofiche così vicine al Cristianesimo, hanno incoraggiato e spinto i Padri a cercare un’interpretazione filosofica
sempre più cogente della verità evangelica.

II. I Padri latini e la filosofia

L’apologetica cristiana in lingua latina ha inizio all’incirca alla metà del III secolo, preceduta da rari spunti di
eccezionale splendore, personalità che per lo più riprendono temi e concetti coevi espressi nella letteratura greca
coeva.
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Il primo grande apologeta latino è Tertulliano. È il capostipite di una filiazione di Padri africani: nasce a Cartagine
nel 160 e muore nel 240 dopo avere passato almeno tre religioni, tutte sostenute con lo stesso ardente entusiasmo.
Di Tertulliano si analizzano l’Apologeticum, il De praescriptione haereticorum e il De anima.
- La prima posizione di Tertulliano è la rivendicazione per il Cristianesimo soltanto (e non per lo gnosticismo)
del diritto di interpretazione della Scrittura: per usucapione, i Cristiani hanno guadagnato tale diritto.
- Tertulliano ha un temperamento duro, integralista, analogo a Taziano: “prende il Cristianesimo come un tutto
che s’impone agli individui come semplice fede. Ogni cristiano deve ccettare questa fede come tale, senza
pretendere di farne una scelta, e ancor meno di giudicarla. […] La fede, dunque, è una regola inflessibile
(regula fidei) ed è sufficiente” (p. 106).
o La filosofia è la fonte di ogni male; esecrabile sentina di falsa cultura, è a causa sua se lo gnosticismo
si sta diffondendo come un cancro, soffocando il bene, e cioè il Cristianesimo nel mondo.
o “L’antifilosofismo di Tertulliano ha trovato le sue più celebri formule quando si è sviluppato in anti-
razionalismo” (p. 107): a chi non è nota la formula (non autografa) “credo quia absurdum”?
▪ È chiaro che posizioni così forti non possono non essere provocazioni (Tertulliano era un
magnifico maestro di retorica), e che perciò stesso si prestano quanto meno ad una doppia
lettura. Ad ogni buon conto, una personalità come quella di Tertulliano pare capace di pensare
che l’assurdità di un dogma sia ipso facto prova della sua veridicità.
- In campo filosofico, Tertulliano non pare aver saputo coniugare le proprie posizioni con l’ispirazione
cristiana da cui si credeva mosso: pensa come un materialista e ragiona come uno stoico sull’anima.
o L’anima è un corpo (“nihil enim, si non corpus”), che grazie alla sua sottigliezza pervade tutta la
carne: l’anima, dunque è sostanza. Essa è conchiusa in sé medesima, fatta e finita: ha i propri organi,
e anche il proprio intelletto.
o Dio è corporeo, perché esiste e nihil enim si non corpus. Da lui si genera il Verbo come i raggi dal
sole: un tutto unico, che procede dal Padre per illuminare il mondo, senza diminuirlo, e pure essendo
a lui sottoposto.
Lo Spirito Santo fa tutt’uno con il Padre e il Figlio, come il frutto con il fusto, o l’estuario con la
sorgente ed il fiume.
“Le sfumature gli sembravano compromessi. Perciò questo apostolo della pura fede e della sottomissione senza
riserva finì eretico di una setta pure eretica” (p. 110).
Minucio Felice è un grande interprete della continuità tra cultura e fede: “una delle ragioni che rendono interessante
l’Octavius è la coscienza così giusta che […] ebbe il suo autore degli scrupoli di un pagano che sta per convertirsi”
(p. 110). Egli riporta, sullo stile ciceroniano, una conversazione fantasticamente avvenuta tra il pagano Cecilio Natale
e Ottavio, un cristiano.
- La posizione di Cecilio è chiara e nitida: il dogmatismo cristiano infastidisce un pagano colto. “I cristiani,
anche i più incolti, avevano una risposta a tutto, sull’esistenza di Dio, la sua natura, la creazione del mondo,
la provvidenza, la natura dell’anima, la resurrezione dei corpi e la vita futura. Che cosa di più insopportabile
che questa gente per un accademico?” (p. 111).
o Per di più, gli dei di Roma le hanno assicurato i suoi fasti, arridendo alle generazioni passate; ma
perché non attenersi al loro culto?
- Ottavio risponde svolgendo le osservazioni tradizionali: l’ordine del mondo presuppone un ordinatore; la
mitologia pagana è immorale, e perciò non può essere responsabile dei fasti della cultura latina. Il
Cristianesimo poi costituisce un livello veritativo nuovo e definitivo rispetto a domande e dubbi già
abbondantemente presenti nella cultura pagana.
Arnobio (260-327) è un altro Padre latino proveniente dall’Africa. Nel 296 scrive, da non cristiano, un’apologia del
Cristianesimo, l’Adversus nationes, onde convincere il proprio vescovo della bontà della propria conversione.
- Cristo è per, Arnobio, un maestro, venuto ad insegnare la verità su Dio, e sulla sua natura: “il Cristianesimo
era, innanzitutto, per lui, la rivelazione del monoteismo attraverso il Cristo. Ma insegnare agli uomini
l’esistenza di un solo ed unico Dio era insegnar loro, insieme, la causa e la spiegazione ultima di tutto ciò
che è” (p. 113).
- “Ciò che prima di tutto colpisce Arnobio in questa rivelazione è ch’essa è per l’uomo una lezione decisiva
di umiltà” (ibidem). Dio ci ha fatto la grazia di mostrarci incapaci a noi stessi, insufficienti.
- L’atto di fede non è scandaloso: quante volte, nella nostra vita, ci affidiamo ad atti di fede? Una linea
difensiva debolissima, che ha il solo pregio di portare la fede alla dignità (ben misera) delle filosofie.
- L’uomo è fondamentalmente un animale: non serve immaginare un’anima semidivina innata e già formata;
un uomo si sviluppa nel suo ambiente e di lì, e solo di lì, mutua le proprie consapevolezze. Un animale.

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- “Fermamente convinto della divinità di Cristo (II 60), non sembra che Arnobio abbia saputo granché del
dogma della Trinità” (p. 116).
“Nessuno pensa di fare di Arnobio un dottore della Chiesa, L’Adversus nationes resta tuttavia uno dei documenti più
istruttivi e lo è per le sue stesse lacune. La forza di attrazione del Cristianesimo sugli spiriti colti deve essere stata
ben potente verso la fine del III secolo poiché talvolta bastava conoscerlo appena per convertirsi ad esso” (ibidem).
Lattanzio ha modo di seguire le lezioni di Arnobio, ed è incaricato, nel 316, di educare il figlio di Costantino. Se
Arnobio ha un temperamento nervoso ed agitato, Lattanzio è decisamente più sereno.
- “Lattanzio segue la sua via con spigliatezza e senza fretta, spiegando instancabilmente e commentando a
proprio agio la verità che egli ama, con un candido e rinnovato stupore per la fortuna di essere cristiano” (p.
117).
- Lattanzio è essenzialmente un puro di cuore; possiede una genuinità semplice, che lo induce ad
un’indignazione irata ed offesa contro il razionalismo integrale.
o La logica insegna che la terra è rotonda, e che quindi esiste un posto dove la pioggia cade dal basso
verso l’alto, e gli uomini camminano a testa in giù. Ecco, patente, l’assurdità cui gli uomini sono
condotti quando si affidano alla semplice ragione.
o Il Cristianesimo è una filosofia vincente per un motivo molto semplice, è più razionale della
razionalità filosofica, più vero della verità di Platone. “Che cos’è la felicità se non la conoscenza del
vero? Lattanzio ha trovato il vero nella fede cristiana; egli è felice e vuole che tutti lo siano come lui”
(p. 118).
- Cicerone che cosa poteva sapere di Dio? Nulla. Si legga il De natura deorum. Nemmeno Seneca poteva
sapere nulla. E questo accadeva perché la religione non era guida della filosofia, né la filosofia della religione.
“La grande novità del Cristianesimo è il collegamento di religione e sapienza” (p. 119).
o Il monoteismo è la risposta all’insipienza dei pagani: “fons sapientiae et religionis Deus est, a quo
hi duo rivi si aberrverint, arescant necesse est; quem qui nesciunt, nec sapientes esse possunt, nec
religiosi” (ibidem).
- L’ambizione di Lattanzio è quella di difendere tutta la verità ornate copioseque, ma “perde il filo del discorso
ogni volta che intoppa in una questione tecnica” (p. 120).
o Egli comincia ad intraprendere un pericoloso cammino per distinguere anima ed animus, ossia per
distinguere ciò che viviamo da ciò che pensiamo e sentiamo, ma conclude asserendo che la questione
è i”inexstricabilis”.
o Il diavolo è agente dell’ordine universale, proprio come lo è Dio (opzione pericolosamente vicina al
manicheismo). Il diavolo è il provvidenziale ostacolo di fronte a cui esercitare la nostra virtù.
o Mancava a Lattanzio, a causa della patente carenza nella cultura latina in genere, un’adeguata
preparazione filosofica. Anche la semplice conoscenza di Platone, pure posseduta da Lattanzio, non
gli bastava per sviluppare quell’acume che, di certo, avrebbe potuto servirgli.
- Un modello con cui Lattanzio entra in contatto è quello del Corpus Hermeticum, un insieme di opere dal
carattere esoterico ispirate ad una cosmo-teologia di stampo platonico, con particolare riferimento al Timeo.
o Il Trismegisto ha conosciuto quasi tutta la verità, al punto da chiamare Dio Signore e Padre. Il Dio
di Ermete è perfetto, chiuso in sé stesso, e produce il mondo per emanazione. Qui l’anima è
intrappolata nella corporeità, e l’unico modo che ha per fuggirne è di recuperare la propria comunione
con Dio, cosa che sola può avvenire offrendogli un cuore puro.
Il caso di Sant’Ilario di Poitiers è particolare. Convertitosi molto tardi al Cristianesimo, costituisce un bell’esempio
circa il fatto che le preoccupazioni morali abbiano, per gli uomini del tempo nella cultura latina, una rilevanza ben
più maggiore rispetto all’ontologia od alla metafisica. È il problema della felicità quello che preme ad Ilario di
risolvere: “una dottrina per la quale Dio s’è incarnato perché l’uomo potesse diventare figlio di Dio e godere della
vita eterna era proprio quello che Ilario cercava” (p. 123). Non è interessante la metafisica: le scuole filosofiche sono
tutte in contradizione; la dottrina cristiana, semplice ed unitaria basta ed avanza. Dio è l’essere puro e perfetto:
immutabile, assoluto, semplice, perfettamente autosussistente.
Il temperamento antimetafisico della cultura latina è particolarmente significativo in S. Ambrogio. Dopo studi
lunghissimi di Origene e Filone (primo esegeta alessandrino), autori che hanno fatto della metafisica il loro servizio
alla fede, Ambrogio non si lascia trascinare neppure per un istante a giustificare le proprie concezioni metafisiche.
- Ego sum qui sum: “essere” per Ambrogio è tout court “essere sempre”. L’approssimazione si fa quasi
offensiva allorché ousìa è tradotto in essentia e l’etimologia del termine è ricondotta a “ousa aiei”.
- “Ma la vera vocazione di Ambrogio è quella, completamente latina, di moralista” (p. 125).
o Nel suo Hexaemeron trova spazio un’amplissima allegoria morale degli animali, a differenza di S.
Basilio, presso il quale non vi era progetto allegorico.
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o Per Ambrogio, lo “stridore di denti” cela un’allegoria: pena del peccato è la tristezza stessa in cui il
non credente è rinchiuso allorché rigetta Dio; il rimorso divora la sua anima fino alla morte.
- Per la storia delle idee, è particolarmente significativo il suo De officiis ministrorum, dove presenta una
rilettura del De officiis ciceroniano, sostituendo ai doveri verso la città i doveri verso Dio.
Il platonismo latino del IV secolo
Importante, ai fini di una tradizione filosofica isolabile sotto la denominazione di “platonismo” nel IV secolo, il
commentario di Macrobio, pagano, intitolato In Somnium Scpionis.
- L’universo è verticisticamente strutturato verso il Bene, cui tende tutto l’universo. Secondo al Bene, viene
l’intelletto (il nous), il quale poi genera l’anima.
- Le anime non si staccano mai dalla loro sede naturale, ma può capitare che alcune di loro, per un’eccessiva
contemplazione dei corpi, vi cadano immerse, e vi siano imprigionate.
o Le anime, cadendo nei corpi, attraversano tutte le sfere celesti, assumendo, di volta in volta, la virtù
propria di quella sfera, fino a cadere sulla Terra.
o “Per quanto sia ormai lontana dalla sua fonte, l’anima umana non ne è tuttavia separata. Grazie alla
sua parte superiore, che è l’intelligenza o il ragionamento, essa conserva una conoscenza innata del
divino e il mezzo per riunirsi ad esso con l’esercizio delle virtù” (p. 128).
- Sempre a proposito dell’anima, Macrobio si trova di fronte al solito problema: Aristotele o Platone? Anima
formale o anima sostanziale? L’inclinazione per una forma sui generis di aristotelismo (l’anima è fons motus,
sbocciata dalla vera fonte del movimento che è il Dio immobile) avrà largo influsso sul pensiero medievale.
Se Macrobio ha inciso nel Medioevo, ancor di più lo ha fatto Calcidio: sua è la traduzione di un’opera capitale come
il Timeo, quale il Medioevo lo conoscerà. Calcidio è autenticamente e profondamente cristiano.
- Tre sono i principi della realtà: Deus, silva e exemplum. Dal Dio supremo nasce la provvidenza, dalla quale
si crea il Destino: “fatum ex providentia est, nec tamen ex fato providentia” (p. 130).
- Il Dio supremo genera la Provvidenza, dal quale si genera l’Intelligenza: “Così il Dio supremo comanda, il
secondo fissa l’ordine, il terzo ingiunge e le anime agiscono secondo la legge” (p. 131).
- Se il mondo intelligibile esiste da sempre, occorre conciliare una dottrina del genere con quella del Genesi.
Esistono allora due livelli di realtà: modelli (intelligibili) e copie (materiali). Dio produce i modelli
comprendendoli, ossia pensandoli: il cosmo noetico è l’infinito pensiero di Dio, e la realtà materiale non è
altro che la sua replicazione nella materia e nel tempo.
Se è così, allora le idee di Dio sono un unicum con Dio stesso: i principi sono ridotti a Deus et silva.
- Occorre indagare l’origine della materia, e ciò si può fare per analisi o per sintesi.
o Analisi: si parte da un’evidenza di fatto per risalire ai principi che la rendono tale. Il principio che
rende la sensazione diversificata a seconda dell’incontro che ha, è la materia stessa. Ed eccoci giunti.
o Sintesi: ricomponiamo la materia, nelle sue figure e conformazioni particolari. Rimettiamo tutto in
ordine, e saremo condotti a spiegare l’ordine con una Provvidenza, cioè con un Intelletto, e dunque
(siccome non vi è intelletto senza idee) con le Idee divine. A questo punto ci conduce la sintesi.
- La materia esiste da sempre, e non è corporea più che incorporea; essa è il principio stesso della corporeità.
Il mondo è dunque mediano tra materia e idee, e così in esso sono costituibili tre tipi di conoscenza:
conoscenza delle forme prime, è la scienza; conoscenza delle forme derivate (species nativae), ossia le idee
nella materia, è l’opinione; conoscenza della materia, sorta di conoscenza bastarda puramente congetturale,
preclusa di partenza alla possibilità di predicazione.
- Aristotele non può avere ragione a proposito dell’anima: essa è immortale.
Mario Vittorino Afer si converte a Roma, a furia di leggere la Scrittura per confutarla. È sua la traduzione delle
Enneadi conosciuta da Agostino. La battaglia più rilevante del Vittorino è condotta contro l’Arianesimo.
- Candido, l’avversario di Vittorino, espone una delle tesi più rilevanti per l’Arianesimo, basata del resto su di
un’ortodossa interpretazione di Platone. Se in Platone Dio è l’essere immutabile e perfetto, e soprattutto
ingenerato, come può un Dio essere generato da Dio?
o Cristo non è Dio, ma il Verbo è un’operazione divina, la prima e la principale, ma subordinata.
- Vittorino Afro risponde a Candido con un libello dal titolo Sulla generazione del Verbo divino.
L’argomentazione è oscura e controintuitiva, impacciata, specie se confrontata alla lucida argomentazione
logica e consequenziale di Candido.
o Dio è “pre-essere” perché per essere causa occorre essere, ma per essere causa dell’essere occorre
essere prima dell’essere.
o Nel cosmo vi è essere, falso non-essere e non-essere. Dio è al di sopra di tutto, anche dell’essere.
- “Così, causa di tutto, Dio è causa τοῦ ὄντος, per generazione. L’essere che si nascondeva nel ‹‹preessere›› e
che questo ha generato è precisamente il Logos che è Figlio in quanto generato […]. In altre parole, il
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preessere non ha generato prima di ogni altra cosa niente altro che l’essere; un essere (ὄν) perfetto sotto ogni
aspetto che non ha bisogno di niente altro” (p. 138).
o Dio dunque è causa sì delle cose, ma anche di sé medesimo, giacché genera il Verbo, che è essere
perfetto e che non manca di nulla, e cioè è Dio.
o Il Figlio è nel Padre, come il Padre è nel Figlio: “Sed hoc non oportet quaerere, sufficit enim credere”
(ibidem).
Il platonismo del IV secolo non è un terreno culturale di rilievo particolarmente importante, se non per ciò che ha
consentito alla storia della speculazione cristiana, di avere cioè il suo Sant’Agostino (354-430). Dopo una giovinezza
inquieta, trascorsa tra Tagaste e Cartagine, Agostino incontra la filosofia con l’Hortensius di Cicerone, oggi perduto.
Conosce il manicheismo e vi si dedica con tutte le sue energie. Data al 383 il suo viaggio per Milano, onde insegnarvi
retorica: qui conosce S. Ambrogio, che lo conquista per la saldezza della sua fede. Conosce la traduzione di Vittorino
Afro delle Enneadi di Plotino, e si appassiona alla metafisica, liberandosi della pseudo-razionalità manichea.
Comincia dunque a purificare i propri costumi e si avvede della propria incapacità, rendendosi a un tempo conto del
valore della Grazia di Cristo per concludere il nostro operato. Nel settembre 386, Agostino è convertito.
- La svolta più decisiva dal manicheismo al Cristianesimo si situa, per Agostino, a livello della comprensione
del ruolo della ragione. Mentre il manicheismo promette di condurre l’uomo alla comprensione della
Scrittura per mezzo della sola ragione, il Cristianesimo di Agostino promette l’intelligenza della Scrittura
mediante la sola fede.
o “Sicuramente un certo lavoro della ragione deve precedere l’assenso alle verità di fede; benché queste
non siano dimostrabili, si può dimostrare che c’è motivo di crederle, ed è la ragione che ci pensa. C’è
dunque un intervento della ragione che precede la fede, ma ce n’è un secondo che la segue” (p.
140).
o Un passo della versione latina della Settanta, traduceva in malo modo Isaia, facendogli dire che “nisi
credideritis, non intelligetis”; sarà questa la più profonda verità per Agostino. Quella di Agostino è,
per usare le parole di S. Anselmo una fides quaerens intellectum.
Agostino cerca, in tutto il suo sforzo filosofico, di portare più avanti possibile la comprensione della verità cristiana,
restando rigorosamente al suo interno. Non mancano certo degli slittamenti: la dottrina cristiana prevede
un’antropologia fortemente connotata in senso unitario, per quanto concerne i rapporti tra anima e corpo; la verità
platonica parla di un’anima (gerarchicamente superiore) che si serve di un corpo. Da cristiano in un modo, da filosofo
in un altro, dunque.
- L’anima è un principio attivo, e la gerarchia della natura prescrive per giunta che nulla di ciò che è superiore
può subire modificazioni da ciò che è inferiore. La sensazione pertanto è un’azione (e non una passione)
dell’anima, che trae da sé medesima l’immagine sensoria simile all’oggetto che ha colpito il corpo.
- Gli oggetti del mondo sono mutevoli e profondamente instabili: mancano dell’essere e perciò non possono
essere oggetto di vera conoscenza, che è scienza dell’essere.
o Verità non è scoperta di un fatto (il fatto che le cose cambino non è una verità), ma è scoperta di una
regola cui l’intelletto si sottomette: la verità, come il Bene etico (che in Platone, proprio per questo,
coincidono) sono regolativi.
- Se verità è sinonimo di necessità, persistenza ed eternità, come spiegare il vero in un’anima che vive nel
mobile, nel contingente e nel temporale?
o “Sarei io stesso, dunque, la fonte delle mie conoscenze vere? Ma io non sono meno contingente e
mutevole delle cose, ed è proprio per questo che il mio pensiero si inchina davanti alla verità che lo
domina. Per la ragione, la necessità del vero non è che il segno della sua trascendenza su di lei.
La verità è, nella ragione, al di sopra della ragione” (p. 144).
o Nella ragione umana, qualcosa supera l’uomo; qualcosa che, siccome vero, è immutabile ed eterno:
non è forse questa la più tradizionale, perfetta e concisa delle definizioni di Dio?
Dio è, in S. Agostino, qualcosa di interno alla ragione, e qualcosa che la trascende, vale a dire,
qualcosa che è sempre implicato nel nostro giudicare, ma qualcosa la cui natura ci sfugge sempre.
Donde la necessità della teologia negativa, che però non convince molto Agostino.
- Vi è un nome che Dio ci ha consegnato per farsi conoscere: Ego sum qui sum. Dio è l’essere, l’essenza, una
realtà totale e piena: immutabile. Dio è essenza, ossia immutabile, e perciò è essere.
o Non si può non notare una consonanza con l’ontos on di Platone; ed in effetti nel De civitate Dei,
Agostino pare sul punto di attribuire al magister Plato un barlume di consapevolezza.
Agostino ha un dono immenso, che consiste nell’“analisi dei dati della vita interiore” (p. 145). Una sorta di
“fenomenologia ante litteram” se si può concedere, pervade il capolavoro delle Confessioni.

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- Innanzitutto, una concezione nuova della Trinità: se lo spirito greco si fermava alle persone singole, per
ammettere la Trinità al livello di riflessione, Agostino si dirige direttamente a Dio, inteso come Divinità certo
concreta, per poi scendere alla determinazione particolare delle tre persone.
- Le concezioni di Agostino sulla Trinità sono legate al grande dono fenomenologico, per via dell’amplissimo
utilizzo da parte di Agostino dell’analogia. Il creato allude per analogia a Dio: l’immagine delle cose rimanda
a Lui. E se l’anima è fatta ad immagine e somiglianza di Dio, quale luogo migliore per scorgervelo?
o L’anima è Padre, che genera un’intelligenza di sé medesima (Figlio o Verbo). Tra Padre e Figlio vi
è un rapporto, che è la vita, ed è lo Spirito Santo. Allo stesso modo, un’anima, una mens, genera
un’intellezione (notitia), che per essere ricondotta alla mens necessità di amor.
▪ “Non è in modo analogo che il Padre si profferisce nel Verbo, e che l’uno e l’altro si amano
nello Spirito?” (p. 147).
- Conosci dunque te stesso, e conoscerai Dio. “Essere analogo alla Trinità non significa soltanto essere un
pensiero che si conosce e si ama, significa essere una testimonianza vivente del Padre, del Figlio e dello
Spirito. Conoscere sé stessi […] è conoscersi come immagine di Dio, è conoscere Dio. In questo senso il
nostro pensiero è ricordo di Dio, la conoscenza che ve lo ritrova è intelligenza di Dio, e l’amore che procede
dall’uno e dall’altro è amore di Dio” (ibidem).
o Nella ragione, vi è dunque qualcosa di più profondo della ragione. Dio è un segreto inesauribile che
l’anima si porta seco, quando si scopre immagine del Creatore. Conoscenza profonda di un pensiero
e dell’amore che questo unisce all’anima da cui procede. Un mistero dell’anima, un mistero di Dio.
La dottrina della creazione è, ancora una volta, un’eco del neoplatonismo. Dio è l’essenza di tutte le cose, le quali
“non cessano di proclamare: noi non ci siamo fatte da sole, è Lui che ci ha fatte” (ibidem). Ma perciò stesso, in sé
stesse, esse sono non-essere, nulla: dal nulla Dio le fa, per farle essere. Dio dona l’essere al mondo.
- Il Verbo contiene istantaneamente, e nella sua coeternità al padre, tutti i modelli archetipi del reale: le idee
di Dio sono eterne e consustanziali a Dio.
- “Per creare il mondo, Dio non ha avuto che da dirlo; dicendolo, lo ha voluto e fatto. In un solo istante, senza
successione di tempo, egli ha fatto esistere la totalità di ciò che fu, di ciò che è di ciò che sarà” (p. 148).
o La creazione è un atto unico, simultaneo, improvviso: le creature future sono già qui, rationes
seminales che devono svilupparsi nel tempo.
o La creazione agostiniana è una sinfonia, un poema: secondo il genio dell’autore, ogni nota, come
ogni frase, nascono sulla pergamena del tempo, rilucono del loro splendore, abbandonandosi al
trascorso, cancellate dal nuovo bagliore del domani che già è qui. Il fine regola tutto.
o Nella creazione, l’anima è congiunta al corpo per un’armonia fondamentale. È il peccato originale
che ha corrotto questo rapporto.
- “Agostino non ha ammesso per un istante solo che la materia fosse cattiva, né che l’anima fosse unita al
corpo per castigo del peccato. […]. Il corpo dell’uomo non è la prigione della sua anima, ma lo è diventato
per effetto del peccato originale” (p. 149).
Se Dio è pienezza di essere, egli è anche pienezza di bene; perciò il bene è proporzionale all’essere: tanto essere ha
l’uomo (tanto in alto è posto lungo la scala dell’essere), tanto bene egli è, a livello ontologico. “Strettamente parlando,
il male non esiste. Ciò che con questo nome si designa si riduce all’assenza di un certo bene in una natura che
dovrebbe possederlo” (p. 149).
- Ogni cosa è buona per ciò che essa è, e in ciò che essa è. La finitudine non è un male, ma è il metro del bene,
tanto più che lo scomparire di un bene determina l’apparire di un altro.
- La natura è dunque un bene, e la natura corrotta dell’uomo è il bene senza il quale il male non albergherebbe
nel mondo. Il male dunque dipende dalla costituzione stessa dell’uomo.
- Tutto, nella creazione, è l’armonico mosaico di un bene poliedrico e gerarchico: la successione delle creature
costituisce la bellezza dell’universo.
- Per quanto concerne invece il male morale, esso scaturisce da un atto di ragione, ossia da un atto libero.
o È vero, Dio avrebbe potuto non esporre l’uomo al rischio dell’errore, non dotandolo di libero arbitrio,
però, se il libero arbitrio è un rischio immenso, esso è parimenti una promessa grandissima, giacché
consente la beatitudine.
Il peccato originale è dunque il malvagio utilizzo del libero arbitrio: rivolgersi alle cose materiali, a discapito di
quelle spirituali è un male, ed è un male radicale. Assorta nelle cose materiali, l’anima si infanga, si sporca, si lega,
si blocca: l’anima non si riconosce più. Ecco il male dell’anima, la radice prima ed ultima del suo dolore.
L’anima può degenerarsi, ma non può rigenerarsi. Caduta e corrotta nel sensibile, non può più liberarsi da esso, ma
può desiderare di farlo. “Il momento decisivo nella storia personale di Agostino era stato la scoperta del peccato,

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della sua incapacità di risollevarsi senza la Grazia della Redenzione, e del suo successo nel farlo con questo aiuto
divino” (p. 150).
- Il furore antipagano che trascina l’indole di Agostino lo porta ad oscillazioni pericolose verso una dottrina
integralista della Grazia, ma la posizione è granitica, e ben solida. “La grazia è necessaria al libero arbitrio
dell’uomo per lottare efficacemente contro gli assalti della concupiscenza sregolata del peccato e per essere
benemeriti davanti a Dio. […] Iniziativa divina, la grazia precede quindi in noi ogni sforzo efficace per
risollevarci. Senza dubbio essa nasce dalla fede, ma la stessa fede è una grazia” (p. 151).
- La Grazia coopera con il libero arbitrio dell’uomo, e, pur precedendolo, non lo esclude affatto.
- Libertà è scoprirsi capaci di fare il male, come di non farlo, e l’uomo più libero è colui che a tal punto è vinto
dalla Grazia da non potere più fare il male: “libertas vera est Christo servire” (ibidem).
Allontanarci da Dio è fatto di cupidigia, si è visto; riavvicinarci a lui è fatto di carità, ossia “l’amore per ciò che
merita di essere amato” (ibidem). La ragione deve impegnarsi nello sforzo di conversone dalla scienza alla sapienza.
Come l’intelligenza ci trascina sulle cose, la volontà ci trascina verso Dio: i pagani dicono che la verità è staccata
dal sensibile; con l’aiuto della fede, mediante la Grazia di Cristo, il cristiano può raggiungere il vero Dio.
I Cristiani sono dunque uniti a Dio, ma sono anche tra di loro uniti proprio perché ciascuno singolarmente è unito
a Dio. I Cristiani hanno una radice comune di appartenenza al di là di questo mondo, l’amore per Dio.
- I pagani, nelle loro comunità, sono tutti riuniti da un’unica appartenenza: il bene della propria polis, o della
propria società in genere.
- “Tutti i cristiani, di tutti i paesi, di tutte le lingue e di tutte le epoche, sono uniti dal loro comune amore dello
stesso Dio e dalla comune ricerca della stessa beatitudine. Anch’essi, dunque, formano un popolo, i cui
cittadini si reclutano in tutte le città terrestri, e la cui sede può chiamarsi la ‹‹Città di Dio››” (p. 152).
o La Città di Dio è dunque già qui, ed è solo con l’ultimo giorno che sarà separata con decisione dalla
città terrestre cui è commista.
o Tutta l’opera della storia mira alla costruzione della Città di Dio: la storia è il luogo di disvelamento
progressivo del mistero in cui Dio ci ha chiamati ad amarci. Dio continua indefessamente, nel corso
della storia, a correggere l’umanità peccatrice, fino alla costituzione della città dei Giusti.
▪ Dio solo conosce e governa i sentieri della Grazia, e il popolo dei beati, già scelto da lui alla
creazione, è scelto perché così è giusto. Di questo solo possiamo essere sicuri.
Da Boezio a Gregorio Magno
Severino Boezio nasce nel 470 e muore nel 525 a Pavia, presso Teoderico. Durante il suo momento di massima
disgrazia scrive la sua opera più importante, il De consolatione philosophiae, per far fronte alle avversità. Ingegno
versatile e multiforme, dà il suo primo contributo alla logica, di cui rimarrà l’indiscusso professore fino al secolo XII
(quando sarà scoperto l’intero Organon di Aristotele).
“Il successo di Boezio non è effetto del caso. Egli stesso s’era assegnato questo ruolo d’intermediario tra la filosofia
greca e il mondo latino” (p. 155).
- La filosofia non è vuota astrazione, un sapere lontano dal concreto; una scienza meramente teorica, o
un’abilità pratica di basso livello. “La filosofia è l’amore della sapienza […]. La sapienza è questo pensiero
vivente, causa di tutte le cose, che sussiste in se stessa e non ha bisogno che di sé per sussistere. Illuminando
il pensiero dell’uomo, la sapienza lo rischiara e l’attira a sé con l’amore” (p. 156). Realtà vocazionale, la
filosofia si riconfigura a nuovo splendore.
- La filosofia si divide in due grandi aree: la teorica (o speculativa) e la pratica (o attiva).
Cominciamo con l’analisi della filosofia teorica.
- Le specie della filosofia speculativa sono tante quante classi di esseri sono da studiare. Le classi degli esseri
sono tre: intellettibili, intelligibili e naturali.
o Intellettibili: sono tutti gli esseri oggetti di pensiero e non afferenti alla materia in modo alcuno. La
scienza che studia gli enti intellettibili è la teologia.
o Intelligibili: si tratta di tutti gli enti concepibili, ma presenti nei corpi. Li studia la “psicologia”.
o Naturali: sono tutto ciò che ricade nell’ambito della fisiologia. Le scienze adatte allo studio della
natura sono quelle del Quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica).
- Alle scienze del quadrivio, che riguardano l’acquisizione di conoscenze, si affiancano le scienze del Trivium,
che sono retorica, grammatica e logica.
o La logica è tanto una scienza quanto, per essa, uno strumento: pensare il vero od il falso secondo
regole è in tutto e per tutto l’ambito di un sapere; ma saperlo fare è propedeutico ad ogni sapere.
Il problema in cui si imbatte Boezio nello studio della logica è destinato ad una tradizione lunghissima. Si tratta dello
statuto e della validità delle idee generali, altrimenti noto come il problema degli universali. Esso si apre per una
ragione contingente, e molto semplice: Boezio commenta il testo di Porfirio, neoplatonico, su Aristotele. Mettere a
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contatto i due massimi pensatori dell’antichità non poteva non suscitare scintille: nasce così il più longevo ed arduo
problema filosofico del Medioevo.
- In un passaggio della sua Isagoghé, Porfirio stabilisce di dovere affrontare, prima o poi, il tema delle idee
generali: sono realtà di per sé sussistenti oppure sono semplici concezioni della mente? Se sono realtà, sono
corporee od incorporee? Se sono incorporee, sono commiste o separate dai corpi?
o Porfirio si rifiuta di prendere posizione: il suo era un trattatello di logica, non un’opera di metafisica.
- Boezio si dedica al problema con un piglio ben diverso, e una ben minore modestia.
Per Boezio, fondamentalmente, le idee generali non possono essere delle cose. A fortiori, esse non possono essere
delle sostanze. D’altronde, le idee generali non possono essere concezioni della mente, e per un motivo molto
semplice: ogni pensiero è pensiero dell’essere; un pensiero senza essere non pensa nulla. Se dobbiamo pensare
assieme che ogni pensiero è pensiero dell’essere, e che gli universali costituiscano un pensiero valido, allora siamo
di nuovo nei guai.
- È Alessandro di Afrodisia a costituire il modello di risposta additato da Boezio. “I sensi ci danno le cose in
stato di confusione, o, per lo meno, di composizione; il nostro spirito (animus), che gode del potere di
separare e di ricomporre questi dati, può distinguere nei corpi, per considerarle a parte, delle proprietà che
non si trovano che in stato di mescolanza. I generi e le specie sono tra quest[e].” (p. 159).
- Si distingue con il pensiero ciò che è unito nella realtà. Forma e materia sono unite come particolare ed
universale; non c’è alcun fatto illecito nel separare le due realtà a livello intellettuale.
o “Subsistunt ergo circa sensibilia, intelliguntura autem praeter corpora” (ibidem).
I problemi, ovviamente, pullulano. Innanzitutto manca, presso Boezio, qualsiasi tipo di caratterizzazione della
tipologia dell’intelletto (che presso Aristotele è l’intelletto agente) impiegata nel separare ciò che nella realtà è unito.
Ma soprattutto, è vero che gli universali si colgono separatamente nell’intelletto, però, se è possibile farlo, significa
che qualcosa dovranno pur essere.
Nel V libro del De consolatione, Boezio muta opinione. Un uomo è visto con i sensi, con l’immaginazione, con la
ragione e con l’intelletto.
- Con i sensi si coglie l’uomo concreto, Pietro, Paolo, Giovanni o Barnaba.
- Con l’immaginazione si coglie la forma di uomo nell’umanità concreta dell’uomo di fronte a me.
- La ragione coglie la specie della forma: il suo è uno sguardo d’insieme che trova la ratio specifica della
comunanza tra le forme.
- L’intelletto contempla semplicemente la forma, al di là dell’universo, nella sua purezza.
È chiaro che la dottrina di Boezio sugli universali ha qui subito uno slittamento importante, giacché da Aristotele è
passato ad un’interpretazione tipicamente platonica dell’esistenza dei generi superiori. Sono le idee. Boezio, come
ha ben detto il poeta di XII secolo Goffredo di San Vittore, non sa prendere posizione tra i due.
Non dimentichiamoci però che una ragione, forse c’è, al di là della complessità dell’argomento, e dell’inesauribilità
del conflitto. Per Boezio la scienza superiore, quella verso cui tutte le altre verticisticamente tendono, non è la scienza
dell’intelligibile, ma quella dell’intellettibile, ossia la teologia. Oggetto supremo di interesse è dunque Dio, qualcosa
di cui noi abbiamo conoscenza a livello innato.
- L’imperfetto non può esistere come tale senza implicare una perfezione cui inerisce, ad un livello più o meno
maggiore di perfezione. Ergo, o tutto è perfetto (ma manifestamente non tutto è perfetto), o il perfetto esiste.
- Se Dio è il principio di tutte le cose, esso è anche il perfetto; se fosse imperfetto, occorrerebbe un perfetto
antecedente di cui sarebbe una degenerazione (l’imperfetto implica perfezione).
o Perfetto, Dio non manca di nulla: egli è la beatitudine stessa, ossia la condizione in cui vi è perfetta
convenienza di tutti i beni.
- Dio è uno: la Trinità è un Dio. Padre, Figlio e Spirito Santo sono uno per una loro non-differenza. Per il fatto
stesso di essere uno, Dio sfugge ad ogni categorizzazione, cioè ad ogni pensiero.
Teologia, dunque, al vertice, come scienza dell’intellettibile. Poi psicologia, con il suo oggetto intelligibile che è
l’anima. Essa deve preesistere al corpo, per esservi potuta degenerare, e ciò conferma la dottrina platonica
dell’anamnesi.
Luogo privilegiato per l’argomento, il De consolatione philosophiae contiene una lunga trattazione sulla dottrina
della volontà. Il problema, anche qui, è centrato: come tenere insieme volontà (che implica libertà) e provvidenza?
- La volontà però è utilizzo della ragione: “meglio si fa uso della ragione, più si è liberi” (p. 164).
- “Volere ciò che il corpo desidera è il grado estremo di schiavitù; volere ciò che vuole Dio, amare ciò che egli
ama è la più alta libertà, è quindi la felicità”: usare la ragione per comprendere ed amare Dio, ecco la libertà
più alta.
Certo, ma il problema è intatto: la volontà è libera o no? La risposta di Boezio è per lo meno controintuitiva: “Dio
prevede infallibilmente tuti gli atti liberi, ma li prevede come liberi” (ibidem). L’illusione del tempo, la realtà cui noi
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uomini siamo costretti, ci pone di fronte ad un problema che, nell’eterno presente di Dio, semplicemente, non è un
problema. Dio vede tutto simultaneamente, ma non è causa del nostro volere: “io vedo che il sole si alza; il fatto che
io lo ved[a] non è la causa del suo alzarsi” (p. 165).
La fisiologia di Boezio riprende da molto vicino quella di Platone, esposta nel Timeo.
- Riprendendo Calcidio, la Provvidenza situa il destino e non il destino la Provvidenza. “Realizzazione nel
tempo dei decreti eterni della provvidenza, il destino non vi si oppone, non fa che servirla”. La Provvidenza
è Dio, e il destino cala nel tempo la successione delle disposizioni simultanee di Dio.
- Se le cose sono l’essere, e l’essere è sostanzialmente bene, le cose sono sostanzialmente buone. Ma allora,
“in che cosa differiscono dal bene in sé, che è Dio?” (p. 166).
o “Diversum est esse et id quod est” (ibidem), è questa la risposta di Boezio.
o Ciò che è, è un insieme collettivo di parti, e nessuna di esse singolarmente. Ogni essere composto
non è ciò che è.
o In una sostanza semplice, essere ed ente coincidono perfettamente.
- La domanda resta: che cosa è l’essere di “ciò che è”, se “ciò che è” sono le cose, che non sono l’essere?
o Ogni composto è fatto da determinati e determinanti. Il determinato è la materia, mentre il
determinante la forma: l’anima, nell’uomo, è la forma dell’organizzazione, ed essa è “ciò per cui
l’uomo è ciò che è” (p. 167).
o La forma della sostanza, non è la sostanza. Non esiste, se la si separa da quest’ultima: ciò per cui
essa è ciò che è non è un essere.
Si sta scindendo il principio della sostanzialità dall’esistenza della sostanza
Gli enti materiali sono una mescolanza di elementi noetici e materia. I primi però non possono essere le idee, perché
queste non si mescolano con quella: dalle forme immateriali ed intellettibili sono venute altre forme, che in-formano
i corpi. Si tratta delle immagini, le quali sono copie delle idee, e sono le nature (principi attivi) della materia.
Di animo decisamente acculturato, Boezio stenderà vari trattati, destinati a rinnovare il panorama culturale
dell’epoca, e a ristrutturare le scienze del Quadrivium.
Per trarre un bilancio, in una frase dell’opera di Boezio, ne usiamo una dai suoi stessi scritti: “fidem, si poteris,
rationemque coniunge” (p. 168).
Cassiodoro nasce intorno al 480 e muore verso il 570.
- Il suo De anima è integralmente neoplatonico (sarebbe meglio dire, agostiniano), fatto non scontato per un
periodo in cui si può serenamente essere cristiani e stoici.
o L’anima è spirituale; è una sostanza finita immateriale ed immortale.
- Institutiones divinarum et secularium litterarum. Il suo II libro avrà tanta fortuna da costituire un’opera
indipendente e sarà adoperato come enciclopedia delle arti liberali. La chiave del successo sta nello stile
elegante, piano e ben definito.
Per quanto riguarda Isidoro di Siviglia, siamo a conoscenza di venti volumi di Etymologiae (o Origines).
- “Isidoro è persuaso, e ne persuaderà la massa dei suoi lettori, che la natura primitiva e l’essenza stessa delle
cose si riconoscono dall’etimologia dei nomi che le designano” (p. 170).
- Le etimologie di Isidoro, per quanto strampalate siano agli occhi di noi contemporanei, sono un monumento
per la cultura medievale; un’opera di indiscusso valore che è la fonte di tanti altri sforzi compiuti nel
millennio.
- L’opera di Isidoro, come quella di Boezio, di Cassiodoro o di Martino di Bracara, sono opere fondamentali
per la conservazione di numerosi concetti altrimenti destinati ad un inglorioso oblio.
Ultimo esponente di una cultura ancora in qualche modo “latina” è papa Gregorio I, conosciuto con l’appellativo di
Gregorio Magno. Da gran riformatore, introduce modificazioni consistenti nella liturgia e nel canto, e scrive un Liber
regulae pastoralis, per esporre i doveri di un pastore cristiano. Le citazioni delle sue opere (comprensive dei Dialoghi
e dei quattro libri di Moralia in Job) pullulano nel Medioevo.
- Significativa è la vicenda legata alla figura dell’arcivescovo di Vienna, Didiero. Questi, prendendo atto
dell’ignoranza quasi scandalosa attorno a sé, si era dato all’insegnamento della grammatica latina,
commentando prosa e poesia dei maggiori autori dell’età imperiale.
- “La lettera violenta che egli scrisse a Didiero sorprende, anche sapendo quanto profondo fosse allora il
decadimento delle lettere. Gregorio vi esprime la speranza che non si tratti che di una notizia falsa e che il
cuore di Didiero non si sia lasciato cogliere dall’amore per le lettere profane. Come credere che un vescovo
possa discutere di grammatica (grammaticam quibusdam exponere)? Le stesse labbra non potrebbero
celebrare contemporaneamente Giove e Gesù Cristo!” (p. 172).
o “Et quam grave infandumque sit episcopis canere quod nec laico religioso conveniat ipse
considera” (ibidem).
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Non è immorale imparare il latino: è immorale farlo se questo non è immediatamente e senza possibilità altra alcuna
ricondotto all’apprendimento delle Scritture. Le arti liberali non sono cancellate, oscurate, proibite, ma sono
asservite, certo con veemenza e rigore alle volte eccessivi, ma è questo che traspare dal suo commento al Libro dei
Re. Resta, comunque, forte la predilezione per le Scritture, che porta Gregorio al limite della cecità circa i meriti
della letteratura latina. Tra il latino di Cicerone e quello della Bibbia, solo quello della Bibbia deve essere fatto
valere. “Indignum vehementer existimo ut verba coelesti oraculis restringam sub regulam Donati. Neque enim
haec et ullis interpretibus in Scripturae Sacrae auctoritate servatae sunt” (p. 173).
Chiesa e società
Si è visto con Agostino: un regno in questo mondo, che non è di questo mondo. È questa la patria dei cristiani:
ecclesia in hoc mundo posita.
Il Cristianesimo sorge presso il popolo ebraico in un momento di dominio da parte di Roma. Vediamo più chiaro.
- Il popolo ebraico è una realtà complessa, tenuta insieme a livello etnico da almeno due fattori. Il primo,
indubitabilmente, è il sangue: Jahvè promette ad Abramo una discendenza numerosa come le stelle del cielo,
asserendo implicitamente che sarebbe rimasta tutta entro la medesima circoscrizione sociale.
Il secondo fattore di coesione della società ebraica è la circoncisione: è a tal punto importante da potersi
sostituire al legame di sangue, dispensando il circonciso dal possederne uno. “In questo senso il popolo
ebraico era un popolo e non una semplice razza” (p. 174).
- È possibile dunque che ci siano discendenti di Abramo che non fanno parte del popolo eletto, così come è
possibile che vi siano membri del popolo eletto non discendenti da Abramo.
o Il popolo di Israele è stato dunque scelto dal Signore per una semplice preferenza: Dio ha deciso che
Israele sarebbe stato il suo protetto; tutta la Terra è sua, ma Israele in modo particolare.
o “Patto a due, di conseguenza, da cui sono esclusi tutti gli altri popoli, come ne sono esclusi tutti gli
altri dei: un patto tra il popolo di Dio e Dio contro tutti gli altri popoli, tra Dio e il popolo ch’egli
s’è scelto, contro tutti gli altri dei” (p. 175).
Israele può redimersi di fronte al giudizio divino, gli altri popoli, che Dio non s’è scelto, non lo possono. Il fatto qui
è forte: non si tratta di un dio tra gli altri che il popolo si è propiziato, ma l’unico vero Dio che s’è scelto la sua
discendenza per sempre.
- “Dio per la nazione e con la nazione, tale è proprio infatti la formula che sembra più felicemente riassumere
il primo atteggiamento del popolo ebraico. I profeti d’Israele, invece, hanno predicato una religione più
larga e più comprensiva” (p. 176).
- Si assisteva, di fatto, ad una disparità: una predominanza, sentita come tale dal popolo ebraico, per essere
l’unico depositario del vero, a petto dell’universalismo della verità stessa che poteva includere ad infinitum
i credenti che si fossero riconosciuti nei culti di pertinenza dell’ebraismo.
o “La difficoltà […] consisteva, per gli Ebrei […] nel concepire una società religiosa in cui il solo
legame sarebbe stato la comune adorazione del vero Dio, e di cui, di conseguenza, sarebbero stati
chiamati a far parte tutti gli adoratori di Jahvè, a qualunque nazione essi potessero appartenere” (p.
177).
- L’integrazione era centripeta al parossismo: nessun tipo di sincretismo era ammesso in Israele. Questo non
faceva altro che aggravare il conflitto dei Profeti: più ci si convinceva che Jahvè è l’unico vero Dio, più
occorre prescindere dai vincoli della nazionalità, giacché Jahvè è vero Padre di tutti gli uomini.
In Isaia, si ha chiara coscienza del fatto che la predicazione di un unico Dio, vero più d’ogni altra possibilità nel
mondo, implica il progetto di una salvezza universale, e cioè estesa a tutti i popoli della Terra. Chiaro, Israele sarebbe
rimasto, per così dire, il tramite, il giunto tra il disegno divino e la sua articolazione terrestre, ma il disegno si faceva
ora grande come l’ecumene. Dunque vi è un significativo slittamento: da una forma di nazionalismo teocratico, ad
una forma di universalismo religioso; in che senso ciò è avvenuto?
- Innanzitutto, il processo è stato rallentato dalla convinzione di una centralità fissa di Israele: se è vero che il
piano di salvezza implica l’universalità, è altrettanto vero che questa si attua per mezzo di Israele.
- In Isaia troviamo una traccia di questa consapevolezza, che è duplice, e tale deve rimanere: Dio ha un piano
di salvezza universale; però Israele è il suo servo più importante, e perciò, per essere meritevoli di salvezza,
occorre collaborare con Israele per attuare il disegno di Dio su di essa. Perciò, quando Isaia annuncia il futuro
trionfo di una nuova Gerusalemme, non parla affatto della Gerusalemme celeste agostiniana, prefigurazione
apolide di una nuova patria ultraterrena; nient’affatto: la profezia di Isaia è una profezia molto più connessa
al destino terreno del popolo di Israele.
o “In breve, anche nel secondo ciclo l’universalismo del profeta resta essenzialmente un giudaismo.
Allargandosi in un imperialismo religioso, il nazionalismo religioso del popolo ebraico si

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esasperava […] Israele intraprende la conquista temporale del mondo sotto la protezione del solo
Dio, l’onnipotente Jahvè” (p. 180).
Era chiara la tensione: una salvezza universale era da attuarsi per mezzo di un popolo molto, molto particolare. “Per
questo il messaggio d’Israele non poteva farsi capire dal mondo se non degiudaizzandosi e mettendo al servizio della
società universale che annunciava un mezzo tanto universale quanto il suo fine” (p. 181). Un mezzo del genere non
è originale, o singolare, ma originale e singolare è il rapporto con esso da parte di Israele: si tratta del monoteismo.
- Israele deve portare al mondo l’annuncio che non esiste altro Dio all’infuori di Jahvè, e che questa è tutta e
la sola verità.
- Un compito arduo, dunque, difficile, che destina Israele ad un’incomparabile grandezza: ma ogni grandezza
ha la sua miseria, per cui Israele è costretto a viverne una che gli altri popoli mai vivranno.
o Israele si è creduto l’unico popolo, come unico è il suo Dio, e unica la sua religione: dalla
preparazione del regno per la venuta di Dio, sono passati ad una forma di imperialismo terreno.
o “Israele non ha mai dimenticato , e non è forse in suo potere dimenticare, che da lui deve nascere una
società veramente universale […]; ma non può concepire questa società come un popolo d’Israele
indefinitamente ingrandito, senza entrare in conflitto con i popoli che la circondano o quelli tra i quali
risiede. Di più, non può concepirla senza suscitare dei contro-universalismi” (p. 182).
Israele è posto dunque di fronte ad una scelta: o accettare il ruolo egemonico nella diffusione e nella preparazione di
un Regno che non è il loro, e in cui poi dovranno integrarsi non appena sarà costituito (società universale), oppure
ostinarsi nell’allargare indefinitamente il loro gruppo, fino ai limiti dell’umanità.
La rivelazione cristiana apre le porte al vero universalismo de facto: la società umana è un unico consorzio,
universale e diffuso su tutta la Terra.
- La Grecia non aveva potuto elaborare una filosofia dell’universalismo, perché i suoi problemi erano i
problemi della polis, e perché l’esistenza di nature differenti nell’uomo (barbari e Greci) impediva la
formazione di una società unica.
o Lo Stoicismo avanza pretese di universalismo: tutti gli uomini sono parte di una città universale (una
città che coincide con l’universo) e il mondo è la loro patria. Tutte le parti del mondo sono legate da
un’armonia fondamentale, che p coinvolge tutti gli uomini, volenti o nolenti. Scopo della filosofia è
allora insegnare loro il proprio posto sulla scala di quest’armonia.
o Anche l’universalismo di Alessandro è particolare: il mondo è diviso non in Greci e barbari, ma in
buoni e cattivi; chi si comporta bene, è Greco, chi no è barbaro. L’universalismo di Alessandro
consiste dunque nella riunione del mondo sotto l’egida di un unico Dio.
- Alessandro e lo stoicismo paiono dunque preconfigurare l’universalismo cristiano, ma vi sono dei rilievi.
Innanzitutto, Alessandro è un dio, e non serve Dio. In secondo luogo, l’attuazione del suo piano di solidarietà
universale implica la conquista forzosa e violenta di tutti i popoli da sottomettere.
La società universale cristiana si fonda sulla fede in Gesù Cristo, e sul battesimo. Non mancheranno di sorgere
problemi e fratture: il popolo ebraico non accetta un universalismo che prescinda dal suo ruolo egemone. Non più
dunque osservanza della Legge, ma la fede, con la sua Grazia, come condizioni della salvezza. “Questa dottrina
fissava una volta per tutte la natura della nuova società. Non una società nazionale, poiché il Vangelo era predicato
a tutte le nazioni, né una società internazionale, poiché non c’erano più per lei né Greci, né Ebrei, ed essa prescindeva
dalle nazioni, e nemmeno una società sovranazionale […] il nuovo regno non era di questo mondo, viverci era
vivere nei Cieli” (p. 185).
- Una consapevolezza di questo tipo sarà esiziale per quanto riguarda l’appartenenza di questi popoli
all’Impero di Roma, da cui si vedono esclusi senza appello. “Nobis nulla magis res aliena est quam publica”.
- I Cristiani hanno le loro Chiese, organizzate ciascuna come un Impero, perché dunque preoccuparsi
dell’Impero temporale?
- Nella Lettera a Diogneto, un anonimo scrive: “ciò che l’anima è nel corpo, i Cristiani lo sono nel mondo.
L’anima è sparsa in tutte le membra del corpo, e i Cristiani sono sparsi in tutte le città del mondo. L’anima
vive nel corpo e tuttavia essa non appartiene al corpo: allo stesso modo i Cristiani vivono nel mondo, e
tuttavia non appartengono al mondo” (pp. 186-187).
Con Costantino le cose cambiano, e parecchio, non fosse altro che perché ora gli uomini di Chiesa sono liberi di
occupare cariche prestigiose e di svolgere funzioni onorifiche nella società terrena. “Da questo momento, i vescovi
lasciano intendere chiaramente che l’impero ha fatto lega con la Chiesa e che la fedeltà all’uno si confonde con la
fedeltà all’altra” (p. 187). Nascono le prime visioni provvidenzialistiche della storia, per cui l’Impero ha svolto una
funzione capitale e di primaria importanza lungo la storia della salvezza. Il sogno della Chiesa era dunque quello di
insediarsi sotto la protezione di un Impero imperituro, destinata a trionfare sul globo. Inutile ricordare come doveva
andare a finire dopo il 410 e il 476.
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I pagani, irati, accusano i Cristiani della catastrofe: non avevano loro vincolato in un unicum la vera fede nell’unico
vero Dio e il destino di Roma? Guardatela oggi, questa legge di Dio. Dal 313 i pagani andavano dicendo che
l’abbandono dei culti dei padri avrebbe rovinato Roma. E Roma è distrutta, ora. L’interlocutore cristiano che si
preoccupa di rispondere è Agostino, con il suo De civitate Dei.
- La Civitas Dei è posta da Dio sulla Terra, procede per la sola fede e il suo fine è nei Cieli. Civitas Dei e
civitas terrena sono temporaneamente (e temporalmente) frammiste, in attesa di una loro separazione, che
avverrà nell’ultimo giorno.
- I Cristiani sono sì cittadini della Civitas Dei, ma parimenti lo sono della civitas terrena. E tanto più le virtù
pagane prescrivono obbedienza allo Stato, quanto più esse s’accordano con la dottrina cristiana, che
raccomanda di essere “cittadini irreprensibili” (p. 188).
- Le virtù pagane sono state date agli uomini perché potessero cercare dove e come volessero sapienza e
felicità: gli stessi filosofi confessano ormai di non poter più trovare la sapienza. E questo perché la cercano
con il senso umano e l’umano raziocinio.
o “La città di Dio deve condurre gli uomini a quella felicità che tutti cercano e che la città terrestre è
incapace di dar loro” (p. 189).
- La Città di Dio è dunque una città in cui conta soltanto di diffondere il vero; pertanto, i filosofi, che vivono
nel tempo dove risiede anche la Città di Dio, possono avere detto qualcosa di vero, essendo in ciò analoghi
ai Profeti.
Agostino ha trasmesso al Medioevo l’idea di un’essenza duplice della città qui sulla Terra, ossia una città che
preveda una commistione di tendenze terrene e temporali e di una tensione tutta diretta all’aldilà. Questo è il nucleo
veritativo profondo di ciò che si può chiamare “agostinismo politico”; le conseguenze pratiche saranno di volta in
volta deputate alla situazione ed agli attori particolari (è chiaro infatti che su queste basi si sarebbe potuta
serenamente sostenere una dottrina della preminenza della Chiesa sull’Impero, cosa che in effetti fu fatta).
Agostino vuole dimostrare, con la Città di Dio, che la conversione di Roma al Cristianesimo non è causa dei suoi
mali. Le divagazioni filosofiche e teologiche cui s’abbandona il De civitate Dei possono parere alle volte excursus
confusionari e fuori bersaglio; perciò Agostino chiede a Paolo Orosio, un sacerdote di Spagna a quel tempo in Africa
per via delle persecuzioni, di stendere una De regnorum mutatione Dei providentia facta, in cui raccontare di tutti i
flagelli subiti dai pagani nel loro passato.
- I re derivano il loro potere da Dio, ed è da questi soltanto che tutta la potenza deriva.
- I mai subiti da ciascun popolo sono tanto più gravi quanto più pagano è il popolo che li subisce. Ora si tratta
di stendere un’efficace pars construens, per far risaltare l’importanza per l’Impero della sua conversione.
o L’Impero ha trovato sotto il Cristianesimo, la sua sostanziale unità. Un’unità del resto che, cosa
buona per l’Impero, è quasi prefigurazione della vera patria, oggetto d’amore dei Cristiani.
o La storia è provvidenziale: Roma ha una funzione particolare nella storia, di accompagnatrice della
vera fede; se ora crolla è per il peso delle sue colpe, non di certo a causa dei Cristiani.
I principi desunti dall’agostinismo politico daranno frutti sorprendenti presso papa Gelasio I (492-496). L’imperatore
è figlio della Chiesa, non suo capo; il potere spirituale e quello temporale sono distinti, e traggono ambedue la loro
autorità e la loro potenza da Dio. I due poteri sono però perfettamente integrati: la Città di Dio è la Chiesa (“civitas
Dei quae est ecclesia” dice Agostino) e quella, come questa è integrata con l’ordine temporale del mondo.
La cultura patristica latina
“Nella letteratura latina, la metafisica non è mai stata altro che un argomento di importazione; ma Roma ha prodotto
moralisti notevoli” (p. 194).
L’uomo latino è un uomo per cui l’attività relazionale è fondamentale. L’umanità nasce con il linguaggio; dunque,
più e meglio si parla, più e meglio si è uomini. Questa è la tesi ciceroniana, per cui il male più grave per la politica
e la società coeva non è altro che il divorzio tra retorica e filosofia: reinsegnare ai retori a pensare, o ai filosofi a
parlare. L’ideale umano di Cicerone è il doctus orator: un uomo abile a parlare, perché abile a pensare. Arti liberali,
perché arti degne di un uomo libero, congiunte a conoscenze generali e mirate all’argomento di volta in volta richiesto
dall’orazione (specie di diritto, di storia, filosofia, belle arti…), ecco l’educazione dell’uomo presso Cicerone. Anche
Quintiliano invocherà l’alleanza di retorica e filosofia, non per fare però, come voleva Cicerone, una retorica più
persuasiva, ma per garantire all’oratore quella probità di costumi e di vita che gli deve essere garantita per costituire
il modello di umanità: vir bonus dicendi peritus. “Tra Quintiliano e Cicerone c’è Seneca […]; ma Quintiliano qui
pensava più alla sapienza tutta pratica degli Stoici che alla sapienza speculativa della Nuova Accademia, di cui s’era
nutrita l’eloquenza di Cicerone” (p. 197).
Tutti i grandi autori della patristica latina si formano sui metodi e sulle lezioni loro impartite da una cultura
pienamente ciceroniana e pienamente quintilianea. Agostino compone un’enciclopedia di arti liberali (non terminata,
ed oggi perduta) e analizza i testi della Scrittura secondo tutti i metodi della grammatica latina (non è un caso che
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componga le Enarrationes in Psalmos. “La tecnica della cultura classica era dunque ancora buona, ma bisognava
modificarne lo spirito. Cicerone voleva formare il ‹‹doctus orator››, Quintiliano il ‹‹vir bonus dicendi peritus››;
perché non conservare la stessa cultura dandole per fine quello di formare un ‹‹vir christianus dicendi peritus››? È
precisamente una delle riforme compiute da Sant’Agostino” (p. 199). Agostino vuole asservire Cicerone alla
scrittura: perché non mettere l’eloquenza al servizio dell’esegesi biblica? A tal punto è ambizioso il piano che si
prospetta una sorta di enciclopedia capace di accogliere tutte le informazioni utili per l’interpretazione della Bibbia:
non sarà questo lo scopo dell’opera di Isidoro forse?

III. Dalla rinascenza carolingia al X secolo

In Inghilterra, dopo una timida cristianizzazione, le popolazioni bretoni non erano sufficientemente confermate nella
fede per potere essere affidabili nella conversione degli invasori anglosassoni. Nel 596 papa Gregorio inviò un
monaco, Agostino, con un seguito, a convertire le genti dell’isola.
- Nel 601 abbiamo notizia di una spedizione, da parte di Gregorio Magno e diretta ad Agostino, di vari
paramenti liturgici e di “codices plurimos”.
- Le esigenze di educazione di un clero indigeno spinsero il papa a questa mossa, e così si iniziò una tradizione
di acculturazione delle genti isolane. Entro il 644, i primi vescovi anglosassoni occupavano le sedi
dell’Inghilterra, e così nel 655 un sassone divenne arcivescovo di Canterbury.
La cultura latina favorì un incontro fruttuoso, al punto che alla metà del VII secolo furono inviati in Inghilterra due
personaggi di immenso rilievo culturale: il monaco greco Teodoro e l’africano Adriano. Questi incominciarono
subito a diffondere il Vangelo, congiuntamente con una passione ed una competenza magistrali nelle lettere profane.
Ancora dopo il 700, Beda noterà che in Inghilterra grande sarà la diffusione delle lettere classiche. In realtà, se questo
è vero per il latino, non lo è molto per il greco.
La figura di Adelmo di Malmesbury è particolarmente rilevante ai fini dell’apprendimento della situazione culturale
in Inghilterra dopo l’arrivo di Teodoro e Adriano.
- Dopo avere studiato a Malmesbury (forse presso un vescovo irlandese), Adelmo si recò a Canterbury, dove
ebbe modo di toccare con mano tutta l’inutilità degli studi precedentemente svolti.
- A Canterbury venne istruito come fosse destinato a divenire il doctus orator ciceroniano, e ricevette
insegnamenti in tutte le arti liberali. Tornato a Malmesbury si diede anche alla scrittura.
- L’opera, nel complesso, è di scarsissima rilevanza, ma è fondamentale per il fatto che è la prima in lingua
latina ad essere integralmente prodotta in terra anglosassone. Gli echi letterari delle sue opere mostrano
manifestamente l’intervento di Teodoro e di Adriano, e l’idea che Adelmo aveva dell’universo profano come
di una propedeutica alla comprensione delle Scritture dimostra la diffusione di idee agostiniane.
A tal punto la dottrina cristiana si impiantò nelle terre anglosassoni, che in breve tempo (meno di un secolo) fu di
qui che provennero i missionari destinati alla maggior fortuna nel cuore dell’Europa.
- Nel Wessex si formarono le prime scuole deputate alla formazione dei missionari. A Nursling un monaco
molto promettente, Vinfrith, terminò i propri studi, venendo poi destinato alla missionarietà.
- “Gli Anglosassoni d’Inghilterra non potevano pensare senza tristezza all’ignoranza di coloro ch’essi avevano
lasciato in Germania. Per questo, nel 716, Vinfrith lasciò Nursling per andare in Frisia” (p. 206).
- Nel 722, dopo due viaggi a Roma, le sue missioni ebbero un tale merito agli occhi del papa Gregorio II che
egli fu nominato primo vescovo in Germania.
Oltre che per la sua mirabile opera di missionario, che lo condusse al martirio, Vinfrith è fondamentale per la
testimonianza che costituisce della situazione delle Gallie nel secolo VIII prima di Carlo Magno.
- Vinfrith accettò di riformare la Chiesa nel ducato d’Austrasia: in una lettera a papa Zaccaria, gli chiese
consiglio su come affrontare la situazione.
- La religione cristiana in Francia si è affievolita, al punto di perdersi da più di sessant’anni. I vescovi sono
laici che sfruttano i vescovati “seculariter ad perfruendum”, i diaconi uomini che vivono con più concubine.
I consacrati non pensano nemmeno un istante a cambiare la loro vita.
- I preti battezzavano “in nomine Patris et Filiae et Spiritus Sancti”: si era sull’orlo della validità del
Sacramento. Che fare lì dove non si potevano nemmeno più distinguere i pagani dai Cristiani?
o Per risolvere i propri dubbi, Vinfrith si appoggiava a due autorità: il papa di Roma e il proprio
vescovo, Daniele, in Inghilterra.
Per conoscere la diffusione delle lettere classiche in terra barbara, non si può prescindere dalla singolare figura di
Benedetto Biscop. Dopo almeno quattro viaggi a Roma, questo spirito irrefrenabile raccolse un’immensa biblioteca,
fondando in Northumbria il monastero di S. Pietro di Wearmouth. Dopo avere importato in Inghilterra dei vetrai per
la prima volta e da Roma un’altra copia innumerevole di libri, Biscop fondò un altro monastero, San Paolo. L’unione
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dei due monasteri di S. Pietro e S. Paolo originò il monastero di Jarrow, dotato di una biblioteca ricchissima, entro
la quale si andò formando, di lì a poco, l’opera del venerabile Beda.
- Nato nel 673 e morto nel 753, Beda dotò il popolo anglosassone di un’amplissima storia ecclesiastica: in
meno di centocinquant’anni dall’arrivo di Agostino sull’isola, già si compiva la conversione.
- L’impronta romana della sua educazione è ben visibile nel momento in cui Beda non solo si dedica alla
storia, ma anche alla metrica e alla grammatica in genere.
o Tutto ciò è tanto più singolare se si considera lo stato di totale decadenza delle antiche istituzioni di
Roma, così come la scarsissima romanizzazione dell’isola in genere.
È con l’introduzione del latino come lingua letteraria sull’isola che i dialetti locali poterono, nel IX secolo e grazie
all’intervento di un re come Alfredo il Grande, dotarsi di una valevole tradizione scritta.
La tradizione anglosassone di rinascita delle lettere latine è importante per un motivo molto semplice: fu alla scuola
di York che Alcuino si formò, portando poi di lì in Europa il bagaglio atto alla rieducazione della corte dei Franchi.
- Lo stato della situazione in Gallia a cavallo tra l’VIII e il IX secolo merita un approfondimento.
o Dal 580, grazie anche a Gregorio di Tours, non si era smesso di lanciare un monito contro la
decadenza in atto delle lettere, che pure in Gallia, regione vitale dell’Impero, erano molto diffuse.
o “Tutte le testimonianze concordano su questo punto: nel VI secolo, l’insegnamento delle lettere non
è che un rudere” (p. 213).
- Se pure abbiamo delle notizie, per quanto riguarda il VII e l’VIII secolo, di buone tradizioni di insegnamento
letterario in Gallia, non pare che siano state sufficientemente incisive da diffondere una cultura di spessore.
- In questo clima, Carlo Magno decise di riformare la cultura del suo popolo.
Scandalizzato dalla rozzezza e dallo scarso valore, per non dire dall’inesistenza, della cultura ai suoi tempi, Carlo
decise di cercare dei maestri capaci di istruire per lo meno l’élite di governo del suo nascente impero.
- Paolo Diacono: giunto alla corte di Carlo nel 782 per cercare di ottenere dal re la liberazione di suo fratello
dopo le campagne dal primo condotte contro i Longobardi, compose la Historia Langobardorum.
- Pietro di Pisa: dopo una carriera da docente a Pavia, si reca da Carlo per insegnargli il latino.
- Paolino di Aquileia: anch’egli è una figura di secondo piano, poco rilevante e poco incisivo.
- Vi furono due docenti spagnoli alla corte di Carlo, di livello ben superiore, capaci di carriere più durature.
o Agobardo di Lione prende questo nome dal fatto che fu nominato vescovo di questa città nell’816.
o Teodulfo d’Orléans fu un uomo dotato di una cultura eccezionale per i suoi tempi. Scrisse addirittura
dei componimenti poetici e asserisce di avere assiduamente letto Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano e
Cicerone.
In mezzo a questa élite culturale, il vero centro, il vero profilo che si staglia con nettezza è quello di Alcuino di York.
“Egli non è forse superiore a loro, è diverso” (p. 216).
- Alcuino è prima di tutto un missionario e un cristiano. Egli era l’apostolo della cultura anglosassone
ecclesiastica che in quegli anni andava fiorendo, come si è visto, a Jarrow (S Pietro in Wearmouth e S. Paolo).
- Alcuino non sarebbe stato nulla senza Carlo Magno e la sua volontà di rinnovamento culturale, né del resto
costituì un imprescindibile punto di riferimento per lo svolgimento della cultura successiva: “esegeta e
teologo di secondo ordine, poeta mediocre, egli non ci ha lasciato che contributi assai modesti allo studio
delle arti liberali” (p. 217).
o A livello filosofico, Alcuino non pare affatto avvedersi della portata delle tesi di cui si faceva
banditore: sposa Platone con Agostino, senza rendersi conto della potenza implicita in tali
concezioni. Egli sposa l’idea agostiniana della sensazione che forgia, nell’anima il percetto. Una tesi
di questo tipo, ha ovvie quanto importanti ricadute sul piano metafisico ed ontologico. Non una
parola su ciò da parte di Alcuino.
- “La vera grandezza di Alcuino dipende dalla sua personalità e dalla sua opera civilizzatrice, piuttosto che dai
suoi libri” (p. 218). La cultura antica va conservata, perché è l’espressione più piena del libero operato
dell’intelletto umano rivolto alla scoperta delle leggi che Dio ha fissato nella natura. Occorre perciò
insegnarle, insegnando con esse e per esse l’amore per Dio.
o I libri di cui necessitava per la sua opera mancavano sempre, e questo costituiva l’ostacolo più grande.
E è vero che le personalità che contribuirono a questa rinascita furono mediocri, è altrettanto vero che il sogno da
questi nutrito fu più duraturo, e giù fino al XIII secolo, le migliori scuole d’Europa partorirono i loro (e i nostri)
massimi pensatori proprio grazie ad un insegnamento che, nato con modestia in Francia nel IX secolo, si propagò di
scuola in scuola, accendendo qui e là fuochi in tutta Europa.
Copiatori, infaticabili ed instancabili, ma copiatori. I monaci non si godevano le opere cui si dedicavano anima e
corpo. C’erano, qui e là, delle significative eccezioni, e una di queste è proprio Alcuino, amante in gioventù dei versi
di Virgilio, e suo severissimo censore come autorità ecclesiastica.
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Fredegiso di Tours compose un De nihilo et tenebris, dove la tesi sostenuta è che il nulla e le tenebre hanno una
consistenza ontologica ben precisa, e non sono semplicemente assenza di qualcosa.
- “Il principio della sua argomentazione è che ogni nome di senso determinato significa qualcosa” (p. 223).
- “Il ‹‹nihil›› a cui egli pensa è quello da cui Dio ha creato il mondo (ex nihilo), cioè una specie di materia
comune e indifferenziata, da cui egli avrebbe formato tutto il resto” (pp. 223-224).
Alcuino poté essere conosciuto in Germania grazie all’opera del suo scolaro Rabano Mauro, praeceptor Germaniae.
- “Ad ogni modo l’allievo ha superato il maestro di gran lunga in due opere quali Alcuino non si sarebbe mai
sognato d’intraprendere e che corrispondono, tuttavia, esattamente ai bisogni di un paese dove si voleva
fondare una cultura latina di spirito cristiano” (pp. 224-225).
- Nel De clericorum institutione si stabiliscono i rapporti che i religiosi devono avere con la cultura pagana:
gli autori pagani possono rientrare nell’educazione dei chierici “propter florem eloquentiae”, ma debbono
essere trattati come gli Ebrei trattavano le loro schiave prima di sposarle.
o Un De universo (il cui titolo originale è ben più ambizioso: De rerum naturis et verborum
proprietatibus et de mystica rerum significatione) vede nel mondo l’immensa trama di significati
nascosti dietro la superficie. L’etimologia è il mezzo della ricostruzione del valore autentico della
cosa in questione.
In Francia, nel frattempo, proseguiva l’immensa opera di trasmissione e recupero di una cultura che per quasi due
secoli era caduta nell’oblio. Nacquero così gli intelletti di Pascasio Radberto e Ratramno di Corbie. “In realtà, il
grande scontro dottrinale dell’epoca è la discussione del problema della predestinazione che allora mise alle prese
Gottschalk (Gotescalco […]), Ratramno di Corbie e Giovanni Scoto Eriugena” (p. 227).
Giovanni Scoto Eriugena fu una personalità particolarmente significativa ai suoi tempi. Nacque in Irlanda nell’810
e giunse in Francia entro l’847. Imparò il greco, forse già sul suolo irlandese, e fu maestro alla Scuola Palatina, dove
godette di ottima fama sia per il buon carattere che per il valido intelletto. Fu invitato a ribattere a Gotescalco,
sostenitore convinto della predestinazione. Il suo libello De praedestinatione fu giudicato troppo audace, e
condannato in breve nell’855 e nell’859. La nuova traduzione del Corpus areopagiticum è ben più rilevante per la
storia delle idee, tanto che di lì a poco stenderà le sue due opere principali, il De divisione naturae e il commento al
De coelesti ierarchia di Dionigi.
- “Il significato della dottrina di Eriugena consiste nella sua concezione dei rapporti di fede e ragione. Per
comprenderlo, è essenziale distinguere le posizioni successive dell’uomo rispetto alla Verità. Non c’è una
risposta unica al problema della conoscenza, ma un seguito di risposte, ciascuna delle quali vale per una di
quelle posizioni, e soltanto per quella. Presa in se stessa, la natura umana prova un desiderio innato di
conoscere la verità” (p. 229).
- Prima della venuta di Cristo l’unica verità che si può conoscere è quella della natura: ecco donde
l’elaborazione di una fisica così compiuta com’è quella del mondo classico, che del resto arriva ad asserire
la verità di un creatore del cosmo.
- Dalla venuta del Cristo, la verità non è più sola, non più abbandonata: la verità le è data; l’unico suo compito
è allora quello di accettarla così come le è rivelata. Fede e ragione sono dunque complementari, e se è vero
che per ben dirigere la seconda occorre la prima, è parimenti vero che non sono nient’affatto esclusive.
- La terza posizionalità si avrà di fronte alla visione di Dio, che renderà superflua la fede.
La fede è la premessa, se non altro perché “raggiunge l’oggetto dell’intelligenza, prima dell’intelligenza stessa. […]
facciamo precedere lo sforzo della nostra ragione da un atto per il quale accettiamo come verità ciò che la Scrittura
insegna. Per capire la verità, bisogna in primo luogo crederla” (p. 230).
Occorre dunque partire dalla fede, che è completata, secondo lo stesso volere di Dio, dalla ragione: fede, dunque,
poi conformità dei costumi, ed infine una scienza razionale e conchiusa.
- Se ci si limitasse all’acquisizione del dato scritturale, si perverrebbe ad errori grossolani. La ragione deve
dunque agire onde isolare il senso spirituale della Scrittura.
- Per di più, la fede può condurci al fine che ci promette (l’intelligenza del Creatore) solo attraverso una via
che si identifica integralmente con quella della speculazione filosofica, dominata dalla razionalità naturale.
Dire che filosofia e religione, in Scoto Eriugena, sono equivalenti, è vero, ma ha un significato ben preciso.
- La filosofia è una conoscenza di genere diverso da quello della fede, ma prolunga lo sforzo di questa nel
conseguimento del suo proprio oggetto.
- “Ciò che lo colpisce, e che egli si sforza di esprimere, è l’intrinseca unità della sapienza cristiana. […] Una
luce illumina l’anima cristiana, ed è quella della fede. Non è ancora la luce piena, poiché questa non si farà
che nella visione beatifica ma tra le due si pone quella continuamente più viva della speculazione filosofica”
(p. 231).

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o Finchè l’intelletto (spirituale) è nel corpo e perciò separato da Dio, non è possibile avere altro fine
che un’intelligenza piena e compiuta delle Scritture.
o L’intelletto deve continuare a superarsi, in uno sforzo continuo verso un Dio che è la condizione
stessa del suo procedere.
La ragione deve essere utilizzata non per piegare la fede al proprio volere, ma perché la fede richiede il suo sforzo,
e perché non ci si prostri vanamente di fronte all’autorità di chi ha ben parlato di fede prima. Una totale sottomissione
alla Rivelazione congiunta ad una totale libertà di fronte all’autorità umana, ecco l’atteggiamento del filosofare di
Giovanni Scoto Eriugena. “Come sant’Agostino e sant’Anselmo, egli pensa sotto l’egida del Credo ut intelligam, e
la sua filosofia si riassorbe interamente nel corpo della Sapienza cristiana” (p. 231).
È vero che la dottrina di Scoto Eriugena è sovente al limite dell’eresia, e che presta facilmente il fianco ad un facile
razionalismo; è però parimenti vero che su ogni punto egli si preoccupa di tutelarsi, di modo che impedisce di
spingersi in territori di speculazione pericolosi, senza il valido sostegno di un’autorità. Se si tiene conto del fatto che
Scoto Eriugena sembra possedere un istinto naturale per trovare quelle formule particolarmente aporetiche dei Padri,
è chiaro che l’insieme può risultare pericoloso.
La dialettica è il metodo razionale per eccellenza, ed essa consta di divisione ed analisi.
- La divisione consiste nella distinzione progressiva dei sottogeneri in seno ai generi universali.
- L’analisi segue la via inversa: dagli individui giunge ai generi universali in cui essi sono compresi.
- Se è vero che la dialettica è il metodo razionale di conoscibilità e di conoscenza, è parimenti vero che Scoto
Eriugena allude ad esso come alla legge dell’essere. “Il duplice movimento della dialettica non è dunque
né una regola puramente formale del pensiero, né una invenzione arbitraria dello spirito umano. Essa
s’impone come vera alla ragione, perché è inscritta nelle cose, dove la ragione non ha fatto che scoprirla.
La spiegazione dell’universo deve seguire le vie della divisione e dell’analisi. Quindi è proprio di una
Divisione della natura, e non soltanto della nostra idea di natura, che si tratterà in ciò che segue. La dottrina
di Eriugena non è una logica. È una fisica, o, come dice egli stesso, una ‹‹fisiologia››” (p. 235).
La natura include tutto ciò che c’è e tutto ciò che non c’è. Partiamo da quel che c’è, ossia l’essere.
- L’essere si divide in quattro grandi generi: natura che crea e non è creata; natura che è creata e crea; natura
che è creata e non crea; natura che non è creata e non crea. La divisione è fallace: la distinzione si attua
soltanto tra natura increata e natura creata. Creatore e creatura si oppongono nell’ordine dell’essere.
- La natura increata e creante è Dio in quanto Creatore; la natura increata e creatrice è Dio in quanto termine
di tutte le cose. La seconda natura corrisponde alle idee delle cose e la terza alle cose.
- Consideriamo ora la natura per quanto riguarda quel che non è.
o Essere è rationabiliter tutto ciò che ricade sotto il dominio dei sensi o dell’intelletto. Quello che è
escluso da sensazione e comprensione è non-essere.
o Vi sono cinque tipi di non-essere (qualcosa – ? – che non ricade nell’ambito di sensibilità ed
intelletto): ciò che ci sfugge per l’eccellenza della sua natura (Dio e le idee); tutto ciò che esiste come
correlativo negativo di quel che è: dire che una cosa è implica affermare il correlativo di quel che
non è; la potenza di qualcosa che è: tutto ciò che è in potenza non è in atto; gli esseri soggetti a
generazione e corruzione, che non sono, se comparati alle idee; l’uomo che smarrisce la sua
somiglianza con Dio per il suo errore.
- È decisamente più importante, nella dottrina di Scoto Eriugena, la divisione dell’essere. Se la divisione è
della e nella natura, con ciò non si sostiene che la natura sia un genere comune a tutte le distinzioni;
altrimenti, e Scoto se ne accorge gran bene, la si farebbe della natura un Dio.
o “Dio non è il genere della creatura, né la creatura la specie del genere Dio” (pp. 236-237).
o La divisione della natura altro non è allora che il concetto stesso della creazione, ossia ottenimento
del molteplice a partire dall’Uno.
- L’Uno, dunque, è il principio ed il fine della divisione della natura, perché Dio è l’Uno. Per parlarne, occorre
far riferimento alle dieci categorie aristoteliche, avendo bene in mente che però Dio sfugge loro
indefinitamente: le dieci categorie si emendano ricorrendo alla teologia negativa. Dio è e non è tutto ciò che
c’è, perché lo è in quanto sua origine, e non lo è in quanto Uno trascendente (e forse anche trascendentale)
per tutto ciò che c’è. Questo per quanto riguarda la prima divisione della natura (increata e creatrice).
- La natura creata e creatrice è l’idea. Si tratta di tutti gli esseri archetipi delle cose: le idee sono create da Dio
nel Verbo, e pertanto coeterne. “Se esse non hanno mai avuto un inizio quanto alla loro durata, esse hanno
sempre avuto un principio del loro essere” (p. 238). Attenzione: “aggiungiamo che questo resta vero per il
mondo stesso in quanto almeno lo si può considerare come eternamente creato nelle idee di Dio” (ibidem).

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o Le idee sono in Dio nel Verbo. Ma se Dio è integralmente unità, non possono in lui sussistere
introducendovi molteplicità di sorta. “Il Verbo di Dio è la ragione e la causa creatrice,
contemporaneamente semplice ed infinitamente molteplice, dell’universo creato” (p. 239).
Dio è Bene, perché Creatore del mondo. Ecco dunque che vertice del cosmo noetico (natura creata e creante) è il
Bene, da cui discende l’Essere, che partecipa di Dio e rende partecipi tutti gli esseri. Vine poi Vita, poi Ragione, poi
Intelligenza e giù per Virtù, Beatitudine, Verità ed Eternità. Dietro, l’infinito. Il problema, a questo livello veritativo,
sta in un fatto molto semplice: se le idee sono finite, come possono partecipare dell’infinità del Verbo, che, nelle
parole di Eriugena, coincide con loro? Per di più, se le idee sono create, come possono coincidere con il Verbo? La
faccenda si risolve in parte. Innanzitutto, in un passo del De divisione, Eriugena asserisce che le idee non sono
propriamente create, perché sussistenti al di là del tempo e dello spazio. Di questo occorre prendere atto, perché, a
livello argomentativo, Eriugena pare fare leva sul fatto che il Padre deve generare il Verbo, perché esso sussista, con
le idee che di esso partecipano. Ma questo significa dire che il Verbo è creato? No, per almeno due ragioni.
Innanzitutto, le idee sono post Deum, il Verbo no. In secondo luogo, il Verbo è realmente antecedente rispetto alle
idee. “Rimane il testo in cui Scoto Eriugena rifiuta alle idee il nome di creature, ma è perché egli definisce le creature:
ciò che ha inizio nel tempo, e non perché egli rifiuti loro una causa nell’ordine dell’essere. Eriugena è su questo
punto formale al massimo: le idee eterne rientrano nell’ordine di ciò che viene dopo Dio, perché Dio ne è la causa.
Posto questo, poco importa che si dia a loro o no il nome di creature; con qualunque nome le si chiami, dato ch’esse
sono degli esseri inferiori a Dio, non si vede come potrebbero essere Dio” (p. 240).
Il punto è che, per noi, sarebbe stato più semplice subordinare l’essere delle idee a quello di Dio. Ma funzionerebbe
così soltanto se si ragionasse, come facciamo noi, in termini di causa ed effetto.
- “Eriugena pensa piuttosto a quello che sono, nell’ordine della conoscenza, i rapporti di segno e di cosa
significata. Il Dio di Eriugena è come un principio che, sapendosi incomprensibile, dispiegherebbe tutta
in un colpo la totalità delle sue conseguenze per rivelarsi in esse. Un simile Dio non agisce mai fuori di
sé che per ‹‹manifestarsi››” (p. 241).
o Il Dio di Eriugena è un Dio che crea manifestandosi: le creature sono dunque gli esseri comprensibili
(dai sensi o dall’intelletto) che trovano la loro radice ultima in Dio.
o Il mondo è teofania: è un’apparizione di Dio comprensibile per degli esseri intelligenti.
- Se creare è rivelarsi, per Dio, allora può valere anche la conversa, per cui rivelarsi è creare. Ecco dunque
perché è possibile sostenere, coerentemente nel sistema eriugeniano, che, creando, Dio crea sé stesso.
o Le idee di Dio sono la prima teofania: Dio si manifesta nella sua natura di creatore, e la natura delle
idee è quella di essere create e creatrici.
La natura di dio è inconoscibile, se non intervenisse una creazione. Creazione che, dunque è “scritturale”: il mondo
è il segno visibile della natura di Dio. Anche Dio stesso, per conoscersi, deve cominciare ad essere: Dio, principio
infinito della creazione, è inconoscibile a sé medesimo, se non sotto la specie dell’essere in cui si esprime.
- Divisione: è in virtù di una specificazione del genere supremo, che è equiparabile a Dio, che le idee possono
in qualche modo emergere dal nulla.
- Analisi: è solo perché Dio esiste in loro che le idee esistono di per sé.
- Divisione ed analisi costituiscono un solo momento, percorso secondo le due opposte direzioni della
molteplicità o dell’unità.
Le idee si esprimono nel Verbo, dunque, e da questo momento, a rigore, la Creazione, tutta insieme, è fatta. Di qui
però, ad opera dello Spirito Santo, si ha la processione del molteplice, ossia la derivazione degli individui a partire
dai generi sommi che sono le idee.
- A questo titolo, si introduce nel cosmo eurigeniano l’illuminazione. Dio illumina il cosmo, con le cose e con
la Grazia.
- “Tutti gli esseri creati sono dei lumi […]. Fatta di questa moltitudine di piccoli lampi che sono le cose (Sup.
hier. coel. I 1), la creazione, in fin dei conti, non è che una illuminazione destinata a far vedere Dio” (p. 243).
- Ogni cosa che esiste non è altro che un segno, dotato prontamente di un significato spirituale, posto al di là
di esso, e cui esso allude. L’universo è dalla Scrittura spiegato e spiega la Scrittura. Ambedue sono
rivelazioni: “un simile universo non è di essenza diversa dalla Scrittura che lo spiega e che esso spiega”
(ibidem).
L’universo è dunque teofania: tre sono le aree ontologiche in cui esso è diviso. Le sostanze immateriali, le sostanze
corporee e visibili e l’uomo, nel mezzo tra i due. Resta fermo un punto: le cose esprimono Dio per come egli si
manifesta, lo rendono comprensibile per come esso si rende comprensibile, lo significano per il significato che Egli
si dà. La gerarchia del cosmo non è una sistemazione da parte di Dio della materia, è un’illuminazione progressiva
che dipende dall’espressione stessa che Dio fa nelle cose: l’ordine del cosmo è la consacrazione stessa dell’essere,
la partecipazione di Dio da parte delle cose.
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L’uomo, degenerandosi con il peccato, ha ottenuto in castigo i corpi. Siccome l’illuminazione procede
gerarchicamente dall’alto verso il basso, è chiaro che quanto è sotto l’uomo, è già contenuto, e ad un livello più
dignitoso, nell’uomo.
- “Tutti gli esseri esistono nel pensiero dell’uomo come tipi intelligibili, più perfettamente che nella materia
in cui in seguito si sparpagliano” (p. 246).
- I dubbi che ci attanagliano derivano dal fatto che sembra che il corporeo non possa saltar fuori
dall’intelligibile. E pure è proprio così: l’intelligibile situa il corporeo. Se togliamo dal corporeo le specie
intelligibili, non resterà altro che un nulla, di fatto.
- Un’obiezione è la seguente: privando l’essere corporeo dell’intelligibilità non rimangono corpi, è vero. Ma
che dire della pura materia? Non è forse proprio il sostrato dell’intelligibilità?
o In ogni essere vi è una sostanza, che presa in Dio si dice essenza (a livello noetico) e presa nell’essere
si dice forma, la quale origina una natura. L’essenza ci è incomprensibile, perché tale è per
definizione. La natura invece ci è comprensibile, perché è sottoposta alle categorie.
o Quantità, luogo e tempo, insieme alla qualità, situano la natura della cosa, ciascuno degli elementi
della quale ci è perfettamente intelligibile. L’insieme di tutti gli elementi ci è perfettamente
incomprensibile, e questo non è altro che la materia.
- “I corpi sono fatti di cose incorporee: ‹‹ex rebus incorporalibus corpora nascuntur››: essi nascono, dice
energicamente Eriugena ex intelligibilium coitu (III 14). Nulla quindi si oppone al fatto che l’universo
sensibile sia stato creato da Dio nell’uomo, cioè, come si deve intendere, non in quell’Adamo che compare
alla fine dell’opera dei sei giorni, ma nell’Uomo intelligibile e riempito di intelligibili che sussiste
eternamente in Dio” (p. 247). La materia di Eriugena è un coagulo di intelligibili.
In Eriugena tutto ciò che esiste è parte di Dio (“pars Dei sumus”), laddove la sostanza di ciascuna cosa è il suo
essere stesso in Dio. La costituzione di ciascun essere è dunque la predestinazione da parte di Dio delle essenze delle
cose: le cose sono fissate nell’eterno dalla loro immutabilità. Ecco la natura: l’immutabile partorito nella materia che
subisce accidenti. L’essenza è l’intelligibile che contiene i due intelligibili di quantità e qualità, al cui incrocio si
situano quantum e quale realmente esistenti e visibili.
Il mondo sensibile è dunque dovuto alla scelta dell’uomo, che ha deciso di convertirsi ad esso piuttosto che
all’intelligibile che dà ad esso origine.
- Tuttavia, nella sua misericordia, Dio ha così disposto tale mondo sensibile che lo si possa rintracciare anche
a partire da esso.
- All’interno di tale mondo sensibile, dobbiamo noi stessi instaurare la gerarchia triadica di distacco dal
sensibile.
o L’anima, nella sua forma più alta, è pensiero puro, intellezione mistica di Dio al di là di ogni
sensazione e percezione sensibile di sorta.
o Il pensiero puro restando inintelligibile, può conoscersi sotto la specie della ragione: nei processi di
ragione (e cioè nella congiunzione degli intelligibili secondo essenze) l’anima si conosce.
o Il terzo momento è quello della sensazione, per cui all’impressione di un oggetto, corrisponde
l’espressione di un’anima che raccoglie in sé e forma l’immagine.
Il moto degli esseri è scandito dunque da due viaggi: quello della divisione, che li conduce da Dio alle cose, e quello
dell’analisi, che li riconduce dalla loro esistenza materiata alla loro essenza in Dio: nell’uomo, questo è visibile con
la morte. Al di là di ogni altra determinazione, la dispersione totale della morte prelude alla ricomposizione in Dio.
La ricomposizione non prelude però ad una contemplazione di Dio, ma ad uno smarrimento nella sua luce, che
pervaderà di sé ogni angolo dell’universo. Le cose non smetteranno di essere tali, in Dio; anzi, spiritualizzandosi, le
cose recupereranno la loro genuina origine.
La Geenna materiale, un inferno concreto è una superstizione pagana, qualcosa di cui occorre al più presto liberarsi.
Per di più, se vi è un castigo eterno, non significherebbe questo forse che il peccato, la morte e il male vincerebbero
comunque, nonostante il riscatto che Gesù Cristo ci ha offerto con il suo sangue? Nella spiritualità nuova
dell’universo, non vi è nessun luogo dove collocare l’inferno: la differenza tra eletti e dannati, che pure deve
rimanere, dovrà sussistere al livello del puro pensiero che le anime saranno allora diventate, con la fine del tempo.
Non vi è altra beatitudine che la conoscenza del vero, ed altra dannazione che la sua ignoranza: per l’eternità dunque,
non vi saranno altri eletti che coloro i quali conosceranno il vero, e altri dannati che coloro i quali eternamente lo
ignoreranno. “Non bisogna dunque desiderare nient’altro che la gioia della verità, che è Cristo, null’altro si deve
fuggire che la sua assenza, che è la sola ed unica causa di ogni tristezza eterna. Toglietemi Cristo, non mi resterà
alcun bene, nessun tormento potrà terrificarmi; perché ecco il tormento di ogni creatura razionale, la privazione e
l’assenza di Cristo” (V 37, p. 252). Un pensiero innovativo, strano, sbalorditivo. Un pensiero che, e Scoto non si
stancherà mai di metterlo in luce, è in ogni punto garantito dai Dottori della Chiesa.
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Da Eirico d’Auxerre a Gerberto d’Aurillac
Tra il IX e il X secolo fiorirono delle scuole abbaziali in tutto l’Occidente, veicoli della cultura latina diffusasi ad
opera dei padri missionari inglesi. I problemi non tardarono ad apparire: Smaragdo, grammatico di VIII-IX secolo,
incontrò una questione estremamente pratica, nel corso dei propri studi.
- Nel Liber in partibus Donati, Smaragdo si domanda quale sia la lezione latina da seguire, se quella impartita
dai classici o quella della Bibbia.
o “L’autorità di Donato è grande, ma quella della Scrittura lo è ancor di più, anche in grammatica” (p.
255).
Saint-Martin di Tours, Fulda, San Gallo, Ferrières e Corbie, questi i principali centri di produzione della cultura
monastica nell’Occidente. Si aggiunge Auxerre, che mette in contatto tutti questi centri con altri luoghi di capitale
importanza per la cultura del secolo IX. Qui studiò Eirico, in tutto e per tutto un poeta latino, studioso di grammatica
e di filosofia, che subì profondamente l’influenza di Giovanni Scoto Eriugena. Fiero avversario del realismo dei
generi universali “ha dovuto indovinare Aristotele attraverso Boezio, perché ciò che per lui costituisce la realtà
concreta è la sostanza particolare” (p. 257). Non si sa fino a che punto fosse consapevole di un’eventuale
contraddizione rispetto all’innegabile influenza di Eriugena sul suo pensiero. Suo allievo fu Remigio.
Siamo ormai alle soglie del X secolo, un periodo di profondo turbamento e di grave crisi economica, sociale e
culturale. Il pensiero, specie sotto la sua veste filosofica, pare languire, e parecchio, sopravvivendo qui e là nei
monasteri sperduti di una Francia sconvolta dalle guerre. Entro la fine del secolo si segnala l’opera di Abbone di
Cluny, abate dell’attuale monastero di Saint-Benoit-sur-Loire, cui dobbiamo un effettivo progresso nella logica.
“La sola figura rilevante di quest’epoca, con quella di Abbone, è quella di Gerberto d’Aurillac” (p. 259). Divenne
nel 999 papa con il nome di Silvestro II, morendo nel 1003.
- Erudito del suo tempo, la sua cultura era per il X secolo pressoché sconfinata. Era un profondissimo
conoscitore (ed amante) di tutte le arti liberali, fatto non scontato per l’austerità dell’epoca in cui viveva.
- “Gerberto d’Aurillac non ha conosciuto gli scrupoli di certi grammatici. Il suo appassionato amore per le
lettere compare ovunque nella sua corrispondenza” (p. 260).
o “Cum studio bene vivendi semper coniunxi studium bene dicendi”
Addirittura, in questo periodo, una suora, suor Hrosvita, si diede a comporre opere teatrali di argomento cristiano su
imitazione del linguaggio terenziano, prendendo atto dell’amore dei cristiani per questo autore. È singolare ch
Hrosvita non sia l’unica esponente di un’acculturazione non indifferente tutta dedicata alle donne, in Germania
durante questo periodo.
Se è vero che sul terreno del pensiero filosofico, il X secolo fu piuttosto povero, è parimenti vero che la cultura
classica, specie sul suolo francese, occupava lo spazio lasciato vuoto. I Francesi si dedicavano anima e corpo alla
tradizione dei manoscritti classici, al punto che adottarono come antenati i Troiani. Entro il IX secolo questa
leggenda, sorta già intorno al VII, si diffuse completamente in territorio franco. Una passione inesausta per
l’antichità, che spesso arrivò alla paranoia: Vilgardo di Ravenna fu un caso celebre di follia per le lettere.

IV. La filosofia nel secolo XI

Dialettici e teologi
Nonostante gli anni bui della cultura delle humanae litterae durante IX e X secolo, l’arte del trivium e quella del
quadrivium si imposero come tradizionali e, ravvivate da un amore nuovo, nella seconda metà del X secolo, per la
classicità, diedero modo a numerosi uomini di cultura di conoscere nel profondo e di dedicarsi con singolare tenacia
all’arte dialettica. Due esempi bene ci illuminano sulle ragioni a causa delle quali la dialettica fu guardata con tanto
sospetto in quest’epoca.
- Anselmo di Besate giustifica ampiamente l’accusa di puerilità di cui la retorica fu spesso fatta oggetto.
- Berengario di Tours invece ricade abbondantemente nell’empietà di cui si volevano bollare i dialettici.
o Berengario negava la transustanziazione nell’Eucarestia, appoggiandosi alla dialettica, che era per
lui l’unico vero mezzo di scoperta della verità.
o Sfruttando l’autorità di Eriugena, dichiara l’assoluta predominanza della ragione sull’autorità, ma
porta questa consapevolezza fin dove Eriugena non voleva arrivare: alla trattazione razionale degli
argomenti di fede.
o In tutto ciò che esiste, occorre distinguere ciò che esso è dalla sua esistenza. Pertanto, se la sostanza
del pane non esiste, non esistono le proprietà del pane; ergo, se è vero che dopo la consacrazione le
proprietà del pane sussistono, allora sussiste anche la sostanza del pane. Nessuna transustanziazione
dunque può più reggere.

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Posizioni come queste non potevano mancare di suscitare prese di posizione violente e nette. Pier Damiani è forse
l’esempio più tipico di questa presa di posizione tanto forte: “san Pier Damiani è una perfetta illustrazione di quel
contemptus saeculi che, se non costituisce tutto il Medioevo, ne è tuttavia uno degli aspetti più importanti. Non si
raccomanderanno mai abbastanza le sue opere a quelli che cercano delle citazioni per giustificare la visione
convenzionale d’un Medioevo nemico della natura e che perseguita col suo odio il corpo umano” (pp. 268-269).
- “La sola cosa che importa è il conseguimento della salvezza: la maniera più sicura per salvarsi è di farsi
monaco; ritorna quindi il problema di sapere se un monaco abbia bisogno della filosofia. No assolutamente”
(ibidem).
- Non filosofi, ma pescatori per convertire gli uomini alla vera religione. Ergo, non la filosofia, ma la
semplicità di cuore, e di vita per sostenere l’unica verità.
- La filosofia è lingua del diavolo, corrotta dalla grammatica. In realtà, Pier Damiani è più scaltrito di quel che
sembra: il suo utilizzo degli aneddoti più inverosimili è finalizzato a sconcertare l’avversario, così come la
filosofia che tanto disprezzava, spesso l’ha utilizzata contro sé medesima.
o Nel De divina omnipotentia, Pier Damiani si rivolge a san Gerolamo, commentando un passo in cui
questi aveva sostenuto che Dio è sì onnipotente, ma non può fare sì che non sia avvenuto ciò che è
avvenuto. Se Dio è l’unica causa dell’esistente, deve esserlo ora come ieri e domani.
o Dio non deve essere sottomesso alle regole della dialettica “perché il sillogismo non s’adatta senza
difficoltà al mistero della potenza divina […] Dio vive in un eterno presente; egli è quindi sottratto
alle condizioni stesse in cui il problema si pone” (p. 271).
Se Pier Damiani voleva ridurre in polvere la filosofia, come il vitello d’oro, il suo contemporaneo Lanfranco di Pavia
cercava una soluzione più diplomatica. La dialettica è utilissima, se asservita al mistero divino.
Roscellino e il nominalismo.
Roscellino, iniziatore del nominalismo, costituisce la prima voce alternativa nella storia del problema degli
universali. “Roscellino è rimasto per i suoi contemporanei e per i posteri il rappresentante di un gruppo di filosofi
che confondevano allora l’idea generale con la parola con cui la si designa” (p. 272).
- La vera realtà, per Roscellino, sta dunque negli individui, i quali costituiscono la specie.
- Gli universali corrispondono a due livelli veritativi: il “flatus vocis” corrispondente alla parola; la realtà
individuale, singola e concreta, ricadente nell’ambito sensoriale.
L’applicazione del principio nominalista in teologia lo ha esposto all’esiziale conclusione del triteismo. Se non vi è
umanità al di fuori degli uomini concreti, non vi può essere divinità al di fuori delle persone concrete che la
compongono. “La Trinità si compone dunque di tre sostanze distinte, benché esse non abbiano che una sola potenza
e una sola volontà” (p. 273).
Anselmo di Canterbury fu il primo filosofo di grande levatura nel Medioevo dopo Giovanni Scoto Eriugena. Autore
del Monologion e del Proslogion, Anselmo scrisse anche numerosissime lettere e molti commentari di varia natura.
Il Monologion fu occasionato da una richiesta dei monaci di Bec, che chiedevano al loro abate “un modello di
meditazione sull’esistenza e sull’essenza di Dio, [nel quale] tutto dovrebbe essere provato con la ragione e nulla
assolutamente dovrebbe essere fondato sull’autorità della Scrittura” (pp. 274-275).
- Non dimentichiamo la polemica tra dialettici e teologi: occorreva spingere quella ragione di cui gli empi e
puerili dialettici facevano uso fin dove fosse possibile, perché valesse come arma contro di loro.
- La fede è per l’uomo il punto di partenza primo e ultimativo: non si può in alcun modo sottomettere l’autorità
della Scrittura a quella della ragione (affermazione dalla pesantissima implicazione antidialettica).
o Se è vero che occorre fondarsi saldamente nella fede, è altrettanto vero che una posizione come quella
di Pier Damiani risultava, agli occhi di Anselmo, semplicemente sciocca.
Il problema è intatto: fino a che punto si può chiarire razionalmente il contenuto di fede? La fede può trovare ragioni?
- “La fiducia di Anselmo nel potere d’interpretazione della ragione è stat[a] illimitat[a]. Egli non confonde la
fede e la ragione, dato che l’esercizio della ragione presuppone la fede, ma tutto avviene come se si potesse
sempre arrivare a capire, se non ciò che si crede, almeno la necessità di crederlo” (p. 276).
- Sant’Anselmo non si è preoccupato di dirimere i misteri, di chiarirli ed appianarli, per sopprimerli; ha però
fornito le “ragioni necessarie” per credervi: “era già molto. Era indubbiamente troppo” (ibidem).
Le prove dell’esistenza di Dio nel Monologion si fondano su due presupposti: che esistano dei gradi di perfezione;
che tutto ciò che abbia un grado di perfezione, lo abbia per partecipazione ad una perfezione assoluta.
- L’interrogazione non può non partire dalla nostra vita concreta: noi desideriamo il bene, ed è quindi
perfettamente conseguente interrogarsi sulla natura e la provenienza di questo bene che ci interroga.
- Se è vero il secondo principio, è vero che il bene che desideriamo sulla Terra, partecipa di una forma assoluta
del bene: tutto è buono per mezzo suo.

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- “Ora niente di ciò che è buono per altro è superiore a ciò che è buono per sé. Questo bene sovrano prevale
dunque su tutto il resto al punto da non avere niente sopra di sé. Il che significa che ciò che è supremamente
buono è anche sovranamente grande. C’è dunque un essere primo, superiore a tutto ciò che esiste, e noi lo
chiamiamo Dio” (p. 277).
- Si può giungere all’esistenza di Dio anche interrogandosi sulla causalità: o l’universo è generato da una
causa, o da molte, o da cause “reciproche”. Se l’universo è generato da molte cause, queste debbono avere
una facoltà comune che le fa esistere tutte come cause, e che si configura come causa delle cause; se le cause
si causano reciprocamente, ciò implicherebbe che una causa riceve l’essenza da ciò di cui è causa. Assurdo.
Pertanto, è intelligibile solo l’ipotesi di un’unica causa dell’universo. Noi la chiamiamo Dio.
- Gli esseri sono gli uni più perfetti degli altri: la realtà conosce gradi diversi di perfezione. Per ogni essere,
ne esiste in natura uno più perfetto. Pertanto, o gli esseri sono infiniti, il che è semplicemente assurdo, oppure,
se gli esseri sono finiti, vi è un essere che partecipa della perfezione massima. Se gli esseri sono molteplici,
sono tutti ugualmente perfetti in virtù della loro essenza, e pertanto si tratterebbe di una sola natura perfetta,
declinata in differenti modi.
È però nel Proslogion che la prova dell’esistenza di Dio diviene un argomento filosoficamente imprescindibile.
- Anziché partire dal reale per giungere a Dio, Anselmo comincia direttamente da Dio: “questa prova parte
dall’idea di Dio fornitaci dalla fede e sfocia, in conformità al metodo di Anselmo, all’intelligenza di questo
dato della fede” (p. 279).
- “Noi crediamo che Dio esista e che egli sia l’essere di cui non possiamo concepire uno maggiore” (ibidem)
o Anche chi sostiene che Dio non esiste capisce cosa voglia dire id quo maius cogitari nequit.
o Il problema dello stolto dunque si configura così: non si sa se l’essere di cui non si può pensare il
maggiore esista solo nell’intelligenza oppure anche nel reale.
o “Ciò di cui non è possibile concepire nulla di più grande non può esistere soltanto nell’intelligenza.
Infatti, l’esistere in realtà è essere ancor più grande che esistere nell’intelligenza soltanto” (p. 280).
Anche nel Proslogion, Anselmo decide di partire da un fatto, che però esiste nella fede. L’idea di Dio esiste, nel
pensiero, e questo è il fatto. La prova di Dio consiste nel dimostrare logicamente che questo esige la sua esistenza
reale. Certo, la prova è discutibile qua talis, ma un dato è da accreditarsi a suo vantaggio: larghissima parte della
filosofia ha considerato impossibile disgiungere la posizione concettuale di un essere assoluto da una sua esistenza.
Dio è essentia, ossia “realtà plenaria” (p. 281). La natura stessa di Dio è l’essere, ed è perciò che si può dire che
Dio è ciò di cui non si può pensare essere più grande. Come Dio è totalmente essere, nulla di ciò che esiste e non è
Dio può essere pienamente l’essere. Pertanto, Dio dona l’essere all’universo.
- In Dio essere ed essenza coincidono: come la luminosità nella luce. Negli esseri, questo non può esser vero,
e perciò essi debbono ricevere da Dio la loro essenza.
- O Dio dunque è la causa materiale dell’universo, o ne è la sua causa efficiente: se concepiamo la prima delle
due ipotesi, siamo nel panteismo, ossia in una concezione per cui una materia preesistente all’universo è
divina e con Dio si confonde.
- Se non possiamo ammettere che una materia qualsiasi si confonda con l’essere di Dio, non resta che
abbracciare l’idea di Creazione ex nihilo.
La creazione ex nihilo non è però un concetto inintelligibile di un atto incomprensibile e divino: l’universo esisteva
già come idea di Dio. Nella sua forma ideale, in mente Dei, l’universo “non aveva altra realtà che quella
dell’esistenza creatrice stessa” (p. 283). Nella mente di Dio, le creature sono Dio. La dottrina di Anselmo, sulle idee
di Dio, è leggermente diversa da quella eriugeniana. Per Scoto Eriugena, le creature, come idee di Dio, sono
espressione della potenza di Dio; per Anselmo, le idee di Dio, sono Dio stesso, la sua stessa potenza creatrice. Il
Verbo divino produce, esprimendo le idee, le creature: occorre immaginarsi la creazione analogamente al linguaggio
spirituale che adottiamo al nostro interno; esso è universale, mentre è il verbo con cui lo esprimiamo ad essere
particolare. Così la creazione: l’idea pregressa è la potenza creatrice stessa del contingente. (In tutto ciò, Scoto è agli
antipodi: l’idea della materia è la materia stessa, creata come intelligibile nell’espressione di un’inconoscibile
potenza di Dio: autointellezioni divine, le idee sono posteriori a Dio in Eriugena).
Dio sostiene il creato: questo riceve da lui la sua essenza, ed è da Dio confermato nella sua persistenza. Perciò, Dio
è presente in tutto ciò che esiste, e la sua volontà, così come il suo amore, reggono il cosmo. Pertanto, si addicono a
Dio tutte le perfezioni, ma perfezioni positive, sostenute in senso assoluto. Per di più perfezioni “selezionate”:
occorre, in ciascun genere, attribuire a Dio la perfezione massima in ciò che eccelle rispetto a tutto quello che è
diverso: Dio non è il migliore dei corpi, perché l’anima è superiore al corpo; perciò, solo la qualifica spirituale vale
per la perfezione divina. Dio, però, resta perfettamente semplice; egli solo è, nel senso più pieno del termine. Rispetto
a lui, ogni altro essere, semplicemente, non è.

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Spunti sulla filosofia di sant’Anselmo.
- L’antropologia anselmiana è, nella migliore tradizione agostiniana, analogica: l’uomo è immagine della
Trinità, perché si ricorda, si comprende e si ama.
- Le idee universali esistono, e il nominalismo di Roscellino è l’avversario da battere. L’accusa di triteismo è
rivolta contro di lui sistematicamente.
o Del resto, è soltanto concependo le idee come cose che una prova come quella ontologica poteva
reggere nel modo opportuno.
- Le teorie della verità e della conoscenza hanno un pesante debito metafisico. Una conoscenza è “retta” se è
così come dev’essere, secondo l’idea in Dio. Una volontà è vera se essa è retta, ossia se è come deve essere
nell’idea di Dio. Dio è dunque l’unica causa del vero.
Dopo Anselmo, nell’XI secolo, sarà finalmente possibile un’interrogazione teologica fondata e completa:
“l’esistenza e la natura di Dio, la creazione e particolarmente l’uomo preso con la sua attività intellettuale e morale”
(p. 286).
Cristianità e società
Nel IX e nel X secolo, si sono venuti definendo i rapporti tra Impero e Chiesa: una personalità come quella di Carlo
Magno, con il suo operato, particolarmente significativo, specie in ambito religioso, non poteva non lasciar traccia.
Sotto Leone III, Carlo fu proclamato imperatore dal papa, divenendo di fatto il protettore ufficiale della Santa
Romana Chiesa sul suolo europeo.
- Il crollo dell’impero carolingio fu la fine di questo sogno prematuro, ma un’altra idea, di origine molto più
antica, incominciò da allora a precisarsi e finì per trovare la sua espressione. Concepita da Agostino come
una città terrena e mistica, la Civitas Dei si presentava nondimeno sotto una forma visibile e concreta, in
quanto essa coincideva nell’ordine temporale con la Chiesa” (p. 288).
- I Cristiani hanno tutti una Repubblica sola, il cui interesse deve necessariamente venire anteposto
all’interesse privato di ciascuno. Come chiamare tale Stato mistico e terreno, temporale e spirituale a un
tempo? La risposta fu facile, e significativa: Cristianità.
o Sotto il pontificato di Giovanni VIII, tra l’872 e l’882, la “Cristianità” assunse il suo più pregnante e
stabile significato di popolo di Dio, accomunato come tale sulla base del proprio credo.
o Il capo di tutta la Cristianità è ovviamente Roma, la quale dunque si configura come madre del popolo
di Dio, diffuso su tutta la Terra.
Il pensiero politico, tra IX e X secolo, stagnava, così come la metafisica e la teologia. Fu nell’XI che si stagliò nitida
la figura di Ildebrando di Soana: Gregorio VII.
- La sua posizione è stata giustamente archiviata dagli storici sotto la dicitura di “teocrazia pontificia”.
- La posizione gregoriana (che diede origine ad un vero e proprio “gregorianismo”) può essere riassunta con
una formula che lega bene, a un tempo, inclinazione politica, passione filosofica e attitudine
comportamentale: “per un pensatore del Medioevo, lo Stato sta alla Chiesa, come la filosofia sta alla teologia
e come la natura sta alla Grazia” (p. 290).
È interessante vedere come il gregorianismo si affermò concretamente come prassi politica, al punto che possono
essere rintracciati dei “pre-gregoriani”, come san Pier Damiani. Nella Disceptatio synodalis, questi elabora una
dottrina prettamente teocratica.
- È il papa ad eleggere l’imperatore, e l’unzione ha il compito specifico di sancire tale passaggio.
- “Con l’unzione pontificia, l’imperatore si vede delegato al potere temporale, affinché, amministrando
l’impero sul piano temporale, egli conduca i suoi sudditi al destino soprannaturale che Dio ha loro promesso.
È proprio per questo che egli è imperatore” (p. 291).
o Pier Damiani non affronta una tematica ai nostri occhi inaggirabile: come conciliare i fini dell’impero
e quelli del papato? Non la affronta per una ragione molto semplice, e cioè per via del fatto che ai
suoi occhi l’impero non poteva sussistere separato dal papato.
o Papato ed impero sono due nature unite, come lo sono quella divina ed umana in Cristo: è un mistero
la loro unione e la loro concordanza, destinate entrambe, come una cosa sola alla salvezza della
Cristianità.
o “Ciò che esiste non è dunque: un popolo più una Chiesa, ma un ‹‹popolo cristiano››, informato,
animato dall’interno dalla Chiesa” (p. 292).
In san Pier Damiani è ben visibile la giuntura dei tre ambiti della speculazione (politico, teologico e fisico) e il loro
comune orientamento rivolto sempre all’assorbimento dell’umano nel divino.

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V. La filosofia nel secolo XII

La scuola di Chartres è il centro intellettualmente più attivo nel secolo XII. Dopo l’insegnamento di Fulberto, morto
nell’XI secolo, la scuola di Chartres produsse un santo: sant’Ivo, e poi Bernardo.
Giovanni di Salisbury lo rappresentava come un maestro paziente, capace di coltivare il buon gusto prima
dell’erudizione, e profondamente convinto della necessità di un’assidua lettura dei classici: “Noi siamo, egli diceva,
come dei nani seduti sulle spalle die giganti”.
- Giovanni ci parla di Bernardo come di un grammatico, ossia il docente di letteratura latina, incaricato di
vegliare sulla cultura e sulla condotta morale dei suoi discepoli.
- Nel secolo XII, la logica entra prepotentemente nel campo della grammatica, e questo porterà, da un lato alla
morte degli studi classici (resi superflui da una grammatica “astratta”), dall’altro alla nascita di una vera e
propria filosofia della grammatica, che con l’andar del tempo assumerà il nome di Grammatica speculativa.
- Bernardo si rifiutava di insegnare una grammatica “logicizzata”: egli era maestro quintilianeo.
o Tuttavia, qualche intervento filosofico lo operava, qui e là: le idee sono i generi universali, il radicale
come significato autentico dei derivati (i quali indicano solo i rapporti differenti del radicale stesso).
È ben visibile la disposizione al platonismo.
E in effetti, Giovanni di Salisbury, ci parla di Bernardo come del “più perfetto platonico del nostro secolo”. E tuttavia,
questo in Bernardo è molto chiaro, le idee non sono affatto coeterne a Dio.
Il “platonismo” di Bernardo, per come ci è noto, è un crogiuolo di influenze di vario genere e tipo: Seneca, Boezio,
Calcidio, Agostino, Dionigi, Scoto Eriugena. Sono questi gli autori alla base della produzione di Chartres.
Allievo di Bernardo fu Gilberto de la Porrée, morto anch’egli entro il XII secolo. Il suo stile oscuro e il suo
temperamento fortemente metafisico impediscono sovente un’adeguata comprensione del dettato.
- La prima opera degna di nota ha titolo De sex principiis ed è un commento alle Categorie di Aristotele. Delle
dieci categorie aristoteliche, dice Gilberto, occorre comprendere quali sono rilevanti per il metafisico.
o Egli distingue le dieci categorie in due gruppi di quattro (sostanza, qualità, quantità e relazione) e sei
(luogo, tempo, azione, passione, habitus e stato), definendo queste i sex principia.
o Le prime quattro sono le forme (pare un realista) inerenti, le altre sei le forme accessorie.
Le forme inerenti pertengono alla sostanza in due sensi: esse sono la sostanza, se presa relativamente
ad altre sostanze; oppure esse ineriscono alla sostanza, se presa in senso assoluto.
▪ La relazione è una forma inerente perché è la posizionalità sostanziale: ciascuna sostanza, in
senso assoluto, è relazionale. Si apre la questione: ha ragione Gilberto, o la relazione è un
ens rationis?
o Le formae assistentes, le forme accessorie sono le determinazioni accidentali della sostanza.
Gilberto distingue poi sostanze da sussistenti. Una sostanza è ciò che sostiene (substat) gli accidenti. Un sussistente
è ciò che non ha bisogno di accidenti (formae assistentes) per essere ciò che è. Tutte le sostanze sono sussistenti:
non necessitano di accidenti, ma li sostengono contingentemente; non tutti i sussistenti sono sostanze: alcuni non
possono ricevere accidenti (i generi e le specie sono sussistenti privi di accidenti, e perciò non sono sostanze). “Come
sussistono i generi e le specie e come possono provenirne le sostanze?” (p. 302).
- Una sostanza sensibile è originata da un’idea, la quale non è sussistente, ma sostante, perché può reggere una
struttura accidentale. Le idee sono sostanze pure, perché sostano fuori della materia.
- I corpi imitano le idee, conformandosi ad esse e incarnando così le forme.
Un corpo determinato, dunque, è sostante e sussistente. Le forme, però, non sono sostanze, perché esse sono “le
sussistenze in virtù delle quali ci sono sostanze. Sono, come si suol dire, le formae substantiales delle sostanze”
(ibidem). Ogni individuo è dunque formato da una sostanzialità generica, accompagnata da una sussistenza generica
e da una sussistenza specifica: tutte distinzioni intellettuali, abili a separare nel reale ciò che vi si dà unito. Ecco
allora che sussistenza specifica e sussistenza generica si configurano come collectiones intellettuali di somiglianza
nelle forme che concretamente si danno inerenti ad una sostanzialità di fatto. Formatisi in tal modo i gruppi
omogenei, il pensiero li trascende verso i modelli, che esistono realmente.
Boezio, lo si ricorda, distingueva l’id quod est dall’esse, principio per cui ciò che è, è ciò che è. L’esse è il quo est
dell’id quod est, ossia ciò per cui quello che è, è quello che è. “Il ‹‹quo est›› è l’essere (esse) stesso di ciò che è.
Questo è tanto vero che, in un essere assolutamente semplice, come Dio, l’‹‹id quod est›› e il ‹‹quo est›› coincidono.
Per questo Dio è veramente ciò che egli è” (p. 304). Tutto ciò che è, invece, in parte non è ciò che è.
- Dio, al vertice, è dunque la realtà essenziale per eccellenza, è l’essenza, che dà a tutte le creature l’essere.
- Le creature sono composte da un id quod est e da un esse, laddove quest’ultimo è il quo est dell’id quod est.
Ecco che allora l’umanità è l’essere del soggetto uomo; l’uomo stesso è ciò che è. La forma è una forma
generica, che determina poi un’unione materiata con una certa hyle.
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L’essentia propriamente non è, perché è ciò partecipando di cui le cose sono. Se si considera che per partecipare di
qualcosa occorre essere, è chiaro che l’essenza è assolutamente semplice. Ergo, è la realtà creata ad essere concreta,
nel senso di una concrezione di elementi che partecipano di varie forme generiche. A tal punto questo è vero, che
persino parlando di Dio, pare che Gilberto abbia fatto corrispondere alla triplice sua natura una determinazione
sostanziale più profonda, che ne costituirebbe una sorta di forma generica, ossia la divinitas.
Teodorico di Chartres fu fondamentalmente un erudito, docente delle arti liberali ed interessato ai problemi di
cosmogonia. Elaborò una teoria fisica della creazione dell’universo, in accordo con il resoconto di Genesi.
Interessante è l’attitudine sperimentale con la quale intendeva verificare il comportamento degli elementi, per
accordarlo al meglio con il racconto biblico. “Il suo tentativo presenta questo interesse […] che esso è l’opera di uno
che ignora la fisica di Aristotele. […] Il carattere meccanicistico di questa spiegazione è notevolissimo” (p. 309).
Fisico e matematico, Teodorico di Chartres riveste un interesse di primo ordine per quanto concerne la storia e la
filosofia della scienza.
- Se il regno della creazione è il regno del molteplice, quello del divino è il regno dell’unità: le cose esistono
nella molteplicità, ma ciascuna non esiste che per mezzo di un’unità sottesa, e più profonda.
- Se l’unità è la forma dell’esistenza, è chiaro che Dio è la forma del creato.
- L’unità è il sigillo dell’essere, come lo è del vero (simplex sigillum veri): unità implica uguaglianza, e verità
significa uguaglianza di una cosa rispetto a sé medesima. Ergo, per uguaglianza, verità.
o La verità è la verità di una cosa, e però l’uguaglianza implica di necessità comunità di natura. Ecco
la radice profonda del trinitarismo: una natura, distinta in tre persone.
L’Uno, in Teodorico, ed è verità destinata ad una fortuna strabiliante, è al di sopra dell’essere, né le cose sono l’essere
perché unitarie, ma lo hanno per mezzo dell’Uno, che non è nessuno degli esseri, ma al di sopra dell’essere.
Un autore di cui si sa poco, ma che è imparentato con Chartres è Bernardo Silvestre o Bernardo di Tours, autore di
un De mundi universitate sive Megacosmus et Microcosmus. Parimenti influenzato dalla “sindrome di Chartres”
(probabilmente, si tratta di quella tensione dialettico-metafisica tanto visibile in Gilberto de la Porrée e forse già
presente in Bernardo suo maestro) fu Guglielmo di Conches.
Il filosofo principale di questa sorta di “seconda generazione” a Chartres è Giovanni di Salisbury. “Con il
Policraticus e il Metalogicon, il lungo sforzo dell’umanesimo di Chartres finalmente fiorisce in opere affascinanti”
(p. 313).
- Giovanni era innamorato dell’eloquentia ciceroniano-quintilianea, e dunque della formazione intellettuale e
morale di un uomo retto, capace di parlare bene.
- Anche in ambito filosofico, il suo interesse principale è Cicerone: cominciando da un nucleo di verità certe,
abbandona il resto ad un gioco sterile di speculazioni inutili. Dubitare di tutto è sciocco: persino gli animali
danno prova di un’intelligenza particolare; occorre però sottolineare che una sana modestia, come quella
professata dagli accademici, può condurre in effetti ad una saggezza ben più valida. Filosofia è Deomachia,
se assume i tratti della Babele sfrontata.
- Occorre saper sospendere il giudizio laddove sensi, ragione o fede non ci garantiscono un valido supporto.
La lista è a dire poco impressionante, e lo è ancor di più se si considera che nessuno degli argomenti citati
ricerca volutamente l’astrusa verticalità di questioni patentemente idiote. Giovanni invita alla moderazione
sulla verità della natura e di Dio, sulle cause dei fenomeni, e su tanti altri temi caldi della filosofia coeva.
o Dire che occorre moderarsi non significa professare un non plus ultra: l’ignoranza genera la filosofia
dogmatica, mentre è l’erudizione a fare l’accademico.
“Il tipo del problema insolubile agli occhi di Giovanni di Salisbury è quello degli universali. […] I filosofi si sono
dunque impossessati di questo difficile argomento, ne hanno discusso abbondantemente, e poiché essi usavano le
parole a caso, hanno avuto l’aria di sostenere delle opinioni differenti” (p. 316). Noi ignoriamo la natura degli
universali; sappiamo soltanto che ce li formiamo mediante astrazione, come insegna la dottrina aristotelica, molto
modestamente. Giovanni non è amante della scepsi per se stessa, facile rifugio per gli indecisi, anzi. Egli è un assiduo
cercatore del vero, disposto a scegliere la via razionale più promettente di volta in volta, e fermamente convinto della
verità totale ed assoluta di Dio. Pertanto è nella ricerca di Dio, verità ultima, che si ha vera filosofia; di più ancora:
siccome la filosofia non risiede solo nel pensiero, ma anche negli atti, è nell’amore per Dio che si ha il vero filosofo.
Pietro Abelardo e i suoi avversari
Pietro Abelardo fu uomo dalla vita travagliata, capace di un fascino che brilla ancora, di là da così tanti secoli. Nato
in Francia, si recò presto a Parigi alla scuola di Guglielmo di Champeaux, del quale presto refutò l’insegnamento.
Giovanissimo, fondò una scuola propria, con un successo clamoroso. Trasferitosi a Laon, conobbe Eloisa, a fianco
della quale attraversò la triste vicenda che lo condusse all’evirazione e poi alla monacazione forzata.
Occorre sempre operare una grande cautela nel separare il fascino biografico dall’originalità di un pensiero che,
non dimentichiamolo, giunse comunque dopo i due grandi sistemi di Scoto Eriugena e sant’Anselmo.
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Abelardo compose opere di filosofia ed opere di teologia. Riguardo all’ultima, si è spesso sostenuto che Abelardo
fosse fondamentalmente un rivoluzionario: il suo Sic et non è stato variamente interpretato, ma sovente in senso di
un’abolizione violenta del principio di autorità, allora fondamentale nell’interpretazione scritturale.
- Abelardo fu però sempre molto fermo nel sostenere che il principio di autorità viene prima della ragione, e
se sovente interpretò i dogmi religiosi in chiave razionalistico-filosofica, non si scostò mai dalle autorità.
- “Io non voglio essere filosofo contraddicendo san Paolo, egli scriveva ad Eloisa, né essere un Aristotele per
separarmi da Cristo, perché non c’è altro nome sotto il cielo in cui io mi possa salvare” (p. 320).
La filosofia di Abelardo si connota in un senso prettamente “aristotelico”, fatto tanto più sorprendente, quanto più si
pensa che i testi di Aristotele, Abelardo, semplicemente non li aveva. O meglio, ne aveva un numero molto esiguo,
e tutti in traduzione.
- Il problema che Abelardo si propose di risolvere fu immediatamente quello degli universali.
o Le questioni porfiriane erano tre: se gli universali esistano o meno; se siano corpi od incorporei; se
sussistano mescolati ai corpi reali o separati da essi.
o Abelardo aggiunge una questione: quando ciò che viene compreso sotto l’universale scompare, ha
senso ancora parlare di quell’universale? Ha senso parlare della forma della rosa senza le rose?
Gli universali, dice Boezio, sono delle cose, delle res, essi sono reali.
- Se così fosse, allora un universale non è altro che un’essenza, la quale si determina (specificandosi, o meglio
ancora individualizzandosi) unita a degli accidenti.
o Se si tiene conto che esiste un’essenza delle essenze, ossia il genere delle specie, sarà chiaro che il
genere deve essere tutto intero riguardo sé medesimo, e tutto intero in ogni individuo.
o Boezio risolve la questione con un taglio netto: gli universali sono oggetti del pensiero, ma esistono
negli individui da cui essi si derivano, individualizzati dagli accidenti.
- La cosa è mostruosa agli occhi di Abelardo: “cui [alla qual cosa, ossia alla soluzione boeziana del problema
degli universali, n.d.c.] etsi auctoritates consentire plurimum videantur, physica modis omnibus repugnat”.
o La “natura dei corpi fisici” (p. 322) non consente in alcun modo a che un universale sia tutto intero
in differenti corpi individualizzati.
Un’altra soluzione possibile è di ammettere che gli individui sono tutti delle essenze: “niente di ciò che si trova
nell’uno si trova realmente nell’altro” (p. 323).
- Il punto è che chi si fa sostenitore di una posizione di questo tipo, vuole ugualmente salvaguardare
l’universalità dell’essenza, divenendo così costretto a parlare di universalità come di indifferenza.
o “Così l’in-differenza (assenza di differenza) tra forme individualmente distinte in seno ad una
medesima specie è sufficiente a render conto dell’universalità della forma specifica presso gli
individui. In altri termini, per spiegare che individui che non hanno niente in comune sono simili,
basta ammettere che essi non sono differenti” (ibidem).
- La soluzione, che pare essere la seconda adottata da Guglielmo di Champeaux dopo il realismo, non è affatto
stringente.
o Se si interpreta l’indifferenza come mera non-differenza, è chiaro: Socrate e Platone non hanno nulla
di diverso, come uomini; ma altrettanto vale per la specie “pietra”. Socrate e Platone, infatti, non
hanno nulla di diverso, come pietre.
o Se si interpreta l’indifferenza come comunanza ad un’unica specie, semplicemente, si fa professione
di realismo.
Alcuni parlano dell’universale come di un “gruppo” di individui. La cosa non regge: il gruppo è posteriore alla
collezione degli individui, mentre l’universale ne è anteriore.
“L’origine di tutte queste difficoltà è l’illusione che gli universali siano delle cose reali, se non in loro stessi, almeno
negli individui. Non è la realtà in sé delle idee di Platone che Abelardo attacca, ma la realtà dell’universale del genere
nelle sue specie, o dell’universale della specie nei suoi individui” (p. 324).
- Abelardo è preciso e rigoroso: non esistono cose che possano essere predicate di molte altre: ogni cosa è ciò
che essa è, e non si può fare più nient’altro con essa e di essa.
- L’universalità non pertiene alle cose, ma alle parole. Universali sono i termini del discorso: “l’universalità
non è dunque che la funzione logica di certe parole” (ibidem).
Non è un ritorno al nominalismo, per cui l’unica realtà degli universali è la loro vocalizzazione. Qui la funzione
logica degli universali li situa nella loro funzionalità (ossia nella loro dimensione esistenziale): dire l’uomo è una
pietra non è proposizione valida. E allora il nuovo problema che si apre è il seguente: “qual è la ragione per cui certi
predicati sono validi logicamente, mentre altri non lo sono?” (ibidem). Si tratta di fatto della solita domanda: perché
un unico nome può essere attribuito a più individui?
- Abelardo dà una risposta precisa: “le cose si prestano di per sé alla predicazione degli universali” (ibidem).
35
- Gli universali esistono solo nelle cose (perché, propriamente, è nell’individuo che si dà tutta l’universalità
della funzione in cui è ricompreso). Sono allora le cose a giustificare la validità o l’invalidità dell’universale,
e cioè è il loro status a definire la valenza logica dello stesso.
o Essere un uomo ha senso, non l’essere come uomo. La realtà concreta è il punto di partenza, è il tutto
da cui partire: di qui viene che l’universale è una predicazione logica in funzione dello stato della
cosa.
o Lo stato di uomo pertiene a due o più individui che versano nella medesima costituzione, quanto alla
cosa stessa che essi sono: gli stati sono le cose stesse costituite nella loro natura.
- “Un universale non è dunque che un nome che designa l’immagine confusa estratta dal pensiero da una
pluralità di individui di natura simile, e che sono, di conseguenza, nello stesso ‹‹stato››” (p. 326).
Un universale non è un’idea, perché, con dovizia di termini, un’idea propriamente è un atto con cui l’intelletto si
rappresenterebbe distintamente la pluralità degli individui. Ma questo, dice Prisciano, è il modo in cui Dio conosce
le cose, non l’uomo, che è immerso nell’individualità. Risalire dal senso all’idea ci è impossibile, siamo troppo
immersi nella corporeità per sorgere da essa, verso la significazione più ampia possibile di un genere di cose.
- Conoscenza non è conoscenza di generi e specie, ma solo di individui particolari, perché quanto più un nome
è inclusivo, tanto più è vago e “generico”.
- Conoscenza dell’individuo è intelligentia, mentre conoscenza del genere o della specie è opinio.
o Abelardo “non si colloca sulla linea ideale che collega Aristotele a san Tommaso d’Aquino, ma
piuttosto su quella che collega la grammatica speculativa a Guglielmo d’Ockham” (p. 327).
- Gli universali sono il significato, per forza generale, dei nomi, e perciò si formano mediante astrazione, la
quale è un procedimento intellettuale volto a separare ciò che nella realtà è unito, ossia materia e forma.
I generi universali, così come le specie universali esistono dunque solo nell’intelletto, ma come significazione di
cose reali, che sono tutto l’orizzonte entro cui essi si esauriscono: tutto l’uomo è in Socrate, perché Socrate è tutto
l’uomo. Gli universali sono dunque corporei quanto a vocalizzazione (sono parole fatte di qualcosa), ma sono
incorporei nel loro essere significati. Universale è la significazione del concreto: il concreto resta concreto, non
diviene universale. Significando lo stato del sensibile, l’universale è mescolato alle cose; facendolo però in quanto
astratti (un universale non esiste se non per astrazione: l’universale è una realtà psicologica) non possono esistere
entro il contorno di queste. Alla domanda introdotta da Abelardo, la risposta è, ancora una volta, duplice: gli
universali non hanno più realtà senza concreto; però, il loro significato, astratto, non cessa di esistere.
Il problema era, nel XII secolo, in piena fioritura, e molte erano le soluzioni che venivano proposte. Se quella di
Abelardo non è meno problematica di altre, è vero però che egli propone una soluzione argomentando razionalmente
su di un problema filosofico, senza riferimento alcuno a questioni teologiche di altra sorta.
“Rinnovare tutto ciò che toccano è il vanto di spiriti di questo genere. La loro disgrazia è quella di essere le prime
vittime delle loro scoperte. Dopo il semplice chierico professore di logica, incontriamo il monaco, professore di
teologia” (p. 330).
- Scito te ipsum: Abelardo vi distingue il vizio dal peccato, definendo il primo come un’inclinazione al peccato,
senza che però si sia forzati al peccato stesso, e che costituisce, perciò stesso, un’occasione di merito.
o Il peccato è il non fare, o meglio ancora il non astenersi dal fare. Se il peccato è non astensione da
ciò che non bisogna fare, allora il peccato non può essere sostanziale: esso è non-essere.
o Se agire male è non mancare di agire contrariamente alla volontà divina, agire bene significa invece
agire conformemente ad essa.
- Se tutto questo è vero, male e bene non possono essere definiti né dall’inclinazione spontanea del volere, che
è soggetta anche a determinazioni “viziose”, né dal risultato effettivo dell’atto medesimo. Essi risiedono
nelle intenzioni che dettano le azioni le quali li incarnano.
o Una buona intenzione deve essere realmente buona, e perciò non basta la fede nel fatto che ciò che
si fa piaccia a Dio, ma che ciò che piaccia a Dio sia quello che si fa concretamente.
o Se è vero questo, prima della rivelazione di Dio, per mezzo del Vangelo, come si potevano avere
buone intenzioni? Se la buona intenzione è la ferma credenza di stare agendo come Dio vuole, è
chiaro che il problema diventa pressante e assai spinoso.
Abelardo è piuttosto radicale: se un uomo agisce in coscienza convinto di stare agendo per il bene, la sua azione è
moralmente giustificata. Ma la dottrina cristiana propone una versione che in qualche modo vanifica la conclusione
abelardiana: coloro i quali muoiono senza conoscere il Vangelo, sono dannati. Abelardo, in un primo momento
acconsente, piuttosto contrariato, ma sprovvisto di obiezioni, a questo fatto.
Nella sua Theologia christiana, Abelardo decide di affrontare il problema in un altro modo: sia fermo che gli
infedeli saranno dannati, ma chi sono allora gli infedeli?

36
- I filosofi hanno presentito la verità evangelica: si guardi alle loro vite di moderazione e di esemplare
correttezza, e alle verità che costoro per i pagani, analogamente ai profeti per gli Ebrei, hanno portato alla
luce.
- Quindi, Ebrei e pagani non sono più perdonabili per la loro ignoranza del Vangelo, e proprio perché alcuni
di loro, in effetti, sono stati salvati, pur in assenza della rivelazione compiuta.
I filosofi ricercano il vero, i Cristiani lo posseggono; pertanto i Cristiani sono i veri filosofi. Ma le verità cristiane
sono molto vicine alle verità filosofiche di tanti pagani; perché dunque costoro non dovrebbero essere cristiani?
- Se i filosofi sono cristiani in quanto filosofi, allora perché non dovrebbero essersi salvati?
- Tutt’al più, costoro sono stati molto più vicini di tanti altri alla rivelazione, pur senza l’aiuto della Grazia e
la forza dirompente della fede.
Nel Dialogo tra un Filosofo, un Ebreo e un Cristiano, lo sforzo di Abelardo è proprio teso a far dimostrare al
Cristiano la completezza della sua verità rispetto alle due dell’Ebreo e del pagano. L’indole aperta, chiara e generosa
di Abelardo traspare: la rivelazione non può essere la corrugata e minacciosa barriera che divide con nettezza i salvati
dai dannati. Esistono dei pori in questa divisione, e Abelardo non può tollerare che quegli antichi che tanto ama
possano essere considerati dei dannati a priori.
Due brevi parole su uno dei principali avversari di Abelardo, ossia il suo maestro Guglielmo di Champeaux.
- Nella sua Historia calamitatum mearum, Abelardo ci consegna le due versioni di realismo professate da
Guglielmo a proposito degli universali.
o Il realismo boeziano della compresenza totale dell’universale in ogni appartenente al genere.
o Il realismo dell’universale come indifferenza.
Abelardo considera suo nemico anche quel Jossellino di Soissons, di cui Giovanni di Salisbury, nel suo Metalogicon
ci trasmette notizia, come professante una dottrina degli universali come “gruppo”. La specie è un gruppo, come un
popolo od una nazione, che costituirebbe la materia di un individuale, laddove è proprio l’individualità a costituire
la forma. È evidente che non si tratta di una soluzione: come si possono raggruppare in un universale gli individui
che sono reali, senza avere già presupposto un universale? E per di più, se tutta la realtà è negli individui, come vuole
Jossellino, si ripresenta il solito problema: come può l’umanità essere pertinente all’individuo e al gruppo?
Un maestro di notevole importanza ai tempi di Abelardo fu Adelardo di Bath. Egli professa un realismo degli
universali molto originale. Ogni individuo (che, con Aristotele, è la sola realtà esistente) è a un tempo individuo,
genere e specie, a seconda della visione più o meno penetrante che se ne ha (Platone ha dunque ragione).
La mistica speculativa fu un movimento piuttosto singolare, sorto nel vitalissimo XII secolo ad opera di grandi
personalità in seno alle abbazie di tutta Europa.
- San Bernardo di Chiaravalle fu il primo nome rilevante in questo movimento. Sebbene non del tutto avverso
alle sottigliezze filosofiche, san Bernardo fu uno dei più decisi e spietati difensori di una concezione mistica
del cristianesimo, unica via di salvezza, capace e potente solo per mezzo della fede.
- “La via che conduce alla verità è Cristo, e il grande insegnamento di Cristo è l’umiltà. […] L’umiltà può
definirsi la virtù per la quale l’uomo, conoscendosi esattamente qual è, si sminuisce ai suoi propri occhi” (p.
339)
- Saliti i dodici gradini dell’umiltà, si salgono i tre gradini della verità: mortificazione (ossia il riconoscimento
della propria miseria), compassione (riconoscimento dell’altrui miseria) e purificazione (odio per le proprie
colpe).
o L’ultimo grado della verità, in cui essa si manifesta in tutta la sua purezza, si dà nell’estasi: questo è
dunque l’apice dell’esperienza umana in ogni senso.
- L’uomo deve dunque fondersi perfettamente con Dio, esattamente come Dio si fonde perfettamente con lui,
perdendosi in Lui come una gocciolina d’acqua in un otre di vino.
o È la carità che può realizzare l’unione mirifica di Dio e dell’uomo, laddove l’unione è dettata da una
stessa armonia nella volontà, non certo dalla confusione delle sostanze.
- L’estasi è un’esperienza familiare per Bernardo, su cui questi ha edificato la sua dottrina: è un momento
incomunicabile di sovrasensibile unificazione con il divino che ci trascende.
- Dio, che è Carità, ha creato l’uomo a sua immagine: il libero arbitrio, o la volontà, che è il medesimo, sono
una carità, esattamente come Dio lo è. Dio ama sé stesso, perciò anche l’uomo può e deve amare sé stesso,
dello stesso amore con cui Dio si ama, e con cui Dio lo ama.
o Il peccato è allora un errore nell’amore: l’uomo ama sé stesso per sé stesso, per avere egli stesso tutte
le creature del Creatore, uomo per primo. La mistica cristiana è la vita del cristiano, la carità l’atto
stesso dell’amore che redime: la vita cristiana è una “rieducazione all’amore. Amare Dio per sé stesso
significa amarlo di un amore disinteressato, cioè, come spiega san Bernardo nel suo De diligendo
Deo, d’un amore che trova in sé stesso la sua ricompensa” (p. 341).
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- A questo stadio, allora, l’uomo può amare serenamente sé stesso, perché pervaso dell’amore di Dio.
Il secondo nome significativo è quello di Guglielmo di san Teodorico, adombrato dalla gloria di Bernardo. L’amore
di Dio viene da Lui inserito nella memoria dell’uomo da sempre: ecco perché l’uomo ama. Ma ama male, perché il
peccato originale lo ha condotto lontano da Dio, ed egli non riesce a farvi ritorno. L’uomo deve prima di tutto
conoscere sé stesso, per conoscersi come immagine di Dio. Così facendo l’uomo torna alla propria memoria,
segretamente sepolta da Dio nel nostro cuore. Conosciutosi come immagine di Dio, l’uomo è salvato dalla grazia di
Questi, allorché le sue facoltà sono come raddrizzate, e dirette a buon fine, cioè verso Dio, ossia l’uomo stesso.
Esauritasi la spinta puramente mistica che pervade gli scritti di questi due, si accende, in seno ai chiostri stessi, una
passione nuova per la metafisica: Iacco Stella è un esempio.
- Dio è ricercato, nei suoi sermoni sul Cantico dei Cantici, a partire da un’analisi “solida e sottile” della
nozione di sostanza, argomento attualissimo nella metafisica del tempo.
- In realtà, più che di metafisica nella mistica, bisognerebbe parlare di Isacco come della presenza della mistica
nella metafisica: di formazione, lo Stella è chiaramente un mistico, ma appassionato di metafisica.
- Nella sua Epistula ad quendam familiarem suum de anima, Isacco espone una visione tipicamente
neoplatonica dell’anima, posta come intermedia tra la parte superiore del corpo e quella inferiore di Dio.
o L’intelligentia è il punto più alto dell’anima; imparentata con Dio, riceve da questi la luce, e può
perciò stesso risalire fino a Lui.
Oltre ai monaci cistercensi, anche quelli dell’abbazia parigina di san Vittore furono attivi protagonisti di una mistica.
- Ugo di san Vittore fu il primo esponente significativo di questa tradizione: i novizi di san Vittore debbono
comprendere da subito di essere entrati nell’abbazia non per imparare le arti liberali.
- Se Ugo di san Vittore fu di certo un mistico, altrettanto chiaramente egli non volle far fuori in modo alcuno
l’istruzione profana del tempo: egli si preoccupò sempre di volgere il proprio sapere in contemplazione.
o “Imparate tutto, egli diceva, e vedrete in seguito, che non c’è niente di inutile” (p. 347).
o Ugo fu autore di una serrata classificazione delle scienze, dove il posto principale fu riservato alle
sette vie di accesso alla sapienza, ossia le vie del Trivium e quelle del Quadrivium.
- L’acquisizione della scienza è, per Ugo, un fatto necessario, fondamentale e del tutto naturale: la teoria della
conoscenza su cui riposa la sua concezione delle scienze è la teoria “psicologistica” dell’astrazione
aristotelica: si considera a parte un elemento che nel reale è dato congiunto ad un altro.
- “Ugo di san Vittore, dunque, corona con una dottrina mistica una filosofia che si richiama ai poteri ordinari
dell’intelligenza. E questa mistica consiste assai meno nell’attribuirsi delle esperienze o delle rivelazioni
eccezionali che nel cercare delle interpretazioni allegoriche delle cose naturali e nel condurre l’anima verso
la pace interiore” (p. 348).
o Per interpretare il mondo la ragione è necessaria, perché la Scrittura parla della rigenerazione, non
della generazione dello stesso. Tuttavia, siccome tutto è stato fatto nuovo nel Verbo, e siccome tutto
è stato fatto in vista dell’uomo, occorre spiegare il “tutto” (il mondo) per spiegare la rigenerazione
nel Figlio. Ecco perché la Bibbia adduce una cosmogonia, che è però utilmente rischiarata dalla
ragione.
- Un esempio del “razionalismo” di Ugo è dato dalla sua prossimità sorprendente alla filosofia di Descartes.
La prima nozione che noi abbiamo, assolutamente automanifestativa, è la nostra stessa esistenza; e la nostra
stessa esistenza come esistenza iniziata nel tempo. Ci apprendiamo originati: ergo l’inizio del tutto è la
volontà del creatore.
o Se questo è vero, allora le cose sono buone perché Dio lo vuole, e non vale il contrario.
Allievo e discepolo di Ugo fu Riccardo di san Vittore, che con più forza ancora di Anselmo (nel Monologion,
s’intenda), sottolinea l’esigenza di un fondamento sensibile per le prove dell’esistenza di Dio. Tutt’altro che
sprovvisto di armi dialettiche, Riccardo procede molto “anselmianamente” alla dimostrazione dell’esistenza di Dio
a partire dai gradi di perfezione di cui la realtà partecipa.
“Non sarebbe esatto riassumere i teologi di san Vittore con il semplice epiteto di mistici: nelle loro sintesi vaste e
comprensive, essi hanno riservato un posto a ciascuna delle attività spirituali dell’uomo, e il filosofo vi ha il suo
luogo, come il teologo e il mistico vi hanno il loro” (p. 351).
Alano di Lilla e Nicola di Amiens
Alano di Lilla si preoccupa di fornire la dottrina ad uso dei predicatori (Ars predicandi): il cristianesimo si fonda di
nuovo sulla difesa della propria dottrina, e chiarisce le proprie idee in un panorama di polemica.
Alano di Lilla si preoccupa di combattere le sue battaglie contro gli eretici, sia interni alla Chiesa, come i catari ed
i Valdesi, sia infedeli in senso lato, come Mussulmani ed Ebrei.
- Gli Albigesi o i Catari sono identificati etimologicamente come viziosi che si credono casti (catha=fluxus,
casti), o anche coloro che si danno a pratiche vomitevoli con gatti (cati), simbolo di Lucifero.
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o La loro dottrina è una riproduzione del dualismo manicheo, e “pretendono di giustificare i loro
principi contemporaneamente con l’autorità della Scrittura e con la ragione” (p. 352).
- La confutazione di Alano si fonda su di un presupposto platonico: se Dio è la vera origine di tutto, non vi
può essere alcun principio del male. Spirito e carne sono ambedue buoni, perché Dio è bene.
o Concependo la carne come male, gli albigesi condannano la pratica matrimoniale, che legittima il
rapporto d’amore. Questo non va affatto bandito, ma va fatto “esplodere” in tutta la sua conturbante
malizia: bisogna fornicare a caso, per liberarsi quanto prima della carnalità.
o Per di più, la natura vuole che tutto sia in comune, donne e uomini compresi.
- Alano asserisce che il metodo più pratico per garantire uno sfogo all’incontinenza è proprio il matrimonio,
istituto che regolarizza le infrazioni alla castità.
Un’altra setta che Alano si preoccupò di combattere fu quella di Petro di Vaux, fondatore della Chiesa valdese, a
tutt’oggi esistente. Il pericolo costituito dai valdesi era dato dalla loro messa in discussione dell’ordine sacerdotale e
sacramentale: “Isti Waldenses asserunt neminem debere obedire alicui hominis ed solo Deo” (p. 354).
Gli Ebrei non riconoscevano il dogma della Trinità e la divinità del Messia. Quanto ai Mussulmani, seguaci del
“mostruoso” Maometto, la loro religione è aberrante: sperano in una beatitudine materiale e credono che semplici
abluzioni corporali lavino il peccato dalla coscienza.
L’opera di Alano, di certo importante per lo spirito polemico che la anima, è resa ancor più fondamentale dal
desiderio che l’autore ha di rifondare un metodo teologico degno di questo nome.
- Boezio, in un’opera dal titolo piuttosto significativo di Quomodo substantiae in eo quod sint, bonae sint, cum
non sint substantialia bona, discute di un’altra propria opera, gli Hebdomades. Siccome l’allusione a questa
è piuttosto oscura, la prima opera passa come un’illustrazione del contenuto della seconda, assumendo così
il titolo, più breve e conciso di De Hebdomadibus.
o Nel suo De Hebdomadibus, Boezio espone un metodo che egli è del tutto intenzionato a seguire:
quello di addurre delle definizioni di termini, onde dedurne conclusioni determinate logicamente,
come Euclide.
- Alano, preoccupato di fornire alla propria impresa apologetica una struttura stabile, si dedica al medesimo
metodo “ebdomadico” (ignorando il greco, considerava “hebdoma” significante di “assioma”).
o Nel suo De fide catholica, l’adozione del mos geometricum ha per scopo quello di convincere
irrefutabilmente gli eretici della bontà delle proprie posizioni dottrinali.
o Nella sua opera Maximae theologiae, Alano si preoccupa di dimostrare correlativamente due assunti.
In primo luogo, che ogni scienza è certa nel momento in cui è dedotta da assunti di partenza (in
questo senso, sono certe tanto la grammatica, quanto la retorica o la dialettica); in secondo luogo che
la scienza che si fonda su assunti certi ed assoluti, ossia la teologia, deriva nella sua catena certezza
ed assolutezza in grado superiore alle altre scienze.
- La prima massima, da cui tutta la teologia assume la propria stabilità è la seguente: “Monas est qua quaelibet
res est una”, ossia la Monade è ciò per cui una qualunque cosa è una.
o La Monade, chiaramente, è Dio, e di qui Alano rintraccia tutti i livelli del reale: sovraceleste, che è
quello di Dio, celeste, l’angelo e subceleste, l’uomo.
o Tutto ciò che vi è di essere, viene dalla monade, la sola stabile, semplice ed unitaria.
- In un libro, che Alano attribuisce al Trismegisto, ma che è uno scritto medievale, si giustappongono
ventiquattro definizioni di Dio. Alano sceglie questa: “monas gignit monadem et in se suum reflectit
ardorem”.
o Il Padre, cioè, genera una monade, che è il Figlio, e dal Padre e dal Figlio procede lo Spirito Santo,
che è l’ardore di Padre e Figlio.
- Se la monade produce l’essere, ogni creatura è come il centro di una circonferenza che l’avvolge, dal cui
interno sorge il suo proprio essere: Dio è un cerchio il cui centro è ovunque, ma la circonferenza da nessuna
parte.
o Dio è dunque l’essere di tutto ciò che è, perché è la causa di ciò che è. Non partecipando di nulla
però, Dio non può essere il proprio essere, e perciò Dio è “formalissime”. Forma pura, autentica, non
informata, questo è il Dio-monade di Alano.
o Vi è una causa che è implicita nell’affermazione di ogni altra causa, e questa è l’unità, ossia la causa
formale implicata nella determinazione causale di ogni altro fattore.
Le due opere per cui Alano risulterà però famoso sono l’Anticlaudianus (poema in alessandrini che percorre una
parabola inversa a quella narrata nel Ruffinus di Claudiano) e il De planctu naturae, dove la natura piange i crimini
contro di lei commessi dai sodomiti. Natura è regola, ordine e legge del creato: sottoposta a Dio, è l’origine del tutto.

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La Natura si rivolge con umiltà al proprio Creatore, e se in essa occorre sapere per credere, nella teologia si crede
per sapere.
Si ricordino le Maximae theologiae: il trattato more geometrico di Alano di Lilla fece scuola. Un altro chierico,
Nicola di Amiens spinge ancora più lontano le esigenze di rigore avanzate da Alano sulla scorta del De hebdomadibus
di Boezio. Lo fa nella sua “De arte catholicae fidei”.
- Nicola fa appello alla sola ragione per avanzare la sostenibilità della fede agli occhi degli eretici.
- Nicola non crede che la rivelazione sia penetrabile all’occhio della ragione: vuole allineare una filosofia
rigorosa perché la fede sia credibile agli occhi di chi decide di non dare ascolto alla Scrittura.
o “Tutta la sua opera si fonda su definizioni, postulati e assiomi. Le definizioni stabiliscono il
significato dei termini: causa, sostanza, materia, forma ecc.” (p. 361).
L’universo del XII secolo
Si è visto: nel Medioevo, sin dal VII secolo, si era diffusa la tendenza ad una classificazione universale. Dalle
Etimologie od Origini di Isidoro di Siviglia, le opere “enciclopediche” pullulano nel continente europeo. Un’opera
del XII secolo, intitolata De imagine mundi e attribuita ad Onorio di Autun (Honorius Augustoduniensis), costituisce
un documento di particolare rilievo ai nostri occhi.
- “Mundus dicitur quasi undique motus”: il mondo è un movimento perpetuo. Concepito come archetipo
nell’intelletto divino, il mondo sensibile è, sulla scorta di questo, creato a sua immagine nella materia. I sei
giorni della creazione gli consegnano specie e forme e il tempo gli impone la durata.
- Il mondo è fatto dei quattro elementi, legati tra di loro in un’unica materia.
Onorio determina con rigore le dimensioni di una Terra sferica, sospesa al centro del mondo, tenuta in sospensione
dalla volontà divina. Ogni elemento del resto occupa una sede sua propria, stabile in sé medesimo. La Terra è
composta di tre continenti: Europa, Asia ed Africa.
- L’Asia sorge ad Est, accanto all’inaccessibile Paradiso Terrestre, da cui si dipartono Nilo, Gange, Tigri ed
Eufrate. L’analisi geografica percorre tutte le terre da Oriente ad Occidente, dall’India e dal Giappone fino
ai confini con l’Europa.
o L’Asia è una terra esotica, caratterizzata da tutte le più mirabolanti stranezze che il mondo può
generare: mostri mirifici, climi e vegetazioni lussureggianti, vergini ed inimmaginabili, città auree
immerse in atmosfere da favola.
- L’Europa prende il suo nome dal re Europo e dalla regina Europa. Si descrivono i popoli che la abitano.
- L’Africa (che prende il nome da un discendente di Abramo, Afer) è la terra dell’Etiopia, della Sicilia, della
Sardegna e di un’isola paragonabile all’Atlantide di Platone.
Al centro della Terra, l’Inferno, una piramide il cui ingresso è una stretta gola.
L’analisi dei quattro elementi è caratteristica della visione medievale del cosmo: partendo dall’etimologia di
ciascuno, se ne determinano proprietà e attitudini di vario genere e tipo. Del resto, l’uomo è un microcosmo, in pieno
spirito di corrispondenza, e i sette elementi che lo compongono si ritrovano tutti nel cosmo in quanto tale.
Dopo una breve esposizione del concetto di tempo (che esiste solo nel e per il mondo), Onorio analizza brevemente
la storia dello stesso, scandita in età, dalla caduta degli angeli fino al XII secolo.
“Enciclopedie come quelle di Onorio d’Autun e di Guglielmo di Conches sono interessanti, in quanto esprimono
l’immagine del mondo vista dal loro autore e dalla media degli spiriti colti del suo tempo. Per apprezzare
correttamente il loro valore rappresentativo bisogna tuttavia ricordarsi che, come ogni enciclopedia, esse erano opera
di volgarizzazione. Ci si sbaglierebbe dunque gravemente cercandovi, com’è stato fatto, lo specchio della scienza
del loro tempo” (p. 371).
Un rilievo è però fondamentale, a proposito dell’impiego dell’etimologia. Il nome delle cose si credeva fosse stato
dato per esprimere, delle cose, la natura; perciò, rintracciando l’origine del nome si poteva avvicinarsi sempre più
alla natura profonda dell’oggetto in questione. Il riflesso immediato della significazione delle cose è la concezione
di un universo significante nelle cose: si passa da una lettura etimologica dei nomi, ad una allegorica della natura.
Ogni cosa ha un significato preciso nella grande allegoria del mondo: “generalmente, gli autori di trattati di
mineralogia, petrografia, botanica e zoologia, parlando di queste cose non avevano mai altro scopo che
l’edificazione morale e religiosa dei loro lettori” (p. 372). Etimologia, allegoria e analogia: un essere, od un fatto
rimanda ad un altro essere od un altro fatto per la comunanza dei rapporti dei suoi elementi interni. Ecco donde viene
l’immagine dell’uomo come di un microcosmo: lo stesso rapporto che c’è tra gli elementi del cosmo vige tra gli
elementi che compongono l’uomo.
Sacerdozio e regalità
Nel XII secolo, si riprese la speculazione sulle due città mistiche, ad opera di Ottone di Frisinga.
- La città terrestre è da Ottone identificata con gli Imperi che si sono succeduti sulla Terra un progressivo
declino di gloria e di potenza che allude al travaglio del mondo per la venuta dell’ultimo giorno.
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- Se questo è vero, è parimenti vero che Ottone identifica la città celeste con l’Impero stesso, di cui esso non
è che la manifestazione terrena.
o Dalla conversione di Costantino in poi, “anche se gli eletti e i dannati si trovano in una stessa dimora,
io non posso più dire che queste città siano due, come ho fatto in precedenza; io devo dire ch’esse ne
formano una soltanto benché essa sia mischiata come il grano lo è con la paglia” (p. 376).
- Si sta parlando della Chiesa: essa assorbe l’ordine terrestre al proprio interno, prefigurando la gloria della
città celeste. La Chiesa si compone di due ordini, che sono lo spirituale e il temporale, ossia il clero e i laici.
La fede, con la grazia, fa di tutti i Cristiani un solo corpo, membra vive di una sola realtà. La Chiesa conosce quindi
due lati nella sua autorità: il lato destro, che è il lato spirituale, dove sono gli uomini di Chiesa a dettar legge, e il lato
sinistro, sottoposto invece all’autorità laicale. I poteri sono quindi due, e due devono restare. Con una clausola, ossia
il fatto che “il potere spirituale supera il potere temporale tanto quanto la vita spirituale supera la vita terrena;
per questo il papa gode di due prerogative […]: conferire l’esistenza al potere temporale […] e giudicarlo se
sbaglia” (p. 377).
- È il papa ad insignire l’imperatore della sua autorità: è scritto nell’Antico Testamento. Ed in effetti “l’origine
più sicura della teocrazia pontificia del XII secolo è la teocrazia ebraica dell’Antico Testamento” (p. 378).
o Dio, presso gli Ebrei, istituisce il sacerdozio onde creare dei re, e non viceversa; per cui questa deve
essere la prassi.
- Anche in Onorio d’Autun troviamo ribadita la medesima tesi: il re ha il potere temporale su tutti, papa
compreso. Ma non si dimentichi che il potere temporale non è che una faccia dell’autorità, e di certo non è
la principale: esso riceve la propria gloria dallo spirituale.
Ancora, nel Polycraticus di Giovanni di Salisbury si legge che “omnis potestas a Deo est”: la Chiesa non ha la
spada, ma è lei che l’affida a principe, perché sia valido il suo potere spirituale. Per cui il principe non solo deve
conoscere la dottrina della Chiesa, e perciò studiare il Deuteronomio (la fonte principale della teocrazia pontificia
nel XII secolo), ma deve anche impegnarsi assiduamente nello studio della legge divina.
Ancora san Bernardo, che pure di certo non fu un uomo politicamente attivo, tornerà sul tema, asserendo che delle
due spade, la principale è quella spirituale, che dota il principe della propria. “Un fatto domina tutta questa situazione:
la distinzione dei due ordini, temporale e spirituale, è una distinzione interna alla Chiesa. in questo complesso
edificio, la chiave di volta è il potere spirituale del papa, lo stesso muro temporale regge soltanto in virtù della sua
autorità” (p. 380).
Un pericolo covava però sotto le ceneri. Se era vero che la Chiesa costituiva un ordine universale, capace di
inquadrare tanto il potere spirituale che quello temporale, poteva non essere affatto peregrina l’idea di attribuire la
predominanza dell’autorità all’imperatore piuttosto che al papa. Certo, si trattava di ristrutturare l’ordine e la
gerarchia dell’istituzione ecclesiastica, ma una volta che potere spirituale e potere temporale venivano irregimentati
in una cornice unitaria, non era alieno alle menti dell’epoca un panorama simile. Ecco donde scaturirono i Tractatus
Eboracenses, attribuiti a Gerardo di York, e composti tra il 1101 e il 1108.
- I due testi più significativi sono intitolati Apologia achiepiscopi Rotomagnensis e De consacratione
Pontificum et Regum.
- Il Papa, asseriscono i trattati, è il primo servitore della Chiesa e dei fedeli, come vuole s. Pietro, e questa sua
autorità gli deriva dallo Spirito Santo. Un solo Pietro, un solo Spirito, una sola Chiesa; ergo tutti i vescovi
all’interno di essa sono uguali.
- Il Papa non può pretendere nessuna superiorità sui vescovi, perché è vescovo come i vescovi più umili e
sacerdote come gli ultimi sacerdoti.
- La Chiesa è una sola e stessa cosa, e la Chiesa di Roma non è superiore ad ogni altra, perché Cristo e gli
apostoli così non hanno stabilito: la supremazia del Papa deriva dalla grandezza dell’Impero di Roma, non
da altro.
La Chiesa, sposa di Cristo, non lo tratta come un sacerdote, ma come un re: è il re, nella Chiesa, che ha la più alta
somiglianza con il Cristo di cui si vuole che essa sia sposa. Il re deve difendere la Chiesa, ed è unto per questo, ma
è il re che poi procederà a mettere in pratica il suo compito, senza distinzione alcuna che regga tra potere spirituale
e potere temporale: “non si possono reggere le anime senza i corpi, né i corpi senza le anime” (p. 383). Ergo siamo
di fronte ad una situazione ancora piuttosto vaga: nella Chiesa ci sono re che sono sacerdoti, di fatto, e sacerdoti che
sono re, di fatto. Come procedere? Si guardi alla Scrittura: i sacerdoti offrono a Dio beni materiali, prefigurando
l’umanità del Cristo; i re Gli offrono lo spirito, prefigurandone la divinità. Per di più, Cristo è legittimamente re del
creato, e solo in seguito è sacerdote; dunque, il re è superiore al sacerdote quanto la natura divina di Cristo lo è su
quella umana.

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Il bilancio del XII secolo è particolarmente complesso da tracciare, nel suo insieme. Si vede il pensiero cristiano
occupare saldamente tutte le posizioni nelle quali sarà sorpreso dall’urto della filosofia araba e dalla scoperta di
Aristotele.
- I problemi connessi a quello degli universali hanno dato ampio modo alla logica di sconfinare nell’ambito
della metafisica, due regni che non possono non venire scossi dall’incontro con Aristotele.
- Platonismo ed aristotelismo si intrecciano in uno strano dialogo di posizioni sovente esasperate, dove pare
per lo più lo stagirita ad uscirne rafforzato: il piano della ragione raziocinante, ossia la filosofia, è sottoposto
in tutto e per tutto alla sua autorità.
Aristotele, dunque, prende il sopravvento, preludendo alle grandi sintesi del XIII secolo. Nello stesso tempo, le
grandi scuole in cui si cominceranno a costruire le cattedrali del sapere nascono già sulle rive della Senna.
“È importante notare fino a che punto lo spirito del XII secolo sia più vicino a quello dei secoli XV e XVI di quanto
non lo sarà lo spirito del secolo successivo” (p. 387).
- L’umanesimo dilaga nel XII secolo: tutti i filosofi sono affascinati dall’antichità classica e non fanno
problema a dimostrarlo.
- Se è vero che un nuovo amore per la classicità sembra pervadere la cultura del secolo, è parimenti vero che
l’antica avversione per essa non viene affatto meno.
- La letteratura latina incontra, nel XII secolo, un periodo di grazia: Abelardo prima, poi Ildeberto di Lavardin,
cantore dei tempi passati di Roma, preludio forse già al Rinascimento del XV secolo.
o Oltre all’imitazione dei modelli classici, si diffonde tutto un nuovo tipo di letteratura, segnatamente
destinata al canto, in cui trovano spazio le nuove idee del secolo: si leggano i poemi liturgici di san
Bernardo con i suoi cantici alla Vergine.
“Seguendo la loro più profonda ispirazione e lasciando esprimersi i loro sentimenti più sinceri in una forma che era
loro naturale, poeti latini […] facevano di meglio che rincominciare l’antichità; essi la prolungavano” (p. 390).
Comincia a profilarsi un’etichetta valida per il secolo in questione, ricco dell’espressività più icastica e tipicamente
medievale, tanto nell’arte figurativa (si pensi agli affreschi gotici, così come all’architettura coeva), quanto in quella
letteraria (nascono in questo periodo le fantomatiche Chansons de geste): umanesimo religioso. Del resto, se la cosa
può parere piuttosto provocatoria, è parimenti vero, e non lo si dimentichi, che l’ellenizzazione della cultura europea
avviene in pieno Medioevo: ci si è a lungo interrogati, e lo si è visto, su come interpretare le verità pagane nell’ottica
di una nuova verità, rivelata agli uomini nel Cristianesimo. E la risposta fu spesso simile a quella che si diede più
avanti, nei secoli del Rinascimento: la classicità ebbe le sue glorie, che come tali devono essere onorate e rispettate;
ma il Cristianesimo giunse a completarle, e a portare loro un rinnovato splendore. Pertanto, non potendo fare del
Cristianesimo la continuazione dell’antichità, si fece di quest’ultima il preludio ad esso, traducendo le verità dei
pagani in prefigurazioni dell’unica verità possibile, e cioè quella cristiana.

VI. Le filosofie orientali

Il primo focolaio di diffusione del pensiero ellenico in Oriente, sin dal 463 (e fino al 489) fu la regione mesopotamico-
siriaca. L’Antico Testamento era un corpus quasi interamente in lingua ellenica: i Siriani convertiti dovettero
imparare la lingua per leggere la Scrittura e poterono così studiare i Padri e la filosofia. la scuola fu chiusa quando
ormai, in Siria, la cultura filosofica aveva attecchito nel profondo: si traducevano in siriaco le opere greche e grande
era l’interesse per Aristotele in più di un centro di studio.
Nel 750, convenzionalmente, si considera l’Islam dominante in quelle regioni del Medio Oriente caratterizzate da
questo interesse per la filosofia ellenica. È attraverso le opere siriache dei Persiani che Galeno, Ippocrate, Aristotele,
Alessandro di Afrodisia, così come molti neoplatonici furono tradotti in arabo.
- Era Aristotele l’autorità indiscussa nel catalogo trasmesso agli Arabi: praticamente tutte le opere erano sue.
- Sotto l’autorità di Aristotele, due scritti certamente non suoi, ebbero una diffusione inaspettata.
o La teologia di Aristotele e il Liber de causis sono due opere pervase di spirito platonico: la Teologia
è un’epitome delle Enneadi e il Liber è un commento all’Elementatio theologica di Proclo.
- Il risultato fu che il pensiero arabo si impegnò in un’originalissima sintesi di platonismo ed aristotelismo
sotto l’autorità dello Stagirita.
Il primo nome degno di nota della filosofia araba è quello di Al-Kindi, morto intorno all’873.
- Enciclopedista di chiara fama, è rilevante agli occhi dello storico delle idee per una sua opera, il De intellectu.
- La questione su cui si dibatte è quella aperta nel De anima di Alessandro di Afrodisia, circa la distinzione tra
intelletto potenziale ed intelletto agente.

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o La questione era particolarmente pressante anche agli occhi degli Occidentali: dibattere delle
funzioni e della natura dell’intelletto significa fondamentalmente comprendere la genesi degli
universali.
- Al-Kindi distingue quattro tipi di intelletto, laddove quello “sempre in atto” è posto come un’intelligenza, e
cioè una sostanza spirituale superiore all’anima e distinta da essa.
L’opera di Al-Farabi continuò di fatto quella di Al-Kindi.
- Concordanza di Platone e di Aristotele: si vede subito che lo sforzo della filosofia araba fu quello di
rintracciare un’improbabile quanto ardua armonia tra le filosofie di Platone e di Aristotele, muovendosi
sempre sullo sfondo di una religione connotata molto rigorosamente.
- Si apre un problema: come conciliare l’inizio del mondo nel tempo e la concezione greca dell’essere? Se Dio
è causa di tutto, come può, restando egli inintelligibile, creare un mondo comprensibile e chiaro?
- Al-Farabi è costretto ad una mossa metafisica non indifferente, per adattare “la schiacciante ricchezza delle
idee filosofiche greche al sentimento nostalgico di Dio che avevano gli Orientali e alla sua personale
esperienza mistica” (p. 398).
o Gli esseri naturali sono contingenti, e cioè la loro essenza non coincide più con la loro esistenza;
ergo, se esistono, come esistono, è perché qualcuno li ha dotati dell’esistenza.
o È Aristotele ad osservare che la nozione di ciò che qualcosa è non implica l’esistenza della cosa.
o L’esistenza non è un fatto costitutivo della cosa, perché se ne può sempre dubitare, fino al momento
dell’esperienza; perciò essa non è che un “accidente accessorio” (p. 399).
- In Al-Farabi vi è un platonismo latente (e neppure troppo latente): non si dubita mai che l’esistenza sia
l’attributo dell’essenza.
- Il mondo dunque dipende da una causa prima che lo dota di quell’esistenza che, di principio, esso non ha:
esiste una fonte della vita del cosmo, che d’altronde non è altro che la fonte della nostra conoscenza.
o Ereditando da Al-Kindi la distinzione delle quattro tipologie di intelletto, anche Al-Farabi parla di
un’intelligenza agente separata dall’anima e trascendente: essa garantisce alle cose la forma e
all’intelletto umano la conoscenza (non si dimentichi che per passare da potenza ad atto, deve essere
premesso un atto: come può l’intelletto potenziale nell’uomo attualizzarsi nella conoscenza delle
forme delle cose?).
Un’esperienza particolare si situa intorno al IV secolo dall’Egira: nacque una sorta di massoneria, quella dei “fratelli
della purezza” cui si attribuiscono cinquantuno trattati di vario genere. Passiamo all’opera di uno dei massimi
pensatori dell’Islam, ossia Avicenna.
- Vero enfant prodige, a sedici anni già esercitava attivamente la medicina, e si dedicò alla filosofia dopo
l’incontro con la Metafisica di Aristotele. Scrisse in vita più di cento opere.
- Aristotelico fin dall’inizio, Avicenna distingue, nella sua logica, un oggetto primo, che è l’individuo
concreto, ed un oggetto secondo, che invece è la nostra conoscenza della realtà, come l’universale.
o La conoscenza logica ha una portata fisica e metafisica: gli universali sono delle realtà connotate a
livello metafisico come predicabilità di enti concreti ed esistenti a livello di singoli.
- L’universale è una “realtà mentale” (p. 402) che si chiama essenza, la quale esprime con esattezza il reale da
cui è astratta: ciascun individuo reale è uno con l’essenza e questa fa uno con sé stessa.
o Se l’essenza esprime con esattezza il reale, allora nel momento in cui si pensa qualcosa come
separato, lo si può postulare come esistente separato da ciò a parte del quale lo si pensa. Anima e
corpo, che si pensano separati, sono ontologicamente separati tra loro.
L’essenza è indifferentemente generale od individuale: vi è essenza del cavallo tanto nel cavallo come universale
quanto in questo cavallo: “equinitas est equinitas tantum”. Tutte le essenze sono a pieno titolo generali e particolari,
in quanto astratte dal reale e significanti esattamente le individualità concrete.
A proposito dell’intelletto agente, Avicenna riprende Al-Farabi, postulando in ogni uomo un intelletto passivo, che
è una mera disposizione alla ricezione delle forme prive di materia (ossia astratte). Solo dopo il grado della
sensazione, l’intelletto potenziale acquisisce le forme intelligibili delle immagini sensibili. L’intelletto agente è
dunque uno e separato, ed attualizza gli intelletti potenziali di tutti gli uomini singoli.
Siamo dunque al livello degli oggetti intelligibili, fra i quali ve n’è uno che risalta particolarmente agli occhi del
metafisico, ed è l’essere.
- Tutte le rappresentazioni nel nostro intelletto presuppongono, a titolo di accompagnamento, l’essere.
- L’essere ha dunque due determinazioni: necessità e contingenza. L’essere possibile o contingente è quello
che non esisterebbe se non fosse prodotto da una causa che lo situa nell’esistenza.
o Per quanto concerne la contingenza, vi è il puro possibile, che è l’essere sprovvisto della causa che
lo ponga, e il possibile necessitato dalla causa che lo produce.
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Nell’esperienza, tutto è soggetto alla generazione causale, e dunque tutto si situa in un orizzonte di possibilità; ma
se anche le cause sono situate da una catena causale pregressa, allora anch’esse ricadono sotto il medesimo tipo di
possibilità. E siccome la possibilità è ciò che non può esistere in virtù della propria essenza, ma non può non esistere
in virtù della causa che la pone, allora c’è anche un essere necessario che causa l’esistenza delle cose.
- Se Dio è il necesse esse per definizione, allora in lui essenza ed esistenza debbono implicarsi
vicendevolmente. In Dio essenza ed esistenza sono una sola e stessa cosa.
- Le cose possiedono un’essenza, che per definizione non coincide con la loro esistenza. Ergo, ogni essenza
ha l’esistenza come mero accompagnamento ricevuto.
Tra il necessario e il possibile passa il “taglio ontologico” (p. 405) che distingue radicalmente creatore e creatura. Se
il taglio resta, è parimenti vero che però Avicenna introduce il possibile a titolo di necessario: ciascun essere è in sé
possibile, ma è necessitato all’esistenza dall’esistenza necessitante della sua causa. Se Dio è causa necessaria, lo è a
pari titolo il possibile. Per essere integrata in un orizzonte cristiano, la filosofia di Avicenna deve fare spazio ad una
contingenza più radicale, e cioè fondata su di un atto di libera volontà del creatore.
- Dio è il Primo, unitario ed incorporeo, e perciò capace di conoscenza. La creazione è dunque l’atto di
comprensione o di conoscenza di Dio.
o Il Primo si conosce, e questo genera un’intelligenza, la quale pensa Dio per primo, e così genera una
seconda intelligenza, la quale a sua volta si pensa come necessaria, venendo a costituire l’anima
motrice della prima sfera del cosmo.
o L’ultima intelligenza nella gerarchia di intelligenze discendenti, è l’intelletto agente, preposto alla
sfera della Luna. Essa, sprovvista di forza creatrice, irradia le forme intelligibili dei corpi sensibili,
che noi esperiamo.
La capacità di unirsi all’intelletto agente è la capacità di astrazione, che non tutti gli uomini possiedono in egual
misura (Avicenna doveva fare salvo un posto d’onore per il Profeta).
La filosofia di Avicenna è un sorprendente monumento di razionalità: preoccupato da ciò, Al-Ghazzali reagirà con
forza contro quello che per lui è un esiziale pericolo. Severo censore della filosofia avicenniana, così come della
filosofia ellenica, di lui è stato ironicamente tramandato soltanto un trattato di Intenzioni dei filosofi, che lo ha
collocato nell’immaginario europeo fra i maggiori partigiani della sintesi di Avicenna.
- Prendendo in considerazione l’intera opera di Algazel, si vede bene che egli fa professione di una sorta di
scetticismo in filosofia, onde rendere ragione alle verità di fede.
- Al-Ghazzali sostiene, in buona sostanza, che dal punto di vista filosofico, la gran parte delle verità sono, di
fatto, indecidibili, e che perciò occorre prestare una maggiore attenzione a considerarle esaurite.
o La possibilità del mondo, esclusa di fatto da Avicenna, deve tenere aperta la porta all’indeterminismo
causale: è questa la posizione di Al-Ghazzali.
Avempace si preoccupa invece di stabilire nella sua Continuatio intellectus cum homine un collegamento stabile tra
l’intelletto agente (trascendente tanto per Al-Farabi, quanto per Avicenna) e l’uomo. A questi è dunque permesso di
elevarsi di conoscenza in conoscenza, astraendo di fatto l’essenza di volta in volta: è così che si può giungere ad
un’essenza priva di essenza, e questa è l’essenza della sostanza separata che anima la nostra conoscenza. La
conoscenza di un’essenza dunque è già conoscenza della sostanza separata: è in virtù della capacità astrattiva che
l’uomo possiede, che egli può elevarsi all’intelligenza; perciò conoscendo un’essenza, conosce l’intelligenza.
Insieme ad Avicenna, il principe della filosofia araba è però Averroè. Nato in Spagna, fu uomo dal sapere
enciclopedico e compose alcuni fra i più significativi commenti su Aristotele. Morì nel 1198.
- Egli è seriamente preoccupato dal proliferare di sette filosofiche in contrasto tra di loro, e dalle lotte che
scaturivano da una faziosità tanto pronunciata. Il problema, per lui, si rintracciava nel fatto che era permesso
a spiriti non ancora pronti di accostarsi alla Scrittura coranica.
o Il Corano è la Verità, e perciò stesso esso deve soddisfare tutti gli uomini, per quanto diversi siano i
loro spiriti e le loro disposizioni. Tanto gli uomini di scienza (che procedono mediante dimostrazioni
di necessità in necessità), quanto quelli dialettici (che si accontentano di gradi di probabilità), quanto
quelli retorici, debbono essere interpellati dal Corano.
o Nessuno deve azzardarsi a pronunciare verità sul Corano differenti da quanto gli è permesso per
natura, o, il che è lo stesso, superiori; donde si fa esplicito il divieto di divulgare presso le classi
inferiori le interpretazioni delle superiori.
▪ L’ordine dell’insegnamento e dell’apprendimento del vero è dunque rigidissimamente
scandito: dalla filosofia, arte del vero assoluto, alla teologia, arte dialettica, alla fede.
- Se l’intelletto e la fede sanciscono due verità differenti si apre il problema, perché Averroè parla
contemporaneamente da filosofo e da credente.

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o “Per rationem concludo de necessitate, quod intellectus est unus numero, firmiter tamen teneo
oppositum per fidem”.
o La dottrina della doppia verità, che viene desunta da questa ed altre parole averroiste, non pare
semplicemente essere sostenibile in questo quadro: la verità è quella della fede, per quanto necessario
sia l’esito della speculazione razionale.
Averroè vuole compiere un tentativo di restaurazione radicale dell’aristotelismo, eliminando progressivamente tutto
il platonismo di cui esso si era andato caricando fino a quel momento. La filosofia di Aristotele è vera, e questa è la
posizione di partenza di Averroè.
- La metafisica di Averroè è l’indagine dell’essere. Essere è la sostanza che è, e come ogni sostanza è un
essere, così ogni essere è una sostanza, che è proprio perché è sostanza.
o “Non c’è dunque motivo di porsi a parte il problema dell’esistenza” (p. 414): si ricordi Avicenna e
l’indagine sull’essenza che lo aveva condotto a parlare dell’esistenza come un semplice accidente.
- L’essere è proprio di ciascuna cosa: non è possibile dunque predicare l’essere in un senso univoco. E tuttavia,
ciascuna delle dieci categorie in cui l’essere si predica intenziona qualcosa che è: l’essere non è univoco, ma
per quanto precede non è neppure equivoco (perché “è” è il presupposto dell’equivocazione): l’essere è
analogo.
o L’essere come tale è dunque esplorato dalla logica: mezzo intellettuale per approcciarsi alla realtà
dell’essere e delle sue proprietà.
- Se l’essere è esplorato dalla logica, esso deve richiedere necessariamente l’intelligibilità: se per giunta
l’essere è costituito dal sensibile, allora significa che il sensibile deve essere intelligibile.
o Se la realtà è intelligibile, significa che ha radice in un’intelligenza, che ne è causa: ogni
determinazione essenziale del reale non può procedere se non da una causa necessaria; l’intelligibilità
è essenziale alla realtà, e dunque l’intelligenza che ne è alla base è necessaria.
o “I platonici hanno avuto torto di credere all’esistenza di idee separate, ma non di pensare che il
sensibile riceva da qualche causa la sua intelligibilità” (ibidem): le idee non sono separate dalla
materia sensibile, ma sono in essa (come struttura) in virtù di un’intelligenza, che è loro causa.
- L’universale non può essere una realtà: non può essere uno e molteplice ad un tempo; esso è opera
dell’intelletto: questo separa nella cosa materia e forma, e attribuendo alla stessa un nome lo imprime
anzitutto sulla forma, garantendolo poi di rimando all’individuo, che è materia e forma.
- Ogni individuo è materia e forma, come è atto e potenza, e di qui si può procedere alla trattazione del
movimento. Se esiste un mosso è perché esiste un movente: il movimento c’è, un movente deve dunque
esserci e deve essere primo. Muovere senza venire mosso: ecco un Atto puro. Ma questo deve applicarsi
necessariamente ad un mobile o ad un mosso che ne sia potenza: il mondo è la potenza dell’Atto puro, e
perciò stesso la sua durata deve essere eterna.
o Il motore non deve fare altro che esistere per muovere (e perciò il mondo esiste ab aeterno). Ciascuna
sfera desidera il pensiero dell’intelligenza che la muove, e dunque è necessario che sia dotata di un
intelletto, ed anche di un desiderio intellettuale.
o Tutti i motori muovono le sfere per desiderio: essi sono tanto causa efficiente, quanto causa finale
del moto delle sfere.
o Le sfere debbono disporsi gerarchicamente a seconda della rapidità e della tipologia del movimento:
i loro motori debbono dunque ugualmente disporsi in gerarchia. Si arriverà così ad un principio
primo, motore separato e non mosso. La gerarchia è poi determinata da un principio assolutamente
primo che determina la gradazione: “nel genere dei principi deve esserci un termine primo in rapporto
al quale si misura il grado in cui ciascuno d’essi è principio” (p. 417).
“Conosci te stesso e conoscerai il tuo creatore”: è questo l’insegnamento del profeta che deve essere messo all’opera.
- Esaminando l’intelletto e la sua relazione con l’intelligibile, si può comprendere la relazione che intercorre
tra l’Intelligenza preposta alle sfere e le (trentotto) intelligenze motrici delle stesse.
o In ciascuna intelligenza, vi è un intelligente ed un intelletto: i termini della relazione sono dati
assieme, né si può presumere di separarli nell’atto intellettivo. Un’intelligenza, dunque, conoscendo
e conoscendosi conosce un effetto (il conosciuto) e una causa (il conoscente o l’atto conoscitivo).
o Dio, conoscendo sé stesso, conosce il sé stesso come realtà del mondo, e sé stesso come principio
conoscitivo di sé medesimo: Dio non conosce le cose, ma le comprende in sé ad un livello più
perfetto.
Le intelligenze motrici sono capaci di vita e di felicità: tutte ne partecipano perché la prima le rende partecipi. Le
intelligenze discendono fino alla sfera della Luna, che è la sfera in cui si colloca l’intelligenza agente, entro la quale
esistono le forme che l’intelletto passivo (che non è il “potenziale” avicenniano) può assumere. Del resto, tali forme
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acquisiscono anche la perfezione dell’esistenza materiale, la quale, per quanto inferiore, resta sempre una perfezione.
L’anima dell’uomo è una di tali forme, che può ricongiungersi con il desiderio e la conoscenza alla sua causa prima:
occorre che l’intelletto agente rischiari ed illumini la passività dell’intelletto umano, il quale però è perituro.
- L’intelletto passivo, al contatto con l’intelligenza agente diviene un intelletto materiale, che è ricettività
dell’intelligibile in qualità di intelletto rischiarato.
- L’intelletto materiale è dunque anch’esso uno per tutti gli uomini, ma non è, come l’intelletto agente, una
sostanza separata: esso è un intelletto illuminato, ed è uno per tutti, come una per tutti i corpi è la luce che li
illumina.
La filosofia ebraica ha il suo iniziatore in un compilatore di scarso livello, Ishaq al-Israili, degno di nota più per la
sua fervida e produttiva (quanto frettolosa e disordinata) curiosità che per il suo genio filosofico. Suo continuatore è
Sa‘adyah ben Yosef di Fayum, che si preoccupa di accordare i tratti della scienza con la tradizione religiosa ebraica:
dimostra (a partire anche da argomenti logici, come la contraddittorietà di un infinito tempo trascorso) la creazione
ex nihilo del mondo, combatte per la visione di un Dio incorporeo, dotato di attributi.
Il primo nome significativo, più per la storia degli effetti che ebbe, a dire il vero, che per il talento dell’autore in sé,
è quello di Shelomoh ibn Gebirol, che porta la speculazione ebraica dal Medio Oriente in Spagna.
- Suo è il Fons vitae, che pare passare del tutto ignorato da generazioni di studiosi ebrei e mussulmani, e che
invece risulta tanto ben conosciuto dagli Scolastici di XIII secolo, che lo credono ora cristiano ora islamico.
o Avicebrol stabilisce, nel suo dialogo, un radicale ilomorfismo del creato, ossia il fatto che ciò che è
creato sia interamente composto di materia e forma. Se questo è vero, si è in possesso del più sicuro
metodo di distinzione tra creature e creatore, che invece non è ilomorfico.
o Esiste, in un universo del genere, una materia prima che non è altro che pura potenza o ricettività,
così come una forma prima che è pura attività. Dall’unione della pura attività di forma prima e della
pura ricettività della materia prima nasce l’essenza universale.
- Il carattere della cosmologia di Avicebrol è tipicamente platonico, per quanto aristotelico sia il lessico e la
concettualità su cui fa leva: le forme delle cose si incastrano le une nelle altre, originando le cose per
partecipazione.
- Quanto alla cosmogonia, ibn Gebirol non può ritornare all’ovile ebraico. L’essere è composto di materia e
forma, essenza e volontà, la quale “indica un grande mistero” (p. 424). Si può asserire con serenità che è la
Volontà a fissare le forme del cosmo, e tutto ciò che è, da essa dipende.
o L’universo di Avicebrol è un universo neoplatonico, connotato forse aristotelicamente quanto a
composizione “fisica”, sospeso ad una volontà creatrice che aderisce con precisione alla Scrittura.
Come poteva tutto questo non esercitare un fascino immenso sul pensiero cristiano europeo?
Anche presso gli Ebrei, il rigoglio filosofico e la faziosità cui esso diede luogo non poté non essere considerata un
pernicioso fattore di sedizione e di sovversione: si produsse un movimento di “fondamentalismo” religioso come
reazione avversa alla speculazione razional-filosofica. Nell’ebraismo, questo si unisce ad un tradizionale
nazionalismo (che fin da Isaia giustapponeva saldandole fede ed appartenenza alla Nazione).
Il nome più influente e significativo della filosofia ebraica è però quello di Moseh ben Majmon, morto già nel XIII
secolo (1204).
- La sua Guida dei perplessi è una vera “summa di teologia scolastica ebraica” (p. 426): la questione è
semplice, ma pressante. Come conciliare le conclusioni delle scienze con la lettera della Scrittura?
- La soluzione che Maimonide suggerisce è aristotelica in pieno.
o La scienza della legge e la filosofia sono due conoscenze distinte, ma armoniche (in senso descrittivo
e prescrittivo: lo sono e debbono esserlo).
o Alla filosofia spetta il compito di difendersi da sé medesima: instaurare un sano scetticismo
filosofico, onde far emergere la capacità resolutiva della fede. Se è indecidibile la questione circa la
creazione del mondo, e se è razionalmente accettabile la creazione, perché non credervi?
- Le intelligenze sono incorporee (chiaro attacco all’ilomorfismo di Avicebrol), e l’intelletto potenziale
dell’uomo si salva solo ascendendo all’intelletto agente: quanto più ascende, tanto più si salva.
- L’esistenza di Dio è provata al livello della necessità dell’ammissione di un primo motore per tutto ciò che
è mosso.
o Dio è la causa prima del cosmo, e di tutto ciò che è, e perciò noi di lui possiamo soltanto dire quel
che non è. La sua essenza ci è preclusa per principio (genetico, verrebbe da dire), ma i suoi effetti ci
sono manifesti: Dio è causa efficiente del mondo, e finale.
Quello che più di tutto il Medioevo cristiano erediterà da Maimonide (e si pensa a Tommaso come a Duns Scoto) è
il sano scetticismo volto all’incapacità costitutiva della filosofia di decidere sulle questioni capitali. L’inizio del
mondo, o il monoteismo possono così essere serenamente ammessi per fede senza compromettere la razionalità.
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VII. L’influenza greco-araba nel XIII secolo e la fondazione delle Università

L’influenza greco-araba
Il fatto culturalmente più rilevante per la storia delle idee tra XII e XIII secolo consistette nell’introduzione delle
filosofie arabe entro il panorama occidentale e nella traduzione delle opere di Aristotele.
- Le traduzioni si scandirono secondo una sempre maggiore efficientazione delle stesse: si procedette dapprima
a tradurre parola per parola da una sorta di ibridazione tra testo arabo e volgare intelligibile ai letterati
europei; poi, gradualmente le cose andarono migliorando.
- Le traduzioni toledane furono particolarmente significative: operavano direttamente sul testo arabo, senza
passare per un’interposizione del volgare.
Fu introdotto, accanto alle filosofie arabe e ad Aristotele, un trattato destinato ad una fortuna immensa, ossia il Liber
de causis. Si tratta di un’opera che elenca trentadue proposizioni, tratte da Proclo, sprovviste di un piano sistematico,
e volte ad esporre l’ordine causale del mondo.
- Tutto il mondo dipende da una Prima causa, anteriore all’essere, che è Bene per essenza perché è feconda.
- Il primo causato è l’essere; o meglio, “l’essere non compare che con il primo causato” (p. 433). Si tratta di
un’intelligenza pura: in esso sono presenti tutte le forme intelligibili.
- L’intelligenza prima crea l’anima, piena di forme come la prima intelligenza, cui è capace di ricongiungersi
mediante l’intellezione: tutto ciò che è dipende dall’Uno, in virtù della sua potenza creatrice, e ne dipende
perché l’Uno è causa di tutto ciò che è.
A recepire l’impatto di questo aristotelismo platoneggiante sarà per primo Gundissalino, gran traduttore di opere
dall’arabo, e documento vivo dell’impatto che le filosofie orientali ebbero su quella cristiana.
- I cristiani scoprivano nelle opere islamiche un mondo “ad un tempo nuovo e familiare. Essi non ne avevano
previsto la struttura, ma ne possedevano la chiave” (p. 434).
- Esiste un vero e proprio “complesso teologico” (ibidem), per cui vi è una confluenza verso tesi teologiche
fondamentali di correnti eterogenee e distanti tra di loro: Gundissalino è un esempio.
o L’idea è che esistono, nel Medioevo, delle posizioni che celano in realtà dei “complessi”, ossia una
stratificazione culturale (sovente sincretica) che dà origine ad un sensus communis in un dato ambito.
o Il complesso teologico cui Gundissalino aderisce è quell’aristotelismo neoplatonizzato tipico del
Cristianesimo post-XII secolo.
o “Vediamo infatti comparire verso l’ultimo terzo del XII secolo delle opere curiose in cui la dottrina
di Avicenna si combina con tutti i platonismi già noti” (p. 436).
“Con qualunque nome lo si voglia designare [si è appena svolta una considerazione sull’appropriatezza dell’indicare
questo come un periodo di “avicennismo latino”, n.d.c.], rimane il fatto: il pensiero cristiano, dapprima, si è piegato
sotto la spinta araba: smarrita in questo contesto filosofico, la dottrina della creazione sparisce sotto la metafisica
lussureggiante delle ‹‹processioni del mondo›› a partire da Dio” (p. 437).
La destabilizzazione dell’antico nucleo, ben affermato, di verità cristiane, così come la loro ibridazione con filosofie
nate in ambienti differenti, portò in breve alla nascita di movimenti decisamente scollegati dalla tradizione.
- Almarico di Béne: probabilmente panteista, fu accusato di sostenere la dottrina di Eriugena, il quale fu
accusato di panteismo. L’accusa dipendeva dalla contingenza politica: Catari ed Albigesi minacciavano di
raggiungere le masse con la loro predicazione, e perciò si decise di impedire il riferimento a dottrine che
parevano in qualche senso unificarli.
- Davide di Dinant: anch’egli si richiamava al metodo di divisione della natura (si ricordi il titolo dell’opera
di Eriugena). Anch’egli pare finire per sostenere una sorta di panteismo.
o “Quello che di nuovo c’è nella dottrina di Davide consisterebbe piuttosto in questo, che invece di
unificare tutto con l’essere divino, sembra che egli unifichi tutto, compreso Dio stesso, con l’essere”
(p. 440).
o Oltre i corpi, oltre le forme che sono di pertinenza dell’intelletto, vi è una materia pura, che è anche
potenza pura, e dunque Dio. La materia antistante le categorie è Dio, e perciò è possibile parlare,
come vuole Dionigi, di Dio come di “non-essere”.
Vi è un trattato di un anonimo cristiano, patentemente influenzato da Avicenna, che parla dei dieci gradi di felicità e
dei dieci di miseria cui sono destinate le anime dopo la morte. Questi gradi di felicità e di miseria furono conosciuti
da uomini illuminati da Dio, come Mosè, Maometto e Cristo.
Nel frattempo, a Parigi andava costituendosi la maggiore e la più grande istituzione di studi sul continente:
l’Università. Qui comincerà la filosofia scolastica, ossia il grande sforzo dei cristiani atto ad incanalare, o ad
irregimentare in qualunque senso e modo l’onda scomposta delle nuove filosofie.

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- La prima reazione dell’autorità dottrinale, la Chiesa, è piuttosto violenta: viene proibito, ad ogni livello ed
in ogni scuola della città, l’insegnamento della filosofia di Aristotele.
- La condanna non si attua su tutto il suolo francese: a Tolosa è sempre possibile proseguire lo studio delle
opere del fisicissimo, gran motivo di vanto per la città.
- Per di più, la filosofia di Aristotele costituiva un bene di tal fatta per gli intellettuali dell’epoca che nessuno
vi rinunciava volentieri: di fatto era l’unico sistema di fisica allora conosciuto.
o Nel 1231, Gregorio IX torna a proibire l’insegnamento delle opere di Aristotele, ma solo fino a che
non fosse intervenuta la censura.
Ormai Aristotele era stato conosciuto: Guglielmo di Moerbeke, che Tommaso conobbe intimamente, portò a termine
una serie di traduzioni direttamente dal testo greco. Francescani e Domenicani, i due nuovi ordini religiosi di XIII
secolo, ormai contribuivano sempre di più all’interpretazione in senso cristiano del filosofo; i divieti di diffondere la
sua dottrina restarono, di fatto, inoperanti. Da Aristotele nascono di fatto tutte le novità che caratterizzarono il XIII
secolo, il quale conobbe una profonda rinascita degli studi di scienza naturale, come testimonia il caso di Ruggiero
Bacone, e, in generale, dell’università di Oxford.
La fondazione delle Università
Partiamo da delle definizioni utili a comprendere l’effettiva portata dell’utilizzo dei termini.
- Universitas non designa un luogo che raccoglie una o più facoltà in uno stesso edificio. Si tratta tutt’al più
dell’insieme delle persone (maestri, professori ed allievi) che afferiscono ai più disparati livelli alla vita
culturale e d’insegnamento della città.
- Lo studium generale era il luogo aperto agli studenti dalle origini più disparate. Designava in particolare le
scuole aperte dagli ordini religiosi.
- Lo studium particulare era invece la scuola di provincia, di partecipazione più ristretta.
Bologna fu la prima Universitas a venire costituita in senso “moderno”: fu organizzato un insieme di facoltà e di
cattedre entro un edificio destinato all’insegnamento di svariati ambiti disciplinari. La vera fioritura
dell’insegnamento universitario nel XIII secolo fu però l’Università di Parigi.
- L’ambiente scolastico preesistente era estremamente vitale: sin dal XII secolo scuole come quella di
Abelardo o di San Vittore richiamavano da tutta Europa un impareggiabile numero di studenti.
- Una sì gran mole di cultura interessò presto le due autorità competenti del tempo, ossia il papa ed il re di
Francia.
o I re di Francia erano orgogliosi del buon nome dell’università e della città parigine, tanto più che gli
studenti che circolavano in tutta Europa provvedevano a diffondere il buon nome delle istituzioni sul
continente. Perché questa convinzione fosse duratura, occorreva “assicurare la tranquillità degli
studi” (p. 448).
- Per quanto concerne il papa, il discorso è più complicato. Il papa era considerato (ed invero si considerava)
il vero fondatore dell’Università di Parigi. Innocenzo III e Gregorio IX furono in effetti rispettivamente il
fondatore e il maggior promotore dell’istituzione nella cristianità.
o L’Università di Parigi, nel XIII secolo, è lacerata da una tensione abbastanza profonda: da un lato vi
era chi cercava di fare del centro un luogo di studi disinteressati e “scientifici”; dall’altro la fazione
di chi cercava di assoggettare la scientificità degli studi ad una “teocrazia intellettuale” (p. 449).
L’insegnamento del diritto e della filosofia mette bene in luce la differenza nell’atteggiamento di coloro i quali
desideravano per l’università la creazione di un libero centro di ricerca, e di coloro i quali invece intendevano servirsi
della cultura ivi prodotta onde sostenere una sorta di teocrazia.
- Con la scoperta di Aristotele, le arti del trivio, ed in particolare la dialettica, acquisiscono una rilevanza tutta
nuova. Nel XII secolo, maestri estremamente successosi come Abelardo, pur possedendo uno strumento tanto
utile come la dialettica, faticavano a servirsene, perché l’unico campo di applicazione ragionevole era la
teologia, per principio sottratta ad ogni possibilità di dialettizzazione.
- Dopo Aristotele “i maestri delle arti non hanno più da insegnare soltanto un metodo logico e formale, essi
hanno da trasmettere anche delle conoscenze positive e da insegnare delle scienze che possiedono un
contenuto reale” (p. 450).
Se da un lato dunque, specie in chi era coinvolto in studi di filosofia, si combatteva per un’emancipazione della
materia da un controllo troppo oppressivo, dall’altro, nel settore della teologia, l’atteggiamento era in parte differente.
- Anche la facoltà di teologia fu scossa sin dalle fondamenta: fu in un confronto polemico con la tradizione
(dovuto anche qui alla riscoperta di Aristotele) che emerse una consapevolezza nuova.
- L’insegnamento stesso della teologia implicava la dipendenza dell’Università da una giurisdizione più alta,
ossia quella che faceva capo al papa.

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L’Università, non dimentichiamolo, fu voluta da Innocenzo III, perché fosse una “maestra di verità” (p. 451).
L’Università non era un’istituzione culturale, ma la sua stessa posizione indicava una verità di tipo differente: il suo
rilievo era ecclesiastico, essa era una luce per tutta la Chiesa, era un’Università cristiana.
- Fu Innocenzo III a dotare l’Università di Parigi dei suoi statuti, i quali le fornivano la possibilità di esercitare
di fatto una docenza degna di questo nome.
- Fu Innocenzo III a fondare l’Università come tale, fu dunque lui a dotarla di regole che le impedissero di
dedicarsi all’errore.
o Si impedì l’insegnamento delle opere di Aristotele, con particolare riguardo a quelle fisiche e
metafisiche (1215)
o Gregorio IX, che condivise più di un’idea di Innocenzo III, combatté sovente per introdurre negli
ordini mendicanti studi di carattere scientifico, onde poi affidare loro la docenza in Università,
consapevole dell’asservimento del sapere “filosofico” alla teologia per opera loro.
o “Nec philosophos se ostendent”: così dovevano comportarsi i maestri delle arti liberali.
L’indicazione era quella di indagare solo i problemi che si paravano loro dinnanzi lungo la via
“patristica” di interrogazione.
Nel XIII secolo, oltre a quella di Parigi, anche l’Università di Oxford fu fondata e vide arriderle una sorte
particolarmente propizia.
- Oxford fu fondata allorché, per questioni politiche, il flusso di studenti provenienti dall’Inghilterra e diretti
in Francia si interruppe.
- La sua era una “prigonia dorata” che di fatto prevenne un’eccessiva intromissione nelle questioni dottrinali
da parte delle autorità competenti, cosa che invece avvenne, come si è visto, a Parigi.
Di ispirazione tipicamente agostiniana, Oxford resistette come tale proprio perché fondamentalmente estranea alla
sfera d’interesse dei papi. Ciò non tolse che vi si sviluppasse tutta una corrente di studi molto originale, ed improntata
specificamente alla matematica ed alla fisica. “Oxford si interessava soprattutto dell’elemento empirico
dell’aristotelismo e fece passare il metafisico dopo lo scienziato” (p. 455).
L’esilio delle Belle Lettere
La Francia, lo si ricordi, si era concepita sin dall’arrivo di Alcuino, come la legittima erede del modello di cultura
classica. Un’eredità ben più profonda della mera legittimazione politica del suo dominio sul continente la legava a
Roma: era l’idea di una comune discendenza dal popolo troiano a garantire una parentela di fatto tra i due popoli.
Uno dei modelli culturali che la Francia trasse direttamente da Roma fu quello dell’eloquentia.
- Giovanni di Salisbury recupera un modello di eloquentia tipicamente ciceroniano: eloquentia e sapientia
sono appaiate e la prima nasce dal buon incontro tra conoscenza razionale e parola.
o Nel De nuptiis Mercurii et Philologiae Marciano Capella precisava esattamente questo punto:
l’eloquenza (Mercurio) senza la sapienza, ossia l’amore per essa (Filologia), è vana.
Verso il XIII secolo, si verificò una profonda crisi: la grammatica smise di essere insegnata sull’esempio degli
antichi, e la si cominciò a collocare nel dominio della logica, dove Aristotele schiudeva possibilità sempre nuove.
L’unico interesse che la grammatica rivestiva era quello di dotare di un’effettiva significazione il latino scolastico
con cui erano insegnate la teologia e la filosofia.
- Ruggiero Bacone reagì con disappunto alla novità introdotta in ambito grammaticale: non fosse altro che per
leggere gli antichi, la grammatica va insegnata sulle loro parole.
o La logica, penetrando in tutti gli ambiti del sapere, matematica e grammatica incluse, sta corrodendo
la sana tradizione dei classici.
o La classicità è buona, ed è importante studiarla, perché il Verbo si è rivelato universalmente, per
Bacone. Socrate e Platone hanno proferito verità cristiane: era necessario che così avvenisse, perché
la pienezza della realizzazione in Cristo trovasse terreno fertile.
Nel XIII secolo, grande importanza, a livello culturale, riveste la produzione “enciclopedica”: Vincenzo di Beauvais
compose il suo Speculum mundi, vera e propria summa dottrinale del suo tempo. “Si tratta […] della sopravvivenza
di un genere legato alla necessità dell’esegesi biblica e della predicazione religiosa. Opere di questo genere
rimanevano estranee al normale corso degli studi universitari quali li ha concepiti il XIII secolo” (p. 460).
“Quanto alle Belle Lettere propriamente dette, esse scompaiono quasi completamente dall’Università di Parigi” (p.
461). Non si leggevano più gli autori classici.
- Il latino restava la lingua ufficiale, perciò un minimo di studi di grammatica doveva essere garantito. Ma
questo minimo era davvero di poco conto: un latino scolastico sprovvisto di interesse letterario era l’orizzonte
in cui veniva assorbito.
- Occorreva cominciare al più presto con la logica: la grammatica sugli autori antichi era un insegnamento
desueto e sprovvisto di interesse alcuno.
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o Nascono dei componimenti in versi atti allo studio della grammatica: un insegnamento meccanizzato
e poco profondo, che in nulla poteva essere paragonato ad una reale docenza della materia.
La grammatica fu gradualmente trasformata in una ricerca speculativa: dall’apprendimento delle lettere dei poeti e
della loro lingua, si passò allo studio della grammatica come una disciplina speculativa, logica, per l’appunto. Non
si leggevano più i classici, per dirimere questioni di linguaggio, ma ci si affidava alle sole risorse della logica.
- La grammatica, com’era insegnata fino al XII secolo, si fondava sull’assunto che si dovesse garantire la
massima correttezza nel linguaggio, laddove esistevano modelli formali di rigore stilistico. Perciò ci si
affidava alle auctoritates, ossia i poetae.
- Dal XIII secolo, la grammatica assunse il rilievo di una disciplina logica, là dove le regole possono essere
tratte dal ragionamento in astratto e non dall’uso concreto della lingua.
Nacque così la grammatica speculativa, che presto si rese conto che, accanto ai problemi contingenti di ogni specifica
lingua, esistevano questioni inerenti alla sfera linguistica come tale.
- Tutte le lingue esprimono, in un modo specifico e particolare, le generalità di un solo spirito umano. Le
questioni legate ad esso sono di rilievo e diffusione ben maggiore rispetto alle problematiche particolari
connesse ad una lingua.
- Ruggiero Bacone confermerà il fatto che “la grammatica è sostanzialmente una in tutte le lingue”.
o Una grammatica universale, che si fa carico dei problemi generali del linguaggio: lo studio delle
Belle Lettere, in tutto ciò, semplicemente non rientra.
La grammatica speculativa (è proprio questo del resto il titolo di un’opera di Tommaso di Erfurt, a lungo confuso
con Duns Scoto) studia le parti del discorso come modi della significazione, ossia come capacità espressive
dell’essere e del pensiero. Una grammatica come questa era poi ben accetta all’ambiente cristiano, perché di fatto
cessava di riferirsi alle antichità pagane, verso le quali il sospetto continuava a regnare.
- La logica ebbe la più grande responsabilità nella decadenza degli studi delle Belle Lettere.
- Penetrando nell’ambito delle arti liberali del quadrivio, provocò un improvviso raffreddamento
dell’entusiasmo per gli studi, cosa che si ripercosse in breve sulla filosofia.
Quando Aristotele si diffuse fra gli studenti, la teologia seppe fare di necessità virtù: si mise alla testa della filosofia,
chiedendole il supporto destinato a schiacciare l’invadenza della logica grazie all’eloquentia e alla dialettica. Resta
il fatto che la nuova teologia era la teologia scolastica, nutrita di Aristotele e iniziata con la logica: nessuna traccia
dell’antico amore per le Belle Lettere.
Esistono delle voci di reazione.
- Giovanni di Garlande descrive il lungo percorso della scienza dall’antichità agli Egiziani ed ai Greci, poi ai
Romani, fino alla Francia, dove le muse erano silenziose e sbigottite. La moda del lucro spegneva
l’entusiasmo per la filosofia e le arti liberali versavano ormai in una crisi senza precedenti.
- Enrico di Andelys nella Bataille de sept arts narra di una fantasiosa battaglia tra le armate di Parigi e quelle
di Orleans. Ad Orleans capeggia le schiere Grammatica, a Parigi Logica. Raccolte le schiere dei poeti ad
Orleans (sarebbe interessantissimo approfondire il fatto che agli occhi di Enrico, non esiste partizione di
sorta nella letteratura latina tra antichità e Medioevo), Grammatica e Logica attaccano battaglia.
o Enrico di Andelys non difende le sette arti liberali nel loro complesso: esistono delle arti “traditrici”
che cambiano schieramento, ma egli è fermamente convinto della necessità e dell’opportunità dello
studio degli antichi autori.
o Al termine della battaglia, Grammatica è vinta, e si ritira tra Orleans e Blois.

VIII. La filosofia nel secolo XIII

Il secolo XIII fu il secolo della scolastica: quel movimento che così venne denominato tra XVI e XVII secolo, e che
venne dipinto come un blocco monolitico di posizioni articolate e ben connesse tra di loro non fu in realtà tale, per
lo meno in questo periodo. L’origine del movimento scolastico fu la lettura, approfondita e profondamente
ermeneutica di Aristotele: “nella misura in cui la filosofia del XIII secolo fu qualcosa di diverso da una semplice
esegesi di Aristotele, essa ne fu la reinterpretazione da parte dei cristiani” (p. 474).
Nel 1228, papa Gregorio IX aveva fatto esplicito divieto ai teologi di insegnare alcunché che fosse mescolato con
la “mundana scientia”: era tardi ormai, perché la via della cultura era la via della filosofia. Il primo nome che
incontriamo, in questo movimentato, e segretamente fratturato XIII secolo è quello di Guglielmo d’Auvergne.
- Guglielmo, più che un precursore del secolo XIII fu un continuatore del XII, interessato come fu a reagire
all’aristotelismo arabizzato che spopolava allora tra i docenti di filosofia.
- L’idea portante del pensiero teologico di Guglielmo è che non si possono confutare idee che non si
conoscono: misurarsi con la filosofia ha il compito di emendarla.
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- Guglielmo ben comprende l’importanza di Avicenna, e in modo particolare della sua distinzione tra essenza
ed esistenza.
o Esse designa la sostanza o l’essenza della cosa, spogliata dei suoi accidenti: la substantia equivale
alla quidditas, ossia a ciò per cui una cosa è ciò che è.
o Esse, però, designa anche l’esistenza di una cosa qualunque, estranea alla definizione sostanziale.
Sola eccezione è quella di Dio, in cui esse come quidditas ed esse come esistenziale coincidono.
- In Guglielmo d’Auvergne, ogni essere è tale da essere sé stesso in virtù della sua essenza; l’esistenza può
essergli conferita da sé stesso o da altro. Quindi, o gli esseri sono infiniti, dandosi lungo una catena senza
origine l’essere; o gli esseri sono disposti circolarmente (e si danno vicendevolmente l’essere) – ambedue
ipotesi contrarie alla ragione – oppure si deve ammettere un esse la cui quidditas è l’esistere, che è Dio.
- Dio non ha quidditas: non è definibile un’essenza di Dio e il suo unico nome è quello di Esodo, III, 13-14.
Per Guglielmo, essenza ed esistenza, nel creato, si distinguono realmente, e non si tratta di una distinzione di materia
e di forma, ma di due livelli distinti di realtà. L’esistenza diviene così un accidente, perché nulla è atto a giustificarla.
- Se l’esse si predica dell’essenza come distinta da un’esistenza di cui l’est esprime la mera attualità di fatto,
è chiaro che nulla indica una coincidenza tra una forma ed una materia in un ente qualsiasi del creato.
o L’essenza è dunque il quod est, laddove l’esistenza è il quo est di tale quod est.
- Dio dunque è l’esistenza in virtù della quale le cose sono, e, per quanto le essenze partecipino dell’esistenza
di Dio, esse rimangono radicalmente separate da Lui. In riferimento alle cose, agli entia creata, Dio è l’esse
quo sunt, non autem quod sunt.
In realtà, “la tecnica di Guglielmo d’Auvergne qui è nettamente in ritardo su di un’intuizione profonda ch’essa
tradisce anche nel suo sforzo per esprimerla” (p. 480). Guglielmo è catturato dall’esistenza e dalla sua gratuità,
ammaliato, e perciò l’esistenza vale molto più dell’essenza, per quanto la sua tecnica filosofica lo porti a dire il
contrario. La creatura è ontologicamente povera, e questa pare essere la stupefacente verità di Guglielmo.
- Questo implica una svalutazione del necessitarismo avicenniano, giacché Dio deve poter restare libero.
o È in virtù dell’argomento avicenniano dell’immutabilità di Dio (per cui nell’arabo si giungeva alla
sanzione dell’eternità del mondo) che Guglielmo giunge alla contingenza del creato: Dio resta
immutabile, che le cose esistano o meno; perciò nulla impedisce che giungano ad essere.
- Le creature sono dunque investite dell’essere come di un dono, e così lo sono anche dell’operare. La
sovrabbondanza di Dio incarica le creature di efficacia, e solo Dio è autenticamente efficace in questo senso.
Altra svalutazione di Avicenna: l’anima umana deve poter dipendere da Dio direttamente, avere con lui la più stretta
unione (anche d’esistenza). Perciò non si possono dare degli intermediari, nessun’intelligenza motrice interposta.
- L’anima è un tutto unico, dove le operazioni discendono direttamente dall’essenza: non esistono facoltà.
- Se l’anima è un’unità essenziale, non può possedere due intelletti distinti, uno attuale e l’altro potenziale o
possibile. I principi non devono essere resi intellegibili dall’intelletto agente, perché lo sono per natura, come
la luce per natura è visibile alla vista.
La distinzione di essenza ed esistenza porta Guglielmo a dover cercare una causa realmente esistente per la presenza
degli universali, e questa non può, molto semplicemente, essere altro che l’oggetto individuale su cui si attua un
procedimento specifico, che è quello dell’astrazione.
- Il primo livello è quello della percezione sensibile, che lascia nell’organo sensoriale impressioni
rigorosamente individuanti dell’oggetto. Di qui si passa all’immaginazione, in cui l’oggetto stesso è impresso
con poca nettezza, e lascia sussistere solo un’immagine flebile di sé medesimo.
- L’anima razionale, secondo Aristotele ed Avicenna, con l’intelletto agente, sarebbe alla radice
dell’operazione astrattiva, ma per Guglielmo ciò è falso.
o L’anima umana è posta a cavallo tra il sensibile e il Creatore, e vede in esso lo specchio di tutti gli
intellegibili, delle regole prime dei sensibili che scorge nel mondo. L’intelletto umano è connesso
allo specchio che Dio è quanto mai strettamente (donde la necessità di eliminare gli intermediari
avicenniani) e perciò conosce princìpi e regole.
o Tali regole e tali princìpi possono essere raggiunti solo mediante la grazia che Dio ci fa della loro
effettiva intellegibilità.
Tutto questo implica la concezione di un universo pieno di specie intellegibili, ossia di specie che sostanziano l’essere
come realmente esistenti. Tutto questo equivale ad un recupero dell’agostinismo platonizzante contro Aristotele. Dei
sensi occorre fidarsi, e così si giunge a stabilire che sensibile c’è; analogamente, però, occorre fidarsi dell’intelletto
e così si stabilisce che intellegibile c’è.
Il Memoriale rerum difficilium è un’altra opera di area francese. L’autore è con tutta probabilità un certo Adamus
pulcherrimae mulieris, e l’opera può considerarsi un’antecedente della futura “metafisica della luce”. Per Adamo
un’Intelligenza prima è causa dell’intellegibilità tanto quanto dell’esistenza degli esseri, nella loro attualità. E questo
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essere primo è da Adamo detto “luce”. Tutto ciò che esiste è dunque luce, ed essa è forma attuale, o perfezione, di
ciò che esiste. Una forma che, perfetta, è naturalmente auto-diffusiva (oltre che automanifestativa). Si capisce bene
il ruolo qui giocato dal platonismo di Agostino: una luce che contiene, o illumina esistendoli, gli intellegibili dotati
così di una realtà propria, che anzi, è la realtà stessa (in Guglielmo d’Auvergne, il quod est è l’essenza). E laddove
gli studi agostiniani erano prevalenti, ossia nell’ordine francescano, lo erano anche quelli di ottica, scienza della luce,
di nuovo in voga grazie alla scienza araba. Ecco donde i temi del De luce di Bartolomeo di Bologna.
- Per quanto dotata di una discreta “sensibilità scientifica”, l’opera di Bartolomeo, come quella di Ruggero
Bacone, non sarà mai irriguardosa nei confronti della Scrittura. Questa è la Verità, e tale resta.
- La luce, nei trattati di ottica, è studiata come lux (fonte illuminatrice), radius (illuminazione radiale), lumen
(illuminazione “sferica”) o splendor (riflessione o rifrazione). Dio, guarda caso, si dà proprio il nome di lux
nella scrittura; come nell’ottica esistono sette differenti modalità “empiriche” di partecipazione dei corpi alla
luce, così nella gerarchia ontologica esistono sette differenti partecipazioni di Dio.
Enrico di Gand è un’eccezione nel panorama filosofico del tempo: egli è uno dei pochi maestri secolari in un cosmo
dominato da Francescani e Domenicani.
- L’essere si offre all’intendimento primo dell’uomo, insieme alla res e alla necessitas suoi contrassegni.
- “Si capisce immediatamente che il possibile non si capisce che per il necessario, che è il Primo. Enrico di
Gand parte a sua volta dalla nozione di essere, ma poiché egli intende evitare il necessitarismo greco da cui
s’ispira Avicenna, egli piega sin dall’inizio l’ontologia del filosofo arabo in un senso cristiano. Invece di
distinguere l’essere in necessario e possibile, egli lo distingue analogicamente […] in ‹‹qualcosa che è
l’essere stesso›› e ‹‹ciò che è qualcosa a cui l’essere conviene o può naturalmente convenire››” (p. 491).
Se Dio è l’essere, e l’essere si presenta con il contrassegno di res, è chiaro che una prova dell’esistenza di Dio si
fonderà sul sensibile. Conviene però, per quanto resti possibile cominciare dal sensibile, dare inizio alla
dimostrazione dall’intellegibile.
- L’essere è ciò la cui essenza implica l’esistenza, ed è in virtù di questo fatto che questo può esser detto il
Bene od il Vero.
- Tale essere è ciò che è l’essere, mentre ciò cui l’essere conviene o può naturalmente convenire non è altro
che l’essere che rientra nelle categorie.
- Esse è sì adoperato per ambedue i significati, ma non si può considerare valido allo stesso tempo, e sotto il
medesimo rapporto, per ambedue i significati.
o Esse è sì una nozione anteriore a quella di Dio stesso, ma non prioritaria. Questo significa che sin
dall’origine è posto con chiarezza un taglio ontologico che separa essere di Dio ed essere della
creatura.
L’essere, per Enrico di Gand si deve poter distinguere dunque in essere per sé ed in essere contingente o possibile.
- Partendo da questa distinzione, la via che si presenta patente è quella delle idee divine. Dio è l’essere per sé,
che conoscendo le sue stesse idee, com’esse sono fissate in Dio, conosce tutto il creabile. Da ultimo, siccome
il creabile, in quanto oggetto di conoscenza, è differente da Dio, questi lo conosce nel suo essere. Questo
essere è l’essenza della creatura, che è un’idea. Alcuni rilievi.
o Innanzitutto, Enrico vuole evidentemente evitare la coeternità delle idee con Dio (tesi che pare
implicata dalla conoscenza che Dio ha delle idee, come fossero “preformate). Per fare ciò postula un
essere delle idee non sussistente di per sé, ma “esse non hanno altro essere reale che l’essere di Dio”
(p. 492).
o L’essenza ideale della creatura non è un essere in più rispetto a Dio, ma è da esso distinto in quanto
oggetto di conoscenza. L’essere della creatura è l’essere dell’essenza come essenza.
L’essere dell’essenza è un essere cui Dio acconsente liberamente, operando quel che si chiamerà creazione. Tale
esse essentiae non è però da Dio conosciuto anteriormente rispetto alla creazione stessa, ossia alla volontà con cui è
posto nella realitas, perciò essere ed essenza non possono essere realmente distinti. Dio resta il libero datore di
esistenza, ma questa non è distinta dall’esse essentiae. Ogni creatura è così fissata identica a sé medesima.
L’uomo è l’unione di un corpo con un’anima razionale, che non è forma del corpo: esiste una forma del corpo ed
esiste una forma del composto umano
- Esiste un processo di astrazione che, partendo dal sensibile, mette capo all’essenza della cosa, ma non è
questa la conoscenza autentica. Questa infatti si può dare solo mediante l’aiuto della grazia, laddove occorre
partire dalla nozione prima di essere, anziché dal sensibile, perché si costituisca stabilmente.
o L’Intelletto agente avicenniano (uno e separato) è identificato con il Dio illuminatore di Agostino.
Da Alessandro di Hales a Raimondo Lullo
Ad Alessandro di Hales è attribuita una Summa che è ragionevolmente frutto di una compilazione da parte di un
buon numero di autori differenti. Il suo agostinismo fu particolarmente rilevante, perché Alessandro era francescano
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professore all’Università di Parigi, da sempre piuttosto chiusa all’influenza dell’agostinismo (e dei Frati Minori). Il
successore di Alessandro fu Giovanni de la Rochelle.
- In una Summa de anima, ci ragguaglia sulle sue posizioni circa un tema allora molto dibattuto, ossia l’unità
dell’anima.
- Guglielmo d’Auvergne aveva identificato l’essenza dell’anima con le sue operazioni, garantendole un’unità
che non ammetteva deroghe; per Giovanni, l’anima è distinta in diverse facoltà.
- Le differenti facoltà dell’anima sono determinate ad agire dai corpi esterni e ineriscono tutte ad uno specifico
senso interno, che forma i “sensibili comuni”, ossia i sensibili che pertengono a più facoltà sensoriali.
- L’intellezione (che non coincide perfettamente con l’astrazione) è il processo di spoliazione della res dalla
sua corporeità, e, così denudata, la cosa può “essere conosciuta come una forma comune predicabile di tutti
gli individui” (p. 501).
- Ogni anima umana ha un intelletto agente distinto dal suo intelletto possibile, ed è in virtù del primo, vis
animae suprema, che si può conoscere tutto ciò che di materiale vi è al di fuori di noi.
o Chiaramente, parlare di un solo lume naturale per l’anima umana, poteva risultare piuttosto scomodo;
ecco perché Giovanni ammette anche delle intelligenze in atto separate dall’intelletto agente umano.
Un vero e proprio protagonista del XIII secolo fu però san Bonaventura da Bagnoregio. Fu contemporaneo di
Tommaso, e ricevette con lui la licenza per la libera docenza all’Università di Parigi.
- L’anima umana tende naturalmente al bene infinito, che ci è rivelato per fede come il Dio cristiano. “Il
filosofo è meno sicuro di ciò che sa di quanto non lo sia il fedele di ciò che crede. E nondimeno è la stessa
fede nella verità rivelata che è l’origine della speculazione filosofica” (p. 504).
- Non è per ragione che si fa atto di fede, ma per amore; amore di un oggetto che è quel bene infinito cui
naturalmente l’anima va tendendo. Di qui nasce la filosofia, perché “niente è più dolce per l’uomo che capire
ciò che ama” (ibidem).
- Tutta la vita, per Bonaventura, si configura come una via verso Dio, dove il fine ci è già dato, nell’amore con
cui noi ci aggrappiamo ad esso (quo modo homo per alias res tendat in Deum), e con cui esso già da sempre
ci è presente. Però occorre amare con forza e con fermezza, e perciò conoscere l’oggetto verso cui siamo
avviati, cioè Dio: filosofia e teologia sono armoniche.
o Dopo il peccato, l’uomo deve compiere un cammino per giungere a Dio, né può più godere della
visione beatifica immediatamente, come invece fu prima che il suo sguardo si volgesse a terra. La
grazia diviene allora preliminare all’indagine filosofica, giacché senza di essa non potremmo sperare
in modo alcuno di sollevare il viso dalla nostra polvere.
Giungiamo a stabilire che non è Dio ad essere vero in rapporto ad altro, ma se mai che tutto è vero in rapporto a Dio.
Questo, semplicemente, sta a significare che “la verità delle cose, paragonata al loro principio, consiste nel
rappresentare, cioè nell’imitare la prima e suprema verità” (p. 506).
- In tutte le cose c’è traccia di Dio, e questa è la ragione per la quale possiamo sperare di giungere fino al
Creatore dell’universo. Al contempo, però, tale rapporto non implica partecipazione delle cose all’essenza
di Dio, giacché tra Creatore e creatura vi è il medesimo rapporto che vige tra segno e significato.
o “Il mondo non ha altra ragione d’essere che quella di esprimere Dio, è un libro che è stato scritto
soltanto per essere letto dall’uomo e per richiamarlo incessantemente all’amore del suo autore”
(ibidem).
Le tappe dell’itinerario verso Dio saranno dunque tre: cercare Dio nelle cose, poi in noi stessi, nel fondo dell’anima,
ed infine introdurci alla gioia mistica della contemplazione e della conoscenza di Dio. Le cose dichiarano Dio, il
firmamento annuncia l’opera sua, ma questo è nulla a paragone di quanto troviamo nell’anima nostra. Qui noi non
troviamo un’ombra, od un’impronta di Dio, ma l’immagine stessa del suo volto.
- In qualunque operazione del nostro intelletto, Dio è coinvolto: noi non possiamo conoscere nulla, nemmeno
il più infimo dei particolari, senza mettere in moto l’idea di perfezione ed assolutezza che è presente in noi.
- Anche discendendo in profondità dentro noi stessi, noi troviamo il volto di Dio. Noi conosciamo l’anima
direttamente, prima di ogni altra cosa, e nel modo più pieno; così anche con Dio: lo conosciamo subito, lo
vediamo all’opera, senza l’aiuto dei sensi esterni. Non vi è bisogno di prove. Dio è manifesto.
o “Se è la presenza di Dio che fonda la conoscenza che di lui abbiamo, è sottinteso che l’idea che noi
abbiamo di Dio ne implica l’esistenza” (p. 508).
Ribadire che Dio è intimamente connesso al nostro pensiero, intimo con questo al punto da risultare evidente prima
di ogni altra evidenza, non significa però che noi conosciamo l’essenza dell’essere divino. Noi siamo certi della sua
presenza, e perciò stesso della sua presenza come Dio (si Deus est Deus, Deus est). La sua essenza resta un mistero.
Qui però, occorre tacere, perché solo la mistica può dove regna il mistero dell’immagine di Dio.

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Guardiamo alla psicologia di Bonaventura: l’anima è una per essenza, ma le sue facoltà sono diversificate. La
conoscenza sensibile diviene un’ibridazione tra la teoria della passione, aristotelica, e quella dell’azione, agostiniana.
- Operando sui dati del sensibile, l’intelletto possibile astrae gli elementi comuni ed universali. Siamo qui di
fronte ad una peculiarità: “l’intelletto possibile non è dunque per sé potenza pura […]; esso è una facoltà
attiva dell’intelletto che prepara le nozioni intellegibili e le accoglie in sé” (p. 510).
- Se è vero che l’operazione è a carico dell’intelletto possibile, è grazie all’intelletto agente che quello diviene
capace di astrarre dal sensibile le forme generali e comuni.
o L’astrazione, del resto, è il processo con cui l’intelletto si volge a quel che esso stesso non è, ossia al
sensibile; infatti, si ricordi, l’intelletto si sostanzia di intellegibile e di Dio stesso.
Quando infatti l’intelletto si volge verso l’anima, vi ritrova, innati, i principi ideali di tutte le scienze, dipendenti da
un ordine superiore di conoscenza che ci rende possibile l’intellezione vera. San Bonaventura starebbe
maldestramente tentando una sintesi tra quel che lui crede essere il pensiero di Aristotele e di Platone: l’anima umana
viene illuminata da Dio, e si rivolge al mondo per conoscerlo.
- Sant’Agostino avrebbe anticipato questa sintesi, parlando entrambi i linguaggi, allorché asserì che l’anima
umana è illuminata da Dio e dalle sue idee.
o Tali idee sono le certezze stabili e necessarie dell’intelletto umano, che né l’uomo, né tanto meno gli
oggetti possono partorire, instabili com’essi sono in ogni momento.
o Nelle idee noi vediamo i modelli ideali del tutto, e perciò possiamo giudicare dell’effettivamente
esistente.
Le idee di Dio sono principi regolatori per la sottomissione del nostro intelletto alle idee generali che rendono stabile
la conoscenza. Ecco perché noi, incarnati, non possiamo raggiungere le idee di Dio, ma solo i principi di conoscenza.
Riguardo l’eternità del mondo, san Bonaventura si attiene alla Scrittura, senza esitazioni. Aristotele ed Averroè
semplicemente sono contraddittori: l’infinito dovrebbe poter aumentare, se il tempo scorre in avanti; assurdo.
Ragione e fede concorrono nel dimostrare che il mondo ha avuto un’origine nel tempo.
Essenza ed esistenza, in san Bonaventura, sono distinte realmente, perché nessuna creatura è ragione sufficiente
della propria esistenza. Del resto, ogni creatura è potenza ed atto, ed è potenza proprio là dove la sua attività è
delimitata dall’atto stesso che è Dio.
- Il principium individuationis è costituito dall’unione di materia e forma, giacché tutto è ciò che è in virtù di
un’unione indissolubile tra questi due elementi.
- Anima e corpo sono entrambi sostanziali: l’anima è già formata come materia e forma quando si incarna in
un corpo che è già formato come materia e forma.
San Bonaventura è un mistico, ed un impianto mistico è quello che regge tutta la sua filosofia, nella sua più completa
semplicità, di cuore e di dottrina. Se però il misticismo di Bernardo era un misticismo di dottrina, in san Bonaventura,
per quanto impoverita o strumentalizzata, pure una dottrina c’è. Numerose sono le fonti filosofiche e le espressioni
cariche di tradizione che si iscrivono nel discorso di san Bonaventura, a vari livelli.
San Bonaventura fu uno dei maggiori rappresentanti, e forse il cespite principale, di un revival dell’agostinismo
caratteristico di numerosi pensatori della Cristianità (“i rappresentanti di questo complesso agostiniano s’incontrano
un po’ ovunque nel XIII secolo, a Parigi, a Oxford, in Italia; gli ambienti universitari, allora, erano comunicanti
poiché, passando dall’uno all’altro, non si usciva dalla cristianità” – p. 516). Matteo d’Acquasparta, difensore
dell’agostinismo bonaventuriano contro Tommaso è un esempio lampante di questa corrente ideologica.
Testimone della crisi dell’agostinismo nel XIII secolo, d’altro canto, fu Pietro di Giovanni Olivi. Fiero assertore
della pluralità gerarchica delle forme, e dell’ilomorfismo dell’anima, sostiene che le sole parti sensitiva e vegetativa
dell’anima possono costituire la forma del corpo, laddove l’anima razionale ed intellettiva non vi è aggiunta che per
interposizione delle due precedenti. L’anima intellettiva, dunque, non è la forma del corpo. È, quest’ultima, la
proposizione condannata nel 1311 al concilio di Vienna. È ascrivibile all’Olivi, forse, la prima formulazione della
dottrina dell’impetus, contraria a quella del moto naturale aristotelico. Allo stesso modo, egli fu sostenitore di una
particolare concezione psicologica che può forse costituire un’importante innovazione: l’anima unica, articolata
secondo varie facoltà, è unitaria in virtù della sua materia, e distinta secondo le sue tre forme. Ecco che all’agire
dell’una, la materia vibra, e trasmette la sua vibrazione alle altre forme, di modo che si spiega la colligantia tipica
delle tre facoltà psicologiche.
- Vie differenti all’agostinismo integrale furono battute, nel medesimo periodo, anche da Pietro di Trabes, che
si fece sostenitore di una posizione assai peculiare: Dio non è la luce dell’intelletto in ogni conoscenza
(perché altrimenti, l’intelletto dovrebbe poter conoscere Dio scientificamente).
- Un altro pensatore molto originale fu Vitale di Four: l’idea portante del suo pensiero consistette nella
sanzione di identità tra essenza ed esistenza nella creatura. Questo non equivale a dire che la creatura
possiede l’esistenza di diritto, ma che l’esistenza non è un’aggiunta ingiustificabile, ottenuta per grazia, e
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perciò assoluta, all’essenza. Di qui deriva che tutta la conoscenza intellettuale si fonda sul singolare esistente,
come tale appreso, e come tale unico ed individuabile in sé medesimo. Oltre alla conoscenza del di fuori,
esiste un agostiniano intuizionismo dell’anima.
In Riccardo di Mediavilla, che essendo inglese prese il nome di Riccardo di Middleton, si vede un pesante cedimento
dell’agostinismo nei confronti del tomismo ormai dilagante.
- Innanzitutto, Riccardo riconobbe un intelletto agente a ciascun’anima razionale, incaricato di astrarre
partendo dall’esperienza sensibile.
- Non esiste nessun’intuizione diretta dell’anima di sé stessa, né la luce divina si distingue dal lume naturale
di ogni uomo.
- In metafisica, Riccardo resterà più fedele al platonismo tipico di Agostino: essenza ed esistenza non si
distinguono che per ragione; esiste un primato del bene sulla verità e sulla struttura dell’ente.
- La vera innovazione di Riccardo fu però in ambito fisico, dove la sua concezione di un Dio infinitamente
potente lo allontanò dalla teoria classica di un universo chiuso e definito.
o L’universo è sempre finito, ma sempre espandibile da Dio.
o È possibile una pluralità di mondi, giacché Dio è onnipotente.
Altro esponente dell’ordine dei Frati Minori fu Raimondo Lullo. La sua attenzione si centrò in modo particolare sul
metodo apologetico: era questa la famosa arte di cui Lullo andava vantandosi, arte che, del resto, riecheggia l’Ars
catholicae fidei di Nicola di Amiens. Per poter stabilire l’accordo necessario alla convinzione dei non-cristiani, tra
filosofia e rivelazione, occorre partire da dei principi primi assolutamente manifesti, e noti di per sé. Una direzione
interessante che si sviluppò a partire dal pensiero di Lullo fu l’interpretazione allegorica della creazione, dove ciascun
elemento rappresenta una lettera particolare in quello che a tutti gli effetti è il grande libro della Natura, in cui si
esprime direttamente il Dio della Scrittura. Così si garantiva una nuova legittimazione alle scienze naturali e le si
faceva degno oggetto di uno studio rinnovato.
Da Roberto Grossatesta a Giovanni Peckham
Il XIII secolo conobbe una separazione nell’ambito della cultura europea: da un lato l’Università di Parigi, con la
sua impostazione logicizzante e dialettica; dall’altro Oxford, fedele all’agostinismo e alla tradizione platonica nelle
scienze naturali, che desunse anche dagli Arabi.
Tra i Maestri di Oxford si inserisce Roberto Grossatesta, che conobbe il greco. Fedele all’insegnamento scientifico
del tempo, Roberto lesse numerosi trattati di ottica, specie di provenienza araba, cui al tempo si dava nome di
Perspectivae.
- Dio crea la luce all’inizio dei tempi, un punto materiale che per sua stessa natura si genera da sé medesima
e si diffonde sfericamente in modo indefinito a partire dalla sorgente.
o È la luce ad essere il principio attivo di tutte le cose, la corporeità stessa come struttura generativa
del corporeo.
- Si dia una materia che si estenda secondo le tre dimensioni spaziali, ed ecco la corporeità. La luce è
esattamente questa materia che si espande secondo la struttura dello spazio: dato il primo punto, inesteso, di
luce, esso immediatamente genera la sfera di pertinenza ove estende la propria azione.
- Grossatesta vuole dimostrare la finitezza dell’universo, laddove il principio da lui postulato non permette in
modo alcuno, per via astrattiva, di stabilire questa conclusione.
o L’asserzione di partenza è chiara: l’infinita moltiplicazione dei fattori dà vita ad un prodotto che li
supera infinitamente. Bene, se dunque la luce è un punto inesteso, e dunque semplice, basterà un
numero finito nell’estensione spaziale, perché esso sia infinitamente superiore.
o Dal centro al limite dell’universo la materia va rarefacendosi, in un processo privo di fissità, di modo
che resti sempre aperto lo spazio per il mutamento delle materie nel cosmo.
- Più ancora che di aver elaborato la metafisica e la cosmologia della luce, il merito di Roberto Grossatesta fu
quello di avere scelto il metodo positivo d’indagine della natura. Prima di Ruggero Bacone, mette mano
all’applicazione della matematica alla fisica, che si determina a partire da rette, linee, angoli… tutte quantità
da calcolare con precisione.
o “omnes enim causae effectuum naturalium habent dari per lineas, angulos et figuras”.
- La teoria della conoscenza di Roberto Grossatesta dipende direttamente dalla sua ontologia della luce. Come
nel mondo, Dio illumina il tutto, portandolo all’esistenza, così nell’uomo l’anima, la lux, è fonte di luce,
capace di rischiarare tutto l’ordine delle conoscenze.
o Teoria tipicamente agostiniana, quella dell’azione dell’anima sul corpo presenta un buon numero di
problemi a Roberto. Come può un immateriale agire sul corporale, e farlo specie là dove esso non ha
bisogno di strumenti corporei per agire?

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o Grossatesta postula dunque un’illuminazione intellettuale analoga a quella sensibile, illuminazione
che consente di conoscere la causa formale presente nelle cose. L’intelligentia è posta a diretto
contatto con gli intellegibili, e, laddove non fosse appesantita dal corpo, potrebbe coglierli
direttamente.
o L’anima deve svegliarsi all’intellegibile per l’urto continuo con il sensibile, che è l’oggetto
d’elezione della nostra anima dopo il peccato originale, una sorta di cecità che ci costringe al
corporeo.
Tommaso di York fu autore di un’opera dal titolo Sapientiale, un trattato di metafisica che si professa aristotelico, e
fa leva su tutti i commenti disponibili al suo tempo.
- La materia, per Tommaso, è una privazione di forma, esattamente come l’oscurità è privazione di luce. In
quanto esiste, essa è buona, ed è potenzialmente in-formata.
o L’ilomorfismo è una scelta obbligata, partendo da un’ontologia come quella scelta da Tommaso.
- Le forme che sono potenziali nella materia sono attuali nell’intellegibile e di lì esse colano (influunt) nel
sensibile, che è il materiale stesso.
- L’anima è forma del corpo e sostanza a un tempo. Essendo sostanza, essa è composta di materia (puro
principio di possibilità e potenza) e forma.
o Esistono due ordini di conoscenze. Innanzitutto, quella che dal sensibile giunge all’universale: la
forma dell’oggetto sensibile (la sua attualità) plasma e modella (si fa exemplar) la forma dell’anima,
e così si dà vera conoscenza. È a carico dell’intelletto l’operazione di sanzione di un nesso tra la
forma così raggiunta e gli individui di cui è predicabile, ossia di rinvenimento di un universale.
o Oltre alla conoscenza scaturiente dal senso, esiste un ambito di conoscenza che si configura come
una ricezione dal Primo, ambito ben più certo di ogni altro, che si struttura di idea in idea.
Il successivo rappresentante della scuola oxoniense, caratterizzata dall’attenzione per la gnoseologia e per la
metodologia scientifica della ricerca, fu Ruggero Bacone.
- Una premessa: Bacone fu ossessionato, lungo tutto il corso della propria opera, dal rintracciare i segni della
preminenza della teologia sulla filosofia. “Il suo atteggiamento su questo punto è perfettamente chiaro: c’è
una sola sapienza perfetta e un’unica scienza che domina tutte le altre, è la teologia, e due scienze sono
indispensabili per spiegarla: il diritto canonico e la filosofia” (p. 545).
o Bacone fa leva sull’assunto averroista di un intelletto agente interno a ciascuno degli uomini (quello
che già Agostino chiamava Verbo o Maestro interiore), che consente l’effettivo raggiungimento delle
conoscenze, altrimenti precluse a tutti. Ovviamente, tale intelletto agente costituisce, con la sua stessa
presenza, la prova dell’esistenza di un “aliunde” da cui la filosofia trae la propria sapienza.
o Non soltanto Dio consente all’uomo la conoscenza per mezzo dell’intelletto agente, ma Egli ha l’ha
già rivelata all’umanità, e per intero. Consegnata ad Adamo, la filosofia è discesa fino ai Patriarchi,
che vissero seicento anni perché solo così si può confermare nell’esperienza la verità della stessa
filosofia. Dopo la decadenza zoroastriana, la filosofia giunge a Salomone, e poi ad Aristotele, autore
della filosofia più perfetta del suo tempo. Ecco dunque lo scopo dell’opera baconiana: ritrovare e
dare continuamente vigore all’idea di una filosofia autentica, ancora tutta da compiere.
Il sapere è dunque perfetto vicino alla Creazione, e perciò il progresso filosofico è in realtà un regresso fino a Dio:
non si può desiderare sanzione più chiara della dipendenza filosofica dalla teologia. Un progresso, a dire il vero c’è,
e pertiene all’introduzione in filosofia di una forma primitiva di metodologia scientifica: “scoperte sempre nuove
sono e resteranno dunque sempre possibili, a condizione di impiegare i metodi veri che ci permetteranno di
realizzarle” (p. 548).
- Occorre far avanzare la filosofia in un serrato confronto con l’esperienza, perciò quella dell’Autorità è una
presenza funesta e spesso opprimente. Volere insegnare prima di avere imparato, ecco il difetto esiziale della
filosofia: quelli che Ruggero Bacone si riconosce sono maestri di metodo, non di dottrina, che sola può
derivarsi dall’esperienza.
- Necessità della matematica nelle scienze della natura e, contestualmente (oltre che più in generale), grande
ed incessante esperienza nelle stesse. Calcoli, ragionamenti, ma soprattutto manuum industria, che, sola,
consente di scovare i vizi di un ragionamento parziale o gli errori di un eventuale calcolo sbagliato.
o “Impossibile est res huius mundi sciri nisi sciatur mathematica”: non soltanto è impossibile
conoscere l’astronomia, ma anche la fisica terrestre, senza la matematica, e il Grossatesta ha ben
dimostrato questo fatto.
o “Quanto all’esperienza, è più necessaria ancora” (p. 550): “La teoria conclude e ci fa ammettere la
conclusione, ma non dà quella sicurezza esente da dubbio in cui lo spirito si riposa nell’intuizione
della verità, finché la conclusione non è stata trovata attraverso la via dell’esperienza” (ibidem).
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Quello che occorre per formulare una coerente e fondata scienza della natura è dunque l’experimentum, né è un caso
che per la prima volta tra le righe da lui vergate appaia l’espressione scientia experimentalis.
- La dimostrazione delle conclusioni teoriche raggiunte dalle varie scienze sola può chiedersi all’esperimento.
- L’esperimento può dar fondo alle scienze naturali, nella misura in cui è in grado di attingere ad una modalità
ed un livello di dimostrazione ad esse precluso.
- L’esperimento ha per natura una forza d’indagine estremamente potente.
La scienza è ancora tutta da fare, e Bacone lo sa bene: è questa la consapevolezza che, del resto, anima il suo Opus
maius, dove incessantemente è ribadito il principio per cui “nullus sermo in his potest certificare, totum enim
dependet ab experientia”. Il passo compiuto da Bacone consiste proprio nel nuovo interesse per una metodologia
ben fondata che egli introduce nelle scienze: “ancor più del contenuto steso della sua dottrina, è lo spirito di cui essa
è animata a conferirle l’interesse e a garantirle un posto duraturo nella storia delle idee” (p. 552).
Un importante Maestro ad Oxford fu Roberto Kilwardby, tanto più importante per noi, in quanto fu educato
all’Università di Parigi. Particolarmente istruttiva sul suo pensiero è la “condanna” di sedici proposizioni che allora
venivano insegnate ad Oxford, tutte contrarie al paradigma agostiniano.
- Veniva proibito di insegnare “quod nulla potentia activa est in materia”. Kilwardby voleva ristabilire un
insegnamento di carattere agostiniano circa la presenza di ragioni seminali nella materia.
o Si colpiva così tutta l’ontologia, tutta la fisica e anche tutta la metafisica, costrette a ristrutturarsi,
rinunciando all’aristotelismo, per tenere conto di questa proibizione.
- Kilwardby proibì anche di insegnare “quod vegetativa, sensitiva et intellectiva sint una forma simplex”.
Kilwardby voleva costringere i Maestri coevi ad insegnare la pluralità delle forme nell’anima.
o “Plures formae sunt in una materia in costitutione unius individui, sicut in hoc igne est forma
substantiae, forma corporis et forma igneitatis”: esiste una diffrazione formale a vario livello.
Successore di Kilwardby sul seggio di Canterbury fu Giovanni Peckham, che deplorava la costituzione di una
“novella” teologia (quella tomista) sprezzante delle opinioni dei Padri ed incapace di tenerne conto. Sintomo della
divaricazione sempre più marcata tra Domenicani e Francescani, una distinzione anche in termini teologici
rappresentava agli occhi di Peckham un interessante banco di misura delle maggiori controversie del tempo. A tal
proposito, occorre sottolineare che non è una deformazione storiografica quella che attribuisce alle questioni onto-
gnoseologiche il primato nel panorama filosofico di XIII secolo, giacché già Peckham citava proprio la dottrina della
conoscenza come un momento di massima importanza nello scontro.
- La risposta alle questioni gnoseologiche chiamava in causa la portata delle prove dell’esistenza di Dio
effettuate da Agostino. Se si voleva far salva l’opera del vescovo d’Ippona occorreva considerare la
conoscenza come ottenibile per Grazia soltanto.
o Peckham voleva far salvo l’insegnamento agostiniano: “concede ad ogni uomo un intelletto agente
creato, ma aggiunge ad esso un intelletto agente superiore, che è Dio” (p. 561).
▪ Se Avicenna poneva un intelletto superiore agente che però non era Dio, e Tommaso poneva
tale intelletto in ogni uomo, e perciò non lo poneva di certo identico a Dio, allora Peckham
non sta né con l’uno, né con l’altro, per quanto tenda ad Avicenna (naturalmente più vicino
al suo agostinismo).
Esiste una Summa anonima, di XIII secolo, pubblicata sotto il titolo di Summa philosophiae Roberto Grossateste
ascripta. Essa è costituita da un insieme di trattati di svariato argomento.
- Il primo di questi è un trattato di storia della filosofia. Questa nacque con Abramo, fu di qui trasmessa ai
Greci e ai Latini, e poi al XIII secolo.
o Oltre ai filosofi, sono presenti, nell’opera dell’Anonimo, teosofi e teologi. Per “teosofi” egli intende
tutti coloro che sono stati ispirati direttamente da Dio stesso nella loro opera (Mosè, coi Profeti); per
“teologi” s’intendono invece tutti coloro i quali chiariscono la nozione e il significato della teologia,
così come oggi la intendiamo.
- “Paragonata a quella dei filosofi, l’autorità dei ‹‹teosofi›› è come la scienza rispetto all’opinione. Infatti, nel
momento della loro ispirazione divina, i teosofi sono infallibili. […] il senso autentico delle loro parole non
può essere facilmente capito senza l’aiuto dei teologi” (p. 565).
o I teologi possono vantare sempre un grado di verità superiore a quello dei filosofi, al punto che
quand’anche si pronunciassero su delle verità naturali, occorre considerarli nel giusto fino a prova
contraria.
- Il secondo trattato della Summa philosophiae tratta della verità, e del suo statuto. Essa deve essere eterna ed
incausata, e perciò esiste un essere eterno, che non può essere che uno, la cui esistenza è necessaria. La verità
è di due specie: incomplessa, come comunione di essenza ed esistenza; e complessa, come adeguazione di
intelletto e cosa.
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- Il terzo trattato riguarda la scienza. Per parlare di scienza occorre indagare la struttura dell’anità. Analoga
alla quiddità, che risponde al quid sit?, l’anità risponde all’an sit?
o Stabilito che verità c’è, la scienza diviene possibile, ossia diviene possibile la piena corresponsione
di intelletto e cosa, un habitus che consente la distinzione di verità e falsità.
- Il quarto trattato indaga la quiddità della materia. La materia prima è una potenza indeterminata e sostanziale
che non può darsi se non nella forma e con la forma, tanto a livello ontologico quanto a livello gnoseologico.
o La materia si struttura formalmente in coppie di opposizione: la prima di queste è il “binarium
famosissimum” tra corporeo ed incorporeo. La materia è incorporea, e diviene corporea solo in virtù
della corporeità.
o La sostanza è costituita e perciò stesso individuale. Siccome ogni materia si dà nella forma, e la forma
è di necessità individua (giacché costituisce il principium individuationis), è chiaro che qualsiasi
sostanza è a pieno titolo individuale.
o Essenza ed esistenza non sono distinte, giacché l’atto dell’esistenza è lo stesso atto dell’essenza.
“L’essenza, o quiddità, è il quid est; se essa è ‹‹ciò che è››, essa esiste” (p. 569).
- Le forme, individue, sono universali nell’intelletto e le forme nell’intelletto divino sono creatrici delle res
naturae. Dio è causa prima della natura, vitalità e forma prima dell’esistenza.
o Dio è all’origine di tutto, e l’atto di intellezione con cui egli si contempla dà origine alle idee, che
allora prendono il nome di theoriae. Al di sotto degli archetipi ideal-teoretici, le teofanie, impressioni
intellegibili del Bene supremo.
Ultimo macrotema: la psicologia. L’anima è di certo sostanziale, dotata di materia incorporea: benché composta,
essa è naturalmente immortale. Proprio perché composta, del resto, essa possiede un intelletto possibile ed uno
agente, cosicché “ogni uomo ha il proprio intelletto possibile e il proprio intelletto agente” (p. 573). Se questo è vero,
non si dà conoscenza intellettuale alcuna che non verta primariamente sul sensibile; contemporaneamente, conoscere
il sensibile comporta di certo un’anamnesi: l’intelletto non potrebbe rintracciare nel sensibile le forme intellegibili
se non le conoscesse già.
Da Alberto Magno a Teodorico di Vriberg
Il fatto filosoficamente più rilevante nel XIII secolo fu dunque l’introduzione del peripatetismo a livello sempre più
profondo nel pensiero del tempo: fu questo il momento in cui si prese coscienza del potere non soltanto esplicativo,
ma teorico in senso lato, di questa corrente che veniva acquisendo sempre maggior forza nella filosofia coeva.
Il primo esponente di questa nuova posizione dottrinale, cattedratica di certo, ma mirante a costituire quelle
splendide architettoniche del sapere che poi in Tommaso saranno pienamente realizzate, fu Alberto Magno.
Domenicano anch’egli, fu autore di una sintesi forse non meno importante di quelle del suo discepolo Tommaso, e
di certo più estesa. “Il merito principale di Alberto Magno consiste nel fatto che egli ha visto per primo quale enorme
aumento di patrimonio rappresentassero la scienza e la filosofia greco-arabe per i teologi cristiani” (p. 575).
- Campione di entusiasmo, la sua opera si svolse tutta nell’interesse dell’informazione e della completezza
filosofica per i Latini. “Nostra intentio est omnes dictas partes, facere Latinis intelligibiles”, è questa la
tendenza più profonda del suo pensiero.
o Vero è che il suo non fu mai un commento “asettico” od un’impersonale compilazione di opinioni,
ma una convinta, ponderata e rigorosa opera di esegesi, di completamento, e di interpretazione.
o “In quest’opera – dice Alberto Magno stesso – io seguirò l’ordine del pensiero di Aristotele e dirò
tutto quello che mi parrà necessario per spiegarlo e provarlo, ma in maniera che non sia mai fatta
menzione del testo. […] aggiungeremo delle parti ai libri lasciati incompiuti [scil. da parte di
Aristotele], allo stesso modo che aggiungeremo degli interi libri che ci mancano” (p. 577).
- Lo sforzo di Alberto fu quello di tradurre in opera un aristotelismo finalmente completo, emendato e
accordato con la dottrina cristiana. Questa aveva finalmente trovato il proprio campione nelle scienze,
l’autorità paragonabile a quella degli Arabi e dello stesso Aristotele (si concedeva ad Alberto licenza di
esporre le proprie idee, confermandole soltanto in seconda battuta con quelle dello Stagirita; era questa una
prerogativa dell’auctor, distinto dallo scriptor, dal compilator e dal commentator).
o Bacone stesso, fiero avversario della gloria tributata ad Alberto di Colonia, alias il Magno, conferma
che la sua filosofia si costituiva come un novello aristotelismo.
Gilson rivendica con fermezza il “razionalismo” di Alberto: la sua filosofia si configura proprio come uno sforzo di
commisurazione del campo di legittima applicazione della ragione in uno spazio sottratto alla teologia. “Non soltanto
Alberto Magno rivendica il diritto alla speculazione filosofica […] ma in più egli pone questa speculazione su di un
terreno assai più solido di quanto non avessero fatto i suoi predecessori, delimitandolo in rapporto a quello della
religione” (p. 580). A partire da Alberto, le istanze filosofiche in teologia cominciano a diradarsi, in correlazione al
rarefarsi delle pressanti richieste rivolte alla filosofia dalla medesima teologia.
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- La ragione umana si trova compiuta in Aristotele, secondo le condizioni della sua normale funzionalità, la
quale inerisce all’anima. Siccome questa non può avere scienza se non di ciò i cui principi si trovano già al
suo interno, occorre valutare quali siano tali principi in essa presenti, e che ne legittimano l’operato.
o Innanzitutto, “esaminando sé stessa, essa [scil. l’anima] si coglie come un’essenza e non scopre in
sé nessuna traccia di una Trinità di persone” (p. 581).
o La Trinità, così come gli altri dogmi, ci sono noti solo per rivelazione, e dunque per fede; non vi è
nessun bisogno di sottrarre la ragione al suo legittimo campo di applicazione, in cui Aristotele l’ha
inserita, ossia la natura (ecco quanto si liberava il pensiero medioevale, scoprendo il proprio lume,
ossia il “razionalismo aristotelico”, se pure questa espressione vale qualcosa).
▪ “Philosophi enim est, id quod dicit, dicere cum ratione”: non vi è rivendicazione di una
presunta concomitanza ideale tra perfetta filosofia e verità di fede, ma piena coscienza
dell’acquisizione critica di una filosofia del tutto umana.
In Alberto viveva anche una tendenza “archivistico-compilatoria”: sovente le sue opere si configurano come
vastissime raccolte (certo ragionate, ma sempre miranti ad una completezza indiscriminante) di opinioni e di
classificazioni di vario genere; ed è difficile comprendere, tra ciò che non ha rigettato, che cosa propriamente
trattenesse o ritenesse giusto.
- Pesanti incertezze aleggiano sul pensiero di quello che finora si è presunto essere un convinto aristotelico.
o Alberto scrisse tentando di seguire un numero di autorità maggiore di quante potessero pacificamente
coesistere all’interno di una sola e stessa opera. Donde le difficoltà ermeneutiche.
- Egli è estremamente prudente di fronte all’ipotesi, ben sapendo che le uniche verità che possono accettarsi o
sono di ordine teologico, e dunque strettamente non filosofico, o ricadono sotto il senso. Perciò la
contraddizione tra le autorità che segue è insanabile.
o Le cosmogonie giustapposte (avicenniana, “cristiana”…) non sono da intendersi alla stregua di
espressioni di una posizione unica in filosofia: come cristiano, Alberto crede fortemente che il mondo
sia stato creato direttamente da Dio; sa benissimo, come filosofo, che non lo si può dimostrare.
o “Inceptio mundi per creationem nec physica est, nec probari potest physice”.
L’anima è la forma di un corpo, ma questo non indica un’essenzialità dell’anima; tutt’al più ne indica la funzionalità.
Questo ha un significato molto preciso: l’intelletto non può essere forma di un corpo e perciò l’anima è
funzionalmente forma di un corpo, restando una sostanza intellettuale.
- L’anima è sostanziale, e con ciò Platone ha ragione; analogamente, l’anima è funzionalmente l’atto di un
corpo, e con ciò Aristotele ha ragione.
- “L’anima platonico-aristotelica che egli descrive è adattata esattamente al mondo platonico-aristotelico in
cui egli la pone”.
o Esiste in mente Dei l’universale ante rem: di qui il significato dell’illuminazione, che procede dalle
idee divine, ossia proprio gli universali concepiti ante rem. Il conoscere divino è esattamente
l’intelletto agente unico e separato.
o Gli universali, per mezzo dell’illuminazione divina “si diffrangono” (p. 586) nella materia, e si
traducono negli universali in re. È questo universale in re a costituire la causa dell’intellegibilità del
materiale, che nella nostra conoscenza è universale post rem.
- L’intelletto umano è unico, e non vi è un intelletto agente separato. “Ogni anima possiede un intelletto
possibile ed un intelletto agente che le sono propri” (ibidem).
L’anima è sostanziale: è un quod est cui Dio conferisce il quo est, ossia l’esistenza. Egli chiama ad esistere queste
nature intellettuali per illuminarle, mediante l’intelletto agente, che traduce in atto l’intelletto possibile. Tradurre in
atto l’intelletto possibile è la vocazione più intrinsecamente umana. E questo è tanto più vero quanto più si presta
attenzione al fatto che l’anima umana è aperta all’illuminazione perché somigliante a Dio. L’anima ha strutturalmente
bisogno della grazia divina per conoscere, perché la sola luce dell’intelletto agente non basta, né può bastare.
Il paradigma di separazione tra filosofia e teologia inaugurato da Alberto avrà grande fortuna con i suoi continuatori.
In primo luogo Ulrico di Strasburgo, che pure assume molto personalmente questa convinzione. Riprendendo
un’intuizione già di Alano di Lilla, si convince del fatto che la teologia riposi su dei principi primi che occorre
manifestare, perché si costituisca come scienza salda. Gli articoli di fede si possono provare mediante il ricorso ai
principi stabiliti per la teologia, i quali dunque, se vogliamo, sono prioritari rispetto al dogma. L’influenza
neoplatonica già operante in Alberto si riflette nell’ontologia e nella gnoseologia di Ulrico. Il primo dei creati è
l’esse, che per ciò stesso è distinto dal vero Primo, ossia Dio che lo ha creato.
Ultimo esponente dell’albertinismo fu Teodorico di Vriberg, che conobbe approfonditamente il pensiero di Proclo.
Anch’egli nutrì preoccupazioni di formalizzazione nei confronti della teologia, al punto che una delle sue opera ha
l’eloquente titolo di De theologia, quod est scientia secondum perfectam rationem scientiae. Non si dimentichi, del
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resto, che il XIII fu, in parte, anche il secolo di un’improvvisa rinascita dell’interesse scientifico: si diffusero le
ottiche arabe e le opere fisico-descrittive di Aristotele, così come la geometria di stampo platonico.
Da Tommaso d’Aquino a Egidio Romano
Allievo di Alberto Magno, Tommaso nacque a Roccasecca nel 1224 o 1225. Nel 1244 divenne domenicano, e dal
1256 insegnò teologia nelle maggiori Università italiane e in quella, prestigiosissima, di Parigi. Morì nel 1274.
Commenti, Summae, Quaestiones disputatae: non vi è genere della filosofia coeva in cui Tommaso non abbia dato
prova di essere maestro autorevole e pensatore autenticamente innovativo. “Bisogna tuttavia rivolgersi alle due
Summae per uno studio diretto del pensiero di san Tommaso” (p. 602).
- La filosofia tomista si svolge tutta sotto l’insegna della radicale separazione, e dell’accordo più armonico tra
ragione e fede. In filosofia, la sola ragione ha diritto di cittadinanza.
- Ragione e fede si distinguono con chiarezza: sotto l’ambito della ragione, e dunque della filosofia, va tutto
ciò che è passibile di essere illuminato dai sensi e dall’intelletto; sotto l’ambito della fede invece tutto ciò
che è solo oggetto di rivelazione.
- L’accordo non può essere deficitario: in ambedue i casi si parla di “verità”, e la verità non può contraddire
sé medesima; se solo il nostro spirito potesse disporre dei dati della fede, si vedrebbe un nesso comune unire
le verità di fede a quelle del senso. Questo fatto può essere adoperato e contrario: ogniqualvolta una verità
filosofica è in disaccordo con il dogma, di certo essa è falsa.
o Esistono due teologie, quella dogmatica e quella naturale. Esse devono, di diritto, porsi in continuità,
proprio perché in continuità armonica sono le due facoltà su cui esse si fondano, ossia fede e ragione.
L’opera più feconda ed originale di san Tommaso è quella teologica, laddove però la filosofia non ignora affatto la
propria partenza dai dati del sensibile. Questi sono però tutti posti già sempre in prospettiva, perché la prima cosa
che Dio ci rivela è proprio la sua esistenza; si parta dunque da Dio.
- Di Dio possono offrirsi varie dimostrazioni, circa l’esistenza, ed è necessario darne qualcuna, perché la sua
esistenza non è un fatto manifesto alla ragione.
o Dio è infinito, e perciò stesso non si può darne in noi un concetto, donde derivare direttamente
l’esistenza; ne segue il rifiuto dell’argomento ontologico, e il tentativo tomista di seguire le vie
aristoteliche.
o Tommaso fornisce delle prove che seguono tutte un simile schema espositivo: la constatazione di un
mondo sensibile e della necessità di rendere una spiegazione dello stesso, con la successiva
affermazione di una serie causale inerente a tale mondo sensibile di cui Dio sarebbe al vertice.
o Il movimento è la prima delle problematiche “sensibili” addotte da Tommaso: o la serie causale dei
movimenti è infinita e allora sarebbe fondamentalmente inspiegato il moto stesso; oppure vi è una
causa prima, che è Dio. Analogo ragionamento per le cause dell’esistenza anziché del moto.
o A partire dal possibile, occorre constatare che perché possibile ci sia, come di fatto c’è, occorre che
una ragione lo determini ad esserci. Se questo è vero, in un puro mondo di possibili, una ragione
perché questo sia determinato ad esistere deve pur comparire. Ergo il necessario, da qualche parte vi
è, proprio come necessario, ossia come ciò che non abbisogna di altro per esistere (esiste per sé).
o Quarta via: i vari gradi nelle qualità presuppongono sempre un assoluto cui compararsi per essere i
gradi che essi stessi sono.
o Quinta ed ultima via: tutto ciò che esiste, esiste ed opera in vista di un fine, che non può essere
ottenuto per caso, vista la regolarità con cui lo consegue. Occorre un’architettonica del cosmo, ossia
una disposizione intelligente di mezzi e fini.
“Queste ‹‹vie›› verso Dio comunicano tra di loro con un legame stretto. Ciascuna di esse infatti parte dalla
constatazione che, sotto almeno uno dei suoi aspetti, un certo essere dato nella realtà non contiene in sé la ragione
sufficiente della sua esistenza. […] Ogni essere è ‹‹qualcosa che è››, e qualunque cosa sia la natura o essenza della
cosa che si considera, essa non include mai la sua esistenza” (p. 607).
- L’essenza è dunque separata dall’esistenza, giacché nulla di ciò che esiste in realtà è in sé l’esistenza, ma
solo un’essenza che in virtù dell’esistenza, esiste.
o “Bisogna ammettere che tutto ciò di cui l’esistenza è diversa dalla sua natura riceve da altro la sua
esistenza. Ora, ciò che esiste per altro non può avere altra causa prima che ciò che è per sé” (p. 608).
- Vi deve essere una necessità sotto la quale soltanto può iscriversi la contingenza dell’esistere di un’essenza.
Dio, dandosi il nome di Ego sum qui sum (Es., III, 14), si stabilisce proprio come Atto puro di esistere, cioè
come esistenza piena e necessaria. Dio non è un’essenza cui s’aggiunge l’esistenza, ma un’esistenza in sé.
o Non si tratta qui di un’esistenza “perfezionata”: non si opera a proposito di Dio una
“massimalizzazione” dei caratteri d’esistenza dell’ente, e gli si attribuirebbe così l’Eternità.

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o Dio è “l’esistere stesso (ipsum esse) posto in sé, senza nessuna aggiunta, poiché tutto quello che gli
si potrebbe aggiungere lo limiterebbe e lo determinerebbe. Ciò che s’intende dire, affermando che in
Dio l’essenza è identica all’esistenza, è che ciò che negli altri esseri si chiama essenza, in lui è l’atto
stesso di esistere” (ibidem).
Dio è l’essere pieno, perché è l’essere di per sé, non passibile di mutamento ed eterno. Dio non ci lascia penetrare
ciò che egli è, perché egli, propriamente è già tutto ciò che egli è: donde la prima via di predicazione, che consiste
nell’eliminare da Dio tutto ciò che manifestamente Questi non è: movimento, mutabilità… Dio però lo possiamo
predicare anche mediante un’analogia con le cose. È per questa via che possiamo predicare di Dio tutte le perfezioni
inerenti alle cose, ed è così che parleremo di “perfezione” divina, di “bontà”, “intelligenza”, “onniscienza”…
Se Dio può essere dimostrato come causa del mondo, significa che si può legittimamente credere che ne sia il
Creatore. Riguardo all’idea di creazione, occorre evidenziare tre questioni.
- Il problema della creazione non può essere correttamente collocato che a livello della totalità, e non della
singola cosa esistente.
- La creazione deve essere intesa come dono gratuito dell’esistenza, proprio in virtù della non esistenza di
nulla antecedentemente alla totalità dell’esistente in toto (è necessità logica).
- È presupposta, nell’atto creativo, un’essenza creatrice che traduca in atti finiti d’esistere la propria attualità
pura ed infinita.
- La creazione deve essere un atto libero: Dio non mancherebbe di nulla, quand’anche il mondo non vi fosse;
né se il mondo vi fosse, Dio sarebbe di qualcosa accresciuto. Perciò l’atto creativo è libero, e gratuito.
Il rapporto che si instaura tra il creatore e le creature, nel momento stesso della creazione, si chiama partecipazione.
- Partecipare di Dio significa possedere una delle sue perfezioni, secondo il limite e la misura che Dio stesso
ha voluto fissare.
- Partecipare di Dio significa ricevere il proprio essere da Lui: “così la creatura viene a porsi infinitamente al
di sotto del creatore” (p. 610).
o L’universo diventa prodotto di un’intelligenza e di una volontà, proprio in quanto creazione libera e
libero assenso ad un effetto preesistente in Dio come causa. Nel mondo regna indubitabilmente
l’ordine: non può essere altro che un’intelligenza ad averlo prodotto.
- Dio contiene in sé tutti gli intellegibili, li ha tutti nel suo pensiero e questi sono le idee, ossia i modelli di
quello che si incarnerà nel sensibile. “L’idea di una creatura è quindi la conoscenza che Dio ha di una certa
partecipazione possibile della sua perfezione da parte di questa creatura. Ed è così che, senza compromettere
l’unità divina, una molteplicità di cose può essere generata da Dio” (p. 611).
Riguardo l’eternità del mondo, Tommaso argomenta ad un proposito: essa è indimostrabile in ognuno dei due sensi,
che il mondo sia o meno esistente dall’eternità. Se definizione implica un’analisi dell’essenza, è chiaro che la
definizione di ciascuna cosa implicherà l’eternità: l’essenza, infatti, è eterna o, ad ogni modo, non implica un concetto
di sviluppo temporale. Perciò nessun aiuto nell’analisi delle cose mondane. Volgiamoci, come sempre, a Dio.
Chiedere una ratio dimostrativa del volere divino sull’eternità o sulla temporalità del mondo sarebbe inopinato:
affidiamoci a quanto ci è stato consegnato nella rivelazione e crediamo che il mondo abbia avuto inizio nel tempo.
Nella creazione esiste un ordine gerarchico. Gli angeli sono al vertice, e sono creature incorporee e immateriali:
questo dipende dalla volontà di Tommaso di collocare la creazione quanto più possibile vicina a Dio: occorre
concepire le prime creature quanto più semplici è possibile concepirle, restando nell’ambito creaturale. L’uomo è
come un punto di discontinuità nella gerarchia creaturale.
- Posto per la sua anima nella gerarchia degli immateriali, subito si contraddistingue in seno a questa stessa.
La sua anima infatti non è un’intelligenza, al pari degli angeli, ma un semplice intelletto, ossia un principio
di intellezione congiungibile ad un corpo.
- L’anima è sostanza intellettuale, ed essenzialmente forma di un corpo, con il quale forma un composto di
materia e di forma.
- Proprio in quanto forma di un composto (cioè ormai estrinseca alla gerarchia dell’immateriale), l’anima non
può ambire alla diretta comprensione dell’intellegibile. L’intelletto agente che è interno ad ogni anima trova
il massimo grado della sua funzionalità nella conoscenza dei principi primi, che però preesistono nell’uomo
allo stato virtuale. Ad ogni buon conto, consta che “l’origine della nostra conoscenza è dunque nei sensi;
spiegare la conoscenza umana significa definire la collaborazione che si stabilisce tra le cose materiali, i
sensi e l’intelletto” (p. 614).
Conoscere è rinvenire l’universale che si trova nella cosa come la forma del composto che la cosa stessa è (la materia
è il principium individuationis). È questa l’astrazione, ossia l’operazione “più caratteristica” (ibidem) dell’intelletto
umano.

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- La traccia formale che le cose lasciano nell’intelletto è ancora carica di materialità: si può arrivare
all’intellegibile soltanto mediante l’intelletto agente, che ha proprio il compito di epurare la traccia in noi.
- L’operazione di definizione dell’intellegibile è possibile grazie all’operazione di Dio, che illumina le specie
sensibili, perciò “in un certo senso l’anima è dotata di un intelletto agente, in un altro senso, essa è dotata di
un intelletto possibile. L’anima razionale stessa è infatti in potenza in rapporto alle specie delle cose sensibili;
queste specie le vengono presentate negli organi dei sensi […]. Le specie sensibili non sono quindi
intellegibili che in potenza, e non in atto. Invece, c’è nell’anima razionale una facoltà attiva capace di
rendere le specie sensibili attualmente intellegibili; è ciò che chiamiamo l’intelletto agente. E c’è in essa
una capacità passiva di ricevere le specie sensibili con tutte le loro determinazioni particolari, ed è ciò che
chiamiamo intelletto possibile” (p. 615).
Ogni forma è naturalmente attiva. È questa, la teleologia aristotelica introdotta nell’ontologia cristiana. Ogni forma
cioè tende ad una realizzazione, ad un’entelechìa, che in un essere intelligente sola può darsi mediante un’oculata
scelta dei possibili oggetti d’apprendimento. Noi non possiamo apprendere il Bene supremo con un atto univoco e
diretto di intellezione; perciò occorre cercare una direzione al nostro volere. “Così il destino totale dell’uomo si
annuncia fin da questa vita con la permanente e feconda inquietudine d’un al di là” (p. 616). Siamo pervasi da una
irredimibile nostalgia; la nostra conoscenza ci porta sin sulle soglie dell’eternità, che è il luogo dove Dio dimora.
La dottrina di Tommaso costituiva un indubbio, quanto discutibile, progresso. E non mancarono le contestazioni.
- Innanzitutto, la ragione si trovava indubbiamente libera, ma rigorosissimamente limitata. “Si strappa poi alla
ragione umana la dolce illusione di conoscere le cose nelle loro ragioni eterne; non le si parla più di
quell’intima presenza e di quella consolante voce interiore di Dio” (ibidem).
- L’anima è indissolubilmente legata ad un corpo, di cui è definitivamente forma: occorre ricavare dal sensibile
ogni conoscenza, ivi compresa quella dell’intellegibile.
Una posizione particolarmente innovativa del tomismo, che non mancò di spaccare l’opinione e di alimentare il
dibattito fu l’assunto dell’unità della forma sostanziale dell’anima. Questo risultò tantopiù grave se si pensa che la
pluralità delle forme era una posizione tipica del “complesso agostiniano” difeso dal pensiero francescano. Egidio
di Lessines con il suo De unitate formae, così come Bartolomeo di Lucca con il suo Hexaemeron esprimono la
medesima preoccupazione. Altro sintomo dell’influenza tomista era la distinzione di essenza ed esistenza. Un
esempio di un tomista sui generis è quello di Herveo di Nédellec. La distinzione di essenza ed esistenza è posta, ma
vi sono importanti scollamenti rispetto a Tommaso.
- Primo, Herveo distingue con forza l’atto d’intellezione dall’esse obiectivum e così pone l’universale in una
conformitas realis tra individuo ed universale.
- La materia non può costituire il principio d’individuazione degli esseri: la causa esterna della pluralità è la
causa efficiente, quella interna l’essenza.
- Vi sono dei fondamenti per sostenere che Herveo non fosse troppo convinto della distinzione tra essenza ed
esistenza.
L’ultimo grande filosofo ad avere avuto un’influenza di prima mano da parte del tomismo fu Egidio Romano, autore
di un Liber contra gradus et pluritatem formarum. Vi è chi ha parlato di tomismo e chi di “antitomismo” di Egidio
Romano. Il punto di difficoltà è che Egidio Romano concepisce esse ed essentia distinti ut duae res, laddove
Tommaso aveva parlato di esse come actus dell’essentia.
Dal peripatetismo all’averroismo
Le due scuole che abbiamo visto formarsi in Europa, tra Parigi ed Oxford, conobbero, nei secoli XII e XIII, ben più
che un’opposizione formale. Ce lo testimonia Ruggero Bacone, i cui attacchi contro la cultura logicista e matematica
parigina non possono mai essere ribaditi a sufficienza. Accanto alla logica, la dialettica, ossia l’arte
dell’argomentazione, strettamente dipendente dalla prima al punto che non è neppure pensabile una dialettica priva
di logica. È dal XIII secolo che cominciano a comparire, accanto agli studi logici, anche opere di altro genere.
- Una prima opinione che occorre abbattere consiste nel credere che i teologi abbiano mutuato le proprie
dottrine dai filosofi che lavoravano all’Università di Parigi. Sono infatti due teologi, Alberto Magno e
Tommaso d’Aquino, ad aver consegnato alla cristianità i più articolati e personali commenti alle opere
aristoteliche, e non due filosofi.
- È in questo periodo di riscoperta del “nuovo Aristotele” che si colloca l’avvento dell’averroismo in seno
all’Università parigina.
o “Si è formato il pensiero di quei maestri delle Arti che, servendosi dei Commenti di Averroè ad
Aristotele per nutrire il proprio insegnamento, giunsero a concludere che la dottrina di Aristotele era
quella che Averroè gli aveva attribuito e che questa dottrina faceva un tutt’uno con la verità filosofica
stessa” (p. 636).

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Ovviamente, posizioni come queste non potevano non suscitare l’attenzione e forse anche la preoccupazione dei
teologi. “Il primo scandalo avvenne il 10 dicembre 1270, quando il vescovo di Parigi Stefano Tempier condannò 15
tesi, 13 delle quali erano di ispirazione averroista” (p. 637). Il problema stava nel fatto che tutti coloro i quali
insegnavano proposizioni compatibili con quelle proibite da Stefano di Tempier (o le stesse quindici proposizioni),
asserivano di farlo unicamente a livello filosofico, pretendendo di scindere questo dal livello veritativo in senso
globale. In breve, papa Giovanni XXI e Stefano Tempier promulgarono bolle e divieti volti ad impedire le facili
fughe in dottrine della “doppia verità”, ossia comprensive di due piani distinti e non comunicanti di verità, uno
filosofico ed uno teologico.
- Quello che si condannava come averroismo era in realtà una specie di “naturalismo polimorfo” che
raccoglieva tutta una serie di disparate posizioni dottrinali, da parte di vari autori accomunati da una forte
rivendicazione della naturalità “pagana” contro la teologia cristiana.
- Addirittura, si cominciava a porre l’autorità nella filosofia al punto che diveniva possibile operare severe
critiche della religione: il cristianesimo è una religione come le altre; esistono in esso errori e favole come in
tutte le altre dottrine; la teologia non è una forma di conoscenza, ma di mera speculazione…
o L’impronta aristotelica si coglie bene se si tiene presente che questi critici trovavano nella filosofia
la massima beatitudine per l’uomo, ottenibile in questa vita, grazie alla teoria.
o Le virtù dell’anima non sono per tutti, ma solo per i più ricchi, che possono garantirsi la serenità
fondamentale necessaria alla teoria.
- Del resto, pullulavano le dottrine avicenniane circa la necessità dell’atto creativo e della dipendenza univoca
degli effetti dalle cause (dottrina del medio interposto).
“Alcuni hanno addirittura concepito un tale orrore del necessitarismo greco-arabo, che hanno ritenuto che non si
potesse andare mai troppo lontano, purché soltanto fosse in direzione contraria. Questa reazione teologica non aveva
nulla di nuovo. Era quella del De divina omnipotentia di Pier Damiani, quella di Tertulliano e di Taziano, quella di
tutti i tempi” (pp. 639-640).
Due autori particolarmente significativi, a questo proposito, furono Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia, ambedue
nominati esplicitamente da Stefano Tempier nel 1277. Sigieri di Brabante fondava la sua filosofia sull’autorità di
Aristotele e del suo commentatore Averroè.
- “Dato che non si può non vedere che l’insegnamento di Aristotele spesso contraddice la rivelazione,
bisognerà dire che la sua dottrina si confonde con la filosofia. Se, d’altra parte, esiste una scienza assoluta,
che è quella della rivelazione, si riconoscerà modestamente che esistono due conclusioni su un certo
numero di problemi; l’una che è quella della rivelazione, che è vera, l’altra che è quella della semplice
filosofia e della ragione naturale. Quando si verificherà un simile conflitto noi diremo quindi semplicemente:
ecco le conclusioni alle quali mi conduce necessariamente la mia ragione come filosofo, ma poiché Dio non
può mentire, io aderisco alle verità che egli ci ha rivelato e le accetto per fede” (ibidem).
- Averroè aveva rivendicato per la ragione il diritto d’interpretazione in ogni caso di conflitto con la Sacra
Scrittura, ponendo così di fatto il lume naturale dell’uomo al di sopra della rivelazione divina. Sigieri non
compie questo passo: indica piuttosto che in caso di conflitto, a salvare la verità di fede è la fede stessa (anche
Averroè intendeva “salvare la fede”).
o Sigieri non è autore della doppia verità: per lui il termine “verità” non ha mai la valenza di
“conclusione delle ricerche filosofiche”, ma è sempre e soltanto equivalente a “Rivelazione”.
o Filosofare diviene allora realizzare un inventario delle posizioni attribuite ai filosofi e soprattutto ad
Aristotele, “anche se il pensiero del filosofo non fosse conforme alla verità” (p. 641).
- La posizione di Sigieri, per quanto genuinamente cristiana ed imbevuta di amore per la verità teologica, non
poteva in alcun modo essere ammessa dalla Chiesa, che si sarebbe così trovata scomodissimamente posta di
contro alla ragione naturale.
“Ritenendosi sufficientemente protetto da questa prima distinzione, la cui portata è assolutamente generale, Sigieri
introduce un certo numero di dottrine, in effetti autenticamente aristoteliche, ma veramente sorprendenti da parte di
un uomo di Chiesa” (p. 644).
- Dio non è causa efficiente del creato, ma solo sua causa finale, né ha delle cose prescienza, quanto al loro
futuro (scienza dei futuri contingenti), giacché avere conoscenza del futuro, Aristotele l’ha dimostrato,
significa renderlo necessario.
- Il mondo è eterno, come lo sono le specie terrestri, e proprio per questo il divenire è ciclico.
- Soprattutto, Sigieri riprende la dottrina averroista dell’intelletto agente. Forse, a giudicare da alcuni
frammenti del suo De intellectu, tale intelletto agente sarebbe Dio, e l’unione con Dio è la beatitudine per
l’uomo.

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Se le condanne del 1277 colpirono Sigieri di Brabante, con altrettanta sicurezza colpirono anche un altro esponente
della filosofia del tempo, ovvero Boezio di Dacia. Fu autore di un’opera il cui titolo, nel XIII secolo, è piuttosto
eloquente: De summo bono sive de vita philosophi.
- Non si tratta però del sommo bene in sé, giacché solo Dio può vantare questo titolo, ma “del sommo bene
accessibile all’uomo e quale lo può scoprire la ragione” (p. 646).
- Fonte del vero, e dunque di questo bene, è l’intelletto, che è l’unica facoltà veramente divina: il Primo
Intelletto trova la sua eterna beatitudine nell’eterna contemplazione di sé medesimo.
- Congiuntamente alla speculazione, la beatitudine è data dall’agire bene.
“Si tratta di definire da filosofo il sommo bene accessibile all’uomo, e lo si trova nella contemplazione filosofica del
vero da parte della ragione” (p. 648). Per gli uni, questa è la professione del razionalismo più spinto, per altri non vi
è nulla di contrario ad una fede vissuta con autentico ardore. “Boezio di Dacia non contraddice la fede, si direbbe
piuttosto che egli la ignori” (ibidem).
Sapienza e società sono due aspetti che, a livello di dossografia, è importantissimo studiare nella loro evoluzione
di XIII secolo. Una delle prime concezioni ad affermarsi fu quella “unitarista”: Ruggero Bacone fu l’esempio perfetto
di quest’opzione. Per lui le scienze si articolano secondo un ordine gerarchico, ciascuna assumendo i propri principi
da quella superiore, e tutte insieme desumendoli dalla teologia.
- “Una sola est sapientia perfecta, ab uno Deo data uni generi humano propter unum finem, scilicet vitam
aeternam, quae in sacris litteris tota continetur, per ius tamen canonicum et philosophia explicanda”.
- Se la sapienza è unica, unica è la Cristianità, riunita sotto la guida del papa nella Repubblica dei fedeli.
o La Sapienza ha due risvolti pragmatici fondamentali: ordina la Respublica fidelium e la conduce a
una vita buona.
- La Sapienza unica integra tutte le scienze, così come la Chiesa deve integrare tutte le nazioni.
Tommaso ha trattato anch’egli di una funzione pragmatica del sapere, e nel suo De regimine principum egli parla
dei teologi come dei consiglieri ideali del principe. Il principe deve essere strumento nelle mani di Dio, e perciò deve
affidarsi al potere sacerdotale in tutto e per tutto. Il papa è il vertice del potere spirituale, che è nettamente distinto
da quello temporale. Una chiave di lettura percorribile è quella di un’unione dei due poteri nella stessa persona (come
accade nello Stato della Chiesa) onde garantirne armonia. Chiaramente, una tesi come questa trova applicazione solo
là dove tutti i principi della Terra vengono sottomessi al potere spirituale, e non solo quelli dell’angusto Regno della
Chiesa.
Il continuatore dell’opera di Tommaso, Bartolomeo di Lucca, fu il vero fondatore della “metafisica dello Stato”.
- Ogni autorità politica deriva da Dio e questo è provato a partire dalla gerarchia dell’essere.
- È applicando ai problemi dell’essere la gerarchia dionisiana che Bartolomeo conclude per un’illuminazione
prioritaria dei principi rispetto ai sudditi.
o Il potere più alto è quello che consta sia di sacerdozio che di regalità, ossia il potere del papa, vicario
di Cristo sulla Terra. Il papa ha un potere indubbiamente spirituale, ma di qui può agire
legittimamente sul temporale. Anche l’Antico Testamento lo dimostra.
Se è la Sapienza a costituire la condizione di possibilità per il regnante, è ovvio che l’unità della Sapienza nelle mani
del papa costituisce ipso facto un argomento per la legittimazione della sua priorità sullo spirituale. L’argomento lo
si ritrova spesso, ed è importante sottolineare il nesso che istituisce tra unità della Sapienza, suo legittimo possesso,
e potere sovrano. È un argomento che troviamo anche nel De ecclesiastica potestate di Egidio Romano. L’assunto
di partenza è il seguente: non possono darsi due poteri perché le anime (lo spirituale) non sono separate dai corpi.
Ergo, siccome il corpo è sottomesso all’anima, conviene sottomettere il temporale allo spirituale. L’argomento, ci si
ricordi dei Trattati di York, è ambiguo.
È importante sottolineare la solita regolarità: “il potere temporale deve essere sottoposto al potere spirituale come
la metafisica e le altre scienze lo sono alla teologia” (p. 658). Dunque, “per superare questo argomento, il solo modo
efficace era di sottrarre la filosofia all’obbedienza teologica. È esattamente quello che avevano appena fatto gli
averroisti latini nell’ordine della pura speculazione, ed è per questo che il loro separatismo teorico finisce per
avere delle conseguenze pratiche” (ibidem). Se il papa fondava tutta la propria autorità su di una concezione
sapienziale che faceva sì che la sapienza mondana fosse legata alla teologia, venendovi subordinata, chiaramente, al
venire meno di questo legame (e l’opera di Sigieri, come ancor più quella di Boezio di Dacia, parlavano in questi
termini), anche l’autorità papale perdeva la propria legittimazione.
Un autore rigidamente dualista, per quanto avulso dall’averroismo di XIII secolo, fu Dante Alighieri. Nel suo De
monarchia, rivendicava con forza la dualità dei fini umani, e perciò la dualità della sua realizzazione: vita attiva nella
politica e vita contemplativa nella beatitudine devono valere simultaneamente per una creatura posta a mezzo dei
due mondi. Donde, la necessità di due differenti maestri, al di sopra dei quali vi è soltanto Dio. L’Imperatore, perciò,
non riceve la propria autorità dal papa, ma direttamente da Dio, analogamente al pontefice stesso.
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Il bilancio del XIII secolo è piuttosto complesso da tracciare, per la grande ricchezza degli impianti dottrinali che vi
si sviluppano. Quello che si può di certo stabilire, riguardo a quest’età, è che in essa si verificò senz’alcun dubbio il
recupero più profondo e ragionato della filosofia greca, e soprattutto dei suoi due massimi interpreti, Platone ed
Aristotele.
- Erede di un certo tipo di platonismo, Agostino è l’autore più rilevante per una certa corrente di pensiero, di
mole gigantesca nel Medioevo, che seppe fare propri temi metafisico-morali, insieme ad un’ontologia
fondamentalmente incentrata sulla nozione di un Dio-essentia.
o “Ciò che quindi Agostino ha favorito nel Medioevo è il platonismo delle idee e l’ontologia
dell’essenza […], ma non quello dell’‹‹al di là dell’essenza›› e la dialettica dell’Uno” (p. 670).
- Un’altra via derivava invece da Dionigi, ed è una tradizione che si riconosce in una nozione prioritaria
dell’Uno sull’essere. Questo è possibile solo se l’Uno è forma dell’essere, e perciò l’anima è forma essa
stessa: di qui un’ontologia a due piani, immanente il primo, dove impera Aristotele; metafisico il secondo,
che conosce un’influenza decisiva di Plotino e Proclo, per venire come tale costituito.
- Un’altra via ancora fu il recupero dell’aristotelismo, stante l’interpretazione avicenniana: è a partire da qui
che si può rompere l’unità di teologia e filosofia, tradizionalmente connesse lungo tutto l’arco dello sviluppo
del pensiero medievale.

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