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IL NUOVO NUMERO: “RUSSIA O NON RUSSIA” 🖋 IL PUNTO DI LUCIO CARACCIOLO


LA GUERRA D’UCRAINA

IL MONDO OGGI
Il mondo questa settimana

Dettaglio di una carta di Laura Canali. Per la versione integrale clicca qui. 

 21/07/2023
Il riassunto geopolitico degli ultimi 7 giorni: attacchi sulla città ucraina di
Odessa, le relazioni tra Israele e Marocco, Washington e il Vaticano, le
mosse di Putin in Africa e il vertice Celac-Ue.
analisi di Guglielmo Gallone, Federico Larsen, Lorenzo Trombetta, Luciano Pollichieni, Mirko Mussetti
 GUERRA D'UCRAINA, VATICANO, SCONTRO USA-CINA, CINA, RUSSIA
 EVGENIJ PRIGOŽIN, VLADIMIR PUTIN
MISSILI SU ODESSA [di Mirko Mussetti]
L’Aeronautica militare dell’Ucraina ha riferito di attacchi condotti dalle Forze armate
della Federazione Russa contro la città di Odessa. Nell’offensiva sarebbero stati
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impiegati missili da crociera supersonici (velocità mach 2,5) P-800 Oniks di difficile
intercettazione. Tale azione militare ha un duplice scopo: distruggere le infrastrutture
portuali e disintegrare le scorte belliche di Kiev ivi stoccate.
I missili lanciati in seguito alla sospensione dell’accordo sul grano contro la “perla del
Mar Nero” sono destinati a far schizzare verso l’alto le polizze assicurative, rendendo
inconvenienti i transiti di navi mercantili verso il sistema portuale di Odessa
(Čornomors’k, Odessa, Južne). Inoltre, indipendentemente dalla temerarietà degli
armatori, la distruzione dei silos per i cereali e delle gru per il carico/scarico rende
completamente inutile l’attracco delle imbarcazioni.
Insomma, la Russia sta facendo in modo che la decisione unilaterale di sospendere
l’intesa sul corridoio del grano nel Mar Nero non venga snobbata dagli operatori
economici internazionali. L’organizzazione di esercitazioni navali nel quadrante nord-
occidentale dello specchio d’acqua eusino, volte a simulare l’isolamento di un’area
marittima temporaneamente chiusa alla navigazione e il trattenimento di una nave che
violava i divieti, è piuttosto eloquente delle intenzioni russe di bloccare l’export via mare
di derrate alimentari ucraine.
L’annunciata intenzione della Polonia di attuare dal 15 settembre in poi un blocco alle
importazioni (e forse anche il transito) di derrate alimentari dall’Ucraina complica
ulteriormente il quadro economico del vicino paese in guerra. Soprattutto se anche gli
altri quattro partner mitteleuropei (Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria) che mal
digeriscono la libera circolazione esentasse di cereali ucraini decidessero di emulare la
categorica presa di posizione di Varsavia.
Il fatto che Mosca abbia annunciato che da ora in poi considererà le navi transitanti al
largo di Odessa come potenziali vettori logistici per il trasporto di armi e materiale
bellico svela anche il carattere prettamente marziale dell’attacco alla città costiera.
Durante l’intero anno che ha caratterizzato l’accordo sul grano (22 luglio 2022 – 17
luglio 2023) gli attacchi al principale porto del paese aggredito sono stati accuratamente
evitati nello spirito dell’intesa stessa. Ma proprio perché luogo relativamente sicuro, le
Forze armate di Kiev hanno sfruttato la situazione per immagazzinare in alcune aree
del capoluogo le armi consegnate dai partner euroatlantici (missili antinave e droni
marittimi in primis). Come la tecnologia occidentale che ha permesso a barchini
kamikaze ucraini di attaccare le imbarcazioni russe nonché la base navale di
Sebastopoli in Crimea, sede della Flotta russa del Mar Nero. Con la mancata proroga
della Black Sea Grain Initiative, la Marina militare della Russia può tornare a colpire i
magazzini dell’area portuale senza infrangere alcun accordo. Disintegrare le scorte di
munizioni del paese invaso è essenziale agli occhi di Mosca per frenare la
controffensiva estiva dell’esercito di Kiev.

Carta inedita della settimana: La “marcia” di Prigožin

I RAPPORTI ISRAELE-MAROCCO [di Lorenzo Trombetta]

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La notizia del riconoscimento di Israele dell’autorità del Marocco sul Sahara
Occidentale, territorio dall’alto valore geopolitico perché corridoio tra l’entroterra
sahariano e l’Oceano Atlantico, suggella una vicinanza storica tra lo Stato ebraico e il
più occidentale dei paesi arabi del Nordafrica. L’annuncio di Israele era da tempo
nell’aria. Nel 2020 gli Stati Uniti del presidente Donald Trump avevano riconosciuto la
sovranità di Rabat sul territorio conteso dalla seconda metà del diciannovesimo secolo.
Sempre tre anni fa, il Marocco e Israele avevano annunciato di aver normalizzato i
rapporti nel quadro degli Accordi di Abramo, voluti dall’amministrazione Trump per
rafforzare l’egemonia di Israele in tutta l’area mediorientale e mediterranea. Ma le
relazioni tra Marocco e Israele sono sempre state molto strette, segnando un tema di
continuità tra il regno di Hassan II (1961-99) e quello attuale di Muhammad VI. E non
soltanto per gli stretti legami storici che uniscono la comunità ebraica marocchina allo
Stato ebraico. Ma anche perché i due paesi hanno bisogno l’uno dell’altro nello
scacchiere regionale. L’Algeria, per esempio, storicamente schierata con la Siria anti-
israeliana – e in precedenza, nel campo filosovietico – ha sempre sostenuto la causa
irredentista del Fronte Polisario nel Sahara Occidentale. Ma lo ha fatto in un’ottica
nordafricana, per indebolire il vicino rivale marocchino. D’altro canto, il Marocco è
storicamente un alleato del fronte atlantista e filoisraeliano in Medio Oriente. E
condivide con Giordania e i paesi arabi del Golfo la strategica scelta di schierarsi con
Washington e contro i suoi rivali regionali.

WASHINGTON E IL VATICANO [di Guglielmo Gallone]


Ascoltare ed essere ascoltati, dialogare coi protagonisti del conflitto, contribuire a
intraprendere un percorso di pace. Se entro questi termini si muove la missione
umanitaria promossa dalla Santa Sede per la guerra in Ucraina, era inevitabile che
dopo Kiev e Mosca il cardinale Matteo Maria Zuppi sarebbe stato inviato da papa
Francesco anche a Washington. Perché proprio ora? Perché prima bisognava ascoltare
le due parti coinvolte direttamente nel conflitto, perché il sostegno atlantico all’Ucraina
sembra sempre più vacillare, perché bisogna capire se e come le prossime elezioni Usa
cambieranno la posizione del principale fornitore di armi di Kiev.
Dunque Zuppi è andato negli Stati Uniti per “scambiare idee e opinioni sulla tragica
situazione attuale” e “sostenere iniziative in ambito umanitario per alleviare le
sofferenze delle persone più colpite e più fragili, in modo particolare i bambini”, recita il
bollettino diffuso dalla Santa Sede. La Casa Bianca ha immediatamente accolto la
proposta: il cardinale è stato ricevuto nello Studio ovale dal presidente degli Stati Uniti
Joe Biden, secondo presidente cattolico nella storia americana. L’incontro tra i due è
“durato oltre un’ora”, si è svolto “in un clima di grande cordialità e di ascolto reciproco” e
Zuppi ha consegnato una lettera di papa Francesco al presidente americano incentrata
sulla “sofferenza causata dalla guerra”. Per allargare il panorama politico, il giorno
seguente Zuppi ha parlato al Congresso americano in occasione del Senate Prayer
Breakfast: i partecipanti sono stati informati “sugli incontri avuti durante le varie tappe
della sua missione di pace”, è stato espresso “apprezzamento per gli sforzi della Santa
Sede” ed è stata sottolineata la “responsabilità di ognuno nell’impegnarsi per la pace”.
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L’incontro religioso è avvenuto presso la nunziatura apostolica con monsignor Timothy
Broglio, presidente della conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti.
Tuttavia, resta difficile capire come gli americani abbiano accolto la visita vaticana.
Mentre Roma ha utilizzato il canale di comunicazione più alto per commentare il viaggio
di Zuppi (ossia un comunicato della Santa Sede e non della sala stampa), Washington
non ha diffuso neanche una foto dell’incontro di Biden con Zuppi – a differenza di
quanto avvenuto a Kiev con Volodymyr Zelens’kyj (Zelensky) e a Mosca con
l’entourage del Cremlino. Resta poi difficile convincere tanto l’ala cattolica conservatrice
americana quanto la stampa e l’opinione pubblica locali della buona volontà di santa
romana Chiesa, specie su un tema così divisivo per l’elettorato come la politica estera e
il conflitto in Europa. Già, l’Europa, grande assente nella missione vaticana: pensando
alla prossima tappa di Zuppi, non si vocifera di Bruxelles ma di Pechino. La delegazione
vaticana non può recarsi in Cina – paese con cui non intrattiene ufficialmente relazioni
diplomatiche dal momento che riconosce l’esistenza di Taiwan – senza passare per gli
Stati Uniti. Significative, in questo senso, la creazione a cardinale del vescovo di Hong
Kong, monsignor Stephen Chow Sau-Ya e la nomina del vescovo di Shanghai
monsignor Giuseppe Shen Bin. Ecco quindi come, indipendentemente dall’accoglienza
ricevuta, l’obiettivo del Vaticano è stato raggiunto: dimostrare di esserci, di poter
arrivare tanto a Mosca quanto a Washington, di poter agire indipendentemente dalle
faglie europee, di ascoltare e farsi ascoltare.

LA RUSSIA IN AFRICA [di Luciano Pollichieni]


Questa settimana ci sono stati diversi sviluppi importanti per la politica africana della
Russia: arrivano ad una settimana esatta dal vertice Russia-Africa di San Pietroburgo, il
primo grande appuntamento per la politica estera del Cremlino dall’ammutinamento del
24 giugno e a cui la diplomazia di Mosca lavora da quasi due anni. Prima, il presidente
russo Vladimir Putin ha annunciato che non si recherà al vertice dei Brics di agosto in
Sud Africa. Il fondatore del gruppo Wagner Evgenij Prigožin ha dichiarato che i suoi
uomini abbandoneranno il fronte ucraino per ridispiegarsi sul continente. Infine, Mosca
ha annunciato l’uscita dall’accordo di Istanbul per il grano. Per comprendere il senso di
queste tre notizie bisogna valutarne il tempismo e il contesto nelle relazioni russo-
africane.
Evitando di presenziare al vertice di Johannesburg (partecipando in videoconferenza),
Putin salvaguarda la postura africana del non allineamento che poteva essere
pregiudicata da un’eventuale (certa) inottemperanza sudafricana al mandato d’arresto
della Corte penale internazionale. Il ridispiegamento del Wagner nella Repubblica
Centrafricana mette a tacere momentaneamente i timori di un possibile abbandono del
continente da parte dei mercenari russi dopo l’ammutinamento in patria. Come sempre
nel mondo Wagner, resta da capire chi e perché abbia davvero preso questa scelta tra
Prigožin e il Cremlino. L’uscita dall’accordo di Istanbul sul grano è più strettamente
connessa al vertice di San Pietroburgo, dove il presidente russo, con ogni probabilità,
seguirà il copione degli scorsi mesi: incolpare l’Occidente per la crisi alimentare per
ergersi a difensore della sicurezza alimentare per gli Stati africani.
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Tuttavia, i primi effetti della decisione iniziano a farsi sentire sul continente.
L’annullamento sostanziale dell’intesa per garantire le esportazioni di cereali dai porti
ucraini ha riproposto il problema della dipendenza delle economie africane dalle
importazioni alimentari. I tecnici della Mauritania hanno già messo in guardia contro il
rischio di un aumento del costo del grano e la possibilità di trovare gli scaffali vuoti per i
consumatori locali. Più grave la situazione in Nigeria. Il nuovo presidente Bola Ahmed
Tinubu ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale – prima volta che il paese dichiara
lo stato d’eccezione in relazione alla sicurezza alimentare. Questo s’inserisce all’interno
di un momento particolarmente complesso per Abuja, dove la combinazione tra
aumento del costo del grano e cancellazione dei sussidi sulla benzina rischiano di
agitare le piazze. I rischi maggiori si registrano nelle aree più sensibili del continente. Il
Corno d’Africa merita particolare attenzione. Somalia e Sudan, entrambi in preda a una
guerra civile in stallo, dipendono rispettivamente per il 68% e il 79% del loro fabbisogno
interno dalle importazioni estere. Non è quindi un caso se persino il presidente
dell’Unione Africana Moussa Faki Mahamat uno dei più osservanti sostenitori del non
allineamento sulla guerra d’Ucraina, abbia rotto gli indugi ed espresso via Twitter la sua
preoccupazione per la fine dell’accordo. In questo contesto, non va sottostimato il
tempismo della rottura di Mosca a una settimana dal vertice Russia-Africa di San
Pietroburgo. Qui Putin seguirà il copione già usato negli scorsi mesi, incolpando
l’Occidente per la crisi alimentare ed ergendosi a difensore della sicurezza alimentare
per gli Stati del continente. Difficile immaginare un contesto migliore per il lancio dei
possibili accordi bilaterali per l’export di grano e fertilizzanti in Africa a questo punto.
L’obiettivo economico del Cremlino in questa fase è attrarre liquidità. Quello geopolitico
è di rafforzare il peso diplomatico, economico e securitario di Mosca in Africa con un
chiaro messaggio: indipendentemente dalla guerra in Ucraina, i piani russi per il
continente andranno avanti.

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Carta di Laura Canali – 2023

IL VERTICE CELAC-UE [di Federico Larsen]


Il 17 e il 18 luglio si è tenuto a Bruxelles il secondo incontro tra i capi di Stato e di
governo dell’Unione europea e la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici
(Celac). Nonostante dei cortocircuiti tra le parti, sono state poste le basi per una
ripresa dei rapporti transatlantici. L’Ue aveva rilanciato il proprio interesse verso il
continente solo verso la fine del 2020, quando l’Alto rappresentante dell’Unione per gli
affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, lanciò il monito sulla crescita
inarrestabile dell’influenza russa e cinese nella regione, accresciuta dalle iniziative
legate alla epidemia di Covid19 e l’incapacità statunitense di riportare i paesi
latinoamericani verso posizioni apertamente atlantiste. Da allora la diplomazia europea
– e quella spagnola in special modo – ha dimostrato un interesse esplicito nei negoziati
con l’America latina: prima riaprendo alla partecipazione europea negli spinosi dialoghi
sulla situazione venezuelana o la pace in Colombia, poi con la partecipazione di una
importante delegazione europea al summit della Celac di Buenos Aires dello scorso
gennaio, e ora col vertice di Bruxelles che ha visto la partecipazione di sessanta
delegazioni, otto anni dopo l’ultimo incontro di questo calibro.
Molte le divergenze e superficiali le intese. A partire dalla guerra in Ucraina – questione
su cui l’Ue ha insistito senza grandi risultati – intorno alla quale il documento finale
esprime “profonda preoccupazione” senza nemmeno nominare la Russia. Viene
disattesa la pretesa latinoamericana di un riconoscimento prettamente simbolico delle

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tragedie causate dal colonialismo europeo post-1492. Anche gli impegni ambientali
presi dai paesi Ue restano generici: senza particolari dettagli la promessa di
investimenti fino a cento miliardi di dollari per mitigare gli effetti del cambiamento
climatico. In America latina sono due i risultati più commentati: l’annuncio della
presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen di un piano di investimenti
da 45 miliardi di euro nei paesi della regione nell’ambito dell’energia e della sostenibilità
e il riconoscimento dell’esistenza di un conflitto intorno alla sovranità delle isole
“Malvine” (Falkland) – chiamate così per la prima volta in un documento ufficiale dell’Ue
– tra Argentina e Regno Unito. Ma non è certo con dimostrazioni d’interesse e
promesse di investimenti che l’Ue riuscirà a riconquistarsi un posto di prim’ordine nelle
prospettive latinoamericane. Come più volte sostenuto dallo stesso Borrell, la regione è
stata per anni snobbata e sottovalutata: un riavvicinamento dettato dal timore per la
concorrenza di altre potenze ostili dista di molto dalle pretese latinoamericane. Nessun
passo avanti infatti è stato fatto intorno all’accordo di libero scambio tra l’Ue e il
Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay), concluso nel 2019 ma in sospeso
per le divergenze sulle ricadute ambientali di un simile partenariato commerciale. E
l’insistenza europea per raggiungere un accordo – anche solo semantico – su questioni
distanti dalla condizione latinoamericana (Ucraina in primis) hanno impedito maggiori
sinergie. E in pochi credono che questo possa cambiare a breve.

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